Miracles Theatre

di SweetTaiga
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Cupido al rogo! ***
Capitolo 2: *** 2. Veleno e caffè ***
Capitolo 3: *** 3. Una scia di sorrisi ***
Capitolo 4: *** 4. Cappelli e Champagne ***
Capitolo 5: *** 5. Il mito, l'inetto e l'idiota ***



Capitolo 1
*** 1. Cupido al rogo! ***




Alle mie tre Muse:
A Zuz, che ha corretto gli errori che nemmeno avevo visto.
A Barbarak, che ha la pazienza di sopportarmi sempre.
A Sephora, che mi ha spinta a pubblicare.

E poi ovviamente alla mia Stella,
che vorrebbe tanto “sentire le imprecazioni di Cupido
mentre brucia come Giovanna d’Arco” ._.



  1. Cupido al rogo!


Ero la romantica del gruppo, una volta. Quella che credeva nell'amore.
Ora son quella cinica, io: la ragazza che a testa alta insegue i sogni e rinnega l'amore. Quella che ripete "ce la faccio da sola, va bene così". Quella sicura, quella forte. Quella per cui il cuore è un organo, punto. Tuttavia, mentre in giro spargo satira, nell'ombra coltivo poesie. Forse sono ancora quella romantica, sotto questo strato d'insensata razionalità.




Dicono che senza amore non si vive .
Beh, io dico che l' ossigeno è più importante!
Dr. House




Ho sentito dire che Parigi è la città dell’amore.
Per questo io sono a Londra, perché io nell’amore non ci credo più. O forse non c’ho mai creduto.
Sono sempre stata una persona egoista, troppo persa ad inseguire i miei sogni e le mie passioni, troppo impegnata a leggere libri e scattare fotografie per poter dedicare il mio prezioso tempo a qualcuno che non fosse Shakespeare o John Keats.
O almeno, così è stato finché non ho incontrato Lui, la mia più grande condanna.
Bello, romantico e simpatico. Il ragazzo che tutte vorrebbero.
Ho vissuto i due anni migliori della mia vita grazie a Lui: ogni giorno un mazzo di fiori, ogni notte un paio di braccia strette al mio petto, ogni mattina un bacio al caffè.
Avrei dovuto sapere che tutto ciò non poteva essere reale.
Dov’era finita la mia forza, a quel tempo? Dov’era la mia indipendenza?
Avevo gli occhi bendati, la vista accecata da qualcosa che un tempo non mi feriva, e che invece in breve m’aveva fatto perdere il senno.
Tuttavia ci credevo sul serio, nell’amore.  Mi sembrava d’averlo finalmente trovato.
Era come nei film: d’un tratto la sfortunata donzella incontra il Principe Azzurro e vive la sua favola.
Ma la realtà era ben diversa da quei sogni ad occhi aperti.
La realtà era la mia migliore amica stretta tra le braccia del mio bel principe.
La realtà erano i loro corpi avvinghiati sotto le lenzuola, nel letto in cui tante volte m’aveva giurato amore eterno.
La realtà, però, erano soprattutto i biglietti per Parigi che avevo comprato.
Soldi buttati a puttane, in pratica, visto che ho strappato i biglietti davanti ai loro sguardi increduli e sono andata via.
Dopo aver cambiato numero di telefono ed essermi resa praticamente irraggiungibile, ho comprato un biglietto di sola andata per Londra.
Andare a Parigi col proprio ragazzo il giorno di San Valentino è il sogno di tutte le donne.
Andarci da sola dopo essere stata cornificata, però, sarebbe stato un incubo.
Così ho optato per la caotica, affollata, meravigliosa Londra.
Nessun locale raffinato in cui scorgere coppiette affiatate, nessuna romantica visuale della Torre Eiffel illuminata.
Cupido al rogo!
Pensavo di rimanere poco tempo a Londra, invece, dopo aver trovato un lavoretto in una delle tante biblioteche della zona, sono ancora qui: costantemente sommersa dai libri e residente nella mia città preferita.
E’ passato un anno da quel giorno, ed è di nuovo San Valentino.
E, come un anno fa, sono sola.
 Sorrido amaramente e, sicura che l’idiota con le frecce non mi raggiungerà fin qui, mi siedo al tavolino di un bar.
«Un succo di frutta alla mela verde, grazie.», ordino ad una giovane cameriera.
Torna poco dopo con un bicchierone rosso fuoco ed un biglietto a forma di cuore.
«E’ un regalo da parte del bar per tutti gli innamorati. Contiene frasi famose sull’amore.», chiarisce con un sorriso la ragazza, in risposta al mio sguardo scettico.
Vorrei urlarle che non sono innamorata, che non tutti al mondo sono innamorati, diamine! E che quel fottuto biglietto è un’offesa ad ogni anima indipendente e felicemente single.
 Cerco tuttavia di mantenere un certo contegno e, con un altro finto sorriso, accetto il biglietto, portando alle labbra il mio succo di frutta.
Lo infilo in tasca e, distrattamente, scorgo lo sguardo deluso della cameriera.
Forse s’aspettava un minimo d’entusiasmo in più.
Oh, al diavolo. Non ho tempo per queste sciocchezze, io.
Mi alzo velocemente, e con un sorriso tirato pago il mio succo di frutta. Niente mancia, per questa volta: il
modo più semplice per farmi perdere ogni buon proposito è nominare San Valentino.
Corro in biblioteca, consapevole di essere terribilmente in ritardo: Madame Lacroix sarà su tutte le furie.
E’ una donnetta simpatica, Madame Lacroix: il seno prosperoso e le gambe sottili, il naso adunco su cui poggiano spessissime lenti rotonde e i capelli bianchi raccolti in un elegante chignon le donano un’aria allo stesso tempo austera e disponibile.
Non appena varco il portone di legno, eccola che mi assale.
«Signorinella, sei in ritardo di ben 7 minuti!»
Ogni volta non posso fare a meno di sorridere sentendo il suo particolare accento quando cerca di parlare italiano. Madame Lacroix è per metà italiana e per metà francese: la madre era di Roma, e le aveva spesso raccontato le meraviglie della nostra penisola.
Spesso mi chiede di descriverle la fontana di Trevi, di raccontarle della tranquilla vita di paese o di narrarle ogni mio viaggio in giro per le città italiane.
Sento la mancanza della mia patria ogniqualvolta ne pronuncio il nome, ma allo stesso tempo sento che la mia città è questa.
Noi italiani siamo dei romanticoni, sempre pronti a sognare senza avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Inoltre la nostra filosofia di vita è basata sull’otium, sulla calma. Cogliere l’attimo non fa parte del nostro patrimonio genetico.
Io invece ho bisogno di meno fantasia e più concretezza, ho bisogno di un lavoro sicuro, di tornare nel mio appartamento ogni sera. Ho bisogno di Londra, ho bisogno di andare di fretta, ho bisogno di non pensare.
Madame Lacroix mi distrae subito dai miei pensieri, e - come ogni volta che lo fa -  provo un moto di gratitudine nei suoi confronti.
«Julie, ti prego! Vieni, su.», esclama ancora la povera bibliotecaria, esasperata.
Il mio nome, Giulia, non mi è mai piaciuto. Troppo banale, troppo diffuso in Italia.
Invece Julie, con accento francese, potrebbe quasi piacermi.
Salverei la Francia solo per il francese, lo ammetto: non ho mai sentito una lingua più dolce e raffinata.
«Julie!»
Dopo l’ennesimo urlo di Madame Lacroix, mi accingo a raggiungerla al registro dei libri.
«Entro fine anno ti preparerò un registro elettronico, Madame.», affermo, guardandola aprire il grosso tomo dove annota a mano ogni libro che entra e che esce dal grosso portone d’ingresso.
«Oh, Petite! Non scherzare. Questa è una piccola biblioteca, non abbiamo bisogno di quegli aggeggi infernali.»
Sorrido ancora: non riuscirò mai a farle cambiare idea.
«Et voilà!», esclama dopo alcuni minuti.
La vedo tirar fuori un fascicoletto stropicciato, e leggo a chiare lettere “Romeo and Juliet”.
«Tieni, bambina. Immagino tu non abbia nulla da fare questa sera, quindi cosa ne pensi di accompagnarmi a teatro?»
Bé, una storia d’amore in cui gli innamorati muoiono è adatta al mio umore.
Inoltre, non potrei mai dire di no a Shakespeare!
«Va bene, Madame Lacroix. Allora ci vediamo a teatro.»


La giornata a lavoro trascorre velocemente: sono pochi i poveri idioti solitari che vengono a rintanarsi in biblioteca nei giorni di festa.
Ben presto arriva la sera, e l’emozione per lo spettacolo inizia a farsi sentire.
Decido di indossare un semplice paio di jeans ed una camicia bianca; poi, riflettendo sull’abituale eleganza di Madame Lacroix, indosso anche una cravatta nera.
Dopo essermi infilata il cappottino nero che ho comprato col mio primo stipendio e ravvivato i miei cortissimi capelli col gel, esco finalmente di casa, alla ricerca del Miracles Theatre.
Tanto per cambiare, a Londra piove.
E, come sempre, non ho un ombrello con me.
Due cambi d’autobus ed un viaggio in metropolitana, ed eccomi finalmente alle porte del teatro, con i capelli arruffati ed il naso arrossato. Alla faccia dell’eleganza!
Pochi secondi dopo il mio arrivo, vedo scendere da un taxi Madame Lacroix, avvolta in una mantella blu notte e con il capo coperto da un raffinato cappellino.
«Bonsoir, Julie. Entriamo?»
Rispondo con un cenno del capo, e sottobraccio entriamo nel modesto teatro.
I sedili rossi sono comodi e spaziosi, ma probabilmente ci sono a stento duecento posti.
«Non farti ingannare dalle dimensioni, petite. Questo teatro ha una lunga storia alle sue spalle, e devi sapere che qui recita una sola compagnia teatrale da secoli.»
Dimentico ben presto le osservazioni che avrei voluto fare, in quanto una musica soave e la luce soffusa ci avvisano che lo spettacolo è iniziato.
Romeo è un giovane della mia età, dal viso angelico e la pronuncia perfetta; dev’essere sicuramente di madrelingua inglese. Giulietta, invece, ha un accento più particolare; per un paio di volte avrei quasi giurato di sentirla parlare in spagnolo, anziché in inglese.
«Julie, vai a fare qualche foto, tesoro.» mi sussurra Madame Lacroix.
Annuisco, dirigendomi ai piedi del palco.
Mi accovaccio sul pavimento, cercando di dare il minor fastidio possibile agli altri spettatori, e fotografando ogni singola scena non posso fare a meno di notare i lineamenti gentili del giovane Romeo: la bocca rosea sembra disegnata, e gli abiti d’epoca rendono giustizia al suo corpo slanciato.
Lo spettacolo prosegue spedito, senza interruzioni e senza alcun mormorio dalla platea.
Durante la scena finale, con la morte dei protagonisti, un senso d’angoscia mi stringe il cuore.
E' in momenti come questo che sono davvero felice di essere Me.
Un'altra persona, al mio posto, si sarebbe sentita estremamente sola. 


«Magnifique! Stupendi, stupendi!»
A spettacolo concluso, Madame Lacroix insiste per complimentarsi personalmente con gli attori.
«Oh, grazie, Madame Lacroix. Siete sempre così gentile!», risponde la ragazza che interpretava Giulietta.
«Vi conoscete, Madame?», chiedo, incuriosita dalla loro intimità.
Lei si limita ad annuire, con un sorriso triste dipinto sul volto. E’ il bel Romeo a rispondere adeguatamente alla mia domanda. «Madame Lacroix fa parte della storia di questo teatro, signorina! Fu una grande attrice, davvero una grande attrice ai suoi tempi.»
Con un ampio sorriso, si china a baciare le guance dell’anziana bibliotecaria al mio fianco, per poi concentrare il suo sguardo su di me.
«Theodore Price, piacere di conoscerti.», sussurra, tendendomi la mano.
Dopo averla stretta timidamente, ricordo di dovermi presentare a mia volta.«Piacere mio, io sono Giulia Rizzo.»
«Rizzo? Sei italiana?», chiede a sua volta una ragazzina appena scesa dal palco.
Annuisco ancora. «Del Sud Italia, precisamente.»
“Giulietta” mi tende la mano. «Io sono Esmeralda Torres, vengo dalla Spagna.»
«Io invece sono Lizzy Stuart. Sono nata a Londra, vivo a Londra e spero di morire a Londra.», esclama la ragazzina dai capelli ricci.
«Oh, suvvia, parlare di morte alla tua età!», replica Madame Lacroix, accompagnando l’espressione scettica con un cenno della mano. Poi sembra rianimarsi. «Ma dov’è il nostro caro astro nascente?», domanda.
«Parlavate di me, Madame Lacroix?», domanda una voce alle nostre spalle.
 Voltandomi, mi trovo incatenata ad un paio di occhi neri come la notte, incorniciati da scomposti ricci dello stesso colore.
«Proprio di te, caro!», esclama lei, porgendo la mano che il ragazzo bacia.
«Caro, lei è Julie.», dice la donna, indicandomi.
Gli occhi del ragazzo si posano di nuovo su di me, lentamente. «Richard Knight.»
Nessuna mano tesa, nessun sorriso. «Giulia Rizzo.», mi limito a rispondere.
«Andiamo a preparare un buffet, ragazzi! Julie, mostra a Richard le foto: magari trovate un accordo per un articolo. Sai, lui è il miglior attore della compagnia, ed il più portato per la pubblicità.», esclama Madame Lacroix, prima di scomparire dietro le quinte.
Mi giro lentamente verso il ragazzo silenzioso accanto a me, e sospiro. Sarà una lunga serata.
«Allora, quale qualifica hai per essere qui?», mi chiede senza preavviso.
«Laurea in Lettere e Giornalismo, master in fotografia.»
Un mezzo sorriso spunta sul suo volto. «Qualcosa in contrario?», domando.
«Le donne capaci di comprendere la letteratura sono poche. Sono tutte troppo frivole percapire.»
«Immagino di essere stata automaticamente inserita tra le donne incapaci di comprendere.», affermo, con ironia e fastidio al tempo stesso.
Non si prende nemmeno la briga di rispondermi, il principino, così ho il tempo di meditare il contrattacco. «E’ lecito chiedere come mai l’astro nascente della compagnia non abbia interpretato un personaggio importante e complesso come Romeo?», chiedo, alzando il mento.
«Uccidermi per amore non è tra i miei obiettivi, preferisco altri ruoli.»
«Se posso permettermi, quali?»
«Questo mese interpreterò Mr. Darcy, ad esempio.», risponde, senza alcuna variazione nel tono di voce.
«Sono sicura che sarete meraviglioso: siete insopportabile ed altezzoso al punto giusto per questo ruolo.»
 Una risata roca mi fa capire di non esser riuscita ad intaccare il suo stupido orgoglio.
«E posso domandarti, invece, da quando le donne indossano la cravatta?», mi domanda lui.
Errato: il suo orgoglio è stato colpito e affondato, ed il contrattacco lo conferma.
«Da quando gli uomini sono diventati incapaci di portare i pantaloni, Mr. Knight.»
Senza dargli il tempo di replicare, raggiungo il resto della compagnia dietro le quinte.
Mi occuperò io stessa delle mie foto: un altro secondo con quell’uomo e rischierei di essere accusata - giustamente - di omicidio.
Infilando la mano in tasca, trovo il famoso biglietto di San Valentino.
Lo apro accuratamente: sono troppo curiosa per buttarlo senza dare almeno una sbirciatina.


“Temere l'amore è temere la vita, e chi teme la vita è già morto per tre quarti.”


Trattengo a stento una risata. Puah, come seio temessi l’amore! Getto il biglietto nella spazzatura vicina, ma mentre sto per raggiungere gli altri non  mi accorgo dello scalino ed inciampo rovinosamente.
Una risata alle mie spalle mi avvisa che il caro Mr. Knight ha apprezzato lo spettacolo. «Bell’uscita di scena, Mrs… com’è che ti chiami, scusa?»
Mi supera senza nemmeno aiutarmi ad alzarmi, con un sorriso sadico dipinto sul viso.
Mi arrendo: il 14 febbraio è proprio il mio giorno sfortunato.


NOTE:
Ecco qui la mia personalissima visione del giorno di San Valentino ._.
Ma in fondo si sa, si odia questa festa solo quando si è single, come ho avuto modo di confermare parlando con Sephora xD
Penso sia giusto specificare che un paio delle frasi sopra citate sono prese dalla mia pagina facebook, Cleptomane d' E m o z i o n i, quindi se qualcuno le ha già sentite non si preoccupi: non ho copiato nessuno :P
Detto questo, spero che apprezzarete questa mia storia :)

A presto, 
SweetTaiga : )

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Capitolo 2
*** 2. Veleno e caffè ***


 



A tutti coloro che seguono questa storia...
Ed in particolare a Zuz. Grazie di tutto!



 
  1. Veleno e caffè


Che strano. Non è l'amore che mi manca, ma l'odio.
Mi manca un sano nemico, qualcuno con cui prendermela quando le cose vanno male, contro il quale sfogarmi. Voglio una foto da appendere in camera per giocarci a freccette.
Voglio qualcuno che mi faccia arrabbiare così tanto da costringermi ad uscire da questa opprimente apatia. Qualcuno che faccia ribollire il mio orgoglio, cazzo!
Ma qui non ci sono sane competizioni, non ci sono rivali da battere, non ci sono nemmeno obiettivi da raggiungere. Ci sono solo sorrisi, sorrisi e abbracci. Milioni di persone pronte a chiamarti "amore!" perché non ricordano il tuo nome. E non ci si può nemmeno arrabbiare, con queste persone, perché nasconderebbero la loro ipocrisia dietro lacrime di coccodrillo. Loro invidiano, cercano di essere migliori di te, lottando con i mezzi più infimi.
Io invece vorrei un nemico leale, che combatta ad armi pari e che mi spinga a dare il meglio di me. Un rivale che mi faccia risvegliare dal mio letargo privo di mete.
Potrei anche innamorarmi, di un nemico così.
 


"Le cose sono cambiate"... che frase del cazzo,
IO ho cambiato le cose.
Le cose non cambiano, non sono come le stagioni che

passano, giorno dopo giorno.
La gente cambia le cose.
Si è vittima del cambiamento, non vittima delle cose.
-"Scritto sul Corpo" di Jeanette Winterson

 
 
S’è parlato tanto e troppo nei secoli della Fortuna, questa famosa Dea Bendata che colpisce chi le pare.
Bé, secondo me questa stronza ci vede benissimo, ed è quasi peggio di Cupido .
Perché dico questo? Perché sarebbe impossibile evitarmi involontariamente. Sono sicura che si tiene ben alla larga da me, attenta a non sfiorarmi nemmeno per sbaglio.
Ho delle prove, davvero!
Devo ammettere che nel fato credo poco, e penso che il destino sia solo ciò che gli uomini usano per giustificare le proprie azioni.
E’ facile non superare un colloquio e dire “non era destino”, come è del tutto banale dichiararsi ad una ragazza sostenendo che “è scritto nelle stelle che siamo fatti l’uno per l’altra”.
Ma ‘sti cazzi! Non sono certo le stelle a decidere per me, ed una borsettata in testa non la toglierebbe nessuno ad un soggetto del genere.
Invece alla fortuna ci credo. Alla “volta buona” di cui cantava Max Pezzali, a quel breve istante che cambia il corso della tua vita.
Di botte di culo e colpi di sfortuna ce ne sono tanti, nella vita, ed è sempre quella stronza della Dea Bendata a distribuirli tutt’altro che equamente.
Così, passeggiando, puoi notare il povero disgraziato che perde gli ultimi 5 euro che aveva messo da parte per pagare il bus al ritorno e non appena lui, ignaro di tutto, volta l’angolo per raggiungere la fermata, ecco la donna super sofisticata con chihuaua  al seguito chinarsi sui tacchi per raccogliere la banconota ed infilarla tra le altre in un costoso portafoglio D&G.
Quindi come si fa a dire che Boccaccio avesse ragione, sostenendo che la Fortuna colpisce chiunque senza alcuna distinzione?
Forse aveva ragione Guicciardini, nell’affermare che la Fortuna è una forza così forte da trascinarti via, come un vento che non si può frenare, come un fiume in piena. E’ impossibile sfidarla ed ostacolarla, è lei a decidere tutto, è lei a scegliere chi vince e chi perde.
O forse no?
Il mio orgoglio assurdo, al pari di quello di Lucifero nel Paradise Lost di Milton, è tutto ciò che mi resta. Non posso far vincere quella stronza di una Dea viziata, no?
Sono io a decidere il mio futuro, sono io a cambiare, sono io a crearmi le occasioni come sono io a perderle: mi assumo le mie colpe, ma pretendo di veder riconosciuti i miei meriti.
Come sarò io, tra altri due o tre squilli, a mandare soavemente a quel paese la mia ex migliore amica.
Dopo aver passato la notte al Miracles Theatre non ho nessuna voglia di parlare con lei, né di sentire quanto sia meraviglioso o stronzo o infimo o sublime il mio ex ragazzo.
Dopo la terza chiamata decido finalmente di rispondere.
Visto, Dea Bendata? Accetto la sfida.
«Giulia, tesoro, come stai?», mi urla lei con la sua vocina stridula che tempo fa adoravo.
Stronza.  «Ciao, Mary. Sto bene, e tu? Salutami Alessio.»
Mandalo a farsi un bagnetto con i piragna, già che ci sei.
«Oh, ti saluta anche lui, si domanda come mai non gli rispondi alle chiamate!»
Non posso trattenermi dal ridere. Come mai non gli rispondo, dice?
«Perché ridi, tesoro?», mi chiede lei, con la sua vocetta da diabete.
Perché mi avete rovinato la vita e ora vi chiedete perché non vorrei vedervi per il resto della mia esistenza?
«Nulla di importante. Volevi dirmi qualcosa?», domando, cercando di trattenere un urlo.
Io sono una di quelle persone che non urla mai. Solitamente mi armo di risposte sottili e taglienti, di quelle che fanno male a scoppio ritardato perché necessitano di tempo e intelligenza per essere capite.
Raffaele, il mio migliore amico, una volta mi ha definito “urlatrice silenziosa”.
Risi per mezz’ora per quel nomignolo: mi piace.
Ora, da buona urlatrice silenziosa, mantengo la calma, ma è difficile rimanere impassibili dinnanzi all’idiozia della gente.
Sono una persona matura, sono una persona matura e civile, sono una persona matura, civile e…
«Volevamo chiederti se ti va di farci da testimone per il nostro matrimonio, tesoro!».
…e molto incazzata.
«Nemmeno se mi pagate, tesoro.»
Riaggancio prima che possa replicare.
Avrei voluto dire tante cose, avrei voluto urlare, ma la sbronza e la stanchezza mi vietano di fare qualsiasi cosa che non cominci con D e finisca con ORMIRE.
Così attorciglio nuovamente le coperte attorno al corpo, in una sorta di triste e solitario abbraccio, e mi riaddormento.
Prima di lasciarmi cadere tra le braccia di Morfeo, riesco solo a maledire la Dea Bendata per l’ennesimo scherzetto che ha voluto farmi.
Ma resisterò anche a questo, lo giuro.
Con un sorriso mi accorgo che la notizia fa meno male di quanto pensassi.
Con una lacrima mi rendo conto che ho appena pensato una grandissima stronzata.


La sveglia tenta di farmi scendere dal letto per la dodicesima volta, ma questa mattina ho deciso di non esserci per il resto del mondo:  dopo la telefonata di Mary vorrei solo dormire e dormire e dormire. E bere un po’, magari, ma sono troppo pigra per uscire a comprarmi una birra.
Madame Lacroix mi ha concesso una giornata libera, vista l’ora tarda che abbiamo fatto ieri.
Tra un bicchiere di Champagne, un paio di pasticcini e rustici a volontà il tempo è volato, ed in un batter d’occhi erano le tre.
Penso di aver brindato troppo, perché il solo sollevare la testa dal cuscino mi provoca non poca confusione.
Quando mi accorgo che il mio telefono sta vibrando, mi maledico mentalmente per non averlo spento dopo la chiamata di Mary; lo prendo di malavoglia e lo avvicino all’orecchio, tirando le coperte fin sopra i capelli.
«Pronto?», biascico in un italiano ben poco comprensibile.
«Ti sembra questa l’ora di svegliarsi, razza di bradipo?», esclama mia sorella con una risata nella voce.
L’unica risposta che riesco a darle è un grugnito appena udibile, che vuol dire pressappoco “vaffanculo”.
Sia chiaro, adoro Angela, ma odio chiunque tenti di rivolgermi la parola prima che siano passate almeno due ore dalla terza tazza di caffè del mattino.
«Su, scendi dal letto! Ricordi che giorno è oggi?», domanda.
«Bella domanda…», rispondo tra uno sbadiglio e l’altro. «Che giorno è oggi?»
Un sospiro esasperato di mia sorella mi fa sorridere: spera ancora che un giorno diventerò una ragazza con la testa sulle spalle, un minimo di memoria ed un livello più alto (o almeno accennato) di vita sociale.
«Non hai dimenticato di dover andare a prendere Raffaele alla stazione all’una, vero?», domanda.
Cazzo.
Mi alzo velocemente dal letto, sfilandomi la camicia da notte con posizioni degne di un contorsionista di fama internazionale. «Certo che no! Stavo giusto andando. Per curiosità, che ore sono?», chiedo con voce innocente.
«Oh, puoi fare con calma, sorellina. Sono solo le tre meno dieci lì da te.»
«Ah, perfetto allora posso fare con calm.. Aspetta, cosa?! Ma sono in ritardo!», urlo contro la cornetta, infilando in bocca lo spazzolino.
«Brava, bradipo, te ne sei accorta.», ride lei.
«Cavolo, potevi avvisarmi prima!», dico, con la bocca piena d’acqua e dentifricio mentre cerco di infilarmi i jeans.
«Guarda lo schermo del telefono, sorellina.», fa lei con tono ovvio.
24 chiamate perse e 6 messaggi.
Oh. Bene.
«Ok, perfetto, passo e chiudo. Scappo!», esclamo prendendo al volo il cappotto ed il portafogli.
«Ciao, bradipo!»
«Aspetta!», la blocco appena in tempo. «Mica ti ricordi DOVE dovrei andarlo a prendere?»
Con un sospiro, mi riattacca il telefono in faccia.
Ed ora io come faccio?!

Uscendo di casa fermo il primo taxi che passa e gli dico di dirigersi verso King's Cross, la stazione più vicina.
Intanto cerco il telefono che ho infilato frettolosamente nella borsa e digito il numero di Raffaele, che risponde al primo squillo.
«Prima che tu possa dire qualunque cosa, sappi che non è colpa mia! E che non mi sono affatto dimenticata di venirti a prendere! Però potresti gentilmente ricordarmidove devo venirti a prendere?»
Sento la risata di Raffaele e mi tranquillizzo: è da quando siamo nati che perdona la mia sbadataggine.
Non appena mi dice il nome della stazione riaggancio, consapevole di aver fatto l’ennesima stronzata a poche minuti dal mio risveglio. Penso di aver appena superato un record!
«Mi scusi, autista, può andare verso Liverpool Station?», bisbiglio, sperando che gli arrivi mentalmente il mio messaggio e che non guardi nello specchietto: sono sicuramente diventata rossa in maniera a dir poco imbarazzante.
Con una inversione a U degna dei miglior film di sparatorie, l’autista si dirige a tutta velocità verso il luogo in cui Raffaele mi sta aspettando da quasi tre ore, che ovviamente si trova dall'altro lato del mondo rispetto a King's Cross.
Non appena l'autista mi mostra il costo della corsa, rischio istantaneamente di svenire. La prossima volta, girerò tutta Londra a piedi pur di non spendere metà del mio stipendio per un solo viaggio in Taxi.
Rassegnata, pago velocemente e corro a cercare Raffaele, prima che decida di odiarmi per il resto della sua vita.
Lo vedo inginocchiato ai piedi di una statua in stile moderno interamente composta di acciaio e vetro: una delle cose più belle di Londra è la sensazione di trovarsi sempre in una realtà parallela, in un futuro lontano dalla vita quotidiana.
Resto per alcuni secondi ad osservarlo: i capelli biondi ora son raccolti in un codino, gli occhi verdi nascosti dalle lenti degli occhiali sono gonfi di sonno ma ben attenti nel fissare l’obiettivo della macchina fotografica, ed è più alto – ancora più alto! – di come lo ricordavo.
«Finito di farmi la radiografia, Juliè?», mi domanda, girandosi con un sorriso immenso.
E’ dalla prima volta che le ho parlato di Madame Lacroix che mi chiama così: né Julie né Giulia, ma Juliè, un nome solo nostro.
«Raff!»
Non posso fare altro che saltargli letteralmente addosso, tra gli sguardi stupiti e divertiti dei passanti.
«Finalmente.», sussurro, arrampicandomi per raggiungere il suo orecchio.
«Mi sei mancata, Pulce!»
Sorrido, e prendendogli la mano lo costringo a seguirmi.
Trascorriamo un paio d’ore alla stazione, ed ovviamente mi impossesso della sua macchina fotografica.
«Fotografi ancora, Juliè?», mi domanda Raffaele.
«Si, proprio ieri sera ho scattato qualche foto ad uno spettacolo teatrale.»
E’ stato Raffaele a trasmettermi la passione per la fotografia, ed è stato anche il supervisore del mio corso di specialistica.
Ha un piccolo studio fotografico a Roma, ma penso sinceramente che se venisse a Londra avrebbe molta più fama.
Ogni volta che ho accennato all’argomento, però, la risposta è stata sempre la stessa: «Io sono un romanticone dal sangue latino, devo girare per le strade di Roma per trovare l’ispirazione.»
Anche io ero così, anche io ero piena di sogni e di aspettative.
Lo sono ancora, ma sto chiudendo pian piano i miei sogni nell’armadio, attenta a non guardarli troppo per timore di sciuparli.
«Come va con i dipinti?», mi domanda all’improvviso Raff, davanti ad un gelato artigianale Nutella e Fiordilatte per due.
«Non va, è un po’ che non dipingo.», rispondo, distogliendo lo sguardo come se stessi ammettendo un crimine.
Oltre alla lettura ed alla fotografia, la mia più grande passione è il disegno. Ma mettendo da parte i miei sogni ho messo da parte anche i pennelli e le tempere, insieme alle mie amate matite ed ai carboncini.
Le tele son sotto il letto ad impolverarsi, e non so neanche più dove ho nascosto il cavalletto.
Il mio ultimo dipinto è stato un ritratto, il ritratto di Alessio.
L’ho lasciato in Italia, a casa dei miei genitori, e spero ardentemente di non trovarlo al mio ritorno.
«Dovresti ricominciare.», mi dice lui, prendendomi la mano.
«Si, forse dovrei.»
Ritornando a guardarlo negli occhi cerco di confortarlo con un mezzo sorriso: ha sempre sostenuto che fossi un’artista, una che avrebbe fatto strada, ed invece eccomi qui.. un’aiutante bibliotecaria che nasconde la laurea in un cassetto chiuso e abbandona i sogni nell’armadio.
In poco tempo Raffaele riesce però a farmi dimenticare ogni timore ed ogni paura, e ridendo come due scemi ci rifugiamo in un cinema pressoché deserto.
E’ la settimana delle storie d’amore – sempre in onore dello stramaledettissimo Cupido – , e questa sera stanno riproponendo Harry ti presento Sally.
Ovviamente finisco col ridere tra le lacrime e accucciarmi sulla spalla di Raff.
Dimentico completamente Alessio, Mary, la biblioteca e Madame Lacroix. Dimentico persino la caduta fragorosa e la terribile figuraccia fatta davanti a quello spocchioso di Mr. Knight, almeno fino a quando, per sbaglio, Raff non mi colpisce il gomito dolorante.
«Ahi!», cerco di trattenere il mio gridolino da femminuccia poggiando una mano sulle labbra, ma l’udito da Supereroe del mio migliore amico è sempre infallibile.
«Ti fa male il gomito?», mi domanda, cercando di sollevare la manica sinistra della felpa.
Scuoto la testa, ma non ho il tempo di aprire bocca che Raffaele sta già analizzando il livido violaceo sull’avambraccio.
«Quando te lo sei fatto?», mi domanda, alzando un sopracciglio come sono solita fare anche io.
«Stanotte.», rispondo.
Lo vedo spalancare gli occhi, ed in un attimo capisco cheforse dovrei spiegargli la situazione, prima che fraintenda.
«Raff, non fraintendere, è che ho conosciuto un idiota arrogante, Mr. Knight..»
Così inizio a raccontargli ogni cosa, dallo spettacolo al nostro discorsetto quando ci hanno lasciati da soli, dalla sua acidità alla sua aria di superiorità, ogni attimo fino alla mia spettacolare caduta ed alla sua risata sadica.
E dopo tutta questa tragedia lui che fa? Ride!
«Raff, ma sei impazzito? Ti ho appena detto che ho incontrato un arrogante di prima categoria e che vorrei spaccargli il muso e tu ridi?», grido, esasperata e decisamente meravigliata.
«E cos’altro dovrei fare? Sembra la tua versione maschile. Hai trovato pane per i tuoi denti, Pulce.», mi dice tra le risate, scompigliandomi i capelli con la mano.
Sono talmente offesa e stupita da non avere neanche la forza di replicare: la Dea Bendata stavolta l’ha fatto grosso, il danno.


Sono appena le 22:00 quando torniamo a casa; per cena ordiniamo una bella margherita e qualche birra, tanto per mantenerci allegri.
Gli lascio fare la doccia per primo, e nel frattempo gli preparo un letto arrangiato sul divanetto nel salone: la cosa positiva dell’abitare da soli, è che si ha sempre posto per ospitare gente.
«Ho quasi finito!», mi urla Raffaele dal bagno.
«Fai con comodo, Raff! Qui la pizza ci mette un’eternità ad arrivare!», grido a mia volta, iniziando a indossare i pantaloncini e la maglia di casa.
Non faccio in tempo a terminare la frase che bussano alla porta.
Sento la risata di Raffaele, e subito dopo la sua voce. «Le ultime parole famose, eh Juliè?»
Con il sorriso sulle labbra mi affretto ad aprire, ma con mia grande sorpresa e sommo orrore non è l’omino delle pizze , ma un ragazzo con grossi occhiali scuri e la giacca di pelle.
«Giulia.», dice semplicemente con un tono così arrogante da essere fin troppo riconoscibile.
«Ciao.. Scusa, com’è che ti chiami?», gli dico, portando un mano alla fronte con finta ingenuità.
«Sei simpatica proprio come ricordavo.», risponde lui, alzando gli occhi al cielo.
«Tu sei anche peggio. Che vuoi?».
Un leggero sorriso gli incurva le labbra. «Non mi inviti ad entrare? Non mi offri un caffè?»
«Fammi pensare un attimo…», dico, mostrandomi pensierosa. «No.», concludo, con un sorriso.
Con grande stupore, lo vedo ridere. «Penso che cambierai idea dopo che avrai visto cosa tengo in ostaggio.»
Sgranando gli occhi, lo vedo tirare fuori dalla tasca la mia adorata macchina fotografica.
«Ridammela!», urlo, lanciandomi su di lui e cercando di raggiungere con vani risultati il suo braccio alzato al di sopra della testa.
Mi stacco un momento, giusto il tempo di guardarlo negli occhi. «Vuoi la guerra? E guerra sia. Prego, entra pure.», gli dico, facendogli spazio.
«Siediti, prego.», tento di dirgli. «Preferisco stare in piedi, grazie.», mi sussurra lui con un sorriso sadico.
Simulando una risatina inizio a fare il caffè, cercando di ricordare se ho qualche specie di veleno in casa.
Sentendo dei passi, mi volto immediatamente, e vedo lo spocchioso astro nascente del teatro farsi beatamente gli affari miei.
Al terzo cassetto che apre, mi avvicino a lui con in mano il pentolino del latte. «Potresti cortesemente smettere di ficcare il naso in cose che non ti riguardano?»
«Fammici pensare.. No!», esclama lui, in una grossolana imitazione della mia voce.
Prima di perdere totalmente la pazienza e mettermi ad urlare, torno a fare il caffè con un pensiero fisso nella mente: veleno, veleno, veleno.
«Ecco a lei il caffè, Mr. Knight.», bisbiglio con acidità, frustrata per non aver trovato nulla di nocivo.
Lui risponde con un cenno del capo ed un mezzo sorriso gongolate, per poi portarsi la MIA tazzina alle labbra.
Prendo mentalmente appunti: disinfettare la tazzina e acquistare veleni.
«Vivi da sola?», mi domanda.
«Si.», mi limito a dire. Perché mai dovrebbe interessargli la mia vita?
«Perché sei venuto proprio tu? Non potevi mandare Theodore o Esmeralda? Non potevi lasciare la macchina fotografica a Madame Lacroix?», chiedo, sinceramente incuriosita.
«Non chiederlo a me, sono stati loro a costringermi.», sostiene in tono annoiato. «E comunque abito a due passi da qui, dall’altro lato del parco.»
«Cosa?!»
La mia richiesta è talmente acuta che penso sinceramente di aver lanciato segnali agli Ufo.
«Che succede, Juliè?», domanda Raffaele dal bagno.
«Nulla, nulla! Stai tranquillo!», dico in risposta, maledicendomi per aver scelto quell’appartamento. Ancora una volta la Dea Bendata si sta prendendo gioco di me.
«Avevi detto che eri sola.», sussurra Mr Knight.
«Ho detto che vivo da sola, non che ero sola questa sera.», replico.
Improvvisamente si dirige a passo svelto verso la porta, aspettando che sia io ad aprirla.
«E’ abituato bene, il signorino.», sibilo, consapevole di essermi fatta sentire.
Non si spreca nemmeno a rispondere, ma mentre sta per uscire è Raffaele a fermarlo.
«Non mi presenti il tuo amico?», domanda.
Mi sembra che tutto si svolga a rallentatore, mentre Mr. Knight si volta verso il mio migliore amico e si scambiano uno sguardo strano.
Poi, improvvisamente, si sorridono.
«Devi essere Richard. Juliè mi ha parlato molto di te.», esclama Raffaele con il suo inglese impeccabile, tendendogli la mano.
«Ah, davvero?», domanda lui, voltandosi verso di me.
«No, mi sono lamentata di te, è diverso.», replico con tono stizzito.
Entrambi ridono come se avessi detto la cosa più buffa del mondo. «Io sono Raffaele Marino, piacere.»
La loro stretta di mano mi da così tanto fastidio che mi affretto a scioglierla.
«Ok, ora basta, arrivederci, Coso.», dico, spingendo Mr. Knight fuori dalla porta.
Lui mi guarda come si guarda un microbo, e dopo aver salutato Raffaele inizia finalmente a collaborare, camminando lentamente.
«Non stai dimenticando qualcosa?», mi chiede all’improvviso.
Questa volta sono io a ridere.
«Intendevi questa?», dico, mostrandogli la macchina fotografica che gli ho sottratto mentre parlava con Raffaele.
Lo vedo sorridere, e la cosa mi preoccupa.
«No, intendevo questo.», replica lui, mostrandomi un elastico rosso con cui poco prima avevo legato malamente –ed inutilmente, vista la loro lunghezza decisamente scarsa – i miei capelli.
«Quando..?», domando, con la bocca aperta.
«Due a zero per me, Cosa.», afferma ridendo, per poi uscire dal mio appartamento e sparire, finalmente.
Pochi secondi dopo, bussa di nuovo alla porta.
«Cosa diavol…», urlo, spalancandola e terrorizzando l’omino delle pizze, che come sempre è arrivato con un ritardo assurdo e nel momento meno opportuno.
«Oh.. Mi scusi. Entri pure. Quanto viene tutto?», domando, arrossendo di vergogna.
«Ha pagato tutto il ragazzo che è appena uscito, signorina.», mi dice, posando le pizze ed uscendo velocemente com’era entrato.
Resto per un po’ a guardare lo scatolo e le birre, consapevole che potrebbero essere avvelenati.
Poi, con un moto di rabbia, mi giro verso Raffaele. «Vatti a vestire, TRADITORE!» gli dico, notando che è ancora in boxer.
«Sissignora! Ai suoi ordini!», dice lui, ridendo.
«Io vado a farmi una doccia, mangia tutto quello che vuoi, io non voglio niente da quell’energumeno esaltato.», esclamo, chiudendomi nel bagno, e fingendo di non aver sentito il sommesso “a ma sembra simpatico” pronunciato da Raffaele.
Con un sospiro mi lascio coccolare dall’acqua calda, e quando finalmente esco vedo il mio migliore amico dormire sul mio letto. Sospiro: mi toccherà dormire sul divano.
Passando accanto al tavolo vedo un post-it:

“- Sally: Ti odio.
- Harry: È un tuo problema.
- Sally: Penso di amarti.
- Harry: Potrei amarti.
- Sally: Ti odio.
- Harry: Per favore, non odiarmi.
- Sally: Ti amo.
- Harry: Ti amo anch'io.”
Non pensi che sia davvero carino il film che abbiamo visto oggi, Juliè?
E Richard è davvero simpatico : )
Pensaci.
Buona notte, Pulce.

Copro con la mano la parte iniziale del biglietto, e mi godo la buonanotte del mio migliore amico.
In un moto di assoluta bontà, mi stendo sul letto accanto a lui e lo abbraccio, venendo subito circondata dal suo corpo.
«E’ solo un arrogante.», sussurro piano.
Non potrei mai amare un nemico così.
Dea Bendata, questa volta hai davvero esagerato!

NOTE:
Ecco qui il nuovo capitolo, con il quale ho voluto sfatare e sminuire un altro mito: la Fortuna.
Esiste? E' benigna o è una stronza?
Bè, penso sia abbastanza chiaro come la pensa Julie a riguardo ;)
Grazie a tutte voi che mi state seguendo, spero di non deludervi!

A presto,
SweetTaiga : )

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Capitolo 3
*** 3. Una scia di sorrisi ***




Ragazze, leggete, è importante.
Non penso che ciò che sto per scrivere sia vietato dal regolamento, ma in questo caso avvisatemi e cancellerò immediatamente il messaggio.
Volevo solo darvi questo link http://www.jigoku.it/news/1329/raccolta-fondi-per-il-giappone/in cui si parla della raccolta fondi per il Giappone. Si può fare anche con un sms: vi consiglio di leggere. Possiamo fare qualcosa di concreto, perché non approfittarne?


      

                  3. Una scia di sorrisi

 
 

Vivevo tra le pagine di una favola antica, pregustavo il dolce incontro di una principessa e del suo principe. Partecipai ad un grande ballo, avvolta nel mio vestito migliore. Penserete sia una bella storia, questa; la storia di una principessa. In realtà la principessa era un'altra, e mentre la guardavo danzare abbracciata al principe capii. Capii che quello non era il mio castello. Capii che quella non era la mia favola. E capii che tu, tu che mi avevi illusa, non eri affatto il mio principe.
Forse avrei fatto meglio ad innamorarmi del servo, del più improbabile degli amanti, dell'uomo più lontano dai miei sogni.

 

E allora?
Allora quando entra un sentimento, nella tua pancia, ti cambia.
E quando esce un sentimento, dalla tua pancia, ti cambia.
-“Bassotuba non c'è” di  Paolo Nori





Apro gli occhi svogliatamente e, stiracchiandomi lentamente, mi accorgo che Raffaele non è accanto a me.
Mi alzo di scatto, guardandomi intorno, ma appena i miei sensi riprendono a funzionare un dolce aroma di caffè mi raggiunge e pochi attimi dopo vedo Raffaele entrare nella stanza con un vassoio carico di biscotti in mano.
«Buondì.», sussurra, prima di posarmi il vassoio sulle gambe.
«’Giorno a te.», rispondo, cercando di appiattire con le mani la mia chioma ribelle.
«Addirittura la colazione a letto? Non dovrei essere io a viziare te, ora che sei mio ospite?», balbetto tra uno sbadiglio e l’altro.
La risata di Raffaele mi coglie alla sprovvista, e cercando di aprire gli occhi lo vedo appoggiato alla finestra, con lo sguardo perso oltre il vetro.
Sorridendo afferro un biscotto, e distrattamente guardo l’orologio. «Ops, io devo andare in Biblioteca!»
Mangio un altro biscotto e bevo frettolosamente il caffè, bruciandomi ovviamente la lingua.
«Tu che vuoi fare, Raff?», domando, correndo verso il bagno per prepararmi.
Lo sento avvicinarsi alla porta chiusa, ed inizio a trafficare con lo spazzolino. «Vorrei venire con te.»

Usciamo frettolosamente di casa ed iniziamo a correre verso la Biblioteca.
Per una volta, a Londra c’è il sole, e ci godiamo i suoi raggi tiepidi sulla pelle.
Iniziamo a ridere come due idioti, e la gente che ci passa accanto ride con noi: è così difficile scorgere volti sorridenti per le strade di Londra, che ogni raro sorriso è contagioso come uno sbadiglio.
Lasciandoci dietro una scia di allegria entriamo nella biblioteca, e Madame Lacroix ci accoglie con l’abituale sgridata mattutina.
«Oh, ma chi è questo jovanotto?», pronuncia poi in un italiano francesizzato, ammiccando verso Raffaele.
«Lui è il mio migliora amico, Madame.»
«Sono Raffaele, molto piacere.», completa lui, baciando la mano di Madame Lacroix.
«Oh, che galantuomo! Somigli molto al caro Richard, oh si.», esclama lei, tutta soddisfatta per i modi raffinati di Raffaele.
«Oh, la prego, Madame, non facciamo paragoni assurdi! Raffaele non ha niente in comune con quell’arrogante di Mr. Knight!», sibilo esasperata tornando al mio amato inglese, ma vengo subito azzittita da un gesto della Madame.
«Mi riempi sempre di complimenti, ti ringrazio.», esclama una voce divertita a pochi passi da noi.
Mi volto lentamente, molto lentamente, fino a trovarmi faccia a faccia con il mio incubo attuale: Mr. Knight mi guarda dall’alto in basso, poggiato bellamente su uno degli scaffali impolverati, con un mezzo sorriso sadico sulle labbra.
«Tu che diavolo ci fai qui?», borbotto, infastidita dalla sua presenza.
Le mie parole vengono inghiottite dal vento, perché nessuno si degna di rispondermi; persino Raffaele si avvicina a Richard, salutandolo con una cordiale stretta di mano.
Con un sonoro sbuffo mi allontano dal quadretto idilliaco, dirigendomi verso il settore Classici che non ho ancora finito di riordinare.
Un mucchio di libri impolverati attende solo me, non ho tempo da sprecare con quell’individuo arrogante.
Prendo tra le mani Sogno di una notte di mezza estate ed improvvisamente ritrovo la calma perduta.
Inizio a pulire ogni scaffale tomo per tomo, cercando di sistemare i libri nella maniera più semplice ed accessibile.
«Madame, dov’è la scala?», domando, dopo l’ennesimo tentativo di arrampicarmi sulla libreria.
«Nella stanzetta degli attrezzi, cara. Ma è pesante, chiedi ai giovincelli di darti una mano.», mi risponde lei, muovendo la testa in direzione di Richard e Raffaele, che parlottano animatamente.
Il mio grugnito contrariato la fa capire lunga sulla mia voglia di chiedere aiuto alNemico e al Traditore, e a passo svelto mi avvio verso lo sgabuzzino.
La scala, alta due metri e più, si erge imponente con il suo rosso sgargiante.
Il perché Madame abbia comprato una scala così rossa è uno dei misteri dell’Universo.
E ora come diavolo la trasporto?
Attenta a non rimanere schiacciata dal leggero peso di quest’attrezzo infernale, tento di allontanarla dal muro con delicatezza, scoprendo – con mia somma gioia – la presenza di due piccole rotelline alla base dei piedi.
In qualche modo, riesco a poggiarla sulle mie spalle.
O meglio, infilo la testa tra due gradini ed inizio a trascinarla a mo’ di zaino.
Dannato orgoglio. Dovevano esserci il Nemico e il Traditore, a sudare sotto questo aggeggio.
Un paio di ragazzi presenti in libreria si offrono gentilmente di aiutarmi, ma rifiuto con una smorfia che dovrebbe essere un sorriso.
Dubito, tuttavia, di non essere sembrata una pazza assatanata.
Continuo a trascinare la scala fino allo scaffale, e quando finalmente raggiungo la mia meta ecco il grande dilemma: ed ora come diavolo la alzo?!
Lasciando per un attimo da parte i francesismi, ripasso velocemente tutte le parolacce italiane che conosco.
Perché, si sa, nei momenti di rabbia si parla sempre nella propria lingua abituale.
Mi giro lentamente, cercando di posizionare in modo relativamente stabile la scala, e tentando di farmi notare il meno possibile.
Il che, visto il colore sgargiante della scala, il rumore stridulo che fanno le rotelline sul parquet e le mie bestemmie mentali che probabilmente mi si leggono sul volto, è un’impresaleggermente complicata.
Un ultimo sforzo, un ultimo sforzo…
Mancano pochi centimetri, dopo di ché la scala sarà finalmente eretta in tutta la sua sgargiante maestosità.
Un altro pochino…
Proprio nel momento il cui le gambe della scala stanno per raggiungere una posizione stabile, ecco che quelle fottutissime rotelle, con il loro suono stridulo, mi avvisano dell’imminente tragedia.
In qualche modo, la scala ha perso il suo equilibrio, e per fermarla alzo spontaneamente le braccia, sperando che la mia forza basti ad evitarmi ferite decisamente dolorose.
Un attimo prima dell’impatto, dalle mie labbra fuoriesce la soave parola che tutti gli italiani degni di questo nome avrebbero pronunciato.
Non merde, una delicata imprecazione alla francese.
Non Oh, my God!, che sa tanto di fumetto americano.
No.
«Oh cazzo!»

Oh.
Un istante dopo la mia soave imprecazione, mi rendo conto di aver sottovalutato la mia forza: la scala, completamente immobile tra le mie mani, non è pesante come credevo.
«Cazzo?! What?», domanda una voce alle mie spalle.
Calma, Giulia. Calma.
Sei in Inghilterra, a Londra, nessuno può capire le tue imprecazioni.
Calma, Giulia. Calma.
E forse sarei rimasta davvero calma, se la mia testa bacata non mi avesse suggerito di guardare chi fosse l’individuo sospetto alle mie spalle.
«Ti ho appena salvato la vita, cara.», esclama Mr. Knight con espressione soddisfatta.
Ed improvvisamente mi rendo conto del perché la scala fosse così misteriosamente leggera: le mani di Richard, molto più grandi delle mie, sostengono la scala, molto molto molto più in alto di me.
«Cazzo.», ripeto, come se fosse una formula magica.
E, magicamente, mi calmo.
Passando da sotto le sue braccia mi allontano velocemente, ed aspetto pazientemente che il caro astro nascente posizioni la scala.
«Ancora questa parola? Cosa significa?», domanda lui, nel suo perfetto inglese.
«Fottiti.», ribadisco, sempre in italiano.
«Cosa?», chiede ancora lui.
Sbuffando, inizio a salire sulla scala, senza degnarmi di rispondere alle sue domande.
E’ uno strazio non poter mandare liberamente a fanculo una persona nella propria lingua natia.
«Non mi ringrazi neanche, razza di pulce?!», sibila lui con sguardo di superiorità, posizionandosi alle mie spalle.
«Stai zitto, idiota. Me la sarei cavata benissimo anche da sola.», borbotto tornando al solito inglese, concentrandomi sui polverosi tomi di Shakespeare.
«E poi, tu non stavi amabilmente chiacchierando con il Trad.. con Raffaele?!», domando, cercando il mio amico con lo sguardo.
«Oh, è andato a prendere il caffè. Ed io ho visto un sacco di gente ridere qui in Biblioteca.», risponde con noncuranza.
«E questo cosa c’entra con la tua scenata da Supereroe senza calzamaglia?», chiedo a mia volta, incapace di capire che razza di piaga stia prendendo il discorso.
« Non so perché ma quando la gente ride so che ci sei sempre tu di mezzo. Lasci una scia di sorrisi lunga due chilometri.», risponde a sua volta, con una risata sadica che ho imparato ad odiare.
«Non so perché, ma mi sa tanto che non è un complimento.», borbotto sottovoce, continuando a lanciargli maledizioni a raffica.
Dovevo accettare, quando mia nonna si offerse di insegnarmi come funzionassero i riti voodoo! Uffa.
«Hai detto qualcosa, microbo?»
Ok, la mia pazienza è finita. Mi volto verso di lui, pronta a lanciargli in testa l’edizionedeluxe comprendente l’Amleto ed il Macbeth. Una versioncina decisamente pesante, ovviamente.
Purtroppo, la sfortuna in questo periodo mi perseguita.
In qualche modo, Dio solo sa come, inciampo nello scalino.
Per la seconda volta in circa dieci minuti, l’impatto doloroso non arriva: mi trovo aggrappata alle spalle di quell’arrogante, con le sue braccia attorno al mio busto e la sua schiena contro lo scaffale opposto.
Sarebbe potuto sembrare quasi un abbraccio romantico.
Uno di quegli abbracci da film: lui che la salva da una fragorosa caduta, lei che sorride timidamente ed arrossendo lo ringrazia, e vissero felici e contenti, insieme per sempre.
Puah. Stronzate.
Con un movimento da Guinness dei Primati, mi allontano da lui, e con un cenno della testa lo ringrazio.
«Cavolo, piccoletta, ti facevo più leggere. Dovresti metterti a dieta.», dice lui, scompigliandomi i capelli.
Alla faccia del momento romantico!
Sbuffo ancora un po’, ma poi decido di non farci caso.
Dandogli le spalle, mi ritrovo davanti la mastodontica scala rossa.
«Sapevo che passare sotto una scala portasse sfiga, ma non pensavo che anche trascinarla avesse gli stessi effetti.», sibilo tra i denti, mentre mi costringo a non prendere a pugni il tizio alle mie spalle.
«Ti ho salvato la vita due volte e tu la chiami sfiga? Non sarai mica una masochista?!», domanda lui, fingendosi afflitto e sorpreso.
Che figlio di… Che bravo attore, ecco.
«Il problema non è il salvataggio, il problema è il salvatore.», sibilo ancora.
E so che gli sarei potuta saltare al collo per ucciderlo, se voltandomi non l’avessi visto ridere in quel modo.
Perché, non lo ammetterò mai, ma quando ride Mr. Knight è quasi carino.
«Stai tranquilla,non ti salverò più.», risponde, scompigliandomi  ancora i capelli, già abbastanza disastrosi per conto loro.
«Se cercassi di nuovo di prenderti in braccio, potrei rompermi entrambi gli arti. Mettiti a dieta, microbo!»
Ritiro tutto.
Quando ride di me mi sta ancora più sulle palle del solito!



NOTE:
Ecco a voi il seguito, ragazze.
Prima di tutto vorrei farvi notare la presenza dell’ennesima “credenza popolare”: prima San Valentino, poi la Dea Bendata, ed ora la famosa Scala. Quante volte ci hanno detto di non passare sotto una scala perché porta sfortuna?!  : ) Stronzate.. forse. O forse è tutto vero? : )
Bè, ragazze…  Cosa ne pensate? Vi piace come si sta evolvendo la storia? Per ora non sapete ancora molto dei personaggi,ma a poco a poco vi mostrerò le loro vite, le loro abitudini, i loro vizi e le loro virtù.
Conoscerete il loro passato e spero vorrete scoprire il loro futuro.
Li vedrete crescere, e spero di riuscire a darvi qualcosa con ognuno di loro.
Non so come continuerà esattamente la storia, ma ho già abbozzato le linee generali.
Come un incompiuto michelangiolesco, ecco: vedo le venature nel marmo, e poco a poco tirerò fuori la figura contenuta in esso.
Dopo questa robaccia filosofica, vi saluto! Non vorrei farvi addormentare ; )
Spero di ricevere i vostri pareri : )
Cercherò di aggiornare più spesso, se lo studio me lo permetterà.

A preso,
SweetTaiga : )
 

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Capitolo 4
*** 4. Cappelli e Champagne ***


 



 A tutti voi che mi seguite, perché so di essere estremamente in ritardo. 

 
 
         3. Cappelli e Champagne
 
 
 
Come rendersi conto di essere cambiata riguardando un telefilm dei tempi dell’adolescenza e innamorandosi, ogni volta, di un ragazzo diverso.
14 anni: Dawson, il belloccio sfigato con le turbe mentali.
Stavo con un Emo.
18 anni: Pacey, l'imbranato carino con il quale, diamine, si poteva persino intrattenere un discorso!
Ero single. Fuori produzione.
24 anni: Mitch. Maturo, sensibile.. ma non era quello che tradiva la moglie?!
Almeno io con Alessio non ero sposata.
26 anni: Jack. Bello da morire, dolcissimo e.. gay.
Cazzo, sto messa male.

 
 

Puoi chiamarlo snobismo.
La verità è che si tratta solo di meschinità.
Cosa credi? Che voglia stare sola?
Ma sono fatta così, non riesco ad avvicinarmi veramente a nessuno.
È un dato di fatto.
È come se mi mancasse quella parte d'anima che si incastra negli altri,
come nel Lego.

 [David Grossman - Qualcuno con cui correre]






Dicono che quando una donna decide di tagliare i capelli, di cambiare pettinatura, di tingerli e stravolgerli, voglia dire che ha cambiato uomo.
Ecco, in questo caso dovrei essere una donnetta decisamente facile, visto che i miei capelli non restano uguali per due settimane di seguito.
Non spendo ore ed ore dal parrucchiere, né soldi su soldi.
Semplicemente prendo un paio di forbici et voilà! Il danno è fatto.
Ieri sera, ad esempio, dopo l’ennesimo incontro-scontro con Mr. Knight sono tornata a casa, mi sono rimboccate le maniche e.. ho combinato un disastro.
Ora sembro una sorta di istrice, ecco.
Non ci sono due capelli della stessa lunghezza, né un paio che vadano nella stessa direzione.
Meglio se andavo al cinema, in pratica.
La cosa più grave è che oggi Raffaele dovrebbe portarmi a cena in uno dei ristoranti più chic di Londra.
Io, in un locale chic?
E, ancora peggio, io in un locale chic conquesti capelli?
Non che a me interessi cosa pensa la gente, ovviamente, ma odio attirare gli sguardi della gente.
Solitamente sono abbastanzatrasparente, direi.
Per scelta, aggiungerei.
Perché io con la gente ho una relazione complicata.
Potrei quasi scriverlo su Facebook: Giulia Rizzo ha una relazione complicata con gli esseri umani.
Potrei farlo, se usassi ancora Facebook.
Ma, dopo essermi accorta che i migliori rapporti si frantumavano per un link idiota o per una foto di troppo, ho deciso di eliminare quest’ulteriore stress dalla mia vita.
Perché sono una persona tranquilla, io. Una persona pacifica.
Sono per il vivi e lascia vivere, ecco.
Cerco di evitare qualunque litigio, di tenere la voce bassa per non disturbare, controllo se la musica che ascolto con le cuffie sia troppo alta per non infastidire chi mi sta accanto, di rispondere in maniera garbata.
Sono una persona gentile per convenienza, probabilmente.
Il problema è la mia pazienza, che a volte fa le valigie e va via, senza alcun preavviso.
Ed io mi ritrovo a sbraitare come Taz nel pieno del suo malumore.
Quindi, per non rischiare di superare quel limite sottile tra l’isteria ed il raggiungimento del Nirvana, evito qualunque cosa che potrebbe spingere la mia pazzia a partire per un lungo viaggio.
«Ehi, Ju, sei ancora arrabbiata?», urla Raffaele dall’altra lato della porta.
Gli sto tenendo il muso da ieri, dopo aver notato la sua assurda collaborazione col nemico.
«Non ti perdonerò finché non avrò mangiato il mio filetto con crema di tartufo.», rispondo, cercando di appiattire quelli che dovrebbero essere, in teoria, i miei capelli.
E che in pratica sono demoni dotati di anima propria che non vogliono obbedire al richiamo di quell’oggetto magico chiamato pettine.
Afferro distrattamente un cappello bianco, lo incollo a forza sui miei capelli ed esco dalla stanza.
In ritardo di un quarto d’ora, ovviamente.
«Prova a ridere e ti costringo anche a portarmi sul London Eye.», sibilo un secondo prima che Raffaele possa aprire bocca.
La minaccia non fa effetto, perché quello che dovrebbe essere il mio migliore amico mi ride bellamente in faccia.
«Perfetto, allora mi porti anche a teatro.», borbotto, offesa.
«Diamine, Ju, sei un investimento!», esclama lui, continuando a ridere.
Per tutta risposta gli do un pugno sul petto ma, in qualche modo, pochi secondi dopo usciamo di casa a braccetto.

Il ristorante in cui mi ha portato è grande e spazioso, pieno di vetrate dipinte di tinte calde.
Sui tavolini circolari di legno scuro brillano candele colorate, ed attorno ad essi, al posto delle sedie, morbide poltroncine con fantasie etniche.
Ordiniamo subito dello champagne, ed il primo brindisi va a lui.
«Al tuo nuovo lavoro!», esclamo, alzando il calice.
Lui ride, e ride un sacco.
Sarà il fotografo della prossima sfilata di moda a Milano, e non sta più nella pelle.
Questa mattina, quando ha ricevuto la notizia, ha iniziato a saltare come un idiota in giro per la cucina, facendo cadere tre bicchieri, il mio caffè ed il tostapane.
Un disastro assoluto, in pratica.
Gli ho persino concesso una tregua, togliendomi per dieci minuti il broncio dal volto e saltandogli al collo. Indossando un enorme cappello per coprire quelli che dovrebbero essere i miei capelli, ovviamente.
Partirà domani.
So già che mi sentirò sola e che per colpa sua ingurgiterò quantità industriali di gelato, ingrassando in maniera assurda, ma per ora ho deciso di essere felice.
Perché, al contrario di ciò che si possa pensare, la felicità è una scelta.
Non è questione di situazioni, di compagnia; non è merito del caso né della fortuna.
La felicità è una predisposizione mentale.
Se tu decidi di essere felice, lo sei.
E’ semplice.
Oddio, semplice no, ma non impossibile.
Ed io oggi ho deciso di essere felice.
Il secondo brindisi infatti va a me.
«A te, che sei una donna in rinascita!», sussurra Raffaele guardandomi negli occhi.
Rido al suo sguardo serio, ma in fondo sento che ha ragione.
E’come se pian piano stessi rinascendo, al pari di una Fenice che risorge dalla sue ceneri.
«Ora manca il terzo brindisi, giusto?», mi domanda lui.
Facciamo sempre tre brindisi, sin da quando i nostri bicchieri erano di carta e contenevano semplice Coca-Cola.
Forse perché la prima volta che brindammo era un giorno importante per tre cose.
La prima era che la Juventus aveva vinto.
Si, Raffaele è juventino.
La seconda era che Marco, la mia cotta dell’epoca, mi aveva chiesto di uscire.
Il ragazzo più carino della mia classe. Un idiota colossale.
La terza era che, finalmente, Raffaele era riuscito a svelare alla madre di essere gay.
Fu un trauma per tutte le ragazze del paese. Lutto cittadino per quasi una settimana.
Da quel momento, brindiamo sempre tre volte.
«ll terzo brindisi è per…», dico, iniziando a pensare a qualcosa di intelligente da festeggiare.
«Richard! »
Mi giro lentamente verso Raffaele. «Fammi capire, perché mai dovremmo dedicare il nostro terzo brindisi a quell’arrogante?!»
Nega, e con tutta la tranquillità del mondo alza la mano, indicando dietro le mie spalle.

Richard è in piedi accanto alla porta scorrevole che porta sul balcone del locale, e chiacchiera amabilmente con un ragazzo biondo ed eccessivamente palestrato.
Lo osservo di sottecchi, fingendo di guardarmi intorno, ma sono costretta a girarmi di scatto quando il biondino si volta verso di me.
Lascio passare alcuni secondi, per dare il tempo alle mie guance di tornare al loro colore naturale.
Ovviamente non sono arrossita perché quel ragazzo, dopo avermi visto, ha tranquillamente messo la mano sul sedere di Richard.
Assolutamente no.
Raffaele ha ancora il bicchiere alzato, e guarda assorto quei due idioti.
Improvvisamente, con un paio di colpi di tosse, distoglie lo sguardo, concentrando scrupolosamente a piegare e ripiegare il tovagliolo.
Ovviamente non mi interessa cosa sta succedendo alle mie spalle, ma mi giro ugualmente.
«Oh mio Dio..», borbotto.
Sento Raffaele ridacchiare serenamente.
«Allora avevo ragione …», dice, infilando in bocca un pezzo di pane.
Mi volto verso di lui, allucinata.
«Cosa sapevitu?», domando, rendendomi conto di sapere già la risposta.
«Che Richard fosse gay.», risponde semplicemente.
Che stronzata!
Il fatto che Richard ed il biondino tutto muscoli siano avvinghiati e si palpino il sedere non vuol dire necessariamente che quell’idiota è…
«Gay?!», urlo quasi, strozzandomi con la saliva.
Il silenzio cala improvvisamente sul locale.
Per un paio di secondi tutti gli occhi dei presenti sono puntati su di me, e mi sento come se avessi due pomodori scarlatti al posto delle guance.
Balbetto un misero “scusate” tra un colpo di tosse e l’altro, lanciando sguardi omicida a Raffaele, che ha iniziato a ridere senza alcun ritegno.
Quando alza lo sguardo, però, si blocca di nuovo, e cerca velocemente di ricomporsi.
«Dovevo immaginare che fossi tu a fare tutto questo casino, microbo.», scandisce lentamente una voce a pochi centimetri dal mio orecchio.
Per lo spavento quasi cado dalla sedia, causando un’altra serie di risatine a quel bastardo di Raffaele.
«Ciao, idiota.», rispondo, senza degnarlo di uno sguardo.
Richard si guarda intorno, prende una sedia libera e si siede accanto a me.
«Allora, di cosa parlavate di tanto interessante? Penso di non essere riuscito ad interpretare il tuo grugnito di poco fa.», sussurra verso di me, dopo aver sorriso a Raffaele.
«Non sono affari tuoi, ovviamente.», rispondo, fingendo un sorriso tirato.
«Che carino questo cappello, posso provarlo?», esclama, e non faccio in tempo a rispondere di no che me l’ha già sfilato dalla testa.
Vedo i due ragazzi guardarmi in silenzio.
«Ti sei ancora tagliata i capelli da sola, Ju?», domanda Raffaele, alzando un sopracciglio e cercando di non ridere.
Il caro, educato, galante Richard, invece, mi sta letteralmente ridendo in faccia.
Cerco con difficoltà di prendergli in cappello, finendo quasi per cadergli addosso.
Lo vedo guardarmi il collo, insistentemente. «Che bel tatuaggio, cosa significa?», mi domanda, sfiorandolo con un dito.
Approfitto della sua distrazione per strappargli il cappello di mano ed appiattirmelo in testa.
Borbotto un paio di parole incomprensibili, scansandogli la mano e allontanandomi velocemente da lui.
«Eh? Puoi ripetere?», domanda Richard.
Tiro un mezzo sospiro. «Vado un attimo in bagno.», ripeto lentamente, scandendo le parole.
«Di solito quando una donna dice apertamente che va in bagno è perché vuole essere seguita, giusto?», chiede lui, con un sorriso idiota sulla faccia, alzandosi.
«Direi di no, vuol dire che havisite..», replico, prendendo la borsetta.
«Eh?», chiede lui, e non capisco se mi prende in giro o parla seriamente.
«Il marchese, sai… », aggiungo.
Lo vedo portarsi la mano al mento con fare pensieroso, per poi scuotere la testa come se io fossi pazza.
«L’ospite mensile…», tento, quasi con tono interrogativo.
«Non riesco a seguirti.», replica, fissandomi con i suoi occhioni da cane bastonato.
«Problemi femminili!», borbotto spazientita, vedendo che Raffaele continua beatamente a ridere di me.
«Ah, scusa. Avevo saltato il piccolo passaggio che fossi una femmina. Pardonne-moi.»
«Vedi di non farti trovare quando sarò di ritorno.», gli sussurro all’orecchio, e corro in bagno prima di cedere all’immensa voglia di fargli ingoiare la mia borsetta. Intera. In un boccone. Con tutto ciò che contiene.

Quando torno al tavolo, con mia immensa gioia, trovo Raffaele da solo intento a giocare con il cellulare.
Non sa guidare e spera che i giochini con le macchinine lo aiutino ad allenare i riflessi.
Penso che non abbia ancora capito chebisognerebbe studiare i segnali, prima di guidare.
Alzo le spalle. Fatti suoi, penso, sedendomi.
Lui alza lo sguardo su di me.
«Che c’è?», domando, dopo due minuti durante i quali ha continuato a fissarmi.
«E’ umanamente impossibile resistergli. Capisco il tuo trauma.», esclama, annuendo con fare serio e cerimonioso, come se mi stesse consolando.
Sbuffo sonoramente, alzando gli occhi al cielo.
Davvero pensa che io ci sia rimasta male perché quell’idiota è gay? Come se mi piacesse!
«Non ho mai detto di essere umana.», replico, finendo in un solo sorso l’intero bicchiere di champagne.
Ridacchia, come se avessi appena detto una cosa estremamente divertente.
Quasi quasi la borsetta la faccio ingoiare a lui.


NOTE: Ormai non studio il francese da una vita, quindi spero di aver azzeccato il verbo. Se ho sbagliato, non esitate a dirmelo e modificherò : )
Quasi dimenticavo: il telefilm di cui si parla all'inizio è Dawson's creek. 


A presto,
SweetTaiga


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Capitolo 5
*** 5. Il mito, l'inetto e l'idiota ***






Ai “pochi” che rimarranno per sempre: grazie.
Al mio –ormai ex-  Liceo: vaffanculo.
A voi, che avete dovuto aspettare tanto: scusate.
Al mio batterista preferito: grazie, addio.

 
 
 
         3. Il mito, l’inetto e l’idiota


Non ho mai pensato seriamente alla necessità di essere protetta da qualcuno.
Ho sempre ringhiato forte per difendere ciò che è mio, ho sempre affilato gli artigli e sbiancato i denti.
Ma a volte, quando le scene strappalacrime dei film mostrano una damigella in pericolo ed il suo grande eroe che, dopo averla salvata, la cinge tra le braccia, allora penso…  Niente, non penso a niente, non cambia nulla. So che dovrei sentirmi smuovere dentro, ma provo solo un vago fastidio in fondo allo stomaco.
Emozione? Forse. Ma poi spengo il televisore e torno alla mia vita di tutti i giorni.
Gli eroi sono per i fumetti, nella realtà abbiamo solo qualche idiota che si crede super.
Non ho bisogno di un eroe: io sono un’eroina, io sono la salvatrice di me stessa.

Bè, certo… Se Robert Downey Jr. nelle vesti di Iron Man – o anche senza vesti! – venisse in città, probabilmente incendierei causalmente la camera e getterei l’estintore fuori dal balcone. Ma questi sono futili dettagli.

 

Meglio mettere subito in chiaro una cosa.
Non sono un dannato supereroe.
Mai stato, e mai lo sarò.
Non ho ricevuto nessun potere in dono.
Nessun bel regalo.
Nessuna chiave per una vita speciale fatta di spettacolo e grandi avventure.
Vendicatori?
Fantastici Quattro?
X-Tizi?
Che vadano tutti a farsi fottere.

[Fumetto: Ghost Rider ]

 


Svegliarsi con un assurdo mal di testa da dopo-sbornia e dover andare a lavoro non è sicuramente il migliore approccio con il sabato mattina.
Fortunatamente in Biblioteca non c’è molta gente e Madame Lacroix è andata, come ogni sabato, a trovare sua figlia in una cittadina a poche ore da Londra. Decisa a rianimare l’ambiente, comincio a cercare tutti i vecchi fumetti che gli appassionati hanno donato col tempo: se vogliamo che arrivino i giovani, dobbiamo dare loro un valido motivo.
I primi superstiti della polvere e della muffa sono le prime uscite di Topolino, qualche numero dei  Peanuts e vecchi giornaletti su Capitan America. Un ottimo bottino iniziale, dire.
Tutto ciò mi riporta alla mente il mio esame di maturità: il mito americano in contrapposizione alla figura dell’inetto di Svevo, la bizzarra contrapposizione tra la giovane America che si espandeva e l’eterna Italia che lentamente appassiva, perdendo lo slancio dei suoi avi, delle sue origini, dei grandi imperatori. Un blando tentativo di riuscire, dopo cinque anni di assoluta assenza di soddisfazioni scolastiche, a riappropriarmi del mio orgoglio e di dimostrare ai miei professori che c’era molto, molto di più al di là dei loro orizzonti grezzi e limitati.
Che c’era molto, molto di più oltre la matematica.
Che c’era un mondo meraviglioso fatto di collegamenti sottili, di tecniche moderne legate a primitive teorie.
Che c’era un modo diverso di osservare il passato, di mirare al futuro, di analizzare il presente.
Ricordo il senso di svilimento che mi assillò per tutta la durata del liceo scientifico, ricordo l’eterna lotta tra me e i professori, ricordo il loro rifiuto per ogni forma di originalità ed innovazione.
Ricordo il sentirmi limitata, ricordo la mia classe piena zeppa di persone bugiarde e infime e meschine e pronte a tutto pur di difendere i propri interessi. Ricordo la mia ingenuità nel tentare di trovare del buono in quell’ammasso di marciume, ricordo soprattutto la delusione nell’apprendere che, conclusosi l’esame, quelle persone sarebbero scomparse completamente dalla mia vita. Non tutte, ovviamente. Pochi sono rimasti, i pochi con cui posso ancora ritenere di sentirmi al sicuro, i pochi che non mi hanno mai voltato le spalle.
D’altra parte, ricordo anche il senso di onnipotenza alla fine dell’esame, quando la commissione esterna si complimentò con me ed i docenti interni non poterono fare altro che stringermi la mano.
Ricordo le sere d’estate in cui – sempre con quei “pochi ma buoni” – giravamo per ore in macchina, con i finestrini aperti e lo stereo che riproduceva continuamente le canzoni di Vasco.
Ricordo quando, stanchi dell’afa e del caldo e della nostra cittadina piccola e banale, stanchi di vedere sempre le stesse facce, ci svegliavamo all’alba e andavamo in spiaggia, dormivamo sotto le stelle, ci buttavamo in mare a mezzanotte nel tentativo di placare o assecondare quelle emozioni contrastanti che ci ribollivano nel petto: ansia, paura, angoscia, attesa, speranza, aspettativa.
Ricordo che, se durante il liceo mi ero sentita spesso un essere misero e insignificante, che tentava invano di coprire il suo fallimento con maschere d’illusioni vane, da quell’estate in poi iniziai a sentirmi come un’eroina, come se avessi il potere di cambiare il mondo.
La mia tesina era intitolata “dal mito all’inetto”. Io stavo compiendo il processo al contrario.
E capii cosa volesse dire avere vent’anni.
Sogni, sogni, migliaia di sogni che potevo finalmente trasformare in realtà.
Ora anche quel periodo è ormai superato. Non sono un inetto, non sono un eroe: rappresento quell’uomo comune alla scoperta di se stesso, quello di cui si cantava in “Impressioni di settembre”.
Trasportata da queste emozioni mi rendo a malapena conto che l’ora di pranzo è ormai passata da un pezzo.
Do un’ultima spolverata all’ultimo tesoro trovato, un vecchio e rattoppato numero di Iron Man, e mi incammino verso l’uscita per andare a comprare un panino con salame e melanzane – un pasto leggero, giusto per sopravvivere alla polvere, ai ricordi nostalgici, alla rabbia repressa, al mal di testa e alla stanchezza.
Tuttavia non faccio in tempo a scrivere il cartello “torno subito” da appendere all’ingresso della Biblioteca che il mio incubo mi si materializza davanti – manco fossimo a Hogwarts!
« Ciao, sgorbio », esclama Richard con un ghigno.
Malfoy in confronto a lui è un simpaticone, penso con un sospiro, da buona fan accanita della Rowling.
Evito di rispondergli e gli passo accanto con noncuranza, portando con me un po’ di nastro adesivo per incollare il cartello.
Do una veloce occhiata alla sala per accertarmi che non vi sia nessuno.
« Sto per chiudere, vuoi rimanere dentro ad ammuffire tra i libri? », chiedo, più per dispiacere verso i libri – non si sa mai cosa potrebbe fare ai miei tesori, questo pazzo furioso! – che per reale interesse. Fosse per me, potrebbe anche andare a fare compagnia ai topi nelle fogne, o rimanere chiuso nel bagno di un Auto-grill per sempre, o magari cadere casualmente in mare, o…
« Preferirei la muffa a te, ma sono costretto ad uscire. Ho un messaggio per te da Madame Lacroix », risponde lui.  A malincuore lo lascio passare e, dopo aver chiuso a chiave, mi dirigo a passi svelti verso il negozio più vicino.
Nella mia mente solo due parole: CIBO, ORA!
La fame è tanta che dimentico persino di insultarlo o deriderlo o semplicemente di lanciargli qualche sguardo carico di odio e rancore.
Semplicemente, per risparmiare energie preziose, lo ignoro.
Lui, imperterrito ed inarrestabile, mi segue fino al negozio, e poi fino alla panchina nel parco. Mentre scarto il mio panino si siede accanto a me.
« Sembri una barbona », commenta.
Non so se lo dica a causa delle gambe incrociate, dei jeans strappati – per moda, ovviamente -, dei capelli disastrosi, del trucco sbavato a causa del sudore o del fatto che io stia mangiando come se fossi appena tornata da un viaggio nel deserto lungo dieci anni, ma comunque continuo ad ignorarlo: le melanzane richiedono la massima attenzione.
« Ti hanno mangiato la lingua, per caso? », domanda, alzando un sopracciglio e lisciandosi la giacca con fare regale.
Per dispetto, con le melanzane ancora in bocca, gli caccio la lingua in una smorfia che spero lo faccia desistere dal continuare a rivolgermi la parola.
Il suo sguardo disgustoso mi fa capire di essere riuscita nell’intento di infastidirlo. Per la gioia quasi mi affogo!
« Sei disgustosa! », borbotta,  mostrandomi un’espressione inorridita degna del Premio Oscar.
Purtroppo il mio piano non ha funzionato completamente: Richard infatti continua a blaterare di un impegno improrogabile, del fatto che a causa mia sta perdendo tempo prezioso, della speranza di non dovermi più vedere e di non dovermi più consegnare alcun messaggio, dell’inutilità di…
Aspetta un attimo!
Voltandomi velocemente verso di lui rischio quasi di far cadere il mio meraviglioso, adorato panino.
« Smettila di blaterare cose inutili! Qual è il messaggio che dovevi riferirmi? », gli dico stizzita, capendo improvvisamente che se avesse parlato prima non avrei dovuto sprecare mezz’ora della mia vita in sua compagnia.
« Oh, giusto! », esclama.
Ma non aggiunge altro. Continua a guardare fisso di fronte a sé, con un mezzo sorrisino ebete ed irritante stampato su quella faccia odiosa che si ritrova.
« Allora? », domando.
Il mio mal di testa è troppo forte per reagire in qualunque modo alle sue provocazioni. Succede sempre così: mi ubriaco e la mattina dopo non sono capace neanche di chiedere un bicchiere d’acqua al bar.
Com’è che si dice? Di notte leoni e di giorno…
« Come sei impaziente! », commenta lui alzando gli occhi al cielo e aprendo la mia lattina di estathe e sorseggiandone un po’.
« Ma è alla pesca! », esclama sputando il liquido appena ingerito, senza darmi nemmeno il tempo di lamentarmi per il furto.
« Vostra signoria lo preferisce al limone? », domando ironicamente.
Lui però l’ironia sembra non notarla ed annuisce con convinzione. « Assolutamente sì! »
Sbuffo sonoramente addentando il panino. « Allora starò attenta a non comprare mai il the al limone. Mai, mai, mai », mi riprometto.
« Non sei per niente gentile, sai? », domanda, pulendosi le labbra ancora bagnate con un fazzolettino di stoffa bianco.
« Perché mai dovrei esserlo con te? »
« Perché sono adorabile », risponde con convinzione.
Sono così sbalordita dalla sua ottusità che per un attimo resto senza parole. Ma solo un attimo, eh. Giusto il tempo di fargli godere la beata illusione di quell’idiozia.
« Un dito dell’occhio è decisamente più adorabile di te », aggiungo senza scompormi, appallottolando la carta del panino e lanciandola nel cestino più vicino.
Canestro!, esulto mentalmente.
Ricordando improvvisamene il perché della sua fastidiosa presenza ricomincio a fissarlo. « Allora, si può sapere che devi dirmi? »
Lui si volta verso di me, allacciando insistentemente quei suoi occhi neri ai miei.
« Voglio invitarti in un posto », sussurra, avvicinandosi lentamente.
Resto immobile ad osservare il suo volto che, centimetro dopo centimetro, si avvicina al mio. Gli occhi sempre più vicini, sempre più neri, sempre più profondi. Le sue labbra continuano imperterrite la loro avanzata, sempre più rosee, sempre più vicine, sempre più… incurvate verso l’alto.
Faccio appena in tempo a sollevare di nuovo lo sguardo sui suoi occhi che quell’idiota scoppia a ridere.
« Cosa dicevi a proposito del mio non essere irresistibile? »
« Ho detto che non sei adorabile, non che non sei irresis..»Cazzo.
La sua risata riempie l’intero parco. Alcune coppie di anziani, incuriosite da quell’improvvisa esplosione di ilarità, si voltano a guardarci.
« Smettila, razza di idiota! E’ ovvio che non intendevo assolutamente dire qualcosa del genere! », gli urlo in faccia, sentendo le guance arrossarsi in maniera decisamente poco consona – ma per la rabbia, ovviamente.
Come se potessi considerare irresistibile uno scorbutico, acido, insopportabile esserino insignificante. Un esserino insignificante e gay, sottolinea la mia coscienza.
« Però non ti sei sottratta »
« Non so di cosa tu stia parlando »
« Sì che lo sai »
« Va’ al diavolo », gli dico, alzandomi per tornare in Biblioteca. Un omicidio non sarebbe esattamente il massimo per il mio curriculum.
« Ci andrò, ma prima devi venire tu in un posto »
Mi infila un biglietto rosso tra le mani, dandomi le spalle.
Resto per un attimo a fissarlo, incapace di comprendere se sarebbe meglio urlargli di usare il pezzo di carta per soffiarsi il naso o aprire quel dannato biglietto e mettere a tacere la mia insopportabile curiosità.
Poi, vedendo che non si volta verso di me, decido di sbirciare. Giusto un po’.
Lettere dorate ed aggraziate recitano:

“Il mio adorato Richard questa sera reciterà in Orgoglio e Pregiudizio.
Non potrò esserci, ma tu non puoi mancare. Fai molte foto.
Un abbraccio,
Madame Lacroix”

Davvero fantastico il modo in cui un invito può tramutarsi in una condanna a morte solo per la comparsa di quel nome odioso. Il mioadorato Richard. Puah! Non riesco a trattenermi dall’esibire ai passanti un’espressione disgustata.
« Non affannarti a cercare il mio profilo migliore », mi urla Richard, fermo al limitare del parco. « Tanto sono bello eirresistibile da tutti i punti di vista! »
Irresistibile. Certo.
Soprattutto se si parla di omicidio premeditato: una preda davvero irresistibile.






NOTE:
Eccomi qui, con un ritardo inumano e l’ansia da prestazione.
Il capitolo risulterà certamente meno “scoppiettante” del solito, ma chi di voi scrive mi capirà: tutto ciò che mettiamo nero su bianco è influenzato dalle nostre emozioni. E al momento le mie sono in bilico tra l’angoscia e la rabbia.
Della serie, giusto per rimanere in tema : “persino le mie ansia hanno l’ansia” ( Charlie Brown )
Non starò qui a dilungarmi. Voglio solo chiedervi scusa per il ritardo e promettervi che dopo l’esame di maturità cercherò di essere più puntuale con le pubblicazioni.

Grazie a tutti voi : )

La vostra SweetTaiga, più esaurita che mai!



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