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Il fermaglio 3. Remus
Remus se ne sta sprofondato
nella poltrona bassa del salotto all’ingresso, immobile: le gambe allungate sul
pavimento con le caviglie accavallate l’una sopra l’altra, i gomiti a
puntellarsi sui braccioli cedevoli con le dita intrecciate in alto a far da
sostegno al mento chino. Gli occhi sono chiusi dietro snelli fili di sabbia
intrecciati all’argento. Il viso placido, le labbra distese in un sorriso
contento, ma l’inganno del sonno quieto è dissipato da quella ruga di dolorosa
concentrazione che gli accartoccia la pelle tra le sopracciglia e increspa la
fronte.
Riflette, cullato tra i pensieri
dall’incessante, cupo borbottio appena accennato di un bricco del tè che
qualcuno ha messo a bollire su un piccolo braciere acceso all’interno del
gigantesco camino di marmo nero che invade quasi tutta la parete nord, e dal
proprio respiro.
Di fronte a lui un poggiapiedi
di velluto di un lugubre grigio polvere, e una ragazza lo fissa assorta con lo
sguardo vivo e attento screziato di lingue vibranti di un color oro brillante, e
la bocca rossa piegata in un sorriso deciso.
Incrocia le gambe in una mossa
di innocente malizia, dondolandone una al ritmo di una nenia babbana per bambini
imprigionata tra le labbra, lasciando increspare la gonna a pieghe tra le cosce
strette; affonda le falangi nel tessuto liso, sostenendo con le braccia il torso
lievemente inclinato all’indietro e lasciando che i lunghi capelli le
solletichino piacevolmente la pelle delle scapole.
Gonfie ciocche ondose screziate
del vermiglio brillante delle fiamme lontane sono mosse da un filo d’aria che
entra dalla finestra socchiusa.
Uno sbuffo impaziente fende
l’aria umida e appiccicosa.
“Non credo che ci voglia tutto
questo tempo per fare un mossa.”
E Remus apre gli occhi, ridendo,
con l’illusione a guidargli le ciglia.
Ma quegli occhi non sono
verdi. E i capelli non ardono come fiamma viva.
“La pazienza…”, sogghigna
piegandosi in avanti. “E’ una gran virtù, Hermione.“
Ignora le guance della ragazza
che si vanno imporporando nascostamente per l’imbarazzo d’essere stata udita
nonostante il suo sia stato poco più d’un anelito, l’attenzione rivolta
caparbiamente alla scacchiera lucida che ha di fronte, e ai pezzi neri e
brillanti che gli sono asserviti e fremono sussultando sotto la luce tremolante
e artificiale delle vampe in attesa di una mossa.
Protende il viso e
distrattamente nota quell’alfiere bianco torreggiare in c4, con gli occhi
imbevuti d’ambra che sfidano un istante quelli grandi e attenti del suo
avversario, mentre un soffio d’aria gentile rotola via dalle labbra schiuse
appena in un sogghigno.
“Alfiere in c5…”
Riesce a vedere appena il pezzo
che obbediente si sposta scivolando rapido verso la posizione appena indicata.
La camera è avvolta da una fitta
penombra.
Le tende sono tirate benché non
siano che le cinque del pomeriggio, e fuori la strada sia inondata di una luce
bianca, liquida e abbagliante di fine luglio. Si sono serrate poco tempo prima e
nessuno è riuscito ad aprirle. Non ci vuole un professore di Difesa Contro le
Arti Oscure per capire che qualcuno vi ha apposto sopra qualche strano
incantesimo per impedire che la casa perda quell’aria cupa e deprimente che la
caratterizza.
Nessuna meraviglia che Sirius
sia venuto fuori così balordo.
Questo pensiero stizzito gli
viene soffiato via dalla testa nel momento in cui incontra lo sguardo sicuro del
suo avversario, e una voce pacata sussurrare la prossima mossa come fosse un
segreto ineffabile.
“Pedone in b4.”, ride.
E’ un riso strano quello di
Hermione, riflette mentre distrattamente si appropria con alfiere di quel pezzo
offertogli in sacrificio di proposito: lo diverte quel modo cattedratico di
sollevare solo il labbro inferiore e di dilatare pomposamente le narici,
arricciando il naso tondo e un po’ all’insù da bambina.
Nei ricordi la giovane donna che
gli siede innanzi ha sempre quel modo di ridere incerto, tra lo sfrontato e il
timido, con le sopracciglia naturalmente imbronciate ad imprimergli una ruga
sottile sulla fronte, le ciglia strette a serrare gli occhi: una mano sale alle
labbra per nascondere i denti in un gesto infantile.
Il pedone bianco viene spostato
in c3.
“Insisti sempre con questa
sciocca apertura!”,
lo redarguisce severa ma in modo bonario la giovane donna che occhieggia da
sopra la spalla della bimba concentrata sul gioco. Con le dita si scosta
stizzita dalla guancia una ciocca di capelli sfuggita dal semplice fermaglio che
solo le trattiene la chioma in una delle elaborate acconciature che tanto amava
sfoggiare, mentre la bocca si incurva in una smorfia tutt’altro che femminea.
“Sei davvero prevedibile.”
E sbuffa, quel ricordo
ficcanaso.
Proprio come la piccola
Hermione, con simpatia.
Quella spaventosa intimità gli
si appiccica addosso come sudore freddo.
Le risate e i bisbigli sommessi
dal sapore antico quanto la magia, le ombre tonde e nere abbracciate con
l’arancio delle fiamme che morbidamente si infrangono lungo i mobili e pareti
annerite dal tempo. Non più inquietudine e disagio di un luogo estraneo, ma
carezze piacevoli e confortanti di un fuoco tenue che brucia lontano, e il
brusio di voci amiche nelle orecchie.
Quest’atmosfera lo agghiaccia.
Non vi è avvezzo, benché gli sia
sempre piaciuto credere il contrario.
Eppure il licantropo piega
appena la testa di lato e tira in alto gli angoli della bocca in una smorfia
intenerita, a malapena conscio del riso che già gli raggela labbra inaridite e
scabre, con gli occhi vitrei, distaccati, che guardano affabili il nulla e quei
giochi di luce dolcemente crudeli. Poche parole gli scivolano via dalle labbra
assieme ad un sospiro indecifrabile.
Hermione solleva lo sguardo
curioso e inquieto.
“Che succede?”
“Nulla.” Remus, sorpreso dal
timbro troppo infantile di quella voce, sbatte le ciglia come a ridestarsi da un
miraggio, mentre il suo alfiere si appropria violentemente di quella seconda
pedina, frantumandola in un colpo solo. Distrattamente spolvera via dal pastrano
alcuni frammenti d’avorio e onice
che gli sono piovuti addosso. “Temo di aver commesso un errore.”
Hermione ride.
Remus la imita come può.
La partita continua e le mosse
si susseguono meccaniche mentre Remus poggia la guancia sul palmo scabro della
mano, il gomito a pungolargli la coscia, incurvando le spalle in quel moto
difensivo che aveva da ragazzo.
Si chiede cosa ci faccia lì e
come lo si sia riuscito a convincere a giocare.
Come lo si persuadesse tanto
facilmente ogni volta.
Gli scacchi non gli sono mai
piaciuti.
A dispetto della personalità
razionale e di un carattere improntato sulla logica e sul controllo di sé non
l’ha mai apprezzato come svago: per quanto fortemente si applicasse non è mai
stato un passatempo in cui si è distinto.
Non che abbia giocato molto.
Erano rare le sere in cui la
noia adolescenziale e la stanchezza raggiungevano livelli tali da privare delle
energie necessarie per bighellonare nel castello, o di idee per portare il caos
nella monotona pacatezza della scuola. Dal momento che i suoi amici in quel
frangente erano soliti evitarlo schernendolo, reputandolo un rivale troppo
facile da sconfiggere, solitamente il suo avversario era Peter, e anche contro
di lui il risultato era incerto.
Eppure Hermione è convinta che
solo lui possa aiutarla a battere Ron.
Che il suo vecchio professore
debba essere un asso del gioco.
Che i suoi dinieghi siano stati
solo frutto di modestia.
Nient’altro che convenzioni.
Dolci e rassicuranti come la
cioccolata.
Di quelle su cui si costruisce
una vita intera.
Remus si ritrova a ridere,
perché gli stereotipi sono buffi in maniera crudele.
Lo sono tutti. Anche l’uomo
irritabile e sgradevole che continua a razziare esaltato quella piccola stanza
rovistando tra i rifiuti come un animale non è che uno stupido, patetico clichè
di cui ci si può solo far beffe. Con i capelli trascurati e il viso sporco, le
mani ansiose serrate intorno a oggetti di valore; gli occhi febbrili e frementi,
la piega folle e amara della bocca scoperchiata in un ghigno scontento.
La testa scarmigliata
cocciutamente stipata di ricordi.
Come me, non fa che insistere
con la stessa sciocca apertura.
Pensieri pigri e lontani si
mescono a fruscii leggeri di vesti, si insinuano tra le pieghe sottili di una
gonna e scivolano su lungo le gambe, serpeggiano tra i rilievi della spina
dorsale e su ogni vertebra dalla curva morbida, fino ad insinuarsi nei bei
capelli assieme alle dita, passi leggeri e affettati di scarpini lucidi a
scandire il tempo.
Una porta in fondo al corridoio
sbatte violenta, strepiti e risate di ragazzi si rincorrono lungo scale a
chiocciola rimbalzando contro le pareti.
Remus acuisce lo sguardo in un
buio che si è fatto denso, nella certezza di scorgere oltre le ciglia sopite
stendardi scarlatto scuro alle pareti: non v’è che il grigio dei muri spogli di
Grimmauld Place, la scacchiera abbandonata sul tavolo: di Hermione non v’è
traccia, e nemmeno di quel pallido fantasma di riflessi.
Tra le dita una brulicante
indefinitezza.
Deve essersi assopito.
Cullato da pensieri amari e
lievi.
Con i gomiti sui braccioli e le
mani mollemente adagiate in grembo, la testa reclinata appena sulla spalla
contro il tessuto ruvido della poltrona: una posa che si strascica dietro fin
dalla scuola, benché a Hogwarts non sia mai riuscito a riposare come avrebbe
voluto, sulla sua poltrona preferita. Tutta colpa di James e Sirius i quali,
convinti che dormire fosse una cosa da vecchi, decidevano di svegliarlo non
appena lo vedevano abbassare le ciglia con spinte e pizzicotti solo per renderlo
partecipe del fatto che quando dormiva aveva un’aria idiota.
Poi ricorda suo padre appisolato
nella stessa posizione anni addietro, in quell’unico scherzo della memoria in
cui non abbia la testa premuta tra mani tremanti e le spalle incurvate su un
tavolo pieno di conti da pagare, e rimanere lì su quella poltrona
improvvisamente gli sembra davvero da vecchio.
Con un colpo di reni stanco si
affretta ad alzarsi in piedi, portandosi una mano alla schiena dolorante (gli
piace pensare che sia a causa della posizione, e non per precoci acciacchi di
vecchiaia), per poi guardarsi intorno.
C’è silenzio, e buio.
Persino quella flebile luce di
un tenue arancione che faceva capolino da dietro la porta che dà sulla cucina
ora non è che cupo e lattiginoso bagliore notturno. Sono andati tutti a dormire.
Senza avvisarlo, ma va bene
così.
Adesso che è sveglio però
dovrebbe andare a casa, pensa, anche se non ha alcuna voglia di congelare in
quella specie di bugigattolo che si ritrova, ed è talmente stanco che i pochi
passi che li separano dall’atrio li fa ciondolando da una parte all’altra come
fosse ubriaco, arrancando in un buio notturno imbevuto d’azzurro in cui, secondo
il folklore, dovrebbe lasciarsi avviluppare come in una coperta.
Quando sente un’asse gemergli
acuta sotto la suola stupidamente sobbalza e si aggrappa a quella che, dopo una
rapida analisi, si rivela essere la ringhiera della scalinata centrale. Resta
immobile ad osservare i giochi di luce dell’odiata luna nel tentativo di
recuperare una calma dignitosa, cosa che sarebbe decisamente più facile da fare
se il cuore smettesse di battergli forte al punto da coprire persino i cupi
borbottii ingiuriosi e insofferenti che l’elfo domestico di casa Black gli
rivolge contro.
“Sporco licantropo” riesce a
sentirlo lo stesso, però.
Non ha ancora deciso se sentirsi
offeso o meno per quell’osservazione spregiativa quando una mano gli abbranca le
spalle.
“Hai ancora paura del buio?”
E’ un soffio, un sussurro
appena, ma più che sufficiente a farlo rabbrividire col contrasto di quelle
labbra gelide e aspre contro l’orecchio. Con uno scatto furente del collo Remus
si scosta per quanto glielo consenta la posizione: fa per appoggiarsi alla
parete vicina, ma il panno morbido e spesso che gli solletica la nuca lo fa
desistere da quell’intento con uno scatto ansioso. Reprimendo un sospiro di
sollievo si volta in direzione di quella stupida voce impertinente.
“Sirius!”, ringhia.
“Che c’è, sei deluso?”, lo
canzona. “Ti aspettavi Nymphadora?”
“Quanto sei seccante.”, taglia
corto il licantropo lasciandosi andare ad uno dei suoi rari sbuffi stizziti.
“Tu invece sei il solito
incapace.”, ribatte l’altro con la voce roca e un ghigno sghembo stampato sulla
faccia ravvolta in una chiazza d’ombra impenetrabile. Solo gli occhi è possibile
vedere: riverberano il cupo bagliore maligno di una luna spenta, grigi e lucidi
come pioggia. “Sono appena passato dal salotto e ho dato un’occhiata alla
scacchiera.”, sussurra. “Hai perso ancora.”
Lo fa notare quasi annoiato,
come fosse una cosa ovvia.
“La partita non era finita.”,
geme l’altro con la voce impastata di sonno.
Il sorriso di Sirius si allarga,
squarciando la pelle e lasciando intravedere le zanne, mentre scuote la testa
con aria perplessa. Senza alcun preavviso gli afferra il polso con una stretta
ferrea di una mano nocchiuta, per poi posargli qualcosa di piccolo e solido nel
palmo aperto con una delicatezza incerta che non credeva potesse appartenere a
quel corpo tutto nervi e scatti irrequieti.
E’ un pezzo degli scacchi.
Un sopravvissuto.
“Il tuo re è rimasto con due
alfieri e il suo con una regina.”, spiega paziente. Conscio, si direbbe
lusingato, del fatto che il suo amico non capirà altro che la sferzata finale.
“Ti sei fatto battere da una ragazzina.”
Remus resta a fissare l’alfiere
nero che giace immoto sulla mano piegando appena la testa di lato con tenerezza
assorta, sul volto un sorriso leggero e lontano, tra il divertito e il
rassegnato.
Sirius ha ragione.
Ce l’ha sempre avuta.
Per quanto assurdo sia sempre
sembrato ai pochi a conoscenza di quel segreto, è Sirius il migliore in quel
gioco. Ma non ha mai letto un solo manuale che fosse uno per diventare quello
che è. E’ un talento istintivo, il suo, puro genio: ma quando Peter al settimo
anno di scuola aveva dato voce a questo pensiero colmo di stupita ammirazione,
dopo la partita contro Lily Evans che aveva avuto come posta un appuntamento con
James, aveva ricevuto in cambio null’altro che un’occhiata truce.
Sirius non ha mai trovato nulla
di particolarmente lodevole nel battere i secchioni in modi che non riguardasse
il prenderli a pugni nei bagni deserti.
“Forse Hermione avrebbe dovuto
chiedere a te di fare una partita.”
“Nessuno mi chiederebbe mai
consigli di scacchi.”, ghigna Sirius orgoglioso sollevando con un gesto
disarticolato il bicchiere che, nota solo ora il licantropo, stringe nella mano
sinistra.
Remus aggrotta le ciglia.
Sarà il sesto bicchiere che gli
vede in mano.
Non vorrebbe più mettere bocca
negli affari suoi.
Per oggi ha già dato più che
abbastanza, per i propri gusti.
“Il massimo che pretendono da me
è che svegli il lupo mannaro che dorme.”
“Cosa che ti sei ben guardato
dal fare.”, fa notare Remus.
“Mi spiace. Devo essermene
dimenticato.”
“Ma smettila, l’hai fatto
apposta.”
“… Hai ragione.”, ghigna.
Ha lo sguardo un po’ stravolto,
Sirius, un po’ ebete, con quella luce di un blu elettrico a sferzargli la pelle
accentuandone rughe e difetti: ha i sensi tutti tesi al liquido ambrato che gli
galleggia davanti.
Remus nemmeno sembra esistere.
In preda ad una subitanea
epifania si porta il bicchiere alle labbra svuotandolo del suo contenuto in un
unico fluido movimento della gola, e lasciandosi poi andare ad un sospiro di
puro, completo, disgustoso compiacimento di sé.
“Sei ubriaco fradicio.”,
brontola l’altro stomacato.
A quella rivelazione l’Animagus
batte le ciglia un paio di volte, sorpreso, sgranando gli occhi lucidi come se
non riuscisse a capacitarsi del fatto che Remus stia parlando proprio con lui.
Si guarda intorno in quel buio strano, lentamente, non perché veda realmente
qualcosa acquattarsi nelle rade macchie nere che invadono gli angoli, ma solo
per lasciare alla sua povera coscienza ottenebrata il tempo di incamerare poche
parole di cui non riesce ad afferrare la totalità di significato.
Riordina le idee come uno
studente a cui è stata rivolta una domanda scomoda da cui dipende l’esito
dell’esame.
Poi china la testa fino a
toccarsi il petto con la punta del mento mentre con la mano libera tenta di
aggrapparsi al ruvido corrimano di pietra, ma dopo un paio di maldestre manovre
infruttuose non ottiene altro che di scivolare mollemente sul bordo del primo
gradino, con la schiena premuta in maniera che sembra dolorosa contro lo spigolo
di quello superiore. “Me ne sono accorto.”, sospira, mentre dita senza forza si
lasciano scivolare di botto il bicchiere tra le cosce scompostamente aperte, e
rotola sul pavimento con un tintinnio cristallino.
Il licantropo incrocia le
braccia al petto, resistendo all’impulso che gli impone di seguire quello
stupido Remus bravo e coscienzioso che si strascica dietro da una vita, e resta
immobile al suo posto: con le spalle affondate appena nel tessuto che, se n’è
reso conto da poco, deve essere quello che ricopre il quadro della signora
Black, la nuca chinata appena di lato a premere la guancia in una ruvida carezza
felina contro il tendaggio e le labbra strette in una linea esangue. A fargli
sentire chi è il maschio dominante, avrebbe detto James divertito
sistemandosi gli occhiali con quel suo fare teatrale.
Sirius non sopporta di essere
guardato dall’alto in basso.
Ma quello che piace a Sirius non
importa, adesso.
“A che pensavi?”, chiede. Una
domanda che pare buttata lì per caso, ma che gli preme dolorosamente sulle
labbra da tutto il pomeriggio, da quando è stato trascinato via per assistere ad
una delle assurdità di un pazzo finché Sirius, mentre cercava qualcosa di
“interessante” in un mucchio di vecchie riviste nascoste nel ripiano più basso
della libreria, non si è stancato improvvisamente della sua presenza e non l’ha
sbattuto fuori dalla porta berciando insulti di varia natura.
L’altro pare non avere una
risposta.
Lo vede stringersi nelle spalle
in un gesto meccanico e sgraziato, come una marionetta a cui hanno
improvvisamente tagliato un filo. C’è quello sguardo grigio di un liquore vitreo
a fissarlo dal volto pallido dietro ciocche pesanti di capelli scuri, e le
labbra secche, stirate e socchiuse appena in un sorriso dipinto, come in chi sta
per abbandonarsi al pianto.
Per un attimo Remus è convinto
che stia per farlo davvero.
Ma sa benissimo che non accadrà.
Ride, Sirius.
Con le spalle incuneate in
avanti ad affossargli il torace, il mento conficcato nel collo e quelle ciocche
di capelli a dondolargli ipnoticamente sulla fronte. Ride col palmo della mano
sporco di polvere e sudore a premergli sugli occhi, e al ritmo di un tremore
appena accennato che gli scuote il petto, le labbra strette tra i denti si
lasciano sfuggire flebili sibili latranti.
Non osa lasciarsi andare oltre.
Remus sa di non poter ottenere
altro, da lui.
Come il bambino arrogante e
sfrontato che anni prima ha gettato tutte le sue belle cose dal baule al ritmo
di una filastrocca stonata, per sfogarsi aspetterà la notte più greve, il
momento in cui anche la luna andrà a dormire e sarà avviluppato da un silenzio
così totale da avere l’impressione di essere rimasto completamente solo.
Sarà bello allora soffocare i
singhiozzi sotto coperte strette fin sopra la testa, e sentirsi i vestiti
appiccicosi contro i capelli sudati, e la pelle fradicia di lacrime, muco e
saliva avrà un sapore dolce; anche graffiarsi e mordere gli avambracci, la
lingua e l’interno della bocca sarà piacevole. Per imporsi la calma, o forse
solo per dare un senso a quello sfoggio di debolezza col dolore fisico.
Non ci sarà nessuno a testimone
di questo punto debole infantile: nessun ragazzino dal sonno leggero che sollevi
la testa dal guanciale e chieda ‘cos’accade’ nel buio, in direzione di tende
chiuse, per ricevere in risposta solo un singulto sorpreso, un fruscio rapido di
lenzuola.
Nessun silenzio ridicolo.
Solo una risata imbavagliata.
Remus distoglie lo sguardo da
quello spettacolo patetico e disgustoso che gli sta offrendo l’amico, volgendolo
ad una delle finestre chiuse dell’androne: al cielo puntellato di stelle rade
nascoste a tratti da nuvole che hanno odore di pioggia, e alla falce di una luna
ghignante che tinge tutto di un viola cupo e altero. La mano chiusa a pugno
attorno a quel pezzo degli scacchi fino a sentire gli spigoli premergli nella
carne a preservarlo, solo, da un fastidio cocente che adesso gli invade la gola
col suo sapore di vomito acido.
A volte pensa che Sirius
dovrebbe essere semplicemente mandato al diavolo invece di imporre al prossimo i
suoi chiari di luna, o di farsi sopportare con l’infinita pazienza che non
avrebbe riservato neppure al più sciocco dei suoi allievi.
Gli farebbe bene essere lasciato
lì in balia di se stesso.
A soffocarsi di risate
scompaginate fino al mattino, quando gli effetti dell’alcool ingurgitato lo
abbandoneranno in maniera inevitabile, lasciandogli addosso solo un vago senso
di disgusto e si troverà il viso arrossato e il petto dolorante senza neppure
ricordare il perché. Lo colmerebbe anche di un certo appagamento.
Remus si lascia andare ad un
sospiro fiacco e scostante, mentre quell’ammasso di carne disordinato ai suoi
piedi ha gettato la testa all’indietro e si è adagiato sui gradini dai bordi
smussati dove continua a sghignazzare tra sé e sé, con sobbalzi singhiozzanti,
lasciandosi sfuggire dalla bocca acuti uggiolii.
I piedi non si muovono.
Le dita non riescono a lasciare
andare il bordo del tessuto liso con cui giocherellano nervosamente da diversi
minuti. Sa che dovrebbe mollare quel drappo, perché se quel quadro si svegliasse
in piena notte sarebbero guai.
D’altro canto forse Sirius
smetterebbe di ridere come un idiota.
Abbrancato da una nuova,
istintiva determinazione Remus stringe gli occhi.
Sorride appena.
E tira.
Non furono grida isteriche e
furibonde a turbare quello che avrebbe dovuto essere solo un placido, banale,
noioso pomeriggio di un giorno festivo come tanti, di quelli da trascorrere
sotto le coperte all’insegna dell’ozio più totale.
Per quanto forti e penetranti
al punto da poter quasi sentire i peli alla base del collo vibrare al loro acuto
stridio, erano lontane. Confuse e ovattate come una eco, smorzate e deformate
dal vetro chiuso, dalla coperta premuta fin sopra le orecchie alla ricerca di
tepore, e dalle tende di letto e finestre ben serrate, nel tentativo di ricreare
una tanto bramata quiete notturna.
Il ragazzo avrebbe potuto
ignorarle.
Era abituato a chiudersi al
mondo che lo circondava gettando via la chiave, a lasciare fuori dalla testa
voci e pensieri che non gli appartenevano, nel silenzio dell’aula come nel pieno
di una Sala Grande gremita di studenti. Vi era talmente avvezzo da sentire
l’isolamento come parte inscindibile del proprio essere.
Non furono gli insulti e gli
improperi che venivano lanciati indistintamente da voci maschili e femminili
(gli sembrò di udire anche la voce della McGranitt nel coro, ma ovviamente fu
solo un’impressione) a farlo girare e rigirare senza pace sotto le lenzuola,
mandandogli alle narici zaffate di un odore pateticamente umano.
Benché sua madre l’avesse
sempre educato con doloroso rigore ad evitare simili sfoggi di “bestialità”,
come li aveva sempre definiti, e benché non fosse solito per abitudine a
pronunciarle neppure in sua assenza, quando un’indole anche meno ribelle avrebbe
già dato sfogo a quel freno di stampo antico, ne conosceva un discreto numero.
Imparate da un gruppo di monelli babbani che lo tormentavano a scuola.
E forse col senno di poi non
fu nemmeno quell’incessante picchiettio alla finestra chiusa a spingerlo fuori
dal tepore del suo giaciglio, coi piedi nudi a scalpicciare in maniera
spiacevole sul pavimento gelido e la schiena scossa da brividi radi. Si diresse
alla fonte di quel suono come inebetito, evitando a istinto gli ostacoli
disseminati dai suoi compagni di dormitorio con una sveltezza tale che neppure
gli elfi domestici riuscivano a star loro dietro, e arrivato a destinazione
scostò le tende con un gesto fiacco.
Pronto a strangolare quello
che credeva essere nulla più di un gufo ritardatario.
Ritrovarsi di fronte il viso
di uno dei suoi conviventi aggrappato in malo modo al cornicione esterno fu un
qualcosa di talmente inaspettato da fargli scivolare di dosso ogni proposito
omicida, e quell’accecante irritazione che l’aveva inondato lasciò il posto ad
una confusa meraviglia. Gli venne il dubbio di stare ancora sognando.
Non poteva essersi
arrampicato fino in cima alla torre.
Era troppo folle persino per
uno come…
“Sbrigati ad aprire,
idiota!”, abbaiò ad alta voce quel frantumatore di quiete battendo il palmo
della mano contro la lastra appannata, con forza tale da far temere un istante
per l’integrità della fragile superficie.
Bastò questo a ridestare il
ragazzo dal torpore insonnolito in cui aveva invischiato i propri pensieri: si
affrettò ad obbedire decidendo di ignorare l’insulto subito, per quanto glielo
consentissero quelle dita informicolite dalla permanenza sotto il cuscino,
schiacciate tra la guancia e il materasso.
Non appena ebbe aperto la
finestra venne afferrato senza preavviso per il bavero della camicia da una mano
gelida e tirato in avanti finché non si ritrovò col viso oltre il bordo della
finestra: a pochi centimetri dal viso furibondo dell’altro, con la testa sporta
pericolosamente nel vuoto, strinse gli occhi deglutendo a disagio, immaginando
che sarebbe stato punito per la sua lentezza con un volo nel vuoto. O nel
migliore dei casi con una sonora battuta.
Fu con un certo sollievo che
si sentì spingere bruscamente all’indietro per poi cadere a terra in malo modo,
come un peso morto. Si massaggiò il sedere dolorante occultando dietro un sibilo
di dolore un brivido, nel momento in cui fu colpito in pieno da una folata
d’aria diaccia.
E in silenzio osservò quel
ragazzo da dietro la barriera abbozzata delle ciglia farsi strada nella stanza
con la grezza e incivile spavalderia che lo contraddistingueva, scavalcando in
un gesto teatralmente atletico il cornicione di pietra: atterrò nella stanza con
un balzello di studiata eleganza, i capelli neri un po’ arruffati e impregnati
d’umidità appiccicati sulla fronte e gli zigomi morbidi; le guance e il naso
congestionati, gli occhi lucidi e grandi. In una mano teneva saldo la scopa su
cui era stato instabilmente a cavalcioni fino a quel momento.
Peccato che in tutto quello
sfoggio di grazia ginnica che, ne era certo, si era preparato da quando aveva
deciso di bussare alla finestra invece di usare la porta come tutte le persone
sane, si fosse dimenticato della lurida poltiglia fangosa impastata di foglie
marce che gli era rimasta appiccicata sotto la suola, la quale a contatto col
pavimento produsse un suono comicamente liquido.
E l’avrebbe persino trovato
divertente se tra la scarpa e il pavimento, malamente nascosto sotto un
maglione, non ci fosse stato un suo rotolo di pergamena coi compiti di Pozioni
per il lunedì successivo.
Perché devono sempre copiare il
mio lavoro?
Il rantolo strozzato che gli
uscì dalle labbra a quel pensiero depresso fece scoppiare l’altro, il quale già
aveva gettato la scopa a terra e si era allungato per chiudere la finestra, in
una risata selvaggia, ma ansante e innaturalmente sommessa.
“Smettila di fare scena, se
non mi avessi lasciato fuori a congelare sarei stato più attento.”, ghignò
malignamente dopo essersi scrollato di dosso un po’ d’umidità scuotendo la testa
da un lato all’altro in una maniera canina e facendo qualche passo in avanti,
verso il centro della stanza. Con lo sguardo levato al soffitto si strinse gli
avambracci con le mani per poi strofinare con foga da sopra ai vestiti alla
ricerca di calore. “Certo che ce ne hai messo di tempo ad aprire, ragazzino…”,
sbuffò.
“Guarda che ho un nome.”
“Ce l’ho anch’io, ed è
decisamente più influente del tuo…”, fu la replica annoiata, quasi distratta
dell’altro, prima di inspirare rumorosamente aria nelle narici per un paio di
volte. “Ti trovo un po’ irritato…” insinuò ficcandosi a fondo le mani nelle
tasche e piegando la bocca in un sorriso carezzevole di innocente perfidia, in
cui c’era qualcosa di sottilmente infido. “Per caso ho interrotto qualcosa di
intimo?”,
L’altro inghiottì l’imbarazzo
assieme a una risposta volgare.
“Stavo dormendo, Black.”,
sibilò impregnando quel nome altisonante con tutto il disgusto che era in grado
di esternare, furibondo contro se stesso per la sua incapacità di trattenere il
rossore che gli aveva cominciato ad avvampare le guance. “E abbiamo una porta in
dormitorio, perché non entri da lì, tanto per cambiare?”
L’altro sollevò un
sopracciglio con fare incredulo.
“Perché sarebbe banale.”,
spiegò storcendo le labbra in una piega stomacata. “Per Mombi,
Lupin, questa è una domanda idiota persino per te.”
Il licantropo si limitò ad
alzare gli occhi al cielo con blanda rassegnazione, sorpreso di quanto ogni
volta riuscisse ad essere stancante avere a che fare anche solo per pochi minuti
con quell’essere balordo.
E questo dopo pochi giorni di
convivenza.
Tra qualche anno tenteremo di
ucciderci a vicenda…
Cullato da quei pensieri in
qualche modo rassicuranti si sentiva già pronto a voltare le spalle al suo
compagno di dormitorio e alla sua insopportabile spocchia: vista la totale
inutilità di qualsiasi discussione sarebbe stato decisamente più positivo
tornare a letto e godersi un meritato riposo fino all’ora di cena.
Ma Sirius sembrava di tutt’altro
avviso.
Se lo ritrovò steso di pancia
sopra le coperte, con braccia e gambe divaricate e un’espressione di stupida,
infantile euforia impressa in faccia, prima ancora di poterne assaporare il
tepore. Cosa che in un certo senso trovò positiva, perché se per saltargli nel
letto avesse atteso anche solo un minuto finendo inevitabilmente per saltargli
addosso avrebbe anche potuto sbranarlo.
Lo fissò dall’alto in basso
puntellarsi coi palmi sul materasso facendo leva sulle spalle, il petto scosso
da una risata allegra e sugli occhi brillanti e lucidi di vivida contentezza
ciocche ridicolmente incordate.
Sembrava non curarsene.
“Non hai un letto tuo?”,
sospirò Remus esasperato.
“Sai che sono in punizione?”,
esultò eccitato ignorando la domanda.
“Beh, non proprio. Non
ancora.”, aggiunse in fretta agitando una mano davanti al volto rabbuiato di
Remus, alle sopracciglia severe accartocciate sulla fronte. “Però lo sarò
presto.”
Ne sembrava orgoglioso.
Remus trovò in qualche
maniera impossibile adirarsi con lui.
Dietro quella gioia isterica
che aveva improvvisamente colto l’altro, dietro i suoi scatti bruschi e
l’euforia dei modi, c’era un che di disperato che non incontrava la sua
comprensione o la sua pietà, non era il tipo, eppure prosciugava ogni voglia di
partire con una delle sue prediche accuratamente studiate da bravo ragazzo
coscienzioso su quanto fosse pessimo il suo comportamento e su quanti punti
avrebbero fatto perdere al Grifondoro prima ancora che se ne riuscissero a
guadagnare.
Si limitò ad incrociare le
braccia e ad emettere un lungo sospiro rassegnato.
“Quindi dobbiamo aspettarci
un’improvvisata della McGranitt da un momento all’altro?”
L’altro annuì con vigore.
“D’accordo, allora.”
Sì, era decisamente stancante
avere a che fare con Sirius Black: ma Remus si era sempre reputato una persona
molto forte, a dispetto dell’aria malaticcia che si trascinava dietro da una
vita.
Piegò la testa di lato.
Storse la bocca in un sorriso
obliquo.
“… Vuoi che ti crei un
alibi?”, sibilò con aria complice.
“Un’offerta generosa, Lupin,
ma credo che non funzionerebbe.” Rise di cuore scotendo la testa, e rotolò su se
stesso alla ricerca di una posizione più comoda, incrociando un braccio dietro
la nuca, poggiando l’altro sullo stomaco e piegando appena le ginocchia. Lo
sguardo fisso verso il baldacchino del letto, con l’aria sognante di chi guarda
le nuvole. “Ho strappato quel fermaglio da quattro soldi dai capelli di una
stupida proprio davanti al suo naso.”
Nel vedere l’espressione di
curioso stupore dell’altro si strinse nelle spalle con aria di indifferenza,
come se non gliene importasse davvero granché di ciò che lo attendeva, a
dispetto dell’aria contrariata che adesso aveva dipinta sul volto.
“Ma non preoccuparti…”,
ghignò malignamente dandosi una pacca leggera su un fianco mentre in lontananza,
oltre la porta, si cominciavano a sentire dei passi e un cupo borbottio rabbioso
a più voci.
“Non lo troveranno mai.”
Il fermaglio 3 – Fine
Note di fine capitolo
Si conclude la prima trilogia di questa storia dedicata al “Fermaglio”.
Ammetto che nella prima stesura di questa storia, nelle mie prime idee, questo
aveva molto spazio fin dall’inizio. Invece mentre scrivevo il suo ruolo si è
andato via via assottigliando, fino a diventare un oggetto nominato a malapena,
quasi totalmente eclissato dal famoso “specchietto”.
E’ mia intenzione dare più spazio a questo fermaglio nella prossima trilogia.
Sempre che non decida di nuovo di cambiare idea come mio solito, hahaha! XDDD
A
parte questo che dire?
Che io AMO il gioco degli scacchi.
Non conosco tecniche e contro-tecniche dei manuali a memoria, nessuno è mai
riuscito a farmi capire l’arrocco (mentre il fuori gioco l’ho capito, alè! XD),
ma lo amo. E’ un gioco molto elegante, molto bello, e da tempo avevo intenzione
di dedicare un capitolo di qualche storia a una partita a scacchi tra due
personaggi. Hermione e Remus si sono gentilmente prestati dietro ricompensa in
natura (sì, sì, ve la scrivo la storia erotica con voi come protagonisti). Il
fatto che io ami questo gioco nulla ha a che vedere col fatto che abbia reso
Sirius un genio in quest’ambito: è solo che in un marasma di fic in cui Sirius è
un povero idiota volevo dargli una qualità che denotasse grande astuzia. Perché
Sirius non è certamente tipo da mettersi a studiare mosse sui manuali, ma ha
un’intelligenza istintiva che in un gioco come questo gli permetterebbe di fare
faville. Uscirebbe da ogni schema, mettendo al tappeto tutti i “secchioni”.
Per quanto riguarda l’apertura di Remus ed Hermione, la sequenza delle mosse
esiste davvero nei manuali di scacchi ed è chiamata Gambetto Evans.
Inutile dire che l’ho scelta per il nome e basta. E per il fatto che è una mossa
che alla fine vede il nero (Remus) in svantaggio e che nessun giocatore sano la
userebbe senza farla seguire da una difesa Lasker. Ma dettagli.
Rispondo piena di gratitudine alle recensioni! ^_^
Jane Gallagher:
Mhm, non chiedermi assolutamente perdono di niente. Le recensioni fanno sempre
molto piacere, ma se uno non ha tempo di farle fresco di lettura non è che
bisogna uscire armato di frusta (però potrei cominciare a farlo con i recensori
pigri se mi prende la depressione da poche recensioni, ghhhhhh! XD). Attendo
volentieri per ricevere recensioni come le tue. Come al solito, arrossisco! XD
Sì, naturalmente anche la presenza di taaaaanta rabbia nei protagonisti è un
grande complimento, anche se potrebbe far venire in mente a qualcuno che io in
realtà scriva per procurarmi un punching ball emotivo e sfogare le mie
repressioni su questi due poveri fratellini. Fatevene una ragione fratellini: è
proprio così. XD Remus ti ha fatto tenerezza? Saresti la prima, penso di averlo
reso assolutamente insopportabile (ma un po’ tutti e due, dai, perché dare
meriti solo da una parte? XDDDD). Voglio dire, io lo trovo delizioso perché le
persone meschine e quelle boriose mi fanno uscire pazza di mio (no, non è
normale! XD), ma che qualcun altro lo trovi tenero… Per caso sei una proiezione
della mia pazzia? XD A parte questa digressione di vaccate, ti ringrazio da
morire per i complimenti! ^.^ Grazie davvero.
Hazel: Non posso dire di non essere rimasta soddisfatta dal tuo
sconvolgimento! XD Carmen consoli è una dilettante a confronto con me peeeeer
piacere, non mi ci mischiare! XD Che ho in mente un paio di tramucce di tutto
rispetto che non potrò mai pubblicare ma tanto le scrivo lo stesso che mi frega?
XDDDD In due mi recensiscono! XDDDD
Mi piace portare allo stremo il rapporto tra i fratelli Black, l’ho sempre
trovato estremamente affascinante. Sirius è una persona che ha un modo di
manifestare l’affetto tutto suo, parla un’altra lingua, e Regulus non ha nessuna
voglia di acquistare un vocabolario per capire le sue stranezze e tradurle.
Questo il succo del discorso.
Posso capire che l’apparenza faccia schifo, però sarà che sono l’autrice per
Sirius provo soltanto una grande tenerezza. Perché non penso che lo prenda a
pugni con la soddisfazione che dice di star provando, né che sia andato lì con
l’intenzione di gonfiarlo come una zampogna. Il problema di Sirius è che non
riflette mai su come gli altri potrebbero interpretare le sue azioni, lui agisce
e basta istintivamente. E si ritrova con Regulus sotto le mani senza la testa di
dire “Momento, sto facendo male a mio fratello”.
Nessuna meraviglia che sia una tale testa di cazzo.
O
che lo sembri o quel che è! XD
Son fatti strani tutti e due.
Anzi tutti e tre! XD
Ti dico la verità, avrei potuto benissimo slasharli in questo capitolo, non mi
ci sarebbe voluto niente. Anche e soprattutto perché questi due proprio non si
riescono a capire e comprendere. Né interessa loro capirsi. E cosa è meglio per
una storia priva di legami e problemi e preoccupazioni che una persona che non
capisci, non capirai mai e che non ti interessa capire?
Questa è pura riflessione twinstaresca, io faccio sempre così! XD
E
infatti li conosciamo tutti i capolavori con cui s’è accoppiata! XDDDD
Però in effetti è vero che la loro è una sfida a chi è più crudele. E non gli
importa che alla fine potrebbero perdere entrambi. D’altronde a dispetto di
tutto hanno una cosa che li accomuna: una pateticità di fondo. Sono due persone
così borderline che anche così diversi non potrebbero star bene con nessun altro
se non tra loro.
E
due così insieme quasi per forza…
Pensa che roba PUCCIOSA che verrebbe fuori! XD
(Scorrono immagini dal film “La guerra dei Roses”)
Oddio, ammetto che invece a me i miei bambini sembrano sempre tremendamente
realistici. E’ che sono sempre stata una ferrea sostenitrice dei bambini come
esserini di ferro, che è possibile strapazzare praticamente all’infinito senza
che riportino ferite emotive troppo profonde (non quanto un adulto), perché
hanno una forza interiore straordinaria (inutile che dica quindi cosa ne penso
di tutte quelle vaccate sul “proteggiamo i bambini dalle brutture del mondo
Censuriamo qui e là. Forse sono gli adulti che hanno bisogno di protezione….)
che permette loro di essere i veri adulti della situazione, molto spesso. Mi
piace far vedere questa forza dei bambini quando parlo di loro. Mi piace
strapazzarli, mi piace dipingerli in situazioni innaturali. Ecco, forse i miei
bambini non rappresentano l’infanzia dei sogni, questo sì. Quella in cui un
bambino non pensa che a giocare e ha l’amore di mamma e papà. I miei sono
bambini che devono crescere in fretta.
Non sono “belli”.
Ma sono reali. ^_^
Notare che non ti ho fatto questa spiegazione stizzita alla “ecco non ha capito
un cazzo dei miei bambini la odio, la detesto, ueeeeeeh!” XD No, niente del
genere, è che mi hai dato la possibilità di spiegare un punto a cui tengo molto,
per cui grazie.
Su Regulus invece non ti dico niente, hai afferrato perfettamente il punto.
Quando lo chiama Sudicio Grifondoro erano proprio le parole di mamma e papà! ^_^
Ma vallo a spiegare a Sirius…. 9_9 A parte quello che potrei dirti a parte i
soliti “mi fai arrossire”? XDDDDDDDDD
Sirius parla di quella che un manuale di
scacchi chiamerebbe finale RDvsRAA. Il finale di Re e Donna
contro Re e 2 Alfieri è nella maggior parte dei casi vinto per colui
che possiede la Donna; questo pezzo infatti può creare facilmente
attacchi multipli a più pezzi in verticale, orizzontale e diagonale. Gli
Alfieri sono limitati a poter attaccare solo in diagonale e, ciascuno di
essi, solo su case di un unico colore. In questo caso difficilmente il
possessore degli Alfieri può tentare di vincere; nella maggior parte dei
casi deve tentare di tutto per non perdere.
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