Πroject Δelta - La Sessione ha inizio

di The Guardians
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Project Delta (Beta in linguaggio civile) è una fan fiction liberamente ispirata alla saga Assassin’s Creed, ma nel preciso riferente ad eventi immaginari ambientati nel complesso della funzionalità multigiocatore. Ciascuno dei personaggi impersonabili nel multiplayer ha il proprio soggetto ed è, a tutti gli effetti, un essere vivente con la propria storia. Le vicende si collocano poco prima, se non parallelamente, alla linea temporale di Brotherhood. La trama esplora l’esperienza on-line e l’adatta a thriller rivivendola attraverso gli occhi dei protagonisti: Arder Hayes, Cherish Marshall e Dorian Fletcher, rispettivamente Cacciatore, Cortigiana e Soldato.
Gli Autori: The Guardians sono, in sedete separata, Cartacciabianca e Pennanera. Questa fan fiction è ancora in fase sperimentale e necessita del maggior numero di critiche costruttive possibile. Pertanto, siate spietati se proprio volete recensire.
Fiduciosamente sperando che la curiosità vi abbia logorarti e lo stia facendo tutt’ora, Anemone e Dominìc vi augurano buona lettura :)
Avvertenze: linguaggio colorito.

Πroject Δelta
Capitolo 1. Prologo

“Quand’ero giovane mi piaceva pensare che il mio corpo fosse una sorta di scudo per tutti quei peccati dei quali poteva macchiarsi un’adolescente. Oggi lo penso ancora: quando seghetto la giugulare del mio bersaglio, gli schizzi di sangue non passano oltre il mio ventaglio. La mia anima è intatta.”
C.M.

Ha aperto la portiera mentre la macchina era ancora in corsa; struccata, con le lacrime agli occhi e i capelli arruffati, è smontata dall’auto trascinandosi dietro il suo piccolo bagaglio. Sotto la pioggia, quel poco di ombretto che aveva sulle palpebre si è dissolto via e l’è colato sulle guance come la pittura di un piccolo Pierrot francese (1.).
“Stronzo!” ha gridato, ma il frastuono dell’intemperia ha coperto buona parte del suo urlo; si è allontanata con gran foga, ma è inciampata. Gli abiti, una camicetta di cotone a maniche gonfie, la gonna jeans, i pantacollant e le ballerine, sono affondati assieme a lei in una pozza, dove l’asfalto non era colato regolare e si era formata un’insenatura abbastanza profonda da raccogliere acqua.
“Troia!” le ha strillato in risposta l’autista. L’uomo, sulla trentina, ha allungato un braccio ad acciuffare la maniglia della portiera che la ragazza ha lasciato spalancata e l’ha ha richiusa prima di bagnare i sedili interni. Lo sguardo rabbioso e insoddisfatto era quello di un mastino che si sfama di croccantini per gatti.
Poi la macchina è filata via, ma nel farlo ha urtato accidentalmente una pozzanghera e un’onda anomala di acqua piovana l’ha travolta.
Lei ha gridato di nuovo, ‘sta volta permettendosi anche di piangere e unendo le sue alle lacrime del trucco. Ha guardato il cielo nero sopra la sua testa, mentre la violenza del temporale le sferzava la faccia con i suoi soldatini di cristallo liquido.
Mai avrebbe pensato di cadere così in basso. Mai.
La sua vita era stata sempre perfetta. Lei era stata sempre perfetta. Nessuno osava farle torti se non era la prima a farne, nonostante preferisse avere comunque l’ultima parola e non permettesse al suo avversario di uscirne con la parità.
Ma improvvisamente i suoi sogni fanciulleschi s’infrangono, le sue aspettative si riducono a pochissimo, ed è costretta a fare l’autostop sul ciglio della strada, dove qualche ora prima l’ha abbandonata un autista poco gentile.
Adesso si sistema la gonna, che, per l’intera nottata di cammino lungo il ciglio dell’autostrada, è diventata logora, ma non è solo quell’indumento ad esserlo: anche lei inizia a sentirsi male, i morsi della fame si stanno facendo più forti e ore di digiuno completo non aiutano. Ha rinunciato a portarsi dietro il piccolo trolley, che ha abbandonato qualche chilometro indietro poco dopo che ha smesso di piovere, selezionando l’essenziale. Con sé non ha neppure un cellulare: si è lasciata tutto alle spalle per necessità: deve essere irrintracciabile. Poi a peggiorare la situazione c’è il freddo intenso della notte, che, nonostante il felpino estratto dalla valigetta, punge sulla pelle come avvalendosi di mille aghi. Ha le gambe irrigidite dalla stanchezza, non le sente quasi più, e nemmeno i piedi, rigonfi nelle ballerine consumate, rispondono all’appello. Sulla strada completamente avvolta dall’oscurità, all’orizzonte, proprio dove cielo e terra si confondono e tra qualche istante si delineerà l’alba, appaiono delle pigrissime luci. Luci = un posto dove poter sedersi a riposare.
La ragazza sgambetta verso quella direzione, ma un rumore inconfondibile l’accompagna: nel silenzio della notte, le si affianca una macchina. In un primo momento lei accelera l’andatura delle gambe: non ha proprio voglia di qualcun altro che la pianti in asso sotto la pioggia, ed è troppo stanca per fare… quelle cose che aveva promesso all’autista di poco fa in cambio di un passaggio. Il gesto di proseguire dritto è abbastanza eloquente, pensa, allora perché quella macchina si ostina ad inseguirla, procedendo a passo d’uomo pochi metri indietro?
Ad un tratto, assieme al tuono di una nuova tempesta in arrivo, la ragazza ascolta il suono del finestrino che si abbassa. Vorrebbe ignorare chiunque sia alla guida dell’auto e piuttosto essere cieca per non poter guardare la faccia schifosa di un altro ubriaco, ma improvvisamente dallo spazio creatosi sbuca una mano guantata di velluto nero, tutt’altro che da ubriachi… ora che ci fa caso, poi, solo la carrozzeria di una marca così famosa graviterà sui 20 mila dollari.
La suddetta mano, con un gesto eloquente, le intima di avvicinarsi.
Lei sbuffa: non ha tempo da perdere e non è il caso farsi pedinare tutta la notte.
Si avvicina all'auto, ma quando è a pochi centimetri da essa, lo sportello posteriore si spalanca con un rumore sordo e lei è trascinata dentro come un sacco di patate. Per lo spavento chiude gli occhi, e nel momento in cui li riapre, qualche istante più tardi, si risveglia magicamente seduta tra due uomini completamente vestiti di nero, su un comodo sedile imbottito. In quell’auto dai vetri oscurati è così buio che non riesce quasi a distinguerli. L’auto riprende a camminare, superano la stazione di servizio che la ragazza aveva intravisto da lontano ad una velocità ben oltre i cento chilometri, ma gli ammortizzatori fanno incredibilmente bene il loro lavoro. Non le viene concesso nemmeno il tempo di bestemmiare che subito l'uomo alla sua destra le chiede:
“Cherish Marshall?”
Alla ragazza si blocca il fiato in gola. Comincia anche ad avere una mezza paura di cosa le sta succedendo.
“In persona” mormora.
L’altro uomo, sulla sinistra, prende parola:
“Figlia di Joseph e Marie Marshall?” domanda.
Cherish, sempre più spaventata, annuisce: “Sì, sì… Ma voi come sapete queste cose?”
I due continuano, alternandosi:
“Residente a Baltimora?”
Lei insiste: “Mi volete rispondere? Come diavolo fate a sapere queste cose?!” è ufficiale, i giochi di ruolo non le piacciono e questo sta diventando anche piuttosto antipatico degli altri. Ammette di essersi sentita più al sicuro tra le gambe di un ubriaco.
L'auto frena di colpo, l'uomo al posto di guida la guarda, senza voltarsi, attraverso lo specchietto retrovisore.
“Noi sappiamo quanto basta, signorina Marshall” spiega con naturalezza. Fa una breve pausa, durante la quale il suo sguardo si sposta sul sedile vuoto del passeggero, dove sono adagiati alcuni fascicoli aperti. Cherish riconosce per un solo istante, grazie al bagliore di un fulmine, delle foto che le sono state scattate nella villa di famiglia a Baltimora; l’uomo, con una mano sul volante e aggiustando lo specchietto con l’altra, continua:
“Io e l’azienda che rappresento abbiamo una proposta da farle, Mrs. Marshall. Vuole gentilmente prestarci orecchio, o preferisce riprendere il suo viaggio?” all’insegna di un tuono funesto, fuori dall’auto ricomincia a piovere e col doppio della foga precedente. “Saremmo ben lieti di accompagnarla ad una stazione ferroviaria e versarle dei soldi per un biglietto, nel caso decida d’ignorare questa conversazione.”
Dove sono i distintivi? Azienza? Deve essere la mafia…
Cherish riconosce il pericolo, ma soprattutto una bugia quando ne sente una, perciò la sua risposta è immediata:
“No, non voglio né ascoltare le vostre immonde proposte né il vostro sporco denaro; e adesso fatemi scendere, per piacere.”
L’uomo alla sua destra le apre la portiera e con le rughe in fronte e gli occhi stretti Cherish abbandona l’auto. Riprende il suo cammino sotto la pioggia, ora forte a tal punto da sembrare grandine, puntando nella direzione opposta: la stazione di servizio che hanno passato forse è l’unica nel raggio di cento chilometri e l’idea di sdraiarsi su una confortevole poltroncina imbottita è l’unica consolazione. Magari mette anche qualcosa sotto i denti, se riesce ad impietosire il responsabile del locale.
Comprarle un biglietto… pensavano davvero che fosse così stupida? Il minimo che avrebbero potuto fare, in culo al suo rifiuto, sarebbe stato chiuderla in un sacco dentro il bagagliaio e scaricarla nell’immondizia con un foro di proiettile in fronte. La prospettiva di morte è allettante. Dopotutto, più in basso di così restano davvero poche alternative…
Percorre pochi metri prima di accorgersi che il rumore lento e costante della cilindrata della macchina ancora la segue. Si ferma di colpo, quasi arrabbiata da tanta insistenza e scortesia.
E assieme a lei, la macchina inchioda alle sue spalle. Si volta all’improvviso, col viso attraversato dall’ira funesta di Achille in persona, e stringendo i pugni lungo i fianchi strilla come ha strillato qualche ora fa a quell’autista poco gentile:
“Ho detto di no, pezzi di merda! Andate a fare in culo da un’altra parte e lasciatemi stare, dannazione!” la pioggia le entra in bocca, sfumando il poco rossetto rimasto, e finisce dritto in gola quasi strozzandola.
Un medesimo lampo squarcia il cielo e quando Cherish ricomincia a camminare, tossendo e ignorando cosa accade alle sue spalle, e più turbata che mai. La macchina la sta seguendo, ancora, ma le sue orecchie piene d’acqua sminuiscono qualsiasi altro suono al di fuori del battito forsennato del suo cuore. Quelle foto come le hanno avute? Perché insistono? Di che proposta si tratta? La curiosità è un bisogno bestiale che le attanaglia lo stomaco, sussurrandole di prestare attenzione a nuovi orizzonti e possibilità. Terribilmente in lotta con se stessa, Cherish viene assalita dai ricordi di quei giorni felici, quando poteva permettersi di abitare nella villa di famiglia e organizzare feste mozza fiato in compagnia degli amici del college.
Senza accorgersene ha rallentato l’andatura delle gambe fino a fermarsi del tutto, con le spalle curve, sotto la pioggia che picchia sia lei sia l’asfalto. La luce dei fari sferza l’oscurità proiettandole la sua ombra sotto al naso. Non sente più il freddo per quanto i bollori la tengono accaldata: la battaglia che combatte in questo momento la sua anima, contendendosi la giurisdizione del corpo, è delle più strazianti e violente che abbia mai percepito sulla pelle. Dopo tutta quella pioggia, Cherish s’immagina già in un letto col termometro in bocca e la pezza umida in fronte; ma la febbre è una preoccupazione minima rispetto a tutte le altre.
Cherish indugia troppo a lungo. Terribili pensieri animano la sua mente, mentre sul suo viso si dipinge una smorfia antipatica: sta pensando a molte cose della sua vita che non sono andate come dovevano e a tutte quelle che non andranno mai. Solleva un istante gli occhi per guardare le luci della stazione di servizio, così lontane… e poi quelle dell’auto, così vicine.
Pare che io non abbia scelta… sospira nel fare dietrofront.
La portiera si apre, ma questa volta Cherish si accomoda spontaneamente nel posto vuoto accanto al finestrino, che resta abbassato permettendole di guardare fuori.
La macchina si allontana e scompare nella pioggia.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Πroject Δelta
Capitolo **

“Cacciare o essere cacciati.”
A.H.

La metro sbanda sui binari: attraversiamo una galleria in curva e mi tocca sedere accanto ad una signora prima di perdere l’equilibrio. Lei mi lancia un’occhiataccia infastidita, ma è lecito per essermi quasi gettato sul suo giornale. Mi scuso con un sorriso dispiaciuto.
Una volta seduto poggio entrambi i gomiti sulle ginocchia e tengo lo sguardo basso, su un punto indistinto tra i miei piedi. Muovendo solo i bulbi oculari posso vederlo completamente senza dover alzare la testa. Lui è lì, a pochi passi da me, accanto alle porte sul lato opposto della carrozza.
Indossa un giubbotto marrone, forse in pelle, con le maniche lunghe e aperto sul davanti; è giovane, con molte probabilità sulla trentina, ma perciò più vecchio e lento di me. Ha un taglio di capelli corti, un paio di occhi scuri, a differenza dei miei che sono verdi; il fisico non ha l’aria di reggere i 300 metri della staffetta olimpionica, ma è magro abbastanza da passare attraverso le porte. Tiene una mano in tasca (per quanto mi riguarda, potrebbe anche nasconderci una pistola), batte nervosamente il piede sinistro sul pavimento del vagone mentre con un po’ di fatica si regge alla sbarra. Indossa un auricolare all’orecchio. Ad occhi estranei può sembrare una persona comune, uno in mezzo ai tanti che affollano questo vagone, ma io sono stato testimone di cosa è davvero capace.
Per qualche minuto tutto procede tranquillo. Io resto al mio posto e lui al suo. Il mio bersaglio non fa nessuna mossa falsa per tradirsi, a parte qualche occhiata poco discreta ai volti di chi lo circonda. Spesso guarda fuori dalle porte, fissando a lungo qualcosa che cattura la sua attenzione; e poi torna a adocchiare in giro circospetto. Sta sudando: è nervoso, va da qualche parte, e di fretta.
La spia del suo auricolare è accesa.
La carrozza svolta in una curva stretta sulla sinistra, così il mio bersaglio sposta il peso sull’altra gamba e ne approfitta per guardarsi attorno: è allora che i nostri sguardi s’incontrano ed è allora che, riconoscendomi in una frazione di secondo, il mio bersaglio scatta di corsa verso l’estremità del vagone.
Appena mi alzo la metropolitana compie una brusca frenata: siamo quasi al capolinea e l’andatura delle ruote deve rallentare. Per la sorpresa finisco a ruzzolare in terra, dando un po’ di vantaggio al mio target, ma quando mi rialzo e punto verso lui, vedo che l'uomo si sta allontanando nell’altro vagone. Così salto anch’io dalla quinta alla quarta carrozza inseguendo il fuggiasco fino in testa al treno. Lui butta giù la gente e non bada a donne e vecchi che imprecano e lo maledicono: pensa solo a salvare la pelle.
La metro entra in stazione, i freni si azionano del tutto e cominciano a fischiare sulle rotaie. Al mio bersaglio non restano più luoghi dove nascondersi oltre alla cabina del conducente, sbarrata dall’interno. Disperato, nonostante la vettura sia ancora in movimento, il pazzo aziona le uscite d’emergenza e fa spalancare le porte. A quel punto la gente inizia anche ad urlare, mentre lui si fionda fuori dalla carrozza atterrando di schiena sulla corsia. Con un po’ di esitazione lo imito. Nel momento in cui rotolo a terra, per poi rialzarmi ignorando i dolori alle ossa, gli ammonimenti di alcuni agenti della sorveglianza diventano l’ultimo dei miei problemi. I poliziotti si stavano scambiando quattro risate in un angolo della stazione sotterranea, ma hanno estratto le pistole dopo aver assistito increduli a tutta la scena. Uno sparo di avvertimento fa scoppiare il panico nelle gallerie sotterranee, ma non rallenta nessuno dei due.
Ora siamo sul percorso che conduce agli ascensori: io inseguo lui, e la polizia insegue me.
Grandioso.
Stringo i denti: la fatica della corsa comincia a farsi sentire. Riesco a vedere il mio bersaglio che si fa largo tra la folla a suon di spintoni e gomitate, chiedendo “permesso” ormai senza fiato. A suo confronto devo essere una sorta di atleta, poiché a me, per riguadagnare terreno, basta scansare o saltare le persone che lui getta a terra disperatamente. Intanto la polizia sta comunicando via radio richiedendo l’intervento di altre unità. I rinforzi, molto presto, ci sorprenderanno all’ingresso principale.
Il mio soggetto, come intuendo le manovre della sorveglianza, cambia strada e imbocca improvvisamente un tunnel secondario. Mentre curva, noto che tiene il braccio sollevato due dita premute sull’auricolare: mi viene da pensare che stia parlando con qualcuno.
Oppure che qualcuno stia parlando con lui.
Ci sono le scale mobili: per incrociare meno gente possibile, il mio target sceglie di buttarsi contro corrente pur faticando il doppio per mantenere la distanza che ci divide. Lo imito, sorprendendomi della sua incredibile astuzia: da un vagone dell’altra corsia è appena smontata una folla di gente e va ad occupare in gran massa la scala mobile che scende. Se il mio target si fosse avventurato su quei gradini, invece di percorrere quelli che salgono nella direzione inversa, sarebbe rimasto bloccato in quel mare di persone; ed io lo avrei facilmente raggiunto.
Siamo di nuovo al punto di partenza. La polizia che era dietro di me deve essere caduta nella trappola delle scale mobili: io e il mio target torniamo ad essere i frettolosi in mezzo a tanti altri. Certo, la linea metropolitana di Philadelphia non ha confronti con quella newyorchese, ma sa il fatto suo: squilli di cellulare, canti di zingari e voci di persone. Suoni agglomerati in una massa indistinta all’interno delle mie orecchie, dove il tuono più forte di tutti è quello del mio cuore che batte forsennato. I polmoni reclamano aria, le ginocchia pulsano.
Il mio bersaglio spalanca una porta con una spallata, e ne risente di brutto, addentrandosi in un’area non autorizzata ai civili. Continuo a inseguirlo, dubitando che regga ancora a lungo.
Ci imbattiamo in un corridoio che fiancheggia i binari d’emergenza della metro; l’unica barriera tra noi e le carrozze in manutenzione è una fragile inferriata. È buio, si vede a mala pena oltre il proprio naso. Ma finalmente, eccolo, il suono che aspettavo.
Il mio target inciampa.
Lo afferro da terra senza aspettare che tenti di voltarsi e quasi gli strappo via il cappotto. Il peso del suo corpo si fa nullo in confronto alla forza datami dall’adrenalina nelle braccia. Lo schianto contro l’inferriata, gli premo la faccia tra un laccio di metallo e l’altro, convinto che ne uscirà a cubetti come nei cartoni animati. L’auricolare gli cade dall’orecchio ed io lo calpesto: chiunque fosse in ascolto, non ha bisogno di sentire quello che sta per succedere.
“Ti prego, io non c’entro nulla! Hayes, è stato un incidente!”
Dal canto mio approfitto delle sue suppliche pietose per riprendere fiato; lui fatica anche solo a stare in piedi, nonostante buona parte del suo peso netto sia in balia dei miei muscoli gonfi e pulsanti sotto i vestiti. Bramo di spaccargli la testa così come lui ha frantumato il cranio di mia sorella.
“L’hai ammazzata!” gli strillo là dove un tempo c’è stato il suo apparecchio elettronico. Lui, gemendo terrorizzato e appellandosi al Signore, deve aver capito di essere inciampato al cospetto della persona sbagliata.

.: DUE ORE PRIMA :.

Nella penombra della stanza, il telefono squilla a vuoto tre volte. Poi, con un bip, parte la segreteria:
“… Arder, ciao, sono Derek. Io ti chiamo, come mi hai chiesto quando ci siamo visti all’ospedale, ma tu non rispondi, non rispondi mai… dai, cazzo, alza la cornetta, lo so che ci sei! Ma immagino che tu abbia i tuoi buoni motivi per non farlo.” Azzarda una lunga pausa che costerà cara alla bolletta di entrambi. “Quelli del seminario, dopo che te ne sei andato, mi hanno chiesto di tenermi in contatto con te. Vorrebbero che tornassi nel gruppo, sapere cosa stai passando aiuterebbe soprattutto gli altri. Arder, vuoi aiutare gli altri?” Un’altra pausa, più lunga e intensa della prima. “Smettila di pensare a lei; Arder, lasciala andare, così non l’aiuti. Anche a me manca moltissimo, ma non possiamo farci niente. La vita va avanti. Non è stata colpa tua, ricordatelo.” La terza pausa è la peggiore in assoluto: è sbagliato far correre troppo tempo tra una parola e l’altra. “Senti, io devo andare. Chase ha una partita sta sera e ci ha rimediato un paio di biglietti, volevo dirtelo prima, ma Litz ha insistito a darti più tempo. In ogni caso, dubito che la tua agenda sia così piena da non poter rimediare sull’ultimo momento, perciò… perché non vieni con noi? Seriamente, Arder, quant’è che non ti fai una doccia ed esci di casa?” ride isterico. “Lo sento che puzzi più di un giocatore di football al termine dei play-off. Scommetto che sei sdraiato su quel divano da due giorni e la tv è ancora accesa. Sei mio amico, Arder, ti conosco troppo bene; ricorda anche questo. Ciao.”
Su un paio di cose il mio amico Derek aveva fatto centro.
Sì, il mio nome è Arder, ma immagino che a voi simili confidenze diano quasi fastidio e perciò esigiate una versione più completa e ufficiale delle parole dette al mio battesimo. Sulle copertine dei libri che non pubblicherò mai sta scritto Oliver McCartney: lo pseudonimo: la più grande presa per il culo che uno scrittore possa fare al mondo.
Per i confidenti come voi, dato che ora vi racconterò la mia storia, sono Arder Hayes.
Un altro punto al mio caro amico Derek, per aver indovinato che questa sera - ricordo solo nel mese di settembre - sono sdraiato a pancia sotto sul divano del salotto, reduce di una staffetta cinematografica alla televisione ancora accesa. Le porte del bagno varcate unicamente per svuotare la sacca; lo specchio rotto di quando mi ci sono scagliato per sfogare un po’ di quella rabbia che ai seminari di riabilitazione cercano di assopire dentro di te, ignorando il fatto che nel momento in cui esplodi, dopo aver accumulato tanto odio, fai seriamente male a qualcuno.
La settimana scorsa sono stato vittima di un incidente d’auto assieme a mia sorella Kate, l’unica di noi due sfigati a non essersi salvata. Ho perso una sorella che non avrei smesso a lungo di rimpiangere, scoppiando in lacrime, all’improvviso, dietro al divano, sdraiato sul pavimento del bagno oppure mentre lasciavo il frigo aperto e fissavo il baratto di cetrioli sott’olio – che a lei piacevano tanto. Ma sapete qual è stata la merda più grossa di tutta la faccenda?
Non ottenere giustizia.
Le cose sono andate così…
A notte fonda mi ero ripromesso di passare a prenderla alla seduta di riabilitazione; volevo vederla dopo già qualche settimana che non ci sentivamo più, ma, arrivato in ospedale, i suoi compagni mi hanno detto che non si era mai presentata all’incontro. La prima cosa che mi è venuta in mente di fare è stata quella di chiamarla; ascoltando la sua voce mi sono permesso un sospiro di sollievo: avevo seriamente pensato che avesse deciso di lasciare la città senza informarmene. Kate si è scusata dicendo che aveva avuto un impegno più importante e che potevo lo stesso rendermi ancora utile, continuando il servizio taxi verso casa di un amico. Parcheggio, portone, citofono… non ho neppure voluto sapere cosa fosse andata a fare in quella casa; montati in macchina, ho attaccato una ramanzina che Kate, se ne avesse avuto il tempo, mi avrebbe rinfacciato di averla copiata a qualche film in cui il fratello maggiore crede di poter sostituire il padre di famiglia. Io e Kate vivevamo nella considerazione di essere orfani; l’unico tra i due che avrebbe potuto ricordare qualcosa sui nostri genitori sarei dovuto essere io, ma mia sorella non mi ha mai perdonato il fatto di saperne quanto lei. Quando ci abbandonarono sulla strada, era appena una neonata e aveva sei anni meno di me; ormai adolescente aveva preteso spesso che gli raccontassi qualcosa, un particolare degli occhi, se uno somigliava all’altra, cose così… ma la mia materia aveva preferito tener fede al suo nome e rimanere grigia. Spenta. Assente. Forse avevo rimosso per il dolore, chi poteva dirlo? Dopotutto era stato un grande shock anche per me, ma questo ad una diciassettenne che mette se stessa al centro del mondo non poteva minimamente importare.
“Devi smetterla di fare sega a quei seminari come se fossi ancora a scuola!” le ho gridato cercando di guardare la strada, ma c’era il bisogno di voltarmi e ammirarla imbronciata, semplicemente per incontrare il suo sguardo pentito. Ogni tanto mi distraevo dalle strisce e acceleravo tardi ai semafori, beccandomi i clacson delle macchine dietro.
Lei taceva. Magari non sapeva che dire, magari era dispiaciuta, o magari sapeva benissimo quanti e quali insulti vomitare, ma preferiva non mandare a quel paese suo fratello. Almeno non ancora.
“Quella gente vuole aiutarti, Kate, apri gli occhi! Sei giovane e ti stai rovinando la vita con queste!” le ho strappato la confezione di sigarette dalle mani prima che riuscisse ad accenderne una. Quand’era nervosa, come tutti i fumatori a questo mondo, le passava subito per la mente una chiara immagine di sollievo, soddisfazione, droga che io non le avrei mai permesso di assecondare in mia presenza. Afferrato il pacchetto, l’ho gettato fuori dal finestrino.
Non l’avessi mai fatto.
“Stronzo, costano!” mi ha sputato addosso quelle parole con un tale furore da farmi rabbrividire. È stato come se avessi appena rubato l’anello alle dita di Smigol.
Nel bel mezzo della litigata, un pazzo furioso ci è venuto addosso col suo furgone da trasporto; ci ha sbalzati entrambi fuori dall’abitacolo, riducendo l’automobile ad una lattina, e ha sostenuto poi che Kate fosse alla guida. Il camionista se l’è cavata senza un graffio (strano, eh?) e in tribunale ha insistito col dire che mia sorella, completamente priva di fiducia in se stessa, donna disperatamente affondata nell’ alcol e nel sesso sfrenato, era a quel fottuto volante e gli aveva tagliato la strada. Ha tirato fuori pure due testimoni, difficili da smentire quando vieni classificato “pazzo, paranoico e allucinato scrittore depresso”.
Dannato camionista… dannati tutti i camionisti! ho pensato precedendo corte e giuria che si alzavano e lasciando l’aula del tribunale. Derek quel giorno era al mio fianco e ha provato a farmi ragionare, per la prima volta, con scarso successo.
Inutile negarlo: Kate non se la passava bene. Tutto quello citato di lei in tribunale è vero: beveva, e troppo; scopava, e troppo spesso e con persone sempre diverse. Alle volte, forse per divertimento, li portava nel mio appartamento senza dirmi nulla. Quando rientravo dai miei viaggi all’estero, alla ricerca d’ispirazione, trovavo la birra nel frigo finita e le lenzuola ancora umide e sfatte. È stato allora che la mia aiutante delle pulizie ha dato le dimissioni, rifiutandosi di prendere parte ad una perversione del genere.
Kate avrà frequentato i seminari sì e no due o tre volte e mai fino alla fine. I compagni del suo gruppo sono brave persone, gente che desidera ardentemente fuggire dalla dipendenza e spendere soldi in qualcosa di sano come, che so, in un cheesburger, invece di deviare per il tabacchi o il bar.
Ancora oggi non capisco perché mia sorella si ostinasse tanto a non voler guarire. Non le piaceva essere chiamata malata, non riusciva a convivere con se stessa e la condizione in cui era sprofondata di sua volontà, ma sapeva di star facendo qualcosa di sbagliato e di dover rimediare. Chi lo sa… forse per pigrizia o forse per testardaggine, quando provavo a rinfacciarglielo, lei mi malediva e si chiudeva in casa.
La verità?
Mi manca. Mi manca pazzescamente. Nonostante non abbia mai fatto niente nella sua breve e miserabile vita per compiacermi, niente che attirasse la mia e non l’attenzione di altri alcolisti o ninfomani, avverto l’assenza del suo corpo come se materialmente ci fosse; come se, invece di starmi accanto, mi pesasse sulle spalle. Giaccio inerme su questo divano da due giorni per colpa dell’anima tormentata di Kate che, dall’aldilà, è venuta nell’aldiquà a sedersi sulla mia schiena e a camminarmi lungo la spina dorsale.
Ultimamente alle sedute psichiatriche con il gruppo di sostegno ci vado io; non ho rimpiazzato mia sorella nella sua cerchia di drogati, no, assolutamente.
Peggio.
Derek ha insistito che prendessi parte a qualcuno di quei raduni hippie con gente imbrogliata dalla vita come me. Il primo ed ultimo incontro risale alla sera dopo quella dell’incidente; poi non sono più tornato.
Ho organizzato un funerale veloce con quattro gatti e ho assistito alla crematura di mia sorella secondo la sua volontà - o più precisamente, secondo il ricordo di un nostro giorno d’infanzia, quando spiritosamente mi disse di voler vivere per eterno in mezzo alle cose degli altri, e non sotto terra come un qualsiasi verme.
Metà delle ceneri le ha volute un’amica di Kate, che conosco con il soprannome di “Lilly”; non posso credere che sul suo passaporto stia scritto davvero così, quant’è vero che il nome completo di mia sorella è Kateline.
Un’altra verità?
Il camionista mente e i testimoni sono falsi. Mia sorella quella sera non era alla guida e qualcuno ha tentato di ucciderci. Se non entrambi, almeno uno dei due era il bersaglio, e adesso gettano sabbia sul fuoco. Personalmente ho ne ho soffiata via un po’, ma ce n’è troppa e ben distribuita. Come dicono i giovani… non mi piglia di portare avanti indagini personali oltre a quelle che ho da poco sospeso: alle spalle di Derek e amici, qualche giorno fa ho lasciato Philadelfia e, dopo averlo rintracciato sull’elenco telefonico, sono stato a New York nella casa del camionista, ma quell’appartamento è risultato vuoto. VUOTO. No mobili, no impianti, no igenici. Invece di pensare che per tutto il tempo ho dato la caccia ad un’identità falsa, mi sono convinto che è in viaggio per lavoro, magari a contrabbandare droga da un continente all’altro col suo maledetto furgone, e ho cambiato strada.
Sono tornato nel mio quartiere e ho scoperto che uno dei due testimoni è un mio vicino. L’altro abita proprio nell’edificio accanto all’appartamento di Kate.
Non ci potevo credere.
Sono andato alla polizia e ho sporto denuncia; insomma, mi sono dato da fare! Ma quelli mi hanno rimandato a casa dandomi ancora del “pazzo e paranoico scrittore depresso”.

Derek ha fatto cilecca: non sto pensando a mia sorella, bensì a chi l’ha uccisa e alla vita che l’è stata strappata ingiustamente. Non era cattiva, non ha mai fatto male ad una mosca, e non meritava di morire in un modo tanto orribile per mano di qualcun altro. Non mi sarei abbandonato a tanto dispiacere se mia sorella si fosse spenta nel suo letto dopo aver ingerito otto litri di tequila e fumato sigari cubani. Se fosse morta felice, nel fare ciò che le piaceva, mi sarei adirato di meno, se non con lei, allora con me stesso.
Forse è come dicono poliziotti e avvocati difensori: sono pazzo, depresso e paranoico. Devo smetterla di scontrarmi di petto con il corso degli eventi e arrendermi alla concezione che è colpa mia, che è solo colpa mia. Tutto.
L’alcolismo, la perversione… sono stato io a crescerla così, sono stato io a lasciare che frequentasse una merda di scuola pubblica invece di mandarla al college. Avrei dovuto trovarmi un lavoro migliore, più fruttuoso, invece di continuare a pubblicare favole per bambini, romanzi storici di 200 pagine al massimo e polizieschi psicologici dalle copertine rosa. Nei miei brevi e sprecati 10 anni di carriera avrò guadagnato quanto racimola un imprenditore in dodici mesi.
La litigata, l’incidente… l’ho costretta io ad andare a quei seminari; se non l’avessi fatto, Kate non sarebbe scappata per evitare l’incontro e magari l’avrei trovata a casa, davanti la televisione, a mangiare gelato. Poi c’ero io alla guida, è stata mia la distrazione fatale. Strappandole dalle mani quel suo ultimo desiderio e gettandolo dal finestrino, ho cancellato il poco di comprensione e compatimento che provavo per lei. Volevo aiutarla, ma forse il modo migliore per farlo sarebbe stato lasciare che percorresse il suo cammino, da sola, restando a guardare. Forse qualcosa di meno violento della morte l’avrebbe fatta tornare sulla retta via.
Dicono che affidare la propria vita nelle mani di un drogato è come dare la possibilità ad un suicida di gettarsi da un elicottero con un solo paracadute: abbandonata la speranza, c’è la certezza che si sfracellerà al suolo. Ma Kate meritava una seconda possibilità, meritava ancora tutta la fiducia del mondo; aveva quel paracadute e l’avrebbe aperto, ne ero certo. Le sarebbe bastato solo più tempo…

Il tuono di una mitraglietta e il rombo di motori mi strappano improvvisamente ai miei incubi, facendomi sobbalzare sul divano, mentre il libro che avevo aperto e poggiato sulla faccia schizza via, finendo tra la roba buttata sul pavimento: l’angente 007 non si smentisce mai nel suo ultimo film, Quantum Of Solace, che trasmettono adesso alla televisione come replica della sera scorsa. L’ho già visto quella volta, ma la scena iniziale dell’inseguimento automobilistico è anche la mia preferita, così mi permetto un’occhiata assonnata al televisore mettendomi a sedere al centro del divano, dopo aver faticosamente sollevato il busto e spostato le gambe dai cuscini.
Dio, mi sento un cassonetto: mi fanno male tutte le ossa, nessuna esclusa, dalle caviglie ai polsi come se le auto dell’inseguimento avessero appena investito un pedone e quel pedone fossi io. I proiettili delle armi mi perforano il cervello, le grida delle comparse sono anche peggio di quelli.
Il collegamento con la notte dell’incidente è automatico: ripenso alle auto che ci scorrevano ai fianchi qualche istante prima, ai semafori e alle strisce pedonali, dove ho visto passare alcuni pedoni il cui viso ricordo sfocato… infine ricostruisco la strada un po’ meno trafficata che ho scelto per arrivare prima – un’altra colpa.
Quando Bond e i suoi inseguitori escono dalla galleria e rivedono la luce, a me balenano i fari del furgone negli occhi, e il solo, unico ed intenso grido di mia sorella, che fino ad allora mi aveva preso a parolacce, copre quello delle comparse. Ricordo di non aver neppure sterzato… il camion c’è spuntato davanti all’improvviso ed io non ho nemmeno provato ad evitare l’incidente. Forse, se l’avessi fatto, l’unico a morire sarei stato io e mia sorella se la sarebbe cavata in ospedale con qualche frattura poco grave. Rivedo ogni dettaglio, assaggio di nuovo il dolore atroce dello schianto; la macchina che rotola e si ferma sul ciglio del marciapiede, suoni e immagini confuse, il battere forsennato del cuore, la bocca asciutta e l’oscurità immonda del coma…
Basta.
Mi dimeno a cercare il telecomando tra le pieghe del divano e lo trovo (al solito) incastrato tra due cuscini. Spengo la televisione guardando passivamente lo schermo che perde corrente. Ho il braccio col telecomando ancora teso e, lentamente, accorgendomi che il cuore mi batte a mille, lo adagio sul tavolino. Chiudo gli occhi e prendo un respiro profondo. Con le mani libere e la mente sgombra mi accorgo che Derek aveva ragione su un’altra cosa: puzzo, e parecchio; nemmeno ho il coraggio di annusarmi un’ascella, per confermare che ad emanare lo sgradevole odore di uno sportivo dopo una partita sono io, e non il sandwich ammuffito e mai assaggiato che mi ha lasciato la mia nuova cameriera sul tavolo da pranzo. Mi viene il volta stomaco se ripenso a quella povera donna che si fa viva in questa topaia tutte le mattine e trova la casa ordinatissima, tirata a lucido, come se non ci vivesse nessuno. Ve l’ho detto, no? Uso il bagno solo per le urgenze e poi torno sdraiato sul mio divano, attorno al quale c’è il caos: bottiglie vuote sia di acqua sia di birra; scarti di vestiti, ma soprattutto, libri. A bizzeffe e dei più assurdi che abbia mai letto, ma dei quali ho raggiunto lo stesso, per costrizione e bisogno, l’ultima pagina.
Tina, la cameriera, entra in casa la mattina alle otto e se ne va alle due del pomeriggio. La pago, ovvio, e anche più di quanto dovrei, ma per non fare un cavolo. Finiti i lavoretti più semplici – pulire il bagno, spazzare camera da letto e cucina – se ne va in terrazza e ciancia al telefono con le amiche: la sento ridacchiare nella sua lingua – peruviana – e fare il mio nome. Mi sa tanto che si è accorta di star facendo soldi facili, poiché mentre lei sgobba per quel poco che c’è da fare, io me ne resto nella mia sfera attorno al divano, non sporcando altro che quella. A me sta anche bene così, può fare come e cosa vuole, ma l’importante è che ci sia quando le chiedo di scendere a comprarmi un’altra cassetta di birra oppure un nuovo libro che devo recensire.
Ecco, un altro punto interessante sarebbe dire che dopo la morte di Kate, sei giorni fa, un amico di Derek è riuscito a trovarmi un posto in un settimanale per ragazzi, nel quale pubblicare qualche recensione di libri per la stessa fascia di età. Il medesimo giorno ho sfuriato in faccia a Derek dicendo che avrebbe potuto pensarci prima. Ho scaricato in parte anche su di lui la colpa per la morte di mia sorella che, se avessi trovato prima quel lavoro, oggi non sarebbe in una benedetta urna, ma a mangiare gelato, con suo fratello, guardando maratone di film.
Mi sbaglio.
Tra me e Kate non c’è mai stato questo genere di confidenza fraterna. Da lei, ecco, non mi sarei mai aspettato un regalo di compleanno tanto quanto un vero sorriso. Le sue tirate di labbra assomigliavano perlopiù a smorfie mocciose, rappresentati solo una parte dello specchio fanciullesco nel quale si sentiva intrappolata, probabilmente, e dal quale ho continuato a desiderare di tirarla fuori.
Derek ha parlato di una partita. Sorrido.
Il suo adorato fratellone in questione, Chase Utley, non è niente popò di meno che il celebre battitore dei Philadelphia Phillies, squadra professionista nelle figurine. Questa sera, se ben ricordo, giocano in casa contro i Florida Marlins come in un settembre del 2006. Sarà una di quelle amichevoli che vanno molto di moda, ultimamente, per sanare vendetta, rivalsa, e la malsana competizione tra le squadre rinvenute dallo scorso MLB, il campionato nazionale, che non si è concluso nel migliore dei modi.
Stropicciandomi il viso mi pungo le mani con la barba sfatta e lasciata crescere. Automaticamente immagino Derek, al mio fianco, nel ruolo della madrina che mi striglia di santa ragione. La cosa mi fa sorridere, notando che il mio intero appartamento è più buio di una camera oscura. Le tende coprono le finestre, nonostante sia solo un tardo pomeriggio. Non accendo una luce da mesi per risparmiare sulla bolletta; la morte di mia sorella è stato solo un altro ottimo motivo per non farlo: nascondersi al modo, forse, è simile al nascondere la propria paura di esso.
Mi sgranchisco le ginocchia e riesco a sollevarmi in piedi: miracolo, stento a crederci di poter ancora usare le gambe! Esco dalla mia “cupola” di caos facendo attenzione a non calpestare la valanga di libri che copre il pavimento come un cerchio perfetto, attorno al divano, e arrivo a guardarmi allo specchio del bagno. Appoggio entrambe le mani al bordo del lavandino.
Sono proprio un disastro… mi dico azionando la doccia e virando sulla direzione camera da letto. Mentre l’acqua scorre nell’altra stanza, seleziono un cambio veloce di vestiti; rovistando un po’ nei cassetti ordinati, nei quali non rovisto da tempo immemorabile, abbino ai jeans la maglietta a doppie maniche con l’insegna dei Phillies e abbandono tutto sul letto, altrettanto impeccabile e nuovo di zecca. Torno in bagno ed è automatico, come se in quella settimana non avessi fatto altro tutte le mattine e le sere: doccia, shampoo, asciugamano attorno alla vita; camminando con prudenza sul pavimento umido, torno allo specchio sul lavandino e scaccio la condensa che vi si è creata. Con un po’ di fatica e buona volontà ritrovo la perduta familiarità col rasoio, che uso più da dieci anni ma che nell’ultima settimana si è sentito un po’ solo. Schiuma, detergente, ma anche spazzolino e dentifricio… torna ad essere tutto come una volta.
Spengo l’acqua del rubinetto riassestando la strumentazione al posto di partenza, mi schiaffeggio le guance e in fine ammiro l’opera conclusa.
Io torno ad essere come una volta.
Avevo quasi dimenticato l’aspetto umano del mio volto. Quegli occhi sottili e verdi, gli zigomi adulti, i capelli frizzanti, di un castano scuro, abbigliati in un taglio medio a dir poco anomalo. Appena avrò tempo, giuro di farmi aggiustare la testa (sia fuori che dentro).
Non so cosa realmente mi abbia dato la forza di alzare le chiappe da quel divano, dove sarei potuto rimanere comodamente straiato ignorando il messaggio di Derek. Forse sono state le sue ultime parole: “Sei mio amico, Arder, ti conosco troppo bene; ricorda anche questo.” Ha detto proprio così.
Sei mio amico.

Glielo devo: presenziare al suo fianco in una nuova vittoria del fratello e della nazione, dargli la possibilità di farmi ancora del bene, dimostrandogli che la nostra amicizia è fondamentale nella mia vita soprattutto adesso che ho più bisogno di conforto, per mia sorella, certo, ma anche per i torti e gli ostacoli passati, presenti e futuri.
Andrò a quella partita: in compagnia di vecchi amici non si ha mai ucciso nessuno.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Πroject Δelta
Capitolo ***

“Sergente, lei crede nella vita dopo la morte?”
“Se ci credessi, probabilmente ora non sarei qui.”
A.H. e C.D.

Lasciarmi alle spalle Derek e gli altri non è stata una decisione difficile.
Diciamo che non lo è stata affatto.
Appena ho riconosciuto la faccia di questo verme nella coda per entrare allo stadio, mentre andava nella direzione opposta, ho cominciato a seguirlo: prima con lo sguardo, poi un passo alla volta, fino a corrergli dietro. All’inizio nessuno dei due andava tanto di fretta; più che un inseguimento vero e proprio, avevo iniziato col pedinarlo. Mi ha incuriosito il fatto che stesse lasciando il John F. Kennedy Stadium prima dell’inizio della partita, ma m’infastidiva ancor più la consapevolezza della sua presenza. L’assassino di mia sorella, l’uomo che ha rovinato a sangue freddo la mia vita senza lasciare traccia di quella di Kate, nella mia stessa area cubica? No, era inaccettabile che la sua ombra fosse tanto vicina alla mia. Ed è bastato questo a far scattare in me una frenetica molla omicida…
“Hayes, ti prego! Un incidente, è stato un incidente!”
“Bugiardo, stai mentendo! Menti su tutto!” lo strattono contro l’inferriata. “Da dove diavolo li hai tirati fuori quei testimoni, eh?! Dalle tue chiappe?! Non c’era nessuno su quella strada a parte te, me e mia sorella, dannazione! Ci sei venuto addosso senza frenare! E Kate… Kate non stava guidando! Con che coraggio hai osato mentire così spudoratamente in tribunale?!” le lacrime m’inumidiscono gli occhi, la collera si mescola pian piano alla disperazione. “Davanti alla giuria! Davanti a me!”
Sto perdendo il segno, ma ormai mi suona stonata qualsiasi altra azione che non sia ammazzarlo di botte. Qui, seduta stante, mentre le mie unghie affondano nella pelle del suo giubbotto e i miei denti sfregano gli uni sugli altri, Preston Anderson, di mestiere camionista, sconterà la condanna che la corte di giustizia non ha avuto le palle di affibbiargli!
Insistendo a dichiarare la sua innocenza, l’uomo chiude gli occhi: in un mondo di codardi sceglie di confondersi nella massa. Gli sferro un pugno, in piena faccia, e assaporo il sangue che dal suo naso schizza a depositarsi prima sul mio viso, poi, con un secondo gancio, anche sulle mie nocche. Il bastardo geme, si dimena contro le mie gambe che intrappolano le sue, oppone una flebile resistenza. Questo gran figlio di cagna potrebbe stendermi al tappeto senza difficoltà, se lo volesse, poiché è abbastanza adulto da rispondere all’offensiva; ma scommetto che la coscienza, quella creatura che Collodi in Pinocchio chiamava “grillo parlante”, gli comanda di incassare i colpi senza ribellarsi, e ripagare così il suo peccato più grande: l’omicidio.
“Confessa, bastardo! Confessa!” lo incito, offrendogli un’ultima possibilità di redenzione, ma neppure io sono tanto sicuro che riuscirò a fermarmi facilmente anche dopo averla ottenuta.
Non sono mai stato un tipo aggressivo. Il classico sbruffone, che ruba le merendine a gratis con qualche cazzotto, a scuola l’avevo anch’io, ma lasciar perdere, accettare le cose come stanno, era una mia caratteristica dell’epoca. Al liceo è filato tutto liscio; frequentavo dei buoni corsi con della brava gente. Allora perché, vi chiederete voi, d’un tratto sono diventato tanto violento? Non provo alcun rimorso per ciò che sto compiendo, alcun disgusto per il sangue altrui che mi pizzica la pelle; sto infrangendo la legge che tutela gli esseri umani e andrò in galera per questo: che fine ha fatto la mia di coscienza? Inoltre, spaccando il setto nasale di Preston, o più semplicemente non riuscendo a far pace con me stesso sulla morte di mia sorella, cosa credo di ottenere? Niente. Perché la verità è che io non ho mai avuto niente per cui valesse la pena lottare. Niente a cui aggrapparmi con le unghie, niente da tenere troppo stretto, niente che non fosse Kate; e adesso che addirittura lei è uscita dalla mia vita, le mani vuote bramano qualcosa con cui compensare quella mancanza: sangue.
La perdita di mia sorella è stato semplicemente un nuovo avvertimento: la mia e la vita di chi mi circonda stava andando allo catafascio, ed io, come facevo da bambino quando Jakson rubava le merendine, sono rimasto a guardare.
Perciò ho inseguito Anderson nella metropolitana e l’ho costretto con le spalle a quest’inferriata; perciò continuo a macchiarmi la maglietta dei Phillies con il suo sangue riducendogli la faccia in poltiglia: sento di poter riscattare una minima parte di me stesso, una minima parte di tutto ciò che non ho mai concluso, o addirittura mai incominciato. Se finirò dietro le sbarre per aver riscattato l’anima tormentata di mia sorella, che né in questo né nel prossimo mondo troverà mai pace, ben venga: non mi tirerò indietro come ha fatto questo pezzente prima di me, non mi nasconderò dietro a bugie, illusioni o falsi testimoni; pagherò il prezzo delle mie azioni, che per me sono state sensate, le più sensate tra tutte, e guarderò in faccia la giustizia per quello che è: uno spietato organo di governo incapace di fare distinzione tra il bene e il male.
Lo lascio andare lentamente, e fisso il vuoto di fronte ai miei occhi gonfi di lacrime e sgranati dal furore, mentre lui si accascia tra i miei piedi. Tossisce sangue sulle mie scarpe: è vivo, ma poiché ha le narici intasate, respira attraverso la bocca, ansimando. Arriva a coprirsi il volto con una mano: sfiora con dita tremanti la propria linfa purpurea. Ora magari, con quello sguardo da catalettico, vorrà farmi credere di non aver mai visto tanto sangue in vita sua. Ma come? Uno spietato assassino del suo calibro spaventato da quattro gocce di sangue? Stento a crederci…
“Ti prego…” m’implora, supplichevole ed umile peggio di un verme. “Ti prego…” ingurgita saliva e sangue assieme allontanandosi, strisciando, da me. “Ti prego, Arder, devi credermi…”.
Già che pronunciasse il mio cognome con tanta nefandezza mi faceva saltare i nervi. Se adesso osa anche rivolgermisi per nome, allora si diverte a tirare la corda.
Stringo i pugni umidi lungo i fianchi, con la coda dell’occhio l’osservo allungare un braccio nella mia direzione. Mi sfiora i bordi del pantalone, appellandosi alla mia pietà, ma io porto indietro la gamba trattenendo l’impulso di rispondergli con un calcio: dopotutto, la sua faccia insanguinata è a portata delle mie nocche tanto quanto a quella della mia suola.
“Ho una figlia…” sussurra. Sputa altro sangue. “Ti prego, Arder, ho una figlia” ribadisce.
Codardo, penso. Osa nascondersi dietro altre bugie pur d’impietosirmi. Ah! Ci sarà anche riuscito, ma non esattamente nel modo che si aspettava: ora mi fa il doppio del rigetto. Se ammazza le famiglie degli altri, non posso immaginare che inferno sia avere lui come padre.
Digrignando i denti sono pronto a fargli assaggiare la punta in gomma bianca delle mie Converse, quando, per sua ultima speranza, Preston estrae il portafoglio da una tasca interna del giubbotto.
Ora tenta anche di corrompermi? Questo è il colmo!
“Non li voglio i tuoi sporchi soldi da mercenario!”
A quelle parole Anderson sgrana gli occhi.
Forse “mercenario” non era la parola più adatta, nonostante in qualche strano modo ne sia stato sollecitato. Preston non ha ucciso mia sorella né per denaro né per errore: l’assassino che mi striscia ai piedi non è altro che un folle omicida senza scrupoli; un pazzo che uccide per diletto, nascondendo i suoi misfatti alla giustizia con un buon avvocato e testimoni immaginari, semplicemente per ricominciare indisturbato il giorno dopo.
Convinto di ciò, ignoro il suo inquieto stupore piantandogli un calcio in piena faccia. Lo rivolto come una frittata. Il portafoglio gli schizza via dalle mani e finisce a terra nel raggio di una luce d’emergenza.
“Dannato, dove la trovi una donna disposta a concepire altri bastardi?!” grido guardandolo contorcersi tra le mie caviglie. “In quell’ambiente tutto vostro, tra ex carcerati, alcolisti, drogati e assassini, solo una buona donna può essersi data a te!”
Potrei continuare per ore, riempiendo di fango il suo orgoglio d’uomo, ma m’interrompo all’improvviso; il mio sguardo è stato catturato da una fototessera infilata nel taschino trasparente del portafoglio di Preston, che è finito per aprirsi mentre volava in aria e cadeva in terra. Sull’istantanea, di vivaci colori, dimora il fanciullesco sorisetto sdentato di una bambina dai capelli biondi, acconciati in due trecce dorate; occhi piccoli, verdi, stretti nel gesto di sorridere giocosamente a 32 denti.
Stavo per ammazzare suo padre…
“Si chiama Ashley…” la voce di Preston, ridotta ad un gorgoglio, s’insinua nel mio padiglione auricolare come uno spillo. “Ha tre anni” aggiunge sollevandosi su un gomito. “I servizi sociali l’hanno presa in affidamento quando è morta sua madre, dodici mesi fa. Questa foto me l’ha mandata la sua assistente la settimana scorsa, assieme ad una missiva che mi vietava di vedere ancora la mia bambina. Dicevano di averle trovato dei buoni genitori, una coppia giovane e benestante, e che perciò avrebbe dovuto dimenticarsi di suo padre al più presto…” racconta mentre, allungando il braccio libero, afferra il portafoglio sul pavimento. Con dita tremanti, estrae la fototessera dal taschino trasparente. Si sistema con le spalle all’inferriata e ammira, in un sorriso commosso, il volto della sua bambina giusto qualche istante, prima che un duetto di lacrime gli scivoli sulle guance, pulendole dal sangue secco. Tira su col naso, ma ne risente dolorosamente: devo avergli frantumato una buona parte di osso, oltre a rovinargli le cartilagini.
Trascorrono alcuni secondi di silenzio: io in compagnia del mio emarginare me stesso, delle mie illusioni, della mia superficialità e dei miei errori; lui della sua foto, della sua coscienza, della sua vita e del ricordo della sua famiglia. Poi, d’un tratto e come risvegliatosi da un sogno, Preston alza in mento dal petto e mi guarda dritto negli occhi. I suoi sono gonfi e arrossati, i miei tondi, ingigantiti, solcati da occhiaie profonde, specchio della mia anima capovolta. Quel che è rimasto della mia ira animalesca si placa lentamente: il confronto con la realtà, il faccia a faccia con il volto angelico della figlia di Preston mi ha restituito un po’ della mia umanità perduta.
“D’accordo, senti” comincia, interrompendo i miei monologhi interiori. “Visto che hai distrutto il mio auricolare e loro non possono sentirci, lasciami spiegare le cose come stanno, Arder, e forse almeno tu ti salverai”.
Adesso sono più confuso che mai. “…Eh?”
Nonostante abbia sfiorato un tasto anomalo della tastiera, Preston sembra serio mentre ripone la foto di Ashley nel taschino trasparente, pulendo la pellicola dal sangue. Rimette il portafoglio nel giubbotto e apre bocca per spiegarsi, ma la luce di due torce invade l’oscurità.
“Fermi dove siete, polizia!” le parole di un giovane uomo rimbombano nella galleria. Preston, seduto a terra, non evita di bestemmiare.
Le mie intimidazioni e le suppliche a voce alta di Anderson devono aver comunicato agli agenti la nostra esatta posizione nonostante l’oscurità circostante. Gli sbirri ci hanno trovato e vengono verso di noi con le canne delle pistole ben in vista sotto le torce.
“Arder, sono loro, devi scappare!”.
Di nuovo quel “loro” molto ambiguo. Possibile che non si riferisca alla sorveglianza come inizialmente credo?
“Mani dietro la testa! Non muovetevi!” sono in due. La luce di una torcia si posa su Preston, accecandolo. L’altra mi cerca.
“Arder!” m’incita il camionista, alzando un braccio. “Li trattengo io, ma tu scappa!”.
È redenzione quella che cerca? Vuole conquistarsi la mia benevolenza offrendomi il suo altruismo anche dopo aver fatto fuori mia sorella? Un po’ incoerente da parte sua, lo ammetto, e sono stupito.
Un semplice pensiero si rimangia tutti gli altri: io in prigione non ci finisco!
Scappo.
Uno sparo.
E per lo spavento, siccome qualcuno lassù mi odia parecchio… inciampo.
Preston impreca e batte la testa contro l’inferriata.
“Dove credevi di andare, eh?!” uno dei due poliziotti mi si fionda addosso mentre, disperatamente, provavo a rialzarmi e a scappare. Lui, un armadio, mi acchiappa per le spalle e mi tira indietro, costringendomi poi seduto a terra.
“Sono innocente!” è la prima cazzata che mi viene in mente. “Non potete arrestarmi! Non ho fatto nulla!” è la seconda.
“E quello sulle mani cos’è, ketchup?” ridacchia il poliziotto.
“Voglio un avvocato!” e tre.
L’altro pubblico ufficiale ha stretto le manette ai polsi di Preston. Il camionista lo lascia fare, mi guarda scuotendo la testa, schifato. Io, con una guancia premuta a terra, non so che dire, fare o semplicemente pensare.
Sono innocente… mi ripeto, sono io la vittima! Quello stronzo ha ucciso mia sorella, dannazione! Comincio a dimenarmi. I miei diritti… digrigno i denti. Dove sono i miei diritti?!
Rotolo su un fianco spostando di peso me e il poliziotto. Faccio per alzarmi, liberandomi dalle manette ancora aperte attorno ai polsi. L’uomo mi si scanna contro col doppio della foga e mi stordisce colpendomi alla tempia con la torcia. Ricado a terra con la vista annebbiata, agonizzante. Un dolore atroce mi attraversa tutto il corpo, salendo e scendendo la spina dorsale infinite volte, ma il vero e proprio vulcano in eruzione è il punto colpito sulla fronte, che pulsa dolorosamente.
Le voci sbiadiscono, quella poca luce si assottiglia. Il battito del mio cuore rimbomba nelle orecchie, i suoni ovattati.
Qualcuno, forse l’altro poliziotto, quello più giovane, riprende il compagno a parolacce.
“Bravo idiota! Sean s’incazzerà di brutto. Il Cacciatore doveva essere operativo già da questa sera!” gli dice.
“Allora lo sveglio subito!”
Mi scuote, ma non serve a molto.
“È andato” sbotta lasciandomi cadere disteso sul pavimento.
Ad un tratto il poliziotto più giovane entra nel mio campo visivo. Guardandomi dall’alto mi punta la luce della torcia negli occhi. Io, accecato ma tanto che vedo tutto sfocato, non riesco a distinguerlo bene in faccia. Lui mi osserva a lungo, in silenzio.“Me lo immaginavo diverso…” commenta, “e più furbo.”
Poi svengo.






.:Angolo Autori:.
Ringraziamo Josie_n_June, SophyTheWhiteDragon, comix e lily117 per aver recensito il capitolo precedente ed espresso il loro apprezzamento (che, in particolare cartacciabianca, non riteneva possibile). Burdok 95 per aver aggiunto la fan fiction alle preferite e Ama_ anche alle seguite.
In questo piccolo angolo dedicato a noi autori, ci teniamo a comunicarvi che d’ora in avanti i post più corti di quelli che avete letto fin ora. Si tratterà di 4 pagine massimo per ciascun capitolo. In quanto a trama, siamo ancora solo all’inizio.
Siamo però contenti che l’intreccio e le idee inizializzate in questa storia vi stiano piacendo. Speriamo di non deludervi ^-^
P.S.
A breve spiegazioni sulle frasette corsive all’apice dei capitoli ;)

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Πroject Δelta
Capitolo ****

“Non posso credere che tu tenga così tanto a quello stupido orologio! Cosa ti dicevano i tuoi genitori quand’eri bambino!?”
“Se si fossero ricordati di avere un figlio, intendi? ‘Roland caro, i soldi comprano anche la felicità, e chi sostiene il contrario ha  preso un calcio in culo dalla sua banca di fiducia.’ Adesso ti conviene smetterla d’insultare il mio Rolex.”
A.H. e R.H.

La sala conferenze del quarto piano ha una veduta aerea sulle 190 celle di sincronizzazione. È questo il numero totale di ambienti e pazienti che il Progetto Delta conta nel gennaio del 2012. Per quell’occasione non poco eccezionale le ampie vetrate sono state appositamente oscurate. Le spie degli otto schermi ad alta definizione lampeggiano, ma lo sfondo è ancora nero.
Al tavolo, su comode poltrone imbottite, siedono una dozzina di uomini vestiti eleganti. Sono i più Antichi e radicati Templari moderni conosciuti. La loro presenza è un impegno che l’Abstergo ha preso con il Governo: assistendo alla proiezione in tempo reale della Sessione, i produttori valuteranno gli obbiettivi raggiunti negli ultimi mesi e decideranno se continuare il finanziamento.
Sean Trimarchi è il più elevato dirigente tecnico nonché responsabile, e anche questa mattina indossa un completo formale. È al centro della sala; si avvicina agli schermi LED, scosta la manica e sbircia il suo prestigioso orologio da polso. Gli si avvicina una donna giovane e castana stretta in un completino d’ufficio. Gli bisbiglia qualcosa all’orecchio. Sean annuisce, congeda la donna e batte le mani.
“La Sessione uno delle zero-nove-zero-zero in data zero-quattro zero-uno dodici”, comincia catturando l’attenzione e il silenzio, “avrà inizio tra breve. Mi è giunta notizia che anche l’ultimo dei Soggetti previsti si è unito a noi in questo giorno glorioso, e da ciò è dipeso l’eventuale ritardo.”  
I signorotti si congratulano con il dirigente per il nuovo acquisto.
Sean sorride. Più soggetti equivale a più soldi. “La sincronizzazione, per quanto automatizzato possa essere diventato, resta un processo molto delicato, seppur privo di rischi. I finanziamenti del basso Governo”, s’interrompe sorridendo ad un uomo tra le fila degli spettatori – questi ricambia, “ci hanno permesso di minimizzarne le lacune più profonde. La nostra strada è spianata.”
Segue un applauso generale.
Dal nero più profondo si passa gradualmente ad un bianco accecante. Le otto schermate appese alla parete fondale del salotto conferenze si accendono.
Anche l’ultimo uomo rimasto in piedi trova posto a sedere. Lo spettacolo sta per cominciare. È il tutto esaurito. La prima assoluta dopo tanto faticoso lavoro.

Tutt’attorno la stanza è così buia da farmi credere di galleggiare nel vuoto. Fiuto aria condizionata: è un luogo chiuso. Sono steso orizzontalmente su una superficie fredda e metallica – di conseguenza, dura ed esageratamente scomoda; ne riconosco il materiale attraverso il contatto dei polpastrelli delle mani, mollemente adagiate lungo i fianchi. Braccia e gambe sono rette, spalle e scapole fanno un dolore atroce. Il ricordo del colpo alla testa mi esplode di nuovo sulla nuca, che poggia rigidamente su un apposito avvallamento del lettino. A questo punto ricostruisco, a mo’ di puzzle, la sequenza del mio rapimento.
Mia sorella è morta in un incidente qualche settimana fa, credo – sempre se non sono stato surgelato e lasciato scongelare fino all’anno 3000. Inseguivo un uomo nella metro, ma non ricordo per quale motivo. Due tizi mi hanno sorpreso che avevo le mani zuppe del suo sangue. Mi è sembrato di vivere un incubo: mi hanno inchiodato al pavimento, spacciandosi per poliziotti. Come solo un pazzo avrebbe fatto, mi sono ribellato e la rissa deve essere finita a mio svantaggio, a quanto pare.
Davanti al mio naso scorre, da un orecchio all’altro, una sottile lastra di vetro. Questa si accende gradualmente, come quella di un vecchio televisore, catturando la mia attenzione. La luce sprigionata m’illumina il viso di un colorito latteo, mettendo in risalto il verde smeraldo degli occhi. Il bianco cresce d’intensità fino ad avvolgermi per intero.
Ho un debole moto di paura.

Due voci, l’una femminile e l’altra maschile, si alternano nella mia testa:
“Amplesso delle funzioni?”
“Regolare.”
“Stimoli organici?”
“Bassi.”
“Stimoli nervosi?”
“Ben oltre la norma.”
“Sempre la stessa storia”, sbuffa lei. “Non fare quella faccia. È la sua prima volta, lo sai benissimo”, taglia corto. “E poi un pizzico di adrenalina renderà la Sessione più eccitante. Status?”
“Disattivo. Samantha, dovremmo lasciarlo stare. Le funzioni sono tutte sconnesse. L’Animus andrà in surriscaldamento prima del tempo e dovremo abbandonare la Sessione a metà.”
“Vuoi dirglielo tu a Sean che il suo Cacciatore è in panchina?”
L’altro tace.
Lei sbuffa. “Alex, rilassati: è solo un giro di prova!” lo deride. “Perciò mettici on-line e non azzardarti a chiudere gli occhi.”
“Ma sarà una carneficina…” protesta lui.
“Apposta” ghigna quella.
Se prima ho pensato di essere fuori dalla schermata, adesso ho quasi totalmente la certezza di esserci dentro. Non sono più disteso, bensì in piedi. Sento le braccia penzolare verso e le gambe premere su un pavimento invisibile. Posso muovere la testa: spazio con lo sguardo tutt’attorno nel candido e infinito celeste luminescente che mi avvolge. La conclusione più ovvia risale il midollo e arriva al cervello: sono solo in quest’universo surreale per quelli che mi paiono chilometri e chilometri di semplice nulla. Mi guardo le punte delle scarp…
Ok, niente scherzi: chi e dove ha nascosto le mie Converse?
Ai piedi ho un paio di schernirei medievali che salgono fino al ginocchio. Anche i jeans sono spariti, venuti a sostituirsi con delle braghe striate di colore grigio e violetto. Il tessuto avvolge le cosce in modo ingombrante, facendole sembrare - come me le vedo io dall’alto - due prosciutti. A questo punto mi accorgo della mantella grigio fumo che mi grava sulle spalle. Ricade sulla schiena e penzola con leggerezza dietro alle ginocchia, spaccandosi.
Dio Santissimo…
Do una rapida occhiata al farsetto e alla giubba. Impallidisco nell’ombra del cappuccio ricamato.
Ho le labbra sigillate e l’unico suono è quello dei miei pensieri.
CHE DIAMINE STA SUCCEDENDO?!
“Prova, prova.”
È la voce femminile di prima.
“Prova, prova; uno, due, tre, prova. Ma porca cortigiana! Proprio a noi dovevano assegnare la cella con la comunicazione difettosa? Domani mi faccio spostare al settore C08”, si lamenta la donna. “Arder, mi senti?”
Chi diavolo sei?!
“Sì, ti ha sentito” commenta amaro l’uomo.
“Alexander, per Dio, lasciami lavorare!” sbotta lei nervosamente. Torna a rivolgersi a me con più calma: “Soggetto, ripassiamo un paio di fondamentali e poi possiamo cominciare l’addestramento. Sii paziente.”
Soggetto?… Cosa vuol dire? Addestramento?… Ehi, dimmi chi sei! Dimmi cosa ci faccio qui! Cosa succede?! Dove sono i miei vestiti!?!?
“Avanza.”
EH?!
“Arder Hayes, Soggetto Cacciatore, avanza o ti spezzo quei prosciutti che ti ritrovi!”
Sentono quello che penso…
“Genio! Ora cammina, forza!”
Non posso, sono blocc…!
Mi rimangio tutto: in qualche strano modo i miei piedi hanno cominciato a rincorrersi, portandomi avanti poco alla volta con passo sempre più serrato. Il ritmo cresce, fino a diventare una corsa lenta. Percorro due, tre centinaia di metri, ma non sono per niente stanco. Avanzo verso l’infinito su un pavimento invisibile. Attraverso nubi biancastre, non sento né caldo né freddo.
“Fermo.”
La donna mi detta quel nuovo comando: il corpo, contro la sperduta volontà del padrone, esegue alla lettera.
“Richiama la mano armata.”
Mano-ché?!
Un inatteso fruscio metallico spezza il silenzio; una lucida lama d’argento emerge dal mio polso facendo il filo alle dita della mano sinistra. Vorrei gridare, ma le labbra sono ancora incollate. Allontano il braccio armato da me, stendendolo orizzontalmente in asse con le spalle. Una punta del genere potrebbe segare una crosta di parmigiano, o addirittura entrare senza sforzo nella carne umana…
“Soprattutto la seconda.”
Rabbrividisco. Per un nuovo ordine silenzioso della donna, e con uno scatto, la lama rientra nella sua custodia. “Ottimo, in caso d’emergenza i comandi remoti funzionano. Durante la sessione, però, starà a lui padroneggiarsi”, ridacchia.
L’uomo sospira. “Il battito cardiaco scende. Si sta abituando. Dai, cominciamo.”
“Speravo che lo dicessi!”
Precipito.












.:Angolo Autori:.
Un piccolo post di due tre e mezza per vedere cosa ne pensate di questo assaggio di Sessione :3
Abbiamo notato con entusiasmo il numero di lettori e recensori crescere sopra alla media. Ebbene, vi amiamo e vi citeremmo tutti, ma per motivi di forza maggiore ci limiteremo ad una sorta di “ringraziamenti generali.”
Il nostro giovane Cacciatore si risveglia in un “sogno”, come lo chiamerà più avanti, ovvero in quella cortina biancastra caratteristica del caricamento. Durante l’attesa, però, abbiamo voluto inserire nella “mente” di Arder - attraverso un collegamento auricolare esterno - due personaggi di nostra ulteriore invenzione, il ruolo dei quali scoprirete solo leggendo (o magari avete già intuito.)
Abbiamo sbirciato al 4° Diario degli Sviluppatori non senza stupirci per primi. L’Esercito di Templari che l’Abstergo sta facendo sorgere nella nostra Fan Fiction è ufficialmente parte integrante del gioco, ovvero sfondo o caratteristica del Multiplayer. Quando Cartacciabianca ebbe in sogno la prima Sessione di Arder, non immaginava che la Ubisoft stesse davvero… Insomma, ci siamo capiti? Involontariamente i The Guardians hanno anticipato la Ubisoft. Non è loro intenzione vantarsene, ma hanno lo stesso il cuore pesante.
Project Delta, come evidenziato nella prima parte di questo capitolo, è la SPERIMENTAZIONE del vero e proprio Progetto Abstergo. Le 190 celle di sincronizzazione sono… come dire?… test, prove… perciò la trama si arrampicherà in un periodo ipotetico tra la fine di AC II e l’inizio di Brotherhood. E questo perché…
Noi non possiamo spoilerare altro! Diteci tutto nelle recensioni :)

P.S.
R.H. sta per Roland Hamilton, uno dei personaggi creati per la storia ai quali cartacciabianca si è affezionata di più. 
Vediamo se ci arrivate da soli… chi potrebbe mai essere? ;)

Alla prossima! :D

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Πroject Δelta
Capitolo *****

“A volte mi chiedo… perché io? Di tanti altri come me, di tanti altri migliori di me… Ma la loro risposta è sempre uguale: siamo speciali, siamo unici, e hanno speso tanto tempo per trovarci. In cambio non ci promettono né ricchezza, né fama; questa è la loro garanzia: farci sentire importanti. Farci sentire potenti.”
E.P.

Respiro a pieni polmoni: l’aria è fresca, genuina; sono all’aperto. Aspetto ancora un po’ prima di aprire gli occhi, mentre suoni e sensazioni convergono al cervello. Un tiepido sole mi riscalda il viso, una brezza leggera attraversa il tessuto del mantello e m’inclina con delicatezza verso destra. Delle voci in lontananza mi collocano in prossimità di un centro affollato.
Dischiudo le palpebre.
Dovunque io mi trovi in questo momento, si annuncia con l’atmosfera irreale di un sogno che va costruendosi: bianchi nastri luminescenti cadono a picco sul terreno seminando la texture di quella che assume, a tutti gli effetti, le sembianze di un’antica cittadella rinascimentale. Pareti, pavimenti e soffitti nascono sotto al mio naso concludendo la loro opera di creazione mille passi più avanti. L’orizzonte scompare inghiottito da palazzi in pietra non più alti di quattro piani. Tra i tetti di tegole sta sorgendo la sagoma di un’enorme cupola di pietra, il cui complesso architettonico di base è nascosto dietro le file articolate e irregolari di bassi edifici.
D’un tratto il sole scompare, e mi accorgo di essere stato rinchiuso nell’ombra di due palazzetti emersi dalla terra. Nel vicolo c’è spazio sufficiente per una coppia che si tiene la mano. Sul fondo, dove pochi metri più avanti la stradina sfocia sul corso principale, colgo delinearsi le sagome sempre meglio distinte di gente che passeggia. I dettagli aumentano, fino a farmene distinguere l’abbigliamento di ciascuno.
Istintivamente avanzo. Raggiungo la fine del vicolo e mi fermo ad ammirare cosa mi circonda. Un cielo limpido, terso, tipicamente invernale delle rare e belle giornate. Avanzo ancora, fino al centro della strada, guardandomi attorno incredulo e sperduto.
Pieno medioevo, se così possiamo intenderci. Tutto, dall’architettura dei palazzi ai vestiti della gente, mi fa pensare a quel periodo di mezzo della storia antica europea, mai studiata così a fondo da poterne imitare tanti dettagli in un solo sogno. Dunque non sto sognando.
“Chi ha mai detto il contrario?”
Sobbalzo. La misteriosa donna fuori campo (dallo spiccato senso dell’umorismo) torna a farmi visita.
“Abituatici, almeno per i primi mesi.”
…Mesi?
“O anni, se ti affezioni” scherza lei.
“Lasciagli il tempo di conoscerti, Samantha. Anche se secondo me già non ti sopporta più…”
“Sempre il solito.”
L’uomo si rivolge a me: “Per la tua ulteriore salute mentale, soggetto, non so quanto ti converrebbe richiedere assistenza a lunga scadenza. I supervisori non sono estratti a sorte, potresti averci entrambi incollati alle chiappe per l’eternità, in quanto specificare un cambio di personale è più complicato di quel che credi.”
“Alex, basta, siamo in Sessione.”
“Ho il dovere di dirglielo. Non interferire con la procedura.”
“La procedura rallenta il gioco e posticipa il pranzo. Ho fame, dannazione!”
Accantono i loro discorsi, che rimbombano nella mia testa come se avessi un circuito impiantato nel cervello.
Avanzo pochi metri prima di sentirmi urtare con violenza da un passante. Mi volto imbronciato, ma l’uomo mi ha dato le spalle e si allontana nella folla. Dopo di lui, molti altri prendono di mira, accidentalmente, le mie povere ossa: all’inizio una donna bionda, poi uno strano tizio gobbuto dai lunghi baffi, e in fine un vecchio con una folta barba rossa e il pancione. Mi vengono addosso da tutte le direzioni, instancabilmente, di continuo. L’afflusso di gente è ininterrotto; non sento dolore in risposta alle loro spallate, ma minimo si fermassero a chiedere scusa! Niente, m’ignorano, come se l’area cubica da me occupata fosse liberamente calpestabile. In più, l’unico a subire sia colpo sia contraccolpo, qui sembro io!
Un nuovo passante mi urta con una medesima spallata. Esasperato e ben intenzionato a picchiare qualcuno, mi volto subito a guardarlo con un’espressione che trasmette tutto il mio fastidio. Come nessuno prima di lui e nonostante fosse diretto nella direzione opposta, il tizio si gira verso di me. Il tempo sembra rallentare. Il mio sguardo di rimprovero si vende al puro sgomento.
L’uomo ha il volto coperto da una maschera bianca con un becco ricurvo; i fori per gli occhi sono tondi e rivestiti di lenti scure, sulle quali giocano i riflessi del sole. Indossa un abito lungo, lucido e altrettanto scuro, assieme ad una cintura e una cappa di cuoio sulle spalle, entrambe dall’aria pesante ma resistente.
L’ho fissato a lungo, senza rendermene conto, anche dopo che si era già allontanato nella folla.
Inquietante, penso. Molto inquietante.
“Samantha, quello non era Marcus?” domanda dubbioso l’uomo nella mia testa.
“Improbabile. La Sessione è a circuito chiuso, siamo in addestramento, e gli altri Animus risultano off-line.”
Improvvisamente, con un gran tonfo e piegandosi sulle ginocchia, mi atterra davanti un uomo con un costume uguale al mio. Il tipo si solleva e mi studia in silenzio da sotto il cappuccio, nella cui ombra scompaiono gli occhi e la radice del naso.
E questo da dove arriva? Mi chiedo indietreggiando sgomento. Di nuovo il tempo rallenta il suo corso, ma ‘sta volta fino a bloccarsi del tutto. Piccioni su tetti, passanti e venditori si dipingono in un’istantanea dal carattere apocalittico. Sono l’unico ad avere libertà di movimento in quel complesso immortale.
“È piovuto dal cielo! Che razza di domande fai? Sarà saltato giù da un tetto” spiega la donna come fosse ovvio.
Mi guardo attorno. Nel raggio di cento metri il palazzo più basso ne misura dieci. Stento a credere possibile sopravvivere ad un balzo del genere.
Torno ad osservare l’uomo di fronte a me, immobile come un manichino. Quella sua maschera composta e impassibile mi trasmette angoscia, assieme ai volti e ai corpi criogenati della gente attorno a noi. La magia dura ancora per poco: nel giro di qualche altro secondo il tempo ricomincia a scorrere.
L’uomo mi sorride.
Poi scappa.
“Comunque, nel caso non l’avessi capito, è il tuo target” sbuffa la donna.
Target?
“Vittima, bersaglio, fonte di punti per vincita della partita!” strilla l’altro supervisore, disperato. “Inseguilo, Arder, inseguilo!”
Sulle prime sono titubante. Il mio target si allontana velocemente. Poi la donna nella mia testa minaccia di farmi risvegliare in un’urna ed io parto all’istante.
È una corsa scomposta, la mia. Sto familiarizzando con delle scarpe che non avrei mai immaginato d’indossare nemmeno nei miei sogni più fantasiosi! I calzari di tessuto naturale che arrivano fino al ginocchio non possono competere con un paio di Nike del XXI secolo.
Spallate ed urti coi passanti tornano ad essere l’ordine del giorno. Rinuncio a scansare un gruppo di persone e lo attraverso direttamente a suon di spintoni e gomitate; quando tocco la casacca di un tizio, esortandolo a farsi da parte, non riesco ad assaporarne la consistenza. Il tatto, assieme all’olfatto e alla stanchezza fisica, è un dato di fatto mancante.
Recupero la traccia, il bersaglio è di nuovo nel mio campo visivo.
“Impara in fretta” constata l’uomo.
“E ci mancherebbe. Forza, raggiungilo” mi esorta instancabile lei.
Con uno scatto delle gambe acquisto velocità e dimezzo la distanza per il mio target. Comincio a sperare che da un momento all’altro inciampi.
“Illuso, levatelo dalla testa” mi riprende la ragazza.
In quei pochi metri restanti per agguantare il fuggiasco, mi rendo conto di quanto sia incredibilmente comodo l’abbigliamento che ci contraddistingue dalla massa. La mantella fa il suo gioco aerodinamico, mi sto abituando al sottilissimo tacco degli stivali e le maniche di farsetto e camicia sono morbide!
“Ci sta prendendo gusto!” ridacchia la donna.
Se allungassi il braccio sfiorerei la coda della mantella del mio sosia, ma improvvisamente un ostacolo che non può essere né aggirato né demolito ci divide. Ed io, ovviamente, ci sbatto contro con tutta la faccia - per fortuna senza provare dolore.
Il cancello si è chiuso, come per magia, non appena il mio sosia l’ha oltrepassato. Quello, dall’altra parte delle grate, si volta un istante rallentando la corsa. Mi mostra ancora quel suo sorriso del cazzo, poi si rigira, si allontana nel vicolo mentre un secondo cancello si richiude alle sue spalle e scompare dietro l’angolo.
La rosicata peggiore della mia vita…
“E non sarà l’ultima” sospira l’uomo.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Πroject Δelta
Capitolo ******

“Perché, Dorian, perché?!”
“Lui… deve… sapere!”
“Non quello, non di me, non di lui!”
“E perché, di cosa hai paura, scusa?!”
“…potrebbe accadere… potrebbe accadere di nuovo.”
“Cosa?… Cherish, cosa potrebbe accadere di nuovo?”
C.M. e D.F.

“Non disperare, possiamo ancora recuperarlo” dice la donna.
E come? Sono sconsolatissimo.
“Guarda su.”
Indietreggio e guardo in alto.
“Scala.”
Se potessi, scoppierei dalle risate. Mi prendi in giro?
“Se volesse prenderti in giro, farebbe battutine migliori, fidati” annota l’uomo con una risata.
“Non abbiamo tutto il giorno, scala la parete, Arder, subito!” mi riscuote lei.
Non ho mai preso lezioni di arrampicata in vita mia! Protesto.
“Ma il tuo avatar non ha fatto altro tutta la sua, di vita! Perciò, SCALA!” mi comanda.
Un impulso remoto mi spinge a correre verso la parete e poi sulla parete. È stata lei, la donna, a impossessarsi per pochi secondi di quello che ha chiamato “avatar”, prima di dettare il medesimo impulso: piedi sulla volta dell’arco, mani al cornicione della finestra. Mi isso sulle braccia senza fatica, sfrutto la forza di entrambi gli arti posteriori e anteriori per raggiungere appigli che nemmeno da ragazzino sarei stato in grado di avvicinare. Diventa tutto semplice e naturale; il fiato un po’ mi manca, ma principalmente per stress mentale.
Sono sul tetto.
La brezza, a quest’altezza, soffia prepotente tra i lembi del mantello e fischia nel cappuccio. Spazio con lo sguardo all’orizzonte nel timore perduto di nuovo la traccia.
È davvero questa la fine del sogno più strano che abbia mai fatto?
“E due… non stai sognando!” mi fa notare ancora l’uomo.
Certo che no.
Non ci credo… penso dopo aver finalmente riconosciuto la location di questo sogno assurdo.
“E ci risiamo…”
Non ci sono mai stato dal vivo, l’ho sempre studiata sui libri! La Città Eterna, Rom…!
“Eccolo!” m’interrompe la donna.
Mi volto.
Il mio target mi osserva immobile e silenzioso da sotto l’ombra del suo cappuccio. Sosta, immobile come un palo, sul filo dell’edificio di fronte. Sembra tranquillo: il vento gli increspa la coda della mantella e i merletti dell’unica manica bianca. L’altra, ricoperta da cuoio e acciaio, è distesa rigidamente lungo il fianco.
Ha ancora quel sorriso sghembo e strafottente, mentre a dividerci, questa volta, non sono né grumi di folla né cancelli ferrati.
 “Salta.”
No.
“Abbiamo quasi finito, Arder, mancano pochi secondi. Salta.”
Nei tuoi sogni! Saranno almeno sei metri! Protesto.
L’incappucciato indietreggia, allontanandosi dal bordo del tetto; un baratro di quattro metri di larghezza e otto d’altezza mi separa da lui, che sta per scappare di nuovo.
“Così lo perderai e dovremo ricominciare tutto daccapo” obbietta la donna.
Come se m’importasse! Io NON salto!
Per un lungo istante tutto tace.
“Hai cinque secondi, poi ti metto dietro un PNG molto arrabbiato. Uomo avvisato…”
“Sean ha detto di no” interviene l’altro.
“Me ne frego di cosa ha detto Sean! I miei Pazienti erano i migliori nella classe della scorsa settimana, e non voglio sentirmi dire che l’ultimo arrivo è morto stecchito sul campo per primo! Sono stata chiara?!”
…non potete costringermi a farlo! Li interrompo nel bel mezzo della litigata.
“Oh, sì che possiamo. Non immagini quanto” ride nervosamente lei.
È suicidio assistito! Voglio un avvocato!
“Presto o tardi conoscerai anche quello. Adesso salta.”
Ho detto che non salto!
“Samantha, guarda.”
“Non adesso, Alex, voglio fargli alzare il culo a modo mio, affinché se ne ricordi…” è furente.
“Samantha, aspetta, guarda!”
“COSA?!”
Cala un angoscioso silenzio. Un segnalino rosso si accende sullo schermo.
“Merda…” sibila lei.
“Avevi detto che eravamo isolati!”
Cosa succede? Domando, terrorizzato.
“Arder, giusto?” chiede l’uomo, che fatica a memorizzare il mio nome. “Devi saltare, e alla svelta. Non ci sono scelte più piacevoli, fidati.”
Perché, cos…? Istintivamente mi volto.
Non l’avessi mai fatto.
I passi felini accarezzano le tegole dell’edificio due palazzi dietro al mio. Quand’è abbastanza vicina, ne distinguo le forme femminili, la gonna aperta sul davanti e spaccata dietro. Si ferma sul bordo del tetto, mi osserva da lontano qualche istante, resta immobile.
“Il salto o lei, Arder. A te la scelta…” mormora la voce femminile fuori campo.
Chi è quella? Un altro "target"?
“Ti piacerebbe, vero stallone?” ridacchia l’uomo. “No, Arder” mi smentisce, “lei è la Cortigiana e, a quanto pare, sei tu il suo target.”
Da una parte, dopo un salto di circa quattro metri orizzontali, il mio bersaglio continua a sfoggiare il suo sorisetto provocatorio - la fine assicurata di questo maledetto sogno sarebbe, per l’appunto, riuscire ad acchiapparlo prima che si stufi di aspettare i comodi del mio buon senso e decida di svignarsela.
Dall’altra, una provocante femme fatale: alias, qualcun altro che prova l’irrefrenabile gusto di complicarmi la vita.
Ad un tratto la Cortigiana stende un braccio, si accarezza maliziosamente la pelle nuda e arriva a stringere qualcosa nella zona sotto al polso guantato, teso nella mia direzione.
“Non ci credo, la troia ha sbloccato l’arma da fuoco!” impreca la donna.
ARMA DA FUOCO?!
“Arder, SALTA!”
Il mio subconscio non pensa, agisce.
I piedi si librano nell’aria. In testa c’è il destro, che punta all’estremità del tetto successivo. A mezz’aria faccio due rapidi calcoli e mi accorgo che quel cornicione è impossibile da raggiungere con un solo balzo; e non sto nemmeno a chiedermi come lui ce l’abbia fatta: il mio target continua a sorridere guardandomi precipitare verso terra. Sento un boato. Sto ruzzolando in una strada affollata, appena scampato di pochi centimetri alla traiettoria del proiettile.
Pancia sotto, stremato e poca voglia di alzarmi: come quando è lunedì mattina e la cosa che ti va di meno di tutte è, per l’appunto, alzarti. Aspetto, immobile, che il sogno divenuto incubo finisca.
“Se la sta prendendo troppo comoda” brontola lei.
“Cosa ti aspettavi?” gli replica il saccente ragazzo. “Che lanciasse una bomba fumogena e la stordisse? Stiamo parlando di Cherish! Samantha, per favore… ha fatto la scelta migliore.”
“Soggetto, alza il culo o sarai un bersaglio troppo facile.”
Mi faccio leva su entrambe le braccia. Finalmente in piedi, mi guardo attorno.
Il caos cittadino è costante, nessuno sembra essersi accorto che sono appena piovuto dal cielo. La gente mi sfiora le braccia continuando a camminare sulla strada, come percorrendo, a gruppi più o meno numerosi, binari invisibili.
Sempre più inquietante…
“I PNG non sono il massimo in fatto d’improvvisazione. Col tempo ti abituerai anche a questo e imparerai a sfruttare le correnti della folla a tuo vantaggio” m’informa l’uomo.
“Merda!” impreca Samantha.
Che succede ora?!
“Arder, devi scappare.” m'informa l'uomo.
Di nuovo?!
“Sarà una giornata pesante…” sospira lui.
Quando alzo lo sguardo la vedo. È la donna di prima, rannicchiata sull’orlo del tetto. I suoi occhi sono incatenati ai miei, sfodera qualcosa dal fianco, stende un braccio e abbandona il cornicione con un balzo. La Cortigiana precipita verso di me con una gamba stesa e l’altra rannicchiata; la sua lunga gonna spaccata s’increspa d’aria.
Istintivamente chiudo gli occhi nascondendomi tra i gomiti, anche se sarà del tutto inutile.
Focalizzo la morte: almeno nei miei ultimi istanti di vita, le voci nella mia testa tacciono.
Ad un tratto qualcosa si frappone tra me e i raggi del sole. Irrigidisco i muscoli e digrigno i denti. Sento un frizzante fruscio metallico vicinissimo alla mia carne, poi il gemito screpolato di una voce femminile e in fine un inconfondibile gorgoglio.
Apro gli occhi: per la medesima volta, il tempo si congela.
Vedo il viso della donna che ha tentato di accopparmi balzando dal tetto dell’edificio. I suoi occhi scuri, osservati così da vicino, paiono spenti, vuoti, infiniti, come quelli della gente attorno che continua pacificamente a camminare. Un uomo che mi da le spalle, rivestito di un’armatura luccicante, estrae dal suo ventre il sottile stocco milanese con il quale ha trapassato la donna da parte a parte. La ragazza si rovescia a terra senza vita e giace in una pozza purpurea tra gli schinieri del Soldato. Dopodiché lui rinfodera l’arma, non curante di me, del mio stupore e delle persone che si fermano, applaudendo o inorridendo, di fronte a quella scena raccapricciante. Si allontana tra la folla, preparandosi a confondersi tra di essa. A breve, quando anche i miei occhi si saranno persi nei mille volti del popolo romano, scomparirà così com’è apparso.
Torno, per un istante, a guardare il cadavere della Cortigiana: è contorta in una posa innaturale tra le pietre della strada. E ancora, incessante, l’afflusso di gente scorre attorno a noi come un fiume in piena. Il sangue sembra dannatamente reale…
Improvvisamente un uomo alto, vestito di rosso e col pancione mi cammina davanti per poi proseguire spedito. Impugna a due mani, minacciosamente, un lungo e pesante martello rinforzato. Si sposta velocemente tra la folla, avanzando a larghi passi verso il mio salvatore, che in quel momento, ignaro, dà le spalle ad entrambi.
Il Fabbro impugna a mezz’asta la sua arma e si prepara a sferrare il colpo dritto alla nuca della sua vittima, ancora distratta.
È a quel punto che le mie gambe agiscono per conto loro e il corpo si protende ad allertare il mio salvatore. Il Soldato, percepiti i miei gesti, mi lancia un’occhiata di sbieco. Dopodiché, piroettando a ginocchia piegate, affonda le nocche nel setto nasale del suo quasi-assassino.  
Il Fabbro lascia cadere la sua, di arma, e s’accascia al suolo stordito, in una posa più o meno simile a quella adottata poco fa dalla Cortigiana.
Dopo essersi pulito il pugno dal sangue nemico, il Soldato si gira completamente verso di me e mi fissa a lungo negli occhi.
Che sono sconcertato è dire poco.
Il Soldato, adesso, viene verso di me con una mano sull’elsa della spada e l’altra appesa alla cintura.
Non riesco a muovermi…
Il Soldato estrae la spada.
Non riesco a muovermi! Nessuno sembra sentirmi. Le "comunucazioni" sono saltate o state volutamente interrotte chissà per quale motivo.
Il Soldato sorride.
Perché non riesco a muovermi?!
Ormai vicinissimo, chiudo gli occhi.
Di nuovo il fruscio metallico, un gemito e l’inconfondibile gorgoglio del sangue. Che non senta dolore penso sia normale, ma quando dischiudo le palpebre ho ancora la mascella contratta.
Il sottile stocco milanese ha ferito qualcosa, oltre la mia figura, che sento premermi sulla schiena. La lama è passata nello spazio tra il mio braccio e il mio fianco; ha scansato la mantella e si è conficcata nelle carni di un uomo mascherato dietro di me.
Il Soldato rinfodera la spada senza staccare gli occhi dai miei, mentre l’Arlecchino, che stava per colpirmi alle spalle con due pugnali, si accascia come una marionetta dai fili tagliati.
Ma che cazz…
Precipito.

Una schiera di lotti in cemento e vetro simili ai box di un ufficio, ospita i frutti del massimo sviluppo scientifico. I Templari si sono aggiudicati l’apice della ricerca genetica raggiungendo i suoli di una raffinata produzione industriale di Animi, e ora l’Abstergo può gloriosamente avviarsi verso il suo processo di addestramento virtuale.
La prima Sessione ufficiale, in vista del collaudo, si è conclusa con un festoso applauso generale. Sean sfoggia la sua immensa soddisfazione stringendo la mano ai produttori che, a poco a poco, si alzano dalle poltrone e svuotano il salottino.
Gli otto schermi LED sfoggiano un’ultima volta il multiforme simbolo della Casa Farmaceutica, e poi entrano in stand-bay.
Un ultimo uomo, in disparte, comincia a battere le mani lentamente.
“Davvero un ottimo lavoro”, dice emergendo dall’oscurità. “Una presentazione grandiosamente professionale, sono estasiato.”
Sean, dopo averlo riconosciuto, gli va incontro sorridendo. I due si stringono la mano. “Dottor Vidic, la sua approvazione mi riempie d’orgoglio”, dice.
Il responsabile di grado maggiore, il professor Warren Vidic, squadra il suo coetaneo dalla testa ai piedi. “Spero di poter prendere presto in considerazione la sua iniziativa e agire dall’interno, come supervisore, magari” si propone.
Sean nasconde la gelosia dietro un casto sorriso a 32 denti. “Ne sarei onorato.”
Warren solleva un angolo della bocca. “Si prenda cura dei suoi pazienti, Trimarchi, e loro offriranno la giusta moneta con cui ripagarla. Dopotutto, si tratta ancora di un collaudo, abbiamo bisogno di abbattere quegli… ostacoli che hanno rallentato il nostro treno, dico bene?”
Sean annuisce. In qualche strano modo, per qualche assurdo motivo e a qualche subdolo fine, il dottor Warren ha iniziato a metterlo a disagio.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Πroject Δelta
Capitolo *******

“Il fatto che ti eviti e ti contesti è la condizione tipica delle donne inconsapevolmente attratte da un uomo. È ciò che io chiamo “confronto animale”. La donna vuole metterti alla prova; ti istiga al fine di scoprire se sei degno di lei. Ti ha lanciato una sfida… che se accetti o meno non farà differenza: vorrà umiliarti comunque.”
G.W.


Mi risveglio all’improvviso, gridando. Il mio sguardo allucinato vaga qua e là, valutando il posto in cui mi trovo.
È un’ampia stanza rettangolare, climatizzata e con un vasto pannello di vetro che riflette la mia immagine, su un lato, ma sono troppo lontano per poter vedere su cosa affaccia. Il pavimento è nascosto da una soffice moquette color pelo di topo, mentre il contro soffitto è a larghi pannelli di materiale artificiale.
Senza accorgermene, ho piantato le unghie nei braccioli della comoda poltroncina d’ufficio imbottita, che è diventata ormai calda da quanto tempo il mio culo ci ha trascorso. Esattamente di fronte a me, noto poi, c’è uno scranno ottocentesco intarsiato di ebano e quercia canadese che crea un bel contrasto con l’architettura moderna/futuristica della stanza. Se ne sente ancora l’aroma, nonostante l’aria condizionata circoli con prepotenza mantenendo una temperatura massima di venti, ventidue gradi. Sul tavolo ci sono un avanzato portatile della Apple, in stand-bay, e alcuni volumi. C’è anche un vecchio quotidiano, del quale mi sto allungando a leggere la data e il titolo, ma la pelle della poltrona squittisce al mio impercettibile movimento e….
“Il Lupo si è svegliato.”
Sobbalzo, voltandomi di scatto.
Due grandi occhi grigi mi guardano dal basso. Appartengono ad un giovane faccino dalla pelle bianchissima e il nasino all’insù. Dai capelli neri, lunghi e lisci, spuntano le orecchie a sventola. Le labbra, piccole e rosa, sono tese in un sorriso esagerato. Nell’insieme è una bambina davvero graziosa: indossa un giubbottino jeans sbottonato sopra ad una magliettina rossa con una coccinella disegnata. Una calzamaglia a righe bianche e rosse e una riproduzione in scala 1:2 delle mie Converse. Ma mi accorgo solo all’ultimo che il suo sguardo, fissandomi intensamente, è diverso, è vuoto.
È cieca.
Mi tende la piccola mano. “Tu devi essere Arder.”
Ha una voce dolcissima. Mi ricorda Kate alla sua età…
“Sì,” balbetto, sfiorandole appena la pelle. “Sono io.”
Al contrario, lei mi stringe le dita con forza, sicura di sé e molto professionale. “Io sono Hannah. Benvenuto all’Abstergo.”
A quel punto non dico più nulla, limitandomi ad inarcare un sopracciglio e dimenticare aperta la bocca. Era probabile che alla sua età non sarei mai riuscito a pronunciare senza sforzo una parola tanto difficile come Ab… Abresergo, no. Abtsre…Abtersgo, Ab…
“Abstergo,” mi corregge lei.
Senza rendermene conto, devo aver fatto quei tentativi ad alta voce.
Abstergo Industries, per essere pignoli,” aggiunge senza cancellare dalla faccia quel radioso sorriso. Fa il giro della scrivania saltellando e zompa sulla poltrona, che trova senza difficoltà. Fa un paio di giri su sé stessa finché non mi è perfettamente di fronte. Si mette a braccia conserte e mi fissa.
A lungo.
Impassibile.
Non so se è quella ragazzina, a mettermi paura, o la naturalezza con la quale mi hanno accolto lei e quel posto. Comincio a pensare che è stato tutto un sogno, o addirittura che stia tutt’ora sognando. Finalmente chiudo la bocca e faccio un disperato primo tentativo: mi mordo la lingua.
Non funziona.
Hannah è ancora qui, davanti a me, e ha cominciato a trafficare col computer. Come può usarlo se è cieca? Mi domando. Che qualcuno le abbia insegnato dove stanno le lettere sulla tastiera è anche plausibile, ma che riesca a coordinarsi con le immagini in due dimensioni è… assurdo. Le sue piccole dita arrivano a mala pena sui tasti del mouse. Digita sulla tastiera una lettera alla volta, col solo uso dell’indice. Sembra concentratissima dietro lo schermo che la copre quasi per intero. Parte una canzoncina elettronica e capisco che in realtà sta giocando ad una qualche applicazione.
Mi viene da ridere, e questo mi restituisce un po’ di coraggio. Istintivamente mi volto, pensando che da dove la ragazzina è entrata, io posso uscire. Vedo una grande porta automatica di vetro sul fondo. Faccio per alzarmi, ma la pelle della poltroncina mi tradisce di nuovo.
“Non puoi andare via,” mi dice lei senza staccare gli occhi dal computer.
“Che dovrei fare qui?” sbotto.
“…aspettare,” mi risponde a scoppio ritardato, tanto è presa dal suo gioco.
“Aspettare? Aspettare cosa? O chi?!”
Si volta, ma non verso di me, bensì dietro di me.
“Potevi intrattenere il nostro ospite in una maniera più interessante, Hannah,” la canzona una voce alle mie spalle. “Senti come è già spazientito!” ridacchia.
La bambina chiude l’applicazione con un clic e smonta dalla poltrona. A testa bassa, va in contro all’uomo che cattura tutta la mia attenzione.
Ha il giornale piegato sotto il braccio sinistro e il caffè fumante, in tazza, nella mano destra. È di media statura e dimostra anche una certa età: il viso attraversato dalle rughe senili e i capelli bianchi. Questi, pettinati all’indietro con ordine, sottolineano la sua accortezza nell’immagine assieme al modo di vestire: elegante, con uno smoking bianco d’affari e una cravatta azzurra, ben annodata.
Sembra Dio nel film con Jim Carrey.
“Su, non fare quella faccia,” dice accarezzandole i capelli lucidi. “Sei stata bravissima, ma adesso continuo io.”
Hannah annuisce e lo abbraccia. “Ti voglio bene, Sean,” dice prima di correre verso l’uscita. La porta automatica di vetro si apre al suo passaggio e si richiude dietro di lei con un fruscio impercettibile.
Trascorrono alcuni lunghi minuti di silenzio, forse i più assurdi della mia vita. In questo breve ma infinito lasso di tempo, Sean siede alla sua postazione, beve un sorso di caffè e apre il giornale, cominciando a sfogliarlo.
Inizialmente non so davvero cosa dire, perciò mi limito a fissarlo.
Il vecchio legge due o tre titoli, poi accantona il quotidiano e agita il mouse per svegliare il laptop Apple di ultima generazione dallo stand-bay. Sembra realmente impegnato, mentre fa finta che non esista. Non so fino a che punto sfiderà la mia pazienza, ma la cosa comincia ad alterarmi.
Cambio posizione sulla poltrona, sperando che il cigolio della pelle lo risvegli come aveva fatto con Hannah. Ma non è né cieco né un bambino che gioca col computer del papà, quindi davvero non capisco cosa stia facendo e perché. Forse anche lui si sta prendendo del tempo per studiarmi. D’altronde io l’avevo già fatto prima che Hannah ci lasciasse soli.
È trascorso un minuto e mezzo, all’incirca. Sean beve un altro sorso di caffè e continua a smanettare sul portatile.
Decido.
Mi alzo.
L’uomo non batte ciglio, ma mi sento inevitabilmente osservato mentre cammino verso le vetrate. Queste affacciano su un panorama che non riesco a sopportare di non aver ancora visto.
Man a mano che mi avvicino alle lastre trasparenti, il mio, come il riflesso di Sean seduto alla scrivania, sbiadisce, permettendo all’occhio di precipitare una cinquanta di metri più in basso. È qui che si ramificano, come un labirinto, tante piccole stanze vetrate o cementate. Nel suo insieme, questo salone sterminato ha l’aria di un grande cortile interno, che ospita un centinaio di cortiletti più piccoli. Deve essere il cuore pulsante dell’intero stabilimento, per via del traffico che lo anima. È come guardare la strada dal terrazzo di un ventesimo piano nel centro di New York. Percepisci la confusione, il caos, l’agitazione, nonostante la totale assenza di suoni.
Qui l’unica differenza è che le persone, microscopiche, non sono tantissime; una quarantina di anime al massimo. La luce artificiale è supportata da un’immensa vetrata a forma di croce latina che occupa l’intera parete di fronte all’ufficio di Sean.
“Che impressione le fa?”
Mi volto, sobbalzando.
Il vecchio nello smoking bianco è ora rivolto verso di me con tutta la poltrona. Ha accavallato le gambe e sorseggia il suo caffè ormai tiepido. Ha piantato i piccoli occhi azzurri su di me appena gli ho dato le spalle, e non li ha spostati per tutto il tempo.
Balbetto qualcosa d’incomprensibile.
“Avanti, signor Hayes,” fa scocciato. “Non è questo il genere di risposta che, come giornalista, mi aspetterei da uno scrittore.”
Le dita mi tremano. “Lei è un giornalista?” riesco a formulare.
“No, per sua fortuna,” sogghigna. “Ma mi farebbe ugualmente piacere avere la sua impressione.”
È tranquillo, sulla sua bella poltrona e col suo buon caffè. Mi osserva in silenzio, aspettando che dica qualcosa. Qualsiasi cosa.
E infatti sparo la prima stronzata che mi viene in mente.
“Chi ha comprato questo posto,” comincio voltandomi a guardare giù. “Deve avere un bel po’ di capitale.” Passo in rassegna ogni angolo del complesso. Ogni pilastro, ogni vetro.  
“Giusta osservazione. Ma la prego, continui.”
Non me lo faccio ripetere. Per qualche strano motivo, sto cominciando ad abituarmi, a rilassarmi. E non per il fatto di aver già trascorso una mezz’ora in quella stanza.
“Deve essere qui da parecchio tempo, però. Nonostante l’estrema pulizia, sembra stato costruito…”
“Tralasci questo genere di osservazioni, signor Hayes. Mi dia le sue impressioni, le emozioni che le nascono dentro.”
Questo è matto.
Ma lo assecondo ugualmente. Magari alla fine ricevo un biscottino.
“Impotenza, di fronte alla potenza,” dico, ma sto iniziando col confondere me stesso. “Dovere, rispetto… paura, soggezione. Sottomissione,” mi correggo.
Se poco prima ho avuto l’impressione di sentirmi più sollevato, bhé…
Mi giro.
Sean ha gli occhi chiusi e un’espressione beata in volto. Quando realizza che le mie parole hanno smesso di suonargli come musica nelle orecchie, non si riscuote, e anzi, prende un respiro profondo e riapre gli occhi lentamente. Il suo sguardo è ora mansueto come quello di un gatto che sta per appisolarsi sul sofà. Tutta la tranquillità di poco fa ha viaggiato dal mio al suo corpo nel giro di pochi secondi.
“Eccellente. Ora si accomodi.”
Mi ha indicato la poltroncina ed è tornato a trafficare sul laptop.
Non appena sono di fronte a lui, Sean si abbandona sullo schienale della sua poltrona a braccia conserte. Ci fissiamo a lungo, e confesso di preferire quando faceva finta che non esistessi.
“Non vuole chiedermi dove si trova, signor Hayes?” mi suggerisce tranquillo.
“Dove mi trovo?”
“Nel mio ufficio, l’accesso al quale è strettamente riservato. Con lei ho fatto un’eccezione che mi costerà cara.”
“E sua figlia? E’ anche lei un’eccezione che le costerà cara?”
Sean scoppia a ridere. “Hannah, intende? No, non è mia figlia. Non sono sposato.”
“Non bisogna esserlo per averne, di figli.”
“Lei ne sa qualcosa?”
“No.”
Silenzio.
“Non vuole chiedermi chi sono, signor Hayes?” m’imbocca un’altra domanda.
“Lei chi è?”
“Mi chiamo Sean Nicholas Trimarchi, e sono l’uomo con un bel po’ di capitale.”
"Si diverte a prendermi in giro?"
“Mi chieda cosa ci fa lei qui, avanti.”
“Può anche smetterla, so cosa voglio sapere!”
“Non faccia il presuntuoso con me, signor Hayes. Non è nella posizione di poterlo fare.”
Preferivo quando m’intratteneva la sua collega, penso riferendomi ad Hannah. Sbuffo e mi lascio sprofondare sulla poltroncina. “Cosa ci faccio qui?” domando guardando a terra.
“Signor Hayes, lei è stato scrupolosamente selezionato per entrare a far parte di un progetto rivoluzionario, se lo vorrà.”
“Non capisco.” È la verità.
“Ora perché non mi chiede cosa so io di lei?”
Questa volta non so se dargli o meno la soddisfazione di sentirselo chiedere. Ma Sean rigira la frittata dei miei dubbi e mi anticipa.
Estrae un fascicolo dal cassetto della scrivania e lo apre. Sembra una di quelle cartelle mediche dell’ospedale. Sulla copertina c’è chiaramente stampato il mio nome, A.Hayes, assieme al numero identificativo di un processo.
“Arden Philip Jerry Hayes. Nato a Filadelfia il 1 Gennaio millenovecentottantadue di parto naturale nel Jefferson Hospital. Ricoverato di pleurite al St. Christopher nell’ottantasette. Diplomato nel duemila, eccetera eccetera… Ah, ecco qui: n° di caso 1098 002. Katelin Eva Hayes. Deceduta in un incidente stradale il…”
“Non è stato un incidente,” mi libero di quella frase come ci si libera del vomito.
Sean chiude il fascicolo lentamente e si appoggia alla scrivania coi gomiti, giungendo le mani a mezz’aria. “Lo so.”
Sollevo la testa d’un tratto e lo guardo negli occhi. Non può essere…
“Lei è qui perché io possa aiutarla, signor Hayes. So che sua sorella è stata vittima di un omicidio premeditato ed intendo testimoniarlo.”
È incredibile come vivere nella menzogna per troppo tempo, porti a confonderla con la realtà. Dubito che questo completo estraneo, pur imbottito di soldi e a capo di chissà quale grandiosa multinazionale, sappia davvero come sono andati i fatti. Almeno finché non aggiunge:
“Preston Anderson era un mio dipendente e ha confessato.”
“Perché era? L’ha licenziato?”
“No, sfortunatamente,” sospira tornando comodo sulla poltrona. “Si è tolto la vita qualche ora fa.”
Raggelo sulla sedia. Comincia a girarmi la testa, mi manca l’aria.
“Adesso mi chieda di approfondire questa conversazione, signor Hayes.” 
Sconvolto, annuisco.
“La prego, Sean, approfondisca… questa conversazione.”

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


_Πroject Δelta 
   Capitolo ********

“Cosa sta facendo?”
“Non lo vedi? Balla.”
“Sul cornicione.”
“Sì.”
“…ne abbiamo perso un altro. Chiamo Sean.”
“No, tranquilla, è un nuovo tipo di veleno.”
C.M. e D.F.


Sean ha parlato forse per una manciata di minuti, forse intere ore, non so dirlo con certezza. Per tutto il tempo l’ho fissato con un’espressione e un colorito della pelle che avrebbero spaventato i bambini “dolcetto o scherzetto” del prossimo Halloween. Dipendevo dalle sue labbra.
All’inizio si è limitato ad illustrarmi dettagliatamente in che modo si erano mossi gli uffici legali nell’arco del processo, che lui stesso, per il suo dipendente, aveva finanziato. Ha citato alcuni nomi che sapeva non avrei mai ricordato, altri che invece avevo conosciuto di persona, come avvocati, testimoni e giurisperiti; tutti contribuenti della mia rovina. Dopodiché si è scusato più volte, assumendosi la colpa di quello che era accaduto e spiegando come aveva dovuto mentire, a me per primo, ma soprattutto alla Giuria, per proteggere il logo dell’azienda che rappresenta.
A quel punto ho cominciato a dover reprimere la tentazione di saltargli alla gola. Ma solo alla parola “condanna”, associata al mio nome, ho avuto la seria ispirazione di afferrarlo e lanciarlo dalla finestra. Poi, probabilmente, mi sarei gettato anch’io.
“Ho interceduto personalmente nel suo caso, signor Hayes, per salvarla, se così si può dire, dall’ergastolo.”
Scatto in avanti. “Che cosa?!”
Sean si sistema più comodo. “Purtroppo il sottoscritto non è esattamente al vertice di questa piramide, signor Hayes, e gli ordini sono ordini. Se lei dovesse dimostrarsi disinteressato alla nostra proposta, sarà scortato al dipartimento più vicino e consegnato nelle mani della giustizia.”
“Sì, la stessa giustizia che ha ammazzato mia sorella! Altro che il suo dipendente, mi spieghi di cosa sono accusato, avanti!” sbotto alzandomi in piedi.
“Di violenza sull’imputato per estorsione d’informazioni, signor Hayes.” Al contrario, Trimarchi resta serenamente seduto.
Alzo gli occhi al cielo. “Questa sì che è bella. È stata legittima difesa!”
“Vendetta personale, vorrà dire.” I suoi occhi azzurri mi fulminano.
In realtà mi ero ben preparato a quell’eventualità. Mi ero dichiarato io stesso responsabile delle mie azioni. Sapevo che andare in prigione sarebbe stata la cosa più giusta per tutti. Eppure… “E chi mi starebbe facendo causa se Preston è morto?”
“Io.”
Ho appena avuto conferma che quest’uomo è matto.
“Credo di non capire.”
“Sarò lieto di farle maggiore chiarezza, ma prima vorrei poterla guardare di nuovo in faccia,” dice tranquillo prendendo un altro sorso di caffè.
Mi rimetto seduto lentamente, trattenendo il fiato.
“Ottimo. Adesso si sforzi di capire che quest’azienda ha un valore infinitamente maggiore di lei, di me, della linea del telefono, del petrolio e della fame nel Mondo. Ho accennato ad una proposta, e avrebbe potuto pretendere di approfondire l’argomento invece di cominciare ad agitarsi, signor Hayes.”
“Mi sta accusando mentre dice di volermi aiutare!” ribatto. “Effettivamente sono un po’ confuso. Ne è sorpreso?”
“Purtroppo sì, e molto. Pensavo di avere davanti un adulto formato e responsabile, ma a quanto pare mi sbagliavo: lei è solo un bambino che rivuole la sua caramella.”
Colgo una cattiveria infinita in quell’affermazione. Vuole ferirmi così da potermi sottomettere più facilmente. Bhé, può anche scordarselo.
“Lei me l’ha rubata.”
“Ma il supereroe che gliela riporterà non esiste.”
Non che creda nei personaggi dei fumetti più che in Dio, ma ‘sta volta la lingua biforcuta di quest’uomo ha violato qualcosa, in me, annullando del tutto la mia prontezza di risposta.
Ho esitato e mi è stato fatale. Arriva il colpo di grazia.
“Se lei avesse dei figli, signor Hayes, o quanto mento qualcuno che si avvicinasse a quel genere di legame, riuscirebbe forse a pesare una virgola delle responsabilità che invadono ciascuno di noi.”
“Mia sorella… lei lo era per me…”
Dopo quella frase sembra cercare il mio sguardo, perso sul pavimento. Quando vedrà le mie lacrime, Sean potrà compiacersi del fatto di essere davanti ad un bambino.
“Non la metta sul personale. Cerchi di superare la cosa e potremo parlarne da uomini,” dice.
“Lei è il primo… a non essere umano, Sean.”
Touché. Mi gusto fino all’ultimo secondo di silenzio. Non ha il coraggio di aggiungere altro. Almeno non su quell’argomento.
“È stato lei a chiedermi di approfondire questa conversazione. Se lo ricorda?”
Ridacchio. “Bhé, veramente…”
Continua a fissarmi, ma la sua aurea di serenità è del tutto sparita. E non mi da il tempo di continuare: “Adesso stia zitto e ascolti la mia proposta. Dopodiché da buon libero cittadino americano potrà scegliere che fare delle sue ossa.”
Suona come una minaccia. Taccio. Acconsento.
Fa un respiro profondo. “Preston Anderson è morto, gliene do ragione, e con lui la sua pratica. Nel suo mondo ideale, signor Hayes, in cui la giustizia è amministrata dai giusti, la mia azienda dovrebbe chiudere ed io scontare diciotto anni di pena. Centinaia dei miei dipendenti finirebbero sulla strada e lei avrebbe contribuito a portare sull’orlo della povertà altrettante famiglie...” sospende la sentenza come se ci fosse dell’altro. “Nel mondo, invece, tutto questo non succederà. E sa perché? Perché lei andrà in prigione, che le piaccia o no, e ci rimarrà fino alla fine dei suoi giorni. Mi creda, non avrei voluto essere io a farle questo discorso, e neanche fare la parte del cattivo, ma lei non mi lascia scelta. Perciò ora si asciughi le lacrime, apra bene le orecchie e mi guardi in faccia mentre le assicuro un futuro migliore.”
Mi ha allungato un fazzoletto di carta estratto da chissà dove. Mi viene distrattamente da chiedermi se sono la prima persona a cui dà questo genere di notizie, qui dentro.
“Per farla breve, signor Hayes, voglio che lei lavori per me. Sarà semplicemente questo a tenerla lontana dai guai, glielo garantisco. Non posso prometterle giustizia per sua sorella, anche perché restano poche persone coinvolte nella faccenda, a parte lei e me; ma la salvezza… non può, non vuole lasciarsela sfuggire. Ammetta che è così.”
Mi osserva, mi studia. Scansiona ogni mio muscolo facciale mentre conta i miei respiri. Non mi lascia scampo, sono nella sua tela. Nella sua tela di promesse. Sarà la mia fine, lo so.
Dopo un silenzio infinito, riesco a guardarlo di nuovo negli occhi.
“Perché Hannah mi ha chiamato lupo?” chiedo per rompere il ghiaccio.
Sean sorride compiaciuto, quasi si aspettasse una domanda del genere. “Curiosità,” arride. “Questo è lo spirito giusto, signor Hayes. Curiosità. Mi segua.”
Si alza, aggira la scrivania e si avvia all’uscita.
Lo imito solo un’eternità più tardi, tanto ero sorpreso da quella reazione. E ora? Dove vuole portarmi? Direttamente dietro le sbarre? Mi accompagna a pisciare? Chissà… magari tra poco scoprirò di aver fatto uno di quei terribili sogni dentro i sogni dopo i quali ti risvegli tutto sudato. Al solo pensiero provo una leggera nostalgia per il mio divano; per tutte le maratone di film e quelle birre ancora sigillate nel frigo. Sean ha interrotto il mio momento di depressione troppo presto. Non avrei mai smesso di rinfacciarglielo.
Le doppie ante a vetro scorrono. Siamo in un corridoio tirato a lucido e molto luminoso. Per terra una moquette grigia. Il soffitto a specchi.
Sean si avvia. Gli tengo dietro.
“Signor Hayes,” comincia attirando tutta la mia attenzione. “Lei è stato testimone diretto di quella che il nostro settore specializzato chiama Sessione di Sincronizzazione. Ora non sarò io e in quel misero studio ad illustrarle nei dettagli di cosa si occupa materialmente la mia divisione, sarebbe estremamente riduttivo. Perciò mi piacerebbe vederla di nuovo all’opera il prima possibile e sapere cosa ne pensa.”
“Un attimo.”
Inchiodo mentre Sean chiama l’ascensore. Siamo in un salottino altrettanto sterile, come il corridoio. Ci sono un paio di poltroncine e un tavolino, il tutto condito da un design molto hight-tech, tipico delle grandi istituzioni di ricerca. Sì, perché non sono mica stupido, e non ci vuole un genio per capire che qui dentro fanno test sulla psiche umana. Basta guardare come hanno ridotto il tipo che mi sta davanti.
“Mi dica,” fa disponibile, giungendo le mani dietro la schiena.
“Quelle cose che ho visto… insomma…” esito, comincia a vorticarmi lo stomaco al ricordo del sangue. “L’ho visto veramente e lei vuole che lo riveda? È questo che fate qui?”
Sean annuisce, seppur poco convinto. Devo aver posto la domanda nel modo sbagliato, deludendolo. “Deduco che non sia stato di suo gradimento.”
“Affatto!” sbotto. “C’era tutta quella gente che moriva, e le spade, le pistole! Avanti, sembrava tanto uno di quei videogiochi da sbudellamento in prima persona. Mi dica quanto di vero c’era in quello che ho visto.”
“Tutto. Dal primo all’ultimo fotogramma che le è passato davanti. Ma lei non si è limitato a guardare, signor Hayes. Lei era lì, a vivere.”
“Un grande balzo per l’industria videoludica,” commento amaro con un leggero sarcasmo.
“Videogames, signor Hayes?” scoppia a ridere. “Siamo seri: sappiamo entrambi che non è nulla del genere,” mi strizza un occhio.
La conversazione continuerà nella cabina dell’ascensore, che ci ha appena spalancato le porte. Una volta dentro, non posso fare a meno di notare il grande schermo nero in stand-bay che occupa l’intera parete di fondo, dove galleggia un simbolo bianco a forma triangolare; mentre Sean pigia sull’interruttore del piano interessato, gli lancio un’occhiata distrattamente: cambia continuamente forma, dividendosi in tre parti, ruotando su se stesso un paio di volte e poi tornando allo stadio di partenza.
“La mia azienda ha bisogno di lei. Di gente come lei.”
“Potrebbe essere più chiaro?” domando tornando a guardarlo.
“Ci piace pensare che non sia stato il caso, signor Hayes, a portarla da noi,” dice fissando dritto davanti a sé, con in faccia stampato un sorriso divertito.
“Ma voi chi siete?” sono sempre più scettico. Il suo modo enigmatico di parlare mi sta portando al punto di ebollizione. Di nuovo.
“Siamo nati come una corporazione farmaceutica solo all’inizio del duemila. Eravamo qualcosa di molto più grande, ma meno appariscente, fino al secolo scorso.” Ne parla con una grande fierezza.
L’ascensore si ferma. La ante si aprono.
“Tralasciando il fatto che lei è qui per evitare la galera, signor Hayes, provi a pensare che il nostro logo sarà sui libri di storia delle prossime generazioni!” esulta facendomi strada.
Ci avventuriamo in quel labirinto di cellette vetrate che si vedevano dall’ufficio di Sean. Il vecchio, senza tregua, continua a crogiolarsi nelle glorie delle sue imprese mentre io ormai non lo ascolto più, tanto sono preso da cosa mi circonda.
Ad un tratto passiamo accanto ad una di quelle stanze e noto con chiarezza una ragazza sdraiata su un curioso lettino metallico che emana un insolito bagliore azzurrognolo dai circuiti interni. Al suo capezzale ci sono un uomo e una donna entrambi in camici bianchi. L’uno e l’altra sembrano avere ruoli completamente diversi: mentre la donna vigila sui dati graduati forniti da alcuni schermi ai piedi del lettino, l’uomo resta vicino alla ragazza monitorando una piccola interfaccia luminosa.
Senza rendermene conto ho rallentato il passo fino a staccarmi parecchio dal vecchio, che ha tirato dritto e si è fermato a parlare con un tizio più avanti.
Guardandomi attorno, mi rendo conto che le stanze sono principalmente di due tipi: un primo gruppo, in maggioranza, ospita unicamente una dozzina di postazioni computerizzate più o meno occupate dai rispettivi tecnici. Le altre, invece, sono celle come quella in cui ho appena sbirciato: uno spesso lettino nel mezzo e tre corpi in tutto. Nono oso immaginare la quantità necessaria d’energia per mandare avanti una struttura del genere. La corrente passa attraverso dei cavi che pendono dal soffitto per quelli che mi paiono almeno una cinquantina di metri. È una sala enorme, penso di averlo già detto, nella quale hai davvero l’impressione di essere nient’altro che un’umile formichina.
Pensieroso, raggiungo Sean.
“Signor Hayes, lasci che le presenti uno dei nostri migliori supervisori medici, Alex Viego,” dice presentandomi l’uomo col quale si era fermato a parlare.
È giovane, sulla trentina al massimo, noto mentre gli stringo la mano. Ha un medio taglio di capelli neri, tirati all’indietro in maniera ordinata. Gli occhi svegli, azzurri, trasmettono freschezza. Al collo gli pendono un paio di occhiali del tipo tradizionale.
“In realtà ci siamo già incontrati,” dice il ragazzo sorridendo.
Sobbalzo. Questa voce…
“Io e Samantha abbiamo coordinato la sua Sessione di Sincronizzazione,” conclude Alex. A titolo informativo, l’osservazione sembra rivolta più che altro a Sean, che è particolarmente sorpreso.
Alex lo anticipa: “Sì, so cosa sta pensando: Samantha non è la mia partner di coordinamento, ma Isaac è stato spostato nel settore C08 e noi del C02 stiamo ancora aspettando le nuove assegnazioni,” dice come se ne fosse realmente dispiaciuto.
Sean ci riflette un attimo. Poi guardando me: “Lei e la Cobb potreste continuare a supervisionare il signor Hayes, almeno finché il suddetto non avrà collezionato una serie considerevole di uccisioni.”
Non capisco una mazza di quello che si dicono, ma standomene qui almeno faccio presenza.
Alex pare rabbrividire, ma acconsente ugualmente. Non è per niente entusiasta di tornare a lavorare con quella donna, Samantha Cobb; potevo dirlo con certezza io che ero presente ai bisticci dei due durante la mia… il vecchio come ha detto che si chiama? Ah, sì: sincronizzazione.
Prima che Alex possa aggiungere qualcosa, si diffonde lo squittire di un cercapersone.
Un cercapersone?! Quella roba non si usa più da almeno due generazioni!
Sean estrae l’oggettino da una tasca dei pantaloni e legge in sovrimpressione. “Scusatemi, signori,” comincia poi. “Devo tornare alle mie scartoffie d’ufficio e occuparmi di una cartella in particolare,” aggiunge strizzandomi un occhio. “Signor Hayes, l’affido nelle mani esperte di Alex Viego, che le spiegherà ogni cosa da principio e si prenderà cura di lei come una mamma affettuosa.”
Il coordinatore stende oltremodo le labbra in un sorriso, annuendo. “Senz’altro. È stato un onore riceverla, signore.”
Sean muove qualche passo in retromarcia. “Tornerò dopo pranzo ad assicurarmi che il nostro lupo preferito si sia sfamato per bene.” E detto questo, scompare.
“…cazzo,” sento imprecare.
Mi volto di colpo.
Alex si passa le mani nei capelli. Sembra sconvolto mentre mi fissa. Sospira. “Scusami,” comincia distogliendo lo sguardo. “Mi rendo conto che il tuo soggiorno qui non è cominciato nel migliore dei modi.”
“Grazie… Ci sono abituato,” mento stringendomi nelle spalle.
“Non ci era stato detto nulla, pensavamo che sapessi già tutto. È stato spregevole metterti così, a prima botta, nell’Animus.”
“Animus?” domando con uno sguardo a dir poco allucinato.
Alex sorride. “Vieni,” e mi fa strada.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


_Πroject Δelta
Capitolo *********


“Mi stai dicendo che qui dentro Sean ha radunato tutti gli evasori fiscali, gli ubriaconi, i drogati, gli assassini e gli stupratori in cerca di redenzione?”
“Esattamente.”
“E tu che colpa hai?”
“Va’ a dormire, ragazzo.”
A.H. e M.F.




Entriamo in una di quelle stanze con al centro il lettino metallico, che Alex mi indica poco dopo. “Quello è l’Animus,” dice avvicinandosi ad alcuni schermi sulla parete. Continua a parlare dandomi le spalle e compilando un modulo. “Fu inventato dal dottor Warren Vidic, che ora gestisce il settore più avanzato del dipartimento, il C18. Spesso viene a farci visita, uno di questi giorni probabile che avrai l’onore di conoscerlo. Con lui la nostra sezione ha fatto il balzo nella storia che a Sean piace tanto celebrare. Le masse qui sono arrivati a chiamarla macchina del tempo, ma in realtà funziona in una maniera ben più affascinante.” Portato a termine quel lavoretto manuale, Alex posa il modulo da parte e si avvicina al lettino. La stanza non è molto grande: escludendo i macchinari che formano un anello attorno al lettino metallico, il terreno calpestabile basta a sufficienza per ospitare quattro persone. “È semplice,” riprende Alex. “In una zona poco nota della corteccia celebrale, ma per noi dell’Abstergo diventata accessibile, stagnano informazioni che si tramandano attraverso il DNA. Sono i ricordi genetici, veri e propri files archiviati scrupolosamente nella mente umana. L’Animus è in grado di leggere questi ricordi, metterli in ordine cronologico e ripercorrere così le vite degli antenati di un individuo.”
Mi muovo con incertezza accanto alla macchina. Al suo interno sembra pulsare una grande energia, fasciata in lucide lastre metalliche. Pur nascondendo un grande potenziale, non produce alcun suono. Tutta la strumentazione è così avanzata da lasciare nella stanza un religioso silenzio.
Alex mi lancia un’occhiata. “Ora, non fraintendere, ma lo sbudellamento di questa mattina non ha niente a che vedere con i tuoi antenati,” si sbriga ad aggiungere.
Digita un codice su una tastierina incorporata nel lettino e all’istante l’Animus risponde con un mugolio elettronico. Dopodiché una voce femminile computerizzata ci avverte che i parametri sono impostati; i bagliori della macchina cambiano tonalità, da azzurrognolo a verde acqua.
“Saremmo pronti per cominciare,” dice il ragazzo, “ma senza supervisore tecnico non ho il permesso di metterti nell’Animus. E viceversa se Samantha fosse qui e io no. È lei l’esperta…”
Restiamo a lungo a fissarci senza dire nulla.
“Quindi io a cosa servo?” domando per rompere il silenzio, pur conoscendo la risposta.
Il ragazzo si allunga a scegliere una cartella tra le tante ammassate sull’unico ripiano lasciato libero da schermi e computer. Con una mano tiene il fascicolo aperto, con l’altra, come ricordandosene solo ora, apre e si mette gli occhiali sul naso. “Arder Hayes, giusto?”
Annuisco distratto. Fuori dalle vetrate della stanza c’è un intenso, insolito e dinamico via vai. Vedo passare di corsa due medici. Un addetto alla sicurezza si sofferma a controllare la nostra cella e poi va oltre.
Alex è troppo concentrato a studiare il contenuto della cartella per accorgersene. Ad un tratto esulta, facendomi sobbalzare: “Ah, eccoti qui! Hanno scritto male il tuo nome,” ridacchia apprestandosi a correggerlo con una penna a scatto che estrae dal taschino del camice.
“Non me ne va una dritta,” borbotto continuando a guardare fuori. Mi siedo distrattamente sull’Animus con una coscia e, nonostante l’apparenza gelida del materiale, avverto un cospicuo calore.
“Praticamente funziona così:” comincia Alex aggirando la macchina per mettersi di fronte a me. “Questi Animii in particolare, dal settore C01 al C10, sono stati settati su l’unica sequenza genetica di un determinato individuo pescato nel Rinascimento italiano. In realtà nessuno, a parte Warren e forse Sean, sanno precisamente come funziona il processo di sincronizzazione, nel nostro caso. Io come medico devo solo assicurarmi che i requisiti minimi combacino. Il supervisore, o coordinatore tecnico, conosce la formula del miracolo che ti fa entrare nel tuo antenato. Spero di essere stato abbastanza chiaro…” accortosi che il mio sguardo vaga oltre le sue spalle, si è voltato a dare un’occhiata. Sospira e, precedendo le mie preoccupazioni, dice: “Tranquillo, non è sempre così.”
Inarco un sopracciglio. “A maggior ragione, cos…”
Le ante di vetro si spalancano di colpo, e tutto il frastuono dell’esterno fa capolino nella stanza assieme alla figura trafelata di una donna che si fionda al computer, senza degnarci entrambi di uno sguardo. È un gran bel pezzo di femmina, penso sorprendendo me stesso: alta, rossa, e quel camice ben chiuso chissà quanto altro materiale interessante si mangia.
“Alla buon ora!” erompe Alex. “Dove sei stata?”
“A pararti il culo!” sbotta la donna trascrivendo dei codici sul PC da un foglio che ha in mano. “Quindi ora sta’ zitto e fammi fare!”
“Perché? Cos’è successo ‘sta volta?” domanda il ragazzo sbuffando.
“Ai piani alti hanno gestito male il server della Sessione dimostrativa, hai presente, no? Il finimondo di ‘sta mattina.”
“Hanno risolto un’ora fa, qual è il problema?” Alex sposta il peso sull’altra gamba.
“Le nostre chiavi non combaciano, ne stanno distribuendo altre. Perciò ringrazia che ero una delle prime, in fila per ritirarle!”
“E il settore è nel panico per così poco?” si stupisce lui.
La ragazza scoppia in una fragorosa risata. “Il settore, Viego?” fa sarcasmo voltandosi a guardarlo. “Stanno al buio da qui al settore C16. Dio solo sa cosa viene giù se Warren scopre questo casino.”
“Quindi è colpa di Trimarchi?” domando istintivamente.
I due si voltano a guardarmi, interdetti. La donna si è accorta di me solo adesso che ho parlato.
Dopo un lungo istante di silenzio, Samantha aggrotta la fronte e mi dice: “Tu non hai voce in capitolo, mezza tacca,” con molta cortesia, e ricomincia a scrivere concentrata.
Io guardo Alex.
“Saremo in due a doverci abituare,” mi sussurra fingendosi impegnato a controllare dei valori sul desktop. Poi, (con coraggio e tutta la mia stima) si rivolge alla ragazza chiedendo: “Posso avviare intanto che tu sistemi, oppure ho il tempo di andarmi a prendere un caffè?”
“Sì, sì,” fa distrattamente lei. “Mettilo dentro, ho quasi fatto.”
Alex annuisce e si avvicina a me. “Sdraiati,” e, come leggendo la mia espressione, aggiunge: “tranquillo, non sentirai dolore.”
Mi stendo lentamente e con cautela; le mani di Alex mi guidano a poggiare la testa su un leggero rigonfiamento metallico che, freddo, preme all’altezza della nuca. Soddisfatto, il ragazzo esce dal mio campo visivo.
Nessuno, ma soprattutto Alex, si è accorto che sto fingendo una certa tranquillità. Mentre fisso il soffitto, pienamente cosciente della pazzia che io stesso sto lasciando accadere, ascolto Samantha battere sulla tastiera e Alex trafficare al computer sulla mia destra.
Non so se scoppiare a ridere o a piangere. È una scena da film dell’orrore, ma di quelli scrausi in cui finisci sempre col chiederti perché l’hai affittato. Ho come l’impressione che da un momento all’altro verrò lobotomizzato e che non ricorderò una ceppa di cosa mi è successo o chi diavolo sono queste persone. Il cervello è un organo miracoloso ma altrettanto pericoloso. La gente qui sembra giocare col fuoco ogni volta che parla di ricordi e memoria genetica. Di che razza di esperimento si tratta? Sean è stato piuttosto vago, nella sua fretta di affidarmi al dottor Viego, che non è stato certo più chiaro di lui; ma allora cos…
“Arder, scusami, ma se continui così non possiamo iniziare.”
Il ragazzo è ricomparso d’un tratto nel mio campo visivo.
“Qual è il problema, Viego? Il paziente cerca di morderti?” domanda Samantha ridendo.
Alex la fulmina con un’occhiataccia. “C’è troppa attività celebrale,” spiega. “Devi rilassarti, Arder,” dice rivolto a me.
Annuisco. “Mi disp… AH!” Grido.
Un dolore lancinante mi ha aggredito improvvisamente al braccio destro, che non riesco a contrarre per via di una stretta ferrea attorno al polso. Alzo la testa e vedo Samantha estrarre in quel momento dalla mia carne uno ago spesso come una matita. “MA CHE CAZZO FAI?!” le sbotto contro, cercando di alzarmi, ma Alex mi ostacola spingendomi per le spalle nuovamente sdraiato.
La vista mi si offusca, i suoni sono sempre più ovattati. L’ultima cosa che vedo è il volto dispiaciuto di Alex, e l’ultima cosa che sento sono le risate della donna che, mentre l’oscurità si fa padrona, aggiunge: “Meno male che uno dei due ha le palle per fare queste porcate, vero Alex?”

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