Uptown
girl,
she’s
been living in her uptown world,
I bet she
never had a backstreet guy,
I bet her
mama never told her why.
Colonna sonora: Uptown Girl_Billy Joel
Avevo messo piede in
quel quartiere soltanto per
cinque minuti, la sera dell’appuntamento cui mi ero autoinvitata nella
ferma
convinzione di poter strappare Leonardo dalle grinfie di quella
pezzente, e
quando fui costretta a ritornarci di malavoglia mi curai di indossare i
miei
Gucci ben calcati sugli occhi, in modo da non farmi riconoscere. Mi ero
fatta
accompagnare da Abelardo, l’autista di papà, così non avrei dovuto
lasciare la
mia Porsche incustodita in quella specie di quartiere malfamato di
periferia,
poi avevo tirato dritto in direzione del portone di quella specie di
tugurio
che chiamavano casa.
Meo mi aveva incastrata
questa volta, nonostante il
nostro patto fosse ancora valido. Sì, in effetti, era più un ricatto
che un
vero e proprio accordo, ma chi ero io per giudicarmi? Sarei stata
disposta a
calpestare la bionda con il mio tacco dodici, ripassandoci sopra più
volte se
necessario, pur di avere una chance con Leonardo, quindi non mi facevo
scrupoli. Mi ero alzata quella stessa mattina col chiaro intento di
assediare
il nuovo negozio di Hollister nel
centro commerciale di Euroma2, soprattutto perché giravano voci sul
fatto che
le magliette fossero superflue per i commessi, e il mio dito si era
mosso quasi
automaticamente sulla tastiera del Galaxy cercando il numero di Romeo.
Ovviamente l’imbecille
non aveva risposto.
Possibile che quando
avessi più bisogno di lui,
quella maledetta segreteria telefonica che gli avevo chiesto di
modificare da
decenni ormai, scattava senza alcun preavviso, intonando «Yo! Er mejo
fico del bigonzo non è raggiungibile.
Alle numerose pischelle che me desiderano, sessualmente intendo,
lasciate un
messaggio dopo il bip. Agli altri, attaccateve! Se ho spento er
cellulare, ce
sarà un motivo, no?», non era mai raggiungibile? Oltretutto era
imbarazzante,
in particolar modo quando tentavo di chiamarlo di fronte a mio padre
che udiva
gli schiamazzi di quello scemo che partivano dal cellulare, nemmeno
avessi
messo in vivavoce. Vista la sua mancata risposta e il mio impellente
bisogno di
fare shopping compulsivo, oltre che a bearmi di bei maschioni sudati,
avevo
chiesto ad Abelardo di accompagnarmi nei bassifondi ed ora mi ritrovavo
di
fronte al citofono dove spiccavano due nomi alquanto insoliti in mezzo
agli
altri condomini.
Fiore-Ciuccio
Inorridii al pensiero
della povera anima che un
giorno avrebbe preso come marito quel poveretto, figurandomi nella
mente il mio
nome di battesimo accostato a quell’orrido cognome. Scacciai
immediatamente
l’immagine dalla testa, chiedendomi poi il perché di quel pensiero. In
fondo,
non c’era alcun pericolo che un domani avrei sposato quella sorta di
sfigato.
Solo l’idea mi faceva ridere a crepapelle. Pensai con diletto a mio
padre e
alla sua faccia se gli avessero detto che la sua piccola Anna usciva
con un
pezzente che si rammendava ancora i calzini, si faceva lavare i panni
dalla
madre e guidava un mezzo che avrebbero dovuto bandire dalla città solo
per
quanto inquinava. Per non parlare poi dell’onore della mia famiglia,
del
cognome Cavalli, famoso in tutto il mondo, così perfettamente armonico
nel
suono, al confronto di quella specie di parolaccia con cui si firmava
Romeo
ogni giorno.
Porta il nome dell’eroe di Shakespeare, lo realizzai
soltanto in quell’attimo. Forse si trattava di un pensiero sfuggito
dalla mia
mente troppo presa da mille preoccupazioni, oppure di un ricordo del
liceo,
ormai lontano, eppure non ci avevo mai fatto caso. Evidentemente i
genitori,
accorgendosi che il loro figlio avrebbe avuto un cognome tanto
denigratorio,
avevano pensato bene di dargli un nome di degno rispetto.
Non mi ero accorta di
quanto tempo fosse passato
mentre ero ancora intenta a fissare intensamente il citofono, quando il
portone
si aprì e una nanerottola apparve sulla soglia. La squadrai da capo a
piedi,
sapendo perfettamente che si trattava dell’altra faina, l’amica acida e
scontrosa della bionda, nonché la tizia petulante che Romeo odiava dal
più
profondo del cuore.
O almeno era quello che
avevo creduto sino al
pomeriggio passato tra i negozi di Via Condotti.
Forse non è l’unica ragazza che mi piace.
Me lo aveva urlato
contro dopo le mi accuse del suo
coinvolgimento emotivo con Celeste. Ero rimasta spiazzata da quella
rivelazione, non che ne importasse tanto in verità, ma mi aveva
sorpresa quella
sua alzata di testa. Avevo sempre pensato che Romeo fosse uno
smidollato, uno
di quelle persone che non avevano spina dorsale, invece mi ero sempre
più resa
conto che somigliava a un tappeto per il bagno. Sì, lui assorbiva
goccia dopo
goccia tutte le offese che gli venivano rivolte, senza mai proferire
parola, si
faceva chiamare babbeo persino dalla ragazza di cui era innamorato e
non le era
mai andato contro. Faceva finta che gli scivolasse tutto addosso, come
accadeva
per la sottoscritta, ma invece lasciava che quelle offese, arrugginite
come
chiodi lasciati sul marciapiede in un giorno di pioggia, gli si
conficcassero
lentamente uno dopo l’altro nel cuore, avvolgendolo in un manto di
ruggine,
rossa come i suoi capelli.
«E tu che ci fai qui?»
mi chiese la piccoletta, di cui non ricordavo il
nome.
Forse iniziava per S,
oppure per V. Scrollai le
spalle e me ne dimenticai presto, in fondo rappresentava solamente un
ostacolo
per la sottoscritta, nulla più di un nome di troppo sul mio cammino per
raggiungere Leonardo.
«Sono libera di andare
dove voglio,» risposi, squadrandola e inarcando le sopracciglia.
La moretta mise il
broncio e fermò il portone con
una mano, in modo che non si chiudesse. «Devi salire?» mi domandò poi,
senza smetterla
di giudicarmi.
L’avevo capito, mi
stava osservando con quei suoi
freddi occhi azzurri e calcolatori. Non staccava lo sguardo dal
maglioncino di
lana che avevo in dosso, con tanto di leggings iper-attillati e
immancabile
tacco 12. Era normale che trovasse il mio modo di vestire esagerato,
visto che
lei se ne andava in giro con una tuta consunta e delle scarpe da
ginnastica
dall’aspetto discutibile. Sembrava una barbona, proprio lo stesso stile
di quell’altra.
«Il tuo amico non
risponde al
citofono,» mi giustificai, senza darle la
soddisfazione di una vera risposta.
La ragazza alzò un
sopracciglio e mi fissò con
ovvietà. «Sta facendo la doccia, è normale
che non ti abbia sentito,» rispose perentoria. «Anche lui, raramente,
si lava,» sghignazzò, cogliendo
l’occasione di schernirlo.
«Al contrario di altre
persone,» commentai acida, incrociando le braccia al petto.
Mi era uscita così, di
getto. Nemmeno sapevo il
motivo per cui avevo preso le difese di Romeo, in effetti, non me ne
fregava
nulla, visto che ero la prima ad offenderlo e denigrarlo, ma in quel
momento il
mio cervello aveva reagito da solo.
«Stai alludendo, per
caso?» ringhiò quella, cogliendo il mio riferimento.
Non avevo alcuna
intenzione di scatenare alcuna
lite, dal momento che il mio unico scopo – per ora – era quello di
recarmi al
centro commerciale il più in fretta possibile, quindi mi limitai a
sbuffare e
ad evitare la domanda.
«Ho fretta,»
sottolineai, riferendomi al mio impegno. «Non dovevi uscire anche tu?».
Almeno me la sarei
tolta dalle scatole, finalmente.
La nanerottola continuò
a fissarmi, come se stesse
decidendo se darmela vinta o meno, poi mi porse il mazzo di chiavi che
aveva in
mano. «Tieni, altrimenti non riuscirai
ad entrare nemmeno dalla porta. Quando Robbeo si lava, occupa il bagno
per
quattro ore!».
Fissai quell’ammasso di
metallo ciondolante da un
discutibile portachiavi di dubbia provenienza e lo afferrai con la
punta delle
dita, schifata. La quantità di germi poveri
ammassata sull’acciaio avrebbe potuto contaminarmi, ma dovevo guardare
oltre,
se avessi voluto svaligiare Hollister in tempo.
«Non mordono mica,»
sghignazzò la tappetta, burlandosi della sottoscritta.
«Lo so!» affermai con
sicurezza, vincendo il fastidio e
afferrando il mazzo di chiavi con mano ferma.
«Io vado, ciao,» disse
poi, lasciandomi il portone semiaperto e
allontanandosi lungo la via che conduceva a un grande incrocio. Non
aspettò nemmeno
la mia risposta, non che Annalisa Cavalli si sarebbe sprecata a
salutarla, così
mi decisi finalmente a entrare nell’androne di quella sporca palazzina
e mi
avvicinai ad una specie di macchinario di legno che assomigliava, molto
vagamente, ad un ascensore.
Oh mio Dio, cos’è quell’affare Annuccia?
M’immobilizzai di
fronte a quelle porte di legno
consunto, esaminando da vicino la datazione di quella specie di reperto
fossile. I tasti di chiamata un tempo erano stati bianchi, ora
assomigliavano a
un grigio topo di fogna. Estrassi dalla pochette un fazzoletto e lo
avvolsi
attorno al dito, pigiando il pulsante – duro come il marmo – e
indietreggiando
non appena si udì uno stridio che mi costrinse a proteggermi le
orecchie con le
mani.
«Ma che…?» esclamai,
avvertendo poi gli ingranaggi che si
mettevano in moto e i cigolii che annunciavano l’arrivo della cabina.
Quell’affare era stato
brevettato da Stephen King
in persona per uno dei suoi libri horror, oppure da Romeo. Ero sicura
che, non
appena avesse raggiunto il piano terra, dall’ascensore sarebbero usciti
degli
zombie pronti a mangiarmi il cervello e rovinarmi i capelli,
ovviamente.
Suggerirei di prendere le scale.
Il mio sguardo si
spostò sui gradini alla sinistra
della gabbia dell’ascensore, ma soltanto
in quell’attimo ricordai di non avere la minima idea del piano cui si
trovasse
l’appartamento. E se fosse stato all’ultimo?
Nel frattempo
l’ascensore era giunto a
destinazione, toccando il terreno con un tonfo che fece traballare
tutto il
piano terra. Aprii le porte con mano tremante e sbirciai all’interno,
ma non
appena posai la punta della mia Alviero Martini sul pavimento, la
cabina
sussultò e mi fece allontanare in fretta e furia da quella trappola
mortale.
«Okay, sono troppo
giovane e bella
per morire,» mi ripetei ad alta voce,
imboccando di corsa le scale della palazzina.
Non lo avessi mai fatto.
Già dopo il primo piano
avevo il cuore in gola e i
polpacci mi bruciavano per il troppo acido lattico. Arrivata in cima
alla
gradinata, mi trascinai porta a porta per sbirciare dal campanello se
il
cognome Ciuccio fosse scritto sulle targhette. Ovviamente non fu
affatto
semplice. Passai al secondo piano, aiutandomi con il corrimano, mentre
avvertivo un leggero fastidio dietro al piede, come se mi bruciasse la
pelle.
Non c’era nemmeno l’ombra del cognome Ciuccio sui quattro campanelli
degli
appartamenti presenti in quella zona del palazzo. Sconsolata passai al
piano
successivo, pregando in tutte le lingue del mondo che quello zuccone
non avesse
avuto l’idea autolesionista di prendere l’appartamento all’ultimo piano.
Mai dire l’ultima
parola.
Dopo aver
minuziosamente esaminato tutti i campanelli di tutte le porte di tutte le case presenti
in quel palazzo e dopo essermi beccata più
di un’occhiataccia da parte di vicine pettegole e anziane, riuscii
finalmente
ad arrancare fino al portone.
Ero esausta. Avevo le
gambe che mi bruciavano dal
dolore perché, anche se la mia linea era invidiabile, era tutto merito
di una
dieta e del mio adorato metabolismo distruttore dei grassi. Non avevo
mai fatto
sport in tutta la mia vita, lo odiavo. Inoltre, avevo i piedi distrutti
e
sentivo chiaramente la pelle che s’increspava dando vita a una
bellissima
vescica che mi avrebbe fatto camminare come un’anatra per i tre giorni
successivi a quello. Tutto quello che mi stava capitando era solamente
colpa di
quel cretino di Meo.
Con rabbia e immenso
fastidio, mi tolsi le Alviero
Martini e cominciai a frugare tra le ottocento chiavi che conteneva
quel mazzo,
provandone una dopo l’altra con scarso successo. Se svegliandomi quella
stessa
mattina, con in testa il pensiero fisso di fare razzie da Hollister,
avessi
saputo che sarebbe andata a finire in quella maniera, me ne sarei
rimasta al
calduccio nel mio lettino.
È una questione di principio Annuccia. Adesso
gliene dirai quattro, a
quel cretino!
La mia Superbia era
ormai al pari di una migliore
amica per me, ma premesso che in vita mia non avevo mai avuto una
chiave, visto
che Villa Cavalli era straripante di domestici a tutte le ore del
giorno,
impiegai più del dovuto per aprire quella maledetta porta.
«Ci rinuncio!» sbottai,
lanciando il mazzo che s’infranse contro
il legno della porta e cadde sullo zerbino con un tintinnio assordante.
Sentivo ogni fibra del
mio corpo impossessata dalla
rabbia e dalla frustrazione. Non mi ero mai ridotta in quella maniera
così
sciatta, andando in giro a piedi scalzi, con le vesciche e i capelli
appiccicati alla fronte per il sudore. Mi sentivo umiliata e presa in
giro.
Volevo assolutamente prendermela a morte con qualcuno, ma l’unico
presente si
trovava oltre quella stramaledettissima porta che non ne voleva saperne
di
aprirsi.
Presa dall’ennesimo
impeto di rabbia, afferrai le
chiavi e ne provai una a caso, pensando che se non fosse stata quella
giusta,
avrei forzato la serratura a costo di sfondare la porta a spallate.
Miracolosamente si aprì.
«Oh…» mormorai
sorpresa, avvertendo che la frustrazione si attenuava man mano
che mettevo un piede al di là della soglia.
In rare occasioni ero
stata in appartamenti più
piccoli rispetto alla mia villa di famiglia e dovevo ammettere che non
mi
sarebbe affatto dispiaciuta l’intimità che si poteva ottenere in una
piccola
casa di centoquaranta metri quadri, ma quel tugurio in cui vivevano
Romeo e
l’oca bionda era a mala pena abitabile.
Già quando feci il
primo passo verso l’ingresso, il
portone sbatté contro il muro sul lato opposto, dove spiccava una lunga
riga
nera, residuo di tutte le strusciate. Ma chi aveva mai potuto
progettare una
casa in cui non si apriva completamente nemmeno la porta?
Chiusi l’infisso alle
mie spalle, altrimenti
sarebbe stato impossibile proseguire oltre il corridoio, e mi ritrovai
a
riflettere la mia immagine in uno specchio sbilenco tappezzato di
vecchie
fotografie che ritraevano Celeste e Romeo. La prima cosa che notai fu
la mia
orrenda acconciatura, per non parlare poi di tutto il mascara che mi
era colato
sotto gli occhi facendomi assomigliare ad un panda. Per fortuna portavo
sempre
con me tutto l’occorrente per un veloce restauro, per cui posai a terra
le
Chanel e mi adoperai per ritoccarmi.
Conclusa finalmente
l’opera, sbirciai le foto
appese allo specchio e notai un Romeo di appena dieci anni che
sorrideva
all’obiettivo della macchina fotografica con il viso stracolmo di
lentiggini e
la pelle lievemente abbronzata.
Doveva essere estate.
Sedutagli accanto c’era
lei, la sua migliore amica, con i capelli biondi e
quegli occhi
grandi e sinceri come quelli di un cerbiatto. Mi sovvenne alla mente
che
qualsiasi situazione affrontassi, Celeste mi superava in ogni caso. Si
trovava
sempre un passo avanti a me, che si trattasse di Leonardo o di Romeo.
Non che quello sfigato
mi interessasse.
Passai oltre e udii
distintamente il rumore
dell’acqua che s’infrangeva sul piatto della doccia. La colpa di tutto
quello
che mi era capitato era solo del Rosso e della sua smania improvvisa di
pulizia. Come punizione, mi avrebbe accompagnata alla Settimana della
Moda a
Milano e avrebbe svolto il ruolo del mio lacchè.
Inspirai ed espirai,
trovando le parole esatte da
sbraitargli contro non appena avessi fatto irruzione nel bagno, quando
mi avvicinai
e trovai la porta socchiusa. Lo spiraglio dell’infisso si apriva su un
grande
specchio semi-appannato che rifletteva il box doccia al cui interno si
muoveva
una figura dagli scuri capelli rossi.
Tutto il bagno era
invaso da vapori bianchi che galleggiavano
sul lavandino, mentre il vapore acqueo si posava su tutte le superfici
disponibili e rendeva l’atmosfera simile a quella di un sogno. Era come
se io
non fossi più io, se quello non fosse più lui ed entrambi non fossimo
più
Annalisa e Romeo, come se non appartenessimo più a due mondi
completamente
opposti. In quel momento esatto l’acqua smise di far rumore ed io
trasalii
sentendo il box che si apriva, lasciando apparire vagamente la figura
del Rosso
davanti allo specchio.
Che fai, spii?
No! Ma sei matta?!
E allora perché non sei ancora entrata e non
gli hai urlato contro di
muovere quel suo culo flaccido e accompagnarti al centro commerciale?
Strinsi la pochette tra
le mani con rabbia, quando
tutti i miei pensieri scomparvero dalla mente nel momento esatto in cui
un
braccio niveo si sporse al di là del lavandino e passò la mano sul
vapore che
si era addensato sullo specchio, riflettendo quasi perfettamente un
Romeo
dall’aria tormentata.
Era imbronciato, si
vedeva dal modo in cui metteva
il muso, quasi come un bambino. Lo aveva fatto anche la sera in cui
eravamo
andati all’appuntamento a sei, quando ero stata raggirata da quella
scema della
nanerottola. Ancora mi bruciava quella storia, ma me l’avrebbe pagata
con gli
interessi.
Lo sentii sospirare e
mi irrigidii, nascondendomi
ancora di più contro lo stipite per non farmi scorgere dal riflesso
della porta
semiaperta. Il perché rimanevo immobile senza annunciarmi era ancora un
mistero, soprattutto per la mia Superbia che sembrava aver gettato la
spugna.
Non mi stupisce che
tutti ti abbiano sempre preso in giro. Dio, guardati! Hai i capelli
rossi!
Più andavo avanti e più
mi rendevo conto di essere
un’emerita stronza. Offendevo gli altri per difendermi, per schermarmi
dall’avere qualsiasi relazione con loro, ma con Romeo non avrei dovuto
avere
problemi di questo tipo.
In fondo era come me,
un libro giudicato unicamente
dalla sua copertina.
Si mordicchiò il labbro
nella classica espressione
pensosa, dopodiché strinse i pugni e si guardò allo specchio con
convinzione.
«Puoi farcela, amico!»
sbotto, aggrottando la fronte e assumendo una posa
davvero buffissima. «Non fare il coniglio, stasera
devi riuscire a dirle tutto!».
Dirle?
Si
trattava forse della ragazza che gli piaceva?
Come mai tutto questo interesse improvviso
per la vita amorosa dello
sfigato?
Taci!
«Ma chi diavolo prendo
in giro,» bofonchiò poi, sconsolato.
Lasciò che la testa
fulva gli ciondolasse sul
petto, mentre soltanto in quel momento notai il mare di lentiggini che
aveva
sparse su quelle immense, gigantesche spalle da rugbista.
Da quanto tempo aveva
quelle spalle?
«Mi riderà addosso,»
uggiolò, afferrando un asciugamano e cominciando a
sfregarsi i capelli.
Soltanto in quel
momento mi resi conto che molto
probabilmente era nudo e soltanto il lavandino di quel misero bagno mi
salvava
dall’orrenda visione della carota di
Romeo.
Ma smettila, che hai inzuppato il maglione di
bava!
Istintivamente mi
riscossi dal mio momentaneo
assenteismo mentale e mi portai una mano alle labbra, sentendo che
effettivamente
erano umide.
Ossignoresantissimo!
Che cosa mi stava succedendo?
Ossignoresantissimo? Andiamo bene, ci manca
solo che cominci ad usare i
neologismi di quel babbeo.
Non è un babbeo!
Mi allontanai di colpo
dalla soglia del bagno ma
non feci attenzione alla presenza di uno scatolone proprio dietro ai
miei
poveri piedi già martoriati dalle vesciche, così franai al suolo
cacciando un
urlo davvero poco signorile.
«Porco Armani!»
ringhiai, sperando non mi fossi rotta qualche
vertebra lombare.
Sbiancai quando la
porta del bagno si spalancò e un
Romeo – fortunatamente pudico – uscì per sincerarsi di cosa fosse
successo.
Aveva ancora i capelli gocciolanti e gli occhi sgranati dalla sorpresa,
inoltre
era a piedi nudi come la sottoscritta.
«Stai bene?» mi chiese
allarmato, tendendomi una mano.
Come se fossi stata
scoperta a rubare i biscotti
dalla cucina, scacciai il braccio di Romeo con rabbia. «Ce la faccio da
sola,» ringhiai, aggredendolo senza un vero motivo. «È solo colpa tua
se sono inciampata in questo coso!»
Non seppi il motivo di
quella sfuriata, ma avevo
bisogno di ritrovare la vecchia me stessa che in quei cinque minuti si
era
andata a fare un giretto. Riuscivo a stento a riconoscermi, soprattutto
quando
avevo sentito un certo calore affiorarmi sulle gote mentre lo spiavo
poco
prima.
Allora lo ammetti, eh?
«È di Venerdì quella
scatola, se
l’è dimenticata,» si giustificò, portandosi il
braccio offeso dietro la nuca e snocciolando un sorriso ebete. «Ma
perché non mi hai chiamato?»
Mi alzai in piedi con
uno scatto, ignorando il
dolore ai muscoli delle gambe, e inarcai talmente tanto le sopracciglia
che
pensai mi si staccassero dalla faccia. «Sono DUE MALEDETTISSIME ORE che
sto tentando di chiamarti!» urlai isterica, facendolo indietreggiare
con gli
occhi che sembravano due puntini.
«N-No-Non l’ho sentito…»
biascicò lui, tenendosi stretto l’asciugamano
addosso come se da un momento all’altro avessi tentato di stuprarlo.
Ci avevi fatto un pensierino, ammettilo.
Mancava solamente il
sarcasmo della Superbia,
adesso.
«Cosa prevede il nostro
patto? Te
lo sei dimenticato forse? Devi essere SEMPRE disponibile, sempre!
Quando io
chiamo, tu rispondi. Ho fatto cinque rampe di scale, perché avete un
ascensore
che è una trappola mortale a quattordici livelli, mi sono venute le
vesciche,
mi si sono smosciati i capelli e mi è colato il mascara!» gridai, senza
più forze per arrabbiarmi. «Sono orrenda,» sbuffai infine, rilassando
le spalle.
Fu in quel momento di
debolezza che Meo si staccò
dal muro e mi posò una grande mano sulla testa. Non ci avevo mai fatto
caso, ma
le sue mani erano grandi, forti, accoglienti. Mi davano uno strano
senso di
protezione. «Quante volte devo ripetertelo che
ci vuole ben altro per renderti orrenda?» sghignazzò, con quella solita
aria da buffone.
Lo faceva di proposito,
l’avevo capito subito. Si
nascondeva dietro la maschera da giullare per non affrontare in modo
diretto i
suoi problemi. Era una mossa furba, in fondo.
«Parli bene tu. A te
non te ne
importa nulla dell’aspetto esteriore. Altrimenti non andresti in giro
con quei
vestiti da straccione.»
Ecco, mi era uscita
così. Mi morsi la lingua quando
vidi il verde acceso dei suoi occhi scurirsi e le sopracciglia
abbassarsi quel
tanto da dargli un’aria da cane bastonato. Era strano come il suo umore
contagiava inevitabilmente il mio. A furia di stare in contatto, sia
per negozi
che dall’estetista, avevo finito con l’essere influenzata da ogni suo
cambiamento.
«Su, vatti a vestire
che andiamo,» tagliai corto, cambiando argomento.
Mai e poi mai gli avrei
chiesto scusa. Annalisa
Cavalli non era il tipo.
«Andiamo dove?»
chiese stupito, passandosi una
mano tra i capelli umidicci e spettinandoseli come di consueto.
Sembrava uno
spaventapasseri.
Sfoderai uno dei miei
sorrisi brevettati, quelli da
copertina di Vanity Fair. «Preparati, perché le braccia ti faranno male
per giorni dopo che avrò
svaligiato il nuovo negozio che hanno aperto al centro commerciale di
Euroma2».
Romeo sgranò gli occhi.
«Shopping? Ancora?!»
Incrociai le braccia al
petto e lo fissai di
sbieco. «E allora? Sei il mio schiavetto,
non c’è bisogno che te lo ripeta.»
«Ho capito, ma prima o
poi ho in
progetto di ribellarmi,» borbottò, incamminandosi lungo
il corridoio.
D’istinto lo seguii,
soffermandomi con lo sguardo
sul panorama della sua schiena immensa e perfetta. Le spalle larghe,
inondate
di lentiggini, si aprivano in una perfetta Y, lasciando spazio a delle
lunghe
braccia e a una vita sottile. Non era muscoloso come Leonardo o come
qualsiasi
altro calciatore di mia conoscenza, che mi avesse fatto il filo o meno,
ma
aveva qualcosa di stranamente attraente.
Inoltre la sua pelle
era diafana, il colore esatto
della neve, e il rosso scuro dei suoi capelli, ancora umidi della
doccia,
sembrava sangue. Quasi inconsciamente mi allungai per toccarli, per
sentire la
consistenza sotto i polpastrelli delle dita, poi il raziocinio ebbe il
sopravvento e mi strinsi la mano al petto.
Che diavolo mi stava
succedendo?
Devo farti i disegnini?
Romeo svoltò in una
delle stanze, senza chiudersi
la porta alle spalle. Entrai anche io senza curarmi di nulla, visto che
ero
abituata a fare di testa mia ovunque andassi, ma non appena varcai la
soglia mi
ritrovai in un mondo fatto di caos. Vestiti sparsi ovunque, libri e
cartacce
risalenti quasi al periodo del liceo, anche perché su di uno giurai di
aver
visto i riassunti sulla seconda guerra mondiale. C’erano avanzi di
panini
smozzicati sulla scrivania, bottiglie di bibite ormai fossilizzate e
tovaglioli
sporchi sparpagliati sulla sedia.
Quella stanza era da
denuncia al ministero della
sanità.
«Scusa, ho dimenticato
di fare
ordine,» si giustificò lui, mentre
trattenni a stento un conato di vomito.
«Ordine? Qui dovresti
bruciare
ogni cosa. Ci saranno almeno ottocento tipi diversi di batteri su quel
letto!» E lo indicai disgustata, notando, soltanto alla
fine, la presenza di mutande sporche attorcigliate insieme al lenzuolo.
Romeo rise, poi
abbracciò un cumulo di vestiti e lo
gettò sulla scrivania, indicandomi un pezzetto di letto su cui
accomodarmi. «Siediti,» mi fece.
«Preferisco rimanere
dove sono,
anche se ormai dovrò fare l’antitetanica,» sibilai disgustata.
Meo scrollò le spalle
con indifferenza e si
precipitò verso un cassettone, afferrando un paio di boxer rossi e
piuttosto
natalizi. Come se in quella giornata non fossi stata abbastanza
sovrappensiero,
mi ricordai che sotto quell’asciugamano di spugna non aveva null’altro
che la
temibile carota, così mi chiesi se avesse davvero intenzione di
spogliarsi
davanti a me.
«C-Che fai?» chiesi,
lievemente turbata.
«Mi vesto,» rispose
lui, infilando prima un piede poi l’altro
nei boxer.
D’istinto avrei voluto
coprirmi gli occhi o
perlomeno voltarmi e fingere di guardare un interessantissimo poster di
una
Pamela Anderson mezza nuda con le tette in gola. Gli piacevano le
bionde, che
novità?
Purtroppo non riuscii a
muovere un muscolo. Rimasi
quasi incantata a guardare i suoi movimenti lenti e quelle spalle
enormi che si
alzavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro.
Se le spalle sono così grandi, anche
qualcos’altro sarà delle stesse
proporzioni.
Mi maledissi per quel
pensiero che mi fece
diventare dello stesso colore dei miei capelli. Per fortuna Meo era
impegnato a
vestirsi e non fece caso ai miei deliri. Non riuscivo a comprendere
cosa stesse
succedendo al mio corpo, il perché di quelle strane reazioni. Nemmeno
con
Leonardo le avevo mai provate, anzi, spesso e volentieri vederlo nudo
era stato
il mio più grande desiderio. L’imbarazzo pensavo fosse superfluo per
una come
me, ma evidentemente mi sbagliavo di grosso.
Romeo afferrò i lembi
di stoffa ma prima di
capitombolare verso il punto di non ritorno, si premurò di voltarsi e
di
tirarsi su le proverbiali braghe con un gesto secco, senza togliersi
l’asciugamano. Quei secondi mi sembrarono interminabili.
Diedi la colpa alle
cinque rampe di scale che avevo
fatto indossando i trampoli, oppure al sudore che aveva rovinato la mia
pelle
delicata o a qualsiasi altra cosa che mi stesse facendo impazzire, ma
quando
quel fallito di Romeo si voltò liberandosi dell’asciugamano e rimanendo
in
boxer di fronte a me, avvertii chiaramente un tonfo nel petto.
«Dove starebbe questo
ennesimo
centro commerciale?» mi chiese riscuotendomi dai miei
pensieri perversi.
«È inutile che lo dici
con quel
tono,» esclamai, avvertendo un leggero
tremore nella voce. «Ci andiamo lo stesso, ormai è
deciso. Si trova vicino la Pontina, la prima uscita a destra,» spiegai,
avendo visto le indicazioni stradali su
Google.
«Mhpf,» sbuffò lui,
dandomi le spalle e frugando qualcosa
nei meandri del suo armadio.
Decisi di fare qualcosa
o altrimenti il mio
cervello aveva deciso di giocarmi brutti scherzi quella mattina. Evitai
un
cartone di pizza datato 1890, saltai cinque paia di calzini dalla
dubbia forma
e dal colore indescrivibile e per poco non inciampai di nuovo in un
vecchio
zaino lercio, ma alla fine riuscii a raggiungerlo, proprio nel momento
esatto
in cui lui si voltò trionfante con un paio di jeans sdruciti in mano.
Ovviamente andai a
sbattere contro il suo petto.
Nudo.
«Sta un po’ più attento!»
lo mortificai, spingendolo via da me non troppo
gentilmente.
«Sei tu che mi sei
venuta addosso,» rispose, notando solo ora la nostra vicinanza.
Vidi i suoi occhi verdi
sgranarsi e un leggero
rossore estendersi dalle guance inondate di lentiggini e raggiungere
perfino la
punta delle orecchie. Non seppi spiegarlo, ma quella reazione la trovai
estremamente adorabile.
«Sì, va be’, questa
camera è una
trappola,» mi giustificai, accettando di
sedermi sul bordo del letto che mi aveva ripulito poco prima.
In realtà avevo un
assoluto bisogno di appoggiarmi
da qualche parte, visto che i piedi mi dolevano ancora. Dopo le scale,
la
caduta e quella serie di scompensi ormonali causati dalla vista di uno
sfigato
mezzo nudo avevo bisogno di assoluto riposo.
Mi sarebbe venuto un
esaurimento nervoso, era
questione di tempo.
Romeo tossicchiò
tentando di riprendersi. «Ma che te devi comprà stavolta?» domandò poi,
infilandosi i jeans e afferrando una
T-shirt dello stesso colore dei suoi capelli.
Piegai un ginocchio,
posando un piede sul letto e
mi esaminai le ferite che le mie adorate Alviero Martini mi avevano
causato
senza il loro volere. Era tutta colpa di Romeo e di quella casa
maledetta. «Non lo so, vedremo,» risposi vaga. «Ci vado soprattutto per
i
commessi a torso nudo,» aggiunsi spiccia.
«Ah,» mormorò Meo,
abbassando lo sguardo.
Se l’era per caso presa?
«Ahi…!» esclamai,
toccando una ferita piuttosto grande
sopra il tallone, vicino alla caviglia.
«Che c’è?».
«Mi si è aperta una
ferita,» mi lagnai, non sopportando affatto il dolore.
In fondo non avevo mai
corso pericoli nella mia
grande casa. Al primo mal di gola, alla prima sbucciatura, mio padre
chiamava
il medico di famiglia e mi faceva visitare. Perché io ero la sua
bambina, il
suo diamante più prezioso.
Romeo mi raggiunse
scalciando un mucchio di
riviste, poi s’inginocchiò ed esaminò l’escoriazione. Sentire le sue
dita
ancora umide della doccia sul collo del piede mi fece rabbrividire, ma
seguii
tutti i suoi movimenti. Ero quasi ipnotizzata dalla premura che aveva
nei miei
confronti, nonostante lo ricoprissi sempre d’insulti.
Meo era come un
boomerang, più tentavo di
respingerlo e più lui tornava indietro, comportandosi come se non fosse
successo nulla.
«Ma come te la sei
fatta?» chiese stupito, alzandosi di scatto e recuperando
qualcosa da un mucchio di cianfrusaglie sparse su quella che un tempo
doveva
essere una scrivania.
«È tutta colpa delle
tue maledette
scale e di quell’ascensore pericolante e di questa casa che sta
all’ultimo sperdutissimo
piano!» urlai, guardandolo in cagnesco.
Romeo si voltò e alzò
un sopracciglio, con
scetticismo. «Non sarà invece che ti ostini ad
indossare quelle scarpe create solo per distruggere i piedi o per far
azzoppare
qualcuno?» commentò, chinandosi e tirando
fuori da una scatoletta dell’acqua ossigenata del cotone idrofilo e un
cerotto.
Sgranai gli occhi e lo
fissai come se avesse appena
bestemmiato. «Ma lo sai di chi sono quelle
scarpe?»
«Topolino?» sghignazzò
lui.
Sbuffai esasperata
perché parlare di moda con lui
era come spiegare ad un esquimese come fosse fatto un bikini, quindi
lasciai
perdere in partenza. Fu quando posò il cotone imbevuto sulla ferita che
gli
afferrai il polso stringendo forte e mordendomi le labbra per il dolore.
«Brucia!» frignai.
«Sei proprio una
bambina,» mi apostrofò lui, accarezzandomi il piede per
tranquillizzarmi.
Schiusi le palpebre
soltanto per sbirciare,
attraverso le mie ciglia grondanti di mascara, il suo sguardo rapito
dalla
ferita e i suoi movimenti gentili e calcolati. Tamponava l’escoriazione
con
delicatezza, senza che l’acqua ossigenata colasse sul pavimento o mi
sporcasse
il pantacollant.
È come se lo facesse da sempre…
«Ti ho detto mille
volte di non
metterti quei tacchi, sono tanto comode le scarpe da ginnastica,»
insistette.
«Già,» grugnii. «Così
assomiglio alle tue amiche barbone.»
Romeo si accigliò a
quel commento, ma non me lo
rimangiai. Avevo ragione e mai e poi mai gli avrei dato la
soddisfazione di
potermi cambiare. «Ah, ma a te piacciono le tipe
così e a quanto pare piacciono pure a Leonardo, quindi dovrei gettare
dalla
finestra tutti i miei abiti firmati e andare in giro con gli scarti
della
Caritas.»
«Aridaje co’ sta storia,»
borbottò. «Ti ho detto che la cotta per Celeste mi è passata. Cos’altro
vuoi?»
Già, cos’altro volevo?
Muori dalla curiosità di sapere a chi si
riferiva l’altra volta. Chi
avrà ghermito il cuore do Meo?
Nel frattempo mi aveva
asciugato la ferita e ci
aveva applicato sopra un cerotto colorato, con i Puffi disegnati sopra.
«Ecco fatto,»
sentenziò, raccogliendo tutto e gettando le
cartacce nel cestino.
«Grazie,» soffiai,
esaminandomi la medicazione.
Romeo continuò a
vestirsi, racimolando un paio di
calzini e setacciando la stanza in lungo e in largo alla ricerca delle
sue
immancabili All Star rosse. Mi ritrovai a riflettere sulla nostra
amicizia, se
così si poteva definire. La prima volta che ci eravamo conosciuti, ci
aveva
provato con me, come del resto facevano tutti, poi, per una serie di
circostanze, avevamo finito con l’incontrarci ancora, volta dopo volta,
di
occasione in occasione, fino a quando non avevamo stretto quell’accordo.
Terrò la bocca chiusa a patto che tu mi farai
da schiavetto.
Dovevo ammetterlo, non
era stata una delle mie idee
più brillanti, ma in quel momento non mi era venuto in mente altro. Ed
ora mi
ritrovavo lì, seduta sul suo letto sciatto, io che ero abituata ad
avere
lenzuola pulite ogni giorno.
«Riflettevo sul nostro
rapporto,» cominciai, rimuginando ad alta voce.
Romeo si immobilizzò,
rimanendo con una gamba
sospesa per aria e saltellando con quell’altra per tenersi in
equilibrio mentre
si infilava una scarpa. «Quale rapporto?»
«Su come ci siamo
conosciuti, su
quanto siamo diversi io e te,» continuai. «Cioè, su quanto tu sia
strano,
volevo dire.»
«E cosa hai concluso?»
mi domandò, optando per raggiungermi e sedersi
accanto a me, finendo di vestirsi.
Non appena si posò sul
materasso, avvertii una
nuvola di profumo passarmi sotto le narici, ma ben presto mi accorsi
che era
proprio la sua pelle. Era dolce, quasi come l’odore dello zucchero a
velo e
stranamente me lo figurai come un qualcosa di bianco.
Borotalco.
Sì, Meo odorava di
borotalco.
«Sei morta?» mi chiese,
fissandomi negli occhi.
Era vicino, troppo
vicino per i miei gusti. «Non mi alitare in faccia!» lo ammonii
perentoria, nascondendo il mio
imbarazzo dietro un insulto. «Comunque ho pensato al fatto che io e te
non abbiamo nulla in comune.
Sarà perché tu vivi in questa topaia ai confini della città con la tua
amichetta e quell’altra, mentre io ho talmente tante camere che mi
serve la
mappa per trovare la mia, oppure semplicemente perché io ho gusto e tu
non ne
hai nessuno.»
«Sei sempre
gentilissima,» osservò, allacciandosi la scarpa.
Finì di prepararsi,
aggiustandosi il rivolto dei
jeans con gli strappi e le toppe, i peggiori mai visti in tutta la mia
intera
esistenza, poi si voltò a guardarmi. «In effetti lo sai chi sembriamo
noi due?» sorrise.
«Chi?» chiesi
allarmata, pensando già potesse riferirsi a
due strambi personaggi dei suoi fumetti da collezione.
«Quelli della canzone,»
mormorò alzandosi, poi si diresse verso la
scrivania e afferrò qualcosa. Troppo tardi compresi che si trattava di
una
chitarra. Tornò a sedersi accanto a me ed io avvertii di nuovo quel
profumo. Era
un qualcosa di indescrivibile anche perché avevo utilizzato il
borotalco più di
una volta, perciò ero a conoscenza di quale odore avesse, invece quello
sembrava speciale, vellutato, irresistibile. Nel frattempo i capelli di
Romeo
sembravano essersi asciugati quasi da soli, anche se le punte erano
ancora
umide. Rischiava di prendersi un raffreddore con quel freddo.
Ecco Anna in versione fidanzatina preoccupata.
Ancora tu?
«Quale canzone?»
domandai, scacciando via la voce della mia
Superbia.
«Uptown Girl» rispose
lui semplicemente.
«Up-che?»
«Billy Joel, mai
sentita? È
famosissima,» ridacchiò.
«Senti, se non è un
pezzo di David
Guetta, io non ho idea di cosa sia,» tagliai corto.
Andavo in discoteca da
quando avevo sedici anni e
per quanto mi piacessero i concerti, preferivo mille volte uscire, fare
shopping e ballare piuttosto che sentirmi e risentirmi una canzone di
ottant’anni fa. Se l’avevano scritta quando ancora la marijuana era
legale, un
motivo c’era.
Romeo rimase con la
bocca semi-aperta. «Vabbè, diciamo che questa canzone fa un po’ così,»
e si mise a strimpellare qualche accordo. «Praticamente, parla di un
ragazzo di periferia che
s’innamora di una ragazza dei quartieri alti, ma lui non ha i mezzi né
le
facoltà per poter competere con i pretendenti di lei che hanno macchine
più
lussuose, possono offrirle gioielli e tutto ciò cui lei è abituata.»
Lo ascoltai assorta,
come se da quel racconto a
poco a poco si districasse una matassa che fino ad allora era rimasta
ingarbugliata nella mia mente. Non seppi se fu merito della canzone,
oppure
delle parole usate da Meo per spiegarne il significato, mi resi
solamente conto
del perché soltanto in quel momento avevo avvertito quel profumo di
borotalco.
«E come finisce?» gli
chiesi, avida di sapere.
Romeo alzò lo sguardo
dalla sua chitarra e puntò le
iridi verdi nelle mie. Era come guardarsi in uno specchio, perché
quegli occhi
riflettevano i miei con la stessa intensità di un fuggevole sguardo. «Non
lo so,» sospirò. «Dice solamente che lui non può
permettersi di farle dei bei regali, ma
se un giorno farà fortuna potrà competere per il suo cuore.» E fu in
quel preciso istante che abbassò lo
sguardo. C’erano troppi silenzi tra di noi, troppe cose in sospeso e
poi c’era
quel dannato profumo, quel suo sguardo espressivo, quelle sue
gentilezze.
Cosa mi sta succedendo?
«Beh, è ora di andare,»
dissi, sperando di riuscire a far tacere tutte le
voci che mi vorticavano in testa. Ero venuta a casa di Meo con la
chiara
intenzione di buttarlo giù dal letto e costringerlo a passare una
giornata
d’inferno, invece lui, senza aver premeditato nulla, mi stava facendo
cuocere
nel mio stesso brodo.
Quanto lo odiavo.
«Non vedo l’ora di
comprarmi un
vestito nuovo, un paio di scarpe, almeno tre borse e un completino
intimo che è
un bijoux,» trillai, alzandomi in piedi con
uno scatto energico.
Sentii Romeo sbuffare
alle mie spalle e sorrisi. In
fondo era tornato tutto come prima finalmente, bastava ignorare il
problema e
tutto sarebbe tornato alla normalità.
«Ripeto che per me
staresti
benissimo con qualsiasi cosa,» borbottò. «Anche con una delle mie
magliette, perché in fondo sei bellissima comunque, nonostante sembra
tu faccia
di tutto per farti odiare.»
Rimasi immobile,
pietrificata, dandogli le spalle.
Non avevo il coraggio di guardarlo, anche perché se l’avessi fatto
tutte le mie
certezze sarebbero crollate. Perché insisteva? Per quale motivo
continuava a
ripetermi quelle cose? Io avevo bisogno di sentirmi bella, di mostrarmi
in
forma perfetta, perché dentro al mio cuore sapevo
di essere solamente una ragazzina viziata ed odiosa.
Strinsi i pugni e mi
conficcai le unghie nel palmo.
«Non è vero,» asserii.
«Sì che lo è,»
insistette, mandandomi ai nervi.
Mi voltai di scatto,
pronta ad aggredirlo, ma mi
ritrovai di nuovo con il corpo contro il suo petto ampio, che profumava
di
borotalco. Il mio muro non poteva crollare, non dopo tutti gli anni che
avevo
impiegato per costruirlo.
«Tu non sai un
accidente di me! È
facile la vita per uno sfigato come te, sei già caduto in basso, non
puoi fare
altro che sprofondare, mentre io ho tutto in gioco. La mia reputazione
è l’unica
cosa che ho!» gli urlai contro, sbattendogli i
pugni sul petto. «Sin da piccola mi hanno sempre
visto come la figlia di mio padre, del grande imprenditore, dell’uomo
che
possedeva una delle più grandi squadre di calcio…».
«…e tu non hai fatto
altro che
accontentarli,» concluse al mio posto.
Sgranai gli occhi e li
fissai nei suoi, grandi e
verdi, forse capaci di inghiottire i miei insulti e di farmi
precipitare in
silenzi imbarazzanti. Non gli risposi o almeno non gli diedi la
soddisfazione
di avere la ragione dalla sua parte. Ero fatta così, non potevo farci
nulla.
«Credo soltanto che…»
tentò di dire.
«Fai silenzio, ti prego,»
lo fermai. «Il nostro non è un accordo di amicizia, io e te non siamo
confidenti, né
amici e né tantomeno amanti. Perciò smettila di psicanalizzarmi.»
Mi sarei aspettata di
tutto da Romeo, che si
incavolasse, che mi urlasse contro, che sprofondasse nel letto o al
massimo che
mi tenesse il broncio. Non fece nulla di tutto quello.
Si allontanò da me e
afferrò i lembi della T-shirt
rossa che tanto faticosamente aveva racimolato dal fondo dell’armadio
per
vestirsi. Rimase a petto nudo e quella pelle diafana, spruzzata di
lentiggini
comparve nuovamente davanti agli occhi. Rimasi paralizzata, non avevo
idea di
come comportarmi. Romeo si limitò a rivoltare le maniche e in un gesto
secco me
la infilò dalla testa, aiutandomi poi a indossarla per bene.
«Vedi?» poi mi fece,
voltandomi verso uno specchio appeso
alla parete, parzialmente coperto da alcuni vestiti. «Stai bene persino
con una delle mie magliette,» disse, mettendosi dietro di me e
sussurrandomelo
quasi all’orecchio.
Sentivo il suo fiato
caldo aleggiarmi sul collo,
mentre quella stupida stoffa rossa odorava troppo di borotalco,
profumava di
lui e mi stava lentamente rimbambendo. Ero andata lì col chiaro intento
di
prendermela a morte con Meo, di sgridarlo, di urlargli contro e non mi
sarei di
certo aspettata quella reazione da parte del mio corpo.
Mi osservai allo
specchio e vidi riflessa
l’immagine della solita Anna con i capelli rossi, gli occhi
esageratamente
truccati e quell’enorme maglietta rossa. Mi accorsi però che c’era
qualcosa di
diverso, oltre al faccione di Romeo che spuntava dalla mia spalla.
Forse mi stavo
intenerendo troppo.
O forse quel bisogno morboso che hai di fare
shopping è una scusa bella
e buona per poter rivedere lo sfigato.
No, non era possibile.
«Perché i tuoi genitori
hanno
scelto il nome Romeo?» gli domandai di botto,
fissandomi ancora allo specchio come se mi stessi provando un
Valentino. Ci
stavo prendendo gusto e dovevo ammettere che la sua maglietta mi stava
davvero
bene.
Come anche il suo profumo sulla tua pelle.
Romeo rimase sorpreso
da quella mia domanda, però
mi regalò un mezzo sorriso. «Mia madre era fissata con Shakespeare in
quel periodo,» si portò una mano dietro la nuca e ridacchiò
imbarazzato. «Forse è anche per questo motivo
inconscio che ho scelto Lettere.»
«Beh, dovresti esserne
lusingato,» commentai ad alta voce. «Chiunque avrebbe fatto carte false
per essere al
posto di Giulietta.»
Meo sbatté le palpebre.
«Scusami, tu vorresti morire a sedici anni?»
«Sei sempre il solito,»
aggiunsi. «Mi riferisco al loro grande amore, alla storia più
travagliata e
romantica di tutti i tempi.»
«Sembra di sentire
parlare mia
madre,» sbuffò, spaparanzandosi sul
letto.
Mi ritrovai a pensare
come sarebbe stato Romeo come
ragazzo. Stavo camminando in un campo minato e me ne rendevo sempre più
conto,
ma il mio inconscio fu masochista e finii con l’associare quel
piacevole
pomeriggio a qualcosa di più di un semplice ricatto. In fondo Romeo
avrebbe
potuto smettere di assecondarmi, sapeva che non avrei mai spifferato
nulla – almeno
fino ad ora –, ma lui mi aveva assecondata.
Tanto gli piace un’altra, te l’ha anche detto!
Già, l’avevo
completamente rimosso.
Le parole dette in quel
pomeriggio di folle
shopping tornarono indietro come un boomerang e mi colpirono in pieno
petto. Il
mio corpo reagì chiudendosi a riccio, tentando automaticamente di
ricacciare
fuori la parte odiosa del mio carattere.
«Che hai?» mi chiese
lui, tornando a sedere.
«Niente.»
«È tutto il giorno che
mi sembri
strana e altro che ragazza dei quartieri
alti, assomigli più a una Emo tormentata!»
Quella fu la goccia che
fece traboccare il vaso.
«Che ho io,
eh? Mi chiedi perché sembro così strana?» inveii contro di lui,
avvicinandomi e facendolo
indietreggiare metaforicamente. «Ciò che mi affligge tanto, signor
Ciuccio, è il tuo inutile tentativo di
farmi apparire simile a quella stupida canzone, quando sappiamo bene
entrambi
che nessun Downtown man mi sta aspettando, o sta risparmiando per
comprarmi
chissà quale gioiello! Se è per questo, non ho nemmeno un Uptown man,
anzi… non
c’è proprio il man.»
Ecco, mi ero sfogata.
Finalmente avevo
buttato fuori quella parte amara
della mia vita che mi costringeva giorno dopo giorno ad indossare una
maschera
che ormai mi andava stretta. Era dura ammetterlo, ma ero stanca di
recitare una
parte, anche se lo stile di vita cui ero abituata mi imponeva di farlo.
«V-Veramente…» tentò di
dire lui, ma io lo fulminai con lo
sguardo.
«Cosa? Vuoi paragonarmi
ancora
alla tua misera esistenza?» lo schernii, pentendomene quasi
immediatamente, quando lo vidi
abbassare lo sguardo in un modo esageratamente tenero.
Lo sentii pigolare un
timido «No.» Dopodiché fu come se si fece coraggio da solo e andò a
frugare qualcosa
dentro il cassetto vicino al letto. Mi alzai in punta di piedi per
riuscire a
sbirciare cosa potesse attirare tanto la sua attenzione, ma quelle
spalle
enormi coprivano tutta la visuale.
«Sei stai cercando una
pistola, ti
risparmio la fatica. Me ne vado,» sentenziai, imboccando la porta.
«Aspetta!» mi urlò
quasi, tirando fuori dal cassetto una
scatolina che nella furia del gesto gli volò via dalle mani e rotolò
per terra,
fino ai miei piedi. Sorpresa, mi chinai a raccoglierla ma prima di
tutto fissai
lo sguardo sul viso rosso carminio di Romeo.
Seguiva ogni mio
movimento con gli occhi sgranati
mentre la bocca, secca e screpolata, tentava di articolarsi in qualcosa
di
comprensibile.
«È… è…» balbettò.
«Una scatola,» lo
anticipai, poi, senza ulteriori indugi, pigiai
sull’apertura e la aprii.
Di scatole come quelle
ne avevo viste a bizzeffe,
sicuramente molto più grandi e più pesanti, contenenti gioielli,
orecchini,
anelli di fidanzamento con diamanti enormi e tanto altro ancora. Quando
aprii
la scatola di Meo vi trovai un piccolo fermaglio, lungo quasi quanto il
mio
pollice, d’argento, con tre grandi perle nere incastonate sopra.
Mi tremarono le mani,
soltanto per un attimo.
«Cos’è?» mormorai.
«Un fermaglio,» rispose
lui, raggiungendomi.
Gli assestai una
gomitata nel costato. «Lo vedo, scemo. Intendevo perché me l’hai dato?»
Il rossore tornò a
tingere ogni superficie di pelle
di Romeo e quella sua debolezza cominciava a diventare infinitamente
adorabile.
«È un regalo,» ammise imbarazzato.
«Un cosa?»
«Quello di cui parla la
canzone,
le perle che lui le voleva regalare,» sorrise indicandole. «Ho scelto
quelle nere perché sono più rare.»
Realizzando poco a poco
quello che stava
succedendo, non potei fare a meno di sentire gli angoli degli occhi
pizzicarmi
e le lacrime spingere per uscire. Romeo se ne accorse immediatamente e
mi cinse
le spalle con un braccio, tutto allarmato. «Ehi, so che non è un regalo
di valore, come quelli cui sei abituata, ma
sto cercando un nuovo lavoro e vedrai che per il prossimo Natale o
magari per
quello dopo riesco a comprarti un gioiello decente.»
E dopo quelle parole
non riuscii più a contenermi.
Scoppiai in lacrime, affondando il viso nel petto di Meo, ancora senza
maglietta, e lo sporcai tutto di matita, eyeliner e mascara. Non sapevo
cosa
m’era preso, ma il vedere quanto impegno ci aveva messo per
confezionarmi quel
piccolo dono, mi aveva finalmente fatto capire cos’era che contasse
realmente
nella vita.
I gioielli, i vestiti,
le macchine costose, non
erano niente a confronto dell’affetto sincero di qualcuno, dell’avere
una
spalla su cui piangere, un paio di braccia pronte ad accoglierti.
«La prossima volta non
ti faccio
nulla,» sospirò. «Adesso mi devo rifare la doccia.»
«Scusa,» singhiozzai,
asciugandomi le lacrime e sporcandomi
io stessa con tutto il trucco che mi si era sciolto sul viso.
Romeo si sporse sul
comodino e tirò fuori una
salviettina umida. Me la passai sugli occhi e sul viso, portando via
una
quantità esagerata di fondotinta e di make-up superfluo. Quando mi
ripulii del
tutto, mi sentii più leggera.
«Non ti senti meglio
senza tutta
quella roba addosso?» ripeté sorridendomi. «Alle volte voi ragazze
sembra indossiate una specie
di mascherone da clown.»
Si accorse troppo tardi
di aver formulato una frase
che avrebbe rischiato di offendermi e quando vide la mia espressione
lievemente
corrucciata, sgranò gli occhi. Allungai una mano verso di lui e Romeo
alzò
istintivamente le braccia per pararsi dal ceffone inevitabile che gli
avrei
mollato. Gliele strinsi e l’abbassai, fino a fargliele scendere lungo
il busto.
Teneva ancora gli occhi chiusi, come se non si fidasse delle mie buone
intenzioni.
«Mi rimangio tutto!» si
affrettò a dire.
«Sta un po’ zitto,» lo
ammonii, poi mi alzai in punta di piedi e gli
posai un bacio all’angolo della bocca.
Rimase sorpreso da quel
gesto e quando mi staccai,
vidi i suoi occhi verdi diventare ancora più chiari. «Suppongo ti sia
piaciuto il regalo.»
«Quanto sei stupido,»
ridacchiai.
«Ma…» disse lui,
cercando il mio sguardo. «…non dovevamo andare da qualche parte?».
Hollistar, Euroma2, i
vestiti e i modelli in
topless erano passati in secondo piano in quel momento. Esistevamo
soltanto
noi, la spilla che giaceva sul comodino e la sua maglietta che non mi
sarei mai
più tolta.
Sorrisi spensierata. «Credo
proprio di averne troppi di vestiti e poi, un certo uccellino, mi
ha detto che sto bene anche con in dosso delle T-Shirt di dieci volte
la mia
taglia.»
Nella mia vita avevo
ricevuto tanti doni, tra i più
preziosi che potessi mai desiderare, ma quel fermaglio lo avrei
custodito
gelosamente, anche se non lo avrei mai confessato a Romeo. C’era
qualcosa che
stava cambiando, qualcosa dentro al mio petto ed era la prima volta che
mi
succedeva.
Poi un pensiero mi
folgorò la mente: se lui era il Romeo
di Shakespeare, io sarei mai stata in
grado di essere la sua Giulietta?
Eccoci alla fine
di questa OS alia Missing Moment dal PoV di Annalisa da collocarsi poco
prima del capitolo 14 appela uscito di Come in un sogno, che potrete
trovare qui.
Romeo personalmente incarna il massimo della dolcezza, perché crede di
essere un forte macho come il suo idolo, uno spezzacuori, ma non riesce
a fare a meno di aiutare gli altri, facendosi anche schiavizzare da
Anna. Grazie proprio a questo accordo, però, la bella rossa comincia a
conoscere la personalità di quello che lei definirebbe ''sfigato'' e
nonostante questo non riesce a resistere a quella dolcezza
caratteristica del carattere di Romeo.
Ho voluto creare una raccolta di MM dai vari PoV dei personaggi che non
hanno ''voce'' in CIUS così almeno diamo un po' di spazio anche alla
loro storia :33
Baciuz!
Marty
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