We're just two lost souls swimming in a fish bowl. di cranium (/viewuser.php?uid=169605)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Occhi. ***
Capitolo 2: *** Mani. ***
Capitolo 3: *** Labbra. ***
Capitolo 4: *** Braccia. ***
Capitolo 5: *** Cuore ***
Capitolo 6: *** Orecchie. ***
Capitolo 7: *** Piedi. ***
Capitolo 8: *** Testa. ***
Capitolo 9: *** Gambe. ***
Capitolo 1 *** Occhi. ***
We ’re just two
lost souls
swimming
in a fish bowl.
“And
did they get you trade your heroes for ghosts?
Hot
ashes for trees? Hot
air for a cool breeze?
Cold
comfort for change? And
did you exchange
a
walk on part in the war for a lead role in a cage?”
Pink
Floyd
Le sensazioni sono
soggettive.
Dipendono, come ben
si sa, da dove siamo stati cresciuti e da come siamo stati educati.
Per lui il vento che
tirava leggero dalla costa, l’odore del pane salato e
l’afa e l’umido che si legavano ai capelli
rendendoli crespi, sapevano di casa e di pace.
Il sole che gli
riscaldava la pelle abbronzata, gli sguardi intensi e pieni di tutta la
forza del mare in burrasca della sua gente, e quel modo di camminare
lento e strascicato degli abitanti del Distretto 4 lo facevano sentire
tranquillo come non lo era da molto tempo.
Erano sensazioni
buone, di quelle che ti scaldano il cuore e la pelle, di quelle che
speri non ti scivolino via dalla dita, di quelle che vuoi che si
esauriscano con te.
Ma le sensazioni
buone, si sa, sono sempre accompagnate da quelle negative.
Si sentiva sporco, si
sentiva marchiato come un manzo pronto per il macello.
Ogni notte passata
tra lenzuola, volti e profumi diversi, ma che gli sembravano tutti
uguali, a Capitol City ripensava a casa sua prima degli Hunger Games,
alla loro staccionata marcia, alla porta che non si apriva, alle
imposte scure sempre chiuse, alla camera dove dormiva sotto quelle
lenzuola grezze, ma soprattutto quanto lo rendevano felice le piccole
cose, come il sorriso di sua madre, un bacio sulla testa prima di
addormentarsi.
Pensava a sua madre
che lo aspettava ogni volta, e che quando sarebbe tornato a casa lo
avrebbe costretto a mangiare doppia razione di tutto per fargli mettere
su qualche chiletto, pensava a suo padre che una notte era partito per
pescare e non era più ritornato, pensava alla barca che era
l’unica cosa che era stata trovata dagli altri pescatori e
pensava a se stesso, che ormai era solo un involucro vuoto, una
marionetta nelle mani di chi era più potente di lui, un
giocattolo per chi lo desiderava ardentemente.
Aveva bisogno di
riempirsi di tutte le sensazioni positive che riusciva ad immagazzinare
per sopravvivere a Capitol City; ecco perché era tornato nel
suo Distretto 4, per questo e perché si stava avvicinando il
suo diciannovesimo compleanno.
Il Presidente Snow
aveva organizzato, per lui e per gli altri abitanti del Distretto,
un’enorme festa: per quel giorno i pescatori avrebbero
abbandonato le reti e avrebbero dedicato la loro attenzione a Finnick
Odair, il bel vincitore sei Sessantacinquesimi Hunger Games.
“Che la fortuna possa essere a
mio favore” pensava mentre raggiungeva il
Villaggio dei Vincitori dalla stazione adiacente il Palazzo di
Giustizia “ancora una volta.a”
Non aveva infatti
voglia di sentire la gente che lo idolatrava e che lo toccava come per
rubare un po’ di lui, perché ormai non aveva
niente ne per se ne per gli altri.
Non aveva sorrisi
finti da dispensare o frasi poco intelligenti da dire, voleva solo
raccogliere i brandelli di quello che era per poi farsi distruggere e
ricominciare da capo.
Così era
la sua vita, un domino infinito, un pezzo faceva cadere tutti gli altri
inesorabilmente, mentre lui tentava di tirarli di nuovo su qualcuno li
faceva crollare di nuovo.
Di nuovo e ancora.
Arrivò a
casa e fece per salire le scale per andare in camera sua.
-Finnick.-
-Mamma sono stanco.-
le rispose mentre lei si avvicinava per sistemargli i capelli sulla
fronte.
La sua bella mamma,
con i capelli del color del bronzo come i suoi, con i suoi occhi scuri
dai quali sembrava che ogni singola gioia fosse stata strappata via con
la forza, sua mamma che lo vedeva esattamente come era, non come
volevano gli altri, non come lo vedevano gli altri.
-Dopodomani è il tuo
compleanno.-
-È anche la festa del
mare- disse -ma
nessuno sembra ricordarsene.-
-Forse perché il tuo
compleanno è importante.-
-Sembra che importi
più agli altri che a me.-
-Vuoi qualcosa di speciale per la
tua festa?-
-Portami via da qua.-
rispose appoggiando la testa sulla spalla della madre che
iniziò ad accarezzargli i capelli.
Inspirò il
profumo dalla pelle del collo della madre: sapeva di mare, sapeva di
sale, sapeva di tutti quegli odori che lui aveva perso, sapeva di tutto
quello che lui sarebbe voluto essere.
-Lo sai che non posso, ma ti
prometto che ti divertirai.-
Un fenomeno da
baraccone ecco cos’era, vestito come se gli importasse
qualcosa del pensiero di quelli che lo fissavano nei suoi vestiti
costosi, con gli occhi truccati come la più infima tra le
prostitute di basso borgo e un sorriso finto stampato su quelle labbra
false e perfette allo stesso tempo, un tripudio di
volgarità, ecco come lo avevano trasformato due ore e mezzo
con i suoi “collaboratori”, che poi quelli di
collaborare non ne avevano proprio l’intenzione.
Gli aveva chiesto
qualcosa di semplice e loro non lo erano stati a sentire:
-Dobbiamo seguire gli ordini del
Presidente Snow- gli aveva detto una donna grassottella
dalla pelle dalla tinta verdognola che gli ricordava tanto i ragazzi
con il mal di mare dopo la loro prima volta su un peschereccio con gli
adulti, che gli saltellava attorno con matite e ombretti –vedrà che il lavoro
quando sarà finito le piacerà un sacco.-
Di questo era certo,
un sacco se lo sarebbe messo in testa molto, ma molto volentieri, ma lo
sapeva, il Presidente voleva fargli solo capire quale era e quale
sarebbe stato il suo posto, quello della prostituta, dello schiavo dei
piaceri di Capitol City, bello, certo, dannatamente bello e
affascinante, ma sempre uno schiavo, uno stupido uccellino chiuso in
una gabbia dorata per sempre, tra il becchime migliore, i vestiti
più alla moda, a volare in eterno sotto una cupola
invalicabile come quella dell’Arena.
“I Giochi per me non avranno mai
fine” pensava amaro mentre stringeva la mano a
tutti quelli che gli si paravano davanti spinto da dietro da sua madre
che tentava di fargli conoscere più persone possibili, gli
prendeva la manica della giacca e lo tirava dall’altra parte
della Piazza gremita di tutti quelli che erano venuti per festeggiare
il suo compleanno.
“Benvenuti alla celebrazione di
questo essere imperfetto!” avrebbe voluto
gridare, ma si astenette.
Tutti lo credevano un
eroe, era uno dei più giovani Vincitori dei Giochi della
Fame, un mito, una leggenda, ma lui sapeva di non esserlo.
Ad un tratto nessuno
sembrava avere più occhi per lui: in mezzo alla Piazza
quattro Pacificatori stavano trasportando una grossa torta, quel dolce
era stato preparato appositamente per lui dai quattro migliori
pasticceri di tutta Panem, e dalle dimensioni si intuiva che doveva
esserci voluto parecchio tempo per prepararla e decorarla.
Naturalmente nessuno,
o quasi, aveva mai visto una cosa del genere, e tutti erano rimasti
veramente colpiti, prelibatezze del genere non erano facilmente
reperibili se non in circostanze veramente speciali.
Finnick
approfittò dell’occasione per lasciarsi alle
spalle la Piazza.
Le onde basse si
rifrangevano sugli scogli modellati da anni e anni di erosione, nella
spiaggia adiacente al molo dove erano attraccati i pescherecci dei
pescatori non c’era nessuno, era vuota.
Solo una ragazza
stava seduta rigidamente sulla sabbia calda, mentre lasciava che le
onde le lambissero i piedi piccoli e scalzi, e si rigirava tra le mani
un piccola ghirlanda di fiori bianchi e gialli.
La conosceva di vista.
Aveva due anni in
meno di lui e avevano frequentato la stessa scuola.
Non gli era mai
piaciuto studiare, ma sua madre aveva insistito tanto perché
finisse gli studi anche dopo aver vinto gli Hunger Games.
Infondo non era
così male, tutti i ragazzi lo volevano come vicino di banco
e tutte le ragazze volevano un suo bacio e lui raramente rifiutava.
Il problema erano i
professori che gli chiedevano spesso di raccontare la sua vita
nell’Arena, e lui non voleva ricordare tutto quel sangue che
lui stesso aveva contribuito a far scorrere, tutti quegli occhi che lo
guardavano impotenti e supplicanti mentre lui gli piantava il tridente
nella viscere, perché i Giochi della Fame sono
così, o uccidi o vieni ucciso, o sei predatore o per forza
sei preda, ne sopravvive solo uno, e per essere quello non bisogna
risparmiarsi nulla.
Un giorno era seduto
sul muretto del cortile e osservava una strana ragazzina
scalza, che indossava un leggero vestitino a scacchi blu e verde scuro,
che frugava con le mani sotto i sassi, tra l’erba
più alta, sui rami degli alberi, poi lo vide e gli si
avvicinò saltellando.
-Ciao, hai preso tu le mie scarpe?-
chiese sorridendo.
Non era poi quella
gran bellezza vista da vicino, con quei capelli crespi tenuti
giù da un semplice cerchietto, magrolina e piuttosto bassa e
le labbra fini screpolate, ma gli occhi erano i più belli
che lui avesse mai visto, blu come il mare, ma non di quel colore reso
terroso dalla sabbia smossa dai piedi vicino alla riva, ma di quel
colore del mare dove scommetti con gli amici su chi toccherà
per primo il fondo dopo un tuffo, dove si gettano le reti e si porta
sul peschereccio il pesce abbondante.
-Vuoi un bacio?- le
chiese mentre tentava di non affogare nel suo sguardo.
-In verità io volevo
solo le mie scarpe.-
-Non le ho io le tue scarpe!-
rispose un po’ infastidito.
-Peccato.- e se ne
andò salutando con la mano e tornando a cercare.
“Peccato veramente”
si ritrovò a pensare.
-Nda-
La
mia prima storia per il fandom di Huger
Games,
è una Finnick/Annie
ambientata prima e durante i Giochi
della Fame
della ragazza, e forse –dico forse- anche dopo.
Non
supererà i dieci capitoli al massimo, anzi prevedo che
saranno molti di meno.
Spero
che il primo capitolo vi sia piaciuto.
Il titolo “We’re
just two lost souls swimming in a fish bowl” è
preso dalla canzone “Wish
you were here” dei Pink
Floyd
come la citazione iniziale e significa “Siamo
solo due anime perse che nuotano in una boccia di pesci”.
Un
bacio
cranium
|
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Capitolo 2 *** Mani. ***
We’re just two
lost souls
swimming in a fish
bowl.
"È
sufficiente guardare le mani
per capire cosa
è
una persona."
Antonio Castronuovo
Il coraggio
è una virtù che non tutti possono vantare di
possedere.
Magari
davanti alla più grande delle avversità
l’adrenalina ci scuote e ci fa combattere
contro tutto e tutti, ma di fronte a una semplice ragazza le gambe si
fanno
tremanti e non riusciamo ad avvicinarci per parlarle o anche solo per
guardarla
meglio.
Il coraggio
ci manca, e allora le gambe non ci sorreggono più, la gola
diventa secca, le
budella si attorcigliano, il sangue sembra fluire più
lentamente nelle vene, e
la testa diventa più confusa del solito; non tutti sono
preparati e abituati a
queste sensazioni negative, soprattutto quelli che vengono considerati
dei cuor
di leone, degli idoli, degli esempi da seguire, e allora la terra nuda
sotto i
nostri piedi diventa scivolosa e non ci resta che strisciare per andare
avanti.
Strisciare ci
porta a contatto con la terra che ci ha generati e a molti questo non
piace,
perché sono abituati a essere innalzati al cielo, a essere
portati in trionfo o
sul palmo della mano di altri e perciò si sentono
vulnerabili.
I vermi sono
coloro che strisciano a terra, i morti di fame, i Perdenti e altri
insetti, non
i Vincitori, non le autorità, non i privilegiati, non quelli
che sembrano
portare il mondo sulle loro spalle possenti, ma poi camminano sulle
teste degli
altri schiacciandole come limoni, e quindi per imparare e per
convincersi a
strisciare bisogna scendere a compromessi con noi stessi, con il nostro
ego
smisurato e con tutto ciò che esso comporta su di noi e per
noi.
Quante volte
era stato costretto-aveva dovuto scendere a compromessi lui?
Quando aveva
barattato la sua integrità morale con una manciata di
polvere di celebrità.
Quando aveva
scambiato il suo corpo per la salvezza della sua famiglia e dei suoi
cari.
Ma quella
volta gli era sembrato tutto così facile.
Gli sembrava
che le gambe lo stessero trasportando da sole senza essere legate al
suo
cervello, probabilmente la curiosità la stava avendo meglio
sulla sua già poca
razionalità, perché quella ragazza era
lì? Perché non era con tutti gli altri a
festeggiarlo?
E
soprattutto perché non c’era lui?
Perché
era
venuto in spiaggia?
Perché
si
stava dirigendo verso quella ragazza?
Strisciò
perché non vi era altra soluzione.
Strisciò
perché era l’unica cosa giusta da fare.
Si
avvicinò
cautamente, ma lei sembrava non averlo neppure sentito,
continuò a camminare e
a ogni passo si sentiva più leggero, come se tutto quel peso
che lo opprimeva
da dentro stesse
evaporato, come se la
sabbia calda che gli entrava nelle scarpe invece di infastidirlo lo
stesse
tranquillizzando.
<< Non
hai ancora trovato le tue scarpe? >> disse
tentando di fare lo spiritoso
accennando ai piedi scalzi della ragazza.
Lei non si
scompose e rimase in silenzio, poi azzardò con un
sussurrò:
<<
Auguri.
>>
<<
Grazie.
>>
<<
Mi
dispiace di non essere potuta venire alla tua festa, ma sai oggi
è la Festa del
mare e sapevo che nessuno sarebbe venuto, sai la gente pretende sempre
senza
mai dare nulla in cambio, e allora ho pensato di venire per darGli la
mia
ghirlanda, magari non si arrabbia. >> e
così lanciò i fiori tra le onde.
Si sedette
accanto a lei.
<<
Ti
sei truccato? >> chiese un po’
ingenua.
<<
Mi
hanno truccato? >> rispose sulla difensiva.
<<
Sai
chi mi ricordi? Quel clown che era venuto per il tuo quindicesimo
compleanno.
>>
Se lo
ricordava quell’uomo, con quei vestiti sgargianti e colorati,
nessuno aveva mai
visto una cosa simile al Distretto, era sceso dal treno vicino al
Palazzo di
Giustizia e si era diretto in fretta e furia, seminando brillantini
ovunque,
alla scuola dicendo a tutti che era venuto per festeggiare il signorino
Odair.
Tutti ne
erano rimasti affascinati, non si parlava d’altro che di lui,
del suo buffo
naso, dei suoi occhi truccati a tutti era piaciuto tanto, ma una
piccola ragazzina,
dagli occhioni blu e un vestitino color pesca, era scappata via appena
lui le
aveva chiesto in che classe si trovasse il festeggiato.
<<
Ti
faccio paura anche io? >>
<<
No,tu sei più buffo. >> rispose
toccandogli le palpebre socchiuse con i
polpastrelli per poi sdraiarsi e iniziare a giocare con la sabbia e con
i
capelli.
Non sapeva
da quanto tempo fossero lì, se qualcuno lo stesse cercando,
era lì in silenzio
a guardare il mare, era da tantissimo che non si sentiva
così.. libero.
Era una
sensazione che non provava da tanto quella della libertà,
come un bruco che
recide il suo bozzolo sicuro e prova l’ebbrezza del primo
volo, da farfalla,
che sfoggia i suoi migliori colori al vento e che passa di fiore in
fiore per
far si che le sfumature dei petali sembrino poco brillanti, che
l’erba
rabbrividisca al solo sentire l’aria smossa dalle sue forti e
belle ali.
La
libertà è
come la farfalla: ha vita molto breve, ma intensa.
La
libertà è
una sensazione effimera, ma troppo piacevole per non essere goduta fino
in
fondo, troppo vera perché non valga la pena di essere
assaporata dolcemente.
Lei era
libera, lo vedeva.
In quegli
occhi che avevano tutta l’intensità del mare.
In quei
capelli ribelli.
In quelle
gambe magre che sembravano nate per correre.
In quelle
dita lunghe, ancora sporche del suo ombretto blu, callose, da donna che
ha
imparato che il pane non si porta a casa con le parole, anche se
così giovane,
con le unghie rovinate e i polpastrelli cotti dall’acqua e
dal sale.
Guardò
le
sue di mani, così curate, profumate, idratate, le unghie
finte e laccate e
provò vergogna, un’immensa vergogna e
provò a nasconderle sotto la sabbia per
non fargliele notare.
<<
Le
mani possono farci capire molto di una persona lo sai?- disse lei
mentre lui
imprecava mentalmente –non dovresti nasconderle, possono
dirci quanti anni
abbiamo, da che Distretto proveniamo, che lavoro facciamo.
>>
<<
Ho
diciannove anni, vengo dal Distretto 4, anche se non sembra, faccio il
mantenuto di Capitol City, tu?>>
<<Diciasette
anni, vengo dal Distretto 4, la mia famiglia si occupa di coralli e
anche io.
>>
<<Non
so neppure come ti chiami.. >>
Lei si
voltò
di scatto, gli porse la mano e sorridendo disse:
<<
Annie Cresta, e qualcosa mi dice che tu sei Finnick Odair!>>
<<
Ma
come hai fatto a indovinare? >>
<<
Semplice intuizione. >>
gli sorrise.
La
libertà è
come una farfalla.
Annie
è
libertà.
Annie
è una
farfalla.
Si
alzò e si
scrollò la sabbia di dosso, aprì le braccia e
fece una lenta giravolta si se
stessa, prese un lembo del vestitino bianco che indossava e se lo
sfilò.
Per un
attimo rimase senza parole, cosa stava cercando di fare quella ragazza?
<< Non
vieni a fare un bagno? >>
Dopo aver
assaporato
la libertà, anche solo per poco, il peso delle catene si fa
più opprimente.
Sembrano
voler recidere la pelle per farti capire qual è il tuo
posto, tra le loro spire
che si attorcigliano al corpo come tanti serpenti che ti iniettano il
loro
veleno.
Meglio
negarsi ogni gioia o soffrire appena torniamo alla normalità?
NdA
Questo
capitolo a me piace molto.
Ormai
si
iniziano a definire i personaggi principali, il loro carattere e il
loro modo
di affrontare le cose.
Spero
che
sia piaciuto anche a voi.
Il
titolo è
preso dalla bellissima canzone dei Pink
Floyd
“Wish
you were here.”
Grazie
a chi
ha messo la storia tra le seguite e naturalmente a chi ha recensito, mi
ha
fatto molto piacere sapere che la storia vi sia piaciuta.
Spero
continuerete a seguire la storia.
Prima
di
dimenticarmene: voi come rispondereste all’ultima domanda?
Negarsi
ogni
gioia o soffrire ogni volta che torniamo alla normalità?
Un
bacio.
cranium
|
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Capitolo 3 *** Labbra. ***
We’re just two lost
souls swimming in a fish bowl.
Le
parole d'amore che sono sempre le stesse,
prendono sapore dalle labbra
di chi le pronuncia.
Guy
de Maupassant
Le
emozioni, quelle più intense, si esauriscono
nell’arco di un respiro caldo sulla pelle nuda, di una
carezza dolce sul viso, di un bacio sulle labbra.
Si esauriscono
così velocemente, certe emozioni, come la flebile e debole
fiamma di una candela di cera che si brucia per la mancanza di ossigeno
sotto una piccola, ma spessa campana di vetro, che non riusciamo ad
assaporarle come vorremmo, non riusciamo a viverle, non riusciamo a
farle diventare nostre.
Ed è in
questo modo che molti di noi stanno, sotto una campana di vetro scuro e
pesante, protetti sì, dalle delusioni e dai problemi della
vita, ma così costretti a guardare gli altri che passeggiano
mano nella mano, a guardare gli altri che gioiscono e che soffrono
senza poter fare nulla, senza potersi muovere, senza potersi opporre, e
alla fine si consumano come il fuoco della candela e di loro resta il
nulla, se non l’odore acre e intenso di bruciato e un poco di
fumo.
Finnick non voleva
consumarsi, voleva ancora vivere, vivere secondo le sue regole, secondo
le sue idee, voleva potersi aspettare qualcosa di più dal
suo futuro, e aspettava solo qualcuno che sollevasse per lui il vetro
della sua campana perché lui non ne era ancora in grado.
La giornata oramai
era finita e il sole tramontava all’orizzonte, il mare era
calmo come le era stato tutta la giornata e il suo movimento lento e
pacato lo tranquillizzava non poco.
Non era tornato alla
sua festa di compleanno e nessuno lo era venuto a cercare, e anche se
fosse stato così, lui, non sarebbe tornato nella Piazza
nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Gli altri lo vedevano
come una bestia esotica da circo, da guardare e punzecchiare, da
ammirare per la sua forza e per la sua bellezza, per la sua belle
dorata, per le sue labbra piene e carnose, da mettere sotto sedativo se
troppo agitata, se decide di ribellarsi, ma lui era qualcosa di
più che un animale da Arena, e adesso che qualcuno era
venuto per aprire la porta della gabbia d’oro che lo teneva
chiuso dentro di se e liberarlo non lo avrebbero riportato dentro tanto
facilmente, nemmeno la più solida delle catene lo avrebbe
trattenuto.
Avrebbe graffiato,
morso, ringhiato, avrebbe inarcato la schiena, avrebbe fatto tutto
quello in suo potere per rimanere libero, finalmente, una volta per
tutte.
Annie si era
addormentata da più di dieci minuti e lui non riusciva a non
guardare il suo petto che si alzava e abbassava a ritmo del suo respiro
lento e regolare e a non accarezzarle i capelli lunghi e castani che si
stavano asciugando con gli ultimi raggi di sole della giornata che
ormai arrivava al termine.
<<
Annie, svegliati, dobbiamo andare. >> le disse piano e
sottovoce vicino all’orecchio.
Ma non
riuscì a svegliarla.
Osservò le
sue labbra socchiuse, che sembravano più grandi e morbide da
quella volta che l’aveva vista anni prima, quelle labbra
screpolate per colpa dell’acqua.
<< Non
mi fissare. >> mugolò infastidita rigirandosi
nella sabbia.
<< Non
ti sto fissando. >> si giustificò lui.
<< Se
aspettassimo cinque minuti? >>
<<
È tardi, i tuoi ti staranno cercando.
>>
<< Hai
fatto aspettare tutto il pomeriggio la gente del Distretto e io non
posso tardare di cinque minuti? Non hanno nemmeno potuto festeggiare il
loro Campione preferito, il loro Finnick! Lo sai che le mie compagne di
classe sono mesi che cercano un regalo giusto per te? E adesso lasciami
riposare ancora un pochino. >> rispose lei ridendo.
<<
È diverso. >>
<< In
cosa è diverso scusa? >> osservò
con un sorriso impertinente mentre si alzava lentamente e si toglieva
la sabbia che si era appiccicata alla pelle ancora umida.
<< A te
non la si può fare vero? >>
<<
Assolutamente. >>
Non è
facile trovare qualcuno che pensa a te come un forziere nascosto da
trovare e che quando ti trova non guarda l’oro e i gioielli
che possiedi al tuo interno, ma che riesca ad apprezzare il legno
pregiato con cui sei stato costruito, che apprezzi la foggia e la
finezza della tua lavorazione, la stoffa delicata e preziosa di cui sei
foderata e le cerniere dorate che ti permettono di aprirti.
Non è
facile trovare qualcuno che sappia leggerti come un libro, ma che
invece di fermarsi alla copertina decorata, sappia apprezzare di
più, tutto ciò che puoi offrire al mondo, che tu
invece tieni nascosto dal muro spesso di lettere e parole e che bari
solo per arrivare a leggere la fine.
E quando trovi quella
persona ti senti leggero, perché non devi fingere nulla, non
devi essere altro che te stesso, devi solo aprirti e lasciare che ti
scopra fino in fondo.
Che poi andandolo a
scoprire nel profondo, in quello che aveva veramente dentro, se non
ancora un ragazzino spaventato davanti a qualcosa di molto
più grande di lui?
Chi era se non un
ragazzo che desiderava una vita normale che non poteva avere?
Chi era se non una
marionetta nelle mani di Capitol City?
E lei lo aveva capito
subito.
<<
Finnick, dove sei stato tutto questo tempo!? >> lo
sgridò la madre appena arrivato a casa.
<< Devo
raccontarti u.. >> lei lo fermò con uno
sguardo.
<<
Buonasera Finnick.. >> lo avvertì una voce in
cucina che gli fece sgranare gli occhi.
Raggiunse
l’uomo, che con la sua veste curata e scura, lo
invitò a sedere neanche fosse casa sua, al suo tavolino che
la madre aveva lasciato quasi pronto per la lauta cena che lo
aspettava, e probabilmente, presa in contropiede dall’arrivo
dell’uomo, aveva dovuto abbandonare durante la presentazione.
<<
Buonasera Presidente, si ferma a cena da noi? >>
<< Oh,
tua madre mi ha già gentilmente invitato, ma non credo di
poter accettare, sai mi aspettano a Capitol City prima di colazione, ma
grazie mille comunque. >> e gli sorrise.
I modi gentili
dell’uomo lo mandavano in bestia.
Perché non
era gentile, i serpenti non lo sono, i serpenti mordono, iniettano il
loro veleno nel tuo sangue, ti avvolgono nelle loro spire assetate del
tuo respiro, e ti stringono fino a soffocarti.
Era venuto per
riportarlo in gabbia.
Ma non sarebbe stato
così facile.
<<
Finnick ho organizzato questa festa per te nel tuo Distretto, e tu non
ti fai neanche trovare? Non è bello. >>
<<
Avevo voglia di fare un bagno. >>
<< Lo
vedo- rispose guardandogli i capelli ancora umidi –tra meno
di un mese ci sarà la Settantesima edizione degli Hunger
Games Finnick, volevo sapere se è tutto apposto.
>>
<<
Questo doveri chiederlo io a lei, non crede Signor Presidente?
>> rispose impertinente.
Il presidente lo
guardò stupito, cos’era quest’aria di
ribellione?
Cos’era
quella luce nei suoi occhi?
Qualsiasi cosa fosse
andava sedata subito.
<< Ci
vediamo presto Finnick. >> e si alzò lasciando
la casa portandosi dietro di se il consueto odore di rose e sangue, ma
lui lo sapeva, non si sarebbe fatto incantare o disgustare
dall’essenza, sapeva di più di quello che voleva
dare a vedere.
Sapeva che dietro a
quella scia si nascondeva un segreto.
<<
Caro- lo investì la madre abbracciandolo e accarezzandogli i
capelli –ho avuto così tanta paura per te! Non
sapevamo dove eri e poi è arrivato il Presidente, e ho
pensato.. >>
<< Non
preoccuparti mamma, è tutto apposto.. - rispose stringendola
di più a sé – è tutto
apposto. >>
<< Come
fai? >> chiese lei un pomeriggio.
<< A
fare cosa? >>
<< A
lasciare tutto questo.. >> rispose lei indicandogli il
panino che stringeva tra le mani.
<< Di
panini ne hanno tanti anche a Capitol City sai? >>
<< Sai
quello che intendo Finnick.. >>
Lo sa cosa intendeva.
Perché
quel pane era casa, era il suo Distretto, verde acqua come i suoi
occhi, come quelli di sua madre, salato come il mare, salato come
sicuramente lo erano le labbra di Annie.
<<
Vorrei portare tutto con me, Annie, vorrei non dover mai andare via,
vorrei rimanere a guardare il mare tutti i giorni, vorrei poter stare
sempre a prendere il sole, come adesso, con te.. >>
Perché
Capitol City era la sua gabbia, le amanti le sue catene dorate, il suo
giogo pesante, che come un bue doveva trascinarsi dietro
all’infinito, finché avesse conservato il suo bel
viso, le sue gambe toniche, le sue braccia forti e i suoi occhi che
riuscivano ad incantare sempre tutte.
Annie sembrava
più interessata alle sue mani grandi, invece, che mano a
mano che si allontanavano dall’ultima manicure ritornavano
normali, le prendeva tra le sue e giocava con le sue dita, anche la sua
mascella la incuriosiva, restava minuti interi a sfiorargliela e a
osservarla attentamente, e a lui piaceva essere guardato in quel modo,
così curioso, così dolce.
Si lasciava cullare
dalla sensazione di essere normale, di essere un ragazzo qualunque, da
quella sensazione di tranquillità che lei gli offriva ogni
giorno con le sue piccole attenzioni, con le sue promesse di
semplicità e complicità, tacite e silenziose, ma
che lo facevano sentire bene come non lo era da tantissimo tempo.
La stava
accompagnando a casa quella sera perché la pioggia li aveva
sorpresi tra le braccia di Morfeo e li aveva svegliati.
Avevano iniziato a
correre ridendo all’inizio, ma poi lei aveva insistito per
fermarsi per osservare la pioggia, e lui l’aveva dovuta
trascinare a forza per non farla ammalare.
Erano lì,
sotto il semplice porticato della casa di lei con i respiri ancora
affannati dalla corsa, i sorrisi sulle labbra e i vestiti fradici per
la pioggia e si guardavano negli occhi felici, lei ad un certo punto
chiuse gli occhi, si alzò sulle punte e si
avvicinò al suo viso appoggiando le labbra su quelle del
ragazzo.
Finnick era
impreparato, non se lo aspettava, voleva abbracciarla, stringerla,
approfondire quel semplice bacio, ma lei era già sparita
dietro la porta.
Rimase intontito.
Era contento.
Prima o poi avrebbe
scoperto qual’era il sapore delle labbra di Annie.
Sul tavolo di casa
c’era una busta rosso sangue, chiusa con una ceralacca nera
su cui era impresso il sigillo di Capitol City.
Erano anni che
nessuno mandava lettere nella capitale, c’erano i telefoni,
ormai i messaggi via posta erano diventati desueti e fuori moda, ma
magari qualche stramba amante aveva voluto fare la romantica, magari
voleva sorprenderlo, ma quel giorno niente avrebbe potuto stupirlo
ormai.
Si gettò
sul letto e la aprì tranquillo: la carta era intestata e
profumava di rose:
“Molto
carina la signorina Cresta.
Presidente
Snow.”
Era nei guai, e
stavolta non solo lui.
NdA
Hi
Mockingjays!
Ringrazio
tutti quelli che hanno inserito la storia tra le Preferite
e le Seguite!
Siete
fantastici..
La
nostra storia sta per avere una svolta, il Presidente
Snow
deve trovare il modo per tenere tranquillo Finnick..
Cosa
farà?
Riuscirà
a sedare la sua voglia di libertà?
Spero
che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, e se avete tempo e
voglia lasciate una piccola recensione per farmelo sapere.
Bye
cranium
|
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Capitolo 4 *** Braccia. ***
We’re just
two lost
souls
swimming
in a fish bowl.
"Ero
innamorato del mondo intero e di tutto
ciò
che viveva nelle sue braccia di pioggia"
Louise
Erdrich
Al
sangue non ci si abitua mai.
Perché
impasta la lingua e fa storcere le narici, perché
è
ferroso e dolce allo stesso tempo.
Perché
è rosso, perché è intenso.
Perché
attira e respinge allo stesso tempo.
Lui
lo sapeva bene.
Le
piaghe in bocca lo torturavano spesso, ma ormai non ci
faceva più caso.
I
farmaci non lo assuefacevano però non lo facevano stare
molto meglio, faceva male l’interno della guancia che
bruciava, la lingua e il
palato, al dolore ci si abitua, ma al sapore e all’odore del
sangue no.
-Spero
che tutto sia pronto.- disse reclinando la testa di
lato per osservare meglio l’uomo che gli sedeva davanti, alto
con le basette lunghe
e folte, vestito di tutto punto, come lo chiamava lui “il suo
inviato”, con un
bicchiere di vino in mano e gli occhi piccoli e vispi.
-Certo,
fra una settimana inizieranno gli Hunger Games, gli
Strateghi mi hanno chiesto di informarla del sicuro successo di questa
edizione.-
disse agitando con un movimento della mano il vino nel bicchiere
guardandolo
attentamente prima di portarlo alla bocca.
-È
la settantesima, la gente si aspetta qualcosa di
speciale.- lui lo sapeva cosa volevano i suoi elettori, volevano
divertimento,
volevano sangue, volevano Vincitori per i loro letti, volevano cibo,
volevano
spettacolo.
“Panem et
Circensem”
-E
lo sarà- confermò lui.
-Lo
spero per tutti voi.- e lo congedò con un gesto secco
della mano –Ah- e lo richiamò –posso
contare su di lei per quel lavoro nel
Distretto 4?-
-Certamente.-
-Portate
questa agli uomini che preparano le urne.- e gli
passò una lettera, senza busta e neppure sigillata,
perché in mano di
quell’uomo non sarebbe mai andata persa, e lo
congedò di nuovo.
Le
farfalle sono fragili.
Sono
animali così piccoli e indifesi, sempre ostacolati
dalla presenza di predatori, uccelli, lucertole e altri, pronti a
cogliere la
più piccola indecisione per attaccare la loro preda.
Ma
probabilmente il suo avversario più subdolo è il
ragno
perché non l’ attacca frontalmente, lui tesse la
sua tela e aspetta, aspetta
finché la farfalla non rimane incollata alla sua trappola e
lui può gioire a
pieno della sua vittoria.
Sono
ambigui i ragni, perché i più pericolosi sembrano
quelli più innocui, quelli più piccoli sono i
più letali.
Sono
fastidiosi i ragni, si infilano nei buchi, nei più
minuscoli pertugi, infimi animali che vivono nell’ombra della
sofferenza altrui.
Un
ragno stava tessendo la sua trama di intrighi e fili
maledetti, e aspettava solo che la sua piccola farfalla rimanesse
impigliata
per poi divorarla lentamente, ma lui non l’avrebbe permesso.
Nessuno
avrebbe toccato Annie finché avrebbe avuto un solo
muscolo in grado di contrarsi, finché fosse stato ancora in
grado di urlare.
La
mattina della mietitura si presentava calda, ma la
brezza che proveniva dal mare riusciva a placare l’afa di
quella triste
giornata di agosto.
Nessuno
avrebbe preso il largo quel giorno, neppure il più
vecchio dei pescatori, sarebbero rimasti a guardare i loro ragazzi
andare al
macello, andare in pasto al lupo, a morire.
C’era
una vecchia fiaba, di un mostro metà uomo e metà
toro
che viveva nell’isola di Creta, che gli aveva raccontato un
vecchio pescatore che
spesso radunava ragazzini per raccontargli delle storie appena tornato
dalla
sua giornata di lavoro.
Lì
radunava la mattina dopo il mercato delle dieci e mezza.
C’era
stata una guerra, diceva, e la città di Atena,
perdente, ogni anno doveva inviare sette ragazzi e sette ragazze a
Creta per
essere divorati da quel mostro, il Minotauro nato dall’unione
della moglie del
Re e un toro bianco venuto dal mare.
Loro
erano fortunati, diceva l’uomo, perché negli
Hunger
Games c’è sempre un Vincitore, qualcuno che si
salva, ma Finnick lo sapeva, alla
fine non vinceva nessuno.
Poi
era arrivato un ragazzo Teseo che era riuscito ad
uccidere il Minotauro con un suo stesso corno.
Il
giorno dopo dell’uomo non si era più saputo nulla,
i
Pacificatori lo avevano portato via.
Perché
gli aveva dato una speranza, perché gli aveva detto
che c’erano armi da poter usare contro il mostro, bastava
tagliargli un corno,
dovevano solo capire quale.
Annie
avrebbe passato la mattinata con la sua famiglia, i
suoi cari, come tutti nel Distretto, pronti a condividere le ultime ore
con chi
forse non avrebbero rivisto mai più, con chi avrebbe, forse,
dovuto uccidere
per salvare se stesso.
Ricordava
ancora le lacrime di sua madre quando era andata
a trovarlo al palazzo di giustizia, le sue raccomandazioni, i suoi
baci, i suoi
abbracci e quell’amore negli occhi che gli aveva dato la
forza di andare
avanti, di combattere anche quando non ne aveva più la forza.
Quante
madri aveva visto disperate per la morte dei loro
figli, quante contente per quelli che gli aveva riportato a casa, ma
infondo
erano tutti morti.
Quelli
consumati dalla morfina o dall’alcool, quelli
gettatisi in mare per farla finita, quelli che si portavano sulle
spalle il
peso delle morti sopportando e logorandosi dentro, e quelli come lui,
costretti
a soddisfare i piaceri della Capitale.
Tutti
morti.
Tutti
persi in un tunnel buio che prometteva una luce che
non sarebbe mai arrivata a salvarli.
Tutti
aspettando un appiglio a cui aggrapparsi anche solo
per un poco per scalare il baratro che gli aveva inghiottiti.
E
lui l’aveva trovato, e giorno dopo giorno saliva
facendosi forza con le braccia per scalare quella parete infinita che
da
qualche parte lo avrebbe portato, forse.
La
Piazza era sgombra dalle bancarelle che di solito la
animavano per il mercato, e davanti al Palazzo di Giustizia era stato
posto il
podio di legno.
Più
che un podio a lui era sempre sembrato un patibolo, ma
probabilmente la forca sarebbe stata di miglior gusto.
La
gente stava già prendendo posto, i ragazzi da una parte,
le ragazze dall’altra, e i grandi dietro, a sperare in un
miracolo per i figli
o gli amici.
La
vide davanti ai Pacificatori mentre offriva loro il
braccio per il prelievo del sangue e subito dopo raggiungere il suo
posto
vicino alle altre ragazze.
Sul
palco intanto era arrivato il sindaco, Mags, la sua
mentore, e Annabelle Silver, la donna che avrebbe accompagnato i
Tributi
durante il loro soggiorno a Capitol City, poi salì un uomo
che non aveva mai
visto che si accomodò su una sedia un po’ in
disparte.
La
tensione era ormai alle stelle, alcune donne avevano già
iniziato a mettersi le mani nei capelli, mentre i più grandi
cercavano di
rassicurarle.
Era
questo che voleva Capitol City.
Il
grande schermo che era stato posto davanti al Palazzo si
accese e partì l’inno e il video sulla guerra e
sulla rivolta dei Distretti
presentato da Annabelle.
Gli
si fermò il cuore, perse un battito e poi due, la donna
infilò la mano nella grande urna contenente i nomi delle
ragazze.
-Annie
Cresta.- trillò per farsi sentire da tutti.
Lo
sapeva, era colpa sua, era successo.
Vide
Annie camminare fino al palco, l’uomo che non
conosceva ghignare sotto i baffi e la mano che gli copriva la bocca.
La
parete che stava scalando per essere liberato divenne ad
un tratto scivolosa e le sue braccia cedettero lasciando
l’appiglio.
Cadeva
di nuovo nel baratro.
Aveva
preso in considerazione l’eventualità che
succedesse,
il Presidente Snow aveva trovato il modo per farlo precipitare nel suo
buio
continuo, la luce si affievoliva man mano che Annie si avvicinava.
Lo
guardò negli occhi e lui capii di averla persa.
Il
ragno aveva tessuto la tela e la sua farfalla era stata
catturata.
L’angolo
del cranio:
scusate
per il capitolo corto e per il ritardo.
Ringrazio
tutti quelli che continuano a seguire la storia.
Il
nome dell’accompagnatrice ahimè l’ho
dovuto inventare su
due piedi perché non è accennato in nessun libro
della trilogia.
Riuscirà
Finnick a salvare la sua farfalla dal ragno che
l’ha catturata?
|
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Capitolo 5 *** Cuore ***
We’re
just two lost
souls swimming
in a fish bowl.
L’avvolgerà,
come
un filo di lana
nel
bozzolo l’avvolgerà,
sapeva,
del ragno, la tana?
Ormai,
lei, non può più cantare.
Una
canzoncina stupida, una filastrocca per bambini, la
cantava il Matto, quando passeggiava sul molo la mattina, solo, con la
sua
barba incolta e le scarpe bucate.
Lui
e i suoi amici lo prendevano in giro, gli giravano
intorno quando erano piccoli invitandolo a cantare più forte
e tirandogli le
maniche della giacca lunga e pesante che portava sempre, a ripetere di
nuovo il
motivetto, e ridevano quando lui iniziava a muovere le braccia
nervosamente
come se sbattesse un paio di ali.
“Facci
vedere le tue ali farfallina” gli gridavano i
ragazzi più grandi quando aiutavano i pescatori a portare
fuori dalle barche le
reti, e lui iniziava la sua danza macabra che più di una
volta si era conclusa
con un tuffo in acqua.
Gli
sembrava di sentirla nelle orecchie, ma si accorse
presto che non era solo una sensazione, lui era lì, sotto il
palco, che muoveva
come in preda a spasmi gli arti superiori cantando la sua canzone.
Non si
salverà
la
mite farfallina,
nessuno
la aiuterà,
il
ragno si avvicina?
Non
ha
più senso aspettare.
Alcuni
arrivarono per sottrarlo alla mano dei Pacificatori,
nessuno, per loro, doveva rovinare quel giorno, quel momento che veniva
ripreso
dalla capitale, e un povero vecchio pazzo non dava di certo
l’immagine che loro
volevano.
La
signorina Silver si scusò per l’orribile
spettacolo,
spettinò i capelli a Annie che era salita e passò
all’altra boccia, quella dei
ragazzi.
-Steven
Williams!-
La
folla si aprì lasciando spazio ad un bambino minuto e
gracile, che aveva già iniziato a tremare al solo sentire il
suo nome
pronunciato.
Salì
sul palco cercando di nascondere la paura, più per
vergogna che per orgoglio, ma subito un altro ragazzo si
offrì volontario al
suo posto.
La
Silver lanciò uno squittio di eccitazione quando vide
quello che si stava facendo avanti: spalle larghe fasciate dalla
camicia,
capelli leggermente scompigliati dal vento che si era alzato, sorriso
smagliante, un diciottenne che va al macello per macellare.
Annabelle
non fece in tempo a chiedere a Steven se
accettava di lasciare quella opportunità che lui si era
già fiondato tra le
braccia della sorella che lo aspettava in lacrime.
Venne
chiesto al nuovo Tributo di presentarsi e lui
girandosi verso le telecamere disse il suo nome:
-Marcus
Safeport.- tuonò fiero, poi strinse la mano ad
Annie come aveva chiesto la Silver e da lì per lui divenne
tutto confuso.
Il
treno li portava veloci verso la capitale.
Tutto
si era aspettato tranne quell’atmosfera rilassata che
si era creata all’interno del vagone dove si erano radunati
per mangiare, Annie
mangiava tutto quello che si trovava davanti e sorrideva agli altri,
Annabelle
si era fatta coinvolgere da quell’atmosfera e continuava a
parlare di tutto
quello che avrebbero trovato nella sua città, dai bei
vestiti, agli accessori
più raffinati, avrebbe voluto avvertirla che, i negozi di
cui vantava il gusto,
non li avrebbero potuti vedere, ma era tutto così ovattato,
come dentro a una
bella bolla di sapone che si ha paura di rompere.
Mags,
lo guardava da sopra il piatto.
Per
fare arrivare la settantacinquenne al livello del
tavolo lui e Marcus avevano cercato dei libri e dei cuscini da mettere
tra la
sedia e il fondoschiena della donna.
Non
era mai stata una grande altezza, neppure da giovane,
così dicevano, ma ci sapeva fare, e oltre
l’intelligenza conservava ancora la
determinazione che le aveva fatto vincere la sua edizione degli Hunger
Games.
Aveva capito tutto subito, lei, dalla prima volta che era andato a
trovarla
dopo che aveva conosciuto Annie, che c’era qualcosa che lo
faceva sorridere,
che lo faceva distrarre durante la più breve delle
conversazioni.
E
in quel momento lo scrutava per capire quello che aveva in
mente.
“Che
farai adesso?” sembrava chiedergli.
“Vogliono
tappare le ali alla mia farfalla, ma non glielo
permetterò.”
Lei
girò lo sguardo su Marcus che sembrava complice in
quell’euforia generale muovendo la frutta e facendola
parlare, mentre Annabelle
lo sgridava per le sue maniere e Annie rideva battendo le mani tra una
cucchiaiata di stufato e l’altra, come a fargli entrare in
testa la tua
presenza.
Chiuse
quella conversazione silenziosa rigettandosi nella
minestra che aveva davanti, osservando le verdure che galleggiavano nel
brodo
caldo.
Marcus
era grande e grosso, non aveva bisogno di lui, Annie
invece sì.
Alzò
gli occhi verso lei che guardava rapita il suo
compagno che faceva volteggiare due mele passandole da una mano
all’altra.
-Dobbiamo
iniziare a parlare di strategie, prima ci
organizziamo meglio è.- disse mentre gli altri smettevano le
loro occupazioni
per ascoltarlo.
“Puff”
la bolla si ruppe senza portare luccichi dorati, ma
solo la triste consapevolezza che quell’attimo era svanito.
Marcus
posò le mele e annui serio, Annie si alzò
scusandosi, ma quella cena le aveva messo molto sonno.
Annie
non sapeva dire le bugie.
Il
fruscio delle lenzuola accompagnò la sua mano che apriva
di scatto la porta del suo scompartimento per coglierla di sorpresa.
Si
avvicinò sedendosi sulle coperte.
-Annie,
se non volevi parlarne di fronte a Marcus bastava
lo dicessi, non credo l’avrebbe presa male, potevamo parlarne
domani mattina
prima di arrivare, solo tu ed io.-
Perché
“noi” faceva troppo male.
Nessuna
risposta da quel cumulo di coperte che respirava
sempre più velocemente.
Sbuffò
per la testardaggine della ragazza.
-Annie,
è normale avere paura, anche io ne avevo, lo so che
è difficile ammetterlo..- le accarezzò quel poco
della testa che spuntava dal
nido che si era creata.
-Non
è questo Finnick- lo interruppe lei che si tirava a
sedere per parlare meglio –non è questo.-
Non
tremerà,
ha
troppa paura di cadere
sa
lei
perché non lo fa
non
vede la morte incedere?
Non
prova neppure a volare.
-Prova
a spiegarmi.- disse mentre si allontanava un poco
per non farle sentire il tremito che aveva vinto sulla forza delle sue
mani al
pensiero di non poterla più rivedere.
-Non
voglio vincere- sussurrò alla parete più che a
lui
–non se uccidere è il prezzo che devo pagare.-
Una
lama, due, conficcate nel petto, dritte, precise al
cuore.
Quanti
ne aveva spezzati lui?
Ogni
notte un amante diverso, tra le suppliche di restare
ancora, e ancora.
“È
più bravo di me?” gli mormoravano gli uomini.
“È
più bella di me?” urlavano le donne.
Ma
non aveva mai sentito il rumore di un cuore spezzarsi,
forse perché i gemiti e i sussurri coprivano quel suono, ma
lì nel silenzio,
cupo, di quello spazio che era solo loro, avvertì
perfettamente il suo
scheggiarsi, tremare, e rompersi poi definitivamente.
È
lento lo spezzarsi di un cuore, si assapora così, come si
fa con l’alcool, buttando giù tutto di un colpo si
sente di meno bruciare, ma è
anche più difficile.
Provò
a ingoiare saliva, ma trovò la bocca asciutta.
-Dimmi
che scherzi, dimmi che scherzi e chiudiamo questo
discorso, adesso, in questo momento.- perché nessuno
accetterebbe la propria
morte con una tale tranquillità, nemmeno lei.
-No
Finnick.-
-E
quindi cosa vorresti fare? Morire? Buttarti sulla lancia
di qualcuno? Sp..-
-Non
voglio uccidere nessuno.- ripeté.
-È
normale! Non tutti arrivano là con la consapevolezza di
dover uccidere Annie! Poi lo fanno, sei predatore o preda, e ti
assicuro che
non conviene essere la seconda..- urlò prendendole le spalle
come per
svegliarla da un brutto sogno.
Sentì
una porta non molto lontano aprirsi, le sue urla
avevano svegliato qualcuno, ma a lui non importava, non in quel
momento,
avrebbe gridato fino a svegliare tutta Panem se necessario per aprire
gli occhi
di Annie.
-Sono
un pesce troppo fragile per questa boccia di squali.-
La
mangerà, la mangerà
sul
far della sera,
chi
lo sa?
Lei lo sa
e
aspetta sincera
la
morte, lenta, arrivare.
L’angolo
del cranio.
Ho
cambiato il rating per i capitoli che saranno un po’
violenti, ma lascerò un avviso sopra i suddetti per non
creare problemi.
La
filastrocca l’ho tirata giù su due piedi,
l’idea
all’inizio mi piaceva, ma rileggendola non mi convince
più molto, ma ho deciso
di lasciarla per correttezza verso il mio cervello.
Niente,
che altro dirvi, spero che il capitolo vi sia
piaciuto, presto pubblicherò l’originale Fantasy,
ma non riesco ancora a
separarmene, non so perché, vi mando a tutti un abbraccio.
cranium
|
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Capitolo 6 *** Orecchie. ***
Il
capitolo sarà più narrativo che introspettivo
rispetto agli altri perché devo smaltire molte cose che non
sarebbero bastati
tre capitoli se avessi ispezionato di più i loro pensieri,
dal prossimo
rivedremo le “menti” dei protagonisti, soprattutto
di Annie.
Il
rating è stato cambiato per i capitoli che si
svolgeranno nell’Arena che saranno abbastanza violenti e mi
sembrava giusto
segnalarvelo.
Scusate
anche per il ritardo, ma ho avuto il blocco
di agosto o qualcosa del genere J
We’re just two lost souls
swimming in a fish bowl.
Si
risvegliò nel suo letto, non riusciva ad aprire
bene l’occhio sinistro che gli doleva.
Tutto
era vuoto intorno a lui, perché non sentiva
niente?
Avvertì
una mano sulla guancia e si costrinse a
stringerla per aggrapparsi a quel calore tanto familiare.
-Annie.-
borbottò.
“Annie
è morta” si disse e il dolore di quella
consapevolezza
colpì il ventre, non una, ma cento volte, un incubo continuo
che lo avrebbe
accompagnato tutta la vita.
Annie
era morta e l’aveva uccisa lui, sentiva ancora
tre le dita il sangue di lei che non si era seccato e sulle labbra il
sapore
ferroso di quello.
Lasciò
la presa sulla mano e si abbandonò di nuovo
al sonno.
-Finnick
non addormentarti, arriveremo tra qualche
ora e devono ancora sistemarti il labbro e l’occhio prima che
le tue signore ti
vedano.-
Tutto
finalmente si fece chiaro, Annie e Mags lo
guardavano sedute sul letto, il sangue che sentiva in bocca era il suo:
Marcus
doveva avergli tirato un pugno o due la sera prima per calmarlo.
-Non
sei morta.- biascicò mentre l’anziana donna
usciva dalla stanza per lasciarli soli.
-Non
ancora.- rispose lei abbassando lo sguardo.
E
il dolore lo colpì di nuovo, ma lui in fretta lo
trasformò in rabbia, perché così tutto
è più facile da gestire.
-Mi
vuoi lasciare da solo? Di nuovo? Dopo tutto
quello che ho passato… credevo ti importasse un
po’ di me!-
-Cosa
vorresti che faccia? Uccidere per poi vivere
sapendo di averlo fatto? Di essere un’assassina? Mi dispiace,
non riuscirei a
sopportarlo.-
Qual
è il confine tra il poter ignorare un fatto e
l’ammettere a se stessi che una cosa accadrà, ma
che non potremo fare niente
per ciò?
È
labile come quello tra una carezza e uno schiaffo,
ma in quel momento a lui sembrava tutto il contrario, si
raddrizzò a sedere e
con un braccio l’avvicinò stringendola.
-Ti
prego, Annie posso procurati tutti gli sponsor
che ti servono, non ti mancherà nulla.-
-Fai
vincere Marcus- gli respirò sul collo
–è un
bravo ragazzo.-
Non
riusciva a credere alle parole che Annie gli aveva
detto la sera precedente, ma le sue orecchie non mentivano, ed erano
anche
rimaste vigili tutto il giorno per aspettare una resa di lei che si
sarebbe
fatta aiutare per vincere i giochi, che non lo avrebbe lasciato solo,
ma quelle
parole non arrivarono.
Dovevano
dare nell’occhio è vero, ma forse “il
troppo stroppia” come si dice.
Marcus
era praticamente nudo se non si contava lo
slip minuto di un grigio sasso ricoperto da piccole conchiglie che lo
facevano
sembrare uno scoglio, e per la scia di brillantini azzurri sul petto,
la
schiena e le gambe.
Annie
era vestita
come il compagno se non per le due stelle marine sul seno che lei
tentava di
staccare con tutta la forza.
-Se
vuoi ti aiuto io!- aveva ghignato il Tributo
maschile del Distretto 1 che si stava godendo lo spettacolino e lei
credendo,
ingenua, che il ragazzo la stesse sul serio sostenendo nella sua lotta
contro
quei demoni colorati era scesa dalla biga che sarebbe partita senza di
lei se
Finnick non avesse avuto la prontezza di rimetterla di peso sul carro.
-Sorridete!-
Mags gridò loro le ultime
raccomandazioni, ma non ce ne era bisogno: Marcus era determinato a
vincere e
sapeva come ottenere consensi dalla gente, se non fosse bastato il suo
aspetto
fisico, e Annie non aveva mai visto tanta gente tutta assieme e
sorrideva
sincera a tutti.
Avevano
riscosso abbastanza successo e dopo che la
stilista di Annie ebbe aiutato la ragazza a tornare in panni normali
salirono
verso il quarto piano del Centro di Addestramento, quello che era stato
loro
designato.
La
mattina successiva iniziarono gli addestramenti e
per quanto Finnick si sforzasse di convincere Annie a provare almeno
qualcosa
riuscì a strapparle solo la promessa che avrebbe provato a
resistere il più
possibile nell’Arena e per questo avrebbe imparato a salire
sugli alberi.
Era
una vittoria a metà quella di Finnick, avrebbe
avuto una minima speranza che lei potesse vincere, e si sarebbe
aggrappato a
quella il più possibile per non cadere, quello che sarebbe
successo dopo al
momento non aveva importanza.
Probabilmente
la cosa che la spaventò di più durante
tutte le sessioni di addestramento fu la cattiveria dei ragazzi di
alcuni
distretti, che, oltre a essere il doppio di lei per altezza e
muscolatura
sembravano intenzionati a squartare con violenza tutti i manichini del
centro.
Lei
dopo aver fatto gli esercizi obbligatori puntò a
quello che le interessava: sul lato della grande sala un largo palo che
simulava un alto albero*, l’istruttrice era simpatica e
professionale e solo
dopo due tentativi era riuscita a salire fino in cima destando un
fischio di
approvazione da Marcus che la guardava dalla vicina postazione delle
lance.
Il
resto della mattinata lo passò ad osservare gli
altri.
La
maggior parte dei tributi aveva meno anni dei suoi,
tre non superavano i tredici, e avevano l’atteggiamento di
quelli che non
avrebbero superato il bagno di sangue iniziale, c’erano
fratello e sorella
dell’8 che non si sapeva con che forza si alzassero la
mattina con la
consapevolezza di non poter tornare entrambi a casa, il tipico
magrolino con
occhiali da sistemare ogni due minuti del 3 e tanti altri che potevano
passare
inosservati, ma quella che la colpì di più fu la
bellezza della ragazza del 5,
due grandi occhi e una folta bionda chioma che le cingeva la vita, una
bellezza
oggettiva, forse, se anche lei fosse stata così Finnick
l’avrebbe guardata
diversamente.
Ma
poi che importava se tanto, qualche settima al
massimo dopo, di lei non sarebbe rimasto che il corpo martoriato in una
triste
bara?
A
pranzo il suo compagno la invitò a sedersi con lui
e quello che era già diventato il gruppo dei Favoriti,
piuttosto assortiti a
dire la verità.
Il
ragazzo dell’1 si chiamava Gold, alto quasi come
Marcus, e con un carattere da leader, Wood il ragazzo del 7 era
riuscito ad
entrare nel gruppo probabilmente
per il
timore che incuteva non solo il suo fisico, ma anche il suo sguardo
parecchio
minaccioso, il ragazzo del 2 e le altre ragazze erano piuttosto
silenziosi
tutto al contrario di Annie che cercava di convincere tutti che il pane
del suo
distretto era il migliore di tutti.
-Dovresti
assaggiarlo- continuava ad intimare a Wood
che la guardava come se fosse di un altro
pianeta –non sai che ti perdi.- continuava dopo aver
aspettato inutilmente un
qualsiasi gesto da parte del ragazzo.
E
via ancora con discorsi sconclusionati, senza
inizio o fine, tra un boccone e un altro, stralci di conversazioni
affogate nel
tacchino o nella crostata.
-Questa
piacerebbe tanto a Mags.- si entusiasmava
dopo il primo morso al dolce.
-Stamattina
avevo ancora dei brillantini tra i
capelli.-
-Perché
siamo vestiti tutti uguali?-
Marcus
continuava a sorriderle, ma gli altri non la
ritenevano altrettanto divertente.
Era
troppo tranquilla, troppo aperta, troppo sicura
di se da non aver quasi toccato neppure un’arma durante tutta
la giornata:
quella ragazza poteva rivelarsi un nemico ostico.
Non
sapevano quanto torto c’era in quelle
supposizioni.
Fu
un susseguirsi di allenamenti fino al pomeriggio
della prova.
Poteva
aspettarsi di tutto lei, ma non di certo la
figura minuta, ma allo stesso tempo minacciosa di Snow che la fissava
seduto
con gli altri strateghi, come neppure il suo 8 guadagnato solo salendo
su
quell’albero finto.
Le
cose per lei non erano collegate da alcun nesso,
da alcuna spiegazione, ma per Finnick sì.
L’intervista
fu meno tragica di quello che lui
pensasse, il buon voto nell’addestramento le era valso molti
complimenti da
parte di Caesar Flickerman che fu molto paziente con lei, e lei si
dilungò su
quanto tutti fossero stati gentili , su come fosse delizioso il cibo e
i
vestiti delle signore e l’intervistatore le
ricordò che se avesse vinto avrebbe
potuto comprare tutti gli abiti che voleva, e proprio lì
dove Finnick si
aspettava un cedimento della ragazza e una dichiarazione sulla sua
decisione di
non uccidere nessuno, Annie gestì bene i suoi sentimenti e
chiese a lui se
avesse visto in giro una giacca con le pinne.
Per
quanto potesse sembrare ferrea e convinta delle
sua decisioni quella sera, l’ultima sera, sembrava
più spaventata e titubante
che mai sul domani.
Avrebbe
perso comunque, lo sapeva, non avrebbe potuto
competere con la prestanza fisica dei concorrenti favoriti, ma poteva
provare a
lottare invece che arrendersi e non combattere per principio, poteva
entrare
nei favoriti che le avevano già chiesto di unirsi a loro,
poteva accettare
l’aiuto di Finnick che non smetteva di fissarla, ma le uniche
parole che le
uscirono dalla bocca furono:
-Non
lasciarmi sola stanotte.-
*non
credo che un albero finto faccia parte dell’addestramento
però a me serviva e allora l’ho inserito.
-Gold,
Marcus, Wood e gli altri sono personaggi che,
visto che Suzanne Collins non ha parlato nei suoi libri
dell’edizione di Annie
(tranne per il ragazzo decapitato e per la pazzia della ragazza
scaturita dopo
i suoi Hunger Games), ho dovuto aggiungere.
|
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Capitolo 7 *** Piedi. ***
We’re just two lost souls
swimming in a fish bowl.
Paura,
l’aria ne era intrisa, così tanto da
risultare soffocante, o forse era lei che non riusciva a respirare.
Sessanta
secondi ancora e poi avrebbe dovuto correre
come non aveva mai fatto.
Facile,
ma non era sicura che le gambe riuscissero a
reggerla.
Marcus
non era distante da lei, e ostentava una
sicurezza da far invidia, sembrava solo aspettare il colpo di cannone
per
scattare mentre lei sarebbe rimasta impietrita aspettando di finire i
suoi
minuti.
Quaranta
secondi.
Forse
la morte è solo un vento freddo che ti porta
via, lontano dai turbamenti e dai pensieri, ma la sua morte non sarebbe
stata
veloce.
Lo
spettacolo è pur sempre spettacolo, e un agonia
lunga fa audience come poco sa fare, tiene la gente incollata alle
televisioni
e ai maxischermi come bambini davanti a una torta.
Il
suo fratellino avrebbe certo chiesto come mai sua
sorella era finita in tivù, troppo piccolo per capire o
forse troppo furbo per
farlo.
Trenta
secondi.
L’impulso
di mettere un piede avanti e chiudere gli
occhi era forte, morire su una mina, un attimo e il buio
l’avrebbe accolta come
un padre tra le braccia, ma la promessa a Finnick di rimanere in vita
il più
possibile bruciava come bruciavano i baci e le carezze della sera
precedente.
L’insistenza
con la quale il terreno sembrava
chiamarla era un invito piacevole che non doveva prendere in
considerazione per
qualsiasi ragione al mondo.
Venti
secondi.
Intorno
a lei tutto fremeva, i Tributi, l’acqua di
un timido ruscello che scorreva in un letto troppo grande per lui, e
anche la
cornucopia che rifletteva i raggi del mattino, invitante.
Tutti
erano pronti.
Lei
lo era?
Dieci
secondi.
Il
tempo per verificarlo non era sufficiente.
Affidarsi
a un istinto primordiale come la
conservazione era la scelta più ovvia e anche la
più facile
Un
colpo di cannone.
Lasciò
che i suoi piedi facessero tutto, decidessero
la sua sorte, e capii di amarsi troppo, di amare troppo la vita per
perderla
così facilmente.
Corse,
prese uno zaino e la direzione opposta a
quella di tutti; se puntavano al lago, le sarebbe andata alla sorgente.
I
primi alberi erano vicini, si fiondò sul primo non
preoccupandosi di essere vista, di essere troppo prossima al fuoco, al
pericolo, ma era un bisogno viscerale quello che sentiva: girarsi verso
la
cornucopia per vedere che andava tutto bene, che non era successo nulla.
Ma
l’aria intorno era come rossa, il sangue che
impregnava l’erba a poco più di un chilometro da
dove si trovava, nascosta
dalle fronde, era fresco come lei, troppo giovane e innocente per
partecipare a
un massacro.
La
cornucopia sembrava bearsi del sangue versato
tanto da rifletterne e accentuarne il colore cosicché anche
lei poteva
capacitarsene.
Un
groppo alla gola e uno al cuore.
Quanti
ragazzi erano già stati uccisi?
La
risposta non si sarebbe fatta troppo attendere.
I
fiori appassiscono, e le farfalle hanno vita breve,
troppo breve.
Recidono
il bozzolo, spiccano il primo volo, muoiono
non molto tempo dopo.
Marcus
non era mai stato una farfalla, lo sapeva.
Era
un bruco ed era consapevole di questo, e la sua
condizione gli era sempre bastata.
Per
essere un bruco era dannatamente sexy, o almeno le
ragazze che parlottavano tra loro al suo passaggio sembravano dire
quello e lui
non aveva fatto altro che convincersene ogni giorno di più.
Non
era un ragazzo superficiale, per quanto i suoi
diciotto anni gli permettevano di non esserlo, aveva un cervello
parecchio
acuto e una testa di capelli niente male.
Anche
Annie era bella, aveva visto di meglio certo,
ma aveva quel qualcosa in più che la rendeva desiderabile, o
almeno agli occhi
del suo mentore lo era.
Non
lo sarebbe stata ancora per molto, perché a
quanto aveva capito non aveva intenzione di far altro che nascondersi
tutto il
tempo il che prevedeva che non sarebbe sopravvissuta a
quell’inferno.
Era
una ragazza simpatica infondo, magari se avesse
avuto l’occasione di conoscerla meglio le sarebbe anche
piaciuta, ma erano
finiti entrambi in bocca al lupo sicché.
Il
fuoco sfumava i contorni dei compagni seduti
intorno ad esso o forse erano gli omicidi appena commessi a non
permettergli di
delinearne i volti; aveva paura forse di vedere come la morte gli aveva
cambiati?
O
più di non riconoscere se stesso?
Si
allontanò senza dare spiegazioni per dirigersi al
corso d’acqua, si sciacquò il viso per poi
riflettersi sulla superficie
increspata.
No,
non era cambiato.
E
allora cosa lo turbava?
-È
legale?- il suono basso della voce di Wood
interruppe il suo flusso di pensieri e lo fece riavvicinare al gruppo.
-Cosa
vuoi!- rispose con uno squittio la ragazza
dell’1 che da svariati minuti intrecciava le ciocche delle
due ragazze che aveva
ucciso.
-È
piuttosto inquietante sai? Non credo che gli
sponsor apprezzeranno questo tuo comportamento… meglio che
ti facciamo fuori
subito…-
-Attento
sai- si gettò al suo collo brandendo un
coltello –io se fossi in te non sarei così sicuro
di me, sei solo un sudicio
taglialegna!-
-Piantala
Cherie- la ammonii Gold che continuava a
girare intorno alle provviste come per assicurarsi di non aver perso
nulla
–credo che ci convenga prendere tutto il possibile e bruciare
il resto, non mi
va di aspettare gli altri Tributi qua, cerchiamoli, uccidiamoli, e poi
vedremo.-
-Non
sarebbe meglio lasciare qualcuno a controllare
la roba? È uno spreco inutile bruciarla.- ribatté
la ragazza.
-Paura
dell’azione cara?- la schernì Wood.
-Zitto
sta per partire l’inno.- sviò la domanda del
ragazzo.
Il
sigillo di Capitol City illuminò il cielo della
sera, dieci volti come unico ricordo dei ragazzi morti.
Il
tributo femmina del 2 che non era stata accettata
tra i favoriti.
La
ragazza del 3.
Il
ragazzo storpio del cinque.
La
giovane del 6.
Entrambi
i tributi del 9 e del 10.
Il
tributo maschio dell’undici e quello che dodici.
Ma
quella notte il conto sarebbe cambiato.
Gli
svegliò un colpo di cannone, quella mattina, un
risveglio macabro che sapeva di morte.
A
pochi metri da loro il ventre di Cherie era
squartato, gli organi interni lacerati, le sue mani e i piedi legate e
la bocca
tappata con la treccia a cui stava lavorando la notte precedente.
Doveva
esser stata un’agonia non tanto lunga quanto
dolorosa, gli occhi ancora aperti in un grido che era soffocato dalla
bocca,
era morta guardando loro dormire.
Era
il suo il primo turno di guardia, e il
successivo era quello di Wood, come se ci potessero essere dubbi
sull’assassino: la ferita sulla pancia era perfettamente
riconducibile
all’accetta del tributo.
L’odore
di sangue, bile e vomito era acuto, ma non quanto
quello della paura.
“Nessuno
è al sicuro” sembrava gridare una voce.
“Nemmeno
voi.”
L’angolo del cranio.
Yeah!
Capitolo cortissimo lo so -.-“.
L’ho
reso meno crudo possibile togliendo vari/molti
dettagli che nella mia mente si erano formati (stanotte non
dormirò xD) e devo
dire che quando l’ho riletto mi è sembrato che non
facesse tanto schifo l’ultima
parte.
Il
prossimo però non sarà così
–lettore avvisato-.
A
presto, si spera.
cranium
|
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Capitolo 8 *** Testa. ***
We’re just two lost souls swimming in
a
fish bowl.
Ci
vuole testa per certe cose.
Finnick
lo sapeva bene, e per quanto potesse sembrare un ragazzo
ironico , un poco superficiale e pieno di se, era convinto di essere
una
persona parecchio razionale e intelligente per i suoi diciannove anni.
E
non solo perché aveva scelto la salvezza delle persone che
amava
e di perdere se stesso in una dannazione imperitura e marcia, ma
perché non
avrebbe esitato a farlo altre cento volte.
Aveva
sempre avuto la possibilità di scegliere e il tempo per
calcolare ogni pro e ogni contro di tutto quello che gli era stato
proposto e
aveva sempre valutato.
Ma
non tutti avevano avuto la sua fortuna/sfortuna, quello che una
volta era stato il suo eroe, il modello da seguire, così
giovane, bello e
vigoroso era diventato l’ombra ubriaca di quello che era
stato.
Non
era ancora nato lui quando Haymitch Abernathy aveva vinto
l’Edizione della memoria nel cinquantesimo anno dalla rivolta
dei distretti, ma
aveva visto almeno per i primi anni della sua vita grandiosi repliche
televisive degli Hunger Games di quell’anno.
Aveva
perso tutto quell’uomo: la famiglia, la ragazza e tutto
perché aveva intuito il funzionamento del campo di forza
intorno all’Arena,
solo perché il destino o la fortuna gli avevano stretto la
mano in quel momento,
ma la Capitale non voleva lui come vincitore, non doveva finire
così per loro.
Il
primo ricordo di Finnick da Vincitore dopo la cerimonia di
premiazione era indissolubilmente a quell’uomo.
Aveva
un
bisogno impellente e la vescica sembrava scoppiare e dopo aver ricevuto
le
congratulazione da tutti i mentori degli altri distretti si era avviato
verso
l’ascensore per raggiungere le sue stanze, ma un braccio
robusto aveva fermato
la chiusura della porta meccanica e il mentore del 12 era entrato con
lui
premendo tutti i tasti della console.
-Tu-
aveva detto semplicemente indicandolo con l’indice grassoccio
–sai quello che
ti aspetta?-
Intendeva
i soldi, la fama e la gloria? Glielo avevano ripetuto tutti migliaia di
volte e
non si fece cogliere impreparato.
-Certo
signore.- rispose con un sorriso.
L’uomo
si girò dall’altra parte facendo passare una mano
tra i capelli.
-Povero
sciocco.-
-Come
signore?-
Haymitch
scattò verso di lui e con una forza che il ragazzo credeva
non avesse lo
costrinse con le spalle contro la parete dell’ascensore.
-“Certo
signore”- lo scimmiottò –tu non sai
nulla, nulla!- gli urlò a qualche
centimetro dal viso.
-Perderai
tutto come ho perso tutto io.-
Sapeva
di disperazione Haymitch, di alcool e ancora di disperazione.
Finnick
sapeva di lavanda e urina, si era spaventato e se l’era fatta
sotto come un
bambino.
L’ascensore
si era fermato e il senza voce che attendeva nell’atrio del
12 piano fece
cadere la bottiglia che aveva in mano per la sorpresa e il rumore fece
allontanare il mentore dal ragazzo.
-Pulisci
per favore.- gli disse e lo sorpassò per andare verso le sue
stanze.
Pianse
Finnick quella sera, e neppure Mags riuscì a calmarlo.
Adesso
era lì, nella sua stessa sala, a guardare i suoi tributi
cadere inesorabilmente tra un goccio di whisky e un altro, cercando un
modo per
anestetizzare tutto, per addormentare la ragione.
Se
all’inizio gli faceva rabbia e disgusto, ora gli faceva solo
una
gran pena.
Perché
lo capiva.
Anche
lui da lì a poco avrebbe perso tutto.
Il
bosco era fitto in quella parte dell’Arena e non riusciva a
vedere molto.
Si
teneva il più lontano possibile dal corso d’acqua
per non
incappare in qualcuno giunto per dissetarsi, ma aveva la gola secca e
la mente
un po’ annebbiata dalla sete.
Per
il cibo era riuscita ad arrangiarsi per i primi giorni con i
pesci trovati al di là dalla diga a monte, ma poi le
frequenti scosse del
terreno l’avevano fatta desistere dal rimanere in quel luogo,
successivamente
aveva provato a cacciare e a cercare dei frutti commestibili e non se
la cavava
poi così male e aveva ancora un po’ di cibo nello
zaino, ma l’acqua era ciò che
le mancava al momento.
La
paura si fece pian piano più lieve e la testa le disse che
non
c’era altra soluzione che avvicinarsi al letto del torrente.
Faceva
fatica a districarsi tra gli alberi e i rovi lei che era
nata e cresciuta sulla spiaggia immensa e tra le onde di un mare
sconfinato, ma
ai graffi degli arbusti sulla carne ci si abitua, al terrore che dietro
un
qualsiasi contro ci sia qualcuno pronto a toglierti la vita in un
secondo
proprio no.
Sentiva
lo scorrere del fiume a poca distanza e un tiepido sorriso
le illuminò il volto, come la sera precedente quando aveva
preso una decisione
che le avrebbe potuto cambiare la vita.
Erano
rimasti in pochi ormai, lei, solo tre dei cinque favoriti
iniziali, la ragazza bella del cinque, quello del tre, e i due fratelli
dell’otto, e in più si era fatto vivo un altro
concorrente: la sua voglia di
vivere, che fino a quel momento era rimasta acquattata in un angolo tra
il
cuore e la coscienza, ma che in quel momento ruggiva come una fiera.
Si
sarebbe difesa, non si sarebbe lasciata andare tanto facilmente.
Il
ruscello gorgheggiava a nemmeno venti metri da lei, ma decise di
rimanere ancora un poco nascosta tra le fronde.
Qualcuno
fu più veloce di lei e si avvicinò ansante alla
riva del
torrente con in mano una buffa scatoletta dalla quale
srotolò un lungo filo
metallico.
“Tenta
di pescare con la corrente” pensò con una smorfia
Annie, se
non fossero stati nemici gliel’avrebbe insegnato lei come si
pesca, altro che
elettricità!
Anche
se avesse funzionato, il fiume se li sarebbe portati via
prima che quel ragazzo tanto impacciato fosse riuscito ad afferrarli.
Sembrava
innocuo quel filo di rame, tanto da non rappresentare un
pericolo neppure per i pesci del fiume, quei morsetti troppo
inoffensivi e
quella scatola troppo piccola, ma vide un primo pesce venire a galla
per essere
preso velocemente, un secondo, un terzo e un quarto e intanto in lei la
sete
cresceva con la nostalgia di casa, di sua madre, di suo fratello e
l’odore del
pesce arrostito poco dopo aumentò
la
malinconia.
Si
sistemò su un albero spiluccando quel che restava della
coscia
di un uccello che aveva catturato il giorno prima guardando le gambe
secche del
ragazzo intento a spegnere il fuoco, ma oramai era troppo tardi e il
fumo aveva
attirato l’attenzione di qualcuno che si faceva largo nel
bosco dietro di lei.
Voleva
urlargli di scappare, di correre perché stavano arrivando,
ma si sarebbe compromessa, avrebbe rivelato la sua posizione.
Prese
un frutto tondo e secco che pendeva da un ramo vicino a lei e
lo tirò diretto alla schiena del ragazzo che si
voltò di soprassalto per vedere
cosa stava succedendo.
La
notò che dall’albero gli faceva segno di fuggire,
ma venne
atterrato da un corpo forte e pesante.
-Bel
colpo!- gridò qualcuno non molto distante.
Gold
e Wood passarono sotto il suo ramo e lei si fece piccolissima,
il più minuscolo possibile per non essere notata e le
andò bene.
-Il
rachitico del 3, pensavo una preda un po’ più
consistente
Marcus!- fece il primo.
-Siamo
rimasti in otto, adesso ognuno è una grossa preda, persino
braccia secche.-
Wood
rise di gusto mentre tra le fronde Annie rimaneva basita
dell’atteggiamento del compagno di distretto… era
cambiato davvero così tanto
Marcus?
-E
così ti sei procurato da vivere con questo arnese
è?- il biondo
dell’1 si rigirò la scatoletta tra le mani
–Che ne dici se proviamo ad usarlo
su di te?-
Il
ragazzo si dimenò, ma non riuscì a sottrarsi alla
presa.
Si
lasciò sfuggire un gemito di dolore quando Marcus strinse di
più
le braccia intorno alle sue spalle, alzò lo sguardo per
incontrare il suo: un
pesce in una rete che cerca di liberarsi, gli occhi della preda davanti
al
cacciatore, l’istinto di sopravvivenza che grida, graffia e
ti costringe ad
andare contro ogni morale, ogni etica, l’ultima spiaggia
nelle pupille troppo
dilatate.
-È
là!- gridò indicandola e facendola scoprire,
neppure fosse lei
il fine ultimo della caccia, la selvaggina per cui il predatore
lascerebbe
andare ogni altra.
Marcus
allentò la presa su di lui per la sorpresa e il tributo
tentò di scappare, ma venne buttato a terra da un calcio di
Gold che al contrario
degli altri due era rimasto vigile nei suoi confronti.
-Pensateci
voi a lui, mi occupo io di lei.- urlò Wood che si era
lanciato all’inseguimento di Annie, la quale dopo un primo
attimo di esitazione
si era gettata giù dal suo ramo per scappare.
Le
ultime cose che sentì furono le parole di quelli rimasti
sulla
riva del fiume:
-Perché
non ci divertiamo anche noi con il tuo giocattolino?- e poi
le urla del ragazzo rese ovattate dal bosco, dalla lontananza e dalla
paura.
Correva
a perdifiato da molto a giudicare dal fiatone e dalle gambe
che iniziavano a dolerle.
Nuotava
più o meno da quando l’avevano messa al mondo e
aveva una
resistenza che un taglialegna come Wood si poteva solo sognare e per
questo non
capiva come non riuscisse a seminarlo.
Sentiva
il suo fiato sul collo, l’avrebbe raggiunta e
l’avrebbe
fatta fuori.
Il
terreno si fece più ripido e scosceso, non aveva il coraggio
di
voltarsi per constatare il reale distacco tra lei e il suo inseguitore,
ma era
convinta che non fosse così ampio da potersi permettere di
rallentare.
Cosa
stava facendo sua madre? Allontanava suo fratello dalla
televisione alla quale era incollato da dieci giorni o piangeva insieme
a suo
padre?
E
per chi tifava la gente? Per Wood sicuramente, il sadico, quello
matto, l’assassino.
Chi
avrebbe scommesso contro la sua vittoria? Solo un pazzo, un
ingenuo.
Si
trovò fuori dal bosco, che si faceva troppo fitto e
impraticabile, per seguire il corso del fiume che aveva ritrovato, ma
era secco
e più largo rispetto a quello precedente, doveva essere un
altro torrente.
-Ti
prendo pesciolino.- una voce non troppo lontana da lei la
spinse a obbligare i suoi muscoli a uno sforzo ulteriore.
Prima
o poi sarebbero giunti ad un confronto frontale se lui non
avesse desistito, e visto che la seconda ipotesi era davvero poco
probabile,
prese in mano il coltello che aveva assicurato alla cintura prima di
lasciare
tutto sull’albero, ma non smise di correre neppure per un
secondo.
Cosa
avrebbe potuto una così piccola arma contro
l’accetta affilata
dell’avversario?
La
salita lasciò il posto all’ampia diga che Annie
aveva trovato
qualche giorno prima.
“Perfetto”
pensò riflettendo su quello che aveva sotto i piedi.
Si
voltò per vedere quanto Wood fosse distante e
constatò di avere
un vantaggio discreto che le avrebbe permesso di spogliarsi e di
nascondere
velocemente i vestiti in un anfratto delle rocce.
Si
tuffò e per lei fu come tornare in vita di nuovo dopo tutto
quel
tempo.
Non
importava che l’acqua fosse gelida tanto da mozzarle il
respiro
o che sotto di lei potesse celarsi un qualche ibrido creato dagli
Strateghi,
l’importante era che poteva nuotare e questo le avrebbe dato
una marcia in più.
-Torna
qui puttana!- Wood non era nemmeno entrato.
-Perché
non vieni tu qui?-
Era
una spavalderia che non aveva mai avuto, la coscienza di non
essere morta o in procinto di esserlo, la voglia di non essere
più fragile.
Nemmeno
il contatto con i vestiti asciutti riuscì a darle sollievo
dai brividi che le percorrevano il corpo.
Doveva
andarsene di lì al più presto, se fossero tornati
tutti e
tre non l’avrebbe scampata.
Aveva
perso l’orientamento a causa di quella corsa e non sapeva
come fare per tornare all’albero dove aveva lasciato tutta la
sua roba.
L’unica
cosa buona era che la sete non la tormentava più, al suo
posto però era arrivata la fame e la consapevolezza di non
poter neppure
prendere qualche pesce perché non avrebbe potuto cucinarli
lì senza fuoco.
Ormai
era sera e l’arrivo del buio non l’avrebbe di certo
aiutata e
scaldata.
Avvertì
un suono metallico e argentino vicino a lei e sobbalzò
portando l’arma vicino al viso per difendersi, ma la
riabbassò quando vide il
paracadute tra i rametti di un cespuglio di more.
Dentro
tre panini caldi e quattro fiammiferi e un biglietto:
“Continua così. F”
Accese
un fuocherello infischiandosene del fumo e del pericolo di
farsi trovare, asciugò la pelle e i capelli, raccolse le
more dal rovo e ne
mangiò a volontà insieme a tutti e tre i panini:
non avendo dove metterli
sarebbe stato sciocco sprecarli.
Il
mattino dopo la svegliò il cigolare ritmico di corda e due
colpi
secchi di cannone.
Portò
le mani agli occhi per costringersi a non guardare, ma
l’immagine si era stampata già indelebile nella
sua testa.
Da
due rami di un albero vicino a quello che aveva scelto per la notte
penzolavano i corpi inermi dei due biondi fratelli del distretto 8, i
colli
stretti nei morsi delle corde e i volti rilassati in quella che forse
era
un’espressione di tacito sollievo.
Erano
magri e le braccia scarne ciondolavano al ritmo del vento che
imperversò d’un tratto nell’Arena.
La
terra si sollevò e le entrò nella bocca e per un
poco non riuscì
a respirare.
Un
Hovercraft stava calando le sue braccia meccaniche per
agguantare i due tributi morti anche se lei era nei paraggi: i suicidi
non
erano ammessi dal gioco, troppo scandalo, poco audience e tanti
problemi in
più.
Annie
corse via.
Se
non ce l’avevano fatta loro a resistere probabilmente non ce
l’avrebbe fatta neppure lei.
Erano
rimasti in quattro oramai poiché, il giorno precedente,
aveva
trovato la ragazza del 5 morta al fiume che era diventato vermiglio a
causa del
sangue della ragazza.
Non
aveva rivisto in lei quella bellezza che l’aveva colpita al
centro di addestramento: i bei capelli biondi erano imbrattati di terra
e
sporchi, il fisico tonico ridotto ad uno scheletro, la bella bocca
carnosa
contratta in un’espressione di angoscia.
Adesso
toccava a lei, uno contro tre perché non si erano ancora
divisi loro, la cercavano insieme come cani una volpe, tranne che lei
di una
volpe non aveva niente se non la paura.
Volevano
concludere tutti, Capitol City e gli altri tributi.
Ora
toccava a lei decidere se la sua vita valeva la pena di essere
vissuta.
Se
aveva ancora qualcosa per cui lottare e uscire dall’inferno.
Ma
dall’inferno non ci si esce mai, neppure da Vincitori.
Finnick
era racchiuso in un girone profondo di lussuria, invidia,
inganni e gelosia, e le diceva sempre che lei era il suo angelo venuto
a
tirarlo fuori.
Ma
chi avrebbe tirato fuori lei?
A
quanti diavoli avrebbe dovuto vendere l’anima?
A
nessuno probabilmente se non fosse uscita viva di lì.
Forse
Marcus avrebbe vinto e avrebbe portato un po’ di soldi al
distretto.
Forse
alla vista di tutto quel ben di dio suo fratello avrebbe
smesso di piangere.
Forse
avrebbe trovato anche lui un angelo.
La
fame la richiamava dai suoi pensieri come uno spettro che non
lascia dormire.
Tutta
la frutta dell’Arena era maturata e marcita nel giro di poche
ore e di animali non se ne vedeva traccia.
Tutto
si sarebbe concluso in quel pomeriggio.
Una
corda le si strinse contro le caviglie in un istante, il tempo
di rimanere sbigottita e si ritrovò a penzolare a testa in
giù come un salame.
-L’abbiamo
presa!- gridò qualcuno che riconobbe come Gold.
Poco
dopo cadde rovinosamente facendosi male alla schiena e alla
testa.
-Portiamola
alla cornucopia, voglio che tutti vedano nel modo
migliore!-
Un
grugnito di rabbia uscì dalla sua bocca prima che un calcio
di
Wood la zittisse.
-Non
dovevi farmi arrabbiare pesciolino.- le sussurrò
avvicinandosi
a terra per poi prendere quello che restava della corda per trascinarla
come un
animale fuori dal bosco.
Neppure
il vento sembrava voler turbare un momento così idilliaco,
anche il Presidente Snow voleva godersi la sua vittoria e sembrava aver
ordinato a tutto di tacere.
Annie
era rassegnata, Wood talmente contento da concedersi di
saltellare allegramente compromettendo la sua immagine di duro, ma non
quella
di matto.
Le
aveva liberato le gambe, perché voleva vederla divincolarsi
e
soccombere, ma lei era rimasta impassibile.
-Fai
alla svelta.- Marcus intimò il ragazzo del 7.
“Spero
che vinca tu Marcus, perché se non ci fossimo trovati in
questo posto saresti stato un ottimo amico, perché so di
starti simpatica e di
farti pena, perché sapevi che Finnick era venuto a dormire
con me e non hai
fatto la spia, perché sai che morirò e questo un
po’ ti dispiace.”
-Mi
ha preso in giro questa lurida! Merita di pagarla!-
-Fai
quello che credi basta che sia un lavoro veloce.-
-Tanto
prima o poi avrei dovuto farlo.- mugugnò Wood tra le labbra
e con un movimento veloce tranciò di netto la testa di
Marcus.
Ci
vuole testa per certe cose e Marcus aveva appena perso la sua.
E
con la sua se ne era andata anche quella di Annie.
La
ragazza iniziò ad urlare e dimenarsi come un ossessa.
Qualcosa
si ruppe dentro di lei.
Qualcosa
si ruppe dentro l’Arena.
Un
attimo ancora di silenzio e poi tutto il fragore crudele
dell’acqua impetuosa che scorre.
NdA:
non ho
mai scritto un capitolo così lungo in questa Fanfiction, ma
è il penultimo e
necessitava di qualche parola in più.
Un
enorme grazie a chi mi continua a seguire nonostante i miei
ritardi.
Visto
che questa mia storia si avvia alla conclusione ho deciso che
probabilmente scriverò un’altra Finnick/Annie
molto diversa da questa, ma amo
questa coppia e non ne posso fare a meno, e anche un’altra su
una coppia un po’
più particolare che però inizia ad interessarmi.
A
presto ghiandaie!
cranium
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Capitolo 9 *** Gambe. ***
WE
ARE ONLY TWO LOST SOULS SWIMMING IN A FISH BOWL.
ATTENZIONE:
come l’autrice del libro ci ha fatto notare
(credo nel terzo libro) Annie ha perso il senno in seguito alla
decapitazione
del suo compagno di Distretto.
Marcus
è un personaggio di mia invenzione come il
taglialegna Wood, però spero di aver fatto trasparire nei
capitoli precedenti
se non l’affetto, almeno il legame che un po’ univa
lei a lui e quindi non aspettatevi
una Annie completamente
in sé.
Tanto
vale che finisco di dire quello che volevo dirvi qua
invece di ricorrere alle ndA: questo sarà l’ultimo
capitolo e voglio
ringraziare tutti voi.
Sono
davvero contenta di questa storia, ci ho messo molto
di me dentro ed è stata un’avventura piena di alti
e bassi, di ritardi e scempi,
però sono davvero felice di quello che è venuto
fuori.
Ho
intenzione di scrivere un’altra Finnick/Annie (forse
One-Shot) perché è un pairing che amo.
Grazie
mille ancora.
Un
colpo di cannone.
Due
colpi di cannone.
Come
le campane sulle barche al Distretto, che suonavano
per i pescatori che erano morti.
Suonavano
a festa, metalliche, perché lo spirito degli
uomini si congiungeva al mare come lo faceva la cenere.
Anche
per suo nonno avevano suonato, probabilmente lo
avrebbero fatto anche con Marcus, perché, laggiù
al Distretto, chiunque lo
conoscesse gli voleva bene.
Forse
in quel momento stavano suonando per lei o, il
martellare ritmico , era solo la pressione dell’acqua che le
premeva sulla
testa e che la trascinava giù, sempre più affondo.
Doveva
essere un bello spettacolo visto da u maxi schermo
posto in una piazza, con i bei capelli lunghi che fluttuavano intorno a
lei
come i serpenti di una Medusa mitologica, l’ultimo segno di
vita di un corpo
disposto e pronto a cedere alle lusinghe di un oblio voluto.
Aveva
promesso che avrebbe cercato di rimanere in vita, ma
non aveva le forze per combattere o resistere.
Eppure
le gambe sembravano lottare contro lo stallo della
testa.
E
si mossero, guidate da un qualche istinto di
sopravvivenza che non riusciva a capire da dove venisse.
Nuotò
contro il peso dell’acqua, nuotò fino a riemergere
in
superficie e annaspare riempiendo i polmoni.
Intorno
a lei non c’era nulla: della piana che prima aveva
ospitato l’Arena rimaneva solo una distesa immensa di acqua,
nulla a cui
aggrappare il corpo stanco che cercava un sostegno.
Cercò
di galleggiare sul pelo dell’acqua come le aveva
insegnato sua madre da piccola, di distese a stella cercando di tenere
le
braccia e le gambe il più fuori possibile
dall’acqua.
Respirò
piano piano cercando di calmare il battito accelerato.
Doveva
uscire di lì, ma non sapeva come, non vi erano vie
d’uscite.
Ad
un tratto l’acqua si increspò, prima leggermente,
poi
sempre più intensamente fino a creare piccole onde che non
la facevano rimanere
a galla.
Un
hovercraft spuntò tra le nuvole del cielo e calò
una
corda nella sua direzione.
Doveva
fidarsi oppure no?
Non
le venne data la possibilità di replicare.
La
corda sembrava sollevarla contro la sua volontà: era in
trappola.
Cercò
di staccare le gambe dalla fune, ma non ci riuscì.
Forse
non era ancora il momento giusto per reagire.
Aveva
tante mani sopra di se.
I
camici bianchi a le mascherine sulla bocca e il naso
rendevano i medici tutti uguali mentre cercavano di tenerla ferma e
buona sul
lettino dell’infermeria dell’hovercraft.
Stavano
cercando di farle male sicuramente, qualcuno
tentava di legarle i piedi per non farla muovere, ma non ci sarebbero
riusciti.
Sentiva
Finnick urlare fuori dalla porta.
Quanto
sarebbe durata quell’agonia?
Cercava
di raggiungerlo, ma invano.
Era
legata, era immobile, aveva vinto, forse?
Il
rumore della porta che veniva spalancata velocemente, i
dottori che tenevano qualcuno lontano da lei.
Era
tutto un sogno?
La
testa mozzata di Marcus, il viso di Finnick confuso
dalla morfina, la mano di lei che cercava di accarezzarlo mentre
piangeva.
Il
calmante fece il suo effetto e la trasportò fuori di
lì:
dall’Arena, dall’hovercraft, dalle braccia di
Finnick.
Il
buio la avvolse come una coperta.
Aveva
vinto o forse perso tutto.
La
lucidità aumentò in quei giorni.
Cercarono
di portarla al Distretto il prima possibile senza
sottoporla a troppe pressioni da parte degli abitanti della capitale.
“Non
sta molto bene, ha riscontrato un trauma cranico che i
nostri medici non sono in grado di curarlo a dovere e un po’
di aria di casa le
darà sicuramente giovamento.” una scusa
più che accettabile, d’altronde dai
Giochi è difficile uscire illesi.
E
poi non era altro che una mezza verità: di certo non si
poteva dire che fosse tutto apposto per Annie.
Le
immagini si susseguivano nella sua testa come in un film
vecchio e rovinato, piene di scene mancanti, e graffi.
Sentiva
le urla del ragazzo del tre ancora nella testa, il
ronzio dell’elettricità che lo uccide,
l’odore del sangue dell’acqua vicino
alla ragazza del Distretto cinque e il tonfo sordo della testa di
Marcus che
cadeva a terra.
Piangeva
la notte e urlava durante il giorno.
I
dottori continuavano a dire che le crisi sarebbero
finite, ma probabilmente non ci credevano neppure loro.
Passarono
i mesi e Annie migliorò visibilmente.
Non
riusciva a mantenere l’attenzione per più di
qualche
minuto sullo stesso discorso, e la notte ancora non dormiva bene a
causa degli
incubi.
Ogni
tanto portava le mani alle orecchie come a cercare di
non sentire un rumore che le rimbombava dentro la testa, ma a Finnick
non
importava più di tanto.
Gli
bastava averla lì accanto, poterla baciare di nascosto e
sussurrarle all’orecchio tutto quello che sentiva dentro.
La
vita al Distretto procedeva tranquilla: i pescatori
lasciavano il molo con le barche la notte e
tornavano in tempo per il mercato delle 10 e trenta, la spiaggia al
pomeriggio
si riempiva di reti lasciate ad asciugare al sole mentre i ragazzi
cercavano
conchiglie per fare collane da regalare alle ragazze, le case la sera
profumavano
di pesce, fuoco e famiglia, la gente continuava a mangiare pane verde e
salato,
e intanto Finnick e Annie si amavano.
Tutto
qua.
The
end.
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