Amor
vincit omnia
Le
sbarre della prigione erano fredde più del marmo,
più dure dello stesso, eppure rassicuranti come un
abbraccio. Dietro quelle sbarre chissà cosa lo stava
attendendo? Quale mostro?, avido di prendersi la sua anima mutilata
dall’amore e macchiata dall’omicidio. Fiorenzo si
appoggiò contro la parete e deglutì la saliva
amarognola, chiudendo gli occhi e abbandonando il capo sulla pietra
fredda.
Era già da
un mese che si trovava lì e il suo processo doveva ancora
iniziare, eppure si sentiva già un condannato. Non
c’erano dubbi su cosa sarebbe accaduto; la vera domanda era come sarebbe accaduto?
Avrebbero preferito l’impiccagione? Lo avrebbero lapidato? O
forse la decapitazione era preferibile in quei casi? Certo non troppo
pulita, ma comunque veloce e – a quanto Fiorenzo poteva
immaginare – indolore. Così fulminea da non essere
nemmeno percepita.
Un rumore di passi
fece destare Fiorenzo, che si era addormentato contro la parete della
cella. Una guardia munita di spada e voce sprezzante lo
chiamò, colpendo le sbarre con il palmo della mano e
producendo un rumore metallico con l’anello che portava al
mignolo. «Ehi, imbrattatele!» Fiorenzo
alzò lo sguardo. «Fra una settimana
c’è il tuo processo, non mancare.»
L’uomo ghignò, facendo piegare con il viso quei
folti baffi che aveva.
Fiorenzo
Guaschi nacque a Rubbio nel 1581. Suo padre, Pietro Guaschi, era uno
scalpellino. Dall’età di dodici anni Fiorenzo
aveva aiutato il padre nella sua bottega ed era diventato abile nello
scolpire la pietra. Tuttavia la sua vera passione era il disegno, e il
padre gli dava sempre il compito di preparare i bozzetti da mostrare ai
clienti.
Fiorenzo
aveva avuto l’opportunità di andare a visitare
Venezia, perché Rubbio si trovava a soli quattro giorni
dalla laguna. Dopo aver conosciuto le opere dei grandi maestri
veneziani aveva deciso che avrebbe fatto il pittore. Quello era
sicuramente il suo destino. Fiorenzo lo vedeva rifulgere di fronte a
sé con sicurezza, gli bastava allungare appena la mano per
toccare il suo glorioso futuro.
In
particolare si convinse a seguire la sua passione
all’età di sedici anni, quando aveva accompagnato
suo padre a Venezia per fare affari con il nobile Umberto Vendramin.
Nella sua casa c’era una tela ad olio, di dimensioni
piuttosto ridotte, che ritraeva un uomo, una donna e un bambino su di
uno sfondo che vedeva le porte di una città nuova e delle
rovine al loro fianco. L’aria attorno a loro sembrava muta e
pesante, e nel cielo sul fondo s’intravedeva la tempesta. Il
dipinto colpì il giovane Fiorenzo con una tale forza da
farlo sentire in mezzo a quella bufera, sballottato qua e là
con il cuore in subbuglio.
Quando
furono di ritorno a casa Fiorenzo pregò il padre di mandarlo
a fare un apprendistato in una bottega del luogo. Pietro Guaschi, dopo
appena qualche giorno, accettò la cosa di buon grado,
perché considerava il figlio abbastanza talentuoso. Fece un
contratto con un pittore della zona perché tenesse Fiorenzo
per tre anni, perché lo aiutasse e nel contempo lo istruisse.
Quando
Fiorenzo entrò in bottega aveva sedici anni ed era buono
solo a disegnare e scolpire la pietra. Quando ne uscì era
diciannovenne, e la sua pittura era in fase di formazione. Con i soldi
che gli dava il maestro per il suo lavoro e che lui aveva messo
giudiziosamente da parte per quanto aveva potuto, decise di andare a
Roma a studiare i grandi pittori dei secoli passati. Lasciò
il suo paese natale nel 1600.
Il giudice era un uomo
corpulento, annoiato, e leggeva i fascicoli che riguardavano il caso di
quel giorno con disinteresse. Alla fine alzò lo sguardo sul
ragazzo che gli stava di fronte. Era seduto su una sedia scomoda e
spoglia, aveva le mani legate strette con delle funi grosse, che gli
premevano contro la carne dei polsi. I suoi capelli erano neri e lisci,
dello stesso colore del carbone, ma gli occhi grandi erano di un
azzurro intenso, pulito. Nessuno avrebbe mai detto, guardando quegli
occhi, che il giovane che li portava fosse un assassino.
Il giudice si
schiarì la gola e domandò: «Il tuo
nome?».
«Fiorenzo
Guaschi, signore.»
«Sei di
qui?»
«No signore,
vengo da Rubbio, vicino a Venezia. Mi sono trasferito qui sei anni
fa.»
«Perché?»
«Sono un
pittore, signore. Sono venuto a Roma per conoscere i grandi artisti, e
per lavorare in bottega.»
Il giudice fece un
verso e diede un’altra occhiata alle carte. «Qui
dice che il giorno due di Giugno di quest’anno sei stato
trovato nella casa del ricercato Michelangelo Merisi, con le mani
macchiate del sangue dell’uomo che era andato a prelevarlo,
Tiberio Uganetti. Confermi?»
Fiorenzo, nelle notti
di prigionia solitaria, aveva pensato molte volte a fuggire.
Perché non c’era altro modo in cui avrebbe potuto
rispondere alla domanda del giudice, e questo lo rendeva assolutamente
colpevole. «Sì».
«Tu lo hai
quindi ucciso. A sangue freddo, senza esitare?»
«Sì.»
Il giudice
posò le carte e bevve dell’acqua, poi
tornò a rivolgersi a Fiorenzo. «Tu conosci il
pittore Michelangelo Merisi?»
«Sì,
lo conosco.» Fiorenzo si umettò le labbra e mosse
leggermente i polsi. Il fastidio che gli procuravano quei lacci
schiacciati sulle ossa stava cominciando a diventare dolore.
«Come?»
«Signore,
era il mio maestro, e occasionalmente posavo per i suoi
dipinti.»
«Per
ciò sai bene cos’è successo al signor
Merisi.» Il giudice aveva un volto grasso e arcigno, le
guance piene e rosse, e si rivolgeva al ragazzo chinandosi verso di lui.
«Io…
so che deve essere fuggito da qualche parte.»
Il giudice parve
fremere di rabbia. «Merisi è stato accusato di
omicidio, e condannato a morte. Tu sei uno dei suoi allievi e lo hai
aiutato a fuggire! Come dimostra la morte di Uganetti. Lo hai ucciso
per permettere al tuo maestro di fuggire!» Il dito grasso che
l’uomo gli puntò contro fu peggiore di tutte le
accuse che Fiorenzo poteva subire. Il ragazzo aderì con la
schiena sulla sedia e tirò indietro il collo, sperando di
poter semplicemente scomparire in quell’istante.
«Dicci dove si trova!»
«Io non lo
so! L’ultima volta che l’ho visto è
stato almeno una settimana prima del mio arresto.»
«E
perché allora avresti dovuto uccidere una guardia in casa di
Merisi?»
«I- io ero
andato a trovare il maestro. Quell’uomo… lui ha
offeso la sua arte, giudicandola spazzatura.»
«Bugiardo!»,
tuonò il giudice. Si rivolse alle guardie e fece un brusco
gesto verso l’imputato. «Portatelo nella camera di
tortura, vediamo se rammenterà dopo.»
Le due guardie
avanzarono verso Fiorenzo e lo presero da sotto le ascelle per farlo
alzare. Il ragazzo era talmente magro che lo sollevarono senza sforzo e
lui saltò in piedi come un burattino. Guardava fisso il
giudice, con quei suoi occhi azzurri, e le parole dell’uomo
ancora gli rimbombavano nelle orecchie. Le guardie cominciarono a
trascinarlo via, e solo allora Fiorenzo reagì.
«No… No, io non so niente!»
Cominciò a dimenarsi in mezzo alle due guardie, ma quelle lo
tennero più stretto senza fatica. «Non so dove
sia! Signor giudice non so niente di Michelangelo Merisi! Lo giuro su
Dio non so niente!»
La
porta si chiuse dietro al ragazzo con uno schianto doloroso, come solo
il rumore amaro del rifiuto può essere. Fiorenzo rimase
fermo per qualche istante, le labbra leggermente socchiuse, gli occhi
vuoti. Si destò come da un sogno e appoggiò la
borsa di cuoio a terra, poi dispiegò la tela che il maestro
gli aveva restituito con malagrazia. Non aveva neanche dato
all’olio il tempo di seccare, aveva staccato i ganci che
tenevano la tela ben tesa sul supporto e quando quella era caduta
morbidamente fra le sue braccia l’aveva lanciata al ragazzo e
gli aveva intimato di andare via.
Riguardandola,
Fiorenzo si disse che non era poi così male, anche se in
quel momento molta della pittura si era mischiata e aveva formato una
macchia scura sulla parte bassa del dipinto. Era una natura morta, dai
colori piuttosto spenti. Nel farla Fiorenzo si era ispirato a quel
nuovo pittore che stava dipingendo molte tele e tavole soprattutto per
il cardinale Francesco Del Monte, lì a Roma. Si chiamava
Michelangelo Merisi, Fiorenzo aveva visto i suoi dipinti nelle chiese e
ne era rimasto affascinato. La luce, i colori, le movenze, le
espressioni, la realtà che quei dipinti avevano erano
impressionanti, ed era rimasto a guardarli per ore.
Ma
a quanto aveva capito, al suo maestro quel Merisi non piaceva neanche
un po’. Lo aveva sgridato quando il ragazzo aveva terminato
il quadro di un’assunzione nella quale era incaricato di
occuparsi della figura centrale della Vergine e aveva notato i tratti
simili a quelli del pittore milanese. Ma quella volta Fiorenzo si era
salvato, solo per il fatto che il committente, un nobile romano, era
rimasto molto soddisfatto del dipinto. Il ragazzo aveva cominciato a
maturare uno stile nuovo, fortemente ispiratogli da colui che
chiamavano semplicemente Caravaggio, e che Fiorenzo considerava ormai
un maestro a tutti gli effetti. Ma il suo vero maestro, quello in carne
ed ossa che gli pagava lo stipendio, sembrava avere una repulsione
verso il pittore. Lo considerava irriverente e in certi casi
addirittura blasfemo. Quando vide che i dipinti di Fiorenzo
cominciavano a somigliare a quelli del Merisi, lo cacciò.
Erano
passati due anni da quando Fiorenzo era arrivato a Roma, e ancora
nessuno gli aveva commissionato nulla. Il futuro che pareva
così vicino da poterlo toccare si era bruscamente
allontanato non appena lui aveva mosso un passo per raggiungerlo.
Fiorenzo
si trovava solo, al buio, al freddo, nella vasta città di
Roma che, seppur fosse in continua evoluzione da diversi anni a quella
parte, non era affatto accogliente come voleva sembrare. Il ragazzo
mise la borsa in spalla e cominciò a camminare lungo le
stradine buie, cercando un posto dove dormire. Alla fine
entrò in una locanda, pagò per rimanere
lì cinque giorni, e s’infilò subito a
letto. Contò quanti soldi gli rimanevano e
giudicò che erano abbastanza per sopravvivere per qualche
settimana finché non avesse trovato un’altra
bottega pronta ad accoglierlo.
Passò
un mese prima che Fiorenzo finisse i soldi che aveva messo da parte, e
una sola settimana perché, in preda alla disperazione,
chiedesse aiuto ad un amico fidato. Questi gli prestò il
tetto della sua casa, a condizione che lo aiutasse nel lavoro. Fiorenzo
trasportava merci pesanti su un carro, e lo fece per vitto e alloggio
per qualche mese, fino a che il suo amico, che sapeva che lui era
pittore, gli diede l’indirizzo di qualcuno che cercava
modelli per quadri. «Se guadagni abbastanza ricominci a
dipingere, magari», gli aveva detto.
Fiorenzo
era rimasto molto stupito quando si era ritrovato in casa
dell’uomo che aveva popolato, con le figure monumentali che
emergevano dalla luce, i suoi dipinti più arditi. Si era
ritrovato a casa di Caravaggio.
L’uomo
che aveva di fronte era piuttosto basso, la sua pelle era bruna e la
barba e i baffi crescevano disordinati. La casa dove abitava e
dipingeva era formata da due grosse stanze, entrambe in disordine,
piene di colori, tele, cavalletti, matite. La prima stanza che
costituiva l’ingresso era piena di quel ciarpame, gettato
sulle sedie, su un tavolo, e forse addirittura anche dentro i mobili
che costituivano la cucina. La seconda stanza aveva un letto in un
angolo, un piccolo armadio e un mobiletto basso dove c’erano
gli strumenti per dipingere, oltre che diverse bottiglie di vino,
libri, vestiti, e una spada gettata in un angolo.
Michelangelo
Merisi guardò il ragazzo che aveva di fronte con occhi
indagatori, poi si diresse verso il tavolo, prese due bicchieri e li
riempì di vino. Ne porse uno al suo ospite. «Come
ti chiami?»
«Fiorenzo,
signor Merisi», fece il ragazzo fissandolo.
«Fiorenzo,
dici?» Il pittore corrugò la fronte.
«Sì
signore. Forse ha sentito parlare di me con il nome che mi hanno dato
in bottega: Fiorenzo da Rubbio.»
Immaginando
dove voleva andare a parare, Michelangelo fece uno schiocco con la
lingua e posò il suo bicchiere di vino sul tavolo.
«Mi spiace ragazzo, non ho una bottega, non voglio degli
allievi.»
«No,
no! Io non volevo quello, volevo dirle che sono disponibile come
modello. Un mio conoscente mi ha indirizzato qui, ha detto che lei
cerca sempre nuovi modelli per i suoi dipinti e
così…» Fiorenzo lasciò la
frase in sospeso.
Il
Merisi assottigliò gli occhi e pareva che stesse per dire di
no, ma ad un’occhiata più attenta a Fiorenzo la
smorfia che aveva in volto scomparve di poco. Il ragazzo era sottile ma
sembrava in forze, parlava con voce sicura e il suo modo di muoversi
aveva un che di elegante e allo stesso tempo irriverente. Aveva
fascino. Michelangelo si fermò a pensare qualche istante.
L’unica cosa di quel ragazzo che non gli andava a genio erano
gli occhi, troppo brillanti per essere inseriti nei suoi dipinti, un
colore troppo freddo per i suoi abituali toni caldi. Nonostante questo
il suo corpo pareva degno di essere ritratto, e Michelangelo gli tese
una mano. «Ho proprio bisogno di uno come te.»
Fiorenzo si
trascinò verso la porta della cella e si fece cadere in
ginocchio sul pavimento. Con le mani che gli tremavano forte prese la
brocca d’acqua che la guardia aveva appoggiato a terra e
bevve a lunghe sorsate rumorose. Il liquido gli cadeva lungo il mento e
formò una piccola pozza sul pavimento. Fiorenzo
posò la brocca ma aveva ancora sete, così si
sdraiò a terra, a pancia in giù, e
succhiò il liquido rimasto sulla pietra. Poi si
avventò sul cibo: mezza pagnotta. Il ragazzo la
ingollò in un attimo. Quando ebbe terminato il suo pasto si
accucciò sull’ammasso di paglia che era il suo
letto e rimase lì, a contare lo scorrere del tempo con il
battito sonoro dei suoi denti che tremavano l’uno contro
l’altro.
Era da tre giorni che
non mangiava né beveva nulla, il suo unico pasto quotidiano
consisteva in tre o quattro ore di tortura. In quei lunghi istanti di
agonia si domandava se per caso non fosse stato il caso di inventare
qualcosa, qualsiasi cosa, e dire al giudice che Michelangelo Merisi era
fuggito a Genova, come aveva già fatto in passato, o meglio
in Francia, a chiedere aiuto ai suoi contatti parigini che aveva
stretto grazie all’ambasciatore francese, suo protettore. Ma
alla fine si diceva di non avere speranze, che non gli avrebbero
creduto e che comunque sarebbe morto: aveva ucciso una persona.
Perché
diavolo lo aveva fatto? Come aveva potuto essere tanto sciocco? In
tutta onestà non poteva dare la colpa al suo maestro, anche
se la faccenda lo tentava. Scaricare la colpa su di lui, dicendosi che
lo aveva soggiogato, che lo aveva reso fedele e servile come un
cagnolino, sarebbe stato semplice, ma Fiorenzo non ci avrebbe mai
creduto nel profondo di sé. Non era mai stato una persona
che si faceva comandare, ma certo era un uomo rispettoso. Purtroppo
quello che era iniziato come rispetto aveva finito per diventare
qualcos’altro, una sorta di insana venerazione che lo
spingeva a fare cose di cui prima si sarebbe vergognato. Cose che pochi
anni prima avrebbe condannato come comportamenti innaturali.
No, la colpa era solo
sua, che si era lasciato rendere schiavo.
Erano
passate tre settimane da quando Fiorenzo aveva iniziato a posare per
Michelangelo. Il ritratto che gli stava facendo era una tela ad olio,
alta un metro e mezzo e larga quasi altrettanto. Gli era stata
richiesta dal banchiere Vincenzo Giustiniani, e Michelangelo vi
lavorava incessantemente. In un primo abbozzo presentato al Giustiniani
era raffigurato un ragazzo ignudo, che si torceva per togliere il piede
dalle lenzuola, in equilibrio sull’altro. A terra giacevano
armi, strumenti musicali, corazze e libri, una tipica natura morta del
maestro.
Per
Fiorenzo era un primo impegno parecchio arduo, perché la
posizione che doveva assumere non era affatto comoda. Tuttavia lo
faceva quasi ogni giorno senza lamentarsi, soprattutto
perché dopo Michelangelo aveva preso l’abitudine
di fargli trascorrere qualche ora in casa sua, per farlo dipingere.
Fiorenzo attingeva ai suoi consigli e li assorbiva come la terra
assorbe l’acqua, in maniera naturale e completa. Con i soldi
del suo mestiere di modello e con i dipinti che aveva ricominciato a
fare e vendere a piccoli commercianti o compratori privati
riuscì ad affittare una stanza a Roma e la sua vita stava
riprendendo una forma definita.
«Come
lo chiamerai?», domandò Fiorenzo rivestendosi e
guardando il maestro con un sorriso sulle labbra.
«Non
lo so ancora. Ma stavo pensando a un titolo in latino.»
«Quale?»
Michelangelo
si volse verso di lui e poggiò le mani sui fianchi.
«Amor Vincit Omnia, che ne pensi?»
Fiorenzo
annuì. «Mi piace. Giustiniani è passato
a vederlo?»
«Sì,
dice che per il momento va bene così, che gli
piace.»
Fiorenzo
e Michelangelo si vedevano tutti i giorni, a volte tutto il giorno. In
città il ragazzo aveva sentito strane storie su di lui.
Oltre che le solite malelingue riguardo alle sue frequenti liti e il
vizio del gioco che non riusciva mai a togliersi – e nel
quale sperperava tutto il denaro che aveva –
c’erano anche altre voci, voci che giravano in maniera ancor
più sottile e che Fiorenzo riteneva irritanti. Molte volte
aveva rischiato di arrivare a litigare con qualcuno perché
aveva difeso il nome del suo maestro con troppa foga, e si era reso
conto che quell’uomo stava diventando il cardine della sua
esistenza. Nelle lunghe ore pomeridiane si scopriva a osservarne il
volto con interesse. Aveva imparato a conoscere l’espressione
che faceva quando dipingeva, come corrugava gli occhi quando lo
guardava, il movimento fluido, automatico, della sua mano che andava a
intingere il pennello nel colore.
A
dipinto quasi ultimato Michelangelo lo congedò, dicendogli
di tornare fra un paio di settimane.
Quando
alcuni giorni furono passati Fiorenzo si ripresentò alla
casa del pittore, fremente, chiedendosi il perché di quella
pausa e allegro al pensiero di rivedere il maestro. Michelangelo lo
fece accomodare e tornò a dare gli ultimi ritocchi al quadro.
«Lo
hai finito?», domandò stupefatto Fiorenzo,
avvicinandosi alle spalle del pittore.
«Sì.»
Era
ultimato, Fiorenzo poté riconoscere le sue cosce, il suo
piede con il tallone sollevato, la sua pelle sull’addome che
formava tante piccole pieghe da un lato e si tendeva sulle costole
dall’altro. Ma non poté riconoscere il suo volto.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. «Questo non
sono io», obbiettò, osservando il dipinto e poi il
suo maestro.
«No,
infatti», fece questi, le labbra leggermente dischiuse mentre
ritoccava un po’ lo sfondo scuro.
«E
chi è?» Fiorenzo era indignato, non capiva
perché Michelangelo avesse bisogno di un altro modello
quando c’era lui. Lui, che era stato così attento,
così paziente; che tornava a casa e si distendeva sul letto
con tutte le ossa doloranti, ma non si era mai lamentato neanche una
volta. Il ragazzo arrossì, e i suoi occhi azzurri si fecero
per la prima volta arrabbiati. «Perché non ci sono
io?»
«Questo
è Cecco, Cecco Boneri, uno dei miei apprendisti.»
«Avevo
capito che non prendessi apprendisti.»
«E
tu cosa credi di essere?» L’uomo alzò
gli occhi verso il ragazzo, e Fiorenzo vide chiaramente che quella
conversazione lo stava facendo spazientire.
«Sì
be’… E perché non mi hai messo nel
quadro?»
«Questo
sei tu!», esclamò Michelangelo indicando la tela.
«Sì,
sono io senza la testa! Perché hai scelto un altro? Che ho
io che non va bene a te? Ho passato delle ore intere in quella
posizione ridicola!»
Il
pittore s’infiammò e le guance gli divennero rosse
tutto d’un tratto. «Ridicola?!»
Fiorenzo
sbiancò. Non voleva dire quello, gli era sfuggito solo
perché era arrabbiato. Ma che senso aveva farlo posare se
poi non intendeva nemmeno far comparire il suo volto nel ritratto? Era
sicuro che ci fossero giovani con un corpo simile al suo dappertutto,
perciò era il suo volto quello che contava. Le sue labbra, i
suoi occhi, la forma della sua mascella, erano quelli che avrebbero
fatto capire che quel dipinto, l’ennesimo meraviglioso
dipinto del suo maestro, era, in un certo senso, un po’ anche
suo. «I-Io non volevo dire così.» Il
ragazzo sbatteva le palpebre in fretta e rivolse lo sguardo altrove.
Michelangelo
fece un grugnito e si volse verso il quadro. «Ho
già ritratto Cecco diverse volte»,
decretò mettendosi le mani sui fianchi. «Il suo
volto è familiare e per di più non ha i tuoi
occhi.» Si volse e guardò Fiorenzo, dritto in
quegli occhi azzurri che avrebbero stonato con il resto del dipinto. Il
ragazzo ricambiò l’occhiata con sguardo ferito.
«Non voglio ritrarre i tuoi occhi, Fiorenzo. Desidero
tenermeli per me.»
Senza
alcun preavviso Michelangelo afferrò la nuca del ragazzo,
avvicinò i loro visi e poggiò forte le labbra
sulle sue. A Fiorenzo non parve possibile che quello stesse capitando a
lui – dopotutto, le voci erano vere – e
spalancò gli occhi tenendo le labbra più saldate
che poteva. Non gli era mai capitato qualcosa di così
orribile. Passò qualche secondo e Fiorenzo si rese conto che
il contatto con quelle labbra poteva essere molte cose, ma non orribile.
Cominciò
così la loro relazione segreta, relazione che andava avanti
fra dipinti, bevute in compagnia e ore dedicate all’amore.
Tuttavia, dopo appena un paio di mesi, Fiorenzo non era sicuro di
essere l’unico amante di Michelangelo Merisi. Eppure non si
tirò mai indietro, non pretese mai l’esclusiva su
di lui. Caravaggio era il suo maestro e il suo idolo, e non voleva
rovinare la relazione che c’era fra di loro, di qualunque
tipo di relazione si trattasse. Fiorenzo era spesso confuso: a volte il
Merisi lo trattava come un allievo, altre volte come un ragazzino,
altre ancora come un uomo e certe notti come un amante.
Così
andò avanti per quattro anni, con quella confusione nella
testa che Fiorenzo non riusciva a collocare.
Il giudice si
sistemò sul suo scranno e osservò con disprezzo
Fiorenzo Guaschi. Il giovane era molto cambiato dall’ultima
volta che lo aveva visto. L’aurea consapevole e fiera che
aveva l’ultima volta era svanita, ed era rimasto solo un
guscio vuoto, carico tutt’al più di spossatezza.
Non c’era più nulla in lui, solo lividi, sangue
rappreso e sporcizia nera che gli macchiava il volto, le mani e il
petto. Il giudice soffiò uno sbuffo. «Mi hanno
comunicato che ancora non parli, ragazzo. Si può sapere
perché? Se tu ci dessi una mano, io sarei anche propenso a
lasciarti andare, e tutta questa faccenda verrebbe bollata come uno
spiacevole equivoco.»
Fiorenzo, la testa
bassa a ciondoloni sul petto glabro e magro, rispose a voce bassa senza
guardare negli occhi nessuno. «Io non lo so. Io non vedo
Michelangelo Merisi da molto ormai.»
Il giudice
respirò con rabbia. «Bene. Se è
così venga messo agli atti che il prigioniero non ha voluto
collaborare, come ci si aspetta da ogni civile cittadino. E dato il
fatto che non ci sono più dubbi sulla sua colpevolezza, come
ha confessato nella precedente udienza, Fiorenzo Guaschi, altrimenti
conosciuto come Fiorenzo da Rubbio, è condannato a morte
tramite decapitazione. L’esecuzione avverrà
Lunedì, al tramonto.»
Le guardie sollevarono
Fiorenzo e lo portarono via. Le parole del giudice non ebbero effetto
su di lui, perché il ragazzo sapeva già di aver
abbandonato la sua vita tempo addietro. Non durante le torture, ancora
prima, quando aveva il privilegio di trascorrere giornate normali,
quando vedeva il suo amante tutti i giorni, quando dipingeva
rischiarato solo dalla luce della torcia. Mentre viveva la sua vita in
maniera tanto pacata e addirittura quasi perfetta, era accaduto
qualcosa di ingiusto, qualcosa che avrebbe preferito dimenticare, e che
forse la morte gli avrebbe risparmiato di ricordare in ogni sogno
tormentato che faceva.
«Hai
sentito che è successo l’altro ieri notte?
Caravaggio e Rinuccio Tomassoni hanno duellato, lui è
morto.»
«Chi?!»
«Ranuccio,
chi altri? Quel Caravaggio combina un disastro dopo l’altro.
Dicono che è matto.»
A
quelle parole Fiorenzo era diventato molle e il suo cuore fece un
tuffo. Quando tornò a galla batteva tre volte più
veloce di prima e il ragazzo abbandonò la birra che stava
bevendo per uscire dall’osteria di corsa. Si
scapicollò fino a casa del suo maestro e bussò
furiosamente con le nocche. «Caravaggio! Caravaggio apri la
porta!» Il ragazzo, ansante, spinse la maniglia, ma la porta
era bloccata dall’interno. «So che sei
lì dentro, aprimi! Apri subito!» Un rumore di
ferro che scorreva sibilò e la porta si aprì di
uno spiraglio. Fiorenzo non lasciò nemmeno che si aprisse
del tutto, entrò e diede un forte spintone
all’uomo che aveva di fronte. «Che cosa ti salta in
testa?! Dove l’hai messo il cervello?!» Il ragazzo
continuava ad avanzare, e diede al suo maestro un altro spintone.
«Tutta Roma va dicendo in giro che hai ucciso il
più giovane dei Tomassoni!» L’uomo
accusò un altro spintone e abbassò il capo, e
allora Fiorenzo capì che quelle non erano solo dicerie.
«E’… è la
verità?», domandò contraendo il volto
in una smorfia.
Michelangelo
deglutì varie volte, la bocca secca.
«Sì.» Il silenzio calò come
un manto di nebbia calda, si dispose fra loro come in un sogno, dolce e
umido. Tutto pareva un sogno a Fiorenzo, sentiva di trovarsi al di
fuori del suo corpo. «Io non volevo, volevo solo spaventarlo
un po’, ha fatto il baro a pallacorda e
allora…»
«Ha
fatto il baro a pallacorda?! Cos’è? La
giustificazione che darai alle guardie? Ha barato a pallacorda,
meritava di morire!»
«Non
mi parlare in questo modo!»
«Io
ti parlo come mi pare! Sei uno sciocco, devi pensare prima di agire,
non puoi andartene in giro per la città a picchiare chi ti
pare, a tirare sassi ai vetri delle finestre delle donne che non ne
vogliono sapere di te!» Fiorenzo gridava con quanto
più fiato aveva in corpo, il suo viso si era fatto rosso
dallo sforzo e le vene sul collo erano gonfie. «I-io non ci
posso credere.» Merisi si torceva le mani e guardava ovunque
che verso di lui. «Che cosa farai adesso?»
«Me
ne vado.»
«Dove?»
«Dove
mi possono ospitare. Filippo… Filippo ha detto che mi
aiuterà.»
«Filippo
Colonna?»
«Sì.»
Con queste parole Michelangelo cominciò ad aggirarsi per la
stanza, raggrumando fra le mani tutti i soldi che trovava e mettendoli
nelle tasche della camicia. Poi prese una borsa e cominciò a
riempirla di tutto ciò che aveva sottomano; nel frattempo
continuava a parlare. «Me ne vado fuori Roma, forse fuori dal
paese. Chiederò scusa a tutti, a Filippo per primo. Non
potrò più tornare in città, sono
ricercato.»
«Ma…
ma potresti chiedere perdono, e…»
«Chiedere
perdono? E come? Perdonatemi, ho ucciso vostro figlio ma è
stato solo un incidente.»
Fiorenzo
era fermo in mezzo alla stanza, senza sapere che cosa fare
né cosa dire. Senza sapere come risolvere la questione.
D’un tratto non era più arrabbiato con
Michelangelo, era solo impaurito perché non
l’avrebbe visto mai più.
La
porta si spalancò con forza e i due uomini si volsero di
scatto. Certo la scena non poteva essere equivocata: Michelangelo
Merisi, su cui gravava una pena di morte, era chino su una borsa e vi
stava infilando dentro dei vestiti in tutta fretta. Sulla porta, la
guardia non poté fare altro: estrasse la spada e la
puntò verso il Merisi, avanzando a larghi passi.
«Fermo!» Michelangelo balzò di lato e
afferrò la sua spada. I due cominciarono a duellare, mentre
Fiorenzo era indietreggiato e ora si trovava dietro la guardia. Il
duello durò poco meno di cinque minuti, si concluse con una
stoccata da parte della guardia, che andò a graffiare Merisi
all’addome e poi con un movimento abile fece saltare
l’arma del pittore lontano. «Michelangelo Merisi,
lei è accusato di omicidio a danni di Ranuccio Tomassoni,
deve…» La voce dell’uomo si
affievolì e quello cadde a terra dolcemente senza fare
rumore.
Dietro
di lui, ansimante, stava Fiorenzo, la spada di Michelangelo stretta fra
le mani. Lasciò andare l’elsa di scatto quando la
spada si mosse assieme al corpo, e indietreggiò, inciampando
e accasciandosi contro la parete. I suoi occhi azzurri erano spalancati
dall’orrore, il ragazzo ansimava forte e le mani gli
tremavano violentemente. Fiorenzo si volse verso i mattoni scuri della
parete e vomitò.
Michelangelo,
una mano premuta sulla ferita e gli occhi che non abbandonavano il
cadavere sul pavimento, si avvicinò piano al ragazzo.
«Andiamo. Andiamo Fiorenzo», disse dandogli una
botta sul braccio. Non fece in tempo a usare parole più
persuasive perché la porta si aprì una seconda
volta e un gruppo di uomini entrò. I loro sguardi si
fermarono sul cadavere riverso in mezzo alla stanza, su Michelangelo, e
infine sul ragazzo con la camicia macchiata di sangue vermiglio.
Michelangelo
Merisi, nonostante il bruciore della ferita, scattò e
uscì dalla porta sul retro. Venne inseguito per diversi
metri prima di nascondersi dentro ad una cassa e riuscire a raggiungere
in nottata la casa di Filippo I Colonna.
La
fine, per Fiorenzo, fu molto amara. Non solo aveva tolto la vita ad un
uomo, ma anche il suo maestro lo aveva abbandonato.
Il boia era parato
dietro di lui con un’ascia affilata e attendeva che
terminassero di leggere le sue accuse. Fiorenzo non vedeva le numerose
persone che assistevano al suo massacro, come se fosse uno spettacolo.
La sua vita era
passata come un alito di vento in mezzo ad un uragano, inascoltata,
ignorata. A nessuno sarebbe importato della sua morte, nemmeno
all’uomo che aveva tanto amato, rispettato, ammirato. A
dispetto del suo sesso, a dispetto dei suoi tradimenti, a dispetto del
fatto che lo preferiva come modello e non come artista, a dispetto del
fatto che lui, al contrario, non lo amasse affatto.
Fiorenzo
ripensò al primo dipinto nel quale aveva posato per
Michelangelo Merisi. Amor vincint omnia.
Tutti gli uomini
vogliono lasciare un segno di sé, un ricordo del loro
passaggio, una prova del fatto che anche loro, un giorno, avevano
calpestato quella stessa terra che ora era dimora di altri. Sarebbe
stato bello passare alla storia come un grande artista. Fiorenzo Da
Rubbio, il pittore. Suonava anche meglio del suo vero nome. Ma lui non
era un pittore: lui si limitava a copiare, a prendere spunti da altri,
riutilizzare la tecnica già inventata prima – era
un caravaggista. E nemmeno come modello poteva essere riconosciuto,
perché in quel dipinto Caravaggio aveva egoisticamente
cambiato le sue fattezze per quelle di un altro, per tenerselo tutto
per sé. E se Fiorenzo non avesse voluto essere tutto, ma
proprio tutto suo? Il ragazzo deglutì, il collo esposto.
Sciocchezze. Lui era sempre stato suo, fin da quando aveva posato gli
occhi sulla sua prima natura morta.
Il boia si mosse
dietro Fiorenzo e lui poté vedere appena l’ombra
dell’ascia che veniva sollevata. Chiuse i suoi occhi troppo
azzurri per l’ultima volta.
“Ti
sbagliavi, Michelangelo. E’ la morte che vince ogni
cosa.”
Fine
Fanfiction partecipante al Collapsing
Night - II Edizione, indetto dal «Collection
of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since
01.06.08 »
Se vi siete presi la briga di andare a leggere in cosa esattamente
consisteva il concorso saprete che a tutti i partecipanti sono state
date delle icon, realizzate da Boundary,
su cui basare il personaggio. Per vedere l'icon di Fiorenzo (cosa che
vi consiglio di fare, perché Fiorenzo è veramente
a un figaccione e ha degli occhi azzurri veramente bellissimi),
cliccate qui.
Passiamo alla storia.
Uh! Allora, è la prima volta che scrivo un racconto storico,
e anche la prima volta che partecipo ad un contest. Non ho vinto, ma
chi se ne frega! xD Sono abbastanza soddisfatta della storia,
perché ho fatto un po' di ricerca per scriverla, e ho
rispolverato i miei libri di storia dell'arte.
A questo proposito, nella storia vengono citati due dipinti, uno che
è un po' meno importante ai fini della storia, che
è La
Tempesta, di Giorgione. L'altro, ben più
importante, è quello che dà il titolo alla
storia, Amor
Vincit Omnia, di Caravaggio. Ho avuto la fortuna di vedere
questo quadro durante una gita a Berlino con la scuola
(perché si trova allo Staatliche Museen) e l'ho
letteralmente amato! Se avete l'opportunità di andare a
Berlino e vi piacciono queste cose, davvero, andate a vederlo
perché la foto non rende affatto.
A parte questo, spero che tu, viandante nelle valli di EFP, abbia
trovato questa storia di tuo gradimento!
Patrizia
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