L'altra versione

di Gringoire97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fughe e idee ***
Capitolo 2: *** Strani amori ***
Capitolo 3: *** Violazione e Salvezza ***
Capitolo 4: *** La scarna figura ***
Capitolo 5: *** Scomparsa ***
Capitolo 6: *** Addio e Accettazione ***
Capitolo 7: *** Strani incontri ***



Capitolo 1
*** Fughe e idee ***


1° Capitolo

Fughe e idee

 

 

 

Il poeta Gringoire si aggirava furtivo per i campi intorno Notre-Dame con la sua piccola dolce amica. Lei, fedele e amorevole, Lei che aveva occhi solo per lui, non come la Esmeralda che aveva invece occhi solo per lo stolto cavaliere Phoebus. Nel mentre della sua fuga con la capretta Djali, Gringoire si imbattè in una sagoma nera, smunta, vestita di una lunga tonaca nera. Solo gli occhi erano visibili, ed erano accesi come un fuoco ardente, si intravedeva uno di quei desideri brucianti e impossibili che logorano l'anima. Quando quell'ombra informe fu vicina Gringoire capì chi era: L'arcidiacono di Josas Claude Frollo. Si preparò ad una riverenza e all'inizio di un dialogo su “questo ucciderà quello” o su processi o su tutto e invece l'arcidiacono non si fermò, talmente il suo pensiero era incentrato su altro che non notò il poeta. Gringoire dimenticò in fretta l'episodio ora che aveva per se la capretta Djali. Claude Frollo intanto proseguiva sventando per poco gli ostacoli che un bosco può offrire quando d'un tratto si fermò, si accasciò a terra e pianse. Sembravano lacrime di sangue tanto pareva che quell'uomo soffrisse. Poi come animato da una forza soprannaturale il prete si alzò e invertendo il suo cammino tornò sui suoi passi. Quando raggiunse la porta di Parigi la attraversò con un unico obiettivo e si diresse alla piazza della Greve. Forse era ancora in tempo per salvarla. Lei, che tanto lo sconvolgeva. È necessario notare che la Tour Rolande nascosta aveva una piccola fessura fra i pannelli che la costituivano che poteva essere forzata e costituire un varco. Frollo si diresse di filato lì e scavò quel varco. I gendarmi facevano pressione sulle inferriate dell'unica finestrella, l'unica fonte di luce di quel luogo di reclusione,e combattevano contro una donna animata anche lei da una forza innaturale. Frollo si rese conto di tutto questo e quella fede in Dio che sempre lo aveva animato tornò a farsi sentire in lui, riflettè velocemente e percorse con lo sguardo l'angusta stanza. Un fagotto giaceva a terra. Nero come la pece Frollo si diresse verso di esso lo prese fra le braccia e lo portò al di fuori del varco. Proprio in quel momento la donna cedette la presa e si lasciò come morire poco distante dal punto dove si trovava Frollo. Egli prese anche lei con la forza conferitagli dall'amore. Raggiunse la cattedrale e una figura illuminata da una candela gli venne incontro. Il corpo stremato di Frollo cedette dopo aver adagiato a terra le due donne svenute. Quell'inquietante figura era lo storpio Quasimodo. Esso con la sua forza preparò un alloggio temporaneo e tornò dal suo padrone.

-Come state?- Disse debolmente.

Non gli giunse alcuna risposta. Il prete aveva di vivo solo un bagliore in fondo agli occhi. Quasimodo lo raccolse e lo curò. La febbre ardeva dentro quel corpo quasi morto.

-Dove sono quelle donne?- Un leggero movimento delle labbra indicò a Quasimodo che il prete era vivo, solo troppo stremato. Purtroppo il campanaro era sordo e quindi non sentì. Un ultimo vigore nel corpo del prete si agitò e si fece porgere carta e penna:

Mio caro Quasimodo,

Dio ha voluto sottoporti ad una grande prova, quella della deformità. L'hai superata e ora ha ciò che hai sempre voluto. La zingara è qui. La passione che brucia in me, l'ardore, il desiderio sta per essere estinto da una forza troppo grande, Dio mi sta chiamando a se. Io ho portato a termine il mio compito, ho fatto ciò che potevo per me, per te e per mio fratello Jehan. Io mi sono costruito una corazza fragile che mi ha tenuto confinato fuori dal mondo, muoi per essermi innamorato, muoio per non avere avuto mai forza. Quasimodo, non fare il mio errore, tu puoi essere migliore, salva due anime e scappa lontano da qui. Sulla collina alle spalle di Parigi troverai una casa quasi diroccata, rimani lì e poi fuggi lontano appena le due donne saranno in grado di farlo. Solo tu puoi trattarle con devozione e amore. Jehan lascialo andare non sono riuscito a renderlo umano come invece sei tu. Tu puoi.”

Porse la pergamena a Quasimodo che impiegò qualche tempo a leggerla tutta e quando finì e si voltò per rendersi devoto ancora una volta a quella che era sembrata un'anima arcigna e senza cuore, dura e ostile, chiusa nella scienza e nell'alchimia che pure l'aveva salvato, vide che la piuma era caduta dalle mani dell'arcidiacono che ormai giaceva inerme sulla sua branda. Quasimodo con l'agilità di un lupo corse nella stanza delle donne, le prese con se e scappò verso la casa diroccata indicatagli dall'arcidiacono con la consapevolezza che egli non l'avrebbe mai abbandonato. Gringoire intanto procedeva proprio in quella direzione e quando vide sfrecciare un'altra figura nel bosco si fermò incuriosito chiedendosi il perchè di tutto quel movimento. Riconobbe la figura deforme di Quasimodo e si chiese perchè nessuno lo salutasse. Nonostante questo continuò imperterrito sotto gli occhi amorevoli della sua capretta Djali verso luoghi sconosciuti anche a lui. Quest'ultimo continuava la sua corsa verso la salvezza quando una delle due donne aprì gli occhi. Quei grandi occhi verdi accecarono Quasimodo trasferendogli un sentimento sconosciuto e bruciante, il pensiero incosciamente volò a Frollo e all'ultimo suo sguardo pervaso dal dolore. Depose allora a terra la donna, che spaventata si ritrasse.

-Vi salverò- Disse deciso con la sua voce roca Quasimodo. Colei che aveva aperto gli occhi era Esmeralda. Si volse alla sua destra, poi alla sua sinistra con circospezione sino a quando non notò la figura scarna e pallida di una donna stesa accanto a lei. Questo la rassicurò e prese ad accarezzare quell'ombra.

-Mamma, mamma- Sussurava. E poi, di getto: - Che volete voi?- rivolta a Quasimodo

Dopo aver interpretato ciò che voleva dire la fanciulla, Quasimodo rispose:

-Non lontano da qui c'è un luogo che vi salverà temporaneamente, poi fuggiremo insime tutti. Non dovete avere paura. Sono sincero e vi amo, lo sapete.-

Ripresero il cammino verso quella dimora che si stagliava in lontananza come un castello distrutto dalle intemperie e piegato su se stesso. Un animale ferito piegato su se stesso. Gringoire era giunto nei meandri più profondi del bosco senza rendersene conto e pensando al futuro radioso che lo aspettava appena avesse trovato una dimora stabile per lui e per la sua capretta. Giunse però in una piccola cappella, abitata da un solo uomo. Era grande, sembrava molto potente. Gli balenò allora un'idea. Si sarebbe sposato. Sì, l'avrebbe fatto. 

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Capitolo 2
*** Strani amori ***


2° Capitolo

Strani Amori

 

 

 

Lo spazio era piccolo e angusto ma i personaggi bastavano a rendere piacevole l'atmosfera. L'immaginazione correva velocemente a quella cattedrale che tanto aveva visto ma qui era un'altra storia. Una cattedrale in miniatura anche se male illuminata. Questa avrebbe visto una scena che le sue mura avrebbero ricordato molto a lungo. Quel personaggio alto e possente dominava il pulpito e due figure si dirigevano con passo spedito verso di lui. Erano Gringoire e Djali. La capretta era stata ben ornata e le sue corna d'oro portavano piccoli fiocchetti come ornamento. Gringoire era al settimo cielo. La sua mente senza inibizioni gli permetteva di godersi la sua vita. Mancava solo una dimora stabile, egli infatti non poteva permettere che la sua capretta soffrisse il freddo che di lì a poco sarebbe tornato a battere su Parigi. Lei aveva solo quella poca lana sul suo corpo e Gringoire aveva già perso quasi tutto lasciando i suoi abiti alla Corte dei Miracoli. Quando l'unione fu compiuta fu gioia e i due novelli sposi lasciarono quella parte di mondo dimenticata dagli uomini per dirigersi verso una strana rocca sulla cima della collina.

-Mia cara Djali, vedi che sono uomo di fede io. L'avevo detto che ti avrei sposato e così ho fatto. Tu non mi abbandonerai, Djali, non come quella depravata della Esmeralda. Vedi, vivremo una magnifica storia noi- e intanto la capretta lo guardava incantata dalla voce del suo Gringoire.

In lontananza lo stravagante poeta si accorse di tre figure, due esili e una massiccia, che si dirigevano proprio verso la sua rocca. -Oh, ma guarda caso, due figure che si dirigono verso la nostra futura dimora, Djali. Chi mai saranno? Oibò, non accelereremo di una virgola il nostro passo, quando arriveremo se ci sarà da combattere lo faremo, ma solo platonicamente. Noi facciamo l'amore, non la guerra.-

La capretta persa nel cercare di capire i ragionamenti del suo poeta lo lasciava fare senza emettere belato. Con il suo incedere lento e sempre fantasticando Gringoire condusse la sua piccola amica e moglie verso la rocca, dove non arrivò prima di mezz'ora e soprattutto senza badare alle altre figure precendentemente notate. La rocca, muta, sembrava li osservasse in silenzo, con le finestre come occhi e la facciata gotica come un viso corroso da troppi eventi mal superati. Quelle figure, come il nostro lettore avrà già intuito, eran Quasimodo, Esmeralda e la madre di Esmeralda che seppur con qualche fatica procedeva da sola sostenuta solo un poco dagli altri due. Quando finalmente Gringoire e Djali giunsero fino alla dimora, qualcosa si agitava all'interno.

-Chi è mai là?-Chiamò Gringoire, già tremando al pensiero di dover affrontare qualcuno. Non ricevette risposta, allora si addentrò in stanze cadute in penombra, senza candele. Solo le pareti si notavano, erano ornate da quadri, ritratti per maggior parte ma soprattutto eran annerite. Questo catturò Gringoire che si immerse nelle sue meditazioni.

-Ma chi mai potrebbe essere questo viso così conosciuto alla mia mente? Come mai non mi sovvien il nome di questo figuro? Chi sarà? E che sguardo ha poi...- Rabbrividiva sotto l'intensità di uno sguardo penetrante. Djali era in disparte, seduta ai piedi del padrone. Quelle creature chiamate capre conoscono assai meglio delle donne i loro doveri di mogli. Così facendo ella si sottoponeva obbediente al suo degno padrone. Ad un tratto Djali si alzò colta da una forte rabbia e questo riscosse in tempo il poeta dalle sue meditazioni, giusto in tempo per vedere un orribile uomo deforme che si avventava su di lui. La capra però saltò su quell'uomo, il nostro Quasimodo, in tempo per salvare valorosamente suo marito. Ecco quindi un uomo di enorme forza ed agilità crollare sotto il peso di un evento inaspettato. Gringoire si fece riconoscere e comunicò a gesti con Quasimodo fino a raggiungere un accordo. Anche i novelli sposi sarebbero rimasti nella dimora-rifugio indicata da Frollo a Quasimodo. Si scoprì quanto enorme fosse quella dimora e quante stanze offrisse. Fortunatamente lo spazio era più che sufficiente e tutti si accomiatarono dopo le dovute presentazione. Proprio qui, in una di quelle stanze in penombra si compì una strana unione, la prima dell'uno e dell'altra, ad opera di quel poeta che tanto era stato rifiutato dalla padrona di quella che ora sarebbe diventata la madre della sua prole. Proprio così, Gringoire e Djali coronarono il loro sogno d'amore. 

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Capitolo 3
*** Violazione e Salvezza ***


3° Capitolo

Violazione e salvezza

 

Se una delle stanze di questa triste dimora aveva vissuto un espisodio alquanto strano ma piacevole, nella stanza adiacente stava per assistere ad una azione triste ed orribile quanto la facciata distrutta di se stessa. La storpia figura di Quasimodo si aggirava inquieta per la rocca. Era tormentato da una sensazione sconosciuta. Percorreva il corridoio dal quale si accedeva alle stanze avanti e indietro fermandosi sempre ad un passo da una di quelle porte. La sua mano sfiorò una maniglia di ottone ma presto la tirò di nuovo indietro come spaventato. La sua mano tramava come una foglia di un albero in pieno inverno ma come essa esitava a staccarsi dall'ottone lucente. Quella foglia e quella mano rappresentavano il suo stato d'animo. Egli rimembrava la sua infanzia, per quanto poteva ricordare. Lui era stato abbandonato, povera anima, e raccolto dal suo arcidiacono, l'unico al quale era rivolta la sua devozione oltre a Dio. L'arcidiacono era stato uno di quei padri intransigenti ma gli aveva insegnato tutto ciò che poteva nascondendolo dalla vita, dall'amore e anche dalla scienza portandolo dalle sue campane, i suoi amori di ferro. Seppur l'arcidiacono non fu il padre migliore quantomeno lo salvò dall'annegamento che gli sarebbe stato operato se non fosse stato preso. A questi pensieri qualche lacrima cadeva solitaria dall'unico suo occhio. Continuava a percorrere il corridoio e intanto pensava. Egli era rimasto lontano da tutti i desideri dell'uomo, senza escluderne alcuno. Non desiderava imparare, non desiderava possedere alcuna donna, né in senso affettivo né in senso fisico. Era un prete senza tunica, proprio come l'aveva allevato l'arcidiacono. Tutto si estinse quando giunse La Esmeralda. Questa creò problemi a tutte le famiglie di Parigi i cui uomini volevano possederla a tutti i costi. Quasimodo non fu escluso e la forza magnetica della zingara catturò anche lui come il suo padrone. Quasimodo voleva averla per se, strapparla dalle cattive e sporche mani degli altri uomini. Ora che finalmente l'aveva per se pensava di aver raggiunto lo scopo della sua vita ma aveva anche preso contatto violentemente con la realtà. Quella da cui era sempre scappato sotto ordine di Frollo era entrata violentemente in lui come l'aria gelida da una finestra aperta in inverno. L'aveva congelato, l'aveva reso dubbioso. È risaputo che ogni uomo libero si sporca la coscienza, si è puri solo da neonati. Ora, ogni volta che gli capitava di scorgere la zingara sentiva uno strano fuoco avvampare dentro di lui e pervaderlo tutto. Quella sera in particolar modo, dopo le occhiate gentili rivoltegli dalla zingara non riusciva a dormire. Sentiva una forte attrazione verso quella stanza in cui regnava il sonno delle due donne, era come una calamita attratta dalla forza opposta, era infatti questa la situazione: dietro la porta di quella stanza regnava l'orrore esteriore di Quasimodo, all'interno la candida purezza di una creatura mai violata dalla prima infanzia. L'ingenuità e la troppa consapevolezza dell'odio. Gli occhi del Gobbo erano accesi di quella stessa luce che si notò negli occhi di Frollo nel bosco. Queste due creature infatti era d'animo molto simile. Bruciato dalla voglia di osservare da vicino la zingara e di accarezzare le sue perfette forme, Quasimodo entrò nella stanza. Si mosse con quella silenziosa agilità che è presento solo in chi deve passare sempre inosservato, chi deve essere quasi invisibile. Scivolò sulle pareti e arrivò al giaciglio di una delle due donne, quella scarna. Si stentava a credere che fosse la madre di quella creatura formosa e perfetta che le dormiva accanto. Quasimodo superò quella figura e si diresse silenzioso e agile senza svegliarla verso l'altro giaciglio. Si piegò su stesso fino ad inginocchiarsi, come per pregare quella creatura e il suo protettore di perdonarlo per ciò che stava per fare. Si rialzò prese su di se la scarna figura, portandola fuori. La depose sul corridoio e rientrò nella stanza, sempre silenziosamente. Abbassò le sue immense mani deformate dal troppo suonare le sue campane, con le sue ossa sporgenti, verso la zingara sino quasi a toccarla. La punta delle sue dita sfiorava appena la leggera tela che costituiva l'abito di quella creatura. Faceva passare le mani su tutto il corpo, con una leggerezza difficile da credere se operata da un gigante come il gobbo campanaro. Quando arrivò ai polpacci le sue dita portarono qualche cresta sull'abito che si cominciò a sollevare. Quasimodo, colpito dalla purezza di quella carne intatta scoprì un'altro dei desideri che costituiscono la nostra vita: la curiosità. Continuò a sollevare la gonna con delicatezza mentre la donna continuava ad agitarsi. Egli era quasi in trance mentre contemplava ciò che pian piano si scopriva sotto le sue mani. Era arrivato al suo seno quando la sua mano bagnata da sudore freddo prese contatto con la pelle. La zingara al solo contatto con quella mano viscida ed umida si svegliò di soprassalto ed allora tutto ciò che Quasimodo aveva sempre represso, la passione, il desiderio di potere e anche l'amore bruciarono in lui, come se un fuoco fosse stato accesso su foglie secche. La sua figura era come la legna in un caminetto nel quale è acceso un fuoco. Stese di nuovo a terra la zingara che cominciava a tremare colta da paura con un misto di forza e amore. Cominciò però una dura lotta fra la zingara ed il sordo. Esmeralda tuttavia non urlava, infatti la paura le aveva spento la voce. Cercava di respingere con le sue braccia quelle forti e più grandi del gobbo che però resisteva senza battere ciglio e continuando ad ammirare il candido seno semi-scoperto della donna. Egli non aveva mai visto nulla di così perfetto, anzi non aveva mai visto il corpo di una donna. Intanto al di fuori della stanza e della rocca dove si compivano questi strani eventi si aggirava una losca figura, che si sarebbe potuta scambiare per l'ombra di uno quegli alberi se solo non si fosse mossa.

-Aiuto!- Un grido squarciò l'aria ma nessuno nella rocca sentì, infatti ognuno era perso nella propria vita o nel proprio sonno. Solo quella figura si fermò come colta da paralisi, e assunse la forma di una statua.

-Aiuto!- Un altro grido, un poco più potente.

La statua allora, come un felino che avverte l'odore di una preda, alzò la testa e con un balzo fu alla porta della rocca. Entrò e si diresse velocemente nella stanza violata. Appena giunto notò Quasimodo e il suo abuso sulla zingara e la sua figura si irrigidì di nuovo. Anche egli, forse abituato al silenzio, scivolò lungo le pareti e giunto alle spalle del gobbo gli si gettò sopra, come il felino sulla preda. 

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Capitolo 4
*** La scarna figura ***


4° capitolo

La scarna figura

 

 

Le mani ossute di quell'ombra tenevano ben fisse e ferme le spalle di Quasimodo, tremante come quella foglia d'inverno. Non tentava di ribellarsi, come un cucciolo che avverta l'odore della madre. Era infatti proprio quello l'odore che Quasimodo aveva sentito: la scarna figura era l'arcidiacono di Josas Claude Frollo. La sua figura statuaria si cominciò a muovere. Portò fuori Quasimodo e lo legò ben stretto, poi tornò nella stanza in penombra e prese su di se quella fragila creatura, come se stesse maneggiando un vaso vecchio di secoli. Con premura l'adagiò su un giaciglio, poi si diresse verso la finestra e rimase assorto per un tempo infinito. Egli vedeva scorrere davanti a se tutti gli eventi tumultuosi che aveva passato. Claude Frollo era riuscito a fingere bene la morte e soprattutto a farla credere a Quasimodo. Egli, in realtà, non era mai deceduto. Era più vivo di una piantina appena sbocciata. Appena sentì che Quasimodo aveva abbandonato la cattedrale, Claude Frollo, si ridestò dal suo svenimento e scese le ripide scale a chiocciola che lo portarono nella navata principale della sua cattedrale. Meditò su cosa fare, vide la sua anima. Era bruciata, annerita e poco vigorosa, ancora una volta un animale che, ferito, cerca di guarire e di tornare al suo splendore. Frollo, che aveva sempre creduto nell'oro e nell'alchimia, aveva ora bisogno di trovare qualcosa che lo facesse brillare come ciò che aveva sempre cercato. Lui era fatto per brillare. Si rialzò dalla sua genuflessione e si girò di scatto come se avesse sentito un rumore alle sue spalle. Percorse in senso inverso le anguste scalette e tornò nella sua piccola adorata cella. Lì, su quelle pareti che avevano assistito mute e immobili al decadere del loro padrone, vigevano e regnavano ancora tutte le formule dell'alchimia. Una di esse spiccava: ANATKH.

Quella era profondamente radicata in Frollo e su quei muri, era ciò in cui lui aveva sempre creduto. Destino, fatalità. Se Dio aveva voluto sottoporlo alla prova dell'amore allora quella prova andava affrontata fino alla fine. Carico di quella forza che solo una decisione presa con coscienza e riflessione può dare, prese carta e penna e scrisse.

Voi siete sempre stato una guida per me. Io Vi sono sempre stato fedele, o mio Signore. Ebbene sì, il vostro più fedele servitore rinuncia alla sua carica di arcidiacono ma anche alla sua completa devozione in Dio. La mia anima, troppo provata, è ormai troppo poco integra e pulita per affrontare senza remore questo impegno. Io Vi lascio la mia tunica e con essa un pezzo della mia anima. Come se vi lasciassi una parte del mio corpo fondamentale alla vita, così su questo tavolo abbandono tutto ciò in cui ho sempre creduto. Non cercate di fermarmi, non fatelo. Fareste del male a Voi, alla cattedrale e anche al popolo. Sono impuro come ormai tutti gli uomini, i tempi stanno cambiando e io non vi potrò assistere per un minuto in più chiuso da questa veste nera.

Sempre vostro fedelissimo,

L'arcidiacono di Josas Claude Frollo.”

Sigillò la busta e la indirizzò al supremo Vescovo di Parigi. Poi si tolse la tunica e, con lo sguardo perso nel vuoto, la abbandonò sulla sua tavola. Si diresse verso la porta, posò la mano sulla maniglia e rimase così, immobile. I suoi occhi, seppur persi nel vuoto, mandavano lampi di tristezza. Piangeva. Si appoggiò alla porta e si inginocchiò. Avrebbe abbandonato tutto. Tutta la sua vita sarebbe rimasta fra quelle quattro mura. Frollo, in realtà, era morto ma in senso opposto rispetto a quello che intendiamo noi. A lui era spirata sì l'anima ma il corpo era lì, forte e vigoroso seppur scarno, che lo sorreggeva. Era solamente il telaio di un'auto che aveva perso vitalità. Percorse la stessa strada di Dio verso la croce, egli infatti, si dirigeva lentamente verso la crocefissione. Ormai era perso, finito, ma l'istinto che è sempre in noi lo portò a rialzarsi. Impetuosamente e come se non pensasse, scese velecomente le scale e uscì dal portone della cattedrale. Passò sul sagrato e poi, di corsa, si diresse verso il fiume. Una piccola barca era lì, immobile, pareva che aspettasse solo di essere condotta lontano di lì. Frollo vi saltò sopra come una tigre, con il suo solito fare felino e si diresse velocemente verso la periferia di Parigi. Parigi era costituita da due città, il centro, così bello, vivo e la periferia, un albero morto, solamente un peso per la città. Egli non aveva tempo però di guardare, era impegnato nella fuga da se stesso. Impegnava le mani per non impegnare il cervello. Quando fu lontano da ogni forma di vita, che fosse una pianta, un albero od un uomo si fermò. Era giunto in una radura che rispecchiava perfettamente la sua anima. Quella, infatti, era appena stata protagonista di un incendio e tutta la vita che prima la popolava, la fauna e la flora era stata distrutta. L'ormai ex-arcidiacono riprese la sua corsa, fino a quando i bisogni naturali dell'uomo si fecero sentire in lui. Aveva sete, aveva fame. Si diresse verso il fiume e si mise a bere. Poi, però, prese un'improvvisa decisione. Egli sarebbe rimasto sacerdote, si lo sarebbe rimasto, ma nell'anima. Egli si sarebbe costretto ad usufruire dello stretto necessario per la sopravvivenza e avrebbe pregato ogni dì, girovagando. Abbandonò la piccola barca, che in questo modo tornava alla sua vita di desolazione e solitudine, e ricominciò a vagare. Frollo sfiorava tutto ciò che incontrava, la corteccià degli alberi sino a qualche piccola, sporadica, fogliolina ancora viva. Non tutto era bruciato, mai è bruciato tutto e tutto si rigenera. Perso in queste positive meditazioni l'uomo uscì dalla radura e si addentrò in un bosco fitto ed oscuro. Nulla si muoveva intorno a lui. Colse qualche piccola bacca e le mangiò. Trovò una piccola caverna e rimase lì per la notte, coricandosi sotto qualche piccolo filo di paglia. Non si era riparato, doveva espiare le sue colpe. Aveva intenzione di peregrinare sino a quando la sua anima non si sarebbe completamente rigenerata e non fosse stata candida come un vestito da sposa immacolato. La mattina l'alba lo svegliò, un sole rosso fuoco gli scaldò il viso e anche i più reconditi e dimenticati organi del suo corpo. Riprese il suo viaggio pellegrinando. Sino a quando cominciò a riconoscere qualche particolare. Qualche pietra con una forma particolare o qualche albero. Poi capì. Su quel colle, al quale era giunto quando ormai era notte fonda, spiccava alta e imponente seppur ferita la sua vecchia dimora, la sua vecchia casa. Quella dalla quale aveva salvato suo fratello alla nascita e quella dove ora nascondeva il suo pupillo. Era come se una forza magnetica lo attirasse intorno a quei volti, a quelle tentazioni. Dio non voleva smettere di metterlo alla prova. Frollo non sapeva che gli stava offrendo la via più breve e semplice per la redenzione. Poi due gridi squarciarono l'aria e l'uomo riconobbe la voce. Prima indeciso sul da farsi e poi veloce come un felino, capì che era giunta la sua ora, no, non quella della more, quella della vita, e così facendo si avventò su per quella dimora che aveva costituito per lui le sue opere più caritatevoli ed importanti della vita.

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Capitolo 5
*** Scomparsa ***


5° capitolo

Scomparsa

 

 

Frollo aveva ripreso coscienza di se stesso, della sua forza, del suo potere ma soprattutto della sua appena iniziata via crucis verso la redenzione. Quasimodo gli era completamente fedele, più di un cane, mai animale al mondo fu più fedele di lui al padrone o addirittura alla madre. Quasimodo era triste, stava spesso solo e rinchiuso nella celletta adibitagli da Frollo. Mangiava poco o quasi niente. Pensava e voleva morire. La profonda depressione che lo avvolgeva era come la nebbia che pian piano scende su un campo all'alba, lo soffocava. Frollo gli dava il minimo per vivere, esattamente come faceva lui, anche Quasimodo ora aveva qualcosa su cui riflettere. Frollo era calmo e continuava la sua redenzione.

-Buongiorno, Esmeralda, e buongiorno a voi- Rivolgendosi dapprima alla figlia e poi alla madre.

-Buongiorno a voi, Frollo. Come state?- Rispondeva la giovane

-Sopravvivo rendendo grazie a Dio.- Ogni mattina questo scambio di battute segnava il cominciar della giornata sino a quando, come una tempesta di sole entrava Gringoire nella piccola cucina. Al suo seguito la fedele Djali. Da giorni ormai in lei c'era qualcosa di diverso e strano. Sembrava lievitasse come una torta nel forno o piuttosto come un palloncino che si gonfia. Gringoire seppur allegro, cominciava ad essere preoccupato per la sorte della sua capretta sino a quando, quella mattina triste e con il cielo plumbeo che annunciava tempesta, entrò nella piccola cucina e non salutò nessuno. Era afflitto e il suo capo era chino sul petto, come se fosse perso nei suoi pensieri, non piacevoli come al solito ma anzi molto tristi.

-Cos'è che avete, voi, stamane?- Gli chiese bruscamente Frollo al quale la continua allegria del poeta infastidiva in quanto era la contrapposizione alla sua tristezza.-E la capra vostra dove l'avete lasciata?- Gringoire scoppiò in un fragoroso pianto, presa da una compassione insita in lei Esmeralda si alzò e si diresse verso il poeta. Il vecchio prete intanto si aggirava per la cucina sospirando, in quella casa appena una situazione s'era risolta se ne incrinava un'altra un po' come quando viene sistemato un quadro e quello dopo qualche giorno si inclina di nuovo. Prima che Gringoire parlasse ci vollero almeno dieci minuti nei quali egli sbatteva fragorasamente, in sintonia con i suoi singhiozzi, i pugni sul tavolo mormorando parole incomprensibili.

Poi come d'un tratto: -La mia Djali, Djali, dove sei? Perchè mi abbandoni così? O cosa mai ti avrò fatto? La mia fedele e amorevole Djali, perchè scappare, almeno potevi belare, lanciare un segnale. Djali, Djali...- Esmeralda, anche lei preoccupata per la sorte di quella che una volta era appartenuta a lei cercò di consolare il poeta, ma tutti quando vennero a sapere dell'improvvisa scomparsa della capretta si rattristarono e Frollo divenne ancor più cupo. Djali rappresentava in quella casa una ventata d'aria fresca in una serie di eventi cupi e tristi, era esattamente come suo marito. Giocosa, allegra, affettuosa. Amava tutti e tutti la amavano. Su, intanto, da remoti luoghi proveniva un sordo rumore di qualcosa che strisciava, come un serpente a sonagli. Nonostante gli inquietanti rumori, tutti si alzarono e uscirono precipitosamente fuori dalla rocca. Gringoire diresse le operazioni di ricerca separando ognuno. La madre di Esmeralda rimase sola nella cupa dimora. Frollo avrebbe ispezionato la porzione di terreno intorno alla casa sino al confine del bosco, Gringoire si sarebbe addentrato più a fondo, Esmeralda avrebbe ispezionato una piccola radura che si trovava proprio nei dintorni. Qualche tempo dopo, sempre più affranti tutti tornarono al punto di partenza. Il poeta incontrollabile singhiozzava, gli altri soffrivano in silenzio ma una cupa coltre di nebbia spessa e umida era calata sui loro animi. Era ormai notte fonda infatti la piccola grande Djali era stata cercata sino allo sfinimento ma nulla era stato possibile. Lei non era lì. Non c'era più. Fu la sera più triste in quella grande famiglia. Nessuno si preoccupava più per Quasimodo. Egli poteva resistere aveva la forza di una bestia ferita ma inferocita. La sera tutti fecero fatica ad addormentarsi. Frollo pensava, i suoi pensieri vagavano dalla religione alla capra, dalla capra alla religione. Gringoire, anch'esso pensava e rimpiangeva di non aver fatto di più per la capretta. Esmeralda piangeva sommessamente, quelle lacrime che tanto aveva nascosto e soppresso ora sorgevano spontanee. Tutto ciò che aveva dovuto subire non poteva più essere contenuto nel suo animo. La mattina seguente, se possibile, le ombre sui visi degli uomini erano ancora più profonde. Tutti avevano passato una notte triste, con la flebile speranza che Djali potesse ritrovare la strada di casa e tornare. Ormai, i cuori si stavano cominciando a rassegnare. Forse Djali non sarebbe mai più tornata. Gringoire, quella mattina, annunciò la sua intenzione di suicidio se Djali non fosse ricomparsa. Lui non poteva vivere senza di lei. La sua anima, il suo pensiero glielo aveva donato e quindi tutto era in lei. Quella giornata sembrava senza fine. Qualche tumulto proveniva dai piani superiori ma nessuno ne era preoccupato: spesso Quasimodo, ripensando a ciò che aveva fatto, gemeva o si accasciava a terra trascinando con se le catene a cui era legato. La notte stava per sopraggiungere. Tutti stavano per coricarsi quando, all'improvviso, un lieve belare si sentì. Gli umani presenti tesero le orecchie. Poi di nuovo, un belato leggermente più potente. Gringoire, come se fosse rinato si alzò e corse fuori. Fece velocemente il giro della rocca seguito dagli altri, ma lì non c'era nulla. Forse aveva avuto un'allucinazione, tutto era possibile tanto quella capretta gli mancava.

-E quindi?- Un coro di voci gli giunse quando tornò dagli altri, solo e sconsolato. Scosse semplicemente la testa. Era rivolto verso la porta e stava per rientrare con gli altri quando di nuovo un belato squarciò l'aria. Si girarono e lì davanti, ritta sulle sue zampe, stava Djali. Gringoire senza sapere ciò che faceva, tanta l'ebbrezza che provava, corse verso di lei e le si inginocchiò al fianco. La strinse a se sussurandole parole dolci e qualche sommesso rimprovero. Djali però sembrava distratta. Quando Gringoire si alzò per lasciar spazio agli altri si accorse che era coperto di una strana sostanza viscida e rossa. Quando avvicinò le dita cosparse di quel liquido agli occhi si accorse che era sangue e si girò spaventato verso la sua adorata capra.

-Ma sei tutta sporca di sangue Djali! Cosa mai t'hanno fatto, mia adorata? Chi mai è stato?- Intanto si guardava intorno circospetto. Poi lo notò. Piccolo e fragile ai piedi di Djali. Quest'ultima che lo guardava con tanto amore, tanto quanto mai nemmeno a Gringoire aveva dato. Si inginocchiò per vedere meglio cosa poteva essere quella piccola cosa accartocciata lì. Aveva il busto e la testa umana ma terminava con il corpo di capra. Piccolo e aggraziato, giaceva lì. Poi, Gringoire capì.

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Capitolo 6
*** Addio e Accettazione ***


6° capitolo

Addio e Accettazione

 

 

Ebbene sì, il poeta Gringoire era diventato padre. Il suo piccolo figliolo era allegro e giocoso come lui, lo sguardo vispo sfrecciava come una saetta durante un temporale ovunque, curioso come un neonato normale. Sì, perchè Yeshol, così Gringoire l'aveva chiamato, era un piccolo centauro. Scorrazzava libero per i prati, portando sorrisi sulle labbra di tutti, persino Frollo ora sorrideva. Il piccino, amato e amante di tutti, giocava libero per il prato e a turno qualcuno lo controllava e lo istruiva. Era ormai passato qualche mese e, sviluppata la crescita rapida come quella degli animali, già era in grado di dire qualche parola. Inutile dire quanto Gringoire fosse felice di quel suo piccolo tesoro, più prezioso di qualunque diamante. Non ragionava quasi più tanto le sue attenzioni e protezioni erano incentrate sul piccolo Yeshol. Intanto, nella casa divenuta allegra e animata da tutti questi eventi, si sentiva qualche strano rumore sino a quando un giorno la colazione fu interrotta da un boato più forte. Senza nemmeno pensare Gringoire prese con sé Yeshol e seguì Frollo, lo lasciò nella sua piccola stanzetta e continuò a seguire il vecchio arcidiacono fino ad irrompere nella cella di Quasimodo. Frollo si guardò intorno scrutando ogni angolo più recondito pur di trovare l'ombra di quell'essere deforme che aveva cresciuto. Gringoire si affacciò sopra la spalla del suo maestro e si ritrasse come terrorizzato. Il suo volto era bianco, sembrava un vampiro tanto che avrebbe potuto essere impiccato se visto dalle autorità nel tempo delle streghe. La visione che offriva l'interno dell'angusta stanzatta era molto particolare. Le robuste catene di ferro, alle quali Quasimodo era stato legato erano rotte, su di esse i segni della forza innata dell'essere mostruoso che le aveva rotte. Rimasero impalati, pietrificati dal terrore e dall'effetto di un evento imprevisto, poi ripresisi corsero fuori alla ricerca dell'evaso. Si divisero di nuovo, questa volta però le speranze di ritrovare l'uomo sparito erano minime.

 

Quella mattina Quasimodo aveva preso una decisione. Era l'alba e tutti ancora erano nel dormiveglia che precede normalmente il risveglio. Egli era stanco di reprimere i suoi istinti e non vedeva alcuna via di fuga dalla sua situazione. Era stanco di essere trattato come un animale e di non essere amato per l'ennisima volta. Era stanco della sua vita. Si riscosse dalla posizione che caratterizzava la sua prigionia, quella fetale, come alla ricerca dell'amore materno dei primissimi mesi di vita. La sua persona urlava. Tutto dentro di sé rappresentava un urlo silenzioso. Stentava ad uscire perchè ciò che stava per fare doveva essere segreto. Trovò un modo differente di riscattarsi dalla sua triste condizione. Si alzò, recuperò la forza che aveva dimenticato di avere e che lo caratterizzava e spezzò le catene che si erano arruginite dall'ultima volta che erano state usate. È necessario raccontare ora, con un piccolo regresso storico, la storia di quelle catene. Quella rocca nella quale è ambientata questa strana storia era la vecchia abitazione di Frollo e della sua famiglia. Quest'ultima era ricca e i domestici che adornavano di divise e di ordini eseguite le pareti di quella casa già piuttosto adornata erano un numero infinito. Ora, Frollo era divenuto prete solo per contrapposizione al padre, infatti questo era un libertino e chiunque passasse sotto il suo tetto, qualunque essere femminile senza disdegnare anche qualche giovane essere maschile, non poteva sfuggire al suo possedimento. In ogni caso, il padre di Frollo, Marius, era troppo occupato con le sue esperienze sessuali per occuparsi dei figli e quindi, proprio in quei momenti il piccolo Claude Frollo decise che la sua vita sarebbe stata casta e di rendenzione per salvare il padre dall'inferno. Accadeva, a volte, che un seme potesse germogliare nel ventre di una delle tante domestiche che passavano per le sue viscide mani, ed allora queste scomparivano. Claude per tanto tempo si chiese dove finissero sino a quando non lo scoprì. Era una lugubre nottata e le orecchie feline del piccolo Claude sentirono un urlo troppo mal represso per passare inosservato. Si alzò, spaventato, dalla sua branda e si diresse titubante verso il luogo dal quale continuavano a prevenire sempre più forte delle grida. Giunse sino ad una forta piccola ed alta. A malapena poteva passarci una persona piccola e scarna. La socchiuse, in quanto non era chiusa a chiave, e si affacciò. L'interno era caotico e la confusione era creata da troppe persone chiuse in uno spazio troppo angusto e stretto per contenerle. Sporse ancora un pochino la testa e notò che c'erano quattro persone fra cui suo padre. Entrò e, non notato nella tanto confusione, si accucciò accanto ad un comodino. Suo padre era intento a chiudere la bocca ad una cameriera che qualche tempo prima era scomparsa. Aveva un cuscino nell'altra e la soffocava. A d un tratto gli urli cessarono e parve che quella donna che sembrava a Claude rigonfia sul ventre si svuotasse, si girò verso un'altra figura e vide che teneva in braccio un piccolo bambino tutto insanguinato. Intanto, tornando a fissare il suo sguardo sul padre, vide che continuava a premere il cuscino sulla bocca della donna sino a quando non giacque inerme e scivolò sul pavimento. Fu così che, con la sua intelligenza già brillante, Claude scoprì lo strano evento di una nuova vita e di una che se ne va. Tornò con lo sguardo verso la donna che teneva su di sé il bambino giusto in tempo per vederla fuggire, poco gli importava di quella creatura, pensava egoisticamente a suo padre. Poi vide che Marius prendeva in braccio la cameriera e allora capì cosa accadeva a quelle cameriere che scomparivano. Marius appena scoperta la gravidanza di una di esse provava l'impellente bisogno di ucciderle ma aspettava la nascita del bambino. Le legava nella angusta stanzetta riservata a Quasimodo con quelle stesse catene. Marius uscì, sulle orme della cameriera di poco prima e scomparve, allora Claude furtivo uscì dal suo rifugio e lo seguì. Giunse, come un detective con anni di esperienza, sino ad una piccola oasi splendente. Lì era come se ci fosse il paradiso, tante piccole baracche che emanavano vagiti. La cameriera entrò in una di quelle con il bambino e ne uscì senza. Poi, d'un tratto, vide il padre gettare nel laghetto antistante le baracche il corpo senza vita della domestica che, volente o nolente, un tempo aveva amato a modo suo. Da quel giorno in poi, curioso come non mai, Claude vide ogni singola uccisione e ogni singola nascita ad opera del padre, standogli sempre più lontano durante il giorno e scoprendo sempre più sulla sua vita, più di quanto non gli fosse mai stato raccontato. Quella stanza, per Frollo, rappresentò sempre un punto cruciale. Mai nessuno ci avrebbe rinchiuso se non qualcuno che avesse peccato gravemente. Quel qualcuno fu Quasimodo che però, innocente creatura messa troppo alla prova da Dio, si liberò. Scappò con l'agilità silenziosa di una tigre e quindi con passo felpato giù per le scale a chiocciola della casa, evitando i gradini che potevano produrre rumore grazie ad una conoscenza approfondita di quella casa maturata negli ultimi tempi. Uscì fuori e senza sapere dove andare, giunse, come per miracolo in quel luogo dove tante vite avevano trascorso la loro infanzia fra braccia sconosciute che chiamavano madri e a pochi passi dalle loro madri naturali, sepolte sotto l'acqua del lago. Quasimodo giunse quindi in quel luogo nel quale venivano allevati i figli bastardi del padre di Frollo. Infatti egli salvava solo alcune delle cameriere, quelle da lui preferite e gli affidava la cura dei suoi figli andando saltuariamente a vedere se mai ci fosse stato qualche problema. Quasimodo trovò la pace interiore, probabilmente qualche rimasuglio di un'aria di amore incondizionato e puro e di pena che emanava ancora dalle baracche distrutte. Si diresse lentamente, mentre il sole sorgeva verso la riva del lago e poi si getto in esso, raggiungendo le mille anime che giacevano lì, lontane ma vicine ai figli, unica consolazione concessagli dal loro malefico padrone. Quasimodo in quel luogo trasudante amore e pena e sofferenza trovò la pace di un innocente che si può paragonare a quelli madri. Esse persero il figlio materiale, Quasimodo quello immaginario: l'innocenza e la castità ma anche la ragione. La sua fine fu accolta da un panorama degno di un eroe che conclude la sua vita, con il sole all'orizzonte che faceva brillare, riflettendoli, i suoi raggi sul lago, un addio degno di colui che effettivamente fu un eroe, affrontando tutte le prove sottopostegli da Dio.

 

Yeshol, sereno, dormiva da solo nella sua stanza quando avvertì la tensione nell'aria e si svegliò di soprassalto.

-Pa-pà- Chiamava piano. Non ottenne nessuna risposta ed allora si alzò incerto sulle sue piccole zampette. Raggiunse la stanza della sua “zietta”, così chiamava Esmeralda e quando lei lo accolse cercando di sembrare disinvolta per non preoccuparlo lui le chiese:

-Pa-pà?- Con incertezza e qualche piccola lacrima che cominciava a scendere sul suo grazioso visino infantile, con i grandi occhi verdi-castani.

-Torna presto, Yeshol, torna a dormire.- Lo accompagnò di nuovo nella sua stanzetta e gli cantò, con la sua voce cristallina, una dolce ninnananna che fece riprendere sonno facilmente e come un piccolo angelo al centauro.

Gringoire, infatti, non era in casa, era andato con Frollo alla ricerca di Quasimodo, verso le montagne alla fine del bosco. Claude invece si diresse verso luoghi che gli ricordavano la sua infanzia sino a quando, guidato da una stella cometa invisibile, giunse anche lui in quella baraccopoli amorosa. Si guardò intorno, rivide la sua infanzia, suo padre e la sua contrapposizione a lui, poi guardò il lago e mentre si inginocchiava per rivolgere una parola a tutte quelle anime, vide quella di Quasimodo che cadeva a peso morto verso il fondo del lago. Rivolse anche a lui un ultimo saluto, benedicendolo e chiedendogli scusa per ciò che aveva causato. Un addio silenzioso si levò al cielo e giunse sino alle orecchie di Dio, Frollo rimase a meditare e pregare lì ancora per un po' poi chiamò a gran voce Gringoire e dopo qualche minuti si ricompose per accogliere un poeta preoccupato. Questo gli spettava, questo era ciò che Dio voleva, lui, Claude Frollo, era pronto ad accettarlo e soprattutto ad accettare finalmente la figura di suo padre, che non avrebbe mai perdonato, ed il suo passato che lo perseguitavano da quella sua scoperta. Ora era pronto, avrebbe affrontato tutto quello che c'era da affrontare, senza paura. 

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Capitolo 7
*** Strani incontri ***


7° capitolo

Incontri speciali

 

 

Frollo e Gringoire si stavano dirigendo nuovamente a casa. Gringoire camminava lentamente e rifletteva sul significato della vita e di ciò chee Dio ti dona con essa. Frollo, con passo più spedito, era quasi giunto alla rocca. Era a lui che spettava il compito di avvertire le donne. Irruppe nella cucina affollata e si sedette sullo sgabello rimasto libero. Il piccolo Yeshol continuava a percorrere dei cerchi intorno al tavolo, sempre più preoccupato perchè il papà non arrivava.

-Abbiamo ritrovato Quasimodo- esordì Frollo senza alcun giro di parole. Gli occhi delle donne guardarono intorno e percorsero tutta la stanza con sospetto, poi senza vedere alcuna mostruosa figura volesero uno sguardo interrogativo al vecchio prete. - Non ha retto il peso della sua prigionia, stamane è scappato e, giunto in una landa deserenta, ha messo fine alla sua dolorosa esistenza.-

Le donne sgranarono gli occhi e Yeshol, sempre più preoccupato cominciò a piangere seguendo l'esempio della sua zietta.

-Pa-pà? Pa-pà?- Cominciò a dire, avvicinandosi a Frollo.

-Sta arrivando, Yeshol, tranquillo- E proprio allora, sulle parole di Frollo, Gringoire irruppe nella casa e Yeshol, gioioso, gli si fece incontro. Il poeta però aveva qualcosa di strano e dopo aver accarezzato con calore il suo piccolo centauro si volse con aria preoccupata al suo maestro.

-Messer Frollo, qui fuori si aggira una strana figura, sembra che abbia qualche legame con questa dimora abbandonata- Le donne, tremavano nuovamente e si stringevan l'un l'altra cercando quel calore che solo l'abbraccio di una madre o di una figlia può concedere all'altra. Frollo guardò fuori dalla finestra e vide anche lui quella figura. Uscì in fretta e si diresse verso il profondo del bosco. Gringoire accompagnò Yeshol nella sua camera e poi giocò quel tanto con lui da renderlo tranquillo. Frollo mancava da qualche ora e le donne cominciavano a tranquillizzarsi.

 

Frollo, intanto, era giunto in quella radura che aveva osservato la morte di Quasimodo. Era giunto lì infatti seguendo l'uomo che si aggirava precedentemente attorno alla rocca. Lo aveva visto scomparire all'interno di una casupola e lì Frollo si accingeva ad entrare.

-Chi siete?- Chiese una voce rauca, che sembrava totalmente disabituata a parlare, alle sue spalle

-Sono Claude Frollo, piuttosto voi chi siete? Un gitano? Un pagano, forse?- Rispose lui.

-Perchè mai lo vorreste sapere? Non vi concerne!- L'uomo cominciava ad agitarsi.

-Questo è il mio territorio, la mia casa! Non avete diritto di risiedervi- Rispose.

-Io sono nato qui!- Rispose con irritazione l'uomo mentre si accucciava in un atteggiamento animalesco.

-Chi è mai?- Una flebile voce raggiunse le orecchie di Frollo e subito interruppe la disputa con l'uomo-animale che gli era di fronte. Quella voce aveva qualcosa di familiare. Si diresse verso la stanza dalla quale quella voce era giunta come un eco lontano e proprio mentre si accingeva a violare la porta per entrare l'uomo balzò davanti a lui, a pochi centimetri dal suo viso. Fu allora che Frollo si accorse di uno strano segno, anzi una strana cicatrice che spiccava, candida e pulita, sulla fronte dell'uomo. Frollo fece alcuni passi indietro poi con gentilezza si rivolse all'uomo:

-Vi prego, signore, fatemi passare. Non ho alcuna intenzione di farvi del male. Voi potrete proteggere la creatura che è dentro quella oscura camera, ma vi prego, fatemela vedere, osservare.- Con il tono supplichevole di chi potrebbe dare la vita per ottenere ciò che vuole, Frollo avanzò questa sua domanda.

-Perchè?- Ruggì l'uomo di rimando.

-Vi prego, lo saprete quando saremo dentro. Voi dovrete rimanere con me.- Supplicò senza arrendersi Frollo. Intanto pregava Dio di aiutarlo ancora.

Lentamente l'uomo cedette sotto il peso di qualcosa che intuiva fosse più potente della sua forza. Lasciò il passaggio alla porta libera e aspettò che Frollo entrasse violentemente da essa, invece il vecchio arcidiacono entrò con cautela in punta di piedi. Una figura scarna e pallida era stesa al centro di un piccolo letto ma che per le dimensione della donna che vi era situata sembrava enorme. Quando Claude entrò la donna si mise a sedere, poi sgranò gli occhi e fece per alzarsi, quantomeno per vedere pià da vicino chi era entrato in quanto l'età non le aveva lasciato l'ottima vista di quando era giovane. Si sporse ancora un po' in avanti poi accennò qualche parola e subito l'uomo le fu accanto per sostenerla, sembrava infatti che le parole che stava per pronunciare fossere più pesanti di un macigno.

-Cl-cl-aude, Signorino Claude, siete veramente voi?- Disse a stento la donna. Frollo si inginocchio e prese fra le sue la scarna mano della donna portandosela al volto. Qualche lacrima scendeva sul viso di Frollo.

-Come fate voi a sapere il nome di quest'uomo madre?- Chiese incuriosito ma anche preoccupato l'uomo animale.

-E' ora che tu conosca molte cose Jean- Disse di nuovo la flebile voce, poi si appoggiò al muro retrostante e mentre i due uomini seduti accanto a lei la sostenevano e si preparavano ad ascoltare il suo racconto, la donna cominciò a parlare: - E' stato molto tempo fa, Jean, e ovviamente tu non eri nato. Io ero giovane e sprovveduta, anche avvenente- Qui si interruppe per qualche secondo. I grandi occhi azzurri della donna cominciavano ad offuscarsi-e lavoravo proprio in quella grande dimora ai margini del bosco, ero stata assunta come cameriera e vivevo bene per quei tempi. C'era una grande crisi, io ero minorenne e mia madre doveva mantenere un'intera famiglia ed i miei piccoli fratelli. La più grande ero io e quando un giorno un uomo che sembrava molto ricco venne in paese a cercare una domestica mia madre mi candidò. Già da allora avrei dovuto capire che quell'uomo non aveva buone intenzioni, nonostante questo partii, lo feci per la mia famiglia. Quando arrivai qui giù l'uomo si premurò di garantirmi una vita piacevole e senza troppi affanni dedicandomi alla cura di Claude Frollo che allora aveva solo due anni. Per molto tempo la mia vita trascorse tranquilla anche se, ogni tanto, scomparivano alcune mie colleghe, alcune delle quali brave ma anche molto belle. Cominciai ad aver timore del padrone di casa, lo stesso che quel giorno, anni prima mi aveva assunto alle sue dipendenze. Egli si faceva più torvo e quando ero vicino a lui provavo inquietudine ma il pensiero del piccolo Claude Frollo mi legava indissolubilmente a quella casa. Un giorno, però, la madre di Frollo uscì a passeggio con le sue ancelle e mentre io ero occupata a distrarre il piccolo irruppe nella stanza in cui mi trovavo il padrone. Mi prese con se e quando fummo lontani mi chiuse in una stanza mi costrinse a soddisfare la sua voglia di possedermi. Fu qualche tempo dopo che mi accorsi che ormai non ero più sola, c'era qualcuno con me, dentro di me. Ed eri tu, Jean. Anche Claude se n'era accorto e con lo spirito istintivo dei bambini mi era sempre accanto, non si separava mai da me come per paura che qualcuno mi facesse del male. Qualche mese dopo ero ingrassata troppo e tutti cominciavano ad accorgersi di questo, così il padrone mi prese e mi rinchiuse senza alcuna esitazione in una piccola stanza, legata con delle catene. Il piccolo Claude non sapeva nulla, sentivo i suoi pianti e i suoi passi agitati mentre, ormai più grande, aveva quasi cinque anni, mi cercava ovunque, Claude compì cinque anni il giorno che venni alla luce, io ero stanca e probabilmente anche malata. Non sentii più nulla e quando mi risvegliai ero qui, proprio dove ci troviamo noi ora. Poco tempo dopo, da quello che seppi, Claude scoprì la stanza dove il padre teneva rinchiuse quelle che erano state le sue amanti e giunse sin qui. Cominciò ad irrompere in tutte le baracche sperando che non mi avessero affogata nel lago, che avessi rappresentato qualcosa per suo padre. Poi giunse qui e mi vide mentre allattavo te. Si sentì deluso da me, pensava che lui potesse essere il solo bambino che avrebbe mai fatto parte della mia vita. Da allora non lo rividi mai più. Qualche tempo dopo, tu, Jean, avevi ormai sei anni, scappasti da me e dalle mie cure ed io, preoccupata che potessi giungere sino alla dimora del padrone ti ricorsi ma non ti trovai, ero già disperata. Giunse la notte e tornai alla mia baracca, avevo perlustrato tutto. Per molto tempo rimasi sveglia, poi sentii un rumore. Un pianto. Aprii la porta e ti vidi lì davanti, seduto e disperato. Ti strinsi forte a me e mi accorsi che avevi un segno sulla fronte che sanguinava, ti curai meglio che potei ma quel segno è ancora lì.- Proprio mentre la donna riprendeva fiato, Frollo intervenne.

-Voi, Jean, non vi ricorderete il mio volto, la mia espressione, anche se da allora non è cambiata poi così tanto. Il giorno che vi perdeste, Jean, io ero fuggito a mia volta, avevo scoperto cosa faceva mio padre e mia madre si era ammalata. Poi vi trovai e capii, dalla somiglianza che avevate con mio padre che voi dovevate essere uno dei miei tanti fratelli senza nome. Così ebbi compassione di voi, forse perchè sentivo di esservi vicino non solo da parte di mio padre. Sapevo ciò che avrebbe fatto quando foste cresciuto un po' di più, vi avrebbe cacciato dalla baracca. Io, però, non volevo perdere ogni traccia dei miei fratelli, in questo modo vi tagliai sulla fronte con un ramo e cercai di incidere più a fondo possibile. Mentre gemevate in preda al panico vi riportai verso la radura, eravate sfinito e vi addormetaste. Io ero abbastanza forte da portarvi sulle spalle e arrivati al luogo incantato vi deposi davanti alla baracca di quella che sapevo una donna forte, che anche se non foste stato suo figlio vi avrebbe preso con se. Quel taglio ve lo procurai con amore, sperando un giorno di poter vedere almeno uno dei miei tanti fratelli- Verso la fine del suo racconto Frollo aveva cominciato a singhiozzare. Jean guardava prima la madre e poi quello che aveva scoperto essere suo fratello, incredulo. Aveva scoperto chi era suo padre, la storia di sua madre e di avere un fratello.

-Perchè siamo ancora qui, madre? Perchè non ci cacciarono via?- Chiese scosso Jean.

Rispose Frollo al posto della sconvolta madre:- Intervenni io per non farvi cacciare, decisi che avrei fatto di tutto per salvarvi, per salvare vostra madre. Urlai, minacciai di suicidarmi ma a nulla servì tutto ciò che feci. La forza di Dio intervenne facendo morire di uno strano male mio padre nel cuore della notte. Tutte le famiglie erano state cacciate precedentemente ma vostra madre, per mio padre aveva rappresentato qualcosa di speciale, e quindi la tenne per ultima, poi la forza divina prese il sopravvento.-

-Avete sentito quindi, Jean, la vostra storia?- Chiese la madre stendendosi nuovamente, più tranquilla.-Ora mi sono liberata di un peso che mi ha accompagnato per tutta la vita. Ho sempre voluto rivedere Claude, il mio piccolo Claude. Mi sono arrivate tue notizie da qualche vagabondo proveniente da Parigi, so tutto di te, non ti ho mai scordato. Ho sempre sognato che voi due-disse ammiccando a Jean e Frollo-foste amici. Ora ho tutto e posso abbandonare la vita serenamente.- Con un ultimo sorriso si spense e la sua anima prese il volo, finalmente libera da ogni preoccupazione. I suoi due più grandi amori erano insieme e forse, un giorno sarebbero potuti divenire amici. I due si piegarono sulla donna e piansero in silenzio inconsapevolmente tenendosi per mano, perchè in fondo anche per Frollo quella era stata una vera madre e quindi Jean era davvero un fratello. Claude sognava di intraprendere un cammino di fratellanza e pace con lui, e ci avrebbe messo tutta l'anima pur di riuscire nel suo intento. Rimasero così per un tempo non quantificabile mentre nella grande casa l'ansia per l'assenza di Frollo aleggiava sempre più presente e palpabile. 

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