Follia d'amore e d'oscurità

di Sylphs
(/viewuser.php?uid=162627)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Heather Ville ***
Capitolo 2: *** La voce nella notte ***
Capitolo 3: *** Conversazioni notturne ***
Capitolo 4: *** Propositi di fidanzamento ***
Capitolo 5: *** Gli specchi ***
Capitolo 6: *** Proposta di matrimonio ***
Capitolo 7: *** La cena ***
Capitolo 8: *** La storia del figlio più piccolo ***
Capitolo 9: *** Fine di un'illusione ***
Capitolo 10: *** Il volto di R ***
Capitolo 11: *** Prigioniera ***
Capitolo 12: *** Oltre le apparenze ***



Capitolo 1
*** Heather Ville ***


HEATHER VILLE

 
 
 
 
 
 
Irene aveva sempre saputo, fin da quando suo padre gliel’aveva comunicato, che le sarebbe piaciuto andare a vivere ad Heather Ville. E questo non solo perché la vita di città era terribilmente noiosa, e non c’era nessuno con cui parlare sul serio, e il suo animo si fosse sempre sentito fuori posto nella loro vecchia residenza, ma anche perché le parole con cui gliel’aveva descritta erano così piene di delizioso mistero che avevano solleticato la fantasia fervida della ragazza: “Un’abitazione molto grande, sperduta in campagna, poco lontana dalla città, come si vedono in quei vecchi film gotici di un tempo”.
La mente di Irene era partita a briglia sciolta dietro ad una serie di ipotesi, una più strana ed affascinante dell’altra, sull’aspetto della sua nuova casa. Il mistero, l’oscurità l’affascinavano fin da quando era bambina, e la prospettiva di vivere sperduta nel nulla in una grande casa abbandonata come la protagonista di una storia avvincente la riempiva di eccitazione. Durante gli ultimi giorni in città non aveva fatto altro che attendere con impazienza che partissero per la loro nuova casa. Il fatto che per parlare con qualcuno avrebbe dovuto percorrere sei chilometri a piedi non la spaventava, anzi, le rendeva il pensiero del trasferimento anche più gradito. Dopo la morte di sua madre, sia lei che suo padre sentivano il bisogno di staccare e di isolarsi dal mondo.
Accoccolata contro il finestrino della loro grande auto, osservava coi suoi grandi e limpidi occhi azzurri il paesaggio campagnolo scorrere al di là del vetro. Alberi dai rami contorti parevano salutarla, campi battuti da un tiepido sole sfilavano davanti ai suoi occhi uno dopo l’altro, ma non c’era né un contadino intento a zappare né una donna china a mungere quelle mandrie di pecore. Non passavano nemmeno le automobili: “Papà, come mai hai scelto proprio Heather Ville?” gli chiese forse per l’ennesima volta.
Giorgio Lancaster guardò con affetto la figlia ormai diventata donna, e in quel momento gli parve simile a una bambina, col suo volto pallido e delicato pieno di curiosità, e i soffici capelli biondi sparsi sulle spalle coperte dal vestito blu. Era bella di una bellezza introversa e fragile, e altrettanto pronta a spezzarsi al minimo dolore: “Perché era la residenza più isolata che ho trovato, Irene. E anche la più grande. Ho mandato Tommaso a sistemarla prima che arrivassimo, così non la troveremo in totale abbandono. Pare sia stata ricostruita da pochi anni, in seguito ad un incendio”.
“E l’hai davvero comprata per così poco?” chiese Irene con la sua voce soave. Giorgio annuì compiaciuto: “Un affare molto conveniente, considerate le dimensioni della residenza. Il tale che se ne occupava era un vecchio senza un occhio che, a parer mio, era leggermente confuso, e aveva una tal fretta di vendermela! Quasi quasi era pronto a cedermela gratis!”
La ragazza sorrise: “Non ci abitava nessuno? Spero che non abbiamo sfrattato qualche poveretto! Ci sono forse dei coinquilini? Una casa così grande…”
“Nessuno” la rassicurò Giorgio: “Il vecchio me l’ha ripetuto diverse volte. È completamente deserta. Sarà tutta per noi. La nostra Heather Ville”.
“La nostra Heather Ville…” ripeté Irene, sognante, guardando il cielo azzurro e chiedendosi che forma avessero le candide nuvole che ci galleggiavano sopra. Era una bella giornata, perfetta per accoglierli nella loro nuova casa. Con la mano affusolata giocherellò, in un gesto ormai divenuto inconscio, con l’anellino d’argento che le aveva regalato Stephan. Sull’argento era scolpito un motivo di rose e rami intrecciati.
Caro Stephan…la ragazza si lasciò sfuggire un lungo sospiro. L’unica cosa che rimpiangeva della sua vecchia vita era proprio lui. Era un bel ragazzo di origini piuttosto modeste, con l’aria del gran lavoratore, che una volta l’aveva notata al mercatino di Natale ed era rimasto attratto dalla sua graziosa fragilità. Tra loro non c’era mai stato nulla, neanche un bacio, ma era sempre aleggiato, silenzioso ma percepibile, un sentimento che s’era intensificato sempre più. Irene non aveva impiegato troppo tempo ad accorgersi dell’interesse di Stephan nei suoi confronti, ma, doveva ammetterlo, in realtà era stata riluttante ad avvicinarsi, e anzi diverse volte era rifuggita. Stephan aveva un bell’aspetto, era più sensibile della maggior parte dei giovanotti di vent’anni e quello che provava per lei era sincero e indistruttibile, ma Irene, con un po’ di senso di colpa, era sempre un po’ disturbata che non potesse offrirle altro che il suo amore e le sue attenzioni. Spesso chiusa nel suo mondo interiore, la giovane sognava ad occhi aperti un compagno interessante e fuori del comune che la portasse con sé a vivere avventure emozionanti e sapesse sorprenderla in ogni momento. Stephan invece era razionale e amante della vita quotidiana, e nel corteggiarla non aveva saputo fare altro che invitarla ai giardinetti pubblici o portarla in giro per negozi. Una cosa molto dolce e altruista, ma a volte, noiosa!
Perciò non era mai stata sicura di ricambiare appieno i suoi sentimenti, poiché però ne apprezzava la compagnia ed era lusingata dello sguardo protettivo che le riservava ogni volta che erano insieme. Quando gli aveva annunciato d’essere in partenza, si era rimproverata d’averlo fatto con troppa freddezza. Stephan, al contrario, l’era parso più triste che mai, anche se aveva cercato di nasconderlo dietro un sorriso forzato: “Se è questo quello che vuoi…”
Ecco, un’altra cosa che gli rimproverava era quel suo ostinarsi ad essere sempre composto e posato, senza mai lasciarsi andare alle emozioni. Se si fosse gettato ai suoi piedi implorandola di restare, e dichiarandole profondo amore, ci avrebbe anche fatto un pensiero, ma quella frase l’aveva raffreddata e anche, sì, indispettita. Se lui l’amava, allora avrebbe dovuto disperarsi che se ne andasse così lontana. Ma in fondo non ne avevano mai parlato, lui gliel’aveva solo fatto capire senza mai dirlo, e quindi perché farlo adesso che stavano per separarsi? Cosa poteva aspettarsi da un ragazzo che solo per prenderle la mano aveva atteso tre mesi, e quando finalmente l’aveva fatto s’era messo a tremare tutto che sembrava stesse male?
“Non sarò troppo lontana” gli aveva risposto bruscamente: “Se vorrai venire a farmi visita, ti basterà viaggiare fino a Heather Ville” e si era chiesta se l’avrebbe fatto, dato che era tanto attaccato all’officina di suo padre e non se ne separava quasi mai. Aveva fatto per andarsene, quando Stephan l’aveva trattenuta per un braccio: “Aspetta!”
Irene rammentò con amarezza il balzo di gradita sorpresa che aveva provato. Finalmente lui l’avrebbe sorpresa, confessandole il suo amore, o prendendola tra le braccia per baciarla come non aveva mai osato fare. Ma lui s’era limitato a porgerle quest’anellino, questo piccolo gioiello: “Tieni… portalo con te” poi si era sporto in avanti, tutto rosso, e le aveva dato un frettoloso bacio sulla guancia. Un bacetto.
Ecco cosa le era rimasto di lui, l’anellino d’argento e quell’insipido bacetto sulla guancia. Scosse la testa, scacciando quel pensiero con lo stesso fastidio con cui avrebbe scacciato una mosca: adesso voleva solo concentrarsi su Heather Ville. Tutto il resto, Stephan compreso, perdeva importanza.
“Ci stiamo avvicinando” l’avvertì suo padre. Anche lui, coi suoi sessant’anni alle spalle, era tutto eccitato della svolta che la loro vita aveva preso. Già, a nessuno dei due importavano solitudine ed isolamento, purché fossero abbinati alla pace e al mistero.
Lo scenario che aveva fatto da protagonista al loro viaggio non era molto cambiato, s’era solo fatto più spoglio e più desolato. L’erba, lunga e mal curata, era piena di cespugli d’erica verde scuro, gli alberi erano lugubri spaventapasseri avvizziti e non c’era traccia di fiori, pascoli e tantomeno di esseri umani. Irene tuttavia non era affatto scoraggiata da tanta desolazione: le sembrava d’essersi trasformata nella giovane bambinaia che in “Suspense” raggiungeva in carrozza la macabra tenuta dei bimbi che avrebbe dovuto accudire. Anzi, aveva la sensazione che quella natura morta si addicesse alla perfezione alla residenza dove sarebbero andati a vivere. Si scostò dal viso una ciocca dei capelli biondi e sul suo volto si fece strada pian piano un sorriso d’approvazione.
Un tempo doveva esserci stata una strada lastricata che conduceva ad Heather Ville, ma adesso era coperta da erbacce e da luridume, e la macchina avanzava a stento, tra sobbalzi e scossoni che facevano vibrare le valigie riposte con cura nel bagagliaio. Giorgio si raccomandò: “Tieniti stretta!”
Lei a malapena l’udiva: aveva scorto, infatti, la grande residenza di cui aveva tanto sognato che si stagliava all’orizzonte in modo sempre più nitido, rivelandosi ai loro occhi. Era esattamente come se l’era immaginata, un palazzo grande e scuro, con le finestre ermeticamente chiuse, un grosso portone di quella che sembrava pietra nera, e un tetto spiovente, che in certi punti era ancora bruciacchiato e inutilizzabile. Non era propriamente un luogo ameno, anzi, era avvolto come da un’aura d’abbandono e d’inquietudine, ma proprio per questo lei fremeva di desiderio al pensiero di entrarci. Non provava alcuna paura per quei muri scrostati, quel prato malcurato che circondava l’edificio, quelle finestre buie, ma solo voglia di scoprire cosa celavano. Tirava un forte vento che le sussurrava nelle orecchie un segreto che però non riusciva a comprendere.
“Oh, papà, è meraviglioso!” esclamò, stringendosi al genitore. Lui però era restato un po’ sorpreso, dato che le foto che gli aveva mostrato il vecchio erano assai più desiderabili: “Non avevo idea che fosse un luogo così dimenticato”.
“Proprio per questo è così bello!” disse la figlia con impeto: “Mi sembra d’essere tornata nel settecento”.
Poco convinto, Giorgio continuò ad osservare la lugubre dimora che s’avvicinava sempre di più. Il loro domestico Tommaso era in attesa davanti al portone, una figura colorata in un quadro bianco e nero, col suo solito portamento impeccabile e un’espressione di sollievo negli occhi quando li vide arrivare. Lo sguardo di Irene si perdeva in ogni sfaccettatura, ogni scrostatura di quell’edificio. Un incendio, aveva detto suo padre…beh, con tutta la ricostruzione, i segni ne erano rimasti!
La macchina si fermò sul prato malcurato davanti ad Heather Ville e la ragazza, impaziente come sempre, uscì in fretta dalla macchina, così in fretta che le prese uno spavento nel constatare quanto freddo faceva. Le battevano i denti. Tommaso accorse e l’avvolse paternamente in una giacca: “Signorina Irene, non dovevi metterti quel vestito così leggero! Qui fa un freddo del diavolo”.
Poi si rivolse cupamente a Giorgio: “Signore, ho dato un’occhiata dentro”.
L’uomo gli sorrise: “Ebbene, Tommaso? Cosa ti sembra?”
“Cosa mi sembra?” gli fece eco quello: “Mi sembra che…beh, non è molto comodo. I ricostruttori non hanno fatto un bel lavoro. C’è tanta sporcizia che sembra di stare in una stalla…e sono rimasti i mobili che c’erano prima dell’incendio. Quelli sopravvissuti, s’intende. Ed ecco, non sono, come dire…gradevoli. Ma guardi lei stesso”.
Mentre i due discutevano, Irene s’era avvicinata al portone e non aveva potuto fare a meno di provare un brivido di timore. Quella casa era antica e immersa nella sua pace, e in qualche modo si sentiva un’intrusa a violarla in quella maniera. In fondo cosa le permetteva di dire che le apparteneva? Un contratto firmato da suo padre, e per di più s’era trattato di una firma molto distratta. Sfiorò timorosamente il portone e rabbrividì. Quel contatto le aveva provocato uno strano senso di freddo. Possibile che Heather Ville non la volesse? Oh, ma che sciocchezza! Lei ora era la proprietaria e si trattava solo della suggestione di una cittadina non abituata a quell’isolamento.
Spinse con decisione il portone e quello, con un cigolio ben udibile, come se non venisse aperto da anni, si spalancò sull’interno della sua nuova casa. Irene fece qualche timoroso passo avanti, poi aggrottò la fronte: “Ma è tutto buio!” la sua voce spezzò come un cupo rintocco il silenzio pastoso che regnava dentro.
“Infatti, signorina Irene” convenne Tommaso. Aveva una lanterna nella mano destra, e con quella illuminava un pavimento di legno vecchio e mangiato dalle tarme, che produceva secchi scricchiolii ogni volta che le loro scarpe lo calpestavano e non aveva un’aria molto stabile. Anche se lei non riusciva a vederlo, sapeva che suo padre era proprio dietro di lei: “Ma com’è possibile?”
“Ho trovato tutte le tende ermeticamente chiuse, le lampade spente, le candele nascoste in posti impensabili” spiegò il domestico, con un piccolo brivido: “Come se, non so, l’oscurità fosse un prezioso tesoro, qui”.
Si avviò a tentoni in direzione di quelle che si supponevano essere le finestre e i suoi piedi produssero scricchiolii sinistri sul pavimento consunto. Irene e suo padre rimasero vicini sulla soglia, intimoriti da tutta quell’oscurità. Il domestico appoggiò la lanterna a terra, poi afferrò le consunte tende di broccato rosso scuro e le separò, invadendo il locale dov’erano della luce del sole di pomeriggio.
Sembrava essere una sorta di sala da pranzo. Un lungo tavolo di mogano, quadrato, era al centro della stanza, con sopra una tovaglia polverosa, sempre rossa, così lunga che toccava terra coi bordi. Sopra al tavolo c’erano due imponenti candelabri d’oro, senza candele. Il lampadario era vecchio e fragile, pieno di cristalli che gettavano riflessi nel buio, e aveva l’aria di cedere alla minima spintarella. La tromba delle scale che portavano al piano superiore cominciava appena dopo il tavolo, e i gradini erano sempre di legno, instabili e scricchiolanti. Irene aveva l’impressione che una pastosa cappa di polvere gravasse su quel locale. Sul soffitto di legno erano rimaste intrappolate alcune ragnatele spesse come stoffa.
Mentre Tommaso si dava da fare coi bagagli e apriva altre finestre, la ragazza si spostò alle camere successive. L’edificio sembrava vasto, ma in realtà dentro era più che altro composto da corridoi lunghi e soffocanti, disadorni, che portavano per lo più a vicoli ciechi oppure a porte cigolanti. Irene ne attraversò qualcuna. Tutte camere buie, e arredate con un gusto pazzo e insano: per esempio nel bagno, accanto ad un vecchio gabinetto ottocentesco, era stata messa una poltrona bucherellata, nella libreria, tra gli scaffali polverosi, c’erano letti o comodini con sopra strane lampade ad olio. Spadroneggiavano il buio e l’atmosfera raccolta, come se anziché essere una casa Heather Ville fosse in realtà un immenso nascondiglio, una prigione polverosa in cui poter restare rinchiusi per sempre.
Irene prese un libro da uno degli scaffali e nel farlo si sollevò una nuvola di polvere che la fece tossire. Aveva la copertina rilegata di cuoio scuro, era senza titolo. Lo aprì e sfogliò qualche pagina ingiallita, che frusciava, fragile, ogni volta che la girava. Era scritto a mano con quello che pareva inchiostro, in una calligrafia fitta e disordinata, quasi illeggibile. A fatica decifrò qualche frase, ma erano a tal punto intricate e senza senso che rimise il libro al suo posto e non ne toccò altri. Pensò di chiedere a suo padre di buttarli per fare spazio ai suoi: erano senza dubbio più interessanti e preziosi di quei volumi pieni di deliri scritti da una mano misteriosa e folle. Nella libreria c’era inoltre un vecchio scrittoio a cui la giovane si avvicinò, curiosa. Lo scrittoio aveva un cassetto, nella cui serratura era infilata una piccola chiave d’oro.
Irene esitò un istante, poi la girò e aprì il cassetto. Dentro c’era un paio di occhialetti da lettura con la montatura d’osso. Quella visione le strappò un sorriso divertito: “Ehi, e voi cosa ci fate qui?” di Tommaso non potevano certo essere. Li prese, se li rigirò tra le mani, poi, scherzosamente, se li mise. Da un occhio continuava a vedere come sempre, sull’altro era però calata come una cappa che rendeva sfocati i contorni delle cose e distorto lo strano mobilio. Si accorse, con un breve trasalimento, che quegli occhiali avevano una lente sì e una no. Che bizzarra cosa. Li ripose in fretta dove stavano e richiuse il cassetto.
Poiché Tommaso non aveva ancora aperto tutte le finestre, e lei voleva proseguire con l’esplorazione, prese con sé una candela che trovò tra i libri e la accese con uno dei fiammiferi che teneva in tasca. Se quella casa doveva diventare sua, allora doveva vederla tutta!
Entrò in quella che probabilmente era una stanza della musica. Pavimento e soffitto erano sempre di legno, e non c’erano mobili se non uno sgabello a tre gambe dinnanzi al quale c’era una vecchia arpa dorata a cui mancava una corda. Irene protese la mano e sfiorò le corde: si diffuse un suono lungo e lamentoso, come un grido di tristezza. Provò a pizzicarne alcune come faceva col suo violino e il brutto suono che le era venuto all’inizio si tramutò in una melodia assai più gradevole a sentirsi.
Un fruscio, lievissimo, come di qualcosa che si trascina. Le arrivò alle orecchie d’improvviso e la fece sussultare. Smise di suonare l’arpa e s’alzò di soprassalto, turbata: “Cos’è stato? Papà, sei tu?”
Non le rispose nessuno, né il fruscio si ripeté. Era stata solo una sua impressione. Voltandosi verso il punto in cui supponeva aveva sentito il rumore, la vide la prima volta. Una grata nei muri, una grata di metallo le cui sbarre erano ricoperte da polvere, sporcizia e ragnatele. Alzò un sopracciglio, perché non aveva mai visto una cosa simile, in nessuna casa che aveva visitato. Ora che ci pensava, la cosa più bizzarra di quella casa erano i muri: tutti bianchi, avevano un’aria assai più fragile del resto, e anzi, in diversi punti erano anneriti e la vernice era scrostata. Non vi erano stati messi né quadri né arazzi.
Si accostò, a dir la verità un po’ spaventata, all’ampia grata da cui credeva era uscito quello strano rumore. Possibile che i muri fossero cavi? Mise la testa più in dentro che poteva, anche se le sbarre le impedivano di farlo in maniera soddisfacente. Solo il buio. Un buio densissimo, tanto denso che la debole fiammella della sua candela non riusciva minimamente a rischiararlo. Oltre quella grata c’erano solo ombre e buio. Irene rinunciò a vederci qualcosa, ma non si arrese, perché era testarda di natura, e se sentiva qualcosa ci metteva un bel po’ prima di convincersi che era stata solo la sua immaginazione. Appoggiò un orecchio al muro in cui era la grata e si mise in ascolto: nulla. Batté il pugno contro l’intonaco e non ne provenne un rumore sordo come in qualsiasi altro muro, ma una sorta di eco che suonava a vuoto. Ripeté l’operazione e ottenne lo stesso suono insolito.
“Uhm” insospettita, si allontanò dalla stanza della musica e andò a raggiungere suo padre e Tommaso, che erano ancora nell’ampia camera da pranzo dell’inizio. Durante il tragitto, si accorse con un sussulto che in ogni stanza c’era una grata d’aspetto identico a quella che aveva visto nella camera della musica, e ogni grata mostrava solo un buio assoluto. Solo i corridoi ne erano privi.
“Tommaso!” esclamò quando ebbe finalmente raggiunto gli altri due. Giorgio era chino ad esaminare un divano pieno di buchi, di pelle, mentre Tommaso era sulla scala coi bagagli: “Sì, signorina Irene?”
“Ho notato una cosa piuttosto insolita nei muri” spiegò lei, tesa, avvistando immediatamente la grata della sala da pranzo, che era nascosta dalle ombre proiettate dalla scala. La indicò: “Quella strana grata è ovunque, e mi induce a pensare che i muri siano cavi, e che dentro ci sia qualcosa. Cunicoli, forse?”
“Che sciocchezza!” disse Giorgio, sbalordito. Irene si sentì punta sul vivo. Non voleva fare la parte di quella che si lasciava suggestionare: “Suonano a vuoto” lo informò seccamente. Per dimostrarlo bussò sul muro e ne venne lo strano rumore. Il padre spalancò gli occhi e guardò Tommaso come in cerca di una spiegazione. Il domestico, però, aveva un’aria calma: “È normale in case così vecchie, signorina Irene” spiegò pacato: “Non c’è niente in quei muri, se non forse dei condotti di areazione. Vedi, un tempo cose come l’aria condizionata non c’erano, e, diciamo così, per rinfrescarsi le persone facevano costruire questi ingegnosi condotti. La grata che vedi serve a far filtrare l’aria nelle stanze”.
Giorgio di tranquillizzò immediatamente e riprese il suo esame, ma Irene continuò ad essere accigliata. Benché avesse fatto la figura dell’ingenua e dell’ignorante, lei quel fruscio l’aveva sentito, e dubitava che un condotto in disuso da anni lo producesse. Ma forse era stata davvero soltanto suggestione. Quella era la sua nuova, splendida casa, e non poteva farsela rovinare da assurdi timori! Tommaso ne sapeva molto più di lei.
“Vieni con me, signorina Irene, ti mostro la tua stanza” la esortò infine il domestico, sollevando non senza fatica la valigia azzurra coi fiocchi della ragazza. S’avviò quindi su per le scale, e Irene gli venne dietro, ancora un po’ turbata dalla questione dei muri. Ogni gradino su cui appoggiava il piede scricchiolava in modo lugubre, tanto che fu costretta ad aggrapparsi al corrimano per timore che la scala le franasse sotto le scarpe. Davanti a lei Tommaso invece saliva con sicurezza, gravato dal peso aggiunto della sua valigia. Probabilmente s’era precedentemente assicurato della stabilità di quei gradini. Al piano superiore il tenore delle stanze era molto simile a quelle che aveva già visitato, e il mobilio c’era ugualmente, nella stessa sbagliata posizione. Poltrone accanto a vasche da bagno, tavolini accanto a tavole più massicce, sparsi in modo disordinato.
Ritraendo le mani nere di sporco dal corrimano, Irene osservò piano: “Sembra quasi che ci sia ancora qualcuno, qui” lasciando scorrere le dita su un vecchio plaid bucato buttato disordinatamente su di una poltrona lurida. Le tornarono alla mente gli occhiali da lettura che aveva trovato nella libreria e il fatto che mancasse una lente. In qualche modo il buio, che regnava sovrano anche al piano superiore, la disturbava, ed era una gioia che Tommaso aprisse tutte le tende che trovava. La luce rivelava ambienti fino al momento prima gravidi di mistero e di zone d’ombra.
Tommaso aprì un uscio dalla maniglia d’ottone: “Io e il signore abbiamo pensato che questa stanza andasse bene per te, signorina Irene” si introdusse nell’ambiente buio e andò ad illuminarlo accendendo una lampada appoggiata sul comodino polveroso piazzato accanto al letto, che aveva lenzuola e federa pulita, ma una vecchia coperta di un rosso stinto che doveva esserci da prima. Irene si fece avanti guardandosi intorno. Era piuttosto piccola e spartana, come stanza: c’era una sola finestra, e, anziché un armadio, una vecchia cassapanca in cui riporre gli indumenti, ma notò subito che era in miglior stato rispetto a molte altre, e il mobilio era sistemato in modo più coerente. Con un brivido vide che la grata non mancava nemmeno lì: era davanti al letto, dava su di esso, e come al solito era nera come la pece.
“Che ne pensi signorina?” la interrogò Tommaso apprensivo, deponendo il bagaglio della ragazza accanto alla cassapanca. Lei diede un’altra lunga occhiata alla stanza e infine tornò a guardarlo coi suoi occhi azzurri: “Direi che và bene. Mi metterò presto a mio agio”.
Il domestico sospirò di sollievo, perché temeva che lei si sarebbe lamentata. In effetti la sua camera in città era stata molto più sontuosa e meno inquietante, ma assai meno misteriosa, perciò Irene si disse che le piaceva proprio. Certo, le prime volte accoccolarsi in quel letto scricchiolante sarebbe stato un po’ strano, ma alla fine si sarebbe abituata.
“Lasciami pure sola, Tommaso” disse al domestico con un sorriso: “Penso io ai bagagli”.
Quello annuì, le fece un rispettoso cenno del capo e si ritirò in fretta, chiudendosi la porta alle spalle. Ritrovandosi sola nella sua nuova stanza, Irene sedette sul letto, che mandò un cigolio sotto il suo peso (era duro come un sasso) e si sfregò le mani: “Ebbene” commentò a se stessa: “Eccomi sistemata” il suo viso era rivolto verso la grata: “Mettiamoci a nostro agio”.
Calciò via gli scomodi stivaletti, si tolse la giacca che aveva indossato fuori e sostituì l’abito da viaggio con una camicia da notte, calzini pesanti e una vestaglia bianca che pescò dalla valigia. Si accorse con insieme disappunto e fastidio che nella stanza non c’erano specchi. Ora che ci pensava bene, non aveva visto un solo specchio in tutta la casa, fatto strano, dato che invece era piena di ogni impensabile cianfrusaglia, anche inutile.
“E ora come faccio a guardarmi, senza specchio?” si lamentò ad alta voce, dato che parlare da sola la aiutava a spezzare il gravoso silenzio: “Che razza di stranezza!” scosse la testa e si pettinò alla meno peggio, disponendosi i capelli come sapeva le stavano meglio, sciolti. Poi, dato che c’erano assai pochi modi di intrattenersi in quella stanza, passò il tempo a riporre ordinatamente i suoi effetti personali nella cassapanca, in cui ebbe la sorpresa di trovare un minuscolo libricino sporco di quella che sembrava fuliggine, sempre scritto a mano, ma che stavolta assomigliava ad un romanzo. Era scritto a metà, poi si interrompeva. L’ennesima bizzarria di Heather Ville, che ormai passava inosservata ai suoi occhi.
Non avendo nient’altro da fare, si distese sullo scomodo letto, con la lampada accesa accanto e si mise a leggere il libricino che aveva trovato. Decifrare quella terribile scrittura era forse più difficile che tradurre un testo dal greco, e certe parole proprio non capiva cosa significassero. Era una specie di diario, da quello che riuscì a capire. Cercare di stargli dietro era però quasi impossibile: un momento prima parlava di un’inconsolabile solitudine e di un continuo isolamento, e lei era quasi entrata in quelle emozioni che si interrompeva bruscamente e prendeva a parlare di tutt’altro, descrivendo nomi e persone totalmente sconosciuti. E la maggior parte di quelle persone erano vittima di pensieri omicidi da parte dell’autore.
Per fare un esempio: “Svegliandomi mi sentivo soffocare, la testa mi scoppiava, desideravo soltanto farla finita per sempre. Il signor Grant è un uomo dalla mente così gretta da non meritare di vivere un solo secondo!”
Quando fuori era già calata la scura notte, Irene rinunciò a finire lo strano libricino e lo appoggiò sul comodino assieme al suo “Orgoglio e pregiudizio”. Si sdraiò supina con un lungo sospiro. Il fatto che il buio della casa si scontrasse stavolta col buio di fuori rendeva ancor più mistica l’atmosfera. L’unica luce a cui poteva aggrapparsi era quella della lampada. Era tornato il freddo, così intenso che tremava e aveva le labbra bluastre. Ma non era riscaldata, quella casa? Si rintanò sotto le coperte e si portò le ginocchia al petto per scaldarsi col calore del proprio corpo, ma il freddo persisteva.
Con la punta delle dita sfiorò l’anello che le aveva regalato Stephan. Pensare a lui la aiutò a scacciare un po’ il senso di solitudine che inevitabilmente le aveva attanagliato il cuore. Caro, manieroso Stephan…sarebbe venuto a farle visita qualche volta? Se dietro il suo sorriso forzato aveva davvero nascosto amore, allora era molto probabile. Sulle labbra le comparve un dolce sorriso, mentre si stringeva ancora di più nelle coperte polverose. Erano sporche, ma calde, in fondo. E in fondo Heather Ville era inquietante, ma le piaceva davvero, le piaceva quella nuova vita romanzesca e ignota.
Passò la sua prima notte lì a dir la verità tra molti tormenti, girandosi e rigirandosi nel letto, madida di sudore nonostante l’intenso freddo, con l’ossessione di essere circondata da fruscii sinistri e suoni strascicati che le si avvicinavano, si allontanavano, tornavano ad accostarsi alla sua stanza, ma non le permettevano di identificare da dove provenivano. Erano probabilmente incubi, perché quando si svegliava di soprassalto, tacevano di colpo, e tutto ripiombava nel silenzio più assoluto.
Sarebbero cessati totalmente una volta che si sarebbe abituata. Doveva soltanto farci l’abitudine.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La voce nella notte ***


LA VOCE NELLA NOTTE

 
 
 
 
 
 
Fu ugualmente abbastanza difficile per Irene abituarsi presto alla sua nuova vita ad Heather Ville. Il fatto che fosse tanto grande e vi vivessero soltanto lei, suo padre e Tommaso le procurava un curioso senso di disagio, come di chi si sente fuori posto, che non riusciva a scacciare neanche quand’era all’interno della sua stanza. Perciò aveva accantonato il suo spirito d’esploratrice e aveva sapientemente deciso di recarsi solo in determinati luoghi ogni giorno per evitare di perdersi in quelle stanze buie e polverose: la sala da pranzo al pianterreno, lo studio in cui s’era installato suo padre, il bagno al piano di sopra e la propria camera da letto. Il percorso lo memorizzò presto e smise di darle inquietudine.
I rumori sospetti che spesso si potevano sentire avevano smesso di darle fastidio: gli scricchiolii ormai sapeva che erano causati dai suoi piedi che percorrevano il pavimento instabile, lo zampettio lontano la presenza di qualche topo e qualche sparuto tintinnio i cristalli del lampadario mossi dal vento. Aveva perfino imparato a convivere col buio perenne che aleggiava su Heather Ville, e che continuava ad esserci nonostante i loro sforzi di tenere le tende aperte e le lampade accese. Inevitabilmente le trovavano di nuovo chiuse, probabilmente dall’impietoso e gelido vento di fuori. Proprio a causa di quel vento le era impossibile uscire. Soltanto suo padre osava farlo, di tanto in tanto, lasciandola sola col domestico.
Provò a portarle uno specchio che lei appese nella sua camera affinché potesse lavarsi e sistemarsi meglio, ma la sera stessa tornando per coricarsi si accorse con un trasalimento che era stato frantumato. Quando ne chiese la causa a Tommaso, lui rispose che si era trattato della scarsa solidità dello stesso specchio. Così ne fece a meno.
Provava improvvisamente l’impellente bisogno di comunicare con la gente. In città aveva avuto il problema inverso, ma adesso che era isolata dal resto del mondo nella sperduta campagna che circondava Heather Ville ripensava con rimpianto ai tempi in cui usciva con le amiche o con Stephan. Parlava con suo padre, ma per la maggior parte del tempo era sola, e passava il tempo leggendo, disegnando o suonando l’arpa nella stanza della musica. Erano attitudini che l’interessavano, ma spesso finiva per trovarle monotone, e soffriva di solitudine. Le era impossibile telefonare, poiché non c’era mai campo. Così gioiva perfino delle brevi conversazioni che intraprendeva con Tommaso, anche solo per chiedergli dove aveva messo la sua spilla.
La vita ad Heather Ville era certamente più strana di quella cittadina, ma aveva i suoi svantaggi.
E poi c’era la fastidiosa sensazione, che assai poche volte l’abbandonava, d’essere osservata. Si rendeva conto che era da paranoici, ma non poteva fare a meno di sentirsi spiata da un qualcosa che non riusciva ad identificare. Eppure non c’era niente. Questa sensazione raramente si dissipava, le restava addosso continuamente, mentre dormiva, mentre leggeva o suonava l’arpa. Si attenuava solamente quando si aggirava per la casa o andava a consumare i pasti con suo padre. Ne parlò con lui, ma l’unica risposta che seppe darle fu la seguente: “È solo una tua impressione, cara. È normale che in un luogo così…bizzarro si accusino sensazioni simili. Io stesso, a volte, non riesco ad accettare il fatto di essere completamente solo e mi stupisco che non ci sia qualcuno accanto a me”.
Irene, angosciata, non si prese il disturbo di spiegargli che non si trattava di nulla del genere. Era un vago malessere, uno strano pizzicore alla nuca che l’induceva a girare intorno uno sguardo atterrito. Era la chiara impressione che uno sguardo estraneo fosse fisso su di lei. Ma d’altronde era impossibile che qualcuno la spiasse, in primo luogo perché nella casa non c’era nessun altro, in secondo perché era sempre chiusa in camere prudentemente vuote, e troppo piccole perché qualcuno potesse nascondersi.
Circa una settimana dopo il suo arrivo ad Heather Ville, in un uggioso pomeriggio che suo padre era uscito per i suoi affari e delle spese, Irene era seduta al lungo tavolo della sala da pranzo, tra i candelabri accesi, intenta a leggere “Orgoglio e Pregiudizio” per la terza volta di seguito, con i morbidi capelli biondi raccolti in una treccia e indosso un pesante completo nero, avvolta in uno scialle consunto che aveva trovato su di una poltrona in libreria. Era a tal punto concentrata nella lettura che il grido di Tommaso la colse di sorpresa, facendole balzare il cuore in petto. Immediatamente depose il libro sul tavolo e si alzò in piedi: “Tommaso!” chiamò allarmata: “Cos’è successo?”
Lo trovò nella stanza della musica, intento a fissare il vuoto con gli occhi spalancati pieni di spavento. Lo richiamò e lui ebbe un sobbalzo, come se in qualche modo lei l’avesse preso di sorpresa. La fissò, pallido, detergendosi il sudore dalla fronte: “Oh, signorina Irene, sei tu” ansimò: “Perdonami di averti spaventata, ma ho avuto la netta impressione che qui dentro ci fosse qualcuno!”
Irene sgranò gli occhi azzurri: “Cosa intendi dire?”
“Ecco…” cominciò esitante lui: “Stavo passando di qui, quando ho visto la porta chiusa di questa stanza e mi è parso di sentire dei movimenti all’interno, come se ci fosse qualcuno. All’inizio ho pensato che fossi tu, dato che sei andata spesso qui, così ho aperto la porta per raccomandarti di fare più piano…ma dentro era tutto buio, non si vedeva niente, tutte le luci erano spente. Ho chiesto se c’era qualcuno, ma non mi ha risposto nessuno. Eppure io avevo udito! Ho acceso la luce, ma la stanza era deserta. Ho paura che questa casa faccia strani scherzi alla mia mente. Ora però è passato. Vedo che non c’è nessuno”.
Irene rifletteva trepidante sulle sue parole. Dunque non era solo lei ad avere udito degli strani movimenti. Però la stanza della musica era vuota, e non c’erano né porte secondarie né botole da cui qualcuno sarebbe potuto fuggire mentre Tommaso accendeva la luce. L’unica uscita era l’uscio da cui lui era entrato…dunque, era tecnicamente impossibile che ci fosse stato qualcuno. Tommaso, ansioso di andarsene, la prese per un braccio: “Torniamo alle nostre occupazioni, signorina”.
“No” replicò lei: “No, lasciami qui. Voglio restare un altro po’. E chiudi la porta!”
Il domestico la guardò come se la ritenesse poco sana di mente, ma finì per alzare le spalle e fare quello che gli aveva detto. Una volta sola, Irene esaminò più attentamente la stanza della musica, ma persistette a non trovare nessun nascondiglio di qualche tipo. Con un pesante sospiro, si lasciò cadere sullo sgabello davanti all’arpa. Scorrendola con uno sguardo distratto, s’accorse di colpo che la corda che le era sempre mancata e che le aveva impedito di suonare con le sue piene capacità ora era al suo posto, insieme alle altre. Si tese verso di essa, l’espressione sbalordita, e la toccò. Un suono argentino si diffuse per tutta la stanza, amplificato.
La ragazza, colpita da un tale inspiegabile mistero, raccolse le gonne, uscì e tornò da Tommaso, nella sala da pranzo: “Scusa, Tommaso, per caso sei stato tu ad aggiungere la corda mancante all’arpa?”
Lui aggrottò le sopracciglia, confuso: “No, signorina. Sei sicura che sia stata aggiunta?”
Irene annuì ammutolita. Ma allora, se non era stato Tommaso, e suo padre era fuori, chi aveva aggiunto la corda? Di certo non lei! È vero, si era sempre lamentata di quella mancanza, e non aveva potuto suonare la “Serenata triste” che le piaceva tanto proprio per la sua assenza, ma non le era mai venuto in mente di cercarne una e di applicarla allo strumento. Tornò a passi lenti nella stanza della musica e sedette accanto all’arpa: “Per caso sei stregata e ti ripari da sola?” sussurrò. Istintivamente, accarezzò tutte le corde e le pizzicò per suonare la serenata. Grazie alla fortunosa quanto impossibile aggiunta riuscì ad intrecciare dolci suoni e a creare malinconiche e dolenti note, e per un attimo, presa dalla sua esibizione, dimenticò quel mistero.
Più tardi fantasticò su di una presenza fantastica rimasta intrappolata tra quelle mura capace di attraversare le pareti e rendersi invisibile, un fantasma che non si rivelava mai ed era venuto a donarle la corda. Sapeva, però, che nel mondo reale non esistevano né presenze né fantasmi, e che quindi c’era una diversa spiegazione.
“C’è un’unica spiegazione” si disse: “Papà ha comperato la corda e l’ha applicata all’arpa ieri, ed io non me ne sono accorta perché non sono andata nella stanza della musica. Ecco come sono andate le cose”.
 
“Corda? Io non ho preso nessuna corda!” sentenziò sorpreso Giorgio la sera stessa a cena. Lui e Irene erano seduti al tavolo della sala da pranzo, con la sola luce delle candele nei candelabri, e stavano consumando un parco pasto a base di roast beef e patate. Oltre il tavolo illuminato dalle fiammelle si diramava il buio, diventato ormai una fastidiosa consuetudine.
Irene posò la forchetta: “Eppure devi essere stato tu!” esclamò: “Se io non l’ho aggiunta e neanche Tommaso, allora chi è stato?”
Giorgio si grattò la testa: “È possibile che quella corda ci sia sempre stata”.
Un bagliore di rabbia attraversò gli occhi chiari della fanciulla: “Mi credi una stupida che non nota una cosa del genere? Mi hai sempre sentita lamentarmi proprio a causa di quella corda. Non c’è mai stata prima di oggi!”
“Hai chiesto a Tommaso se per caso non l’avesse aggiunta distrattamente?”
“Diverse volte. È sicuro di non aver fatto nulla del genere”.
Giorgio aprì la bocca, ma alla fine la utilizzò solo per masticare un pezzo di roast beef. Irene si sentì indispettita che non sembrasse molto spaventato. Semplicemente, quando non sapeva trovare una spiegazione, si chiudeva nel silenzio e parlava d’altro. Lei però era affascinata da ogni mistero e d’altra parte qualcosa in quella faccenda esercitava su di lei uno strano fascino. Si girò intorno all’anulare l’anello d’argento di Stephan e si chiese cosa avrebbe fatto lui se fosse stato con lei. Di sicuro le avrebbe creduto e l’avrebbe aiutata. Ma no, cosa pensava? Stephan era così razionale che avrebbe ritirato fuori la vecchia tiritera del “è solo una tua impressione”. Ad ogni modo, meglio questo che ritrovarsi sola con un padre cieco all’evidenza e un domestico così pavido da non affrontare mai l’argomento.
“Papà, quando hai comperato Heather Ville, il tale che te l’ha venduta ti ha assicurato che era disabitata?” gli chiese col tono più soave che le riusciva, per spingerlo a confidarsi. Giorgio gonfiò il petto: “Per chi mi hai preso? Certo che me l’ha assicurato! E puoi vederlo tu stessa, Irene, che non c’è nessuno. Perché me lo chiedi?”
“Una curiosità femminile…” commentò lei, costringendosi a sorridere con un po’ di timidezza: “Sai quanto adoro queste cose. Ecco, saresti così gentile da confidarmi se il vecchio che ti ha venduto questa casa ti ha parlato di qualcuno che ha abitato qui precedentemente?”
“Certo che hanno abitato qui precedentemente, Heather Ville ha più di cent’anni. Però non ho ritenuto necessario informarmi su questo. Cosa ti importa? Non dovresti essere così curiosa. Non staremo qui per sempre. È solo un periodo per goderci un po’ di solitudine”.
Con un sospiro, la fanciulla tornò alla sua cena. Da suo padre non avrebbe ottenuto nulla di più. Era ovviamente intestardito ad ignorare quello che lei sosteneva di sentire, e quel vigliacco di Tommaso davanti al padrone aveva negato di avere udito i movimenti nella stanza della musica. Così, oltre che a tediarlo con le sue continue domande, aveva anche fatto la figura della bugiarda e della paranoica. Prese la decisione di ignorare gli strani fenomeni che si manifestavano ad Heather Ville e di continuare la sua vita tranquillamente. Come suo padre aveva specificato, non sarebbero restati lì per sempre. Forse Stephan le avrebbe chiesto di sposarlo, quando avrebbe avuto una posizione solida con l’attività del padre. Anche se Irene non era certa di accettare, quel futuro la allettò, anche se era un futuro tracciato con la matita.
Sbadigliando, si alzò in piedi: “Scusami, papà, avrei un gran sonno. Voglio andare a dormire”.
Giorgio addolcì lo sguardo e le sorrise: “Ritirati pure, mia cara. Ci vediamo domani mattina” si batté un colpetto sulla guancia rugosa e lei, ubbidiente, si chinò e vi depose un bacio. Poi, salutato Tommaso che era accorso a sparecchiare, si recò nella sua stanza e accese la lampada di fianco al letto, respirando a fondo l’aria stantia che vi regnava. In qualche modo lì si sentiva sicura, ed era diventata il suo piccolo rifugio privato. Si sciolse i capelli e si tolse gli abiti da giorno, rabbrividendo quando fu nuda. Volse la schiena al muro di fronte al letto e indossò in fretta la camicia da notte bianca, con un pudore improvviso, anche se era sola.
Si infilò in fretta a letto e si tirò addosso le pesanti coperte. Brividi di piacere le corsero su per la schiena quando fu raggomitolata al caldo. Mormorò le sue preghiere ubbidientemente, poi spense la lampada e la stanza calò nella tenebra più nera, in cui neanche ad occhi spalancati riusciva a vedere nulla. Irene si strinse di più nelle coperte e si sforzò di prendere sonno. Era davvero stanca, comunque. Tutte quelle novità le avevano messo addosso un pesante torpore, che solo una bella dormita avrebbe dissipato.
“Sì” pensò rassicurata: “Una bella dormita e domani sarà tornato tutto alla normalità”.
Ma in quell’attimo, nel silenzio assoluto e nell’oscurità densa della stanza risuonò all’improvviso una voce maschile che sembrava provenire da un punto imprecisato: “Così bella…”
Quella voce fu così inaspettata e così terrorizzante che alla povera ragazza prese un vero e proprio colpo. Balzò a sedere sul letto pallida come una morta, coi capelli scarmigliati e gli occhi pieni di terrore, e cacciò un urlo: “Chi c’è?! Chi ha parlato?!”
“Così pura…” proseguì la terribile voce. Chi c’era nella stanza? Quale orribile individuo era venuto a farle del male? Completamente obnubilata dal terrore, Irene si gettò sulla lampada e l’accese tremando come una foglia. Subito dopo, girò sulla stanza uno sguardo carico d’isteria. Vuota. La stanza era totalmente vuota. La fioca luce della lampada illuminava le pareti spoglie, la cassapanca dove teneva i vestiti, ma alcuna presenza che potesse giustificare la voce che aveva udito, e che aveva taciuto di colpo, non appena aveva acceso. Per diversi istanti restò seduta immobile sul letto, ansimando, col viso pallido e madido di sudore e gli occhi spalancati e impauriti: “Chi c’è?” gemette. Non rispose nessuno. Eppure lei aveva sentito quella voce!
Anche nel terrore e nell’angoscia aveva conservato una certa lucidità, e una specie di istintiva fascinazione verso quel che le stava succedendo. Era forse la luce accesa che aveva fatto fuggire la voce? Lentamente, con la convinzione di stare per fare una sciocchezza, tese la mano in direzione della lampada, e, con un movimento lieve, la spense. La camera ripiombò nelle tenebre dense e pastose. Non si udiva altro rumore che il suono angosciato del suo respiro. Quasi si convinse d’avere avuto un gigantesco abbaglio.
“Non devi aver paura…”
Sobbalzò nuovamente, povera e atterrita, e urlò, con la stessa foga di prima, perché la voce maschile era tornata, bassa e gravosa, insinuandosi nel suo animo come un veleno. Sembrava vicina, ma allo stesso tempo non troppo. “Fatti vedere!” strillò, accendendo di nuovo la luce. La presenza tacque in contemporanea alla resurrezione della lampada. Niente! Oh, stava forse impazzendo? Era Heather Ville ad averle inculcato dentro quelle visioni? Era Heather Ville che, oltre al terrore, le stava facendo provare una sorta di interesse morboso per quello strano fenomeno?
“Se c’è qualcuno qui intorno” si disse, guardandosi intorno con scatti nervosi degli occhi azzurri: “E se voglio scoprire chi è, devo stare al gioco e tenere la luce spenta. Ma sarà vero che non devo aver paura?”
Qualcosa, nel tono di quella terribile voce, la spingeva a fidarsi, qualcosa di inspiegabile e magico, come se fosse vittima di un incantesimo. Timorosa ed esitante, spense di nuovo la lampada e stavolta parlò subito, nel buio completo: “Chi…chi sei?”
La voce le rispose con un tono che voleva quasi essere gentile, ma che in qualche modo, impresso in quell’accento, aveva un che di minaccioso e malsano: “Un amico”.
Irene non poteva impedirsi di avere un balzo al cuore non appena la sentiva. Era sempre spinta inspiegabilmente a fidarsi, ma una parte lucida della sua mente le suggeriva di star cauta e manteneva vivo il terrore. I capelli biondi le piovevano sul petto, madido di sudore dentro la camicia da notte: “Un amico?” ripeté, con un tono tremante e isterico insieme. Alzò la voce: “Come fa a dire d’essere mio amico, chiunque lei sia, se mi parla nel bel mezzo della notte, nella mia camera, senza mostrarsi? Cosa è venuto a fare qui? Vuole uccidermi, torturarmi, farmi impazzire?”
“Non voglio farti del male” replicò la voce, sincera, che, ora Irene se ne accorgeva, proveniva proprio da un punto davanti al letto, anche se non percepiva alcuna presenza nella stanza. Ansimò più forte, nel panico e nell’interesse. C’era qualcosa di profondamente affascinante in quella situazione: “Se non vuole farmi del male” disse coraggiosamente la fanciulla: “Si faccia vedere, se ha la pretesa d’avere un viso onesto!”
La presenza emise un lungo sospiro, che assomigliava ad una folata di gelido vento invernale: “No, non credo” commentò pacato: “Preferisco rimanere da dove posso guardarti senza che tu guardi me”.
Irene digrignò i denti e ripeté, lottando col terrore e con quello strano fascino: “Chi è? Dove si trova? Se non risponderà adesso, urlerò e chiamerò mio padre e il domestico, che la cercheranno fino a trovarla e le faranno pagare d’avere importunato una ragazza nella sua stanza da letto!”
Per tutta risposta la presenza scoppiò in una risata agghiacciante, che le fermò il sangue nelle vene e la fece tremare: “Ah, non credo che mi troveranno” disse infine, con un tono tra il divertito e il minaccioso: “So come nascondermi, Heather Ville mi appartiene molto più che a loro. Quelle fragili cose non sapranno mai di me”.
“Dunque, se è così deciso a restare nascosto” disse Irene, che suo malgrado abbandonava lentamente il terrore, mentre cresceva in lei la voglia folle di conversare con quell’uomo invisibile e pericoloso che la spiava nella notte, per scoprire qualcosa in più su di lui: “Perché s’è fatto sentire da me? Sa bene che io potrei denunciarla seduta stante”.
Ci fu una lunga pausa di silenzio, e Irene s’accorse, con un trasalimento d’orrore, che le sarebbe dispiaciuto se la presenza se ne fosse andata. Stava accadendo nel suo animo qualcosa di inquietante, s’era risvegliata in lei una passione di mistero oltremodo malsana. Quando la voce parlò, la ragazza provò quasi sollievo: “Per quanto riguarda la tua prima domanda, ti basti sapere che ti ho osservata molto, e che tu mi hai illuminato. In quanto alla seconda questione, mi fido di te, Irene. Sono certo che non mi denunceresti mai. Non hai l’aria d’una che andrebbe a denunciarmi”.
Il cuore della giovane palpitò come un uccellino spaventato, di desiderio e paura: “Come conosce il mio nome?” disse allarmata. Ma poiché lui non rispondeva, pensò alle sue parole. Aveva affermato di fidarsi di lei, ma lei di sicuro sarebbe corsa subito da suo padre per dirgli che Heather Ville era infestata da quella presenza. Improvvisamente le venne un dubbio. Era davvero la cosa giusta da fare? La presenza aveva detto che non l’avrebbero mai trovata, e Irene le credeva, assurdamente, ma le credeva. Dunque, se si faceva sentire solo da lei, lei non doveva forse stare al gioco, per incastrarla e scoprire la sua identità? Si disse che era questo che la spingeva a tacere, anche se una parte di lei invece era convinta che fosse una vera crudeltà tradirlo e che per questo doveva tenere la bocca chiusa.
“È un fantasma?” chiese infine, tremante. Nuovamente la presenza fece la sua risata folle e incontenibile: “Buona questa! No, bella Irene, non sono un fantasma, anche se a volte penso che sarebbe meglio così”.
“Allora…” fu presa da un’esitazione, combattuta tra la curiosità e la paura: “Allora chi…cosa è?”
Questa volta la voce suonò leggermente irritata, rimbombando nel silenzio e nel buio: “Sono un uomo. Ma ora smettila di fare domande, non mi piacciono le domande. Se avessi saputo che facevi tante domande, avrei continuato ad osservarti, senza farmi sentire!”
“No!” gridò Irene, atterrita. Le parve che a pronunciare queste accorate parole fosse un’altra persona, e non lei: “No, mi perdoni, la prego! Non le chiederò più nulla, stanotte! Ma continui a parlare!” subito dopo si premette una mano sulla bocca, inorridita. Perché aveva detto così? Avrebbe dovuto essere terrorizzata! Avrebbe dovuto urlare e cercare dappertutto e impazzire di paura! E invece era profondamente affascinata e in preda alla malia e qualcosa in quella voce l’aveva catturata e rapita.
Il tono della presenza si venò di un malcelato trionfo e tornò a sforzarsi d’essere gentile: “Che belle parole hai detto! Sapevo che tu eri diversa dagli altri, Irene. L’ho visto. Tu sola saresti degna di star qui, nella mia Heather Ville…ed è così bello guardarti. Non avevo posato gli occhi su qualcosa di tanto bello da troppi anni. Dimmi di te. Parlami di come sei”.
Irene esitò. Quella sola, prima notte, aveva forgiato le basi di un legame oscuro tra lei e quell’uomo misterioso senza nome che le parlava al buio, senza rivelarsi, e non era certa di volerlo. In qualche modo continuava a desiderare di urlare ed uscire da quel sogno. Ma allo stesso tempo, era curiosa, furiosamente curiosa di scoprire il mistero, e per scoprire il mistero doveva parlare con lui: “Io…amo la musica”.
“Lo immaginavo” ribatté la presenza: “Ti ho sentita suonare l’arpa più volte. Le tue mani creano incanti sulle corde. Ora su tutte le corde”.
“Tu!” esclamò lei spalancando gli occhi stupefatti: “Sei stato tu ad aggiungere la corda mancante! Tu sei stato nella stanza della musica!”
La presenza fece una risatina bassa e suadente, che somigliava al fruscio di qualcosa di viscido che scivola sul pavimento: “Sei intuitiva, Irene. Bene. Mi piacciono le persone intuitive. Odio la gente vuota e priva di intelligenza. La trovo così noiosa, così poco incline al suscitare interesse! Il tuo domestico, per esempio. È un uomo così prevedibile! Passa tutto il tempo svolgendo i suoi doveri, senza mai fare qualcosa di interessante. Mi sono stancato quasi subito di seguirne i movimenti”.
Irene tacque, il cuore che le martellava convulso nel petto. Ciò significava che la presenza non aveva spiato solo lei, ma anche Tommaso e suo padre. Percepì di colpo un forte senso di minaccia: se era così, voleva dire ch’era ovunque, nascosta nell’ombra, e che controllava ogni loro minimo movimento! Erano, in qualche modo, suoi prigionieri. Questo la spaventò, ma non tanto quanto avrebbe dovuto. Perché la presenza, tra tutti e tre, aveva scelto di rivelarsi a lei, era rimasta colpita da lei.
“Oh, povera me!” pensò, sul viso una smorfia disperata: “Questo non dovrebbe lusingarmi!”
“Irene?” domandò la presenza dopo diversi minuti che restavano in silenzio. La ragazza rabbrividì: il suo nome, impresso in quella voce, la faceva fremere d’un insieme di desiderio e paura: “S-sì?” balbettò. Si sforzò di carpire da dove provenisse la voce, quando le rispose, ma tal fatto restò un mistero: “Hai paura di me?”
Irene sussultò a quella domanda così insolita. La presenza l’era parsa molto sicura di sé finora, anzi, avrebbe osato dire si fosse comportata in modo quasi sardonico, eppure nel porle quella questione il suo tono s’era velato d’un’improvvisa insicurezza. Fu presa dalla pietà, e rimase sconvolta poiché non avrebbe mai pensato di poterla provare per un uomo di cui non conosceva nemmeno il volto: “…” non riuscì a rispondere nulla. Non lo sapeva nemmeno lei.
“Me l’aspettavo” disse la presenza, o l’uomo, con voce nuovamente sicura: “È normale che tu abbia paura di me. Chiunque al tuo posto l’avrebbe. Trovo strabiliante che tu ne mostri così poca. Ma questo non mi spaventa. No. È un problema facilmente risolvibile”.
“Cosa…cosa intende dire?” bisbigliò la fanciulla, con un presentimento improvviso. Che si rivelò fondato: “Intendo dire, Irene Lancaster, che d’ora in poi, ogni notte” la voce calcò bene su quelle parole: “…verrò a parlarti senza mai mostrarmi a te. Oh, intraprenderemo delle conversazioni così interessanti, ne sono certo! Così, col passare del tempo, tu avrai sempre meno paura di me e alla fine imparerai ad apprezzarmi”.
Un tremito la scosse. L’uomo non scherzava: era davvero intenzionato ad insinuarsi nella sua vita in quel modo. Era terribile…oh, ma che tentazione, però! Che magnifico mistero, che situazione fantastica e irripetibile! Lasciarsi sfuggire l’occasione di svelare l’identità della presenza? Di poter conversare con un fantasma? Se non le aveva fatto del male quella notte, significava che non l’avrebbe mai fatto. Tirarsi indietro a causa d’uno stupido timore, quando avrebbe potuto imbarcarsi in un legame così pieno di magia e di segreti? Ormai era già stregata. La proposta era troppo allettante perché la rifiutasse.
“So di non poterti impedire di portare a termine i tuoi piani” mormorò infine, misurando attentamente le parole. Assecondarlo le sembrava il modo migliore di spingerlo a svelarsi: “E devo ammettere di essere tentata dalla prospettiva di parlare con te. Devi essere un uomo interessante” soggiunse con tono elogiativo: “Ma è proprio necessario conversare così, al buio, senza vedersi? La cosa mi mette piuttosto a disagio. Perché invece non vieni fuori e parliamo faccia a faccia? Mi piacerebbe conoscerti meglio!”
Aveva usato un fare molto persuasivo, che aveva sempre funzionato con suo padre, Tommaso e anche Stephan, e rimase sinceramente delusa quando la presenza le rispose senza nessuna indecisione: “Temo di dover declinare la tua offerta, Irene. Sto bene dove sto e non intendo spostarmi. Sono sicuro che alla fine farai l’abitudine a questo modo di conversare e imparerai a conoscermi anche senza vedermi”.
Vedendosi così categoricamente respinta, Irene si sentì indispettita: “Ma così non è valido!” obiettò, alzando un po’ la voce: “Perché tu puoi vedere me, ed io non posso vedere te? Un buon rapporto si basa sull’equità!”
“In effetti è così” replicò l’uomo, divertito dal suo buon senso: “Ma io sono fatto a modo mio e penso che il nostro rapporto si evolverà molto meglio se non avrai occasione di vedermi. E ora basta! La faccenda è chiusa!”
La fanciulla si morse insoddisfatta il labbro. A quanto pare svelare il mistero si prospettava più difficile di quanto aveva immaginato: la presenza era inamovibile come una roccia. Avrebbe dovuto imparare a parlare al buio senza vedere nulla: “Almeno” tentò per l’ultima volta, il tono contrito: “Puoi dirmi il tuo nome? Tu conosci il mio. Sarebbe scomodo rivolgermi a te chiamandoti uomo o voce”.
Percepì una breve esitazione nell’altro e osò sperare che le desse quell’informazione. Alla fine l’uomo disse seccamente: “Puoi chiamarmi R”.
“R?” ripeté Irene, le sopracciglia aggrottate: “Uno strano appellativo. Forse il tuo vero nome comincia con questa lettera?”
Non rispose nessuno, la stanza era tornata nel silenzio più totale. Irene stava per ripetere la domanda, quando la porta s’aprì con un cigolio improvviso, strappandole un mezzo grido. Accese immediatamente la luce e girò spaventata gli occhi alla soglia dove era apparso Tommaso, in pigiama e berretto da notte, gli occhi gonfi di sonno. Nel riconoscerlo si tranquillizzò solo in parte. Era a dir poco stupita dalla prontezza di riflessi dell’uomo chiamato R: aveva smesso di parlare appena pochi secondi prima che il domestico si materializzasse lì. Doveva avere tutto sotto controllo!
Tommaso diede un’occhiata inquisitoria al suo colorito pallido, all’espressione spaventata e al petto ansante e domandò, guardandosi sospettosamente intorno: “Và tutto bene, signorina Irene?”
Ad Irene occorsero diversi minuti per recuperare la piena padronanza di sé. Raddrizzò le spalle, assunse una posizione decorosa e parlò con tono normale: “Sì, Tommaso. Perché sei venuto qui? Non è molto educato entrare nella camera di una ragazza nel bel mezzo della notte!”
“Sta diventando un’abitudine di molti” pensò tra sé e sé.
Tommaso continuava a guardarsi intorno circospetto, come un cane da caccia messo in all’erta da un odore sospetto: “Mi era parso di aver sentito una voce”.
“Una voce?” disse Irene con faccia da gnorri: “Che voce, Tommaso? Io non ho sentito niente”.
“Eppure l’ho sentita!” insistette il domestico: “E ho sentito anche la tua, signorina! Stavi parlando con qualcuno?”
Lei scoppiò in una risata falsa, stupita dal proprio nascosto talento di attrice: “Parlare con qualcuno? E con chi avrei potuto parlare? Non vedi che qui non c’è nessuno?”
Lui diede un’occhiata alla stanza e dovette ammettere che era così. Arrossì e si ingobbì, già meno sicuro di sé: “In effetti…”
“Probabilmente è stato il sonno” spiegò lei con fare accondiscendente: “Và a dormire tranquillo, non preoccuparti per me. Sono sicura che domani ti sentirai assai meglio!”
Adesso Tommaso era paonazzo per l’ipotetica svista in cui era incappato. Sembrava non riuscire a guardarla in faccia: “Mi scuso, signorina Irene” borbottò contrito. Lei gli fece un cenno bonario: “Sei scusato. Ora và!”
Quando si fu ritirato scuotendo la testa, ancora vergognoso per il disturbo inutile che aveva arrecato, Irene si permise di ripensare alla presenza. Aveva fatto come le aveva chiesto, non l’aveva denunciata. S’era consegnata nelle sue mani di sua spontanea volontà. Spense piano la luce e chiese, dubbiosa: “R? Ci sei sempre?”
Le rispose solo il silenzio. Cupa delusione si impadronì di lei. R se n’era andato, scomparendo nel nulla come se la loro conversazione non fosse mai esistita e lasciandole il dubbio d’essersi sognata tutto. Ma il fatto che anche Tommaso avesse sentito significava che era stato tutto vero, che lui c’era davvero. E lei non vedeva l’ora di potergli parlare di nuovo per scoprire dove si nascondeva e com’era fatto.
“Se mantieni le tue promesse, R” pensò, raggomitolandosi sul letto: “Allora domani notte tornerai. Forse non te ne sei mai andato, forse mi osservi da qualche punto segreto a me ignoto”.
Quel pensiero non l’impauriva. Cadde addormentata.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Conversazioni notturne ***


CONVERSAZIONI NOTTURNE

 
 
 
 
 
 
La mattina dopo, svegliandosi, con i raggi del sole che penetravano prepotenti nella stanza e l’illuminavano, Irene ebbe difficoltà a credere vera la conversazione avvenuta tra lei e l’uomo misterioso chiamato R quella notte. In qualche modo era stata irreale e intrigante come un sogno, un sogno intenso ma non vero che le aveva lasciato addosso solo una vaga inquietudine e una fascinazione ancora più potente.
Mentre si vestiva e si spazzolava i capelli, tuttavia, si trovò a pensare alla promessa che lui le aveva fatto: sarebbe davvero venuto a parlarle ogni notte nel buio, come un vero fantasma? Era davvero inoffensivo come voleva farle credere? Perché aveva scelto proprio lei come conversatrice? E come mai non voleva mostrarsi a lei?
“Non lo scoprirò mai senza il suo aiuto” pensò, gli occhi azzurri pieni di decisione e di dubbio. Sì, doveva stare al gioco e parlare con lui. Voleva stare al gioco. Il mistero l’aveva sempre affascinata, ed ora che aveva la possibilità di svelarne uno, fremeva d’eccitazione e d’attesa. Non vedeva l’ora che arrivasse la notte.
Quando si presentò a suo padre, aveva un’espressione oltremodo posata e un incedere tranquillo, come se non fosse successo nulla, come se invece si fosse finalmente convinta che Heather Ville fosse disabitata. Lui era nella vasta sala da pranzo, seduto al tavolo coperto dal drappo rosso, intento a bere una tazza di tè e a leggere il giornale. La luce fioca delle candele nei candelabri illuminava le pagine. Quando la sentì entrare, sorrise: “Cara! Ben svegliata! Spero che tu abbia passato una buona notte”.
“Sicuramente è stata una notte strana” pensò Irene. Gli sorrise disinvolta: “Sì, papà. Sei mattiniero, vedo!”
Giorgio ridacchiò: “Oggi devo passare in città a svolgere alcune faccende, e per raggiungerla è sempre meglio svegliarsi presto. Andarci è una tal faticaccia! Sono felice di vederti così rosea e calma. Sei come al solito bellissima”.
Irene sedette di fronte a lui e abbassò gli occhi con modestia: “Grazie, papà”. Si allungò e prese una brioche alla crema dal cesto posato al centro del tavolo, poi chiamò Tommaso dalle cucine e gli chiese di portarle una tazza di cioccolata calda. Mentre aspettava, suo padre le chiese: “Ti và di venire in città con me, oggi? Sei chiusa qui da otto giorni, posso immaginare che ti manchi l’aria aperta”.
Irene prese in considerazione l’idea. Solo il giorno prima avrebbe accettato senza indugiare, ma adesso Heather Ville esercitava su di lei una tal fascinazione che separarsene anche solo per poche ore l’avrebbe molto innervosita. E poi come l’avrebbe presa R, che a quanto pare l’osservava per tutta la giornata dal suo nascondiglio segreto? No, meglio restare.
Quando rifiutò l’offerta, suo padre parve stupito: “Credevo che volessi rivedere quel ragazzo che ti piace tanto, quel Stephan”.
“Stephan!” pensò la ragazza sobbalzando. L’avventura notturna l’aveva momentaneamente allontanato dalla sua mente, e nel ricordarsene provò una morsa di nostalgia. La mano le corse all’anello che portava all’anulare. Stephan…le mancava? Sì, le mancava, ma non abbastanza da spingerla ad allontanarsi da Heather Ville. Anzi, preferiva di gran lunga aspettare che fosse lui a venire da lei. Fare il primo passo avrebbe chiarito troppo i sentimenti che provava per lui e svelarsi l’avrebbe infastidita. Se fosse andata in città, sapeva già come sarebbe finita: lei e Stephan sarebbero stati fermi uno davanti all’altra, imbarazzati e a corto di parole, per mezz’ora, poi lui le avrebbe chiesto timidamente se le andava di fare una passeggiata ai giardini pubblici, lei avrebbe detto di sì, e se ne sarebbero andati in giro mano nella mano come due bravi fidanzatini.
Stephan a volte era proprio noioso…non si riusciva mai a parlare sul serio, con lui. O era tanto timido da non riuscire ad aprir bocca, o non trovava argomenti di cui discorrere.
No! Povero Stephan! Non meritava una considerazione così bassa. Era un bello e bravo ragazzo che lavorava per garantirsi un futuro e che l’avrebbe corteggiata sul serio solo quando avrebbe avuto una posizione. Il suo riserbo significava che aveva un rispetto enorme di lei.
“Saluta Stephan da parte mia, se lo vedi” finì per dire a suo padre: “Ma io preferisco restare qui”.
“Come vuoi” fece Giorgio, ancora piuttosto stupito. E partì per tornarsene nella civiltà.
Irene, che ardeva di impazienza nell’attesa che calasse la notte sulla lugubre Heather Ville, si accorse, non senza un certo stupore, che Tommaso le gravitava spesso attorno con aria sospettosa e corrucciata. Si chiese, con un balzo di spavento, se sospettasse qualcosa, se sospettasse di lei, ma il domestico sembrava piuttosto perso. Non aveva visto nulla, si affidava solo all’istinto. Così, per persuaderlo ad abbandonare i suoi sospetti, la ragazza si comportò come sempre, passando il tempo a leggere, suonare l’arpa e riposare nella sua stanza. Nella sua mente, dietro al viso sereno, però, si agitavano tumulti interiori e pensieri.
Se R era un uomo in carne ed ossa e non un fantasma né una presenza soprannaturale, significava che le parlava per forza da un punto segreto della casa, un punto che doveva riprodursi ovunque, dato che aveva affermato di spiarla anche quando non era nella sua stanza. E non solo lei, anche suo padre e Tommaso. Viveva con loro, strisciava nell’oscurità con la stessa naturalezza con cui un verme avrebbe strisciato nel letame. D’istinto, Irene si guardò intorno nervosa. Come al solito, non trovò nulla nella stanza della musica, ma chi poteva dire che R non la stesse osservando in quello stesso istante?
“Non ci arriverò mai da sola” si disse, le mani impegnate a muoversi sulle corde frementi dell’arpa: “Devo scoprirlo parlando con lui”.
Ma poiché R si era mostrato così categorico e lapidario sulla questione del volto, era improbabile che si svelasse tutto d’un colpo. Doveva andargli dietro ed essere astuta e lucida, e sforzarsi di individuare il punto da cui proveniva la sua voce.
“R” mormorò, nel silenzio gravoso che gravava sempre su Heather Ville: “Che suono misterioso ha questo nome!”
Suo padre tornò quella sera, carico di pacchi e pacchetti che depose sul tavolo della sala da pranzo: “Ho incontrato quel caro ragazzo, Stephan” annunciò soddisfatto: “Mi ha detto di salutarti tanto e che verrà da te non appena avrà un po’ di tempo libero”.
“Ah” commentò Irene.
“Quando ti ho nominata gli si sono illuminati gli occhi” spiegò Giorgio: “Non ci vuole molto a capire che ti ama tanto. Tu lo ami, Irene? Sappi che non esiterei a darti la mia approvazione, se voleste fidanzarvi ufficialmente”.
La ragazza rabbrividì appena: “Stephan è un  bravo ragazzo ” mormorò: “Lo stimo moltissimo, ma non penso ancora al fidanzamento, papà. Ci devo riflettere”.
Suo padre alzò gli occhi al cielo: “Al tuo posto non me lo lascerei sfuggire”.
Più tardi Irene pensò più seriamente all’idea di fidanzarsi con Stephan. In fondo non era così brutta. Lui la amava davvero, il che era molto difficile di quei tempi, e la rispettava. Apprezzava il suo intelletto. Certo, non avrebbe avuto una vita esaltante, ma calda e felice. Si immaginò al fianco di Stephan, impegnata a costruirsi una relazione che forse sarebbe sfociata persino in qualcosa di importante. Forse, se le si fosse finalmente dichiarato, gli avrebbe risposto di sì.
Al momento di andare a dormire, Irene fu presa da una paura strisciante e immotivata, e d’improvviso non fu più così sicura di voler parlare con R. Si disse d’essere stata pazza a non denunciarlo, a mentire a Tommaso, a credere alle parole di uno spettro senza volto che le aveva parlato nel buio più nero, e sempre con una lieve sfumatura di minaccia nel tono di voce. Ah! Quella voce! Ricordandola, la povera fanciulla emise un gemito di terrore. Era più simile alla voce di una bestia che a quella di un uomo. Tutto di lui era spaventoso e indefinito. Chi poteva dire che non l’avesse ingannata, che sarebbe venuto quella notte per usarle violenza e magari anche ucciderla? Ah, era stata una folle! Doveva andare da suo padre, doveva confessargli tutto prima che fosse troppo tardi!
Poteva farlo, ma non lo fece. Una magia strana e inquietante ingiunse alle sue mani di chiudere la porta a chiave e alle sue gambe di condurla accanto al grosso letto polveroso. Ancora più spaventata, capì d’essere vittima di una sorta di sortilegio e che non se ne sarebbe liberata così facilmente.
“Forse non si farà sentire” pensò, con un misto di paura e di speranza nella voce, chiedendosi se la cosa l’avrebbe delusa oppure rassicurata: “Forse se ne resterà acquattato nell’ombra a fissarmi senza parlare”.
La cosa però era così terrorizzante che forse sarebbe stato meglio che si fosse messo a parlare.
“Povera me, perché sono capitata in questa casa così piena di segreti e di orrori?” si chiese cacciandosi tutta sotto le coperte come a volersi difendere da sguardi estranei e invisibili. Allungò la mano esile per spegnere la lampada, e quando tutto fu nuovamente in preda alle tenebre pastose, se ne restò accoccolata sotto alla coperta di broccato rossa, tutta tremante, col cuore che le batteva forte e le ronzava nelle orecchie, domandandosi se R si sarebbe fatto sentire, o il silenzio sarebbe rimasto fino al mattino. I minuti si susseguivano in una corsa lenta e sadica e lentamente la tensione di Irene si attenuava, sostituita da una sorta di impazienza nevrotica. Se doveva accadere qualcosa, ebbene, che accadesse!
Ad un certo punto, quando era in un bagno di sudore e non ne poteva più, balbettò con voce smozzicata: “R? Ci sei?”
Rimase in ascolto del nulla per un po’, poi, proprio quando era sul punto di convincersi che non sarebbe accaduto niente, la voce pacata e raschiante della notte prima rispose nell’oscurità: “Sì”.
Irene aveva sbagliato nel supporre d’essersi abituata. Udendo il suono spaventevole, sobbalzò sul materasso e cacciò un gridolino che tentò di soffocare tra le mani chiuse a pugno. Gli occhi le pizzicarono, gonfi di lacrime trattenute, e il tremore si decuplicò. Pateticamente si guardò attorno, ma sapeva che se anche ci fosse stata la luce non avrebbe visto nessuno.
“Hai ancora paura di me” sospirò la voce di R col tono più umano che gli riusciva: “Beh, è comprensibile, è solo la seconda volta che parliamo. Ma, Irene, dovresti fidarti quando ti dico che non intendo farti del male!”
“N-non ho paura” mentì la poverina che se ne stava tutta rattrappita sul letto: “È solo che pensavo che non saresti venuto” stava tentando disperatamente di riprendersi e di parlare con tono normale. R scoppiò nella sua risata agghiacciante: “Io mantengo sempre le mie promesse. Sempre”.
Anche stavolta non aveva l’aria di volerle fare del male. Irene si tranquillizzò un poco e si rilassò, sollevandosi un poco dai cuscini: “Volevo…volevo porti una domanda” disse infine, esitante. R le rispose con fare accondiscendente: “Chiedimi pure tutto quello che vuoi, purché non riguardi questioni di cui abbiamo già discusso. È mia intenzione recarti piacere in qualsiasi modo”.
La ragazza rabbrividì, chiedendosi se i doppi sensi in quell’ultima frase fossero stati volontari o se lui avesse solo voluto mostrarsi gentile nel suo modo singolare: “Ecco…volevo chiederti come fai a vedermi. Il buio è totale, sono certa che se anche fossi in questa stanza non ti vedrei ugualmente”.
R tacque per diversi minuti che Irene passò in soffocante attesa, piena di dubbi e di paure. Le avrebbe risposto, o si sarebbe chiuso nel silenzio? Alla fine il misterioso conversatore notturno senza volto parlò, spezzando il buio con la sua voce roca: “Hai presente i ciechi, Irene?”
La pallida fanciulla alzò un sopracciglio a quella domanda insolita: “Sì”.
“Ebbene” riprese R col tono d’un professore intento in una spiegazione: “Sai quindi che, poiché da tanto tempo non possono vedere nulla, sviluppano un udito assai superiore a quello di qualsiasi altro essere umano. Io, essendo rimasto nell’oscurità per anni e anni, ho sviluppato una vista superiore alla norma”.
Irene rifletté sull’affermazione per un po’. Non le trovava un senso logico. Ma si accontentò. Tutto ciò che poteva sembrare assurdo e irreale, se pronunciato da lui, assumeva significati più profondi. La ragazza si rese conto che lo spavento iniziale lentamente era scemato e che adesso era seduta ritta sul letto, incorniciata dalla chioma fluente, e che l’interesse e l’attrazione per il mistero s’erano risvegliati in lei: “Quindi” osservò un po’ scettica: “In questo istante puoi vedermi? Con precisione?”
Forse fu solo una sua impressione, ma le parve che R sogghignasse dal suo nascondiglio: “Proprio così. Sei una visione molto gradevole. Indossi una camicia da notte bianca con un fiocco sul collo, con una macchia all’altezza dei fianchi, e i tuoi capelli sono in avanti sul petto”.
Irene sussultò, dato che effettivamente indossava quella camicia da notte e aveva i capelli disposti in quel modo. Lo spavento si riaffacciò: “Impossibile…” sussurrò. R proruppe nella sua particolare risata: “Non così impossibile. È incredibile di cosa sia capace un essere umano che passa un po’ di tempo solo, a testare le sue capacità. Se tu restassi qui, Irene, sono certo che scopriresti aspetti interessanti su virtù nascoste che non credi di possedere. Con questo certo non voglio dire che tu non ne possegga già molte”.
Irene ignorò il complimento: “Tu che possiedi qualità così strabilianti…come mai non hai deciso di mostrarle in giro? Sono sicura che in molti le avrebbero trovate interessanti, come me”.
Ancora una volta ci fu una pausa di silenzio. Irene aveva incominciato ad abituarsi, e sapeva ad intuito che era perché R non era particolarmente incline a rispondere. Alla fine, però, lo fece, stavolta con evidente reticenza: “Mettiamola così, Irene…a volte le buone qualità non bastano a cambiare l’opinione che ha di te il mondo”.
Quel messaggio ambiguo la lasciò ancor più confusa: “Che vuoi dire?”
“Niente che potresti capire” ribatté lui brutale: “Non era questo il tenore delle conversazioni che mi aspettavo. Io voglio che tu mi racconti di te. Voglio sapere tutto di te. Di me ne ho abbastanza. Avanti, parla!”
Gliel’aveva detto come un ordine. Un ordine cui non poteva, e non voleva rifiutarsi di obbedire: “Ecco…sono nata in una città poco lontana da qui, circa diciotto anni fa. Mio padre era un ricco banchiere e mia madre una donna bellissima e distante. Ho passato l’infanzia nella residenza della mia famiglia e alla scuola privata, conducendo una vita dorata e monotona” si interruppe con le guance tinte di rosso, imbarazzata. R, che l’aveva ascoltata avidamente, le ingiunse: “Continua!”
“Avevo pochi amici perché anelavo alla solitudine e alla lettura. Passavo i pomeriggi liberi nella biblioteca di casa, intenta a divorare libri su libri. Soprattutto gialli. Mi figuravo un avvenire ricco di avventure e di mistero, ma gli anni si susseguivano uno uguale all’altro ed io mi sentivo…spenta” si rese conto con un trasalimento che stava confidando cose che non aveva mai detto a nessuno. Eppure il sortilegio la spingeva a parlare, era incatenata alla fascinazione che il mistero esercitava su di lei: “Poi, pochi mesi fa, mia madre morì di malattia, e la mia vita subì un violento mutamento. Mio padre, che prima di questo funesto avvenimento aveva amato immensamente la vita di città, così ricca di intrattenimento e di socialità, prese a desiderare invece la solitudine e l’isolamento. Così decidemmo di trasferirci qui”.
Alzò le spalle: “Questo è tutto”.
R attese un poco prima di rispondere. Sembrava colpito: “È una storia davvero interessante! Quindi tu preferisci la solitudine di Heather Ville alla confusione della città da cui provieni?”
“Beh…a parte certi aspetti della cosa, immagino di sì…”
“Ci trascorreresti il resto della tua vita?”
Una domanda simile la fece rabbrividire. Passare il resto della vita nell’atmosfera oscura di Heather Ville? No, neanche lei ne sarebbe stata capace: “Credo che alla lunga questo clima malsano non sia di giovamento alle persone” rispose cauta. Per tutta risposta R ridacchiò in modo sardonico: “Già, già, in effetti è così…però, Irene, sappi che dopo un po’ di tempo questa dimora diventa…magica. Non percepisci anche tu l’enorme aura di mistero che l’avvolge? Questa casa è viva. Mi parla, con gli scricchiolii del pavimento e il rumore dei cristalli del lampadario in sala da pranzo che tintinnano, e gli stessi fruscii che produco strisciando nel buio. Sì, questa casa ha una sua anima, e io ne faccio parte! Heather Ville è mia! È il mio rifugio, il mio corpo, la mia dura scorza che mi nasconde al mondo esterno. Io non posso esistere senza Heather Ville, ed Heather Ville non può esistere senza di me. Nessuno riuscirà a mandarmi via da qui, e nessuno potrà restare qui dentro finché lo deciderò io!”
Irene ascoltava quel discorso, in apparenza un delirio, con il solito misto di paura e di attrazione. Riusciva a capirne il senso, anche se era inquietante e folle e sconclusionato: “Credo di riuscire a capirti, R” disse infatti: “Ma non posso negare di trovarla un tantino inquietante. E poi, a quanto dici…” esitò, per timore di esprimere la sua paura più profonda. Alla fine si decise, non avrebbe sopportato di restare nel dubbio: “Se non tolleri che altri condividano con te questa dimora, perché hai permesso a me e a mio padre di rimanere?”
Attese col cuore in gola. Vedeva poche ragioni per cui R avrebbe dovuto lasciarli restare, ma forse l’avrebbe sorpresa come era suo solito.
“Come vorrei che tu non mi credessi così crudele!” sospirò lui, e nel suo accento c’era una così scorata tristezza che Irene si sentì assalire dalla pietà: “Mi credi davvero capace di una cosa simile, scacciare un essere puro come te? Ah, non credere che non sarei in grado di farlo…” aggiunse come se stesse parlando a se stesso: “Ma la questione è che io non voglio farlo. Quando entrasti da quel portone, quando sentii il rumore, ero furioso. Come osavate violare la mia dimora? Poi però ti ho vista. Tu possiedi una sorta di magia, Irene. Nessuno oserebbe mai farti del male dopo aver visto i tuoi occhi. Non avrai mai nulla da temere da me. Per quanto riguarda invece il vecchio e l’imbecille…” la sua voce assunse un che di minaccioso: “Sarei tentato di toglierli di mezzo con enorme piacere”.
“No!” esclamò la fanciulla, gli occhi spalancati: “Ti prego, non fare del male a mio padre! Soffrirei terribilmente se ciò accadesse!”
“Se dici così, allora non lo toccherò” disse R: “Ho già detto che è il mio desiderio più grande recarti piacere in qualsiasi modo. Sarei davvero un pessimo padrone di casa se ti facessi soffrire! Farò come vuoi, lascerò stare il vecchio”.
In quelle parole si avvertiva un tale sforzo nel superare i propri desideri che Irene non poté che rimanerne toccata. Commossa, rivolse all’oscurità un tenero sguardo: “Hai un animo molto nobile, R” sussurrò, piena di fervore e di sincerità. Tese le braccia al nulla: “Ti prego, mostrati a me! Irene guardandoti non potrà che abbracciarti e ringraziarti della tua ospitalità!”
Se il giorno prima il rifiuto era stato categorico, stavolta ci fu una lunga pausa piena di desiderio e di esitazione. Irene restava immobile con le braccia tese e il viso atteggiato ad un sorriso. In quel momento non c’era qualcuno più sincero di lei, era davvero grata ad R e bruciava dalla voglia di scoprire quale fosse il suo volto, il volto del tenebroso cavaliere che parlava con lei nelle tenebre.
Infine R si fece sentire, con una voce contratta come se si stesse trattenendo dal piangere o dall’urlare: “La tua gratitudine mi è di un conforto che non puoi neanche immaginare. Ma, perdonami, ti imploro, mia cara Irene, se non mi mostro a te. Oh, non credere che non lo vorrei! Ma…non posso. Tuttavia mi ritengo soddisfatto: aver ricevuto il tuo tenero sguardo è stato sublime”.
Lei si sentì prendere dalla delusione cieca. Lui le sfuggiva ancora, si ostinava a restarsene nascosto nel buio! E probabilmente lo faceva con bene: era davvero conquistata dalla sua voce insinuante e dai suoi modi insieme timidi e feroci, aggressivi e galanti. Chinò il capo: “Rispetto i tuoi voleri, come tu rispetti i miei” mormorò dimessa.
“Grazie” fece lui sollevato: “Ora, però, è meglio che tu riposi, Irene. Vedo che sei stanca, non intendo certo sfinirti. Non voglio che le tue fresche guance deperiscano. Tornerò domani notte, e spero che tu sarai lieta del mio arrivo”.
“Se sarò lieta!” gemette lei, protesa verso l’oscurità come un assetato proteso verso una cascata: “Perché devi andartene? Resta qui! Non ho bisogno di dormire! Non ho bisogno di riposo! Proteggimi, R, ti prego, e confortami con la tua voce! Io ho bisogno di te!”
Si accorse, stupita, di avere il viso rigato di lacrime. Era in preda alla magia, non voleva che se ne andasse, desiderava la sua voce e desiderava la sua presenza. Era attratta da lui nel modo morboso in cui la preda è attratta dal predatore.
“Buonanotte, Irene” le sussurrò soltanto R, prima di dissolversi in una folata di gelido vento notturno, lasciandola ancora tremante per la dolcezza con cui la sua voce rude aveva pronunciato quella frase. Irene rimase a lungo seduta e ansimante, sperando di poterlo sentire di nuovo, ma l’unico conforto che le restò fu che forse lui era ancora vicino a lei, e vegliava su di lei senza farsi udire.
“Buonanotte, R” bisbigliò prima di sprofondare nel sonno per sognare com’era davvero il suo misterioso amico.
 
Il giorno e la notte erano divenute ormai due cose molto distinte. Il giorno era per lo più la normalità che aveva sempre conosciuto, fatta di abitudini e di tranquillità, un trascinarsi avanti nelle ore tra un intrattenimento e l’altro, la notte invece si era trasformata in un mondo misterioso e fantastico popolato di presenze sinistre e di fascino. La notte era il mondo di R, il momento in cui Heather Ville acquisiva davvero una sua anima, che di giorno si addormentava stanca.
A colazione, seduta sola al tavolo coperto dal drappo rosso, Irene inzuppava pigramente una brioche nella tazza di cioccolata fumante e ripensava con rimpianto e impazienza al suo strano amico. Le sembrava di percepire la realtà che la circondava con una sorta di apatia, con un così scarso interesse che spesso si sorprendeva a fissare il vuoto assente. Come stregata, il buio che all’inizio tanto la inquietava aveva preso lentamente ad affascinarla, e a spingerla a tenere le tende chiuse e le lampade spente. Sebbene fosse mattina, la sala da pranzo era completamente avvolta dalle tenebre e l’unica luce proveniva dalle fiammelle del candelabro che le stava accanto. Irene non era affatto disturbata da ciò, anzi, provava uno strano senso di protezione. Sopra la sua testa i cristalli luccicanti del lampadario trillavano appena e creavano una melodia misteriosa e inquietante.
“Perché resti in questo buio, signorina Irene?” disse di colpo la voce insospettita di Tommaso, sorprendendola. Sollevò lo sguardo e scorse il domestico che entrava in sala da pranzo con aria di disapprovazione. Andò alle finestre e aprì con decisione le tende di broccato. I potenti raggi di sole che penetrarono dentro le ferirono gli occhi e d’istinto se li schermò, infastidita. Tommaso si avvicinò al tavolo per portar via la tazza vuota e si soffermò un attimo accanto a lei, scrutandola attentamente. La ragazza, a disagio, sentì spontaneo evitare l’occhiata.
“Con chi stavi parlando questa notte, signorina?” volle sapere Tommaso. Irene ebbe un sobbalzo e venne presa dal terrore. Possibile che il domestico invadente avesse sentito la sua conversazione con R? Presa dal panico, balbettò: “Con nessuno. Cosa dici, Tommaso?”
Lui aveva l’aria di uno a cui non veniva raccontata giusta: “Stavo passando davanti alla tua porta per prepararmi un bicchiere di latte e ho udito la tua voce che parlava. Non ho sentito cosa hai detto, ma era come se parlassi con qualcuno”.
Irene, che non desiderava, per nulla al mondo, che lui si mettesse in mezzo alle magiche conversazioni con R, mentì con naturalezza: “Devo aver parlato nel sonno. A volte mi capita. Con chi credi che avrei dovuto parlare?”
“Ah, questo devi dirmelo tu” la aggredì lui. La fanciulla avvampò per la collera: “Cosa stai insinuando?! Che io mi chiuda in camera da letto con un uomo? Sono una  brava ragazza, io! Non mi chiudo in camera con nessuno! Dovresti vergognarti di avere un’opinione così bassa di me!”
Si era molto accalorata nel discorso, ma le parve che Tommaso non si vergognasse affatto delle sue insinuazioni, anzi, che si insospettisse ancora di più. Finì per farle un cenno del capo: “In questo caso mi scuso, signorina”.
Irene lo seguì nervosamente con gli occhi mentre se ne andava. Il cuore le palpitava spaventato e teso. Era certa che Tommaso avrebbe continuato a spiarla. Che arrivasse a mettersi a origliare dalla porta la notte per scoprire i suoi incontri con R? Certo, lei non faceva nulla di male, ma sarebbe stata una catastrofe se il domestico si fosse accorto della presenza del suo amico. Avrebbero provato a fargli del male…e lei non poteva permetterlo. Il suo misterioso conversatore notturno doveva restare solo suo…forse avrebbe dovuto fare in modo che suo padre passasse per la sua stanza quella notte, così, scoprendo Tommaso davanti alla porta, l’avrebbe scacciato credendolo un profittatore. Ma no, nemmeno il domestico impiccione meritava un licenziamento così ingiusto.
“Dovrei forse smettere di parlare con R?” si chiese: “Ma no, no, non posso! Non adesso che sono così vicina! Se solo potessi trovare il modo di tenerlo occupato o di dissimulare i suoi sospetti…”
Le venne l’idea durante il pomeriggio dopo ore che era in trepidante riflessione. Quando tornò suo padre, gli andò incontro nell’atrio: “Papà, c’è una cosa molto importante che devo chiederti. Un…favore”.
Lui sorrise indulgente e le prese le mani: “Ebbene, tesoro, dimmi pure. Se mi sarà possibile farò ciò che posso per renderti piacere”.
Irene sfoderò il suo sorriso più dolce e più implorante: “Mi sono dimenticata in città un libro che tenevo in gran conto. Ragione e Sentimento. Potresti mandare Tommaso lì a prenderlo? Così avrà l’occasione di parlare un po’ con la gente e di passare qualche giorno in mezzo alla vitalità. Poveretto, è più di una settimana che lavora instancabilmente qui dentro!”
Giorgio assunse un’espressione poco convinta: “Mandarlo in città? Credi davvero che sarebbe saggio lasciare Heather Ville senza un governante? Nello stato in cui è? Potrei benissimo andare a prenderti io quel libro quando torno in città”.
“No, non credo” ribatté lei sicura: “Non ti scomoderei mai per questo, papà. E poi a dir la verità del libro mi importa poco. In verità sono seriamente preoccupata per il povero Tommaso. Lavora così tanto e ha così poche occasioni di fare conversazione! Se già io che amo la solitudine sono disturbata dal clima di Heather Ville, figurati lui che ha sempre adorato la vita mondana. Sta facendo così tanto per noi, papà! Concedigli questa piccola vacanza. Sono certa che quando tornerà sarà più reattivo e lavorerà meglio. E poi, tra me e te” soggiunse con tono confidenziale: “Temo che la vita qui non gli giovi. A volte sostiene di sentire e vedere cose del tutto insensate!”
Se c’era una dote che era sempre stata certa di possedere, ebbene, era quella di far fare alle persone quello che voleva. Sapeva parlar bene sia con le parole che con il corpo e conosceva le leve da usare per raggiungere il suo obiettivo, specialmente se la persona da convincere era suo padre o Stephan. Giorgio infatti dopo il discorso appariva insieme conquistato dalla sua apprensione umana nei confronti del domestico e contrito d’essere stato così crudele da non averci pensato: “Diamine, hai ragione! Come farei senza di te, Irene? Povero Tommaso! Lo farò partire immediatamente e gli darò una somma di denaro con cui potrà fare compere. Grazie per avermelo fatto notare!”
“Di niente, papà. La salute di Tommaso è di estrema importanza per me” rispose lei con un sorriso a metà tra il raggiante e l’innocente. Dentro si congratulava con se stessa per essersi liberata facilmente del domestico.
Tommaso partì quella sera stessa con soldi e compito di recuperare il libro dimenticato, e un’aria affatto contenta della novità. Prima di infilarsi in macchina scoccò ad Irene un lungo sguardo inquisitorio. Lei stavolta lo fronteggiò senza paura e gli sfiorò la spalla: “Goditi la vacanza, mio caro!”
“Sto diventando una mentitrice coi fiocchi” pensò guardandolo allontanarsi nell’erba malcurata che circondava l’imponente Heather Ville: “Che sia l’influenza di questo posto?”
 
“Sei una donna subdola e straordinaria!” sghignazzò divertito ed euforico R quella notte stessa, dopo aver risposto di sì alla sua domanda “ci sei?” come se avessero stabilito una specie di rito, nell’oscurità totale della camera di Irene che se ne stava inginocchiata sul letto con le coperte buttate di lato.
“Fare quella scena compassionevole al vecchio! La faccia convinta che aveva! L’hai rigirato come volevi e lui non s’è accorto di nulla!” continuò l’uomo senza volto, senza smettere di sghignazzare in modo sguaiato dal punto cieco in cui si nascondeva: “La stupidità umana non ha davvero confini”.
Irene, che aveva avviato la conversazione assai più tranquilla della notte prima, aggrottò la fronte contrariata: “Non ci trovo nulla di divertente, R. Tommaso è una brava persona, sfrattarlo in quel modo non è stato molto piacevole. Dire bugie non è mai un’azione di cui vantarsi”.
“Mi permetto di dissentire” ribatté lui con la voce ancora un po’ tremante per il riso di prima: “Penso che l’arte del mentire sia la più sublime e la più attraente che esista, soprattutto in una donna. L’amo a tal punto da voler credere vere le bugie, e da crogiolarmi nelle illusioni. Anche il buio è una sorta di menzogna, non trovi? Ci nasconde il vero aspetto delle cose”.
“Anche il tuo” lo aggredì lei, che ne aveva sempre meno paura, mentre ne era sempre più affascinata.
“Sì. Anche il mio” ammise lui.
“Sai, ancora non mi sono abituata a questo modo di conversare” riprese Irene con tono vivace. Sorrise e scosse la testa, sorpresa e divertita insieme: “Così, al buio, senza poterti vedere, immaginandoti soltanto come se tu fossi il personaggio di un romanzo inquietante. In un certo senso è…affascinante. Non poterti vedere, intendo. Ascoltare il suono della tua voce. È un po’ come conoscere qualcuno on line”.
“On line?” le fece eco lui con un fare così confuso, storpiando così tanto quella parola da strapparle una risatina: “Cosa significa?”
“È come avviare una corrispondenza letteraria con una persona sconosciuta” spiegò lei, divertita dalla sua ignoranza. Lui sembrava così colto ed erudito, eppure ammutoliva di fronte ad una cosa così scontata: “Solo per mezzo di un computer…una grossa macchina con uno schermo capace di spedire dei testi scritti” soggiunse, nell’eventualità che lui non sapesse nemmeno questo.
“Interessante…” commentò R colpito: “Il mondo moderno è veramente una sorpresa, per me!”
“Sul serio?” chiese Irene. Ma in verità non ne era poi così sorpresa: da quando era andata a vivere in quella casa grande e antica, le era parso d’essere stata proiettata ai primi del novecento, e lei non era neanche una ragazza molto moderna, anzi, si era sempre definita all’antica. Improvvisamente fu presa da una curiosità troppo impellente per essere ritardata: “R…quanti anni hai?”
Lui esitò un istante. Infine rispose con tono neutro: “Più di quanti ne hai tu, ma credo di potermi considerare ancora giovane”.
La ragazza sporse il labbro inferiore in un broncio. Aveva imparato a conoscerlo abbastanza bene per sapere che non le avrebbe detto altro. Dalle sue parole, suppose che la sua età fosse compresa in una fascia che andava dai venti ai trent’anni. Si sistemò meglio sul materasso, appoggiandosi sulle ginocchia con un movimento fluido e scrollandosi i lunghi capelli sulla schiena, lo sguardo attento sempre diretto al nulla tenebroso: “Dimmi, R…come mai vivi tutto solo ad Heather Ville? Hai vissuto sempre solo, oppure avevi compagnia? Dove sono i tuoi genitori? E i tuoi amici? E…” fece uno sforzo per superare l’improvvisa amarezza: “…la tua fidanzata?”
A quelle ultime parole, R scoppiò nella sua solita risata, ma stavolta era meno sardonica del solito: “Heather Ville è mia…di nessun altro” sentenziò, ma Irene, anche se era solo una supposizione, pensò che la cosa non gli fosse poi così gradita come voleva far credere: “Lo è sempre stata e sempre lo sarà. Quando la morte verrà a sussurrarmi all’orecchio il suo segreto, farò in modo di distruggerla perché nessun altro possa appropriarsene. I miei genitori, dici?” emise un verso sarcastico e sprezzante: “Mia madre mi è sempre rifuggita, a malapena ne ricordo il viso, non mi importa cosa ne sia stato di lei. Mio padre…lui ha avuto quello che si meritava”.
“Lo so” sussurrò Irene rattristata: “Anche mia madre non è mai stata un tipo materno”.
“Gli amici…cosa te ne fai degli amici?” continuò R con animosità: “Sono la razza più falsa che esista al mondo. Sono opportunisti e traditori. Non ho mai avuto amici. Non che ne volessi, ovviamente”.
Irene lo capiva fin troppo bene. Anche lei non aveva mai sentito il bisogno di costruirsi un’emozionante vita sociale come facevano molti intorno a lei. Era convinta che chi si vantava d’avere molti amici in realtà poteva contare solo sulla metà di loro e forse persino su nessuno. Le poche volte che s’era costretta ad uscire dalla biblioteca per aggregarsi alle altre ragazze, se n’era sempre rimasta in un angolo come un pesce fuor d’acqua senza riuscire ad inserirsi nei loro discorsi futili. In più, considerata la sua evidente bellezza che molte di loro non possedevano, suscitava invidia e, quindi, antipatia. Ebbe la netta sensazione d’avere finalmente incontrato una personalità affine che potesse capirla e partecipare appieno ai suoi discorsi, senza respingerla o stupirsi come suo padre o Stephan. R era intelligente, misterioso, interessante, e diceva cose fuori dal comune. Degli aspetti che insieme la inebriavano e la spingevano a rafforzare il loro ambiguo legame.
“Se non vuoi avere amici” constatò infine quando fu certa che le sue emozioni non potessero trasparire dalla voce: “Allora noi come dobbiamo considerarci? Perché hai voluto farti sentire da me?”
Dopo una piccola pausa, R parlò con lo stesso tono insicuro che solo una volta lei gli aveva sentito: “Non lo so” confessò: “Forse è perché mi sentivo solo. Sono anni, cara Irene, che non parlavo con qualcuno. Sono anni che strisciavo e mi nutrivo solo di oscurità. Forse vedendoti, spiandoti mentre suonavi l’arpa, dormivi e cercavi di adattarti ad Heather Ville, ho pensato che la mia solitudine potesse avere fine. Anche solo per qualche notte”.
Sinceramente commossa, Irene cercò qualcosa da dire. Avrebbe potuto confidargli che per lei era lo stesso, che lo trovava un interlocutore che non somigliava a nessun altro che aveva conosciuto. Fu lui a trarla d’impiccio, chiedendole per la terza volta, dubbioso: “Hai paura di me?”
“No!” questo ora poteva dichiararlo con sicurezza: “No, non potrei mai avere paura di te. Lo giuro”.
“Bene” commentò R tutto lieto, tornato quasi subito al suo atteggiamento sardonico e divertito: “Ne sono felice. Ne sono davvero felice. Sei una brava ragazza, Irene. Una bella e brava ragazza degna di essere ricoperta di doni. Dimmi, poiché non hai paura di me: c’è qualcosa che desideri? Un desiderio che io potrei esaudire?”
Irene fu colta da un’esitazione: “Cosa significa?”
R ridacchiò sguaiato, con la sua risata raschiante che sembrava scaturire più dalla gola che dalla bocca: “Non ricordi cosa ti ho detto? Voglio recarti piacere in qualsiasi modo. Sarebbe così bello compiere una buona azione, rendermi utile ad una brava ragazza come te…allora, cosa desideri?”
“Mostrami il tuo volto!” ogni volta non poteva fare a meno di provare. E ogni volta lui le dava la stessa risposta: “Ah! Cattiva! Mi chiedi proprio quello che sai che non posso darti. Su, dammi l’occasione di renderti felice in altro modo”.
Irene ci pensò su per qualche attimo, divertita dal gioco. Lui intendeva… qualsiasi cosa? Qualsiasi? Poiché non le veniva in mente nient’altro, esclamò ridendo: “Dammi la luna!”
Stranamente R non rise con lei, anzi, rimase a lungo in silenzio. Alla fine commentò con tono misterioso: “Non ti accontenti di poco, Irene”.
Lei rise ancora di più, imbarazzata: “Tu mi hai chiesto cosa preferissi avere, ed io ti ho risposto. Se trovi che questo sia più semplice che venire allo scoperto…”
“Bene” disse lui: “Allora provvederò al più presto”.
Irene alzò le sopracciglia, convinta che scherzasse. Nessuno avrebbe mai potuto darle la luna! Nemmeno R, per quanto misterioso e magico fosse. R. Il suo amico. Ora non aveva più dubbi nel ritenerlo tale: ogni notte era come se il suo cuore si aprisse e finalmente respirasse, e non poteva fare a meno di parlare con lui e di ascoltare la sua strana voce. Nessuno mai era riuscito a farla sentire come R, in sole tre notti: inebriata, incantata, catturata. Anzi, avevano sempre detto quanto era distratta e passiva, quanto poco si entusiasmava. Non avevano capito che erano loro i poco entusiasti, e che per reazione lei non si animava. Con R invece poteva parlare di tutto, abbandonare la paura di svelarsi per quella che era. Era convinta di aver trovato un miracolo.
Una persona così intelligente e così profonda, poi, doveva celare per timidezza una bellezza altrettanto radiosa…occhi sensibili, un’armonia nei tratti, un bel sorriso.
Quella notte, prima di addormentarsi, Irene si dimenticò di fare una carezza all’anello di Stephan.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Propositi di fidanzamento ***


PROPOSITI DI FIDANZAMENTO

 
 
 
 
 
 
Il sole gentile del mattino, sbirciando curioso tra le nubi bianche, batteva dolcemente sulla città che si risvegliava, illuminando i tetti che si riempivano di riverberi dorati e il viso di qualche passante che si aggirava per le strade in cerca di acquisti, andando al lavoro o a scuola. Nei quartieri alti v’erano eleganti villini con balconi marmorei e ampi giardini, le case popolari invece erano palazzine di cemento scrostato con mille finestre, panni appesi ad asciugare e un caos di automobili e di camioncini.
Stephan era chino su un’Opel bianca aperta a mostrare il cofano, seduto su uno sgabellino all’interno della piccola officina di suo padre che l’aveva preso a lavorare da lui a tempo pieno, poiché non era abbastanza colto da permettersi l’università e aveva fretta di farsi una posizione, benché avesse solo vent’anni. Con i pantaloni troppo larghi e le maniche della camicia tirate su, sudato e sporco, le mani coperte da guanti intrisi di nera sporcizia, il giovane stava ruotando una rotella servendosi di una pinza metallica ed eseguiva tutto con grande attenzione e abilità. Sapeva che solo col duro lavoro avrebbe ottenuto quello che voleva.
Aveva un bel viso, dai lineamenti decisi, una chioma di arruffati riccioli castani e grandi occhi marroni molto timidi e burberi, che raramente mostravano quello che provava. Stephan non si sentiva mai bene come quando era al lavoro: farlo lo faceva sentire veramente utile e sapeva di stare per perseguire uno scopo, scopo che non aveva mai avuto prima, dato che era sempre stato un ragazzo introverso e con le idee abbastanza nebulose. Ragazzo che però, quando si metteva in testa una cosa, era capace di sgobbare come un mulo pur di ottenerla. Era stata una faticaccia finire i cinque anni della scuola superiore, ma non era stato vigliacco e non se n’era andato a sedici anni come avrebbe potuto: sarebbe stata una sconfitta. Era andato avanti a stento, con enorme fatica, e aveva strappato appena la sufficienza all’esame.
“Fermati un attimo, ragazzo, o ti sfinirai!” disse sorniona la voce di suo padre. Stephan interruppe il lavoro, sorrise e si girò verso il suo vecchio, detergendosi il sudore dalla fronte con la mano lurida: “Papà, come faccio a fermarmi con una macchina simile? Ma come l’hanno ridotta? Non è oliata da anni!”
“È per questo che l’ho affidata a te” replicò suo padre strizzandogli scherzosamente l’occhio: “Non c’è meccanico migliore in tutta la città”.
Stephan, che raramente riceveva complimenti e che quindi si imbarazzava sempre, arrossì e abbassò gli occhi: “Grazie” mormorò soltanto. Non era abituato ad essere stimato da suo padre. Era una bella sensazione. Lui, fin da bambino, aveva sempre avuto una vera e propria passione per lui e per il suo lavoro. Ricordava di aggirarsi curioso nell’officina facendo domande su questo e su quello e capendo tutto con straordinaria facilità, quando a scuola a volte impiegava mesi a comprendere il concetto più semplice. Ma lui era sempre stato più un tipo fisico che un tipo cervellotico. Un tipo che sapeva usare le mani e non la bocca, che non sapeva mai cosa dire e si limitava a fare.
“Finirai domani. Ora voglio che mangi qualcosa” disse suo padre premuroso: “Da quant’è che non metti qualcosa sotto ai denti?”
“Uhm” Stephan ci pensò un po’ su, accarezzandosi le labbra ben disegnate con la punta dell’indice: “Non saprei”.
L’altro rise e gli allungò due banconote e qualche moneta: “Tieni, te li sei meritati. Corri al ristorante a farti un bel piatto di carne!”
“Grazie, pà” replicò il giovane prendendo i soldi e infilandoli nei pantaloni trasandati: “Ma credo che mi preparerò un panino a casa”.
Suo padre alzò gli occhi al cielo: “Tu e la tua mania di risparmiare!”
Stephan alzò le spalle con un sorriso come a dire che tanto era fatto così, si alzò con un movimento rapido, prese un grosso telo blu di plastica e con mosse rapide ed abili coprì l’automobile su cui stava lavorando. Dopo averla sistemata con cura, soddisfatto, si tirò dietro le orecchie i folti riccioli e inforcò la scala che portava alla piccola residenza dove abitavano, che comunicava direttamente con l’officina. Era piccola, spartana, arredata con lo stretto indispensabile, ma Stephan non avrebbe potuto sognare di abitare in un posto migliore: lui e quella casa andavano proprio d’accordo, perché gli andava bene il minimo indispensabile e odiava l’esagerazione e lo sfarzo eccessivo. Qualcosa di semplice, ma soddisfacente.
Entrò in camera sua, un bugigattolo luminoso con un letto sfatto e un grosso armadio di legno, e sospirò di sollievo, liberandosi con due calci degli scomodi scarponi. Gli ci voleva proprio una bella doccia e una dormita, poi si sarebbe potuto rimettere a lavoro. Non concepiva né l’ozio né ogni genere di intrattenimento.
Prima, però, aprì l’armadio, ma non per prendere uno dei pochi vestiti impilati dentro, bensì per contemplare, orgoglioso, le scatole di latta ammucchiate in perfetto ordine sul fondo del mobile, precedute da un’etichetta con su scritto: risparmi per la casa. Erano ormai due anni che le riempiva una ad una di preziose banconote, all’inseguimento di un sogno non più così lontano come gli era sembrato all’inizio. Prese la scatola più vicina, la aprì e vi lasciò cadere lo stipendio di quel giorno. Sorrise mentre la richiudeva e la ripose al suo posto con un senso di orgoglio.
“Ci siamo, Irene” sussurrò: “Presto avrò il denaro necessario a comprarmi la casa e potrò dichiararmi”.
Il cuore prese a battergli più forte. Diavolo. Ci era davvero vicino. Qualche altro mese di lavoro concentrato e avrebbe raggiunto la cifra necessaria. L’eccitazione gli arrossò leggermente il bel volto. Quanto tempo si era detto che era solo un’ambizione lontana, che non ci sarebbe mai arrivato! Ma la forza dell’amore e l’amor proprio avevano fatto avverare l’impossibile.
Irene. La ragazza di cui era innamorato ormai da tempo, forse l’unica ragazza che aveva mai amato. Era per lei che lavorava così tanto, per lei che faceva doppi turni e non si concedeva nulla pur di risparmiare. Desiderava avere una casa propria, per garantirle un futuro nel caso la loro relazione si fosse evoluta. E questo non certo perché aveva sfiducia nelle capacità di lei, anzi, aveva sempre saputo che era molto più intelligente, acuta e di ceto più alto di lui, ma voleva offrirle una posizione sicura mentre faceva i suoi studi. Nell’attesa che guadagnasse da sola.
Perché Stephan aveva già aspettato abbastanza e ormai provava il bisogno sempre più forte di chiarirle i propri sentimenti, sentimenti che aveva tenuto nascosti fino ad ora, un po’ per pudore, un po’ per la situazione precaria in cui era. Gli restava ancora un assurdo timore, una paura strisciante: che lei non ricambiasse quello che provava per lei, che tutti gli sforzi che stava facendo si sarebbero dimostrati inutili. Se ciò fosse accaduto, avrebbe avuto un crollo psicologico terribile.
Si era chiesto molto spesso cosa provasse Irene per lui, e non aveva mai saputo darsi risposta. A volte, mentre passeggiavano per il parco, lei si era mostrata dolce e felice, gli aveva preso la mano e parlato di tante cose che lui non capiva ma che ascoltava estasiato, ma altre, come quando gli aveva annunciato del trasferimento ad Heather Ville, era stata fredda e infastidita e l’aveva guardato quasi con compatimento. Era una ragazza volubile, questo Stephan lo sapeva, ma era proprio per questo che si era fatto avanti così poco. Aveva paura, così paura che quel bel sogno potesse infrangersi con un no secco da parte di lei, con un rifiuto.
Stephan non si era mai interessato molto al mondo femminile. Sì, le donne lo trovavano bello ed erano attratte da lui, ma lui non si sentiva attratto da nessuna di loro, anzi, gli ispiravano solo freddezza. Ma Irene no. Da quando l’aveva vista, alla fiera di Natale, che si aggirava da sola per le bancarelle, senza nessun’amica, e tuttavia senza mostrarsi a disagio, gli era entrata dentro e non era uscita più. Si era detto che una ragazza così bella, così ricca e così colta non avrebbe mai guardato uno come lui. E lei, invece, non solo l’aveva guardato, ma era anche uscita con lui! Era stato da allora che Stephan aveva cominciato a risparmiare, col sogno un giorno di potersi fidanzare ufficialmente con lei e di poterla stringere e baciare come non aveva mai osato fare…sempre che lei l’avesse accettato al suo fianco.
Vederla partire era stata la sofferenza peggiore. Saperla lontana, in una sperduta residenza in campagna, era orribile almeno quanto temere un suo rifiuto. Stephan non vedeva l’ora di trovare un giorno libero in cui andare a farle visita per poterla vedere di nuovo, prenderle le mani e dirle tutto quello che le aveva sempre taciuto. Era certo che la lontananza non aveva smorzato quello che c’era stato tra loro. Quando le aveva regalato l’anello, Irene se l’era messo al dito con gli occhi azzurri che le brillavano, come se fosse davvero emozionata.
E ora che aveva quasi raggiunto la cifra necessaria a procurarsi la casa, il suo sogno d’amore con lei era sul punto di realizzarsi! Non lo impauriva la personalità lunatica e imprevedibile di Irene, sapeva di essere un tipo molto razionale e di non poterle offrire l’inventiva e l’avventura che bramava, ma non l’avrebbe mai messa in gabbia, l’avrebbe sempre lasciata libera di fare quel che voleva. Sì, era certo che la loro sarebbe stata una storia riuscita. Lui avrebbe fatto da freno alla fantasia di Irene, mentre Irene l’avrebbe un po’ sbloccato dalle sue solide convinzioni.
Con un sorriso sicuro sulle labbra, Stephan si buttò a peso morto sul letto, ancora tutto vestito e zuppo di sudore, e crollò addormentato.
 
Più tardi seppe che il domestico di Irene e di suo padre, Tommaso, era tornato in città e che si sarebbe trattenuto qualche giorno. Quale migliore opportunità per avere notizie della fanciulla?
Stephan ricordava che il domestico soleva, ad una certa ora del mattino, andare a comprare il pane al panificio proprio davanti all’officina, così il giorno dopo, dopo aver lavorato alla macchina, si piazzò sulla soglia per scrutare quelli che passavano ed individuare Tommaso. Era avido di sapere come se la passava Irene in una casa così lugubre. Da quando ne aveva parlato con Giorgio Lancaster, un adorabile vecchio signore che l’aveva preso in simpatia, sapeva solo che sembrava che lei se la passasse bene. Pensava a lui, di tanto in tanto? Provava nostalgia? Da parte sua, Stephan fremeva ancora al ricordo di quel timido bacio che era riuscito infine a posarle sulla guancia morbida, ed aveva avuto la sensazione di stare violando una sacra reliquia.
Non appena avvistò il domestico che usciva dal panificio recando tra le braccia una grossa busta carica di pagnotte, si fece avanti di gran carriera e lo raggiunse prima che potesse dileguarsi: “Signor Tommaso! Che piacere rivederla in città!”
Tommaso si girò di scatto, lo fissò sospettoso per qualche istante, poi si decise a ricambiare il saluto: “Salve, Stephan. Ti trovo in forma. Sì, starò qui per qualche giorno, giusto il tempo di tenere in ordine la casa del signore”.
Stephan fece un gran sorriso e gli tolse rapidamente la busta dalle mani: “Lasci che lo porti io, signore. Mi piace rendermi utile. Che ne dice, facciamo la strada insieme?”
“Sei gentile, ma questa premura improvvisa non è dovuta forse solo al desiderio di avere notizie della signorina Irene?” lo aggredì l’altro. Stephan arrossì, sentendosi scoperto, ma non si tolse il sorriso dalla faccia: “Mi ha proprio scoperto! Ebbene, lo confesso: vorrei sapere come sta Irene”.
Tommaso fece una strana smorfia come se dovesse confessare qualcosa di sgradevole. Si guardò rapidamente intorno, poi si tese su di lui con fare confidenziale: “Temo che la signorina risenta del clima di Heather Ville”.
“Cosa vuole dire?” chiese Stephan preoccupato: “Sta forse male?”
“Oh, no, al contrario” ribatté il domestico: “Ma è spesso persa nel suo mondo, immagina strane cose e, me ne sono ben accorto, s’è liberata di me non appena l’ho accusata di parlare da sola la notte. Non dico certo che arrivi a tanto, ma pronunciare frasi ad alta voce in una camera vuota non è propriamente un sintomo di piena sanità mentale”.
“Pronunciare frasi ad alta voce?” gli fece eco Stephan con le sopracciglia aggrottate: “Non credo assolutamente che Irene sarebbe capace di una cosa simile!”
Tommaso assunse un’aria offesa e contegnosa come se fosse stato ritenuto un bugiardo: “Io mi faccio i fatti miei, sono un domestico fedele e laborioso. Ma non posso sempre ignorare quello che mi capita di sentire. A meno che ci fosse qualcuno che parlava con la signorina Irene quella notte, ma ne dubito poiché ad Heather Ville siamo solo in tre, la sua voce si rivolgeva al nulla”.
“Non ha pensato all’eventualità che possa aver parlato nel sonno?”
“È quello che mi ha detto anche lei…ma il mio vecchio intuito mi suggerisce di non fidarmi troppo di questo” ribatté compunto Tommaso. Stephan rifletté intensamente su quanto appreso, confuso e stupito. Non riusciva davvero ad immaginare Irene che parlava da sola. Dall’espressione del domestico, tuttavia, ne deduceva che non s’era trattato solo d’un’impressione di quest’ultimo. Ma allora, se era vero che l’aveva sentita parlare, quale spiegazione ne potevano trarre? Forse aveva ragione nel ritenere che Heather Ville le facesse male.
E questo non faceva che spingerlo ad affrettare la visita che aveva in mente di fare alla residenza desolata. Per scoprire, una volta per tutte, cos’era quel mistero. Lui conosceva Irene meglio di chiunque altro, era sicuro che gli sarebbe bastato vederla per comprendere ogni cosa. Sì, l’avrebbe vista, le avrebbe parlato e l’avrebbe portata via una volta per tutte dal luogo inquietante in cui era stata condotta dal padre, riportandola nella confortevole e rassicurante città che avrebbe fatto da teatro alla loro storia d’amore. Strappandola alle ombre che l’avevano rapita.
“Giovanotto…” mormorò Tommaso. Stephan gli prestò nuovamente attenzione: “Sì?”
“Ti prego, và in quella maledetta casa” disse il domestico col viso stravolto dall’apprensione: “Io sono stato allontanato, ma forse tu, che hai un posto nel cuore della signorina Irene…tu puoi. In quella casa c’è qualcosa di malvagio. Malato. Orribile. Non permettere che faccia del male alla signorina Irene! Aiutala, te ne prego. Arriva dove io ho fallito. Falla tornare in sé, lei è sempre stata affascinata da quelle cose, probabilmente non si rende conto del pericolo…se le vuoi bene, parti al più presto!”
Stephan provò una morsa di gelido terrore. Non immaginava che la situazione fosse a tal punto grave. Doveva partire subito. Doveva salvare Irene, da qualsiasi cosa si nascondesse in Heather Ville!
“Non tema” disse deciso al domestico: “Porterò via io Irene da lì”.
 
 
Ebbene sì, capitolo su Stephan, ma cercherò di postare in fretta il prossimo e sarà più movimentato, dovevo pur presentarlo il nostro ragazzo in qualche modo, un grazie speciale a Niglia per aver recensito l’ultimo chapter, un bacione da Elly ;) 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Gli specchi ***


GLI SPECCHI

 
 
 
 
 
 
Due settimane dopo il suo arrivo ad Heather Ville, Irene aveva finalmente ripreso a esplorare la vasta, polverosa e buia residenza che ora era anche la sua casa, anche se in precedenza aveva preso la decisione di muoversi solo in determinati ambienti. Ma ora che conosceva R, che aveva capito che lui era il padrone indiscusso di Heather Ville, si sentiva libera di girarvi a suo piacimento, poiché lui gliel’aveva permesso. Heather Ville non l’avrebbe ghermita se era sotto la protezione del suo amico senza volto. La paura che provava nei confronti dell’oscurità, degli spifferi e delle pozze d’ombra che abbondavano ovunque era scemata lentamente fino a sparire.
Con una candela accesa nella mano destra e addosso una lunga gonna bianca e una camicia di raso, coi capelli biondi raccolti in una morbida coda, Irene stava esplorando curiosamente il secondo piano, muovendosi senza timore nei corridoi insidiati dalle tenebre, rassicurata dagli scricchiolii del pavimento e da qualche occasionale fruscio che, per quanto ne sapeva, poteva anche essere stato prodotto da R che la seguiva ovunque dal suo nascondiglio. In lei s’era risvegliata tutta la passione per il mistero: era inebriata da Heather Ville e da quello che nascondeva.
Anche al secondo piano le tende erano tirate e all’interno non penetrava nemmeno uno spiraglio di luce, ma per lo più era composto da un dedalo di stretti e asfittici corridoi. C’erano solo porte: una di esse era chiusa a chiave, Irene non riuscì ad aprirla nemmeno facendo forza, un’altra conduceva ad un semplice salottino privato con un vecchio camino pieno di cenere, mentre la terza portava ad una sala molto vasta, piena di mobili e di statue coperti da polverosi teli neri. La ragazza scelse di esplorare quella, introducendosi cautamente all’interno. Lì c’erano diversi candelabri con le candele accese, così spense la propria e la poggiò a terra.
Camminare tra tutte quelle forme indistinte, coperte dai teli, era come aggirarsi in uno strano labirinto. Provò a sbirciare scostando i drappi da qualcuna di quelle cose: un tavolino di legno, con incisi dei simboli dorati, un divano bucherellato, la statua di un grande angelo con le ali spiegate che sembrava fissarla. Quando tolse il telo da una forma vagamente umana, che lì per lì aveva scambiato per una statua, spalancò gli occhi ed esclamò: “Oh!”
Era un abito da sposa. Ma non un abito da sposa qualunque, un abito d’epoca, e in uno stato sorprendentemente buono a giudicare da tutti gli anni trascorsi dalla sua creazione. Era indosso ad un manichino dalle forme esili. Il bustino era ricamato con pizzi e merletti ingialliti, le maniche erano gonfie e soffici, mentre la gonna si allargava intorno alla vita come la corolla di un fiore. Il velo, appuntato sulla testa del manichino da una coroncina di roselline incartapecorite, era così lungo e così spesso da allargarsi in un considerevole pezzo di pavimento. Conficcati nel busto v’erano alcuni spilli, come se fosse stato rinnovato da poco. La ragazza lo rimirò con silenziosa ammirazione e tese la mano a sfiorarlo: era morbidissimo. Immaginò una damina che lo indossava per le sue nozze, si chiese a chi fosse appartenuto. R sapeva di possederlo? O era stato lui stesso a comperarlo? E dove? Non si trovavano più abiti simili. Poteva solo averlo ereditato.
Accanto all’abito v’era una cassettiera finemente intagliata solo parzialmente coperta dal telo. Irene si inginocchiò lì accanto e prese a curiosare nei cassetti, affascinata, con la sensazione di essere precipitata in un’altra epoca o addirittura in un altro mondo. Un tagliacarte, alcuni libri scritti a mano, e un album di fotografie, con la copertina coperta da arabeschi di polvere e luridume. La giovane lo tolse dal cassetto in cui era riposto e lo aprì con delicatezza. La carta ingiallita dagli anni frusciò.
Erano fotografie molto antiche, che, via via che sfogliava le pagine, erano più moderne. Erano gruppi di famiglia, o singoli, o coppie. Volti pallidi e inespressivi le sfilavano davanti agli occhi senza che lei potesse decifrarvi qualcosa di conosciuto. Sotto ad ognuna delle foto era scritta una minuscola didascalia. Lentamente Irene comprese: erano le immagini di una famiglia. Le varie generazioni di essa, fino alla più recente. A giudicare dalle didascalie, la famiglia si chiamava Lawrence, aveva a che fare con la Svezia, considerando i nomi propri, ed era molto ricca e prestigiosa.
Sì, ora che ci pensava i soggetti fotografati dovevano per forza essere imparentati, avevano numerose caratteristiche affini: i tratti affilati, le espressioni arcigne e impassibili, gli occhi grandi e fissi. Soltanto l’abbigliamento mutava: prima cuffie e abiti adorni di merletti, poi completi più moderni. La fissavano con sguardo gelido, le mani raccolte in grembo, la schiena diritta. Erano mariti e mogli seduti vicini, persone da sole, o la famiglia intera riunita con tanto di bambini, e tutti si chiamavano Lawrence. Irene non poteva impedirsi di provare un brivido, nel contemplare tutte quelle persone che ora erano ormai morte.
Le ultime fotografie rappresentavano gli ultimi rappresentanti in vita della famiglia Lawrence. Risalivano soltanto ad una decina o più di anni fa, così probabilmente tuttora avrebbe potuto trovarli, se avesse fatto ricerche. La prima foto raffigurava il signore e la signora Lawrence, Hugo e Ingrid, ma tuttavia lui aveva una curiosa particolarità: il suo volto era stato bruscamente cancellato da una chiazza d’inchiostro rosso, cosicché non se ne vedeva nulla. Si poteva solo immaginare che ormai doveva avere una certa età, se era vivo. Irene, stupefatta, accostò ancor più il viso all’album, ma effettivamente la faccia dell’uomo era stata davvero rovinata da una mano ignota.
“Che strano” pensò. La didascalia diceva che avevano avuto quattro figli.
I primi tre figli erano arcigni, pallidi e biondi come gli altri membri della famiglia. A parte che il terzo, Viktor, aveva a sua volta il viso violentemente calcato dall’inchiostro rosso. Irene strinse gli occhi, incuriosita e insieme disturbata da quello strano fenomeno. E tuttavia il suo stupore crebbe quando, girata pagina, scoprì che non c’erano altre foto. Dov’era finito il figlio più piccolo? Non c’erano segni di colla, dunque la fotografia non c’era mai stata, non era stata staccata dopo. Non c’era neanche una didascalia che potesse fornire qualche informazione…ma Irene ci vedeva bene, e aveva letto che i figli erano quattro. Dov’era l’ultimo? Perché la sua foto non era stata aggiunta a quella degli altri? Perché era stato ignorato, quando ogni altra immagine era stata accuratamente aggiunta?
Mentre si poneva questi interrogativi, improvvisamente udì un forte tonfo provenire dal corridoio attiguo alla sala in cui si trovava, e, con un sussulto, si girò di scatto spaventata, chiudendo l’album. Un’improvvisa folata di vento gelido aveva spento la luce dei candelabri ed ora si trovava del tutto al buio. Le ombre strisciavano ai margini della sua visuale, e i mobili coperti dai teli sembravano pallidi fantasmi sul punto di assalirla. Restò qualche attimo immobile sul pavimento, con l’album stretto al petto, pallida: “Chi c’è?” chiese con voce tremante. Aveva lasciato la porta aperta, se qualcuno aveva prodotto il rumore dal corridoio, l’avrebbe visto!
Restare in tutto quel buio l’inquietava, nonostante tutto. Cacciò l’album nel cassetto da cui l’aveva preso e si alzò rapidamente in piedi, guardandosi nervosamente intorno senza trovare nulla. Si avviò a passo svelto verso la porta. Mentre era a metà strada, il tonfo si ripeté, più smorzato, facendole balzare il cuore in petto. Si fermò di botto, la mano serrata sul cuore, il viso impaurito: “Papà?” chiamò. Non le rispose nessuno.
Ad un certo punto, gelide dita si infilarono tra le ciocche bionde. Colta dal panico, Irene gridò e si voltò rapidamente, pronta a colpire qualsiasi cosa le fosse capitata a tiro. Ma il panico si mutò in sollievo allorché s’accorse che le dita che l’avevano afferrata appartenevano solo alla mano tesa d’una statua che sporgeva dal telo che la copriva. Il cuore rallentò i battiti. La ragazza oltrepassò le ultime forme indistinte e giunse sulla soglia, piena di sollievo. Quella sala l’aveva lasciata impaurita.
Si bloccò per la terza volta, quando accennò un passo nel corridoio, e forse con ragione, poiché aveva scorto, alla fine di esso, una forma scura, vagamente umana, ingobbita su se stessa, che sembrava darle le spalle. Rimase per un attimo paralizzata, con la bocca spalancata e muta, a fissare la sagoma indistinta, indecisa se urlare. Poi realizzò, e le sue labbra prima aperte si tesero in un sorriso: “R!” esclamò. Era lui! Allora non era davvero soltanto una voce, una presenza che parlava dal nulla! Era un uomo in carne ed ossa!
La figura resa indistinta dal buio sobbalzò allorché lei gridò il suo nome, e, senza pronunciare una sola parola, senza neanche voltarsi dalla sua parte, corse via e scomparve, inghiottita dalle ombre. Il sorriso radioso di Irene scomparve, sostituito dalla delusione e dallo scoramento. Allungò una mano verso il punto in cui la sagoma scura era scomparsa: “Aspetta!” non l’avrebbe lasciato fuggire, non ora che era stata in grado di vederlo, e di captarne qualcosa che non fosse solo la voce e il respiro.
Scattò subito in corsa dietro al fuggiasco R, sollevandosi la gonna perché non le desse impiccio, con una selvaggia determinazione sul viso: “Non andartene, R!”
Sebbene lui fosse stato molto silenzioso, era stata in grado di percepire la direzione che aveva preso: la destra. Svoltò con una scivolata e fece appena in tempo ad avvistare qualcosa di scuro che girava l’angolo del corridoio successivo. Urlò disperata: “Perché rifuggi da me?!” prese anche lei la stessa direzione, e quasi andò a sbattere contro la porta chiusa a chiave che aveva già trovato in precedenza. Il prossimo corridoio terminava in un vicolo cieco. Per evitare di dare una testata all’uscio, Irene, stupefatta, fu costretta ad arrestarsi bruscamente, con tutt’altro che grazia, inciampando e cadendo lunga distesa sul pavimento.
Gridò un’imprecazione tutt’altro che signorile, mentre si metteva a sedere a stento, massaggiandosi i punti doloranti. Dove diavolo era finito R? Lei l’aveva chiaramente visto prendere quella direzione…era riuscito a volatilizzarsi nel nulla fuggendo in un vicolo cieco! Che fosse un mago? Ma, più che l’impossibilità della sua fuga, le rodeva terribilmente non essere riuscita a fermarlo. L’era sfuggito, per l’ennesima volta, e ci era andata così vicina! Ripeté l’imprecazione, gli occhi lucidi.
Poi si accorse di qualcosa che avrebbe dovuto notare in precedenza. La chiave. C’era una piccola chiave d’oro infilata nella serratura della porta che le stava di fronte. Ricordava perfettamente di non averla veduta quando era stata lì la prima volta. Le venne voglia d’imprecare contro se stessa per essere stata così stupida. Era ovvio: R era fuggito in quel modo. Mentre si rimetteva in piedi a stento, cercando di ricomporre come poteva i vestiti e i capelli, le venne il pensiero improvviso che forse, oltre che per fuggire, R l’avesse condotta lì per farle notare la porta. Possibile? Sì. Possibile. R non sarebbe uscito allo scoperto per una sciocchezza. Lui voleva che trovasse la porta e si rendesse conto della chiave.
Timorosa, allungò una mano e strinse la chiave. Era gelida. Restò un attimo ferma davanti alla porta chiusa, indecisa sul da farsi. Non sapeva cosa avrebbe potuto trovare oltre quella superficie lignea. Alla fine, spinta da qualcosa di potente cui non riusciva a dare nome, inspirò profondamente e la girò nella serratura.
Non appena l’aprì e si introdusse timorosamente dentro, una luce accecante la colpì in pieno, costringendola a schermarsi gli occhi con un mezzo grido. Allorché finalmente si fu abituata, restò letteralmente a bocca aperta, troppo stupefatta anche solo per respirare, paralizzata dalla meraviglia.
Specchi. Centinaia di specchi sistemati ai lati del vasto salone buio che le si presentava davanti agli occhi, in più file, così tanti che non riusciva a contarli, specchi di varie forme e dimensioni che arrivavano fino all’alto soffitto. Come se fossero stati tolti da qualsiasi altro luogo di Heather Ville e rinchiusi lì, lì dove non avrebbero potuto nuocere a nessuno. Così tanti specchi che la stanza sembrava scoppiare. La fioca luce del sole al tramonto colpiva quelli della prima fila, che, in uno strabiliante gioco di luci, proiettavano il lucore a loro volta a quelli più in alto, e ancora, e ancora, in un insieme gigantesco di luci proiettate di specchio in specchio. Alla fine di quell’immensa catena riflettente, sul soffitto oscuro s’era formato un enorme disco di luce argentea che illuminava tutto di un chiarore da sogno.
Irene non trovava parole per descrivere lo stupendo spettacolo che aveva davanti agli occhi. Una luce così intensa che faceva fatica a fissarla, ma da cui non riusciva a distogliere lo sguardo. Era abbagliata, catturata, avvinta, sconvolta. Se ne stava immobile sulla soglia, col naso all’insù e gli occhi spalancati fissi sulla grande palla argentea sospesa sopra la sua testa, risultato della luce di centinaia di specchi. La perfetta simulazione, anzi, ancor migliore di una delle tanti notti che aveva contemplato in città.
“R mantiene sempre le sue promesse” sussurrò infine, con le guance rigate di lacrime: “Mi aveva promesso la luna…e me l’ha donata”.
 
“Quello che hai fatto…” disse Irene quella stessa notte, accoccolata sul letto con le ginocchia strette al petto, nel buio assoluto della sua stanza, non appena ebbe congedato suo padre: “R…è stato veramente…” si interruppe, poiché non trovava le parole per descrivere quello spettacolo che era rimasta in piedi a fissare un’ora buona, per ringraziarlo. Attese, tremante, che lui si facesse sentire, che con la sua voce dissipasse il suo stupore, anche solo per ironizzare in modo sardonico come faceva spesso.
“Ho solo esaudito il tuo desiderio” replicò lui, insinuandosi nel buio: “Ma non ho fatto tutto in un giorno. Quegli specchi erano già lì. Li ho solo sistemati meglio” aggiunse con modestia. Irene non era altrettanto incline a minimizzare l’opera del suo amico: “È stato il dono più bello che abbia mai ricevuto! Davvero! Non ho mai visto niente di simile…” era sincera, ma si chiese se per caso fosse un insulto all’anello di Stephan. Certo, un regalo amorevole, ma non altrettanto magnifico.
“Mi fa piacere che ti piaccia. Vedo che hai tenuto la chiave. Bene. Quella stanza ora è tua. Potrai andarci quando vorrai per ammirare la tua luna. Tanto io non mi recavo lì quasi mai. Anzi, ho spesso pensato di distruggerla” commentò R. Irene sorrise e strinse in mano la chiave d’oro che portava legata al collo con un laccio. Infine disse: “R, adoro parlare con te. È diventata quasi…un’ossessione. Se una notte per caso tu non mi rispondessi, mi sentirei così angosciata!”
“Questo non succederebbe mai” esclamò lui: “Per me è lo stesso. Heather Ville è tua. Ogni camera per te sarà aperta, e potrai andare dove vorrai e toccare tutto ciò che vorrai. Condivideremo insieme questa dimora. Presto, vedrai, imparerai a conoscerla come la conosco io”.
La fanciulla spalancò gli occhi sorpresa ed emozionata per l’improvvisa concessione. Heather Ville…sua? Le labbra le tremarono come fragili foglie mosse dal vento: “R…io…” nuovamente non seppe cosa dire. L’avrebbe abbracciato, se solo ce lo avesse avuto davanti. La voglia di poterlo stringere era così insostenibile che d’istinto chiuse a pugno le mani e prese a tremare tutta. Forse, chissà, anche lui provava la stessa cosa, ma si tratteneva per suoi motivi.
Per la prima volta, spinta da qualcosa di irresistibile e di indefinito, Irene scese dal letto con un salto e fece qualche passo avanti nella camera buia, senza sapere dove cercare: “R, rispetto la tua decisione, non intendo costringerti a venire allo scoperto” sussurrò, la voce rotta: “Ma ti prego, dammi un segno. Credo di averti visto per un attimo, questo pomeriggio. Dove ti trovi? Non temere, non ti cercherò, ma voglio sapere dove sei”.
“Sai perché le donne sono tutte come Pandora?” le chiese lui triste: “Perché sono curiose! Tu prometti, ma alla fine la curiosità sarà tale che andresti a cercarmi. E se lo facessi sarei costretto a prendere dei drastici provvedimenti. Non costringermi a farlo, Irene. Io mi fido di te, ma non voglio darti motivo di tradirmi. Accontentati del suono della mia voce, come io mi accontento di guardarti”.
Se le altre volte Irene aveva accettato a testa china, questa sentì montare la rabbia e il dolore. Dopo che R l’aveva avvinta a sé con la magia degli specchi e con la sua voce roca e suadente allo stesso tempo, non poteva privarla del piacere di potergli almeno stringere una mano: “Sei crudele!” singhiozzò, sull’orlo di versare lacrime perlacee: “Vuoi privarmi persino del piacere di saperti accanto a me, dove posso percepirti? Tu mi spezzi il cuore, R! Non ce la faccio più a parlare con il nulla. Dammi almeno la prova che hai un corpo, che sei una persona che posso guardare e toccare!”
“T’interessa a tal punto sapere come sono fatto?” disse R con un misto di sofferenza e di ira nel tono. Irene scosse la testa, gli occhi umidi di pianto: “No, voglio solo…vedere che sei accanto a me. Fai rumore. Dammi un segno! Non costringermi a passare questi attimi in preda al terrore che tu possa cessare di colpo di parlarmi, lasciandomi la paura d’essertene andato come un soffio di vento!”
“Irene, mia povera cara…cerca di capire” sussurrò lui insistente e addolorato: “È la prima volta…e ora che le cose sono arrivate a questo punto…devo essere cauto, non posso rovinare tutto. Lascia almeno che…che organizzi tutto per bene. Dammi la prova che non mi temi più e che ti sono caro”.
“Se mi sei caro!” gridò lei, terribilmente agitata: “Lo sai, quanto mi sei caro! Sei cattivo a torturarmi così!”
“Dici la verità?” domandò R, insieme emozionato e avido di quelle parole appassionate. Irene annuì vigorosamente: “Come puoi pensare che io ti mentisca? Sai che non ho mai incontrato nessuno come te, sai con quanta ansia attendo la notte perché tu possa parlarmi!”
“Provamelo” le intimò lui, sempre più eccitato: “Provami che dici il vero, ed io, te lo prometto, verrò allo scoperto…verrò solo allo scoperto. Non importa come”.
La povera fanciulla si sentì sommergere dalla disperazione. Si nascose il viso rigato di lacrime fra le mani tremanti: “Come?! Come posso provartelo, R? Dimmi come fare ed io subito eseguirò! Ti prego!”
“Devi trovare il modo da sola” ribatté lui: “Nel frattempo continueremo a parlarci così”.
“Ma io…” prima che potesse tuttavia concludere la frase, o implorarlo ancora, la voce tesa di suo padre esclamò attraverso la porta chiusa: “Irene? Và tutto bene? Cos’è questo fracasso?”
La ragazza sobbalzò violentemente e girò uno sguardo spaventato all’uscio. Infine rispose, la voce carica di tensione: “S-sì, papà, io…ho avuto un…un incubo”.
Quando lui se ne fu andato, subito tornò a concentrarsi sulla discussione: “R?” chiese spaventata. Non rispose nessuno. Il panico la colse: “R? R, ti prego!” lo supplicò, scossa da violenti singhiozzi. Ma il buio continuò a restare gravido di silenzio. Irene affondò la faccia nel cuscino e giacque come morta sul letto, la schiena sussultante: “R…”
Come faceva a provargli i suoi sentimenti? Se l’occasione non le si presentava presto, non avrebbe mai potuto convincerlo a venire allo scoperto. R manteneva sempre le sue promesse, così si sarebbe fatto vedere solo nel caso in cui lei avrebbe prestato fede alla sua.
 
Il giorno dopo era scostante e imbronciata e non prestò minimamente attenzione a suo padre che tentava di domandarle con gentilezza cosa fosse successo quella notte. Rispose in malo modo e non si pentì vedendolo andar via con l’aria da cane bastonato. In quel momento le importava solo di R e di trovare il modo di fare quello che le aveva chiesto.
“Ma cos’è che teme?” si chiese disperata, mentre suonava l’arpa assorta nei suoi pensieri: “Perché non vuole mostrarsi a me? Ora che mi è così caro, ora che non posso fare a meno di lui? Cosa lo spinge a restare nascosto? Paura? Di cosa, poi? Pudore? Insicurezza? Oh, povera me! Perché dev’essere tutto così complicato?”
Se solo R non fosse stato un misterioso uomo senza volto, ma una persona come tutte le altre! Ora come ora non ne avrebbe parlato neanche a suo padre. Ma d’altronde se R non fosse stato R lei non avrebbe provato quei sentimenti per lui. Ne era stregata, senza averlo mai visto. R era riuscito a conquistarla senza neanche farsi vedere. E il suo povero, vecchio Stephan, che l’aspettava in città, che le aveva donato l’anello, che aveva già in mente propositi seri…che fine aveva fatto, lui? Non era mai nemmeno venuto a farle visita. Se sperava che Irene sprecasse un pensiero per lui, era un illuso, uno stupido illuso. Oh, ma perfino per Stephan non aveva smesso di provare qualcosa! Stephan emanava un’aura di salvezza, di rassicurazione, che tuttora l’attraeva, anche se con minor intensità di prima. Era troppo presa da R e dall’alone di mistero che non l’abbandonava mai.
“R, cosa provi per me? Cosa vuoi da me? Perché hai voluto parlarmi? Solo per far cessare la tua solitudine?” chiese ad un immaginario interlocutore, smettendo di suonare e appoggiando le mani in grembo con angoscia. Per spingerlo a rivelarsi avrebbe dovuto provargli i suoi sentimenti, ma se almeno fosse riuscita a scoprire dove si nascondeva…
Un fruscio. Lievissimo. Come di qualcosa che si trascina, o meglio…che striscia. Identico a quello che aveva sentito il primo giorno che era venuta a Heather Ville, e che l’aveva spaventata a morte. Non appena le sue orecchie ormai allenate lo captarono, fu rapida a balzare in piedi e a fissare il punto da cui proveniva. Stavolta non s’era fatta cogliere impreparata: veniva dal muro scrostato che aveva di fronte. Anzi, da dentro il muro.
Fu come se le si accendesse una lampadina nel cervello. Presa da una frenesia che rasentava l’isteria, si gettò sul muro e vi incollò l’orecchio ansimando. Aveva i sensi attentissimi: lo strisciare si stava allontanando velocemente, attraverso il muro. Attaccata ad esso come un ragno, Irene cominciò a muoversi con i fruscii, tastandolo freneticamente, in più punti, terrorizzata al pensiero di perderli. Oddio, oddio, oddio…come aveva fatto ad essere così cieca, anzi, così sorda?
Allorché giunse sulla soglia della stanza della musica, uscì rapidamente e si incollò subito al muro che proseguiva lungo il corridoio: lo strisciare proseguiva. Irene continuò a seguirlo, sempre più in fibrillazione, pallida, con l’aria rovente che le sibilava tra i denti serrati. Oltre la superficie dura e scrostata a cui era abbarbicata, un altro corpo si muoveva rapido e sinuoso, strisciando. Svoltò bruscamente sulla parete che aderiva alla scalinata cigolante e Irene gli venne dietro, percorrendola più velocemente che le riusciva. Il cuore le martellava convulso contro il petto.
Ad un certo punto il rumore si allontanò, il corpo che strisciava la stava seminando. Irene affrettò il passo ed entrò in un salottino fiocamente illuminato. Seguì il muro fino a trovarsi davanti…la grata. Il buco nero chiuso dalle sbarre che aveva notato all’inizio. Subito si aggrappò ad esso e cercò di spingere la testa dentro più che poteva, ma era tutto solo una tenebra gelida e puzzolente di marcio. Un cunicolo che correva lungo tutto il muro e che aveva un’apertura laddove era situata la grata che Tommaso le aveva detto essere un condotto di areazione. Un enorme condotto di areazione che aveva un’apertura in ogni stanza e che occupava tutta la casa come un perfetto dedalo di stretti cunicoli totalmente bui. Un condotto di areazione in disuso da anni, che ormai non si sapeva nemmeno più a cosa servisse.
“Oh mio Dio” pensò Irene, le dita strette alle sbarre, gli occhi che cercavano invano di frugare il buio densissimo che avvolgeva il nascondiglio: “È qui che si nasconde”.
Quella era la tana di R. Un’oscurità stretta, puzzolente e assoluta, pervasa da un gelo che ghiacciava le ossa, un’oscurità che gli permetteva di strisciare ovunque e di spiare tutti quelli che si muovevano ad Heather Ville, in cui si era confinato per nascondersi da loro. Un labirinto che solo un genio o un folle sarebbe stato in grado di memorizzare e far suo.
“R!” gridò la ragazza, all’interno del cunicolo che aderiva a quel muro. L’eco fece rimbombare ovunque la sua voce, ma non giunse risposta né sentì più alcun fruscio. Probabilmente lui ora stava strisciando ai piani alti, furioso, ammirato o stupefatto che lei avesse scoperto il suo nascondiglio. Un nascondiglio in cui non si sarebbe mai infilata, nemmeno se ne fosse andato della sua stessa vita: la prova che gli aveva concesso era ancora valida, non sarebbe mai andata a cercarlo in quell’oscurità, che lui conosceva assai meglio di lei.
“R” mormorò infine, fissando il cunicolo: “Sei la persona più incredibile che io abbia mai conosciuto. Non ti cercherò. Troverò il modo di provarti i miei sentimenti. Ma ora so dove sei”.
 
Quella sera stessa, poco prima dell’ora in cui solitamente lei ed R intraprendevano una delle loro solite conversazioni, Irene era in piedi di fronte alla grata buia che dava sul letto in cui lei dormiva ogni notte. Era strano pensare che lui le aveva parlato da lì tutto quel tempo, fissandola, e che lei non se n’era mai accorta. Ma adesso avrebbe provveduto. Una volta per tutte.
Aveva fatto in modo di procurarsi un martello, una pinza e il rebbio di una forchetta. Poiché a volte Stephan le aveva dato qualche dritta circa quel genere di lavoretti, si sentiva più o meno in grado di portare e termine il suo proposito. Aveva detto che non l’avrebbe cercato, ma non che l’avrebbe costretto a parlarle da dietro le sbarre, come un carcerato o una belva feroce. Con la testardaggine che le era famosa, si tirò i capelli dietro le orecchie, si rimboccò le maniche e impugnò decisa il martello.
Fu un lavoro lento ma meticoloso. Prima valutò varie posizioni, spostandosi in modo da guardare i chiodi metallici che assicuravano la grata di sbarre all’apertura da varie angolazioni, poi s’era messa all’opera con la massima cura, partendo da quello di destra. Afferrò il chiodo con la pinza e delicatamente tentò di levarlo. Era assicurato piuttosto bene, così dovette fare forza e tirare con violenza per smuoverlo. Allorché lo ebbe fatto, liberò definitivamente quel lato col rebbio che infilò nei forellini nel metallo, pulendoli da frammenti di pietra che li bloccavano al muro. A quel punto, soddisfatta, sorrise, si deterse il sudore dalla fronte, e ripartì con il lato sinistro.
Dopo circa un’ora che lavorava senza concedersi soste, finalmente la grata di sbarre che aderiva alla buia apertura dei cunicoli si staccò e Irene dovette fare un enorme sforzo per sostenerla, barcollando pericolosamente in obliquo. Tuttavia, il cuore le si aprì per la gioia: ce l’aveva fatta! Ora aveva davanti solo un buco che non era chiuso da nulla, un semplice buco nero e gelido che poteva trapassare con la mano.  Irene si lavò le mani in bagno, fremente al pensiero che quella notte R avrebbe avuto a separarlo da lei soltanto un salto che l’avrebbe portato dal cunicolo al pavimento della stanza. Un salto che, non si faceva illusioni, difficilmente avrebbe fatto prima che lei gli avesse dato la prova che agognava, ma che era più abbordabile d’una grata di sbarre da smuovere.
Dopodiché indossò la camicia da notte, si pettinò i capelli e s’infilò a letto, senza però addormentarsi, ma restando ben desta con la schiena appoggiata alla testiera e gli occhi aperti fissi sul buco nero ancor più nero del buio tutt’intorno, in attesa che R mostrasse la sua reazione in seguito alla scoperta.
La reazione di R fu il silenzio. Irene sapeva che era lì, ne captava la presenza che la fissava dal buco del nascondiglio, e il respiro ansimante, ma la sua voce non arrivò a darle conforto. Terrorizzata al pensiero d’averlo perso per sempre per essersi presa quella piccola libertà, disse distintamente: “R, non voglio che tu ti arrabbi con me. È stato per puro caso che ho scoperto dove ti nascondi, non intendevo farlo. Ti sei tradito facendo rumore. Come vedi, però, io non sono andata a cercarti. Ho solo tolto queste sbarre perché non voglio avere nulla che mi allontani da te. Non ho dimenticato il nostro patto: cercherò il modo di provarti la mia stima, ma nel frattempo, te ne prego, continuiamo come se non fosse successo nulla. Soffrirò, ma rispetterò i tuoi voleri. Non violerò mai il tuo nascondiglio”.
Al di là del buco tutto taceva, ma le parve di scorgere un luccichio di occhi che la fissavano febbrili. Guardò proprio in quella direzione, e insistette, col tono più dolce che le riusciva: “Io ho solo te, R, lo sai. Non ti tradirò. Fidati di me. Parla senza timore, ti giuro che non cercherò mai di guardarti, se non vuoi”.
Ciò che avvenne in seguito, l’avrebbe ricordato per sempre. Sebbene fosse buio, vide con chiarezza una mano coperta da un guanto di cuoio nero uscire dalle tenebre del buco e tendersi, come in una disperata richiesta di aiuto, verso di lei. Il resto del corpo restò nascosto (evidentemente neanche R aveva dimenticato il loro patto), ma una mano solida come la cassapanca che le stava al lato esitò, col palmo rivolto all’insù.
Irene si sentì sopraffare dalla tenerezza e dall’emozione e le lacrime le salirono agli occhi, mentre fissava la mano di R che emergeva dal buio timida e tremante, chiedendo grazia da lei. Lui era davvero lì, solido e reale, un punto interrogativo, ma…un uomo! Non un parto della sua fantasia! Un uomo che le tendeva la mano come un bambino, e si ostinava a nascondersi nell’oscurità.
Si alzò lentamente dal letto, e allorché fu in piedi s’accorse di tremare come una foglia. Avanzò a stento verso quella mano tesa come se si trattasse d’una visione, con la vista appannata dalle lacrime che le rotolavano sul viso. A sua volta allungò la mano, esitò un istante, poi prese quella di lui, stringendola. Non poteva sentirla, era coperta dal guanto, ma emanava calore ed era la mano di una persona viva e animata dalle emozioni. Emise un singhiozzo e sorrise della gioia di quella conquista, mentre le sue dita esili si intrecciavano a quelle di R. Erano ognuno rifugiato nel suo nascondiglio, lei nella sua stanza, lui nel suo cunicolo, le mani strette a metà tra i due, che si accarezzavano a vicenda come a studiare l’altro e a trasmettergli affetto tramite quella piccola stretta che per ora non permetteva nulla di più. Irene non avrebbe mai voluto lasciare andare quella mano.
“Irene” disse infine R, stavolta molto più vicino, dalle tenebre del suo buco, senza lasciarle la mano. La voce gli tremava un po’: “Ora so come fare a non rovinare tutto. Grazie a te. Porta a termine la prova e finalmente potrò uscire ed esserti accanto. Tu per me conti più di chiunque altro. Ti prego, salvami dalla mia solitudine. Ti ho scelta come compagna non appena ti ho vista. Io ti amo, Irene” ammise infine con difficoltà: “E probabilmente te ne fai poco dell’amore di un dannato, di un…” esitò: “Ma il mio amore per te è sincero ed intenso e farò di tutto perché tu lo ricambi. Sei…sei una ragazza splendida”.
Commossa dalla dichiarazione e ancor più dall’incredibile scoperta che R la amava, Irene sorrise raggiante e gli strinse ancora di più la mano: “Non devi temere riguardo a questo, R. Tu mi hai già conquistata da tempo. Farò di tutto per dimostrartelo. Se sei dannato, non mi importa. Saremo dannati insieme. La tua presenza mi è cara più di quella del mio stesso padre”.
Le sue parole trasudavano sincerità, era travolta dalla gioia che R si fosse innamorato di lei. Oh, lei voleva essere al suo fianco, con tutta se stessa! La mano di lui le accarezzò amorevolmente il palmo, e infine lui ripeté: “Ti amo, Irene. Non me ne andrò mai”.
     

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Proposta di matrimonio ***


PROPOSTA DI MATRIMONIO






Irene danzava leggiadra e gioiosa per la sua stanza, con la gonna del vestito celeste che le ondeggiava come le onde del mare intorno alla vita e i capelli al vento, un sorriso ad illuminarle il viso, gli occhi luccicanti, e faceva giravolte e piroette, mentre dalle finestre aperte il sole la baciava e la faceva scintillare. R la amava! R la amava! S’erano tenuti la mano, si erano dichiarati l’un l’altra, ed ora erano legati…per sempre. Sarebbe riuscita a farlo uscire allo scoperto. Ora ne era certa. L’avrebbe avuto al suo fianco!
“Irene!” esclamò suo padre entrando con un gran sorriso stampato in faccia e le braccia allargate come in un abbraccio. La ragazza lo accolse di buon grado, gettandosi su di lui: “Buongiorno, papà!” ridendo, lo afferrò, si piazzò un suo braccio sui fianchi e si lanciò in un tango sfrenato. Era euforica. E Giorgio non aveva tardato ad accorgersene: “Cos’è tutta questa allegria?”
“L’amore è una cosa meravigliosa, non credi?” fece lei con aria misteriosa, facendogli fare un casquet. Suo padre per un attimo fu solo confuso, poi una luce di comprensione gli accese il viso: “Oh, capisco” commentò, a sua volta molto allegro e soddisfatto come se si fosse reso conto che sarebbe stato ancor più gradito alla figlia: “Allora la mia notizia ti rallegrerà ancor di più!”
“Quale notizia?” domandò lei tutta presa a piroettare ovunque. Giorgio ampliò il sorriso: “Stephan è qui sotto! È venuto a farti visita!”
Di colpo la ragazza si bloccò, impallidì, venne presa come da un mancamento. Barcollò e lasciò andare bruscamente il padre, portandosi una mano alla gola e abbassando gli occhi atterriti al pavimento. Dischiuse le labbra, un tremito la prese, fu improvvisamente conscia del cerchio d’argento che le cingeva l’anulare. Sollevò la mano e se lo fissò come se non lo riconoscesse, atterrita. Giorgio, perplesso e deluso dalla sua reazione, le sfiorò un braccio: “Non sei contenta?”
Irene sussultò e alzò la testa di scatto, fissandolo. Stephan…il suo amore di città. Il bel ragazzo che l’aveva corteggiata prima che si recasse ad Heather Ville, su cui lei spesso aveva fantasticato. Un tempo avrebbe gioito enormemente della sua visita, ma ritrovarselo lì ora che R era entrato nella sua vita, ora che le aveva confessato il suo amore, era quanto di più inaspettato e doloroso le potesse capitare. Come si sarebbe comportata? Cosa avrebbe detto? Era forse peccato parlare a Stephan dopo aver detto ad R di ricambiare i suoi sentimenti? Ed era invece peccato verso Stephan essersi data a un altro, quando lui la corteggiava da più tempo, e sentiva nei suoi confronti ancora una vena di affetto ricacciato nel profondo del cuore? Oh, perché era venuto?! Perché aveva turbato la sua beatitudine?
Pallida in volto, indietreggiò e scosse la testa: “Non voglio vederlo. Digli che sto male”.
Giorgio aggrottò la fronte, contrariato: “Irene, cosa ti prende? Pensavo che Stephan ti piacesse! È un bel ragazzo, un uomo probo…è venuto qui apposta per te. È preoccupato per te. Ti proibisco di fare queste scenate. Se non ti garba in qualche modo, abbi la decenza di dirglielo in faccia, invece di chiuderti qui!”
La prese per un braccio, ed Irene, disperata e angosciata, fu costretta a lasciarsi trascinare via di peso. Le gambe erano molli come gelatina, si sentiva prossima a svenire da un momento all’altro. Non desiderava vedere Stephan, affrontare il suo sguardo innamorato dopo quanto era successo tra lei ed R. Gettò uno sguardo sconfortato al buco nero che s’allontanava sempre più, domandandosi se R avesse sentito tutto. Lei amava R, ne era certa…la fascinazione che provava, la dipendenza, erano sintomi d’amore, anche se non conosceva il suo aspetto e poteva solo immaginarlo in sogno. Per Stephan più che altro sentiva un misto di tenerezza e di pietà, che non riusciva ad associare ad alcun sentimento…non si sentiva pronta a dirgli la verità, dopo averlo illuso per tutto il tempo. Ma come avrebbe potuto sapere di R? Prima aveva sempre creduto che Stephan fosse la sua occasione migliore.
Lui l’attendeva nella sala da pranzo, accanto al portone spalancato sulla luce del giorno, con indosso una camicia con le maniche tirate su, un paio di pantaloni marroni e un berretto di feltro da cui uscivano ciocche disordinate dei suoi capelli castani. Si rigirava goffamente tra le mani la borsa di cuoio che portava a tracolla e si guardava timorosamente attorno. Allorché Irene lo scorse, mentre scendeva le scale cigolanti al fianco di suo padre, il cuore le venne stretto in una morsa. Oh, Stephan…era un così bel ragazzo, un bravo ragazzo con l’aria del gran lavoratore. Era venuto per lei…eppure lei non poteva dargli quello che chiedeva.
Gli occhi nocciola intenso di Stephan la individuarono. Si illuminarono di una luce potentissima e un sorriso gli illuminò il volto dai lineamenti regolari: “Irene!” gridò, gioioso, correndole incontro a braccia aperte. Era la prima volta che osava farlo. La volta sbagliata. Irene si fermò e si irrigidì, terrorizzata al pensiero che lui potesse abbracciarla. Il giovane la raggiunse di gran carriera, la afferrò per la vita con insieme timidezza ed impeto, e la sollevò da terra, facendola volteggiare. Irene, però, con un senso di disagio, si dibatté debolmente nella stretta di Stephan: “Ciao, Stephan” sussurrò con voce inespressiva. Lui la rimise giù e la contemplò a lungo con uno sguardo appagato e felice. Le teneva ancora le braccia intorno ai fianchi: “Non sai quanto avrei voluto venire prima!”
Aveva l’aria di una tenerezza romantica, così Irene, con una vampata che le arrossava le guance, distolse lo sguardo, imbarazzata e fredda. Suo padre, da parte sua, impacciato, si ritirò in fretta: “Vi lascio soli, ragazzi”.
Quando furono soli, Stephan riprese a guardarla e le sorrise, raggiante: “Non…non dici niente?” le chiese, emozionato. Irene fece una smorfia: “E tu?” replicò, con lo stesso tono piatto. Di solito era sempre stata lei quella che parlava e che copriva in qualche modo il silenzio. Lui arrossì e abbassò gli occhi. Con mano tremante le accarezzò i capelli: “Mi sei tanto mancata”.
La fanciulla si scostò, divorata da un senso di colpa fastidioso. C’era ancora qualcosa che la legava a quel giovane, qualcosa di indefinito: “Ci hai messo tanto” disse infine. Lui assunse un’espressione di scusa: “Sono stato molto occupato col lavoro. Ora però sono qui. Con te. È…è meraviglioso!” le prese le mani di slancio e vi posò un bacio. Infastidita che le dimostrasse solo ora che era troppo tardi quella passione, Irene le sottrasse e indietreggiò di un passo. Stephan parve sorpreso e dispiaciuto, ma poi si guardò intorno: “Un posto assai lugubre. E così poco adatto ad una ragazza”.
“Io lo trovo splendido” ribatté lei aspra. Certo, come poteva Stephan apprezzare il fascino nascosto di Heather Ville? Era troppo cieco, troppo legato a quello che vedeva per farlo. Lei, però, lei aveva imparato a leggere le ombre e a trovare la bellezza celata dalla polvere e dal luridume. Il giovane continuò a scrutare l’ambiente oscuro e polveroso con aria poco elogiativa. Tutto quello che vedeva era solo un mausoleo buio, schifoso, marcio, con i muri fragili e scrostati, candelabri simili a serpenti avviluppati, ragnatele spesse come corde abbarbicate alle travi nel soffitto, pervaso da un insistente tanfo di muffa. In una cavità nei muri alcuni piccoli vermi bianchi strisciavano sinuosi, andando e vendendo, e ragni neri e putrescenti si calavano dalle ragnatele appesi a fragili fili di seta, allargando le zampe verso di loro.
“Dovresti tornare in città” concluse, circondando le spalle della giovane con fare protettivo, come se volesse sottrarla all’aria venefica di quella dimora. Lei provò solo fastidio e si liberò con uno strattone della sua presa: “Perché?” domandò: “Cosa mi aspetta in città? Soltanto staticità e pettegolezzi. Qui sto vivendo una nuova vita. Una vita più bella”.
Mentre lo diceva, gli occhi le brillavano di una luce febbrile che inquietò notevolmente Stephan. La ragazza sembrava sotto l’effetto di un potente incantesimo che le faceva apparire splendido quel luogo marcio e invisibili i vermi che strisciavano quasi dappertutto. Di colpo volle poterla prendere in braccio e portarla via subito, senza neanche dichiararsi. A stento riuscì a dominarsi: “Ora che sono qui, che ne dici di mostrarmi la tua camera?”
Dall’espressione si sarebbe detto che Irene non avesse alcuna voglia di farlo. Ma a malincuore, con la schiena curva, acconsentì e gli fece strada ai piani alti. Ad un certo punto, sentì che Stephan le aveva preso timidamente la mano. Quel suo ostinarsi a stabilire un contatto con lei le provocò un’ondata di rimorso. Non gli lasciò la mano solo per non addolorarlo, e perché la sua presenza, in qualche modo, la rassicurava e dissipava le ombre. Nel mentre salivano le scale, si udì, vicinissimo, un lieve fruscio. Stephan si bloccò di colpo, stupito, Irene impallidì.
“Hai sentito?” bisbigliò lui, frugando l’oscurità con occhi spaventati. Lei si morse con forza il labbro: “Cosa? Io non ho sentito niente!” gli sorrise e lo tirò per la mano, con un fare forzatamente giocoso: “Suvvia, vieni, lascia che ti mostri la mia camera!”
Lui storse le labbra, poco convinto, ma si lasciò trascinare. Aveva la sensazione folle di essere profondamente sgradito lì, il desiderio impellente di andarsene immediatamente. Era come se una voce strisciante come quella di un verme e roca come quella di una bestia gli sibilasse dal nulla: “Vattene! Vattene!” d’istinto, rabbrividì. Appoggiò la mano libera al corrimano, e subito la ritrasse con un gemito, portandosela alla bocca per succhiarla. Irene si fermò e si voltò dalla sua parte, con un’espressione interrogativa dipinta sul bel viso: “Che cos’hai?”
“Mi sono tagliato!” gemette lui. Sul palmo della mano aveva un lungo taglio slabbrato che perdeva abbastanza sangue. Le gocce vermiglie cadevano e si infrangevano sui gradini di legno con un suono gorgogliante. Irene gli prese la mano ferita e la esaminò per un po’, poi sollevò su di lui gli occhi azzurri arrabbiati: “Avresti dovuto fare più attenzione!”
“Ma il corrimano era scheggiato!”
“Io non mi sono mai tagliata” lo informò seccamente: “E sono qui da ben tre settimane, Stephan”.
Stephan la fissò, incredulo della sua rabbia, addolorato per il suo fastidio. Non l’aveva mai vista così. Neanche quando avevano avuto qualche piccolo alterco. Gli voltò con decisione le spalle e riprese a salire le scale. Fu costretto ad andarle dietro, senza più toccare nulla, con la mano sanguinante serrata al petto. Quel posto gli piaceva sempre meno, soprattutto l’influenza che aveva su Irene.
Quando entrò nella sua camera, fu rassicurato nel constatare che era più luminosa e pulita di tante altre, ma appena ebbe varcato la soglia metà della sua rassicurazione scomparve, poiché era avvolta da una potente aura di contaminazione, come se vi fossero avvenuti fatti segreti e innominabili e, proprio davanti al letto, nel muro, c’era un grosso buco nero, cavo, al cui interno non si scorgeva nulla. Quando lo fece notare a Irene, lei rispose bruscamente la storia sul condotto di areazione. Si accomodarono sul letto di lei, e la ragazza si offrì di medicare la ferita di Stephan. Immerse un fazzoletto di stoffa in una ciotola piena d’acqua appoggiata sul comodino e, delicatamente, prese a tamponare il taglio. Lo faceva perché non voleva che lui soffrisse, ma ben presto Stephan le posò addosso uno sguardo languido. Irene alzò un poco gli occhi, se ne accorse, e subito li riabbassò, arrossendo violentemente. C’era un che di terribilmente stonato in tutta la situazione.
“Allora…” balbettò infine, per rompere il silenzio imbarazzato: “Come vanno le cose in città?”
“Tutto bene” replicò lui: “L’officina di mio padre và avanti che è una bellezza. Mia madre ha preso un forte raffreddore, ma sono sicuro che guarirà presto, ha una gran tempra, la mia vecchia! Poi…beh, alla tua scuola molti volevano avere tue notizie, ho raccontato loro che sarei andato a farti visita, ma che stavi bene e non risentivi della solitudine. I tuoi zii…”
Ben presto Irene smise di ascoltarlo. Erano discorsi così noiosi! Non le importava nulla di cosa stavano facendo i suoi zii né con chi si era fidanzata Susanna Mainsfield. Più che altro era assorta dal taglio che stava asciugando col fazzoletto inzuppato. Aveva quasi la forma di un graffio, un graffio inferto con violenza e sadismo. Gli strinse la mano troppo forte e Stephan sobbalzò: “Irene!” esclamò: “Ma mi stai ascoltando?”
Lei tornò in sé: “Certo. Stavi dicendo?”
Lui alzò un sopracciglio con fare preoccupato: “Stavo dicendo” riprese, amareggiato che lei non avesse sentito ciò che da mesi si stava preparando a dirle: “Che ho lavorato duramente e ho guadagnato una cospicua somma”.
“Uhm?” fece lei distratta, fasciandogli la mano col panno. Stephan prese un profondo respiro, chiuse gli occhi e andò avanti a fatica: “Una somma con cui posso permettermi una casa. Il lavoro non mi mancherà mai. Ci so fare nel mio campo”.
Irene cessò di colpo di occuparsi della mano e lo fissò, presa da un terribile presentimento. Oh, no, no, ti prego, no…Stephan le prese le mani, che lei tenne inerti nelle sue, la guardò dritto negli occhi col fare più dolce e appassionato che gli riusciva, e, goffamente, con impaccio, le sedette più vicino: “Quello che sto cercando di…di dirti” balbettò: “È che io…io…”
“Stephan, forse…” attaccò lei nervosa, ma il giovane le posò un dito sulle labbra, mettendola a tacere. La guardò teneramente: “Lasciami finire, per favore. Io…io credo di…di amarti, Irene” divenne paonazzo, e distolse subito gli occhi, il corpo tremante: “È da tempo che ti amo e ora che ho una posizione posso dirlo. Non sono un poco di buono. So che siamo molto giovani, so che di solito alla nostra età si pensa ad altro, ma io mi sento pronto…Irene…vuoi sposarmi?”
In quel momento un terribile grido di dolore e di rabbia demoniaca scosse Heather Ville fin nelle fondamenta, rimbombando come il ruggito di morte d’un demone dell’inferno. Irene impallidì e spalancò gli occhi atterrita, mentre Stephan, con un violento sobbalzo, balzò in piedi terrorizzato e ansioso: “Cos’è stato?! Cos’è stato?!” si guardò intorno freneticamente, alla ricerca della fonte di quel tremendo ululato, ma era tutto tranquillo, non c’era niente a parte loro nella stanza.
“Niente! Non è stato niente!” strepitò Irene cercando insistentemente di farlo risedere: “Cosa? Che dici? Io non sento niente!”
Stephan la fissò, pallido come un morto, e l’afferrò per le spalle: “Quell’urlo…non puoi non averlo udito…era…orribile…disumano”.
La fanciulla aveva gli occhi pieni di frenesia e di angoscia, ma non per gli stessi motivi del ragazzo: “Che urlo? Di cosa parli? Cattivo, vuoi farmi paura dicendomi di sentire degli urli! Io non sento niente! Mettiti seduto, mettiti seduto. Se ti dico che non c'è niente!”
Lentamente Stephan sembrò rassicurarsi. Con un ultimo sguardo teso alla stanza, sedette cautamente sul letto e riconcentrò l’attenzione su di lei. Le prese le piccole mani e le sentì tremare forte. Se le portò al petto, con la delicatezza che si riserva alle cose sacre, e sacre lo erano davvero, fragili e affusolate: “Allora? Mi…mi vuoi?”
Irene lo fissò disperata e piangente. Il suo volto era pieno di aspettativa, pieno di speranza ma anche di timore, timore che lei potesse distruggere i suoi sogni con un semplice no. Lei non voleva fargli del male. Come fare del male a qualcuno che ci ama? Che ci vuole sposare? Che ha fatto tanti sacrifici per noi? Non poteva ferirlo. Non voleva ferirlo. Un tempo tra loro c’era stato qualcosa di sincero e di puro. Ma R…il suo orribile sfogo di furia e di sofferenza demoniaca…aveva già ferito lui, involontariamente, costringendolo ad assistere a quella scena. Doveva provargli il suo amore, e invece aveva ascoltato la dichiarazione di un altro. Povero R!
Ora però aveva davanti un povero Stephan. Uno Stephan che non voleva perdere del tutto. Il suo animo era più complicato e capriccioso di quanto si fosse aspettata. Certo non poteva sposarlo, lei era innamorata del mistero di Heather Ville e del suo amico senza volto, ma non se la sentiva di demolirlo e cacciarlo in malo modo.
“Stephan” sussurrò infine: “Quello che hai detto…è molto bello. Ma ecco… io…ci devo…pensare”.
Il sorriso speranzoso del ragazzo si trasformò in un’espressione delusa e insicura: “Ci devi pensare?” le fece eco, come se con quella frase gli avesse praticamente detto no. Era pallidissimo. Intenerita, Irene gli carezzò una guancia liscia, ma ritrasse quasi subito la mano, quasi pentita di quel gesto gentile: “Sì…sono decisioni difficili, sai. Il matrimonio è un grosso impegno. Se tu potessi darmi del tempo per riflettere…”
Pregò che lui non insistesse. Voleva prendere tempo, tempo per escogitare il modo di allontanarlo senza farlo soffrire e senza rivelargli di R, tempo di scoprire quanto aveva visto di tutto ciò l’uomo senza volto. Per un attimo Stephan esitò, mordendosi il labbro. Poi però si arrese con un sospiro e si alzò in piedi: “D’accordo. Tornerò dopodomani”.
La sciagurata sospirò di sollievo e gli sorrise: “Grazie. Sei molto comprensivo”.
Lui le scostò malinconico una ciocca di capelli dalla fronte: “Non è comprensione. Ma tengo troppo a te per negarti qualsiasi cosa”.
Nuovamente Irene fu presa dal rimorso e non riuscì a sostenere il suo sguardo che la implorava di accettarlo come compagno.
 
Quella notte, alla luce incerta della lampada, Irene si stava spazzolando lentamente i lunghi capelli biondi, con aria assente, seduta sul letto. Ogni ciocca impiegava circa cinque minuti ad essere pettinata, la tratteneva a lungo tra le capocchie della spazzola e lentamente i ciuffi scivolavano via, liberi e setosi, e le ricadevano sulla schiena. Dopo essersi pettinata tutta, macchinalmente ricominciava daccapo, fino ad avere i capelli elettrici. Intanto pensava.
Stephan…dopo mesi di corteggiamento silenzioso, di timidezze, di silenzi, non solo si era dichiarato, ma le aveva persino chiesto di sposarlo. Doveva amarla davvero, e lei sapeva che era raro trovare qualcuno che la amasse così. Ma lei aveva R. Si era data a lui, non solo perché parlava meglio di Stephan ed era più erudito, ma soprattutto perché le prometteva mistero e avventura, le prometteva di fuggire dalla realtà. Però, allo stesso tempo, rifletteva che il modo di Stephan di conquistarla era stato assai più naturale e più sincero, che non l’aveva avvinta né con discorsi né con promesse, ma, con candore e ingenuità, le aveva preso le mani, le aveva sorriso e dichiarato i propri sentimenti.
“Chi era quel ragazzo?!” tuonò di colpo una voce orribilmente contratta dalla rabbia, che uscì come un ruggito, come un uragano dal buco nero nella parete, cogliendola del tutto di sorpresa. Con un breve strillo, lasciò cadere la spazzola e si girò pallida verso il cunicolo. R doveva essere davvero infuriato, se aveva parlato con la luce ancora accesa. Doveva essere lì, accovacciato nell’oscurità, tremante d’ira, che la fissava con gli occhi illuminati dal dolore e dalla tetra sorpresa. Irene ne ebbe paura, poiché sapeva quant’era potente, e di cosa era capace. Indietreggiò di alcuni passi, con entrambe le mani bianche premute sul petto ansante: “R…io…”
“Rispondimi!” ruggì l’orribile voce che aveva perso ogni gentilezza, e terrorizzava sempre di più la poveretta: “Chi era quel ragazzo?!” se non gli rispondeva, Dio solo sapeva cosa avrebbe fatto. Provò a parlare, ma allorché dischiuse le labbra, scoprì di non avere aria. Confusa e spaventata, si portò le mani alla gola, e riprovò, balbettando: “L-lui…lui è Stephan. Una m-mia conoscenza d-di città”.
“Maledetta vipera!” urlò R, scagliandole contro quell’ingiuria con un tono così ruggente, con un accento così bestiale, che gli occhi le si colmarono di lacrime: “Mi hai mentito! Tu mi hai tradito! Mi hai fatto credere d’amarmi, quando avevi già quel tuo bel giovane! Nessuno inganna R! Nessuno!”
“Perché pensi che ti abbia ingannato?” singhiozzò la poverina, accasciata inerte contro il muro opposto: “Io conoscevo Stephan prima di venire qui, lui mi corteggiava nel passato…”
“Sei una bugiarda!” ringhiò R furibondo: “Quest’oggi tu lo ascoltavi con piacere, e mi conoscevi già! Sapevi già che ti amavo! Che pazzo sono stato ad amarti, a pensare che tu fossi diversa! Avrei dovuto uccidere il ragazzo subito. Avrei dovuto…”
“No!” gemette Irene in preda ai singhiozzi: “R, ti sbagli, io ascoltavo Stephan, ma solo perché non volevo ferirlo…lui per me non è più nulla. Esisti solo tu. Non hai bisogno di temerlo come rivale”.
“Ah, dunque lo difendi?” dall’interno del cunicolo venne un movimento sinistro. Irene scosse la testa disperata: “No, voglio solo che tu non sia arrabbiato con me. Ti prego, non fare quella voce, mi spaventi…”
“Credi che mi preoccupi ancora che tu sia spaventata o meno da me? Quando hai quell’altro che ti vuole sposare? Non sarai mai sua! Forse staresti meglio in un letto di diverso genere da quello nuziale. Sei una ragazza stupida e superficiale dal viso grazioso!”
Quelle parole la colpirono al cuore come una stilettata. Vide crollare di colpo tutti i suoi sogni e si accasciò a terra come un fiore calpestato, dove giacque singhiozzando senza ritegno, con le ginocchia strette al petto sussultante: “Mi fai male, R. Mi fai male sapendomi innocente. Io e Stephan non ci siamo mai nemmeno baciati. Per me lui non è nulla. Lo giuro!”
“Tu per me incarnavi un ideale” disse lui, la voce carica di disprezzo: “Eri semplicemente divina. Una creatura bella e intelligente che sapeva guardare oltre le ombre. Non avevo capito d’essermi immaginato tutto. Sei come tutte le altre. Basta che arrivi un bambolino con una bella faccia e vi sdilinquite tutte. Non me ne faccio nulla di una ragazza come tante”.
“Non dire così, ti prego” sussurrò la poveretta, straziata: “Io sono diversa. Io vedo attraverso le ombre. Per Stephan non provo altro che disprezzo. Anzi, ora lo odio, perché ha creato tra noi questo dissidio. Lo trovo sciocco e ordinario. Tu, invece, sei fuori dal comune. Non esiste nessuno come te. Ti imploro, perdonami! Mio dolce amico senza volto…perdonami. Ho bisogno di te. Ti prometto che non penserò più a nessun’altro” strisciò verso il buco allungando una mano alla disperata. Stavolta da lui non giunse alcuna reazione, neanche un sospiro. Irene contorse il volto in una smorfia di dolore: “Non mi merito questo tuo trattamento, R. Non ho fatto nulla che potesse rivelare una qualche attrazione nei confronti di Stephan. La mia unica colpa è stata quella di non averlo rifiutato. Se mi ami, perdonami. L’amore è anche perdono. Non è solo possesso. Non è solo gelosia”.
Dal nascondiglio arrivò un lungo sospiro. Poi R parlò, con voce più calma, ma fredda e calcolatrice, priva di qualsiasi calore: “Se ciò che dici è vero, allora, quando quel ragazzo tornerà qui, gli dirai che lo odi e che lo disprezzi, e che non vuoi più vederlo, nemmeno per offrirgli la tua amicizia…perché hai acconsentito a diventare la mia sposa”.
Irene sussultò alla proposta inattesa: “La tua…sposa?”
“Non subito, ovviamente” specificò R: “Prima passeremo delle piacevolissime ore insieme, per stabilire meglio i termini del nostro rapporto. Poi, quando io sarò certo del tuo amore per me, e tu sarai certa che ti amo sopra ogni altra cosa, ci sposeremo e resteremo qui…per sempre”.
“Per sempre” pensò Irene con un brivido. Per sempre confinata tra le ombre di Heather Ville…per sempre al fianco del suo amato senza volto. Spinta dalla magia che l’aveva avvinta, lasciò che quella proposta la riempisse di desiderio e si disse che lo voleva, voleva essere la sua sposa, e che sarebbe stata disposta a tutto pur di farsi perdonare, anche a ferire al cuore Stephan: “Farò come dici” mormorò con tono assente.
“Brava ragazza” disse lui, stavolta con un accenno di gentilezza: “Vedo di essermi sbagliato a crederti superficiale. Oh, ma tu piangi! Poverina, ti ho fatto proprio male con le mie parole, non è vero? Sono davvero una bestia! Scusami, Irene. La gelosia mi aveva annebbiato la mente. Ora però sono calmo. Avevo persino pensato di farti del male…ma ora mi rendo conto di che razza di orribile pensiero fosse. Far del male a te! Dovevo essere completamente pazzo. Dirai al ragazzo quello che ti ho suggerito?”
“Sì” disse docilmente la ragazza inginocchiata a terra col capo chino e i capelli che le spiovevano in avanti. Tutto, era pronta a tutto. Era posseduta. R parve trionfante: “Bene. Benissimo. Sono contento. La situazione è di nuovo sotto controllo. Ti amo tanto, Irene. È così bello amare qualcuno! Soffrire per amore è il dolore più sublime che abbia mai provato…penso di doverti ringraziare per avermi fatto soffrire. Mi ha insegnato molto. Vuoi essere la mia sposa, vero?”
“Sì”.
“Perfetto. Tesoro, stai tremando! Presto, và a letto, copriti. Non voglio certo che tu prenda freddo. Qui devi trovarti sempre benissimo. Dormi, cara Irene. Quando verrà il ragazzo, saprai cosa fare. Scusami ancora, ero fuori di me. Ma ora sono tornato l’uomo che conosci. Non succederà più”.
Irene si infilò sotto le coperte, come lui le aveva suggerito. Avrebbe obbedito. Era R che amava. Era R che voleva accanto. Stephan…lui non era niente. Tutto sarebbe tornato a posto.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** La cena ***


LA CENA

 
 
 
 
 
 
Quando Stephan si presentò nuovamente ad Heather Ville, due giorni dopo che aveva fatto ad Irene la proposta di matrimonio, e fermò il grosso e sporco camioncino di suo padre dinnanzi alla tetra dimora, scorse la fanciulla che lo aspettava immobile come una statua accanto al portone socchiuso, tutta vestita di nero, con i capelli al vento che le sventolavano in faccia. Faceva l’effetto di una vecchia fotografia in bianco e nero. Il giovane fu insieme felice e stupito di trovarla lì ad aspettarlo. Erano stati due giorni d’inferno, quelli, passati in una costante angoscia che lei prendesse la decisione che gli avrebbe spezzato il cuore. Non solo non gli aveva gettato le braccia al collo felice come si era aspettato, ma anzi, gli era sembrata assai diversa dalla persona grintosa e decisa che aveva conosciuto in città.
Cos’aveva Irene? Stephan sperava con tutto se stesso che fosse tornata in sé e che gli avrebbe detto sì. Allora l’avrebbe finalmente baciata, l’avrebbe presa in braccio e riportata alla luce del sole. Per l’ansia non era nemmeno riuscito a lavorare.
Sceso dal camioncino, le andò incontro rigirandosi nervosamente il berretto tra le mani, e si fermò dinnanzi a lei a capo chino. Irene era spaventosamente pallida e aveva un’espressione assente. Non disse una parola, neanche un saluto. Stephan non ebbe il coraggio di stringerla, si limitò a guardarla intensamente: “Ciao” fece per entrare nella residenza, ma improvvisamente lei si animò e gli sbarrò la strada. Lo fissò ostilmente, con uno sguardo che non le aveva mai visto. Replicò con un fare interrogativo.
“Restiamo qui fuori” disse la ragazza con tono incolore. Intorno a loro, l’erba opaca si muoveva lentamente, ondeggiando, e il vento soffiava gelido, sussurrando nenie indistinte. Il nervosismo di Stephan crebbe: “Va bene, come preferisci. In effetti qui si sta meglio” tentò di scherzare, passandosi una mano tra i capelli. Poiché a star fermi si infastidivano, presero a passeggiare fianco a fianco tutt’intorno ad Heather Ville, in silenzio. Stephan moriva dalla voglia di chiederle cosa aveva deciso, dopotutto per lui era una questione di vita o di morte, ma non voleva turbare il raccoglimento di Irene, che era molto assorta e scrutava con uno sguardo vuoto le finestre buie di Heather Ville. Guardò desideroso la sua nuca delicata che i capelli mossi dal vento avevano lasciato scoperta, i radi peli biondi sul suo collo che brillavano al sole timido, e pensò che, se lei gli avesse detto sì, sarebbe stata sua moglie…per sempre.
Allora non resistette più: “Hai…hai riflettuto sulla mia proposta?”
La guardò trepidante. Lei però era più assorta dalle rose rosse che coloravano quel prato incolto e adorno di erbacce. Con le dita esili ne staccò una e se la portò al naso. Annusò profondamente e chiuse gli occhi: “Trovi possibile” sussurrò: “Che qualcosa di bello come questa rosa trovi radici in questo luogo?”
“Irene!” esclamò il giovane, disperato, cui non importava nulla delle rose: “Non è tempo di fiori! Io ti amo! Ti prego, dimmi che mi ami! Dimmi che verrai con me in città e che ci sposeremo!”
Finalmente la ragazza si riscosse. Abbassò la rosa e lo fissò. Ma nei suoi occhi azzurri non c’era alcun calore. Lo gelavano fin nel profondo: “Stephan, io non ti amo e non voglio essere tua moglie” dichiarò freddamente: “Non voglio vederti mai più. Addio”.
Gli voltò le spalle e si incamminò senza aggiungere altro verso la sua dimora. Stephan, da parte sua, era restato immobile dov’era, col viso spaventosamente pallido e contratto dallo stupore e dal dolore, ed aveva la sensazione che il mondo stesse andando in pezzi tutt’intorno. Non poteva essere vero. Dopo tutto quello che aveva faticato per realizzare l’unico sogno che si era concesso…dopo che s’era illuso di aver conquistato qualcosa di così prezioso…lei non poteva distruggerlo così, con poche parole algide, e andarsene! No!
Le andò incontro, con gli occhi gonfi di lacrime vanamente trattenute, l’afferrò per un polso e la costrinse a voltarsi a guardarlo: “Irene! Cosa stai dicendo? Mi…mi spezzi il cuore!” singhiozzò straziato: “Credevo che tu mi amassi! Me l’hai sempre fatto capire! Come puoi rifiutarmi in questo modo, senza darmi nessuna spiegazione? Cosa è cambiato?”
Lei contrasse le labbra: “Ci siamo illusi credendo di amarci, Stephan. Non potrei mai stare con te. Sei troppo razionale per darmi quello che cerco”.
“È solo questo il problema?” gridò lui stringendole il polso: “Io posso cambiare, se è questo che ti impedisce di stare con me! E poi prima non ti interessava come fossi. Ti bastava avere il mio cuore…che sarà sempre ai tuoi piedi, fino alla morte. Il mio cuore per il tuo. Perché questo non ti basta più?”
Finalmente scorse qualcosa di umano farsi strada sul volto di lei: il rimorso. Abbassò gli occhi, probabilmente incapace di guardarlo. Stephan si chinò su di lei amorevolmente e le prese il viso fra le mani, determinato a capire: “Cosa è cambiato? Mi merito una spiegazione. Non intendo costringerti a stare con me. Ma se devo soffrire così…che almeno sappia perché!” lei l’aveva fatto a pezzi, letteralmente, ma che almeno scoprisse cosa gli mancava, cosa diavolo le impediva di amarlo!
Irene emise un lungo sospiro. Le tremarono le labbra, poi disse con uno strano tono: “E va bene. Te lo dirò. In nome di quello che c’è stato tra noi. C’è un altro”.
Stephan spalancò gli occhi, sconvolto e nauseato: “Un altro?” le fece eco: “Ma cosa…com’è possibile…dove puoi averlo incontrato…cos’è questa storia?!”
“È stato il destino ad unirmi a lui” sussurrò la fanciulla con un tono trasognato e un’espressione assente: “Lui ha tutto quello che ho sempre sognato. È intelligente, è erudito, è fuori dal comune, mi ama…”
“È bello?” la aggredì Stephan. Lei gli gettò un rapido sguardo: “Non lo so. Non l’ho mai visto in faccia. Ma una persona come lui dev’esserlo per forza”.
No, questo era assolutamente assurdo: “Cioè, fammi capire…getti al vento tutti i bei momenti passati insieme e ti innamori di un uomo che non hai mai visto in faccia?!”
“Sì” rispose lei con semplicità. Stephan era a bocca aperta, totalmente allibito: “Tu…tu sei…sei…pazza! Come puoi pretendere di conoscere qualcuno che non sai nemmeno com’è fatto?!”
“Conosco il suo cuore” ribatté Irene con grande serenità, come se per lei fosse ovvio. Il povero ragazzo aveva gli occhi fuori dalle orbite per lo stupore: “E dove l’hai conosciuto? Chi è quest’uomo? Qual è il suo nome? Come ha fatto a celarti il suo aspetto?”
Lei gli raccontò la storia di R, e mentre parlava, Stephan era sempre più inorridito, non solo per il contenuto della storia, ma anche perché Irene aveva negli occhi una luce fanatica e un’espressione istupidita, come se le avessero fatto completamente il lavaggio del cervello. Il tono adorante con cui descriveva quell’ R lo faceva vomitare. Ancor prima che finisse l’aveva afferrata per le spalle e le aveva incollato addosso uno sguardo infiammato d’angoscia e di orrore: “Questo non può essere vero! Non posso credere che tu ti sia lasciata stregare da un pazzo che passa ventiquattrore su ventiquattro strisciando in un buco immondo, che ti spia mentre sei in camicia da notte e ti parla al buio senza neanche farsi vedere! Non capisci che è un maniaco, che è un mostro? Non capisci che se si nasconde deve avere per forza un motivo? Io ti porterò via da lui, non gli permetterò di inquinare il tuo animo!”
“No!” gridò Irene furiosa, liberandosi della sua presa e vibrandogli un sonoro schiaffo. Aveva gli occhi fiammeggianti di rabbia: “No, Stephan, tu non ci separerai! Vattene ora che te lo dico io, o R ti ucciderà. Sei tu a non capire che io ti sto salvando la vita. Starò benissimo senza di te, senza mio padre. R si prenderà cura di me. Diventerò la sua sposa e saremo l’uno dell’altra per sempre. Perché lui mi ama più di ogni altra cosa al mondo, me l’ha detto” un sorriso estatico le illuminò il viso: “Io ho trovato il mio principe tenebroso”.
“Principe tenebroso?! Ma ti senti?! È un folle, Irene, credimi! Sono io che ti amo, io che mi prendo cura di te! Vieni via con me ora che sei in tempo, lascia questo posto maledetto! Lascia quel pazzo, prima che ti faccia del male”.
“R non mi farebbe mai del male” dichiarò Irene sicura. Stephan scosse la testa disperato: “Sì, invece. Ti ha incantata con la sua voce, ma puoi ancora liberarti dall’incanto. Vieni con me. Amore, ti scongiuro, lascia che io ti salvi”.
Per tutta risposta lei scoppiò a ridere: “Io non ho bisogno di essere salvata, Stephan. R è il mio amore. Non mi importa cosa pensi di lui, perché io so che è meraviglioso. Non mi importa di non averlo mai visto, perché lo conosco meglio di chiunque altro. Questa è la mia casa. L’intruso sei tu. Vattene. E non farti rivedere mai più. Tu non puoi capire…vattene”.
Stephan provò a stringerla nuovamente: “Irene, ti prego…non posso permettere che lui ti faccia del male…”
“Vattene, ho detto!” gridò lei con tutta la forza che aveva. Il giovane indietreggiò in modo scomposto, gli occhi colmi di lacrime fissi sulla ragazza che lo fissava disgustata. Era finita. Irene era definitivamente perduta. Non sarebbe mai riuscito a portarla via. Neanche con tutto il suo amore. R era riuscito a legarla a sé con una doppia corda, una corda stretta come un cappio che le serrava pericolosamente il collo delicato.
“Dimenticami, Stephan” sibilò Irene: “Il mondo è pieno di biondine pronte ad innamorarsi di te. Sono sicura che nel giro di un mese ne avrai trovata una che saprà fare buon uso del denaro che hai guadagnato. Il mio posto è qui, per sempre. Il mio compagno è R”.
Lo sventurato giovanotto, col cuore spezzato, con l’orrore in viso, barcollò lontano da lei, verso il camioncino fermo sul prato di erbacce. Gli pareva di sentire, all’interno di quelle oscure finestre, una risata sardonica e sguaiata che lo derideva e festeggiava il suo trionfo, ed era certo la risata di R, di quel maledetto che nascondeva il suo volto dietro le ombre di cui era il padrone. Ma Stephan aveva solo perso una battaglia. La guerra era appena cominciata.
“Non permetterò che ti ferisca” sussurrò alla ragazza che amava, prima di gettarsi, in preda ai singhiozzi, dentro il camioncino, e di mettere in moto con le mani che tremavano.
Irene restò immobile mentre lui se ne andava e si sentiva più debole che mai. Allorché la sagoma della vettura scomparve una lacrima le rotolò sulla guancia e bisbigliò: “Addio, Stephan…”
 
Mentre avveniva questo dialogo animato tra i due giovani, il signor Giorgio Lancaster era entrato nel suo studio, come faceva ogni giorno, e con sorpresa aveva trovato, sulla scrivania, un biglietto chiuso in una busta ingiallita dal tempo. Poiché ricordava chiaramente di non averlo mai visto prima, s’era accomodato in poltrona e con un tagliacarte aveva aperto la busta per scoprire cosa contenesse. Dentro c’era un unico foglio con alcune righe scritte in inchiostro rosso sangue:
 
Gentilissimo signor Lancaster,
sono sicuro che sarà sorpreso nell’aver ricevuto questa mia missiva così tempestivamente, e senza aver mai sentito parlare di me, ma, ahimè, mi son trovato costretto a mettermi in contatto con lei al più presto. Devo informarla, con mio intenso rammarico, che deve partire immediatamente, senza portare nulla con sé, soprattutto sua figlia, per la città in cui ha vissuto finora, e rimanervi fino alla fine dei suoi giorni, se non vuole che questa fine arrivi prima di quando ha deciso il destino. Immagino che la sua prima reazione sarà di sdegno. La capisco. Ma vede, ho la presunzione di considerarmi il vero proprietario di Heather Ville, e scoprire che si era permesso di acquistarla come se non appartenesse a nessuno mi aveva lasciato…interdetto. Ora che conosco la storia della sua perdita, però, la perdono.
Ciononostante ripeto che la sua presenza qui non mi è gradita, perché anche se non ne ha intenzione intralcia certi miei progetti che riguardano sua figlia. Oh, non deve temere in alcun modo per lei: non ha amico migliore e più premuroso di me. Lasciandola nelle mie mani, può star certo che la tratterò con tutto il riguardo che merita e che non le mancherà mai nulla. Le permetterò di scrivere a sua figlia una volta al mese e le farò avere la risposta. Ma non deve mai più tornare qui ad Heather Ville, per il suo bene e quello di Irene.
Spero che si dimostrerà ragionevole e che la vedrò fuori di qui nel giro di due ore, così che possa prepararsi. Fare affari con lei è quanto di più gradito possa fare.
Le porgo i miei più sinceri addii,
                                                                                R

 
“Questo è inammissibile! Inconcepibile!” strepitò Giorgio con la faccia paonazza e la lettera stretta convulsamente tra i pugni chiusi. Quelle parole di una cortesia minacciosa, e quella R svolazzante alla fine, rossa come il sangue…chi diavolo era quell’uomo così impertinente che si permetteva di scrivergli cose simili? Che Irene si stesse dilettando a fargli uno scherzo? Ma no, la calligrafia era assai diversa da quella di sua figlia. Il pover’uomo afferrò il fazzoletto e si deterse la fronte zuppa di sudore. Quella frase, “se non vuole che questa fine arrivi prima di quando ha deciso il destino” lo terrorizzava più di ogni dire.
“Andarmene?” sbraitò ad alta voce: “Lasciar sola Irene? Giammai! Non mi lascerò certo spaventare da questo mascalzone che si diverte a mandare lettere impertinenti! Ce ne andremo tutti e due, altroché! Questa casa è maledetta! Sissignore! Maledetta! E non ci dobbiamo restare un minuto di più”.
“Io non sono dello stesso avviso” commentò una voce pacata e raschiante alle sue spalle. A Giorgio prese un tale spavento che saltò sulla poltrona e si girò di colpo con un grido terrorizzato. La grata che aveva dietro alla scrivania, e cui non aveva mai fatto caso, era stata scardinata delle sue sbarre, ed ora era un buco di tenebra assoluta. Il corpo di un uomo ne stava uscendo con movimenti goffi e intorpiditi come di chi non cammina in posizione eretta da molto tempo. Si stiracchiava, e le sue ossa mandavano scricchiolii sordi: “Aah” disse sollevato: “Mi ci voleva proprio una bella sgranchita!”
Giorgio Lancaster sgranò gli occhi, si fece pallido come un morto e cadde dalla sedia come un sacco di patate, indietreggiando con gemiti di patetico terrore per sfuggire a quell’apparizione. Il cuore gli batteva troppo forte, era prossimo all’infarto. Cercò freneticamente una qualsiasi arma intorno a sé, ma le sue dita si strinsero solo sul tappeto polveroso svolto a terra. Intanto davanti a lui l’apparizione era saltata fuori dal buco e gli si stava avvicinando lentamente, come a godere della sua paura. Giorgio andò a sbattere contro il muro e si trovò in trappola. Allora si rannicchiò, tutto tremante, e cacciò un urlo: “Chi…chi sei?”
L’apparizione si fermò ad alcuni metri da lui e lo contemplò con compatimento. Poi fece un ghigno orribile e, invece di rispondere, esclamò: “Signore, non mi sono spiegato. Se non se ne va di qui all’istante, troverò il modo io di liberarmi della sua presenza”.
Gli avesse ringhiato contro, avrebbe ottenuto lo stesso effetto. Completamente dominato dalla paura Giorgio strillò, balzò in piedi e si precipitò fuori dallo studio agitando le braccia come un forsennato, dimentico di sua figlia e di tutti i suoi propositi.
Neanche cinque minuti dopo era già in macchina.
 
Quando finalmente Irene si chiuse in camera sua, tirò un profondo sospiro e s’abbandonò contro l’uscio, scivolandovi contro fino a sedersi sul pavimento scricchiolante. Si tirò le ginocchia al petto e ci premette il viso, scossa da un singhiozzo.
Stephan…nonostante tutto, trovava orribile averlo ferito così. Non lo meritava. L’unica sua colpa era quella di amarla. E lei l’aveva crudelmente ferito, l’aveva scacciato con parole dure, come se per lei non contasse più nulla e non fosse altro che un ostacolo. Anche se portava ancora al dito l’anello che le aveva regalato. Lo rimirò accarezzandolo lievemente. Avrebbe dovuto toglierselo, in quanto non più impegnata con lui…ma, per qualche strana ragione, non riusciva. Provava troppo rimpianto.
Era stata così presa dal suo scoramento che non aveva notato la lettera appoggiata al suo letto. Allorché l’ebbe vista, sobbalzò e subito si tirò in piedi, afferrandola. Ancor prima di tirarne fuori un foglio, ancor prima di dare un’occhiata a quelle righe in inchiostro rosso, seppe che l’aveva scritta R. Era impregnata della sua magia. Con movimenti frenetici la ragazza la dispiegò e prese a passeggiare angosciosamente per la stanza, leggendola rapidamente.
Mia diletta Irene,
posso ritenermi più che soddisfatto nei tuoi confronti. Hai trattato quel giovanotto nel modo che meritava e ti esprimo tutta la mia solidarietà. Non che avessi mai dubitato di te, ma la tua freddezza è stata esemplare. Sei fantastica. Ho fatto in modo da prendere congedo anche dal tuo rispettabile padre: non temere, sta bene, non gli avrei mai fatto del male sapendoti contraria, e poiché non mi aveva fatto alcun torto, l’ho semplicemente esortato a tornare in città. Sono certo che lì si troverà assai meglio e che trascorrerà in serenità gli ultimi anni che gli restano. Non provare nostalgia: potrai scrivergli una volta al mese e informarti della sua salute.
Ora che siamo finalmente soli e che nessuno intende disturbarci, voglio conoscerti più a fondo e poter finalmente stringere le tue piccole mani e accarezzare i tuoi morbidi capelli. Non ho dimenticato il nostro patto: mi hai dato la prova che cercavo. Questa sera mi prendo la libertà di invitarti a cena. Dopo che avrai provveduto alla tua toletta personale, apri la cassaforte di fianco al letto, ci ho infilato uno splendido vestito che conservo da tempo e che su di te starà d’incanto. Vorrei che lo indossassi per stasera. Alle otto in punto scendi in sala da pranzo. Troverai ad aspettarti una gustosa cena. Io sarò già lì.
Con tutto il mio amore,
                                                                 R

Allorché giunse alla fine della lettera, Irene levò gli occhi lucidi di emozione e si portò il foglio al seno. Non temeva per suo padre, R non le avrebbe mai mentito circa la sua salute. Era dispiaciuta che se ne fosse andato, ma in quel momento era troppo presa dall’invito di R per pensarci. Quella sera finalmente avrebbe visto il volto del suo promesso sposo! Quella sera il suo segreto sarebbe svanito, e avrebbero cenato insieme come due persone normali che si amano…oh, che meraviglia! Aveva fatto bene a cacciare Stephan, se quella era la ricompensa.
“Verrò, R” sussurrò: “Verrò con tutto il cuore!”
Andò subito alla cassaforte e l’aprì piena di aspettativa. Possibile…oh, sì! Protese le mani e le strinse su una seta morbidissima. Tirò fuori dal baule uno stupendo abito rosso stile primi del novecento, con una generosa scollatura con una rosa scarlatta al centro, lunghe maniche strette, e una gonna che frusciava sul suolo. Era la cosa più bella che avesse mai visto, e profumava di rose. L’accompagnava un cerchietto sempre rosso, percorso da una coroncina di rose finte. Irene si appoggiò il vestito addosso e fece una giravolta. La gonna si gonfiò come un palloncino. R aveva ragione: le sarebbe stato d’incanto.
Passò il resto del pomeriggio fantasticando su come sarebbe stata quella cena. Dopo essersi dedicata ad un lungo bagno, indossò il vestito rosso con le rose, che le andava a pennello, e raccolse i capelli lavati e profumati dietro il cerchietto. Mentre si passava un rossetto scarlatto sulle labbra e dava gli ultimi ritocchi, gettò uno sguardo alla finestra: era calato il buio. Un’enorme luna piena la sbirciava dal cielo illuminandola col suo chiarore argenteo. Il volto di R…avrebbe scoperto qual era il volto di R. Doveva certamente essere magico come la sua voce e le sue promesse.
Quando, tutta sistemata, Irene uscì dalla sua stanza per scendere nel luogo dell’appuntamento, fu presa da uno strano timore, da un pizzicore alla nuca. Dopo che il suo rapporto con R era stato unicamente un parlarsi al buio per tanto tempo, discorrere con lui faccia a faccia sarebbe stato quasi…innaturale. Ormai s’era abituata a considerarlo una sorta di fantasma, un abitatore del buio, e considerarlo un uomo come altri le riusciva strano. Ma in una cosa Stephan aveva ragione: non poteva sposare qualcuno che non aveva mai visto. Parlarci sì, entrarci in intimità sì, ma non sposarlo! Era tenuta a recarsi al convegno.
Allorché discese la scalinata con le sue scarpette rosse, vide che la tavola era stata preparata con gran cura: il drappo scarlatto che la copriva era privo di polvere e di sporcizia, completamente rinnovato, ed era stato apparecchiato per due con fini piatti di porcellana, bicchieri di cristallo e ben quattro posate scintillanti di diversa forma e aspetto, tutte ordinatamente in fila. Al centro della tavola v’erano i due candelabri d’oro che, con la luce soffusa delle candele, rischiaravano le splendide portate messe in mostra: polli croccanti, patate cotte a puntino, pasticci che non avrebbe saputo definire, pani fragranti e soffici. Le venne l’acquolina in bocca solo a vedere tutto quel ben di Dio. Tuttavia non c’era nessuno tutt’intorno.
Perplessa, giunse alla fine della scalinata e si fermò accanto alla tavola apparecchiata, tormentando la gonna rossa con le dita: “R?” chiamò, allarmata. Che le avesse mentito? Che avesse cambiato idea all’ultimo momento? Se così fosse stato, si sarebbe sentita enormemente presa in giro.
Udì un fruscio alle proprie spalle e si girò. Anche in sala da pranzo c’era un’apertura nel muro. Era stata privata della grata irta di sbarre, ed era solo un buco nero. Una forma umana ne stava uscendo a tentoni, con movimenti grevi. Irene sentì salire l’emozione. Le mani le tremarono, s’immobilizzò, con gli occhi fissi sul corpo che si stava rivelando dalle ombre. Perché non si sbrigava? Perché la faceva penare così?
Infine R uscì dal buco con un sospiro e atterrò in piedi sul pavimento cigolante, dove restò qualche attimo a oscillare leggermente come un bambino che si tira su per la prima volta. Indossava un completo da gentiluomo dell’antichità alquanto malridotto, con i merletti ingialliti e flosci che sporgevano dalle lunghe maniche ricamate e dai pantaloni impolverati. Sul collo era appuntato un farfallino. Era piuttosto alto, e magro di corporatura, ed era ingobbito in se stesso come se portasse sulle spalle un grosso peso. Irene lo fissò in volto, e non riuscì ad impedirsi di assumere una smorfia di profonda delusione.
I suoi tratti erano completamente nascosti sotto ad un drappo nero che s’era calato sulla testa come un sipario e che gli scendeva fino al petto e sulla schiena, dando al suo capo solo una vaga rotondità e un accenno di naso. Ma per il resto non si vedeva nulla dei suoi lineamenti, se non appunto un pezzo di stoffa nera piantato su un corpo avvolto in un completo malridotto. Perfino le mani erano inguainate in un paio di guanti di cuoio scuro.
Irene si sentì prendere dalla delusione. Aveva davvero creduto di poter vedere il suo volto…doveva accontentarsi della sua presenza in carne ed ossa. Provò tuttavia una certa emozione, nel constatare che era davvero un uomo alto e ingobbito, un uomo che poteva toccare e accarezzare. Sebbene fosse così coperto, sembrava che lui potesse vederla, e la fissasse con intensità. Se era capace di vedere al buio, di certo poteva anche scorgere attraverso la stoffa. Le si avvicinò con un’andatura ancora un po’ barcollante, cercando di darsi un contegno. Irene lo attese con un’espressione di timore e di attrattiva.
“Irene” disse la voce che l’aveva conquistata, uscendo dal drappo nero, mentre R le tendeva la mano guantata: “Non posso esprimere l’emozione che provo ad averti qui davanti a me. Sei bellissima”.
Con un breve ansito, la fanciulla si gettò su di lui. Voleva strappare il drappo, voleva vedere il suo volto. R reagì prontamente, come se si fosse aspettato una mossa simile: le intercettò la mano in tempo, stringendole dolcemente il polso, e lei si sentì percorrere da un fremito sentendosi toccata da lui. Le allontanò il braccio: “Non essere curiosa, Irene. Ho detto che sarei uscito allo scoperto. Come non era specificato. Accontentati di avermi vicino, non bramare di vedere cose futili”.
“Credevo che volessi mostrarmi il tuo volto” confessò Irene, con un evidente accento accusatorio. R levò le mani guantate, l’espressione sepolta sotto al drappo di stoffa nera: “Perché dovresti volerlo vedere? Non trovi che parlarsi così, senza che tu possa indovinare i miei tratti, sia enormemente romantico? Posso essere chi vuoi tu. Puoi darmi i lineamenti che preferisci e trasformarmi nell’uomo che più brami. Io penso che sia la cosa migliore in un rapporto. Alla lunga dopo molti anni il mio aspetto potrebbe annoiarti. Ma in questo modo mi rinnoverò sempre e scatenerò la tua immaginazione”.
“E se fossi tu ad annoiarti di me?”
R emise una forte risata, per nulla smorzata dalla stoffa, e con le lunghe dita le accarezzò appena i capelli, con un certo timore come se toccarla lo intimidisse: “Io non potrei mai annoiarmi di te, Irene!”
Rassicurata e lusingata, la ragazza sorrise appena, raddrizzandosi. Per un attimo restarono fermi l’uno di fronte all’altra, un drappo nero e un vestito rosso, ad osservarsi reciprocamente, un po’ imbarazzati d’essere faccia a faccia dopo settimane di conversazioni al buio. A Irene riusciva strano parlare con quel lugubre pezzo di stoffa. Infine R si riscosse, le porse galantemente il braccio e le si accostò: “Vogliamo accomodarci a tavola?”
Irene sorrise, annuì e accettò il suo braccio. Sotto la manica della giubba era caldo e solido. Lo seguì mentre la scortava alla tavola imbandita e si sorprese profondamente avvinta da quella situazione. La luce soffusa delle candele creava un’atmosfera soporifera e risvegliava tutta la sua immaginazione. R le scostò la sedia e la fece sedere, poi prese tra le mani una brocca di cristallo piena di vino rosso sangue: “Bevi. Questo sta invecchiando da anni, dev’essere ottimo”.
La fanciulla esitò un attimo, presa da una morsa di paura: “È che io…non bevo mai”.
Sebbene non potesse vederlo, capì che R stava sorridendo divertito: “Sei proprio una bambina! Non temere, non ne verserò troppo. Ma devi assaggiarlo assolutamente” inclinò la coppa e le riempì a metà il bicchiere di quel liquido vermiglio. Irene lo ringraziò con un nervoso cenno del capo e prese il bicchiere, guardandoci timorosamente dentro. L’odore non prometteva un granché. Intanto R aveva fatto il giro della tavola e aveva riempito generosamente il proprio calice. Notò che si muoveva in modo assolutamente silenzioso, come un serpente, senza produrre il minimo rumore.
Lui sedette e levò il bicchiere: “Propongo un brindisi!”
“A cosa?” domandò lei ancora esitante. Lui si sporse in avanti e picchiò il calice contro il suo: “A noi due, cara Irene. A noi due” detto questo, fece un movimento rapidissimo che Irene non riuscì neanche a seguire, e nel giro d’un secondo aveva vuotato il bicchiere e si era risistemato il drappo, che era stato costretto a sollevare un po’. S’era mosso così velocemente che lei non era riuscita a vedere nulla. Batté le palpebre. R depose il bicchiere e le fece cenno di imitarlo. Con un sorrisino nervoso, la giovane accostò alle labbra il bicchiere e bevve un sorso. Era buonissimo, aveva un sapore inebriante, che le riempiva le vene di torpore. Subito inclinò il calice e ne vuotò il contenuto. Di colpo si sentì molto audace. Se lo allontanò dalla bocca, guardò R che osservava dall’altro capo del tavolo e gli lanciò un’occhiata provocante e un mezzo sorriso, come a dimostrargli che non era poi così innocente come poteva sembrare. Afferrò la caraffa e se ne versò un altro bicchiere.
“Ti piace?” le chiese lui, intrecciandosi le dita all’altezza del viso coperto. Irene annuì convinta: “Non ho mai provato nulla di così buono”.
“Serviti pure” la invitò lui alludendo ai cibi prelibati con un ampio gesto della mano. Stavolta la giovane non si fece pregare. Trasse a sé un vassoio con sopra un enorme pollo dorato, ne tagliò un’ala e la sistemò sul proprio piatto. Poi afferrò una forma di pane alle olive e delle patate croccanti. Cominciò a mangiare famelica. Era tutto buonissimo, il pasto più gustoso che aveva mai mangiato. Quando interrompeva per un attimo la sua cena, la innaffiava con generosi sorsi di vino rosso. R non toccava cibo: per farlo avrebbe dovuto togliersi il drappo, e certo non sarebbe stato altrettanto veloce come col vino. Si limitava a osservarla, in silenzio e immobile, con avidità possessiva, dal suo seggio, attraverso la sua maschera di stoffa. Era visibilmente soddisfatto di averla lì davanti.
“Dimmi, R” disse infine Irene continuando a mangiare. Incominciava a sentirsi vagamente leggera e persa, e a non distinguere i contorni delle cose: “Tu hai sempre vissuto ad Heather Ville? Come hai scoperto questo posto?”
“No, non sono sempre vissuto qui” replicò lui con tono piatto: “Ma a volte mi sembra che la parte della mia vita che si è svolta fuori da queste mura sia al più…commiserevole”.
“Che intendi dire? Ti è capitato qualcosa di brutto?” gli chiese Irene dispiaciuta. Avrebbe tanto voluto poter vedere la sua espressione. R si sistemò meglio sulla sedia, con palese insofferenza: “Tu hai un padre buono e affezionato, Irene. Il mio era…d’una diversa pasta. Era il tipo d’uomo che sacrifica il futuro dei figli per salvarsi la pelle. Fin da quando sono nato, l’ho visto sì e no tre volte. Ma in qualche modo lui era sempre presente” volse la testa alla finestra che dava sulla luna piena e un lungo sospiro gli sollevò  il petto. La ragazza lo osservava con un’espressione di benevola pietà: “Mi dispiace”.
“Non è colpa tua”.
“Ma è comunque una storia triste. Avevi fratelli, sorelle…”
“Più d’un fratello. Ma…” R scosse la testa e sbuffò, sarcastico: “Ma anche loro mi erano più che sconosciuti. Bambini che giocavano all’aria aperta sotto alla mia finestra. Solo uno saliva spesso a farmi visita. Avrei preferito che non lo facesse. E la mia povera miserabile madre…tutt’al più vedendomi piangeva”.
“Non…non correva buon sangue tre te e lei?” azzardò Irene con delicatezza. Era la prima volta che R le confidava qualcosa di sé, e lei desiderava capire più che poteva. Lui continuava a fissare assorto fuori dalla finestra: “Oh, no, quando nacqui stava sempre a baciarmi e a stringermi. L’unica donna che l’abbia mai fatto. Ma dopo…dopo la facevo solo piangere. Penso che qualche volta ci abbia provato, a venire da me, ma le mancava il coraggio. Non ho niente contro mia madre. È un donnino tanto fragile ed emotivo. Non vuole male a nessuno, lei. Ma le è sempre mancato il coraggio”.
Irene abbassò gli occhi sul proprio piatto vuoto, senza sapere bene cosa dire. R da parte sua era perso nei suoi pensieri. Infine la giovane disse: “Ma ora hai me”.
Lui le gettò una rapida occhiata e il suo tono si addolcì: “Oh, sì. Tu sei la mia redenzione, Irene. Credevo di non essere in grado di amare…ma tu mi hai fatto scoprire cosa significa tenere a qualcuno e lottare per lui. Quando saremo sposati, diventerò buono. Diventerò una persona come tutti gli altri.”.
“Cos’è che ami in me?” lo interrogò Irene, intorpidita dal vino e dalla voce insinuante del suo compagno senza volto: “Se fosse venuta qui un’altra ragazza, avresti scelto lei come tua sposa?”
“No, non credo” replicò R: “Sei tu la donna adatta a me. La tua immaginazione e i tuoi sogni sono per me come una medicina benefica. Il tuo attaccamento per Heather Ville, così simile al mio, mi rassicura. Sei tu quella che voglio, Irene, non ti cederei mai per un’altra. Le donne sono al più stupide e superficiali. Non è la tua grazia, che pure incanta chiunque la guardi, ad avermi conquistato, bensì le cose che dici e il tuo modo di porti. Sei una ragazza eccezionale, Irene. E capisci le mie ragioni, perché non hai tentato ancora di togliermi il drappo”.
Un rossore adorabile le infiammò le gote. Quei complimenti erano per lei motivo di così grande gioia che le si illuminarono gli occhi. Dunque c’era qualcuno capace di apprezzare un carattere che in città avevano sempre disprezzato, e di mettere in secondo piano quella bellezza che alla fine era stata la sua unica fonte di attrattiva per gli altri. Per la seconda volta, rivolse al drappo nero un tenero sguardo. Voleva prendergli la mano, ma non osava, per timore d’essere respinta.
R venne percorso da un fremito. Di colpo s’alzò dalla sedia, attraversò il tavolo e si fermò accanto a lei. Le porse la mano: “Vieni” le ordinò. Irene, turbata dall’interruzione, non osò obiettare e si lasciò prendere per mano e trarre in piedi. R la guidò oltre la sala da pranzo, nell’oscurità assoluta di Heather Ville, tenendole una mano sulla nuca. Esercitava una lieve pressione quando voleva che si fermasse, la spingeva delicatamente quando desiderava che andasse avanti, dava una tiratina a destra o a sinistra se era il momento di svoltare. La stava portando in luoghi oscuri che lei non aveva mai osato esplorare in precedenza, in anticamere polverose dalle ragnatele che scendevano come drappi di stoffa dal soffitto, rompendosi al loro passaggio, e travi traballanti che oscillavano pericolosamente sopra le loro teste. Tende sottili come carta velina ondeggiavano sotto la spinta del vento e creavano strane forme.
Impaurita dagli ambienti ancor più macabri in cui lei ed R stavano penetrando, Irene si fermò leggermente. R si chinò su di lei finché non sentì la stoffa del drappo pizzicarle la guancia: “Non avere paura” le sussurrò dolcemente: “Ci sono io” allorché le intimò di procedere, lei lo fece, fiduciosa.
Si fermarono di fronte ad una piccola porta di legno rimpiattata in una parete di gelida pietra. R infilò una mano nella giacca e ne tirò fuori una piccola chiave argentata che mise a colpo sicuro nella serratura. La porta rispose docilmente alla sua spinta e si aprì con un cigolio, rivelando una stretta scala a chiocciola che saliva girando su se stessa un cunicolo di pietra pervaso da un potente sentore di umidità. R tornò a chinarsi su di lei: “Questo è un luogo che è sempre rimasto segreto. Voglio mostrartelo. Andiamo!”
Irene esitò un istante sul fondo della scala a chiocciola, poi appoggiò il piede sul primo gradino. Era gelido e scivoloso. Percepì le mani sinuose di R stringerle i polsi e, rassicurata che fosse dietro di lei, cominciò a salire. Via via che si inerpicava lungo la chiocciola freddo e umidità crescevano, insieme al buio, cosicché non vedeva quasi nulla. Andava avanti alla cieca, attenta a non scivolare, in quel mondo di ombre. Quando vide una finestrella che gettava sui gradini qualche fascio di luce lunare, sospiro di sollievo. E tuttavia, subito dopo, qualcosa di piccolo e di peloso le passò sul piede. Cacciò un urlo e rischiò di cadere, spaventata e schifata. R la sostenne prontamente per i fianchi ed esclamò: “Non avere paura! È solo un topo” si chinò e afferrò la bestiola grigia senza ribrezzo apparente. Si raddrizzò sempre col topo che si dibatteva nella mani e lo contemplò per un po’. Poi guardò lei: “Vedi? Solo uno stupido topo”.
Disgustata, Irene gli voltò le spalle e si coprì gli occhi: “Mandalo via, ti prego!”
“Come desideri” replicò R cortese. Si voltò di scatto verso la finestra, la spalancò e buttò di sotto l’animale senza la minima esitazione. Si sfregò le mani soddisfatto: “Bene. Così non darà più fastidio a nessuno. Andiamo?”
Irene aveva seguito il volo mortale del topo con un certo sbalordimento. Ma quando il suo sinistro accompagnatore la esortò a proseguire, non pensò affatto a dirgli di no e, un po’ tremante, riprese a salire.
Incominciava a intravedere una debole luminescenza provenire da sopra. Volse ad R uno sguardo incuriosito, ma la stoffa che gli nascondeva il viso le impediva di coglierne la minima espressione, e lui non l’aiutò con le parole. Non le restò che andare avanti. Come aveva immaginato, la scala terminò dopo alcuni gradini e si trovarono di fronte un’altra porta, sempre di legno. Dalla fessure di sotto usciva una debole luce dorata. Nuovamente guardò R, che le mise nella mano aperta un’altra chiave, d’ottone: “Aprila”.
Irene si voltò verso la porta. Infilò la chiave nella serratura e fece come lui le aveva chiesto.
Era un salone da ballo. Un vecchio, vecchissimo salone da ballo. L’immenso pavimento d’un legno che un tempo era stato dorato scricchiolava ed era grigio di polvere, le splendide tende di broccato rosso che circondavano le ampie finestre erano pregne di ragnatele, e l’alto soffitto interamente affrescato era reso indistinto dalla semioscurità. C’erano moltissime candele accese, candele grosse come ceri pasquali, disposte tutt’intorno alla pista da ballo, che creavano con le loro luci aranciate un’atmosfera soffusa. Nell’angolo destro della sala era stato posto un pianoforte imponente, e accanto ad esso c’era un grammofono. La presenza di R lì si avvertiva molto fortemente: doveva essere un luogo in cui si recava spesso.
Irene ammirò la sala dalla soglia, colpita per l’ennesima volta dalle meraviglie di Heather Ville. Un tempo quel salone doveva essere stato bellissimo e vivace, pieno di colori e di luci, e pieno di coppie che danzavano. R si fece avanti e volse il capo coperto verso di lei: “Non è meraviglioso?” le chiese, con un’inflessione eccitata come quella d’un bambino intento a mostrare i propri regali. A passi svelti raggiunse il pianoforte. Suonò un breve e lugubre motivo che rimbombò per tutto il salone. Irene lo raggiunse a passi lenti, con la gonna rossa che frusciava al suolo, e passò le dita con nostalgia sui tasti dello strumento: “Mi sarebbe piaciuto saperlo suonare…”
“È più facile di quanto sembri” replicò R che continuava a muovere rapidissime le dita ricurve sui tasti, senza neanche vedere quello che faceva. Irene le muoveva nel senso contrario, così di colpo s’incontrarono, sospinte le une verso le altre dall’impeto dei proprietari. Lei arrossì e distolse il viso. Lui, invece, le prese il mento e le sollevò la testa perché guardasse quel pezzo di stoffa nera: “Vuoi ballare con me, Irene Lancaster?”
Il rossore di lei aumentò: “Non credo di saperlo fare”.
“Lascia che sia io a guidarti” ribatté R. Azionò il grammofono mettendovi dentro un grosso disco nero, con gesti rapidi ed esperti. Ne provenne una musica classica, di violini e di arpe, che sembrava un valzer. Al che tornò a rivolgersi a lei e le porse la mano. Irene esitò. Ma in fondo perché rifiutare? La luce di quelle candele, quel salone da ballo, il vino che le annebbiava la mente…perché non perdersi del tutto? Lasciò che R l’attirasse a sé e che le circondasse la vita con un braccio. Ora gli era così vicina che per strappargli il drappo avrebbe dovuto solo tendere le dita…lui parve indovinare cosa le passava per la testa: “Irene” disse gravemente: “Devi giurarmi sulla tua anima che non toglierai mai questo drappo, qualunque siano le circostanze. Anche se io dovessi, un giorno, essere così folle da chiederti esplicitamente di farlo, devi giurarmi che non mi darai ascolto e che non lo toccherai. Giura!”
“Lo giuro” mormorò lei vinta. In quel momento le importava solo la danza e l’ebbrezza. R si rilassò: “Grazie. Mi fido di te. Ora so che non mi tradirai”.
Irene si strinse a lui, timorosa ed eccitata insieme, e guardò in modo diretto laddove immaginava ci fossero i suoi occhi. Gli prese il viso fra le mani, appiattendo il drappo cosicché sentiva la forma del naso e delle guance. Gli sorrise: “Balliamo, R”.
Lui ricambiò lo sguardo attraverso la stoffa con uguale intensità, le braccia avvolte intorno alla sua vita. Lasciò che lo toccasse, senza temere che potesse smascherarlo: “Balliamo, Irene” acconsentì. Allora si mossero. Irene non conosceva i passi, e all’inizio era goffa e imbarazzata, terrorizzata di inciampare o di fare qualcosa di sbagliato. Si fissava i piedi che si muovevano timorosi dietro a quelli spediti ed eleganti di R, che invece la trascinava volteggiando da un lato all’altro del salone, e la teneva stretta come se temesse che gliela portassero via. Era posseduto dall’estasi dei movimenti e delle giravolte e volteggiava da una candela accesa all’altra. Ben presto la ragazza cominciò a seguire il ritmo e ad uniformare i propri movimenti a quelli di lui. Lasciava che la trascinasse, e gli rispondeva prontamente. Ora non fissava più il suolo, ma il sinistro pezzo di stoffa nera, estasiata, avvinta, intontita dal vino e dalla musica. Le sembrava di essere dentro una favola, non pensava più a nulla.
Gli si fece più vicina, per godere del suo calore, della sensazione sublime di essere sua per sempre. R la prese al volo e la sollevò da terra. Irene rise, eccitata, sbattendo i piedi. Lui le fece compiere una mezza giravolta a mezz’aria, poi la rimise a terra, e ripresero a danzare per il salone con nuova audacia. Ormai erano perfettamente sincronizzati, i loro piedi si muovevano in contemporanea, i volti, uno coperto e l’altro scoperto, erano ad un soffio l’uno dall’altro, e i loro passi avevano acquistato una nuova difficoltà. Irene si voltò e premette la schiena contro il suo petto, intrecciando la mano a quella di lui, che la stringeva alla vita, percorsero un tratto in questo modo, poi con una giravolta lui la fece nuovamente girare verso di sé, e riassunsero la posizione iniziale.
Lentamente rallentarono. Erano assorti l’uno dall’altra. Ormai Irene non faceva più caso a quel drappo: aveva comunque la sensazione di vederlo, e di leggere la sua anima. Si sciolse dal suo abbraccio e gli posò le mani sulle braccia: “Aspetta. Mi…mi gira un po’ la testa”.
Lui rise nervosamente, fermandosi. Per la prima volta sembrava imbarazzato e in difficoltà quanto lei: “Anche a me” ammise.
Irene aspettava qualcosa, che non sapeva neanche lei cosa fosse. Qualsiasi cosa, forse. Era come quando si era congedata da Stephan prima di andare ad Heather Ville, e, mentre camminava affranta e infuriata lontano da lui, aveva pregato chiunque fosse in ascolto di farlo correre da lei per dirle ti amo oppure prenderla tra le braccia e baciarla. Adesso voleva che R facesse qualcosa, che desse un significato a quel silenzio prolungato e a quell’invisibile scambio di sguardi.
Lui, confuso, sembrava cercare qualcosa da dire: “Irene, io…non so, mi sento strano”.
“Strano?” ripeté lei, che da parte sua voleva solo che smettesse di parlare. R annuì. Aveva perduto tutta la sua sicurezza: “Sì. È come se tutto quello che ho fatto finora mi apparisse sotto una luce diversa. Quello che ti ho detto di fare con quel…con quel ragazzo…ecco, mi sembrava così giusto…ma adesso…adesso di colpo mi sembra così…egoista. Quello che ti ho detto quella notte che ero così fuori di me…oh mio Dio, all’improvviso è così… orribile, e io…”
Irene sorrise e gli posò un dito sulle labbra coperte dal drappo nero, azzittendolo. Avvicinò lievemente il viso al suo: “Non devi fare questi pensieri. Sei tu ciò che voglio!”
R rimase a lungo in silenzio, stringendole le mani con tanta forza che quasi le faceva male. Poi le sussurrò: “Chiudi gli occhi. E…non li aprire. Non li aprire per nessun motivo”.
La fanciulla non si chiese il significato di quella richiesta. Anzi, era lieta che finalmente fosse giunta. Chiuse gli occhi e una patina oscura le calò sulle pupille. Si protese verso di lui, ma la sua voce, che tante volte le aveva fatto compagnia in oscurità ben più profonde di questa, ripeté concitata: “Irene… non aprirli”.
“Non li apro” gli assicurò. Dopodiché, nello stato di trance in cui era caduta, lo udì sollevare il drappo che gli nascondeva il volto con palese lentezza, pronto a lasciarlo ricadere se lei avesse accennato ad aprire gli occhi. Ma restò con le palpebre abbassate, poiché il desiderio di lui era più forte di quello di scorgere quel viso famoso. Mentre se ne stava ancora ad occhi chiusi, improvvisamente fu travolta dalla sensazione di due labbra che si posavano, timorose e timide, sulle sue. Rimase senza fiato per la sorpresa e per l’eccitazione. Era la prima volta che qualcuno la baciava sulla bocca.
R l’aveva baciata timidamente, incontrando con un tocco lieve le sue labbra, ma Irene subito gli circondò il collo con le braccia e si strinse a lui con tutte le forze. Ricambiò quel bacio fugace e inatteso con una passione che stupì lei stessa. Incoraggiato dalla sua reazione, R affondò le mani tra i suoi capelli ed emise un suono roco dal profondo della gola. Si strinsero l’uno all’altra mentre continuavano a baciarsi con sempre maggior passione. Irene stava baciando un uomo che non aveva mai visto in faccia, ma in quel momento le pareva di non aver mai conosciuto nessuno meglio di lui, e di aver raggiunto un’intimità completa. Per guardarlo le sarebbe bastato aprire gli occhi, ma era troppo presa dalle sue labbra per pensarci.
Fu lui a staccarsi per primo. Prendendola delicatamente per le spalle, la allontanò da sé e le loro bocche si separarono. Irene restò con la testa inclinata all’indietro e le labbra dischiuse, ancora travolta dal bacio. Allorché socchiuse le palpebre, R s’era di nuovo coperto col drappo. Lo fissò con un’occhiata soffusa per qualche secondo, poi con un lungo sospiro s’abbandonò priva di sensi tra le sue braccia, che subito la sorressero lievi. Alla fine il vino che aveva bevuto, l’atmosfera, e poi quel bacio inebriante l’avevano vinta del tutto.
R restò per qualche secondo immobile al centro del salone da ballo, con la ragazza palpitante stretta tra le mani. Poi la prese delicatamente in braccio, dove restò abbandonata immobile, e a passi lenti e soddisfatti uscì e incominciò a scendere la scala a chiocciola.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** La storia del figlio più piccolo ***


LA STORIA DEL FIGLIO PIÙ PICCOLO

 
 
 
 
 
 
Stephan guidava il camioncino per la campagna giallastra e malcurata, su una strada in cui era l’unico guidatore, tra alberi flosci e sfioriti che sfilavano dal finestrino e praterie grandi e piene di erbacce, colmo di indignazione, di rabbia e di dolore. Dolore per il rifiuto di Irene, che aveva distrutto i suoi sogni per colpa di un folle senza volto, di un uomo che viveva in Heather Ville benché nessuno lo sapesse e che si faceva chiamare solo con una lettera, la lettera R.
Stephan aveva per questo misterioso personaggio un odio a dir poco immenso. Non solo era convinto che avesse stregato la sua Irene imprigionandola in quella casa maledetta, ma che le sue intenzioni fossero le più vergognose e crudeli del mondo. Qualsiasi cosa fosse, certo qualcuno che non osava mostrarsi e che passava le giornate strisciando al buio non era normale. Il pensiero che Irene fosse sola con lui lo riempiva di terrore. Non poteva permettere che le facesse del male. Lo stesso Giorgio Lancaster gli aveva mandato una breve, angosciata mail in cui diceva di essere stato costretto ad andarsene perché “l’aveva visto”. Cosa avesse visto e cosa fosse successo restava un mistero, ma Stephan era certo che ci fosse lo zampino di R.
Poiché non sarebbe riuscito a riprendere a vivere normalmente sapendo che Irene era chiusa ad Heather Ville con R, Stephan aveva preso la drastica risoluzione di scoprire tutto quello che riusciva sul conto del suo rivale. Dato che la ragazza non intendeva ascoltare nessuno al riguardo, l’unico modo di convincerla delle cattive intenzioni del suo promesso sposo era spiattellarle qualche storia scottante. Stephan non voleva costringerla a seguirlo, nel caso avrebbe accettato il dolore, ma accertarsi che R non avesse alle spalle un passato terribile. Era sicuro che aveva un motivo di non farsi vedere, e un altro motivo di starsene chiuso senza avere contatti col mondo.
Aveva già setacciato due paesini nei dintorni di Heather Ville chiedendo informazioni sul suo conto, ma tutti gli avevano detto di non saperne nulla. Lui però era determinato a scoprire tutto sul conto di R. R…chissà qual era il suo vero nome, quale identità nascondeva.
“Lo scoprirò” si disse, oltrepassando un cartello con su scritto a lettere sbiadite il nome di un altro paesino: “Dovessi metterci mesi”.
Non si considerava un gran pensatore, né tantomeno uno scopritore di misteri, ma una cosa almeno l’aveva capita: R doveva avere qualcosa che non voleva in alcun modo mostrare agli altri e soprattutto a Irene. Qualcosa di cui si vergognava, e che l’aveva spinto a nascondersi ad Heather Ville. Forse era vanità, era narcisismo ciò che lo spingeva ad allontanarsi così dal resto della razza umana? No, no, qualcosa gli diceva che non era così. Forse era il mondo ad allontanarlo. Strano che Irene non ci fosse ancora arrivata, ma probabilmente era stata abbindolata troppo ed R le aveva impedito di pensare.
“Irene…” pensò, stringendo i pugni sul volante. Non avrebbe rinunciato così facilmente. Se riusciva a liberarla dalla fascinazione, era certo che lei finalmente avrebbe ripreso a guardarlo con gli occhi limpidi di quando l’aveva conosciuto, e avrebbe magari scoperto che le sarebbe piaciuto diventare sua moglie e vivere una vita calda e dolce al suo fianco. La collera di R non lo spaventava poi molto. Era soltanto un verme, un inutile verme troppo pavido per osare uscire da Heather Ville, che era stato capace soltanto di ringhiargli contro, quando si era dichiarato. Checché ne dicesse Irene, che era potente, governava le ombre ed era dotato di forza sovrumana, Stephan non lo temeva. Anzi, lo compativa. Aveva dimenticato cosa fossero la bellezza del sole, il calore della mano di un amico, la sensazione del vento sulla pelle. Se sperava di rifarsi di tutto questo tramite Irene, beh, gliel’avrebbe impedito.
“Mi basta smascherarlo” disse a mezza voce: “Così Irene sarà libera e lo vedrà com’è davvero, vedrà tutto il quadro in cui si trova com’è davvero, e capirà di essere stata ingannata subdolamente”.
Svoltò l’angolo. Su un piccolo e solitario colle verde si sviluppava un ancor più piccolo villaggio medievale, con poche casupole edificate lungo il suo perimetro e una o due viuzze che lo attraversavano tutto, fino ad una chiesetta romanica piazzata proprio in cima, a vegliare sugli altri edifici. Stephan parcheggiò il camioncino in un piazzale di pietra prima del paese, accanto ad altre automobili, poi si mise il berretto e uscì nell’aria fredda della campagna. Contemplò per un poco il posto che lo attendeva in silenzio, poi inforcò la prima viuzza in salita, infilandosi tra due file di case. In giro c’era poca gente e tutti lo guardavano con sospetto e ostilità, come se fosse un pericoloso sicario venuto ad ucciderli tutti. Lo sbirciavano dalle finestre, ritraendosi appena li guardava, oppure gli lanciavano lunghe occhiate dalle panchine o dai bordi di un fontanile di pietra. Il ragazzo teneva gli occhi bassi, intimidito da quegli sguardi, senza osare fronteggiarli. Lì c’era come un’aura di desolazione, di abbandono, che aveva percepito più fortemente ad Heather Ville. Ora che ci pensava, era il posto più vicino alla residenza in cui era andato.
Giunse di fronte all’insegna di un pub appesa a una trave, un vecchio pub che aveva l’aria di una taverna medievale. Di solito era in posti come quelli che si ottenevano informazioni, così entrò timidamente. Dentro faceva molto caldo, a differenza di fuori, a causa del bel fuoco rossastro che ardeva nell’antico camino di pietra. Il locale era ampio e illuminato fiocamente, colmo di grossi tavoli di legno occupati da commensali intenti a bere e a chiacchierare. In un angolo c’era un grande bancone al quale un grasso uomo preparava da bere. Alle pareti erano appese locandine, poster e strisce con su scritte varie marche di birra.
Non appena Stephan fece il suo ingresso, più di quindici teste si volsero di scatto verso di lui, fissandolo ostilmente, e nel pub calò un improvviso silenzio. Perfino il proprietario smise di riempire il boccale che aveva in mano per fissarlo. Il giovane deglutì e girò sugli avventori uno sguardo amichevole. Quelli continuarono a fissarlo per qualche minuto, poi ripresero le loro occupazioni, con maggiore tensione di prima. Si mise in coda al bancone sentendosi fortemente un intruso. Quando arrivò il suo turno, il barman serrò le labbra e fletté i muscoli delle braccia taurine: “Cosa desidera?” gli chiese a muso duro. Avesse detto cosa desidera straniero avrebbe ottenuto lo stesso effetto.
Stephan arrossì e depositò sul bancone alcune monete: “Una birra scura, per favore” balbettò. L’uomo controllò sospettoso il denaro, poi, rassicurato, lo intascò e gli fece un brusco cenno del capo: “Si accomodi”.
Stephan si sedette ad un tavolo libero addossato al muro, consapevole che diversi sguardi erano rimasti fissi su di lui. Si guardò un po’ intorno, pensando ora al posto in cui era capitato, ora a Irene, e che chiunque altro, al suo posto, l’avrebbe presa alla lettera e l’avrebbe lasciata cuocere nel suo brodo. Ma lui non poteva farlo. Non poteva lavarsene le mani dicendosi che se l’era cercata lei. L’amava troppo per farlo. Irene era una ragazza sensibile e intelligente e non meritava di essere rinchiusa lontano dalla luce del sole. Aveva la presunzione di avere intravisto nei suoi occhi un barlume d’amore per lui, un tempo, e desiderava che riaffiorasse.
“Una birra scura per lei, signore” disse una giovane cameriera gradevolmente in carne, appoggiando con un sorriso un grosso boccale colmo di schiumante liquido ambrato dinnanzi a lui. Portava una divisa bianca e una bandana da cui spuntavano ciocche di capelli rossi e ricci, e, a differenza degli altri, sembrava amichevole, anzi, dal modo in cui lo guardava si sarebbe detto lo trovasse di suo estremo gradimento. Aveva guance tonde e rosse da bambina. Stephan le sorrise e prese il boccale: “Ti ringrazio, sei gentile” bevve un buon sorso. Era squisita.
La cameriera era rimasta, intimidita, accanto al tavolo, rigirandosi tra le mani una ciocca di capelli. Alla fine, piuttosto rossa in viso, disse: “Non fare caso agli altri. Qui non amiamo molto i nuovi venuti. Comunque io mi chiamo Paola”.
Stephan rispose con un altro sorriso: “Piacere. Io sono Stephan. Non temere, non ci faccio caso. Sono passato solo per avere alcune informazioni. Anzi, ora che ci sono” si sporse verso di lei, e abbassò il tono con fare cospiratorio: “Sai per caso qualcosa su una certa proprietà di nome…Heather Ville?”
Paola aggrottò le sopracciglia e assunse un’espressione pensierosa. Poi tornò a guardarlo: “A me non viene in mente nulla, ma puoi chiedere alla vecchia Megara. Abita un po’ fuori dal villaggio, sulla sommità della collina. Lei…suo marito è stato proprietario di Heather Ville, per poco tempo”.
Stephan sentì montare l’eccitazione. La prima pista in due giorni di tappe forzate! Si alzò immediatamente, vuotando il boccale in un sol sorso, e mise nella mano paffuta della ragazza una manciata di monete: “Grazie mille, mi sei stata molto utile”.
“Fa attenzione!” gli gridò Paola quand’era sulla soglia, visibilmente dispiaciuta che se ne andasse così presto: “Megara, a quanto si dice, non ci sta molto con la testa!” lui le fece un cenno, e corse via.
Aveva la sensazione netta e infallibile che quella vecchia, quella Megara gli avrebbe dato le risposte che cercava. Si incamminò col suo passo vigoroso e allenato su per la collina, attraversando in fretta le casupole senza fare più caso alla gente. Ora che era vicino alla scoperta, si sentiva pieno di energia. Finalmente qualcuno che aveva sentito parlare di Heather Ville, che anzi, l’aveva addirittura posseduta! Dunque non era stata sempre di R. R era arrivato dopo.
Quando le case finivano, c’era un bel tratto da fare a piedi, tra alberi dalle fitte chiome e rocce sporgenti. La casetta di Megara sorgeva in un luogo isolato, quasi nascosto, che non avrebbe notato se non avesse avuto spirito di osservazione. Era rincantucciata dietro ad un’enorme pietra rettangolare, ombreggiata da una fila di betulle, e tanto piccola che sembrava quasi una baracca. Aveva il tetto spiovente, mezzo distrutto, i muri fatiscenti e la porta chiazzata di strane macchie. Le finestre erano sbarrate. Però il comignolo eruttava denso fumo grigio, chiaro segno che c’era qualcuno. Stephan sorrise e si avviò verso di essa sprofondando nell’erba alta fino ai fianchi.
Ad un lato della casetta c’era un piccolo orto in cui erano state piantate bizzarre piante di colori vivaci, che emanavano un odore pungente e stordente. Folte piante di ortica accarezzavano i muri, e accanto alla porta c’era un piccolo cerchio di funghi bianchi come la luna che brillavano appena al sole. Avvicinandosi alla porta, Stephan provò un insensato e forte brivido. Era una sensazione minacciosamente simile a quella che aveva provato ad Heather Ville. La folle impressione di essere precipitati in un altro mondo, un mondo di ombre e di segreti.
Allorché giunse di fronte alla porta di legno, vide che ci era stato infisso sopra un crocifisso. Esitò, poi bussò tre volte, dicendo ad alta voce: “È permesso? C’è nessuno?”
Non arrivò alcuna risposta dall’interno. Stephan ripeté l’invocazione e bussò ancora, più forte. Niente. Stranito, si buttò contro la porta e con una spallata la spalancò. Barcollò in un luogo buio che puzzava insopportabilmente di muffa e di piante essiccate. Si tappò il naso, disgustato. La casetta all’interno era composta da un solo locale, semibuio e fatiscente come l’esterno. Il pavimento di legno era ingombro di piramidi di libri, le pareti erano piene di mensole che ospitavano vasetti dal contenuto sospetto, trecce di erbe puzzolenti, ciotole e bicchieri. In un angolo c’era un camino pieno di polvere con un paiolo agganciato, al cui interno sciaguattava una zuppa bollente che fumava, e un giaciglio dal terribile odore di pelle. Dal soffitto pendevano rampicanti che estendevano i loro filamenti addirittura sui muri, simili a serpenti velenosi. Non c’era un solo centimetro di quel luogo che non fosse ingombro di roba.
Stephan si fece avanti guardandosi intorno con chiara meraviglia, chiedendosi quale individuo pensante avrebbe voluto vivere lì. Heather Ville al confronto era una reggia. Allorché giunse accanto al camino, e si chinò sul paiolo, udì un cinguettio e si voltò di scatto: all’interno di una gabbia di metallo c’era un canarino rosso sangue che lo guardava con brillanti occhi neri. Sotto al trespolo al quale si reggeva c’era una grossa rosa rossa. Il ragazzo sorrise appena e si avvicinò al canarino, che sembrava volergli rivelare un segreto.
Di colpo una mano scheletrica dalle dita adunche gli agguantò il braccio, stringendolo in una presa d’acciaio, e una voce rauca sibilò: “Cosa ci fai qui?”
Terrorizzato, Stephan si girò col cuore che gli batteva frenetico nel petto e si trovò faccia a faccia con una vecchia davvero decrepita, che dimostrava novant’anni e anche di più, e che lo fissava con occhi bianchi e acquosi, quasi ciechi. Il suo orrendo aspetto e la puzza di erbe che emanava servirono a riempirlo di ribrezzo: era bassa e rachitica, ingobbita in se stessa, con un volto così segnato di rughe da sembrare un vecchio pezzo di cuoio lasciato ad essiccare al sole. Gli occhi profondamente infossati le davano un’aria da invasata. I capelli, lunghi fino alle ginocchia e tutti ingarbugliati, erano grigi e stopposi, intrisi di sporcizia, e le infagottavano il corpo scheletrico come un mantello. Era vestita di stracci sudici e tremava così tanto, era così fragile e avvizzita da dare l’idea di un frutto marcio che presto si sarebbe annerito, e sarebbe morto. Aveva la bocca spalancata su un pozzo nero privo di denti e la pelle cadente che rivelava le ossa aguzze del viso, contratto in una smorfia di sospetto e di follia. Con una mano gli stringeva il polso, con l’altra brandiva un coltellaccio dalla larga lama che aveva sollevato sopra la testa.
Stephan impallidì e la paura gli liquefece le gambe. Quell’orribile visione, quelle dita scheletriche che gli affondavano nella carne, e quegli occhi bianchi, l’avevano gettato nel panico. Si riprese prima che la vecchia potesse abbassare il coltello su di lui ed esclamò: “La prego, si fermi! Sono venuto qui in cerca di risposte! Non ho mai fatto nulla di male, io!”
Lei si bloccò con l’arma a mezz’aria. Lo scrutò con gli occhi socchiusi e sussurrò: “Ah! Non vedo più come una volta. Chi sei? Tu non sei lui, no. Credevo che lo fossi, ma la tua voce mi è estranea. Cosa vuoi da me? Perché ti sei introdotto in casa mia?”
Stephan, spaventato dal suono di quella voce rauca, piano piano riprese il controllo di sé. La vecchia aveva abbassato il coltello e non sembrava più incline ad aggredirlo. Le chiese, tremando: “Parlo con Megara? I-il mio nome è Stephan, sono un ragazzo di città, i-io non…non sono venuto per farle del male”.
“Un ragazzo di città?” gli fece eco lei con tono vuoto. Gli lasciò andare il polso, e lui sospirò di sollievo. Indietreggiò di alcuni passi: “Sì, sono Megara. Cosa sei venuto a fare? Nessuno viene mai qui. Prima, quando il mio povero marito era ancora vivo, vedevo tanti amici…non so dove siano ora. Sono sola. Da così tanti anni…non riesco davvero ad immaginare cosa voglia da me un ragazzo di città”.
Stephan si massaggiò il polso. Il coltello era ancora nella mano di Megara, e la cosa lo inquietava non poco. Doveva essere cauto: “Mi scuso di averla spaventata. Non era mia intenzione. Io…mi è stato detto che lei sapeva cose che mi interessa scoprire”.
Megara torse il collo di lato come un uccello, con un movimento così innaturale che Stephan avrebbe voluto distogliere lo sguardo: “Le tue parole sono gentili, ragazzo” bisbigliò: “Raramente ho incontrato qualcuno che si mostrava gentile nei miei confronti. Tu sembri un ragazzo onesto. Cosa può interessare delle cose che so ad un ragazzo onesto? So molte cose, ma molte di queste preferirei averle dimenticate. Il mio povero defunto marito le ha portate nella tomba”.
Si voltò e, senza aggiungere una sola parola, andò ad una mensola sopra ad un bancone sudicio. A colpo sicuro afferrò un vasetto pieno di una polvere fine e viola e un grosso frutto rotondo di un bianco lattescente, da cui traspariva il succo scarlatto che scorreva all’interno. Con il gomito ossuto pulì alla meno peggio il bancone sporco di sangue e vi dispose sopra le cose che aveva preso. Poi prese un pollo morto che se ne stava appeso al muro e, con il coltello con cui avrebbe voluto impalare lui, gli tagliò la testa con un colpo sicuro. Il sangue scuro sprizzò e le sporcò le mani. Stephan fece una smorfia di disgusto e distolse gli occhi.
“Allora? Cosa vuoi sapere?” ripeté Megara frugando nelle interiora dell’uccello senza fare una piega, e rimirando con uno sguardo attento un grosso filamento rosato che ne estrasse. Lo buttò nel fuoco e cominciò a spennarlo. Ogni tanto lo riempiva con la polverina viola contenuta nel vasetto. Il ragazzo, seriamente convinto della scarsa sanità mentale della vecchia, disse, incerto: “La ragazza che amo è in grave pericolo”.
“L’amore è il più puro e il più nobile dei sentimenti” commentò lei, non molto turbata, infilzando il frutto bianco che spruzzò succo rosso sul pollo spennato: “Ma a volte porta a commettere grossi errori, ragazzo”.
“Farò qualsiasi cosa per salvarla” dichiarò Stephan deciso: “Purtroppo questa ragazza è tuttora prigioniera…di sua volontà…ad Heather Ville”.
Allorché pronunciò quel nome, la vecchia sussultò e lasciò cadere il coltello insanguinato, che toccò il pavimento con un tonfo sordo. Venne percorsa da un tremito violento e spalancò gli occhi semiciechi: “Dove…” sussurrò: “Dove hai detto che si trova la ragazza?”
“Ad Heather Ville” ripeté Stephan. Megara ebbe un altro sobbalzo. Era ancora girata di spalle, non poteva vedere la sua espressione, per fortuna, ma messa così assomigliava alla statua del turbamento. Quando si voltò lentamente verso di lui, aveva il viso rugoso stravolto dall’angoscia: “Chi…chi l’ha lasciata andare lì?” esclamò. Stephan abbassò gli occhi: “Lei e suo padre si sono trasferiti lì credendo di essere soli. Ma lei è caduta preda di un maleficio. Un uomo misterioso di nome R la tiene prigioniera e sostiene di esserne innamorato”.
La vecchia impallidì ancora di più: “Devi portarla subito via da lui, ragazzo! Subito!”
“Ho tentato, ma Irene è convinta che R le darà l’avventura che cerca e non mi ha dato ascolto. Ho saputo giù al villaggio che suo marito ha posseduto Heather Ville per un po’. Cosa ne sa lei?”
“Io…” sussurrò Megara, fissando il vuoto con uno sguardo carico di paura. Si portò le mani alla gola e si appoggiò al giaciglio, come non riuscisse a reggersi in piedi. Vi crollò sopra e afferrò dal suolo una tazza sudicia con dentro un liquido salmastro che puzzava un po’. Ne bevve rumorosamente un sorso, e quando l’ebbe fatto parve sentirsi meglio. Lo fissò: “Ti dirò ciò che so, poiché sento che hai un cuore puro e che ami davvero la ragazza bramata da R” diceva quel nome con timore superstizioso. Si sporse verso di lui fino ad avere il viso ad un soffio dal suo e lo colpì con una zaffata di tanfo marcio. Gli chiese con voce vibrante: “Hai mai sentito parlare della famiglia Lawrence?”
Stephan frugò nella memoria, ma sapeva ben poche cose e di certo quella non gli diceva nulla. Scosse la testa. Megara doveva aspettarselo: “Neanche io, questo lo appresi in seguito, ma dato che sei qui perché ti parli di R, fingiamo che l’abbia saputo da prima. I Lawrence sono un’antica e ricca famiglia nordica che in Svezia ha acquisito molto credito e molta fama. Per generazioni e generazioni, il loro prestigio ha illuminato i salotti della buona società. Erano noti per il loro animo calcolatore, per i pochi scrupoli che si facevano, e per il loro infallibile fiuto per gli affari. Avevano una grandissima proprietà che dava sul mare artico, un vecchio castello in cui vivevano da diversi secoli.
“Hugo e Ingrid Lawrence erano da poco sposati quando diedero alla famiglia il primo erede, un maschio bello e forte. Non passò molto tempo che ne ebbero altri due, identici al primo in tutto e per tutto, che furono esibiti con orgoglio e con compiacimento. Per diversi anni la famiglia Lawrence rimase questa, i genitori, e i tre figli maschi. Hugo Lawrence, il padre, era un uomo egoista e senza scrupoli, un uomo che amava il denaro e i piaceri sopra ogni altra cosa e che sprofondava spesso nella depravazione, ma era abbastanza abile da nasconderlo al resto del mondo. Doveva mantenere la facciata onorevole. Ingrid, che invece era una donna introversa e fragile, sempre chiusa nelle sue stanze, desiderava con tutto il cuore un altro figlio, che desse gioia alla loro mezz’età ora che gli altri erano cresciuti. Alla fine Hugo cedette alle sue suppliche insistenti. Quando lei diede alla luce il figlio più piccolo, che chiamò Raphael, si dice che ci fu una grande festa e che tutti gioirono”.
Megara si interruppe un attimo e si alzò dal giaciglio, seguita dallo sguardo attento di Stephan. Andò alla gabbia col canarino rosso e lo accarezzò con la punta delle dita aguzze, assorta: “Questo solo il primo anno di vita del piccolo Raphael. Poi, repentinamente, con una tempestività sospetta, il quarto figlio fu bruscamente nascosto al mondo. Smisero di mostrarlo al pubblico, rifiutarono di aggiungerlo al quadro di famiglia, non fecero foto, rinnegarono quasi la sua esistenza. Hugo lo fece rinchiudere nella stanza più isolata del palazzo, con la sola compagnia di un precettore che a volte veniva a dargli lezioni. Ingrid perse la ragione e rifiutò di vederlo. Nessuno sapeva nulla di lui, non era nient’altro che uno spettro avvolto dal mistero che se ne stava rintanato nella sua “cella”. Hugo disse che era gravemente malato, e che per questo lo tenevano nascosto. Ma in molti ipotizzavano un motivo diverso. Il precettore, l’unico che era ammesso alla sua presenza, non diceva una parola, si limitava a lodare la spiccata intelligenza di quel bambino senza volto”.
“R!” esclamò Stephan. Di colpo aveva capito tutto: “Raphael Lawrence…è R!”
Megara lo fissò intensamente: “Dodici anni dopo la sua nascita, dopo undici anni di reclusione forzata, Hugo e Viktor, il terzogenito, furono trovati morti nella suddetta camera. Uccisi da una mano brutale, assassinati entrambi lo stesso giorno. Viktor era l’unico dei tre fratelli che osasse salire a volte agli ultimi piani per andare a far visita a Raphael. Lui, da parte sua, era scomparso nel nulla. Era fuggito dalla sua prigione. Fu cercato in lungo e in largo dal primogenito, ma non riuscì mai a trovarlo, anche perché non avendolo mai visto, non sapeva cosa cercare.
“Per alcuni anni di questo misterioso ragazzino senza volto che aveva nelle vene il nobile sangue dei Lawrence, e che si era macchiato le mani del sangue di suo padre e di suo fratello non si seppe più nulla. Si credette che fosse morto, o disperso. Allora io e mio marito eravamo un’onesta coppia che viveva nel paese che hai visitato quest’oggi. Lui, mio marito, era un rinomato agente immobiliare, che s’era ritrovato tra le mani una strana e sperduta proprietà di nome Heather Ville. Gli era stata ceduta piuttosto bruscamente da un vecchio amico e non sapeva cosa farsene, perché nessuno la voleva. Era una casa isolata e inquietante, tutt’altro che invitante. Era molto preoccupato, lo ricordo bene. Voleva sbarazzarsene al più presto.
“Un giorno al villaggio si presentò un uomo misterioso con il viso coperto da un drappo nero, che non parlava con nessuno. Prese alloggio in una pensione. Tutti avevano paura di lui e gli si tenevano alla larga. Non aveva fornito alcuna informazione su di sé, e si era presentato con un nome falso. Due giorni dopo il suo arrivo, andò a far visita a mio marito. Non mi piaceva. Aveva come un che di sgradevole, di inquietante, che mi spingeva a stargli alla larga. Implorai mio marito di mandarlo via, ma lui, pace all’anima sua, è sempre stato un uomo buono con tutti, così l’ha ricevuto nel suo studio. Lì R ha detto di essere disposto a pagare qualsiasi somma in cambio di Heather Ville, senza neanche volerla vedere prima. Ovviamente mio marito si stupì non poco, considerata la proprietà di cui si stava parlando, e gli chiese il motivo di questa decisione. R, che non s’era scoperto neanche allora, si limitò a dire che aveva bisogno di solitudine. E allora tirò fuori dagli abiti un rotolo di banconote e lo mise di fronte a mio marito. Era una cifra esorbitante!
“Mio marito ha rifiutato l’affare e l’ha cacciato. Ma il pensiero di quei soldi non ci abbandonava mai. Una cifra del genere ci avrebbe permesso di cambiare vita, e in cambio dovevamo solo cedere una casa che nessuno voleva. Mio marito richiamò R, e accettò. Conclusero un affare senza contratto. Prendemmo i soldi, e lui se ne andò a Heather Ville, barricandosi dentro. Da allora nessuno lo vide più. Ovviamente sapevamo che era lì, ma non usciva mai, neanche durante le festività. Avevamo paura di lui e della casa in cui viveva. Heather Ville era diventato un posto maledetto. Il suo proprietario era un uomo maledetto.
“Fu mio marito a collegarlo a Raphael Lawrence. Tramite certe sue fonti venne a sapere della tragica storia di quella famiglia e gli ci volle poco a fare un collegamento tra il ragazzino scappato dal palazzo e il giovane dal volto coperto che si era chiuso ad Heather Ville. Aveva fatto affari con un efferato assassino. Fummo assaliti dall’orrore. Non avevamo nessuna prova per provare la sua identità, ma mio marito era sicuro. Aveva fornito ad un criminale il nascondiglio perfetto. Benché lo supplicassi di restare con me, si recò ad Heather Ville per accusarlo e riprendersi la casa. Non fece mai più ritorno”.
A quel punto Megara parve troppo toccata per continuare. La voce le si spezzò, le lacrime le riempirono gli occhi e si nascose il viso tra le mani, singhiozzando. Stephan, che aveva ascoltato tutto con crescente attenzione, le batté timorosamente una mano sulla spalla: “Mi…mi dispiace”.
“Mio marito ha fatto quello che riteneva giusto” sbottò la vecchia, non appena si fu ripresa: “Sono orgogliosa di lui. Dopo del tempo che non tornava, fui assalita dal terrore terribile che R sarebbe venuto ad uccidere anche me. Sapeva che ero a mia volta a conoscenza della sua identità? L’aveva estorto a mio marito? No, sapevo che lui aveva sopportato le peggiori torture senza fare il mio nome, ma il pensiero di quell’uomo dal viso coperto che di notte mi si avvicinava per uccidermi non mi dava pace. Era il Diavolo. Non era un uomo. Così mi nascosi qui, lontana da tutti, per non farmi trovare. Cambiai nome, cambiai perfino aspetto, mi misi a coltivare le erbe, per non fornire alcun collegamento tra me e la donna che ero stata. Nessuno venne a darmi fastidio, anche perché non raccontai questa storia ad anima viva. Soltanto pochi al villaggio sapevano chi era stato mio marito.
“Tempo dopo, venni a sapere che un terribile incendio era avvenuto ad Heather Ville. Nessuno sapeva perché. Quando erano riusciti a spegnere tutto, la casa si era per la maggior parte salvata, ma di R non s’era trovata più alcuna traccia. L’avevano cercato ovunque, in ogni stanza, tranne che nei muri. Ma niente. Io però so cosa lo spinse ad appiccare il fuoco, perché è stato lui a provocare l’incendio: voleva farla finita con la sua vita miserabile, e allo stesso tempo bruciare le prove, cioè ciò che restava di mio marito. Ricordo che allora gioii alla notizia e sperai con tutta me stessa che fosse davvero morto come tutti dissero, che si fosse suicidato e ci avesse liberati dal male che portava. Fino ad ora, quando sei venuto qui, ne ero convinta. Heather Ville fu nuovamente messa in vendita e probabilmente è qui che entrano in scena la ragazza che ami e suo padre”.
Stephan batté le palpebre. Ora sapeva la verità. Sapeva chi era stato R, cosa era stato capace di fare, ed era terrorizzato, perché si rendeva conto del pericolo in cui si trovava Irene. Se solo avesse saputo prima! Le avrebbe detto chiaro e tondo che si era data ad un assassino. Mormorò: “R non è morto, Megara. Forse sperava di morire, ma quando hanno spento l’incendio era ancora vivo, e pur di non farsi trovare si è nascosto nei muri. Ora ha in mano la mia Irene…maledizione!”
Megara gli prese le mani con sollecitudine e le strinse: “Non devi indugiare un solo istante, ragazzo! La ragazza che ami non deve restare lì con quell’essere un minuto di più. Corre un grave pericolo!”
“Un’ultima cosa, Megara” disse Stephan: “Neanche tu hai visto il volto di R, cioè…di Raphael?”
“No. Sono sicura che mio marito l’ha veduto, come l’hanno veduto Hugo Lawrence e suo figlio. Tutti quelli che l’hanno veduto sono morti. L’unico che è stato risparmiato e che l’ha veduto è il precettore. Non so perché Raphael lo lasciò in vita, ma probabilmente gli si era affezionato, e aveva visto in lui un padre. Dubito però che possa esserci di qualche utilità, poiché ora si trova in Svezia”.
“Giorgio Lancaster l’ha visto…” sussurrò Stephan. Di fronte allo sguardo interrogativo di Megara, spiegò: “Il padre di Irene. Lui è vivo. Raphael lo ha risparmiato. Perché?”
“Non lo so” commentò lei, alzando le spalle: “Ma è davvero così importante scoprirlo? Pensa alla tua Irene, non tentare di venire a conoscenza di un segreto che vuol dire morte per chiunque lo scopre. Inoltre, a quanto dici, ora Raphael s’è messo in testa d’essersi innamorato della ragazza, e possiamo aspettarci di tutto per chi ha intenzione di disturbarlo”.
A quelle parole, un terribile presentimento turbò l’anima di Stephan. Impallidì e un mancamento lo colse. Oh, no…in tutto questo, s’erano dimenticati completamente di Tommaso! Tommaso aveva sempre nutrito sospetti, assai prima di loro, e non sapeva che Giorgio era tornato in città! A momenti sarebbe andato ad Heather Ville come gli era stato ordinato nella più completa ignoranza, inconsapevole del pericolo che correva!
“Megara!” gridò: “Un mio caro amico non sa nulla ed è in viaggio per Heather Ville! Cosa possiamo fare?”
La vecchia lo fissò ad occhi spalancati. Poi disse lugubre: “Nulla, ragazzo. È troppo tardi per il tuo amico. Prega per lui, e spera che non sia così pazzo da intralciare gli affari di Raphael”.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Fine di un'illusione ***


FINE DI UN’ILLUSIONE

 
 
 
 
 
 
Tommaso guidava assorto la sua piccola macchina blu sulla strada deserta che conduceva ad Heather Ville. Era partito appena due ore prima che Giorgio Lancaster tornasse, come gli era stato detto, e viaggiava ormai da molto. Riconosceva la desolazione dei campi che lo circondava.
A dir la verità non faceva i salti di gioia alla prospettiva di tornare nella tetra e misteriosa Heather Ville, specialmente dopo gli ultimi avvenimenti. I sospetti che nutriva circa la presenza che la notte parlava con la signorina Irene, in quei giorni passati in città, si erano rafforzati. Si era ricordato all’improvviso di mille particolari: la corda aggiunta all’arpa, i movimenti che più volte aveva udito, gli atteggiamenti sfuggenti della signorina, e infine quel suo modo di liberarsi di lui in fretta e furia, spedendolo in città con un pretesto ridicolo. C’era qualcosa sotto, il suo vecchio intuito non falliva mai, qualcosa di sporco. Beh, stavolta non si sarebbe fatto infinocchiare. Per Dio, stavolta avrebbe scoperto tutto! Conosceva la signorina Irene da quando aveva mosso i primi passi, tra loro era ormai nato un rapporto di cordialità e, sì, perfino affetto. L’avrebbe messa sulla corda e con gentile fermezza l’avrebbe esortata a confessarsi.
“Che si sia fatta il fidanzato? Forse Stephan non le piace più?” certo si sarebbero spiegate le conversazioni notturne…ma chi poteva parlare con lei in una proprietà sperduta nel nulla, se non era già lì da prima? E soprattutto, da dove le aveva parlato? Non poteva trattarsi di un semplice innamorato troppo impertinente.
Allorché scorse la sagoma scura di Heather Ville profilarsi all’orizzonte, aveva preso la solida risoluzione di entrarci a passo di marcia, con un atteggiamento dignitoso, di recarsi dalla signorina Irene e di annunciarle che sapeva tutto e che l’avrebbe aiutata come poteva. Fingendo una scoperta che non era avvenuta l’avrebbe spaventata e lei per riflesso sarebbe scoppiata in pianto e gli avrebbe raccontato tutto.
“Sì” si disse soddisfatto, lisciandosi i baffi curati: “Bravo, vecchio mio”.
Heather Ville era ancora più inquietante di quanto ricordava, specialmente adesso che l’alba era appena cominciata e che i contorni delle cose erano ancora sfocati e indefiniti. Il portone era ben chiuso e le finestre nere sembravano occhi ostili che lo fissavano. Tommaso parcheggiò la macchina lì davanti e osservò la casa con sguardo tetro. Proprio non era un bel posto. Il padrone era stato pazzo a comperarla. Lui sapeva cosa ne avrebbe fatto, se ne avesse avuta la possibilità: l’avrebbe demolita da cima a fondo.
Fu contrariato che nessuno fosse venuto ad accoglierlo. Insomma, non solo era stato sfrattato senza spiegazioni, inoltre non si degnavano neanche di venirlo a salutare, come a fargli capire palesemente quanto la sua presenza fosse sgradita. Indignato, il domestico uscì dalla macchina e prese il suo bagaglio stretto e spartano. Si avviò in direzione del portone brontolando tra sé e sé insulti cortesi e minacce blande contro il padrone e sua figlia. Le aveva sempre giudicate brave persone, ma forse doveva ricredersi.
La sala da pranzo su cui dava il portone era avvolta dalla più nera oscurità. Questo, tuttavia, non impedì a Tommaso di notare che la tavola recava i segni di una cena a dir poco sontuosa: c’erano ancora i piatti sporchi e le posate in disordine, nonché i bicchieri con dentro i rimasugli del vino. I vassoi contenevano ciò che restava delle pietanze consumate. “Ah” commentò il domestico con un sospiro rassegnato. Il padrone e la signorina si erano davvero dati alla pazza gioia in sua assenza. Ma chi aveva cucinato? Poco importava, contava solo che toccava a lui ripulire tutto. Prese il bicchiere che aveva vicino e odorò. Uhm. Doveva essere stato un vino ottimo. Lui era un vero esperto di vini. A giudicare dall’aroma, doveva trattarsi di uno Chateau Branaire Ducru. E l’annata era ottima. Non sapeva che il padrone possedesse simili rarità! Vide che sul bordo del bicchiere c’era un’impronta di rossetto rosso. Ma bene! La signorina Irene s’era messa a bere! E il padrone non diceva niente?
“Questa casa ci sta rovinando” pensò rassegnato. E si rassegnò ancor di più quando vide che il vino era finito. Un bicchierino di quella prelibatezza l’avrebbe tirato su. Ahimè, era sempre sfortunato!
“Sarà meglio che vada dalla signorina” borbottò avviandosi verso la scalinata. Incominciò a salire a fatica, con l’anca che mandava fitte, e il bagaglio issato sulla schiena. C’era sempre quel dannato buio, che non gli faceva vedere un accidente di quello che aveva intorno. Non si udiva un rumore: sembrava che lì dentro ci fosse solo lui. Tommaso avvertì di colpo un presentimento, che gli gridava a gran voce di voltarsi e fuggire. Ne fu infastidito. Di certo non era il tipo da lasciarsi suggestionare! Ignorò l’avvertimento celestiale e riprese a salire. Il presentimento non se ne andò, anzi, rimase.
Aveva appena finito di salire la scala, che udì, vicinissimo, un rumore di passi lievi e silenziosi che si avvicinavano. Il cuore gli balzò in petto e le mani gli si riempirono di sudore. Doveva essere il padrone, di sicuro, che veniva a salutarlo. Ma, spinto da un istinto folle ma potente, il domestico corse verso una grossa tenda di broccato e ci si nascose dietro con tutto il bagaglio, seppur vergognandosi furiosamente di quello che stava facendo. Insomma, alla sua età!
Una sagoma scura uscì da una porta che il domestico aveva sempre creduto chiusa a chiave e la richiuse piano dietro di sé, girando una chiave nella serratura. La paura di Tommaso crebbe a dismisura allorché si accorse che la sagoma era troppo alta e magra per essere quella del padrone. Si nascose di più dietro la tenda, tremando: un ladro. Sicuramente. Un ladro venuto a derubare il padrone dei suoi beni. Cosa aveva fatto a lui e alla signorina? E cosa avrebbe fatto a lui, se l’avesse scoperto? Urlare era una tentazione fortissima.
La sagoma si avvicinò pericolosamente alla tenda dietro cui era nascosto il povero Tommaso, pallido e terrorizzato. Ora la vedeva meglio: era un uomo con indosso un malridotto completo da gentiluomo novecentesco, che aveva il volto completamente nascosto da un drappo nero. Gli occhi del domestico si spalancarono, poiché vide chiaramente che quest’uomo silenzioso e inquietante portava in braccio niente altri che la signorina Irene, che era così immobile, aveva gli occhi talmente chiusi, che il poveretto dietro la tenda si chiese se fosse viva o morta. Serrò i pugni al punto da conficcarsi le unghie nella carne e si morse a sangue la lingua per non urlare. Ora come ora la ragazza non sembrava morta…ma…se fosse accaduta una disgrazia?
Il sinistro personaggio dal viso coperto, tuttavia, la portava con tale precauzione, la reggeva tra le braccia con una tal delicatezza, che Tommaso non sapeva cosa pensare. S’era approfittato di lei? Era un folle maniaco? Le ipotesi erano mille ed erano una peggiore dell’altra. Ma d’altronde lui, Tommaso, come avrebbe potuto salvarla?
L’uomo senza volto oltrepassò la tenda famosa senza avere reazioni apparenti, ma il sollievo che il domestico provò fu assai breve. Era totalmente invaso dal panico, un panico soffocante e inatteso, non tanto per se stesso, ma per la signorina Irene. Lì, inerte, abbandonata in braccio a quel tipo che sembrava la Morte, appariva terribilmente vulnerabile. Indossava un antico abito rosso.
L’uomo senza volto imboccò un corridoio oscuro, sempre con la ragazza tra le braccia, e Tommaso, in un impeto di coraggio, gli venne dietro nel modo più silenzioso che gli riusciva, spostandosi da dietro alla tenda a dietro ad un muro di pietra. Subito fissò l’altro col fiatone: ma niente. L’uomo, che, noi lo sappiamo, era R, continuava a camminare tranquillo. Doveva essere troppo immerso nella contemplazione della fanciulla che portava in braccio per fare caso al suo inatteso inseguitore. Tommaso da parte sua cambiava mille nascondigli, con i nervi tesi al massimo, alla ricerca disperata d’un’arma che non trovava, e non staccava gli occhi di dosso all’altro. Scappare sarebbe stato un atto terribilmente vigliacco e ingiusto nei confronti della signorina.
“Ma non ha bisogno della luce per muoversi?” pensò, i denti martellanti per la tensione. No: R non inciampava né sbagliava strada, per lui il buio era il più caro degli amici, e conosceva troppo quei luoghi per sbagliarsi. Poteva anche darsi che lo facesse per non svegliare Irene. A quel punto Tommaso era quasi del tutto sicuro che fosse viva. Ma era stato l’uomo a ridurla all’incoscienza?
Si rese conto che R stava andando nella camera da letto di Irene solo quando riconobbe l’uscio in lontananza. Immediatamente gli venne da vomitare al pensiero di quali orribili e immondi propositi animassero quel verme senza volto. Cosa voleva fare a quella fanciulla così innocente, a quell’essere così puro e gentile? Diavolo, anche se avesse rischiato la vita, gliel’avrebbe impedito! Non avrebbe permesso che le facesse del male! La conosceva pur sempre da diciotto anni, per lui era come una nipote, e di certo non sarebbe rimasto a guardare.
R si fermò davanti alla porta di Irene e la aprì facendo il minor rumore possibile. Dentro era tutto buio. Tommaso, nascosto dietro ad una statua, s’era premuto una mano sulla bocca per non far sentire il suono angosciato del suo respiro. Vide l’uomo senza volto entrare nella stanza e svanire tra le ombre. Fu preso dalla frenesia. Corse in avanti pronto a fare irruzione urlando anche disarmato com’era, ma dovette ricorrere ad una manovra di fortuna allorché R accese la lampada di fianco al letto, che illuminò tutto di un soffuso chiarore. Tommaso si fermò in scivolata, cadde a terra e rotolò dietro ad un’altra tenda completamente terrorizzato. C’era mancato poco che commettesse un’imprudenza!
R non s’era ancora accorto di niente. Era chino sul letto illuminato dalla lampada accesa e vi stava deponendo delicatamente Irene. Allorché la ragazza addormentata fu distesa sul materasso, il suo sinistro accompagnatore la coprì con cura con la coperta rossa e le sistemò i cuscini sotto la testa per farla stare più comoda. Quel comportamento che si contrapponeva così fortemente al suo macabro aspetto e all’intera situazione lasciò Tommaso profondamente interdetto. Ora si chiedeva che intenzioni avesse quell’uomo.
R finì di sistemare Irene e sedette sul letto, contemplandola da dietro il drappo che gli copriva il viso. Chino sulla bianca fanciulla era spaventoso, ma nelle sue movenze non c’era né minaccia né aggressività. Dopo diversi istanti che restava così, allungò la mano guantata, e già Tommaso sentiva riaffiorare tutte le terribili ipotesi di prima…ma si limitò a carezzarle amorevolmente i capelli, come avrebbe fatto chiunque le fosse semplicemente affezionato.
“Ma…ma chi è costui?” si chiese il domestico allibito e incerto. R staccò a malincuore la mano dalla testa della ragazza e si alzò lentamente in piedi, senza smettere di fissarla. Uscì dalla stanza come un gambero, all’indietro, lasciando la luce accesa, e chiuse la porta con grande precauzione. Ma se non era un profittatore…allora chi era? E perché si copriva la faccia a quel modo?
Fu proprio allora che Tommaso si tradì. Allorché R stava percorrendo il corridoio in cui c’era lui, per vedere meglio si sporse in avanti, e mise il piede in fallo. Inciampò nella tenda di tulle, e cercando di tenersi in piedi vi si aggrappò con entrambe le mani. Il tessuto si strappò con un rumore sordo e gli rimase in mano un grosso pezzo di tulle.
Ora R non era assorto in alcuna contemplazione. Non appena ci fu lo strappo si immobilizzò e si girò di scatto in direzione della tenda. Tommaso, ormai del tutto terrorizzato, se la tolse di dosso e gridò disperato: “Chi sei? Cosa vuoi dalla signorina Irene?”
R si girò del tutto verso di lui e lo contemplò senza la sorpresa che il domestico si sarebbe aspettato. Sembrava semplicemente infastidito. Anche se il suo volto era coperto, il corpo parlava per lui: e se prima era apparso affettuoso e innocuo, ora esprimeva chiaramente minaccia. Tommaso annaspò per rimettersi in piedi, e allorché lo fece, racimolò tutto il coraggio che aveva per affrontare lo sconosciuto: “Perché ti copri il viso? Lascia stare la signorina!”
R emise un lungo sospiro rassegnato. Che calma aveva! “Tu devi essere il servo imbecille” commentò pacato: “Credevo che avrei smesso di occuparmi di tutti i seccatori che vogliono dare fastidio a me e alla mia promessa sposa”.
“Lei non è la tua promessa sposa!” gridò Tommaso: “Stalle lontano!”
“Oh, sì che lo è” ribatté l’altro, stavolta un po’ contrariato: “Lei è la mia compagna e la mia metà. Piuttosto, sta zitto! La sveglierai! Non voglio che il suo riposo sia turbato da un idiota come te. Questa non è casa tua. Perché sei venuto ad infastidirmi?”
“Lascia stare la signorina!” ripeté Tommaso senza abbassare il tono. R, per tutta risposta, mosse un passo verso di lui. Spaventato all’improvviso che volesse aggredirlo, il domestico indietreggiò goffamente e quasi inciampò di nuovo nella tenda distrutta. Allora l’uomo senza volto gettò indietro la testa e scoppiò in una risata sardonica e incontenibile, una risata agghiacciante che ebbe il potere di pietrificarlo e che non sembrava finire mai. Quando smise di ridere, puntò i suoi invisibili occhi sul poveretto: “Tu credi di potermi comandare? Io sono più potente di te e di tutti quelli come te. Sono il padrone delle ombre e il genio dell’orrido! Ho fatto cose che nemmeno immagini. Nessuno potrà mai fermarmi. Ma ora voglio vivere come le altre persone. Voglio amare! Ed essere amato. Voglio vivere in questa casa che mi appartiene con la mia sposa accanto e dare un senso alla mia solitudine”.
“Folle, non sarà Irene a tirarti fuori dal tuo marciume!” replicò Tommaso con disprezzo. R gli si avvicinò ancora, pericolosamente: “Tu credi? Ah, mio caro, significa che non sei mai stato innamorato. Io farò qualsiasi cosa per averla al mio fianco. Ce l’ho già. E spazzerò via chiunque tenti di portarmela via”.
Di fronte all’esplicita minaccia, Tommaso si fece pallido come un morto. Si guardò alle spalle e vide solo la finestra che la tenda aveva celato. Si era fatto chiudere in trappola. Maledisse se stesso e il suo coraggio. Si era cacciato in quella situazione per salvare una ragazza che di sua volontà si era messa in pericolo. Maledetta Irene! Cosa poteva trovare d’affascinante in quella casa dannata e in quell’uomo sinistro e minaccioso?
“Capisci, io voglio diventare buono” sussurrò R quando gli fu proprio davanti. Di colpo aveva assunto un tono soave e malinconico come di chi è profondamente afflitto da qualcosa. Prese il viso di Tommaso fra le mani con delicatezza, e il domestico non tentò nemmeno di ritrarsi tanto era pietrificato. “Sì” proseguì R, fissandolo attraverso il drappo: “Voglio essere buono! Voglio imparare ad amare e a compiere buone azioni per la mia amata. È così bello, capisci, amare qualcuno. Io non avevo mai provato nulla di simile…l’odio, quello è brutto, ti consuma dentro, ti riempie la mente di cattivi pensieri. Ma l’amore! Non esiste magia più imprevedibile dell’amore. L’amore trasforma i demoni in angeli. Ti sembra che chieda troppo?” gli accarezzò i capelli radi con le dita guantate: “Ti sembra che non abbia diritto ad un po’ di serenità? Ti sembra che sia sbagliato lottare per ottenere una cosa così bella come l’amore? Io sono disposto a tutto, capisci, per averlo”.
Mentre faceva questo toccante discorso, R tremava, chinava il capo, la voce gli tremava tutta come se l’emozione fosse troppa. Tommaso non poteva negare di esserne commosso, in qualche modo. C’era una tale tristezza, una tale afflizione in quelle parole, che gli sembrava brutto addolorare così quello strano personaggio. Doveva nascondere una così grande disperazione! Senza rendersene conto, aveva abbassato la guardia, si era rilassato, e non era preparato a nessun’attacco.
Così, quando di colpo R tirò fuori con gesto fulmineo un piccolo pugnale d’argento dalla giubba e con mossa rapida lo trafisse al ventre, era del tutto impreparato. Il dolore arrivò improvviso e lancinante. Strabuzzò gli occhi e fissò il drappo del suo assassino mentre lentamente si accasciava in ginocchio, con le mani che brancolavano sull’ampio squarcio che eruttava sangue. Il fluido vermiglio si allargava tutt’intorno a lui. Rantolando come un animale strozzato, Tommaso cadde disteso a terra e bisbigliò con tono agonizzante: “Maledetto…”
Era stato colpito a tradimento, e ora stava morendo in modo a dir poco umiliante, dissanguato sul pavimento di Heather Ville. La vita fuggiva via da lui veloce come il vento, era sempre più avvolto da un torpore letale. Le lacrime gli rotolavano sulle guance, si mischiavano al sangue che gli usciva dalla bocca.
R rimase a contemplarlo dall’alto con piacere maniacale per qualche istante, quindi si inginocchiò accanto a lui e lo prese per i capelli con la stessa delicatezza ingannevole di prima. Gli sollevò la testa, e Tommaso, sempre più debole e moribondo, si trovò a fissarlo. Digrignò i denti e sperò di poterlo ridurre in polvere all’istante. R scosse la testa: “Provo compassione per te, servo. Non c’entravi nulla in tutto questo. Avresti potuto rimanertene in città, senza costringermi a ucciderti. Sei stato sciocco, mio caro. Molto sciocco”.
“La pagherai” sussurrò Tommaso indicandolo con le dita che stillavano sangue fresco: “La pagherai, assassino”.
“No, non la pagherò” replicò R pacato: “I crudeli non la pagano mai, servo. L’ho imparato a mie spese” fece una piccola pausa, poi disse: “Visto che mi fai pena, ti farò un favore. Poiché stai morendo e non potrai raccontarlo a nessuno, ti lascerò vedere il mio viso. Sei contento? Vedrai ciò che molti hanno solo potuto immaginare!”
Tommaso lo guardò battendo le palpebre, senza capire del tutto il senso delle sue parole. R si portò una mano al viso e lentamente cominciò a sollevare il drappo nero che glielo nascondeva. Intanto lo teneva per i capelli e lo costringeva a guardare.
Lentamente, via via che quella cosa segreta gli appariva, l’espressione già moribonda di Tommaso si tramutò in una smorfia di un così profondo terrore che solo guardarla faceva paura. In quei pochi attimi prima che la vita lo abbandonasse del tutto, non seppe cosa fosse peggiore, se quella visione, o il momento in cui R, del tutto scoperto, con un ghigno orribile brandì il pugnale e gli tagliò la gola da un orecchio all’altro, inzuppandosi di sangue.
L’oscurità avvolse tutto.
 
Quando Irene si svegliò, non sapeva per quanto tempo aveva dormito, e le parve di uscire da un mondo parallelo. Aprì dolcemente gli occhi, batté un paio di volte le palpebre. Era mattino: il sole entrava dalla finestra aperta e le batteva gentile sul viso. Era stata distesa sul suo letto e coperta. Rasserenata da quel sonno lungo e ristoratore, si mise a sedere sbadigliando e stiracchiandosi.
Aveva ricordi vaghi e confusi della notte precedente. Ricordava di aver cenato in compagnia di R, che aveva il viso coperto da un drappo, poi ricordava una scala buia e un salone da ballo, un valzer a due, e infine un lungo bacio. Tutto questo, ripensandoci ora, le sembrava un sogno, sfocato e confuso come un sogno. Aveva davvero ballato con R? Oppure era stata tutta una sua immaginazione? No. Il ballo e il bacio erano stati reali. Indossava ancora il vestito rosso scarlatto della sera prima, e sulla gonna era rimasta una macchia di vino. Era successo davvero. Sorrise, guardando il sole fuori dalla finestra.
Ma dov’era finito R? Quando era stata vinta dall’emozione e dal vino, rammentava di essergli caduta tra le braccia, ma da allora si era oscurato tutto. Aveva voglia di vederlo. Ora che si erano baciati c’erano così tante cose da dire, così tante cose da definire! Lei aveva accettato la sua proposta di matrimonio, ma adesso voleva sapere davvero che tipo d’uomo era suo marito, senza più segreti e sotterfugi. Sarebbe andata da lui e gli avrebbe chiesto tante cose, avrebbe preteso le risposte. Era pronta a tutto.
Scostò le coperte e scese dal letto senza neanche togliersi il vestito stropicciato, quindi si avviò fuori dalla sua stanza pettinandosi i capelli con le dita. Il resto di Heather Ville era, come al solito, avvolto nella più totale oscurità: i corridoi erano immersi in penombra, le porte tutte chiuse, come le tende e le lampade. Irene era come al solito profondamente affascinata da quell’aura di magia e di mistero. Aveva cominciato a prendere dimestichezza con l’ubicazione delle varie camere, così puntò diretta verso la sala da pranzo dove avevano cenato. Era vuota, la tavola ancora imbandita dei resti della loro baldoria. La ragazza la perlustrò rapidamente, poi andò al buco nel muro dietro alla tromba delle scale e mise la testa dentro a quel buio pastoso: “R?” chiamò ad alta voce. Non rispose nessuno, anzi, ebbe la netta sensazione che lui non fosse tornato nel suo nascondiglio.
Si girò e, un po’ ansiosa, riprese a salire le scale, sollevandosi la gonna perché non le desse impiccio, con passo svelto: “R!” ripeté. Nulla. Oltrepassò un paio di corridoi e aprì la porta di un grande salottino privato, sorridendo speranzosa: “R, sei qui?”
Le poltrone e i divani impolverati erano vuoti, non c’era anima viva. Delusa, richiuse la porta e continuò a cercarlo. Fece tutto il giro del primo piano, da cima a fondo, controllando tutte le stanze che non erano chiuse a chiave, ma non trovò traccia dell’uomo senza volto. Probabilmente era andato a rifugiarsi in luoghi che solo lui conosceva, sarebbe tornato presto, ma Irene provò come un presentimento angoscioso, la sensazione soffocante che fosse successo qualcosa di terribile. Il suo viso si strinse dalla preoccupazione: “R!”
Una vocina interiore le suggerì di controllare al piano superiore. Vi era andata solo una volta, quando aveva scoperto quella grossa sala con dentro i mobili coperti dai teli e l’album di fotografie di quella famiglia di cui non ricordava il nome, ma effettivamente ora che ci pensava meglio, era quello il piano in cui R teneva nascosti i suoi segreti: c’erano la camera degli specchi, e il salone da ballo cui erano acceduti tramite la scorciatoia della scala a chiocciola. Che fosse andato lì? Tanto tentar non nuoce. Aveva un po’ paura di quel posto, ma se R le aveva dato la libertà di aggirarsi dove voleva, allora non aveva nulla da temere.
Si avviò lungo la scala cigolante che portava al secondo piano, con gli occhi puntati in alto, speranzosi di avvistare anche solo la sua ombra: “R? Sono Irene!” tentò l’ennesima volta. Silenzio. Affrettò il passo e finì di salire le scale. Una volta all’imboccatura del dedalo di corridoi del secondo piano, si guardò intorno nell’oscurità. Lì c’erano almeno quaranta stanze e non aveva idea di dove cercare. Prese il corridoio che più le era vicino. Purtroppo quasi tutte le porte che apriva erano chiuse a chiave, anche se ricordava che la volta scorsa ne aveva trovate alcune aperte. Fu presa da un senso di indignazione: R forse non si fidava di lei? Se voleva che fosse sua moglie, allora tutto quello che gli apparteneva l’avrebbe dovuto condividere con lei!
“Cosa mi aspettavo? Non ha mai neanche voluto mostrarmi il suo volto. Se desidero la sua magia, allora devo passare sopra ai suoi segreti e ignorare”.
Proseguì la sua perlustrazione, che si rivelò inutile. Allorché stava tornando indietro sconfortata, qualcosa che scorreva in un rivolo sottile sul pavimento catturò la sua attenzione. Si fermò, allargando i piedi cosicché quel rivolo passasse tra di essi e non li sfiorasse, anche perché erano nudi (qualcuno le aveva tolto le scarpe). Era un liquido scuro e viscoso, ma in quel buio non ne distingueva il colore, che formava una scia sottile sul pavimento e curvava a destra. Come se qualcuno avesse trascinato un sacco aperto che aveva sparso un poco del contenuto a terra.
Irene lo contemplò in silenzio, turbata e impallidita. Cosa…cos’era? Lo sussurrò perfino: “Cos’è?” si chinò e col dito indice raccolse qualche goccia di quel liquido. Era stranamente secco e ne racimolò una ben scarsa quantità. Esitante, si portò il dito alla bocca e succhiò. Subito sputò tutto e tossì convulsamente, disgustata e inorridita dal sapore dolciastro: era…sangue.
Improvvisamente fu presa da una terribile sensazione di pericolo e di orrore. Cosa ci faceva del sangue per terra?! Cosa era accaduto?! Aveva sempre dato per scontato che, poiché Heather Ville era così misteriosa e fantastica, non potesse nascondere qualcosa di terribile. Ma in quel momento la fascinazione che provava si scontrava con un’improvvisa lucidità, che le gridava nella testa parole cariche di terrore e di angoscia. Se la prese tra le mani, spaesata.
“R!” gridò. Doveva dirle cosa era accaduto, spiegarle la presenza di quel sangue a terra, e l’avrebbe fatto subito! Ansimando si rimise in piedi e corse seguendo la scia del sangue che macchiava il pavimento, sempre più piena di paura. Voleva capire. Voleva che R le spiegasse, che dissipasse i suoi dubbi. Il sangue era sempre meno coagulato via via che si avvicinava alla sua fonte. Non era poi così sicura di voler scoprire cosa, o chi l’aveva perso. Giunse all’improvviso di fronte ad una minuscola porta di legno che somigliava molto a quella che portava al salone da ballo. Il sangue filtrava attraverso l’apertura sottostante ed entrava dentro. Irene fissò la porta con il respiro teso e rumoroso che le squassava il petto, poi vide che nella serratura c’era una piccola chiave d’ottone. La strinse nel pugno, pronta ad aprirla.
“Che cosa ci fai qui?!”
Quelle parole che erano arrivate improvvise, e che erano risuonate nel silenzio con un tono bestiale e infuriato, le provocarono un forte spavento. Si girò di scatto schiacciandosi di schiena contro la porta e fissò il corridoio che prima aveva alle spalle con occhi spalancati. R era comparso di colpo ed ora era di fronte a lei, sempre coperto dal drappo, con i pugni serrati, formidabile nel suo sdegno. Era l’immagine stessa della sorpresa e della rabbia stupefatta.
Irene, che, suo malgrado, s’era spaventata non poco della bruschezza, strinse di più la chiave d’ottone e balbettò: “Scusa, io…”
“Non ci devi venire qui!” continuò a urlare lui. Ma, ora che lo studiava meglio, sembrava più nervoso che arrabbiato: “Mai!”
La fanciulla aggrottò la fronte. Guardò prima lui, poi la porta che era davanti a lei, quindi la chiave su cui le sue dita esitavano. Quando tornò a fissarlo, aveva un’espressione di ansiosa fermezza: “Cosa c’è qui dentro?” chiese a bassa voce. R strinse ancora di più i pugni, anche se non avanzò verso di lei: “Dammi quella chiave, Irene”.
Le altre volte, quando aveva assunto quel vibrante tono di comando, lei gli aveva sempre obbedito senza farsi domande. Ma stavolta no. Stavolta aveva acquistato una lucidità che le impediva di togliere la chiave dalla serratura e consegnargliela a capo chino. Sentiva, a pelle, che dietro quella porta c’era qualcosa di importante: “Cosa c’è?” insistette. R, con un ringhio di rabbia, fece un passo verso di lei, tendendo le mani guantate come se volesse strozzarla. Il drappo nero non impediva di immaginare l’evidente furia che doveva avergli stravolto i lineamenti: “Dammi subito quella chiave, o io…”
“Cosa?” lo provocò lei, alzando a sua volta la voce, per la prima volta salda nelle sue domande: “Vuoi uccidermi, R? Guardami, sono qui. Se vuoi aggredirmi, fa pure!”
Lui rimase immobile. Le mani tese gli tremarono, poi le lasciò ricadere, indietreggiò e agitò i pugni sbuffando di rabbia, evidentemente incapace di farle del male. S’accasciò contro la parete di fianco e vi rimase abbandonato per diversi istanti, con una mano premuta sul petto e il capo chino. Poi, quando parlò, il suo tono s’era fatto implorante: “Ti prego, Irene…dammi la chiave. Non c’è niente lì. Te lo chiedo per piacere…”
Lei rimase ferma nella sua posizione, con la mano stretta sulla chiave e un’espressione piena di sospetto. No, le sue suppliche non l’avrebbero convinta. Benché continuasse a singhiozzare e ad implorarla di dargli la chiave, gli voltò le spalle e la girò con un colpo secco nella serratura. Con un clic soffocato la porta fu libera da qualsiasi vincolo e, non senza una lieve esitazione, la spalancò. R allungò una mano disperato: “Irene, no!!”
La ragazza gli diede un rapido sguardo, quindi volse gli occhi alla stanza che aveva davanti. Le si ghiacciò il sangue nelle vene e il colore defluì rapidamente dal suo viso, mentre spalancava occhi troppo inorriditi per esprimere ciò che vedeva, e una bocca troppo pietrificata per urlare.
C’era Tommaso a pochi centimetri da lei, all’interno di una minuscola e gelida celletta di pietra con una finestrella irta di sbarre in un angolo e un pagliericcio in quello opposto, percorsa da un terribile tanfo di putrefazione, con il pavimento e le pareti imbrattate di sangue, chiaro segno che non era stata usata solo per nasconderci il suo domestico. C’era una fornace al cui interno ardeva un fuoco d’un arancione che feriva gli occhi e accanto alla fornace una grossa pala di legno da panettiere, su cui erano ammassati discutibili resti di carne marcia.
Tommaso la fissava con tristi occhi vitrei che ormai non la guardavano più e con una bocca violacea da cui scorreva un copioso rivolo di sangue nerastro. Aveva il viso pallido e rilasciato di una cosa morta, che non prova più, che non respira più e non si muove più, e pendeva dal soffitto appeso a testa in giù con una robusta corda che gli avviluppava i piedi. Era stato denudato di qualsiasi indumento e lì appeso come un vecchio prosciutto era una visione davvero penosa. Aveva un profondo squarcio slabbrato che gli apriva il ventre e la gola tagliata da un orecchio all’altro che tuttora infradiciava a cascatella il pavimento sottostante di sangue rosso vermiglio. Gli colava sul viso, gli entrava nelle narici e nelle labbra, gli oscurava gli occhi vuoti.
Per un istante, di fronte a quello spettacolo dall’orrore indicibile, Irene rimase paralizzata per la sorpresa e il raccapriccio, troppo sconvolta per fare qualsiasi cosa. Poi, con il viso stravolto da una smorfia d’orrore, cacciò un urlo lancinante, e poi un altro, e un altro, e un altro ancora, come se non riuscisse a fermarsi, come se tutto quello che provava le stesse sgorgando in un suono primordiale dalla gola. Urlava e le lacrime le rotolavano sulle guance paonazze, urlava e si conficcava le unghie sul viso, urlava e non riusciva a staccare gli occhi di dosso al cadavere del domestico che lei stessa aveva insospettito e trattato così disumanamente. Di colpo il sortilegio che le aveva annebbiato la vista, l’udito e l’olfatto per tutto quel tempo si dissolse come neve al sole e tutto le fu chiaro in un modo che non aveva mai compreso.
Era rinchiusa in una gelida e immensa tomba oscura e piena di orrori e di segreti, tra le cui mura avvenivano fatti mostruosi e immorali. Quelle camere e quei corridoi non erano affatto magici, ma pericolosi e inospitali, tutt’altro che di bell’aspetto, angusti come una prigione. Nell’aria c’era un puzzo insistente di marcio e di decomposizione, e rumori sinistri e metallici le riempivano le orecchie di un frastuono diabolico. Un piccolo verme bianco le strisciò tra i piedi e urlando si ritrasse. Si guardava intorno con occhi sgranati e impauriti in quel luogo così orribile e si chiedeva cosa ci facesse lì, e dove fossero suo padre e il suo Stephan, che le aveva donato l’anello, guardava il cadavere di Tommaso e il vomito la soffocava quasi.
Poi, mentre ancora urlava, due mani l’afferrarono per le spalle e la costrinsero a voltarsi. Si trovò a fissare il volto coperto di R, dell’uomo che fino a pochi minuti prima aveva creduto di amare, che ora era in piedi di fronte a lei, fuori di sé, e la scrollava con violenza: “Pazza! Perché hai voluto vedere? Perché?! Perché hai voluto rovinare tutto? Avresti dovuto darmi la chiave e ora saremmo felici! Ma hai voluto vedere!”
“Tu hai ucciso Tommaso!” gridò la poveretta che era completamente sconvolta e aveva perso del tutto ogni briciolo di ragione. Aveva dato la sua mano ad un assassino, ad un individuo dalla mente deviata che era stato capace di fare una cosa del genere. R le strinse di più le esili spalle: “Sì! Sì, ebbene, l’ho ucciso! Cosa c’è di male? Era venuto a portarti via. Tu sei la mia sposa. Gli ho solo impedito di rovinare tutto. Ha avuto quello che si meritava!”
Irene lo fissò inorridita. Come aveva potuto credere di amare un uomo che diceva cose del genere? Come aveva potuto trovarlo affascinante e misterioso? “Sei un assassino!” gli gridò in faccia con tutta l’aria che aveva nei polmoni: “Ora capisco perché ti copri il viso e perché ti nascondi qui come un topo nella sua tana! Il tuo animo è troppo deforme per essere sopportato dagli altri! E io, pazza, che ti credevo un dio, una creatura troppo superiore per noi! Sei un mostro, R! Quello che fai oltrepassa ogni limite d’umanità!”
"Come puoi biasimarmi?" nella voce di lui c'era rabbia, ma anche una grandissima disperazione, uno strazio pari solo a quello di un uomo che ha visto sgretolarsi tutto quello che ha nel giro di pochi istanti: “Come puoi giudicare quello che faccio? Tu, che hai sempre vissuto nella bambagia? Che ne sai tu della solitudine, eh? Che ne sai del dolore? Sei solo una ragazzina. Ero riuscito a farti vedere oltre le apparenze…ma adesso vedi solo quel che vuoi vedere. C’è un significato in quest’uccisione!”
“Ah sì?” replicò lei ancora più sotto choc. Si liberò con uno strattone delle sue mani che ora le facevano solo paura e indicò il povero corpo penzolante del domestico: “Quale significato vedi in questo scempio? Te lo dico io l’unico significato che ha, senza perdermi, come dici tu, nel vedere oltre le apparenze: il significato è che un uomo innocente, un uomo buono come il pane che conoscevo da quando sono nata, e che mi voleva bene, è stato privato della vita nel modo più bestiale di tutti. Per un motivo del tutto assurdo! Da una persona ripugnante…come te!”
R barcollò, tremante, colpito come da una folgore da quelle parole cariche di accusa e di dolore. Irene ormai non riusciva più neanche a sopportarne la presenza, né la vicinanza del cadavere e il puzzo che emanava, voleva solo fuggire da quel posto maledetto immediatamente, ed essere libera, e rifugiarsi tra le braccia rassicuranti di Stephan. Stephan…che lei aveva ferito grazie ad un assassino senza cuore. Fece un passo indietro, allontanandosi da lui.
Allorché R se ne accorse, le corse incontro a mani tese: “No! Non puoi andartene!” esclamò con la voce terribilmente incrinata: “Tu devi diventare la mia sposa! Il nostro amore…”
“Di che amore parli?” sibilò lei. Si asciugò rabbiosamente le lacrime: “Io qui vedo tutto, tranne che l’amore. Tu non sei capace di amare, R. Sei solo capace di fare del male. Avresti volentieri ucciso mio padre e Stephan, se ne avessi avuto la possibilità”.
“Io non…”
“Smettila di mentire! Ormai è troppo tardi per le menzogne. Io credevo di amarti. Credevo che tu mi amassi. Mi sbagliavo. Ero troppo accecata dal tuo incantesimo per rendermene conto. Ma ora ho capito. Tutto quello che hai cercato in me è stato un banale passatempo, una svolta nella tua vita. Tu volevi fare di me il tuo svago e il tuo cruccio e ingannare il tempo che finora hai passato da solo”.
“Non è vero!” obiettò R con tono veemente e insieme profondamente angosciato, come se la situazione gli stesse sfuggendo definitivamente di mano, come se il pavimento gli crollasse da sotto ai piedi. Piccole gocce d’acqua cadevano da sotto al drappo e atterravano sotto di lui in minuscoli cerchi scuri. Irene fece una risata sprezzante e priva di qualsiasi allegria: “Oh, sì che lo è. È inutile che tenti di ingannarmi ancora. Ora che ho visto come sei in realtà, vedrai, R, di certo non mi abbasserò a vivacizzare la tua solitudine: resterai per sempre solo con te stesso, perché tu susciti solo disgusto!”
Si voltò e fece per andarsene, ma lui, preso da una morsa di disperazione, fece un passo avanti allungando una mano: “Irene!” singhiozzò straziato. Allorché lei si girò un attimo verso di lui, restò lì con la mano tesa che non aveva osato sfiorarla e con il corpo scosso da un tremito convulso: “Ti prego…” bisbigliò. Irene lo fissò con le labbra tremanti e rivide in un istante la serata che avevano trascorso appena qualche ora prima, il ballo, le parole soffuse, e infine il bacio. Come era tutto diverso ora! E nonostante tutto c’era ancora qualcosa in lui che le suscitava compassione, e sì, persino un rigurgito di affetto. Qualcosa di però molto più debole del terrore e dell’orrore.
Scosse violentemente la testa in segno di diniego e corse via a tutta velocità, piangendo e calpestando la gonna rossa coi piedi nudi e doloranti, mentre accanto alla porta aperta sul cadavere di Tommaso R restava un attimo immobile, e poi, con un terribile ululato di furia e di dolore crollava in ginocchio con i pugni al cielo, scuotendo tutta Heather Ville con il suono della sua disperazione.
Irene udì l’urlo lancinante mentre spalancava il portone d’ingresso e usciva nell’aria fredda di fuori e fu scossa da un brivido di paura e di pietà. Mentre correva per i campi aridi che circondavano la lugubre residenza, era ancora inconsapevole che quel lamento straziante l’aveva incatenata alla triste sorte di Raphael Lawrence.

 
   
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il volto di R ***


IL VOLTO DI R

 
 
 
 
 
 
Stephan aveva preso l’irrevocabile decisione di recarsi a Heather Ville costi quel che costi, e di affrontare Raphael Lawrence. Se ce ne fosse stata la necessità si sarebbe caricato Irene sulle spalle e l’avrebbe portata via di peso, ma non poteva sopravvivere un minuto di più col pensiero che era sola in compagnia dell’omicida senza volto.
Così, mentre gettava rapido nella borsa di pelle quello di cui poteva avere bisogno: un grimaldello preso all’officina, un piccolo coltello e una cordella, chino sul letto nella sua stanza, era deciso a partire e a mettere a rischio la vita per amore di quella ragazza che avrebbe voluto sposare con tutto se stesso e per cui risparmiava denaro da mesi e mesi. Si diceva angosciato che lei stava bene, che non era accaduto niente di irreparabile, e che Raphael, per quanto orribile e completamente distaccato dai criteri umani, non le avrebbe fatto del male se non per un motivo fondatissimo. Da un’altra parte era preoccupato per Tommaso ed era determinato a salvare anche lui qualora l’avesse incontrato sulla via per Heather Ville.
Mentre stava sistemando le ultime cose, suonò il campanello. Drizzò la testa di scatto, sorpreso: in casa c’era solo lui e non aspettava visite. Il campanello continuò a suonare con frenesia isterica, ripetutamente. Chi poteva essere? A giudicare dalla scampanellata doveva essere piuttosto urgente. In quel momento Stephan era sufficientemente preso dal suo progetto, ma poiché già c’era si diresse alla porta perplesso. Il campanello insisteva a suonare. Leggermente irritato, esclamò: “Va bene, va bene, arrivo!”
Aperta la porta, si trovò davanti Irene. La ragazza era accasciata contro il muro del suo pianerottolo, sporca e lacera, con addosso un malridotto abito rosso stile primi del novecento e i piedi nudi e coperti di tagli e di ferite che li avevano segnati durante la corsa in mezzo ai sassi. Aveva i capelli arruffati e un volto così pallido, occhiaie così profonde, due occhi così pieni di choc e di lacrime, che si sarebbe detta in un completo stato confusionale. Allorché la vide, prima Stephan rimase del tutto stupefatto, poi un sorriso di gioia e di sollievo immensi gli illuminò il viso: “Irene! Sei tu! Ma cosa…”
“Stephan” singhiozzò lei. Si gettò su di lui e premette il viso sul suo petto, abbandonandosi inerte: “Stephan…perdonami…”
Il giovane la sostenne amorevolmente, troppo sollevato e felice per pensare a qualcosa. Irene era lì, accanto a lui, salva, incolume, era riuscita a scappare da Raphael! Se la strinse al petto con tutte le forze e lei lo abbracciò di rimando, debolmente. La baciò sui capelli e richiuse la porta mentre la trascinava verso la sua stanza. Lei piangeva ormai senza ritegno, come se solo allora che l’aveva raggiunto, che lui l’aveva abbracciata s’era permessa di dare sfogo al suo turbamento, e gridò: “Stephan…Tommaso è morto! È morto!”
Il ragazzo fece una smorfia di dolore. Se l’era aspettato, ma lo stesso la notizia della morte del domestico l’aveva addolorato. Era stato un brav’uomo, non se l’era meritato. Portò Irene in camera, sempre tenendola abbracciata, e una volta chiusa la porta le accarezzò dolcemente i capelli scarmigliati: “Ora è tutto finito, è tutto finito, ci sono qui io” le sussurrò all’orecchio col tono più rassicurante che gli riusciva. Lei continuava a piangere con forza, ma lentamente andava calmandosi. Le carezze, la voce rassicurante del giovane avevano su di lei un effetto benefico, la facevano sentire protetta. Pian piano i singhiozzi si acquietarono e Stephan allentò la presa su di lei: “I tuoi piedi, Irene! Come te li sei ridotti?”
“Sono venuta qui a piedi da Heather Ville” disse lei con voce spenta. I suoi occhi azzurri erano persi nel vuoto: “Volevo soltanto andare via”.
“Cosa è accaduto?” le chiese Stephan con una nota di rabbia: “Cosa ti ha fatto quell’assassino?” la aiutò premurosamente a sedere e subito andò a riempirle una bacinella d’acqua fresca, permettendole di immergerci i piedi doloranti. Mentre li teneva a mollo, prese a massaggiarglieli delicatamente, attento a non sfiorare le piaghe e le croste che avevano deturpato la sua pelle bianca. Era indeciso tra il sollievo che provava nel saperla lì accanto a lui e la preoccupazione per quello che doveva aver passato.
Alla povera ragazza occorsero alcuni istanti per riuscire a formare una risposta completa. Alla fine bisbigliò: “Avevi ragione, Stephan. Su tutto. Perdonami. Ero…ero così inebriata…R è un mostro. Le cose che fa, io…io non avevo mai visto…quella gola tagliata…c’era tanto sangue…oh, no, no!”
Aveva preso a urlare come un’ossessa, evidentemente preda degli effetti del brutto trauma psicologico che aveva subito. Stephan la prese delicatamente per le spalle e la tenne ferma con gentile fermezza, guardandola dritta negli occhi: “Calmati, adesso, Irene. Guarda, sei al sicuro ora. Ci sono io, e non permetterò che ti faccia del male. Sta tranquilla. Tesoro, sta tranquilla”.
Irene ricambiò lo sguardo con occhi pieni di terrore. In quelli dolci e sinceri del giovane sembrò trovare una sorta di salvezza, perché si riprese e smise di gridare e dibattersi. Gli afferrò le mani con presa convulsa e si accostò impetuosamente a lui, tremante: “Salvami, Stephan…ti prego…salvami da lui. Sono stata così cattiva con te, ti ho detto cose orribili…ma ero sotto l’effetto del suo incantesimo…io non volevo…”
“Shh” l’interruppe lui con dolcezza, posandole un dito sulle labbra: “Non preoccuparti. Ho capito. Io non ti abbandonerò, Irene. Io ti salverò. Io ti amo!”
A quell’appassionata dichiarazione la fanciulla lo guardò con gli occhi pieni di lacrime. Gli teneva ancora le mani, che stringeva con disperazione, come in una muta richiesta di aiuto. Una lacrima le rigò la guancia e mormorò: “Ti amo anch’io, Stephan. Ti prego, perdonami per quello che ti ho fatto”.
Il cuore di Stephan batté più forte dall’emozione. Aveva atteso a lungo quel momento, quelle parole, ed ora erano arrivate. Si sporse verso di lei e la baciò teneramente sulle labbra. Lei ricambiò il bacio e tutto era assolutamente perfetto, era naturale, era come avrebbe dovuto essere da molto tempo.
Allorché si separarono, Irene chiese angosciata circa la salute di suo padre. Stephan la rassicurò dicendole che stava bene e che non correva alcun pericolo. Poi la ragazza, che era rimasta accoccolata tra le sue braccia, attaccò a parlare con tono pieno di paura: “Ho paura, Stephan. Ho paura che R venga a riprendermi. Avresti dovuto vederlo…era fuori di sé. Cosa ti farebbe se scoprisse che ti amo con tutta me stessa? Forse non dovremmo stare insieme. Forse dovresti andar via al più presto”.
“No, amore” replicò con veemenza Stephan, stringendola più forte come a marcarne il possesso: “Ora che ti ho al mio fianco non gli permetterò mai di portarti in quel posto maledetto. Sei libera, adesso! Sei libera dall’influenza di Raphael”.
“Raphael?” fece lei confusa: “Perché l’hai chiamato Raphael?”
Il giovane le raccontò la storia che aveva appreso da Megara e Irene ascoltò tutto con grande attenzione. Ora le era tutto chiaro. L’album di fotografie… la famiglia si chiamava Lawrence, e R, cioè, Raphael, aveva cancellato con inchiostro rosso le facce del padre e del terzo fratello, coloro che aveva ucciso. Si spiegavano anche certi commenti circa la sua famiglia e certe cose che possedeva. Nell’apprendere della sua triste storia, la fanciulla fu presa nuovamente da quell’insensata pietà nei suoi confronti. Un bambino che solo ad un anno di vita veniva rinchiuso in una torre, solo…nessun motivo giustificava un simile comportamento. Era naturale che R…Raphael sviluppasse un carattere del genere. Questo certo non giustificava gli orribili delitti che aveva compiuto, ma dava un senso ai motivi per cui li aveva compiuti.
“Ora mi è tutto chiaro” sussurrò quando il giovane smise di parlare: “È strano, sai, come i tasselli vadano al loro posto, adesso. R…Raphael ha passato una vita intera a nascondersi. E quello che ha fatto a Tommaso…” un brivido la colse. No, a quello non voleva in alcun modo ripensare. Era troppo orribile, troppo scioccante. Le parve di avercelo ancora davanti, con la gola tagliata che spargeva sangue a terra, appeso a testa in giù con gli occhi vitrei fissi su di lei. Emise un gemito.
Stephan la baciò nuovamente sulle labbra e la strinse forte: “Non temere, amore. Ce ne andremo. Fuggiremo il più lontano possibile. Possiamo andare…in Australia, forse? È un bel posto. Oppure in Francia. Lì diventeresti una musicista di grande talento”.
“Ma…e il denaro che hai guadagnato?”
“Sai che ti dico? Non mi importa. Lo spenderò nella partenza. Al diavolo i miei progetti! Averti è già troppo per me. E faremo in modo da portare con noi anche tuo padre. Sì. Ecco cosa faremo. Al più presto prenderemo il primo aereo e voleremo dritti a Parigi. Lì Raphael non ci troverà mai. Lasciamolo cuocere nel suo brodo. Parigi ti piacerà tantissimo, ne sono sicuro! È una città così magica e piena di mistero, così piena di musica e di canzoni d’amore. Ogni giorno visiterai un posto diverso: la Senna, Notre Dame, la Torre Eiffel, Mont Martre, l’ile de la citè…e poi potremo…”
“Stephan” lo interruppe lei. Gli accarezzò il viso e sorrise, commossa: “Grazie, Stephan”.
Si sdraiarono sul misero lettuccio di Stephan stretti l’uno all’altra e si addormentarono, e Irene, tra le braccia del suo amore, riuscì a non avere incubi.
 
Stephan passò i successivi due giorni sbrigando le faccende per la partenza per Parigi. Si trattava di un viaggio alquanto precipitoso, perciò era anche disposto a salire su un elicottero scassato pur di staccarsi dalla nazione. L’ombra di Raphael incombeva su di loro, minacciosa, e benché il ragazzo fosse sicuro che non sarebbe mai uscito da Heather Ville, gli restava sempre il timore che si sarebbe spinto a tanto, pur di riprendersi la ragazza. Chi poteva dire cosa passasse in quella mente malata?
Raccolse insieme tutti i risparmi faticosamente guadagnati e andò alla più vicina agenzia di viaggi per sapere qual era l’aereo più prossimo in partenza per la capitale francese, e se era possibile prendere tre biglietti, uno per lui, uno per la fidanzata e uno per il, diciamolo pure, futuro suocero.
Irene, dal canto suo, restò chiusa in casa tutto il tempo, troppo impaurita per mettere il naso fuori. Passava le giornate buttata sul letto con gli occhi fissi al soffitto e si sentiva inerte, trascinata da una corrente che da una parte la spingeva verso Parigi, dall’altra manteneva vivo un legame con Heather Ville. Era dilaniata da sentimenti contrastanti. Infatti da una parte provava terrore per quella casa maledetta e per Raphael, ma dall’altra ripensava al lamento straziante che lui aveva emesso dall’interno della sua prigione mentre lei correva via, e se ne sentiva in qualche modo toccata. Sì, Raphael era un assassino, e aveva fatto cose terribili, ma in più occasioni aveva creduto di vedere, in lui, una vena di bontà. Era possibile che ci fosse del buono perfino in un uomo capace di appendere per i piedi le sue vittime e cacciarle come pezzi di carne nella fornace? Chi era il vero Raphael, quello che aveva fatto a pezzi il padre, il fratello, il marito di Megara e Tommaso, o quello che aveva ballato con lei e che aveva ammesso, in un momento che poi era subito passato, di essersi sentito egoista per le sue azioni?
No, lei doveva andare a Parigi e farsi una nuova vita, allontanare per sempre dalla mente quel sinistro personaggio senza volto e tutto quello che lo riguardava. Il suo futuro era Stephan. Le parve quasi di vedersi, in un palcoscenico illuminato, con uno sgargiante vestito addosso, acclamata da una folla di parigini tra cui c’era Stephan, mentre eseguiva un malinconico lamento con la sua arpa. Era quello il suo destino, quello che voleva con tutta se stessa. Una vita varia, avventurosa, al fianco del giovane che amava e da cui era amata. Rimanere per sempre chiusa in una gelida tomba in compagnia di un assassino senza volto era un pensiero terrificante. Però… però andarsene così, come una ladra, senza dire niente, senza farsi più vedere, sarebbe stato crudele nei confronti di Raphael. Ne avrebbe sofferto moltissimo…e le aveva dato qualcosa, nel suo piccolo. Chissà cosa stava passando soltanto adesso, là solo e sperduto nella sua Heather Ville, con la sola compagnia delle ombre e di coloro che aveva ucciso.
Così Irene si rese conto, senza particolare turbamento, che sì, era pronta a partire per Parigi e a cominciare una vita nuova, ma che non se ne sarebbe mai potuta andare senza prima dire addio a Raphael. Era un pensiero folle e immorale e comportava un terribile rischio, ma non poteva non seguirlo. Tornare in quel posto maledetto era l’ultima cosa al mondo che desiderava fare, tuttavia era suo dovere farlo. E sapeva anche con chiarezza che Stephan non l’avrebbe mai lasciata andare, così avrebbe dovuto far tutto da sola. Se tutto andava secondo i piani, sarebbe tornata all’arrivar dell’alba, nel giorno in cui partiva il loro aereo. Si sarebbe imbarcata e tutto sarebbe finito. In caso contrario…oh, ma era sicura di riuscire a fuggire di nuovo.
Quella sera, mentre Stephan dormiva fiducioso nel suo letto, Irene indossò una maglietta blu sua che le arrivava alle ginocchia, un paio di pantaloni e scarponi da trekking, poi si fissò nello specchio appeso al muro con espressione decisa e impaurita. “Sono impazzita” sussurrò. Chiunque al suo posto se ne sarebbe rimasto al sicuro fino alla partenza. Ma lei era Irene, e Irene amava il rischio, e non era un’egoista.
Prima di andarsene, si avvicinò silenziosamente a Stephan e si chinò su di lui. L’oscurità era densa, ma gli era così vicina che distingueva ugualmente il viso rilassato e rassicurato dall’imminente partenza. Sorrise intenerita e gli carezzò una guancia liscia: “Tornerò” bisbigliò nel silenzio. Quindi si alzò e, in punta di piedi, lasciò la casa.
S’era premurata di chiamare un tassì prima, così, quando scese nell’aria fredda e buia della notte fonda, sotto ad un cielo trapunto di milioni di luminose stelle, l’auto bianca con il cartellino sul tettuccio era già lì ad aspettarla. Irene non s’era resa conto che fuori infuriava un violento temporale: lampi bianchi squarciavano il cielo con rombi d’inferno e dalle nubi grigie e scure veniva giù un mantello di gocce furiose che sommergeva la strada, le case, i pochi passanti che ancora correvano per tornare al riparo sotto a voluminosi ombrelli. Irene corse verso il taxi stringendosi nella giacca e cacciando il mento nel bavero, ma quando fu entrata precipitosamente e si fu seduta sul sedile posteriore, era lo stesso bagnata come un pulcino, tremante, coi capelli bagnati e gocciolanti. I filamenti d’acqua scorrevano lungo il finestrino, opacizzavano il vetro.
Il tassista, un grasso uomo di mezz’età con vispi occhietti scuri, si girò dalla sua parte: “Dove andiamo, signorina?”
Irene esitò. Non era sicura che lui conoscesse Heather Ville e trovare il cammino così a memoria in quel putiferio d’acqua sarebbe stata un’impresa. Frugò nei pantaloni e ne estrasse una cartina che teneva dai tempi in cui si preparava al trasloco, la dispiegò e gliela porse, indicandogli un cerchio che aveva sottolineato col pennarello: “Ecco, qui”.
Il tassista diede una rapida occhiata alla cartina, quindi i suoi occhi guizzarono alla ragazza. Annuì con un secco cenno del capo, sempre guardandola in modo strano, e mise in moto. Partì sotto a quella pioggia torrenziale, proteso in avanti per vedere la strada attraverso il finestrino zuppo che i tergicristalli che oscillavano impazziti non riuscivano a rischiarare. Fuori dalla città il nero della notte mischiato alla pioggia non faceva vedere quasi nulla. L’erba era bagnata e l’odore arrivava persino dentro l’abitacolo. Ai lati della strada asfaltata lucida d’acqua, a malapena illuminata dai fari accesi, sfilavano alberi dai rami gocciolanti. L’ennesimo tuono squarciò il cielo e si udì un rombo sordo.
Irene, che cercava di scorgere qualcosa fuori dal finestrino, strofinandosi le braccia per scaldarsi, si rivolse al silenzioso tassista: “È molto che piove così?”
Lui alzò lo sguardo e la guardò in quel suo modo strano dallo specchio retrovisore: “Signorina…dov’è stata gli ultimi due giorni? Sono quarant’otto ore che continua in questo modo. Prima era tutto sereno, e poi di colpo ecco che è venuto giù questo putiferio. E dovesse vedere che lampi! Piuttosto, una signorina come lei non dovrebbe andare in posti sperduti come questo. Sa che qui piove più fortemente che in città?”
Irene aggrottò la fronte, poiché le era difficile crederlo. Ma era proprio così: lì le gocce erano ancora di più, e martellavano con un crepitio come di fiamme sfrigolanti l’erba e il terreno, dando vita a pozzanghere grosse come laghi che le ruote dell’auto facevano straripare, ma soprattutto c’erano assai più lampi e più saette, che si intrecciavano tra loro e rombavano. Ad un certo punto oltrepassarono un albero che doveva essere stato colpito: era in fiamme e lingue di fuoco arancione consumavano i rami adunchi e il tronco.
“Io…” bisbigliò la ragazza colpita: “Io…sono stata molto dentro casa”.
“Allora si spiega tutto” commentò il tassista rassicurato. Rassicurato ma anche un pochino teso: evidentemente non gli andava a genio recarsi in luoghi così inospitali e dimenticati da Dio. Era come scendere all’inferno, di propria volontà.
Era tutto buio e pieno di gocce d’acqua, ma Irene riconobbe subito il profilo oscuro e minaccioso di Heather Ville che se ne stava acquattata in mezzo al violento temporale come una bestia spaventosa e tesa, eretta nonostante le intemperie, che si guardava intorno con occhi furiosi e addolorati alla ricerca della preda perduta e tutt’intorno a sé aveva costretto perfino il tempo a variare in sintonia con il suo strazio. Quella visione le strappò un violento brivido. Era certa che se ci fosse tornata sarebbe stata divorata e magari sarebbe anche morta…fu tentata di dire al tassista di lasciar perdere, di pagarlo in più perché la riaccompagnasse da Stephan.
“No” si disse: “No, ho cominciato questa dannata cosa e la finirò!”
“Per favore, accosti qui” disse bruscamente al tassista. Quello subito assunse un’aria sollevata: “Come vuole” portò la macchina sul ciglio della strada accidentata che conduceva ad Heather Ville e la fermò in una folta macchia di cespugli. Irene rimase ferma a bordo, con una mano stretta sullo sportello e una posa insicura del viso, nell’atto di uscire in quel turbolento manifestarsi della furia della natura. Il tassista aspettò qualche minuto, poi, vedendo che non si muoveva, tagliò corto: “Il tassametro dice venticinque euro e cinquanta, signorina”.
“Oh!” esclamò lei come ridestata da un sogno: “Oh, certo” mise una mano in tasca e ne entrasse il denaro. Prima di darlo all’uomo, però, esitò: “Potrebbe aspettarmi qui, per favore? Non ci metterò molto”.
Il tassista contrasse le labbra: “Signorina, io sotto questa pioggia, in questo posto dimenticato da Dio non ci resto. Mi spiace”.
“Si tratta solo di una ventina di minuti, niente di più” lo implorò la fanciulla con voce sconfortata. Come sarebbe tornata indietro in quel temporale? Già la marcia a piedi nudi l’aveva sufficientemente logorata, a quell’ora di notte sarebbe potuta morire assiderata. Il tassista si impietosì, anche se non abbandonò l’aria seccata. Le strappò di mano i soldi: “Venti minuti, chiaro? Se non torna entro quell’ora torno indietro”.
Irene emise un lungo sospiro. Doveva accontentarsi, non aveva alternative: “D’accordo” capitolò. L’altro la guardò scuotendo la testa, pensando molto probabilmente che era pazza ad andare in quel posto. Forse aveva ragione. Ma ora non aveva granché importanza. Preso un bel respiro, aprì la portiera e subito una folata di acqua e di gelido vento notturno la prese in pieno, costringendola a piegarsi su se stessa. Uscì dalla macchina chiudendosi subito lo sportello alle spalle e per un po’ le rimase accanto, oscillante nell’erba bagnata, colpita da raffiche di vento e pioggia, bagnata fradicia, coi capelli incollati alle guance e gli occhi socchiusi che invano tentavano di guardarsi intorno. Sopra la sua testa tuonavano lampi.
Si allontanò barcollando dall’auto e cercò di imprimersi in testa il luogo in cui era parcheggiata per tornarvi tra poco. Rivoli d’acqua gelida le scorrevano sulla schiena dalla scollatura della maglietta e le bagnavano le guance come false lacrime mentre si avvicinava, sempre più esitante e spaventata, alla sinistra Heather Ville. Allorché le fu davanti, e poté distinguerla più nitidamente (era riuscita a orientarsi solo perché era molto grande) le parve che la dimora drizzasse di colpo quelle vecchie mura dolorosamente ripiegate in giù e che le finestre nere si illuminassero, e che tutta la sua fatiscente struttura si, come dire, rivitalizzasse e ringalluzzisse come se dopo giorni di resa avesse trovato infine quello che cercava. Il cuore le venne stretto in una morsa. Diamine, in quel momento preferiva rimanere lì all’addiaccio, sotto quella tempesta, anziché entrare.
“Povera me” mormorò, la voce persa in tutto quel frastuono: “La verità è che ho il cuore troppo tenero”.
Su, si disse, arrancando fino al portone su cui scorrevano copiosi rivoli d’acqua piovana, domani sarai a Parigi, con Stephan, e non dovrai preoccuparti più di nulla. Appoggiò le mani tremanti al portone e, infreddolita e bagnata, gli diede una forte spinta. Con un possente cigolio quello si aprì e dall’interno completamente oscuro di Heather Ville venne un tepore tentatore. Di certo la casa di Stephan era assai più calda, ma perfino Heather Ville era preferibile al gelo di fuori. Irene entrò di corsa, e richiuse il portone dietro di sé per non fare entrare l’acqua, appoggiandoci la schiena. Stette qualche istante a riprendere fiato, sotto ai piedi già una bella pozzanghera, coi capelli che le spiovevano in avanti stillando acqua dalle punte.
Quindi, allorché mise a fuoco la sala da pranzo, vide con vivo disappunto che era completamente nel caos: il lungo tavolo di legno giaceva rovesciato su un lato, col drappo rosso deturpato da grossi squarci e buttato malamente poco lontano, e le sedie rotte, prive di gambe, sparse un po’ ovunque, e accanto ad esso era raccolta una gran quantità di cocci e frammenti di stoviglie e posate fracassati. I frammenti taglienti brillavano appena nel buio, catturando mille riflessi, ed erano davvero tantissimi. Doveva essere stato distrutto un intero servizio da pasto. I due grossi candelabri erano stati scagliati contro il muro ed ora giacevano sul pavimento, con i bracci piegati e ormai rovinati, le candele erano saltate via, e intorno ad essi si erano formate grandi chiazze di cera bollente.
Ma la cosa più impressionante era l’imponente lampadario di cristallo: non pendeva più in alto, era invece accartocciato al centro esatto della sala, nient’altro che uno scheletro di metallo circondato da luccicanti frammenti di cristallo, con le catene che l’avevano tenuto appeso al soffitto abbandonate intorno. Quelle stesse catene, o almeno, i loro pezzi mancanti, pendevano ancora dal buco nel soffitto, recise e annerite. Il resto della casa era nascosto dal buio, ma la ragazza non dubitava che fosse in condizioni simili. Per il resto, un silenzio di tomba.
Tesa, fece qualche passo avanti, guardandosi intorno con rapidi scatti nervosi degli occhi, pronta a cogliere il minimo rumore. Si chinò e raccolse un frammento di cristallo. Se lo rigirò tra le mani e la pietra preziosa catturò uno scintillio. Era bellissimo. Ma improvvisamente avvertì un bruciore al palmo e lo lasciò cadere con un gesto di stizza: s’era tagliata ed ora il suo sangue tingeva di rosso il pavimento.
Si rimise in piedi con un senso d’angoscia. Erano già passati dieci minuti, il tassista non avrebbe aspettato ancora molto: forse aveva sopravvalutato la propria capacità di velocità. Se non faceva qualcosa al più presto rischiava di restare intrappolata lì, e non ne aveva alcuna voglia. Dov’era R…cioè, Raphael? Perché aveva fracassato tutto a quel modo? Oddio, che si fosse…
Le comparve in mente l’immagine terrificante dell’uomo senza volto che pendeva impiccato in qualche cantuccio scuro di Heather Ville, con la faccia ancora coperta dal drappo e gli arti mollemente abbandonati lungo i fianchi e d’istinto emise un rantolo strozzato. No, non poteva essere! Non poteva essere! Però, a pensarci, Raphael era capace di tutto, anche di spingersi fino al suicidio. Ma se si fosse suicidato…Irene non avrebbe mai potuto perdonarselo. Doveva essere vivo!
“Ma sì, che è vivo” si disse angosciata e sull’orlo delle lacrime: “Heather Ville e lui sono una cosa sola, sarebbe già completamente distrutta se si fosse ucciso. Di sicuro è nascosto da qualche parte…al secondo piano! Ma certo!”
Il pensiero di tornare in quell’ala maledetta era orribile, ma in quel momento la fanciulla era troppo angosciata per dare ascolto alla ragione. Si mise a correre e salì a precipizio la scala, incespicando, attenta a non sfiorare i numerosi frammenti e mobili fracassati che incontrò lungo il cammino. La paura di trovare Raphael impiccato, schiacciato sotto ad una finestra o sgozzato non le dava tregua. In qualche modo qualcosa la legava ancora a quell’uomo, e le impediva di gioire della sua morte.
Allorché giunse al famoso secondo piano, lo trovò fracassato e avvolto dalla completa oscurità, come il resto. Si guardò freneticamente intorno senza trovare nulla. Dov’era Raphael? Dove poteva essersi nascosto? Fece un paio di manovre a caso, urtando numerose volte qualche mobile rovesciato.
Mentre, ormai prossima alle lacrime, si fermava al centro di un corridoio adorno di porte sbarrate, udì, smorzato, il suono di un lamento terribile e ininterrotto, come di un animale ferito, che proveniva da un punto alla sua destra. Sobbalzò e si disse che la persona che emetteva quel lamento non poteva essere che Raphael. Immediatamente tese l’orecchio e prese la direzione da cui proveniva il rumore. Esso cresceva d’intensità via via che s’avvicinava: erano singhiozzi straziati, misti a parole confuse e indistinte, cariche di minaccia, cariche di supplica, e a grida strozzate che potevano esprimere solo un profondo dolore. Udendo tutto questo, alla poverina mancò il cuore e non poté fare a meno di provare rimorso. Ricordarsi il corpo nudo e martoriato di Tommaso era difficile, con quei lamenti nelle orecchie.
Si nascose lesta dietro il muro di pietra e si sporse appena per guardare. Era la stanza dove Raphael teneva i corpi delle sue vittime, quella stanza che in tutto quel tempo aveva solo cercato di dimenticare. La luce della fornace gettava bagliori funerei sul pavimento e tingeva il tutto di un lucore crudo. Non c’era più traccia del cadavere del domestico, probabilmente non ne restava che cenere da togliere da quella bocca d’inferno, e questo la sollevò. Tuttavia il puzzo di carne putrefatta era più forte che mai e le provocava conati di vomito.
Raphael era in ginocchio accanto alla fornace, illuminato in pieno dalle fiamme, col capo coperto dal drappo nero chino in avanti e le mani strette spasmodicamente sulle imperfezioni del pavimento, il corpo piegato e sofferente scosso da un tremito convulso. Esalava quel rantolo terribile, da animale ferito, ed era l’immagine stessa del dolore e della resa, lì accasciato per terra come un fantoccio di stracci. Accanto a lui c’era la pala da panettiere, che aveva la parte fonda imbrattata di sangue coagulato e di pezzetti di carne morta. Le lacrime cadevano da sotto al drappo e bagnavano il suolo sotto di lui. Ogni volta che emetteva un gemito più forte degli altri, esso era accompagnato dal rumore di un tuono all’esterno, che ne intensificava la sofferenza.
Di fronte a quell’immagine straziante e allo stesso tempo commovente, Irene, nascosta dietro la parete, non seppe cosa pensare. Raphael era una continua contrapposizione: piangeva di tutto cuore, eppure aveva vicino quell’orribile aggeggio pieno di sangue. Cos’era in realtà, un demone o un angelo? Certo non s’era accorto di lei, altrimenti non le avrebbe mostrato il suo tormento. E poi, a volte, era il suo nome, il nome di Irene, che invocava tra i denti serrati, con voce insieme disperata e rabbiosa e piena di un qualcosa di molto più profondo cui lei lì per lì non seppe dare nome. Forse, però, era stata crudele, l’aveva giudicato troppo in fretta, era andata via senza lasciarlo spiegare, e ora lui meritava di essere almeno salutato e messo a conoscenza della sua partenza. Certo, avrebbe comunque sofferto, ma Irene si sarebbe liberata dei sensi di colpa.
Così prese la sua decisione e, prima che lui potesse emettere un altro di quei lamenti strazianti, uscì dal suo nascondiglio e fece un passo avanti. Dovette fare un certo rumore, poiché Raphael si immobilizzò di colpo e smise di singhiozzare. Alzò di scatto la testa e la fissò da sotto al drappo. Irene restò ferma nella sua posizione e ricambiò lo sguardo con intensità. Per un attimo restarono tutti e due immobili: lui inginocchiato a terra, stupefatto, lei in piedi seria, senza dire nulla. Poi Raphael, rimettendosi faticosamente in piedi, con nel tono una patetica felicità e una speranza cui non osava abbandonarsi, esclamò: “Irene!”
Aveva chiamato il suo nome come se lei fosse l’angelo venuto a porre fine ai suoi tormenti, come se non riuscisse a credere che fosse tornata, e la ragazza si sentiva morire tanto era piena di rimorso. Allorché lui le venne incontro a braccia aperte, lo bloccò con un solo sguardo, e con la mossa di allontanarsi. Raphael si fermò e si limitò a fissarla trepidante, con le mani che gli tremavano. Ripeté: “Irene…tu…tu sei tornata”.
Lei abbassò gli occhi: “Io so chi sei” gli disse, e si chiese perché avesse esordito in quel modo. Raphael rimase stupito: “Co…cosa?” era spaesato, evidentemente il suo improvviso arrivo l’aveva scosso in profondità. Irene tornò a sollevare lo sguardo su di lui: “Tu sei Raphael Lawrence, e hai ucciso tuo padre e tuo fratello!”
A giudicare dall’immobilità di lui, non s’era aspettato che lei avesse scoperto la sua identità. Dopo diversi istanti che restava in silenzio, le domandò: “Chi te l’ha detto?”
“Io…” bisbigliò la ragazza, evitando la domanda. Aveva gli occhi lucidi, esitava, chiedendosi come annunciarglielo con delicatezza. Si trastullò così tanto circa quel pensiero, che alla fine lo sbottò senza tanti giri di parole: “Io sono tornata…per dirti addio”.
Raphael restò qualche istante lì in piedi, a fissarla in modo vuoto. Come se non avesse capito il senso di quelle parole, come se per lui non avessero alcun significato. Irene andò avanti con voce tremante: “Domani parto per Parigi. Noi non ci vedremo mai più, Raphael. Io amo Stephan. Voglio stare con lui. Sono venuta perché volevo che lo sapessi. Sarebbe stato crudele andarsene e basta”.
Raphael mantenne l’immobilità per un poco, poi scosse la testa: “No” sussurrò, con tono impercettibile: “No, menti. Tu…tu hai giurato di essere la mia sposa! Non puoi sposare quel giovane! Non puoi partire!”
Aveva alzato la voce in maniera minacciosa, e d’istinto Irene fece un passo indietro, presa da spavento. Ma continuò a ostentare una decisione che vacillava: “Invece lo farò. Non posso essere tua moglie, Raphael. Le cose che hai fatto sono troppo orribili per me. Il modo in cui vivi…non posso amare un assassino”.
“No!” gridò lui, fuori di sé: “Lasciami parlare, dannazione! È vero, ho sbagliato, ma posso cambiare! Io ti giuro…se accetterai di essere la mia sposa, non farò più del male a nessuno!”
“Non ti credo” ribatté lei: “Sono certa che invece faresti del male, soprattutto a Stephan. Mi dispiace, Raphael. Non posso darti quello che cerchi. Dissi di amarti, ma più che altro in te vedevo un eroe delle favole…ti idealizzavo, come tu idealizzavi me. Ora che ho visto il tuo animo, ho capito che non potrò mai essere tua”. 
Allorché accennò a voltarsi e ad andarsene, come era già accaduto due giorni prima, lui emise un singhiozzo disperato e cadde in ginocchio ai suoi piedi, stringendo lembi della sua maglia tra le mani brancolanti e abbracciandole le ginocchia. Si stava umiliando, stava dicendo addio a tutto il suo ritegno, per implorarla. Irene cercò goffamente di liberarsi di quella presa disperata, insieme a disagio e spaventata. Raphael intanto piangeva e le baciava perdutamente i piedi: “Ti prego, Irene, non andartene ancora…tu non sai, non sai cosa sono stati questi due giorni! Come posso provarti che non farò più del male a nessuno? Sposami e diventerò un altro! Sarò chi vuoi tu! Io ti amo! Ti prego, mio tesoro, mio amore…”
“Lasciami andare” rispose la fanciulla. Ma lui scosse la testa e si strinse di più a lei: “Io ti voglio al mio fianco…non lasciarmi qui solo per sempre, non andartene col bel giovane lontano da me…impazzirò…per tutta la vita sono stato solo…non abbandonarmi come fece mia madre”.
C’era sempre qualcosa in lui che toccava profondamente, qualcosa che suscitava pietà e compatimento. In quel momento, inginocchiato ai suoi piedi, umile e piangente, era davvero una vista penosa, e Irene proprio non aveva cuore di gridargli contro parole crudeli e scappare come già aveva fatto. Raphael le aveva afferrato una mano e la baciava attraverso il drappo: “Se sei tornata significa che un poco di bene me ne vuoi, non è vero? Chiunque al tuo posto sarebbe partito direttamente. Ma tu sei così buona, Irene. Quando ti ho vista, che felicità ho provato…sai, se tu mi volessi, potremmo ancora essere felici! Danzeremo tutto il giorno e vivremo soltanto di leggerezza e di affetto, come due persone normali che sono sposate”.
“Lasciami andare, Raphael” mormorò Irene con tono raddolcito, impietosita. Gli accarezzò la testa coperta con delicatezza: “Se vuoi essere buono, lasciami andare. Io non ti odio…ma non posso stare con te. Davvero”.
Lui pian piano sollevò il viso e la fissò, e ad Irene sembrò, anche se era impossibile, che quelle parole l’avessero toccato. Che stesse davvero per lasciarla andare? Che stesse, per la prima volta in vita sua, anteponendo il bene di un altro al suo?
E mentre Raphael esitava, Irene fece l’errore imperdonabile di rendersi conto che era del tutto privo di difese, e che il drappo nero era lì, alla sua portata, vicinissimo. La curiosità, maligna, la curiosità che uccide perfino il buonsenso, l’assalì di colpo. Tornarono a galla impetuosamente tutte le domande circa il famoso volto di R e non riuscì proprio a resistere. Con un gesto fulmineo allungò la mano e rapida gli strappò di dosso il drappo, ansiosa di conoscere quel segreto mortale.
…………orrore! Orrore! Orrore!
Mentre Raphael, resosi conto d’essere stato smascherato e che la ragazza si era approfittata del suo attimo di debolezza, prorompeva in un orribile ululato di rabbia bestiale e con mossa veloce si faceva scudo al viso col braccio, Irene, pallida come una morta, con la bocca spalancata che non urlava più e gli occhi colmi di quella visione che superava qualsiasi altra avesse mai visto, perfino quella del cadavere di Tommaso, indietreggiava convulsamente, troppo sconvolta e inorridita per dare nome alla cosa che le si era rivelata, al premio per la sua maledetta curiosità. Raphael non aveva fatto in tempo a coprirsi, l’aveva già visto.
Il suo viso…mai, in tutta la sua vita, aveva contemplato qualcosa di più orrendo, di più insopportabile alla vista, di più orribilmente marcio e consumato. Non poteva essere il viso di un uomo, eppure qualcosa d’umano ce l’aveva di certo. I capelli, così fini da risultare quasi sottili fili di spago, di un nero opaco, gli arrivavano alle spalle, sporchi e arruffati, e gli occhi di un azzurro chiarissimo, quasi bianco, che facevano un brusco contrasto col nero lucente della pupilla, la fissavano pieni di rabbia. Ma il viso…i lineamenti erano orrendamente avvizziti e ripugnanti, come se tutti i mali del mondo si fossero concentrati su di essi e l’avessero stravolti, tramutando quella faccia nella maschera di un demone d’inferno. Solchi violacei e cicatrici umide gli deturpavano le guance incavate, la fronte ossuta, il mento appuntito, le labbra sottilissime erano circondate da due pieghe crudeli, e mostravano grossi denti squadrati, il naso era poco più di una fessura nera. La pelle non aveva affatto il colorito roseo di quella di tutti gli altri, ma era d’un orribile viola scuro, lo stesso identico colore che assume un cadavere lasciato mesi a marcire. Era un ripugnante essere, metà umano, metà demone, marcio, schifoso, venefico.
La povera Irene, atterrita e terrorizzata, era convinta che neanche nei suoi peggiori incubi fosse riuscita a partorire un volto simile. Solo il Diavolo poteva avergli dato vita. E lei aveva permesso che la baciasse! Il solo pensiero la riempì di raccapriccio. Era un mostro, era un demonio quello che la amava e voleva farne la sua sposa. Distolse subito lo sguardo, la sola vista la spaventava terribilmente.
Da parte sua Raphael aveva smesso di supplicare e di piangere e ora incombeva su di lei come un vero demone, con quell’orrendo viso marcio stravolto dal furore e negli occhi pallidi una luce assassina. Tra i denti zannuti sibilava odiosamente maledizioni e minacce contro di lei che l'aveva smascherato e gesticolava furiosamente: “Maledetta! Dannata! Perché l’hai fatto?! Perché hai voluto vedere come ero fatto? Ti avrei lasciata andare, maledetta, l’avrei fatto, anche a costo di spezzarmi il cuore, perché sapevo che ti saresti ricordata di me con nostalgia e avresti continuato a volermi bene! Ah! Ma ora che hai visto la mia mostruosità, ora che sai qual è il volto di R, se te ne vai non tornerai davvero più e penserai a me solo con orrore. Vedi, adesso, il motivo della mia solitudine, il motivo della mia disperazione, il motivo per cui sono stato costretto a coprirmi?”
La poverina continuava a gridare e a coprirsi il viso con le mani per non guardare l’orribile faccia di demone, ma Raphael, furioso, l’afferrò per i capelli e la costrinse a guardarlo. La sensazione di quelle dita adunche tra i capelli e la vicinanza con quel volto deforme la riempirono d’un tale terrore che temette di svenire. Cadde in ginocchio implorandolo di risparmiarla, ma lui non la lasciò andare: “Ora, Irene, non uscirai mai più di qui! Sarai mia per sempre! Sarai la sposa del mostro!” proruppe nella sua risata agghiacciante e tutto il viso gli si contrasse in un ghigno: “Ti avrei lasciata andare, ma tu ti sei condannata con le tue mani. Non vedrai mai più il tuo bel giovane, e se verrà qui a seccarci, gliela darò io! Sì, resterai per sempre qui con me, e non te ne andrai più”.
“No! No! Lasciami! Non mi toccare!” singhiozzò la sventurata del tutto dominata dall’orrore. Come era stata sciocca! Seguendo il puerile desiderio di scoprire quale fosse il volto di Raphael, si era imprigionata da sola. Tuttavia non poteva accettare di essere prigioniera di quell’essere ripugnante, di cui solo la vista bastava a terrorizzarla oltre ogni dire. In un impeto di forza disperata si liberò delle sue mani raccapriccianti e corse verso l’uscita urlando e agitando le braccia, mentre dietro di sé udiva le sue risate terrificanti. Una volta giunta al pianterreno si gettò sul portone, ma allorché provò ad aprirlo s’accorse con orrore che era chiuso a chiave. Fece forza, lo scosse, gridò imprecazioni, ma niente, quello resisteva e la teneva chiusa dentro.
Si voltò nuovamente verso l’antro buio, ansante, disperata, cogli occhi spalancati pieni di paura. Raphael uscì dall’oscurità e rivide quella sua orrenda faccia tesa in un sorriso diabolico che la rendeva ancora più ributtante. Negli occhi opachi aveva un luccichio sinistro. Irene, appiattita al portone sbarrato, si raggomitolò a terra e premette la faccia sulle ginocchia raccolte, come se avesse di fronte la più tremenda delle visioni: “Ti prego” disse con un fil di voce: “Ti prego, lasciami andare”.
“Ma come?” fece lui con tono falsamente sorpreso: “Forse non ti piaccio? Oh che strano. Sono così bello, io! Come me non c’è nessuno. Ti è piaciuto vedere il mio volto, vero? Lasciarti andare? Oh, no, la tua compagnia mi è troppo gradita perché possa privarmene. Rimarrai qui per sempre. Presto sentirai suonare le campane a nozze, mia cara! E noi saremo uniti fino alla morte!”
Era tutto un incubo, solo un orribile incubo, e ora avrebbe aperto gli occhi e si sarebbe destata tra le braccia rassicuranti di Stephan. Ma rimase lì, accucciata a terra, terrorizzata, con il mostro davanti che la contemplava trionfante, prigioniera e destinata ad un destino peggiore della morte. Non poteva neanche chiedergli di farle la grazia di coprirsi di nuovo col drappo per risparmiarle il dispiacere di vederlo, poiché se l’era cercata da sola. Maledetta lei! Maledetta lei! Cosa avrebbe dato per non averlo mai visto!
Irene gettò indietro la testa e lanciò un grido lancinante.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Prigioniera ***


PRIGIONIERA

 
 
 
 
 
 
Quando Stephan si svegliò al suono della sveglia, pronto a partire, e non vide più Irene, la cercò in lungo e in largo, per tutto il quartiere, finché non precipitò nella più nera disperazione. Mille ipotesi gli si formavano in mente e in ognuna di queste ipotesi Irene era in pericolo: possibile che Raphael si fosse introdotto nella sua casa e l’avesse rapita sotto il suo naso? Possibile che magari l’avesse attirata in trappola con l’inganno? Oppure possibile che proprio lei, quell’adorabile volubile cocciuta, si fosse messa in testa di tornare a Heather Ville?
In ogni caso non c’era più e non potevano partire per Parigi. Di nuovo Stephan era in preda alla paura e ai dubbi, era torturato da congetture e da spasmodiche ansie, e non sapeva cosa fare. Era sicuro che in quel momento Irene si trovasse a Heather Ville: ma era viva o morta, ferita o incolume? Cosa le aveva fatto Raphael? Aveva creduto alle parole della giovane quando gli aveva detto di amarlo, dunque sapeva che in ogni modo avrebbe tentato di tornare da lui: doveva essere prigioniera. Il maledetto la teneva chiusa nella sua dimora inquietante.
“Devo salvarla, maledizione!” esclamò furioso, stringendo nel pugno i tre biglietti: “Stavolta non me ne starò a guardare. La porterò fuori di lì e ci chiuderò dentro una volta per tutte quel Lawrence!”
Sì, diamine, ora che lui e la ragazza erano fidanzati non avrebbe rinunciato a lei. Sarebbe andato ad Heather Ville e avrebbe lottato per il suo cuore, e avrebbe liberato il mondo finalmente dal male di Raphael. Aveva finito con le esitazioni, con i programmi, con l’accortezza: per una volta avrebbe dato retta al suo istinto, e avrebbe fatto esattamente quello che voleva fare, nel momento in cui voleva farlo.
 
Irene era barricata dentro la sua vecchia stanza da letto ormai da ore ed era a tal punto persa in se stessa da non sapere, effettivamente, quanto tempo era passato dalla notte tempestosa appena trascorsa e da quanto se ne stesse raggomitolata dietro al letto a baldacchino, nell’angolo più buio della camera, con le ginocchia strette al petto e gli occhi rossi e fissi persi nel vuoto. Aveva un’espressione cupa e assente, tutta presa dietro a foschi pensieri, come se una nube le fosse calata sul viso, oscurandoglielo, e ogni tanto veniva scossa da un tremito, come se avesse degli spasmi epilettici. Lo sguardo, di tanto in tanto, si riscuoteva dalla sua fissità e guizzava terrorizzato alla porta chiusa. Effettivamente era terrorizzata, del tutto terrorizzata.
Era prigioniera in quell’enorme casa buia e sinistra, che aveva tutte le finestre accuratamente sbarrate e il portone chiuso da una chiave di cui ignorava la localizzazione, e da qualche parte al piano superiore si aggirava il mostro rivoltante, suo carceriere. Era così silenzioso che non ne udiva i passi, ma sapere che poteva essere ovunque le procurava un continuo terrore. Era stata folle ad usargli il riguardo di venire a salutarlo! Raphael…o meglio, la cosa chiamata Raphael, subito dopo averla informata del suo stato di prigionia, s’era ritirata sghignazzando ed Irene, che anche se non l’aveva davanti era come perseguitata dall’immagine terrificante del suo orribile volto, era corsa nella sua stanza, l’unica isola vagamente familiare in quell’inferno, e s’era chiusa dentro per non doverlo più guardare.
Aveva fatto di quella misera stanzuccia la sua personale e inattaccabile fortezza. Forse era anche prigioniera di Raphael, ma almeno gli avrebbe impedito di tormentarla col suo aspetto orribile e con le sue parole striscianti. Aveva immediatamente coperto il buco nel muro che lei stessa aveva aperto, perché la sola idea che lui potesse spiarla con i suoi occhi pallidi la terrorizzava, con la cassaforte in cui teneva i vestiti, spostandola contro la parete. Poi aveva preso la valigia, che nella foga di andare da Stephan aveva lasciato lì, e l’aveva messa contro la porta per bloccarla. Con l’intelaiatura del materasso, che aveva strappato con la forza della disperazione, aveva ricavato una lunga barra metallica spessa con cui aveva assicurato la serratura. Alla fine s’era sentita leggermente più sicura ed era andata a rincantucciarsi in quell’angolino, dove era rimasta immobile mentre le ore si srotolavano lentamente, sadicamente, l’una dietro l’altra.
L’immagine di Raphael senza drappo la perseguitava, come la perseguitava il pensiero di Stephan, che l’aspettava e da cui non poteva tornare. Quella dimora che un tempo era stata la sua casa era ora divenuta la sua prigione indistruttibile, e persino la camera in cui s’era chiusa dentro era, fino a prova contraria, una cella. Più confortevole di altre, ma comunque una cella. Cosa ne sarebbe stato di lei? Che progetti aveva in mente nei suoi confronti il mostro? Irene sapeva che se avesse voluto avrebbe potuto prenderla con la forza o farle del male senza fatica, ma non osava nemmeno soffermarsi su simili paure, semplicemente voleva dimenticare quel volto putrefatto. Ma era come scolpito in profondità nel suo cervello, e ogni volta che chiudeva gli occhi era lì a ghignarle maligno. A furia di tenerli spalancati erano pieni di venuzze rosse. Trovava miracoloso il semplice fatto che Raphael non avesse ancora tentato di aprire una breccia nella “fortezza”.
Era a tal punto scorata, a tal punto in preda alla disperazione, che nel caso era pronta a togliersi la vita, se quello che un tempo aveva amato senza conoscerne la vera natura avesse preso a comportarsi come la bestia che era. Non aveva neanche più la forza di piangere.
“Stephan” sussurrò nel silenzio snervante della stanza: “Stephan Stephan Stephan…” 
Forse, se ripeteva mille volte il suo nome, per magia sarebbe apparso lì accanto a lei e l’avrebbe portata in salvo. Era una cosa infantile, desiderare che accadesse una cosa e sperare nel suo realizzarsi. Non sarebbe mai venuto, il suo Stephan, e lei sarebbe rimasta rinchiusa ad Heather Ville per sempre, fino a imbiancarsi i capelli biondi e a riempirsi di rughe e a perdere tutti i sogni e tutte le voglie della sua giovinezza. Attorcigliandosi una ciocca di capelli tra le dita, s’accorse con costernazione che forse la vecchiaia era prematura, poiché erano già grigi. Immediatamente si specchiò nel braccialetto che portava al polso: diverse ciocche spiccavano grigie nella chioma bionda.
“Cosa m’è accaduto?” pensò, terrorizzata. Forse era Heather Ville che le faceva quest’effetto? Poi le venne in mente che non c’era nulla di pazzesco nel fenomeno, ma che semplicemente lo choc, il terrore e la tensione avevano provocato quel mutamento nel suo pigmento.
In situazioni come quelle, molti si sarebbero raccomandati a Dio, ma lei non aveva creduto nella sua esistenza, era sempre stata un tipo cinico. Credeva nei folletti e negli elfi dispettosi, credeva ai fenomeni poltergeist e di possessione, ma non a Dio. Era forse l’unica cosa in cui non credeva. Se gli altri ridevano delle sue credenze circa il mondo del fantastico, lei rideva delle loro preghiere e del loro infilare il nome del Santo Padre ovunque. La trovava comune paura della morte e desiderio di rintronarsi intorno ad un paradiso che avrebbe accolto tutti alla fine dei tempi. Ma non era forse l’inferno il luogo in cui si trovava ora?
Diavolo, aveva voglia di fare pipì. Era quasi un giorno che non andava in bagno. Aveva come uno spillone conficcato nel pube, ma s’imbarazzava troppo a farla sul pavimento. E poi aveva fame. Una fame da lupi. Uscire a cercare cibo era impensabile, la paura di Raphael era troppo forte, ma non poteva impedire allo stomaco di contorcersi e brontolare. Era ridotta peggio di una naufraga in mezzo al mare. Al pensiero dell’acqua avvertì più impellente il bisogno di urinare. Doveva decidersi a farla finita col pudore, o se la sarebbe fatta addosso, e allora sarebbe stato davvero uno scempio. Paonazza in volto, e piena di umiliazione, andò dall’altra parte della stanza e si accovacciò, tirandosi giù i pantaloni. Fece tutto molto in fretta e mentre l’odore sgradevole si spargeva nell’aria fu colta da un profondo senso di disperazione.
“Non posso vivere così”.
Avrebbe potuto uccidersi. Ora come ora sarebbe stata la soluzione migliore. Battendo il capo con violenza contro il muro, per esempio. O impiccandosi al lampadario. O inghiottendo alcuni dei chiodini di ferro in rilievo sulla cassaforte. C’erano mille modi per morire lì dentro, e lei non avrebbe dovuto fare altro che sceglierne uno. Tutto, anche la morte, era preferibile a quella tremenda prigionia. A furia di restare chiusa lì dentro, terrorizzata, sarebbe impazzita. E così, cosa più importante di tutte, avrebbe lasciato al mostro solo il proprio cadavere per soddisfare le sue voglie. Chissà, forse si sarebbe sentito in colpa.
Mentre cercava di escogitare il modo di suicidarsi, improvvisamente qualcuno bussò tre volte alla sua porta, e la voce raschiante di Raphael disse da fuori: “Irene? Sei qui dentro?”
Allorché l’udì, la poveretta dimenticò tutte le sue congetture e venne presa da un terrore così intenso che temette di svenire. Si raggomitolò ancor più, atterrita, chiuse gli occhi e si premette le mani sulle orecchie: “No!” gridò: “No, và via!”
Socchiuse le palpebre e vide con orrore la maniglia che si piegava verso il basso e incontrava la resistenza della fettuccia di metallo. Cominciò a scuotersi con violenza e a fare su e giù come un’elica impazzita e ognuno di quegli scossoni era un colpo al cuore per la povera ragazza: “Perché hai chiuso la porta, Irene?!” sbraitò Raphael contrariato: “Forse vuoi restare qui dentro fino al resto dei tuoi giorni? Su, apri, non fare la bambina!”
“No!” ripeté Irene che in quel momento pregava con tutte le forze che la sua goffa barricata tenesse sotto le spinte sempre più possenti del mostro: “No, no, và via, lasciami in pace!” prese subito a singhiozzare per la paura di doverlo di nuovo vedere. Le faceva troppo orrore.
“Aprimi!” esclamò la voce di Raphael attraverso l’uscio: “Perché non vuoi aprirmi? Non ti faccio mica niente. Credi che ti voglia fare del male? Non ti torcerei un solo capello, moglie mia”.
“Non chiamarmi così!” strillò la fanciulla ch’era pallida come un cencio: “Vattene! Ho paura!”
“Ah, ora mi scacci?” commentò Raphael, che aveva mutato tono ed ora era addolorato: “Te lo ripeto, se ti trovi in questa situazione è solo colpa tua, che hai voluto togliermi il drappo. Ti ripugna la mia deformità, forse? Sei stata tu a volerla vedere! E ora resterai qui per sempre e sarai la mia sposa, piccola curiosa!”
“Sei un bugiardo e un crudele!” gridò lei impaurita e ansimante: “Ecco cosa sei! Mi accusi di curiosità…ma per tutto questo tempo che siamo stati insieme mi hai celato la tua deformità, facendomi credere d’essere bello!”
“Io non ho mai detto di essere bello” precisò lui con tono pacato. La poveretta era del tutto dominata dalla rabbia per l’ingiustizia e dalla paura che riuscisse ad aprirle e comparisse sulla soglia col suo orribile ghigno: “Ma lo lasciavi intendere! Quell’aria enigmatica, quelle tue belle parole, quelle arie da gran gentiluomo che ti davi…mi hai ingannata per tutto il tempo! E io c’ero cascata in pieno…siamo colpevoli entrambi, Raphael! Oh, ma puoi ancora redimerti, sì, puoi! Lasciami andare per conto mio, lascia che riabbracci Stephan, e dimenticherò tutto!”
“No!” lui le scagliò contro quella parola con violenza come se fosse stato nella stanza e gliel’avesse gridata nelle orecchie: “Non ti lascerò andare via! Tu non dimenticherai la ripugnanza che ti ispiro. Ti terrò con me, Irene. Vedrai, alla lunga ti abituerai alla mia vista e convivremo con serenità. È inutile che ti chiudi dentro le stanze a questo modo. Non è di buon auspicio litigare in prossimità delle nozze. Sarà una cerimonia di gran fasto, oh, sì” dall’interno lei lo sentì che si sfregava le mani compiaciuto: “Sì, un matrimonio coi fiocchi! Con ottimo vino e chicchi di riso e musica meravigliosa. Divideremo insieme il resto delle nostre vite e conosceremo solo felicità” la maniglia riprese ad essere scossa con accresciuto vigore: “Ora, su apri! Tanto vale che ti abitui subito a vedermi!”
“Puoi anche tenermi rinchiusa qui” replicò lei: “Puoi anche impedirmi di essere felice e rovinarmi la vita, ma dentro di me io non sarò mai tua, mostro! La tua crudeltà è tale che hai ottenuto il contrario di ciò che desideravi: ti odio! E ti giuro che se non mi renderai immediatamente la libertà che mi hai tolto ti odierò per sempre e passerò la mia prigionia escogitando il modo di ucciderti!”
Raphael emise un ringhio così rabbioso, così bestiale che il cuore di Irene ebbe un violento sobbalzo e si schiacciò a terra per la paura. Tuttavia smise di scuotere la maniglia: “Allora fa pure…e muori di fame!” le sibilò odiosamente da fuori: “Ogni tuo desiderio è un ordine, mia cara…ti lascerò qui a marcire nella tua paura, e vedrai che ben presto verrai ad elemosinare il mio amore!”
Lo udì distintamente che se ne andava a passi pesanti, bisbigliando tra i denti oscuri borbottii e maledizioni senza costrutto, e non poté impedirsi di provare sollievo e di rilassarsi. Era andato via. Non doveva vederlo, per ora, era salva. La barriera aveva retto. Ma era troppo spaventata per muoversi da lì. Si sarebbe alzata quando si sarebbe sentita meglio. Ora…ora era meglio restarsene tranquilli per un po’, e non dargli motivo di tornare. S’addormentò e dormì d’un sonno inquieto, ma dopo poche ore si destò di soprassalto, fradicia di sudore, poiché aveva sognato l’orribile maschera di demone di Raphael che le ghignava nel buio e le sue mani adunche che le si stringevano intorno alla gola. D’istinto si portò una mano al collo, ma era libera.
La fame cresceva, senza che potesse farci nulla: aveva già urinato due volte e il puzzo le dava il voltastomaco, mentre il suo stomaco continuava a contorcersi e contrarsi reclamando cibo. Se lo afferrò e fece una smorfia. Non voleva darla vinta a Raphael e implorarlo di darle qualcosa da mangiare senza farsi vedere, né uscire e cercarla lì intorno. Doveva sopportare e stringere i denti. Più facile a dirsi che a farsi. Era un giorno e mezzo che non toccava cibo e le sembrava di svenire tanto era debole. Quando aveva costruito la fortezza, non aveva pensato a portarsi dietro del cibo. Perché era stata così stupida? La paura le aveva a tal punto annebbiato la mente? Era così irrequieta che finì con l’alzarsi e fare avanti e indietro per la stanza come una belva in gabbia, con l’espressione sempre più cupa e gli occhi azzurri fissi con stizza sul pavimento sudicio.
“Cosa posso fare?” mormorò disperata: “Stephan, dove sei?” prese a mordicchiarsi ferocemente l’unghia del pollice, un vizio che credeva di aver abbandonato da bambina. In quel momento era così affamata che avrebbe divorato persino quegli enormi tazzoni di porridge bruciato che Tommaso le propinava sempre quando era piccola, per rinforzarle lo stomaco, diceva. Quante storie aveva fatto! Era sempre stata una cocciuta. Ogni volta che il domestico le metteva di fronte l’orribile porridge incrociava le braccia e si rifiutava di prendere in mano il cucchiaio. Faceva schifo, si lamentava. E Tommaso con un sorriso bonario le diceva che in certi paesi i bambini morivano di fame. Lei allora rispondeva aspramente che se anche avesse mangiato il porridge quei bambini non avrebbero smesso di morire di fame. Alla fine mandava giù due o tre cucchiaiate scarse e il resto lo sputava di nascosto in bagno.
Come aveva ragione Tommaso! Adesso avrebbe dato la vita pur di avere un bidone di quella roba davanti. L’avrebbe trangugiato senza fare storie e avrebbe pure fatto il bis. Aveva perfino l’acquolina in bocca. Pensare al domestico però la buttò ancora più giù, poiché rammentò che era morto, e proprio per mano di Raphael.
Dopo circa un’altra mezz’ora che si torturava per i morsi della fame nella sua cella, sentì tornare il suo carceriere. Immediatamente terrorizzata tornò ad accucciarsi nel solito angolo e prese a mormorare una preghiera che le facesse vincere anche questa battaglia. Non sapeva chi o cosa stava pregando: semplicemente pregava rivolgendosi ad un fantomatico Tu.
Stavolta Raphael non bussò nemmeno, si limitò a piantarsi di fronte alla porta: “Stammi a sentire, Irene” le disse con tono brusco, ma anche leggermente preoccupato, come se non si fosse aspettato da lei una simile resistenza: “Ti stai comportando da perfetta sciocca e lo sai. Restando chiusa qui dentro non dimostrerai nulla a nessuno. Ti farai solo morire di fame”.
“Ma almeno non vedrò più la tua faccia ripugnante” pensò Irene tremante, senza osare rispondergli. Alla fine pigolò con un fil di voce: “Rendimi la libertà che mi hai tolto”.
“Irene” sospirò lui sconfortato, con un che di profondamente malinconico: “Non hai perso l’abitudine di domandarmi l’unica cosa che non posso darti. Se solo volessi, se ti impegnassi un poco passeresti sopra alla mia mostruosità. Non è così difficile. Ma tu fai l’ostinata! Ti rinchiudi nella tua stanza! Perché lo fai?”
“Perché mi fai orrore!” esplose lei di colpo, esasperata da quella pantomima. Tutta la paura, il dolore, la frustrazione, l’umiliazione si raggrumarono in un pianto dirotto: “Non riesco a guardare il tuo viso orribile neanche se mi sforzo allo spasimo! Solo chi ha compiuto le più tremende nefandezze può avere un volto simile!”
Dall’altra parte della porta calò un silenzio tombale. “Adesso mi uccide” pensò Irene senza paura, con una strana calma consapevolezza: “Adesso veramente sfonda la porta e mi fa a pezzi”. Bene, che venga pure. Che concluda in bellezza la pazzia cui ha dato inizio. Sarebbe stato un sollievo.
Invece Raphael, anziché perdere la testa, si mise a parlare con tono triste e sognante, come di chi rimembra fatti avvenuti da tanto tempo e da altrettanto tempo rimossi: “Mio padre” iniziò a raccontare: “Era un uomo ricco e d’aspetto piuttosto attraente, che dalla vita aveva avuto tutto. Un castello a picco sul mare, un discreto patrimonio, tre bei figli maschi, una moglie che lo amava. Non poteva desiderare altro eppure continuava a bramare di arricchirsi di più, nonostante fosse tra i più ricchi e influenti uomini della Svezia. Così, ad un certo punto della sua vita, prese a sperperare il suo denaro nel gioco, nelle ubriacature, nel fumo, e in quanto di più squallido e venefico esiste al mondo. Era alla disperata ricerca di un piacere che finora era convinto di non avere mai trovato. E più smaniava di trovarlo, più cadeva in basso. Non trovo inconcepibile che si sia spesso macchiato le mani di sangue, anche se era molto abile a nasconderlo e a far incolpare dei perfetti innocenti.
“Le cattive azioni deformano l’anima e l’aspetto degli uomini. Uomini che fino a poco tempo prima erano persino gradevoli a vedersi assumono un che di così marcio, di così…contaminante che istintivamente gli altri gli si tengono alla larga, come se avessero uno speciale cartello che annuncia che sono malvagi. Alla lunga diventano dei veri e propri mostri, ributtanti e putrefatti dai loro peccati. Mio padre, nella sua lenta caduta, si rendeva conto di questo, e ne era terrorizzato. Voleva restare sempre uguale, voleva che nessuno si accorgesse della sua doppia vita. In quello stesso anno ero nato io, la consolazione di mia madre, ed ero così bello, come un sole, che lei passava le giornate baciandomi e vantandosi con tutti del mio aspetto angelico. Ero un tesoro, ecco tutto. Più bello persino del terzogenito, Viktor, mio fratello.
“Mio padre non voleva bene a niente e nessuno. Non ai suoi figli, che vedeva solo come eredi, non a mia madre che gli dava solo una facciata d’onore, né a tutti gli amici di cui amava circondarsi. Tantomeno a me, che gli mostravo la mia faccia d’angelo tutti i giorni. Anzi, penso che nel suo inconscio mi odiasse profondamente. I suoi peccati pretendevano di esigere il loro prezzo tramutandolo in un vecchio orribile e cattivo, così fece…so che sembra impossibile…un patto con un demone. I demoni esistono, Irene, e spesso e volentieri si sono fatti anche vedere. Si mise in contatto con questa…presenza e la implorò di mantenerlo bello e angelico come sempre. Tutti i peccati che aveva, e avrebbe compiuto, sarebbero ricaduti…su di me. Il figlio più piccolo. Avrebbero deformato me, anziché lui. Un bambino innocente che non aveva nessuna colpa se non quella di essere figlio di un tale mostro d’egoismo. Il demone accettò.
“Da allora, ogni sua cattiva azione era un’ulteriore deformità per me. Più lui cadeva in basso più io mi deterioravo e diventavo questa…cosa. Non c’era più traccia del bimbo bellissimo che ero stato. Ero un mostriciattolo ributtante a vedersi, putrefatto, schifoso, con la faccia di un adulto, e una tal malvagità nei lineamenti che mia madre, la mia povera madre che tanto mi aveva amato, inorridiva al solo vedermi e mi rifuggiva. I miei fratelli non mi avevano più visto da quando avevo cominciato a trasformarmi così e mio padre, da parte sua, era terrorizzato da me. Ogni volta che mi vedeva era come se scorgesse l’immagine del vero se stesso, e di tutti i suoi peccati. Mi fece rinchiudere nella torre dicendo che lo faceva per salvare l’onore della famiglia, ma io sapevo che lo fece unicamente per non vedermi più.
“Passai undici anni rinchiuso in quella torre, solo, senza amici, senza rapporti, senza neanche un barlume di felicità, a contemplare dall’alto della mia finestrella le vite degli altri e a desiderare di potermi unire a loro, ma capitava sempre più spesso che guardandomi allo specchio notassi un ulteriore peggioramento, un ennesimo allontanamento dalla razza umana, perché mio padre aveva compiuto un altro delitto. E lo odiavo, di un odio feroce e selvaggio, ma allo stesso tempo l’amavo più di me stesso e avrei voluto soltanto che ogni tanto comparisse anche solo per pochi minuti. Viktor, mio fratello, l’unico ad avermi visto, invece, saliva spesso, quasi ogni giorno, per torturarmi. Mi prendeva in giro, mi faceva domande circa la mia vita sociale, sapendo di farmi soffrire, e, poiché ero un bambino molto gracile, mi faceva del male e rideva, rideva, con tutti i suoi denti bianchi e gli occhi pieni di divertimento. Ogni tanto guardavo i suoi denti bianco perla e mi sembrava simile ad una belva dai denti acuminati che giocava col suo pezzo di carne, prima di mangiarlo. Mi faceva una terribile paura. Era bello, ma così cattivo, così sadico che aveva comunque una sua mostruosità.
“Il mio odio era cresciuto sempre più insieme al desiderio insopprimibile di liberarmi dalla mia prigione reale e psicologica e conoscere il mondo. Ero condannato a causa di mio padre, ma non per questo avrei passato il resto della mia vita ad osservare dall’alto, come spettatore. Avevo visto così tante cose, da lassù! Avevo visto amici tradirsi e ricongiungersi, abbracciarsi e ridere insieme, avevo visto madri e figli passeggiare mano nella mano, avevo visto innamorati intrecciare dolci promesse sotto la mia finestra ed ero a conoscenza di tutti gli intrighi del palazzo. Invidiavo tutta quella gente che dava per scontato ciò che aveva e bramavo di avere un po’ anch’io di quelle gioie, anche col mio sventurato volto.
“Poi una sera finalmente venne mio padre. Alla vista della sua faccia immutata provai una rabbia intensa, cocente. Esordì comunicandomi che mi avrebbe presto mandato in un paese lontano, dove avrei visto cose meravigliose, e che mi avrebbe liberato dalla torre. Io però vidi il suo sicario più fidato che aspettava sulla tromba della scala a chiocciola e capii, in una folgorazione improvvisa: finalmente aveva trovato il fegato di farmi fuori e cancellare del tutto le sue colpe. Sapevo esattamente cosa aveva intenzione di fare: mi avrebbe preso sottobraccio per la prima volta, sorridendomi falsamente, mi avrebbe accompagnato giù per le scale e lì un inaspettato colpo d’ascia mi avrebbe mozzato la testa senza che quasi mi rendessi conto di niente. Ecco. Semplice e pulito. Si sarebbe liberato di me, di questo figlio così scomodo, in quattro e quattr’otto. Cancellando così anche i suoi peccati.
“Ma non l’avrei permesso. Non tanto per me stesso, ma perché non era giusto, non era giusto che un farabutto, un assassino come lui la facesse franca in questo modo. Non aveva calcolato che gli anni passati nel buio della torre mi avessero consentito di sviluppare la vista oltre il normale, e che avevo avvistato il sicario. Finsi di credere alle sue menzogne e mi avviai con lui giù per le scale. Quando lo scagnozzo si fece avanti, ero pronto: mi spostai di scatto, evitai il colpo, gli strappai di mano l’ascia e fui preso da una sorta di ebbrezza, di scarica di adrenalina. Ora, con l’ascia in mano, ero più potente di loro, finalmente mi avrebbero temuto! Un colpo, e il sicario cadde a terra faccia in giù. Prima che lo uccidessi, mio padre mi lanciò un’occhiata d’un odio tale che non avrei dimenticato più quello sguardo. Poi ricordo solo un silenzio pacificatore e l’ascia rossa di sangue tra le mani, le mie mani putride. Ero…sollevato. Avevo fatto giustizia, avevo punito mio padre per il male che mi aveva fatto. Ero eccitato e felice di averlo ucciso, e non me ne pentivo affatto. Meritava di morire. La vista del sangue mi dava fastidio, e quei cadaveri martoriati in qualche modo mi toccavano. Ma era lì che stava il bello: trovare conferma a quello che gli altri dicevano di me. Che ero un mostro. Crudele, per giunta.
“Viktor mi trovò in questo stato allucinato, quando andò a vedere cosa fosse successo. Alla vista di nostro padre che giaceva col cranio spaccato e di me che me ne stavo lì a ridere con l’ascia insanguinata in mano rimase scioccato e vedere la sua faccia sadica sconvolta dalla paura fu un piacere acuto e inaspettato. Anche lui mi aveva fatto del male, senza tener conto minimamente dei miei sentimenti. Vibrai l’ennesimo colpo e anche lui cadde a terra come un sacco. Allora tornai in me e mi resi conto di quello che avevo fatto. Avevo ucciso mio padre e mio fratello. Caddi in ginocchio e piansi sui loro corpi, chiedendo perdono. Ma ormai ero così segnato dai peccati che quello non avrebbe fatto molta differenza. Se restavo lì mi aspettava solo il carcere e non volevo questo destino, ero ancora alla disperata ricerca di quei piccoli successi che avevo contemplato dalla mia torre. Mi coprii il volto col drappo e fuggii.
“Vagai a lungo e senza meta, tormentato dall’enormità di quanto avevo fatto. La notte terribili incubi popolati dalle facce di mio padre, di Viktor e del sicario mi facevano impazzire e il giorno vivevo nella macchia, sempre coperto col drappo, sopravvivendo a stento, con le poche capacità che avevo. Mi infilai nella stiva di una grossa nave diretta in Spagna e mi aggirai nelle stanze buie senza che nessuno si accorgesse di me, e per la prima volta assaporai l’intenso piacere di strisciare nell’oscurità e di spiare quelli intorno a me. Ancora una volta mi nutrivo di quegli sprazzi di vita, e mi immaginavo che facevo il bagno, mi sdraiavo sulle sdraio e prendevo il sole come loro. Ero un ragazzino di dodici anni, avevo i desideri di un ragazzino di quell’età: giocare, scherzare spensieratamente, bagnarmi in quell’acqua gelida e corroborante, conoscere dei coetanei. Ma ero abbastanza disincantato da rendermi conto di non poterlo fare, non con questa maledetta faccia, l’unico regalo che mio padre mi ha fatto. Nella mia mente si susseguivano varie ipotesi, vari mezzi di salvezza: plastiche facciali, rimedi di erbe, impacchi…ma dove avrei potuto fare tutto questo? Se solo osavo togliermi il drappo, mi avrebbero linciato in massa.
“Approdai in Spagna e ripresi a vivere di stenti. Ero ormai disperato e pronto a lasciarmi morire. Non avevo uno scopo, ma soltanto sogni e desideri senza costrutto. Non sapevo fare nulla e non potevo usare il mio vero nome perché ormai era stato associato a quello dell’assassino di Hugo Lawrence e di suo figlio. Ero senza soldi e per lo più rubavo utilizzando la mia agilità o, se serviva, mi toglievo il drappo e la gente si spaventava talmente che mi dava tutto senza neanche controllare che fossi armato o meno. La mia deformità mi era utile, per la prima volta! Insomma, una volta che vagavo moribondo per un vicolo di Toledo, mi raccolse uno zingaro, un uomo calcolatore e probabilmente più crudele di mio padre, ma lì per lì mi parve un angelo. Mi mise una mano sulle spalle e, quando mi girai terrorizzato, mi rassicurò dicendomi che era dalla mia parte e mi offrì una caramella che, ne sono sicuro, era probabilmente imbevuta di liquore o di qualche robaccia che prende quella gente.
“Era la prima volta da quando ero nato che qualcuno non mi voleva male, così mi sciolsi in pianto e lo abbracciai. Lui mi strinse a sua volta e pian piano mi tolse il drappo. Alla vista del mio volto non si spaventò affatto, anzi, mi prese con sé e disse che insieme avremmo guadagnato una fortuna. Io lo seguivo come un cane fedele. Mi aggregai al suo circo, una grottesca carovana di ceffi e di prostitute. Il mio numero era semplice: entravo in scena e me ne stavo lì, senza drappo, a farmi ammirare dal pubblico. All’inizio ero molto timido e scappavo via, ma dopo un po’ imparai ad ignorare le reazioni di quella gente, che erano o di terrore, o di meraviglia, o di scherno, o a volte perfino di adorazione. Ero chiamato The Freak, un termine inglese che mi son sempre chiesto perché si usasse in Spagna, ma forse tutti vogliono essere un po’ inglesi.
“In quel circo ci passai quattro anni. Quattro anni passati a vivere nel gradino più basso della società, con altri emarginati come me, e a spostarmi di città in città per mostrare il mio sventurato volto alla gente normale, che era ancora un mare di facce inavvicinabile che mi fissava meravigliato. Avevo sedici anni e finalmente mi resi conto di quanto il mio mentore si fosse approfittato di me: intascava regolarmente le monete che mi venivano gettate addosso durante il numero e se ne andava a bere con gli altri del circo e ad andare a puttane, lasciandomi nel mio tendone, perché io l’amore non l’ho mai nemmeno potuto comprare, e d’altronde non l’avrei mai fatto. Le rare volte che provavo a protestare, mi picchiava col suo bastone e mi dava sempre quelle sue immonde schifezze per farmi dormire.
“Scappai anche dal circo, e la mia fu un’uscita di scena davvero magistrale! Una notte che tutti dormivano, smaltendo la sbornia pesante, sgattaiolai fuori dalla mia tenda, entrai in quella del capo del circo e rubai tutti i suoi risparmi e il denaro guadagnato quel giorno, nonché diversi vestiti e del cibo, poi diedi fuoco a tutto l’accampamento e mentre me ne andavo vittorioso udivo le loro urla, dietro di me, che erano come una musica dolce e piena di vendetta. Ero così amareggiato, ero stato trattato in modo così vergognoso dal mondo che fare del male non mi turbava, anzi, la prendevo come una sorta di rivincita. Di ribellione.
“A questo punto mi ero definitivamente stancato di cercare di piacere alla gente. Mi trovavano un mostro? Ebbene, mi sarei arreso. Volevo soltanto trovare un luogo in cui passare il resto della vita in pace e in silenzio, da solo, a coltivare il mio intelletto. Così presi a viaggiare sotto le mentite spoglie di R, col volto sempre coperto, perché mostrarlo non era più nelle mie intenzioni. Volevo dimenticarlo io stesso, scacciarlo dalla mente e immaginarmi normale sotto al mio drappo nero. Osservavo ancora da lontano la vita degli altri, e continuavo ad invidiarli, soprattutto quei giovani che per le strade camminavano con una bella e dolce fanciulla accanto, ma sapevo che non era roba per me. Certo, mi sarebbe piaciuto passeggiare con una ragazza stretta al mio petto, ma cosa potevano provare per me le donne, se non orrore? Rifuggivo loro con ancor più vigore che ai maschi.
“Il posto perfetto si faceva attendere e disperavo. Forse non esisteva posto per me, forse ero condannato. E invece lo trovai. Per caso, andandoci a sbattere contro. Heather Ville. Quando la vidi divenni euforico. E anche lei, la mia vecchia, sono certo che anche lei gioì di avere trovato finalmente il proprietario perfetto. Eravamo fatti l’uno per l’altra. Lei non sarebbe inorridita nel vedermi e si sarebbe lasciata toccare e abitare senza problemi. Contrattai con l’agente immobiliare che se ne occupava. Avevo una certa quantità di soldi che avevo rubato al circo e comprai la sua approvazione. Andai a vivere nella mia Heather Ville e…beh, fu come se fossimo due novelli sposi. Io la esploravo e lei mi si rivelava con piacere, svelandomi i suoi segreti. Scoprii il nascondiglio nei muri e me l’appuntai nella mente e modificai ogni stanza secondo il mio gusto. Non ne uscivo mai, mi sentivo bene solo lì. Ero convinto che Heather Ville fosse mia e mia soltanto e che nessuno l’avrebbe potuta abitare. Avevo ventiquattro anni.
“Ti risparmio il resto. Quel maledetto agente immobiliare, non so come, scoprì chi ero e venne a minacciarmi. Non potevo permettere di essere sfrattato dalla mia Heather Ville. Lo uccisi. Non era la prima volta che uccidevo, ma fu la peggiore, perché quell’uomo non mi aveva fatto alcun male. Mentre lo facevo, percepivo chiaramente che era sbagliato e immorale, ma era più forte l’egoismo, quell’egoismo che mi sentivo in dovere di possedere dopo tutto quello che avevo passato. Però quell’omicidio mi scosse profondamente. Ora sapevo di essere davvero un mostro, mio padre non c’entrava. Heather Ville era una casa fantastica, ma ero solo lì dentro, per sempre solo. Quando bruciai il cadavere nella fornace, non badai apposta ad usare cautela e scoppiò l’incendio. Mi misi al centro del salone da ballo, a braccia aperte, aspettando di essere arso dalle fiamme. Ma nemmeno di morire mi era consentito: arrivarono i pompieri e tutte quelle altre persone e spensero l’incendio. Fui accarezzato dall’idea di ucciderli tutti, ma alla fine invece mi nascosi nei muri e lì rimasi per un tempo che mi parve infinito, schiacciato nell’oscurità come un verme, a scrutare gli agenti immobiliari, i poliziotti, i signori del luogo che violavano la mia Heather Ville.
“Dai loro discorsi compresi che c’era un certo acquirente, un tale, di nome Giorgio Lancaster, che intendeva acquistare la casa e andarci a vivere. Venni preso dalla furia. La mia Heather Ville data a un altro? Immediatamente escogitai il modo di riprendermela appieno: sarei rimasto nascosto finché quel signore non sarebbe restato solo, e allora l’avrei ucciso e mi sarei appropriato di ciò che era mio. Ovviamente avrei fatto fuori anche quelli che sarebbero venuti con lui. Attesi, paziente, nei cunicoli del mio nascondiglio, che la cosa fosse fatta, ed effettivamente dopo qualche settimana i nuovi abitanti arrivarono. Erano due uomini insignificanti e una ragazza, la figlia di quel fantomatico Giorgio Lancaster. Gli uomini non mi interessarono, fui invece molto colpito dalla ragazza, non tanto per la sua evidente bellezza, ma per la luce di ammirazione con cui guardò Heather Ville entrando, ben diversa dalla diffidenza degli altri due. Si lanciò subito in un’attenta esplorazione e io la seguii attraverso i muri, anziché procedere col mio piano.
“Mi piaceva guardarla, e mi divertivo nel notare tutti i sottili cambiamenti della sua espressione mentre esplorava le stanze. Si stupiva nel trovare oggetti che appartenevano a me, li esaminava con attenzione, si soffermava su ogni minimo dettaglio, ed era sempre affascinata. Mi piaceva guardarla senza che lei potesse vedere me, e così rimasi accanto a lei. Quando feci rumore, immediatamente lei andò al muro e si accorse che era cavo. Questo definitivamente mi catturò: decisamente, era una ragazza singolare! Appresi che si chiamava Irene e da allora non la lasciai un attimo. La notte la guardavo dormire dal buco nel muro, assorto dal suo viso, e il giorno la ascoltavo suonare l’arpa, la osservavo leggere, mi stupivo sempre più della calma con cui viveva ad Heather Ville, come se la trovasse fantastica come me. In poco tempo mi resi conto che non avrei mai potuto ucciderla, ma anzi, che ero felice che fosse venuta. Fui spaventato dall’emozione calda che mi cresceva in petto e per diverso tempo stetti chiuso in riflessione, meditando che forse avevo di fronte un’opportunità, troppo dolce per essere ignorata.
“Così decisi di correre un rischio. Le parlai, la notte, dal mio nascondiglio, senza farmi vedere. Questo poteva portare ad una denuncia da parte sua, ad uno spavento terribile o peggio alla sua immediata partenza. Ma invece la ragazza mi rispose. Fui preso dalla gioia. Parlammo a lungo e capii che la amavo e che tutto quello che desideravo era farne la mia sposa e vivere con lei qui ad Heather Ville. Ma sapevo che per essere amato a mia volta non dovevo mai farle vedere il mio viso: era tutto calcolato. Mi sarei mostrato a lei coperto dal drappo e anche nell’avvenire avrei avuto l’accortezza di celare le mie fattezze. Ma purtroppo quando uccisi il suo domestico, tutto andò a monte, e la terra mi franò sotto i piedi”.
Raphael, con quel lungo e struggente racconto, narrato tuttavia per tutta la sua durata con un tono neutro e trasognato, che descriveva ogni fatto, anche quelli più cruenti, senza mutare inflessione, le aveva aperto la sua anima, s’era svelato del tutto e s’era strappato di dosso segreti che da tempo covava nel cuore. Irene, ancora raggomitolata a terra, non piangeva più, anzi, ascoltava, rapita, la storia della vita di quell’uomo e gradualmente tornava la pietà. Certo, ancora il pensiero di quel viso orrendo la spaventava, ma sentendo parlare Raphael non poteva fare a meno di compatirlo per quello che gli era stato fatto dal padre. E si ravvisava un amore nei suoi confronti… nei confronti di Irene…un amore che non era nulla di ambiguo, ma solo amore…era tutto il resto ad esserlo…lui aveva soffocato la purezza di quel sentimento sotto l’egoismo, l’aggressività e l’amarezza e per questo lei aveva creduto che non l’amasse. Ma la amava. Questo era innegabile. Provava per lei gli stessi sentimenti che lei provava per Stephan, forse anche più forti. E con quale cuore avrebbe potuto scacciarlo ancora? Se la amava, allora c’era la speranza che prima o poi s’impietosisse e la lasciasse libera. Ma Irene sapeva che quel racconto non cambiava nulla: Raphael era troppo preso dalla sua “rivincita” per pensare di renderle la libertà. Forse per lui il semplice fatto di non averla uccisa era una sufficiente prova d’amore. Era talmente distaccato dalla razza umana che l’amore lo interpretava a modo suo, e rinchiuderla dentro Heather Ville per costringerla a sposarlo era, probabilmente, il suo modo di amarla.
“Fammi entrare, Irene” riprese lui con voce profondamente stanca, stanca e triste: “Sono solo venuto a portarti da mangiare. Entrerò, appoggerò a terra il vassoio e poi me ne andrò. Ti lascerò qui, se è questo ciò che vuoi. Ma fammi entrare. Morirai di fame se perseveri nella tua ostinazione”.
Aveva ragione, e Irene lo conosceva abbastanza bene da capire che in quel momento era nei suoi attimi di calma e che era sincero, non le avrebbe fatto nulla. Quando era fuori di sé lo sapeva poiché assumeva quel tono bestiale, che presagiva guai per tutti. E poi aveva fame, così tanta fame che la paura era stata in qualche modo messa in secondo piano. S’alzò lentamente, tutta tremante, ed esitò con gli occhi fissi sulla porta. In fondo non era una donnicciola spaurita qualunque! Avrebbe sopportato la sua vista e avrebbe superato la ripugnanza che le ispirava. Si trattava solo di pochi minuti!
Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e spostò la valigia da contro la porta, poi tolse la fettuccia di metallo: “Aspetta!” strepitò quando lo sentì muoversi: “Non entrare ancora!” lui si fermò. La ragazza, tutta pallida, si ritirò di nuovo nel solito angolino e s’accucciò, cosicché tra lei e l’uscio c’era il grosso letto in mezzo, poi balbettò: “Bene…entra”.
Si fidava di se stessa, era certa che l’avrebbe guardato con aria del tutto impassibile, ma allorché lui si fece avanti cautamente, con un vassoio pieno di cibo tra le mani, era così rivoltante, il suo volto marcio e putrefatto era così insopportabile a vedersi, gli occhi quasi bianchi erano così enormi in mezzo alla massa di capelli fini e unti, che Irene esalò un gemito e subito voltò la testa dall’altra parte, ma era come se quella maschera da cadavere le stesse ancora davanti. Era troppo. Non riusciva proprio ad abituarsi.
Lui emise un lungo sospiro rassegnato, si fece avanti coi suoi passi silenziosi e appoggiò il vassoio sul comodino di fianco al letto. Irene continuava a tenere il capo voltato, e ne percepiva la vicinanza, come se esalasse come un alito di morte. Non poteva farci nulla, era troppo orribile. Era come guardare un cadavere dissotterrato dopo diversi anni. Oh, perché, perché gli aveva tolto il drappo?!
Dopo aver svolto il suo compito, Raphael si fermò, esitante, accanto al letto. Chissà, forse voleva parlare ancora, stavolta faccia a faccia, o forse vederla in quelle condizioni, magra, sporca, sofferente, coi capelli adornati da ciocche grigie, l’aveva turbato e forse l’aveva indotto in un po’ di rimorso. Lei però lo prevenne dicendo brutalmente: “Ora puoi andare”.
Stavolta osò gettargli un rapidissimo sguardo e vide che tutto il viso, quell’orribile viso, si era contratto in una smorfia di dolore. La cosa la fece sentire in colpa, ma non abbastanza da rimangiarsi quelle parole. Raphael si ritirò lentamente, camminando come un gambero, e infine si richiuse piano la porta alle spalle, dandole un’occhiata abbattuta, come quella di un cane che è stato scacciato a bastonate. Allorché fu uscito, lei tirò un sospiro di sollievo e divorò in men che non si dica tutto il cibo nel vassoio.
“Devo assolutamente liberarmi” pensò: “Non posso restare prigioniera qui dentro. Cosa avrà pensato Stephan? Devo piantarla di starmene chiusa qui come un topo in trappola e cercare un’uscita qualsiasi. Deve esserci!”
 
Attese circa una ventina di minuti, tanto per assicurarsi che Raphael se ne fosse andato altrove, poi, armata di un vacillante coraggio, socchiuse la porta e diede uno sguardo attento al corridoio buio: nessuno. Bene. Uscì cautamente dalla stanza, attenta a non produrre rumore, e si guardò intorno alla ricerca di una via di uscita. Non trovò nulla, ma non si fece scoraggiare: Heather Ville era grande, avrebbe di sicuro trovato qualcosa.
Si fece una mappa mentale della casa tentando di ricordarne l’ubicazione che aveva appreso durante il periodo che vi aveva vissuto. Al secondo piano c’erano tutte le orribili stanze di Raphael, e non era impossibile che ora lui fosse proprio lì, quindi era meglio evitarlo. Lei si trovava al primo piano, e non rammentava alcuna possibile scappatoia lì, a parte le finestre che però erano tutte chiuse. Non le restava che tentare al piano terra. Scese le scale in punta di piedi, terrorizzata al pensiero che il mostro la sentisse e stavolta le facesse qualcosa di terribile. Già si vedeva appesa per i piedi nella stanza della fornace. Purtroppo il legno era vecchio e consumato dalle tarme e, per quanto i suoi passi fossero lievi e avesse i piedi coperti solo da un paio di sottili calzini di seta, scricchiolava. Ogni qualvolta si sentiva uno scricchiolio più forte degli altri si bloccava impaurita e levava gli occhi al soffitto, tesa a captare il minimo rumore. Non udendone alcuno, riprendeva ad avanzare.
Pensava a Stephan, si rammentava che oramai l’aereo che avrebbe dovuto portarli a Parigi era già bell’e che partito, e veniva presa da una gran disperazione. Cosa aveva pensato quando non l’aveva più vista? Si era reso conto della sua stupidità e dei suoi sciocchi rimorsi di coscienza e di tutto quello che l’aveva spinta alla fatale decisione di tornare ad Heather Ville? Guardando l’anello che le brillava all’anulare, rifletté che il destino aveva in tutti modi impedito che diventasse sua moglie.
Al pianterreno era tutto, come al solito, avvinto dalle ombre. I segni della devastazione che Raphael aveva inflitto a quei luoghi nel tempo in cui era stata in città c’erano ancora, anche se meno evidenti di prima: qualche coccio qua e là, il lampadario mancante, alcuni mobili rovesciati. Il portone era sempre chiuso, e se dall’esterno si poteva sperare di forzarlo, dall’interno era assolutamente impossibile. Irene però non si fece scoraggiare e si dedicò ad un’attenta perlustrazione.
Ripassò per tutte quelle camere in cui aveva trascorso le lunghe giornate di solitudine nei primi tempi, e come allora aveva la sensazione di essere alla ricerca di qualcosa, che, se prima era una semplice curiosità da brava amante di misteri, adesso era vero e proprio bisogno di uscire. Rientrò nelle varie sale da lettura in cui era stata il primo giorno che era entrata ad Heather Ville, ma ora ogni piccola scoperta aveva un senso assai diverso. I libri, i diari scritti a mano erano testi vergati da Raphael, gli occhialetti cui mancava una lente erano suoi, e ogni buco nel muro le rammentava il nascondiglio nascosto. Quando entrò nella stanza della musica, e vide la vecchia arpa accanto allo sgabello, quasi senza volontà allungò una mano a pizzicarne le corde…s’interruppe in tempo, ricordando di non fare rumore. Trovò perfino, buttata sul divano bucherellato di un salottino pieno di scaffali gonfi di volumi, la sua copia di “Orgoglio e Pregiudizio”, che aveva letto almeno tre volte e che credeva d’aver perso. Le si avvicinò trasognata. Sì, ricordava così si provava a starsene seduti su quella poltrona, con una coperta addosso e il libro aperto davanti. Un senso di rilassamento assoluto. Allora non era prigioniera, anzi, era innamorata di Heather Ville e di tutti i suoi misteri e non c’era giorno in cui non se ne meravigliasse.
Nel mentre osservava il libro, si accorse che la copertina impolverata era illuminata da alcuni raggi di sole. Perplessa, seguì la direzione di quei raggi e vide una cosa di cui non si era mai accorta: una minuscola finestrella ovale sopra agli scaffali, la cui scarsa luce a malapena rischiarava la poltrona. Da quell’altezza non vedeva bene, ma…sembrava semiaperta!
Irene riprese colore e parte della speranza che aveva perduto. Forse poteva uscire di lì! Andò in direzione della finestrella e la contemplò: era troppo alta. Doveva costruirsi un rialzo. Se era riuscita a fabbricare una fettuccia di metallo dalla struttura di un materasso, avrebbe fatto anche questo! Si guardò intorno attentamente e individuò, in un angolo, un possente poggiapiedi di mogano, che era abbastanza alto. Rianimata dalla selvaggia determinazione di scappare, lo afferrò e con una spinta faticosa lo rovesciò di lato. Il poggiapiedi tonfò in orizzontale con un botto sordo e la ragazza si immobilizzò, terrorizzata: stette qualche attimo con l’orecchio teso, ma non sentì alcun rumore. Allora riprese a respirare normalmente.
Si mise in verticale rispetto al poggiapiedi, ci si appoggiò con la spalla esile e, digrignando i denti, tentò di spingerlo verso la finestrella. Era pesante come un macigno e procedeva al rallentatore, ma non si scoraggiò e continuò a premerci con tutto il peso, ansimante. Diavolo, doveva arrivarci! Doveva farcela! “Su, bella, su” bisbigliò tra i denti serrati dallo sforzo: “Ce la puoi fare!”
Scivolando sul pavimento lurido, il poggiapiedi strideva fastidiosamente, ma il rumore era troppo fievole perché potesse rivelarsi un problema. Alla fine, a furia di spintoni, riuscì a metterlo contro il muro sottostante la finestrella luminosa e si concesse un sorriso esausto: praticamente era fatta. Era fuori! Era libera! Le bastava uscire da Heather Ville, poi se la sarebbe fatta di nuovo a piedi fino alla città e si sarebbe buttata tra le braccia di Stephan, dopodiché dritti all’aeroporto e…Parigi. Sospirò beata al pensiero.
Salì in piedi sul rialzo di fortuna e oscillò, reggendosi in equilibrio a stento. Sollevò lo sguardo sulla finestrella e cercò di aprirla meglio. Aveva qualche difetto e dovette tirare e fare forza, ma alla fine riuscì ad aprirla almeno per metà. Era sempre più euforica, sempre più vicina all’agognata liberta. Quasi ne sentiva l’odore. Si mise in punta di piedi e cacciò la testa oltre la finestrella: l’aria pulita e pervasa dall’odore dell’erba bagnata le pizzicò le narici.
In quel momento, proprio mentre stava per issarsi in alto, un rumore appena percettibile la riscosse bruscamente. Gettò uno sguardo dietro la spalla e vide con orrore la maniglia della porta nera del salottino che si piegava verso il basso. Immediatamente divenne pallidissima, il cuore prese a pomparle frenetico e le si liquefecero le gambe per la paura che Raphael entrasse e la trovasse in piedi sul rialzo, nell’atto di uscire. Come diavolo aveva fatto ad arrivare così silenziosamente?! Non poteva rinunciare ora che era arrivata così vicina alla salvezza, non poteva! Mossa dalla più nera disperazione, la povera fanciulla ignorò la porta che si stava aprendo e si diede una goffa spinta verso l’alto, aggrappandosi ai bordi della finestrella con le piccole mani tremanti e protendendosi verso l’esterno. Doveva farcela! Doveva!
Dietro di lei Raphael entrò sospettoso, la trovò in quello stato e gettò un tremendo grido di rabbia: “No!”
Quel grido terrorizzò ancor di più la poverina, che continuò a scivolare tentoni verso la libertà. Ormai era fuori dalla finestra per metà, le bastava un’ultima spinta e sarebbe stata salva! Allorché tuttavia fece per sollevare il piede destro e scavalcare il davanzale, se lo sentì arpionare da una mano adunca che lo serrò in una presa d’acciaio. Fu allora che urlò. Insieme rabbiosa e terrorizzata, ruotò su se stessa e scorse l’orribile Raphael che stava sotto la finestrella e la fissava con il viso stravolto dal furore, la mano stretta sulla sua caviglia. La strattonò furiosamente per liberarla, ma il mostro le diede un secco strattone e le fece lasciare la presa sulla finestrella. Tentò goffamente di aggrapparsi ai bordi, ma le sue dita scivolarono via e cadde rovinosamente a terra.
Batté la testa con violenza e per una breve manciata di secondi vide tutto nero. Quando si riprese boccheggiando era sdraiata a terra e Raphael incombeva su di lei, tenendole puntati addosso i folli occhi chiarissimi: “Maledetta! Cosa avevi intenzione di fare?!” la apostrofò con voce d’inferno come il suo volto. Irene guardò quella faccia ripugnante e provò un odio profondo e una delusione immensa. Ci era arrivata così vicina! Esplose in un urlo e con mossa fulminea gli assestò un calcio all’inguine con tutta la forza che aveva. Raphael sgranò gli occhi e si piegò malamente su se stesso con un grido strozzato. L’aveva colto di sorpresa: mentre cadeva in ginocchio la fissò con occhi colmi d’odio.
Approfittandosi del colpo basso andato a segno, Irene si rialzò subito in piedi, ignorando le fitte che accusò in più punti e, ormai del tutto dominata dall’istinto, si voltò e corse nuovamente verso la finestrella. Sapeva solo che voleva andarsene, ad ogni costo. Raphael digrignò i denti e i suoi occhi infossati mandarono lampi: “No!” ripeté. Si lanciò in avanti e l’afferrò per i capelli, trattenendola. Irene gridò per il dolore allorché quelle dita ricurve le strattonarono la chioma, strappandole diversi capelli, e si sbilanciò. Raphael, ringhiando come una belva, continuò a tenerla per i capelli e cercava di trascinarla verso di sé: “Non scapperai!”
Le stava facendo un male terribile. Era un mostro, nient’altro che un mostro crudele che l’aveva privata del suo innamorato, dei suoi sogni e della sua libertà. Irene smise di opporre resistenza di colpo e, come quando nel tiro alla fune viene lasciata la corda, si sbilanciarono entrambi e caddero a terra, con lei sopra, e lui sotto. La ragazza gridò: “Io ti uccido!” lo graffiò ripetutamente sul viso, su quel viso orribile dalla carne fragile e gelida come quella d’un morto su cui le sue unghie furiose lasciavano piccoli graffi. Non aveva più paura, era troppo arrabbiata, troppo disperata. Raphael emise un ringhio roco e l’afferrò per i polsi, allontanandole le mani e torcendoglieli: “Brutta vipera ingrata! Io ti ho ceduto Heather Ville! Ti ho dato tutto ciò che avevo!”
Irene tentò di liberare i polsi, con le lacrime che le rotolavano sulle guance. Scalciò con furia per colpirlo di nuovo tra le gambe, ma lui, che stavolta era preparato, la sbatté rudemente a terra ed ora era Raphael ad essere sopra di lei, e lei a dibattersi sotto di lui come un pesce fuor d’acqua, urlando come una matta e chiedendo aiuto al nulla. Di colpo ce l’aveva sopra, quel volto mostruoso contorto dalla furia violenta, quegli occhi che sprizzavano una luce assassina, ed era in preda al terrore, obnubilata dalla paura di morire. Prima aveva sperato che la uccidesse; ora che era venuto il momento invece avrebbe voluto con tutta se stessa rimanere viva. Era forse questo che aveva provato Tommaso? Oppure con lui era stato più rapido?
“Smettila di urlare!” grugnì Raphael. Le premette una mano sulla bocca e improvvisamente Irene non riusciva più a respirare. Con la mano le copriva tutto il povero viso sconvolto dalla paura, quell’orribile mano putrida dal sentore di morte, e per quanto cercasse di morderla e staccarsela di dosso, non riusciva, lui era più forte. Aveva bisogno di aria! Il soffocamento le aveva ulteriormente riempito di sangue il cervello e le aveva impedito di formare pensieri coerenti. C’erano solo il terrore e il feroce desiderio di sopravvivere, che riposa in tutti noi. Si dibatteva con tutte le forze sotto di lui ma non lo smuoveva di un millimetro. Con i piccoli pugni chiusi lo colpì dove riusciva a mettere le mani, senza fargli nulla.
“Ti amo tanto, Stephan” pensò in quell’orribile agonia. Poi, improvvisamente, Raphael le staccò le mani dalla faccia e si ritirò, lasciandola libera. Si accasciò a terra respirando a pieni polmoni, tremante, sconvolta, chiedendosi perché l’avesse lasciata stare. Mai, in vita sua, era arrivata così vicina alla morte. Quasi ne aveva captato l’alito gelido sul collo. Piangeva, il corpo sussultante, percorso da rapidi spasmi di choc, e strisciava dolorosamente a terra, incredula di essere ancora viva.
Poi, quando sollevò un poco gli occhi allucinati e scorse l’orrenda faccia di Raphael che la fissava sconvolta e inorridita proprio lì accanto, non resse quest’ennesimo colpo e con un lungo gemito svenne, precipitando nelle tenebre.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Oltre le apparenze ***


OLTRE LE APPARENZE

 
 
 
 
 
 
La sensazione di avere un livido in ogni parte del corpo, e un torpore forte, soporifero, che certamente era dato dallo choc precedente. Queste furono le emozioni che accompagnarono il rinvenimento di Irene, la quale, che al momento di perdere i sensi aveva creduto di morire, e l’aveva quasi sperato, si riprese distesa sul proprio letto, nella stanza dove prima era barricata, ben rimboccata sotto le coperte e con una pezza imbevuta d’acqua sulla fronte. Allorché aprì gli occhi e riprese a pensare, rammentò immediatamente la lotta avvenuta prima e venne presa dal terrore. Cosa le era accaduto? Come aveva risentito di quell’orribile avvenimento? Ora come ora stare distesa le offriva sollievo e non percepiva ferite gravi, ma ricordava di aver battuto la testa e intorno al naso percepiva un odore metallico. Sollevò una mano dolorante e se la portò alle narici. Quando la scrutò, vide che le dita con cui aveva toccato erano sporche di sangue. Si spaventò terribilmente e si mosse sul materasso.
“Non muoverti, è meglio” le disse dolcemente una voce raschiante che ebbe il potere di terrorizzarla ancora di più. Con un urlo strozzato girò la testa sul cuscino e vide Raphael, lo stesso Raphael che l’aveva quasi uccisa, in piedi sulla sponda del letto con un batuffolo zuppo in mano, e un’espressione di rimorso e di apprensione dipinta sul volto marcio. Si irrigidì tutta e si raggomitolò sotto le coperte: “Tu…tu sei un bruto!” lo accusò con voce fioca. Se ora era ridotta in quel modo, era solo colpa sua. Lui chinò il capo e annuì, pronto ad accettare, una buona volta, qualunque insulto: “Perdonami” disse semplicemente. Questo era veramente assurdo e Irene proruppe in una risata di scherno: “Perdonarti! Mi hai fatto cose terribili e ora mi chiedi di perdonarti! Perché non mi hai uccisa, eh? Perché non hai finito il lavoro?”
Raphael restò a testa china, forse per la vergogna, o per evitarle il dispiacere di vederlo, o per tutte e due le cose: “Tu hai provato a scappare”.
“E con questo?! Era naturale che lo facessi!”
“Perdonami” ripeté lui, implorante: “Non volevo. Io non ti farei mai del male. Io ti amo”.
“No, tu non mi ami affatto!” urlò lei che s’era prontamente ripresa: “Oltre che un mostro, Raphael, sei completamente pazzo! Sono finita nelle mani di un pazzo psicopatico! Hai gli sbalzi d’umore! Una volta sei gentile e mi inviti a ballare, un’altra mi sbatti a terra e quasi mi soffochi! Io non posso vivere così! Prima o poi, oh, sì, prima o poi perderai del tutto il controllo e mi ammazzerai davvero!” si mise a sedere e fece per alzarsi dal letto e andare in qualunque posto, ma lontano da lui. Quando la vide che si rizzava Raphael spalancò gli occhi e le corse incontro: “No! Sta ferma! Ti sentirai peggio!” le giunse accanto e con delicatezza la prese per le spalle, aiutandola a ristendersi. Irene rabbrividì al contatto con quelle mani, ma era troppo debole per opporre resistenza e lasciò che la rimettesse a letto e che le risistemasse le coperte, con una cura, un’amorevolezza assai peggiori a sopportarsi della brutalità di poco prima.
Raphael le tamponò il naso che perdeva sangue col batuffolo, benché lei si torcesse invano tentando di sfuggirgli, poi le accarezzò i capelli: “Povera Irene…”
“Non toccarmi” sibilò lei. Stavolta non avrebbe sopportato il suo momento d’amore. Non con la consapevolezza che ce ne sarebbero stati altri di follia. Raphael fece la sua solita smorfia addolorata e, di colpo, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Era la prima volta che lo vedeva piangere. Grosse gocce d’acqua colavano dalle iridi incolori e solcavano le guance putrefatte, rigandole: “Perdonami” singhiozzò lui. Le appoggiò pesantemente la testa in grembo e la fanciulla sussultò, quando sentì quella cosa pesante e malfatta che le premeva sul ventre.
“Io sono fatto così” sussurrò Raphael, la voce che giungeva soffocata dal grembo di Irene: “Mi sto sforzando di cambiare, con tutto me stesso, e ti giuro, Irene, ti giuro, sono molto diverso dall’uomo che ero prima che tu arrivassi qui. Ma…ma non riesco ancora a cambiare del tutto. Quando ti ho vista a quella finestra non ci ho visto più…oh, ma sono riuscito a fermarmi in tempo, ci sono riuscito! Solo tre mesi fa sarebbe stato impossibile. Sei tu che mi stai cambiando. Se solo mi amassi, poi, sarei un’altra persona del tutto! Mi ami?” sollevò il capo e la guardò fissamente per diversi istanti. Tutta la faccia gli si contrasse: “No, non mi ami! È così orribile, così orribile a sopportarsi, lo sai? Prima di amarti, stavo così bene!”
“E io!” commentò lei con un’inflessione disperata.
“No, lasciami finire. Odiavo tutti, non provavo rimorsi, ero fatto di pura malvagità, perché così mi aveva reso mio padre. Ma ora, Irene! Ora vorrei solo essere l’uomo che tu vuoi. Io desidero solo la tua felicità”.
“E allora lasciami andare!”
Lui parve infastidito, come se fosse costretto ad ascoltare l’ennesima volta parole buttate al vento. Le ignorò: “Davvero, mio tesoro, io voglio solo il tuo bene. La tua felicità è la mia e ogni tuo sorriso è una perla rara e magnifica. Oggi ho perso il controllo, ma non succederà più. Non alzerò mai più le mani su di te. Eh? Oh, mi amerai, Irene, ne sono sicuro. Prima nemmeno sopportavi la mia vista, mentre adesso lasci che ti stia così vicino e non distogli lo sguardo da me. Il tempo fa miracoli! Presto, vedrai, andrai oltre le apparenze e mi amerai come mi amavi prima”.
Irene si stupiva di tanta sicurezza. Con un volto simile, lei non avrebbe mai affermato certe sciocchezze ad alta voce e con quel tono risoluto. Ma forse lo faceva per convincere anche se stesso, per rassicurarsi e darsi una giustificazione di tenerla prigioniera. Essere divenuta la sua ossessione non le aveva portato altro che guai, e non poteva negare di avere svolto, lei stessa, una parte determinante in tutta la faccenda. Non solo non l’aveva denunciato quando aveva preso a parlarle nella notte, ma gli aveva giurato eterno amore e aveva detto di sì alla sua proposta di matrimonio. Certo, non l’aveva ancora visto in faccia, né aveva assistito a quello che era capace di fare, ma non poteva dire d’essere stata ipnotizzata, né incantata, né soggiogata: aveva fatto tutto da sola. S’era messa da sola le fette di prosciutto sugli occhi. La realtà era ben difficile da accettare, adesso.
E su una cosa Raphael aveva ragione: s’era un poco abituata alla sua vista. Guardarlo le provocava sempre un forte senso di repulsione, ma perlomeno non provava la voglia impellente di scappare o di distogliere lo sguardo. Quel volto, per ributtante che fosse, le era ormai familiare. Osservare quella bocca ghignante e rovinata, quel naso a fessura, quella pelle violacea era un’esperienza sgradevole, ma sopportabile. Ma questo certo non l’avrebbe portata ad amarlo, nemmeno tra cent’anni.
“Irene” riprese Raphael dopo un poco. Aveva cessato di piangere e s’era asciugato le lacrime bruscamente. Le prese le mani, benché lei le tenesse rigide e tentasse di ritrarle, e le strinse: “La felicità ce la costruiamo da soli. Finché tu ti convincerai d’essere infelice, sarai infelice. Se invece impari ad apprezzarmi, a vedermi come mi vedevi prima, subito cambierà tutto. Tornerà tutto come prima! Se solo usassi la tua immaginazione, e vedessi oltre le apparenze, io tornerei bellissimo, e Heather Ville si riempirebbe di luce”.
“Sono stanca degli inganni” replicò lei. Raphael le rivolse il suo sorriso storto: “Quali inganni? Se tu lo vuoi, sarà tutto vero. Vero per noi. Ricordi quanto adoravi Heather Ville? Quanto amavi esplorarla e contemplarne le meraviglie? Quanto ti piacesse viverci dentro, al sicuro dalle dicerie della gente della tua città? Ricordi con quanta ansia aspettavi la notte per potermi parlare, quanto conforto ricavavi dalla mia voce? Ricordi nel salone da ballo all’ultimo piano, quella sera, quando danzammo insieme e io ti baciai? Tu avevi gli occhi chiusi e ricambiasti il bacio. Ricordi tutto questo?”
La ragazza venne percorsa da un brivido. Ricordava. D’improvviso ricordava tutto con estrema chiarezza. Ricordava quelle sensazioni, quel sentirsi stregata, avvinta da Heather Ville e dal suo proprietario senza volto, e soprattutto ricordava quella particolare sera, come se la stesse rivivendo. Ricordava la cena, il vino che lui le aveva versato tre o quattro volte, la scala buia, il salone, le candele, quel ballo folle e scatenato, e infine il bacio. Allora le era piaciuto. S’era abbandonata estatica tra le braccia di lui e aveva gioito di essere la sua promessa sposa. Lo immaginava bellissimo e tenebroso sotto al drappo che gli nascondeva il viso, e le sembrava di non poter desiderare di più. Era come…ubriaca.
“Quei tempi possono tornare” sussurrò lui, persuasivo. Con gesto timido le scostò una ciocca di capelli dalla fronte, e stavolta lei non si ritrasse, anzi, lo lasciò fare docilmente: “Dipende tutto da te. Se andrai oltre le apparenze, tutto questo, tutto ciò che è accaduto da quando entrasti nella stanza della fornace, svanirà. Ricominceremo da dove eravamo rimasti. Saremo io e te, R e Irene. Per sempre”.
Nuovamente Irene fu scossa da un fremito. Perché aveva provato, sì, aveva provato una fitta di desiderio. Improvvisamente, voleva che le cose tornassero come prima. Certo, era ancora abbastanza lucida da avere di fronte quell’orrenda maschera demoniaca, ma un angolo recondito della sua mente, invece, le suggeriva di ascoltarlo e di dargli retta. Non aveva forse, un tempo, adorato il suono della sua voce, non s’era lasciata ammaliare dall’ampollosità delle sue parole, dal suo tono suadente? Non era forse andata contro tutto e tutti, pur di obbedire ai suoi desideri? Aveva sloggiato Tommaso in modo anche piuttosto villano, aveva ignorato suo padre, e, soprattutto, aveva rifiutato Stephan dimostrando un’assoluta mancanza di tatto. E tutto questo senza la minima esitazione. Probabilmente allora era convinta che ne valesse davvero la pena.
“Sì!” esclamò Raphael trionfante, vedendo che lei era dubbiosa: “Sì, Irene! Tornerà tutto come prima! Saremo così felici! Tu sarai la padrona di Heather Ville, ogni tuo desiderio sarà un ordine, e ti farò vivere tutto il mistero e l’avventura che brami!”
Oh, sì, giusto. Lei amava il mistero. Amava la varietà e la vita piena di sorprese e di rischi. Parigi…cosa c’era di rischioso a Parigi? E in Stephan, cosa c’era di rischioso in Stephan? Era così prevedibile, anche nel suo modo di amarla. L’aveva baciata una sola volta, e per tutto il tempo che era rimasta da lui, in preda al terrore, l’aveva lasciata chiusa in casa e tutto il tempo se ne era andato in giro cercando i biglietti per il volo. Aveva sempre anteposto il dovere, il darsi da fare, ai sentimenti di lei. Ogni volta che lei aveva avuto qualche problema, che era rimasta chiusa in se stessa, non aveva mai notato nulla, perso com’era in quel suo mondo fatto di piccole cose abitudinarie, e del lavoro di meccanico cui, in fondo, aveva dedicato la vita. Checché ne dicesse, sarebbe sempre stata seconda al lavoro. L’avrebbe lasciata sola, per correre dietro ai suoi numerosi impegni. Non era stata che il pretesto per mettersi a lavorare sodo. Stephan era troppo innamorato del suo lavoro per custodire nel cuore un affetto che gli fosse alla pari.
“No! Cosa sto pensando?!” si chiese inorridita: “Non posso lasciarmi incantare di nuovo! Devo ricordare il corpo di Tommaso…il volto di Raphael…quello che mi ha fatto solo poche ore fa!”
Raphael si alzò in piedi e le porse la mano: “Vieni con me, Irene. Ricominceremo tutto da capo. Basta solo che tu vada oltre le apparenze. Dimenticheremo tutte le cose orribili che sono accadute e torneremo ad essere quelli di prima”.
Lei esitò. Cosa poteva fare? Cosa le diceva il cuore? La testa le gridava una cosa, il cuore un’altra. A chi doveva dare ascolto? Ma in fondo, perché non seguirlo? Tanto era ormai condannata a rimanere prigioniera lì per il resto della vita, passarla struggendosi e piangendo sarebbe stata, alla fin fine, una completa stupidaggine. Forse, per una volta, doveva andare al di là di quello che vedeva. Indugiante, allungò la mano tremante e la posò appena su quella di lui. Raphael sorrise trionfante e la tirò in piedi, e Irene si lasciò tirare, ancora dubbiosa.
Raphael la condusse per mano fuori dalla stanza da letto ed entrambi si immersero nel buio misterioso di Heather Ville. Lui, con un mezzo sorriso dipinto sul viso decomposto, prese da un ripiano un grosso candelabro acceso e con quello fece luce. Irene, che veniva letteralmente trascinata, si guardava intorno, timorosa, e le sembrava, sì, le sembrava di ritrovare un certo fascino in quelle stanze tenebrose e in quell’aria di morte. Heather Ville non le era stata mai ostile, anzi, l’aveva accolta sempre di buon grado, non le aveva mai riservato brutte sorprese. Stephan, solo la prima e unica volta che vi era stato, s’era squarciato la mano su uno spigolo, a lei non era mai successo nulla di simile. Se le capitava di scivolare, c’era sempre un mobile provvidenziale cui appoggiarsi, se non trovava qualcosa, eccola che cadeva come apposta e le si rivelava, se si imbatteva in qualche insetto, ecco che quello variava bruscamente direzione. Heather Ville era sua alleata, lo era sempre stata, e se ne rendeva conto solo adesso.
E in quell’oscurità, Raphael era meno rivoltante del solito, anzi, era persino sopportabile. Non le dava fastidio avere la mano nella sua, anzi, in qualche modo la confortava. Lui la portò alla porticina rimpiattata che conduceva al salone da ballo e la aprì, rivelando la ripida scala a chiocciola. Irene batté le palpebre, e le parve di essere tornata nel passato, di avere avuto un dejà vu. Come la prima volta, Raphael si mise dietro di lei e le prese i polsi, sorreggendola: “Non avere paura” le sussurrò all’orecchio, e davvero lei non poteva dire chi le stesse parlando, il se stesso coperto di allora, o quello scoperto di adesso: “Ci sono io”.
La spinse lievemente e le venne istintivo salire il primo gradino. Si muoveva come in trance, sospesa tra passato e presente, piena di dubbi e di desiderio, mentre saliva la scala a chiocciola e si avvicinava sempre più al luogo cui portava. Allorché sbucarono nel salone da ballo, Irene fu leggermente delusa: non era nient’altro che uno stanzone disadorno, lurido, buio, illuminato dalla luce funerea delle grosse candele, con un sinistro organo in un angolo.
Raphael parve leggerle nel pensiero: “Non è questo che stai vedendo. Guarda oltre le apparenze, Irene! Sono certo che ci riesci!” si mise al centro del salone e nuovamente le porse la mano: “Balliamo?”
Ancora una volta lei esitò. Non vedeva altro che un misero tugurio, e una specie di mostro. Cosa c’era da vedere? Però, se lo diceva lui…accettò la mano che le tendeva e subito lui l’attirò a sé, circondandola con le braccia. La ragazza rabbrividì allorché si vide stretta a quell’essere ripugnante, col volto a pochi centimetri dal suo. Raphael si chinò e con le labbra secche le sfiorò l’orecchio: “Non ci stai mettendo impegno. Guarda oltre le apparenze!”
Al che la fece girare su se stessa con un deciso moto della mano e Irene, frastornata, confusa, ruotò e alla fine si ritrovò di nuovo a fissarlo. Lui le sorrise, la prese una seconda volta tra le braccia e si lanciò in un ballo audace e scatenato. Si spostavano da una parte all’altra del polveroso salone, e faceva quasi tutto lui: da parte sua, la fanciulla più che altro si faceva trascinare e non opponeva resistenza, prigioniera tra le sue braccia. Se lui voleva che ruotasse su se stessa, ruotava, se la sollevava da terra e la faceva volteggiare, lo lasciava fare, era completamente inerte. Continuava a vedere lo scenario misero di prima, anche se era confuso a causa della velocità con cui ballavano. Il grammofono si era azionato senza bisogno di essere sistemato ed ora i grossi dischi si spostavano sul piatto e diffondevano ovunque una musica movimentata, forse Beethoven, o Mozart, non sapeva.
Raphael, tutto preso dall’atmosfera, con una giravolta la mandò giù e la resse in una sorta di prolungato casquet. Ora erano vicinissimi. Le rivolse un sorriso ambiguo e si chinò su di lei, ma Irene, d’impulso, gli mise una mano sulla bocca, bloccandolo. Lui parve deluso: “Guarda oltre le apparenze!” le intimò, stavolta col suo tipico tono di comando. Si raddrizzò e se la riallacciò tra le braccia, riprendendo a ballare.
E, improvvisamente, funzionò. Riuscì di nuovo a vedere “oltre le apparenze”. Le bastò desiderare che tutto questo cambiasse, e cambiò. Quando riaprì gli occhi, che aveva chiuso, restò a bocca spalancata: il desolante salone da ballo di prima s’era tramutato in una sala magnifica, dall’alto soffitto affrescato magnificamente, da cui pendeva un enorme lampadario pieno di candele accese, le pareti scintillavano dell’oro più puro, il pavimento era di lucido marmo bianco, e l’oscurità si era trasformata in un vago chiarore dorato.
Raphael non era più l’orribile mostro che aveva popolato i suoi incubi per tutto quel tempo, non era neanche il misterioso uomo coperto dal drappo nero delle prime settimane. Era un giovane alto, distinto e bellissimo, con il viso di un angelo, incorniciato da lucenti capelli neri, dai lineamenti così dolci e innocenti che sembrava un bambino. Le sorrideva, trionfante, e quel sorriso gli illuminava gli occhi chiari e profondi. Irene lo fissò, incantata e stupefatta. Era il principe tenebroso che aveva desiderato ardentemente tempo prima: era proprio lui! Era bello come un angelo, un angelo della notte. Sentì tornare prepotentemente tutto l’amore per lui, stavolta assai più forte.
Sorrise, trasognata, e anche lui sorrise. Le accarezzò i capelli e lei levò gli occhi al soffitto, percorsa da un fremito: “Sapevo che ci saresti riuscita” le bisbigliò. Quando ripresero a ballare, lo fecero entrambi, e con l’eguale foga. Irene, dentro quel salone scintillante, tra le braccia dell’uomo bellissimo che la amava, era ormai del tutto soggiogata, e si chiedeva come aveva potuto non desiderare questo. Tutto ciò che voleva adesso era di essere la sua sposa. Si muoveva con lui, erano una cosa sola, volteggiavano euforici sul pavimento di marmo, intrecciando le mani e i corpi in una forte stretta. Era fusa con lui, per sempre e sempre ancora, tutto il resto aveva perso importanza, era scomparso. C’erano solo loro due e quel salone.
Quando Raphael, il nuovo, splendido, angelico Raphael la mandò giù nuovamente, Irene era incantata. Le sorrise, ancora una volta si chinò lentamente su di lei, ma stavolta lei era pronta ad accogliere il suo bacio, anzi, non desiderava altro che questo. Che le loro labbra si incontrassero. Se lui l’avesse baciata ora, sarebbe stata sua per sempre, e quello che adesso vedeva non se ne sarebbe mai andato. Gli bastava avvicinarsi solo tanto così, e l’avrebbe avuta per sé. Avvicinò il viso al suo e la ragazza rimase ferma, aspettando che la baciasse, pronta a riceverlo. Ormai gli era così vicina che avrebbe potuto contargli le ciglia. Socchiuse le labbra e lui chiuse gli occhi. Era fatta…
Ma in quell’istante, in quello stesso, preciso istante che le loro labbra erano ad appena qualche millimetro di distanza, due piani in basso qualcuno riuscì a forzare il portone ed entrò come una furia in sala da pranzo, urlando, con voce angosciata: “Irene!”
Questo spezzò l’incanto, come uno spillone avrebbe fatto esplodere un palloncino teso al massimo. La ragazza sussultò, spalancò gli occhi e improvvisamente il sogno che la circondava svanì, riportandola nella cruda realtà: un cupo salone semibuio e pieno di sudiciume. Quello chino su di lei era il rivoltante scarto di natura di prima. Si scostò brutalmente da lui, lo spinse via e si voltò verso la porta, terribilmente agitata, invocando il nome dell’unica cosa che in quel momento per lei contava: “Stephan!”
“Irene!” ripeté la voce del ragazzo da basso. Era venuto a prenderla! Era venuto a salvarla! Immediatamente lasciò Raphael lì e corse fuori dal salone da ballo continuando a ripetere, piangendo di commozione: “Stephan! Stephan!”
Raphael rimase immobile in mezzo alla sala disadorna, annichilito, con un’espressione assente sul viso. Ci era andato così vicino…gli sarebbe bastato tanto così per realizzare l’unico sogno che si era concesso, ed avere Irene al suo fianco. E invece il giovane era venuto giusto in tempo per rovinare tutto, per lasciarlo solo, disprezzato, sofferente. Senza amore. Era troppo. Troppo perfino per uno come lui, che ne aveva incassate tante, e anche toste. In tutta la vita non aveva fatto altro che incassare e rimanere impassibile. Ma questo colpo era troppo violento, troppo ingrato perché sopportasse a sangue freddo. In petto gli crebbe un odio feroce e senza confini, un odio d’animale che si diresse immediatamente verso il giovane che gli aveva portato via l’unica cosa a cui voleva bene, riempiendogli il cervello di sangue. Aveva voglia di uccidere. Una voglia matta di uccidere. Girò gli occhi iniettati di sangue all’uscio, udì le voci commosse e felici dei due giovani che si ricongiungevano, e perse definitivamente la testa. Era stato un colpo troppo inaspettato, troppo tremendo.
“Bene” sibilò con voce minacciosamente calma e stanca, estraendo dalla giubba il suo piccolo pugnale d’argento e brandendolo alto nell’aria: “Se io non posso averla, allora nessuno l’avrà. Li ucciderò entrambi. Sarà la mia sposa…la mia sposa morta!”
 
Irene si fece i gradini a due a due, piena di sollievo e di gioia, con le lacrime che le rigavano il viso illuminato da un sorriso radioso, e mentre correva lesta verso la sala da pranzo al pianterreno, chiamava a squarciagola il nome del suo salvatore. Oramai era libera, Stephan era arrivato, non c’era più nulla da temere. Il cuore le scoppiava di felicità, in quel momento non pensava ad altro che a lui.
Lo avvistò mentre scendeva a precipizio la scalinata che portava alla sala da pranzo. Stava salendo le scale a sua volta, e non meno frenetico di lei, bello, coraggioso, dimesso, con pesanti occhiaie, un colorito pallido e i capelli nocciola arruffati, ma era lui, Stephan, il goffo, volenteroso, abitudinario Stephan, e Irene capì definitivamente, senza ombra di dubbio, che era lui il suo vero amore, e che voleva sposarlo, ed essere sua moglie, sopra ogni altra cosa. Fosse arrivato solo un minuto dopo l’avrebbe perduta per sempre. Invece si erano ritrovati. Finalmente le aveva dimostrato che la considerava al di sopra della sua razionalità, del suo lavoro: per la prima volta nella sua vita Stephan aveva dato retta al suo istinto, era partito senza la minima certezza, mosso solo dal suo amore, e aveva messo a repentaglio la propria vita per salvarla. Irene non aveva fatto altro che sottovalutarlo, ma adesso avrebbe rimesso a posto le cose, una volta per tutte.
“Stephan!” gridò, buttandogli con impeto le braccia al collo. Stephan la strinse a sé con tutta la forza che aveva e le accarezzò più e più volte i capelli, ridendo e piangendo insieme: “Irene…Irene…” erano entrambi al culmine della felicità, i loro occhi erano gonfi di lacrime, ma le loro labbra sorridevano, di commozione, sollievo e gioia pura, lui di averla ritrovata viva, lei di essere stata salvata. Stephan la sollevò da terra per la vita e la fece volteggiare, e Irene affondò il viso nella sua nuca, aspirando beata il suo odore familiare di muschio, sudore e del vapore delle macchine con cui faceva i conti tutti i giorni. Stephan era caldo, rassicurante, sempre uguale, sempre buono, e gentile. La sua normalità, che prima l’aveva allontanata, ora l’attraeva profondamente.
“Stai bene? Cosa ti ha fatto?” singhiozzò lui accorato, tenendola ancora abbracciata come se non riuscisse a separarsene. Irene sorrise tra le lacrime: “Sto bene, non preoccuparti. Oh, Stephan, tu…tu sei venuto! Credevo che questa volta ti fossi stancato di salvarmi la vita dopo che commetto una delle mie solite sciocchezze!”
Stephan rise: “Io non mi stancherò mai di salvarti, Irene. Anche se dubito di poter pretendere di dirti di restare in salvo, di tanto in tanto”.
“Sono fatta così” lo rimbeccò lei giocosa. Era così bello e normale scherzare di nuovo insieme, come una volta, quando tutto questo non era mai esistito: “Se mi vuoi, devi prenderti tutto il pacchetto, bello mio!”
“Allora mi prenderò tutto il pacchetto” le disse lui all’orecchio. Irene restò tra le sue braccia, felice e innamorata, col suo anello che le brillava all’anulare, la cosa più preziosa che avesse mai posseduto, e lui tra le braccia, la persona più cara che avesse mai avuto. Era tutto perfetto, finalmente, tutto perfetto.
Ma in quell’istante di pura perfezione, allorché aprì gli occhi e guardò da sopra la spalla del giovane, vide qualcosa che le gelò il sangue, la pietrificò e la precipitò nel più nero e soffocante degli inferni. Spalancò gli occhi, di colpo di nuovo pallida e terrorizzata, e vacillò, sentendosi mancare. Stephan se ne accorse, e, perplesso, si girò dalla parte dove lei stava guardando: “Ma cosa…”
Raphael veniva verso di loro, scendendo con passo greve e pesante la scalinata di legno, il pugnale d’argento alto nell’aria, impugnato da una presa salda, e il suo orrendo viso era completamente stravolto dalla follia, ogni minima increspatura disgustosa di quei lineamenti era contratta, i denti marci erano digrignati, e gli occhi pallidi gettavano bagliori infuocati come se sputassero fuoco. Era l’immagine stessa della follia, non c’era più traccia di gentilezza in lui, e si capiva, da ogni suo insignificante gesto, che era intenzionato a farli a pezzi tutti e due, con sadismo.
A quella vista terrificante Stephan perse il poco colore che gli restava, mentre Irene, terrorizzata, compì qualche passo indietro, si premette una mano sulla bocca e cacciò un urlo disperato, un urlo che invocava l’aiuto di Dio e di chiunque fosse disposto ad ascoltarlo in quel momento, l’urlo di una persona che sa di stare per morire, e non può rassegnarsene. Stephan la spinse immediatamente dietro di sé e lei si rifugiò dietro la sua schiena, senza più aria nemmeno per gridare. Il giovane le bisbigliò, con la voce malferma per la paura: “Stai indietro”.
Poi si rivolse, con coraggio ammirevole, al mostro folle e minaccioso che avanzava verso di loro: “Cosa vuoi ancora?! Lasciaci in pace!” si guardò intorno alla ricerca di una qualsiasi arma, ma non trovò nulla. Per tutta risposta, Raphael scosse la testa, con un fare quasi dolente, come se si considerasse un grave giustiziere venuto a fare qualcosa di spiacevole ma necessario: “Sono venuto a fare giustizia” con quale stanca calma pronunciava quelle parole, che si contrapponeva fortemente all’espressione che aveva in viso: “A te ti getterò nella fornace come meriti, ragazzo. Poi io e la mia sposa morta celebreremo il nostro matrimonio. Non temere, Irene, ti costruirò una bara davvero magnifica, un talamo nuziale come non si è mai visto! Da morta sarai ancora più bella, e poi, assai più bendisposta! Potrò accarezzarti e baciarti quanto vorrò, e tu mi lascerai fare da brava mogliettina, senza più strillare e lamentarti stupidamente”.
Irene urlò di nuovo, ancora più forte di prima. Stephan le strinse più forte il braccio, col cuore che gli batteva come un tamburo: “Ti prego” sussurrò: “Non ti abbiamo fatto alcun male. Lasciaci andare”.
“Lasciarvi andare?” si stupì Raphael: “Oh, no, no, non puoi venirtene fuori così dopo aver rovinato tutto. Ora è arrivato il momento che vi ammazzo. Vedo che avete paura. Oh, ma sarò rapido, non sentirete nulla. Non potrei mai fare del male alla mia sposa morta!”
Detto questo, stanco di quelle chiacchiere, il mostro si gettò verso di loro con un ringhio furioso e levò alto il pugnale, pronto a fare quanto promesso. Stephan, con una rapidità di riflessi pronta e reattiva, spinse una terrorizzata Irene di lato e lei cadde poco più in là, poi si buttò e rotolò lontano dalla traiettoria della prima pugnalata, che fendette l’aria dove prima erano loro due. Raphael fece una piccola smorfia di fastidio e si girò verso di loro: “Volete giocare? E va bene, giochiamo allora. Temporeggiare non vi salverà. Siete nel mio territorio, nella mia cara, fedele Heather Ville, e Heather Ville è dalla mia parte!”
Stephan digrignò i denti e afferrò Irene, che tremava ed emetteva rapidi e asmatici gemiti terrorizzati, tentando di rimetterla in piedi: “Presto, amore, alzati!”
Lei scosse la testa, piangendo. Aveva le gambe paralizzate dalla paura, era troppo scioccata per reagire. Stephan diede un’occhiata piena di panico a Raphael che tornava alla carica: “Irene, fallo per me!” gemette. La sollevò in piedi per le ascelle e stavolta lei, mezza morta, riuscì a reggersi in piedi. Il giovane le accarezzò il viso: “Brava, brava”.
Allorché il mostro vibrò un secondo colpo, Stephan scartò di lato agilmente, trascinando con sé un’inerte Irene, e lo mandò di nuovo a vuoto. Gli occhi ceruleo opaco di Raphael sprizzarono scintille.
“Scappiamo!” gridò Stephan. Sapeva che restare lì a schivare colpi era inutile, alla fine sarebbero stati uccisi entrambi. Dovevano tentare di guadagnare il portone spalancato. Prese Irene per la vita, si mise a correre e stavolta lei, che forse era stata scossa dal torpore causato dallo shock, corse con lui, mentre Raphael, dietro di loro, li inseguiva tranquillo, non particolarmente preoccupato della loro fuga. Infatti, quando i nostri due poveri giovani erano a pochi passi dal portone, quello, con un fragore infernale, si richiuse di colpo, imprigionandoli. Stephan mandò un grido di rabbia: “No!” batté i pugni contro il portone sbarrato, mentre Irene, accanto a lui, piangeva e scuoteva ossessivamente la testa, e ripeteva a fior di labbra: “È tutto inutile, tutto inutile…” 
“Vedo che le mosche si dibattono nella ragnatela” ghignò Raphael, divertito dai loro sforzi disperati di resistere.
A sorpresa estrasse da uno stivale un secondo pugnale, questa volta di avorio, e con un movimento abile e preciso lo tirò in direzione di Irene. La ragazza rimase ferma mentre le volava incontro fendendo l’aria con un sibilo letale, troppo sconvolta per reagire. Stephan ancora una volta urlò: “No!” e la buttò a terra con uno spintone che la mandò lunga distesa. La lama si piantò nel portone, dove rimase a vibrare sempre più lentamente. Se il ragazzo non avesse gettato a terra Irene, quell’arma le avrebbe trafitto la gola.
Raphael si fece avanti con un sogghigno terrificante sul volto di demone, brandendo il pugnale con entrambe le mani, e per la terza volta optò per un attacco corpo a corpo. Stephan, stavolta, non rimase inerte a subire. Ruotò su se stesso, evitò la lama e con uno sgambetto fece cadere il mostro. Mentre quello si affannava per rimettersi in piedi, sibilando maledizioni, il giovane si rivolse terrorizzato a Irene: “Scappa ai piani superiori, presto! Lo trattengo io!”
La fanciulla lo fissò con gli occhi sgranati: “Cosa?”
“Scappa, Irene! Subito!” le mise fretta Stephan. Lei però non si mosse: “Non posso lasciarti qui…”
“Merda, fa quello che ti ho detto! Me la caverò!” esplose il ragazzo al culmine dell’ansia. C’era un tal terrore nei suoi occhi castani, e aveva gridato l’imprecazione con una tal veemenza, che Irene subito gli ubbidì, e scoccandogli un ultimo sguardo disperato si mise a correre in direzione delle scale. Raphael, accorgendosene, urlò: “Non mi sfuggirai, Irene! Stanne certa! Conosco Heather Ville come le mie tasche, è inutile che ti nascondi!”
Irene emise un singhiozzo e cominciò a salire i gradini a due a due, incespicando e inciampando, dolorante, terrorizzata, sfinita, senza speranze, torturata dal pensiero di Stephan che affrontava Raphael al piano di sotto per darle il tempo di nascondersi. Ma dove avrebbe potuto nascondersi? Il mostro aveva ragione, non aveva scampo.
A meno che…mentre attraversava una delle tante camere oscure, si fermò di colpo e fissò l’enorme grata nera nel muro, che portava al nascondiglio di Raphael. Fu presa dall’orrore. No! Mai! Però…voleva vivere, voleva salvarsi, lo voleva talmente che non era più portata a farsi scrupoli di sorta. Stephan le avrebbe detto di farlo, se fosse stato lì. L’avrebbe fatto per lui. Si accostò al buco e si issò nel muro. Oltre il punto in cui era lei, accovacciata a gattoni, si diramava un buio totale, pervaso da un odore pungente di muffa e di morte. Rabbrividì. Ma ulteriori rumori di lotta al piano di sotto la convinsero ad infilarsi in quel cunicolo stretto e soffocante, premuta sopra, sotto e ai lati contro la pietra nuda e fredda, espirando e inspirando velocemente per assimilare la poca aria che circolava.
Non vedeva niente, strisciava orientandosi a caso, tastando il cunicolo in cui era schiacciata per vedere se eventualmente portava a un vicolo cieco o c’era qualche spigolo. Era liscio e umido, in alcuni punti sporco di una roba verdastra che sembravano piante notturne appassite. Le veniva da vomitare. Non respirava quasi. Il cunicolo ad un certo punto faceva una brusca curva, che la ragazza prese a fatica, spingendosi avanti coi gomiti e con le gambe rannicchiate. L’oscurità si rischiarò leggermente: c’era un altro buco che dava sull’esterno. Irene respirò aria più pura e sbirciò fuori: era sbucata nel bagno. Lo vedeva chiaramente, aveva una visuale perfetta dell’ambiente. Si soffermò qualche attimo, poi riprese a strisciare e anche quella debole luce svanì.
“Ma dove credo di andare?” si chiese sconsolata: “Resterò qui a strisciare mentre Stephan muore per me?”
Prese altre due curve, senza sapere dove stava andando, divorata dall’angoscia. Perché le era capitato questo? Lei era solo una ragazza che aveva fatto l’errore di amare troppo il mistero. Non avrebbe mai voluto arrivare a tanto. Non avrebbe mai voluto finire intrappolata in una casa ostile col ragazzo che amava e un mostro intenzionato a ucciderli. Era troppo irreale per essere vero. Persino adesso stentava a crederci. Come era potuto accadere? Come aveva potuto lasciare che accadesse?
Improvvisamente, mentre ancora strisciava goffamente nel cunicolo, la voce raschiante e lievemente affaticata di Raphael la pietrificò dov’era: “Irene?” domandò, da un punto molto vicino al muro dov’era lei, con un tono divertito e folle: “Dove sei, amore mio? So che sei qui intorno! Ora ti trovo, ora ti trovo! Vogliamo giocare a nascondino?”
Come diavolo aveva fatto ad arrivare così in fretta?! Cosa ne aveva fatto di Stephan?! Irene, in preda al terrore, si premette una mano sulla bocca per impedirsi di mettersi a urlare il nome del ragazzo, immobilizzata in mezzo al cunicolo buio e umido, senza osare pensare all’ipotesi che il mostro la scovasse. Doveva essere cauta, restare immobile e non farsi sentire, Stephan poteva essere ancora vivo, non tutto era perduto, se si tradiva in qualsiasi modo, anche con un respiro troppo rumoroso, avrebbe rovinato tutto. I suoi occhi spalancati e ciechi guizzarono al muro di sinistra da cui aveva sentito provenire la voce del mostro.
Lo udì aggirarsi lentamente fuori dal muro, compiere diversi giri su se stesso: “Vuoi giocare a nascondino, allora” disse malefico: “Benissimo, allora giocheremo a nascondino. Vediamo…sei sotto al divano?” la poverina, pietrificata nel cunicolo, con la mano sulla bocca, lo sentì chinarsi a controllare: “No, non sei sotto al divano. Forse…dietro la tenda?” un fruscio sinistro: “Neanche qui! Su, dammi un indizio, cara! Ti devi essere nascosta proprio bene, per darmi tutto questo filo da torcere. Non ti sarai mica chiusa nell’armadio?” il cigolio di un’anta aperta: “Un’altra volta acqua! Povero me, non vuoi proprio lasciarti trovare, eh? Ma non mi arrendo”.
“Che la buona sorte mi protegga” pensò Irene disperata e piangente, rannicchiata nel suo nascondiglio. Le sembrava già di vedere Raphael che la trovava e la trascinava fuori dal muro per la caviglia. E continuava ad essere angosciata per Stephan. Dov’era finito? Se fosse stato incolume certo non l’avrebbe lasciata in balia di quel pazzo. Se gli fosse successo qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato. Era stata lei a cacciarli in quella situazione.
“Uhm, forse sei da qualche altra parte” capitolò Raphael dopo aver accuratamente controllato la stanza su cui dava il cunicolo. Nel cuore di Irene si aprì una finestrella speranzosa. E infatti lo sentì uscire, e allontanarsi per il corridoio, e sorrise. L’aveva proprio scampata bella! Ora sarebbe andata a cercare Stephan mentre Raphael la cercava al piano di sopra, e in un modo o nell’altro sarebbero fuggiti. Rianimata da quella fortuna inaspettata, la ragazza ricominciò a strisciare in avanti, più velocemente che le riusciva, con un mezzo sorriso sulle labbra, e un coraggio improvviso.
Di colpo si trovò l’orrenda faccia ghignante di Raphael proprio davanti, e il mostro che la contemplava trionfante accucciato nel suo stesso cunicolo, davanti a lei. Le prese un tale colpo che non si trattenne più e urlò con tutta la potenza che aveva. Era spacciata. Sarebbe morta. Mentre urlava come un’ossessa e scalciava in quella stretta oscurità, Raphael allungò la mano adunca e gliela premette sulla bocca: “Trovata!”
“No! No! No!” mugolò la poverina da sotto la mano dell’aggressore, con gli occhi roteanti di terrore. Era obnubilata dalla paura, priva ormai di qualsiasi volontà. Raphael l’afferrò per i capelli lunghi, scompigliati, e la trascinò urlante e scalciante fuori dal cunicolo, strisciandovi con assai maggiore agilità di lei, come se fosse nato in quel posto. Allorché giunsero ad una cavità che dava su un ampio salottino, il mostro ne scivolò fuori e trasse a sé la povera Irene, le cui pupille furono morse dalla luce improvvisa come da una lama. Continuava a urlare, a scalciare furiosamente, ed era convinta di non aver mai provato un simile senso di soffocamento, neanche la prima volta che lui l’aveva aggredita.
“Volevi farmela, eh?” la rimbeccò Raphael torreggiando su di lei in tutta la sua maledetta deformità: “Volevi farmela col mio stesso trucco. Ma nessuno la fa a Raphael! Nessuno! Ed ora” disse dolcemente, sollevando il pugnale scintillante: “Ora morirai”.
Irene scosse la testa come un automa e urlò fino a farsi saltare tutte le vene mentre la lama luccicante, dopo essere rimasta sollevata con teatrale lentezza sopra al suo petto ansante, calava su di lei per privarla della vita.
“Nooo!” urlò improvvisamente una voce furiosa, poi Stephan, ansimante, coi vestiti a brandelli e una ferita alla spalla che aveva già riempito di sangue scarlatto la camicia, si gettò su Raphael con una luce di folle angoscia nello sguardo e lo abbrancò per il collo, allontanandolo disperatamente dalla ragazza. Il mostro spalancò gli occhi, sorpreso, e non riuscì a vibrare il colpo, barcollando all’indietro sotto il peso del giovane. Irene, incredula di essere ancora viva, smise di urlare e si sollevò faticosamente in ginocchio, fissando la scena.
Stephan, nonostante fosse ferito e visibilmente esausto, continuava a tenere l’altro strettamente avvinto e gli aveva immobilizzato la mano armata con una mossa salda. Raphael digrignò i denti, furibondo: “Maledetto!” cominciò a dare grandi scossoni per scrollarselo di dosso, agitandosi come un epilettico. Stephan, disperatamente aggrappato alla sua schiena ricurva, volse gli occhi pieni di sofferenza sulla ragazza seduta a terra: “Irene! Vattene!”
“Stephan!” singhiozzò lei straziata, senza fare come le aveva detto. Non poteva permettere che venisse ucciso. Non poteva permetterlo. Ma cosa poteva fare, lei? Era ancora più impotente di lui. La situazione era disperata, e anche se fosse scappata avrebbe solo ottenuto di prolungare la propria vita per qualche minuto. Dov’era la chiave mancante? Dov’era la soluzione?
Raphael si buttò contro la parete e in tal modo fece in modo che fosse Stephan a cozzarci contro, anziché lui. Il ragazzo emise un gemito di dolore e lasciò la presa. Scivolò a terra, privo di forza, come una bambola rotta, e lì giacque immobile e disperato. Il mostro sorrise trionfante e con un calcio lo girò pancia in su: “Sei patetico” sibilò: “Credevi davvero di potermi privare di ciò che mi appartiene? In confronto a me non sei niente!”
Stephan lo guardò con uno sguardo che non nascondeva la rassegnazione e il dolore che doveva provare. Era sdraiato alla sua mercé, inerte, ferito, sconfitto, e non gli restava che sperare in una fine rapida e indolore. Guardava il volto ributtante di Raphael, non il pugnale che l’altro aveva brandito per ucciderlo.
Irene assistette alla scena e non poté più sopportarlo. Era troppo. Andava al di là di ogni limite. Allorché Raphael sollevò il pugnale con entrambe le mani e si inarcò per vibrare il colpo, con una smorfia di furia sul viso, la ragazza corse verso i due, si gettò sul corpo riverso e sofferente di Stephan e lo coprì con il proprio, e rimase lì accucciata accanto al ragazzo che amava, decisa a morire assieme a lui. E quando le mani di Raphael ebbero una leggera esitazione, poiché lui non s’era aspettato il suo intervento, Irene sollevò su di lui i grandi occhi azzurri pieni di lacrime, e non erano più né terrorizzati né impauriti né sconvolti, erano franchi e tristi come al solito, luminosi e disperati: “Ti prego, Raphael!” sussurrò: “Non ucciderlo! Uccidi me, che ho dato inizio a tutto questo, ma tienilo fuori! Ti prego, Raphael!”
Raphael si bloccò, col corpo inarcato, pronto a colpire, e il pugnale a mezz’aria. Rimase fermo in quella posizione come una statua, respirando forte e rapidamente, mentre Irene, accucciata ai suoi piedi sopra a Stephan continuava a fissarlo coi grandi occhi spalancati: “Ti prego, Raphael” ripeté con voce implorante ma ferma: “Uccidi solo me!”
Il mostro non si mosse. La scena si era pietrificata ed aveva assunto una certa sua immobilità mistica che la faceva assomigliare all’immagine di un quadro. Persino le espressioni dei personaggi, quella ancora furiosa di Raphael, quella determinata e franca di Irene, quella sofferente di Stephan, erano come scolpite su quei tre visi così diversi tra loro. Tale immobilità restò tale per molto tempo. Fu Irene a parlare per prima, senza staccare gli occhi da quelli del mostro: “Raphael…” mormorò, ed era come un’invocazione, una flebile richiesta di aiuto.
Raphael, che era rimasto chiuso nella sua follia per tutto il tempo, insensibile ad ogni cosa che non fosse l’istinto omicida, improvvisamente udì quella parola che usciva dalle labbra tremanti della ragazza, e vide i suoi grandi occhi azzurri spalancati che lo fissavano da basso. Nel suo cuore qualcosa rispose, qualcosa che aveva tenuto sepolta sotto l’odio, il dolore e l’amarezza. Lentamente la smorfia rabbiosa che gli alterava gli ingrati lineamenti si allentò, scomparve, per lasciare il posto ad una stranissima espressione, che era un misto di stupore, di sofferenza e di affetto ritrovato. La mano che reggeva il pugnale tremò, poi lui, scosso da violenti tremiti, lo gettò sul pavimento e l’arma vi cadde con un tintinnio.
Irene seguì il breve volo del pugnale con uno sguardo stupefatto, quindi tornò a rivolgersi a Raphael con un’espressione interrogativa. Lui evitò i suoi occhi e si allontanò barcollando da lei e da Stephan, portandosi una mano al volto. Improvvisamente le gambe parvero non reggerlo più e si accasciò in ginocchio, senza forza, tremante, addolorato. Le spalle gli sussultavano, e aveva il viso nascosto tra le mani, e dalla bocca uscivano suoni soffocati, ma la ragazza impiegò alcuni minuti a capire che stava piangendo. Sì, piangeva, quel mostro, quell’uomo sventurato condannato dalla malvagità di suo padre, piangeva perché non avrebbe mai potuto ucciderla, perché lei l’aveva reso buono senza che lo volesse, senza neanche ricambiare il suo amore.
E Irene lo guardava piangere e non si rendeva conto appieno di avergli sciolto quel cuore di ghiaccio, da tempo indurito dall’amarezza e dal disprezzo altrui. Era semplicemente stupita che li avesse risparmiati, che avesse ritrovato la ragione. Stephan lo era ancora di più, non riusciva a crederci, temeva un tranello. Quando la fanciulla si alzò, cercò di trattenerla, ma lei lo placò con uno sguardo sicuro e avanzò verso Raphael. Tese la mano esitante: “Raphael…”
“Andate” singhiozzò lui senza cambiare posizione, dandole le spalle: “Andate via”.
Irene spalancò gli occhi: “Ci…ci lasci andare?” chiese, con un fremito di felicità e di speranza nella voce. Si voltò verso Stephan, che le restituì uno sguardo speranzoso. Raphael mosse la testa in su e in giù in un cenno d’assenso, accasciato a terra. La ragazza sentì lacrime di commozione pizzicarle gli occhi: “Oh, Raphael…”
“Andatevene!” urlò però lui con la voce orribilmente contratta dal pianto: “Andate via!”
Stephan si alzò faticosamente in piedi e raggiunse Irene. Le circondò le spalle con un braccio, protettivo: “Andiamocene” le sussurrò all’orecchio. Temeva che il mostro ci ripensasse. Lei, però, continuava a guardarlo che piangeva: “Ma…”
“Andatevene!” ripeté Raphael per la terza volta. Stephan la spinse fuori dalla stanza: “Su, andiamo, amore”.
Riuscì a trascinarla fuori, e nel mentre la portava via gli occhi azzurri di lei restavano fissi sulla figura accasciata e sofferente di Raphael, che l’aveva lasciata andare, che le aveva salvato la vita. Lui però non la guardava, non si toglieva le mani dal volto, poiché incrociare di nuovo quegli occhi limpidi che l’avevano placato nel suo momento di pura follia avrebbe accresciuto l’immenso dolore che provava ora, a lasciarla andare per sempre, a restare per sempre solo.
Allorché li udì uscire dalla stanza, allorché la perse del tutto, Raphael gettò indietro la testa pesante e malfatta e lanciò un alto grido di dolore. Dunque era quello, l’amore? Erano quelli i sentimenti? Se era così allora non esisteva medicina né peccato che potesse lenirli, né l’egoismo riusciva a trasformarli in qualcosa di sensato. Avrebbe potuto uccidere il giovane e costringere Irene a diventare la sua sposa, oppure avrebbe potuto togliere la vita anche a lei ma tenerla sempre con sé…ma l’amore, quel maledetto amore che così tante volte aveva contemplato dalla torre senza mai comprenderlo glielo impediva. L’aveva lasciata andare, e tuttora, che soffriva così tanto, che il cuore era straziato e dolorante, si rendeva conto di non poter fare altro. L’amore che provava per lei gli impediva di ribellarsi al destino ingrato, che aveva allontanato l’unica persona a cui avesse mai voluto bene.
Mentre se ne stava lì accasciato, e piangeva come non aveva mai pianto, captò un rumore di passi che tornavano indietro e sollevò appena il capo. Irene era lì, sulla soglia, intimorita e impietosita, e lo guardava coi suoi grandi benevoli occhi azzurri. Era tornata. Raphael sussultò e si alzò faticosamente in piedi, restituendole uno sguardo colmo di lacrime: “Irene…”
Lei gli sorrise tristemente e improvvisamente il mostro capì. Non era tornata davvero. Era solo venuta a dargli l’ultimo saluto, come sarebbe dovuto essere due giorni prima.
Per un lungo istante rimasero in piedi uno di fronte all’altra, a contemplare in silenzio, lui tanta grazia, lei tanta bruttezza. Raphael se la mangiava con gli occhi, dopotutto era l’ultima volta che la vedeva, era l’ultima gioia che gli era concessa. Irene esitò un istante, poi si sfilò l’anello d’argento con il motivo di rose inciso che portava all’anulare, regalo di Stephan, la cosa più cara che aveva, e glielo porse sorridendogli gentilmente, e guardandolo con una tenera gratitudine nello sguardo. Un dono d’addio.
Raphael, distrutto dal dolore, ma per la prima volta illuminato dalla leggerezza della bontà che gli aveva fatto compiere quel sacrificio, allungò la mano deforme e prese l’anello che lei gli porgeva. Nel farlo sfiorò le dita della ragazza e si permise di trattenerle la mano nella sua per qualche istante. Irene non la ritrasse, anzi, lasciò che gliela stringesse con disperazione. Raphael, che si beveva le lacrime che gli colavano sul viso, aprì le labbra e sussurrò: “Io…io ti amo” e per la prima volta era una vera dichiarazione, non erano parole che ripeteva per provare cosa si sentiva a dirle, non era un segno di possesso. Le stava solo aprendo il suo cuore. Quando l’ebbe detto, provò quella leggerezza, quel sollievo che prima aveva cercato a lungo e invano.
Irene ora piangeva a sua volta, le sue dolci lacrime scivolavano sulle guance rosee, le tremavano le labbra rosse. Gli si avvicinò, si sporse e lo baciò sulla guancia, su quella sua povera guancia, senza il minimo ribrezzo. Non baciava l’uomo misterioso delle sue allucinazioni, baciava lui, Raphael, il mostro, l’assassino, il folle. Lui aveva dovuto rinunciare a lei, perché finalmente si trovassero. Allorché le labbra della fanciulla si posarono sulla sua pelle, Raphael chiuse gli occhi e un fremito lo prese.
Poi Irene si staccò, lo guardò negli occhi e gli sorrise. Si allontanò nuovamente, e Raphael sapeva che stavolta non sarebbe più tornata. Rimase in piedi nella stanza, a guardarla andar via, piangendo, col suo anello infilato al mignolo della mano sinistra, poiché era troppo piccolo per le altre dita. Alla fine, quando la sua figura scomparve, il mostro sussurrò addolorato: “Addio…”
 
Non s’è mai riuscito a scoprire poi molto sui fatti che succedettero a questa vicenda. Stephan e Irene partirono per Parigi il giorno stesso, lasciando Giorgio in città, dato che non correva più alcun pericolo, e lì si sposarono e vissero fino alla fine dei loro giorni. Stephan si impiegò come meccanico e così realizzò i suoi più grandi sogni: avere un lavoro stabile, e una moglie che amava. Irene dal canto suo, irrequieta e volubile com’era, fece vari lavori: all’inizio partì come arpista, poi come pittrice di paesaggi oscuri e inquietanti, quindi come attrice. Non sfondò nel mondo del cinema, ma alcuni suoi film francesi furono molto apprezzati dal pubblico. Vi ricordereste sicuramente di lei, se avessimo voglia di svelarvi il suo nome d’arte. Ma non lo faremo.
Di Raphael Lawrence non si seppe più nulla. Irene, che era l’unica a conoscerne l’esistenza, portò il segreto nella tomba e non ne parlò mai, neanche con suo padre. Però, alcuni mesi dopo la partenza dei due giovani, capitò che un certo signor Ferrel, un agente immobiliare, notasse Heather Ville e la visitasse, interessato a ristrutturarla.
Al secondo piano, tuttavia, vide uno spettacolo insolito e macabro: una stanza completamente carbonizzata da un incendio probabilmente divampato da una grossa fornace che puzzava di carne morta. Sul pavimento giaceva il cadavere di un uomo parzialmente carbonizzato. Era impossibile definirne i lineamenti a causa delle bruciature, ma Ferrel notò che al mignolo della sinistra, ancora intatto, portava un anellino d’argento con un motivo di rose inciso e un nome: Irene.
 
FINE
 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1000499