Hunted

di __Stella Swan__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo giorno: Londra. ***
Capitolo 3: *** Secondo giorno: Piccadilly Circus ***
Capitolo 4: *** Terzo giorno: Westminster ***
Capitolo 5: *** Quarto giorno: dalla Tower of London al Buckingham Palace ***
Capitolo 6: *** Quinto giorno: London Coliseum ***
Capitolo 7: *** Sesto giorno: Hyde Park ***
Capitolo 8: *** Settimo giorno: Brown's Hotel ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo.

Tirai su il cappuccio e portai le labbra al bicchiere, sorseggiando lentamente la mia acqua tonica. Le persone intorno a me seguivano una partita in diretta alla televisione, imprecando e continuando ad urlare tra di loro. Cercavo di spegnere le orecchie ed isolarmi, così non mi sarebbe venuto il mal di testa.
Fissavo il bancone del bar, tenendo gli occhi bassi. Il ragazzo davanti a me continuava a passare lo straccio per pulire i rimasugli delle bevande e, ogni tanto, mi lanciava qualche occhiata interrogativa. Chiesi il bis di acqua tonica e subito mi riempì il bicchiere, senza far domande. Sembrava quasi aver paura di me, in qualche modo. Anzi, lo percepivo.
Non era per il fatto che fosse la prima volta che andavo in quel locale, dove tutti si conoscevano: erano per la maggior parte motociclisti, età compresa tra i quaranta ed i cinquant’anni. Ero l’unica diciottenne in quella stanza, molto probabilmente. Anzi, più che sicuramente.
Improvvisamente sentii un grosso boato: voci confuse che si lamentavano, bicchieri che sbattevano sui tavoli. “Interrompiamo la trasmissione per un avviso urgente”, sentii la televisione. Le mie orecchie si rizzarono, mi voltai leggermente in modo da poter dar un’occhiata alle immagini che venivano trasmesse. “Chiunque abbia visto una ragazza di circa diciott’anni, alta un metro e settantacinque coi capelli lunghi rossi è pregato di rivolgersi alla polizia di Scotland Yard. Ripetiamo, rivolgersi immediatamente alla polizia di Scotland Yard. La ragazza, Amelia Drakul, è stata data dispersa dal padre circa una settimana fa. Le forze dell’ordine inglesi e francesi sono già sulle sue tracce, chiediamo a tutti i cittadini di collaborare con le indagini. Grazie e scusate per l’interruzione”.
Perfetto, c’era bisogno di mettere in mezzo anche Scotland Yard?
Il barista si bloccò davanti a me, fissandomi per qualche strano motivo. Forse per la maledetta somiglianza con le immagini della ragazza che avevano fatto vedere in televisione.
Tirai giù il cappuccio, continuando a bere la mia acqua tonica come se niente fosse. Rimassero tutti sbigottiti quando, al posto della chioma rossa che avevano descritto alla tv, videro un corto taglio corvino. Inarcai le labbra verso il barista, invitandolo a darmi altro da bere.
Meno male che avevo avuto la bella idea di cambiare un po’ il mio aspetto, prima di recarmi a Londra.
Non mi avrebbero trovata facilmente.

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Capitolo 2
*** Primo giorno: Londra. ***



Primo giorno: Londra.


La metro arrivò puntuale, dopo due minuti dalla precedente. Da Holborn a Piccadilly Circus erano tre fermate, quindi non ci avrei messo molto. L’aria mi mosse leggermente i capelli, mentre le porte si aprirono. Intorno a me una massa di persone in ritorno dal lavoro o per chissà altro: facce stanche, pallide. Tutti umani, per ora.
Rimasi in piedi tutto il tempo, controllando che nessuno mi fissasse con aria circospetta: ero conciata in modo completamente differente rispetto alle immagini che avevano trasmesso al telegiornale, ma magari qualche occhio ben attento era in grado di cogliere stupidi particolari per identificarmi.
Per fortuna, nessuno si era nemmeno voltato per guardarmi mentre scendevo ed andavo verso le scale mobili.
Quando uscii dalla metro mi trovai di fronte a quegli enormi schermi di Piccadilly Circus, così simili ad una piazza di New York o Chicago. Erano imponenti ed illuminati, siccome erano le sei e mezza ed il sole era già calato. Quella giornata era stata splendida, senza una nuvola. Riuscivo già a contare le stelle alte nel cielo, mentre il primo quarto di luna risplendeva debolmente.
Passai per la piazza col cappuccio abbassato, mentre trascinavo la valigia dietro le mie spalle. La mia intenzione era controllare se avevano già mandato qualche guardia davanti alla casa di mio padre. L’aveva comprata diversi anni fa, quando non ero ancora nata. Anzi, in realtà molti, ma molti anni prima che nascessi: fine Ottocento, per l’esattezza. L’aveva intestata a mia madre, poco prima che nascessi; poi, dopo la sua morte, la lasciarono a me.
Agli occhi degli inglesi ero una perfetta turista: mi guardavo intorno meravigliata da tanta bellezza, ogni tanto sbagliavo ancora a dove guardare prima di attraversare la strada, controllavo la cartina. Anche se, in realtà, non avevo bisogno di tutto quello: sapevo esattamente che cosa ci fosse a Londra, sapevo di dover guardare nella direzione opposta siccome il senso di marcia era inverso rispetto agli altri paesi e conoscevo metro, bus e vie per quanto mi fosse sufficiente.
Intravidi due guardie di Scotland Yard davanti al portone in legno, fuori dal cancello. Ovviamente, mio padre si era preoccupato di sistemare la casa nel corso degli anni: non poteva certo lasciarla come se fossimo ancora nell’Ottocento, con interni signorili e le finestre cadenti. L’unica cosa che era rimasta della casa vecchia era il portone: imponente, ricoperto di borchie e con la maniglia tonda.
Le guardie si guardavano intorno, ogni tanto qualcuno si fermava per chiedere loro delle informazioni. Sembravano piuttosto giovani: entrambi uomini, età compresa tra i venti ed i trent’anni. Della SO12, più che sicuramente: il ramo speciale di Scotland Yard. Uno dei due – quello più giovane –  aveva i capelli corti, biondo cenere; l’altro neri come il carbone, cortissimi.
Sapevo che non sarei potuta andare in quella casa, ma avevo voluto tentare comunque.
Per quella notte avevo deciso di alloggiare in un hotel lì vicino, così avrei potuto controllare l’evolversi della situazione: finché non ci fossero stati vampiri sarebbe filato tutto liscio come l’olio.
Mi recai a piedi al Best Western Hotel di Piccadilly, non lontanissimo dalla piazza.
L’interno era piuttosto moderno: pareti azzurre e fuxia, il bancone della reception nero lucido, con una ragazza di colore che chiacchierava al telefono. Un ragazzo alto e giovane mi aprì la porta, chiedendomi se avessi bisogno di una mano con la valigia. Sorrisi e risposi che facevo da sola, perciò mi avvicinai alla ragazza dietro il bancone. Riattaccò il telefono e mi rivolse un sorriso solare.
«Benvenuta al Best Western, aveva prenotato?», chiese gentilmente.
«In realtà no, avete per caso una camera libera per tre notti?», risposi.
La ragazza controllò velocemente sul suo registro, mentre mi guardavo intorno: c’era un divano ad angolo poco più in là del bancone, marrone con quattro piccoli cuscini viola. Il tavolino era colmo di riviste settimanali e mensili ed un enorme specchio che occupava la parete lungo la quale era poggiato un lato del divano. «Certo signorina, una camera è libera per una settimana, ma ha il letto matrimoniale e verrebbe a costare qualcosina in più».
«Non è un problema, prendo quella allora». Presi il portafoglio e pagai subito il pernottamento di tre notti. I soldi non erano un problema per me, per fortuna; almeno su quello potevo ringraziare mio padre. Il leu romeno era una moneta debole contro la sterlina inglese, ma avevo cambiato una grossa quantità di soldi prima di partire per Londra.
La ragazza mi sorrise e segnò la prenotazione, augurandomi un buon soggiorno nell’hotel. Mi diede poi la chiave della camera: numero cinquantuno.
Presi l’ascensore e mi recai verso la mia stanza, notando che a quell’ora non c’era nessuno nei corridoi dell’hotel. Aprii la stanza ed entrai, lasciando la valigia davanti alla porta. Davanti a me c’era un enorme letto a baldacchino in legno scuro, le lenzuola bianche ed i cuscini viola. Un tavolino in vetro di fronte al letto con una bottiglia di spumante e una scatola di cioccolatini.
Tolsi la giacca e la lasciai cadere sopra la piccola poltrona beige che si trovava davanti al tavolino, poi andai di corsa in bagno. Gli occhi bruciavano, perciò tolsi le lenti a contatto e le buttai via. Le mie iridi non erano più color nocciola, ma quel solito grigio fumo che avevo preso da mia madre. O almeno, così diceva mio padre.
Da lei avevo preso tutto: gli occhi grigi, i capelli rossi ed il sorriso solare, mentre da mio padre il temperamento freddo verso gli sconosciuti, i modi rozzi di rispondere alle persone e tutto il peggio che avrei potuto ereditare. Anzi, per fortuna mi aveva risparmiato il peggio del peggio.
Sbuffando tolsi anche la parrucca e la lasciai cadere a terra. I miei capelli erano neri, ma lunghi fino alle spalle, leggermente mossi. Mi guardai allo specchio, sospirando. Se volevo restare a Londra avrei dovuto cambiare il mio aspetto ogni volta, muovermi da un hotel all’altro.
Lanciai un’occhiata alla vasca accanto a me, pensando che avrei potuto dedicarmi ad un bel bagno caldo e rilassante. Non avevo fame, perciò non sarei uscita per mangiare.
Tornai in camera e presi la valigia, poggiandola sul letto ed inserendo la combinazione. Le prime cose che vidi furono parrucche, di ogni colore e lunghezza, e scatole di lenti a contatto colorate. Subito sotto, un saccone nero con una zip. Lo tirai fuori e lo aprii, osservando attentamente il contenuto: paletti in frassino, pistole di diverso calibro, mitragliette e bombe di raggi ultravioletti. Armi che mi sarebbero potuti tornare utili contro i vampiri, nel caso si fossero fatti vivi.
Mio padre di sicuro avrebbe mandato, prima o poi, le sue guardie a cercarmi. Mi chiedevo perché avesse coinvolto degli umani, invece che mandare i suoi scagnozzi per il lavoro sporco.
Accesi la tele e buttai il telecomando sul divano, avvicinandomi alla finestra per controllare il panorama: Londra era perfettamente illuminata, alcune persone nei pressi dell’hotel passeggiavano per cercare un posto in cui cenare.
“Non ci sono novità sulla scomparsa della giovane diciottenne Amelia Drakul”, sentii al telegiornale. Chiusi le tende e mi voltai verso lo schermo. Alcune foto stavano mostrando la sede dello Scotland Yard e delle guardie che camminavano su e giù davanti alla porta d’ingresso. “Non sappiamo se si può parlare di fuga o di rapimento, ma la ragazza è scomparsa poco più di una settimana. Le forze francesi ed inglesi si stanno impegnando al massimo per trovarla. Il padre sostiene che, nel caso fosse scappata, si sia recata a Londra, dove una vecchia casa di famiglia – che si trova a Piccadilly Circus –  è intestata alla giovane. Per ora nessuno l’ha ancora vista, ma nel caso qualcuno dovesse vederla è pregato di recarsi alla stazione di polizia più vicina o allo Scotland Yard”. E mostrarono una mia foto di qualche anno prima, quando avevo sedici anni: i capelli rossi lunghi fino alle spalle lisci come seta, gli occhi grigi identici a quelli di mia madre.
Per un’ora rimasi assopita nella vasca da bagno, completamente ricoperta di schiuma che profumava di fragole e frutti di bosco. Era rilassante, maledettamente rilassante. Sapevo benissimo, però, che non avrei potuto permettermi quel benessere ogni giorno e a lungo: mi prospettavo ancora un paio di settimane di tranquillità, poi le armi mi sarebbero servite più che sicuramente.
Misi la vestaglia da notte e mi coricai sul letto, cambiando canale e cercando qualcosa da guardare.
Sarebbe stato divertente cambiare aspetto ogni giorno per non farmi riconoscere. Per il momento, avrei potuto concedermi qualche ora di sonno.

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Capitolo 3
*** Secondo giorno: Piccadilly Circus ***



Secondo giorno: Piccadilly Circus.


Svegliarsi tra quelle coperte soffici era una bella sensazione. Qualche debole raggio di sole mi stava scaldando la pelle, perciò mi stiracchiai e sorrisi tra me e me. Quel giorno avrei potuto comportarmi come una perfetta turista nei dintorni di Piccadilly Circus. Rimasi coricata ancora per una mezz’oretta buona, dato che non avevo alcuna fretta.
Quando sollevai la schiena vidi che l’orologio segnava le dieci e mezza del mattino. Mi alzai ancora assonnata ed aprii la finestra: fui investita de un’aria gelida, ma non quanto quella che ero abituata a sopportare a Bistrița, in piena Transilvania. Davanti a me ero solita vedere un’immensa distesa verde di colline, dietro la mia casa – anzi, era più corretto dire il mio castello – c’erano alcune montagne rocciose, dalle punte aspre.
Adesso invece vedevo strade che brulicavano di persone, macchine che andavano e venivano in senso opposto a quanto fossi abituata.
Andai in bagno per lavarmi la faccia e vestirmi: decisi di mettere un paio di jeans blu mare ed una felpa nera. Misi un nuovo paio di lenti a contatto castane e ripresi la parrucca che avevo il giorno prima sistemandola accuratamente, senza che nessun ciuffo scappasse da qualche parte. Per i giorni in cui rimanevo nell’hotel mi conveniva farmi vedere sempre con la stessa acconciatura dalla reception, oppure avrebbero cominciato a farsi delle domande.
Scesi nella sala dove servivano la colazione: di fronte a me c’era un enorme tavolo colmo di cereali, frutta di stagione, prosciutto, uova, pancetta, marmellate varie e fette di pane. Presi un piatto con due fette di pane, marmellata alle fragole e un bicchiere di latte. Dovevo esser leggera, non potevo certo riempirmi la pancia come un pallone. Mi avessero scoperta avrei dovuto correre, e molto velocemente.
Mi sedetti ad un tavolo vicino ad una finestra. La sala era praticamente vuota, c’era solo un uomo di mezza età dalla parte opposta rispetto a dove mi ero sistemata io. Stava mangiando un panino con prosciutto, uova strapazzate e bacon. Il suo sigaro era acceso e sistemato sul posacenere: si sentiva un terribile odore di tabacco e mi dava particolarmente fastidio.
Mi lanciò un’occhiata non molto furtiva, siccome si imbambolò a fissarmi per qualche minuto buono. Le sue guance erano rosse come due pomodori, i capelli troppo lunghi arruffati ed appiccicati al volto come se fosse sudato, gli occhi azzurri come il cielo d’agosto ma così vuoti. Cercai di non badare al suo insistente interesse per me, anche se man mano la mia ira cominciava a ribollirmi nelle vene.
Ero solita attirare l’attenzione delle persone perché, come dire, ero “piuttosto attrezzata”, se vogliamo usare termini che si usano al giorno d’oggi per descrivere una ragazza con le curve al posto giusto.
Anche per questo motivo mio padre era sempre stato fin troppo protettivo nei miei confronti. In realtà, solo pochi mesi fa avevo scoperto il vero motivo della sua ossessione per me.
Finii di mangiare velocemente, per poi alzarmi e tornare in camera mia. Mi lavai i denti e mi truccai attentamente con matita nera e rossetto color champagne. Non ero abituata a truccarmi, ma per mascherarmi ero stata costretta ad imparare anche quello.
Misi un cappotto che arrivava fino alle ginocchia e la sciarpa alta, pronta per uscire dall’hotel.
La ragazza dietro il bancone della reception mi salutò con un sorriso ed il maggiordomo mi aprì la porta, augurandomi buona giornata. Erano così particolarmente gentili le persone di Londra. Molto più che in Transilvania.
Camminai per circa cinque minuti, attraversando il centro del Leicester Square: c’erano bambini che giocavano coi genitori, mimi che cercavano di guadagnare qualche spicciolo e semplici persone che passeggiavano. Era autunno ma faceva già piuttosto freddo. Alcune persone avevano già tirato fuori dall’armadio il loro cappotto pesante, le sciarpe alte fin sopra il naso e addirittura i guanti.
Mi diressi poi verso Piccadilly Circus, percorrendo la Regent’s Street.
Molte persone stavano già facendo shopping sebbene fosse ancora mattina: donne con così tante borse tra le mani che non si vedevano nemmeno la punta dei piedi, uomini che strisciavano dietro di loro, già stanchi dopo aver visitato il secondo negozio della giornata. La Piccadilly Street era una delle più famose vie dello shopping di Londra, quindi la cosa mi stupiva fino ad un certo punto.
La vita era diversa rispetto a Bistrița: là non si vedeva certo gente che girava per i negozi a quell’ora del mattino. Le persone lavoravano per poter mangiare. Ovviamente c’era anche la zona della città più “rinomata”, se così potevamo dire. In ogni città del mondo c’era almeno un ricco proprietario di terre e ricchezze. Beh, in quella terra era mio padre.
Arrivai tranquillamente in piena piazza, soffermandomi all’altezza dell’uscita della metro. Tenni una cartina in mano per far finta di essere una turista ed esaminai perfettamente ciò che mi circondava: di fronte a me c’era la Shaftesbury Memorial Fountain, la famosa fontana che rappresenta Eros, l’arco in mano e la freccia già scoccata; sulla mia destra c’era il London Pavilion, nella quale c’erano numerosi negozi ed il Trocadero; a sinistra il Criterion Theatre.  
Infinite macchine passavano sulla strada che costeggiava la zona pedonale: i bellissimi taxi nero lucidi a puntino, i double bus turistici e macchine di lusso.
Mi voltai e puntai verso Leicester Square, siccome ero intenzionata a controllare se ci fossero ancora le guardie davanti casa mia. Mi ero già arresa all’idea che non avrei mai potuto varcare quella soglia – e una persona intelligente non lo avrebbe di sicuro fatto, non con un padre infuriato alle spalle – ma ero curiosa.
Continuai lungo la Piccadilly Street schivando le persone di corsa per circa duecento metri, poi svoltai all’altezza di Sackville Street, controllando che nessuno mi stesse seguendo. Era una precauzione che avevo preso da anni ormai che si era acuita nel momento in cui la mia fuga era cominciata.
Mantenni la destra della strada, camminando sul marciapiede con gli occhi fissi a qualche metro più avanti: potevo vedere dall’inizio della via le due guardie che c’erano già il giorno prima davanti al portone di casa mia. Camminai fino al numero sette e mi fermai davanti all’edificio: il portone in legno era stato coperto da una barriera metallica, utile anche a non far entrare nessuno. All’apparenza era un semplice edificio in mattoni rossi, con piccole finestre bianche che si susseguivano a nemmeno un metro di distanza, il balcone in ferro battuto esattamente sopra il portone d’ingresso.
Le due guardie – che fino a quel momento stavano parlando – si accorsero della mia presenza e si zittirono all’istante. Non era molto sicuro rimanere imbambolata lì davanti a fissare casa mia, ma non riuscivo nemmeno ad andarmene: perché dovevo scappare dall’unico luogo che avrebbe potuto offrirmi riparo?
Semplice: perché lì dentro non ero affatto al sicuro.
La guardia più giovane si avvicinò a me, attraversando la strada dopo aver lasciato passare una macchina. Mi spaventai non appena lo vidi comparire davanti ai miei occhi, ma non diedi alcun segno di tremore. Era il ragazzo dai capelli biondi ed ora riuscivo anche a vedere i suoi occhi: erano ambrati, un colore insolito e dannatamente acceso, caldo. Mi sentivo quasi travolgere da quelle ondate di benessere che emanavano, quasi fosse una sensazione nuova. Non mi accorsi nemmeno della prima domanda che mi fece, talmente tanto mi fossi concentrata su quelle iridi.
«Come, scusi?», chiesi con perfetto accento inglese, ma lasciando intendere che fossi una turista. Strinsi la cartina tra le mani e sorrisi timidamente.
Il ragazzo spezzò la tensione con un sorriso amichevole. «Ha bisogno di aiuto, si è persa?», chiese. La sua voce era così sensuale, maledettamente sensuale. Non sembrava nemmeno umana, ma più appartenente ad una creatura celeste. Scossi la testa più a me che alla sua domanda: non potevo di certo pensare ad un ragazzo, specialmente se incaricato a tenermi lontana da casa mia e – in teoria – costretto a consegnarmi a quel mostro di mio padre.
«In realtà stavo solo curiosando intorno: non voglio perdermi nulla di Londra!», esclamai allegramente.
La guardia mi sorrise e fece un cenno con la mano verso il suo compagno. «Fate bene, è una città magnifica».
Alzai ancora gli occhi sulla mia casa e mi morsi il labbro. «E’ forse successo qualcosa qui?», chiesi innocentemente. Il ragazzo si voltò verso l’edificio e sospirò. «Mi pare strano vedere delle guardie di Scotland Yard davanti ad una casa, in una via secondaria. Spero sia niente di grave».
Si grattò la testa, scompigliandosi i capelli. «No no, non si preoccupi. Dobbiamo assicurarci che non arrivi una persona, tutto qui. Anzi, in realtà speriamo che arrivi».
«Perché, è forse scomparso qualcuno da questa casa?». Piegai la testa su un lato e studiai a fondo quel ragazzo: doveva avere qualche anno in più di me, ma sembrava alle prime armi con quel lavoro. Anzi, forse non aveva nemmeno lui idea del perché si trovasse davanti a quella casa. Dubitavo fortemente che avessero messo a conoscenza questo ragazzo dell’esistenza dei vampiri.
«Da un po’ di tempo è scomparsa una ragazza in Ungheria e si sospetta possa venire qui, siccome è casa sua», spiegò tranquillamente. «Anzi», e tirò fuori una mia foto di qualche anno prima, mostrandomela. «Se vede questa ragazza in giro potrebbe essere gentile da tornare ad avvisarmi? E’ molto urgente».
Annuii continuamente, rivolgendogli un sorriso sincero. «Certamente signore, non si preoccupi».
Il ragazzo riprese la foto e la ritirò in tasca, soffermandosi ad osservarmi. Non riuscii far altro se non sorridere, notando il modo in cui mi stesse squadrando. «E’ la prima volta che viene qui a Londra?», chiese.
«Sì, sto girando tutte le capitali europee. Io sono di New York, ma ho parenti qui in Inghilterra. Mi sono presa qualche settimana per me e così faccio la turista».
«Da sola? Non è il massimo, potrebbe essere pericoloso. E poi in compagnia tutto è più divertente», ridacchiò.
Mi unii alla sua risata, lanciando un’occhiata all’orologio. «Lo so, ma nessuno dei miei amici era intenzionato a vivere alla giornata come faccio io, spostandosi di hotel in hotel». Mi morsi la lingua per aver appena detto una cosa che, effettivamente, facevo. E l’interesse del ragazzo stava aumentando ed evadendo i limiti consentiti per la mia sicurezza. «Mi scusi, ma ora devo andare. E penso che il suo collega possa prendersela con lei per averlo lasciato da solo».
Si voltò ridacchiando divertito, lanciando un saluto ironico all’altra guardia. Questi gli rispose aggrottando le sopracciglia, ma sorridendo. «Si certo, mi scusi se l’ho trattenuta signorina…». Si bloccò in attesa di una risposta.
Oh merda, non ero preparata a questo.
Non mi ero posta il problema che mi chiedesse il nome, per cui non mi ero nemmeno preoccupata di pensare ad una falsa identità. Beh, in realtà ce l’avevo già dal momento in cui avevo messo piede fuori dal mio paese, ma non volevo utilizzarlo anche per banalità del genere.
Per non apparire impacciata e sospettosa, decisi di essere sincera. «Mia». Era il diminutivo che usavano sempre per chiamarmi i miei servi e i pochi amici che avevo a Bistrița. La guardia mi prese la mano e la baciò dolcemente, senza smettere di sorridere.
«Signorina Mia». Dopo avergli lanciato un’ultima occhiata mi dileguai da quella via e dalla vista della guardia di cui non sapevo nemmeno il nome. Uscii dalla Sackville Street e tornai a Piccadilly Circus, concedendomi un’oretta di pausa pranzo all’Aberdeen Steak House.
Mangiai una bistecca di angus argentino con molta calma: avevo tutto il giorno libero davanti, sebbene fossero quasi le due del pomeriggio. Verso le cinque sarei tornata in hotel per un bel bagno caldo e, magari, un po’ di palestra. Dovevo controllare se l’hotel ne disponesse uno, altrimenti sarei andata a cercarne una nei paraggi.
Per il resto del pomeriggio mi imposi di non tornare alla mia casa, o la guardia si sarebbe fatta due domande. Beh, da come mi guardava magari poteva pensare che fossi tornata per parlare ancora con lui e, magari, strappargli un appuntamento.
Ma non era il caso, per niente.
Prima di tornare in hotel feci un giro al London Pavillion, al Lillywhites e al Gap. Comprai un vestito nero lungo fino alle ginocchia e le spalline sottili, così avrei potuto vestirmi decentemente in qualche occasione.
Poi decisi di tornare all’hotel e subito il maggiordomi mi aprì cortesemente la porta. La ragazza dietro il balcone mi salutò come al solito ed io cercai immediatamente una palestra all’interno dell’edificio. Con gioia vidi una sala fitness, non molto grande ma adatta a quel che volevo fare: un po’ di corsa ed esercizi per le spalle.
Salii prima in camera per mettermi una tuta e lottai con tutta me stessa per non togliere la parrucca e le lenti a contatto, che ormai iniziavano a dar fastidio.
Scesi con un paio di pantaloni neri lunghi ed una canottiera dello stesso colore, tenendo in una busta le chiavi e portandomi insieme un asciugamano. La saletta fitness era vuota a quell’ora, per cui avrei potuto rilassarmi in pace.
Feci una prima mezz’oretta di corsa sul tapis roulant a velocità media, feci un po’ di affondi e poi mi dedicai alle mie braccia. Non ero assolutamente intenzionata ad aumentare la mia massa muscolare, ma più che altro a mantenere la mia tonicità. Prendere a pugni qualche vampiro richiedeva un po’ di allenamento, o mi sarei spaccata le ossa ogni volta.
Passò circa un’oretta e mezza ed era ora di farsi un bel bagno, per poi cenare. Non appena presi l’asciugamano per tamponarmi il viso entrò nella sala quell’uomo che avevo visto il mattino durante la colazione: aveva una maglietta bianca che seguiva perfettamente le sue “rotondità” su pancia e fianchi, un paio di pantaloncini fino le ginocchia e una bottiglietta in mano.
Subito i suoi occhi azzurri si spostarono incuriositi su di me, soffermandosi sulle zone per lui più interessanti. Presi velocemente la mia roba ed uscii dalla sala, fulminandolo con lo sguardo. Possibile che dovesse osservarmi in quel modo ogni volta che mi incontrasse? Per fortuna stavo in quell’hotel per poco tempo.
Salii in camera ed ordinai la cena in camera: un piatto di pollo e patate in umido ed una fetta di torta al cioccolato. Non era il massimo della dieta, specialmente dopo aver smaltito un po’ di calorie in palestra, ma poco mi importava.
Mentre aspettavo il cibo riempii la vasca d’acqua calda e la profumai con sali da bagno alla rosa, cominciando a distendere i miei muscoli. Non appena entrai in contatto con l’acqua mi sentii rilassata all’istante: un bel bagno era la cosa migliore del mondo, la sera, prima di cena. Tenni ancora la parrucca e le lenti a contatto: le avrei tolte solo dopo aver aperto la porta al cameriere con la mia cena.
Poggiai la testa sul marmo della vasca, concedendomi un po’ di relax ad occhi chiusi.
Ripensai alla guardia dello Scotland Yard che controllava casa mia: quelle iridi continuavano a balzare nel mio cervello, deconcentrandomi dal mio obiettivo. Beh, non che avessi un vero obiettivo, dato che l’unica cosa di cui mi preoccupavo era solo scappare e non farmi trovare o riconoscere da qualcuno. Ma doveva proprio guardarmi in quel modo?
Dopo una ventina di minuti uscii dalla vasca e misi la vestaglia, accendendo la tv. Subito dopo arrivò la mia cena e portai il carrello in camera mia. Congedai il cameriere lasciandogli la mancia e, finalmente, tolsi lenti a contatto e parrucca. Mi sentii un po’ meglio, trovando quelle iridi grigie nello specchio: non mi sentivo quasi me stessa con gli occhi castani. Ma faceva parte del gioco, quindi non potevo tirarmi indietro.
Mi sedetti sulla poltrona e cominciai stancamente a mangiare, guardando un telefilm inglese e controllando il telegiornale. Non diedero nuove notizie sulla mia scomparsa ed il servizio durò pochi minuti al terminare del tg.
Sospirai, avvicinandomi alla finestra ed afferrando le tende. Diedi ancora un’occhiata alla strada sotto di me, per poi chiudere tutto ermeticamente e sprofondare nel letto.

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Capitolo 4
*** Terzo giorno: Westminster ***



Terzo giorno: Westminster


Aprii la tenda e lasciai entrare la luce in camera, stiracchiandomi e coprendo lo sbadiglio con una mano. Stranamente era una giornata più che soleggiata, senza nemmeno una nuvola in vista. Beh, Londra era famosa per i suoi cambiamenti repentini del tempo, quindi non mi sarei stupita se fosse arrivato un acquazzone in pieno pomeriggio.
Per quel giorno non c’era bisogno di andare ancora a controllare se ci fossero state le guardie davanti a casa mia: sicuramente ci sarebbero stati quei due ragazzi di Scotland Yard ed era meglio non farsi rivedere lì. Anche se avrei potuto fare un salto solo per guardare quel ragazzo…
Scossi immediatamente la testa: non potevo permettermi di pensare a cose del genere. Io non sarei mai rimasta a Londra per sempre, anche se non avevo la più pallida idea di cosa avrei fatto per tutta la mia vita.
Scappare? Era una soluzione, ma non mi attirava affatto come idea.
Ma che alternative avevo?
Affrontare mio padre? Nemmeno per sogno, non ne sarei mai uscita viva.
Per ora forse era meglio non pensarci, anche se sapevo che quel giorno sarebbe arrivato prima o poi.
Poi, mi tornò in mente quel ragazzo: quegli occhi così ipnotici, possibile che fosse un semplice umano? Beh, non aveva certo l’aspetto di un vampiro, né l’odore: dopo aver vissuto per diciotto anni insieme a dei vampiri era semplice riconoscerne l’odore. Impregnava l’aria e si sentiva a distanza di chilometri.
Mi lavai lentamente la faccia, rimanendo a fissare la mia espressione riflessa nello specchio: non sembravo stanca, ma presto lo sarei stata. Non mi piaceva non avere idea di cosa ne sarebbe stato di me. Scappare era divertente, ma fino ad un certo punto.
Invece che continuare a pensare della mia vita, mi concentrai sui programmi della giornata: avrei potuto andare in centro a fare un giro e scattare di nuovo un po’ di foto al Big Ben, al palazzo del parlamento, al Tamigi e tutto ciò che ci fosse di magnifico.
Mi vestii con i jeans neri ed una felpa rosso fuoco, in perfetto stile autunnale. Sistemai il caschetto nero e le lenti a contatto castane, pronta per andare a far colazione. Era il mio ultimo giorno in hotel, quindi avrei dovuto prima far bagagli e trovare un’altra sistemazione.
Stranamente, la saletta per la colazione era vuota: non c’era nessun segno del pancione con gli occhi penetranti, per fortuna. Non sapevo perché, ma non mi metteva proprio al mio agio stare intorno a quell’uomo. Aveva un non so che di pericoloso, in un certo senso.
Decisi di rimanere sul leggero per la colazione, quindi presi una semplice tazza di cereali e latte e una fetta biscottata con marmellata alla fragola. Quel silenzio era fastidioso, troppo fastidioso. Non una mosca che ronzava, non un filo di vento che muoveva le chiome degli alberi, non una persona che entrava dalla porta.
Quando finii tornai in camera per lavarmi i denti a far su i bagagli: avrei dovuto lasciare la camera entro le undici di mattina, ed erano le dieci e mezza.
Aprii la porta e la chiusi alle mie spalle, osservando la valigia poggiata sulla poltrona accanto al letto. La presi e la poggiai sul materasso soffice, raccogliendo tutte le mie cose e sistemandole in modo da poterla richiudere. Fu nel momento in cui vidi la cerniera delle armi aperta che capii il motivo per cui mi sentissi così a disagio. Presi immediatamente un pugnale e mi voltai di scatto, ma mi sentii strozzare la gola da due grosse mani fredde. Mi cadde l’arma dalle mani e mi trovai a dover stringere due trochi d’albero al posto di semplici polsi.
Quando alzai la mia vista e i miei occhi si spannarono un po’ vidi quelle iridi azzurre, le guance paffute rosse come pomodori ed un sorriso arcigno. Ecco perché non era a colazione: stava pianificando un modo per uccidermi, a quanto pare.
Piantai le unghie nella sua carne, senza esiti: sembrava esser spessa e dura come il marmo, non riuscivo nemmeno a fargli dei piccoli solchi. Allora optai per un colpo basso e gli tirai una bella ginocchiata sui suoi gioiellini di famiglia.
Fu costretto a lasciarmi andare e piegarsi in due davanti a me, mentre io portavo una mano alla gola e tossivo a più non posso. Tentò di afferrarmi, ma balzai indietro e riafferrai il pugnale che mi era caduto. Nel tentativo di colpirmi mi prese la parrucca e me la tolse, lasciando cadere i miei capelli naturali lungo le spalle.
Rimase inginocchiato a guardarmi incazzato nero, ma intanto sorrideva. Che diavolo voleva da me? Non era dello Scotland Yard né di nessun dipartimento inglese o francese di polizia più che sicuramente. Ma allora perché sembrava intenzionato ad uccidermi?
«Allora sei veramente tu», gracchiò con ancora il fiato dimezzato a causa della mia ginocchiata.
Feci un paio di passi indietro, tenendo il pugnale ben saldo nella mano destra. «Che cosa vuoi?», domandai in tono serio, freddo.
Il ciccione si mise a ridere, rialzandosi lentamente in piedi. «Sono venuto a prenderti Amelia». Il cuore cominciò a battere più forte nel petto e sorrise vittorioso. Che fosse stato mandato da mio padre, possibile? Concentrandomi sentii il profumo che sentivo sempre addosso ai vampiri e mi sembrò quasi di perdere i colpi. Non poteva essere un vampiro.
Eppure le prove erano evidenti: non sono riuscita a scalfire la sua pelle, ha il loro odore, sa chi sono in realtà…
Non ci credevo comunque.
«Non sono un’assassina, quindi ti conviene alzare i tacchi e sparire dalla mia vista».
L’uomo continuava a ridere, facendomi perdere le staffe. «Ma io non sono un semplice umano».
Ecco, la prova definitiva: aveva appena confessato di essere un vampiro. Cioè, non aveva proprio pronunciato quella parola, ma aveva ammesso di non essere umano.
Di conseguenza, le mie labbra si inarcarono. «Allora è tutta un’altra storia», ridacchiai.
L’uomo si lanciò su di me, cercando di ancora di afferrarmi, ma senza esiti. Andai dalla parte opposta del letto, cercando di non far rumore. Non potevo permettermi che qualcuno venisse su a controllare: cosa avrebbero detto? Prima di tutto, la notizia di un tentato omicidio in un hotel avrebbe fatto il giro di Londra, magari dell’Europa. Secondo, mi avrebbero vista con un taglio di capelli diverso da quello con cui mi hanno sempre vista.
Sembrava stesse mantenendo la calma perché i suoi occhi non erano ancora brillati di quel rosso fuoco così spaventoso, ma nello stesso tempo ipnotico.
Corsi in bagno e cercai di chiudere la porta, anche se sapevo che non sarebbe servito a nulla: avrebbe rotto la porta facilmente e sarei stata in trappola. Se proprio dovevo farlo fuori volevo sporcare il meno possibile ed il bagno sembrava il luogo più adatto.
Entrò immediatamente e mi ritrovai con le spalle verso la vasca. Non avevo la più pallida idea di cosa fare, se non di andarmene da lì perché in meno di mezz’ora sarebbero venuti a sistemare la camera per nuovi ospiti.
L’uomo fece per tirarmi un pugno in volto, ma mi abbassai e lo schivai, facendolo scivolare in avanti. Finì dentro la vasca e non riuscì subito ad alzarsi. Era un vampiro, ma non molto agile. Probabilmente a causa della valigia che si ritrovava al posto degli addominali. Mi prese per i capelli e trattenni le urla, cadendo in ginocchio rivolta verso di lui.
La cosa fu istintiva: tenni il pugnale ben saldo e lo spinsi contro la sua gola. Perforai perfettamente la carotide ed il suo sangue schizzò ovunque: nella vasca, sul pavimento, sui miei vestiti, in faccia. I suoi occhi si spalancarono e vidi i capillari spezzarsi e ricoprirlo semplicemente di un rosso fluido, denso. Attesi qualche secondo prima di estrarre il pugnale dalla sua gola, in modo da far smettere lo zampillo di sangue arterioso che continuava ad uscire.
In pochi secondi i suoi occhi si chiusero.
Fosse stato un pugnale semplice non sarebbe morto sicuramente, anche se lo avrebbe ferito in modo piuttosto grave. Il frassino di cui era fatta la mia arma aveva segnato la sua fine.
Mi rialzai in piedi e respirai lentamente, osservando allo specchio il mio volto completamente ricoperto da schizzi di sangue. Il bagno era diventato un disastro e avevo un morto davanti al naso. Il suo corpo sarebbe rimasto intatto per qualche ora, prima di sgretolarsi: questo in base a da quanto tempo fosse stato trasformato in vampiro. Più anni da vampiro avevi, meno tempo ci voleva affinché il tuo corpo si trasformasse in un cumulo di cenere.
Controllai l’orologio: le undici meno venti.
Avrei dovuto sbrigarmi per pulire tutto quel macello, cambiarmi i vestiti, togliere il cadavere e lasciare la mia camera. Meno male che avevo scelto di andare in bagno e non in camera: sarebbe stato un problema togliere le macchie dal letto.
Prima di tutto, decisi di portare l’uomo nella sua stanza. Frugai nelle sue tasche e trovai la chiave della numero quarantasette, perciò lo presi sotto spalla e lo trascinai verso la sua camera. Prima di farlo, però, sacrificai una mia maglia per pulire la sua pelle e bloccare il flusso di sangue che continuava ad uscire dalla sua gola: non potevo lasciare scie sospette per il corridoio.
Uscii dalla mia stanza sperando che nessuno passasse da quelle parti ed arrivai fino alla camera del ciccione. Aprii velocemente e lo portai in bagno, facendolo coricare nella vasca. Tornai in camera mia per prendere il pugnale con la quale lo avevo ucciso e un’altra maglia; intanto lasciai aperta l’acqua della vasca in modo da lavar via il sangue.
Con la maglia pulii il pugnale delle mie impronte e lo misi nella mano dell’uomo, colpendolo di nuovo nello stesso punto in modo da sporcare di schizzi il pavimento intorno a sé: così avrebbero pensato si trattasse di suicidio.
Mi assicurai di non lasciar alcuna impronta e tornai a pulire il più velocemente possibile il bagno della mia stanza. Passai con acqua e candeggina che trovai nell’armadietto la vasca, il lavandino, il pavimento e le pareti. Poi mi tolsi i vestiti e li gettai nella valigia, tornando in bagno in biancheria intima. Mi lavai la faccia e le mani, eliminando ogni traccia di sangue dalla mia pelle.
Quando fui perfettamente a posto mi misi un altro paio di jeans ed una maglia marrone, coperta da una giacca beige leggera, una sciarpa dello stesso colore e gli stivaletti.
Prima di uscire controllai almeno una decina di volta che fosse tutto in ordine ed uscii finendo di sistemarmi la parrucca.
Non male come inizio di giornata.
Portai le chiavi alla reception e mi augurarono una buona giornata, per l’ultima volta.
Trascinai la valigia dietro le mie spalle, sospirando appena la mia pelle entrò in contatto con l’aria fresca del mattino. Camminai tranquillamente verso Leicester Square, passando per la Wardour Street e soffermandomi nel piccolo parco della piazza a guardarmi intorno. Vidi di fronte a me due hotel: il Reiki in the City e il Radisson Blue Edwardian. Scelsi quest’ultimo, mi piaceva di più il nome.
Era un hotel a cinque stelle maledettamente lussuoso, totalmente diverso rispetto al Best Western: quando entrai vidi un luogo decisamente meno colorato, ma con semplici toni marroncini in tinta con il mio abbigliamento. Dietro il bancone c’era un ragazzo giovane e alto, coi capelli a spazzola e vestito a puntino: smoking nero, camicia bianca e una cravatta dorata.
Mi avvicinai a lui e mi sorrise appena mi vide. «Buongiorno signorina», disse.
«Buongiorno», mi fermai e lasciai la valigia accanto a me. «Non ho prenotato, sarebbe possibile avere una camera per tre notti?», chiesi.
Il ragazzo controllò su un book nero lì accanto ed annuì, continuando a sorridere. «Certo, abbiamo a disposizione camere standard, suite lounge e camere businnes class, quale desidera?».
«La suite lounge è perfetta, grazie». Segnò il mio nome – un nome falso, ovvio – per tre notti per una suite al quinto piano e pagai subito l’importo della camera.
«Lasci pure le sue valide al concierge, si occuperà di persona a portarle in camera per le quindici in punto». Ringraziai e lasciai tranquillamente la valigia al concierge lì accanto, già pronto ad occuparsi dei miei averi. Non dovevo preoccuparmi, intanto non avrebbero sbirciato tra le mie cose.
Uscii dall’hotel e mi diressi verso la metro di Piccadilly Circus, più vicina rispetto a quella di Leicester Square. Presi la Bakerloo line e scesi ad Embankment, due fermate dopo, e cambiai prendendo la District line per Westminster, la fermata successiva.
Quando uscii mi trovai sulla mia destra il Tamigi con un battello turistico attraccato in modo da far salire le persone. La London Eye si alzava di fronte a me in tutta la sua altezza, imponente, bianca come una nuvola, accanto all’Aquarium. Mi voltai e vidi il palazzo di Westminster ed il Big Ben magnifici come sono sempre stati, circondati da turisti che scattavano fotografie.
Decisi di fermarmi a mangiare qualcosa al Saint Stephen’s Tavern dove presi un fish and chips ed una coca cola. Non avevo mai mangiato questo piatto tipico inglese e non faceva proprio schifo. Forse l’impanatura del pesce era un po’ troppo spessa ed il piatto troppo grande, ma non mi lamentai. Dove abitavo io capitava, a volte, che le persone non avessero da mangiare, quindi avevo imparato a non sprecare nulla. Beh, ovviamente io non avevo mai avuto di questi problemi, data la quantità di denaro che circolava in casa mia.
Attraversai la strada e camminai accanto al parlamento, fino ad arrivare davanti all’abazia. Ricordavo di esser già entrata dentro: vi erano le tombe di famosi re d’Inghilterra, poeti, scrittori e scienziati come Darwin, Newton, Chaucer, Dickens, Kipling e Tennyson. Un tesoro di inestimabile valore per lo stato inglese non solo per le tombe, ma anche per l’architettura gotica.
Mi diressi verso la Victoria Street, una strada piena zeppa di uffici e palazzi con numerose vetrate. Uno stile completamente diverso rispetto quello che si trovava al parlamento.
Arrivai ad un incrocio, dove si trovano i Christchurch Gardens, e svoltai sulla destra seguendo la Broadway Street.
Non avevo idea del perché stessi andando li, ma sembrava quasi che le mie gambe mi ci stessero portando di loro spontanea volontà. Arrivai davanti all’insegna dello New Scotland Yard e mi bloccai, osservando quel nome e la guardia che si trovava fuori dal cancello. L’edificio era enorme, ricoperto da finestre piccole e rettangolari, alto fino a toccare il cielo.
Alcune guardie in divisa nera ed il cappello in testa camminavano su e giù davanti all’entrata, fino a quando non vidi uscire un ragazzo in borgese. Stava chiacchierando tranquillamente con un’altra persona, vestita con abiti semplici come lui. Quando spostò i suoi occhi su di me mi sentii completamente paralizzata, dalla punta dei piedi alla punta dei capelli.
«Mi stai forse seguendo?», chiese ridacchiando, mentre si avvicinava. Aveva salutato il suo amico poco prima di venire verso di me. Ai raggi del sole i suoi occhi brillavano di una luce strana, sembravano quasi dorati.
«Dimentichi che sono una turista? Voglio vedere tutto di Londra», risposi tranquillamente. La guardia che l’altro giorno era davanti a casa mia non sembrava in servizio. Probabilmente ci saranno state altre due persone a controllare che non mi facessi viva.
«Se vuoi posso farti da guida, ho il giorno libero», si propose. In qualche modo quell’idea mi attirava in maniera spropositata. La mia mente cominciò a farsi di quei viaggi che la metà bastavano. Annuii ed insieme ci incamminammo verso Victoria Street, procedendo da dove mi ero interrotta per svoltare a Broadway.
Mi sembrava strano camminare accanto ad una guardia che, in teoria, avrebbe dovuto consegnarmi nelle mani schifose di mio padre. Ma non sospettava nulla, ovvio. Ogni tanto mi trovavo a scrutare verso di lui, siccome si era zittito di colpo.
Arrivammo fino davanti ad uno Starbuks e si fermò. «Ti va di prendere qualcosa qui?».
«Certo», dissi sorridendo.
Ci sedemmo ad un tavolo accanto al vetro ed ordinammo una cioccolata calda con qualche cookie. Si poggiò coi gomiti sul tavolo e rimase immobile a fissarmi. Per un momento mi preoccupai della possibilità che mi riconoscesse in quella ragazza che effettivamente ero. Avevo cambiato capelli e colore degli occhi, ma i lineamenti erano gli stessi.
Poi, si sciolse in un sorriso. «Davvero eri venuta solo a vedere la sede dello Scotland Yard?», domandò incuriosito, con un pizzico di ironia.
«Speri che dica che ero venuta a cercarti?», controbattei.
Fece spallucce, inarcando ulteriormente le labbra. «Beh, non è così?».
Mi sfidò con lo sguardo e mi sentii debole, svantaggiata, sconfitta. Rizzai la schiena e vidi il segno della vittoria dipinto sul suo volto. Il cameriere arrivò con la nostra ordinazione, così avrebbe potuto evitare domande imbarazzanti. Non mi era mai capitato di trovarmi in difficoltà nel rispondere beffardamente ad un ragazzo.
«E come si chiamerebbe colui che pensa di avere una pervertita pedinatrice alle sue calcagna?», domandai scherzosa.
«Mi chiamo Adam», disse sorseggiando la cioccolata. «E tu? Ti chiami solo Mia o è un nomignolo?».
Di nuovo cercai di non mostrare le mie mani che tremavano per l’agitazione. Tenni la tazza ben salda, sospirando per riprendere il controllo della situazione. «Solo Mia».
«Allora Mia, che cosa hai visto fin ora a Londra?».
«Piccadilly Circus, Westminster, ho fatto un giro nell’abazia e nel parlamento, oggi sono andata alla cattedrale e curiosavo un po’ intorno».
«E hai visto la sede dove lavoro io», finì ridacchiando. Scossi la testa, sciogliendo i nervi. Avrei anche potuto aggiungere che avevo ucciso un vampiro nella mia camera d’hotel, ma forse era meglio evitare. «Porti le lenti a contatto?».
Indietreggiai con la testa per evitare che mi guardasse meglio, o avrebbe potuto capire che fossero colorate. Mi massaggiai le tempie. «Sì, non vedo bene da lontano», mentii. Si sciolse in un sorriso e non mi fissò troppo a lungo, quindi riuscii a rilassarmi un po’ alla volta. «Se non sono indiscreta, quanti anni hai?», chiesi.
La domanda lo spiazzò, siccome aggrottò le sopracciglia e mi fissò in silenzio per una manciata di secondi. «Ventitré, perché lo chiedi?».
Feci spallucce. «Sei giovane per esser già entrato in uno dei corpi di polizia più importanti del paese», mormorai a voce bassa, col tono di una che la sapeva lunga.
Si chiarì la voce, sorridendo appena. «E’ una storia lunga e noiosa, non mi va di vederti sbadigliare», disse sulla difensiva. Increspai le labbra, tornando a bere la cioccolata. Se non voleva dirmi il motivo per cui fosse nello Scotland Yard, più che sicuramente nella SO12, c’era un motivo più che valido. Ed ero intenzionata a scoprirlo. «Sei già stata sulla London Eye?», chiese cambiando completamente argomento.
«No, non ancora, ma mi piacerebbe».
«Allora se ti va possiamo andare insieme adesso».
Adam pagò anche la mia parte e non volle i soldi. Senza insistere troppo, ritornammo sui nostri passi seguendo la Victoria Street fino a Westminster. Misi gli occhiali da sole, in modo che non cercasse di nuovo di guardarmi bene negli occhi. Anche lui fece lo stesso: un paio di Ray Ban dalle aste dorate e le lenti a specchio. Molto da poliziotto.
Passeggiammo sul ponte e non riuscii a non rimanere incantata dalla bellezza di quella zona della città: la ruota panoramica si specchiava sulle acque scure del Tamigi, numerosi autobus turistici passavano lentamente per permettere ai passeggeri di scattar fotografie ed il tempo era meraviglioso.
Arrivammo davanti alla ruota panoramica e mi fece aspettare fuori dalla biglietteria mentre andava a pagare alla cassa – ovviamente pagando anche il mio biglietto. Non capivo il motivo di tanta generosità, anche se si poteva facilmente intuire. Peccato che avrei avuto questo aspetto solo fino al ritorno in hotel. Il mattino dopo mi sarei trasformata in una nuova persona a lui sconosciuta. Almeno, fisicamente.
Tornò dopo cinque minuti con due biglietti, costati circa diciotto sterline, e salimmo sulla prima cabina libera. Il giro sulla ruota dura circa mezz’ora e si ferma sempre per far salire altre persone su una nuova capsula. Andai subito verso il vetro che dava sul fiume, mentre ci alzavamo verso il cielo molto lentamente.
Insieme a noi c’erano circa quindici persone munite di macchine fotografiche, la maggior parte stranieri. Non ero mai stata sul London Eye e dovevo dire che la vista era spettacolare: riuscivo a vedere gli edifici in vetro lontani, nei quartieri adiacenti a Westminster. Si vedeva il percorso del fiume attraverso la città, diversi ponti che lo attraversavano e persino il London Bridge, un po’ più a nord rispetto a dove ci trovavamo.
Appoggiai una mano sul vetro sorridendo, chiedendomi chissà quali meraviglie io non abbia ancora visto a Londra. Non ero mai stata alla Tower of London, dove ci sono i gioielli della regina, oppure all’Hyde Park. Avevo visto di sfuggita il Marble Arch alla sua entrata, ma non avevo mai avuto tempo per fare due passi nel parco.
«Ti piace?», chiese Adam alle mie spalle.
«Sì, è bellissimo», risposi senza voltarmi. Dopo qualche secondo comparve accanto a me e sorrise dolcemente. Che diavolo ci faceva un ragazzo come lui allo Scotland Yard? E perché lo avevano mandato davanti a casa mia, perché proprio lui? Era troppo giovane per far parte della SO12, eppure vi era dentro.
Che fosse figlio di un generale? O di un importante agente dello Yard?
Comunque, aveva l’aria da bravo ragazzo. Forse per questo motivo era meglio stare alla larga da lui: non potevo rischiare di metterlo nei guai.
Il giro terminò molto velocemente e quando uscimmo dalla capsula notai che erano già le sei del pomeriggio. «Scusami, devo tornare in hotel ora. Devo sistemare le valigie», dissi.
«Ti accompagno se vuoi», si propose. Non volevo che mi portasse fino alla porta dell’hotel, ma non mi andava nemmeno di essere maleducata e rifiutare. Infondo era stato gentile con me tutto il pomeriggio, aveva pagato per me sia al bar che il giro sulla ruota panoramica. Se gli faceva piacere accompagnarmi all’hotel lo avrei lasciato fare.
«Certo, mi farebbe piacere». Andammo insieme alla metro e prendemmo la District line fino ad Embankment e poi la Bakerloo line fino a Piccadilly Circus. Scoprii che Adam abitava a Harewood Street, vicino al Regent's ’Park.
Arrivammo davanti alla porta del mio nuovo hotel e Adam strabuzzò gli occhi. «Sei da sola ed alloggi qui?», chiese stupito.
Feci spallucce, voltandomi verso di lui. «Voglio provare davvero tutto, anche gli hotel a cinque stelle», risposi sorridendogli. Rimase incantato a guardare l’hotel in tutta la sua maestosità, continuando a scuotere la testa. «Grazie per avermi fatto compagnia oggi».
«Figurati, grazie a te». Rimase a guardarmi con quel sorriso maledettamente affascinante stampato in volto. Per non parlare di quegli occhi… «Senti, forse non sono opportuno, ma ti va di lasciarmi il tuo numero? Se hai problemi e vuoi visitare una zona che non conosci posso venire con te. Se non lavoro e se ti fa piacere».
Tutto subito mi agitai: non potevo assolutamente lasciare il mio numero a qualcuno, o avrebbero potuto rintracciarmi molto semplicemente. Però il mio cervello continuava a dirmi di accettare, correre il rischio. Infondo non stavo già rischiando?
Sorrisi e glielo dettai mentre lo salvava sul cellulare, ritirandolo nei jeans ed infilandosi le mani in tasca. «La prossima volta pago io», ridacchiai.
«Se proprio vuoi», rispose. «Allora spero tu ti trovi bene in questo hotel. Anche se ne sono certo».
«Ci sentiamo presto», lo salutai.
«A presto Mia».
Aspettò che entrassi nell’hotel prima di girare i tacchi ed andarsene. Mi sentii in colpa per un momento: non mi avrebbe mai più vista, non potevo.
Alla reception c’era una ragazza e mi diede subito le chiavi: camera settecento tre, settimo piano.
I colori principali della suite erano il marrone, il nero ed il beige: il letto matrimoniale si trovava sulla destra ed aveva un poggiatesta alto, imbottito con dei cuscinetti quadrati, con coperte marroni e nere; sulla sinistra c’era un divano a tre posti color bronzo in stoffa e davanti un tavolino nero con intorno due sedie in pelle.
Posai la valigia sul divano e sbirciai il bagno: completamente in marmo bianco e grigio, con una bella vasca ad idromassaggio. Sorridendo mi avvicinai allo specchio e buttai via le lenti a contatto, siccome mi bruciavano gli occhi. Tolsi la parrucca e mi pettinai i capelli dolcemente, cercando di rilassarmi.
Tornai in camera e scelsi il travestimento che avrei usato dal giorno dopo: parrucca castana lunga fino a metà schiena con la frangia e lenti a contatto azzurre.
Preparai il tutto da una parte e mi avvicinai alla finestra sospirando. Non avevo fame, quindi non sarei scesa a mangiare. L’hotel aveva anche un ristorante, così avrei potuto mangiare tranquillamente senza dovermi spostare a destra e sinistra.
Feci un bagno caldo con la tv accesa e un bicchiere di spumante – trovato in camera al mio arrivo – sul bordo della vasca. Chiusi gli occhi e ripercorsi la giornata: dovevo ammettere di essermi divertita con Adam. Quasi quasi avrei anche potuto vederlo ancora una volta, prima di scappare da Londra…
Scossi immediatamente la testa, arrivando con il mento al pelo dell’acqua e sospirando. Non potevo coinvolgerlo, no.
La mia attenzione fu catturata dal tg che stavano trasmettendo.
“E’ stato trovato il corpo di un uomo di mezza età nell’hotel Best Western di Piccadilly Circus”. Rizzai le orecchie ed aprii gli occhi, cercando di non far rumore. “L’uomo sembra essersi suicidato nella vasca della sua camera d’hotel con un pugnale. Verrà fatta l’autopsia sul corpo dell’uomo e, dalle prime indagini, sembra ci siano solo le sue impronte. La polizia esclude ogni probabilità di omicidio”.
Le mie labbra si curvarono. Allora non era stato trasformato da così tanto tempo.
Di me non parlarono, per fortuna, quindi uscii dalla vasca e rimasi in vestaglia a guardar la tv. Erano circa le nove di sera, quando sentii il bisogno di prendere una boccata d’aria. Volevo fumarmi una sigaretta – non ero una fumatrice accanita, ma ogni tanto me ne concedevo una – però mi accorsi di non averne.
Sbuffando, mi avvicinai alla finestra: si potevano vedere benissimo gli edifici che si affacciavano sul Tamigi, compresa la ruota panoramica ed il Big Ben.
Mi squillò il telefono e vidi che avevo un messaggio.
Allora, hai una bella camera?”.
Adam.
Scossi la testa ridacchiando. “Sì, ho già fatto un bel bagno con tanto di idromassaggio”.
Tornai ad osservare fuori, ma rispose pochi secondi dopo. “Com’è la vista?”.
Fantastica, riesco a vedere il London Eye ed il Big Ben, essendo al settimo piano”.
Londra era completamente illuminata a quell’ora ed era ancora più bella.
Io vedo te”.
Aggrottai le sopracciglia e mi controllai intorno, ma non vidi niente se non edifici. “Mi stai forse spiando appeso ad un albero?”, scherzai.
No, ti ho mentito, ma mi piacerebbe rivederti”.
Sospirai e buttai il cellulare sul letto, stringendomi le braccia con le mani e sospirando. Tirai le tende e mi misi sotto le coperte, guardando la tv assonnata. Non risposi, ma dopo una decina di minuti mi arrivò un altro messaggio.
Buonanotte Mia”.

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Capitolo 5
*** Quarto giorno: dalla Tower of London al Buckingham Palace ***


Quarto giorno: dalla Tower of London al Buckingham Palace.


Per il quarto giorno consecutivo c’era il sole. Bisognava ammettere che la pioggia imperterrita di Londra era solo una leggenda: pioveva, certamente, ma non trecentosessantacinque giorni all’anno come si crede.
Controllai il cellulare, ma non avevo nuovi messaggi. L’ultimo era quello di Adam in cui mi augurava la buonanotte e alla quale non avevo risposto. Meglio tagliare subito ogni contatto con lui, avevo sbagliato lasciargli il mio numero.
Misi la parrucca che avevo preparato da parte ed anche le lenti a contatto, notando che i miei occhi sembravano più naturali: le sfumature del grigio si mescolavano perfettamente a quelle azzurre. Meglio così, almeno occhi vigili come quelli di Adam non avrebbero notato nulla di strano.
Mi vestii velocemente e mi preparai per andare a colazione, sistemando la parrucca mentre aprivo la porta. Davanti a me c’era una domestica che stava per bussare e, non appena vidi ciò che stessi facendo, si bloccò con sguardo interrogativo.
Le sorrisi timidamente, inventando una scusa sul momento. «Oggi devo uscire con una mia amica e fingere di essere un’altra persona. Sa, deve fare uno scherzo ad un suo amico per vendicarsi di una piccola marachella di qualche settimana fa», dissi ridacchiando.
La donna abbozzò un sorriso. «Sta lasciando la camera?», chiese.
«Vado a far colazione poi torno su a lavarmi i denti».
Annuì a labbra strette. «Va bene, allora sistemerò tutto più tardi», e se ne andò nella camera successiva.
Andai nel bar al piano terra: il bancone era in legno marrone scuro, in tinta con le sedie in pelle disposte l’una accanto all’altra. Mi sedetti su una qualsiasi, intanto ero l’unica, ed ordinai un semplice cappuccino con un croissant ai frutti di bosco, una colazione leggera. Erano quasi le undici e mezza, per quel motivo non c’era già più nessuno in hotel: erano tutti usciti per non perdere nemmeno un minuto per visitare la città.
Salii in camera e mi lavai velocemente i denti, tornando poi al piano terra, pronta per uscire. Sarei andata alla Tower of London, dato che non l’avevo mai visitata e me ne avevano parlato bene. Il concierge mi aprì la porta e lo ringraziai, ma mi bloccai ancora prima di metter piede fuori dall’hotel.
Davanti ai miei occhi, in piedi al centro della piazzetta di Leicester Square, c’era Adam.
Era poggiato con la schiena contro un albero, le mani in tasca, gli occhiali da sole sul naso. Si stava  guardando intorno, ma si era posizionato bene in modo da vedere chi uscisse dall’hotel.
Se uscissi io.
Forse si era presentato per chiedermi il motivo per cui non avevo più risposto ai messaggi. O semplicemente voleva vedermi.
Misi gli occhiali da sole a mia volta e feci un lungo sospiro, uscendo tranquillamente e puntando immediatamente alla metro. Vidi che mi seguì con lo sguardo per un po’, ma rimase fermo al suo posto. Non mi aveva riconosciuta conciata in quel modo, per fortuna.
Mi dispiaceva, ma non dovevamo più vederci.
Per quale motivo mi stava aspettando davanti all’entrata dell’hotel?
No, ti ho mentito, ma mi piacerebbe rivederti”.
A quanto pare era molto impaziente per presentarsi il mattino dopo.
Cercai di non pensarci, perciò controllai la cartina della metro per non sbagliare linea: da Piccadilly arrivai fino Embankment e poi presi la District line fino a Tower Hill.
Quando uscii dalla metro vidi immediatamente l’imponente mura della Tower: mi trovavo in una specie di piazzetta sollevata con una scultura metallica al centro, alle mie spalle una chiesetta moderna bianca e verde. Passai nel sottopassaggio nella quale c’erano alcuni negozi di souvenir ed attraversai la strada, avviandomi verso la biglietteria per poter entrare nella torre.
C’era una visita guidata, perciò decisi di unirmi a loro. Alcune persone avevano le radio con la traduzione simultanea nella loro lingua, altri avevano delle guide audio per poter girare liberamente.
Le prime tappe furono la Sir Thomas Tower e la Bloody Tower, chiamata in questo modo a causa della leggenda dell’uccisione dei “princeps in the tower”, i principi nella torre Edoardo V ed il fratello Riccardo, conti di Shaftesbury.
Seguono le visite alle sale delle torture, siccome la Tower of London era stata una prigione: tra i prigionieri più illustri ci sono Anna Bolena, Tommaso Moro e Maria Stuarda.
Uscii nel cortiletto e vidi alcuni corvi che zampettavano in cerca di cibo nel prato. Si narrava che se non ci fossero più stati i corvi nella Torre, la monarchia sarebbe caduta. Li osservai affascinata dai riflessi del sole sulle loro penne nero lucido, tanto che mi incantai ad osservarli.
Seguii il percorso fino al Waterloo Barracks, dove si trovavano i tesori della regina. Decisi di girare da sola l’intera torre: vi erano le armature dei principi, armi che utilizzavano nel Medioevo, cannoni, monete, oggetti comuni. C’era persino una sala dove si poteva provare a fare tiro con l’arco con una macchinetta, mentre in altre si poteva guardare una piccola storia della torre rappresentata da alcune immagini.
Proseguii per diverse sale, salendo per la torre e tornando ai piani inferiori. Una delle sale che mi interessò di più era degli stemmi delle famiglie reali: erano divise in base alla famiglia con i nomi dei discendenti che hanno regnato, data di salita al trono e di morte di ogni sovrano, fino ad Elisabetta II, con ancora una sola data incisa.
Arrivai poi alla sala in cui dovetti sgranarmi gli occhi: quella dove tenevano i tesori della regina.
Non avevo mai visto così tanto oro e gioielli preziosi in una sola stanza. Seguii il percorso stabilito rimanendo sui tapis roulant ed osservando attentamente tutte le corone che mi passavano sotto gli occhi.
Quando finii il giro all’interno della torre decisi che potevo andare in un pub per pranzo, siccome erano le due passate ed il mio stomaco cominciava a borbottare.
Prima, però, decisi di fermarmi a guardare il Tower Bridge, esattamente fuori dalle mura della Tower of London. Mi avvicinai alla ringhiera che separava il Tamigi dalla strada e mi soffermai ad osservare il ponte: avrei potuto fare un giro anche lì, siccome erano visitabili le due torri, e potevo passeggiare sulla passerella in cima al ponte.
Vidi che lì accanto c’era l’imbarco per poter fare il giro in barca sul fiume, perciò decisi che per tornare in centro avrei preso quello. Prima però, il pranzo.
Seguii lungo il fiume, fino ad arrivare al piccolo porticciolo dove c’erano le barche per i giri turistici sul Tamigi. Vidi il Vineyard Old Ale Port & Steak House, perciò decisi di entrare lì.
Guardai il menù e decisi di prendere un piatto di salmone e pesce spada con un po’ di vino bianco, lasciai la scelta al cameriere riguardo la marca. Non mi intendevo di vino, per cui mi fidavo del ragazzo che aveva preso l’ordinazione.
Mi osservai intorno e vidi numerosi turisti che chiacchieravano tra loro, mangiando cibi tradizionali inglesi come il fish and chips e anche cibi italiani. Il ragazzo tornò col mio ordine dopo una ventina di minuti e solo il profumo mi stuzzicò il naso. Insieme portò una bottiglia di Vermentino di Gallura, un vino italiano adatto al pesce in generale – parole del cameriere – dal colore paglierino.
Lo ringraziai e cominciai a mangiare, limitandomi a bere un paio di bicchieri di vino – non male, tra l’altro – osservando le persone che passavano fuori dal locale.
Era particolarmente tranquilla quella zona della città e mi piaceva molto. In più il panorama era spettacolare: tra la Tower of London ed il Tower Bridge, il Tamigi eccetera c’era da lustrarsi gli occhi.
Quando finii di mangiare il cameriere chiese se gradii il vino e lo ringraziai per l’ottima scelta. Uscii dal pub che erano le tre passate, per cui potevo visitare ancora per un po’ quella zona della città.
Camminai fino a trovarmi davanti al maestoso Tower Bridge: sui miei lati comparivano delle intricate lamiere blu che si innalzavano fino a poco più della metà delle due torri del ponte. I marciapiedi erano ampi, separati dalla strada da ringhiere azzurre. In quel momento i semafori erano verdi, siccome il ponte era chiuso; ogni tanto, quando dovevano passare delle navi, il ponte si alzava esattamente al centro, tra le due torri.
Quando arrivai alla prima torre vidi una cabina con scritto “Tower Bridge Exhibition”, probabilmente dove si compravano i biglietti per visitare il ponte, oppure si poteva continuare a passeggiare. Sorpassai la prima torre ed alzai gli occhi al cielo, vedendo due passerelle – una a destra ed una a sinistra – che collegavano le due torri.
Proseguii ancora fino ad arrivare oltre la seconda torre e mi voltai ad osservare di nuovo il ponte: era semplicemente magnifico. Decisi che avrei potuto visitarlo quel pomeriggio, per cui tornai indietro fino alla biglietteria e chiesi un biglietto.
Una donna che lavorava lì mi disse che per il momento era già partita una visita e per ora il limite dei visitatori era stato raggiunto, quindi avrei dovuto attendere un po’ di tempo – non ha saputo dirmi esattamente quanto – per poterlo visitare.
Le sorrisi comunque e dissi che non importava, che sarei tornata un’altra volta. A quel punto decisi di prendere la navetta che faceva il giro sul Tamigi e tornare in centro.
Tornai al Tower Millennium Pier e comprai un biglietto, attendendo la basca successiva. Aspettai circa una ventina di minuti ed infine salii insieme ad altre persone, andando a sedermi in alto, all’aperto, così avrei respirato un po’ di aria fresca e avrei potuto scattare qualche foto.
Durante il viaggio c’era una guida turistica che spiegava il significato e la storia di alcuni monumenti che si affacciavano sul fiume: la chiesa di Santo Magnus Martire, l’Hays Gallery, la torre della OXO, il Tate Modern e la colonna di Cleopatra, uno dei pochi monumenti egizi della città. Passammo anche sotto il London Bridge durante il percorso.
Arrivammo a Victoria, dove vidi subito la ruota panoramica ed il Parlamento che si affacciavano sul fiume. Avrei potuto continuare il mio giro turistico, ma volevo passeggiare ancora un po’ per le strade del centro.
Decisi di camminare fino al Buckingham Palace percorrendo la The Mall, la via principale che sbuca esattamente davanti al palazzo reale. Era una via in cui passavano anche le macchine era costeggiata da giardini immensi, tra cui il Saint James’s Park. Gli alberi creavano un po’ di ombra sulla strada, per cui si stava bene e l’aria profumava di natura.
Arrivai fino davanti alla statua in memoria della regina Victoria e mi avvicinai al cancello del palazzo reale. Intravidi le guardie, dietro i cancelli, che cambiavano posizione in modo rigoroso, col passo militare. Le guardie erano vestite con pantaloni neri, giacca rossa e bianca, un capello alto sempre nero, con una catena dorata che arrivava poco sotto le labbra ed il fucile nella mano destra, poggiato al braccio e alla spalla. Erano rigorosamente immobili, come delle statue, davanti alla loro cabina.
Il palazzo era visitabile, ma solamente nei periodi in cui la famiglia reale si trovava a Windsor, nel Berkshire, la residenza estiva dei reali.
Feci un sospiro e tornai sui miei passi, ripercorrendo la The Mall ed arrivando fino alla metro a Charing Cross, prendendo la Bakerloo Line fino alla fermata successiva, Piccadilly Circus.
Stavo per tornare all’hotel, quando decisi di fare ancora un salto a vedere casa mia. Tenni una mano sulla borsa e camminai lungo la Piccadilly Street, fino ad arrivare davanti alla Sackville Street. Non mi avvicinai di nuovo perché intanto vidi le solite due guardie appostate davanti al portone della casa. Non c’era Adam, ma il compagno che era con lui i giorni precedenti ed uno adulto che non avevo mai visto.
Sospirai e rimasi a fissarli per qualche minuto, prima di decidermi di tornare in hotel e farmi un bel bagno caldo.
Chissà se il vampiro che avevo ucciso il giorno prima era ancora in carne ed ossa o si era già dissolto in polvere. Non ne avevo sentito parlar molto in giro, quindi è probabile che abbiano preferito tacere su questa strana morte-suicidio. L’importante, soprattutto, era che se avessero sospettato di omicidio non avrebbero puntato subito il dito contro me. A parte che mi ero assicurata in ogni minimo dettaglio che non risalissero a camera mia e al mio nome, quindi potevo evitar di preoccuparmi e stare tranquilla.
Arrivai davanti all’hotel e sentii vibrare il telefono. Vidi comparire il nome di Adam e mi irrigidii. Non potevo rispondere, che cosa gli avrei detto? Che non avevo più risposto perché era meglio evitare di tenerci in contatto data la mia discendenza? Mettere giù avrebbe solo accentuato la sua curiosità e avrebbe capito che non mi andava di parlare con lui, quindi scelsi diplomaticamente di ritirare il telefono nella borsa e lasciarlo vibrare fino a quando non avrebbe smesso di chiamarmi.
Il concierge mi aprì la porta e lo ringraziai, puntando subito alla mia stanza. Solo quando mi lasciai cadere sul letto mi resi conto di quanto fossi stanca. Avevo camminato tutto il giorno, era più che normale. Non avevo nemmeno fame, dato che avevo pranzato alle tre di pomeriggio ed erano soltanto le sei e mezza. Se mai lo stomaco avesse reclamato cibo, sarei potuta andare in qualsiasi pub nella zona per uno spuntino.
Cercai stancamente il cellulare nella borsa e vidi che Adam aveva provato a chiamarmi due volte, ma non aveva mandato nessun messaggio. Magari si era arreso. O almeno, lo speravo.

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Capitolo 6
*** Quinto giorno: London Coliseum ***


Quinto giorno: London Coliseum.
 


Mi trovavo a Braşov a notte fonda, nella mia camera e stavo dormendo tranquillamente. Sentii dei passi felpati avvicinarsi sul parquet verso il mio letto, non avevo la più pallida idea di come facessi a sentirli: erano troppo leggeri per orecchie umane.
Quando aprii gli occhi per controllare chi ci fosse vidi il volto di mio padre: i suoi capelli lunghi e neri mi sfioravano appena le guance, solleticandole. I suoi occhi erano cupi, dello stesso colore delle pupille, il suo volto scarno e bianco come il latte. Diedi una veloce occhiata alla porta e vidi che era ancora chiusa, la chiave nella serratura: era di nuovo entrato dalla finestra sotto forma di nebbiolina, come era solito fare quando non voleva essere scoperto.
La sua mano scheletrica mi sistemò i capelli dietro l’orecchio dolcemente, mentre sul suo volto compariva un leggero sorriso paterno.
Inizialmente mi sentii rassicurata dalla sua carezza: nessuno avrebbe potuto farmi del male con lui accanto. Fino a quando quel tocco mi fece rabbrividire, le sue iridi divennero scarlatte ed il sorriso si trasformò in un ghigno sinistro, con i canini ben in vista.
«Non puoi scappare, mia piccola Amelia», sussurrò cupo. «Ovunque tu vada, io ti troverò». Mi alzai di corsa e lo scansai, aprendo la porta il più velocemente possibile e correndo per i freddi corridoi del castello. Avrei dovuto conoscere casa mia come le mie tasche, ma in quel momento mi ricordava solo un luogo che faceva venire i brividi, immensamente vasto ma dove non avrei potuto nascondermi: lui mi avrebbe trovata più che facilmente.
Alcuni domestici mi chiesero dove stessi andando, ma li spinsi via per sfuggire dalla risata sinistra che proveniva dalle mie spalle. Mentre sorpassavo la servitù del palazzo sentivo solo riecheggiare quelle parole: “ovunque tu vada, io ti troverò”.
Mi ritrovai infine nei sotterranei del castello: il freddo si era fatto pungente e siccome indossavo solo la vestaglia da notte lo percepivo ancora di più. Mi strinsi nelle spalle, camminando lentamente in quel luogo buio nella quale non distinguevo le pareti dal pavimento. Presi una fiaccola dal muro e la portai davanti al volto, tentando invano di riscaldarmi con la sua fiamma.
Sentii ancora ridere alle mie spalle e mi voltai di colpo, per controllare se ci fosse qualcuno. Una folata di vento spense la fiaccola e per un momento rimasi immobile a tremare dal freddo e dalla paura.
Poi, improvvisamente, tutto si illuminò intorno a me: ero in una stanza in pietra e senza finestre, circolare, con stelle a cinque punte rivolte al contrario sui muri ed un altare rettangolare al centro. Vi era posato sopra un calice gotico trasparente, riempito di sangue fino ad un millimetro dall’orlo. Un pugnale in argento era posato accanto, con un libro di almeno un migliaio di pagine collocato al centro dell’altare: era antico, le pagine erano gialle e scritte in una lingua a me sconosciuta.
Sulla mia destra c’era una trappola in legno tonda alta almeno due metri, con dei lacci per legare polsi e caviglie. Alla destra, una bara elegante, nera con cuscini bianchi all’interno, aperta.
Tu sei sangue del mio sangue”, sentii dire.
Indietreggiai di qualche passo, chiedendomi che razza di posto fosse quello. Era davvero a casa mia? Non era possibile, non lo avevo mai visto prima d’ora. A meno che non fosse una di quelle stanze private di mio padre che teneva sempre sotto chiave. Ne avevo letto qualcosa nei diari di viaggio del signor Harker, un uomo inglese che mio padre aveva ospitato anni prima. Quando gli chiedevo di quell’uomo mio padre ridacchiava sempre, si massaggiava le tempie e diceva che era un povero pazzo finito in una casa di cura.
Sentii delle mani fredde afferrarmi le spalle e cominciai a divincolarmi. I capelli si incollarono velocemente alla fronte a causa del sudore freddo, mentre non riuscivo a liberarmi da quella presa ferrea.
Mio padre mi voltò e mi obbligò a fissare quelle iridi color sangue, perciò cercai di farmi forza. Non lo avevo mai visto in quello stato, cosa gli stava accadendo?
«Aluc…», mormorai con un filo di voce. Mio padre mi mise un dito davanti alle labbra e mi impedì di pronunciare per intero il suo nome. In realtà non avevo idea del perché lo stessi per fare, eppure era stata una cosa istintiva: quello non poteva essere mio padre.
«No, chiamami papà come hai sempre fatto, mia dolce Amelia», rispose con voce roca. I suoi occhi erano dannatamente grandi e vicini e avevo sempre più paura. Alcuni servi mi presero e mi portarono verso la trappola in legno che avevo visto, legandomi stretta all’altezza dei polsi e delle caviglie.
Tentai di liberarmi, ma non riuscivo nemmeno a smuovere i lacci. Mio padre si posizionò davanti all’altare ed abbassò gli occhi scintillanti sul libro, prendendo con una mano il calice e con l’altra il pugnale. Cominciò poi a leggere, dicendo parole a me senza senso: c’era tutto l’occorrente per un rito, ma destinato a cosa? Ovviamente, io ero la vittima, su quello non c’erano dubbi.
Perché mio padre voleva uccidermi? Era sempre stato gentile e protettivo verso i miei confronti, perché ora voleva uccidermi?
Bevve dal calice fino alla metà, poi lo sistemò con cura sull’altare. Col pugnale si tagliò le neve dei polsi e lasciò fluire il suo sangue nella coppa, riempiendola di nuovo. Si avvicinò poi a me con pugnale e calice in mano, labbra tese e sguardo fisso sui miei occhi.
Sentivo il cuore martellare nel petto e, per la prima volta, pensavo sul serio di dover morire. Avvicinò il calice a me e vidi delle piccole bollicine salire in superficie. «Mia piccola Amelia, il sangue mi dice che non sei più pura», fiatò a bassa voce. Non capii le sue parole, ma continuai a pensare ad un modo per liberarmi. I servi erano scomparsi, eravamo rimasti solo io e lui.
Continuavo a muovere polsi e caviglie per cercare di liberarmi, ma non ottenevo nulla in quel modo. Mi fece ingoiare quel sangue schifoso tanto che lo sputai a terra vomitandolo, mentre lo stomaco si contorceva. Quando rialzai la testa il pugnale era già conficcato nel mio cuore ed il freddo era diventato ancora più pungente. Vidi ancora quegli occhi rossi avvicinarsi, sentii i suoi canini divorarmi la gola e sembrava che questa tortura non sarebbe mai finita.
 
Mi svegliai di colpo e notai subito che era pieno pomeriggio, siccome il sole – sebbene coperto da qualche nuvola – era già alto nel cielo. Cercai di calmare il fiatone ed il martellare nel cuore tenendo gli occhi chiusi ed inspirando molto lentamente.
Dovevo star calma, era solo un incubo. Un incubo che però avevo provato sulla mia pelle, anche se non era andata a finire in quel modo, fortunatamente.
Ovunque tu vada, io ti troverò”.
In quel momento quelle parole mi sembrarono più vere che mai: sapevo che mio padre, in qualsiasi modo, mi avrebbe trovata. Semplicemente stava aspettando di entrare in scena, voleva vedere fino a che punto fossi in grado di spingermi.
Mi alzai e controllai il cellulare: nessun messaggio o chiamata, ma mi accorsi che erano le due del pomeriggio.
Non avevo fame e non avevo idea di cosa fare: ero ancora troppo scossa per l’incubo, siccome aveva risvegliato in me i ricordi di quei terribili momenti.
Mi vestii lentamente e mi sistemai per uscire con la solita parrucca e le solite lenti a contatto, puntando verso Trafalgar Square per trovare ispirazione sul da farsi. Non avevo voglia di visitare la National Gallery, ma avrei potuto semplicemente fare un giro in piazza.
Ci arrivai a piedi, siccome era poco lontano da Leicester Square, e vidi che molti turisti passeggiavano tra le fontane ed osservavano la colonna di Nelson. La coda per entrare alla National Gallery era immensa e quasi non si vedeva l’entrata del museo: un motivo in più per rinunciare.
Camminai stancamente verso il Saint James Palace, esattamente davanti alla piazza, ed un cartellone pubblicitario catturò la mia attenzione: quella sera, al London Coliseum, ci sarebbe stato lo spettacolo di “Romeo e Giulietta” di Shakespeare. Mi avvicinai per leggere meglio: alle ore ventuno, Saint Martin’s Lane. I biglietti erano acquistabili online oppure direttamente al teatro.
Cosa avevo di meglio da fare? E poi mi era sempre piaciuto il teatro, era una delle poche cose positive che era riuscito ad insegnarmi mio padre.
Per andare a teatro, però, avrei avuto bisogno di un vestito decente. Decisi di andare all’Harvey Nichols, nella zona dell’Hyde Park: era un negozio nella quale ero già stata da ragazzina e dove ci sono abiti adatti a cerimonie. Trovai subito l’abito adatto: una sottospecie di tubino nero fino alle ginocchia di Talbot Runhof, disegnato da Yves Saint Laurent e Givenchy: ottocento cinquantacinque sterline. Presi anche una pochette nera di Alexander McQueen con un teschio di cristallo che fungeva da chiusura: altri settecento quarantacinque sterline. Infine le scarpe: duecento sessanta sterline per delle decolté nere sempre di McQueen, tacco dieci e borchie sui talloni.
Pagai con la carta di credito e mi venne da ridere quando mi resi conto che ero stata una delle clienti che aveva speso di meno in quella giornata. Non volevo immaginare chi spendesse tanto quanti soldi in meno avesse sulla carta.
Uscii dal negozio e ritornai in hotel, sistemando perfettamente gli accessori per la serata ed aggiungendo la collana con la croce che ero solita portarmi dietro. In realtà non era solo una collana, ma era anche un’arma di difesa: infatti, se si sfilava la parte inferiore della croce, c’era un ago d’argento benedetto con acqua santa. Colui che, in parte, mi aveva salvato la vita.
Subito mi tonò in mente l’incubo di quella notte, perciò scossi la testa. Non dovevo pensarci, dovevo concentrarmi alla serata che mi avrebbe aspettata.
 
Arrivai davanti al London Coliseum alle otto e mezza. Scesi dal taxi sistemandomi il vestito che avevo comprato nel pomeriggio, attenta a non romperlo né piegarlo. Le persone che si trovavano in Saint Martin’s Lane erano maledettamente eleganti, molto più della sottoscritta: uomini in smoking con il papillon al collo, donne con abiti lunghi fino ai piedi come se fossero ad un galà, addirittura i bambini vestiti con cose maledettamente costose e raffinate.
Feci un lungo sospiro e mi avvicinai alla biglietteria, prenotando un posto nel Dress Circle per sessanta sterline. Pagai immediatamente in contati e presi il biglietto, entrando nel teatro ed osservandomi intorno. Tutto quell’oro e rosso mi dava fastidio agli occhi, tanto che non riuscivo a tenerli completamente aperti. Le luci posizionate in ogni centimetro delle pareti non aiutavano affatto, però rendevano il tutto ancora più elegante.
La sala era già colma di persone che chiacchieravano: mi trovavo nel primo anello, sopra di me ce n’erano altri due, sotto c’era la platea coi posti più costosi del teatro. Il sipario rosso era tirato giù, in modo da nascondere la scena, e sfiorava il pavimento. Era tutto in marmo bianco e beige, le poltrone e le decorazioni in rosso.
Le persone presero posto a sedere e si zittirono nel momento in cui calarono le luci ed il sipario cominciava ad aprirsi lentamente. L’orchestra era già posizionata da ancor prima che entrassi ed il direttore dette l’inizio alla musica. Partì subito un applauso e comparvero gli attori sulla scena.
Alcune persone accanto a me avevano un piccolo binocolo per poter vedere meglio, in particolar modo quelli che si trovavano nelle poltroncine laterali. La prima parte dello spettacolo durò circa un’oretta, poi fu annunciata una paura di mezz’ora.
Le persone si alzarono per andare in bagno o per cercar da bere, io semplicemente uscii per una boccata d’aria. Decisi di concedermi una sigaretta nell’attesa. L’aria all’esterno era fredda ed io avevo un semplice copri spalle, perciò cercai di riscaldarmi con la sigaretta tra le dita e a non pensarci troppo.
Il cielo era cupo, non si vedeva la luna perché era nascosta dalle nuvole. Le strade di Londra di sera erano comunque piene di vita come se fosse pomeriggio: passavano taxi, limousine, autobus e macchine. I marciapiedi erano colme di persone che passeggiavano chiacchierando, la maggior parte turisti.
Un lungo brivido mi percorse la spina dorsale e non riuscii a non pensare al freddo. Prima di entrare avrei dovuto finire la sigaretta. E poi non mi andava di tornare subito a sedermi.
«Ha freddo signorina?», chiese una voce alle mie spalle. Mi voltai sbuffando fuori il fumo della sigaretta e trattenni a stento un urlo: Adam era davanti a me pronto per togliersi la giacca, con un sorriso così sincero e gentile da far sciogliere il cuore.
Scossi immediatamente la testa, gettando a terra la sigaretta e schiacciandola a terra con la punta del piede piuttosto nervosamente. «No no grazie, tra poco torno dentro», risposi cercando di non guardarlo negli occhi. Che diavolo ci faceva lì, a teatro? Dubitavo avesse una passione sfrenata per le tragedie shakespeariane.
«Sicura? Le presto la mia giacca se vuole, così può stare qui ancora un po’». Mi morsi l’interno della guancia per resistere: dovevo smettere di tremare, così avrebbe capito da solo che non ne avevo bisogno. Peccato che non riuscivo proprio a non tremare. Senza che rispondessi, si tolse la giacca e me la sistemò sulle spalle, cercando di evitare lunghi contatti fisici. Eravamo degli estranei, dopo tutto.
Beh, non più di tanto estranei.
«Grazie mille, non era necessario», biascicai a testa bassa.
Adam si mise le mani in tasca e notai che anche lui era vestito elegantemente con una sottospecie di smoking nero e cravatta. «Ti piace lo spettacolo? Se posso darti del tu».
Annuii, sempre senza guardarlo. Avrebbe potuto di nuovo notare le mie lenti a contatto. «Sì, non ero mai stata a teatro». Ed era vero. A Braşov avevo un teatro personale in casa, quindi avevo sempre visto li commedie e tragedie. Non ero mai uscita per recarmi fisicamente a teatro, quindi era la mia prima volta. «A te piace?».
Sospirò e, per un momento, mi concessi di osservarlo. «Non ne vado matto tanto da vedere tutti gli spettacoli ogni settimana, ma non mi dispiace», rispose serenamente. Si voltò ed incrociò il mio sguardo. Controllai l’orologio e notai che era quasi ora di rientrare. «Sei seduta in un buon posto?».
«Sì, sono nel primo anello, si vede piuttosto bene».
Scoppiò a ridere senza motivo, tanto che corrucciai la fronte. «Io sono nelle poltroncine più scarse di tutto il teatro, ultimo anello. Non posso permettermi ancora di spendere tanto per una semplice poltrona al teatro, è già tanto se indosso qualcosa che si avvicini esteticamente ad uno smoking». Mi sembravano strane le sue parole: un poliziotto dello Scotland Yard sicuramente non era pagato poco. A meno che non si trattasse di uno stagista, ma dubitavo lo fosse.
Accompagnai la sua risata, scuotendo la testa. «Mi crederai una figlia di papà allora», commentai.
Si voltò ancora verso di me, sorridendomi dolcemente. «No, non giudico le persone dall’apparenza o dal posto in cui siedono al teatro». Le persone cominciarono a rientrare e ci voltammo entrambi ad osservare il portone d’ingresso. Mi tolsi la giacca e gliela porsi con un sorriso.
«Grazie ancora».
«Figurati, è stato un piacere».
Mi dileguai velocemente per evitare di essere trattenuta. Quegli occhi ipnotici mi avevano di nuovo inspiegabilmente catturata e non riuscivo a non pensarci, nemmeno per tutto il resto della tragedia. Invece che commuovermi per la morte di Romeo pensavo ad Adam, al suo sorriso, alla sua gentilezza ed al mio esser stata così maleducata dal non mandargli nemmeno un messaggio dopo i suoi tentativi di chiamata.
Per un momento pensai che mi stava seguendo, però non sapeva che fossi la ragazza che aveva conosciuto. Amelia, smettila di essere così egocentrica.
L’applauso a tutto il cast durò circa dieci minuti, poi accesero le luci e le persone cominciarono ad alzarsi per uscire dal teatro. Presi la borsa e misi il copri spalle, chiamando un taxi ed indicando l’hotel nella quale avevo la stanza.
Appena chiusi la portiera vidi uscire Adam: era da solo, siccome non stava chiacchierando con nessuno e non sembrava in cerca di qualcuno in particolare. Per un momento incrociò il mio sguardo e sorrise ancora, tanto che non riuscii a non fare altrettanto. Il taxi partì e mi portò a destinazione in circa cinque minuti, siccome Leicester Square non era lontano dal London Coliseum. Sarei potuta tornare a casa a piedi, ma dati i tacchi che indossavo non era una buona idea.

Quando scesi dall’auto sentii squillare il telefono, perciò controllai: era un messaggio da parte di Adam. Che diamine voleva adesso?
Allora, sei ancora a Londra o sei già volata via?”.
Strinsi le labbra e rimasi imbambolata davanti alla porta per qualche secondo. Il concierge mi stava tenendo aperta l’entrata, per cui buttai il cellulare in borsa e salii al settimo piano, entrando in camera e buttando tutto sul letto.
Prima cosa da fare: togliere parrucca e lenti e tornare ad essere Amelia. Poi lavai via il trucco e mi svestii, sistemando l’abito su un attaccapanni e mettendo la vestaglia da notte. Tirai poi la tenda dopo aver dato un’ultima occhiata al panorama: la ruota era illuminata di blu e infinite luci illuminavano il cielo nuvoloso.
Sospirai e chiusi tutto, barricandomi in camera. Presi il cellulare e vidi che il messaggio di Adam era ancora sullo schermo, quindi decisi di non essere troppo malvagia. Infondo era stato gentile con me questa sera, anche se non sapeva che fossi io.
In realtà sono già in Scozia, faccio il giro dei castelli. A Londra sempre la solita vita?”.
Mi coricai sul letto e decisi che non avevo nemmeno la forza di accendere la tv. Era mezzanotte e sarebbe stato più saggio mettersi a dormire. Anche se, ripensando all’incubo della sera precedente, non mi intrigava molto l’idea di andare a dormire.
Vibrò il telefono e stancamente cercai di tenere gli occhi aperti.
Sì, sempre la solita routine. Se torni qui fammi un fischio, almeno posso accompagnarti in giro”.
Possibile che esistesse qualcuno così gentile? Non avevo mai conosciuto una persona, specialmente un ragazzo, che si comportasse in questo modo con me.
Anzi, in realtà lo avevo conosciuto, ma era meglio dimenticare il passato per non far riaffiorare brutti ricordi. Nello stesso momento in cui chiusi gli occhi vidi il suo volto davanti al mio, le labbra carnose e le iridi verdi come smeraldi, le mani che mi accarezzavano i fianchi.
Scossi la testa e riaprii immediatamente gli occhi. Non sarebbe stata una notte insonne, poco ma sicuro.
Certo Adam. Buonanotte”.

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Capitolo 7
*** Sesto giorno: Hyde Park ***



Sesto giorno: Hyde Park.


Mi svegliai piuttosto bene: fortunatamente non avevo sognato niente quella notte, in più ero stata costretta a mettere la sveglia perché entro le undici avrei dovuto liberare la camera: la permanenza in questo hotel era finita, avrei dovuto cercarne un altro.
Cercai di fare i bagagli il più velocemente possibile, siccome erano le dieci e mezza. Non sarei scesa nemmeno per la colazione, così mi sarei rintanata in un bar con internet e avrei mangiato brioche e cappuccino mentre cercavo un hotel nei dintorni.
Mi vestii e misi parrucca e lenti a contatto, così per non crear sospetti. Ancora mezza addormentata trascinai la valigia fino alla hall, dove salutai e ringraziai receptionist e concierge per l’ospitalità. Sospirai e mi guardai intorno, cercando di ricordare dove poteva essere il più vicino internet cafe. Cominciai a camminare vero Piccadilly Circus, continuando a guardarmi intorno per trovare un bar dove rintanarmi per almeno un’oretta. Il tempo non era il massimo: nuvoloni grigi coprivano il sole, l’aria era fredda e la temperatura si era decisamente abbassata durante la notte.
Mi fermai al Millies Cookies e mi sedetti ad un tavolino, tirando fuori il netbook che avevo nella valigia e aspettando che si connettesse ad internet.
Nel frattempo ordinai un Double Choc e un Hazelnut Latte. Guardai fuori dalla finestra e ripensai ad Adam: non mi aveva più scritto dopo la buonanotte. Non riuscivo a togliermi dalla testa quanto fosse maledettamente elegante con quello smoking, a teatro.
Davvero era appassionato di teatro?, mi chiesi subito. Mi scappò una piccola risata: un giovane poliziotto dello Scotland Yard, probabilmente della SO12, appassionato di drammi shakespeariani. Non poteva esistere sulla terra un ragazzo come lui.
Nell’esatto momento in cui arrivò la mia colazione il pc si attaccò alla rete, così cercai subito so Google Maps qualche hotel nei dintorni di Piccadilly Circus che non fosse uno dei due in cui ero già stata.
Cercai un cinque stelle, siccome mi andava di spendere e spandere: intanto i soldi erano di papà. Trovai il Cavendish, non lontano da Sackerville Street, e il Rocco Forte, poco più lontano, in Albemarle Street. Andai a vedere le immagini dei due hotel e optai per quest’ultimo: mi sembrava molto più lussuoso, mi pareva giusto provare anche lo sfarzo estremo ed i costi elevati per una bella permanenza a Londra.
Prima di uscire dal cafe decisi di andare in bagno e cambiare subito il mio look, così sarei arrivata all’hotel già pronta. Mi chiusi dentro a chiave e cercai un po’ tra tutta la roba: decisi di prendere una parrucca castano cioccolato coi capelli mossi e scalati, lunghi fino a metà schiena. Per le lenti ne presi un paio verde smeraldo, sperando che si mescolasse bene con le mie iridi naturali.
Il bruciore agli occhi durò qualche minuto, poi tornò tutto alla normalità: il colore degli occhi era piuttosto naturale, perciò decisi di tenere quelle. Ritirai il resto nella valigia ed uscii, puntando verso l’hotel che avevo scelto.
Camminai lungo la Piccadilly, sorpassando Sakerville, e svoltai ad Albemarle Street. Arrivai davanti alla scritta Brown’s Hotel ed entrai mentre la porta mi veniva aperta. L’interno era maledettamente lussuoso: il bancone della reception davanti a me era in legno scuro, posizionato alla fine del corridoio. Dietro c’erano una ragazza ed un ragazzo piuttosto giovani. Mi avvicinai continuando a guardarmi intorno, rendendomi conto di quanto fosse molto più bello dal vivo che da internet.
«Benvenuta al Brown’s Hotel signorina, possiamo esserle utile?», disse la donna.
Posai il bagaglio e sospirai. «Sì, vorrei prenotare una suite per tre notti, se fosse possibile», risposi.
Mi sorrise e controllò sull’agenda le camere disponibili. «Tra le suite abbiamo la Kipling, la Hellenic, la Albemarle, la Dover, la Deluxe e le classiche. Ditemi voi quale preferite, ce ne sono libere almeno una per tipo».
Avevo dato un’occhiata alle varie suite, ma non ricordavo perfettamente la differenza di tutte quante: cambiava la grandezza e qualche altro servizio. «Prendo la Hellenic». La donna sorrise e segnò il mio nome sulla suite, prenotata per tre giorni.
«Spero che gradisca la permanenza nel nostro hotel. Lasci pure le valige al concierge, le porterà in camera all’ora del check in», mi disse. Avrei dovuto aspettare ancora qualche ora, perciò avevo un po’ di tempo libero. Come al solito.
Ringraziai ed uscii dall’hotel tenendo solo la borsa, puntando a centro città.
Per quel giorno decisi di recarmi all’Hyde Park, così avrei potuto fare una passeggiata tranquilla. Non mi andava di visitare musei o altro, quindi meglio rilassarsi al parco anche se il tempo non era dei migliori. Per fortuna avevo messo le scarpe da ginnastica, così ero anche più comoda.
L’Hyde Park dall’hotel non era distante: percorsi a piedi la Piccadilly Streen fino alla fine e sbucai esattamente davanti al parco. Costeggiai l’Hilton Park del Buckingham Palace ed arrivai al Wellington Arch, svoltando a destra ed entrando nel parco. C’erano molte persone che passeggiavano, correvano, andavano in bici o semplicemente si riposavano sul prato.
Vidi la statua di Achille sulla mia destra e poco più avanti, ma decisi di seguire la strada che portava al Serpentine. Passare in mezzo agli alberi mi faceva sentire un po’ a casa: dove abitavo io ero circondata di verde, siccome il castello si trovava sulla cima di una collina che si trovava tra i boschi. C’era un bel po’ di differenza, però, tra l’Hyde Park e Braşov: per quanto il parco fosse bellissimo, la natura del mio paese era unica al mondo.
Arrivai al Serpentine e notai che l’acqua era molto più pulita del Tamigi, anche se non ci voleva molto. C’era un chiosco sul laghetto circondato da salici piangenti ed anatre che nuotavano tranquillamente sul bordo dell’acqua. Alla fine del Serpentine c’erano i Kensington Gardens e il Kensington Palace, ma non sarei andata fino lì. Magari lo avrei visitato un’altra volta.
Tornando indietro mi fermai in uno spiazzale enorme nella quale c’erano le giostre. Era pieno di bambini che correvano a destra e sinistra, musichetta allegra e banconi di dolci e schifezze di ogni genere. Appeso ad un albero c’erano persino due occhioni blu dall’aria buffa, probabilmente due enormi palloncini incastrati tra i rami in modo che non scoppiassero.
Mi avvicinai al bancone dei dolci e guardai che cosa avrei potuto comprarmi: c’erano cioccolatini, caramelle, lecca lecca e chi più ne ha più ne metta. Rimasi in coda scegliendo che cosa prendere, cercando di non esagerare: ero sempre stata piuttosto golosa, ma mio padre non mi lasciava mai comprare nulla del genere. Diceva che faceva male al sangue, che lo rendeva cattivo perché nauseante.
Ci vollero anni per capire esattamente che cosa intendesse dire.
«Scelga pure quello che vuole signorina, glielo offro io», disse una voce alle mie spalle. Raddrizzai la schiena e storsi il naso: conoscevo quell’odore alla perfezione, anche se ci trovavamo all’aria aperta in mezzo a molte persone.
Quando mi voltai vidi un ragazzo piuttosto giovane e niente male: alto una decina di centimetri più di me, capelli neri ed occhi penetranti. La pelle era lattea, gli zigomi alti e ben definiti. Mi sorrise non appena incontrò il mio sguardo e, per non dar nell’occhio, feci altrettanto.
Probabilmente non era un vampiro mandato da mio padre, ma uno che aveva voglia di succhiare un po’ di sangue da un collo caldo. Fosse stato davvero mandato a catturarmi, avrebbe cercato di intrufolarsi nella mia camera d’hotel come il ciccione, oppure mi avrebbe catturata in un angolo buio e deserto della strada.
«Oppure anche tu non accetti le caramelle dagli sconosciuti? La compriamo insieme, te la pago io, non te ne offro di mie se non ti fidi».
Era comunque un vampiro da uccidere: a Braşov ero solita uscire solo nella speranza che qualche vampiro mi adocchiasse, così avrei potuto ucciderlo. Era una tecnica che mio padre mi aveva insegnato abilmente anche se, a parole sue, “non serve nessuna tecnica per attirare un uomo verso di me”.
Sorrisi e scossi la testa, cercando di non fargli capire che avessi capito il trucco. «Certamente, allora prendo un pacchetto di caramelle miste da cinque sterline», risposi. Il vampiro tirò fuori il portafoglio e pagò subito le mie caramelle, dandomi il sacchetto con un sorriso stampato in volto.
«Non sei di Londra», mi disse cominciando a camminare al mio fianco. Teneva le mani nelle tasche del cappotto lungo fino alle ginocchia, nero corvino, lo sguardo dritto verso sé.
Ci incamminammo verso il Winter Wonderland, più o meno all’entrata dell’Hyde Park. «No sono una turista, vengo dall’est europeo», risposi. Intanto ero più che sicura che non fosse stato mandato da mio padre, era inutile nascondere la verità. Anche perché, fosse stato mandato a cercarmi, mi avrebbe riconosciuta comunque dal mio odore.

La zona in cui stavamo andando era meno affollata, anche se c’erano diverse persone che passeggiavano. All’improvviso, cambiò idea e mi prese la mano, facendomi tornare indietro verso il Serpentine. Non capii bene la sua tattica, ma non feci parola. Intanto mangiavo le caramelle, pensando al metodo più conveniente per ucciderlo: non potevo farmi vedere da qualcuno mentre lo pugnalavo, quindi avrei potuto usare la collana con la croce e colpirlo alla gola. Poi mi sarei dovuta sbarazzare del corpo, nel caso non si fosse dissolto subito.
«Io abito a Londra da diversi anni, mi sono trasferito per lavoro. Come ti chiami?».
«Mia», risposi tranquillamente. Intanto presto sarebbe morto. «E tu?».
«Mi chiamo Virgil, sono di origine rumena», e mi lanciò un sorriso. Aveva capito che anche io lo fossi, probabilmente. In quel momento mi venne il dubbio che fosse stato mandato a cercarmi, eppure non era questo il modo che usavano i vampiri di mio padre per avvicinarmi. «Allora, ti sono piaciute le caramelle?».
«Molto, ma non dovevi comprarmele».
Ridacchiò divertito, scuotendo la testa. «Figurati, è stato un piacere».
Passammo davanti ad una casetta circondata da alberi e fiori appassiti che dava proprio sul lago. La vegetazione si stava facendo più fitta e le persone erano sempre meno, forse era il luogo più adatto per attaccare. Avrei dovuto aspettare la sua prima mossa: se fosse stato lui a farlo, significava che eravamo completamente al sicuro e lontani da occhi indiscreti.
Si fermò e così feci io, abboccando volontariamente all’amo. Virgil mi fece voltare e si avvicinò col viso, studiandomi con attenzione il volto. Con il pollice della mano destra mi pulì la guancia da qualcosa che, molto probabilmente, non avevo. «Eri sporca di zucchero», mentì. Gli sorrisi come per ringraziarlo e lui fece lo stesso. «Hai un buon profumo».
Decisamente non era stato mandato da mio padre: un vampiro addestrato non avrebbe mai e poi mai detto una cosa del genere alla sua vittima. Nemmeno il ciccione aveva detto una stupidaggine così grossa, ma era andato direttamente al punto: era venuto a prendermi.
Lentamente Virgil si avvicinò al mio viso e lo lasciai fare, sfilando il tappo della croce nascosta nella tasca della giacca. Non si accorse di nulla e mi trovai a sfiorare appena le sue labbra. Il respiro era gelido e mi ricordai il freddo che avevo nei sotterranei del mio castello. Invece che baciarmi avvicinò il viso al collo, inspirando a fondo il mio odore. Strinsi la collana nella mano destra e, più velocemente che potessi, conficcai l’ago nella sua gola.
Strozzò un grido ed il suo sangue schizzò sul mio viso, mentre la sua pelle cominciava a bruciare. Il vampiro alzò gli occhi infuocati su di me e mostrò i canini ben affilati, ma ormai per lui era troppo tardi: l’acqua santa aveva cominciato a bruciarlo dall’interno, siccome avevo preso perfettamente la carotide e quel veleno aveva cominciato a circolare in tutto il suo corpo. Inoltre l’argento aiutava a non curare la sua ferita.
Virgil mi afferrò per le spalle e tentò invano di mordermi, ma lo spinsi e cadde all’indietro. L’acqua santa lo aveva immobilizzato ed io mi avvicinai, inginocchiandomi davanti a lui ed incidendo sempre con l’ago della collana una croce sulla sua fronte. Controllai che non ci fosse nessuno nelle vicinanze e trascinai Vergil fino al bordo del lago, lanciandogli un’ultima occhiata. «Hai scelto la ragazza sbagliata», mormorai. Mentre tentava di dire qualcosa lo gettai nel lago e lo vidi affondare velocemente, fino a quando non riuscii più a distinguere i suoi lineamenti.
Molto probabilmente non lo avrebbero più trovato.
Finii le caramelle e tornai indietro fino all’hotel, così avrei potuto sistemare la mia roba e sbirciare in giro. Il concierge mi aprì la porta e mi diedero le chiavi della mia stanza: numero cento ventisette, quarto piano. Presi l’ascensore, dato che la mia valigia era già in camera, e cercai la stanza.
Quando aprii la porta rimasi incantata: mi trovai nel salotto con un divano a due posti in pelle marrone, una poltrona e davanti un tavolino in vetro e legno, sulla quale c’erano alcune riviste. Dietro il divano c’erano una scrivania ed un tavolino rotondo con tre sedie bianche.
Andai alla stanza successiva e mi trovai nella camera da letto: un matrimoniale bianco con coperte a righe affiancato da una chaise longue marrone. Continuai col bagno, completamente in marmo bianco: c’era una doccia doppia, doppi servizi igienici ed una vasca enorme. Ero abituata allo sfarzo a casa mia, ma lo stile era completamente diverso e mi piaceva molto.
La valigia si trovava accanto al letto e sul cuscino c’era un volantino colorato: la sera successiva, nella Claredon Room, si sarebbe tenuta una festa in maschera pre-Halloween. Tutti gli ospiti dell’hotel erano invitati a partecipare gratuitamente, mentre gli esterni avrebbero dovuto pagare l’ingresso. La festa si sarebbe tenuta anche nella Niagara e nella Roosevelt Room, ma l’incontro principale con una band che suonava si trovava nella Claredon.
Festa in maschera. L’ultima alla quale ero andata era stato quando avevo sedici anni e non ci ero stata per più di mezz’ora perché mio padre mi aveva costretta a tornare a casa. Anzi, i suoi scagnozzi mi avevano portato via di peso, al dir la verità. Ed ero stata messa in punizione per aver lasciato il castello.
A pensarci ora mi veniva solo da ridere.
Mi preparai per la sera, dato che avevo deciso di cenare in un ristorante. Non potevo indossare lo stesso vestito che avevo utilizzato per andare a teatro, nel caso avessi incontrato inspiegabilmente Adam. Optai per quello che avevo acquistato qualche giorno prima, molto semplice: nero lungo fino alle ginocchia con le spalline che, ovviamente, avrei coperto con uno scialle o un copri spalle. Faceva troppo freddo per non mettere altro sopra.
Verso le otto di sera mi incamminai verso Piccadilly Circus. Quando arrivai al centro della piazza vidi un cartello pubblicitario del Rowley’s, a poche centinaia di metri da dove mi trovavo. Seguii la Regent Street e svoltai alla Jermyn Street: il ristorante era poco dopo l’angolo. L’ingresso era in legno scuro e con vetrate riportanti la scritta del locale.
Entrai e chiesi un tavolo singolo, mentre un cameriere mi accompagnava a sedermi. La sala quadrata, coperta di specchi su un lato e con tavoli rettangolari, principalmente da quattro posti. Stoviglie e arredamento erano semplici, a differenza del soffitto e delle decorazioni delle pareti. Sembrava un posto accogliente, ad ogni modo.
Notai subito che c’erano molte persone e la sala era piuttosto caotica, così avrei potuto intrattenermi pur essendo da sola. Ordinai un vino bianco e un filetto di salmone alla piastra con insalata e rimasi in attesa del mio piatto.
C’erano numerose coppie e questo un po’ mi rattristava: mi faceva pensare al mio primo ed unico ragazzo in Romania, un paio di anni prima. Scossi subito la testa per non farmi salire il sangue al cervello e pensai ad Adam: lo immaginai davanti a me, mentre mi fissava con quel sorriso dipinto sulle labbra mentre si offriva di versarmi il vino.
Sorrisi automaticamente al nulla, scacciando la rabbia e concentrandomi su bei pensieri, cosa alla quale non ero solita cedere. Avevo imparato che non ci sarebbe mai stata felicità per me, non fino a quando mio padre fosse stato in vita. Il che equivaleva al mai e poi mai.
Davanti a me passò una donna dal profumo così forte da far venire la nausea. Si accomodò al tavolino di fronte al mio ed ordinò immediatamente, senza nemmeno aspettare che il cameriere le porgesse il menù. Incrociò le mani sotto il mento ed alzò il suo sguardo sul mio: mi fissava in modo… strano. I suoi occhi brillavano di una strana luce, sembrava quasi… attratta da me, in qualche modo. Mi sorrise appena ed io sospirai, scuotendo debolmente la testa.
Questo era uno dei difetti che avevo preso da mio padre: la vanità, l’egocentrismo. Mi sentivo sempre al centro dell’attenzione di tutto e di tutti. Beh, alla fine i miei sospetti ogni volta si erano rivelati esatti, quindi avevo solidi fatti su cui basarmi. Mio padre ha inoltre alimentato questo mio difetto, ponendomi al centro della sua vita e dei suoi progetti.
Progetti della quale non vorrei far parte.
Dopo una ventina di minuti arrivò il mio piatto e, poco dopo, lo stesso identico ordinato dalla donna davanti a me. Il rossetto rosso era così in contrasto con la sua pelle chiara, anche se le guance erano leggermente rosate da un tocco di trucco. Gli occhi erano glaciali, lo sguardo così perverso da passare per una prostituta di alto rango. In qualche modo riuscì ad incatenarmi, era una strana sensazione.
Cercai di mangiare senza guardala, ordinando ancora una panna cotta alla vaniglia servita con more fresche ed un caffè macchiato.
Dopo circa un’oretta e mezza uscii dal locale, pagando il tutto al tavolo e lasciando la mancia di dieci sterline al cameriere. A Londra era buon uso lasciar la mancia, in qualsiasi locale.
Il cielo era cupo e soffiava l’aria, ma le strade erano affollate e perfettamente illuminate. Seguii la via ed andati verso il Saint James Square, così avrei potuto fare due passi in quel piccolo parco. Beh, confronto all’Hyde Park la maggior parte erano minuscoli. Sentii qualcuno camminare con il mio stesso passo dietro di me. Un paio di tacchi: una donna.
Quando mi voltai vidi quella seduta al tavolo davanti a me avvicinarsi con un sorriso malizioso dipinto in volto. Mi bloccai e rimasi a fissarla, fino a quando non si trovò a pochi metri da me. «Scusami, non volevo spaventarti», si scusò con voce dolce. Ora che sentivo meglio il suo odore non avevo dubbi: era una vampira.
Scossi la testa e mi strinsi nelle spalle. «Non ti preoccupare. Hai bisogno di qualcosa?», chiesi. In quel momento mi accorsi che non c’era nessuno intorno a noi, né per strada né nel parco.
Si avvicinò ancora, cominciando a farmi mancar l’aria. «Ho bisogno di te», sussurrò in modo malizioso. Fece per sfiorarmi il viso con la mano, ma feci un paio di passi indietro. Mi guardò confusa e delusa, ma non me la sarei bevuta.
«Mi dispiace, ma ho altri… gusti». La sentii ridere e la sua voce mi ricordò il suono delle campane. Quanto sapevano essere incantevoli, i vampiri?
«Non ti va di divertirti un po’? Possiamo andare da un mio amico, se è la tua prima volta: tratta le donne come se fossero dei diamanti. Sarà più che felice vederci arrivare insieme e potrà metterti a tuo agio. Hai mai fatto un ménage-a-trois?».
Mi afferrò la mano e mi bloccò contro un albero. Era troppo forte, non riuscivo a respingerla e, specialmente, non volevo farle capire che sapevo cosa fosse. La vicinanza delle sue labbra alle mie mi metteva parecchio a disagio, non mi ero mai trovata in una situazione del genere. «Sono per il fedele rapporto di coppia, non per le scopate di gruppo», fiatai.
La donna rise ancora sul mio collo, facendomi rabbrividire. «Piccola Mia, non sai cosa ti perdi». La sua voce ora era da gatta morta. Con i denti afferrò il mio labbro inferiore, aprendo una piccola ferita e leccando subito via il sangue. «Mmh, hai un buon sapore. Chissà com’è il resto».
Inarcai le labbra e sbuffai ironica. «Anche un tuo simile avrebbe voluto dir lo stesso oggi. Un certo Virgil, lo conoscevi?».
I suoi occhi si fecero subito di fuoco e cercò di tirarmi un pugno in pieno volto, ma riuscii a schivarla e a liberarmi dalla sua presa. Si acquattò in posizione d’attacco, puntando alla mia gola. «Brutta puttana, pagherai per averlo ucciso!», urlò.
«Chi era, il tuo ragazzo?», continuai a stuzzicarla. Dal suo sguardo capii di aver centrato il bersaglio: beh, niente male doversi occupare di una coppia di vampiri in un solo giorno. «Sapeva di queste tue idee perverse con le donne? O ti piaccio così tanto da essere l’unica eccezione?». Cominciai a camminare su e giù, in tondo, e lei fece lo stesso. Stava per perdere la pazienza, lo si leggeva dallo sguardo. «Anche al tuo lui sarebbe piaciuto tanto portarmi a letto, ma non penso che tu fossi compresa nel giro».
Avevo sfiorato il limite.
La vampira si lanciò contro di me, ma la schivai abilmente. Presi in mano la collana con la croce e subito scoppiò a ridere, mettendosi addirittura la mano sulla pancia. «Pensi davvero che tu riesca ad uccidermi con una croce? Tesoro, hai letto troppi libri riguardo a noi». Si avvicinò velocemente e la trovai a pochi centimetri di distanza, di nuovo troppo vicina alle mie labbra. Mi schiacciò contro un albero ed inspirò a fondo il mio profumo.
«Probabilmente, ma mio padre mi ha insegnato il minimo indispensabile». Aprii il cappuccio della croce e la infilzai nella gola, esattamente come avevo fatto con Virgil. La vampira aprì la bocca, nella quale ristagnava già del sangue, e si portò una mano sul punto in cui l’avevo ferita. Le disegnai la croce sulla gola e mi allontanai, mentre cadeva in ginocchio ed imprecava. «Non posso ucciderti con una croce, ma un mix di argento ed acqua santa può essere letale per un vampiro».
La vampira cadde sulla schiena e cominciò a mancarle il fiato, fino a quando non esalò l’ultimo respiro e le si chiusero gli occhi. Presi il suo corpo e lo buttai in mezzo a dei cespugli, sperando che si incenerisse in fretta. O almeno, prima che la polizia potesse scoprirla.
Ritornai sui miei passi fino all’hotel, dove avrei potuto dormire serenamente in mezzo a quelle coperte così soffici. Mi svestii e feci una doccia veloce, senza nemmeno godermi l’acqua calda sulla mia pelle.
Due vampiri mi avevano attaccato in una giornata. Non che non fossi abituata, ma non a Londra. Beh, poteva essere stata una coincidenza: la vampira era venuta a vendicarsi per avergli ucciso il compagno. Mi aveva adocchiata da subito, probabilmente aveva visto mentre uccidevo Virgil. A quel punto mi chiedevo perché non fosse intervenuta subito.
Meglio non pensarci.
Mi coricai sul letto e controllai le notizie alla tv: niente che mi riguardasse, per fortuna.
Diedi ancora un’occhiata al cellulare, ma non c’era nessun messaggio.

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Capitolo 8
*** Settimo giorno: Brown's Hotel ***


Settimo giorno: Brown's Hotel.


C’era un gran via vai nell’hotel a causa della festa. Alcune zone, specialmente le stanze in cui si sarebbe tenuta, erano chiuse al pubblico, così come alcuni corridoi in modo da far portare le decorazioni senza che nessuno le vedesse. Era una festa per Halloween, non ci voleva un genio a capire che decorazioni avrebbero utilizzato: pipistrelli finti, zucche ovunque e ragnatele. Le solite cose che avevo già visto nei film.
Mancavano poche ore all’inizio delle danze e decisi di far tacere il mio stomaco perché intanto non sarei uscita per cena, ma mi sarei cibata solo di stuzzichini serviti alla festa.
Mi feci un bel bagno caldo con Sali minerali profumati alle rose, in modo da rilassarmi, con un sottofondo musicale soft. Sul bordo della vasca c’era un calice di champagne riempito a metà ed il cellulare. Nessuno mi aveva contattata, anche se – al dir la verità – l’unico ad avere quel numero era Adam.
Dopo essermi rilassata mi misi l’accappatoio e cominciai a prepararmi: asciugai i capelli li sistemai in una retina, acconciando poi a dovere la parrucca che avrei usato in quei giorni. Feci dei boccoli con il ferro e tirai due ciocche indietro, puntandole con una spilla color oro. Mi truccai con un po’ di matita e ombretto nero, un po’ di fard sulle guance e lucidalabbra rosa, così per non appesantire troppo il tutto.
Presi il vestito che avevo ordinato su internet, steso sul mio letto, e lo indossai: con indosso la parrucca sembravo la dea alata della vittoria. L’abito era turchese con il copri seno dorato, bracciali, stivali greci e corona d’alloro dello stesso colore. Cercai di stare attenta a non sbattere da nessuna parte con le ali finte che portavo sulla schiena ed uscii dalla stanza.
Sin dal corridoio riuscivo a sentire il brusio delle sale al primo piano. Quando uscii dall’ascensore vidi una marea di gente che andava su e giù, peggio rispetto ai preparativi.
Notai che all’ingresso le persone stavano pagando il biglietto e lasciavano i loro averi nel guardaroba. Il tempo era orrendo, infatti tutti avevano l’ombrello e si sentivano persino i tuoni. Non persi ulteriore tempo e mi recai nella Claredon Room: la stanza era rettangolare, con parquet chiaro e muri bianchi, completamente ricoperta di ragnatele e zucche giganti, per non parlare di un mega scheletro appeso accanto all’entrata.
In fondo c’era una sottospecie di piccolo palco sulla quale non c’era ancora nessuno, mentre sui lati c’erano i tavoli del buffet e, sparsi per la stanza, i tavolini dove sedersi per mangiare.
Siccome il mio stomaco stava piangendo, decisi di avvicinarmi ad un tavolo del buffet e prendere un piatto: lo riempii con salatini di ogni genere, tartine al salmone, rotolini di affettati vari, fette di pane con ricotta ed olive, bruschette e altro ancora.
Rimasi a mangiare in piedi vicino al bancone e mi feci riempire un bicchiere di vino bianco, mentre ispezionavo la sala: notai che c’erano due guardie in borghese nella stanza, si riconoscevano subito. Erano immobili con le mani dietro la schiena, controllavano per filo e per segno ogni persona che passasse sotto i loro occhi. Almeno avevano una maschera in tema con la festa.
Vidi vestiti di tutti i colori: fate, streghe, maghi, vampiri – i più comici, al dir la verità – pirati e altro ancora. Le luci della stanza erano arancioni e blu, in modo da creare l’atmosfera e, negli angoli, c’era addirittura un simulatore di nebbia.
Non mi sembrava ci fossero vampiri – se non finti – quindi sarebbe stata una festa tranquilla. Non vidi nemmeno dei sicari di mio padre: solitamente li riconoscevo subito per i loro lineamenti e la loro portata. E se non li riconoscevo perfettamente, mi venivano i sospetti. Solitamente ci azzeccavo.
Qualcuno picchiettò sul microfono e tutti si voltarono verso il piccolo palco: un uomo sulla quarantina, col volto coperto da una maschera simile a quella di Batman, stava introducendo la festa: «Benvenuti al Brown’s Hotel! Questa è la notte degli spiriti inquieti e dei mostri, quindi mi raccomando di guardarvi bene le spalle». Si voltò per controllare se ci fosse qualcuno dietro di lui e tutti risero. «La festa è suddivisa sulle tre sale dell’hotel: Claredon, Niagara e Roosevelt. Ricordatevi di entrare nei labirinti e nelle case stregate e, in primis, divertitevi!».
Ci fu un lungo applauso e un cantante salì sul palco, sistemando la chitarra elettrica. La sua band si preparò e, insieme, cominciarono a suonare un pezzo incalzante. Molte persone si lanciarono in mezzo alla stanza per ballare, io rimasi in disparte a finire i miei stuzzichini. Le guardie in borghese chiacchieravano tra loro senza togliere gli occhi dalla pista, quello sulla porta controllava sia la sala che il corridoio.
Decisi di fare un salto a controllare le altre sale. Nell’atrio dell’hotel c’era un via vai degno di una strada trafficata all’ora di punta. Entrai prima nella Niagara: non c’erano banchetti, ma avevano allestito una sottospecie di labirinto non molto grande ed immerso nella nebbia, così che nessuno ne sarebbe uscito facilmente. Alcune persone entravano e urlavano per chissà cosa, il ragazzo che stava all’entrata del labirinto se la rideva come un matto ogni volta che sentiva strillare qualcuno.
La Roosevelt, invece, era diventata una pista da ballo con musica elettronica. Decisamente non il mio genere, ma molte persone sembravano divertirsi. C’era un solo banchetto, più piccolo rispetto a quelli della Claredon, e nessuna sedia.
Decisi di andar a prendere una boccata d’aria nel cortile interno. Mi strinsi nelle spalle ed uscii in mezzo alla pioggia, rimanendo sotto una tettoia. Presi una sigaretta dalla borsa e cercai più volte di accenderla: l’accendino sembrava non collaborare. Tentai almeno una ventina di volte, poi tolsi la sigaretta dalla bocca e sbuffai innervosita. Già non fumavo mai, se poi anche l’accendino me lo impediva ero messa bene.
Accanto a me vidi sbucare una mano e una piccola fiamma accesa, mossa dal vento. Mi voltai a vidi che qualcuno mi stava tenendo acceso il suo accendino per me.
Riconobbi subito quegli occhi: ambra fusa.
Il suo viso era coperto da una maschera nera molto semplice, indossava uno smoking con il mantello. Ma si vedeva lontano un miglio che era in borghese.
Rimisi la sigaretta in bocca e mi avvicinai per accenderla, soffiando fuori il fumo. «Grazie», dissi subito, guardando da un’altra parte.
«Si figuri», rispose gentilmente. «Anche se non dovrei istigare qualcuno a fumare».
Mi lasciai scappare una risata. «In realtà non sono una fumatrice accanita. Fumo una volta ogni morte di papa».
«Perché sei nervosa?». Mi voltai e lo fissai negli occhi. Infilò le mani in tasca, sorridendo e sfuggendo al mio sguardo. «Non per essere invadente, ovvio. Se vuoi che me ne vada, sparisco».
Probabilmente era terrorizzato dal mio sguardo. Scossi la testa, cercando di rassicurarlo. «No, no, ci mancherebbe. Comunque sì, sono nervosa, ma niente di importante». Solo vampiri che vogliono uccidermi ed un padre che mi vuole torturare per le feste.
Ringraziai il fatto che non si soffermò a studiarmi nei minimi dettagli. Avevo sempre paura che notasse le lenti colorate, o la parrucca. Ma quello, in un giorno di festa dove tutti erano travestiti, sarebbe stato normale. «Allora ti chiedo: cosa ci fai ad una festa del genere?». Aggrottai la fronte e subito si spiegò. «Voglio dire, sei da sola a questa festa. Come mai non sei con gli amici, o col ragazzo?».
Sospirai e tirai su un po’ di fumo. «Perché non ho il ragazzo e non ho amici in questa città. Mi sono… trasferita da poco». Meglio non dire che alloggiavo all’hotel: avrebbe avuto più sospetti su chi fossi, siccome la Mia che aveva conosciuto era una ragazza da sola, a Londra, in visita e che girava di hotel in hotel. «Ora posso fare io una domanda, se non sono invadente?».
«Certo, chiedi pure».
Ridacchiai tra i baffi. «Cosa ci fa una guardia in borghese, vestito mezzo da Zorro e mezzo da vampiro, a questa festa?».
Adam si voltò subito e rimase allibito. Io non riuscii a far altro che ridacchiare. Scosse la testa e sembrò rilassarsi. «Sono in turno, anche se non sembra. Cioè, dovrei esserlo anche in questo momento».
«Allora mi stai controllando. Hai paura che sia una criminale?».
«Vestita da dea greca? Penso che sarebbe stato più adatto vestirsi da Catwoman se davvero avessi voluto combinare qualcosa di losco». Prese poi in mano un’ala e la indicò con la testa. «Queste sono un po’ scomode per muoversi furtivamente».
Aveva ragione. Mi ritrovai a ridere insieme a lui per l’ennesima volta. «Giusta osservazione. Allora vado a cambiare vestito», scherzai ancora. «Torno dentro perché inizio ad avere un po’ di freddo. E poi lo stomaco sembra essere ancora affamato».
«Allora io torno al mio lavoro: osservare persone che si divertono e lasciare che le mie gambe si addormentino».
Buttai la sigaretta e gli sorrisi. «Allora buon divertimento», lo presi in giro.
Rise e rimase immobile a fissare la pioggia, mentre entravo. «Anche a te».
Tornai alla Claredon e mi riempii di nuovo il piatto con tartine di ogni tipo. Il nervoso a quanto pare scatenava pure l’appetito. Non era possibile che riuscissi ad incontrarlo ogni santa volta, con tutte le persone che vivono in questa città.
Amelia, non importa. Guarda avanti e divertiti.
In realtà, dopo tutto quello che avevo mangiato, non me la sentivo di ballare. Più che altro ero da sola, cosa facevo come una stupida in mezzo alla pista? Me ne fregai e ballai per circa una ventina di minuti, notando che la maggior parte erano coppie o persone per bene.
Ero in un hotel costoso dopotutto, non ci sarebbero stati molti ragazzi come me disposti a spendere soldi per venire ad una festa del genere. Anche Adam mi aveva chiesto che cosa ci facessi qui, senza amici o senza fidanzato.
Sospirai e diedi un’occhiata all’orologio: era mezzanotte da poco passata.
Decisi di tornare in camera senza provare alcuna attrazione che avevano allestito. Niente case infestate o labirinti. Solo la mia stanza ed un buon letto per dormire.
Tornai su e mi svestii velocemente, rimanendo in bagno per struccarmi ed avvolgermi nella vestaglia da notte. Avrei dovuto metterlo in valigia e portarmelo dietro, anche se le ali occupavano un po’ di spazio. Magari avrei potuto lasciarlo a qualche bambina, o regalarlo a qualche associazione. Qualcosa mi sarei trovata, ma di certo non lo avrei infilato nella valigia.
Tolsi lenti e parrucca ed uscii massaggiandomi i capelli, notando che però qualcosa non andava. Il foglio della festa era per terra, accanto al letto, mentre ricordavo perfettamente di averlo lasciato sul materasso.
Mi allungai verso il letto e presi la pistola nascosta sotto il cuscino, caricandola e tenendola stretta tra le mani. Cercai di essere furtiva e ben vigile: poteva essere un altro sicario di mio padre. Controllai dietro il letto, ma non c’era nessuno. Mi avvicinai alla poltrona, ma sentii dei passi dietro le mie spalle.
Mi voltai di colpo tenendo alta l’arma, così come fece la persona davanti a me.
«Ferma!», urlò. Ci misi un attimo a rendermi conto che quello davanti a me era Adam. E mi stava puntando contro la sua pistola. Rimasi allibita, quindi seguii involontariamente il suo ordine: non riuscivo a muovere un solo muscolo. Ma non avevo abbassato la guardia. Mi guardò confuso, forse perché stava cercando di mettere insieme i pezzi. «Chi sei tu?», mi chiese.
Strinsi la mano sulla pistola, ma siccome non aveva ancora smesso di minacciarmi non lo feci nemmeno io. «Mi dai la caccia, dovresti saperlo!», cercai di non urlare.
Adam aggrottò la fronte, ancora più confuso. Lo avevo preso di contropiede. «Ti do la caccia?». Mi studiò ancora per bene. Per la prima volta mi vedeva come effettivamente ero: capelli neri, lunghi fino alle spalle e leggermente mossi, e gli occhi grigi. «Tu… sei la ragazza che stanno cercando, sei Amelia Drakul!».
«Io non mi chiamo Drakul», ringhiai senza rendermene conto. Sospirai e cercai di controllare la rabbia, anche se non era così semplice. Quel cognome mi faceva ribollire il sangue nelle vene.
Adam si leccò le labbra e sembrò abbassare l’arma. «Che ne dici se ritiriamo queste? Non ce n’è bisogno». Non mi chiese nemmeno il perché possedessi una pistola. Si limitò a ritirare la sua nella custodia attaccata alla cintura, sotto la giacca.
Cercai di fidarmi, perciò la posai sulla poltrona. Comunque non troppo lontano da me. «Come hai fatto ad entrare?».
Prese il distintivo e me lo mostrò, sorridendo. «Ho fatto due chiacchiere con la receptionist». Sbuffai una risata. Beh ovvio, figuriamoci se non avessero dato il passe-partout allo Scotland Yard.
«E perché mi avresti seguita?». Incrociai le braccia al petto e attesi una risposta.
«Perché è da un po’ di giorni che ti tengo d’occhio. Da quando sei comparsa qui a Londra e sei venuta a vedere la tua casa». Perfetto, sono proprio una frana con i mascheramenti. «Ho notato subito le lenti a contatto, anche se inizialmente non mi aveva toccato molto. Poi ti ho seguita quando tornavi dal London Coliseum, perché mi sembravi tu nonostante gli occhi ed i capelli diversi. E poi fino a qui, questa mattina».
Un segugio, dissi nella mia mente. Beh, se lavorava nello Yard un motivo doveva esserci. «Sono così interessante? Potrei denunciarti per stalking».
Scosse la testa. «Tu sei il mio obiettivo», rispose tranquillamente. Aggrottai nervosamente le sopracciglia. «Mi è stato detto che in Transilvania cercavano una ragazza, Amelia Drakul, che probabilmente era stata rapita. Nel caso fosse fuggita di propria volontà, sospettavano che sarebbe andata a Londra per recarsi alla casa a lei intestata». Ero così prevedibile? Beh, per mio padre di sicuro. «Il mio obiettivo è quello di trovarti e riportarti al centro di polizia, così avrebbero avvisato tuo padre e saresti tornata a casa».
Scossi la testa. Tutto questo era ridicolo. «Il punto è che io non voglio tornare a casa». Mi voltai verso la finestra e sbuffai. «Sono scappata di mia volontà perché non volevo più essere controllata da… quel mostro». Mi morsi il labbro, guardando fuori dalla finestra. «Cos’altro sai di me?», domandai.
Adam non rispose subito. «Che ti chiami Amelia Drakul e che abiti in Transilvania, niente di più».
Strinsi i pugni e camminai rabbiosamente verso di lui, in modo minaccioso. «Ti ho detto di non chiamarmi in quel modo».
I suoi occhi ambrati erano confusi e dolci nello stesso tempo. Maledetto. «E come dovrei chiamarti, Mia?».
Mi allontanai e tentai di rilassarmi. «Il mio cognome… è Valentine». Anticipai la sua domanda, vedendolo aprir bocca. «Ho preso spontaneamente il cognome di mia madre non appena scappai da casa mia. Non voglio condividere niente con mio padre, non più di quel che purtroppo non posso rinnegare: il sangue».
«Perché lo odi così tanto?».
Ridacchiai tra me e me. «Non capiresti mai, credimi». Mi sedetti sul letto, mentre lui rimase in piedi di fronte a me. «Dimmi Adam, come sei finito a lavorare allo Yard? Perché hanno affidato a te questo incarico?».
Si strinse nelle spalle ed incrociò le braccia al petto. «Mio nonno era una guardia dello Yard, così decisi anche io di entrarne a far parte. Sono della SO12, la squadra speciale. Eh, beh, penso mi abbiano dato questo incarico perché mi ritenevano all’altezza». Girai gli occhi al cielo. «Ad ogni modo, devi venire con me».
Lo fulminai con lo sguardo. «Ma allora non hai capito niente». Mi alzai in piedi e gli arrivai a pochi centimetri dal volto. «Io con te non vengo».
«E se ti obbligassi?», mormorò. Fece per bloccarmi il braccio dietro la schiena, ma lo schivai e lo disarmai, prendendo la sua pistola e gettandola sotto il letto. Afferrai il suo polso e lo feci cadere a terra, ma con la mano libera mi strinse la caviglia. Caddi a mia volta per terra, mentre lottavo per non farmi bloccare. Gli tirai un calcio in pieno stomaco mentre cercava di inchiodarmi col suo corpo e feci una capriola all’indietro per allontanarmi.
Si rialzò in fretta e furia, preparandosi a combattere. Non voleva fare a pugni, glielo si leggeva in faccia. Non sembrava nemmeno il tipo da alzare le mani su una donna. Mi afferrò la mano e storse il polso, facendomi stringere i denti per il dolore. Gli tirai un calcio sugli stinchi e cadde in ginocchio, quindi rotolò sul fianco per trascinarmi con sé.
Mi ritrovai sul suo petto mentre entrambi facevamo smorfie di dolore per i colpi dell’altro. «Non mi puoi obbligare», borbottai malapena. Mi rialzai in piedi e così fece anche Adam, tenendosi una mano sullo stomaco, esattamente dove gli avevo tirato il calcio.
«Io devo riportarti a casa», fiatò.
«Tu è meglio che cambi obiettivo, lo dico per il tuo bene». Lo guardai dritto negli occhi, stringendo le labbra. «Non hai idea in che guai potresti cacciarti».
Si sedette sul letto e riprese fiato, senza aggiungere altro. «E perché mai?».
«Non sai chi è mio padre», ridacchiai.
Si rialzò in piedi, avvicinandosi lentamente. «E allora dimmelo».
Lo fissai di nuovo negli occhi: voleva davvero sapere chi fosse, ma se ne sarebbe pentito amaramente. Sospirai a lungo, osservando la camera. «Non mi crederesti, anche se lavori nella SO12», risposi. Adam rimase comunque in attesa, perciò sbuffai. «Alucard… questo nome non ti dice niente?», domandai.
Aggrottò le sopracciglia e ci pensò un paio di secondi, poi spalancò gli occhi e mi guardò come se fossi un fantasma. «Stai scherzando, spero».
Scossi la testa, purtroppo per lui. «No, è il suo nome. Anagramma di chi è in realtà». Adam si mise a ridere e ciò mi infastidì parecchio. «Lo trovi divertente?».
Si ricompose velocemente. «Trovo divertente questa coincidenza», ridacchiò.
«Che coincidenza?».
«Il mio cognome è Van Helsing, sono olandese».
Ci fu un momento imbarazzante di silenzio dove lo fissavo incredula. Infine, scoppiai a ridere, lasciandolo interdetto. «Fantasia zero, devo dire».
«Sono discendente di Van Helsing», disse con tono più rude.
«Abrham Van Helsing è un personaggio inventato da quel pazzo di Stoker», alzai la voce, andandogli incontro. «E non cercare di prendermi in giro».
«Non ti sto prendendo in giro!». Mi afferrò le spalle e mi scosse leggermente. «Tu sei figlia di Dracula ed io sono nipote di Van Helsing», ripeté ad alta voce. Dopo pochi secondi mi lasciò e fece un paio di passi indietro. «Come fai ad essere sua figlia? Sei umana».
«E’ ora che tu te ne vada», risposi imperativa.
«Ma…».
«E’ tardi, vattene». Presi la sua pistola e gliela porsi, indicandogli poi la porta.  «Dimentica che io sia il tuo obiettivo e non seguirmi più, o ti metti nelle grane».
Lo spinsi fino alla porta, ma appena la aprii si bloccò e si voltò di scatto. «Mia», disse a denti stretti. Lo guardai ancora negli occhi, giusto per perdermici ancora un po’ dentro. Non poteva avermi detto la verità, lo sapevo perfettamente: era solo una tattica per farmi andare con lui. «Io non posso lasciarti andare così».
«E invece lo farai, non mi vedrai più», mormorai.
«Ti aiuterò», disse di getto, senza pensarci. Cosa?, mi chiesi nella testa. «Ti coprirò io, nessuno saprà che sei qui a Londra, specialmente tuo padre».
«Perché faresti questo?».
«Perché voglio conoscerti meglio e capirci qualcosa di tutta questa storia». Abbassai gli occhi e feci per chiudere la porta, ma mise un piede in mezzo lasciando uno spiraglio. «Tu non mi credi, ma io sì. E ho le prove per dimostrarti che non ti mento».
E se avesse ragione? Cosa mi servirebbe? Sarebbe solo una persona in più sulla sua lista delle persone da uccidere. «Buonanotte Adam».

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