Πroject Δelta - La Sessione ha inizio di The Guardians (/viewuser.php?uid=107375)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Project
Delta ( Beta
in linguaggio civile) è una fan fiction liberamente ispirata
alla saga Assassin’s Creed, ma nel preciso riferente ad
eventi immaginari ambientati nel complesso della
funzionalità multigiocatore. Ciascuno dei personaggi
impersonabili nel multiplayer ha il proprio soggetto ed è, a
tutti gli effetti, un essere vivente con la propria storia. Le vicende
si collocano poco prima, se non parallelamente, alla linea temporale di
Brotherhood. La trama esplora
l’esperienza on-line e l’adatta a thriller
rivivendola attraverso gli occhi dei protagonisti: Arder Hayes, Cherish Marshall e
Dorian Fletcher,
rispettivamente Cacciatore,
Cortigiana
e Soldato.
Gli
Autori: The
Guardians sono, in sedete separata, Cartacciabianca
e Pennanera.
Questa fan fiction è ancora in fase sperimentale e necessita
del maggior numero di critiche costruttive possibile. Pertanto, siate
spietati se proprio volete recensire.
Fiduciosamente sperando che la curiosità vi abbia logorarti
e lo stia facendo tutt’ora, Anemone e Dominìc vi
augurano buona lettura :)
Avvertenze:
linguaggio colorito.
Πroject
Δelta
Capitolo
1. Prologo
“Quand’ero
giovane mi piaceva pensare che il mio corpo fosse una sorta di scudo
per tutti quei peccati dei quali poteva macchiarsi
un’adolescente. Oggi lo penso ancora: quando seghetto la
giugulare del mio bersaglio, gli schizzi di sangue non passano oltre il
mio ventaglio. La mia anima è intatta.”
C.M.
Ha
aperto la portiera mentre la macchina era ancora in corsa; struccata,
con le lacrime agli occhi e i capelli arruffati, è smontata
dall’auto trascinandosi dietro il suo piccolo bagaglio. Sotto
la pioggia, quel poco di ombretto che aveva sulle palpebre si
è dissolto via e l’è colato sulle
guance come la pittura di un piccolo Pierrot francese (1.).
“Stronzo!”
ha gridato, ma il frastuono dell’intemperia ha coperto buona
parte del suo urlo; si è allontanata con gran foga, ma
è inciampata. Gli abiti, una camicetta di cotone a maniche
gonfie, la gonna jeans, i pantacollant e le ballerine, sono affondati
assieme a lei in una pozza, dove l’asfalto non era colato
regolare e si era formata un’insenatura abbastanza profonda
da raccogliere acqua.
“Troia!”
le ha strillato in risposta l’autista. L’uomo,
sulla trentina, ha allungato un braccio ad acciuffare la maniglia della
portiera che la ragazza ha lasciato spalancata e l’ha ha
richiusa prima di bagnare i sedili interni. Lo sguardo rabbioso e
insoddisfatto era quello di un mastino che si sfama di croccantini per
gatti.
Poi
la macchina è filata via, ma nel farlo ha urtato accidentalmente una
pozzanghera e un’onda anomala di acqua piovana l’ha
travolta.
Lei
ha gridato di nuovo, ‘sta volta permettendosi anche di
piangere e unendo le sue alle lacrime del trucco. Ha guardato il cielo
nero sopra la sua testa, mentre la violenza del temporale le sferzava
la faccia con i suoi soldatini di cristallo liquido.
Mai
avrebbe pensato di cadere così in basso. Mai.
La
sua vita era stata sempre perfetta. Lei era stata sempre perfetta.
Nessuno osava farle torti se non era la prima a farne, nonostante
preferisse avere comunque l’ultima parola e non permettesse
al suo avversario di uscirne con la parità.
Ma
improvvisamente i suoi sogni fanciulleschi s’infrangono, le
sue aspettative si riducono a pochissimo, ed è costretta a
fare l’autostop sul ciglio della strada, dove qualche ora
prima l’ha abbandonata un autista poco gentile.
Adesso
si sistema la gonna, che, per l’intera nottata di cammino
lungo il ciglio dell’autostrada, è diventata
logora, ma non è solo quell’indumento ad esserlo:
anche lei inizia a sentirsi male, i morsi della fame si stanno facendo
più forti e ore di digiuno completo non aiutano. Ha
rinunciato a portarsi dietro il piccolo trolley, che ha abbandonato
qualche chilometro indietro poco dopo che ha smesso di piovere,
selezionando l’essenziale. Con sé non ha neppure
un cellulare: si è lasciata tutto alle spalle per
necessità: deve essere irrintracciabile. Poi a peggiorare la
situazione c’è il freddo intenso della notte, che,
nonostante il felpino estratto dalla valigetta, punge sulla pelle come
avvalendosi di mille aghi. Ha le gambe irrigidite dalla stanchezza, non
le sente quasi più, e nemmeno i piedi, rigonfi nelle
ballerine consumate, rispondono all’appello. Sulla strada
completamente avvolta dall’oscurità,
all’orizzonte, proprio dove cielo e terra si confondono e tra
qualche istante si delineerà l’alba, appaiono
delle pigrissime luci. Luci = un posto dove poter sedersi a riposare.
La
ragazza sgambetta verso quella direzione, ma un rumore inconfondibile
l’accompagna: nel silenzio della notte, le si affianca una
macchina. In un primo momento lei accelera l’andatura delle
gambe: non ha proprio voglia di qualcun altro che la pianti in asso
sotto la pioggia, ed è troppo stanca per fare…
quelle cose
che aveva promesso all’autista di poco fa in cambio di un
passaggio. Il gesto di proseguire dritto è abbastanza
eloquente, pensa, allora perché quella macchina si ostina ad
inseguirla, procedendo a passo d’uomo pochi metri indietro?
Ad
un tratto, assieme al tuono di una nuova tempesta in arrivo, la ragazza
ascolta il suono del finestrino che si abbassa. Vorrebbe ignorare
chiunque sia alla guida dell’auto e piuttosto essere cieca
per non poter guardare la faccia schifosa di un altro ubriaco, ma
improvvisamente dallo spazio creatosi sbuca una mano guantata di
velluto nero, tutt’altro che da ubriachi… ora che
ci fa caso, poi, solo la carrozzeria di una marca così
famosa graviterà sui 20 mila dollari.
La
suddetta mano, con un gesto eloquente, le intima di avvicinarsi.
Lei
sbuffa: non ha tempo da perdere e non è il caso farsi
pedinare tutta la notte.
Si
avvicina all'auto, ma quando è a pochi centimetri
da essa, lo sportello posteriore si spalanca con un rumore sordo e lei
è trascinata dentro come un sacco di patate. Per lo spavento
chiude gli occhi, e nel momento in cui li riapre, qualche istante
più tardi, si risveglia magicamente seduta tra due uomini
completamente vestiti di nero, su un comodo sedile imbottito. In
quell’auto dai vetri oscurati è così
buio che non riesce quasi a distinguerli. L’auto riprende a
camminare, superano la stazione di servizio che la ragazza aveva
intravisto da lontano ad una velocità ben oltre i cento
chilometri, ma gli ammortizzatori fanno incredibilmente bene il loro
lavoro. Non le viene concesso nemmeno il tempo di bestemmiare che
subito l'uomo alla sua destra le chiede:
“Cherish
Marshall?”
Alla
ragazza si blocca il fiato in gola. Comincia anche ad avere una mezza
paura di cosa le sta succedendo.
“In
persona” mormora.
L’altro
uomo, sulla sinistra, prende parola:
“Figlia
di Joseph e Marie Marshall?” domanda.
Cherish,
sempre più spaventata, annuisce: “Sì,
sì… Ma voi come sapete queste cose?”
I
due continuano, alternandosi:
“Residente
a Baltimora?”
Lei
insiste: “Mi volete rispondere? Come diavolo fate a sapere
queste cose?!” è ufficiale, i giochi di ruolo non
le piacciono e questo sta diventando anche piuttosto antipatico degli
altri. Ammette di essersi sentita più al sicuro tra le gambe
di un ubriaco.
L'auto
frena di colpo, l'uomo al posto di guida la guarda, senza voltarsi,
attraverso lo specchietto retrovisore.
“Noi
sappiamo quanto basta, signorina Marshall” spiega con
naturalezza. Fa una breve pausa, durante la quale il suo sguardo si
sposta sul sedile vuoto del passeggero, dove sono adagiati alcuni
fascicoli aperti. Cherish riconosce per un solo istante, grazie al
bagliore di un fulmine, delle foto che le sono state scattate nella
villa di famiglia a Baltimora; l’uomo, con una mano sul
volante e aggiustando lo specchietto con l’altra, continua:
“Io
e l’azienda che rappresento abbiamo una proposta da farle,
Mrs. Marshall. Vuole gentilmente prestarci orecchio, o preferisce
riprendere il suo viaggio?” all’insegna di un tuono
funesto, fuori dall’auto ricomincia a piovere e col doppio
della foga precedente. “Saremmo ben lieti di accompagnarla ad
una stazione ferroviaria e versarle dei soldi per un biglietto, nel
caso decida d’ignorare questa conversazione.”
Dove
sono i distintivi? Azienza? Deve essere la mafia…
Cherish
riconosce il pericolo, ma soprattutto una bugia quando ne sente una,
perciò la sua risposta è immediata:
“No,
non voglio né ascoltare le vostre immonde proposte
né il vostro sporco denaro; e adesso fatemi scendere, per
piacere.”
L’uomo
alla sua destra le apre la portiera e con le rughe in fronte e gli
occhi stretti Cherish abbandona l’auto. Riprende il suo
cammino sotto la pioggia, ora forte a tal punto da sembrare grandine,
puntando nella direzione opposta: la stazione di servizio che hanno
passato forse è l’unica nel raggio di cento
chilometri e l’idea di sdraiarsi su una confortevole
poltroncina imbottita è l’unica consolazione.
Magari mette anche qualcosa sotto i denti, se riesce ad impietosire il
responsabile del locale.
Comprarle un
biglietto… pensavano davvero che fosse
così stupida? Il minimo che avrebbero potuto fare, in culo
al suo rifiuto, sarebbe stato chiuderla in un sacco dentro il
bagagliaio e scaricarla nell’immondizia con un foro di
proiettile in fronte. La prospettiva di morte è allettante.
Dopotutto, più in basso di così restano davvero
poche alternative…
Percorre
pochi metri prima di accorgersi che il rumore lento e costante della
cilindrata della macchina ancora la segue. Si ferma di colpo, quasi
arrabbiata da tanta insistenza e scortesia.
E
assieme a lei, la macchina inchioda alle sue spalle. Si volta
all’improvviso, col viso attraversato dall’ira
funesta di Achille in persona, e stringendo i pugni lungo i fianchi
strilla come ha strillato qualche ora fa a quell’autista poco
gentile:
“Ho
detto di no, pezzi di merda! Andate a fare in culo da
un’altra parte e lasciatemi stare, dannazione!” la
pioggia le entra in bocca, sfumando il poco rossetto rimasto, e finisce
dritto in gola quasi strozzandola.
Un
medesimo lampo squarcia il cielo e quando Cherish ricomincia a
camminare, tossendo e ignorando cosa accade alle sue spalle, e
più turbata che mai. La macchina la sta seguendo, ancora, ma
le sue orecchie piene d’acqua sminuiscono qualsiasi altro
suono al di fuori del battito forsennato del suo cuore. Quelle foto
come le hanno avute? Perché insistono? Di che proposta si
tratta? La curiosità è un bisogno bestiale che le
attanaglia lo stomaco, sussurrandole di prestare attenzione a nuovi
orizzonti e possibilità. Terribilmente in lotta con se
stessa, Cherish viene assalita dai ricordi di quei giorni felici,
quando poteva permettersi di abitare nella villa di famiglia e
organizzare feste mozza fiato in compagnia degli amici del college.
Senza
accorgersene ha rallentato l’andatura delle gambe fino a
fermarsi del tutto, con le spalle curve, sotto la pioggia che picchia
sia lei sia l’asfalto. La luce dei fari sferza
l’oscurità proiettandole la sua ombra sotto al
naso. Non sente più il freddo per quanto i bollori la
tengono accaldata: la battaglia che combatte in questo momento la sua
anima, contendendosi la giurisdizione del corpo, è delle
più strazianti e violente che abbia mai percepito sulla
pelle. Dopo tutta quella pioggia, Cherish s’immagina
già in un letto col termometro in bocca e la pezza umida in
fronte; ma la febbre è una preoccupazione minima rispetto a
tutte le altre.
Cherish
indugia troppo a lungo. Terribili pensieri animano la sua mente, mentre
sul suo viso si dipinge una smorfia antipatica: sta pensando a molte
cose della sua vita che non sono andate come dovevano e a tutte quelle
che non andranno mai. Solleva un istante gli occhi per guardare le luci
della stazione di servizio, così lontane… e poi
quelle dell’auto, così vicine.
Pare che io non abbia
scelta… sospira nel fare dietrofront.
La
portiera si apre, ma questa volta Cherish si accomoda spontaneamente
nel posto vuoto accanto al finestrino, che resta abbassato
permettendole di guardare fuori.
La
macchina si allontana e scompare nella pioggia.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Πroject
Δelta
Capitolo **
“Cacciare
o essere cacciati.”
A.H.
La metro sbanda sui binari: attraversiamo una galleria in curva e mi
tocca sedere accanto ad una signora prima di perdere
l’equilibrio. Lei mi lancia un’occhiataccia
infastidita, ma è lecito per essermi quasi gettato sul suo
giornale. Mi scuso con un sorriso dispiaciuto.
Una volta seduto poggio entrambi i gomiti sulle ginocchia e tengo lo
sguardo basso, su un punto indistinto tra i miei piedi. Muovendo solo i
bulbi oculari posso vederlo completamente senza dover alzare la testa.
Lui è lì, a pochi passi da me, accanto alle porte
sul lato opposto della carrozza.
Indossa un giubbotto marrone, forse in pelle, con le maniche lunghe e
aperto sul davanti; è giovane, con molte
probabilità sulla trentina, ma perciò
più vecchio e lento di me. Ha un taglio di capelli corti, un
paio di occhi scuri, a differenza dei miei che sono verdi; il fisico
non ha l’aria di reggere i 300 metri della staffetta
olimpionica, ma è magro abbastanza da passare attraverso le
porte. Tiene una mano in tasca (per quanto mi riguarda, potrebbe anche
nasconderci una pistola), batte nervosamente il piede sinistro sul
pavimento del vagone mentre con un po’ di fatica si regge
alla sbarra. Indossa un auricolare all’orecchio. Ad occhi
estranei può sembrare una persona comune, uno in mezzo ai
tanti che affollano questo vagone, ma io sono stato testimone di cosa
è davvero capace.
Per qualche minuto tutto procede tranquillo. Io resto al mio posto e
lui al suo. Il mio bersaglio non fa nessuna mossa falsa per tradirsi, a
parte qualche occhiata poco discreta ai volti di chi lo circonda.
Spesso guarda fuori dalle porte, fissando a lungo qualcosa che cattura
la sua attenzione; e poi torna a adocchiare in giro circospetto. Sta
sudando: è nervoso, va da qualche parte, e di fretta.
La spia del suo auricolare è accesa.
La carrozza svolta in una curva stretta sulla sinistra, così
il mio bersaglio sposta il peso sull’altra gamba e ne
approfitta per guardarsi attorno: è allora che i nostri
sguardi s’incontrano ed è allora che,
riconoscendomi in una frazione di secondo, il mio bersaglio scatta di
corsa verso l’estremità del vagone.
Appena mi alzo la metropolitana compie una brusca frenata: siamo quasi
al capolinea e l’andatura delle ruote deve rallentare. Per la
sorpresa finisco a ruzzolare in terra, dando un po’ di
vantaggio al mio target, ma quando mi rialzo e punto verso lui, vedo
che l'uomo si sta allontanando nell’altro vagone.
Così salto anch’io dalla quinta alla quarta
carrozza inseguendo il fuggiasco fino in testa al treno. Lui butta
giù la gente e non bada a donne e vecchi che imprecano e lo
maledicono: pensa solo a salvare la pelle.
La metro entra in stazione, i freni si azionano del tutto e cominciano
a fischiare sulle rotaie. Al mio bersaglio non restano più
luoghi dove nascondersi oltre alla cabina del conducente, sbarrata
dall’interno. Disperato, nonostante la vettura sia ancora in
movimento, il pazzo aziona le uscite d’emergenza e fa
spalancare le porte. A quel punto la gente inizia anche ad urlare,
mentre lui si fionda fuori dalla carrozza atterrando di schiena sulla
corsia. Con un po’ di esitazione lo imito. Nel momento in cui
rotolo a terra, per poi rialzarmi ignorando i dolori alle ossa, gli
ammonimenti di alcuni agenti della sorveglianza diventano
l’ultimo dei miei problemi. I poliziotti si stavano
scambiando quattro risate in un angolo della stazione sotterranea, ma
hanno estratto le pistole dopo aver assistito increduli a tutta la
scena. Uno sparo di avvertimento fa scoppiare il panico nelle gallerie
sotterranee, ma non rallenta nessuno dei due.
Ora siamo sul percorso che conduce agli ascensori: io inseguo lui, e la
polizia insegue me.
Grandioso.
Stringo i denti: la fatica della corsa comincia a farsi sentire. Riesco
a vedere il mio bersaglio che si fa largo tra la folla a suon di
spintoni e gomitate, chiedendo “permesso” ormai
senza fiato. A suo confronto devo essere una sorta di atleta,
poiché a me, per riguadagnare terreno, basta scansare o
saltare le persone che lui getta a terra disperatamente. Intanto la
polizia sta comunicando via radio richiedendo l’intervento di
altre unità. I rinforzi, molto presto, ci sorprenderanno
all’ingresso principale.
Il mio soggetto, come intuendo le manovre della sorveglianza, cambia
strada e imbocca improvvisamente un tunnel secondario. Mentre curva,
noto che tiene il braccio sollevato due dita premute
sull’auricolare: mi viene da pensare che stia parlando con
qualcuno.
Oppure che qualcuno
stia parlando con lui.
Ci sono le scale mobili: per incrociare meno gente possibile, il mio
target sceglie di buttarsi contro corrente pur faticando il doppio per
mantenere la distanza che ci divide. Lo imito, sorprendendomi della sua
incredibile astuzia: da un vagone dell’altra corsia
è appena smontata una folla di gente e va ad occupare in
gran massa la scala mobile che scende. Se il mio target si fosse
avventurato su quei gradini, invece di percorrere quelli che salgono
nella direzione inversa, sarebbe rimasto bloccato in quel mare di
persone; ed io lo avrei facilmente raggiunto.
Siamo di nuovo al punto di partenza. La polizia che era dietro di me
deve essere caduta nella trappola delle scale mobili: io e il mio
target torniamo ad essere i frettolosi in mezzo a tanti altri. Certo,
la linea metropolitana di Philadelphia non ha confronti con quella
newyorchese, ma sa il fatto suo: squilli di cellulare, canti di zingari
e voci di persone. Suoni agglomerati in una massa indistinta
all’interno delle mie orecchie, dove il tuono più
forte di tutti è quello del mio cuore che batte forsennato.
I polmoni reclamano aria, le ginocchia pulsano.
Il mio bersaglio spalanca una porta con una spallata, e ne risente di
brutto, addentrandosi in un’area non autorizzata ai civili.
Continuo a inseguirlo, dubitando che regga ancora a lungo.
Ci imbattiamo in un corridoio che fiancheggia i binari
d’emergenza della metro; l’unica barriera tra noi e
le carrozze in manutenzione è una fragile inferriata.
È buio, si vede a mala pena oltre il proprio naso. Ma
finalmente, eccolo, il suono che aspettavo.
Il mio target inciampa.
Lo afferro da terra senza aspettare che tenti di voltarsi e quasi gli
strappo via il cappotto. Il peso del suo corpo si fa nullo in confronto
alla forza datami dall’adrenalina nelle braccia. Lo schianto
contro l’inferriata, gli premo la faccia tra un laccio di
metallo e l’altro, convinto che ne uscirà a
cubetti come nei cartoni animati. L’auricolare gli cade
dall’orecchio ed io lo calpesto: chiunque fosse in ascolto,
non ha bisogno di sentire quello che sta per succedere.
“Ti prego, io non c’entro nulla! Hayes,
è stato un incidente!”
Dal canto mio approfitto delle sue suppliche pietose per riprendere
fiato; lui fatica anche solo a stare in piedi, nonostante buona parte
del suo peso netto sia in balia dei miei muscoli gonfi e pulsanti sotto
i vestiti. Bramo di spaccargli la testa così come lui ha
frantumato il cranio di mia sorella.
“L’hai ammazzata!” gli strillo
là dove un tempo c’è stato il suo
apparecchio elettronico. Lui, gemendo terrorizzato e appellandosi al
Signore, deve aver capito di essere inciampato al
cospetto della persona sbagliata.
.:
DUE ORE PRIMA :.
Nella penombra della stanza, il telefono squilla a vuoto tre volte.
Poi, con un bip, parte la segreteria:
“… Arder, ciao, sono Derek. Io ti chiamo, come mi
hai chiesto quando ci siamo visti all’ospedale, ma tu non
rispondi, non rispondi mai… dai, cazzo, alza la cornetta, lo
so che ci sei! Ma immagino che tu abbia i tuoi buoni motivi per non
farlo.” Azzarda una lunga pausa che costerà cara
alla bolletta di entrambi. “Quelli del seminario, dopo che te
ne sei andato, mi hanno chiesto di tenermi in contatto con te.
Vorrebbero che tornassi nel gruppo, sapere cosa stai passando
aiuterebbe soprattutto gli altri. Arder, vuoi aiutare gli
altri?” Un’altra pausa, più lunga e
intensa della prima. “Smettila di pensare a lei; Arder,
lasciala andare, così non l’aiuti. Anche a me
manca moltissimo, ma non possiamo farci niente. La vita va avanti. Non
è stata colpa tua, ricordatelo.” La terza pausa
è la peggiore in assoluto: è sbagliato far
correre troppo tempo tra una parola e l’altra.
“Senti, io devo andare. Chase ha una partita sta sera e ci ha
rimediato un paio di biglietti, volevo dirtelo prima, ma Litz ha
insistito a darti più tempo. In ogni caso, dubito che la tua
agenda sia così piena da non poter rimediare
sull’ultimo momento, perciò…
perché non vieni con noi? Seriamente, Arder,
quant’è che non ti fai una doccia ed esci di
casa?” ride isterico. “Lo sento che puzzi
più di un giocatore di football al termine dei play-off.
Scommetto che sei sdraiato su quel divano da due giorni e la tv
è ancora accesa. Sei mio amico, Arder, ti conosco troppo
bene; ricorda anche questo. Ciao.”
Su un paio di cose il mio amico Derek aveva fatto centro.
Sì, il mio nome è Arder, ma immagino che a voi
simili confidenze diano quasi fastidio e perciò esigiate una
versione più completa e ufficiale delle parole dette al mio
battesimo. Sulle copertine dei libri che non pubblicherò mai
sta scritto Oliver McCartney: lo pseudonimo: la più grande
presa per il culo che uno scrittore possa fare al mondo.
Per i confidenti come voi, dato che ora vi racconterò la mia
storia, sono Arder Hayes.
Un altro punto al mio caro amico Derek, per aver indovinato che questa
sera - ricordo solo nel mese di settembre - sono sdraiato a pancia
sotto sul divano del salotto, reduce di una staffetta cinematografica
alla televisione ancora accesa. Le porte del bagno varcate unicamente
per svuotare la sacca; lo specchio rotto di quando mi ci sono scagliato
per sfogare un po’ di quella rabbia che ai seminari di
riabilitazione cercano di assopire dentro di te, ignorando il fatto che
nel momento in cui esplodi, dopo aver accumulato tanto odio, fai
seriamente male a qualcuno.
La settimana scorsa sono stato vittima di un incidente d’auto
assieme a mia sorella Kate, l’unica di noi due sfigati a non
essersi salvata. Ho perso una sorella che non avrei smesso a lungo di
rimpiangere, scoppiando in lacrime, all’improvviso, dietro al
divano, sdraiato sul pavimento del bagno oppure mentre lasciavo il
frigo aperto e fissavo il baratto di cetrioli sott’olio
– che a lei piacevano tanto. Ma sapete qual è
stata la merda più grossa di tutta la faccenda?
Non ottenere giustizia.
Le cose sono andate
così…
A notte fonda mi ero ripromesso di passare a prenderla alla seduta di
riabilitazione; volevo vederla dopo già qualche settimana
che non ci sentivamo più, ma, arrivato in ospedale, i suoi
compagni mi hanno detto che non si era mai presentata
all’incontro. La prima cosa che mi è venuta in
mente di fare è stata quella di chiamarla; ascoltando la sua
voce mi sono permesso un sospiro di sollievo: avevo seriamente pensato
che avesse deciso di lasciare la città senza informarmene.
Kate si è scusata dicendo che aveva avuto un impegno
più importante e che potevo lo stesso rendermi ancora utile,
continuando il servizio taxi verso casa di un amico. Parcheggio,
portone, citofono… non ho neppure voluto sapere cosa fosse
andata a fare in quella casa; montati in macchina, ho attaccato una
ramanzina che Kate, se ne avesse avuto il tempo, mi avrebbe rinfacciato
di averla copiata a qualche film in cui il fratello maggiore crede di
poter sostituire il padre di famiglia. Io e Kate vivevamo nella
considerazione di essere orfani; l’unico tra i due che
avrebbe potuto ricordare qualcosa sui nostri genitori sarei dovuto
essere io, ma mia sorella non mi ha mai perdonato il fatto di saperne
quanto lei. Quando ci abbandonarono sulla strada, era appena una
neonata e aveva sei anni meno di me; ormai adolescente aveva preteso
spesso che gli raccontassi qualcosa, un particolare degli occhi, se uno
somigliava all’altra, cose così… ma la
mia materia aveva preferito tener fede al suo nome e rimanere grigia. Spenta.
Assente. Forse avevo rimosso per il dolore, chi poteva dirlo? Dopotutto
era stato un grande shock anche per me, ma questo ad una diciassettenne
che mette se stessa al centro del mondo non poteva minimamente
importare.
“Devi smetterla di fare sega a quei seminari come se fossi
ancora a scuola!” le ho gridato cercando di guardare la
strada, ma c’era il bisogno di voltarmi e ammirarla
imbronciata, semplicemente per incontrare il suo sguardo pentito. Ogni
tanto mi distraevo dalle strisce e acceleravo tardi ai semafori,
beccandomi i clacson delle macchine dietro.
Lei taceva. Magari non sapeva che dire, magari era dispiaciuta, o
magari sapeva benissimo quanti e quali insulti vomitare, ma preferiva
non mandare a quel paese suo fratello. Almeno non ancora.
“Quella gente vuole aiutarti, Kate, apri gli occhi! Sei
giovane e ti stai rovinando la vita con queste!” le ho
strappato la confezione di sigarette dalle mani prima che riuscisse ad
accenderne una. Quand’era nervosa, come tutti i fumatori a
questo mondo, le passava subito per la mente una chiara immagine di
sollievo, soddisfazione, droga che io non le avrei mai permesso di
assecondare in mia presenza. Afferrato il pacchetto, l’ho
gettato fuori dal finestrino.
Non l’avessi mai fatto.
“Stronzo, costano!” mi ha sputato addosso quelle
parole con un tale furore da farmi rabbrividire. È stato
come se avessi appena rubato l’anello alle dita di Smigol.
Nel bel mezzo della litigata, un pazzo furioso ci è venuto
addosso col suo furgone da trasporto; ci ha sbalzati entrambi fuori
dall’abitacolo, riducendo l’automobile ad una
lattina, e ha sostenuto poi che Kate fosse alla guida. Il camionista se
l’è cavata senza un graffio (strano, eh?) e in
tribunale ha insistito col dire che mia sorella, completamente priva di
fiducia in se stessa, donna disperatamente affondata nell’
alcol e nel sesso sfrenato, era a quel fottuto volante e gli aveva
tagliato la strada. Ha tirato fuori pure due testimoni, difficili da
smentire quando vieni classificato “pazzo, paranoico e
allucinato scrittore depresso”.
Dannato
camionista… dannati tutti i camionisti! ho
pensato precedendo corte e giuria che si alzavano e lasciando
l’aula del tribunale. Derek quel giorno era al mio fianco e
ha provato a farmi ragionare, per la prima volta, con scarso successo.
Inutile negarlo: Kate non se la passava bene. Tutto quello citato di
lei in tribunale è vero: beveva, e troppo; scopava, e troppo
spesso e con persone sempre diverse. Alle volte, forse per
divertimento, li portava nel mio appartamento senza dirmi nulla. Quando
rientravo dai miei viaggi all’estero, alla ricerca
d’ispirazione, trovavo la birra nel frigo finita e le
lenzuola ancora umide e sfatte. È stato allora che la mia
aiutante delle pulizie ha dato le dimissioni, rifiutandosi di prendere
parte ad una perversione del genere.
Kate avrà frequentato i seminari sì e no due o
tre volte e mai fino alla fine. I compagni del suo gruppo sono brave
persone, gente che desidera ardentemente fuggire dalla dipendenza e
spendere soldi in qualcosa di sano come, che so, in un cheesburger,
invece di deviare per il tabacchi o il bar.
Ancora oggi non capisco perché mia sorella si ostinasse
tanto a non voler guarire. Non le piaceva essere chiamata malata, non
riusciva a convivere con se stessa e la condizione in cui era
sprofondata di sua volontà, ma sapeva di star facendo
qualcosa di sbagliato e di dover rimediare. Chi lo sa… forse
per pigrizia o forse per testardaggine, quando provavo a
rinfacciarglielo, lei mi malediva e si chiudeva in casa.
La verità?
Mi manca. Mi manca pazzescamente. Nonostante non abbia mai fatto niente
nella sua breve e miserabile vita per compiacermi, niente che attirasse
la mia e non l’attenzione di altri alcolisti o ninfomani,
avverto l’assenza del suo corpo come se materialmente ci
fosse; come se, invece di starmi accanto, mi pesasse sulle spalle.
Giaccio inerme su questo divano da due giorni per colpa
dell’anima tormentata di Kate che,
dall’aldilà, è venuta
nell’aldiquà a sedersi sulla mia schiena e a
camminarmi lungo la spina dorsale.
Ultimamente alle sedute psichiatriche con il gruppo di sostegno ci vado
io; non ho rimpiazzato mia sorella nella sua cerchia di drogati, no,
assolutamente.
Peggio.
Derek ha insistito che prendessi parte a qualcuno di quei raduni hippie
con gente imbrogliata dalla vita come me. Il primo ed ultimo incontro
risale alla sera dopo quella dell’incidente; poi non sono
più tornato.
Ho organizzato un funerale veloce con quattro gatti e ho assistito alla
crematura di mia sorella secondo la sua volontà - o
più precisamente, secondo il ricordo di un nostro giorno
d’infanzia, quando spiritosamente mi disse di voler vivere
per eterno in mezzo alle cose degli altri, e non sotto terra come un
qualsiasi verme.
Metà delle ceneri le ha volute un’amica di Kate,
che conosco con il soprannome di “Lilly”; non posso
credere che sul suo passaporto stia scritto davvero così,
quant’è vero che il nome completo di mia sorella
è Kateline.
Un’altra
verità?
Il camionista mente e i testimoni sono falsi. Mia sorella quella sera
non era alla guida e qualcuno ha tentato di ucciderci. Se non entrambi,
almeno uno dei due era il bersaglio, e adesso gettano sabbia sul fuoco.
Personalmente ho ne ho soffiata via un po’, ma ce
n’è troppa e ben distribuita. Come dicono i
giovani… non mi piglia di portare avanti indagini personali
oltre a quelle che ho da poco sospeso: alle spalle di Derek e amici,
qualche giorno fa ho lasciato Philadelfia e, dopo averlo rintracciato
sull’elenco telefonico, sono stato a New York nella casa del
camionista, ma quell’appartamento è risultato
vuoto. VUOTO. No mobili, no impianti, no igenici. Invece di pensare che
per tutto il tempo ho dato la caccia ad
un’identità falsa, mi sono convinto che
è in viaggio per lavoro, magari a contrabbandare droga da un
continente all’altro col suo maledetto furgone, e ho cambiato
strada.
Sono tornato nel mio quartiere e ho scoperto che uno dei due testimoni
è un mio vicino. L’altro abita proprio
nell’edificio accanto all’appartamento di Kate.
Non ci potevo credere.
Sono andato alla polizia e ho sporto denuncia; insomma, mi sono dato da
fare! Ma quelli mi hanno rimandato a casa dandomi ancora del
“pazzo e paranoico scrittore depresso”.
Derek ha fatto cilecca: non sto pensando a mia sorella,
bensì a chi l’ha uccisa e alla vita che
l’è stata strappata ingiustamente. Non era
cattiva, non ha mai fatto male ad una mosca, e non meritava di morire
in un modo tanto orribile per mano di qualcun altro. Non mi sarei
abbandonato a tanto dispiacere se mia sorella si fosse spenta nel suo
letto dopo aver ingerito otto litri di tequila e fumato sigari cubani.
Se fosse morta felice, nel fare ciò che le piaceva, mi sarei
adirato di meno, se non con lei, allora con me stesso.
Forse è come dicono poliziotti e avvocati difensori: sono
pazzo, depresso e paranoico. Devo smetterla di scontrarmi di petto con
il corso degli eventi e arrendermi alla concezione che è
colpa mia, che è solo colpa mia. Tutto.
L’alcolismo,
la perversione… sono stato io a crescerla
così, sono stato io a lasciare che frequentasse una merda di
scuola pubblica invece di mandarla al college. Avrei dovuto trovarmi un
lavoro migliore, più fruttuoso, invece di continuare a
pubblicare favole per bambini, romanzi storici di 200 pagine al massimo
e polizieschi psicologici dalle copertine rosa. Nei miei brevi e
sprecati 10 anni di carriera avrò guadagnato quanto racimola
un imprenditore in dodici mesi.
La litigata,
l’incidente… l’ho costretta
io ad andare a quei seminari; se non l’avessi fatto, Kate non
sarebbe scappata per evitare l’incontro e magari
l’avrei trovata a casa, davanti la televisione, a mangiare
gelato. Poi c’ero io alla guida, è stata mia la
distrazione fatale. Strappandole dalle mani quel suo ultimo desiderio e
gettandolo dal finestrino, ho cancellato il poco di comprensione e
compatimento che provavo per lei. Volevo aiutarla, ma forse il modo
migliore per farlo sarebbe stato lasciare che percorresse il suo
cammino, da sola, restando a guardare. Forse qualcosa di meno violento
della morte l’avrebbe fatta tornare sulla retta via.
Dicono che affidare la propria vita nelle mani di un drogato
è come dare la possibilità ad un suicida di
gettarsi da un elicottero con un solo paracadute: abbandonata la
speranza, c’è la certezza che si
sfracellerà al suolo. Ma Kate meritava una seconda
possibilità, meritava ancora tutta la fiducia del mondo;
aveva quel paracadute e l’avrebbe aperto, ne ero certo. Le
sarebbe bastato solo più tempo…
Il tuono di una mitraglietta e il rombo di motori mi strappano
improvvisamente ai miei incubi, facendomi sobbalzare sul divano, mentre
il libro che avevo aperto e poggiato sulla faccia schizza via, finendo
tra la roba buttata sul pavimento: l’angente 007 non si
smentisce mai nel suo ultimo film, Quantum
Of Solace, che trasmettono
adesso alla televisione come replica della sera scorsa. L’ho
già visto quella volta, ma la scena iniziale
dell’inseguimento automobilistico è anche la mia
preferita, così mi permetto un’occhiata assonnata
al televisore mettendomi a sedere al centro del divano, dopo aver
faticosamente sollevato il busto e spostato le gambe dai cuscini.
Dio, mi sento un cassonetto: mi fanno male tutte le ossa, nessuna
esclusa, dalle caviglie ai polsi come se le auto
dell’inseguimento avessero appena investito un pedone e quel
pedone fossi io. I proiettili delle armi mi perforano il cervello, le
grida delle comparse sono anche peggio di quelli.
Il collegamento con la notte dell’incidente è
automatico: ripenso alle auto che ci scorrevano ai fianchi qualche
istante prima, ai semafori e alle strisce pedonali, dove ho visto
passare alcuni pedoni il cui viso ricordo sfocato… infine
ricostruisco la strada un po’ meno trafficata che ho scelto
per arrivare prima – un’altra colpa.
Quando Bond e i suoi inseguitori escono dalla galleria e rivedono la
luce, a me balenano i fari del furgone negli occhi, e il solo, unico ed
intenso grido di mia sorella, che fino ad allora mi aveva preso a
parolacce, copre quello delle comparse. Ricordo di non aver neppure
sterzato… il camion c’è spuntato
davanti all’improvviso ed io non ho nemmeno provato ad evitare
l’incidente. Forse, se l’avessi fatto,
l’unico a morire sarei stato io e mia sorella se la sarebbe
cavata in ospedale con qualche frattura poco grave. Rivedo ogni
dettaglio, assaggio di nuovo il dolore atroce dello schianto; la
macchina che rotola e si ferma sul ciglio del marciapiede, suoni e
immagini confuse, il battere forsennato del cuore, la bocca asciutta e
l’oscurità immonda del coma…
Basta.
Mi dimeno a cercare il telecomando tra le pieghe del divano e lo trovo
(al solito) incastrato tra due cuscini. Spengo la televisione guardando
passivamente lo schermo che perde corrente. Ho il braccio col
telecomando ancora teso e, lentamente, accorgendomi che il cuore mi
batte a mille, lo adagio sul tavolino. Chiudo gli occhi e prendo un
respiro profondo. Con le mani libere e la mente sgombra mi accorgo che
Derek aveva ragione su un’altra cosa: puzzo, e parecchio;
nemmeno ho il coraggio di annusarmi un’ascella, per
confermare che ad emanare lo sgradevole odore di uno sportivo dopo una
partita sono io, e non il sandwich ammuffito e mai assaggiato che mi ha
lasciato la mia nuova cameriera sul tavolo da pranzo. Mi viene il volta
stomaco se ripenso a quella povera donna che si fa viva in questa
topaia tutte le mattine e trova la casa ordinatissima, tirata a lucido,
come se non ci vivesse nessuno. Ve l’ho detto, no? Uso il
bagno solo per le urgenze e poi torno sdraiato sul mio divano, attorno
al quale c’è il caos: bottiglie vuote sia di acqua
sia di birra; scarti di vestiti, ma soprattutto, libri. A bizzeffe e
dei più assurdi che abbia mai letto, ma dei quali ho
raggiunto lo stesso, per costrizione e bisogno, l’ultima
pagina.
Tina, la cameriera, entra in casa la mattina alle otto e se ne va alle
due del pomeriggio. La pago, ovvio, e anche più di quanto
dovrei, ma per non fare un cavolo. Finiti i lavoretti più
semplici – pulire il bagno, spazzare camera da letto e cucina
– se ne va in terrazza e ciancia al telefono con le amiche:
la sento ridacchiare nella sua lingua – peruviana –
e fare il mio nome. Mi sa tanto che si è accorta di star
facendo soldi facili, poiché mentre lei sgobba per quel poco
che c’è da fare, io me ne resto nella mia sfera
attorno al divano, non sporcando altro che quella. A me sta anche bene
così, può fare come e cosa vuole, ma
l’importante è che ci sia quando le chiedo di
scendere a comprarmi un’altra cassetta di birra oppure un
nuovo libro che devo recensire.
Ecco, un altro punto interessante sarebbe dire che dopo la morte di
Kate, sei giorni fa, un amico di Derek è riuscito a trovarmi
un posto in un settimanale per ragazzi, nel quale pubblicare qualche
recensione di libri per la stessa fascia di età. Il medesimo
giorno ho sfuriato in faccia a Derek dicendo che avrebbe potuto
pensarci prima. Ho scaricato in parte anche su di lui la colpa per la
morte di mia sorella che, se avessi trovato prima quel lavoro, oggi non
sarebbe in una benedetta urna, ma a mangiare gelato, con suo fratello,
guardando maratone di film.
Mi sbaglio.
Tra me e Kate non c’è mai stato questo genere di
confidenza fraterna. Da lei, ecco, non mi sarei mai aspettato un regalo
di compleanno tanto quanto un vero sorriso. Le sue tirate di labbra
assomigliavano perlopiù a smorfie mocciose, rappresentati
solo una parte dello specchio fanciullesco nel quale si sentiva
intrappolata, probabilmente, e dal quale ho continuato a desiderare di
tirarla fuori.
Derek ha parlato di una partita. Sorrido.
Il suo adorato fratellone in questione, Chase Utley,
non è
niente popò di meno che il celebre battitore dei
Philadelphia
Phillies, squadra professionista nelle figurine. Questa
sera, se ben ricordo, giocano in casa contro i Florida Marlins come in
un settembre del 2006. Sarà una di quelle amichevoli che
vanno molto di moda, ultimamente, per sanare vendetta, rivalsa, e la
malsana competizione tra le squadre rinvenute dallo scorso MLB, il
campionato nazionale, che non si è concluso nel migliore dei
modi.
Stropicciandomi il viso mi pungo le mani con la barba sfatta e lasciata
crescere. Automaticamente immagino Derek, al mio fianco, nel ruolo
della madrina che mi striglia di santa ragione. La cosa mi fa
sorridere, notando che il mio intero appartamento è
più buio di una camera oscura. Le tende coprono le finestre,
nonostante sia solo un tardo pomeriggio. Non accendo una luce da mesi
per risparmiare sulla bolletta; la morte di mia sorella è
stato solo un altro ottimo motivo per non farlo: nascondersi al modo,
forse, è simile al nascondere la propria paura di esso.
Mi sgranchisco le ginocchia e riesco a sollevarmi in piedi: miracolo,
stento a crederci di poter ancora usare le gambe! Esco dalla mia
“cupola” di caos facendo attenzione a non
calpestare la valanga di libri che copre il pavimento come un cerchio
perfetto, attorno al divano, e arrivo a guardarmi allo specchio del
bagno. Appoggio entrambe le mani al bordo del lavandino.
Sono proprio un
disastro… mi dico azionando la doccia e virando
sulla direzione camera da letto. Mentre l’acqua scorre
nell’altra stanza, seleziono un cambio veloce di vestiti;
rovistando un po’ nei cassetti ordinati, nei quali non
rovisto da tempo immemorabile, abbino ai jeans la maglietta a doppie
maniche con l’insegna dei Phillies e abbandono tutto sul
letto, altrettanto impeccabile e nuovo di zecca. Torno in bagno ed
è automatico, come se in quella settimana non avessi fatto
altro tutte le mattine e le sere: doccia, shampoo, asciugamano attorno
alla vita; camminando con prudenza sul pavimento umido, torno allo
specchio sul lavandino e scaccio la condensa che vi si è
creata. Con un po’ di fatica e buona volontà
ritrovo la perduta familiarità col rasoio, che uso
più da dieci anni ma che nell’ultima settimana si
è sentito un po’ solo. Schiuma, detergente, ma
anche spazzolino e dentifricio… torna ad essere tutto come
una volta.
Spengo l’acqua del rubinetto riassestando la strumentazione
al posto di partenza, mi schiaffeggio le guance e in fine ammiro
l’opera conclusa.
Io torno ad
essere come una volta.
Avevo quasi dimenticato l’aspetto umano del mio volto. Quegli
occhi sottili e verdi, gli zigomi adulti, i capelli frizzanti, di un
castano scuro, abbigliati in un taglio medio a dir poco anomalo. Appena
avrò tempo, giuro di farmi aggiustare la testa (sia fuori
che dentro).
Non so cosa realmente mi abbia dato la forza di alzare le chiappe da
quel divano, dove sarei potuto rimanere comodamente straiato ignorando
il messaggio di Derek. Forse sono state le sue ultime parole:
“Sei mio amico, Arder, ti conosco troppo bene; ricorda anche
questo.” Ha detto proprio così.
Sei mio amico.
Glielo devo: presenziare al suo fianco in una nuova vittoria del
fratello e della nazione, dargli la possibilità di farmi
ancora del bene, dimostrandogli che la nostra amicizia è
fondamentale nella mia vita soprattutto adesso che ho più
bisogno di conforto, per mia sorella, certo, ma anche per i torti e gli
ostacoli passati, presenti e futuri.
Andrò a quella partita: in compagnia di vecchi amici non si
ha mai ucciso nessuno.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Πroject Δelta
Capitolo ***
“Sergente,
lei crede nella vita dopo la morte?”
“Se
ci credessi, probabilmente ora non sarei qui.”
A.H.
e C.D.
Lasciarmi alle spalle Derek e gli altri non è stata una
decisione difficile.
Diciamo che non lo è stata affatto.
Appena ho riconosciuto la faccia di questo verme nella coda per entrare
allo stadio, mentre andava nella direzione opposta, ho cominciato a
seguirlo: prima con lo sguardo, poi un passo alla volta, fino a
corrergli dietro. All’inizio nessuno dei due andava tanto di
fretta; più che un inseguimento vero e proprio, avevo
iniziato col pedinarlo. Mi ha incuriosito il fatto che stesse lasciando
il John
F. Kennedy Stadium prima dell’inizio della partita,
ma m’infastidiva ancor più la consapevolezza della
sua presenza. L’assassino di mia sorella, l’uomo
che ha rovinato a sangue freddo la mia vita senza lasciare traccia di
quella di Kate, nella mia stessa area cubica? No, era inaccettabile che
la sua ombra fosse tanto vicina alla mia. Ed è bastato
questo a far scattare in me una frenetica molla omicida…
“Hayes, ti prego! Un incidente, è stato un
incidente!”
“Bugiardo, stai mentendo! Menti su tutto!” lo
strattono contro l’inferriata. “Da dove diavolo li
hai tirati fuori quei testimoni, eh?! Dalle tue chiappe?! Non
c’era nessuno su quella strada a parte te, me e mia sorella,
dannazione! Ci sei venuto addosso senza frenare! E Kate…
Kate non stava guidando! Con che coraggio hai osato mentire
così spudoratamente in tribunale?!” le lacrime
m’inumidiscono gli occhi, la collera si mescola pian piano
alla disperazione. “Davanti alla giuria! Davanti a
me!”
Sto perdendo il segno, ma ormai mi suona stonata qualsiasi altra azione
che non sia ammazzarlo di botte. Qui, seduta stante, mentre le mie
unghie affondano nella pelle del suo giubbotto e i miei denti sfregano
gli uni sugli altri, Preston Anderson, di mestiere camionista,
sconterà la condanna che la corte di giustizia non ha avuto
le palle di affibbiargli!
Insistendo a dichiarare la sua innocenza, l’uomo chiude gli
occhi: in un mondo di codardi sceglie di confondersi nella massa. Gli
sferro un pugno, in piena faccia, e assaporo il sangue che dal suo naso
schizza a depositarsi prima sul mio viso, poi, con un secondo gancio,
anche sulle mie nocche. Il bastardo geme, si dimena contro le mie gambe
che intrappolano le sue, oppone una flebile resistenza. Questo gran
figlio di cagna potrebbe stendermi al tappeto senza
difficoltà, se lo volesse, poiché è
abbastanza adulto da rispondere all’offensiva; ma scommetto
che la coscienza, quella creatura che Collodi in Pinocchio chiamava
“grillo parlante”, gli comanda di incassare i colpi
senza ribellarsi, e ripagare così il suo peccato
più grande: l’omicidio.
“Confessa, bastardo! Confessa!” lo incito,
offrendogli un’ultima possibilità di redenzione,
ma neppure io sono tanto sicuro che riuscirò a fermarmi
facilmente anche dopo averla ottenuta.
Non sono mai stato un tipo aggressivo. Il classico sbruffone, che ruba
le merendine a gratis con qualche cazzotto, a scuola l’avevo
anch’io, ma lasciar perdere, accettare le cose come stanno,
era una mia caratteristica dell’epoca. Al liceo è
filato tutto liscio; frequentavo dei buoni corsi con della brava gente.
Allora perché, vi chiederete voi, d’un tratto sono
diventato tanto violento? Non provo alcun rimorso per ciò
che sto compiendo, alcun disgusto per il sangue altrui che mi pizzica
la pelle; sto infrangendo la legge che tutela gli esseri umani e
andrò in galera per questo: che fine ha fatto la mia di
coscienza? Inoltre, spaccando il setto nasale di Preston, o
più semplicemente non riuscendo a far pace con me stesso
sulla morte di mia sorella, cosa credo di ottenere? Niente.
Perché la verità è che io non ho mai
avuto niente per cui valesse la pena lottare. Niente a cui aggrapparmi
con le unghie, niente da tenere troppo stretto, niente che non fosse
Kate; e adesso che addirittura lei è uscita dalla mia vita,
le mani vuote bramano qualcosa con cui compensare quella mancanza:
sangue.
La perdita di mia sorella è stato semplicemente un nuovo
avvertimento: la mia e la vita di chi mi circonda stava andando allo
catafascio, ed io, come facevo da bambino quando Jakson rubava le
merendine, sono rimasto a guardare.
Perciò ho inseguito Anderson nella metropolitana e
l’ho costretto con le spalle a quest’inferriata;
perciò continuo a macchiarmi la maglietta dei Phillies con
il suo sangue riducendogli la faccia in poltiglia: sento di poter
riscattare una minima parte di me stesso, una minima parte di tutto
ciò che non ho mai concluso, o addirittura mai incominciato.
Se finirò dietro le sbarre per aver riscattato
l’anima tormentata di mia sorella, che né in
questo né nel prossimo mondo troverà mai pace,
ben venga: non mi tirerò indietro come ha fatto questo
pezzente prima di me, non mi nasconderò dietro a bugie,
illusioni o falsi testimoni; pagherò il prezzo delle mie
azioni, che per me sono state sensate, le più sensate tra
tutte, e guarderò in faccia la giustizia per quello che
è: uno spietato organo di governo incapace di fare
distinzione tra il bene e il male.
Lo lascio andare lentamente, e fisso il vuoto di fronte ai miei occhi
gonfi di lacrime e sgranati dal furore, mentre lui si accascia tra i
miei piedi. Tossisce sangue sulle mie scarpe: è vivo, ma
poiché ha le narici intasate, respira attraverso la bocca,
ansimando. Arriva a coprirsi il volto con una mano: sfiora con dita
tremanti la propria linfa purpurea. Ora magari, con quello sguardo da
catalettico, vorrà farmi credere di non aver mai visto tanto
sangue in vita sua. Ma come? Uno spietato assassino del suo calibro
spaventato da quattro gocce di sangue? Stento a crederci…
“Ti prego…” m’implora,
supplichevole ed umile peggio di un verme. “Ti
prego…” ingurgita saliva e sangue assieme
allontanandosi, strisciando, da me. “Ti prego, Arder, devi
credermi…”.
Già che pronunciasse il mio cognome con tanta nefandezza mi
faceva saltare i nervi. Se adesso osa anche rivolgermisi per nome,
allora si diverte a tirare la corda.
Stringo i pugni umidi lungo i fianchi, con la coda
dell’occhio l’osservo allungare un braccio nella
mia direzione. Mi sfiora i bordi del pantalone, appellandosi alla mia
pietà, ma io porto indietro la gamba trattenendo
l’impulso di rispondergli con un calcio: dopotutto, la sua
faccia insanguinata è a portata delle mie nocche tanto
quanto a quella della mia suola.
“Ho una figlia…” sussurra. Sputa altro
sangue. “Ti prego, Arder, ho una figlia” ribadisce.
Codardo,
penso. Osa nascondersi dietro altre bugie pur d’impietosirmi.
Ah! Ci sarà anche riuscito, ma non esattamente nel modo che
si aspettava: ora mi fa il doppio del rigetto. Se ammazza le famiglie
degli altri, non posso immaginare che inferno sia avere lui come padre.
Digrignando i denti sono pronto a fargli assaggiare la punta in gomma
bianca delle mie Converse, quando, per sua ultima speranza, Preston
estrae il portafoglio da una tasca interna del giubbotto.
Ora tenta anche di
corrompermi? Questo è il colmo!
“Non li voglio i tuoi sporchi soldi da mercenario!”
A quelle parole Anderson sgrana gli occhi.
Forse “mercenario” non era la parola più
adatta, nonostante in qualche strano modo ne sia stato sollecitato.
Preston non ha ucciso mia sorella né per denaro
né per errore: l’assassino che mi striscia ai
piedi non è altro che un folle omicida senza scrupoli; un
pazzo che uccide per diletto, nascondendo i suoi misfatti alla
giustizia con un buon avvocato e testimoni immaginari, semplicemente
per ricominciare indisturbato il giorno dopo.
Convinto di ciò, ignoro il suo inquieto stupore piantandogli
un calcio in piena faccia. Lo rivolto come una frittata. Il portafoglio
gli schizza via dalle mani e finisce a terra nel raggio di una luce
d’emergenza.
“Dannato, dove la trovi una donna disposta a concepire altri
bastardi?!” grido guardandolo contorcersi tra le mie
caviglie. “In quell’ambiente tutto vostro, tra ex
carcerati, alcolisti, drogati e assassini, solo una buona donna può
essersi data a te!”
Potrei continuare per ore, riempiendo di fango il suo orgoglio
d’uomo, ma m’interrompo all’improvviso;
il mio sguardo è stato catturato da una fototessera infilata
nel taschino trasparente del portafoglio di Preston, che è
finito per aprirsi mentre volava in aria e cadeva in terra.
Sull’istantanea, di vivaci colori, dimora il fanciullesco
sorisetto sdentato di una bambina dai capelli biondi, acconciati in due
trecce dorate; occhi piccoli, verdi, stretti nel gesto di sorridere
giocosamente a 32 denti.
Stavo per ammazzare suo
padre…
“Si chiama Ashley…” la voce di Preston,
ridotta ad un gorgoglio, s’insinua nel mio padiglione
auricolare come uno spillo. “Ha tre anni” aggiunge
sollevandosi su un gomito. “I servizi sociali
l’hanno presa in affidamento quando è morta sua
madre, dodici mesi fa. Questa foto me l’ha mandata la sua
assistente la settimana scorsa, assieme ad una missiva che mi vietava
di vedere ancora la mia bambina. Dicevano di averle trovato dei buoni
genitori, una coppia giovane e benestante, e che perciò
avrebbe dovuto dimenticarsi di suo padre al più
presto…” racconta mentre, allungando il braccio
libero, afferra il portafoglio sul pavimento. Con dita tremanti, estrae
la fototessera dal taschino trasparente. Si sistema con le spalle
all’inferriata e ammira, in un sorriso commosso, il volto
della sua bambina giusto qualche istante, prima che un duetto di
lacrime gli scivoli sulle guance, pulendole dal sangue secco. Tira su
col naso, ma ne risente dolorosamente: devo avergli frantumato una
buona parte di osso, oltre a rovinargli le cartilagini.
Trascorrono alcuni secondi di silenzio: io in compagnia del mio
emarginare me stesso, delle mie illusioni, della mia
superficialità e dei miei errori; lui della sua foto, della
sua coscienza, della sua vita e del ricordo della sua famiglia. Poi,
d’un tratto e come risvegliatosi da un sogno, Preston alza in
mento dal petto e mi guarda dritto negli occhi. I suoi sono gonfi e
arrossati, i miei tondi, ingigantiti, solcati da occhiaie profonde,
specchio della mia anima capovolta. Quel che è rimasto della
mia ira animalesca si placa lentamente: il confronto con la
realtà, il faccia a faccia con il volto angelico della
figlia di Preston mi ha restituito un po’ della mia
umanità perduta.
“D’accordo, senti” comincia,
interrompendo i miei monologhi interiori. “Visto che hai
distrutto il mio auricolare e loro
non possono sentirci, lasciami spiegare le cose come stanno, Arder, e
forse almeno tu ti salverai”.
Adesso sono più confuso che mai.
“…Eh?”
Nonostante abbia sfiorato un tasto anomalo della tastiera, Preston
sembra serio mentre ripone la foto di Ashley nel taschino trasparente,
pulendo la pellicola dal sangue. Rimette il portafoglio nel giubbotto e
apre bocca per spiegarsi, ma la luce di due torce invade
l’oscurità.
“Fermi dove siete, polizia!” le parole di un
giovane uomo rimbombano nella galleria. Preston, seduto a terra, non
evita di bestemmiare.
Le mie intimidazioni e le suppliche a voce alta di Anderson devono aver
comunicato agli agenti la nostra esatta posizione nonostante
l’oscurità circostante. Gli sbirri ci hanno
trovato e vengono verso di noi con le canne delle pistole ben in vista
sotto le torce.
“Arder, sono loro,
devi scappare!”.
Di nuovo quel “loro” molto ambiguo. Possibile che
non si riferisca alla sorveglianza come inizialmente credo?
“Mani dietro la testa! Non muovetevi!” sono in due.
La luce di una torcia si posa su Preston, accecandolo.
L’altra mi cerca.
“Arder!” m’incita il camionista, alzando
un braccio. “Li trattengo io, ma tu scappa!”.
È redenzione quella che cerca? Vuole conquistarsi la mia
benevolenza offrendomi il suo altruismo anche dopo aver fatto fuori mia
sorella? Un po’ incoerente da parte sua, lo ammetto, e sono
stupito.
Un semplice pensiero si rimangia tutti gli altri: io in prigione non ci finisco!
Scappo.
Uno sparo.
E per lo spavento, siccome qualcuno lassù mi odia
parecchio… inciampo.
Preston impreca e batte la testa contro l’inferriata.
“Dove credevi di andare, eh?!” uno dei due
poliziotti mi si fionda addosso mentre, disperatamente, provavo a
rialzarmi e a scappare. Lui, un armadio, mi acchiappa per le spalle e
mi tira indietro, costringendomi poi seduto a terra.
“Sono innocente!” è la prima cazzata che
mi viene in mente. “Non potete arrestarmi! Non ho fatto
nulla!” è la seconda.
“E quello sulle mani cos’è,
ketchup?” ridacchia il poliziotto.
“Voglio un avvocato!” e tre.
L’altro pubblico ufficiale ha stretto le manette ai polsi di
Preston. Il camionista lo lascia fare, mi guarda scuotendo la testa,
schifato. Io, con una guancia premuta a terra, non so che dire, fare o
semplicemente pensare.
Sono
innocente… mi ripeto, sono io la vittima! Quello
stronzo ha ucciso mia sorella, dannazione! Comincio a
dimenarmi. I miei
diritti… digrigno i denti. Dove sono i miei diritti?!
Rotolo su un fianco spostando di peso me e il poliziotto. Faccio per
alzarmi, liberandomi dalle manette ancora aperte attorno ai polsi.
L’uomo mi si scanna contro col doppio della foga e mi
stordisce colpendomi alla tempia con la torcia. Ricado a terra con la
vista annebbiata, agonizzante. Un dolore atroce mi attraversa tutto il
corpo, salendo e scendendo la spina dorsale infinite volte, ma il vero
e proprio vulcano in eruzione è il punto colpito sulla
fronte, che pulsa dolorosamente.
Le voci sbiadiscono, quella poca luce si assottiglia. Il battito del
mio cuore rimbomba nelle orecchie, i suoni ovattati.
Qualcuno, forse l’altro poliziotto, quello più
giovane, riprende il compagno a parolacce.
“Bravo idiota! Sean s’incazzerà di
brutto. Il Cacciatore doveva essere operativo già da questa
sera!” gli dice.
“Allora lo sveglio subito!”
Mi scuote, ma non serve a molto.
“È andato” sbotta lasciandomi cadere
disteso sul pavimento.
Ad un tratto il poliziotto più giovane entra nel mio campo
visivo. Guardandomi dall’alto mi punta la luce della torcia
negli occhi. Io, accecato ma tanto che vedo tutto sfocato, non riesco a
distinguerlo bene in faccia. Lui mi osserva a lungo, in
silenzio.“Me lo immaginavo diverso…”
commenta, “e più furbo.”
Poi svengo.
.:Angolo Autori:.
Ringraziamo Josie_n_June,
SophyTheWhiteDragon,
comix
e lily117
per aver recensito il capitolo precedente ed espresso il loro
apprezzamento (che, in particolare cartacciabianca, non riteneva
possibile). Burdok
95 per aver aggiunto la fan fiction alle preferite e Ama_
anche alle seguite.
In questo piccolo angolo dedicato a noi autori, ci teniamo a
comunicarvi che d’ora in avanti i post più corti
di quelli che avete letto fin ora. Si tratterà di 4 pagine
massimo per ciascun capitolo. In quanto a trama, siamo ancora solo
all’inizio.
Siamo però contenti che l’intreccio e le idee
inizializzate in questa storia vi stiano piacendo. Speriamo di non
deludervi ^-^
P.S.
A breve spiegazioni sulle frasette corsive all’apice dei
capitoli ;)
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Πroject Δelta
Capitolo ****
“Non
posso credere che tu tenga così tanto a quello stupido
orologio! Cosa ti dicevano i tuoi genitori quand’eri
bambino!?”
“Se
si fossero ricordati di avere un figlio, intendi? ‘Roland
caro, i soldi comprano anche la felicità, e chi sostiene il
contrario ha preso un calcio in culo dalla sua banca di
fiducia.’ Adesso ti conviene smetterla d’insultare
il mio Rolex.”
A.H.
e R.H.
La sala conferenze del quarto piano ha una veduta aerea sulle 190 celle
di sincronizzazione. È questo il numero totale di ambienti e
pazienti che il Progetto Delta conta nel gennaio del 2012. Per
quell’occasione non poco eccezionale le ampie vetrate sono
state appositamente oscurate. Le spie degli otto schermi ad alta
definizione lampeggiano, ma lo sfondo è ancora nero.
Al tavolo, su comode poltrone imbottite, siedono una dozzina di uomini
vestiti eleganti. Sono i più Antichi e radicati Templari
moderni conosciuti. La loro presenza è un impegno che
l’Abstergo ha preso con il Governo: assistendo alla
proiezione in tempo reale della Sessione, i produttori valuteranno gli
obbiettivi raggiunti negli ultimi mesi e decideranno se continuare il
finanziamento.
Sean Trimarchi è il più elevato dirigente tecnico
nonché responsabile, e anche questa mattina indossa un
completo formale. È al centro della sala; si avvicina agli
schermi LED, scosta la manica e sbircia il suo prestigioso orologio da
polso. Gli si avvicina una donna giovane e castana stretta in un
completino d’ufficio. Gli bisbiglia qualcosa
all’orecchio. Sean annuisce, congeda la donna e batte le
mani.
“La Sessione uno delle zero-nove-zero-zero in data
zero-quattro zero-uno dodici”, comincia catturando
l’attenzione e il silenzio, “avrà inizio
tra breve. Mi è giunta notizia che anche l’ultimo
dei Soggetti previsti si è unito a noi in questo giorno
glorioso, e da ciò è dipeso l’eventuale
ritardo.”
I signorotti si congratulano con il dirigente per il nuovo acquisto.
Sean sorride. Più soggetti equivale a più soldi.
“La sincronizzazione, per quanto automatizzato possa essere
diventato, resta un processo molto delicato, seppur privo di rischi. I
finanziamenti del basso Governo”, s’interrompe
sorridendo ad un uomo tra le fila degli spettatori – questi
ricambia, “ci hanno permesso di minimizzarne le lacune
più profonde. La nostra strada è
spianata.”
Segue un applauso generale.
Dal nero più profondo si passa gradualmente ad un bianco
accecante. Le otto schermate appese alla parete fondale del salotto
conferenze si accendono.
Anche l’ultimo uomo rimasto in piedi trova posto a sedere. Lo
spettacolo sta per cominciare. È il tutto esaurito. La prima
assoluta dopo tanto faticoso lavoro.
Tutt’attorno la stanza è così buia da
farmi credere di galleggiare nel vuoto. Fiuto aria condizionata:
è un luogo chiuso. Sono steso orizzontalmente su una
superficie fredda e metallica – di conseguenza, dura ed
esageratamente scomoda; ne riconosco il materiale attraverso il
contatto dei polpastrelli delle mani, mollemente adagiate lungo i
fianchi. Braccia e gambe sono rette, spalle e scapole fanno un dolore
atroce. Il ricordo del colpo alla testa mi esplode di nuovo sulla nuca,
che poggia rigidamente su un apposito avvallamento del lettino. A
questo punto ricostruisco, a mo’ di puzzle, la sequenza del
mio rapimento.
Mia sorella è morta in un incidente qualche settimana fa,
credo – sempre se non sono stato surgelato e lasciato
scongelare fino all’anno 3000. Inseguivo un uomo nella metro,
ma non ricordo per quale motivo. Due tizi mi hanno sorpreso che avevo
le mani zuppe del suo sangue. Mi è sembrato di vivere un
incubo: mi hanno inchiodato al pavimento, spacciandosi per poliziotti.
Come solo un pazzo avrebbe fatto, mi sono ribellato e la rissa deve
essere finita a mio svantaggio, a quanto pare.
Davanti al mio naso scorre, da un orecchio all’altro, una
sottile lastra di vetro. Questa si accende gradualmente, come quella di
un vecchio televisore, catturando la mia attenzione. La luce
sprigionata m’illumina il viso di un colorito latteo,
mettendo in risalto il verde smeraldo degli occhi. Il bianco cresce
d’intensità fino ad avvolgermi per intero.
Ho un debole moto di paura.
Due voci, l’una femminile e l’altra maschile, si
alternano nella mia testa:
“Amplesso delle funzioni?”
“Regolare.”
“Stimoli organici?”
“Bassi.”
“Stimoli nervosi?”
“Ben oltre la norma.”
“Sempre la stessa storia”, sbuffa lei.
“Non fare quella faccia. È la sua prima volta, lo
sai benissimo”, taglia corto. “E poi un pizzico di
adrenalina renderà la Sessione più eccitante.
Status?”
“Disattivo. Samantha, dovremmo lasciarlo stare. Le funzioni
sono tutte sconnesse. L’Animus andrà in
surriscaldamento prima del tempo e dovremo abbandonare la Sessione a
metà.”
“Vuoi dirglielo tu a Sean che il suo Cacciatore è
in panchina?”
L’altro tace.
Lei sbuffa. “Alex, rilassati: è solo un giro di
prova!” lo deride. “Perciò mettici
on-line e non azzardarti a chiudere gli occhi.”
“Ma sarà una carneficina…”
protesta lui.
“Apposta” ghigna quella.
Se prima ho pensato di essere fuori
dalla schermata, adesso ho quasi totalmente la certezza di esserci dentro. Non sono
più disteso, bensì in piedi. Sento le braccia
penzolare verso e le gambe premere su un pavimento invisibile. Posso
muovere la testa: spazio con lo sguardo tutt’attorno nel
candido e infinito celeste luminescente che mi avvolge. La conclusione
più ovvia risale il midollo e arriva al cervello: sono solo
in quest’universo surreale per quelli che mi paiono
chilometri e chilometri di semplice nulla. Mi guardo le
punte delle scarp…
Ok, niente scherzi: chi e dove ha nascosto le mie Converse?
Ai piedi ho un paio di schernirei medievali che salgono fino al
ginocchio. Anche i jeans sono spariti, venuti a sostituirsi con delle
braghe striate di colore grigio e violetto. Il tessuto avvolge le cosce
in modo ingombrante, facendole sembrare - come me le vedo io
dall’alto - due prosciutti. A questo punto mi accorgo della
mantella grigio fumo che mi grava sulle spalle. Ricade sulla schiena e
penzola con leggerezza dietro alle ginocchia, spaccandosi.
Dio
Santissimo…
Do una rapida occhiata al farsetto e alla giubba. Impallidisco
nell’ombra del cappuccio ricamato.
Ho le labbra sigillate e l’unico suono è quello
dei miei pensieri.
CHE DIAMINE STA
SUCCEDENDO?!
“Prova, prova.”
È la voce femminile di prima.
“Prova, prova; uno, due, tre, prova. Ma porca cortigiana!
Proprio a noi dovevano assegnare la cella con la comunicazione
difettosa? Domani mi faccio spostare al settore C08”, si
lamenta la donna. “Arder, mi senti?”
Chi diavolo sei?!
“Sì, ti ha sentito” commenta amaro
l’uomo.
“Alexander, per Dio, lasciami lavorare!” sbotta lei
nervosamente. Torna a rivolgersi a me con più calma:
“Soggetto, ripassiamo un paio di fondamentali e poi possiamo
cominciare l’addestramento. Sii paziente.”
Soggetto?…
Cosa vuol dire? Addestramento?… Ehi, dimmi chi sei! Dimmi
cosa ci faccio qui! Cosa succede?! Dove sono i miei vestiti!?!?
“Avanza.”
EH?!
“Arder Hayes, Soggetto Cacciatore, avanza o ti spezzo quei
prosciutti che ti ritrovi!”
Sentono quello che
penso…
“Genio! Ora cammina, forza!”
Non posso, sono
blocc…!
Mi rimangio tutto: in qualche strano modo i miei piedi hanno cominciato
a rincorrersi, portandomi avanti poco alla volta con passo sempre
più serrato. Il ritmo cresce, fino a diventare una corsa
lenta. Percorro due, tre centinaia di metri, ma non sono per niente
stanco. Avanzo verso l’infinito su un pavimento invisibile.
Attraverso nubi biancastre, non sento né caldo né
freddo.
“Fermo.”
La donna mi detta quel nuovo comando: il corpo, contro la sperduta
volontà del padrone, esegue alla lettera.
“Richiama la mano armata.”
Mano-ché?!
Un inatteso fruscio metallico spezza il silenzio; una lucida lama
d’argento emerge dal mio polso facendo il filo alle dita
della mano sinistra. Vorrei gridare, ma le labbra sono ancora
incollate. Allontano il braccio armato da me, stendendolo
orizzontalmente in asse con le spalle. Una punta del genere potrebbe
segare una crosta di parmigiano, o addirittura entrare senza sforzo
nella carne umana…
“Soprattutto la seconda.”
Rabbrividisco. Per un nuovo ordine silenzioso della donna, e con uno
scatto, la lama rientra nella sua custodia. “Ottimo, in caso
d’emergenza i comandi
remoti funzionano. Durante la sessione, però,
starà a lui padroneggiarsi”,
ridacchia.
L’uomo sospira. “Il battito cardiaco scende. Si sta
abituando. Dai, cominciamo.”
“Speravo che lo dicessi!”
Precipito.
.:Angolo Autori:.
Un piccolo post di due tre e mezza per vedere cosa ne pensate di questo
assaggio di Sessione :3
Abbiamo notato con entusiasmo il numero di lettori e recensori crescere
sopra alla media. Ebbene, vi amiamo e vi citeremmo tutti, ma per motivi
di forza maggiore ci limiteremo ad una sorta di
“ringraziamenti generali.”
Il nostro giovane Cacciatore si risveglia in un
“sogno”, come lo chiamerà più
avanti, ovvero in quella cortina biancastra caratteristica del
caricamento. Durante l’attesa, però, abbiamo
voluto inserire nella “mente” di Arder - attraverso
un collegamento auricolare esterno - due personaggi di nostra ulteriore
invenzione, il ruolo dei quali scoprirete solo leggendo (o magari avete
già intuito.)
Abbiamo sbirciato al 4° Diario degli Sviluppatori non senza
stupirci per primi. L’Esercito di Templari che
l’Abstergo sta facendo sorgere nella nostra Fan Fiction
è ufficialmente parte integrante del gioco, ovvero sfondo o
caratteristica del Multiplayer. Quando Cartacciabianca ebbe in sogno la
prima Sessione di Arder, non immaginava che la Ubisoft stesse
davvero… Insomma, ci siamo capiti? Involontariamente i The
Guardians hanno anticipato la Ubisoft. Non è loro intenzione
vantarsene, ma hanno lo stesso il cuore pesante.
Project Delta, come evidenziato nella prima parte di questo capitolo,
è la SPERIMENTAZIONE del vero e proprio Progetto Abstergo.
Le 190 celle di sincronizzazione sono… come
dire?… test,
prove… perciò la trama si arrampicherà
in un periodo ipotetico tra
la fine di AC II e l’inizio di Brotherhood. E
questo perché…
Noi non possiamo spoilerare altro! Diteci tutto nelle recensioni :)
P.S.
R.H. sta
per Roland Hamilton,
uno dei personaggi creati per la storia ai quali cartacciabianca si
è affezionata di più.
Vediamo se ci arrivate da soli… chi potrebbe mai essere? ;)
Alla prossima! :D
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Πroject Δelta
Capitolo *****
“A
volte mi chiedo… perché
io?
Di tanti altri come me, di tanti altri migliori
di me… Ma la loro risposta è sempre uguale: siamo
speciali, siamo unici, e hanno speso tanto tempo per trovarci. In
cambio non ci promettono né ricchezza, né fama;
questa è la loro garanzia: farci sentire importanti. Farci
sentire potenti.”
E.P.
Respiro
a pieni polmoni: l’aria è fresca, genuina; sono
all’aperto. Aspetto ancora un po’ prima di aprire
gli occhi, mentre suoni e sensazioni convergono al cervello. Un tiepido
sole mi riscalda il viso, una brezza leggera attraversa il tessuto del
mantello e m’inclina con delicatezza verso destra. Delle voci
in lontananza mi collocano in prossimità di un centro
affollato.
Dischiudo
le palpebre.
Dovunque
io mi trovi in questo momento, si annuncia con l’atmosfera
irreale di un sogno che va costruendosi: bianchi nastri luminescenti
cadono a picco sul terreno seminando la texture di quella che assume, a
tutti gli effetti, le sembianze di un’antica cittadella
rinascimentale. Pareti, pavimenti e soffitti nascono sotto al mio naso
concludendo la loro opera di creazione mille passi più
avanti. L’orizzonte scompare inghiottito da palazzi in pietra
non più alti di quattro piani. Tra i tetti di tegole sta
sorgendo la sagoma di un’enorme cupola di pietra, il cui
complesso architettonico di base è nascosto dietro le file
articolate e irregolari di bassi edifici.
D’un tratto il sole scompare, e mi accorgo di essere stato
rinchiuso nell’ombra di due palazzetti emersi dalla terra.
Nel vicolo c’è spazio sufficiente per una coppia
che si tiene la mano. Sul fondo, dove pochi metri più avanti
la stradina sfocia sul corso principale, colgo delinearsi le sagome
sempre meglio distinte di gente che passeggia. I dettagli aumentano,
fino a farmene distinguere l’abbigliamento di ciascuno.
Istintivamente avanzo. Raggiungo la fine del vicolo e mi fermo ad
ammirare cosa mi circonda. Un cielo limpido, terso, tipicamente
invernale delle rare e belle giornate. Avanzo ancora, fino al centro
della strada, guardandomi attorno incredulo e sperduto.
Pieno medioevo, se così possiamo intenderci. Tutto,
dall’architettura dei palazzi ai vestiti della gente, mi fa
pensare a quel periodo di mezzo della storia antica europea, mai
studiata così a fondo da poterne imitare tanti dettagli in
un solo sogno. Dunque non
sto sognando.
“Chi ha mai detto il contrario?”
Sobbalzo. La misteriosa donna fuori campo (dallo spiccato senso
dell’umorismo) torna a farmi visita.
“Abituatici, almeno per i primi mesi.”
…Mesi?
“O anni, se ti affezioni” scherza lei.
“Lasciagli il tempo di conoscerti, Samantha. Anche se secondo
me già non ti sopporta più…”
“Sempre il solito.”
L’uomo si rivolge a me: “Per la tua ulteriore salute
mentale, soggetto, non so quanto ti converrebbe richiedere assistenza a
lunga scadenza. I supervisori non sono estratti a sorte, potresti
averci entrambi incollati alle chiappe per
l’eternità, in quanto specificare un cambio di
personale è più complicato di quel che
credi.”
“Alex, basta, siamo in Sessione.”
“Ho il dovere di dirglielo. Non interferire con la
procedura.”
“La procedura rallenta il gioco e posticipa il pranzo. Ho
fame, dannazione!”
Accantono i loro discorsi, che rimbombano nella mia testa come se
avessi un circuito impiantato nel cervello.
Avanzo pochi metri prima di sentirmi urtare con violenza da un
passante. Mi volto imbronciato, ma l’uomo mi ha dato le
spalle e si allontana nella folla. Dopo di lui, molti altri prendono di
mira, accidentalmente, le mie povere ossa: all’inizio una
donna bionda, poi uno strano tizio gobbuto dai lunghi baffi, e in fine
un vecchio con una folta barba rossa e il pancione. Mi vengono addosso
da tutte le direzioni, instancabilmente, di continuo.
L’afflusso di gente è ininterrotto; non sento
dolore in risposta alle loro spallate, ma minimo si fermassero a
chiedere scusa! Niente, m’ignorano, come se l’area
cubica da me occupata fosse liberamente calpestabile. In
più, l’unico a subire sia colpo sia contraccolpo,
qui sembro io!
Un nuovo passante mi urta con una medesima spallata. Esasperato e ben
intenzionato a picchiare qualcuno, mi volto subito a guardarlo con
un’espressione che trasmette tutto il mio fastidio. Come
nessuno prima di lui e nonostante fosse diretto nella direzione
opposta, il tizio si gira verso di me. Il tempo sembra rallentare. Il
mio sguardo di rimprovero si vende al puro sgomento.
L’uomo ha il volto coperto da una maschera bianca con un
becco ricurvo; i fori per gli occhi sono tondi e rivestiti di lenti
scure, sulle quali giocano i riflessi del sole. Indossa un abito lungo,
lucido e altrettanto scuro, assieme ad una cintura e una cappa di cuoio
sulle spalle, entrambe dall’aria pesante ma resistente.
L’ho fissato a lungo, senza rendermene conto, anche dopo che
si era già allontanato nella folla.
Inquietante,
penso. Molto
inquietante.
“Samantha, quello non era Marcus?” domanda dubbioso
l’uomo nella mia testa.
“Improbabile. La Sessione è a circuito chiuso,
siamo in addestramento, e gli altri Animus risultano
off-line.”
Improvvisamente, con un gran tonfo e piegandosi sulle ginocchia, mi
atterra davanti un uomo con un costume uguale al mio. Il tipo si
solleva e mi studia in silenzio da sotto il cappuccio, nella cui ombra
scompaiono gli occhi e la radice del naso.
E questo da dove arriva?
Mi chiedo indietreggiando sgomento. Di nuovo il tempo rallenta il suo
corso, ma ‘sta volta fino a bloccarsi del tutto. Piccioni su
tetti, passanti e venditori si dipingono in un’istantanea dal
carattere apocalittico. Sono l’unico ad avere
libertà di movimento in quel complesso immortale.
“È piovuto dal cielo! Che razza di domande fai?
Sarà saltato giù da un tetto” spiega la
donna come fosse ovvio.
Mi guardo attorno. Nel raggio di cento metri il palazzo più
basso ne misura dieci. Stento a credere possibile sopravvivere ad un
balzo del genere.
Torno ad osservare l’uomo di fronte a me, immobile come un
manichino. Quella sua maschera composta e impassibile mi trasmette
angoscia, assieme ai volti e ai corpi criogenati della gente attorno a
noi. La magia dura ancora per poco: nel giro di qualche altro secondo
il tempo ricomincia a scorrere.
L’uomo mi sorride.
Poi scappa.
“Comunque, nel caso non l’avessi capito,
è il tuo target” sbuffa la donna.
Target?
“Vittima, bersaglio, fonte di punti per vincita della
partita!” strilla l’altro supervisore, disperato.
“Inseguilo, Arder, inseguilo!”
Sulle prime sono titubante. Il mio target
si allontana velocemente. Poi la donna nella mia testa minaccia di
farmi risvegliare in un’urna ed io parto
all’istante.
È una corsa scomposta, la mia. Sto familiarizzando con delle
scarpe che non avrei mai immaginato d’indossare nemmeno nei
miei sogni più fantasiosi! I calzari di tessuto naturale che
arrivano fino al ginocchio non possono competere con un paio di Nike
del XXI secolo.
Spallate ed urti coi passanti tornano ad essere l’ordine del
giorno. Rinuncio a scansare un gruppo di persone e lo attraverso
direttamente a suon di spintoni e gomitate; quando tocco la casacca di
un tizio, esortandolo a farsi da parte, non riesco ad assaporarne la
consistenza. Il tatto, assieme all’olfatto e alla stanchezza
fisica, è un dato di fatto mancante.
Recupero la traccia, il bersaglio è di nuovo nel mio campo
visivo.
“Impara in fretta” constata l’uomo.
“E ci mancherebbe. Forza, raggiungilo” mi esorta
instancabile lei.
Con uno scatto delle gambe acquisto velocità e dimezzo la
distanza per il mio target.
Comincio a sperare che da un momento all’altro inciampi.
“Illuso, levatelo dalla testa” mi riprende la
ragazza.
In quei pochi metri restanti per agguantare il fuggiasco, mi rendo
conto di quanto sia incredibilmente comodo l’abbigliamento
che ci contraddistingue dalla massa. La mantella fa il suo gioco
aerodinamico, mi sto abituando al sottilissimo tacco degli stivali e le
maniche di farsetto e camicia sono morbide!
“Ci sta prendendo gusto!” ridacchia la donna.
Se allungassi il braccio sfiorerei la coda della mantella del mio
sosia, ma improvvisamente un ostacolo che non può essere
né aggirato né demolito ci divide. Ed io,
ovviamente, ci sbatto contro con tutta la faccia - per fortuna senza
provare dolore.
Il cancello si è chiuso, come per magia, non appena il mio
sosia l’ha oltrepassato. Quello, dall’altra parte
delle grate, si volta un istante rallentando la corsa. Mi mostra ancora
quel suo sorriso del cazzo, poi si rigira, si allontana nel vicolo
mentre un secondo cancello si richiude alle sue spalle e scompare
dietro l’angolo.
La rosicata peggiore
della mia vita…
“E non sarà l’ultima” sospira
l’uomo.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Πroject
Δelta
Capitolo ******
“Perché,
Dorian, perché?!”
“Lui…
deve… sapere!”
“Non
quello, non di me, non di lui!”
“E
perché, di cosa hai paura, scusa?!”
“…potrebbe
accadere… potrebbe accadere di nuovo.”
“Cosa?…
Cherish, cosa potrebbe accadere di nuovo?”
C.M.
e D.F.
“Non disperare, possiamo ancora recuperarlo” dice
la donna.
E come?
Sono sconsolatissimo.
“Guarda su.”
Indietreggio e guardo in alto.
“Scala.”
Se potessi, scoppierei dalle risate. Mi prendi in giro?
“Se volesse prenderti in giro, farebbe battutine migliori,
fidati” annota l’uomo con una risata.
“Non abbiamo tutto il giorno, scala la parete, Arder,
subito!” mi riscuote lei.
Non ho mai preso lezioni
di arrampicata in vita mia! Protesto.
“Ma il tuo avatar
non ha fatto altro tutta la sua, di vita! Perciò,
SCALA!” mi comanda.
Un impulso remoto mi spinge a correre verso la parete e
poi sulla
parete. È stata lei, la donna, a impossessarsi per pochi
secondi di quello che ha chiamato “avatar”, prima
di dettare il medesimo impulso: piedi sulla volta dell’arco,
mani al cornicione della finestra. Mi isso sulle braccia senza fatica,
sfrutto la forza di entrambi gli arti posteriori e anteriori per
raggiungere appigli che nemmeno da ragazzino sarei stato in grado di
avvicinare. Diventa tutto semplice e naturale; il fiato un
po’ mi manca, ma principalmente per stress mentale.
Sono sul tetto.
La brezza, a quest’altezza, soffia prepotente tra i lembi del
mantello e fischia nel cappuccio. Spazio con lo sguardo
all’orizzonte nel timore perduto di nuovo la traccia.
È davvero questa la fine del sogno
più strano che abbia mai fatto?
“E due… non stai sognando!” mi fa notare
ancora l’uomo.
Certo che no.
Non ci credo…
penso dopo aver finalmente riconosciuto la location di questo sogno assurdo.
“E ci risiamo…”
Non ci sono mai stato
dal vivo, l’ho sempre studiata sui libri! La Città
Eterna, Rom…!
“Eccolo!” m’interrompe la donna.
Mi volto.
Il mio target
mi osserva immobile e silenzioso da sotto l’ombra del suo
cappuccio. Sosta, immobile come un palo, sul filo
dell’edificio di fronte. Sembra tranquillo: il vento gli
increspa la coda della mantella e i merletti dell’unica
manica bianca. L’altra, ricoperta da cuoio e acciaio,
è distesa rigidamente lungo il fianco.
Ha ancora quel sorriso sghembo e strafottente, mentre a dividerci,
questa volta, non sono né grumi di folla né
cancelli ferrati.
“Salta.”
No.
“Abbiamo quasi finito, Arder, mancano pochi secondi.
Salta.”
Nei tuoi sogni! Saranno
almeno sei metri! Protesto.
L’incappucciato indietreggia, allontanandosi dal bordo del
tetto; un baratro di quattro metri di larghezza e otto
d’altezza mi separa da lui, che sta per scappare di nuovo.
“Così lo perderai e dovremo ricominciare tutto
daccapo” obbietta la donna.
Come se
m’importasse! Io NON salto!
Per un lungo istante tutto tace.
“Hai cinque secondi, poi ti metto dietro un PNG molto
arrabbiato. Uomo avvisato…”
“Sean ha detto di no” interviene l’altro.
“Me ne frego di cosa ha detto Sean! I miei Pazienti erano i
migliori nella classe della scorsa settimana, e non voglio sentirmi
dire che l’ultimo arrivo è morto stecchito sul
campo per primo! Sono stata chiara?!”
…non potete
costringermi a farlo! Li interrompo nel bel mezzo della
litigata.
“Oh, sì che possiamo. Non immagini
quanto” ride nervosamente lei.
È suicidio
assistito! Voglio un avvocato!
“Presto o tardi conoscerai anche quello. Adesso
salta.”
Ho detto che non salto!
“Samantha, guarda.”
“Non adesso, Alex, voglio fargli alzare il culo a modo mio,
affinché se ne ricordi…” è
furente.
“Samantha, aspetta, guarda!”
“COSA?!”
Cala un angoscioso silenzio. Un segnalino rosso si accende sullo
schermo.
“Merda…” sibila lei.
“Avevi detto che eravamo isolati!”
Cosa succede?
Domando, terrorizzato.
“Arder, giusto?” chiede l’uomo, che
fatica a memorizzare il mio nome. “Devi saltare, e alla
svelta. Non ci sono scelte più piacevoli, fidati.”
Perché,
cos…? Istintivamente mi volto.
Non l’avessi mai fatto.
I passi felini accarezzano le tegole dell’edificio due
palazzi dietro al mio. Quand’è abbastanza vicina,
ne distinguo le forme femminili, la gonna aperta sul davanti e spaccata
dietro. Si ferma sul bordo del tetto, mi osserva da lontano qualche
istante, resta immobile.
“Il salto o lei, Arder. A te la scelta…”
mormora la voce femminile fuori campo.
Chi è quella?
Un altro "target"?
“Ti piacerebbe, vero stallone?” ridacchia
l’uomo. “No, Arder” mi smentisce,
“lei è la Cortigiana
e, a quanto pare, sei tu
il suo target.”
Da una parte, dopo un salto di circa quattro metri orizzontali, il mio
bersaglio continua a sfoggiare il suo sorisetto provocatorio - la fine
assicurata di questo maledetto sogno
sarebbe, per l’appunto, riuscire ad acchiapparlo prima che si
stufi di aspettare i comodi del mio buon senso e decida di svignarsela.
Dall’altra, una provocante femme fatale: alias, qualcun altro
che prova l’irrefrenabile gusto di complicarmi la vita.
Ad un tratto la Cortigiana stende un braccio, si accarezza
maliziosamente la pelle nuda e arriva a stringere qualcosa nella zona
sotto al polso guantato, teso nella mia direzione.
“Non ci credo, la troia ha sbloccato l’arma da
fuoco!” impreca la donna.
ARMA DA FUOCO?!
“Arder, SALTA!”
Il mio subconscio non pensa, agisce.
I piedi si librano nell’aria. In testa
c’è il destro, che punta
all’estremità del tetto successivo. A
mezz’aria faccio due rapidi calcoli e mi accorgo che quel
cornicione è impossibile da raggiungere con un solo balzo; e
non sto nemmeno a chiedermi come lui
ce l’abbia fatta: il mio target continua a sorridere
guardandomi precipitare verso terra. Sento un boato. Sto ruzzolando in
una strada affollata, appena scampato di pochi centimetri alla
traiettoria del proiettile.
Pancia sotto, stremato e poca voglia di alzarmi: come quando
è lunedì mattina e la cosa che ti va di meno di
tutte è, per l’appunto, alzarti. Aspetto,
immobile, che il sogno
divenuto incubo finisca.
“Se la sta prendendo troppo comoda” brontola lei.
“Cosa ti aspettavi?” gli replica il saccente
ragazzo. “Che lanciasse una bomba fumogena e la stordisse?
Stiamo parlando di Cherish! Samantha, per favore… ha fatto
la scelta migliore.”
“Soggetto, alza il culo o sarai un bersaglio troppo
facile.”
Mi faccio leva su entrambe le braccia. Finalmente in piedi, mi guardo
attorno.
Il caos cittadino è costante, nessuno sembra essersi accorto
che sono appena piovuto dal cielo. La gente mi sfiora le braccia
continuando a camminare sulla strada, come percorrendo, a gruppi
più o meno numerosi, binari invisibili.
Sempre più
inquietante…
“I PNG non sono il massimo in fatto
d’improvvisazione. Col tempo ti abituerai anche a questo e
imparerai a sfruttare le correnti
della folla a tuo vantaggio” m’informa
l’uomo.
“Merda!” impreca Samantha.
Che succede ora?!
“Arder, devi scappare.” m'informa l'uomo.
Di nuovo?!
“Sarà una giornata pesante…”
sospira lui.
Quando alzo lo sguardo la vedo. È la donna di prima,
rannicchiata sull’orlo del tetto. I suoi occhi sono
incatenati ai miei, sfodera qualcosa dal fianco, stende un braccio e
abbandona il cornicione con un balzo. La Cortigiana
precipita verso di me con una gamba stesa e l’altra
rannicchiata; la sua lunga gonna spaccata s’increspa
d’aria.
Istintivamente chiudo gli occhi nascondendomi tra i gomiti, anche se
sarà del tutto inutile.
Focalizzo la morte: almeno nei miei ultimi istanti di vita, le voci
nella mia testa tacciono.
Ad un tratto qualcosa si frappone tra me e i raggi del sole.
Irrigidisco i muscoli e digrigno i denti. Sento un frizzante fruscio
metallico vicinissimo alla mia carne, poi il gemito screpolato di una
voce femminile e in fine un inconfondibile gorgoglio.
Apro gli occhi: per la medesima volta, il tempo si congela.
Vedo il viso della donna che ha tentato di accopparmi balzando dal
tetto dell’edificio. I suoi occhi scuri, osservati
così da vicino, paiono spenti, vuoti, infiniti, come quelli
della gente attorno che continua pacificamente a camminare. Un uomo che
mi da le spalle, rivestito di un’armatura luccicante, estrae
dal suo ventre il sottile stocco milanese con il quale ha trapassato la
donna da parte a parte. La ragazza si rovescia a terra senza vita e
giace in una pozza purpurea tra gli schinieri del Soldato.
Dopodiché lui rinfodera l’arma, non curante di me,
del mio stupore e delle persone che si fermano, applaudendo o
inorridendo, di fronte a quella scena raccapricciante. Si allontana tra
la folla, preparandosi a confondersi tra di essa. A breve, quando anche
i miei occhi si saranno persi nei mille volti del popolo romano,
scomparirà così com’è
apparso.
Torno, per un istante, a guardare il cadavere della Cortigiana:
è contorta in una posa innaturale tra le pietre della
strada. E ancora, incessante, l’afflusso di gente scorre
attorno a noi come un fiume in piena. Il sangue sembra dannatamente
reale…
Improvvisamente un uomo alto, vestito di rosso e col pancione mi
cammina davanti per poi proseguire spedito. Impugna a due mani,
minacciosamente, un lungo e pesante martello rinforzato. Si sposta
velocemente tra la folla, avanzando a larghi passi verso il mio salvatore, che in
quel momento, ignaro, dà le spalle ad entrambi.
Il Fabbro
impugna a mezz’asta la sua arma e si prepara a sferrare il
colpo dritto alla nuca della sua vittima, ancora distratta.
È a quel punto che le mie gambe agiscono per conto loro e il
corpo si protende ad allertare il mio salvatore. Il Soldato, percepiti
i miei gesti, mi lancia un’occhiata di sbieco.
Dopodiché, piroettando a ginocchia piegate, affonda le
nocche nel setto nasale del suo quasi-assassino.
Il Fabbro lascia cadere la sua, di arma, e s’accascia al
suolo stordito,
in una posa più o meno simile a quella adottata poco fa
dalla Cortigiana.
Dopo essersi pulito il pugno dal sangue nemico, il Soldato si gira
completamente verso di me e mi fissa a lungo negli occhi.
Che sono sconcertato è dire poco.
Il Soldato, adesso, viene verso di me con una mano sull’elsa
della spada e l’altra appesa alla cintura.
Non riesco a
muovermi…
Il Soldato estrae la spada.
Non riesco a muovermi! Nessuno
sembra sentirmi. Le "comunucazioni" sono saltate o state volutamente
interrotte chissà per quale motivo.
Il Soldato
sorride.
Perché non
riesco a muovermi?!
Ormai vicinissimo, chiudo gli occhi.
Di nuovo il fruscio metallico, un gemito e l’inconfondibile
gorgoglio del sangue. Che non senta dolore penso sia normale, ma quando
dischiudo le palpebre ho ancora la mascella contratta.
Il sottile stocco milanese ha ferito qualcosa, oltre la mia figura, che
sento premermi sulla schiena. La lama è passata nello spazio
tra il mio braccio e il mio fianco; ha scansato la mantella e si
è conficcata nelle carni di un uomo mascherato dietro di me.
Il Soldato rinfodera la spada senza staccare gli occhi dai miei, mentre
l’Arlecchino,
che stava per colpirmi alle spalle con due pugnali, si accascia come
una marionetta dai fili tagliati.
Ma che cazz…
Precipito.
Una schiera di lotti in cemento e vetro simili ai box di un ufficio,
ospita i frutti del massimo sviluppo scientifico. I Templari si sono
aggiudicati l’apice della ricerca genetica raggiungendo i
suoli di una raffinata produzione industriale di Animi, e ora
l’Abstergo può gloriosamente avviarsi verso il suo
processo di addestramento virtuale.
La prima Sessione ufficiale, in vista del collaudo, si è
conclusa con un festoso applauso generale. Sean sfoggia la sua immensa
soddisfazione stringendo la mano ai produttori che, a poco a poco, si
alzano dalle poltrone e svuotano il salottino.
Gli otto schermi LED sfoggiano un’ultima volta il multiforme
simbolo della Casa Farmaceutica, e poi entrano in stand-bay.
Un ultimo uomo, in disparte, comincia a battere le mani lentamente.
“Davvero un ottimo lavoro”, dice emergendo
dall’oscurità. “Una presentazione
grandiosamente professionale, sono estasiato.”
Sean, dopo averlo riconosciuto, gli va incontro sorridendo. I due si
stringono la mano. “Dottor Vidic, la sua approvazione mi
riempie d’orgoglio”, dice.
Il responsabile di grado maggiore, il professor Warren Vidic, squadra
il suo coetaneo dalla testa ai piedi. “Spero di poter
prendere presto in considerazione la sua iniziativa e agire
dall’interno, come supervisore, magari” si propone.
Sean nasconde la gelosia dietro un casto sorriso a 32 denti.
“Ne sarei onorato.”
Warren solleva un angolo della bocca. “Si prenda cura dei
suoi pazienti, Trimarchi, e loro offriranno la giusta moneta con cui
ripagarla. Dopotutto, si tratta ancora di un collaudo, abbiamo bisogno
di abbattere quegli… ostacoli che hanno rallentato il nostro
treno, dico bene?”
Sean annuisce. In qualche strano modo, per qualche assurdo
motivo e a qualche subdolo fine, il dottor Warren ha iniziato a
metterlo a disagio.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Πroject Δelta
Capitolo *******
“Il
fatto che ti eviti e ti contesti è la condizione tipica
delle donne inconsapevolmente attratte da un uomo. È
ciò che io chiamo “confronto animale”.
La donna vuole metterti alla prova; ti istiga al fine di scoprire se
sei degno di lei. Ti ha lanciato una sfida… che se accetti o
meno non farà differenza: vorrà umiliarti
comunque.”
G.W.
Mi risveglio all’improvviso, gridando. Il mio sguardo
allucinato vaga qua e là, valutando il posto in cui mi trovo.
È un’ampia stanza rettangolare, climatizzata e con
un vasto pannello di vetro che riflette la mia immagine, su un lato, ma
sono troppo lontano per poter vedere su cosa affaccia. Il pavimento
è nascosto da una soffice moquette color pelo di topo,
mentre il contro soffitto è a larghi pannelli di materiale
artificiale.
Senza accorgermene, ho piantato le unghie nei braccioli della comoda
poltroncina d’ufficio imbottita, che è diventata
ormai calda da quanto tempo il mio culo ci ha trascorso. Esattamente di
fronte a me, noto poi, c’è uno scranno
ottocentesco intarsiato di ebano e quercia canadese che crea un bel
contrasto con l’architettura moderna/futuristica della
stanza. Se ne sente ancora l’aroma, nonostante
l’aria condizionata circoli con prepotenza mantenendo una
temperatura massima di venti, ventidue gradi. Sul tavolo ci sono un
avanzato portatile della Apple, in stand-bay, e alcuni volumi.
C’è anche un vecchio quotidiano, del quale mi sto
allungando a leggere la data e il titolo, ma la pelle della poltrona
squittisce al mio impercettibile movimento e….
“Il Lupo
si è svegliato.”
Sobbalzo, voltandomi di scatto.
Due grandi occhi grigi mi guardano dal basso. Appartengono ad un
giovane faccino dalla pelle bianchissima e il nasino
all’insù. Dai capelli neri, lunghi e lisci,
spuntano le orecchie a sventola. Le labbra, piccole e rosa, sono tese
in un sorriso esagerato. Nell’insieme è una
bambina davvero graziosa: indossa un giubbottino jeans sbottonato sopra
ad una magliettina rossa con una coccinella disegnata. Una calzamaglia
a righe bianche e rosse e una riproduzione in scala 1:2 delle mie
Converse. Ma mi accorgo solo all’ultimo che il suo sguardo,
fissandomi intensamente, è diverso, è vuoto.
È cieca.
Mi tende la piccola mano. “Tu devi essere Arder.”
Ha una voce dolcissima. Mi ricorda Kate alla sua
età…
“Sì,” balbetto, sfiorandole appena la
pelle. “Sono io.”
Al contrario, lei mi stringe le dita con forza, sicura di sé
e molto professionale. “Io sono Hannah. Benvenuto
all’Abstergo.”
A quel punto non dico più nulla, limitandomi ad inarcare un
sopracciglio e dimenticare aperta la bocca. Era probabile che alla sua
età non sarei mai riuscito a pronunciare senza sforzo una
parola tanto difficile come Ab… Abresergo, no.
Abtsre…Abtersgo, Ab…
“Abstergo,” mi corregge lei.
Senza rendermene conto, devo aver fatto quei tentativi ad alta voce.
“Abstergo
Industries, per essere pignoli,” aggiunge senza
cancellare dalla faccia quel radioso sorriso. Fa il giro della
scrivania saltellando e zompa sulla poltrona, che trova senza
difficoltà. Fa un paio di giri su sé stessa
finché non mi è perfettamente di fronte. Si mette
a braccia conserte e mi fissa.
A lungo.
Impassibile.
Non so se è quella ragazzina, a mettermi paura, o la
naturalezza con la quale mi hanno accolto lei e quel posto. Comincio a
pensare che è stato tutto un sogno, o addirittura che stia
tutt’ora sognando. Finalmente chiudo la bocca e faccio un
disperato primo tentativo: mi mordo la lingua.
Non funziona.
Hannah è ancora qui, davanti a me, e ha cominciato a
trafficare col computer. Come può usarlo se è
cieca? Mi domando. Che qualcuno le abbia insegnato dove stanno le
lettere sulla tastiera è anche plausibile, ma che riesca a
coordinarsi con le immagini in due dimensioni è…
assurdo. Le sue piccole dita arrivano a mala pena sui tasti del mouse.
Digita sulla tastiera una lettera alla volta, col solo uso
dell’indice. Sembra concentratissima dietro lo schermo che la
copre quasi per intero. Parte una canzoncina elettronica e capisco che
in realtà sta giocando ad una qualche applicazione.
Mi viene da ridere, e questo mi restituisce un po’ di
coraggio. Istintivamente mi volto, pensando che da dove la ragazzina
è entrata, io posso uscire. Vedo una grande porta automatica
di vetro sul fondo. Faccio per alzarmi, ma la pelle della poltroncina
mi tradisce di nuovo.
“Non puoi andare via,” mi dice lei senza staccare
gli occhi dal computer.
“Che dovrei fare qui?” sbotto.
“…aspettare,” mi risponde a scoppio
ritardato, tanto è presa dal suo gioco.
“Aspettare? Aspettare cosa? O chi?!”
Si volta, ma non verso di me, bensì dietro di me.
“Potevi intrattenere il nostro ospite in una maniera
più interessante, Hannah,” la canzona una voce
alle mie spalle. “Senti come è già
spazientito!” ridacchia.
La bambina chiude l’applicazione con un clic e smonta dalla
poltrona. A testa bassa, va in contro all’uomo che cattura
tutta la mia attenzione.
Ha il giornale piegato sotto il braccio sinistro e il caffè
fumante, in tazza, nella mano destra. È di media statura e
dimostra anche una certa età: il viso attraversato dalle
rughe senili e i capelli bianchi. Questi, pettinati
all’indietro con ordine, sottolineano la sua accortezza
nell’immagine assieme al modo di vestire: elegante, con uno
smoking bianco d’affari e una cravatta azzurra, ben annodata.
Sembra Dio nel film con Jim Carrey.
“Su, non fare quella faccia,” dice accarezzandole i
capelli lucidi. “Sei stata bravissima, ma adesso continuo
io.”
Hannah annuisce e lo abbraccia. “Ti voglio bene,
Sean,” dice prima di correre verso l’uscita. La
porta automatica di vetro si apre al suo passaggio e si richiude dietro
di lei con un fruscio impercettibile.
Trascorrono alcuni lunghi minuti di silenzio, forse i più
assurdi della mia vita. In questo breve ma infinito lasso di tempo,
Sean siede alla sua postazione, beve un sorso di caffè e
apre il giornale, cominciando a sfogliarlo.
Inizialmente non so davvero cosa dire, perciò mi limito a
fissarlo.
Il vecchio legge due o tre titoli, poi accantona il quotidiano e agita
il mouse per svegliare il laptop Apple di ultima generazione dallo
stand-bay. Sembra realmente impegnato, mentre fa finta che non esista.
Non so fino a che punto sfiderà la mia pazienza, ma la cosa
comincia ad alterarmi.
Cambio posizione sulla poltrona, sperando che il cigolio della pelle lo
risvegli come aveva fatto con Hannah. Ma non è né
cieco né un bambino che gioca col computer del
papà, quindi davvero non capisco cosa stia facendo e
perché. Forse anche lui si sta prendendo del tempo per
studiarmi. D’altronde io l’avevo già
fatto prima che Hannah ci lasciasse soli.
È trascorso un minuto e mezzo, all’incirca. Sean
beve un altro sorso di caffè e continua a smanettare sul
portatile.
Decido.
Mi alzo.
L’uomo non batte ciglio, ma mi sento inevitabilmente
osservato mentre cammino verso le vetrate. Queste affacciano su un
panorama che non riesco a sopportare di non aver ancora visto.
Man a mano che mi avvicino alle lastre trasparenti, il mio, come il
riflesso di Sean seduto alla scrivania, sbiadisce, permettendo
all’occhio di precipitare una cinquanta di metri
più in basso. È qui che si ramificano, come un
labirinto, tante piccole stanze vetrate o cementate. Nel suo insieme,
questo salone sterminato ha l’aria di un grande cortile
interno, che ospita un centinaio di cortiletti più piccoli.
Deve essere il cuore pulsante dell’intero stabilimento, per
via del traffico che lo anima. È come guardare la strada dal
terrazzo di un ventesimo piano nel centro di New York. Percepisci la
confusione, il caos, l’agitazione, nonostante la totale
assenza di suoni.
Qui l’unica differenza è che le persone,
microscopiche, non sono tantissime; una quarantina di anime al massimo.
La luce artificiale è supportata da un’immensa
vetrata a forma di croce latina che occupa l’intera parete di
fronte all’ufficio di Sean.
“Che impressione le fa?”
Mi volto, sobbalzando.
Il vecchio nello smoking bianco è ora rivolto verso di me
con tutta la poltrona. Ha accavallato le gambe e sorseggia il suo
caffè ormai tiepido. Ha piantato i piccoli occhi azzurri su
di me appena gli ho dato le spalle, e non li ha spostati per tutto il
tempo.
Balbetto qualcosa d’incomprensibile.
“Avanti, signor Hayes,” fa scocciato.
“Non è questo il genere di risposta che, come
giornalista, mi aspetterei da uno scrittore.”
Le dita mi tremano. “Lei è un
giornalista?” riesco a formulare.
“No, per sua fortuna,” sogghigna. “Ma mi
farebbe ugualmente piacere avere la sua impressione.”
È tranquillo, sulla sua bella poltrona e col suo buon
caffè. Mi osserva in silenzio, aspettando che dica qualcosa.
Qualsiasi cosa.
E infatti sparo la prima stronzata che mi viene in mente.
“Chi ha comprato questo posto,” comincio voltandomi
a guardare giù. “Deve avere un bel po’
di capitale.” Passo in rassegna ogni angolo del complesso.
Ogni pilastro, ogni vetro.
“Giusta osservazione. Ma la prego, continui.”
Non me lo faccio ripetere. Per qualche strano motivo, sto cominciando
ad abituarmi, a rilassarmi. E non per il fatto di aver già
trascorso una mezz’ora in quella stanza.
“Deve essere qui da parecchio tempo, però.
Nonostante l’estrema pulizia, sembra stato
costruito…”
“Tralasci questo genere di osservazioni, signor Hayes. Mi dia
le sue impressioni, le emozioni che le nascono dentro.”
Questo è matto.
Ma lo assecondo ugualmente. Magari alla fine ricevo un biscottino.
“Impotenza, di fronte alla potenza,” dico, ma sto
iniziando col confondere me stesso. “Dovere,
rispetto… paura, soggezione. Sottomissione,” mi
correggo.
Se poco prima ho avuto l’impressione di sentirmi
più sollevato, bhé…
Mi giro.
Sean ha gli occhi chiusi e un’espressione beata in volto.
Quando realizza che le mie parole hanno smesso di suonargli come musica
nelle orecchie, non si riscuote, e anzi, prende un respiro profondo e
riapre gli occhi lentamente. Il suo sguardo è ora mansueto
come quello di un gatto che sta per appisolarsi sul sofà.
Tutta la tranquillità di poco fa ha viaggiato dal mio al suo
corpo nel giro di pochi secondi.
“Eccellente. Ora si accomodi.”
Mi ha indicato la poltroncina ed è tornato a trafficare sul
laptop.
Non appena sono di fronte a lui, Sean si abbandona sullo schienale
della sua poltrona a braccia conserte. Ci fissiamo a lungo, e confesso
di preferire quando faceva finta che non esistessi.
“Non vuole chiedermi dove si trova, signor Hayes?”
mi suggerisce tranquillo.
“Dove mi trovo?”
“Nel mio ufficio, l’accesso al quale è
strettamente riservato. Con lei ho fatto un’eccezione che mi
costerà cara.”
“E sua figlia? E’ anche lei un’eccezione
che le costerà cara?”
Sean scoppia a ridere. “Hannah, intende? No, non è
mia figlia. Non sono sposato.”
“Non bisogna esserlo per averne, di figli.”
“Lei ne sa qualcosa?”
“No.”
Silenzio.
“Non vuole chiedermi chi sono, signor Hayes?”
m’imbocca un’altra domanda.
“Lei chi è?”
“Mi chiamo Sean Nicholas Trimarchi, e sono l’uomo
con un bel
po’ di capitale.”
"Si diverte a prendermi in giro?"
“Mi chieda cosa ci fa lei qui, avanti.”
“Può anche smetterla, so cosa voglio
sapere!”
“Non faccia il presuntuoso con me, signor Hayes. Non
è nella posizione di poterlo fare.”
Preferivo quando
m’intratteneva la sua collega, penso
riferendomi ad Hannah. Sbuffo e mi lascio sprofondare sulla
poltroncina. “Cosa ci faccio qui?” domando
guardando a terra.
“Signor Hayes, lei è stato scrupolosamente
selezionato per entrare a far parte di un progetto rivoluzionario, se
lo vorrà.”
“Non capisco.” È la verità.
“Ora perché non mi chiede cosa so io di
lei?”
Questa volta non so se dargli o meno la soddisfazione di sentirselo
chiedere. Ma Sean rigira la frittata dei miei dubbi e mi anticipa.
Estrae un fascicolo dal cassetto della scrivania e lo apre. Sembra una
di quelle cartelle mediche dell’ospedale. Sulla copertina
c’è chiaramente stampato il mio nome, A.Hayes, assieme al
numero identificativo di un processo.
“Arden Philip Jerry Hayes. Nato a Filadelfia il 1 Gennaio
millenovecentottantadue di parto naturale nel Jefferson Hospital.
Ricoverato di pleurite al St. Christopher nell’ottantasette.
Diplomato nel duemila, eccetera eccetera… Ah, ecco qui:
n° di caso 1098 002. Katelin Eva Hayes. Deceduta in un
incidente stradale il…”
“Non è stato un incidente,” mi libero di
quella frase come ci si libera del vomito.
Sean chiude il fascicolo lentamente e si appoggia alla scrivania coi
gomiti, giungendo le mani a mezz’aria. “Lo
so.”
Sollevo la testa d’un tratto e lo guardo negli occhi. Non può
essere…
“Lei è qui perché io possa aiutarla, signor Hayes. So che sua sorella
è stata vittima di un omicidio premeditato ed intendo
testimoniarlo.”
È incredibile come vivere nella menzogna per troppo tempo,
porti a confonderla con la realtà. Dubito che questo
completo estraneo, pur imbottito di soldi e a capo di chissà
quale grandiosa multinazionale, sappia davvero come sono andati i
fatti. Almeno finché non aggiunge:
“Preston Anderson era un mio dipendente e ha
confessato.”
“Perché era?
L’ha licenziato?”
“No, sfortunatamente,” sospira tornando comodo
sulla poltrona. “Si è tolto la vita qualche ora
fa.”
Raggelo sulla sedia. Comincia a girarmi la testa, mi manca
l’aria.
“Adesso mi chieda di approfondire questa conversazione,
signor Hayes.”
Sconvolto, annuisco.
“La prego, Sean,
approfondisca… questa conversazione.”
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
_Πroject
Δelta
Capitolo ********
“Cosa
sta facendo?”
“Non
lo vedi? Balla.”
“Sul
cornicione.”
“Sì.”
“…ne
abbiamo perso un altro. Chiamo Sean.”
“No,
tranquilla, è un nuovo tipo di veleno.”
C.M.
e D.F.
Sean ha parlato forse per una manciata di minuti, forse intere ore, non
so dirlo con certezza. Per tutto il tempo l’ho fissato con
un’espressione e un colorito della pelle che avrebbero
spaventato i bambini “dolcetto o scherzetto” del
prossimo Halloween. Dipendevo dalle sue labbra.
All’inizio si è limitato ad illustrarmi
dettagliatamente in che modo si erano mossi gli uffici legali
nell’arco del processo, che lui stesso, per il suo
dipendente, aveva finanziato. Ha citato alcuni nomi che sapeva non
avrei mai ricordato, altri che invece avevo conosciuto di persona, come
avvocati, testimoni e giurisperiti; tutti contribuenti della mia
rovina. Dopodiché si è scusato più
volte, assumendosi la colpa di quello che era accaduto e spiegando come
aveva dovuto mentire, a me per primo, ma soprattutto alla Giuria, per
proteggere il logo dell’azienda che rappresenta.
A quel punto ho cominciato a dover reprimere la tentazione di saltargli
alla gola. Ma solo alla parola “condanna”,
associata al mio nome, ho avuto la seria ispirazione di afferrarlo e
lanciarlo dalla finestra. Poi, probabilmente, mi sarei gettato
anch’io.
“Ho interceduto personalmente nel suo caso, signor Hayes, per
salvarla, se così si può dire,
dall’ergastolo.”
Scatto in avanti. “Che cosa?!”
Sean si sistema più comodo. “Purtroppo il
sottoscritto non è esattamente al vertice di questa
piramide, signor Hayes, e gli ordini sono ordini. Se lei dovesse
dimostrarsi disinteressato alla nostra proposta, sarà
scortato al dipartimento più vicino e consegnato nelle mani
della giustizia.”
“Sì, la stessa giustizia che ha ammazzato mia
sorella! Altro che il suo dipendente, mi spieghi di cosa sono accusato,
avanti!” sbotto alzandomi in piedi.
“Di violenza sull’imputato per estorsione
d’informazioni, signor Hayes.” Al contrario,
Trimarchi resta serenamente seduto.
Alzo gli occhi al cielo. “Questa sì che
è bella. È stata legittima difesa!”
“Vendetta personale, vorrà dire.” I suoi
occhi azzurri mi fulminano.
In realtà mi ero ben preparato a
quell’eventualità. Mi ero dichiarato io stesso
responsabile delle mie azioni. Sapevo che andare in prigione sarebbe
stata la cosa più giusta per tutti. Eppure…
“E chi mi starebbe facendo causa se Preston è
morto?”
“Io.”
Ho appena avuto conferma che quest’uomo è matto.
“Credo di non capire.”
“Sarò lieto di farle maggiore chiarezza, ma prima
vorrei poterla guardare di nuovo in faccia,” dice tranquillo
prendendo un altro sorso di caffè.
Mi rimetto seduto lentamente, trattenendo il fiato.
“Ottimo. Adesso si sforzi di capire che
quest’azienda ha un valore infinitamente maggiore di lei, di
me, della linea del telefono, del petrolio e della fame nel Mondo. Ho
accennato ad una proposta, e avrebbe potuto pretendere di approfondire
l’argomento invece di cominciare ad agitarsi, signor
Hayes.”
“Mi sta accusando mentre dice di volermi aiutare!”
ribatto. “Effettivamente sono un po’ confuso. Ne
è sorpreso?”
“Purtroppo sì, e molto. Pensavo di avere davanti
un adulto formato e responsabile, ma a quanto pare mi sbagliavo: lei
è solo un bambino che rivuole la sua caramella.”
Colgo una cattiveria infinita in quell’affermazione. Vuole
ferirmi così da potermi sottomettere più
facilmente. Bhé, può anche scordarselo.
“Lei me l’ha rubata.”
“Ma il supereroe che gliela riporterà non
esiste.”
Non che creda nei personaggi dei fumetti più che in Dio, ma
‘sta volta la lingua biforcuta di quest’uomo ha
violato qualcosa, in me, annullando del tutto la mia prontezza di
risposta.
Ho esitato e mi è stato fatale. Arriva il colpo di grazia.
“Se lei avesse dei figli, signor Hayes, o quanto mento
qualcuno che si avvicinasse a quel genere di legame, riuscirebbe forse
a pesare una virgola delle responsabilità che invadono
ciascuno di noi.”
“Mia sorella… lei lo era per
me…”
Dopo quella frase sembra cercare il mio sguardo, perso sul pavimento.
Quando vedrà le mie lacrime, Sean potrà
compiacersi del fatto di essere davanti ad un bambino.
“Non la metta sul personale. Cerchi di superare la cosa e
potremo parlarne da uomini,” dice.
“Lei è il primo… a non essere umano,
Sean.”
Touché.
Mi gusto fino all’ultimo secondo di silenzio. Non ha il
coraggio di aggiungere altro. Almeno non su quell’argomento.
“È stato lei a chiedermi di approfondire questa
conversazione. Se lo ricorda?”
Ridacchio. “Bhé, veramente…”
Continua a fissarmi, ma la sua aurea di serenità
è del tutto sparita. E non mi da il tempo di continuare:
“Adesso stia zitto e ascolti la mia proposta.
Dopodiché da buon libero cittadino americano
potrà scegliere che fare delle sue ossa.”
Suona come una minaccia. Taccio. Acconsento.
Fa un respiro profondo. “Preston Anderson è morto,
gliene do ragione, e con lui la sua pratica. Nel suo mondo ideale, signor
Hayes, in cui la giustizia è amministrata dai giusti, la mia
azienda dovrebbe chiudere ed io scontare diciotto anni di pena.
Centinaia dei miei dipendenti finirebbero sulla strada e lei avrebbe
contribuito a portare sull’orlo della povertà
altrettante famiglie...” sospende la sentenza come se ci
fosse dell’altro. “Nel mondo, invece,
tutto questo non succederà. E sa perché?
Perché lei andrà in prigione, che le piaccia o
no, e ci rimarrà fino alla fine dei suoi giorni. Mi creda,
non avrei voluto essere io a farle questo discorso, e neanche fare la
parte del cattivo, ma lei non mi lascia scelta. Perciò ora
si asciughi le lacrime, apra bene le orecchie e mi guardi in faccia
mentre le assicuro un futuro migliore.”
Mi ha allungato un fazzoletto di carta estratto da chissà
dove. Mi viene distrattamente da chiedermi se sono la prima persona a
cui dà questo genere di notizie, qui dentro.
“Per farla breve, signor Hayes, voglio che lei lavori per me.
Sarà semplicemente questo a tenerla lontana dai guai, glielo
garantisco. Non posso prometterle giustizia per sua sorella, anche
perché restano poche persone coinvolte nella faccenda, a
parte lei e me; ma la salvezza… non può, non
vuole lasciarsela sfuggire. Ammetta che è
così.”
Mi osserva, mi studia. Scansiona ogni mio muscolo facciale mentre conta
i miei respiri. Non mi lascia scampo, sono nella sua tela. Nella sua
tela di promesse. Sarà la mia fine, lo so.
Dopo un silenzio infinito, riesco a guardarlo di nuovo negli occhi.
“Perché Hannah mi ha chiamato lupo?”
chiedo per rompere il ghiaccio.
Sean sorride compiaciuto, quasi si aspettasse una domanda del genere.
“Curiosità,” arride. “Questo
è lo spirito giusto, signor Hayes. Curiosità. Mi
segua.”
Si alza, aggira la scrivania e si avvia all’uscita.
Lo imito solo un’eternità più tardi,
tanto ero sorpreso da quella reazione. E ora? Dove vuole portarmi?
Direttamente dietro le sbarre? Mi accompagna a pisciare?
Chissà… magari tra poco scoprirò di
aver fatto uno di quei terribili sogni dentro i sogni dopo i quali ti
risvegli tutto sudato. Al solo pensiero provo una leggera nostalgia per
il mio divano; per tutte le maratone di film e quelle birre ancora
sigillate nel frigo. Sean ha interrotto il mio momento di depressione
troppo presto. Non avrei mai smesso di rinfacciarglielo.
Le doppie ante a vetro scorrono. Siamo in un corridoio tirato a lucido
e molto luminoso. Per terra una moquette grigia. Il soffitto a specchi.
Sean si avvia. Gli tengo dietro.
“Signor Hayes,” comincia attirando tutta la mia
attenzione. “Lei è stato testimone diretto di
quella che il nostro settore specializzato chiama Sessione di Sincronizzazione.
Ora non sarò io e in quel misero studio ad illustrarle nei
dettagli di cosa si occupa materialmente la mia divisione, sarebbe
estremamente riduttivo. Perciò mi piacerebbe vederla di
nuovo all’opera il prima possibile e sapere cosa ne
pensa.”
“Un attimo.”
Inchiodo mentre Sean chiama l’ascensore. Siamo in un
salottino altrettanto sterile, come il corridoio. Ci sono un paio di
poltroncine e un tavolino, il tutto condito da un design molto
hight-tech, tipico delle grandi istituzioni di ricerca. Sì,
perché non sono mica stupido, e non ci vuole un genio per
capire che qui dentro fanno test sulla psiche umana. Basta guardare
come hanno ridotto il tipo che mi sta davanti.
“Mi dica,” fa disponibile, giungendo le mani dietro
la schiena.
“Quelle cose che ho visto…
insomma…” esito, comincia a vorticarmi lo stomaco
al ricordo del sangue. “L’ho visto veramente e lei
vuole che lo riveda? È questo che fate qui?”
Sean annuisce, seppur poco convinto. Devo aver posto la domanda nel
modo sbagliato, deludendolo. “Deduco che non sia stato di suo
gradimento.”
“Affatto!” sbotto. “C’era tutta
quella gente che moriva, e le spade, le pistole! Avanti, sembrava tanto
uno di quei videogiochi da sbudellamento in prima persona. Mi dica
quanto di vero c’era in quello che ho visto.”
“Tutto. Dal primo all’ultimo fotogramma che le
è passato davanti. Ma lei non si è limitato a guardare, signor
Hayes. Lei era lì, a vivere.”
“Un grande balzo per l’industria
videoludica,” commento amaro con un leggero sarcasmo.
“Videogames, signor Hayes?” scoppia a ridere.
“Siamo seri: sappiamo entrambi che non è nulla del
genere,” mi strizza un occhio.
La conversazione continuerà nella cabina
dell’ascensore, che ci ha appena spalancato le porte. Una
volta dentro, non posso fare a meno di notare il grande schermo nero in
stand-bay che occupa l’intera parete di fondo, dove galleggia
un simbolo bianco a forma triangolare; mentre Sean pigia
sull’interruttore del piano interessato, gli lancio
un’occhiata distrattamente: cambia continuamente forma,
dividendosi in tre parti, ruotando su se stesso un paio di volte e poi
tornando allo stadio di partenza.
“La mia azienda ha bisogno di lei. Di gente come
lei.”
“Potrebbe essere più chiaro?” domando
tornando a guardarlo.
“Ci piace pensare che non sia stato il caso, signor Hayes, a
portarla da noi,” dice fissando dritto davanti a
sé, con in faccia stampato un sorriso divertito.
“Ma voi
chi siete?” sono sempre più scettico. Il suo modo
enigmatico di parlare mi sta portando al punto di ebollizione. Di nuovo.
“Siamo nati come una corporazione farmaceutica solo
all’inizio del duemila. Eravamo qualcosa di molto
più grande, ma meno appariscente, fino al secolo
scorso.” Ne parla con una grande fierezza.
L’ascensore si ferma. La ante si aprono.
“Tralasciando il fatto che lei è qui per evitare
la galera, signor Hayes, provi a pensare che il nostro logo
sarà sui libri di storia delle prossime
generazioni!” esulta facendomi strada.
Ci avventuriamo in quel labirinto di cellette vetrate che si vedevano
dall’ufficio di Sean. Il vecchio, senza tregua, continua a
crogiolarsi nelle glorie delle sue imprese mentre io ormai non lo
ascolto più, tanto sono preso da cosa mi circonda.
Ad un tratto passiamo accanto ad una di quelle stanze e noto con
chiarezza una ragazza sdraiata su un curioso lettino metallico che
emana un insolito bagliore azzurrognolo dai circuiti interni. Al suo
capezzale ci sono un uomo e una donna entrambi in camici bianchi.
L’uno e l’altra sembrano avere ruoli completamente
diversi: mentre la donna vigila sui dati graduati forniti da alcuni
schermi ai piedi del lettino, l’uomo resta vicino alla
ragazza monitorando una piccola interfaccia luminosa.
Senza rendermene conto ho rallentato il passo fino a staccarmi
parecchio dal vecchio, che ha tirato dritto e si è fermato a
parlare con un tizio più avanti.
Guardandomi attorno, mi rendo conto che le stanze sono principalmente
di due tipi: un primo gruppo, in maggioranza, ospita unicamente una
dozzina di postazioni computerizzate più o meno occupate dai
rispettivi tecnici. Le altre, invece, sono celle come quella in cui ho
appena sbirciato: uno spesso lettino nel mezzo e tre corpi in tutto.
Nono oso immaginare la quantità necessaria
d’energia per mandare avanti una struttura del genere. La
corrente passa attraverso dei cavi che pendono dal soffitto per quelli
che mi paiono almeno una cinquantina di metri. È una sala
enorme, penso di averlo già detto, nella quale hai davvero
l’impressione di essere nient’altro che
un’umile formichina.
Pensieroso, raggiungo Sean.
“Signor Hayes, lasci che le presenti uno dei nostri migliori
supervisori medici, Alex Viego,” dice presentandomi
l’uomo col quale si era fermato a parlare.
È giovane, sulla trentina al massimo, noto mentre gli
stringo la mano. Ha un medio taglio di capelli neri, tirati
all’indietro in maniera ordinata. Gli occhi svegli, azzurri,
trasmettono freschezza. Al collo gli pendono un paio di occhiali del
tipo tradizionale.
“In realtà ci siamo già
incontrati,” dice il ragazzo sorridendo.
Sobbalzo. Questa voce…
“Io e Samantha abbiamo coordinato la sua Sessione di
Sincronizzazione,” conclude Alex. A titolo informativo,
l’osservazione sembra rivolta più che altro a
Sean, che è particolarmente sorpreso.
Alex lo anticipa: “Sì, so cosa sta pensando:
Samantha non è la mia partner di coordinamento, ma Isaac
è stato spostato nel settore C08 e noi del C02 stiamo ancora
aspettando le nuove assegnazioni,” dice come se ne fosse
realmente dispiaciuto.
Sean ci riflette un attimo. Poi guardando me: “Lei e la Cobb
potreste continuare a supervisionare il signor Hayes, almeno
finché il suddetto non avrà collezionato una
serie considerevole di uccisioni.”
Non capisco una mazza di quello che si dicono, ma standomene qui almeno
faccio presenza.
Alex pare rabbrividire, ma acconsente ugualmente. Non è per
niente entusiasta di tornare a lavorare con quella donna, Samantha
Cobb; potevo dirlo con certezza io che ero presente ai bisticci dei due
durante la mia… il vecchio come ha detto che si chiama? Ah,
sì: sincronizzazione.
Prima che Alex possa aggiungere qualcosa, si diffonde lo squittire di
un cercapersone.
Un cercapersone?! Quella roba non si usa più da almeno due
generazioni!
Sean estrae l’oggettino da una tasca dei pantaloni e legge in
sovrimpressione. “Scusatemi, signori,” comincia
poi. “Devo tornare alle mie scartoffie d’ufficio e
occuparmi di una cartella in particolare,” aggiunge
strizzandomi un occhio. “Signor Hayes, l’affido
nelle mani esperte di Alex Viego, che le spiegherà ogni cosa
da principio e si prenderà cura di lei come una mamma
affettuosa.”
Il coordinatore stende oltremodo le labbra in un sorriso, annuendo.
“Senz’altro. È stato un onore riceverla,
signore.”
Sean muove qualche passo in retromarcia. “Tornerò
dopo pranzo ad assicurarmi che il nostro lupo preferito si sia sfamato
per bene.” E detto questo, scompare.
“…cazzo,” sento imprecare.
Mi volto di colpo.
Alex si passa le mani nei capelli. Sembra sconvolto mentre mi fissa.
Sospira. “Scusami,” comincia distogliendo lo
sguardo. “Mi rendo conto che il tuo soggiorno qui non
è cominciato nel migliore dei modi.”
“Grazie… Ci sono abituato,” mento
stringendomi nelle spalle.
“Non ci era stato detto nulla, pensavamo che sapessi
già tutto. È stato spregevole metterti
così, a prima botta, nell’Animus.”
“Animus?” domando con uno sguardo a dir poco
allucinato.
Alex sorride. “Vieni,” e mi fa strada.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
_Πroject Δelta
Capitolo *********
“Mi stai dicendo che
qui dentro Sean ha radunato tutti gli evasori fiscali, gli ubriaconi, i
drogati, gli assassini e gli stupratori in cerca di
redenzione?”
“Esattamente.”
“E
tu che colpa hai?”
“Va’
a dormire, ragazzo.”
A.H. e M.F.
Entriamo in una di quelle stanze con al centro il lettino metallico,
che Alex mi indica poco dopo. “Quello è
l’Animus,” dice avvicinandosi ad alcuni schermi
sulla parete. Continua a parlare dandomi le spalle e compilando un
modulo. “Fu inventato dal dottor Warren Vidic, che ora
gestisce il settore più avanzato del dipartimento, il C18.
Spesso viene a farci visita, uno di questi giorni probabile che avrai
l’onore di conoscerlo. Con lui la nostra sezione ha fatto il
balzo nella storia che a Sean piace tanto celebrare. Le masse qui sono
arrivati a chiamarla macchina
del tempo, ma in realtà funziona in una maniera
ben più affascinante.” Portato a termine quel
lavoretto manuale, Alex posa il modulo da parte e si avvicina al
lettino. La stanza non è molto grande: escludendo i
macchinari che formano un anello attorno al lettino metallico, il
terreno calpestabile basta a sufficienza per ospitare quattro persone.
“È semplice,” riprende Alex.
“In una zona poco nota della corteccia celebrale, ma per noi
dell’Abstergo diventata accessibile, stagnano informazioni
che si tramandano attraverso il DNA. Sono i ricordi genetici,
veri e propri files
archiviati scrupolosamente nella mente umana. L’Animus
è in grado di leggere questi ricordi, metterli in ordine
cronologico e ripercorrere così le vite degli antenati di un
individuo.”
Mi muovo con incertezza accanto alla macchina. Al suo interno sembra
pulsare una grande energia, fasciata in lucide lastre metalliche. Pur
nascondendo un grande potenziale, non produce alcun suono. Tutta la
strumentazione è così avanzata da lasciare nella
stanza un religioso silenzio.
Alex mi lancia un’occhiata. “Ora, non fraintendere,
ma lo sbudellamento
di questa mattina non ha niente a che vedere con i tuoi
antenati,” si sbriga ad aggiungere.
Digita un codice su una tastierina incorporata nel lettino e
all’istante l’Animus risponde con un mugolio
elettronico. Dopodiché una voce femminile computerizzata ci
avverte che i parametri sono impostati; i bagliori della macchina
cambiano tonalità, da azzurrognolo a verde acqua.
“Saremmo pronti per cominciare,” dice il ragazzo,
“ma senza supervisore tecnico non ho il permesso di metterti
nell’Animus. E viceversa se Samantha fosse qui e io no.
È lei l’esperta…”
Restiamo a lungo a fissarci senza dire nulla.
“Quindi io a cosa servo?” domando per rompere il
silenzio, pur conoscendo la risposta.
Il ragazzo si allunga a scegliere una cartella tra le tante ammassate
sull’unico ripiano lasciato libero da schermi e computer. Con
una mano tiene il fascicolo aperto, con l’altra, come
ricordandosene solo ora, apre e si mette gli occhiali sul naso.
“Arder Hayes, giusto?”
Annuisco distratto. Fuori dalle vetrate della stanza
c’è un intenso, insolito e dinamico via vai. Vedo
passare di corsa due medici. Un addetto alla sicurezza si sofferma a
controllare la nostra cella e poi va oltre.
Alex è troppo concentrato a studiare il contenuto della
cartella per accorgersene. Ad un tratto esulta, facendomi sobbalzare:
“Ah, eccoti qui! Hanno scritto male il tuo nome,”
ridacchia apprestandosi a correggerlo con una penna a scatto che estrae
dal taschino del camice.
“Non me ne va una dritta,” borbotto continuando a
guardare fuori. Mi siedo distrattamente sull’Animus con una
coscia e, nonostante l’apparenza gelida del materiale,
avverto un cospicuo calore.
“Praticamente funziona così:” comincia
Alex aggirando la macchina per mettersi di fronte a me.
“Questi Animii
in particolare, dal settore C01 al C10, sono stati settati su
l’unica sequenza genetica di un determinato individuo pescato
nel Rinascimento italiano. In realtà nessuno, a parte Warren
e forse Sean, sanno precisamente come funziona il processo di
sincronizzazione, nel nostro caso. Io come medico devo solo assicurarmi
che i requisiti minimi combacino. Il supervisore, o coordinatore
tecnico, conosce la formula del miracolo che ti fa entrare nel tuo
antenato. Spero di essere stato abbastanza
chiaro…” accortosi che il mio sguardo vaga oltre
le sue spalle, si è voltato a dare un’occhiata.
Sospira e, precedendo le mie preoccupazioni, dice:
“Tranquillo, non è sempre
così.”
Inarco un sopracciglio. “A maggior ragione,
cos…”
Le ante di vetro si spalancano di colpo, e tutto il frastuono
dell’esterno fa capolino nella stanza assieme alla figura
trafelata di una donna che si fionda al computer, senza degnarci
entrambi di uno sguardo. È un gran bel pezzo di femmina,
penso sorprendendo me stesso: alta, rossa, e quel camice ben chiuso
chissà quanto altro materiale interessante si mangia.
“Alla buon ora!” erompe Alex. “Dove sei
stata?”
“A pararti il culo!” sbotta la donna trascrivendo
dei codici sul PC da un foglio che ha in mano. “Quindi ora
sta’ zitto e fammi fare!”
“Perché? Cos’è successo
‘sta volta?” domanda il ragazzo sbuffando.
“Ai piani alti hanno gestito male il server della Sessione
dimostrativa, hai presente, no? Il finimondo di ‘sta
mattina.”
“Hanno risolto un’ora fa, qual è il
problema?” Alex sposta il peso sull’altra gamba.
“Le nostre chiavi non combaciano, ne stanno distribuendo
altre. Perciò ringrazia che ero una delle prime, in fila per
ritirarle!”
“E il settore è nel panico per così
poco?” si stupisce lui.
La ragazza scoppia in una fragorosa risata. “Il settore,
Viego?” fa sarcasmo voltandosi a guardarlo. “Stanno
al buio da qui al settore C16. Dio solo sa cosa viene giù se
Warren scopre questo casino.”
“Quindi è colpa di Trimarchi?” domando
istintivamente.
I due si voltano a guardarmi, interdetti. La donna si è
accorta di me solo adesso che ho parlato.
Dopo un lungo istante di silenzio, Samantha aggrotta la fronte e mi
dice: “Tu non hai voce in capitolo, mezza tacca,”
con molta cortesia, e ricomincia a scrivere concentrata.
Io guardo Alex.
“Saremo in due a doverci abituare,” mi sussurra
fingendosi impegnato a controllare dei valori sul desktop. Poi, (con
coraggio e tutta la mia stima) si rivolge alla ragazza chiedendo:
“Posso avviare intanto che tu sistemi, oppure ho il tempo di
andarmi a prendere un caffè?”
“Sì, sì,” fa distrattamente
lei. “Mettilo dentro, ho quasi fatto.”
Alex annuisce e si avvicina a me. “Sdraiati,” e,
come leggendo la mia espressione, aggiunge: “tranquillo, non
sentirai dolore.”
Mi stendo lentamente e con cautela; le mani di Alex mi guidano a
poggiare la testa su un leggero rigonfiamento metallico che, freddo,
preme all’altezza della nuca. Soddisfatto, il ragazzo esce
dal mio campo visivo.
Nessuno, ma soprattutto Alex, si è accorto che sto fingendo
una certa tranquillità. Mentre fisso il soffitto, pienamente
cosciente della pazzia che io stesso sto lasciando accadere, ascolto
Samantha battere sulla tastiera e Alex trafficare al computer sulla mia
destra.
Non so se scoppiare a ridere o a piangere. È una scena da
film dell’orrore, ma di quelli scrausi in cui finisci sempre
col chiederti perché l’hai affittato. Ho come
l’impressione che da un momento all’altro
verrò lobotomizzato e che non ricorderò una ceppa
di cosa mi è successo o chi diavolo sono queste persone. Il
cervello è un organo miracoloso ma altrettanto pericoloso.
La gente qui sembra giocare col fuoco ogni volta che parla di ricordi e
memoria genetica. Di che razza di esperimento si tratta? Sean
è stato piuttosto vago, nella sua fretta di affidarmi al
dottor Viego, che non è stato certo più chiaro di
lui; ma allora cos…
“Arder, scusami, ma se continui così non possiamo
iniziare.”
Il ragazzo è ricomparso d’un tratto nel mio campo
visivo.
“Qual è il problema, Viego? Il paziente cerca di
morderti?” domanda Samantha ridendo.
Alex la fulmina con un’occhiataccia.
“C’è troppa attività
celebrale,” spiega. “Devi rilassarti,
Arder,” dice rivolto a me.
Annuisco. “Mi disp… AH!” Grido.
Un dolore lancinante mi ha aggredito improvvisamente al braccio destro,
che non riesco a contrarre per via di una stretta ferrea attorno al
polso. Alzo la testa e vedo Samantha estrarre in quel momento dalla mia
carne uno ago spesso come una matita. “MA CHE CAZZO
FAI?!” le sbotto contro, cercando di alzarmi, ma Alex mi
ostacola spingendomi per le spalle nuovamente sdraiato.
La vista mi si offusca, i suoni sono sempre più ovattati.
L’ultima cosa che vedo è il volto dispiaciuto di
Alex, e l’ultima cosa che sento sono le risate della donna
che, mentre l’oscurità si fa padrona, aggiunge:
“Meno male che uno dei due ha le palle per fare queste
porcate, vero Alex?”
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