Jamelie Kriegford

di EvilGrin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quarto Binario ***
Capitolo 2: *** Topo in Trappola ***
Capitolo 3: *** Twinkle, Twinkle Little Star ***
Capitolo 4: *** Il Sottopassaggio ***
Capitolo 5: *** Mr Puppeteer ***



Capitolo 1
*** Quarto Binario ***


Questa probabilmente sarà una di quelle storie che vengono ignorate perché le prime righe vengono considerate tanto noiose da mettere addosso un’imparagonabile angoscia. Un tempo si usava dire che la copertina non fa il libro..o forse era un detto riguardante monaci e tuniche, questo non ha importanza, non per me per lo meno. So solo che sono sulla carrozza di un treno, almeno credo, con un’agenda in mano, una rosa vicino, che osservo con la coda dell’occhio di tanto in tanto e mi rammarico nel vedere come questa sia capace d’appassire così velocemente. Dannazione, se solo riuscissi a tirare giù il finestrino sarebbe tutta un’altra storia, magari un pizzico d’aria fresca.

 

La penna scorre sulle righe appena accennate di quell’agenda vecchia di anni, sono molte le pagine rovinate, scritte, strappate, in una posso anche leggere i compiti di tedesco da fare per un presunto 12 dicembre. Pagina 244, Übersetze, es. 15-16-17 (a, b). Sbuffo nel vederli, Dio solo sa quanto potevo odiarli, non sapevo farli, era questa la motivazione, e come la volpe da dell’acerba all’uva quando non riesce a coglierla io ero capace di dare dell’incompetente alla professoressa.

 

L’inchiostro della penna scorre su quel foglio macchiandolo di un nero limpido e lucido, penna a gel, sicuramente non potrò scrivere dietro, maledirò per sempre quell’infermiera, proprio una penna a gel doveva avere nel taschino del camice?

 

Sollevo lo sguardo verso il finestrino, posso vedere il panorama scorrere veloce dietro quel vetro trasparente, sino ad un certo punto, dopotutto gocce d’acqua, granuli di polvere, macchie di pennarelli e tracce di fumo oscurano la vista su quello che c’è fuori, ma è sommariamente visibile. E’ notte, stiamo passando adesso sopra un ponte, la valle sotto di noi non sembra nemmeno così tanto lontana, provo anche a scorgerla per quanto mi è possibile, ma non vi riesco eccessivamente bene. Vedo solo una macchia scura ed indecifrabile, nemmeno la luce chiara di quei tre quarti di luna mi aiuta, sembra la selva oscura nella quale si disperse a suo tempo Dante, limitante, non ci piove.

 

Qualche nuvola si fa avanti coraggiosa in quel cielo scuro e, paradossalmente, lo rischiara: quelle nubi colte dai raggi lunari divengono simpatiche e soffici nuvole di zucchero filato al sapore di..puffo! Esiste un gelato con quel sapore ed ho paura di sentirmi cannibale nel provarlo, francamente. Per essere al sapore di puffo cosa potrebbero metterci dentro?

 

Un sorriso affilato e vagamente malizioso mi screzia le labbra, sì, l’ho pensata brutta e per un momento sembra anche che il tipo grassoccio e che trasuda in maniera orripilante liquidi da tutti i pori, mi abbia letto nel pensiero, sembrava fosse così da come il suo sguardo indagatore scrutava le mie forme, quelle non troppo marcate del seno, ma appena ho spostato lo sguardo sul suo volto s’è voltato dalla parte opposta, imbarazzato anche, a quanto pare. E non mi basta mai mettere in imbarazzo le persone, perché porto le mani dietro la nuca, raccogliendo con le dita i lunghi e morbidi capelli castani, tirandoli su e legandoli in una coda alta, perfettamente liscia, con tanto di frangetta che sfiora le ciglia feline, il volto pulito dal trucco. Faccio scivolare la mano di lato, disegnando la curva che prendono i crini scuri, fingendo che il braccialetto che porto al polso si sia impigliato sulla camicetta ed in uno strattone di troppo lascio che i primi due bottoni escano in modo brusco dalle asole, fingendo anche di non essermene accorta. Ma lui lo sa, che lo sto facendo perché mi diverto, e mi diverto da morire nel vedere come soffre nel suo angolino, conscio di non poter far nulla.

 

Lascio scivolare lo sguardo di nuovo fuori dal finestrino, controllo le fermate, richiudo l’agenda, rendendomi conto che oramai manca poco, sono quasi arrivata, la prossima dovrebbe essere la mia, massimo cinque minuti. Mi permetto quindi di tornare con lo sguardo sul volto dell’uomo, che pare più teso così come anche attento ad ogni mio singolo spostamento. Mi permetto di scivolare un poco in avanti, accavallando le gambe sottili ed ambrate in un gesto evidente, con il piede calzato dalla ballerina rossa che sfiora “inavvertitamente” la gamba di lui, che siritira nel suo modo impacciato di fare. Quel gesto affatto discreto deve aver suscitato qualche reazione in lui, visto che lo vedo deglutire a vuoto e fissarmi sempre di più.

 

Mi fa…ribrezzo, solo ribrezzo al momento, ma mi diverto lo stesso. La leggera gonna bianca che è scivolata un poco in su, mostrando meglio la coscia, la mano con l’agenda s’infila nella borsa firmata che tengo vicino a me, assieme anche alla rosa. Alla fine si decide, sorride, si china un poco in avanti e mi chiede come mi chiamo. Lo scruto, dall’alto in basso, con fare da superiore, sì, mi sento profondamente migliore di lui, tanto da permettermi una smorfia che io stessa avrei odiato. Quel tirato sorriso di circostanza.

 

-Jamelie- il tono che è un cinguettio. Ogni tanto lo faccio, ogni tanto mi comporto da perfetta oca giuliva solo per il gusto di farlo, magari lo sono anche, ma in certi casi do il meglio di me. Allo stesso modo, nel rivolgermi all’altro, mi sono limitata ad una risposta senza interesse nei suoi confronti. Così fa chi vuol apparire stronzo, no? Bene, inizio ad imparare allora, è quello il mio obiettivo e, anche se non vi piace l’idea, unicamente per il mio personale divertimento.

 

-Davvero un bel nome, sei straniera?

 

Mi domanda, avevo appositamente spostato lo sguardo verso il finestrino, di nuovo, lo osservo con la coda dell’occhio, sorrido appena a quel modo classico di una tipa come me. Scuoto il capo, non mi degno nemmeno di aprire bocca in merito, nemmeno non meritasse davvero un solo fiato sprecato.

 

-Dove scendi?

 

Fa giusto in tempo a chiedere, che il treno prende a rallentare, le rotaie sibilano e cigolano nel fermarsi in un fischio ferroso che fa quasi male alle orecchie da sentire. Sono le 23 e 17, sì, è la mia questa. Mi alzo, non rispondo al tizio, non so nemmeno come si chiama, semplicemente recupero la borsa, riallaccio sfacciatamente la camicetta a scacchetti bianchi e rossi ed altrettanto semplicemente mi avvio verso la porta. Sento il telefono vibrare in tasca e lo recupero mentre scendo quei due scalini per poter scendere definitivamente dal treno. Guardando lo schermo del telefono per leggere il messaggio di Roberto non ho nemmeno fatto particolarmente caso alla stazione completamente vuota. Solo quando sento il treno ripartire e posso premere su “Invia” alzo lo sguardo scuro e mi guardo intorno spaesata. Perché spaesata? Perché ho sbagliato fermata, e questa pare abbastanza deserta da parti pensare che non ci siano persone di lì a qualche chilometro di distanza.

 

Vuota, completamente vuota, mi trovo sul quarto binario, il che significa che per prima cosa devo cercare il sottopassaggio per poter andare a controllare gli orari di eventuali treni successivi, visto che su quello non ci sono i tabelloni, ma almeno all’interno della stazione dovrebbero starci.

 

Mi avvio, il rumore ovattato della base delle ballerine pare rimbombare in quel silenzio di tomba che è quel luogo, e pensare che non è nemmeno eccessivamente tardi, solo le undici, poco più. Porto la rosa sotto il naso per poterne sentire di nuovo l’odore ed un sorriso tenue mi compare sulle labbra. Davvero un buon profumo, davvero belli i ricordi ad essa collegati. Sul volto si potrebbe anche notare quel velo d’angoscia per qualcosa di non meglio specificato, se solo ci fosse qualcuno per poterlo vedere.   

 

E invece non c’è nessuno, in compenso però sono riuscita a trovare la scala che porta al sottopassaggio per poter arrivare alla stazione in sé, l’unica cosa che non mi piace del posto è che le luci sono spente, eppure quelle sul binario funzionavano. Recupero il telefono dalla tasca, accendendo la luce che si trova sul retro del telefono, in modo da non capitombolare di sotto, nell’inciampare da qualche parte e semplicemente prendo a scendere, per forza di cose.

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Capitolo 2
*** Topo in Trappola ***


Le labbra si tendono in un sorriso tirato, teso, mentre sento quell’atmosfera pesarmi addosso come non mai, è una cosa stupida forse, ma è incredibile come e quanto l’essere umano sia capace di mettersi soggezione da solo, come le idee che si materializzano nella sua testa siano capaci di mutarne il completo atteggiamento. L’uomo è un animale strano, non è capace di essere davvero freddo e razionale, arriverà comunque il giorno in cui, preso dal panico dei suoi stessi incubi, crederà a qualsiasi cosa gli venga detta. Soggezione. Timore. Ipotesi. Convinzione. Paura. Folle paura. Funziona così, ed in un secondo quello che era l’animo imperturbabile di un uomo fermo e razionale, diventa improvvisamente la preda di un predatore invisibile e temuto da tutti: l’ansia, il panico. È l’unica cosa che riesce a piegare gli animi di tutti, la paura non si nega, la paura la senti quando scivola sulla pelle sottoforma di sudore freddo; sei consapevole sin nel profondo di avere paura quando il lembo della gonna leggera e bianca ti sfiora la gamba e la mano corre su quel punto per sentire cosa ti ha toccato. Non lo guardi nemmeno quel punto, per il freddo terrore che ci sia qualcosa di orribile. Ti dai della stupida quando poi ti rendi conto che non è nulla, ti dici che è solo la trama del vestito e la stanchezza che ti gioca brutti scherzi. No, è la paura.

 

È quella paura che sento io adesso mentre tiro via la mano dalla pelle morbida e levigata della gamba. Dovrei andare a dormire prima, la stanchezza inizia a giocarmi brutti scherzi. Ironia della sorte… Scendo, quello non è il posto migliore del mondo, giurerei che mettendo un piede più giù potrei infilarlo in una melma fangosa quanto ripugnante. Questo per via del forte odore di fogna che sale da quelle scale, tanto ripugnante che mi costringe a portare una mano di fronte alla bocca ed indice e pollice a limitare l’aria che entra dalle narici.

 

-Che cazzo di schifo!- lo sbraito, lo faccio per sfogo probabilmente, perché non reggo quasi più. Quella merendina che avevo mangiato sul treno..la sento risalirmi lo stomaco con un’assurda prepotenza, arrivare alla gola e devo serrare le labbra per evitare che finisca con l’uscire da quelle. È forte, fortissimo, come se avessi appena piazzato la faccia nell’acqua di una conduttura fognaria nel preciso istante in cui tutti quanti nella città decidono di scaricare.

 

Tengo la rosa in bilico, la borsa nella piegatura del gomito, la mano che serra le narici e l’altra mano che tiene alto il telefono e la tenue luce che fa sui primi scalini e non di più. Non arriva troppo in là, riesco solo a vedere dove devo mettere i piedi. Finisco con il portarmi di lato per riuscire a tenermi sullo scorrimano visto appena ha iniziato a scendere in quel posto ripugnante. Sfilo la mano dal naso e mi impongo di non inspirare con quello, onde evitare di vomitare davvero. Poggio la mano alla ricerca di uno scorrimano che non riesco a trovare e, per riflesso, poso il palmo sul muro, ma mi ritrovo a doverla ritirare immediatamente schifata. Qualcosa di orrendo e viscido c’era su quel muro. Punto la luce su quel preciso loco, lo fisso e sgrano gli occhi, finendo con il piegarmi di colpo in avanti con il busto e finire con il sentir rimbombare nella vuota e buia galleria il suono dei gorgoglii dei miei stessi succhi gastrici che si ribellano a quella vista, finendo sì, con l’arrivare a terra in un qualcosa di ulteriormente raccapricciante. Una macchia orripilante e giallognola che si spande lentamente, scendendo lungo lo scalino successivo e scomparendo poi nell’oscurità. La cosa positiva, o forse no, è che l’odore del vomito non si sente nemmeno, sopraffatto da quello di fogna che c’è lì dentro.

 

Cos’ho visto che mi ha fatto reagire a tal modo? Il muro, evito di guardarlo ora come ora, ma su Quel muro c’è una patina viscida, di un colore verde scuro, come il muschio, ma macchiata di marrone e lucida. Si muove, ne sono certissima, l’ho vista muoversi come fosse composta da mille e più vermi che si intrecciano tra di loro, alla disperata ricerca di terra e cibo. Li potevo vedere, viscidi, che cercavano di aggrapparsi alla mia mano come se qualcuno avesse appena udito la richiesta d’aiuto mandando loro del cibo fresco. Ed il resto è venuto da sé, sono una tipa dallo stomaco tremendamente delicato e di questo mi rammarico, ma soprattutto odio gli insetti e qualsiasi altra cosa piccola e viscida che si muove oltre il consentito. E’ la mia piccola fobia, così come ne hanno tutti.

 

Rimango immobile, passando malamente il dorso della mano sulle labbra appena lucide adesso, e subito dopo m’appresto a cercare un fazzolettino nella borsa. Frugo giusto un po’ e tra l’accendino, la penna e l’agenda riesco a trovare il piccolo e morbido pacchetto blu, sfilo, prendendolo con i denti, uno dei fazzoletti, ripulendo di seguito labbra e dorso della mano. Lo lascio cadere a terra, dopotutto, peggio di così non può essere ridotto quel posto. Mi rendo conto solo dopo che nello scatto di paura mi sono allontanata di almeno un metro da vicino al muro. Una curiosità e la voglia di non perdere di vista quegli animali viscidi, attorcigliati attorno ad una loro probabile piccola preda, solo quello mi fa girare di nuovo, ma mi ritrovo ad essere alquanto stupita, quando la luce del telefono non rivela altro che un muro un poco vecchio ed ammuffito, con qualche punto particolarmente rovinato e degradato, ma niente di eccessivo. Qualsiasi cosa ci fosse, adesso non c’è più, zero, come se avessi sognato. Sbatto qualche volte le palpebre e vorrei anche poter prendere una profonda boccata d’aria, ma penso rischierei di ripetere la brutta esperienza di prima, e sento ancora il sapore forte ed acido in bocca, quindi evito, e con maniacale cura anche. Porto la mano libera al petto e sento il cuore sotto di esso battere all’impazzata. Mi impongo di star tranquilla e di lì ai cinque minuti successivi sono rimasta ferma ed immobile, ad attendere che tutto si stabilizzasse. Così facendo ho anche iniziato ad abituarmi alla puzza che regna sovrana qui sotto.

 

Per un momento pondero di scendere sempre per quella via, ma poi poso lo sguardo verso quel buio che pare inglobare tutto quello che incontra e la voglia di tornare di corsa indietro mi pervade del tutto, tanto che giro veloce i tacchi e risalgo di corsa quei pochi scalini che avevo sceso. Sembravano pochi all’inizio, vero, anche perché di solito non si va oltre la ventina di scalini per scendere nei sottopassaggi, ma questi sembrano molti di più di quelli che ho percorso all’aldata. Probabilmente è una mera impressione dettata dalla paura del momento, si sa che la strada da percorrere quando si è spaventati diventa per magia sempre troppo lunga, mi sta facendo solamente la stessa impressione. Tutto qui. Tutto qui…

 

Con la foga di risalire da là sotto la rosa mi è caduta a terra, non ci penso nemmeno a raccoglierla e fermarmi, voglio solo uscire di lì. Dopo qualche altro scalino riesco finalmente ad uscire e finalmente lì riesco a prendere quell’aria che tanto agognavo. Lunghi e profondi respiri di paura, quella soggezione che mi sono messa addosso da sola e che mi fa ancora battere forte il cuore. Ma adesso no, adesso inizia ad andare meglio. Una luce sopra di me lampeggia per un attimo, un attimo soltanto in cui guardo per terra e vedo un’ombra di troppo, ma la vedo  solo nel frangente in cui quella determinata luce si riaccende la seconda volta, alla terza non c’è più, esattamente come all’inizio, solo la distesa chiara del cemento e la linea gialla, dietro la quale bisogna mantenersi quando stanno per arrivare i treni, un poco rovinata dagli anni passati. Socchiudo gli occhi, mi faccio forza e prendo a parlare ad alta voce, fosse anche solo per poter evitare di sentire quel silenzio, così forte che arriva a darmi fastidio.

 

-Ok, passo per i binari, a quest’ora oramai non passano più treni dopotutto. Di là riuscirò..a trovare almeno il numero dell’assistenza- lo ripeto ad alta voce più volte, mentre mi avvicino al bordo di quella banchina, portandomici seduta e scivolando quindi giù. Mai stata una tipa atletica, anzi, a ginnastica facevo schifo, per essere papali, quindi stare attenti a non pestare un sasso di troppo è essenziale. Riesco e quindi avanzo velocemente sino alla parte opposta, così posso risalire e trovarmi sul terzo e secondo binario. Pochi passi e sono lì. Poso prima la borsa ed il telefono, poi punto le mani su quel cemento chiaro e mi isso, premendo anche con le ginocchia e graffiando a malapena la pelle.

 

-E uno è fatto- lo dico quasi con fatica, nemmeno avessi fatto chissà quale sforzo. Mi rialzo, riprendendo in mano sia borsa che telefono. Tiro persino un sospiro di solievo, solo che mi rimane in gola quando alzo lo sguardo per avviarmi verso la stazione. Perché lì non manca un solo binario, ne mancano due. Non c’è la stazione di fronte a me, ci sono i binari tre e due, e sotto i miei piedi il numero quattro scritto in un bianco sporco e macchiato. Mi volto di scatto, alle mie spalle la scala dalla quale sono uscita poco prima, quella che porta ai sottopassaggi, più in là il verde della selva. Presa dal panico corro verso il termine di quella stupidissima banchina, scendo di nuovo, più veloce e senza cura stavolta. Corro dall’altra parte e mi isso di nuovo, e di nuovo e di nuovo ancora, e per ogni volta che isso su quel pezzo di cemento trovo sempre scritto quel numero maledetto.

 

 Mi sento come un topo in trappola…

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Capitolo 3
*** Twinkle, Twinkle Little Star ***


NOTA DELL’AUTORE:   http://www.youtube.com/watch?v=jRXQsQKGqIU   questo è il link della canzone che avete come indicazione quando verrà citata nella storia, vi assicuro che metterla aiuta molto alla creazione dell’atmosfera. Vi auguro buona lettura e soprattutto che il capitolo sia di vostro gradimento. See ya soon, dudes!

 

 

Come uno stupido topo in trappola, che cerca di non perdersi dietro il telefono e la borsa mentre corre alla disperata ricerca della libertà nella sua ruota, all’interno di una gabbia ingannevole. È orribile quando ti fanno vedere quello che c’è al di là di quelle sbarre ma, sadici loro, ti impediscono di arrivarci, anche se tu dovessi metterci tutta la buona volontà di questo mondo. Tanto non arriverà mai l’uscita, ma continui a non arrenderti sin quando anche la speranza muore. Sin quando non comprendi che quella è la via sbagliata per avanzare in quel mondo. Sin quando non ti rendi conto che quella ruota è troppo piccola per darti anche solo la parvenza di libertà, puoi arrivare solo qualche passo più in là, ma presto girerà e ti lascerà sempre nello stesso punto. Non importa quanto ti sforzi, non importa quanto ti impegni o quanta fatica fai, non importa se ti sei sbucciato le ginocchia ed i palmi delle mani per issarti su quella maledetta banchina, non importa se hai il fiatone per quante volte sei scesa e risalita, non importa nemmeno il coraggio avuto, non importa nulla, nessuno ti aprirà la porta della gabbia, nessuno ti libererà la coda da quel pezzo di ferro che la tiene ancorata al terreno. Corri, topo…corri, salta, urla, piangi, topo. Chi ti ascolterà, topo? Nessuno.

 

Guardo a terra, sotto le suole delle ballerine rosse c’è sempre quel nastro bianco sporco e rovinato che dondola i suoi lembi sfilacciati al vento. Quel quattro maledetto, che vedo sempre sotto i miei piedi, perché non si sposta di lì? Giuro che lo sto sperando con tutte le mie forze, ma non se ne va, ed oramai il panico del momento inizia a scemare, al suo posto si fa largo nell’animo qualcosa di più compassionevole, di più patetico, è quella paura di morire lì, inascoltati ad ogni richiesta d’aiuto. La disperazione nella consapevolezza di poter fare poco altro che farsi coraggio e…

 

Volto il capo verso la scala che scende per i sottopassaggi, non la guardo per troppo, dopo poco torno con lo sguardo dritto di fronte a me, a quella stanzione che, per quanto io possa correre, non raggiungerò mai. Per un momento gli occhi scuri mi si caricano di lacrime salate, che scendono lungo le guance, solcandole ed attraversandole, silenziose, non un solo singhiozzo scaccia quel silezio dal suo trono da sovrano in quel posto. Stringo la borsa per un attimo, con fare quasi protettivo, nemmeno fosse un bambino, mi rendo conto di avere solo bisogno di qualcuno che mi impedisca di rimanere da sola, ma allo stesso tempo di avere la radicata e giustificata paura di trovare davvero qualcuno; per questo mi accontento della borsa, è l’appiglio più sicuro che ho al momento.

 

Sento le ginocchia bruciare prepotentemente e qualche stilla calda scivolare dal ginocchio, lungo la gamba, sino alla caviglia. Abbasso lo sguardo e noto quelle chiazze vermiglie, contornate dal nero dello sporco attaccato al cemento della banchina. Piego le ginocchia, poggiando la borsa a terra ed aprendola, recupero il pacchetto di fazzoletti di prima e dell’acqua da una bottiglietta quasi vuota. Ne bagno uno, con le mani che tremano, così come le lacrime non smettono di scendere sulla pelle, macchiandola di limpido spavento. Poggio il fazzoletto bagnato sulla ferita aperta sul ginocchio, il sinistro, l’altro non sembra grave quanto quest’altro, giusto qualche abrasione, mentre qui la pelle è venuta via, evidentemente in uno scatto un po’ troppo brusco, le tipiche sbucciature che fanno piangere i bambini.

 

Mi rialzo solo dopo aver tamponato la ferita, recuperando la borsa e lasciando cadere il fazzoletto insanguinato e bagnato lì dentro. Volto di nuovo il capo in direzione di quelle scalette che scendono verso il basso, verso quei maledettissimi sottopassaggi, la voglia di scendere là sotto inizia a tornarmi, perché è più forte in me l’istinto di sopravvivenza rispetto al fetore o anche solo la fobia di quei vermi. Un ultimo tentativo prima di buttarsi su quell’ultima spiaggia, un ultima speranza. Infilo la mano nella borsa, ne tiro fuori il telefono e con mia grande gioia posso almeno constatare che il segnale c’è, al contrario di come oramai iniziavo a sospettare, visto quanto il posto somigli in maniera impressionante ad uno di quei cliché in cui il telefono non prende. Un sospiro, per quanto a malapena accennato, di solievo. Il polpastrello pallido scorre sullo schermo, selezionando sulla rubrica la cara e vecchia voce “Mommy”; porto il telefono all’orecchio e per la prima volta prego Dio che qualcuno risponda. Squilla…squilla…continua a squillare per secondi che paiono infiniti sin quando qualcuno finalmente risponde.

 

-Mamma?! – la voce trema come trema anche tutto il resto. Probabilmente si  avverte la paura che ho addosso, che sento sgorgare direttamente da dentro, investendomi del tutto.

 

-Dimmi, Jay – non ho mai amato così tanto la voce di mia madre, al momento mi sembra un porto sicuro al quale aggrapparmi – non dirmi che devo venirti a prendere alla stazione, te l’avevo detto di chiamare tuo padre, io non posso adess…

 

-No! Aspetta! – la interrompo, prima che possa andare oltre, anche perché la prospettiva che non possa venirmi a prendere mi ha fatto scendere un brivido lungo la schiena simile a quello provato all’inizio, quando sono scesa alla fermata sbagliata – ho sbagliato fermata, e no, non ho chiamato papà, ma per favore..non riesco ad arrivare alla stazione ho bisogno d’aiu… - sgrano gli occhi e l’espressione si carica di nuovo di terrore.

 

“Twinkle, twinkle little star, how I wonder what you are”

 

-Mamma!? – lo urlo praticamente, mentre quella voce di bambina viene accompagnata da una musica bassa, inquietantemente lenta e straziante, sì, mi stava distruggendo dentro, perché più la sentivo e più chiamavo “mamma” come una bambina spaesata che non sa più dove andare o cosa fare. Mamma, mamma, mamma, mamma…rimbombava la mia voce in mezzo a quel silenzio, tanto che alla fine la stessa mi si strozzò in gola in un colpo di tosse, come se quel medesimo silenzio mi imponesse di tacere e lasciar spandere il suo dolce suono.

 

“Up above the world so high, like a Diamond in the sky. When the blazing sun is gone, when there nothing shins upon, then you show your little light, Twinkle, Twinkle all the night. Then the travler in the dark, thanks you for your little spark. He could not see which way to go, if you did not twinkle so. Though I know not what you are, Twinkle, Twinkle little star.”

 

È famosa, la conoscono tutti, ma adesso non la conoscono come la conosco io, sentirmi come un navigatore senza la sua stella a guidarlo, perso nel bel mezzo dei sette mari senza sapere dove andare, dove attaccarsi. Quella musica dall’altra parte del telefono sembrava totalmente surreale. Ho lasciato cadere il telefono e sono indietreggiata sino a sbattere con la schiena contro la colonna nel mezzo della banchina. Ho fissato l’oggetto per tutta la durata della melodia, con il terrore negli occhi. Con le lacrime che sembrava volessero ferire la pelle, scavare ed arrivare alla carne. Con il riflesso del falso bisogno di dover deglutire, per mandare giù un rospo orrendo. Con le dita che premevano quasi dolorosamente contro il cemento di quella colonna. Con le gambe che tremavano, come se fossi appesa a dei fili di un palloncino pronti a cedere da un momento all’altro. Con il respiro che, irregolare, si faceva largo tra le labbra morbide.

 

Adesso sono seduta a terra, la gonna in parte sollevata da quello scivolare contro la colonna che mi ha portato in quella posa; la schiena poggiata contro il cemento, le gambe piegate e lo sguardo nero che continua a fissare lo schermo acceso del telefono, ove rischiara l’atmosfera la foto mia e di Thomas, il mio ragazzo, con i visi vicini e sorridenti, mi ricordo che facemmo quella foto qualche mese fa, al parco, sdraiati per terra, con i capelli sparsi a raggera sull’erba e la sola voglia di star tranquilli. Lo fisso, osservo la luce che a mano a mano si affievolisce ed il telefono fa per bloccarsi, solo che qualcosa rischiara quello schermo e quella foto. Sento la vibrazione del telefono ed osservo come qualcuno stia chiamando. Scatto sulle ginocchia in avanti, recuperando frettolosamente il piccolo apparecchio. Mi mordo nervosamente un labbro nel leggere il nome “Mommy”, faccio scorrere il polpastrello dell’indice sul display e porto il telefono all’orecchio.

 

-Mamma? – un chiamare timoroso e spezzato da quel pianto silenzioso stavolta. Dall’altra parte del telefono niente più di un semplice respiro ed uno sbuffo appena accennato che mi fa immaginare solo una smorfia soddisfatta sul volto di qualcuno, non saprei dire chi, se mia madre o chissà chi altri. Sta di fatto che la richiamo – mamma… - sempre più mormorato il tono, sempre più basso ed appena udibile. E dopo quello solo il suono triste di una chiamata interrotta. Tiro via il telefono dall’orecchio e fisso lo schermo, niente di più di quella foto dai colori brillanti. Lo blocco e lo reinfilo nella borsa.

 

Mi decido a rialzarmi alla fine di quella chiamata nonsense, mi rialzo e prendo una profondissima boccata d’aria, posando per l’ennesima volta lo sguardo su quelle scale, loro, sono la mia unica via di fuga da questa ruota troppo stretta. Mi avvicino alla fine, con quel terrore di quella voce fanciullesca e quella melodia, quella stupida canzoncina dell’asilo riadattata a quel modo..mi rende più inquieta di quanto già io non sia. E quando il baratro è l’unico modo per sfuggire alla morte lenta, anche una pallottola in testa va bene, per questo lasciavano sempre una pistola a qualcuno quando veniva rinchiuso da qualche parte o lasciato su isole deserte o chissà cos’altro. Scendere queste scale è la mia personale pallottola, e per una volta spero che l’arma sia caricata a salve. Lo spero mentre il tanfo di fogna torna ad investirmi e le narici prudono e pungono a quel fetido odore. Eppure scendo, rendendomi conto che senza telefono non vado da nessuna parte e sperando che la batteria tenga abbastanza a lungo da farmi passare tutto il sottopassaggio.

 

Torno ad infilare la mano nella borsa, ferma sul quinto scalino, riprendo il telefono in mano e non per la prima volta punto la luce chiara e fioca su quel buio immenso. Non per la prima volta mi muovo incerta su quegli scalini, con la paura di girarmi e trovare qualcosa di alquanto sgradevole, ma l’obbligo mi impone d’andare avanti o morire.

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Capitolo 4
*** Il Sottopassaggio ***


NOTE DELL’AUTORE: questo è un capitolo di passaggio, come si suol dire “una cerniera”, quindi non c’è da preoccuparsi se il sentore d’ansia cala un poco o non ci sono evoluzioni chissà quanto significative, anche perché, come avrete potuto immaginare, la storia procede esattamente come in un libro e non può esaurirsi in pochi capitoli, così come ha bisogno dei suoi tempi per svilupparsi. Allo stesso tempo io evito di fare capitoli eccessivamente lunghi, quindi è possibile che alcuni non siano esattamente “d’impatto”. Spero vi piaccia uguale, se qualcosa non va, fatemelo pure sapere, accetto ogni singolo tipo di critica, servono a migliorare dopotutto. Buona lettura!

 

*§*EvilGrin*§*

 

Il tanfo di fogna torna ad investirmi totalmente, maledetta me e quando sono uscita, l’unica cosa positiva di quando sono entrata la prima volta è che, bene o male, è che alla fine mi ero abituata a quella puzza a dir poco asfisiante. Mi penetra nelle narici e le attanaglia, tanto che porto la mano a chiuderle ed il palmo di essa a tenere coperte le labbra, in modo da filtrare il più possibile l’aria. Mi fermo di nuovo, infilo la mano libera nella borsa e tiro fuori l’ormai celebre pacchetto di fazzoletti, che per altro stanno per finire. Ne afferro uno con gli incisivi e quindi tiro, in modo da tirarlo fuori, per poi tornare ad infilare il pacchetto floscio e mezzo vuoto nella borsa, non la chiudo, oramai ho imparato che mi servono di continuo le poche cose che sono lì dentro, e la cosa mi fa anche sentire come una piccola e sfortunata Mary Poppins, solo che non volo con gli ombrelli, ed inizio a pensare che se anche fosse volerei sempre sopra lo stesso, limitato pezzo di cielo.

 

Quando mi accingo a ripartire, tornare a scendere per quegli scalini putridi, lo sguardo nero mi cade sulla rosa che mi era caduta prima in quel punto, mentre risalivo di corsa. Assottiglio lo sguardo, non riesco a vederla bene, è un paio di scalini più giù, quindi mi avvicino e mi piego anche sulle ginocchia sanguinanti, attenta a non ruzzolare di sotto per un piede messo male, non vi ho parlato anche del mio pessimo equilibrio, vero? Ma perché porterei le ballerine altrimenti? Il solo pensiero del tacchi mi fa venire le vertigini. Rimango vivamente perplessa quando, osservando la rosa, mi rendo conto che è in avanzato stato di decomposizione, i petali sono marciti ed altro non sono che una poltiglia scura, così come anche il gambo, pare tremendamente fragile. Anche la carta che la circondava non è nel migliore degli stati, sembra quasi che sia lì da decenni. Un misero ammasso di nera poltiglia e niente più. Era una bellissima rosa, ed adesso niente, solo quello schifo. Ma la cosa non è solo brutta a vedersi, a sapere che lì dentro si marcisce così in fretta la voglia di passare di lì torna a scomparire, ed anche alla svelta.

 

Ma non posso stavolta, stavolta non posso girare i tacchi e correre indietro, sarei allo stesso dannato punto di sempre. Mi drizzo quindi e punto la luce di fronte a me, intravedo quello che è il pavimento, ma comprendo anche quanto la scala vada verso il basso, molto più del normale a conti fatti. Continuo a scendere, lentamente ed anche piuttosto scettica, con le pupille che si dilatano, che vorrebbero raccogliere tanta più luce di quella poca che c’è, che vorrebbero tenere d’occhio ogni singola cosa. Con il cuore in gola e la tensione tipica di chi da solo si addentra in un posto che mette tanta soggezione, così volto continuamente il capo, nervosa, scrutando le pareti, normali..a parte il degrado che vige qua sotto e che pare aumentare di metro in metro. Più scendo e più la cosa si fa decisamente decadente, non mi piace, no, per niente. Gli stessi scalini a poco a poco si fanno sempre più rovinati. Tanto che, quando sto per arrivare agli ultimi, sento lo scricchiolare sotto il piede di quella che sembra un asse di legno e non uno scalino in marmo, come lo erano stati tutti gli altri sino a quel punto.

 

Abbasso lo sguardo e sì, c’è quell’asse di legno, ma è breve, copre un punto in cui lo scalino s’è sbeccato e, per evitare di far cadere delle persone sbadate come la sottoscritta, devono averla messa lì, tuttavia..tuttavia non mi fido nemmeno a mettere un piede lì, inizio a credere che qualsiasi cosa tocco possa crollare da un momento all’altro ed uccidermi. È come quando, in casa, di notte, qualsiasi rumore che non dovrebbe esserci, nella mente di tutti si materializza in un ladro, aspirante assassino, pronto a rubare tutto ed ucciderti nel sonno. Ma in quel caso la coperta ti protegge ed alla fine il sonno prende il sopravvento. Qui no, qui non c’è nessun rumore, è questa la cosa peggiore, quello che mette ansia del posto è la sua tranquillità. Paradossale, non trovate? Perché un posto tranquillo dovrebbe mettere in qualche modo ansia? Perché? Perché sono così abituata alle persone ed al non rimanere sola che questo mi spaventa.

 

Mai avuta paura del buio? Non rispondetemi di no, nemmeno io pensavo di averne paura, ma il buio ingloba, nasconde, ti ruba ogni respiro e nel suo silenzio affogano anche le più coraggiose delle persone. Quando non sai dove stai andando a parare, se di fronte a te c’è un burrone dal quale potresti cadere o meno, allora inizi a tastare con ansia il terreno. Il buio è subdolo. Il buio è il miglior giocatore di poker esistente al mondo, i suoi bluff ti uccidono.

 

Though I know not what you are, Twinkle, Twinkle little star…

 

Mi blocco sul posto, mi ero giusto spostata un poco di lato per poter scendere dove non c’era l’asse di legno scricchiolante, ma quel sussurro, sembrava un misero alito di vento, che mi ha fatto gelare il sangue in corpo. È stato come sentirlo scivolare lungo la spina dorsale. È stato come vivere in un sogno per un attimo. È stato come la morte, per un attimo tutti i sensi sono venuti meno in favore di quell’unico brivido e quel sussurro alitato in un orecchio, che adesso mi tamburella il cervello, lo avviluppa in una soffice e letale nuvola gelida. Tenendo il fazzoletto recuperato prima sulle labbra socchiudo gli occhi e prendo un profondo, quanto riluttante, respiro e quindi avanzo, scendendo anche gli ultimi quattro scalini.

 

Arrivo alla fine di quella scalinata e con piacevole sorpresa noto che..che non c’è nulla, non c’è quel fango che immaginavo avrei incontrato, non ci sono assassini, non ci sono vermi e non ci sono ragazzine canterine, la cosa per lo meno mi rincuora. Avanzo di qualche passo, la puzza di fogna non se n’è andata, in compenso le brutte sensazioni iniziano a scemare. Volgo lo sguardo prima a destra, direziono lì anche la debole luce del telefono e l’unica cosa che colgo è un muro a mezzo metro da me, con una porta di medie dimensioni in quello che un tempo doveva essere stato ferro, ma che adesso è solo una patina arrugginita e consumata dall’ossigeno, se l’aria lì sotto si può in qualche modo dire carica di ossigeno, sembra piuttosto carica di puzza, questo sì.

 

Sposto di seguito lo sguardo a sinistra, devo sicuramente andare di là. La luce non rivela nulla che non sia un lungo corridoio in effetti. Niente di più di un corridoio del quale non si vede nemmeno la fine. Beh, giustamente, per essere quarto binario un po’ ci sarà da camminare. Quello che lascia al massimo perplessi è che non sembra esserci una scala per risalire al terzo binario, solo una porta arrugginita al posto di quella che dovrebbe essere un’uscita, ma quella non sembra avere l’aria di esserlo. La coda dell’occhio mi cade di lato e la cosa mi fa anche aggrottare la fronte. Indietreggio di un passo e poi di un altro ancora, mentre sentito il palpitare non più ritmico del cuore, quell’andazzo veloce molto simile agli zoccoli dei cavalli sulla rossa terra battuta dell’ippodromo. Gli occhi scuri non si scollano da quel punto ove prima c’era la scala per risalire, non si spostano, non si spostano perché quella scala non c’è più, che solo un muro alquanto malridotto e nient’altro. Ora sì, che sono in trappola. Se prima almeno avevo quella come ucita, adesso non c’è più nemmeno quella lì.

 

Chiudo forte gli occhi al punto che mi fanno male, se questa è tutta un’illusione riaprendo gli occhi di certo sparirà, dovrebbe sparire…forse. Le mie certezze in merito oramai sono pari a uno strato di carta velina: provano ad attaccarsi a tutto, ma possono essere brutalmente spazzate via anche dalla più piccola ed insignificante delle cose. Solo dopo significativi secondi riapro le palpebre e torno a fissare dritto avanti a me. Le scale? No, il muro, quello di poco prima, con quella macchia di muschio in mezzo e qualche schizzo marroncino qua e là, la crepa che sale dal pavimento, sulla sinistra e…e quello che adesso sembra quasi essere il calco di un volto, un volto deformato a dire il vero, ed è così poco accennato che sicuramente me lo avrà fatto vedere la mia immaginazione.

 

Faccio finta di nulla per quanto m’è concesso, visto che mi rimane il groppo in gola e non riesco a non sentirmi sempre più ingabbiata, come una volpe in mezzo ad un branco di lupi, quando i lupi se ne stanno in agguato e nascosti, ma ti braccano lo stesso e te lo fanno comprendere sbarrandoti a poco a poco la strada, distruggendoti ogni singola via di fuga. Porto la luce del telefono verso quella parte di corridoio che non riesco a vedere. È l’unica via che m’è rimasta da percorrere, e, francamente, inizio ad essere contenta che almeno una ce ne sia.

 

Prendo in mano quel poco del mio coraggio che m’è rimasto e semplicemente avanzo. Porto anche una mano sullo stomaco, nemmeno avessi una tremenda paura di rimettere di nuovo da un momento all’altro, dopotutto qui ne ho viste già abbastanza di cose per potermi permettere di sospettare che il mio stomaco non sia capace di reggerne delle altre. Sta di fatto che avanzo, addentrandomi a poco a poco in quel buio che rischiaro appena, di una luce fioca e tremolante, semplicemente perché mi trema la mano con la quale tengo il telefono.

 

Ce l’ho in testa quella meldetta canzone, non riesco a togliermela dai pensieri, mi ha rigirato ogni singolo neurone e me la canticchio persino, come uno di quei famosissimi tormentoni estivi che alla fine ti fanno venire il voltastomaco per quante volte li senti, ma, giustamente, se così non fosse, non sarebbero “tormentoni”. Sento le ginocchia bruciare ancora un poco, ma niente di eccessivo, a mano a mano quel dolore sta passando sempre di più. Si fa sentire giusto perché sto cercando di camminare quanto più rapida possibile, ma senza iniziare a correre, inciamperei, goffa come so essere io, quindi mi limito a quella camminata spedita della quale non riesco a fare a meno. Qualsiasi cosa qui sotto sembra esistere da millenni per quanto è andata a male. Alla fine arrivo sì, ma la tachicardia non fa che aumentare. Mi rendo conto di essere Davvero in trappola.

 

Qui non c’è nulla, sono arrivata alla fine di quel corridoio e l’unica cosa che vedo di fronte a me è uno stupidissimo, quanto sudicio muro che

 

{Though I know not what you are, Twinkle, Twinkle little star…}

 

non mi fa andare oltre quel misero punto. Bloccata, bloccata del tutto.

 

Mi volto di scatto, ed alle mie spalle per lo meno non vedo un mondo tutto nuovo, stavolta non è cambiato nulla. Ho ancora due vie d’uscita da quel posto, due porte vecchie e dai cardini arrugginiti, due porte da provare, due porte per cercare di fuggire definitivamente di qui. Torno indietro quindi, con il passo spedito di poco prima, sino a fermarmi alla prima delle due porte che incontro, tanta è la voglia ti uscire di nuovo da lì. Provo ad aprirla, sì, ma non si sposta, e mi trovo anche a strattonare, feroce, con aria spaventata di chi si sente sempre più in trappola e la brutta sensazione che sia chiusa anche l’altra. Lo sguardo si posa indagatore poco più in là. Punto anche la luce sull’altra porta ancora più arrugginita e verso di quella ci corro, anche solo per levarmi di dosso il brutto presentimento riguardante il suo poter essere aperta o chiusa. Abbasso la manigia, strattono con foga e quella si apre anche.

 

Rimango immobile per significativi secondi. In quei movimenti veloci ho lasciato cadere a terra il fazzoletto, ed inizio ad immaginare che quello sia divenuto solo una poltiglia orrenda. Socchiudo le palpebre e finisco di aprire la porta. E’ buio, anche qui. Torno a tirare su il telefono ed illumino quei pochi metri avanti a me. Pare essere un laboratorio o qualcosa di molto simile. In un laboratorio ci sarà pure una luce, no? Volto il capo prima a sinistra e faccio scorrere lo sguardo sul muro, questo non è rovinato, affatto, è di un bianco immacolato e perfetto, in quelle mattonelle pallide. Allungo una mano e non fatico a trovare l’interruttore…

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Capitolo 5
*** Mr Puppeteer ***


Chiedo umilmente venia per la pausa presa senza alcun preavviso dalla scrittura dei capitoli, ma è vacanza anche per me e non ho potuto fare a meno di staccare un poco dallo schermo del pc. Ad ogni modo, questo è il quinto capitolo e, fatte le poche premesse di cui sopra, godetevi i risvolti. =)

*§*EvilGrin*§*

 

L’interruttore scatta in un lieve “click” che riesco a sentire a malapena, lo sguardo ci mette un po’ ad abituarsi a tutto quel chiarore che si sprigiona dalle luci asettiche della stanza. Le mattonelle per terra sono pallide, così come anche le mura e tutto il resto. Si presenta ai miei occhi come un laboratorio, sembra molto simile ad uno studio dentistico per molti versi, ma soprattutto per quella poltrona di un celeste pallido posizionata un po’ sulla sinistra, di fronte ad una lamina in metallo piazzata sul muro, ci sarà circa un mezzo metro da per terra a quella lastra, sotto di essa, a posto delle mattonelle chiare che caratterizzano la muratura del posto vi è una grata, questa sì, al contrario di tutto il resto presente lì dentro, è arrugginita e sembra poter cedere da un momento all’altro. La stessa grata non s’arresta al terreno, ma continua la sua esistenza sino a sotto la poltrona da seduta dentistica. Lì vicino c’è anche un carrellino, sopra di questo vi sono pinzette, bisturi ed un ammasso marcio di materia organica di tipo non identificabile, oramai, puzza solamente e qualche mosca si posa di tanto in tanto sopra quella che dal suo punto di vista deve essere una squisita e succulenta cena. Sento che sto per rimettere di nuovo…

 

Scosto lo sguardo onde evitare movimenti a livello intestinale che ora come ora gradirei evitare, provare l’esperienza una volta mi basta eccome. La cosa che più colpisce di quel posto è lo stacco, c’è un forte ed evidente stacco tra l’ambiente del sottopassaggio, pregno di quell’odore rivoltante, fratture nella muratura, muffe,

 

{Though I know not what you are, Twinkle Twinkle little star…}

 

rose morte, appassite, rovinate e putrefatte in pochi minuti, forse addirittura meno di un quarto d’ora, o magari la paura è stata davvero tanta da bloccarmi sul posto per tanto tempo senza nemmeno accorgermene. Lo stacco. Lo stacco è forte e t’investe, l’unica fonte di puzza, lì dentro, è quel mucchietto marcio sul carrelino, ma per il resto l’aria è satura solo di silenzio, un silenzio inquietante che fa male alle orecchie quasi. Lascio scorrere lo sguardo scuro lungo i banconi da laboratorio che sono lì dentro, a parte qualche beaker e matraccio sparso qua e là, un contenitore graduato sbeccato e dei vetri per terra che una volta doveva far parte di quella magnifica collezione di contenitori trasparenti.

 

Faccio qualche passo verso l’interno, stentando per ovvie ragioni a chiudere la porta, mi premuro, anzi, di allungare un braccio per recuperare quello che sembra un canevaccio sporco e lacero in più punti, lo poggio per terra, vicino allo stipite della porta, socchiudendo alla fine quella e lasciando che la massa di stoffa le impedisca di chiudersi del tutto anche se sospinta. Percepisco il respiro regolarizzarsi a poco a poco, come se questo posto alla fine mi mettesse a mio agio, come se lo considerassi quasi un porto, una piccola luce prima del fondo del tunnel. Sono viva, non sento ancora fame, forse un pizzico di sete, ma niente di eccessivo, potrò resistere ancora un bel po’, su questo non ci piove. Il rumore delle ballerine sul pavimento candido inonda la stanza di un rumore ovattato e quasi piacevole da udire, ritmico, seppur lento. Scorgo solo adesso la scala in fondo alla stanza, laddove la luce non arriva quasi per niente e le ombre sono molto più fitte e scure di quelle presenti dove sto io. Un neon, solo uno di cinque funziona e, di conseguenza, la stanza rimane per la maggior parte in penombra.

 

Avanzo, convinta di aver scorto in cima a quella scala, su quel piccolo soppalco che tanto somiglia al terrazzo di casa mia, se solo vi fossero dei fiori ed il cane ad abbaiare, l’angolo destro di quella che dovrebbe essere una porta scura, che potrebbe rivelarsi la mia via di fuga e la mia salvezza. Avanzo dunque, finendo per altro con il lasciar scivolare lento ed attento lo sguardo sulla superficie del banco da

 

{Though I know not what you are, Twinkle Twinkle little star…}

 

laboratorio. Interrompo il passo di colpo, sgrano gli occhi e sento l’ennesima ondata di gelo che mi penetra nelle ossa, quel gelo che prende il nome di paura in certi casi. Un ticchettio, sembra un ticchettio quello che sento tutt’attorno a me. Passa da destra e sinistra, da sinistra a destra, adesso è sopra, ora sotto, adesso sembra quasi che ce l’abbia alle spalle. Mi volto di scatto, ritrovandomi a fissare, bianca quanto un fantasma, la porta ancora socchiusa, il canevaccio al suo posto, l’interruttore della luce premuto verso il basso, le orme di sporco appena accennato delle ballerine, il vetro del beaker a terra, niente che non ci fosse anche prima, lo stesso ticchettio pare essersi interrotto al medesimo mio spostamento.

 

Torno a girarmi in avanti, e mi ritrovo a sobbalzare violentemente, un sospiro di pura paura quello che mi esce dalle labbra, smuovendo una sottilissima ciocca di capelli scuri che deve essere sfuggita all’elastico per trovarmela di fronte alle labbra, che attraversa la visuale di uno degli occhi corvini. Una figura scura, che m’è parsa essere una sola e misera ombra, ma c’era in quell’attimo in cui l’ho vista, e quella misera ombra in quel momento non mi è sembrata affatto misera, piuttosto imponente, sembrava avesse una tunica, una lunga tunica che sfiorava il pavimento, così come il presunto cappuccio ne celava totalmente il capo, leggermente chino in avanti e con le mani congiunte. Potrei giurare che fosse un prete, un prete, sì…somigliava tremendamente ad un prete, peccato che trovare un prete in un posto del genere non è esattamente la cosa più ovvia di questo mondo.

 

-Padre? – domando, nella speranza di vederlo riaffiorare e ritrovare davvero un prete, monaco, cappuccino, qualsiasi cosa di vivo e santo possa esserci sulla faccia della Terra. Ho bisogno d’aiuto e non disdegno affatto quello che potrebbe darmi un uomo di chiesa, certo non sono rinomati per i loro begli atteggiamenti, ma ora come ora me ne infischio altamente e semplicemente riprendo a muovere dei passi di fronte a me, sino ad arrivare a circa quattro metri da quelle scale, ma niente, non c’è traccia minima di

 

{When the blazing sun is gone, when there nothing shines upon…}

 

quell’ombra vista solo per poco.

 

Sento il cuore in gola, quella pessima sensazione delle vene che pulsano troppo forte e riesci per questo a percepirle in ogni singolo battito cardiaco, di quando il sangue viene pompato con foga, per la tensione, l’ansia, la paura, la stessa adrenalina, perché non si può nemmeno negare che non ci sia la buona dose d’adrenalina in tutto ciò, è come stare in un videogame, come viaggiare tra le stanze sfatte di un gioco da console, ma sin troppo reale al momento e, per quanto la cosa possa apparire eccitante vista dall’esterno, a me mette addosso una dose d’angoscia non trascurabile. Umetto le labbra, prendo un profondo respiro per riuscire a riprendermi il minimo che possa consentirmi di spostarmi di lì, ed alla fine adocchio le scale. Mi avvio verso queste, riempiendo di nuovo il silenzio del laboratorio, o presunto tale, di nuovo del rumore ovattato delle ballerine rosse, oramai anche piuttosto sporche, tra la polvere della ghiaia dei binari e la lordura varia di quel sottopassaggio.

 

Poggio delicatamente la mano sullo scorrimano che costeggia quella scala in ferro, a tratti arrugginita, indubbiamente spartana, non c’è nulla di bello o anche solo definibile “moderno” in queste scale, sembrano vecchissime scae anti-incendio e niente più, eppure sono all’interno, di solito sono poste esternamente. Nemmeno me ne rendo conto subito, che per riflesso involontario ho sfilato la mano dallo scorrimano, probabilmente i pensieri inconsci riferiti allo schifo toccato quando cercavo quello delle scale del sottopassaggio ed ho incontrato invece i…vermi, sì, oramai per me sono vermi.

 

Le scale finiscono in poco tempo alla fine, e sì, c’è una porta di quel piccolissimo soppalco, prego Dio che sia aperta e che possa permettermi di uscire ufficialmente da quel posto e riuscire quindi a chiedere indicazioni a qualcuno, magari che abbia una bella faccia..o che ispiri in qualche modo fiducia, non so perché ma inizio a pensare che da qui a qualche minuto potrebbe spuntare fuori una brutta copia di Jack lo Squartatore, pronto ad asportarmi l’utero dandomi della “troia”. Faccio per abbassare la maniglia ma non posso non scattare all’indietro quando qualcuno, dall’altra parte della porta, lo fa al posto mio, la tira giù e la apre, lentamente, mentre la mia schiena sbatte contro la ringhiera che da sul laboratorio di sotto, le mani cercano in maniera frenetica di aggrapparsi ed alla fine ci riescono, aggrappate con forza a quella ringhiera in ferro, con lo sguardo dritto avanti ed il respiro fermo, spaventata e consolata allo stesso tempo che ci sia qualcuno.

 

-Madame, la prego, non si spaventi, sono io…dovrebbe riconoscermi, è da un po’ che mi hanno eletto sindaco delle valli in..inca…incantate! Sì, le valli stonate, lo ha sentito anche lei no? Può chiamarmi Puppeteer, senza che si scomodi a chiamarmi Signor, e poi io nemmeno mi chiamo Signor, che strano modo hanno i turisti di farsi conoscere, piacere Signor Puppeteer, ed è da loro che ho scoperto di fare di cognome Signor, e lei? – svitato. Fantastico! Mancava un pazzo, dopo la ferrovia strana ed il sottopassaggio all’odore di fogna mi mancava il pazzo di turno.

 

Ha i capelli castani, con sfumature rossicce, un po’ più lunghi avanti, compare al massimo vent’anni e non di più. Le iridi viola, di un viola intenso, le labbra rosso scuro, che quasi pare nero in assenza di luce. Un cappotto blu acceso, con la doppia fila di bottoni a chiuderlo davanti, quelli sono dorati. Una bordatura rossa al limite del cappotto, delle strisce dorate che lo fanno sembrare tanto un domatore di belve feroci, un sottile fiocco rosso a tenere fermo e chiuso il colletto di una camicia bianca, che spunta da sotto il cappotto in dei pizzi voluminosi. Un paio di pantaloni blu come il cappotto, un paio di guanti bianchi alle mani ed un capelli a cilindro in testa.

 

 E..mi porge la mano, sembra stia aspettando solo che io l’afferri ed anche con un enorme sorriso sul volto, contento, allegro e sereno, per rischiarare l’atmosfera l’alleggerisce e non poco, ma mettetevi nei miei panni. Non solo mi sono completamente persa ed ho il sentore di trovarmi in un film dell’orrore, ma mi ritrovo anche faccia a faccia con uno più matto di un cavallo. La voglia di correre giù per le scale è troppa, ed è quello che il corpo fa, lo fa da sé.

 

Lo fisso ad occhi sgranati, le labbra dischiuse ed il muscoli che tremano ora come ora. Lo fisso per pochissimo prima di provare a scattare verso le scale che poco prima ho salito…

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