X
Capitolo X
Sogni d’oro
Tutti e tre
assieme -tranne quando mamma andava a lavorare- ci mettemmo circa una
settimana a decidere cosa andava portato da Ben e cosa potevamo
lasciare, cosa impacchettare e di cosa potevamo fare a meno. Alla fine
non ero molto insoddisfatta, la mia camera era molto più grande
e Ben mi aveva regalato un piccolo divano per due da metterci in un
angolo. C’era anche il balcone e il tetto era spiovente. E va
bene, mi piaceva parecchio, inutile negarlo.
La prima sera in cui dormimmo lì, tuttavia, vi fu un imprevisto.
«Credo che, dato che abbiamo lavorato tutto il santo
giorno, dovremmo andare a mangiare una bella pizza», propose Ben
ammirando gli scatoloni ammucchiati da un lato. Ci erano volute ore per
trovare un posto a tutte le nostre cose e sistemarle assieme a quelle
di Ben.
Ovviamente lui sprizzava gioia da tutti i pori, era sempre
allegro e non si lasciava scalfire nemmeno dalle mie battute –
eppure stavo tirando fuori il meglio di me. Tess, almeno, mi dava la
soddisfazione di avere i piedi un po’ più a terra e
pensare praticamente. Così, mentre mia madre dava ordini a
destra e sinistra come se fossimo nel Terzo Reich, e Ben svolazzava di
qua e di là come una fatina, io me ne stavo pacata a fare quello
che mi dicevano.
Erano le sei di sera quando rimaneva solo Hugo nell’ormai
ex-casa. Avevamo concordato che avremmo portato lui alla fine,
perché Ben aveva insistito per comprargli una nuova vasca
più grande e un amico tartaruga per fargli compagnia. La vasca e
la nuova tartaruga erano arrivati quel pomeriggio presto, e io volevo
correre a prendere Hugo.
«Facciamo così», proposi, «voi preparatevi, e io vado a prenderlo.»
Mamma era d’accordo, perché era da due ore
che sognava di fare una doccia. Ben ci pensò qualche minuto e
poi disse: «Io finisco qui, ma poi devo passare da quelle parti
per parlare con Allyson, abita lì vicino.»
«La tua manager?», domandai. Era ridicolo! Io ero
più sospettosa di mia madre per quanto riguardava le donne che
Ben frequentava. Non sapevo come diamine faceva a sopportare
che Ben lavorasse e dovesse baciare altre donne, flirtare con loro;
poteva passare mesi lontano e lei pareva non storcere mai il naso.
Sarà che si fidava.
Ben annuì. «Ti va se ci troviamo lì? Passo a prenderti e portiamo Hugo a casa.»
«D’accordo.» Uscii e corsi a prender l’autobus.
In sette giorni la mia vita era drasticamente cambiata; o
meglio, aveva tutta l’intenzione di farlo di lì a poche
ore. Non so bene per quel motivo mi ostinassi ad essere
scorbutica e un po’ di malumore, ma suppongo fosse per il mio
essere ancora quindicenne, quindi mi perdono (troppo indulgente?). In
quella settimana, oltre a fare una finta festa d’addio assieme a
Nandy nella nostra vecchia casa e guardare con occhi cattivi una coppia
di giovani sposi che era venuta a vederla per comprarla, mi era parso
che tutto passasse con troppa velocità. Le ventiquattro ore di
cui era composta la giornata sembravano passare così
velocemente, a dispetto di altre occasioni in cui ci avevano messo
secoli a trascinarsi avanti. Senza nemmeno rendermene conto Agosto
stava per finire. Lasciare quella casa era come lascarmi qualcosa
indietro, anche se la mia vita non sarebbe effettivamente cambiata di
molto. La solita scuola, i soliti amici, le solite serate passate ad
ascoltare musica o fare un giro nei dintorni. Ma avevo qualcosa in
sospeso, qualcosa che avevo lasciato indietro ma che presto,
inaspettatamente presto, avrebbe bussato alla porta.
Toc. Toc. Toc.
Me ne stavo seduta con la vaschetta di Hugo di fronte, e
lo guardavo tentare di scalare un sasso finto. Qualcuno bussò,
più presto del previsto, e io mi alzai e aprii senza nemmeno
chiedere chi fosse, tanto ero sicura che fosse Benjamin. «Hai
fatto in fretta, sono qua da appe-»
Mi bloccai sulla porta, in viso stampata un’espressione di
stupore misto a vergogna misto a terrore. Stupore perché non mi
aspettavo certo di vederlo, non volevo vederlo e in quel momento avrei
preferito essere in Alaska piuttosto che lì assieme a lui.
Vergogna perché le mie intenzioni di andarmene dal paese erano
state ben chiare fin da più di un mese addietro, quando avevo
iniziato ad evitarlo e ignorare le sue chiamate. Terrore, perché
avevo paura di cosa avrebbe potuto uscirmi di bocca, e soprattutto di
cosa avrebbe potuto dire lui.
Malachi mi stava davanti con una smorfia incerta sul viso,
probabilmente indeciso se essere ironico e allegro o pensieroso e serio.
Ci fissammo per qualche istante e infine, senza riuscire a distogliere lo sguardo da lui, dissi: «Ciao».
«Ciao Mel.» La sua voce era qualche cosa di
strano: non la sentivo da parecchio e non avevo desiderato sentirla, ma
ad una parte di me era sempre piaciuta troppo.
«Posso…?», domandò, indicandomi
l’ingresso.
Mi scostai per farlo passare, automaticamente. Forse se ci
avessi pensato con un po’ più di razionalità gli
avrei chiuso la porta in faccia e mi sarei calata dalla finestra per
fuggire. O forse quella si chiama codardia.
Non vedevo e non parlavo più con Malachi -in
realtà non avevo nemmeno più notizie di lui- da quella
notte a New York. Era stato relegato in casa e non usciva mai. Una
volta Nandika era andata a trovarlo, e anche Seymour. Invece io no. Mi
sentivo un po’ traditrice per quello. Ma non volevo vederlo, non
volevo parlare con lui. Dopo la chiacchierata con Ben mi ero sentita
particolarmente stupida; a quanto pare lui ha la capacità di far
sentire la gente ingenua e di illuminarla con scomode verità.
Per di più mi sentivo alquanto scema a parlare con lui, dato che
dopo le rivelazioni shock da parte dell’illuminato Buddah-Ben
sulla natura umana, mi sentivo come usata. Mi sentivo come se Malachi
volesse un appoggio per fare le sue cavolate come fumare e bere;
cavolate che avevano poco a che fare con lo stare con me e molto a che
fare con l’estraniarsi dal mondo.
Perché diavolo l’avevo fatto entrare?
Malachi, le mani in tasca e l’andatura sciolta,
entrò incerto e si guardò attorno. Non parve stupito di
trovarsi di fronte alla casa vuota. Sicuramente lo aveva avvisato
Nandika. «Stai traslocando, eh?»
Chiusi la porta, e mi sentii in trappola. In trappola in casa mia.
«Già», riuscii solo a dire. Non stavo realmente
ascoltando ciò che diceva, mi limitavo a dire qualche
monosillabo per fargli credere che stessimo parlando.
Malachi rimase in silenzio ancora per un po’, gli
occhi rivolti al pavimento, poi cominciò:
«Mel…».
«Scusa se non ti ho chiamato.» Scusarmi era
l’ultima cosa che avrei voluto fare, ma era più forte di
me. Ero un ragazza gentile in fondo.
Malachi si passò la lingua fra le labbra, incerto.
«No, figurati. Non è un problema. Volevo solo
sapere… Insomma, non stiamo più assieme, vero?»
Esitai. A quello, ad essere sincera, non avevo ancora pensato.
«Comunque, perché non mi hai chiamato?»
Lo guardai a metà fra l’infuriato e l’allibito. «Cosa?», domandai glaciale.
«Volevo solo sapere come mai eri arrabbiata», sputò fuori all’improvviso.
Sgranai gli occhi. «E’ una domanda vera?»
Scossi la testa, incredula. «Malachi hai detto bugie a tutti! E
hai rovinato il viaggio. Doveva essere un viaggio perfetto! E poi lo
sai che Ben avrebbe potuto passare dei guai enormi se ti fosse successo
qualcosa? Lui si è fatto in quattro per-»
A quel punto mi interruppe malamente, gridando e
frapponendo la sua voce alla mia. «Oh! Ancora con questo Ben?!
Ben, Ben, Ben! Solo ‘Ben’ sai dire!» Mi ammutolii.
Non l’avevo mai visto così. «Dici di odiarlo, ma in
realtà muori dalla voglia di piacergli!»
«Be’ scusa se ho cambiato una prima
impressione, ma di solito quando una persona si rende conto di aver
sbagliato lo fa! Una persona con un cervello», aggiunsi poi
malignamente.
«Tu?», mi schernì lui. «E comunque sia mi sembra tempo perso», sbuffò.
Incrinai le sopracciglia, e non ero più tanto sicura di me. «Che vuoi dire?»
«Voglio dire che lui sta con tua madre. Mica sta con te.»
«E chi lo vuole? Sarebbe una cosa contro natura!», sbottai.
«Voglio dire che…», Malachi parve
triste, «che per tutto il tempo che siamo stati a New York, lui
è stata la persona più assente di questo mondo. E tu hai
cercato in tutti i modi di attirare la sua attenzione.»
«Non è vero», protestai automaticamente, ma con tono debole.
Malachi sbuffò. «Sì che è vero, solo che non te ne accorgi nemmeno.»
«Be’ a me lui piace», dissi controvoglia, dato che con Malachi mi ero sempre lamentata di Ben.
«E tu piaci a lui?»
Fresca della mia nuova confidenza con Ben stavo per rispondergli
per le rime, quando all’improvviso proprio il soggetto della
nostra discussione si precipitò nella stanza. Doveva aver salito
le scale di corsa, perché era tutto ansimante.
«Primo», cominciò a dire, «avete chiuso male
la porta, perché vi si sente per tutte le scale. Secondo: non ti
azzardare a dire a Mel che lei non mi piace! E’ stato già
orribile convincerla che le voglio bene e farle capire che dicevo sul
serio, non mi serve che tu la confonda.»
Malachi rimase paralizzato. L’ultima volta che aveva
visto Ben era stato quando lui era fatto e Ben era furioso. Il suo viso
si oscurò ancora di più. «Se è
così…», disse sputando veleno ad ogni sillaba e
guardando Ben con odio, «posso anche andarmene, dato che siete
una famiglia così felice.»
«Sì, grazie tante», esclamai andando verso la cucina.
Mi sedetti bruscamente al tavolo e ripresi a fissare torva Hugo. La porta dell’ingresso si chiuse forte.
Non ero triste, il che era un bene da un lato. Almeno adesso
sapevo che la mia cotta per Malachi era solo quello: una cotta. Se
fosse stato qualcosa di più sarebbe stato peggio. Purtroppo
però, anche se non ero triste, non è che mi invadesse la
calma. Anzi, al contrario: ero furiosa. Furiosa con Malachi,
perché si comportava come uno scemo! Come se non avesse ancora
capito che aveva fatto di sbagliato. Lui,
che aveva rovinato quella che doveva essere la mia estate perfetta. E
poi era così infantile, come cavolo avevo fatto a stare con lui?!
«Mel?» I passi di Ben nella cucina vuota erano
stranamente rumorosi. Grugnii, per fargli notare che ero viva. Udii una
sedia scostarsi e posizionarsi al mio fianco, poi Ben si sedette.
«Come… cosa…»
«Per favore, non mi parlare», sibilai.
Lui rimase per un attimo zitto, e subito mi pentii di
averglielo detto. Comunque, non potevo sperare che mi desse retta per
molto. E infatti: «Non ho origliato, se è questo ce
credi».
Sbuffai. «Non me ne frega nulla che hai sentito.»
Alzai la testa, arrabbiata. «Lo detesto, mi ha fatto sentire una
stupida!», confessai. Ben mi osservava in silenzio, spronandomi a
continuare. «Insomma, tutti dicevano che era uno stupido, ma io
non ci credevo. Lo hai detto tu, e Nandy, e anche i suoi genitori
volevano tenerlo sotto controllo. Io volevo passare una bella settimana
in vacanza, e invece lui voleva… voleva solo un modo per stare
lontano dai suoi genitori. E poi da quando gli avevo detto che mi stavi
antipatico sembrava quasi soddisfatto!» Feci un verso di
frustrazione. «Come se in fondo ne fosse felice, come se volesse
che le cose mi andassero male…»
«Mel, hai mai pensato che potesse essere geloso?», mi interruppe Ben.
Mi bloccai. «Ma che cavolo dici?»
«Be’ io non conosco Malachi, ma lui era il tuo
ragazzo, e a quanto ho capito lui… lui vedeva che… che
volevi piacermi, in un modo o nell’altro. Insomma, forse ha
frainteso.»
Per qualche secondo rimasi zitta. «Non credo»,
dissi solo. Poi mi alzai, presi in mano Hugo e dissi:
«Andiamo?».
E con quello, il discorso era chiuso.
Eravamo andati a cena fuori, e Ben, grazie a Dio, aveva
taciuto del mio incontro con Malachi. Meglio così, non avevo
proprio voglia di raccontarlo a mamma, se ne sarebbe venuta fuori con
un discorso serio che non mi andava di affrontare. Mi ero riempita come
un uovo ma, non bastandomi, avevo anche ordinato il dolce.
Probabilmente era quello che mi aveva rovinata, e dovetti pagarne le
conseguenze una volta tornati a casa. Mi faceva malissimo la pancia, ma
siccome era la prima notte che passavamo a casa di Ben ufficialmente non volevo disturbare lui e mamma.
Erano le due e venti di notte quando mi alzai, decisa a farmi un
tè caldo per placare i dolori. Mi diressi in cucina, e avevo
già imparato quasi a memoria dove stavano le cose da mangiare, e
la teiera, e tutto quello che mi poteva servire. Quando stavo per
arrivare, tuttavia, notai che c’era una luce fioca ad illuminare
la stanza. Entrai in silenzio, e vidi Ben in grande dilemma davanti al
frigorifero aperto. «Ciao», dissi piano, sperando che non
si spaventasse.
Il risultato? «Oddio mio, Mel. Mi hai fatto prendere
un colpo», disse lui a voce bassa chiudendo gli occhi, dopo
essersi voltato di scatto.
«Scusa. Hai ancora fame? Ma sei un mostro», osservai aggrottando le sopracciglia.
Ben sbuffò e chiuse il frigo. «E’ che mi sto annoiando, non riesco a dormire.»
Ridacchiai e accesi la luce. «E invece scommetto che
Tess è caduta come un sacco di patate. Non so se l’hai
notato, ma ha il sonno pesante.» Andai a prendere la teiera e la
riempii di acqua.
«Anche io ho il sonno pesante, ma è questione
di addormentarmi.» Ben mi seguì con lo sguardo. «Che
fai?»
«Mi faccio un tè, mi fa male la pancia.»
«Oh, mi spiace.» Si alzò e raggiunse uno
scaffale. «Ho del tè alla pesca, alla vaniglia… e
basta. Anzi no, qui c’è dell’ottimo tè
verde.»
Sorrisi mentre accendevo il fornello e dissi: «Pesca, grazie».
Ben prese un cucchiaino e lo zucchero e li mise sul tavolo, poi
mi porse una tazza. L’acqua doveva ancora bollire, così ci
risedemmo al tavolo.
«Hai progetti a breve termine?», domandai, «Di lavoro intendo.»
«Mi hanno fatto un paio di offerte,
sì.» Ben non faceva la barba da un po’ di giorni,
intimamente credevo che stesse meglio così, ma non
gliel’avrei mai detto solo per vederlo compiaciuto.
«Accetterai? Che film sono?» Ero seriamente
interessata, il lavoro di Ben era certo emozionante, e mi sarebbe
piaciuto andare a vedere come si svolgevano le riprese. Non posso dirmi
un appassionata di cinema, ma di sicuro mi piaceva molto il
“dietro le quinte” di un film.
«Credo di sì. Uno è una commedia,
l’altro un film fantasy. E credo che mi abbiamo preso in
considerazione per il doppiaggio di un cartone, ma non sono fra i primi
candidati.» Ben sorrise leggermente e appoggiò il mento
sulle mani giunte.
«Un giorno potrò venire a vederti recitare?», domandai.
«Oh, ma tu mi vedi sempre recitare.» Lo
osservai accigliata. «Quando ci sei tu faccio sempre finta che tu
mi stia antipatica.»
Feci una risatina. «Grazie.»
Ben ridacchiò. «Dubito seriamente di poter usare le mie conoscenze per farti vedere i set.»
«E se diventassi la più famosa spazzina di
set che si è mai vista sulla faccia della terra?»
«In quel caso…»
Ci pensai un po’ su. «Potrei fare la
truccatrice», proposi, «o quella che regge quella specie di
piumino sopra gli attori quando parlano.»
«E’ per il suono», commentò Ben a
occhi bassi giocherellando con un bracciale sottile che non toglieva
mai.
Mi alzai e finii di preparami il tè. Ci misi un
po’ di zucchero e, dopo essermi scottata la lingua, decisi che
era più prudente aspettare e soffiare. «Hai sempre saputo
che avresti fatto l’attore?»
«Sapevo che mi piaceva recitare», disse Ben.
«Certi hanno tutte le fortune», commentai.
Lui fece una piccola smorfia. «Perché?»
«Be’ mica è da tutti sapere da sempre
cosa si farà… “da grandi”.»
«Mi è parso di capire che non
t’interessasse l’argomento.» In fondo, come potevo
dargli torto? Tutte le volte che aveva introdotto la conversazione mi
ero dimostrata poco interessata anche al mio stesso futuro. Ma,
d’altronde, mi dicevo sempre che c’era tempo.
«A te invece sembra interessare parecchio», bofonchiai.
Ben sorriso, d’un tratto contento. «Non dovrebbe?»
«Dovrebbe?»
«Ormai dovrebbe interessarmi pure cosa mangi a
merenda, Mel, abitiamo nella stessa casa e sei diventata come
una…», si bloccò improvvisamente. Era sicura che
stesse dicendo qualcosa di stupido, così lo osservai sospettosa.
«Be’, magari non proprio come una figlia, dato che non so
come sia averne una, ma… come una persona di cui prendersi
cura.» Ben teneva gli occhi bassi, io invece tenevo la mascella
aperta dallo stupore, tanto che avrebbero potuto farci il nido i
piccioni.
Ebbene, allora l’aveva confessato! O meglio, al posto di
dirmelo per rassicurarmi durante una crisi isterica in un hotel di
super lusso a New York, l’aveva detto così, senza un reale
motivo. Perché non aveva bisogno di un reale motivo, era
così e basta. Ben alzò gli occhi e io sorrisi, senza
sapere quanto era largo il mio sorriso, ma la sua reazione me lo
confermò: il mio sorriso era il più felice che poteva
esserci in quel momento, perché così era anche quello di
Ben.
Iniziai a bere il tè, ancora sorridente. «Ho deciso: farò la tua manager.»
«Cosa?»
Annuii. «Hai sentito bene.»
«Ma io ce l’ho già, e non la voglio
licenziare. Finora è stata così
d’aiuto…» Ben parve perplesso. Ancora non aveva
capito che non ero affatto seria. In fondo, avevo solo quindici anni.
Come potevo sapere che cosa volevo fare nella vita? Insomma, come ho
già detto, quello è privilegio di pochi.
Terminai in fretta il mio tè e misi tutto nel
lavandino. Mi stiracchiai. «E’ logico che fra quaranta
minuti al massimo mi sveglierò per fare pipì, ma adesso
ho talmente sonno che vado a dormire.» Sbadigliai rumorosamente.
«Sì, credo che andrò
anch’io.» Ben si alzò e io feci cadere uno sguardo
sul suo pigiama estivo: una maglietta di Batman e dei boxer a
quadretti, una cosa che aveva del terrificante.
«Sei proprio terribile», commentai con voce strascicata.
«Perché?», chiese lui sulla difensiva.
«Sappi che se un giorno i miei amici ti vedranno con
quella cosa addosso, io negherò che tu sei il mio
patrigno.»
«Oh, patrigno suona così male!» Ben s’incamminò verso le scale e io lo seguii.
«Fa tanto Cenerentola però. Se preferisci posso chiamarti in un altro modo.»
Arrivammo al secondo piano, al corridoio dove c’erano
entrambe le nostre stanze. «Buona notte pa’», dissi
tentando di far sembrare il mio tono naturale, mezzo nascosta dietro
alla porta della mia stanza. Non avevo mai chiamato nessuno papà.
Ben mi guardò con espressione indecifrabile, alla
fine sorrise e disse: «’Notte anche a te. Sogni
d’oro.» Mi diede un bacio sulla guancia e chiuse piano la
porta.
Fine
Questa
storia non è stata scritta a fini di lucro, ma per divertimento.
Non conosco Ben Barnes e lui non ha dato l’autorizzazione a
questa storia. Qualsiasi riferimento a persone e fatti reali è
puramente casuale.
E... fine!
Uh, allora.
Mmm, che dire? Non so proprio.
Mi è piaciuto postare questa fanfiction, anche se non ha avuto eccessivo successo! ^^
Ringrazio moltissimo CinderNella
(se cliccate c'è il link del profilo, perché fa sempre
bene un po' di pubblicità u_u) perché ha recensito tutti
i capitoli e ha sempre dato la sua opinione senza dire solo "Brava,
aggiorna", ma dicendomi chiaramente che cosa le piaceva e cosa no.
Grazie mille donna! =)
A parte lei, ringrazio anche tutti i lettori silenziosi che hanno messo
la storia fra le Seguite, le Ricordate e le Preferite. grazie anche a
voi, spero che la storia vi sia piaciuta.
E con questo... adios! Ciao a tutti!
Patrizia
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