The adventures of Sophie Lager

di Sophie_Lager
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mi crolla il mondo addosso. ***
Capitolo 2: *** Mi trasferisco, o quasi. ***
Capitolo 3: *** Trovo una nuova casa. ***
Capitolo 4: *** Imparo ancora un po' di cose sulla mia nuova vita. ***
Capitolo 5: *** Non supero il rito di passaggio ***
Capitolo 6: *** Ricevo un pericoloso regalo di compleanno. ***
Capitolo 7: *** Do conferma alla mia teoria. ***
Capitolo 8: *** Mi danno cattive notizie. ***



Capitolo 1
*** Mi crolla il mondo addosso. ***


LE AVVENTURE DI SOPHIE LAGER

 

Capitolo 1. 

"MI CROLLA IL MONDO ADDOSSO".

 

La farfalla sul mio foglio sembrò prendere vita. 

Era appena iniziata la primavera, il cielo era azzurro e intenso, si riusciva a sentire il primo caldo della stagione, i prati erano verdi e colorati dai fiori. Amavo i colori. Appoggiai il disegno sul vetro della grande finestra che dava sul giardino dell'orfanotrofio. La farfalla si illuminò alla luce delicata del sole del primo mattino. 

Ero sempre stata molto brava a disegnare, mi piaceva e mi rilassava. Riuscivo a pensare solo così. Anche se a volte, più che pensare, mi chiudevo nel mio modo fatto di colori e fantasticavo. E a quel punto riportarmi alla realtà era difficile, e Mister Murdok, il mio prof di matematica, ne sapeva qualcosa. 

Mi piaceva arrivare in classe prima degli altri ragazzi, mi dava il tempo per riflettere e per pensare… e per disegnare. Anche oggi, probabilmente, non mi sarei accorta dell'inizio della lezione se qualcuno non mi avesse riportato alla realtà prima. Appunto.

«Hei, Monet!» Mi voltai di scatto, e per poco non caddi dalla sedia. Ma tranquilli, mi succede spesso, quando vengo riportata nel mondo reale così bruscamente. Ma sono molto agile: tra i miei difetti c'è quello di essere iperattiva. 

Comunque, a chiamarmi era stata Lucy, la mia migliore nonché unica amica. 

«Ciao, Lulù» Le risposi. Lei mi sorrise, raggiante come sempre, come se non ci fosse niente al mondo che potesse farle cambiare umore: «Che cosa ha disegnato il nostro pittore, oggi?» 

Allora, forse adesso è il caso che mi presenti. Non mi chiamo ovviamente Monet. Mi chiamo Sophie Lager, ho 15 anni e sono in questo orfanotrofio da… bè, diciamo tutta la vita. Anche se forse non è corretto, visto che nei miei 15 anni ho vissuto in 3 città diverse: sono nata in Italia, ma non chiedetemi dove perché non saprei rispondervi. Sono rimasta in una cittadina toscana per circa 4 anni, in un orfanotrofio che avevo ribattezzato "casa", non avendone una. Poi, a 4 anni, sono stata portata in Francia, in un piccolo orfanotrofio vicino a Orléans, nel cuore del Paese. Infine a circa 11 anni sono stata trasferita a New York, in uno dei più grandi orfanotrofi presenti in zona. 

Perciò, si: parlo discretamente italiano e francese, e naturalmente inglese. 

Ora vi chiederete: CHI mi ha fatto viaggiare così tanto e in così poco tempo, visto che non ho mai conosciuto né mia madre né mio padre, e visto che secondo i miei documenti i miei genitori sono morti poco dopo la mia nascita? 

Ebbene, non lo so. Sembrerà strano, ma all'epoca ero piccola, e non mi ero mai posta una domanda simile. Gli altri bambini avevano tutte storie simili alla mia, con genitori sconosciuti o morti in incidenti d'auto, lasciando i figli senza parenti. Ma almeno loro sapevano come erano morti i loro genitori. Almeno loro non erano stati trasferiti di istituto in istituto da persone-fantasma. Io non sapevo nulla dei miei genitori, se non che portavo il cognome di mia madre e che prima di morire i miei vivevano in Italia; e non sapevo nulla sul perché fossi stata portata negli Stati Uniti. Non lo sapevo, ma da tempo ormai avevo smesso di interessarmene. 

Ero sempre stata una bambina timida e riservata, che se ne stava sempre per i fatti suoi e che amava leggere. E crescendo il mio carattere non era cambiato. Adoravo la cultura greca. Sapevo tutto degli dei, degli eroi, dei miti. Anche quando mi ero resa conto di essere dislessica, avevo continuato a leggere, arrivando a sera con un mal di testa terribile. Ma non mi ero data per vinta. 

Il mio carattere però non mi aveva portato ad avere molti amici, finchè non avevo conosciuto Lulù. Lei era il mio esatto opposto: era un genio in matematica, detestava l'inglese, aveva la pelle sempre abbronzata nonostante non amasse molto l'aperto e i capelli scuri. La mia materia preferita era inglese, e lasciamo stare matematica che è meglio. Avevo la pelle chiara, sempre bianca - il che non era un vantaggio quando i compagni parlavano di zombie e ti indicavano ridacchiando - e dei capelli che avrei voluto nascondere: non erano né biondi né castani, ma color miele, quasi dorati. Insomma, avrei voluto passare inosservata, ma capirete bene che era impossibile. 

E, anno dopo anno, mi abituai alla monotonia delle giornate tipiche di un'adolescente in un orfanotrofio: superati i 10 anni, diventava quasi raro che qualcuno ti adottasse, e non potevano uscire dagli edifici e dai giardini se non da 16 anni, per poi lasciare l'orfanotrofio a 18. Ormai contavo i giorni mancanti al 29 aprile, il mio compleanno. 

Neanche la scuola serviva a staccare un po' - se è possibile "staccare" a scuola - perché faceva parte dell'istituto. Fantastico, vero? 

Bene, fine dell'introduzione sulla mia vita. E' stata anche troppo lunga.

Torniamo a noi. 

Lulù si sedette accanto a me proprio mentre suonava la campanella. La classe si riempì in un istante. Non aspettò la risposta sul mio disegno, ma non mi preoccupai. Era fatta così, e mi piaceva proprio per questo: non dava peso a nulla, era libera. Beata lei…Io davo peso a tutto. 

La mattina passò in un lampo, e mi ritrovai a mensa senza aver prestato attenzione a una sola parola di un solo professore. Wow, mi sarebbe toccato studiare gli argomenti di stamani stasera, di nuovo. Che bello. 

Fu a pranzo che notai due facce nuove, e la cosa mi stupì. Nell'orfanotrofio eravamo più di 300 ragazzi, ma ormai ero li da così tanto tempo da conoscerli tutti. Inoltre, le facce nuove non erano di due bambini, ma di due ragazzi, forse addirittura più grandi di me, e la cosa era strana, perché di solito erano dei bambini piccoli i nuovi arrivati. Il ragazzo aveva i capelli neri, la ragazza biondi, ma mossi e di un biondo chiaro e delicato, che le invidiai subito. Fissai parecchio i nuovi arrivati, finchè non ricevetti una spinta da Lulù, che mi sedeva accanto. 

«Hei! Basta fissarli in quel modo. Ti sei innamorata?» Diventai subito rossa in viso e mi voltai dall'altra parte. Non era difficile che arrossissi, ma il ragazzo era veramente carino, e le parole di Lulù mi avevano fatto capire quanto vicina a quel pensiero fossi andata. Incrociai le braccia e tornai a guardare il tavolo della nuova coppia. Volevo sapere qualcosa di più sui novellini. Probabilmente si conoscevano già da tempo, perché stavano parlando fitto fitto. 

Quando la campanella suonò di nuovo, si alzarono e si avviarono dalla parte opposta al corridoio che portava alle classi per le ultime ore di lezione pomeridiane. Notai che si guardavano intorno come con circospezione, per non essere visti. E in effetti, nessuno sembrava fagli caso, se non io. Era strano. Di solito non mi interessavo degli altri, ero troppo concentrata a pensare ai fatti miei; invece quei due ragazzi mi incuriosivano...

Comunque, tornai in classe. Mi sedetti al mio banco, guardai fuori dalla finestra e rimasi a bocca aperta. La bella giornata era finita, il sole era stato coperto da delle nuvole grigie che non promettevano niente di buono e il vento si stava alzando. Di bene in meglio. La giornata era iniziata così meravigliosamente… Uff. Non sapevo che quella sarebbe stata la mia ultima giornata monotona.

Mi misi a scarabocchiare sul quaderno, quando udii il rumore più forte e raccapricciante che avessi mai sentito. Mi tappai le orecchie. Gli altri intorno a me urlarono. A quel punto la scuola iniziò a tremare. Miss Reteyl entrò correndo in classe pochi secondi dopo, proprio quando la scossa finì. 

«Ragazzi! State calmi! Seguitemi, dovete tornare nelle vostre camere finchè il problema non verrà risolto! E' scoppiato un piccolo incendio che verrà domato in poco tempo! E' solo l'allarme-antincendio, non è successo nient'altro!». 

L'allarme? Ero nel panico. Quello che avevo sentito non era un'allarme! NON-ERA-UN'ALLARME! Era un rumore, come il verso di un'animale, ma il più gutturale e spaventoso che avessi mai sentito. E c'era stata una scossa di terremoto! Rimasi in silenzio, anziché gridare inutilmente come facevano tutti gli altri, ma mi guardai intorno con gli occhi spalancati dal terrore. Perchè gli altri non avevano sentito quello che avevo sentito io? 

Quando mi sentii toccare la spalla balzai in piedi, terrorizzata. Ma era solo Lulù: «Sophie, dobbiamo uscire, dobbiamo tornare in camera.» E si avviò correndo dietro agli altri, già più avanti di noi, nel corridoio deserto che riportava ai dormitori. Iniziai a correre meccanicamente, mentre intorno a me c'erano soltanto le grida degli studenti più piccoli delle altre classi che ci seguivano. 

Ma in quel momento sentii di nuovo l'animale. Mi fermai e guardai verso il corridoio che portava al giardino della scuola. Non c'era nessuno, tutti scappavano dalla parte opposta. Dovevo capire cosa sta a succedendo. Perché nessuno sentiva quell'animale? Non ci pensai neanche un secondo, era come se il mio istinto mi spingesse in quella direzione: invertii la rotta e spalancai le porte di emergenza che davano sul prato. 

E a quel punto se non svenni fu soltanto perché probabilmente avevo molta fantasia. 

Avevo già immaginato una scena simile - l'avevo inventata durante una lezione di storia, credo - ma non avrei mai pensato di trovarmi davanti ad un serpente alto circa 3 metri e con delle zanne lunghe di almeno 1, nel parco del mio orfanotrofio. La mia mente si appannò. Non mi stava puntando come fanno i serpenti con le prende, perché non era voltato verso di me, ma rimasi ugualmente paralizzata dal terrore. L'animale si stava muovendo velocemente, a destra e a sinistra e viceversa, intorno alla fontana rotonda al centro del prato, cercando di colpire qualcosa con le sue zanne aguzze. Era ad almeno cento metri da me, ma avevo una vista ottima - era una delle poche cose di cui mi vantavo - e non vidi niente, solo la fontana. Poi il rettile emise un verso, una specie di ruggito unito ad un sibilo, e non ressi più. La mia bocca si aprì, pronta ad urlare, ma qualcosa me la chiuse, immobilizzandomi. Provai ad aprirla, ma era come se delle mani invisibili mi stessero trattenendo. 

Allora una voce sconosciuta mi sussurrò, vicino all'orecchio:«Non ti muovere, e non urlare. Possiamo batterlo se collabori con noi. Adesso ti lascio andare, ma non metterci i bastoni fra le ruote.» La calma con cui pronuncio quelle parole, la sicurezza che sentii, mi fecero fidare di lei. Al momento non mi chiesi com'era possibile che qualcuno fosse trasparente, o come avrei dovuto comportarmi in una condizione simile. Furono domande che mi posi più tardi. In quel momento mi rilassai, per far capire alla donna-invisibile che mi ero arresa. Lei mi lasciò. E un secondo dopo, dove avevo sentito la voce, apparve con una scintillio una ragazza, con un cappellino da baseball in mano: era la ragazza che avevo visto a mensa. 

«Tu sei quella nuova». Non era una domanda. Forse non era la frase più intelligente da dire, ma ormai l'avevo detta… 

«Si…» rispose lei, incerta, come se non fosse tutto quello che avrebbe voluto rispondere. «E tu» Continuò «Sei Sophie Virginia Lager.» Neanche la sua era una domanda. Era sicura di quello che diceva. 

Hei, aspetta un'attimo… Come sapeva il mio nome? Cioè, non solo il mio nome, ma anche il mio SECONDO nome, quello che odiavo e che omettevo sempre. Cavolo, o Lulù aveva spifferato qualcosa in giro, o la ragazza-invisibile aveva controllato i miei documenti. Non sapevo quale scegliere. 

Ma non feci in tempo a porle una sola domanda che il serpentone mi riportò con la mente nel parco. Perché, voglio sapere, perché mi distraggo così facilmente? Come potevo essermi dimenticata di quella specie di pitone che adesso stava veramente puntando verso di me? Era lontano, è vero, ma non ci avrebbe messo molto ad acciuffarmi, e scommetto che anche a mangiarmi avrebbe fatto alla svelta… Ma anche la ragazza sembrava essere stata presa in contropiede, come me. Anche lei sembrava essersi dimenticata parzialmente del serpente. … Se era lei quella che doveva ucciderlo, eravamo messi bene. 

Appena si riprese, scattò, e fu velocissima: mi spinse verso una panchina e mi disse di restare nascosta. Obbedii, e mentre lei si metteva in testa il berretto, diventando invisibile, e correva verso il mostro, il mio cervello tornò a galla in quel mare di terrore che mi aveva attanagliato poco prima. Adesso riuscivo a pensare. E la prima cosa che mi chiesi fu: quello che sto vedendo è REALE? Cosa pensereste voi se tutto a un tratto vi trovaste di fronte ad un serpente di 3 metri? Bè, in un primo momento, la mia mente rifiutò di assimilare quelle immagini. Divenne tutto un po' sfocato e mi sembrò di essere davanti allo schermo del cinema, durante la proiezione di un film. Poi una folata di vento mi costrinse a ragionare: quello che avevo davanti era tutto vero. Ma com'era possibile? NON ESISTONO serpenti alti come palazzi. Non esistono. Fine della storia. Altrimenti lo avrei saputo prima, no? Animali del genere non si nascondono sotto i sassi! Eppure, il pitone era li - perché assomigliava proprio a un pitone - e la ragazza si era resa visibile e si era messa davanti a lui, come per distrarlo da qualcos'altro. Qualcosa vicino alla fontana. 

Piano piano, mi alzai e corsi dietro ad un'albero, più vicino al luogo dello scontro. Ora riuscivo a vedere la battaglia da un'altra angolazione. La ragazza cercava di colpire la bestia con un coltello. Ma non era illegale usare armi del genere tra i minorenni? Comunque, quello che mi colpì, e che mi fece trattenere il respiro, era che vicino alla fontana, disteso sull'erba, c'era il ragazzo con i capelli neri, il nuovo arrivato. Sembrava appena essersi svegliato da uno svenimento. Il pitone lo vide e cerco di attaccarlo e contemporaneamente di parasi dai colpi della ragazza. Ma, sinceramente, erano messi male. Accettando il fatto che il pitone fosse vero, c'era da considerare il ragazzo ferito e la ragazza con soltanto un coltello. Allora mi misi a pensare. Avevo già visto quella scena, o forse il serpente, perché l'avevo immaginato già in precedenza… Ricorda, Sophie, ricorda! 

"Ma certo!" Pensai. Cercai di attirare l'attenzione della ragazza, ma era troppo presa dal combattimento per potermi ascoltare. Mi avvicinai ancora un po', spostandomi di albero in albero. Mi fermai quando fui a pochi metri di distanza da lei, che però non riusciva ancora a sentirmi. Ma come diamine faceva a rimanere davanti ad un mostro del genere senza rabbrividire? Poteva diventare invisibile, avrebbe avuto più possibilità di colpirlo senza farsi male, ma avrebbe anche avuto meno possibilità di distrarre il mostro e di salvare il ragazzo. Allora mi venne un'idea. Senza pensarci, scattai. Uscii allo scoperto, corsi verso la ragazza, e con un movimento veloce le sfilai il cappello dalla tasca dei jeans. Me lo misi in testa appena in tempo, prima che il pitone mi riuscisse a mettere a fuoco. Il mio corpo comparve, così tornai dietro la ragazza. 

«Hei!» Gridò lei, quasi offesa, ma non ebbe molto tempo per protestare, perché il suo nemico tornò all'attacco. Allora le andai vicino e le sussurrai all'orecchio. «Quello è Pitone. Hai presente? Pitone! Il serpente ucciso da Apollo!» Pregai che capisse. Lei sussultò appena, spalancò gli occhi e imprecò in una lingua sconosciuta, che però compresi. E ancora la cosa mi stupì. Ma probabilmente tutto questo voleva significare che aveva capito. Allora mi allontanai e lei gridò:«Dobbiamo colpirlo in bocca!» Pensai che stesse parlando con me, ma poi continuò: «Percy, aiutami!» 

Mi guardai intorno, e vidi che il ragazzo non era più steso a terra. Come aveva fatto a riprendersi così velocemente? Era dietro ad un'albero, poco lontano da me, e si stava tastando le tasche dei pantaloni, come per cercare qualcosa e non essere sicuro di trovarla. Anche lui imprecò e per la rabbia batté il pugno contro l'albero. Da lontano mi era sembrato magro e smilzo, invece ora notai come le sue braccia fossero muscolose, come se si allenasse tutti i giorni. Rimasi a fissarlo - naturalmente ero invisibile, non poteva accorgersi di me - finchè lui non infilò nuovamente la mano in tasca e tirò fuori una penna. Una penna? Che ci voleva fare? Firmare un autografo al rettile gigante? Non appena la vide, il suo volto si rasserenò e il suo sguardo divenne duro e sicuro. Tolse il cappuccio alla penna, e questa si allungò fino a diventare una spada, più lunga di un metro. Rimasi a bocca aperta. La spada emanò una luce fioca, ma non potei notare altro, perché Percy (così pareva che si chiamasse) corse sotto la pioggia che nel frattempo aveva iniziato a cadere. 

«Distrailo!» Disse alla ragazza. Lei lo attaccò con delle finte finchè Pitone non aprì la bocca, per attaccarla. Allora Percy lanciò letteralmente la spada verso il serpente, e centro in pieno la gola del mostro. Non cadde una sola goccia di sangue. Appena la spada sfiorò la pelle, il pitone si polverizzò, nel vero senso della parola: si disintegrò come una statua di sabbia al vento, e la spada cadde a terra. Era tutto finito.

I due ragazzi si guardarono attorno, ancora in guardia, ma si rilassarono dopo uno scambio di sguardi. Percy sorrise alla sua amica. 

«Stai bene?» Chiese la ragazza.

«Annabeth, te l'ho detto: non devi preoccuparti per me.» E dicendo questo raccolse la spada, gli rimise il cappuccio e si mise la penna in tasca.

«Già,» Rispose lei, acida. «Se non fosse stato per me, adesso saresti nello stomaco di Pitone.»

«Pitone… che fantasia che avevano ! Come mai c'hai messo tanto a capire che non era un mostro qualunque?»

«Ha parlato l'esperto di mitologia… Non è che ci ho messo tanto, è che non è stata una mia trovata.» Rispose, quasi con disprezzo, come se il fatto che non fosse stata lei a intuirlo la offendesse. 

«Che cosa?» Rispose Percy. «Come sarebbe a dire che non sei stata tu? … E dov'è il tuo cappello?»

«Appunto. Sophie, ti dispiacerebbe restituirmi le mie cose?» 

Mi resi conto di essere ancora invisibile, e che il ragazzo non mi aveva ancora visto. Allora mi tolsi il cappello. Quando lui mi vide, strinse gli occhi, come per mettermi a fuoco. Ma non feci un passo. Ero ancora scossa. E probabilmente la bionda lo intuì, perché sbuffo e si avvicinò a me. Percy fece altrettanto. Mano a mano che si avvicinavano, mi rilassai e li studiai: la ragazza era snella e aveva un fisico scattante, il viso delicato contornato dai capelli chiari. Il ragazzo era subito dietro di lei. Quando fu vicino, lo guardai bene in faccia, e il mio cuore si fermò.

Esistono i colpi di fulmine? Al momento non ci pensai; ma col senno di poi posso dire che si, esistono.

Percy aveva i capelli neri che ricadevano disordinati sulla fronte. Gli occhi azzurri, di un'azzurro stupendo, contrastavano con la pelle leggermente abbronzata; il fisico, come ho già detto, era slanciato e quasi muscoloso. Mi tolse il fiato. 

Lui mi fissò, e nessuno disse niente finchè la bionda non mi strappò di mano il cappello da baseball, riportandomi con i piedi per terra. Scossi la testa per riprendermi.

Percy guardò male la sua amica: «Annabeth, trattala meglio. Ci ha salvato, ha quanto ho capito. Ed è una di noi.» . Lei sbuffò ancora. 

«Una di voi?» Volevano farmi entrare a far parte dei Ghostbusters? Dovevo anche io andare ad uccidere i mostri? 

«Si, bè … E' un po' complicato, veramente…» Percy era in difficoltà. Ma Annabeth - ora potevo smettere di chiamarla "bionda" - lo anticipò. 

«Dopo quello che hai visto, crederesti a qualsiasi altra cosa?» Mi disse, indicando la polvere sull'erba dietro di noi. Io annuii. Anche se veramente non ne ero molto sicura.

«Bene, allora problema risolto: sei una semidea. Una mezzosangue. Metà umana e metà…»

«Divina.» Completai, senza neanche pensarci. Mi cadde il mondo addosso. Non mi rendevo conto di quello che stava succedendo, ne di quello che dicevo. Ma avevo letto così tante volte quelle parole sui libri di testo della scuola che ormai le sapevo a memoria. I semidei, gli eroi. I mezzosangue: per metà sangue umano e per metà sangue divino.

«Si, brava» Disse Annabeth, stupita. Probabilmente non le capitava tutti i giorni di trovarsi davanti a una patita di mitologia greca. 

«Annabeth!» Gridò Percy. Mi fece trasalire. «Cosa ti salta in mente? Te ne rendi conto che non è facile accettare una cosa simile?»

«Non preoccuparti, Percy…» Trasalii pronunciando il suo nome, e non sapevo perché. «…Non vi aspetterete che io creda a una cosa del genere, vero? Cioè, è impossibile…» Ma mi morirono le parole in bocca. Se esisteva quel serpente enorme, perché non potevano esistere anche gli dei? In fondo, Pitone era stato ucciso dal dio Apollo… 

«Te ne sei accorta, eh?» Mi disse Annabeth, stavolta più dolcemente, seguendo il mio sguardo sui resti del mostro. Forse si era resa conto che ero non era facile da accettare una cosa del genere. Ma in realtà non ero spaventata, almeno non come all'inizio. Adesso ne ero affascinata. Avevo sempre immaginato di vivere tra il paranormale. Voi no? Oh, andiamo, non ditemi che se vi dicessero che esistono gli dei non sareste almeno un pochino curiosi di sapere come sarebbe in realtà il mondo! Io mi sentivo così. Non ci credevo molto, era più come un sogno molto reale, ma VOLEVO saperne di più. Che cosa avevano detto che ero? Com'era possibile che fossi una semidea? Perché non avevo mai visto creature mitologiche passeggiare tra i boschi o mangiarsi dei turisti? 

Rimasi per un bel po' in silenzio, finchè Percy non disse, piano: «Non sei una che parla molto, vero?» Io arrossii, ma lui mi sorrise, e per qualche secondo mi fissò, occhi negli occhi.

«In genere me ne sto zitta, ma se inizio a parlare poi non finisco più.» E rivolsi a quei due perfetti sconosciuti uno sguardo timido. 

«Allora forse ti conviene iniziare a parlare» Mi disse Annabeth, di nuovo sprezzante. «Perché hai ancora troppe domande a cui trovare risposta. O sbaglio?» 

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Capitolo 2
*** Mi trasferisco, o quasi. ***


Capitolo 2. 

"MI TRASFERISCO, O QUASI".

 

Avevo sempre odiato trasferirmi. 

Quando mi ero spostata di orfanotrofio in orfanotrofio, avevo sempre dovuto abbandonare le persone a cui mi ero affezionata, a cui volevo bene. E il momento degli adii era il più orribile. Ero quel genere di persona che piangeva per niente - e lo sono tutt'ora - , perciò farmi vedere davanti a tutti mentre cercavo di trattenere le lacrime mi aveva sempre messa in imbarazzo. Non che stavolta avessi avuto il tempo i salutare qualcuno. Ma non lo sapevo ancora.

Annabeth e Percy mi stavano accompagnando alla mia camera, passando velocemente di corridoio in corridoio, usando tutte le scorciatoie, come se si fossero studiati a memoria una piantina dell'istituto. 

In giro non c'era nessuno, neanche un'insegnante. Mi chiesi dove fossero andati tutti, dove fosse Lulù, che faccia avrebbe fatto quando gli avrei detto che ero una mezzosangue, ammesso che ci credesse, visto che io stessa avevo dei dubbi. Per esempio, chi erano questi due strani ragazzi armati di spade e coltelli e cappelli da baseball, che se ne andavano in giro a uccidere serpenti e a informare la gente di essere mezzosangue? E che, a proposito, stavo seguendo fidandomi ciecamente delle loro parole? Erano semidei anche loro, come avevo saputo prima; si chiamavano Annabeth e Percy; erano un po' più grandi di me. Ma non sapevo altro. La bionda aveva ragione: avevo troppe domande a cui trovare risposta. Dovevo entrare in questo nuovo mondo.

«Pitone è stato ucciso da Apollo, più di 3000 anni fa. Com'è possibile che ci abbia appena attaccato?» Stavamo ancora correndo, in direzione delle camere. Era la prima volta che parlavo da quando avevo saputo la verità. Non era una domanda troppo importante, ma fu la prima che mi venne in mente.

«E' possibilissimo, purtroppo» Mi disse Percy. « Quando i mostri vengono uccisi, non muoiono mai definitivamente. Prima o poi - magari dopo secoli, o magari dopo una settimana -, si ricompongono e tornano a romperci le scatole.»

«Ma… che cosa ci fate voi qui?»

«Bella domanda» Rispose stavolta Annabeth. Percy le lanciò un'occhiataccia. Lei sbuffò ma continuò. «Forse è meglio se io inizi … bè, dall'inizio. Noi siamo mezzosangue, come te. I mezzosangue sono inseguiti dai mostri. Il nostro odore è troppo forte perchè possiamo passare inosservati, e Pitone in questo caso stava cercando proprio te. Io e Percy siamo stati avvisati dal Campo che saresti stata in pericolo, perchè era da un po' che questo lucertolone vagava senza una meta e senza essere ucciso da nessuno. Perciò ci siamo intrufolati nella scuola, pensando di dover rimanere più a lungo. Invece la cosa si è rivelata più veloce del previsto.»

«Hai detto che vi ha avvisati il Campo...»

«Il Campo Mezzosangue. Si. Si trova sulla Collina Mezzosangue a Long Island, è da li che viene il nome. E' una specie di campo estivo, dove i mezzosangue si ritrovano per allenarsi e per non essere uccisi dai mostri. Ti stiamo portando li.» 

Mi fermai. Ecco come seppi che non sarei più rimasta nel mio orfanotrofio perché qualche mostro avrebbe potuto uccidermi. Bello, vero?

Percy e Annabeth si voltarono, e smisero di correre. Probabilmente avevano capito perché mi ero immobilizzata.

«Devi andartene da qui, per forza.» Mi disse Annabeth.

«Se rimani, oltre a rischiare la pelle, metti in pericolo anche i tuoi amici» Concluse Percy. Lo dissero con una calma straordinaria, come se per loro fosse normale. Lo dissero come se mi stessero dicendo di fare in fretta perché avrei potuto perdere il treno. Ma era un po' diverso: se perdevi un treno, poco dopo ne sarebbe passato un'altro. Se un'amico ci lasciava la vita, bè…  Di vita ce n'è una sola.

«Ma allora… Cioè, com'è possibile che i miei genitori siano dei?» Probabilmente avevo lo sguardo di una pazza, perché iniziavo a non capirci più niente. 

«Non tutti e due i tuoi genitori, solo uno.» Continuò Percy. «O tuo padre o tua madre… uno di loro è divino. Non possiamo sapere chi finchè non vieni al Campo. Là allora il tuo genitore potrà riconoscerti, e potremo assegnarti a una casa.»

«Solo se il suo genitore vorrà riconoscerla» Disse Annabeth sottovoce.

«Certo che la vorrà riconoscere. Zeus me l'ha promesso, ricordi?» Percy sembrava essere stato punto sul vivo, come se avesse ripetuto quelle parole un centinaio di volte al giorno, per rassicurare qualcuno.

«Si, ricordo» Rispose Annabeth, dopo un'attimo di esitazione. Sembrava che volesse scacciare un brutto pensiero. 

«Scusa…» Iniziò Percy, ma lei chiuse gli occhi e fece segno di aspettare. Dopo qualche secondo si ricompose, ma il suo viso era ancora contorto dal dolore.

«Non fa niente, Percy. Ora andiamo. Non vorrai che qualche altro mostro ci venga a complicare la missione, no?» E si avviò, seguendo il corridoio. Percy sospirò, rassegnato.

«Andiamo» Mi fece segno. In silenzio, lo seguii.  Avevo l'impressione che Annabeth stesse soffrendo per qualcosa di più grosso di un semplice - semplice per modo di dire - combattimento con un mostro. Ma non dissi nulla. Al mio solito. 

Finalmente, arrivammo alla mia camera. Come sapevano qual era? Va bè, lasciamo stare, ci sarebbero state troppe cose senza senso da spiegare, e quello non mi sembrava il momento. Percy e Annabeth si misero uno alla destra e uno alla sinistra della porta, aspettandomi. Allora mi resi conto che la porta era chiusa. Giusto, che stupida. Ficcai la mano in tasca e presi la chiave. Nella mia stanza, che dividevo con Lulù, aveva sempre regnato il caos: né io né lei eravamo quelle che si dicono "ragazze ordinate". Anzi, mi orientavo meglio nel disordine che nella perfezione assoluta. Perciò non considerai neanche per un secondo a cosa avrebbero pensato Annabeth e Percy: d'altro canto, stavano cercando di salvarmi la vita; non avrebbero certo fatto caso alla discarica dalle pareti verde chiaro nella quale si sarebbero trovati di li a qualche secondo.

 Aprii la porta e venni colpita da un vento forte. Mi accorsi che la finestra era rimasta spalancata, perché fino a qualche ora prima era effettivamente primavera. Ora invece il cielo ospitava nuvole nere di pioggia, e un temporale era in arrivo. Ma proprio quando il vento mi frustò il viso, portò con se delle voci. 

Spalancai gli occhi e corsi alla finestra. Mi affacciai. Giù in strada, fuori dai cancelli dell'orfanotrofio, 300 ragazzi stavano seguendo alcuni insegnanti, in fila indiana. E si stavano allontanando dalla scuola. Stavano lasciando l'istituto che secondo loro era in fiamme, quelle fiamme che io non vedevo. 

Mi stavano abbandonando. Mi stavano lasciando qui. Come avevano potuto non accorgersi della mia assenza? Lulù non se n'era dimenticata sicuramente. No, lei non poteva. Non poteva. Ma allora...

Prima che potessi dire qualcosa, nei corridoi silenziosi dietro di noi risuonò lo schiocco sordo delle porte che venivano chiuse. Ci avevano chiuso dentro. Eravamo intrappolati qui. Mi voltai, ancora più nel panico, ma i miei due quasi-nuovi amici avevano un'espressione sicura sul viso. Cosa pensavano di fare per uscire? Sfondare le porte a calci? 

Avevo così tante parole da dire che non riuscii a metterle insieme per formare una frase coerente. «Come… Cosa… Cioè, loro…» Indicai la finestra. I due si sporsero, appena in tempo per vedere gli ultimi ragazzi che sparivano dietro agli alberi secolari che si trovavano ai bordi della strada. Si scambiarono uno sguardo, col quale probabilmente si dissero tutto, ma che per me non significava niente. Li guardai ancora, a bocca aperta, aspettando una risposta sensata. Naturalmente chiedevo troppo.

«Grover.» Disse Annabeth, come fosse una conferma a qualcosa che io non sapevo.

«Mmm, mmm…» Annuì Percy. Che cos'era Grover? Il nome di un piano che dovevamo seguire per salvarci? Non ressi, e urlai.

«Perché non fate nulla? Pensano che l'edificio sia in fiamme! Lo stanno abbandonando! Ci hanno chiusi dentro e si sono dimenticati di me!» 

«Calma, calma» Mi disse Annabeth, sicura. «Atena ha sempre un piano. E' tutto calcolato. Tu riempi una borsa con quello che hai, preparati a stare via per un bel pò. Non so se potrai più ritornare qui.» 

Mi caddero le braccia. E' come se d'improvviso qualcuno venisse a casa vostra e vi dicesse che state per morire, che dovete fare la valigia perché forse no tornerete mai più a casa e che il fatto che tutta la vostra famiglia se ne stia andando in fila indiana, abbandonandovi chiusa a chiave nell'edificio, sia tutto calcolato. Non lo prendereste per pazzo?

Eppure, mi fidai ancora una volta. Presi da sotto il letto l'unica borsa da viaggio che avevo e iniziai a riempirla con i pochi vestiti che si trovavano nella mia parte di armadio. Quando mi ritrovai con la sciarpa rosa di Lulù fra le mani, la sua preferita, una lacrima mi scivolò sulla guancia. Mi strofinai gli occhi, cercando di non peggiorare la situazione. Questo era peggio di un addio. Non avrei neanche potuto dire alla mia migliore amica che non mi avrebbe più rivisto. Mai più. Il pensiero mi strinse il cuore. 

Mentre Percy e Annabeth dietro di me parlottavano a bassa voce, discutendo di cose che tanto per cambiare non potevo capire, mi avvicina all'unica scrivania presente nella stanza. Presi un foglio e un pennarello colorato, e scrissi: 

"Addio. Scusami, per tutto. 

 Ti voglio bene, 

 Monet". E accanto alla firma disegnai una farfalla.

Rimasi a leggere quelle povere parole, sperando che Lulù capisse che lasciarla così fosse la cosa più difficile che avessi mai fatto, finchè una lacrima non cadde sulle ali della farfalla, facendo sbiadire un po' di colore. Adesso basta, dovevo andare.

Piegai più volte il biglietto e lo misi nella tasca di una delle sue felpe. L'avrebbe trovato. Prima o poi.

Incastrai l'altro paio di scarpe da ginnastica che possedevo nella tasca davanti del borsone, mi misi i miei pochi spiccioli in tasca e mi voltai, sperando che il segno delle lacrime se ne fosse andato dal mio viso. «Sono pronta».

I due smisero di discutere. «Oh … Ok, allora possiamo andare.» Mi disse Percy. Mi stavano fissando le guance, quindi probabilmente era stato inutile sperare. Mi strofinai gli occhi con la manica della maglietta e distolsi lo sguardo. Loro capirono, e si avviarono fuori. 

Mentre camminavamo, ancora, senza una metà - o almeno, io non la conoscevo - per i corridoi della scuola, Annabeth si degnò di spiegarmi qualche cosa. Forse per consolarmi, vedendomi così abbattuta, ma era già qualcosa in più. Finalmente.

«I tuoi amici non si sono scordati di te, sono soltanto stati confusi dalla Foschia.»

«Da… cosa?»

«La Foschia. Confonde gli umani, e gli permette di immaginarsi le cose secondo i loro punti di vista, secondo quello che il loro cervello permette di immaginare. Per esempio, oggi erano convinti che fosse scoppiato un'incendio. Questo perché qualcuno ha manipolato la Foschia, convincendoli ad andarsene. In questo caso dobbiamo ringraziare Grover.»

«Chi è Grover?»

«Un nostro amico» Si intromise Percy. «Gli avevamo chiesto di aiutarci, ma dopo la battaglia all'Empire State Building, l'anno scorso, è veramente molto impegnato a cercare i giovani mezzosangue nelle scuole di tutti gli Stati Uniti.» Chissà di che battaglia parlava? Dubitai che fosse di gavettoni...

«Ci sono altri mezzosangue?» Era una domanda insensata, visto che eravamo già in tre in meno di tre metri quadrati, ma era anche vero che non mi ero mai accorta di nulla prima di oggi. Prima di aver saputo la verità. Non sapevo che esistesse un'altro mondo. E che ne facevo parte.

«Certo. Siamo tantissimi, sparsi un po' per tutto il Paese. Alcuni non sanno neanche di esserlo, come te, finchè qualcuno di noi non viene a prendervi. Se i satiri sentono il nostro odore, vengono a cercarci, o chiedono aiuto ad altri ragazzi del Campo, come me ed Annabeth.»

«Esistono anche i satiri?» Sembrava tutto irreale.

«Si. Scoprirai presto quanto i miti siano realtà. E non tutti i personaggi mitologici sono pacifici come loro. Purtroppo.»

«E' tutto… così strano.» Ecco, l'avevo detto. Così almeno sapevano come mi sentivo, ammesso che gliene importasse qualcosa.

«Lo è sempre, quando lo vieni a sapere. Anche io non volevo crederci»

«Voi… Chi sono i vostri genitori?»

«Atena» Rispose Annabeth, fiera «Dea della saggezza e della strategia militare.»

«So chi è Atena» Ribattei. Lei mi guardò un po' male.

«Poseidone» Disse Percy« bè… sai chi è, immagino» Io annuii. Ma ancora era tutto come un sogno. E ancora non mi ero posta la domanda più importante.

«Eccoci arrivati»

Alzai lo sguardo: eravamo davanti alle scale di emergenza che portavano sul tetto dell'edificio. Non ci era permesso salire lassù - troppo pericoloso -, o almeno non era permesso ai ragazzi dell'orfanotrofio. Ma io adesso non ne facevo più parte. Non era più casa mia. Adesso ero proprio intenzionata ad andarci. 

Salimmo le scale e Percy aprì con un calcio la porta, chiusa quel tanto che bastava per non far entrare spifferi. Non avevo avuto tutti i torti, allora, a pensare che avremo buttato giù le porte a calci.

Una volta sul tetto - faceva veramente freddissimo - rimasi li in un angolo,  con le braccia strette sul petto, guardando le mie due guide: Annabeth mi stava imitando; Percy era visibilmente infreddolito come noi, ma si stava avvicinando al bordo, che era senza parapetto. Se una folata di vento fosse stata troppo forte, sarebbe volato di sotto. Senza possibilità di salvarsi. A meno che oltre alla penna che diventava una spada non avesse anche un fazzoletto che diventava un paracadute… Ne dubitavo.

Ma lui avanzò sicuro, come se sapesse cosa fare, e arrivato al limite del cornicione, fischiò.

Inizialmente non successe niente, ma poco dopo vidi nel cielo tre puntini neri. Si avvicinarono sempre di più, puntando verso di noi. 

Mano a mano che ci venivano incontro, riuscivo a distinguere un'arto in più: uno, due, tre, quattro, cinque… Cinque? Che razza di COSE erano?

Infine riuscii ad identificarli: no, aspetta, che cosa? Erano davvero… «Cavalli?» Chiesi incredula. Annabeth mi guardò, con un sorriso teso, forzato. In pratica, falso.

«Mai sentito parlare di Pegaso, Miss Fanatica della Mitologia?» Ignorai la presa in giro… Certo che ne avevo sentito parlare, ma... "Non esistevano cavalli alati" sarebbe stata la conclusione che avevo in mente, ma non era più valida. Non dopo quello che avevo saputo. Non dopo aver saputo quello che ero. 

Avrei dovuto cambiare anche il mio modo di pensare. Dovevo ricordarlo, se non volevo continuare a fare un'errore dietro l'altro, che di certo non miglioravano la mia reputazione.

Allora guardai meglio, e infatti i cavalli avevano due paia di grandi ali. I cinque arti che avevo contato erano in verità le quattro zampe e la coda. Non ci potevo credere.

I pegasi - se questo era il termine esatto per indicare dei cavalli volanti- planarono e si fermarono sul tetto, davanti a noi. Sembravano contenti. E stavano guardando Percy, come se volessero dirgli qualcosa. 

«Si, anche io sono contento di vederti, BlackJack. Grazie per essere venuto, nonostante  il tempaccio. Ma dobbiamo far presto». Non stava parlando con me, e neanche con Annabeth. Stava guardando proprio il pegaso nero più vicino a lui. Mi aspettavo che Annabeth dicesse, ridendo: "Percy, basta scherzare, torniamo giù e cerchiamo qualche cosa per scardinare la porta!". Invece lei era seria, anzi, anche impaziente, come se tutta quella chiacchierata tra il suo amico e il cavallo fosse noiosa.

«Tu parli con i cavalli?» Chiesi. Cinque visi - anzi, tre musi e due visi - si voltarono verso di me. Arrossii violentemente, ma continuai a guardare Percy, per non fare la figura della stupida, aspettando una risposta. Non era colpa mia se non avevo mai visto un cavallo volante! Né un ragazzo raccontare i fatti suoi ad uno di questi!

«Mio padre è Poseidone, ricordi? Lui ha creato i cavalli dalla cresta delle onde. Perciò… Riesco a parlare con loro» Si strinse nelle spalle, e abbozzò un sorriso. Mi sentii ancora di più una stupida. Mi ero già dimenticata di quello che aveva detto poco prima. Fantastico. Ma la mia mente aveva assimilato così tante informazioni assurde nelle ultime ore che non c'era da stupirsi se adesso faceva i capricci.

«Si, bene… Ora possiamo andare?» Si intromise Annabeth. E dicendo questo salì sulla groppa di un pegaso. Lo stesso fece Percy. 

Non avevo mai avuto un buon rapporto con i cavalli. Amavo molto i gatti, e anche i cani non mi dispiacevano, ma non avrei mai dimenticato la prima e ultima gita che feci in un maneggio, con i mie compagni di classe, all'orfanotrofio, quando mi fecero salire per forza su un cavallo, che partì al galoppo facendomi cadere. Mi ruppi una gamba, e non volli più avere a che fare con quadrupedi. Di ogni genere. Ma in quel caso dovevo fare uno sforzo, se non volevo rimanere sul tetto, al quarto piano di un edificio.

Così mi avvicina sospettosa ad uno dei cavalli, e allungai la mano verso il muso. Si lasciò accarezzare. Non era così male, finchè stava fermo.

«Non ti farà niente. Puoi fidarti» Mi confortò Percy. Gli credetti. Mi decisi a salire, e con un'unica mossa fui sulla groppa del pegaso. Wow. Mi misi il borsone a tracolla e lanciai uno sguardo di conferma al figlio di Poseidone. Potevamo partire.

Lui mi guardò e sorrise. Poi si rivolse a Black Jack,  il suo pegaso, e disse: «Al Campo Mezzosangue, bello. Più veloce che puoi.»

 

Non avevo mai volato, e credo che averlo fatto per la prima volta su un pegaso sia la cosa più bella del mondo.

Sfrecciavamo silenziosi nel cielo, sopra la caotica New York. Potevo sentire il rumore attutito dei clacson e il chiacchierare delle poche persone rimaste in giro. Potevo vedere le code di macchine ferme in autostrada, la gente che affollava i marciapiedi, alcuni ragazzini che sfidando il vento si erano messi giocare a pallone. 

Già, perché il tempo non era dei migliori. Il panorama visto dall'alto era spettacolare, non c'erano dubbi. Ma avrei preferito fare questo giretto turistico con un bel sole caldo e un cielo azzurro: ora le nuvole erano ancora più scure e fitte, e sopra la città sembrava stare per scoppiare un temporale con i fiocchi, che per adesso però si limitava a fare spettacolo colorando di nero tutto quanto. Era pomeriggio, ma avrebbe benissimo potuto essere sera e non avrebbe fatto alcuna differenza. Anche il vento non scherzava. Se prima, sopra al tetto del mio ex - ormai potevo definirlo così - orfanotrofio avevo avuto freddo, immaginate che cosa stavo provando sopra ad un pegaso che volava controvento, in una tempesta e ai 100 chilometri orari. E' tutto dire…

Ci stavamo allontanando dalla città. Davanti a me c'era Percy, alla mia sinistra Annabeth. Ben presto gli edifici sotto di noi divennero pochi e sparsi qua e la, per poi lasciare il posto a distese infinite di prati e boschi. Stavo volando su una trapunta verde e gialla, decorata con fiori di tutti i colori. Era bellissimo.

Il cielo diventava sempre più chiaro. "Il temporale è finito", pensai. Invece, quando mi voltai indietro, nella direzione in cui eravamo venuti, mi accorsi che non era finito, ma che semplicemente era confinato su New York. Fuori dal perimetro della città il sole splendeva ancora, e il cielo era sereno. Mai vista una cosa del genere.

Quando mi accorsi che stavamo scendendo di quota, tornai a guardare avanti. Il pegaso di Percy era già atterrato. Io e Annabeth arrivammo in contemporanea. Scendemmo in un prato, con qualche albero qua e la, ai piedi di una collina. Sulla cima di questa c'era un enorme pino, e pochi altri alberi che però non reggevano il confronto di tanta grandezza. A parte questo, il niente. Né una casa, né una capanna, né una strada, anche se si potevano sentire, da dove eravamo, dei rumori attutiti, come se non molto lontano, tra la vegetazione, ci fosse qualcuno: probabilmente una strada, davvero.

Percy salutò i pegasi, li ringraziò e disse che era anche troppo, e che avremmo continuato a piedi. Ok, mi sarebbe toccato camminare, e forse neanche poco. Ma, no problem, non mi è mai dispiaciuto fare sport. Non che ne praticassi qualcuno, chiariamoci. Avevo sempre preferito disegnare.

«Vieni, non manca molto» Mi disse Annabeth. Adesso sembrava tranquilla. Non ce l'aveva con me. …Il suo comportamento era sempre più incomprensibile.

Ci incamminammo su per la collina, e la cosa, con il borsone che avevo, non fu proprio una passeggiata. Ma in poco tempo raggiungemmo la cima e allora, guardando dall'altra parte, rimasi ancora una volta senza fiato: ero davanti alla posto più carino cha avessi mai visto! 

C'erano prati verdi e fioriti ovunque, ragazzi che giocavano a pallavolo, che facevano canottaggio in un piccolo lago, che passeggiavano tra i campi di fragole. Più vicino a noi, in fondo alla discesa, c'era una grande casa celeste e bianca, a quattro piani, che avrebbe potuto passare per un hotel. Più lontano, c'era un padiglione a cielo aperto, con molti tavoli, come per una zona picnic. In fondo, invece, oltre il bosco, c'era il mare. Si intravedeva anche un'angolo di spiaggia. Per me che non avevo mai fatto una vera vacanza in vita mia, era il paradiso.

Percy mi guardò e sorrise: «Benvenuta al Campo Mezzosangue».

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Capitolo 3
*** Trovo una nuova casa. ***


Capitolo 3.

TROVO UNA NUOVA CASA.

 

Seguii Percy e Annabeth fino al primo edificio del Campo. Era la grande casa che avevo visto dalla cima della collina, prima di scendere a valle. Dietro di questa, prati e boschi si susseguivano fino al mare, a quasi un chilometro di distanza. E tra la casa e il mare, tra i boschi e i prati, erano stati costruiti parecchi edifici dell'antica Grecia: un poligono di tiro con l'arco, un'arena per il combattimento, un padiglione a cielo aperto. Tutti nuovi, e non con 3000 anni alle spalle. Ma c'erano anche alcune costruzioni che con l'architettura greca non avevano niente a che fare: più vicino a me vedevo un campo di pallavolo; subito dietro un laghetto con alcune canoe; dietro ancora, sulla destra, una parete - ricoperta di lava colante - pronta per essere scalata. Non doveva essere facile. Proprio no. 

Sembrava un campo estivo per i fanatici dello sport. Non riuscivo a credere che ci fosse qualcuno in grado di fare tutte quelle cose: ma era anche vero che, se i mostri che avrei incontrato fossero stati simili a Pitone, non avrei avuto altra scelta che imparare a salvarmi la pelle. Il che non sarebbe stato poco, per cominciare. Poi avrei anche potuto considerare il fatto che mi trovavo in un campo estivo circondata da semidei. E che lo ero anche io. 

In segreto, però, continuavo a credere che si fossero sbagliati, che mi avessero confuso con qualche altra persona. Era probabile. Io non sarei mai stata capace di arrampicarmi fra due cascate di lava. 

Percy e Annabeth si fermarono davanti al portico della casa azzurra e bianca.

«Questa è la Casa Grande» Mi disse Annabeth. «Vieni, ti presentiamo Chirone». E detto questo salì i pochi gradini che portavano all'ingresso. La seguii; dietro di me, Percy. 

Chirone… Chirone…. Chirone… Il nome non mi era nuovo… Non era forse il tizio che… No, non era possibile, il Chirone che conoscevo io era stato il maestro di Achille, e quindi doveva essere già morto. Da appena qualche migliaio di anni. E in più era un centauro, quindi era praticamente …

POSSIBILE. Non ci credevo. Era possibile. Era reale. Era VIVO. 

Mi ritrovai nella sala principale della Casa Grande senza accorgermene, tanto ero presa dai miei ragionamenti sui personaggi mitologici, morti da un sacco di tempo. O meglio, che AVREBBERO dovuto essere morti da un sacco di tempo. Invece di fronte a me c'era un centauro. Proprio un centauro. 

Devo descrivervelo? Oh, insomma, lo sapete com'è fatto un centauro, no? E' una delle figure mitologiche più conosciute!

Bè, mi toccherà parlarne.

Fissai il viso dell'uomo di fronte a me. Non sapevo se fosse giusto definirlo anziano. Sicuramente non era giovane, ma il fisico sembrava atletico, e si vedeva che si teneva in forma. Per metà, era umano: cioè, dalla testa alla vita era umano, e indossava una maglietta colorata con scritto: "PARTY PONY divisione Messico!" con sopra una giacca di pelle marrone. Aveva i capelli scuri e la barba non troppo lunga. Mi stava sorridendo, e dall'espressione sul suo viso capii che era raro che si arrabbiasse sul serio, o che lo facesse spesso. Dalla vita in giù, però, la pelle lasciava il posto ad un manto bianco e lucido, pulito e profumato, come di un cavallo appena strigliato. Anzi, togliete il "come". Era PROPRIO un cavallo pulito e strigliato. Perché al posto delle gambe aveva quattro paia di zampe. Era il primo vero strano essere che vedevo così vicino, e mi ci volle un po' per digerire il boccone. Pitone mi era sembrato spaventoso, si,  ma alla fine era solo - si certo, SOLO - un serpente troppo cresciuto. Un centauro invece era… bè, "strano" come aggettivo potrebbe andare bene.

«Benvenuta! Benvenuta al Campo Mezzosangue, semidea. Io sono il vostro istruttore...»

«Chirone» Completai, con un filo di voce. Forse non era molto carino interrompere il proprio insegnante in questo modo - e al primo incontro, per giunta! - ma ero così scioccata che mi sfuggirono le parole di bocca. Il mio nuovo professore-centauro, però, sembrò non prendersela. 

«Si, brava. Vedo che te ne intendi. Bene, anzi, molto bene. Sarà più facile sconfiggere gli avversari. Ottimo inizio!» E mi sorrise ancora, come se combattere contro qualcuno con spade e lance fosse assolutamente normale. Anche se probabilmente per i mezzosangue lo era. E qui si tornava al problema che mi era saltato in mente. 

«Non è possibile che vi siate sbagliati? Che non sia io quella che cercate? Io non sono una mezzosangue.» Piagnucolai. Era patetico, lo so, ma se fino a poco prima ero stata felice di entrare un questo nuovo mondo, adesso ne avevo abbastanza. Era troppo, per un giorno solo. I miei nervi non avrebbero retto ancora a lungo.

«No, mia cara, mi dispiace» Mi rispose Chirone con voce gentile. «Se sei riuscita a oltrepassare i confini magici del Campo senza essere mangiata da Peleo, vuol dire che sei una di noi». 

Ecco, perfetto.

«Chi è Peleo?»

«Il nostro drago da guardia» Rispose lui con nonchalance. Certo, TUTTI hanno un drago da guardia a casa. Come no. Evitai di dire tutto questo ad alta voce, anche se mi sarebbe piaciuto.

«Allora, vedo che Annabeth e Percy ti hanno già detto qualcosa. Bene. Possiamo passare direttamente alla fase "domande".»

«La fase "domande"?»

«Si. Ormai sono anni che gestisco le cose qui al Campo, e ne ho visti molti di giovani semidei arrivare senza sapere nulla di quello che li aspetta… Solitamente, dopo che vengono a sapere la verità, nella prima fase c'è solo incredulità. Poi, una volta accettata, c'è la fase "domande". Non hai nulla in mente che vorresti chiarire? Non vuoi fare nessuna domanda?»

Non voglio fare nessuna domanda? No, ma dico… E' pazzo? Non voglio fare NESSUNA domanda? Non sarebbe bastato il resto del pomeriggio per chiarire tutte le cose incomprensibili che avevo in mente! Non era stato così anche per gli altri ragazzi?

«Di solito, l'età media dei ragazzi che arrivano al Campo è tra i 12 e i 13 anni, ma credo che anche per i più grandi come te non sia facile accettare tutto questo, non avendone avuto mai a che fare prima… O sbaglio?» E mi guardò ancora, con un sorriso incoraggiante. Probabilmente mi aveva vista confusa e aveva pensato che fossi timida. E infatti lo ero, e sicuramente mi sarei colorata di bordò non appena avessi iniziato a parlare, ma il problema era un'altro: c'erano troppe cose da chiedere. E lo dissi.

«Non so… Ci sono troppe cose… Non so da dove iniziare…» 

«Bè, perché non inizi dalla base? Hai scoperto di essere una semidea, quindi la domanda successiva, a meno che tu non ne abbia già trovato una risposta, sarà…» Mi puntò gli occhi addosso, incitandomi a concludere la sua frase. Percy e Annabeth si sedettero su una vecchia panca di legno, in un angolo. Pensai che fossero annoiati, e invece mi stavano guardando incuriositi. Probabilmente per loro era un bello spettacolo. Divertente, forse. Ma solo per LORO. 

Io rimasi in piedi, davanti a Chirone, a scervellarmi. C'era, in effetti, una domanda che mi premeva, sulla quale si erano costruite tutte le altre. 

«Gli dei… Se questa storia è vera…»

«E' vera, te lo assicuro»

«Ma gli dei sono morti. Dopo l'Impero Romano nessuno ha più parlato degli dei. Gli dei sono… miti» E detto questo, un tuono risuonò lontano, nel cielo. Pensai che finalmente il temporale avesse iniziato a dare spettacolo, giù a New York. Poi però vidi Chirone guardare il cielo, preoccupato, mentre Annabeth e Percy lo imitavano.

«Stai attenta, mia cara Sophie» Non sapevo da chi avesse saputo il mio nome, ma ormai questa era quasi una cosa normale. Quasi. «Agli dei non piace essere considerati miti. Come d'altronde non piacerebbe nemmeno a te. Dico bene?»

«No, ma…» Ero troppo confusa. Non riuscivo più a ragionare.

«Gli dei non sono mai morti. Gli dei non possono morire. Si sono spostati, col tempo, fino ad arrivare qui negli Stati Uniti d'America. E con il passare degli anni hanno ceduto alla tentazione dei mortali, generando dei figli con loro. Generando semidei. Ecco, questa potrebbe essere una sintesi delle risposte alle tue domande.»

E aveva ragione. Se accettavo il fatto di essere una mezzosangue, allora era vero anche il fatto che gli dei si erano trasferiti dalla Grecia a qui. Ma nessuno ne aveva mai parlato. Nessuno sapeva niente. Se tutto questo era uno scherzo architettato alla perfezione, prima di congratularmi con l'autore avrei preso a calci tutti quelli che mi stavano facendo credere a queste cose. Davvero.

«Ma se gli dei esistono veramente» E un'altro tuono risuonò lontano «Allora perché nessuno li vede, nessuno sa niente?»

«Solo gli umani non possono vederli, perché la Foschia li confonde. Tutti gli altri, invece, - mezzosangue e creature mitologiche - li vedono solo se sanno della loro esistenza. Fino ad oggi, tu hai avuto gli occhi offuscati dalla Foschia come gli umani, perché non sapevi di poter vedere "più in la". Ecco perché non ti sei mai accorta dei mostri.»

«Lei sa perché sono stata portava via dai miei istituti precedenti? Sa chi erano i miei genitori?»

Chirone esitò, come se sapesse qualcosa che non voleva dirmi, e stesse cercando di censurarla in parte.

«Non so chi siano i tuoi genitori, né chi sia il tuo genitore mortale né chi sia il tuo genitore divino, ma so qualcosa sui tuoi trasferimenti.» Mi guardò, improvvisamente teso e serio. 

«Qualcuno mandava dei satiri a salvarti poco prima che un mostro ti venisse a cercare, come se prevedesse le mosse del nemico. La Foschia ingannava in qualche modo i tuoi professori, che ti lasciavano partire con loro. Purtroppo, non so altro, mia cara.» Al momento non lo feci, ma avrei dovuto chiedermi come facesse a sapere quelle informazioni. Lo avrei saputo più tardi. Molto, MOLTO più tardi. Chirone non me la raccontava giusta. Questo era sicuro.

«Quindi… Adesso resterò per tutta la vita qui? Non potrò più andarmene?»

«No, naturalmente. Sei libera di scegliere se passare con noi tutto l'anno, o solo i mesi delle vacanze estive. Ma dato che sarà un po' improbabile che i tuoi insegnanti ti accettino di nuovo all'orfanotrofio - anche con l'aiuto della Foschia - dopo la tua sparizione improvvisa, ti converrebbe fermarti qui con noi. »

«Ma che cosa ci faccio al Campo? Cioè, che cosa si fa tutto il tempo?»

«Bè, a questo potrebbero pensarci Percy e Annabeth…» E si rivolse a loro. «Perché non accompagnate la nostra nuova arrivata in giro, mentre io le cerco una stanza per questa notte? Potrà rendersi conto di come viviamo qui al Campo.» E mi sorrise ancora. 

«Certo. Vieni Sophie… Lascia qui la borsa.» Mi disse Annabeth, e mi prese per mano, trascinandomi fuori dalla Casa Grande, con Percy al seguito.

Mi facevo tirare, non riuscivo a ragionare con la mia testa. Era troppo. Davvero. Non avrei retto ad altre informazioni scioccanti, di questo genere. Ma l'aria fresca che mi accarezzava il viso mi fece riprendere lucidità. Per la prima volta da quando ero arrivata al Campo Mezzosangue mi rendevo conto veramente della bellezza di questo posto. Era stupendo. C'erano colori ovunque. Alberi in fiore; prati ricamati di margherite e violette; l'acqua aveva un colore diverso, come se non fosse stata mai stata toccata da un solo rifiuto.

Mi ritrovai nell'arena per i combattimenti che avevo visto da lontano. Era molto più grande di come non sembrasse, e c'erano un'infinità di manichini vestiti con armatura greca sparsi per tutta l'area. Annabeth, si schiarì la voce, pronta ad iniziare la descrizione. Fantastico, non c'era niente di meglio di un giro turistico dove ascoltare ore e ore la guida. Anche se immaginavo che lei avrebbe fatto più alla svelta. O forse no?

«Questa è l'arena dove ci alleniamo a combattere con spada, lance, coltelli…» BAUUU! Un suono che mi fece rabbrividire infranse la calma che aleggiava intorno a noi. E una figura enorme sbucò fuori dall'ombra. Ci stava venendo addosso, con una velocità impensabile, ma non feci in tempo a urlare, che notai le dimensioni. Assomigliava molto ad un cane, ma era almeno il quadruplo, se non di più.

«No, no, no!» Gridò Percy. "Ecco, è finita", pensai. Ci stavano per attaccare. Saremmo morti tutti qui. In un'arena dove avremmo dovuto imparare a difenderci. Paradossale, direi. Ma poi ci feci caso, e notai che l'urlo di Percy non era di terrore… Sembrava più un'ordine. Stava cercando di comandare il mostro? Si, esatto.

Con mio stupore, l'essere che aveva abbaiato si fermò. E a quel punto lo vidi. Era un cane. Un'enorme, pelosissimo cane. 

Era a dir poco bellissimo! Anche se il muso mi faceva un po' paura…

«Brava, signora O'Leary. Brava. Cuccia!» Continuò Percy. E la signora O'Leary obbedì.

«E' un …cane?»

«Un segugio infernale, veramente… Però credo che anche "cane" sia giusto»

«Vuoi dire che è uno di QUEI segugi infernali? Quelli che proteggono gli inferi?»

«Si esatto. Ma lei è del tutto diversa dagli altri. Ti puoi fidare di lei. E' più un tipo da riporto, che da battaglia. Non so se mi spiego...» Mi sorrise, poi si avvicinò al cane e lo accarezzo su un fianco. La signora O'Leary scodinzolò, contenta, e lo ripagò con una leccata. Anche se "doccia" poteva andare bene lo stesso. 

«Si, grazie…» Disse Percy, gocciolante di bava. «Credo che mi ci voglia una doccia… Annabeth, continua tu con Sophie»

«Sarà meglio… La bava di quel cane puzza in una maniera impressionante!» Non aveva tutti i torti.

«Vieni, andiamo al poligono di tiro.»

E così vidi come i ragazzi del Campo si esercitavano con arco e frecce, come erano agili a scalare evitando di bruciacchiassi con la lava, come riuscivano a muoversi velocemente sul pelo dell'acqua con le canoe. Ovunque andassi, venivo guardata con curiosità dagli altri, perciò cercavo di evitare gli sguardi facendo finta di parlare con Annabeth, che in questo momento mi sembrava particolarmente incline a trattarmi bene.

«Quelli sono satiri?» Chiesi, indicando due ragazzi, che al posto delle gambe avevano due zampe caprine, pelose e irsute.

«Si. I satiri sono i nostri custodi, come già sai. Ci cercano e ci salvano dai mostri, portandoci al Campo. In questo momento non ne troverai molti qui: la maggior parte di loro sono in giro, inseriti nelle scuole per controllare da vicino i giovani semidei. Il numero di mezzosangue in pericolo è aumentato, dall'anno scorso»

«Ma come facciamo con la scuola? Ce n'è una al Campo?» In questo periodo dell'anno quei ragazzi si sarebbero dovuti trovare seduti al banco di qualche scuola, e non a giocare a pallavolo insieme a dei satiri.

«No, di solito concludiamo l'anno scolastico, prima di venire qui. Ma quest'anno è stata fatta un'eccezione…» Esitò.

«Perché?»

«Oh, guarda, non hai ancora visto le Case degli dei!» Mi disse Annabeth, trascinandomi - letteralmente - verso uno spiazzo tra gli alberi del bosco. Stava cercando di far cadere l'argomento.

Per terra l'erba lasciò il posto alle pietre e mi ritrovai tra tantissime case, ognuna diversa dall'altra, eppure tutte simili tra loro per dimensione. Davano tutte su un cortile comune, dove si trovava un braciere enorme rivestito di pietra, con un fuoco che scoppiettava allegro, come se fosse alimentato ogni cinque minuti.

«Inizialmente le case erano solo dodici, come i dodici dei dell'Olimpo. Erano disposte a U, con le case di Zeus e di Era al vertice. Poi il progetto originale è stato modificato, e sono state aggiunte altre case, dedicate a Ade e agli dei minori, fino ad arrivare a questo punto.» 

In effetti, le case sembravano formare un'ovale, ma non ancora completato. C'era ancora lo spazio per due o forse tre case, e mi chiesi come mai non fossero state costruite…

«Questa è la casa di Poseidone… Apollo… Artemide… Atena… Ermes… » E indicò casa dopo casa, nominando tutti gli dei dell'Olimpo, e anche altri che dovevano essere gli dei minori. Ogni casa era numerata, e aveva il simbolo del potere del dio o della dea in bella vista sulla facciata. La casa di Apollo era così luminosa al sole che dava quasi fastidio guardarla, la casa di Demetra invece era ricoperta di fiori e frutti. Sulla casa di Ares campeggiava la testa di un cinghiale impagliato che, ricordai, era il simbolo del dio.

«Perché c'è una casa per ogni dio?» Chiesi.

«Perché tutti i semidei figli di quel dio alloggiano nella casa a lui dedicata.»

«Ma Era e Artemide…»

«Sono dee vergini, si, ma si sarebbero offese se non avessero avuto anche loro una casa al Campo, ti pare?» Giusto, si sarebbero offese. Che cosa mi veniva in mente?

«E io? Come faccio a sapere chi è il mio genitore?»

«Non lo puoi sapere, a meno che lui non ti riconosca. E sei fortunata, perché dopo la promessa che gli dei hanno fatto a Percy l'anno scorso, tutti i mezzosangue vengono riconosciuti dai loro genitori. Prima non sempre succedeva»

«Che cosa? Vuoi dire che qualcuno non sapeva di chi era figlio? Rimaneva qui senza avere una casa?»

«Gli dei sono molto impegnati, Sophie, però dopo la promessa che hanno fatto tutti i mezzosangue vengono riconosciuti al massimo dopo poche settimane dopo il loro arrivo al Campo. E comunque, chi è indeterminato non finisce il mezzo alla strada. La casa di Ermes ospita tutti i nuovi arrivati. Anche tu alloggerai li.» E mi indicò una casetta con un caduceo sopra la porta. La casa del dio dei ladri.

«Ermes è anche il dio dei viandanti» Mi ricordò, come se mi avesse letto nel pensiero. 

«Adesso sarà meglio andare a prendere la tua roba. Sta calando il sole.» Era vero. Il pomeriggio era passato in un lampo, e stava diventando sera.

Risalimmo la collina, e tornammo alla Casa Grande. Trovammo Percy, lavato e profumato - per fortuna - con dei vestiti puliti. Chirone era vicino a lui, ma era seduto… Seduto? Non era possibile… Eppure mi avvicinai ancora un po', e lo vidi seduto su una sedia a rotelle, con tanto di gambe (umane) e scarpe. Avevo visto bene?

«… Vedremo come andrà avanti la cosa, Percy. Al momento non possiamo permetterci di dire niente a nessuno.» Era serio, e probabilmente stava discutendo di qualcosa di importante. Percy lo stava ascoltando. Non si erano accorti che anche noi eravamo a portata di orecchio. 

«Si, Chirone, ma …» E poi Annabeth si schiarì la voce, per informarli della nostra presenza. E forse più della mia, che della sua. Era qualcosa che non mi era dato sapere. Naturalmente. Anche se al momento non potevo lamentarmi: mi avevano detto un sacco di cose. Il mio cervello scoppiava.

«Ehm, dove ha preso quella maglietta, Chirone?» Continuò Percy, indicando la t-shirt e sperando, probabilmente, che non avessi sentito quello che aveva detto. Si sbagliava. Ma feci finta di niente.

«Oh!» Rispose il professore, improvvisamente allegro. «Sai, i miei cugini del Messico… Volevano ringraziarmi per l'ultima festa a cui li ho portati…» Erano patetici. Veramente. Anche Annabeth se ne accorse, e si affrettò a cambiare discorso.

«E' meglio che Sophie si trovi un posto nella casa di Ermes, prima che sia ora di cena.»

«Oh, mia cara, proprio di questo volevo parlare. La casa di Ermes è diventata troppo affollata negli ultimi tempi, e la nostra nuova arrivata non troverebbe posto neanche sul pavimento! Perciò, Sophie, finchè non sarai determinata, temo che dovrai alloggiare in una camera della Casa Grande» E dicendo questo indicò le scale che andavano al piano di sopra. Ok, avrei dormito li tutta sola. Perfetto.

«Bene, allora» Disse Annabeth, di nuovo acida. «Sarà meglio che io vada a prepararmi per la cena.» E se ne andò con passo pesante.

«Bè, anche io andrei…» Disse Percy a Chirone.

«Oh, si, giusto.» E detto questo iniziò a uscire dalla sedia a rotelle: prima le zampe anteriori, poi quelle posteriori, poi la coda. Non ci potevo credere. Come aveva fatto a rimanere stipato li dentro per tutto quel tempo? Era come se la sedia a rotelle fosse un'enorme scatola. E Chirone ci fosse rimasto dentro con tutta la parte posteriore del suo corpo. Pazzesco.

«Vieni» Mi disse «Ti mostro la tua stanza»

Salimmo le scale, lasciando Percy al piano terra. Arrivammo al secondo piano, e Chirone mi indicò la prima porta sulla sinistra. Aprii ed entrai. Era una stanzetta abbastanza piccola, ma c'erano un letto, un armadio, un piccolo tavolo con una sedia. Tutto rigorosamente di legno bianco e azzurro. Come l'esterno dell'edificio. 

«Questa sarà la tua nuova casa, finchè rimarrai indeterminata. Poi vedremo dove sistemarti. Ci troviamo al padiglione della mensa alle sette e mezza, per la cena. Al suono della conchiglia.» 

Mi sorrise e se ne andò.

Rimasi li, da sola, a guardare la finestra, dove il sole se ne stava andando dietro i monti. 

«Casa» Dissi, tra me e me. Quelle parole rimasero sospese nell'aria, nel silenzio della sera.

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Capitolo 4
*** Imparo ancora un po' di cose sulla mia nuova vita. ***


Capitolo 4.

IMPARO ANCORA UN PO' DI COSE SULLA MIA NUOVA VITA.

 

Il suono della conchiglia mi riportò alla realtà. 

Dovevo andare al padiglione della mensa. Già. L'avevo dimenticato! Come al solito… 

Ma questa era stata una giornata pesante. Piena di scoperte. 

Anche troppe, direi. 

Non potevano non capirmi. Anche gli altri erano passati da questa situazione. O almeno, questo era quello che speravo.

Corsi svelta giù per le due rampe di scale che mi separavano dal piano terra, e per poco non caddi all'ultimo gradino, se due mani veloci non mi avessero fermato.

«Hei! Calma, calma! Dove corri?» 

Era Percy.

«Oh» Mi rimisi in piedi «… Grazie!» Sorrisi, e forse fu la prima volta da quando l'avevo incontrato che mi rivolgevo così a lui. Bè, la prima volta da questa mattina, per la verità…

Ma anche lui si fermò a guardarmi. E saremmo rimasti così per un bel po', se non avessi parlato.

«La cena… Ci stanno spettando…» 

«Si, giusto…» 

«Ma io non so come arrivarci.» Arrossii.

«Lo immaginavo. Sono venuto a prenderti, infatti. E anche a salvarti, a quanto pare.» Si mise a ridere. Era carino quando rideva. Aveva una bella risata, che mi contagiò.

«Andiamo. Come nuova arrivata, verrai presentata a tutto il Campo.»

Mi fermai. Nessuno mi aveva parlato di una presentazione ufficiale a tutti i mezzosangue. 

Non potevano farmi questo! NON POTEVANO mettermi in imbarazzo davanti a tutti!

«Che c'è?»

«Niente… E' solo che… Devo per forza essere presentata davanti a tutti? Non posso sedermi al tavolo e basta?» Lo stavo implorando, anche se sapevo che non dipendeva da lui. Non era lui che dava gli ordini. Uffa.

«No, purtroppo… Almeno, non che io sappia. Ma ti considereranno per i primi dieci minuti, poi ognuno tornerà ai fatti suoi. Vedrai»

«Oh, questo si che mi conforta!»

«Ma di che ti preoccupi?»

«Non mi va… di essere sotto gli occhi di tutti.» Abbassai lo sguardo, per non diventare di nuovo color porpora. Ero veramente messa male, lo so. In passato avevo anche pensato di farmi vedere da qualcuno. Non era possibile che ogni volta ci fosse qualche persona in più a guardarmi mi bloccassi in quel modo. Non era proprio accettabile.

«Non ti piace essere al centro dell'attenzione.» Disse lui. Non era una domanda.

Alzai lo sguardo, e lo fissai di nuovo. Era almeno un palmo più alto di me, se non di più. E io non ero un tappo, intendiamoci. 

Mi stava studiando. Stava cercando di leggermi negli occhi. Probabilmente era facile, visto il carattere che avevo.

«Sei… particolare. Non ho mai incontrato nessuno come te.» Non aveva ancora distolto lo sguardo.

E poi la conchiglia suonò di nuovo.

«Cavolo! Siamo in ritardo! Il signor D mi trasformerà in una Diet Coke…!» E si mise a correre. Lo seguii. Fuori era quasi buio.

«Il signor D? Chi è?»

«Il vero direttore del Campo.» Poi aggiunse, sottovoce « …anche se l'unico che lavora davvero è Chirone» 

Sorrisi, divertita. «Che tipo è?»

«Molto sbrigativo. Perciò, forse, puoi considerarti fortunata se sarà già seduto, al nostro arrivo: la tua presentazione sarà parecchio veloce.»

«Perché "forse"?» 

«Perché non ha un bel carattere» Disse, di novo sottovoce. Come se questo signor D potesse sentirci dal padiglione della mensa.

«D per cosa sta?»

«Per Dioniso»

Che cosa? Dioniso? Il dio del vino? 

Il dio del vino era il direttore di un campo estivo? 

No, la cosa era inverosimile.

«Non ci credi?» Mi disse lui, ridendo. Probabilmente aveva interpretato il mio silenzio con incredulità. Non aveva sbagliato del tutto, a interpretare.

«Bè, mi sembra un po'… Strano.»

«Gli dei esistono. Te lo posso assicurare. Lo so che al momento può sembrarti strano, ma anche io ero il tipo da "se non vedo non credo".»

«Tu hai visto gli dei?»

«Si. Sull'Olimpo.»

«Sei stato in Grecia?»

Rise ancora. «No. Non proprio. Chirone ti ha detto che li dei si sono spostati, no? Bene, anche la loro sede si è spostata. Ma ha mantenuto il nome di Olimpo. Sai, per le tradizioni…» Si, si, certo. Per le tradizioni.  Ovvio. 

«E quindi dove si troverebbe, adesso?»

«Sopra l'Empire State Building»

Ok, basta. Questo era troppo.

E in quel momento mi accorsi che ero arrivata. Il cuore cominciò a martellami nel petto. Sentii le mie guance bollire. Mancava ancora poco e sarei entrata in iperventilazione. 

Il padiglione era grande, e molto illuminato. Al centro cera un braciere, simile a quello alle case degli dei. Tutt'intorno, più di quindici tavoli di pietra erano pieni zeppi si ragazzi che chiacchieravano e si divertivano, in attesa di cenare. Notai che alcuni tavoli erano vuoti. 

«Vai laggiù, da Chirone. Lui ti dirà cosa fare» E mi indicò il tavolo più lontano. Fantastico, avrei dovuto passeggiare tranquilla davanti a tutti i ragazzi del campo. 

Al tavolo in fondo erano seduti due satiri e un uomo di mezza età, con i capelli neri e ricci. Era grassoccio e aveva il naso rosso, come se avesse appena bevuto una caraffa di vino, o si stesse riprendendo da una sbornia. Era Dioniso.

Mi avvicinai, cercando di guardare il pavimento ricoperto di pietre, le colonne lavorate o Chirone, che mi stava aspettando. Ma notai lo stesso Annabeth, che mi guardava furiosa. Era seduta ad un tavolo alla mia destra, assieme ad altri ragazzi. Mi aspettai che Percy si sedette con lei, invece se ne andò, da solo, ad un tavolo a sinistra. Strano. Nessuno lo considerava? Sarebbe sembrato del tutto normale se ad essere sola soletta fosse stata una come me, che parlava poco e che in quanto a socializzare era messa male. Ma Percy, … era amichevole. Lo conoscevo da solo un giorno, eppure mi era già simpatico. Possibile che nessuno lo volesse al tavolo? 

Detto - anzi, pensato - questo, mi ritrovai davanti alle zampe bianche di Chirone. Alzai lo sguardo e lui mi sorrise, per incoraggiarmi. 

«Il signor D vuole presentarti al Campo, mia cara» E mi spinse dietro al tavolo. Accanto al signor D. 

Aveva lo sguardo annoiato, come se fosse stanco di vedere sempre le stesse cose. Si voltò verso di me, mi squadrò con non troppo interesse, ci pensò un po' su e infine mi disse: «Come ti chiami, ragazzina?»

Io esitai un'attimo, con gli occhi spalancati per il terrore. Non dovevo sbagliare, potevo farcela. Mi stavano chiedendo il mio nome, non la formula dell'acido fenilacetico. 

Ed ero solo davanti a un dio, niente di che.

"Su, forza, Sophie! Apri quella boccaccia e dì quello che devi dire! Non ti mangia mica!"

E perché non avrebbe dovuto? Era un dio. Poteva fare quello che voleva. 

"Oh, andiamo! Smettila con queste considerazioni folli!"

Dioniso si voltò di nuovo verso di me, probabilmente chiedendosi se ero ritardata o quant'altro, e mi guardò dritto negli occhi. Ma non fu come quando mi aveva guardato Percy. Sembrava scocciato, più che curioso.

«Allora? Gli uccelli di Stinfalo ti hanno mangiato la lingua?»

Mi ripresi, grazie al cielo, e parlai.

«Mi chiamo Sophie Virginia Lager.» Dissi, meccanicamente e tutto d'un fiato. 

«La nuova arrivata. Ma quanti sono questi mocciosi?» Stava parlando tra se e se, volevo sperare. Perché non avrei saputo come rispondere.

«Chirone!» Strillò. Il centauro si avvicinò.

«Si?»

«Quanti altri ne devono arrivare? Sono abbastanza stufo di fare presentazioni dietro presentazioni!»

«Alcuni arriveranno tra qualche giorno. Una decina almeno.»

Dioniso sbuffò.

«E va bene, concludiamo alla svelta quello che dobbiamo fare. Questo è proprio un lavoraccio!» E un tuono risuonò nel cielo scuro.

«Si, si, certo» Borbottò il signor D, rivolto al tuono. Parlava con i tuoni? No mi risultava… Il dio dei tuoni e dei lampi era Zeus…

«Allora!» Si alzò in piedi, e tutti i ragazzi si ammutolirono. Non doveva avere tante belle esperienze con loro alle spalle, immaginai.

«Prima di iniziare, vorrei informarvi che staremo un po' più stretti, al Campo. Abbiamo qui la nuova arrivata, Chloé…»

«Sophie» Lo corresse Chirone.

«… Ronnie Lager.» 

Ok, era un caso disperato. Ma forse era meglio star zitti.

I ragazzi parlottarono fra di loro, lanciandomi occhiatine curiose, o ridacchiando. Perfetto, ero il leone in gabbia. E loro gli spettatori del circo. 

Ma con le parole del signor D tornarono tutti in silenzio.

«Bene. E adesso buon appetito e bla, bla, bla. Iniziamo!»

Chirone - anche se lui stava in piedi, essendo troppo alto -, mi fece sedere al tavolo con loro. Mi chiesi il perché, visto che c'erano tantissimi tavoli liberi.

«Perché alcuni tavoli sono vuoti?» Gli chiesi, proprio mentre una ragazza dalla pelle verdognola mi stava servendo della frutta. O si stava sentendo male, o era un'altra creatura mitologica di cui ignoravo il nome. Ma mi sorrise, perciò optai per la seconda ipotesi.

«Ogni tavolo è consacrato a un dio, e solo i figli di quel dio possono sedercisi.»

«Perciò… C'è un solo figlio di Poseidone?»

«Si. E come vedi, non c'è nessun figlio di Zeus.»

Ecco perché io me ne stavo li con loro.

Improvvisamente, proprio quando stavo per addentare una fragola, tutti i ragazzi si alzarono con il proprio piatto in mano, avvicinandosi al braciere.

«Che cosa fanno?»

«Bruciano le offerte per gli dei» E poi mi guardò, come se si aspettasse qualcosa.

«Devo andare anche io?»

«Si.» 

Così mi alzai, senza sapere bene cosa fare. Arrivai al braciere, e lo fissai. Tutti gli altri intorno a me si avvicinavano, lanciavano qualcosa nel fuoco e bisbigliavano rivolti al cielo: una preghiera. 

Ma io chi dovevo pregare?

«Invoca tutti gli dei, così sei sicura che l'offerta arriverà anche a tuo padre o a tua madre.» 

Percy mi apparse accanto. 

«Oh.» Fu la mia unica e intelligente risposta.

Allora presi un grappolo d'uva e lo lanciai nel fuoco.

«A mia madre o a mio padre.» Dissi piano e tra me e me. Mi sentivo un'idiota.

E me ne tornai al tavolo, convinta che quella fosse stata la cosa più stupida che avessi mai fatto.

 

La serata passò velocemente.

Dopo la cena, ci riunimmo tutti attorno al fuoco. 

Scoprii che al Campo c'erano ragazzi più grandi di me, ma che la maggior parte erano più piccoli. E scoprii anche che ogni anno, alla fine dell'estate, tutti i semidei venivano ricompensati con una perla in terracotta, decorata a seconda degli avvenimenti di quell'anno, che legavano a una collana di cuoio. Annabeth ne aveva tantissime, e  Percy mi aveva detto che lei era qui da quando aveva sette anni. Mi considerai fortunata per essere venuta a sapere così tardi della verità sul mio conto. Anche se adesso avrei dovuto fare le corse per imparare tutto quanto.

Mentre gli altri chiacchieravano, ridevano e scherzavano, notai che Annabeth era ancora imbronciata. Sperai non fosse per colpa mia, anche se a dirla tutta non sapevo proprio cosa le avessi fatto...

«Hai visto Annabeth?» Disse una ragazza alle mie spalle.

«Annabeth Chase? Si. Ce l'ha con tutti ultimamente.» Rispose un'altra. Ah, meno male. Pensavo che ce l'avesse solo con me. Mi liberai di questo peso. E mi stupii del cognome della bionda. Stupidamente, come se non avesse un cognome. Mi suonava strano.

«Bè, dopo essersi lasciata con Percy Jackson, non le ho più visto un sorriso sulla faccia. Adesso è gelosa di tutte quelle che ronzano attorno a lui.» 

Se non fosse stato che le due chiacchierone non sapevano che le stavo ascoltando, me ne sarei uscita con un "Nooo! Percy e Annabeth stavano insieme?". Come una di quelle sceme dei telefilm. Ma le due ragazze continuarono.

«Quand'è successo?»

«Qualche mese fa… Non si sopportavano più, pare… Mas io non so niente.» Si, certo, non sa niente! Probabilmente sapeva più lei che Percy e Annabeth messi insieme.

Decisi di smettere di ascoltarle, e di godermi l'allegria della serata.

Dopo i marshmallow abbrustoliti e i canti dei ragazzi "della casa di Apollo" - o almeno così mi avevano detto -, ognuno tornò alla sua capanna. E io, sola soletta, me ne tornai nella mia camera alla Casa Grande. 

E così era passato il mio primo giorno al Campo Mezzosangue.

 

Il giorno dopo Percy e Annabeth mi accompagnarono per un'altro giro del Campo. Non l'avrei mai detto, ma considerando anche il bosco il territorio a nostra disposizione era grandissimo. Mi mostrarono la fucina, dove i figli di Efesto costruivano le armi, e le stalle, dove un sacco di pegasi - a quanto pareva, il soprannome che gli avevo dato era coretto - si facevano lavare e spazzolare felici.

«Quelli che si trovano qui sono ancora molto giovani» Mi disse Annabeth «I più esperti sono in giro a dare una mano. Anche il passaggio che ci hanno dato ieri era un'eccezione. Hanno molto da fare, ultimamente.»

«Perché? Che cosa sta succedendo in questo momento?» Era una domanda lecita dopo quello che aveva detto, no? Evidentemente, mi sbagliavo.

«Non ti abbiamo ancora presentato a Nico e Clarisse» Si intromise Percy, per lasciare cadere il discorso. Mi stavano nascondendo qualcosa. Questo era sicuro. Ma decisi di non insistere. Sicuramente se non mi dicevano quello che stava succedendo, era per un buon motivo. O almeno, speravo che accanto a motivo ci fosse "buono", perché altrimenti… Bè, il contrario di buono non mi rassicurava molto.

«Giusto! Vieni, andiamo a cercarli.» Si animò Annabeth, E mi portarono alle capanne.

Trovammo Clarisse e Nico ad allenarsi. 

Da lontano, vidi sue figure, all'ombra degli alberi secolari, che non riuscii a distinguere: una era alta e massiccia; l'altra era si alta, ma un ramoscello in confronto alla prima. Ma tutte e due combattevano con un'agilità e con una forza che mi lasciò di stucco. 

Immaginavo che la figura esile fosse Clarisse, e quella robusta Nico. E invece no, era il contrario.

Quando ci videro, i due si fermarono. Erano sudati fradici, e a dir la verità, mi preoccupavo: anche io mi sarei ridotta in quelle condizioni, allenandomi al Campo? 

No, grazie. Preferivo profumare di shampoo e non saper tenere in mano una lancia, anziché saper mettere KO il nemico ma puzzare in quel modo! 

Va bene, lasciamo stare.

Clarisse era alta e robusta, con la pelle scura, cotta dal sole, e i capelli castani legati in una coda. In mano, mi accorsi, non teneva una spada qualsiasi: la sua arma brillava, come se producesse… Scariche elettriche? Possibile? 

La parte razionale che era in me avrebbe voluto dirle che era contro la legge usare oggetti del genere tra i minorenni,  ma la mia altra metà - quella che si era abituata alla vita al Campo - aveva capito che su quell'argomento potevamo anche sorvolare.

In più, a occhio e croce la ragazza sembrava anche più grande di Percy e Annabeth. Quindi poteva benissimo essere già maggiorenne.

Nico era mingherlino, con i capelli neri come la pece che ricadevano sulle spalle. Era vestito tutto di nero, ma non dava l'idea di essere un dark. 

Però, chissà che caldo doveva avere con tutti quegli abiti scuri addosso! Non volevo pensarci: le temperature si erano alzate di parecchio, dal giorno prima. In mano, il ragazzino teneva una spada, nera anche quella. 

"Hei, però…" Pensai "…che allegria! Che ti è successo?"

Ma a pensare non ci voleva niente. Era quando aprivo la bocca che nascevano i problemi …

«Clarisse, Nico… Lei è Sophie, la nuova arrivata.»

«Clarisse, figlia di Ares» Disse la bruna, fiera. Mi ricordò la mia presentazione con Annabeth. Era così sicura di se…

«Nico, figlio di Ade» Nico, invece, poteva benissimo essere mio fratello, per quanto riguardava il carattere. Sembrava anche lui timido e … Non saprei. Ma insomma, mi assomigliava. Caratterialmente parlando.

«Ti stai già preparando per la prima partita di Caccia alla Bandiera, Sophie?» Mi chiese Clarisse. 

Non sapevo che rispondere. Caccia a CHE? Di che stava parlando? Nessuno mi aveva detto niente.

Mi voltai verso Percy, in cerca di aiuto.

«Credo che lei non sappia ancora nulla» Disse lui alla figlia di Ares. «E' arrivata appena ieri pomeriggio.»

«Bè, sarebbe meglio che iniziasse a prepararsi. La partita è tra una settimana. Potrebbe essere il momento giusto.»

Il momento giusto? Il momento giusto …

«Per cosa?» Chiesi, concludendo il mio pensiero. Avevo la voce stridula, e mi resi conto che stavo trattenendo il respiro. Avevo paura. 

Ma paura di cosa? 

Percy lanciò un'occhiataccia a Clarisse, prima che potesse aggiungere altro. «Niente. Ma Clarisse ha ragione, forse dovresti cominciare a capire per cosa sei più portata, tra tutte le attività qui al Campo.» E mi allontanò dai due semidei, mentre Annabeth, che si era limitata ad ascoltare, ci seguiva. 

Mi lasciai spostare, come se non avessi un cervello mio o non potessi scegliere di ribellarmi. A quel punto Annabeth mi prese per mano, e mi fermò. Mi guardò dritta negli occhi, come per farmi capire qualcosa di vitale importanza. Come per farmelo entrare bene in mente.

«Sophie, ascolta. Caccia alla Bandiera è un gioco, ma è un gioco pericoloso. Tutti i semidei devono partecipare: ci dividiamo in squadre; ogni squadra ha una bandiera che deve difendere, e nel contempo deve cercare di impossessarsi della bandiera degli avversari, combattendo. E fin qui tutto ok.» 

Insomma, tutto ok non direi proprio… Io non sapevo neanche come tenere in mano una spada! 

Ma lasciai correre, e Annabeth continuò.

«Il problema maggiore è che il terreno di battaglia è il bosco. E nonostante il Campo sia circondato da confini magici, i mostri si nascondono nelle tenebre, tra gli alberi, e ci attaccano alla prima occasione. Per sfidarci. La prima partita di Caccia alla Bandiera, per un semidio, è molto importante, perché ti fa capire che cosa sai fare davvero… Ed è ancora più importante, nel tuo caso. Devi impegnarti. Ne va della vita di tutti. E…» Si fermò, di colpo. Come se avesse detto troppo, ma se ne fosse accorta troppo tardi.

La guardai. Aveva uno sguardo strano. Era indecisa se continuare o no. 

Abbassò lo sguardo. Si stava fissando le mani, come se d'improvviso fossero diventate molto interessanti. 

Non ero stupida, e di film ne avevo visti. Annabeth, Percy e Chirone - e forse quasi tutti qui al Campo - mi stavano nascondendo qualcosa. Ma ero troppo codarda per volerne sapere di più. Avevo paura di quello che avrei potuto sentire. 

E ancora una volta feci finta di niente. Proprio come una stupida, tanto per essere chiari.

Allora lei alzò gli occhi verso di me, mi sorrise e disse, come se nulla fosse: «Bene. Andiamo ad allenarci. »

 

_______________

Alloraaaa ....

Di solito non commento in fondo ai capitoli, ma qui DOVEVO proprio farlo. 

Questo è venuto fuori 'na schifezza. Veramente. 

A mio parere, è noioso. E neanche poco!

… Però mi serviva questo spazio per poter introdurre il capitolo successivo, che spero troverete più interessante (almeno, io lo trovo migliore!) 

OK, adesso non vi scoccio più: siete liberi. Fine delle mie lagne.

Alla prossima ;)

 

_Sophie Lager


PS: non so se da fastidio il font, ma a me piace questo stile tipo macchina da scrivere anni ottanta ^^

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Capitolo 5
*** Non supero il rito di passaggio ***


Capitolo 5.

NON SUPERO IL RITO DI PASSAGGIO.

 

Passai tutto il resto della settimana ad allenarmi. 

Annabeth e Percy mi seguivano ovunque, e continuamente mi spronavano a fare del mio meglio e a prendere sul serio quello che stavo facendo.

Sembrava che mi stessero preparando per le Olimpiadi. Mi facevano sudare tutto il giorno, senza tregua. Come se sapessero che fossi in attesa di una chiamata per andare in guerra da un momento all'altro, e volessero farmi trovare pronta per non fare una brutta fine. A pensarci bene, non era una bella cosa. Era una brutta sensazione, a dirla tutta. Ero davvero convinta che mi stessero preparando per sopravvivere a una battaglia. Assurdo.

Naturalmente, all'epoca lo trovavo assurdo. 

Non sapevo ancora che era esattamente quello a cui andavo in contro.

 

In sei giorni, faticai più di quanto non avessi mai faticato in tutta la mia vita. Se avevo sperato di non ridurmi come Clarisse e Nico, avevo sperato male. Ero messa peggio, molto peggio.

All'orfanotrofio mi piaceva l'ora di educazione fisica. Un po' perché non c'era granché da studiare, un po' perché mi divertivo: ci facevano gare di velocità, partite di pallavolo - che tra l'altro avevo sempre odiato -, lancio del peso, salto in alto e salto in lungo. E qualche volta ci portavano pure a nuotare. Una pacchia, insomma.

Qui al Campo, invece, feci quello che non avrei mai pensato di fare.

Provai tutti i tipi di sport, dai più semplici ai più complicati: scherma, tiro con l'arco, canottaggio, arrampicata, equitazione, corsa…

Il risultato? Mi allenai per un po' con la spada con Percy, e all'inizio sembrava che fossi una spadaccina nata. Poi però rischiai di tagliarmi un braccio con la mia stessa arma, e decisi di finirla li. Con il canottaggio non andò molto meglio: resistetti per quasi un'ora senza bagnarmi, poi feci un tuffo non programmato nel laghetto delle canoe. E anche con quello dissi basta. Una giornata intera la dedicammo all'equitazione: non avevo mai cavalcato prima - non considerando quel piccolo incidente con il cavallo che avevo avuto da bambina -, quindi tra le altre cose avevo anche un po' di paura. Mi ci volle un po' per rilassarmi sopra all'equino che - stranamente - non era alato. Ma quando finalmente ci presi la mano, ero sfinita, e il sole stava tramontando. Quindi mi fermai anche con quello. Dell'arrampicata tra le due pareti di lava non parliamone. Me la sarei cavata anche piuttosto bene, per essere stata la prima volta, se non ci fosse stato un tantino caldo alla mia destra e alla mia sinistra: mi bruciacchiai una scarpa, urlai, e tornai indietro. Non mi era mai piaciuto troppo il fuoco. L'unica cosa in cui eccellevo davvero era il tiro con l'arco. Modesti a parte, ero bravissima. Non avevo mai tirato con l'arco prima di allora, ma mi venne naturale. Come se fossi nata per quello. E fu davvero un traguardo, per me, capire di essere brava in qualcosa. 

E con questo avevo finito i giorni disponibili per allenarmi per il gioco di gruppo, se poteva essere chiamato "gioco" un'attività dove dei ragazzini rischiavano la pelle colpendosi fra di loro con spade affilate e frecce appuntite.

Ma questa fantomatica "Caccia alla Bandiera" era davvero un evento atteso da tutti. Ovunque andassi, sentivo i ragazzi del Campo parlare di schemi di attacco, posizioni di difesa, luoghi sicuri e luoghi non sicuri. Anche Annabeth era stata contagiata: andava ovunque senza mai separarsi da un computer portatile davvero carino, tutto d'oro - che fosse oro vero? - con un delta inciso sul davanti, sul quale scribacchiava di continuo, progettando solo lei sapeva cosa. Ma tutti sembravano fidarsi ciecamente di lei, che stava preparando gli schemi per la casa di Atena. Solo Percy sembrava scocciato all'idea della partita. Non sembrava contento come gli altri. Anzi, sembrava quasi arrabbiato, come se il fatto che tutti si stessero preparando lo scocciasse. Mi chiesi il perché, ma naturalmente lo chiesi solo a me stessa: sarebbe stato TROPPO rivolgere la parola ad una persona che ormai consideravo amica. Troppo, certo. 

Ma QUANTO ero patetica?

Bè, comunque…

Solo i ragazzi del Campo che avevano almeno una perla al collo sembravano interessati al gioco. I nuovi arrivati, come me, non sembravano attirati dall'idea di partecipare. Anzi, di essere OBBLIGATI a partecipare. 

Mi sfuggiva qualcosa… Non eravamo forse in un Paese libero? Mah.

Nei giorni seguenti, infatti, dopo il mio arrivo, arrivarono al Campo almeno dieci ragazzi, anche se tutti più piccoli di me, sui dodici o tredici anni. E in più, la maggior parte di loro aveva già trovato il suo genitore divino. A quanto pareva, ero io quella "sbagliata"; ero io quella che era arrivata troppo tardi, e non loro ad essere arrivati troppo presto; ed ero io quella che non aveva ancora trovato una casa al Campo Mezzosangue. 

Ma non mi sentivo esclusa. Le emozioni sembravano le stesse: nei loro occhi potevo vedere confusione, incredulità, paura, terrore, e ancora confusione. Le stesse che stavo provando io.

Tutto normale, insomma.

 

Il giorno tanto atteso arrivò. Mi svegliai alle prime luci dell'alba. 

E mi svegliai con un pensiero in testa, un pensiero che non avevo mai avuto prima di allora.

Ero decisa di fare a modo mio. Basta ubbidire e eseguire gli ordini come un soldato. Oggi avrei fatto quello che volevo. Dopo tutti questi giorni di esercizi faticosi, adesso mi meritavo un po' di riposo. Da domani sarei ritornata la Sophie di sempre.

Mi alzai convinta di questo.

Per una volta avrei fatto come volevo.

 

Scesi le scale in silenzio, senza far rumore, con terrore di trovare Chirone o il signor D al piano terra. Dormendo due piani sopra di loro, riuscivo a sentirli quando la sera giocavano a carte. Per la verità, l'unico che sentivo parlare era Dioniso, ma capivo che non era solo dalle urla che lanciava tra una mano e l'altra: "Norberto! Ma insomma! Vuoi deciderti a pescare? Chirone sta aspettando il suo turno!". Avevo sentito più di una volta uno zampettare sospetto, come di un cavallo, ma molto più leggero rispetto a quello di Chirone. Perciò, o il signor D giocava a carte con i pony, oppure qui al Campo c'era qualche satiro di nome Norberto.

Uscii all'aria aperta.

Mi era sempre piaciuto starmene da sola nel silenzio della mattina. Non si sentiva una voce. Non si sentiva un rumore. Solo gli uccellini e le onde del mare in lontananza. 

Il mare.

Non mi era mai piaciuto il mare, forse perché associavo "mare" a "giornata alla spiaggia, schiacciata fra altre venti persone in soli due metri quadrati"… Ma d'altronde questo era il tipo di vacanza che avevo avuto. Non sapevo quanto il mare fosse bello nel silenzio della natura. Almeno, non ancora.

Mi avviai, decisa, verso la spiaggia. Passando accanto alle case dove dormivano gli altri ragazzi, notai che accanto al fuoco al centro della piazza c'era una ragazzina. Anzi, forse più una bambina. Aveva un vestito marrone, e stava pungolando le braci, per far restare acceso il fuoco. 

Inizialmente pensai che fosse troppo caldo per tenere acceso il braciere, poi però mi resi conto che quello era il fuoco degli dei. 

Mentre passavo, la ragazzina alzò gli occhi dalle fiamme, mi guardò e mi sorrise. Ricambiai il sorriso, chiedendomi se anche lei fosse appena arrivata e si sentisse così in gabbia, come mi sentivo io.

Rimasi avvolta nella mia nuvola di pensieri finchè non uscii dall'ombra degli alberi, e mi ritrovai sulla spiaggia. Davanti a me, l'azzurro.

Ero incantata. Non riuscivo a staccare gli occhi dalle onde che luccicavano alla luce debole del mattino. Meccanicamente, senza pensarci, mi sedetti sulla sabbia ancora fredda, mi rannicchiai sulle ginocchia e rimasi li, immobile, a fissare l'orizzonte.

Ripensai a tutta la mia settimana qui al Campo, al mio primo giorno da mezzosangue, a come la mia vita fosse cambiata radicalmente, dopo aver scoperto la verità sui miei genitori. Mi chiesi chi fosse il mio genitore divino, e se avesse ascoltato le preghiere di tutti questi giorni. Ripensai a Lulù, alla mia vita di prima, e una lacrima mi solcò la guancia. Chiusi gli occhi, concentrandomi sul rumore regolare delle onde, per non scoppiare a piangere.

Poi il rumore cambiò. 

Aprii gli occhi, improvvisamente, presa dal panico. Ero venuta calma calma fin qui, ma Annabeth mi aveva detto che per arrivare alla spiaggia avrei dovuto oltrepassare il bosco. E nel bosco c'erano i mostri. E non ero armata. E anche se lo fossi stata, non sarei stata in grado di difendermi. Mi alzai in piedi di scatto, pronta a scattare, ma mi resi conto che il rumore non veniva dal bosco. Veniva dal mare. Guardai meglio, e infatti vidi qualcosa muoversi, a quasi cento metri di distanza dalla riva, cioè da dove ero io. Che fosse un mostro? Nessuno mi aveva parlato di mostri acquatici, ma chi poteva saperlo! Nessuno mi diceva mai niente…

Poi però mi accorsi che … Aveva una testa umana, e due braccia attaccate ad un busto. E due gambe. L'acqua era talmente bassa, adesso, che poteva avanzare come se stesse camminando sulla terra ferma. Allora vidi il suo viso. E lo riconobbi. Ma la cosa… Non era possibile. No. No. NO!

«Percy?» Chiesi, con voce debole. Il ragazzo sorrise, e tutti i miei dubbi sparirono. Si, era lui.

«Che cosa ci fai qui?» Mi disse lui, in tutta risposta.

«Potrei farti la stessa domanda, sai…» 

«Io son andato a trovare mio padre» Rispose, indicando con il pollice il mare più profondo, alle sue spalle. Come se fosse ovvio.

Era andato a trovare suo PADRE? 

«Tuo… Padre?» Ripetei, come una scema. Lui scoppiò in una risata.

«Stai facendo una faccia… ! Si, mio padre. Poseidone.»  

«E… Sei andato in fondo al mare? A piedi?» Non credevo a quello che stavo dicendo. Ma, per quanto suonasse strano, era andato PER FORZA a piedi fino sul fondale, perché non mi sembrava di vedere sottomarini, qui vicino. Proprio no. E infatti...

«Si» Rispose lui.

«Io… Non… Non ci posso credere! Cioè, Poseidone ha veramente un palazzo in fondo al mare?»

«Si. In fondo all'Oceano, per la verità. Però si.» E mi sorrise ancora.

«Intendi… Tipo quello del cartone della "Sirenetta"? Quello della Disney?»

«Non simile, ma per farti un'idea, si.»

«Wow… Ehi! Aspetta un po'! Perché non sei bagnato?»

«Posso decidere se bagnarmi o meno… L'acqua mi obbedisce». Oh, certo, l'acqua OBBEDISCE agli ordini di qualcuno, adesso. L'ho sempre saputo, io!

«Mi fai vedere?»

«C… Cosa?» Mi chiese lui, sbigottito. Io divenni immediatamente rosso porpora.

«Ho detto qualcosa di sbagliato?»

«No, ma … Nessuno me l'aveva mai chiesto, per la verità… Comunque non c'è problema. Cosa vuoi vedere?» 

«Cosa sai fare?»

«Alcune cose»

«Inizia da dove vuoi»

«Ok, allora…» Si guardò intorno, come alla ricerca di un'ispirazione. Poi il suo sguardo tornò sul mare. Lo fissò, improvvisamente concentrato, e per poco non caddi a terra. Una bolla d'acqua, dalle dimensioni di circa un pallone da calcio, si sollevò dal resto del mare e si spostò verso di noi. Notai che Percy la seguiva con lo sguardo. Pazzesco. Lo stava facendo lui. Davvero. Stava controllando l'acqua. Non ci potevo credere.

«Ecco qui.» Mi disse, abbozzando un sorriso.

«E'… Strabiliante» Sussurrai, toccando con le dita la bolla liquida. Mi bagnai la punta delle dita. Lui sorrise ancora, e la bolla d'acqua piano piano iniziò a rimpicciolirsi, e a cadere a gocce sempre più grandi sulla sabbia ai nostri piedi, finchè non scomparve.

«Wow» Fu l'unica cosa che riuscii a dire.

«Anche tu saprai fare qualcosa di speciale, non appena scoprirai chi è il tuo genitore»

«Lo spero»

«Si, vedrai. Forse …» Esitò.

«Forse cosa?»

«Forse riuscirai a scoprirlo anche stasera»

«Stasera c'è la partita di Caccia alla Bandiera»

«Esatto»

«E quindi?»

«Caccia alla Bandiera è considerato un vero e proprio rito di passaggio. Se superi questa serata, sei sicuro che il tuo genitore divino ti riconoscerà, magari la sera stessa: cercando di sopravvivere alla tua prima vera e propria battaglia, riuscirai a comportarti come un vero semidio. E quindi, nel 99,9% delle volte, i mezzosangue vengono riconosciuti dal loro genitore durante la loro prima partita di Caccia alla Bandiera. Anche per me è stato così. Ecco perché l'altro giorno Annabeth e Clarisse la facevano tanto lunga sull'allenamento: Clarisse voleva che tu fossi pronta per superare al meglio la battaglia, e Annabeth voleva dirtelo ma aveva paura che ti saresti preoccupata per niente, facendotelo sapere prima. Stai tranquilla, da stasera non dormirai più in una delle camere della Casa Grande»

«E quello 0,1% ?»

«Può accadere che tu venga riconosciuta dopo, ma non chissà quando! Solo dopo qualche giorno, al massimo una settimana»

«Sicuro?»

«Sicuro». 

Sorrisi, e avrei voluto dirgli grazie, per tutto quello che mi aveva detto. Ma mi ricordai che prima volevo chiedere ancora una cosa.

«Ieri… Ho notato che tutti si stanno impegnando per la partita. Tu no. Perché? Non vuoi vincere?»

Percy sospirò: «Si, io… Voglio vincere. Cioè, vorrei vincere, solo che non posso. Non posso più partecipare, dall'anno scorso.»

«Perché? Che cosa è successo?»

«Bè… Diciamo solo che ho fatto un bagnetto nello Stige»

«Lo Stige? Il fiume degli inferi? Quello dove Anchille… Oh, no!» Non potevo aver capito bene. Dovevo essermi sbagliata. Per forza, sicuro. Non poteva aver fatto una cosa simile. Automaticamente, il mio sguardo si posò sul suo piede. Anzi, sul suo tallone. Ma aveva le scarpe da ginnastica, non potevo vedere oltre.

«Sai cos'è lo Stige?» Mi guardò, con curiosità. Alzai gli occhi nei suoi.

«Si…»

«Sei molto informata, per essere una novellina.» E continuò a guardarmi, senza aggiungere altro. Ma io volevo sapere di più.

«Quindi» Continuai «Che cosa c'entra lo Stige con il gioco di stasera?»

«Ti ricordi che cosa successe a Achille?»

«Diventò invincibile»

«Esatto. E' per questo che non posso giocare. Vincerei io. Riesco a mettere al tappeto un esercito, da solo. Non posso rovinare il gioco a tutti. Così il signor D e Chirone hanno deciso di non farmi più giocare» Era triste, si vedeva il rimpianto nei suoi occhi.

«Scommetto che è più per colpa del signor D, che di Chirone» Dissi, cercando di alleggerire l'atmosfera. Ci riuscii. Percy scoppiò in una risata. Ma non potei fare a meno di guardarlo in modo diverso: questo ragazzo da solo poteva combattere contro un'esercito e vincere. Avrei dovuto avere paura, forse. Ma non so perché, mi fidavo di lui.

«Forse dovresti allenarti ancora» Mi disse lui, riportandomi alla realtà. 

«Non sono capace di usare bene niente» 

«Non è vero. Usi molto bene l'arco»

«Ma non si può ferire gli avversari. E' contro le regole.»

«Ma potresti… spaventarli» E sorrise ancora, con fare cospiratorio. 

«Oh, non ci avevo pensato»

«Allenati di mira. Cerca di migliorare quella. E stasera ti darò dei consigli. Non mi è permesso giocare, ma in compenso ho preso il posto di Chirone: controllo che nessuno bari»

E così dicendo, si avviò nel bosco. Lo seguii, sicura che quella sera avrei saputo cosa fare.

 

«Eroi!» Chiamò Chirone, soffiando in una conchiglia.

Era scesa la notte, avevamo appena finito di cenare, e anziché i soliti canti attorno al fuoco stasera ci saremo picchiati a vicenda. Fantastico. Proprio quello che stavo aspettando.

Ci radunammo tutti attorno al nostro istruttore. Mi sentivo ridicola con quell'armatura greca addosso. E pesava un sacco! Ma d'altronde, mi toccava indossarla se non volevo morire trafitta da una lancia. E la indossavano tutti, quindi non potevo vergognarmene. Meno uno.

«Dividetevi in squadre, e preparatevi alla battaglia!»

Avevo saputo che le varie case si alleavano tra di loro, per conquistare la bandiera a turno. Tutti volevano stare con la casa di Atena, e nessuno voleva dare la bandiera alla casa di Ares. Perciò iniziarono da subito i battibecchi.

«Tu starai in squadra con me» Mi disse Annabeth, tra il frastuono generale.

«Ti metteremo di difesa vicino alla bandiera. Sei molto brava con l'arco, e potrai distrarre i nemici. Ma cerca di non farli avvicinare, potrebbero ferirti. Non tutti seguono le regole.»

Deglutii a fatica. Come sarebbe a dire che non tutti seguono le regole? "Le regole dicono che non si può uccidere gli avversari, ma qualcuno non le rispetta… Oh, guarda! Potresti morire!" poteva andare benissimo lo stesso! 

«Non sarà pericoloso, vero?» Dissi in un soffio, la voce roca. 

«No, non credo» Ma era già presa dalle sue carte dai suoi progetti per considerarmi con piena attenzione.

No non credo? NO NON CREDO? Ma che razza di risposta era? Io avevo paura! Rischiavo di morire! E lei faceva i fatti suoi…

«Eroi! Il tempo per prepararvi è concluso!»

No. No. No. No.

«Avvicinatevi!»

No!

Qualcuno mi mise in mano un arco e una faretra piena di frecce, e mi spinse verso il centauro.

«Al suono della conchiglia, dividetevi!»

NO!

«La squadra blu» E indicò i ragazzi di fronte a me «Avrà la parte est del bosco. La squadra rossa» E indicò me e i miei compagni «Avrà la zona ovest. Le regole sono semplici: Il ruscello è la linea di confine. Tutti gli oggetti magici sono concessi. Lo stendardo deve essere collocato in bella vista e non può avere più di due guardie!»

Ci consegnò degli elmi con i pennacchi colorati: mi ritrovai con elmo rosso in testa, la faretra sulle spalle e l'arco in mano, accanto a Annabeth, anche lei con l'elmo rosso, ma con in mano il coltello e il suo cappello magico da baseball.

«Ora viene la parte più bella» Mi disse, mentre si sistemava l'armatura. «Una presa posizione, con un diversivo attaccheremo gli avversari da più fronti. La bandiera è già nostra. Tu non devi fare altro che difendere il nostro stendardo e cercare di non farti male» Mi sorrise, raggiante, come se fosse la cosa più bella del mondo.

Non poteva sorridere così. Io stavo andando a morire! Non se ne rendeva conto?

Ma Chirone suonò la conchiglia: «Eroi, alle armi!»

E il mio incubo iniziò.

 

«Seguimi!» Mi gridò Annabeth, mentre correva nel bosco buio. Non sapevo chi mi fosse accanto, poteva essere benissimo qualcuno degli avversari, o qualche mostro. Non riuscivo a vedere a un palmo dal naso, e se non fosse stato per Annabeth che mi chiamava di continuo, mi sarei persa di sicuro.

Mi piazzarono davanti ad un pino, nel bosco, da sola. E mi dissero di rimanere li, e di difendere la bandiera. 

Ma la bandiera non era dietro di me. Era lontano. Molto lontano. 

Gli altri si allontanarono correndo. In poco tempo nel bosco cadde il silenzio.

Strinsi tra le dita di una mano l'arco, e nell'altra il piccolo pugnale che mi avevano dato, anche se non sapevo usarlo. Non volevo morire così.

Il mio cuore batteva a mille. E iniziò a battere ancora più forte quando sentii dei passi, davanti a me.

Non ero più sola.

Trattenni il respiro. Cercando di non far rumore, presi una freccia e la incoccai sull'arco. Mi misi in posizione. Il nemico si stava avvicinando.

"Non aver paura" Mi dicevo. "Difenditi. Difenditi e basta."

Improvvisamente, nel buio, scorsi un chiarore, a terra. Le sue scarpe. Probabilmente erano bianche, perché si vedevano piuttosto bene. 

Ora si era fermato. Era immobile. Aveva una spada in mano: riuscivo a vedere l'elsa. Cavolo, era armato bene.

Rimase immobile per qualche secondo, e io con lui. Alla fine decisi: "tiro una freccia, gli faccio paura, e lui se ne va. Ecco, si. Faccio così".

Mi feci coraggio e presi la mira. Tesi la corda e tirai.

Tra i suoi piedi c'erano si e no venti centimetri. Colpii esattamente a dieci centimetri da una scarpa e l'altra. 

Rimasi a bocca aperta, e l'arco mi cadde di mano. Ero un cecchino. Ero uno stramaledetto cecchino. Ero riuscita a non trafiggere i piedi al ragazzo o alla ragazza che avevo davanti. 

Dove avevo imparato a farlo? Dove CAVOLO avevo imparato?

Il mio nemico allora venne avanti. Probabilmente si era accorto di quello che avevo fatto. Peccato che il mio risultato dovesse essere l'opposto… 

«Come hai fatto?» Disse una voce che conoscevo.

«Percy?» Chiesi, speranzosa.

«Devi dirmi come hai fatto!» Aveva gli occhi spalancati, la bocca aperta, e non riusciva a credere di avere davanti me, anzi che un figlio di Apollo. 

«Io … Non lo so, Percy! Stavo prendendo la mira, e volevo davvero mirare ai tuoi piedi senza colpirti. Ma sapevo di non esserne in grado, eppure qualcosa mi diceva di farlo, che non avrei sbagliato…  E non so come, ma mi sono resa conto di tutto solo quando mi hai chiamato!»

«E'… E' impressionante! Potresti essere una figlia di Apollo! Saresti sicuramente la più brava!»

«E' probabile…» Non sapevo neanche io cosa dire… «Ma che ci fai qui? Non dovresti essere a controllare la situazione in giro?»

«Si, ma non ti vedevo, e sono venuto a cercarti… Anche se era ovvio che non ti avrebbero messo nel bel mezzo della mischia. Sei una novellina»

«Basta con questa storia della novellina…»

«Scusa» Ma stava ridendo sotto i baffi. «Ora vado… Buona fortuna, eh? Ne avrai bisogno, con tutti questi nemici addosso….» E scoppiò a ridere, prima di rendersi conto di essere nel bel mezzo di una battaglia e quindi di doversi tappare la bocca, per non essere senito.

Gli feci la linguaccia, e lui se ne andò via correndo, nella direzione da cui era venuto. 

 

Rimasi li ferma per non so quanto. Ormai ero convinta che si fossero dimenticati di me, e che fossero già tutti tornati a dormire nelle loro case. Ma Percy se ne sarebbe sicuramente ricordato, era venuto anche prima… 

Ogni volta che, però, ero decisa a TENTARE - non sapendo come ero arrivata li - di tornare alla Casa Grande, un rumore mi immobilizzava sul posto. Non sapevo se fossero dei ragazzi che si avvicinavano, dei combattimenti lontani, dei mostri che volevano mangiarmi. Sapevo solo che ero li, sola, al freddo, e avevo paura.

Poi, finalmente, sentii delle grida. Vidi delle torce, in lontananza. Pensai che fossero dei nemici, e incoccai una freccia sull'arco, pronta a lanciarla. Ma mi accorsi che era Annabeth, con altri ragazzi con l'elmo rosso.

«Sophie, sono io! Abbiamo vinto! Abbiamo preso la bandiera della casa di Ares!»

Grazie al cielo, era finita!

«Meno male…» Dissi, un po' esitante.

«Torniamo al padiglione della mensa, non c'è più motivo di stare qui. La Caccia alla Bandiera è finita.»

Era finita. Finalmente.

Arrivammo per ultimi. Gli altri erano già tutti a capannello attorno a dei ragazzi con un elmo rosso in testa, che tenevano in mano uno stendardo. Avevano un'espressione vittoriosa inconfondibile, sul viso. La mia squadra aveva vinto davvero. Il gioco era finito.

Era finito.

Davvero. 

E non era successo niente. Niente di niente. Non avevo sentito nessuna sensazione strana, o visto niente di particolare.

Era finito. Punto.

Me ne sarei tornata da sola su, alla Casa Grande, senza sapere chi fosse mia madre o mio padre; senza sapere in quale casa poter andare. Eppure Percy aveva detto che ne era sicuro… Che succedeva il 99,9% delle volte…

Allora io ero un'eccezione. Ero quello 0,1%.

Non avevo superato il rito di passaggio.

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Capitolo 6
*** Ricevo un pericoloso regalo di compleanno. ***


Capitolo 6.

RICEVO UN PERICOLOSO REGALO DI COMPLEANNO.

 

Erano passate tre settimane.

Le giornate per me trascorrevano senza lasciare traccia: allenamento, pranzo, allenamento, cena.

Ero ogni giorno più agile e scattante, e più abile a maneggiare arco e spada. Ma ero anche ogni giorno più depressa.

Dopo la partita di Caccia alla Bandiera, non era successo niente. Proprio un bel niente. Percy aveva detto che sarei stata riconosciuta dal mio genitore DURANTE la partita, o al massimo dopo qualche giorno. Invece erano passate tre settimane, ed ero sempre lì, nella camera degli ospiti della Casa Grande.

Tutti i ragazzi nuovi al Campo, arrivati poco dopo di me, erano stati già riconosciuti: due figlie di Afrodite, un figlio di Ares, un figlio di Efesto e un figlio di Demetra. Avevo visto come funzionava: in un momento non preciso, senza una logica, sopra la testa del ragazzo interessato appariva l'ologramma del simbolo del potere del dio o della dea in questione; il ragazzo rimaneva a bocca aperta per alcuni minuti; Chirone si avvicinava e controllava la situazione; quando finalmente si capiva di chi era figlio, Chirone lo annunciava a tutto il Campo, e il ragazzo si trasferiva nella sua casa. Semplice, no? Ed era successo già a tutti, ad alcuni ragazzi perfino prima di arrivare qui.

A tutti tranne a me.

Ero sempre quella che rimaneva indietro.

 

In compenso, come ho detto, ero diventata abbastanza brava con la spada. Certo, niente a che vedere con Percy: quel ragazzo era straordinario, una macchina da guerra. Forse sarà stato il fatto che era invulnerabile… Mah… Può darsi. Comunque migliorai tantissimo. Lo stesso con equitazione: riuscii a cavalcare da sola per tutti il bosco, e Annabeth mi fece provare anche a cavalcare un pegaso, che non era poi così diverso dal cavalcare un cavallo qualsiasi. Migliorai anche a canottaggio, e continuai a provare un odio profondo per pallavolo. Non sapevo perché, ma non la sopportavo. L'unica cosa in cui non ero molto brava era la scalata della parete di roccia: finivo sempre per brucciacchiarmi con la lava, e quindi dovevo scendere.

Tiro con l'arco invece fu tutta un'altra cosa. Ero brava, molto precisa, e avevo un'ottima mira, quasi quanto i figli di Apollo. Ma era niente in confronto a quello che avevo fatto nel bosco, con Percy, non poi molti giorni prima. E l'unico che mi aveva visto era proprio lui. Gli altri non credevano a quella storia, erano abbastanza scettici, però dovevano ammettere che anche così - cioè senza quella mira stupefacente - ero lo stesso molto brava, per aver preso in mano l'arco per la prima volta solo poche settimane prima. Perciò quasi tutti erano convinti che fossi figlia di Apollo. E iniziavo a crederci anche io.

Non so come avevo fatto nel bosco, come ero riuscita a mirare con tanta precisione e sicurezza, e da una tale distanza. Ero stata guidata da qualcosa. Ma non riuscivo ad avere lo stesso risultato ogni volta che partecipavo ad una lezione di Chirone, giù al poligono di tiro. Mi avevano messo nel gruppo dei più abili arcieri del Campo, e cercavo di dare del mio meglio: quella era l'unica cosa per cui ero sicura di essere portata, e cercavo di impegnarmi al massimo. Non volevo fare figuracce. 

 

Una mattina di fine aprile mi svegliai presto. Non so come mai, di solito mi piaceva dormire, ma mi ritrovai bella pimpante, già vestita e pronta per uscire, alle 7 del mattino. Così decisi di fare una passeggiata.

Uscii e, come al solito, non trovai nessuno in giro. Bè, certo. Cosa pretendevo? Le persone normali non vagavano per il bosco all'alba. Però, non avevo voglia di tornare al mare. Mi voltai verso il sole che nasceva, e vidi il grande pino sulla cima della Collina Mezzosangue. Chirone aveva detto che c'era un drago. Come si chiamava? Peleo? 

E mi avviai, curiosa, verso l'albero. 

Arrivata quasi alla cima, vidi una figura proprio ai piedi dell'albero. Era abbastanza piccola, e non come me la sarei aspettata. Mi avvicinai ancora, e notai che non aveva neanche la forma di un drago. Almeno, non di un drago dei fumetti e dei cartoni animati. Che delusione. Credevo di trovarmi davanti una specie di basilisco, e invece...

Arrivata a pochi passi dall'albero, però, capii di aver fatto un errore madornale. La figura non era un drago. Era una ragazza.

Aveva una maglietta arancione, di quelle con scritto "Campo Mezzosangue" sul davanti, e che io indossavo solo se ero costretta. Era seduta a terra, a gambe incrociate, con lo sguardo rivolto verso il sole nascente, e quindi non verso di me. Accanto aveva un computer, che luccicava sospettosamente, come fosse color oro.

«Annabeth?» Chiesi, incerta. Lei si voltò, di scatto. Probabilmente l'avevo spaventata, non avrei dovuto essere lì. Ma se la mettevo su quel piano, allora nemmeno lei avrebbe dovuto essere li.

«Scusa…» Balbettai, arrossendo. «Non volevo disturbarti…»

«Sophie, non mi disturbi affatto. Vieni, siediti pure. Che ci fai qui a quest'ora?»

«Non avevo sonno» Dissi, mentre mi sedevo accanto a lei, all'ombra del pino, guardando l'alba.

«Neanche io» Mi rispose lei. Sembrava malinconica, quasi triste. Chissà a cosa stava pensando.

Rimanemmo li per un po', senza dire niente, finchè Annabeth mi chiese: «Come mai sei venuta qui? Cioè, proprio qui» E mi indicò l'albero.

«Volevo fare una passeggiata, ma non avevo voglia di andare al mare. Così… eccomi» Le sorrisi, timida. 

«E in più» Aggiunsi «Volevo vedere se c'era veramente il drago» Mi misi a ridere, e anche io indicai l'albero. Sperai che capisse che stavo scherzando, e che non ero cos' stupida da credere che...

«Peleo? E' lassù»

Non diceva sul serio, vero?

Invece, seguendo il suo sguardo, vidi proprio quello che mi ero aspettata di vedere, poco prima: un drago vero, in carne ed ossa, lungo quasi tre metri, attorcigliato ad un ramo. Non so come descrivervelo, ma assomigliava molto ai draghi nei film di Harry Potter. Tutti avete visto almeno un film di Harry Potter, no? Bene, quindi non devo perdermi in altre descrizioni.

Rimasi per qualche secondo a bocca aperta, a fissare il drago che dormiva e che sbuffava fumo dalle narici. "Draco dormiens nunquam titillandus", pensai, e mi meravigliai di quella improvvisa padronanza del latino. Non lo avevo mai studiato, e di certo non conoscevo a memoria quella frase, anche se era abbastanza famosa dopo essere stata riportata in vita da J. K. Rowling… Ma io non avevo mai saputo niente di latino. Da dove mi usciva fuori?

«Non la smette più» Disse poi Annabeth, riportandomi nel mondo reale. Non capii di che cosa stesse parlando finchè non indicò le nuvole nere davanti a se, confinate su New York. Non ci avevo più fatto caso, ma il temporale non si era spostato di un centimetro: mentre noi, qui al Campo, sfoggiavamo magliette a maniche corte e pantaloncini già da un po', in città la gente non doveva passarsela tanto bene.

«Già. Strano, eh?»

Allora Annabeth mi fissò, senza dire nulla, per un bel pezzo. Ma aveva delle parole dipinte in faccia: stava pensando "Ma è stupida, questa qui?". Anche se non ne sapevo il motivo. Che avevo detto di male? Era mai possibile che se dicevi qualcosa di sbagliato qui ti fulminavano con lo sguardo? Io venivo dal mondo normale. NOR - MA - LE! Perché mi guardavano sempre come se fossi ritardata?

«Sophie,» Mi disse infine Annabeth, dopo essersi ripresa dallo shock. «E' Zeus che sta controllando il temporale.»

Che cosa? Che cosa? Che COSA?

«Zeus?»

«Sei qui da più di due settimane e non l'hai ancora capito? Gli dei fanno parte di questo mondo» 

"Oh, grazie per l'informazione. Non lo sapevo!" Avrei voluto rispondergli, ma poi capii che ero io dalla parte del torno, in un certo senso. Ero io che dovevo abituarmi a queste pazzie, e non loro alla normalità. Fantastico.

«Quindi è Zeus che gestisce tutti gli eventi atmosferici, in tutto il mondo?»

«Non tutti Zeus, ma buona parte si. I temporali, per esempio, li crea lui.»

«Ma se è lui che crea tutto, perché l'ha sempre fatto con moderazione e invece adesso sta allangando New York?»

«Se c'è un temporale sospetto in giro, soprattutto qui a New York, vuol dire che Zeus non è troppo tranquillo… Non so se mi spiego.»

Ci pensai un po', e non trovai niente da obbiettare. In effetti, era Zeus il dio dei tuoni e dei fulmini, perciò poteva benissimo essere possibile che… Un momento. Cosa avevo appena detto? Zeus era il dio dei tuoni e dei fulmini. Tuoni. Dioniso. Mi venne in mente tutto in fretta. Collegai quello che avevo sentito la prima volta che avevo avuto l'onore - e QUALE onore! - di incontrare Dioniso. Aveva detto qualcosa ai tuoni…

«Dioniso ha parlato con i tuoni. Vuol dire che ha parlato con…»

«Zeus?» Mi precedette Annabeth. «Si, proprio con lui. Zeus l'ha punito per aver disobbedito ai suoi ordini, non so quanto tempo fa. E come punizione Dioniso deve rimanere qui a gestire il Campo con Chirone e non può bere vino.»

«Ah» Fu l'unica cosa che dissi.

Che razza di punizione era?

«Mi vuoi chiedere qualcos'altro, visto che siamo in tema?» Mi chiese sarcastica Annabeth.

Non sapevo se mi stesse prendendo in giro, o se facesse sul serio. Ma decisi di prenderla alla lettera. In fondo, avevo ancora un po' di cose da chiarire, e avevo tempo.

«Perché ogni tanto Chirone si mette sulla sedia a rotelle?» Probabilmente era il suo modo di vestire in incognito, ma c'era già la Foschia, no? Perché avrebbe dovuto starsene stipato per ore e ore in un buco come quello?

Lei mi guardò ancora, ma questa volta con un'espressione strana, come se non volesse credere che quelle parole fossero appena uscite dalla mia bocca. Sinceramente, non ci vedevo nulla di male, ma era sempre così: quando per me andava tutto bene, in realtà non andava tutto bene affatto. Funzionava così, ormai l'avevo capito.

«Perché così può muoversi tra i mortali senza essere notato particolarmente. C'è la Foschia, naturalmente, ma quella è una precauzione in più.» Si fermò un attimo, poi aggiunse:« La sedia a rotelle è magica».

"Questo l'avevo capito" Le avrei voluto rispondere. Ma non dissi nulla. Avevo l'impressione che Annabeth mi considerasse una ritardata. Che bello.

Guardai il sole, e mi accorsi di quanto era salito nel cielo. Cavolo, doveva essere passata più di un'ora! Avevo la lezione di tiro con l'arco! Sarei arrivata tardi.

«C'è lezione, giù al poligono di tiro» Saltai in piedi, pronta a scattare verso la Casa Grande. Aspetta qualche secondo, attendendo in vano che Annabeth si alzasse e venisse con me. Anche lei aveva lezione.

«Oggi non vengo» Disse, prendendo il computer sulle gambe «Preferisco lavorare qui»

«Oh, ok. Allora… Io vado. Ci vediamo» E corsi via.

Era strano: andavo al mare e trovavo Percy. Andavo dalla parte opposta e trovavo Annabeth.

 

Arrivata al poligono, trovai gli altri miei compagni di lezione già pronti e in posizione. Mi scusai con Chirone, presi un arco dal mucchio, mi armai di frecce e trovai un bersaglio libero. Notai che fuori dall'arena, nella parte di bosco circostante, Percy stava giocando al riporto con la signora O'Leary. O mi stavo sbagliando, o quello che lanciava era proprio uno scudo da combattimento. Mah.

Avevamo qualche minuto per allenarci da soli, prima di iniziare la lezione seguiti da Chirone. Mi scaldai conficcando qualche freccia nel bersaglio davanti a me. Dopo un po', era noioso. Riuscivo benissimo a centrarlo dove volevo, non avevo bisogno di esercitarmi; come d'altronde era per tutti i ragazzi accanto a me. Così rimasi per un po' a guardare la mia arma. Poi lo sguardo mi cadde su un bersaglio, lontano, che nessuno stava usando. Chirone ci aveva detto di non allontanarci troppo dalla posizione stabilita, per evitare di creare incidenti indesiderati - tipo trafiggere qualche ragazzo di passaggio con una freccia -, perciò nessuno lo stava puntando. Inoltre, era praticamente impossibile colpire il centro, da questa distanza. Chissà come sarebbe stato bello avere una mira del genere.

Senza pensarci, mi ritrovai con una freccia incoccata, a mirare proprio quel bersaglio lontano. E prima che potessi dire o fare altro, la mia mano lasciò la corda.

La freccia sfrecciò a tutta velocità, e trafisse il centro del bersaglio. Il centro esatto.

Rimasi immobile. Il mio arco e la mia mano erano ancora in posizione di tiro. Mentre trattenevo il respiro, gli altri di voltarono tutti verso di me. Mi avevano visto. Ora che raccontavo? L'arco mi cadde di mano, e atterrò con un tonfo sulla terra battuta, ai miei piedi. Nell'arena calò il silenzio. Sentivo Chirone avvicinarsi, ma non volevo voltarmi. Continuavo a guardare il bersaglio. Chiusi gli occhi, sforzandomi di restare calma. Mi stavano fissando tutti. 

In quel momento, però, il passo ritmico di Chirone si fermò. Mi chiesi perché, visto che nessuno parlava. Poi sentii una serie di sussulti provenire dai ragazzi intorno a me, e non ce la feci più: aprii gli occhi, ma il bersaglio era identico a poco prima, con la freccia infilata nel centro. Allora mi voltai verso gli altri, e notai che stavano guardando il cielo, sopra la mia testa. Alzai gli occhi e vidi l'arcobaleno. 

Wow, era bellissimo. Non l'avevo mai visto così colorato! Ecco il perché di tutti quegli "Oooh!" di stupore. Sorrisi. Era davvero stupendo. Cercai di capire da dove iniziasse, dove fosse la famosa pentola piena d'oro dello gnomo - cosa non ti fanno credere, quando sei piccola! -, così mi girai, e notai che…Che… Che l'arcobaleno iniziava da me. Io ero proprio dove avrebbe dovuto esserci lo gnomo. Avvertii uno strano calore addosso. Guardai ancora l'arcobaleno, che però ora stava scomparendo. Mi voltai in cerca dello sguardo di Chirone. Mi preparai con un sorriso sulle labbra. 

Non mi ero ancora resa conto di quello che stava succedendo. Ma quando incontrai gli occhi del centauro, mi accorsi che non stava sorridendo. Non c'era ironia sul suo volto; anzi, era serio. Come se fosse preoccupato. Si avvicinò, a braccia incrociate. L'arcobaleno adesso era scomparso del tutto, e i ragazzi guardavano me. Quando Chirone mi fu vicino, mi alzò il braccio destro in alto, verso il cielo, come avevo visto fare agli atleti quando vincevano qualche gara. 

«Determinata» Annunciò Chirone. I ragazzi cominciarono a mormorare.

«Ave, Sophie Virginia Lager, figlia di Iride, messaggera degli dei, e dea dell'arcobaleno».

 

Ero figlia di Iride.

Dopo l'accaduto, tutti intorno a me avevano iniziato a stringermi la mano, e a presentarsi. Me l'aspettavo, era stato così per tutti gli altri ragazzi, quando erano stati riconosciuti dai genitori. Quando sapevi chi era tuo padre o tua madre, tutti iniziavano a considerarti. Prima, non valevi niente. Non eri nessuno. 

Rimasi per parecchi minuti a stringere mani e a sorridere, senza aver ancora assimilato bene la notizia. Non ci credevo ancora. Avevo una casa! Ero qualcuno!

Quando non trovai più mani da stringere, mi sedetti sull'erba, fuori dal poligono di tiro. Allora qualcuno si unì a me. Mi voltai, e vidi Percy.

«Come stai?»

«Bene»

«Mi sembri sconvolta»

«Credevo che fosse normale, dopo una notizia simile…»

«Infatti»

Silenzio. Lui non parlava, probabilmente perché non aveva nulla da dire. Io non parlavo, perché non sapevo COSA dire.

«Così… Iride, la dea dell'arcobaleno»

«Già»

«Hai notato? Oggi è il tuo compleanno»

Il mio compleanno? Feci un rapido calcolo, e si, i conti tornavano. Era il 29 aprile. Il mio compleanno. 

Coincidenza?

No, forse no.

Avevo sicuramente una strana espressione sul viso, perché Percy mi disse: «Gli dei spesso hanno già tutto programmato. Non è un caso che sia successo oggi, il giorno del tuo compleanno»

Si, era così.

 

Lasciai Percy con la signora O'Leary, e me ne andai alla Casa Grande. Chirone era sparito, non si vedeva in giro. Se si fosse trattato del signor D, non me ne sarei preoccupata: se non era alla Casa Grande a giocare a carte con qualcuno, era nel bosco o nei campi di fragole del Campo. Ma Chirone… O era a fare lezione da qualche parte, il che era improbabile ora dopo quello che era successo, o era alla Casa Grande. E non era li.

Salii le scale, e andai in camera mia. Mi sedetti sul letto. 

Ero figlia di Iride. E che cosa voleva dire questo? Che sapevo tirare bene con l'arco? Che avrei saputo creare arcobaleni a piacimento?

Adesso ero qualcuno, sapevo che cosa stavo cercando, sapevo quali erano i miei limiti, e soprattutto avevo una… 

Mi bloccai. No, non avevo nessuna casa. Non ce n'era una al Campo, per Iride. Annabeth non me l'aveva mostrata.

Fui colpita da un'ondata di tristezza. Ero ancora l'emarginata della situazione. Io ero qui, da sola, l'unica figlia di Iride, senza una casa dove stare.

Ma proprio mentre mi immaginavo qui rinchiusa per tutta la vita, vidi qualcosa scintillare, sul tavolo in fondo alla stanza. Sembrava un bracciale.

Lo raccolsi. Era strano, bizzarro. Aveva la consistenza della plastica, ma era morbido e resistente come il cuoio. Ma del cuoio aveva solo quello, perché era color avorio, e brillava come una perla, anzi, come MADREperla: non so se l'avete mai vista, ma la madreperla scintilla al sole, e su di essa brillano tutti i colori dell'arcobaleno. Era veramente bellissimo. Ma chi l'aveva messo li?

Allora notai un biglietto, anche se non ero sicura che ci fosse stato anche qualche secondo prima… Era una pergamena, nuova nuova, arrotolata su se stessa. La aprii. C'era scritto: "Per Sophie Virginia Lager". Ero io, non c'erano dubbi. Così la lessi.

"In occasione del tuo sedicesimo compleanno, e del tuo arrivo al Campo Mezzosangue. 

Sperando che possa tornarti utile, e che possa mantenerti in vita nell'ardua impresa che ti aspetta.

Iride".

Iride mi aveva mandato un regalo di compleanno? Mia madre?

Presi in mano ancora il braccialetto. Come potevo salvarmi la pelle con un braccialetto? Diventava una spada come la penna di Percy? Lo tesi, con tutte e due le mani, e per poco non gridai per la paura. Il braccialetto si stava ingrandendo, sempre di più, e stava diventando più spesso. Sempre di più. Sempre di più. Finchè non mi ritrovai in mano un'arco di quasi due metri, color avorio, che rifrangeva tutti i colori dell'arcobaleno. Wow.

Tesi la corda, per vedere se era abbastanza dura, e mentre lo feci, apparve una freccia già incoccata fra le mie dita. Allentai la corda e la freccia scomparve.

"Non ci credo!" Pensai.

Avevo anche io un'oggetto magico. 

Ma ora come tornava ad essere un braccialetto? Cavolo, come facevo a farlo rimpicciolire?

Allora lo tenni con una mano, e con l'altra spinsi da un vertice. E funzionò. In meno di un secondo mi ritrovai il mio bracciale fra le dita. Era pazzesco.

Me lo allacciai al polso, e sorrisi. Mia madre mi aveva considerato. Ero davvero felice. 

Decisi di scendere di nuovo giù, da Percy e Annabeth, per mostrare loro la mia nuova arma. 

Così mi avviai alla porta. Ma quando stavo per uscire, con una mano già sulla maniglia, il mio sguardo si posò sulla mia immagine riflessa nello specchio. 

E svenni.

 

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Capitolo 7
*** Do conferma alla mia teoria. ***


UN ATTIMO DI ATTENZIONE, PREGO!
Di solito non scrivo commenti o altro nei capitoli, soprattutto SOPRA i capitoli. Ma questa è un'eccezione: so che in quello che state per leggere ci sono degli errori, ma io adesso purtroppo non posso cercarli (maledetta algebra!), perciò chi volesse segnalarmeli mi farebbe un piacere! Grazie! :3

E ora vi lascio leggere in pace!

 

 ______________

  Capitolo 7.

DO CONFERMA ALLA MIA TEORIA.

Aprii gli occhi e mi ritrovai a fissare un soffitto che conoscevo.

"Sono a casa! All'orfanotrofio! E' stato solo un brutto sogno! Adesso mi giro, e qui accanto ci sarà Lulù! Ci vestiremo, andremo a lezione, e il prof. Silvian ci sgriderà per essere arrivate in ritardo, e…"

Mi voltai, e capii dove mi trovavo. 

Non ero all'orfanotrofio. Il mio cuore sussultò e il mio umore scese improvvisamente a picco.

Era una camera della Casa Grande, anche se non quella che avevo sempre usato dal mio arrivo al Campo. 

Sapevo di essere nella Casa Grande perché le stanze erano praticamente tutte identiche: azzurro e bianco erano i colori principali, e quasi tutto era fatto di legno.

Ero stesa su un letto comodo, e avevo più di un cuscino dietro la testa. Mi alzai a sedere, e mi guardai intorno. Non era ancora giorno, anche se probabilmente il sole non avrebbe tardato a sorgere, dietro i monti.

Ero sola, e per un momento faticai a capire perché fossi li. 

Poi mi balenò tutto in testa, in meno di un secondo, e per poco non svenni di nuovo.

Avevo quasi dimenticato quel che era successo: mia madre, che mi aveva riconosciuta; il regalo che mi aveva fatto; la mia immagine riflessa nello specchio.

La mia immagine. 

No, non ci potevo credere. Dovevo essermi inventata tutto.

Si, era così. Era molto probabile.

Ma se mi ero inventata tutto, perché ero svenuta?

"Beh, tu hai molta immaginazione, non è vero?" Mi suggerì una vocina invitante nella mia testa.

Si, poteva essere, ma dovevo avere una conferma. Mi voltai, alla frenetica ricerca di uno specchio, e lo trovai: era in un cassetto del comodino accanto al mio letto; era piccolo, rotondo e aveva una bella cornice verde ornata di fiori. "Molto carino", avrei detto, se non avessi avuto tanta fretta di guardarmici dentro.

Ma la mia immagine era quella di sempre. Non c'era niente di strano.

Quindi, mi ero davvero inventata tutto.

Lentamente, posai lo specchio sul comodino, e allora notai che c'era anche un bicchiere pieno fino all'orlo di quello che sembrava succo di frutta. Mi accorsi di avere la gola secca, e il succo aveva un aspetto invitante: fresco e dolce. Allungai una mano verso il bicchiere, ma venni fermata da una voce.

«Io lo maneggerei con precauzione, se fossi in te.»

Mi voltai, e vidi Chirone.

«Chirone!» Esclamai, contenta. Lui mi sorrise e si avvicinò. Com'era riuscito a salire le scale? Non era troppo alto?

«Come stai, mia cara?»

«Bene, credo…»

«Ci hai fatto spaventare, ieri pomeriggio. Pensavamo che fossi stata attaccata da qualche mostro.»

«No, no. Non quello. Io…» Mi fermai, non sapendo come continuare. Non volevo dirgli quello che avevo immaginato. «Io… Non lo so. Forse saranno state tutte quelle informazioni, tutte insieme…»

«Già» Disse Chirone. Ma non sembrava convinto.

«Perché dovrei fare attenzione a questo bicchiere?» Chiesi, per cambiare discorso.

«Mia cara, quello è nettare. Non cresce certo sugli alberi.»

Nettare? La bevanda degli dei? La bevanda degli immortali? 

Esisteva davvero?

«Questo è… Davvero…» Adesso guardavo il bicchiere con occhi diversi, come se fosse diventato improvvisamente lo scettro di Tutankhamon.

«Si»

«Oh. Quindi non posso berlo» Conclusi. Lo sapevano tutti che il nettare e l'ambrosia erano il cibo degli dei, e che come tali erano destinati agli dei. Esclusivamente a loro.

«Certo che puoi. Naturalmente in piccole dosi. Sei una semidea.»

Già, non ci avevo mai pensato sotto quel punto di vista, ma il mio sangue era per metà quello di un dio. Un dio. Cavolo, questo si che ti faceva sembrare importante!

Allora mi avvicinai il bicchiere alle labbra e ne presi un sorso. 

Mi aspettavo di trovarmi in bocca sapore di pesca o di mela, invece mi ritrovai ad assaporare del cioccolato, caldo e denso. Che magia era mai questa?

«Sa di… Cioccolato»

«Si, il sapore è diverso per ognuno di noi. Ma adesso dovresti sentirti meglio»

E infatti era così. Mi sentivo benissimo, pronta a scattare. Mi alzai dal letto, e mi avvicina alla porta, dove si trovava Chirone.

«Adesso, che cosa faccio?»

«Vieni con me, i ragazzi vogliono mostrarti una cosa»

E uscimmo dalla stanza, diretti verso l'esterno.

 

 

«Dimmi: come ti senti, dopo quello che è successo?»

Invece di dirigersi verso le capanne, Chirone mi aveva portato nel bosco, sulla strada che portava al mare. Stavamo camminando, e lui si era deciso ad aprir bocca solo adesso.

«Un po'… Scombussolata. Non so ancora bene come comportarmi.» Guardai l'orizzonte, ancora scuro e buio. Forse avrei dovuto avere paura, qui nel bosco, di notte, con i mostri che scorrazzavano liberi nei confini del Campo. Ma mi fidavo di Chirone, perciò non esitai neanche un secondo.

«E' comprensibile, dopo aver passato sedici anni della tua vita senza sapere dell'esistenza di questa realtà. Prima si vengono a sapere notizie simili, meglio è.»

«Chirone, posso fare una domanda?»

«Certo.»

«Era e Artemide sono dee vergini. E' per questo che le loro case sono vuote, vero?»

«Si, cara. E' per questo.»

«E Iride? Non era anche lei una dea vergine?»

«Iride? No. Lei no. Ha sempre avuto figli. Ma Iride non ama molto gli uomini, perciò è raro che trovi qualche mortale che le interessi. E' per questo motivo che non ci sono altri ragazzi come te. L'ultimo figlio di Iride che ho visto, è stato qualche decennio fa.»

«Quindi io sono sola?»

«Sola non direi. Tutti i ragazzi al Campo sono imparentati, se ci pensi bene. Siamo tutti una famiglia. Inoltre, se la metti così, anche Percy e Nico sono soli nelle loro case.»

Rimasi in silenzio. Non sapevo cosa dire. Ma in quel momento Chirone si fermò.

«A proposito di Iride… Il discorso ci riporta a quello che volevo farti vedere poco prima. Vieni, andiamo»

«Dai ragazzi?»

«Si»

«Ma Percy, Annabeth, e tutti gli altri… Non stanno dormendo? Non è ancora sorto il sole!»

«Oh, no. Nessuno sta dormendo. Non stamattina. E' successo qualcosa che li ha fatti svegliare presto.» E mi sorrise, con aria complice, come se avessi dovuto sapere di cosa stava parlando. Tutto questo mistero era veramente snervante.

 

Dopo aver fatto la strada inversa, notai che il sole stava iniziando ad illuminare i prati. Guardai il mio bracciale, ma non brillava ancora. Chissà che faccia avrebbero fatto gli altri quando avrei mostrato a tutti il mio oggetto magico! Ne andavo davvero orgogliosa.

Finalmente, dopo quella che mi sembrò un'eternità, arrivammo in prossimità delle capanne.

Si, erano tutti svegli. Lo sentivo addirittura dai cento metri di distanza dove mi trovavo. Che cosa era successo? Non ce la facevo più: DOVEVO sapere! A tutti i costi!

Così accelerai il passo, ed entrai nel cerchio di case, che avevo tanto desiderato di poter abitare, un giorno. Invece… Va beh, lasciamo stare.

I ragazzi erano tutti - e quando dico tutti, intendo proprio dire i quasi trecento ragazzi del Campo - davanti alla casa numero 1 e numero 2, quelle dedicate a Zeus ed Era. Studiai con cura ogni particolare delle due abitazioni, ma non mi sembrò di scorgere articolari per cui valesse la pena alzarsi alle 5 del mattino… Poi guardai meglio, mi avvicina, e vidi che non stavano guardando le case. 

Stavano facendo capannello sopra a qualcosa o a qualcuno. In molti cercavano di alzarsi in punta di piedi per vedere meglio, ma senza risultato. 

Vorrei vedere voi, cercare di guardare oltre duecento ragazzi - come minimo - che vi stanno davanti!

Comunque, nessuno mi notò. Mi voltai, in cerca di Chirone, per sapere cosa fare, che cosa fosse questa cosa che volevano farmi vedere, ma il centauro era sparito.

Ok, avrei dovuto scoprirlo da sola. Mi avvicina ai ragazzi, e mi feci largo tra la folla. Notai che non c'erano né Percy né Annabeth. Mi chiesi il perché, finchè non sentii le loro voci, provenire proprio dal centro del gruppo. Finalmente, dopo aver spinto un po', riuscii ad arrivare: intorno ai miei due amici c'era una bolla d'aria. Allora mi resi conto che era perché tutti stavano ascoltando loro. Annabeth aveva il suo computer dorato in mano, Percy stava guardando dei fogli con delle planimetrie, che però non riuscii a leggere. Nessuno si era ancora accorto di me, ma prima di parlare decisi di capire che cosa stavano facendo. 

Ascoltai il vociare attorno a me.

«… Una luce forte…»

«… L'hai vista anche tu…?»

«…L'hanno trovata poco fa…»

«… Come avranno fatto…?»

Ma di cosa stavano parlando?

«Non ci posso credere! Ma chi può essere stato?» Esordì Percy, parlando per la prima volta da quando mi ero infiltrata nel gruppo.

«Non lo so… Ma è identica al mio progetto originale… Non può essere stato nessun'altra se non…»

«Di chi state parlando?» Chiesi. Probabilmente avrei dovuto dar parlare Annabeth, ma non ce la facevo più. Dovevo sapere. Mi grava la testa. Era come essere stipati in fila per un concerto e cercare di ascoltare le conversazioni degli altri, provando a tirarne fuori un discorso coerente. Non che io ci sia mai stata, ma credo che non ci siano molte differenze tra la fila per un concerto e la fila per il dolce in un'orfanotrofio.

Ma a quel punto tutti si voltarono. Mi misero a fuoco e iniziarono a bisbigliare tra di loro. 

Tutti, tranne Percy e Annabeth, che si limitarono a guardarsi con un'aria strana.

«Sophie…» mi disse infine Annabeth «… Che ci fai qua?»

Che c'è? Non mi volevano?

«Chirone mi ha detto di venire» Risposi, risentita. «Ha detto che dovevate farmi vedere qualcosa.»

«Si, infatti…»

«Dai, Annabeth! Che problema c'è?» La rimbeccò Percy. «Che problema c'è se la vede?»

«Credo nessuno… Ma non sappiamo come sia arrivata qui. Non è pericoloso che lei…»

«Chirone l'ha vista, e non ci ha detto niente. Credo che ci stia nascondendo qualcosa, ma in ogni caso se ci fosse stato del pericolo ce lo avrebbe detto.»

Annabeth sospirò.

«Hai ragione. Non c'è motivo di nascondere nulla.»

Mi guardò e disse: «Sophie, voltati.»

Con sospetto, le obbedii. 

E mi ritrovai difronte ad una casa.

Era posizionata tra la casa di Ade e la casa di Demetra, al vertice opposto rispetto a quella di Zeus, Era e Poseidone, nella doppia U - ormai un ovale completo - che formavano le case. Era bianca, di una pietra strana, liscia e brillante, con il tetto basso e le finestre rotonde. Di un materiale simile al mio bracciale.

In quel momento un raggio di sole sfiorò la pietra, e la casa iniziò a brillare con tutti i colori dell'arcobaleno. 

Era la casa di Iride. 

Era la mia casa.

Non ci potevo credere.

Ma chi l'aveva costruita? E in una sola notte, oltretutto? 

Volevo girarmi, guardare Annabeth e Percy in faccia: le planimetrie e i disegni che avevo visto prima, che avevano in mano, erano i progetti per questa casa. L'avevano fatta loro. Ma COME avevano fatto? Erano dei geni! Dei maledetti geni!

Non feci in tempo a voltarmi, che mi ritrovai Annabeth al fianco. Mi guardò, negli occhi. Stava per parlarmi, per dirmi qualcosa di importante. 

Mi preparai per un commento del tipo: "E' riuscita bene!"

Invece mi arrivò alle orecchie un: "Ti consiglio di non entrare."

Cosa?

«Perché?» Chiesi, sbigottita. 

«Non l'hai ancora capito?» Mi disse, spazientita. Ah, giusto. Lei credeva che io fossi una ritardata. «Non siamo stati noi a farla. L'abbiamo solo progettata. E il nostro piano era quello di iniziare a costruirla oggi. Poi…»

«Poi cosa?»

«Qualche ora fa, quando dormivamo quasi tutti, qualcuno ha visto una luce, proveniente da qui.» E con la mano indicò la casa.

«E insieme alla luce è apparsa la casa» Concluse Percy.

«Quindi… Chi può averla costruita? Cioè, a chi interesserebbe?»

«A tua madre» Mi rispose sicuro Percy.

Aveva ragione.

«Ma…» Aggiunse, non troppo convinto di quello che diceva, «… Annabeth non la pensa così.»

«Non si sa mai.» Rispose Annabeth, impettita.

«Ehi, guardate!» Gridò uno dei ragazzi, dalle nostre spalle.

La casa illuminata dal sole aveva iniziato a brillare. Molto probabilmente era fatta di quel materiale simile alla madreperla con cui era stato costruito il mio braccialetto, ma non fu l'arcobaleno di colori di cui si tinse ad attirare la mia attenzione e quella degli altri. Fu un puntino luminoso, più luminoso di tutto il resto, dove apparse una pergamena: era infilzata alla porta della casa con una freccia bianca, come una di quelle che apparivano sul mio arco. L'aveva lasciata mia madre.

Mi avvicinai, e la staccai. La freccia immediatamente si disintegrò nelle mie mani, come polvere.

Tornai da Annabeth e Percy e aprii la pergamena. C'erano solo due parole: "Da Iride".

E sotto, notai subito dopo, ce n'erano altre tre: "Complimenti ad Annabeth".

Quando lo feci leggere a lei e a Percy, e chiesi il perché di quelle ultime parole, fu Percy a rispondermi: «Il progetto al quale tua madre si è ispirata per costruire la casa è quello che ha disegnato Annabeth. Probabilmente le è piaciuto.» E sorrise, prima a me, e poi all'amica.

Annabeth aveva un'espressione incredula sul volto. Per lei doveva essere un bel traguardo, ricevere dei complimenti da una dea che non era sua madre.

«Bè, allora complimenti» Le dissi, sorridendo. Ora che guardavo meglio la casa, era proprio carina. 

Mi incuriosii, così mi avvicinai alla porta e chiesi: «Secondo voi posso entrare?»

«Certo» Mi rispose Annabeth «Ora che sappiamo chi l'ha costruita, è tutta tua. Puoi trasferirti qui.»

Wow. Mi sarei finalmente trasferita.

Aprii la porta ed entrai.

La casetta era piccola ma accogliente, come qualsiasi altra casa del Campo. Ma a differenza delle altre, qui il colore dominante era il bianco: c'erano alcuni letti a castello bianchi, alcuni armadi bianchi, delle tende bianche alle finestre, ma quello che mi colpì di più fu una fontana in un'angolo, che cadendo spruzzava intorno a se del vapore acqueo. Il bordo della piccola vasca nel quale cadeva era anche quello bianco, ma decorato con conchiglie colorate, così come la porta e le persiane, ora che lo notavo. Era veramente bellissima. Non sapevo che dire.

Una fuori - e una volta che tutti i ragazzi furono usciti dalla nuova casa del Campo - trovai Chirone ad aspettarmi. Non sapevo come facesse, ma sembrava conoscere ogni mia mossa. Quando mi vide, non mi chiese nulla sulla casa. Ma come aveva detto Percy, l'aveva già vista e probabilmente aveva sempre saputo che era stata mia madre a costruirla.

«Adesso dovrai fare le valigie, immagino» Mi disse, tranquillo.

«Si. Finalmente si.» E sorrisi, raggiante.

«Certo. Ma prima, vorrei vederti di nuovo tirare con l'arco.»

 

Mi ritrovai nel poligono di tiro, ancora circondata da tutti i ragazzi del Campo. Ero diventata l'attrazione principale, a quanto pareva.

Ero davanti ad un bersaglio che avrebbe dovuto essere irraggiungibile per qualunque arciere, qui. 

Per chiunque, ma non per me. Non dopo quello che avevo scoperto di saper fare.

Chirone si avvicinò, con un arco e una faretra, pronto a consegnarmeli. Allora, non sapeva davvero tutto. 

«No» Gli dissi, sorridendo «Io uso questo.» E mi slacciai il bracciale dal polso.

Lui, e i miei spettatori, guardarono quell'oggetto come fosse la cosa più inutile della terra. Così decisi di far cambiare idea a tutti quanti.

Il bracciale iniziò ad allungarsi, e più si allungava, più aumentavano gli «Oooh» e gli «Aaah» di stupore. Quando mi ritrovai in mano un bellissimo arco bianco, potevo sentire ogni singola parola di chi mi stava alle spalle. Si! Come mi piaceva pavoneggiarmi con quell'arma in mano! E non lo avevano ancora visto illuminato dal sole!

Ma invece di aspettare che il sole sorgesse del tutto, e illuminasse completamente ogni angolo del Campo, mi midi in posizione e mi preparai a tirare. Appena tesi la corda, una freccia mi apparse tra le dita, già incoccata e pronta ad essere lanciata. Non mi occorse che un secondo, per prendere la mira. Non sapevo come, ma usando quell'arco riuscivo ad essere ancora più sicura di me stessa.

La freccia si staccò dalla corda, e partì a tutta velocità verso il centro del bersaglio. Ancora una volta, la mia mira era stata millimetrica. 

Mi voltai, e sorrisi a Chirone. Ero davvero fiera di me. Anche se, a dirla tutta, IO non avevo fatto nulla per imparare a tirare così… Era tutto merito di mia madre, a quanto pareva. 

Anche Chirone mi stava sorridendo. Ma non si avvicinò. Si girò invece verso gli altri e disse: «Eroi! E' l'alba! E' il momento di prepararsi ad affrontare la giornata. Svelti, tornate alle vostre case. Ci troviamo tra mezz'ora per iniziare le lezioni.» Chirone se ne andò, e tutti gli obbedirono.

Tutti, tranne Percy e Annabeth, che vennero verso di me. 

«Devo vederti tirare ancora!» Mi disse Annabeth, euforica «Quell'arco… E' una leggenda! Devo studiarlo, devo saperne di più! Non credevo che esistesse…»

«Sei grande!» Mi disse invece Percy, battendomi una mano sulla spalla.

«Andiamo nel bosco, dai! Chirone non dirà nulla a noi tre. Ti prego, devo vederti ancora tirare!» Annabeth sembrava pazza. Non sapevo se scherzasse o meno, così guardai Percy, dietro di lei. Stava per scoppiare a ridere, e mi mimò con le labbra: "Fa sul serio". Allora mi misi a ridere: non ero solo io quella strana.

«Ok, Annabeth» Iniziai «Dove volete che…» Ma mi fermai. 

Stavamo camminando accanto al laghetto delle canoe, diretti verso il bosco. E fu allora che notai la mia immagine riflessa sull'acqua, e mi si fermò il respiro.

Il sole era spuntato dietro i monti, e adesso illuminava tutto il prato. Me compresa. 

Non potevo crederci, non era vero. Era orribile! NON POTEVA essere vero!

«Sophie!» Gridò Annabeth, indicandomi. Probabilmente si era accorta che mi ero fermata, e anche del motivo per cui l'avevo fatto.

«I tuoi… Capelli!»

Appunto.

Arretrai velocemente, verso l'ombra. Percy mi stava guardando, la bocca aperta, e sentivo il mio viso contorcersi in una smorfia di panico. Presi una ciocca tra le dita, e la esaminai: era normale, biondiccia, come sempre. Ma dovevo vedere meglio.

Iniziai a correre nella direzione opposta, diretta alla Casa Grande. Sentivo che Annabeth e Percy mi stavano seguendo, ma non dissi nulla. Ero davvero nel panico.

Salii le scale con tre falcate, rischiando di cadere più volte. Arrivai nella camera dove mi avevano sistemato ieri, dopo lo svenimento. Presi lo specchietto dal comodino e mi guardai: tutto normale. Ma avevo capito dov'è che stava l'inghippo. Con i miei due amici alle costole, corsi di nuovo fuori, nel prato, sotto il sole leggero della mattina. Insipirai profondamente e guardai di nuovo lo specchio. 

Adesso la mia immagine era cambiata.

Guardai i miei capelli, e per poco non svenni di nuovo.

Stavano brillando, con tutti i colori dell'arcobaleno. Proprio come la mia casa e il mio bracciale alla luce del sole. 

Proprio come la madreperla. 

Era uno spettacolo spaventoso. 

Stavo davvero dando conferma alla mia teoria: non ero mai stata normale, e non lo ero neanche adesso. 

Mi facevo paura da sola. 

Come potevo andare in giro senza vergognarmene? Avevo delle lampadine in testa! Come potevo passare inosservata? I miei capelli brillavano, cavolo!

Poi guardai meglio, e notai dell'altro: anche le iridi dei miei occhi erano colorate, del colore dell'arcobaleno.

Perché era successo solo ora? Perchè non prima? Perché non dieci anni fa? Proprio quando avevo iniziato ad ambientarmi! Quando avevo iniziato a considerarmi come tutti gli altri!

«No!» Sentii la mia voce gridare. «Nooo!»

 

Non lo avevo immaginato. Era tutto vero.

Ed era anche peggio.

 

_________

 

Salve! Buon pomeriggio! :3

 

Inizio come al solito, scusandomi per il ritardo e per avervi tenuto tanto a lungo sulle spine!

Non era mia intenzione, ma ho il dubbio che finchè non finirà la scuola i tempi di attesa saranno lunghi… 

Su, dai! Contate i giorni! Ormai sono circa 20! ^^

 

…Ok, adesso vi lascio! Spero vi sia piaciuto!

 

Baci Baci,

Gossip Girl

Sophie Lager

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Capitolo 8
*** Mi danno cattive notizie. ***


 

 Salve a tutti!

  Tutte le parole di questo mondo non servirebbero per giustificare tre mesi di ritardo. Proprio no. 

Tuttavia, credo che in questo caso quello che sto per dirvi vi farà capire.

Come credo tutti saprete, l'Emilia è stata colpita dal terremoto, alcuni mesi fa. E solo ora le cose iniziano a tornare alla normalità. Quindi, diciamo che il computer era all'ultimo trattino della lista delle cose che avevo perso e di cui avevo bisogno. 

Ora che finalmente sono armata di nuovo di tastiera e buona volontà, però, sono sicura che potrete leggere periodicamente le avventure di Sophie e di tutti i semidei del Campo Mezzosangue.

 

Ancora mille scuse, che spero accetterete.

 

Un bacio, e buona lettura :)

___________________________

 

Capitolo 8

 

MI DANNO CATTIVE NOTIZIE


 

Erano passati tre giorni.

Ero rimasta chiusa in camera, nella Casa Grande. Non avevo avuto il coraggio di uscire. 

Annabeth e Percy erano rimasti a lungo difronte alla porta chiusa, dopo la mia fuga. Inutilmente. Non avevo aperto a nessuno, nemmeno a Chirone, sperando che si arrendessero e che capissero che volevo restare da sola.

Non so cosa mi sia preso, non chiedetelo. Ero solo molto depressa e molto stanca. Ogni giorno Chirone mi aveva lasciato i pasti fuori dalla porta, e ogni giorno io avevo preso il vassoio di cibo per poi lasciarlo quasi del tutto intatto sulla scrivania.

Evitavo di guardarmi allo specchio. Evitavo di pensarci. 

Disegnavo.

Era l'unica cosa che mi liberava la mente e mi rilassava. Avevo usato ogni foglio che avevo trovato in camera, senza contare tutti quelli che avevo nella borsa da viaggio. Disegnavo qualsiasi cosa. 

Così fu per due giorni. 

Il terzo giorno di clausura, mi decisi.

Avevo pensato anche troppo. Basta. Ero decisa, sicura. Così ero e così sarei rimasta, per tutta la vita. Dovevo accettarmi. 

Che poi, non erano così male dei capelli colorati e brillanti, no?

No.

Ma come ho detto, cercavo di non pensarci.

Era quasi sera, e mi avevano già consegnato il vassoio della cena. Aprii la porta, lo presi e lo portai dentro, lasciandola aperta. Sbocconcellai un po' di frutta, e mi dissi che sarebbe stata l'ultima cena che avrei consumato così, al Campo Mezzosangue. Mi lasciai cadere sul letto, e come ogni sera le lacrime mi salirono agli occhi. Non sapevo perché, succedeva e basta. 

Si dice che la notte porti malinconia, ma se così era non riuscivo a capire di cosa avessi nostalgia. 

Avevo una teoria: erano lacrime di rabbia. Di rabbia perché avevo scoperto così tardi di com'ero realmente. Di rabbia perché ero quasi riuscita ad accettarmi e a considerarmi come tutti gli altri. Di rabbia perché avevo creduto che mia madre mi volesse bene, e invece non era così. 

No, aspettate, cos'avevo appena detto? Che mia madre mi odiava?

No, non potevo averlo detto. 

E invece si, mi resi conto. E allora mi accorsi che i miei pensieri erano del tutto irrazionali, come la mia rabbia. Era tutta colpa di quest'atmosfera, dell'aria della stanza. Mi sentivo oppressa, come chiusa in gabbia. Mi girava la testa. 

Mi alzai, con ancora le lacrime agli occhi, scossa dai singhiozzi, e corsi fuori dalla stanza, in corridoio. E qui inciampai.

Caddi in ginocchio sul pavimento di legno, e in quell'istante sentii una voce.

«Hei! Stai bene?» 

Era vicina, molto vicina. Per un'istante pensai che fosse Annabeth, poi però mi resi conto della differenza. Era una voce più acuta, squillante, che non avevo mai sentito. Allora mi voltai, per capire a chi appartenesse, e mi ritrovai difronte una ragazza all'incirca della mia età: aveva delle valige in mano, come se avesse dovuto fermasi per molto al Campo. Ma non fu questo ad attirare la mia attenzione. Aveva una maglietta a maniche corte, verde acceso, con delle macchie di vernice rosa shocking che a ben vedere erano state fatte di proposito, con un pennello. Anche i jeans erano molto colorati, ma stavolta con pennarelli. E aveva dei capelli rossi e ricci, che di certo non passavano inosservati. 

Ok, forse un po' mi stavo consolando. Non ero la sola ad andare in giro come un cartellone pubblicitario. Senza offesa per lei, naturalmente, ma io non ero il tipo di persona che CERCAVA di essere appariscente.

Mi rialzai, per far capire alla sconosciuta che stavo bene, e lei mi venne incontro.

«Sto bene, grazie» la fermai. E le sorrisi, o almeno mi impegnai per farle vedere quello che speravo fosse un sorriso. Anche se con le lacrime agli occhi non era molto facile.

E infatti lei non ci cascò. 

«Sei sicura? E' tutto ok?»

«Si, si. Davvero, sto bene. Grazie»

Mi fissò per un po', poi mi squadrò dalla testa ai piedi. Era calato il silenzio tra di noi, e sinceramente era molto imbarazzante. Non potevo tornarmene in camera o abbandonarla li, in corridoio, dopo quello che aveva fatto. Si era preoccupata per me. Insomma, non ero così crudele! Ma questo silenzio era davvero imbarazzante.

Così quando parlò, ne fui segretamente contenta.

«Sei nuova qui al Campo? Non ti ho mai vista» 

«Si, non sono arrivata da molto»

«Sei una mezzosangue?»

Che domande! Certo che ero una mezzosangue. Altrimenti che cosa avrei potuto essere? Un fauno? E soprattutto, che cosa ci stavo facendo qui? Le vacanze estive?

«Ovvio»

«Sai, è strano. Di solito i mezzosangue non dormono qui, ma giù alle case»

Oh, no. Non potevo rispondere. Mi sarebbero tornate le lacrime agli occhi. Ora che finalmente avevo ritrovato la serenità… 

"Dai, fatti coraggio, Sophie!" Mi dicevo. "Puoi farcela!"

«Si, infatti, sto proprio per spostarmi laggiù. Stavo facendo le valigie… Comunque io sono Sophie Lager» Conclusi, per cambiare discorso, offrendole la mano.

«Piacere» Mi disse lei, allungano la sua per stringerla «Io sono Rachel Elizabeth Dare, oracolo del Divino Apollo.»

 

Avrei mai finito di scoprire nuove cose riguardo a questo mondo?

La risposta era semplice: no.

Per esempio, chi può dirti che la ragazza strana con la maglietta colorata che ti ha appena aiutato è in verità un oracolo? Nessuno.

Gli oracoli sono della specie di veggenti, no?

E chi può dirti che ora non salti fuori qualcun altro e ti dica: "Piacere, Mago Merlino"? Nessuno.

E non mi dispiacerebbe se Merlin esistesse davvero, a dirla tutta.

Ma comunque, bando alle ciance. Avevo appena conosciuto un oracolo! Cioè, non era una cosa che succedeva a tutti, no?

E invece si. Dopo esserci presentate, e dopo aver digerito la notizia, Rachel mi parlò del suo compito al Campo. In poche parole, lei si fermava ogni estate qui, con i semidei. Quindi tutti la conoscevano. Il suo compito era quello di assegnare le imprese ai mezzosangue, secondo il volere degli dei. 

Chiesi a Rachel cosa fossero le imprese, perché nessuno me ne aveva mai parlato. Lei mi diede una bella spiegazione, completa e chiara. 

Questo è il mio riassunto. 

Imprese: della specie di missioni in cui gli eroi cercavano di non morire e di portare a compimento quello che gli veniva detto di fare. Punto. Diretto e coinciso, no? 

Poi ebbi la brillante idea di chiederle che cosa c'era di così pericoloso da portare alla morte tanti mezzosangue, e lei mi rispose, con un'alzata di spalle: «I mostri, no?»

E da quell'istante capii che non mi avrebbero mai convinto a far parte di un'impresa.

 

Dopo aver chiacchierato per un po', Rachel mi disse: «Io devo andare da Chirone, per far sapere che sono arrivata. Sai, sono un po' in ritardo, dovevo arrivare qui prima, con tutti gli altri, ma la scuola non me l'ha permesso. Vieni con me?»

«Certo. Anche io è qualche giorno che non mi faccio vedere in giro. Una storia lunga» Aggiunsi, prima che facesse qualche domanda che mi avrebbe fatto scoppiare a piangere e che avrebbe fatto crollare la mia facciata perfetta e appena ricostruita, sicuramente MOLTO delicata. Ma nonostante avessi detto questo, nella mia mente suonò un campanello: mi era appena venuta in mente una domanda, che avrei posto a Chirone alla prima occasione. Perché erano tutti li da prima della fine della scuola? Chirone aveva detto che quest'anno era un'eccezione, che di solito il Campo apriva solo da giugno. Che cosa c'era di importante quest'anno?

Ci avviammo verso il padiglione della mensa, e trovammo tutti i ragazzi attorno al fuoco. Io camminavo dietro a Rachel, che purtroppo era alta quanto me, e non riusciva a coprirmi del tutto. Ad ogni passo che facevo, il cuore martellava ancora più forte nel petto. Avevo paura della reazione che avrebbero avuto gli altri quando mi avrebbero visto. Cosa avrebbero detto? Cosa avranno pensato di me? Mi vergognavo da morire.

Fortunatamente, Rachel venne avvistata per prima.

«Rachel!» Gridò una ragazza che ricordavo essere della casa di Afrodite.

«Hei ragazzi: è arrivata Rachel!» Gridò qualcun altro.

Notai che anche Percy si era illuminato nel vederla. Annabeth, invece, sbuffando si era girata dall'altra parte, a osservare il buio.

Ci fu qualche attimo in cui nessuno mi notò, tanto erano tutti presi nel salutarla. 

Poi, però, mi videro. E cadde il silenzio.

Divenni rossa come un peperone e iniziai a sudare freddo. Volevo parlare, dire qualcosa di intelligente per mantenere quel poco di dignità che mi era rimasta dopo la scenata e i tre giorni in stile "suora di clausura" che avevo passato.

Dopo alcuni minuti che parvero interminabili, aprii la bocca e finalmente parlai.

«Ehm, … Buonasera»

Okay, perfetto. Ecco che potevo dire addio per sempre alla mia dignità. Ma brava, Sophie. Proprio proprio brava.

Ma a quelle parole, tutti sorrisero.

«Sophie, grazie agli dei! Pensavamo fossi morta! Non sparire mai più così, chiaro?» Mi disse Annabeth, l'unica un po' arrabbiata.

«Pensavamo fossi stata mangiata da Peleo» Mi disse Nico. E una lieve risata si alzò dai semidei che mi stavano guardando.

«Dai, su, vieni!»

«Ci sei mancata, Sophie!»

Nessuno aveva accennato ai miei capelli, anche se sicuramente la voce si era sparsa.
E nessuno mi aveva ancora gridato dietro "Vattene al circo!". Cosa più importante. Quindi non mi consideravano strana.
Tutti mi stavano chiamando. Tutti volevano che mi sedessi insieme a loro attorno al fuoco. Tutti mi volevano nel gruppo.
Mai e poi mai avrei immaginato una reazione del genere. Credevo di non essere considerata come tutti gli altri, come chi era al Campo da più anni di me. Credevo che non mi volessero poi così tanto bene.

E invece mi sbagliavo.

 

Tutti i ragazzi del Campo rimasero svegli più a lungo, quella sera. Si festeggiò l'arrivo tanto atteso dell'oracolo, e il mio ritorno tra i comuni mortali. Anzi, pardon, tra i semidei. Cantammo con i figli di Apollo, e assistemmo ad una litigata con i fiocchi tra la casa di Ares e quella di Demetra, per la precedenza alle docce. Quando infine a pochi rimase la voce per parlare, ci dirigemmo verso le nostre case. Verso la mia nuova casa.

Prima, però, passai alla Casa Grande, per prendere i miei bagagli. Entrai, e nel salotto trovai Chirone sulla sedia a rotelle. L'avevo già visto al falò, ma si era limitato a sorridermi, e io a ricambiare il sorriso. Ora volevo porgli la mia domanda.

«Bentornata fra noi» Mi disse, quando entrai.

«Grazie. Non mi sono ancora scusata abbastanza per il comportamento che ho tenuto prima di …» Ma non mi fece finire.

«Non scusarti. Nessuno ti da la colpa di nulla. Voglio solo sapere se ora stai bene»

«Si, credo proprio di si» E sorrisi.

«Bene, allora adesso puoi finalmente spostarti nella tua nuova casa»

«Si, infatti. Sono venuta a prendere le valigie… Chirone, posso fare una domanda?»

«Non vedo perché no. Dimmi, cara.»

«Ecco, beh, non è nulla di importante, sono solo curiosa… Perché quest'anno il Campo è stato aperto prima del previsto?»

La reazione di Chirone, però, non fu quella prevista. Si irrigidì, e si voltò verso di me, lo sguardo improvvisamente serio. Mi guardava come se fosse indeciso se dirmi qualcosa che avrebbe dovuto tenere nascosto.

«E' qualcosa che dovrei sapere?» Chiesi, incerta.

«Ormai, non avrebbe senso ritardare ancora…» Disse il centauro, più a se stesso che a me. Io attesi, paziente. Volevo sapere.

«Va bene, Sophie. Siediti, la storia dal principio è un po' lunga. Allora, sai cos'è successo a New York quasi un anno fa?»

Scossi la testa.

«A New York, sull'Empire State Building, c'è l'Olimpo. Tu sai chi è Crono, vero? Crono è il padre degli dei. Bene, vedo che sei istruita. Questo ti farà comodo. Crono era stato fatto a pezzi e gettato nel Tartaro, ma da sempre cerca di ricomporsi e di prendere il potere degli dei. Circa un anno fa, Crono è riuscito a ricomposi. Ha manipolato un ragazzo del Campo, di cui si è servito per recuperare energie. Poi ha formato un'esercito con tutti i mostri più potenti e temibili mai esistiti; alla fine, è riuscito ad unire al suo battaglione anche i Titani. E tutti insieme hanno cercato di prendere possesso dell'Olimpo. E ci sarebbero riusciti, se non fosse stato per i semidei che hanno combattuto valorosamente, fino alla fine. Molti dei ragazzi ci hanno lasciato per sempre, in questo intento. Alla fine, però, tutto si è risolto per il meglio, e Crono è stato sconfitto. Ma purtroppo, non è stato sconfitto definitivamente. Avrai notato i continui temporali su New York: Zeus non è tranquillo. Il motivo per cui siete tutti qui è che Crono si sta risvegliando, e proprio in questo momento sta cercando di recuperare le forze perdute durante la battaglia all'Empire State Building. Per quella battaglia esisteva una Grande Profezia: secondo questa, il primo figlio di uno dei Tre Pezzi Grossi -Zeus, Poseidone e Ade- a compiere 16 anni avrebbe deciso per la salvezza o la caduta dell'Olimpo. Il ragazzo, come forse saprai, era Percy. Dopo quella Grande Profezia, ne fu annunciata un'altra, ma le profezie non hanno date, non si può sapere quale sarà il momento in cui arriverà il mezzosangue citato. Questa volta però la cosa è stata più rapida del previsto. Alcuni mesi fa, la Grande Profezia è stata rivelata…» E qui Chirone fece una pausa. Poi terminò. «Il semidio a prenderne parte dovrà essere un figlio di Iride.»

Rimasi immobile, sulla panca di legno. Avevo temuto che quello che stava per rivelarmi non fosse stato poi tanto bello da sapere, ma mai avrei immaginato qualcosa del genere. Di sicuro qualcuno ce l'aveva con me, o in cielo o in terra.

Certo era che, nella mia nuova vita da mezzosangue, non potevo dire di annoiarmi. Non facevo in tempo a digerire una notizia che subito se ne presentava un'altra, anche peggio della prima.

Ma in quel momento non sapevo cosa dire, né cosa fare. Dovevo prendere parte ad una battaglia? Io e basta? Era questo che voleva la profezia?

«Quindi… Che cosa dovrei fare?» Stavo per morire, sarei morta sicuramente, e guardate con che calma discutevo della mia morte!

«La profezia vuole che un figlio -o una figlia- di Iride, insieme ad altri due compagni, porti a termine l'impresa. L'impresa consiste nel trovare la Falce di Crono, prima che sia lo stesso Crono a farlo. E prima che sia troppo tardi. »

«Troppo tardi per cosa?»

«Troppo tardi per impedire una guerra, l'ennesima, nella quale i ragazzi non riuscirebbero a vincere. Non di nuovo, e non dopo così poco tempo dall'ultima.»

«E… Chi ha detto che dovrà farlo una figlia di Iride? Dov'è scritto?» Non ci volevo andare. Proprio no. Non era possibile che non ci fosse via d'uscita. Poteva benissimo esserci un modo per passare il testimone a qualcun altro. Non potevo essere costretta a farlo.

E invece si.

«Questo è il volere degli dei, cara. Mi dispiace che tu non ti senta pronta, ma devi farlo. E poi, potrai portare con te due tuoi compagni. Non sarai sola.»

Oh, fantastico. Sicuramente essere tre contro Crono era diverso che essere da soli. Potevamo dire di avere già vinto. Come no!

«Quando devo partire?»

«Oggi è troppo tardi per fare alcunché, ma domani parlerai con l'oracolo, che ti dirà cosa fare. Ora vai a dormire, ti aspetta una giornata importante.»

Avrei dormito meglio, adesso che sapevo come sarei morta. Credo che tutti dovrebbero ascoltare storie del genere prima di dormire. Conciliano il sonno.

Presi mestamente le mie valigie, e scesi le scale. Tutta la felicità di poco prima era svanita. 

Arrivai davanti alla mia casa, aprii la porta con un sospiro ed entrai. Probabilmente non c'era più nessuno sveglio, perché il Campo era silenzioso. 

Una volta dentro, sistemai le mie cose negli armadi, poi mi scegli un letto: il più lontano dalla porta, sotto la finestra. Da li potevo vedere la luna illuminare le cime degli alberi e il cielo scuro. Chiusi gli occhi, cercando di sgombrare la mente da tutti i pensieri.

Ma non ce la facevo a dormire. 

Uscii fuori, in pigiama. Mi fermai davanti la porta della mia casa. Poi mi venne un'idea: avrei potuto chiedere a Percy informazioni sull'impresa. 

Mi avvia di buon passo verso la sua casa, la numero 3. 

Ma se dormiva? 

Sperai di no. E infatti trovai la luce accesa. Allora bussai, più volte. Pochi secondi dopo, mi venne ad aprire. Aveva i capelli spettinati, probabilmente era rimasto steso sul letto per un po', ma gli occhi erano svegli e attenti. E quando mi vide la sua bocca si aprì in un sorriso. 

«Ciao»

«Ciao, scusa per l'ora, ma non riuscivo a dormire. Ti volevo chiedere una cosa.»

«Va bene» rispose lui, incuriosito. «Ehm, ti vorrei dire di entrare, ma non so se posso. Non è sempre un bene che i figli degli dei entrino nelle case dedicate a qualcun altro»

«Non fa niente. Posso stare anche qui. Dovrebbe essere una cosa veloce.»

«No, vieni. Andiamo sotto quell'albero»

Lo seguii, e ci sedemmo al buio, sopra ad un tronco caduto. 

«Allora, spara»

Respirai profondamente, poi parlai.

«Chirone mi ha detto della Grande Profezia» Dissi d'un fiato. 

«Ah» Fu l'unica cosa che disse lui. Dopo alcuni secondi però, aggiunse: «Io e Annabeth ne eravamo già al corrente».

Stavo per rispondergli, per chiedergli quando lo avessero saputo, ma poi mi vennero in mente alcune parole che Annabeth mi aveva detto qualche settimana prima. Che il mio allenamento in combattimento era importante, perché ne andava della vita di tutti i ragazzi al Campo. A quel tempo mi ero chiesta il perché, ma adesso capivo a cosa si riferisse. 

«Io… Volevo chiederti che cosa è successo durante la tua impresa, nella tua Grande Profezia»

Percy mi guardò per un po', poi disse: «E' una storia lunga. Ne hai voglia?»

«Solo se ne hai voglia tu» Risposi, sicura. Se non voleva dirmela, non lo avrei costretto. Chirone aveva detto che molti dei ragazzi del Campo avevano dato la loro vita per proteggere l'Olimpo. Non doveva essere facile ricordare quei momenti. 

«Va bene. Allora, sarò breve. Luke, un figlio di Ermes, era stato ingannato da Crono. Era diventato il suo schiavo, in poche parole. Luke aveva scarificato se stesso per Crono, e grazie a Luke Crono era risorto, o quasi. Aveva usato il corpo di Luke per acquistare energie, e era quasi riuscito a ritrovare la sua forma immortale, se non fosse stato proprio per lui. Il ragazzo della Grande Profezia ero io, ma alla fine il merito è stato tutto di Luke. La mia impresa è stata solo quella di fidarmi di nuovo di lui, che si era pentito. Ho dato a Luke un pugnale, rimanendo davanti a lui disarmato. E lui l'ha usato per uccidersi, e uccidere con lui anche Crono. Alla fine, il mio sforzo è stato solo quello di dovermi fidare di lui. Non ho fatto altro. Solo Luke è l'eroe di quella battaglia»

Ne parlava con reverenza, e gli brillavano gli occhi al ricordo. Doveva essere veramente orribile perdere un'amico e dover combattere contro di lui, fino a vederlo morire. Per non peggiorare la situazione, decisi di cambiare discorso.

«Ma se Crono è morto, la mia impresa in cosa consiste?»

«Crono non è morto» Disse Percy dopo un'attimo di silenzio. «Crono non può morire. Anzi, si è ripreso prima del previsto. Pensavamo che dopo la sconfitta della scorsa estate ci avesse finalmente lasciati  per un po', e invece è già pronto a riprovarci.  La sua falce sembrava distrutta, ma qualcuno -forse lui stesso- l'ha ricostruita ed è riuscito a nasconderla, in attesa che il suo padrone torni a prenderla. Tu dovrai cercare la Falce di Crono, per impedire un'altra sanguinolenta e inutile guerra.»

Poi tacque. 

Pensai di avergli davvero rovinato l'umore. Era colpa mia se era tornato a pensare a quei momenti. Perché non stavo mai zitta?

«Percy» Dissi, improvvisamente dispiaciuta «Mi dispiace di aver tirato fuori questo argomento. Non sapevo che ti facesse stare così male…»

«Non preoccuparti» Rispose lui, cercando di riprendersi. «Pensare a Luke fa un po' a tutti questo effetto. Ma alla fine, lui è morto da eroe. E' riuscito a ribellarsi a Crono. Sono sicuro che in questo momento se la sta spassando negli Elisi» E abbozzò un sorriso poco credibile. 

Mi sentivo veramente da schifo. Ecco anche una bella dose di senso di colpa a coronare una giornata piena di buone notizie.

«Percy, davvero… Mi dispiace. Non avresti dovuto dormi nulla. Sono solo un'impicciona…»

«Sophie, è tutto apposto. Se non volevo parlarne, non te ne avrei parlato. Stai tranquilla. Ora però sarà meglio tornare a letto» Si alzò e mi offrì la mano, per aiutarmi ad alzarmi.

«No, tu vai. Io andrò tra un secondo. Voglio restare un'attimo qui. Buonanotte» Alzai una mano per salutarlo, sorridendogli, e lui se ne andò nel buio, diretto alla casa numero 3.

Rimasta sola, sospirai e cercai di togliermi di dosso il rimorso. Era tutto a posto. Non avevo combinato nessun danno. Me l'aveva detto. Perché avrebbe dovuto mentirmi?

Ma fui distratta da un rumore.

Mi irrigidii, e immediatamente mi slacciai il bracciale dal polso. Anche se mi trovavo vicino alle case, e non nel bel mezzo del bosco, potevano benissimo esserci dei mostri in agguato. 

Con il cuore che mi martellava nel petto, incoccai una freccia sull'arco. Mi spostai in silenzio.

Sentii un'altro rumore. Sembrava un singhiozzo, come se qualcuno stesse piangendo. Che razza di mostro era se si metteva a piangere?

Il rumore proveniva da dietro un'albero, non troppo lontano da dov'eravamo io Percy poco fa. Mi misi in posizione, pronta a tirare. Conati fino a tre, poi balzai in avanti e mirai verso l'albero, dove il mostro se ne stava accucciato per terra. Stavo per tirare, quando Annabeth parlò:«Sophie, sono io.»

Abbassai l'arco, e lo feci tornare ad essere un braccialetto.

«Annabeth, che ci fai qui?» Fu l'unica cosa che riuscii a dire.

La guardai meglio, e notai che aveva gli occhi rossi di pianto. Anche lei indossava il pigiama.

«Niente» Mi rispose con un filo di voce, «Stavo solo facendo una passeggiata…» Ma un singhiozzo le impedì di continuare.

No, non poteva essere. Non potevo aver rovinato la giornata a due persone contemporaneamente. Non poteva essere. Era improbabile che avesse ascoltato tutto. Ma da quella distanza, avrebbe potuto benissimo aver sentito ogni nostro singolo respiro. E ogni nostra singola parola.

«Annabeth, cosa c'è?» Mi sedetti accanto a lei, e le misi un braccio attorno alle spalle.

«Niente, davvero, non è niente…» Ma quando mi guardò, cedette. Scoppiò in lacrime, e non potei fare a meno di abbracciarla.

«Io lo amavo, Sophie! Io lo amavo! E quando lui me l'ha chiesto, gli ho mentito! Lui è morto, e io non posso più rimediare!»

«Annabeth, ti prego non piangere. Chi è morto? A chi ti riferisci? So che non sono esattamente la tua migliore amica, però puoi dirmi tutto. Non ne parlerò con nessuno.» Ma non accennò a voler smettere di piangere. Ed era tutta colpa mia.

«Oh, Sophie! Ho rovinato tutto!»

Allora attesi. Rimasi li con lei per forse un'ora. Forse di meno, forse di più. Non lo so. Ma aspettai che si calmasse. 

Quando finalmente le lacrime si fermarono, lei sussurrò: «Luke. E' lui la persona a cui mi riferisco».

 

______________

 

Buon pomeriggio!

Care lettrici, cari lettori, che ne pensate di questo capitolo tanto atteso?

Un pò deludente? 

Sicuramente molto triste, ma è un periodaccio, e il mio umore è spesso simile quello di Sophie qui sopra ;)

Fatemi sapere tutto quello che pensate, belle o brutte che siano le cose! Sono un po' fuori allenamento e ho bisogno dei vostri pareri!

 

A presto! Un saluto! :3

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