L'orologio di Love_in_idleness (/viewuser.php?uid=2759)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Berlino ***
Capitolo 2: *** Kemi ***
Capitolo 3: *** Londra ***
Capitolo 4: *** Dublino ***
Capitolo 5: *** Mosca ***
Capitolo 6: *** Milano ***
Capitolo 7: *** Tokyo ***
Capitolo 8: *** New York ***
Capitolo 9: *** Parigi ***
Capitolo 10: *** Bergen ***
Capitolo 11: *** Copenhagen ***
Capitolo 12: *** Pavia ***
Capitolo 1 *** Berlino ***
Volevo fare un paio di precisazioni prima di cominciare
Volevo fare un paio di precisazioni prima di cominciare.
La storia non è una storia, ma un insieme di one-shot che come avrete capito
sono collegate soltanto dalla stessa durata temporale, e precisamente un minuto,
cioè le 17.58 del
Ventuno Novembre, che poi cambiano per il fuso orario...
ho messo come avvertenze shonen-ai e drammatico perché sono due cose che possono
scoraggiare la lettura, ma riguardano solo particolari capitoli, precisamente il
X e il II. Se preferite saltateli. Per il resto specificherò il genere del
capitolo prima di cominciare. Questo è molto generale e non ha controindicazioni
di nessun tipo, credo ^_^, quindi buona lettura.
I.
[Berlino; Ventuno Novembre 2006, 17.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una fredda
giornata di Novembre, soffusa, nebbiosa, sfocata dai tratti della foschia
depositata sull’orizzonte già buio. Sulle strade rimaneva ancora un po’ della
neve caduta all’inizio del mese, illuminata dai repentini abbagli delle macchine
e dallo sfavillio dei grattacieli moderni.
Hanse guardò il suo orologio.
Erano le quasi le sei. Le cinque e cinquantotto.
Reclinò la testa contro la
poltrona di velluto rosso impolverata e sospirò profondamente, immerso
nell’oscurità e nella desolazione di quella sala solitaria, fatiscente,
decaduta. Il cinema chiuso, il Metropolitan Theater, gli era sempre
piaciuto per quel tocco raffinato di belle époque che trasmetteva con la sua
semplice presenza, come a testimoniare la precarietà di un’epoca lussuosa ormai
trascorsa, quando si trasmettevano i film muti in bianco e nero e le grandi
pellicole parlavano di amori sinceri e profondissimi. Ogni volta che aveva
bisogno di tranquillità sapeva di poterla ritrovare nel silenzio e
nell’imperturbabilità di quella sala fredda e abbandonata.
Per questo l’aveva portata lì.
Aveva aperto la porta rovinata, ceduta da chissà quanti anni, e l’aveva guidata
all’interno come se le stesse mostrando casa sua. Ma non era stato sufficiente.
Lei non aveva capito lo spirito di decadenza, la bellezza dimenticata e
sussurrata di quel luogo segreto e personalissimo. Non aveva voluto condividere
la meravigliosa stanza nascosta agli occhi frenetici del mondo. Aveva portato
nell’equilibrio di quell’epoca lontana la luce disarmonica della modernità e
della superficialità; aveva infranto con la sua sola presenza la delicata bolla
di vetro che preservava intatta, in una semplice stanza inaccessibile del mondo,
l’ultima cosa viva, morente, di una decade passata.
Aveva rovinato tutto. Con
quegli occhi e quella voce pieni di banalità aveva distrutto un piccolo,
sofisticato sogno. Poi se ne era andata. Dopo un anno, aveva semplicemente
deciso di prendere le sue cose –la sua borsetta, la sua sciarpa profumata, il
suo rossetto rosso, il suo cappotto di flanella- e di tornarsene a casa senza di
lui.
Hanse non pensava seriamente di
amarla. Non come si amava nei film del 1910, totalmente, enfaticamente,
appassionatamente. Ma sapeva, credeva davvero di volerle bene, di essere, in
fondo, legato a lei da un sentimento di tenerezza, di fiducia e di rispetto che
era qualcosa di molto simile all’amore nel suo stato primordiale. Forse si era
sbagliato. Su quella poltrona polverosa, al buio della sala, aveva riflettuto
per due ore sulle illusioni più malvagie dell’innamoramento, aveva pianto, si
era domandato come avesse potuto essere così cieco, si era arrabbiato. Gli
sembrava di aver sacrificato molto della sua vita per poterle stare accanto.
In un tempo così dilatato ed
immobile non si accorgeva di nulla. La moquette cremisi stesa ancora sul
pavimento nel corridoio centrale attutiva il rumore dei passi. Florian si
sedette di fianco a lui senza dire una parola, respirando il più dolcemente
possibile. Tremava ancora del freddo della sera, chiusa all’esterno del teatro,
e da un senso di irrequieta ansietà.
Hanse si voltò in uno scatto
d’ira e di sensi di colpa. Fino all’anno precedente, ricordò in un attimo, lui e
Florian entravano sempre insieme nel loro posto segreto. Erano più piccoli,
erano appena adolescenti, si nascondevano dentro quella struttura fatiscente le
prime volte che fumavano, o quando dovevano parlare di pensieri troppo intimi
per essere divulgati al resto del mondo. Tra quei muri rimbombava il sussurro
della loro amicizia infranta, ed il ricordo li pitturava di un alone di dolcezza
malinconica. Florian aveva in mente tutto, ogni dettaglio. Florian era sempre
stato tacitamente presente, anche quando Hanse aveva cominciato ad andare da
solo al teatro per pensare dopo gli appuntamenti con ‘la sua ragazza’.
“Hansi, missà che questa sera
non hai niente da fare, vero?”
Hanse notò il tono stranamente
gentile della sua voce, la morbidezza di poche parole così banali, eppure così
intense. Sembrava volergli dire che era passato solo un giorno, solo un’ora da
quella litigata orribile, che la gelosia era uno stupido punto di vista, che un
legame tranciato dall’orgoglio può essere riallacciato in un nodo strettissimo
con una frase tanto semplice.
“No,” Rispose.
“Vieni a berti una birra? Mi
annoio un po’. C’è il basket.”
“D’accordo.”
“Mangiamo qualcosa da qualche
parte, non so. Alla Stube, o dove vuoi tu.”
“D’accordo, Flo.”
Sorrise lievemente. Non capiva
come Florian potesse essere arrivato lì in quel momento, con quell’idea.
Florian, alla fine, c’era sempre nei momenti peggiori e anche in quelli
migliori. Si era dimenticato della sua precisione.
“Flo?” Hanse intuiva di aver
perso qualcosa di relativamente importante, ma di aver rimediato ad un errore
enorme.
“Mm?”
“Flo, mi sei – mancato.”
Hanse si sentiva felice
nonostante tutto. Nonostante un addio doloroso. Nonostante un pianto
imbarazzante. Nonostante la polvere del Metropolitan, nonostante il
freddo pungente di quell’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di Novembre, con
la sua nebbia, con la sua neve scintillante, con la sua notte precoce caduta
sulla città come un dio addormentato.
[Happy Ending]
__
Questi capitoli
saranno tutti molto brevi. Spero vi sia piaciuta, e in ogni caso, per favore,
lasciatemi un commento, mi piacciono tanto *___*... Grazie a tutti e alla
prossima.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Kemi ***
Nuovo capitolo
Nuovo capitolo ^_^ Come
preannunciato, avrà un finale drammatico, anche se è talmente breve che non
riuscirete ad affezionarvi ai miei due protagonisti.
Ringrazio tantissimo
Fuuma per la recensione che mi ha lasciato. Grazie, grazie, grazie. Mi hai
fatto un piacere immenso. Spero apprezzerai anche questo e i prossimi capitoli.
Per il resto buona lettura a tutti.
II.
[Kemi; Ventuno Novembre 2006,
18.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una gelida
sera di Novembre, avvolta nella neve e nella prospettiva di intangibilità delle
cose. Erano soltanto le sette, ma così a Nord, oltre la linea del circolo polare
artico, era notte già da molte ore.
Eija guardò distrattamente
l’orologio analogico del cruscotto che luccicava rosso nella densità del buio
quasi totale che respirava. Erano le sei e cinquantotto. Pensava che quella
coltre nera perenne lo infastidiva molto, lo metteva in agitazione ed impigriva
le sue giornate. Entro qualche settimana non ci sarebbe stato nemmeno più un
abbaglio del giorno lontano nei ricordi, la notte avrebbe inghiottito col suo
buio qualsiasi momento della vita quotidiana. Sarebbe andato a dormire col buio
e si sarebbe svegliato col buio. Avrebbe preso il treno al buio fino ad
Helsinki, avrebbe trascorso le poche ore di luce del Sud in università, e poi se
ne sarebbe tornato a casa per venire di nuovo assorbito dall’oscurità
dell’inverno.
Odiava la notte con tutto se
stesso. Non la notte, in generale. Ogni tanto credeva che la notte, in un'altra
parte del mondo, potesse anche essere bella, poetica, luccicante, affascinante
con le sue stelle, i suoi silenzi, le sue desolazioni interiori e la sua idea di
infinita eternità disegnata nel tessuto della volta celeste. Quelle erano
probabilmente notti serene. Erano le notti che uno vedeva se abitava a Parigi, o
a Roma, o a Stoccolma, o in qualsiasi posto immerso nella civiltà e più o meno
inclinato sulla superficie terrestre rispetto al piano dell’eclittica. Ma Kemi
era una pozza vuota. Era in cima al mondo eppure non vedeva niente. La sua
altezza latitudinale stordiva chiunque. Per questo odiava la notte artica –
perché in inverno conquistava tutto, stendendo un sottile velo di oblio sulle
cose del mondo, e d’estate trasmigrava a Sud, lasciandolo perpetuamente in balia
della luce accecante.
Päivi continuava a cambiare
canzone. Per quanto alzasse il volume del lettore cd non riusciva mai a tenersi
abbastanza sveglio. E poi anche lui cominciava ad essere insofferente ed
irrequieto per tutto quel nulla a cui andavano incontro. Non si ricordava cosa
ci facesse in macchina col suo migliore amico. Aveva bevuto? Sì. Vodka. Per
scaldasi. Perché quel Ventuno Novembre, alle sette di sera, a Kemi faceva già
così freddo, che uno doveva trovare dei rimedi alternativi per non dimenticarsi
di vivere e chiudersi tutto il giorno nel buio tenue della propria casa. Eija
non aveva bevuto vodka. Non aveva bevuto proprio nulla a casa di quel loro
amico, doveva guidare in mezzo ad una bufera di neve.
“Sai Eija, sono un po’ felice.”
“Perché?” Rispose Eija voltando
appena la testa nella sua direzione. “Nii, katu on jässää.”
Stavano uscendo dalla zona
d’ombra per rientrare finalmente nella città, che era almeno un po’ più sicura e
calda rispetto al vuoto desolato del deserto di ghiaccio. Il buio gli
trasmetteva sonnolenza e sentiva il volante scivolare assieme alle ruote sulla
lastra di ghiaccio in cui la strada si era trasformata.
“Domani prendiamo il nostro
treno e ce ne andiamo al sole disperato! È qualcosa di meraviglioso. Promettimi
che a Dicembre passiamo una settimana nell’Oceano Pacifico. Tutto questo freddo
mi ha scavato un solco dentro. Potrei morire assiderato.”
“Päivi, sei ubriaco!” Rise.
Päivi lo faceva sempre ridere nella maniera buffa in cui si ubriacava diventando
rubicondo in faccia ed ancora più gioviale.
“Oh, lo so che succede anche a
te. Ti svegli la mattina, scosti le tende dalla finestra ed è ancora così buio
che non puoi vedere nemmeno il tuo giardino morto. I lampioni sono distanti.
Guarda la neve come danza stranamente sul tuo parabrezza! Attento, Ei –!“
Eija non ricordava che in quel
punto della carreggiata ci fosse una curva. Qualcosa di accecante abbagliò la
sua vista per un secondo, prima di dileguarsi in una sfumatura da sogno. Fu un
istante panico, sospeso nel vuoto, come se entrambi si fossero trasformati in
quei fiocchi di neve danzante e si fossero cristallizzati in fantasie surreali,
cadendo nella stessa maniera caotica, imprevedibile, precipitosa. L’attimo era
atroce. Non ebbe nemmeno il tempo di trasformasi in consapevolezza. Un rumore di
sterzo riempì i loro cuori con la forza di mille campane. Ma la strada, Eija
l’aveva detto, era ghiacciata. Anche se non era lui ad essere ubriaco, intuiva
quella corsa frenetica con la stessa percezione distorta di Päivi. Uno schianto
fragoroso, due, tre, si abbatterono su di lui, trafiggendolo di orrore e di una
sofferenza così insopportabile da togliergli il fiato. Sentì la violenza di un
frammento di vetro gelido penetrargli il petto ed il cuore sospinto con forza al
centro della cassa toracica aggrovigliata, frantumata, distrutta. In un ultimo
abbaglio di lucidità capì che doveva trattenere il respiro, perché quando
l’avesse lasciato andare avrebbe cominciato ad essere ricoperto dalla neve che
continuava a cadere. Prima di scivolare nel sonno obliatico, vide il parabrezza
completamente ricoperto di sangue e gli occhi di Päivi sbarrati, bianchi, già
vuoti. Päivi era stato felice, un momento prima. Non poteva credere che la morte
sopraggiungesse così inaspettatamente, così improvvisamente per una persona
felice. Ora cosa restava?
Avrebbero giaciuto così,
giovani, muti, inermi, spezzati, coperti da un soffice strato candido di quiete,
sotto l’imperscrutabile notte artica che aveva odiato, in quell’ora qualsiasi di
un qualsiasi giorno di Novembre che con molta tristezza cancellava ogni loro
traccia di vita.
[Frammenti]
___
Katu on jässää: la strada è ghiacciata
Sapete, ho una venerazione per il Finlandese, e mi
piacerebbe studiarlo seriamente... a parte queste cose senza senso, ringrazio
tutti quelli che leggono. Baci ^_^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Londra ***
Nuovo capitolo
Nuovo capitolo ^_^
leggermente Angst... ma non preoccupatevi, vi spiego una cosa: questo insieme di
one-shot è costruito con una struttura simmetrica, per la quale ad ogni tema
negativo ne corrisponde uno positivo. Perciò verranno i capitoli leggeri. By the
way - Capitolo tre.
III.
[Londra – White City; Ventuno
Novembre 2006, 16.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una
tristissima, cupa, maledetta giornata di Novembre, un pomeriggio che avrebbe
potuto essere semplicemente un momento qualsiasi in una vita qualsiasi, e che
invece col suo suono di campane a morto e col suo odore di incenso le sarebbe
rimasto inciso nella memoria come una lapide tombale che reca il nome di una
persona perduta.
Il campanile tuonò
fragorosamente le cinque. Meredith alzò lievemente il braccio abbandonato sul
suo grembo e con gli occhi ancora un po’ storditi guardò il quadrante
dell’orologio. In realtà erano le quattro e cinquantotto. La funzione sarebbe
cominciata entro pochi minuti.
Meredith non si accorgeva di
quello che stava succedendo accanto a lei, o se il mondo avesse preso a girare
vorticosamente e freneticamente attorno alla sua figura immobile e nera come una
notte invernale. Tutta la sua visuale era abbagliata dal riflesso accecante
della piccola bara bianca che stava proprio lì, a pochi metri da lei, messa a
giacere dinnanzi all’altare con un bambino dentro, stretto, infreddolito, morto.
Fissava quella macchia bianca con un’insistenza sviata, affascinata, ammaliata
da una lucentezza simile, e le pareva che quel chiarore purissimo, quel colore
così vicino allo splendore, si stesse ingrandendo e stesse conquistando
progressivamente tutta la chiesa. Sarebbe uscito dalla porta ed avrebbe
soggiogato il mondo nella sua luce abbacinante e nel lutto incommensurabile che
si portava dentro.
Le campane continuavano a
suonare. Lei rimaneva immobile nella sua posizione rigida, severa. Quei
tumultuosi pensieri si riannodavano in un filo nero e deleterio che la
sospingeva fino ai confini della pazzia, fino all’orlo del territorio dove la
realtà malvagia si confonde nell’indefinitezza dei sogni e degli incubi atroci.
Forse era davvero solo un incubo. Il fazzoletto che stringeva tra le mani era
bagnato delle sostanze oniriche della sua mente, quella stoffa nera e quella
bara bianca erano soltanto proiezioni intelligibili della sua angoscia più
radicata. In fondo, sapeva di non potersi svegliare.
Meredith pensava vagamente.
Non esisteva più nulla di chiaro nella sua vita. Tutto ero stato improvvisamente
rovesciato, rivoltato, sconvolto. In un istante fatale le era sembrato di
cominciare a vedere le cose al contrario, come sospese in un limbo misterioso,
in una dimensione estranea alla sua comprensione e all’abitudine che aveva di
abitare su questo pianeta, in questa città, in questa via, in questa casa.
Necessariamente c’era uno sbaglio, un dettaglio distorto. Non capiva ancora, non
realizzava cosa avesse potuto infrangere bruscamente l’equilibrio di
quella lineare esistenza, e cosa fosse stato il motore di quella
rivoluzione copernicana. Il suo centro era decisamente deviato. Persino quei
rintocchi insistenti, quei suoni sordi, rimbombanti, potenti, le sembravano non
avere alcun senso rispetto al bianco che stava investendo la sua vista e che
stava totalizzando la sua ragione. Uno sciame di persone andava e veniva da lei.
Le dicevano parole che non capiva nel loro suono, le ascoltava distrattamente e
non le guardava nemmeno, continuava a fissare gli occhi sulla piccola bara
bianca luccicante.
Sapeva che se non avesse
compreso in fretta il motivo di quella strana sensazione di dolore, di
soffocamento, di spasimo, sarebbe impazzita e deperita. Ma, davvero, non
distingueva più nulla. Suo marito era alla sua destra, il suo bambino alla sua
sinistra. Provava una pena profonda per la madre che doveva guardare la bara
bianca intuendo il corpo di suo figlio sigillato tra piccole le assi. Se le
avessero strappato suo figlio –
Poi, in un attimo, ricordò ogni
cosa. Ricordò quelle scale. Ricordò il rumore ovattato della caduta. Rivide il
sangue contro lo spigolo di marmo.
E fu tutto perfettamente
chiaro. Volse lo sguardo a sinistra, ed osservò il vuoto pieno di orrore.
Il bambino dentro quella bara,
era il suo bambino.
Si alzò in uno slancio
inaspettato e protese tutta se stessa verso il feretro coperto da una soffice
coperta di fiori candidi. Sentiva il respiro mancare ed il cuore fermarsi per un
istante disperato mentre lanciava un urlo pieno di angoscia, pieno di terrore,
pieno di stupefacente lucidità.
Si piegò convulsamente
sbattendo contro il pavimento freddo, e rimase così, gli occhi sbarrati, il
bianco vuoto nell’anima, finché qualcuno non raccolse il suo corpo inerme.
Non avrebbe vissuto mai più
come una persona sana, come una donna.
Il buio della sera penetrava
dalle ampie finestre policrome della chiesa decorata a lutto. La luce dei ceri e
delle preghiere sussurrate rifletteva sui quei vetri i mille colori della
sciagura e della devastazione. Tra le sue navate si sarebbero celebrati due
mesti funerali. Seppellivano il piccolo, e dentro la stessa bara seppellivano
anche lo spirito morto di Meredith.
Si compiva così un sacrificio
feroce ed inesorabile. Meredith sentiva di dissolversi pezzo dopo pezzo,
lentamente, con agonia, sul lastricato di quella chiesa, in un’ora qualsiasi, in
un giorno qualsiasi di Novembre che con la sua disgrazia ed il suo buio funesto
avrebbe per sempre leccato via la sua felicità e prosciugato ogni traccia di
umanità dal suo cuore.
[Una Bara Bianca]
___
Uh, è quasi
Natale e quasi il mio compleanno. La cosa che amo di più dei regali di Natale è
fare i pacchetti, sapete, con la carta speciale e tutti i nastri colorati e
luccicanti. E poi sono in vacanza, ma solo apparentemente. Comunque vi faccio
tantissimi auguri di buone feste, e ringrazio tutti coloro che hanno letto il
capitolo due anche se è stato una strage... lasciatemi una recensione! Per
favore! Fatemi un regalo di Natale e di compleanno... Grazie & alla prossima
Love-in-idleness
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Dublino ***
Quarto capitolo
Quarto capitolo! Questo non mi entusiasma particolarmente,
vi avverto, ma è sulla linea di tutti gli altri...
Spero vi piaccia. Rinnovo i ringraziamenti a Fuuma
per i suoi commenti & buona lettura & buon Capodanno
IV.
[Dublino; Ventuno Novembre
2006, 15.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un triste
pomeriggio di Novembre, freddo, ventoso, desolato. Il giorno sembrava fatto
apposta per riflettere: una strana, lancinante consapevolezza si era fatta
strada nella sua mente con la stessa progressiva, invisibile velocità del buio
che conquista le strade del mondo.
Mary Anne alzò gli occhi verso
la pendola della sala che oscillava costantemente nella vita e nei suoi sogni
sopra la sua testa affaticata, come una ghigliottina. Erano le tre e
cinquantotto.
Non sapeva nemmeno perché fosse
a casa, a quell’ora in cui solitamente si trovava in ufficio a lavorare.
Probabilmente avrebbe passato dei guai per la sua fuga improvvisata nella città,
via dal suo spazio e dalla sua contingenza, ma, davvero, per un istante, chiusa
tra le mura grigie dell’agenzia ed imprigionata da pile di fogli e mucchi di
doveri, si era sentita soffocare da un’ansia inspiegabile. Sentiva nell’aria un
vago presentimento. Questo fremito misterioso la colpiva da tempo come una
puntura leggera ma fastidiosa, e la angustiava nella sua continuità. Si
svegliava la mattina con la sensazione che la sua vita intera si stesse
trasformando in un prolungamento del suo ufficio grigio e squallido. Il suo
malessere la tormentava il giorno intero deconcentrandola, non si acuiva nemmeno
quando alle sei e mezza tornava a casa, stanca e provata, e cominciava a
cucinare per la cena. Cucinare la rilassava, specialmente quando creava dolci
deliziosi e speziati. Ultimamente anche quella piccola passione le sembrava
vuota, vanificata di ogni significato. Il profumo della cannella non le piaceva
più perché non le arrivava in quel punto del petto che la rendeva felice in una
maniera tanto semplice ed infantile; il gusto soffice della marmellata non
scioglieva dentro di lei alcuna emozione ingenua, solo una pacata, grigia
indifferenza. Grigia come le pareti dell’ufficio.
La pendola di sua nonna
continuava ad oscillare. Mary Anne pensò che fuori della sua piccola casetta
molta gente stava scorrendo nelle strade affollate e fredde di vento, molti
uomini, molti bambini, molte persone contente e soddisfatte. Pensò anche che la
felicità era davvero un fatto semplice, come tutti i sentimenti – solo qualcosa
di interiore, come una bolla che si espande e riempie il corpo di una certa
frenesia. La noia, invece, era uno stato di completa vacuità. Era distante
dall’odio come dall’amore, dalla passione come dalla sofferenza. Si trovava nel
mezzo di un deserto di ghiaccio. Era grigia dello stesso grigio di un ufficio di
periferia scarsamente illuminato, come le mura di casa sua sulle quali la carta
da parati si stava lentamente logorando, consumata dalla macchia sordida in
espansione. Il grigio le stava corrodendo tutto.
Eppure Mary Anne credeva di
avere una vita normale, per certi versi invidiabile. Aveva un marito premuroso e
gentile che tornava a casa alle otto e mezza di sera, due bambini dolcissimi dai
capelli biondi, una casetta piccola e graziosa, un lavoro part-time, molte
amiche e molte confidenti con le quali uscire di tanto in tanto per un tè o una
cena tra donne. Nonostante ciò, continuava a sentire questa insoddisfazione. Le
sembrava ingiusto e decisamente stupido, quasi egoista. – Sono davvero scema, –
si diceva, – Se comincio a lamentarmi. C’è gente che soffre per motivi gravi.
Io mi sento solo un po’ stanca e un po’ delusa. –
La verità la conosceva.
Osservando il lento e costante ondeggiare della pendola, le sembrava di essere
ancorata allo stesso movimento perpetuo e ripetitivo, alla stessa esasperante
oscillazione. Aveva quarant’anni e molte rughe, le sue scarpe ed i suoi vestiti
erano vecchi, logori, fuori moda, i suoi capelli erano aridi e disordinati. Il
cassetto della cucina era pieno di bollette e saldi non ancora pagati per i
quali bastavano appena i soldi guadagnati col suo lavoro modesto ed
insoddisfacente.
L’insofferenza che provava si
annidava tutta lì, in quella graffiante sensazione di assoluta mediocrità.
In quel momento lo ammise.
Allora le pareti della sua vita divennero definitivamente grigie e monotone.
Le finestre della sala erano
chiuse. Mary Anne era seduta al tavolo, le mani raccolte in grembo, sotto la
pallida luce del lampadario, e si chiedeva cosa valesse la pena di essere
faticosamente trascinato avanti.
C’era un’idea che la
sconvolgeva ancora di più. Quel pomeriggio aveva finalmente trovato la prova che
cercava – suo marito, il suo adorato, affettuoso marito, usciva di fabbrica alle
sette di sera, e durante l’ora trascorsa prima del ritorno a casa si
intratteneva con la sua bella amante. Non era disperata. Non era nemmeno
arrabbiata. Era semplicemente indifferente. La cosa che la logorò più del
tradimento in sé fu la subitanea consapevolezza che ormai anche quel legame così
importante era diventato un contenitore completamente vuoto. Di suo marito non
le importava più nulla. Pure la sua figura un tempo cara era immersa nel grigio
dominante, non si poteva più distinguerne il contorno. Il suo amore era
sfiorito, deperito, morto.
Era questa la vera tragedia di
Mary Anne. Si consumò nel silenzio e nella desolata frustrazione di una casa
anonima della periferia di Dublino, in un’ora qualsiasi di un giorno qualsiasi
di Novembre, scavando nella sua anima sola un’amarezza ed un vuoto incolmabile.
[Bitterness]
Da ieri sono maggiorenne è____é. In realtà non è cambiato
nulla della mia vita, tranne che d'ora in avanti sarà solo colpa mia. Come
regalo di compleanno vado a teatro XP. Per poco stasera manco Roberto Bolle,
peccato...
Spero vi sia piaciuto il capitolo! Commentate ^_^
Love-in-Idleness
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Mosca ***
Primo aggiornamento dell
Primo aggiornamento dell'anno! Il 2007 porterà molti
cambiamenti nella mia vita, speriamo in positivo ^_^...
Per Fuuma come al solito un grazie particolare,
Grazie per il commento! La prossima città è---
Москва. E' una delle ultime un po' tristi, lo giuro. Il
tema del Giorno: Solitudine.
V.
[Mosca; Ventuno Novembre 2006, 19.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una confusa
sera di Novembre che sembrava fondere il blu del suo cielo con l’abbaglio delle
luci colorate della città, accese e palpitanti ai bordi delle immense strade
affollate.
Ekaterina camminava barcollando
per le vie del centro, aggrappandosi alle cose e alle persone che scorrevano
veloci attorno a lei. Guardò l’orologio e non capì molto bene. Credeva fossero
le sette e cinquantotto, ma non poteva dirlo con assoluta sicurezza, perché ogni
dettaglio reale della città e della gente che incontrava le sembrava
estremamente vago, confuso, dilatato, fuori posto. Aveva la strana sensazione di
stare oscillando come una nave in piena tempesta, eppure non lo voleva, non lo
desiderava, si diceva solo di camminare dritta per tornare a casa – sempre
avanti per quello stradone, giù nel sottopassaggio senza scivolare dalle scale,
il primo treno verso una meta che, al momento, le sembrava di aver dimenticato.
Non sapeva nemmeno più cosa le
fosse successo. Si era scordata ogni cosa? Scuoteva un po’ troppo la testa.
Aveva la strana, disarmante sensazione, di non essere in grado di arrivare a
casa da sola.
In quel momento scendeva i
gradini della scala maestosa. La sua mente aveva perfettamente chiaro il piano
della Novoslobodskaja, ma questa esaustiva visione si fermava dentro le sue
mura. Era una costruzione grandiosa, questo lo sapeva. Una delle più vecchie
stazioni di Mosca e una delle più vecchie metropolitane del mondo. Ricordava
vagamente di averla studiata in qualche corso di architettura. Non era strano.
Le stazioni della metropolitana moscovita sono quasi sempre delle opere d’arte
grandiose. Percorse pochi metri della galleria buia che si incuneava nella terra
e sentì di lontano, ovattato dal rumore della gente che le scorreva accanto
senza fermarsi, senza conoscerla, senza guardarla, lo sferragliare stridente dei
treni che andavano e venivano come la sua memoria.
Possibile che nessuno si
accorgesse del suo malessere? Avrebbe voluto gridare, ma non ne aveva la forza.
Si accasciò con un rantolo contro il muro freddo, rassegnata all’idea di non
ricordare dove dovesse dirigersi.
Gli occhi della gente erano
freddi e vuoti. Ekaterina aveva la paura di folle di essere schiacciata da un
treno che all’improvviso deragliasse dal suo percorso ordinario, o dal soffitto
della stazione che sembrava così solido, eppure sprofondava nelle viscere della
terra di molti metri raggelanti. Sotto quelle volte chiuse si sentiva quasi
seppellita in una maniera improbabile ed imprevista. Era come una gigantesca
oltretomba scintillante popolata da mille spettri trasparenti che scivolavano
via nell’indifferenza più totale e disarmante.
Aggrappata a quel muro,
agonizzava. Le pareti della stazione la confortavano modestamente col loro blu
violento e le loro vetrate simili a quelle di una chiesa cattolica. Proprio come
nelle cattedrali che aveva visto in Europa, quelle dove non esistevano icone
dorate e tutte uguali, e dove la messa era celebrata per tutti su un altare
rialzato, non all’interno di una strettissima, celata iconostasi. Nel vuoto
annegamento della sua ragione si aggrappava alle figure ammantate di splendore e
tutte uguali della tradizione ispirata ortodossa. Aveva sempre pensato che
emanassero una luce più pura ed una magnificenza sconosciuta ai marmi candidi di
Michelangelo e alle tinte sfumate di Leonardo. Quell’alone di sacralità e di
staticità ieratica le sembrava un piccolo, fulgido punto fermo in un mare
turbolento.
La sua testa scoppiava.
Ekaterina non vedeva più nulla. Mille persone le passavano davanti come
trascinate via dalla corrente di un fiume che scorre in piena, e se ne andavano
senza aiutarla, senza compatirla. Le mancava il respiro. Allora le sembrava già
di soffocare. La testa le girava ed il cuore le batteva forsennatamente nel
petto, sentiva il corpo pulsare ed un calore innaturale invaderle le membra.
Appoggiò la fronte al marmo freddo sperando di ricevere conforto.
Un blu accecante le penetrò gli
occhi, il cervello. Non ricordava – niente. Non capiva – niente. E nessuno si
accorgeva della sua piccola, disperata battaglia condotta contro il pavimento di
una scintillante stazione della metropolitana, così piena di persone, eppure
così deserta di anime.
Urlò con tutto il fiato che
aveva in gola quando la sensazione di orrore raggiunse il suo culmine e si
accorse di non riuscire più ad aprire gli occhi. Cadde contro il pavimento in un
tonfo sordo coperto dall’insopportabile stridio del treno che arrivava. Il
deliquio si impossessava di lei. Sentiva tutto, anche se il suo corpo non si
muoveva, non si alzava, non rispondeva alle sue sollecitazioni. Sentiva anche
che, finalmente, qualcuno le si stava avvicinando per scuoterla.
Ekaterina aveva imparato una
lezione fondamentale. Nell’agonia della sua inerzia aveva scoperto un dolore
terribile, una sofferenza lancinante prodotta dalla svogliatezza, e questo
peccato si chiama solitudine. La solitudine aveva bussato alla sua testa
distrutta e l’aveva abbandonata lì, sul pavimento gelido della Novoslobodskaja,
in un’ora qualsiasi di un giorno qualsiasi di Novembre, che con la sua
indifferenza e la sua noncuranza le scivolava addosso e la dimenticava dentro
agli abissi dell’incubo.
[Oh, Solitude]
___
Ho scelto la stazione di
Novoslobodskaja
(Credo si scriva Новослободская) perché ha queste pareti che mi hanno
ricordato le nostre chiese. Le chiese mi piacciono in un modo paradossale dal
punto di vista artistico. Le vetrate soprattutto. Così era piuttosto vicina alla
mia immaginazione, anche se il suo nome è immenso. E poi mi piace la Russia, il
Russo e tutte queste cose. Studierò il Russo, credo.
Oh, Solitude è una
canzone di un gruppo strano di cui non ricordo più il nome, scusate...
Buona Befana a tutti XP
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Milano ***
Ehi
Ehi, se c'è ancora qualcuno
sintonizzato... ciao! ^_^ Nuovo capitolo. Un po' malinconico. Come potete vedere
è il primo capitolo dopo la metà, il che significa che ora cominciano i
collegamenti. Questo va di pari passo col primo, è la situazione speculare e
contrapposta.
VII.
[Milano; Ventuno Novembre 2006,
17.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un piovoso
pomeriggio di Novembre celato da una nebbia opalescente e perlacea. Fuori dalle
imponenti vetrate di Malpensa la visuale era interrotta dalla coltre di foschia
impenetrabile che sembrava incantare ogni cosa.
Andrea guardò l’orologio del
tabellone. Erano le sei. Le cinque e cinquantotto. Ora Vittorio doveva proprio
andare, aveva procrastinato fino all’ultimo minuto. Andrea aveva sempre pensato
che l’aeroporto fosse molto freddo, ma non immaginava potesse diventarlo fino a
quel punto. Rabbrividiva di una sensazione penosa e disperata. In un
certo senso si vergognava del malessere che lo scuoteva e lo squassava,
trascinandolo quasi sull’orlo del pianto. Ma non poteva farci nulla. Non
riusciva davvero a reprimere quello sconforto, quella sofferenza pungente che si
insinuava ora nei suoi occhi, nel suo petto, e che si manifestava finalmente nel
suo cervello. Andrea era sicuro che ci fosse sempre stata. Da quando aveva
saputo la data, non aveva fatto altro che pensarci, ritornarci con la testa
sempre un po’ più vuota e pesante. Ma non era mai stato il momento. Tutto
quello che lo aveva spaventato si era sempre mantenuto a una certa precaria
distanza. Anche solo un’ora, anche solo un giorno in più, un giorno di distacco,
un giorno ancora. Non c’era più tempo ancora. Vittorio doveva prendere
quel maledetto aereo e lui non poteva nemmeno passare la barriera per
accompagnarlo fino alla fine del percorso.
Guardò per l’ennesima volta in
pochi secondi lo schermo che segnalava l’avviso di imbarco per il volo delle sei
e ventidue diretto a Monaco. L’altoparlante scandiva quella stessa struggente
condanna con voce distante mille anni luce ed indifferente ad una lacerazione
tanto profonda.
- Idiota! – Si disse Andrea. –
Va solo a Monaco. È vicino. È molto più vicino di altre città in Italia.
Cretino, cretino, cretino. Non emozionarti. Cretino. –
Si era già emozionato. Aveva
gli occhi lucidi. In fin dei conti, pensava, con Vittorio aveva trascorso
praticamente tutti i diciannove anni della sua vita. Salivano persino le stesse
scale insieme. Abitavano nello stesso condominio, allo stesso pianerottolo,
dietro le due porte vicine numero 123 e 124. Dopo una sorta di convivenza
forzata così duratura la sola idea che lui se ne andasse a Monaco forse per
sempre lo destabilizzava e lo sconvolgeva. Vittorio era un fratello. Non è
giusto dire addio ai propri fratelli.
In quel minuto speso in
silenzio, tra sguardi imbarazzati e parole sospese nell’aria, circondati dal
rumore di gente che scorre e se ne va, immersa nelle proprie faccende, nelle
proprie priorità, nella propria frenesia, Andrea rivisse teneramente molti bei
momenti di quell’amicizia strana, un po’ morbosa, forse, e decisamente
insormontabile. Si ricordò quando erano piccoli ed andavano all’asilo insieme,
si ricordò il primo giorno di scuola quando si vergognava per il fiocco blu del
suo grembiulino, quando avevano fumato insieme la prima sigaretta e quando per
la prima volta si erano ubriacati sulle scale del loro palazzo. Si ricordò di
tutte le altre persone a cui aveva voluto bene, ma che inevitabilmente erano
scorse accanto a lui, accanto a loro, senza causare un minimo di quella
sofferenza atroce, senza lasciare ricordi scintillanti, malinconici, nostalgici,
tristi, senza scavare quel vuoto e quello stordimento infantile. Molti,
rifletteva, erano entrati nella sua vita come un abbaglio, e se ne erano usciti
in silenzio. A volte lasciavano un messaggio importante, a volte sbiadivano
dalla memoria sostituiti da qualche nuova passione. Ma non Vittorio. Lui era una
di quelle amicizie immortali, così aveva creduto fino ad allora, con le quali si
condivide ogni cosa nuova per una strana, inspiegabile alchimia. Era un punto
fermo della sua esistenza, la persona che aveva avuto di fianco quasi ogni
giorno della sua vita, col suo tocco confortevole e la stessa sensazione di
familiarità.
“Ehi, guarda che vengo a
trovarti, ogni tanto.” Gli disse alla fine.
“Non è la stessa cosa.” Andrea
guardava verso il basso.
“Anch’io vorrei tornare.”
“Ma se non sei nemmeno
partito!”
“Allora non vorrei partire.”
“Non si può.” Ammise
pesantemente.
“Ma ci si può sforzare di
sistemare le cose in fretta. Ti prometto che cercherò di scappare da mio padre
il prima possibile. Lo giuro.”
“Devi Andare.” Andrea non si
spiegava neanche perché stesse cercando di sembrare laconico ed indifferente.
Quel viso avrebbe potuto ferirlo nel momento peggiore, durante un addio così
doloroso. Non aveva nessuna intenzione di lasciarlo andare, lasciarlo uscire
dalla sua vita con idee sbagliate.
“Lo so.” Alzò le spalle.
Lo abbracciò. In quell’ultimo
momento di calore confortevole Vittorio gli sussurrò: “Torno a trovarti tra un
mese.”
Poi lo salutò. Definitivamente.
Andrea lo guardò allontanarsi
dissolto da un mare di folla insignificante. Lo cercò con lo sguardo e, quando
lo vide, lo salutò agitando la mano, disperato. Ora sapeva di stare per cedere
alle lacrime, ma si trattenne finché lui non fu completamente sparito dai suoi
occhi amorevoli e distrutti.
Si sentiva così – trascinato,
sballottato, schiantato da una corrente invisibile e disumana. Quando si sedette
su quella stupida poltrona scomoda, davanti a quello stupido schermo, in preda a
quello stupido sentimento, capì di aver perso il legame forse più importante
della sua vita per un semplice capriccio di estranei. Odiava quelle lacrime.
Odiava quella stanza fredda. Odiava gli aeroporti, odiava la nebbia, odiava le
città distanti e i chilometri che separavano gli amici. Odiava quella maledetta
ora qualsiasi di Novembre di quel giorno qualsiasi di Novembre per aver rovinato
con la sua impassibilità mortificante la cosa che con più cura si era costruito
in una vita intera, e che ora giaceva in frantumi sul pavimento di Malpensa.
[Distanze]
___
Dedico il capitolo al mio
Raggio-di-sole, che mi ha ispirata inconsciamente per questa storia triste. Con
lei ho frequentato asilo, elementari, medie, superiori, scuola guida (anche se
solo per due settimane) e sicuramente saremo insieme pure in università. Quindi
capisco questo genere di legami stabili. Sono un po’ triste. Grazie Lisa per
avermi sopportata diciotto anni –forse di più-. Tu sei davvero
coraggiosa.
E grazie a tutti voi se avrete
letto, se commenterete ecc ecc ecc
AVVISO - sposto di nuovo la
storia nella sezione Generale. Se la cercaste qui e non la trovaste più sapete
perché XP. Scusate se continuo a muoverla, ma non so neanche io dove stia
meglio.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Tokyo ***
Questo capitolo sta esattamente a metà della storia è
Questo capitolo sta
esattamente a metà della storia è___é. Sono già a metà, che tristezza. Oggi c'è
una nebbia che non si vede a dieci metri, è molto deprimente. Non so se qualcuno
di voi abita nelle lande lomelline come me, ma è così freddo e così grigio... A
parte questo, mille grazie a FaN_nOe per la sue recensione, e mille
grazie anche a chi legge e basta.
VI.
[Tokyo; Ventidue Novembre 2006,
05.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un’ora
antelucana di una mattina di fine autunno, così presto che nemmeno la luce
solare dipingeva l’orizzonte dei bagliori rosa e arancioni dell’alba. Il buio si
espandeva ancora per le vie di Tokyo, stendendo il suo sudario di sonno e di
quiete sui grattaceli moderni, sulle strade illuminate, sul cemento
addormentato.
Tsugumi si voltò su un fianco,
abbagliata dalla luce blu delle sveglia analogica che segnava le sei di mattina.
Le cinque e cinquantotto. Entro poco tempo si sarebbe alzata per studiare
letteratura.
Venne assalita da
un’irritazione convulsa e schiacciò il cuscino contro il suo volto. Odiava
l’insonnia. Odiava quelle notti in cui si sdraiava talmente stanca nel suo letto
che non riusciva a prendere sono nemmeno per un istante. Odiava ritrovarsi a
fissare il soffitto e a rigirarsi per ore tra le pieghe delle lenzuola sempre
più disfatte e sempre più scomode, pensando fino a stordirsi, un senso di
fastidio crescente nel petto che la punzecchiava e la manteneva desta contro la
sua natura e la sua volontà, quell’ansia che le impediva di tranquillizzarsi e
rimanere ferma nella stessa posizione. Odiava chiudere gli occhi, esasperata, ed
aprire la mente ad ogni ricezione, ad ogni minimo rumore – il suono
dell’orologio, la sirena di un allarme, il chiasso di un’auto in corsa, lo
sferragliare di un treno, il tintinnare le chiavi del vicino che rientra tardi
la notte. Ogni cosa la urtava cento volte più del normale.
In certi momenti, però,
l’insonnia non era solo frustrante. Durante le sue infinite notti in bianco,
spaventosamente dilatate in una percezione temporale che si dilegua
nell’ubiquità e nell’immensità dell’alone notturno, rapita da quell’indefinita
incoscienza e dal leggero delirio sfocato che sta alla base del sogno, ma che
non è ancora riposo, Tsugumi poteva pensare fino a farsi venire il mal di testa.
La sua mente procedeva in maniera lenta e contorta, scopriva territori che la
notte rende sconosciuti ai dormienti. In un certo senso si sentiva più
fantasiosa. Era come se avesse immense opportunità di riflettere, di
immaginare, di dissipare, di creare. Per questo sentiva di poter penetrare più a
fondo le cose, in una maniera molto soffusa, quasi pazzesca, folle, vincolata
all’assurdità e alla vaghezza del sogno. Quel dono sottile confortava le sue
notti bianche. Le piaceva pensare che se non avesse sofferto di insonnia non
avrebbe scoperto per sé molte cose: non si sarebbe mai appassionata alla
letteratura, non avrebbe capito di essere affascinata dall’arte e dalla
filosofia semplicemente perché non avrebbe avuto il tempo materiale di
fermarsi a respirare e a pensare ciò che nell’arco di una giornata frenetica non
trova spazio. Un po’ provava pena per tutte quelle persone che non riuscivano a
ritagliare un minuto per dedicarsi alle loro passioni, sommerse dai doveri e
dalle contingenze. Lei non riusciva a dormire ma poteva inseguire sogni ad occhi
aperti.
C’erano molte cose su cui
Tsugumi rifletteva con attenzione – in particolare le piaceva cercare di
analizzare il Tempo. Il Tempo, davvero, era un argomento che la affascinava con
quel gusto tutto oscuro dell’ignoto, dell’insondabile, dell’imprescindibile, con
quella parvenza di mistero che disegna le entità metafisiche sopra la testa
dell’umanità. Si chiedeva se a volte il Tempo non scorra in modo diverso per
ciascuno, a seconda della propria predisposizione, o se fosse già stato
stabilito in un certo disegno escatologico. Si domandava se esistesse un Tempo
univoco o semplicemente tanti diversi Tempi quanti sono gli esseri umani, se il
Tempo fosse un meccanismo indefinito ed interno oppure una realtà misurabile e
quantificabile.
In quel momento Tsugumi pensava
che miliardi di persone nello stesso istante stavano respirando, stavano vivendo
lo stesso Tempo. Persone che non avevano nulla a che fare l’una con l’altra,
persone che non si sarebbero mai viste e mai incrociate durante una vita intera
e che, magari, provavano la stessa emozione agli angoli del mondo, senza poter
venire a sapere di questa straordinaria comunanza. Pensava che nello stesso
istante, forse, in America stava nascendo un bambino e a Seul stava morendo un
nonno. Pensava che, per compensazione, qualcuno era splendidamente felice,
qualcun altro si stava suicidando. Pensava che per un uomo dimenticato ce n’era
necessariamente un altro riscoperto, e che per tutte queste cose ne esistevano
un milione di altre, un miliardo di altre, dipinte ognuna dalla stessa sfumatura
di umanità. Forse, in qualche letto, rannicchiata sotto le lenzuola calde, una
ragazza sul confine tra la veglia ed il sogno stava pensando proprio le medesime
cose.
A Tsugumi sembrava grandioso.
Un gigantesco meccanismo era appeso ai confini del mondo e muoveva ogni persona,
ogni essere, in direzioni del tutto impreviste verso un progresso inarrestabile,
verso un futuro che divora il presente e che dimentica il passato. Forse era
Dio, forse era semplicemente l’Eternità. Questo non lo poteva sapere. Capiva
solo che gli uomini erano legati tutti quanti dallo stesso filo sottile, rosso,
fragile, e poggiavano sulla stessa base di cristallo delicato.
Alla fine Tsugumi non credeva
che quella mattina fosse stata davvero inutile. Nell’indifferenza del suo
stordimento aveva per una volta riflettuto su un disegno così vasto da oscurare
il cielo. Non aveva idea di cosa stesse succedendo nel resto del mondo, di quale
magia lo stesse incantando. Non si immaginava quanti sentimenti battessero nel
cuore di Tokyo che si destava lentamente, di quanto amore e di quanta morte si
stessero riversando per le strade in quell’ora qualsiasi di quel giorno
qualsiasi di Novembre, col suo mistero, col suo attimo bloccato, col suo vincolo
strettissimo tra ogni creatura vivente.
[Drowsiness]
Brr... nebbia
agli irti colli...
Commentate eh!
Love-in-idleness
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** New York ***
Sono tornata
Sono tornata, ahah! Ho avuto
qualche problema col piccy, che in realtà è ancora irrisolto, per cui il
compuetr è ora gentile disponibilità del mio fratellaccio (che me lo ha concesso
solo perché è a letto con trentanove di febbre, povera stella..)
By the by - il nuovo
capitolo. Luce Artificiale. E' la morte vissuta in maniera totalmente inversa
rispetto a quella del capitolo II, qui è tutto dominato dalla luce, mentre prima
c'era solo notte (Vi ho fatto l'analisi del testo, scusate). Commentate, per
favore ^_^
VIII.
[New York; Ventuno Novembre
2006, 08.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una mattina
trasparente di Novembre, durante la quale il cielo, trapassato dalle guglie
moderne degli enormi palazzi, si dipingeva lentamente di etere e di chiarore.
Beth guardò il suo orologio.
Erano le nove. Le otto e cinquantotto, e zero secondi.
- Esprimi un desiderio: - Si
disse. – Vorrei scappare dalla mia prigione di luce artificiale. – Giunse le
mani in un gesto di distratta preghiera, e, ridendo frivolamente, si lasciò
cadere sul letto.
Invidiava un po’ le persone che
potevano passeggiare nel parco avvolte dalla luce diafana delle otto di mattina,
scosse dalla brezza pungente, dirette chissà dove, chissà per quale scopo. Una
cosa che avrebbe da sempre voluto fare era uscire in camicia da notte
dall’ospedale, scendere al chiosco che vedeva sotto la sua finestra, comprare un
caffè e berselo leggendo un giornale, seduta silenziosamente su una panchina
qualsiasi. Se lo immaginava spesso come un piccolo sogno naturale – si vedeva
sorridere timidamente, il volto illuminato dal suo pallore, le chiome dei grandi
alberi scosse da aliti di vento freddo e mille foglie colorate che piroettavano
sospese nell’aria fino a posarsi sul suolo umido della notte appena trascorsa.
Ritornò curiosa a spiare il
mondo dalla sua piccola finestra. Socchiuse gli occhi, scrollando un po’ il
capo. All’improvviso si ritrasse con orrore e si sedette sul letto disfatto.
La visione del paesaggio quieto
sotto la sua finestra era stata abbacinante, l’aveva colpita ed accecata con una
violenza che non si sarebbe mai aspettata dai raggi di sole freddi e limpidi
della prima mattina autunnale. Fuori, li aveva visti cadere e schiantarsi sui
colori delle foglie e del prato, così violenti, così investiti di una forza e di
una vitalità misteriose, ed al contempo così caduchi e prossimi alla morte. In
un certo senso, legata a quel letto ed abbandonata in quella stanza, si sentiva
quasi come una foglia sul far dell’autunno, debole e rossa, fragile e
bellissima.
Si rialzò di nuovo, si avvicinò
alla tenda, la scostò con delicatezza, e, socchiudendo gli occhi stanchi
sull’esterno scintillante, sorrise ancora con una certa dolcezza. Forse aveva
visto un colore che le piaceva più degli altri, forse, dall’alto della sua torre
d’avorio, aveva scorto un volto tra le moltitudini che transitavano sotto di
lei, che per un istante l’aveva fatta innamorare. Un’estasi misteriosa la
trascinava fuori dalla sua piccola stanza claustrofobica e le faceva esplorare
un mondo precluso. Si ricordò una frase all’improvviso, una frase particolare e
magari senza senso, si ripeté nella testa: Homme, la saison de ta migration
n’est pas encore venue. O forse per lei era arrivata?
Beth era piuttosto sconvolta.
Sapeva perfettamente dove la portava questa corrente di pensieri, ci aveva
riflettuto molto tempo stancandosi fino ad addormentarsi. Ma quella mattina si
era svegliata con il desiderio impellente, irrefrenabile di uscire dalla sua
gabbia, di riguadagnare la sua libertà, la sua vita. Come una foglia
sbattuta dal vento sul terreno bagnato di un prato autunnale.
Trattenne il respiro per un
secondo che gli sembrò eterno. Il suo cuoricino stanco batteva paurosamente
forte. Tra i corridoi della clinica si espandeva solo un denso, pesante
silenzio.
- Non vogliono farmi uscire? –
Si diceva, -Allora cercherò una via, una strada alternativa che mi porti ad
esplorare nuove regioni del mio spazio. -
Gli occhi le scintillavano con
lo stesso barlume di pazzia delle sue crisi. Solo che non c’era più un medico.
Non c’era più un’infermiera. Non c’erano più nemmeno i suoi genitori amorevoli.
C’erano solo Elisabeth e la sua urgente voglia di caffè, di sole, di aria
aperta.
“Non posso più –” Mormorò. “Non
vedi che non posso più sopportare questa luce artificiale? O no? – No. La
stagione della tua migrazione non è ancora arrivata! Allora devi rimanere qui ed
aspettare un segno che spalanchi per te le porte della conoscenza ed i cancelli
dell’eternità – Ma io non riesco a sperare ancora, e ancora, mentre tutto il
mondo scorre sotto il mio sguardo assente e vive anche la mia vita! Io sono come
quelle foglie che stanno sugli alberi ma sono già morte, e che raggiungono la
loro massima bellezza, la loro gloria suprema solo nel momento della loro
caduta! – Tu non sei come le foglie.” Beth si prese la testa scossa tra le mani
e strinse gli occhi quasi dolorosamente. Sembrava che il bianco nitido ed
asettico di quella camera d’ospedale la stesse ferendo interiormente e spezzasse
un incantesimo importante per la sua preservazione. Gridava, ormai, in preda a
qualche delirio: “Tu non sei come una foglia che muore! Non cadrai in questa
vertigine! – io sì, posso cadere, e posso liberarmi dalla mia prigione d’avorio.
Posso ricominciare a vivere ed essere immensamente bella nel momento in cui il
mio corpo prenderà il volo verso l’ignoto – la tua migrazione – “
Beth fu interrotta. Il dottore
entrò di corsa assieme a due infermiere nella camera della ragazzina gracile e
sofferente, traslucida nella sua malattia come una sfera di alabastro. Ma lei
non li vedeva più. Li guardava sospesa sul cornicione, ma passava loro
attraverso, come se non fossero lì, o fossero solo dei miraggi lontani di
qualche parvenza astratta. Sorrise di nuovo con quel suo sorriso gentile e un
po’ frivolo, dicendo: “Non posso vivere qui. Io non sopporto più la vostra luce
artificiale.”
Si lasciò scivolare oltre
l’orlo estremo, e cadde con un tonfo sordo contro il prato verde, macchiato qua
e là dei colori delle foglie autunnali. In quell’istante, mentre pensava alla
sua elevazione, alla sua liberazione, Beth si sentiva veramente felice –aveva
trovato una vita in quella morte perfetta, silenziosa, aggraziata, esteticamente
bella, si era liberata della sua prigione e della sua esistenza simulata.
Ricominciava a respirare, si disse, in un’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno
di Novembre, trafitta dall’aria fredda dell’autunno newyorkese e dalla luce
vera del sole del mattino.
[Lux Artificiale]
___
"Uomo, la stagione della tua migrazione non è ancora
venuta" - Chateaubriand, Réné.
Fine del capitolo... io non lo vedo come drammatico,
questa mi sembra una happy ending, ma è un parere personale. Grazie a Federico
che lo ha letto e ha detto che di tutti e dodici è il migliore. E scusate se
continuo a cambiare sezione, ma sono una disordinata mentale. Questa è l'ultima
volta, lo giuro, lo giuro, lo giuro.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Parigi ***
ACHTUNG
ACHTUNG! – Da fan spassionata
dello slash questo capitolo non poteva che essere più lungo degli altri. Niente
cose scabrose, sorry. Ma credo sia abbastanza dolce. Siete avvertiti, quindi.
Saltatelo se la cosa vi infastidisce, leggete solo questo se preferite, in ogni
caso ^ ^ per favore ^ ^ lasciatemi un commentino. Grazie mille.
L’orologio
X.
[Parigi; Ventuno Novembre 2006,
16.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un ventoso
pomeriggio di Novembre che con la sua aria fredda spazzava in vortici fruscianti
dal selciato del Lungosenna le foglie colorate cadute dagli alberi.
Julien guardò l’orologio per
l’ennesima volta, segnava le quattro e cinquantotto, quando finalmente vide
Audric avvicinarsi sorridendo in mezzo al traffico e ad una moltitudine di gente
sconosciuta. Il giorno stava quasi declinando nello splendore immaginifico della
stagione pitturata di mille tinte violente e vagamente allegre – per questi
ambivalenti giochi di luce, per questo suo calore crepuscolare, per questa aria
frizzante e viva, per questo fascino di misteriosa decadenza Julien amava
l’autunno, e tra le sue spire si sentiva a proprio agio.
“Scusa!” Gridò Audric
dall’altra parte della strada, tentando di attraversare. Julien lo freddò col
suo sguardo glaciale non appena fu accanto a lui, accusandolo con gli occhi: sei
in ritardo!
“Scusa,” Ripeté più a bassa
voce Audric. “Lo so. Mi sono fermato un attimo sul Montebello – ho visto tutti
quei libri e sono impazzito. Guarda!” Gli mostrò due vecchi libri usati dalla
copertina logora e dalle pagine disfatte, ingiallite, consunte. La rilegatura
era inesistente. “Oh, quel bouquiniste aveva delle cose straordinarie,
tutte delle opere favolose, e un Contratto Sociale che secondo me valeva
un sacco – ho preso Condillac perché era un prezzo buonissimo e – aspetta – e
Le due fonti della morale e della religione – lo so che non c’entrano
niente tra loro, ma –“
“Audric!” Lo richiamò.
“Cosa c’è! Potrei trovare
anch’io un Jacques le fataliste tra quegli scatoloni. Non prendermi in
giro.”
“Audric è stupido comprare più
libri di quanti tu abbia il tempo materiale di leggere.”
Audric lo guardò vagamente
accigliato appoggiandosi al parapetto che dava sul fiume. Julien conosceva
perfettamente la sfrenata passione che lui aveva per i libri e l’impeto col
quale si cimentava nella lettura.
Julien si sentiva anni luce
diverso e quasi incompatibile a lui –austero, distaccato, calcolatore,
irreprensibile, infuocato solo dalla politica e dalle questioni sociali; mentre
Audric era il perfetto compendio tra le sue idee e la moderazione del dialogo,
sempre sorridente, gentile, dolce e disponibile. Tra loro c’era la differenza
che passa tra un giornalista ed un filosofo, o tra uno studente di giornalismo e
uno studente di filosofia. Per tutta questa sua affabilità Audric riusciva a
metterlo a suo agio. Julien si rendeva perfettamente conto di essere una persona
difficile, talvolta scostante. Era fiero di sé fino alla vanità più orgogliosa.
Lo squadrò per un secondo
mentre, distratto dai pensieri soffusi dei veri sognatori e dei convinti
idealisti, posava con noncuranza il suo sguardo su qualche dettaglio remoto
della strada. Il sole calante, ancora vivo nel cielo di una certa luce, spandeva
sui suoi capelli castani riverberi d’oro e rischiarava i suoi occhi di un
bagliore quasi infantile. Le guance erano arrossate dal vento pungente, le
labbra nascoste dall’ingombrante sciarpa verde, le sue belle mani chiuse nelle
tasche del cappotto per ripararsi dal freddo, i libri sempre amorevolmente
sottobraccio. In quel momento Julien credeva che il suo amico potesse amare quei
suoi due nuovi tesori molto più di quanto amasse lui.
Non sapeva neanche cosa dire.
Si sentiva tremendamente in imbarazzo per la pesantezza delle parole che gli
riverberavano in testa con un’eco agghiacciante. Allora si limitò a guardarlo
appoggiato di fianco a lui sul parapetto. In realtà lo stupiva molto vederselo
accanto. Non era veramente arrabbiato per il suo ritardo, Audric era svogliato e
distratto, ed era sempre in ritardo; era già abbastanza contento che
fosse arrivato. Fino al giorno prima si erano sempre trovati lì, davanti al
Petit Ponte, dopo le lezioni in università, per passare un po’ di tempo in
qualche caffè del Quai St. Michel e studiare insieme argomenti interessanti, o
semplicemente discutere. Ma dopo quello che era successo la sera precedente non
si aspettava veramente più nulla. Mentre attendeva immobile e bello come una
statua una persona che forse non sarebbe mai arrivata, si diceva che doveva
davvero essere uno stupido per sperare di rivederlo spuntare tra la folla con
quella sua foga un po’ buffa e divertente, e corrergli incontro con qualche
nuovo libro.
Però Audric era arrivato
davvero. Questa consapevolezza l’aveva colpito con una strana sensazione di
gioia inesprimibile. Non voleva rovinare un altro momento con delle parole
vuote, vane, inutili, che si sarebbero perse tra i flutti gorgoglianti della
Senna. L’ultimo minuto gli era sembrato abbastanza complicato anche nel
silenzio.
Forse Audric si accorse dello
sguardo dolce posato su di lui. Si voltò lentamente, quasi imbarazzato, ancora
più rosso sulle gote di quanto non lo fosse per il freddo. “Senti –“ Sussurrò in
un tono così basso che non era da lui. “Io – riguardo a quello che mi hai detto
ieri sera –“
Julien si colpevolizzava e
nell’arco di cinque pesantissimi secondi di pausa formulava le ipotesi più
tragiche e devastanti che potessero venirgli in mente: si aspettava un’accusa,
una predica, una derisione. Abbassò gli occhi sul marciapiede.
Audric continuò: “Io non so se
– insomma, tu sei sempre così freddo e sembri insensibile, indifferente a ogni
sentimento umano e –“
“No!” Esclamò all’improvviso.
“Non è vero.”
“Ora lo so.”
Tacquero per qualche secondo
ancora. Le campane della cattedrale battevano le cinque, ma Julien, nella sua
precisione smodata, sapeva che era ancora quello stesso lungo, interminabile,
soffocante minuto dilatato.
Audric si avvicinò lentamente.
Julien rimase fermo. Non poteva credere a nulla. Aspettò che l’altro appoggiasse
la mano libera sul suo fianco e le labbra sulle sue. Solo quando sentì il fiato
di Audric sulla sua pelle poté finalmente decidersi che, no, quella non era una
delle sue tante illusioni, ma il suo migliore amico che, dopo tutto ciò che era
successo, lo stava baciando – e lo stava baciando in riva alla Senna, in mezzo
ad una marea di gente curiosa. Sapeva di cioccolato. – Non si è fermato solo dai
bouquinistes. – Pensò, prima di abbandonare totalmente la sua
razionalità.
Audric non si rese conto di
niente. Anche lui aveva dimenticato ogni cosa – dove si trovasse, con chi fosse,
perché era lì, come ci era arrivato, cosa avesse in mano. Alzò il braccio
sbadatamente e i suoi magnifici libri gli caddero dalla presa affettuosa.
“No, no, no!” Gridò
interrompendo il bacio per lanciarsi sui suoi tesori. Afferrò Condillac per
l’angolo della copertina. “Il mio Bergson!” Piagnucolò appoggiato al parapetto,
vedendo il libro cadere dalla banchina e scomparire inghiottito dalle acque
tumultuose del fiume.
A Julien girava la testa in un
modo che fino a pochi minuti prima avrebbe considerato patetico, e che ora gli
sembrava soltanto meraviglioso e scintillante. Anche se guardando Audric
disperato, pensava: - Davvero ama i suoi libri più di me. -, si sentiva felice
in una maniera che aveva conosciuto poche volte nella sua esistenza. Capiva che
per lui era nata una prospettiva del tutto nuova, che si era insinuata
dolcemente e candidamente nella sua vita in quell’ora qualsiasi di un giorno
qualsiasi di Novembre, mentre la Senna trascinava via del tempo futile e delle
indecisioni ormai dimenticate.
[Baiser]
___
Ok, ok, lo ammetto. Questi due
fanciulli sono spudoratamente ispirati da Enjolras e Combeferre, per chi abbia
letto Les Misérables. Scusatemi, ma sono davvero triste. Una non si legge
milleduecento pagine di libro per veder morire tutti i suoi personaggi
preferiti nel giro di sei righe. È qualcosa di frustrante. Comunque qui vorrei
aggiungere due note: i bouquinistes sono i venditori di libri usati e
stampe che hanno bancarelle soprattutto sulla la Rive Gauche, cioè il centro di
Parigi, davanti all’Île de la Cité. I libri citati sono tutti francesi. Audric è
un gran nazionalista. Quel Jacques le fataliste è un manoscritto di
Diderot ritrovato inedito proprio in una di queste bancarelle, per ciò Audric
dice che tra le scartoffie si possono anche trovare dei tesori (e comunque i
libri sono tesori a prescindere).
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Bergen ***
Nuovo capitolo
Nuovo capitolo! Questa volta parliamo ancora dei Morti...
Buona lettura.
IX.
[Bergen; Ventuno Novembre 2006, 15.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un pomeriggio
come molti altri in autunno – fosco, ventoso, precario sul cielo di Norvegia.
Marja guardò distrattamente il
suo orologio mentre percorreva il Sundts Gate – erano le quattro, le tre e
cinquantotto, ed il sole sbiadito e labile dell’inverno del suo Nord le
splendeva sulla faccia facendo scintillare i suoi capelli biondissimi di strani
riflessi cangianti. Il vento si rinforzava. In quel momento svoltava l’incrocio
alla sua destra e scendeva dalla bicicletta che parcheggiava davanti alla
Nykirke.
Si fermò per un istante,
respirando a pieni polmoni l’aria che il gelo purifica e rende più lucida, più
intensa. Guardò la muratura della chiesa solenne pensando che tutto un breve
viaggio affrontato per arrivarvi le era parso una trasmigrazione infinita, un
pellegrinaggio senza meta, senza traguardo. In un certo senso avrebbe voluto
mantenere tra sé e quell’edificio la più grande distanza possibile, ma una parte
del suo cuore ne era attratta con una veemenza, con un desiderio, con un bisogno
che non riusciva mai a frenare. Così, perdendosi nelle sue idee e nei suoi
bisogni, si era ritrovata un’altra volta per le strade della città, segretamente
cosciente della direzione che stava prendendo: un itinerario che molte volte
percorreva senza spiegarsi, ma che ricordava in maniera perfetta. Negava il
bisogno fisico di quella chiesa anche a se stessa. Si diceva: - Vederla mi fa
male. – Eppure ci tornava sempre, perché trovava rannicchiata dentro di essa una
consolazione più grande di tutte quelle che il mondo avrebbe mai potuto
offrirle.
Entrò nel recinto del cimitero
guardando le nuvole scorrere veloci nel cielo, sospinte da una forza
irresistibile, e quasi senza accorgersene si trovò davanti alla tomba di Magnus.
Lei lo aveva sempre chiamato Magnus perché non era il suo vero padre, ma gli
aveva voluto bene proprio come se l’avesse generata. Specialmente negli ultimi
anni della sua malattia. Aveva cominciato a chiamarlo affettuosamente papà solo
nel momento in cui l’avevano seppellito sotto strati di terra fredda e morta,
nel prato prospiciente alla chiesa. In quel momento, Marja ricordava, le era
sembrato di morire. Una strana sensazione di soffocamento si era impadronita di
lei, un’angoscia miserevole si era abbattuta sul suo cuore, superiore a quella
provata nel momento del decesso, quando aveva deciso di rimanergli comunque
accanto, e di tenergli la mano per confortarlo fino alla fine.
Visitare la tomba di Magnus,
non se lo diceva per vergogna, le piaceva. Le regalava un senso di gioia ed
intimità che donano solo certe parole sussurrate in legami indissolubili. Ma
ammettere di provare felicità nel parlare con una tomba la spaventava un po’,
come se fosse una cosa morbosa, un’idea macabra. Spesso gli portava dei fiori,
li posava sull’erbetta soffice e verde sotto cui riposava, e rimaneva incantata
a guardare la pietra del suo epitaffio come se stesse scorgendo il suo viso
scavato dalla malattia. Dolcemente sorrideva al suo nome inciso e ne accarezzava
i tratti con la gentilezza che avrebbe adoperato per scostargli una fastidiosa
ciocca di capelli dagli occhi.
Era una loro comunione
particolare ed intima. Marja sapeva che il suo papà non la vedeva, che non
avrebbe mai potuto sentire i suoi passi sopra la testa morta, ovattati da metri
di terra desolata. Sapeva che non udiva le sue parole e che non avrebbe mai
potuto risponderle quando gli chiedeva consiglio per le piccole cose di tutti i
giorni. Magnus, lei se ne rendeva conto, era morto. Ma aveva conservato
qualcosa di sé così lucente e così impressivo da lasciarla tutte le volte senza
fiato – come se Marja potesse ancora intuire la sua immagine sotto il velo del
sarcofago.
Si chiedeva spesso se quella
strana corrispondenza fosse una vera sfaccettatura dell’amore più alto.
In realtà Magnus le mancava
incredibilmente. Si calmava soltanto quando vedeva il sorriso familiare
cesellato nelle lettere del suo nome. Ma non poteva farci nulla. Aveva imparato
che le cose vanno e vengono, e la felicità è solo una sfera di cristallo
scintillante e fragilissima. Le lapidi, invece, resistono per secoli. Nel
cimitero fuori della Nykirke ce n’erano di molto vecchie. Alcune epigrafi della
Mariakirke erano addirittura antiche.
- Le tue ossa scompariranno
prima del ricordo sbiadito tracciato su questa pietra, - Si disse allora Marja,
chinandosi sopra i resti di Magnus con infinito affetto e devozione. – E fino ad
allora io sarò qui a parlare con te, a rivivere in questo incantesimo un po’
della pace che c’eravamo faticosamente ritagliati. -
Magnus non sarebbe più tornato
caldo. Prima o poi anche una lapide si sciupa e si consuma. Ma per Marja quel
tempo era ancora molto, molto lontano dalla visione del suo cuore, così vicina
alla rimembranza, così prossima al dolore.
Nonostante il pensiero della
sua mancanza prematura riusciva a sentirsi, in quel momento, cautamente felice.
Non era pazza a parlare con una lapide. Era solo disperata. Si inginocchiò sul
praticello umido e rimase a chiacchierare con della cenere in quell’ora
qualsiasi di un qualsiasi giorno di Novembre, finché molte nubi non furono
transitate sopra la sua testa e non furono mutate in qualche altro paesaggio
meraviglioso.
[Through the Grave]
___
Un bacio a
Crystal che ha commentato, e, sì, pure a me piace molto il capitolo due,
anche se è deprimente. Grazie a tutti quelli che leggono. Il prossimo capitolo è
il mio preferito *___* Andate a leggere la mia nuova fan-fic shonen-ai!
Scherzo... Al prossimo capitolo, ne mancano solo tre!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Copenhagen ***
Penultimo capitolo
Penultimo capitolo. La mia testa sta per esplodere
sapete...
XI.
[Copenaghen; Ventuno Novembre 2006, 17.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un pomeriggio
di fine Novembre che l’autunno dipingeva di un’oscurità prematura, avvolgendolo
del rosso, del rosa, del giallo e dell’ocra di una tramonto infuocato sul Mare
del Nord.
Sedendosi sulla panchina e
lasciandosi andare alla vista aperta sul canale di Nyhavn, Eike guardò
distrattamente l’orologio. Erano le cinque e cinquantotto minuti appena, e
quelli erano gli ultimi secondi di luce di una giornata come tante altre.
Decise di rimanere su quella
panchina, davanti a quel panorama, anche se non si sentiva più stanca, e di
attendere nel suo posto ventoso e freddo un crepuscolo che sarebbe presto
arrivato. Non lo voleva davvero. Desiderava il giorno perpetuo. Per
quanto si sentisse romantica e per quanto, in certi versi, amasse il tramonto e
la notte più di altri momenti della giornata, non poteva non constatare che
Nyhavn raggiungesse la sua bellezza più grande nello splendore fulgido del sole,
specialmente durante quei giorni rannuvolati, quando la luce filtrava lievemente
scurita da una patina di grigiore evanescente – non del blu straordinario che si
può ammirare nei cieli del sud, sopra i mari caldi, ma del blu cangiante,
sfumato di malinconia che dipingeva i cieli sopra gli Oceani. - Questo colore
mesto, opaco, - Pensava lei. – E’ più vivo sulla mia terra che un cielo turchino
sul Mediterraneo. È come se lì fosse tutto secco, tutto prosciugato da un nitore
abbacinante, mentre il nostro cielo Scandinavo, sfumato dalla pioggia, pulisce
ogni cosa che tocca e regala al suo mondo uno splendore ed una riverberanza
sconosciuti alle coste calde. –
In un certo senso era vero.
Della sua Copenaghen, Friederike amava soprattutto i colori vivissimi. Era come
se il cielo coperto e burrascoso e le piogge frequenti spazzassero via la
polvere e la patina di offuscamento che a volte si depositava sulle cose. Non
solo il cielo era più vivido. Le case erano più vivide, i parchi erano più
vividi, le persone erano più vivide con quei capelli biondi e quegli occhi
azzurrissimi, e una pelle tanto rosea e fresca.
Tutto ciò impressionava molto
la sua fantasia sfrenata. Quelle stesse tinte penetravano nella sua mente e vi
rimanevano, diventando ricettacolo dei momenti della memoria. Eike collegava
molte sensazioni e molti ricordi alle percezioni esterne, specialmente i colori
così forti e luminosi della sua Danimarca. Non poteva non pensare all’azzurro
sfocato senza essere colta da brividi di freddo, o al bianco totale senza
sentire dentro di sé una sorta di perdita ed una vacuità misteriosa.
Per questo Nyhavn era così
bella, splendida, scintillante nella sua testa – perché era magnificamente
colorata. Ognuna delle facciate di quelle case di legno particolari e storiche,
coi loro gialli, coi loro rossi, coi loro blu, coi loro verdi, le risvegliava
una sensazione speciale, un senso caratteristico dentro il quale lei poteva
perdersi con una facilità estrema.
Certe volte si fermava sola per
quella strada affollata. Mille persone le scivolavano accanto senza curarsi
della sua figura fragile immersa in contemplazioni profondissime. Le
transitavano vicino e se ne andavano via senza disturbarla. Li amava per questo.
Per la loro discrezione. Per la loro svogliatezza. Per il modo indifferente in
cui si allontanavano e la lasciavano sola coi colori del mondo. Perché
nonostante tutto Eike pensava fosse indispensabile, almeno una volta al giorno,
ritagliarsi un momento di assoluta solitudine, di inesprimibile autarchia, e con
questo vago distacco osservare al di fuori per riscoprirsi un po’ dentro.
Allora poteva fermarsi lì, su
quella panchina, su quella strada, e credere di essere sola in un universo
alternativo dominato da giochi di luce. Poteva guardarsi intorno e ricordarsi di
quando era bambina, o immaginare del suo futuro, o semplicemente riflettere sul
presente, nell’astrazione dolcissima dei sogni e delle aspettative ancora piene
di fiducia.
Tutto questo, effettivamente,
andava compiuto alla luce del sole. Nyhavn di notte era molto bella, era
splendida, ma perdeva la veemenza magica insita nella sua luce fantasmagorica.
Quando i lampioni si accendevano, si spegneva l’immaginazione di Eike. Allora
lei prendeva le sue cose e si alzava distrattamente per tornare nella sua
casetta tutta variopinta.
Per il momento rimaneva lì, sul
limitare del giorno, intenta a godersi ogni attimo di quel fulgore in declino.
Lasciava correre i suoi pensieri senza nessun freno e senza nessuna imposizione.
Voleva solo respirare l’aria fredda.
Eike si sentiva decisamente
bene. Quel minuto che si concedeva di tanto in tanto era come una zona
immacolata della sua vita che, nonostante tutti i dolori, tutte le frustrazioni,
tutta la felicità, preservava intatta la sua straordinaria, quieta serenità. Ed
era così anche quella volta, in quell’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di
Novembre, che con la sua solitaria luminosità rischiarava, ancora per poco, il
canale macchiato di mille colori indelebili.
[Contemplazione]
___
Non so se avete
presente Nyhaven. E' la via centrale di Copenhagen attraversata da un canale, e
tutta colorata. Mi ha sempre affascinata...
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Pavia ***
Sono una deficiente
Sono una
deficiente, perdonatemi. Pensavo di avere finito. Lo giuro,
ne ero convinta, e mi sentivo felice per avercela
fatta prima della fine della scuola e delle vacanze.
Ma -
mancava
un capitolo.
Scussaaaaaaaaaate Y____Y
XII.
[Pavia;
Ventuno Novembre 2006, 17.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel
tempo era un freddo pomeriggio di fine Novembre, imbiancato da un velo di nebbia
soffusa che sembrava addormentare ogni cosa sotto una patina di sogno. Pensavo
che quello strato bianco, perlaceo, sbiadito, potesse trasformarsi in un
incantesimo millenario e preservare ciò che copriva dalla consunzione del tempo
e del cambiamento.
Seduta sulla panchina fredda di
granito ancora bagnata dalla condensa appesa nell’aria, aspettando qualcosa,
qualcuno che non sarebbe mai arrivato, o, forse, semplicemente scappando un
po’ dalla finitezza di certe situazioni, guardai l’orologio con una svogliatezza
casuale. Il campanile della chiesetta si alzava davanti ai miei occhi e batteva
le sei di pomeriggio, ma il quadrante del mio orologio segnava ancora le cinque
e cinquantotto. Il mio orologio era giusto. Sicuramente. Era regolato non solo
da una perfetta media tra le ore esterne, ma anche dalle mie contingenze e dai
miei ritmi naturali. Ormai quell’ora, che non cambiava di nemmeno un secondo da
anni, era entrata a far parte delle mie percezioni sino a condizionare i miei
risvegli ed ogni altra azione della mia giornata; non come
quel Ich che una volta si perse
nella città, perché era sehr
früh am
Morgen.
In quel momento, in quel
precisissimo istante, io non ero schiava di nessun concetto e di nessuna idea.
Pensavo a una cosa pazzesca, banale da una parte,
enorme dall’altra, abbastanza vasta da riempire le sale del mondo. Pensavo di
stare vivendo quel minuto, quel minuto preciso, quei canonici sessanta secondi,
in una maniera che mi sembrava individuale e personale, quasi intima, immersa
nella solitudine della nebbia evanescente del mio paese, eppure, senza nemmeno
accorgermi di rompere un guscio inesistente, condividevo con miliardi
di altre persone la stessa irrefrenabile corsa verso
il futuro, lo stesso inesprimibile slancio verso la vita, la stessa transizione
fino alla morte.
Non era una concezione
pessimista, o macabra, o distorta. Era una cosa semplice e
perfettamente naturale, tanto chiara da non sconvolgermi nemmeno un po’.
C’era un’idea che legava me e, inconsapevolmente, tutta l’umanità, tutto
l’Universo – ed era il Tempo. Il minuto. Quel minuto: le cinque e cinquantotto.
Io non so se il Tempo sia solo
la percezione umana di una coscienza dilatata all’infinito, o
un’insieme di segmenti quantificabili posti uno
accanto all’altro fino all’eternità, o un’impressione di esistenza intrinseca
della nostra mente, non conosco nemmeno il modo in cui il resto del mondo
concepisce il Tempo, se esista un Tempo, dieci Tempi, mille
Tempi, tanti Tempi quante sono anime che vivono, e respirano, e avvertendo la
loro esistenza si delimitano in una sfera temporale definita. So solo che si
potrebbe bloccare un istante e trovare al suo interno la perennità, così come si
potrebbe scoprire l’universo dentro ad un atomo
infinitesimale. Allora sapevo anche che quel minuto cristallizzato nella mia
testa avrebbe potuto produrre migliaia di risvolti
inaspettati.
C’era una cosa che mi stupiva.
Io ero seduta tranquilla ed infreddolita sulla mia panchina,
semplicemente immersa in pensieri insignificanti – eppure, in quello stesso
istante, sei miliardi di persone stavano vivendo sensazioni, emozioni,
patimenti del tutto diversi dai miei. Forse semplicemente indifferenze lontane
dalla mia atarassia. Era una sorta di humanitas tutta particolare.
Credo che questo meccanismo
gigantesco sia regolato da una “Legge dei Contrasti”, una sorta di bilanciamento
per ognuno. Non so se si chiami Giustizia o semplicemente Compensazione, ma
senza contrari non c’è progresso. Mi sembrava plausibile che qualcuno
condividesse i miei pensieri nello stesso momento in cui io li formulavo un po’
annebbiati e pieni di sonno e noia, come se ogni meditazione, ogni introspezione
potesse viaggiare attorno al mondo attraverso il vento e toccare un milione di
menti separate.
Probabilmente, in un angolo del
pianeta, un’amicizia cominciava ed un’altra si spezzava; qualcuno portava il
lutto, qualcuno ricominciava a vivere nel coraggio; qualcuno moriva, qualcuno
nasceva; qualcuno si innamorava, qualcuno si
dimenticava la passione; qualcuno viveva incubi abissali e solitudini
incolmabili, qualcuno contemplava un paesaggio nell’assoluto isolamenti se
stesso; e tutto ciò accadeva proprio lì, in quell’ora qualsiasi di un giorno
qualsiasi di Novembre, col suo autunno, con la sua nebbia, con la sua empatia e
coi suoi pensieri dirompenti.
[Thinkin' Shift]
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=107071
|