Il
circo arriva inaspettato.
Nessun
annuncio lo precede, niente volantini né affissioni o
cartelloni, nessuna
menzione sui giornali. Spunta
così, semplicemente, dove ieri non c’era. Sull’insegna
nera e bianca appesa all’entrata si
legge:
Apre
al Crepuscolo Chiude
all’Alba
***
Chiudi
gli occhi.
Devi
tenerli ben chiusi e non sbirciare, altrimenti la
magia non avrà effetto.
La
notte respira in silenzio con il suo alito freddo e
denso, la senti sul viso come se ti tenesse per mano e ti stesse
guidando. Odora
di inverno e di pioggia da poco caduta.
Muovi
un passo oltre l’angolo della strada. Uno solo, e
poi fermati. Le senti?
Sono
voci, ma potrebbero essere fantasmi. Lo sembrano, in
fondo, distanti ed eteree come giungono fino a te. Sono le voci del
circo, come
sogni che al calar del sole prendono vita in terra.
È
lì che stai andando: Le Cirque des Rêves.
Ecco,
adesso apri gli occhi.
Il
tuo cuore sussulta.
Qualcuno
ti passa accanto e borbotta qualcosa che non
senti. I tuoi occhi brillano alla luce del crepuscolo, fissi su
un’apparizione
in bianco e nero che dei sogni sembra possedere
l’assurdità e la perfezione.
Una
visione in bianco e nero scintillante come le stelle
che trapuntano il cielo al di sopra, non esattamente un luogo o un
edificio, ma
piuttosto una creatura che quasi respira.
Che
sente.
Una
moltitudine di persone si sta avvicinando come
attirata da un incantesimo dettato da quei colori che colori non sono,
dalla
musica che si solleva da ovunque e nessun luogo, da promesse di una
serata
unica e strabiliante che nessuno ha mai fatto, ma tutti sanno che
sarà
mantenuta.
Genitori
che si fanno avanti con lo stesso entusiasmo dei
bambini che accompagnano, uomini solitari che nell’orgoglio
si ostinano a
esibire espressioni scettiche, quando sottopelle la
curiosità prude come una
malattia.
Avvicinati,
avanti.
L’ingresso
è come due braccia spalancate che non
attendono che te per lasciare che lo spettacolo abbia inizio.
Muovi
un passo, poi un altro, e il frusciare della gonna,
il rumore degli stivaletti sul selciato bagnato sono ovattati
come un ricordo non
del tutto dimenticato.
E
la sensazione, entrando in questo circo delle
meraviglie, è proprio questa: un luogo nuovo ed estraneo,
eppure in qualche
modo familiare. Impossibile, diresti, ma allora
cos’è che ti fa muovere lungo
le passerelle – tavolozze di ghirigori bianchi e neri che
sembrano dipingere
storie che nessun distratto passante potrebbe mai leggere –
attorno ai tendoni,
senza l’ombra di un’esitazione?
L’odore
è quello tipico del divertimento: popcorn
freschi, zucchero filato – bianco, senza eccezioni
–, bevande insolite, e un
profumo indecifrabile di sottofondo, qualcosa che, irrazionalmente,
evoca una
sensazione di irrealtà.
D’un
tratto ti fermi e guardi in basso, perché la
sensazione di camminare non sul solido suolo, ma sulle nuvole ti sta
facendo
procedere più lentamente del dovuto. Eppure lì,
sotto i tuoi piedi, la terra c’è
ancora.
Hai
pagato un biglietto per poter accedere a questo
teatro dell’inimmaginabile, perché i sogni, come
ogni altra cosa, hanno un
prezzo, e qui si sogna in grande.
Non
è un circo come gli altri. No, affatto. Qui gli
artisti esibiscono arte, non numeretti triti e ritriti e trucchetti
spiccioli. Qui
nessuno ti darà dell’infantile se resterai a bocca
aperta durante uno degli
spettacoli che si nascondono dietro alle porte di questi tendoni. Ma
devi
essere pronto a lasciare fuori l’ordinario, quando varcherai
quelle soglie, o
sarà inutile. Lascia la ragione fuori dai cancelli, legala
in un angolo e per
qualche ora dimenticatene. Potrai riprenderla alla fine, quando,
uscendo, rivestirai
i panni di ordinarietà in cui tutti si nascondono.
Sbirci
oltre una porta. Un mangiafuoco soffia fiamme blu
che diventano viola, rosse, arancioni, gialle.
Un’altra
porta. Una trapezista coperta di veli fluttua nel
vuoto appesa a fili che nel buio sembrano non esistere.
Un’altra
ancora. Un prestigiatore batte le mani e dal suo
cappello salta fuori un mazzo di rose.
Un’altra
e un’altra e ancora una. Due equilibristi
identici si pavoneggiano su una corda d’argento sospesi sopra
un prato di lame
affilate. Un domatore di leoni fa muovere in perfetta sincronia mezza
dozzina
di giganteschi felini albini. Una contorsionista scompare in un baule
impossibilmente piccolo e se lo richiude in testa tirandolo con un
piede.
Applausi.
Cori di “Oooh!” che si sollevano in ogni dove.
Strilli,
persino, e poi ancora applausi.
Se
queste persone fossero un po’ più accorte
capirebbero
che chi calca i palchi del Cirque du Rêves
possiede
qualcosa di più di una notevole abilità
artistica. Ma chi rifugge dalla boria
del quotidiano non cerca riflessioni: lo spettacolo è
spettacolo e come tale
dev’essere sensazionale e lasciare di stucco senza dare
spiegazioni. Nessuno si
spiega come l’illusionista della tenda in fondo possa essere
in grado di trasformare
un cerchio di legno in un cerchio argentato semplicemente passandoselo
dietro
la schiena, ma questo fa parte dei patti, della regola implicita che
chi
acquistava il biglietto accettava tacitamente: goditi le nostre
meraviglie ma
non indugiare sui loro segreti.
Tutti
sembrano soprassedere alla prodigiosità dei portenti cui
assistevano. Fa parte
del divertimento: non pensare, solo ammirare. Credere che tutto sia
possibile.
Tu
lo
sai perché, perché non si fanno domande:
è importante guardare il circo come
una realtà, non come un’illusione offerta per
gioco, credere che ciò che
accade, accade davvero, mentre, fuori, la razionalità
guaisce come un cagnolino
dimenticato.
Ma
non
la tua.
Ti
ha
seguito, passo dopo passo, dentro a questo mondo parallelo in bianco e
nero e
man mano che ti addentravi ha preso a morderti le caviglie,
strappandoti di
dosso brandelli di fantasia che, cadendo, hanno tolto ai tuoi occhi
quella
patina opaca che sapeva di surreale, liberato le tue orecchie
dall’ovatta
magica che rendeva le voci spiriti e la musica un sussurro quasi
inquietante.
L’aurora
si affaccia da sotto l’orizzonte, adesso, e tu dai le spalle
all’uscita che
fino a poche ore fa era stato un ingresso. Guardi gli spazi rimasti
svuotati e
ti sembra di sentire il circo sbadigliare.
C’è
una bambina a pochi metri da te.
Capisci
dal suo sguardo che lei sa. Sa tutto: sa che le
illusioni sono un’illusione
per celare la verità; sa che chi si esibisce in quei tendoni
recita la parte di
sé stesso perché il pubblico ci creda. E si vede
da come è vestita – una bambola
– che non si è smarrita, ma che quello –
il circo – è il suo posto, la sua
casa, il suo futuro.
Ti
guarda
e annuisce, poi si porta un dito davanti alle labbra come se ti potesse
leggere
nel pensiero e volesse chiederti di tacere.
Lei
sa
che tu sai, che hai capito. Che non ti sei persa nel labirinto di
euforia, ma
hai saputo osservare. Sa e ti concede di sapere.
Tu
in
cambio ripeti i suoi gesti: annuisci e accosti un dito alle labbra.
Prometti il
tuo silenzio. Prometti di non svelare il mistero che avvolge tutti loro
all’insaputa
di tutti, la magia travestita da prestigiazione.
La
bambina
annuisce ancora.
Il
sole
sta quasi arrivando.
È
tempo
che tu vada.
Senza
ulteriori indugi, ti volti e ti dirigi verso l’uscita,
già nostalgica dell’atmosfera
sospesa che ti hai cullata entro quei cancelli.
I
tuoi
stivali non fanno rumore sulla passerella decorata in bianco e nero.
Sotto
i tuoi piedi stanno spuntando erba fresca e fiori di campo, ma tu non
lo saprai
mai.
Il
circo arriva inaspettato.
Nessun
annuncio lo precede, niente
volantini né affissioni o cartelloni, nessuna menzione sui
giornali.
Spunta
così,
semplicemente,
dove ieri non c’era.
Sull’insegna
nera e bianca appesa
all’entrata si legge:
Apre
al
Crepuscolo Chiude
all’Alba
Non
te ne stupire troppo.
La
notte è madre di tutte le più grandi magie.
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