Dawns, Sunsets and Northern Lights

di _hurricane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1 ***
Capitolo 2: *** #2 ***
Capitolo 3: *** #3 ***
Capitolo 4: *** #4 ***
Capitolo 5: *** #5 ***
Capitolo 6: *** #6 ***
Capitolo 7: *** #7 ***
Capitolo 8: *** #8 ***



Capitolo 1
*** #1 ***


 

 

Come promesso, rieccomi qui con i Missing Moments della mia long ormai conclusa, Let Me Be Your Sun. Prima di cominciare, ci sono un paio di cose utili da precisare :)

Importante: questa raccolta contiene spoilers per chiunque non abbia letto la fanfiction, quindi se siete finiti qui per "curiosità" e non lo avete fatto, questo è il link del primo capitolo.

Per chi invece l'ha letta e ha la memoria corta, consiglio di dare una rapida occhiata alla fine del capitolo 18 (a cui questo particolare missing moment si ricollega) e magari all'epilogo.

La raccolta conterrà 8 capitoli, 8 momenti diversi non strettamente collegati tra loro e con un tempo imprecisato di distacco tra l'uno e l'altro; alcuni in particolare rispondono a delle domande che alcuni lettori stessi si sono posti e in generale credo che rendano più chiare molte cose della long, alcune delle quali potrebbero sorprendervi!

Stavolta il narratore non è Kurt II, il figlio di Blaine, ma sono io, in quanto ci saranno anche cose che lui non può sapere.

Warnings (che ormai avrete dato per scontati): angst / character death (solo menzionata, non descritta).

Ci tengo a precisare una cosa: in questa raccolta, ci sono sia "alti" che "bassi" della vita matrimoniale di Kurt e Blaine, ma voglio che teniate sempre in mente il significato dell'epilogo di LMBYS mentre leggete, perchè quello non è cambiato. Le difficoltà o le debolezze non significano che si sono amati meno di quanto ho voluto far credere in quel capitolo; significano solo che sono umani, come tutti.

Il titolo della raccolta significa "Albe, tramonti e aurore boreali" e viene da questa frase del capitolo 10: "Perché negli occhi di Kurt, Blaine poteva vedere albe, tramonti, aurore boreali."

Così come ognuna di queste cose è una "sfumatura" del sole, ognuna di queste shot è una "sfumatura" della fanfiction stessa (che parla appunto del sole). Spero abbia senso!

Mi sono dilungata abbastanza, quindi vi lascio! Buona lettura :)

Come sempre, potete tenermi d'occhio per gli aggiornamenti su Facebook e su Twitter.




 

 

 

 

 

La prima notte di nozze di Kurt e Blaine.

 

 

 

 

“Scusami” esordì Blaine, la testa appoggiata pigramente alla spalla di Kurt mentre il rimbombo dell’aereo in volo li cullava dolcemente, avvolgendoli.

“Per cosa?” chiese Kurt con aria confusa, strofinando la guancia ai suoi ricci e accarezzandogli il ginocchio con la mano.

“Per quello che ho detto… dopo il ballo” fu la risposta di Blaine, la sua voce debole e realmente, realmente mortificata nel dirglielo. Era come se si vergognasse, così Kurt non potè fare a meno di ritrarsi in modo da poterlo guardare negli occhi.

“Blaine-“

“No, lo so cosa stai per dire. Che non devo scusarmi, che non ha importanza, ma non è così. Non avrei dovuto dirlo. Mi dispiace” disse Blaine tutto d’un fiato, impedendogli di parlare. Kurt lo fissò a lungo, scrutando dentro i suoi occhi alla ricerca di una chiave per poter decifrare quello che intendeva davvero, il motivo di una convinzione talmente radicata.

C’era qualcosa di trattenuto, come se si stesse tenendo volutamente a freno, imbottigliando le sue vere emozioni da qualche parte in modo che lui non le potesse vedere. Blaine era fatto così: cercava sempre di dire o fare la cosa giusta, di mostrarsi maturo e composto, di essere la persona perfetta che alla Dalton – e probabilmente anche al college – il mondo intorno a lui richiedeva che fosse.

Ma come se ci fosse stato un click nella sua testa, Kurt si rese conto che quello era il Blaine in modalità marito. Il Blaine diventato improvvisamente adulto e responsabile che non voleva fargli pesare la situazione, il Blaine che per riuscirci era disposto a non dire cosa stava pensando, ma non era questo che Kurt voleva; non voleva che per non farlo soffrire gli nascondesse quanto lui soffriva. Perché Kurt non era il resto del mondo, e della perfezione non se ne faceva niente, non la voleva. Aveva Blaine.

“Blaine, ascoltami” disse allora, cercando la sua mano tra di loro per trovarla e stringerla. “Ho capito, ho capito cosa vuoi fare. Ma non farlo, ti prego.”

Blaine lo guardò come se si fosse improvvisamente smarrito, come se qualcuno gli avesse appena tolto il terreno da sotto i piedi, e in quel momento, proprio mentre cercava di essere più adulto di quanto non fosse, a Kurt sembrò così terribilmente piccolo che gli si strinse il cuore.

“Io voglio solo starti accanto” disse Blaine quasi in una sorta di piccola e frustrata lamentela, sbattendo le palpebre sui suoi enormi occhi da cerbiatto.

“E lo stai facendo, lo hai sempre fatto, Blaine. Ma non è così che devi farlo. Non devi mai, mai nascondermi quello che stai pensando perché pensi di fare il mio bene, di qualunque cosa si tratti.”

“Ma io- era tutto perfetto e felice e l’ho rovinato, Kurt-“

“Non hai rovinato niente” gli disse Kurt, stringendogli la mano così tanto da rischiare di fargli male e inchiodandolo con i suoi occhi. “Il matrimonio è stato perfetto, Blaine, perché è stato vero. Non avrei mai voluto che fosse una finzione. Non voglio che noi siamo una finzione. Voglio soffrire insieme a te quando soffri, ne ho bisogno. Non tenermi fuori, ti prego, non lo fare.”

Blaine lo guardò per un attimo come se ancora non fosse in grado di capire, ma poco dopo i suoi lineamenti si addolcirono e molto lentamente fece un piccolo sorriso, annuendo in modo impercettibile. Tornò alla sua vecchia posizione, appoggiato alla spalla di Kurt, e sospirò.

“Davvero è stato perfetto?” chiese a bassa voce, stringendo la mano di rimando. Kurt sorrise e chiuse gli occhi, rilassandosi contro il suo corpo caldo così vicino al suo, il corpo di suo marito, e dio, se quella non era la cosa più perfetta che esistesse al mondo, cos’altro lo sarebbe mai stato?

“Sì, Blaine” rispose dolcemente.




Visto che era stato Blaine ad occuparsi della cerimonia, lasciando Kurt ignaro di quasi tutti i dettagli, a lui fu concesso di preoccuparsi del dopo. Della loro prima notte di nozze. E Blaine era stato così impegnato, così preso dai preparativi, da non accorgersi nemmeno del fatto che Kurt si fosse recato più spesso del solito nella loro casa ancora da finire, ancora da dipingere e riempire di mobili, lo scheletro di una vita che doveva ancora nascere e che lo avrebbe fatto quella notte.

Ma Kurt non ci andò per occuparsi dell’intonaco, né per decidere l’arredamento. La casa era ancora spoglia come il giorno prima del matrimonio, e proprio per questo Blaine rimase molto sorpreso quando Kurt lo condusse davanti ad essa, nel buio profondo della notte inoltrata; pensava che l’avrebbero passata nella sua stanza alla villa, era un pensiero che aveva quasi dato per scontato fino a quel momento.

Kurt ignorò il suo sguardo leggermente interrogativo e gli prese delicatamente la mano, intrecciando le loro dita e poi stringendogliela in una silenziosa promessa. Così Blaine lo seguì in silenzio, senza chiedere niente, al di là dello stipite dell’ingresso ancora privo di una vera e propria porta. C’era un corridoio, bianco e spoglio come il resto, che si apriva davanti a loro; ma non era buio come si aspettava che fosse.

Kurt lo aveva riempito di candele, l’una accanto all’altra in due file ordinate attaccate ai muri, in modo da condurli lungo la giusta via come le piccole luci segnaletiche della pista d’atterraggio dell’aeroporto; fiammelle flebili e tremanti nell’oscurità che lo invitavano silenziose ad andare avanti, a camminare passo dopo passo verso l’ignoto mentre Kurt lo teneva ancora per mano e in rigoroso silenzio lo indirizzava verso la meta.

Perchè era quello che Blaine avrebbe sempre fatto. Se Kurt lo avesse condotto fino al bordo di un dirupo per poi dirgli Salta, Blaine, fidati di me, lui gli avrebbe sorriso, avrebbe chiuso gli occhi e lo avrebbe fatto. E se gli avesse detto Anche se morirai, salta, fallo per me, anche allora, Blaine lo avrebbe fatto.

Quando giunsero a destinazione, rimase senza fiato. Le candele continuavano a delineare i muri fino ad arrivare dentro una stanza, anch’essa illuminata in quel modo, che sarebbe sicuramente stata la loro camera da letto. Perché l’unica cosa che c’era era proprio quella: un grande letto ricoperto da lenzuola rosse sistemato contro la parete, e pieno, assolutamente pieno, di petali di rosa.

Blaine si voltò verso Kurt, ma qualsiasi cosa avrebbe voluto dire, qualsiasi grazie e ti amo e ti voglio gli morirono in gola di fronte al modo in cui lo stava guardando, ancora una volta, come se lo stesse riscoprendo tutto da capo, come se stesse cercando di allungare una mano e scavargli dentro fino a possedere il suo cuore, e in quei momenti Blaine non poteva fare altro che rimanere immobile e aspettare che ci riuscisse, che lo avesse esattamente come aveva tutto il resto.

Kurt si avvicinò e alzò una mano per sistemargli una ciocca nera dietro l’orecchio, indugiando quasi con riverenza sul tratto di pelle che sfiorò con le dita.

“Mi prenderò cura di te” sussurrò nel silenzio, prima di accarezzargli il collo con il palmo e attrarlo a sé in un languido e dolcissimo bacio, di quelli che potevano durare minuti, ore, in cui le paure e le debolezze svanivano nell’aria intorno a loro a mano a mano che si faceva più calda e i loro movimenti più audaci e bisognosi.

E senza neanche rendersene conto, senza neanche smettere di baciarsi, si ritrovarono sul letto: Kurt disteso tra le gambe di Blaine ad esplorarlo, spogliarlo e baciarlo perché quella notte, senza bisogno di doverlo dire, Blaine era il più fragile di loro, era quello che aveva bisogno di essere amato, di essere tenuto stretto da due forti braccia con la schiena sul materasso e la testa all’indietro sui cuscini, di essere soddisfatto e accarezzato nei punti che più preferiva, e Kurt non vedeva l’ora.

Perché Blaine, Blaine era un eroe. Ma credere che gli eroi siano perfetti, che siano fatti per fare sempre ciò che è giusto, può essere il più grande errore del mondo. E’ difficile, essere l’eroe di qualcuno. Frustrante, e doloroso, e spesso non paga mai.

Era come se fosse appena tornato da una battaglia: aveva combattuto e aveva vinto, eppure era comunque esausto, la sua maschera di cera che si era sciolta a poco a poco partendo da quella frase pronunciata mentre ballavano su un prato verde a chilometri da lì.

Vorrei non doverti dire mai addio.

E come tutti i soldati, come tutti gli eroi, aveva bisogno che qualcuno gli dicesse che andava bene così, che poteva smettere: smettere di provare ad essere perfetto, smettere di lottare, smettere di indossare la sua maschera e lasciare, per una volta, che fosse qualcun altro a prendersi cura di lui e lavare le ferite e le cicatrici sparse sul suo corpo e impresse a fuoco nel suo cuore.

Kurt sapeva, in quel momento, che avrebbe dovuto farlo tante altre volte in futuro, perché per quanto avesse detto a Blaine che non doveva mostrarsi forte se non lo era, che doveva condividere con lui il suo dolore, lo conosceva abbastanza da sapere che la mattina dopo probabilmente la maschera sarebbe tornata al suo posto sul suo viso, e l’armatura scintillante sul suo corpo, per poi scomparire entrambe giorni, mesi o anni dopo a causa di una battaglia troppo difficile da superare.

Kurt sarebbe stato lì, in silenzio, pronto ad accorrere al momento giusto e riempire quelle crepe come stava facendo in quel momento, amando Blaine dall’interno, dal profondo, concedendogli il ritmo, i baci e le carezze di cui aveva bisogno.

“Kurt, Kurt, Kurt-“ sussurrò Blaine ad un certo punto con voce strozzata, le mani strette alle lenzuola per trattenere l’istinto di aggrapparsi alla sua schiena, e quando Kurt alzò la testa dal suo collo, interrompendo l’ennesimo bacio che vi stava lasciando sopra, lo guardò negli occhi e ci vide dentro, finalmente, tutta la fragilità che aveva tenuto nascosta dentro di sé. Ed era tanta, così tanta, che desiderò soltanto di poterla in qualche modo assorbire del tutto, farla scomparire.

“Cosa c’è? Dimmelo, dimmi di cosa hai bisogno, Blaine” gli sussurrò di rimando, guardandolo dritto negli occhi e rallentando leggermente i suoi movimenti. Blaine sostenne il suo sguardo ma di colpo serrò la mascella, lottando internamente, ancora una volta, per non aprirsi a tal punto, non mostrare la sua debolezza proprio nel momento in cui era già tutto esposto e intimo tra di loro, in cui tutto era lì in bella mostra e non c’era niente da nascondere.

“Kurt, non- io non posso, io-“

“Ci sono io, Blaine. Sono qui, puoi dirlo, non trattenerti, dillo-

“Ho paura.”

Kurt si fermò per un attimo, i muscoli che tremavano per lo sforzo di non fare ciò che il suo corpo voleva ardentemente fare, lo sguardo incatenato a quello di Blaine.

“Di cosa?” gli chiese, le labbra ad un centimetro dalle sue, i loro respiri affannosi fusi insieme.

“Di perderti. Ho paura, ho così tanta paura, Kurt” disse Blaine, inarcandosi leggermente verso l'alto per baciarlo in modo quasi disperato, mordendogli il labbro e cercando la sua lingua per poi far scivolare le mani giù lungo i suoi fianchi e poi sul sedere, supplicandolo in silenzio di dargli ciò che voleva, di aiutarlo a dimenticare e non avere più paura. Così Kurt lo fece.

“Non avere paura, Blaine” gli disse all’orecchio, quasi respirandovi dentro le parole, mentre tutto diventava sempre più affannato, frenetico e sfocato intorno a lui, rendendo i suoi pensieri incoerenti e fusi l’uno all’altro. “Non mi perderai mai, ci sarò sempre, non avere paura, non avere paura…”

Lo disse così tante volte che divenne quasi automatico, come una cantilena, una ninnananna per cullare dolcemente Blaine e rassicurare allo stesso tempo lui e se stesso. E alla fine, in qualche modo funzionò.

Blaine si addormentò quasi all’istante, dopo aver smesso di fare l’amore. Kurt osservò i suoi lineamenti che a poco a poco si rilassavano e distendevano, il suo respiro che rallentava sempre di più mentre si muoveva inconsciamente verso il calore del suo corpo, cercando di attrarlo a sé con un braccio disteso nella sua direzione. Quando Kurt si accoccolò con la schiena contro il suo petto, unendo le loro mani all’altezza del suo stomaco, lo sentì emettere un sospiro quasi soddisfatto alla base del suo collo.

“Va meglio adesso?” gli chiese Kurt, sperando che non si fosse già addormentato.

“Si” sussurrò Blaine, strofinando il naso contro i suoi capelli per poi lasciarvi sopra un bacio, come se volesse dargli la buonanotte in quel modo silenzioso.

E poi, nel giro di pochi minuti, Kurt potè sentirlo rilassarsi completamente intorno a lui ed emise un lungo respiro, quasi liberatorio. Chiuse gli occhi, sistemò meglio la testa sul cuscino, e aspettò che il sonno lo trascinasse nei suoi abissi lasciandosi cullare dai dolci respiri del suo eroe.

 

 

 


 

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Capitolo 2
*** #2 ***


 


Kurt e Blaine festeggiano il loro primo anniversario di matrimonio.


 


“Io non- non sono sicuro che sia una buona idea” disse Kurt torturandosi il labbro inferiore tra i denti, Blaine che lo trascinava quasi a forza fuori dalla sua auto dopo aver parcheggiato di fronte ad un elegante ed appartato ristorante di Westerville.

“Kurt, siamo già in ritardo” gli rispose Blaine sospirando, cercando di non mostrare la sua frustrazione davanti all’ennesima titubanza di Kurt all’idea di dover cenare fuori. Era passato un anno, esattamente un anno dal loro matrimonio, e Blaine voleva festeggiare quella ricorrenza alla vecchia maniera: un tavolo per due illuminato da candele, un cameriere riservato esclusivamente a loro che versava l’acqua naturale ancora prima che finisse nei loro bicchieri, un altro che sarebbe arrivato a fine pasto per consegnare il conto in attesa che discutessero come due ragazzini su chi dei due dovesse pagare, prima che Blaine insistesse a tal punto da poterlo fare lui, proprio come aveva programmato.

Avrebbero potuto cenare in giardino, fare in modo che il ristorante mandasse qualcuno lì, ma era sera, non c’era niente da temere, e per una notte Blaine voleva semplicemente sentirsi come tutti gli altri e avere la libertà di portare suo marito fuori a cena. Kurt, a quanto pareva, non era dello stesso avviso. Era paradossale, visto che era uscito allo scoperto nel bel mezzo di New York, eppure sembrava comunque terrorizzato.

Alla fine scese dalla macchina, sistemandosi inconsciamente il gilet nero che aveva sopra la camicia con fare quasi maniacale ed evitando lo sguardo di Blaine, concentrando fin troppa attenzione sulle punte dei suoi piedi.

“Kurt” lo apostrofò Blaine, ma con una sorta di cruda dolcezza nella sua voce. Kurt alzò lo sguardo e sbattè le sue palpebre chiare, per poi lanciare un’occhiata intimorita al ristorante dal quale si potevano già sentire i rumori di piatti e posate spostati qua e là, di persone che si sedevano, si alzavano o conversavano, della vita al di fuori della sua casa, del mondo che Kurt semplicemente non conosceva abbastanza. Quel giorno, era lui il più fragile. Era lui ad avere paura.

“Blaine, io-“

“Lo so” lo interruppe Blaine, avvicinandosi all’improvviso per avvolgergli il volto con una mano, il pollice che gli accarezzava lo zigomo pronunciato in un modo che Blaine sapeva essere terribilmente calmante per lui, in un modo che gli faceva sbattere le palpebre più lentamente come quando lo faceva nel loro letto osservandolo mentre a poco a poco scivolava nel sonno, lo sguardo un po’ più sfocato e lontano, i lineamenti più distesi.

Era come uno strumento musicale e Blaine sapeva esattamente quali corde pizzicare con le punte delle sue dita per ottenere i suoni e le sfumature che voleva, dalle note più alte e melodiose del piacere a quelle quasi impercettibili, come un cambio di espressione, una leggera risata, un sorriso inconsapevole.

“Lo so, Kurt” ripetè, mentre Kurt chiudeva gli occhi d’istinto e le sue spalle si rilassavano verso il basso sotto il suo tocco. “Hai paura.”

Kurt annuì ma non disse niente, sorprendendosi e boccheggiando lievemente quando sentì la pressione delle labbra di Blaine sulle sue, il pollice che ancora lo accarezzava mentre l’altra mano gli avvolgeva la nuca e stringeva.

“Non devi, ci sono io” lo sentì sussurrare quando si separarono, prima di sfiorargli la punta del naso con il suo per ottenere una breve sinfonia di risatine che si dispersero subito nell’aria calda e afosa della fine dell’estate.

“E’ solo che- che qui è diverso” rispose Kurt, stringendogli i fianchi e poi spostando le mani dietro la sua schiena per accarezzarne la parte più bassa, concentrandosi sull’incavo all’altezza della vita.

“Che vuoi dire?”

“A New York… so che sembra assurdo, ma proprio perché era una grande città mi sentivo al sicuro, mi sentivo come chiunque altro, perché nessuno sapeva di me e nessuno ci avrebbe giudicato. Ma qui, non lo so, è come se avessi paura che le persone possano guardarmi e capire, capire cosa c’è di sbagliato in me e-“

“Non c’è niente di sbagliato in te” gli disse Blaine quasi in automatico, scostandosi leggermente per fissarlo, come se fosse un dato di fatto universalmente assodato: il sole sorge la mattina e tramonta la sera, le stelle brillano di notte e non c’è niente di sbagliato in te, non c’è mai stato.

“Blaine” lo ammonì dolcemente suo marito, sorridendo con aria consapevole. “Tu dici così perché mi ami, ma loro- loro lo vedranno.”

Blaine scosse il capo e lo prese per mano, intrecciando le loro dita.

“E tu fa finta che non esistano. Ci siamo solo tu ed io, Kurt. Solo tu ed io.”

 


 

La logica insegna che le persone possono regalare un numero limitato di cose ad altre persone. In particolare, si può regalare tutto ciò che si può comprare, o fabbricare con le proprie mani. Non si può regalare il cielo, né il mare, né il sole, perché come si potrebbe mai affidare qualcosa di così grande nelle mani di un singolo uomo?

Eppure, l’amore non si compra e non si fabbrica, ma Blaine riuscì a regalarlo a Kurt comunque. Era un regalo che gli faceva ogni mattina quando si alzava dal letto, impacchettato in un bacio sulla guancia mentre ancora dormiva, in un sorriso mentre gli preparava la colazione aspettando di vederlo passare in corridoio con i capelli ridicolmente arruffati, negli sguardi intensi che gli rivolgeva anche quando Kurt stesso non poteva accorgersene.

Ma quel giorno, Blaine regalò a Kurt anche qualcos’altro: qualcosa che sfidava la razionalità e la logica, perché chiunque, chiunque avrebbe detto che era semplicemente impossibile donare a qualcuno una cosa del genere, una cosa che non si può custodire né confezionare ma che semplicemente esiste. A Blaine però non piaceva la logica, né la razionalità; se gli fossero piaciute, probabilmente non sarebbe stato dov’era in quel momento.

Forse sarebbe stato a New York, con un lavoro più promettente sotto le luci della ribalta; in un appartamento lussuoso con un piccolo cane perfetto e un salotto ordinato e perfetto e un compagno gentile e comprensivo con cui potersi piacevolmente illudere di condividere il resto della sua vita. Forse, chissà. Tanto a Blaine non mancava quella vita, non era curioso di conoscerla: non era la sua.

“Visto che hai insistito tanto per pagare la cena, ora dovrò trovare un modo per ripagare il favore” gli sussurrò Kurt all’orecchio con voce leggermente roca, per poi stuzzicargli il lobo con i denti, il braccio che gli scivolava languidamente intorno alla vita mentre i loro fianchi combaciavano. Blaine fece una risatina accennata e si strinse di più a lui, mentre facevano insieme il giro di casa Hummel in modo da tornare alla loro, nella parte posteriore della grande tenuta.

“Sono sicuro che qualcosa ti verrà in mente” gli rispose con fare provocatorio, inclinandosi verso di lui per baciargli il collo e succhiarne leggermente un tratto di pelle, soddisfatto nel sentire il brivido lungo la spina dorsale di Kurt espandersi fino a connettersi con il suo corpo.

Continuando a succhiare e mordere lievemente, Kurt che emetteva piccoli piagnucolii mentre continuavano a camminare in modo quasi buffo, oscillando a destra e a sinistra, Blaine riuscì a distrarlo abbastanza da arrivare prima del lago senza che lui avesse il minimo sospetto di cosa ci avrebbe trovato.

“Mmmm” mormorò Kurt, conficcando le unghie nel fianco di Blaine e tendendo d’istinto il collo per lasciargli ancora più spazio, gli occhi chiusi per un breve attimo prima che si riaprissero per rimanere spalancati.

Blaine” sussurrò con voce quasi spezzata, portandosi la mano libera davanti alla bocca e fermandosi all’improvviso per lo shock.

Davanti a loro, si stava svolgendo il gioco di luci e colori più bello e sconvolgente che avesse mai visto. Rosso, arancione, rosa, non facevano che accentuarsi fino a scomparire, per poi ricominciare da capo ancora e ancora. Albe.

Blaine ne aveva scelte una decina, le aveva proiettate ognuna su uno schermo bianco, e poi li aveva disposti a semicerchio per dare l’illusione che il sole sorgesse da ogni angolo, da ogni lato verso il quale si voltavano a guardare.

“Blaine” ripetè Kurt, la voce ancora ovattata dal suo palmo e il respiro mozzato in gola, lacrime calde che già si addensavano nei suoi occhi chiari. Tutto intorno a lui era luce, colore, sole, ed era proprio come Blaine gliel’aveva descritta un anno prima sull'aereo, era sempre diversa come il miele dei suoi occhi e Kurt non aveva mai desiderato piangere di più nella sua vita perché era una cosa così bella che non sapeva che altro fare.

“Shh” gli sussurrò Blaine all’orecchio, circondandogli la testa con un braccio per invitarlo silenziosamente ad appoggiarla sulla sua spalla. “Guarda.”

Kurt si inclinò verso di lui, stringendosi al suo fianco, e rimase a guardare mentre il sole sorgeva ripetutamente davanti ai suoi occhi, proiettando sulla sua pelle chiarissima i colori dell’alba che non aveva mai visto, che non aveva mai osato cercare neanche su internet per paura di scoprire che l’amava troppo per poi poterne fare a meno. Ma quello fu diverso.

“Tu- tu mi hai regalato l’alba” disse Kurt, gli occhi che brillavano nel buio mentre un raggio di sole particolarmente rosato si rifletteva nelle sue pupille e risplendeva in modo quasi giocoso tra i ricci neri di Blaine. Lo sentì sorridere contro i suoi capelli, e farsi un po’ più vicino.

“Ti piace?” rispose Blaine, come se gli avesse appena regalato un anello, una cravatta, qualsiasi cosa che avesse un valore quantificabile, come se Kurt potesse davvero dare una risposta che non fosse Dio, ma cosa ho fatto per meritarti?

“E’ bellissima” disse invece, e senza rendersene conto si ritrovò a piangere. Singhiozzi brevi e cadenzati, quasi incerti, che gli sfuggirono dal petto prima di potersene accorgere; e non era tristezza, nemmeno felicità, era di più. Blaine era di più. Era più che dolce, più che bello; qualsiasi cosa facesse o dicesse, era come se venisse da un altro mondo, come se non fosse fatto per essere scontato né mediocre né banale, come se dal momento in cui aveva aperto gli occhi in questo mondo avesse deciso di renderlo migliore con il suo respiro.

“Ehi” sussurrò lui, scostandosi leggermente per guardare Kurt. “Non piangere.”

“E’ tutto- è troppo… è troppo, Blaine” singhiozzò Kurt, insinuandosi in un attimo nell’incavo tra il suo collo e la spalla e sospirando quando Blaine, senza dire niente, lo strinse a sé e iniziò ad accarezzargli i capelli mentre continuava a piangere, le albe intorno a loro che danzavano ancora una volta fluttuando al di sopra di decine di diversi orizzonti.

“Volevo che la vedessi” esordì Blaine dopo un po’ di tempo, in tono quasi riflessivo. “Almeno una volta nella tua vita, volevo che la vedessi. So che non sono vere, che non è lo stesso-”

“E’ perfetto. E’ perfetto, Blaine” rispose Kurt, alzando la testa dalla sua spalla per guardarlo negli occhi. Erano miele rosato, e un attimo dopo più scuro, rosso fuoco e ambra e poi il colore delle pesche mature, il colore di ogni singolo raggio di sole. “Ti amo. Ti amo così tanto, Blaine, ti amo.”

Blaine sorrise e gli prese il mento con due dita, cercando le sue labbra in un dolcissimo bacio. Si baciarono lentamente finchè le lacrime di Kurt non cessarono e rimase soltanto un piccolo sorriso sul suo volto.

“Buon anniversario” disse, avvicinandosi di nuovo per sfiorare ancora una volta le labbra di suo marito. Si accoccolò di nuovo contro la sua spalla, e per molto tempo rimasero così. In piedi, in silenzio, di fronte ad un semicerchio di schermi e proiettori.

Blaine gli aveva regalato l’alba.

 


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Capitolo 3
*** #3 ***


 

 

Un'occasione molto speciale riapre vecchie ferite di Kurt.

 

 

 

 

 

“…i fiori vanno da questa parte, e poi- no, non lì quel tavolo!”

“Kurt, così farai venire un esaurimento nervoso a tutti ancor prima della cerimonia.”

Kurt si voltò di scatto e si trovò davanti Blaine, le braccia incrociate al petto e un sorriso consapevole e vagamente divertito sul viso. Roteò gli occhi, sistemandosi la cartelletta che aveva in mano sotto braccio con fare volutamente professionale.

“Che vuoi farci, ho sviluppato una vera ossessione per il controllo come ogni wedding planner che si rispetti” disse in tono sarcastico. Blaine fece una piccola risata.

“Sì, ho notato!” rispose, avvicinandosi per dargli un bacio sulla guancia. Si guardò intorno, osservando di sfuggita i poveri ‘subordinati’ di Kurt che scorazzavano in ogni direzione nella tenuta Hummel per allestire l’occorrente.

“Vedo che sta andando bene comunque” continuò, incrociandosi le braccia al petto e spostando il peso su un piede. “Rachel sarà contenta.”

“Lo spero” rispose Kurt, il tono improvvisamente più serio. “E’ il minimo che possa fare, dopo che ha deciso di celebrare il matrimonio qui e di notte soltanto per permettermi di assistere.”

Blaine si voltò a guardarlo, l’espressione leggermente preoccupata, e silenziosamente allungò una mano per stringergli la sua.

“Non devi sentirti in colpa” disse, accarezzandogli distrattamente il palmo con il pollice. Kurt gli rivolse un piccolo sorriso e annuì.

“Promesso?” incalzò Blaine, ottenendo così una risatina divertita.

“Sì, promesso!” rispose Kurt roteando gli occhi. Per un po’ rimasero in silenzio, prima che il rumore di qualcosa che cadeva attirasse la loro attenzione.

“Ehi, attenti con quel vaso!” gridò Kurt in direzione di due ragazzi, che alzarono le braccia con aria mortificata e sgranarono gli occhi come se avessero paura di ricevere pene corporali. Blaine si coprì la bocca e scoppiò sonoramente a ridere.

 


 

Il giorno del matrimonio di Finn e Rachel, venne organizzato un grande pranzo a casa di Kurt e Blaine: c’era Burt, la famiglia Anderson, Finn e Carole, sua madre, una donna semplice e leggermente goffa ma dall’aria genuina ed affettuosa, l’ideale di come una madre avrebbe dovuto essere.

“Lei è mia madre, Carole” disse Finn per presentarla a Kurt, e lui le strinse la mano con un sorriso. Quando lei ricambiò, per un attimo gli ricordò la sua.

“Io sono Kurt, molto piacere. E lui è mio padre, Burt” rispose con cordialità, spostandosi leggermente per fare in modo che i due si vedessero e si stringessero la mano. Burt deglutì e fece un cenno con il capo mentre la scuoteva, come se fosse improvvisamente preoccupato di come appariva o della figura che poteva fare semplicemente aprendo bocca, e anche Carole sembrava un po’ più impacciata di quanto non lasciasse intendere il suo aspetto.

Kurt guardò Finn con la coda dell’occhio, poi Blaine, che era in piedi accanto a lui. Suo marito alzò le spalle e gli sorrise, rivolgendogli uno sguardo complice.

Il pranzo andò a gonfie vele: grandi sorrisi, risate, battute, i genitori di Blaine che guardavano Finn e Rachel con aria quasi adorante prima di voltarsi l’uno verso l’altro e sorridere, probabilmente ricordando com’erano alla loro età, giovani, follemente innamorati e pronti a diventare marito e moglie. Pronti ad affrontare la vita, senza niente da perdere nel farlo.

Kurt li osservò attentamente, provando un egoistico senso di frustrazione nel rendersi conto di quanto tutto fosse così terribilmente diverso da come era stato quando lui e Blaine avevano deciso di sposarsi: sguardi titubanti, incertezze, promesse strazianti sussurrate con le lacrime agli occhi. Fu solo un attimo, fugace e passeggero, ma si ritrovò ad invidiare Finn e Rachel così tanto che dovette alzarsi dal tavolo e scusarsi fingendo di dover andare in bagno.

Invece, si recò nella sala hobby – l’aveva ricreata, anche se più piccola, nella loro casa – e si chiuse la porta alle spalle, camminando fino al centro della stanza per poi fermarsi e chiudere gli occhi, concentrandosi sul suo respiro in attesa che la rabbia insensata smettesse di ribollirgli dentro.

Qualcuno bussò alla porta e lui alzò lo sguardo, riflettendo rapidamente su quale scusa inventarsi in modo da giustificare la sua presenza lì.

“Kurt, posso entrare?” disse una voce da fuori, ma non era Blaine, né Burt, né Rachel. Era il padre di Blaine.

“S-sì” disse Kurt, voltandosi verso la porta e sentendosi improvvisamente a disagio. Nonostante gli anni che erano passati, praticamente non era mai successo che lui e Greg stessero da soli nella stessa stanza: passava di tanto in tanto insieme alla moglie per far visita a lui e Blaine, ma si concentrava sempre su come stesse suo figlio, se fosse tutto a posto, se avesse bisogno di parlare di qualcosa. Com’era giusto che fosse. Perché era giusto così.

Era giusto che si preoccupasse che Blaine fosse ancora certo di quello che aveva deciso, mentre con Rachel, di certo non lo avrebbe fatto. Si sarebbe preoccupato della sua vita matrimoniale, e del lavoro che Finn aveva trovato, e della meta della loro luna di miele e quanti figli avessero intenzione di avere. La rabbia gli risalì in gola, rischiando di esplodere, ma cercò di tenerla a bada.

Greg entrò con aria incerta, richiudendosi subito la porta alle spalle, e quello fu probabilmente uno dei momenti più strani della vita di Kurt. Non propriamente imbarazzante, solo… sospeso. Carico di troppe cose eppure allo stesso tempo pronto ad essere riempito di altre, saturo di aspettative da parte di entrambi, segreti risentimenti, cose dette e altre rimaste taciute per tutto quel tempo perché tanto non faceva alcuna differenza. Non faceva differenza, il fatto che Kurt fosse convinto che Greg sperasse ancora segretamente che Blaine cambiasse idea. Dirglielo non avrebbe cambiato niente, così come era irrilevante e non necessario dirlo a Blaine e provocargli un dolore.

“E’ tutto a posto? Avete bisogno di qualcosa di là?” chiese Kurt, squarciando il silenzio. Sembrò troppo formale e vagamente stizzito alle sue stesse orecchie, ma ormai non poteva rimangiarsi le parole. Greg esitò, passandosi una mano tra i capelli brizzolati.

“No, volevo solo- mi chiedevo se andava tutto bene” rispose, guadagnando sicurezza a mano a mano che parlava. Kurt alzò un sopracciglio, rendendosi conto ancora una volta di quanto dovesse sembrare irritato in quel momento e cercando dentro di sé, invano, la forza di preoccuparsene.

“Blaine sta bene” rispose, stampandosi in volto un sorriso convincente. “Sta ancora bene.”

Greg deglutì, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni, e nonostante l’età sembrò un gesto così insicuro ed infantile che inevitabilmente gli ricordò i modi di fare di Blaine.

“Parlavo di te” disse, schiarendosi la gola. “Mi chiedevo se tu stai bene.”

Kurt ritrasse la testa d’istinto, colto alla sprovvista. Era la prima volta che si trovava da solo con il padre di Blaine, e già quel fatto di per sé lo aveva messo a disagio; in più, si stava rivolgendo a lui in quel modo, chiedendogli espressamente come stava.

“In- in che senso?” domandò, avvolgendosi l’addome con le braccia e distogliendo per un attimo lo sguardo.

“Mi sei sembrato un po’… strano, a tavola” rispose Greg, spostando lo sguardo verso la porta in direzione della stanza da pranzo che si trovava al di là di essa. “Come se qualcosa ti stesse dando fastidio.”

Kurt dibattè internamente su cosa fare, se dire la verità o mentire. Era comunque un giorno importante, e non era giusto rovinarlo con inutili tensioni familiari. Inutili, sì. Perché continuava a non fare differenza, Greg avrebbe smesso di preoccuparsene non appena avrebbe accompagnato la sua bellissima figlia in abito da sposa verso un marito sano e perfetto che l’avrebbe amata per altri quarant’anni almeno. E così mentì, o almeno ci provò.

“No, è tutto a posto, dev’essere stata un’impressione” disse, accennando un altro finto sorriso. Greg rimase in silenzio per un po’, osservandolo, e Kurt si chiese quando esattamente avesse perso il suo potere di congelare le persone con lo sguardo in modo da farle sentire a disagio, da farle scappare via. Poi si ricordò che aveva smesso perché Blaine gli aveva insegnato come fare a farle entrare, le persone. Come fare ad amare e lasciarsi amare. Per un attimo, però, avrebbe voluto essere ancora in grado di farlo.

“Mi dispiace” esordì il padre di Blaine, e quelle due parole insieme sconvolsero Kurt più di tutto quello che era stato detto fino a quel momento tra loro.

“Per cosa?” chiese, davvero incerto sulla risposta che doveva aspettarsi. Forse gli dispiaceva soltanto di essersi sbagliato, o di averlo cercato per accertarsi di una cosa che aveva solo immaginato.

“Per non… per non essere stato così” disse Greg, la voce più bassa e riflessiva di prima eppure ugualmente sicura mentre pronunciava le parole. “Quando si è trattato di voi due.”

Kurt inspirò, serrando d’istinto la mascella e stringendo ancora di più le braccia intorno a sé, ma non rispose, aspettando che il padre di Blaine dicesse qualcos’altro.

“E’ solo che è difficile, Kurt” continuò infatti l’uomo, lo sguardo quasi supplichevole come se avesse il forte bisogno di essere capito. “So che sembra ridicolo detto da me, quando per te e per Blaine è più che difficile, ma-“

“Non è difficile” lo interruppe Kurt, prima di poterci pensare due volte. “E’ ingiusto, ma non… non è difficile. Stare insieme, è- è facile, naturale. Non mi aspetto che capisca. Davvero, va bene così.”

Si voltò, dando le spalle al suocero, per iniziare a fingere di dover sistemare dei fogli sparsi su un tavolino, sperando che cogliesse l’occasione per aprire di nuovo la porta e tornare nella sala da pranzo; ma non accadde. Potè sentire il suo sguardo su di sé, che quasi gli trapassava la schiena per l’intensità con la quale stava riflettendo. Quando finalmente parlò, fu quasi un sussurro che rimbombò nelle orecchie di Kurt come un tuono nel silenzio.

“Vorrei soltanto non vederlo mai soffrire, Kurt” disse Greg, e fu come una fitta al cuore, come se glielo avessero appena stretto con troppa forza impedendogli di pompare il sangue nel suo corpo. Kurt strinse tra i pugni i fogli che c’erano sul tavolo, inclinandosi leggermente sulla sua superficie e chiudendo gli occhi. Inspirò profondamente.

“Anch’io” rispose, prima di voltarsi di scatto e guardare Greg con gli occhi leggermente lucidi. Greg lo fissò di rimando, l’espressione colpita e dispiaciuta per la reazione che aveva provocato, ma prima che potesse aggiungere qualcosa Kurt continuò.

“E voglio che sappia una cosa: se mai dovesse dirmi che è troppo per lui, o se dovesse- dovesse trovare un altro, una persona che possa amarlo e renderlo felice, io lo lascerei andare. Mi ucciderebbe se mi sentisse dire una cosa del genere, quindi spero che non glielo dica. Ma è così. Lo lascerei andare, glielo giuro, lo farei. Farei qualsiasi cosa per lui. Le avevo promesso che avrei amato Blaine sempre e l’ho fatto, lo farò. So che lei avrebbe voluto un’altra persona, al posto mio. So che non è abbastanza. Ma è tutto quello che ho, ho dato a Blaine tutto, tutto, e lo rifarei altre mille volte. Lui- lui è il sole, per me. Lo è sempre stato.”

Greg sbattè le palpebre, gli occhi sgranati e la bocca dischiusa di fronte a quella segreta confessione. Ancora una volta, il silenzio calò tra loro come una nebbia quasi palpabile, in attesa che qualcuno la dissolvesse con un gesto, un respiro, una parola.

“Non avrei voluto un’altra persona al tuo posto” disse infine Greg, scuotendo la testa. I suoi lineamenti sembravano più rilassati, come se si fosse tolto un grande peso dal cuore. Kurt si chiese improvvisamente per quanto tempo avesse sperato di poter parlare a quattrocchi con lui, per quanto avesse riflettuto su quell’argomento e sulle parole da dire. “Credo che nessuno potrà mai amarlo quanto lo ami tu. Avrei solo voluto più tempo, per tutti e due. Forse fino ad oggi ho incolpato te, senza volerlo, quando in fondo non c’è nessuno da incolpare.”

Kurt non potè biasimarlo, per quanto ci stesse ancora debolmente provando. Anche lui aveva incolpato se stesso, a lungo. Per non aver resistito abbastanza, per non aver aumentato le distanze tra lui e Blaine quando era ancora in tempo, persino per l’amore che provava per lui pensando di non averne il diritto. Forse per una persona dal di fuori era ancora più difficile capire; forse, ci volevano solo più tempo e più parole da aggiungere alla promessa che aveva fatto prima di sposare Blaine.

Kurt non aveva tanto tempo, ma aveva le parole. Aveva mille modi diversi e forse più, per esprimere quanto lontano si sarebbe spinto per Blaine, per dire a suo padre le cose che avrebbe fatto e quelle a cui avrebbe rinunciato se solo lui glielo avesse chiesto.

“Credo che dovremmo tornare di là, altrimenti si insospettiranno” disse, accennando un sorriso che era finalmente sincero, quasi rilassato, e che venne allo stesso modo ricambiato.

“Sì, penso di sì” rispose Greg, scostandosi per far passare Kurt e fargli aprire la porta. Nel farlo, si voltò verso una delle pareti della stanza e qualcosa lampeggiò nei suoi occhi, come se solo in quel momento si fosse reso conto di dove si trovava esattamente.

“Li hai fatti tu?” domandò, lo sguardo rivolto verso una serie di quadri disposti lungo il muro, l’uno accanto all’altro, e tutti con lo stesso colore che predominava. Era sempre diverso, in realtà; sempre una sfumatura più accentuata di un’altra, ma mai, mai quella giusta.

“Sì” rispose Kurt, la mano ferma sul pomello della porta mentre si voltava leggermente per seguire la traiettoria del suo sguardo.

“Vedo che ti piace molto questo colore” commentò con leggerezza il padre di Blaine, il sorriso evidente persino nella voce. “Mi ricorda vagamente qualcosa.”

“Non è quello giusto, però” rispose Kurt, quasi come se volesse auto-criticarsi in tono severo al riguardo. Greg si girò verso di lui, l’espressione interrogativa.

“Cerco di imitarlo, ma i suoi occhi sono diversi” spiegò allora Kurt, alzando le spalle per alleggerire il tono serio del momento. Quando Greg lo guardò senza dire niente, decise che era ora di aprire la porta e si voltò nuovamente per farlo. Prima di poter fare il primo passo al di là dello stipite, però, lo sentì chiedere: “Kurt?”

“Sì?” disse lui sbirciando dalla sua spalla all’indietro, a bassa voce per non essere sentito dagli ospiti ora a portata d’orecchio.

“Sei la cosa più bella che potesse mai capitargli.”

Kurt sorrise, sperando che il suo sguardo intenso valesse come silenzioso ringraziamento, e senza dire altro tornò nell’altra stanza.

 

 

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Capitolo 4
*** #4 ***


 

 

 

Kurt e Blaine si raccontano una storia guardando la neve cadere.

 

 

 

 

Un altro Natale era quasi alle porte, e ancora una volta la neve aveva lentamente ricoperto la tenuta, trasformandola in un vasto e candido mare che sembrava risplendere sotto i piedi non appena calava l’oscurità. Sia per Blaine che per Kurt, quel periodo dell’anno evocava ricordi tristi e felici insieme: una fredda notte invernale, le ginocchia conficcate nella coltre di neve mentre lacrime calde ne punteggiavano la superficie e i loro respiri si fondevano in uno solo in un bacio disperato; il loro primo Natale, l’entusiasmo degli addobbi e i loro sorrisi consapevoli, il primo passo di un percorso affrontato per ciò che realmente era, senza più illusioni, senza più segreti tra di loro, tutto in bella mostra da parte di entrambi a rischio di essere distrutto in mille pezzi da mani troppo giovani, inesperte ed impazienti di scoprire come si amava.

Era di nuovo tutto bianco, congelato ed immobile, proprio come allora. Ma c’era qualcosa di diverso, quell’anno. Due figure che camminavano insieme tenendosi per mano, passeggiando con spensieratezza tra gli alberi spogli del giardino e stringendosi l’una all’altra ad ogni lieve sferzata di vento freddo.

Blaine aprì la porta di casa e uscì sotto il portico, incrociandosi d’istinto le braccia al petto per proteggersi dal freddo della sera. Si guardò intorno, scorgendo in lontananza le due figure e sorridendo tra sé e sé, prima di concentrarsi nuovamente sullo spazio più vicino e notare Kurt, avvolto da una morbida coperta, che stava seduto sul loro dondolo di legno con lo sguardo perso chissà dove, verso l’esterno. Aveva una tazza di cioccolata calda in una mano, e guardando meglio Blaine potè vedere che non indossava le scarpe, bensì un paio di quegli spessi calzini anti-scivolo che usava d’inverno nonostante fossero, a suo dire, la cosa più antiestetica che potesse esistere sulla faccia della Terra.

Scuotendo la testa con aria divertita, Blaine camminò in silenzio verso di lui e si sedette sul dondolo. Kurt trasalì, colto di sorpresa, ma non appena si voltò e si accorse che era lui i suoi lineamenti si addolcirono. Sorrise, la pelle delle guance increspata agli angoli e il rossore accentuato dal freddo, una macchia quasi impercettibile di cioccolata rimasta proprio sotto il suo labbro inferiore. Blaine amava l’effetto che l’inverno aveva su di lui: in qualche modo, riusciva a renderlo ancora più bello di quanto non fosse, come se facesse parte per natura del suo insieme di colori pallidi e freddi, una gelida ninfa dei boschi eppure in grado di scaldargli il cuore.

“Ehi” disse Blaine, stringendosi a lui e appoggiando subito la testa alla sua spalla.

“Ehi” gli fece eco Kurt, le mani strette alla tazza di cioccolata ancora fumante e i piedi uniti l’uno all’altro, quasi raggomitolato su se stesso.

“Hai freddo? Vuoi che ti prendo un’altra coperta?” chiese Blaine, ignaro del modo in cui Kurt roteò gli occhi di fronte al suo istinto iperprotettivo.

“No, sto bene” disse Kurt, tornando a guardare verso il giardino. Le due figure si erano fermate, forse per contemplare i leggeri fiocchi di neve che avevano iniziato a cadere intorno a loro. Sembravano felici, da quella distanza: Kurt poteva dire che una stava indicando un fiocco mentre l’altra stava ridendo, per poi farsi subito più vicina e tornare nel suo abbraccio.

“Stanno bene insieme” commentò Blaine, seguendo la traiettoria del suo sguardo. Kurt accennò un sorriso e si portò la tazza alla bocca per prendere un sorso.

“Si” disse a bassa voce, il tono quasi distante. “Sono così felici.”

Dopo un momento di silenzio, Blaine allungò le braccia e gli prese le gambe per spostarle e distenderle sulle sue; Kurt glielo lasciò fare, riposizionandosi meglio contro lo schienale del dondolo che lentamente oscillava sotto il loro peso, placido e flemmatico come tutto il resto, come la neve.

“Non sei felice per lui?” domandò Blaine, mentre gli accarezzava languidamente le caviglie al di sopra del pantalone della tuta.

Certo che lo sono” disse Kurt con enfasi, colpito dalla domanda. “Da quando mia madre è morta, mi sono sempre preoccupato del fatto che potesse rimanere da solo.”

“E allora cosa c’è che non va?” insistette Blaine, guardandolo intensamente. “Hai paura che Carole gliela faccia dimenticare?”

“No, no, non è questo” rispose Kurt, scuotendo la testa e prendendo un altro sorso. Guardò ancora una volta verso il giardino, prima di voltarsi verso Blaine e tornare di nuovo silenzioso.

“Allora cosa?” incalzò lui, spostando una mano dalla sua gamba per avvolgergli la guancia. Kurt sbattè le palpebre, inclinandosi istintivamente verso quel tocco, il palmo di Blaine più caldo della pelle del suo viso essendo appena uscito dalla loro casa. Era tutto così silenzioso che persino parlando a voce bassa gli sembrò di gridare, come se ogni singola parola fosse amplificata, resa più importante dall’immobilità del mondo intorno a loro.

“Li guardo… e penso. A noi” disse, cercando la mano di Blaine per baciargli il palmo mentre lui continuava ad accarezzargli la guancia. Vide Blaine sorridere divertito, prima di tornare serio.

“Che vuoi dire?”

“Che con loro, o con Finn e Rachel, persino con i tuoi genitori a volte… li guardo e vedo me e te in un’altra vita. A trovarci dopo tantissimo tempo, come Carole e mio padre; o ad innamorarci al liceo e sfidare le previsioni di tutti, come Finn e Rachel. Vedo le cose che avremmo potuto fare, se tutto fosse stato diverso.”

Blaine lo guardò quasi perplesso, un’espressione a metà tra il rapito e il riflessivo: non sembrava triste di fronte a quella confessione, in fondo neanche Kurt lo era. Era più malinconia, una paradossale nostalgia verso qualcosa che non avevano mai vissuto e della quale quindi non potevano davvero sentire la mancanza. Come se avessero appena superato un bivio e si stessero chiedendo cosa sarebbe successo se avessero imboccato la strada opposta, consapevoli di non poter trovare una risposta sicura.

“Se parliamo di Finn e Rachel, io sono Finn. Il quarterback ammirato da tutti che manda all’aria la sua reputazione per amore. Adoro i clichè” disse in tono sarcastico Blaine, ricevendo una spallata di finta offesa in risposta.

“Quindi questo farebbe di me Rachel, maglioni con gli animali e gonne a quadretti, irrefrenabile parlantina, fondo della scala sociale?” chiese Kurt con un sopracciglio alzato.

“Wow, e dire che si considera la tua migliore amica” commentò Blaine, scuotendo la testa con fare saccente. “Forse doveva raccontarti in modo meno dettagliato il suo tragico periodo da liceale.”

“Forse” gli fece eco Kurt, riportando la sua attenzione sulla tazza che stava iniziando a diventare fredda tra i suoi palmi. L’evidente silenzio rese chiaro che il momento del sarcasmo era sfumato via, offuscato dai pensieri che sembravano affollare la mente di entrambi. Un silenzio terribilmente rumoroso, in realtà.

“E cosa avremmo fatto, in quest’altra vita?” chiese Blaine con sincera curiosità, come se Kurt dovesse raccontargli la trama di una storia. In un certo senso, era davvero così. Kurt si inclinò in avanti per poggiare la tazza sul tavolino che aveva di fronte a sé, poi tornò a sedersi e si appoggiò al petto di Blaine, aspettando che lo avvolgesse con un braccio. Quando sentì la sua mano sistemare meglio la coperta sopra di lui con fare protettivo, sorrise tra sé e sé.

“Avrei frequentato anch’io il liceo, ovviamente” rispose, riflettendo su come continuare. “Magari il McKinley come Rachel, così avrei finito per competere contro di te in qualche gara.”

“E ci saremmo conosciuti così? Non mi sembra un grande inizio” disse Blaine, accarezzandogli distrattamente il braccio. Kurt ci pensò un po’ su.

“Beh, Rachel mi ha raccontato di aver mandato qualcuno a spiarvi una volta.”

“Cosa?!” chiese Blaine aumentando il tono della voce, scostandosi leggermente con un’espressione indignata sul volto.

“Ops, forse questo era un segreto. Comunque sia… facciamo che avrebbe mandato me. E camminando per i corridoi, spaesato e alla ricerca della sala comune…”

“…mi avresti fermato e mi avresti chiesto Scusa, posso farti una domanda? Sono nuovo qui! e io avrei fatto finta di crederci” concluse Blaine al suo posto, soffocando una risatina di scherno. Kurt gli diede una spallata, per poi raggomitolarsi di nuovo contro di lui.

“Poi mi avresti preso per mano, così, senza pensarci” continuò, lo sguardo lontano.

“Senza neanche conoscerti?” domandò Blaine, un piccolo sorriso sul volto. Dio, sapeva che lo avrebbe fatto. Sapeva che se quando si erano conosciuti Kurt fosse stato diverso, se tutto fosse stato diverso, avrebbe allungato una mano verso il suo cuore alla prima occasione, dal primo istante.

“Si” disse Kurt, annuendo per dare enfasi alla risposta. “In un’altra vita, saresti stato impavido sin dall’inizio. Ed esplicito. E disgustosamente flirtoso.”

“O forse tu ti saresti fatto troppe illusioni” ribattè prontamente Blaine, ben consapevole di mentire, perché parlando di cose che non sarebbero mai successe era facile, divertente, quasi spensierato ipotizzare senza porsi troppi problemi al riguardo. Kurt rispose con uno sbuffo oltraggiato, e per qualche attimo cadde ancora una volta in silenzio.

“E poi?” chiese allora Blaine.

“Poi… non so, saremmo diventati amici. Magari qualche uscita insieme, per prendere il caffè, e alla fine uno dei due avrebbe ammesso i suoi sentimenti all’altro. In un modo… bello, e semplice. Sai, una di quelle dichiarazioni incerte e impaurite però giuste, e poi avremmo avuto il nostro primo bacio e sarebbe stato perfetto. Dopo la fine del liceo, saremmo andati insieme a New York per il college, e poi, durante una cenetta al lume di candela, io mi sarei inginocchiato davanti a te e ti avrei chiesto di sposarmi e-“

“…e io avrei risposto di sì, ti avrei dato un bacio davanti a tutti e poi ti avrei trascinato a forza al nostro appartamento per toglierti tutti i vestiti di dosso” lo interruppe Blaine per completare la frase, dandole ulteriore significato con una dolce e languida carezza all’altezza del fianco di Kurt e sussurrando l’ultima parte dritto nel suo orecchio, generandogli un brivido che non aveva a che fare col freddo.

“Hai appena rovinato la mia storia incredibilmente romantica” commentò Kurt con sarcasmo, ma incapace di resistere alla tentazione si voltò leggermente e baciò Blaine sul collo, indugiando sul punto sensibile proprio sotto l’orecchio. Una mano di Blaine scivolò lentamente dietro la sua nuca, premendo il suo viso verso di sé in una silenziosa ed insistente richiesta, e Kurt sorrise soddisfatto contro la sua pelle prima di succhiarla leggermente tra i denti.

Iniziò a scendere verso il basso, fino a spostare il bordo della giacca di Blaine e morderlo all’altezza della clavicola, Blaine che tirava la testa all’indietro contro lo schienale del dondolo e lo teneva fermo con una mano tra i suoi capelli. Quando Kurt si alzò lievemente per mettersi a cavalcioni su di lui, Blaine gli afferrò il viso con entrambe le mani e lo attrasse a sé in un bacio caldo, dolce e vagamente erotico insieme, le loro lingue che intrecciandosi generavano il calore che mancava al resto dei loro corpi a causa dell’aria fredda dell’inverno, le labbra a poco a poco più rosse e gonfie.

Si separarono con uno schiocco e si guardarono, i respiri più affannati del normale. Blaine sorrise e circondò Kurt con le sue braccia, invitandolo a seppellire il viso nell’incavo del suo collo e stringendolo forte mentre lui inspirava il suo profumo.

“E’ una bella storia” disse, sfiorandogli la schiena con misurate carezze al di sopra della coperta che si era portato con sé. Kurt annuì contro il suo collo, sorridendo, anche se una punta di tristezza riuscì a farsi spazio nel suo cuore. Perché sì, era davvero una bella storia.

“Ma non è la nostra” concluse Blaine, in un tono che non era di rammarico come avrebbe potuto essere. Era solo una constatazione, il modo in cui stavano le cose.

“L’avresti voluta, però? Una storia così?” chiese Kurt, la voce ovattata dal collo di Blaine.

“Mi basta sapere di averti amato ogni giorno della mia vita dal momento in cui ti ho incontrato. E anche se ancora non lo sapevo, è stato così” rispose lui, stringendolo intorno alla vita. “E tu? L’avresti voluta?”

“Forse” rispose Kurt, baciandolo lievemente sotto il mento. “Ma anche la nostra mi piace.”

“La nostra è perfetta” rispose Blaine.

 

 


 

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Capitolo 5
*** #5 ***


 

Warning: supersupersuperangst, per questo capitolo e quelli a venire.



 

 

 

 

Tra gli alti e bassi di Kurt e Blaine, ce ne fu uno che fu peggiore di altri.

 

 

 

 

 

“Ehi amore, cosa stai leggendo?” chiese Blaine, facendo capolino in salotto dopo aver lavato i piatti della loro cena e scorgendo Kurt seduto al tavolo, fogli e scartoffie varie sparse su di esso probabilmente provenienti dalla busta postale strappata che poteva intravedere. Era leggermente ingobbito, con una penna blu in una mano che martellava distrattamente contro il legno del tavolo mentre leggeva qualcosa con interesse.

Quando udì la sua voce, Kurt alzò lo sguardo verso di lui e lo fissò, un misto tra la preoccupazione e l’indecisione nei suoi occhi, come se stesse dibattendo su cosa dirgli.

“Sono dei documenti che mi ha mandato il dermatologo, non è... non è niente di importante” disse, distogliendo subito lo sguardo.

Blaine inclinò la testa da un lato e lo guardò con sospetto, iniziando a camminare verso di lui, mentre Kurt cercava invano di riordinare i fogli per impedirgli di capirne il contenuto. Ma Blaine fu più veloce, arrivando a pochi centimetri dal tavolo giusto in tempo per accorgersi che il titolo di uno dei documenti diceva qualcosa riguardo a pratiche mediche innovative e sperimentali.

Per un attimo gli mancò il respiro. Per un attimo, una fiammella traditrice di speranza si accese nel suo petto, ma si spense come se gli avesse soffiato sopra quando alzò lo sguardo e incontrò ancora una volta quello di Kurt.

“Non è quello che stai pensando” disse infatti suo marito, la voce flebile e incredibilmente triste, come per chiedergli perdono ancora una volta per non essere come avrebbe dovuto essere. “Non è una cura.”

“E allora cos'è?” chiese Blaine, distendendo i pugni che aveva stretto lungo i fianchi senza neanche accorgersene e impedendo a se stesso di provare dolore per una cosa che non avrebbe più dovuto fare male ormai. Non avrebbe dovuto, ma non era così.

Era come se anche lui, come Kurt, avesse una grande cicatrice. Una scottatura ormai impressa sulla sua pelle, fusa con il suo essere, con la quale conviveva ogni giorno con così tanta naturalezza da riuscire a scordarsi il più delle volte della sua esistenza. Ma bastava sfiorarla, toccarla con più forza del dovuto, perché facesse male di nuovo come il giorno in cui era nata, tanto tempo prima, in una sera d’inverno raggomitolato nella neve.

Lo aveva scottato, quella neve ghiacciata. Ci aveva pianto sopra, l’aveva stretta tra le dita intorpidite e scorta sulla punta del naso di Kurt quando un fiocco vi era caduto sopra. E quella notte, quella fredda notte, era riuscito a bruciarlo, a marchiarlo. Dare un’occhiata a quel documento era stato come premere con forza contro la sua cicatrice e farne uscire piccole gocce di sangue per poi sentirle scorrere sulla sua pelle nuda.

Kurt esitò, mordendosi il labbro e distogliendo lo sguardo per concentrarsi su un punto indistinto del muro di fronte. Sospirò, chiudendo e riaprendo gli occhi, e poi parlò.

“E’ un elenco di nuove tecniche sperimentali per... per ritardare la morte, Blaine. Di qualche mese.”

Blaine lo fissò. A lungo. Così tanto, e con così tanta intensità, che sembrò impossibile persino a lui stesso che due persone potessero rimanere immobili come statue per tutto quel tempo, eppure era così, erano fermi e toccava a Blaine parlare, ma aveva la gola secca, la vista offuscata, il respiro perso chissà dove. Qualche mese, dio, non era niente.

Ma per lui era il mondo, era tutto, avrebbe dato via la sua anima anche solo per un minuto in più, per un attimo passato a perdersi in due occhi limpidi come acqua di sorgente, due occhi che lo conoscevano meglio dei suoi e lo amavano per quello che era e che ora lo stavano fissando colmi di tristezza e rimpianto, e a quel punto Blaine capì. Capì che quei mesi non li avrebbe mai avuti.

“Non lo farai, vero?” chiese, la voce terribilmente distante persino alle sue orecchie.

Kurt strinse la mascella, poi disse semplicemente: “No.”

E dopo una pausa interminabile, che gli tagliò in due il cuore come un coltello, Blaine gli chiese il perchè, cercando di canalizzare tutta la sua forza di volontà nel non prendere la prima cosa che gli capitava sotto tiro e scaraventarla contro la parete, nel non gridare, nel non supplicare, nel non sprofondare in ripicche e rivendicazioni e Dopo tutto quello che ho fatto per te e Come puoi farmi questo e Non me ne frega un cazzo di quello che pensi, fallo, cristo fallo e basta.

“Si tratta di sei mesi al massimo, e sono procedure con gravi conseguenze neurologiche e fisiche. Ho letto cosa succede: ti svuotano, ti rendono un vegetale, una persona senza ricordi. Non posso fare questo al mio corpo, alla mia mente, al mio cuore, Blaine. Perchè quello ti appartiene, e non posso rovinarlo, non così. Mi dispiace. Mi dispiace, lo sai” fu la risposta di Kurt.

Blaine sapeva che aveva ragione. Sapeva che non era giusto chiedergli di fare qualcosa che avrebbe compromesso così profondamente tutto ciò che era, il suo corpo, il suo spirito. Sapeva, razionalmente, che in quei sei mesi non avrebbe avuto Kurt accanto, ma una copia sbiadita, un involucro.

Ma quando si trattava di Kurt, Blaine non sapeva usare la ragione. Blaine ascoltava il cuore, era quella la sua forza e la sua più grande debolezza, e il suo cuore gli stava dicendo che in fondo avrebbe potuto farlo, si sarebbe preso cura lui di Kurt, si sarebbe assicurato di farlo stare bene, di dirgli ogni mattina e ogni sera Ti amo, sono tuo marito, ti ricordi di me? e sarebbe andata bene lo stesso, Blaine si sarebbe accontentato perché si era sempre accontentato, ormai sapeva come fare, aveva imparato.

Sei mesi erano 180 giorni e 4320 ore e 259.200 minuti e Blaine li voleva, aveva il diritto di volerli. O no?

“Noi- noi ne dobbiamo discutere, Kurt. Non puoi decidere per entrambi” disse semplicemente, mettendo a tacere tutte quelle parole che gli vorticavano dentro e che gli facevano venire la bile allo stomaco nel rendersi conto di quanto suonassero egoiste, di quanto non tenessero conto del benessere di Kurt, di ciò che desiderava, perché lui ne aveva sempre tenuto conto e non voleva smettere, non era giusto.

Kurt si passò una mano tra i capelli e poi sul viso, come per scacciare l’angoscia che quella discussione gli stava causando.

“Blaine, sta a me decidere, riguarda me-“

“Io sono tuo marito! Non puoi farlo, non puoi mettermi davanti al fatto compiuto in questo modo!” sbottò infine Blaine, alzando le braccia al cielo con fare esasperato. Kurt sgranò gli occhi e si alzò dalla sedia, come per volerlo fronteggiare.

“E’ il mio corpo, Blaine! Non puoi chiedermi una cosa del genere!” disse, alzando ancora di più la voce e gesticolando ampiamente.

“Ma potrei farlo! Potrei farlo, Kurt! Dio, sono sei mesi, sei mesi, e tu li stai buttando via senza neanche chiedere il mio parere!”

Blaine a quel punto stava gridando, ne era consapevole ma non riusciva a farne a meno. Era una questione di principio ormai: pur avendo già preso una decisione dentro di sé, Kurt avrebbe dovuto chiedere la sua opinione, perché era questo che faceva una persona innamorata e colma di fiducia. Era questo che facevano due persone che si erano impegnate a rispettarsi e considerarsi e affrontare insieme tutte le difficoltà della vita.

Se Blaine non fosse entrato in salotto per caso, Kurt avrebbe probabilmente stracciato quei fogli per poi buttarli nel cestino e lui non ne sarebbe mai venuto a conoscenza, e l’idea lo rendeva furioso.

Kurt sembrava altrettanto alterato, ma più che rabbia la sua sembrava frustrazione, quasi stanchezza. Come se quel discorso, che avrebbe voluto evitare, lo stesse logorando dall’interno.

“Perché non c’è niente da chiedere, io non li voglio, non così! Sapevi che sarebbe stato così fin dall’inizio, Blaine, tu lo sapevi!” gridò a sua volta, sputando frasi più dure di quanto avrebbe desiderato.

“Ma non avevo alternative, Kurt! Questo è diverso, tu- tu stai scegliendo per me, ancora, come hai sempre fatto!”

“E allora perché sei rimasto?” chiese Kurt, la domanda che risultò quasi velenosa, tagliente, perché non era cambiato assolutamente niente, Blaine si stava appigliando a niente come se fosse qualcosa, eppure aveva sempre detto che non aveva importanza, che il tempo non aveva importanza. Aveva mentito e faceva troppo male per trattenersi. “Che ci fai ancora qui se è così doloroso, Blaine? Perché se pensi che io manderò a puttane la mia mente per rimediare, per farti stare meglio, forse dovresti solo andartene!”

Kurt e Blaine si bloccarono e rimasero a fissarsi, entrambi ansimanti per lo sforzo con il quale si erano gridati l’un l’altro. Era la litigata peggiore che avessero mai avuto, non era mai, mai successo che si aggredissero a vicenda in quel modo. La cosa li sconvolse entrambi, nel profondo, perché era tutto nuovo e terribilmente diverso da ciò che avevano, squallido quasi, in confronto all’amore che sapevano di provare. Rivendicazioni del passato, errori ed egoismo sputati così, come se non contassero niente, come se non bruciassero sulla loro pelle accentuando le cicatrici che entrambi avevano.

Blaine fece un passo indietro e cercò di parlare per qualche secondo, lo sguardo ferito e sconvolto da quello che Kurt aveva appena detto. Indietreggiò ancora, verso la porta, finchè non sbattè contro la credenza sulla quale lasciava sempre le chiavi della sua macchina.

“B-Blaine, non- non andare, aspetta-“

Ma prima ancora che Kurt potesse finire di parlare, Blaine afferrò le chiavi, aprì la porta e se la richiuse alle spalle, correndo verso la sua macchina con il desiderio di non pensare, non provare, non soffrire così tanto come in quel momento.

 


Nelle ore in cui Blaine mancò da casa, Kurt pianse. Forse come non aveva mai fatto nella sua vita, se non per la morte di sua madre. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Il momento in cui Blaine gli avrebbe chiesto di fare qualcosa perché glielo doveva, ed era così, Kurt doveva a Blaine così tante cose, così tanto tempo, che pur rimanendo fermo nelle sue convinzioni non riuscì a fare a meno di sentirsi un mostro. Poteva aggiungere quei sei mesi alla lunga lista di cose che gli aveva tolto, le cose a cui Blaine aveva rinunciato, che lui aveva pensato di aver colmato e cancellato con il suo amore proprio come si era prefissato di fare il giorno in cui lo aveva sposato.

Eppure erano ancora lì, sotto la superficie, pronte ad esplodere da un momento all’altro. Era andato tutto in pezzi e forse Blaine non sarebbe più tornato; anzi lo avrebbe fatto, avrebbe raccattato un paio di vestiti e lo avrebbe lasciato solo in una casa piena di ricordi, gli stessi che non voleva perdere nemmeno per un attimo, ai quali si sarebbe aggrappato fino all’ultimo secondo della sua esistenza. Ma a Blaine non piacevano i ricordi, Blaine voleva cose da poter toccare e sentire e baciare, voleva lui. E Kurt non riusciva ad odiarlo né biasimarlo per quello.

All’improvviso, la porta d’ingresso si aprì. Kurt alzò la testa dalle sue mani, i gomiti poggiati sul tavolo, strofinandosi velocemente gli occhi arrossati dal pianto, ma smise immediatamente quando mise davvero a fuoco la figura di Blaine.

Suo marito barcollò verso destra, allungando una mano alla cieca per sorreggersi a qualcosa e finendo per buttare a terra una lampada da sopra la credenza. Emise una piccola risata nervosa, passandosi una mano tra i ricci completamente disordinati e continuando ad ondeggiare leggermente.

“Blaine, che cosa hai fatto?” chiese Kurt, alzandosi dalla sedia per iniziare ad avvicinarsi verso di lui con cautela, quasi spaventato. Blaine non aveva mai bevuto, o almeno non da quando lo conosceva e non in sua presenza. Non aveva mai perso il controllo a tal punto, non aveva mai cercato conforto in qualcosa che non fosse lui, e Kurt si sentì così male al pensiero di averlo indirettamente ridotto così che gli venne voglia di sprofondare sotto terra.

Perché è questo, quello che nessuno dice mai dei grandi amori. Che come si ride, si vive e si ama intensamente provandoli, allo stesso modo si piange, si muore e si odia quando si rischia di perderli. Che dall’altro lato della medaglia, c’è un dolore grande abbastanza da trascinarti giù senza nulla a cui potersi aggrappare. E che l’abisso sia l’alcol, le lacrime, la solitudine o un finto sorriso di circostanza, non fa alcuna differenza.

Blaine stava soffrendo, a causa di Kurt. Ed era abbastanza.

“Ho fatto come mi avevi detto, Kurt!” esclamò Blaine con troppa enfasi, le parole biascicate ed innaturali che distorcevano la sua bellissima voce. “Sono- sono andato a divertirmi, e ora sono felice, non volevi che fossi felice, mh? Avevo promesso, e Blaine Anderson mantiene sempre le sue promesse!”

“Va bene amore, ti porto a letto” disse Kurt con fare metodico e calmo, avvicinandosi ancora nel tentativo di prendere Blaine sotto braccio e farlo dormire, così che potessero continuare a parlare lucidamente la mattina dopo. Ma Blaine sembrava molto incline a parlare, e infatti continuò a farlo.

“Lo sai, al bar c’erano tante persone simpatiche” disse, guardandosi intorno con aria quasi divertita come se stesse rivelando un segreto. “E tanti- tanti ragazzi, un tizio mi ha offerto da bere e si chiamava tipo Jack, o John, o Jason-“

“Blaine, non fa niente, adesso-“

“E poi mi ha detto Ti va di fare una passeggiata insieme domani mattina, Blaine? e allora io ho pensato che tu non me lo hai mai chiesto, Kurt, perché non me lo hai mai chiesto?” chiese Blaine, guardandolo con ingenuità come se davvero non sapesse che Kurt non avrebbe mai potuto chiedergli di farlo alla luce del sole. E forse Blaine non lo sapeva sul serio, in quel momento.

“Io- Blaine-“ farfugliò Kurt, le lacrime e la vergogna che iniziavano a montargli dentro perché quel Jack, o John, o Jason o come accidenti si chiamava era una persona normale con cui poter uscire e vivere a lungo come era giusto che fosse e fare una dannatissima passeggiata, e Kurt avrebbe voluto gridare Lo so, Blaine, lo so che lui è migliore di me e mi dispiace, mi dispiace, dio, mi dispiace.

“E nemmeno a pranzo, non usciamo mai per pranzo! E poi vado sempre io a fare la spesa e se poi sbaglio qualcosa tu ti arrabbi con me, ti sembra giusto? Io non lo trovo molto giusto” continuò imperterrito Blaine, scuotendo la testa con vigore come per dare enfasi al suo discorso.

Kurt si raggomitolò lentamente sul pavimento, coprendosi le orecchie con le mani per non sentire, non sentire, non sentire mentre Blaine continuava ad elencare con la leggerezza di un bambino tutte le cose che non poteva dargli, e quand’è che erano diventate così tante, quando?

Iniziò a singhiozzare senza neanche rendersene conto, attutendo così il suono della voce strascicata di Blaine ormai lontana alle sue orecchie, distante eppure così vicina e presente, dolorosa come frecce infuocate conficcate nel suo cuore.

“Blaine, smettila, smettila” piagnucolò, oscillando avanti e indietro come uno stupido ragazzino accovacciato nel bel mezzo del bosco, perso e solo nel buio mentre i rumori della notte lo terrorizzavano.

“…casa sulla spiaggia dei miei e non ci siamo mai andati, e c’è un grande, grande giardino, lo sai? E io mangiavo sempre sotto un albero, era tipo un- un salice, o un abete, non-“ Blaine fece una risatina, completamente estraneo a ciò che gli accadeva intorno. “Non me lo ricordo, non me lo ricordo!”

Kurt si alzò di scatto e corse via, raggiungendo la porta della camera da letto e chiudendosela rumorosamente alle spalle. Si accasciò contro di essa, scivolando lentamente verso il basso fino a raggomitolarsi ancora una volta, la testa tra le braccia unite appoggiate alle ginocchia, e continuò a piangere, e piangere ancora.

Quando si addormentò, non se ne accorse nemmeno.

 


 

Tum tum tum.

“Kurt? Kurt, apri la porta!”

Kurt si svegliò di soprassalto, rendendosi conto solo in quel momento di non essersi mai alzato dal pavimento. Sentiva le gambe e le braccia indolenzite, la testa che pulsava, gli occhi ancora gonfi e arrossati e la gola secca per l’intensità dei suoi singhiozzi. Distrattamente, il suo giudizio ancora confuso e intorpidito per il sonno inquieto, si rese conto che qualcuno stava bussando con insistenza alla porta.

“Kurt! Kurt, apri! Mi dispiace, mi dispiace, sono uno stronzo, un idiota, ma ti prego, ti prego fammi entrare!”

Kurt si morse il labbro e chiuse gli occhi, riappoggiando la testa alle sue braccia conserte. Ogni parola di Blaine gli faceva pulsare le tempie, aveva probabilmente il mal di testa più doloroso della storia e non era nemmeno un post-sbornia.

“Non ho voglia di parlare, Blaine” disse, la voce già debole ulteriormente ovattata. “Non ho voglia di discutere.”

“Non dobbiamo discutere, avevi ragione tu! Ero arrabbiato per essere stato escluso, ma avevi ragione tu, è il tuo corpo, Kurt! Ho sbagliato, ti prego, scusami-“

“Ci sei andato a letto?” chiese Kurt freddamente, ricordando all’improvviso il ragazzo sconosciuto che Blaine aveva nominato e sentendo istintivamente una fitta di gelosia nei suoi confronti, che non aveva avuto il tempo di provare la notte prima a causa di tutte le altre cose che Blaine aveva detto.

“C-cosa?” sentì rispondere a Blaine in un sussurro dopo una breve pausa.

Ci sei andato a letto?” ripetè Kurt, con un tono più aspro e severo di quanto avrebbe voluto. Era troppo stanco mentalmente per preoccuparsene.

“No! Non è successo niente, te lo giuro!” ribattè subito Blaine, la voce più alta e ricca di enfasi. Per un po’ rimasero in silenzio, i loro respiri separati dalla porta. Kurt sospirò, passandosi una mano tra i capelli e stringendoli leggermente tra le dita prima di parlare.

“Per tutte le cose che hai detto… mi dispiace, Blaine” esordì con aria riflessiva. Non seppe esattamente perché lo disse, ma ne sentiva il bisogno. Era giusto farglielo sapere, in qualche modo. Blaine esitò un po’ troppo prima di rispondere.

“…che cosa ho detto di preciso?” domandò, e Kurt si rese improvvisamente conto che non se lo ricordava.

“Che- che lui ti aveva chiesto di uscire la mattina e io non te l’ho mai chiesto, e neanche di andare fuori a pranzo o di accompagnarti a fare la spesa e-“

“Oh, cazzo…”

“E io lo so, lo so che queste cose ti mancano e non so che fare, Blaine, non posso firmare quelle carte per rimediare, non posso-“

“No! No, no, no, non devi, Kurt, non devi fare niente! Non lo penso davvero, ero ubriaco, non dicevo sul serio!” implorò Blaine dall’altro lato della porta, sbattendovi lievemente le mani contro.

“Dicono che da ubriachi si dice ciò che si pensa, ma che non si ha il coraggio di dire da sobri” rispose con tono distaccato Kurt, appoggiando la testa alla porta e chiudendo gli occhi, crogiolandosi nel silenzio che calò improvvisamente su di loro.

Dopo qualche attimo, sforzandosi di sentire, si rese conto che si poteva udire un lamento in sottofondo, quasi un piccolo piagnucolio.

“Blaine, cos-“

“Non mi lasciare” sentì dire a Blaine, un accenno di singhiozzo nella sua voce. “Non mi lasciare, non posso stare senza di te, non mi lasciare.”

Kurt si rese conto di essersi alzato e aver aperto la porta solo dopo averlo fatto. Si rese conto di aver tirato Blaine per la maglietta solo dopo averlo fatto. Si rese conto di averlo baciato solo dopo averlo fatto, con foga, e disperazione, piangendo e singhiozzando mentre Blaine lo stringeva a sé come se lo volesse stritolare e si faceva strada tra le sue labbra con la lingua.

E si rese conto di cosa stava accadendo, solo dopo che Blaine si abbassò leggermente, lo prese da sotto le ginocchia e lo issò, continuando a baciarlo, in modo che avvinghiasse le gambe intorno alla sua vita.

Nelle ore che seguirono, smisero finalmente di parlare.

 

 

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Capitolo 6
*** #6 ***


 

 

 

Kurt legge l'ultima pagina del diario scritta da Blaine.

 

 

 

 

 

Kurt si svegliò lentamente, stiracchiandosi come un gatto e allungando braccia e gambe in ogni direzione come faceva sempre quando si rendeva conto che Blaine si era già alzato, lasciandogli così tutto il letto a disposizione. Si aprì quasi a stella marina, tastando con aria soddisfatta la superficie del materasso resa calda dal corpo di Blaine prima che se ne andasse, e all’improvviso le sue dita entrarono in contatto con qualcosa. Dopo averla toccata più volte alla cieca, il viso girato dall’altra parte sul cuscino, si rese conto che era di forma vagamente rettangolare: era il loro diario. Blaine vi aveva appena scritto sopra, altrimenti sarebbe stato ancora nel secondo cassetto del comodino.

Subito più sveglio, curioso di sapere cosa avesse appena scritto, si voltò e prese il piccolo libriccino, sistemandosi a poco a poco in posizione seduta contro la testata del letto. Lo aprì, sfogliandolo fino all’ultima pagina scritta, e lesse.

 

Ti sto guardando dormire, come al solito te la prendi comoda. Potrei anche convocare una banda musicale per svegliarti a suon di tamburi, ma tu ti limiteresti a voltarti dall’altro lato e grugnire nel sonno. A proposito, mi hai appena dato un calcio. Inizio a pensare che tu mi legga davvero nel pensiero, persino mentre dormi.

Sei bello come allora, lo sai? Come quella notte sulla riva del lago, come quella in cui ti ho baciato per la prima volta, come quella in cui ti ho sposato. Sei perfetto.

E se fossi sveglio adesso, mi daresti una gomitata e mi diresti di smetterla di ripeterlo, e io alzerei le spalle e direi di non poterne fare a meno, perché lo sei.

Chissà se mi stai sognando adesso. Spero di si, perché stai sorridendo ad occhi chiusi. Magari dopo mi racconterai cosa stai sognando e scoprirò che non ha niente a che vedere con me. Quindi se leggi questa pagina prima che io te lo chieda, puoi sempre mentire e dire che c’ero io nei tuoi pensieri, d’accordo? Anche se me ne renderò conto farò finta di non saperlo!

Oh, quasi dimenticavo… buon compleanno, amore mio.

 

Kurt alzò lo sguardo dalla pagina, gli occhi lucidi e il cuore che gli batteva forte nel petto – si era appena innamorato di nuovo di Blaine, ormai sapeva riconoscerlo – e proprio in quel momento se lo ritrovò davanti. Era appena uscito dal bagno, i ricci ancora più neri del solito a causa dell’acqua che non si era preoccupato di togliere – Ti verrà il raffreddore, Blaine gli diceva sempre Kurt – con un asciugamano intorno alla vita e il suo corpo in bella vista quasi per intero.

Muscoli più definiti di quando lo aveva conosciuto, pelle un po’ più scura, gambe un po’ più lunghe, ma era sempre Blaine: era sempre l’uomo con un colore senza nome negli occhi e una luce senza fine nel cuore, e Kurt si innamorò ancora, e chissà, sarebbe forse stata l’ultima volta quella? Probabilmente no.

Perché Kurt era certo che sarebbe successo di nuovo, forse all’ultimo secondo della sua vita. L’ultima cosa che avrebbe voluto fare era scoprire ancora una volta di amarlo.

“Cosa fai?” chiese Blaine con voce affettuosa, la domanda palesemente retorica. Kurt cercò di ritrovare il respiro che aveva perso guardandolo, prima di rispondere.

“Ho letto quello che hai scritto” disse, sfoggiando un piccolo e quasi timido sorriso. “Grazie.”

Blaine gli sorrise di rimando senza dire niente, dirigendosi verso l’armadio per trovare qualcosa da mettersi addosso, ma prima di poterlo aprire sentì Kurt parlare di nuovo come se fino a quel momento non avesse fatto altro che pensare a come rispondere.

“Anche tu lo sei, Blaine. Sei bello come allora.”

Blaine si voltò di scatto, colpito dal suo tono quasi riservato, riflessivo. Come se fosse una confessione scottante da fare, una cosa che aveva paura di dire. Kurt lo fissò per un secondo quasi con riverenza, prima di spostare lo sguardo sul diario che aveva ancora tra le mani. Con aria rassegnata, sospirò e lo richiuse, per poi poggiarlo sul comodino.

“Non scriverai, vero?” gli domandò Blaine in un sussurro. Kurt alzò lo sguardo verso di lui e fece segno di no con la testa.

“Perché?” chiese allora Blaine, spostandosi per sedersi alla fine del letto, vicino ai piedi di Kurt. Distrattamente, iniziò ad accarezzargli una caviglia da sopra le lenzuola, sentendolo rilassarsi sotto il suo palmo.

“Perché è così che voglio che finisca. E’ così che voglio che tu mi ricordi. Mentre sorrido ad occhi chiusi perché ti sto sognando, perché stavo sognando te, Blaine, sogno te sempre, dio.”

Blaine gattonò velocemente sopra di lui e lo attrasse a sé in un bacio dolce e possessivo, cingendogli il viso con entrambe le mani e sentendo Kurt sospirare contro le sue labbra, il suo respiro subito più accelerato. Quando si ritrasse, si accovacciò tra le sue gambe divaricate e rimase a fissarlo, i suoi capelli arruffati, le guance leggermente tinte di rosso, le labbra gonfie e quell’accenno di borse sotto gli occhi che tanto odiava, ma che ai suoi occhi non riuscivano comunque a renderlo meno perfetto di com’era.

Kurt tornò ad essere improvvisamente riflessivo, passandosi la lingua sulle labbra come faceva sempre quando stava pesando le parole da dire. Per un attimo ci fu solo silenzio, e poi-

“Pensi che lo farai mai leggere a qualcuno?” domandò, e la frase colse Blaine leggermente di sorpresa.

“Perché? Pensi che dovrei?” rispose stranito. Da quando Sebastian, tanto tempo prima, lo aveva fatto a loro insaputa, l’idea quasi lo nauseava. Sarebbe stato come tradire Kurt se avesse permesso a qualcun altro di farlo, e al di là di tutto era una cosa a cui semplicemente non aveva mai pensato.

“Non so, potresti farlo” disse Kurt, ma Blaine capì che c’era qualcosa, qualcosa di grande, a cui stava pensando, così incalzò: “E a chi dovrei farlo leggere?”

Kurt alzò lo sguardo dalle mani che aveva stretto alle lenzuola e lo fissò, gli occhi così chiari, così terribilmente chiari, che a Blaine sembrò di essere sott’acqua mentre guardava dal basso la superficie del mare e ancor più su il colore azzurro del cielo. Era uno spettacolo, e ogni volta che Kurt sbatteva le palpebre Blaine agognava per il momento in cui le avrebbe riaperte soltanto per perdersi nell’acqua ancora una volta.

“A tuo figlio, per esempio” disse Kurt dopo una pausa che sembrò interminabile, e a quel punto Blaine capì che stava pensando intensamente al dopo. Al futuro di Blaine senza di lui. Gli si strinse il cuore, a vederlo così triste, ma in fondo non era neanche quello, non gli sembrava propriamente triste. Sembrava perso, come se la sua mente fosse lontana anni luce a fluttuare chissà dove e lui non potesse raggiungerla neanche se avesse allungato una mano per afferrarla. Ma non poteva sopportarlo, così ci provò comunque, allungandola verso la sua e stringendola.

“Come fai a sapere che ne avrò uno?” chiese in un sussurro che fece terribilmente male, perché lo avrebbe voluto con Kurt e adesso stava parlando con lui di un domani in cui non ci sarebbe stato e in cui, forse, avrebbe cresciuto un figlio al fianco di qualcun altro. Sembrava così sbagliato, da essere quasi un oltraggio, un abominio.

“Lo so e basta” rispose Kurt con un piccolo sorriso consapevole, stringendogli la mano di rimando. Lo fissò ancora, e Blaine si sentì morire quando parlò di nuovo, squarciando il silenzio. “Sarai un padre fantastico, Blaine.”

Blaine lo guardò per un attimo prima che il suo viso si contraesse in una piccola smorfia di tristezza, e si abbassò completamente per appoggiare la fronte alle loro mani unite sopra il materasso, come per trovarvi conforto. Pianse qualche lacrima, bagnandole, e poi trovò la mano di Kurt in quell’intreccio e vi lasciò sopra un piccolo bacio.

“Anche tu lo saresti stato” disse in un sussurro impercettibile e strozzato, il cuore che bruciava tanto quanto i suoi occhi per aver appena ammesso una cosa che sapeva con certezza fin nel profondo del suo essere ma non aveva mai osato dire ad alta voce. Bruciava arso dal fuoco dei saresti stato e avremmo avuto e avrei voluto, perché era tardi, era troppo tardi ormai.

Quando udì un lieve singhiozzo sfuggire alle labbra di Kurt, alzò di scatto la testa e raggiunse il suo viso quasi alla cieca, baciandolo in fretta pur di non vederlo piangere, e senza neanche sapere come si ritrovarono avvinghiati l’uno all’altro in un intreccio senza senso a baciarsi e toccarsi ovunque. Blaine iniziò a parlare tra un bacio e l’altro senza neanche accorgersene.

“Gli parlerò di te” disse, soffocando un altro singhiozzo di Kurt con le sue labbra prima di continuare. “Gli darò il tuo nome e gli parlerò di te, di noi. Gli insegnerò a suonare e dipingere e gli dirò di guardare il cielo di notte per trovarti.”

“Davvero lo farai?” chiese Kurt, il viso ad un centimetro dal suo e le braccia strette con possessività intorno alla sua vita, il respiro affannoso e le lacrime ancora fresche. Blaine annuì, strofinandogli il naso nel farlo, e poi rispose.

“Gli dirò che sei una stella.”

 


 

“Si prenda tutto il tempo di cui ha bisogno, signor Anderson” disse l’infermiera, stringendogli la spalla con una mano con fare comprensivo e rassicurante.

“Hummel-Anderson” la corresse Blaine, sfiorando l’anello che aveva al dito quasi inconsapevolmente mentre spostava lo sguardo sul vetro che lo separava dalla stanza che aveva di fronte a sé. Lei gli sorrise in un silenzioso cenno di scuse, e senza dire altro si allontanò.

Blaine rimase in piedi, le mani giunte, a guardare. A guardare quattro bambini diversi, tutti abbandonati dalle loro madri non appena erano venuti al mondo, e dover scegliere quale di loro portare a casa con sé, quale di loro far diventare suo figlio.

A quale di loro dare il suo nome.

Il suo cuore battè un po’ più forte e il respiro si fermò; Blaine si strinse forte il petto, serrò la mascella e chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi su come fare a respirare, dentro e fuori, dentro e fuori, prima che occhi azzurro cielo e Lascia che io sia il tuo sole e Ti amerò per sempre, Blaine e Non dimenticarmi gli offuscassero la vista e lo trascinassero verso il basso con i loro artigli affilati.

Si appoggiò al vetro, un palmo piatto sulla sua superficie mentre l’altra mano restava ancorata al suo petto, al suo cuore, stringendolo per costringerlo a rimanere lì dov’era, dentro di lui, invece di scoppiare, volare via dal suo corpo e raggiungere la persona a cui apparteneva davvero.

Era troppo presto, Blaine lo sapeva. Troppo presto per prendersi una responsabilità del genere, per fare un passo così importante dettato dal lutto e dalla sofferenza, da una promessa che aveva fatto ma che non era costretto a mantenere subito. Ma si sentiva così solo, e così perso, e così pieno di amore che non sapeva più dove guardare, non sapeva più che farsene, perché Blaine era fatto così. Non aveva smesso di voler amare. Non aveva smesso di voler vivere. Ma non sapeva come fare.

Sarai un padre fantastico, Blaine.

Anche l’altra mano sul vetro, e poi anche la fronte, e il respiro troppo affannato e strozzato e veloce e Blaine aveva dimenticato di nuovo come fare, il cuore batteva troppo forte – Come facevi a saperlo? Come facevi a sapere che lo sarò? – e suonava una melodia spietata di parole sempre uguali, Mi manchi e Non so come fare e Ti amo più di prima e Mi manchi mi manchi mi manchi mi manchi.

Blaine aprì gli occhi e tornò a fissare dritto davanti a sé, cercando qualcosa di Kurt in uno di quei bambini sconosciuti. Cercava sempre qualcosa di Kurt, quando si guardava intorno. Per ricordarsi che c’era stato.

E fu in quel momento che lo vide: un bagliore. Uno scintillio negli occhi di uno di loro, probabilmente un gioco di luci, un normalissimo riflesso dalla lampada attaccata al soffitto. Ma non appena lo vide, si voltò per guardare gli occhi degli altri bambini e all’improvviso non erano più tutti uguali; quello era diverso. Adesso, di colpo, aveva la pelle più pallida di tutti e gli occhi più chiari di tutti e un giorno probabilmente avrebbe avuto i capelli castani e lisci e un sorriso capace di illuminare la notte più scura.

Un giorno avrebbe conosciuto una persona e avrebbe cambiato la sua vita, avrebbe cercato di dipingere i suoi occhi fino ad impazzire e ci avrebbe fatto l’amore senza pensare alle conseguenze su un pavimento sporco di pittura.

“Lui” disse Blaine, la voce roca e troppo bassa per essere sentita mentre continuava a fissare il neonato al di là del vetro. Provò più forte. “Lui, voglio lui.”

Quando l’infermiera prese il bambino dalla culla e lo adagiò tra le sue braccia, Blaine se lo sistemò al petto e lo fissò. Aveva le guance piene, tinte da due aloni di colore che gli ricordarono il modo in cui Kurt arrossiva. Pochi capelli arruffati sulla sua testa, ancora troppo scuri per stabilire come sarebbero diventati, e due occhi vispi ed espressivi che si guardarono intorno con curiosità.

Blaine alzò la mano libera e con cautela gli sfiorò la guancia con il dorso dell’indice, osservando il movimento delle sue piccole palpebre che svolazzavano placide come quelle di Kurt quando gli sfiorava lo zigomo allo stesso modo. Sorrise teneramente, e solo allora una lacrima sfuggì ai suoi occhi per cadere proprio sulla guancia del bambino. Blaine se ne accorse e la scacciò via, stringendolo un po’ di più a sé.

“Come ha intenzione di chiamarlo?” sentì dire all’infermiera, che era rimasta in silenzio dietro di lui per lasciargli godere il momento. Blaine accennò un sorriso e guardò suo figlio, il loro figlio. Perché ai suoi occhi, quello era comunque il frutto del loro amore: Kurt era l’unica persona al mondo con cui avrebbe mai voluto avere un figlio, e così sarebbe stato.

Sarai un padre fantastico, Blaine.

Anche tu lo saresti stato.

Sì, lo sarebbe stato. Blaine ne era così sicuro che faceva male. Chiuse gli occhi, e per un attimo fu tutto come avrebbe dovuto essere: Kurt dietro di lui, che gli cingeva la vita appoggiando il mento alla sua spalla per guardare il bambino che aveva tra le braccia e sorridergli. Avrebbe detto E’ così bello, Blaine e lui avrebbe risposto Proprio come te e allora Kurt avrebbe accennato una risata e gli avrebbe detto che era uno stupido.

“Kurt” disse Blaine, giocando con la mano del bambino che intanto l’aveva stretta intorno al suo indice. “Si chiama Kurt.”

 


 

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Capitolo 7
*** #7 ***


 

 

Blaine conosce Richard.

 

 

 

 

 

“Papà, perché piangi?”

Blaine alzò la testa dalle sue mani, togliendo i gomiti da sopra il tavolo del salotto. Si asciugò velocemente gli occhi, strofinando con forza e rendendoli così ancora più rossi, e cercò di chiudere il diario e l’album di fotografie che aveva di fronte prima che suo figlio si accorgesse di loro.

“E’ tutto ok, Kurt, torna a dormire” gli disse, mentre il bambino camminava a passo felpato verso di lui, i piccoli piedi coperti dai calzini che creavano un ritmico suono ovattato sul pavimento di legno. Kurt ignorò quello che aveva appena detto – testardo, così testardo com’era lui – e alla fine lo raggiunse, incrociando le braccia sul bordo del tavolo e appoggiandovi sopra il mento per sbirciare. In silenzio, allungò una mano e prese una delle fotografie che c’erano sparse sopra, che Blaine aveva rimosso momentaneamente dall’album per guardare meglio come se non le conoscesse tutte a memoria, come se non riuscisse ancora a sentire la risata di Kurt quando rimaneva a fissarle.

“E’ papà?” chiese suo figlio, osservando la fotografia che aveva preso. Era una delle tante che Blaine aveva scattato mentre lo guardava dipingere; in quella in particolare, aveva i capelli letteralmente in ogni direzione e una macchia di pittura blu sulla punta del naso – se lo era grattato dimenticandosi di avere le dita sporche, pensò Blaine – e stava sbirciando verso l’obiettivo con la coda dell’occhio, un piccolo sorriso consapevole sul volto nel rendersi conto che Blaine aveva scattato proprio in quell’istante.

“Sì” rispose Blaine con la voce incrinata, osservando attentamente l’espressione di suo figlio che cambiava leggermente, diventando subito più curiosa. Lo vide arricciare il naso, avvicinando il viso alla fotografia per cogliere meglio ogni dettaglio, ogni lineamento.

Era passata qualche settimana da quando gli aveva spiegato che era morto, che non era semplicemente una stella del cielo. E Kurt era ancora così piccolo, così dannatamente piccolo, che Blaine non riusciva a fare a meno di provare una punta di bruciante orgoglio nel vedere quanto fosse maturo, quanto fosse in grado di capire senza dover chiedere.

Kurt sarebbe così fiero di te.

“Posso vedere le altre?” chiese il bambino, e Blaine tirò indietro la testa, colto di sorpresa, ma senza dire nulla ne raccattò alcune da sopra il tavolo e gliele porse. Ce n’era una del loro matrimonio, Kurt con un braccio intorno alla sua vita con il sorriso più grande che avesse mai fatto, l’arco bianco dietro di loro e il verde di Central Park tutto intorno, i due anelli, difficili da vedere dentro la fotografia, che ogni singola volta riuscivano a cogliere l’attenzione di Blaine.

In un’altra erano sul prato di notte, seduti sopra una tovaglia a quadretti rossi e bianchi con cestini di cibo intorno a loro; Kurt stava mangiando una fetta di pane con sopra la marmellata – di fragole, la sua preferita – e poco prima che la foto venisse scattata da Burt stava lottando animatamente con una zanzara che non aveva la minima intenzione di lasciarlo in pace, mentre Blaine rideva sotto i baffi con un panino al burro d’arachidi in mano.

“Sembra simpatico” esordì il figlio di Blaine, la testa inclinata da un lato mentre rifletteva silenziosamente, l’espressione concentrata come se si stesse sforzando con tutto se stesso per farlo.

“E tu come fai a dirlo?” gli domandò Blaine, appoggiando il mento sul palmo di una mano e guardandolo dall’alto verso il basso con curiosità.

“Ha un bel sorriso” rispose con ovvietà il bambino, spostando lo sguardo da una foto all’altra e annuendo quando si rese conto che era proprio come aveva detto. Blaine lo fissò per un attimo, prima che il suo cuore si contorcesse dentro il suo petto fino a curvarsi su se stesso e poi esplodere.

“Papà?” chiese Kurt in tono preoccupato, posando le foto sul tavolo e strattonandogli la maglietta quando lo vide scoppiare a piangere, la testa di nuovo sepolta tra le braccia conserte. “Scusami, non volevo farti piangere, non piangere…”

Blaine continuò a singhiozzare per almeno cinque minuti buoni, mentre suo figlio gli accarezzava la schiena con la sua piccola mano, inesperta e titubante – un flash attraversò la mente di Blaine, un’altra mano incerta, un’altra esplosione di singhiozzi dentro una stanza della Dalton – eppure in un modo così terribilmente adulto.

“E se io trovo un altro papà? Tu starai meglio?” esordì Kurt, e all’improvviso Blaine smise di piangere e alzò la testa.

No.

Si voltò del tutto e guardò il figlio con espressione dura, quasi ferita, come se lo avesse appena tradito. Kurt sgranò leggermente gli occhi ed indietreggiò, torturandosi il bordo del pigiama con le mani e abbassando gli occhi sul pavimento.

“C’è- c’è una bambina nella mia classe e- e suo padre era andato in guerra” disse, incespicando sulle parole. “E mi ha detto che la sua mamma piangeva sempre, però poi ha trovato un altro papà e adesso sorride, allora ho pensato che-“

“Le cose non vanno per tutti allo stesso modo, Kurt” lo interruppe Blaine, serrando la mascella. Il figlio si morse il labbro, tirando leggermente su col naso, e Blaine inspirò e si passò una mano sugli occhi per cercare di calmarsi. Per qualche attimo ci fu solo silenzio.

“Scusa” sussurrò Kurt, e quando Blaine riportò lo sguardo su di lui vide che aveva una piccola lacrima sulla guancia.

“No, no, non piangere” gli disse, alzandosi dalla sedia sulla quale era seduto. Si abbassò su di lui e lo prese in braccio, accarezzandogli la testa e facendogliela appoggiare sulla sua spalla. “Shh, non hai fatto niente di male, è tutto a posto.”

“Ora pensi che io non voglio bene a papà” singhiozzò Kurt, stringendogli le braccia intorno al collo. Blaine si trattenne dall’esplodere di nuovo – fai l’adulto, Blaine, fai il padre, dio – e lo strinse con forza, cullandolo lievemente in alto e in basso.

“No, no, lo so che gli vuoi bene” gli rispose, sussurrandoglielo nell’orecchio. “Lui sa che gli vuoi bene.”

“E come fa a saperlo?” domandò Kurt, la voce improvvisamente così piccola e indifesa che ricordò a Blaine, come se non lo sapesse già, il peso che gli aveva messo sulle spalle.

“Non te l’ho detto? Le stelle sanno sempre tutto” gli rispose, una lacrima che alla fine ebbe la meglio su di lui e gli scivolò sulla guancia. “Di giorno non le vedi solo perché c’è il sole, ma ci sono lo stesso, non vanno mai via.”

Kurt rimase in silenzio per un po’, i piccoli singhiozzi che a poco a poco si attutirono fino a diventare il ritmo di un respiro un po’ più strozzato e affannato del normale. Blaine gli accarezzò la schiena, su e giù, su e giù, e gli sfiorò i capelli con la sua guancia umida prima di dargli un bacio.

“A cosa stai pensando?” chiese a suo figlio, sapendo con assoluta certezza che non aveva smesso di riflettere. Era uno di quei bambini che pensavano anche nel sonno, che in ogni secondo della loro vita avevano qualcosa che gli frullava per la testa.

“Se- se lui sa sempre tutto” - rispose infatti Kurt, alzando la testa dalla sua spalla per guardarlo – “allora sa anche che sei triste?”

Blaine inspirò e chiuse gli occhi, facendo combaciare la sua fronte a quella molto più piccola del bambino. Non rispose.

 


“Allora, come sta andando?” disse Blaine, facendo il giro dell’isolotto della cucina per aprire lo sportello dove teneva i biscotti. Ne tirò fuori un pacco e lo aprì, per poi prenderne distrattamente uno e portarselo alla bocca.

“Io e Charlie stiamo facendo le sottrazioni” gli rispose Kurt con entusiasmo dal tavolo che c’era al di là del bancone, le sue gambe che ondeggiavano al di sotto della sedia senza riuscire a toccare terra, e Blaine non potè fare a meno di sorridere e appoggiare i gomiti all’isolotto per godersi la scena. Charlie era un compagno di classe di Kurt, che lui aveva invitato a casa per studiare; un bambino timido e silenzioso che distoglieva lo sguardo non appena Blaine gli rivolgeva la parola.

Rimase ad osservarli, a concentrarsi sulle piccole differenze tra di loro. Charlie continuava a cercare di sbirciare verso Kurt per vedere cosa stesse scrivendo, mentre Kurt era totalmente nel suo mondo: la lingua tra le labbra, all’angolo della bocca, in evidente segno di concentrazione; le sopracciglia corrugate, la testa inclinata da un lato, la penna stretta con forza tra le piccole dita mentre si sforzava di scrivere i numeri bene in fila senza uscire dalla riga di quadretti.

“Charlie, a che ora vengono a prenderti i tuoi genitori? Tra un po’ sarà buio, e io e Kurt dobbiamo… fare una cosa” disse Blaine, lo sguardo che saettò subito fuori dalla finestra dove il cielo si stava a poco a poco tingendo di rosso, preparandosi al tramonto.

Dobbiamo andare in giardino a stenderci sul prato e cercare la stella più luminosa del cielo per dirgli che lo amo ancora.

“Tra- tra qualche minuto, signore” gli rispose il bambino, mordendosi il labbro. “Però la mamma era impegnata, viene mio zio a prendermi.”

“Va bene, non c’è problema” gli disse Blaine distrattamente, tutta la sua attenzione ormai rivolta a quel quadrato di cielo che riusciva a vedere. Quando Kurt c’era ancora, le finestre erano sempre oscurate di giorno, fino a dopo il tramonto. Era strano, riuscire a guardare fuori.

Proprio in quel momento, il campanello dell’ingresso suonò.

“Beh, dev’essere lui allora” disse Blaine, scuotendo la testa per tornare alla realtà. Drizzò la schiena e fece il giro del bancone, oltrepassando il tavolo e arruffando i capelli di suo figlio mentre passava. Quando andò ad aprire alla porta, si trovò davanti un uomo alto e di bell’aspetto, le spalle larghe e i capelli castani tagliati molto corti. Aveva gli occhi di un verde bellissimo, smeraldo quasi. Blaine si sentì terribilmente in colpa nel notarlo.

“Salve, sono Richard, lo zio di Charlie” disse l’uomo con un sorriso, allungando subito una mano per stringere la sua.

“Blaine Hummel-Anderson, piacere” rispose Blaine, scuotendola. “Prego, Charlie è quasi pronto.”

Facendosi da parte, lasciò che l’uomo oltrepassasse la soglia, che entrasse in casa sua. In casa loro. Fu strano, perché a parte Burt, Finn o suoi familiari, nessuno lo aveva mai fatto, nessun estraneo. Kurt andava quasi sempre a giocare a casa di suoi compagni, piuttosto che il contrario; e quelle poche volte che qualcuno era venuto lì a prendere il figlio, era rimasto sulla porta ad aspettare.

E forse fu l’apprezzamento silenzioso che Blaine aveva fatto ai suoi occhi, a farlo sembrare così sbagliato. Fu il fatto che stava osservando l’ampiezza delle sue spalle, il modo in cui il maglione sagomato accentuava le linee del suo petto, il gusto impeccabile nel vestire. Fu quello, a farlo sentire un traditore. Blaine deglutì.

“Ehi, campione!” esclamò Richard, facendo il giro del tavolo per dare un pizzicotto sulla guancia al nipote e sbirciare cosa stava scrivendo. Charlie sorrise ma si raggomitolò leggermente allo stesso tempo, chiudendo subito il quaderno e affrettandosi a sistemare tutto nello zaino che aveva appeso allo schienale della sua sedia.

Smettila di guardarmi.

“Spero non abbia creato problemi a lei e sua moglie” esordì l’uomo, ignaro di come stessero le cose, e Blaine avrebbe letteralmente voluto fondersi con il pavimento in quel preciso istante. Tutte le mamme si tenevano ben lontane dall’argomento, conoscendolo a grandi linee; chiaramente, i genitori di Charlie non si erano ricordati di farlo sapere anche a Richard.

“Non- non ho una moglie” rispose Blaine, schiarendosi la voce prima di continuare. “Kurt. Il suo nome è Kurt.”

“Oh, chiedo scusa” disse Richard, grattandosi la nuca con fare impacciato. “Terribile gaffe. Comunque sia, non si crei assolutamente problemi al riguardo. Sa com’è… stessa squadra.”

Cazzo, non guardarlo. Non guardarlo non guardarlo non guardarlo.

“Spero di avere il piacere di conoscere anche lui, allora” continuò Richard, vedendo che Blaine non accennava a voler rispondere. Blaine abbassò lo sguardo.

“Vuoi venire con noi? Te lo facciamo conoscere!” esclamò Kurt, saltando giù dalla sedia mentre Charlie scendeva lentamente dalla sua, affrettandosi poi per stargli dietro mentre Kurt raggiungeva suo zio e gli sorrideva dal basso verso l’alto.

Kurt” lo ammonì Blaine, le dita che formicolavano e gli occhi che iniziavano a bruciare mentre nella sua testa era tutto un No no no no ti prego no.

“E dove dovrei venire per conoscerlo?” chiese Richard, piegando le gambe per abbassarsi ed essere all’altezza di Kurt. Gli sorrise teneramente, e Blaine non potè fare a meno di notare quanto sembrasse gentile, onesto, affettuoso. Non potè fare a meno di rendersi conto di quanto sentisse la mancanza, in quel momento, di qualcuno che sorridesse a lui in quel modo, e No no no no non fargli questo, Blaine non fargli questo, mandalo via.

“Con noi in giardino, a guardare il cielo!” rispose Kurt, prima di alzare lo sguardo verso suo padre per cercare conferma. Ma Blaine non fece in tempo a scuotere la testa, che il bambino riprese a parlare: “Lo sai, lui è la stella più bella di tutte.”

Richard inspirò e ritrasse lievemente la testa, alzando gli occhi verso Blaine. I loro sguardi si incontrarono.

“Io- io credo che dovrei andare” disse Richard, schiarendosi la voce. Si alzò e si sistemò le pieghe del pantalone, prima di voltarsi per raggiungere il tavolo e prendere lo zaino di Charlie dalla sua sedia. Blaine lo osservò, le braccia strette intorno a sé e gli occhi che continuavano a pizzicare fastidiosamente. Era come se avessero appena scoperto un suo grande segreto, come se lo avessero denudato davanti a tutti, e il pensiero di quell’estraneo che si stendeva insieme a loro sul prato con lo sguardo verso il cielo gli fece venire la nausea.

Non dimenticarmi. Anche quando andrai avanti e avrai una famiglia e sarai felice… non dimenticarmi, Blaine. Almeno un pezzo, un pezzetto del tuo cuore, anche il più piccolo e insignificante, conservalo per me.

Blaine spalancò gli occhi, come se una freccia lo avesse appena colpito al petto.

Anche quando andrai avanti e avrai una famiglia e sarai felice.

Kurt voleva che fosse felice. Voleva che andasse avanti, che vivesse, che si innamorasse di nuovo e avesse una famiglia. Ma Blaine non sapeva come fare; dopo sei anni, non sapeva nemmeno se volesse farlo davvero.

“Papà, papà, facciamoglielo conoscere!” riprese ad insistere Kurt, correndogli incontro e tirandogli la stoffa dei pantaloni. Blaine lo guardò con la mascella serrata, i pugni chiusi ai fianchi, incapace di trovare un modo per dirgli di no che fosse più gentile del gridare, gridare con tutto il fiato che aveva in corpo di smetterla, smetterla di cercare inconsciamente di spingerlo verso una felicità che non voleva.

“Ora devo proprio andare, Kurt” disse Richard, prendendo Charlie per mano e scoccando a Blaine un’occhiata comprensiva, quasi di silenziose scuse. “Ho degli impegni, un’altra volta magari, ok?”

“Ok” gli rispose Kurt, il tono speranzoso. “Un’altra volta.”

Blaine deglutì e si voltò, aprendo finalmente la porta d’ingresso.

“Kurt, vai a prendere il cappotto così dopo usciamo” disse a suo figlio, aspettando che si fosse allontanato dalla stanza prima di riportare lo sguardo su Richard, ora in piedi sulla soglia al di là dello stipite.

“Mi dispiace” disse l’uomo, mordendosi il labbro e sbattendo le palpebre sui suoi dannati occhi verde smeraldo.

“Non è colpa tua” rispose Blaine con un’alzata di spalle. “E’ solo un bambino molto insistente.”

“Non dev’essere facile… crescerlo da solo” gli disse Richard, lo sguardo rivolto verso l’interno sul punto in cui poco prima si trovava il bambino.

“Certe volte è più dura di altre” fu la risposta di Blaine. Il sole intanto era calato del tutto, e lui era già in ritardo. Quando riportò lo sguardo su Richard, con l’intenzione di salutarlo definitivamente, vide che c’era qualcosa di diverso nei suoi occhi, come se stesse attentamente riflettendo su cosa dire. Trattenne il fiato.

“Se hai voglia di parlare, mi- mi piacerebbe…” – disse l’uomo, abbassando il tono della voce – “…sentirti.”

Blaine lo fissò, deglutendo il nodo che aveva improvvisamente in gola e cercando dentro di sé la forza di non scoppiare a piangere lì, in quel momento di fronte al secondo uomo più bello che avesse mai visto. Di fronte ad una persona gentile e comprensiva che sicuramente lo avrebbe stretto tra le sue braccia senza pensarci due volte, se lo avesse fatto. Che gli avrebbe detto che andava tutto bene e che non doveva vergognarsi di niente e lo avrebbe riportato in casa, magari sul divano, per poi offrirsi di preparargli qualcosa di caldo.

Sembrava proprio una di quelle persone. Genuine. Vere. Blaine aveva così dannatamente bisogno di qualcosa di vero. Qualcosa da poter toccare che non fosse né un quadro, né una pagina sbiadita, né una fotografia. Qualcosa che gli rispondesse e gli accarezzasse i capelli mentre piangeva nel sonno, qualcosa che non fosse lontana anni luce, brillante, perfetta, inafferrabile.

Blaine aveva bisogno di Kurt. Ma Kurt non c’era, e Richard sì. Richard era lì e se solo avesse trovato il coraggio, avrebbe potuto dirgli di si e chissà, chissà cosa sarebbe successo. Blaine era ad un bivio, fermo esattamente al centro dell’incrocio, senza sapere che cosa fare.

Continuerei a vivere, perché è ciò che tu vorresti. Ed è ciò che io voglio, Blaine.

Promettimelo.

“Anche a me” disse tutto d’un fiato, prima di potersene pentire. Si sentì un po’ più leggero, e il senso di colpa sfumò lievemente come tempera diluita su una tela.

Grazie a quelle parole, senza saperlo ancora, Blaine mantenne la sua promessa.

 

 

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Capitolo 8
*** #8 ***



La canzone che troverete in questo capitolo è On My Way di Boyce Avenue.

Vi ricordo che questo è l'ultimo capitolo della raccolta, purtroppo :( spero che vi piaccia!

Credo che vi farà piangere, ma d'altronde che lo dico a fare ormai?



 

 

 

Kurt II scopre una sorpresa dimenticata nel tempo.

 

 

 

 

 

Kurt entrò in silenzio nella stanza di Kurt, l’altro Kurt, il Kurt di un tempo, quello di cui suo padre si era innamorato tantissimi anni prima e che amava ancora. Era uno di quei giorni un po’ grigi e malinconici in cui sentiva il bisogno di farlo: chiudersi dentro quel santuario di ricordi non suoi, sperando che quel giorno facesse la differenza, che sfiorando per l’ennesima volta un mobile o toccando per l’ennesima volta un quadro avrebbe potuto chiudere gli occhi, riaprirli e poter dire di conoscere veramente tutta la storia.

Gli sembrava ancora di non conoscerla, quella storia. Pur avendola letta e riletta centinaia di volte, gli sembrava di continuare ad aprire e chiudere la mano intorno al nulla, all’aria. Certe volte si sentiva fuori posto, lì dentro, perché c’erano crepe nei muri e macchie di pittura che ne sapevano più di lui, in quella casa. Che avevano visto più cose, ascoltato più risate, osservato baci casti farsi più audaci e sorrisi nascere dal buio, che avevano contemplato nel silenzio mentre due anime si innamoravano, che le avevano sentite piangere, che avevano assaporato nell’oscurità della notte i loro cuori battere all’unisono mentre dormivano.

Cercando di scacciare via quella sensazione di inadeguatezza, Kurt attraversò lentamente, quasi con riverenza, la camera da letto; era ancora tutto uguale, tutto, faceva quasi impressione come il tempo sembrasse fermo. Burt si assicurava sempre di tenere la stanza pulita ma anche di lasciare tutto nella stessa posizione, ma non nella sala hobby: lì, suo figlio non aveva mai voluto che qualcuno pulisse e Burt aveva deciso di mantenere le cose invariate.

Kurt oltrepassò il tavolo rotondo – il tavolo intorno al quale loro studiavano, dove avevano imparato a conoscersi – e diede una rapida occhiata al davanzale, quello dove, se fosse stato lì prima di venire al mondo, avrebbe trovato il padre che non aveva mai conosciuto seduto con le ginocchia sotto il mento, lo sguardo fisso contro un vetro scuro, ignaro della luce che avrebbe trovato senza il bisogno di oltrepassarlo.

Raggiunse infine la seconda porta e la aprì, fermandosi un attimo a guardare. Sempre lo stesso ammasso di schizzi sparsi, di pennelli sporchi, di tele finite e altre incompiute, spartiti, mucchi inutilizzati di argilla. Sempre lo stesso ammasso di oggetti che sembravano volerlo giudicare. Chiudendosi la porta alle spalle, Kurt camminò all’interno, sfiorando con riverenza la superficie scura del pianoforte che aveva ormai imparato a suonare e cercando come sempre di non calpestare i fogli che nessuno aveva osato raccogliere da terra.

Se Kurt e Blaine non le avessero ripulite dopo, le impronte delle loro mani sporche di pittura sul pavimento sarebbero state ancora lì.

Lo sguardo fisso sul pavimento per misurare bene i suoi passi, il ragazzo si fermò di colpo, una scritta mai notata che catturò improvvisamente la sua attenzione. Fuoriusciva leggermente al di sotto di un altro foglio, che la nascondeva per metà, così Kurt si abbassò e raccolse da terra il foglio sottostante, ignorando il leggero senso di colpa che provò nel farlo.

Quando lesse finalmente cosa c’era scritto, gli mancò il respiro.

Se mai verrai al mondo, questa è per te. Per Kurt, da Kurt.

Era una canzone. E Kurt… Kurt l’aveva scritta per lui. Blaine non gli aveva mai raccontato di avergli detto in anticipo di volerlo chiamare come lui, probabilmente era successo nell’arco di tempo successivo alla pagina scritta per il suo ultimo compleanno e Blaine non parlava mai di quell’arco di tempo, era come se non fosse mai esistito, erano cose che sapeva soltanto lui e probabilmente non avrebbe mai condiviso con nessuno al mondo, neanche con lui.

All’improvviso, non si sentì più fuori posto. Perché per tutto quel tempo c’era stato un regalo per lui lì dentro, qualcosa destinata ad essere trovata da lui, e quel pensiero rese la sua presenza giusta. Era strano che quella canzone non fosse nelle mani di Blaine, pronte a consegnargliela alla prima occasione, ma quando Kurt osservò meglio il foglio capì perché: era incompleta.

Frasi tagliate e riscritte, scarabocchi, e sul finale delle note musicali che sfumavano nel nulla, in un finale che non era un finale, in un addio non detto ad alta voce. Non aveva avuto il tempo di finirla, o forse si era pentito di averla scritta, pensò all’improvviso Kurt, mordendosi il labbro inferiore, ma a quel punto l’avrebbe strappata e gettata via.

Senza concedersi il tempo di ripensarci, si voltò e si diresse a grandi passi verso il pianoforte. Si sedette, lo aprì e poi sistemò il foglio dalle scritte leggermente sbiadite sul leggio, flettendo le dita per iniziare a suonare mentre gli occhi vagavano velocemente tra note e parole, abili ed esperti, per trovarne il senso e poterlo esprimere.

Aveva la voce di suo padre, gli dicevano sempre tutti. Di Blaine. Pur non essendo legato a lui per sangue, gli somigliava nei modi di comportarsi e anche di cantare, forse perché era lui ad averglielo insegnato.

Quando iniziò a cantare, però, la sua voce profonda uscì quasi strozzata e innaturale, sconvolta dall’emozione, mentre le parole venivano lentamente assorbite dal suo cuore come fosse una spugna e la sensazione, finalmente, di essere al suo posto lo avvolgeva come una morbida carezza. Quelle parole erano per lui, solo per lui. Ed era bellissimo.

 


I wasn’t there the moment you first learned to breathe

But I’m on my way, on my way

I wasn’t there the moment you got off your knees

But I’m on my way, on my way

 

Lay down

And come alive in all you've found

All you're meant to be

And for now we'll wait until the morning light

And close our eyes to see

Just close your eyes to see

 


Le sue mani incespicavano sui tasti, una canzone ancora semi-sconosciuta perché potesse suonarla al meglio, ma non era per quello, non del tutto: era troppo intenso, troppo importante, troppo tutto perché potesse eseguire le note come se non gli importasse. Le lacrime all’improvviso si addensarono nei suoi occhi e le parole si trasformarono in singhiozzi accompagnati dalla musica.

 


A tear must have formed in my eye

When you had your first kiss

But I'm on my way, on my way

So leave a space deep inside for everything I'll miss

Cause I'm on my way, on my way

Lay down

And come alive in all you've found

All you're meant to be

And for now we'll wait until the morning light

And close our eyes to see

Just close your eyes to see

 


Era come se per tutto quel tempo Kurt lo avesse guardato, guardato davvero, in attesa che trovasse quella canzone segreta e che capisse, che sapesse che se solo avesse potuto conoscerlo lo avrebbe voluto, lo avrebbe amato tanto quanto aveva amato Blaine. Nonostante tutti gli oggetti intorno a lui, e il diario sul suo comodino, e gli aneddoti che suo padre gli raccontava, quello rese Kurt reale più di qualsiasi altra cosa, come se di colpo avesse tra le mani la prova lampante che era esistito davvero, che non era ma d'altronde che lo dico a farato e aveva scritto per lui ancor prima che venisse al mondo.

 

And when you feel no saving grace

Well I'm on my way, on my way

And when you're bound to second place

Well I'm on my way, on my way

 

So don't believe it's all in vain

Cause I'm on my way, on my way

The light at the end is worth the pain

Cause I'm on my way, on my way



Kurt smise di suonare e cantare – o piangere, o singhiozzare, non aveva importanza – e chiuse gli occhi, portandosi una mano sul cuore e rilasciando un lungo respiro liberatorio. Era una sensazione bellissima, sapere di essere stati così importanti per qualcuno così, alla cieca, sapendo di non poter mai ricevere niente in cambio. Perché era così che suo padre aveva amato: o tutto o niente, senza zone grigie né vie di mezzo né se e forse e chissà.

E adesso anche lui era parte di quella storia, non era più un narratore esterno, uno spettatore seduto nel buio a guardare il palcoscenico. Che fosse stata un’ora, o un giorno, una settimana, era stato nei pensieri di Kurt, nelle sue dita ispirate mentre scrivevano su un foglio stropicciato e macchiato d’inchiostro.

“Grazie” sussurrò ad occhi chiusi, prima di sorridere lievemente.

 


 

“Kurt?”

Kurt alzò lo sguardo dall’ammasso di fogli scarabocchiati che aveva disseminato inconsapevolmente intorno a sé, seduto a gambe incrociate sul pavimento di pietra della sala hobby della sua vecchia casa. Si tolse la matita da dietro l’orecchio e iniziò a raccoglierne alla cieca qualcuno, per impilarli l’uno sull’altro in un frettoloso tentativo di ordinarli.

Blaine si appoggiò allo stipite della porta, una gamba incrociata sull’altra, e lo fissò con aria divertita mentre lo vedeva trafficare velocemente nel tentativo di nascondergli una canzone non finita, perché era così, era sempre così: finchè non erano perfette, nessuno aveva il diritto di vederle se non lui.

“Scusami, stavo- stavo scrivendo” gli disse Kurt, mordendosi lievemente il labbro e trasalendo quando si rese conto di aver accentuato un piccolo taglio nel farlo. Era più o meno una settimana ormai che le sue labbra erano di colpo screpolate e la pelle più secca, qualche piccolo solco ai lati dei suoi occhi che non era riuscito ad idratare per quanto ci avesse provato, soltanto perché Blaine non se ne accorgesse e gli dicesse che era ancora bello come un tempo.

“Ho notato” rispose Blaine, abbozzando un sorriso. “Non posso proprio avere un’anteprima, vero?”

“Quando sarà finita, lo sai” gli disse Kurt, alzandosi lentamente da terra. “Quando sarà finita, te la farò ascoltare.”

“Va bene” acconsentì Blaine, allungando una mano verso di lui in attesa che la stringesse. Quando lo fece, lo attrasse inaspettatamente a sé in modo che i loro corpi aderissero l’uno all’altro, e in silenzio alzò l’altra mano per tracciare con l’indice il contorno dei suoi occhi, giù lungo la mascella fino ad arrivare alle labbra secche di Kurt.

“Blaine, no-“

Ma Blaine lo zittì silenziosamente con un dolce, lunghissimo bacio, inumidendogli le labbra mentre le sue braccia gli cingevano i fianchi. Kurt si abbandonò completamente, e quando si separarono i loro volti rimasero comunque vicinissimi.

“Ci sono riuscito, Kurt?” disse Blaine in un sussurro quasi inesistente.

“A fare cosa?” rispose Kurt, la voce altrettanto bassa.

“Ad essere il tuo sole. Ci sono riuscito?”

Kurt unì le loro fronti per un attimo, sospirando, prima di guadagnare la forza necessaria per rispondergli, per quanto fosse dannatamente facile.

“Sì” sussurrò, dandogli un rapido bacio sulle labbra prima di continuare. “Sì, Blaine.”

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non posso dirvi quando tornerò con una nuova storia, ne ho una in cantiere da una VITA ma in questo periodo non ho mai tempo per colpa degli esami universitari. Quindi insomma, posso solo dirvi di non dimenticarvi di me :)

Grazie a tutti coloro che mi hanno seguito, anche in questo piccolo spin-off!

Siete voi che con il vostro supporto mi spingete a continuare :)

Baci, _hurricane


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