Jamelie Kriegford di EvilGrin (/viewuser.php?uid=198736)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quarto Binario ***
Capitolo 2: *** Topo in Trappola ***
Capitolo 3: *** Twinkle, Twinkle Little Star ***
Capitolo 4: *** Il Sottopassaggio ***
Capitolo 5: *** Mr Puppeteer ***
Capitolo 1 *** Quarto Binario ***
Questa probabilmente sarà una di
quelle storie che vengono
ignorate perché le prime righe vengono considerate tanto noiose da
mettere
addosso un’imparagonabile angoscia. Un tempo si usava dire che la
copertina non
fa il libro..o forse era un detto riguardante monaci e tuniche, questo
non ha
importanza, non per me per lo meno. So solo che sono sulla carrozza di
un
treno, almeno credo, con un’agenda in mano, una rosa vicino, che
osservo con la
coda dell’occhio di tanto in tanto e mi rammarico nel vedere come
questa sia
capace d’appassire così velocemente. Dannazione, se solo riuscissi a
tirare giù
il finestrino sarebbe tutta un’altra storia, magari un pizzico d’aria
fresca.
La penna scorre sulle righe appena
accennate di quell’agenda
vecchia di anni, sono molte le pagine rovinate, scritte, strappate, in
una
posso anche leggere i compiti di tedesco da fare per un presunto 12
dicembre.
Pagina 244, Übersetze,
es. 15-16-17 (a, b). Sbuffo nel vederli, Dio solo sa quanto potevo
odiarli, non
sapevo farli, era questa la motivazione, e come la volpe da dell’acerba
all’uva
quando non riesce a coglierla io ero capace di dare dell’incompetente
alla
professoressa.
L’inchiostro della penna scorre su
quel foglio macchiandolo
di un nero limpido e lucido, penna a gel, sicuramente non potrò
scrivere
dietro, maledirò per sempre quell’infermiera, proprio una penna a gel
doveva
avere nel taschino del camice?
Sollevo lo sguardo verso il
finestrino, posso vedere il
panorama scorrere veloce dietro quel vetro trasparente, sino ad un
certo punto,
dopotutto gocce d’acqua, granuli di polvere, macchie di pennarelli e
tracce di
fumo oscurano la vista su quello che c’è fuori, ma è sommariamente
visibile. E’
notte, stiamo passando adesso sopra un ponte, la valle sotto di noi non
sembra
nemmeno così tanto lontana, provo anche a scorgerla per quanto mi è
possibile,
ma non vi riesco eccessivamente bene. Vedo solo una macchia scura ed
indecifrabile, nemmeno la luce chiara di quei tre quarti di luna mi
aiuta,
sembra la selva oscura nella quale si disperse a suo tempo Dante,
limitante,
non ci piove.
Qualche nuvola si fa avanti
coraggiosa in quel cielo scuro
e, paradossalmente, lo rischiara: quelle nubi colte dai raggi lunari
divengono
simpatiche e soffici nuvole di zucchero filato al sapore di..puffo!
Esiste un
gelato con quel sapore ed ho paura di sentirmi cannibale nel provarlo,
francamente. Per essere al sapore di puffo cosa potrebbero metterci
dentro?
Un sorriso affilato e vagamente
malizioso mi screzia le
labbra, sì, l’ho pensata brutta e per un momento sembra anche che il
tipo
grassoccio e che trasuda in maniera orripilante liquidi da tutti i
pori, mi
abbia letto nel pensiero, sembrava fosse così da come il suo sguardo
indagatore
scrutava le mie forme, quelle non troppo marcate del seno, ma appena ho
spostato lo sguardo sul suo volto s’è voltato dalla parte opposta,
imbarazzato
anche, a quanto pare. E non mi basta mai mettere in imbarazzo le
persone,
perché porto le mani dietro la nuca, raccogliendo con le dita i lunghi
e morbidi
capelli castani, tirandoli su e legandoli in una coda alta,
perfettamente
liscia, con tanto di frangetta che sfiora le ciglia feline, il volto
pulito dal
trucco. Faccio scivolare la mano di lato, disegnando la curva che
prendono i
crini scuri, fingendo che il braccialetto che porto al polso si sia
impigliato
sulla camicetta ed in uno strattone di troppo lascio che i primi due
bottoni
escano in modo brusco dalle asole, fingendo anche di non essermene
accorta. Ma
lui lo sa, che lo sto facendo perché mi diverto, e mi diverto da morire
nel
vedere come soffre nel suo angolino, conscio di non poter far nulla.
Lascio scivolare lo sguardo di nuovo
fuori dal finestrino,
controllo le fermate, richiudo l’agenda, rendendomi conto che oramai
manca
poco, sono quasi arrivata, la prossima dovrebbe essere la mia, massimo
cinque
minuti. Mi permetto quindi di tornare con lo sguardo sul volto
dell’uomo, che
pare più teso così come anche attento ad ogni mio singolo spostamento.
Mi
permetto di scivolare un poco in avanti, accavallando le gambe sottili
ed
ambrate in un gesto evidente, con il piede calzato dalla ballerina
rossa che
sfiora “inavvertitamente” la gamba di lui, che siritira nel suo modo
impacciato
di fare. Quel gesto affatto discreto deve aver suscitato qualche
reazione in
lui, visto che lo vedo deglutire a vuoto e fissarmi sempre di più.
Mi fa…ribrezzo, solo ribrezzo al
momento, ma mi diverto lo
stesso. La leggera gonna bianca che è scivolata un poco in su,
mostrando meglio
la coscia, la mano con l’agenda s’infila nella borsa firmata che tengo
vicino a
me, assieme anche alla rosa. Alla fine si decide, sorride, si china un
poco in
avanti e mi chiede come mi chiamo. Lo scruto, dall’alto in basso, con
fare da
superiore, sì, mi sento profondamente migliore di lui, tanto da
permettermi una
smorfia che io stessa avrei odiato. Quel tirato sorriso di circostanza.
-Jamelie- il tono che è un
cinguettio. Ogni tanto lo faccio,
ogni tanto mi comporto da perfetta oca giuliva solo per il gusto di
farlo,
magari lo sono anche, ma in certi casi do il meglio di me. Allo stesso
modo,
nel rivolgermi all’altro, mi sono limitata ad una risposta senza
interesse nei
suoi confronti. Così fa chi vuol apparire stronzo, no? Bene, inizio ad
imparare
allora, è quello il mio obiettivo e, anche se non vi piace l’idea,
unicamente
per il mio personale divertimento.
-Davvero un bel nome, sei straniera?
Mi domanda, avevo appositamente
spostato lo sguardo verso il
finestrino, di nuovo, lo osservo con la coda dell’occhio, sorrido
appena a quel
modo classico di una tipa come me. Scuoto il capo, non mi degno nemmeno
di
aprire bocca in merito, nemmeno non meritasse davvero un solo fiato
sprecato.
-Dove scendi?
Fa giusto in tempo a chiedere, che il
treno prende a
rallentare, le rotaie sibilano e cigolano nel fermarsi in un fischio
ferroso
che fa quasi male alle orecchie da sentire. Sono le 23 e 17, sì, è la
mia
questa. Mi alzo, non rispondo al tizio, non so nemmeno come si chiama,
semplicemente recupero la borsa, riallaccio sfacciatamente la camicetta
a scacchetti
bianchi e rossi ed altrettanto semplicemente mi avvio verso la porta.
Sento il
telefono vibrare in tasca e lo recupero mentre scendo quei due scalini
per
poter scendere definitivamente dal treno. Guardando lo schermo del
telefono per
leggere il messaggio di Roberto non ho nemmeno fatto particolarmente
caso alla
stazione completamente vuota. Solo quando sento il treno ripartire e
posso
premere su “Invia” alzo lo sguardo scuro e mi guardo intorno spaesata.
Perché
spaesata? Perché ho sbagliato fermata, e questa pare abbastanza deserta
da
parti pensare che non ci siano persone di lì a qualche chilometro di
distanza.
Vuota, completamente vuota, mi trovo
sul quarto binario, il
che significa che per prima cosa devo cercare il sottopassaggio per
poter
andare a controllare gli orari di eventuali treni successivi, visto che
su
quello non ci sono i tabelloni, ma almeno all’interno della stazione
dovrebbero
starci.
Mi avvio, il rumore ovattato della
base delle ballerine pare
rimbombare in quel silenzio di tomba che è quel luogo, e pensare che
non è
nemmeno eccessivamente tardi, solo le undici, poco più. Porto la rosa
sotto il
naso per poterne sentire di nuovo l’odore ed un sorriso tenue mi
compare sulle
labbra. Davvero un buon profumo, davvero belli i ricordi ad essa
collegati. Sul
volto si potrebbe anche notare quel velo d’angoscia per qualcosa di non
meglio
specificato, se solo ci fosse qualcuno per poterlo vedere.
E invece non c’è nessuno, in compenso
però sono riuscita a
trovare la scala che porta al sottopassaggio per poter arrivare alla
stazione
in sé, l’unica cosa che non mi piace del posto è che le luci sono
spente,
eppure quelle sul binario funzionavano. Recupero il telefono dalla
tasca,
accendendo la luce che si trova sul retro del telefono, in modo da non
capitombolare di sotto, nell’inciampare da qualche parte e
semplicemente prendo
a scendere, per forza di cose.
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Capitolo 2 *** Topo in Trappola ***
Le labbra si tendono in un sorriso
tirato, teso, mentre
sento quell’atmosfera pesarmi addosso come non mai, è una cosa stupida
forse,
ma è incredibile come e quanto l’essere umano sia capace di mettersi
soggezione
da solo, come le idee che si materializzano nella sua testa siano
capaci di
mutarne il completo atteggiamento. L’uomo è un animale strano, non è
capace di
essere davvero freddo e razionale, arriverà comunque il giorno in cui,
preso
dal panico dei suoi stessi incubi, crederà a qualsiasi cosa gli venga
detta.
Soggezione. Timore. Ipotesi. Convinzione. Paura. Folle paura. Funziona
così, ed
in un secondo quello che era l’animo imperturbabile di un uomo fermo e
razionale, diventa improvvisamente la preda di un predatore invisibile
e temuto
da tutti: l’ansia, il panico. È l’unica cosa che riesce a piegare gli
animi di
tutti, la paura non si nega, la paura la senti quando scivola sulla
pelle
sottoforma di sudore freddo; sei consapevole sin nel profondo di avere
paura
quando il lembo della gonna leggera e bianca ti sfiora la gamba e la
mano corre
su quel punto per sentire cosa ti ha toccato. Non lo guardi nemmeno
quel punto,
per il freddo terrore che ci sia qualcosa di orribile. Ti dai della
stupida
quando poi ti rendi conto che non è nulla, ti dici che è solo la trama
del
vestito e la stanchezza che ti gioca brutti scherzi. No, è la paura.
È quella paura che sento io adesso
mentre tiro via la mano
dalla pelle morbida e levigata della gamba. Dovrei andare a dormire
prima, la
stanchezza inizia a giocarmi brutti scherzi. Ironia della sorte…
Scendo, quello
non è il posto migliore del mondo, giurerei che mettendo un piede più
giù
potrei infilarlo in una melma fangosa quanto ripugnante. Questo per via
del
forte odore di fogna che sale da quelle scale, tanto ripugnante che mi
costringe a portare una mano di fronte alla bocca ed indice e pollice a
limitare l’aria che entra dalle narici.
-Che cazzo di schifo!- lo sbraito, lo
faccio per sfogo probabilmente,
perché non reggo quasi più. Quella merendina che avevo mangiato sul
treno..la
sento risalirmi lo stomaco con un’assurda prepotenza, arrivare alla
gola e devo
serrare le labbra per evitare che finisca con l’uscire da quelle. È
forte,
fortissimo, come se avessi appena piazzato la faccia nell’acqua di una
conduttura fognaria nel preciso istante in cui tutti quanti nella città
decidono di scaricare.
Tengo la rosa in bilico, la borsa
nella piegatura del
gomito, la mano che serra le narici e l’altra mano che tiene alto il
telefono e
la tenue luce che fa sui primi scalini e non di più. Non arriva troppo
in là,
riesco solo a vedere dove devo mettere i piedi. Finisco con il portarmi
di lato
per riuscire a tenermi sullo scorrimano visto appena ha iniziato a
scendere in
quel posto ripugnante. Sfilo la mano dal naso e mi impongo di non
inspirare con
quello, onde evitare di vomitare davvero. Poggio la mano alla ricerca
di uno
scorrimano che non riesco a trovare e, per riflesso, poso il palmo sul
muro, ma
mi ritrovo a doverla ritirare immediatamente schifata. Qualcosa di
orrendo e
viscido c’era su quel muro. Punto la luce su quel preciso loco, lo
fisso e
sgrano gli occhi, finendo con il piegarmi di colpo in avanti con il
busto e
finire con il sentir rimbombare nella vuota e buia galleria il suono
dei gorgoglii
dei miei stessi succhi gastrici che si ribellano a quella vista,
finendo sì,
con l’arrivare a terra in un qualcosa di ulteriormente raccapricciante.
Una
macchia orripilante e giallognola che si spande lentamente, scendendo
lungo lo
scalino successivo e scomparendo poi nell’oscurità. La cosa positiva, o
forse
no, è che l’odore del vomito non si sente nemmeno, sopraffatto da
quello di
fogna che c’è lì dentro.
Cos’ho visto che mi ha fatto reagire
a tal modo? Il muro,
evito di guardarlo ora come ora, ma su Quel muro c’è una patina
viscida, di un
colore verde scuro, come il muschio, ma macchiata di marrone e lucida.
Si
muove, ne sono certissima, l’ho vista muoversi come fosse composta da
mille e
più vermi che si intrecciano tra di loro, alla disperata ricerca di
terra e
cibo. Li potevo vedere, viscidi, che cercavano di aggrapparsi alla mia
mano
come se qualcuno avesse appena udito la richiesta d’aiuto mandando loro
del
cibo fresco. Ed il resto è venuto da sé, sono una tipa dallo stomaco
tremendamente delicato e di questo mi rammarico, ma soprattutto odio
gli
insetti e qualsiasi altra cosa piccola e viscida che si muove oltre il
consentito. E’ la mia piccola fobia, così come ne hanno tutti.
Rimango immobile, passando malamente
il dorso della mano
sulle labbra appena lucide adesso, e subito dopo m’appresto a cercare
un
fazzolettino nella borsa. Frugo giusto un po’ e tra l’accendino, la
penna e l’agenda
riesco a trovare il piccolo e morbido pacchetto blu, sfilo, prendendolo
con i
denti, uno dei fazzoletti, ripulendo di seguito labbra e dorso della
mano. Lo
lascio cadere a terra, dopotutto, peggio di così non può essere ridotto
quel
posto. Mi rendo conto solo dopo che nello scatto di paura mi sono
allontanata
di almeno un metro da vicino al muro. Una curiosità e la voglia di non
perdere
di vista quegli animali viscidi, attorcigliati attorno ad una loro
probabile
piccola preda, solo quello mi fa girare di nuovo, ma mi ritrovo ad
essere
alquanto stupita, quando la luce del telefono non rivela altro che un
muro un
poco vecchio ed ammuffito, con qualche punto particolarmente rovinato e
degradato, ma niente di eccessivo. Qualsiasi cosa ci fosse, adesso non
c’è più,
zero, come se avessi sognato. Sbatto qualche volte le palpebre e vorrei
anche
poter prendere una profonda boccata d’aria, ma penso rischierei di
ripetere la
brutta esperienza di prima, e sento ancora il sapore forte ed acido in
bocca, quindi
evito, e con maniacale cura anche. Porto la mano libera al petto e
sento il
cuore sotto di esso battere all’impazzata. Mi impongo di star
tranquilla e di
lì ai cinque minuti successivi sono rimasta ferma ed immobile, ad
attendere che
tutto si stabilizzasse. Così facendo ho anche iniziato ad abituarmi
alla puzza
che regna sovrana qui sotto.
Per un momento pondero di scendere
sempre per quella via, ma
poi poso lo sguardo verso quel buio che pare inglobare tutto quello che
incontra e la voglia di tornare di corsa indietro mi pervade del tutto,
tanto
che giro veloce i tacchi e risalgo di corsa quei pochi scalini che
avevo sceso.
Sembravano pochi all’inizio, vero, anche perché di solito non si va
oltre la
ventina di scalini per scendere nei sottopassaggi, ma questi sembrano
molti di
più di quelli che ho percorso all’aldata. Probabilmente è una mera
impressione dettata
dalla paura del momento, si sa che la strada da percorrere quando si è
spaventati diventa per magia sempre troppo lunga, mi sta facendo
solamente la
stessa impressione. Tutto qui. Tutto qui…
Con la foga di risalire da là sotto
la rosa mi è caduta a
terra, non ci penso nemmeno a raccoglierla e fermarmi, voglio solo
uscire di
lì. Dopo qualche altro scalino riesco finalmente ad uscire e finalmente
lì
riesco a prendere quell’aria che tanto agognavo. Lunghi e profondi
respiri di
paura, quella soggezione che mi sono messa addosso da sola e che mi fa
ancora
battere forte il cuore. Ma adesso no, adesso inizia ad andare meglio.
Una luce
sopra di me lampeggia per un attimo, un attimo soltanto in cui guardo
per terra
e vedo un’ombra di troppo, ma la vedo
solo nel frangente in cui quella determinata luce si
riaccende la
seconda volta, alla terza non c’è più, esattamente come all’inizio,
solo la
distesa chiara del cemento e la linea gialla, dietro la quale bisogna
mantenersi quando stanno per arrivare i treni, un poco rovinata dagli
anni
passati. Socchiudo gli occhi, mi faccio forza e prendo a parlare ad
alta voce,
fosse anche solo per poter evitare di sentire quel silenzio, così forte
che
arriva a darmi fastidio.
-Ok, passo per i binari, a quest’ora
oramai non passano più
treni dopotutto. Di là riuscirò..a trovare almeno il numero
dell’assistenza- lo
ripeto ad alta voce più volte, mentre mi avvicino al bordo di quella
banchina,
portandomici seduta e scivolando quindi giù. Mai stata una tipa
atletica, anzi,
a ginnastica facevo schifo, per essere papali, quindi stare attenti a
non
pestare un sasso di troppo è essenziale. Riesco e quindi avanzo
velocemente
sino alla parte opposta, così posso risalire e trovarmi sul terzo e
secondo
binario. Pochi passi e sono lì. Poso prima la borsa ed il telefono, poi
punto
le mani su quel cemento chiaro e mi isso, premendo anche con le
ginocchia e
graffiando a malapena la pelle.
-E uno è fatto- lo dico quasi con
fatica, nemmeno avessi
fatto chissà quale sforzo. Mi rialzo, riprendendo in mano sia borsa che
telefono. Tiro persino un sospiro di solievo, solo che mi rimane in
gola quando
alzo lo sguardo per avviarmi verso la stazione. Perché lì non manca un
solo
binario, ne mancano due. Non c’è la stazione di fronte a me, ci sono i
binari
tre e due, e sotto i miei piedi il numero quattro scritto in un bianco
sporco e
macchiato. Mi volto di scatto, alle mie spalle la scala dalla quale
sono uscita
poco prima, quella che porta ai sottopassaggi, più in là il verde della
selva.
Presa dal panico corro verso il termine di quella stupidissima
banchina, scendo
di nuovo, più veloce e senza cura stavolta. Corro dall’altra parte e mi
isso di
nuovo, e di nuovo e di nuovo ancora, e per ogni volta che isso su quel
pezzo di
cemento trovo sempre scritto quel numero maledetto.
Mi
sento come un topo
in trappola…
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Capitolo 3 *** Twinkle, Twinkle Little Star ***
NOTA DELL’AUTORE: http://www.youtube.com/watch?v=jRXQsQKGqIU questo è il link
della canzone che avete
come indicazione quando verrà citata nella storia, vi assicuro che
metterla
aiuta molto alla creazione dell’atmosfera. Vi auguro buona lettura e
soprattutto che il capitolo sia di vostro gradimento. See ya soon,
dudes!
Come uno stupido topo in trappola,
che cerca di non perdersi
dietro il telefono e la borsa mentre corre alla disperata ricerca della
libertà
nella sua ruota, all’interno di una gabbia ingannevole. È orribile
quando ti
fanno vedere quello che c’è al di là di quelle sbarre ma, sadici loro,
ti impediscono
di arrivarci, anche se tu dovessi metterci tutta la buona volontà di
questo
mondo. Tanto non arriverà mai l’uscita, ma continui a non arrenderti
sin quando
anche la speranza muore. Sin quando non comprendi che quella è la via
sbagliata
per avanzare in quel mondo. Sin quando non ti rendi conto che quella
ruota è
troppo piccola per darti anche solo la parvenza di libertà, puoi
arrivare solo
qualche passo più in là, ma presto girerà e ti lascerà sempre nello
stesso punto.
Non importa quanto ti sforzi, non importa quanto ti impegni o quanta
fatica
fai, non importa se ti sei sbucciato le ginocchia ed i palmi delle mani
per issarti
su quella maledetta banchina, non importa se hai il fiatone per quante
volte
sei scesa e risalita, non importa nemmeno il coraggio avuto, non
importa nulla,
nessuno ti aprirà la porta della gabbia, nessuno ti libererà la coda da
quel
pezzo di ferro che la tiene ancorata al terreno. Corri, topo…corri,
salta,
urla, piangi, topo. Chi ti ascolterà, topo? Nessuno.
Guardo a terra, sotto le suole delle
ballerine rosse c’è
sempre quel nastro bianco sporco e rovinato che dondola i suoi lembi
sfilacciati al vento. Quel quattro maledetto, che vedo sempre sotto i
miei piedi,
perché non si sposta di lì? Giuro che lo sto sperando con tutte le mie
forze,
ma non se ne va, ed oramai il panico del momento inizia a scemare, al
suo posto
si fa largo nell’animo qualcosa di più compassionevole, di più
patetico, è
quella paura di morire lì, inascoltati ad ogni richiesta d’aiuto. La
disperazione nella consapevolezza di poter fare poco altro che farsi
coraggio e…
Volto il capo verso la scala che
scende per i sottopassaggi,
non la guardo per troppo, dopo poco torno con lo sguardo dritto di
fronte a me,
a quella stanzione che, per quanto io possa correre, non raggiungerò
mai. Per
un momento gli occhi scuri mi si caricano di lacrime salate, che
scendono lungo
le guance, solcandole ed attraversandole, silenziose, non un solo
singhiozzo
scaccia quel silezio dal suo trono da sovrano in quel posto. Stringo la
borsa
per un attimo, con fare quasi protettivo, nemmeno fosse un bambino, mi
rendo
conto di avere solo bisogno di qualcuno che mi impedisca di rimanere da
sola,
ma allo stesso tempo di avere la radicata e giustificata paura di
trovare
davvero qualcuno; per questo mi accontento della borsa, è l’appiglio
più sicuro
che ho al momento.
Sento le ginocchia bruciare
prepotentemente e qualche stilla
calda scivolare dal ginocchio, lungo la gamba, sino alla caviglia.
Abbasso lo
sguardo e noto quelle chiazze vermiglie, contornate dal nero dello
sporco
attaccato al cemento della banchina. Piego le ginocchia, poggiando la
borsa a
terra ed aprendola, recupero il pacchetto di fazzoletti di prima e
dell’acqua
da una bottiglietta quasi vuota. Ne bagno uno, con le mani che tremano,
così
come le lacrime non smettono di scendere sulla pelle, macchiandola di
limpido
spavento. Poggio il fazzoletto bagnato sulla ferita aperta sul
ginocchio, il
sinistro, l’altro non sembra grave quanto quest’altro, giusto qualche
abrasione, mentre qui la pelle è venuta via, evidentemente in uno
scatto un po’
troppo brusco, le tipiche sbucciature che fanno piangere i bambini.
Mi rialzo solo dopo aver tamponato la
ferita, recuperando la
borsa e lasciando cadere il fazzoletto insanguinato e bagnato lì
dentro. Volto
di nuovo il capo in direzione di quelle scalette che scendono verso il
basso,
verso quei maledettissimi sottopassaggi, la voglia di scendere là sotto
inizia
a tornarmi, perché è più forte in me l’istinto di sopravvivenza
rispetto al fetore
o anche solo la fobia di quei vermi. Un ultimo tentativo prima di
buttarsi su
quell’ultima spiaggia, un ultima speranza. Infilo la mano nella borsa,
ne tiro
fuori il telefono e con mia grande gioia posso almeno constatare che il
segnale
c’è, al contrario di come oramai iniziavo a sospettare, visto quanto il
posto
somigli in maniera impressionante ad uno di quei cliché in cui il
telefono non prende.
Un sospiro, per quanto a malapena accennato, di solievo. Il
polpastrello
pallido scorre sullo schermo, selezionando sulla rubrica la cara e
vecchia voce
“Mommy”; porto il telefono all’orecchio e per la prima volta prego Dio
che
qualcuno risponda. Squilla…squilla…continua a squillare per secondi che
paiono
infiniti sin quando qualcuno finalmente risponde.
-Mamma?! – la voce trema come trema
anche tutto il resto. Probabilmente
si avverte la paura
che ho addosso, che
sento sgorgare direttamente da dentro, investendomi del tutto.
-Dimmi, Jay – non ho mai amato così
tanto la voce di mia
madre, al momento mi sembra un porto sicuro al quale aggrapparmi – non
dirmi
che devo venirti a prendere alla stazione, te l’avevo detto di chiamare
tuo
padre, io non posso adess…
-No! Aspetta! – la interrompo, prima
che possa andare oltre,
anche perché la prospettiva che non possa venirmi a prendere mi ha
fatto
scendere un brivido lungo la schiena simile a quello provato
all’inizio, quando
sono scesa alla fermata sbagliata – ho sbagliato fermata, e no, non ho
chiamato
papà, ma per favore..non riesco ad arrivare alla stazione ho bisogno
d’aiu… -
sgrano gli occhi e l’espressione si carica di nuovo di terrore.
“Twinkle, twinkle little star, how I
wonder what you are”
-Mamma!? – lo urlo praticamente,
mentre quella voce di
bambina viene accompagnata da una musica bassa, inquietantemente lenta
e
straziante, sì, mi stava distruggendo dentro, perché più la sentivo e
più
chiamavo “mamma” come una bambina spaesata che non sa più dove andare o
cosa
fare. Mamma, mamma, mamma, mamma…rimbombava la mia voce in mezzo a quel
silenzio,
tanto che alla fine la stessa mi si strozzò in gola in un colpo di
tosse, come
se quel medesimo silenzio mi imponesse di tacere e lasciar spandere il
suo dolce
suono.
“Up above the world so high, like a
Diamond in the sky. When
the blazing sun is gone, when there nothing shins upon, then you show
your little
light, Twinkle, Twinkle all the night. Then the travler in the dark,
thanks you
for your little spark. He could not see which way to go, if you did not
twinkle
so. Though I know not what you are, Twinkle, Twinkle little star.”
È famosa, la conoscono tutti, ma
adesso non la conoscono
come la conosco io, sentirmi come un navigatore senza la sua stella a
guidarlo,
perso nel bel mezzo dei sette mari senza sapere dove andare, dove
attaccarsi.
Quella musica dall’altra parte del telefono sembrava totalmente
surreale. Ho
lasciato cadere il telefono e sono indietreggiata sino a sbattere con
la
schiena contro la colonna nel mezzo della banchina. Ho fissato
l’oggetto per
tutta la durata della melodia, con il terrore negli occhi. Con le
lacrime che
sembrava volessero ferire la pelle, scavare ed arrivare alla carne. Con
il
riflesso del falso bisogno di dover deglutire, per mandare giù un rospo
orrendo.
Con le dita che premevano quasi dolorosamente contro il cemento di
quella
colonna. Con le gambe che tremavano, come se fossi appesa a dei fili di
un
palloncino pronti a cedere da un momento all’altro. Con il respiro che,
irregolare, si faceva largo tra le labbra morbide.
Adesso sono seduta a terra, la gonna
in parte sollevata da
quello scivolare contro la colonna che mi ha portato in quella posa; la
schiena
poggiata contro il cemento, le gambe piegate e lo sguardo nero che
continua a
fissare lo schermo acceso del telefono, ove rischiara l’atmosfera la
foto mia e
di Thomas, il mio ragazzo, con i visi vicini e sorridenti, mi ricordo
che
facemmo quella foto qualche mese fa, al parco, sdraiati per terra, con
i
capelli sparsi a raggera sull’erba e la sola voglia di star tranquilli.
Lo fisso,
osservo la luce che a mano a mano si affievolisce ed il telefono fa per
bloccarsi, solo che qualcosa rischiara quello schermo e quella foto.
Sento la
vibrazione del telefono ed osservo come qualcuno stia chiamando. Scatto
sulle
ginocchia in avanti, recuperando frettolosamente il piccolo
apparecchio. Mi
mordo nervosamente un labbro nel leggere il nome “Mommy”, faccio
scorrere il
polpastrello dell’indice sul display e porto il telefono all’orecchio.
-Mamma? – un chiamare timoroso e
spezzato da quel pianto
silenzioso stavolta. Dall’altra parte del telefono niente più di un
semplice
respiro ed uno sbuffo appena accennato che mi fa immaginare solo una
smorfia
soddisfatta sul volto di qualcuno, non saprei dire chi, se mia madre o
chissà
chi altri. Sta di fatto che la richiamo – mamma… - sempre più mormorato
il
tono, sempre più basso ed appena udibile. E dopo quello solo il suono
triste di
una chiamata interrotta. Tiro via il telefono dall’orecchio e fisso lo
schermo,
niente di più di quella foto dai colori brillanti. Lo blocco e lo
reinfilo
nella borsa.
Mi decido a rialzarmi alla fine di
quella chiamata nonsense,
mi rialzo e prendo una profondissima boccata d’aria, posando per
l’ennesima
volta lo sguardo su quelle scale, loro, sono la mia unica via di fuga
da questa
ruota troppo stretta. Mi avvicino alla fine, con quel terrore di quella
voce
fanciullesca e quella melodia, quella stupida canzoncina dell’asilo
riadattata
a quel modo..mi rende più inquieta di quanto già io non sia. E quando
il
baratro è l’unico modo per sfuggire alla morte lenta, anche una
pallottola in
testa va bene, per questo lasciavano sempre una pistola a qualcuno
quando
veniva rinchiuso da qualche parte o lasciato su isole deserte o chissà
cos’altro.
Scendere queste scale è la mia personale pallottola, e per una volta
spero che
l’arma sia caricata a salve. Lo spero mentre il tanfo di fogna torna ad
investirmi e le narici prudono e pungono a quel fetido odore. Eppure
scendo,
rendendomi conto che senza telefono non vado da nessuna parte e
sperando che la
batteria tenga abbastanza a lungo da farmi passare tutto il
sottopassaggio.
Torno ad infilare la mano nella
borsa, ferma sul quinto
scalino, riprendo il telefono in mano e non per la prima volta punto la
luce
chiara e fioca su quel buio immenso. Non per la prima volta mi muovo
incerta su
quegli scalini, con la paura di girarmi e trovare qualcosa di alquanto
sgradevole, ma l’obbligo mi impone d’andare avanti o morire.
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Capitolo 4 *** Il Sottopassaggio ***
NOTE DELL’AUTORE: questo è un
capitolo di passaggio, come si
suol dire “una cerniera”, quindi non c’è da preoccuparsi se il sentore
d’ansia cala
un poco o non ci sono evoluzioni chissà quanto significative, anche
perché,
come avrete potuto immaginare, la storia procede esattamente come in un
libro e
non può esaurirsi in pochi capitoli, così come ha bisogno dei suoi
tempi per
svilupparsi. Allo stesso tempo io evito di fare capitoli eccessivamente
lunghi,
quindi è possibile che alcuni non siano esattamente “d’impatto”. Spero
vi
piaccia uguale, se qualcosa non va, fatemelo pure sapere, accetto ogni
singolo
tipo di critica, servono a migliorare dopotutto. Buona lettura!
Il tanfo di fogna torna ad investirmi
totalmente, maledetta
me e quando sono uscita, l’unica cosa positiva di quando sono entrata
la prima
volta è che, bene o male, è che alla fine mi ero abituata a quella
puzza a dir
poco asfisiante. Mi penetra nelle narici e le attanaglia, tanto che
porto la
mano a chiuderle ed il palmo di essa a tenere coperte le labbra, in
modo da
filtrare il più possibile l’aria. Mi fermo di nuovo, infilo la mano
libera
nella borsa e tiro fuori l’ormai celebre pacchetto di fazzoletti, che
per altro
stanno per finire. Ne afferro uno con gli incisivi e quindi tiro, in
modo da tirarlo
fuori, per poi tornare ad infilare il pacchetto floscio e mezzo vuoto
nella
borsa, non la chiudo, oramai ho imparato che mi servono di continuo le
poche
cose che sono lì dentro, e la cosa mi fa anche sentire come una piccola
e
sfortunata Mary Poppins, solo che non volo con gli ombrelli, ed inizio
a
pensare che se anche fosse volerei sempre sopra lo stesso, limitato
pezzo di
cielo.
Quando mi accingo a ripartire,
tornare a scendere per quegli
scalini putridi, lo sguardo nero mi cade sulla rosa che mi era caduta
prima in
quel punto, mentre risalivo di corsa. Assottiglio lo sguardo, non
riesco a
vederla bene, è un paio di scalini più giù, quindi mi avvicino e mi
piego anche
sulle ginocchia sanguinanti, attenta a non ruzzolare di sotto per un
piede
messo male, non vi ho parlato anche del mio pessimo equilibrio, vero?
Ma perché
porterei le ballerine altrimenti? Il solo pensiero del tacchi mi fa
venire le
vertigini. Rimango vivamente perplessa quando, osservando la rosa, mi
rendo
conto che è in avanzato stato di decomposizione, i petali sono marciti
ed altro
non sono che una poltiglia scura, così come anche il gambo, pare
tremendamente
fragile. Anche la carta che la circondava non è nel migliore degli
stati,
sembra quasi che sia lì da decenni. Un misero ammasso di nera poltiglia
e
niente più. Era una bellissima rosa, ed adesso niente, solo quello
schifo. Ma
la cosa non è solo brutta a vedersi, a sapere che lì dentro si marcisce
così in
fretta la voglia di passare di lì torna a scomparire, ed anche alla
svelta.
Ma non posso stavolta, stavolta non
posso girare i tacchi e
correre indietro, sarei allo stesso dannato punto di sempre. Mi drizzo
quindi e
punto la luce di fronte a me, intravedo quello che è il pavimento, ma
comprendo
anche quanto la scala vada verso il basso, molto più del normale a
conti fatti.
Continuo a scendere, lentamente ed anche piuttosto scettica, con le
pupille che
si dilatano, che vorrebbero raccogliere tanta più luce di quella poca
che c’è,
che vorrebbero tenere d’occhio ogni singola cosa. Con il cuore in gola
e la
tensione tipica di chi da solo si addentra in un posto che mette tanta
soggezione, così volto continuamente il capo, nervosa, scrutando le
pareti,
normali..a parte il degrado che vige qua sotto e che pare aumentare di
metro in
metro. Più scendo e più la cosa si fa decisamente decadente, non mi
piace, no,
per niente. Gli stessi scalini a poco a poco si fanno sempre più
rovinati.
Tanto che, quando sto per arrivare agli ultimi, sento lo scricchiolare
sotto il
piede di quella che sembra un asse di legno e non uno scalino in marmo,
come lo
erano stati tutti gli altri sino a quel punto.
Abbasso lo sguardo e sì, c’è
quell’asse di legno, ma è
breve, copre un punto in cui lo scalino s’è sbeccato e, per evitare di
far
cadere delle persone sbadate come la sottoscritta, devono averla messa
lì,
tuttavia..tuttavia non mi fido nemmeno a mettere un piede lì, inizio a
credere
che qualsiasi cosa tocco possa crollare da un momento all’altro ed
uccidermi. È
come quando, in casa, di notte, qualsiasi rumore che non dovrebbe
esserci,
nella mente di tutti si materializza in un ladro, aspirante assassino,
pronto a
rubare tutto ed ucciderti nel sonno. Ma in quel caso la coperta ti
protegge ed
alla fine il sonno prende il sopravvento. Qui no, qui non c’è nessun
rumore, è
questa la cosa peggiore, quello che mette ansia del posto è la sua
tranquillità. Paradossale, non trovate? Perché un posto tranquillo
dovrebbe
mettere in qualche modo ansia? Perché? Perché sono così abituata alle
persone
ed al non rimanere sola che questo mi spaventa.
Mai avuta paura del buio? Non
rispondetemi di no, nemmeno io
pensavo di averne paura, ma il buio ingloba, nasconde, ti ruba ogni
respiro e
nel suo silenzio affogano anche le più coraggiose delle persone. Quando
non sai
dove stai andando a parare, se di fronte a te c’è un burrone dal quale
potresti
cadere o meno, allora inizi a tastare con ansia il terreno. Il buio è
subdolo.
Il buio è il miglior giocatore di poker esistente al mondo, i suoi
bluff ti
uccidono.
Though I know not what you are,
Twinkle, Twinkle little star…
Mi blocco sul posto, mi ero giusto
spostata un poco di lato
per poter scendere dove non c’era l’asse di legno scricchiolante, ma
quel
sussurro, sembrava un misero alito di vento, che mi ha fatto gelare il
sangue
in corpo. È stato come sentirlo scivolare lungo la spina dorsale. È
stato come
vivere in un sogno per un attimo. È stato come la morte, per un attimo
tutti i
sensi sono venuti meno in favore di quell’unico brivido e quel sussurro
alitato
in un orecchio, che adesso mi tamburella il cervello, lo avviluppa in
una
soffice e letale nuvola gelida. Tenendo il fazzoletto recuperato prima
sulle
labbra socchiudo gli occhi e prendo un profondo, quanto riluttante,
respiro e
quindi avanzo, scendendo anche gli ultimi quattro scalini.
Arrivo alla fine di quella scalinata
e con piacevole
sorpresa noto che..che non c’è nulla, non c’è quel fango che immaginavo
avrei
incontrato, non ci sono assassini, non ci sono vermi e non ci sono
ragazzine
canterine, la cosa per lo meno mi rincuora. Avanzo di qualche passo, la
puzza
di fogna non se n’è andata, in compenso le brutte sensazioni iniziano a
scemare. Volgo lo sguardo prima a destra, direziono lì anche la debole
luce del
telefono e l’unica cosa che colgo è un muro a mezzo metro da me, con
una porta
di medie dimensioni in quello che un tempo doveva essere stato ferro,
ma che
adesso è solo una patina arrugginita e consumata dall’ossigeno, se
l’aria lì
sotto si può in qualche modo dire carica di ossigeno, sembra piuttosto
carica
di puzza, questo sì.
Sposto di seguito lo sguardo a
sinistra, devo sicuramente
andare di là. La luce non rivela nulla che non sia un lungo corridoio
in
effetti. Niente di più di un corridoio del quale non si vede nemmeno la
fine.
Beh, giustamente, per essere quarto binario un po’ ci sarà da
camminare. Quello
che lascia al massimo perplessi è che non sembra esserci una scala per
risalire
al terzo binario, solo una porta arrugginita al posto di quella che
dovrebbe
essere un’uscita, ma quella non sembra avere l’aria di esserlo. La coda
dell’occhio
mi cade di lato e la cosa mi fa anche aggrottare la fronte.
Indietreggio di un
passo e poi di un altro ancora, mentre sentito il palpitare non più
ritmico del
cuore, quell’andazzo veloce molto simile agli zoccoli dei cavalli sulla
rossa
terra battuta dell’ippodromo. Gli occhi scuri non si scollano da quel
punto ove
prima c’era la scala per risalire, non si spostano, non si spostano
perché
quella scala non c’è più, che solo un muro alquanto malridotto e
nient’altro.
Ora sì, che sono in trappola. Se prima almeno avevo quella come ucita,
adesso
non c’è più nemmeno quella lì.
Chiudo forte gli occhi al punto che
mi fanno male, se questa
è tutta un’illusione riaprendo gli occhi di certo sparirà, dovrebbe
sparire…forse.
Le mie certezze in merito oramai sono pari a uno strato di carta
velina:
provano ad attaccarsi a tutto, ma possono essere brutalmente spazzate
via anche
dalla più piccola ed insignificante delle cose. Solo dopo significativi
secondi
riapro le palpebre e torno a fissare dritto avanti a me. Le scale? No,
il muro,
quello di poco prima, con quella macchia di muschio in mezzo e qualche
schizzo
marroncino qua e là, la crepa che sale dal pavimento, sulla sinistra
e…e quello
che adesso sembra quasi essere il calco di un volto, un volto deformato
a dire
il vero, ed è così poco accennato che sicuramente me lo avrà fatto
vedere la
mia immaginazione.
Faccio finta di nulla per quanto m’è
concesso, visto che mi
rimane il groppo in gola e non riesco a non sentirmi sempre più
ingabbiata,
come una volpe in mezzo ad un branco di lupi, quando i lupi se ne
stanno in
agguato e nascosti, ma ti braccano lo stesso e te lo fanno comprendere
sbarrandoti a poco a poco la strada, distruggendoti ogni singola via di
fuga.
Porto la luce del telefono verso quella parte di corridoio che non
riesco a
vedere. È l’unica via che m’è rimasta da percorrere, e, francamente,
inizio ad
essere contenta che almeno una ce ne sia.
Prendo in mano quel poco del mio
coraggio che m’è rimasto e
semplicemente avanzo. Porto anche una mano sullo stomaco, nemmeno
avessi una
tremenda paura di rimettere di nuovo da un momento all’altro, dopotutto
qui ne
ho viste già abbastanza di cose per potermi permettere di sospettare
che il mio
stomaco non sia capace di reggerne delle altre. Sta di fatto che
avanzo,
addentrandomi a poco a poco in quel buio che rischiaro appena, di una
luce
fioca e tremolante, semplicemente perché mi trema la mano con la quale
tengo il
telefono.
Ce l’ho in testa quella meldetta
canzone, non riesco a
togliermela dai pensieri, mi ha rigirato ogni singolo neurone e me la
canticchio persino, come uno di quei famosissimi tormentoni estivi che
alla
fine ti fanno venire il voltastomaco per quante volte li senti, ma,
giustamente,
se così non fosse, non sarebbero “tormentoni”. Sento le ginocchia
bruciare
ancora un poco, ma niente di eccessivo, a mano a mano quel dolore sta
passando
sempre di più. Si fa sentire giusto perché sto cercando di camminare
quanto più
rapida possibile, ma senza iniziare a correre, inciamperei, goffa come
so
essere io, quindi mi limito a quella camminata spedita della quale non
riesco a
fare a meno. Qualsiasi cosa qui sotto sembra esistere da millenni per
quanto è
andata a male. Alla fine arrivo sì, ma la tachicardia non fa che
aumentare. Mi
rendo conto di essere Davvero in trappola.
Qui non c’è nulla, sono arrivata alla
fine di quel corridoio
e l’unica cosa che vedo di fronte a me è uno stupidissimo, quanto
sudicio muro
che
{Though I know not what you are,
Twinkle, Twinkle little star…}
non mi fa andare oltre quel misero
punto. Bloccata, bloccata
del tutto.
Mi volto di scatto, ed alle mie
spalle per lo meno non vedo
un mondo tutto nuovo, stavolta non è cambiato nulla. Ho ancora due vie
d’uscita
da quel posto, due porte vecchie e dai cardini arrugginiti, due porte
da
provare, due porte per cercare di fuggire definitivamente di qui. Torno
indietro quindi, con il passo spedito di poco prima, sino a fermarmi
alla prima
delle due porte che incontro, tanta è la voglia ti uscire di nuovo da
lì. Provo
ad aprirla, sì, ma non si sposta, e mi trovo anche a strattonare,
feroce, con
aria spaventata di chi si sente sempre più in trappola e la brutta
sensazione che
sia chiusa anche l’altra. Lo sguardo si posa indagatore poco più in là.
Punto
anche la luce sull’altra porta ancora più arrugginita e verso di quella
ci corro,
anche solo per levarmi di dosso il brutto presentimento riguardante il
suo
poter essere aperta o chiusa. Abbasso la manigia, strattono con foga e
quella
si apre anche.
Rimango immobile per significativi
secondi. In quei
movimenti veloci ho lasciato cadere a terra il fazzoletto, ed inizio ad
immaginare che quello sia divenuto solo una poltiglia orrenda.
Socchiudo le
palpebre e finisco di aprire la porta. E’ buio, anche qui. Torno a
tirare su il
telefono ed illumino quei pochi metri avanti a me. Pare essere un
laboratorio o
qualcosa di molto simile. In un laboratorio ci sarà pure una luce, no?
Volto il
capo prima a sinistra e faccio scorrere lo sguardo sul muro, questo non
è
rovinato, affatto, è di un bianco immacolato e perfetto, in quelle
mattonelle
pallide. Allungo una mano e non fatico a trovare l’interruttore…
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Capitolo 5 *** Mr Puppeteer ***
Chiedo umilmente venia per la pausa
presa senza alcun
preavviso dalla scrittura dei capitoli, ma è vacanza anche per me e non
ho
potuto fare a meno di staccare un poco dallo schermo del pc. Ad ogni
modo,
questo è il quinto capitolo e, fatte le poche premesse di cui sopra,
godetevi i
risvolti. =)
L’interruttore scatta in un lieve
“click” che riesco a
sentire a malapena, lo sguardo ci mette un po’ ad abituarsi a tutto
quel
chiarore che si sprigiona dalle luci asettiche della stanza. Le
mattonelle per
terra sono pallide, così come anche le mura e tutto il resto. Si
presenta ai
miei occhi come un laboratorio, sembra molto simile ad uno studio
dentistico
per molti versi, ma soprattutto per quella poltrona di un celeste
pallido
posizionata un po’ sulla sinistra, di fronte ad una lamina in metallo
piazzata
sul muro, ci sarà circa un mezzo metro da per terra a quella lastra,
sotto di
essa, a posto delle mattonelle chiare che caratterizzano la muratura
del posto
vi è una grata, questa sì, al contrario di tutto il resto presente lì
dentro, è
arrugginita e sembra poter cedere da un momento all’altro. La stessa
grata non
s’arresta al terreno, ma continua la sua esistenza sino a sotto la
poltrona da
seduta dentistica. Lì vicino c’è anche un carrellino, sopra di questo
vi sono
pinzette, bisturi ed un ammasso marcio di materia organica di tipo non
identificabile, oramai, puzza solamente e qualche mosca si posa di
tanto in
tanto sopra quella che dal suo punto di vista deve essere una squisita
e
succulenta cena. Sento che sto per rimettere di nuovo…
Scosto lo sguardo onde evitare
movimenti a livello
intestinale che ora come ora gradirei evitare, provare l’esperienza una
volta
mi basta eccome. La cosa che più colpisce di quel posto è lo stacco,
c’è un
forte ed evidente stacco tra l’ambiente del sottopassaggio, pregno di
quell’odore
rivoltante, fratture nella muratura, muffe,
{Though I know not what you are,
Twinkle Twinkle little
star…}
rose morte, appassite, rovinate e
putrefatte in pochi
minuti, forse addirittura meno di un quarto d’ora, o magari la paura è
stata
davvero tanta da bloccarmi sul posto per tanto tempo senza nemmeno
accorgermene.
Lo stacco. Lo stacco è forte e t’investe, l’unica fonte di puzza, lì
dentro, è
quel mucchietto marcio sul carrelino, ma per il resto l’aria è satura
solo di
silenzio, un silenzio inquietante che fa male alle orecchie quasi.
Lascio
scorrere lo sguardo scuro lungo i banconi da laboratorio che sono lì
dentro, a
parte qualche beaker e matraccio sparso qua e là, un contenitore
graduato
sbeccato e dei vetri per terra che una volta doveva far parte di quella
magnifica
collezione di contenitori trasparenti.
Faccio qualche passo verso l’interno,
stentando per ovvie
ragioni a chiudere la porta, mi premuro, anzi, di allungare un braccio
per
recuperare quello che sembra un canevaccio sporco e lacero in più
punti, lo poggio
per terra, vicino allo stipite della porta, socchiudendo alla fine
quella e
lasciando che la massa di stoffa le impedisca di chiudersi del tutto
anche se
sospinta. Percepisco il respiro regolarizzarsi a poco a poco, come se
questo
posto alla fine mi mettesse a mio agio, come se lo considerassi quasi
un porto,
una piccola luce prima del fondo del tunnel. Sono viva, non sento
ancora fame,
forse un pizzico di sete, ma niente di eccessivo, potrò resistere
ancora un bel
po’, su questo non ci piove. Il rumore delle ballerine sul pavimento
candido
inonda la stanza di un rumore ovattato e quasi piacevole da udire,
ritmico,
seppur lento. Scorgo solo adesso la scala in fondo alla stanza, laddove
la luce
non arriva quasi per niente e le ombre sono molto più fitte e scure di
quelle
presenti dove sto io. Un neon, solo uno di cinque funziona e, di
conseguenza,
la stanza rimane per la maggior parte in penombra.
Avanzo, convinta di aver scorto in
cima a quella scala, su
quel piccolo soppalco che tanto somiglia al terrazzo di casa mia, se
solo vi
fossero dei fiori ed il cane ad abbaiare, l’angolo destro di quella che
dovrebbe essere una porta scura, che potrebbe rivelarsi la mia via di
fuga e la
mia salvezza. Avanzo dunque, finendo per altro con il lasciar scivolare
lento
ed attento lo sguardo sulla superficie del banco da
{Though I know not what you are,
Twinkle Twinkle little
star…}
laboratorio. Interrompo il passo di
colpo, sgrano gli occhi
e sento l’ennesima ondata di gelo che mi penetra nelle ossa, quel gelo
che
prende il nome di paura in certi casi. Un ticchettio, sembra un
ticchettio
quello che sento tutt’attorno a me. Passa da destra e sinistra, da
sinistra a
destra, adesso è sopra, ora sotto, adesso sembra quasi che ce l’abbia
alle
spalle. Mi volto di scatto, ritrovandomi a fissare, bianca quanto un
fantasma,
la porta ancora socchiusa, il canevaccio al suo posto, l’interruttore
della
luce premuto verso il basso, le orme di sporco appena accennato delle
ballerine, il vetro del beaker a terra, niente che non ci fosse anche
prima, lo
stesso ticchettio pare essersi interrotto al medesimo mio spostamento.
Torno a girarmi in avanti, e mi
ritrovo a sobbalzare violentemente,
un sospiro di pura paura quello che mi esce dalle labbra, smuovendo una
sottilissima ciocca di capelli scuri che deve essere sfuggita
all’elastico per
trovarmela di fronte alle labbra, che attraversa la visuale di uno
degli occhi
corvini. Una figura scura, che m’è parsa essere una sola e misera
ombra, ma
c’era in quell’attimo in cui l’ho vista, e quella misera ombra in quel
momento
non mi è sembrata affatto misera, piuttosto imponente, sembrava avesse
una
tunica, una lunga tunica che sfiorava il pavimento, così come il
presunto
cappuccio ne celava totalmente il capo, leggermente chino in avanti e
con le
mani congiunte. Potrei giurare che fosse un prete, un prete,
sì…somigliava
tremendamente ad un prete, peccato che trovare un prete in un posto del
genere
non è esattamente la cosa più ovvia di questo mondo.
-Padre? – domando, nella speranza di
vederlo riaffiorare e
ritrovare davvero un prete, monaco, cappuccino, qualsiasi cosa di vivo
e santo
possa esserci sulla faccia della Terra. Ho bisogno d’aiuto e non
disdegno
affatto quello che potrebbe darmi un uomo di chiesa, certo non sono
rinomati
per i loro begli atteggiamenti, ma ora come ora me ne infischio
altamente e
semplicemente riprendo a muovere dei passi di fronte a me, sino ad
arrivare a
circa quattro metri da quelle scale, ma niente, non c’è traccia minima
di
{When the blazing sun is gone, when
there nothing shines
upon…}
quell’ombra vista solo per poco.
Sento il cuore in gola, quella
pessima sensazione delle vene
che pulsano troppo forte e riesci per questo a percepirle in ogni
singolo
battito cardiaco, di quando il sangue viene pompato con foga, per la
tensione,
l’ansia, la paura, la stessa adrenalina, perché non si può nemmeno
negare che
non ci sia la buona dose d’adrenalina in tutto ciò, è come stare in un
videogame,
come viaggiare tra le stanze sfatte di un gioco da console, ma sin
troppo reale
al momento e, per quanto la cosa possa apparire eccitante vista
dall’esterno, a
me mette addosso una dose d’angoscia non trascurabile. Umetto le
labbra, prendo
un profondo respiro per riuscire a riprendermi il minimo che possa
consentirmi
di spostarmi di lì, ed alla fine adocchio le scale. Mi avvio verso
queste,
riempiendo di nuovo il silenzio del laboratorio, o presunto tale, di
nuovo del
rumore ovattato delle ballerine rosse, oramai anche piuttosto sporche,
tra la
polvere della ghiaia dei binari e la lordura varia di quel
sottopassaggio.
Poggio delicatamente la mano sullo
scorrimano che costeggia
quella scala in ferro, a tratti arrugginita, indubbiamente spartana,
non c’è
nulla di bello o anche solo definibile “moderno” in queste scale,
sembrano
vecchissime scae anti-incendio e niente più, eppure sono all’interno,
di solito
sono poste esternamente. Nemmeno me ne rendo conto subito, che per
riflesso involontario
ho sfilato la mano dallo scorrimano, probabilmente i pensieri inconsci
riferiti
allo schifo toccato quando cercavo quello delle scale del
sottopassaggio ed ho
incontrato invece i…vermi, sì, oramai per me sono vermi.
Le scale finiscono in poco tempo alla
fine, e sì, c’è una
porta di quel piccolissimo soppalco, prego Dio che sia aperta e che
possa
permettermi di uscire ufficialmente da quel posto e riuscire quindi a
chiedere
indicazioni a qualcuno, magari che abbia una bella faccia..o che ispiri
in
qualche modo fiducia, non so perché ma inizio a pensare che da qui a
qualche
minuto potrebbe spuntare fuori una brutta copia di Jack lo Squartatore,
pronto
ad asportarmi l’utero dandomi della “troia”. Faccio per abbassare la
maniglia
ma non posso non scattare all’indietro quando qualcuno, dall’altra
parte della
porta, lo fa al posto mio, la tira giù e la apre, lentamente, mentre la
mia
schiena sbatte contro la ringhiera che da sul laboratorio di sotto, le
mani
cercano in maniera frenetica di aggrapparsi ed alla fine ci riescono,
aggrappate con forza a quella ringhiera in ferro, con lo sguardo dritto
avanti
ed il respiro fermo, spaventata e consolata allo stesso tempo che ci
sia
qualcuno.
-Madame, la prego, non si spaventi,
sono io…dovrebbe
riconoscermi, è da un po’ che mi hanno eletto sindaco delle valli
in..inca…incantate!
Sì, le valli stonate, lo ha sentito anche lei no? Può chiamarmi
Puppeteer,
senza che si scomodi a chiamarmi Signor, e poi io nemmeno mi chiamo
Signor, che
strano modo hanno i turisti di farsi conoscere, piacere Signor
Puppeteer, ed è
da loro che ho scoperto di fare di cognome Signor, e lei? – svitato.
Fantastico! Mancava un pazzo, dopo la ferrovia strana ed il
sottopassaggio all’odore
di fogna mi mancava il pazzo di turno.
Ha i capelli castani, con sfumature
rossicce, un po’ più
lunghi avanti, compare al massimo vent’anni e non di più. Le iridi
viola, di un
viola intenso, le labbra rosso scuro, che quasi pare nero in assenza di
luce.
Un cappotto blu acceso, con la doppia fila di bottoni a chiuderlo
davanti,
quelli sono dorati. Una bordatura rossa al limite del cappotto, delle
strisce
dorate che lo fanno sembrare tanto un domatore di belve feroci, un
sottile fiocco
rosso a tenere fermo e chiuso il colletto di una camicia bianca, che
spunta da
sotto il cappotto in dei pizzi voluminosi. Un paio di pantaloni blu
come il
cappotto, un paio di guanti bianchi alle mani ed un capelli a cilindro
in
testa.
E..mi
porge la mano,
sembra stia aspettando solo che io l’afferri ed anche con un enorme
sorriso sul
volto, contento, allegro e sereno, per rischiarare l’atmosfera
l’alleggerisce e
non poco, ma mettetevi nei miei panni. Non solo mi sono completamente
persa ed
ho il sentore di trovarmi in un film dell’orrore, ma mi ritrovo anche
faccia a
faccia con uno più matto di un cavallo. La voglia di correre giù per le
scale è
troppa, ed è quello che il corpo fa, lo fa da sé.
Lo fisso ad occhi sgranati, le labbra
dischiuse ed il muscoli
che tremano ora come ora. Lo fisso per pochissimo prima di provare a
scattare
verso le scale che poco prima ho salito…
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