Trittico delle notti bianche.
Piccola nota introduttiva (è saltabile a piè pari):
Allora, di solito scrivo ma non pubblico perchè sono una
fifona. Perciò questo è il primo lavoro che lascia il cerchio
ristretto dei conoscenti/amici che hanno sempre modi gentili per dirti
"che schifo" e esagerato entusiasmo nel dirti "che bello". Dato che la
follia per Conan Doyle e i suoi due meravigliosi uomini mi sta
praticamente uccidendo (complice Sherlock BBC) ho deciso che avrei
esorcizzato la mia mania rendendo di pubblico dominio questa cosa.
Sarebbe bello sapere cosa ne pensate e stop, leggete pure :)
Da poche settimane io e Sherlock Holmes condividevamo l’appartamento
in Baker Street quando si presentò il primo caso che ci avrebbe legati l’uno
all’altro come collaboratori e amici.
Dopo quei giorni di indagine forsennata i miei incubi notturni
sembravano peggiorare, incrementati forse anche dai frequenti temporali estivi
che scaricavano sulla città una grande quantità di lampi e fulmini che ai miei
occhi traumatizzati dalla guerra non potevano che parere scoppi di granate.
Holmes passava le giornate immerso in una routine tranquilla e
monotona, punteggiata da momenti di tedio che lo fiaccavano incatenandolo al
divano con sguardo assorto, forse preda di qualche sostanza stupefacente.
Una delle sere subito successive alla chiusura delle indagini narrate
in “Uno studio in rosso”, Holmes stagliava il suo pallido profilo contro la
finestra, osservando i passanti che consumavano le ore camminando, quando
improvvisamente si voltò verso la mia figura emaciata per chiedermi con estremo
tatto quale fosse il ricordo terribile che non mi lasciava dormire di notte.
“Penso che siano le esplosioni a risultarmi così terrificanti alla
memoria. L’ho per caso svegliata?” chiesi, vagando distrattamente con lo
sguardo sul suo volto evitando gli occhi limpidi e gelati.
“Un paio di volte, si. Ma non è questo che importa.” rispose,
prendendo lo stradivari dal divano e pizzicandone le corde distrattamente.
“E cosa importa, allora?” domandai, mentre Holmes eseguiva con
maestria alcuni istanti di una sinfonia di Mahler per poi dondolare pigramente
l’archetto lungo il fianco.
“Nulla dottore. Penso che andrò a dormire.” si massaggiò
distrattamente la tempia destra ad occhi chiusi e si avviò verso la sua stanza
in silenzio.
“Buonanotte signor Holmes.” sospirai, un sussurro appena udibile.
Decisi di restare alzato ancora qualche minuto, timoroso di potermi
svegliare di soprassalto nel cuore della notte, ancora tormentato da un sogno
terribile. Per passare il tempo che mi sarebbe servito ad avvertire la morsa
del sonno ripensai al mio coinquilino, figura magnetica che aveva occupato
quasi interamente la mia attenzione durante la convalescenza e, nonostante mi
fossi quasi completamente rimesso, continuava mio malgrado ad occuparla.
Era sicuramente l’uomo più affascinante che avessi mai incontrato, non
certo per incredibile bellezza perché non era di questo che potevo dire si
trattasse: il suo viso appariva di forme così irregolari e contrastanti che se
non fossero state assemblate con un così perfetto intuito proporzionale
sarebbero di certo risultate odiose. L’insieme della fronte spaziosa, del naso affilato
e aquilino, del mento deciso e degli occhi penetranti di un grigio
inesplorabile faceva di lui un essere alieno e tuttavia dotato di uno strano e
inquietante carisma, accentuato dalla sua altezza notevole che gli permetteva di guardare la maggior
parte degli uomini di Londra, me compreso, dall’alto del suo metro e ottanta.
Le sue iridi indagatrici erano per me motivo costante di un certo
imbarazzo, convinto che avrebbero potuto leggere qualsiasi cosa pensassi sul
fondo dei miei occhi scuri e ogni mia azione dalla condizione dei miei abiti.
Ogni cosa concernesse con la sua figura diventava improvvisamente
interessante, un indizio ulteriore atto a schiudere il mistero della sua mente
brillante e della sua persona straordinariamente avvincente.
Non è dunque un mistero comprendere come, scomparsa la sua figura dal
salotto, la tristezza dei miei giorni passati improvvisamente piombò sulle mie
spalle come un macigno insopportabile, accompagnata dal tedio e dalla fredda
solitudine del soggiorno.
Dopo poco decisi di scacciare ogni pensiero molesto cercando di
dormire, azione che risultò subito più difficile di quello che mi era sembrata.
La spalla alla quale ero stato ferito dava ancora un certo fastidio e se mi
fossi appoggiato sul fianco sinistro, come la mia abitudine risalente
all’infanzia mi suggeriva, una stilettata ai nervi mi avrebbe subito disturbato
costringendomi ad una dolorosa veglia. Rimasi sdraiato a pancia in su, alla
fine, sperando in qualche modo di riuscire a smettere di pensare.
Quando questo accadde, svariate ore dopo, capitò per un’assoluta
spossatezza che non portò tuttavia ad un sonno senza sogni. La fine dell’incubo
che mi svegliò fu accompagnata dal suono sordo delle mie urla soffocate dal
cuscino e dal ritmo dei passi concitati di Holmes su per le scale fino
all’uscio della mia camera.
La luce fredda della luna illuminava la sua pallida figura che mi
fissò per un istante, le mie lacrime che colavano nella camicia senza che me ne
curassi, aggrottò le sopracciglia varcando la soglia e si avvicinò alla lampada
a lato del letto accendendo un fiammifero. Il fuoco e la scintilla mi fecero
spalancare gli occhi, terrorizzato da quella fiammella che ricordava
improvvisamente la scintilla della polvere da sparo, accorgendosi del mio
sgomento spense il cerino soffiandoci subito sopra, lasciando la stanza nella
gelida oscurità.
In quell’istante, quando le sue iridi repentinamente si accesero alla
luce del fuoco, tornai abbastanza in me da asciugarmi le guance e tentare di
ricompormi con scarso risultato. Le mie mani, con mio estremo imbarazzo,
tremavano e il collo era gelido di sudore.
Holmes si sedette sul bordo del letto con sguardo grave,tuttavia non
mi si avvicinò e non mi toccò come altri avrebbero cercato di fare.
“Dorma Watson, resto a vegliarla sulla poltrona.” la sua voce era
bassa e rassicurante.
“Non deve.” cercai di insistere, scuotendo la testa.
“No, non devo. Ma non riesco a dormire se lei grida: come vede è tutto
nel mio interesse.” sorrise, un cordiale e sincero ghigno luminoso che mi fece
socchiudere la bocca per lo stupore.
“Prenderò una coperta e mi siederò là. Se la sentirò agitarsi la
sveglierò. Ora dorma Dottore.” si alzò senza che il materasso scricchiolasse e
mi chiesi come quell’uomo sottile potesse essere tanto forte da battere un
pugile al suo stesso gioco (giorni addietro l’avevo visto all’opera in una
bettola sul fiume e ne ero rimasto sbalordito).
“Grazie Holmes.” mormorai alla figura raggomitolata sulla poltrona,
una mano aperta abbandonata sul bracciolo. Sapendo che non avrei ottenuto una
risposta dalla figura stagliata contro la finestra mi accinsi a riposare sulla
spalla sana e chiusi gli occhi.
Mi riaddormentai e non mi sveglia di nuovo, quella notte.
Dato
la forma privata di questi diari e l’impossibilità che
chiunque
estraneo a me li legga trovo adatto approcciarmi alla scrittura
con un
linguaggio meno formale di quello riservato alle pubblicazioni
ufficiali ad opera del mio editore, il signor Conan Doyle, e più
adatto a raccontare quello che accadde dopo quel
primo strano contatto fra me e Sherlock Holmes.
Non è necessario dire che, nel caso questi scritti vengano trovati, la
reputazione mia e del mio compagno sarebbero macchiate dalla colpa della nostra
relazione e probabilmente saremmo processati e arrestati secondo le leggi in
vigore a seguito del processo a Sir Oscar Wilde, rispettabile cittadino e
intellettuale dell’impero inglese.
Ad ogni modo, in questo luogo privato che sono le mie memorie posso
raccontare con tranquillità come si svolsero le giornate a seguire.
La mattina seguente la strana nottata mi svegliai solo nella stanza,
la coperta ripiegata sulla seduta della poltrona e il profumo del caffè che
risaliva dal vano delle scale, accompagnato dal rumore tintinnante di posate.
Scesi con fatica le scale, appoggiandomi al bastone ignorando il
dolore al polso, e mi ritrovai in salotto dove Holmes stava tranquillamente
imburrando un toast, il viso riposato nonostante la notte in poltrona,
perfettamente vestito e pronto ad uscire appena finita la colazione. Al
contrario il mio aspetto era ridicolo: gli occhi segnati, i capelli chiari
spettinati e la vestaglia messa alla bell’e meglio a causa del braccio colpito.
Holmes alzò gli occhi dal suo toast e dal giornale che affiancava il
piatto per sorridermi divertito.
“La trovo in forma Watson.” fu il suo unico commento, prima di
riprendere a scorrere le notizie sul quotidiano.
“Come sta la sua schiena, Holmes? Mi spiace per ieri notte.” zoppicai
con i denti stretti fino alla sedia all’altro capo del tavolo, lasciandomi
cadere stancamente reprimendo un gemito.
“Ho dormito più che bene, si fidi Dottore. Lei come si sente?” chiese,
sorseggiando il the e guardandomi da sopra il bordo della tazza con i suoi
occhi limpidi.
“Piuttosto bene.” dissi, passandomi una mano fra i capelli
scompigliati in un patetico tentativo di appiattirli.
“Lei mente. In ogni caso devo andare. Mangi Watson!” si alzò con
sorprendente agilità e afferrò il cappotto appoggiato sul divano, prima di fare
un cenno e lasciare la stanza.
“Arrivederci.” bisbigliai, mescolando il the tiepido e abbassando gli
occhi fino a trovare due fette di pane già imburrate nel piatto. Mi strofinai
il viso nei palmi aperti e sospirai di stanchezza, per poi trovarmi a fissare
il pane per un minuto o due prima di mangiarlo con appetito.
Che la avesse preparate Holmes non c’era dubbio e mi appuntai di
ringraziarlo per la gentilezza così insolita alla sua persona algida e
composta.
Dopo alcuni mesi nella stessa casa mi chiedevo quando i nostri
universi si sarebbero sfiorati e quando si sarebbero effettivamente infrante le
barriere, senza rendermi conto che non avrei mai osato invadere il suo spazio o
chiedergli più del necessario perché intimorito dalla sua freddezza.
Nonostante la sua glaciale pacatezza la convivenza fu tranquilla per i
giorni avvenire, con il passare dei giorni ci adeguammo silenziosamente alle
abitudini dell’altro condividendo gli spazi con una pace inaspettata.
Una sera, raccontando una barzelletta da taverna, lo sorpresi a ridere
contro il dorso della mano in un gesto che, per eleganza e bellezza, non sono
mai riuscito a dimenticare. Le sue esecuzioni al violino si adattarono con
garbo ai gusti comuni, nonostante i suoi assoli strimpellati occupassero
comunque gran parte della sua pratica.
Scoprii che sapeva cantare perché lo sentii intonare distrattamente
una vecchia canzone popolare mentre sperimentava con diversi solventi e liquidi
dall’odore pungente, in piedi davanti al tavolo della cucina con le ampolle in
mano.
La mia vita si riempì piano di una serie di dettagli rassicuranti,
all’ombra dei quali si completava la mia guarigione.
Holmes mi studiava al mattino appena sveglio per accertarsi della mia
salute e poi usciva per recarsi al laboratorio dell’ospedale, per poi tornare
verso sera e appendere il cappotto fino alla mattina successiva. Per qualche
tempo non menzionò nessuno dei suoi casi in mia presenza e non mi invitò a
presenziare a nessuna delle sue indagini, riconoscendo le pessime condizioni
della mia precaria salute soggetta a ricadute piuttosto violente.
L’estate londinese sembrava dover essere straordinariamente secca
quell’anno e, in una di quelle notti che in Inghilterra precedono scrosci
terrificanti dopo la siccità, ci congedammo tranquilli per tornare ognuno nelle
proprie camere proprio allo scoppio del primo tuono che annunciava il temporale
che Holmes aveva predetto quello stesso pomeriggio.
Mi feci forza nonostante la paura montante nel petto e scalai i
gradini con determinazione per potermi infilare sotto le coperte il prima
possibile, preda di quella credenza che da ragazzino ti faceva pensare alla
grotta delle lenzuola come un luogo sicuro dai pericoli del mondo. Mi svestii
in fretta e mi infilai sotto le coltri con un impeto che sarebbe risultato
buffo anche ai miei occhi se non fossi stato così terrorizzato dalle luci e dai
rumori fuori dalla finestra.
Un vigile soldato britannico tremante sotto le lenzuola non faceva
certo onore a se stesso ma non riuscii neppure a raccogliere il coraggio necessario
a spegnere la luce.
Probabilmente fu quel tremulo bagliore in cima alle scale che allarmò
Sherlock Holmes, che salì i gradini senza fare rumore per non turbarmi e si
introdusse attraverso l’uscio scricchiolante della stanza, avvicinandosi piano
al mio capezzale. Con lentezza appoggiò la mano ferma, dal tocco delicato,
sulla mia nuca scoperta per avvertire i brividi di paura corrermi lungo la
schiena.
Spense la luce lasciandoci per alcuni istanti nell’oscurità più totale
e poi strinse le dita fra le ciocche dei miei capelli, le mani incredibilmente
tiepide contro la mia pelle fredda.
“Cosa fa Holmes?” chiesi, voltandomi e cercando i suoi occhi nella
semioscurità. Giurai di averlo visto socchiuderli appena con espressione rapita
ma quando sbattei le palpebre il suo viso era quanto di più illeggibile potesse
esistere al mondo.
Non rispose alla mia domanda ma continuò ad affondare la mano fra i
miei capelli, mi spostò di poco verso il centro del letto, con l’attenzione
necessaria a non toccarmi la spalla ferita, e poi fui io a fargli posto. Si
sdraiò, tiepido sotto le coperte e ossuto contro la mia schiena, lasciandomi ad
ascoltare il mio cuore nelle orecchie, timoroso che potesse sentirlo contro lo
sterno. Nell’odore di saponaria delle coperte inamidate il suo profumo di
tabacco e colonia spiccava magnificamente, impregnando l’aria sotto le coltri.
“Si rilassi John. E’ solo un temporale.” parlò pianissimo contro la
mia tempia, capace di una comprensione sconosciuta e di una dolcezza di tatto
sorprendente. Mi sfiorò la schiena con cautela facendosi spazio nelle lenzuola
e dopo alcuni minuti di silenzio e immobilità appoggiò con incertezza il
braccio sul mio stomaco e toccò la pelle nuda della pancia con un sussulto,
sollevando appena le dita con una compostezza rassicurante.
Fu allora che appoggiai il palmo sulle sue dita, a sigillarle contro
la pelle. Ascoltò il mio diaframma alzarsi e abbassarsi sotto le dita finche il
suo petto non si appoggiò totalmente alla mia schiena e il viso cadde con
gentilezza contro la mia nuca.
Nell’istante in cui fui sicuro del suo sonno mi addormentai.
Mi svegliai più tardi,
quando nel cuore della notte mi attorcigliai nel lenzuolo per voltarmi
sull’altro fianco e incontrai le ciglia scure di Sherlock a suggellare i suoi
occhi, l’arco delle sopracciglia scure e la fronte distesa, le labbra
schiuse. Non dormiva con le gambe
allungate ma flettendo le ginocchia verso il petto, la schiena incurvata e un
braccio piegato sotto la testa. Probabilmente cogliere Sherlock Holmes durante
il sonno sarebbe stato il solo modo di osservare l’immobilità e la profonda bellezza
del suo corpo spigoloso.
Era splendido, realizzai
in quel momento con lo sgomento di un ragazzino che scopre per la prima volta
il conturbante mistero dell’attrazione.
Accarezzai lievemente il polso che fino a poco
prima aveva riposato sul mio fianco e lui nel dormiveglia si fece vicino fino a
cercarmi. Lo cinsi con le braccia e non riuscii più a dormire: era un nodo di
ossa e lunghi arti spigolosi che raccolsi e accarezzai finche il sole non
illuminò le tende.
Forse fu la solitudine
degli ultimi mesi o semplicemente il fatto innegabile che ogni osso di Holmes,
ogni vertebra sotto le dita, schiudeva il mistero e la vertigine a generare in
me il disperato desiderio di riposare nella sua ombra e poter respirare l’aria
che respirava.
Verso le sei Holmes si
liberò dall’abbraccio e io mi svegliai dallo stato di lieve incoscienza nel
quale ero sprofondato per osservarlo
scostare le coperte e alzarsi in piedi, ogni articolazione assestarsi
con uno scricchiolio sordo mentre si muoveva verso la porta.
Rimasi fermo per non
costringerlo a darmi il buongiorno in un contesto così bizzarro ma, nonostante
il mio impegno, si voltò a lanciarmi una lunga occhiata criptica prima di
varcare la soglia e scendere le scale.
Rimasi a letto per
qualche altro minuto, intontito dal ricordo della notte passata, ma le coperte
erano diventate troppo fredde quindi mi alzai e mi lavai in fretta, indossai la
vestaglia e scesi le scale lentamente, la spalla che immancabilmente protestava
e uno strano disagio alla bocca dello stomaco all’idea di mangiare con Holmes.
Di fatto nessuna notte abbracciato al proprio coinquilino combaciava con il
concetto di normale decenza inglese.
Quando mi sedetti lui
leggeva, perfettamente vestito e pettinato, il mento rasato e gli occhi
ostinatamente incollati alla pagina nonostante il mio saluto sussurrato.
“Buongiorno, Watson.” fu
la replica pacata, con totale assenza di contatto visivo.
Mi sedetti, osservando il
suo piatto immacolato e la tazza vuota e chiedendomi quando quell’uomo avrebbe
riconosciuto di avere bisogno di nutrirsi. Mi persi un secondo nel disegno
delle venature azzurre delle sue mani per poi scuotere la testa con insistenza
e perdermi nuovamente in un altro dettaglio della sua figura. Cercai di
ignorare la sensazione di tepore alla bocca dello stomaco e tentai di ingoiare
qualche boccone di porridge con l’unico risultato di smarrirmi nell’immagine
dell’uomo addormentato marchiata a fuoco nella memoria.
“Spero che tu abbia
dormito meglio, questa notte.” lo sentii chiedere, la voce bassa e noncurante,
gli occhi fissi sulla stessa pagina dall’inizio della colazione. Dal formale ‘dottor
Watson’ a un ‘tu’ bisbigliato a colazione era passata solo una fredda nottata
londinese e appena me ne accorsi il cuore accelerò.
“Si, grazie. Mi dispiace
Holmes.” mugugnai, seppellendo gli occhi nella tazza di earl grey.
“Non ti dispiacere, non
ce n’è ragione.” alzò gli occhi per qualche istante, una scintilla di
eccitazione sul fondo degli occhi chiari che mi paralizzò a metà di un sorso
col disastroso risultato di farmi tossire come un pazzo. Holmes sogghignò e
uscì salutando con una mano, il suono cristallino della risata che si spegneva
fra le pareti dell’appartamento.
Inutile dire che passai
il resto della giornata a rimuginare sugli accadimenti delle ultime due
settimane e sul motivo dello slancio inaspettato da parte di Holmes nei miei
confronti. Non è un mistero che spesso fra le file dell’esercito si finisce per
apprezzare anche la compagnia maschile e io non avevo fatto eccezione durante
la leva, ma non pensavo che Holmes, che non aveva mai mostrato interesse per
anima viva nelle settimane precedenti, potesse essere interessato ad
accompagnarsi ad un uomo. Certamente era stato mosso da qualcosa di diverso,
probabilmente dall’amicizia che si andava consolidando fra noi due oppure,
pensiero che realizzai con un certo imbarazzo, aveva trovato le mie condizioni
psicologiche piuttosto penose. O ancora era stufo dei miei incubi nel cuore
della notte e non potei che dargli ragione, dato che anch’io ne ero ormai
stanco morto.
Uscii a fare due passi
nel pomeriggio, dopo aver mangiato molto poco, e accarezzai l’idea di sedermi
su una panchina al sole e passare l’eternità a guardare la gente passare, senza
tornare mai più al 221B di Baker Street e agli occhi indagatori (e freschi e
bellissimi) di Sherlock Holmes.
Quando l’aria cominciò a
farsi troppo fredda e il cielo troppo nuvoloso erano passate da poco le cinque
e decisi di tornare a casa. Mi aggrappai al bastone e, ignorando la spalla, mi
diressi verso l’abitazione con la mente affollata dalle possibili deliranti
conversazioni che sarebbero potute scaturire dall’argomento “Cos’è successo
ieri notte?” o dall’ostinato silenzio dietro il quale Holmes si sarebbe
trincerato pur di non discuterne.
Salii i gradini
dell’ingresso del 221B poco meno di un’ora dopo e compresi con un certo
sgomento che Holmes era già in casa, circostanza alquanto insolita che mi
avrebbe costretto a sostenere i suoi occhi prima ancora di aver preparato me
stesso alla sensazione di turbamento che questi mi avrebbero suscitato. Lo
scoprii seduto in poltrona di fronte al camino, una siringa ipodermica nel
braccio e la luce a disegnare ombre sconosciute sul suo volto. Distolsi lo
sguardo velocemente e con un certo imbarazzo per poi osservare il suo viso
spegnersi lentamente perso nella droga, il collo rilassarsi abbandonando il
capo in una posizione innaturale che gli avrebbe procurato sicuramente qualche
seria contrattura.
Mi tolsi la giacca e
lasciai il bastone con impeto per zoppicare verso di lui, l’ansia che montava
silenziosamente nel petto. Gli tastai il polso e scoprii che si era solo
assopito, sospirando di sollievo sfilai la siringa dalla vena pallida scoprendo
con angoscia decine di altri segni dell’ago e infine gli presi delicatamente il
capo fra le mani e lo appoggiai alla seduta sostenuto da una coperta ripiegata
a mo’ di cuscino.
Prima che potessi
lasciargli la nuca Holmes aprì gli occhi arrossati, le fibre azzurre delle
iridi che spiccavano nella sclera iniettata di sangue, e appoggiò la guancia
alla mia mano con abbandono totale.
“Non avresti dovuto.”
sussurrai, carezzandogli la tempia e mitigando il rimprovero nella mia voce
preoccupata. Non fui capace di dire niente di diverso, nonostante la consapevolezza
delle pericolosità di quella che ai miei occhi pareva cocaina.
“John…” la voce roca fece
contrarre qualcosa nello stomaco e più in fondo.
“Ti prendo dell’acqua.”
sussurrai, voltandomi verso la cucina e cercando di mascherare lo
sconvolgimento sul mio viso.
“No.” disse soltanto,
afferrandomi il polso con forza inaudita e tirandomi verso di lui.
“Holmes.” protestai, la
gamba tremante nello sforzo di mantenere l’equilibrio.
Mi lasciai trascinare
verso di lui, che improvvisamente mi strinse la vita con le braccia, affondando
il viso nel gilet e respirando nei miei vestiti.
“Non vada via, non ho
sete.” la sua voce sembrò per un attimo un lamento triste.
Ignorai il mio cuore
assordante nelle orecchie e gli accarezzai i capelli, non erano pettinati e i ricci
scuri scorrevano freschi fra le dita, l’osso della scatola cranica sotto i
polpastrelli a ricordarmi che stavo accarezzando la sua mente: la sua
bellissima mente acuta e luminosa.
Nonostante la romantica
stupidità dei miei pensieri chiusi gli occhi assaporando le sue braccia contro
la schiena, mosse la testa con lentezza e io sollevai le palpebre per
sorprendere i suoi occhi calmi e stanchi osservarmi da quella posizione di
svantaggio così inusuale per un uomo della sua altezza. Tracciai la forma dei suoi
zigomi puntuti con mano malferma e lo vidi sorridere appena.
“Un tremito alla mano
dottore?” chiese, lo sguardo improvvisamente acceso di un’intensità così
splendente che sgranai gli occhi sbalordito.
Osservai l’espressione
spenta subito dopo la scintilla e sentii i muscoli dell’uomo cedere lentamente
contro le mie mani.
“Devi riposare.” gli
dissi, la voce troppo grave e vacillante per risultare autorevole.
“Si, penso di aver
bisogno di stendermi, amico mio.” e si alzò dalla poltrona con un gesto repentino
che lo fece barcollare. Gli afferrai il braccio magro e lasciai che si
appoggiasse leggermente a me mentre saliva le scale. Nulla nella mia
espressione tradiva il dolore alla gamba eppure lui se ne accorse, lo seppi dal
modo in cui cercava di non pesarmi addosso.
Si voltò subito dopo aver
superato la soglia della sua stanza e mi fissò per un istante, il volto
inclinato da un lato come in attesa, poi si inginocchiò davanti alla mia gamba
ferita con un unico perfetto movimento fluido che lo fece somigliare ad un
magro felino.
“Holmes?” chiesi,
pensando fosse preda di qualche allucinazione, pronto a chinarmi su di lui e
costringerlo ad alzarsi e a recarsi a letto.
Compresi le sue
intenzioni quando mi fissò negli occhi mentre appoggiava la guancia alla mia coscia,
nel punto esatto dove il proiettile aveva colpito, e abbracciò la martoriata
massa di tessuto cicatriziale che doleva sotto la stoffa del pantalone. Rimasi
impietrito solo qualche istante, l’odio per la ferita che mi avrebbe impedito
una camminata normale per il resto della vita misto allo stupore per lo slancio
del mio amico. Con mio disappunto mi salirono le lacrime agli occhi perché
Holmes, che odiava perdere anche solo agli scacchi, che odiava la sottomissione
all’autorità ed era vanitoso e superbo più di ogni altra mia conoscenza, era prostrato
ad adorare la gamba di un infermo, di un militare tornato a casa senza neppure l’onore
della vittoria.
“Alzati, ti prego.” mi
accucciai di fronte a lui, permettendogli forse di vedere i miei occhi lucidi.
“John, la tua semplicità è
spettacolare.” sussurrò, accarezzandomi la guancia. Qualsiasi cosa avesse
chiesto dopo quel gesto, mi resi conto, avrei potuto assecondarlo senza
pensare.
“Così mostruosamente
perso, così bello e ferito. Sei l’eroe di uno di quegli stupidi romanzi
romantici che ti ostini a leggere e io non posso credere di essermi infatuato
di un così blando cliché. Ma guardo i
tuoi occhi e non riesco a pensare a nulla che non suoni come una stolta
dichiarazione d’amore. John, se sei solo a questo mondo e nessuno scalda il tuo
letto resta e dormi con me.” concluse. Non potei far altro che tremare di paura
ed eccitazione e abbassare gli occhi sulla sua bocca in una resa silenziosa.
Senza darmi il tempo di
vedere la gloria dei suoi occhi gelidi poggiò le labbra sulle mie, trasformando
la proposta in voto, schiudendo finalmente il segreto della sua freddezza con
il tocco della lingua. Non potei far altro che arrendere la mente sovraccarica
e corrispondere il suo impeto con le mani e le labbra, già preda del suo corpo
lungo e sottile e di ogni ombra che la luce potesse disegnare nei solchi fra un
osso puntuto e l’altro nella scoscesa caduta della sua schiena nuda.
Ci sono risvegli che non
dimenticheremo mai nel corso della nostra vita: un mattino di Natale in cui
abbiamo scoperto la neve oltre i vetri delle finestre, la mattinata in cui ci è
stato annunciato che nostro fratello è infine stato mortalmente soggiogato dal
vizio del bere, l’alba nella quale abbiamo scoperto di essere ancora vivi
nonostante decine di ferite ricevute dal fuoco nemico.
Quando aprii gli occhi la
notte dopo aver giaciuto con Holmes fui immediatamente certo che di
quell’aurora oltre le finestre e del suo corpo addormentato avrei rievocato
l’immagine ogni giorno avvenire nella mia vita.
La luce oltre i vetri
era color del vino e le tende gettavano ombre lunghe sulle sue gambe stese. Giaceva
col busto scoperto, sdraiato prono, la luce a illuminare il rilievo di ogni
vertebra e i capelli spettinati sul viso appena arrossato e affondato nel
cuscino. Realizzai di essere stato per la prima volta più mattiniero di lui e,
subito dopo, compresi di aver passato le poche ore di sonno sottratte al tocco
di Holmes nella calma e nell’oblio più assoluto senza neppure l’ombra di un
incubo. Gli presi la mano con lentezza, attento a non svegliarlo, e la strinsi
con gentilezza e gratitudine, aspettando una reazione che non si presentò. Mi
riaddormentai spossato tenendogli la mano calda fra le dita per risvegliarmi
un’ora dopo, stretto dalla morsa amabile delle sue braccia lunghe e con il viso
tuffato nei suoi capelli. Gli accarezzai la schiena per sapere se fosse sveglio
e lui mi baciò la spalla per rispondere, quella conversazione silenziosa continuò
ancora per qualche minuto, poi Holmes sussurrò piano per non infrangere quell’attimo.
“Sono le sette del
mattino di martedì e dovrei alzarmi.” sospirò contro la mia spalla, facendomi
venire i brividi.
“Ancora solo un istante,
ti prego.” chiesi, la voce fiacca contro il suo orecchio. Lo sentii stringersi a
me, ossa contro ossa e gambe intrecciate, poi cercai la sua bocca alla cieca, sfiorando
il suo naso, e la baciai senza pensare.
“Resterei a casa se solo
tu potessi trattenerti in questo letto per tutta la giornata.” propose Holmes e
io risi, accarezzandogli la nuca con la possessiva forza di chi riconosce che, lontano
dal letto, il proprio compagno non ha altri padroni all’infuori di se stesso.
“Ho trovato un posto come
medico in uno studio modesto e penso che parlerò col responsabile per chiedere
di poter esercitare di nuovo la mia professione.” gli dissi, fra una carezza di
labbra e l’altra, soffiando sul suo collo. Ci perdemmo in un lento rituale di
carezze e alla fine smarrimmo il filo del discorso: Holmes rideva alle mie
frasi strascicate sulla sua pelle trovandole, parole sue, deliziosamente
insensate.
Ci frenammo faccia a
faccia, i suoi occhi improvvisamente analitici a percorrere ogni dettaglio del
mio viso.
“Quanti segni mi hai
lasciato? Vedi qualcosa di interessante?” lo provocai, sorridendo.
“Hai
dormito bene: non hai più gli occhi
stanchi. Giusto ieri sera pensavo che fosse un peccato tutto quel viola
ad adombrare iridi di un blu così bello” mi
sussurrò sul viso la sua bizzarra versione di un complimento,
carezzandomi la guancia calda con le dita fresche e evitando commenti
sul mio rossore imbarazzato.
“Niente incubi stanotte e devo ringraziarti
Holmes.” allacciai le gambe ai suoi fianchi e baciai l’angolo aspro della
mascella.
“Dottore,
non andrà al
suo appuntamento se continua di questo passo.” il suo tentativo
di un ghigno si
perse in un brivido a occhi chiusi quando assaggiai la pelle tiepida
del suo collo lungo, si chinò a mordermi la spalla fremendo
leggermente
contro il mio addome e improvvisamente pensai che i suoi brividi
fossero la mia pace.
Chiusi gli occhi con
tutta l’arrendevolezza di cui ero capace e lasciai che avesse quello che
desiderava, perché lo desideravo con altrettanta forza: dopo tutto il mio colloquio
era alle dieci e Lestrade, lui disse, poteva aspettare.
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