The Album, o Citazioni

di PattyOnTheRollercoaster
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ring Ring, o Inizia da un funerale ***
Capitolo 2: *** Lollipop, o La danzatrice ***
Capitolo 3: *** Rain, o Frappuccino medico ***
Capitolo 4: *** By the time, o Nuovi maniaci ***
Capitolo 5: *** Blue eyes, o Fotografie ***
Capitolo 6: *** We are golden, o Una litigata ***
Capitolo 7: *** Billy Brown, o Salto nel passato # 1 - I Parte ***
Capitolo 8: *** Toy boy, o Salto nel passato # 1 - II parte ***
Capitolo 9: *** Dr. John, o Frammenti di una rivoluzione ***
Capitolo 10: *** Over my shoulder, o Un caso umano ***
Capitolo 11: *** Stuck in the middle, o L'appuntamento perfetto ***
Capitolo 12: *** I see you, o Tempo di attesa ***
Capitolo 13: *** Pick up off the floor, o Nasalis larvatus ***
Capitolo 14: *** Lover boy, o Musica ***
Capitolo 15: *** Big girl [You are beautiful], o Salto nel passato # 2 ***
Capitolo 16: *** My interpretation, o Reggere il confronto ***
Capitolo 17: *** One foot boy, o La famiglia Brady ***
Capitolo 18: *** Blame it on the girls, o Di malumore ***
Capitolo 19: *** Grace Kelly, o Tentati suicidi ***
Capitolo 20: *** Touches you, o Arruolato nell'esercito ***
Capitolo 21: *** Good gone girl, o Prima classe ***
Capitolo 22: *** Love today, o Chiens dans l'amour ***
Capitolo 23: *** Any other world, o Quel che rende felici ***
Capitolo 24: *** Happy Ending, o «Sì, lo voglio.» ***
Capitolo 25: *** Relax [take it easy], o Live ***



Capitolo 1
*** Ring Ring, o Inizia da un funerale ***


The Album
o
Citazioni





Capitolo uno
Ring Ring
o Inizia da un funerale

   Il mio nome è Michel Holbrook Penniman Jr. Sembra un nome molto importante da portare sulle spalle, e le mie spalle, sebbene credo siano abbastanza forti, non hanno molta voglia di essere sempre così pesanti. Per questo motivo ho scelto un altro nome, un nome meno complicato, uno che tutti possano ricordare per quanto è corto. Un nome semplice, simpatico, colorato: Mika.
   Nonostante questo non si possono comandare certe vecchie abitudini, soprattutto se della propria madre, e lei, come tutta la mia famiglia e i conoscenti più stretti, mi chiamano ancora Michel. E tutti lo sanno, che ancora vengo chiamato Michael dalla mamma, soprattutto quando si mette a strillare:
   «Michael!»
   Dio, no, non sono neanche le sette di mattina.
   «Michael!»
   Alzo la testa e getto un’occhiata alla sveglia. Be’, in realtà sono le dieci passate.
   «Michael!»
   Mugugno. Perché? Perché non posso dormire fin quando voglio? In fondo sono già un uomo bello che fatto, ho quasi trent’anni. Ah, le madri non smettono mai di essere madri, anche se il loro pargolo è un cinquantenne brizzolato. Ma comunque, cos’è tutta ‘sta fretta? Sono tornato a casa da appena un giorno dopo il tour negli Stati Uniti, ed è già tanto che io non sia andato a riposarmi a casa mia e invece sia passato a salutare i miei. Adesso mi ricordo del perché non ci vengo mai quando sono stanco. Per di più il mio appartamento non è neanche così lontano da casa loro, insomma perché cavolo ci sono venuto?!
   «Michael!»
   Mi tiro su e quasi cado dal letto. «Che c’è?», strillo contrariato.
   «Al telefono, è per te!»
   Sbuffo e riaffondo nelle coperte. Mi chiama per quisquilie del genere? «Non possono richiamare?!»
   La testa di mia madre sbuca in quella che era la mia vecchia stanza. «Dovresti rispondere, è importante.»
  E va bene. Maledetti, svegliare una persona all’alba delle dieci… Mi alzo e ciabatto fino alla porta, dove mamma mi porge il cordless. «Pronto?»
  Una voce di donna mi avvisa di qualcosa che non mi sarei mai aspettato. «Buongiorno, qui è il Royal College of Music, parlo con Michel Holbrook Penniman Jr?»
   «Sì, sono io.»
   «Volevamo informarla che uno dei suoi professori, Walter Pagnin, è venuto a mancare la settimana scorsa. Stiamo contattando molti dei suoi ex studenti perché partecipino al funerale. Lei è disponibile signor Penniman?»
   La notizia mi colpisce come uno schiaffo. Non mi aspettavo nulla del genere quando ho detto quel sonnolento “Pronto?”. A saperlo prima, mi sarei dato un contegno. Mi ricordo il professor Pagnin, insegnava solfeggio ed era uno dei miei professori preferiti. Era un uomo alto e grosso, indossava sempre giacca e cravatta e aveva quel modo di parlare che ti faceva sentire subito a tuo agio.
   «Signore?»
   «Sì, sì ci sono. Al funerale, intendo. Ci sono.»
   «Può darmi il suo attuale indirizzo per spedirle l’invito?»
   Il funerale di Walter Pagnin si terrà fra una settimana. Non sono del tutto sicuro di volerci andare; immagino che tutti quanti saranno addolorati e tristi mentre io, per quanto il professor Pagnin sia stato uno dei miei preferiti, non riesco a sentire più di un dispiacere blando, controllato. Ho un po’ paura di sentirmi fuori posto. Nonostante questo il funerale è arrivato, e tutto è andato bene fino a cerimonia ultimata.
   Le panche della chiesa sono tutte piene fino a metà, dove gli invitati iniziavano a farsi più radi. A fine cerimonia parlo con qualche persona che ho riconosciuto, qualche vecchio compagno di scuola, poi mi dirigo, sollevato eppure in qualche modo un po’ meno allegro, all’uscita della chiesa. Seduta sull’ultima panca c’è una ragazza minuta che ha indosso una felpa leggera e il cappuccio calato sulla testa. Non ci avrei mai fatto caso a lei se quella, all’improvviso, non si fosse alzata precipitosamente per uscire e non mi fosse finita addosso.
   «Oh scusami, non guardavo dove andavo», fa lei chinandosi a raccogliere il cellulare e una piccola agenda che le erano caduti.
   «Niente, non importa.» Tento di raccogliere il tutto prima di lei, ma non ci riesco, però quando entrambi siamo in piedi posso vederla in viso.
  È molto più bassa di me, ha i capelli di un biondo cupo, lunghi fino alle spalle, gli occhi verdi e labbra grandi. Sembra stanca, ma io la riconosco lo stesso. «Andrea?»
   Lei alza gli occhi fumosi, occhiaie profonde le solcano il viso. «Chi sei?»
   Ho un attimo di smarrimento. O ho sbagliato persona, oppure la mia faccia non rimane proprio impressa alla gente. Eppure io e Andrea siamo stati compagni per quasi due anni prima che lasciassi la Royal per incidere “Life in Cartoon Motion”. «Sono Michael, non ti ricordi? Michael Penniman.»
   Andrea apre la bocca stupefatta, in una smorfia di comprensione, e quella sua bocca carnosa disegna una ‘o’ perfetta. «Ma sì scusami. Scusa, non ti avevo neanche guardato bene, ero distratta.»
   Usciamo dalla chiesa insieme e cominciamo a camminare l’uno affianco all’altro, verso il centro della città, anche se non sappiamo bene dove stiamo andando; non ci facciamo caso.
   Ricordo bene Andrea, era una ragazza timida che se ne stava sempre sulle sue. Era piuttosto cicciottella quando andavamo a scuola, anche se all’ultimo anno aveva cominciato a perdere peso. Ci siamo parlati spesso ma non avevamo un’amicizia molto profonda, anche perché appena ho lasciato il college ci siamo persi di vista. Assieme ci trovavamo bene, tutto qui.
   «Quindi hanno chiamato anche te per il funerale di Pagnin?»
   «Sì, anche se veramente l’avevo letto prima su un necrologio per strada. In realtà non so neanche perché sono venuta, forse solo perché sono nostalgica.»
   «Ti offro un caffè, ti va?» Mi fermo in mezzo al marciapiede e la guardo sorridendo, incoraggiante. In fondo, forse anche io sono nostalgico, una parte di me spera di poter ricordare con Andrea molte delle cose successe a scuola.
   «Sì, d’accordo.»
  Entriamo nel primo bar che troviamo, ci sediamo ad un tavolino rotondo e ordiniamo due caffè e una fetta di torta per me. Mi sistemo sulla sedia e mi rivolgo ad Andrea, puntellandomi sui gomiti con un sorriso che mi va da parte a parte sulla faccia. Non si direbbe che sono appena uscito da un funerale. «Allora? Che mi racconti?»
  Alza un sopracciglio e si stringe nelle spalle. «Veramente, niente di interessante. Tu, piuttosto, ho sentito che hai fatto un altro album. Com'è che si chiama?»
   «The Origin of Love, l’ho rilasciato l'anno scorso.»
  «Hai fatto un sacco di cose da quando te ne sei andato dalla Royal, eh?» Per la prima volta l’accenno di un sorriso compare sul volto di Andrea. Tiene il cappuccio anche dentro il locale, ma leva la felpa poco dopo perché comincia a fare caldo, siamo a metà Maggio. In realtà il tempo qui a Londra è orribile, come una ragazza con la sindrome premestruale: un giorno è tutta amorevole, il giorno dopo una piantagrane.
   «Sì è vero, ma tutte queste cose le puoi trovare su internet. Piuttosto…»
   «Hai girato molti paesi?» Non faccio neanche in tempo a chiederle che fa lei che mi interrompe.
  «Sì, sono andato in un sacco di posti, sia per i tour che per incidere i pezzi. Ma ad essere sincero non ho mai tanto tempo per guardarmi intorno come si deve.»
   «Oh Dio, dev’essere bello lo stesso però. Mi piacerebbe tanto andare in America.»
   «Ci sono stato fino a una settimana fa, ero in tour. Adesso mi fermo per un po’, ricomincerò a fine Agosto.»
  Gli occhi di Andrea scattano alla porta, alle mie spalle, e lei si agita nervosa sulla sedia. «Mi dispiace che Pagnin sia morto, era uno dei miei insegnanti preferiti», dice all’improvviso. «Però, be’, era vecchio. Di cosa è morto?»
   «Gli è venuto un ictus, molto forte. Il direttore della Royal mi ha detto che è rimasto paralizzato per sei settimane prima di…», lascio la frase in sospeso. Non è bello neanche da dire. «Ah, ti prego parliamo di cose più allegre!»
   Andrea sorride e finisce il suo caffè. «Hai ragione. Senti, perché non mi dai il tuo numero? Io sono libera praticamente tutti i giorni fino alle dieci di sera, e la mattina dormo almeno fino a mezzogiorno. Credo che sia meglio che ti chiami io, se hai voglia.»
   «Lavori di notte?»
   «Sì, in un locale.»
   Non dice altro, e io non indago. Le scrivo il mio numero su un foglietto di carta e glielo lascio. Non appena Andrea me lo strappa dalle mani si alza e scompare dal bar quasi di corsa, salutandomi velocemente. Un uomo di mezza età si volta mentre lei passa e fa un fischio che mi fa sbuffare di impazienza. Cristo, che vecchio maiale! Spero di non diventare così.

   Sono passati tre giorni da quando ho incontrato Andrea al funerale. Non mi ha sconvolto la vita, intendiamoci, ma se ci ripenso non posso fare a meno di ricordarmi quanto fosse strana in quel momento. Mi ricordavo di lei come una cosetta bionda che sedeva sempre dietro a qualcun altro, che parlava a voce bassa, e indossava abiti troppo larghi anche per lei, come se volesse nascondervisi dentro. Aveva delle amiche con cui passava la maggior parte del tempo e suo padre la portava a scuola e andava a riprenderla ogni giorno in macchina. Tutta questa timidezza non si addice a qualcuno che vuole sfondare nel mondo assolutamente competitivo della musica, eppure quando cantava capivi come mai era stata ammessa alla Royal Academy of Music: la sua voce è qualcosa di spettacolare, sono convinto che ce l’abbia ancora tutta in fondo alla gola, anche se Andrea non ha accennato a nessuna carriera di cantante o simili. Mi sembrava incredibile che una voce così potente potesse uscire da una persona schiva come quella. Ammetto di essere curioso di sentirla di nuovo cantare. Mi piaceva ascoltare gli altri compagni che cantavano, e attendevo ogni volta l’esibizione di Andrea con una certa impazienza. Non mi aveva mai deluso.
   Eppure c’è un problema: lei non chiama.
  Non pensavo che Andrea mi sarebbe mai mancata, non era mai stata parte della mia vita in maniera tanto importante. Se ci penso, però, in questi pochi giorni dopo il nostro incontro, mi dispiace che non mi richiami. Probabilmente è una di quelle persone che parlano tanto di amicizia ma alla fine non mantengono i contatti. Insomma, tanto fumo e niente arrosto.
   Rimango molto stupito quindi, una settimana dopo circa, quando mi squilla il telefono alle quattro del pomeriggio.
   Ring, ring.
   «Pronto?»
   «Pronto Michael? Sono Andrea.»
   Rimango zitto qualche istante perché un’immagine stupida su internet ha catturato la mia attenzione. Devo smetterla di guardare il pc quando sto al telefono!
   «Pronto?»
   «Eccomi. Ciao, come va?»
   «Tutto bene grazie, e tu?»
   Alzo le spalle, anche se lei non può vedermi. «Al solito. Non sto facendo niente, sono praticamente in vacanza.»
  «Beato te. Senti, pensavo che magari ti andava di fare un giro un giorno di questi. Io sono libera tutti i pomeriggi. Pensavo che magari potevamo andare… che ne so, al cinema, o a fare solo un giro in centro.»
  «Sì, perché no? Anche domani, se ti va.» Sorrido, incapace di trattenermi. Perché mai, poi? Se mi fa stare così bene dovrei organizzare un incontro di classe.
   Oh, che ottima idea!




















Ordunque... l'idea della fanfiction è piuttosto semplice, sono io che non so spiegarla. In pratica ho fatto un capitolo per ogni canzone dei primi due album, e in ogni capitolo ci sarà una citazione dalla canzone (magari non proprio alla lettera, però mi ci avvicinerò il più possibile). Se mi è possibile farò anche c'entrare il tema del capitolo con il tema della canzone, ma non vi assicuro nulla!
Per cui preparatevi alla bellezza di venticinque capitoli (la fanfiction più lunga che io abbia mai scritto, credo!) in cui il nostro Mika ne passerà di tutti i colori: ci saranno flashback del suo passato, gite al mare, cappelli a forma di pollo e ovviamente l'intera famiglia Penniman, che non può mancare.
Se volete uno spoiler sul prossimo capitolo/canzone/citazione vi segnalo il mio blog, e più precisamente se cliccate qui avrete un piccolo anticipo sul capitolo di Domenica prossima.
Spero di avervi incuriosite! ^^
A Domenica prossima,
Patrizia

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Capitolo 2
*** Lollipop, o La danzatrice ***


Capitolo due
Lollipop
o La danzatrice





   Sposarsi è come fare la dieta. Prima di cominciare credi di doverti togliere dei vezzi a cui non potrai più accedere. Per questo motivo sono nati gli addii al celibato. Sarà divertente, se non altro per prendere un po’ in giro Richard, il fidanzato di Zuleika. Si sposano fra qualche giorno, con una bella cerimonia in riva al mare. Il fatto che Zuleika si sposi è come minimo assurdo, per me. Insomma, dopo che le ho anche scritto Lollipop lei si va a sposare! Non sarà mica incinta? Oh mio Dio, devo ammazzare Richard! Non era in programma un omicidio per la serata…
   Okay, basta farneticare! Dobbiamo portare lo sposo alla sua festa privata, in un bel locale che si chiama Jewel (“Perché qui non troverete ragazze, ma veri gioielli!”, recitava così la pubblicità e mi era sembrata tanto convincente), giusto per ricordargli che dovrà dire addio alle tette delle altre ragazze e se solo pensa a fare del male a Zuleika lo ucci… No, è un’occasione per festeggiare, niente minacce, niente di niente, anche se in fondo è di mia sorella che stiamo parlando! Hm, grande dilemma.
   Il Jewel è un locale ampio e scuro, tappezzato di tendaggi rossi e pieno di tavoli dai quali partono alti pali metallici che arrivano fino al soffitto. Quando io e gli altri invitati arriviamo ci fanno accomodare nella stanza che c’è apposta per le comitive, dove una ventina di ragazze sono già pronte ad entrare e ballare sul piccolo palco apposta per tutti noi. In realtà non sono così impaziente di vedere le ballerine quanto di vedere le reazioni degli altri, soprattutto quella di mio fratello Fortuné, che sorride come un deficiente già da un paio di giorni. Non che le ragazze non mi piacciano, ma non mi piace particolarmente questo tipo di intrattenimento. Non so, mi mette vagamente a disagio.
   Dopo la prima ora ho già bevuto un paio di drink e devo correre in bagno. Una ragazza con addosso solo un tanga argentato si è presa la briga di ballarmi di fronte tutta la canzone precedente, e io come uno scemo mi sono trattenuto anche se mi scappava perché pensavo che sarebbe stato da maleducati andarmene via così. Risultato? Corsa in bagno non appena la canzone è finita.
   Quando esco dal bagno, finalmente soddisfatto, mi accorgo che una canzone che conosco benissimo sta suonando a tutto volume. È Lollipop, è appena iniziata. Torno al tavolo balzellando allegro e mi avvicino a Fortuné, che mi guarda ridendo. «Devi ammettere che in un certo strano senso è la canzone più adatta!», grida per farsi sentire nella musica alta. In effetti…
   Rivolgo lo sguardo alla ragazza sul palco: ha i capelli biondi legati in due codini alti che, in teoria, dovrebbero darle un’aria più naif, ma con il suo corpo in movimento i pensieri non possono essere di natura casta, non proprio. Mi avvicino al palco assieme agli altri invitati, sorridendo come un deficiente, e mi appoggiò con i gomiti sul palco per osservare il balletto, canticchiando la  mia canzone. Forse in me c’è qualcosa di strano: tutti guardano il balletto, io canto la canzone.
   Ad un tratto la ragazza cammina sicura verso di me, un sorriso mieloso stampato in viso. Non mi sta guardando, forse neanche mi vede con tutte le luci che ha puntate addosso mentre il pubblico è nell’oscurità, ma io la riconosco, ancora una volta.
   «Andrea?» Questa volta non lo dico con piacere e stupore, ma con la gola secca e gli occhi spalancati. Lei non da l’impressione di avermi visto e continua a ballare tirando fuori dal reggicalze un chupa chupa, che scarta sul palco di fronte ad un amico di Richard e mette in bocca mentre la canzone continua. Mi allontano dal palco a passi veloci, le mani in tasca e la testa bassa, e mi incastro in un angolo della sala senza perdere di vista Andrea che si agita sul palco come una forsennata.
   Dio, “Succhia forte il tuo lecca-lecca”, ma come mi è venuto in mente?! Guardo Andrea cucciare quel lecca-lecca con addosso solo un tanga e delle calze nere, e penso di aver creato un mostro. In compenso, la piccola folla sta letteralmente impazzendo, e lanciano sul palco banconote che Andrea si china a raccogliere fin troppo lentamente, mostrando loro tutta la sua gratitudine e molto altro ancora. Devono avere una fantasia malata: Andrea è (era, ora non lo è più) vestita praticamente come una scolaretta della medie!
   Ringrazio tutti gli Dei quando la canzone finisce, e mi chiedo come mai ho deciso di ripetere il ritornello così tante volte inutilmente. Almeno adesso so dove lavora tutte le notti Andrea. Il giorno in cui siamo andati al cinema mi ha abilmente fatto parlare di me tutto il tempo.
   Andrea è una spogliarellista.
   Quindi?
   Che fare?
  Be’, ma perché sono tanto sconvolto? In fondo non è la mia vita, non è neanche la vita di qualcuno a cui tengo moltissimo. È la vita di una conoscente, che si fa quando si scopre che una conoscente fa la spogliarellista? Niente, ecco. Perfetto, non devo fare niente. Ma quant’è comoda la vita? No, non sono sconvolto, è solo che non me lo aspettavo, tutto qui. Insomma, è un po’ imbarazzante, siccome è una persona che conosco, ma a parte questo…
   Bene… quindi non devo fare nulla.
   Perfetto.
  Dovrei salutarla forse? Non so, forse la cosa la farà sentire in imbarazzo. Ma comunque, che cacchio ci fa qui a ballare in un locale di streap tease con la voce che si ritrova?! Hm, vediamo un po’ dove va adesso, immagino che avrà da fare, non è neanche l’una del mattino. Forse non è opportuno disturbarla ora. Con un po’ di fortuna non la rivedrò più. Almeno, non seminuda.
  Per qualche mia deformazione del cervello mi dirigo verso il palco, da dove Andrea è fuggita non appena si è resa conto di essere senza reggiseno davanti ad una trentina di persone. Dietro ad alcune tende rosse c’è una piccola scaletta, di appena quattro o cinque gradini, il che vi fa capire quanto quel palco sia basso, apposta per allungare le mani e sventolare biglietti da venti sterline. Dietro altre tende c’è il palco, vedo un’altra ragazza muoversi al ritmo di non so quale canzone, ma sulla mia sinistra c’è una porta con su scritto “Privato”. Dio, mi sento come un ladro. Forse dovrei solo aspettare che Andrea esca per un’altra canzone e salutarla nel modo più naturale possibile; il punto è che non mi va di vederla di nuovo che si spoglia! Mamma, voglio andare a casa…
   Ficco la testa dentro alla porta e trovo un corridoio con una porta per il bagno e un’altra a cui mi avvicino. Busso, non risponde nessuno, solo un brusio di voci concitate. Spingo piano la porta e, nel momento in cui compaio sulla soglia, una ventina di ragazze strette in vestitini succinti si girano verso di me, interrompendo qualsiasi cosa stessero facendo prima del mio arrivo.
   «Salve…», mormoro con un sorriso nervoso.
   Una di loro, mettendosi una forcina fra i capelli, mi guarda rabbiosa e dice: «Chi cazzo sei? Non è permesso entrare qui.»
   «Scusate, scusate, non lo sapevo!» Cerco di fuggire, ma mi hanno attorniato, mi proteggo cercando di scomparire dietro la porta. Ucciso da un branco di spogliarelliste! Che fine ingiusta, non mi sono neanche divertito a guardarle ballare.
   «Ah, non l’hai letto il cartello che dice “Vietato entrare”?!»
   «Sono dislessico, non so leggere!» Be’, non è del tutto una bugia, sono davvero dislessico. Però so leggere, ci tengo a precisarlo.
   «Che cosa succede?» Finalmente! Una voce amica.
   «Andrea!» Questa volta lo dico con sollievo.
  Lei, con un costume diverso, mi guarda allibita e vagamente divertita. Una delle ragazze le chiede se mi conosce e lei per fortuna mi salva. «Tranquille, è un mio amico. Adesso lo mando via.» Sorridendo mi spinge fuori dalla stanza ed esce con me, chiudendosi la porta alle spalle. «Che cosa ci fai qui?», domanda poi mettendosi le mani sui fianchi.
   «Non lo so, ti ho vista e pensavo di vanire a salutarti. Non mi aspettavo di vederti!»
  «Oh, grazie. Mi spiace ma di solito rimango qui almeno fino alle cinque del mattino.» Indossa un bustino nero, un cappellino a cilindro incollato ad un cerchietto, niente calze, solo alti stivali pieni di borchie e catenelle. «Hai sentito? Ho ballato la tua canzone. Ho scaricato tutti i tuoi album qualche giorno fa, Lollipop è diventata una delle mie preferite.»
  Non sembra affatto imbarazzata di essere stata colta in flagranza di reato. Immagino che se lo vedi come un lavoro come gli altri non ti preoccupa più di tanto. Be’, se lei non è imbarazzata non c’è motivo per cui debba esserlo io. In fondo è la sua vita, deve averlo scelto lei questo lavoro. Affari suoi, insomma. Certo, se una delle mie sorelle anche solo mostrasse interesse per qualcosa del genere la rinchiuderei in camera e piantonerei la porta come un bodyguard, senza farla uscire fino a quando non avrà raggiunto i quarant’anni… ma questo è un altro discorso.
   «Hai scaricato i cd?», domando incredulo. «Bastava che me li chiedessi, io te li potevo anche regalare.»
   «No, no, non volevo chiederteli, non ci si mette niente a scaricarli. Comunque, che ci fai qui?»
   «È un addio al celibato. Credo che diventerò molto popolare là fuori quando dirò di conoscere una delle ballerine», commento pensoso.
   Andrea ride e si sistema meglio il bustino. Ha un seno grande, che le rimane tutto schiacciato sul petto. Sembra una delle mie big girls, con la differenza che lei adesso è magra come un chiodo. Ho sempre trovato simpatiche le big girls, credo che siano ragazze che non hanno paura di mettersi in gioco. So che un sacco di persone sovrappeso si trovano a disagio soltanto ad uscire di casa. Be’ cazzo, le mie big girls si mettono a ballare di fronte ad una folla con i vestiti più sexy che ho mai visto! Sono fighe.
   «Ti stai per sposare?»
   «Chi? Io? No, no, mia sorella. Questa è la festa per il suo fidanzato.»
  «Ah, e qual è? Fammelo vedere. Dico alle ragazze che è il festeggiato.» Andrea si precipita di corsa verso il corridoio e scende i gradini per vedere la piccola folla di ragazzi accumulata di fronte al palco. Fortuné, approfittando della mia assenza, si è avvicinato per guardare da vicino. Adesso vado a prenderlo in giro.
   «Eccolo, è quello lì», le dico indicando Richard, che esibisce il suo sorriso più imbarazzato e cerca di voltare la testa da tutte le parti tranne che sul palco. Ma sì, in fondo è un tipo a posto. Mia sorella è sempre stata fortunata con i ragazzi, tutti quelli bravi li trovava lei… poi li mollava, e in un certo senso la cosa mi ha sempre dato un piacere viscerale. Richard è stato il primo e unico che è sopravvissuto per più di quattro mesi, dev’essere amore.
   «Non sembra che si stia divertendo», commenta Andrea ridacchiando. «Non importa, meglio per tua sorella. Mi dispiacerebbe se fosse il contrario. Anche se non sono affari miei. Allora ci vediamo dopo, d’accordo? Devo tornare il scena fra… una canzone e mezza.» Sorride e fa per andarsene, ma io la fermo.
   «Andrea», lei si volta, «Perché non mi hai detto che lavori qui?»
   Lei fa una smorfia e si stringe nelle spalle. «Non so mai che reazione ha la gente quando dico che lavoro in uno strip club, così non lo dico e basta.»
   «Oh… sensato.» Lei sorride e fa per andarsene di nuovo, ma io le chiedo quando ci vedremo una prossima volta.
  «Domani devo correre un po’ dappertutto, praticamente tutti gli uffici comunali della città e di fuori. Qualcuno mi ha lasciato in eredità una casa. Ci credi? Una casa intera! Spero solo che non si scopra alla fine che è tutto un errore.»
   Ci mettiamo d’accordo per Lunedì prossimo.

   La pizzeria che ho scelto si trova in centro e ha l’aria di un locale rustico dove impastano ancora a mano. A giudicare dalle braccia del pizzaiolo è proprio così, comunque come posto è davvero bello.
   «Uno per due.» Il cameriere è un ragazzo che avrà sì e no vent’anni, alto, forse coreano o giù di lì. Molto professionale, ci porta al tavolo e prende le ordinazioni sorridendo tutto il tempo.
   «Come va con la tua casa in eredità?»
   «Bene! Ho scoperto che è mia.» Andrea sorride e disfa la scultura fatta con il tovagliolo. Io non voglio disfare la mia, è così bella. «In pratica apparteneva a uno zio di mio padre.»
   «Ma va? Aspetta… uno zio di tuo padre, quindi il fratello di uno dei tuoi nonni.»
   «Della nonna paterna. A quanto pare non aveva figli, né aveva più fratelli, e gli rimanevano solo i nipoti.»
   «Ah, capito. E dov’è questa casa?»
  «È in campagna, fuori Hastings. Non appena ho un minuto andrò a vederla. Mi hanno fatto vedere delle foto, sembra una baracca vista da fuori.»
   «Ah sì? Che sfiga.»
   «Insomma, probabilmente non è così male: è grande, ha tante stanze a quanto mi dicono, e l’impianto elettrico è stato rifatto cinque o sei anni fa. Dicono che è da ristrutturare.»
   «Ah, perfetto allora.»
   Andrea assume un’aria rassegnata. «Non posso permettermi di ristrutturare una casa intera. Ho il mio mutuo da pagare, e la macchina e tutto quanto. Forse però posso vendere la casa e guadagnarci qualcosa.» Rinfrancata da quell’idea Andrea sorride e dice grazie quando gli mettono la pizza di fronte.
   «Quand’è che fai vacanza in quel posto dove lavori? Scusa se te lo chiedo», disco poi, anticipando la prossima domanda, «ma è legale quello che fai?»
   Lei ride con ancora in bocca la pizza, tenendosi una mano davanti alle labbra. È davvero fine, non lo diresti di una spogliarellista, solo per degli stupidi pregiudizi. «Sì, è legale. O almeno, io non mi sono mai spinta più in là del mio lavoro. Ci sono ragazze che lo fanno, di certo porta più soldi, ma è meno sicuro: possono arrestarti se ti scoprono, o possono prendersi certe libertà.»
   «Cioè?» Mio malgrado sono interessato. È uno di quegli interessi morbosi su cui ti concentri anche se a una parte di te fanno schifo.
   «Voglio dire che non ci si può togliere tutto quanto, devi rimanere almeno con gli slip, per quanto piccoli siano. Alcune ragazze si spogliano del tutto, e si fanno pagare di più.»
   «E com’è possibile che ti scoprano?»
  «I poliziotti in borghese», risponde lei come se niente fosse dando un’alzata di spalle. «A volte vengono, ma si riconoscono subito se sei abituata. Poi, se non è un poliziotto, capita che il tizio in questione s’immagina che vuoi andare a letto con lui e che sei tipo una prostituta o qualcosa del genere.»
   «Oh…» Deglutisco e bevo un sorso di birra. Parlare di queste cose mi mette leggermente in imbarazzo. «Come mai lavori lì?»
   Andrea abbassa gli occhi e sembra molto, molto concentrata sulla sua pizza e su come tagliarla in maniera ergonomica. «È capitato.» Per un po’ sta in silenzio, poi si riprende tutta ed esclama: «Ah! Mi avevi chiesto se faccio le ferie. Certo che le faccio. Il locale è chiuso ogni Domenica e Lunedì, e poi quando voglio prendere delle vacanze basta che lo chiedo e io e qualche altra ragazza ci mettiamo d’accordo, perché devono esserci un numero minimo di ragazze in sala, almeno una per ogni tavolo.»
   Una giornata non male, tutto sommato. Abbiamo mangiato, abbiamo fatto un giro per il centro e poi siamo tornati a casa. Andrea è veramente cambiata, ha perso quella timidezza che la caratterizzava quando eravamo a scuola, è diventata vivace e solare.




















Ebbene sì... Andrea è una spogliarellista! u_u Ho letto un libro divertentissimo che parla di spogliarelliste: "Candy Girl - Memorie di una ragazzaccia per bene", di Diablo Cody, ed è da quello che vengono le mie conoscenze in materia. Ve lo consiglio, perché fa ridere un sacco!
A parte questo mi sono divertita a scrivere il capitolo, soprattutto le farneticazioni di Mika riguardo agli spogliarelli e Fortuné-maniaco. Ah, non credo proprio che Zuleika sia sposata, però mi sono presa una licenza poetica, diciamo così, e l'ho fatta sposare in giovine età solo perché faceva un paradosso con Lollipop (quanto darebbe fastidio a Mika, muahah!).
Vi lascio allo spoiler del prossimo capitolo, voi potete lasciare una recensione, ah! xD
Auguri a tutte le mamme che leggono o alle mamme di coloro che leggono =)
A Domenica prossima,
Patrizia

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Capitolo 3
*** Rain, o Frappuccino medico ***


Capitolo tre
Rain
o Frappucino medico





   Siamo a Maggio, eppure è da tre giorni che c’è nuvolo. Dov’è finito il sole? Maledetto, e io che volevo andare al mare un giorno, magari lo dicevo ad Andrea e andavamo assieme. Ma a guardare il meteo c’è nuvolo anche sulla costa. Mi sto abituando alla presenza di Andrea, a sentirla quasi tutti i giorni. Non uso i messaggi così spesso, non mi piace. Per qualche motivo preferisco internet e le mail, anche dal telefono. Comunque, una volta scoperto che Andrea ha una casella mail ci mandiamo messaggi praticamente tutti i giorni. Non per forza messaggi lunghi, a volte solo per metterci d’accordo per uscire, o per chiedere “Come va?” e dopo tre ore vedersi rispondere un laconico “Tutto ok”.
   La settimana scorsa Zuleika e Richard si sono sposati. Il matrimonio è stato bellissimo, c’era tutta la famiglia, gli amici più stretti, e siamo rimasti in piedi a festeggiare fino a tardi, mentre mia sorella e Richard si godevano la loro prima notte di nozze. Hanno preso le ferie in concomitanza ma partiranno solo fra una settimana. Cavolo, almeno loro a Rio troveranno il sole.
   È Domenica quando mi sveglio nel mio appartamento e, dopo essermi fatto una doccia e la colazione, passo finalmente in salotto e tiro su le serrande. Piove. Non ci posso credere, siamo a Maggio e piove. Pioggia vera! Intendo dire che non sono quattro gocce, è un cazzo di torrente che viene giù dal cielo, come se qualcuno avesse piazzato una cascata del Niagara di fronte alla mia finestra.
   Oggi non avevo in programma di fare un gran che, comunque.
   Accendo il telefono e trovo una chiamata persa. Andrea. Ha chiamato ieri notte quasi all’una… Io sarò anche un pigro, però se posso all’una dormo. Sarà la spasmodica ricerca di un orario normale quando non lavoro come un folle. La richiamo e mi risponde la sua voce assonnata. Guardo l’ora e mi accorgo che sono le dieci del mattino, probabilmente a quest’ora dorme.
   «Pronto?»
  «Ciao Andy sono io. Cioè, Michael.» Cavolo, non so mai riconoscere quando si è abbastanza in confidenza da dire “sono io” e sperare che l’altro non la prenda come una minaccia da parte del maniaco di Scream.
   «Lo so chi sei Michael, sei l’unico Michael sulla mia rubrica. Ma lo sai che ore sono?»
   «Scusa, mi sono dimenticato. Volevo sapere se ti andava di prendere qualcosa da bere stasera assieme prima di andare al lavoro.»
   «Oggi ho pausa, non vado a lavorare. Ho fatto a cambio con una ragazza: mi è venuta un po’ d’influenza. A Maggio, ti rendi conto? È colpa di questo tempo di merda. Nessuno vuole vedere una ballerina con il naso pieno di caccole che tossisce come un camionista.»
   «Ah, mi dispiace. Vuoi qualcosa? Voglio dire… sei da sola in casa?»
   «Sì.»
   «Vuoi che venga a farti compagnia o preferisci riposarti?»
   Attimo di pausa dall’altra parte del telefono. Forse si è addormentata. «D’accordo. Vieni dopo pranzo okay?»
   «Dove abiti?»
   Mi dà l’indirizzo e ci salutiamo.
   Mi rendo conto ancora una volta di non sapere nulla di lei. So solo il suo indirizzo, la sua mail, so che fa la spogliarellista e che ha una casa in eredità. Poi basta. Il fatto è che lei ha un dono: quello di parlare di qualunque cosa per ore e ore. Potrebbe scrivere una tesi perfino sui marciapiedi di Londra. In pratica, però, non so che ne è della sua famiglia, non so come sono i suoi amici,  non so se ha un fidanzato, non so neanche qual è il suo colore preferito.
   A questo problema devo porre rimedio.

   «Qual è il tuo colore preferito?»
   «Ciao.»
   «Hai un aspetto orribile, fai davvero schifo.»
   «Grazie.»
   «Allora, questo colore?»
  «Verde, perché è quello con più sfumature. Il blu è noioso, il giallo troppo intenso, il rosso è scontato.» Andrea allunga un braccio per prendere il mio ombrello e lo ficca nel portaombrelli, oscurato in un angolo dietro la porta. «Metti la giacca lì.» Mi indica uno sgabuzzino.
   «Ho una cosa per te. Per noi», rettifico poi indicando il sacchetto di plastica che ho in mano. «È contro la tua influenza.»
   «Grazie.»
   La casa di Andrea è grande ma in pratica ha solo due stanze. Un ampio salotto diviso dalla cucina solo da un arco gigante che occupa quasi tutta la parete, il che fa sembrare cucina e sala un’unica grande camera, poi c’è una camera da letto, molto grande anche quella, e il bagno.
   Fuori piove sempre più forte, sui vetri le gocce si spiaccicano con quel suono sordo che fa sembrare la casa bombardata da mille proiettili. Noi comunque siamo al sicuro, siamo seduti attorno al tavolo circolare e ci gustiamo un frappuccino al cioccolato. Un rimedio ottimo contro tutti i mali, dal raffreddore all’ansia.
   «Quindi oggi e domani sei in vacanza. Che fai?»
   «Guarisco. Se Martedì non torno perdo una serata intera.»
   «Paga molto quel locale?»
   «Abbastanza. Loro pagano poco al mese, ma si guadagnano un sacco di soldi con le mance.»
   «Davvero? Da quanto lavori lì?»
  «Due anni. Praticamente sono una veterana. Sono una di quelle che dura di più in quel posto, la maggior parte delle ragazze che lo fanno rimangono lì qualche mese, un anno al massimo, e poi se ne vanno. Di solito sono ragazze con un sacco di problemi. Chi ha figli che non riesce a mantenere, chi viaggia di qua e di là, chi non trova un altro lavoro. Il fatto è che per molti versi è un lavoro logorante, se lo prendi per il verso sbagliato.»
  Andrea sorseggia il suo frappuccino e non mi guarda negli occhi. Io rimescolo un po’ il mio prima di dire: «Parli di loro come se fossero qualcosa a parte. Tu come mai lavori lì?»
   «È un modo facile per guadagnare tanti soldi.»
   D’accordo, non lo aveva detto, ma si capiva: Andrea aveva bisogno di soldi. Perché? Dio, sono un maledetto ficcanaso! Adoro spettegolare! «Tu… hai bisogno di soldi?», domando cauto.
   «E chi non ne ha?» Sorride, ma è nervosa. Una pessima bugiarda, ma bravissima a dire mezze verità.
  «Già.» Abbozzo un sorriso e guardo fuori dalla finestra. Piove ancora. «Ah, odio i giorni come questo. Andare in giro con la pioggia è scomodo.»
   «Sono d’accordo.»
   Rimaniamo in silenzio per un po’, leggermente in tensione per il discorso di prima.
   «Comunque, sto cercando un altro lavoro.»
   «Come mai?», chiedo con genuina curiosità.
   Andrea sorride un poco. «Ho quasi trent’anni, non potrò fare la ballerina per sempre. Un giorno mi cadranno le tette e nessuno vorrà più guardarle. Prima di allora, preferisco ritirarmi dignitosamente e trovare qualcos’altro da fare.»
   Un’idea folle mi balena in testa, un’idea veramente pessima e brillante assieme. «Andrea, vorresti lavorare con me?»

   Le parole rimangono sospese nell’aria e nello stesso istante in cui finisco di dirle mi rendo conto di aver detto qualcosa di sbagliato. Andrea si alza e getta il suo frappuccino nel cestino, la testa bassa e gli occhi amareggiati, ma fa finta di niente. Torna a sedersi e dice: «Per fare cosa? Ti serve qualcuno che ti organizzi le giornate?»
   «No, mi serve una corista.»
   Lei mi guarda con espressione indecifrabile. Rimaniamo così a guardarci per non so quanto. «Non… credo di essere la persona adatta.»
  «Come no?!», esclamo voltando la testa e seguendola con gli occhi mentre si allontana dal tavolo e mette a posto un po’ la cucina. Quella ragazza è davvero trasparente: si impegna in qualcosa per non dover parlare con me. «Andiamo, perché no? Sei bravissima!»
  «Non è un lavoro sicuro, quando finisci di registrare l’album e di fare un tour io rimango senza lavoro. Nessuno ti impedisce di rimanere in pausa per i prossimi dieci anni e darti all’ippica.»
   «Veramente il mio manager me lo impedirebbe di sicuro, ma a parte questo…»
   «Senti Michael, mi fa piacere la proposta, ma è da tanto che non canto più. Non credo di essere la persona adatta.»
   «Vuol dire che vuoi fare la segretaria, o la spazzina, o che so io?» Mi alzo e getto il mio frappuccino ormai vuoto. «Tu hai una voce magnifica, hai studiato perché diventasse ancora migliore, dovresti usarla.» Mi avvicino a lei, che si è girata e mi guarda con una mano appoggiata al piano della cucina e tamburella le dita in segno d’impazienza.
   «Io non credo che sia una buona idea. Ho bisogno di un posto fisso. Sai quanto costa questa baracca a due camere?», domanda facendo un gesto esasperato a indicare la casa.
   «Scommetto che solo con l’incisione dell’album saresti in grado di pagare i prossimi sei mesi. E il tour ancora non è finito, c’è tutto Settembre, Ottobre e Novembre ancora, il tour Europeo. Andremo a Parigi, a Milano, a Roma, a… che ne so, in Australia.»
   «Ma l’Australia non è in Europa.»
  «Lo so ma era per dire. Non ti va di vedere tutti questi posti? A volte – poche volte, vabbè – ci fermiamo un pomeriggio in più prima di ripartire. Ce n’è di tempo per visitare un po’ la città.»
   «No, grazie.» Andrea sorride e si dondola sui piedi. «Non posso proprio muovermi dalla città, tanto meno per lunghi periodi.» Sembra quasi soddisfatta di aver trovato una scusa plausibile, di avere un motivo valido per non farlo.
   «Come mai?»
   «Impegni di famiglia, devo essere sempre reperibile e poter raggiungere… tutta la città, in tempo.» Borbotta qualcosa e poi dice di aspettarla un attimo mentre va in bagno. Un vero peccato. Soprattutto adesso che Imma è impegnatissima con il suo album. Non può dividersi i due, poveretta, e io non potrei mai chiederle di rinunciare alla sua carriera da solista per fare il coro a me. Per cui cerchiamo una cantante diversa, però io non posso costringere nessuno. Quando torna le dico che comunque fa bene a trovarsi un altro lavoro, lei sorride e dice: «Non sarai mica preoccupato per la mia incolumità?»
   «Più o meno. È come dici tu, non è un lavoro che puoi fare fino a che non vai in pensione.»
   «Cristo, t’immagini? A ottant’anni ancora sui tacchi, credo che morirei prima… di vergogna probabilmente.» Assume un’aria seria e poi dice: «Comunque… le tue coriste sono le stesse per il tour e per la registrazione del cd?»
   «Non tutte. Di solito per il cd ce ne sono di più, a volte chiamiamo dei cori interi, delle orchestre intere, per i live ne bastano anche due o al massimo tre.»
   Andrea ci pensa e nel frattempo si soffia il naso. «Capisco. Comunque non c’è fretta, hai appena fatto uscire l’ultimo cd.»
   «Ci stai pensando per caso?»
   «Non mi dispiacerebbe, se si tratta di rimanere a Londra.»
   Batto un palmo sul tavolo, trionfante. «Bene, perfetto! Intanto puoi aiutarmi con un paio di canzoni che mi sono venute in mente poco fa. Di solito ci lavoro da solo all’inizio, e se serve il coro me lo immagino, o comunque viene inserito dopo assieme a tutti gli altri. Ma se ti va di perdere un po’ di tempo possiamo fare qualcosa assieme, solo con la base a pianoforte. Solo per provare. Così ricominci a cantare, non canti più da tanto dici?»
   «No, fra una cosa e l’altra da fare ho smesso. Comunque sono stufa di ballare al Jewel, non è proprio il massimo, se lo prendi per il verso sbagliato può essere orribile.»
   «E tu lo prendi così?», domando corrugando le sopracciglia. Sono stranito, se ha resistito per due anni significa che non era proprio distrutta, oppure che era disperata.
   «Diciamo che, ultimamente, ci sto pensando tanto. Vedo quel che sei riuscito a fare tu, poi è morto Pagnin, e mi vengono in mente tutti gli anni scorsi. Ho sprecato tante occasioni. Ma fare la spogliarellista non è il sogno di una vita, diciamocelo, e credo di essere pronta per fare qualcosa di più di questo
   Sorrido un poco mentre la guardo. Poi starnutisco. Oh no.

   Ha finalmente smesso di piovere, sono passate due settimane da quando ho proposto ad Andrea di aiutarmi a mettere a posto un paio di nuove canzoni. Le ho chiesto se vuole venire a casa mia una mattina, e lei ha detto sì. In casa ho una stanza che è pensata apposta per suonare. Ho fatto insonorizzare i muri, dentro c’è il piano, un tavolino, un divano, anche un mini frigorifero per metterci l’acqua. Io suono solo il piano, per cui qui dentro c’è solo il piano e i microfoni. Ma vivo in una villetta a schiera, e non voglio che qualcuno venga a lagnarsi del casino. A volte sono capace di cantare ore intere, anche di notte quando non riesco a dormire. A parte questo, è una stanza multiuso per la musica, c’è un armadio gigante con dentro solo dischi in vinile e cd, uno stereo e i documenti della casa discografica. Posso essere ordinato quando voglio!
   «Ciao, ti ho portato la colazione.» Andrea sorride mostrandomi il sacchetto di carta di Starbucks. «Per il frappuccino dell’altro giorno, dovevo ripagarti.»
   «Ah, grazie. Entra.» La porto in cucina e ci sediamo al tavolo per mangiare.
   Ha comprato una colazione che andrebbe bene per sei persone: due cappuccini, due brioche con gusti diversi, un muffin con mirtilli e una fetta di torta alle mele. Al mio sguardo si stringe nelle spalle e dice: «Non so cosa ti piace, quindi…» Io attacco la torta.
   Una volta che finiamo di mangiare le faccio sentire le due canzoni e le mostro il testo. Lei dice che sono belle, che le piacciono, e le chiedo di impararle se le va di cantarle assieme. I duetti mi divertono sempre molto. Andrea accenna qualche nota incerta, come se si vergognasse, e i suoi occhi scattano sempre su di me. Be’, che vuole? Non sbaglia una nota, ha solo parecchie incertezze.
   Dopo un paio d’ore la smettiamo, mi volto verso di lei dallo sgabello del piano, sorrido. «Sei molto brava.»
   «Grazie.»
   «Considerando che non canti da anni…»
   «Oh, non è vero che non canto. Canto quando mi capita, canto in casa mia in maniera abbastanza seria, ma nessuno mi sente, e soprattutto nessuno mi dice cosa sbaglio.» Andrea si siede sul divanetto, prende un po’ d’acqua e beve. «Ho bevuto come un cavallo, adesso devo fare pipì. Dove…?» Le indico la porta giusta e me ne torno nella stanza della musica. Quasi subito un vibrare sordo mi fa distrarre. Il cellulare di Andrea è posato sul divano, con il display che s’illumina a intermittenza. Lo prendo in mano e leggo: John.
   Uno squillo. Due squilli. Tre squilli.
   Che faccio?
   Quattro, cinque.
   Pigio il pulsante e dico: «Pronto?»
   «Andrea?» Una voce profonda, di uomo, sta dall’altra parte del telefono.
   «Sono un suo amico, se vuole le dico di richiamare, sarà qui fra cinque minuti.»
   «D’accordo, le dica di chiamare il mio studio e di fissare un appuntamento il più presto possibile.»
   «Lo studio di chi?»
   «Lo studio del suo dottore.»
   «Ah… D’accordo. Nel caso, le dico comunque di richiamarla.»
   «Grazie mille, scusi per il disturbo.»
   «Si figuri.»
  Metto giù il telefono, e spero di non aver fatto una cosa maleducata a rispondere. Sembra roba privata. Tutte quelle cose lì, gli ospedali, o anche gli strip club, sembrano roba privata, sembrano roba che se ci ficchi il naso sei uno che non sa farsi gli affari suoi. E io sono un gran ficcanaso, in effetti. Andrea torna e io le porgo il telefono. Scelgo una frase neutra per dirglielo: «Ha chiamato uno. Uno- John, dice di richiamare.»
   Andrea spalanca gli occhi e mi guarda con qualcosa simile al disgusto in viso. Evidentemente la mia frase neutra non era affatto neutra. «Che cosa ha detto?»
   «Niente. Gli ho detto che eri in bagno e lui ha detto di fissare un appuntamento con lui.»
   «Perché hai risposto al mio telefono?»
   «Perché…», alzo le braccia e le faccio ricadere, «Uff, non lo so. Non so mai cosa fare quando squilla un telefono. Se era urgente ti saresti persa la chiamata, se non lo era almeno lo sapevi. Che ne so io?»
   Andrea mette il telefono in tasca e mi guarda per un attimo incerta su cosa fare. Alla fine esce dalla stanza dicendo: «Ci sentiamo, okay? Devo andare, grazie di tutto.»




















Buonsalve! Qui il tempo è orribile, spero che tu, lettore, te la stia passando meglio di me.
Vorrei subito fugare un dubbio importante riguardo al capitolo, così nessuno me lo chiede nelle recensioni: Andrea non ha una malattia incurabile! La storia del dottore è qualcosa di diverso (muahahah! Non ve lo dico cos'è, altrimenti poi mi accusate di sadismo u_u) che si svelerà più avanti.
Qui inizia ufficialmente il mistero della fanfiction, e nei prossimi capitoli Mika e Andrea passeranno un po' di tempo assieme per affezionarsi, perché l'ho pensata bene, e poi perché dovevo sfruttare venticinque maledette canzoni, che sono veramente tante. Il punto è : romantici di tutto il mondo, unitevi!
Passando ad altre piccole cose spero che avrete, prima o poi, l'occasione di prendere un frappuccino da Starbucks, perché è qualcosa di magnifico! Io l'ho preso in gita a Parigi e me ne sono culinariamente innamorata (per quattro dei sei giorni in cui siamo stati a Parigi io ho mangiato frappuccino).
Devo ammetterlo, non so nulla di come si registra un album per cui tutto ciò che ho sparato su coriste e prove e sale adibite alla musica sono azzardi. Se qualcuno pensa che siano ridicoli me lo può dire e provvederò a vergognarmi come un cane e informarmi un po' di più.
Per sapere quale sarà la prossima canzone/capitolo ecco qui lo spoiler.
Augurio per una buona prossima settimana!
Patrizia

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Capitolo 4
*** By the time, o Nuovi maniaci ***


Capitolo quattro
By the time
o Nuovi maniaci





   Primo giorno di Giugno, sto dormendo. Il campanello squilla.
   Oh, no, non svegliatemi, non voglio svegliarmi, non posso svegliarmi.
   Il campanello ignora le mie proteste silenziose e dopo un po’ squilla una seconda volta.
   Maledizione!
   «Chi è?»
   «Sono Andrea», fa la voce gracchiante al citofono. Le apro la porta e cerco qualcosa da mettere. Non dormo nudo, ma non è bello presentarsi in mutande, così almeno indosso dei pantaloncini. Fa caldo, ma una delle cose belle di essere uomo è che posso stare a torso nudo, e nessuno mi guarderà le tette, perché non le ho!
   «Ho visto che ti piacciono le torte, te ne ho fatta una. Cioccolato e amaretti.» Andrea compare di fronte alla mia porta con in mano un grosso piatto coperto da una forma per torte.
   «Ma dai, grazie.» La faccio entrare e lei posa la torta in cucina.
   «Ascolta», comincia a testa bassa, «mi dispiace per come ho reagito l’altro giorno, è che è una cosa delicata. Niente di preoccupante, solo una storia un po’ pallosa che non mi va di raccontare.» Sorride per tentare di dissipare una coltre di pesantezza che sta stagnando nella mia cucina. «Quindi… mi chiedevo se ti andava di accompagnarmi, dopo il week end, a Hastings, per vedere quella famosa casa.»
   «Quando?»
   «Partiamo Lunedì pomeriggio e torniamo per Martedì sera. Che ne dici?»
   «Sì, d’accordo», dico scrollando le spalle.
   «Stavo pensando che potevamo fare una cosa bella: andiamo lì, dormiamo lì tipo campeggio, andiamo al mare e poi torniamo a casa. Io volevo fare delle foto, vedere un po’ com’era conciata, e poi contattare qualcuno eventualmente per poterla vendere o vedo poi che fare. L’importante…!»
   «È andare a vederla», completai.
   «No! È andare al mare», fa Andrea solennemente.

   Il mare, nel sud del paese, non è fra i miei preferiti. Principalmente perché ci sono tanti altri mari che ho visto che sono molto più belli di quello, ma quando ti invitano ad un’avventurosa scampagnata è meglio non essere schizzinosi.
   Arriviamo in città e ci mettiamo quasi un’ora a trovare la casa. È sperduta appena fuori Hastings, in una piccola via sterrata lontana dal paese più vicino un miglio e mezzo. A vederla da fuori è veramente vecchia: a due piani, con uno di quei tetti a punta in tegole rosse spioventi. Sembra uscita da un film dell’orrore.
   «Mi hanno dato le chiavi un paio di giorni fa», dice Andrea spegnando l’auto e osservando la facciata. Poi tira fuori dalla borsa un mazzo di chiavi che ne conterrà almeno una decina. «E adesso credo che ci metteremo un po’.» Ma siamo fortunati: peschiamo quasi subito la chiave giusta al quarto tentativo. La porta è una bella porta antica in legno, con il pomello in ottone.
   «Cavolo…», sussurro entrando guardandomi attorno. La casa è enorme, si entra in un corridoio e di fronte ci sono le scale. Ci sono tre stanze sulla destra e due sulla sinistra. Tutto è ancora arredato con mobili vecchi e c’è odore di stantio e chiuso. «Apriamo le finestre», propongo, dirigendomi verso la prima stanza e spalancando porta e finestre. Per fortuna che il sole tramonta un po’ più tardi, perché quando provo l’interruttore della luce quella non si accende.
   «Mi sembra di stare in un film dei Piccoli Brividi», dice Andrea lasciando la borsa su un divano di pelle marrone.
   «Infatti… Andiamo a vedere su?»
  Dopo due ore di peregrinazione scopriamo che la casa ha un grosso salotto, una sala da pranzo, una cucina, due bagni (uno per ogni piano), uno studio, tre camere da letto e un ripostiglio. C’è anche la cantina, la soffitta e una specie di capanno degli attrezzi. I mobili sono pieni di cose, come se la casa fosse ancora abitata, montagne di camicie infeltrite, scatolame in cucina, soprammobili brutti e vecchi. Questo zio non aveva affatto il senso dell’estetica.
   «Ho trovato delle candele!», annuncia Andrea entrando in salotto. «Ci saranno utili, stanotte, se vorremmo andare in bagno.»
   «Per fortuna che c’è l’acqua.»
   «C’è l’acqua, c’è il gas. Manca solo la luce.» Soppesa le candele, pensosa. «Ce l’hai un accendino?»
   «No, però possiamo andare a comprarlo.»
   «D’accordo. Pensavo di andare a mangiare fuori, va bene?»
   Apro un armadietto della cucina. «Di sicuro qui non c’è nulla di commestibile», dico chiudendolo di scatto. Credo di aver visto una scatola di fagioli arrugginita, chiusa. Se ci sono dei fagioli lì dentro, credo che saranno loro a mangiare me. «Non è niente male comunque», dico ad Andrea guardandomi attorno. «A parte tutte le cose da buttare i muri sono buoni, niente macchie di umido né muffa. Gli infissi sono vecchi, è vero, ma non sono da cambiare, solo un po’ brutti da vedere. Magari li puoi riverniciare.»
   Lei si volta verso di me, sorridendo. «Te ne intendi.»
   «No, sto sparando a caso frasi che suonano fighe.»
  Andiamo fuori a mangiare, troviamo una trattoria piccola piena di gente. Ordino una bistecca che è grande come un bambino di dodici anni, infatti non riesco a finirla. Quando torniamo a casa è buio, accendiamo le fedeli candele e riusciamo ad arrangiare due letti singoli che stanno in una delle stanze. Andrea è molto previdente: aveva portato delle coperte con sé, per cambiare quelle vecchie. Ora capisco perché ha riempito un intero trolley e un borsone da ginnastica, che mi erano sembrati esagerati per una gitarella di due giorni.
   La mattina dopo mi sveglio perché il sole filtra dalle finestre. Lancio un’occhiata ad Andrea, che è stesa a pancia in sotto sul letto di fianco al mio. Mi alzo, vado in bagno, mi guardo un po’ in giro. Certo che come casa è veramente enorme. Torno in camera e mi appoggio allo stipite, le braccia incrociate.
   Non sono stupido, so che sta succedendo qualcosa. E purtroppo succede a tutti e due. A lei succede che c’è qualcosa che non mi dice, e potevo capirlo all’inizio quando ci eravamo incontrati da poco, ma adesso parliamo praticamente tutti i giorni da un mese, è come se il processo di conoscimento fosse stato accelerato, siamo in simbiosi. A me, invece, succede che Andrea comincia a piacermi. Non è una cosa molto forte, insomma ci conosciamo da poco ma io sono uno di quei tipi che si fissa con gli altri in fretta. Se una persona mi piace, mi piace da subito. Sarò anche ingenuo, ma sono così. E, cavolo, Andrea mi piace. Penso che sia una ragazza carina, anche se a volte dice a tutti cose che potrebbe tenersi per sé (tipo che deve fare pipì) e anche se nasconde qualcosa. Anzi, forse questo ha contribuito a farla ancora più interessante ai miei occhi.
   Mi avvicino silenzioso e prendo i miei vestiti dalla borsa che mi sono portato. Mio malgrado, mi fermo ancora a guardarla. Lei si muove nel letto a una piazza e mi accorgo che è sveglia, si gira verso di me con gli occhi cisposi, se li strofina e poi biascica: «Cavolo Michael. Io sto sognando e tu ti avvicini tutto furtivo mentre dormo, che cosa dovrei pensare di te?»
   «Che sono un maniaco?», domando sorridendo. Raccatto i miei vestiti e penso che forse, in fondo, maniaco lo sto diventando.

   Mi è sempre piaciuto il mare, quando ero bambino ci andavamo sempre io e la mia famiglia e ho dei ricordi bellissimi. Per questo una delle vacanze perfette, per me, deve avere a che fare con il mare. Andare al mare con Andrea prometteva di essere un’occasione d’oro, ma sinceramente adesso che sono qui sulla spiaggia e mi sto abbrustolendo sotto il sole non penso più a lei così tanto. Anche se, certo, poteva evitare quel mini costume che si è messa. Fa vedere praticamente tutto, soprattutto la parte sotto, ma anche quella sopra! No anzi… ma lasciamo perdere va’.
   «Vuoi un po’ di crema?», domanda Andrea passandomi la sua.
   «Sì grazie. Non ho pensato proprio a niente, non ho neanche un altro asciugamano.»
   «Ti presto il mio se vuoi.»
  «No, non importa. Mi asciugo sotto il sole, non mi dispiace.» E dire che dovrei essere abituato a viaggiare. Dovrei aver capito quali sono le cose importanti che devi sempre avere dietro. «Me la passi sulla schiena?», domando sedendomi a gambe incrociate e girandomi dandole le spalle.
   «Eccomi.» Lei si alza e mi spalma come un body builder a Mr. Olimpia.
   «Certo che sei preparata a tutte le eventualità.»
  «Mi viene naturale. In famiglia pensavo a un sacco di cose anche per la mia sorellina minore, è una specie di istinto materno fra sorelle.» Andrea sorride e poi si alza e si para di fronte a me. «Allora? Andiamo a fare il bagno?»
   «Certo.»
   Come al solito, entrare in acqua è una specie di scandalo pubblico. Tutti ti guardano e vedono come affronti le maligne onde alte sei centimetri. C’è stato un periodo in cui saltavo per cercare di evitarle, poi però cadevo sempre in acqua fino al collo e quindi i miei salti erano vani. Adesso la mia tattica è una lenta e calma camminata, durante la quale mi bagno la pancia, le braccia, la schiena, e quando mi immergo sono convinto di essere fisicamente e psicologicamente pronto, anche se non è così. Tanto, poi ci si abitua subito. Il fatto è che farla così drammatica è nella mia natura.
  Io e Andrea siamo immersi fino alle ginocchia, quando un’onda innaturalmente grande (arriverà almeno all’ombelico, la bastarda!) ci arriva addosso. Io strillo, lei strilla, tutti strilliamo!, e cado in acqua. Ovviamente. Mi rialzo sputacchiando. Adesso posso starmene tranquillo a guardarla soffrire. E infierisco. «Dai, buttati.»
   «Ma che scherzi?»
   «Ah, due secondi dopo sei già lì che nuoti.»
   «Senti, sono anni che non vado al mare, va bene? Non lo ricordavo così traumatizzante.»
   «Esagerata!», esclamo cominciando a spruzzarle piccole goccioline addosso. Il bianco della crema che ha sul petto e sulle spalle luccica sotto il sole.
  «D’accordo!», esclama lei prima di immergersi tappandosi il naso. Fa un paio di bracciate verso il fondo, poi si rialza. L’acqua le arriva già sopra l’ombelico. «Sai nuotare?»
   «Sì.»
   «Anch’io. Senti… lì dev’esserci una secca», dice indicando un punto più profondo dove sembra che la gente cammini sull’acqua, «andiamo?»
   «Okay.» Faccio qualche bracciata, supero Andrea, mi volto e rido. Avanza goffa e lenta. «Oh, menomale che sai nuotare!»
   «Non sono più abituata! Antipatico», borbotta guardandomi storto mentre mi supera a fatica. «E comunque guarda che da piccola ho fatto un corso di nuoto.»
   «Ah, sì? E quanti anni sono passati?»
   «Solo una quindicina, più o meno.»
   «Aspetta, tu non hai la mia età.» Ad un tratto un piede tocca il fondo sabbioso e io comincio a camminare lentamente. Poco più avanti anche Andrea tocca.
   «Tu eri un anno avanti a me alla Royal, no? Faccio ventinove anni a Settembre.»
   «Io li compio ad Agosto. Sei ufficiosamente invitata alla mia festa.» Cavolo io ne compio trenta, mi sento vecchio.
   «Perché ufficiosamente?»
   «Perché ancora non ho organizzato una festa, mancano due mesi.»
   «Giusto…»
   L’acqua ci arriva ormai alle cosce ma la spiaggia è lontana. Le nostre postazioni con sdraio e ombrello sono irriconoscibili in mezzo a tutte le altre uguali.
   «Pensavo che potremmo fissare dei giorni per le nostre prove di canto, che ne dici?», domanda Andrea inginocchiandosi e sedendosi sulla sabbia, in acqua. Io la raggiungo.
   «Mi sembra una buona idea. Io sono abituato a lavorare, quando incido un album, tutto il giorno tutti i giorni. Alla fine finisci per odiare tutti quelli che lavorano con te e dare a loro la colpa della fame nel mondo, ma con un caffè poi tutto passa. Comunque non dobbiamo farlo tutti i giorni, immagino che tu abbia altri impegni, e poi queste sono solo due canzoni che mi sono venute in mente così. Quindi pensavo: tre volte alla settimana, eh?»
   «Sì, mi va bene. Lunedì, Mercoledì, Venerdì. Eh?»
  «Perfetto. Quindi… Oh Cristo!» Mi alzo dall’acqua e scivolo via a fatica verso la spiaggia. Dei pesci grossi come rinoceronti nuotano in branco e si avvicinano a noi.
   Andrea li vede e sorride, poi si alza e mi segue. «Che fai? Hai paura?»
   «Mi fanno schifo, è una cosa diversa. Se fossero cucinati e serviti mi starebbero molto più simpatici.» Arranco verso la riva.
   «Sono grossi come un cucchiaino da caffè.»
   «Ma stai scherzando? Sembrano dei fottuti delfini!»
   Andrea ride e mi segue sulla spiaggia. Quindici minuti dopo ha ancora voglia di prendermi in giro per la mia fobia dei pesci. Mi chiedo come la gente non se ne renda conto, sono orribili, viscidi e ti strisciano in fondo ai piedi, di modo che non te ne accorgi! Sono geni del male.




















Eccomi di ritorno con il quarto capitolo.
Allora, mi pare che Mika abbia veramente paura dei pesci, se non erro xD Credo di averlo letto da qualche parte, tipo le curiosità di Wikipedia o cose del genere. Non potevo non sfruttare questa informazione!
Poi, bah, non c'è nulla da dire su questo capitolo, solo che potreste lasciare una recensione piccina picciò per dirmi che ne pensate di questo Mika che si sta innamorando (o quasi)!
Il prossimo capitolo sarà pieno di suspance! ...hm, okay forse no, però spero che metta un po' di curiosità. Per di più ci sarà anche una guest star: Fortuné Penniman! xD Per le amanti di Fortuné, preparatevi psicologicamente u_u Intanto vi lascio lo spoiler. Voi per compensare potete lasciare una recensione! (Vi ho convinto? No eh...)
Buona Domenica
Patrizia

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Capitolo 5
*** Blue eyes, o Fotografie ***


Capitolo cinque
Blue eyes
o Fotografie





  Andrea vuole essere a casa in tempo per farsi una doccia e andare al lavoro con calma. Tenendo conto che da qui a Londra ci vuole più o meno un’ora di macchina partiremo verso le sei. Quindi abbiamo ancora due ore buche in cui esplorare la casa dei fantasmi. In cantina trovo una scala e decidiamo di aprire la botola della soffitta, che si trova in mezzo al corridoio al piano di sopra. Quando la apro si alza una nuvola di polvere che mi fa tossire. «Vuoi salire?»
   «Sì.»
  La soffitta è enorme, tutta impolverata, è grande come tutta la pianta della casa. In fondo ha una finestra tonda, ai lati delle altre finestre quadrate e piccole. In mezzo riesco a camminarci in piedi, ma appena mi sposto verso i lati il tetto scende e mi devo abbassare. Tutto è illuminato dalla luce del sole che filtra anche dalle assi un po’ spaccate. «C’è da rifare il tetto», osserva Andrea.
   Ci sono parecchie scatole in giro, chiedo il permesso di aprirle e Andrea mi dice che non c’è problema. Trovo subito una grossa scatola che contiene tante foto, anche molto vecchie. Foto moderne e foto in bianco e nero. «Vieni a vedere. È possibile che in una di queste foto ci sia anche tu? Se è un tuo prozio deve avere qualche tua foto.» Evidentemente il mio senso di famiglia unita non è così forte anche negli altri. Io ho tantissimi parenti che ci invadono la casa ad ogni santa festa, ma mi rendo conto che non tutte le famiglie sono uguali. Ad esempio, Andrea ha questo zio che non ha mai visto.
  «Non credo che ci siano mie foto, non lo conoscevo neanche.» Si siede al mio fianco a gambe incrociate. Le prime foto sono rovinate dall’acqua. «Forse conviene portare giù della roba, sembra che qui dentro si allaghi tutto quando piove.» Mentre lei scatta delle foto io porto giù un paio di scatoloni. Li apriamo tutti, per vedere se ne vale la pena di salvarli. Alla fine ne portiamo di sotto solo un paio, quello con le foto, uno con delle collane e bracciali e cose del genere. Portiamo via anche un frullatore nuovo di zecca che non può avere più di tre anni (incredibile che l’unica cosa sana della casa sia stata messa in soffitta).
  Personalmente adoro guardare le vecchie foto, per cui mi metto comodo ad osservarle. Anche se non so chi siano quelle persone, le foto vecchie hanno sempre fascino, mi piace pensare a che fine hanno fatto quelle persone. Insomma, l’ennesima cosa inutile che faccio, come la mia mania ossessivo compulsiva di comprare sempre tre cose di ogni prodotto e poi nasconderle per casa, perché «così almeno se ne perdo uno ho l’altro!»
   Andrea si avvicina e comincia a guardare le foto.
   «Riconosci qualcuno?»
   «Qualcuno…», dice lei vaga. Il suo telefono squilla, lei risponde. «Pronto? Ciao mamma.» Sorride un poco e si alza. «Sì, sono qui. Sì, le ho fatte le foto. No, sono con un mio amico.» Andrea assume un’aria annoiata. «No, non è un agente immobiliare.» Pausa. «No, neanche un architetto.» Pausa. «No.» Pausa. «No.» Pausa. «No mamma, è un vecchio compagno della Royal, fa il cantante.» Stacca il telefono dall’orecchio e mi dice: «Mi ha chiesto in sequenza se sei un muratore, un elettricista o un idraulico.»
   «Che donna pratica!»
   Andrea continua a parlare, ma si sposta in corridoio. Dopo quasi cinque minuti non la sento più e la conversazione si sta facendo lunga. Mi alzo per vedere dove sia finita, non sia mai che è stata mangiata da un ratto gigante che ha proliferato grazie alla muffa della casa. Sento la sua voce proveniente dalla sala da pranzo e mi avvicino alla porta socchiusa. Lei è seduta al tavolo, mi dà le spalle, tiene un gomito sul piano e si massaggia la fronte, la testa inclinata. «Lo so, ma è inutile», sta dicendo con voce angosciata. «Susy, non ci riesco, va bene? Tu non dirlo a mamma e papà, d’accordo? Muoiono se vengono a saperlo.» Oh, origliare è una cosa brutta, ma questa non volevo sentirla tutta, davvero. Ho appena fatto in tempo a udire un’altra frase prima di allontanarmi. «Mi sono fatta prescrivere degli antidepressivi da John il mese scorso, e quel lavoro mi aiuta, non mi fa pensare a niente. Comunque, ho preso le pillole che mi ha dato, magari mi aggiustavano un po’, ma quando l’effetto se ne va sei ancora lì che ti chiedi come mai sei ancora triste. Non funziona niente, è inutile. Sono passati quasi quattro anni.»
  Me ne vado. Cavolo, non avrei dovuto ascoltare. Me ne torno in salotto e ricomincio a guardare le foto distrattamente. Dopo due minuti Andrea torna e sorride come se niente fosse, come se due secondi fa non stesse parlando di antidepressivi.
   «Hai trovato dei reperti storici lì dentro?»
   «Veramente niente di niente. E sono davvero troppe per continuare a guardarle.»
   «Sì, infatti. Mettiamole via.» Comincia a prendere le fotografie e rimetterle tutte dentro la scatola, facendo combaciare bene i bordi come si fa con le carte da gioco. Ad un tratto quando ne solleva un mucchio particolarmente grosso quello le cade di mano e si sparpaglia lungo tutto il pavimento. Lei fa un gesto di frustrazione e si accovaccia per cominciare a raccoglierli, io l’aiuto. Ne tiro sul tavolo a manciate e ad un tratto mi accorgo che Andrea si è fermata sulla foto di due bambini: una è una ragazzina magra che tiene in braccio un bambino più piccolo, che potrà avere quattro o cinque anni al massimo, dà la schiena a chi scatta la foto ma il viso è voltato e imbronciato. Ha capelli corti e biondi tagliati a caschetto, grandi occhi azzurri, limpidi, molto belli anche con quel cipiglio rabbioso. Andrea guarda la foto attenta, le sopracciglia corrugate, gli occhi indagatori, passa un dito sopra il viso del bambino. Poggia la foto sul tavolo lontano dalle altre. Finiamo di raccoglierle e per ultima lei sistema quella sulle altre, con una sorta di cura reverenziale. «Me le porterò a casa, credo», dice sorridendo e sollevando lo scatolone per metterlo vicino alla porta.

   Sono passati un po’ di giorni da quando siamo tornati dal viaggio nella casa degli orrori. Ho sentito Andrea tutti i giorni ma non ci siamo visti. Il punto è che ho voglia di rivederla, quindi la chiamo una sera, prima che esca per andare al Jewel, e le impongo la mia presenza a casa sua per il giorno dopo. Lei dice di sì. Ovviamente il giorno dopo arrivo con  largo anticipo e Andrea sta per mettersi sotto la doccia, tanto che mi apre la porta con addosso l’accappatoio. «Sei ben in anticipo. Non ho neanche mangiato. Fai quello che vuoi, io ci metto poco», mi dice ciabattando dentro le infradito.
   «D’accordo.» Le lancio un’occhiata sbilenca mentre si allontana nel suo accappatoio informe.
   Mi siedo in salotto e faccio qualcosa che non faccio da un po’: accendo la tele. Non la guardo quasi mai. Di mattina l’accendo per avere un sottofondo di qualcosa e così mi ascolto anche il telegiornale, ma a parte quello può benissimo rimanere spenta per settimane intere. Non sono un tv-dipendente. Mi accomodo sul divano e noto che ci sono diverse fotografie sul tavolino di vetro, tutte impilate con ordine. La prima ritrae lo stesso bambino con gli occhi azzurri della foto che Andrea ha trovato nella casa degli orrori. Forse un parente, anche se in realtà non si assomigliano affatto. Prendo le foto e comincio a scorrerle.
   Mi si gela il sangue nelle vene quando capisco che cos’ha fatto Andrea. Sembra una cosa veramente da pazzi, soprattutto se non ne conosci le motivazioni.
   In pratica, lei ha guardato tutta quella gigantesca scatola di fotografie e ha scelto tutte quelle in cui c’era questo bambino biondo. Ci sono foto sue da piccolo, foto di quando era ragazzino, foto di quando era già cresciuto. Chi cavolo è?
   Sento la porta del bagno aprirsi e rimetto le foto al suo posto. «Finito?», domando quando Andrea torna in sala, vestita con abiti leggeri. «Che facciamo?»
   «Dobbiamo per forza fare qualcosa assieme?»
   Perché l’ha detto? Non si rende conto che muoio se penso che lei non voglia stare con me? …e va bene, forse non muoio, ma ci rimango un po’ male.
   «Ah, a proposito, sai che forse ho trovato un lavoro?»
   «Davvero? Dove?»
   «Per una ditta di sicurezza. Allarmi; cose del genere.»
   «Fantastico, e quando ti assumono?»
   «Veramente devo ancora fare il colloquio.» Andrea si siede affianco a me. «Ti va di vedere un film?»
   «Sì, che film ti piacciono?»
   «I film… strani. Oddio, tutti mi dicono che ho gusti strani, ecco.» Sorride e sparisce in camera, poi torna con un pc portatile e mi fa vedere dei film che ha scaricato. Dio, seduti così vicini su questo divano sento benissimo il profumo dei suoi capelli umidi. «Ho scaricato un film di Hayao Miyazaki, ti va di vederlo? Io non l’ho mai visto.»
   «Ah sì, conosco Miyazaki. Mia sorella Paloma lo adora. Che film è?»
   «La città incantata.»
  «Perfetto, è l’unico che non ho mai visto. Che lei non mi hai mai costretto a vedere. Lo scorso Natale abbiamo fatto quasi una maratona di Miyazaki mentre aspettavamo che fosse pronto il pranzo.»
   «Lo metto sulla chiavetta. Ci facciamo dei pop corn?»
   «Sono d’accordissimo.» Dici minuti dopo siamo in cucina a fare pop corn.
   «Ci vuoi il burro o li mangi così?»
   «No di solito li mangio normali.» Cospargo la ciotola di sale, mescolo e mi getto sul divano.
   Il film è bello, ma in questo caso devo dire di amare alla follia Miyazaki. Verso una delle ultime scene, quando ormai il lieto fine si avvicina e i pop corn sono ormai un ricordo lontano, Andrea fa un versetto di commozione e piega la testa di lato. Qualcosa come “Aohw, che carini”. In quella frazione di secondo mi appoggia la testa alla spalla e io le lancio un’occhiata di sbieco. È ovvio che non dà al gesto la stessa importanza che ci do io, perché io sono rigido come un mattone e lei invece si accuccia e continua a guardare il film come se fossi un cuscino dalla forma particolare. Abilmente, alzo un braccio e lo passo sulle sue spalle. Per non destare sospetti dico anche: «Già.» Credo che funzioni, lei non nota subito il mio braccio sulle spalle e la mia mano che la stringe un poco. La magia termina in fretta però, perché non appena finisce il film lei si alza e porta via il recipiente vuoto di pop corn.
   «Molto bello, mi è piaciuto tantissimo.»
   Mi alzo e la seguo. Ho intenzione di chiederle di uscire. «Senti, un giorno che non lavori ti va di uscire a cena noi due?» Carpe diem, andiamo! Nei film funziona sempre.
   Andrea mi guarda stringendo gli occhi. «Hm, qualcosa come… Noi due, cioè… Che significa?»
   «Significa che io passo a prenderti, andiamo in un ristorante e ti offro la cena. Non ti va?»
   Lei s’illumina come se le fosse appena venuta in mente una cosa. «Sai che c’è un posto dove paghi quindici sterline e mangi tutto quello che vuoi, quanto ne vuoi? E ti servi da solo tipo buffet.»
   «Davvero?», domando curioso. «Dovrei portarci i miei, si lamentano sempre delle portate troppo grandi o troppo piccole. Se sono grandi è uno spreco, se sono piccole hanno fame, bla, bla, bla.»
   «E allora dovremmo andare a provarlo», dice Andrea sorridendo incoraggiante. «Va bene, Lunedì prossimo è okay.»

  A ripensarci qualche giorno dopo mi rendo conto che Andrea ha trasformato la mia idea di cena romantica in cena informale fra amici. Insomma, una banalissima cena. Una cena! Il giorno prima della fantomatica e maledettissima cena vado a mangiare a casa dei miei.
   Fortuné è finalmente all’ultimo anno di college e studia tutti i giorni come un pazzo. Sono molto fiero di mio fratello: è un cervellone, uno di quelli che studia cose incomprensibili ai più. Vado a trovarlo in camera sua e lo trovo immerso in un caos di fotocopie e libri, mentre scribacchia un riassunto pieno di formule strane. «Ciao.»
   «Ciao, non ti ho sentito arrivare.» Si gira sulla sedia girevole e mi guarda, io siedo sul suo letto.
  La stanza di Fortuné non è mai cambiata da quando aveva più o meno quattordici anni. È sempre stato un tipo serio, composto, un po’ il contrario di me. Credo che nella mia famiglia tutti abbiano seguito quello che era il loro sogno. È qualcosa di incoraggiante, no?
   «Che studi?»
   «Fisica. Ho l’esame fra quattro giorni.»
   «E come va?»
   «Bene, bene. E tu?»
  Scuoto le spalle, non dico niente. Per chi mi conosce questi sono segni rivelatori. In genere racconto spesso le mie paturnie alla famiglia, siamo molto uniti, è difficile avere un segreto solo per sé. Se è una cosa troppo imbarazzante da raccontare ai miei genitori allora ho le mie sorelle, se è una cosa che mi sembra da ragazzi lo posso dire a Fortuné. Non sono abituato a tenermi molte cose dentro, e le uniche cose che nascondo sono certi segreti di quando ero adolescente che mi imbarazzano moltissimo. In genere però sputo fuori tutto dopo un po’ di tensione.
   E lui lo sa.
   «Hai qualcosa?», chiede Fortuné corrugando le sopracciglia.
   «Ho… incontrato una vecchia amica qualche tempo fa, una ragazza che veniva con me alla Royal.»
   «E?»
   «E allora ha qualcosa che non va. È come se non volesse uscire con me!», gli rivelo in preda alla frustrazione.
   Fortuné ride e mi guarda ilare. «Mica è detto che tutti debbano voler uscire con te.»
   «Eh…», faccio di sì con la testa, «Okay, detta così sembra strano. No, voglio dire che lei nasconde qualcosa. Cioè, non sono impazzito, te lo giuro.»
   «Uhm, come quella volta che pensavi che ci fosse qualcuno che ti seguiva in macchina, invece poi era papà con la macchina nuova?»
   «Senti, intanto mi seguiva!»
  «Ma era papà! Come hai fatto a non capirlo?» Apro la bocca per ribattere, ma lui mi anticipa: «Vabbè, okay, non dirmelo. Lasciamo stare. Come mai pensi che la gente ti nasconda qualcosa?»
   Racconto a Fortuné tutta quanta la storia, tutta la faccenda con tanto di particolari. Alla fine lui è rimasto a bocca aperta, ma la prima cosa che dice quando parla è: «Lei è quella spogliarellista?»
   «Mmm!», faccio rabbioso.
   «Cioè, scusa, e ti stupisci che non voglia uscire con te? Avrà ai piedi mille uomini dove lavora che le regalano diamanti!»
  Una possibilità che non avevo mai considerato. «Tu dici?», domando terrorizzato. In fondo anch’io posso comprare diamanti. Posso permettermelo, no?
   «Ah non lo so, è un’ipotesi.»
   «Be’ questo non spiega le fotografie, e quella cosa degli antidepressivi.»
   «Ma, senti, voi siete amici no? Chiediglielo e basta.»
   «Ma è che in certe cose è molto chiusa. Ci sono cose che non mi vuole raccontare, perché dovrei spingerla?»
   «Con qualcuno si dovrà pur sfogare, o no? Tu arrivi lì come un inviato speciale del Telefono Amico e lei ti dice tutto quello che vorrai sapere. Prova, vedrai.» A volte Fortuné se ne esce con queste perle di saggezza che ti fanno vedere la cosa da tutta un’altra prospettiva.
   «Tu dici?», ripeto pensoso grattugiandomi il mento con le unghie.
   «Certo. E se non vuole allora dille che ti piace, si scioglierà come una sardina.»
   Ci penso qualche attimo e tento di immaginare una sardina sciolta. Forse Fortuné non sa cos’è una sardina. Comunque non è una cattiva idea. «Sì hai ragione. Lo farò. Com’è che ancora non hai una ragazza Fortuné? Con queste intuizioni dovresti essere molto popolare fra di loro.»
   Lui ridacchia e si gira verso i suoi studi. «Scherzi? Sono come un Dio in facoltà.»
   «E fuori dalla facoltà?»
   «Come un nerd.»
   «Ah, ecco.»




















Buonsalve!
Allora, mi pare di aver capito che Fortuné studi architettura, non quelle cose matematiche che gli ho appioppato io (povero!), però facciamo che mi sono presa una licenza poetica. Insomma, la morale è: la fanfiction è mia e decido io, mhuahahah! Okay, la smetto con le manie di onnipotenza, scusate u_u
Non c'è nemmeno da dirlo, ma io adoro Fortuné, soprattutto questo Fortuné, perché è nerd è un po' sfigatello, però in modo simpatico. A vederlo in foto a me sembra proprio così! xD Chi adora Fortuné assieme a me? ^^
Cooomunque, non c'è molto da dire su questo capitolo, tranne che il mistero si infittisce. La cosa comincia a diventare seria! Magari avrete notato che ho messo che questa storia è sia "commedia" che "drammatico": non sono pazza, ma diciamo che ci sono momenti divertenti e momenti tristi. Sta arrivando il momento triste. E nel prossimo capitolo... hmmm, posso solo mostrarvi lo spoiler.
Quindi, per il momento vi saluto gente. Buona settimana a voi!
Patrizia

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Capitolo 6
*** We are golden, o Una litigata ***


Capitolo sei
We are golden
o Una litigata





   Sono al Jewel.
   È pieno di ragazze con le tette in mostra e uomini di tutte le età.
   Con me, a darmi manforte, c’è Yasmine.
   «Dov’è questa Andrea? Lo sai che non hai mai parlato di lei neanche una volta quando eri a scuola?»
   «Non eravamo così amici», dico io distratto cercandola lungo il locale. Dio, se sta ballando per qualcuno giuro che mi alzo e la pago il doppio solo per farla sedere qui con addosso un passamontagna e una tuta da sub.
   «Allora, posso indovinare?», domanda Yasmine bevendo il suo drink e guardando una ragazza che passeggia di fianco al nostro tavolo. Si sta divertendo fin troppo per i miei gusti, sono abbastanza sicuro che se tutto andrà per il meglio sarà pronta a denunciare me e il mio locale di strap tease con mamma e papà. Mi consolo, pensando che se invece mando tutto a puttane fra me e Andrea lei mi consolerà, con uno di quei discorsi positivi che fa lei e una delle sue torte al cioccolato.
   «Non ce la fai. Ce ne sono troppe.»
   «Quella.» Lei se ne frega del mio consiglio e indica una ragazza formosa che balla sul tavolo di un uomo ricco e grasso.
   «No, ti ho detto che è bionda.»
   «D’accordo. Quella!»
   «No.»
   «Quella lì?»
   «Quale?»
   «Quella nell’angolo.» Osservo bene dove mi sta indicando e ci manca poco che mi alzi e vada da quel tizio a picchiarlo. Non ho mai fatto a botte in realtà, per lo meno intenzionalmente. Quando ero ragazzino mi hanno picchiato certe volte, alcune volte ce la facevano, altre invece fuggivo. Ero diventato un velocista, se non fossi riuscito a diventare musicista forse sarei diventato un atleta. Comunque sia, Andrea è lì, in un angolo in piedi accanto a un ragazzo che dev’essere più giovane di noi. Lui ha i capelli cortissimi e indossa abiti larghi, sembra che Andrea gli stia elencando qualcosa. Sono molto in confidenza.
   «Chi è quello?», mormoro corrucciato.
   «Magari un suo amico», suggerisce Yasmine.
   «Mhhh.» Li osservo ancora un po’ e sembrano passare ad una conversazione più rilassata. Alla fine si salutano e Andrea comincia ad aggirarsi per il locale. Io guardo lui, e mi sento veramente idiota quando mi rendo conto che è il dj. «Cavolo, sono paranoico», dico a mia sorella.
   Per tutta risposta lei ridacchia e beve. Una ragazza che avrà al massimo diciotto anni ci si avvicina sorridendo, con un top nero addosso e una gonna cortissima. «Vuoi una lap?», mi domanda mordicchiandosi un labbro come se mi desiderasse intensamente; forse pensa che sia molto sexy.
   «Ascolta, fammi un favore, la vedi quella ragazza?», indico Andrea, che in quel momento si aggira in un’altra ala del locale.
   «Pepper?»
   «Pepper?»
   «Sì, è il nome con cui si fa chiamare qui al Jewel. Io mi chiamo Jucy.» Sorride e tende la mano.
   «Piacere, Michael. Allora, se la incroci, le puoi dire di venire qui?»
   «Come vuoi.» Jucy si allontana, con il suo nome molto evocativo, un po’ imbronciata.
   Yasmine si agita sulla sedia. «Sei sicuro che vuoi che rimanga?» Io la guardo interrogativo. «Voglio dire, vuoi davvero che io rimanga a sentire tutto quello che vuoi dirle?»
   In effetti no. Lei intuisce il mio pensiero.
  «D’accordo, senti… io vado. Chiamo qualcuno e mi faccio venire a prendere, o comunque… boh, adesso vedo. Quando finisci chiamami, okay?»
   «Va bene.» Passivo, la guardo andare via sgusciando in mezzo a due ballerine.
  Bevo, meglio bere quando non si sa cosa fare o si sa che si sta per fare qualcosa di stupido. Per lo meno, lo farò con leggerezza e ripenserò molto dopo al casino che ho combinato.
  Dopo un po’ una figura familiare si avvicina con passo sinuoso, ma appena mi riconosce si ferma e poi sorride. «Michael», mi saluta Andrea appoggiandosi al tavolino con entrambi i palmi. «Che fai qui?»
   «Volevo vedere che facevi di bello.» Una mezza verità. La verità vera sarebbe: volevo vederti e basta.
  Lei alza le spalle. «Il solito. Adesso credo che punterò quello là.» Mi indica un tipo sulla trentina in giacca e cravatta, piuttosto bizzarro in effetti, che osserva il palco dove sgambetta una ragazza. Lancio un’occhiata terrorizzata ad Andrea. Indossa un reggiseno pieno di frange e un mini pantaloncino entrambi dorati pieni di brillantini.
   «Sei sicura che vuoi quello?», domando guardandolo con odio.
   «Sì, perché no?»
   «No, non lo so. Magari preferivi i vecchietti pieni di soldi.»
  «Nah, quelli sono i peggiori. Cercano sempre di allungare le mani. Con quello si va sul sicuro, sarà un tipo terrorizzato dalle relazioni con un feticismo per i piedi, o cose del genere.» Mi sorride, saluta e va via, prima che io abbia il tempo di dire qualsiasi cosa.
   La guardo mentre si avvicina al tipo. Parlano per un po’ e alla fine lui si alza e scompaiono dietro una tenda. Allarmato, faccio per alzarmi, poi mi rendo conto che Andrea non è così stupida da mettersi in situazioni pericolose, così fermo la cameriera più vicina. «Scusa, cosa c’è dietro quella tenda?»
  «Ci sono le stanze singole, ci può portare una ragazza per tutto il tempo che vuole, per quanti balli desidera. Però costa di più. Sono trenta sterline per il locale, e il doppio per la ragazza ad ogni canzone.»
   «D’accordo, grazie.»
  Fisso la tenda con insistenza per i seguenti quindici minuti. Ad ogni movimento che fa sussulto, ma non esce mai Andrea con il suo cliente. Dopo un quarto d’ora sono letteralmente distrutto dal fissare quella tenda e mi vengono in mente le cose più pazzesche che possono succedere lì dentro. Per attutire l’ansia ordino il secondo drink, questa volta bello forte. Quando ho finito di berlo una piacevole pesantezza mi si mescola davanti agli occhi, e mi sembra di rivedere Andrea in sala. Le faccio segno di venire da me. Lei è un po’ scocciata.
   «Che hai? Non puoi chiamarmi sempre, perdo tempo.»
   «Andiamo in uno di quei camerini privati.»
   «Devi sborsare trenta sterline», protesta lei. «È successo qualcosa?», chiede poi preoccupata.
  «Ti devo parlare.» Mi alzo e la prendo per un gomito, spingendola verso la tenda del mistero. Oltre, in realtà, non c’è un granché, delle anguste scale a chiocciola che vanno verso il basso. Le scendiamo appiccicati, praticamente la guido tenendole due mani sulle spalle.
   «Michael mi fai preoccupare. Significa che è davvero successo qualcosa?»
   «Non proprio.»
   Arriviamo in fondo e un uomo grande e grosso mi fa pagare trenta sterline. Dietro di lui c’è un corridoio sul quale danno una miriade di porte, alcune chiuse, altre aperte. Andrea si dirige sulla prima che c’è aperta e mi fa segno di entrare. Dentro, la stanza è piccola, c’è un divanetto a forma di mezzaluna in pelle rossa e davanti un tavolino tondo con un palo metallico che arriva fino al soffitto. Andrea si siede e leva le scarpe con il tacco, anche quelle sono tutte d’oro e brillanti. «Allora? Che cosa è successo? Oddio, questi tacchi mi uccidono, domani avrò i piedi di Big Foot.»
   Io cammino un po’ qua e là lungo la stanzetta poi mi siedo anche io. Non è facile dire queste cose senza sembrare un maniaco paranoico. «Tu mi stai nascondendo qualcosa.» Lei infatti – prevedibile – fa una faccia a metà fra il divertito e l’incerto. «Aspetta, non dire niente. Allora, mi piacerebbe che tu parlassi con me dei tuoi problemi, ma è evidente che non lo vuoi fare. Però credo che parlarne con qualcuno ti aiuterebbe, davvero. A parte questo non so cos’hai, anche se è logico che hai qualcosa. Il punto è… perché non me lo dici? Cioè, è da quasi due mesi che non facciamo altro che vederci e parlare. Siamo andati al mare per due giorni a vedere quella casa spaventosa! Insomma, credevo che fossimo amici.» A questo punto la faccia di Andrea ha perso ogni traccia di divertimento, è quasi disgustata. Non sapevo di fare questo effetto alle persone.
  Per qualche secondo sembra voler cercare le parole adatte, arriccia la bocca come a voler parlare e all’ultimo momento rinuncia. Alla fine, scoppia: «Che cazzo stai dicendo?»
   La guardo allibito. Che cosa dovrei rispondere? Cosa sto dicendo? «Io-io non lo so…»
   «Non lo sai! E vieni qui a farmi perdere tempo al lavoro?!»
   «Ecco! Ad esempio, perché ti tieni questo lavoro? Hai così bisogno di soldi, come mai?»
  «Non credi che se non ti racconto tutti i particolari della mia vita privata è perché voglio tenermeli per me?», domanda rabbiosa. Domanda retorica, ovvio. «Tu non passi la giornata a raccontarmi ogni tuo singolo segreto, o no?»
   «La mia vita non è così interessante da doverla raccontare a tutti!»
   «Ma se vivi per raccontare a tutti delle tue cose, con le tue canzoni!»
   «E tu?», la attacco, «E tu per cosa vivi, sentiamo? Per vestirti con cose da togliere subito dopo? Per mettere quelle scarpe d’oro brillanti che ti fanno male?»
  «Sì!», strilla lei testarda. «Sì, io vivo per brillare, va bene? Non certo per te, non… per stare a raccontarti ogni singolo secondo della mia giornata.»
   «Lo vedi che hai qualcosa?», insisto indicandola con un gesto della mano. «Non appena si parla di te cambi discorso, come si fa a conoscerti se tu non lasci entrare le persone? Che hai da nascondere?!»
   Andrea tiene le braccia conserte e le labbra strette, e continua a scuotere la testa come se niente di quel che dico avesse senso. Alla fine fa un gesto di frustrazione e si rimette le scarpe. «Ascolta, io ho da fare adesso va bene?» Si alza e se ne va, troppo veloce perché io possa raggiungerla.
   Per lo meno avrò una torta al cioccolato.

   «Dov’è la mia torta?», chiedo funereo aprendo la porta del mio appartamento.
  Yasmine entra con aria addolorata, niente torta fra le sue braccia, solo un sacchetto di Starbucks. «Ho finito le uova e anche il cacao, mi dispiace tantissimo», fa abbracciandomi. «Però ti ho portato qualcosa che ti piace: frappuccino al cioccolato, lo vuoi?» Sorride e mi porge una confezione grande di frappuccino. Io mi rabbuio.
   «No.»
   Yasmine lascia tutto in cucina e io la seguo depresso. Lei mette la cannuccia nel suo bicchiere e comincia a bere. Oh, Frappuccino, mi riporti alla mente troppi ricordi. Però, l’odore del cioccolato…
   «Okay, ho cambiato idea.» In fondo, dicono che il cioccolato liberi le endorfine e faccia sentire felici. Forse funzionerà anche con me.
   «Quindi non è andata molto bene ieri.»
   «È stato uno schifo.»
   «Mi dispiace.» Mia sorella siede al tavolo e poi domanda: «Scusa se te lo chiedo, ma che cosa vi siete detti?»
   Sbuffo e mi ficco una mano nei capelli, sedendomi al suo fianco. «Ma che ne so, le ho detto che lei aveva qualcosa da dire, ma non lo diceva a nessuno, e che noi eravamo amici e che a me poteva dirlo. Lei si è arrabbiata, e abbiamo cominciato a litigare e dirci cose stupide.» Bevo dalla cannuccia a grandi sorsi.
   «Ma… Lei è una persona molto riservata, quindi.»
  «Per favore, puoi stare dalla mia parte una volta?», domando acido. «Puoi dire che Andrea è una pazza, sclerata, asociale, e che io sono la vittima della sua follia?»
   «Andrea è una pazza sclerata, un’asociale. Tu, tesoro, sei solo un ficcanaso senza tatto vittima della sua follia.»
   Alzo gli occhi al cielo, esasperato. Yasmine fa sempre l’avvocato del diavolo!
   «Okay, non sto dicendo che è tutta colpa tua. Ma parlare in quel modo a qualcuno che non vuole parlare dei suoi problemi con gli altri non è proprio la tattica giusta. Non dovevi prenderla di petto forse, dovevi essere un po’ più diplomatico. E poi scusa non eri lì per dirle che ti piace?»
   «Ho... perso la voglia a metà strada. Dirglielo lì non era bello, così ho ripiegato sul secondo argomento di conversazione.»
   «Oh», Yasmine beve il suo frappuccino. «Dovresti dirglielo però.»
   «E come? Scommetto che non mi vuole neanche più sentir nominare.»
   «Davvero, Michael, ti scoraggi così in fretta? Non sei così mollaccione di solito.»
   Ha ragione.
   Quando Yasmine se ne va rimango in cucina, a pensare furiosamente. Lasciato qui per conto mio mi faccio solo del male a pensare certe cose, di me e di Andrea, e penso anche che forse impazzirò. Ancora mi chiedo come cavolo ho fatto a lasciare che tutta questa situazione mi dissanguasse così.

   Toc, toc, toc.
   «Andrea!»
   Toc, toc, toc.
   «Andrea!»
   Toc, toc, toc.
   «Andrea!»
   La porta si apre e lei compare dietro, furiosa. «Che cosa stai facendo?»
   «Scusa, è da quando l’ho visto in tv che voglio farlo.» Mi dondolo un po’ sulle gambe. «Posso entrare?»
   «Sì», sospira stancamente facendomi spazio per lasciarmi passare.
   «Ascolta», mentre si chiude la porta alle spalle cerco le parole adatte, «mi dispiace per come mi sono comportato l’altra sera. Non volevo darti fastidio, volevo dirti delle cose, e non le ho dette nel modo e nel momento giusto.»
   Andrea mi guarda incerta, ma non mi interrompe.
   «In realtà, quello che voglio che tu sappia… Io non sono bravo a parlare di queste cose serie», abbozzo un sorrisino di scuse. «Tu mi piaci Andrea, mi piaci tanto, da… qualche settimana. Per questo ti ho detto quelle cose l’altro giorno, vorrei che tu parlassi con me di tutto quello che ti fa star male, così puoi stare meglio credo.» Mi sono avvicinato a lei e le ho posato le mani sulle spalle. Lei non dice nulla sulla mia rivelazione, solo mi guarda con espressione indecifrabile e non riesco a capire che cosa pensa. L’abbraccio e me la stringo contro come se fosse l’ultima cosa che posso fare. Poi il mio istinto agisce per conto proprio.
   Mi allontano repentino e le poso un bacio umido sulla guancia. Sento che s’irrigidisce fra le mie braccia, ma non si sposta. Faccio continuare la scia di baci fino ad arrivare all’angolo delle sue labbra, che tocco con una piccola parte delle mie. Quel minuscolo contatto, durato una frazione di secondo, mi piace da matti. Le sue labbra sono morbide. Baciarle tutte quante intere dev’essere una cosa pazzesca. Faccio scivolare le mie mani fino al suo collo e le mascelle. Sono combattuto: rischio e la bacio, oppure vado sul sicuro e la lascio andare? E magari fuggo, già che ci sono, dall’imbarazzo o da una sua eventuale mazza da baseball. Un sacco di persone tengono una mazza da baseball in casa, anche se può sembrare assurdo in un primo momento.
   Un telefono squilla e noi ci allontaniamo repentini. Andrea risponde e rimane in ascolto per un istante. Poi il telefono le scivola dalle mani, cade a terra, e io guardo il suo viso. Esprime solo terrore.




















Salve a tutti!
Cominciamo con lo spiegare un paio di cose:
Se non erro Yasmine abita all'estero ma io ho fatto che abita a Londra, o per lo meno vicino, perché mi andava così.
Poi, un'altra cosa, molto più scema xD La parte finale del "Toc, toc, toc, Andrea!" è ripresa da Big Bang Theory, una sit com, per cui anche il fatto che Mika l'ha visto in tv e vuole imitarlo potrebbe essere vero! Se qualcuno guarda Big Bang Theory sa cosa ho citato. In caso contrario potete vedere un pratico video esplicativo qui xD
Se volete leggere lo spoiler cliccate qui, se volete ammorbarvi con le mie opinioni personali sulla nuova canzone che ha fatto uscire Mika, Make You Happy, potete invece cliccare qui.
Ciao ciao a tutti! Lasciate una recensione, mi raccomando u_u Alla settimana prossima =)
Patrizia

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Capitolo 7
*** Billy Brown, o Salto nel passato # 1 - I Parte ***


Capitolo sette
Billy Brown
o Salto nel passato # 1 – I parte





   Ma come ho fatto a cacciare me stesso in una situazione del genere? Veramente, come ho potuto? Di solito sono così bravo a cacciare in brutte situazioni gli altri, come quando da piccolo ho dato la colpa a Paloma di aver distrutto il divano a forza di saltarci su, e invece eravamo stati io, Zuleika e Fortuné. O come quando ho dipinto Fortuné con l’evidenziatore e ho detto che era stato lui – mi hanno creduto solo perché Fortuné aveva tre anni e ancora non sapeva difendersi verbalmente.
   In fondo, comunque, sono ancora in tempo per girare i tacchi e andarmene, non mi ha visto nessuno. Sì, potrei farlo…
   Ma mi è ci è voluto così tanto per arrivare fin qui! Ho preso tutto il coraggio che ho e persino due autobus diversi!
   Alzo il braccio e suono alla porta. Dlin dlon! Okay, è fatta.
  Una signora piccola e grassoccia, con lunghi capelli biondi, mi apre la porta poco dopo. Sono abituato a pensare alle donne un po’ pienotte come affettuose e dolci, come mia madre ad esempio, ma questa qui fa veramente paura. È arcigna, sembra uno di quegli orribili nani da giardino che a volte si vedono davanti alle case. «Buongiorno», mormoro abbozzando un sorriso. «Sono Michael, c’è Theodore?»
   La signora si scosta dalla porta e mi fa passare. «È in camera sua.» Mi indica la strada e scompare in un’altra stanza. Mi affretto verso la camera di Theo, la spalle strette per passare in quel corridoio piccolo dove qualcuno ha anche avuto la brillante idea di mettere un mobile.
   «Theo?» Apro la porta e metto la testa nella stanza.
   Lui è lì. Sta seduto alla scrivania e quando entro si volta. Theodore Scott è più basso di me, ha i capelli biondi e lisci, che gli stanno sempre appiccicati sulla fronte, e quando facciamo ginnastica e suda è una cosa paurosa da guardare. Ma a parte quando facciamo ginnastica, è il ragazzo più bello che io abbia mai visto. La cosa mi destabilizza alquanto, perché anche se sono sempre stato un tipo abbastanza aperto non mi è mai successa una cosa del genere, di considerare un ragazzo carino.
   Se vedo un ragazzo per strada che è obbiettivamente bello non ho problemi a riconoscerlo: se uno è bello è bello, maschio, femmina o animale che sia. Questa però è la prima volta che mi piace un ragazzo. Di solito mi erano sempre piaciute solo ragazze. Gesù, pensarlo in maniera così diretta – anche solo pensarlo! – lo fa sembrare più reale.
   Io e Theodore siamo in classe insieme dalla terza liceo, e prima anche se eravamo amici non me ne fregava un’emerita mazza di lui, almeno, non in quel senso. Eravamo amici, appunto. Non so quando ho cominciato a notare che lo seguivo con lo sguardo senza rendermene conto, che ogni mattina in classe speravo che si sedesse accanto a me, che tutte le volte che parlava con qualcuno volevo andare lì per tirare due ceffoni all’interlocutore e strillargli di andare via, lontano da lui. Siamo all’ultimo anno adesso, e manca poco meno di un mese alla fine della scuola.
   È almeno da Marzo che va avanti questa storia. Tre mesi. Tre mesi di agonia, a chiedermi che cazzo ho che non va!
   Non ho detto a nessuno di questa cosa, né alla mia famiglia, né ai miei amici. Non lo sa nessuno. Mi sono chiesto più di una volta se per caso non sono gay. La risposta non è così scontata come potrebbe sembrare. Non tutti i ragazzi che vedo per strada mi sembrano attraenti, e alcune ragazze invece le trovo molto carine. Ma il problema è che mi piace Theodore, il mio amico Theodore, un ragazzo! E finché lui mi piace non riesco a capire se sono diventato completamente omosessuale o sono scemo solo a edizione limitata.
   In fondo non ho mai fatto nulla di male per meritarmi questo, no? Ho avuto una vita ordinaria: quattro fratelli, un cane, due genitori che mi ammonivano sempre. E quando tutto stava andando secondo i piani, m’innamoro di un altro ragazzo! O forse è proprio per questo a ben pensarci: in giro per il mondo da quando avevo un anno, quattro fratelli completamente scemi, un povero cane che ci ha sopportati per tutto questo tempo, e dei genitori… pazzi.
   Questo spiega molte cose.
   «Ciao», dico chiudendo la porta.
  «Ho cominciato a fare un paio di esercizi, ma non ci capisco tanto.» Si rivolge di nuovo al quaderno e si gratta la testa. Maledetto! Qualsiasi cosa faccia sembra dolce e sexy allo stesso tempo. O forse sono io che ho gli occhi che non funzionano bene e tanta fantasia repressa che in qualche modo deve pur sfogarsi.
   Mi accascio sulla sedia accanto alla sua e tiro fuori matematica. Abbiamo l’ultimo test fra tre giorni, e non siamo proprio due geni. Con noi doveva esserci anche Donna, una nostra amica, che invece è capace a fare queste cose, ma non è potuta venire.
   Inutile dire che sono molto soddisfatto di poter rimanere da solo con Theo per un pomeriggio intero, ma la cosa mi terrorizza anche.
  «Quale stai facendo?» Allungo il collo e guardo che scrive. Lui mi indica un numero sulla pagina del libro e io inizio a copiarlo. Passiamo almeno due ore tentando di risolvere un problema dopo l’altro, anche se ci blocchiamo alla prima difficoltà e i nostri risultati sono quasi sempre diversi. Dopo un po’ decidiamo di fare una pausa.
   Theodore si siede sul letto dopo essere andato a prendere dei biscotti. «Non ce la farò mai. Devo prendere un bel voto però, altrimenti ho il corso estivo. Non posso avere un corso estivo all’ultimo anno, è terribile.»
   Prendo un biscotto. «Seh… Però assieme ce la facciamo dopo un po’. Vuol dire che non siamo tanto male alla fine, i risultati sono giusti.»
   «Sì, peccato che il compito non possiamo farlo assieme.»
   «Potremmo fondere i cervelli.»
   Theo ride con la bocca piena. «Siamo messi malissimo! Due cervelli per un solo compito! Facciamo la fusione, come in Dragon Ball.»
   Poco dopo i biscotti sono finiti – siamo dei maiali, sì, un pacchetto intero! – e chiedo se posso levarmi le scarpe. Mi siedo sul letto di Theodore e la nostra pausa si allunga un po’ troppo. Ma tanto se non c’è Donna non ha senso continuare, no?
   «Che fai quest’estate?»
   Alzo le spalle. «Boh… Forse i miei vogliono andare in vacanza in Italia.»
   «Ma va? Bello.» Io sbuffo. «Non è bello?», chiede allora Theo.
  «Non mi piace dove andiamo. Ci siamo andati un sacco di volte. È una città che si chiama Bordighera, in Liguria. Il mare è bello, però…» Lascio la frase in sospeso.
   «Ma cosa ti lamenti? Ci portassero me in Italia.»
  «Ma noi ci andavamo quando stavamo in Francia, perché non è lontano. Ci andavamo in macchina. Adesso magari siccome Paloma e Yasmine non vengono riusciamo ad andarci io, i miei, Zuleika e Fortuné. Due in meno costa di meno.»
   «Capito.»
   «E tu?»
   «Niente. Veramente volevo sapere se ti andava di fare una vacanza assieme: io, te e Donna. Ma se vai via con i tuoi…»
   Non lo faccio neanche finire di parlare. «Veramente?», domando. Saltare l’odiata Bordighera per andare in vacanza assieme a Theodore? Cosa crede? Che voglia rifiutare?! «Dove?»
    Abbozza un sorriso. «Mare o montagna?»
  «In un posto per dove bastano i miei risparmi… che non sono tanti.» Ecco, questo dei soldi è l’unico ostacolo probabilmente. Forse mamma e papà mi possono aiutare un po’ per il viaggio, ma deve comunque essere una vacanza economica. «Andiamo al mare?»
   «Se è mare non preoccuparti dei soldi, magari riesco a convincere i miei zii a ospitare qualcuno. Abitano a Hastings. Di solito andavamo a trovarli tutte le estati una o due settimane, ma da quando papà è stato male non siamo andati da nessuna parte.»
  Circa due anni fa il padre di Theodore ha scoperto di avere un tumore, che per fortuna è stato rimosso, ma è uscito molto stanco dalla malattia e non lavora da allora. Per Theo è stato un periodo difficile, però tutti cercavamo di tirarlo su di morale come potevamo, perlopiù cercando di distrarlo.
   «Sì, mi piacerebbe comunque. Non siamo mai andati in vacanza assieme.»
   In quel momento la mamma di Theodore entra e gli passa il cordless. Prima di andare via mi guarda come se fossi una lumaca gigante che sta sbavando sul suo copriletto. Ma cosa ho fatto di male per non piacerle?! Theo nel frattempo prende il telefono e quando risponde serra la mascella e diventa nervoso. Lo guardo e mimo con le labbra: “Chi è?”.
   «Un momento.» Mette una mano sulla cornetta e l’allontana. «È Libby.»
  Libby è l’ex di Theodore. Sono stati assieme per sette mesi e poi lui ha mollato lei, per motivi a me ancora ignoti. Libby ci è rimasta malissimo e la madre di Theo lo ha perseguitato per una settimana per sapere come mai si erano lasciati, “perché Libby è tanto una cara ragazza!”
  Io, quando si erano mollati, ero all’inizio della mia fase Theo, ed ero abbastanza contento che avessero rotto, anche se all’epoca non avevo capito il perché. Quando ho realizzato la verità ci sono rimasto malissimo e mi sono isolato nella mia stanza per due giorni. Poi mamma ha fatto le lasagne e io sono uscito dal mio auto-esilio per mangiarle.
   Dopo qualche minuto e una conversazione veramente triste, Theo attacca e fa un grosso sospiro.
   «È successo qualcosa?», domando.
   «No, è solo che vorrei che la smettesse di telefonare. Sono passati quasi tre mesi da quando ci siamo mollati. Adesso mi vuole invitare alla festa del suo compleanno.»
   «Oh…», lo studio da sotto le sopracciglia, «E ci vai?»
   «No, ma va’.»
   Rimaniamo in silenzio per un po’. «Cosa dice tua mamma?», domando più che altro per rompere l’atmosfera pesante.
   Theo alza le spalle. «Come al solito. “Perché l’hai lasciata? Era così carina!”»
   «E perché l’hai lasciata?», chiedo fissandolo con gli occhi spalancati. «Non me l’hai mai detto. È», mi agito sul materasso, «qualcosa di privato? Tipo qualcosa di sessuale che preferirei non sapere? In questo caso puoi non dirmelo.»
   Theodore ride ma smette quasi subito. «No, è solo che non mi piaceva più.» Biascica come se avesse ancora la bocca piena di biscotti.
   Questo significa solo una cosa, una cosa terribile: a Theodore piace qualcun’altra. Maledizione! Un’altra ragazza super-carina, e di certo più attraente di me per molti versi. Voglio dire, io non ho mica le tette, e nemmeno quella forma un po’ a pera che hanno le ragazze. Cioè, non a pera, però più sinuose di me di sicuro.
  Tento di non dare a vedere quanto la notizia mi ha sconvolto e per sdrammatizzare e nel contempo sapere dico con leggerezza: «Oh, capito. Quindi ti piace un’altra.» Theodore non parla, gli sono diventate le orecchie rosse. A lui diventano sempre le orecchie rosse quando è imbarazzato. In effetti fa un po’ ridere, io non mi trattengo e ululo una risata. «Scusa! Scusami non sto ridendo di te!»
   «Ah no?!», grida lui mentre il rossore gli si propaga anche sulle guance.
   «No, hai ragione. Rido di te», ammetto. Quando mi riprendo sorrido e gli chiedo: «Chi è? La conosco? È a scuola con noi?»
   «Sì, più o meno…», mormora lui senza guardarmi.
   «O sì, o no. Deciditi. Cos’è, un alieno? Si sdoppia in due?»
   Muoio dalla voglia di sapere. Potrei anche andare a casa di questa ragazza e infilarle una lettera minatoria sotto la porta. La scriverò con i ritagli di giornale, così nessuno saprà che sono stato io. Le dirò di stare lontana di Theodore, altrimenti verrà stesa da un misterioso eroe mascherato vestito da Astroboy. Ho ancora a casa il costume di Astroboy, anche se dubito che mi stia ancora bene dato che l’ho indossato quando avevo otto anni.
   Theodore non mi guarda in faccia, invece deglutisce e io rimango ipnotizzato a guardare il suo pomo d’Adamo che va su e giù, su e giù, come una montagna russa. «Senti», comincia incerto, «tu davvero pensi quelle cose che dici sempre? Sui gay e così?»
   Questa non me l’aspettavo. «Sì», rispondo di getto. A costo di essere preso in giro ho sempre detto, se l’argomento usciva fuori e non mi trattenevo da aprire questa mia boccaccia, che io contro gli omosessuali non ho proprio niente, che per me possono fare quello che vogliono. Credo che sia una cosa importante non avere pregiudizi, e poi, obbiettivamente, nessuno muore se due uomini si sposano! La cosa mi ha reso molto impopolare, ovvio, e parecchie persone hanno cominciato a dire in giro che sono gay.
   «Quindi… a te piacciono i ragazzi?»
   La conversazione sta diventando più importante del previsto. Non sono bravo a mentire. Che cosa dovrei rispondere ora? «Io… io non lo so.» Be’, sono sincero ma criptico almeno.
   «Ma ci hai mai pensato?», insiste Theodore.
   Mamma di Theo! Entra da quella porta e interrompi questa orribile conversazione! «Ehm…», mi guardo attorno in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa che possa far divergere questo discorso in qualche altra direzione. Forse se me ne uscissi con un “Oh Theo, non mi hai detto che ti piacevano i modellini di aerei! Ma quanti ne hai? Fammi vedere un po’, dai”, allora forse lui si distrarrebbe. Ottimo piano. Adesso lo uso. «Ma quanti mod-»
   Prima che riesca a finire la frase vengo sopraffatto da Theodore, che si lancia in avanti sul letto, mi raggiunge e mi bacia sulla bocca.
   Oh.
   Anche questo spiega molte cose.
  Rimaniamo a fissarci a zero distanza, io con gli occhi di fuori per lo shock, lui invece sembra a metà fra il pentito e il preoccupato. Quando si allontana è serissimo, come se invece di un bacio mi avesse dato un cazzotto.
   «Oh, porca...» Theodore si alza di scatto dal letto e si ficca le mani nei capelli. Comincia a girare per la stanza a lunghi passi e blatera qualcosa a proposito di essere scemo, del fatto che non devo pensare male e di dimenticarmi tutto.
   Io sorrido come un ebete e fisso il pavimento. A quelle parole però alzo la testa verso di lui. «Eh?»
   Theo è interdetto. «Mi ascolti?» Fa un sospiro sconsolato e sembra farsi più piccolo dalla vergogna e dal disagio. «Scusami, non so cosa mi è preso. Non dirlo a nessuno.»
   «No?», domando inebetito. «Aspetta», dico poi quando arriva l’illuminazione, «ti piacciono i ragazzi?»
   «No!» Sembra in preda a un doloroso conflitto interiore. Si mordicchia le labbra ed è tutto agitato. «Solo… solo tu per il momento», dice alla fine debolmente, e mette su un cipiglio triste, come se fosse una cosa brutta.
   Il cuore comincia a battermi forte. «Veramente?» Mi alzo dal letto e Theo indietreggia, forse crede che lo voglia pestare o qualcos’altro, ma poi si ferma quando vede che sorrido. Metto su una voce strana, che non riconosco neanche come mia, quando gli confesso con un mezzo sorriso emozionato: «Anche tu mi piaci.»




















Eccomi a voi, donne! (E uomini?)
Allora, avete seriamente rischiato di rimanere senza capitolo oggi, perché internet mi sta facendo un po' di storie. Ma ora è tornato, quindi sottomettevi e recensite! Muahahah! xD No, allora, seriamente...

Ho un po' di cose da dire sul capitolo, preparatevi alla pappardella. (Se la vedete troppo lunga, potete anche saltarla, non è così importante ai fini della storia! xD)
In primis, questo e il seguente capitolo, oltre a farvi salire l'ansia per la faccenda di Andrea, sono messi lì perché si è discusso così tanto sulla sessualità di Mika, sui giornali, che non ho potuto resistere, e ho detto la mia. La mia è che non dovrebbe fregare niente a nessuno della sua sessualità, perché quella non c'entra niente con il suo talento. La sessualità in generale c'entra con le sue canzoni - almeno alcune - ma di sicuro il fatto che sia gay, non gay, bisex non ha la minima importanza. Questo è il motivo per cui ho scritto questi due capitoli.
Poi, le pippe mentali sul fatto "Oddio, sarà mica gay?" le ho inserite anche se volevo che il fatto fosse il più naturale possibile, solo perché qui il mio Mika-personaggio è un adolescente, e da adolescenti tutti si fanno le pippe! ...mentali, non pensate male xD Ho cercato di buttare la faccenda sull'identità, nel senso che Mika si chiede di essere omosessuale solo perché vuole sapere che tipo di persona è, non perché pensa che essere gay lo renda diverso, o che verrà preso in giro.
Pappardella finish! Scusate, ma fare certe precisazioni è più forte di me u_u

Torniamo alle cose interessanti: ecco qui lo spoiler, nel quale c'è una sorpresa (piccola, non vi sognate troppe cose! xD).
Lasciate una recensione, mi raccomando! Soprattutto adesso che Il Sommo Mika si è finalmente deciso ad alzare le sue regali chiappette dalla sedia, muovere i seducenti riccioli riccioluti, e rilasciare qualche canzone nell'etere.
A settimana prossima! Bevete tanto, che arriva l'estate, e Celebrate with Mika!
Patrizia

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Capitolo 8
*** Toy boy, o Salto nel passato # 1 - II parte ***


Capitolo otto
Toy Boy
o Salto nel passato # 1 – II parte





   Rientro in casa il più silenziosamente possibile, in punta di piedi. Oltrepasso il salotto, la cucina e sto guadagnando trionfalmente le scale quando una luce al piano di sopra si accende. Mi nascondo in sala, aspettando che si spenga di nuovo: non ho voglia di vedere mamma o papà. Purtroppo non si spegne. Dei passi felpati lungo le scale mi avvisano che qualcuno sta venendo giù. Questo qualcuno entra in cucina e io faccio in tempo a scorgere i capelli di Yasmine. Esco dal mio nascondiglio abbastanza rumorosamente perché lei mi senta, infatti si volta. «Bentornato», mi dice, poi guarda l’orologio e alza un sopracciglio. «Sono le due del mattino.»
   «Ho fatto un po’ più tardi del previsto.»
   Yasmine si serve un bicchiere d’acqua e lo scola tutto d’un fiato. «Come sta Theo?»
   «Bene, come al solito. Studia… tanto.»
  Pure troppo per i miei gusti: è da tutta l’estate che non fa altro che studiare. Vuole entrare a Cambridge per fare lettere e perciò studia tutto il giorno tutti i giorni. Fra un po’ ci saranno gli esami di ammissione.
  Io invece ho il mio bel da fare per entrare al Royal College of Music, ci saranno le audizioni a inizio Ottobre. In pratica, io e Theodore avremo gli esami nello stesso periodo.
   Stiamo assieme da tre mesi, più o meno: l’estate più bella che io abbia mai passato.
   Non l’ho ancora detto ai miei. Non tanto perché si potrebbero arrabbiare, o mi sbattono fuori di casa, o fanno quei discorsi tipo che i gay sono contro natura, ma perché non voglio dovergli spiegare tutta la faccenda, sarebbe imbarazzante. Scommetto che salterebbero fuori discorsi sulla sessualità e su di me. E parlare della mia sessualità con i miei genitori non è esattamente il mio sogno. La prima e unica volta che mia madre l’ha fatto mi sono ingozzato con la coca cola e stavo per morire. In fondo il discorso sui bambini qui non serve, quindi non parliamo e facciamo prima. Un giorno glielo dirò. Scommetto che salterebbero fuori domande su me e lui, su cos’abbiamo fatto. Be’, nessuno di noi era mai stato prima con un altro ragazzo, ma non siamo nemmeno alla nostra prima esperienza. A pensarci bene sono stati momenti piuttosto goffi, ma divertenti da ricordare. E anche dolci, in fondo.
   Sbadiglio e seguo mia sorella al piano di sopra. «’Notte Yasmine», dico entrando nella stanza che divido con Fortuné.
   «Buonanotte», fa lei entrando in camera sua.
   Entro pian piano e mi spoglio, poi mi ficco nel letto e mi addormento subito.

   «Buongiorno.» Sorrido, e la mamma di Theo come al solito grugnisce. Non so perché mi odi così profondamente, non le ho fatto niente, sono sempre stato gentile come mi hanno insegnato.
   «Theo, c’è Michael!», strilla verso la cucina con aria contrariata. Non cerca nemmeno di nasconderlo! Che antipatica…
   Theo esce e mi sembra leggermente corrucciato, ma quando mi vede fa un sorrisino e acchiappa le chiavi di casa. «Andiamo?»
   «Ah, andiamo? Credevo rimanessimo qui.» Lo seguo, mentre lui fugge.
   «No, no, andiamo a fare un giro. Ciao mamma.»
   «Arrivederci», dico io con un mezzo sorriso. Scendo quasi di corsa i gradini di fronte alla casa di Theodore e lo raggiungo: «Dove stai andando? Aspettami», mi lagno.
   «Non lo so, andiamo a fare un giro. Ti va?»
   «Come vuoi», dico io accostando il passo con il suo. Prendiamo l’autobus e facciamo un giro senza fare troppa attenzione alle vetrine. In realtà io ci faccio attenzione, mi comporto come al solito, ma non passa nemmeno mezz’ora prima che mi renda conto che Theo è distratto, su un altro pianeta proprio. «Come va per gli esami d’ammissione?», gli domando. Magari è per quello.
   «Bene», dice subito lui, quasi con sollievo, come se si appigliasse alla prima scusa per parlare. «E tu?»
   «Anch’io bene.»
   Ripiomba il silenzio. È qualcosa di sgradevole, non lo sopporto. Mi ritrovo a sperare che quel pomeriggio finisca il più in fretta possibile.
  Theo è strano, non parla molto, è assente. Non l’ho mai visto così. Alla fine torniamo a casa sua e ci rinchiudiamo nella sua camera con una bottiglia di tè alla pesca. Con il mio fantasmagorico sex appeal cerco anche di convincerlo a stenderci a letto e magari dare un senso alla giornata che, fino a questo momento, è stata un disastro completo, anche se non capisco il perché. Lui non cede ai miei tentativi e dopo un po’ porta via il tè e i bicchieri.
  La cosa brutta del tè alla pesca è che ti fa andare in bagno dopo nemmeno un’ora. Infatti dopo che Theo se n’è andato esco anch’io. Quando torno in camera lui ancora non c’è, così vado a cercarlo. Mi fermo accanto alla cucina, perché sento due voci che litigano. Sono Theodore e sua madre.
   «Mamma, smettila», dice lui con voce seccata.
   «No Theodore, questa storia non può continuare così, lo sai bene. Se lo venisse a sapere tuo padre…»
   «Non sei tu che devi dirglielo, devo dirglielo io. E glielo dirò.»
   Sento la mamma di Theo sospirare di sconforto. «Quel ragazzo non mi piaceva già da prima, lo sai bene. È così… strano.»
   «Non credo che debba importarti quanto strani sono i miei amici.»
   «Non prendermi per stupida sai?», sbotta lei con rabbia. «Credi che non lo sappia? Tu e quel ragazzo state insieme! Come- come due-»
   «Come due? Come due cosa?!»
   «Come se fosse normale!»
   Sento un rumore sordo, come di qualcosa che picchia contro il legno del tavolo. Poco dopo la voce di Theodore, bassa e quasi dolorosa nel tono, dice: «Non vedo come la cosa ti riguardi.»
   «Ma certo che mi riguarda, mi riguarda eccome: io sono tua madre! Non vorrai… dormire con quel ragazzo per molto ancora? È una cosa seria in questo mondo, Theodore. Forse.. forse staresti meglio con una ragazza. Libby, ad esempio, era un ragazza così…»
  «La puoi smettere di parlare di Libby? E poi non sono affari tuoi con chi sto meglio», sbotta Theo irato. Non l’ho mai sentito così arrabbiato in tutti questi anni che ci conosciamo.
   «Tesoro, sei ancora così giovane. Non sai cosa vuoi, è naturale. Sei confuso. Ma non puoi rinunciare ad avere dei figli, un famiglia vera, sana, come dovrebbe essere. Io e tuo padre siamo molto preoccupati. Lui non lo sa, ma ha intuito che c’è qualcosa. Se lo scoprisse sarebbe un tale dolore per lui.»
   «E quindi cosa devo fare? Smettere di essere come sono? Così? Tu credi che sia un capriccio? Mamma, io sono così», sillaba l’ultima frase mettendo un’enfasi particolare in ogni lettera.
   Io mi volto e me ne torno nella stanza di Theo. Mi stendo sul letto e rimango a fissare il soffitto.
  E io che mi preoccupavo dei miei genitori, che mi avrebbero fatto discorsi imbarazzanti, che magari si sarebbero schiantati dal ridere e mi avrebbero in giro. Poi vengo qui e scopro che i genitori di Theo sono veramente contrari, con tutta quella faccenda della famiglia tradizionale e balle varie. Sua madre… un mostro, lo sapevo già. Lei è la strega più cattiva che c’è mai stata. Ne ha proprio l’aspetto.
   In quel momento Theo rientra, ancora scuro in volto. Gli sorrido come se non avessi udito nulla. In fondo, se c’è un problema potrebbe anche dirmelo, no? Anzi, dovrebbe dirmelo, dato che stiamo insieme. Perché non me lo dice? Perché se ne sta lì muto come un pesce? Io sono qui apposta per condividere con tutto quello che lo rende felice e anche quello che lo rende infelice. Perché non condivide niente?!
   Per il resto del pomeriggio tento di introdurre allusioni per farlo parlare, ma lui dice nulla. Alla fine mi atterra con un bacio e io sono abbastanza soddisfatto, ma sospetto che sia solo per farmi stare zitto.

   «Michael!»
   «Che c’è?»
   «È Theo!»
  La parola magica. Scendo le scale di corsa, sorridendo. Yasmine se ne va e io e Theodore andiamo nella mia stanza. A metà strada incontriamo Fortuné che scende le scale. Evvai, se ne va! La stanza è tutta per noi. Theodore ha l’aria tirata, un po’ sbattuta, così gli chiedo: «Cos’è successo?»
   Lui non mi guarda, sembra nervoso e continua a muoversi, agitato. «Mi è arrivata la lettera da Cambridge.»
  Allargo gli occhi in un moto di comprensione. Evidentemente non è stato accettato. Se così fosse starebbe saltando, non avrebbe quelle faccia da koala picchiato. Mi avvicino e lo abbraccio forte. «Mi dispiace.»
   Theo si scosta e mi fissa stranito. «E di cosa? Sono stato ammesso.»
   Sbatto le palpebre un po’ prima di capire. «Come?»
   «Mi hanno ammesso. Vado a Cambridge, Jesus College.»
  Lo guardo con la bocca spalancata, poi gli tiro uno spintone. «E fai quella faccia?!» Sorrido e lo abbraccio più forte di prima. «Bravissimo, complimenti! Lo sapevo che ce la facevi.» Gli stampo un bacio sulle labbra e finalmente anche lui sembra un po’ più allegro.
«Grazie», dice piano. Si schiarisce la voce. «Ascolta, devo dirti una cosa importante.»
   «Ah, ma guarda che ero preparato all’evenienza. Cioè, Cambridge non è lontana da Londra, alla fine, possiamo fare che un fine settimana vengo io e l’altro torni tu. E poi ci sono un sacco di vacanze: Natale, Pasqua…»
   «No, non dico quello.» Theodore si siede sul letto e tiene la testa fra le mani. «Ieri», comincia esitante, «quando è arrivata la lettera, ho pensato che fosse il momento buono per dire a papà che io e te stavamo assieme.»
   «Stava…»
  «Aspetta, fammi finire.» Theodore prende un grosso respiro. «Lui l’ha presa molto male. Ha detto che… che non lo vuole un figlio come me. E ha detto che se non la smetto con queste idiozie non mi ci manda al college.»
   Butto fuori tutta l’aria che stavo tenendo in gola. Trattenevo il fiato senza neanche rendermene conto. Voglio dire qualcosa. Devo dire qualcosa! «E quindi…» Sto per chiedergli che cosa ha intenzione di fare, ma all’improvviso una consapevolezza certa mi colpisce come un pugno nello stomaco. Conoscendolo, Theodore non lotterà mai contro i suoi genitori, non lo ha mai fatto. E nemmeno rinuncerà mai a Cambridge. Chi mai sarebbe così pazzo da farlo? Quindi sono io l’opzione da gettare via.
   «Mi dispiace Michael, mi dispiace tantissimo», comincia lui con espressione addolorata. «Ma sai, forse è meglio così, no? Voglio dire, forse è solo una cosa passeggera. E poi mica dobbiamo sposarci, non abbiamo trent’anni.»
   Ancora non riesco ad emettere un fiato. Non voglio certo competere con Cambridge, è una battaglia impari, ma speravo che almeno avrebbe protesto un po’ di più! Potrebbe anche uscirsene con il piano geniale, che a me è subito venuto in mente, di fare tutto di nascosto. Evidentemente non sono abbastanza importante per lui. Mi sento come un giocattolo brutalmente usato e poi gettato via in una scatola quando ne hai abbastanza. Forse per lui è stato tutto una specie di prova, un gioco.
  «Comunque sia, credo che sia meglio se noi non ci vedessimo più. Per il resto dell’estate», conclude Theodore poggiando le mani sui fianchi. Si guarda un po’ attorno, si passa la lingua sulle labbra, evita i miei occhi. Fugge via borbottando: «Buona fortuna per tutto.»
   L’orologio sulla parete ticchetta con insistenza. Passano almeno cinque minuti prima che mi renda conto di quel che è successo.
   Mi alzo dal letto e mi avvio verso la stanza di Yasmine e Paloma, facendo il meno rumore possibile. Sento che se facessi rumore rovinerei qualcosa; forse l’incantesimo che mi fa rimanere così calmo, quando invece una parte di me vorrebbe urlare.
   Apro la porta e ficco la testa dentro la camera. «Paloma?» Lei in quel momento sta disegnando un modello di carta per un vestito seduta alla scrivania. Yasmine non c’è. «Posso entrare?», domando, ma mi chiudo già la porta alle spalle prima che lei dica di sì.




















Salve a tutti!
Il mio pc sta cominciando a dare i numeri, adesso non vuole rimuovere neanche il corsivo, quindi scrivo in corsivo u_u
Allora, che dire di questo capitolo? Mah, non ho niente di importante da dire. La storia fra Theo e Mika era destinata a terminare, nella mia testa, già quando era appena iniziata. Più che altro perché volevo che il flashback avesse un inizio e una fine precisi, un fine preso insomma, e la prima storia di Mika con un ragazzo mi è sembrata adatta allo scopo: perciò ho scritto come inizia la storia d'amour e come finisce.
Che altro? Bah, nulla d'importante a parte che oggi è il 24 di Giugno e manca esattamente un mese al concerto di Mika a Vigevano! Aaahhh! *o* Inizio il conto alla rovescia oggi, ufficialmente!
Per lo spoiler sul prossimo capitolo, nel quale finalmente si verrà a scoprire la verità su Andrea, cliccate qui.
Ci vediamo la settimana prossima, miei prodi lettori, e saremo sempre più vicini alla data fatidica! Mhuahahah!
Patrizia

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Capitolo 9
*** Dr. John, o Frammenti di una rivoluzione ***


Capitolo nove
Dr. John
o Frammenti di una rivoluzione





   Andrea guida all’impazzata con tutto il traffico che c’è.
   A causa di una serie di sfortunatissimi eventi ci siamo ritrovati ad usare la mia macchina, per cui anche io devo esserci. Se sapevo che avrebbe guidato così me ne sarei rimasto nel suo appartamento ad aspettarla tornare. Stiamo andando ad un ospedale privato a quanto ho capito. Sento che fra poco la mia curiosità verrà soddisfatta.
   Andrea si ferma sgommando e io penso che per lo meno la mia macchina ha conosciuto un po’ di adrenalina: ha un’accelerata pazzesca, ma io la uso come un vecchietto; sempre in giro nei parchi e rispetto il limite di velocità.
   «Tieni, chiudi tu», mi fa Andrea lanciandomi le chiavi, che ovviamente mi cadono e finiscono a terra. Le raccolgo, chiudo l’auto e la seguo di corsa. Sta passando lungo i corridoi facendo lo slalom fra infermiere, pazienti e dottori e avanza con la sicurezza di chi conosce quel luogo come le sue tasche. Si ferma davanti all’ascensore e comincia a chiamarlo pigiando ripetutamente il pulsante, ma l’ascensore è al nono piano in quel momento. «Merda», dice Andrea ringhiando. Si volta e comincia a salire le scale.
   Dobbiamo arrivare fino al sesto piano e io muoio già al terzo. Tengo duro fino al quarto, invece Andrea sembra sospinta in alto come se la trascinassero. Al sesto piano sono abbastanza sconvolto dalla situazione da pensare cose inutili come  lanciare un paziente giù dal suo lettino per stendermi al posto suo.
   «Andrea», la chiamo, ma non ottengo risposta. «Andrea, dove stiamo andando?»
   Lei si volta di scatto e mi guarda con occhi disperati. «Scusami tanto Michael, scusami tantissimo per averti trascinato fin qui. Ti prometto che ti racconterò tutto, aspetta solo ancora un po’ d’accordo?» Mi toglie le parole di bocca e i pensieri dalla testa, e faccio solo segno di sì con il capo. Lei si lancia di nuovo nel corridoio ed entra nel reparto di lungodegenza. Ferma un’infermiera e chiede: «Sto cercando il signor Ewan Dallin.»
   «In questo momento è in sala operatoria, l’hanno portato lì d’emergenza un paio d’ore fa.»
   «Il dottor John è lì con lui?»
   «Sì, se vuole aspettarlo le indico il suo ufficio. Lei è una parente?»
   «Sono Andrea Dallin, sua moglie.»

   Quaranta minuti dopo siamo ancora seduti sulle scomode sedie di plastica verdi dell’ospedale, davanti alla porta di un ufficio chiusa.
   Né io né Andrea abbiamo spiccicato parola. Sono un po’ sconvolto in realtà.
  E io che mi chiedevo se lei avesse un fidanzato! È sposata, cazzo! Ho commesso qualcosa come un peccato mortale! Non era in uno dei comandamenti “Non desiderare la donna d’altri”? Non che io sia così religioso, ma capitemi, sono sconvolto, penso a cose del tutto irrilevanti!
   Questi quaranta minuti passano come secondi tanto sono immerso nei miei pensieri. Ad un tratto Andrea si alza e corre incontro ad un medico.    «John!», esclama con voce angosciata.
   Il Dr. John non ha l’aria di portare buone notizie. «Andrea…», si avvicina e l’abbraccia, come confermando che c’è qualcosa che non va.
   Lei è agitatissima e lo allontana. «Che cos’è successo? Come sta Ewan?», domanda con le lacrime che cominciano ad affacciarsi.
   «Vieni», dice lui conducendola nel suo ufficio.
   Andrea mi cerca con lo sguardo e mi fa segno di andare con loro. Ha l’aria terrorizzata. Dio, non voglio andare lì dentro. È una cosa orribile, non so neanche di cosa parleranno. Andrea si arpiona al mio braccio e lo stringe come se fosse una fune che la tiene sospesa sopra una gabbia piena di leoni. Una volta dentro l’ufficio il dottore si presenta.
   «Sono il dottor Timothy John, molto piacere.»
   «Michael Penniman, sono un amico di Andrea», dico io stringendo la sua mano.
   Ho di fronte un tizio che si chiama John e fa il dottore… voglio dire, è un po’ assurdo.
   «Andrea, qualche ora fa l’apparato nervoso di Ewan ha ceduto, abbiamo dovuto portarlo in rianimazione e poi in sala operatoria. Purtroppo, a causa del forte stress traumatico è entrato in coma.»
   Al mio fianco Andrea fa un singulto e la sua mano trema sul mio avambraccio. Deglutisco, e poso la mia mano sulla sua, attento alle parole del medico.
   «Che cosa significa? Qual è la differenza da prima ad ora?»
   «Lo stato vegetativo in cui Ewan era prima di oggi è molto diverso. In quello stato un paziente è più autonomo. Ewan infatti respirava da solo, negli ultimi mesi era riuscito persino a mangiare qualcosa senza la flebo, aveva un regolare ciclo sonno-veglia. Questo coma lo ha portato in uno stato di incoscienza molto più profondo.»
   «Ma…» Andrea non riesce a parlare, le labbra le tremano, la mano anche, e tutto il suo corpo piccolo è scosso come da un terremoto. «Noi abbiamo fatto tutto il possibile, lui stava migliorando, lo hai detto tu in Gennaio, hai detto che stava mostrando segni di miglioramento, che poteva guarire. Non capisco, che cos’abbiamo fatto di sbagliato? Perché abbiamo continuato a provare, allora significa che qualcosa non è andato bene…»
   «Andrea non si tratta di giusto o sbagliato. Non si possono prevedere miglioramenti o peggioramenti con sicurezza. Noi possiamo aiutare e stimolare il processo di guarigione, ma non c’è alcun tipo di garanzia che il nostro intervento funzioni.»
   «Posso vederlo?»
   «Non ancora, le infermiere lo stanno sistemando in una nuova stanza.» Il dottore esita qualche attimo, poi dice: «Abbiamo dovuto attaccare il respiratore. Senza quello non può rimanere in vita.»

   Sono le nove di sera quando torniamo finalmente a casa. Andrea ha telefonato al lavoro per chiedere un giorno di riposo. L’accompagno a casa sua e la guardo mentre si getta nel letto e comincia a piangere silenziosamente. Non voglio lasciarla così, triste e sola a casa. Mando un messaggio a mia mamma per dirle di andare a prendere Melachi a casa mia e tenerla per un paio di giorni, poi mi stendo al fianco di Andrea e comincio ad accarezzarle i capelli.
   Che cos’abbiamo fatto quando Paloma ha avuto l’incidente? Come ci siamo consolati? Devo dire che era una cosa totalmente diversa, perché dieci ore dopo (che sono sembrate un’eternità, è vero, ma sono comunque passate) ci hanno assicurato che tutto sarebbe andato bene. Ci hanno detto che potevamo vederla, che lei era viva, che non era paralizzata, e che tutte quelle cose terribili che ci sono passate per la testa in quelle dieci ore non sarebbero mai successe. Cosa fare, invece, quanto tutto va sempre peggio? Quando la speranza te l’hanno strappata via dalle mani e dal petto? Cosa fare quando le dieci ore minacciano di trasformarsi in dieci anni?
   Io faccio l’unica cosa che so fare.
  Comincio a intonare una canzone, senza parole, solo scandendo il ritmo lento a labbra serrate. Non è una canzone vera, non è neanche qualcosa che conosco, è un’invenzione. Continuo a carezzare la testa di Andrea, e sento che le lacrime le scendono ancora copiose. Non si fermano finché non si addormenta, e io neanche me ne accorgo che lei dorme. Continuo a cantare, a carezzarle i capelli, e forse così la raggiungerò anche in sogno.

   Il mattino dopo quando mi sveglio ho la bava alla bocca e fatico a ricordare come mai mi sento tanto abbattuto. All’improvviso tutto ciò che volevo sapere diventa fin troppo interessante per reggerlo. Avrei preferito non sapere, se avessi potuto prevedere che sarebbe stato un tale casino? Il ragazzo che sapeva troppo, ora so esattamente che cosa significa. Aveva proprio ragione quello che ha detto “beata ignoranza”.
   Mi alzo, attento a non svegliare Andrea. Cercando bene in cucina faccio il caffè per entrambi. Quando è pronto sto per andare a chiamarla ma lei arriva da sola con quel naso ancora rosso dal pianto, gli occhi gonfi e i capelli arruffati. Non è come vedere una persona che si sveglia al mattino, tutta stropicciata ma comunque normale. Invece i suoi occhi, quelli non sono affatto normali.
  Ci sediamo in silenzio. Ad un tratto mi sento in colpa per averla spinta a raccontare tutte quelle cose. Mi schiarisco la voce ma mi esce comunque gracchiante quando parlo. «Non mi devi raccontare niente, se non vuoi. E io posso dimenticare tutto.» Bugiardo. Non posso dimenticare un bel niente, ma se serve fare finta di non saperlo, posso sforzarmi.
   Lei fa segno di no con la testa. Si alza e mi porta un album di foto. Comincia a sfogliarlo seduta al mio fianco e racconta ogni cosa.
   «Io e Ewan ci siamo conosciuti prima che finissi la Royal e ci siamo fidanzati. Lui ha cinque anni più di me. Faceva lo psicologo. Qui è quando siamo andati a pattinare all’arena.» Mi indica una foto dove lei e un ragazzo alto, biondo con i capelli corti e gli occhi azzurri molto belli, sorridono con in mano dei pattini. Seguono delle foto di loro due pattinano. «Dopo un anno siamo venuti qui a vivere insieme e ci siamo sposati con una cerimonia velocissima all’insaputa di tutti. Siamo partiti per la Nuova Zelanda per tre settimane come viaggio di nozze. Ecco, qui siamo a Wellington… era una città bellissima, non so se ci sei mai stato.» Quella foto fa male al cuore, davvero: ci sono loro due seduti davanti ad una statua, lui tiene in braccio Andrea e sorridono. «Tre anni fa, mentre andava al lavoro, c’è stato un incidente. Due macchine davanti a Ewan si erano scontrate, lui ha cercato di aggirarle, era appena dietro di loro, ma ha perso il controllo della macchina ed è finito addosso ad un camion che andava dalla parte opposta.» Andrea parla come se stesse leggendo la lista della spesa. È come se tutto il dolore lo avesse spremuto fuori ieri notte con tutte le lacrime che ha versato. Tieni gli occhi bassi, puntate sulle fotografie, e le suo ciglia sembrano volerle nascondere gli occhi. «Per il primo anno Ewan è rimasto in un’altra clinica, non una clinica privata. Poi è arrivato un suo vecchio amico che ha conosciuto al college, Timothy John. Io lo avevo incontrato solo una volta, comunque mi ha detto che lui lavorava per quell’ospedale privato, così ho provato a farlo trasferire lì. Le spese sono aumentate tantissimo, e all’aggiunta alle lezioni di musica che tenevo in una scuola ho cominciato anche a dare lezioni di canto individuali, ma non funzionava. Così mi sono trovata quel lavoro al Jewel, che era molto meglio in fatto di soldi.»
   «Mi dispiace.» Queste parole sono abusate; le usiamo talmente spesso che ora, in questo momento in cui servono davvero, mi sembra che non esprimano abbastanza bene il concetto. Ma io sono dispiaciuto sul serio, io non voglio che lei debba soffrire così tanto. Forse non voglio che debba soffrire in generale. Ed è una sensazione orribile perché non posso fare nulla per migliorare le cose, sono impotente!
   Andrea prosegue come se non mi avesse sentito. «Quella casa che siamo andati a vedere non è la mia eredità, è quella di Ewan. Era lì che abitavano i suoi nonni, lui viveva con loro. Non… non siamo andati a trovarli assieme più di una volta, prima di…» La sua voce si spezza, un suono strozzato le risale in gola. Io mi affretto a chinarmi e abbracciarla nuovamente.
   «Ehi, ehi, ehi», le dico mentre la stringo e la riscaldo con le braccia. Anche se è estate, dev’essere congelata dentro.
  «Mi dispiace di non avertelo detto prima.» Andrea singhiozza e lei non cerca nemmeno di arginare le lacrime. «Io non lo sapevo di piacerti. Non volevo farti stare male.»
   «Oh, mi hai solo spezzato il cuore. Niente che non possa guarire con un frappuccino.»
   Andrea singhiozza una risata. «Mi dispiace di non avertelo detto subito. Non avevo mai il coraggio di parlartene…»
   «Come mai?»
  «Be’, avevo raccontato un sacco di bugie. Un po’ l’avevo anche notato di piacerti, forse. Avevo paura che, se ti avessi raccontato di Ewan, non avresti avuto più alcun motivo di stare con me, soprattutto se solo per amicizia. Allontanarti da qualcuno che ti piaceva ma non potevi avere sarebbe stato più facile, ma io non voglio che tu te ne vada.»
   Certo che sarebbe più facile. Ma sarebbe anche maledettamente impossibile. Come si fa a mollare così all’improvviso una persona con cui sei stato in simbiosi per due mesi? «Sarai pure una gran rubacuori, ma non mi hai mai ferito. Non è ovvio?» La guardo e sorrido.
   «Credevo che fosse ovvio il contrario», dice lei confusa.
   «No», dico alzando le spalle, «Io e te ci divertiamo assieme, no? Anche solo come amici, non è vero? Tu non l’hai fatto apposta.»
   «No ma…»
   «E allora non c’è nessun ma. Mi passerà», mormoro più a me stesso a che a lei.

   «Pronto?»
   «Michael dove sei? Perché Melachi è qui da noi?»
   «Sono a casa di Andrea, ho passato la notte qui.»
   «Ah, ho capito. Hai avuto successo.» Dall’altra parte della cornetta, Fortuné non ha capito una mazza. Vorrei raccontargli tutto, ma non credo di essere dell’umore.
   «No, ascolta, non è come pensi. In realtà è un casino pazzesco, poi ti dico. È praticamente da ieri sera che mi sono trasferito qui in pianta stabile, ma non so per quanto ci rimango.»
   «È successo qualcosa?», domanda lui preoccupato.
   «È successo di tutto, cazzo.»
   «Ma tu stai bene?»
   «Sì, sì, io non ho niente.» A parte la speranza sotto i tacchi.
   «Hai bisogno di qualcosa?»
   «No niente. Ci sentiamo, ti chiamo non appena torno a casa.» Immagino che sarà presto dato che non ho neanche un paio di boxer di riserva.

   «Cazzo!»
   «Cosa c’è?» Mi alzo dal divano e corro in camera, dove Andrea si è appena defilata, saltando su dal divano come se un cactus l’avesse punta.
   «Il colloquio! Ho dimenticato il colloquio!»
   «È oggi?»
   «È fra quaranta minuti!» Manda all’aria tutto l’armadio e comincia a cambiarsi, nascondendosi dietro le anti. Io mi volto. «Non ci arriverò mai in tempo. Porca di una troia!» Aww, che fulgido esempio di bene educata donzella!
   «Non puoi rimandare?»
   «Figurati! Quelli non mi richiamano più se rimando. Che vadano al diavolo!» Un ragazza così dolce…
   «Quanto ci metti in macchina?»
   «Solo venti minuti se non c’è traffico.»
   «Sì ma siamo all’ora di punta», le faccio notare.
  «Lo so! Siamo sempre all’ora di punta in questa città!» Andrea sgambetta in bagno e ci si chiude dentro, mentre io penso. Mi accosto alla porta.
   «Non ce l’hai una bici?»
   Silenzio. Poco dopo: «Sì, ma ha una ruota sgonfia.»
   «Te la gonfio io, dov’è?»
   «Nella cantina. Nello sgabuzzino c’è anche la roba per gonfiarla.»
   «D’accordo. Non ti preoccupare, faccio io. Tu intanto… approntati
   «Approntomi, d’accordo», dice lei da dentro.
  Dieci minuti dopo la ruota è gonfia, la borsa di Andrea è nel cestino davanti, Andrea è sulla bici. Parte, in piedi sopra i pedali, come i ciclisti sulle salite, e prima di sparire mi grida: «C’è un duplicato delle chiavi accanto al mio comodino!»
   Perfetto. Adesso esco e mi compro delle mutande.




















Silenzio solenne...
Abbiamo scoperto il segreto di Andrea u_u Pom pom pom!
Allora, sono in arrivo tante precisazioni.
Prima di tutto il capitolo si intitola "Frammenti di una rivoluzione" perché, come avrete notato, è spezzettato in parecchi paragrafi; mi è uscito così, chissà perché. Da qui i "frammenti". La "rivoluzione", invece, perché succedono un bel po' di cose ai due personaggi: Michael scopre il segreto di Andrea e lei finalmente si confida con qualcuno, inoltre non ha nemmeno il tempo di starci a pensare, perché deve correre al colloquio di lavoro, che per lei è molto importante e non può perdere.
Ho fatto delle ricerche sullo stato vegetativo e sul coma, e ho scoperto le leggere differenze che ho illustrato. Spero di non essermi sbagliata, nel caso potete ovviamente dirmelo (anzi, è vostro dovere morale! u_u).
Spero di non avervi messo troppa tristezza addosso, perché questi argomenti sono pesantucci. Spero di aver reso, alla fine per lo meno, il capitolo un po' meno pesante. Insomma, l'ultima scena avrebbe potuto essere del tutto distaccata dalle altre. Per non rammaricarvi troppo vi dico che i capitoli tristi finiranno piuttosto presto (due o tre capitoli se non erro), però ho cercato di renderli il meno pesanti possibile.
Comunque, ditemi voi che ne pensate.
Che dire? Vi lascio allo spoiler e al prossimo capitolo :)
Patrizia

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Capitolo 10
*** Over my shoulder, o Un caso umano ***


Capitolo dieci
Over my shoulder
o Un caso umano





   Sono rimasto a casa di Andrea per un totale di cinque giorni. In pratica, ho fatto davvero bene ad andare a comprare delle mutande. A pensarci meglio avrei potuto andare a casa a farmi una doccia e prendere un cambio di abiti, ma comprarli è stato più immediato, la prima cosa che mi è venuto in mente di fare. Ne ho anche trovate un paio con dei cagnolini carinissimi sopra! …anche se questo rovinerà la mia reputazione di macho.
   Quei cinque giorni sono passati come in una bolla di sapone.
   Andrea ha ottenuto il lavoro e ha dato le dimissioni dal Jewel. Comincia il suo lavoro a fine Giugno, quindi fra due settimane.
  L’ultimo giorno della mia innaturale permanenza, che sarebbe durata fino a che lei non si fosse ripresa un minimo, mi ha chiesto di andare a trovare assieme suo marito. Inutile dire che è stato orribile.
  Ho visto quell’uomo solo in fotografia, è vero, ma quello che stava steso sul letto, attaccato al respiratore, non ci si avvicinava neanche con tanta immaginazione. Era un fantasma di sé stesso: ossuto, i capelli biondi tagliati cortissimi quasi non si vedevano, gli occhi, anche se io so che erano azzurri, rimanevano chiusi. Se avessi mangiato qualcosa sarei andato a vomitare, quella vista mi ha impressionato.
   Ora sono a casa dei miei. Sono venuto qui a riprendere Melachi e ne ho approfittato per rimanere a dormire. Non ho voglia di rimanere solo in casa, così sono nella mia vecchia camera con la luce spenta e le cuffie nelle orecchie. Sono quasi le due di notte e io non riesco a dormire. Mi alzo, annoiato, e vado in cucina. Apro il frigo e prendo uno yogurt.
   «Michael! Ciao.» Mio padre spunta sulla soglia e si avvicina ai fornelli. «Non riesci a dormire?»
   «No.»
   «Neanche io. Pensavo di farmi un panino.»
   «E sei sicuro che funziona?»
   «Ma certo. Come dopo pranzo, quando il cibo ti fa venire sonnolenza.» Apre il frigo e tira fuori formaggio, lattuga, pomodori e pancetta. «Ne vuoi uno anche tu?»
   «No, grazie.» Mi avvicino e mentre lui taglia il pane metto la pancetta sul fuoco.
   «Come mai non dormi?»
   «Ho un po’ di cose per la testa.»
  Papà mi scocca uno sguardo obliquo. Con lui non c’è mai bisogno di dire tante parole perché capisca. «È per quella ragazza? Come si chiama?»
   «Andrea.»
  «Sì, Fortuné ci ha raccontato tutto.» Mi sfugge un sorrisino saputo. Me lo aspettavo. Mio fratello non sa tenere un segreto neanche se gli scocci la bocca. Non ce l’ho con lui, prima o poi tutti sarebbero venuti a saperlo tramite me o qualcun altro. «Hai ultime notizie?», chiede papà.
   Gli racconto di tutto quello che è successo negli ultimi giorni. Dell’ospedale, del dottor John, di Ewan Dallin e di sua moglie Andrea Dallin. Gli racconto del fatto che le ho canticchiato una canzone, che ho gonfiato le ruote della sua bicicletta, che ha pianto tante lacrime. Gli racconto che ho visto Ewan Dallin da bambino, che l’ho visto da adulto, e che ho visto qualcosa che potrebbe essere benissimo un cadavere in quel letto infeltrito. Quando finisco di raccontare mi rendo conto di avere un nodo doloroso in gola e far fatica a parlare.
   Papà non è mai stato vistosamente affettuoso. Da bambini ci abbracciava in continuazione, ci prendeva per i piedi quando eravamo stesi sul divano e ci rivoltava facendoci volare per aria. Era molto divertente, il mondo si capovolgeva e non capivi niente per un attimo, fino a che i cuscini del divano non ti finivano tutti di nuovo sulla faccia. Poi, quando abbiamo cominciato a lamentarci perché mamma ci teneva sempre mano quando andavamo in giro, o quando ci chiudevamo nella nostra stanza a fare chissà cosa, ha cominciato ad essere più distaccato. Non è che ci vuole meno bene, lui è fatto così.
  Papà mi passa una mano sulla spalla e comincia a massaggiarmi forte la schiena, con le sue mani ruvide e grosse. «Non è come perdere qualcuno che ami», dice, «se lo vedi tutti i giorni, con la speranza che possa tornare. Tu sei una persona forte Michael, puoi essere forte anche per gli altri, quando ne hanno bisogno. La tua amica ha bisogno di te, e io credo che tu possa benissimo starle vicino in questo dolore, anche se ti colpisce in prima persona.»
   «Non mi dispiace starle accanto e consolarla, perché sono felice se è meno triste di prima. Ma… io alla fine non posso fare nulla: lei non vuole me. E non mi vorrà mai finché lui è lì.» Questa è una delle cose più crudeli e deprimenti che io abbia mai detto in vita mia. «Anche se è… quell’uomo è un morto vivente papà, era… rigido, e immobile. E stava attaccato a una macchina per respirare.»
   «Mi dispiace che tu lo abbia visto, Michael.»
   Me ne torno a letto e dormo come un bambino.

  Quella traditrice di Zuleika è andata con Richard al cinema, quindi siamo solo io, Paloma e Yasmine. Siamo a casa di Yasmine, abbiamo comprato una bottiglia di vino e ho anche scovato dei biscotti in cucina. Seduti in salotto davanti alla tv commentiamo un programma orribile dove fanno vedere una donna che si è sottoposta a un sacco di chirurgia estetica. Dovrebbe essere come mia nonna e invece sembra la mia cuginetta minore, però stranamente deforme.
   «Che schifo», dico spegnando la tv. «Mettiamo un cd?»
   «Sono d’accordo. Ce l’hai ancora quello di Aretha Franklin che ti ho regalato?», chiede Paloma.
   «Certo che ce l’ho! Che faccio, lo butto?» Yasmine si alza e si mette a cercare nel mobile del salotto.
   «Magari l’hai perso. Perdi un sacco di roba.»
   «Io non perdo un sacco di roba.»
   E infatti venti minuti dopo stiamo ascoltando un live di Bob Dylan, perché Yasmine non ha perso il cd di Aretha, nooo.
  Il vino nel frattempo è sceso lungo le nostre gole, e il fatto che abbia mangiato solamente dei cracker alle quattro del pomeriggio e ora dei biscotti non aiuta. Il mio stomaco è vuoto, e adesso è anche ubriaco. Ah, il mio fegatino!
   «Non vi ho ancora raccontato del tipo che ho conosciuto l’altro giorno al lavoro!», esclama Paloma in un eccesso di risatine.
   Io reagisco come se fossi papà e lei avesse ancora quindici anni. «Chi? Chi è? Quando l’hai incontrato? Perché non ce lo hai detto?» Il tutto è ovviamente amplificato dall’effetto del vino, anche se devo ammettere di essere parecchio protettivo nei confronti delle mie sorelle. Quando ho conosciuto Richard gli ho chiesto un riassunto dettagliato della sua vita privata, fra un po’ mi mettevo a prendere appunti.
   «E piantala di fare il rompi!», mi sgrida Yasmine.
   «Io non…!»
   «Allora, sì, ero in ufficio, una volta tanto, e stavo telefonando, e passa questo tipo tutto incravattato, vestito elegante, curato, e va dritto verso l’ufficio di Melissa. Io non ci faccio caso più di tanto, ma avete presente che Melissa ha quell’ufficio con le porte scorrevoli in vetro, che non si vedono mai, soprattutto d’estate, e questo tizio va sicuro e tutto fiero tirato a lucido e sbatte contro le porte e cade. Credo di averlo visto solo io, e sono scoppiata a ridere.»
   Paloma gesticola un sacco quando parla, immaginatevela che sobbalza sul divano con un sorriso largo sulla faccia, è esattamente così. In un certo senso fa bene a gesticolare, significa che mette in moto i muscoli. Ogni giorno, dall’incidente che ha avuto, fa una seduta di fisioterapia, e la sta aiutando moltissimo. Cammina ancora con le stampelle quando deve fare lunghi tratti di strada, perché le fa male la gamba e indossa una specie di pancera per tenere i fianchi e la schiena dritti a volte, ma sta migliorando molto. Da un paio di mesi ha persino ricominciato ad andare a lavorare, qualche volta. Certo, le ci vorranno parecchi anni per guarire del tutto, semmai guarisse del tutto.
   «Oh, poverino! Ridi del suo dolore!», esclama Yasmine.
   «Scusa ma l’avresti fatto anche tu, è stato epico.»
   «E poi?»
  «E allora ho mollato la telefonata e sono andata ad aiutarlo. Gli sanguinava il naso, povero, così l’ho portato in bagno, gli ho chiesto scusa perché ridevo e poi l’ho portato da Melissa. Quando è uscito dal suo ufficio mi ha detto che l’incontro era andato a rotoli, che Melissa continuava a citare la macchia di sangue che si stava seccando sul suo vetro, però mi lasciava lo stesso il suo biglietto da visita nel caso mi servisse un uomo che perde sangue dal naso. Mercoledì usciamo.» Paloma conclude con un sorrisino compiaciuto.
   «Davvero? Com’è? Hai una sua foto?»
   «No, ma è davvero bello. Ha i capelli neri…», mia sorella si lancia in una spiegazione che sembra senza fine.
  La serata continua ancora un po’ e, con tutte le finestre aperte, comincio a sentire freddo. Ho freddo, e sono ubriaco. Una serata intensa insomma.
   «Hai più rivisto Andrea?» Yasmine si siede al mio fianco e Paloma dall’altro lato. Sono le mie due guardie del corpo. E dell’anima.
   «No, è da un po’ che non la vedo. È impegnatissima con il suo nuovo lavoro. Ci sentiamo per mail.»
   «Ah, e… come va?»
   Perché lo deve chiedere? Non è evidente che sto bevendo per dimenticare?! «Mah, niente di nuovo.»
   «Perché non la inviti a cena da noi un giorno? Sarebbe bello conoscerla», domanda Yasmine. «Scommetto che a mamma farebbe piacere, lei adora i casi umani.»
   «Lei non è un caso umano.»
   «Scusa, non intendevo quello.»
   Paloma fa una smorfia. «Sì che intendevi quello!»
   «Ma non nel senso cattivo, in senso buono.»
   «Perché, c’è un modo bello di essere un caso umano?», domando.
   «Ce l’avete con me oggi? Stavamo parlando di Michael però.»
   «Sono l’essere più patetico del creato in questo momento, okay?», dico. «Se volete un caso umano ci sono io.»
   Yasmine sta per ribattere qualcosa – sicuramente qualcosa sui casi umani – ma Paloma mi abbraccia affettuosa e dice: «Mi dispiace che sei in questa situazione, Mikey».
   La cosa è grave. Nessuno mi chiama più Mikey da quando avevo otto anni. Devo essere proprio un caso umano.
  «Sono un vero stronzo», dico servendomi dell’altro vino. «Non dico che voglio che quell’uomo muoia, anche se potrebbe essere una liberazione da un lato, almeno credo, ma… immagino che se lui non ci fosse Andrea non sarebbe così attaccata a qualcuno che l’ha già lasciata da tempo. Insomma, è una situazione complicata: lei è innamorata di lui, e non può disinnamorarsi se tutti i suoi giorni sono in funzione del marito come quando vivevano assieme.»
   «Sei sicuro che lo ami ancora?»
   «Ma certo, altrimenti dove starebbe il problema?»
   «Voglio dire che non sta più con lui da anni ormai, è come una relazione a distanza. A molta distanza. A troppa distanza.»
   «Non è detto che le relazioni a distanza non funzionino. Guarda mamma e papà.»
   «Ehr!», mia sorella fa un suono con la gola come quando a un quiz dai la risposta errata. «Sbagliato. Le relazioni a distanza non funzionano, e sai perché? Perché quando si sta separati e non ci si confronta allora ci si dimentica di molte cose belle dell’altra persona. Può darsi che sia la donna o l’uomo della tua vita, ma se non ci passi del tempo assieme allora non lo saprai mai veramente. E poi, nelle relazioni a distanza, succede anche che conosci gente nuova, e può succedere che t’innamori di qualcun altro che vedi spesso, cosa che non accadrebbe se il tuo ragazzo o ragazza fosse lì con te. Ed è esattamente quello che potrebbe succedere a te e Andrea.
   «E poi mamma e papà non contano come esempio, si sono sempre visti abbastanza spesso. Più spesso di Andrea e coso, comunque.»
   Io ascolto questa interessantissima teoria e mi riempio di speranza come un palloncino all’elio, potrei volare via da un momento all’altro.
   «Aspetta.»
   Puff. Il palloncino è scoppiato.
   Paloma ha avuto tutto il tempo questa espressione di disapprovazione sulla faccia, e sono sicuro che sta per dire qualcosa di orribile. «Michael, tutto quello che ha detto Yasmine è giusto, succede. Però io ti consiglio di non farti troppe speranze, solo perché… ecco, potrebbero infrangersi molto facilmente in una situazione delicata come questa.»
   Crunk! Il palloncino è stato tirato dentro il tritarifiuti.
   «Ma perché dici queste cose? Lui può ancora tentare. Quella ragazza è sola da tre anni. Michael arriva lì come il principe azzurro, come- come un vibratore omaggio!»
   «Non si tratta di sesso!», dico io, ma loro mi ignorano.
   «Sì, e poi verrà usato proprio come quello, senza nessuna considerazione sul piano sentimentale.»
   «Era solo una battuta. Ma se loro si avvicinano…»
   «Se lo fanno è già un miracolo.»
   «Guarda che se non prova nemmeno…»
   «L’ultima volta che ci ha provato è andata male.»
   «E allora sentiamo…!»
   Mi alzo dal divano e mi metto le mani nei capelli, gli occhi chiusi. «Basta!», urlo, e loro si zittiscono come per magia. «Non fate altro… che confondermi!» Me ne vado in bagno sbattendo la porta, perché quello è l’unico luogo dove poter pensare in pace.

   Dovete sapere una cosa di mia madre: la cucina è il suo regno. Lì è lei il capo, nessuno la può contrastare, e non è conveniente disturbarla. Quando cucina di solito canta, le canzoni libanesi sono uno dei primi ricordi che ho della mia infanzia. Non ha mai smesso di cantare, quindi saranno un ricordo pressoché di tutta la mia vita immagino. A volte mi stupisco a canticchiare anche io quelle canzoni, come se le conoscessi, ma la verità è che alcune non le ho mai sentite per davvero.
   Oggi mia madre sta cucinando un pranzo colossale. Capita più di rado, adesso, che ci sia tutta la famiglia presente, ma oggi i Penniman si riuniscono come qualche anno fa, quando nessuno aveva inciso nessun disco, quando nessuno aveva avuto un incidente, quando ancora disegnare vestiti era un hobby e il college un traguardo lontano. Oh, e con noi c’è anche il nuovo membro della famiglia: Richard. Lui è l’unico che viene accettato di buon grado dalla mamma in cucina, perché è aiuto chef in un ristorante.
   «Mamma?»
   «Dimmi tutto, ma aspetta che tolgo le patate dal forno.» Lei si sta occupando del secondo, mentre Richard sta finendo il primo e con un po’ di fortuna lo servirà prima che cali la sera. «Eccomi Michael, dimmi.»
   «Volevo sapere se è pronto. Abbiamo apparecchiato di là, abbiamo fame.»
  «Sto per portare di là il primo, adesso vado.» Richard prende una grossa pentola ed esce diretto in sala da pranzo. Io mi scosto per farlo passare, poi mi avvicino al frigo e lo apro. Lì dentro, come il re del frigorifero, sta il dolce più grosso che abbia mai visto. Cioccolata, panna e pan di spagna articolati con maestria, decorato con gli zuccherini. Allungo una mano per prendere una ditata – solo una piccola! – di panna.
   «Non ci provare neanche.» Mamma chiude il frigo con un colpo secco.
   «Ma mamma! Siamo praticamente dei morti di fame di là!»
   «E Richard è andato a servire adesso, no? Vai a mangiare che arrivo.»
  «Ti aspetto.» Mi siedo al tavolo della cucina e comincio a giocherellare con le presine mentre lei finisce il sugo per la carne. «Vuoi una mano?»
   «No, e tu?»
   Rimango interdetto per un attimo. «No?»
  «Non mi sembri sicuro. Mi dicono che stai impazzendo nelle ultime settimane.» Mamma sorride leggermente ilare. «Sei andato a vedere di nuovo quell’uomo malato?», domanda poi tornando seria.
  «No.» Cerco di non guardarla. Lei è come un alieno, se la guardi negli occhi sarai rapito dal suo sguardo e lei capirà esattamente che cosa pensi. Capirà che sono rimasto veramente sconvolto da tutto quello che mi ha raccontato Andrea. «Io e Andrea non ci sentiamo da qualche giorno.»
   «Come mai?»
   Alzo le spalle. «Non lo so. Forse non ha voglia di sentirmi. Avrà tante altre cose da fare.»
  «E tu lasci perdere quindi.» Ha un tono severo. Ha ragione, lei non mi ha insegnato a lasciar perdere. Vedere i suoi insegnamenti gettati al vento così dev’essere brutto. «Perché? Pensi di non piacerle?»
   «Penso solo che dovrà rendersi conto che suo marito non tornerà più. Ho controllato su Google, sai? Se passano più di due anni le possibilità di risvegliarsi da un coma sono bassissime.»
   «Lo so…» Mamma sciacqua le mani e ficca un paio di padelle nel lavandino. Dalla sala da pranzo un “È in tavola!” mi fa alzare. Richard torna in cucina, posa la pentola, poi se ne esce di nuovo. «Forse dovresti farglielo notare, se lei ti piace tanto. Non è un crimine rifarsi una vita se il marito è in quelle condizioni; cerca di capire che cosa ne pensa. Come mai non dovrebbe interessarsi a un ragazzo bello come te?» Mamma sorride e mi accarezza una guancia. Sorrido anch’io, giusto per accontentarla.
   In realtà non so cosa fare, a parte piagnucolare sulle spalle dei miei parenti.
   Sono perduto.
   Sono sfinito.




















Eccomi di ritorno.
Allora, svelato il "mistero Andrea" non resta molto da fare se non risolverlo, ma prima Mika dovrà passare attraverso qualche piccola sofferenza, altrimenti che storia drammatico/romantica è? E poi, in qualche modo dovevo usare venticinque canzoni!
No, dai, non è vero, questo capitolo ha un fine: volevo mostrare il rapporto di Mika con la sua famiglia. C'erano state diverse speculazioni sul fatto che Mika avesse un rapporto un po' burrascoso con suo padre, ma qui non me ne sono curata più di tanto e ho fatto quella piccola scenetta notturna. Fortuné non c'è perché ne avevo già parlato negli scorsi capitoli, poi se lo inserivo troppo nella storia si montava la testa e pensava di essere il protagonista xD
In realtà non so come sta Paloma adesso (e soprattutto come starà l'anno prossimo, dato che la fanfiction è ambientata nell'estate 2013!). Ho sparato quella storia della fisioterapia, delle stampelle eccetera perché mi sembrava veritiera, in realtà non so come sia messa. Diciamo che nella mia fanfiction sta piuttosto bene... è una sorta di augurio. Paloma get well soon! ^^
Che altro? Basta, direi che termino qui per oggi. Vi lascio allo spoiler, così avrete una piccola anticipazione del prossimo capitolo/canzone.
Ci vediamo Domenica prossima, nel frattempo vi auguro una buona settimana :)
Patrizia

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Capitolo 11
*** Stuck in the middle, o L'appuntamento perfetto ***


Capitolo undici
Stuck in the middle
o L’appuntamento perfetto





   Suono il campanello e aspetto che Andrea si decida ad aprire. «Ciao», le dico entrando e sistemandomi come se fossi a casa mia. In effetti la conosco piuttosto bene. So dove sono gli attrezzi in cucina, e che la doccia del bagno ha una temperatura ottimale se la metti più sul freddo, forse perché il rubinetto è un po’ vecchio. «Come va?»
   «Al solito. Non mi dispiace questo nuovo lavoro.» Andrea si siede sul divano e continua a mangiare i biscotti, quelli per bambini con tanto calcio e ferro. «Vuoi?», mi domanda. Io ne assaggio uno, e certo che è buono. Per forza dev’esserlo, altrimenti i bambini non lo mangerebbero. «Vuoi un caffè?»
   «Se ti va di farlo…»
   «Non c’è problema.»
   Di fronte al caffè caldo e ai biscotti per bambini le chiedo: «Perché non hai cercato un lavoro che avesse a che fare con il canto? Hai un titolo che vale quanto una laurea.»
   Lei scuote la testa. «Sono troppo fuori allenamento. Per riprendere dovrei mettermici d’impegno almeno per un anno.»
   «E perché non lo fai? Ti do una mano.»
   Lei sorride. «Non ho un anno di tempo per rimparare tutto. E comunque ho l’impressione che saresti un maestro orribile.»
   «Perché?», chiedo indignato. «Non è vero, io sarei un maestro fantastico invece. E poi tu non sei mica male come allieva. Quando abbiamo cantato assieme non eri poi così arrugginita.»
   «Ma non sono a livelli d’insegnamento. Forse potrei dare lezioni ai principianti, ma ad un certo punto dovrei fermarmi.»
   «Non ne vale la pena, continuare? Tu ami cantare», insisto io.
   Andrea sembra un po’ incerta, titubante. «È vero, ma non pagano mai abbastanza. L’ospedale di Ewan è molto costoso.» Ah, ecco. «E poi…» Poi? Poi cosa? C’è un’altra ragione che non so? Qualcos’altro di scabroso, tanto per cambiare?
   «Poi?», domando, mio malgrado.
   Andrea alza le spalle. «Non mi sembra giusto, ecco. Forse può sembrare stupido ma… non credo che sia giusto che io me stia a cantare tutta contenta mentre Ewan… no. Insomma, ho già fatto tante cose che non avrei dovuto.»
   In che mondo sono finito? Adesso la gente non si vuole più divertire perché non lo fa il marito in coma. Certo, detta così suona orribile, ma provate a leggerne il senso intrinseco, che al momento io non posso illustrare, perché sono troppo impegnato a indignarmi. «Ma questo che significa?!», strillo, arrabbiato. «Che cos’è che non dovresti fare? Eh?! Non dovresti fare le cose che ti piacciono perché tuo marito non può? Io non lo conosco, ma sono certo che lui vorrebbe che tu fossi felice. Essere felici è diventata una colpa adesso? E cos’è che avresti fatto di tanto terribile?»
   «A parte ballare nuda davanti alle persone? A parte uscire a divertirmi e dormire con…!» Andrea si blocca, la bocca le si cuce come se qualcuno avesse tirato su una zip. Io impallidisco e mi faccio serio. Io la guardo. Lei mi guarda. Ci mordiamo a vicenda con quello lo sguardo.
   Per caso è colpa mia? Adesso è diventata colpa mia? Perché? Io non sapevo neanche dell’esistenza di un marito fino alla settimana scorsa. Non immaginavo neanche dei sensi di colpa che si portava sulle spalle solo per aver dormito nella stessa stanza. Sta per caso dicendo che sono io che glieli ho fatti venire? Solo perché l’ho fatta ridere un paio di volte, perché siamo stati bene insieme.
   Il cervello umano è qualcosa che è inutile tentare di capire. È talmente complesso e così… stupido.
   «Che cosa vuoi dire?», chiedo.
   Andrea si massaggia la fronte e tiene gli occhi bene chiusi. «Voglio dire che non mi sembra giusto che mio marito Ewan sia costretto a letto e io passo una notte intera con un altro uomo.»
   «Ma non abbiamo fatto niente!»
   «Sì ma è il concetto che sta alla base che è sbagliato. Quando sei stato fidanzato sei mai andato a dormire con una persona dell’altro sesso?»
   «Non m’interessano i sessi. Non lo so, non credo, ma…»
   «Appunto, perché non si fanno queste cose quando sei fidanzato. E io sono sposata!»
   «Be’, ma questa è una situazione particolare.»
   Andrea strabuzza gli occhi come se mi fossi messo a saltare sul tavolo cantando la sigla dei Puffi. «Che intendi dire?»
  Io scuoto la testa. «Lo sai benissimo che cosa intendo, non farmelo dire ad alta voce.» Lei mi guarda smarrita, e allora ho come la netta sensazione che, per lei, sia normale routine considerare suo marito come una persona che ancora le sta affianco, quasi come se si fosse solo preso una vacanza. Deglutisco e sento il pomo d’Adamo andare su e giù lungo tutta la gola. Ora la situazione intera sembra assurda: in questi tre anni Andrea si è dissanguata per pagare l’ospedale privato di suo marito, e si comporta ancora come se lui dovesse tornare da un momento all’altro, come se vivessero assieme, come se fosse questione solo di un attimo prima che rientri. «Io credo che dovresti pensare molto bene alla situazione in cui ti trovi, Andrea», dico serio guardandola negli occhi. «Che cosa dice il dottor John di Ewan? Che possibilità ci sono che si riprenda completamente?»
   Lei distoglie lo sguardo e comincia a mettere a posto la tavola. «Non è possibile avere dati certi in queste cose. Quel che è certo è che lui è ancora vivo e che potrebbe succedere qualsiasi cosa. Un miracolo, o che so io.» Fa cadere tutte le stoviglie nel lavandino, che fanno tanto fracasso, e si appoggia al piano con i palmi. Poi parla a voce molto bassa, dandomi le spalle. «Io prego tutte le notti prima di dormire, perché questo accada. Prometto in cambio questo e quello, di pensare agli altri, di fare beneficenza, di andare sempre in chiesa. Ma fin ora non mi ha dato retta nessuno.»
  Mi alzo e l’abbraccio, posando la guancia sul suo capo. Lei si irrigidisce. «Lo so che questa ti sembra una di quelle famose situazioni compromettenti, ma non lo faccio per secondi fini e neanche tu. Quindi non c’è nulla di male», dico in fretta. La sento rabbrividire per un attimo fra le mie braccia. «Io credo che dovremmo uscire uno di questi giorni. Dovresti dedicare una giornata solo a te stessa, che ne dici? Una giornata in cui non pensi a nulla. Eh?» La guardo con un sorriso incoraggiante. «Quand’è il tuo prossimo giorno libero?»
   «Tutte le Domeniche e un Sabato sì e uno no.»
   «Ah, un weekend, è perfetto! Settimana questa o l’altra?»
   «La prossima.» Andrea mi sembra già contenta del programma, per lo meno sorride e sembra ansiosa di decidere cosa fare.
  «Sabato prossimo voglio che ti svegli presto e che ti prendi un giorno solo per tè stessa. Fai quello che vuoi. Vai dal parrucchiere, vai a comprarti un bel vestito nuovo, che ne so, quello che ti pare. E Domenica, voglio che ti prepari e che mi aspetti verso le nove di mattina.»
   «Dove andiamo?»
   «Non te lo dico.»
   Lei sorride e s’illumina per qualche attimo. Ecco, è esattamente così che dovrebbe essere: sorridente, fra le mie braccia.

   Yasmine tira fuori un opuscolo e me lo sventola davanti alla faccia. «Volete fare qualcosa di divertente? Ecco qui, guarda: una mostra di Lygia Pape.»
   «Di chi?», domando prendendo il volantino e guardandolo.
   «Lygia Pape era un’artista brasiliana, hanno inaugurato una sua mostra proprio l’altro giorno.»
   «Ma sei sicura che ci piace?»
   Yasmine alza le spalle. «Perché no?»
  Dubbioso, metto da parte il volantino. «Vedremo.» Siamo tutti a casa di Zuleika e Richard, e ovviamente io sono l’argomento centrale di conversazione, perché non sia mai che la famiglia non metta il naso negli affari degli altri!
   «Io so che c’è il circo in città, c’era uno che distribuiva i biglietti con entrata ridotta oggi in centro. Aspetta, devo averli nella borsa, ce ne hanno appioppati quattro quando ero in giro con mamma ieri sera.» Paloma abbandona la caffettiera e torna indietro con una borsa che potrebbe contenerlo dentro il circo, e si mette a cercare. «Non li trovo…», rimane pensosa, «Non appena li vedo te li metto da parte.»
    «Aspetta e spera», commenta Zuleika. «Piuttosto, andate a fare qualcosa di romantico. Non so, uno spettacolo a teatro, poi fuori a cena in un bel ristorante, sul Tamigi. E alla fine a vedere i fuochi d’artificio», dice sognante.
   «Sì, e dove li trova dei fuochi d’artificio? Li fanno per lui?», interviene Fortuné con tono di biasimo. «L’importante è che non andate al ristorante cinese, l’ultima volta che ci siamo andati hai mangiato come un cavallo e ti sei addormentato in macchina appena usciti. Sai che romantico con lui le sbava sulla spalla russando?»
   Yasmine ridacchia e affonda il viso nel suo tè. Ultimamente si è fissata con il tè e beve quello perché dice che la rilassa… Io le do ancora massimo due settimane prima di sclerare e tornare a bere ettolitri di caffeina liquida.
   «Non è una cattiva idea. Però non deve sembrare come un appuntamento», dico io.
  «Ehi, venite alla mia università», dice mio fratello dandomi una pacca sulla spalla e facendomi voltare. «C’è la presentazione di Fredinand Gobrin: è un matematico, ha fatto ricerche sull’apprendimento scientifico delle scimmie.»
   «Ah, così sì che non sembra un appuntamento», dice Paloma prima di scoppiare a ridere.
   Tutti ridiamo e Fortuné incrocia le braccia e ci guarda male. «Se avete un’idea migliore…», dice con tono acido.
   «Ehi, la mia idea era magnifica!», fa Zuleika dopo essersi ripresa. «Se riempi il pomeriggio di cose divertenti la sera diventa più leggera, e non sembrerà una cosa romantica, no? Tu fai così, portala di mattina a vedere la mostra, mangiate qualcosa di veloce, fate un giro in centro, poi il pomeriggio al circo e dopo a cena. Poi i fuochi d’artificio ed è fatta, praticamente sverrà ai tuoi piedi.»
   «Io non voglio che svenga ai miei…»
   «Ma te sei fissata con ‘sti fuochi d’artificio», mi interrompe Fortuné con una smorfia.
  Zuleika si agita tutta e fa di sì con la testa in maniera teatrale, come a dire “è ovvio”. «Come alla fine dei film d’amore! I protagonisti si baciano e sullo sfondo… i fuochi.» Ah, Zuleika, che inguaribile romantica!
   «Questa non mi sembra affatto male», dico. «C’è il circo, c’è la mostra, c’è la cena…»
   «E perché non ci sono le mie scimmie?»
   Ci giriamo tutti verso Fortuné. Mi rigiro verso le altre: «Nessuno ha niente da aggiungere vedo». Loro cominciano a ridere e lo zucchero a velo che stava sulla fetta di torta di Zuleika viene soffiato via dalla sua risata. Ridiamo più forte.

   La mostra non era così male come pensavo: per lo meno era arte contemporanea che, anche se ti fa scervellare, non ti sbatte di fronte cristi morti e madonne col bambino, che personalmente trovo orripilanti la maggior parte delle volte. In definitiva, la mostra non mi è dispiaciuta neanche un po’, e nemmeno ad Andrea immagino, dato che ad ogni nuovo allestimento faceva “ohhh” e sgranava gli occhi.
   «E ora?», domanda lei quando usciamo dal museo. «Che facciamo adesso?»
   «Ora andiamo a mangiare, sto morendo di fame.»
   «Sono molto d’accordo con te.»
   Entriamo in un bar e ordiniamo. Dopo che arrivano le bevande Andrea si rigira fra le mani la bottiglietta di coca cola e mi guarda sorridendo.
   «Cosa c’è? Sei allegra.»
  Lei si stringe nelle spalle. «Mi sto divertendo.» E menomale, con tutta la fatica che ho fatto. Ho anche dovuto stare a sentire Fortuné che parlava di scimmie che imparavano la matematica!
   «Bene. E cosa vorresti fare adesso?»
   «Non lo so.» Andrea sorride furba e mi guarda come se covasse un segreto. «Dimmi la verità, hai organizzato tutto, vero?»
   «Chi? Io?»
   «No, il mio pinguino domestico! E dai, dimmelo. Mi fa piacere se l’hai fatto.»
   Sono sinceramente sorpreso. «Davvero?»
   «Sì!»
   «E come mai?»
   «A chi non farebbe piacere avere una persona che si preoccupa così tanto per te?» I nostri panini arrivano e comincio a mangiare subito per non dover rispondere. «Sono contenta che siamo usciti. Avevi ragione sai? Mi serviva una giornata come questa.»
   «E anche come ieri, a quanto vedo. Stai bene.»
  Probabilmente ieri Andrea ha fatto il giro di tutti i negozi del centro. Indossa solo vestiti nuovi che non avevo mai visto (le ho fatto togliere l’etichetta che si era scordata sulla gonna), si è truccata e si è riempita di bracciali. È molto colorata, molto bella. Maledetta! Uno ci prova a dimenticarle, le ragazze, ma loro sono scaltre e ti ronzano attorno più di prima. Un’altra cosa che ha fatto Andrea, comunque, è andare a tagliare i capelli, e adesso i suoi capelli biondi arrivano appena sotto le orecchie e sono sparati un po’ in tutte le direzioni.
   «Grazie. Quindi?»
   Ridacchio un po’. «Quindi sì, avevo in programma una giornata davvero figa, sei contenta adesso che hai rovinato la suspance?»
   «Anche se si rovina dimmelo lo stesso.»
   «Posso dirti che intanto andiamo a fare un giro, così, normale, soddisfatta?»
   «Questo è il tuo grande piano? La giornata sensazionale?»
   «Sono solo le… è l’una», dico controllando l’ora. «Ci sono ancora quasi dodici ore di fronte a noi, sai quanto tempo ho per stupirti? Intanto lo so che la mostra ti è piaciuta.»
   Lei balzella sulla sedia, allegra. «Hai ragione, era molto bella. Adesso che faremo?»
   «Stai cercando di estorcermi la verità?»
   «Ma certo.»
   «Non te lo dico.»
  Rimaniamo in giro fino alle tre del pomeriggio, poi cominciamo a camminare lentamente verso la mia macchina, fermandoci qua e là ogni tanto. Arriviamo in vista del tendone del circo e comincio a cercare parcheggio. Ad Andrea non passa neanche per la testa che possiamo andare lì, forse non l’ha neanche visto.
   «Lo sai che non ci sono quasi mai venuta in questa parte della città? C’è solo il grande magazzino d’interessante, per il resto non è che sia un posto proprio bellissimo. Comunque, che ci siamo venuti a fare?»
   «Senti, siamo arrivati, non posso mica dirtelo ora.»
   Scendiamo dalla macchina e ci muoviamo fino alle strisce, ma c’è il rosso per i pedoni.
   «No!» Andrea mi guarda e sorride. «Stiamo andando lì?», e indica il tendone rosso e blu. «Davvero?» Non posso fare a meno di sorridere al suo entusiasmo. Andrea saltella sul posto. «Oddio, andiamo!» Il semaforo diventa verde e lei si lancia sulle strisce. La supero facilmente camminando veloce e le intimo “Andiamo! Andiamo!” «Senti, solo perché hai le gambe lunghe…!» E comincia a correre, e io comincio a correre, alla fine le prendo la mano e la trascino correndo verso il tendone.
   Impossibile resistere, ma sono incastrato nel mezzo fra “mi piace” ed “è sposata”. E lei è incastrata  nel mezzo di Michael e Ewan.




















Eccomi qui!
Allora, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e vi abbia fatto almeno un po' ridere. "Stuck in the Middle" è una canzone allegra, e anche se non c'entra niente il tema della canzone con questo capitolo non importa. Ve l'ho detto che non tutte le canzoni saranno completamente compatibili con il tema del capitolo. Comunque volevo che fosse allegro perché la melodia di "Stuck in the middle" è veloce e allegra.
Vi lascio lo spoiler e ci vediamo nel prossimo capitolo, dopo il quale vi ammorberò con il riassunto del concerto di Mika Martedì prossimo. Ragazzi, sto sclerando, non vedo l'ora!
A Domenica prossima, buona settimana :)
Patrizia

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Capitolo 12
*** I see you, o Tempo di attesa ***


Capitolo dodici
I see you
o Tempo di attesa





   Il tempo del divertimento sembra anni addietro. Anzi, sembra non essere mai esistito. La cosa non potrebbe essere più scontata di così: Ewan è morto. Ha avuto un attacco cardiaco e i medici non hanno potuto fare molto nelle sue condizioni. Erano le tre di notte quando Andrea mi ha chiamato e mi ha chiesto di farle compagnia. Ha detto che non poteva chiamare sua sorella perché era in viaggio per lavoro e che i suoi genitori erano in vacanza da alcuni parenti in Scozia. Non c’era nessuno con lei, al pronto soccorso dell’ospedale. Mi sono cambiato e sono andato.
  Il pronto soccorso non è qualcosa che auguro di vedere a nessuno. Spero che nessuno abbia bisogno di andarci mai, anche se è un vero sollievo sapere che c’è. Se non ci fosse stato il pronto soccorso aereo adesso forse Paloma non sarebbe più con noi, e per l’efficienza di quei ragazzi ringrazio Dio o chi per lui tutti i giorni.
  Quando sono arrivato, comunque, Andrea era seduta in una delle tante sedie che c’erano nella grande sala d’attesa. Aveva un’espressione terrorizzata in volto. L’ho abbracciata e mi sono seduto al suo fianco. Mi ha detto che l’avevano chiamata un’oretta fa ma che ancora non aveva notizie.
   Abbiamo aspettato fino alle cinque del mattino, poi il dottor John è venuto fuori e l’ha detto.
   Non è passata neanche una giornata e io ho portato Andrea a casa mia a dormire. Ho telefonato al suo lavoro, ho spiegato la situazione e loro le hanno dato tre settimane di aspettativa.
   Adesso dorme e io sono in cucina a masticare ossessivamente gomme. Continuo a ficcarmene in bocca di nuove e alla fine sputo tutto quanto nella spazzatura anche se il sapore si sente lo stesso. A volte mi chiedo come mai faccio queste scemenze, ma il più delle volte le faccio e basta, perché sono scemo. E non so cosa fare in una situazione come questa a parte masticare gomme e accarezzare il mio cane Melachi, che ha capito che c’è qualcosa che non va e mi guarda con occhi indagatori.
   Vado a controllare Andrea e la trovo sdraiata sul letto, sopra tutte le coperte, con addosso ancora il pigiama, che era quello che indossava anche in ospedale, con le gambe e le braccia aperte. Sembra l’uomo vitruviano. A quanto pare non mi vede neanche, fissa il soffitto e non fa una piega quando mi siedo sul bordo del letto. «La vuoi sapere una cosa?», mi fa dopo qualche attimo con tono piatto.
   «Sì.»
   «Non sono del tutto triste. Sono anche un po’ sollevata e un po’ contenta. È proprio una cosa da stronzi, no?»
   «Dipende dal perché sei un po’ contenta», osservo io con immensa saggezza che mi esce improvvisa.
   «Erano passati tre anni… La verità è che c’era una possibilità su mille che si risvegliasse. E anche se è comunque una speranza, dopo un po’ smetti di crederci per davvero. Per questo sono sollevata, almeno è finita, anche se non nel modo che speravo.»
   Si interrompe e sospira. «Non poter comunicare è frustrante», dice poi. «Penso che forse faceva una vita d’inferno, e che adesso almeno non la fa più. Non posso non essere felice del fatto che non soffra più, in fondo, anche se avrei preferito mille volte che non fosse successo niente di tutto questo. Ma c’è un’altra cosa…» Gira la testa verso di me e mi prende una mano. «Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto, anche se ti faceva male.»
   «È stato un piacere», sussurro con voce rotta. Deglutisco a vuoto.
   «È per questo che mi sento in colpa, nei confronti di tutti e due.» Andrea toglie velocemente la sua mano dalla mia, come se si fosse scottata. Non mi guarda più, parla con una voce che è simile a un sussurro, tanto che devo stare attento per capire cosa dice. «In questi mesi sono stata così bene con te... mi sembra di essere uscita da una stanza buia in cui non era successo niente per tanto tempo. Come se tutta la mia vita di prima fosse stata vissuta anni e anni fa e ci fosse… un buco di nulla in mezzo, fra prima e dopo che ti ho incontrato. Mi hai», spalanca gli occhi per un secondo e fa un vago sorriso, «mi hai dato una scossa, anche senza fare niente di particolare. O sbaglio?» Si gira di nuovo verso di me e sorride ancora un poco.
   «Veramente mi sono impegnato moltissimo per essere il più simpatico e interessante possibile», dico con un mezzo sorrisino. Non capisco dove voglia andare a parare.
   «Mi sentivo – mi sento ancora – molto in colpa per come ti ho trattenuto vicino, anche se sapevo che ti dava fastidio il fatto che fossi sposata. Cioè, magari non fastidio, ma non è bello stare assieme ad una persona che ti piace e pensare di non avere alcuna chance con lei. Immagino che non sia stato facile.» Fa un sorriso debole come per scusarsi. «Ma volevo farti sapere che, nonostante tutto, non ti ho tenuto vicino solo perché sono pazza, o egoista e sadica. Mi trovo molto bene con te Michael… io penso che tu mi piaccia. Non mi era mai piaciuto nessuno dopo essermi innamorata di Ewan, neanche in tutti questi anni in cui lui non c’era. Non te l’ho mai detto perché… chissà cos’avresti pensato di me. Soprattutto dopo aver saputo di Ewan. Tu ancora non mi conosci del tutto e per paura di quel che avresti potuto fare non dicevo nulla.»
  Mi si riempie la bocca di saliva. Ho paura di parlare perché potrei sbavare tanto le mie ghiandole salivari stanno funzionando. Sembro un adolescente alla sua prima cotta, maledizione!
   Andrea non si rende conto del mio stato, e continua a parlare. «Se tu vuoi ancora, insomma, se io, se noi-»
   Recupero la calma in un attimo, che nervi saldi che ho! Mi complimento con me stesso. «Tranquilla», dico ad Andrea. Mi sdraio al suo fianco e fisso il soffitto con lei.
   «Ho bisogno solo di un po’ di tempo, ti chiedo di pazientare per un po’», dice lei.
   «Io sono paziente. Non sono paziente? Sono come Buddha e Ghandi messi assieme. Insomma… all’ennesima potenza», dico precipitoso.
   Rimaniamo in silenzio per un po’. Andrea mi ha vomitato addosso tutta la sua sincerità e io me ne zitto a guardare il soffitto sopra al mio letto a baldacchino come uno scemo. Sono molto più bravo quando si tratta di programmare testi, canzoni, frasi ad effetto, che si possono cambiare, rivedere, confrontare. Ma quando la situazione implica la velocità sono un vero disastro. Non sono un tipo che riesce ad essere profondo nella vita di tutti i giorni, non sono capace di esprimere a parole quel che sento fin da subito, devo rimuginarci un po’ prima di giungere ad una conclusione sensata, che tutti possano capire. Per questo ora non dico nulla. Il che non toglie che mi senta benissimo, sorpreso, praticamente galleggio. Come ho fatto a crogiolarmi in questo casino per così tanto tempo senza capire che, in un qualche angolo del suo petto, anche Andrea sentiva qualcosa per me? Certo, poi è saltata fuori la storia di Ewan, che ancora non è neanche lontanamente finita, e tutti i miei sogni per il futuro si sono sgretolati con ancor più convinzione, ma a parte questo, prima, come cavolo ho fatto a non accorgermene?
   Adesso tutto si è ribaltato con due paroline.
   «Non penso che sei strana, al contrario», dico all’improvviso. Andrea fa silenzio e io continuo: «Credo che sia normale che, dopo un po’ di questa situazione, tu possa aver considerato di far entrare altri uomini nella tua vita, anche se ovviamente ami ancora tuo marito». Al pensiero deglutisco, cercando di cacciare in fondo alla gola persino la passata esistenza di Ewan. «Hai tutto il tempo che vuoi. Con molte probabilità io aspetterò fino a novant’anni.»
   Il silenzio regna per un po’, poi Andrea si porta una mano al viso e comincia a ridere piano, una risata dapprima trattenuta, ma che poi scoppia, sincera.
   «Che hai da ridere?»
   «No, niente, scusa! Pensavo a quando avrai novant’anni. Sul palco, a cantare con un bastone da passeggio.»
   Quest’immagine mi tormenta per il resto della giornata.

   Come situazione devo ammettere che fa schifo, vista da un esterno, ma io non posso che essere felice. Alla mia famiglia si sono rizzati i peli della nuca al sentire che cos’era successo. Erano combattuti fra il cordoglio per Andrea e la felicità per me. È un dualismo orribile, lo so, ma io non riesco ad essere triste. Mi sveglio pimpante come se avessi già bevuto il mio caffè mattutino, con un leggero sorriso sulle labbra. Me ne sono accorto ieri mattina, quando ero in bagno. Mi sono guardato allo specchio e ho visto che sorridevo, senza neanche rendermene conto. “Dio”, mi sono detto, “sei davvero sfigato.”
   Non sono andato al funerale di Ewan, ho detto ad Andrea che avevo un impegno di lavoro. Mi sono inventato un balla sul fatto che dovevo fare un’intervista per la radio, anche se non è vero. La verità era che non avevo voglia di andarci: in qualche modo mi sento in torto verso quell’uomo, anche se so che è una cosa davvero stupida da pensare. Però mi sento così, per ora, e non posso farci nulla.
   Fa caldissimo fuori, siamo a metà Giugno e al telegiornale cominciano a fare i servizi sul caldo, sui turisti e sulle spiagge affollate. Avevo in programma di fare un piccolo viaggio con Fortuné, solo io e lui; un regalo per quando si sarà laureato. Manca poco, ha già scritto la tesi e la discuterà fra un paio di settimane. La famiglia intera (e con ciò intendo tante, tante persone) si sta muovendo per festeggiare l’evento. In pratica avremo la casa invasa da visitatori per una giornata intera, per mettere a posto dopo ci vorranno secoli. La mia vacanza regalo gli piacerà un sacco, due settimane in Spagna, a Barcellona. Ci è stato solo una volta, ma gli è piaciuta tantissimo. Credo che glielo dirò prima, solo perché non riesco a trattenermi per altre due settimane.
   «Ciao ma’.» Entro in cucina e saluto mia madre. «Che fate?»
   «Tuo padre è in sala, legge.» Perplesso, guardo mamma seduta al tavolo della cucina, con in mano un pennello, di fronte a quello che sembra un cassetto del mobile in legno grezzo che sta lì da anni e che nessuno ha mai toccato.
   «E tu?», domando entrando a grandi passi. Lei non alza gli occhi neanche a pregarla, non lo farebbe nemmeno se mi mettessi a ballare la Macarena. Madre ingrata; e io che ballerei persino la macarena per lei.
   «Faccio decoupage.»
   «Da quando fai decoupage?»
   «Da ieri.»
  «Oh…» La osservo per un altro po’, poi con un’alzata di sopracciglia me ne vado di sopra dicendo: «Vado da Fortuné.» Mamma dice qualcosa ma io non la sento e non ci faccio troppo caso. Evidentemente non è importante se me lo dice mentre fa decoupage. Arrivo fino alla stanza di Fortuné ed entro. «Oh, piantala di studiare e lodami, guarda che cos’ho qui per-» Alla scrivania Fortuné non c’è, non c’è da nessuna parte in quella stanza. C’è solo una ragazza di fronte allo specchio che si allaccia il reggiseno e quando mi vede si copre e quasi cade a terra. Chiudo la porta di scatto, e la faccio anche sbattere, senza dire una parola e con gli occhi a palla fuori dalle orbite.
   Una voce dal corridoio strilla: «Michael? Non entrare!»
  Mi volto verso mio fratello, che è appena uscito dal bagno e saltella chiudendosi i pantaloni. Certo che anche lui, non dà proprio per niente nell’occhio, no!
   «Mi dispiace, troppo tardi», dico ghignando. «Cioè, non si fa così, non si lascia la porta aperta mentre uno si riveste. Pensateci!»
   «Senti, è stato imprevisto va bene? Di solito non invito Hilda a venire qui.»
   «Hilda? Voi…?» Fortuné arrossisce come un pomodoro e io rido come una iena cretina. «Da quanto vi conoscete? Aspetta, tu hai la ragazza e non l’hai detto a nessuno?»
   Si stringe nelle spalle. «È che non ero sicuro che fosse proprio la mia ragazza, fino a un po’ di tempo fa. In realtà ci conosciamo da un annetto, siamo amici, ma non pensavo che sarebbe diventata la mia ragazza. Poi invece lo è diventata.»
   «Oddio la devo conoscere», dico  posando una mano sulla maniglia.
   «No!»
   Fortuné si lancia su di me e mi acchiappa all’ultimo secondo, sta artigliato alla mia schiena e mi trascina lontano dalla porta, mentre io scoppio a ridere di nuovo, incontrollabile.
   «Dai, perché no?»
  «Perché sei pazzo! Cosa vuoi dirle? E poi tu non ci entri lì con lei che magari non ha addosso niente», sibila rabbioso, mentre io ancora mi divincolo e lui ancora mi trattiene.
   «No, no, a quest’ora si sarà già rivestita, era a buon punto quando sono entrato.»
   Fortuné si ferma un attimo e mi guarda con gli occhi stretti. «Che cos’hai visto?», domanda lentamente.
   Alzo le mani in segno di innocenza, ma non mi riesce bene dato che ho Fortuné aggrappato addosso come un koala al ramo. «Niente. Non ho visto niente te lo giuro. Solo un reggiseno e una gonna blu e basta. Dai ora presentamela, dovrò pur scusarmi, no? Ah, ho anche un regalo da darti, se vuoi puoi anche usarlo con lei, ma guarda che non sono preservativi.»
   «Cretino!»
  La porta si apre ed esce una ragazza bassa, dai capelli neri e lisci e la carnagione scura. Fa un sorrisino imbarazzato e io e Fortuné ci sciogliamo in fretta dalla nostra litigata e tentiamo di darci un contegno.
   Mi lancio in avanti. «Piacere sono Michael, il fratello di Fortuné.»
   «Hilda, molto piacere.»
   «Sì, è tutto bellissimo. Adesso torniamo dentro, eh…» Fortuné la prende per le spalle e la pilota verso la stanza.
  «Fortuné», lo chiamo prima che scompaia dentro, «tieni, è il mio regalo per la tua laurea.» Gli porgo la busta con i biglietti arei e la prenotazione dell’hotel. «Buon proseguimento», ghigno e me ne vado.

   Il mio viaggio con Fortuné è finito prima ancora di iniziare. Lui non ci ha pensato due volte e ha invitato Hilda, quel traditore. Alla fine abbiamo scoperto che lui e Hilda si conoscono da un sacco e si sono messi ufficialmente insieme solo un paio di settimane fa. Lo sapeva solo Paloma e non l’ha detto a nessuno. Eppure io racconto sempre a tutti i fatti degli altri, ma sono giustificato perché prima avviso: “Non dirlo a nessuno però, eh.” Comunque Hilda viene dal Sud America e ha ottenuto una borsa di studio per studiare design qui a Londra. A sentire Fortuné è un genio, e non è che non ci creda, ma ho come l’impressione che il cuore parli al posto del cervello.
   Ho voglia di trovarmi un'altra vacanza. Possibilmente ci andrei in famiglia, ma sono tutti impegnati. Zuleika e Richard sono già andati per le nozze, Paloma preferisce rimanere a casa a riposare il più possibile (da quando si è ripresa dopo l’incidente va in ufficio veramente poco, lavora più che altro da casa e molto saltuariamente, ma non la posso biasimare se vuole prendersi una pausa da tutto e rimanere a casa a riposarsi), e mamma e papà le faranno compagnia. Rimane solo Yasmine, ma è molto impegnata nella collaborazione con una rivista che le ha chiesto dei lavori.
   Ho tutto Luglio e Agosto per pensarci, forse qualcuno si libererà.
  Andrea non ha voluto usufruire delle due settimane di aspettativa. Ha organizzato il funerale di Ewan al più presto possibile ed è tornata al lavoro cinque giorni dopo. Credo che stia disperatamente tentando di impegnare le sue giornate. La capisco: quando siamo costretti a pensare a qualcosa il dolore sembra più lontano, o sembra che possa sparire più in fretta, per un secondo lo dimentichiamo. E anche fosse un secondo solo, è il primo di molti altri che verranno; secondi indolori.
   Comunque oggi è Sabato e dovrebbe essere già tornata a casa.
   «Pronto? Ciao Andrea, sono io.»
   «Ciao, che fai?»
   «Niente, cazzeggiavo. Sono molto bravo a cazzeggiare.»
   «Tutti siamo bravi a cazzeggiare. Si comincia da adolescenti e non si smette più fino che non andiamo in pensione. Solo i bambini e i vecchi fanno sempre cose sensate.»
   «Interessante teoria, un giorno me la spieghi. Piuttosto, che fai domani?»
   «Uhm, niente di che. Pensavo di rimanere a casa. A cazzeggiare.»
   «Ti va invece di andare a fare un giro? Guarda, c’è un duo jazz in un locale. Sono bravi, ti va di andare a dare un’occhiata?»
   «A che ora?»
   «Iniziano alle nove e mezza. Vuoi che passo a prenderti una mezz’ora prima?»
   «Ti va di venire a cena da me? Ceniamo e poi andiamo.»
  Oh, un invito inaspettato. Nell’immaginario collettivo cenare a casa di qualcuno con cui hai una relazione o comunque qualche inghippo significa fare sesso. A me non è mai successo così, tutte le volte che si è arrivati al sesso ero mentalmente impreparato. «D’accordo, a che ora?»




















Buonsalve a tutti!
Allora, questo capitolo è uno di quelli più importanti perché, fondamentalmente, succedono due cose.
La prima, ovviamente, è che Ewan muore. Ho preferito così per due motivi: uno, per far continuare la storia di Andrea e Mika senza troppi drammi (insomma, ho fatto finire il dramma qui), e due perché non volevo entrare nel discorso eutanasia e roba varia, perché poi mi perdevo e la fanfiction non vuole parlare di questo, quindi è stata una morte naturale. Consoliamoci pensando che, in fondo, Ewan non esiste; coraggio! (Anche se devo ammettere che mi dispiace di averlo fatto morire così T^T)
La seconda cosa che succede è semplicemente il fatto, appunto, del tempo: Andrea, lentamente, con i suoi metodi (ossia impegnandosi in altro), cerca di dimenticare la morte del marito, e Mika ha un ruolo fondamentale in questo, perché anche lui, con la sua sola presenza e la compagnia che le fa, la aiuta a superare questo momento.
Vi lascio lo spoiler del prossimo capitolo, e con alte probabilità la prossima volta che aggiornerò vi tedierò con il racconto dettagliato del concerto di Mika a Vigevano. Per chi viene: ci vediamo lì!
Buona Domenica e buone vacanze a tutti, dato che, ora che ci penso, siamo in estate e ancora non l'ho detto nemmeno una volta u_u
Patrizia

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Capitolo 13
*** Pick up off the floor, o Nasalis larvatus ***


Capitolo tredici
Pick up off the floor
o Nasalis larvatus





  Alla fine la cena non ha portato al sesso, come mi aspettavo. In un certo senso sono sollevato, non avrei voluto che tutto diventasse così scontato, così da film rosa. Abbiamo mangiato, siamo andati al concerto, l’ho riaccompagnata a casa e ho portato a spasso il mio cane. Fine della mia entusiasmante giornata.
   La festa di laurea di Fortuné è divisa in due parti fondamentali: la prima, nel pomeriggio, è un pranzo con tutti i parenti; la sera ha organizzato una festa con i suoi amici dell’università in un locale. Ci sarà Hilda e ci saremo anche noi, i suoi amabili fratelli. Come faremmo, altrimenti, a metterlo in imbarazzo? Progettavo di raccontare a Hilda di quando Fortuné, da piccolo, era convinto che se avesse imparato a camminare sui muri sarebbe diventato come l’uomo ragno. Era stato molto divertente, Zuleika e io lo avevamo aiutato mettendogli un sacco di scotch sulle mani e sui piedi. Mia madre sgridò tutti quanti.
   A parte questo, siccome non ho voglia di andare da solo alla festa, credo che inviterò Andrea. Insomma, tutti quelli che conosco ci verranno accompagnati, e se non sono accompagnati cercheranno un accompagnatore. Io non lo cercherei perché c’è Andrea che mi piace, quindi è meglio chiamarla direttamente e dirle di venire. Le scriverò una mail.

   Donna,
   sei libera Martedì sera? Mio fratello Fortuné festeggia la laurea e c’è una festa. Se ci sei passo a prenderti alle dieci meno un quarto e andiamo. Ti va?

   Non aspetto la risposta perché devo andare a fare un’intervista e poi mi vedo con il regista del mio nuovo video, per sentire un po’ cos’ha in mente. Torno a casa che è quasi mezzanotte. Controllo la posta, perché è una cosa che faccio sempre prima di andare a dormire, e mentre il pc si accende mi faccio un panino. Non ho cenato e muoio di fame. Mi metto in pigiama (no, okay, mi metto in mutande. Ma che volete? Fa caldo) e comincio a mangiare il mio panino di fronte al pc. Dio, sono un maiale: mi sbriciolo tutto sulla pancia. C’è una mail del mio manager, una catena di Sant’Antonio da parte di un amico che non fa che mandare foto di cani teneri e pulciosi, e la risposta di Andrea.

   Uomo,
   per me va bene. Per caso è una festa elegante da neolaureati che se la tirano? Insomma, come mi devo vestire?

   Rispondo con un messaggio veloce, le dico che la festa elegante sarà quella in famiglia, mentre quella a cui è invitata lei è una festa piena di ragazzi che sembreranno scimmie urlatrici. Lei è contenta, dice che è da tanto che non va a una festa scimmiesca.
   Mio fratello discute la sua tesi che fa paura. Inutile dire che non ci capisco niente, ma da come si complimentano con lui alla fine mi sembra che sia andata bene. Adesso, come minimo, mi aspetto che Fortuné diventi uno scienziato della NASA.
   Mai un pranzo era durato così tanto: rimaniamo al ristorante fino alle cinque del pomeriggio e, quando ci decidiamo ad uscire, rimaniamo fuori a parlare per un’altra ora. Quando infine ci decidiamo a muovere le chiappe arrivo a casa che sono già le sette di sera. Faccio in tempo a cambiarmi e poi uscire per andare a prendere Andrea. Ho la pancia ancora piena di quel pranzo gigantesco, sono in overdose da cibo. Suono al campanello e Andrea mi apre. Indossa un vestitino che le arriva sopra le ginocchia, con sul bordo un disegno di due omini che vanno in bici. «Arrivo, prendo la borsa», mi dice allegra.
   Arriviamo nel locale che Fortuné ha prenotato, e già i segni di una festa di laurea in piena regola sono lampanti. Tanto per cominciare la musica si sente smorzata anche da fuori, poi i baristi stanno in fermento dietro al bancone a preparare enormi quantità di cibo, drink e azionare la macchina della birra alla spina.
   Cerco con gli occhi Fortuné e lo trovo seduto a capotavola in un tavolo lunghissimo, assieme ad Hilda e alcuni amici. Mi avvicino e gli chiedo dove sono le nostre sorelle, urlando per farmi sentire. «Sono di là!», mi indica una saletta dove vedo Zuleika e Richard, e ad un altro tavolo Yasmine e Paloma, assieme a un ragazzo che non conosco e al convivente di Yasmine, Walter, stanno bevendo un drink.
   «Piacere, sono Fortuné, il fratello di Michael.»
   «Andrea, sono una sua amica.» Lei sorride e gli stringe la mano.
   «Mi fa piacere che sei venuta, non vedevamo l’ora di conoscerti. Michael non fa che parlare di te, è una vera palla, davvero. Dovevi sentirlo l’altro giorno mentr-»
   Mi fiondo su Fortuné e gli chiudo la bocca, girandomi verso Andrea e sorridendo come se tutto andasse bene. «Ah, ah! Mio fratello adora scherzare, andiamo?» La prendo per un gomito e la trascino via, mentre sento Fortuné ululare una risata come un folle. Be’ in fondo me lo merito, è la sua vendetta per la brutta figura che gli ho fatto fare con Hilda.
   «Carino tuo fratello. E le tue sorelle? Quante sono?»
   «Tre.»
   Mio Dio, come ho fatto a sopravvivere a tre sorelle, ora che ci penso?
   Presento Andy a tutti quanti e ci sediamo al tavolo assieme.
  Dopo un paio di bicchieri Paloma è già decisa a ingaggiare Andrea come modella per i suoi abiti. «Dico davvero, tutte quelle modelle scheletriche che continuano a propinarmi! Tu saresti molto meglio. Le donne vere sono quelle che voglio vestire, e quelle modelle non sono vere. Le donne vere hanno le cosce, hanno le tette! Come te», conclude indicandola soddisfatta.
   Io affogo nel mio bicchiere e tento di non accertarmi dell’esistenza delle tette di Andrea. Lo so che ci sono, non è educato fissarle.
  «Grazie», dice lei compiaciuta. «Per questo complimento ti offrirò qualcosa.» Si gira verso un cameriere e gli fa segno di portarle il menù. Quando arriva lo tende a Paloma. «Scegli quello che vuoi. Scegliete tutti, fin ora mi hai offerto tutto tu», dice dandomi una gomitata dolorosa alle costole.
   «E che bel ringraziamento», osservo, massaggiandomi lo stomaco tumefatto. Ordiniamo una bottiglia di vino per tutti e dei nachos grandi, concessi gentilmente da Andrea.
   Alla fine della serata (che termina quasi in mattinata, in effetti) Andrea si è messa a saltellare sulla pista da ballo, facendo mosse sinuose in ricordo del suo lavoro al Jewel. Si sta proprio dando da fare alla grande, le guance arrossate dall’alcol. Io sto prendendo una pausa dal mio saltare frenetico seduto al bar. Non sono bravo a ballare, sono proprio uno schifo ad essere sinceri, ma lo faccio lo stesso perché mi piace. In pratica l’unica cosa che faccio è collezionare figuracce, ma non importa.
   Cerco Andrea tra la folla e vedo che si volta a guardare un tipo che le si è avvicinato da dietro e le cinge la vita. Giuro che adesso vado lì e lo strozzo. Ma Andrea è ancora abbastanza lucida per fargli un sorrisino di scuse e sgusciare via agilmente fra la folla. Il tipo non demorde e la segue come in una grottesca caccia al topo. Andrea trova momentaneamente rifugio da Hilda e Fortuné, ma poi loro si allontanano e il tipo torna alla carica. Noto che il viso di Andrea ormai è seccato, così mi alzo e la raggiungo a fatica, sgomitando per arrivare fino in mezzo alla pista.
   «Hai bisogno di una mano?», grido al suo orecchio.
   «Magari! C’è un pazzo che mi segue e non mi lascia stare!», strilla lei guardandosi alle spalle.
   La prendo per mano e la trascino lontano. Quando siamo al sicuro la faccio girare e inizio uno dei miei balli inutili e goffi, orripilanti. Con mia sorpresa, Andrea si diverte moltissimo e comincia a fare i passi più stupidi che abbia mai visto fare in una pista da ballo. Forse non si possono nemmeno definire passi!
   Quando la folla diminuisce e stanno tutti andando via, verso le quattro del mattino, io purtroppo sono colpevole di aver perso Andrea nel caos. Ero io che dovevo accompagnarla a casa, ma non avevo idea di quando voleva andarsene, né se avesse sonno, o fosse impegnata il giorno dopo. Festeggiare Fortuné è stato più laborioso di quanto pensassi. Per fortuna scopro che nell’ultima ora Andrea è stata con Paloma, e poi si è addormentata sul pavimento vicino a un divanetto. Non sul divanetto, vicino! Assurdo no?
   Non appena c’è un po’ di calma Paloma si alza e mi viene incontro. «Ehi, raccogli il tuo amore da terra, che è svenuta.»
   In fin dei conti è stata una bella serata.

   «Sei stato veramente gentile, ma davvero, non era cecesshario
  «Seh, d’accordo», dico sconsolato trascinando Andrea su per i gradini di casa mia. Fra un po’ la prendo in braccio e varco la porta come se fossimo sposini novelli, con l’unica differenza che non indosso l’abito adatto, e che la sposa è ubriaca. Non credo che le spose siano ubriache… o almeno lo spero. «Ti cedo il mio letto intanto, e ti do uno dei miei spazzolini di riserva», le dico entrando. Ne ho tre pacchetti, uno dei quali nascosto in cucina affianco alla marmellata. Sì, faccio queste cose strane. Lei getta la borsa sul divano e poi si getta sulla borsa.
   «Qual è il tuo animale preferito?», biascica ad occhi chiusi.
   «L’oca, non hanno problemi economici e viaggiano in giro per il mondo. E il tuo?» Mi avvicino e tolgo la borsa da sotto il suo stomaco.
   «Il mio… la nasica.»
   «Che cosa cavolo è una nasica?»
   «Una scimmia. Ha il naso, sai?»
   «Credevo che tutti i viventi lo avessero, in un modo o nell’altro», dico andando in camera e prendendo una coperta.
   «Ma il loro è un naso vero», biascica lei rivoltandosi nel divano a occhi chiusi. Io la copro e le tolgo le scarpe. «È perfino più grande del tuo.»
   «Che vorresti dire? Che ho il naso grande?»
   Inutile chiederglielo, lei già dorme.

  Il giorno dopo mi sveglio a mezzogiorno. Vado in salotto e Andrea è ancora lì sul divano, rannicchiata in modo tale da sembrare un uovo. Metto su il caffè, giocherello con il mio cane Melachi, nel frattempo accendo il pc per vedere se ho delle mail. Non ne ho, così apro una pagina di Google a caso. Rimango lì un secondo… perché l’ho aperta? Ora la chiudo. Ma prima di chiuderla mi viene in mente di cercare una cosa: vado a vedere come sono le nasiche.
   …Cristo, fanno schifo.
   Come ha potuto Andrea paragonarmi a questi mostri?
   Il caffè è pronto, così sveglio Andrea e non appena lei apre gli occhi le dico: «Sei una vera stronza.»
   «Perché? Oh, ho sbavato sul cuscino», dice sconsolata pulendosi una guancia. «Per questo?»
   «Mi hai paragonato a una nasica ieri. Sono andato a vedere come sono fatte, e sono orribili.»
   «Davvero? Ti ho detto che sei una nasica?»
   «Sì, è la cosa più offensiva che mi abbiano mai detto dopo “sei un E.T.”»
   Andrea si alza e prende la tazza di caffè che le porgo. «Qualcuno ti ha detto che sei un E.T.?»
   «Non proprio, ma quasi. E anche E.T. è orribile.»
   «Sì ma non ti piace proprio niente, però.»
   «No, non è vero. Mi piacciono un sacco di cose, ma le scimmie col nasone no. Guarda, mi hai sconvolto te lo giuro. Ho guardato le foto per dieci minuti.»
   «Se le hai guardate per dieci minuti vuol dire che non ti facevano poi così schifo.»
   «Sì invece! Era come quando vedi qualcosa di brutto ma non riesci a smettere di guardarlo, hai presente?»
   «Ah…» Andrea finisce il caffè e poi si alza e va verso il bagno. «Peccato sai? Io adoro le nasiche.»
   La guardo uscire dalla stanza. Questo ribalta completamente il mio punto di vista! Tutto pur di piacerle! Va bene, posso far parte di quella pelosa specie. In fondo, ci somiglio più io, a una nasica, di qualunque altra scimmia. Voglio dire, io un naso ce l’ho.




















Buondì! ^^
Allora, prima di tutto (perché questa di seguito è la cosa importante xD) vi rimando alla pagina del blog dove ho parlato del concerto di Mika di Martedì. Non che io sia riuscita a dire cose così profonde, intendiamoci, ma... non so, se vi va leggetevelo!

Passiamo alle cose veramente serie (seh, per modo di dire! xD): spero che questo capitolo non vi abbia annoiato. Capisco che è un po' un "capitolo tampone", diciamo, messo lì apposta per far passare un po' di tempo fra un capitolo e l'altro, solo perché io ho deciso che del tempo deve passare, e quindi così fu! u_u Siccome così fu e ormai è fatta, spero di non avervi annoiate troppo.
Per consolarvi posso darvi in compenso informazioni interessantissime e necessarie per la sopravvivenza umana, come ad esempio che "Nasalis Larvatus" è il nome scentifico delle nasiche e, se volete veramente rimanere sconvolti, una nasica è fatta così. Personalmente mi fanno impressione, però mi sono ricordata di loro, e nei discorsi folli di Andrea ubriaca ho pensato che ci stessero bene xD
Credo che da qualche parte Mika abbia detto che gli piacciono le oche sul serio, ma non ricordo benissimo. Forse erano le anatre, non so. Vabbè, un certo tipo di pennuto volante comunque.

Vi lascio allo spoiler e vi dico solo una cosa, riguardo al prossimo capitolo: non vedo l'ora di postarlo! Già questo dovrebbe dirvi qualcosa, uhuh! Sarà molto interessante! (Almeno spero... insomma, dovrebbe essere interessante O.o Speriamo...)

A Domenica prossima e grazie a chi legge la storia e a chi la commenta ^^
Ciao,
Patrizia

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Capitolo 14
*** Lover boy, o Musica ***


Capitolo quattordici
Lover boy
o Musica





   «Senti, ti va di fare qualcosa oggi?», urlo ad Andrea aprendo lo sportello dell’armadio dove tengo gli ombrelli. Adoro gli ombrelli, ne ho circa una cinquantina, mi sono costati una fortuna! Però ne vale la pena ogni volta che li guardo tutti quanti lì allineati.
   «Tipo?», domanda lei uscendo dal bagno. «Grazie per lo spazzolino. Ah, e scusa per ieri.»
   Ridacchio e vado in cucina. «Fa niente. Eri spassosa però, davvero.»
   «Ah sì? Anche quando ti ho detto che eri una nasica?»
   «No, quello no.»
   Andrea siede sul divano a gambe incrociate. «Allora? Che vuoi fare?»
   «Voglio mangiare una torta.»
   «Facciamo una torta. Ti piace il cioccolato no?» Andiamo a vedere cosa c’è in cucina ma è desolatamente vuota. «Senti facciamo così», dico, «facciamo la spesa, e facciamo la torta e la pizza per stasera.»
   «Non ho mai fatto la pizza in casa! Ma aspetta, prima passiamo un attimo a casa mia?», chiede Andrea con una smorfia. «Mi cambio almeno, non posso cucinare con questi vestiti.»
   «Hai ragione. Domani è Domenica, sei a casa vero?» Vado in camera e socchiudo la porta per cambiarmi, nel frattempo io e Andrea parliamo ancora attraverso la porta.
   «Sì.»
   «Perché non rimani a dormire qui? Torni a casa domani. Domani sera. Oggi facciamo la pizza e ci guardiamo un film, ti va?» Apro l’armadio e scopro di dover fare urgentemente una lavatrice. Prendo una maglietta a caso e dei pantaloni che arrivano al ginocchio.
   «Ho un’idea bellissima!», esclama Andrea da dietro la porta. «Domani andiamo a fare un pic nic?»
   «Sì, bella idea. Porto anche Melachi. Vuoi venire Mel?», dico rivolto al cane. Lei scodinzola e io lo prendo come un sì. Anche se devo dire che lei scodinzola anche a caso, delle volte.
   «Ce l’hai una borsa per il cibo? E per tenere fresche le cose da bere?», chiede Andrea.
   Metto le scarpe da ginnastica e sono pronto. «Sì», dico uscendo dalla porta e guardandola. «Andiamo? Siamo pronti?»
   «Sì, sì. Lo sai che l’ultima volta che ho fatto un pic nic sarà stato a quindici anni?»
   Usciamo di casa e prendo la macchina. Passiamo da casa di Andrea e, mentre lei si cambia, io compro due brioches, dato che sono le due del pomeriggio e non abbiamo ancora mangiato nulla. Quando torna in macchina io la sto aspettando con le brioche e due cappuccini piccoli.
   «Ah, grazie!», esclama sorridendo. Quando sorride è molto bella. Le vengono le fossette nelle guance, e le sue labbra sono ancor più invitanti.
   Quando torniamo a casa con tutto il necessario sono le quattro del pomeriggio e, tempo che Andrea si ricorda la ricetta della torta che voleva fare, passa mezz’ora. Su internet, intanto, cerco la ricetta della pizza. Ci dividiamo i compiti e forse per l’ora di cena mangeremo qualcosa. Alle sei e mezza di sera la pasta della pizza sta lievitando e la torta è appena stata tolta dal forno. Se non fosse a duecento gradi la ficcherei in bocca tutta intera.
   «Cioccolato!», grido quando Andrea posa la torta sui fornelli.
   «Non la toccare, si mangia fredda. O tiepida. Comunque non si mangia appena uscita dal forno, ti stacchi la lingua.»
  Continuo a muovere le mani come il signor Burns dei Simpson e fisso la torta. Muoio di fame, il dolce si deve raffreddare e la pizza deve lievitare ancora mezz’ora prima di poterla stendere, condire e mettere in forno. «Ho fame», mi lagno sedendomi al tavolo e osservando ancora il dolce.
   «Hai detto che hai mangiato come un maiale ieri», obbietta Andrea sedendosi al mio fianco.
  «Sì ma sono passate ventiquattr’ore!» Il mio urlo è isterico, peggio di Fortuné quando aveva gli esami, e badate che lui può diventare molto isterico.
   «Calmati, possiamo assaggiare la torta anche così. Ne taglio due fette.»
   «No, è più buona alla fine, dopo la pizza, come se fosse un dolce alla fine della cena. A proposito, sono un pizzaiolo provetto, ti giuro che l’ho fatta a regola d’arte. La ricetta dice che deve raddoppiare di volume dopo la lievitazione, poi possiamo stenderla. Ho fatto il sugo, tagliato la mozzarella… Sono un cuoco, porca miseria!»
   Andrea scoppia a ridere e mi indica la maglietta. «Immagino che sia per quello che ti sei sbrodolato metà sugo addosso.»
   «I cuochi lo fanno», dico con sussiego, però vado a cambiarmi.
   «Mio padre fa il cuoco e non lo fa mai. Cioè… magari si sporca il grembiule, ma perché ci si pulisce.»
  «Tuo padre, tu hai un padre», osservo quando sono di ritorno dalla mia stanza, alzando le sopracciglia. «Non parli mai della tua famiglia, credevo che fossi nata sotto un fungo. Mi stupisci ogni giorno di più, sei piena di sorprese davvero.»
   Andrea mi guarda con espressione di ammonimento. «Ma quanto fai ridere.»
   «Grazie. Quindi…», mi getto sul divano «parlami della tua famiglia. Ricordo che hai una sorella, e a quanto pare anche un padre.»
   «E una madre. Una madre molto terrificante e invadente.»
   «Tutte le madri lo sono, altrimenti non è una mamma vera.»
   «Probabilmente hai ragione. Tutti i familiari sono invadenti: io ho assistito a tutti i fidanzati di mia sorella e continuavo a darle consigli anche se io il ragazzo non ce l’avevo.»
   «Ma non era la tua sorella minore?»
   «Sì ma io ero tardona e lei era precoce. Ci siamo invertite i ruoli in quel frangente.»
   Andrea si siede sul divano al mio fianco. Ci accucciamo uno di fronte all’altro. Lei tiene le gambe strette al petto, io allungo le mie e comincio a muoverle i piedi addosso. «Mia sorella è bellissima, è quel genere di ragazza che tutti si voltano a guardare. Da ragazze volevo essere come lei.»
Corrugo le sopracciglia e le chiedo: «Come mai?»
   «Perché lei era quella che tutti consideravano carina. Lei era magra e io no, lei aveva i capelli del colore giusto e io no, lei era alta e io no.»
   «Era? No perché, guarda, potresti battere un bassotto ma non vai oltre.»
   Andrea fa una smorfia e mi dà un debole calcio sugli stinchi. «Smettila di offendere la mia statura, altrimenti mi mangio tutta la torta», sbotta con un sorriso.
  «No okay, sto zitto. Comunque… vai avanti, questa storia di te e tua sorella mi piace un sacco. Ah, e fra parentesi sappi che alla Royal conoscevo più di un ragazzo a cui piacevi un sacco.»
   «Oh, e me lo dici ora?»
   «Perché, t’interessa?», domando piccato.
   Andrea si stringe nelle spalle. «Così… Comunque, lei mi raccontava tutte le paturnie che aveva e io facevo finta di essere saggia e le dicevo un sacco di stronzate come “Pensi di essere innamorata Suzie ma, tesoro, lascia che ti mostri dov’è il tuo cuore”, e le facevo vedere le foto di attori o roba simile. La cosa migliore è che, essendo io la maggiore, lei credeva ciecamente in quel che le dicevo!»
   Io rido come un demente e quando mi riprendo dico: «È bruttissimo quando ti chiedono consigli riguardo alle relazioni. Io già faccio schifo con le mie, i miei amici lo sanno. Perché mi chiedono consiglio allora? Non lo vedono che sono impedito?»
   «Parla per te. Io adoro quando ho l’occasione di parlare a vanvera. Non si dice mai niente di intelligente in quei casi, ma le persone pendono dalle tue labbra perché sono nei casini. Alla fine vengono fuori quei discorsi filosofici sull’amore, l’amicizia e la vita, e tutte quelle cose lì.» Andrea sorride e alza gli occhi al cielo.
   «Tutti credono che io abbia una vastissima esperienza, ma non è così», mi esce detto all’improvviso.
   «Ma se lo credono significa che tu hai fatto qualcosa per farglielo pensare.»
Io non faccio mai niente, sono l’essere più timido del pianeta. O forse no. Forse sono solo lunatico: certi giorni mi sento come se fossi il più figo di questo mondo, altri invece fatico a parlare con le persone. Un esempio lampante della mia pazzia è il fatto che, sul palco, gli occhi tutti sono puntati su di me e non può fregarmene di meno, però se sono a una festa e devo attraversare la stanza ho bisogno di caricarmi con almeno due drink.
   «Be’», comincio a dire lentamente, «solo perché di relazioni ne ho avute un po’, credo. Ma no, sono nella norma», ritratto poi.
   «Ah, e allora vedi che sei un esperto?»
  «Non sono relazioni importanti. Voglio dire, alcune sì, sono durate anni, ma la verità è che credo di non essere un tipo molto facile», dico facendo una smorfia.
   Andrea sorride e mi guarda interessata. «Come mai?»
   «Niente, solo perché sono un po’ lunatico, credo. E faccio un sacco di cose strane. E mi comporto in modo strano.»
   «Non mi sembri così strano. Ne ho visti di peggiori. Cos’è che fai di strano?»
  «Ad esempio tutti rimangono sconvolti quando scoprono che colleziono odori. E anche sull’aereo quando ordino tutte le mie cose con precisione millimetrica sul tavolino. Oppure, più in generale, faccio schifo quando lavoro, perché non mi faccio sentire per settimane, mi rinchiudo in casa e non mi lavo. Mando all’aria tutto. Gente che prima sentivo tutti i giorni mi richiama dopo un mese e giustamente mi chiede dove sono finito.»
   «Ho visto la tua mensolina piena di vasetti di odori», fa Andrea pensosa, poi si stringe nelle spalle. «Non so te ma io non conosco nessuno di normale. Normale è solo una parola.»
   Fin ora me lo avevano detto solo i familiari, questa giornata è epica. «Ah, e comunque la cosa che mi dà più fastidio è che mi chiedono consigli proprio quando non sto con nessuno! Il che dovrebbe dimostrare che sono un completo disastro. In più quando non stai con nessuno pensi che tutti i tuoi amici dovrebbero fare lo stesso.» Andrea ride delle mie parole. «Voglio dire», ricomincio sorridendo, «ho solamente voglia di dirgli: ma non è abbastanza sentirsi solo… selvaggi e liberi? Non siete stanchi di rompere con le persone?»
   «Ma sei crudele!», grida Andrea senza smettere di ridere. «Non puoi consigliare questo alla gente, se in un disgraziato caso ti dessero retta la specie umana si estinguerebbe.»
   «Perché no? Se chiedono il mio parere significa che gl’importa. O che sono disperati.»
   «Io propendo per la seconda.»
  «Oh!», esclamo indignato dandole un leggero spintone. Un po’ troppo forte però: con la mia forza bruta le faccio perdere l’equilibrio e quasi cade dal divano. Ma la riacchiappo e ridiamo forte, perché quando rischi un trauma cranico da caduta dal divano ridere è l’unica cosa che puoi fare. Finiamo seduti stretti, e quando mi riprendo dalla risata continuo a sorridere, stringendomi ad Andrea.
   «Che ore sono?»
   «Manca ancora un quarto d’ora per la pizza», dico lanciando un’occhiata all’orologio.
   «Okay.» Andrea si volta e mi sorride, a un palmo dal mio naso. È talmente vicina che vedo solo i suoi occhi, e sento il profumo della sua pelle. Non è un odore che posso paragonare a nessun’altro. E purtroppo non posso neanche prendere Andrea e ficcarla dentro una boccetta per annusarla quando mi va. Se mi avvicinassi solo un po’…
  Sono abbastanza sicuro che sta aspettando solo che la baci. Non ci si avvicina ad una persona in questo modo per nessun altro motivo al mondo.
   Cristo! Con tutto questo ragionare sto rovinando il momento topico. E sto anche sudando freddo, il che rende la cosa molto meno carina.
Respira, Michael…
  Chiudo gli occhi e mi avvicino lentamente, incontrando le labbra di Andrea che sanno di fresco e sono morbide. Se non avessi bisogno di respirare rimarrei lì per sempre. Quando mi allontano lei sorride e le sue guance sono rosse e accese. Non posso fare altro che sorridere anch’io, mi sale l’adrenalina con la stessa forza improvvisa della bomba atomica. Mi avvicino e la bacio di nuovo, toccandole i capelli, il collo, le guance calde, la schiena che si ricopre di brividi sotto le mie dita. Continuo a baciarla come se l’aria fosse tutta nella sua bocca e io fossi a corto di fiato, mi stendo su di lei e sento le sue cosce morbide, il suo seno forse troppo grande per un corpicino come il suo, e la forma di lei sotto di me.
  È un tipo di musica che non si suona da soli, e che io non sono mai riuscito a riprodurre bene neanche in compagnia di qualcuno. Andrea, però, è lo strumento perfetto.

   Sono le sette e mezza di sera e il mio stomaco non brontola più per la fame solo perché ha avuto altro a cui pensare, così come tutto il resto del corpo, d’altronde. Non sono affatto romantico, per cui invece di abbracciare Andrea e tenermela stretta stretta fra le braccia siamo stesi sul letto girati su un fianco, uno di fronte all’altro. Però sono felice, sorrido come un bambino a cui hanno appena fatto dei regali anche se non è il suo compleanno.
   «Posso farti una domanda stupida?», chiede Andrea giocherellando con il copriletto.
   «Ma certo, puoi fare tutto quello che vuoi finché siamo su questo letto. È magico, vedi che ha il baldacchino?» Indico la struttura in legno con un gesto del dito.
   «Adesso noi… voglio dire… stiamo assieme?»
   Mi si cuce la bocca.
   Io lo davo già per scontato; fra un po’ lo davo per scontato anche prima. Però questa è una domanda trabocchetto! Non potevo pensarci io in anticipo e chiederlo prima di lei? «Credevo di sì.»
   «Credevi?»
   «Credevo finché non me lo hai chiesto. Cioè, se lo chiedi vuol dire che non sei sicura. E perché non dovresti essere sicura? Voglio dire, se non sei sicura è perché non vuoi o pensi che io non voglia.»
   «Ma io voglio.»
   «Anch’io voglio. Non si vede che voglio? Pensavo di essere stato esplicito.»
   «Sì sei stato molto esplicito quando hai voluto qualcosa prima», dice Andrea mettendosi a ridere. Io sbuffo, poi mi ricordo di una cosa e la mia pancia brontola e mi viene in viso un’espressione di terrore. «Che c’è?»
   «La pasta per la pizza!», esclamo saltando giù dal letto e correndo in cucina. Nudo, sì, ma spero che nessuno si prenda la briga di guardare fuori dalla sua finestra dentro la mia finestra proprio oggi, a quest’ora, in questo istante! Apro il forno dove avevamo messo la pasta a lievitare, intanto sento Andrea ululare una risata dall’altra stanza. Tiro fuori la pentola e controllo. «È diventata un gigante! Mi fa paura! Ahhh!»
   In quel momento Andrea entra in cucina trascinandosi dietro il lenzuolo con cui si copre. «Fa vedere», dice avvicinandosi. Guarda dentro la pentola. «Be’ ma non è meglio? Non ne viene di più?»
   «Sì forse hai ragione.» Rimetto la pasta nel forno e mi volto a guardarla. «Comunque, come ti sta bene la coperta.»
   «Ne vuoi un po’?»
  «Sì grazie, non si sa mai che la vicina di fronte mi sta spiando perché sono troppo bello.» Vengo inglobato nella coperta e fra le braccia di Andrea. Sotto la stoffa sottile la prendo in braccio e mi dirigo di nuovo in camera, solo che continuo a calpestare i lembi del lenzuolo. «Lo puoi tirare un po’ su?», le chiedo.
   «Ci sto provando.» Il lenzuolo le cade dalle mani proprio quando passiamo di fronte ad una finestra. «Ops.»
   «Che vuoi che sia? Ormai hanno fotografato tutto di me, delle chiappe non faranno la differenza», sospiro rassegnato.




















Buonsalve siore e siori u_u
Oggi mi sento aulica, quindi se dico qualche parola strana non preoccupatevi.

Oggi mi sento anche contenta, giusto perché ho postato questo capitolo, che non è male :) A costo di sembrare egocentrica dirò che mi piace com'è venuto!
Allora, dai, vincete tutti la timidezza e ditemi che cosa ne pensate! A parte i miei già fedeli recensori, che spero di aver soddisfatto con questo capitolo (soprattutto dopo tutta la pubblicità che gli ho fatto), vorrei sapere più pareri possibile.
Il fatto è che ho sempre un po' di timore, nelle scene romantiche, di esagerare, sia in un senso che nell'altro: non mi piacciono le cose troppo sdolcinate e cerco di non renderle tali, ma ho sempre paura di essere fin troppo "poco sdolcinata", e di apparire fredda. Mi affido quindi a voi! ^^
Vi lascio lo spoiler del prossimo aggiornamento, in cui faremo solo per un attimo una pausa da Mika/Andrea, per digerire bene questo fatto importante di loro due che si mettono assieme :D (Quanto mi esalta 'sta cosa! Ma è normale? Ho paura di no xD)

Buona Domenica a tutti, buona prossima settimana a tutti, buon tutto a tutti, che oggi sono di ottimo umore! ^^
Patrizia

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Capitolo 15
*** Big girl [You are beautiful], o Salto nel passato # 2 ***


Capitolo quindici
Big girl [You are beautiful]
o Salto nel passato #2





  Sono terrorizzato, continuo a spostare il peso da un piede all’altro così spesso che sembra che debba fare pipì. Indosso una nuova invenzione di mia madre, particolarmente colorata e molto stramba. A me piace, ma credo che alla maggior parte delle persone faccia vomitare. Ho smesso di preoccuparmi di cosa pensano le persone dei miei vestiti. È da quando avevo quattro anni che sono i più assurdi che ho mai visto e tutti mi hanno sempre preso in giro. Alla fine ci si fa il callo e smetti di ascoltare i commenti della gente.
   Comunque, è la quinta volta che sono in quest’aula e devo cantare per il professor Canepa. Quell’uomo mi terrorizza. Tutto di lui mi mette in soggezione: l’espressione illeggibile che fa quando ascolta gli alunni cantare, il modo in cui parla, con quell’accento italiano fortissimo. Ho scelto ancora Già il sole dal Gange, di Alessandro Scarlatti, sperando che questa volta vada meglio. In realtà è la quarta volta che gli canto la stessa maledetta canzone e credo che Canepa cominci a odiarmi. Forse un po’ ha ragione, in effetti.
   Ecco, tocca a me.
   «Signor Penniman, eccoti qua. Cosa mi canti oggi?» Canepa è seduto proprio in mezzo all’aula, troppo vicino a dove mi devo mettere io.
   «Il solito», pigolo io terrorizzato.
   «Già il sole del Gange», si passa una mano sulla fronte, stancamente, «come vuoi.» Fa un gesto con la mano e io comincio.
   Devo ammettere che è orribile, veramente. Ho ventidue anni e sembro un sessantenne con il mal di gola. Perché cavolo insisto con questa canzone? Perché non la cambio? A parte il mio incaponirmi per dimostrare al professor Canepa che so cantare, cos’è che me lo ha fatto fare? Dio, devo mettere da parte l’orgoglio per il prossimo esame!
   Finisco la canzone con un esitante stridio, come di un uccello che muore fra atroci sofferenze, e guardo Canepa. Lui scuote il capo. «Non ci siamo signor Penniman.»
   Lo sapevo. Sospiro affranto. «Cosa posso…» Mi interrompo, in quel momento entra il professor Pagnin.
   «Walter», lo saluta Canepa, quasi sollevato dal non dovermi parlare.
   «Marco scusa, disturbo?», dice il professor Pagnin lanciandomi un’occhiata.
  «No, figurati, stavo facendo un esame con Il Muto, qui.» Si alza e si avvicina a Pagnin, mentre io lo guardo allucinato. Mi viene da piangere per l’umiliazione.
  Sapevo che mi aveva soprannominato Il Muto, lo sapevano anche i miei compagni di corso, ma non c’era bisogno di dirlo anche agli altri insegnanti!
  Boccheggio per un po’ in cerca d’aria. Ho paura che farò qualcosa di molto stupido, come strillargli istericamente addosso qualcosa di volgare, o qualcosa di molto umiliante, come mettermi in posizione fetale e dondolarmi sul posto. Prendo un respiro profondo e mi impongo di non fare nessuna delle due cose. Prendo la borsa e fuggo, corrucciato, senza guardare nessuno. Canepa non dice nulla, anche se doveva dirmi per l’ennesima volta cosa c’è che non va nelle mie corde vocali e in come le uso. Mi rifugio nel bagno della ragazze e mi chiudo dentro una cabina.
   Ho voglia di prendere a pugni qualcosa, qualsiasi cosa! Magari la faccia di Canepa, ma ora che ci penso lui mi batterebbe facilmente. Meglio usare un cuscino e immaginare che sia la sua faccia! Ti faccio diventare viola, stronzo! (Nota per Michael: usare solo cuscini viola per fare finta di picchiare qualcuno.)
   La porta del bagno si apre ed entrano due ragazze. Una di loro va in bagno e l’altra rimane fuori. Dalle voci capisco che sono due mie compagne, Larleen e Paula. «Sabato ci sei? Volevo andare al cinema.»
   «No mi spiace, esco con Gabriel.»
   «Vi siete messi insieme?»
  «No, non ancora. Però forse sì fra poco, è lui che mi ha chiesto di uscire.» Piccola pausa, poi Paula riprende: «Lo sai che è successo l’altro giorno?»
   «No.» Sento la voce di Larleen farsi più acuta, come pregustando un pettegolezzo.
  «Eravamo a Lirica Contemporanea e mi volevo sedere vicino a lui, invece si è seduta Andrea. Ti giuro che secondo me ci stava provando.»
   «Chi? Gabriel con Andrea?», chiede Larleen colpita.
   «No, lei con lui!» Paula esce dal bagno e va a lavarsi le mani.
   «Davvero?», domanda Larleen ancora più stupefatta. «Non credo, è così timida.»
   «Timida un corno, ci provava eccome. Senza offesa eh, ma sembra una balenottera azzurra. Poi si mette quei vestiti orrendi che sembra un tendone da circo.» Le due escono e subito dopo la porta affianco alla mia si apre.
   Per un po’ non sento niente, ma la porta del bagno non si è certo aperta per far uscire un fantasma. Penso che dovrò restarmene chiuso in questo buco per sempre, oppure uscire con il rischio che qualcuno mi veda nel bagno delle femmine. Poi sento qualcuno, là fuori, che tira su col naso e fa un paio di singhiozzi. Be’, per lo meno non sono l’unico che va in bagno quando è frustrato, penso. Altro singhiozzo, altra nasata. Non credo ci sia pericolo a uscire dal mio cubicolo, credo che questa persona comunque non mi aggredirà: è troppo occupata a piangere.
  Esco cauto e di fronte allo specchio di uno dei lavandini c’è Andrea, meglio conosciuta come “Balenottera azzurra”. Quando mi vede sussulta e si asciuga le lacrime in fretta, tentando di non farsi vedere.
   «Ehi», mi fa con un sorriso troppo grande e gli occhi rossi.
   «Ehi», rispondo smunto.
  «Che fai?», mi chiede nervosa torturandosi la maglietta. Non sembra rendersi conto che sono nel bagno delle ragazze. Più che altro, sembra che lo abbia chiesto per perdere tempo.
   «Ho appena dato l’esame di lirica italiana con Canepa», rispondo atono.
   «E com’è andata?»
   «Male.»
   «Ah.»
   Silenzio.
   Due anime in pena nello stesso bagno. Non so dire se la cosa sia solo triste o addirittura patetica.
  «Senti», comincio, tanto per dire, «davvero ti piace Gabriel?» Lei impallidisce e le tremola la bocca. Non è mai bello quando qualcun altro vede che ti stanno prendendo in giro. È di gran lunga preferibile che tutto rimanga nel privato tuo e del tuo aggressore. Un po’ come me e Canepa con quella storia del Muto. «No perché, sai, è un vero coglione», continuo. «Voglio dire, un rompipalle. Non fa altro che andare in giro a tirarsela come se fosse l’unico fenomeno qua dentro.»
  Andrea fa un mezzo sorriso sconsolato e si rimette di fronte allo specchio. «No, non mi piace. È insopportabile, è come se dovesse far vedere a tutti che tipo figo che è.» Si rassetta un po’, poi si volta verso di me. «Cos’hai portato da Canepa?»
   «Già il sole del Gange. È stato uno schifo, veramente.»
   «Perché non cambi canzone? Magari non fa per te. Scegline una che ti piace.»
   «Non lo so… Voglio fargli vedere che sono capace. Ma non sono capace.» Sembra il discorso di un folle. Forse lo è.
   Rimaniamo in silenzio ancora un po’ e Andrea tira fuori un fazzoletto e si soffia il naso. Forse è il caso di consolarla. «Mi… mi dispiace per quello che hanno detto di te… prima.» Lei guarda in alto, e sono abbastanza sicuro che piangerebbe ancora se non ci fossi qui io a fissarla. Forse dovrei andarmene, e lasciarla piangere in pace. Troppi, troppi “forse” in un solo giorno. «Tu non le ascoltare. Sei una ragazza grande ma sei bella.» Forse la tirerà un po’ su di morale sentirselo dire. Senza contare che non è che stia dicendo una bugia: non è una brutta ragazza secondo me. Non guardo davvero all’espetto esteriore, io. Potrei innamorarmi di chiunque, basta che sia una persona che mi affascina.
   Andrea fa un sorrisino di ringraziamento e si asciuga di nuovo gli occhi. Sospira e si appoggia con i palmi al lavabo. «Dire a una persona che è grassa è il modo più efficace per farla stare male. Quando entro nelle stanze mi sento come un enorme… pallone! Come se tutti mi stessero guardando, il che probabilmente non è vero.»
   «Le ragazze grasse non sono brutte», mi esce detto così all’improvviso. Più che altro per un ragionamento mio. «Non capisco perché grasso sia sinonimo di brutto, non è assolutamente vero. Ne ho viste di peggiori.»
Andrea fa un sorrisino e prende la borsa che aveva lasciato nel bagno. «Forse è meglio che esci dal bagno delle ragazze, prima che arrivi qualcuno che ti denuncia.» Allora se n’era accorta…
   Lei sbricia fuori mentre io aspetto diligente che mi dia il via libera. Alla fine mi fa uscire e ci salutiamo con un po’ più di calore e di imbarazzo del solito. Non è che siamo così intimi, siamo solo compagni di corso.
   Rientro a casa frustrato e mi getto sul letto. La mia buona azione con Andrea non ha fatto sì che il mondo mi sorridesse. Dal piano di sotto sento Yasmine che mi urla che il pranzo è pronto. «Arrivo!», grido in risposta, poi mi sdraio di nuovo. Non arriverò mai, però, perché qualche minuto dopo mi addormento.

   A svegliarmi è il cellulare che mi suona direttamente nelle orecchie. Alzo la testa e mi pulisco la bava che mi è caduta sulla guancia. Ma perché cavolo dormo con la bocca aperta? «Pronto?», dico con la voce di uno che si è appena svegliato.
   «Parlo con Michael Holbrook Penniman? Mika?» È la voce di un uomo.
   «Sì, sono io. Chi parla?» Mi metto seduto e cerco di riportare la mente sulla terra, perché sembra una telefonata importante.
   «Chiamo dalla Casblanca Records, lei ha inviato delle tracce e volevamo fissare un appuntamento, per discutere la possibilità di incidere qualcosa.»
   In fondo, bastano due parole per svegliarsi. Spero di essere sveglio. «Sì? Sì!»
   «Che ne dice di dopodomani alle tre del pomeriggio? Passi ai nostri uffici.»
   «D’accordo», esalo senza fiato.
   «Arrivederci signor Penniman, buona giornata.»
   «Grazie… Anche a lei.»
   La chiamata si chiude, io rimango con il telefono attaccato all’orecchio. Pian piano capisco cosa sta succedendo e un largo sorriso mi si forma sul volto. «Mamma!» Salto su dal letto e corro giù per le scale, facendo un casino che nemmeno se vedevo la Madonna. «Mamma!» Entro in cucina ma lei non c’è. Vado in salotto.
   «Michael? Che gridi?» Zuleika sta guardando la tv. Al suo fianco Fortuné sottolinea il libro di fisica e non mi degna di uno sguardo.
   «Dov’è mamma?»
  «È andata a fare la doccia. Ha detto di dirti che ti ha lasciato il pollo nel frigo, che non ti voleva svegliare perché dormivi così bene.» Mia sorella parla ma io non capisco cosa dice, continuo a sorridere come un’idiota. «Cosa è successo?»
   «Mi hanno chiamato, la Casablanca Records», dico sedendomi al suo fianco sul divano. Fortuné alza gli occhi dal libro.
   Zuleika spalanca gli occhi e sorride. «Veramente?»
  «Sì, sì! Mi hanno chiamato e hanno detto che devo andare lì dopodomani, che dobbiamo discutere riguardo la possibilità di incidere qualcosa», dico tutto d’un fiato. Salto seduto sul divano e Zuleika fa uno strillo e grida qualcosa di incomprensibile. Tutto è incomprensibile ora. Niente ha senso.
  «Che cosa state facendo?» Mamma entra in salotto e io le corro incontro e l’abbraccio fortissimo, urlando frasi sconnesse assieme a Zuleika e Fortuné, che le gridano la stessa cosa che dico io, ma non si capisce niente. «Se urlate come scimmie non capisco! Chi ti ha chiamato? Cosa? Dove devi andare?»
   «L’ha chiamato una casa discografica», spiattella Fortuné prima di me. «E gli hanno fatto un appuntamento per dopodomani per incidere qualcosa.»
   Mamma solleva le sopracciglia e mi guarda con la bocca aperta, sorridente. «Davvero?»
  «Sì, davvero!» Inizio a saltare come un folle in salotto e io e Zuleika improvvisiamo un balletto. «Devo chiamare papà. E Yasmine, e Paloma. Dove sono tutti?»
   «Ah grazie, e noi tre chi siamo?», dice Fortuné.
   Ho un’adrenalina in corpo che devo sfogare. Nemmeno se bevevo dieci redbull mi conciavo così. Prendo il cappotto, il portafoglio e le chiavi di casa. «Non ditelo a papà. Glielo dico io. Non ditelo nemmeno a Paloma e Yasmine. Non ditelo alla zia! Non ditelo ai nonni! Non ditelo a nessuno!»
   «Dove vai?», domanda mamma seguendomi all’ingresso.
  «Non lo so, devo andare! Torno presto!» Esco di corsa e mi dirigo automaticamente a casa di Tommy, un mio amico. A metà strada cambio idea e prendo l’autobus che mi lascerà di fronte al Royal College of Music.
   Non so nemmeno con che coraggio o faccia tosta vado lì ed entro facendo più rumore di un carrarmato. Nessuno fa mai troppo rumore al Royal, è come un luogo sacro. Mi dirigo a passo svelto nei corridoi che ormai conosco a memoria, verso l’ufficio del professor Canepa. Busso una volta, ma non mi risponde nessuno. Aspetto ancora un po’, busso di nuovo. Una voce mi dice di entrare e in quello stesso istante comincio a pensare che non è stata una buona idea. Cosa dovrei dirgli? Ma come faccio a non sapere che dirgli? Sono io che sono venuto fin qui!
   Canepa è seduto alla scrivania e sta chiudendo una telefonata proprio in questo istante. «Permesso?», chiedo entrando. Lui mi lancia un’occhiata e mi fa segno di sedermi. Io eseguo. Ora che sono qui di fronte a lui sono di nuovo terrorizzato da quest’uomo, e mi chiedo perché non sono andato da Tommy a dirgli di quella benedetta telefonata e magari farmi anche fare i toast al formaggio da sua sorella, che li fa davvero buoni.
   Canepa, seduto alla scrivania, si appoggia allo schienale e congiunge le mani sulla pancia. Tiene un sopracciglio sollevato in maniera magistrale: ti fa sentire sotto esame e già condannato allo stesso tempo. Si stringe nelle spalle. «Allora?» Mi si secca la bocca. «Cos’era quella fuga? Non hai nemmeno aspettato che finissi di parlare con Pagnin.» Deglutisco a vuoto. «Comunque, come pensi di essere andato oggi?»
   «Non bene.»
   «No. Non è “Non bene”: è proprio male. Non hai studiato, si sentiva.»
  Serro la mascella. Che cosa ne sa lui se ho studiato sì o no? La verità è che ho passato ore a spaccare i timpani al mondo intero per imparare quella maledetta canzone! E un’altra verità è che lui è un vero bastardo pignolo!
   Tengo gli occhi fissi sulle ginocchia, come se fossi colpevole. Se non dico nulla penserà che è vero, che non ho studiato niente, che sono uno scansafatiche. Ma non è così, io mi sono impegnato tanto! E qualcuno se n’è accorto, no? Se sono accorti quelli della Casablanca Records, e se ne accorge la mia famiglia, sempre.
   Questo pensiero mi rincuora. Il ricordo della telefonata mi fa pensare ad un futuro come me lo sono sognato tante volte. Solo che adesso sembra più vicino. Alzo gli occhi, mi alzo dalla sedia.
   «Professor Canepa, sa che un giorno lei mi vedrà a Milano?» Lui strabuzza gli occhi ma prima che possa dire qualcosa lo anticipo: «Ma non alla Scala, perché è troppo piccola.»
   Canepa corruga le sopracciglia. «Signor Penniman è impazzito?»
   Io confermo le sue teorie, stirando le labbra in un largo sorriso.




















Buonsalve a tutti!
Allora, questo capitolo mi piace, soprattutto perché alla fine Mika inizierà a registrare il suo primo album ^^ Ovviamente non so se è andata proprio così, però ci sono alcuni elementi reali: il professor Canepa e il Royal College of Music sono stati citati più volte da Mika e la Casblanca Records è veramente la prima che gli ha fatto un contratto discografico. Ho cercato di infilarci tutto ciò che sapevo di Mika quando andava al college, perché volevo che il capitolo sembrasse il più vero possibile. Ditemi che cosa ne pensate ^^
Intanto ecco lo spoiler del prossimo capitolo e... bah, basta così per il momento, oggi non sono in vena per scrivere luuunghe pappardelle. Quindi: alla prossima settimana!
Patrizia

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Capitolo 16
*** My interpretation, o Reggere il confronto ***


Capitolo sedici
My interpretation
o Reggere il confronto





   La macchina è carica di me e Andrea, di Melachi, del cestino del pic nic e di una coperta. Non ci serve altro. O almeno, così credevo. «Oh, no!», grida Andrea quando siamo a metà strada.
   «Cosa c’è?»
   «Credo di aver scordato i coltelli.»
   «Per che cosa servono dei coltelli? Voglio dire… sono panini.»
   «E la torta come la vuoi tagliare, con la forza del pensiero?»
   Faccio un sorrisino saputo, perché ora so di essere un genio. «Ma non c’è bisogno di tagliare un bel niente, dato che io, l’uomo previdente, ho già tagliato le fette.» Annuisco con vigore. «Non te lo aspettavi, eh?»
   «In effetti no.»
   «Ah, grazie.»
   Parcheggio vicino ad un parco, prendiamo le borse e ci inoltriamo nella natura selvaggia.
   «Perché non cammini sul sentiero?», domanda ad un tratto Andrea.
   «Per avere l’atmosfera di un’escursione nella jungla.» Poco dopo mi rendo conto che c’è una cavalletta grossa quanto un carro armato che mi guarda male perché sto invadendo il suo territorio. «Ma credo che basti così per ora», dico affiancando Andrea sul sentiero.
  Arriviamo in un punto del parco dove ci sono diversi tavoli in legno e per fortuna ne troviamo uno che non è occupato. Cominciamo a mangiare parlando di nulla d’importante, e quando finiamo prendiamo la coperta e ci stendiamo sull’erba dove c’è il sole.
   «Tu ci credi nella religione?», domanda Andrea ad un tratto.
  «No, io credo negli alieni, e anche che il mondo un giorno finirà. Spero solo che quando accada noi saremmo già abbastanza avanti con la tecnologia da poter salire sulle nostre navicelle spaziali e andarcene dal pianeta.» Andrea sorride e si sdraia a pancia in giù, io continuo il mio discorso: «Ma pensavo un’altra cosa: ti va di venire a cena a casa mia?»
   «Cosa c’entra con la religione? E comunque pensavo di essere stata già a cena a casa tua. Non è casa tua quella casetta tanto bella dalla quale veniamo?»
   «Hai ragione. Io dicevo l’ex casa mia: quella dei miei genitori. Probabilmente lì troverai anche Paloma e Fortuné. Invece Zuleika è sposata e Yasmine convive. Comunque, ti va di conoscere i miei? Sono simpatici, soprattutto con gli estranei. Mia mamma ci mette persino più impegno a cucinare se non sei della famiglia.»
   «Non sapevo che fossimo già arrivati alle presentazioni ufficiali alla famiglia.»
   «Oh, loro non sono ufficiali. Sono tutto fuorché ufficiali. Non c’è cosa meno ufficiale di loro, tranquilla.»
   Andrea stringe gli occhi. «Gli dirò che hai detto così, poi vedremo come la prenderanno. La mia famiglia invece è molto ufficiale, non so se ti piacerebbe.»
   Io abbozzo un sorriso. «Sono abituato alle cerimonie ufficiali, ho partecipato un sacco di volte ad eventi che richiedevano giacca e cravatta.»
   «Ah, allora potresti sopravvivere.»
  «Non ci giurerei sai?» Una voce di donna ci interrompe e ci voltiamo a vedere chi ha parlato. Una ragazza che può essere più giovane di Andrea ci guarda sorridendo, intascando un iPod. Indossa vestiti leggeri e comodi, ed è sudata, segno che probabilmente stava correndo. Ha gli stessi capelli biondi di Andrea e in qualche tratto del viso le somiglia, ma è più alta e piuttosto atletica.
  «Suzie!» Andrea salta su e le scocca un bacio sulla guancia. Le fa segno di sedersi con noi e me la presenta: «Michael, questa è Suzie, mia sorella. Suzie, questo è Michael, Michael Penniman.» E perché non ha detto Michael, il mio ragazzo? Poteva anche dire il mio fidanzato, o il mio compagno, o il mio Michael. Poteva anche dire che ero “Michael, il suo facchino personale”, bastava che dicesse che appartengo a lei in qualche modo!
   Suzie fa un’espressione di comprensione, le sue labbra disegnano una ‘o’ perfetta, come fa Andrea. «Oh, tu sei il famoso Michael Penniman.» Ma l’ha detto per la mia musica o cosa? «Andrea non fa che parlare di te, lo sai? Mi ammorba.» Gongolo soddisfatto. Quindi non sono l’unico ad ammorbare i propri fratelli.
   «Stavo giusto per invitare Michael a cena da mamma e papà, dato che lui mi ha fatto conoscere la famiglia, più o meno tutta.»
   «Davvero? Da quanto state insieme?»
   «Da… ieri, sono circa una ventina di ore.»
   «Ah, e pensate già a conoscere i genitori. Sei incinta Andrea?», chiede.
   «No», biascica lei.
   «Oh be’, non si mai, meglio chiedere.»
   «Aspetta, se ci sei anche tu credo di potere resistere alla serata da mamma e papà», dice Andrea ad un tratto.
   «Oh, andiamo!», esclamo. «Non ci credo che sono così terribili.»
   Interviene Suzie mettendomi una mano sulla spalla: «No, papà no. Ma credimi, mia madre è qualcosa di mostruoso. Per tutta la vita ha cercato di farci mettere assieme a dei ragazzi amici di famiglia, i più orribili ragazzi che puoi mai immaginare, sembrava che gli scegliesse su un catalogo di bruttezza. Quando le ho presentato il mio compagno, Peter, lei gli ha fatto il terzo grado e lo ha chiamato fricchettone. Se la donna, qui», e indica Andrea, «le dice anche che sei un cantante pop non voglio immaginare che cosa dirà.»
   «Ma infatti io non ho intenzione di dirglielo», fa Andrea con un sorriso saputo. «E comunque c’è ancora tempo. Ma non c’è una fontanella qui vicino? Sto morendo disidratata.» Si guarda intorno e ne vede una. Acchiappa una bottiglietta d’acqua vuota e si dirige  grandi passi dall’altra parte del sentiero.
   Suzie la guarda con un leggero sorriso sul volto. «Grazie mille Michael», dice poi voltandosi verso di me.
   «Ah… prego.» Rimango un attimo zitto, poi: «Scusa, perché mi dici grazie?»
   «Perché…», si stringe nelle spalle, «non lo so, perché sei riuscito a tirarla fuori dalla depressione. Da quando c’è stato l’incidente di Ewan era a pezzi. Io ho sempre temuto che Ewan sarebbe morto, e non osavo pensare a come avrebbe reagito lei. Sono contenta che quando è successo tu le sei stato vicino.» Mi sorride fiduciosa.
   «Che tipo era?», domando giocherellando con la coperta. «Lui, dico.»
   «Ewan? Era un tipo veramente a posto. A volte sembra che le persone che se ne vanno sono le migliori.»
   «Se lo dovessi descrivere in pochi concetti?» Non so perché mi torturo così, non so perché sono così maledettamente masochista! Tanto vale che torni a casa, metta le repliche di “Settimo Cielo” e mi rimpinzi di gelato al cioccolato, come farebbe Briget Jones. Insomma, perché voglio sapere queste cose? Ho davvero così paura del confronto? Il confronto con un ex ragazzo non è così male da sostenere, in fondo. Sai che la persona con cui stai si è lasciata la storia alle spalle, magari con i vari piagnistei del caso, ma l’ha superata. In questo caso mi sento come la scelta fatta per dimenticare. Forse sono solo paranoico.
  «Non lo so… era parecchio biondo e perdeva sempre tutto. Appassionato di tutti gli sport, in particolare del calcio, aveva una memoria inumana per quanto riguarda le cose sportive.» Suzie fa una risata strana. «Ma quando si trattava di ricordare le altre cose faceva veramente schifo. Era capace di scordarsi persino il suo compleanno. Donava il sangue, odiava i dolci, amava i gatti e… uff, non so. Aveva gli occhi blu.»
   «Lo so.»
   «Era una brava persona.»
   «Donava il sangue eh?»
   «Sì.»
   In fondo che sarà mai? Anch’io ho donato il sangue un paio di volte. Poi mi sono scordato di rifarlo, ma posso ricominciare quando voglio!
   Andrea fa ritorno con la bottiglietta d’acqua piena. «Vuoi?», mi chiede. Io scuoto la testa. «Tu?»
   «Io sì grazie.» Susanne beve, si alza e srotola le cuffie. «Allora veramente andiamo a trovare mamma e papà con i ragazzi?»
   Andrea si stringe nelle spalle. «Prima o  poi ci tocca.»
   «Facciamo fra un po’ però, okay? Peter è in viaggio con la compagnia, torna Giovedì prossimo.»
   «Okay.» Le due si salutano, Suzie mi rivolge un sorriso, poi ricomincia a correre e sparisce velocemente dalla vista.
   «E dai tuoi?»
   «Stasera li chiamo e glielo dico. Quando ti va bene?»
   «Tutte le sere, quando vuoi. Quando possono loro.» Andrea rimane pensierosa un attimo. «I tuoi genitori… sono come te?»
   Aggrotto le sopracciglia. Sto per dirle che detta così sembra brutta come cosa, poi realizzo che è la verità. Non che è una cosa brutta, ma che sono come me. O forse sono io ad essere come loro. «Sì, poveretti», rispondo. In fondo è solo colpa loro se sono così strano. Alcune persone giurerebbero davanti a un tribunale che sono da ricovero. I genitori sono un’arma a doppio taglio.
   Andre ride e si copre la bocca. «Perché poveretti?»
  «Perché… perché sì! Insomma sono strani, siamo tutti incasinati. Quando c’è una festa tipo Natale a casa nostra sei fortunato se mangi alle cinque del pomeriggio, quando qualcuno rovescia un bicchiere non si arrabbia nessuno, parte il coro di ovazioni fra un po’. E, sì, mi piacciono, perché sono più rilassati di molti altri genitori che conosco. Quando ero bambino i genitori dei miei amici mi sembravano così strani: si preoccupavano di avere una casa impeccabile, di spronare i figli a dare il meglio con incentivi come punizioni o regali costosi. Erano molto… rigidi. A casa mia no, a casa mia è sempre stato un caos e un dirsi “bravo” anche quando non raggiungevi lo scopo ma ci avevi provato», ammetto ridendo.
   «Detta così non sembra per niente brutta», dice Andrea sorridendo. «Però da come li descrivi sembrano degli irresponsabili.»
  «No, non sono irresponsabili. Sono solo rilassati. Per alcune cose si comportano esattamente come i genitori devono fare: “ti vieto di uscire fino ad una certa ora perché sei troppo piccolo”, “guarda che è meglio se i tuoi voti a scuola migliorano”, cose così. Solo che lo fanno con un atteggiamento diverso.»
   Andrea stringe gli occhi. «Ti stai contraddicendo.»
   Io sbuffo e alzo gli occhi. «Senti, è la mia famiglia, non si può essere precisi con le proprie famiglie. E poi questa è la mia interpretazione. Non ha senso!»




















Buona Domenica a tutti!
Non sono molto sicura di questo capitolo, mi sembra inutile e anche un po' noioso. Il prossimo sarà un po' più divertente, ve lo giuro, soprattutto perché ci sarà Fortuné! xD Povero ragazzo, nella mia fanfiction è una barzelletta vivente (ma, Fortuné caro, sappi che lo faccio con affetto u_u).
Per lo spoiler cliccate qui, e per oggi basta, non ho molto da dire ^^
Ciao a tutti! :)
Patrizia

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Capitolo 17
*** One foot boy, o La famiglia Brady ***


Capitolo diciassette
One foot boy
o La famiglia Brady





   «Pronto Fortuné, ciao.»
   «Ciao, che vuoi?»
   «Quand’è che parti?»
  «Fra una settimana.» Mi sembra di sentirlo sorridere anche attraverso il telefono. «Lo sai che mamma e papà mi hanno dato un sacco di soldi?»
   «Per farci cosa?», domando sconcertato.
   «Per il viaggio.»
   «Che culo! E Hilda? Come va la sua laurea?»
   «Abbastanza bene, ma a lei manca ancora minimo metà anno. Forse si laurea a Febbraio dell’anno prossimo. Ma come mai hai chiamato?»
   «Come sta Paloma?»
   «Bene, oggi. Come al solito. Comunque, si può sapere che vuoi?»
   «Ma perché continui a chiedermi che voglio? Non posso chiamare per salutare?», domando piccato.
   «No, tu hai sempre secondi fini.»
  «Non è vero!» Sento Fortuné ridacchiare. «Vabbé, comunque prima che tu parta devi rimanere a casa per una cena. Passami mamma, o papà.»
   «Okay. Che cena? Mamma?!» Pausa, nel frattempo io non ho intenzione di dirgli che sarà una cena semi-formale per presentare Andrea a mamma e papà. «Eccola, arriva, che cena?»
   «L’ultima cena. Passamela.» Sento qualche rumorino e poi mia madre mi saluta. «Ciao mamma, ascolta: quand’è che siete a casa tu e papà? Una sera per cena, dico.»
   «Ah, vediamo… direi oggi, domani e dopodomani no, il giorno dopo ancora però sì. Perché?»
   «Il giorno dopo ancora è», faccio un breve calcolo, «Mercoledì. Vi va se io e Andrea veniamo a cena da voi?»
  «Sì, perché no? Non vedo l’ora di conoscerla, Paloma mi ha detto che è una ragazza molto simpatica.» Per forza, quando Paloma l’ha conosciuta erano tutte e due ubriache! «Venite per le sette.»
   «D’accordo. Allora ci vediamo Mercoledì. Ciao mamma, salutami papà e gli altri.»

   Andrea è tornata a casa alle quattro e mezza del pomeriggio, ha fatto una doccia, poi sono arrivato io a prenderla ma lei sta in mutande e reggiseno di fronte all’armadio da più di mezz’ora. Il che significa che fra quindici minuti dobbiamo uscire e lei non è ancora pronta.
   La ascolto blaterare frasi senza senso, steso sul letto, lo sguardo rivolto allo specchio affianco all’armadio, da dove ho una visuale perfetta di lei.
  «Ma forse se mi vesto troppo scollata pensano male», si lagna prendendo un vestito e posandoselo addosso. Lo getta via. «Però non voglio sembrare seriosa.» Indossa una camicetta. La getta via. «Solo che non ho molti vestiti casual.» Indossa una gonna verde e rimane a guardarsi allo specchio dell’anta dell’armadio.
   «Ti sta bene», dico io sedendomi di scatto sul bordo del letto, sperando che decida di tenersi addosso almeno quella.
  «Sì?», domanda lei girando su sé stessa. Mette una camicia chiara senza maniche, io nel frattempo guardo il soffitto. «Ah, si vede il tutto il reggiseno sotto… Ne metto uno chiaro.» Un reggiseno nero di pizzo mi arriva sulla faccia.
   Me lo levo di dosso e mi alzo di scatto. Mi appallottolo meglio sul letto per guardare Andrea che si cambia il reggiseno. «Se non fosse che ci metteresti un’altra ora a prepararti, lo sai cosa ti farei?», le domando sorridendo soddisfatto e beandomi della vista. Lei fa un sorrisino e si allaccia infine la camicia.
   «Già, purtroppo hai ragione: ci metterei un’altra ora; arriveremmo in ritardo. Poi chi glielo dice ai tuoi? “Scusatemi tanto signori Penniman per il ritardo, è che stavo fornicando con il vostro figliolo.”»
   Scoppio a ridere e batto le mani. «Se ti presenti così ti pago.»
   «Se mi presento così dovremmo arrivare in ritardo, e se c’è la clausola del ritardo allora significa che mi devi fare qualcosa.»
  Maledizione! Perché fa così? Le donne sono molto avvantaggiate nel sesso, veramente! «Se dici certe cose svegli le parti più maschie e animalesche di me.»
   «Chi? Il soldatino?», domanda lei ghignando.
   «Ino?», domando io contrariato.
   Andrea ridacchia mentre si trucca gli occhi. «È che la parola soldatino suona meglio di soldato, non ho detto che sia “ino”. Ho offeso la tua virilità?»
   «Ti meriti uno sciopero di tutto il mio lussureggiante corpo per questo commento maligno.»
  Andrea sbuffa. «Non riusciresti mai a metterti in sciopero con me.» Prende la borsa e sorride. Vedendola con quella gonnellina che mi passeggia davanti devo proprio ammettere che ha ragione, non riuscirei mai a fare sciopero!
   «E va bene, andiamo», borbotto.
   Nonostante i tempi da era glaciale di Andrea arriviamo puntuali – lei ci teneva molto – e con una bottiglia di vino rosso come regalo ai miei da parte sua.
   Dopo le presentazioni mia mamma mette sul tavolino del salotto un vassoio con uno spuntino. Seduti assieme a noi ci sono papà e Paloma. «Vuoi qualcosa da bere? Apriamo questo bel vino», dice leggendo l’etichetta. Esce dal salotto ma, lungo la strada sala-cucina, la sentiamo distintamente strillare verso le scale: «Fortuné! Vuoi scendere?! Ti ho chiamato mezz’ora fa!»
   «Ti ho detto che sto arrivando! E poi che mezz’ora?! Saranno stati cinque minuti!»
   Ecco, questa è la mia famiglia. Carini, no?
   Poco dopo mamma torna con il vino e dei calici, aiutata da Fortuné. Con mio immenso stupore sono appena le sette e mezza quando iniziamo a mangiare. Di solito siamo tutti piuttosto in ritardo per cose come mangiare alle riunioni di famiglia, ma ora che ci penso avrei dovuto aspettarmelo: mamma si impegna di più se ci sono degli estranei.
   «Allora Andrea, che lavoro fai?», domanda papà quando siamo tutti seduti attorno al tavolo.
   «Lavoro per una ditta privata, gestisco il personale.»
   «E come vi siete conosciuti tu e Michael?», domanda mamma.
  Fortuné s’ingozza con un bicchiere di vino. Lui e Yasmine sono gli unici a sapere di come io e Andrea abbiamo ripreso i contatti dopo il funerale di Pagnin, parecchio aiutati anche dal suo ex lavoro di spogliarellista. Be’ probabilmente a quest’ora lo sanno anche Paloma e Zuleika. Insomma, probabilmente lo sanno tutti tranne mamma e papà.
   «Scusate», dice mio fratello tossicchiando.
   «Veramente ci conoscevamo dai tempi della scuola, ho frequentato il Royal College of Music. Poi ci siamo rivisti al funerale di Pagnin, vero?» Andrea sorride e fa quella faccia adorabile, mi ricorda un po’ il Gatto con gli Stivali in Shrek – inclusa la mania di diventare feroce ad un tratto.
   Annuisco con aria compunta. Sì è vero, è successo proprio così. Non ci siamo poi rivisti per caso da nessun’altra parte, posso confermare! «Già», dico solennemente.
   La cena passa senza troppi scossoni. Io non mi sono mai vergognato della mia famiglia, come molti altri adolescenti, ma dentro di me facendo il confronto con le famiglie di altri amici ho sempre pensato che noi eravamo piuttosto casinisti, appariscenti e fuori dagli schemi. Ovviamente a me piacciono anche per questo e Andrea comunque pare pensarla come me, perché durante una pausa in cui rimaniamo soli si accosta al mio orecchio e dice: «Sono simpatici i tuoi genitori.»
   «Sì, lo dicono tutti quando li conoscono. Ma solo di fronte ai loro figli mostrano la loro vera natura maligna e genitoresca
   «Ma certo, è sempre così. Sennò che genitori sono?»
  Stiamo per metterci comodi per riposare la pancia prima del dolce, quando qualcuno bussa alla porta. «Vado io!» Papà si alza di scatto e rimango quindi seduto. All’ingresso sento delle voci e dei saluti. Ad un tratto mia zia, la sorella di mio padre, entra nella stanza con tutta la sua mole e l’esuberanza che la contraddistinguono.
   «Michael! Ciao tesoro vieni qui!» Si avvicina, mi bacia, mi stritola e poi sembra soddisfatta. «Ah ciao», dice poi quando scorge Andrea, che si è educatamente alzata, «io sono Alicia, la zia di Michael.»
   «Andrea», si presenta lei stringendole la mano.
   Con una punta di vergogna perché in fondo sono timido e tutto il resto di orgoglio perché Andrea è bellissima aggiungo: «È la mia fidanzata.»
   «Ah, davvero?» In quel momento entrano mamma e papà, Paloma e Fortuné, mentre la zia comincia a comportarsi come se fosse a casa sua: posa la borsa, leva lo scialle si siede ad una delle poltrone. «Da quanto state insieme?»
   «Non da tanto, sarà… quanto? Una settimana, più o meno.»
   «Ma ci conosciamo da anni», aggiungo mentre tutti gli altri prendono posto. «Abbiamo fatto assieme il College.»
  «Oh, ma questa è la famosa ragazza che lavorava in quel bar di spogliarelliste?» La zia si volta verso Fortuné e lo guarda incoraggiante. L’atmosfera nella sala si congela e comincia un gioco di sguardi.
   Mamma e papà si guardano attoniti.
   Andrea li guarda atterrita.
   La zia guarda Paloma come a chiederle che sta dicendo.
   Io fulmino Fortuné.
   Lui mi guarda, si stringe nelle spalle, e fa: «Mi è scappato, d’accordo?»

   Cosa faccio? Non mi resta che pregare…
  «Ascolta, non avevo idea che l’avrebbe detto a qualcuno», bisbiglio per la decima volta ad Andrea. «Insomma, è mio fratello. A lui potevo dirlo.»
  In quel momento arriva Fortuné, con in viso l’espressione più contrita che gli ho mai visto. «Mi dispiace», sibila, «mi dispiace un sacco, davvero. È che un giorno la zia ha telefonato, in casa non c’era nessuno, e così siamo rimasti a parlare e, vabbè, mi ha chiesto se c’erano novità e io gliele ho raccontate.»
   Andrea respira profondamente. «Non è colpa tua», afferma decisa.
   «Vuoi dire che è colpa mia?», domando preoccupato.
  «No, non è colpa di nessuno, è la verità e basta.» Andrea si morde le labbra e sbircia in salotto dato che l’ho trascinata via di corsa nel corridoio. «Oh, chissà che cosa staranno dicendo. Scommetto che adesso mi odiano, credono che sia una poco di buono.»
   «No dai, di buono hai qualcosa», dice Fortuné indicandola vagamente con una mano. Io non riesco a trattenermi e gli mollo un ceffone sulla nuca. «Ahia! Era per sdrammatizzare!»
   Mi concentro un attimo, ma ovviamente il mio stupido fratello deve parlare ancora.
   «Potremmo dire loro che è tutto uno scherzo.»
   Io lo guardo male. «Credo che sparerò a qualcuno. E per qualcuno intendo Fortuné.»
   «Ho capito, me ne vado!» Così dicendo ci lascia soli e io raggiungo finalmente la verità universale.
   «Faremo così: diremo a mamma che il Jewel ha ospitato una festa per delle spogliarelliste una volta, ma che Fortuné ha capito male e pensava che era uno spogliarello, perché lui è un vero porco e pensa solo alle donne nude. Poi diremo loro che dobbiamo assolutamente andare via perché abbiamo una lezione di ballo liscio…»
   «No.»
   E io che pensavo fosse un’idea magnifica!
   «No, torniamo di là e gli diciamo che è così, che è vero, che io facevo la spogliarellista.»
   La guardo incerto. «D’accordo», dico infine. In fondo, la soluzione più onesta è anche la più semplice.
   Ce ne torniamo in salotto e davanti agli occhi mi si prospetta una scena che non avrei mai pensato di vedere: la zia e mamma se ne stanno nel centro del salotto a fare strane mossette, in quella che ha tutta l’aria di essere una danza sexy, almeno dal loro punto di vista. «Che cosa sta succedendo?», domando sconcertato. Non che non abbia mai visto mia madre ballare in una parvenza di sexytudine, ma la situazione mi sembra come minimo inadatta. Che cosa fanno? Mi prendono in giro? Prendono in giro Andrea?!
   «Stavo raccontando a tua madre di una volta quando da giovani io e tuo papà siamo andati in un locale», dice zia Alicia ridendo. «E ci stavamo ricordando di come si ballava a quei tempi.»
   Sul divano, Paloma e Fortuné si schiantano dalle risate.
   «Anche io ballavo così quando uscivo con le mie amiche», dice mamma scuotendo il sedere.
   «Che?!», domanda papà.
   «Ma sì! Tanto tempo fa purtroppo.»
   «Quando? Con chi?»
   Papà continua a insistere per sapere con chi mia madre ballasse in quel modo, mamma si difende dicendo che era un gioco e che ballava con le sue amiche in mezzo alle persone. Il discorso spogliarelli si perde durante la serata, e anche se adesso tutti lo sappiamo e a volte parte qualche battuta divertita (anche da parte della stessa Andrea) nessuno si scandalizza più di tanto.
   Non so se i miei ci sono passati sopra vista la storia di Andrea e hanno immaginato da soli il perché è andata a lavorare al Jewel, o se proprio non gli interessa. Suppongo però la prima ipotesi, e mi sento fortunato ad avere dei genitori come loro.




















Buona Domenica a tutti! :)
Allora, sono contenta di questo capitolo, anche se i capitoli interessanti saranno quelli che verranno dopo questo qui, quindi stay tuned! Per incuriosirvi vi lascio lo spoiler del capitolo diciotto, e poi ditemi voi se non sarà il caso di preoccuparsi per quello che Mika potrebbe combinare in seguito u_u
Cooomunque, volevo dire grazie alle persone che recensiscono sempre (o quasi, o una volta sola, che va comunque benissimo!) questa storia. I vostri complimenti mi fanno sempre molto piacere, la vostre battute mi fanno ridere e, in generale, leggere una vostra recensione migliora il mio umore, per cui grazie di cuore. Ci tenevo a dirvelo perché ancora non ho accennato nulla del genere, ma in realtà le vostre letture e recensioni sono importantissime!
Per chi pensa che la fine della fanfiction stia arrivando e si dispera (o forse gioisce, non saprei xD) vi ricordo che, in realtà, ci sono 25 capitoli, e che quindi abbiamo ancora un po' di tempo per far disperare Mika come si deve, mhuahahah! *sadico mode: ON*
E per oggi ho finito, alla prossima settimana e ancora buone vacanze! (A proposito, ho letto sul Twitter di Mika che è in vacanza in Italia, magari qualche fortunata lo becca al mare. Io non lo beccherò di sicuro perché sono nella calda, afosa Milano, e non muoverò le chiappe da qui per un bel po' mi sa. Dubito che Mika stia facendo le vacanze a Milano dove ci sono 40° all'ombra quando può andarsene in spiaggia a prendere il sole. Oh!, che invidia!)
Un saluto a tutti,
Patrizia

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Capitolo 18
*** Blame it on the girls, o Di malumore ***


Capitolo diciotto
Blame it on the girls
o Di malumore





   Londra ha sempre avuto un tempo orribile. In inverno fa troppo freddo, piove spesso, l’ombrello diventa il compagno di tutti i giorni. Poi ad un certo punto, tipo ad Aprile, si alternano giorni di sole brillanti e acquazzoni. Adesso, a Luglio, fa più caldo che in Sud Africa e poco ci manca che quando esco di casa mi metta la crema solare anche solo per prendere la posta.
   A Ottobre comincerò il tour europeo, per cui adesso ci stiamo preparando per le prossime date con un nuovo show. Sono a casa con Yasmine per una seduta di brainstorming, nella quale cerchiamo di decidere quale sarà la prossima storia da portare in scena.
   «Mi piacerebbe qualcosa di completamente diverso», dico io.
   «Lo dici tutte le volte.»
   «Be’ magari è come una formula che fa venire le idee. Non mi pare che ci siano state troppe ripetizioni fin ora.»
   «Okay, allora: sei andato nello spazio, abbiamo festeggiato El dìa de los muertos, ti sei vestito da Napoleone – che uomo vanitoso che sei, davvero –, cosa vuoi fare ancora?»
   Ci penso intensamente ma non mi viene in mente nulla. «Forse, siccome sono morto, posso nascere», dico senza esserne tanto sicuro.
   Nemmeno Yasmine è sicura. Fa una smorfia che lo prova.
   «Ehm, okay, allora posso… possiamo essere angeli e demoni. Una parte del palco è inferno, un’altra parte è paradiso, e io sto nel mezzo un po’ di uno e un po’ dell’altro. Eh?»
   «Fattibile», Yasmine annuisce, «ma non è un po’ scontato?»
   «Sì, forse…»
   Passiamo gran parte del pomeriggio a discutere così, ma niente. La sera, esausto dopo tanto lavoro di cervello, crollo a letto e telefono Andrea.    «Ciao», dico depresso.
   «Ciao, che succede? Hai una voce terribile, è successo qualcosa?»
   «No, non è successo proprio niente», dico sincero. Ed è così: niente, niente di niente, vuoto totale, è come se il cervello mi si fosse ibernato. «Non mi viene in mente niente per il nuovo show, e mancano solo due mesi! Dobbiamo pensare a tutto: i costumi, la scenografia. Poi devo iniziare le prove col gruppo, anche.»
   «Oh, mi dispiace. Vuoi una mano?»
   «Se ti va…»
   «Vuoi fare una seduta di brainstorming?»
   Al diavolo il brainstorming!
   «No.»
   «Allora perché non andiamo a teatro? Lo sai che stanno facendo Billy Elliot? Ho sempre voluto andare a vederlo.»
   «E cosa c’entra Billy Elliot con il mio show?»
   «Non lo so, magari ti ispira.»
  Sospiro rumorosamente. Sospetto che Andrea voglia solo andare a teatro invece che aiutarmi con lo spettacolo. «D’accordo, quando lo fanno?»
   «Non lo so, devo guardare. Che fai domani?»
   «Penso.»
   «Vuoi venire a pensare a casa mia?»
   Mi alzo dal letto e decido che mi farò un panino. «No, vieni tu qui. Ora che ci penso mi devi aiutare con delle canzoni.»
   «Come vuoi. Passo da te tornando dall’ufficio, alle quattro, va bene? Però poi devo andare a casa di Suzie per cena.»
   «Sì, okay.»
  Ci salutiamo senza nemmeno un “tanti bacini” e spero che il mio panino mi porti consiglio. Purtroppo non è così: mi fa solo dormire sonni agitati. Ma dovevo aspettarmelo, no? Insomma, non è salutare mangiare un panino alle undici di sera, per di più con tutta quella maionese...

   Il giorno dopo Andrea arriva ed è tutta contenta. Il contrario di me, per intenderci.
   La gente pensa che io sia sempre felice, forse perché le mie canzoni sono allegre anche se parlano di temi tristi, ma si sbagliano di grosso. Da come mi dipingono i giornali sembro un folle uomo sempre allegro, in realtà penso di essere piuttosto cupo. O forse è il periodo. Se non riesco a lavorare mi dò fastidio da solo! Me la prendo con tutti quanti, ma in realtà l’unico con cui dovrei arrabbiarmi sono io, perché è solo colpa mia se non ho idee. In genere me ne accorgo quando faccio così l’antipatico, perché tutti fanno in modo di starmi il più lontano possibile, come se puzzassi.
   Andrea e io ci sediamo sul letto a gambe incrociate, come se stessimo facendo una strana seduta spiritica. Lei batte le mani e fa: «Allora, raccontami le tue pene creative.»
   Io mi ingobbisco. «Hai mai visto uno dei miei show?»
   «Sì certo.»
   «Ecco, hai visto quante cose ci sono in ballo ogni volta?» Lei annuisce. «Ecco, adesso non mi viene in mente niente. Niente!»
   «Oh…» Ci pensa un po’. «Con cosa sei fissato in questo momento?»
   Con Andrea. «Con niente…» Sarebbe troppo patetico dirle la verità. Non dubito che, se potessi, metterei una sua gigantografia sul palco, ma non credo che il pubblico apprezzerebbe.
   «Okay, allora che ne dici se facciamo un giro e ci guardiamo un po’ attorno?»
   Questa sembra una buona idea. «Sì, mi piace. Sembra sensato.» Mi vesto e usciamo.
  Andiamo in giro tenendoci per mano, una cosa che ho sempre fatto piuttosto di rado con le persone con cui stavo. Lo faccio spesso con Zuleika però. Stiamo passeggiando nel west end quando ad un tratto qualcuno ci ferma. Un tizio alza gli occhiali da sole e guarda Andrea. «Ehi, Andrea!»
   Lei si volta e gli sorride. «Christian! Ciao.» Lo saluta con due baci sulla guancia e poi me lo presenta. «Questo è Christian, un mio collega di lavoro. Lui è Michael, il mio ragazzo.»
   «Ah, tu sei il ragazzo di Andrea. Sei una specie di celebrità in ufficio, questa qua non fa altro che rifiutare inviti a uscire perché deve stare con te. Lasciacela almeno per le cene di lavoro.» Christian, questo tipo dalla dubbia morale, è alto e ha capelli biondi e lisci, lasciati un poco lunghi. La barba leggermente incolta gli dà un’aria sexy, dannazione! Andrea lavora con un individuo del genere? Sta a stretto contatto con lui?! Credo sia da dichiarare illegale una situazione del genere.
   Lui continua a parlare: «L’altro giorno stavamo controllando chi di noi conoscesse più canzoni, e lei mi ha battuto perché consce a memoria tutto il tuo repertorio.» Sorride ad Andrea e le poggia una mano sulla spalla, con fare piuttosto confidenziale. «Se solo Amy Winehouse fosse ancora viva anche io avrei potuto elencarti tutte le sue nuove canzoni.»
   Faccio un sorrisino ma la verità è che non sono dell’umore. E poi che significa che Andrea deve rifiutare inviti ad uscire? Uscire con chi? Con lui? Ma chi lo vuole quello? Io sono più alto. Okay, devo calmarmi, mi sto comportando come Paloma quando ha le sue cose. Però, cavolo, ha quello sguardo che i libri ci mettono pagine a descrivere, ha un viso che ti fa cadere in ginocchio. Sembra anche in confidenza con Andrea.
   Quei due rimangono a parlare per altri dieci minuti, in cui mi estraneo bellamente dalla conversazione. Poi riprendiamo la nostra passeggiata e ci compriamo un gelato. «Che fa quello nel tuo ufficio?»
   «Contabilità. Anche lui è stato assunto da poco. Cioè, sempre prima di me comunque, ma da poco.»
   Quando torniamo a casa mi rendo conto che questa è proprio una giornata no. Ogni singolo secondo vedevo qualcosa o qualcuno che mi dava fastidio, e purtroppo nemmeno Andrea e il suo collega sono riusciti ad esimersi dalle mie maledizioni mentali.
  Diciamo che la giornata diventa un pochino migliore quando Andrea, a quanto pare al colmo dell’esasperazione, mi si lancia addosso e comincia a baciarmi e trascinarmi in camera. Io sorrido sulle sue labbra. «Come mai tutta ‘sta passione?»
   «Magari così sei meno musone dopo. Mi dispiace che ti manchi l’ispirazione», dice lei.
   Cacchio, devo farmi passare l’ispirazione più spesso!
  La mia intenzione è spogliarla lentamente, ma prima che riesca anche solo a levarle la gonna qualcuno suona alla porta. Mi volto di scatto verso l’entrata e poi guardo Andrea, incerto. «E se facciamo finta che non c’è nessuno?»
   Lei sospira. «Vai, che non si sa mai.»
   Io, cercando di nascondere l’amico che si è svegliato nei boxer tirando giù la maglietta il più possibile, vado ad aprire la porta.
   «Ciao!», Zuleika entra in casa mia reggendo quattro borse enormi e cominciando a parlare a raffica. «Ti disturbo? Scusa un attimo. Non è che potrei lasciare questi qua? Me li hanno appioppati al lavoro, sono prove d’abito che domani dovrei portare in un altro ufficio qua vicino, ma sono pesantissimi. Ti dispiace se domattina verso le sette passo a riprendermeli? Se provo a portarli fino a casa mi si staccano le braccia. Oh, ciao Andrea!»
   Andrea, sbucata dalla camera, sorride e saluta, poi scompare di nuovo.
   «Ma non potevi aspettare un po’?», chiedo a Zuleika mettendo il muso.
   «Ma se ci tieni metti un segno sulla porta con scritto “Non disturbare, sesso in corso”. Comunque, posso?», alza le borse.
   Sbuffo e le indico un angolo del salotto. «Mettile lì.»
   «Okay, devo andare. A domani!» Mi dà un bacio sulla guancia e se ne va.
  Io torno da Andrea. «Scusa l’interruzione. Prometto che se qualche altro familiare bisognoso si presenterà alla porta lo caccerò a calci.» Purtroppo vedo che Andrea ha preso la sua borsa e sta andando via. «Dove vai?»
   Lei mi guarda un attimo allucinata, poi fa: «Te l’ho detto ieri, devo andare da mia sorella.»
   «No non l’hai detto.»
   «Sì che l’ho detto.»
   «No.»
   «Sì.»
   «Okay, smettiamola… Comunque non l’hai detto.» La guardo mentre si mette le scarpe e si rassetta un po’. «Ma ti devi preparare così per andare da tua sorella?»
   «Mica sono in abito elegante.»
   «Ma non è che devi vedere qualcuno? Tipo quel Christian che a quanto pare ti invita ovunque.»
   Lei si gira a guardarmi con un leggero sorriso. «Sei geloso?»
   «Io? Ma va…» Gironzolo qua e là senza meta. «E quindi?»
   «Quindi cosa?»
   «Esci con lui?»
   Andrea mi guarda come se fossi scemo. «Sei serio?» Non so cosa dire. Perché? Ho detto qualcosa di stupido? «Tu credi che io esca con un mio collega? Che, tipo, ti tradisca o qualcosa del genere?»
   «Be’», sbotto con rabbia, «non sarebbe la prima volta.»
  «E quand’è che ti avrei tradito, di grazia?», domanda lei tagliente. Le sue sopracciglia sottili sono corrugate in un’espressione di rabbia assoluta. Ma sono io che dovrei essere arrabbiato con lei! Sono io che ho il diritto di arrabbiarmi! È colpa delle ragazze, è sempre colpa delle ragazze! E la cosa più giusta che posso fare adesso è dare la colpa alle ragazze, tutte quante! A mia sorella, ad Andrea, a Madre Teresa! Tutte! Senza fare distinzioni!
   «Non sto parlando di me», dico con stizza stringendomi nelle spalle senza guardarla. «Sto parlando di… di lui.» Nel momento stesso in cui finisco di dire la frase, preso dall’ira, dal fastidio e da un milione di altre cose che comunque dovrei tenermi per me o per lo meno saper dosare, capisco di aver fatto una stronzata. Perché lui è ancora argomento taboo, perché se lui fosse ancora qui io e Andrea non staremmo assieme e probabilmente la mia vita sarebbe molto più normale e monotona di così. Ma sono io che ho tirato in ballo lui, il fantasma di un amore perfetto, di una vita perfetta, che forse Andrea avrebbe addirittura preferito ad un macello come me. Che cosa sarebbe successo se Ewan fosse ancora vivo? E comunque, come cavolo mi è passato per la testa di insinuare che lei abbia tradito Ewan con me? Non era un tradimento, era una situazione strana, ma comunque non abbiamo mai fatto niente!
   «A- aspetta, non intendevo…»
   Mi avvicino ad Andrea ma lei caccia la mia mano con un movimento del braccio. Gli occhi le si sono riempiti di lacrime e anche se cerca di trattenersi quando parla la sua voce trema. «Io devo andare», dice solo avviandosi alla porta. Mi passa affianco e fa per uscire, io la raggiungo e quando è già fuori le sfioro appena la spalla. «Non mi toccare.»
   Lo dice con voce talmente arrabbiata che non oso nemmeno muovermi, e lei sbatte la porta.




















Buona Domenica belle donne (e bei uomini, se ci sono, non escludo nulla io u_u).
Questo, come avrete capito, è un capitolo importante: Mika e Andrea imparano a conoscersi a vicenda, nel bene e nel male (in questo caso soprattutto nel male), perché è così che si costruisce una solida relazione! Okay, direi che non sono nella posizione di dare consigli di questo tipo, e poi non siamo mica al bar a parlare dei fatti nostri. Credo però che una litigata, fra i due, ci stava. Altrimenti dov'è il bello di scrivere fanfiction se tutto va bene? xD Voi che ne pensate? Troppo tragica?
Comunque, vi lascio allo spoiler del prossimo capitolo e vi saluto, augurandovi una buona settimana :)
Patrizia

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Capitolo 19
*** Grace Kelly, o Tentati suicidi ***


Capitolo diciannove
Grace Kelly
o Tentati suicidi





   «Diciamo che non è stato carino», dice Zuleika.
   «Sì, diciamo che potevi essere più diplomatico», fa Paloma.
   «Diciamo che eri un po’ arrabbiato», interviene Yasmine.
   «Ma diciamo pure che sei uno stronzo», dice Fortuné riflettendo il pensiero di tutti.
   Io guardo la mia tazza di caffè. Se potessi mi ci affogherei.
   «Ero in una giornata no.»
  «Non è una giustificazione. Poteva esserlo se l’avessi mandata a quel paese. O magari se le avessi detto che stava male con un vestito e sembrava un ippopotamo verde, ma quello no!»
   «Da quando sei così esperto in relazioni sentimentali?», chiedo infastidito.
   «Non è questione di relazione», dice Paloma, «anche un amico se la sarebbe presa per una cosa del genere.»
  È passata quasi una settimana da quando ho fatto quella scenata inutile ad Andrea e il periodo no è anche passato. Io e Yasmine abbiamo organizzato, almeno teoricamente, lo spettacolo, e stiamo cominciando a crearlo anche praticamente. Lavorare mi fa bene, perché quando non lavoro mi sento l’ultima merda cagata dal mondo e spedita per caso – o forse apposta per dare fastidio – nella vita di Andrea. Non mi chiama da quando le ho detto quelle cose. E, sinceramente, come biasimarla? L’ho chiamata un sacco di volte ma scatta sempre la segreteria. Le ho anche lasciato quei messaggi patetici del tipo “Mi dispiace tantissimo per quel che ho fatto, perdonami. E richiamami!” Insomma, non mi potevo umiliare più di così, ma l’ho fatto, perché so di essere stato un vero stronzo. Quello di Ewan era un colpo basso, e io lo sapevo, ma l’ho detto lo stesso. Ero davvero in una giornata no, e purtroppo quando sono così si deve sapermi prendere. I miei amici più intimi e la mia famiglia sa come fare, ma Andrea ancora no.
   Mi guardo le scarpe, perché non ho il coraggio di guardare in faccia i miei fratelli; le loro espressioni severe riflettono la mia stupidità. Ora che le guardo bene, le mie scarpe, vedo che i lacci sono alquanto resistenti, forse potrei impiccarmici.
   «Non mi risponde al cellulare e neanche a casa. Che faccio?», chiedo con tono lamentoso, come un bambino di sette anni.
   «Vai a casa sua.»
   Scuoto la testa. «L’unica volta che ci sono andato la vicina mi ha detto che non c’era e che ha lasciato detto se passava un tizio alto e riccio di dirgli che non ci sarebbe stata per un po’.»
   «Aspetta e dalle il suo tempo allora. Anche se sei stato un cretino, se ti vuole bene ti perdonerà», dice Paloma.
  I miei familiari mi guardano come se fossi un mostro, per cui decido di uscire da casa di Yasmine per togliermi dalle loro grinfie. Decido di chiamare Cherisse e Jimmy, per uscire un po’ e distrarmi. Loro sapranno tirarmi su di morale. Decidiamo di incontrarci in un locale del centro.
Cherisse arriva tutta allegra, come al solito, e rimaniamo ad attendere Jimmy. Cherisse è la persona più frizzante e allo stesso tempo timida che io conosca. E ovviamente è un mostro alla batteria, è una delle batteriste più talentuose che ci sono, non scherzo.
   «Ho saputo della tua disfatta amorosa», mi dice subito non appena ci vediamo.
   Io mi rabbuio. Le voci sulla mia vita privata viaggiano troppo velocemente per i miei gusti. «Preferirei non parlarne. Vi ho chiamati apposta per bere e dimenticare.»
   «D’accordo, ma poi chi mi riporta a casa? Ho la macchina dal meccanico.»
   Jimmy arriva in quel momento. «Ci pensa lui», dico battendogli una mano sulla spalla.
   «Cosa?»
   «Sei appena diventato l’amico sobrio che riporta tutti a casa.»
   «Chi? Io? No, facciamo che lo fa Mika.»
   «No, lui non può: deve bere per dimenticare una pena d’amore!», dice Cherisse con enfasi.
   «Davvero?», chiede Jimmy tutto interessato. «Che pena? Ti offro una birra, tu però racconta.»
   Alzo gli occhi al cielo. «Ma cosa non capisci della parola “dimenticare”?»
   «Tranquillo», dice Jimmy entrando nel locale, «fra un paio di bicchieri non riusciremo a farti stare zitto.»

   Mi gira la testa. Il pavimento si muove. Il soffitto si muove. Provo ad alzarmi. Ricado seduto di chiappe sulla sedia. Mi metto a ridere, perché non si può non ridere ad una cosa così! Cioè, sono caduto di chiappe sulla sedia, capito?!
   «Il quarto bicchiere non glielo dovevi lasciare ordinare», dice Charisse tamburellando con i palmi sul tavolo. Fa un rumore incredibile. In effetti tutto il bar fa un rumore incredibile, è come stare dentro una stalla gigante dove tutti gli animali strillano nello stesso istante. Ma in questo caso, anche io sarei un animale!
   «Oh, non fare tutto quel casino», dico a Cherisse portandomi una mano alla tempia. «Mi fa male qui!» Mi spingo l’indice in mezzo alla fronte.
   «Sì, forse hai ragione», dice Jimmy. Guarda l’orologio. «Sono le dodici passate, lo riportiamo a casa?»
   «E se vomita mentre dorme e si affoga?»
  «No, non è messo così male. Non ti ricordi quando al compleanno di Imma lei gli ha fatto quel cocktail strano? Lì sì che era morto. Si è sentito male tutto il giorno dopo. Ora in confronto potrebbe camminare su un filo da equilibrista.»
  «Ma… ma se noi prendessimo una mucca e la dipingessimo di viola, come quella della Milka, allora lei farebbe il latte al cioccolato!», dico trionfante.
   Cherisse mi guarda sconsolata. «Secondo me non cammina nemmeno se lo teniamo su.»
   «State parlando di me?» Mi sollevo di nuovo, questa volta con successo. «So fare da solo, grazie», dico io con tutta la dignità che riesco a trovare. «Vado a prendere un po’ d’aria.» Aspetto qualche secondo che smetta di girarmi la testa e poi vado.
   «Non ti perdere», mi grida dietro Jimmy ridacchiando.
   Esco e prendo grossi respiri. La testa mi gira ancora e ad un tratto tutte le persone che si muovono attorno a me… mi rendo conto che non contano nulla. Nella mia genialità all’alcool so cosa devo fare: chiamo un taxi e gli do l’indirizzo di Andrea.
   Sono sul taxi da dieci minuti quando il telefono squilla. «Pronto?»
   «Mika! Dove sei?!» È Cherisse.
   «Sono su un taxi.»
   «Oh mio Dio. Lo hanno rapito! Jimmy, lo hanno rapito! Come nel video del Red Hot Chili Peppers!»
   «No! Non mi hanno rapito! Sto andando a casa di Andrea.»
   «Di chi?»
   «Della mia ragazza. O forse ex ragazza, non lo so bene ancora.»
   «Ehm… sei sicuro di stare bene? Sei sicuro che ci arrivi?»
   «Sì, sì, sono già qui.» Lancio dei soldi al tassista e gli dico di tenere il resto. Oh cacchio, credo di avergli dato per sbaglio una banconota da cinquanta sterline! Il viaggio sarà costato a dir tanto dieci. «Ascolta, sto bene. Sono un po’ ubriaco, sì, ma capisco dove sono, anche se non dò alla cosa l’importanza giusta!»
   «Stai urlando Mika, come quando si è ubriachi e non si riesce a controllare la voce.»
   Abbasso il tono. «Okay, va meglio così? Scusa ma devo andare.»
   «Jimmy, tu ce l’hai il numero di casa della mamma di Mika…?»
   Metto giù e comincio a suonare il campanello. «Apri, apri», borbotto nel frattempo, «è notte, devi essere in casa.»
   Dopo dieci minuti sento una voce soffocata da dentro. «Chi cazzo sei a quest’ora di notte?! Se non sei come minimo il Principe William con la sua regale consorte ti consiglio di andartene perché ti prendo a calci in culo!» Ah, la solita donna piena di charme.
  «Sono Michael.» La porta si apre lentamente e dietro compare Andrea, con il pigiama e le occhiaie e i capelli arruffati. È bellissima. «Non sono il principe William ma… Posso entrare?»
   Lei si scosta piano e i suoi piedi nudi fanno un curioso ciap-ciap sulle piastrelle. La prima cosa che faccio quando chiude la porta è abbracciarla forte e quasi mi viene da piangere cazzo!, perché sono un vero coglione, e l’ho fatta star male, e io non voglio che lei stia male, e mi fa ancora male la testa!
   «Scusa per quelle cose che ho detto. Ero arrabbiato, non con te, ero solo arrabbiato per il lavoro e mi sono comportato male. Mi dispiace di aver detto quelle cose, non te le dovevo dire. Scusami.»
   Le accarezzo i capelli arruffati e il mio naso ci affonda dentro, e comincio a baciarla sul viso, su tutto il viso, tutte le parti che mi capitano a tiro. Anche Andrea mi abbraccia e si aggrappa alle mie spalle e io sono così contento di sentire tutto il suo corpo addosso al mio.
   Ma devo fare i conti con il quarto bicchiere, che mi dona un’insopportabile parlantina e il pericoloso dono della sincerità. Mi scosto e la prendo per le spalle. «Ascolta, lo so che non sono il massimo okay? Io faccio schifo in un sacco di modi, non è facile stare con me, me lo hanno detto. Ma io voglio stare con te, voglio stare con te da pazzi, e ti prometto che farò di tutto per farlo funzionare», le prendo il viso fra le mani e la guardo dritto negli occhi nella penombra della luce della cucina, «Dimmi solo cosa ci posso fare. Cosa ci posso fare per migliorare quel che pensi di me? Io posso essere buono, posso essere schifoso, posso essere tutto quello che ti piace. Io… io… io posso anche essere lui, se me lo chiedi.»
   Andrea sgrana gli occhi e mi guarda in un modo che, se non fossi ubriaco, forse mi colpirebbe di più. Mi bacia sulle labbra, più e più volte, e intanto dice: «Io voglio che tu sia tu. Io voglio Michael Holbrook Penniman Jr. Anche se è un nome veramente lungo. E assomiglia a Pennywise.» Accenna una risata sulle mie labbra e in punta di piedi allunga le braccia e mi carezza il viso. «Io non voglio che tu sia lui. Io amo te.»
   Non ho mai sentito il cuore battere così forte. «E come mai allora ti sei reclusa per una settimana?»
   Andrea si scurisce in viso. «Dovevo pensare bene. Tu hai detto tutte quelle cose orribili…»
   «Scusa.»
   «…però io ero triste soprattutto perché pensavo che fossi arrabbiato con me, e non sapevo cos’avevo fatto né cosa fare. Insomma, forse era stata colpa mia in qualcosa, perché eri arrabbiato. Sì, parlare sarebbe stato meglio, è stata anche colpa mia», ammise a occhi bassi. «Però…»
   La bacio prima che finisca la frase e quando ci stacchiamo la guardo e sono felice. «Anche io ti amo.»
  Il telefono squilla e noi sobbalziamo. «Ma chi cavolo è a quest’ora?», brontola Andrea andando a rispondere. «Pronto?» Fa silenzio qualche attimo. «Sì. Sì. No, non credo. Okay, arrivederci, buonanotte. No prego, si figuri.» Si gira. «Era tua mamma, voleva sapere se eri qui, se stavi bene e se avevi fatto qualcosa di stupido che ti avrebbe mandato in galera, e io le ho detto di no.»
   «Oh, okay.»
   «Anche se tu hai bevuto, si vede. Non è che hai fatto qualcosa di strano prima di venire qui?»
   «No, non credo.»
   «Allora come lo spieghi quel cappello a forma di gallina che cova che hai addosso?»
   Mi tocco la testa e mi levo un cappello giallo con la visiera, modellato come se fosse una gallina che cova le uova. Adesso lo ingoio e mi ci soffoco. Non è possibile che abbia detto tutte quelle cose ad Andrea con addosso un cappello-gallina!




















OMG! Scusate tantissimo per il ritardo!
Ieri non ho avuto la minima possibilità di toccare il pc, e quindi il capitolo è saltato. Ma guardate il lato positivo: 1) Mika e Andrea sono riconciliati in questo romanticherrimo capitolo (spero che siate soddisfatti); 2) Dovrete attendere un giorno in meno per il prossimo aggiornamento xD
Passiamo a delle curiosità sul capitolo (inutili, me ne rendo conto benissimo, ma non ci posso fare nulla, voglio farvi notare i più infimi particolari). I "tentati suicidi" di Mika sono tutti corsivati, e mi sembravano divertenti da mettere xD Poi c'è la citazione da Stephen King, ossia il riferimento al pagliaccio IT, il cui nome è Pennywise. Non so voi, ma Penniman (il cognome di Mika) mi ha sempre ricordato Pennywise (se non l'avete mai visto e non sapete chi sia, cliccare qui per un primo piano di Pennywise, e tranquilli, è solo un libro/film xD).
Che altro? Be' basta, credo, a parte che Domenica prossima (sarò puntuale, ve lo giuro) sarò in fibrillazione perché esce il nuovo album di Mika il giorno dopo. Fuck yeah!
A voi lo spoiler, e buona settimana. Per tutti quelli che ricominciano la scuola, l'università, il lavoro e chi più ne ha più ne metta, buon inizio!
Patrizia

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Capitolo 20
*** Touches you, o Arruolato nell'esercito ***


Capitolo venti
Touches you
o Arruolato nell’esercito





   La casa dei genitori di Andrea incute un certo timore. È praticamente perfetta, sia da fuori che da dentro. È una villetta di quelle grandi, sembra uscita da un sogno: a due piani con lo steccato bianco fuori e un giardino così verde e perfetto che pare finto. Dentro, già dall’ingresso, si capisce che è una di quelle case senza una briciola di polvere, dove tutto è sempre al suo posto (dove tutto ha un posto, che è già tanto). Anche i genitori di Andrea sembra che abbiano un loro posto: sua madre appena dietro la porta, suo padre seduto ad un divanetto imbottito che strategicamente punta verso la porta, così quando entriamo sorride e si alza.
   «Salve, Harry Warren.» Ah, sì, era così che mi ricordavo il cognome di Andrea da ragazza!
  «Molto piacere, Molly», si presenta sua madre con una stretta di mano piuttosto secca, che arriva inaspettata da una donna così sottile. Tuttavia è ancora in forma, e quanti anni deve avere? Almeno una cinquantina.
   «Michael Penniman», dico io stringendo le mani ad entrambi.
  Entriamo e porgo alla mamma di Andrea una bottiglia di vino che ho comprato per l’occasione. Lei mi guarda per un secondo alzando un sopracciglio in maniera magistrale. «Mi dica, lei sceglie sempre articoli così costosi, signor Penniman? Per caso è uno scialacquatore incallito? Oppure beve di frequente?»
   Inutile dire che rimango sconcertato dalla domanda. «Mi chiami pure Michael», riesco solo a dire, con tono stentoreo. Andrea chiude gli occhi e invoca pazienza dietro alle spalle della madre.
   La donna sorride e fa: «E tu chiamami Molly.»
   Credo che si sia appena creata una di quelle tragiche situazioni in cui tutti fanno finta di essere cortesi ma in realtà è in atto un gioco di potere. Merda…
   «Sono già arrivati Suzie e Peter?»
   «Dovrebbero essere qui da un…» Harry viene interrotto dallo scampanellio della porta. Entrano Susanne, seguita da un ragazzo alto e pallido. Lui sì che somiglia vagamente al principe Harry, ma quando era ragazzino.
  «Ciao a tutti, scusate il ritardo. Oggi pomeriggio hanno trattenuto Pete al lavoro ed è tornato tardissimo. Quando siamo usciti eravamo già destinati a fare tardi. Ah!», riprende fiato e mi sorride, «Ciao Michael. Questo è Peter.»
   Mi presenta il suo ragazzo e lui, quando siamo tutti diretti in sala da pranzo, mi fa: «Non hai mai visto Molly, prima, vero?»
   «No.»
   «Andrea mi ha detto che fai il cantante.» Mi osserva un attimo. «Sì, mi ricordo di te… ti chiami Mika vero?» Io annuisco. «Buona fortuna.»
   Non so se è il caso, ma io rido lo stesso. «Come mai?»
   «Te ne servirà.»
   Questo di certo è un brutto segno.
   Siamo seduti al tavolo da nemmeno cinque minuti che Molly comincia a servire gli antipasti. Fatico persino a rendermene conto: un antipasto. A casa mia gli antipasti nelle cene di famiglia sono le cose che riusciamo a rubare dalle grinfie di mia madre. E poi scordiamoci che si inizia non appena gli ospiti arrivano, devono passare almeno quaranta minuti di agonia e brontolii di stomaco. Per questo facciamo missioni suicide per rubare un po’ di cibo, ci lascia morire di fame!
   «Spero che tu non sia allergico a qualcosa Michael», fa Molly con l’aria di una che invece vorrebbe ingozzarmi col cianuro.
   «No, niente. E mangio tutto, mi piace assaggiare cose nuove.»
   «La curiosità spesso porta problemi», canticchia lei con un vago sorriso sulle labbra.
   Tutti si guardano attorno al tavolo. «Questo è un film», dice Suzie.
   «No, no, dev’essere un libro», dice Peter.
   Io li guardo come se fossero scemi. Andrea si china su di me con un sorrisino. «Tranquillo, è un gioco: se ti viene in mente una citazione la dici e gli altri devono indovinare da dove l’hai presa. Mamma lo faceva sempre per farci ricordare le cose da piccole, diceva che era un ottimo esercizio per la memoria. Adesso ogni tanto se le viene in mente lo fa ancora.»
  «Dev’essere un film vecchio», sta dicendo Harry tutto concitato. Quando la moglie torna e gli si siede affianco lui la guarda intensamente, come se cercasse di leggerle nel pensiero. «Puoi ripetere per favore?»
   «La curiosità spesso porta problemi.»
   «La so!», esclamo, preso da un’illuminazione. «Alice nel Pese delle Meraviglie, il cartone animato però, non il libro.»
   Tutti gli sguardi vanno da me a Molly. Alla fine lei fa un versetto come di compiacimento e dice: «Esatto.» Il tavolo esulta.
   «Come è possibile che te lo ricordi?», domanda Andrea, «Io ho visto Alice nel Paese delle Meraviglie quando avevo, cosa?, otto anni?»
   «No, è che l’ho visto di recente. La mia cuginetta voleva vederlo e io l’ho guardato assieme a lei.»
   «Per qualche motivo non fatico a immaginarti esiliato nella stanza dei bambini a guardare un cartone animato.»
   «Grazie, è un complimento?»
   «Dipende dal punto di vista.»
  La cena passa senza altre strane faccende fino al dolce. Ah, ma il dolce porta sempre qualche problema con sé! E questo dolce, cheesecake alla frutta, oltre ad essere buonissimo e pesantissimo dev’essere anche maledettissimo.
   «Allora, che impegni hai al momento Michael?», domanda Harry, che è piuttosto affabile in realtà.
   «Per il momento nulla. Sto organizzando il mio nuovo show con mia sorella, e ricomincerò il tour solo a Ottobre.»
   «Un tour dove?»
  «In Europa. La prima data è fissata a Oslo, poi ci spostiamo verso sud. Passeremo anche a Mosca, poi due date in Francia, a Madrid, poi in Italia e in Svizzera e… poi non mi ricordo più.»
   «Che tipo di musica fai?», domanda Molly. «Andrea ci ha detto solo che sei un musicista, ma non è andata oltre. In effetti ricordo il tuo viso, ma non so dove l’ho visto. In tv magari.»
   «Magari», dico io. «Ho fatto parecchie interviste, ho partecipato a un sacco di programmi da quando ho iniziato… Sono già sette anni», dico poi fra me e me, come stupendomi di questo fatto.
   «Suoni anche il pianoforte.»
   «Sì, è vero.»
   «Forse un giorno potremmo venire a sentirti suonare.» Molly fa una risatina. «Certo, basta che non si tratti di uno di quei concerti folli in cui i ragazzi gridano e succedono cose assurde.»
  Mi blocco per un secondo. “Assurdo” è l’aggettivo che userei per i miei show. «Ehm… è musica pop», dico evitando di guardarla, concentrandomi sulla mia fetta di torta, «diciamo che è…»
   «Non credo che ti piaccia mamma», interviene Andrea. «Non è il genere di musica che ascolti di solito, fidati.»
   «Ma se volesse venire mi farebbe veramente piacere!», esclamo io. Sotto al tavolo tiro un calcetto ad Andrea. Mi sto guadagnando le simpatie di sua madre, il che sembra già essere un’impresa da queste parti, come osa ostacolarmi?
   «Infatti Andrea, non fare la guastafeste. E poi, che ne sai del tipo di musica che ascolto io?»
   «Le marce della guerriglia ad esempio», mormora lei fra i denti.
   «Che musica ascolta di solito?», chiedo io precipitoso coprendo le parole di Andrea.
   «Oh, quando ero giovane andavano tanto di moda i Rolling Stones, una volta sono anche andata a vederli con Harry. Ti ricordi tesoro? Aveva comprato due biglietti e io ero riuscita a uscire senza farmi vedere da nessuno.»
   Mi si apre un sorriso sulle labbra. Non c’è niente da fare: tutti da giovani fanno cose contro le regole, persino gente ora integerrima.
  «Abbiamo passato una serata stupenda, ma quando siamo usciti dal concerto e Harry mi stava riaccompagnando, vedo il Capitano del mio reggimento assieme ad alcuni amici.»
   Come scusi?
   «Siamo corsi via, anche se credo che lui mi avesse vista in realtà, ma non ha mai detto nulla in proposito. Harry mi ha lasciata di fronte alla caserma e io sono rientrata di nascosto.» Molly ride di gusto portandosi il tovagliolo alle labbra.
   La mia espressione dev’essere quella di Cristoforo Colombo quando ha realizzato che la terra è tonda. «Eri un militare?», domando incredulo.
   «Colonnello del quinto battaglione delle Forze Armate», dice Molly tenendo la schiena dritta. In questo momento emana una sorta di potere su tutti noi.
  «Wow…», faccio io, incapace di andare avanti con il mio dolce. «Non ho mai incontrato un militare.» Dio, a volte dico queste cose che sembro un bambino di otto anni! Tuttavia Molly sembra compiaciuta, anche se il suo volto quasi non mostra emozioni. …dev’essere l’allenamento militare che l’ha resa così!
   Ad un tratto siamo tutti seduti in salotto con la radio accesa, e proprio in quell’istante parte un vecchio cavallo di battaglia: Rain.
   Andrea salta sulla sedia tutta contenta e fa: «Ecco mamma! Ascolta questa canzone!» Molly per un attimo rimane in silenzio, io cerco di non sembrare troppo compiaciuto.
   «Sembra qualcuno a cui stanno amputando i testicoli.»
   Il mio sorrisino si scioglie.
   «Oh…» Andrea mi rivolge uno sguardo, allarmata.
   Susy e Peter a quanto pare conoscono la canzone. Harry, anche se non sa che la canzone è mia, ha capito cos’è successo. L’unica a non aver afferrato la situazione è Molly. Suo marito si china leggermente verso di lei. «Credo che tu abbia appena insinuato che Michael non abbia i testicoli.»
   Molly non sembra per niente imbarazzata dalla gaffe gigante che ha appena fatto. Si sistema un po’ sulla sedia e mi guarda altera. «Immagino che dopotutto potrò venire a trovarti dopo il concerto, basta che tu mi dica a che ore finisce.»

   «Be’ non è andata male, in fondo», dice Andrea allacciando la cintura.
   «…»
   «Insomma, poteva andare peggio. Conoscendola, poteva dire cose molto peggiori. Poteva continuare a infierire. Anzi, sai una cosa? Credo che tu le stia simpatico.»
   «…»
   Andrea mia guarda preoccupata. «Se vuoi… se vuoi le dico che ti ha dato fastidio. Si scuserà se glielo dico, ci tiene a essere corretta.»
   Metto in moto. «…»
   «Michael! Dì qualcosa! Mi dispiace!»
   Io la guardo prima di partire. Sono sconvolto.
   «No, dai, sono stati simpatici», esalo. «La prossima volta che ti verrà voglia di fare una cena in famiglia, però, ricordati che ci sono io. Sono un grande attore, posso interpretare contemporaneamente tutta la tua famiglia. Voglio essere tua sorella e voglio essere anche tua madre. Voglio essere tuo fratello e tuo padre. Okay?»
   «Ma io non ho fratelli.»
   «Non importa, basta che tua madre la faccio io.»
   Nonostante sia stata una serata terrificante, per certi versi, credo di essermi guadagnato un posto tra le file dell’esercito. Il cui capitano è Molly.




















Yo hooo! Eccomi!
Alla fine ce l'ho fatta: ho postato entro Domenica! Ufff... spero che le altre domeniche non siano estenuanti come questa. E spero di non fare mai più ritardo con la pubblicazione, non mi piace.
Che dire di questo capitolo? Nulla, in effetti, è un capitolo tappa/buchi. Penso che sia fondamentalmente inutile, però siccome abbiamo conosciuto i genitori di Mika mi sembrava giusto conoscere anche quelli di Andrea. E poi c'era 'sta canzone che non sapevo dove piazzare! Non fila come ragionamento? xD
Be', scusatemi tanto, so che non è un capitolo entusiasmante, però se vorrete dirmi che ne pensate mi farà come sempre moltissimo piacere ^^
Vi lascio lo spoiler del prossimo capitolo e vi auguro una buona settimana :)
Settembre può essere traumatico, ma in compenso con tutto quel che c'è da fare passa veloce che è una meraviglia! Inoltre ricordo al gentile pubblico che le uscite di questa fanfiction sono in alto a destr- no, la smetto di dire cavolate xD Ricordo solo che in questo Settembre 2012 esce The Origin Of Love! :)
Patrizia

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Capitolo 21
*** Good gone girl, o Prima classe ***


Capitolo ventuno
Good Gone Girl
o Prima Classe





   Gli aeroporti sono diventati, negli ultimi anni, il luogo in cui passo la metà delle mie giornate. Devo ammettere che è una vita folle, passo più tempo fuori da casa mia che dentro. Quando l’ho comprata sei anni fa ci ho passato tre settimane, poi sono dovuto andare via per mesi. Lei è rimasta lì completamente vuota per un sacco di tempo, praticamente nuova di zecca, non ci avevo lasciato un minimo segno della mia presenza. Ma ora almeno ho un buon motivo per andarmene: vado in vacanza. Due settimane a Parigi solo io, Andrea e Melachi. Sì, anche il cane, me lo porto quasi sempre ovunque, non voglio lasciarlo da qualcun’altro. Lei si diverte. Comunque sia, solo due settimane perché poi ricominciano i preparativi per il tour.
   Siamo in volo da circa quindici minuti.
   «Sono stata a Parigi una volta», comincia Andrea mangiucchiando le noccioline dell’aeroporto.
  Io finisco di mettere a posto tutte le mie cose sul tavolinetto che ho fatto scendere dal sedile anteriore. Tutto è in ordine come solo a un maniaco come me piace: ho il mio snack, il mio iPod, il mio libro da leggere (“Come un romanzo”, Daniel Pennac), il portafoglio, il cellulare anche se è spento, tutto allineato secondo una logica precisa. Ossia da pazzi. Perché solo un pazzo si mette a sistemare le sue cose così sul tavolinetto dell’aereo. La hostess mi sta già guardando male. Quando finalmente sono soddisfatto della mia opera alzo gli occhi.
   «E me lo dici ora?»
   «Era con la scuola, al liceo», si giustifica lei. «Non pensavo contasse.»
   «Conta eccome.» Conta, se contiamo che ho proposto Parigi praticamente per farle da cicerone e fare una bella figura. Passeremo anche il mio compleanno a Parigi. Abbiamo prenotato un hotel in centro e credo che da lì sarà molto comodo visitare tutta la città.
   «Non può contare così tanto, soprattutto se pensi che abbiamo visitato quasi esclusivamente musei.»
  «Non mi fanno impazzire i musei. Cioè, sì mi piacciono, ma non solo quelli. Mi piace anche andare in giro per la città, anzi mi piace soprattutto quello.»
   «Menomale, perché avevo intenzione di fare così.»
  «Allora perfetto, siamo d’accordo.» Penso un attimo a Melachi e a come se la cava ovunque sia in questo momento, assieme agli altri cani. Magari ha trovato un fidanzato. Ma speriamo di no, altrimenti a chi li do i cuccioli? Ah Melachi, che vita solitaria…
   Dopo una mezz’oretta Andrea si addormenta e io rimango tutto solo soletto. Penso di mettermi ad ascoltare un po’ di musica, poi mi rendo conto che non ho voglia. Mi guardo un po’ attorno. Andrea dorme di brutto, con la testa rivolta al finestrino. Uffa: lo volevo il posto vicino al finestrino! Vabbè, sono dalla parte del corridoio e alla mia destra ci sono altre due file di sedili, a coppie. Comincio a guardare il film che stanno mandando sul minischermo attaccato al sedile davanti al mio, ma arrivo tardi: quando decido di guardarlo sta per finire. Sbuffo, e a quanto pare qualcuno mi sente. Il tizio seduto di fianco a me, dopo lo stretto corridoio per il quale passano le hostess, mi guarda e fa: «Lo hai mancato amico, mi spiace.»
   Oddio, io sono sempre nervoso quando uno sconosciuto mi parla. Dev’essere una di quelle reminiscenze dell’infanzia di quando tutti dicevano “Non parlare con gli sconosciuti!” «Ehm…»
   «Peccato, perché non era male», continua quello come se io gli avessi dato corda.
   «Di cosa parlava?»
   «Lui ama lei, lei ama lui, solo che qualcuno si mette in mezzo e il film dura novanta minuti.»
   «Oh. Detta così non sembra entusiasmante.»
  «Forse sono io che non sono bravo a riassumere.» L’ometto si stringe nelle spalle e giocherella con la sua cravatta. In realtà ha riassunto benissimo, però è riuscito a succhiare via tutta la parte bella. Sospetto che farebbe sembrare banale persino “Il signore degli anelli”.
   «No, no, è stato bravo.»
  «Grazie. Fra un po’ lo faranno ricominciare. In realtà non è un film molto originale. Però, riesci a crederci? La solita vecchia storia non mi annoia mai, anche se l’ho già sentita prima. Sarà che sono un romantico, me lo dicono sempre.»
   Mi sfugge un sorriso. «Donna fortunata la sua.»
   «Oh no, sono sposato: quando ci si sposa il romanticismo diventa solo un fatto di circostanza.»
   Mi acciglio e lo osservo meglio. Potrà avere sì e no una cinquantina d’anni, forse un po’ di più. Che uomo contraddittorio, però. Uno si aspetta che più invecchi più diventi ferrato sui tuoi argomenti, ma giudicare da questo qui è vero il contrario.
   «Lo terrò a mente quando mi sposerò.»
   Lui ridacchia e fa un cenno di saluto, poi torna a guardare di fronte a sé e a studiare il piccolo teleschermo. Darò retta alla mamma d’ora in poi: non parlerò mai più con gli sconosciuti.
   Poco dopo è ora di scendere, così sveglio Andrea e ci prepariamo ad andare. Ci mettiamo un paio d’ore a recuperare Melachi e poi le valigie, poi ci mettiamo altrettanto tempo a raggiungere il nostro hotel e sistemarci. Non è proprio una camera vera, o meglio, è più che una camera: ha anche un angolo cottura e un piccolo spazio che potrebbe essere un salotto in miniatura. Era l’unico hotel che ho trovato che accettasse i cani, e nel caso potevi lasciarli a qualcuno che si prendeva cura di loro, se andavi in un posto dove non potevi portartelo. Il fatto che fosse formato da delle sottospecie di mini appartamenti non mi dispiaceva nemmeno un po’.
   «Dove andiamo?», chiede Andrea una volta sistemati, sorridendo. «Voglio vedere la Tour Eiffel, ma quella di notte. Chissà quanto ci vuole per salire? Ah, e poi voglio passeggiare per gli Champs Elysees, quello di giorno mi sa che è meglio. Poi voglio andare a Montmarte. Oh, lo sai che il bar dove hanno girato “Il favoloso mondo di Amelie” esiste sul serio? Perché non ci andiamo? E poi…»
  Non si ferma più. Per stopparle questo torrente di parole gonfio le guance e le faccio una pernacchia. «Va bene ho capito, visiteremo tutta Parigi in due settimane, fidati.»
   Lei fa un sorrisino di scuse e si preme le mani sulla bocca. Dio, quanto è bella.
  Mi avvicino e la bacio, cominciando ad avvicinarmi al letto e trascinandomela dietro. «Sono stanco, devo stendermi», le dico sorridendo sulle sue labbra.
   «Non è giusto.»
   «Mi vuoi negare il riposo? Sei crudele.» La faccio sdraiare sul letto con le lenzuola perfettamente tirate e mi stendo su di lei.
   «No, dicevo il fatto che sei stanco.»
   «Conservo ancora un po’ di energia di riserva.»
   Menomale che Melachi è da qualche parte a esplorare la stanza gigante, mi fa impressione se c’è lei che guarda…

   Fa caldo per essere le dieci di mattina. Per forza, siamo in Agosto. Sono disteso sul prato di fianco alle scale che portano alla Basilica del Sacré Coeur, di fianco a me c’è Andrea, che ascolta musica guardando le altre persone distese affianco a noi, un sorriso sul volto, e Melachi, che scodinzola e quando passa una farfalla salta per cercare di acchiapparla.
  Siamo piuttosto in basso, vicini alle gradinate, e vedo che c’è un tipo che si sta preparando per una piccola performance. Già così attira qualche sguardo. Attacca un microfono, imbraccia la chitarra acustica, sistema una scatola con dei cd al suo fianco e poi saluta tutti. La gente lo guarda con un espressione di cortese attesa sul volto. Lui comincia a cantare e dopo una, due, tre canzoni, io e Andrea stiamo seduti sull’erba ad ascoltarlo, con Melachi stesa al nostro fianco, e una piccola folla che si è riunita sulle gradinate del Sacré Coeur. Il tipo ha una bella voce, canta cover di canzoni famose e coinvolge la gente nel suo spettacolo. Parla un po’ in francese, in italiano, due parole di tedesco con un gruppo di turisti da Berlino, ma soprattutto inglese e tutti quanti riescono almeno a intuire cosa dice. Il suo cd di cover e un paio di canzoni sue costa dieci euro. Andrea si alza e va a prenderlo, lasciando i soldi dentro la scatola, e lui le rivolge un cenno di ringraziamento.
  Dopo un’ora buona saluta tutti e se ne va, mentre noi moriamo di caldo. «Voglio entrare a vederla», dice Andrea guardando da fuori la basilica.
«Vai tu, io rimango qui con Melachi.» E va bene, ci sono anche lati negativi a portarsi il cane in giro in vacanza, perché in alcuni posti non può entrare, ma come si fa a stare lontani da lei? Melachi, la tua pelosità è pari solo alla tua simpatia.
   Dopo un quarto d’ora Andrea esce, scatta un paio di fotografie della chiesa, scatta una foto a Melachi davanti alla chiesa, perché lei è un cane di mondo, e poi ci avviamo lungo la fiancata dell’edificio, lungo le vie affollate di turisti a Montmartre, per cercare un posto dove mangiare.
   Ci sediamo in alcuni tavolini fuori da un locale, sotto un grosso gazebo bianco. Ho messo il collare al cane e l’ho assicurato al tavolino, così adesso sta sdraiata comoda all’ombra. Ordiniamo due crèpe salate, acqua, e se ce l’hanno una ciotolina per far bere anche Melachi, poi rimaniamo in attesa dei nostri piatti.
   «Non ci posso credere che hai vissuto qui per quasi dieci anni, che fortuna che hai», dice Andrea guardandosi attorno sorridendo.
   «Sì be’, neanche tu sei messa male. Non è che Londra sia poi così pidocchiosa. Lo sai che c’è gente che farebbe di tutto per andarci?»
Andrea fa una faccia sofferente. «Non sanno quel che dicono. Perdonali, Parigi, perché hanno peccato», dice con fare teatrale. «Comunque, mi fai vedere dove vivevi?»
   «Possiamo fare tappa anche lì, comunque è un po’ fuori. Non è la Parigi bene», dico ricordando l’appartamento dove ci eravamo stipati per parecchio tempo. Vicino c’è anche la scuola elementare che ho frequentato.
   Quel pomeriggio torniamo in hotel e lasciamo lì Melachi, che ha tanto di passaggio formato cane per andare sul balcone. Poi prendiamo la metro e ci dirigiamo verso il distretto diciassette, dove abitavamo con la mia famiglia. Il diciassette è uno di quei distretti che i turisti non visitano spesso, una di quelle aree della città quasi del tutto normali. Forse l’unica cosa interessante che c’è da vedere sono i paesaggi che dipingevano gli impressionisti, perché nel quartiere di Batignolles ci andavano spesso. Per il resto, non ci ho mai trovato niente d’interessate, ed è anche vero che riconoscere oggi i paesaggi di metà ottocento è un’impresa. Io e la mia famiglia vivevamo proprio in quel quartiere, Batignolles. Forse non uno dei più belli, ma non eravamo lì per divertirci. Eravamo fuggiaschi, cacchio! Fuggiti dalla guerra civile in Libano! In realtà la storia è molto più interessante e avventurosa quando la racconti, la verità è facilmente riassumibile in viaggi e lunghe file per i documenti.
  «Questa è la mia scuola», annuncio ad un tratto fermandomi davanti all’alto edificio grigiastro. Tutto in quel quartiere è grigiastro, o al limite marrone.
   «Cavolo… come fai a ricordartela?»
   «Mi ricordo dove sta. Credo che sia memoria corporale, o come si chiama: mia madre portava me e i miei fratelli qui tutti i giorni a piedi, si vede che non appena sono sulla via i piedi mi partono in automatico.»
   «E ti ricordi qualcosa di questa scuola?» Andrea si siede sul muretto del cancello, la schiena pigiata sulle sbarre di ferro, e io mi schiaccio al suo fianco.
   «Mica tanto. Mi ricordo che ad un tratto, tipo a nove anni, avevo una fidanzatina.»
   «Sul serio?»
   Rido e mi stringo nelle spalle. «Sì. Se non ricordo male il suo nome era Giorgia, ed era magnifica. Mi dava sempre le caramelle che si portava da casa, ci copiavamo i compiti a vicenda, e quando c’era da fare un lavoretto a coppie io e lei stavamo sempre assieme. Venivano dei bei lavoretti, mia madre deve averli ancora da qualche parte.»
   «Guarda che mi ingelosisco», dice Andrea sorridendo.
   «Poi mi ricordo che c’era una bambina terribile invece.» Ci penso per un po’, poi mi torna in mente ogni cosa. «Era inglese, se non mi sbaglio, o al limite americana. Si chiamava April, ed era odiosa. Rubava i pennarelli, spingeva, e quelle cose lì che fanno i bambini. Io e Giorgia la odiavamo, cercavamo sempre di architettare un piano per farle fare brutta figura.»
   Andrea ridacchia e si alza, massaggiandosi il sedere, perché stare seduti su questo muretto è piuttosto doloroso. «L’ultimo giorno che stiamo qui è il tuo compleanno. Che vuoi fare?»
   «Non lo so. Ma quando torniamo a casa ci sarà tipo una festa a sorpresa a casa dei miei.»
   «Se è a sorpresa come fai a saperlo?»
   «Fortuné», dico soltanto.
   «Ah, capito. Vabbè però il diciotto lo passiamo qui. Che vuoi fare?»
   Mi alzo anch’io (con l’impressione di aver lasciato le chiappe sul muretto) cingo le spalle di Andrea e ci avviamo verso chissà dove. «Non lo so. Quello che vuoi tu.»




















...scusate.
Non mi viene in mente nient'altro da dire per il ritardo. Avevo spiegato in questo post che ci sarà un periodo un po' incasinato, ve lo linko perché lo so che il mio blog non se lo fila nessuno se non è per gli spoiler! xD Se non avete voglia di leggerlo, riassumendo è qualcosa tipo: fino alla fine di Settembre non posso garantire aggiornamenti stabili perché fra il lavoro e, ehm, la vita, è un periodo impegnato.
Ma parliamo di cose più liete (non che la vita non sia lieta, anzi, è lietissima ^^)!
Mi è piaciuto tantissimo introdurre Melachi in questo capitolo, anche nel prossimo verrà citata e avrà delle parti rilevanti! In realtà, è lei la protagonista di questa storia! ...okay, la smetto di dire scemenze xD
Il tizio che canta davanti alla basilica del Sacre Coeur non me lo sono inventata, esiste davvero. L'ho visto quando sono andata in gita a Parigi due anni fa: era simpaticissimo, aveva una bella voce, e gli ho anche comprato il cd perché era stato figo stare lì seduti sugli scalini a guardarlo, ed è una delle cose più belle che ricordo di quella gita, che è stata credo la migliore in vita mia (ora sogno di tornare a Parigi un giorno o l'altro). Se siete curiose di immaginare Mika e Andrea a guardare questo tizio cantare, eccovi un video abbastanza recente dove suona "Someone like you" di Adele (fra parentesi: adoro quella canzone).
Le informazoni sull'infanzia di Mika a Parigi invece, con relativa fuga dalla gerra civile libanese e il quartiere in cui erano andati a vivere, me le sono inventate di sana pianta.
Comunque, vi lascio allo spoiler dle prosismo capitolo, sperando di riuscire ad aggiornare puntuale la prossima volta.
Grazie a tutti coloro che leggono e che recensiscono, mi fa sempre piacere leggere i vostri commenti ^^ Siete tutti gentilissimi e ogni volta che leggo una delle vostre recensioni mi fate sorridere!
Grazie mille,
Patrizia

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Capitolo 22
*** Love today, o Chiens dans l'amour ***


Capitolo ventidue
Love Today,
o Chiens dans l’amour





   Qualcosa di veramente fastidioso disturba il mio sonno perfetto. Qualcosa di umido. E di peloso.
   «Melachi!», esclamo quando apro gli occhi, trovandomi il cane ad altezza occhi che scodinzola come una pazza e ha quell’espressione che, non so se sia tipica della sua razza, però sembra sorridente. Mi rigiro nel letto e affondo la testa nel cuscino, mentre con la mano accarezzo Mel.
   In quel momento mi accorgo che il letto, al mio fianco, è vuoto. Mi metto seduto e mi guardo attorno; c’è un vago odore dolce e caramellato nell’aria. I miei occhi si posano su Melachi, che è ancora seduta di fianco al letto e mi graffia pure il braccio a chiedere più carezze. Ma la cosa che noto è che ha una specie di pacco postale legato sul dorso. Non posso fare a meno di mettermi a ridere.
   Libero Melachi dal suo fardello e l’accarezzo ancora un po’, poi apro il pacco. Dentro c’è una felpa che avevo visto in un negozio assieme ad Andrea e che mi piaceva, ma quel giorno non avevo abbastanza soldi per comprarla, poi ci sono un paio di boxer totalmente neri se non fosse per la scritta gialla “WARNING – Explict Content”. Rido di nuovo e metto da parte anche quelli. L’ultima cosa che trovo è un collana che ha come ciondolo la faccia di un pupazzo che guardata da un lato sorride, al contrario invece è triste. Un po’ bizzarra, lo ammetto, ma dopo il Piccolo Uomo Nudo, ciondolo che ho inossato per mesi, credo di non poter rimproverare nessuno per le collane che mi regalano.
  In quel momento Andrea esce dal piccolo cucinotto, sorridente, con in mano un vassoio colmo di roba da mangiare e da bere. Faccio per alzarmi ma lei mi guarda truce: «Non ti alzare. Ormai è una questione di principio: io porterò questo vassoio senza fare cadere nulla», annuncia. Si muove più lenta di una lumaca, ma alla fine riesce ad appoggiare il vassoio sul comodino senza versare neanche una goccia di caffè, ed è allora che si volta verso di me, si getta con un tuffo ad angelo sul letto e mi fa gli auguri.
   «Sì! È il mio compleanno!», dico come in una cantilena, «e devi fare tutto quello che voglio io! Gnè gnè gnè!»
   «Hitler a confronto tuo era un agnellino. Ti piacciono i regali?»
   «Sì! Credo che il mio preferito sia la collana. Però, no, anche la felpa mi piace un casino», dico, ripensandoci. «Però, aspetta, questi boxer sono fantastici, dove li hai trovati?»
   Andrea sorride, appallottola la carta da regalo e la getta da un lato. «Lo sai che ci ho messo un’eternità a legare il pacco attorno a Melachi?»
   «Veramente?»
  «Sì, continuava a muoversi. E la prima volta che l’ho messo poi è caduto, allora l’ho dovuto incastrare di nuovo e poi l’ho lanciata verso il letto. E lei stava per andarsene sul balcone, allora l’ho indirizzata verso di te e poi ha capito.»
   «Sei intelligente Melachi! Hai capito!», esclamo accarezzandola ancora un po’. Sembra che Andrea non sia d’accordo, ma non dice nulla. «Lo sai che la colazione a letto non la faccio da quando ero piccolo? Però era un’occasione particolare, in realtà ero malato e ho bevuto il latte a letto e ho preso la tachipirina. Sì insomma, una colazione schifosa.» Prendo il vassoio e me lo poso sulle ginocchia. C’è l’immancabile caffè (credo di esserne dipendente), ci sono dei muffin colorati, uno dei quali con anche una candelina sopra.
   «Oh, questo è da accendere!» Andrea salta su e corre a prendere un accendino, poi quando la candelina è illuminata mi dice: «Devi esprimere un desiderio.»
   «Okay.» Ci penso un attimo. «Non so cosa esprimere.»
   «Pensaci bene. Non si può sprecare un desiderio così, solo perché non ti viene in mente nulla.»
   «Okay.» Chiudo gli occhi con il muffin in mano, desiderando ardentemente che la giornata di oggi sia perfetta. Apro gli occhi e soffio.
   «Evviva!»
   Dopo la colazione andiamo a fare un giro nel grande parco di fronte al Louvre, assieme a Melachi ovviamente, e abbiamo mangiato talmente tanto a colazione (alle undici del mattino) che preferiamo saltare il pranzo. Siamo stesi sull’erba con affianco Mel, che sonnecchia, quando mi squilla il telefono.
   «Pronto?»
   «Auguri!» Una folla dall’altra parte del telefono, probabilmente in vivavoce, mi canta “Tanti auguri”. Riconosco la voce di mamma, di Fortuné e poi gli altri sono troppo incasinati per sentirli.
   «Hai trent’anni, sei vecchio!», mi grida Fortuné nelle orecchie.
   «Quando sei vecchio sei più affascinante per le donne», replico, «non è vero?», chiedo poi ad Andrea.
   «Come no», dice lei ghignando. «Resta il fatto che io sono ancora una giovin ventenne, tu invece non più.»
   «Ha detto che se mi vengono i capelli bianchi sarò più sexy», dico al telefono a mio fratello.
   «Guarda che le chiedo se l’ha detto davvero, quando tornate.»
   Interviene mamma: «Ecco, a proposito di tornare: a che ora atterra il vostro volo?»
   «Lì saranno le dieci di sera.»
   «Viene a prenderti papà, okay? Vi va di rimanere a dormire qui a casa?»
  Ricordandomi solo in quel momento della festa-non-così-a-sorpresa rispondo che va bene, che rimarremo lì a dormire, e che probabilmente saremo stanchi morti e ci aspettiamo solo di dormire. Credevo che così dicendo li avrei emozionati tutti, che avrebbero pensato qualcosa come “Oh! Oh! E invece quando arrivano gli facciamo una sorpresona!”, ma si vede che sono un pessimo attore, perché dall’altra parte cade il silenzio. Per un po’ nessuno dice niente.
   «Pronto?»
   «Fortuné! Gli hai detto della festa!»
   «No! Io no!»
   Scoppio a ridere e difendo mio fratello, dicendo che l’avevo immaginato e che si capiva da come si comportavano. In fondo è mio fratello, il mio fratello che parla troppo. Non ne ho altri, devo tenermelo stretto.
   Saluto tutti, anche da parte di Andrea, e non faccio nemmeno in tempo a mettere via il cellullare che quello squilla di nuovo. «Non dirmi che…»
   «Magari si sono scordati di dirti qualcosa.»
   «Ah no, è John.»
   «Chi?»
   «Il mio manager. Pronto!»
   «Ciao Michael, auguri. Ascolta, ti ho chiamato per dirti una cosa.»
   «Non per dirmi buon compleanno?»
   «No. Be’, ti ho detto auguri no? Comunque, abbiamo un problema. Nadine ha firmato un contratto con non so che casa discografica, e quindi ci ha mollati.»
   «Come?»
   «Abbiamo bisogno di una corista. Ora. Stavo addirittura pensando se non fosse il caso di chiamare Imma, anche solo per il momento.»
   «No, inizia il tour quando lo iniziamo noi.» Mi mordicchio le labbra e si vede che ho l’aria proprio preoccupata, perché Andrea mi chiede con gli occhi che sta succedendo. Le faccio cenno di aspettare. «Non hai in mente niente? Nessuna soluzione geniale? Alla John?»
   «No, niente per il momento. Pensaci anche tu, un po’.»
   «Lo sto già facendo!», esclamo indignato.
   «Abbiamo bisogno di una corista al più presto, e deve mettersi sotto in una maniera allucinante per poter fare il tour: inizia fra due mesi.»
   Mi mordicchio le labbra, incapace persino di pensare. Mi passo due dita sugli occhi e cerco di farmi venire un’idea geniale. «Okay, ci penso e ti chiamo.»
   «Ho già inserito un annuncio e chiamato tutti quelli che conosciamo. C’è un sacco di risposta, ma cominciamo le audizioni Lunedì prossimo, così ci sei anche tu.»
   «D’accordo, perfetto.» Perfetto un corno, siamo nella merda.
   «Ti farò sapere. Ciao.»
   «Ciao.» Chiudo la chiamata e comincio a sudare freddo.
   Ecco come rovinare un compleanno! John lo sa fare benissimo!
   «Che cos’è successo?»
   «Abbiamo bisogno di una corista.»
   «Perché? Che fine ha fatto la solita?»
   «Nadine è andata via. Traditrice», biascico fra i denti. Mi rendo conto solo adesso dell’enormità di questo fatto. Della gravità di tutto. Oh mio Dio…
  Nadine sta con noi da quando Joy se n’è andata. Le hanno offerto un contratto per fare la solista di un coro, e praticamente tutti quanti l’abbiamo spinta ad accettare, anche se questo significava che doveva lasciare la band. Ma se lo meritava, davvero. Ha una voce bellissima e s’impegna sempre al massimo per ogni show.
   Ma a parte questo, siamo nella merda.
  «Hai un sacco di fan. Ce ne sarà almeno uno che fa il cantante di professione, o quasi.» La guardo sbattendo le palpebre più volte. Sono instupidito. «Scommetto che se mandi un messaggino verranno a frotte solo per farti vedere quanto sono bravi, e non devi nemmeno insegnargli le canzoni.»
   «E se invece perdo solo tempo e vengono tutti quelli più scemi che cantano come Duffy Duck?», domando io irrequieto.
   «No, la gente non può essere tanto stupida. Se non sai cantare lo sai, non vai a ridicolizzarti davanti al tuo cantante preferito.»
   «Tu dici? Guarda tutti quelli che provano ad andare a quei programmi come X Factor, tutti quelli che vengono scartati.»
   «Vabbè, ma quelli non sono tuoi fan.»
   «Cosa c’entra?»
  «Non lo so. Mi sto confondendo.» Devo avere una faccia tristissima, perché Andrea si mette in ginocchio e mi prende il viso fra le mani, spappolandomi le guance. «Okay, ascoltami: non devi pensarci adesso. Oggi è il tuo compleanno, rilassati che ci penserai dopo. Sei qui e non puoi fare nulla, quindi goditi il tuo compleanno.»
  «Ma c’è internet per risolvere questi problemi di distanza», obbietto io con la bocca deformata dalle sue mani. Anche la voce mi esce come schiacciata. «Se mi connetto dal telefono-»
   «Se cominci a twittare te lo faccio ingoiare quel telefono», mi ammonisce lei con inquietante calma.
   «O-kay», dico con voce strana e le guance sempre più schiacciate.
  Andrea sembra contenta della mia risposta. Sorride e mi molla la faccia. Per non farmi pensare attua un piano malefico che solo una mente crudele come la sua poteva elaborare: mi atterra sull’erba e comincia a strusciarmisi addosso e a baciare tutti i centimetri del mio collo che non sono coperti dalla maglietta.
   «Credo che questo sia un reato», protesto ridendo. «Non lo puoi fare! Non puoi!», dico cercando ora seriamente di togliermela di dosso prima che la cosa diventi imbarazzante. Per me ovviamente, non è lei che deve andare in giro con qualcuno che reclama più attenzioni nelle parti basse.
«Solo se lo fai in luogo pubblico è reato», dice Andrea sorridendo.
   La fisso un secondo.
  «Melachi! Vieni qui bella, si torna in hotel», dico brandendo il collare come una frusta. Mi alzo in piedi mezzo saltellando, ma Melachi fraintende. Mi osserva due secondi, scatta con le zampe in avanti e il sedere per aria, scodinzolando, poi si volta e corre via. Spalanco gli occhi. «Melachi!» Comincio a inseguirla, mentre Andrea raccoglie la mia e la sua borsa e la sento correre dietro di me. Inseguo Mel fra le panchine, fra gli alberi, lungo i sentieri, e ancora Andrea mi segue, e la gente si volta a guardarci. Oh sì, di sicuro siamo un quadretto divertente: io inseguo il cane, Andrea insegue me, e tutti e due urliamo “Melachi!” come pazzi.
  Sto per perdere la pazienza e il fiato quando, spuntato oltre gli alberi, non vedo più nessun cane peloso. Mi guardo attorno, preoccupato. «Melachi!» In quel momento Andrea mi raggiunge; anche lei ha il fiatone. «Non la vedo più», dico guardandomi attorno.
   Cominciamo a guardarci intorno e chiedo a due ragazzi se hanno un visto un golden retriver correre più veloce di un peto verso il Louvre, ma loro dicono di no. Sto iniziando ad angosciarmi seriamente quando sento due cani abbaiare. «Eccola», dice Andrea puntando un prato. Raggiungiamo di corsa un signore che se ne sta sull’erba con un cane di taglia piccola, forse un volpino, che scodinzola e salta attorno a Melachi e abbaia.
   «Mi scusi», dico in francese. «Mi è scappata.» Mi chino e aggancio il collare.
   «Fa niente, non stavano litigando. Come si chiama?»
   «Melachi. È una femmina.», preciso. Osservo i due cani che sembra stiano facendo amicizia. «E lei?»
   «Lui, lui, è un maschio. Si chiama Jack.»
   Andrea, che non capisce una parola di francese ma ha intuito che succede, dice: «Melachi, hai trovato un fidanzato! Guarda che poi Michael è geloso.»
   «No, io sono contento per te Mel», dico come se lei mi capisse.
  «Everybody’s gonna love today», dice l’uomo con uno stentato accento inglese e un mezzo sorriso. «Lo dice una canzone che mia figlia adora», fa riprendendo a parlare la sua lingua.
   Io guardo i cani che si annusano a vicenda, scodinzolando, poi ricordo che ritorneremo in albergo e lancio un’occhiata divertita ad Andrea. Annuisco, «Oui, vous avez raison*.»




















*Sì, ha ragione.

Buonsalve!
Allora, ho due cose da dire su questo capitolo.
Primo, non so una cippa di francese, quindi le due frasi che ho sparato in francese (il titolo e quell'ultima di cui ho messo la traduzione) sono state tradotte con con Google Translater xD Se qualcuno che sa il francese vede che sono sbagliate me lo dica assolutamente! In teoria il titolo vorrebbe dire "Cani innamorati".
La seconda cosa da dire, sempre sui cani (sì, questo capitolo è piuttosto canino) è riguardo all'altro cane che fa da comparsa. Nella mia mente è il mio cane, che appunto si chiama Jack, che è morto a Maggio di quest'anno. Quindi questo capitolo è dedicato a lui, il mio amico peloso a cui penso ancora ogni tanto, che mi faceva compagnia ed era capace di mettermi il buonumore anche nei momenti peggiori, che era sempre pronto a giocare e saltellare qua e là. Adesso però basta pensarci, altrimenti mi escono le lacrimuccie...
A presto a tutti quanti, e grazie per le belle recensioni (ragazzi, cinquanta recensioni, ma siete magnifici!). Ecco qui lo spoiler, saluti!
Patrizia

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Capitolo 23
*** Any other world, o Quel che rende felici ***


Capitolo ventitré
Any other world,
o Quel che rende felici





   Vado avanti e indietro per la stanza, intanto rimugino.
   Avanti. Indietro.
   «Io credo che l’ultima non sia stata molto male», osserva Ida con voce piccola. La fulmino con gli occhi. Cerco di fulminare lei più di tutti gli altri, anche se in questo momento mi danno sui nervi tutti quanti, ma lei di più! Perché se fosse veramente una mia amica, come ha proclamato di essere, allora verrebbe in tour con me, mollando tutto e concedendosi anima e corpo alla mia causa. Invece non lo fa, per il trascurabilissimo particolare che farà parte del cast per Les Misérables. Cioè, che vuoi che sia Les Misérables in confronto a me?! Io sono più bello di Victor Hugo, scommetto!
   Andrea me lo ha detto di stare calmo, che sto cominciando a dire cose assurde.
   «Okay, sto zitta», pigola Ida alzando le mani in segno di resa.
   Di nuovo avanti. Di nuovo indietro.
  C’è anche Andrea qui in studio, dove abbiamo appena ascoltato cinque delle coriste che John ha scelto in fretta e furia negli ultimi quattro giorni. Sono brave, su questo non c’è dubbio, ma non riesco a cantare decentemente con nessuna di loro. Forse è un problema mio, forse sono diventato scemo tutto d’un tratto, solo che nessuno me lo dice perché sono troppo gentili.
   Avanti. Indietro.
   «Ci sono un sacco di persone che sono interessate», dice John con gli occhi fissi sullo schermo del pc. «Potremmo fare altre audizioni.»
  Mi cade lo sguardo su Nick, che è arrivato proprio stamattina a Londra solo per fare una vacanza e si è ritrovato incastrato qui in studio, a guardare me che vado avanti e indietro. Credo che nelle piastrelle si scaverà una fossa, come succede nei cartoni animati. Nick sbadiglia e io guardo l’orologio appeso alla parete. Segna le undici e quaranta. Di sera. Siamo qui dall’una e mezza del pomeriggio più o meno. Mi passo una mano sul viso, sconsolato. «Ci pensiamo domani magari», dico.
  In meno di cinque minuti tutti prendono armi e bagagli e si defilano, sollevati. Rimango da solo con Andrea, che mi accompagna a casa in macchina, mi dà un bacio e mi saluta con un “non preoccuparti, vedrai che troverai una soluzione”. Ormai è mezzanotte passata quando giro le chiavi nella toppa e accendo la luce dell’ingresso. Sono sconsolato come non mai, non vedo proprio come potrò trovare una soluzione.
   Per la prima volta mi ritrovo a pensare a che cosa succederebbe se non avessi nemmeno una corista con me in tour.
   I live farebbero schifo. E se succede questo dovrei cancellarne alcuni. E se ne cancello alcuni devo cancellare il tour. E se non suono live perdo fans. E se li perdo non vendo l’album. E se non vendo la casa discografica mi molla! E se mi molla la casa discografica la mia carriera è finita! E potrei andare a vendere la mia immagine ormai rovinata in uno di quegli show televisivi di serie B! Potrei diventare povero e anche morire! Morire di fame e di stenti!
   «Andrea, sto per morire!»
   «…»
   «Mi hai sentito?! Morirò! Morirò di fame e di stenti! Forse domani me lo dirà anche l’oroscopo, ma io l’ho già capito!»
   «Calmati.»
   «Come faccio a calmarmi?! Manca un mese all’inizio del tour e non abbiamo una corista, ti rendi conto della gravità della situazione? No, ma come mai dovresti?! In fondo non è mica tutto il tuo lavoro che verrà messo in discussione perché a una maledettissima ragazzina hanno fatto un contratto che le sembrava più figo!»
   Mi fermo, quasi ansimante, e mi getto sul divano.
   «Hai finito?»
   «Forse no», dico acidamente.
   «Vedi di finire, che ho un idea da proporti.»
   Sospiro e mi tolgo le scarpe. «Che idea?», domando con tono stanco. Andrea non dice nulla, ma sento che è dall’altra parte del telefono. «Che idea?», ripeto, questa volta incuriosito.
   «Io pensavo… pensavo che forse potevo provare anch’io a cantare con te.»

   John annuisce. Nick annuisce. Ida annuisce. Io annuisco.
   Zuleika fa segno di no con la testa.
   «Che cosa c’è?», domanda Andrea nervosamente guardando mia sorella. Anch’io la guardo interrogativo.
   Lei continua a fare di no torturandosi le labbra con un dito e guardando Andrea assorta. «Non hai affatto la corporatura di Nadine, dovremmo rifare tutti i vestiti», dice seccamente girando attorno ad Andrea.
   «Significa che va bene?»
  «Certo che va bene», dico io sorridendo. Mi alzo e le do un bacio veloce sulle labbra. «Adesso dobbiamo solo provare, provare, provare.» Risistemo le chiappe sulla seggiola davanti al piano e dico: «Rifacciamo Blame It On The Girls, ti va?»
   «Okay.»
  Dopo una mattinata intera a cantare canzoni a casa mia, accompagnati dal pianoforte, siamo andati in studio per sentire l’opinione degli altri. Dopo un pomeriggio intero a cantare di fronte ad una piccola folla Andrea sembra un po’ più sicura di sé, ma ancora cerca il mio sguardo e la mia approvazione, a volte, soprattutto nelle parti delle canzoni in cui il coro è fondamentale. Tuttavia non posso fare a meno di notare, cosa che sicuramente Andrea non avrà notato dato che è tesa come una corda di violino, che la maggior parte dello staff è rimasto piuttosto contento di sentirla. Credo che sia una sorta di feeling naturale: quando ti trovi bene con una persona cantare con lei è più facile. Ammetto, infatti, che all’inizio la nuova band che avevo messo insieme l’anno scorso è stata difficile da gestire anche per me, ma era necessario, e sono fortunato ad aver conosciuto tutti loro: man mano che ci conoscevamo meglio il nostro legame si faceva più forte, e suonare assieme era più bello. Con Andrea sta succedendo esattamente la stessa cosa.
   A questo punto i giorni paiono scorrere più in fretta di quel che devono: l’estate sta lasciando il posto all’autunno, le giornate diventano più corte, ogni tanto tiro fuori un maglioncino perché fa fresco fuori, soprattutto la sera. Tutti i giorni, o quasi, facciamo le prove.
   Il primo concerto di Andrea è uno show privato: ci hanno contattati per un matrimonio, uno di quelli fastosi con trecento invitati che io non farei mai, per intenderci, e quando me lo dicono penso subito che sia la cosa più giusta da fare portarci Andrea.
   È stato montato un piccolo palco all’interno della sala del ricevimento, sono pronte tutte le luci, gli strumenti, e siamo vestiti nei nostri costumi di scena – che essendo un matrimonio piuttosto elegante, non sono troppo esagerati. Appena pochi minuti prima di salire sul palco vado da Andrea, che sta in un angolo buio della sala e guarda gli invitati con espressione angosciata. Si torce le mani e sposta il peso da un piede all’altro in continuazione. Quando mi vede arrivare sembra sull’orlo di una crisi di nervi: mi si avvicina con fare furtivo e mormora guardando le persone: «Non posso farlo Michael, non ce la faccio.»
   «Come?»
   Lei scuote la testa. «Non ci riesco, sono in troppi. Non salgo su un palco da almeno sei anni, forse di più. Oh, è vero, sono otto! Otto anni! Otto anni, otto anni che non salgo su un palco…»
   «Calmati.» Le poso le mani sulle spalle ma lei guarda ancora gli invitati e ha in viso un’espressione terrorizzata. Le sciolgo le mani, altrimenti finisce che se le stacca, e le volto il viso verso di me di modo che veda e senta soltanto me. «Ascoltami, devi calmarti okay? Tu sei bravissima, hai cantato benissimo fin ora durante le prove, eri perfetta.»
   «Ma le prove sono una cosa diversa», dice lei agitandosi, saltellando sul posto istericamente. «Le prove sono prove, qui c’è gente vera.»
   Cerco di pensare se alle prove c’era gente finta, e sto per dirglielo, ma poi ci ripenso perché probabilmente nello stato in cui è non coglierebbe la battuta. «Se ti agiti starai peggio. Andiamo, non ti ricordi com’era alla Royal? Quando salivi sul palco era tutto perfetto, io me lo ricordo, eri bellissima.»
   «Non siamo alla Royal qui, quello che stiamo facendo è totalmente diverso.»
   «Hai ragione, è meno importante della Royal: è solo un matrimonio.»
   «No, intendo dire… O mamma...» Andrea prende un grosso respiro e mi trascina dove c’è meno gente. «Intendo dire che lavorare con te è una cosa completamente diversa: tu fai musica pop.»
   «Lo so», dico annuendo. Non so perché lo dico, forse solo per dire qualcosa e darle l’impressione che ho capito cosa sta dicendo, invece non so ancora dove vuole andare a parare.
   «L’ambiente della Royal, ammettiamolo, è importante, sì, ma non raggiunge tutte le persone che invece raggiungi tu con la tua musica. Quello è un genere diverso con un pubblico diverso: meno vasto e con già le idee chiare in testa su cosa sia veramente la musica.»
   Faccio un mezzo sorriso. «Insomma, stai dicendo che hanno la puzza sotto il naso.»
   «Sì. No! Cioè, voglio dire che la tua musica fa cose stupende: tu riesci ad arrivare dritto nel cuore della gente con melodie bellissime, non per forza importanti o difficili da suonare, o che so io. Le tue canzoni sono veramente oneste, ed è per questo che la gente riesce a identificarcisi. Sono pensate e scritte con il cuore, io lo so, vedo come sei quando scrivi una canzone.»
   Rimango realmente sorpreso dal sapere che questo è quello che Andrea pensa della mia musica. Va al di là di qualsiasi cosa mi abbiano mai detto. È un complimento meraviglioso, e il fatto che lo pensi proprio lei mi rende solo più orgoglioso e felice. Per cercare di smorzare un po’ il tono serio della discussione sorrido, leggermente imbarazzato, e dico: «Guarda che io ci mangio con i miei cd.»
   Lei mi dà una spintarella. «Lo so, ma hai capito cosa voglio dire.»
   «Sì, ho capito. Ma non ho capito cosa volevi dire prima. Qual è il problema? Come mai sei così nervosa?»
   «Perché cantare queste canzoni, mandare questi messaggi alle persone… è più di quel che riuscivo ad immaginarmi, quando ti ho proposto di lavorare insieme. La tua musica è veramente importante per i tuoi fan. Tu sei importante per loro. È veramente un grosso impegno, e devo essere sincera: non lo immaginavo quando ho pensato che potevo essere la tua corista. Pensavo fosse solo qualcosa di divertente da fare, ma non è così.» Andrea guarda la sala e indica una persona fra la folla, un ragazzo che avrà al massimo diciassette anni seduto in prima fila che guarda il palco ancora mezzo vuoto e molleggia il piede a terra, impaziente. «Ho parlato con il fratello della sposa. È lui che ha proposto di contattare te per il matrimonio, e sua sorella ha accettato perché gli piaci, ma anche per fare un piacere a lui: è tuo fan da quando era bambino.» Andrea mi guarda e sorride: «Sembra un bravo ragazzo, e tu e la tua musica significate davvero, davvero molto per lui. Mi ha detto che grazie alle tue canzoni è riuscito ad uscire da un periodo di depressione molto brutto, un paio di anni fa, e che ti è molto grato per questo.
   «Vedi che cosa fai per le persone, Michael? Cantare We Are Golden, o Make You Happy, o qualsiasi altra cosa, fa veramente la differenza.»
   La guardo serio, gli occhi fissi nel suo volto, e capisco che crede in quel che sta dicendo. «La differenza di cosa?», chiedo in un sussurro.
  «Fa la differenza per tutte le persone che hanno trovato qualcosa di importante nelle tue storie, nei mondi che crei. Ma sai una cosa? In questo mondo, in qualsiasi altro mondo, puoi distinguere la differenza fra quel che ti fa soffrire e quel che ti rende felice. Invece nel tuo mondo no.» Andrea sorride. «Nel tuo mondo tutto è mischiato, non c’è modo di staccare felicità e tristezza, ma l’unica cosa che sentono, quando pensano alla tua musica, è la felicità. Anche se esiste sempre il lato oscuro nelle tue canzoni, si percepisce solo l’allegria.»
   «Mi stai dicendo che non te la senti? Di cantare assieme?», chiedo con un po’ di rammarico.
   «No, ti sto solo dicendo che è qualcosa di molto importante, e che mi impegnerò al massimo delle mie forze.» Sorride e getta un’occhiata alla sala. Sbuffa con un’espressione a metà fra l’esasperato e il terrorizzato. «Certo che sono proprio tanti però.»
   Rido e la prendo per mano, avviandomi verso il palco. «Tranquilla, ti sembreranno una bazzecola quando vedrai il Parc des Prices di Parigi.»

   Quella notte, solo nel mio letto, ripenso alle parole di Andrea.
  Sono uno dei pochi fortunati che possono vantare una carriera che è anche la loro passione. Quando ho iniziato è stato tutto così veloce che non mi sono mai veramente reso conto dell’impatto che la mia musica ha sulle persone. O meglio, lo sapevo, ma non ho mai creduto che fosse qualcosa di tanto profondo anche per il pubblico.
   Secondo Andrea la mia musica rende felici le persone. È una cosa piuttosto incoraggiante da sentirsi dire. Se è per questo, la mia musica rende felice anche me, ma non devo dimenticare cos’è che mi permette di creare queste canzoni: i miei amici, la mia famiglia, le persone che amo e a volte persino quelle che odio. Sono come un ladro, rubo le storie della gente che mi sta attorno, le elaboro nella mia testa e gliele ributto indietro sotto forma di registrazione.
   Andrea dice che tutta questa faccenda del cantante è davvero impegnativa, e non solo per gli impegni che in effetti mi ritrovo, spesso, a dover gestire tutti assieme, ma dal punto di vista umano. Ha ragione, ma questo mi fa pensare a qualcos’altro: oltre a tutto ciò che ho già elencato, cos’è che mi rende felice? C’è qualcosa, lo so, qualcosa che ho ma che allo stesso tempo mi manca.
  Mi rigiro di nuovo fra le lenzuola, questa volta provando a pancia in giù. So che devo dormire, che anche domani ho le prove e che dovrò alzarmi presto, ma non riesco a prendere sonno. Mi impongo almeno di chiudere gli occhi e smettere di fissare la scrivania, e quando mi rigiro per l’ennesima volta nel letto, troppo grande e troppo vuoto, sento la mancanza di Andrea.
  Vorrei che lei fosse qui, così potrei abbracciarla con un braccio solo, pigiare il mio petto contro la sua schiena, e tutti e due potremmo sentire i piedi freddi dell’altro, e scaldarceli.




















Buonsalve a tutti! ^^
Allora, questo capitolo dice quello che penso io della musica di Mika. Forse molti non ci pensano in maniera così filosofica, ma io sono fatta così e mi piace filosofare su certe cose. Morale della favola? Non lo so, so solo che Mika dovrebbe essere per lo meno soddisfatto dell'alta idea che ho di lui e della sua musica u_u
Comunque spero di non avervi annoiato troppo con questo capitolo filosofeggiante.
Che altro dire? Nulla di che, immagino. Vi lascio allo spoiler (uhuh, secondo me il prossimo capitolo potrebbe piacere a molte persone! Però vi dico che non dovete farvi ingannare dal titolo. Sono sadica a mettervi questa curiosità addosso, lo so!) e ci vediamo la prossima settimana :)
Patrizia

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Capitolo 24
*** Happy Ending, o «Sì, lo voglio.» ***


Capitolo ventiquattro
Happy Ending,
o «Sì, lo voglio.»





  Fortuné legge con le sopracciglia aggrottate, lentamente, e mi chiedo quanto cavolo ci vuole mettere a leggere: in fondo è una specie di messaggino, non è mica un’ode! Alla fine lui alza gli occhi e mi guarda attraverso le spesse lenti, le sopracciglia sollevate. «Questa è una proposta. Una proposta vera, seria. Una proposta di…»
   «Sì, è una proposta!», lo interrompo strillando come un invasato. Lo guardo ansioso. «Che te ne pare?»
  Fortuné fa un grosso sospiro e sembra incerto. «Non lo so, non mi è mai capitato di fare una proposta così a una ragazza. Insomma, veramente vuoi fargliela leggere?»
   «No, glielo chiederò a voce, ma questo è una specie di discorso che mi sono preparato.»
   «Pensavo che i discorsi fossero molto più lunghi.»
   Mi spazientisco. «E dai, hai capito che voglio dire: fila, come discorso? Insomma, è convincente almeno?»
  «Ma non è questione di essere convincenti. Cioè, non tu devi convincerla, è una proposta e lei ci deve pensare e poi darti la risposta. Insomma, non si tratta di convincerla con la retorica, se lei vuole lo farà, punto e stop.»
   Fortuné certe volte ha questa insopportabile mania di diventare intelligente. Peccato che lo faccia sempre nel momento più sbagliato.
  Siamo a casa di mamma e papà, manca solo una settimana per la prima data del tour europeo, che quest’anno inizia dalla Spagna, e io voglio solo un consiglio spassionato. Invece mio fratello proprio oggi se ne esce con le sue considerazioni umane e geniali. Maledetto!
  Grugnisco e dico: «Non è che se vuole lo farà: sarà talmente estasiata dalla mia romanticissima proposta che le brilleranno gli occhi e l’unica cosa che dovrà fare sarà dire “Sì, lo voglio”.»
  Fortuné rotea gli occhi sul soffitto. «Okay, come vuoi. Ma perché mi chiedi la mia opinione se poi non la tieni neanche in considerazione?», domanda acidamente incrociando le braccia.
   Mi riprendo la mia lettera. «Era solo per sapere se c’erano errori di grammatica.»
   «Babbeo.»
   «Quattrocchi.»
   «Nasica.»
   «Ah! Colpo basso!»
   In quel momento mamma entra in cucina e io mi affretto a nascondere la mia lettera/proposta in tasca. «Michael rimani a mangiare?», chiede.
   «No, mi vedo con Andrea.»
   «Ah, salutamela.» Mamma sorride benevola; le piace Andrea.
   Io esco e, in macchina, mi controllo i capelli, poi la faccia, poi l’alito: devo essere bello per fare ad Andrea la mia proposta! Fa piuttosto freddo ma ho abbassato la cappotta della macchina perché ieri c’era l’ultimo residuo di sole, però adesso che è scomparso c’è vento, e ancora non ho chiuso il tettuccio perché sono troppo pigro. Mi fermo ad un semaforo lungo la strada per il ristorante nel quale ci dobbiamo incontrare. Tiro fuori il mio foglietto spiegazzato e lo rileggo per l’ennesima volta.
   Ma perché l’ho scritto? Adesso ci sono troppo attaccato: se mi dimentico una parola non so più come andare avanti!
  Ad un tratto una macchina mi passa di fianco e dà gas, accelera e tira su una folata d’aria non indifferente. Il foglietto mi scivola dalle mani, vola via e, prima che io possa anche solo imprecare (un bel, sano, «Cazzarola!») finisce prima in mezzo ad una pozzanghera e poi viene spappolato dalle ruote di una bici. Rimango con gli occhi fissi sulla carta spiaccicata ad almeno cinque metri di distanza da me, ridotta in pappa di fronte ai miei occhi. Il verde scatta e io non lo vedo. Mi riscuoto quando un clacson suona forte. Faccio un cenno di scuse con la mano alla macchina dietro alla mia e parto.
   …che razza di idiota sfigato che sono.
   Arrivo al ristorante e vedo Andrea che mi aspetta di fronte all’entrata. Indossa un vestito grigio e verde, semplice, di seta, che le cade addosso con leggerezza. I capelli le sono cresciuti dall’ultima volta che li ha tagliati e adesso le arrivano di nuovo alle spalle, come quando l’ho incontrata nella chiesa al funerale di Pagnin. Però è diversa, riesco a vederlo: sembra più serena, forse più bella. Ogni giorno diventa sempre più bella ai miei occhi, quindi è inutile che sto a raccontarmela con il “forse”: è bella punto e stop.
   La raggiungo e le do un bacio. «Come va?», domando.
   «Come al solito. Che hai fatto oggi?» Entriamo nel ristorante e prendono i nostri cappotti.
   «Niente di che. Sono stato dai miei, ti saluta mia mamma.»
   Quando entriamo c’è un’intera tavolata da un lato che, a quanto ho capito, festeggia i cinquant’anni di matrimonio di una coppia. Mi siedo e li occhieggio, poi decido di tastare il terreno con Andrea: «Dev’essere bello festeggiare i cinquant’anni di matrimonio», butto lì con noncuranza. «Ripensi a come è iniziata no? Andare a vivere assieme, scegliere assieme le tende, cose così.»
   Lei alza le spalle. «Troppo presto per pensarci. Pensa a passare il primo anno, poi il secondo e poi il decimo, poi forse possiamo parlare del cinquantesimo.»
   Rido e le passo una mano sul viso con delicatezza. «Ma sarai bella anche tutta rugosa come una tartaruga.»
   Andrea si mette a ridere e apre il menù. «Grazie. Anche tu lo sarai, ne sono certa.»
   Mangiamo tranquillamente e parliamo di quel che capita, applaudiamo assieme al resto della sala quando la tavolata dei vecchi amanti fa loro il brindisi, e poi riporto a casa Andrea e mi fermo di fronte alla sua porta, spegnando le luci e il motore. Ecco, forse è il momento giusto per chiederglielo: con la pancia piena uno è sempre più bendisposto.
   «Ci sentiamo domani allora», dice lei sorridendo e facendo per scendere dalla macchina.
   «Aspetta, volevo dirti una cosa.»
  Andrea chiude la portiera e mi guarda, in attesa. Io in testa ho un blackout: il mio discorso perfetto è andato perduto, ho la gola secca, mi ricordo solo le prime quattro parole, e le dico subito prima di perdere il coraggio:
   «Andrea, io ti amo.»
   Lei sorride, si sporge e mi bacia. Rimane accanto al mio viso e dice: «Anch’io ti amo.»
   Okay, ormai è inutile provare a pensare.
  «Devo chiederti una cosa importante, stasera. Prima che partiamo per il tour, perché mancano solo due settimane», comincio. «Adesso tu magari esci dalla macchina e vai a casa tua, e io vado a casa mia, e mi mancheresti terribilmente. Me ne sono accorto l’altra notte, dopo il primo concerto assieme: erano le due in punto del mattino, mi passavano un sacco di cose per la testa. Non riuscivo a riposare, continuavo a camminare in giro per casa. Poi ho avuto un’illuminazione: voglio stare con te sempre», le dico guardandola negli occhi. «Vuoi…», lei allarga gli occhi e mi guarda allucinata, «vuoi venire a vivere a casa mia?»

   Me ne sto con le braccia conserte e il muso, lo sguardo fisso sul cruscotto. Al mio fianco, Andrea si sganascia dalle risate talmente tanto che fra un po’ le vengono le lacrime agli occhi.
   «Ti odio», dico senza guardarla.
   «Ma non mi amavi?», domanda lei ilare.
   «Questo era prima che ti mettessi a ridere della mia proposta.»
  Andrea ansima ancora un po’ e rimane con un largo sorriso sul volto. «Scusa, è che l’hai fatta talmente seria che credevo che stessi per chiedermi di sposarti. Poi invece te ne esci con “Vuoi venire a vivere a casa mia?”.» Mi scimmiotta anche la voce, non ci posso credere!
   «Be’ scusa se per me era importante», dico stizzito. «La prossima volta che ti chiedo qualcosa d’importante te lo scriverò su Twitter.»
   Lei capisce che me la sono presa e si preme una mano sulla bocca. «Scusa. Scusa, mi dispiace di essermi messa a ridere così. Non lo faccio più, giuro.» Mi dà un bacino sulla guancia e mi guarda dispiaciuta.
   «E se ti avessi chiesto di sposarmi sul serio ti saresti messa ridere?»
   «Non credo», dice lei, questa volta seria.
   «E avresti detto di sì?»
   «Non ti pare una domanda un po’ troppo in “se”? Non voglio parlare della possibilità di sposarci usando il congiuntivo.»
   Rimaniamo in silenzio per un po’.
   «Però posso dirti una cosa», dice poi Andrea senza guardarmi. Osservo il suo profilo illuminato solo dalla luce gialla del lampione. Lei si volta e sorride: «Sì, lo voglio.»

   «Rispiegami perché non puoi vendere la casa», dico per l’ennesima volta.
   «Non voglio venderla, è la mia casa. Mi ci sono affezionata, okay?», dice Andrea cocciuta mettendo lo scotch ad una scatola.
   «Ma adesso ne hai una nuova», mi lagno io. «E poi scusa, la lasci qui tutta vuota e la vuoi pure pagare?»
   «Posso portare via tutto quello che mi interessa e darla in affitto. Si pagherà da sola. E poi, ho già quell’altra casa al mare da vendere, a meno che tu non voglia trasformarla nella nostra casa delle vacanze.»
   Al ricordo della casa ad Hastings, polverosa e piena di fantasmi e ricordi, quasi rabbrividisco. La casa di Ewan. «No, è tua: devi decidere tu», dico piano ad occhi bassi.
  «Allora la venderò. Non la voglio. Questa però la teniamo.» Mi piace come parla di noi al plurale. «Metti che un giorno avremo dei figli: quando saranno grandi potremmo lasciargli questa casa», continua con tono pratico. Oh, mi piace ancora di più questa prospettiva di un lungo futuro assieme. E mi piace come ne parla in maniera così naturale!
   «Mi sembra una buona idea», dico senza potermi impedire un sorriso.
  Impacchettiamo tutto quel che Andrea vuole portarsi via dalla casa per il momento: vestiti, libri e altre cose come il pc, ma cominciamo a chiederci che farcene di tutto il resto, le cose come i mobili, la lavatrice e la tv. Decidiamo di rimandare le decisioni per dopo il tour, quando avremo più tempo e ci saremo resi conto che cosa Andrea deve assolutamente portarsi via da questa casa.
   Ci mettiamo solo due giorni a trasferire tutti gli averi di Andrea in casa mia, però ci mettiamo due giornate intere anche a trovare un posto per tutta la sua roba in mezzo alle mie cose. Comincio a non considerare più nulla di mia legittima proprietà: se io e Andrea vivremo assieme allora le mie cose diventeranno anche sue, in un certo senso. Le userà anche lei, ecco. Non sarebbe giusto invitarla a vivere assieme a me e poi considerare tutto ciò che non si è portata dietro come mio e solo mio, no? La verità è che non sono mai andato a convivere con nessuno, non so cosa aspettarmi e nemmeno cosa devo fare.
  «Come mai c’è uno spazzolino dentro la credenza?», domanda Andrea dalla cucina mentre io sto sistemando le scatole dei suoi vestiti estivi vicino ai miei.
   «Non preoccuparti, lascialo lì!», grido io di rimando.
   «Okay!»
   Mi fa piacere che non si batta per cambiargli il posto, anche se è assurdo tenere uno spazzolino nella credenza, me ne rendo conto. Significa che gli va bene così, che io gli vado bene così. Magari sembra una cosa stupida, ma il fatto che non le dia fastidio mi rincuora.
   «Ti piace il blu come colore per un divano?»
   «Veramente non ci ho mai pensato.» Ci penso. «Non mi fa impazzire, veramente.»
   «Quindi niente cuscini blu? Ho comprato le fodere la settimana scorsa, guardale, ci sono disegnati degli orsi sopra.»
   «Potrei pensarci.»
   Immagino che vivere assieme sia anche un compromesso. Anche per cose stupide come il colore dei cuscini.
   «No, non fa niente!», dice Andrea dall’altra stanza.
   La raggiungo in salotto, dove sta mettendo via quelle che hanno tutta l’aria di essere fodere blu con disegnati tanti orsacchiotti. Sembrano un pigiama per bambini. Mi inginocchio al suo fianco e le tiro fuori. «No, sono carine dai.»
   «Se non ti piacciono…»
   «Mi piacciono», dico convinto.
   Andrea sorride e cominciamo a cambiare le fodere (certo, saranno un pugno in un occhio vicino ai cuscini gialli) e qualcuno suona alla porta. Vado ad aprire e trovo Yasmine, che è passata a salutarci e chiedere come va il trasloco.
   «È un trasloco solo per metà», dice Andrea dirigendosi in cucina. «Vuoi qualcosa?»
   «Ti sei già ambientata vedo», dice mia sorella sedendosi e rigirandosi fra le mani un cuscino blu, perplessa. «Lo sai che a volte Michael non si lava per tre giorni di fila?»
   «Ma sta zitta.» Le strappo il cuscino dalle mani e glielo calo leggero sulla testa. Lei ride e cerca di scostarsi.
   Sentiamo Andrea dalla cucina che ride. «Sì, lo so.»
   «Ma non è vero!», dico io.
   Andrea torna in salotto e ci porge due tazzine di caffè. Se ne va per prendere anche la sua e Yasmine mi guarda sorridendo, un po’ con l’aria di prendermi in giro. «Oh, che bel lieto fine.»
   «Non c’è un lieto fine», dico io.
   Perché non è una fine.




















Buonsalve!
Allora, spero che questo capitolo vi sia piaciuto ^^ Avevo una mezza idea di far sposare Mika e Andrea, ma poi non mi convinceva così tanto. Era troppo presto per loro, e mi sembrava troppo "e vissero felici e contenti", quindi alla fine ho deciso di farli andare a convivere e bona.
Forse il capitolo poteva essere più lungo, e raccontare meglio di come loro vivono assieme, ma alla fine è uscito così. Non mi andava di farlo troppo lungo.
Insomma, ci sono dei capitoli in mezzo alla storia che sembrano stare lì per errore e non raccontano niente, poi alla fine mi vengono a mancare capitoli! xD Vaaabè...
Preparatevi psicologicamente, perché il prossimo chiude la fanfiction. Caspita, mi sembra strano persino dirlo. Ho iniziato a pubblicarla il 6 Maggio, e adesso siamo ad Ottobre. In questi cinque mesi scarsi per me sono anche cambiate un sacco di cose (magari anche per voi, che ne so io u.u) e se ripenso a quando ho deciso di postare la storia mi sembrano passati anni, non mesi! xD
Meglio lasciare le considerazioni sentimentali alla prossima volta, che è effettivamente la fine, quindi lo sbrodolo puccioso alla fine del capitolo ci sta. Posterò Domenica (se ne ho le forze) o Lunedì c: Intanto ecco qui il link del prossimo capitolo, e passate una buona settimana!
Patrizia

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Capitolo 25
*** Relax [take it easy], o Live ***


Capitolo venticinque
Relax [take it easy],
o Live





   Primo di Dicembre. Il tour prosegue a gonfie vele e non ci fermeremo fino al sedici, quando faremo l’ultima data a Oslo, Norvegia. Per il momento siamo ancora a livelli di freddo umanamente sopportabili perché siamo in Italia. Milano, al Forum di Assago, tutto esaurito.
   Sono fomentato. C’è davvero bisogno di dirlo?
  Credo che ci siano persone ai cancelli più o meno dalle sette di questa mattina. Ho mandato dei ragazzi a chiedere ai fan da parte mia se avevano bisogno di qualcosa: pensarli lì nel gelido inverno ad aspettare solo me mi fa commuovere. Sono magnifici! Alla fine ho chiesto di andare a comprare quante più focaccine e pizzette possibili nel primo negozio che trovavano aperto, e ho dato ordine per cui venissero distribuite alla folla. I miei ordini sono stati eseguiti, e un vago odore di pizza è aleggiato per qualche tempo nell’aria.
   Adesso manca meno di un ora al concerto: i cancelli sono stati aperti e si sente il brusio della folla al di là del palco. Tutto è pronto per iniziare. I costumi sono al loro posto, gli strumenti sono perfetti appoggiati lì in bella vista, e io inizio ad andare fuori di testa.
  Ovviamente è inutile ripetermi che, una volta sul palco, starò benissimo e mi sentirò calmo e a mio agio. Tanto quando ancora dobbiamo iniziare sono sempre, e dico sempre, nervoso.
   «Che ore sono?»
   «Le otto e quarantadue.»
  «Okay.» Faccio due passi nel camerino, apro la porta e metto la testa fuori. C’è gente indaffarata che fa il proprio lavoro. Rientro nel camerino, dove mamma sta sistemando alcuni dettagli sul vestito di Andrea. «Che ore sono?»
   «Le otto e quarantatré.»
   «Okay.» Giro attorno ad Andrea mentre lei si rimira allo specchio. Guardo il telefono per vedere che ore sono. Ah già, l’avevo già visto! Passa qualche secondo. «Posso chiederti…?»
   «Se mi chiedi di nuovo che ore sono ti ficco un gomito nella pancia.»
   «Volevo solo sapere come stavi», dico io guardando altrove. Che bugiardo che sono! Volevo chiederle l’ora!
   Mamma mi dà un bacio e dice uscendo: «Vado a controllare gli altri. Tu rilassati», mi dice con sguardo eloquente.
   «Okay.»
   Oh Dio, posso smetterla di dire “okay” a tutti?!
  Mi siedo sul divanetto e guardo Andrea, che passeggia sulle scarpe nuove che ha fatto Christian apposta per lei, dietro mia richiesta. «Mi piacciono un sacco le Louboutin, lo sai?», dice raggiante guardando il riflesso delle scarpe allo specchio. «Mi sono sempre piaciute. Non ci credo che ne ho un paio. E hanno sopra il mio nome, cioè sono proprio mie!» Mi guarda sorridendo, ma vedendomi il sorriso le si scoglie. «Che cosa c’è?» Si siede al mio fianco e comincia ad accarezzarmi una coscia.
   «Scusa, sono più nervoso del solito.»
   «Come mai? Non è che hai bevuto un po’ troppo caffè?»
   Mi scappa un sorriso. «No, non è quello. Se devo essere sincero, questo non è mai un pubblico facile.»
   «Non ti piace l’Italia?»
  «No, mi piace. Ma qui sono piuttosto esigenti, troppo, per i miei gusti. Dev’essere l’effetto che mi ha lasciato Canepa», mormoro più a me stesso che a lei.
   «Canepa?», domanda Andrea confusa.
  «Sì, devo aver sviluppato una specie di fobia per gli italiani. E anche da piccolo non mi piacevano, dev’essere per questo che mi sembrano sempre più famelici.»
   «Michael, stai cominciando a dire cose senza senso.»
   «Anche se devo ammettere che, in compenso, quando sono entusiasti sono sempre meravigliosi.» Continuo a parlare senza sentire una parola di quello che dice lei. «Però oggi mi sembrano più famelici che altro. E se fosse in atto una specie di virus-zombie e non me ne sono accorto? Forse è così, forse vogliono solo uccidermi.»
   «Ehi!» Andrea mi toglie le mani dalla faccia e mi guarda con espressione decisa. «Piantala di dire cose senza senso, quando cominci diventi pericoloso. E ti agiti di più.»
   Qualcuno bussa e poi vedo Yasmine che ficca la testa dentro il camerino. «Cinque minuti. Gli altri sono già là.»
   «Okay, andiamo.» Andrea si alza e si avvia decisa, tenendomi saldamente per una mano e trascinandomi con sé.
  Facciamo tutto il corridoio e poi saliamo le scale, oltrepassiamo una porta e sbuchiamo appena dietro le quinte. In tutto questo sono stato letteralmente portato per mano da Andrea, che mi ha posizionato in una quinta e fa per andarsene.
  La tradizione vuole che prima esca la band, che cominci a suonare la prima canzone (Relax, questa volta, è una specie di invito alla folla perché si lasci andare per un paio d’ore) e che poi entri io già pronto per iniziare la canzone appena in tempo. Questa volta però sono agitato, ho bisogno di sostegno morale. Lo so che non dovrei modificare le cose all’ultimo minuto, e di solito sono sempre io quello che rompe le scatole appena c’è qualcosa che va storto, ma oggi non riesco a ragionare.
   «Aspetta!» Riprendo la mano di Andrea e la riporto vicino a me, mentre gli altri prendono posizione e sentiamo la folla che inizia a urlare. Lei mi guarda allarmata e cerca di liberarsi dalla mia presa.
   «Devo andare! Gli altri sono entrati ora!»
  «Entriamo assieme», dico io bloccandola per la vita e impedendole di andare via. La bracco mentre al di là delle quinte la folla si calma leggermente, ma solo per poco.
   La bacio senza chiudere gli occhi, sento il suo profumo e il suo sapore. Le prime note di Relax iniziano e di nuovo il pubblico comincia a urlare. Andrea mi accarezza una guancia, e il mio cuore batte più forte. Quando ci separiamo sorride e mi guarda. «Ormai mi sa che ci siamo dentro insieme», dice rivolgendo lo sguardo al palco.
   Lancio un’occhiata oltre le quinte e annuisco, sorridendo, poi entriamo sul palco di corsa tenendoci per mano.





Fine

Mika non è a conoscenza di questa fanfiction, che è stata scritta per puro divertimento e non a scopo di lucro. Qualunque somiglianza con fatti realmente accaduti è puramente casuale. Persone e luoghi reali sono stati citati per dare verosimiglianza alla storia.



















c:
Ragazzi, non so che dire.
Cerco di farvi capire il mio punto di vista anche se sono un po' triste, un po' contenta e un po', appunto, senza parole: ho iniziato a scrivere questa fanfiction in Gennaio, ho iniziato a postarla a Maggio e adesso la sto finendo che siamo a Ottobre.
Ho iniziato ad ascoltare Mika per puro caso, sempre a Gennaio di quest'anno, veleggiando su you tube. Ho trovato il video di Big Girl... A questo punto una come me (ossia una pazza che ha sempre avuto complessi con la sua pancia panciosa) come poteva non innamorarsene? :3 Scoprendo pian piano le altre canzoni di Mika ho realizzato che è un artista di grande talento, e che oggi è raro trovarne uno così, soprattutto nel panorama della musica pop, dove i cantanti vanno e vengono con la velocità di una folata di vento.
Credo che nessuna delle sue canzoni sia scritta senza una motivazione. Tutte fanno riferimento ad una storia personale, ad una persona che ha conosciuto, ad un ragionamento che ha fatto, e questa fanfiction voleva solo riunirle tutte quante con un unico filo conduttore. Spero di essere riuscita a farlo, ma soprattutto spero che chi ha letto la storia abbia semplicemente staccato la spina per un po' da tutto ciò che lo preoccupava. Volevo che la mia fanfiction facesse un po' l'effetto delle canzoni di Mika che, come spiegato nel capitolo 23, anche se hanno un lato un po' oscuro, sono sempre allegre.
Credo che si tratti semplicemente di un modo di prendere la vita; è ovvio che ci saranno momenti difficili, ma dobbiamo andare avanti pensando che le cose si aggiusteranno, tenendoci strette le persone che amiamo e continuando a sorridere per i piccoli piaceri di tutti i giorni. Nulla dura in eterno, men che meno i momenti difficili! Penso che la musica di Mika abbia più o meno questa filosofia.
Mi sono persa di nuovo nel filosofeggiare, spero che mi perdonerete!
Ultimo, ma non meno importante, voglio ringraziare moltissimo le persone che mi hanno recensito, soprattutto MileyVero (allapulla per sempre!), ItsJulyPennimanLife In Cartoon Motion, che hanno recensito costantemente, sfidando i loro impegni quotidiani e pc che non volevano collaborare! Grazie mille anche a chi ha solo letto, e a chi ha messo la storia fra le seguite/preferite/ricordate, sappiate che mi ha fatto molto piacere vedere il numero di adepti che ogni tanto aumentava!
Bene, dopo avervi tediati con questa pappardella finale vi lascio andare, ma ricordate che we are golden!
Patrizia

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