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«No, no, no, Max, no! Così
non va! Insomma mettici un po' più d'impegno, cristo santo!» sbottai, gettando
le bacchette a terra.
Erano ore che provavamo e Max
non riusciva a concentrarsi. Andava fuori tempo e non era in grado di
accordarsi con noi altri musicisti.
Sospirai.
Essendo l'unica ragazza del
gruppo, ero una sorta di mascotte di quei pazzi dei miei compagni.
L'incredibile di tutta quella faccenda era il fatto che tutti i componenti di
quella strampalata band erano musicisti famosi che avevano fatto parte di altri
complessi e che ora si erano riuniti per partecipare ad uno strano concorso.
E voi vi starete chiedendo
cosa ci facessi io in mezzo a tutte queste svampite celebrità.
Ebbene, sembrerà strano, ma
gli mancava un batterista e fecero dei provini per trovarne uno. Potevo
perdermi l'opportunità di lavorare con dei musicisti per me mitici?
Assolutamente no, ed ecco che
ora, a distanza di sei mesi dal nostro incontro, dopo aver vinto il concorso
con il nome di 'Faithless', ci ritrovavamo a preparare i pezzi per il nostro
primo album.
Chi erano, dunque, i miei
compagni d'avventura?
Alla voce si alternavano Max
Cavalera, leader di gruppi come Sepultura e Soulfly, e Serj Tankian, storico
vocalist dei System Of A Down, il quale si occupava talvolta anche delle
tastiere, nonostante il tastierista non ci mancasse. Disponevamo infatti di
Janne, ex Children Of Bodom. La chitarra solista era in mano a Matthew Tuck,
una volta cantante principale dei Bullet For My Valentine, che ora interveniva
qualche volta come corista. La chitarra d'accompagnamento spettava a Joey
Jordison, una volta batterista degli SlipKnoT e chitarrista dei Murderdolls.
Infine, come bassista, una persona che mai vi aspettereste, ovvero Caparezza.
Cosa ci faceva lui a suonare
il basso in una band metal? Be', che importanza aveva? Insieme ci si divertiva
ed era questo il fattore fondamentale.
Tra l'altro Michele era bravo
con il suo insolito strumento, perciò era tutto okay.
«Che ho fatto stavolta?»
ribatté il cantante brasiliano, guardandomi storto.
«Non ti stai concentrando
abbastanza Max, e lo sai anche tu» risposi, inchinandomi a raccogliere le
bacchette.
«Ehi drummer, non essere
troppo severa con lui, sono ore che proviamo. Siamo tutti stanchi» intervenne
Janne, rivolgendomi uno sguardo ammiccante.
«Meno male che ci sei tu a
difendermi, altrimenti dovrei subire la furia di questa vipera anche oggi.»
«Cosa vorresti insinuare,
Cavalera?» lo ammonii, incenerendolo con lo sguardo.
«Siete sempre i soliti
bambini» sentenziò Serj, bonario. «Credo che per oggi sia meglio finirla qui»
aggiunse poi, andando a sedersi in un angolo della saletta.
«Uomo saggio lui, mi fanno
male le dita a forza di suonare questo fottuto basso.»
«Mick ha ragione! Gli
strumenti a corda sono tremendi» concordò Joey, cominciando a sistemare la sua
chitarra.
L'unico che non si espresse
fu Matt e io temevo di conoscere il motivo di quel suo silenzio.
*Flashback*
«Matthew, non ti innamorare
di me, non conviene» gli consigliai guardandolo.
«Spiacente, temo sia troppo tardi»
rispose, per poi baciarmi con passione.
Subito, lo allontanai da me e
me ne andai, lasciandolo lì.
*Flashback's end*
Sospirai. Era passato un mese
ormai da quell'avvenimento, nel quale lui non aveva fatto altro che ignorarmi.
D'altronde, non poteva obbligarmi ad amarlo, poiché io non ero in grado di
amare nessuno e mai lo sarei stata. Volevo bene ad ognuno di loro, ma per me
tutti quanti rappresentavano degli amici, dei compagni d'avventura, dei
fratelli. Facevano le veci di quella famiglia che non avevo mai propriamente
avuto. Non ero in grado di innamorarmi e perciò non potevo illudere nessuno di
possedere quella capacità.
Matt mi amava, ma prima o poi
mi avrebbe dimenticato, se ne sarebbe fatto una ragione.
Con questi pensieri, mi andai
a sedere accanto a Serj, che per me era come un padre, e osservai di sfuggita
le silenziose mosse dell'ex Bullet.
«Ragazzi, cosa ne dite di
venire tutti a casa mia oggi? Facciamo un po' di casino!» propose Joey.
«Ehi nano, sai che hai avuto
una buona idea?» intervenne per la prima volta Matt, chiudendo la custodia
della sua chitarra. «Ne ho proprio bisogno. Sei fornito di birre?»
«Ovvio. Voi che ne dite?»
chiese l'altro chitarrista, rivolgendosi al resto del gruppo.
«Dal momento che avete
intenzione di ridurvi a merda stasera, dev'esserci
qualcuno che badi alla vostra incolumità, perciò verrò» accettò il cantante
armeno.
«Concordo con Serj. Noi due dobbiamo controllare che non vi ammazziate»
dichiarai, sorridendo.
Max rifiutò perché aveva un
concerto con i CavaleraConspiracy,
gruppo fondato con suo fratello in seguito alla loro riappacificazione, mentre Janne accettò di buon grado e Michele si unì all'allegra combricola, dicendo: «Vengo anch'io, ma faccio compagnia
agli astemi.»
Così, divisi in due macchine,
raggiungemmo casa Jordison. Per quanto riguardava il
nostro nanetto, mi ero sempre chiesta come mai non fosse stato lui il
batterista dei Faithless, e mi ero ripromessa di
chiederglielo, prima o poi.
La casa di Joey era enorme, contornata da un giardino che amava curare
personalmente e, all'interno, arredata in modo bizzarro, con tanto di croci
celtiche ovunque, pareti completamente dipinte di nero, ricoperte di graffiti e
disegni fatti da lui. Inoltre, i mobili erano piuttosto antichi, risalenti
probabilmente all'Ottocento. Adoravo andare da lui, poiché mi trovavo a mio
agio. Nonostante vivesse da solo, la casa era pulitissima, in quanto disponeva
di una servitù eccellente e, soprattutto, ben pagata. Insomma, al nano i soldi
non mancavano, ma di certo non lo si poteva definire tirchio, anzi; condividere
le sue ricchezze con le persone che amava lo rendeva felice. Il nostro
chitarrista era davvero una persona d'oro, a cui, personalmente, volevo un bene
immenso, come del resto ne volevo a tutti gli altri ragazzi.
Ormai, loro erano la mia
vita.
La serata procedette come
previsto: Matt, Janne e Joey
si presero una sbronza colossale, mentre io, Serj e
Michele li prendevamo in giro ridendo come dei matti.
Come al solito, a noi astemi
toccò il compito di mettere a letto i nostri amici che Joey
aveva pensato bene di sistemare a casa sua, poiché non erano in grado di tornare
nelle loro.
Dopodiché, Michele ci chiese:
«Dev'essere difficile per voi metterli a letto quando
io non ci sono, vero?»
«Sì, esatto Capa. Il lavoro pesante tocca sempre a noi due» risposi,
mentre mi preparavo per andarmene.
«Ti ammazzo» dichiarò, per
poi intrappolarmi in un abbraccio e farmi il solletico.
Cominciai a dimenarmi,
ridendo a crepapelle. «Scusami Mick... Non... Non volevo chiamarti in quel
modo...» riuscii a dire, mentre non accennava a fermarsi.
«Sai cosa devi fare per farti
perdonare, vero?» mi sussurrò all'orecchio.
Serj ci guardava allibito dall'altra parte della
stanza, mentre si occupava di buttare le bottiglie di birra vuote.
Mi voltai a guardare il
bassista negli occhi e lo strinsi forte a me. «Uff...
Sai che odio doverlo dire... Ma... Mick, ti voglio... Ti voglio bene»
sussurrai.
Ricambiò il mio abbraccio e
disse: «Piccola, lo faccio per te. Esprimere i tuoi sentimenti ti serve, e
arriverà il giorno in cui riuscirai a farlo spontaneamente. Comunque anche io
te ne voglio tanto» confessò, prima di sciogliere l'abbraccio.
«Lo so Mick e so che lo fai
per il mio bene. Grazie» dissi, riconoscente.
Dopodiché, raggiunsi il mio
mitico cantante e lo abbracciai felice.
«Che c'è?» chiese,
sorridendomi.
«Niente, non posso
abbracciare il mio paparino?»
«Tu sei pazza figliola»
scherzò.
Così, tutti e tre insieme,
lasciammo casa Jordison e prendemmo posto in macchina
di Michele.
«Mi accompagni da Eve?» chiese Serj, e Michele
annuì.
Una volta accompagnato il
nostro cantante, si avviò verso casa mia.
«Quanto vorrei stare sempre
con voi» dissi e sospirai.
«Coraggio» mi incitò il
bassista.
«Non voglio andare Mick»
dissi, inchiodandomi al sedile.
Il mio amico spense il
motore.
«Voglio... Stare con te»
aggiunsi, chiudendo gli occhi per evitare che le lacrime mi inondassero il
viso.
«Liz.»
«Michele, non mi lasciare
qui» lo pregai, guardandolo in faccia con l'angoscia che mi invadeva fino alle
viscere.
«Liz...
Ti va di parlarne? Se non mi dici cosa ti turba non ti posso aiutare. Non ti
voglio vedere così.»
«Non voglio più vivere con
mio padre Mick. Lui...» Mi interruppi, stringendo i pugni.
«Lui?» mi incitò.
«Mi odia perché pensa che la
mamma sia morta per colpa mia» spiegai, scoppiando a piangere.
Il mio amico scese dalla
macchina e mi raggiunse dall'altro lato, per poi stringermi al petto.
«Liz,
shhh, tranquilla, sono qui. Senti, per stanotte
starai con me, poi domani ne parliamo. Va bene?»
«Grazie. Io... Mick?»
«Dimmi tesoro.»
«Ti adoro» sussurrai,
cercando di calmarmi.
Rimase per un attimo in
silenzio, poi rispose: «Anche io, dannazione, anche io.» Il suo tono, così come
il suo abbraccio, erano colmi di disperazione e preoccupazione.
Tornò al posto di guida,
mentre mi asciugavo le lacrime e tentavo di rilassarmi. Fece ripartire l'auto e
guidò in silenzio.
Nel tragitto, pensai a quello
che gli avevo detto poco prima e rimasi allibita di me stessa. Mi aveva detto
che sarebbe arrivato quel giorno in cui sarei riuscita ad esprimere i miei
sentimenti ed ecco che era giunto prima di quanto realmente entrambi potessimo
credere. In quel momento mi ero sentita di pronunciare quelle parole poiché mi
provenivano dal profondo dell'anima e significavano tutta la gratitudine che
provavo nei suoi confronti. Era un angelo e mi faceva sentire come se, con lui,
fossi in grado di superare qualunque ostacolo con determinazione e sicurezza.
Riusciva a farmi comprendere che dovevo credere in me stessa e nelle mie
capacità e che solo così avrei potuto affrontare al meglio la mia vita.
Come avrei fatto senza lui?
Non fui minimamente in grado di immaginarlo.
Una volta giunti a casa sua,
mi fece strada in quella che sarebbe stata la mia stanza.
«Tu dove dormirai?» domandai,
abbandonandomi sul letto ad una piazza e mezzo che stava al centro
dell'ambiente.
«Nella camera a destra della
tua» mi informò. «Se hai bisogno vieni pure a chiamarmi, va bene?» aggiunse,
dirigendosi verso la porta.
«Va bene Mick. Grazie ancora»
sussurrai.
«Figurati principessa. Dolci
sogni» concluse, chiudendosi la porta alle spalle.
Mi sfilai le scarpe e
scivolai sotto le coperte. Circondata dal buio e dal silenzio, tornai indietro
nel tempo con la mente, fino a ricordare il giorno in cui avevo letto
l'annuncio.
*Flashback*
«Faithless:
gruppo musicale cerca batterista. Componenti: Max Cavalera
(voce); SerjTankian (voce
e piano); Matthew Tuck (chitarra solista e voce
corale); JoeyJordison
(chitarra); JanneWirman
(tastiere) e Caparezza (basso)» lessi tutto d'un fiato sulla bacheca,
all'ingresso dell'Hard Rock Cafe a Londra.
Scoppiai a ridere. Cosa ci
faceva Capa a suonare il basso in un gruppo del
genere? E soprattutto, come potevano certi svalvolati
riunirsi in un'unica band?
L'annuncio inoltre diceva che
il batterista era urgente poiché un mese dopo il gruppo avrebbe partecipato ad
un contest, grazie alla vincita del quale avrebbe avuto la possibilità di
incidere un disco ed evolvere il ricavato in beneficenza.
Subito mi annotai il numero a
cui rivolgermi e decisi di provare a cambiare la mia vita, immergendomi in
qualcosa che non avrebbe fatto altro che distrarmi dalla solita mediocrità.
*Flashback's end*
Prima di conoscere
personalmente i ragazzi, non avevo minimamente pensato di poter instaurare un
rapporto profondo e particolare con ognuno di loro, e soprattutto avevo
scoperto un lato estremamente dolce del mio cantante italiano preferito.
Michele era tenero,
affettuoso e sempre pronto a regalarmi un sorriso; ottimista e sempre pieno di
idee per rendere le mie giornate migliori. Ed io ero felice di averlo
conosciuto.
«Sì, sì... Va bene ma, dove?»
Mentre, la mattina seguente,
mi dirigevo in bagno, sentii Michele pronunciare queste parole, probabilmente
al telefono; così, spinta dalla curiosità, mi fermai poco prima della sua
camera ad ascoltare.
«Milano? Oh, e me lo chiedi?
Ovvio. Ah va bene, allora richiamami per ulteriori dettagli. Grazie, ciao»
concluse.
Chissà cosa gli avevano
appena detto. Cercando di contenere la voglia di saperne di più, raggiunsi la
mia meta e mi preparai per la colazione.
Non appena uscii dal bagno,
me lo ritrovai davanti con un enorme sorriso stampato in faccia. «Buongiorno,
principessa! Dormito bene?» domandò, stampandomi un bacio sulla guancia.
Quant'era carino, diamine!
«Buongiorno a te! Benissimo,
grazie. Tu?»
«Idem. Hai fame?»
«Abbastanza» ammisi,
sorridendo. «Andiamo a mangiare, su! Ho una notizia bomba da darti» mi informò,
dirigendosi in cucina con me al seguito.
Mi accomodai su una sedia e
lo guardai mentre preparava il caffè. Mi alzai nuovamente e mi misi a settaciare i mobili, in cerca di qualcosa che riempisse il
buco che avevo nello stomaco e trovai un pacco di biscotti al cioccolato.
«Spero non te la prenda dato
che mi sono permessa di frugare così sfacciatamente, ma...»
«Hai fatto bene. Devi
sentirti come a casa tua» mi interruppe, accendendo il fornello.
Nel frattempo, aprii la
confezione di biscotti e cominciai a sgranocchiarne uno. «Allora, questa
notizia?» mi lasciai sfuggire, non resistendo più.
«Giusto! Io e te andremo a
Milano questo fine settimana!»
«Cosa?» gridai, saltando
dalla sedia.
«Hai capito bene! Ho un
concerto in piazza Duomo sabato, quindi dopodomani devo partire e tu verrai con
me. Non è fantastico?»
«Cioè... Io e te... A
Milano... Da soli?» chiesi, titubante.
«Esattamente!»
«Mick ma è... Meraviglioso!
Grazie, grazie, grazie» esultai, correndo ad abbracciarlo.
«Speravo che fossi d'accordo»
sussurrò, mentre mi stringeva. «Ci tengo tanto ad andarci con te» concluse, con
dolcezza.
E, com'era prevedibile, Matt
andò fuori di testa per quella notizia.
«Non potete andare a Milano!
Come faremo senza bassista e senza batterista?» sbottò il pomeriggio successivo
in saletta. Il suo modo di ingelosirsi tirando in ballo i Faithless
mi irritava parecchio.
«Sopravviverai
Matthew» ribattei, gelida.
Mi rivolse uno sguardo colmo
d'ira e se ne andò sbattendo la porta.
«Vado da lui» dichiarò
Michele.
«Fermo, ci penso io»
dichiarai, alzandomi e lasciando la stanza. Uscii sul terrazzo adiacente, dove
sapevo che avrei trovato il chitarrista a fumare una sigaretta e infatti non mi
sbagliavo. «Matt... Insomma... Che ti prende?» gli chiesi, appoggiandomi alla
ringhiera accanto a lui.
«Non lo so» si limitò a
rispondere. «Da un lato sono contento che tu parta, così potrò cercare di
togliermi il tuo pensiero dalla mente. Dall'altro lato però... Tu e Mick... Da
soli... Mi manda in bestia pensare che...» si interruppe, per aspirare una
boccata di fumo.
«Matt... Sei così dolce...
Vorrei davvero che te ne facessi una ragione, che mi dimenticassi. Spero tanto
che questi giorni in cui staremo lontani ti saranno utili» dissi, avvicinandomi
e sistemandogli un ciuffo ribelle che il vento aveva scompigliato. «Perdonami
se puoi» aggiunsi, stringendogli una mano.
«Piccola» sussurrò, per poi
abbracciarmi forte. «Matt, sei importante per me, anche se...»
«Shh,
questo mi basta» mi interruppe, giocherellando con qualche ciocca dei miei
capelli. «Divertiti a Milano» mi augurò, staccandosi da me.
«Ti porterò un regalo,
promesso.»
«Non ce n'è bisogno, il
regalo più bello che possa ricevere è che tu torni sana e salva» ammise.
«Sono sicura che Mick non
permetterà che mi succeda qualcosa di male» constatai, sorridendogli.
«Lo so anch'io. Dai, torniamo
dentro» ordinò, offrendomi la mano.
La accettai volentieri,
contenta di aver chiarito le cose con il mio chitarrista preferito. Ora, sarei
partita più tranquilla, a Milano.
«C'eri mai stata?» si informò
Michele mentre sistemavamo i bagagli nella nostra camera d'albergo. Il mio
bassista aveva ben pensato di prenotare un mini appartamento con due camere da
letto, rispettivi bagni e un piccolo soggiorno.
«Mai. Sembra una bella città»
osservai, guardando fuori dalla grande finestra della mia stanza.
«Lo è. Io ho suonato tante
volte qui. Comunque spero che con i Faithless si
riesca a fare un tour, così conoscerai tante altre città bellissime. Mi
piacerebbe portarti a fare il giro del mondo, sai?»
Rimasi immobile ad assimilare
quelle parole che raggiunsero dritte il centro del mio petto. «Mick, grazie.
Io... Non so cosa dire» sussurrai, sentendomi avvampare.
«Non dire niente,
principessa. Piuttosto preparati, si va a provare. E' da un sacco di tempo che
non canto i miei pezzi» disse, per poi sparire in camera sua.
Entrai in bagno a darmi una
rinfrescata e ripensai a quelle parole così dolci e profonde, che mi avevano
scosso l'anima. In ogni gesto che mi rivolgeva, Michele dimostrava di tenere
moltissimo a me. Con quei pensieri, andai a sedermi nel divano della saletta
che avevamo in comune e lo attesi.
Quando uscì, era ancora a
petto nudo e io rimasi impalata a fissarlo.
«Scusa Liz...
Pensavo che fossi ancora di là, io...» provò a giustificarsi, infilandosi
frettolosamente la t-shirt.
Abbassai lo sguardo in netto
imbarazzo, scuotendo il capo come a voler sminuire il suo gesto. In realtà
quello che avevo visto mi aveva mandato il viso in fiamme e aveva fatto sì che
il mio cuore accelerasse i suoi battiti.
«Forse è meglio se andiamo,
altrimenti rischi di far tardi alle prove» consigliai, alzandomi, evitando di
guardarlo negli occhi.
Senza ribattere, prese le
chiavi e mi seguì fuori dalla stanza. «C'è un taxi che ci aspetta di sotto» mi
informò, mentre prendevamo l'ascensore.
«Hai pensato proprio a tutto,
eh Mick?» scherzai, per sdrammatizzare e sciogliere la tensione.
Si mise a ridere e anch'io mi
rilassai.
«Oddio!» gridai, mentre mi
aggiravo per il backstage con il mio amico.
«Che ti prende?» chiese,
preoccupato.
«Quello... Quello è...
Oddio!» esclamai ancora, euforica.
«Liz!
Stai calma e dimmi che ti prende!»
Ero incapace di parlare, così
volsi lo sguardo al punto che aveva attirato la mia attenzione poco prima e lui
lo seguì, per poi scoppiare a ridere.
«Babaman?»
chiese, con tono ironico.
«Sì! E' un mito, lo adoro!»
dichiarai.
«Andiamo, te lo presento!»
«Cosa? No! Mi vergogno e
poi...»
«Zitta! Vieni con me» ordinò,
trascinandomi per mano.
Cercai di divincolarmi, ma
ormai era troppo tardi.
«Ehi, Massimo! Ti ho portato
una fan che fremeva dalla voglia di conoscerti» esordì, rivolgendosi a Babaman.
Mi sentii avvampare,
imprecando mentalmente contro Michele e sperando che, da un momento all'altro,
si aprisse una profonda voragine che mi trascinasse giù, dandomi la possibilità
di nascondermi.
«Michele? Ciao vecchio
bastardo!» fece quello, travolgendolo con un abbraccio.
Non avrei mai detto che lui
fosse così affettuoso.
«E lei chi è?» chiese poi,
indicandomi.
Emozionata, gli rivolsi un
timido sorriso e mi presentai: «Piacere, sono Liz.»
«E' la batterista del mio
gruppo, quello di cui ti parlavo» aggiunse Michele.
«Capisco. Piacere mio,
bellezza. E così sei una mia fan?» domandò, facendomi ridere.
«Più che fan, direi che ti
stimo parecchio» precisai.
«Allora che ne dite di venire
a sentirmi mentre provo?» ci propose.
«E ce lo chiedi? Mick è
d'accordo! Vero, Mick?» accettai, pregandolo con lo sguardo.
«Certo. Andiamo.»
E fu così che assistetti alla
performance del mio mito italiano del reggae, cantando come una matta ogni
singola canzone, mentre il mio bassista mi guardava divertito.
In seguito, fu Michele a
dover provare e Massimo si offrì di farmi compagnia. Ridemmo come due matti
quando Caparezza sbagliava qualche parola.
«Grazie rastaman,
mi ha fatto piacere conoscerti. Ci si vede domani per il concerto, vero?»
dissi, stringendogli la mano.
«Certamente. Grazie a te, Liz. Mi sono divertito a prendere per culo questo vecchio
coglione» dichiarò, ridendo.
«Vacci piano» concluse
Michele, salutandolo a sua volta.
Sorrisi e lo seguii
all'esterno, dove un taxi era già in nostra attesa.
Una volta tornati in albergo,
andammo a cena e subito dopo fuggimmo in camera, sfiniti.
«Mick, vieni?» chiesi, sulla
soglia della mia stanza.
Mi seguì e gli feci cenno di
sedersi sul letto.
«Sono sfinita» mi lamentai,
gettandomi sul materasso dopo aver scalciato via i sandali. Posai la testa sul
cuscino e chiusi gli occhi.
«Se hai sonno ti lascio
dormire» sussurrò Michele.
«No. Stai pure, sempre se ti
va.»
«Va bene, rimango un po'.»
Senza aggiungere altro, mi si avvicinò e prese ad accarezzarmi il viso e i
capelli.
Mi rilassai completamente
sotto quel tocco paradisiaco.
Rimase in silenzio a
coccolarmi per chissà quanto tempo finché, ormai quasi completamente
addormentata, non avvertii le sue labbra baciarmi delicatamente la fronte.
«Buonanotte, principessa»
mormorò, per poi andarsene.
Quando riaprii gli occhi, era
mattina.
I raggi del sole filtravano
attraverso le pesanti tende e io faticai a rendermi conto del luogo in cui mi
trovavo, ma poi ricordai. Mi alzai con calma, andando a scostare il tendone: se
a Milano c'era il sole, significava che la fortuna era proprio dalla mia parte.
Mi ero svegliata di buonumore e sperai che durasse a lungo quella sensazione di
benessere interiore.
Talmente ero euforica, che mi
precipitai fuori dalla mia stanza e irruppi in quella di Michele, senza nemmeno
bussare, per poi saltargli sul letto e svegliarlo con un urlo di gioia.
Mi guardò stralunato e
sbadigliò.
«Buongiorno, Capa!» dissi, saltandogli sopra.
«Ahi, ferma! Mi fai male!»
Lo ignorai e continuai ad
esultare.
Poco dopo, mi immobilizzò e
prese a farmi il solletico. «Come mi hai chiamato?» chiese, mentre mi
contorcevo dalle risate.
All'inizio provai a
resistere, poi mi arresi. «Basta, Mick, ti prego!» lo implorai e lui obbedì.
In seguito a tutto quel
trambusto, lui era finito sopra di me e ora mi guardava dritto negli occhi.
«Ti voglio bene, Mick.
Perdonami. E' che sono felice» ammisi.
«Anche io, principessa»
sussurrò e mi strinse forte a sé.
La giornata procedette
tranquilla, fra una risata e l'altra, finché non arrivò il momento di andare al
concerto. Dal canto mio, indossai un paio di jeans, una maglietta e le snikers.
Anche Michele era vestito
come me, in modo molto semplice. Dal momento che doveva tornare a cantare le
sue canzoni, aveva ripreso il suo solito look da 'cespuglio', come lo chiamavo
io ogni volta che lasciava i capelli sciolti e ricci.
Non appena arrivammo,
incontrammo il nostro amico rastaman, che era intento
a fumare.
«Ehi, bellezza!» mi salutò.
Non appena ebbe finito di rovinarsi i polmoni, si avvicinò a me e mi diede un
forte abbraccio che portò con sé un aroma non indifferente che cercai di
ignorare, mentre ricambiavo debolmente.
«Mi... Stai...
Stritolando...» riuscii a farfugliare, intrappolata nella morsa d'acciaio che
erano le sue braccia.
«Ohi, non ammazzarmi la
batterista» lo ammonì Michele.
Massimo mi lasciò andare,
ridendo.
«Suoneranno anche i Linea 77»
ci informò ad un certo punto il cantante milanese, mentre ci aggiravamo per il
backstage.
«Davvero? Questo significa
che... Rivedrò Nico!» gridai, saltando dalla gioia. In seguito agli sguardi
shockati dei miei due accompagnatori, spiegai che avevo assistito a molte
performance dei Linea e che ogni volta facevo di tutto per incontrarli, e loro
ormai mi conoscevano, tanto che ero diventata la peste di Nicola.
«Vado a cercarli, ragazzi.
Okay?» dichiarai, loro annuirono.
«Però attenta a non perderti»
sussurrò Michele, lasciandomi una carezza sulla guancia.
Subito, mi voltai e partii
alla ricerca del cantante dei Linea 77, sentendomi in imbarazzo per le
attenzioni che il riccio mi rivolgeva.
Dopo circa dieci minuti di
giri a vuoto, trovai Nicola intento a parlare con un ragazzo dello staff. Non
appena quello si allontanò, mi feci avanti senza dire niente, finché il suo
sguardo non si posò sulla mia figura.
«Peste? Tu qui?» chiese
stupito, avvicinandosi.
«Nico!» esclamai,
abbracciandolo.
«Sei sempre più pazza»
osservò, ridendo e ricambiando la stretta.
«Lo so» conclusi.
«Con chi sei venuta?»
«Con Caparezza.»
Mi guardò stupito e così gli
raccontai tutta la storia dei Faithless.
«Incredibile! E così ora
suoni con quei matti? Dio, sono dei miti! Hai avuto un culo pazzesco,
lasciatelo dire!» esclamò, mentre insieme andavamo a cercare Michele e Massimo.
«Ne sono consapevole»
concordai, ridendo.
Poi, avvistai il mio amico
'cespuglio'. «Eccolo! Be', Nico, in bocca al lupo per il concerto. Ora torno
dal mio bassista, ci becchiamo più tardi semmai, okay?»
«Certo! Ciao Liz, divertiti» mi augurò, per poi tornare indietro.
Raggiunsi il mio amico e lo
abbracciai da dietro, facendolo spaventare.
«Già di ritorno, principessa?»
chiese, voltandosi a guardarmi.
Prima di rispondere notai che
Massimo era sparito. «Eh, sai, mi mancavi troppo» scherzai poi, mollandogli un
pugno sul braccio.
«Scema. Dai, andiamo, devo
fare il soundcheck» mi informò, facendomi strada
verso il palco.
Rimasi ad osservarlo,
cantando tutte le canzoni che provava. Poco dopo iniziarono le esibizioni vere
e proprie: per primi si esibirono i Linea, e io rimasi affascinata dalla
possibilità che ebbi di sentirli suonare dal backstage. Poi venne il turno di
un gruppo poco conosciuto proveniente dalla Sicilia, che personalmente
apprezzai molto, poiché proposero delle cover degli IronMaiden.
«Caparezza, tocca a te! In
scena tra cinque minuti» gridò un tizio dello staff.
«Okay, grazie!» rispose, per
poi avvicinarsi a me e stringermi le mani tra le sue. Intanto, i suoi musicisti
cominciarono ad entrare in scena, e Diego, prima di sparire oltre il tendone
nero che divideva il palco dal backstage, lanciò uno sguardo malizioso al
nostro gesto affettivo.
Michele lo ignorò. «Liz» disse, guardandomi dritto negli occhi. «Andrò a
cantare su quel dannato palco per te.»
Lo abbracciai forte. «Fagli vedere chi sei, Mick. E grazie, sei così dolce»
mormorai, trattenendo a stento le lacrime di commozione.
Un istante dopo, si precipitò
sul palco scatenando un boato infernale tra la folla. Cantò i suoi più grandi
successi, e io con lui gridai ogni singola parola, come se fossi lì al suo
fianco. Ad un certo punto, Nicola mi raggiunse e rimase a farmi compagnia.
«Ed ora... Vorrei dedicare
questa canzone ad una persona speciale. Lei si chiama Liz
e sa che le voglio un bene immenso» esordì Michele dal palco, spiazzandomi.
«Principessa, so che mi
senti. Vorrei dirti che, be', questo pezzo non è il massimo
in quanto a dolcezza e romanticismo, ma so che ti piace molto e... Te la
dedico. 'Ulisse', tutta per te» concluse.
Il pubblico si scatenò in un
grido d'approvazione, mentre io spalancavo occhi e bocca per la sorpresa. Non
appena cominciò a cantare, scoppiai a piangere.
Nicola, al mio fianco,
sorrise e mi circondò le spalle con un braccio, dicendo: «Questo dovrebbe farti
riflettere, peste.»
Non risposi, decidendo di
concentrarmi sulla voce del mio bassista, e rimandare l'analisi delle parole
del cantante dei Linea a più tardi. Chiusi gli occhi e mi isolai dal resto del
mondo, come se fossi sola con Michele.
Mi riscossi soltanto quando
la canzone terminò e lui scese dal palco, ringraziando il pubblico.
Emozionata come non mai, gli
corsi incontro e lo travolsi, stringendolo forte a me.
«Tu sei pazzo... Sei
completamente fuori di testa! Io... Mi hai fatto anche piangere, cretino!»
dissi, mentre nuove lacrime abbandonavano i miei occhi.
«Principessa... Piaciuta la
dedica?» chiese, restituendomi l'abbraccio.
«E me lo chiedi? Sei... Un
idiota... Ah, al diavolo! Ti adoro, Mick, grazie, grazie, grazie, sono così
felice!» esultai ancora, per poi staccarmi da lui e guardarlo negli occhi.
«Sono contento che ti sia
piaciuta, Liz» sussurrò, accarezzandomi una guancia.
«Ora ti va di vedere come se la cava il nostro rastaman
su quel palco?» domandò, scompigliandomi i capelli.
Proprio in quel momento, Babaman ci raggiunse. «Bellezza, e se te la dedicassi
anch'io una canzone? Qual è la tua preferita?»
Nicola e Michele risero.
«La mia preferita? Mi piace
molto 'Il Giorno Che Vedrai', ma forse la più bella in assoluto è 'Fyah'» risposi.
«Sei fortunata, 'Fyah' è in scaletta. Okay... Te la dedico! Vado... A dopo!»
«In bocca al lupo, Baba!» gridai. «Crepi» concluse,
salendo sul palco. Anche lui ricevette un discreto calore e apprezzamento da
parte del pubblico, mentre si esibiva.
Dal canto mio, attesi con
ansia che cantasse 'Fyah', per scoprire che tipo di
dedica aveva in mente, mentre ridevo con Michele e Nicola del suo grande amore
per il culto verde.
«La tua dedica è stata
bellissima, Baba!» dissi, ridendo, mentre io e
Michele aspettavamo il taxi per andarcene. Ormai erano le tre del mattino e,
dopo aver fatto baldoria in seguito al concerto, eravamo tutti sfiniti.
«Il fyah
è caliente come te, baby» disse il rasta,
vaneggiando. Chissà quante canne si era fatto, povero diavolo.
Dal canto mio, non riuscivo a
smettere di ridere. Nonostante tutto, era davvero simpatico e divertente il
nostro strampalato amico cannaiolo.
«Siamo fottuti» intervenne
Michele, per poi comunicarmi che era arrivato il taxi.
«Ragazzi, pensateci voi a
lui» pregai, rivolgendomi agli altri artisti che ancora erano accampati nel
backstage.
«Tranquilla, bellezza, starò
bene. Grazie per la preoccupazione» fece il rastaman,
con un sorriso ebete.
Scoppiai nuovamente a ridere
e, dopo aver salutato tutti, seguii Michele all'esterno.
«E' stato pazzesco! Non so
come ringraziarti» commentai, dopo essermi seduta sul divanetto della saletta
comune, nella nostra camera d'albergo.
«Non devi farlo infatti. Per
me è stato un immenso piacere» ribatté, accomodandosi al mio fianco. Si
accoccolò con la testa sulla mia spalla, sbadigliando. «Non devo essere tanto
profumato» osservò.
«Non è vero, e poi non mi
importa» sussurrai, sciogliendo nuovamente i capelli che aveva legato poco
prima. «Mi piacciono di più così» spiegai, affondando le dita tra la sua folta
chioma. Presi a giocherellare con le sue ciocche, mentre canticchiavo la
canzone che mi aveva dedicato quella sera. Non riuscivo a descrivere il mix di
sensazioni che mi invadeva l'anima, sapevo soltanto di tenere immensamente a
quel ragazzo che sapeva sempre come sorprendermi, dimostrandomi che anche per
lui io ero importante. Avrebbe potuto farsi accompagnare da chiunque a Milano,
o addirittura andarci da solo, eppure aveva scelto me. Il motivo vero e proprio
non lo conoscevo, ma comunque non potevo fare a meno di sentirmi estremamente
felice e fortunata ad avere avuto la possibilità di viaggiare a Milano con lui.
Su cosa avrebbe dovuto farmi
riflettere la dedica di Michele?
Fu con questa domanda che mi
risvegliai la mattina seguente. Ero ancora sul divanetto, con Michele che mi
dormiva sulla spalla. Mentre ripensavo alle parole di Nicola, lo osservai: il
suo viso era disteso, sereno, quasi angelico; i capelli erano arruffati e
disordinati, mentre sulle labbra era dipinto un leggero sorriso.
«Quanto sei bello» mi
ritrovai a bisbigliare, per poi stupirmi di me stessa. Cosa andavo a pensare?
Cercando di non svegliarlo,
mi alzai ma, non appena mossi un passo verso camera mia, lo sentii sbadigliare.
«Liz?
Oh, no! Non dirmi che ho dormito sulla tua spalla tutta la notte» farfugliò.
Mi voltai a guardarlo e lo
trovai a stiracchiarsi, mentre mi rivolgeva uno sguardo colpevole. «Proprio
così. Non ti preoccupare, è solo un po' atrofizzata ma non ha importanza»
dissi, con un sorriso.
Si alzò e venne ad
abbracciarmi. «Comunque, buongiorno, principessa mia» sussurrò, baciandomi una
guancia.
«Buongiorno a te, tesoro.»
Tesoro? E da quando io chiamavo qualcuno in quel modo? Rimasi sbigottita da me
stessa per la seconda volta nel giro di pochi minuti, mentre Michele scioglieva
l'abbraccio.
«Sapevo che sarebbe arrivato
il momento in cui saresti stata in grado di liberare le tue emozioni, ma non
pensavo giungesse così presto» constatò, guardandomi negli occhi.
«Questo è accaduto solo
grazie a te. Da sola non ce l'avrei mai fatta. Te ne sono immensamente grata»
spiegai, prendendogli una mano e premendola all'altezza del mio cuore. «Senti
come batte forte? Be', le emozioni che mi hai fatto provare in questi giorni
l'hanno fatto rivivere, l'hanno fatto pulsare come mai prima d'ora. Perché lo
fai, Mick? Chi te lo fa fare?» domandai, facendo ricadere le braccia lungo i
fianchi.
Stavolta fu lui a premere la
mia mano sul suo petto. «Perché questo batte così forte quando ti ho vicino che
nemmeno io so spiegarmi come mai» confessò, abbassando lo sguardo.
Rimasi senza parole.
«Sei così... Mick, io...»
provai a dire, senza trovare le parole adatte ad esprimere tutto ciò che
sentivo. Mi trovai a pensare a quanto desiderassi che rimanesse al mio fianco
per ora e per sempre, che non smettesse mai di abbracciarmi e di comportarsi
come se fossi il gioiello più prezioso di questo mondo. Avrei potuto
confessargli tutto ciò, ma ovviamente non mi sembrava proprio il caso, soprattutto
perché ancora non ero in grado di esternare delle emozioni così intime.
«Non c'è bisogno che dici
niente, Liz» disse dolcemente. «Forza! Ora andiamo a
fare colazione e poi ci prepariamo per andare a prendere l'aereo, che parte
alle tre del pomeriggio. D'accordo?» chiese.
Annuii e mi chiusi in camera.
Tra mille pensieri e riflessioni, mi preparai la piccola valigia e mi vestii,
indossando una t-shirt dei Faithless e un paio di
jeans.
Dopodiché andai insieme a
Michele a fare colazione e, dal momento che erano soltanto le nove, decidemmo
di prendere i bagagli e andare a fare un giro per i negozi di souvenir. Dovevo
comprare il regalo che avevo promesso a Matt, ma non avevo idea di cosa
potergli donare. Mentre sul taxi provavo a rifletterci, mi venne in mente che
lui, così come gli altri ragazzi del gruppo, mi mancava molto. Tuttavia,
Michele era riuscito a non farmi sentire tanta nostalgia per Londra e i Faithless. Mi chiesi se esistesse un modo per poterlo
ripagare di tutto quello che aveva fatto per me, ma non mi venne in mente
niente.
Alla fine, comprai a Matt un
disco dei Linea 77, sperando che lo apprezzasse. Presi qualcosa insieme al
bassista anche per gli altri ragazzi e verso mezzogiorno eravamo in viaggio
verso l'aereoporto.
Le ore successive trascorsero
veloci, e verso le quattro del pomeriggio lasciammo l'aereoporto
di Londra.
«Finalmente a casa!» dissi,
trascinandomi dietro il trolley.
«Dove vuoi andare, Liz?» mi domandò Michele, una volta saliti in taxi.
«A casa mia. Devo risolvere
una faccenda importante» dichiarai, per poi sospirare.
«Non puoi trattarmi come se
fossi la causa di tutto, mi sono stancata! Capisci che mi ferisci?» gridai,
guardando mio padre con odio.
«Stai zitta! Se tu non fossi
nata, Elena sarebbe ancora qui» ribatté, gelido.
Scossi il capo, frustrata.
«Come vuoi. Be', io me ne vado, non ce la faccio più a vivere così» dichiarai,
con un filo di voce.
Non disse niente e io mi
diressi in camera a preparare le valige. Nel frattempo, telefonai a Joey.
«Pronto, Liz!»
rispose.
«Ciao, nanetto. Ho bisogno di
un favore» attaccai, svuotando i cassetti.
«Dimmi simpaticona. Cosa non
si fa per la mia collega batterista!»
«Grazie Joey.
Il fatto è che... Non so dove andare a vivere e stavo pensando che magari mi
potresti... Affittare una stanza nella tua grande casa. Che te ne pare?»
domandai.
«Affittare? Macché, puoi
semplicemente venire ad abitare da me» propose.
«Grazie Joey,
davvero, ma preferisco pagarti l'affitto. Non voglio vivere sulle spalle di
nessuno. Per favore, accetta questa condizione. Se non è possibile, mi
arrangerò in qualche altro modo.»
«Okay, okay! Va bene, vieni
pure. Vuoi che ti venga a prendere?»
«No, grazie. Verrò con Mick»
lo informai, raccattando le ultime cose dall'armadio.
«Va bene, a tra poco» rispose
e chiuse la chiamata.
Inviai un sms a Michele per
avvisarlo che l'avrei aspettato di sotto e terminai di sistemare le mie cose.
Circa dieci minuti dopo, senza salutare mio padre, lasciai definitivamente
quella casa.
Dopo essere scesa, attesi che
arrivasse il mio bassista. Chissà come avrebbe preso il fatto che andassi a
vivere in affitto da Joey. Ma, soprattutto, perché mi
interessava così tanto il suo parere? Era la mia vita, perciò perché dovevo
dipendere dalla sua opinione?
Be', era arrivato il momento
di dirglielo, poiché poco dopo si parcheggiò accanto a me.
Saltai a bordo e lo guardai.
«Mick... Joey mi affitta una stanza. Potresti
accompagnarmi a casa sua?» domandai, mentre ripartiva.
«Cosa?» chiese, quasi
gridando.
«Sì, Mick. Ho chiamato Joey e lui dice che è d'accordo. Non te la prendere, è solo
che...»
«Saresti potuta venire a
stare da me» mi interruppe.
«No. Non mi piace vivere
sulle spalle di qualcuno e soprattutto dipendere dagli altri. Non ti arrabbiare
Mick, per favore» lo implorai.
«Va bene. E' una tua scelta e
la rispetto. Però sappi che per qualunque cosa puoi contare su di me.»
«Lo so Mick, ti ringrazio
tanto» sussurrai, sprofondando nel sedile.
Il resto del viaggio
trascorse in silenzio, finché non giungemmo davanti a casa di Joey.
«Ti va di entrare a dare
un'occhiata alla stanza che mi ha lasciato il nano?» proposi al mio bassista,
mentre parcheggiava.
«Certo» accettò,
sorridendomi.
Scendemmo dall'auto e in
pochi minuti ci ritrovammo al seguito del nostro amico che ci fece strada verso
la mia nuova 'casa'.
«Ecco... Se ti piace, puoi
stare qua. Per quanto riguarda il bagno, puoi usare quello che sta in fondo al
corridoio. Se vuoi cucinare, sai dove andare, altrimenti puoi chiedere a Mary
di farlo per te» spiegò il padrone di casa, mostrandomi l'ambiente.
«Quanto ti devo al mese?»
domandai, abbandonando la valigia sul letto.
«Poi ne parleremo, ora non ti
preoccupare. Dimmi, che te ne pare della camera?»
«Mi piace. Grazie ancora Joey.»
«Figurati collega. Bene, io
vado di là. Mick, vieni?»
«Aiuto Liz
a sistemarsi, poi ti raggiungo» rispose quello.
L'ex SlipKnoT
annui e lasciò la stanza.
«Sei proprio sicura di voler
stare qui?» domandò Michele, mentre mi osservava svuotare la valigia.
«Sicurissima. Sei tanto
gentile ma voglio farcela da sola» risposi, per poi avvicinarmi a lui che stava
con la schiena appoggiata alla porta.
«Okay» sussurrò.
«Mick» attaccai, stringendo
le sue mani tra le mie, «sei così carino a preoccuparti tanto per me.»
Posò una delle sue mani sulla
mia guancia. «Voglio soltanto che tu stia bene, principessa» dichiarò,
accarezzandomi.
«Questo è per te!» dichiarai,
porgendo il cd a Matt che mi guardava con espressione stupita.
«Linea 77?» lesse, con una
pronuncia gallese che mi fece sorridere.
«Sì. A me personalmente
piacciono molto, il cantante è un mio amico. Ho iniziato a perseguitarli
andando a sentirli live ovunque, finché non si sono abituati alla mia presenza
e ormai si stupiscono quando non mi vedono nelle prime file, durante i concerti.
Comunque ascoltali e dimmi che ne pensi» consigliai.
«Certo! Sei stata così carina
a portarmi un regalo, ma non dovevi disturbarti!» disse, venendo ad
abbracciarmi.
Lo strinsi forte a me e
risposi: «Figurati, è stato un piacere, Matt.»
«Mi sei mancata Liz» sussurrò.
«Anche tu mi sei mancato
chitarrista» ammisi, sciogliendo l'abbraccio.
«Ehm... Tu e Mick... Voi...»
provò a dire, imbarazzato. «Tra voi è... E' successo qualcosa?» concluse
infine, arrossendo leggermente.
«Matt, ne avevamo già parlato
o sbaglio? Io non sono in grado di amare nessuno, né tantomeno di rendere
felice qualcuno. Come ho rifiutato te, succederà anche con lui quando - e se -
ci sarà l'occasione. Matt, non fraintendermi, tu mi piaci. Pensa che quando ero
adolescente sbavavo dietro ad ogni tua foto» raccontai, facendolo ridere. «Il
punto è che non voglio illuderti. Se tu soffrissi, non me lo perdonerei mai»
conclusi, stringendogli la mano.
«Capisco. Quindi... Questa è
la tua nuova casa?» chiese, cambiando discorso, mentre si guardava intorno,
osservando la mia camera in casa Jordison.
«Eh già, Joey
è stato molto gentile. Pensa che non voleva nemmeno che pagassi l'affitto.»
«Be', tra Faithless
ci si aiuta, siamo tutti fratelli, dovresti saperlo» osservò.
«Lo so, ma va bene così. Sono
contenta di essere andata via di casa. Ormai sto invecchiando» dissi, ridendo
con Matt al seguito.
Quando rimasi sola, ripensai
a quello che gli avevo detto a proposito dell'amore. Tempo fa avrei affermato
con sicurezza di non potermi innamorare, ma ora, come stavano le cose?
Sbuffai. Erano giorni ormai
che i miei pensieri venivano tormentati da un'unica questione, ovvero cercare
di capire cosa provavo per Michele. Se partivo dal presupposto che non ero in
grado di amare nessuno soltanto perché avevo ricevuto poco amore da quello che
sarebbe dovuto essere mio padre, cosa significava quell'ammasso di emozioni che
si impossessava di me quando l'avevo accanto?
Se avessi evitato di
escludere la possibilità di amare, smettendo di farmi rovinare la vita e i
rapporti sociali da mio padre che mi aveva ferito nel profondo e di conseguenza
aveva impedito che mi fidassi appieno degli altri, avrei potuto affermare che,
forse, qualcosa nei confronti di Michele c'era.
Comunque, decisi di lasciar
seguire agli eventi il proprio corso, senza forzare le situazioni e scelsi, per
la prima volta in vita mia, di rischiare e di seguire quello straccio di cuore
che ancora avevo la fortuna di possedere.
«You are the one who wants to kill my life» proposi, cercandoapprovazionenegliocchideimieicolleghi.
«E se invece al posto di 'my life' mettessimo 'my world'?»
ribatté Janne, giocherellando con una mia bacchetta
per la batteria. «I am the man who walks alone» canticchiòSerj, citando un passodi 'Fear Of The Dark' dei Maiden.
«Smettila Serj,
così non ci sei d'aiuto» lo riprese Joey.
«Direi che potremmo fare una
pausa ragazzi, io e Mick abbiamo delle sorprese per voi» intervenni, alzandomi
e andando a prendere i regali che avevamo comprato in Italia per i nostri
amici.
«Sorprese?» saltò su Janne, abbandonando la mia bacchetta sul divano su cui era
seduto poco prima.
«Esatto. Jan, questa è per
te, per la tua collezione» feci, porgendogli la maglia dell'Hard Rock Cafe di Milano.
«Porca puttana! Grazie
ragazzi» esultò, travolgendoci con un abbraccio.
«Questa invece è per te.
Sappiamo che ne desideravi una, amando la Sardegna» disse Michele, consegnando
a Max una maglietta con i Quattro Morì.
«È bellissima! Grazie» disse,
provandosela.
«Joey...
A te abbiamo portato questo, speriamo ti piaccia» dissi ancora, dandogli un
modellino di Ferrari.
«Oh cazzo! Voi siete
completamente fuori di testa! Non dovevate...»
«Zitto! Ti piace?» chiese
Michele.
«E me lo chiedi? È una figata!» esclamò, esaminando il suo regalo.
«Invece, al mio mitico
cantante ho scelto di comprare un bellissimo disco» affermai.
«Certo che sì! È solo che...
Oh, grazie figliola» concluse, dandomi un caloroso abbraccio.
«Di niente paparino. L'ho
scelto personalmente, ci tenevo a regalare il meglio al mito dei miti»
confessai con un sorriso.
«Non esagerare, non credo di
essere così...»
«Sì che lo sei. Ti ritengo il
migliore in assoluto» ribattei.
«Grazie, grazie davvero Liz» disse, sciogliendo l'abbraccio.
Poco dopo ringraziò anche
Michele per poi fare un giro a vedere i regali degli altri.
«E Tuck
non ha ricevuto niente?» chiese Janne, guardandolo
con un ghigno dipinto in faccia.
«Io ho già ricevuto il mio
regalo ieri» spiegò Matt, soddisfatto.
«Esatto. Al nostro
chitarrista ho regalato un disco dei Linea 77, un gruppo italiano molto bravo»
aggiunsi, sorridendo.
«Figo»
commentò il finlandese, continuando a contemplare il dono che aveva ricevuto.
Mi fece immensamente piacere
sapere che i nostri regali erano stati apprezzati. Ora, mi mancava solo un
ultimo pacchetto da consegnare, ossia quello indirizzato a Michele. Sì, eravamo
stati in viaggio assieme, ma mi sentivo in dovere di ringraziarlo per ogni
singola cosa che aveva fatto per me. Una volta rimasti soli, avrei trovato il
coraggio di esprimere quanto lui fosse importante per me.
Quando le prove terminarono,
mi avvicinai a lui e feci una cosa che mai, prima d'ora, avevo fatto. «Mick,
hai da fare stasera?» domandai, mentre lo osservavo sistemare il suo basso.
Mi rivolse un'occhiata colma
di stupore, poi disse: «No, sono libero. Perché?»
Capitolo 8 *** Capitolo otto (L'ottavo, Capitolo) ***
8.
«Da soli?» domandò,
osservandomi con stupore.
«Sì. Ti va?»
«Certo.»
Nel frattempo, Joey mi si avvicinò. «Collega, andiamo a casa?»
«Okay andiamo. Mick»
sussurrai mentre gli lasciavo un bacio sulla guancia, «passi a prendermi tra
un'ora?»
«Va bene. A più tardi
principessa» rispose, stringendomi una mano.
Mentre guidava, Joey mi chiese: «Devi vederti con Mick più tardi?»
Mi morsi nervosamente il
labbro inferiore e risposi: «Sì, ci facciamo un giro.»
Il chitarrista annuì e non
aggiunse altro.
Una volta giunti a casa, mi
infilai sotto la doccia e cercai di rilassarmi il più possibile. Cosa gli avrei
detto quella sera? Sentivo qualcosa nei suoi confronti, ma davvero avrei potuto
confessarglielo? Ero sicura di non esserne in grado. Inoltre, dovevo
consegnargli il mio regalo.
Tra mille pensieri, finii di
prepararmi e, mentre ero intenta a sistemarmi i capelli, suonò il campanello.
«Liz,
Mick è arrivato!» gridò Joey dall'ingresso.
Senza rispondere, presi la
borsa e mi avviai in salotto.
«...di Liz?»
sentii bisbigliare da Joey, così mi fermai ad
ascoltare.
«Non lo so. Speriamo» fece
Mick con lo stesso volume di voce. Chissà cosa avevano di così segreto da
dirsi, tirando in causa anche me.
In seguito tacquero, così mi
feci avanti, attirando la loro attenzione. «Eccomi! Ciao Mick, scusa se ti ho
fatto aspettare.»
«Tranquilla. Se sei pronta,
possiamo andare» propose.
Mentre mi parlava, lo
osservai: indossava un paio di jeans scuri, una camicia nera e teneva i capelli
legati come al solito.
«D'accordo. A più tardi Joey.»
«Divertitevi» augurò quello
con un sorriso.
Una volta saliti in macchina,
Michele disse: «Ti voglio portare in un posto speciale.»
Non risposi e mi limitai a
stringere forte la borsa. Chissà dove aveva intenzione di andare. Conoscendolo,
sapevo che sarebbe stato in grado di sorprendermi anche quella volta e ne ebbi
la conferma quando parcheggiò. Davanti a noi, torreggiava un'enorme ruota
panoramica illuminata ovunque. Spalancai gli occhi e rimasi a fissare il
luccichio che mi circondava.
«È meraviglioso tutto questo»
confessai, stringendo la mano del mio amico.
«Davvero ti piace?» domandò,
voltandosi a guardarmi.
Annuii.
Senza lasciarmi la mano, si
incamminò verso la biglietteria per poi farmi strada verso la grande ruota che
ci sovrastava. Prendemmo posto e attesimo che
partisse.
«Che bello!» esclamai, mentre
cominciavamo a salire.
Al mio fianco, Michele mi
circondò le spalle con un braccio e mi strinse al suo fianco.
Osservai incantata il
panorama che mi si presentava, mentre le persone e le luci divenivano sempre
più piccole.
«Ti ho portato qui» attaccò
il mio bassista, «perché volevo farti emozionare. Non so se ci sono riuscito, Liz, ma sappi che ho fatto del mio meglio.»
Mentre parlava, sentivo che
il cuore mi esplodeva nel petto. Era arrivato il momento di compiere
quell'importante passo, nonostante la cosa risultasse parecchio difficile e
imbarazzante, per me.
«Mick, devo darti una cosa»
lo informai, infilando una mano nella borsa ed afferrando il pacchetto che
avevo confezionato di tutta fretta prima di uscire.
Allentò la presa sulle mie
spalle e mi posò una mano sulla guancia.
«Principessa... Cos'hai
combinato? Sai benissimo che non ce n'era alcun bisogno» sussurrò.
Scossi il capo e risposi:
«Non è vero. Ascoltami. Sai che per me non è facile aprire il mio cuore, ma è
arrivato il momento che io faccia qualcosa per te, per ringraziarti di tutto il
bene che mi hai fatto e che mi fai ogni volta che stiamo insieme. Mick»
pronunciai il suo nome con un filo di voce, avvicinando il mio viso al suo,
«perdonami. Non so come definirlo, ma non riesco più a dirti che ti voglio
bene, perché non è totalmente vero. C'è qualcosa di più profondo che mi lega a
te ma, forse per la poca esperienza o per paura, non riesco a definire bene ciò
che provo. So soltanto che, quando tu mi stai accanto, vorrei che non te ne
andassi mai, che restassi sempre con me, che mi abbracciassi e mi proteggessi
da tutto ciò che temo. Sei la persona più importante della mia vita» conclusi.
Feci una pausa. «Questo è per te, aprilo» aggiunsi, porgendogli la confezione.
Dopo il mio discorso, non fu
in grado di rispondermi per un po' e si limitò a lanciarmi occhiate colme di
stupore.
«Che cos'è?» domandò in un
sussurro, esaminando il disco che teneva tra le mani.
«Ecco... Ho registrato una
canzone dove ho cercato di esprimere tutto ciò che provo per te. L'ho scritta
pensandoti, pensando a come mi fai sentire e... Vorrei che l'ascoltassi quando
sarai da solo. Un po' mi vergogno perché... Be', sai come sono fatta» spiegai,
arrossendo.
«Sarà sicuramente bellissima»
disse, stringendomi a sé. «Grazie mia piccola principessa, sapessi quanto tengo
io, a te. Non temere, non ti lascerò mai sola, starò al tuo fianco sempre e
comunque» sussurrò al mio orecchio, mentre le emozioni si impossessavano del
mio cuore.
Immersi il viso nel suo
petto, sentendomi colma di felicità. Non sapevo come ci ero riuscita, ma ora
lui era a conoscenza di gran parte dei miei sentimenti, mentre il resto
l'avrebbe scoperto ascoltando la canzone. Forse, mi ci sarebbe voluto più tempo
per dare un nome a tutto questo, ma già l'avergliene parlato significava aver
fatto un grosso passo avanti.
Quando il giro panoramico
giunse al termine, Michele mi aiutò a scendere e, tenendomi per mano, raggiunse
la sua macchina. Senza dire niente, mise in moto e partì.
«Se non sei stanca vorrei
andare in un altro posto» disse dopo un po', spezzando il silenzio.
«Non sono stanca. Fai pure»
acconsentii.
Annuì e continuò a guidare
per altri dieci minuti, per poi fermarsi vicino ad un parco. Spense in motore e
mi chiese: «Scendiamo o preferisci stare qui?»
Mi guardai intorno mentre
riflettevo, poi sorrisi e scesi dall'auto per poi risalire sul sedile
posteriore. «Vieni?» lo incitai.
Dopo avermi rivolto
un'occhiata interrogativa, mi raggiunse. «Saremmo potuti stare anche davanti»
constatò.
«No, davanti si sta più
scomodi» ribattei, stringendolo e accoccolandomi al suo petto.
Eravamo in silenzio, lui
intento a giocherellare con i miei capelli, io a disegnare cerchi immaginari
sul suo petto.
«Mick?» lo chiamai
flebilmente.
«Sì?»
«Sto bene qui con te»
confessai, per poi sollevare la testa e cercare il suo sguardo.
Mi prese il mento con due dita
e rispose: «Anch'io, lo sai.»
Improvvisamente i nostri visi
erano vicini, troppo vicini, i nostri occhi fissi gli uni negli altri, i nostri
respiri fusi in uno solo. Sfiorò le mie labbra con le sue, ma subito si
ritrasse, guardandomi mortificato.
«Perdonami... Liz... Non so... Non so cosa mi sia preso... Scusa... Dai,
ti accompagno a casa» dichiarò e, senza darmi il tempo di ribattere, tornò al
posto di guida.
Io rimasi dov'ero, troppo
sconvolta per poter reagire in modo razionale. Quel breve contatto che era
avvenuto tra noi mi aveva provocato un'enorme scarica di emozioni e aveva fatto
sì che il cuore accelerasse i suoi battiti. E ora, mentre lui guidava in
silenzio con gli occhi fissi sulla strada, sentivo che avrei voluto che
approfondisse quel bacio e che mi stringesse forte a sé. Ormai, però, tutto era
sfumato e io, logicamente, non possedevo abbastanza coraggio per ritornare
sull'argomento o, addirittura, prendere l'iniziativa di continuare ciò che era
stato interrotto. Frustrata, trascorsi tutto il viaggio sprofondata sul sedile
posteriore, con una voglia di piangere immensa.
Una volta giunti davanti a
casa Jordison, afferrai la borsa, decisa a scendere
senza chiedergli di entrare.
«Liz?»
mi richiamò, non appena aprii lo sportello.
Mi voltai a guardarlo e lessi
nei suoi occhi paura mista a speranza. «Non me la sono presa Mick, non ti
preoccupare» dissi, sciogliendomi in un sorriso. «Comunque, senti la canzone e
fammi sapere. Va bene? Grazie per la splendida serata, 'notte» conclusi, per
poi scendere e richiudere la portiera. Estrassi le chiavi e entrai in casa, per
poi lasciarmi cadere con la schiena contro la porta che avevo sbattuto alle mie
spalle.
«Liz?
Che succede collega?» chiese Joey, raggiungendomi.
«Quindi ora che farai?»
domandò Joey, dopo aver ascoltato il mio racconto.
«Non lo so. Purtroppo, non
sono in grado di prendere certe iniziative. Comunque ci proverò, devo fare il
possibile altrimenti temo che lui non ci proverà più» dissi, con le lacrime
agli occhi. «Scusa Joey, ora vorrei andare a letto»
aggiunsi, alzandomi.
«Aspetta... Non piangere
piccola, dai, vieni qui» fece lui, venendo ad abbracciarmi.
Inizialmente cercai di
trattenermi il più possibile, ma poi mi lasciai completamente andare,
stringendo forte il chitarrista. «Temo di essermi innamorata» gli confessai tra
i singhiozzi.
«Perché hai paura? Lo sai
anche tu che con Mick vai sul sicuro, è una brava persona» mi rassicurò.
«Infatti non c'entra lui, ho
paura di farlo soffrire perché sono piena di insicurezze» risposi, mentre pian
piano le lacrime diminuivano.
Il mio amico sciolse
l'abbraccio e mi guardo dritto negli occhi, accarezzandomi una guancia. «Liz, lui ti conosce. Sa quali sono le tue paure, le tue
indecisioni, le tue debolezze. Più che soffrirci, cercherà di aiutarti a
superarle, a diventare più forte e sicura di te.»
«Se dovessi avere un'altra
opportunità con lui, ciò mi renderebbe la ragazza più fortunata a questo mondo»
dissi, sorridendo.
«Proprio così. Ora vai e
dormici su. Domani è un nuovo giorno e tu potrai pensare a come conquistare il
tuo bassista. No?»
«Sì! Grazie mille nanetto.»
Feci per andarmene, poi mi avvicinai nuovamente a lui e gli stampai un bacio
sulla guancia, dicendo: «Ti voglio bene.»
«Anche io, Liz. Buonanotte» rispose, guardandomi negli occhi.
Una volta rimasta sola, mi
gettai sotto le coperte con una nuova speranza nel cuore. Forse sarebbe bastata
la mia canzone a fargli capire che desideravo quel bacio più di ogni altra
cosa. In caso contrario, avrei dovuto impegnarmi, facendomi avanti contro ogni
imbarazzo. Chissà se ci sarei riuscita.
Comunque stavo facendo molti
passi avanti e la cosa mi rendeva più che felice e soddisfatta di me stessa.
«Joey?
Non è che mi presteresti una chitarra acustica?» domandai al mio amico,
entrando in soggiorno.
«Prendi pure quella» fece,
indicandomi lo strumento appoggiato alla parete.
«Grazie.»
«Potrei sapere come mai alle
nove del mattino hai tutta questa voglia di suonare?» domandò, mentre finiva di
legarsi una scarpa.
«Così, mi sento ispirata per
comporre. Magari esce fuori qualcosa di buono da proporre ai Faithless. Tu stai uscendo?»
«Esatto. Vado a prendere Corey all'aereoporto.»
Spalancai gli occhi. «Corey... Taylor?» chiesi, perplessa.
«Sì, chi sennò?» rispose, con
tono ironico.
«E me lo farai conoscere,
vero?»
«Verrà a stare da noi per
qualche giorno» mi informò, alzandosi dal divano.
Rimasi piuttosto lusingata
dal fatto che avesse usato il plurale. Mi considerava allo suo stesso livello,
nonostante conoscesse le mie intenzioni riguardo all'affitto, malgrado non
fosse d'accordo.
Sorrisi. «Che culo! Allora vi
aspetto. Ah, Joey, che bello!» esultai,
abbracciandolo. «Incontrare Corey sarà un onore per
me, è mitico!» aggiunsi.
«Sei sempre la solita Liz. Ora vado altrimenti faccio tardi. A dopo» concluse
sciogliendo l'abbraccio e lasciando la stanza.
Afferrai la chitarra e mi
sedetti sul divano, per poi cominciare a strimpellare. Presa com'ero dalla
felicità per l'imminente incontro con Corey Taylor,
intonai 'Bother' degli Stone Sour.
Apprezzavo parecchio quando il cantante degli SlipKnoT
si esibiva in versione acustica, con la sua voce pulita, che era così bella e
profonda. Subito dopo, passai a 'Vermillion' e la
cantai tutta, sbagliando parecchi accordi. La chitarra non era decisamente il
mio strumento ma ogni tanto mi piaceva provare a combinarci qualcosa, giusto
per svagarmi un po'. Trascorsi il resto della mattinata a comporre un pezzo che
avevo iniziato tempo addietro, cercando di terminare anche la stesura del
testo.
Mi interruppi soltanto quando
Joey rientrò e, guardando l'orologio, mi accorsi che
erano le undici e mezza. Abbandonai il taccuino e la chitarra sul divano e
andai ad accogliere il mio amico e il suo ospite, sentendomi un po' agitata ed
emozionata.
«Oh, ecco la mia collega. Corey, ti presentò Liz» disse il
chitarrista, sorridendo.
«Piacere» dissi, tendendogli
la mano.
«Corey»
fece quello, rivolgendomi uno sguardo strano, quasi indagatore.
Spostai i miei occhi su Joey, sperando che mi fossi sbagliata sul suo amico, ma lui
si limitò a fare spallucce e s'incamminò verso il soggiorno.
Feci per seguirlo ma sentii
suonare il campanello.
«Vai tu Liz,
per favore?» chiese Joey con un sorriso.
Annuii e mi avviai nuovamente
verso l'ingresso. Chi poteva mai essere ad un'ora così insolita? Quando aprii
la porta, rimasi stupita da quella vistita
inaspettata.
«Liz»
sussurrò Michele.
Lo guardai dritto negli
occhi, poi gli feci cenno di entrare.
«Di là c'è Corey Taylor. Vuoi incontrarlo?» chiesi, in imbarazzo.
Volevo evitare di domandargli se aveva sentito la mia canzone e volevo evitare
soprattutto di sapere come mai fosse venuto a casa di Joey
con l'aria di urgenza dipinta in viso. Che fosse successo qualcosa? Scacciai
quei pensieri e mi concentrai sulla sua risposta.
«Magari dopo. Liz» sussurrò ancora, rivolgendomi uno sguardo pieno di
dolcezza. «Sono venuto per parlare con te.»
Sussultai. Di cosa aveva
intenzione di parlarmi? Senza incrociare il suo sguardo, annuii. Dopo aver
avvisato il chitarrista, mi avviai verso camera mia e Michele mi seguì.
Una volta dentro, si chiuse
la porta alle spalle e mi raggiunse sul letto, sedendosi al mio fianco. «Ho sentito
la tua canzone» dichiarò, cercando i miei occhi.
Non risposi, non ne fui in
grado. Ebbi paura di quello che avrebbe potuto dirmi.
«È bellissima. Non avevo
dubbi che lo fosse, ma non me l'aspettavo così... Così vera, sincera, così
tua.»
Fissai il vuoto davanti a me,
incapace di reagire. Avevo il timore che ciò che sentivo di voler dire non
fosse adatto alla situazione. Era una voglia più che razionale, che tenevo
dentro da un bel po' e che, col passare del tempo, era maturata e si era
insinuata prepotentemente nelle parti più remote del mio corpo.
«Che succede?» domandò,
stringendomi una mano.
Ancora una volta non parlai.
Non riuscii ad esprimere a parole ciò che sentivo. Di scatto, mi alzai e corsi
in soggiorno lasciando Michele ad attendermi.
Avevo assoluto bisogno della
chitarra di Joey.
Quando la presi, avvertii gli
sguardi dei due ex SlipKnoT addosso, ma li ignorai e,
dopo aver afferrato anche il taccuino e la penna, tornai dal mio bassista.
Era rimasto immobile ad
aspettarmi e, quando feci il mio ingresso nella stanza, mi osservò mentre ero
intenta a sistemare il blocco e mi adagiavo sul letto incrociando le gambe e
imbracciando lo strumento. C'era una canzone non mia che volevo cantare. Era
dei Bullet, il vecchio gruppo di cui faceva parte
Matt.
Già, Matt. Cosa avrebbe
pensato di me se avesse saputo cosa provavo per l'uomo che avevo davanti?
Sicuramente mi avrebbe odiato.
Scacciai quei pensieri e,
chiudendo gli occhi, cominciai a cantare. All'inizio la mia voce era incerta,
esitante e un po' tremante. Poi, giunse il pezzo che preferivo e ci misi tutta
l'anima per interpretarlo al meglio.
I live my life in
misery
I sacrificed this world
to hold you
No breath left inside
of me
Shattered glass keeps
falling
Say goodnight
Just sleep tight
Say goodnight
So here I am you're
inside of me
So here I am our world
is over
So here I am you're
inside of me
So here I am our world
is over
Here I am with you
I'm there 'till the end
Memories are calling so
farewell my friend
Non appena terminai, rimasi
con gli occhi fissi sul lenzuolo blu notte su cui ero seduta, con l'imbarazzo
che mi impediva di sbirciare l'espressione dipinta sul viso di Michele.
Lo avvertii sfilarmi la
chitarra di mano e posarla sul letto. Dopodiché, mi sollevò il mento con due
dita. «Oh, Liz» mormorò.
Come spinta da un muto
desiderio, mi avvicinai di più a lui. Le sue iridi color cioccolato fisse sulle
mie mi davano come l'impressione che volesse leggermi nell'anima. Tuttavia, non
mi ritrassi, anzi; mi feci ancora più vicina e posai una mano sulla sua spalla.
Questa volta non mi sarei tirata indietro perché era ciò che desideravo.
Accostò il suo viso al mio in
modo incerto.
'Baciami, baciami, baciami!'
gridava la mia mente, sperando di essere udita.
Poiché non si decideva a
compiere il primo passo, lo feci io, mossa da un istinto irresistibile.
Sfiorai le sue labbra con le
mie, poi lo guardai negli occhi.
«Liz
tu...» sussurrò.
«Shhh»
feci e tornai a baciarlo, stavolta con più intensità.
Con un braccio avvolse la mia
vita, mentre l'altra mano la utilizzò per accarezzarmi dolcemente la guancia.
Dal canto mio, tenevo ancora
una mano sulla sua spalla e l'altra rimase immobile, abbandonata sul materasso.
Inizialmente si trattò di un
bacio lento, dolce e pieno di tenerezza; qualche istante dopo, però, presi
entrambi da una strana ed improvvisa passione, probablimente
repressa, trasformammo radicalmente quel contatto.
Lo strinsi forte a me,
affondando le dita tra i suoi capelli, nonostante fossero legati. Non avrei mai
creduto che tutto ciò potesse accadere sul serio, eppure eccomi lì, immersa in
un universo che mi era quasi del tutto sconosciuto.
Quando ci staccammo, mi
accarezzò dolcemente i capelli e fissò i suoi occhi sui miei. «Non credevo che
anche tu lo volessi» sussurrò.
«A quanto pare ti ho
sorpreso» dissi, sorridendo. Quella situazione parve surreale anche a me,
tuttavia ero felice. Felice perché io, colei che era sempre stata convinta di
non potersi innamorare, a venticinque anni aveva scoperto che ne era in grado.
«Oh, Liz.»
Mi strinse forte a sé, cullandomi tra le sue braccia.
E io, tra le sue braccia,
stavo bene. Mi sentivo al sicuro, protetta, come mai prima d'allora. Avevo
trascorso tutta la vita tra mille dubbi e paure; da quando avevo conosciuto i
componenti dei Faithless, invece, tutto era cambiato.
E da quando avevo conosciuto Michele, tutto era migliorato. Avevo sentito
crescere la sicurezza e la fiducia in me stessa e questo lo dovevo soltanto al
mio dolce bassista.
«Mick... Io... Grazie di
tutto» balbettai, senza smettere di vergognarmi, nonostante sapessi che lui
teneva a me così come io tenevo a lui.
«Figurati, sono qui a posta
per te» rispose, attorcigliandosi una ciocca dei miei capelli su un dito.
E in quel momento, mentre ero
stretta a lui, odiai per la prima volta l'incapacità di esprimere i miei
sentimenti. Avrei voluto dirgli tante cose, ma non lo feci. Mi limitai a
sospirare, chiudendo gli occhi.
'Ti amo'
pensai. Ed era vero, era la cosa più autentica che avessi mai percepito in
venticinque anni di vita.
Quando io e Michele giungemmo
in soggiorno, Joey ci lanciò un'occhiata d'intesa,
come se volesse la conferma che tra me e il bassista fosse successo quello che
speravo.
Lo fissai e annuii
impercettibilmente. «Mick, eccoti. Ti presento Corey,
anche se forse ne hai già sentito parlare» disse il chitarrista, indicando con
il capo il cantante che sedeva al suo fianco.
Michele gli si avvicinò e gli
strinse la mano, dicendo: «Piacere, Michele. Puoi chiamarmi Mick.»
Dal canto mio, rimasi ad
osservare le sue mosse, affascinata da ognuna di esse. Dopo qualche istante, mi
lasciai cadere sul divano di fronte a quello dei due ex SlipKnoT
e poco dopo fui raggiunta dal mio bassista, che mi circondò le spalle con un
braccio. Inizialmente quel gesto mi imbarazzò un po', ma subito cercai di
rilassarmi e cercai di scacciare via quella spiacevole sensazione.
I ragazzi presero a parlare
tra loro, mentre io mi limitavo ad ascoltare, nonostante ogni tanto mi venisse
rivolta qualche domanda o si alludesse a me come batterista dei Faithless.
Dopo un po' Michele osservò
l'orologio che stava appeso alla sapete, sopra la testa di Corey
e, inarcando le sopracciglia, mi chiese: «Ti va di andare a pranzo fuori? Ormai
è quasi l'una.»
Osservai la sua espressione
premurosa e attenta alla mia persona, e ne fui seriamente colpita. Desideravo
stare con lui, così risposi: «Sicuro!» Mi alzai e aggiunsi: «Mi sistemo un
attimo, non ci metterò molto.»
Annuì e io mi diressi in
camera.
Dopo circa dieci minuti io e
Michele stavamo salendo in macchina.
«Dove andiamo?» domandai,
sprofondando sul sedile del passeggero.
«Mmh...
Non so, decidi tu!»
«Cinese?»
«Cinese sia» concluse. Mentre
guidava, fece partire un cd nell'autoradio.
Non appena udii le prime note
della mia canzone, ebbi come un senso di vertigine. Vergognandomi, guardai
fuori dal finestrino, giocherellando nervosamente con la cinghia della borsa.
Sentivo le parole e avevo voglia di intonarle. Aveva ragione lui: erano vere,
sincere, mie.
Dopo pranzo Mick mi propose
di andare a casa sua e io accettai. Ero un po' nervosa all'idea di stare sola
con lui, dopo quello che era successo. A casa di Joey
eravamo soli, ma ciò non era stato programmato precedentemente.
Ora invece sì.
Saremo stati soli.
Completamente soli.
E questo mi faceva impazzire.
Come mi sarei dovuta comportare? Come avrei dovuto agire? Cos'avrei dovuto
dire?
Scossi il capo, cercando di
calmarmi, mentre il mio bassista parcheggiava.
Tuttavia, l'agitazione rimase
a farmi compagnia, mentre lui mi faceva strada su per le scale, tenendomi la
mano.
Guardai l'ora sul display del
mio cellulare: 14:15.
Le prove sarebbero cominciate
alle 15:30.
Okay, potevo farcela.
Dovevo farcela.
«Siediti, principessa. Va
tutto bene?» Lui era sempre così gentile, premuroso e dolce con me.
Abbassai lo sguardo e fissai
le punte delle mie scarpe.
Mi si avvicinò. «Liz... Che succede? Non ti senti bene?»
«Sì, sto... Sto bene»
balbettai.
«Non si direbbe.»
«È solo che... Che sono un
po'... Agitata, ecco.»
Michele prese una delle mie
mani e mi attirò più vicino a sé. «Quanto sei sciocca. Ehi, non c'è motivo
perché tu ti senta così. Siamo io e te. Quante altre volte siamo stati insieme,
prima d'ora? Pensa a Milano» disse, sistemandomi un ciuffo di capelli dietro
l'orecchio destro.
«Era diverso» sussurrai,
fissando il vuoto oltre la sua spalla.
«Intendi dire che non era
ancora successo questo?» domandò con lo stesso mio tono, sfiorando per un
istante le mie labbra con le sue.
Cercai il suo sguardo.
«Esatto» confermai.
«Liz,
va tutto bene. Non ho nessuna fretta e mai e poi mai vorrei farti soffrire.
Tu... Ti fidi di me?»
Quella domanda, per me, aveva
un significato molto profondo perché la fiducia negli altri non era mai stato
il mio forte. Senza lasciare i suoi occhi, risposi: «Sì, Mick, mi fido di te.»
Mi strinse forte a sé e
sorrise. «Per me questo è davvero importante. Farò di tutto pur di tenermi
stretta la fiducia che hai riposto in me» disse, con dolcezza.
«Lo so.»
In quel momento tutta l'ansia
di poco prima sembrava svanita, cedendo il posto a gioia immensa.
Quando sciogliemmo l’abbraccio,
mi chiese se avessi voglia di un caffè e io annuii entusiasta.
«La verità è che sono
preoccupata per la reazione di Matt» gli confidai, mentre stavamo seduti in
cucina davanti al nostro meraviglioso caffè all'italiana.
«Se devo essere sincero,
anch'io. Siamo tutti amici, fratelli, noi Faithless.
Cosa credi che comporterà il nostro legame al resto del gruppo del gruppo?»
domandò, guardandomi distrattamente, mentre versava dello zucchero nella sua
tazzina.
«Non lo so, ma spero che non
si creino dei problemi.»
Il bassista bevve un sorso di
caffè, ripose la tazzina e infine posò i gomiti sul tavolo. Mi osservò con aria
pensierosa e disse: «Se dovessero nascere dei problemi, vedremo di risolverli.»
Detto questo, gli si dipinse in viso un'espressione leggermente seccata che
rispecchiava appieno il tono che aveva utilizzato per prunuciare
quelle parole.
Sbuffai, versando lo zucchero
nella mia tazza. «È questo il problema. Vorrei che non ci fosse alcun problema
da risolvere. Ne ho già dovuti affrontare abbastanza in passato» mi lamentai,
per poi pentirmi immediatamente. Odiavo chi si autocommiserava
e piangeva sul latte versato, dunque non riuscii a sopportare l'idea di averlo
appena fatto.
«Mi dispiace tanto. Vorrei
davvero poterti evitare tutto questo e farò il possibile per far sì che non
cambi nulla con gli altri. Purtroppo, però, questa è la vita, principessa mia.
I guai non finiscono mai» sussurrò, rivolgendomi uno sguardo colmo di
rammarico.
«Scusa, lo so. Ma ora non
voglio pensarci, vedremo al momento cosa fare» dichiarai, per poi bere tutto
d'un fiato il liquido nero.
«Hai ragione» concordò
Michele, alzandosi. Si mise in piedi dietro di me, appoggiando la pancia sulla
spalliera della mia sedia. «Tra un po' conviene avviarsi in saletta» disse,
sospirando.
Mi voltai a guardarlo,
rimanendo seduta. «Già. Non sembri molto contento» osservai, accarezzandogli
timidamente un braccio.
«Indovinato. Vorrei stare
qui, con te» sussurrò, chinandosi a baciarmi la fronte.
Catturai i suoi occhi con i
miei e mi alzai lentamente, andandogli vicino. «Anch'io, sai?» mormorai, per
poi baciarlo. Circondai il suo collo con le braccia, mentre lui cingeva i miei
fianchi con le sue.
«Sono felice, Liz» disse, dopo essersi staccato da me.
«Anche io lo sono tanto,
grazie a te.»
Sorrise. Quello fu Il sorriso
più luminoso che i miei occhi avessero mai percepito.
Quando arrivammo in saletta,
Michele mi teneva per mano e io feci di tutto perché non si notasse
eccessivamente e, soprattutto, evitai accuratamente lo sguardo di Matt. Cosa
sarebbe successo, ora?
Nessuno fece commenti.
Sospirai di sollievo e mi
andai a sedere alla batteria, stringendo con forza le bacchette.
«Se le stringi in quel modo,
va a finire che si romperanno» mi fece notare Janne,
con tono divertito. «Nervosetta?» aggiunse, con un ghigno enorme dipinto in
viso.
«Abbastanza. Comunque se
dovessi distruggerle, ne ho un paio di scorta» gli feci notare con un sorriso
colmo di sarcasmo, come per fargli intendere che non era quello il vero
problema.
«Previdente. Attenta, credo
che in un modo o nell'altro il chitarrista gallese manifesterà la sua furia»
sussurrò poi, rivolgendo uno sguardo a Matt che accordava distrattamente la
chitarra, seduto dall'altro lato della stanza.
Sospirai. «Non stento a
crederci.»
Il tastierista si allontanò,
strizzandomi l'occhio. Possibile che tutti fossero già a conoscenza di tutto?
Sì, probabilmente era stato quel chiacchierone di Joey
a spifferàre ogni cosa. Ciò non mi arrecò particolari
dispiaceri, tuttavia sperai che Matt non lo sapesse ancora poiché avrei voluto
parlargliene personalmente. Gli dovevo una spiegazione.
Scattai in piedi. Raggiunsi Joey e lo trascinai da parte, sotto lo sguardo indagatore
di Corey.
«Che c'è?» fece il mio amico,
perplesso.
«Matt lo sa? Gliel'hai
detto?»
«Come ti viene in mente?
Okay, è vero che il più delle volte non so tenere la bocca chiusa, ma non sono
così stronzo. O lo capisce da solo o glielo dite voi, se volete» rispose,
sussurrando.
Gli sorrisi riconoscente e
tornai al mio posto, sempre sentendomi addosso gli occhi di Corey.
Cosa c'era di così interessante da osservare in me?
Nel frattempo, il resto della
band si sistemò e le prove presero avvio.
Quel giorno, ci esibimmo
davanti a un inespressivo Corey Taylor che non mi
staccò gli occhi di dosso, inquietandomi in maniera non indifferente.
Che voleva da me? Mi sarebbe
davvero piaciuto saperlo.
Matt non fece nulla e questo
poteva significare soltanto due cose: o se n'era accorto e faceva finta di
niente o, semplicemente, non se n'era accorto.
In ogni caso, gli avrei
parlato e spiegato con sincerità e franchezza ogni cosa anche se ancora non ero
in grado di spiegare nemmeno a me stessa come tutto fosse accaduto e cambiato
così velocemente.
Io ero cambiata radicalmente
e lui aveva il diritto di saperlo.
Il chitarrista mi rivolse uno
sguardo strano, quasi spaesato, poiannuì.
Uscii dalla saletta e
raggiunsi il terrazzo con lui al seguito.
«Te ne sei accorto?» domandai
senza preamboli.
«Già da tempo, ormai»
rispose, appoggiando la schiena alla ringhiera.
«Cosa... Cosa significa
che...»
«Si vede lontano un miglio
che siete innamorati l'uno dell'altra, nonostante tu mi dicessi che non eri in
grado di farlo. Non te ne faccio una colpa, dovevi essere parecchio confusa. Meno
male che me ne sono reso conto in anticipo, così ho avuto il tempo di farmene
una ragione, almeno in parte, e ho evitato di sbottare come tutti si
aspettavano.»
Rimasi in silenzio, stupita
da quelle parole. Matt sapeva più di me come sarebbero andate a finire le cose.
Era stato così chiaro il mio attaccamento a Michele? Avevo trascorso molto
tempo insieme a lui, ma avevo capito da poco di esserne follemente innamorata.
Eppure io stessa sapevo che quel sentimento era frutto di una lunga
maturazione. Possibile che proprio io, la diretta interessata, non mi fossi
accorta di niente? È proprio vero che, spesso, chi non è direttamente coinvolto
nelle situazioni vede tutto con più chiarezza.
«Mi dispiace di averti
mentito, ma... In quel momento credevo che fosse la verità. Sono mortificata»
sussurrai, senza guardarlo. L'unica cosa che potevo fare era scusarmi,
nonostante sapessi essere pressoché inutile. Chissà quanto soffriva, quanto mi
desiderava, quanto voleva spaccare la faccia a Michele, quanto si stava trattenendo
per non farlo, quanto si sforzava per non odiarmi a morte. Non seppi più cosa
dire, così mi diressi verso la porta e rientrai in saletta, tornando a
sistemarmi dietro la batteria. Avevo bisogno di sfogarmi, così presi a
picchiare convulsamente sui piatti, per poi accasciarmi sulla sedia, sentendomi
triste e in colpa.
Serj mi raggiunse, mentre notai che Michele
lasciava la stanza.
«Vieni» disse il cantante
armeno e io lo seguii sul divano.
Fu in quel momento che decisi
cosa fare. Come potevo costruire la mia felicità sulla sofferenza di Matt? Non
potevo sopportarlo e non era assolutamente giusto.
Quando i due tornarono in
saletta io rimasi immobile accanto a Serj, mentre
Michele mi raggiungeva e posava una delle sue mani sulla mia spalla.
Subito, rivolsi uno sguardo a
Matt e nel suo viso, seppur cercasse di nasconderla, si dipinse una smorfia di
sofferenza. Non appena si accorse che lo fissavo, distolse lo sguardo.
Mi alzai. «Joey? Andiamo a casa?» domandai, ignorando completamente
Michele. Ciò mi provocò una fitta in mezzo al petto.
Joey mi osservò con aria perplessa. «Va bene. Dammi
un attimo, sistemo la chitarra.»
Annuii e rimasi in piedi,
mentre mi sentivo addosso, oltre agli sguardi dell'ex cantante dei Bullet e del mio bassista, anche quello di Corey. Avrei dovuto parlare con lui, prima o poi, per
cercare di farmi un'idea di cosa avesse contro la mia persona.
«Liz,
va tutto bene?» chiese Michele, avvicinandosi.
«Sì» risposi senza guardarlo.
Non fece in tempo a ribattere
che Joey mi fece cenno di seguirlo, mentre il suo
amico lo aveva già raggiunto vicino alla porta.
«Bene. Ciao ragazzi» dissi, avviandomi.
Poco prima di uscire incrociai gli occhi di Michele e vi lessi confusione,
paura, tristezza e delusione, in un mix troppo logorante da sopportare, così mi
voltai e uscii. Mi sentii morire. Avrei voluto abbracciarlo e dirgli che andava
tutto bene, ma non potevo farlo. Matt ci avrebbe sofferto. Sperai che
attraverso il mio sguardo avesse scorto le mute scuse che avrei voluto
rivolgergli.
Durante il viaggio in
macchina mi sentivo infinitamente triste e affranta. Avevo preso la mia
decisione: non potevo stare con Michele fingendo che andasse tutto per il
meglio mentre Matt stava male a causa mia.
Una volta giunti a casa, feci
per andare in camera ma fui bloccata.
«Liz?»
mi chiamò Corey, dopo che Joey
si fu dileguato in salotto.
«Sì?» risposi, incerta,
voltandomi lentamente nella sua direzione. Evidentemente, aveva deciso di fare
lui il primo passo e ciò mi fece quasi sospirare di sollievo.
Stava appoggiato allo stipite
della porta d'ingresso, con le braccia incrociate sul petto e gli occhi
socchiusi. «So che non dovrei intromettermi, ma credo di sapere cos'hai in
mente di fare e ti dico che stai sbagliando tutto.»
Lo guardai storto, sperando
di aver capito male. Si stava intromettendo nella mia vita senza alcuna
cognizione di causa e questo mi irritava in maniera non indifferenza. Chi si
credeva di essere? «E tu che ne sai di me? Fatti gli affari tuoi» ordinai,
sbuffando, e me ne andai, imbufalita.
Cosa voleva quel Corey da me?
Mi chiusi in camera e mi
gettai a letto sfinita. Volevo dormire per non pensare, per non sentire il
dolore dilagare in me. Così, senza cambiarmi, mi addormentai con l'ansia che mi
toglieva il respiro.
A svegliarmi fu un continuo
bussare alla porta.
Mi alzai a fatica e, ancora
intorpidita dal sonno, andai ad aprire.
Alla vista di Michele sulla
soglia ebbi un sussulto. «Cosa fai qui?» chiesi, ignorando il suo saluto.
Mi rivolse un'occhiata
interrogativa. «Non capisco cosa ti sia preso in saletta. Sei fredda,
distaccata... C'entra per caso Matthew? Ti ha detto qualcosa che ti ha turbato?»
Senza guardarlo, con
un'indifferenza disarmante, dissi: «Matt non c'entra. Il problema è che io e te
non possiamo stare insieme.» Detto questo, avvertii una fitta lancinante al
petto.
«Come, scusa?» chiese, con
tono incerto, mentre il suo viso si distorceva in un'espressione profondamente
sofferente, proprio com'era accaduto poche ore prima, in saletta.
«Hai capito bene, non voglio
stare con te. Forse ti eri illuso. Hai capito male» risposi. Sentivo il sapore
delle lacrime in gola ma le ricacciai indietro con forza. Se avessi ceduto in
quel momento, non sarei più stata in grado di perseguire il mio obiettivo.
«E quella canzone... Quello
che è successo... Quello che mi hai detto... Non ha nessun significato, tutto
questo, per te?»
«Nessuno» affermai, guardandolo
negli occhi con sufficienza.
Rimase lì a fissare il vuoto
mentre io morivo dentro, con la voglia di stringerlo a me e cancellare il
dolore che distorceva il suo bel viso. 'Perdonami Mick, ti prego'
pensai, invece dissi: «Adesso vattene, vorrei tornare a dormire.» Era come se
la mia voce fosse attraversata da un'abominevole tempesta di neve siberiana.
«Non ti credo. Non credo ad
una sola parola di ciò che hai detto, Elisa. C'è qualcosa sotto a tutto questo
e stai certa che lo scoprirò. Parola mia. Un'ultima cosa.» Piantò con fermezza
i suoi occhi nei miei, poi aggiunse: «Ti amo. E non ho intenzione di stare qui
un minuto di più per sentirmi dire che anche questo ti è indifferente, perché
non è vero. Ti saluto» concluse e se ne andò.
Richiusi la porta con un
calcio e mi lasciai andare alle lacrime. Lui mi amava e io amavo lui. Sì, lo
amavo follemente. Eppure, tra noi non avrebbe mai potuto funzionare. D'allora
in poi mi sarei dovuta abituare a convivere con quella sofferenza, con la morte
nel cuore, con l'astinenza che la sua distanza mi procurava.
E così trascorsero le ore, i
giorni, le settimane e io stavo sempre peggio.
Michele non mi rivolgeva la
parola e io non ero da meno. Durante le prove in saletta la tensione era
palpabile e spesso ricevevo delle strane occhiate da Matt. Sembrava
preoccupato. Evidentemente la mia tristezza e il mio vegetare dietro la
batteria si notavano parecchio.
Intanto, Corey
era ormai ancorato a casa di Joey e io cominciavo a
non sopportarlo più. Dal giorno in cui si era permesso di intromettersi nella
mia vita, avevo maturato un forte senso di repulsione nei suoi confronti.
Intanto, i miei colleghi
erano preoccupati per le mie condizioni e quelle del bassista che, stranamente,
diveniva più silenzioso giorno dopo giorno. Tutti cercarono di scoprire cosa
fosse successo, chiedendomi come stavo, ma io mi limitavo a dire che era tutto
a posto. Sapevo di non averli convinti, ma sapevano com'ero fatta e che,
perciò, non era facile confidarmi. Dentro me sentivo crescere una sofferenza
lancinante e a volte sembrava addirittura che qualcuno mi stesse strappando il
cuore.
Vedere Michele ogni giorno e
dovergli stare lontano, nonostante non desiderassi altro che stringerlo forte,
stava diventando una situazione insostenibile.
Un pomeriggio, dopo le prove,
mentre aspettavo che Joey si preparasse per tornare a
casa, mi rifugiai nel terrazzo.
«Che fai qui tutta sola? Non
era mio, questo posto?» disse Matt, raggiungendomi. Mi sorrise e io non potei
fare a meno di restituirgli il gesto.
«Diciamo che mi hai
ispirato.» Restammo in silenzio a fissarci per un po', poi io ripresi a
parlare: «Ti è mai capitato di aver fatto qualcosa sperando di non fare del
male a nessuno e invece scoprire che, forse, non era la cosa giusta?»
«Sì. Mi è capitato, Liz.»
«Racconta.»
«Dovresti correre da Mick»
disse, d'improvviso.
«Cosa?» domandai, spiazzata.
«Si vede che ti manca e che
senza lui stai da schifo. Credo che tu l'abbia lasciato per un motivo ben
preciso che non riguarda i sentimenti.» Aveva ragione. Matt aveva capito tutto.
«E quale sarebbe questo
motivo?» chiesi, con tono incerto.
«Ho il timore che tu l'abbia
fatto a causa mia.»
«Non voglio che tu soffra,
tutto qua» dichiarai, appoggiandomi alla ringhiera con le braccia incrociate
sul petto. Il sole del pomeriggio cominciava a tramontare dietro i palazzoni
londinesi e si stagliava, basso, sul mio viso.
«La sofferenza più grande» attaccò,
raggiungendomi. Mi afferrò per le spalle e mi costrinse a guardarlo negli
occhi, poi proseguì: «Il dolore più intenso che io possa provare si manifesta
ogni volta che incontro i tuoi occhi e vi leggo tutta questa fottuta
malinconia. Liz» si interruppe per poi sussurrare,
«sii felice, ti prego. Non puoi vivere eternamente in funzione agli altri. È
ora che pensi a te stessa e ad essere felice con la persona che desideri avere
al tuo fianco. Solo così mi potrò mettere l'anima in pace.»
Quando concluse, rimasi
stupita e colpita da quelle parole. Aveva ragione lui. Trascorrere le ultime
settimane lontano dal mio bassista aveva fatto soffrire tutti e, cosa a cui non
avevo dato minimamente peso finora, aveva fatto tanto male anche a Michele
stesso. Come mi era venuto in mente di rinunciare a lui, sperando che tutti
fossero più felici? Questo era impossibile e io avrei dovuto capirlo da subito.
«Grazie Matt. Hai ragione,
sono stata una stupida!» ammisi, cominciando ad avviarmi in saletta. Avevo una
missione da compiere: implorare perdono al mio dolce Michele, sperando che non
fosse troppo tardi per recuperare il nostro rapporto.
Quando entrai nella stanza,
però, lui non c'era più.
Il panico mi invase l'anima.
«Se cerchi Capa, se n'è appena andato» disse Janne,
giocherellando come al solito con una delle mie bacchette.
Senza dire niente, mi
precipitai fuori, gettandomi quasi giù dalle scale. La sua auto nel parcheggio
non c'era. Senza perdere tempo, presi a correre come una pazza e raggiunsi la
fermata dell'autobus. Dovevo parlare con lui, ora, subito! Avevo tanta voglia
di riabbracciarlo e, soprattutto, di confessargli, finalmente, che l'amavo.
Il tragitto verso casa sua fu
relativamente breve. Mentre l'autobus sfrecciava per le trafficate vie di
Londra, ripensai a come la mia vita fosse cambiata da quando stavo in
Inghilterra. All'inizio non volevo venire e, come al solito, avevo discusso con
mio padre.
Scossi il capo a quel ricordo
e mi concentrai su quello che stavo andando a fare, ovvero cercare di salvare
la mia storia d'amore.
Quando scesi, alla sesta
fermata, mi lanciai di corsa verso il palazzo dov'era situato il suo
appartamento. Salii le scale senza nemmeno controllare se la sua macchina fosse
nel parcheggio e suonai il campanello, stentando a calmare il fiatone. Non mi
ero preparata mentalmente un qualcosa da dirgli, semplicemente avevo deciso di
lasciar parlare il cuore.
La porta non si aprì. Senza
lasciarmi scoraggiare, presi la mia decisione: non me ne sarei andata, l'avrei
aspettato, se necessario, per sempre. Mi lasciai scivolare con la schiena
contro la parete e strinsi le ginocchia al petto, socchiudendo gli occhi.
Com'era possibile che proprio io fossi arrivata al punto di fare delle
"pazzie" per amore?
Intanto, il tempo passava e
io me ne rimanevo immobile ad aspettarlo. Quando il sonno cominciava ad
appesantire le mie palpebre, udii dei rumori e un vociare provenire
dall'ingresso del palazzo, tre piani sotto di me. Sollevai lo sguardo, e vidi
Michele accompagnato da un suo amico.
«Mick!» saltai su, sentendomi
improvvisamente attiva. Subito mi accorsi che c'era qualcosa che non andava.
«Elisa? Che fai qui?
Comunque, Mick ha bevuto un po' troppo» mi spiegò Mark, raggiungendomi con il
mio bassista che gli vegetava sulla spalla.
«Senti» attaccai, frugando
nelle tasche di Michele per cercare le chiavi. «Mi occupo io di lui, glielo
devo» dichiarai, mentre giravo la chiave nella serratura.
Il ragazzo annuì.
Lo aiutai a trasportare il
bassista sul divano.
«Mark... Lei... Lei è...
Bella... Vero? Bellissima...» prese a vaneggiare Michele, in italiano.
Mark mi osservò con aria
interrogativa.
Levai gli occhi al cielo e
accompagnai il suo amico alla porta, ringraziandolo per averlo riaccompagnato.
Tornai da lui e lo trovai
immerso nel mondo dei sogni.
Mi sedetti in un angolo del
divano e, poco dopo, chiusi gli occhi, posando la testa sulla sua.
Quando mi svegliai, avvertii
un vuoto nello stomaco che mi fece ricordare di non aver cenato la sera prima.
Michele, con la testa sul mio
petto, dormiva profondamente perciò mi alzai facendo di tutto per non
svegliarlo. Gli posai il capo su un cuscino e mi avviai in cucina. Accesi la tv
e cercai un canale di musica rock, mantenendo basso il volume. Subito dopo
armeggiai in dispensa alla ricerca di cibo. Dopo aver messo su il caffè, presi
un po' di pane e vi spalmai della cioccolata.
Intanto, in sottofondo, le
note di una canzone dei Muse mi tennero compagnia mentre preparavo la
colazione.
Quando intravidi Michele
sulla soglia della cucina, stavo finendo di apparecchiare la tavola; lasciai
perdere quello che stavo facendo e gli andai incontro, abbracciandolo.
«Ben svegliato! Come stai?»
chiesi.
«Mal di testa. Ma... Cosa fai
qui?» Cercò il mio sguardo.
«Ecco... Ieri sono venuta a
cercarti ma non c'eri. Così ti ho aspettato e... Beh, sei arrivato con Mark e
non eri messo per niente bene. Così ho deciso di rimanere a prendermi cura di
te» spiegai, prendendogli la mano e trascinandolo a sedere.
Sgranò gli occhi non appena
si accorse della colazione. «L'hai preparata tu?» chiese, seppur la domanda
fosse scontata e la risposta ovvia.
Annuii e mi lasciai cadere su
una sedia accanto alla sua, senza lasciare la sua mano.
«Ieri mi hai aspettato
tanto?»
«No» mentii.
«Va bene... Ma... Perché mi
cercavi? Se non sbaglio avevi deciso di starmi alla larga» osservò, mollando la
presa.
«La verità è che non ce la
facevo più. Starti lontano è...» Mi interruppi per cercare il termine più
adatto. «Improponibile» conclusi, studiando la sua espressione indecifrabile.
«Allora perché... Perché mi
hai lasciato? Non sai quanto faccia male» sussurrò, affondando le dita tra i
capelli arruffati, con il rammarico a caratterizzargli la voce.
«Spero tu mi possa
perdonare... L'ultima cosa che volevo era farti soffrire.»
«Allora dimmi perché!»
Lo guardai con cautela.
«Matt» mormorai.
Michele mi fissò, perplesso. Poi,
distolse lo sguardo e annuì.
«L'ho fatto perché volevo
evitare che lui stesse male» aggiunsi, dopo che Michele ebbe sollevato gli
occhi al cielo.
«Non ci credo» disse, piatto.
«Sembra che tu ce l'abbia con
lui! Non ne hai alcun motivo, sai? È stato lui ad incoraggiarmi e a farmi
capire che dovevo tornare da te.»
Dopo essersi guardato
intorno, posò nuovamente lo sguardo su di me e disse: «Sei tornata solo perché
te l'ha detto lui?»
«No, Mick, maledizione!»
Esasperata, mi presi la testa fra le mani e avvertii le lacrime pungermi gli
occhi. «Tu non sai quanto mi odio» ripresi, senza guardarlo. «Mi odio perché
non riesco a farti capire quanto tu sia importante, mi odio perché non merito
tutto ciò che tu fai per me, mi odio perché non riesco mai ad esprimermi come
vorrei. Perché è così difficile?» chiesi più a me stessa che a lui. Lasciai
ricadere le braccia sul tavolo e tacqui.
«Cosa è difficile?»
Mi alzai, mi avvicinai a lui
e lo strinsi forte, mentre ormai le gocce salate mi bagnavano il viso. «Mick...
È difficile... Dirti... Oh, Mick! Anche io... Ti... T-ti
amo» riuscii a dire tra i singhiozzi. Cominciai a sudare a causa dell'immenso
imbarazzo e di ciò che pronunciare quelle parole mi aveva fatto provare.
Dopo essersi alzato a sua
volta, mi fissò con un'espressione strana, difficile da definire. Poco dopo, si
sciolse in un magnifico sorriso e mi prese la testa tra le mani.
Dal canto mio, gli circondai
il collo con le braccia e non potei fare a meno di restituirgli il sorriso,
mentre le lacrime divenivano di gioia.
«Tu...» attaccò, ma io lo
interruppi lasciandogli un bacio a fior di labbra.
«Voglio stare con te, Mick,
lo desidero davvero» sussurrai, per poi baciarlo con più intensità. Mi strinsi
al suo corpo e approfondii quel contatto, rendendomi conto che, durante le
settimane precedenti, avevo sentito terribilmente la sua mancanza.
Mi tenne stretta tra le
braccia e io capii che anche lui, come me, doveva aver sofferto molto a causa
della nostra lontananza finalmente interrotta.
Poco più tardi, quando
ricevetti una chiamata da parte di Joey, io e Michele
stavamo facendo colazione.
«Si può sapere che fine hai
fatto ieri?» chiese, ignorando il mio saluto. Era preoccupato perché ero
scappata via come un razzo senza avvisare nessuno e aveva ragione.
«Scusa, è che sono venuta a
cercare Mick e non ho pensato di avvertire, mi spiace» dissi, rivolgendo uno
sguardo al mio bassista.
«L'importante è che ora sia
tutto a posto. Lo è, vero?» domandò, con tono speranzoso, tendente alla
curiosità.
«Sì, finalmente.»
«Grandioso! Poi ne parliamo
quando torni. Ah! Aspetta» fece una pausa, poi aggiunse: «Ti saluta Corey e dice che... Che hai fatto bene a tornare da lui.
Ciao ciao.» Riattaccò.
Sbuffai. Nonostante mi avesse
irritato quel suo impicciarsi nella mia vita, dovevo ammettere che Corey aveva avuto ragione da subito e che, probabilmente,
avrei dovuto parlarci e scusarmi per il mio comportamento sempre un po' troppo
scontroso.
«A che pensi?» chiese
Michele, sfiorando la mia mano con la sua.
«Penso che sono stata
ingiusta nei confronti di Corey, l'ho preso in
antipatia ma alla fine aveva ragione lui.»
«Aveva ragione lui su cosa?»
Lo guardai negli occhi e, un
po' in imbarazzo, dissi: «Secondo lui stavo sbagliando ad allontanarmi da te.
Il fatto è che, non avendomi mai rivolto più di un saluto, un giorno mi ha
fermato soltanto per dirmi che stavo sbagliando tutto e questa sua
intromissione mi ha infastidito parecchio. Da quel momento ho iniziato a non
sopportarlo. Ma ora...»
«È comprensibile che ti sia
sentita a disagio quando lui ha cercato di entrare con prepotenza nella tua
vita, ma ti posso assicurare che è un bravo ragazzo. Dovresti proprio parlarci»
consigliò, sorridendo.
«Prima o poi lo farò.» Mi
alzai e mi avvicinai a lui, per poi sedermi sopra le sue ginocchia.
All'inizio parve sorpreso, ma
poi mi strinse per la vita con le braccia. «Piccola... Quanto sono felice che
tu sia tornata da me» sussurrò, posando la testa sulla mia spalla.
Sorrisi. Afferrai qualche
ciocca dei suoi capelli. «Anche io lo sono.»
Finalmente le cose erano
tornate alla normalità e, per far sì che tutto andasse bene, decisi che dovevo
parlare con Corey ad ogni costo. Così, la prima cosa
che feci una volta rientrata a casa di Joey, fu
cercare l'ex cantante degli SlipKnoT e chiarire le
cose.
Lo scovai seduto nella sala
computer di casa Jordison che ascoltava una canzone
su YouTube.
«Ciao Corey,
disturbo?»
«Liz?
Ciao! Certo che no, siediti pure.»
Feci come mi disse, mi
accomodai su una poltroncina di pelle situata in un angolo della stanza e
incrociai le gambe, osservandolo mentre si avvicinava e mi si inginocchiava
davanti. Quel gesto mi inquietò parecchio, ma cercai di non pensarci troppo.
«Mi cercavi?» domandò.
«Sì, volevo parlare con te.
Mi dispiace di averti evitato e di averti risposto male quando...»
«Lo so che non l'hai fatto a
posta, è comprensibile che non volessi che un estraneo si intromettesse nella
tua vita.»
Annuii.
«Liz,
comunque, forse anch'io ho sbagliato» aggiunse.
Stranamente, non riuscii a
capire se si riferisse al fatto di essersi intromesso o a qualcos'altro che non
ero capace di afferrare. Spaesata, avvertii come la sensazione e il bisogno di
andarmene da quella stanza, di allontanarmi da lui. Tuttavia, rimasi inchiodata
dov'ero, dicendomi che non potevo scappare in eterno e che era la mia
immaginazione a giocarmi brutti scherzi.
Lo osservai con aria
interrogativa.
«Ho sbagliato a consigliarti
di tornare da Michele» disse ancora, fissandomi con un'espressione quasi...
Famelica? In ogni caso, temetti quello sguardo.
«Cosa... Cosa vuoi dire?»
chiesi, con tono incerto.
Non ebbi nemmeno il tempo di
capire le sue intenzioni, che me lo ritrovai addosso che premeva le sue labbra
sulle mie.
No, non poteva essere.
Sentendomi avvampare per l'imbarazzo e per l'ira, sollevai un ginocchio e lo
colpii dritto in mezzo alle gambe, facendolo rotolare a terra dal dolore. Un
grido gli sfuggì strozzato.
«Cosa cazzo stai facendo? Se
provi ancora ad avvicinarti a me te ne do un altro! Hai sbagliato a metterti
contro di me, questa me la paghi, bastardo!» Saltai in piedi e me ne andai.
«Joey,
dobbiamo parlare» esordii, irrompendo in salotto, dove il chitarrista era
intento a guardare la tv.
«Certo, ma che succede? Come
mai quella faccia?» mi domandò studiando la mia espressione.
Rimasi in piedi vicino alla
porta con le braccia incrociate sul petto, senza proferire parola.
Il mio amico spense la tv e
mi fece cenno di raggiungerlo sul divano.
«Ti devo chiedere di
scegliere tra la mia presenza in questa casa o quella di quel depravato di Corey!» sbottai, rimanendo ferma dov'ero.
Joey sgranò gli occhi e, lentamente, si alzò e mi
si avvicinò. «Cosa?»
«Hai capito! O se ne va lui o
me ne vado io!»
«Ma perché, Liz, eh? Cos'è successo?»
«Ti basti sapere che è un
porco! Allora?»
Alzò gli occhi al cielo e
disse: «Allora cosa? Non posso sfrattarlo, è come un fratello per me! Come puoi
chiedermi una cosa simile?»
«Infatti non te l'ho chiesto,
ti ho messo davanti ad una scelta e tu hai deciso. Tolgo subito il disturbo»
dichiarai, sentendomi in qualche modo tradita da Joey.
«Non dire cazzate Liz, fermati! Ma dove vai?» chiese, trattenendomi per un
polso.
«Vado dal mio ragazzo, che
sarà contentissimo quando saprà cos'ha fatto il tuo caro amico!»
«Cos'ha fatto? Me lo dici o
no?»
«Chiedilo a lui. E ora
lasciami andare» gli ordinai, divincolandomi dalla sua presa.
Corsi in camera e iniziai a
preparare le mie cose. Perfetto, non riuscivo ad avere una dimora fissa. Decisi
che sarei rimasta a casa di Michele giusto il tempo necessario per trovare un
appartamento tutto mio.
Quando me ne andai sbattendo
la porta, non mi preoccupai di salutare nessuno. Volevo solo allontanarmi da Corey e da quel traditore di Joey.
Come avevo potuto fidarmi di lui? E ora, avevo ricevuto l'ennesima mazzata.
Avrei dovuto essere distaccata come ero sempre stata, invece mi ero lasciata
andare, ancora una volta, con la persona sbagliata.
Frustrata, presi l'autobus e
durante il tragitto pensai a come sarebbero andate ora le cose con i Faithless. E Michele cos'avrebbe fatto? Non ne avevo idea
ma decisi comunque di attendere di poter assistere con i miei occhi alla sua
reazione.
«Liz?
Cosa fai qui con quella valigia?» mi chiese Michele non appena aprì la porta.
«Mick!» Abbandonai il mio
bagaglio sulla soglia e mi gettai tra le sue braccia.
«Principessa, ehi... Che
succede?» domandò stringendomi al petto e accarezzandomi i capelli.
Cercai il suo sguardo. «Posso
stare qui da te finché non trovo un'altra sistemazione?» sussurrai, con
imbarazzo.
«Ma... Ma come mai? Non
stavi... Non stavi da Joey?» balbettò confuso.
Dopodiché si staccò da me, chiuse la porta e mi condusse in cucina.
Dopo essermi seduta sul
divano con lui al seguito, dissi: «Me ne sono andata da casa di Joey perché... Per colpa di Corey.»
Il bassista mi guardò con
aria interrogativa, così aggiunsi: «Ecco... Corey ha
provato a... Lui mi ha... Baciato.»
Il viso di Michele si
distorse a causa della rabbia. «Bastardo!» esclamò, stringendo i pugni.
«Dai... Ora stai tranquillo.
Quello che mi ha ferito maggiormente è il fatto che Joey
abbia scelto lui» ripresi, accarezzando distrattamente il dorso della sua mano,
che poi si intrecciò alla mia.
«Cosa significa che ha scelto
lui?»
«Sono andata a parlargli di
quello che era successo e gli ho detto che se non se ne fosse andato Corey me ne sarei andata io e lui ha risposto che non
poteva sfrattarlo così.» Più guardavo il mio bassista, più avvertivo la
delusione mischiarsi alla rabbia nei suoi occhi scuri.
«Questa non me la sarei mai
aspettata da Joey» disse, amareggiato.
«Nemmeno io in realtà.»
Lasciò la mia mano e si alzò,
per poi avvicinarsi alla finestra e guardare all'esterno. «Vedrò di risolvere
anche questo principessa, stanne certa» dichiarò, perdendo lo sguardo
all'orizzonte, nonostante ai suoi occhi si mostrasse soltanto un'infinità di palazzoni
grigi.
Lo raggiunsi e lo abbracciai
da dietro, posando la testa tra le sue scapole. «Grazie amore mio, grazie per
come ti prendi cura di me» sussurrai, stringendolo forte.
Rimase in silenzio e poi si
voltò per poter ricambiare l'abbraccio.
«Comunque non c'è bisogno, ho
già parlato io con loro» aggiunsi.
«Ti proteggerò sempre e
comunque, da ogni male» ribatté con tono fermo, fissandomi intensamente negli
occhi.
Quando quello stesso
pomeriggio ci ritrovammo in saletta per le prove, Corey
non c'era.
Dal canto mio, feci il mio
solito giro di saluti, ignorando deliberatamente Joey.
Mi fermai a parlare con Matt e, mentre accordava la chitarra, gli raccontai gli
ultimi avvenimenti.
Dopo aver scosso il capo,
rivolse una veloce occhiata all'altro chitarrista, per poi sospirare.
Notai che Michele parlottava
con Janne e Max, mentre Serj
mi osservava dal lato opposto della stanza, così lo raggiunsi lasciando che
Matt si concentrasse su ciò che stava facendo.
«Ehi» dissi, affiancandomi al
cantante armeno.
«Ehi» rispose, scrutandomi.
«Come mai mi guardavi in quel
modo? Scommetto che hai intuito qualcosa.»
«Se ti riferisci al fatto che
tu e Jordison vi comportate come due estranei, penso
sia impossibile non accorgersene» spiegò. «Comunque, che è successo?» domandò,
a bassa voce.
«Corey
mi ha baciato e lui l'ha difeso» risposi.
«Ahia! Ecco perché Mick ha
quella faccia da funerale oggi. Non basta quello che ha fatto Taylor, in più
c'è pure il tradimento di un amico. Brutta storia» osservò Serj,
per poi darmi una pacca sulla spalla. «Coraggio, supereremo anche questa, non
temere. Io comunque sono a disposizione se hai bisogno.»
Non potei fare a meno di
sorridere. «Inguaribile ottimista. Comunque grazie.»
Mi restituì il sorriso e si
avvicinò agli altri per capire se fossero pronti per iniziare, mentre io andavo
a sedermi dietro la batteria. Qualche minuto dopo cominciarono le prove e io mi
sfogai parecchio con le bacchette.
Due ore dopo eravamo intenti
a sistemare tutto per andarcene, abbastanza soddisfatti di come avevamo
suonato.
Qualcosa, però, accadde e
rallentò i nostri preparativi, deconcentrandoci: sulla soglia, con aria
spavalda, apparve Corey.
Rimasi shockata per qualche
istante, ma subito mi riscossi e lo incenerii con lo sguardo.
«Cosa cazzo ci fai tu qui?»
gli gridai in faccia, facendo qualche passo nella sua direzione.
Michele, che non si era
accorto di niente intento com'era a riordinare meticolosamente il suo basso, si
voltò e in un attimo il suo volto si distorse per la rabbia.
Feci appena in tempo a
raggiungerlo prima che si scagliasse addosso all'ex cantante degli SlipKnoT. «Amore, no» sussurrai, tenendolo stretto a me.
Corey non staccava gli occhi da noi e non smetteva
di fissare le mie braccia avvolte al corpo tremante di rabbia di Michele.
«Liz...
Lasciami» provò a protestare il bassista, ma lo interruppi:
«Mick, no, ti prego.»
I suoi occhi incontrarono i
miei e vi lessi un'ira bruciante e un istinto omicida non indifferente.
«Andiamo a casa, mmh? Prendi il basso e andiamocene» consigliai.
Lui annuì e insieme andammo a
recuperare il suo strumento.
Intanto, Corey
aveva salutato il resto del gruppo e si era avvicinato a Joey.
Io e Michele ci avviammo
verso la porta.
«Liz?
Tesoro, non mi saluti?» disse Corey e io mi bloccai.
Aveva superato il limite, decisamente.
Michele, al mio fianco,
divenne paonazzo in viso a causa della crescente rabbia nei confronti di quello
stronzo e io lo strinsi forte dicendo:
«Tranquillo, su, non è
niente. Ci penso io.»
Mi voltai nella direzione
dell'amico di Joey. Non gli rivolsi la parola ma bastò
un mio sguardo a far sì che abbassasse il suo.
«Ciao ragazzi, a domani»
dissi con un sorriso guardando Janne, Serj, Max e Matt. Dopodiché strinsi più forte la mano del
mio bassista e lo trascinai fuori dalla saletta.
Una volta saliti in macchina
lui, anziché partire, appoggiò la testa sul volante, sospirando pesantemente.
«Mick, dai... Non te la
prendere, l'ha fatto a posta per provocarci, lo capisci?»
Sprofondò sul sedile e mi
guardò. «Avrei voluto spaccargli la faccia» ammise.
Avvicinai il mio corpo al suo
e lo baciai dolcemente, posando una mano sulla sua guancia. Poco dopo, fissando
i suoi occhi, sussurrai: «Andiamo a casa e non pensiamoci più.»
Lui annuì, così ci mettemmo
in viaggio.
«Se vuoi, metti un cd» disse,
accennando al porta oggetti.
Presi il suo disco 'Le
Dimensioni Del Mio Caos' e lo infilai nel lettore. Era sempre stato il mio
album preferito, ma da quando mi aveva dedicato 'Ulisse' lo amavo ancora di
più. Trascorremmo il resto del viaggio immersi tra le note e i testi delle sue
canzoni, intonandole insieme. Mi rilassava cantare e in quel momento ne avevo
bisogno, dopo quello che era successo con Corey.
Anche Michele sembrò essersi
tranquillizzato e io ne fui estremamente felice. Non avrei permesso a nessuno
di rovinare il nostro rapporto, avevo già fatto troppi errori e non avrei più
potuto accettare di perderlo ancora.
«Comunque non la passa
liscia» disse Michele, dopo cena, mentre stavamo sul divano a fare zapping in
tv.
Mi voltai a guardarlo e
risposi: «Capa, la smetti o no? Ne abbiamo già
parlato. Non ne vale la pena, lo sai.»
«Mi fa incazzare! E tu non mi
chiamare in quel modo» disse più dolcemente, rivolgendomi un'occhiata carica di
significato.
«È solo che non voglio
vederti così nervoso, ti fa male. Scusa, mi è uscito spontaneo» sussurrai.
«Va bene, non importa.» Mi
fece cenno di avvicinarmi a lui e io posai la testa sul suo petto,
sintonizzando la tv sul mio canale rock preferito.
«Liz,
forse non sai qual è il problema.»
«Probabilmente hai ragione,
non lo so.»
«Il fatto è che ora io e
te... Be'... Ci frequentiamo, ecco. L'idea che qualcuno possa distruggere
quello che si sta creando tra noi mi manda in bestia. Ci è voluto tanto tempo
perché le nostre anime si trovassero e non posso permettermi di lasciarti andare
così, come se niente fosse» confessò, appoggiando una mano sulla mia spalla.
Chiusi gli occhi e rimasi in
silenzio ad ascoltare il battito del suo cuore vibrare sotto il mio orecchio e
così ebbi modo di assimilare quelle parole. Mi limitai a stringerlo forte,
chiedendomi quanto fosse facile per lui esternare i suoi sentimenti. Anch'io
avrei voluto dirgli tante di quelle cose con le quali avrei addirittura potuto
scrivere un libro, eppure non ne ero assolutamente in grado. Lui però sapeva
che dentro di me regnavano dei sentimenti puri e sinceri e conosceva ogni mia
difficoltà, proprio come mi aveva detto Joey tempo
addietro.
Già, Joey.
Mi sembrava impossibile che mi avesse tradito poiché era stato lui a spingermi
a lottare per stare con l'uomo che amavo. Ci doveva essere qualcosa sotto. Il
fatto che lui mi avesse pugnalato alle spalle non rientrava nelle mie capacità
di concepimento. Joey era Joey
e non poteva averlo fatto, non poteva e basta.
Eppure, l'aveva fatto.
Temevo che il mio rapporto
con lui fosse giunto definitivamente al termine e temevo che questo potesse
influire negativamente sulla carriera dei Faithless.
I giorni passavano e le prove
con il gruppo erano sempre più strane. Regnava perennemente uno strano
silenzio, e io cominciavo a pensare che, di questo passo, non ci sarebbe stato
più quell'affiatamento e quell'entusiasmo tipico dei mesi precedenti. Della situazione
erano a conoscenza tutti i componenti della band.
Matt, infatti, era piuttosto
distaccato nei confronti dell'altro chitarrista e gli lanciava strane occhiate
ogni tanto, come se studiasse i suoi comportamenti.
Per quanto riguardava Corey, non si era più fatto vedere e io pensai che fosse
dovuto alla figuraccia che aveva fatto quel giorno in saletta.
Un giorno, però, parlando con
Max, avevo scoperto che era tornato in America.
Quel giorno ero piuttosto
immersa nel mio mondo e quasi sobbalzai quando qualcuno mi rivolse la parola.
«A cosa pensi?» mi chiese Serj, distogliendomi dal caos che popolava la mia mente. Ci
trovavamo in saletta circa una settimana dopo l'accaduto e io, dopo finite le
prove, ero rimasta dietro la batteria a fissare il nulla.
«Pensavo a questa situazione
con Joey» risposi, posando lo sguardo sul cantante
armeno che stava in piedi al mio fianco con le braccia incrociate sul petto.
Non fece in tempo a ribattere
che fummo interrotti da qualcuno che irruppe nella stanza. Si trattava di una
ragazza piuttosto alta, capelli scuri, fisicamente perfetta, di una bellezza
disarmante. Si guardò intorno e poi corse incontro a Max e lo abbracciò. «Max!»
disse, poi aggiunse qualcosa in una lingua a me sconosciuta, che mi parve uno
spagnolo molto strano, che poteva essere portoghese.
Così, cominciò un dialogo tra
i due in quel linguaggio incomprensibile per i presenti, poi il cantante
brasiliano ci rivolse la parola: «Ragazzi, lei è mia sorella Débora. Deb, loro sono Matt, Joey, Janne, Serj,
Liz e Mick» disse, indicandoci man mano che
pronunciava il nostro nome.
La ragazza esaminò i nostri
visi, poi, ad un tratto, le si illuminarono gli occhi.
Seguii il suo sguardo che si
posò famelico sul mio bassista. Poco dopo tornò a guardare il fratello e disse
in inglese: «Mi piacciono i tuoi amici.»
Cercai di mantenere la calma
mentre quella vipera mangiava il mio Michele con gli occhi. Era in quella
stanza da poco più di dieci minuti e già la detestavo. Mi dispiaceva per Max,
ma sua sorella non avrebbe avuto vita facile con me.
Serj, che stava ancora in piedi vicino a me, mi
posò una mano sulla spalla.
Lo guardai e nei suoi occhi
lessi tranquillità, come se volesse rassicurarmi, facendomi intendere che non
dovevo preoccuparmi. Lui era fatto così, vedeva sempre del buono in ogni
persona o situazione, e questo poteva essere sì un pregio ma anche un difetto.
Infatti, non sempre le cose andavano per il meglio, ma in fondo sperarci non
costava poi tanto.
Purtroppo, però, l'ottimismo
appena acquistato grazie al cantante armeno fu destinato a morir sul nascere.
Infatti, la stangona, non appena finite le prove, si sedette sul divano accanto
al mio bassista e, incrociando le gambe, cominciò a parlargli con
un'espressione e un atteggiamento da gatta morta che mi mandò in bestia.
Mi alzai, lasciando cadere le
bacchette sul pavimento e mi diressi a passo spedito verso il divano. Con
prepotenza, mi misi a sedere sulle ginocchia del mio ragazzo.
Ehi, un attimo... Michele era
il mio ragazzo? Quella consapevolezza mi scosse leggermente, poiché non avevo
ancora preso seriamente in considerazione quell'opzione.
Gli circondai il collo con le
braccia e mi godetti l'espressione perplessa di Débora.
Dal canto suo, Michele,
colpito da quel mio gesto in pubblico, rimase immobile per qualche istante, poi
mi strinse a sua volta.
«Voi due... State insieme?»
domandò quella, sconcertata.
«Precisamente» risposi, secca
e concisa.
Abbassò lo sguardo, per poi
spostarlo altrove, sulla figura di suo fratello che era intento a colpire Janne in testa con una delle mie bacchette. La scena mi
fece sorridere e, stretta al bassista, osservai i nostri amici rincorrersi per
tutta la stanza come dei bambini dell'asilo.
L'unico che rimaneva in
disparte era Joey e vederlo in quel modo, solo in un
angolo, mi dispiacque parecchio. Ero convinta della sua fedeltà nei miei
confronti, non poteva avermi tradito, non era da Joey.
D’altronde, lui mi aveva accolto, evitando di lasciarmi in mezzo alla strada.
Ero più che certa che lui
tenesse a me e l'avrei dimostrato a me stessa e al resto dei Faithless.
Sperai vivamente che Débora avesse recepito il messaggio e che lasciasse in pace
il mio ragazzo.
Già, ormai lo consideravo
tale, nonostante non ne avessimo parlato esplicitamente. Tuttavia, ero sicura
che lui fosse contento di ciò, e non tardò a farmelo presente.
Mi ero rifugiata nel piccolo
balcone di casa sua quella sera, quando mi raggiunse.
«Che fai qui?» domandò,
cercando subito un contatto con me. Avvolse le mie spalle con un braccio e
rivolse lo sguardo al cielo notturno.
«Riflettevo» sussurrai,
stringendomi al suo fianco.
«Sul fatto che noi due stiamo
insieme?» volle sapere, dandomi un buffetto sulla guancia.
Sorrisi perché mi aspettavo
che portasse fuori l'argomento. «Ti ha per caso dato fastidio il fatto che io
l'abbia confermato a Débora?» risposi, con un'altra
domanda.
Scosse vigorosamente il capo.
«Affatto. Credo sia stata la cosa giusta da fare.»
Annuii. Credetti
che non ci fosse altro da aggiungere, ma lui riuscì comunque a stupirmi, come
al solito.
«Dunque è così?»
Rimasi stupita da quella
domanda, perciò mi lasciai sfuggire: «Cosa?»
«Stiamo insieme Liz?»
Cercai il suo sguardo e
risposi con un sussurro: «Spero di sì.»
Rimanemmo in silenzio e
fissammo l'uno gli occhi dell'altra.
Avrei voluto dirgli che
l'amavo, ma non lo feci. Mi sembrò fuori luogo e, inoltre, mi ero nuovamente
bloccata. Odiavo non potermi esprimere come desideravo, soprattutto nei suoi
confronti.
Dopo un po', mi strinse a sé
e sussurrò al mio orecchio. «Hai sperato bene.»
Rabbrividii leggermente e
ricambiai l'abbraccio, senza dire niente. Forse, i gesti furono capaci di
parlare più della mia stessa voce, e Michele sembrò capire il mio muto
messaggio.
Quando andai a dormire,
quella notte, mi sentii sola. Avrei tanto voluto stringermi al suo petto e
sentirlo respirare sui miei capelli, eppure rimasi lì, sola, senza riuscire a
chiudere occhio per un bel po' di tempo. Quando, finalmente, mi abbandonai tra
le braccia di Morfeo, ero abbracciata al cuscino, alla ricerca del suo odore.
Quando riaprii gli occhi, il
mattino seguente, mi sentivo uno straccio. Possibile che dipendesse dalla
voglia di dormire sul petto del mio ragazzo? No, era impossibile.
Mi alzai e mi chiusi in
bagno. Feci una bella doccia tiepida e, dopo essermi vestita, raggiunsi la
cucina.
«Buongiorno! Come stai oggi
principessa?» mi accolse il bassista, venendomi incontro con un sorriso.
Mi lasciai stringere,
cercando di percepire il suo odore che mi era mancato terribilmente.
«'giorno. Mmh,
non va tanto bene, mi sento un po' debole» confessai.
«Dai vieni» mi incitò
accompagnandomi a tavola. «Ora bevi un bel caffè e vedrai che starai meglio»
concluse, versandomi il liquido miracoloso in una tazzina.
Non sapevo se fosse il caso
di dirgli cosa mi faceva star male, eppure non lo feci, perché non ne trovai il
coraggio. Ormai era una routine provare a lottare con il fatto di non riuscire
ad esprimere praticamente niente, e ancora mi stupivo di essere riuscita a
dirgli che l'amavo. Mi sembravano cose talmente estranee alla mia persona, che
davvero non mi capacitavo di averle fatte mie in quei momenti. Ero frustrata e,
più il tempo passava, più detestavo quella sorta di handicap che da troppo tempo
mi caratterizzava.
«No, davvero. Ti dispiace se
torno a letto, Mick? Sto proprio da schifo» sussurrai.
«Figurati, vai pure.»
Senza aggiungere altro, mi
alzai e mi trascinai nuovamente in camera, per poi gettarmi nel letto. Sapevo
benissimo che il male che provavo era strettamente psicologico, tuttavia rimasi
tutta la mattina sotto le coperte appisolandomi di tanto in tanto. Se solo
avessi potuto semplicemente liberarmi di ciò che mi causava quello strano
malessere come probabilmente avrebbe fatto qualsiasi altra persona.
Ma io non ero come gli altri.
Io ero Liz:
il cuore lacerato, l'anima distrutta e tanto, troppo, da raccontare.
Decisi di parlare con Joey. La situazione tra noi era ormai insostenibile e le
prove venivano spesso rimandate per suoi improvvisi e inspiegabili impegni.
Michele, con il quale avevo
parlato delle mie intenzioni durante il viaggio verso la saletta, non sembrava
molto entusiasta all'idea.
«Non fraintendermi Liz, mi farebbe piacere che tutto si sistemasse, ma penso
che dovrebbe prendere lui l'iniziativa» disse infatti.
«Andiamo, sai com'è fatto Joey. Tra l'altro, si ritrova ad avere quasi tutta la band
contro, vuoi che non tema una reazione da parte nostra?» ribattei, osservando
il suo profilo rivolto verso la strada.
«Probabilmente sì. Be',
comunque se vuoi parlarci, fallo. Sicuramente dopo ti sentirai meglio.»
Annuii. Aveva ragione. Mi
conosceva abbastanza per sapere che anche la cosa più semplice riusciva a
rallegrarmi. Stavo male a causa della situazione creatasi con Joey perché era come se avessi perso una parte della
famiglia, un fratello. E siccome una famiglia vera e propria non la avevo,
l'idea di perdere anche uno solo degli affetti rappresentati dai ragazzi dei Faithless mi faceva male, troppo male.
Quando entrando in saletta
incrociai lo sguardo triste del chitarrista, non riuscii più a resistere. Lo
raggiunsi, lo guardai negli occhi e, senza dire niente, lo trascinai in
terrazzo, sotto lo sguardo stupito degli altri.
«Joey,
senti... Mi manchi, okay?» dissi, senza guardarlo.
«Anche tu, tanto. Mi dispiace
di aver in qualche modo difeso Corey, non c'è
giustificazione per il mio comportamento. Prima che se ne andasse, gli ho detto
tutto quello che pensavo e ora credo mi odi.»
«Cosa gli hai detto?»
domandai, curiosa.
«Che è un fottuto stronzo e
tante altre cose che è meglio non ripetere.»
Risi. «Probabilmente ti odia
davvero. Comunque non dovevi, insomma, lui è...»
«Corey
è cambiato tanto in questi ultimi mesi, non è più lo stesso. Perciò, anche il
nostro rapporto di conseguenza si è modificato» spiegò. Ci soffriva, lo sapevo,
lo percepivo.
«Mi dispiace» sussurrai,
avvicinandomi di più a lui.
Joey mi guardò, cercando di sorridere, nonostante
il suo viso, esprimesse tristezza e delusione. «Anche a me» rispose.
Lo abbracciai forte. «Joey... Ti voglio tanto bene» confessai, mentre lui
ricambiava il mio gesto.
«Anch'io collega te ne voglio
tanto.»
Così, fui felice che con Joey fosse tutto okay.
Ciò che mi mandò su tutte le
furie fu la sorpresa che mi attendeva in saletta non appena rientrai. Débora, che non avevo idea di cosa facesse anche quel
giorno là, si comportava da civetta con il mio ragazzo.
Joey, che mi stava accanto, sbuffò rumorosamente,
attirando l'attenzione di tutti, soprattutto dell'odiosa brasiliana. «Possiamo
iniziare le prove se siete pronti» disse poi, rivolgendo uno sguardo ai membri
del gruppo.
Michele mi raggiunse, mi
lasciò un lieve bacio sulla fronte e andò a prendere il suo basso, mentre io mi
sistemavo dietro la batteria.
La sorella di Max rimase in
piedi vicino al divano con la schiena contro il muro per tutta la durata delle
prove, fissando ammaliata le dedizione con cui il bassista sfiorava ogni
singola corda del suo strumento.
La odiavo e ciò venne fuori
nel modo in cui suonai. Durante la terza canzone mi si ruppe una bacchetta.
Imprecai.
Il bassista mi guardò
stupito, poi scoppiò a ridere, seguito a ruota da tutti gli altri.
Tutti tranne Débora, che si limitò a serrare le labbra e i pugni mentre
osservava Michele ridere con me, per me.
«Hai le bacchette di
ricambio?» domandò Janne con tono divertito.
«Quale batterista serio
andrebbe in giro senza le bacchette di ricambio?» feci, estraendone un nuovo
paio dalla borsa. Ne feci roteare una in aria.
Joey trotterellò euforico nella mia direzione e
pretese di fare batti cinque.
Non appena riuscii a smettere
di ridere, aggiunsi: «Pronti? Riprendiamo?»
Tutti annuirono e le prove proseguirono.
Ero contenta del fatto che quella gatta morta stesse rodendo dalla rabbia e
dalla gelosia. La detestavo, mi dispiaceva terribilmente per Max, ma sua
sorella faceva parte della mia lista nera. Non avrebbe avuto scampo con me,
affatto.
Dopo un po', mentre
continuavamo a provare, Débora prese a fissare me,
distogliendo lo sguardo da Michele. Mi guardava, studiava ogni mio movimento
come volesse trucidarmi con gli occhi, mettendomi in soggezione.
Fu durante un assolo di Matt
accompagnato dalla melodica voce di Serj che smisi di
suonare. Ora, oltre a quello della brasiliana, sentivo addosso lo sguardo
interrogativo di tutti.
Il mio, invece, era piantato
unicamente in quello della sorella di Max.
«Potresti gentilmente
smettere di guardarmi?» sbottai.
Sorrise. Quella stronza aveva
osato sorridere davanti alla mia irritazione.
Mi alzai e in un attimo le
fui vicino.
Qualcuno, alle mie spalle, mi
trattenne per un braccio.
Lanciai una veloce occhiata.
«Lasciami, Matt» sussurrai a denti stretti, cercando di divincolarmi.
La sua presa aumentò.
Débora, intanto, continuava a sorridere, beffarda,
con le braccia incrociate sul petto. «Che c'è, Liz? Mmh?» fece, socchiudendo gli occhi.
Vedevo tutto rosso, accecata
dalla rabbia. Grugnii.
«Ora basta, ragazze»
intervenne Serj. Come sempre, il suo tono era
terribilmente calmo, pacato, tranquillo. «Max, sarebbe meglio tenere tua
sorella lontana dalla saletta d'ora in avanti. Liz,
stai calma, su» concluse, guardandomi. Nei suoi occhi intravidi qualcosa che
subito mi tranquillizzò.
Mi liberai di Matt e lo
raggiunsi, sorridendogli.
Prese una delle mie mani e la
strinse, con fare rassicurante e allo stesso tempo protettivo. Sentivo che il
cantante armeno rappresentava il padre che, ormai, avevo perso per sempre.
Max, intanto, stava avendo
una muta conversazione con sua sorella, fissandola intensamente negli occhi.
Poco dopo, disse: «Ragazzi, mi dispiace per il disagio. Vi assicuro che Deb non vi darà più fastidio. Ora noi andiamo.»
Solo quando i due lasciarono
la saletta mi resi conto che, per quel giorno, le prove erano terminate. Con la
mano stretta a quella di Serj, ripensai al truce
sguardo che Débora mi rivolse poco prima di uscire.
Tenere la mano al cantante
armeno mi permetteva di mantenere la calma, poiché il suo carattere ottimista e
pacato era in grado di infondere quelli stessi sentimenti a chi lo circondava.
Michele stava sistemando il
suo basso in silenzio e io lo osservai, pensando a quanto fossi fortunata ad
averlo accanto. Débora non me l'avrebbe portato via.
Io non l'avrei permesso e nemmeno lui. Lo sapevo, ne ero certa. Come avrebbe
potuto essere interessato a quella? Era bella, sì, ma l'amore del mio bassista
per me andava oltre la bellezza. Doveva essere così, altrimenti come avrebbe
potuto stare insieme a me? D'altronde ero soltanto una venticinquenne come
tante altre, né brutta né di una bellezza ammaliante come quella della
brasiliana.
Tra tutti quei pensieri se ne
insinuò un altro che non aveva niente a che fare con gli altri: mi chiesi se,
ora che con Joey era tutto risolto, avrei dovuto
tornare a vivere da lui o se invece dovessi stare a casa di Michele. La
risposta era semplice: avrei chiesto all'ex SlipKnoT
di poter occupare nuovamente la stanza in casa sua e di pagargli l'affitto
com'era stato deciso in origine. Inoltre, ancora non gli avevo consegnato i
soldi delle tre settimane che avevo già trascorso in casa sua prima del
litigio.
Mi resi conto che, prima di
tutto, avrei dovuto affrontare Michele ed esporgli la mia decisione. Sperai che
non se la prendesse. In fondo sapeva benissimo che non amavo dipendere dagli
altri e avrebbe dovuto accettarlo a tutti i costi, come aveva già fatto in
passato. Ne era in grado, nonostante gli costasse parecchio. Mi rispettava e
non ostacolava mai le mie decisioni.
Lasciai la mano di Serj, che era rimasto in silenzio con gli occhi socchiusi
come se mi stesse leggendo nella mente, e raggiunsi il mio ragazzo,
abbracciandolo. Volevo stare con lui, solo con lui, perciò gli sussurrai
all'orecchio: «Andiamo?»
Annuì e prese il basso.
Salutammo gli altri con un
sorriso e uscimmo dalla saletta.
Mi bastava stare con lui per star
bene. Non aveva importanza che rimanessimo in silenzio uno accanto all'altra o
facessimo qualunque altra cosa, la cosa essenziale era percepirci a vicenda.
E quella sera era proprio
così che stavano andando le cose: io stavo seduta al tavolo della cucina a
comporre il testo di una canzone da proporre al gruppo mentre Michele sedeva
accanto a me a leggere un libro. C'era silenzio assoluto, eppure io lo sentivo
più vicino che mai.
Ricordai che dovevo parlargli
della mia decisione di lasciare casa sua e tornare da Joey,
ma per quella sera non avrei detto niente, semplicemente perché spezzare la
quiete di quel momento significava distruggere la magia che si era venuta a
creare attorno a noi. Fu per questo che le nostre labbra rimasero sigillate per
tutte le due ore successive, facendo sì che ci immergessimo ancora più a fondo
in ciò che stavamo facendo.
Quando mi accorsi di essere
molto stanca mi alzai, mi avvicinai a lui e lo baciai con passione,
sussurrando: «Buonanotte amore mio.»
La cosa stupì entrambi ma
entrambi ne fummo felici.
Infatti, Michele mi sorrise
dolcemente e disse: «Sogni d'oro principessa.»
Raggiunsi la mia stanza e,
non appena mi chiusi la porta alle spalle, la solitudine e lo sconforto che mi
assalivano da diverse notti ormai, tornarono inesorabili a trovarmi. Avrei
voluto tornare di là, stringermi nuovamente al mio amato e dirgli che non
riuscivo a dormire da sola, senza lui.
Eppure, come ogni notte, mi
trascinai a letto, mi cambiai e mi infilai sotto le coperte, cominciando a
piangere. Non avevo il coraggio di fare una cosa del genere, una cosa che per
chiunque altro sarebbe stata così semplice e naturale.
Ovvio, non per me, non per Liz.
Liz non riusciva a prendere quasi nessuna
Iniziativa, Liz era timida, goffa, impacciata e senza
un minimo di coraggio.
Cosa potevo fare per cambiare
le cose? Non reggevo più quella situazione, mi sentivo sempre peggio, man mano
che i giorni trascorrevano.
Quando ne parlai con Michele
fu unicamente perché lui insistette parecchio prima di riuscire a farmi cedere.
Era venuto a trovarmi a casa
di Joey, poiché ero tornata a vivere là, e stavamo
seduti sul bordo del mio letto.
Quando capii di non potermi
tenere tutto dentro, gli parlai fissando il vuoto davanti a me. «Abbiamo
vissuto per un po' di tempo insieme e io ho sempre dormito sola. Be',
contrariamente a quanto mi aspettassi, la cosa mi ha fatto soffrire, star male
fino al punto di non riuscire a prendere sonno facilmente. Mi dispiace di non
avertene parlato prima ma sai come, purtroppo, sono fatta» dissi, senza
spostare i miei occhi su di lui che, al mio fianco, mi teneva la mano.
Sospirò. «Non ti ho chiesto
se ti andava di dormire con me perché avevo paura di un tuo rifiuto e di
sembrare invadente e...» S'interruppe mentre scuotevo il capo.
«Non ti giustificare. Quella
che ha la colpa di tutto sono io.»
«Credo che tu ti sbagli» mi
contraddisse.
Gli lanciai un'occhiata
interrogativa.
«Non sei stata tu a voler
essere così dannatamente chiusa e lo sai perfettamente.»
Era vero, Michele aveva
ragione. L'essere cresciuta senza una vera e propria famiglia mi aveva fatto
diventare com'ero.
Sospirai. «Non sopporto di
vivere così male a causa di mio padre. Vorrei dirti così tante cose in così
tanti momenti, ma ho una strafottuta paura»
sussurrai, fissando il vuoto.
«Principessa» mi chiamò lui,
per poi prendermi il viso tra le mani.
Mi persi nei suoi occhi,
incapace di spostare lo sguardo altrove.
«Se ti va puoi venire da me
stanotte» proseguì.
Lo volevo, lo desideravo più
di ogni altra cosa al mondo. Finalmente sarei riuscita a dormire serenamente.
Tutto il mio entusiasmo si limitò ad un sorriso e ad un «Okay» sussurrato
appena. Ero felice ma allo stesso tempo provavo un leggero imbarazzo. Non
avevamo mai dormito insieme, o almeno non così. Tuttavia, mi imposi di stare calma
e andai a prendere il necessario per passare la notte fuori casa.
Nota: A partire da questo capitolo i dialoghi
verranno inseriti tra “”.
18
Non appena entrai a casa di
Michele, mi sentii mancare l’aria. Forse avevo sbagliato a parlargli di quel
mio problema, poiché ora che stava per avvenire ciò che desideravo da tempo,
avevo paura e non volevo assolutamente che accadesse. Avrei dovuto tenere la
bocca chiusa.
“Ehi, Liz.
Ti va se ordiniamo una pizza?” domandò il mio ragazzo, distogliendomi da quei
pensieri.
Annuii e mi andai a sedere
silenziosamente sul divano.
Il bassista ordinò le pizze,
poi mi raggiunse.
“Tutto bene?” sussurrò,
accarezzandomi il viso mentre mi fissava negli occhi.
Distolsi lo sguardo. “Ma sì,
è tutto a posto.”
Michele sospirò. “Non mentire
con me.”
Mi alzai e rimasi impalata a
fissare il vuoto mentre scuotevo energicamente il capo.
“Liz,
rilassati.” Si alzò a sua volta e mi venne vicino, abbracciandomi.
Lo strinsi a me e mi sentii
in colpa. Non potevo respingerlo per sempre, eravamo adulti ormai e qualcosa
doveva pur succedere, nonostante io non ne fossi per niente convinta.
Suonò il campanello e lui
andò ad aprire. Non appena si fu staccato da me tirai un sospiro di sollievo.
Non ero pronta e lo sapevo. Come mi era potuto venire in mente di dormire con
lui? Certo, quando stavo da sola sognavo quei momenti e mi faceva male non
poterli vivere, ma la realtà è molto diversa dai sogni.
Avrei dovuto saperlo. Io non
ero come le altre, non sarei mai riuscita a lasciarmi andare con nessuno. La
razionalità me l’avrebbe sempre impedito.
La cena trascorse in silenzio
e io compresi di non poter passare la notte là. Dovevo assolutamente tornare a
casa e magari parlarne con Joey. Lui avrebbe saputo
cosa consigliarmi. Ero certa che mi avrebbe rimproverato, ma mi conosceva e
avrebbe saputo comprendere ogni cosa.
“Mick, non sto bene”
mormorai, fissando il tavolo. Non riuscii minimamente ad incontrare il suo
sguardo, temevo ciò che vi avrei trovato.
“Liz…”
“Scusa. Vorrei tornare a
casa.”
“Cosa?” sbottò.
Sollevai il capo e notai che
mi osservava con espressione contrariata e delusa.
“Mi dispiace. Prenderò un
autobus, non c’è bisogno che mi accompagni.” Mi alzai.
Lui fece lo stesso. “Sei
sicura?” mi domandò.
Annuii e mi diressi al divano
per racattare la mia borsa.
Michele prese le chiavi della
sua auto e si diresse silenziosamente verso l’ingresso.
Lo raggiunsi. “Ho detto che
prenderò l’autobus, davvero, non ti preoccupare” ribadii.
Ignorandomi, posò la mano
sulla maniglia.
Mi sentii cedere le
ginocchia. Avevo rovinato tutto e lui aveva tutte le ragioni del mondo per
avercela con me. Non potevo sopportare che si arrabbiasse.
Lo abbracciai da dietro,
sperando che mi desse ascolto. “Fermati un attimo, ti prego! Sono mortificata,
credimi.” Silenziose lacrime presero a rigarmi il viso, inumidendo anche la
stoffa della sua maglia. Proseguii: “La verità è che sono terrorizzata, mi sento
inadeguata e…”
Michele si scostò da me e si
voltò. Pianto i suoi occhi scuri sui miei. “Basta così. Liz,
io ti rispetto, tu lo sai. Ma devi anche capire che ti desidero e non mi pare
che questo sia anormale.”
Scoppiai a piangere e mi
inginocchiai sul pavimento, prendendomi la testa tra le mani. Quello che mi
aveva appena detto mi colpii al cuore, facendo aumentare a dismisura il mio
senso di colpa. Lui mi desiderava, proprio come io desideravo lui. Per colpa
mia tutto questo risultò fottutamente inutile.
“Non fraintendermi, non
voglio metterti fretta” aggiunse, accovacciandosi accanto a me. “Non piangere
principessa” sussurrò, per poi stringermi a sé.
Rimasi tra le sue braccia per
un tempo indefinito e riuscii a calmarmi, sotto le sue dolci carezze sui capelli.
Forse non era tutto perduto.
“Senti, facciamo così. Ora tu
vai a letto, sei stanca. Io sistemo in cucina poi ti raggiungo. Ti va? Te ne
prego, resta con me. Anch’io mi sento solo quando non ci sei.”
Sorrisi e lo baciai, sentendo
ancora il sapore delle mie labbra.
Ci alzammo e io mi diressi in
camera sua. Non appena vi misi piede, mi accorsi di non aver affatto superato
la paura. Eppure ora era diverso. Michele aveva bisogno di me e io di lui. Se
me ne fossi andata sarebbe stato come abbandonarlo. Ora avevo capito che il mio
posto era lì con lui quella notte.
Non avevo idea di cosa
sarebbe successo, ma ora come ora non mi importava. Volevo soltanto stringermi
a lui e non pensare. Il mio cervello sempre attivo mi impediva di prendere
iniziative e stavo cominciando a odiarlo seriamente.
Quando Michele mi raggiunse,
giacevo in dormiveglia sotto le coperte. Avvertii la sua presenza soltanto
quando il suo corpo prese posto accanto al mio.
Sussultai e spalancai gli
occhi.
“Dormivi?” domandò, non
appena mi voltai nella sua direzione.
Risi nervosamente. “Più o
meno.”
Michele si avvicinò a me e mi
fece posare la testa al suo petto. “Sei stanca?”
Immediatamente mi rilassai.
Stare così, abbracciati a sentire l’uno il profumo dell’altra era ancora più
bello di come avevo sperato. “Psicologicamente lo sono parecchio, in realtà”
risposi, stringendogli una mano.
“Allora riposa.”
Scoppiai a ridere.
“Che succede?” domandò
Michele, curioso.
“Ho dimenticato di cambiarmi”
dissi, accennando al mio abbigliamento. Infatti, indossavo ancora i jeans e la
mia camicia preferita.
Lui rise. “Sei sempre la
solita.”
“Lo so ma sai ora non ho
voglia di rialzarmi.”
“Allora non lo fare” mi
sussurrò all’orecchio, facendomi rabbrividire.
Lo baciai e mi strinsi forte
al suo corpo, così come lui si strinse al mio. Era bello stare insieme così e
mi maledissi per essere quasi scappata da quel benessere.
Prima di addormentarmi, lo
abbracciai forte e mormorai: “Buonanotte.”
“Sogni d’oro principessa.”
Quando scivolai nel sonno fui
certa di averlo sentito dire ‘Ti amo’.
La mattina seguente fu lo
squillo del mio cellulare a ridestarmi dal sonno.
Imprecai, mentre Michele
sbadigliò.
Allungai la mano e afferrai l’apparecchio
che si trovava sul comodino accanto al letto.
Era Matt.
Sobbalzai e mi misi a sedere.
Cosa voleva di buon mattino? Per
un attimo posai gli occhi sulla sveglia e mi accorsi che erano già le undici. Era
tardissimo!
“Pronto?” risposi, quasi
gridando.
Il mio amico dall’altro capo
del telefono rise. “Cazzo, Liz, scommetto che ti sei
svegliata ora. Eh?”
“Sì, esatto. Perché mi
chiami?” domandai, andando dritta al punto.
Michele al mio fianco
ridacchiò e mi solleticò un braccio.
Gli lanciai un’occhiataccia e
cercai di concentrarmi su ciò che Matt stava dicendo.
“Ho una notizia bomba da
darti! Sei stata la prima che ho pensato di chiamare e…”
“Che notizia?” sbottai,
curiosa.
Il bassista drizzò le
orecchie e si avvicinò per cercare di carpire qualche informazione.
“Tiniti
forte.”
Trattenni il fiato.
Michele fece lo stesso.
“ABBIAMO UNA DATA!” gridò il
chitarrista.
Io e il mio ragazzo ci
guardammo negli occhi, allibiti, poi cacciamo un grido di gioia.
“Mick, abbiamo una data, te
ne rendi conto? I Faithless stanno per conquistare il
mondo!”
“E’ fantastico!”
Per la foga del momento mi
accorsi poco dopo di aver lanciato il telefono ai piedi del letto. Nel silenzio
colsi i richiami e le imprecazioni di Matt. Risi e recuperai il cellulare.
“Scusa Matt, è che sono con
Mick e ci siamo messi ad esultare.”
Silenzio.
“Matt?”
“Ci sono.” Il tono con cui mi
rispose mi parve estremamente contrariato e triste.
Rimasi immobile a fissare il
vuoto e la realtà mi crollò addosso. Non sapevo cosa dire perché sapevo che
Matt era rimasto turbato nell’apprendere che alle undici del mattino mi ero
appena svegliata ed ero con Michele. Chissà cosa aveva elaborato la sua mente
inevitabilmente gelosa.
“Senti, ci vediamo per
pranzo? Chiama gli altri e troviamoci tra un’ora fuori dalla saletta, poi
decideremo dove andare. Ti va?” proposi, mentre Michele annuiva come per farmi
capire che avevo avuto una buona idea.
“Deduco che tu non sia da Joey e che lo debba avvertire io.”
Mi sentii punta nel vivo
poiché la sua gelosia cancellò tutta la felicità acquisita poco prima.
“Sono da Mick ma penso io ad
avvertire Joey, non ti preoccupare” dissi,
sottolineando volutamente il ‘sono da Mick’, così che capisse una volta per tutte
che doveva smetterla di comportarsi come un adolescente in piena crisi ormonale.
Io e Michele eravamo adulti, vaccinati e liberi di fare tutto ciò che volevamo.
Se aveva pensato che io e lui avessimo già avuto dei rapporti, be’, gliel’avrei lasciato credere. Non potevo vivere
perennemente con i sensi di colpa. Basta.
“Va bene. A dopo” rispose
Matt con tono seccato e riagganciò.
Feci spallucce e gettai il
telefono sul comodino, per poi tornare vicino al bassista e abbracciarlo.
“Scommetto che Matt ha fatto
il geloso” osservò lui, stringendomi.
“Sì, ma non mi interessa. Deve
farsene una ragione e io ora voglio stare con te.”
Lui si sciolse in un
meraviglioso sorriso e mi baciò.
Dopo qualche minuto decidemmo
di alzarci e prepararci per l’incontro con il resto della band.
Mentre Michele era sotto la
doccia, chiamai Joey che rispose al quinto squillo.
“Liz!
Buongiorno! Allora, dormito bene a casa di Mick?” fece il chitarrista
ironizzando sulla parola ‘dormito’.
Risi. “Ciao Joey. Non fare il cretino. Se proprio lo vuoi sapere non è
successo niente di quello che stai pensando.”
Sbuffò. “Sempre la solita
santarellina tu, eh?”
“Poi ne parleremo a casa. Piuttosto,
mi ha chiamato Matt.”
“Che voleva?”
Rimasi un attimo in silenzio.
“I FAITHLESS HANNO UNA DATA!”
gridai, proprio come aveva fatto Matt.
Joey gridò felice. “Davvero? Oh, ma questo è
meraviglioso!”
“Sì! Senti, ho proposto di
andare a pranzo tutti insieme per poterne parlare meglio, visto che oggi non ci
sono le prove. Ci troviamo tra quarantacinque minuti davanti alla saletta.”
“Perfetto. A dopo collega.” E
riagganciò.
Due ore dopo eravamo seduti
intorno ad un tavolo circolare, dentro ad un ristorante italiano che io e
Michele adoravamo e con noi, purtroppo, c’era anche Débora.
Mi chiesi come mai tutti i
parassiti dovevano intralciare la nostra band. Prima Corey,
ora lei.
Cercai di ignorarla e mi
concentrai su Matt, anche se lui non osava osservarmi mentre esponeva i
particolari del concerto.
Si trattava di una data in
cui saremmo stati il gruppo spalla dei Metallica durante il loro concerto a
Londra, circa un mese dopo.
Era fantastico e tutti
sembravano pensarla come me. Insomma, suonare con un gruppo del genere non era
da poco!
Mi domandai come Matt avesse
fatto a rimediare una possibilità così grandiosa.
“Mi ha contattato il loro
agente dicendo che James ha espressamente preteso la nostra partecipazione,
sapendo che siamo tutti dei validi elementi e rimanendo incuriosito dal fatto
che alla batteria abbiamo una donna” spiegò l’ex cantante dei BulletformyValentine, senza però rivolgermi minimamente un
cenno.
Mi sentii ferita e non seppi
perché dovesse comportarsi in quel modo. Sembrava voler a tutti i costi fare
leva sul mio senso di colpa e direi che ci riusciva più che bene.
“E’ grandioso ragazzi!”
civettò Débora intervenendo per la prima volta nella
conversazione.
Tutti i nostri sguardi si posarono
sulla sua figura ma lei non parve minimamente turbata dal fatto di trovarsi al
centro dell’attenzione.
“Avrete la possibilità di
esibirvi prima del grande Kirk Hammett! Non so se vi rendete conto.”
Ebbi l’impulso di lanciarle
la forchetta in testa. Aveva utilizzato il solito tono da gallina e non mi era
di certo sfuggita l’occhiata di fuoco che aveva lanciato a Michele mentre
parlava. Forse non le era ancora chiaro il concetto. Se avesse continuato di
quel passo non ci avrei messo tanto a ficcarglielo bene in quella testa vuota
che si ritrovava.
Credeva forse che presentarsi
con abiti succinti e un quintale di trucco soltanto perché era brasiliana e
bella l’avrebbe aiutata a far cambiare idea al mio ragazzo? Si sbagliava di grosso. Povera illusa.
L’unico che sembrò gradire il
suo intervento fu Janne che le sedeva accanto. Le posò
una mano sul ginocchio e io credetti di aver visto male, poi mi venne il
voltastomaco.
“Devi assolutamente venire a
sentirci, baby. Ti farò conoscere Kirk” le disse, guardandola con aria
seducente.
Lei lanciò un gridolino e gli
gettò le braccia al collo, premendo la sua quinta sul petto di lui.
Distolsi lo sguardo e guardai
Max.
Fece spallucce e tornò a
parlare con Serj.
Vomitevole.
Come poteva il nostro
tastierista essere affascinato da quella gatta morta?
Decisi di non pensarci e di
concentrarmi sull’imminente concerto. Nel mese successivo avremmo dovuto sudare
per prepararci al meglio, avremmo dovuto perfezionare i pezzi già pronti e scrivere
anche qualcosa di nuovo.
Sì, sarebbe stata dura ma ce
l’avremmo fatta poiché quella era un’occasione da non perdere.
Mentre uscivamo dal locale,
dopo pranzo, Matt mi fermò e mi chiese di uscire quella sera stessa.
Michele stava discutendo con
Max di qualcosa che non riuscii ad afferrare e sperai vivamente che avesse
sentito le parole del chitarrista.
Osservai Matt con aria
sorpresa. “Cosa significa?” domandai, confusa.
In che senso voleva uscire
con me? Cos’aveva in mente?
“Ho soltanto bisogno di
parlarti.” Si guardò intorno, poi proseguì in un sussurro: “Non possiamo mai
stare un po’ soli, c’è sempre Mick e lui sono sicuro che non approverebbe.”
“Infatti non approva e non lo
faccio nemmeno io” chiarii, fissandolo in viso. “Ci vediamo tutti i giorni e se
vuoi discutere con me basta uscire in terrazza durante la pausa dalle prove.”
Matt sospirò. “Senti, ti sto
chiedendo di uscire perché siamo amici. Cosa c’è di sbagliato in questo?”
Non seppi cosa rispondere. In
effetti non c’era proprio niente di così anormale, se non fosse stato per il
fatto che lui mi amava e desiderava. Ma questo non aveva attinenza con la
domanda che mi aveva fatto, perché lui stesso aveva affermato che si sarebbe
trattato di un’uscita tra amici. Io mi fidavo di lui e di me stessa, perciò
potevo anche accettare. Non avevo niente da perdere né da guadagnare.
E Michele come l’avrebbe
presa? Ero certa che non ne sarebbe stato entusiasta per niente eppure non me
lo avrebbe impedito, non poteva. Stavamo insieme, sì, ma io avevo tutte le
facoltà mentali e legittime per decidere della mia vita, prendendomi ovviamente
tutte le conseguenze delle mie azioni.
Così decisi di accettare.
“Va bene Matt” dissi.
Lui sorrise. “Perfetto. Ti passo
a prendere da Joey?”
Annuii.
“Okay. Alle otto sono da te. A
dopo.” Detto questo salutò il resto dei Faithless e
se ne andò.
Mi avvicinai a Michele. Dovevo
trovare il coraggio di dirgli tutto, non avevo scelta.
Il mio ragazzo sbatté un
pugno sul tavolo, paonazzo in viso. Ci trovavamo nella cucina di casa di Joey e io gli avevo appena confessato che sarei uscita con
Matt.
Già, non gli avevo chiesto il
permesso, era così e basta. Doveva fidarsi di me altrimenti la nostra relazione
non sarebbe andata da nessuna parte. Io appartenevo soltanto a me stessa e non
avrei potuto accettare che chicchessia contaminasse la mia indipendenza.
“Calmati, Mick.”
“Esci con un altro e dovrei
calmarmi?” gridò, mettendosi le mani sui capelli.
“Falla finita! Non sto
uscendo con un altro, non nel senso che pensi tu. Matt è un amico.”
“Un amico che – guarda caso –
ti chiede di uscire da soli e – sempre guarda caso – è innamorato di te. Non dirmi
che credi davvero a questa…”
“Io credo soltanto in me
stessa e nei miei sentimenti per te. Parlerò con lui, lo starò a sentire e poi
tornerò a casa” spiegai con fermezza.
Michele sospirò e si sedette
su una sedia. “Fa’ come vuoi” borbottò socchiudendo gli occhi.
“Ovvio che sì.”
Anch’io mi sedetti e il
silenzio si frappose tra noi per alcuni minuti.
Il bassista teneva le mani a
sorreggergli il viso e i gomiti posati sul tavolo. Il suo viso pian piano si
rilassò così come i muscoli delle sue spalle. Era bello, dio se lo era. Forse nessuno
la pensava così osservando la sua folta chioma riccia, il pizzetto, le
sopracciglia folte… ma io non ero nessuno. Io ero Liz e lo amavo, nonostante tutti i pregiudizi possibili ed
immaginabili da parte del mondo intero. Inoltre i suoi occhi erano lo specchio
di un’anima dolce, intelligente, arguta e colta, come poche se ne trovavano in
circolazione. Non per niente lo stimavo immensamente e il suo successo nella
nostra patria – l’Italia – era ancora alle stelle, nonostante la sua quasi
totale assenza dalla nazione.
Non potevo credere di avergli
risposto malamente poco prima, così mi alzai e andai ad accarezzare i suoi
ricci che quel giorno ricadevano sciolti attorno al suo viso.
Sussultò per la sorpresa e
riaprì gli occhi.
“Mi dispiace.”
“Di cosa?” domandò afferrando
la mano che avevo posato sulla sua spalla mentre stavo in piedi alle sue spalle
con il bacino contro lo schienale della sedia.
“Per prima, non volevo
rispondere in quel modo.”
“Non ti preoccupare. Piuttosto
mi scuso per aver tentato di ostacolarti. Mi fido di te Liz.”
Sorrisi. “Lo so.” Di slancio
mi sedetti sulle sue ginocchia e lo baciai dolcemente, affondando le dita tra i
capelli scuri.
Lui ricambiò.
Restammo un po’ abbracciati
poi disse che doveva andare.
Lo accompagnai alla porta e
lo salutai con un altro bacio.
“A domani” sussurrai
stringendolo forte.
“A presto principessa.”
Richiusi l’uscio e mi diressi
in camera a prepararmi, chiedendomi dove diamine si fosse cacciato Joey.
Poco prima delle otto entrai
in salotto e trovai il nano seduto sul divano a strimpellare.
“Ehi” lo salutai,
accomodandomi accanto a lui.
“Dove vai tutta in tiro? Sono
certo che Mick non saprà resisterti. Anche oggi dormi da lui?”
“Non hai una ragazza Joey?” risposi con un’altra domanda.
“Eh?” fece lui, sollevando di
scatto gli occhi dall’Ibanez che teneva in mano.
Scoppiai a ridere.
“Cosa c’entrava questa
domanda? E perché ridi?” chiese, confuso.
“Rispondimi.”
“Ne ho più di una, mia cara
collega.” Il tono con cui pronunciò quelle parole era fiero e compiaciuto.
“Dovresti dedicarti a loro
anziché tormentarmi” dissi, alzandomi.
Squillò il citofono.
“Ma…”
provò a dire, con occhi sempre più sgranati e curiosi.
Afferrai un cuscino e glielo
lanciai, continuando a ridere.
Lui imprecò.
“A più tardi nanetto” lo
salutai e mi precipitai fuori di casa.
Matt mi attendeva seduto in
macchina con un disco dei Metallica sparato a tutto volume.
“Devi sempre farti
riconoscere, eh?” gridai, cercando di sovrastare la voce di James Hatfield che cantava ‘SadButTrue’.
Il chitarrista abbassò il
volume e rise. “Certamente! Ciao Liz.”
“Ciao.”
“Oggi ti porto a vivere,
baby.” Detto questo ingranò la marcia e partì.
“A vivere? Parli come se
fossi morta” lo punzecchiai per poi mettermi a canticchiare il ritornello della
canzone.
Matt rimase con gli occhi
puntati sulla strada e un sorrisino ambiguo stampato in viso.
Non me ne curai troppo e
sprofondai sul sedile del passeggero pronta ad affrontare quella serata.
Spalancai gli occhi e
sorrisi. Era da una vita che non ci tornavo, esattamente dal giorno in cui
avevo letto l’annuncio che i Faithless avevano
pubblicato. Pensai a quante cose fossero accadute da allora, a come la mia vita
fosse stata sconvolta dalla loro presenza, a come i rapporti con ognuno di loro
si erano creati e intensificati, a come mi fossi sentita finalmente amata dopo
aver vissuto da sola e senza affetto prima che loro si impossessassero del mio
cuore.
Una lacrima scese lungo la
mia guancia, solitiaria e colma di ricordi.
Matt se ne rese conto e si
voltò a guardarmi. “Liz! Perché piangi?”
Gli sorrisi. “Non sto
piangendo. Stavo solo pensando al giorno che lessi il vostro annuncio proprio
in questo posto. Da allora tutto è cambiato per me.”
“Spero in meglio” disse,
estraendo la chiave dal quadro.
“Certo che sì!” confermai.
Dopo esserci scambiati un
sorriso scendemmo dall’auto e ci dirigemmo verso il locale. Mentre camminavo mi
chiesi ancora una volta cosa intendesse Matt col dire ‘ti porto a vivere’.
Insomma, la sua affermazione mi aveva fatto riflettere. Ciò era inevitabile.
Non appena entrammo, mi
sentii immediatamente a mio agio: l’atmosfera era allegra, poiché una canzone
dei Guns ‘n’ Roses
risuonava nell’aria e la gente si divertiva a ballarla. Era paradisiaco! Mi
ritrovai a sorridere mentre Matt mi trascinava verso il bancone chiedendomi se
volevo qualcosa da bere.
Presi un drink analcolico e
mi sedetti su uno sgabello mentre il chitarrista si sistemò in piedi davanti a
me.
Si avvicinò al mio orecchio e
disse: “Spero non mi riconosca nessuno, sarebbe una bella seccatura.”
Risi. “Sarebbe divertente
vederti sommerso da ragazzine urlanti!” esclamai.
Mi rivolse un’occhiataccia ma
poi scoppiò a ridere.
Nel frattempo partì la
bellissima ‘RebelYell’ di
Billy Idol e io per poco non saltai dalla sedia.
Afferrai il braccio di Matt. “Dobbiamo andare a ballarla! Ti prego!” gridai.
Mi rivolse uno sguardo
divertito. Finì di bere e posò il bicchiere sul bancone. Poi mi afferrò la mano
e mi condusse al centro della pista.
Per un attimo mi sentii in
imbarazzo avvertendo tanti sguardi addosso. In effetti non ero il tipo di
ragazza che amava stare sotto i riflettori. Ma d’altronde ero là per
divertirmi, no? Avevo accettato di uscire con il mio amico, tanto valeva
approfittare dell’occasione per distrarmi un po’.
Presi le mani di Matt e
cominciai a muovermi a tempo di quella canzone che adoravo.
Lui fece altrimenti e prese a
fissarmi negli occhi, sorridendo nel modo più dolce possibile.
Trascorse diverso tempo nel
quale ci divertimmo a ballare e ridere come due matti, mentre un sacco di
musica fantastica veniva trasmessa dall’enorme impianto sistemato in un angolo
della sala.
Ad un certo punto mi ritrovai
a muovermi con le sue braccia strette in vita e notai che la cosa non mi
infastidiva più di tanto. Anzi, era piacevole.
Poi mi riscossi.
Cosa stavo facendo?
Mi bloccai fissando il mio
amico in viso.
Stavo definitivamente
impazzendo.
Non c’erano altre spiegazioni
se non quella.
Come potevo abbandonarmi tra
le braccia di Matt?
Lui non era il mio ragazzo.
Lui non era Michele.
“Devo andare in bagno, ci
vediamo tra un po’” dissi a Matt e mi allontanai da lui il più velocemente
possibile.
Cercai la toilette e mi ci
chiusi dentro sospirando.
Dovevo riordinare le idee e
subito.
Come potevo tradire in quel
modo il mio ragazzo? Non doveva accadere! Eppure io e Matt ci stavamo
divertendo, era tutto così bello, le sue braccia che mi stringevano erano così…
Così cosa?
Così estranee.
Sì, ma anche piacevoli e
forti.
Non potevo mentire a me
stessa: quel contatto mi era piaciuto, nonostante non sapessi perché.
Amavo Michele e su questo non
vi era ombra di dubbio.
Allora cosa mi aveva portato
a lasciarmi così andare con il mio amico? Semplicemente mi stavo divertendo.
Sì, doveva essere questa la spiegazione. Quando ci si diverte si può trovare
bello anche ciò che solitamente non si ritiene tale. No?
Be’, no.
Decisamente non è questa la
logica.
Mi maledissi per la mia
insicurezza e per i pensieri del cavolo che stavo elaborando. Dovevo
immediatamente tornare da Matt e comportarmi come se niente fosse, evitando
però che quell’abbraccio si ripetesse.
Così feci.
Rientrai in sala e lo
raggiunsi. Lo trovai che parlava con una bellissima ragazza.
Ebbi voglia di tornare ad
accucciarmi in bagno ma rimasi con i piedi ben piantati per terra ad osservarli
mentre chiacchieravano e si sorridevano. Poi un tipo muscoloso la raggiunse e
le cinse la vita con un braccio. Lei fece cenno verso Matt e il suo
accompagnatore gli strinse la mano facendo un sorriso ammirato.
Doveva trattarsi di due fan
dell’ex cantante dei BulletformyValentine e io mi
ritrovai a tirare involontariamente un sospiro di sollievo.
Per un attimo avevo creduto
che Matt e quella ragazza… che loro…
E allora? E se puro Matt e
quella ragazza avessero avuto una relazione, a me che sarebbe importato? Io
avevo già il cuore occupato unicamente da Michele e non aveva senso preoccuparmi
per il mio amico.
Matt salutò i due e mi venne
incontro.
“Lo sapevo che avresti
incontrato qualche ammiratore” dissi, prendendolo in giro.
Mi scompigliò i capelli.
Dagli enormi amplificatori si
udirono le prime note di ‘YouShook
Me All Night Long’ degli AC/DC.
Ci guardammo complici negli
occhi e capimmo che non potevamo evitare di ballare quella canzone. Sapevamo
entrambi che era la nostra preferita di quel gruppo, perciò dovevamo
assolutamente renderla nostra in quel meraviglioso locale.
Ci avviammo a passo spedito
verso la pista e prendemmo a saltare insieme a un altro centinaio di persone
che come noi impazziva per quel pezzo.
Fu bellissimo: avvertii le
note penetrarmi nell’anima, gli strumenti vibrarmi in tutto il corpo, la voce
di Brian Johnson unirsi alla mia nel canto, le luci
illuminare Matt che sembrava completamente catturato dalla situazione proprio
come me.
Poi accadde qualcosa che
sconvolse il ritmo e l’andatura di tutto ciò che era accaduto fino ad allora.
Matt mi baciò.
E io baciai lui.
Mi strinse forte a sé e mi
donò tutto il suo amore, tutto ciò che gli avevo sempre negato di darmi, tutto
ciò che non aveva fatto altro che reprimere per mesi interminabili.
E io non seppi resistergli.
Non seppi dire di no alle sue labbra, non seppi respingere le sue braccia, non
seppi evitare il contatto con lui. Era come se anch’io, inconsciamente, non
avessi desiderato altro.
Fu elettrizzante finché durò.
Già, finché non tornai con i
piedi per terra e la testa smise di girarmi a causa di tutte le emozioni che
stavo provando.
Mi allontanai immediatamente
da lui e fu come se il tempo si fosse fermato, come se le luci si fossero
spente, come se la musica fosse cessata, come se tutti se ne fossero andati.
L’unica cosa che feci fu
schiaffeggiarlo, gridare un’imprecazione e scappare via.
Volevo che tutto fosse un
sogno. Stavo quasi per crederci ma la pioggia che batteva forte fuori dal
locale mi fece riacquistare la lucidità al cento per cento.
Non volevo assolutamente che
Matt mi trovasse così mi infilai nel primo palazzo che mi capitò a tiro e mi
accucciai all’interno dell’androne al riparo dal temporale. Rimasi là a tremare
dal freddo mentre vidi Matt uscire dal locale e chiamarmi. Poi salì in macchina
e se ne andò.
Io non mi mossi.
Non avevo il coraggio di
mettere il naso fuori dal mio nascondiglio. Avevo paura che il mondo mi
sputasse in faccia tutto il suo risentimento nei confronti del mio orribile
gesto.
Già, avevo sbagliato tutto e
mi facevo decisamente schifo.
Quando finalmente andai alla
ricerca di un taxi, la pioggia si era placata, ma un forte vento faceva
svolazzare i miei capelli e portava via tutte le lacrime che continuavano
interminabili a lasciare i miei occhi spenti.
Doveva essere un sogno.
Riuscii a malapena a
comunicare l’indirizzo di casa Jordison all’autista,
poi mi lasciai sprofondare sul sedile.
Avevo rovinato tutto.
Matt aveva rovinato tutto.
Quando misi piede dentro
casa, fui grata che Joey non venisse a parlarmi.
Mi trascinai a fatica in
camera e mi gettai sul letto.
Volevo soltanto dormire e
dimenticare ogni cosa.
Volevo soltanto dormire e non
svegliarmi mai più.
Prima di scivolare
definitivamente nel sonno mi pentii di essere stata felice dell’incontro con i Faithless. Se fossi rimasta per i fatti miei avrei evitato
di illudere e far soffrire tutti coloro che si erano fidati di me.
Il giorno seguente non osai
alzarmi dal letto. Mi sentivo come se tutto mi fosse improvvisamente crollato
addosso, come se tutta la mia vita fosse appena terminata e io dovessi
ricominciare tutto da capo.
E io sapevo che non ce
l’avrei fatta.
Eppure dovevo reagire, poiché
non potevo abbandonare i Faithless ora che la data del nostro primo favoloso
concerto si avvicinava. Avremmo suonato con i Metallica e questo doveva bastare
per darmi la spinta necessaria a scuotermi da quell’agonia.
Avevo baciato Matt.
Era inutile negarlo, dire che
lui aveva baciato me e io ero stata impassibile. Non era vero. Avevo
ricambiato, lo avevo voluto e non riuscivo a pentirmene, nonostante i sensi di
colpa nei confronti di Michele crescessero inesorabilmente. Cosa dovevo fare?
Come avrei potuto guardare nuovamente il bassista negli occhi senza sentirmi
morire? Come avrei potuto continuare a vedere Matt senza rivivere all’infinito
il nostro contatto all’Hard Rock Cafe?
Era paradossale. Avrei dovuto
saperlo, avrei dovuto dire al mio amico che non sarei uscita con lui, avrei
dovuto evitare che si avvicinasse troppo, avrei…
Ma ormai era tardi per
parlare al condizionale, ormai il peggio era successo e io dovevo assolutamente
capire perché. Cosa mi aveva spinto
tra le braccia del chitarrista? Non c’era sicuramente amore tra noi, almeno non
da parte mia. Era fuori questione. Io amavo Michele.
Ma se fosse stato vero, non
avrei mai permesso a Matt di farmi girare la testa con quel bacio.
Ma io non lo amavo.
Mi ero soltanto sentita
attratta, trascinata, forse a causa del momento, del luogo, delle luci, della
musica.
Sì, doveva essere quello il
motivo.
Eppure, più cercavo di
scacciare quei pensieri, più desideravo che Matt mi stringesse a sé, che le sue
labbra tornassero sulle mie, che…
Inorridii e mi misi a sedere,
mentre il mio cellulare prendeva a squillare dentro la borsa.
Borbottando un’imprecazione,
lo racattai e risposi senza guardare chi fosse.
“Pronto?”
Silenzio.
“Pronto?” gridai,
spazientita.
Ancora nessuna risposta.
Mi portai il display davanti
agli occhi e rimasi immobile a fissare le quattro lettere che componevano il
nome del mittente della chiamata. Feci per premere il tasto rosso del telefono,
poi mi fermai.
“Liz” mormorò Matt.
Mi portai l’apparecchio
all’orecchio e il cuore prese a battermi forte nel petto.
“Liz, so che forse è…
inopportuno chiamarti, ma volevo…” S’interruppe.
Il mio cuore pregò che
proseguisse, che la sua voce lo facesse battere ancora più freneticamente,
mentre il mio cervello ordinava con decisione che dovevo sbattergli il telefono
in faccia.
“Matt” sussurrai, affranta,
mentre le lacrime spingevano per riversarsi sul mio viso.
“Mi dispiace” disse.
“Non mentire” lo pregai.
“Non mento. Mi dispiace di
aver tradito un amico come Mick e di aver rovinato tutto con te. La verità è
che non riesco ad esserti soltanto amico. Ieri ho perso la ragione.”
Assorbii quelle parole e mi ritrovai
a sorridere.
Poi scoppiai a piangere.
Ero confusa, tremendamente
confusa. Possibile che da quando lo conoscevo, non avessi mai pensato che Matt
potesse rappresentare qualcosa di più per me? Possibile che non mi fossi mai
accorta di quanto tenessi a lui? Ci tenevo così tanto che non riuscii ad arrabbiarmi
con lui.
“Capisco.”
“Non piangere, Liz… ti
prego.”
“N-non… ci riesc-co”
balbettai tra i singhiozzi.
Matt sospirò.
Avrei voluto che mi
abbracciasse e mi rassicurasse. Lo avrei voluto davvero.
Stavo deliberatamente
tradendo il mio ragazzo, fisicamente e mentalmente. Non dovevo farlo. Non
potevo.
Tutto per colpa di un bacio.
No, non avrei gettato
all’aria la relazione con Michele per questo.
“Matt, è meglio se non
parliamo per un po’.”
“Va bene.”
Rimasi in silenzio. Sapevo
che non aspirava a perdermi, però non aveva altre alternative.
“Liz, non dirò niente a
Michele.”
“Nemmeno io.”
Non seppi più cosa dire e
nemmeno lui.
Trascorsero almeno due minuti
prima che uno dei due decidesse di parlare.
“Ti desidero da morire, Matt”
dissi, ricominciando a piangere.
Era vero.
Lo desideravo, ma avrei
represso, avrei dimenticato, avrei scacciato quei sentimenti così sbagliati e
orridi nei confronti di Matt.
“Oh, Liz.”
“Dimentichiamo tutto”
proposi.
“Almeno proviamoci” mi
corresse.
“Sì.”
“Ciao Liz.”
“C-ciao.”
Matt riagganciò.
Dopodiché spensi il
cellulare, chiusi a chiave la porta della camera e mi infilai le cuffie del
lettore mp3, accucciandomi sotto le coperte.
Volevo rimanere sola, sola
con il mio dolore, sola con il mio desiderio, sola con un miliardo di sensi di
colpa.
Non ebbi il coraggio di
accendere il cellulare prima di andare alle prove, due giorni dopo essere
uscita con Matt. Semplicemente, uscii dalla camera, misi qualcosa sotto i denti
e dissi a Joey che sarei uscita con lui per andare in saletta.
Il chitarrista mi osservò con
aria comprensiva e allo stesso tempo sbalordita.
“Joey, ricordati che tra meno
di un mese ci sarà il primo concerto dei Faithless. Credi che sia il caso di
provare o dovremmo girarci i pollici?” dissi, fingendo indifferenza.
“Liz, non fingere con me. So
che è successo qualcosa tra te e Matt.”
“Non sono affari tuoi e in
ogni caso non è questo il momento di pensarci!” sbottai. “Dobbiamo pensare a
dare il meglio quando suoneremo davanti ai Metallica.”
Joey mi ignorò. “Mick è
venuto almeno dieci volte nel giro di due giorni a chiedere come stavi, perché
non gli rispondevi…”
Scossi il capo. “La smetti?”
“No.”
“Joey, non costringermi a…”
“A fare cosa?” domandò,
avvicinandosi a me e piantandomi gli occhi in viso. Era almeno dieci centimetri
più basso di me ma quello sguardo mi intimorì al punto che fui costretta a
liberarmene. Fissai un punto indefinito della cucina, finché non notai che al
frigo era appiccicato un post-it arancione.
Mi avvicinai con il
chitarrista al seguito.
“L’ha lasciato lui” spiegò,
mentre io fissavo il foglietto quadrato.
Liz,
non so perché tu mi stia evitando, ma sappi che
aspetto che tu ti faccia viva.
Mi manchi.
Tuo,
Capa
Sgranai gli occhi e scoppiai
a piangere.
“Oh, Liz” mormorò Joey,
abbracciandomi.
Rimasi immobile a sentirmi
morire per il male che sapevo di aver inflitto a Matt, il male che avrei
inflitto a Michele e il male che tutto ciò avrebbe portato ai Faithless.
Ero un mostro, non riuscivo a
sentirmi diversamente. Cosa dovevo fare? Perché improvvisamente Matt era
diventato parte dei miei pensieri e desideri? Non capivo il motivo di tanta
confusione.
“L’ho tradito” mi lasciai
sfuggire, tra i singhiozzi.
Joey si scostò da me e mi
guardò negli occhi. “Cioè?”
“L’ho baciato.”
Il mio amico sospirò. “Perché,
Liz?”
Mi presi la testa tra le
mani. “Non lo so” piagnucolai.
“Vieni.” Joey mi spinse verso
il divano. Vi prendemmo posto.
“Ho sbagliato tutto.”
“Sì, ma non è detto che tutto
sia perduto. Innanzitutto devi capire cosa vuoi” consigliò il mio amico.
“E’ proprio questo il
problema” dissi, asciugandomi le lacrime. Dovevo calmarmi, riordinare le idee e
soprattutto capire come affrontare Michele e Matt in saletta.
“Ora andiamo, altrimenti si
fa tardi” mi incitò Joey, adocchiando l’orologio. “Sono certo che vederli ti
aiuterà a schiarirti un po’ le idee.” Prese le chiavi e si avviò alla porta.
Poi si voltò. “Sciacquati il viso” disse, sorridendo e facendomi l’occhiolino.
Mi lavai la faccia nel lavabo
della cucina e lo raggiunsi, sistemandomi i capelli con una manata. Non mi
importava di essere presentabile , volevo soltanto che il tempo trascorresse il
più velocemente possibile e le prove si svolgessero in maniera indolore.
In macchina Joey mise su un
album dei Manowar e io mi rilassai sulle note di ‘Worriors of the World
United’.
Poi giungemmo in saletta.
Prima di scendere mi bloccai
e rimasi inchiodata al sedile. “Non ce la faccio.” Sospirai.
Joey mi lanciò
un’occhiataccia. “Non fare la bambina, sei forte e determinata, dimostralo a te
stessa e a tutti noi. Forza!”
“Grazie” mormorai e scesi.
Il chitarrista chiuse a
chiave e mi fece cenno di seguirlo.
Gli rimasi dietro con il
cuore che batteva troppo forte nel petto. Avevo paura. Non volevo vedere
Michele. Non volevo vedere Matt. Non volevo vedere nessuno. Volevo tornare a
casa e accucciarmi sotto le coperte per il resto dei miei giorni, finché la
morte non mi avesse strappato a quel mondo in cui non riuscivo a crearmi un
posto, in cui non riuscivo a vivere, in cui non facevo altro che far soffrire
chiunque mi stesse accanto – o almeno ci provasse.
Ormai però era troppo tardi.
Poco prima di arrivare, mi
venne in mente Débora. E se ci fosse stata anche lei in saletta? Max aveva
assicurato che lei non sarebbe più stata presente, ma da quando avevo visto
Janne rivolgerle attenzioni tutt’altro che amichevoli, entrare e trovarmela
seduta sulle ginocchia del nostro tastierista non mi avrebbe assolutamente
sorpreso.
Joey mi spinse dentro la
stanza e io rimasi impalata sulla soglia, mentre lui si avviava verso la sua
postazione, salutava tutti con un cenno e si metteva a preparare la chitarra
per le prove.
“Liz!” mi salutò Janne con un
sorrisone, venendo verso di me. Mi baciò sulle guance e tornò da dov’era
venuto.
“Ehi, ragazzi” feci, incerta.
Contemporaneamente, Michele e
Matt mi fissarono, il primo con un enorme sorriso stampato il viso, il secondo
con lo sguardo più triste che avessi mai visto in tutta la mia vita.
L’espressione di Matt mi mandò il cuore in frantumi. Non potevo concepire di
avergli fatto tanto male soltanto ricambiando il suo gesto d’amore.
Ancora una volta mi sentii un
mostro e fui costretta a distogliere lo sguardo per non scoppiare a piangere.
Ricacciai le lacrime e mi diressi a passo spedito alla batteria, per poi
sistemarmici dietro.
“Ragazzi” prese la parola
Serj. “Oggi che ci siamo tutti, è bene che decidiamo che pezzi portare al
concerto.”
Annuii.
“Sì, hai ragione” disse Joey,
sedendosi sul divano.
“Io direi di portare soltanto
una cover” propose il cantante armeno.
“E quale?” domandò Janne, che
da poco si era sistemato per terra con la schiena contro la parete
insonorizzata e le gambe incrociate.
“Pensavo di portare qualcosa
di uno dei nostri gruppi” intervenne Max, rimanendo in piedi in un angolo della
saletta.
“Eh?” fece Michele,
avvicinandosi a me.
Oh, no, no! Perché non era
rimasto dov’era? Non ero pronta ad un contatto con…
La sua mano mi si posò sulla
spalla e l’unica emozione che provai fu il rimorso. Non potevo far altro che
sentirmi in colpa, specialmente nei suoi confronti. Lui non sapeva niente e mai
l’avrebbe saputo. Certo era che se fosse venuto a conoscenza del mio tradimento
avrebbe evitato accuratamente di toccarmi come aveva sempre fatto.
Tuttavia, non riuscii a
sopportare la sua vicinanza, non ancora. Dovevo prima elaborare il tutto e imparare
a convivere con il fatto che Michele era il mio ragazzo e Matt soltanto un
amico. Amico che però scatenava in me emozioni e desideri mai provati.
Scacciai ancora una volta il
suo pensiero e mi alzai, raggiungendo Serj al centro della stanza.
Lui mi guardò, accennando un
sorriso.
“Max ha ragione” concordai,
guardando il cantante brasiliano. Fui lieta del fatto che sua sorella non fosse
presente.
“Sì, ma… la scelta è
difficile” puntualizzò Michele, con un tono che mi costrinse a posargli gli
occhi addosso. Sembrava irritato e anche il suo viso esprimeva un certo
risentimento.
Perfetto. Ero riuscita a
ferire anche lui, respingendolo e allontanandomi. Ero un disastro. Più il tempo
passava, più diveniva difficile fingere e la voglia di fuggire via aumentava.
“Tuck, tu cosa ne pensi?”
chiese Serj, voltandosi a guardare Matt.
Solo allora mi resi conto che
lui non aveva ancora aperto bocca. Osservandolo, notai che se ne stava
appoggiato alla parete con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo –
tremendamente triste – perso nel vuoto.
Mi si strinse lo stomaco e mi
venne voglia di correre ad abbracciarlo.
Tuttavia, rimasi immobile
dov’ero.
“Fate come volete, per me è
uguale” dichiarò l’ex Bullet, senza degnare il resto del gruppo di un’occhiata.
Serj rimase a fissarlo, poi
disse: “Capisco.” E tornò a rivolgersi agli altri.
Lui capiva sempre tutto. Era
stato in grado di afferrare le sensazioni emanate da Matt ed ero certa che
avesse compreso che la sua tristezza dipendeva da qualcosa che era successa tra
me e lui.
Gli fui grata del fatto che
non avesse insistito con il chitarrista. L’ultima cosa di cui Matt aveva
bisogno era qualcuno che gli facesse pressioni in un momento del genere.
Sapevo che lui si trovava là
esclusivamente per evitare che nascessero problemi con la band, perché non
riusciva e non poteva essere egoista, nonostante desiderasse trovarsi da
tutt’altra parte, proprio come me.
Dopo averlo osservato per
qualche altro istante, tornai a concentrarmi sulla conversazione dei miei
colleghi.
“Dovremmo portarne una dei
Bullet” esclamai di slancio.
Nella saletta calò il
silenzio più totale.
Gli sguardi di tutti erano
puntati su di me e questo mi mise in imbarazzo.
Sapevo di aver sganciato una
bomba a orologeria, ma ero sicura che ci fosse una canzone di quel gruppo che
sarebbe stata perfetta da realizzare live usufruendo di voci particolari come
quella di Serj e Max.
Janne chiese: “Perché?”
Spiazzata, cominciai a
spiegare: “Secondo me, sarebbe perfetto fare ‘Just Another Star’ aggiungendo le
vostre voci.” Accennai ai cantanti.
“No!”
Tutti ci voltammo a fissare
Matt.
“Non faremo una canzone del
mio gruppo.”
A bocca aperta, rimasi a
guardarlo, finché non lo vidi staccarsi dalla parete e uscire dalla saletta.
“Ragazzi, vi dispiace se vado
a parlargli?” chiesi, cercando di non lasciar trapelare emozioni.
Joey e Serj mi osservarono,
annuendo comprensivi, mentre il resto della band non fece obiezioni.
Mi diressi verso l’uscita ma
mi sentii afferrare per il polso.
“Liz” disse Michele.
Mi ritrassi dalla sua presa e
mi voltai a guardarlo. “Sì?”
Non disse nulla.
Continuai a fissarlo
interrogativa, chiedendomi cosa avesse in mente di dirmi. Tuttavia non gli
chiesi ulteriori spiegazioni e ripresi a camminare, lasciandolo dov’era.
Non appena misi piede fuori
dalla saletta, sospirai. Matt non poteva essersene andato, doveva per forza
trovarsi sulla terrazza. La raggiunsi di corsa e mi bloccai sulla soglia.
Lui era là, accasciato sul
pavimento, mentre quell’espressione triste che gli avevo visto poco prima non
voleva saperne di abbandonare il suo viso, invaso dalle ombre che il sole gli
proiettava addosso. Teneva le gambe incrociate, la schiena premuta contro il
parapetto di cemento, i palmi delle mani premuti a terra e i capelli mossi dal
vento.
Mi sentii quasi male mentre
mi rendevo conto di quanto fosse bello.
E di quanto soffrisse.
E di quanto lo desiderassi.
E di quanto stessi
sbagliando.
Scossi impercettibilmente il
capo e mi avvicinai a passo lento alla sua figura.
Rimase immobile nonostante si
fosse accorto della mia presenza, poiché mi aveva lanciato una breve occhiata,
come per accertarsi che fossi sola o che fossi io e nessun altro.
Mi fermai davanti a lui e
rimasi in piedi con lo sguardo puntato a terra.
Matt mi afferrò la mano che
tenevo abbandonata lungo il fianco e quel gesto mi riscosse, procurandomi un
profondo brivido lungo la schiena.
“Scusa” mormorò.
Presi a fissare le sue dita
che stringevano le mie, mentre con il pollice mi accarezzava delicatamente la
pelle del dorso.
Mi abbandonai in ginocchio di
fronte a lui e sentii che non ero più in grado di fingere, non con lui.
Matt finalmente mi guardò
negli occhi.
E io mi sentii morire.
Non volevo sopportare tutto
il dolore che dai suoi occhi mi trapassava l’anima, eppure rimasi incantata a
fissare le sue iridi di ghiaccio, ghiaccio liquido, ghiaccio freddo, ghiaccio
spento.
Che mi raggelò il sangue
nelle vene.
“Oh, Matt, non…” Fui incapace
di aggiungere altro.
Era strano come i suoi occhi
fossero capaci di esprimere così tante emozioni, di inondarmi di tutta la
sofferenza che provava lui, di farmi sentire come se anche io dovessi subire
quello che stava subendo lui a causa mia.
“Va’ da Mick” ordinò, con
tono piatto.
“N-no” balbettai,
stringendogli forte la mano.
“E’ giusto che sia così.”
“Ma non è quello che voglio”
dichiarai, per poi afferrargli anche l’altra mano e avvicinarmela alla guancia.
Me la posai sulle labbra. “Matt.”
“Liz, noi non possiamo stare
insieme, lo hai detto anche tu.”
“Mi sbagliavo!” sbottai.
“No, non è così. Hai idea di
cosa manderesti a monte scegliendomi?” domandò, serio.
Lasciai andare le sue mani e
mi misi a sedere accanto a lui. “Non m’importa.”
“Non dire stronzate” mi
rimproverò, rimanendo immobile a fissare il punto in cui mi trovavo poco prima.
“Stammi a sentire!”
Il chitarrista si voltò di
scatto e i suoi occhi incontrarono i miei.
“Non so cosa sia successo. So
soltanto che da quando ci siamo baciati non ho fatto altro che pensare a te.
Cosa posso farci, eh?”
Scosse il capo. “Potrebbe
essere semplicemente una sbandata, Liz.”
“U-una… ma che dici, io…”
“Sai che c’è?” Matt si alzò e
mi osservò dall’alto in basso. “Sei soltanto un’egoista.”
Mi sentii sprofondare nel
pavimento, come se qualcuno stesse scavando una voragine in cui rinchiudermi
per sempre e impedirmi di riemergere.
Matt proseguì senza togliermi
gli occhi di dosso: “Può essere che ora tu ti senta attratta da me. Ma cosa
succederà quando capirai di aver sbagliato tutto? Cosa farai quando la tua
parte razionale ti farà intendere che la tua vita dev’essere con Mick e non con
me?”
Non dissi niente e abbassai
lo sguardo sulle mie mani, vergognandomi terribilmente soltanto per il fatto di
esistere.
“Pensaci bene prima di venire
da me e illudermi ancora” lo sentii dire.
Poi udii i suoi passi. Se ne
stava andando.
Balzai in piedi, come
risvegliata da un lungo letargo, e lo raggiunsi, abbracciandolo da dietro. “Non
te ne andare, ti prego!” lo supplicai, mentre avvertivo le lacrime pungermi gli
occhi. Le ricacciai indietro e mi costrinsi ad essere forte. Non potevo
piangere proprio ora, ora che Matt mi avrebbe abbandonato per sempre al mio
destino e alla mia confusione.
Mi sentivo proprio
un’adolescente in piena crisi. E forse non ero altro che questo. Durante il
liceo ero stata troppo occupata a studiare e a sopportare di vivere con un
padre che mi odiava, per preoccuparmi di vivere gli anni in cui si scoprono
nuove emozioni, in cui si comincia ad avere le prime cotte, le prime delusioni.
Così, ora mi ritrovavo a vivere le incertezze tipiche di quell’età, con la
complicazione che avevo venticinque anni e avevo a che fare con persone adulte,
persone che provavano sentimenti intensi e puri, persone che non stavo facendo
altro che ferire a causa della mia immaturità.
Lasciai andare Matt e
abbandonai le braccia lungo i fianchi.
Lui non aggiunse altro e se
ne andò.
Affranta, mi andai a sedere
dov’era stato lui precedentemente e mi raggomitolai con le ginocchia al petto e
la testa affondata tra le mani. Ero sbagliata, per me non c’era posto in un
mondo in cui tutti erano già cresciuti, in cui tutti sapevano cosa volevano
dalla vita, sapevano chi amare.
Io non lo sapevo e non avevo
idea di cosa significasse rendere felice qualcuno. Forse perché nessuno aveva
mai reso felice me.
Un rumore proveniente dalla
porta che dava sulla terrazza mi fece sollevare il viso rigato di lacrime.
Michele stava in piedi sulla soglia
e mi sorrideva debolmente, finché non si accorse che piangevo e la sua
espressione si fece preoccupata.
A passo veloce si diresse
nella mia direzione. “Cosa ti ha fatto? Matt…” Fece per accarezzarmi i capelli
ma mi ritrassi.
“Niente, non ha fatto niente!
Smettila di prendertela con lui una buona volta!” gridai, trafiggendolo con gli
occhi.
Lui indietreggiò, ritirando
la mano. “Liz…”
“E’ tutta colpa mia ti dico!
Quando siamo usciti, sabato, l’ho baciato! E sì, ho rovinato tutto, lo so! E
sì, so anche di essere egoista e immatura, ma questa sono io Mick! Ti sei
innamorato della persona sbagliata!”
Michele impallidì.
“Non ti azzardare a torcere
un capello a Matt, lui non c’entra, ti ripeto! Se c’è qualcuno con cui
prendersela”, mi alzai e piantai i miei occhi sui suoi, “quel qualcuno sono
io!”
Il bassista continuava a
rimanere immobile a fissarmi con sguardo inespressivo.
“Ho deciso che tornerò in
Italia, lasciare i Faithless è la cosa più giusta che io possa fare. A Londra
non c’è più posto per me e forse non c’è mai stato.”
Senza preoccuparmi di
aspettare una sua reazione, lo superai e raggiunsi la soglia.
“Spero vorrai dirlo tu ai
ragazzi” dissi e me ne andai di corsa.
Dovevo raggiungere casa
Jordison prima che a qualcuno venisse in mente di seguirmi e levare le tende il
più velocemente possibile.
Il taxi sfrecciava per le vie
stranamente poco trafficate di Londra. Erano circa le nove di sera e avevo
scoperto che un volo per Milano sarebbe partito circa un’ora e mezza più tardi.
Perfetto. Dovevo assolutamente lasciare la città il prima possibile, in modo da
non dare la possibilità a nessuno di provare a seguirmi e pregarmi di cambiare
idea.
Avevo sbagliato a rispondere
a quell’annuncio lasciato dai Faithless, sarei dovuta
rimanere nell’ombra e continuare a vivere con mio padre, nel tentativo di
sopportarlo finché non avessi trovato un lavoro che mi permettesse di andarmene
di casa. Invece avevo risposto a quella loro dannata ricerca e da lì era
cominciato tutto. Non ero adatta a vivere in mezzo a delle persone adulte,
perché nel mio cervello l’apposita maturità non c’era. Me n’ero accorta non
appena Michele aveva cercato di conquistarmi, e allora mi sarei dovuta
distaccare, anziché gettarmi tra le sue braccia. Così anche l’ira e la gelosia
di Matt si erano scatenate, riversandosi sui Faithless
e sul nostro rapporto. In più c’era stata la faccenda di Corey
che mi aveva allontanato da Joey, soltanto perché io,
come al solito, non avevo capito niente e lo avevo respinto nonostante cercasse
di spiegarmi la sua posizione. Poi, sempre a causa mia, la sorella di Max era
stata allontanata dalla saletta. Lo scompiglio nel gruppo era sempre stato
portato da me, così come l’incrinazione e la tensione
dei rapporti tra i componenti.
Ma stavolta non avrei
sbagliato, non sarei rimasta a guardare mentre tutto andava a rotoli a causa
mia, non l’avrei permesso ancora. Ora stavo facendo soltanto la cosa giusta e
non me ne sarei pentita.
Una volta giunta in
aeroporto, pagai la corsa e scesi, mentre una leggere brezza mi sferzava il
viso.
Mi trascinai dietro il mio
trolley e mi avviai all’interno della struttura con l’intenzione di fare il
check-in per poi rifugiarmi in un angolo e aspettare l’orario dell’imbarco.
Nessuno mi avrebbe trovato e
non avrei permesso che le cose andassero diversamente da come avevo deciso.
Quella era stata la scelta migliore che avessi mai fatto in venticinque anni di
vita e, nonostante il dolore mi squarciasse il petto, l’avrei portata avanti
fino all’ultimo.
Presto mi sbarazzai del
pensiero del check-in e mi fiondai in un angolo da cui riuscivo a scorgere
soltanto gli orari delle partenze e degli arrivi, mentre tutto il resto mi
veniva oscurato da un muro su cui posai la testa, sospirando. Mi sentivo
affranta e triste. Mi sarebbe mancato ogni singolo componente del gruppo e
questa sarebbe risultata la parte più difficile da sopportare. Serj con il suo ottimismo, Joey
con la sua allegria e i suoi consigli, Janne con le
sue battute stupide, Max e il suo temperamento latino colmo di vitalità.
E Michele, intelligente,
sicuro di sé, riflessivo.
E Matt, bello, impulsivo,
passionale.
Calde lacrime presero a
rigarmi le guance. Era impossibile, stavo sul serio abbandonando tutto per
tornare in Italia a vivere la vita che ormai non ricordavo più di aver vissuto?
Chissà come sarebbe andata.
In quel momento mi venne in
mente che non sapevo assolutamente dove andare.
Afferrai il cellulare e
scorsi la rubrica, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano. Non ero
sicura che Anna mi avrebbe risposto. Sperai che non ce l’avesse ancora per me
per il fatto che me ne fossi andata senza salutarla, ma era stato mio padre ad
opprimermi e a farmi pressione.
Da allora io e Anna ci
eravamo sentite saltuariamente e lei mi era parsa un po’ fredda e distaccata.
Il suo era ancora il primo
numero della lista. Schiacciai convulsamente il tasto verde e la chiamata
partì.
Sentii gli squilli che si
susseguivano e il cuore perse un battito quando la sua voce mi arrivò alle
orecchie.
“Liz?”
Il suo tono era sorpreso e leggermente incerto.
“Annuccia”
mormorai, scoppiando nuovamente a piangere. Non avrei voluto, ma fu
inevitabile. Tuttavia sapevo che con lei potevo essere me stessa, senza pensare
né riflettere su cosa dovessi dire o fare per compiacerla. O almeno, così era
sempre stato in passato e ora il mio desiderio era quello che potesse essere
ancora così con la mia vecchia amica.
“Oh, tesoro! Perché piangi?”
“Sto tornando a casa” dissi
tra i singhiozzi.
“Cosa?” sbottò. “Perché?”
In quel momento udii la
chiamata dell’imbarco del mio volo.
“Ti racconto tutto quando
arrivo. Dimmi soltanto se posso stare da te per qualche giorno.”
“Certo che puoi!” dichiarò,
alzando il tono di voce. “Non devi nemmeno chiederlo.”
“Grazie” piagnucolai. “Sono
felice che tra noi non sia cambiato niente” aggiunsi, riprendendo ad asciugarmi
le lacrime.
Presi il trolley e mi alzai.
“Anche io.” Immaginai che
stesse sorridendo dal tono della sua voce.
Silenzio.
“Devo andare” dissi.
Mi incamminai verso l’uscita,
mentre un sacco di persone mi passavano accanto, quasi di corsa.
“Vuoi che ti venga a prendere?”
domandò.
“Prenderò un taxi.”
Ci salutammi
e riagganciai, gettando il cellulare dentro una tasca interna del trolley, dopo
averlo spento.
Mi diressi dietro a tutti gli
altri passeggeri e mi immersi tra la marmaglia.
Non so perché, ma qualcosa mi
indusse a voltarmi indietro.
E li vidi.
Michele e Matt, così diversi
eppure così uniti dallo stesso amore per me, per la persona sbagliata che non
aveva fatto altro che procurargli sofferenza. Stavano là, vicini, con lo
sguardo fisso su di me, come se aspettassero che ci ripensassi.
Ma ciò non accadde.
Mi dovetti sforzare
immensamente per non correr loro incontro, eppure rimasi con i piedi piantati
per terra a guardarli come se non fossero nemmeno là.
Michele era arrabbiato e
deluso, sul suo viso teso, le sopracciglia erano inarcate e gli occhi puntati
sui miei erano accusatori.
Matt era triste. Sembrava che
volesse piangere da un momento all’altro e le sue spalle erano incurvate in
maniera strana, come se tutto il dolore che provava si riversasse su di esse.
Gli occhi erano sgranati e lucidi.
Il cuore mi si spezzò, fu
quasi come se un rumore orribile mi si espandesse per tutto il petto, fino a
raggiungere ogni singolo recettore del mio corpo.
A ridestarmi da quella fase
di trance fu l’ultima chiamata del volo.
I due ragazzi raddrizzarono
le spalle e rimasero immobili a fissarmi intensamente, aspettando una mia
mossa, un mio passo verso di loro, un mio ennesimo errore.
Che non avvenne.
Gli voltai le spalle e mi
affrettai ad accodarmi agli ultimi ritardatari.
Senza guardare più indietro,
camminai velocemente e mi gettai definitivamente il passato alle spalle.
Quando scesi dall’aereo, il
ricordo dell’ultima volta che ero stata a Milano mi investì come uno tsunami,
ferendomi terribilmente. Era stato Michele a portarmici,
chiedendomi di accompagnarlo poiché doveva tenere un concerto nella Grande
Metropoli italiana. Allora tra noi non era ancora nato niente di che, ma io ero
già confusa e cercavo di capire cosa provassi nei suoi confronti. Quei giorni,
nonostante facesse male ricordarli, erano stati divertentissimi: nel backstage
della manifestazione a cui Michele aveva partecipato, avevo reincontrato
il mio amico Nicola, cantante dei Linea 77, e conosciuto Babaman,
uno dei miei tanti idoli. Era stata un’esperienza fantastica e ora ci tornavo
perché la mia migliore amica abitava là e io non ero sicura di poter tornare in
Toscana. Probabilmente mio padre aveva venduto la casa prima di partire a
Londra e prima di scoprirlo avevo dovuto trovare una sistemazione temporanea.
Immersa nei miei pensieri, mi
avviai verso l’uscita e salii sul primo taxi a disposizione, dicendo
l’indirizzo all’autista.
Mi accasciai sul sedile e
osservai i claustrofobici grattaceli milanesi ammassati l’uno sull’altro. Non
rimasi turbata da quell’ambiente, poiché Londra era ancora peggio di Milano da
quel punto di vista. Quando ci imbottigliammo nel traffico, notai che ci
trovavamo vicino a Piazza del Duomo e il ricordo del concerto di Michele mi
schiaffeggiò ancora una volta con tutta la sua potente crudeltà. Mi venne in
mente la dedica che mi aveva fatto prima di cominciare a cantare ‘Ulisse’. Era
stato emozionante assistere a tutto quello spettacolo e in quel momento, mentre
l’autista ripartiva, fui certa che non avrei mai dimenticato niente che fosse legato
ai Faithless.
L’auto si fermò e io scesi,
porgendo una banconota da venti sterline all’autista.
Lui mi lanciò
un’occhiataccia.
Inizialmente non compresi
cosa ci fosse che non andava, poi sgranai gli occhi, mortificata.
“Mi scusi, io… sono appena tornata da Londra e…
avevo fretta, non ho pensato di…”
Il tizio mi sorrise
sarcastico e mi congedò con un gesto della mano. “Vada, non si preoccupi. La
prossima volta mi dovrà il doppio.”
Stordita, scesi dalla
macchina e la osservai mentre si allontanava, scomparendo nel traffico
milanese.
Dio, come avevo potuto non
ricordarmi di cambiare le sterline in euro? Mi maledissi un centinaio di volte,
mentre mi infilavo nell’androne del palazzo in cui abitava Anna. Presi
l’ascensore e schiacciai convulsamente il tasto numero 8, per poi appoggiarmi
con la schiena contro la parete metallica e sospirare.
Le porte si aprirono dopo un
lungo minuto e, barcollando, mi trascinai fuori, avviandomi verso
l’appartamento della mia amica. Vi giunsi e suonai il campanello, lasciando andare
il trolley e sistemandomi distrattamente i capelli con una manata.
Pochi istanti dopo Anna mi
aprì e mi si fiondò addosso, stringendomi forte a sé. “Oh, Elisa! Quanto mi sei
mancata!” disse.
Ricambiai l’abbraccio e
sorrisi, mentre qualche lacrima di gioia sgorgava dai miei occhi.
“Fatti guardare!” Mi afferrò
per le spalle e mi fece allontanare, per poi squadrarmi dall’alto in basso.
Posò le iridi nocciola sul mio viso e mormorò: “Non piangere, tesoro. Vieni,
entra. Ci mettiamo comode e mi racconti tutto, ti va? Vuoi qualcosa da bere?”
prese a domandare, trascinandomi letteralmente dentro casa.
Mi fece sedere sulla piccola
poltrona in vimini che si trovava in un angolo della cucina e trasportò il mio
bagaglio fuori dalla stanza. Poco dopo riapparve e prese ad armeggiare con un
bollitore di metallo.
La osservai e sorrisi.
“Allora? Vuoi un tè?”
Scossi il capo. “Dimentichi
sempre che odio quella bevanda.”
Anna si batté una mano sulla
fronte e ridacchiò, mettendo comunque a bollire l’acqua. “Allora l’inglese sono
io, a quanto pare” osservò, voltandosi nella mia direzione.
Risi e le feci una
linguaccia.
“Caffè?” chiese ancora.
“Sì, diamine! Un
bell’Espresso!”
La mia amica si mise
all’opera e io mi guardai intorno, notando l’arredamento modesto ma comunque
accogliente; tutti i mobili erano di legno chiaro, mentre le pareti color pesca
ospitavano qualche quadretto rappresentante astrattismi.
Una domanda mi occupò
improvvisamente la mente e mi voltai di scatto verso Anna, trovandola
appoggiata con la schiena contro il frigorifero, intenta a fissare la piccola
caffettiera rossa.
“Anna.”
“Sì?”
“Vivi ancora da sola, vero?”
domandai.
La mia amica sorrise, ma non
distolse lo sguardo dal punto che stava osservando.
Cosa mi stava nascondendo?
Non è che forse…
“Sai, in realtà…
Giorgio si è trasferito da me circa un mese fa.”
Cosa? Io non ne sapevo
niente! E ora stavo deliberatamente invadendo i loro spazi, proprio nel momento
in cui Anna e il suo ragazzo avevano appena intrapreso un’esperienza importante
come la convivenza.
“Ma Eli,
non ti preoccupare!” si affrettò ad aggiungere, notando la mia espressione dopo
aver sollevato il viso. Mi si avvicinò e proseguì: “Tu sei e sarai sempre la
ben venuta a casa mia, perciò smettila di pensare di arrecare disturbo.”
Spalancai la bocca per dire
qualcosa.
“Non essere sorpresa, ti
conosco” dichiarò, con tono divertito.
Intanto la caffettiera e il
bollitore presero a rumoreggiare nello stesso istante, come se si fossero messi
d’accordo.
Sorrisi ad Anna e lei si
affrettò a spegnere tutto e a versarmi il liquido nero che tanto amavo in una
tazzina.
“Ecco a te!” disse,
posandomela accanto assieme alla zuccheriera color porpora, abbinata alla
caffettiera. “Ben tornata a casa.”
“E così sei fuggita da Londra
per amore” riassunse Anna, mentre stavamo accoccolate sul divano.
Le avevo appena raccontato
ogni singola cosa e lei era stata ad ascoltarmi con attenzione e comprensione,
come se ci fossimo viste appena il giorno precedente.
“Sì.” Le posai la testa sulla
spalle e lei mi avvolse in un abbraccio.
“Sei sicura di aver compiuto
la scelta giusta?”
“Sinceramente non lo so.
Cioè, per i ragazzi è meglio così, ma è logico che io soffra per la drasticità
del mio gesto. Ho tagliato i ponti in quattro e quattr’otto e ora mi sento
vuota.” Ero sincera, con Anna era inutile fingere.
“Capisco. Sono d’accordo con
la tua scelta, Elisa.”
Annuii. “Lo immaginavo.”
“Per come ti conosco, non
saresti stata in grado di scegliere.”
Chiusi gli occhi e sospirai.
“Già. Sono una bambina.”
Anna ridacchiò, tirandomi una
ciocca di capelli. “Sì, sei la mia bambina.”
“Perché mai? Abbiamo fatto
tutti questi chilometri per niente? Ora siamo qua e tu ti dai una mossa.”
Anna aveva ragione.
Ci trovavamo in Toscana, più
precisamente a Grosseto, la mia città natale. Ebbene sì, dopo una settimana
trascorsa a sentirmi il terzo incomoda a casa della mia migliore amica, mi ero
decisa a tornare nella mia terra a controllare se la casa in cui ero cresciuta
fosse ancora di proprietà della mia famiglia o se fosse stata venduta. Mio
padre sarebbe stato capace di tutto pur di tagliarmi le gambe, tant’era l’odio
che provava nei miei confronti.
Così, mi ritrovavo davanti al
vialetto che tanto avevo odiato ma che adesso speravo tanto che potesse essere
nuovamente mio. Un auto era parcheggiata sul ciglio della strada, ma non sapevo
a chi appartenesse. Sperai che non fosse del nuovo proprietario della casa.
L’unico modo che avevo di
scoprirlo, in quel momento, era suonare quel dannato campanello e scoprire il
mio destino. In caso nessuno avesse risposto, nella mano destra stringevo una
vecchia copia della chiave del portone principale.
Anna mi diede una leggera
spinta, incitandomi a farmi avanti.
Una volta giunta vicino al
campanello, il mio sguardo fu catturato dalla targhetta che una volta arrecava
il cognome di mio padre. Ora, invece, c’era scritto ‘Famiglia Arrighi’.
“Oh, no!” mormorai,
portandomi una mano alla bocca.
“Elisa! Insomma, ti vuoi
decidere? Non è detto che tuo padre l’abbia venduta. Può essere che…”
“Okay, okay! Suono!”
Avvicinai l’indice sinistro
al pulsante del citofono ma, quando stavo per schiacciarlo, fui interrotta da
una voce femminile alle mie spalle.
“Elisa? Sei proprio tu?”
Mi voltai di scatto,
ritrovandomi faccia a faccia con Adelina Giannini, una delle mie ex vicine di
casa. La signora, conosciuta da tutti come Ada, era una vecchia zitella
pettegola che ricordava tanto la nonna di Hansel e Gretel. Rimasi a bocca
aperta, mentre la mia mente elaborava il fatto che la donna facesse ancora
parte di questo mondo. Quando ero partita a Londra, due anni prima, l’avevo
lasciata che vegetava a letto, in seguito ad un infarto che avrebbe ucciso
chiunque. Già, chiunque ma non lei. Si sa, l’erba cattiva non muore mai. L’avevo
sempre conosciuta e odiata, così come detestavo tutto il genere delle pettegole
che esistevano sulla faccia della Terra.
Ebbi l’impulso di risponderle
malamente, o di liquidarla con un sorriso falso come una banconota da due euro,
eppure un’idea mi balenò in mente come un fulmine a ciel sereno.
Mi sciolsi in un sorriso,
compiaciuta dal fatto di avere un cervello pensante.
La donna credette che stessi
rivolgendo quel gesto a lei, così mi si avvicinò e mi travolse in uno dei suoi
famosi abbracci stritolanti, capaci di infastidire la persona più paziente e
tranquilla al mondo.
“Salve, signora Ada. Come
sta? La trovo in splendida forma!” esclamai, dopo essermi gentilmente scostata
da lei.
Anna, intanto, si intromise
nella conversazione, salutando educatamente la donna. “Signora Ada, si ricorda
di me? Sono Anna, giocavo spesso con Elisa quando eravamo piccole.”
“Oh, sì, cara! Ciao!” squittì
Adelina, abbracciando anche la mia amica.
“Cosa fate da queste parti?
So che vi eravate trasferite a Londra e Milano” disse, indicando prima me poi
Anna, mentre pronunciava i nomi delle due metropoli.
Il sangue mi ribollì nelle
vene. Quanto odiavo quel suo ficcanasare in ogni questione! Eppure, dovevo
tenere duro e usufruire di quella fonte che tanto mi irritava per cercare di
scoprire qualcosa sulla casa.
“Sa, è proprio per questo che
sono qua” risposi, cercando di non rivelarle troppi dettagli che lei avrebbe
sicuramente spifferato alle altre reliquie del quartiere, ammesso e non
concesso che fossero ancora vive e vegete.
“Cioè?” I suoi occhi si
accesero di quella curiosità morbosa che conoscevo bene.
“Ecco, vorrei tornare a
vivere a Grosseto, ma non so se la mia casa è ancora disponibile.”
“Non lo sai?” fece,
spalancando sfacciatamente la bocca, come indignata dalla mia ignoranza.
Insomma, era davvero convinta che tutti dovessero essere a sua immagine e
somiglianza? Che razza di presunzione era quella?
“No, non lo so” risposi con
tono inevitabilmente irritato, beccandomi un’occhiataccia da parte di Anna.
“Oh, cara. Allora con tuo
padre le cose non sono migliorate, vero? Mi dispiace tanto. Quell’uomo è
terribile, io l’ho sempre detto!” borbottò, come se stesse parlando più con se
stessa che con me.
Soffocai un’imprecazione,
stendendo un velo pietoso sulla sua indelicatezza.
“Ragazze, su, venite dentro!
Vi offro una tazza di caffè e vi racconto quello che so. Non sono più informata
come una volta, ormai voi giovani siete così riservati! Però forse posso
aiutarvi.” Così dicendo, zampettò velocemente verso la sua dimora. Chi non la
conosceva, non avrebbe mai pensato che quel carro armato di donna fosse uscita
illesa da un infarto.
Io ed Anna la seguimmo e,
prima di entrare, la mia amica mi afferrò per un braccio e mi sussurrò:
“Comportati bene.”
Mi divincolai dalla sua presa
e annuii, per poi sedermi sulla poltrona di pelle nera che la signora Adelina
mi stava indicando.
L’arredamento della sua casa
era sempre nuovo, smagliante, come se nessuno vi abitasse, e forse era proprio
così. Era come se quella donna vegetasse alla maniera di un fantasma.
Poco dopo, tre tazze di caffè
fumante erano posate sul tavolino al centro del salotto e la padrona di casa si
sedette su una poltrona di fronte alla mia, mentre Anna si era accomodata su
una sedia di vimini.
“Il suo caffè è sempre il
migliore del quartiere, immagino” osservai, mescolando lo zucchero. Il mio
complimento, stavolta, fu sincero. La signora Adelina aveva molti difetti, ma
non le si poteva di certo togliere quel primato.
“Lo spero, cara, lo spero!
Assaggia e fammi sapere.”
Dopo aver sorseggiato il
liquido nero, le sorrisi.
Lei ricambiò, scrutandomi con
quei suoi occhi piccoli e stretti, indagatori e attenti com’erano sempre stati,
capaci di mettermi tremendamente in soggezione.
“Allora, Elisa, devi sapere
che la tua casa è in affitto alla deliziosa famiglia Arrighi” disse Ada, per
poi trangugiare il suo caffè.
“In affitto?” Posai la tazza
sulla superficie quadrata e vitrea del tavolino.
“Sì, hai capito bene. A tuo
padre fa comodo incassare un po’ di soldi. Con i tempi che corrono non ha
ritenuto opportuno vendere la casa, sai com’è.”
Evitai di chiederle come
facesse a sapere certe cose. Diamine, nemmeno io ne ero a conoscenza!
“Tuttavia…”
Sollevai lo sguardo. Cosa
stava per dirmi?
“La casa è a nome tuo, questo
dovresti saperlo.”
Rimasi interdetta. Cosa? No,
non ne sapevo niente! Eppure, feci finta di averne sentito parlare.
Annuii. “Ricordo vagamente
qualcosa del genere…”
“Tuo nonno ha voluto
lasciarla a te. Perciò, puoi farne ciò che vuoi.”
Sorrisi. “E’ vero. Che
sciocca, io…”
“Oh, Elisa, non ti
preoccupare” tagliò corto, sorridendo.
Quando io e Anna lasciammo
l’abitazione della signora Adelina Giannini, fui certa che mi sarei ripresa ciò
che era mio. Avevo perso tutto per colpa di mio padre, avevo dovuto rinunciare
ai Faithless perché non ero in grado di compiere scelte mature, ma di una cosa
ero sicura al cento per cento: sebbene mi dispiacesse per la ‘deliziosa
famiglia Arrighi’, sarei tornata a vivere a Grosseto, lottando contro la bestia
che mi aveva rovinato l’esistenza.
Innanzi tutto, feci visita
alla famiglia Arrighi. Si trattava di due coniugi abbastanza giovani senza
figli, perciò immaginai che per loro non sarebbe stato difficile trovare
un’altra sistemazione alternativa a casa mia. Poi Giorgio – il ragazzo di Anna
– che lavorava come avvocato in uno studio legale al centro di Milano, contattò
mio padre e gli richiese il documento che attestava la mia proprietà della casa
a Grosseto, poiché io avevo espressamente manifestato la mia volontà a volerci
tornare.
Quella bestia aveva
borbottato e imprecato contro il gentilissimo Giorgio, poi però era stato
costretto a sottomettersi alla giustizia e dichiarò che avrebbe inviato il
tutto via fax.
Tutto si concluse in maniera
abbastanza rapida, nel giro di un mese il documento fu di mia proprietà e con
tale attestato esercitai il mio legittimo rimpatrio in Toscana.
Tuttavia, aiutai i coniugi
Arrighi a trovare una sistemazione, scoprendo che la fortuna sembrava essere
dalla mia parte. Infatti, i due si trasferirono in un appartamento in centro,
meno costono dell’esorbitante affitto che mio padre
pretendeva loro. Inoltre, la zona era la stessa in cui entrambi lavoravano,
essendo proprietari di una cartolibreria.
Così, un mese e mezzo dopo,
ero a casa, felice di aver ricevuto la proposta di lavorare alle dipendenze dei
due coniugi.
Inutile dire quanto fosse
felice la signora Adelina Giannini nel vedermi
scaricare la mia roba dov’era sempre stata fino a due anni prima. Mi fece le
feste come un cagnolino che aspettava con ansia il ritorno del suo padrone e questo
mi irritò in maniera eclatante. Fui quasi sul punto di mandarla al diavolo, se
non fossi stata una persona educata.
Per quanto riguarda i miei
sentimenti, la situazione non era affatto cambiata: se durante il giorno ero entusiasta
e occupata a servire i clienti della cartolibreria, la notte mi chiudevo a
riccio sul mio letto e piangevo, sentendomi nostalgica e triste. Avevo
combinato un sacco di guai e già mi mancava il sostegno che Anna mi aveva
donato nel periodo in cui avevo vissuto a casa sua. Anche lei, però, aveva un
lavoro e doveva rimanere a Milano a svolgerlo, non poteva star dietro alle mie
stupide lacrime.
Più il tempo passava, più il
vuoto nel mio petto cresceva inesorabilmente, trascinandomi in un oblio che mai
e poi mai avrei saputo affrontare e sconfiggere. Mi ero premurata di gettare la
vecchia scheda telefonica, proprio per evitare di essere contattata da Michele
o da Matt.
Rimaneva però il mio
indirizzo e-mail che avevo deciso di continuare ad utilizzare, poiché ricevevo
aggiornamenti da diversi siti e non mi andava di eliminare tutto a causa di un
triangolo amoroso che solo io mi ero creata.
Così, un bel giorno – per
così dire – effettuai l’accesso alla mia casella di posta elettronica per
controllare se ci fosse qualche novità interessante.
Mentre scorrevo i
ventiquattro messaggi in arrivo (dalla quantita della
posta non letta si può capire che non vi entravo spesso), uno di essi attirò la
mia attenzione, raggelandomi il sangue nelle vene.
Risaliva a circa una
settimana prima. Il mittente era Matthew Tuck. Non
poteva essere, avevo vietato sia a lui che a Michele di cercarmi. E ora venivo
a conoscenza del fatto che il mio volere non era stato rispettato.
Con lo sguardo fisso sullo
schermo del portatile, cominciai a leggere ciò che Matt mi aveva scritto.
Cara Liz,
so perfettamente che non avrei
dovuto scriverti, ma è stato più forte di me.
Mi manchi, non immagini
quanto. Non sai cosa darei per poterti riabbracciare.
Tuo, Matt
Rimasi per qualche minuto con
la bocca spalancata, gli occhi sgranati e una mano premuta sul petto
all’altezza del cuore, mentre un uragano di sensazioni mi travolgeva,
trascinandomi in un universo a me sconosciuto. Matt aveva detto che gli
mancavo. Peccato che non sapesse quanto lui mancasse a me. Avrei voluto
cancellare quel suo messaggio, ignorarlo, magari avrei potuto addirittura
evitare di leggerlo e cestinarlo soltanto perché proveniva da lui.
Eppure, rimasi là a
rileggerlo all’infinito, incurante delle lacrime che mi offuscavano la vista,
della gioia insensata che il sentirmi desiderata da lui mi provocava, del
bisogno che sentivo di rispondergli o addirittura di prendere il primo aereo
per Londra e raggiungerlo.
Invece, lessi centinaia,
migliaia di volte quelle poche parole, in modo da imprimerle a fuoco nella mia
anima.
Matt mi voleva.
E io volevo lui.
Ma sapevo già che non avremmo
mai potuto stare insieme, non dopo tutto quello che avevo combinato, non dopo
aver abbandonato i Faithless di punto in bianco.
Cosa dovevo fare?
Non ne avevo la minima idea.
Mi sentivo un po’ come Tom Hanks nel film ‘Cast Away’:
demoralizzata, sola, confusa, incapace di trovare una soluzione per abbandonare
quell’isola triste e solitaria che era la mia sofferenza.
Scossi il capo, cercando di liberare
la mente da quei pensieri dolorosi.
Decisi di spegnere il
computer. Non volevo nemmeno cancellare l’e-mail di Matt, volevo soltanto
smetterla di leggerla, anche perché ormai conoscevo a memoria ogni singola
interpunzione, ogni singolo termine, ogni singola emozione legata ad ognuna
delle parti dei brevi periodi che aveva inciso in quel messaggio digitale.
Prima di arrestare il
sistema, però, decisi che avevo qualcosa di importante da affrontare: dovevo
sapere com’era andato lo spettacolo dei Faithless
come gruppo spalla dei Metallica, dovevo venire a conoscenza della nuova
formazione, dovevo saperne di più su di loro. Avevo rimandato per troppo tempo
quel momento. Ma ora potevo affrontarlo, dopo aver accettato di leggere le
parole di Matt, non mi restava che completare l’opera in bellezza.
Digitai alcune parole sul
motore di ricerca e attesi che comparisse la lista dei risultati. Aprii il sito
ufficiale dei Faithless e la foto del gruppo mi si
parò davanti agli occhi, trafiggendoli.
Sulla destra, il primo a
spiccare con un sorriso smagliante era Max, accanto a lui c’era Joey che faceva le corna, poi Michele che osservava
l’obiettivo con espressione seria; al suo fianco, Matt aveva assunto
un’espressione da duro, mentre Janne rideva, come se
qualcuno dei presenti avesse appena fatto una battuta.
E accanto a lui, con gli
occhi più tristi di questo mondo, vi ero io, persa come al solito nei miei
pensieri.
Infine, Serj
posava rilassato, con una mano sulla mia spalla e l’altra posata sul petto,
mentre un lieve sorriso gli increspava le labbra.
Mi sentii invadere da un
amore incondizionato per ognuno di loro, come se tutto quello che era successo
nei mesi precedenti avesse improvvisamente cessato di esistere. Fu come
trovarmi lì a posare insieme a loro. Non mi importava che la mia espressione
fosse malinconica, sapevo soltanto che ricordavo il momento in cui
quell’immagine era stata scattata e sapevo che, allora, mi sentivo a casa,
protetta dalla mia vera famiglia.
Mi riscossi e scesi con il
cursore a leggere i post della timeline.
L’ultimo risaliva proprio al
giorno della mia partenza.
5 settembre 2012, ore 19:37
I Faithlessannuciano
che la batterista Elisa Rubini non potrà presenziare al live in cui la band si
esibirà in apertura del concerto dei Metallica, il prossimo 3 ottobre.
Si spera che la musicista si rimetta presto in forze e che torni il
prima possibile ad allietarvi con l’energia del suo strumento.
Intanto, sarà sostituita dal batterista Mike Luce, facente parte
della band statunitense Drowning Pool.
Siete tutti invitati a partecipare all’evento!
Cosa? Dovevo aver letto male,
perché non era concepibile che i ragazzi credessero che sarei tornata a suonare
con loro. Ero stata chiara, avevo detto espressamente che sarei uscita dalle
loro vite per sempre, eppure avevano comunque fatto di testa loro.
Tutti i buoni propositi
riguardanti l’esito della serata con i Metallica andarono a farsi benedire.
Sapevo che Mike Luce non aveva niente da invidiarmi, perciò potevo dormire sonni
tranquilli da quel punto di vista.
Spensi il computer e mi andai
a stendere sul letto.
I Faithless
erano pazzi, completamente fuori di testa!
Non potevo ripartire per
Londra come se niente fosse e scoinvolgere un’altra
volta le loro vite.
Prima di scivolare tra le
braccia di Morfeo, soltanto di una cosa fui certa: avevo sbagliato ad illudere
Michele, poiché soltanto ora comprendevo che l’unico che avessi mai amato altri
non era che Matthew Tuck.
Ecco perché dovevo rimanere
in Toscana e lasciarlo andare.
Ecco perché decisi che avrei
eliminato la sua e-mail.
Ecco perché non l’avrei
degnato della minima risposta.
Osservai lo schermo del mio
cellulare per controllare che ore fossero e mi accorsi che era tremendamente
tardi. Mi precipitai giù dal letto e misi le ultime cose in valigia. Dovevo
sbrigarmi, altrimenti l’aereo non avrebbe certo atteso il mio arriivo, poiché ero io a dovermi adeguare agli orari
imposti dalla compagnia. Sicuramente non sarebbero venuti a suonare a casa mia
per incitarmi a salire a bordo. Perciò, avrei perso l’occasione di arrivare in
orario a quel dannato concerto e Anna mi avrebbe strozzato, ne ero certa.
Imprecai, mentre uscivo di
casa trascinandomi dietro il trolley. Un taxi mi aspettava già da un quarto
d’ora e l’autista sembrava parecchio scocciato. Mi fulminò con gli occhi quando
mi vide avvicinarmi alla sua vettura, poi butto il mio bagaglio nel cofano e
partì a tutta velocità verso l’aeroporto. Almeno non avrei dovuto pregarlo di
fare in fretta, la sua guida era abbastanza spericolata e rapida.
Non appena giungemmo a
destinazione, mi diressi a passo spedito all’imbarco, mentre dagli altoparlanti
si udiva l’ultima chiamata per il volo diretto a Milano. Ero stata proprio
fortunata, avevo creduto seriamente di dover rimanere a Grosseto.
Non che fossi troppo
entusiasta all’idea di assistere a quel concerto, ma Anna mi aveva letteralmente
trascinato a Milano, dicendomi che era giunto il momento di affrontare la mia
vita e sistemare le cose che avevo lasciato in sospeso.
Da quando Matt mi aveva
scritto, erano passati due mesi e non mi ero degnata di rispondergli. Ora che i
Faithless erano in tour in Europa con i Metallica,
dopo il grande successo ottenuto nella prima data londinese, ero pronta a
rivederli, ad assistere alla loro performance con il batterista Mike Luce, ero
pronta a vedere Matt e comunicargli personalmente la risposta alla sua e-mail.
Era stato difficile
comprendere cosa dovevo fare, ma alla fine tutti i nodi erano tornati al
pettine.
Il viaggio non durò molto, in
men che non si dica mi ritrovai stretta ad Anna che
esultava del fatto che le avessi dato ascolto per una volta, che fossi riuscita
ad arrivare e che dovevamo sbrigarci.
Passammo giusto un attimo nel
suo appartamento a lasciare il trolley e a sistemarci, poi prendemmo la sua
auto e ci dirigemmo all’Alcatraz. Erano soltanto le
due del pomeriggio e io avevo una fame tremenda, ma la mia amica era decisa ad
assicurarsi la prima fila e quando Anna si metteva in testa una cosa, era
pressoché impossibile smuoverla o impedirle di ottenerla.
“Devi stare faccia a faccia
con loro, devono sapere che ci sei” continuava, zigzagando in mezzo al traffico
milanese.
“Sì, ma ho fame! Ero in
ritardo e non ho nemmeno avuto il tempo di fare colazione!” protestai,
incrociando le braccia sul petto.
“Non temere, mangeremo!”
E così, ci fermammo ad un
fast food e tutto ciò che riuscii ad ottenere fu del
cibo d’asporto, poiché Anna fu categorica: non avevamo tempo da perdere per
mangiare sul posto, dovevamo sbrigarci!
Credetti che stesse letteralmente impazzendo, ma mi
divertiva tremendamente quel suo modo di fare.
Ricordo perfettamente cosa
accadde quando i cancelli si aprirono: la mia amica mi trasportò in mezzo alla
folla urlante, sgomitando a destra e a manca per poter passare, incurante del
fatto che fosse presente un esorbitante numero di gente, prevalentemente di
sesso maschile. Arrivammo come due furie in prima fila e io mi schiantai contro
la transenna, imprecando tra i denti. Attorno a me cominciò ad affollarsi una
marea di sostenitori accaniti dei Metallica, con tanto di maglie della band e
altri gadget vari. In poco tempo, mi ritrovai schiacciata contro la barriera di
ferro che mi separava dal palcoscenico, mentre tutti spingevano per potersi
avvicinare alla prima fila. Ero così impegnata a tenermi stretta la mia
postazione, che ancora non avevo realizzato ciò che stava per succedere.
Avrei rivisto i Faithless.
Feci appena in tempo ad
elaborare quel concetto che un boato si scatenò attorno a me, mentre Anna mi
gridava all’orecchio, indicandomi il palco.
Pian piano, tutti i musicisti
che componevano i Faithless fecero il loro ingresso,
lasciandomi letteralmente a bocca aperta.
Serj era completamente vestito di nero e sfilava
con sicurezza, trasmettendomi una calma immensa, seppur non gli stessi
stringendo la mano come spesso capitava in passato.
Joey era buffo mentre teneva tra le braccia la sua
chitarra, distinguendosi per la sua bassa statura in confronto agli altri.
Janne trotterellava allegro, dirigendosi dietro la
sua fantastica keyboard, come se si trovasse in saletta a provare e non ad un
concerto davanti a miliardi di persone.
Max lanciò un sorriso in
direzione del pubblico, per poi afferrare il microfono e pronunciare qualche
parola che non fui in grado di distinguere.
Mike Luce corse ad impugnare
le bacchette, per poi sedersi dietro la batteria e lanciare un grido in scream attraverso il microfono che gli era stato sistemato
addosso.
Michele camminò tranquillo e
si sistemò sul lato destro del palco, strimpellando distrattamente il basso,
per poi rivolgere un cenno di saluto agli spettatori.
E Matt…
Be’, Matt era bellissimo.
Indossava una maglia dei
Metallica e sorrideva, eccitato, mentre perlustrava il pubblico con gli occhi.
E mi vide.
Il mio sguardo si scontrò con
il suo e la sua espressione divenne prima sorpresa, poi il suo sorriso si
allargò e attirò l’attenzione di tutta la band su di me.
Max, che ancora giocherellava
con il microfono, gridò: “Liz!”
Imbarazzata, mi strinsi al
fianco di Anna, mentre lei rideva euforica.
Attorno a me le grida non
erano diminuite, tuttavia molti dei presenti sembravano interessati alle espressioni
sorprese dipinte sul viso dei Faithless.
Mike Luce, incuriosito, si
avvicinò a Janne, che mi indicò, sorridendo come suo
solito.
“Liz,
sei venuta a suonare?” chiese Max.
Calò il silenzio.
Avrei voluto sotterrarmi, sì,
in quel momento non desiderai altro.
Anna mi diede una gomitata,
incitandomi a rispondere al brasiliano.
Scossi il capo, incapace di
proferire parola.
Notai che Michele mi
osservava, sembrava tranquillo, come se si fosse fatto una ragione di ogni
cosa. Ma con lui non c’era da stare tranquilli, lo conoscevo abbastanza per
sapere che certe volte evitava di mostrare le sue vere emozioni, nascondendosi
dietro una maschera di benessere e calma.
“E invece sì!” gridò Matt,
strappando il microfono a Max.
Mi sentii tremare da capo a
piedi.
“Liz,
sali sul palco!” proseguì.
Lo guardai con aria spaesata,
non poteva star dicendo sul serio.
Invece, in una maniera che
non riesco a ricordare nitidamente, mi ritrovai sul palco, tremante, ad
osservare la folla che ancora taceva, in preda alla confusione.
Mike Luce mi sventolò le
bacchette davanti al viso e questo gesto mi riscosse. Mi voltai a guardarlo.
“Queste sono tue, prendile e
fammi vedere cosa sai fare.”
Rimasi imbambolata a fissare
il suo viso, mentre cercavo di rimettere in ordine un minimo dei miei pensieri.
“Ah, io sono Mike, piacere.”
Mi tese la mano.
Improvvisamente, fu come se
una strana consapevolezza mi colpisse in pieno, come se il senso di
appartenenza che stare a contatto con i Faithless mi
aveva sempre provocato tornasse a completarmi, scaldandomi l’anima.
Strinsi la mano ad uno dei
miei idoli e gli sorrisi. “So chi sei, è un onore per me conoscerti. Credo che
tu mi abbia sostituito nel migliore dei modi, ma adesso è tempo che il gruppo
torni alle sue origini.”
Prima di riprendere le bacchette,
guardai negli occhi ogni singolo componente della band, comunicando con
quell’occhiata la mia volontà, facendo intendere ai miei amici che ero tornata
più forte di prima e che non sarei più scappata da loro, perché quello era il
mio posto.
Mi precipitai dietro la
batteria e tutto divenne magico. Solo allora mi resi conto che stavo per
suonare dal vivo per la prima volta davanti a miliardi di persone insieme alla
mia band e questa consapevolezza mi rese emozionata, eccitata e colma di
energia.
Non appena cominciai a
suonare, fu come se il mondo intorno a me si fondesse con la mia persona e la
mia batteria, riverente nei miei confronti, come se tutto dipendesse dal ritmo
che imprimevo ad ogni singolo pezzo, come se i Faithless
non aspettassero che me per raggiungere la loro personale perfezione.
Io e Matt sedevamo nel
backstage, mentre gli altri erano sotto la doccia. Il concerto era stato
estenuante, tutto era andato come previsto e i Metallica erano rimasti contenti
del risultato. Avevo avuto la possibilità di conoscerli e per me era stata un’emozione
grandissima stringere loro la mano e scambiarci quattro chiacchiere.
Osservai il ragazzo che stava
davanti a me e mi parve quasi impossibile che si trovasse là, visto e
considerato il tempo che avevamo trascorso separati.
“Liz,
sei stata grandiosa!” sbottò Joey, correndo fuori dal
camerino.
Mi alzai e corsi ad
abbracciarlo, felice di rivederlo e di sapere che non ce l’aveva con me, che
aveva capito, che tutto poteva ricominciare da capo.
“Oh, nanetto!” esclamai,
stringendolo a me. Mi era mancato il suo appoggio, il suo affetto e tutto
quello che quotidianamente faceva per me.
“Se vuoi, casa mia è anche
casa tua” disse, scostandosi da me per poter incontrare il mio sguardo.
“Certo che lo voglio, i Faithless sono la mia casa, la famiglia che non ho mai
avuto e tu lo sai.” Ero certa che mi brillassero gli occhi, poiché dalle mie
parole traspariva una sincerità e una gioia che verbalmente era difficile
spiegare.
Nel frattempo, Janne ci raggiunse, seguito da Max. Ci fu un mega abbraccio
collettivo, durante il quale scoppiai a piangere, felice come non lo ero da
tempo.
“Mi siete mancati, giuro che
non vi abbandonerò più. Mi dispiace, mi dispiace tanto di essermene andata.”
“Non importa, ora sei qua ed
è questo che conta” proferì Max, in tono solenne.
Janne prese a farmi volteggiare per aria, nonostante
le mie proteste, sotto lo sguardo divertito degli altri.
“Sei tornata!” gridò.
“Sì, sì!” esultai a mia volta.
Mi sentivo una bambina, ma in quel momento non me ne importava niente.
“Liz.”
Serj pronunciò il mio nome con tono pacato, mentre si
avvicinava, però sul suo viso era dipinto un radioso sorriso che mi fece
commuovere più di quanto già non fossi.
Abbandonai gli altri ragazzi
e mi fiondai tra le sue braccia, incapace di placare il fiume di lacrime che
imperterrito continuava a sgorgare dai miei occhi.
“Ben tornata, sapevo che non
avresti saputo rinunciare a me per tanto tempo” scherzò, accarezzandomi i
capelli.
“Mi conosci troppo bene”
concordai, sorridendo.
Dopo essermi separata dal
contatto con il cantante armeno, notai che Michele parlottava con Mike Luce in
un angolo della stanza, così mi avvicinai a loro.
“Ehilà” salutai, cercando di
mantenere un’espressione serena. Volevo che le cose con il bassista dei Faithless andassero per il meglio, non avrei sopportato il
fatto che tra noi nascessero delle tensioni. Avevo sbagliato ad illuderlo, ma
allora non avevo minimamente idea di cosa volessi e desiderassi realmente.
Mi ero appoggiata a lui
perché la vita mi aveva lasciato sola fin da subito, perché nessuno mi aveva
mai amato come aveva fatto lui, perché avevo bisogno di prendermi cura di
qualcun altro, stanca di dover pensare soltanto a me stessa, curiosa di
conoscere la vita che mi era ignota.
Poi, però, avevo capito di
aver sbagliato. Con Matt era diverso, accanto a lui mi sentivo completa e
appagata, non avevo paura, non provavo nessun imbarazzo né vergogna, come se la
cosa più naturale del mio mondo fosse rimanere al suo fianco.
“Liz,
ciao! Sono felice che tu sia qui” disse Michele, distogliendo lo sguardo dal batterista
dei Drowning Pool.
“Ragazzi, vi lascio soli.”
Detto questo, Mike si allontanò e scomparve dal mio campo visivo.
“Sul serio ti fa piacere? Ti ho
ferito, Mick, lo so. E…”
“Tu ami Matt, giusto?”
Rimasi spiazzata. Lo fissai
per qualche istante e decisi che era ormai inutile continuare a mentire a lui
e, specialmente, a me stessa.
Abbassai il viso. “Sì”
sussurrai.
“Allora è giusto che tu viva
questi sentimenti. Hai sofferto abbastanza, è ora che tu sia felice.”
“Grazie, Mick, ma… tu?” Lo guardai incerta.
“Io? Mi sono già fatto da
parte, avevo immaginato che sarebbe andata a finire in questo modo. L’ho
intuito dal momento in cui hai deciso di uscire da sola con Matt, nonostante
stessimo insieme” spiegò, tranquillo.
Spalancai la bocca ed emisi
un sibilo di sorpresa. “Io, non… mi dispiace.”
“Lo so, però è acqua passata.”
Annuii.
Michele mi sorrise e fu
allora che tutto divenne chiaro. Ci volevamo bene e sapevamo che tutto quello
che era accaduto in passato non avrebbe mai distrutto il nostro legame.
“Oh, Capa,
ti voglio bene!” mormorai, per poi abbracciarlo.
Ricambiò la stretta e
ridacchiò. “Anche io, principessa.”
Gli mollai un pugno sul
braccio e mi allontanai ridendo.
Raggiunsi Matt e gli strinsi
la mano. “Ti va di parlare un po’?”
Mi osservò e sorrise. “Certo.
Con Michele va tutto bene?”
“Sì, per fortuna.”
Ci dirigemmo all’interno del
camerino che ormai era vuoto e prendemmo posto su un divanetto ricoperto di
velluto consunto, di un colore che in passato doveva essere rosso.
“Matt, ho letto la tua
e-mail.”
“Perché non hai risposto? Pensavo
che non ti importasse più niente di me.” Il tono che utilizzò mi fece male,
esprimeva tutta la sofferenza che gli avevo inflitto durante quel periodo
appena trascorso.
“Ti sbagliavi. A me importa
di te.”
Le sue iridi color ghiaccio
si scontrarono con le mie e ne rimasi del tutto incantata.
“Ah, sì?”
“Matt, ti amo” sussurrai,
accarezzandogli i capelli. “Ora sono certa che sia così, ti amo e voglio stare
con te.”
Un sorriso meraviglioso gli
si allargò sul viso e i suoi occhi divennero lucidi, segno che quelle parole lo
avessero colpito nel profondo dell’anima.
“Spero che anche per te sia
lo stesso, ancora” aggiunsi, fissandomi la mano che giaceva abbandonata sulla
mia gamba sinistra.
Il ragazzo mi sollevò il
mento con due dita e mi costrinse a far incontrare ancora i nostri sguardi. “Certo,
certo che è così.” Mi prese la testa tra le mani e una lacrima brillò sulla sua
guancia, solitaria e colma di significato. Poi mi baciò, posò le sue labbra
sulle mie e io lo strinsi forte, ricambiando con sicurezza ogni suo singolo
gesto.
Volevamo entrambi stare
insieme, volevamo amarci e dedicarci l’uno all’altro, nonostante fosse passato
parecchio tempo da quando lui aveva cercato di farmelo capire.
Ma ora tutto era al suo
posto, i pezzi del nostro puzzle personale si erano incastrati perfettamente
tra loro e non potevamo desiderare di meglio.
Avevamo l’uno l’amore dell’altra,
avevamo degli amici fantastici e una band che stava prendendo il volo.
Mentre mi stringevo a Matt,
mi venne in mente il fatto che mai e poi mai avrei immaginato che la mia vita
potesse migliorare in maniera così radicale e positiva.
Ma era accaduto e ora stava a
me non sprecare più nemmeno un nanosecondo di felicità.
Bene, bene, bene!
Siamo giunti al termine di
questa follia, perché altro non è, se non questo.
O sbaglio?
Un po’ mi dispiace, è da
molto che scrivevo le avventure di Liz e i Faithless.
Be’, però, devo dire che vi
ho stressato abbastanza, trenta capitoli sono sempre trenta capitoli!
Allora, passiamo ai dovuti
ringraziamenti: grazie a Lady Red Velvet e DreamNini per il sostegno e gli infiniti complimenti, siete
state voi a “costringermi” a proseguire, non potevo lasciarvi sulle spine senza
arrivare alla fine; poi, ringrazio anche _Marya_ e minnie 98 per aver letto e recensito, mi ha fatto davvero
piacere =)
Infine, un grazie va anche a
chi ha inserito ‘Faithless’ tra le seguite e a chi ha
semplicemente letto, senza esprimere nessun parere.
Spero di avervi appassionato
con quest’esperimento, a presto <3