- Picture -
Era già pomeriggio, e i tiepidi raggi del sole filtravano
appena da un buco tra le frasche della tettoia del riparo che avevamo
costruito, solo pochi giorni prima, nell’ex-Stato chiamato Scuola.
Mugugnando piano, cercai a tentoni gli occhiali e tastai un
forte braccio tiepido, arrossendo e svegliandomi di colpo.
“Stupido Yamaguchi…”, pensai, ritraendo subito la mano, come se
quel contatto mi avesse dato la scossa.
Io e il Presidente del Consiglio Studentesco non avremmo dovuto
essere talmente incauti da addormentarci così poco vestiti lì dentro;
non tanto perché avremmo potuto ammalarci – viste le alte temperature
medie –, ma perché gli altri del nostro gruppo avrebbero potuto pensare
male. E avrebbero avuto tutte le ragioni del mondo per farlo.
Non l’avrei mai creduto possibile, ma io, Shirou Mariya, avevo
appena iniziato quella che comunemente si chiama “relazione”, e la
colpa, ovviamente, era di quel mentecatto di Yamaguchi.
Solo perché avevamo bastonato due professori insieme, questo
non significava certo che gli avessi dato campo libero per spingermi
contro la recinzione e baciarmi, l’altra sera…
“E dove sono?!”, mi chiesi
irritato, trovando finalmente gli occhiali che non tardai a inforcare;
scoprendo poi che non si trattava dei miei. E ovviamente io e Yamaguchi
avevamo due diottrie diverse.
Sospirai e, nonostante non vedessi benissimo, quegli occhiali
bastarono per potermi orientare.
Avevo ricordi un po’ appannati della sera prima; ricordavo solo
che mi aveva baciato, poi avevamo parlato durante tutto il turno di
guardia notturno che ci spettava e la mattina ci eravamo ritirati nelle
nostre tende a riposare.
Anche se per un’oretta avevamo fatto tutt’altro.
Mi guardai intorno, e vidi Yamaguchi sdraiato accanto a me. Era
senza la camicia, i pantaloni avevano la zip abbassata e i capelli
erano in disordine. Mi alzai a sedere e notai che mi aveva coperto con
la giacca dell’uniforme scolastica durante la notte. Ero certo che non
si trattava della mia: era decisamente troppo grande.
Borbottando, la presi dalle spalline e la usai per coprire il
proprietario, andando poi a chiudermi la mia camicia – ancora aperta
sul davanti, esattamente come la giacca.
Io e quel testone ci eravamo baciarci per un po’, iniziando a
esplorare il corpo l’uno dell’altro, senza correre troppo, rispettando
quei tempi dettati dal pudore e dall’orgoglio.
E quasi me ne pentii.
In quest’isola non si sa mai quando potrebbe giungere la morte,
e forse sarebbe stato meglio comportarsi come gli animali che la
abitano: agire d’istinto, senza freni dettati dal buon costume e dalla
società.
Abbozzando un sorriso, del quale quasi non mi accorsi, presi il
mio laptop e lo accesi.
Anche se non lo davo a vedere, certe volte anche io, come
tutti, avevo nostalgia di casa.
Mi mancavano molto mio padre e le mie sorelle, ma dovevo essere
forte e proseguire. E quando capitava che mi facevo prendere dalla
malinconia, allora c’era una sola cosa che potevo fare per mettere a
tacere il mio cuore – che in quell’isola non aveva nessun pregio, ma
era solo portatore di guai –, ed ero l’unico lì che poteva farla…
Mentre quel catorcio di Windows caricava, trovai finalmente gli
occhiali – erano talmente vicini che non dovetti nemmeno distendere del
tutto il braccio per arrivarci – e posai a terra quelli del Presidente
del Consiglio Studentesco, rivolgendo una rapida occhiata alla sua
faccia mentre dormiva.
Scrollai il capo e, una volta che il pc ebbe finalmente finito
di avviarsi, andai sui documenti, nella cartella immagini, dove tenevo
il mio album di fotografie. Nell’era dell’informatica ormai nessuno
porta più a sviluppare le fotografie e lo trovai un bene. Tantissime
immagini con spazio e peso zero nello zaino.
Cliccai due volte sulla prima immagine di quell’album e
proseguii lento con le frecce direzionali per poter vedere le altre,
sospirando. Erano le foto della mia famiglia.
“Non vedo l’ora di tornare da loro…”, pensai, mentre vedevo
l’immagine di una foto a me molto cara che avevo scannerizzato tempo
fa. L’avevamo scattata con una macchinetta automatica quando
nostra madre era ancora in vita… Una foto di gruppo, per ricordare la
nostra unità.
Sospirai e guardai Yamaguchi con la coda dell’occhio. Dormiva
ancora.
Stando attento che non si svegliasse, accesi il programma per
la videocamera incorporata e la puntai verso di lui, inquadrandolo. In
un attimo pigiai il polpastrello sul touchpad e scattai così la foto,
che andò nella cartella immagini.
Una volta solo e al sicuro l’avrei messa in una cartella
adeguata.
Non sapevo quanto sarebbe durata la nostra relazione.
Né quanto saremo durati noi.
Ma quel cretino mi aveva fatto sentire vivo, in qualche modo.
Mi aveva fatto sentire importante e non mi aveva fatto sentire solo,
come ero sempre stato.
In silenzio, spensi il pc e lo chiusi, tornando a stendermi
accanto a lui, mettendo un braccio sotto la testa a mo’ di cuscino. Era
meglio che continuassi a dormire fino all’ora di cena: ci aspettava il
turno di guardia anche quella notte.
Così chiusi gli occhi, assopendomi poco dopo, senza riuscire a
rimanere sveglio il tanto necessario per sentire le tiepide labbra di
Yamaguchi sulle mie, in un dolce bacio.
Forse sarebbe arrivato il giorno in cui ci saremmo scattati una
foto insieme, ma per il momento bastava quell’unico file; quasi per non
essere superstizioso e credere davvero che ci sarebbe stato altro tempo
per riempire lentamente un album che raccontasse l’evoluzione del
nostro sentimento.
§Owari§
XShade-Shinra