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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 [48 a.C.] ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 [48 a.C.] ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 [48 a.C.] ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 [48 - 47 a.C.] ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 [47 a.C.] ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
pa
Titolo: Pacem Appellant
Autore:
Nemeryal
Fandom: Axis Power Hetalia
Rating: Arancione
Genere: Drammatico,
Storico, Slice of Life, Angst
Avvertimenti: Shonen-Ai, Missing
Moments, Slash, Het
Personaggi: Gupta Muhammad Hassan/Egitto, Romanus; Romulus Lucius Octavianus/ Impero Romano, Mamma Egitto, OC!Ammone Tolomeo/OC!Regno Ellenistico d’Egitto
Pairing: RomanusxMamma Egitto, Ammone TolomeoxRomanus
Trama: Ma quegli occhi, quegli occhi,
non posso sostenerne la vista! Quegli occhi che decretarono la mia caduta!- si
accasciò contro il petto di Gupta, che rimase allibito, incapace di stringere a
sé l’antico Regno.
-Occhi, fratello? Di che occhi parli?- -Occhi
potenti, uno sguardo di sventura. Occhi di cui divenni schiavo, credendo di
esserne padrone- (…)-Chi ti ha fatto questo?- esalò Egitto.
Un sorriso rassegnato sollevò le labbra di Ammone
-Il giogo di Roma-
Dedica: a Silentsky, che ci porti fortuna per la Simulazione di Terza
Prova di Lunedì!
Note: Eccomi qua, tornata
con un’altra Long Fiction dedicata ad Impero Romano. E visto che io sono una
pazza sclerata, ecco che al suo fianco appare un altro OC! (Senza contare i
personaggi realmente esistiti, tra i quali spiccheranno Giulio Cesare,
Cleopatra e Marco Antonio), ovvero, Ladies and Gentlemen, fate tutti un applauso
ad Ammone Tolomeo, Regno Ellenistico d’Egitto!
Ma bando alle cianciate e diciamo
qualcosa di più serio: detto papale papale, in poche, pochissime parole, questa
Long Fiction tratterà degli ultimi anni del Regno Ellenistico d’Egitto, ovvero
dall’arrivo di Pompeo nel 48 a.C., fino alla caduta d’Egitto nel 31 a.C., con
la Battaglia di Azio.
In verità tutto questo doveva essere
parte di una Long Fiction più lunga riguardante tutti i Regni Ellenistici e la loro progressiva caduta nelle mani
di Roma, ma mi sono resa conto di non essere in grado di scriverla. Quindi mi
sono limitata ad una piccola porzione, ad un lato di storia che mi è più “congeniale”.
Ciò non toglie che il prologo dell’altra fic verrà comunque pubblicata come One
Shot a sé stante. No, nemmeno Alessandro Magno e l’Impero Macedone possono
sottrarsi alla mia follia.
Vi invito comunque ad andare a
guardare le note storiche a fondo pagina ^V^ (sono tutte riguardanti l’Ellenismo,
la morte di Alessandro Magno e la nascita dei Regni Ellenistici, le ho messe
giusto per farvi capire meglio l’ambientazione)
Il titolo è preso da una sententia contenuta nel discorso di
Calgaco (Agricola, 30. Opera di Tacito):
Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant ([I
Romani] dove fanno il deserto lo chiamano pace)
Per ora il Rating è arancione,
potrebbe sfociare nel Rosso [Non tanto per scene esplicite di sesso, nonostante
l’avviso Slash, quanto per quello che succederà negli ultimi capitoli. No, non
sarà piacevole. Né per Ammone, né per Mamma Egitto, né per Romanus]
Bon, vi lascio al prologo (piuttosto
corto, ma serve giusto a presentare un poco la situazione e il nuovo
personaggio)
Buona Lettura!
Wordcounter: 736 (esclusi titolo e note)
~Musica: Hope’s Theme – Final Fantasy
XIII
~ { Pacem Appellant } ~
~***~
{ Prologo
Capitava spesso che
Feliciano Vargas venisse a trovare Gupta.
Egitto apprezzava le
visite dell’Italiano, molto meno le mani sudaticce dei turisti cicaleggianti
che toccavano senza ritegno i geroglifici di sua Madre. Gupta aveva tentato di spiegare
alla Nazione Italica che i geroglifici erano sacri, che non dovevano essere toccati per nessuna ragione, ma invano. Uomini, donne, bambini, tutti
toccavano tutto, e sotto le loro dita si liberavano le catene che tenevano imprigionato
un leone ruggente o facevano volare via un’anatra, la preda che da millenni il
cacciatore dalle pelle arsa dal sole cercava di fare sua1.
Capitava spesso che
Feliciano Vargas venisse a trovare Gupta.
Ogni volta che accadeva,
lo spirito di Ammone Tolomeo2 ritornava tra le sabbie del deserto,
rifiutandosi di parlare al fratello minore fino a quando l’Italiano non fosse
ritornato in patria.
Ammone Tolomeo, lo scomparso Regno Ellenistico d’Egitto, era
uno spirito che solo Gupta era in grado di vedere: era suo fratello maggiore, l’unico che
potesse descrivergli lo splendore della loro defunta Madre, anche se spesso e
volentieri si perdeva a narrare di Callimaco e della Regina Berenice3,
e di Teocrito e delle feste in onore di Adone e di come il poeta Siracusano ne
fosse stato talmente affascinato da scrivere un mimo a riguardo4.
Gupta non lo interrompeva
mai, perché in qualche modo lo spirito di Madre Egitto aleggiava sempre in quei
racconti, e poi nemmeno gli dispiaceva ascoltare storie che tanto ricordavano
quelle di Heracles.
Ma tutti i racconti di
Ammone avevano un limite: non andavano mai oltre la guerra nata tra Cleopatra
VII e suo fratello, Tolomeo XIII.
Quando era più piccolo,
Gupta lo aveva implorato tante volte di andare avanti, artigliando i lembi
della sua veste candida, ma l’altro non aveva mai ceduto, anzi, mentre lo
rimetteva in piedi –Ammone Tolomeo era
uno spirito fatto di sabbia che danzava silente sulle dune d’Egitto, e il
bambino non poteva afferrarlo. Le manine stringevano solo il vuoto, un vuoto
terribile, che gli ricordava ogni volta quanto fosse solo- il suo volto,
solitamente bello e giovale, con gli occhi d’un colore diverso l’uno dall’altro,
si adombrava e la rabbia e la vergogna storcevano le sue labbra.
Gupta aveva imparato a non
chiedere più.
Ascoltava Ammone, si
addormentava davanti ad un focherello acceso tra le dune, con Inep5 accoccolato al fianco,
una coperta sulle spalle e la voce del fratello che lo cullava, lo abbracciava
in spire di sabbia dorata e lo riportava agli antichi fasti d’Egitto. E lui
allora riabbracciava sua Madre, che sapeva d’incenso e tintinnava di sistri, sua Madre dai
piedi nudi ed il collare d’oro, coi capelli d’ebano e le caviglie adorne di
gioielli scintillanti.
Accadde, però, che un
giorno Gupta non riuscisse più a sopportare il silenzio del fratello; salutò
Feliciano Vargas con tutta la cortesia e l’accortezza possibili, poi corse nel
deserto, affondando i piedi nella sabbia e cadendo e rialzandosi più volte. Inep gli
trotterellava accanto ed un falco dalle ampie ali fischiava sopra la sua testa.
Trovò Ammone inginocchiato
a terra: la sabbia si alzava attorno a lui, si attorcigliava, gemeva, esplodeva
con uno schiocco, lacrime dorate gli
scendevano dal viso, si insinuavano fra le dita evanescenti, picchiettavano a
terra, e le spalle, le belle spalle, coperte dell’abito candido, tremavano,
chicchi giallastri cadevano da esse, rimbalzando sulle dune.
Gupta gli si avvicinò,
facendo attenzione a non venir colpito dai refoli sabbiosi.
-Fratello..- mormorò, inginocchiandosi
–Fratello, perché piangi?-
Ammone alzò il viso d’oro
e di lacrime, mordendosi le labbra e stringendo forte le spalle del minore
-Adelphòs, adelphòs6!- gridò, l’ampia fronte aggottata e
i capelli scarmigliati –Troppi ricordi, adelphòs!
Non è colpa tua e neppure del giovane cui t’accompagni spesso! Ma quegli occhi,
quegli occhi, non posso sostenerne la vista! Quegli occhi che decretarono la
mia caduta!- si accasciò contro il petto di Gupta, che rimase allibito,
incapace di stringere a sé l’antico Regno.
-Occhi, fratello? Di che
occhi parli?-
-Occhi potenti, uno
sguardo di sventura! Occhi di cui divenni schiavo, credendo di esserne padrone!-
Ammone si scostò dal minore e lasciò cadere le braccia. Rimase in silenzio per
alcuni istanti, poi prese un profondo respiro e piegò il collo.
Gupta dovette trattenersi
dal lanciare un grido: sulla pelle dorata dell’altro, lì, poco sopra la
clavicola, due segni, forse di mani, forse di corda, spiccavano lividi, bluastri.
-Chi ti ha fatto questo?-
esalò Egitto.
Un sorriso rassegnato
sollevò le labbra di Ammone
-Il giogo di Roma-
{~***~}
1Tale era, secondo gli Antichi Egizi, il potere dei
geroglifici. Toccarli significava disperdere la magia contenuta nei segni. Per
questo i geroglifici dovevano essere perfetti al millimetro: sbagliare anche
solo un tratto avrebbe significato liberare una belva feroce o far fuggire
qualche preda o, peggio, far sbagliare all’anima del defunto le formule per
accedere all’Amenti.
2Amon=Ammone, il Dio che identificò Alessandro Magno
come Divinità. Tolomeo = Capostipite della dinastia (quella Tolomea, appunto)
regnante in Egitto dopo la morte di Alessandro.
3 (IV secolo a.C.) Poeta e filologo greco Che a me
non piace nulla. Berenice, terza moglie del Faraone Tolomeo III l’Evergete
4 “Le Siracusane / Le donne alla festa di Adone”
(Idillio XV) di Teocrito di Siracusa (ca. 300 a.C.).
5 Nome egizio di “Anubi”. Non ho la minima idea se il
cane di Gupta abbia un nome preciso.
6 “Fratello” in greco antico.
Note Storiche
-
A Proposito dell’Ellenismo
Col
termine Ellenismo Gustave Droysen, nella sua opera “Storia dell’Ellenismo”,
designa il periodo che va dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) alla
Battaglia di Azio (31 a.C.)
Il
periodo è caratterizzato dalla diffusione della cultura greca nei territori
locali, da un progressivo accentramento del potere nelle mani di un unico
sovrano (si dice che il cittadino passi dalla condizione di Polites a Idiòtes, che non si interessa, cioè, della sfera pubblica). Nasce
il fenomeno dell’evergetismo (mecenatismo),
la cultura si fa sempre più elitaria, vi è la diffusione della koinè diàlektos (la lingua comune), un
forte progresso scientifico, matematico, astronomico e medico. L’età
ellenistica è detta anche “civiltà del
libro”: il rotolo di papiro diviene il massimo veicolo di diffusione
culturale e si arriva definitivamente ad un sistema di composizione e
trasmissione scritta dell’opera letteraria e scientifica. Nascono le biblioteche (le più importanti sono
quelle di Alessandria d’Egitto e di Pergamo) e discipline specialistiche come
la filologia. [si ringrazia
quella magnifica donna che è la mia prof di latino e greco per gli appunti e le
spiegazioni]
-
A Proposito di Alessandro Magno
Non
credo che ci sia molto da dilungarsi si questa figura: bene o male, le sue
grandi gesta le conosciamo tutti (o la maggior parte). Nato a Pella nel 356
a.C., figlio di Filippo II di Macedonia, gli succede al trono nel 336 a.C.,
quando il padre viene assassinato a Ege. In 12 anni conquista l’Impero
Persiano, l’Asia Minore, l’Egitto, gli attuali Pakistan, Afghanistan e India,
ma muore nel 323 a.C., forse avvelenato, forse per una cirrosi epatica dovuta
al troppo vino, lasciando un figlio ancora in fasce e un fratellastro insano di
mente. Il Grande Regno di Alessandro cadde così nel caos delle lotte intestine
tra i suoi comandanti.
I
Diadochi furono i generali di Alessandro che, dopo la sua morte, si contesero
con aspre battaglie (le sei guerre dei Diadochi) i resti del suo enorme Impero.
Perdicca,
cui Alessandro, in punto di morte, affidò il sigillo reale dicendo di darlo
(secondo la tradizione) “Al migliore”, decise di attendere la nascita del
figlio di Rossane e Alessandro. Il bimbo nacque, gli venne dato il nome di
Alessandro IV e Perdicca governò in sua vece, dividendo il regno in satrapie,
per tenere lontani da Babilonia i generali:
- -Antipatro divenne stratega d’Europa
(Macedonia e Grecia)
- -Tolomeo ebbe l’Egitto
- -Lisimaco la Tracia
- -Eumene di Cardia la Cappadocia e la Licia
- -Antigono Monoftalmo Panfilia e Pisidia
- -Cratero si preoccupò delle finanze
della parte Macedone, mentre Perdicca
della parte militare
- -Seleuco divenne il comandante degli Eteri (cavalleria delle regioni
montuose del Regno di Macedonia)
Ma questa
spartizione del potere portò presto al malcontento di chi voleva vedere i
propri confini espandersi e raggiungere le vette del vecchio Impero di
Alessandro. Varie e terribili furono le lotte intestine (nel 321 a.C. Perdicca
venne assassinato e al suo posto venne messo Antipatro che ucciso Rossane, i
due figli di Alessandro, sua madre Olimpia, la sorella Cleopatra, la
sorellastra Euridice e il fratellastro Filippo).
Quando
le guerre tra i Diadochi cessarono, i Regni stabili furono i seguenti:
-
Regno d’Egitto,
guidato dai Tolomei
-
Regno di Macedonia,
guidato dagli Antigonidi
-
Regno di Siria,
guidato dai Seleucidi
-
Regno di Pergamo,
guidato dagli Attalidi
Il
primo a cadere sotto il dominio romano fu il regno di Siria, nel 189 a.C. con
la battaglia di Magnesia; l’ultimo fu l’Egitto, con la battaglia di Azio.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 [48 a.C.] ***
pa1
{ Capitolo 1
~ Tuonare non è
compito mio, ma di Zeus1
Alessandria
d’Egitto,
48 a.C.
-Una nave! Una nave!-
Il giovane corse lungo la
strada polverosa di Alessandria, senza curarsi delle persone che urtava nel suo
lanciarsi verso il porto. Anzi, rideva, rideva di gusto per ogni insulto che
gli cozzava contro le orecchie, perché il solo sentire tutte quelle lingue
diverse mescolarsi ai profumi della sua città riusciva a scaldargli il cuore.
Superò con un salto alcuni
vasi che erano rotolati lungo la strada e raggiunse finalmente lo spiazzo
ingombro del porto: teste da ogni dove e d’ogni colore brulicavano davanti alle
grandi navi, sbatacchiate qua e là da qualche corrente più forte delle altre.
Le onde si infrangevano lungo i fianchi con uno sbocciare di creste candide,
rese ancora più luminose dal carro del sole, i cui cavalli scalpitavano
ardenti, grattando la volta azzurra del cielo con gli zoccoli. Di lontano si
ergeva il profilo nero del Faro, alto e imponente: cominciato sotto il Sotere e
concluso col Filadelfo2, ricordava a chiunque abitasse e sostasse ad
Alessandria la maestosità del Regno dei Tolomei.
Il giovane riuscì a
passare fra i mercanti e i curiosi ammassati nel porto, fino a che non
raggiunse la passerella della nave appena attraccata e rimase ritto ad
aspettare che i primi uomini scendessero da essa. Gettò un’occhiata veloce al
mare e aggrottò la fronte: lontano, tra le onde, un’altra nave, un punto nero
contro l’orizzonte, pareva attendere il suo destino. Così, in balia delle onde,
veniva sbattuta a destra e a sinistra dalla corrente impietosa e i gabbiani
dalle ampie ali vi passavano veloce accanto, sfiorandone appena il profilo e
allontanandosi subito dopo.
Si udì scricchiolare ed
imprecare, e il giovane tornò immediatamente a concentrarsi sull’uomo che stava
scendendo la passerella. Attese che mettesse i piedi traballanti sul porto e
subito gli fu accanto
-Portate libri con voi? Se portare dei libri vi chiedo di consegnarmeli
immediatamente. Verranno portati alla Biblioteca e.3.- ma non
poté continuare perché l’uomo, con un ringhio, lo gettò a terra,
indirizzandogli un pugno allo stomaco.
Il ragazzo crollò sulle
ginocchia, stringendosi il ventre con le braccia ; faceva fatica a respirare ed
un rivolo gli colava dagli angoli della bocca; rialzò lo sguardo e, da dietro
le ciocche scure, gli occhi di colore diverso l’uno dall’altro si strinsero,
lampeggiando d’ira.
-Come osi- sibilò,
tornando inconsciamente alla sua lingua natia –Come osi..-
L’uomo gli rivolse
un’occhiata colma di disprezzo: le labbra rese livide dal salino si
sollevarono, rivelando denti storti e neri. Si chinò davanti al giovane e lo
afferrò al collo, sollevandolo senza sforzo.
-Hn..- gemette il ragazzo,
cominciando a scalciare e artigliando il polso dell’altro; questi storse la
bocca e lo lanciò via. Gli sputò contro e si allontanò veloce dal porto.
Il giovane tossì una, due,
tre volte, massaggiandosi il collo: le dita dell’uomo erano callose, di chi ha
tenuto a lungo una spada fra le mani. Non era un mercante, era un soldato.
Alzò gli occhi e vide
tutti gli sguardi puntati su di lui; si rimise in piedi e se ne andò, diretto
al palazzo.
***
-Ammone-
Il giovane si voltò.
-Ammone Tolomeo, Madre- la corresse con
gentilezza.
Gli occhi della donna
fremettero ed il ragazzo sentì la vergogna stringergli il cuore; chinò quindi
il capo, succhiandosi appena le labbra, mentre con lo sguardo seguiva l’ombra
della Madre, resa flessuosa e liquida dalla luce che sgorgava dalle colonne.
-Chi ti fece quei segni,
figlio mio?-
Ammone rialzò il viso,
passandosi istintivamente la mano sul collo; mentre sotto le sue dita si
delineavano i segni lividi delle mani callose dell’uomo, i suoi occhi si
posarono sulla figura della vecchia Madre.
Divino Zeus pensò il giovane E’ davvero anziana.
Era esile, più esile di
quanto si ricordasse: il viso, triangolare e ben modellato, era circondato
dalle ciocche d’ebano della parrucca tripartita4; gli occhi, così
intensi da fare male, erano ancora più scuri e profondi per la linea nera del kohl, che le arrivava sino alle tempie.
Le labbra, rosse come il sangue di Iside, avevano la medesima espressione
ieratica di Hatshepsut, sollevate
nell’affascinante sorriso della bella Nefertiti.
Il collo esile, bruno,
sosteneva il mento regale, e il collare d’oro e lapislazzuli che le cadeva
dalle spalle spigolose lo rendevano assai più lungo ed elegante, simile a
quello candido degli Ibis sacri al dio Thot; i seni cadenti erano lasciati
scoperti e viticci e foglie e gocce d’acqua delineati con l’henné sbocciavano dai capezzoli bronzei.
Dal petto fino alle caviglie, il corpo sottile era fasciato da una veste
scarlatta; tutta la sua figura baluginava d’oro per le ali d’avvoltoio che si spiegavano
sul suo capo, unite al bracciale che portava sopra il gomito ed ai sandali ai
piedi, così belli e preziosi che nessuna Grande Regina poteva vantarsi di aver
posseduto in vita.
Era splendida, ma soffusa
di un’aria decadente, offuscata della sabbia che lenta si sollevava dalle dune
e ricadeva poi in silenzio, stendendosi morente sul corpo assetato della Terra
Rossa5.
Stava morendo, Ammone lo
sapeva. E ogni giorno lo sentiva sempre più chiaramente. E il suo cuore si
stringeva con un gelido singulto.
-Nulla di cui
preoccuparsi, Madre. Solo un soldato che non aveva libri da donare alla
Biblioteca. Voi, piuttosto- le disse, fissandola con un sorriso –Ancora non
avete indossato il chitone che vi ho regalato-
La donna non perse
l’espressione serafica che le aleggiava leggera sul viso
-Ancora non è giunto il
momento-
-E quando sarà?- le chiese
Ammone, non potendo trattenersi dal dare a quella domanda una sfumatura
infastidita.
Gli occhi della Madre
furono offuscati da un velo di tristezza
-L’oracolo di Amon me lo
rivelò- sussurrò, stringendo il sistro che stringeva nella mano sinistra –Ma
non ho parole e cuore per risponderti-
Il giovane fece per dire
qualcosa, ma uno scalpiccio di passi dietro di sé lo costrinse a voltarsi: una
piccola serva veniva nella sua direzione, trafelata e col viso arrossato per la
corsa.
-Mio Signore- boccheggiò
la bambina, a malapena doveva avere tredici anni –Il Faraone vi vuole nella
Sala del Trono-
Ammone gettò un’occhiata
veloce alla Madre, poi alla servetta
-Così sia- rispose dopo
poco –Se questo è il desiderio del Faraone- e fece per avviarsi, ma la bambina
lo fermò
-No, mio Signore! Il
Faraone ha ordinato che vi presentiate al suo cospetto lavato, profumato e
vestito come si conviene ad una persona del vostro rango-
Un brivido corse lungo la
schiena del giovane, che non poté trattenersi dall’inarcare un sopracciglio
-Per quale motivo?-
La servetta si guardò
all’intorno, per essere sicura di non essere ascoltata da orecchie indiscrete,
poi mormorò
-Uno straniero è venuto a
chiedere udienza al Faraone. Un soldato dall’oltremare-
***
Quando Ammone fece il suo
ingresso nella Sala del Trono notò subito la mancanza della Madre: era come
fissare le vaste distese della Terra Rossa e non vedere i raggi del sole
ondeggiare simili a vipere cornute sul profilo delle dune. Era una parte
essenziale dell’Egitto, era l’Egitto. Un Egitto antico quanto il Mondo ed
escluderlo significava chiudere gli occhi al volto del passato e gettarsi cieco
e nudo in un futuro privo di storia.
-Dove si trova Madre
Egitto?- domandò immediatamente il giovane –Per quale motivo non è qui?-
Tolomeo XIII, con
le sue grasse labbra ed il viso congestionato6, lo fissò assottigliando lo sguardo.
Accanto a lui il fedele Potino, viscido come i mangiatori di carogne, fremette;
lo si sarebbe potuto trovare piacente coi capelli neri che scendevano in
morbidi riccioli sulle tempie, col corpo ben proporzionato reso ancora più
appetibile dai raggi del sole che si incuneavano lungo le pieghe della veste
alla greca, ma c’erano quegli occhi sempre scrutatori, sempre ingannevoli, che
non stavano mai fermi, così concentrati a cogliere la più piccola fiamma da
sfruttare nell’oscurità degli intrighi di corte. E quelle labbra sottili, morse
dai denti affilati..No, Ammone detestava quell’uomo. Lo odiava con tutte le sue
forze, ma fino a quando il Faraone non avesse smesso di gridare roco il suo nome
nel silenzio delle sue stanze, allora non ci sarebbe stato modo di allontanarlo
da Palazzo7.
-La presenza di tua Madre
non era necessaria- rispose Tolomeo, tornando a fissare la porta principale
della Sala, ancora chiusa. Al giovane quel patetico tentativo di assumere il
volto eterno delle statue di Ramses II fece
sgorgare un singhiozzante riso sulle labbra; Potino lo fulminò con lo sguardo
ed egli si affrettò a tornare serio, senza però cancellare il ghigno sprezzante
che gli inclinava la bocca.
-Mia Madre non deve essere
tenuta lontana dalle questioni di Palazzo- commentò comunque Ammone,
avvicinandosi al trono –Non si può tenere lontano l’Egitto e lo sapete-
-Sei tu l’Egitto, ora-
sibilò il Faraone, roteando le iridi scure verso di lui –E tu sei qui. Ora
siedi e fa’ silenzio-
Il giovane avrebbe
preferito ribattere, ma l’occhiata di Potino e lo schiudersi delle porte lo
fecero zittire all’istante.
Quale fu poi il suo
stupore nel vedere entrare proprio il soldato che quella mattina lo aveva afferrato
al collo e gettato di malagrazia sullo spiazzo del porto!
E la meraviglia dell’altro doveva essere la
stessa, se non superiore, pensò ad un tratto Ammone immaginandosi come doveva
essere vedersi con occhi estranei, di lasciar scorrere lo sguardo sulla tiara
d’oro, sull’ureo sibilante di
granato, sul chitoniskos8 talmente
candido da abbacinare la vista, sul collare d’Horus con le ali spiegate e sulla
spilla con incisa la saetta di Zeus. Si chiese cosa si provasse nel vedere il
ragazzetto sporco di polvere e di terra tramutato d’improvviso in una divinità
dalle iridi di diverso colore l’una dall’altra.
***
-Mai!- urlò Ammone, gli
occhi che traboccavano d’ira –Mai! Voi non sapete! Non sapete!- si portò le
mani ai capelli, stringendo con forza le ciocche –Nulla voglio avere a che fare
con Roma, né con ciò che la circonda! Ogni cosa che tocca..! Voi non sapete,
non sapete! Non avete mai sentito i vostri fratelli…Voi non sapete, non sapete
nulla!-
Il giovane cadde bocconi,
il respiro che gli mordeva i polmoni, il corpo scosso da brividi e singhiozzi,
la bocca che vomitava parole sconnesse e gemiti e urla. Ricordava, ricordava
con viva forza tutta la distruzione che Roma aveva portato ai suoi fratelli,
tutto il male che aveva fatto loro, il sangue, le sevizie, il dolore.
-Voi!- gridò ancora,
alzando faticosamente il volto –Voi non avete mai sentito una lama gelida
conficcarsi nel ventre tremulo d’un bambino!-
Oh Polinice, Polinice, fratello mio Polinice9! Come piangesti
e gridasti quando gli artigli di Roma t’afferrarono il cuore e te lo
strapparono dal petto! Quante lacrime rigavano il tuo volto di fanciullo a
Pidna e come fu, come fu tremendo sentire il suo giogo stringerti il collo,
quel collo che tanto ricordava quello di Nicoforo10, nostro padre!
Si accasciò di nuovo,
stringendosi il ventre con le mani, urlando come mai aveva urlato prima,
nemmeno quando Apollonio11 si era allontanato, facendo vela verso
Rodi, lasciandolo solo sul porto con la sola compagnia di una recitazione
pubblica conclusasi nel silenzio e nei fischi e in sguardi d’astio e disprezzo.
Seleuco, fiero Seleuco12 dalla spada ardente! Non ebbe pietà
di te, Roma, quando a Magnesia ti schiacciò il petto e t’afferrò per i bei
capelli e ti premette il viso contro il terreno e--
Ricordava, Zeus, come ricordava le fauci ardenti
che dal basso della schiena gli avevano afferrato il ventre e da lì un fiammeggiare
impietoso fino alla gola, da dove aveva vomitato lacrime e sangue, sconvolto
nella mente e nell’anima, mentre da dietro le palpebre chiuse riusciva a vedere
il fratello bocconi sulla terra di Magnesia e Roma sopra di lui che lo umiliava
tra le risa, una sconfitta resa ancora più amara da quelle dita callose che lo
costringevano a terra.
Ricordava, Ammone, le
notti passate nella febbre e nel delirio, quando di ogni frammento dell’anima
di Nicoforo che ancora perduravano, lui era rimasto solo, quando anche Pegamo
si prostituì a Roma, lei con le sue capre e con le sue pelli che l’avevano
sfidato nell’unico campo in cui egli potesse ancora rivaleggiare: quello della
cultura13. In quegli incubi scarlatti di sangue nemmeno gli infusi
del Fiore Rosso avevano qualche potere, nemmeno le fresche mani di sua Madre
che lo aveva vegliato senza mai distogliere lo sguardo.
-Voi non sapete!- concluse
con un gemito strozzato, tentando di riprendere fiato –Voi non sapete..-
Ci fu silenzio, rotto solo
dai sospiri del giovane e dal sibilo sprezzante di Potino.
-Non sarai tu a decidere,
Egitto- disse freddamente Tolomeo.
Ammone alzò lo sguardo,
gli occhi sbarrati
-Come..?-
-Che ne vuoi capire tu di guerra e alleanze? Guarda, guarda
le tue dita, Egitto! Non spada, non scudo esse hanno afferrato, ma papiri e
stili! Torna alle tue amate carte, ai tuoi poeti dalle ossa sabbiose e dalle
voci silenti e lascia che sia io ad occuparmi di tutto. E io esigo l’alleanza con Caio Giulio Cesare
e sono certo che questi troverà di suo gusto il dono che ho intenzione di
portargli..- la frase sfumò in un ghigno ferino.
Il giovane tentò di nuovo
-No! Per gli Dei, no! Voi
non..-
-Tuonare è compito di Zeus, dico bene?-
Ammone rimase zitto e gli
occhi fissarono con odio sia il Faraone che Potino; poi se ne andò senza
aggiungere altro. Fuori dalla Sala incontrò lo sguardo ardente di Cleopatra;
non le disse nulla, ma fu sicuro che la donna avesse compreso comunque ogni
cosa.
***
Alessandria d’Egitto,
29 Settembre 48
a.C.
La luna piangeva e le sue
lacrime cadevano argentee nello specchio d’acqua del Museo14. Ammone
sedeva sulla base marmorea ed ogni tanto andava ad increspare la superficie altrimenti
liscia, facendo ondeggiare la fluente e dorata chioma di Berenice15,
che tremolava nella volta nera della notte.
-Il Faraone non ha voluto
ascoltarmi- mormorò il giovane, sicuro della presenza della Madre dietro di sé –Mi
ha ricordato quanto poco sappia delle armi e della guerra-
La donna gli sedette
accanto e Ammone, come quando era bambino, posò il capo sulle sue ginocchia,
aspirando con le lacrime agli occhi l’intenso profumo dell’incenso. Le dita della
Madre andarono ad affondare nei suoi capelli, cominciando ad accarezzargli la
nuca, mormorando di tanto in tanto una parola o un accenno di canzone che lui
non capiva.
-Splende la Luna e Bastet15 fa sentire il suo
miagolio per le vie addormentate-
-Dovevate essere
splendida, Madre, quando cavalcavate in battaglia accanto ai Grandi Re- mormorò
il giovane in risposta –Vi immagino, bella e terribile come Sekhmet16, col disco solare
sul capo reso ancora più incandescente dalla sabbia e dal sole. Qualunque
nemico si sarebbe inginocchiato al solo vedervi-
Ancora silenzio, tale che
la Madre non sembrava intenzionata a sciogliere.
-Com’era Nicoforo, Madre
mia? Com’era mio padre?-
-T’assomigliava nello
sguardo e nello spirito. Si presentò a me recitando un verso d’Omero e si accomiatò
come quell’Ettore di cui tanto mi parli, quando saluta la moglie diletta sulle
mura della città. Ricordo la sua voce e le sue mani, fatte per impugnare le
spada; il suo cuore come quello d’un bambino, ed il suo aspetto di uomo, o
meglio, di ragazzo costretto a crescere troppo in fretta-
-Lo amavate, Madre?-
-Miseri, miseri noi- gemette
la donna –Misero chi condivide il nostro destino. Noi cui è negata l’immortalità,
ma non è concesso essere umani. Per noi, figlio mio, non esiste l’amore. Non
esiste neppure l’odio. Esistono solo la pace ed il fuggevole momento vissuto
fra i veli d’un talamo, e la guerra, dove la furia acceca anche chi, solo il
giorno prima, si era professato amante e amato. La vittoria ci porta ad
aggiogare i nemici, la sconfitta ad essere aggiogati. Dove prima c’erano
carezze e sussurri, non restano che lame di pugnali e ordini di battaglia-
Ammone tremò a quelle
parole e strofinò il viso contro le ginocchia della Madre.
-A quanti avete concesso
il vostro talamo, Madre mia?-
Un venticello fresco stormì
nel silenzio della notte e nell’assenza di parole.
-Non è questa la domanda
giusta da pormi, figlio mio- fu la risposta, appena mormorata –Ma a quanti tagliai
la gola quando Khepri18
ancora velava d’argento le nostre labbra, dischiuse nell’ardore d’un bacio-
***
La nave era nera contro l’orizzonte,
sbatacchiata da una parte e dall’altra dalle correnti.
Ammone non corse come suo
solito verso il porto, ad altri lasciò il compito di prelevare i libri delle
imbarcazioni appena attraccate.
Continuò a fissare quel
punto lontano, la nave di Gneo Pompeo
Magno. Continuò a guardare lontano fino a quando, alzate le mani, non le
vide macchiate di sangue.19
Poco tempo dopo arrivò l’ordine perentorio di Cesare
di presentarsi al suo cospetto.
{~***~}
- 1Callimaco, Àitia,
I
- 2Rispettivamente
Tolomeo I e II
- 3In greco nel testo
- 4L’aspetto fisico di Madre Egitto richiama quello di Nefertari (parrucca tripartita
sormontata da spoglia di avvoltoio). In Madre Egitto ho voluto far confluire
tre delle più importanti Grandi Regine dell’Antico Egitto: Hatshepsut,la donna che osò raffigurarsi con gli emblemi del
Faraone, Nefertiti, moglie di
Akhenaton, Il “Faraone Eretico” e infine Nefertari,
Grande Sposa Reale del Faraone Ramses II, la Sposa Guerriera dalla spiccata
intelligenza.
- 5Terra Rossa = Terra non fecondata dalle esondazioni
del Nilo = Deserto
- 6"Deh! Avevo fatto un casino immane e avevo confuso l'Aulete col figlio. Non è Tolomeo XII, ma XIII.
- 7Potino era il consigliere più fidato del XIII e,
si dice, anche il suo amante
- 8Tipica veste greca maschile. Il chitone era, insieme
al peplo, l’abito femminile.
- 9”Che vince molte battaglie”, OC! Regno Ellenistico
di Macedonia. Perseo viene sconfitto a
Pidna del 168 a.C. da Lucio Emilio Paolo e nel 146 a.C. il Regno di Macedonia
diventa provincia romana.
- 10 “Che porta la vittoria”, OC! Impero Macedone
- 11Autore delle “Argonautiche”. Il soprannome “Rodio”
gli deriva proprio dall’esilio volontario cui egli si costrinse dopo che una
sua lettura pubblica dell’opera non incontrò il favore del pubblico.
- 12OC! Regno Ellenistico di Siria, divenuto dominio di
Roma con la battaglia di Magnesia del 189 a.C.
- 13 OC! Regno di Pergamo, che divenne possedimento di
Roma attraverso il testamento di Attalo III. Quando l’Egitto blocca le
esportazioni di papiro, Pergamo utilizza le pelli di pecora come nuovo
materiale scrittorio (la pergamena, appunto). A Pergamo vi era anche l’altra
grande Biblioteca d’età Ellenistica. E molte erano le diattribe tra gli
studiosi Alessandrini e quelli di Pergamo
- 14Il “Museo” è la “Casa delle Muse” che affiancava la
Biblioteca
- 15Callimaco, La
Chioma di Berenice
- 16Dea Gatta, divinità
lunare
- 17Dea Leonessa, divinità guerriera per eccellenza
- 18Forma di Ra al mattino
- 19Convinto di avere in tale modo l’alleanza con
Cesare, Tolomeo ordinò che Pompeo, che aveva chiesto rifugio al Faraone,
venisse ucciso tagliandogli la testa, che venne presentata al futuro imperator in un cesto di vimini, insieme
all’anello.
Grazie a Claw e a Pik, davvero non so
che dire! ^V^
E scusate per le note finali kilometriche XD
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 [48 a.C.] ***
pa2
Per prima cosa mi scuso per un errore madornale
commesso nel precedente capitolo: non è Tolomeo XII, ma Tolomeo XIII, fratello
di Cleopatra il Faraone. Scusate, davvero. Sono orba!
Altra cosa, tanto per evitare confusioni. Lo scorso capitolo si
è chiuso con la morte di Pompeo vista da Ammone, questo comincia
con lo stesso evento, narrato con gli occhi di Nonno Roma. I due eventi
poi si riallacciano grazie al "Poco tempo dopo arrivò l’ordine perentorio di Cesare
di presentarsi al suo cospetto." già presente nello scorso capitolo.
Ringrazio Claw e Pik per le loro splendide
recensioni!
Grazie *V*
{ Capitolo 2
~Ille mi par esse
deo videtur
Non avrebbe mai dimenticato gli occhi di Gneo Pompeo
Magno, non la loro forma così stretta, quasi enfia, non le palpebre cadenti,
non l’iride scura sempre accesa di sdegno verso tutto e tutti, compreso se
stesso.
Come avrebbe mai potuto dimenticare quegli occhi? La
loro fiamma di sfida, mai estinta, una lingua di fuoco che né Roma né Cesare
erano riusciti a cancellare.
Aveva bisogno, Romanus,
di ricordarsi ogni singolo dettaglio dello sguardo di Pompeo, di modo che mai,
mai fino a quando Roma avesse regnato su tutta la Terra, avrebbe sovrapposto
all’immagine di quell’uomo così grande la testa gemente che un intendente del
Faraone gli stava mostrando.
Fece scorrere gli occhi sui ricci stopposi, lerci di
sangue, sulle dita tremanti del servo che tenevano la testa mozzata, poi scese
a contemplare la fronte, solitamente
sempre aggrottata in un’espressione dubbiosa, di complotto quasi,
accartocciata dall’orrore che storceva e piegava la bocca, squarciata da un
urlo di sorpresa ed orrore; si soffermò sugli occhi, rivoltati nelle orbite,
bianchi, bianchi e lividi, già incavati nel nero dell’orbita, già risucchiati
nel teschio che presto avrebbe preteso la sua pelle pallida, resa grezza e
traslucida dalla morte.
Infine, il collo. Mozzato, i bordi frastagliati
ancora incrostati di sangue rappreso, i muscoli cadenti e flaccidi, un
frammento di osso che si faceva strada, giallastro e spezzato, fra i lembi di
pelle cadente.
Romanus sentì lo stomaco torcersi a
quella vista, lui che prima di tutti aveva sentito la morte di Pompeo, l’aveva
provato sulla propria pelle, contorcendosi nel proprio alloggio, portandosi le
mani alla gola, con la voce del grande condottiero che gli dilaniava i polmoni
e gli colava dalle labbra, come il sangue, quel sangue scuro e denso che gli
aveva macchiato le dita non appena il gelo della morte gli aveva attraversato
le membra ed il collo.
Avvertì una rabbia tremenda risalirgli il petto come
un fuoco e strinse i pugni talmente forte da affondare le unghie nella carne;
fissò con ira le suonatrici di flauto nascoste nell’ombre, zitte ad osservare
quel macabro spettacolo, le mani che tremavano attorno lo strumento, poi alzò
gli occhi sul trono, serrando la mascella nel vedere il sorriso tirato
dell’uomo che stava accanto al Faraone, il quale tradiva la sua espressione di
assoluta indifferenza stringendo la stoffa del gonnellino pieghettato e
succhiandosi le labbra.
Da ultimo si soffermò sul giovane che si teneva
nascosto dietro il trono: ne riusciva a scorgere appena il profilo e lo sguardo
apatico, vuoto, freddo.
-Chi ordinò l’uccisione di Gneo Pompeo Magno?-
Romanus si voltò verso Cesare, che
ancora si rifiutava di guardare il servo negli occhi, di prendere coscienza
dell’assassinio del suo grande rivale.
-Io, Potino, lo ordinai- l’uomo accanto al Faraone
si avvicinò, un ghigno ferino sulle labbra –Ed io lo uccisi, insieme ad
Achilla, generale di grande fama ed onore- si chinò sul cesto ai piedi di
Cesare, ne estrasse qualcosa e con un gesto diede ordine al servo di deporre la
testa di Pompeo –Per voi lo feci, è questo dono gradito a Roma?- e mostrò al
condottiero ciò che teneva in mano.
Romanus sgranò gli occhi ed indietreggiò,
colmo d’orrore, scosso nelle membra e fin dentro l’animo dalla ripugnanza e
dalla disperazione: quell’uomo, quell’eunuco,
sì, poteva nascondersi dietro i bei riccioli lasciati cadere sulle tempie, ma
la voce, quella vocetta stridula e fastidiosa l’avrebbe comunque tradito,
quella serpe consigliere d’un ragazzetto2 che giocava a fare il
sovrano, quell’essere infido stava mostrando a Cesare l’anello di Pompeo.
Il condottiero prese l’oggetto dalle mani di Potino
e lo osservò in silenzio, mentre la luce mutava in fiamma la spada che il leone
stringeva fra le zampe. Alzò gli occhi e Romanus
non si stupì nel vederli colmi di lacrime1.
-Lascia che sia Roma a rispondere- sibilò Cesare.
Romanus comprese l’ordine: si avvicinò a
Potino con passi lenti, misurati, lasciando scorrere lo sguardo dai riccioli
neri alla piega del collo, dalle braccia lucide d’olio e gioielli alla veste
greca, dal bacino alle gambe ben modellate. Quando gli fu davanti, gli concesse
un accenno di sorriso, un sollevarsi enigmatico dell’angolo delle labbra,
un’espressione che avrebbe potuto dire qualsiasi cosa e che Potino, a giudicare
dal socchiudersi soddisfatto degli occhi, aveva del tutto frainteso. Alzò la
mano sinistra, posandola delicatamente sulla spalla dell’uomo, senza
dimenticarsi di sfiorarne la piega del collo con le dita, in una carezza
viscida quanto il sibilare del serpente.
Potino commise l’errore che Romanus stava aspettando: chiuse gli occhi.
Afferrò il gladio, uno fischio della lama, un lampo
d’argento, un singulto strozzato, l’urlo delle suonatrici, la veste che si
tingeva di rosso, l’arma affondata nel ventre.
Romanus sorrise di nuovo, un ghigno
inequivocabile, ed estrasse il gladio con un gesto deciso; Potino boccheggiò,
le labbra sporche di sangue e saliva, gli occhi sgranati, traballò incerto sulle
gambe, cadde in ginocchio e si accasciò a terra senza vita3.
Il Faraone gemette, alzandosi di scatto dal trono e
facendo per scendere da esso e raggiungere Potino, ma il giovane accanto a lui
tese il braccio, intimandogli di fermarsi.
Un gesto che Romanus,
intento a pulire la lama del gladio tra le pieghe della veste dell’eunuco, era
riuscito a cogliere con la coda dell’occhio. E che non l’aveva lasciato
indifferente.
***
Poco tempo dopo arrivò l’ordine perentorio di Cesare
di presentarsi al suo cospetto.
***
-Non intendo
presenziare- ringhiò Ammone, fissando con disprezzo Potino, steso su una
stuoia, con una servetta intenta a massaggiargli le spalle con oli e profumi
tra i più costosi d’Egitto.
A riempire quel
silenzio c’era solo il crocchiare delle palme del giardino e il frangersi delle
creste della preziosa vasca a forma di mezzaluna; Potino, appena uscito
dall’acqua, si rilassava sotto le dita esperte della serva e Ammone non poteva
fare a meno di odiarlo, di detestare la sua stupidità se credeva davvero di
poter cancellare il sangue di Pompeo immergendosi in profumi e oli e vezzi e
massaggi.
L’uomo alzò il
viso, rivolgendogli un ghigno di sfida
-Non puoi
sottrarti, Egitto-
-Io non ho nulla a
che fare con l’assassinio di Pompeo-
Potino rise e
Ammone dovette trattenersi dal stringergli le mani attorno al collo fino a sentirne
l’ultimo respiro sciogliersi fra le dita.
-Tutto ciò che il
Faraone compie ha a che fare con te, Egitto-
-Tu non..non ho
ordinato io la morte di Pompeo!-
-Ma è per la tua
salvezza che quell’uomo è stato ucciso-
-Non voglio che la
mia vita fiorisca dal sangue!-
-Troppo tardi,
Egitto- sibilò l’uomo, socchiudendo gli occhi –Sei nato dal sangue, dal sangue
stai fiorendo e nel sangue verrai ucciso-
Il giovane
indietreggiò, spaventato da quelle parole così terribilmente vere. Ma da che
sangue, da che sangue sarebbe mai potuto nascere? Lui…era figlio della Madre e
di Nicoforo, era nato dalla loro unione, benedetta da Amon, la divinità che gli
aveva concesso il suo nome! Non vi era stato sangue, non nella sua nascita..no,
non..
-Dunque, che tu lo
voglia o no, Egitto, presenzierai all’arrivo di Caio Giulio Cesare e gli
mostrerai la testa mozzata..-
-Mai!- gridò
Ammone, facendo sobbalzare la serva che stava massaggiando la schiena di Potino
–Non presenterò a Roma tale scempio!-
-Devi farlo-
Un ordine. Un ordine
cui il giovane non avrebbe mai obbedito.
-Su una cosa hai
ragione, Potino- le labbra di Ammone si sollevarono in un ghigno appena
accennato –Io sono l’Egitto. E non puoi dominare l’Egitto a tuo piacere, non
come fai col Faraone, fuori e dentro lo lenzuola. O, almeno..- l’espressione si
fece malvagia –Fra le lenzuola in senso piuttosto figurato, considerando che lì
è il Faraone a dominare te e non il contrario, a causa della tua…mancanza-
Gli occhi di Potino
vennero avvolti dall’ira; si alzò in piedi di scatto e la serva cadde bocconi
per il gesto improvviso. Il telo che copriva i fianchi dell’uomo cadde,
rivelando il petto accaldato e furente, il collo arrossato dalla vergogna e la
sua miserabile condizione di eunuco.
Ammone gli si
avvicinò, piegò la testa di lato e lo colpì al viso con un pugno; Potino
retrocedette più per la sorpresa che per la potenza effettiva e rimase
immobile, gli occhi sgranati e il labbro spaccato.
-Ricordati chi sei,
Potino- il giovane si allontanò, incurante degli insulti che l’uomo stava
sibilando a mezza voce –Ricordati qual è il tuo posto-
Ammone alzò il viso, fino a quel momento affondato
tra le dita, e si mise ad osservare la bella Cleopatra mentre le sue serve,
Iras e Carmiana, l’aiutavano a prepararsi.
Il giovane, seduto sulla stuoia rialzata della
donna, non seppe dirsi per quale motivo avesse scelto Cleopatra, perché non
fosse rimasto col Faraone a piangere la morte di Potino. Era qualcosa che
andava al di là dell’odio personale verso Tolomeo e il suo amante: non sapeva
spiegarsi, era come avere fugaci visioni del futuro, immagini indistinte, versi
improvvisati che non rimanevano nella memoria, rifiutavano la comprensione, ma
erano impressi a fuoco nell’animo e nella mente, e lì rimanevano, uguali ad
insetti fastidiosi, al pungolo che fa avanzare una giovenca recalcitrante.
Sapeva che non avrebbe potuto scegliere altri che
Cleopatra: l’era di Tolomeo XIII si era conclusa nel momento in cui Potino era
crollato a terra, sporcandosi di sangue e saliva i bei riccioli neri.
Quando aveva alzato il braccio, quando aveva
impedito al Faraone di soccorrere il suo amante non l’aveva fatto per vendetta
nei suoi confronti e nemmeno in quelli dell’eunuco. Solo..sapeva che era la
cosa giusta da fare.
Quel gesto aveva racchiusi in sé talmente tanti
significati che persino Ammone, che ben l’aveva compiuto, faticava a trovare:
ciò che lui che provava come Ammone Tolomeo si mescolava e perdeva importanza
dinanzi a ciò che doveva essere fatto per lui, Regno d’Egitto.
Forse fu per quel motivo che si attardò a fissare
Cleopatra, il corpo esile fasciato in un abito candido, stretto in vita da una
cintura tempestata di lapislazzuli; un ricamo di henné si stendeva languido
dalla caviglia fino alle ginocchia e petali scuri sbocciavano dai capezzoli
scintillanti di polvere d’oro, e da lì allungavano gli steli e le foglie
stringendo i seni e il collo appesantito da un gioiello di turchesi, granato e
malachite.
Iras e Carmiana le avevano fatto indossare una
parrucca tintinnante di perle vetrose dai mille riflessi, sormontata non dalla
spoglia dell’avvoltoio, simbolo di regalità, ma da un cono di grasso odoroso,
che, sciogliendosi, avrebbe posato sulla donna un profumo incantevole e
prezioso.
Da ultimo, le serve avevano speso molto tempo nel
truccarle gli occhi, di modo che fossero ancora più magnetici e profondi: il
pigmento nero del kohl era sfumato d’oro e la linea che dalla palpebra le
arrivava fino alle tempia la faceva rassomigliare alla Dea Iside dalle ali
spiegate, alla Dea Maga dalle parole che incantano e incatenano. Nemmeno le
sopracciglia erano state tralasciate, anzi, erano state scurite e la piega così
creata donava al volto di Cleopatra un’espressione soffusa tra il mistero e la
malizia.
-Perché ancora non mi hai accusato di tradimento nei
confronti di mio fratello?- chiese la donna e la sua pareva semplice curiosità
–Perché non hai ancora detto nulla per farmi retrocedere dal mio proposito?-
Ammone fissò lo sguardo in quello di Cleopatra, lei,
l’unica della Dinastia Tolomea con cui sua Madre si fermasse a parlare. Lei che
conosceva la lingua degli Antichi, parole e simboli che nemmeno Ammone era in
grado di leggere o parlare. Lei che era la via di contatto tra lui e sua Madre,
tra l’Antico ed il Nuovo. Lei che non era Passaggio, ma Futuro.
Il giovane si mise in piedi e le si avvicinò; con
lentezza le prese il volto fra le mani e le sfiorò la fronte con le labbra.
Iras e Carmiana si trattennero a stento
dall’emettere un gridolino sorpreso.
Con quel gesto Ammone Tolomeo, Regno d’Egitto, aveva
appena consacrato Cleopatra VII, figlia di Tolomeo XII l’Aulete, come sua
Regina.
***
Fischiavano gli anelli del sistro.
Nel silenzio del Tempio di Hathor4, Madre Egitto danzava sotto la statua della Dea,
tenendo alto lo strumento, col capo gettato all’indietro e il viso che a tratti
appariva e scompariva tra le pieghe biancastre dell’incenso.
Era sola, danzava e pregava nel buio e nel silenzio.
-Madre..-
La donna cadde bocconi a terra, prostrandosi ai
piedi di Hathor fino a quando Ammone
non la prese per le spalle e l’aiutò a rimettersi in piedi.
Madre Egitto fissò per alcuni istanti il volto del
figlio e un sorriso le sorvolò le labbra pallide; gli carezzò una guancia con
la punta delle dita, sfiorandogli le tempie e posando la mano sulla sua spalla.
Il giovane la strinse a sé, circondandole la vita
con le braccia e affondando il viso fra i suoi capelli; la Madre sfiorò i
riccioli del figlio con una mano, mentre con l’altra si aggrappava alla sua
veste, in un pallido tentativo di trattenerlo a sé.
-Ho scelto, Madre- sussurrò Ammone, aumentando la
stretta –Ho scelto Cleopatra-
-Così sia- rispose la donna, ricordando la missiva
di Caio Giulio Cesare, il volto cinereo del Faraone, lo sguardo della
co-reggente che brillava nell’ombra della Sala –Che gli Dei ti benedicano,
figlio mio-
-Non mi interessa la loro benedizione, Madre- la
voce del giovane era rotta dal pianto –Mi basta unicamente la vostra-
Madre Egitto allontanò gentilmente il figlio da sé e
lo guardò per alcuni istanti: ne osservò il viso, i capelli d’un biondo cenere
che gli ricadevano lunghi sino alle spalle, la fronte ampia, le spalle, le
braccia magre, le mani da copista, le labbra seriche ed infine gli occhi,
quegli occhi che erano la prova tangibile del suo legame con Nicoforo di Pella5.
Le iridi di diverso colore, l’una d’un intenso azzurro e l’altra nera come il
ventre stellato di Nut6.
Erano le stesse del defunto Alessandro Magno: chiunque,
violando la Sacra Tomba7 del grande condottiero, ne avesse aperto a
forza le palpebre non avrebbe faticato a riconoscervi gli occhi di suo figlio.
Lui, Ammone Tolomeo, l’ultimo discendente ancora
libero tra i Regni smembrati dell’Antico Impero..
-Madre..?- domandò il giovane, aggrottando le
sopracciglia.
La donna gli sorrise, gli prese il volto con
entrambi le mani e gli sfiorò la fronte con le labbra.
-Hai la mia benedizione, figlio mio..-
Ammone le strinse le mani e le baciò, poi si
allontanò veloce dal Tempio, sparendo nel chiarore delle vie al crepuscolo.
Una lacrima rigò le guance di Madre Egitto,
tracciandovi una linea nera come le membra tenebrose di Seth.
-Di ankh Ra mi jet8-
pregò, alzando
gli occhi verso Atum9 che
bruciava all’orizzonte, cogliendo negli ultimi squarci di luce la Barca del
Sole che si inabissava, pronta ad affrontare il lungo viaggio verso la
rinascita10 –Che abbia vita come Ra, in eterno-
***
Romanus reclinò annoiato il capo, facendo notare a Cesare quanto
l’incontro con Tolomeo l’avesse reso nervoso.
-Deduco, Romanus-
osservò il condottiero, scoccandogli una occhiata in tralice –Che Roma non
accetta l’alleanza con Tolomeo-
-Con quel ragazzino?- ghignò l’altro –Preferirei
piuttosto avere la compagnia di Marco Tullio Cicerone per tutti i giorni e
tutte le notti da qui fino alla mia caduta!-
Cesare rise, ma Romanus
notò immediatamente come la sua fosse una risata priva di qualsivoglia
allegria, un riflesso incondizionato e freddo, manchevole d’un reale
divertimento. Doveva essere ancora forte, nel cuore e nella mente del
condottiero, l’immagine dissacrante della testa mozzata di Pompeo. Romanus lo avvertiva e tutto il dolore
dell’uomo gli gravava sulle spalle e gli gelava l’animo.
-Non possiamo deporre Tolomeo XIII, non così
d’improvviso- mormorò Cesare –Il popolo si rivolterebbe contro di noi-
-E dunque cosa intendi fare?- domandò Romanus prestando una maggior attenzione
alle parole dell’altro –Chi mettere al suo posto?-
Gli occhi del condottiero guizzavano da una parte
all’altra della stanza, due insetti scuri che ronzavano senza sosta alla
ricerca di un posto sicuro su cui posarsi; le labbra erano tormentate dai denti
e le dita tamburellavano ritmicamente contro le ginocchia, una, due, tre,
quattro volte, fino a perdere il conto.
-Fatemi passare! Fatemi passare!- gridò una voce
fuori della stanza.
Romanus si alzò dalla sedia e portò la
mano alla cintola, pronto ad estrarre il gladio; la porta si aprì, rivelando la
figura curva di un uomo vestito con abiti egiziani: sulle spalle cotte dal sole
portava un grosso tappeto, stretto da una cinghia di pelle, e le ginocchia
tremavano, non più in grado di sostenere il peso.
-Chiudete le porte- ordinò Cesare –E tu- disse,
rivolgendosi al nuovo arrivato –Posa quel tappeto-
L’uomo annuì, passandosi una mano sulla fronte sudata
e poggiando il fardello sul pavimento. Fardello che prese immediatamente a
muoversi, costringendo Romanus ad
estrarre il gladio e Cesare a fare lo stesso con la lama che teneva alla
cintola.
Lo sconosciuto, nel vedere il gesto di entrambi,
alzò le mani
-No, miei signori!- gridò –Lasciate che vi spieghi!
Lasciate che vi mostri..- e detto
questo corse con le dita a sciogliere il nodo della cinghia.
Si udì un sospiro, uno sbuffo e il tappeto si
srotolò ai loro piedi, e tra le ricche trame, tra i colori accesi, sbocciò
l’esile figura della co-reggente, vestita come una Regina. L’uomo chinò il
capo, allontanandosi e chiudendosi le grandi porte alle spalle.
Romanus indietreggiò, osservando rapito
la donna mentre si levava in piedi, in un lampeggiare d’oro e d’azzurro, con la
veste candida che le scivolava piano lungo le gambe, il petto nudo che si
sollevava rapido e ansante, il viso bronzeo tinto d’un lieve rossore.
Non era
bella, così minuta, con quel naso dritto, le ossa spigolose e la vita resa
ancora più stretta dal cinturone di pietre preziose che indossava.
Non era bella, questo era certo, ma stupiva. E a Romanus non servì guardare in direzione di Cesare per capire quanto
questi fosse rimasto incantato dalla donna; e lo stupore crebbe quando la
co-reggente si rivolse al condottiero in un latino preciso e quasi privo delle
inflessioni gutturali della koinè.
-Caio Giulio
Cesare, figlio d’Ascanio, discendente d’Enea, dono degli dei agli uomini, vengo
umile a te per chiedere aiuto. La spada del Faraone pende sopra di me, che sono
sua sorella di sangue, figlia dello stesso padre- chinò il capo e le ciocche nere
scivolarono sulle spalle aguzze –Da sola
non posso certo affrontare il figlio di Horus. Colui nelle cui vene scorre il
sangue divino di Venere mi concederà il suo aiuto? E Roma con lui?-
E quando la donna sollevò i grandi occhi scuri su
Cesare Romanus capì che la decisione
era già stata presa.
***
Ammone si tormentava le mani, incapace di rimanere
fermo, il corpo teso per l’ansia ed il terrore.
Sentiva onde di emozioni contrastanti che si
sollevavano, mugghiavano, crollavano con gran scroscio l’una sull’altra, senza
che nessuna riuscisse a prevalere. Temeva di aver preso la decisione sbagliata,
ma non aveva visto altra scelta: schierandosi con Cleopatra o rimanendo fedele
al Faraone l’alleanza con Roma era inevitabile.
Si sentì un vile, un traditore.
I suoi fratelli erano stati schiacciati dal giogo
romano e lui andava incontro a Roma spontaneamente! Che avrebbe detto il
piccolo Polinice, se avesse avuto ancora la forza di parlare col ventre
squarciato e la lingua mozzata? Che avrebbe fatto il forte Seleuco, dalla
schiena spezzata, umiliato nella violenza?
E se si fosse ridotto come Eumenide? La scrofa
Eumenide che puzzava di capra e si chinava lieta al cospetto di Roma! Avrebbe
fatto la sua stessa fine? Ad implorare uno sguardo di Roma, a chiederne un
respiro appena, felice di concedergli anima e corpo?
Mai! Mai!
No, era un folle! Non avrebbe mai dovuto seguire
Apollodoro fino alle stanze di Cesare! Oh, perché, perché aveva seguito
Cleopatra?
Decise di lasciarsi il padiglione del Romano alle
spalle ed era già lontano nel lungo colonnato quando una voce lo raggiunse, una
voce sibilante, cadente.
-Ille mi par
esse deo videtur…11-
Ammone Tolomeo si voltò: lo stava raggiungendo un
uomo, la cui figura dapprima vestita d’argento lunare, veniva inghiottita dalle
zone d’ombra del colonnato, per poi ricomparire, più vicino, col mantello di
Selene drappeggiato sulle spalle.
Il giovane ci mise più del dovuto a riconoscere il
Romano oramai a pochi passi, ma quando vi riuscì, quando gli tornò alla mente
l’ultimo, gorgogliante respiro di Potino, avvertì una fiamma lambirgli la bocca
dello stomaco e cancellare, anche solo per qualche istante, la volontà di
Cleopatra.
Dinanzi a lui, col viso piegato e un ghigno a
sollevargli le labbra, le braccia incrociate al petto e il mantello di porpora
che gli cadeva poco oltre le ginocchia, stava l’assassino di Potino. Puzzava di
sangue e non solo di quello dell’eunuco: riusciva a percepire l’odore
crepitante della pergamena, della terra di Magnesia, della polvere di Pidna e
di dieci, cento, mille altre genti che avevano macchiato di scarlatto il filo
della lama che portava alla cintola.
Davanti a lui stava l’assassino del piccolo Polinice,
del forte Seleuco, il padrone della bella Eumenide.
Davanti a lui stava Roma.
E Ammone Tolomeo si pentì amaramente di non avere
con sé una spada con cui tagliargli la gola.
{~***~}
- 1La testa mozzata, il
servo, l’anello e il pianto di Cesare ci vengono raccontati da Plutarco.
- 2Tolomeo XIII era
ancora “minorenne”
- 3Mi sono concessa una
licenza. Potino viene comunque giustiziato per ordine di Cesare, ma non sul
posto.
- 4Dea dal volto di
giovenca, Signora del Turchese, della Terra di Punt e dell’Amore Spirituale
- 5Alessandro Magno
aveva effettivamente un occhio azzurro e uno nero/marrone
- 6Dea della Volta del
Cielo
- 7Si dice che la tomba
di Alessandro si trovasse nel tempio di Ammone [Diodoro Siculo] e che Augusto,
una volta conquistato l’Egitto, fosse andato a visitarla.
- 8Formula rituale
riportata in “Il Segreto dei Geroglifici”, di Christian Jacq, Piemme Pocket
- 9Forma di Ra al
tramonto
- 10Gli Egizi credevano
che Ra, dopo il tramonto, dovesse affrontare un percorso a dodici stazioni nel
Mondo Sotterraneo e sconfiggere il Serpente Apophis prima di poter sorgere di
nuovo. E questa battaglia si svolgeva ogni giorno.
- 11Catullo, Carme 51.
Calco del frammento 31 di Saffo.
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 [48 a.C.] ***
C3
Uhm. Questo capitolo non mi garba come vorrei. Ma è
un capitolo di passaggio ed è necessario al proseguimento della storia. Vi
prego di perdonarmi per la bassa qualità
{ Capitolo 3
~Per Diana e per Ares
-...Ille, si fas est, superare divos-
Romanus si fermò a pochi passi dal
giovane che gli si trovava di fronte: a differenza di quando l’aveva visto per
la prima volta, i suoi occhi non era più specchi d’acqua gelida, ma fiamme,
fiamme d’odio che sfrigolavano nell’iride azzurra e in quella nera, pericolosa
e lucente, facendo dei suoi occhi lo sguardo sibillino del cobra.
E proprio un serpente gli ricordava in quel momento,
col corpo teso, il collo inarcato all’indietro e le labbra tirate sul volto
trasfigurato dalla rabbia.
Sembrava uno di quei cobra che i saltimbanchi
d’Alessandria facevano danzare per le vie di Roma al suono cadente d’un flauto:
il loro corpo sinuoso, rinchiuso in scaglie dure quanto eleganti, e la gola che
si gonfiava al sibilare della lingua biforcuta, celavano zanne impregnate di
veleno, nascondevano agli occhi dell’incauto un destino orribile. Romanus
non poté fare a meno chiedersi se il giovane fosse altrettanto pericoloso e
mortale.
-Dunque gli dei camminano davvero al fianco dei
mortali, in terra d’Egitto- commentò con accenno di sorriso –E io che non volevo credere a chi me lo
raccontava. Ora ho finalmente scoperto la causa della così veloce diffusione
del culto di Iside ai tempi di Silla1-
Nessuna risposta. Solo il pulsare iroso della vena
del collo. Solo il tendersi spasmodico delle dita. Aperte, chiuse, chiuse,
aperte, aperte, chiuse..
-Vuoi uccidermi?- Romanus soppesò bene le parole, scandendole il più possibile e
lasciandole scivolare sulle labbra con studiata lentezza.
L’altro si tese ancora, socchiudendo le palpebre e
digrignando i denti
-Potessi- rispose con un ringhio –Potessi lo farei
ben volentieri-
-Il Regno d’Egitto, presumo- continuò allora Romanus, chinando appena il capo ed
indirizzandogli un sorriso cortese.
-L’assassino di Polinice, per quanto posso
congetturare-
Un cobra. Esattamente come un cobra.
-E non solo- continuò Egitto, con voce velenosa e
sibilante –Lo stupratore di Seleuco. Il padrone della cagna Eumenide. Tutto in
te sa di Pidna, Magnesia e capra-
Romanus gettò indietro la testa,
ridendo.
-Ah! Dunque la mia fama mi ha preceduto!-
-Volano veloci le gesta del Figlio della Lupa. Anzi,
del Figlio della Cagna-
Fu questione di un attimo: Romanus si gettò sull’altro con un ringhio, afferrandogli i polsi e
costringendolo contro la parete, le mani ben schiacciate lungo i fianchi.
Gli occhi d’Egitto fremettero e Romanus si prese tutto il tempo di osservare la sua paura
baluginare di bianco dietro l’iride più chiara, inghiottendo il nero
dell’altra, ma non diminuì la presa. Continuò a stringere le dita attorno ai polsi,
torcendone la pelle fino a udire le ossa scricchiolare e gemere sotto i
polpastrelli; poteva sentire i muscoli dell’altro sussultare, il respiro che
scalpitava violento nel petto, il battito accelerato del cuore e il fiato che
usciva crepitando dalle labbra socchiuse.
-Ricorda bene una cosa, Egitto- mormorò, avvicinando
il viso a quello di lui fino ad avvertire i singulti freddi del suo respiro
lambirgli le labbra; la vena del collo pulsava, impazzita, e Romanus alzò gli occhi, da lì fino al
viso terreo, agli occhi sgranati, alle pupille dilatate e tremanti –Che tu lo
voglia o no, la nostra alleanza è decisa. Puoi provare a combattere, a
piangere, a battere i piedi come un bambino, ma non hai scelta. Lo senti anche tu, non è vero?- gli lasciò
andare il polso destro, per sfiorarne il dorso della mano –Il patto che Caio
Giulio Cesare e la tua co-reggente stanno siglando- fece scorrere le dita lungo
il suo braccio e le affondò tra i capelli biondi –Non è un legame che si
spezzerà tanto facilmente-
Sotto di lui, Egitto non osava nemmeno muoversi:
continuava a fissarlo con quegli occhi pieni di terrore, senza pronunciare
parola alcuna, senza gemere, quasi senza respirare.
-Polince..e Seleuco- mormorò al suo orecchio –Che
scelta avevo? Loro mi sfidarono e io vinsi. Ma tu sei fortunato- gli lasciò
andare anche l’altro polso e gli prese il viso fra le mani –Tra di noi vige la
pace, esiste un’alleanza. Vedi di non tradire la mia fiducia-
Detto questo, Romanus
si allontanò. Udì solamente il corpo d’Egitto scivolare contro la parete, poi i
suoi conati di vomito. Sogghignò e sparì nel nero della notte.
***
La bambina gettò la testa all’indietro, ridendo
felice mentre Ammone le prendeva le manine e la guidava nelle danze.
I corpi nudi delle ballerine lampeggiavano di bronzo
dietro le colonne, le dita pizzicate di polvere d’oro che scintillavano
languide nell’aria tremula delle lucerne, la schiena che si inarcava fino a
terra, le trecce nere delle parrucche aperte a ventaglio dietro le nuche.
Le auletridi2 suonavano facendo
ondeggiare le teste tintinnanti di perle, le guance arrossate dal vino e dallo
strumento, le mani che si muovevano veloci sul flauto, carezzandolo con
sapienza e maestria; ad accompagnare il suono acuto dell’aulos3 c’erano i passi cadenzati degli invitati al
Banchetto, i loro piedi che cadevano risonanti sul pavimento prezioso, dando
l’impressione di essere un unico, grande cuore pulsante.
Servi truccati e profumati da principi servivano
cacciagione, datteri, pesci e coppe di vino, sempre vuote, sempre piene, sempre
riempite fino all’orlo; risate e cicaleggio, dita che pizzicavano le cosce sode
d’una servetta, promesse e sussurri, danze ed evoluzioni, il profumo intenso
dell’incenso che toglieva il respiro, la bellezza della nuova Regina4
che toglieva il fiato.
Il giro di danza finì e la bambina aprì le braccia
con un risolino; Ammone si chinò e la strinse a sé, allontanandosi mentre le
ballerine si riunivano al centro della Sala, pronte a dare un nuovo assaggio
della propria bravura.
Il giovane si sedette ad un tavolo poco distante dal
trono del Faraone, la piccola sulle
ginocchia.
Si sentiva accaldato oltre ogni limite sopportabile,
la testa ronzava e girava, tutto lo stordimento che aveva preso il popolo
d’Egitto quella sera di festa si era riversato su di lui alla stregua del vino
nelle coppe di molti dignitari.
L’euforia gli correva nelle vene, arrampicandosi
fino al cuore e lì sibilando e crepitando come il fuoco nascosto dalle ceneri,
prima di levarsi in fiammate improvvise. Il volto indispettito di Cleopatra e
la piega addolorata delle labbra di Tolomeo non erano che ombre cui Ammone non
voleva dare alcuna importanza.
Voleva solo urlare, danzare, cantare, bere,
dimenticare ogni istante che non fosse quello presente, in un intorpidimento
dei sensi talmente piacevole da star male.
Reclinò il capo su una spalla, cogliendo con lo
sguardo la figura di Cesare: il condottiero stava intrattenendo una
discussione, rigorosamente in latino,
con Cleopatra, facendo roteare il polso sinistro e sorbendo della birra ogni
qualvolta finiva di parlare e lasciava le redini del discorso alla donna. Gli
occhi di Ammone si spostarono al di sopra del naso aquilino del romano, fino a
scorgere la figura in ombra di Roma.
Dacché Cleopatra e Cesare avevano stretto la loro
alleanza, dentro e fuori il talamo, Ammone aveva cercato in ogni modo di
evitare un altro spiacevole incontro con Roma, trovando rifugio all’interno
della Biblioteca e trascorrendo le proprie giornate a catalogare i papiri e
ricontrollare gli studi di Zenodoto di Efeso5, confrontando ogni
verso da lui atetizzato con quelli originali.
Entrava al Museo quando Selene scioglieva le briglie
ai cavalli della Notte ed Elio li aggiogava al proprio carro, fino a vedere
l’ultima ciocca scarlatta della loro criniera svanire oltre la linea
dell’orizzonte.
Ma in quel momento, nella Sala del Trono immersa nel
vociare e nel fuoco delle torce, sentiva gli occhi di Roma fissi nei suoi. Uno
sguardo famelico, lo stesso della lupa da cui si diceva fosse stato allevato.
Ammone carezzò la testa della bambina e le sussurrò
qualcosa all’orecchio; quella sorrise e scese dalle sue ginocchia, sgambettando
verso il padre, uno degli ambasciatori di Nubia, intento a conversare con
alcuni esponenti dell’alta aristocrazia egiziana.
Il giovane si alzò e rivolse un inchino al Faraone,
che lo degnò appena di un’occhiata prima di tornare a bere dalla sua coppa
intarsiata. Cleopatra seguitava a parlare con Cesare e Ammone decise di non
disturbarla.
Si avviò silenziosamente fuori dalla Sala,
scivolando tra i corpi sudati degli schiavi e i piatti ricchi di carne; una
delle auletridi, dagli occhi d’un nero intenso e le spalle aguzze, alzò lo
sguardo nella sua direzione. Il giovane sorrise, le si inginocchiò accanto le
prese una mano fra le sue, sfiorandole le labbra e sussurrandole all’orecchio di
raggiungerlo nelle sue stanze. La suonatrice di aulos arrossì, ma non abbassò lo sguardo: annuì, lasciando le dita
di Ammone e posando le labbra sullo strumento.
Ancora una volta, egli sentì lo sguardo di Roma
azzannarlo famelico alle spalle. Serrò la mascella e strinse i pugni, evitando
accuratamente di far trapelare il proprio disagio e il proprio disgusto.
Cleopatra e Cesare potevano siglare tutte le
alleanze possibili, segrete o alla luce del sole, ma c’era una parte cospicua
del popolo d’Egitto che ancora non si fidava di quei guerrieri dalle calzature
chiodate e dagli occhi truci.
E tutte quelle voci, quei sussurri spaventati che si
rincorrevano per le strade non solo di Alessandria, ma anche di Tebe, di Menfi,di
Eliopoli, persino fra le bianche rovine di Akhetaton6,
dove i signori del deserto, predatori di tombe, invisi a dei e uomini,
banchettavano con gli spiriti di quella valle maledetta, tutte quelle voci gli
pulsavano nelle orecchie, coprendo il suono dei flauti e le risa degli ospiti.
Doveva uscire, doveva uscire o sarebbe impazzito.
Ammone lasciò la Sala, respirando a pieni polmoni
l’aria fresca della sera. Rimase immobile per alcun istanti, osservando le luci
tremule delle fiaccole stendere un tappeto sanguigno ai suoi piedi, srotolarsi
lungo il colonnato, poggiarsi alle balaustra sopraelevata e rovesciarsi su
Alessandria con un silenzioso fragore. A quella vista, il cuore di Egitto si
gelò.
Quel fiume di sangue su cui stava poggiando i
piedi..! Un segno degli dei, forse?
Boccheggiò, portandosi una mano al petto e
stringendo con forza la stoffa del chitoniskos.
Che fosse..?
Come narrava Eschilo, quando la sua perfida
Clitemnestra nata dal ventre di una cagna guidava i passi del grande Agamennone
su di un tappeto purpureo, annunciandone la rovina?7
Il giovane si portò una mano alla fronte. Il
terreno, sotto di lui, prese ad ondeggiare e la vista divenne scura, solo il
rosso delle fiamme continuava ad ardere nelle tenebre in cui stava scivolando.
Solo quel colore intenso, liquido, caldo e metallico che già avvertiva mentre
gli scorreva tra le dita..
-Non immaginavo che tale potesse essere la forza del
popolo d’Egitto-
La voce, tra il canzonatorio e lo stupito, riuscì a
sottrarre Ammone dall’oscurità di cui era preda.
-Come..?- chiese, la bocca riarsa, alzando gli
occhi.
Roma inarcò un sopracciglio, giocherellando con la
mela che teneva fra le dita callose.
-L’Egitto ha bisogno di aiuto per rialzarsi?-
Solo allora il giovane si accorse di essere in
ginocchio. Lanciò un’occhiata furiosa all’altro e si rimise in piedi,
accasciandosi contro una colonna per non cadere di nuovo a terra.
-Che ci fa qui?- ringhiò, sbattendo più volte le
palpebre, la vista appannata –Non dovresti essere a traviare qualcuna delle
auletridi, Roma?-
-Romanus-
Ammone corrugò la fronte.
-Romanus-
ripeté l’altro con un ghigno –E’ il nome che gli dei scelsero per me. Puoi
usarlo, se è di tuo gusto-
-Perché mai dovrei chiamarti?- ribatté il giovane
–L’Egitto non ha bisogno di aiuto alcuno-
Romanus ridacchiò, lanciando la mela e
riprendendola al volo
-Eri in ginocchio, fino a pochi istanti fa-
-La cosa non dovrebbe interessarti-
-E’ così orgoglioso l’Egitto? Così forte da non
dover chiedere aiuto a chi è disposto a darglielo senza chiedere nulla in
cambio?-
-Non ti riguarda!- esclamò Ammone, stringendo i
pugni –Torna nella Sala, bevi e ubriacati! Ma ritorna alla tua terra domani
stesso!-
Il volto di Romanus
si trasfigurò: lo sguardo si fece ombroso, la piega delle labbra più dura, le
nocche, tale era la stretta attorno al frutto, sbiancarono.
-Basteranno le tue sole forze a sopportare una lotta
intestina?-
-Una..- Ammone si morse il labbro, sfiorandosi il
petto con le dita, proprio all’altezza del cuore; avrebbe voluto rispondere, ma
la voce gli mancò.
Da quando era stato dato l’annuncio delle nozze
ufficiali di Tolomeo con Cleopatra, le fitte erano andate aumentando, soprattutto
quando i suoi occhi incontravano lo sguardo del Faraone o quello della sorella
Arsinoe8. La corte era in fermento, Carmiana ed Iras non
permettevano che bevanda o cibo fosse dato alla loro signora se prima non fosse
stato controllato da uno dei servi più fidi. Lo spettro maledetto di Akhenaton, l’intrigo e l’assassinio
scivolavano come ombre tra i colonnati e la loro voce non era più solo un
flebile sussurro.
-Prendi..!-
Colto alla sprovvista, il giovane venne quasi
colpito sulla fronte dalla mela che l’altro gli aveva appena lanciato; fissò il
frutto, notando che vi erano stati incisi alcuni caratteri greci.
-Io..- mormorò –Per Diana..mi alleerò con Roma?!-
Romanus scoppiò a ridere, gettando la
testa all’indietro e battendo le mani sulle ginocchia.
-Hai giurato sugli dei! Non puoi tradire
l’alleanza!-
-Tu..! Tu…!- ringhiò Ammone, gli occhi fiammeggianti
–Come..! Come hai osato?!-
-Ho solo preso l’ispirazione da un tale Aconzio9-
l’uomo allargò le braccia e ghignò.
Il viso di Egitto si fece di fiamma.
Le nocche bianche attorno alla mela scarlatta.
***
Dacché le dune d’Egitto avevano mostrato il loro
volto agli dei, coronate d’oro, la Madre non aveva mai avuto dubbio alcuno.
Dacché aveva posato la pschent10 sulla testa di Menes11, baciandogli
la fronte e porgendogli una coppa riempita fino all’orlo dall’acqua del Nilo,
non aveva mai pensato che il suo regno avrebbe mai potuto avere una fine.
Era stata una lunga esistenza, la sua. Aveva
conquistato, era stata piegata, era stata costretta in catene dai Signori dei Carri12,
pregando che Nut nascondesse le sue preghiere dietro lo splendore d’una stella
e la portasse fino in Nubia, fino ad Ahmosis,
aveva visto lo splendore di Akhetaton
e la sua caduta, provato nel cuore l’ebbrezza eretica del Sole, aveva tenuto
fra le braccia Tutankhaton, baciato Tutankhamon13 sulla fronte,
ogni sole che era sorto, lei l’aveva osservato tramontare.
L’arrivo di Nicoforo fu l’inizio della fine.
Amon le aveva parlato nella notte,
mentre gemeva sotto le carezze dell’Impero Macedone, intrecciando i suoi respiri
crepitanti di deserto a quel fiato sibilante di lame. Non aveva voluto
ascoltare.
Lei, Sovrana della Terra Rossa e della Terra Nera,
schiava degli Hyksos, puttana dei Persiani, lei voleva tornare ad essere Iside, Madre, Maga e Sorella, Maat, la Giustizia, Sekhmet, la Guerra, Hathor,
Casa di Horus, Signora del Sistro. Bramava con tutta se stessa di tornare a
camminare per le vie di Tebe e di Menfi, ammantata di divino e di luce, Somma
Sacerdotessa d’un culto sconosciuto, Amata da Ra e dagli dei tutti.
Come poteva dare ascolto alle parole di Amon? Nicoforo le aveva promesso la
grandezza e lei non voleva, non poteva
credere in alcun modo che fossero solo bugie.
Sciocca, sciocca e vecchia Madre.
Nel fuoco di quell’amplesso sacro aveva consumato se
stessa.
Nell’oscurità di un tempio nascosto nelle viscere
dei Geb14, Madre Egitto
sentì il respiro pesante di Roma soffiare sulle dune del deserto. Le torce che
ancora davano una parvenza di vita alle figure incise nella roccia, quella luce
che scorreva sul torace nudo d’un cacciatore o brillava sull’ankh la divinità offriva al Sovrano,
tremolò appena e si spense.
Madre Egitto cadde in ginocchio.
E pianse.
***
-Acclamata Regina?- gridò Cleopatra, nel silenzio
della Biblioteca -Arsinoe è fuggita! Fuggita, ti dico!-
Ammone sollevò gli occhi dalla mela che teneva fra
le mani, e osservò il volto contratto della donna
-Si è rifugiata presso l’esercito, che l’ha
acclamata sua Regina- ripeté.
Cleopatra si portò le mani al viso, accasciandosi
contro la parete; non un singhiozzo, non un sospiro più profondo e tremulo
degli altri. Rimase così, e il giovane si chiese se stesse cercando di trovare
la forza per ammettere quello che stava succedendo oppure se stesse solo
sperando che i sapienti dipinti sul muro le sussurrassero silenti la soluzione.
Egitto prese lo stilo che aveva abbondato
all’entrata precipitosa della Regina e continuò ad incidere la mela laddove il
suo lavoro si era fermato. A fondo, sempre più a fondo nel cuore del frutto,
scavando in quel bianco fragile e molle, trafiggendo il rosso carminio della
buccia.
Era arrivata, dunque. Come Roma aveva predetto.
La guerra intestina.
Tolomeo XIII e Arsinoe IV si erano alleati contro
Cleopatra VII.
I fratelli bramavano il sangue della sorella.
Ammone sentiva il cuore bruciare e la testa doleva
come avvolta da un fiamme perenni. Lui e il popolo avevano scelto Cleopatra, ma
Tolomeo e l’esercito avevano acclamato Arsinoe.
E lui che non si era chiesto nulla..! Quando
Arsinoe, pochi giorni prima di fuggire, lo aveva raggiunto alla vasca della
Mezzaluna, non aveva sospettato nulla.
La donna gli si era seduta accanto e aveva
cominciato a parlare degli argomenti più svariati, dalla piena al culto di
Serapide, dalla Medea euripidea a quella di Apollonio, dallo splendore del Nilo
ad Hapy, divinità ermafrodita che ne
è fonte.
Il giovane l’aveva ascoltata con piacere, intervenendo
nel discorso di quando in quando, ma le parole presto avevano cominciato a
venire meno e gli occhi di Arsinoe a correre sempre un po’ più spesso ai suoi.
Fino alla domanda. Quella fatidica domanda su cui Ammone non si era interrogato
più del dovuto.
-Cosa, dunque,
Egitto, ti spinse a preferire Cleopatra a me?-
-Dunque, Egitto, cosa ti spinse a preferire me ad
Arsinoe?-
Egli alzò la testa d’improvviso, preso alla
sprovvista dalla voce di Cleopatra. La Regina lo stava fissando senza
espressione, in attesa.
-Parlasti mai
con mia Madre?-
-Parlasti mai con mia Madre?-
La donna corrugò la fronte.
-No. Mai mi è
stato concesso da lei tale onore-
-Molte volte mi è stato fatto questo onore-
-Ecco, dunque- sorrise Ammone, alzandosi –La tua
risposta-
***
“Ecco che da
giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità.
Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del
grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in
essa, per prepararci a non temere l'avvenire”15
Romanus poggiò il mento sulla mano, il
papiro di traverso sulle ginocchia.
Tito Lucrezio Caro16 gli aveva parlato
così spesso di Epicuro, ma lui non aveva mai avuto intenzione di leggere
qualcuno degli scritti del filosofo di Samo.
Eppure, non appena era entrato nella Biblioteca e
aveva sentito l’odore intenso dei papiri avvolgergli, anzi, colpirgli i sensi, come avrebbe detto
Lucrezio parlando dei suoi simulacra17,
subito aveva chiesto che gli venissero mostrati gli scritti di Epicuro.
E sotto il sole che colpiva il Museo, nel silenzio
rotto solo dal vento caldo del deserto, Romanus
sentì il proprio animo distendersi, facendo sua ogni parola che il nativo di
Samo scriveva al tale Meneceo.
-Prendi…!-
Giratosi e colto alla sprovvista, Romanus venne quasi colpito
sulla fronte dalla mela che Egitto, dietro di lui, gli aveva appena lanciato;
fissò il frutto, notando che vi erano stati incisi alcuni caratteri latini.
-Io..- mormorò –Per Ares..combatterò al fianco d’Egitto?-
-Hai giurato sugli dei- rispose il giovane, fissandolo
con sguardo colmo di sfida -Non puoi tradire l’alleanza-
Un ghigno sollevò le labbra di Romanus.
{~***~}
1Silla, Generale e dittatore
romano, vissuto fra 138 a.C. e il 78 a.C. Fu proprio durante questo suo periodo
che si diffuse a Roma il culto misterico di Iside.
2Suonatrici di flauto
3Il flauto
4Dopo l’incontro con Cesare,
Cleopatra venne fatta sposare al fratello e divenne formalmente Regina d’Egitto,
mentre prima era solo co-reggente.
5Zenodoto di Efeso: epistates (Bibliotecario, più o meno)
della Biblioteca di Alessandria: divise l’Iliade e l’Odissea in 24 libri; sulla
base di criteri interni giudicò non autentici molti versi che eliminò del
tutto, oppure lasciò nel testo ponendo accanto ad esso una lineetta
orizzontale, detta obelòs, che stava
ad indicare che quel verso, secondo lui, andava atetizzato (Atetesi, termine
usato da Luciano, letteralmente “Togliere
da un posto”, a privativo + radice –the di Tithemi, collocare) [Si ringrazia quella santa della mia prof di
latino e greco per gli appunti!]
6Akhetaton, oggi Tell-er-Amarna,
era la città che Akhenaton, il Faraone Eretico, aveva costruito nel bel mezzo
del deserto e che era andata incontro alla rovina alla morte del sovrano.
7Dalla tragedia eschilea Agamennone (prima tragedia della
trilogia dell’Orestea): Eschilo ha
sempre dato molta importanza ai simboli e agli oggetti scenici. Il tappeto
rosso su cui Clitemnestra fa camminare il marito Agamennone è annuncio della
morte imminente dell’eroe.
8Sorella di Cleopatra e Tolomeo.
Scappò da Alessandria e si rifugiò presso l’esercito, dove venne acclamata
Regina. Insieme al fratello dichiararono guerra a Cleopatra.
9Elegia di Callimaco, contenuta
nel libro III degli Aitia:
Aconzio, innamorato di Cidippe, durante una festa in onore di Artemide, a Delo,
le lancia una mela, su cui ha inciso la frase “Per Artemide, io sposerò Aconzio”.
Leggendo la frase ad alta voce, seconda la credenza popolare Cidippe si vincola
con giuramento d’amore al ragazzo. Romanus
usa il nome latino della dea Artemide.
10Corona Doppia
11Conosciuto anche col nome di Narmer, sarebbe stato lui ad unificare
Alto e Basso Egitto.
12Popolo nomade che provocò non
pochi problemi agli egizi. La famiglia dei Faraoni dell’epoca fu costretta a
rifugiarsi in Nubia e solo con Ahmosis
si tornò ad una dinastia puramente egizia.
13Si gioca sul fatto che Tutankhaton era un nome ancora legato ad
Akhenaton e alla sua “eresia”, mentre
Tutankhamon rientrava più nei “binari
sacerdotali”. Un ritorno alla normalità da parte del figlio dell’eretico.
14Dio Egizio rappresentante la
Terra
15Lettera a Meneceo, o “Lettera sulla Felicità”. Unico
scritto insieme alla “Lettera a Pitocle” e la “Lettera ad Erodoto” rimastoci di
Epicuro.
16Autore del De Rerum Naturam (Sulla Natura delle Cose), introdusse l’epicureismo
a Roma
17Simulacra
(in greco: èidola) : membrane sottilissime composte
da atomi che si staccano continuamente dagli oggetti e, colpendo i nostri
sensi, danno origine alle sensazioni.
Ringrazio davvero
tanto: claws , Jekkun e KuraCchan,
che continuano a seguire questi insani parti della mia mente malata e traviata
XD
E nel prossimo capitolo..BOTTE!!!!!
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 [48 - 47 a.C.] ***
pac4
Eccomi di ritorno!
Spero che
questo capitolo non vi deluda, ma non sono riuscita a cavare fuori niente di
meglio. Erano secoli che non prendevo più in mano questo scritto e ho dovuto
fare un attimo i conti con i personaggi che vi compaiono. Dovevo un attimo
richiamarli all’ordine!
Bien!
Ringrazio claws e mira kokoro per le loro splendide recensioni. Mi avete fatto davvero
commuovere! Grazie!
Ps: Ho
scritto questo capitolo usando come sottofondo questa (nelle scene non di
battaglia) e questa quando se le davano di santa ragione!
{ Capitolo 4
~Athena Promachos
Dicembre, 48 a.C.
-Atena
Glaucopide..1- mormorò Ammone.
Chinò il capo dinanzi alla statua della dea,
battendo fra loro i polsi2; c’era il silenzio, null’altro che il suo
respiro tremante, le sue parole pronunciate a mezza voce, un sussurro
strisciante solo per la divinità.
I sacerdoti si erano ritirati e a terra scintillava
ancora il sangue della vittima sacrificale; l’incenso tesseva volute odorose nel
buio del tempio, sfiorando il viso della statua e incuneandosi nella bocca
spalancata della Medusa3, nelle guance enfi che ancora parevano
vomitare tremende maledizioni.
-..E’ la mia gente contro cui combatto. Rivolgo la
spada contro me stesso- Ammone lasciò cadere le braccia e l’armatura scintillò
bronzea ad un guizzo delle torce alle pareti –Tu che sei Guerriera, tu che sei Saggezza,
consigliami!-
Non vi fu risposta.
Le labbra di Athena
non si mossero, sollevate nel loro misterioso sorriso; gli occhi non si
animarono, ma rimasero fissi e ciechi sotto l’elmo scarlatto; le dita, sottili
e flessuose sia che impugnassero la lancia o creassero splendide trame sul
telaio, non strinsero il bordo dello scudo.
Il giovane rimase in silenzio, aspettando qualcosa,
qualsiasi segnale potesse venire in suo soccorso.
-E’ ora, figlio mio. La battaglia attende-
Ammone si voltò e la figura della Madre emerse nera
e terribile in contrasto con la luce che proveniva fuori dal tempio.
-Madre..- mormorò Egitto avvicinandosi alla donna
–Non so che fare-
-Combatti, non puoi fare altro. Combatti per la tua
gente-
-Ma anche l’esercito è la mia gente, Madre!-
-Non quella che tu hai scelto- la voce di Madre
Egitto era freddo come il ferro –Tu hai designato Cleopatra come tua Regina. Se
essi la combattono, tu non puoi più proteggerli-
-E’ così, dunque..?- Ammone si guardò le mani e già
sentiva la dita viscide per il sangue che avrebbero versato –Combatterò contro
il mio stesso popolo..-
-Prendi questa-
Gli occhi d’Egitto si tinsero della luce della khepresh, la Corona Blu della Battaglia;
la sollevò alta sopra la testa, così che i raggi del sole brillassero sulle
scaglie ardenti d’azzurro.
-La indossai quando cacciamo i Signori dei Carri da
questa terra e Ahmosis guidava le Due
Terre alla battaglia- Madre Egitto chiuse gli occhi, inspirando a fondo l’aria
gelida del tempio –Ramses stesso la
pose sul mio capo, quando venne il tempo di liberare Qadesh- tese le mani verso il figlio e gli prese i polsi fra le
dita, invitandolo ad abbassare le braccia.
Ammone le rivolse uno sguardo confuso e quando vide
gli occhi della Madre brillare del fuoco di Sekhmet,
capì. Le riconsegnò la Corona Blu
e si inginocchiò davanti a lei, chinando il capo.
-La Potente,
potente nella sua esistenza, lei che l' impurità teme- le parole
risuonarono con clangore delle spade di bronzo -Colei il cui volto è bello, di aspetto straordinario, colei che scaccia
via la tristezza- Egitto rabbrividì nel mentre che le parole della Madre si
facevano buie e pesanti, e la voce le ribolliva nella gola, trasformandosi in
ruggito -Il femminino disco solare,
radiante, rinnovante,il quale illumina la campagna- cadde l’aria, cadde la
sabbia, il silenzio lacerato dagli artigli di una dea antica quanto il tempo -La Signora del cielo, che appare nel suo
santuario- un sibilare e luccicare di zanne. Ammone serrò le palpebre, ma
già sentiva il fiato caldo della Leonessa mordergli il collo -Sekhmet, potente contro i nemici, che ispiri
terrore ai ribelli. La Signora di Iunet, che entra nella sua cappella, roteando
e danzando nel suo tempio!4-
Egitto sentì la gola serrarsi e il respiro chiudersi
nel petto.
***
Romanus, con l’elmo tenuto sottobraccio,
si avvicinò ad Egitto, in piedi e in silenzio dinanzi l’entrata del tempio.
Gli si affiancò, gettando uno sguardo veloce alla
corona di scaglie azzurre che gli sormontava il capo; si soffermò a guardare la
linea scura del Canale che gorgogliava all’orizzonte, sulle case di Alessandria
scintillanti sotto i raggi polverosi del sole e infine sulla torba nera
ammassata oltre le mura.
L’esercito di Tolomeo XIII. L’esercito di Arsinoe.
Attendevano lo scontro, una battaglia non in campo
aperto, ma un incendio che sarebbe divampato in ogni angolo, in ogni strada,
dal Mercato fino al Porto, egiziano contro egiziano, una guerra fratricida di
cui Romanus stesso era stato in
qualche modo l’artefice.
-Ammone
Tolomeo-
Romanus scosse il capo, fissando
incuriosito il giovane.
-Ammone Tolomeo- ripeté Egitto e gli occhi si
tinsero d’ombra e di sangue sotto il riflesso della Corona –Questo è il nome
che gli dei scelsero per me. Puoi usarlo se è di tuo gusto-
Il ghigno di Roma.
-Sia così, allora-
***
Il gatto scivolò fra le ombre, gli occhi verdi
guizzanti tra le alte figure delle Sacerdotesse che tentavano in ogni modo di
acchiapparlo; il felino inarcò la schiena, la coda gonfia e ritta, poi,
ritraendo la testa e mostrando i denti, graffiò la mano di una giovane e scappò
via.
Attraversò il Tempio e uscì alla luce del sole, il
muso alzato verso la donna che lo
sovrastava: arretrò, miagolando piano, lo sguardo tra il diffidente e
l’impaurito; un paio di mani lo presero delicatamente da sotto le zampe
anteriori, e il gatto si acciambellò contro il petto di lei, sfiorandole il
mento con la testa e la punta delle orecchie.
-Sid-Hetepra5-
mormorò la donna con voce roca, e il gatto fece tranquillo le fusa quando sentì
le sue labbra posarsi sulla nuca –E’ tempo che Bastet dimori nell’ombra del
Tempio. Non più il suo miagolio deve risuonare tra le mura di Alessandria..ma
il ruggito della Potente-
Un dardo di luce e Sid-Hetepra soffiò, infastidito e iroso, sferzando l’aria con la
coda nera; i suoi occhi, d’un verde incandescente, si colorarono dell’oro
liquido del sole, tramutandosi nello sguardo affilato di Sekhmet.
***
Ammone si lanciò in avanti, l’ascia ben alta sopra
la testa.
Affondò l’arma nel petto di un soldato e, ignorando
il dolore che gli aveva appena attraversato il cuore, fece perno sul piede
sinistro compiendo una mezza rotazione, e tagliando la gola ad un altro
avversario.
Sentì il sangue gorgogliare in bocca, lo sputò e si
abbassò per evitare la lama di un fedele di Tolomeo, che poi colpì con la testa
dell’ascia; approfittò del fatto che questi si fosse piegato sullo stomaco per
colpirlo alla nuca con la base bronzea. Quando stramazzò al suolo, Ammone lo
colpì alla spina dorsale con un sibilare e scintillare dell’arma insanguinata.
Il cuore pulsava contro le orecchie d’Egitto, ogni
ferita che apriva sul corpo dei nemici era una stilettata che gli trapassava
l’animo da parte a parte: si dava la morte con la stessa crudeltà ed ebbrezza
con cui la donava ai suoi avversari.
Berciò qualche ordine in greco, affinché le truppe
mercenarie continuassero l’assalto, per rivolgersi in lingua natia ai soldati
della propria fazione; corse in avanti, affondando l’ascia nel viso di un
egiziano al servizio di Arsinoe, e staccò di netto il braccio al suo compagno.
Arrivato al carro cobalto e oro, vi si issò:
l’auriga afferrò saldamente le redini, nel mentre che Ammone sostituiva l’ascia
con l’arco e incoccava una freccia. Il dardo brillò d’argento tra le sue dita e
tempo un istante si era già macchiato di scarlatto, trafiggendo l’occhio di un
nemico.
Mentre prendeva una seconda freccia dalla faretra,
Egitto diede un’occhiata sbrigativa alla sua sinistra e vide la figura di Romanus mentre scivolava nero di sangue
tra gli avversari, il gladio splendente tra le dita vischiose e gli occhi che
brillavano da sotto il cimiero scarlatto. Si muoveva con la scioltezza di chi è
avvezzo da tempo alla guerra e ha forgiato il proprio corpo in battaglia, tra i
giavellotti e gli scudi; il suo sguardo, affilato e intessuto d’ombra, era
indurito dalle molte morti e altrettante uccisioni.
Un colpo improvviso sul fianco e Ammone rischiò di
essere sbalzato via dal carro; l’auriga accanto a lui emise un gemito strozzato
accasciandosi sulle redini, e i cavalli dagli alti pennacchi, senza più
controllo, nitrirono terrorizzati, scalpitando imbizzarriti.
Con un ringhio, Egitto abbandonò l’arco, afferrò la
daga che l’auriga portava alla cintola, recise le redini e saltò giù dal carro;
gli animali, ora liberi, si lanciarono nel viale, travolgendo al loro passaggio
avversari e alleati.
Rimanendo accanto al carro, Ammone afferrò l’ascia
con la mano libera e l’alzò sopra la testa, bloccando l’arma di un nemico; fece
leva su di essa, costringendo l’egiziano di Tolomeo ad arretrare, per poi
rompere l’incrocio di lame e affondare la daga nel ventre dell’altro, approfittando
della guardia scoperta.
Egitto, i capelli incollati alla fronte, la mente in
fiamme e il cuore a pezzi, sentì le ginocchia cedere. Sarebbe caduto se non
fosse stato per un paio di mani rudi che lo issarono di nuovo in piedi.
-Non ora, Ammone Tolomeo- gli soffiò nell’orecchio
la voce grave di Romanus –Non cadere
sotto i tuoi stessi colpi-
-..Hn- Ammone strizzò le palpebre e proruppe a
fatica in un grido di battaglia e di orrore.
Schiena contro schiena con Roma, si lanciò contro il
nuovo avversario.
***
Fu un istante.
Le fiamme gli avvilupparono il petto e da lì’
sfrigolarono nella gola, aggrappandosi ai polmoni e riempiendoli di cenere; il
lezzo della pergamena bruciata gli arrivò alle narici con forza tale da farlo
arretrare e cadere a terra.
Si portò una mano al petto, non riuscendo più a
respirare, ansimando e bevendo l’aria a grandi sorsi, la bocca che gli pareva
piena di sabbia incandescente, la lingua pesante e molle sui denti tremanti. Si
trascinò nella polvere, le vie di Alessandria che si liquefacevano ai lati
degli occhi, abbagliati da un incendio sviluppatosi molto, troppo lontano da
lui.
Tese il braccio in cerca di aiuto, qualsiasi aiuto,
senza pensare ai suoi nemici, a Tolomeo dagli occhi neri che non aspettava
altro se non di ridurlo in catene, o ad Arsinoe, scesa in campo abbigliata da
soldato e con la pretesa di sembrare una vera combattente.
Con le dita che si muovevano a scatti, artigliò
l’aria bruciante, alla ricerca di un appiglio reale cui aggrapparsi, ma tutto
quello che vedeva era cenere, era fumo, erano tomi antichi che ardevano e
bruciavano tra le fiamme. L’incendio stava divorando la Biblioteca e lui
sentiva i morsi del fuoco lacerargli la pelle, la carne, le ossa, l’anima..
A nulla serviva scrollare il capo o camminare
bocconi: non era più nel viale, nel mezzo della battaglia, ma nel Museo, coi riflessi delle braci che frantumavano
le acque della fontana; davanti a suoi occhi si srotolavano le figure urlanti
di chi aveva trovato il fuoco a bloccargli la fuga.
Sentiva la propria pelle accartocciarsi sulle ossa e
l’odore della carne bruciata sovrastare il lezzo metallico del sangue. Non
riusciva a camminare, non riusciva a parlare, non riusciva a pensare. Era come chiuso in gabbia e le
sbarre erano le colonne della Biblioteca che si sgretolavano su se stesse e il
cui posto veniva immediatamente preso dalle fiamme dell’incendio.
Si accasciò a terra, lo sguardo perso nell’abisso di
fuoco in cui era caduto il Cuore di Alessandria6.
***
Romanus gettò via l’elmo, prendendosi la
testa tra le mani.
-Non possiamo continuare così, Cesare!- gridò,
alzando uno sguardo furioso verso il console.
Questi non lo guardò in faccia, ma si passò una mano
sul volto ancora incrostato di sale: durante la battaglia che aveva visto le
sue truppe scontrarsi contro quelle di Tolomeo nei pressi del Porto, per non
finire catturato si era dovuto gettare in mare7.
-Ho già mandato dei messaggeri- Cesare si voltò e
fissò senza espressione lo sguardo accusatorio di Roma –Pergamo non ci rifiuterà aiuto-
Romanus lasciò cadere le braccia lungo i
fianchi e reclinò la testa all’indietro, un sorriso incredulo sulle labbra
livide
-Questo- disse, scuotendo il capo –Questo ad Ammone
non piacerà-
***
La luce dei bracieri gorgogliava nelle orbite vuote
di Bes, il Guardiano dei Sogni8.
Ammone fece scorrere le dita lungo il profilo
grottesco del dio, sulle labbra grosse e i denti deformi, sui ciuffi di pietra
che sbocciavano ai lati del cranio schiacciato, fino alle sopracciglia
cespugliose, aggrottate in una espressione che rendeva quella faccia un po’
meno arcigna.
Seduto sulla stuoia rialzata, Egitto teneva la khepresh in grembo; l’armatura era poco
distante, nascosta dal taglio d’ombra che copriva un angolo della stanza.
Ai suoi piedi, in una cesta, giacevano i resti
bruciati di alcune pergamene.
Alessandria. Distrutta. La Biblioteca. Distrutta. Il
suo popolo. Distrutto.
Ammone nascose il viso tra le mani, tra quelle dita
ancora viscide per il sangue della sua stessa gente.
Così dunque, era destinato a finire l’Egitto?
Annegando nel sangue degli egiziani?
Non ora, Ammone
Tolomeo. Non cadere sotto i tuoi stessi colpi.
Le parole di Roma scivolarono nella camera come la
cera che scorreva lungo il profilo della candela: lentamente, ma denso, sempre
più denso, un grumo bianco di voce che continuava a crescere su se stesso.
Egitto rivide il riflesso di Romanus sulle scaglie della Corona Blu, quei suoi occhi attenti e
scrutatori, che mutavano all’infrangersi della luce sul filo del gladio.
Annebbiati dal vino e dal riso un istante e quello immediatamente dopo schegge
d’ossidiana in cui era impossibile scovare una sola traccia di umanità.
Roma era volubile e Ammone non potè fare a meno di
chiedersi se avesse fatto la scelta giusta ad allearsi con lui.
-Egitto..-
La voce lo fece sobbalzare. Si voltò, stringendo al
ventre la khepresh.
-Cleopatra..- mormorò,
incontrandone gli occhi neri –Dovresti riposare-
-Non lascerò che mio fratello ti aggioghi al suo
carro- la figura della donna, disadorna di gioielli, non tremò un solo momento
nel pronunciare quelle parole –Tu non gli appartieni. Non sei mai stato
veramente suo, né lo sarai-
-Parli come se il Regno d’Egitto già t’appartenesse-
e la voce di Ammone era venata di disprezzo –E se l’Egitto decidesse di tornare
dalla parte di tuo fratello?-
A quelle parole, Cleopatra strinse le labbra, ma non
arretrò e nemmeno permise al suo viso di mostrare alcuna emozione.
-Se tale è la decisione del Regno d’Egitto, così
sia- un lampo sferzò lo sguardo della donna –Ma certo non pretendere così
facilmente la mia resa. Se Tolomeo vorrà il mio corpo, allora dovrà strapparlo
dai denti avvelenati di una vipera del deserto-
Ammone assottigliò lo sguardo.
E sorrise.
***
-Ancora con questi dei, Egitto? Non t’hanno insegnato nulla Apollonio e la sua
Afrodite che si pettina i lunghi capelli?9-
-Tu…!- Ammone si voltò di scatto, un rimasuglio di
preghiera ammonticchiato negli occhi e all’angolo della labbra –Che ci fai
qui?-
-La Tyche
ha così voluto- sghignazzò la ragazza, allargando le braccia e inarcando le
sopracciglia sottili e ben curate –Lei, ovviamente, e Roma-
Egitto strinse i denti e serrò la mascella.
L’avrebbe pagata, oh, se l’avrebbe pagata..
***
-Romanus!-
Roma sobbalzò sul triclinio e quando Ammone fece la
sua entrata -ovvero spalancò le porte
della stanza con una foga tale da fare invidia ad Eracle- pensò che persino
le Furie sarebbero fuggite nel vedere la sua faccia inferocita.
L’auletride con cui Romanus si stava piacevolmente intrattenendo si rassettò gli abiti
in fretta, raccogliendo la veste sul petto e coprendosi il seno. Egitto
l’afferrò per il polso e la fece uscire ringhiando qualcosa in egiziano, per
poi rivolgersi a Roma.
Questi si schiarì la gola e si sistemò meglio sul
triclinio
-Mi stavi cercando, Ammone?-
-C..come hai osato fare una cosa simile..?-
-Intendi la suonatrice di flauto?-
-No!- Egitto si coprì la bocca con le mani,
soffocando quella che Roma aveva tutta l’impressione essere una sonora
imprecazione –Non mi importa se il tuo massimo divertimento è circuire le mie
auletridi, cioè, sì, mi importa, ma non è questo il punto!-
Romanus piegò la testa di lato,
ridacchiando
-E allora qual è il problema, Ammone?-
Questi indicò la porta col braccio teso
-Lei! Lei, per Zeus, è il problema!-
-Lei, c..? Eumenide! Finalmente sei arrivata!-
Il Regno di Pergamo, appena entrata, gli sorrise e
chinò il capo, facendo scivolare in avanti una lunga ciocca di capelli ramati;
accanto a lei stava Cratete10,
la pecora che Eumenide non avrebbe mai lasciato indietro, nemmeno per una
guerra civile.
-Ammone non è contento, Romanus- spiegò la ragazza, fissando di sbieco il Regno d’Egitto
–Anche se non ne capisco il motivo-
-Tu e la tua puzza di capra infesterete tutta
Alessandria!- gridò il giovane, il volto paonazzo per l’ira.
-E’ una pecora,
Egitto, capito? Pecora, non capra!-
-Non mi importa! Vattene, ora!-
-Eumenide non se ne andrà- Romanus, che fino a quel momento era rimasto ad osservare divertito
la scena, si alzò dal triclinio –Le truppe di Pergamo ci sono indispensabili-
-Tu lo dici- ribattè Ammone –Non ho bisogno dei
soldati che hanno ucciso Seleuco. Che
hanno aiutato te a compiere tale
nefandezza-
-Sta a me decidere che alleati chiamare in mio soccorso- sottolineò Roma, con un
ghigno ad adombrargli il volto contratto per il fastidio –Dunque, taci-
***
Gennaio
47 a.C.
La battaglia si era spostata in campo aperto.
Le truppe di Ammone, insieme a quello di Roma e
quelle di Pergamo, avevano fatto retrocedere l’esercito di Tolomeo XIII fino
alle sponde del Nilo.
Lì infuriava il clangore delle lame e il sangue
bagnava la terra: rigagnoli scarlatti di egiziani, di greci, di romani, della
gente di Pergamo, si intrecciavano e cadevano come pioggia e con forza di
torrente nelle dimore dell’Ade.
Ammone sentiva la vittoria farsi più vicino ad ogni
nemico che sgozzava con l’ascia, ed ogni avversario sconfitto era un ostacolo
rimosso dal suo vero obiettivo: Tolomeo.
***
17
Gennaio 47 a.C.
-Siamo giunti alla fine, Egitto- sussurrò Tolomeo
con voce arrochita –Uno di noi due deve cadere-
Ammone strinse l’ascia, il pomo della daga che
scintillava nero sopra la guaina scura.
Accanto a loro scrosciavano le acque del Nilo e le
onde si schiantavano e si incrociavano in un turbine bianco di spuma e scaglie
di luce; il sole ardeva sopra il loro capo e l’esercito di Arsinoe era allo
sbando.
-Non mi avrai, Egitto-
-Che ti prenda l’Ade, allora- Ammone piegò le
ginocchia e si diede la spinta in avanti, i sandali che affondavano nella
sabbia del deserto e le ferite sanguinanti e gementi.
-Se io cado, tu cadrai con me- Tolomeo alzò la spada
e bloccò l’impeto del giovane, facendolo arretrare: roteò la lama e tentò un
fendente orizzontale, subito parato dall’ascia di Ammone.
Questi, con un colpo repentino del polso, allontanò
il braccio dell’avversario quel tanto che bastava perché lasciasse il ventre
scoperto; sguainò in fretta la daga e la puntò contro Tolomeo, nel tentativo di
affondarla nel suo stomaco.
Ma l’uomo era pronto e scivolò lateralmente, volendo
prendere Ammone alle spalle; Egitto si voltò abbastanza in fretta per bloccare
il fendente dell’avversario e fare pressione sulla spada per costringerlo a
piegarsi.
Quando vide che Tolomeo era oramai del tutto
sbilanciato, il giovane ruppe il contatto: l’avversario crollò con la schiena a
terra, alla sua completa mercé.
-L’Egitto non cadrà a causa tua- il Regno alzò
l’ascia –Né con la tua vita, né con la tua morte-
Egitto non colse il movimento di Tolomeo. Era troppo
tardi quando si accorse della sua mano piena di sabbia.
Ammone emise un gemito e l’ascia sfuggì dalle sue
dita; gli occhi bruciavano e a nulla serviva sfregarli per mandar via la sabbia
che Tolomeo vi aveva gettato in un ultimo gesto di pura vigliaccheria.
-Non mi hai sconfitto, Egitto!-
Fra le lacrime, il giovane vide la figura sfocata
dell’uomo gettarsi fra le onde del Nilo; tese il braccio in avanti, nel
patetico tentativo di fermarlo, ma il sovrano era già lontano.
Il cuore perse un battito e la frustrazione si
impadronì di lui.
Un falco fischiò sopra la sua testa e superò in volo
Tolomeo.
Poi la vide.
Un’ombra, sulla duna più alta, con le braccia
alzate.
E il nome di Hapi11
che ruggiva tra le onde.
Le stesse onde che sommersero come fauci il capo di
Tolomeo.
Ammone vide e rimase impietrito.
Udì solo l’urlo gorgogliante del sovrano che si
perdeva nelle acque de Nilo. E quando la vita del nemico si spense, Egitto
cadde in ginocchio.
Da lì, fu solo buio.
{~***~}
1Athena
“Favorevole alla Battaglia”. Era uno degli epiteti della Dea insieme a
Glaucopide “Dall’occhio ceruleo”
2Tale
doveva essere il modo di “pregare” degli antichi greci.
3
http://it.wikipedia.org/wiki/Medusa_%28mitologia%29
4Invocazione
a Sekhmet presa dal sito http://lavalledeire.forumfree.it/?t=51478393
5”Sid
che riposa nella Luce” Per un nostro amico felino che ci ha lasciato poche
settimane fa. Spero che la cosa non ti offenda, claws. Nel caso, cambierò subito il nome.
Spero si capisca che
la donna è Mamma Egitto.
6Durante
la guerra civile, la Biblioteca di Alessandria venne praticamente distrutta del
tutto.
7Fatto
che si dice realmente accaduto al nostro Giulio Cesare
8Divinità
egizia dei Sogni. Non era raro trovare la sua faccia sulle “testiere” delle
stuoie perché si credeva che questo dio proteggesse dagli incubi.
9In
questo periodo si assiste al venire meno della religione tradizionale e alla
diffusione dei culti misterici, ma, soprattutto, all’affermarsi della Tyche che diviene la nuova divinità
laica dell’Ellenismo.
il
proemio del III libro ( Lettura del testo, p.158 ) documenta assai bene il
nuovo modo di concepire la divinità, tipico dell’Ellenismo. Sparito ogni senso
di religioso timore, l’uomo ridimensiona la figure divine, inserendole in un
quadro di tranquilla quotidianità, in cui Afrodite ci appare come una qualunque
signora della buona società che riceve le amiche con le quali chiacchiera dei
più svariati argomenti, non escluso quello dell’educazione di Eros, un figlio
disobbediente e sfacciato che non riesce a controllare (Apollonio indugia nel descrivere la toilette di Afrodite: lasciando cadere da ambo le parti i capelli
sopra le candide spalle, li ravviava col pettine d’oro, e ne faceva lunghissime
trecce. Vedendole, smise e le chiamò dentro, e si levò dal suo trono, le fece
sedere e sedette di nuovo anche lei, raccogliendo con le mani le chiome non curate dal pettine.) [Dagli
appunti della mia prof di latino e greco]
10Cratete
di Mallo è il più importante filologo
che operò nella Biblioteca di Pergamo. Non è adorabile Eumenide, che gira
sempre con la pecora? XD
11Divinità
ermafrodita che rappresentava il Nilo.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 [47 a.C.] ***
pa5
{ Capitolo 5
~La Dea dal Volto
Velato
Romanus aprì le porte del padiglione e i
medici sussultarono.
Tutti attorno alla stuoia rialzata, chi con una
preghiera sulle labbra, chi con un pestello, chi con una coppa ricolma d’acqua
e petali scarlatti, tutti, nessuno escluso, alzarono il capo, esterrefatti
dalla presenza di un estraneo nelle stanze di Ammone.
Senza degnarli di una parola o di uno sguardo che
non fosse di tale odio e disgusto da far gelare il sangue, Romanus s’avvicinò al capezzale d’Egitto, rimanendo a fissarlo col
volto contratto.
Sudato, pallido, emaciato, il viso privo d’ogni
colore, Ammone si dibatteva sulla stuoia, smozzicando e ansimando parole senza
senso, sbattendo le palpebre gonfie e livide, da cui a stento si intravedeva la
striscia bianca della sclera. Ai lati delle labbra, d’un colore immondo, simile
a quello degli annegati, si raggrumavano gocce di sangue scuro e dal lezzo
insopportabile, che poi colavano, lente, giù, lungo il mento, fino a perdersi
nel panno della serva intenta ad asciugargli il volto per lenire almeno un poco
il suo dolore.
-Non dovreste essere qui-
Romanus alzò la testa verso l’uomo che
aveva parlato –un Sacerdote allampanato,
con il cranio rasato e la mascella squadrata-, ma non diede alcun peso alle
sue parole.
Non doveva essere lì? Stavano forse scherzando? Il
Regno d’Egitto era sull’orlo del collasso –e
Roma non poteva permettersi di subire le conseguenze economiche della sua
caduta- e lui non doveva essere lì?
Pazzi.
-E voi dovreste curare il Regno d’Egitto- ghignò,
inarcando un sopracciglio –Come vedete, non sono l’unico a non adempiere ai
miei doveri-
Le labbra del Sacerdote si strinsero fino a
diventare una linea scura sul volto livido.
-Rimarrò qui- disse Romanus, prendendo posto su una seggiola intarsiata lì accanto
–Fino a quando il Regno d’Egitto non riaprirà gli occhi su questo mondo-
E così fece: non s’allontanò dal capezzale d’Ammone
un giorno o una notte, rimanendo come un’ombra dietro le schiene curve dei
cerusici e dei Sacerdoti, premiando le serve che li aiutavano con un sorriso –e ben altro- se Egitto dava segni di
miglioramento; sibilando minacce e sfiorando la guaina del gladio se vedeva in
lui una ricaduta.
Non era raro vedere Romanus, nel mentre che Ra affrontava la sua lotta per rinascere
all’alba, con una mano sulla fronte di Ammone, oppure ritto dinanzi la stuoia,
gli occhi fissi sul corpo sempre più magro di Egitto.
***
-Cesare vuole incontrarvi in privato, dominus- Romanus sorrise compiaciuto dell’appellativo che il servo aveva
usato per rivolgersi a lui –Vi attende alle scuderie-
-Per quale motivo?- chiese Roma, corrugando la
fronte e alzandosi dallo sgabello.
-Non lo ha detto, dominus- il servo chinò il capo –Sono desolato, non lo ha detto-
Romanus si affiancò alla stuoia di
Ammone, scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte: ora Egitto riposava
tranquillo, il fiore rosso, come
l’avevano chiamato i Sacerdoti, aveva fatto il suo effetto. Lasciarlo solo..
-Non abbiate timore, dominus- mormorò la Sacerdotessa rimasta a vegliare insieme a lui
–Rimarrò io col mio signore: non lascerò che gli accada nulla di male-
-E sia- rispose Roma, voltando le spalle ad Ammone
–Se veglierai con cura, sai ben ricompensata-
Un sorriso gli scivolò sulle labbra e potè essere
sicuro che, dietro di lui, la donna era vistosamente arrossita.
***
-Che ne pensi di questo stallone, Romanus?- domandò Cesare, carezzando il
muso nero del cavallo.
Romanus incrociò le braccia al petto e,
pur sapendo che non era certo per quel motivo che l’altro lo aveva chiamato,
accondiscese a prendere tempo: osservò l’animale con attenzione, ne controllò i
denti e gli occhi, fece scorrere le dita tra la criniera e sul manto, saggiando
la durezza degli zoccoli e la potenza delle zampe.
-E’ un ottimo cavallo, Cesare- annuì, quando ebbe
finito –Pare veloce e agile, ma non servirà a portarti al di là del mare. Se
vuoi tornare a Roma, hai bisogno di una nave-
Il console accusò il colpo con un sorriso, poi
chiamò uno stalliere, intimandogli di portare un altro cavallo, il migliore
dopo lo stallone nero.
-Quali sono le tue intenzioni?- chiese Romanus nel prendere le briglie che il
servo gli porgeva.
Cesare non rispose e si issò sullo stallone; quello
nitrì, arretrando e scalciando, ma l’uomo non demorse e, con parole mormorate a
mezza voce e carezze sul collo, riuscì a domarlo. Rizzò la schiena, tirando
appena la cavezza e abbassò lo sguardo su Roma.
-Hai mai cavalcato attraverso il deserto?-
***
Dietro di loro, Alessandria scomparve nel turbinare
della sabbia e nella fiamma del sole.
La via carovaniera procedeva diritta, una lingua
dorata di pietrisco che si srotolava nel verde, affiancandosi all’azzurro del
Nilo.
I cavalli, il cui manto già si era imbiancato per la
polvere sollevata dagli zoccoli, galoppavano col collo piegato verso terra tale
era la velocità e il vento che andava loro contro; lo stallone di Cesare apriva
la strada, mentre Romanus si teneva
abbastanza indietro dal console, studiandone il volto contratto sì per lo
sforzo, ma anche per..no, non avrebbe saputo dirlo. Cosa poteva turbarlo? Non
erano giunte notizie infauste da Roma, né l’oracolo aveva presagito, almeno per
il momento, qualcosa di terribile. Aveva parlato di un giunco di papiro, sì, e
una piccola lupa che giocava con esso, ma senza strapparlo o morderlo; accanto,
aveva aggiunto la profetessa, un falco vegliava sull’animale.
Cosa potesse significare, Romanus non avrebbe saputo dirlo: indubbiamente, sapeva che la Lupa
indicava Roma, ma il giunco e il falco1? Erano segni a lui
sconosciuti e non sapeva quale fosse l’entità del loro significato. Certo era
che, quando Cesare aveva saputo del responso dell’oracolo, non era sembrato
tanto confuso quanto..stupito, e
perfino l’ombra di un sorriso –il sorriso del condottiero, del console,
dell’uomo politico, ma anche..- gli aveva sollevato le labbra.
Come poteva Cesare sapere cose che lui ignorava?
Romanus alzò gli occhi e si affiancò
all’altro, che ora procedeva al passo, lo sguardo perso a contemplare le acque
sinuose del Nilo che si perdevano in lontananza. Scesero insieme lungo
l’avvallamento, avvicinandosi alle rive del fiume, per poi smontare da cavallo
e lasciare che gli animali si riposassero dopo la corsa.
-Cosa turba il tuo animo?- Romanus fissò Cesare in viso –Parlamene-
Il console alzò gli occhi su di lui e non sfuggì il
suo sguardo: lo sostenne per alcuni istanti, inspirando a fondo, poi disse
-Un erede-
-Come..?- Roma inarcò le sopracciglia, senza capire
–Che intendi?-
-Un erede per l’Egitto..-
Romanus sentì lo stomaco torcersi: Tolomeo
era dunque riuscito a procurarsi una discendenza! Eppure Cleopatra non aveva
condiviso il talamo con lui nemmeno una notte, lo sapeva bene. Così come sapeva
bene che nessuna delle concubine era rimasta incinta: la maestria di erbe e
rituali avevano fatto sì che ciò accadesse.
Un erede d’Egitto! No, non era notizia fausta, non
riusciva a vederla come tale. Un nuovo erede, il desiderio di fuggire dalla
sfera di influenza che tanto Roma aveva cercato di tessere attorno ad
Alessandria e alla sua corte..
-..e per Roma-
Roma sentì la bocca farsi secca e il mondo parve un
attimo vacillare sotto i suoi piedi; si voltò a guardare il console con occhi
sgranati, incapace di credere a quanto aveva appena sentito.
-Cleopatra..!- boccheggiò, la voce ridotta ad un
sussurro rantolante –Cleopatra è..!- ma non riuscì a finire la frase, che già
si accorse come lo sguardo di Cesare fosse attirato da tutt’altro.
Romanus seguì gli occhi del condottiero
–del padre del futuro signore
dell’Egitto..e di Roma-, fino ad incontrare le acque del Nilo che, davanti
a loro, ribollivano di schiuma bianca e rossa.
Entrambi indietreggiarono, inorriditi da dal
prodigio cui stavano assistendo: il fiume si gonfiò, allungandosi in una polla
lucente e si lascerò a metà, scivolando su di una corona a guisa di avvoltoio.
Dapprima la testa, il volto coperto da un velo
bianco, il collo appesantito da tre giri di granato, turchese e malachite, poi
il petto nudo, il seno percorso da brividi di freddo, i capezzoli, cosparsi di
polvere d’oro, inturgiditi, le braccia abbronzate, la veste tinta di zaffiro
che lasciava intravedere la vita sottile e le gambe snelle, e infine i piedi,
nudi, su cui si arricciavano viticci d’henné.2
Romanus trattenne il fiato mentre la
donna, no, la divinità velata delle
acque gli passava accanto, piegando appena il volto nascosto verso di lui: a
quel gesto la parrucca a trecce nere si scostò in un tintinnio di perle,
lasciandogli scorgere il profilo di un orecchio e un frammento di kohl, steso fino alla tempia. Se la Dea
gli avesse sorriso, egli non avrebbe saputo dirlo, ma si ritrovò comunque
avvinto dall’incantesimo che la donna pareva aver gettato anche su Cesare.
Il condottiero fece per precedere Romanus, ma la sconosciuta, come
avvertendo quel gesto, si voltò e rimase immobile a fissare, da dietro il velo,
il volto del console. L’uomo si immobilizzò e lanciò un’occhiata a Romanus: questi nemmeno gli rispose. Lo
lasciò indietro, sulla riva del Nilo, seguì la dea lungo il declivio, l’aiutò a
montare a cavallo e si sedette dietro di lei.
Non protestò quando la donna prese le redini e guidò
il cavallo al galoppo. Le strinse le braccia attorno alla vita e rimase in
silenzio.
***
-Mia signora!- Iras la sostenne, mentre Carmiana
chiamava un servo perché facesse arrivare subito un medico –Mia signora,
sedete! Riposate!-
Cleopatra la allontanò da sé con un gesto seccato,
asciugandosi le labbra. Il mondo girava, i colori si confondevano, la terra
mancava il suo appiglio; la testa doleva e pulsava, e il sapore acido in bocca
gli bruciava la gola.
Si portò una mano al ventre, respirando con affanno.
-Domina!-
Iras si lasciò sfuggire un gridolino e Cleopatra la
fulminò con lo sguardo, prima di voltarsi e sostenere gli occhi preoccupati di
Cesare come se nulla fosse accaduto. Trattenne il fiato, tuttavia, quando vide
il volto del console corrugato per un’ansia che solo in minima parte era
indirizzata alla madre del suo futuro erede.
-Cosa ti turba, oh Cesare?- gli chiede, posandogli
le mani sulle spalle e cercando gli occhi dell’uomo, che tanto fuggivano i
propri.
Il console si passò una mano sulla bocca, nel gesto
di chi sta setacciando le parole adatte in un discorso lungo e ingarbugliato,
come colui che cerca di scovare la chiara lucentezza della fonte in acqua
torbide e limacciose.
-Una donna- rispose, infine, inarcando le
sopracciglia –Una donna che mai avevo visto prima, ma che riconobbi perché è la
medesima ritratta nel ventre scuro dei tuoi templi-
Cleopatra sgranò gli occhi e si allontanò dal
romano, portandosi una mano alle labbra. Che fosse…? No. L’aveva lasciata
assieme alle sacerdotesse di Hathor, perché officiasse una cerimonia antica quanto
il tempio per coloro che ancora servivano i vecchi dei. Il proprio timore era
infondato. Non poteva essere…
-Descrivimela- e non era una preghiera, quanto un
ordine. L’ordine della Regina delle Due Terre.
Cesare dovette accorgersi di quel mutamento nella
voce di lei, perché storse le labbra e l’insofferenza per il tono disegnò una
ruga torta sulla fronte altrimenti spianata.
-Il volto era coperto, un velo candido le nascondeva
gli occhi. Portava una parrucca di trecce nere, sormontata da una corona ad avvoltoio,
di quelle che indossavano le tue Madri prima che il Persiano conquistasse
l’Egitto3-
La Regina pregò che la nausea alla bocca dello
stomaco fosse una mera conseguenza del bambino che portava in grembo e non di
un presagio nefasto per la Terra Nera. Era lei, non v’erano dubbi. Sebbene le
fosse ormai chiaro, chiuse gli occhi e si dispose ad ascoltare fino alla fine
il racconto sempre più concitato ed affettato di Cesare.
-Ed indossava una veste azzurra, del colore che voi
dite essere dei capelli degli dei; un collare a tre giri le pesava sul petto
nudo e i piedi calzavano sandali d’oro, di tale splendore che non mi stupirei
di vederli tra i tuoi preziosi, mia Cleopatra-
-Che fece quella donna, Cesare? Vi disse qualcosa?-
-No, rimase in silenzio. Tacque, emersa dalla acque
come..-
-Emerse dalle acque?- l’egiziana si aggrappò alle
spalle del console -Non mentirmi, Cesare! Non mentire a Cleopatra!-
Il romano indietreggiò, stupito da quel gesto
improvviso, e le prese le mani fra le sue, scuotendo appena il capo.
-Nessuna menzogna, mia Regina, ve lo assicuro. Se
non l’avessi vista con questi stessi occhi..! Ma è tutto vero, Giove Ottimo
Massimo mi sia testimone e possano le Furie trascinarmi nell’arido deserto
infuocato se ciò che ora ti sto per dire non corrisponde a verità! Le acque del
Nilo sorsero dal letto del fiume e si divisero sul suo capo, scrosciando alle
sue spalle e svanendo nella bianca spuma! Ed ella, in silenzio, mi impedì di
seguirla, ma senza parlare ordinò a Romanus
di andare con lei. Ed egli obbedì-
***
Il sole stava declinando oltre l’orizzonte.
Il sangue del giorno schizzò vermiglio contro il
cielo e la notte sollevò la propria lama lucida di stelle, rinfoderandola
dietro le dune.
Romanus tese l’orecchio a cercare
l’uggiolio dei cani a cantare i passi silenziosi di Ecate, ma non era più
nell’Urbe, non più in attesa ai crocicchi tintinnanti di bronzo. A dire il
vero, non si trovava nemmeno più ad Alessandria, ormai svanita nel paesaggio
alle proprie spalle.
Aveva seguito il cammino del sole per capire quanto
tempo fosse passato dacché la donna dal capo velato l’aveva condotto sulla
barca dalla prua a fusto di papiro con un fiore di loto arricciato verso
l’interno, ma nel fissare in silenzio il grembo disteso del cielo era come
scivolato in una sorta di incoscienza, da cui si era risvegliato solo alla
presa ferrea di uno dei nubiani dalla pelle lucida e la mascella squadrata.
Era il tramonto e ogni segno di vita era scomparso:
sulle rive del Nilo non più donne s’affaccendavano per raccogliere l’acqua, non
più fanciulli si rincorrevano schizzando schiuma e fango, non più vecchi torti
dall’età fissavano il proprio riflesso limaccioso. Li aveva visti con la coda
dell’occhio alzare la testa, mentre la barca passava, e rivolgere gesti
riverenti, parole appassionate, alcuni, addirittura, si erano prostrati tra i
giunchi tale era la loro reverenza.
E Romanus,
in quel limbo tra l’incoscienza e la comprensione di sé, aveva trovato quel
comportamento tra il più funesto dei presagi: non un solo istante aveva
lasciato andare il pomo del gladio.
Il nubiano ruggì di nuovo qualcosa nella sua lingua
bestiale e Romanus assottigliò lo
sguardo. Non somigliava per nulla agli ambasciatori vestiti di colori
sgargianti e dal greco fluente che aveva incontrato il lontano giorno dello
sposalizio di Cleopatra e Tolomeo, e nemmeno ai legati che aveva intravisto a
palazzo nei giorni precedenti alla guerra, dove oziare sotto il sole d’Egitto
pareva così semplice da poter essere annoverato tra le leggi naturali in quel
paese straniero.
No, il nubiano che gli stava di fronte aveva tratti
rozzi e bestiali, la mascella squadrata e prominente; il corpo massiccio, cotto
dal sole e tirato sulle spalle e sul petto largo come cuoio, gli conferiva una
forte pesantezza e ferocia. Era nudo fino alla cintola, il basso ventre coperto
solo da un gonnellino di lino bianco che a stento gli arrivava alle ginocchia larghe
e di parvenza sgraziata. Gli occhi, infossati nella fronte gibbosa, sembravano
ancor più incavati a causa della linea del kohl che gli tingeva la pelle fino a
poco dopo la piega della palpebra; negli occhi fangosi non v’era lume di
comprensione, né di umanità.
Romanus lo seguì, le dita sempre strette
al pomo del gladio; fissò gli occhi sulla schiena bruciata, ma non fu certo
così incauto da dimenticare gli altri barcaioli –nubiani anch’essi. Assunse un’espressione fredda e si lasciò
guidare fino al naos, posto al centro
dell’imbarcazione; il nubiano si fermò dinanzi alla tenda tinta del color del
diaspro e sostenuta da urei dorati, dandogli l’ordine di entrare. Romanus inarcò un sopracciglio e gli
indirizzò un ghigno divertito, come a rimarcare la propria posizione di
superiorità: a lui, quanto meno, era concesso di entrare al cospetto della
donna e sperare di vederla in viso.
Ella, infatti, dopo averlo condotto a cavallo fino
alla barca, aveva sfilato sulla passerella accanto ai nubiani rigorosamente a
capo chino, ed era entrata nel naos, senza più uscirne.
-Posso sapere per quale motivo sono stato convocato
al vostro cospetto, domina?- chiese
quando si fu introdotto ed ebbe lasciato cadere la tenda dietro di sé -Una
risposta mi sembra più che mai doverosa, visto…- ma, di nuovo, le parole gli
morirono sulle labbra.
La donna stava ritta dinanzi ad un piccolo braciere
acceso e gli dava le spalle: con una mano andava a prendere alcuni petali
contenuti in un vaso d’albastro, gettandoli poi tra i tizzoni ardenti, e con le
dita intrecciava il fumo azzurrino che si levava dai resti inceneriti del fiore
di loto. L’odore era tanto intenso che Romanus
si sentì piegare le ginocchia; scosse il capo per cancellare il buio calato
sugli occhi e rialzò lo sguardo sulla donna. Questa lo stava fissando con un
lieve sorriso a sollevarle le labbra truccate di carminio, un sopracciglio inarcato
con fare divertito; il gesto aveva creato un bagliore cremisi sulle palpebre
truccate e gli occhi scuri, contornati dalla linea severa del kohl, erano
accesi dal palpito infuocato del braciere.
-Poco più di un fanciullo- mormorò con quello
sguardo indagatore che Romanus non
faticò ad assimilare a quello di Etruria, il giorno loro primo incontro -Tuttavia
pare che gli Dei vogliano concederti molto di più del doppio dei tuoi anni-
Romanus fu sul punto di ribattere, ma lo
sguardo cadde sulle dita della donna, secche e nodose, sul seno cadente e sulle
rughe attorno agli occhi e sulla fronte che il trucco aveva tentato invano di
nascondere. Tutto il suo corpo emanava il ricordo di bellezza, eppure una
bellezza antica quanto il tempo, ormai sfiorita.
-Chi siete voi?- le chiese -Voi che mi considerate
poco più di un fanciullo?-
La donna non rispose immediatamente alla domanda: si
allontanò dal braciere e si avvicinò a Romanus,
inclinando la testa sulla spalla e osservando con gli occhi appena socchiusi, le labbra schiuse.
-Dimmi, oh giovane potenza, sai tu quali acque
stiamo attraversando? Conosci il nome del Luogo che ora cinge i nostri corpi e
i nostri Cuori con braccia di deserto?-
-Quale segreto celi nella risposta, se arrivate a
pormi una nuova domanda, domina?-
-Heliopolis-
disse allora la donna con un sorriso divertito; gli diede le spalle e tese il
braccio verso un piatto bronzeo colmo di datteri. Sfiorò il frutto a punta di
dita e risollevò lo sguardo su Romanus
che, quasi soffocato dall’odore del loto bruciato, faticava mantenersi
concentrato -Il tell da cui tutto
ebbe inizio, il monticello di terra che il Benben
trafisse, per poi mutarsi in pietra5. Qui Atum, Signore e Padre di tutti gli Dei, possa Egli avere Vita,
Salute e Forza!, nacque da sé e da sé generò Shu e Tefnut, possano Essi avere
Vita, Salute e Forza!4-
Romanus avvertì il cuore farsi pesante
nel petto e la testa gravare sui sensi infiacchiti. Alzò pesantemente il capo e
la voce gli strinse la gola: là, dove prima aveva visto una donna bella sì, ma
in avanti negli anni e schiava del mutare dei secoli, ora giganteggiava una
regina, una divinità, con le braccia
allargate e l’ombra di ali piumate che abbracciava l’interno perimetro del naos6. Ogni traccia di vecchiaia era sparita dal suo volto e le sue
membra erano forti; gli occhi erano gorghi neri di saggezza antica, le mani
artigli rapaci macchiati del sangue nemico. Fredda e letale, nobile e crudele
come le statue che Romanus aveva
visto sovrastare la gente comune per le vie di Alessandria.
L’odore intenso del braciere divenne ancora più
forte, la cabina tremolò nel fumo azzurrino, disegnando volute di danzatrici e
auletridi, corpi indistinti che si muovevano rapidi sul tendaggio di diaspro,
braccia, gambe, trecce e dita, giochi di luci e di ombre, soffocati e
soffocanti.
-Su questa Terra Nera mossi i miei
prima passi, benedetti dagli Dei!- gridò la donna e le ombre esplosero alle sue
spalle in un tripudio luci rossastre -Il Benben,
il Raggio Primigenio, mi sostenne quando mi levai in piedi, dopo che Khnum, il
Vasaio -Possa egli avere vita, salute e forza!- plasmò il mio corpo sul suo
tornio e Ptah mi diede la Vita, pronunciando il mio Nome!7”
Romanus crollò in
ginocchio. La testa e le tempie pulsavano, la vista era un groviglio di colori
risucchiati dagli occhi della donna; le orecchie rombavano e i polmoni
stagnavano nel petto appesantito dal profumo greve.
-Il mio nome è Kemetankh Hotepibtaui- la voce di
lei s’era fatta più dolce, appena un sussurro -L’Egitto Vivificato che Pacifica
il Cuore delle Due Terre-
Dita esili, secche e nodose, lo
invitarono a sollevare il mento; le palpebre di Romanus erano pesanti, a stento riusciva a tenere gli occhi aperti:
dinanzi a lui, Kemet si era chinata, il momento di follia scemato e soffiato
via da un refolo di vento. Era tornata un’anziana figura colma di saggezza,
dagli occhi belli e tristi.
-L’Egitto dei Padri..- mormorò Romanus con voce roca. Si umettò le
labbra e tentò di proseguire, ma la gola era secca, le parole rimanevano
incastrate e si sgretolavano prima di raggiungere la bocca.
-Lascia che ti aiuti, giovane e
potente Roma- mormorò lei e il tono, seppure dolce, pareva nascondere una nota
sibillina. Gli occhi d’ossidiana si socchiusero e si fecero gelidi come quelli
dei cobra: lo stesso sguardo di Ammone, fu il pensiero che riuscì a sollevarsi
dalle acqua limacciose nella mente di Romanus.
Kemet, una figura sfocata ai lati
degli occhi, prese una coppa di ricolma e la inclinò, perché bevesse.
-In questo luogo, dalle cui acque
io trovai la vita e la nascente forza- sibilò e Romanus s’accorse troppo tardi che dentro la coppa galleggiavano i
resti spezzati di bianchi fiori di loto8 -Io rinascerò a nuova vita
e troverò la forza-
Fu istante: come un fiammata il
liquido bruciò nello stomaco e raggiunse la testa, dove arse con la forza di un
incendio. Cadde preda della confusione, nel gorgo nero dove ogni luce era ombra
e l’ombra si disfaceva in gocce fangose di pallida luce, tanto debole da essere
immediatamente soffocata.
In quell’antro di follia
incandescente, dove anche il corpo era morso dal fuoco della carne e della
pazzia, l’unico colore era il lampo di zaffiro della veste di Kemet, mentre
scivolava, del tutto inutile, a terra.
L’unica realtà cui aggrapparsi le
labbra infuocate di Madre Egitto.
Note
di Fine Capitolo
OHMMMIODDIOL’HOAGGIORNATA!
Scusate! E’ che..era praticamente un
anno che non la proseguivo e…e oggi, niente, oggi è arrivata l’ispirazione di
botto!
Okay, mi calmo e passo alle note!
1Il giunco ed il
falco sono i simboli del Basso e dell’Alto Egitto.
2Quella della Dea che
emerge dalle acque era la fantasia erotica “più in voga” tra gli antichi egizi.
3Cambise, 525 a.C.
4Atum è il Dio
increato, autogeneratosi sul monticello di Heliopolis che era emerso dalle
acque del Nun. Creò i propri due figli, Shu e Tefnut, con l’aiuto della Dea
Mano. Sì, non sto scherzando.
5Di fatti, l’obelisco
non rappresenta altro che il raggio di Ra pietrificato.
6Le ali sono un
riferimento ad Iside.
7Ripreso da una mia
role su Facebook, dove ruolo col personaggio di Madre Egitto. Ptah era il
demiurgo della cosmologia menfita.
8Avete presente il
papiro erotico di Torino? Ecco, se ricordate, le donne hanno un fiore di loto
sopra la testa: questo a simboleggiare la perdita della coscienza di sé, “droghe”
e…diciamo, libertinaggio. Come dire, un liberarsi e sfogarsi dei sensi, ecco.
Come se fossero preda dell’euforia più estrema, quasi non fossero più padrone
del loro corpo.
Ringrazio
Jo-san
aver recensito (secoli addietro!
SCUSA!) il precedente capitolo!
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