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Conservo immagini
sporadiche e rade, quasi nebbiose, che sembrano legate ad un’ esistenza che non
mi appartiene, troppo breve rispetto ai miei 300 anni e più da immortale.
Sono nato a Londra,
probabilmente attorno all’anno 1640.
Mia madre morì
quando avevo circa sei anni, forse dando alla luce uno dei miei fratelli. Non
ricordo nessuna delle loro facce.
L’unica memoria che
ho di colei che mi ha messo al mondo, è un immagine simile a un dipinto di un
pittore fiammingo; una donna dolce e materna seduta alla finestra, con una
cuffietta candida a coprire i capelli lisci e biondi, intenta a rammendare,
investita dalla luce bianca e liquida di un mattino d’inverno.
Sono certo che la
mia compassione, se un vampiro può averne, sia qualcosa che proviene da lei
soltanto.
È una caratteristica
umana che non so come, ho conservato attraverso i secoli, nel mio cuore ormai
spento alla vita e certamente non l’ho ereditata da mio padre.
Lui era il pastore
anglicano della chiesa locale; era una persona dalla moralità rigida, rigorosa
ed eccessivamente severa.
Non rammento un solo
gesto affettuoso provenire da lui, verso me o i miei fratelli e neppure verso
mia madre.
Ho un ricordo
abbastanza preciso dei suoi sermoni, anatemi terribili che predicava la
domenica davanti a una folla di fedeli timorosi, in cui cercava di inculcare la
paura in un dio iracondo, pronto a condannare l’anima alle fiamme dell’inferno.
Avevo una sorta di
venerazione per lui, lo rispettavo profondamente per il suo rigore morale; era
un uomo incorruttibile e questa era senz’altro la sua più grande qualità, ma
non sempre ero disposto a condividere le sue idee che molte volte trovavo
eccessive.
Mi scontravo spesso
con lui per questo; il nostro era un rapporto conflittuale.
Conservo questa
sensazione molto chiaramente, ancora oggi dopo tre secoli.
Le nostre erano
discussioni infuocate, dove egli restava assolutamente fermo nelle sue
convinzioni, e intanto mi guardava come se avesse potuto incenerirmi con lo
sguardo. Non ho mai scorto la pietà nei suoi occhi.
Probabilmente in
quei momenti mi giudicava un eretico imperdonabile.
Chissà, forse aveva
ragione lui… forse i miei pensieri sono eresie ancora oggi. Eppure continuo a credervi
fermamente.
“Voi non parlate mai
di perdono, padre! Mai una volta che abbiate parlato del perdono divino. Siete
così sicuro che Dio non possa perdonare anche le azioni più turpi, se l’uomo si
pente sinceramente? Se diventa consapevole dei suoi errori e decide di cambiare
strada?”
“Quando il cuore
umano viene toccato dal male, non c’è salvezza alcuna, perché è già troppo
tardi; se un anima si lascia sedurre dal maligno vuol dire che non è degna del
perdono di Dio! Ci sono anime destinate alla dannazione eterna. Questa è una
verità incontestabile!”
Erano discussioni
definitive e per me, assai dolorose; il rigoroso pastore non ammetteva repliche
e io di solito, abbassavo la testa e rinunciavo allo scontro. Ma non riuscivo
ad essere d’accordo con lui.
Sapevo perfettamente
che era come sprecare il fiato; non avrebbe mai cambiato le sue idee in materia
di fede.
Eppure avrei voluto
con tutto me stesso un confronto aperto e più elastico che potesse aprirci e
avvicinarci spiritualmente, accostare le nostre anime distanti e lontane; io
non riuscivo a vedere Dio come lo vedeva lui.
In cuor mio
desideravo credere che la verità delle sacre scritture fosse diversa.
Che Dio stesso fosse
diverso; desideravo credere in un essere misericordioso, non in un despota inflessibile
pronto a colpire senza riserve.
Desideravo credere
in un Dio di libertà e tolleranza. O forse ero io che interpretavo tutto in
maniera personale.
È sempre stato così.
Attraverso 300 anni il
mio pensiero si è plasmato in una sostanza diversa e come quello dell’uomo è
cambiato; io stesso ho potuto entrare in contatto con filosofie diverse, con
teorie sull’origine del mondo che prendono le distanze dalla Bibbia, dai miti e
dalle leggende che riguardano anche le creature come me.
Invece, il pensiero
di mio padre era fissato, chiuso e irremovibile su certi punti; era l’ideologia
della sua epoca.
Egli oltre a
perseguitare i cattolici e gli appartenenti alle altre religioni, dava la
caccia a tutte quelle creature che lui riteneva incarnazioni del male; streghe,
demoni e naturalmente i vampiri.
Erano esseri da
perseguitare e possibilmente ricacciare nel baratro dell’inferno, eliminare
dalla faccia della terra.
All’epoca la
superstizione era molto diffusa e certe convinzioni erano radicate negli animi;
si credeva fermamente nell’esistenza di queste creature molto più di oggi, che
sono diventati personaggi della letteratura o di filmetti dell’orrore.
Esistevano dei veri e propri tribunali ecclesiastici che avevano il compito di
giudicare e condannare tutte quelle persone ritenute colpevoli di essere una di
queste cose, eppure chi si ergeva a giudice, molte volte non conosceva affatto
la reale natura degli esseri che era chiamato a giudicare.
Mio padre aveva
fatto di questa lotta la missione della sua vita, ma anche lui di fatto
ignorava la verità.
Io stesso la
ignoravo.
Per onorare questo
suo compito, tante volte aveva colpito degli innocenti, condannando a morte sul
rogo persone che non avevano fatto nulla, se non preparare intrugli curativi
con un po’ di erbe. Vederlo macchiarsi di quelle colpe era doloroso e scatenava
nel mio animo una rabbia che non sempre riuscivo a contenere.
“Siete accecato dal
vostro furore, padre!! Vi ergete a giudice e vi sostituite a Dio!” lo accusavo.
“Questa è la volontà
di Dio, ed è mio dovere compierla, e tu che sei mio figlio, un giorno seguirai
le mie orme. Per questo non dovresti mettere in dubbio gli insegnamenti divini
e la necessità assoluta di colpire i nemici del Signore. Il tuo atteggiamento è
molto pericoloso… stai rischiando la tua stessa anima.”
E non poteva
sospettare quanto in realtà avesse ragione, neppure io sapevo, ancora.
Ma di lì a breve lo
avrei scoperto.
Arrivò anche per me
il momento di prendere il mio posto nel mondo ed era ovvio che fosse il ruolo
che per tanto tempo aveva ricoperto lui; ormai anziano e allo stremo delle
forze, mi affidò il ruolo di guida spirituale della comunità e cacciatore delle
forze del male.
Io ero deciso a
lavorare al meglio, ma volevo anche essere giusto e non lasciarmi accecare dal
fanatismo.
Non sarei stato
disposto a vedere il male dove non c’era e non volevo mandare sul rogo persone
innocenti.
E naturalmente,
questo mio atteggiamento più tollerante non incontrò il suo favore; furono
altri scontri.
“Sei troppo
permissivo e non sei abbastanza pronto nel condannare!”
“Padre, io non
intendo mandare al rogo per stregoneria una persona innocente; quella donna non
ha fatto nulla di male. Ha cercato solo di curare il padre malato.”
“Non ti sei chiesto
come abbia fatto a procurarsi simili rimedi? È opera del maligno e lei è una
delle sue serve!”
Troppe volte ero
costretto a scontrarmi con lui per tentare di difendere le mie scelte e le mie
decisioni che puntualmente egli non approvava; la sua inflessibilità lo rendeva
cieco e stolto, incapace di essere obiettivo.
A volte mi sembrava
un mostro proprio lui che i mostri pretendeva di combatterli.
Un giorno, venne da
me un uomo in possesso di informazioni davvero bizzarre e inquietanti: diceva
di aver scoperto il nascondiglio di veri vampiri.Volli accertare l’esattezza delle sue informazioni e feci alcune
indagini su di lui; verificai che non avesse dei nemici o conti in sospeso con
qualcuno; erano troppe le denunce a persone che solo per vendetta finivano per
essere arrestate per semplici sospetti o calunnie, processate e poi condannate
al carcere o peggio, torturate e lasciate morire in qualche oscura segreta.
Quest’uomo sosteneva
che nella cripta di una piccola chiesetta sconsacrata si nascondesse un piccolo
gruppo di vampiri; questi uscivano solo di notte per assalire qualche sporadico
viandante o vagabondo che attraversava la città.
Era stato testimone
involontario di una di queste aggressioni notturne ed era spaventato a morte; il
racconto che mi aveva fatto era stato raccapricciante e a tratti mi era parso
inverosimile. Parlava di creature fortissime e molto veloci che apparivano e
sparivano nel nulla. Sembrava davvero il racconto delirante di un pazzo
visionario. Decisi comunque di prestargli fede e verificare.
Trovai la chiesetta,
la cripta e tracce piuttosto vaghe per la verità, del passaggio di qualcuno.
Radunai un folto
gruppo di uomini e una notte illuminata dalle nostre torce, armati di pistole e
inutili crocifissi, ci apprestammo ad attendere che i vampiri uscissero per
cacciare come aveva detto il testimone.
Fu quella notte che
la mia vita cambiò per sempre.
Sarebbe più giusto
dire che finì quella che io conoscevo.
Quella notte entrai nell’eternità.
Non soltanto in senso metaforico.
E conobbi qualcosa
che neppure mio padre conosceva nonostante tutta la sua esperienza. Conobbi
l’orrore e la paura quella stessa notte; la paura per qualcosa di oscuro e
incomprensibile alla limitata mente umana.
La paura
dell’ignoto, dell’indicibile. Appresi cosa fosse la paura di perdere la propria
anima e come fosse facile e senza ritorno. Senza speranza.
Una paura con cui ho
convissuto lungamente, una paura terribile e quasi devastante.
Quella notte scoprii
sulla mia pelle cosa fossero davvero i vampiri e come siano lontani
dall’immaginario costruito dagli uomini attraverso i secoli. Volevo combattere
ciò che io credevo il male e non sapevo neppure contro cosa stavo lottando.
All’epoca non
esisteva arma umana che avrebbe potuto distruggere un vampiro. E certamente non
sarebbe bastato un crocifisso o un paletto di frassino. Ma quelle erano le
credenze che mi erano state trasmesse, e io come gli altri vi prestavo fede,
non avendo ragione di dubitarne.
Tutte le mie
certezze crollarono velocemente quando vidi una di quelle creature uscire dal
suo nascondiglio; era in avanscoperta e chiamò i compagni quando fu sicura che
non ci fossero pericoli.
Non si muoveva come
un essere umano. La sentii parlare latino e fu un’altra cosa che mi sorprese e
mi fece capire di trovarmi di fronte ad un essere molto antico. Millenario
forse.
Se in passato avevo
avuto dubbi sull’esistenza di quegli esseri, in quel preciso momento compresi
che erano una realtà e paradossalmente, forse nello stesso istante dubitai
dell’esistenza di Dio, così come io lo conoscevo.
Quando anche gli
altri uscirono allo scoperto, decidemmo di attaccarli. Il fuoco delle nostre
torce lì spaventò, l’unica cosa che davvero potesse far loro del male, ma erano
troppo veloci. Quasi i nostri occhi umani non riuscivano a percepirli e
l’oscurità non aiutava. Non avevo mai visto nulla di simile.
I loro occhi rossi
nei volti diafani brillavano sinistri alla luce delle fiamme.
Alcuni scapparono,
ma uno di loro spinto forse dalla sete ci attaccò, uccise un paio di uomini
spezzandoli come fossero stati dei fuscelli e ne rapì un terzo. Mi morse quando
tentai di difendere i miei compagni.
Come potevo sapere
quanto i miei sforzi fossero vani? Non saprei immaginare un dolore più
terribile.
La battaglia finì
molto in fretta, i vampiri scomparvero nella notte dopo aver ucciso alcuni di
noi e io ero rimasto ferito. Capii immediatamente cosa mi sarebbe successo; gli
uomini superstiti, terrorizzati, erano scappati abbandonandomi al mio destino.
Il veleno del
vampiro era entrato in circolo nel mio sangue ed era peggio del fuoco
dell’inferno, si propagava lento e inesorabile dal braccio e raggiungeva e
distruggeva ogni fibra e anfratto del mio corpo umano. Riuscii a nascondermi in
una cantina e lì restai per tutto il tempo della trasformazione; tre giorni di
agonia terribile, silenziosa ed estrema in cui sperai ogni secondo di morire
per essere liberato da quella sofferenza spaventosa e intollerabile. E ancora
più terribile era la consapevolezza di quello che stavo diventando: un mostro
assetato di sangue, un essere privo di anima. Avevo orrore di quello che mi
stava accadendo, di quello che sarei diventato; in mezzo a tutto quel dolore
pregavo Dio di togliermi la vita. Perché mi stava accadendo tutto questo?
Quale orrenda colpa
avevo commesso, per subire una simile condanna eterna?
Pensai ai miei
compagni uccisi e invidiai la loro sorte.
Era sorprendente che
avessi ancora dei pensieri lucidi in mezzo a tutto quel lancinante tormento.
Pensai a mio padre; non potevo tornare da lui, non perché mi avrebbe ucciso, ma
perché io avrei potuto uccidere lui.
Eppure qualcosa
dentro di me si ostinava a urlare, a lottare per non morire, a non arrendersi
al destino ineluttabile, qualcosa nel profondo di me stesso non voleva
soccombere.
Ma non sapevo quanto
il mio spirito avrebbe potuto resistere. Si sarebbe dissolto, bruciato da quel
fuoco che mi stava devastando dentro?
Avrei dimenticato
tutto della mia vita umana? Avrei davvero perso la mia anima? Durante la
trasformazione sentivo che stavo diventando più forte, anche se il fuoco
continuava a bruciare e propagarsi. Temevo che potesse bruciare anche i miei
ricordi e la mia coscienza; decisi che se avessi tentato di pensare al bene
della mia vita, all’amore per gli altri anche in mezzo a tutto quel dolore, il
veleno non avrebbe fatto effetto completamente e non avrei perso me stesso.
Forse fu un pensiero folle e assurdo, non lo so, forse era solo un modo per
restare ancorato alla mia umanità. Avrei scoperto cosa fossi diventato a
trasformazione avvenuta.
Quando il dolore
cessò, tutto ormai si era compiuto e il processo è irreversibile.
Ero diventato un
vampiro.
Una creatura della
notte assetata di sangue.
Non ero ancora il
vampiro Carlisle Cullen, il dottore che oggi riesce senza la sofferenza della
sua sete ad aiutare gli uomini, il vampiro che attraverso il suo lavoro ha
trovato una sorta di pace e felicità dell’anima.
Il vampiro con una
famiglia e dei figli di cui va orgoglioso.
Ero solo all’inizio della mia nuova vita.
Continua…
È
la prima volta che scrivo in questa sezione, ma il personaggio di Carlisle mi
ha sempre affascinato per la sua complessità e senza pretese, ho voluto provare
a scrivere qualcosa su di lui, perché potevo così affrontare una tematica che
mi interessa molto. Ho cercato di rispettare il personaggio e di svilupparlo
attraverso quel poco che ci dice la Meyer, spero di esserci riuscita. Naturalmente
accetto consigli e suggerimenti dalle tante fans di Twilight che sono più
esperte di me. Un saluto e grazie in anticipo.
[1] Ho deciso di inserire
questa poesia che apre il mio racconto e che ritroverete più avanti se
proseguirete la lettura, perché credo che rappresenti benissimo la personalità
di Carlisle.
Era come ridestarsi
da un incubo e mi sentivo diverso.
Avevo letteralmente
attraversato la fornace dell’inferno e ne ero uscito vivo.
Ma qualcosa di quel
tormento ti resta addosso, come un marchio, un’ustione che brucia le carni.
E sembra non guarire
mai.
I miei sensi si
erano acuiti in maniera straordinaria; sentivo l’odore delle muffe,
dell’umidità della cantina, rumori e suoni di voci dall’esterno, arrivavano al
mio orecchio anche da notevoli distanze. I miei occhi coglievano ogni più
piccolo dettaglio anche nell’oscurità più profonda: sfumature minime e
consistenza delle superfici, il movimento invisibile di un insetto sulla
parete.
Fui investito da un’
infinità di sensazioni nuove e sorprendenti a cui non ero abituato, che mi riempivano
di stupore e meraviglia, ma anche spavento quando accanto a queste sensazioni
piacevoli, improvvisa e lancinante sentii il vuoto terribile della fame,
l’arsura della sete che graffiava la mia gola. Sentivo il desiderio troppo
impellente del sangue caldo, l’istinto più potente di un vampiro, qualcosa a
cui è molto difficile, quasi impossibile sottrarsi.
I vampiri neonati
sono dominati da questo istinto fortissimo e primordiale; l’ho visto in tutti i
miei figli e per quanto mi è stato possibile, li ho accompagnati e guidati
attraverso quel difficile momento della loro vita, trasmettendo loro un
briciolo della mia forza, della volontà necessaria. Non li ho mai forzati,
nemmeno quando li vedevo cedere come fece Edward, perché sapevo quanto quella
lotta fosse dura ed estrema. Neppure io riuscii a ignorarlo e ho rischiato di
perdere lo scontro col demone che mi dimorava dentro, che reclamava urlando di
soddisfare le sue brame. Ho fatto sforzi enormi per controllare me stesso,
sopportando il dolore che mi feriva la gola, cacciando giù il veleno che
inondava le fauci, respingendo il sollievo che solo il sangue umano poteva
dare.
Le tentazioni umane
a confronto non sono niente.
Non sono neppure
così deleterie come mi avevano fatto credere in passato.
Un uomo ha sempre la
libertà della scelta.
Ma io che uomo non
ero più, che scelta avevo?
Non potevo decidere
di essere qualcos’altro da ciò che sarei stato per sempre.
La libertà mi era
stata tolta, come la vita.
Non potevo che
maledire la mia condizione immutabile.
Il pensiero di
quello che avrei potuto fare per soddisfare quell’impulso terrificante, mi fece
un tale orrore che decisi di non uscire da lì dentro per diversi giorni. Persi
quasi la cognizione del tempo, che in fondo per un essere come me, ha poco
valore. Perché ne abbiamo in abbondanza.
Restai in quella
cantina col terrore di essere scoperto da un momento all’altro, con le
conseguenze che ne sarebbero derivate, lottando ferocemente con quell’impulso
inumano che mi dilaniava.
Ero terrorizzato
dall’idea che potessi uccidere qualcuno. Giudicai strani i miei stessi
pensieri.
Se ero diventato un
mostro non avrei dovuto preoccuparmi delle conseguenze delle mie azioni, eppure
continuavo a pensarci e più ci pensavo più mi sentivo atterrito dal disgusto di
me stesso. Ma era chiaro che non avrei potuto restare dov’ero in eterno. Dovevo
fuggire, allontanarmi dagli umani.
Non potevo restare
così vicino a loro, era un rischio troppo grande. Attesi che scendesse
nuovamente la notte per allontanarmi dalla città. Volevo evitare accuratamente
qualsiasi incontro, evitare la tentazione di lasciarmi trascinare dalla mia
natura. Ancora non sapevo se potevo dominarla e non lasciarmi sopraffare.
Dovevo ancora
imparare a conoscerla.
Ne ero assolutamente
disgustato e la rifiutavo ostinatamente, ma ne avevo paura; temevo che prima o
poi essa avrebbe preso il sopravvento sulla coscienza che stranamente sembravo
non aver perso del tutto. La sola idea mi spaventava con una violenza inaudita.
Ma prima di arrivare a scoprirlo dovevo fare qualcosa.
Non volevo
trasformarmi in un assassino; era l’unico pensiero lucido che mi sforzavo di
tenere a mente durante quelle prime ore.
Decisi che non mi
sarei nutrito, e forse sarei morto di fame e stenti; non sapevo quanto fosse
difficile per un vampiro uccidersi volontariamente. Mi nascosi nella foresta
dove restai per qualche tempo, ero giovane e molto forte e sentivo la sete
bruciarmi la gola e i sensi come un fuoco ardente.
Non placare quella
sete era doloroso quanto un supplizio.
Avevo paura di me
stesso. Se anche vagamente fiutando l’aria, mi capitava di captare l’odore del
sangue umano, fuggivo velocemente cercando di evitare la fonte della mia
tentazione.
Oggi riesco a
resistere praticamente senza troppi sforzi, ma all’inizio fu davvero difficile.
E spesso mi
scoraggiavo; non ero sicuro di essere abbastanza forte.
Era difficile resistere
all’odore del sangue che potevo cogliere anche da grandi distanze; bastava una
debole traccia e la voglia di sentire quel liquido scaldare il mio corpo
freddo, mi faceva quasi ansimare di desiderio, col veleno che inondava la bocca
e non dava pace.
Ma forse la pace non
è per i vampiri.
Perché l’odore del
sangue per noi è come una seduzione, un desiderio impellente e potente, un
profumo inebriante che ottenebra i sensi e la ragione, che scatena le nostre più
potenti pulsioni. Eppure, sostenendo sforzi enormi, riuscii a non nutrirmi per
molto tempo, indebolendomi; il problema era che non potevo morire, neanche
così. Poteva solo aumentare la mia sete in maniera intollerabile e il pericolo
che prima o poi, spinto dall’esasperazione compissi l’irreparabile.
Iniziai a pensare al
suicidio quasi in maniera ossessiva, senza immaginare quanto fosse remota come
possibilità.
Un'altra libertà che
a noi vampiri è negata.
Cercai
disperatamente un modo per togliermi la vita; da un dirupo mi gettai nel vuoto
sperando di schiantarmi al suolo, e ad ogni fallimento cercavo altezze ancora
più vertiginose che crescevano in proporzione alla mia disperazione. Invaso
dalla frustrazione tentai di annegare, ma trattenere il respiro è troppo facile
e poi non abbiamo bisogno di respirare.
Il nostro corpo è
duro come la roccia e in natura non esiste nulla che può scalfirlo.
Capii presto che non
potevo uccidermi, almeno non da solo, ma questo lo avrei scoperto solo molto
più avanti nel tempo. Questo fatto gettò altro sconforto e desolazione nella
mia anima tormentata; condannato a vivere in eterno, lontano dagli uomini e dal
mondo, nella completa solitudine, divorato dalla mia sete che non volevo
placare in alcun modo, l’eternità che mi si apriva davanti mi appariva come un
peso enorme da sostenere.
Come avrei fatto a
conviverci? Potevo trovare un senso ad un’esistenza che si prospettava
assurdamente vuota e spenta come un buco nero? C’erano altre risorse in me che
forse non conoscevo ancora e che avrei scoperto? C’erano altre possibilità per
affrontare quella specie di vita?
Se di vita si
trattava?
Dire che ero
disperato era poco; la mia era un’ angoscia che non trovava sfogo e macerava
all’interno, perché i vampiri non hanno lacrime per piangere.
Certe notti gridavo
verso il cielo e invocavo un aiuto. Ma dubitavo che le preghiere di un vampiro
potessero essere esaudite.
Se avevo perso la
mia anima come potevo sentirmi così disperato?
Col dolore
m’illudevo ancora di essere vivo.
Perché esistevano le
creature come me? Perché l’universo aveva potuto concepire un simile abominio?
Che cos’ero davvero?
Male allo stato puro, una forza oscura sfuggita al controllo della natura?
Tali domande mi
dilaniavano ed era impossibile trovare risposte che avessero un senso.
Mi ostinavo a
interrogare un Dio che forse non poteva più ascoltarmi, ne sentirmi.
Forse non mi aveva
mai sentito, se ora mi trovavo perso per sempre nel mio baratro personale.
Poi, un giorno
accadde qualcosa.
Ero nascosto nel
cuore della foresta, come un animale che si sente braccato, lontano da
qualsiasi insediamento umano da cui tendevo ad allontanarmi sempre più.
Avvertii un profumo
che già conoscevo, ma per la prima volta la mia reazione fu diversa; meno
dolce, selvatico e comunque invitante, mi sentivo attratto come da una forza
irresistibile. Era sangue certamente, ma non era umano.
Probabilmente ero
talmente sfiancato dalla fame che seguii solo l’istinto senza fermarmi a
pensare per un solo istante a quello che avrei fatto. Sapevo solo che non era
umano e mi bastava.
Seguii quella
traccia eccitato, la percepivo tra il folto fogliame rigoglioso del sottobosco
che si apriva al mio passaggio e scoprii un branco di cervi. Li attaccai
immediatamente senza pensarci e quando tentarono una fuga inutile, mi sentii
galvanizzato dalla caccia. Quando affondai i denti nel collo del primo animale,
ebbi la sensazione di rinascere. Sentire il suo sangue scendere nella mia gola
mi fece sentire subito meglio; il calore si diffuse nel mio corpo freddo e un
sentimento d’indefinibile sconcerto lasciò il posto all’euforia immediata;
trasportato da quell’ondata, feci una strage.
Le forze tornavano e
con loro tornò la speranza.
Potevo nutrirmi di
sangue animale, come da uomo mi ero nutrito di carne animale.
Potevo riuscire a
non essere un assassino e vivere senza uccidere esseri umani per cibarmene.
Mi parve un ottimo
compromesso, era la mia prima vittoria.
Ben presto ritrovai
la piena forza completamente.
Vissi così per
moltissimo tempo, anni forse, sempre restando isolato e nascosto nel cuore dei
boschi, tra le montagne, nei recessi più impervi, come un selvaggio quasi,
cacciando animali di tutte le specie, evitando possibili incontri umani perché
comunque non volevo correre rischi inutili.
Ma iniziavo ad
avvertire la solitudine; fu una di quelle sensazioni che mi sorprese.
Poteva un vampiro
sentirsi solo?
Mi sembrava bizzarro
e io mi sentii confuso.
Oggi so che possiamo
provare non soltanto la tristezza e la solitudine, scrutata lungamente con
ansia negli occhi di mio figlio Edward, ma la gioia, la speranza, addirittura
l’amore.
Sentimenti umani
ancora forti in me e li ritrovo altrettanto forti nei miei figli.
E di questo non
posso che esserne felice.
Cercai di ascoltare
tutte quelle nuove e antiche sensazioni che la mia nuova condizione perenne mi
imponeva. Riflettei sul fatto che erano sensazioni tipicamente umane e
cominciai a pensare che non tutto della mia vecchia vita fosse andato perduto;
certe emozioni sembravano identiche, ma ancora non sapevo se col tempo si
sarebbero affievolite fino a sbiadire completamente. Stavo scoprendo giorno per
giorno la mia natura e tentavo di capire quanto fosse rimasto in me di umano.
Certo, molte sensazioni erano amplificate: profumi, suoni, odori, colori, tutto
era più acceso e intenso, viverlo era qualcosa di travolgente, a volte
inebriante.
Sembravano
esperienze totalizzanti; come la prima volta che scoprii cosa accadeva alla mia
pelle se mi esponevo alla luce del sole, quel luccichio mi lasciò quasi senza
fiato per la sorpresa.
Ecco spiegata la
leggenda secondo cui i vampiri non potessero esporsi alla luce solare.
Era passato molto
tempo dalla trasformazione e non ero più tornato a Londra; dopo che ero vissuto
per tanto tempo lontano dagli uomini, forse fu proprio la solitudine a
smuovermi e decisi che dovevo mettermi alla prova, tastare la mia resistenza.
Non volevo
continuare a vivere come un eremita, seppellirmi in un essere sì immortale, ma
chiuso e involuto.
Improvvisamente mi
si aprivano davanti nuove possibilità che da uomo mortale non avrei certamente
avuto; potevo ampliare le mie conoscenze, migliorarmi, studiare, avevo tutto il
tempo che volevo, l’eternità era davanti a me. Dovevo usarla a mio vantaggio.
Mio padre: mi era
capitato di pensare a lui con un sentimento di acuto dolore e mi chiedevo come
avesse reagito alla mia scomparsa, se mi avesse fatto cercare.
Così in una giornata
nebbiosa attraversai la foresta che mi aveva accolto fino a quel momento e che
ormai consideravo la mia casa, e con una certa apprensione mi apprestai a
raggiungere la città. I sensi all’erta, cercavo di captare ogni cosa,
ripromettendomi di fare marcia indietro al minimo allarme, se mi fossi accorto
di non riuscire a controllarmi.
Entrai in città
guardingo e tra i vicoli sudici e fangosi dove affondavano le ruote dei carri
trainati dai cavalli, avvertivo l’odore dell’esistenza, del sangue vitale che
pulsava nelle vene dopo una corsa, il sudore sulla pelle accaldata dalla
fatica: gli odori mi investivano tutti insieme quasi togliendomi il respiro,
anche l’aria attorno ne era impregnata, rendendola quasi stagnante.
Non avrei mai
immaginato che una città potesse avere un odore simile.
Gli odori della
foresta erano diversi, selvaggi, ma sapevano di libertà, di fresco, di armonia
ed equilibrio del tutto. A volte me ne sentivo parte, come se anch’io fossi un
elemento naturale e non un errore tragico del caso.
Nella boscaglia,
disteso all’ombra di una grande quercia, potevo quasi sentirmi in pace con me
stesso, il suo silenzio mi calmava, mentre il canto degli uccelli era una
musica festosa.
Odori e profumi
della città erano come una cacofonia, un rumore che mi stordiva; si mischiavano
tutti insieme senza legarsi; odori forti, deboli, pungenti e anche disgustosi,
di umori, di fluidi del corpo misto al sangue dolce, addirittura il latte di
una puerpera che allattava il suo bimbo al seno florido. Al brusco contatto con
l’umanità del mondo percepii chiaramente di non farne parte, di essere un corpo
estraneo, estirpato dal suo luogo d’origine ed ebbi la tentazione di fuggire.
Non era più il mio
mondo e mai ne avrei fatto parte, non potevo mischiarmi in mezzo agli uomini.
Ma la solitudine
eterna mi sembrava spaventosa. Mi imposi di resistere all’ennesima prova.
Mi ero procurato un
mantello con un cappuccio per nascondere il mio volto e mi muovevo velocemente
col favore della nebbia, sapendo che non c’era occhio umano in grado di
notarmi.
Arrivai in
prossimità di quella che un tempo era stata la mia casa.
Scorgevo la finestra
con le tende dietro cui mia madre osservava i suoi figli giocare. Mi prese la
nostalgia.
Da essa non
proveniva alcun rumore. Era vuota in quel momento.
Lì vicino, potevo
vedere la chiesa che una volta avevo frequentato, dove mio padre dal pulpito ligneo
predicava i suoi sermoni apocalittici.
Vidi due donne
vestite nei loro abiti scuri, uscire dalla chiesa. Udii le loro parole.
Stavano parlando di
mio padre… e di me. Uno strano brivido mi percorse.
“Da quando suo figlio
è morto, non è più lui. Aveva riposto tutte le sue speranze in quel ragazzo…”
stava dicendo la prima delle due.
“In realtà il suo
timore è un altro… non ha una tomba su cui piangere, del figlio non fu mai
trovato il corpo… chi è sopravvissuto a quella notte tremenda, ha raccontato
che Carlisle fu aggredito dal mostro…”
“Tacete, fate
silenzio…” e vidi una delle donne farsi il segno della croce, timorosa.
Quindi era questo
che mio padre pensava; che fossi morto, o peggio, che fossi dannato.
Forse la seconda
ipotesi era quella più vicina alla verità, o forse erano vere entrambe le cose.
La dannazione era qualcosa che ancora io mi rifiutavo di accettare, qualcosa in
cui non volevo credere, nonostante fossi assolutamente consapevole di cosa
fossi diventato. In realtà non riuscivo più a distinguere nettamente i confini
tra bene e male, mi pareva si confondessero nella mia essenza misteriosa e
inspiegabile.
Sentii una strana
tristezza entrarmi nel cuore spento; se avevo avuto il vago desiderio di
incontrare il mio severo padre, fu in quell’istante che capii che non sarebbe
stata una buona idea.
Cosa avrei potuto
dirgli? Cosa avrei potuto spiegargli? Come avrebbe potuto accettare la verità?
Avrebbe preferito
sapermi morto, che sapere in cosa mi ero trasformato, su questo non avevo alcun
dubbio.
Decisi di entrare in
chiesa; se ero davvero un demone, forse mi sarei incenerito sulla soglia. L’ho
quasi sperato e forse restai deluso dal fatto che non accadde nulla.
Assolutamente nulla.
In realtà avevo
smesso da tempo, di sorprendermi della quantità di leggende infondate che erano
sorte attorno alla nostra specie. Perché era così che tendevo a classificare me
stesso, ormai: specie sconosciuta dalla provenienza ignota.
La navata centrale
mi accolse nella sua semioscurità, ma per i miei occhi non era un problema.
Avanzai fino ai primi banchi sul fondo, vi sedetti e presi ad osservare i pochi
fedeli presenti in quel momento dentro la chiesa; una donna in una piccola
cappella stava accendendo un cero votivo, altre figure dall’aria mesta erano
sedute sparse qua e là tra i banchi.
Una in particolare
attirò la mia attenzione; era un vecchio con le spalle curve come se fosse
gravato da un peso, inginocchiato a capo chino alle prime file quasi davanti
all’altare.
Stava pregando
totalmente assorto e nel suo atteggiamento, nella posa rigida, riconobbi
qualcosa di famigliare; mi alzai e lentamente mi avvicinai a lui attraversando
la navata centrale. Non avrebbe potuto sentirmi.
Mi andai a sedere al
lato opposto al suo qualche fila dietro di lui, lo osservavo col cappuccio
calato sugli occhi. Un raggio di luce filtrava da una delle vetrate istoriate,
illuminando il pulviscolo che ballava nell’aria, ma io rimasi nell’ombra.
Rimasi fermo lì, per
non so quanto tempo.
A guardare quel
vecchio… che restava avvolto nel suo silenzio fatto di mistero…
a pensare cosa avrei
potuto dirgli… a quel vecchio che era mio padre.
Ancora oggi, quando
torno con la memoria a quell’episodio, penso che in quel momento, avrei voluto
avere il dono di Edward. Non tanto per cogliere il pensiero di mio padre che
potevo quasi indovinare; avrei voluto scrutare il ricordo dell’uomo che ero
stato e iniziavo a dimenticare.
Io non ero più il
figlio che lui poteva ricordare; sapevo di essere diverso anche nell’aspetto,
avendo visto la mia immagine riflessa sullo specchio cristallino delle acque di
montagna: un viso angelico dallo sguardo mutevole, dove l’azzurro ceruleo era
scomparso per sempre in un pallore mortale.
Dopo lunghi minuti
passati a pensare a cosa fosse giusto fare, alla fine decisi: lentamente, mi
alzai per andarmene. Lo lasciai lì, nel silenzio della sua preghiera, chiuso in
quel dolore che io non avrei potuto consolare, ne alleviare.
Me ne andai senza
mai voltarmi indietro.
E comunque, indietro
non potevo tornare; potevo solo tentare di andare avanti.
In qualche modo.
Quando fuori dalla
chiesa mi ritrovai avvolto tra la nebbia di quelle strade malsane, pensai di
cercare nelle fogne dove si nascondevano come topi, tracce dei miei simili.
Restai deluso e
insoddisfatto; fu in quel preciso istante che decisi di lasciare Londra.
E con essa, mio
padre: non lo avrei mai più rivisto.
Continua…
Volevo
ringraziare tutti coloro che hanno letto il precedente capitolo, quelle che sono
state così gentili di aver recensito e quelle che hanno messo la mia storia tra
le preferite; non me l’aspettavo e mi fa piacere.
Inizialmente
doveva essere una one – shot, ma la storia si è allungata più del previsto nel
tentativo di sviscerare bene il personaggio, quindi penso che ci saranno almeno
un paio di capitoli in più.
Spero
che continuerete a leggerla. Come sempre i consigli saranno bene accetti.
Vagai attraverso le
foreste del Nord Inghilterra per un po’, ma ogni tanto mi avvicinavo alle
città, quando sentivo la necessità di soddisfare certi bisogni legati al mio spirito;
dovevo coltivare la mia interiorità, educare il mio pensiero al raziocinio se
non volevo essere sopraffatto dall’istinto, che in me era ancora troppo forte.
Sentivo il bisogno impellente di ampliare i miei orizzonti e la mia mente.
Forse inizialmente
fu un modo per vincere la solitudine che sentivo sempre più pressante, e i
primi tempi ne trassi notevoli benefici; leggere e apprendere nuove verità e
scoperte, mi faceva evadere un po’dalla realtà e mi faceva sentire quasi
normale.
Il fatto che fossi
diventato un vampiro non implicava che non dovessi più preoccuparmi di
conservare un comportamento umano, e fortunatamente avevo mantenuto in me un
vivo interesse per la conoscenza; mi erano sempre interessate le arti, le
scienze e in particolare la medicina. Presi a leggere testi di anatomia. La
decisione di diventare medico arrivò solo dopo in un secondo momento,
all’inizio era pura curiosità.
Divenni un assiduo
frequentatore di biblioteche ed ero sempre molto attento a nutrirmi
adeguatamente, prima di mettere alla prova i miei istinti; essere a stretto
contatto con gli umani era per certi versi, ancora faticoso, ma lentamente
stavo imparando. La prendevo come una sorta di espiazione per ciò che ero
diventato e sopportavo di buon grado, perché sarebbe stato molto più terribile
per me, cedere alla mia natura e lasciarmi trascinare da essa.
Mi avrebbe
annientato una possibilità del genere.
Per fortuna sono
sempre stato ostinato.
Tentavo di
convincermi che se ero riuscito a resistere fino a quel momento, potevo
continuare su quella strada, perché ero su quella giusta. A volte era
difficoltosa, ma sentivo che dovevo perseverare, perché se c’era una
possibilità di salvezza per la mia anima, ammesso che ne avessi una, era in
quel modo che potevo trovarla.
Ero fermamente
convinto che se avessi fatto il possibile per essere migliore di ciò che ero,
avrei potuto salvare me stesso.
Seppur incredulo, mi
rallegravo del fatto che i miei sentimenti non sembravano affievolirsi, anzi
erano se possibile ancora più potenti, come se fossero in qualche modo
rapportati alla mia forza straordinaria.
Io continuavo a
provare delle emozioni molto umane che in alcune situazioni affioravano con
prepotenza; ad esempio, se vedevo qualcuno che stava male, ero preso dalla
smania di riuscire ad aiutarlo, e Dio sa se in quei tempi, la morte e la
sofferenza cogliessero gli uomini molto più velocemente attraverso innumerevoli
malattie che non davano scampo: peste, colera, vaiolo, sifilide, c’era solo
l’imbarazzo della scelta, e le epidemie erano eventi assolutamente naturali che
mi ero e mi sarei trovato spesso ad affrontare.
Resistere al sangue
poteva essere una tortura, e mi ci volle quasi più di un secolo per diventare
indifferente all’odore, ma di fronte alle varie piaghe dell’umanità mi sembrava
che fosse tollerabile.
Se ero davvero una
creatura senz’anima, cosa di cui dubitavo, non avrei dovuto provare nulla del
genere, meno che mai la compassione, quindi doveva essere giusto ipotizzare che
quel mio sentire provenisse dal mio spirito.
O qualcosa di assai
simile.
Ragionando e
riflettendo sul concetto, mi convinsi quasi totalmente di questo.
Dovevo essere nel
giusto.
Fu una convinzione
che lentamente mi fece rinascere a nuova vita, mi portò a sperare di non avere
perso tutto.Certo, continuavo a
disprezzare la mia natura oscura, ma forse iniziavo a conviverci, ad accettarla
almeno in minima parte.
In fondo, non è un
po’ quello che fanno tutti gli uomini, vivere con le loro debolezze, con le
loro pulsioni più bestiali senza lasciarsi sopraffare da esse? Senza farsi
dominare?
Era quello che stavo
cercando di imparare a fare io. Stava diventando una sfida con me stesso e
dovevo vincerla.
Per dominare una
natura quasi incontrollabile, tanto potente e selvaggia, occorreva un tempo
quasi infinito, un tempo che i comuni mortali non avevano, ma io sì.
Forse per questo a
quelli come me era stata concessa l’eternità.
In futuro, sarebbe
stata proprio la mia natura a consentirmi di salvare con prontezza molte vite
umane, usando le mie capacità sensoriali; l’olfatto mi avrebbe fornito preziose
e tempestive informazioni sulla salute dei miei pazienti, perché le cellule di
un corpo umano malato, hanno un odore diverso da uno sano e questo mi avrebbe
consentito diagnosi precoci e più precise.
Quell’energia
misteriosa che mi aveva generato come male assoluto, l’avrei plasmata in una
sostanza benevola. Ma sarebbe passato un tempo lunghissimo prima di arrivare a
un simile controllo.
Prima di lasciare
per sempre Londra avevo cercato altri vampiri, per tentare di capire come
fossero, se vivevano i conflitti che vivevo io, ma scoprii che erano solo dei
mostri dominati unicamente dai loro impulsi. Si erano abbruttiti e involgariti,
e non facevano nulla per tentare di migliorare la loro condizione di reietti;
erano interessati solo al sangue umano e nient’altro.
Non avrebbero potuto
darmi ciò che cercavo; qualcuno con cui confrontarmi, che mi facesse vedere uno
spiraglio di luce in mezzo alle tenebre che stavo attraversando.
Per questa ragione decisi
di andare in Francia e attraversai la Manica a nuoto.
Dal punto di vista
intellettuale la Francia era un paese che poteva offrirmi molti e nuovi
stimoli; lì proseguii i miei studi, coltivai i miei interessi artistici e la
mia curiosità. Erano gli inizi del ‘700 e la società francese era decisamente
più libera di quella inglese, meno bigotta e dai costumi più disinvolti e
frivoli. Mi avvicinai un po’ di più agli umani, cercando di confondermi con
loro, aiutandoli per quanto riuscivo, ma non potevo ottenere quella vicinanza e
compagnia che cercavo. Riuscivo a camuffarmi dietro i miei occhi che per
fortuna avevano perso quel colore rosso vermiglio inquietante delle origini, ed
erano mutati in un colore castano dorato più rassicurante, eppure a volte mi pareva
di percepire una paura indefinita negli uomini che incontravo, come se
inconsciamente qualcosa dicesse loro che non erano al sicuro con me nei
paraggi.
Fu in Francia che
conseguii la mia prima laurea in medicina; studiavo di notte, non avendo bisogno
di dormire e durante il giorno svolgevo un’ attività di traduttore che mi
permetteva di mantenere una parvenza di esistenza comune e decorosa.
A volte la sete si
faceva sentire prepotente; quando coglievo un profumo più invitante del solito,
il veleno inondava la bocca e allora dovevo allontanarmi velocemente, per
evitare di distruggere tutti gli sforzi che avevo fatto fino a quel momento. I
miei successi erano altalenanti e ciò contribuiva a minare il mio precario
equilibrio, sempre in bilico su quel filo sottile e fragile che era la mia
volontà. Certi pensieri cupi e rossi di sangue mi assalivano ancora, facendo
vacillare pericolosamente la mia resistenza, rendendomi profondamente insicuro
e timoroso di perdermi.
Così a volte, avevo
la sensazione di tornare indietro e le conquiste che avevo fatto sembravano
annullarsi: era una lotta estenuante fra due esseri opposti che convivevano
forzatamente dentro di me, che avrei dovuto sostenere ancora a lungo e il
mostro molto spesso ruggiva e reclamava violentemente i suoi diritti.
Ma non so dove, per
fortuna trovavo sempre la forza necessaria per metterlo a tacere e lui tornava
a nascondersi nei recessi più bui della mia anima per un po’.
Passavano gli anni e
nella mia esistenza solitaria il tempo sembrava dilatarsi all’infinito e tutto
pareva scorrere lento e immutabile; la solitudine della mia condizione infelice
aumentava in modo sempre più pesante, ma non avevo mai incontrato neppure in
Francia qualcuno che fosse come me, almeno a livello emotivo; forse io rappresentavo
un’ eccezione, una nota stonata disegnata sul pentagramma da un musicista
distratto; cominciavo a pensare che i vampiri fossero tutti concentrati a
Londra e che la loro natura fosse quella di esseri ormai dannati e senza alcuna
possibilità di redenzione.
Io però mi ostinavo
a pensare che la mia esistenza immortale non l’avevo scelta e che quindi,
potevo e dovevo tentare di elevare me stesso, non accettare supinamente una
disgrazia che mi era capitata. Non avevo mai preso nulla per assoluto e nel
profondo ero ancora convinto che anche bene e male fossero termini relativi.
Fu proprio a Parigi
che attorno al 1730 incontrai per la prima volta un altro vampiro solitario
come me. A parte questo, non avevamo nient’altro in comune. Lui si nutriva di
sangue umano e non aveva alcun rimorso per il tipo di vita che aveva scelto di
condurre.
Si chiamava Etienne;
aveva almeno un secolo più di me e non era mai uscito dalla Francia.
Lo incontrai per
caso una sera mentre giravo per le strade sordide della città; avevo appena
iniziato a esercitare come medico e stavo andando a fare visita a un bambino
che aveva una febbre violenta.
Lo vidi in compagnia
di una donna piuttosto avvenente, forse una cortigiana a giudicare
dall’aspetto, che a breve sarebbe morta. Lei era totalmente succube e non
pareva rendersi conto del pericolo che lui rappresentava. Potevo leggere la
voglia nei suoi occhi assetati e cerchiati di viola.
Incrociammo i nostri
sguardi senza parlare, riconoscendoci per quello che eravamo, mal celando un
moto di sorpresa. Ci saremmo incontrati di nuovo e avremmo approfondito la
reciproca conoscenza.
Oggi sono convinto
che anche Etienne, in modo sottile, sentisse il peso della solitudine; solo per
questo, per un certo periodo ci avvicinammo uno all’altro, anche se i nostri
stili di vita non avrebbero potuto essere più diversi.
Io cercavo di
salvare delle vite, lui le stroncava senza esitare mai.
E naturalmente
Etienne non comprendeva la mia scelta, giudicandola assurda e innaturale.
“Non sai a cosa
rinunci, Carlisle. Gli uomini sono le nostre prede naturali e noi siamo
assassini. Non possiamo essere nient’altro che questo…”
Naturalmente non ero
d’accordo con lui.
“Se fosse così, tu
ti limiteresti a uccidere per soddisfare la tua sete, non sprecheresti tempo ed
energie per sedurre delle potenziali prede…”
“L’eternità può
essere noiosa, Carlisle…io cerco solo di renderla interessante. E tu in fondo,
fai la stessa cosa, anche se in modo diverso…”
Obbiettava col
chiaro intento di provocarmi, ma forse in parte aveva ragione; anch’io ero
spaventato dall’eternità. Avevo riflettuto spesso sulle sue parole e mi ero
chiesto se non stessi solo cercando una motivazione logica all’esistenza di
esseri come me.
Ma durante i nostri
confronti io ribattevo sempre con assoluta calma.
“No, le mie
motivazioni sono diverse. Io sono convinto che qualcosa della nostra essenza
umana resti in noi… è difficile, non lo nego, ma dovremmo cercare di preservare
questa componente umana, invece di farci dominare dal nostro istinto di predatori…
solo così possiamo elevarci al di sopra di noi stessi.”
“Elevarci al di
sopra di noi stessi?”
“Migliorarci,
evolverci nelle nostre coscienze…”
“L’evoluzione non è
per i vampiri: siamo immutabili. Ma che cosa intendi per essenza umana?” Sentivo
perplessità nella sua voce.
“Sto parlando di…
anima, Etienne.”
Alle mie parole
esitanti, lui reagì con una palese espressione di sbigottimento e quando mi
rispose, quasi si mise a ridere.
“Cosa? Tu credi che
i vampiri abbiano un’ anima? Non dirai sul serio!!”
“Sì, invece.”
Azzardai.
“È la teoria più
bizzarra che abbia mai sentito!!” Esclamò assolutamente divertito.
Ci perdemmo in
svariate e lunghe discussioni dove mi ostinavo ingenuamente a difendere la mia
idea, ma non riuscii mai a persuaderlo. Sarebbe stato come convincere un ateo
dell’esistenza di Dio.
Io invece ero
convinto che Dio o chi per lui, governasse noi come governava il mondo e il
resto dell’universo, e l’energia che aveva generato i vampiri era la stessa che
aveva creato l’uomo e forte di questo, ho fatto il possibile per trasmettere
questa convinzione anche ai miei figli.
Ma Etienne
ridicolizzava il mio pensiero e si ostinava a sostenere la tesi contraria.
“No Carlisle,
convinciti. Noi non abbiamo un’ anima. Siamo dannati. Quanto prima ti
rassegnerai a questa verità, tanto meglio accetterai la tua natura e smetterai
di torturarti. Guarda me: io sono contento di quello che sono e prendo tutto
quello che viene.” E allargava le braccia in un gesto plateale.
“A te interessa una
cosa sola…”
“Sì, è vero! -
rideva – ma è il meglio che ci viene dato!”
“Il meglio? Ma non
ti senti limitato? Non ti sembra vuota la tua vita, perennemente uguale di
giorno in giorno?”
“Siamo immortali,
Carlisle! È una realtà che non possiamo cambiare. Che limite potremmo avere?
L’unica cosa che può ucciderci e la noia!! L’eccitazione del sangue, il piacere
violento della conquista, il potere di vita e di morte è l’unica cosa che fa
sentire vivi quelli come noi!”
Non c’era verso di
fargli comprendere il mio punto di vista.
Etienne era teso nel
perseguimento ossessivo di tutti i piaceri che la sua condizione gli dava e
nell’arco di oltre 150 anni aveva affinato ogni possibile strategia che gli
permettesse di raggiungere i suoi obbiettivi.
La sua tecnica di
caccia non aveva nulla a che vedere con quella di un qualsiasi altro vampiro
che uccideva gli umani. Le sue prede, solo donne, lui le seduceva, le irretiva.
Etienne riusciva molto bene in questo perché era un individuo estremamente
raffinato ed elegante nei gesti e negli atteggiamenti, e possedeva un fascino
ammaliante a cui le donne parevano non resistere: era questa la loro sventura.
Quando puntava una
delle sue vittime, questa non aveva scampo.
Un po’ tutti i
vampiri hanno questa capacità, ma in lui era sviluppata in sommo grado e sapeva
esercitare con notevole talento il suo ascendente in modo fatale: era il suo
potere.
Era lo stesso
carisma che ho potuto osservare in mio figlio Edward, ma lui non l’ha mai
esercitato fino in fondo.
Era lo stesso
fascino conturbante che ho trovato in Rosalie, esacerbato e nascosto dietro
all’astio di una vita mai voluta e vissuta con l’ amara consapevolezza di non
poter tornare indietro.
Probabilmente da
umano, Etienne doveva essere stato un libertino e aveva mantenuto questa
caratteristica anche da vampiro, perché la conquista erotica per lui era un
piacere unito a doppio filo a quello del sangue. La seduzione faceva parte del
gioco mortale e nel momento in cui l’atto culminava con l’estasi dei sensi, si
univa l’euforia dell’ appagamento della sete attraverso il sangue; all’apice
del godimento lui uccideva famelico, traendo da questo un piacere immenso.
Era l’essere più
sottilmente perverso che avessi mai incontrato; le nostre nature sembravano
troppo lontane, rendendo quasi impossibile qualsiasi confronto. Eppure, uno
strano giorno in cui mi sentivo più solo del solito, mentre annaspavo nel mio
sconforto, incredibilmente fu lui a toccare il nervo scoperto di ciò che mi
angustiava.
“Che cosa vorresti
davvero, Carlisle?” mi chiese con estrema serietà.
“Come? Non capisco…”
“Non vuoi bere
sangue umano, e va bene, ma devi ammettere che vorresti ci fosse qualcuno con
cui dividere l’eternità. Mi chiedo perché non ti sei ancora creato un compagno
o una compagna: non mi dirai che ti fai delle remore anche su questo, vero? Che
cosa aspetti? Che qualcuno te lo chieda spontaneamente?”
“Tu l’hai mai
fatto?” nella mia voce c’era una nota di apprensione.
“L’ho fatto e lo
faccio ancora se mi viene la voglia…” fu la sua frase lapidaria.
Ricordo che furono proprio
le sue parole a scatenare la mia inquietudine, ad accendere qualcosa nel mio
animo.
Nel tempo presi a
valutare la possibilità di crearmi un compagno, meglio ancora una compagna, ma
quell’idea fece sorgere in me altri dubbi e perplessità e fui molto restio ad
attuarla; era giusto condannare qualcuno alla mia stessa sorte? Togliere la
vita a una persona per il mio bisogno egoistico di non essere solo? Col rischio
poi, di creare un altro vampiro assetato di sangue che avrebbe distrutto altre
vite?
Non era un’azione
che potevo compiere con leggerezza.
Erano domande che
non potevo evitare di pormi.
Forse quello che io
ero diventato, dipendeva in massima parte da ciò che ero stato come uomo.
Avevo solo delle
teorie in testa, ma nulla era dimostrabile.
Soprattutto avevo
paura di commettere un errore, un’ ingiustizia che non avrei potuto riparare;
togliere la vita a un essere umano era un’ idea che mi atterriva, mi
disgustava, inoltre temevo che se avessi assaggiato per la prima volta il
sapore del sangue umano, non sarei più riuscito a fermarmi e mi sarei
trasformato nel mostro che fino a quel momento, ero riuscito con grande fatica
a soffocare dentro di me.
Quella era una
possibilità che dovevo considerare e mi lacerava.
Forse ero condannato
a restare solo. Avrei dovuto accettarlo.
Logorato dai miei
strani pensieri, mi sentivo inquieto e la tentazione di attuare il mio
proposito agitava il mio animo, ma ero troppo combattuto e insicuro sul da
farsi.
Capii che non era il
momento, non ero pronto a fare un passo simile.
Mi gettai ancora di
più nei miei studi di medicina e desiderai ulteriormente ampliare le mie
conoscenze.
Era passato qualche
decennio; per me era giunto il momento di lasciare anche la Francia che non
riusciva più a darmi quello a cui anelavo, ne a rispondere alle domande che mi
ponevo ancora, sulla mia natura e la mia condizione. Non avevo mai smesso di
interrogarmi sul problema se fossi dannato o meno, se la mia anima si era
smarrita anni prima a Londra o se avesse conservato la sua essenza. Lo speravo,
volevo crederlo, ma non avevo certezze, tranne quel sentimento di compassione
che continuavo a provare e che fortunatamente non mi aveva mai abbandonato. Era
la sola cosa che alleviasse la mia pena e l’angoscia che a volte affiorava,
quando sentivo che la mia esistenza non aveva senso.
Così ripresi la mia
vita errabonda, chiedendomi se mai avrei trovato un’ ultima dimora stabile in
cui trovare una quiete impossibile.
Varcai i confini e
arrivai in Italia. Il paese del sole.
Dovetti fare molta
attenzione a non rivelare il mio vero aspetto, così mi muovevo soprattutto sul
far del crepuscolo e nelle ore notturne.
Arrivai a Milano,
città all’epoca sotto la dominazione austriaca, e lì passai qualche anno
concentrato su nuovi studi di carattere scientifico.
Poi, in Toscana;
prima Firenze, città ricca di cultura e di storia che mi affascinò moltissimo
con le sue opere architettoniche e la sua arte rinascimentale.
Quello era uno dei
vantaggi di poter essere un vampiro immortale; la possibilità attraverso i
secoli e i continenti, di estendere all’infinito lo scibile umano.
Finché un giorno,
nel mio peregrinare, arrivai nella cittadina etrusca di Volterra; fu qui che
feci l’incontro forse più sconvolgente da quando era iniziata quella mia strana
disavventura, l’unico fino ad oggi che davvero mi abbia messo in crisi
facendomi quasi vacillare e dubitare della mia scelta…
Continua…
Nota: il personaggio di Etienne è puro frutto di fantasia e non conoscendo
affatto la letteratura vampiresca, se non il “Dracula” di Stoker, non saprei
dire se esiste un personaggio che in qualche modo gli somigli. Se voi ne sapete
più di me, magari fatemelo notare.
Ho pensato che questo vampiro libertino fosse una figura perfetta
da collocare nel periodo storico del ‘700, inoltre poteva creare un certo
contrasto con Carlisle. Ho alzato il raiting proprio per la descrizione che
faccio di lui e anche il prossimo capitolo potrebbe essere un po’ più forte,
rispetto ai primi. Ditemi che ne pensate.
Come sempre grazie di cuore per le vostre recensioni e per come
avete accolto la mia storia, tanto da metterla nei preferiti e seguiti, spero
che continui a incuriosirvi almeno un po’. Come sempre mi rimetto al vostro
giudizio.
Ho letto e riletto mille volte questo capitolo. È stato difficile
da scrivere e ha subito molte modifiche, perché volevo cercare di sviscerare
bene i rapporti che si instaurano tra Carlisle e i Volturi; io ci ho provato.
Doveva essere più lungo, ma ho deciso di dividerlo in due parti per non
annoiarvi troppo.
Due note anche sul personaggio di Etienne; non ho mai letto le
“Memorie di un vampiro” anche se avevo presente il film con Tom Cruise e non
escludo che mi sia lasciata un po’ ispirare da quello. In sostanza credo che
Etienne sia una specie di ibrido edulcorato tra Lestat e un altro personaggio,
il Valmont de “Le relazioni pericolose” un romanzo che io amo particolarmente.
Se conoscete il romanzo capirete cosa intendo e Valmont non è esattamente un
angioletto.
Vi ringrazio ancora per tutte le vostre belle parole e spero che
questa storia continui a incuriosirvi e che mi direte ancora cosa ne pensate.
Come sempre vi chiedo di farmi notare eventuali inesattezze. Buona lettura.
*****
Stranamente era una giornata primaverile senza
sole, e io vagavo indisturbato per le stradine della piccola cittadina toscana
come un qualsiasi forestiero. Ero appena stato a caccia nei boschi attorno alle
campagne fiorentine, quindi non mi sentivo oppresso dalla sete e potevo
aggirarmi piuttosto tranquillamente tra la scarsità variopinta di persone che
animavano Volterra.
All’epoca non era ancora il centro turistico
che sarebbe diventata in età moderna, ma attirava comunque un discreto numero
di visitatori e curiosi, per lo più diversi studiosi e archeologi che venivano
lì per le sue rovine etrusche. Quel giorno ricordo che mi sentivo stranamente
felice e sollevato come raramente mi accadeva; camminavo per strada in mezzo
alla gente, e il mio cuore morto nel petto mi sembrava leggero.
Coglievo il vociare allegro delle persone che
incrociavo lungo il cammino: il tipico accento dialettale degli abitanti del
posto si mischiava con quello degli stranieri di varie parti d’Europa.
Strano paese l’Italia, decisamente diversa
dalla mia terra d’origine; lì era come se la gioia di vivere fosse nell’aria e
la respiravi insieme all’ossigeno, penetrava nelle cellule del tuo corpo e ti
contagiava.
I miei pensieri erano concentrati sulle
esperienze positive che avevo vissuto recentemente; le cure che avevo prestato
a un contadino, la vita salvata ad un bambino colpito da una strana febbre;
erano fatti che mi riempivano di gioia e speranza segreta, quasi incontenibile.
Quando attraverso la mia attività di medico riuscivo ad aiutare gli uomini, mi
sembrava di trovare il senso supremo della mia non vita.
Sentivo i profumi dell’aria, l’odore di pulito
del sapone usato dalle donne per lavarsi nelle tinozze, i fiori sui davanzali
delle finestre. Mi sembrava di cogliere sulla mia pelle dura e fredda il
delicato calore, la segreta bellezza del mondo e per una volta io me ne sentivo
parte; era una sensazione fantastica, un piacere talmente raro, che quando
potevo goderne, ringraziavo il cielo per quel dono inaspettato; accadeva quando
non dovevo lottare con la mia natura che in quei momenti era come sopita.
Potrei dire che in quegli attimi mi sentivo davvero in pace, avevo solo il
rammarico che durassero sempre troppo poco: solo il battito delle ali di una
farfalla.
Mi muovevo a caso
senza pensare a dove dovevo andare; non avevo un luogo preciso da raggiungere,
stavo solo godendo di un momento di libertà da me stesso, quando
improvvisamente arrivò alle mie narici un profumo diverso, assolutamente
delicato e seducente, un aroma così sottile che solo un vampiro poteva
cogliere, da non poter appartenere a creatura umana.
Seguii quel profumo
con la brama di raggiungerlo ben sapendo cosa avrei trovato.
Poi, la vidi.
E quello che
restituirono gli occhi non rendeva onore a quel profumo.
Era la creatura più
affascinante che avessi mai visto, di una bellezza superba, provocante e
disumana; il mio turbamento derivò dal fatto che non avevo mai incontrato prima
di quel momento, una vampira che avesse simili fattezze e portamento; statuaria,
era vestita con eleganza ricercata che non passava inosservata, indossava dei
guanti che sparivano sotto le maniche del vestito prezioso e reggeva in mano un
parasole anche se il cielo era grigiastro e solcato da nubi biancastre.
L’acconciatura elaborata dei capelli di una sfumatura rosso mogano le
incorniciava il volto perfetto, pallido come per effetto del belletto,
seminascosto da una veletta calata sullo sguardo inquietante.
Una bellezza altera,
molto simile a quella di mia figlia Rosalie, se possibile ancora più
appariscente.
Trovai sorprendente
quell’ostentazione, ma in realtà c’era un motivo che ancora mi era oscuro e che
presto avrei scoperto con buona dose di orrore e disgusto.
Heidi, così si
chiamava quel demonio con sembianze da angelo tentatore, era un’ esca.
Certamente non per
quelli come me.
Rimasi fermo,
impalato in mezzo alla strada, vittima di quel fascino fatale anche per un
vampiro, mentre la osservavo avvicinarsi con le sue movenze aggraziate e feline
che mi ipnotizzavano. Mi riebbi solo quando udii la sua voce melodiosa che mi
chiamava.
“Chi sei straniero?
Non ti ho mai visto da queste parti… cosa ti porta nella nostra terra?”
Il suo sguardo aveva
catturato il mio e non lasciava la presa.
“Sono appena arrivato
in città… sono in viaggio da molto tempo e cerco un posto sicuro dove fermarmi
per un po’…”
“Il tuo nome? Da
dove vieni?”
Mentre parlava,
aveva chiuso il suo prezioso parasole con un movimento fluido e aggraziato del
braccio fasciato dal guanto e mi guardava con molta attenzione. Non so se
l’avevo colpita, ma dal modo in cui mi fissava sembrava molto interessata a
scoprire chi ero e perché ero lì.
“Mi chiamo Carlisle…
vengo dalla Francia.”
“Carlisle non è un
nome francese…” osservò circospetta.
“Sono di origine
londinese.”risposi con decisione accennando un sorriso.
Mi osservò ancora
per un lungo minuto, prima di invitarmi a seguirla con un sorriso abbagliante.
“Credo che ai
signori per cui lavoro, farebbe piacere conoscerti, Carlisle.” E lo disse in un
modo che mi fece capire non si sarebbe aspettata un rifiuto. Così mi apprestai
a seguirla, convinto che mi avrebbe accompagnato dai “signori” per cui
lavorava, certamente altri vampiri come lei. In fondo ero sempre curioso di
incontrare i miei simili e di potermi confrontare con altri della mia specie.
Quanti di noi giravano indisturbati tra gli uomini?
Nell’arco dei miei
quasi cento anni, ne avevo incontrati pochi in verità, ed Etienne era stato il
rappresentante più interessante. Il comportamento di Heidi però mi smentì quasi
subito.
Lungo la strade
della città che percorremmo, potei vederla all’opera; trascinò con noi senza
sforzo un nutrito gruppo di persone che la seguirono senza opporre la minima
obiezione o resistenza, li incantava con poche parole e con splendidi sorrisi,
invitando i malcapitati a visitare le sale del Palazzo dei Priori che
contenevano la collezione privata di reperti etruschi di una nobile famiglia di
Volterra.
Iniziai a sentirmi
inquieto; col passare dei minuti mentre osservavo il suo comportamento ambiguo,
lentamente compresi quello che stava facendo; stava cacciando, scegliendo
accuratamente le sue prede, rendendomi testimone di quella tecnica insolita.
Quando arrivammo
davanti al palazzo, una costruzione massiccia e anonima con un'unica entrata,
ma senza nessuna insegna o stemma nobiliare, la serenità d’animo che mi aveva
accompagnato durante quelle ore precedenti il nostro incontro, mi aveva ormai
abbandonato, lasciandomi addosso un malessere cupo.
Il mio spirito
iniziava a farsi più grigio e tetro del cielo plumbeo di Volterra.
Il palazzo
all’apparenza pareva essere disabitato, perché mentre entravamo nell’androne
non c’era alcuna presenza di vita umana che segnalasse una qualunque attività
al suo interno.
Le quindici persone
oltre me che seguivano Heidi si guardavano attorno un po’ stranite e perplesse.
In un lampo
terribile mi fa tutto assolutamente chiaro; pensai a una leonessa che procurava
il cibo ai suoi cuccioli e lo portava nella tana.
Attraversammo il
vasto cortile centrale prima di entrare nel palazzo vero e proprio; alcune sale
erano arredate col gusto dell’epoca, varcammo alcuni corridoi e attraverso
delle scale, raggiungemmo i sotterranei. Le porte si chiudevano alle nostre
spalle impedendo qualsiasi via di fuga. La luce via via diventava sempre più
rada, solo qualche torcia a segnare il nostro passaggio e l’oscurità pareva
infittirsi come una coperta pesante.
L’inquietudine forse
iniziava anche a serpeggiare tra gli ipotetici e ignari visitatori che stavano cadendo
nella tela del ragno senza alcuna possibilità di salvezza.
Erano tutti delle
vittime e io lo sapevo.
Avrei dovuto
assistere ad una strage senza poter far nulla; l’angoscia mi assalì, facendo
accelerare il mio respiro freddo, mentre l’ansia faceva correre il sangue e
battere i loro cuori umani e fragili più velocemente, sentivo il rimbombo nelle
mie tempie, consapevole che non sarei riuscito a salvare nessuna di quelle
persone segnate da una sorte terribile.
Le avrei viste
morire in maniera atroce; avrei visto i loro visi deformati dalla paura e dal
terrore che si sarebbe scolpito sui loro volti, fissato nei loro sguardi
dipinti nell’ultimo terribile istante della morte. E in quegli occhi vitrei e
spaventati avrei rivisto me stesso nel momento orrendo e mai dimenticato della
mia trasformazione.
Al pensiero di
quelle immagini terrificanti, provai un vero senso di nausea e repulsione verso
quel mondo oscuro in cui ero stato catapultato e di cui anch’io facevo parte, e
di nuovo mi chiesi per l’ennesima volta perché potevo esistere. Perché il male
avesse potuto assumere quella forma spaventosa e perché gli fosse stato
concesso tanto potere; potere di vita e di morte.
Avrei voluto
voltarmi e tornare indietro, fuggire veloce come il vento, ma era troppo tardi.
Qualcosa mi diceva
che non avrei potuto farlo, senza attirare troppa attenzione.
Chissà, forse si
aspettavano che avrei partecipato al banchetto, invece sarei rimasto a guardare
quell’obbrobrio fissarsi prima sulla mia retina e dopo nella mia memoria perenne;
l’ennesimo brutto ricordo che sarebbe tornato a tormentarmi e a schiacciare la
mia anima già dilaniata e divisa in due.
Quando arrivammo nel
luogo destinato al mattatoio, una vasta sala circolare spoglia e senza
finestre, tutto avvenne in fretta; riluttante entrai per ultimo, ma prima ebbi
il tempo di cogliere le urla di panico subito soffocate delle vittime cadute
nella morsa mortale delle braccia di una decina di vampiri assetati e famelici,
ombre scure e veloci che lasciarono al suolo carcasse dissanguate di corpi che
erano stati uomini e donne vigorosi.
Heidi fu una delle
prime a finire e quando sollevò la bocca dalla gola della sua preda, lasciando
il resto ad un altro vampiro, mi guardò con assoluta perplessità e
l’espressione stranita di chi non capisce.
Io ero addossato
alla parete con le mani premute sulle orecchie e gli occhi abbassati al suolo;
tremavo e avvertivo ancora nelle narici l’odore del sangue, gli ultimi deboli sussulti
di vita, mentre una morsa allucinante mi stritolava lo stomaco. Finalmente
anche gli altri mi notarono dopo che ebbero placato la loro sete.
Uno di loro parlò.
“Heidi, ma chi ci
hai portato?” Era la voce angelica di un ragazzo dalla bellezza efebica.
Solo allora tre di
loro si staccarono dagli altri e mi guardarono incuriositi; capii che erano i
signori di cui Heidi mi aveva parlato. Poi sentii la voce dell’angelo
tentatore.
“Signori – disse
indicandomi – questo è Carlisle; è un vampiro inglese appena arrivato nella
nostra bella Volterra. L’ho incontrato per caso, mentre rastrellavo le prede
migliori; ho pensato che potevamo offrirgli ospitalità, così l’ho invitato a
seguirmi a palazzo per unirsi a noi, ma forse… deve aver già cenato.”
Dovevo apparire
piuttosto confuso e turbato e non sapevo bene cosa aspettarmi da quegli
estranei; nei loro sguardi di un rosso brillante, lessi da parte di qualcuno
sospetto e in altri curiosità: probabilmente si stavano chiedendo perché non
avessi attaccato gli umani. Uno dei tre signori mi osservò con attenzione
manifesta prima di avvicinarsi a me con fare amichevole e disinvolto.
“Bene Carlisle, io
sono Aro: sono felice di darti il benvenuto tra I Volturi.”
Percepii nella sua
strana voce gentile una sfumatura melliflua, mentre mi prendeva la mano
stringendola tra le sue. Restò qualche minuto in silenzio a fissarmi, intanto
nei suoi occhi così diversi dai miei, si palesava un’ espressione di profondo
stupore. Giudicai davvero strano oltre che incomprensibile il suo comportamento,
ma di più furono le sue parole a sorprendermi e a lasciarmi quasi interdetto.
“Che strana scelta
di vita!! Un vampiro che non si ciba di sangue umano… che disprezza la sua
natura e la rifiuta. Veramente affascinante!! Mi chiedo come sia possibile;
bisogna assolutamente approfondire tale conoscenza.”
Non prestò
attenzione alle voci sorprese degli altri vampiri nella stanza, quindi mi cinse
le spalle con un braccio e mi invitò a seguirlo in un'altra sala del palazzo.
Ero ancora così scosso da essere quasi incapace di parlare.
Mentre mi
allontanavo insieme ad Aro, colsi velocemente lo sguardo di Heidi puntato su di
me: era stupita e sembrava velatamente dispiaciuta di qualcosa.
Le parole di Aro mi
furono chiare solo in seguito, quando mi spiegò che aveva letto tutti i miei
pensieri e le mie emozioni più intime toccandomi la mano. Questo era il suo
potere; attraverso il contatto fisico poteva scoprire i segreti più reconditi
della mente di chiunque, vampiri e uomini comuni, ed era questa forza che gli
consentiva di esercitare e mantenere il controllo sugli altri membri del suo
clan.
Superato il primo
impatto traumatico con i Volturi, nei giorni a venire si stabilì la mia
convivenza futura con loro; mi accolsero con gentilezza tra le loro file,facendomi sentire a mio agio, nonostante per
indole fossi così diverso da loro. Naturalmente non volli più partecipare ai
loro banchetti neanche da spettatore. Certo, ci misero un po’ ad abituarsi a
me.
Tutto sommato, a
distanza di tanto tempo, posso dire che fu un soggiorno piacevole, nella misura
in cui mi fece dimenticare la mia solitudine; nell’arco del tempo, riuscii a
costruire dei legami solidi che in alcuni casi andarono oltre l’amicizia.
Ma devo anche dire
che taluni di questi legami esercitarono su di me un influenza pericolosa, che
mi portò a mettere in discussione il mio stile di vita per la prima ed unica
volta.
I Volturi erano i
“signori oscuri” di Volterra, padroni di un regno sotterraneo, sconosciuto e
invisibile, che conviveva e si mescolava con quello degli uomini in superficie
solo per necessità.
Erano una specie di
famiglia reale che aveva la struttura di una società piramidale; al vertice i
suoi capi, Marcus, Caius e Aro, quest’ultimo dei tre era l’elemento più
rappresentativo e affascinante. I tre fratelli o cugini erano vampiri millenari
e dovevano essere stati creati ancora prima dell’avvento del cristianesimo. La
loro ideologia di base rifletteva quel tempo remoto e lontano; in essa c’era
qualcosa di antico che sembrava immutabile e restava ancorato a vecchie
convinzioni e archetipi. Sotto stavano gli altri membri del gruppo, che
formavano il corpo di guardia, una falange formata da vampiri che possedevano i
più svariati poteri, che avevano il compito di proteggere e difendere Aro e gli
altri.
C’erano segugi
efficienti e letali come Felix e Demetri che potevano seguire e scoprire le
tracce di chiunque; c’erano i due gemelli Jane e Alec, lei una vampira dai
poteri inquietanti, pericolosi e perversi, capace di far soffrire in maniera
terribile la sua vittima solo con la forza del pensiero, mentre suo fratello
sapeva ottundere la mente del suo avversario al punto da togliere ogni capacità
di reazione e difesa.
Essi erano tutti
insieme, ciò che di più simile ad una famiglia avessi mai incontrato tra i
vampiri, ma devo dire che i meccanismi che regolavano i loro rapporti interni,
non erano gli stessi che si sarebbero potuti trovare in una famiglia
apparentemente normale; i loro legami difficilmente erano dettati da sentimenti
d’amore o fratellanza, piuttosto da una sorta di vassallaggio e sudditanza,
bisogno di segretezza e protezione.
A questo scopo,
avevano le loro leggi che nella sostanza si riassumevano in un'unica legge
assoluta e ferrea, che veniva fatta rispettare e applicata con severità e
rigore, l’unica regola che davvero un vampiro non doveva permettersi di
trasgredire, pena la morte; non si doveva uccidere in modo scoperto o cacciare
gli abitanti di Volterra per ovvie ragioni; giustificare le sparizioni sarebbe
stato difficile e l’esistenza di creature leggendarie come noi andava tenuta
scrupolosamente segreta.
Nel tempo che vissi
a contatto con loro, fui testimone svariate volte di come i Volturi fossero
rigorosi e impietosi nell’applicarle.
Intervenivano sempre
se un vampiro agiva fuori controllo e se diventava un rischio per gli altri.
Processi e condanne
erano eseguiti rapidamente e con estremo zelo; di solito era proprio Jane lo
strumento attraverso cui applicavano le loro sentenze, e quella ragazzina dal
corpo eternamente acerbo, ma dallo sguardo da donna, sembrava godere
malignamente del suo potere di infliggere prima il tormento e quando
necessario, la morte.
Tra tutti, Jane fu
l’unica con cui non riuscii mai a instaurare un rapporto convincente; ci
guardavamo sempre con sospetto e diffidenza, almeno inizialmente, finchè un
giorno per caso, non compresi davvero da cosa in realtà si sentisse minacciata.
Ero il solo vampiro
vegetariano che le fosse capitato di incontrare ed era perplessa sulla mia
scelta di vita; le mie idee sull’anima la confondevano e forse la mettevano in
difficoltà con se stessa.
“Come si fa a
pensare che i vampiri posseggano un anima? Che pensiero ridicolo e assurdo… Una
come me non l’aveva neppure da umana: devo averla persa molto prima di
diventare vampira. Carlisle, puoi credere sinceramente che io non sia dannata
per l’eternità?”
Potevo cogliere
tutto il sarcasmo della sua voce, anche quando si esprimeva con misurata
cortesia.
“Ti credi migliore di
noi altri, vero Carlisle? Non bevi sangue umano, anzi, hai deciso di giocare al
dottore e aiutare delle creature effimere che sono comunque destinate a morire…
sono vane tutte le tue azioni, perché non potrai mai essere altro se non quello
che sei: un vampiro assetato di sangue, in lotta contro se stesso. Ma il demone
che ci governa vincerà sempre perché la sua natura è più forte, che tu lo
voglia o no.”
Forse mi sorprese la
palese amarezza.
“Il nostro demone è
forte e violento, ma se vogliamo la nostra volontà può essere più forte e
possiamo controllarlo; io lo so perfettamente perché ho lottato con lui fin dal
primo giorno e lotto ancora, eppure fino ad ora non ha mai avuto la meglio su
di me… siamo ragione e istinto, amplificati dalla trasformazione…”
Mi opponevo a quella
vampira sadica con decisione, difendendo la mia tesi senza lasciarmi
impressionare dalle sue parole ciniche.
“Sì, ragione e
istinto senz’anima!”
“L’anima c’è; è lì
da qualche parte dentro di te, si può smarrire nel buio, per lungo tempo, ma
può anche ritrovare la strada se decide di uscire dalle tenebre. Perfino tu
Jane, potresti! Come controlli il tuo potere, potresti controllare la tua sete
di sangue, potresti essere migliore di ciò che sei se solo lo volessi. Il
problema è che non lo vuoi perché credi di non avere scelta… così sei schiava
del tuo demone e poi di Aro, che ti usa per soddisfare la sua ambizione…”
Le mie parole alla
fine la colpirono e la fecero cedere; non riuscì a trovare un argomento per
controbattere, ma capii di aver generato una crepa dentro la fredda e dura
vampira; i suoi occhi brillarono minacciosi e temetti per un momento che
volesse torturarmi, ma distolse in fretta lo sguardo scarlatto e si allontanò
velocemente senza replicare; il seme del dubbio ormai si era insinuato in lei e
ogni volta che mi incontrava, potevo leggere una velata paura nei suoi occhi:
la paura che io avessi ragione.
Nella sostanza, i
Volturi erano il clan di vampiri più evoluti che avessi mai incontrato. Nel
tempo, confrontandomi col loro modo di vivere, assimilando in parte la loro
cultura, ho potuto stimarli e ammirarli notevolmente perché attraverso i secoli
avevano saputo diventare molto raffinati e civilizzati.
Eppure, dietro i
loro modi educati e cortesi, dietro le forme esteriori raffinate, a volte
percepivo qualcosa di falso nei rapporti che li univano, come se i loro membri
avessero tutti altro da nascondere, pensieri da non condividere, desideri
innominabili; sentivo l’assenza di libertà, ridotta ad un raggio d’azione
limitato, come se tutti fossero costretti a stare dove stavano.
Forse per questo tra
loro in realtà non mi sentii mai veramente a casa, e nonostante le mie amicizie
e certi rapporti profondi e intensi, alla fine dopo qualche decennio li lasciai
per cercare me stesso e il mio posto nel mondo.
Erano i tre fratelli
che si preoccupavano di coltivare questa immagine di raffinatezza ed eleganza.
Avevano saputo inserirsi benissimo nella vita della piccola cittadina italiana,
tanto da essere considerati i protettori della città: una leggenda locale
attribuiva a loro la cacciata dei vampiri da Volterra nel ‘500.
Aro in particolare
possedeva un’ intelligenza raffinata e brillante; molto curioso per natura,
questo lato del carattere ci accomunava notevolmente; era avido di conoscenza,
affascinato da ogni nuova scoperta qualsiasi fosse il suo ambito, interessato
al pensiero filosofico di ogni nuova corrente; amava diverse discipline
umanistiche, dall’arte alla musica, e aveva trovato in me una mente simile alla
sua, pronta al confronto e desiderosa di apprendere.
Eppure nonostante
certe nostre affinità intellettive, moralmente io e Aro, avevamo poco o nulla
in comune. Lui trovava bizzarro il mio modo di vivere, ma era sinceramente
incuriosito a affascinato dalla mia scelta di vita. Naturalmente, come Etienne
prima di lui, non la condivideva e manifestava i suoi pensieri molto
apertamente.
Data la sua capacità
di leggere nella mente, non c’era nulla che gli potessi nascondere, per cui
sapeva perfettamente quanto io fossi in conflitto con me stesso; conosceva le
mie lotte interne, le mie esitazioni, il mio malessere esistenziale. Tutte cose
da cui non era mai stato neppure sfiorato.
A differenza di me,
non aveva alcun rispetto per la vita umana: la sua apertura mentale non
comprendeva un possibile confronto diretto con gli uomini, che per lui non
erano altro che una fonte di nutrimento.
In merito al mio
“problema”, dopo svariate discussioni e riflessioni, era giunto a formulare un’
ipotesi piuttosto fantasiosa a mio avviso.
Secondo lui, la mia
era una malattia che doveva essere curata. Ricordo ancora le parole che mi
disse un pomeriggio, soli nella tranquillità del suo palazzo per persuadermi.
Si fidava così tanto di me che congedava perfino Renata, il suo scudo
personale.
“Carlisle, amico
mio, se dovessi paragonarti a certi individui che appartengono alla razza
umana, potrei dire che sei come quegli uomini che rifiutano il sesso, per un
qualche strano blocco psicologico di ordine morale. Credo che per te sia la
stessa cosa. Sicuramente l’epoca da cui provieni, l’educazione rigida hanno
influito molto… anche se dopo la trasformazione resta solo una traccia vaga
della memoria umana, i condizionamenti subiti devono aver lasciato in te
un’impronta molto forte.”
Certo, il suo acume,
la sua logica erano indubbiamente affascinanti e non nego che con la sua
teoria, potrebbe aver colto una parte della verità. Ma io non me la sentivo di
ridurre tutto a mere influenze.
“Ti assicuro che ti
sbagli Aro; non ho un blocco psicologico, però potrei darti ragione sul
problema di carattere etico, ma non è neppure solo questo. Che senso avrebbe
essere quello che siamo, con tutte le nostre capacità straordinarie se non
potessimo sfidare la nostra natura e andare oltre noi stessi? Il sangue è la
nostra più grande tentazione e debolezza. Ci da la vita, ma ci rende dei mostri
il suo bisogno spasmodico. Eppure tu stesso hai sperimentato che tendiamo verso
qualcosa di più alto. Questo dovrebbe dimostrare qualcosa.”
Stavamo
attraversando una delle ricche sale del palazzo; alle pareti si potevano
ammirare dipinti antichi delle epoche più remote che appartenevano alla
collezione privata di Aro.
Dopo qualche attimo
di riflessione, mi rispose fermandosi davanti a un dipinto, senza smettere di
contemplarlo; era la rappresentazione degli amanti sfortunati narrati da Dante nella
Divina Commedia; Paolo e Francesca trasportati dalla bufera infernale nel
girone dei lussuriosi.
“Che cosa? Che
abbiamo l’anima? È impossibile: siamo essenzialmente creature votate al male,
create per uccidere, condannate a non poter mai placare la nostra sete di
sangue. Aver incontrato te, mi pone molti interrogativi, dubbi… tu sei così
diverso da tutti noi; se un vampiro può avere un anima, cosa che continuo a
escludere fortemente, forse tu sei l’unico che può averne una. Però hai
centrato la questione fondamentale, Carlisle: la vita… quella eterna. Siamo
esseri immortali e solo questo semplice fatto, fa di noi esseri superiori agli
uomini, che sono deboli, fragili, troppo inferiori per poter stare al nostro
livello: la supremazia dei vampiri è una cosa naturale e logica.”
Ma anch’io sapevo
usare molto bene il ragionamento per controbattere le sue convinzioni.
“Sai benissimo che
non è così: hai avuto modo di conoscere il pensiero umano, conosci e apprezzi
ogni talento che l’uomo ha saputo coltivare attraverso i millenni. Se l’essere
umano è così inferiore come tu sostieni, perché ricerchi il suo sapere? Perché
ti appassiona l’arte, la musica e tutte le altre manifestazioni della genialità
umana? Tra i vampiri non ho mai trovato pittori geniali come Leonardo Da Vinci,
o pensatori illuminati come Voltaire, e l’umanità si evolve molto più
velocemente di quanto non faccia la nostra specie condannata all’immutabilità…
e comunque anche un vampiro può morire e tu lo sai bene.”
“È vero, sai essere
veramente saggio Carlisle. Siamo immutabili perché perfetti… in tal modo noi
possiamo godere della bellezza dell’arte, della profondità del pensiero umano
meglio degli uomini, che non hanno la possibilità di sopravvivere e raccogliere
i frutti delle loro scoperte… ma sarebbe stato davvero straordinario avere la
possibilità di vampirizzare una personalità come Leonardo! Non ho avuto il
piacere d’incontrarlo. Un’ idea davvero suggestiva e affascinante!” Esclamava
allargandosi in un ampio sorriso mentre i suoi occhi si illuminavano di una
luce ambigua.
Aro esprimeva un
genuino entusiasmo quasi infantile in queste dichiarazioni, che però ne
riflettevano la personalità un tantino megalomane.
E un giorno mi
sorprese con l’unica domanda che non mi sarei mai aspettato da lui.
“Hai mai chiesto al
tuo dio, spiegazioni sulla nostra esistenza?”
“Molte volte Aro,
praticamente ogni giorno.”
“Che cosa ti ha
risposto?”
Risposi esitando.
“Non mi ha ancora
risposto… o forse… sono io che non riesco ad ascoltare… non so… forse non sono
degno di sentirlo… anche se a volte, in alcuni rari momenti…”
“Forse non puoi
sentirlo perché semplicemente non esiste, Carlisle.”
“Noi esistiamo Aro…
e dovremmo essere leggenda. – esitai prima di porre la mia domanda - Non ti è
mai successo di sentirti parte di un tutto?”
“Direi di no, amico
mio… ma non credo di capire cosa intendi…”
Il concetto di
totalità, per Aro era ben altro in realtà.
Era un accentratore
decisamente ossessionato dal potere, che esercitava con fermezza e forza
nascoste dietro un guanto di velluto e credo che lo dividesse malvolentieri con
Caius e Marcus che comunque erano abbastanza diversi da lui e non sentivano
l’esigenza di controllare tutto attorno a sé, o forse semplicemente lasciavano
a lui l’incombenza noiosa di far rispettare la loro legge. Tante volte avevo
percepito una sorta di apatia in Caius e Marcus che in Aro era del tutto
assente, come se fossero annoiati da un’ esistenza infinita e senza variabili;
una possibilità davvero concreta per un vampiro, un timore che avevo avuto
anch’io molte volte.
Probabilmente anche
la sua idea di convertirmi alla loro dieta, era dettata dall’esigenza di
ristabilire un equilibrio con la mia natura vampiresca che secondo lui avevo
perso.
Fra tutti fu l’unico
che seppe davvero mettermi in crisi e farmi dubitare fortemente della mia
scelta di vivere rifiutando il sangue umano.
“Hai mai pensato,
Carlisle, che la tua scelta potrebbe non essere giusta? Se come tu sostieni,
noi siamo un prodotto naturale dell’evoluzione, generati dallo stesso universo
che ha creato l’uomo, allora perché condanni così duramente la nostra natura?
Perché non dovremmo assecondarla, accettarla come naturale? Perché farsi inutili
sensi di colpa? Il leone dovrebbe provare dei rimorsi per il fatto che caccia e
uccide l’antilope per sopravvivere?”
In effetti il suo
ragionamento era inappuntabile e io per la prima volta in assoluto, pensai a me
in maniera diversa.
Arrivai a pormi degli
interrogativi che non avevano mai toccato la mia coscienza tormentata; come
avevo fatto io con Jane, Aro aveva insinuato in me il dubbio e improvvisamente
mi chiesi se non ci fosse qualcosa di sbagliato nel mio modo di vivere.
Si trattava di
essere o non essere quello che ero, di decidere che cosa volevo essere, quindi
se fosse giusto soffocare la mia natura.
Mi spaventai.
Non volevo pensare
che dopo tanto tempo passato a controllare i miei impulsi, a soffocare il
demone che dormiva dentro di me, qualcuno potesse davvero riuscire a farmi
cambiare idea.
Ma Aro aveva
percepito la mia profonda solitudine e forse aveva trovato il mio punto debole;
ero ancora certo di non voler essere un mostro, sapevo che la mia scelta era
buona, ma temevo che facendo leva sulla mia fragilità lui potesse indurmi a
seguire i Volturi fino all’estremo limite.
Quando solo per un
attimo mi soffermavo col pensiero su questa possibilità, nella mia mente si
prefigurava la scena orrenda di me in quella sala circolare, insieme agli altri
vampiri ad assalire persone inermi e innocenti.
Mi venivano i
brividi.
Tutte le volte che
quelle immagini mi sfioravano col loro ricordo stavo male.
Mi sentivo morire
tutte le volte che Haidi rientrava a palazzo con le sue nuove vittime; in
quelle occasioni uscivo dall’edificio prima che potessi incrociarli attraverso
i corridoi. Mi allontanavo velocemente e fuggivo, correvo attraverso i boschi,
il più lontano possibile da quel luogo di morte, e mi tormentavo sentendomi
quasi colpevole, come se fossi responsabile per la loro sorte, come se io
stesso fossi il loro aguzzino.
Non so cosa avrei
dato per salvarne almeno uno.
Ma non potevo. Non
ero lì per quello.
Ho pensato
addirittura che in un certo modo, Aro si sia sentito allarmato dal mio modo di
essere, una reazione che mi pareva di aver già percepito in Jane, ma lui sapeva
camuffare bene la sua presunta insicurezza; il fatto che vivessi con loro e che
fossi così diverso, dal suo punto di vista, avrebbe potuto forse minare gli
equilibri all’interno del clan e forse fu davvero così, perché anch’io cercai
di far valere le mie ragioni e convincerli delle mie teorie e forse con
qualcuno quasi ci riuscii.
Dopo Aro, Haidi fu
la vampira con cui entrai maggiormente in sintonia, anzi oserei dire che il
nostro rapporto si sviluppò in una direzione imprevista per entrambi. Haidi
divenne la mia nuvola personale di felicità in un regno che sembrava fatto solo
per il dolore.
Continua…
Grazie a tutti coloro che hanno letto fin qui. Buon anno a tutti.
Vi ho fatto aspettare
lo so, ma scrivere questa storia sta diventando più complicato del previsto.
Qualcuna di voi ha intuito la direzione degli eventi, ma c’è una spiegazione
che troverete in fondo al capitolo, se arriverete alla fine. Buona lettura.
*****
Convivere con i Volturi in
quegli anni, fu estremamente difficile; forza, volontà e convinzioni venivano
messe a dura prova quasi costantemente.
Nonostante le difficoltà non mi
risolvevo a lasciarli, perché non avevo la fermezza né il coraggio necessari
per affrontare nuovamente una vita di solitudine. Non ero ancora pronto a
ripartire di nuovo da capo, a rimettermi in viaggio alla ricerca di qualcosa
che forse non avrei mai trovato; in fondo in mezzo a loro avevo trovato
qualcosa che assomigliava a una famiglia, costruito dei legami anche sinceri;
non era esattamente ciò che avrei voluto, ma era un inizio.
E poi c’era lei…
Lei che mi faceva paura e mi
stregava da lontano…
Lei, la creatura più sensuale,
affascinante che avessi mai visto…
Lei che guardavo con sospetto e
desiderio…
Lei che ricambiava i miei
sguardi…
Lei che era gentile con Demetri…
Lei che non capivo…
Heidi mi inquietava; era un
misto di grazia ultraterrena unita a una fisicità fatta di carne e sangue.
Sentivo nei suoi confronti una specie di repulsione che si mischiava
all’attrazione. Mi chiedevo se quel fascino oscuro e ambiguo che esercitava su
di me, eccitando i miei pensieri in fantasie pericolose e innominabili, non
fosse la risposta del mio lato più profondo e nascosto che subiva il suo
richiamo; bene e male che si respingevano e si attiravano inevitabilmente.
Avvertivo il pericolo; Heidi
avrebbe potuto rendermi debole, forse più di Aro, e di questo avevo paura.
Cedere a quel potente richiamo avrebbe potuto travolgermi e farmi perdere.
Potevo resistere ad Aro, ma non ero sicuro di riuscire a resistere a lei, al
suo potere seduttivo.
Anche per questo la evitavo.
Oltre a tutto il resto.
Heidi tornava al Palazzo dei
Priori con le sue ignare vittime più o meno una volta alla settimana, con una
regolarità variabile.
Io puntualmente, prima che lei
rientrasse col suo bottino, mi allontanavo velocemente. Facevo il possibile per
non incontrare quelle persone, sentendomi inevitabilmente un vigliacco, ma non
riuscivo a sostenere quella situazione restando indifferente; avevo ancora
nelle orecchie il suono tetro delle urla disperate di uomini e donne aggrediti
da un gruppo di vampiri violenti e assetati, tra cui c’era lei, quella prima
volta in cui ero stato testimone di quella scena raccapricciante. Non potevo
essere tormentato dagli incubi, perché come vampiro mi era precluso il sonno,
ma quella scena straziante angosciava i miei giorni, avvelenandomi in buona
parte l’esistenza già amara.
Ero un medico e questo fatto
cozzava con quello che ero davvero, con quello che avevo giurato di fare per
preservare la vita umana. Ero una contraddizione in termini che camminava:
sapevo quello che accadeva e non potevo fare nulla per impedirlo, complice
rassegnato e silenzioso di quegli atroci delitti. Non mi ero mai sentito così
in colpa verso me stesso, e non avevo mai odiato così ferocemente la belva che
dormiva nel mio animo, come in quel periodo trascorso con loro.
Mi sentivo impotente e
assurdamente inutile; forse ero stato un pazzo a pensare di poter riscattare la
natura bestiale da cui ero posseduto.
Spesso mi tornavano alla mente
le parole dure e sarcastiche di Jane, quando mi aveva accusato di giocare a
fare il medico, sforzandomi di essere quello che non ero e mi chiedevo se non
avesse ragione a ridere di me.
La mia anima delicata come
cristallo, ancora troppo fragile per resistere a simili urti, probabilmente non
era mai stata così combattuta come in quei momenti drammatici in cui ho dovuto
confrontarmi con i Volturi e la loro realtà di vampiri figli delle tenebre.
Era la mia stessa realtà e non
potevo negarlo.
Sarebbe stato inutile.
Era terribile per me doverlo
riconoscere, essere consapevole di cosa potenzialmente potessi diventare. Mai
come in quel frangente mi ero guardato allo specchio e il riflesso deformato e
contorto di quello che vedevo, non mi piaceva.
Eppure la parte più nobile di me
continuava ostinatamente a ribellarsi a quella realtà lottando contro di essa,
quasi facendo violenza su me stesso.
Non era una violenza per
resistere al sangue, che in fondo non mi tentava più di tanto; era lo sforzo
quasi supremo che dovevo fare per convincere me stesso che Aro aveva torto;
solo io potevo essere l’artefice di me stesso, solo io potevo decidere come
vivere e cosa essere.
Nessuno poteva scegliere per me,
non ero costretto ad accettare di essere un mostro omicida, e di questo mi
facevo forte; la mia compassione, atipica per un vampiro, non mi lasciava mai.
Dovevo credere con costanza che la mia volontà non si sarebbe piegata a nessuno
dei tentativi più o meno subdoli di Aro di “curare” come diceva lui, la mia
natura.
A questo scopo, Aro non smetteva
mai di gettare su di me le sue provocazioni.
“Se tu Carlisle, vuoi davvero
conoscere te stesso e quello che sei davvero, per essere certo della tua forza,
dovresti almeno conoscere quello che rifiuti con tanta determinazione. Non puoi
solo annusare il sangue umano, dovresti almeno una volta provare ad
assaggiarlo; solo così capiresti il tuo limite e vedresti fino a che punto puoi
arrivare. Altrimenti come puoi sapere se veramente sei in grado di resistere al
mostro che vive dentro di te? Non lo hai mai guardato davvero in faccia.”
Infallibilmente Aro, con
magistrale e sottile talento, sapeva come arrivare al cuore del problema e
aveva ragione da vendere, non mi ero mai guardato dentro; non avevo mai voluto
scrutare davvero nel pozzo oscuro che esisteva dentro di me, forse per paura di
cosa avrei trovato.
“Quello che dici non è del tutto
vero; ho sentito ogni graffio che il mostro ha lasciato sulla mia anima,
lacerandola… credo di conoscerlo quanto basta.” Obiettavo lasciando trasparire
il mio disappunto.
“Credi? Ogni uomo dovrebbe
conoscere intimamente se stesso per accettarsi. Non è il tuo caso. Se fosse
così, allora arriveresti a esercitare davvero a fondo la tua professione di
medico e domineresti veramente la tua natura. Altrimenti la tua esistenza sarà
sempre e solo una fuga dalla realtà.”
Mi disse un giorno, mentre
insieme agli altri, aspettavamo seduti nel grande ed elegante salone che Heidi
tornasse.
L’intento di Aro mi era fin
troppo chiaro, sapevo benissimo quello che stava cercando di fare; cercava di
approfittare delle mie insicurezze, di farmi vacillare. Sapeva essere tremendamente
convincente e ogni parola era calcolata e misurata allo scopo di farmi cedere
alla tentazione, perché sapeva quanto in quel momento ero vulnerabile. Per
quanto le sue parole potessero colpirmi, non volli mai scoprire fino a che
punto potesse avere ragione.
Quel giorno, come già altre
volte avevo fatto nelle medesime circostanze, mi affrettai ad andarmene. Per la
prima volta da che ero con loro, tentarono di impedirmelo: fu tale la mia
sorpresa che reagii molto male.
Fui bloccato da Felix.
“Aro vorrebbe che tu restassi,
almeno per una volta; sarebbe gentile accettare l’invito.”
Ero allibito.
Mettermi contro Felix sarebbe
stato impensabile oltre che inutile; una sfida impari contro un grosso vampiro
dalla forza straordinaria abituato a lottare. Fisicamente non potevo competere
con lui, eppure assunsi un tono ostile e quasi ringhiai verso Aro.
“Hai intenzione di obbligarmi,
Aro? Se così fosse non potrei più accettare la tua ospitalità, né considerarti
un amico come ho sempre fatto. Non mi costringerete a bere sangue umano contro
la mia volontà e questo è certo!”
Sibilai senza riuscire a
nascondere un moto profondo di rabbia. Era la prima volta che esplodevo in quel
modo.
Felix continuava a bloccarmi la
strada verso l’uscita, ma io non avevo alcuna intenzione di cedere a quella
violenza e anche il leader dei Volturi, in realtà, non voleva arrivare a tanto.
Fu Marcus ad intervenire, per
placare gli animi.
“Ha ragione: non possiamo
costringerlo a vivere come noi. Inoltre il nostro amico Carlisle, non ha mai
manifestato la volontà di unirsi definitivamente alla nostra famiglia; ha
sempre dichiarato di essere di passaggio.”
Nell’affermazione di Marcus
c’era un messaggio implicito che non colsi subito, ma che dovevo comprendere
molto più avanti nel tempo.
Aro forse aveva sperato in una
mia esitazione. Attese qualche minuto guardandomi più ammirato che deluso;
probabilmente non aveva ancora compreso quanto in realtà fossi determinato a
insistere su quella strada.
“Lascialo andare Felix: il
nostro amico è libero di andare e venire come vuole. – disse non del tutto
rassegnato, poi si rivolse a me - Nessuno ti costringerà a fare ciò che non
vuoi, Carlisle.”
“Voglio la tua parola, Aro.”
Dissi deciso.
“È una promessa.”
Mi rispose tranquillo, ma sapevo
che non avrebbe rinunciato tanto facilmente. Sarebbe tornato ancora alla
carica.
Senza altre obbiezioni guadagnai
in fretta l’uscita.
Era una giornata di sole e di
vento.
Lasciai il palazzo lievemente
amareggiato e mi allontanai da Volterra seguendo i muri all’ombra delle case,
cercando di passare inosservato; uscito dalla città, percorsi diversi
chilometri, correndo attraverso la vallate per raggiungere i boschi vicini, in
totale solitudine.
Il vento scuoteva le chiome
frondose degli alberi, ma non arrivava all’interno della boscaglia. Immerso nei
suoi odori selvaggi di legno, resina, muschio ed erbe del sottobosco, e lontano
dall’umanità del mondo, mi sentivo sempre rinvigorito da un’ energia positiva
che sembrava scorrere attraverso me. Avevo bisogno di quell’intimità con madre
natura per sentirmi davvero vivo, ritrovare la pace con me stesso, e nel
periodo che vissi con i Volturi ricercavo quel contatto ancestrale molto più
spesso che in passato. Durante la caccia, lasciavo che tutti i miei istinti di
predatore emergessero, dando libero sfogo alla belva famelica e imbattibile che
mi dominava; se mi fossi visto in uno specchio forse non avrei riconosciuto
l’essere riflesso nei miei occhi dalla sfumatura dorata.
I miei sensi erano tesi e
concentrati al massimo, eppure non mi accorsi di essere seguito: trascinato
dalla caccia non avevo fatto caso al suo profumo famigliare, il che era strano,
dal momento che conoscevo perfettamente il suo odore e il potere ammaliante che
aveva su di me.
Senza che io la notassi,
muovendosi sottovento, Heidi mi aveva seguito attraverso i boschi; avevo appena
finito di dissanguare una delle mie prede, un grosso cervo maschio, quando
percepii la sua presenza. La vidi a una certa distanza che mi fissava con le
sue iridi affascinanti e curiose. Sembrava diversa dalla prima volta che
l’avevo vista, ma l’impatto che aveva su di me era il medesimo; la sua
avvenenza mi sbalordiva, le sue chiome fluenti erano onde sciolte nel vento
leggero che l’accarezzava e mi portava il suo aroma conturbante alle narici.
Era vestita in maniera maschile e sobria, ma il corpo sinuoso era messo
dolcemente in evidenza dalla casacca che si chiudeva sul petto. Era aggrappata
al ramo basso di un albero e sembrava mi stesse studiando con attenzione. Ero
davvero sorpreso di trovarla lì e in un moto istintivo ringhiai al suo
indirizzo, forse lievemente infastidito dalla sua presenza. Improvvisamente mi
sentivo come se qualcuno avesse violato la mia intimità, una sensazione del
tutto nuova per me.
Lei non si scompose minimamente,
anzi si aprì in un sorriso luminoso; dopo qualche minuto, parlò con fare
tranquillo e la sua voce seducente mi incantò esattamente come il primo giorno
che l’avevo udita.
“Volevo vedere se era vero…”
Non compresi subito il senso delle
sue parole, ma superato lo stordimento iniziale, captai una nota strana nella
sua voce che mi allarmò.
“Cosa ci fai qui Heidi? Per
caso, Aro ti ha chiesto di seguirmi?”
Il mio sarcasmo la sorprese
lievemente.
“Sono qui di mia iniziativa;
nessuno mi ha chiesto di seguirti.”
Ora la sorpresa, da lei era
passata a me.
“Non capisco…”
“Non riuscivo davvero a credere
che ti cibassi di sangue animale, mi sembrava qualcosa di impossibile…”
“Non puoi credere che un vampiro
possa rinunciare per sua scelta al sangue umano, è così?”
La guardai sorridendole mio
malgrado, ammaliato dalla sua avvenenza provocante; Heidi avrebbe potuto
stregare chiunque, era davvero quasi impossibile resisterle, anche per me.
Capivo come riuscisse con estrema semplicità a imbambolare le sue prede.
“Mi sembra qualcosa di troppo
difficile, considerando cosa il sangue rappresenta per noi. Ma tu Carlisle, sei
diverso; provi vera compassione per gli umani. Io non ho mai incontrato nessun
vampiro come te…”
Nella voce della bellissima
vampira percepivo una sfumatura di compiacimento che non avevo mai notato
prima. Forse stava giocando. Diventai sospettoso: era forse un espediente per
incantarmi? Mi aveva seguito davvero di sua iniziativa, oppure era un altro dei
tentativi di Aro di plagiarmi?
“Fino all’altro giorno mi hai
ignorato Heidi. Trovo davvero strano tutto questo improvviso interesse da parte
tua…” Commentai scettico, mentre allontanavo da me la carcassa dell’animale che
avevo dissanguato.
“Tu mi affascini Carlisle, devo
ammetterlo. Non so esattamente perché… mi è capitato di ascoltare alcune delle
discussioni tra te ed Aro; in te c’è qualcosa di profondamente umano che mi
turba molto, è non è solo il tuo modo di porti verso gli uomini.”
Le sue parole mi sorpresero
nuovamente, ma riconobbi che era sincera. Non riuscii a evitare di sorridere
compiaciuto; attirare l’attenzione di una vampira del calibro di Heidi sarebbe
stato un punto d’orgoglio per chiunque. Il mio ego maschile si sentì
gratificato.
Però era strano che proprio
Heidi avesse notato la mia umanità, visto il ruolo che ricopriva tra i Volturi.
Questo poteva voler dire qualcosa d’ importante: lei sembrava possedere una
notevole sensibilità che non avevo ancora notato in nessun altro vampiro.
Ne fui certo quando parlò di
nuovo.
“Mi dispiace per come sono
andate le cose la prima volta…”
Si avvicinò a me, muovendosi tra
il fogliame odoroso con sinuosa eleganza.
“Cosa?”
“Ti ricordi il nostro primo
incontro?”
Alzò una mano con grazia verso
la mia fronte e in un gesto lento, tolse una foglia secca dai miei capelli
biondi. Il suo profumo mi inondò violento, e avvertii un brivido scorrermi
sulla pelle.
Eravamo troppo vicini.
Mi guardava negli occhi e più il
tempo passava più la mia attrazione verso di lei cresceva. Sentivo qualcosa che
si muoveva nel mio petto, un’ emozione sconosciuta che mi solleticava e mi dava
piacere.
Era incredibile che mi potessi
sentire così, in così breve tempo.
“Non potrei mai scordarlo.”
Esclamai in un soffio, senza riuscire a staccare gli occhi da lei.
“Se avessi potuto immaginare il
tuo disagio, non ti avrei mai indotto ad assistere alla nostra festicciola.”
Altre immagini affollarono la
mia mentre e tornai lucido.
“Tu la chiami festicciola, un
macabro massacro di persone innocenti?”
“I nostri occhi sono diversi dai
tuoi e vediamo le cose in modo diverso; per noi sono cibo.”
Rispose con ovvietà quasi
disarmante. Ma non stava cercando di convincermi di nulla.
“Già, spesso lo dimentico. Però
ti ringrazio; sei la prima che dimostra un briciolo di comprensione per il mio
malessere. Sei stata gentile.”
Restò in silenzio alcuni secondi
fissandomi intensamente e il suo sguardo, fatto di fuoco acceso mi turbò
enormemente.
“Posso accompagnarti per un po’?
O forse, preferisci stare solo?”
Me lo chiese quasi con timidezza
come se temesse un mio rifiuto. Ma non avrei potuto rifiutarla.
No, non volevo stare solo. Non
volevo che se ne andasse.
“Resta ti prego. Mi farebbe
piacere.”
E nel dirlo le accarezzai un
polso e la scossa fremente che attraversò me, la sentì anche lei. Ci guardammo
negli occhi per un lungo istante e potevo leggere il mio stesso turbamento nel
suo sguardo e da quel momento, tutto quello che accadde dopo ci avrebbe portati
all’epilogo naturale di quella strana intimità appena nata.
Ci incamminammo attraverso il
bosco parlando con estrema famigliarità come tra me e lei non era mai accaduto;
era tutto estremamente naturale e spontaneo. Erano mesi, più di un anno che
vivevo con i Volturi, e io e lei non avevamo mai assunto uno verso l’altra un
atteggiamento così aperto e disinvolto. Tra l’altro fino a quel momento
potendo, l’avevo sempre evitata. Ci eravamo sempre studiati da lontano quasi
con sospetto. Ma ora mi sentivo catturato dalla sua vicinanza e col passare
delle ore mi accorgevo che in me cresceva una frenesia eccitante che mi
procurava un benessere estremo. I nostri sguardi dicevano più delle parole. Mi
confessò che non era la prima volta che mi seguiva; era già successo in
un’altra occasione, mentre andavo a prestare i miei servizi come medico. Aveva
creduto che il mio lavoro fosse legato al mio lato eccentrico, un interesse
puramente speculativo. Quella confessione non solo mi sorprese, ma mi fece
sentire inadeguato; o Heidi era maledettamente in gamba, oppure i miei sensi di
vampiro non valevano niente se non mi ero mai accorto di lei. Di fronte alla
mia perplessità, lei capì e si mise a ridere.
“Non prendertela: quando voglio,
sono molto brava a non farmi notare.” Trovavo difficile crederlo.
Volevo sapere tutto di lei e
dirle tutto di me, aprirle la mia anima perché sentivo che mi potevo fidare.
Nel tramonto rosso che calava
sulla campagna attorno a Volterra, tornammo verso il palazzo con l’ansia di una
strana aspettativa, consapevoli che ormai tra noi era accaduto qualcosa: la
scintilla si era accesa e ci saremmo lasciati travolgere da quel fuoco che ci
avrebbe fatto sentire incredibilmente vivi.
Quella stessa sera Heidi non
esitò a venire da me e io sapevo che sarebbe venuta. Fu come un richiamo a cui
nessuno di noi poteva sottrarsi; sfrontata e senza pudore, sentii le sue labbra
avvolgere le mie con dolcezza mista afuria, facendomi sentire tutto il desiderio che avevo scatenato in lei,
e io non sarei più riuscito a nasconderle il mio. Ormai la volevo in modo
febbrile e non pensavo ad altro.
La trascinai con me quasi con
forza e lei rispose nello stesso modo, abbandonandosi al mio stesso trasporto.
Baci e carezze scottavano la nostra pelle e i nostri sensi erano troppo acuti
per sopportarle senza quasi urlare e ringhiare di piacere.
Bisbigliai sulla sua bocca
stravolto, mentre le mie mani violavano i suoi vestiti.
“Sei proprio sicura?”
“Carlisle, ti prego; non ho mai
sentito per nessuno quello che sento ora, e so che per te è lo stesso. Non ti
chiedo di amarmi, lascia che io possa amare te, mi basterebbe per l’eternità…”
Mi illusi che forse sarebbe
bastato anche a me.
E io avevo bisogno di sentirmi
amato, di non sentirmi solo. Fino a quel momento non avevo mai capito quanto;
forse avevo bisogno di una ragione profonda per restare lì, a Volterra. Allora
mi concessi il suo corpo e la sua anima di creatura dannata e ci concedemmo il
nostro paradiso personale, un lembo di felicità rincorsa e inseguita, e mai
raggiunta prima.
E finché durò fu totale e
straordinaria.
Probabilmente lei fu davvero la
sola ragione per cui restai per oltre un decennio con i Volturi, nient’ altro
avrebbe potuto trattenermi così a lungo.
Certamente non Aro, nonostante
tutta la sua dialettica.
Con Heidi scoprii cosa fosse il
sesso per uno come me; un istinto potente quasi quanto la sete. Mi fece
scoprire tutta la mia lussuria e la mia lascivia; non mi stancavo mai di noi,
del suo corpo forte e candido come un giglio, che si modellava e si plasmava
sotto le mie mani avide e rapaci, che si apriva mentre si donava completamente
a me. Bramavo ogni bacio della sua bocca che mi accarezzava, che osava
provocarmi e farmi suo nel modo più innocente e perverso.
Ci volevamo nello stesso modo,
con la stessa urgenza.
Non c’erano freni o inibizioni;
era un bisogno istintivo che dipendeva dalla nostra natura, perché da umano non
so se mi sarei comportato nello stesso modo.
Ero talmente schiavo dei sensi;
per stare con lei dimenticavo anche di nutrirmi adeguatamente. Se mi seguiva
durante la caccia, cosa che a volte accadeva, smettevo di inseguire la mia
preda per farla mia nel mezzo della foresta; captavo il suo profumo e
immediatamente capivo perché lei era lì.
Sentivo la sua voglia
implacabile di avermi.
Fummo felici del nostro piccolo
angolo di paradiso in mezzo all’inferno.
Eppure non ero sicuro che fosse
davvero amore il nostro.
Ma in quel momento non mi
importava sapere cosa fosse in realtà, mi bastava averlo perché faceva star
bene entrambi.
Pensai che anche per Heidi quasi
sicuramente, fosse così; in realtà lei mi amò più di quanto non abbia saputo
fare io, che spesso giudicai il mio sentimento, solo come il frutto proibito di
una potente attrazione. Tendevo a definirla così anche davanti a chi era
testimone della nostra relazione. In realtà era molto di più. Scoprii solo
troppo tardi quanto questa passione si fosse incisa nelle pieghe delle nostre
anime.
Godevamo della nostra intimità
con costanza senza preoccuparci troppo di chi ci stava attorno, a palazzo, ma
anche fuori. Una volta facemmo l’amore tra papaveri e spighe di grano, in
aperta campagna sotto un cielo limpido e inondato di sole che faceva brillare
le nostre pelli nude.
Ci piaceva restare abbracciati a
parlare dopo l’amore; erano momenti di una dolcezza struggente da cui ci
lasciavamo cullare, prima di farci assalire ancora dal desiderio. Parlavamo di
noi: a volte affioravano anche i nostri ricordi umani.
Rammento con particolare
chiarezza e tenero rimpianto uno di questi momenti.
Heidi era nel mio letto e il lenzuolo
bianco la copriva parzialmente confondendosi con la sua pelle candida.
“Sei bellissima; chissà com’eri
da umana…- le chiesi mentre seguivo la curva dolce del suo zigomo. - Sai, mi
sono sempre chiesto una cosa: è stato Aro a trasformarti?”
“No, ero già una vampira quando
sono arrivata a Volterra. Ero una nomade ed ero sempre stata sola. Aro ha
notato la mia avvenenza e ha pensato che potessi essergli utile. Ho accettato
di restare qui, perché ero stanca della mia vita solitaria e mi sono sentita subito
benvoluta.”
Restai davvero sorpreso.
“Chi ti ha trasformata, allora?”
“Oh, non lo ricordo; forse un
vampiro di troppo che ho tentato di sedurre. Sai, dovevo essere un’ accalappia
uomini anche da umana.”
Risi con lei.
E intanto pensai al vecchio
Etienne, ma poi ricordai che lui non lasciava in vita le sue conquiste, e
ritenevo improbabile che Heidi fosse mai stata in Francia.
Ma un istante dopo Heidi divenne
pensierosa.
“Tu credi che anch’io possa
avere un’ anima?” mi chiese titubante.
Si strinse a me accarezzando il
mio torace nudo.
“Certo. Perché me lo chiedi?” le
domandai curioso, posando la mia mano sulla sua.
“Non so. Non mi sono mai posta
queste domande, ma da quando ti ho conosciuto… da quando stiamo insieme
qualcosa è cambiato in me.”
La guardai negli occhi profondi
e vi lessi un turbamento ignorato fino a quel momento.
“Di cosa parli?” le chiesi
incerto di aver capito.
“Parlo di quello che sento,
Carlisle. Da dove viene?”
“Quello che senti?”
“A volte mi sento strana: non
riesco più a fare il mio lavoro come prima; è come se mi sentissi a disagio.”
Non ero preparato alle parole di
Heidi; solo in quell’istante compresi quanto in realtà la mia vicinanza la
influenzasse. Continuai ad ascoltarla quasi commosso, senza poter interrompere
quelle sue confidenze inaspettate.
“Sono quasi certa di non aver
mai conosciuto l’amore - fece una pausa - amore… non sono neppure sicura
che i vampiri possano provarlo; siamo creature inclini al male…” ammise quasi
con tristezza.
Cercai di calmare quello strano
turbamento che avvertivo in lei.
“Bene e male, amore e odio sono
dualismi che esistevano già nella nostra esistenza umana, non c’è nulla di
strano. Cosa stai cercando di dirmi, che mi ami e ti senti in colpa per quello
che fai? O che non sei sicura di amarmi…”
Le sfuggì un sospiro pesante.
“Se io ti amassi, Carlisle,
significherebbe avere un’ anima?”
“Beh, suppongo di sì; i
sentimenti sono il linguaggio dell’anima.”
“Questo vale per gli esseri
umani.” Obbiettò.
“Anche noi vampiri possiamo
amare, provare emozioni forti, essere felici o tristi. Non sei d’accordo con me
su questo?” la guardai negli occhi e la strinsi tra le mie braccia.
“Sì, certo. Ma l’amore, quello
con l’A maiuscola, ho sempre pensato che ci fosse precluso. Sono confusa, non
riesco a capire perché mi sento così…”
“Mi stai dicendo che da quando
vivi con Aro e gli altri, non ti è mai accaduto?”
“No, mai… E vivo qui da molto
tempo. Te l’ho detto, Carlisle: nessuno mi ha fatto sentire come… come mi fai
sentire tu.”
E io sentii tutto il dolore, l’incertezza
del mio sentimento, mentre lei pronunciava quelle parole. I miei dubbi erano i
suoi; in fondo neppure io mi ero mai sentito così.
“E come ti faccio sentire,
Heidi?” le chiesi abbandonandomi sopra di lei.
Mi diede un bacio prima di
rispondere.
“Nonostante tutto, sono felice,
Carlisle… per la prima volta. Se devo soffrire, accetto anche questo.”
“Oh, Heidi non sai cosa sono per
me queste tue parole. Anch’io, sono felice…”
E lo ero davvero.
Eppure non ero sicuro che io e
Heidi ci completassimo; con lei non potevo condividere tutto. Lei non è mai
stata come Esme, o forse non ha potuto esserlo, perché il tempo e le
circostanze non lo permisero. Forse non avrebbe voluto né potuto adattarsi al
mio stile di vita così diverso da quello cui era abituata. In effetti quella
era l’unica cosa che ci divideva creando difficoltà, e impediva di avvicinarci
completamente uno all’altra.
Le gioie della nostra vita
inevitabilmente si scontravano con l’attività di Heidi. Il nostro legame fu
sufficiente a mettere in crisi la sua esistenza, scandita dall’ingresso delle
sue prede a palazzo. Eppure non tentai mai di forzarla o biasimarla, nonostante
l’angoscia che inevitabilmente provavo. Succedeva e io dovevo lasciarla andare,
perché per quanto lei mi volesse, per quanto soffrisse, non poteva smettere di
fare quello che faceva.
Su di noi la cosa a lungo andare
ebbe un’ influenza nefasta.
Quando lei se ne andava, io
stavo male.
Mi sentivo come se subissi una
sorta di tradimento e sapevo di non poter pretendere nulla.
“Quello che fai, non mi piace
Heidi.” Le dicevo amareggiato, mentre la guardavo rivestirsi per uscire a
cercare le sue vittime.
“Lo so, ma cosa vuoi che faccia?
Cosa dovrei fare, secondo te?”
La voce sconvolta, sentivo che
anche per lei era difficile, sapeva che mi stava dando un dolore e non avrebbe
voluto.
Potevo capire il suo conflitto e
io non ero in grado di aiutarla.
“Fallo fare a qualcun altro…”
dicevo afflitto, senza riuscire a nascondere il mio risentimento.
“Questo ti farebbe sentire meno
colpevole?”
Chiese dolente. Aveva capito
ogni cosa di me.
“No, hai ragione. Per me non
cambierebbe nulla…”
Sospirai abbassando la testa;
forse fu in quell’istante che compresi che nulla mi avrebbe fatto sentire
meglio, neanche l’amore che nutrivo per quell’angelo della morte. Il problema
non era lei, ma ero io.
E questo lo capirono anche gli
altri attorno a noi.
Il malessere di Heidi diventò
sempre più evidente anche per Caius e Marcus che informarono subito Aro. La
nostra relazione si stava ripercuotendo sui Volturi e influenzava l’ordine
regolare delle cose che Aro aveva costruito con tenacia e costanza. Ci fu anche
chi come Dimitri, esortò Heidi a lasciarmi, e non escludo che il vampiro in
questione avesse un suo interesse personale. Dimitri non si era mai mostrato
geloso verso di me, anzi avevo un ottimo rapporto con lui, quasi cameratesco.
Non mi preoccupai mai
eccessivamente, finché un giorno per caso, non colsi dietro una porta chiusa,
una conversazione privata tra Caius e Aro, che mi fece comprendere la triste
verità.
Parlavano a bassa voce, ma il
mio udito mi permise di distinguere ogni parola, ogni intonazione trattenuta
dall’ansia.
“Aro sono seriamente
preoccupato: questa relazione che c’è tra Carlisle e Heidi, sta creando non
pochi problemi. Lui la sta influenzando in modo pericoloso; per due volte Heidi
si è rifiutata di andare a caccia. Non possiamo più ignorare la cosa.”
“Temi che lei possa diventare
vegetariana?”
Colsi dell’ironia nelle parole
di Aro e mi parve davvero insolito per uno come lui.
“Non dovresti prendere la cosa
tanto alla leggera.” Sibilò il vampiro, frustrato.
“Come sei melodrammatico. Ah, se
almeno Carlisle si convertisse al nostro stile di vita; è così testardo, eppure
dev’esserci un modo…”
“Ci speri ancora? Non sei
riuscito a convincerlo e non ci riuscirai: rassegnati.”
Poi sentii una voce femminile
dal timbro cristallino che riconobbi immediatamente.
“Signore, se permettete, io
credo che dovremmo obbligare Carlisle ad andarsene se non vuole adattarsi al
nostro stile di vita. Francamente la prima possibilità mi sembra la più
plausibile.”
Jane, quella vampira sadica e
perversa; potevo sentire tutto il suo veleno trasudare dalle sue parole ostili.
Sapevo che mal tollerava la mia presenza a Volterra e sapevo anche perché;
aveva visto concretizzarsi attraverso Heidi i suoi timori. Ma Jane non avrebbe
mai posseduto la sensibilità, la dolcezza della mia Heidi.
“Non vorrei essere costretto ad
allontanare Carlisle, mi dispiacerebbe in fondo. È un buon amico. Però è vero,
non possiamo più ignorare la cosa. Dobbiamo porre Carlisle di fronte a una
scelta, agiremo sul suo legame con Heidi; se intende restare con lei dovrà sposare
in ogni senso, lo stile di vita della sua compagna.”
Le ultime parole di Aro arrivarono
sul mio cuore come pezzi di vetro acuminati; non avrei avuto bisogno di
ascoltare altro.
Tutto mi fu subito chiaro; la
mia permanenza a Volterra stava per finire e staccarmi da quel mondo non
sarebbe stato indolore. Per nessuno.
Ero diventato un elemento
instabile nella loro comunità e non avrei potuto continuare a frequentarli
senza conseguenze per me e per loro.
La mia unione con Heidi aveva
minato quella stabilità rigida che era sempre esistita all’interno dei Volturi
e questo fatto non poteva che mettere in allarme Aro e gli altri.
Mi allontanai in preda al più
grande sconforto che avessi mai provato da quando ero diventato un vampiro. Non
pensai neppure per un momento di poter avere un’ altra possibilità, perché non
c’era niente che avrei potuto fare, se non andarmene. Era una certezza che
cresceva col passare delle ore, ma era pesante come l’angoscia che di lì a poco
sarebbe piombata addosso a me, come a lei. Il dolore era il prezzo che avrei
dovuto pagare in ogni caso.
E non l’avrei pagato solo io,
purtroppo.
Il dolore della separazione da
colei che era stata capace di darmi un istante di felicità lungo come
l’eternità della mia non vita, si univa al dolore della lotta per la mia
libertà a cui non sarei mai stato capace di rinunciare. Forse il mio amore non
era abbastanza forte per trattenermi a Volterra, o forse il suo lo sarebbe
stato abbastanza per lasciarmi andare.
Corsi da lei senza indugio; mi
stava aspettando nella sua stanza.
Mi sentivo morire al pensiero di
quello che stavo per dirle e sperai che lei riuscisse a capire; quasi mi
augurai che il suo per me, non fosse un amore tanto profondo da lasciarle
addosso i segni della sofferenza.
Era una debole illusione, lo
sapevo e per capirlo mi bastò incontrare i suoi occhi; allora sentii quel
dolore immenso, come se una stilettata mi avesse colpito trafiggendomi il
petto.
Sul mio volto era dipinto il
dramma che stavo vivendo, e lei, ancor prima che parlassi, comprese ogni cosa.
“Carlisle sei venuto a dirmi
addio?”
Il suo tono disperato era rassegnato,
avrebbe potuto farmi crollare a terra, ma dovevo essere forte.
“Heidi, ascolta: devo lasciare
Volterra.”
Attesi la sua reazione e
all’inizio pensai che non avesse capito.
“Vuoi andartene per sempre, è
così? Posso venire con te?”
Si era seduta sul letto con le
mani in grembo e io mi affiancai a lei. Mi sembrava tremendamente indifesa.
Presi le sue mani tra le mie.
“Lo vorresti davvero? Verresti
con me, sapresti adattarti a vivere a modo mio? So che è difficile quello che
ti sto chiedendo.”
Non tentai di nasconderle
niente; doveva avere ben chiari i miei motivi.
“Lo so, ma non importa. Sapevo
che alla fine sarebbe accaduto. Temevo che questo giorno sarebbe arrivato. Speravo
fosse ancora lontano; ti prego, dimmi solo che non è a causa mia…”
La voce le tremava, potevo
sentire tutta l’angoscia che avrebbe voluto poter uscire attraverso le sue
lacrime impossibili.
“Heidi, se sono rimasto qui
tutto questo tempo è perché c’eri tu, col tuo amore a trattenermi: mi hai dato
quella felicità in cui non avrei mai sperato. Mi hai fatto dimenticare la mia
grande solitudine, e di questo non ti ringrazierò mai abbastanza. Ma ora devo
farlo, devo andar via. Se resto qui, Aro prima o poi, mi obbligherà a nutrirmi
di sangue umano, e questo mi getterebbe in quell’abisso a cui ho cercato di
sfuggire da sempre. E le cose sono peggiorate da quando stiamo insieme, ma non
è colpa tua. Loro non vedono bene l’influenza che ho su di te.”
“Aro sa che tengo a te, non ti
manderà via, me l’ha promesso.”
Obbiettò in tono quasi infantile.
“Infatti non vorrebbe mandarmi
via, ma farà pressioni per ottenere ciò che desidera. Sa che tu non avresti la
forza di seguirmi, ma pensa che per stare con te, io possa accettare di subire
un ricatto. Ma per quanto io sia legato a te, non posso, lo capisci?”
A quel punto Heidi mi interruppe
bruscamente.
“Certo che lo capisco!! Non te
lo chiederei mai, Carlisle. Non rinunciare a te stesso per me. Non devi farlo
assolutamente!!”
“Heidi, mi dispiace…” scossi la
testa pieno di rammarico, mentre incontravo i suoi occhi. Non poteva piangere,
ma sentivo tutta l’amarezza che la sommergeva nel tono della sua voce. Quello
strazio contagiava anche me.
Non avrei mai pensato di poter
stare così male, ma stavo anche peggio forse.
“Non dire niente, Carlisle; Aro
ha ragione. Io non avrei il coraggio né la forza di seguirti, ma se li avessi,
ti giuro che per nessun altro lo farei. Per te, sarei disposta a cambiare vita…
Non ti chiederei mai di essere diverso da ciò che sei, perché è dell’uomo buono
che sei che mi sono innamorata.”
Tentai di parlare, ma mi posò
una mano davanti alla bocca.
“Però ho il coraggio che mi
serve per lasciarti andare. È l’azione più buona che io abbia mai fatto. Sei
libero, Carlisle. Non sentirti obbligato con me…”
“Oh, cara… cara, io non vorrei
perderti, vieni con me Heidi, ti aiuterò…” le chiesi col cuore che mi usciva
dal petto, quasi disperato.
“No amore mio… - mi accarezzò il
viso, spalancando i suoi occhi incredibilmente tristi. Non l’avevo mai vista
così. - Aro mi inseguirebbe, e alla fine troverebbe entrambi; non posso
permetterlo.”
Sapevo che aveva ragione;
conoscevo abbastanza Aro, da sapere che lo avrebbe fatto. Se fossi andato via
da solo non ci sarebbero stati problemi.
Il fatto che fosse così
comprensiva, così disposta a lasciarmi libero, mi fece capire quanto il suo
cuore fosse generoso e pieno di quell’amore di cui io invece avevo spesso a
torto, dubitato. Mi sentii indegno di lei. Heidi mi stava dando la più grande
prova d’amore che potesse esistere e ne fui enormemente commosso.
Si stava aprendo uno squarcio
tra noi che non si sarebbe richiuso tanto presto e che ci avrebbe segnati per
l’eternità.
Eppure ci eravamo fatti un
grande dono che nessuno avrebbe mai potuto rubarci. Ci abbracciammo per
l’ultima volta, stringendoci disperati.
“Con te ho scoperto l’amore,
Carlisle, quello con l’A maiuscola. Credimi se ti dico che non ti dimenticherò
mai.”
Con quelle parole si separò da
me e corse via, senza che io potessi fermarla neppure per darle un ultimo
bacio, farle un’ultima carezza.
Restai lì nella sua stanza a
raccogliere nei miei polmoni il suo profumo prezioso per portarlo con me nei
miei ricordi, oltre il tempo e lo spazio che ci avrebbe divisi. Mi sentivo
quasi senza forze.
Mi allontanai dopo una buona
mezzora; ero completamente abbattuto.
Eppure dovevo andare da Aro.
Dovevo comunicargli la mia
decisione.
Continua…
Questo è stato un
capitolo davvero sofferto e difficile da scrivere, ma era necessario per
spiegare alcune cose. Qualcuna di voi aveva intuito l’evolversi degli eventi;
non era mio interesse sconvolgere le coppie e non c’è una motivazione
provocatoria in quello che ho scritto. Penso che tutto sia ai fini della storia
e faccia parte dell’evoluzione del personaggio: il suo passaggio tra i Volturi
poteva aver lasciato il segno anche sui vampiri di Volterra. È la sua ricerca
di se stesso e Esme per ora, non è ancora apparsa nella vita di Carlisle. Ma
un’ esperienza del genere avrebbe potuto far capire qualcosa al nostro dottore
su quello che vuole davvero. Tra tutte le figure femminili nei Volturi, quella
di Heidi mi sembrava la più probabile a far scoprire a Carlisle certi
turbamenti. Spero che vi sia piaciuto anche se può sembrarvi un po’ triste.
Come sempre ringrazio tutti quelli che stanno seguendo questa storia,
come preferita o meno, per i vostri commenti e anche chi non commenta, ma legge
soltanto. Un saluto.
Scusate la lunga attesa, ma questa storia sta diventando davvero
impegnativa da scrivere e il tempo è poco. Vi lascio al capitolo e spero sia di
vostro gradimento.
*****
Finalmente mi decisi a lasciare
la stanza, portando con me l’odore amato di Heidi, avviandomi senza fretta da
Aro.
Camminavo attraverso quelle
sale e corridoi che avevo già percorso tante volte in quegli anni passati,
osservando ogni più insignificante dettaglio, consapevole che i miei occhi vi
si sarebbero posati per l’ultima volta.
Ogni cosa era debolmente
illuminata dalla tremolante luce del giorno che finiva: un dipinto, un arazzo
prezioso, l’arredamento di una stanza dove avevo conversato con qualcuno dei
miei amici, una tenda dietro cui io e lei ci eravamo baciati. Mi sentivo le
gambe pesanti come piombo, come se avessi corso per dei chilometri e avessi un
affanno, cosa strana per un vampiro che non può sentire la stanchezza.
Sapevo di aver preso la
decisione più giusta, per me e per lei, eppure mi sentivo come se tutto quello
che stavo per fare, mi costasse uno sforzo enorme e incalcolabile.
Avrei lasciato a Volterra una
parte importante e fondamentale di me stesso, aprendo una ferita profonda che
avrebbe sanguinato a lungo. Non sarei guarito facilmente e fronteggiare di
nuovo la solitudine non mi avrebbe aiutato. Pensavo ad Heidi, per lei sarebbe
stato più semplice, una volta che mi fossi allontanato: sarebbe tornata alla
sua vita in maniera relativamente facile, ma in verità non avrei potuto
saperlo.
Era solo qualcosa di cui
tentavo di convincermi.
Aro fu sorpreso di vedermi
arrivare al suo cospetto con l’aria stranamente determinata di chi accetta la
propria sorte, eppure la mia espressione dovette rivelargli tutta la profonda e
dolorosa amarezza che affliggeva il mio cuore sopito da tempo.
Esordii senza inutili
preamboli, la voce pacata.
“Aro, amico mio, sono venuto a
salutarti…”
Tesi la mano verso di lui e
lasciai che come la prima volta, potesse leggere nella mia mente.
Era più facile; non avevo
bisogno di spiegare nulla, lui avrebbe capito tutto, ogni pensiero, ogni
emozione segreta, ogni dubbio e ogni risposta. Avrebbe toccato con mano tutta
la forza straziante di quel sentimento che ci stava divorando le anime,
piegandole alle necessità della fine.
Avrebbe visto le lacrime che
mai avremmo versato per consolare noi stessi. Avrebbe spiato il nostro addio e
avrebbe capito perché si era reso penosamente necessario alla pace dei nostri
cuori sofferenti.
Mi prese la mano e piano, vidi
mutare la sua espressione, divenire prima incerta, poi incredula e alla fine
rassegnata a ciò che era per tutti inevitabile. Forse un velo di tristezza gli
offuscò lo sguardo.
Ma non so davvero fino a che
punto potesse dispiacersi, in fondo gli stavo facendo un favore.
Gli stavo risolvendo un
problema.
Non era solo; con lui c’erano
Caius, Marcus, la perfida Jane e suo fratello.
Ancora oggi, non riesco a
pensare in altro modo a quella piccola vampira; appena comprese le mie
intenzioni, non seppe nascondere bene il suo palese sollievo. I suoi occhi
scarlatti lampeggiarono di esaltazione, mentre volgendo lo sguardo lontano, le
labbra si stiravano nella piega soddisfatta di un sorriso nascosto.
Era contenta che me ne andassi;
doveva averci sempre sperato. Non seppi decifrare invece l’espressione di suo
fratello, forse indifferenza, ma non ne ero sicuro.
“Allora Carlisle, hai davvero
deciso…”
“Sì, Aro, lascio Volterra.
Questa volta, per sempre.”
Nel tono di Aro potevo cogliere
una sfumatura di rammarico appena accennato.
“Sei disposto a lasciare anche
Heidi… eppure la ami, lo vedo chiaramente… e lei ama te, ma non fa nulla per
trattenerti… allora il vostro è vero amore! Amore tra due vampiri che
dovrebbero essere anime dannate… incredibile!! Sotto il cielo di Volterra è
sbocciato un amore disposto al sacrificio…”
Aro mi guardava con gli occhi
fissi nei miei, avrei quasi potuto vedere i miei pensieri scivolare come
immagini riflesse nei suoi occhi rossi; quello che non tradiva la sua voce, lo
rivelava lo sguardo quasi abbagliato dall’incredulità.
“Sì, Aro. È vero amore, e io
l’ho capito solo ora…”
“Ti ho sottovalutato Carlisle e
me ne rammarico; adesso comprendo davvero il tuo valore. Potrei quasi credere
che tu abbia ragione su tutto… Hai tutta la mia stima,mi dispiace che te ne debba andare. Non vuoi
proprio ripensarci?”
“No.” Risposi senza esitare.
“Se fosse Heidi a chiedertelo,
resteresti?”
Abbassai la testa prima di
rispondere.
“Heidi non lo farà. E comunque
la mia decisione è presa e non torno indietro.”
Aro mi mise una mano sulla
spalla e mi augurò buona fortuna.
Caius e Marcus mi salutarono
cortesi senza tentare di fermarmi. Il mio rapporto con loro era sempre stato
più tiepido, meno coinvolto. Credo che soprattutto Caius diffidasse di ciò in
cui credevo, senza avermi mai manifestato apertamente il suo pensiero, ma non
aveva mai avuto l’ossessione di convertirmi. Sapevo di quello che era
accaduto a Marcus, della moglie che aveva perso, ma il vecchio vampiro non si
era mai aperto in confessioni o confidenze di alcun tipo, come se fosse geloso
di un dolore che non voleva condividere, e come se quel dolore avesse spento
ogni altro interesse alla vita.
Così mi congedai
definitivamente dai tre signori di Volterra e mi apprestai a lasciare per
sempre il palazzo dei Priori. Una modesta sacca da viaggio era tutto il mio
bagaglio. Non sapevo ancora dove sarei andato.
Mentre mi allontanavo incontrai
Demetri.
“Allora è vero: te ne stai
andando…” disse guardandomi fisso.
“Sì. Per me è arrivato il
momento di rimettermi in viaggio…”
“Spero che troverai quello che
cerchi; la tua anima o qualsiasi altra cosa sia…- parve esitare, poi parlò
nuovamente e ciò che disse arrivò come un balsamo al mio cuore - …avrò cura di
Heidi, non temere…”
Lo ringraziai commosso e
scappai via, senza più voltarmi indietro.
Lasciai il palazzo in fretta e
mi ritrovai a vagare da solo per le strade della piccola cittadina toscana.
Stava rapidamente calando la
sera; il cielo all’orizzonte appariva striato di rosa e arancio e nuvole basse
si confondevano nei toni caldi di quel tramonto che non avrei mai dimenticato.
Le persone stavano lasciando le
loro occupazioni della giornata e si apprestavano a rincasare: tornavano alle
loro famiglie, dai loro cari. Io non avevo nessuno da raggiungere, non avevo
più una casa dove andare a riposare, forse non l’avevo mai avuta. Forse fino a
quel momento ero vissuto in una bella illusione, ma il mio tempo era scaduto e
dovevo tornare alla dura realtà. Il peso che portavo sul cuore mi schiacciò,
diventando quasi insostenibile: tornò ad assalirmi la malinconia, quel
sentimento che con Heidi avevo quasi dimenticato, relegandolo nel fondo segreto
del mio spirito inquieto. Avrei voluto poter piangere; non so cosa avrei dato
per poter lasciar uscire quella pena che mi assaliva facendomi stare male.
Ero arrivato al limitare del
paese, sotto al grande arco etrusco, costruito dagli antenati che abitavano
quella terra calda e ospitale e mi appoggiai alle grosse pietre antiche di
quella costruzione come se fossi stanco. Volevo fissare l’immagine di quel
luogo nei miei occhi per l’ultima volta e portarlo con me nel ricordo.
Oltre, mi attendeva la campagna
silenziosa e deserta, e poi colline, boschi e pianure italiane, campi di
frumento e vigneti, e poi altre città e paesi assolati e non so cos’altro
ancora.
Si era alla fine di un secolo e
all’alba di uno nuovo; Napoleone si era appena affacciato alla storia e stava
iniziando a imperversare in Europa. L’eco della rivoluzione francese era
arrivata fino a noi, ma la storia umana passava accanto a quella dei vampiri
senza intersecarla o scuoterla più di tanto; per noi la storia non esisteva,
come non esisteva il tempo.
Ero ancora fermo in prossimità
dell’arco; osservavo pacato la vita che mi scorreva accanto con il suo ritmo
umano, così diverso dal mio, quando improvvisamente lo percepii.
Voltai la testa di scatto, come
se fossi stato scottato, afferrato dalla stretta delicata eppure ferrea di una
mano invisibile: era il suo profumo sottile e dolce.
Lo avrei riconosciuto ovunque.
Quel profumo che conoscevo così
bene, che amavo come qualcosa di prezioso, era come aria pura per me.
Heidi era lì, da qualche parte;
l’aria fresca della sera mi portava il suo odore delicato e seducente.
Mi mossi in preda a una sorta
di spasmo, con frenesia, nel disperato tentativo di trovarla, di capire dove
fosse, come se raggiungerla, avesse un’importanza vitale. Cominciai a girare in
tondo, attirato da quel profumo che solo io potevo sentire, quasi fosse stato
sangue fresco e pulsante, senza ottenere risultati.
Non l’avrei trovata, ma sapevo
che era lì, vicina, che mi osservava, che mi seguiva con quello sguardo
vermiglio indimenticabile che mi aveva catturato teneramente.
Quando capii che non si sarebbe
fatta trovare, mi fermai vinto.
Era abile la mia Heidi.
Rimasi immobile; lasciai che il
suo odore mi avvolgesse, mi penetrasse nelle narici, confondendosi col mio
sangue, col mio respiro.
Chiusi gli occhi.
E fu come vederla.
Era come fare l’amore con lei
un’ultima volta: riaffiorava il ricordo nitido di ogni carezza proibita, di
ogni bacio appassionato, ogni parola segreta che ci eravamo sussurrati in quei
momenti.
Lei era lì con me, in
quell’istante e mi stava dicendo addio.
Avrei voluto vederla ancora una
volta. Abbracciarla stretta.
Invece restai lì, fermo, finché
il suo profumo non cominciò a svanire, portato via dalla brezza fredda che si
stava alzando nella sera. Piano, il suo aroma scomparve, dissolvendosi
nell’aria che imbruniva.
Capii che se n’era andata,
quando percepii il famigliare tormento assalirmi ancora.
Solo dopo lunghi minuti,
ripresi a camminare per uscire definitivamente dalla cittadina.
Puntai verso Nord.
Non avevo ancora una meta da
raggiungere, le mie idee erano confuse. Con la testa e col cuore sarei rimasto
ancora a Volterra, mentre col corpo me ne allontanavo, quasi senza governare le
mie gambe. Sentivo solo che avevo bisogno di cercare un luogo che mi fosse
famigliare. Tornai sui miei passi, ma senza stabilirmi in un luogo fisso.
Quando giorni dopo, attraversai le Alpi sentii qualcosa che si lacerava dentro.
Il nodo che mi soffocava il petto si sciolse, e la diga che aveva trattenuto la
marea dei miei sentimenti non resse oltre: la pena mi sommerse di nuovo, senza
poter trovare sfogo attraverso lacrime che non avevo più.
Percorsi nuovamente il
territorio francese.
Lungo il percorso mi imbattei
in uno sparuto reggimento di soldati reduci da qualche fronte; erano laceri,
esausti, sporchi e potevo leggere nei loro occhi lo sfinimento, la disperazione
per la loro condizione, per le brutture di cui dovevano essere stati testimoni.
In un attimo di follia pensai di arruolarmi al soldo di Napoleone come medico
militare.
Sarebbe stato un modo per
restare vicino agli uomini, aiutarli e aiutare me stesso a non pensare a quello
che mi ero lasciato alle spalle.
In verità, non sarebbe stato il
massimo a cui aspirare; non ero sicuro di voler essere coinvolto nei conflitti
che dilaniavano gli uomini, assistere alla capacità che avevano di compiere
atrocità quasi quanto i vampiri stessi, alla loro sete di potere che li
spingeva ad aggredire i loro simili, a rubare ciò che non era loro. Erano
caratteristiche umane che non avevo mai apprezzato ne compreso neppure quando
ero stato un uomo normale con dei sogni e desideri: la mia natura era sempre
stata essenzialmente pacifica.
Mentre guardavo quei soldati
stanchi e sudati sfilare davanti a me, mi chiedevo di nuovo quali confini
avessero il bene e il male; erano davvero due elementi così distinguibili e
netti, oppure erano due forze in realtà intrecciate e confuse una nell’altra?
Due forze necessarie e indispensabili all’equilibrio di tutto ciò che esisteva
in natura, fossero umani o vampiri?
Mentre a distanza osservavo
quella fila muta e composta di uniformi lacere sfilarmi davanti, compresi che
il problema reale era un altro: non ero più abituato alla solitudine, avevo
quasi dimenticato cosa fosse. L’idea di affrontarla di nuovo mi angustiava,
volevo solo trovare un modo per sfuggirle, e quella sarebbe stata
un’alternativa come un'altra.
Perché non tentare?
Rinunciai quasi subito al mio
proposito perché riflettendo, mi resi conto che attuarlo avrebbe presentato
notevoli difficoltà, quando si fosse trattato di nascondere a dei possibili
compagni la mia natura.
Ripresi la marcia da solo
scegliendo strade poco battute, passando attraverso cittadine limitrofe poco
strategiche per le truppe che transitavano in quei territori.
Mi spinsi in Belgio e poi
attraverso l’Olanda, la terra dei mulini a vento e dei tulipani. Facevo delle
soste in piccoli paesi anonimi, ma vi restavo per poco.
Arrivai nella città di
Amsterdam e lì, decisi di applicarmi allo studio di nuove branche della
medicina, una disciplina in costante evoluzione che richiedeva da parte mia, costanti
aggiornamenti allo scopo di tenere il passo con le nuove scoperte in campo
medico.
Il pensiero di Heidi mi
accompagnava sempre.
Pensavo a lei tutte che volte
che andavo a caccia: mi aspettavo di vedermela comparire davanti come quel
giorno nella foresta in Italia, quando mi aveva seguito di nascosto.
Non avrei dovuto soffermarmi
con tanta insistenza sul passato che ci legava, ma i primi tempi non riuscivo a
evitarlo.
Poi negli anni, lentamente, non
senza fatica, imparai a convivere col suo ricordo che diventò qualcosa di
delicato, come una carezza sul cuore stanco.
Era passato oltre un secolo
dalla mia trasformazione e dovendo fare un bilancio della mia esistenza, prima
del mio incontro con i Volturi, solo nella mia scelta di fare il medico avevo
trovato uno scopo più alto, una ragione che mi dava la forza e il coraggio di
sopportare ciò che mi era capitato in sorte.
In passato mi ero sforzato di
credere che magari nel tempo, imparare ad accettare il destino, sarebbe stato
il mio percorso naturale; invece passavano gli anni, sarebbero passati i
secoli, ma la rassegnazione, la grazia della semplice accettazione sembrava
sfuggirmi. Il confine di ciò che volevo si spostava sempre un po’ più in là e
la mia vocazione di medico, per quanto intensa, non poteva più bastarmi.
Come avrei potuto adattarmi di
nuovo alla solitudine?
Anche gli uomini, una volta
provato il piacere di un frutto squisito, cercavano di tornare a goderne non
riuscendo più a rinunciarci. Per me era lo stesso.
Avevo scoperto che anche per un
vampiro potevano esserci l’amicizia, l’amore, l’affetto e il calore.
Erano cose che di fatto cercavo
ancora: mi sentivo gratificato dalla fiducia di un paziente, o la gratitudine
di una povera donna che vedeva il marito non restare storpio per sempre, a
causa di un brutto incidente.
La mia permanenza in Italia a
contatto con i miei simili mi aveva fatto comprendere che mi sarebbe sempre
mancato qualcosa di fondamentale per essere davvero, non dico felice, ma almeno
sereno, in pace con ciò che ero.
Aro e gli altri, per quanto
diversi, lontani dal mio spirito e dalle mie convinzioni, rappresentavano
quanto di più simile ad una famiglia avessi trovato, un modello di unione, di
legami forti, coesione e sostegno all’interno di un gruppo. E poi c’era stata
Heidi: lei più di tutti, mi aveva fatto capire cosa volevo davvero, a cosa
potevo aspirare, a cosa anelava il mio cuore e la mia ragione.
Desideravo qualcuno che fosse
come me con cui condividere e alleggerire il peso della mia triste esistenza
immortale.
Per averlo, dovevo smuovere in
qualche modo la mia vita, dovevo capire come agire per il meglio e dove andare.
Di nuovo, avevo bisogno di
risposte che nessuno poteva darmi e pensai di trovarle alle mie radici.
Così decisi di tornare a
Londra, il luogo da cui era partito tutto, quel posto in cui avevo giurato di
non tornare mai. Quando vi misi piede verso la metà del ‘800, trovai la città
profondamente mutata: la Londra dei miei giorni da uomo non esisteva più. Andai
a cercare quella che un tempo era stata la mia casa; esisteva ancora, ma
adesso, persone estranee l’abitavano. Mi sentii come se fossi stato derubato di
qualcosa d’importante per l’ennesima volta: prima la vita, ora mi sembrava di
non avere più un’ origine.
Ne storia ne termine.
Trovai la vecchia chiesa di mio
padre, col grosso crocifisso ligneo che un secolo più tardi avrei recuperato in
un negozio d’antiquariato a New York, ma non ritrovai più le mie sensazioni al
rivedere una parte di quel mondo che una volta era stato mio. Era passato
troppo tempo e io non appartenevo più a quei luoghi, neppure a quella materia:
tutto aveva una consistenza diversa, un odore e un colore che non conoscevo,
neppure quel cielo livido mi sembrava più lo stesso. La mia percezione delle
cose era mutata, o forse ero io che ero troppo cambiato. Forse avevo vissuto
troppo, più di quanto fosse tollerabile per un uomo.
Avevo sperato di ritrovare le
mie radici e invece mi sentivo come un albero secolare che era stato sradicato
dal suolo. Sotto i miei piedi sul terreno si era aperta una voragine e vi
galleggiavo sopra come sospeso, senza trovare appigli a cui potermi aggrappare.
Mi recai presso il grande
cimitero che sorgeva lì vicino; avevo bisogno di pregare sulla tomba di mio
padre.
Vagai per un tempo indefinito tra
cappelle, croci, statue di santi e madonne finché non trovai una lapide grigia
e severa, spoglia di fiori e anonima, senza particolari ornamenti e quasi
trascurata: recava inciso solo il suo nome e la data di morte.
Se n’era andato pochi anni dopo
la mia prima partenza da Londra.
Mi rattristai pensando che
fosse morto in totale solitudine, e nel contempo mi trovai a invidiare
nuovamente quella condizione ultima e pietosa che toglieva l’umanità dai suoi
affanni.
Parlai con lui come se avesse
potuto ascoltarmi, rispondermi come non aveva mai fatto quando era stato in
vita.
Non voglio pregare Dio,
perché forse non ne sono degno, allora mi rivolgo a voi…
Se sono ancora vostro figlio
e dal luogo in cui siete per me inaccessibile, voi potete vedermi…
Se riuscite a scorgere la
mia anima intatta, non corrotta, ma prigioniera sotto la materia fredda e dura
di cui sono composto…
Se riuscite a vedere del
bene in quello che ho fatto anche in questa vita apparentemente maledetta, in
qualche modo, vi prego di indicarmi una direzione da seguire. Nonostante ciò
che sono, ho cercato di aiutare gli uomini, mettendomi al loro servizio; lo
farò per il resto di questa mia strana esistenza finché il fato non si compirà
anche per me, non so in quale modo.
Ma voi datemi un segno,
padre. Se potete, mandatemi una luce a indicarmi il cammino. Non lasciatemi
nelle tenebre.
La risposta con i suoi risvolti
amari, anche se non subito, sarebbe arrivata.
Lontano da lì, dalla mia casa,
dalla mia città natale. Lontana nel tempo.
Non restai molto a Londra. Me
ne andai dopo breve tempo.
Mi trasferii in un paese più a
Nord dell’Inghilterra, dove la regione era piena di foreste, un luogo ideale
per un vampiro vegetariano.
Mi inserii bene nel tessuto
della cittadina che viveva attraverso scambi commerciali di vario genere, via
terra e via mare. Molti dei suoi abitanti erano ricchi proprietari terrieri.
Passai in quel luogo diversi
anni e mi ero guadagnato una discreta fama: come medico ero stimato e
rispettato.
Forse fu in quel periodo che
diventai davvero il dottor Cullen, non solo per me stesso, ma prima ancora per
gli altri.
Stavo relativamente bene,
benché mi mancasse qualcosa.
Non avevo più avuto contatti
con altri vampiri, neppure nomadi di passaggio e io ancora mi chiedevo se potessero
esserci altri individui come me, perché ormai avevo compreso che solo con
qualcuno che condividesse il mio modo di vivere, potevo davvero pensare di
costruirmi una vita soddisfacente.
Ma esistevano altri vampiri
simili a me?
Dubitavo fortemente di questo
fatto e mi tornò alla mente un pensiero su cui avevo già meditato in passato:
solo io avrei potuto creare altri esseri che fossero sangue del mio sangue,
veleno del mio veleno.
Si trattava di trasmettere per
ipotesi attraverso un morso, la mia essenza, le mie convinzioni, la mia natura
insolita per un vampiro.
Ma non potevo esserne certo. Mi
ero convinto di essere solo un frutto del caso, una variabile impazzita nella
legge naturale delle probabilità.
Forse commettevo un peccato di
superbia solo a pensarlo, ma in fondo, cosa avrebbe potuto dannarmi
maggiormente oltre ciò che ero già?
Ancora una volta, mi dibattevo
nel vano tentativo di dipanare la matassa ingarbugliata dei miei dubbi.
Comunque non ebbi il tempo di
distrarmi troppo su quelle mie strane considerazioni filosofiche, anzi le
accantonai ancora più confuso e scosso, quando accadde un episodio grave che mi
coinvolse troppo emotivamente.
Ci fu un ragazzino del
villaggio dove risiedevo, che si ammalò di tubercolosi in seguito ad una
epidemia diffusasi nella regione. All’epoca la malattia era ancora difficile da
curare e spesso se non veniva diagnosticata in tempo, era causa di morte certa,
soprattutto su fisici deboli e debilitati da cattiva nutrizione e scarse
condizioni di vita.
Martin aveva 11 anni, era il
figlio di povera gente che non chiedeva altro alla vita più di ciò che aveva
ricevuto, che viveva di quel poco che ricavava dalla terra e dall’allevamento
di qualche capo di bestiame, che poi si componeva di una mucca e qualche
pecora.
Era un ragazzino con una gran
gioia di vivere, che correva a piedi nudi per la campagna correndo dietro alle
libellule, un monello con la faccia macchiata da uno spruzzo di lentiggini e
una zazzera incolta e disordinata di capelli ricci pel di carota.
Era un bambino felice di quel
poco che aveva, eppure tanto se consideriamo l’affetto che i genitori avevano
per lui.
Quando Martin si ammalò, la
situazione fu peggiorata dal fatto che i genitori, troppo poveri per pagare un
medico, trascurarono le condizioni del figlio prendendole sotto gamba. Lo
portarono da me mesi dopo, quando si accorsero che sputava sangue, ma a quel
punto fu troppo tardi: la malattia era già ad uno stadio troppo avanzato.
In un impeto di rabbia
rimproverai i genitori per aver sottovalutato le condizioni del ragazzo, ma
subito dopo me ne pentii amaramente; la madre era angosciata e disperata, ed
era inutile infierire su una povera donna che aveva fatto del suo meglio per
curare il figlio con i pochi mezzi di cui disponeva.
Per tentare di rincuorarla le
dissi solamente che avrei fatto l’impossibile per salvare suo figlio e di non
preoccuparsi per i soldi: non erano un problema per me.
Eppure quello che feci, non
bastò.
Non lasciai nulla d’intentato
per salvare la vita di Martin. Ricorsi a tutte le conoscenze, a tutte le cure
conosciute, ma gli strumenti a mia disposizione in quel momento, non furono
sufficienti a intervenire in modo efficace e il male aveva già corrotto il suo
organismo in maniera irreparabile.
L’agonia del ragazzo fu lenta e
inesorabile: lo vidi deperire giorno per giorno, col sangue che gli intasava i
polmoni, i respiri ridotti a rantoli soffocati e ogni colpo di tosse era un
dolore lancinante che straziava il suo corpo martoriato e affaticato.
Quando mi resi conto che non
sarebbe sopravvissuto, preso dallo sconforto pensai per un momento di ricorrere
ad una misura estrema: valutai davvero la possibilità di trasformarlo e dargli
così l’unica possibilità di continuare a vivere anche in quella forma terribile
che sarebbe stata la sua nuova natura.
Ma esitai un attimo di troppo,
preso nel dilemma etico se fosse davvero giusto condannare un ragazzino di 11
anni a restare intrappolato per sempre nel corpo immaturo di un
bambino/vampiro.
Ma perché Dio doveva prendersi
un bambino di 11 anni che si stava affacciando alla vita?
Perché neppure io, che avevo
dedicato la mia vita miserabile a quello scopo, potevo sovvertire quella
terribile legge di natura che era la morte?
Morte che incombeva su ogni
cosa che fosse nel mondo, ma non su di me?
Martin era troppo giovane per
morire a 11 anni, che sono davvero troppo pochi per affrontare l’eternità che
l’avrebbe condannato a una non-vita.
Credo che in definitiva, di
nuovo preda dei miei dubbi, mi mancò il coraggio di attuare il mio proposito,
ritenendolo ingiusto.
Eppure la sua morte mi segnò in
modo indelebile: me la presi a cuore come se fosse stato un figlio mio.
Provai un dolore immenso per
quella triste perdita e fu terribile per me vedere lo strazio di una madre e di
un padre che piangevano quell’unico figlio che il cielo aveva mandato loro in
dono. Cercai per quanto potei di sostenere i genitori del piccolo Martin anche
con aiuti economici, ma mi rendevo conto che niente avrebbe potuto rendergli
ciò che avevano perso.
Oggi sono padre anch’io, un
privilegio in cui non avrei mai sperato, e forse non mi sarà mai dato sapere cosa
significhi temere per la vita di un figlio, perché Edward, Rosalie, Alice,
Jasper o Hemmet non saranno mai fragili quanto i figli degli uomini, ma so che non
potrei sopportare la perdita di uno solo di loro.
All’epoca me la presi con me
stesso, con quello che ero.
Niente in quel momento mi
avrebbe fatto sentire meglio.
A cosa serviva che fossi
immortale, se non potevo sconfiggere la morte come volevo, come mi sembrava
giusto?
Avevo già visto morire altri
uomini di ogni età, in ogni epoca; ero stato testimone di altre vite sconfitte
dalla vecchiaia e dalla malattia.
Avevo imparato ad accoglierle
come eventi giusti e naturali dell’esistenza umana, ma la morte di un bambino
non riuscivo ad accettarla, mi sembrava innaturale, un’ assurdità inaudita
quanto il fatto che io invece, esistevo.
Quella particolare esperienza
mi fece sentire inutile, mi gettò nello scoramento più assoluto e totale e fece
riesplodere il conflitto latente che mi portavo dentro da tempo immemore.
Neppure a fin di bene potevo
abbracciare la presunzione di condannare qualcuno alla mia eterna dannazione.
Dopo la morte di Martin, il mio
lavoro mi pareva non avere più senso e persi fiducia in me stesso.
Diventai insofferente a tutto
quello che poteva rammentarmi quella sconfitta che avevo subito, e trascinato
dalla mia frustrazione, non compresi che da lì avrei dovuto imparare una
lezione importante, un significato più profondo.
Non passò molto tempo che
decisi di andarmene di nuovo; dovevo andare più lontano, cercare una terra con
orizzonti più ampi, un nuovo mondo…
Dovevo trovare un terreno
solido per mettere radici forti, un posto dove rinascere che non avesse nessun
collegamento col mio passato e con quello che avrei lasciato in Europa: il mio
fallimento personale.
Continua…
Scusate per la lunga attesa, ma non trovavo il modo corretto di
risolvere questo capitolo di passaggio, poi mi è venuta l’idea giusta, credo
coerente col personaggio e il suo vissuto, o almeno lo spero.
Voi fatemi sapere che ne pensate.
Come sempre se notate incongruenze o inesattezze fatemelo
notare.
Grazie per aver letto fin qui.
Come sempre grazie per tutto, alle fedelissime per ogni vostro
commento che mi fa felice, per chi segue questa storia e per chi l’ha messa tra
le preferite.
Arrivare in America
non fu semplice; ci furono diverse complicazioni che dovetti valutare e di cui
tenere conto.
A
suo tempo, avevo attraversato la Manica a nuoto, ma l’oceano era un'altra cosa.
Non che non avrei potuto
farlo, ma seguire una rotta sarebbe stato oltremodo difficile anche seguendo il
sole o le stelle.
E poi c’era il
problema di come mi sarei nutrito.
Ponderai a lungo le
varie opzioni con le relative difficoltà: su una comune nave passeggeri, sarei
dovuto restare a digiuno per diverse settimane, in pratica tutto il tempo della
navigazione, oppure potevo imbarcarmi su una nave per il trasporto del
bestiame. Optai per l’ultima ipotesi, perché mi sembrò quella meno rischiosa,
ma avrei comunque cercato di resistere al bisogno di nutrirmi; uccidere una
bestia qualsiasi a bordo di una nave mercantile, avrebbe insospettito
l’equipaggio anche se avessi fatto sparire la carcassa.
Ma era l’unico
rischio che potevo permettermi di correre.
Non potevo viaggiare
come clandestino, ma avrei chiesto e ottenuto di imbarcarmi come medico di
bordo; tutt’al più avrebbero trovato insolito il fatto che avrei mangiato da
solo nella mia cabina, passando così per eccentrico. Ma in fondo, quella
dell’eccentricità è una maschera perfetta, che noi Cullen negli anni abbiamo
imparato ad indossare molto bene.
Prese tutte le
misure del caso, una fosca e fredda mattina di febbraio, salpai dal porto di
Southhempton, a bordo del mercantile Gaelico.
Il viaggio durò
settimane e per gran parte della traversata riuscii a non nutrirmi; credevo di
essere abituato al digiuno, una pratica che mi ero già trovato a sostenere
immediatamente dopo la trasformazione. Se ero riuscito a resistere quando ero
stato solo un neonato, potevo reggere senza grosse difficoltà il tempo
necessario ad arrivare in America. Dovevo solo sperare di non trovarmi in
qualche situazione delicata che avrebbe richiesto da parte mia, freddo
autocontrollo e disciplina.
Nonostante le mie
occhiaie violacee cominciassero a diventare evidenti, segno che mi stavo
indebolendo, volevo resistere, ed ero certo di poterlo fare fino alla fine,
finché per un incidente di viaggio non mi convinsi che era meglio non sfidare
le mie forze; un mozzo rimase ferito abbastanza gravemente in seguito alla
rottura di un cardine allentato. Intervenni prontamente per soccorrerlo e
quando sentii l’odore del suo sangue, vacillai per un momento, spaventato e
incredulo, mentre la mia gola restava ferita dall’arsura della sete.
Medicai il giovane
marinaio trattenendo il respiro per cercare di ignorare l’odore, e non fu
assolutamente facile: era molto tempo che non avvertivo più le mie viscere
contorcersi in maniera così forte per i morsi della fame.
Devo ammetterlo:
restai deluso da me stesso.
Con quell’esperienza
mi resi conto che il digiuno forzato prolungato, non avrebbe potuto essere una
pratica da adottare per il futuro: sarebbe stato poco saggio sottoporre me
stesso ad altre tentazioni.
Nutrirmi con una
certa regolarità mi avrebbe mantenuto in forze e sarei stato libero dalla
seduzione del sangue umano; resistere non avrebbe più rappresentato un grosso
problema, ma non dovevo chiedere troppo alla mia natura bestiale. Ero stato fin
troppo sicuro di me, ma la situazione presentava troppi rischi per ignorarli.
Quella stessa notte,
approfittando di un tempesta provvidenziale che faceva rollare la nave, mi
intrufolai nella stiva di carico dove era stipato il bestiame: gli animali già
spaventati percepirono subito il pericolo e si agitarono ulteriormente.
Agii rapido e indisturbato: uccisi un bue e poi mi
liberai della carcassa in mare. Nessuno si sarebbe accorto dell’ammanco fino al
nostro arrivo in porto e per allora, io mi sarei dileguato.
Mi rimisi in forze
quel tanto che bastava per arrivare alla fine del viaggio senza altri
incidenti.
Navi
e bastimenti partivano da ogni porto dell’Europa dirette in America.
Le
sue sponde accoglievano popoli e genti da tutte le latitudini del pianeta,
provenienti da ogni nazione: italiani, spagnoli, irlandesi, polacchi, inglesi e
francesi. Erano migliaia gli emigranti che lasciavano la loro patria per cercare
fortuna e riscatto dalla miseria, trovare nuove possibilità e migliorare la
propria esistenza.
Nel
tempo quella terra sarebbe diventata un crogiuolo di culture, di stili e di
etnie diverse.
Il continente
americano si presentò a me come una terra dagli spazi vasti e sterminati, tutta
da scoprire, ancora quasi vergine e incontaminata.
Era
la terra dei sogni, dei miraggi e delle speranze, che si perdevano inseguendosi
dentro la vastità delle sue grandi vallate, mentre lo sguardo incerto si
smarriva seguendo quegli orizzonti sconfinati.
I
suoi paesaggi maestosi erano fatti di deserti rossi e rocce dalle più strane
forme, bizzarre sculture colorate dai giochi delle ombre, modellate dai venti
ed erose dalle piogge, praterie rigogliose percorse da fiumi immensi e placidi,
solcati da grossi bastimenti che trasportavano uomini e merci da uno stato
all’altro, tra la Louisiana e il Missouri, mentre dalle sue montagne nascevano
torrenti tortuosi e impetuosi.
Era
anche la terra dei miei sogni, una nuova patria in cui fondare delle nuove
radici, iniziare da capo una nuova vita. Tra me e il mio passato, fatto di
poche gioie e profondi dolori, avevo messo un oceano a dividerci.
Le
esperienze belle e brutte che avevo portato con me, erano ampie e vaste quanto
l’orizzonte che mi si apriva davanti, eppure erano il solo punto di riferimento
che avessi, per capire che direzione prendere.
In
fondo, in una terra così grande avrei potuto trovare tutto elevato alla massima
potenza e io ero pieno di aspettative, pronto a valutare ogni possibilità che
mi si fosse presentata.
Quando
dopo tante settimane in mare, dal ponte della nave, vidi quasi nascosta dalla
foschia, la linea frastagliata che disegnava le coste di quel nuovo mondo, mi
sentii come quegli uomini che, perduta la fede, la ritrovano.
Ero
ottimista come non lo ero mai stato fino a quel momento.
Attraccammo
nel porto di New York; scesi velocemente dalla nave senza farmi notare, evitando
con successo i controlli sanitari e la quarantena a cui venivano sottoposti
tutti gli immigrati che scendevano dalle navi di provenienza europea. Per
fortuna le imbarcazioni per il trasporto delle merci non erano sottoposte agli
stessi rigidi controlli.
Restai
un paio di giorni in città, il tempo di capire che direzione dovessi prendere.
Dovevo
spingermi a nord e raggiungere le foreste dell’Alaska o del Canada; sarebbero
stati i territori ideali dove stabilirmi momentaneamente, in attesa di capire
come adattarmi alla nuova situazione.
Viaggiai
a piedi verso i grandi laghi americani, costeggiai le rive dell’Ontario fino
alla città di Toronto.
Mi
spostavo restando ai confini delle piccole cittadine che trovavo lungo il mio
cammino, e più mi spingevo verso l’interno più gli insediamenti umani si
diradavano. Mi immersi in quella natura sconosciuta e incontaminata
attraversando l’immenso stato canadese che mi apparve ancora inviolato; volevo
spingermi fino all’estremità della Baia di Hudson, nei territori del nord est.
Macinai così tanti chilometri, che impiegai oltre un mese per arrivare nel
cuore del territorio.
Ma
fretta non ne avevo, avevo tutto il tempo che mi serviva anche per far pace con
la mia solitudine e ritrovare quell’armonia col pulsare della vita, col respiro
del mondo che gravitava attorno a me. Desideravo tornare a sentirmi parte di un
tutto, quella sensazione famigliare tante volte provata in passato, che mi
faceva stare bene, che mi rigenerava come fossi stato una batteria attraversata
dalla corrente.
I
primi tempi, mi sentivo come se fossi tornato indietro di secoli, quando vagavo
attraverso le foreste e i boschi della mia terra natale. Avrei potuto
insediarmi in qualche cittadina canadese e riprendere la mia attività di
medico, ma per il momento decisi di non farlo e di restare in quelle foreste.
In
realtà il ricordo troppo fresco di Martin mi bruciava ancora dentro, e
affrontare di nuovo il coinvolgimento che derivava dalla mia attività mi
atterriva; probabilmente stavo fuggendo, ma non avevo voglia di tornare a
toccare dolore e sofferenza legate alla vita umana.
Nonostante
le mie sensazioni il Canada non era l’ Inghilterra: qui gli spazi erano
decisamente più vasti.
Addirittura
le svettanti conifere sembravano più alte.
Il
clima era diverso e decisamente ostile all’uomo; faceva molto più freddo che in
qualsiasi altra zona dell’America, e la neve ricopriva il paesaggio quasi per
tutto l’inverno, ma per me non era un fastidio: io ero più gelido della neve.
Trovai
un rifugio di cacciatori abbandonato e mi impegnai per renderlo confortevole:
non che ne avessi bisogno, ma mi sarebbe servito per custodirvi le mie poche
cose, una sacca da viaggio colma dei miei libri e qualche oggetto personale. La
lettura era la cosa che mi mancava di più: quella era una delle mie attività
preferite che mi aiutava a sopportare lo scorrere monotono del tempo, e presto
o tardi, avrei dovuto porre rimedio a quella lacuna.
In
primavera, dopo il disgelo, se il cielo non era coperto dalla solita coltre di
nubi, passavo le mie notti sotto le stelle, disteso tra l’erba delle praterie a
contemplare il firmamento; guardavo le costellazioni puntando il dito contro il
cielo come se avessi voluto disegnarle e citavo a memoria il nome di ogni
puntino luminoso che catturava il mio sguardo. Allora in quell’istante, pensavo
che avrei voluto avere Heidi vicino a me e che sarebbe stato bello guardare
quello spettacolo insieme a lei.
Il
passato aveva lasciato lividi sul cuore, ma cominciava a fare meno male e
gradualmente si addolciva nel ricordo sfumato di un sorriso.
Qualche
volta mi chiedevo se ci sarebbe mai stato qualcuno ad accompagnarmi in quel mio
viaggio; disperavo di trovarlo e mi sembrava di non aver abbastanza coraggio
per fare ciò che andava fatto, né per proseguire quella mia esistenza
solitaria. Continuavo a rimandare la mia scelta, a tergiversare, aspettando
l’arrivo di un arbitro imparziale che mi rivelasse le carte del mio destino.
Passarono
molti mesi; un giorno nel sottobosco, nascosto sotto alcune felci trovai la carogna
di un animale morto. Il mio primo pensiero fu che fosse stato ucciso da un
altro predatore, ma quando vidi i segni inconfondibili che aveva sul collo,
restai quasi di sasso. Annusai le tracce e percepii l’inconfondibile odore
della mia razza.
Un
altro vampiro era stato qui, forse io mi trovavo sul suo territorio di caccia,
ma la cosa che in quel momento mi sorprese di più, fu l’idea quasi incredibile
che si trattasse di un vampiro vegetariano.
Sperai
di non sbagliarmi completamente. Mi prese una strana eccitazione e la smania di
incontrare un mio simile mi avrebbe fatto battere il cuore, se fosse stato
vivo.
Cercai
di incontrare il vampiro, ma quei primi giorni carichi di attesa passarono
senza che accadesse nulla. Lasciava segni del suo passaggio, come se volesse
farsi raggiungere e io lo seguivo per chilometri, ma riusciva sempre a
depistarmi. Era velocissimo e astuto.
Sentivo
la sua presenza, sapevo che mi stava osservando, guardingo e probabilmente
curioso quanto me.
Stanco
di quel gioco, decisi di uscire allo scoperto: lasciai il mio rifugio e cercai
di attirare la sua attenzione, tentando di fargli capire che non ero ostile.
“Lo
so che sei lì fuori, da qualche parte. Fatti vedere per favore, non ho
intenzioni bellicose, voglio solo parlare con te.”
Parlai
con voce chiara ma senza urlare; ovunque fosse mi avrebbe sentito.
E
finalmente lo vidi emergere dal folto degli alberi per venirmi incontro.
Ci
trovammo faccia a faccia.
Era
vestito con pelli di camoscio, quasi come gli indiani che popolavano i territori
più a sud.
Se
non fosse stato per il caratteristico pallore cadaverico avrebbe potuto
sembrare un indiano.
Esordii
fissando i miei occhi su di lui.
“Mi
chiamo Carlisle, vengo dall’Europa. Mi sono stabilito in questo territorio da
pochissimo, ma non sapevo che fosse già rivendicato da altri vampiri.”
Aveva
un’ aria vagamente selvaggia, ma pacifica; i suoi occhi avevano la mia stessa
sfumatura dorata.
Mi
osservò con attenzione per un po’ prima di rispondere con assoluta calma.
“A
dire il vero, qui nessuno rivendica niente. C’è spazio per tutti in queste
regioni. A proposito, io mi chiamo Eleazar.”
Il
tono amichevole, mi incoraggiò a fare altre domande.
“Vivi
da queste parti abitualmente, o sei un nomade di passaggio che sta solo
cacciando?”
“Non
vivo qui; in realtà veniamo dall’Alaska.” Mi sorprese l’uso che fece del
plurale e non lo nascosi.
“Veniamo?
Allora non sei solo?” Chiesi, lasciando vagare lo sguardo attorno a noi.
In
risposta alla mia domanda, tre figure femminili uscirono dagli alberi.
Non
le avevo sentite perché cautamente si erano mantenute sottovento, mentre
Eleazar si era esposto per affrontarmi. Chissà da quanto tempo mi stavano
studiando; sicuramente conoscevano quei territori meglio di me, sapevano come
muoversi senza essere notati, per questo non mi ero accorto prima della loro
presenza.
Stabilito
che non rappresentavo una minaccia erano usciti allo scoperto.
Eleazar
con un cenno della mano, mi presentò le tre bellissime vampire appena comparse
davanti a me; il loro abbigliamento non era molto diverso da quello del loro
compagno e anche le loro iridi erano color dell’oro.
“Loro
sono Irina, Tanya e Kate. Il nostro gruppo vive nella regione di Denali. Ti
abbiamo osservato Carlisle; sappiamo che sei un solitario, ma se ti fa piacere,
visto che abbiamo lo stesso stile di vita, ti puoi unire al nostro clan e
seguirci in Alaska… naturalmente se non ci sono altre cose che ti trattengono
qui.”
Lo
stesso stile di vita… furono quelle parole in particolare a stimolare il mio interesse.
Poi
una delle tre donne, quella con i capelli ricci e biondi che rispondeva al nome
di Tanya, parlò, e la sua voce musicale mi ricordò Heidi. Era incredibile come
una sfumatura qualsiasi di un insignificante dettaglio, me la richiamasse in
continuazione alla memoria.
“Ti
do il benvenuto a nome di tutta la mia famiglia, Carlisle. Mi farebbe davvero
piacere se ti unissi a noi… gli inverni da queste parti sono rigidi e lunghi da
passare in solitudine… anche per quelli come noi.”
La
ringraziai e mentalmente riconobbi quanto avesse ragione.
Volevo
sapere di più su quel gruppo di vampiri: volevo capire come si erano
allontanati dal sangue umano, se si trattava di una scelta definitiva o se
fosse soltanto temporanea.
Non
so come fu, ma avvertii una istintiva fiducia nei confronti di quel vampiro;
sembrava saggio e molto equilibrato, oltre che riflessivo. Assolutamente
diverso da Aro, non solo per la sua dieta.
Non
impiegai molto a decidere: pensai a un segno del fato, quel segno che stavo
aspettando da tempo.
Senza
esitare, mi apprestai a seguire i miei nuovi compagni in Alaska.
Lungo
il tragitto per arrivare nel territorio dove si erano insediati, imparammo a
conoscerci un po’.
Loro
come me, erano animati dalla stessa curiosità che generava tutta una serie di
infinite domande: normalmente non dovevano avere molti contatti con creature
della nostra specie, ma anche per loro era una novità assoluta e straordinaria
l’incontro con un altro vampiro vegetariano.
Erano
curiosi e ansiosi di poter parlare con un loro simile di provenienza europea:
mi chiesero dei posti che avevo visto, dei luoghi in cui ero vissuto, e quando
senza scendere nei dettagli, accennai brevemente alla mia sosta a Volterra, mi
parve di cogliere un guizzo anomalo nello sguardo di Eleazar, un’espressione
che non seppi interpretare. Il capo clan mi parve vagamente perplesso, ma
francamente non riuscivo a capirne la ragione.
Fatti
i primi raffronti, compresi piuttosto in fretta che i loro rapporti famigliari
non avevano nulla in comune con quelli che avevo trovato tra i Volturi.
Il
clan di Denali era a tutti gli effetti, una vera e propria famiglia unita da
legami affettivi davvero solidi e molto forti. Vivevano nei pressi di Anchorage
in Alaska, piuttosto isolati dal resto della civiltà, in una robusta casa di
legno costruita dallo stesso Eleazar, simile a quelle dei coloni nelle
praterie.
Ecco,
forse era questa scelta estrema che non comprendevo appieno; se non si cibavano
di sangue umano, perché evitavano gli uomini con tanta cura? Forse cedevano
facilmente alla pressione della sete?
Avrei
avuto il tempo per capirlo.
Eleazar
aveva una compagna, cui era legatissimo, che incontrai al mio arrivo: si
chiamava Carmen.
Era
una donna piacevole, affettuosa e caliente come dimostravano le sue origini
spagnole, che nutriva per il suo compagno di vita un amore molto profondo. Mi
accorsi di quanto fosse forte il sentimento che li univa appena ebbi modo di
vederli insieme nella loro dimora.
Carmen
si fece incontro al suo compagno, abbracciandolo con la stessa foga di una
moglie che non vede il suo uomo da mesi, e lui la ricambiò con lo stesso
slancio, baciandola appassionatamente senza curarsi della mia presenza. Quando
finalmente lui ci presentò, la sensuale e voluttuosa vampira dai capelli bruni
si dimostrò cordiale e diretta, ispirandomi la stessa fiducia che già mi aveva
suggerito il suo uomo.
Pur
essendo capaci di stare lontani per necessità o cause esterne di forza
maggiore, credo che nulla avrebbe potuto tagliare il filo che li legava.
Tra
i vampiri non avevo mai visto nulla del genere; non si trattava certamente
dello stesso legame che mi aveva unito ad Heidi, ma di qualcosa di molto più
profondo e potente.
Guardando
loro, molte volte mi sono chiesto, se avrei mai avuto il privilegio di poter
godere di un simile affetto da parte di qualcuno e ricambiarlo con la stessa
passione.
Le
tre vampire Kate, Irina e Tanya, benché avessero personalità molto diverse
erano come sorelle, molto legate una all’altra, anche a causa di un evento
spiacevole del loro passato, a loro volta legate a Carmen ed Eleazar come
fossero parenti strette.
Tanya
delle tre era la più esuberante, piena di vitalità e l’unica che all’occasione,
non disdegnava la compagnia di maschi umani, ma non si lasciava sedurre dalla
possibilità di trasformarli. Kate era più discreta e riservata, ma ugualmente
molto gentile e disponibile; si lasciava coinvolgere volentieri da chi le stava
attorno. Irina era forse quella più problematica; sensibile alla solitudine più
delle sue sorelle, portava ancora addosso i segni di un passato doloroso, un
lutto che aveva colpito le tre vampire prima ancora della mia nascita.
Con
tali premesse, fu piuttosto facile per me adattarmi a vivere con loro come se
fossi stato un fratello, un membro della loro famiglia. Tra noi si creò una
sintonia perfetta che non avevo mai sperimentato con altri prima, e non escludo
che la dieta comune abbia contribuito a cementare il legame che si creò tra
noi; forse per la prima volta mi sentii davvero in comunione con dei miei
simili.
Era
come se sentissi di appartenere a qualcuno che non era diverso da me.
Improvvisamente
avevo trovato una collocazione nel mondo: non mi sentivo più uno strumento che
suonava una melodia fuori dal coro, ma appartenevo ad un’orchestra che eseguiva
una musica precisa, e il mio canto si armonizzava con le altre voci attorno.
Mai
prima con altri avevo provato quelle stesse sensazioni in maniera così intensa.
Qualcosa
di simile lo avevo vissuto solo attraverso il contatto estremo con la quiete
della natura, ma non era la stessa cosa; mi era sempre sfuggita quella
perfezione, la completezza piena.
Aver
scoperto altri che erano come me mi ispirava fiducia: era come aver trovato
nuova linfa vitale, un nuovo terreno fertile in cui piantare e custodire le mie
radici.
Senza
dubbio era ciò che avevo sempre desiderato e sperato di trovare, eppure anche
quella sarebbe stata solo una soluzione temporanea; stavo solo riprendendo
fiato. Non ero altro che un viandante stanco che si stava riposando, prima di
ripartire per altri lidi ancora più lontani.
I
vampiri di Denali erano creature libere ed Eleazar non era un capo nel senso
più classico del termine: egli esercitava più il ruolo di guida e protezione
della sua famiglia, piuttosto che dettarne le leggi.
Bastarono
pochi mesi alla nostra convivenza, perché tra me ed Eleazar si instaurasse un
rapporto molto profondo, fatto di complicità ed empatia, un’amicizia che
sarebbe sopravissuta al tempo e alle distanze.
Certo,
egli non aveva le sottigliezze di Aro, ma possedeva un’intelligenza pratica
unita ad una saggezza antica che veniva probabilmente dalla sua esperienza
secolare di vampiro.
Avrei
potuto confidare tutto a lui e sentivo che mi avrebbe sempre capito e
soprattutto mi avrebbe accettato per ciò che ero, con tutte le mie debolezze e
i pregi, se ne avevo.
Andavamo
a fare battute di caccia insieme, da soli, oppure con Carmen e le altre sorelle.
Anche
l’esperienza della caccia in gruppo era una novità stimolante per me: era la
condivisione di qualcosa di naturalmente intimo e privato, uno scambio di
informazioni e strategie.
Molte
volte in quelle occasioni gli raccontavo di me, del mio passato e di ciò che
andavo cercando.
Non
so perché, forse ero malinconico più del solito, ma un giorno accennai ad
Heidi.
“È
davvero bello quello che c’è tra te e Carmen… sai, anch’io ho avuto una
compagna… tempo fa…”
“Cosa
le è accaduto?”
Eleazar
mi ascoltava attento, senza smettere di fiutare l’aria. Seguiva la traccia
olfattiva di un grosso alce.
“Quando
sono partito per venire qui, ho dovuto lasciarla.”
Eleazar
parve riflettere per un po’ prima di rispondermi.
“È
strano: di solito i legami tra quelli come noi sono quasi indissolubili. Perché
non ti ha seguito?”
Colsi
dello scetticismo nell’inflessione del tono che usò. Esitai un attimo prima di
rispondere, indeciso se parlargli dei vampiri di Volterra; poi gli rivelai la
mia storia limitandomi a riassumere i fatti cruciali.
“Io
all’epoca vivevo in un altro clan, in Italia e loro… beh, non erano
vegetariani. Sono stato obbligato ad andarmene quando hanno tentato di
convertirmi alla loro dieta. Lei apparteneva al clan, per loro svolgeva un
compito fondamentale… mi amava, ma rinunciò a seguirmi per lasciarmi libero.”
“Già,
proprio tipico...” e mi sembrò che parlasse con se stesso.
Per
un attimo non afferrai il senso della sua risposta.
“Come
lo sai?”
Domandai
osservandolo lievemente incuriosito e di nuovo mi sembrava perso in un suo
pensiero privato.
Poi
mi guardò negli occhi. Deciso.
“Ho
vissuto anch’io con i Volturi: facevo parte della guardia di Aro.”
Nessun
altra rivelazione avrebbe potuto sorprendermi di più. Mi arrestai di botto in
mezzo alla foresta, lasciando scappare la mia preda. Eleazar, divertito dalla
mia reazione, fece altrettanto.
“Tu
hai vissuto con i Volturi?!”
Esclamai,
incapace di nascondere il palese stupore che mi colse. Non avrei mai saputo
immaginare Eleazar coinvolto con i vampiri italiani. Ecco spiegata la
perplessità che avevo notato in lui, la prima volta che gli avevo parlato del
mio soggiorno in Toscana.
“Sto
parlando di molto tempo fa, Carlisle… ma sì, è vero. Lavoravo per Aro: avevo il
compito di cercare vampiri con talenti particolari in giro per il mondo; è
questa la mia capacità più spiccata, il mio potere. Quando me ne sono andato,
Carmen mi ha seguito.”
“Carmen?
Anche lei con i Volturi?” Ero sempre più sorpreso.
“Sì…
fu lì che ci incontrammo… e ci innamorammo.”
“È
sorprendente che Aro vi abbia lasciati partire.”
“Beh,
diciamo pure che non aveva i modi ne i mezzi per trattenermi… personalmente
credo che Aro abbia sempre avuto paura di certi legami particolarmente saldi…
di certi spiriti liberi. Quello che non può manipolare, Aro lo teme e
preferisce liberarsene… in qualsiasi modo.” Rispose meditabondo.
“Su
questo, penso di poterti dare ragione. Per questo avete lasciato i Volturi?”
“In
parte anche per questo… ma dimmi: chi era la vampira che hai dovuto lasciare?
Posso saperlo?”
Quando
feci il nome di Heidi, la sua espressione fu di vera ammirazione.
“Accidenti
Carlisle… avevi scelto l’unica a cui non avrebbero mai rinunciato.” Ironizzò.
Aveva
conosciuto Heidi e ne ricordava perfettamente il talento.
Approfittai
della sua loquacità del momento per incalzarlo con le mie domande.
“C’era
una cosa che volevo chiederti: come avete deciso di rinunciare al sangue umano?
Immagino che non siete sempre stati vegetariani.”
“No,
affatto. Quando vivevo in Italia cacciavo gli umani come gli altri. Poi un
giorno… non so… ho cominciato a sentirmi… triste. La vita che stavo conducendo
non mi piaceva più… mi sentivo male con me stesso, con quello che ero e che
facevo. Il peso delle azioni commesse, lentamente mi stava schiacciando e il
mio ruolo all’interno del clan di Aro, iniziava a starmi stretto. Volevo essere
libero, da tutto…”
Lo
ascoltavo con attenzione; avevamo ormai interrotto la caccia, presi dalla
nostra discussione e ci eravamo fermati in una radura all’interno della
boscaglia a parlare; era una giornata limpida e il sole giocava sulla nostra
pelle che sfavillava in mille riverberi.
“…libero
da Aro, dai rimorsi, libero dal mostro che ero diventato… libero di amare
Carmen come volevo. Penso che tu possa capirmi.”
Sì,
lo capivo benissimo.
Piano
si stava delineando ai miei occhi il temperamento anomalo di questo vampiro,
che forse aveva fatto un percorso simile al mio, ma aveva toccato tappe della
sua vita, dure e difficili, che io con probabilità, non avrei mai affrontato.
La zavorra dell’ulteriore senso di colpa per i delitti commessi, per fortuna
era qualcosa che non mi sarebbe mai appartenuta. Fece una pausa prima di
riprendere a parlare.
“Vedi
Carlisle, in tutta la mia lunga esistenza posso dire di non aver mai incontrato
qualcuno che fosse come te. Nessun altro vampiro poteva riuscire a rinunciare
al sangue umano dall’inizio, come hai fatto tu. Ancora non riesco a spiegarmi
come tu ci sia riuscito: un neonato che resiste e rifiuta la sua natura, che si
controlla e non assale gli uomini. Non so se ti rendi conto della portata di
questa cosa: tu hai una forza straordinaria che quasi nessuno ha. Non so da
dove ti venga: forse è un tuo talento naturale. Aggiungiamo a tutto il fatto
che sei un medico e che hai dedicato la tua vita ad aiutare l’umanità… tra i
vampiri potresti diventare una leggenda.”
Lo
ascoltato e le sue parole mi riempivano di un orgoglio nuovo per me: era come
se stesse togliendo il sale dalle cicatrici che portavo nascoste nel profondo
della mia coscienza.
“Non
mi sorprende il fatto che Aro sia rimasto incuriosito da te: tutto quello che
sa di novità lo stuzzica sempre molto. Per lui, la sfida era riuscire a farti
cambiare idea e tastare così la tua forza, per vedere se potevi essere una
minaccia. Per civilizzare la nostra razza, avremmo tutti bisogno di prendere
lezioni da te e non lo penso solo io. Credo che se Heidi ti avesse seguito, lo
avrebbe fatto in tutto. Probabilmente Aro, questo lo aveva capito. Tu saresti
un potenziale leader.”
Le
parole di Eleazar per me erano sorprendenti, mi stava dipingendo meglio di
quanto io fossi in realtà, inoltre mi stava rivelando di Aro un aspetto che sì,
avevo sospettato, senza dargli la giusta rilevanza.
“Non
devi pensare che sia stato facile o naturale per me. Non immagini che conflitti
ho dovuto sostenere per resistere ai miei impulsi: troppo spesso ho rischiato
di fallire e solo per miracolo non è accaduto. Credimi, non sono un buon
modello.”
Ammisi
con amarezza, ma Eleazar non era del mio stesso avviso.
“Ora
sei troppo severo con te stesso… i conflitti è naturale che ci siano, ma la tua
forza ti ha permesso di superarli e non ti sei fatto sopraffare da essi. Tu
Carlisle, sei convinto che anche le creature come noi abbiano un’anima. Io non
so dirti se è così, ma ti posso dire che da quando ho deciso di cambiare vita,
il mio spirito si è come alleggerito e adesso mi sento più forte di un tempo.”
“Io
vedo e sento la tua forza Eleazar… e anche Carmen ce l’ha. Quindi non capisco:
perché vi tenete così isolati dagli esseri umani?”
“Preferiamo
non correre rischi: sono comunque nostre potenziali prede. Meglio non avere
tentazioni. Per me, Carmen e le sorelle il percorso è stato graduale e dilatato
nel tempo. Oggi riusciamo a non commettere sbagli, ma non è stato facile
adattarsi a vivere così. Tu non hai mai assaggiato il sangue umano, quindi non
sai cosa significa rinunciarci. È un po’ come disintossicarsi da una droga, se
capisci cosa intendo.”
Avevo
capito il ragionamento di Eleazar e ricordavo che Aro, più o meno mi aveva detto
la stessa cosa in un'altra circostanza. Io non avevo mai incontrato davvero il
mio demone e ringraziavo Dio di essere sempre stato più forte di lui.
Con
i miei amici di Denali trascorsi veramente un periodo sereno e felice. Mi
sentivo come se fossi a casa, non subivo pressioni e potevo condividere comuni
scelte di vita.
Eppure
a lungo andare, anche lì, mi accorsi che mi mancava qualcosa.
Il
loro eccessivo isolamento mi andava stretto; in quelle regioni troppo ostili
per gli uomini, i contatti con gli ambienti umani erano davvero rari e quasi
inesistenti.
Non
esercitavo più da tempo la mia attività di medico con la stessa frequenza,
anche perché i pochi insediamenti umani erano talmente piccoli, che non
necessitavano di un altro dottore oltre quello presente sul posto.
Se
all’inizio, non avevo voluto ricominciare per paura di affrontare un nuovo
fallimento, dopo tanto tempo sentivo la mancanza di quello che sapevo fare
meglio e che continuava a dare un senso a tutto quanto.
Fare
il medico era la mia vocazione, era ciò che mi dava pace e non sarei mai
riuscito ad abbandonare completamente il mio lavoro. Mi mancava e più cercavo
di resistere a quel richiamo, più il senso di vuoto che avevo dentro si acuiva.
Ero dilaniato tra la volontà di restare con i miei simili e l’impulso che mi
spingeva ad andar via. Per quanto io stessi bene lì a Denali, le mie radici
erano ancora deboli e il terreno su cui mi ero adagiato, non mi dava tutto il
nutrimento di cui avevo bisogno.
Mi
sembrava una consuetudine della mia vita: quando finalmente trovavo un luogo,
un motivo per fermarmi a riposare, quando credevo di aver concluso la mia
ricerca, immancabilmente mi accorgevo che c’era sempre qualcosa che mancava a
completare il quadro d’insieme.
Mancava
sempre quella sfumatura, quella nota di colore che aggiustava tutto, come
l’ultimo colpo di luce dato dal pennello di un artista per completare e rendere
perfetta e finita la sua opera.
A
me mancava sempre quella definitiva ultima traccia di colore per rischiarare la
mia visione.
Lentamente
la mia malinconia divenne palese anche agli altri, ma Eleazar non mi disse
nulla, non mi fece mai domande, anche se credo che capisse la ragione del mio
turbamento.
A
sorpresa, fu invece Carmen che osò affrontare l’argomento e parlarmi liberamente
di ciò che pensava.
Era
una donna coraggiosa e schietta.
La
vidi venirmi incontro un pomeriggio fuori dalla sua casa, mentre ero
appollaiato su una roccia e fissavo l’orizzonte e le cime degli alberi che
svettavano nel cielo.
“A
cosa pensi Carlisle? Dove sei in questo momento?” mi chiese sorprendendomi.
Sorrisi.
“Non
ti si può nascondere niente, vero Carmen?”
“Beh,
sei tu che non riesci a nasconderlo.” Mi rispose senza mezzi termini.
“Sono
confuso… e non è la prima volta che mi succede.” Sospirai rassegnato.
“Carlisle,
tu non sei come noi. Sei un vampiro straordinario, ma il tuo orizzonte è troppo
vasto per limitarsi a restare chiuso qui, tra foreste e montagne innevate.”
Disse
le ultime parole facendo un gesto ampio della mano come ad abbracciare il
panorama che delimitava la nostra visuale. Poi proseguì con decisione.
“Tu
hai una missione che è lo scopo della tua vita. Devi avere il coraggio di
inseguire e afferrare i tuoi sogni. Non credevo che un vampiro potesse averne,
ma tu ne hai uno che è grande e devi perseguirlo. È un fatto talmente
eccezionale che non può andare sprecato.”
“Certe
volte vorrei fermarmi… altre volte invece…”
La
mia voce tremò lievemente e anche lei la sentì.
“Se
ti fermi, morirai per davvero, proprio tu che hai cercato di salvare il tuo spirito,
di non perdere la sua luce originaria. Tu non puoi restare qui, e non
fraintendermi, perché nessuno ti manderebbe via, ma è evidente che non hai trovato
ancora quello che cerchi. Tu sei un medico e hai bisogno del contatto con gli
umani, come un vampiro ha bisogno del sangue. Hai bisogno di essere d’aiuto
agli uomini, perché è questo che fa brillare la tua anima, è ciò che la rende
viva. Puoi dirmi che non è così?”
Carmen
mi guardava fisso con le sue iridi dorate e io mi sentivo come se avesse messo
a nudo la mia anima.
Aveva
ragione lei, su tutto.
“Anche
tu sei straordinaria Carmen; hai saputo leggere nel fondo del mio cuore. Mai
nessuno lo aveva fatto con una tale chiarezza.”
Ero
ammirato.
“Eleazar
forse queste cose non te le direbbe mai, ma le comprende. Ha sempre capito che
non saresti rimasto, ma allo stesso tempo teme il giorno in cui andrai via. Non
è mai stato facile per lui e sei stato il primo con cui ha dovuto confrontarsi
davvero. Capisci cosa intendo?”
Sorrideva
serena, sicura di quello che mi stava dicendo.
Carmen
era davvero una buona compagna per Eleazar, la più giusta per lui, piena di
comprensione.
Forse
lei poteva rappresentare quello che avrei voluto avere io.
Ma
in un altro tempo e in un altro luogo.
“Sì…
credo. Ti ringrazio Carmen per la tua franchezza. Adesso so cosa devo fare…
l’ho sempre saputo in realtà.”
Le
posai una mano sulla spalla in un gesto di riconoscenza, poi mi allontanai
verso la casa per radunare i miei pochi averi. Eleazar era andato a caccia con
Irina e Kate e io mi apprestai ad attendere il loro ritorno.
Nel
cuore sentivo la certezza che non sarebbe stato un addio, ma un arrivederci.
Il
legame che avevo costruito con il clan di Denali non si sarebbe mai sciolto;
comuni convinzioni, pensieri ed esperienze simili erano il fondamento, la
saldatura di quell’amicizia, e lì, avrei sempre trovato un rifugio pronto ad
accogliermi…
Continua…
Questa volta
ho aggiornato un po’ prima del previsto.
Sono
abbastanza soddisfatta di questo capitolo e spero che sia piaciuto anche a voi.
Sul clan di
Denali, non si sa molto e le poche informazioni le ho prese dall’ultimo libro
della Meyer e le ho adattate al mio racconto e alle vicende personali di
Carlisle. Spero che risulti convincente, ma se notate qualche incongruenza,
qualcosa che non funziona fatemelo notare. Come sempre vi ringrazio per i
vostri commenti, siete sempre molto gentili.
Grazie a
tutti coloro che seguono o leggono in silenzio questa storia, e a chi l’ha messa
nei preferiti.
Mi apprestai ad
attendere il ritorno di Eleazar, Kate e Irina.
Carmen alla fine mi
aveva convinto e incoraggiato ad affrontare la strada che dovevo intraprendere per
cercare quel sogno che faceva parte del mio destino. Ma potevo davvero
concedermi quel sogno? Che altro potevo pretendere più dell’immortalità? Per
essa molti uomini avrebbero dannato la loro anima, senza conoscerne il peso
quasi insostenibile. Potevo davvero sperare di elevare la mia condizione in
qualcosa più di quello che la sorte già mi aveva riservato?
Me lo chiedevo,
mentre lasciavo l’Alaska per dirigermi a sud, seguendo le coste occidentali del
Canada diretto verso il confine con gli Stati Uniti. Era lì, che avevo deciso
di spingermi.
I vampiri non avevano sogni; il
mondo onirico era qualcosa che apparteneva agli uomini.
Ma era pur vero che la mia
ricerca era ancora in atto, e la strada che intravedevo davanti a me sarebbe
stata ancora lunga, magari tortuosa e piena di ostacoli. Ma ero determinato ad
affrontarli, perché non volevo arrendermi a un eterno presente di
insoddisfazione, sempre in bilico sul confine precario tra il lato umano e
quello soprannaturale, tra i comuni desideri e le contraddizioni della mia
natura.
Fu triste lasciare Denali e
tutto quello che quel luogo rappresentava; la sicurezza di un posto che potevo
chiamare casa, l’amicizia e la sintonia quasi perfetta con vampiri che erano
assolutamente simili a me, con cui avevo tanto in comune. Ma sentivo, sapevo
che dovevo farlo e non potevo fermarmi adesso.
Appena Eleazar emerse dal folto
del bosco che si trovava al limite della loro abitazione, mi trovò fermo ad
attenderlo. Non mi stupì la sua reazione; comprese ogni cosa nel momento esatto
in cui mi vide.
La profonda sensibilità di
Eleazar per me è sempre stata sorprendente; sapeva cogliere ogni minima
sfumatura, ogni più piccolo disagio o turbamento all’interno del suo gruppo.
Il suo atteggiamento
equilibrato e razionale era quello che gli permetteva di intuire che qualcosa
doveva accadere, quindi di non farsi mai trovare impreparato; così riusciva
sempre ad affrontare tutto nel modo più giusto.
Sullo sfondo verde cupo degli
alberi, lo guardavo venirmi incontro calmo e sicuro; ogni cosa di lui mi
rivelava l’assoluta serenità con cui avrebbe affrontato quel momento di
distacco. Si parò di fronte a me.
“Se ti trovo qui ad attendermi,
significa che hai deciso di partire…”
Non era una domanda, ma una
constatazione. Intanto, mi aveva posato una mano su una spalla.
Mi sentii sollevato; non
l’avrebbe mai vissuta come una separazione traumatica, ma stava accogliendo la
mia decisione come una libera scelta da rispettare, l’ennesima dimostrazione di
un temperamento forgiato da esperienza e saggezza. Tutt’oggi, queste sue
qualità sono il motivo della mia profonda stima per lui.
“È così infatti… ma ci tenevo a
salutarti Eleazar e a dirti che non mi dimenticherò mai di voi.”
“Va bene, Carlisle. Sappi che
qui troverai sempre degli amici pronti ad accoglierti e un rifugio per quando
sentirai la necessità di isolarti dal mondo. Noi siamo tuoi fratelli… se avrai
bisogno di un aiuto, per qualsiasi cosa… ricorda, per te ci saremo sempre. Non
ti dico addio, ma arrivederci.”
Mentre Eleazar pronunciava quelle
ultime parole, Kate e Irina uscirono dalla boscaglia vicina.
Sicuramente avevano sentito
tutto, infatti Kate per prima si avvicinò a noi per salutare la mia partenza.
Kate fu gentile anche se lievemente rattristata, ma fu Irina a cogliermi
totalmente impreparato, perché reagì in una maniera che non mi sarei mai
aspettato da lei. Si mosse velocissima verso di me e quando i nostri occhi si
incrociarono, notai la rabbia e la disperazione che lampeggiavano nello sguardo
dorato con cui mi fulminò. Poi urlò sorprendendo tutti.
“No!! Non è giusto!”
Io rimasi imbambolato a
fissarla mentre la guardavo allontanarsi amareggiata dalla parte opposta da
dove era sbucata. E subito non seppi capire il motivo di una tale reazione,
finché Eleazar non mi invitò ad aprire gli occhi.
“Dovresti parlare con lei.” Mi
disse serio.
Intanto la stessa Kate le era
corsa dietro per tentare di calmarla.
Decisi di ascoltare Eleazar e
fare quello che mi suggeriva anche perché non volevo andarmene da Denali
lasciando conti in sospeso, anche se sul momento, non riuscivo proprio a capire
quale tipo di torto io avessi fatto a Irina per farla arrabbiare in quel modo.
Avevo instaurato un buon
rapporto con lei, fraterno e amichevole e non avevamo mai avuto screzi di alcun
genere. Eppure mi ero lasciato sfuggire un particolare importante: non mi ero
reso conto di quanto la bella vampira fosse coinvolta emotivamente, tanto che
per lei l’amicizia si era evoluta in un sentimento differente. In realtà avrei
dovuto intuirlo: i segnali c’erano stati tutti. Ero io quello che non li aveva
considerati, rilassandomi dentro una situazione di stallo, rifiutando possibili
coinvolgimenti più diretti e impegnativi. Non avevo voluto rischiare che le
cose si complicassero.
Invece le complicazioni erano
arrivate da sole e io non le avevo viste profilarsi all’orizzonte.
Mentre mi apprestavo a
raggiungerla, richiamavo alla memoria come istantanee i momenti condivisi con
lei, le parole e le confidenze svelate; in particolare ripensai a un vecchio
colloquio che avevamo avuto i primi tempi che ero giunto in quella regione
dell’Alaska.
Ero lì da qualche mese a Denali
e io e Irina eravamo insieme per boschi.
Era stata lei a invitarmi a
seguirla in uno di quei particolari momenti in cui sembrava ricercare la compagnia
degli altri.
Io l’avevo fatto volentieri.
Personalità complessa ed
enigmatica, quasi contraddittoria, Irina non disdegnava la solitudine pur
soffrendola; spesso cercava l’isolamento dagli altri membri del suo clan come
se fosse la sua unica fonte di sollievo. Le piaceva molto vivere in quel modo
quasi selvaggio, a contatto con la natura più estrema, senza limitazioni di
sorta, libera di muoversi come voleva in ogni direzione. Questa sua
inclinazione la rendeva piuttosto simile a me, e avevo notato che solo quando
era immersa e quasi avvolta dal silenzio di quelle antiche foreste, sembrava
essere serena e felice, e perdeva un po’ di quella malinconia che la
distingueva nettamente dalle sue sorelle; diventava meno taciturna e quasi
solare.
Per divertimento era capace di
buttarsi giù da una cascata e lasciarsi trascinare fino a valle, sballottata
tra le rapide della corrente di un fiume.
Quella volta non eravamo a
caccia, ma lei aveva voluto condurmi in una zona impervia delle montagne che si
trovavano nella regione. Mi fece scoprire un paesaggio fantastico, dove la
parete rocciosa della montagna si specchiava nelle acque del lago sottostante.
Era una zona inviolata di quelle terre selvagge, dove la natura ancora non si
era piegata all’impronta umana, un regno dove solo i vampiri avrebbero potuto
sentirsi a loro agio.
Avevamo parlato della bellezza
di quel posto, suggestionati dai suoi colori vivi, dal verde cupo delle foglie
degli alberi che svettavano imponenti contro quel cielo limpido.
“Vieni spesso in questi luoghi
Irina?” le avevo chiesto mentre ammiravo il panorama che si apriva davanti a
me.
“Vengo qui, quando voglio stare
da sola… ma oggi avevo voglia di dividere questo posto con qualcuno… ho pensato
che ti avrebbe fatto piacere, visto che hai vissuto a lungo nelle foreste della
tua terra.”
Il suo corpo minuto, di una
femminilità un po’ acerba era teso, immobile contro l’orizzonte mentre una
brezza leggera le scompigliava i capelli corvini e lisci.
“Vuoi dire che neppure Eleazar
conosce questo posto?” le domandai incredulo.
“Oh, non dubito che saprebbe
trovarlo. Comunque, loro sanno come sono fatta, mi lasciano sempre i miei
spazi… quando vengo qui, mi sento più vicina a mia madre, Sasha…”
Era la prima volta che le
sentivo pronunciare il nome della madre. In realtà nessuna delle tre sorelle la
nominava mai, come se evocarla fosse penoso, quanto sopportare il fuoco di un
tizzone ardente che brucia la carne.
Nei secoli ho imparato che
certi dolori seppur costanti, non hanno una forma sempre definita, ma si
modificano, pulsano e vivono mangiando la nostra anima. Così doveva essere
quello di Irina; si trattava del più terribile, perché ancorato alla memoria di
un ricordo, e per un vampiro, i ricordi sono eterni come la sua strana
esistenza.
“Mi manca molto, sai?” Disse
ancora, mentre lo sguardo lasciava l’orizzonte e volgeva in basso.
Eravamo appollaiati su due
grossi tronchi d’albero che un fulmine doveva aver schiantato al suolo.
“Tu dove credi che sia,
Carlisle?”
Mi aveva domandato a bruciapelo
e io ero rimasto lievemente interdetto: onestamente non avrei saputo cosa
dirle. Quella era un’incognita che mi ero posto anch’io tante volte su cosa
sarebbe accaduto alla mia anima, il giorno in cui avrei incontrato davvero la
'nera signora', ma tutte le soluzioni che avevo tentavo di trovare, mi erano
parse sfuggenti e senza fondamento.
Non c’erano testi, leggende che
si perdessero nella notte dei tempi che suggerissero qualcosa di sensato.
Da umano ero stato quasi certo
di possedere tutte le risposte giuste ai misteri della vita e della morte. Ma
da quando era iniziata la mia nuova esistenza, tante cose le avevo perse per
strada; pensieri, idee, credenze religiose, tutto era annegato nell’abisso
profondo e oscuro dell’immortalità. Benché io credessi nell’anima, non sapevo
se dopo potesse esserci altro per noi. Non sapevo se l’immortalità fosse una
condanna e la morte fosse la possibile liberazione dalla prigione di roccia che
era diventato il nostro corpo di mostro inumano.
Irina mi guardava e potevo
leggere la sua speranza negli occhi, però attendeva una risposta che io non
potevo darle. Di certezze non ne avevo, non avendole mai trovate.
Si aggiungevano semmai nuovi
punti interrogativi.
“Mi stai chiedendo se esiste un
paradiso per i vampiri?” Chiesi poco convinto.
“È possibile?” Era molto seria
e io decisi di essere totalmente sincero.
“Non lo so, Irina… Non sono
neppure sicuro che esista quello per gli uomini a questo punto. Bisogna
ammettere che la nostra è una condizione quasi infernale e forse la morte, quando
ci viene concessa, è solo la liberazione da tale inferno.”
“Ma tu credi nell’anima…
secondo te anche noi ne abbiamo una.” Obbiettò come a cercare una conferma.
“Sì… Credo ci sia uno spirito
che permea tutta la materia, anche la nostra. Ma cosa ne sarà di questo
spirito, dove andrà a finire alla fine di tutto, non so dirtelo. Forse tornerà
tutto all’origine. Forse cambierà forma… non lo so… le mie sono solo
congetture.”
Irina mi ascoltava con infinita
attenzione, era avida di sapere, di capire. In realtà non era disposta a
credere di aver perso sua madre per sempre e io non avrei potuto immaginare che
tali questioni tormentassero il suo animo. Quello era un argomento importante
per lei e io non volli darle speranze che fossero semplicemente consolatorie.
“Quando eri uomo hai creduto
nell’inferno?” Mi chiese ancora.
Potevo percepire l’ansia nella
sua voce cristallina. Né Tanya, né Kate avevano le sue stesse inquietudini.
“Sono il figlio di un pastore… Credevo
in quello che mi avevano insegnato a credere… poi attraverso i secoli ho visto
che l’umanità è capacissima di costruirsi il suo inferno da sola, in mille modi
diversi… Se Dio esiste, non può aver creato un mondo peggiore di questo,
inoltre non so pensare a una condizione più terribile della nostra.”
“Allora chissà… alla fine,
potrebbe esserci un briciolo di pace anche per noi…”
Mi disse Irina, guardandomi
speranzosa, prima di alzarsi e riprendere la sua corsa attraverso la foresta.
C’erano stati altri confronti
di questo genere ed era sempre lei che li cercava.
Mi rivolgeva domande di ogni
tipo, chiedeva conto del pensiero di filosofi, pensatori che avevo studiato in
un paio di secoli di vita. A volte le prestavo i miei libri che divorava
avidamente e dopo discuteva con me una teoria, un’enunciazione. Irina come me,
cercava risposte alle sue paure, al senso di perdita che la opprimeva, al vuoto
che aveva lasciato la madre morendo.
Eleazar mi aveva raccontato la
storia; mi aveva spiegato la colpa commessa da Sasha, che aveva spinto i
Volturi a giustiziarla, un delitto così terribile che neppure a Volterra ne
avevo sentito parlare. Come se fosse un tabù.
Sasha aveva trasformato in
vampiro un bimbo troppo piccolo che poi si era rivelato incontrollabile e
troppo pericoloso alla sicurezza stessa dei vampiri. Per questo i Volturi erano
dovuti intervenire.
Mentre ripensavo a tutto
quanto, raggiunsi Irina, che si era inoltrata nella boscaglia sul retro della
casa.
Le sue sorelle erano con lei,
mi parve che stessero cercando di consolarla. Tanya e Kate sembravano davvero
sorelle maggiori preoccupate per la più piccola. Mi fermai a una certa
distanza, osservandole, quasi temendo di disturbare quella strana intimità
femminile, di apparire indiscreto.
Kate si staccò dal gruppo per
prima e si avvicinò a me lentamente, mi sfiorò un braccio con la mano prima di
parlare.
“Carlisle, parla con lei, per
favore. Si è affezionata a te più di quanto credi e ora che hai deciso di
andartene, il suo cuore soffre molto più di prima. Non capisce perché vuoi
andar via…”
Poi Kate si allontanò seguita
da Tanya.
Io e Irina rimanemmo soli.
Improvvisamente mi sentii uno
stupido. Avevo paura di dire la cosa sbagliata, ma qualcosa dovevo dirle.
Dovevo affrontarla, possibilmente senza ferire i suoi sentimenti, uno scrupolo
inutile, perché ormai l’errore era già stato commesso. Non avevo compreso il
motivo vero per cui Irina si era così affidata a me, né perché cercasse così
tanto la mia compagnia.
La verità era che stavo troppo
bene a Denali; era così facile vivere con Eleazar e Carmen, con Irina e le
altre, che non avevo voluto riflettere sulla remota possibilità, che le cose
potessero essere più complicate di come apparivano. Irina e io avevamo
allacciato un legame che per lei si stava rivelando molto più che fraterno; per
quelle affinità di pensiero che ci accomunavano, aveva intravisto in me un
possibile compagno e forse, senza rendermene conto, le avevo lasciato credere
che contasse qualcosa.
Invece io sapevo benissimo che
non avrei mai potuto innamorarmi di lei, perché nel mio cuore era ancora troppo
vivo il tenero eppure bruciante ricordo di Heidi e l’unica che ha saputo
prenderne il posto è stata Esme.
Mi sentii inadeguato di fronte
ai suoi occhi che saettavano tra le fronde degli alberi che ci circondavano,
finché finirono per fissarsi severi su di me. Nello sguardo potevo leggere il
suo rimprovero e io esordii senza riuscire a mascherare l’imbarazzo che
provavo.
“Irina, mi dispiace davvero… ma
io… ho bisogno di andar via. Ti prego, cerca di capire…”
“Pensavo che ti trovassi bene
qui con noi…”
“Sono stato benissimo con voi…”
risposi con calma, ma lei alzò di colpo la voce.
“Allora perché vuoi andartene?
Credevo che ci volessi bene… che ne volessi un po’ anche a me! Mi sono
sbagliata? Dimmelo Carlisle!!” Non tentava nemmeno di soffocare la rabbia e il
disappunto.
Mi avvicinai ancora di più a
lei per tentare di prendere le sue mani tra le mie, ma lei cercò di sottrarsi
bruscamente.
“Io mi sono affezionato a tutti
voi, a te, a Eleazar, vi considero dei fratelli… ma io sono un medico Irina:
devo aiutare gli altri per dare un senso alla mia vita…”
“Puoi farlo restando qui…”
Disse ostinata. Sembrava non voler capire.
“No. Non è così… ti ricordi
quando abbiamo parlato della pace? Io la sto ancora cercando…”
“E alla mia pace? Non ci pensi?
Credevo di averla trovata con te… credevo avessi capito. Io dovrò continuare a
tormentarmi perché tu, invece di restare qui, vuoi andare ad aiutare degli
stupidi umani?”
Gridò ancora. Grida al posto delle
lacrime che non poteva versare.
Esasperato l’afferrai per le
spalle e la scossi con decisione.
“Non parlare così…Lascia andare
il dolore Irina, non aggrapparti ad esso. Lascia andare tua madre…”
Quella fu la frase di troppo e
lo capii un attimo dopo aver pronunciato quelle parole, ma non avevo saputo
trattenermi. Irina mi colpì con forza il viso col palmo della mano e io non
reagii, mentre lei restò immobile a fissarmi qualche secondo, quindi emise un
ringhio soffocato.
Io riuscii solo a pronunciare l’ennesimo,
debole, inutile mi dispiace, prima di vederla sparire velocemente;
scappò via inoltrandosi nella foresta come un animale ferito.
Non cercai di fermarla o di
seguirla.
Mesto e triste tornai da
Eleazar e le altre per congedarmi definitivamente.
Tanya tentò di rassicurarmi e
consolarmi; forse almeno in parte ci riuscì. Lei sapeva sempre trovare il lato
positivo di tutto. Era una forza della natura.
“Il tempo cura ogni cosa
Carlisle. Non preoccuparti per Irina, le passerà… e alla fine capirà.”
Lo sperai con tutto me stesso.
Lasciai l’Alaska con un po’ di
amarezza nel cuore, mitigata solo dal fatto che sapevo di avere l’approvazione
e l’amicizia incondizionata di Eleazar, Carmen, Kate e Tanya. Loro mi avevano
capito e traevo da questo un estremo conforto. Puntai verso Sud, viaggiando
lungo le coste canadesi, poi mi inoltrai nel territorio, finché non raggiunsi
Calgary, dove sostai per un po’, ma il mio reale obbiettivo era raggiungere lo
stato del Michigan, vicino ai Grandi Laghi e stabilirmi dalle parti di Detroit,
se non nella città stessa.
Correva la fine dell’anno 1865.
La guerra civile americana si
era conclusa da poco con la vittoria degli stati abolizionisti dell’Unione
contro gli stati Confederati del Sud. Abramo Lincon era stato assassinato. Ma
l’eco di questa tragedia che aveva insanguinato i territori americani era
arrivata debole nelle foreste del Canada, e io avevo trascorso un periodo di
relativa pace, che non avrei voluto guastare facendomi coinvolgere in quei
conflitti umani che io tendevo sempre ad evitare.
La fine delle ostilità aveva
lasciato in ginocchio gli stati del Sud, che vivevano delle coltivazioni di
cotone, tabacco e canna da zucchero, attraverso la mano d’opera degli schiavi
neri, ma aveva portato anche fattori positivi, come l’abolizione della
schiavitù.
Con la sconfitta dei sudisti,
molta gente di colore aveva lasciato quei territori per venire al nord e magari
lavorare nelle industrie degli Stati Uniti. Partivano intere famiglie; donne e
uomini, giovani e vecchi; arrivavano dalla Louisiana, dal Mississippi, dalla
Georgia, venivano a cercare quella dignità e libertà che era stata loro negata
per lungo tempo.
Ma se gli stati del nord erano
abolizionisti, non voleva dire che i loro rappresentanti non fossero razzisti,
e i neri non sempre venivano accolti bene.
Nonostante l’esperienza, mi
sorprendo sempre di come il genere umano si lasci malamente trascinare dai suoi
pregiudizi. Allora riflettevo e capivo che se l’umanità non era capace di
accettare coloro che erano diversi per il colore della pelle, mai avrebbe
potuto accettare l’esistenza di creature come me, con tutto quello che potevamo
rappresentare. Era da folli solo pensarlo. Era da folli sperare in quel sogno
di normalità che inseguivo da tanto tempo. Eppure non sapevo rinunciarci.
Alla fine mi ero stabilito a
Detroit che all’epoca era un centro fiorente di trasporti.
Mi ero ripulito per l’ennesima
volta dei miei modi un po’ selvaggi che assumevo quando stavo lontano dagli
uomini; la medicina negli ultimi decenni aveva fatto ulteriori passi avanti e
dopo aver aggiornato le mie conoscenze, mi ero inserito nuovamente nel tessuto
sociale della civiltà umana.
Avevo ripreso con grande
entusiasmo la mia attività di medico; avevo uno studio ben avviato, una piccola
casa alla periferia della città, ero rispettato e stimato da colleghi illustri
che avevo conosciuto, di cui ero diventato anche amico, e avevo una buona
clientela di gente facoltosa e rispettabile, ma prestavo volentieri le mie cure
anche a persone meno abbienti. Quello è sempre stato un principio a cui non mi
sono mai sottratto, un dovere assoluto per me, aiutare chiunque ne avesse
bisogno, perché non c’era essere umano che io avrei potuto considerare indegno
rispetto alla creatura oscura, inumana che ero io.
Ma questa concezione non era
comune a tutti i medici dell’epoca, nonostante il giuramento che avevano fatto.
L’abolizione della schiavitù e
l’afflusso di gente di colore che si spostava nelle città del nord, aveva
generato in parallelo i primi fenomeni preoccupanti di razzismo. Cominciarono a
organizzarsi i primi gruppi di gente che andava in giro a tormentare gli
ex-schiavi e a minacciare chi li proteggeva o dava loro un lavoro, e gli stessi
medici che prestavano loro soccorso potevano subire ripercussioni; per paura,
qualcuno si rifiutava di prestare ai neri le cure del caso.
Io naturalmente non avevo
questo timore e spesso tra i miei pazienti, accoglievo gente di colore che
veniva da me, perché sapevano che li avrei aiutati. Molti di questi poveretti
avevano fatto girare la voce tra la loro gente, ma la notizia non tardò ad
arrivare anche alle orecchie delle persone sbagliate.
Così arrivarono le prime
minacce anonime.
Qualcuno bruciò l’insegna del mio
studio, oppure trovavo piccoli animali morti davanti alla porta, tutto per
farmi capire che il mio operato non era gradito.
Mi faceva un po’ sorridere il
fatto che ci fosse qualcuno tanto ardito da avere il coraggio di minacciare un
vampiro; certamente non avrebbero osato tanto se avessero solo intuito la
verità, ma non potevano conoscerla e in passato non era mai accaduto che
qualcuno scoprisse il mio segreto.
Non presi sul serio quei fatti
e forse commisi un errore.
Una notte stavo tornando da una
battuta di caccia, quando poco lontano dalla città, mi imbattei in un gruppo di
uomini dalle caratteristiche tuniche bianche, incappucciati, armati di torce e
bastoni.
Avevano catturato un uomo e con
i cavalli lo avevano trascinato sul terreno per decine di metri, poi lo avevano
legato a un palo per torturarlo; probabilmente lo avrebbero ucciso se non fossi
intervenuto per liberarlo. Era un uomo di colore simile a tanti che mi era già
capitato di incontrare. All’inizio avevo sentito il suo cuore pulsare impazzito
dal terrore di morire e poi affievolirsi stanco e debole, provato dalle
terribili sofferenze fisiche.
Aveva perso completamente i
sensi a causa delle percosse, quindi non si rese conto di nulla, non si accorse
del mio intervento o di quello che feci per mettere in fuga quei bastardi.
Essere un vampiro aveva anche i suoi vantaggi. Li spaventai a morte, muovendomi
velocemente protetto dall’oscurità, emettendo ringhi e sibili paurosi, facendo
loro sentire il mio fiato gelido sul collo, mentre i loro cavalli scalpitavano
e nitrivano impazziti dalla paura, ma non feci loro del male.
Mi limitai a insinuare tra loro
quel terrore ancestrale dell’ignoto che gela il sangue nelle vene e paralizza
le membra.
Quando ci muoviamo con
rapidità, diventiamo praticamente invisibili all’occhio umano, ma io lasciai
che avvertissero la mia presenza: a uno di loro strappai il cappuccio bianco
dalla testa.
“Chi è stato?” Urlò
terrorizzato.
Riconobbi in lui, uno dei
facoltosi dottori che tanto stimavo.
La scoperta non avrebbe dovuto
sorprendermi; conoscevo già abbastanza le bassezze umane, avendole incontrate
sul mio percorso innumerevoli volte, eppure per qualche strano motivo ne
restavo sempre amareggiato, come qualcosa a cui non ci si abitua mai.
Il panico serpeggiò tra gli
altri membri del gruppo. Strappai altri cappucci e scoprii nuovi personaggi
insospettabili della comunità.
“C’è qualcosa di strano qui…”
Tremò la voce di un terzo.
Credettero a qualche maleficio
di magia nera che la loro vittima aveva gettato su di loro per difendersi.
“È colpa di questo negro
schifoso!! Deve aver invocato qualche diavoleria! Ha pregato i suoi spiriti che
venissero a salvarlo!”
Io continuavo a muovermi tra
loro senza che potessero vedermi, mentre alle loro orecchie giungeva il suono
sinistro del mio ringhio sordo che esplodeva nella risata di un demonio
famelico.
Feci quasi paura a me stesso.
Ma feci molta più paura a loro
che a quel punto persero completamente la testa.
“Andiamocene via! Questo negro
maledetto dev’essere uno stregone!” Urlò uno degli insospettabili.
Prima che potessero
organizzarsi nella fuga, velocemente spezzai le catene con cui avevano legato
l’uomo al palo, me lo caricai sulle spalle e corsi via verso il mio studio nel
cuore della notte, lasciando quei vigliacchi nel dubbio di aver vissuto un
incubo. Mai avrebbero capito cosa fosse accaduto davvero.
Prestai all’uomo le prime cure
quella notte; medicai le ferite superficiali e suturai quelle più profonde.
Riprese conoscenza solo il
giorno dopo, malconcio e dolorante, ma vivo. Io gli spiegai quello che era
accaduto, omettendo naturalmente certi dettagli. I primi giorni non riuscì a
parlare, ma dopo che ebbe riacquistato un minimo le forze, lui mi raccontò la
sua storia.
Era un ex-schiavo, figlio a sua
volta di altri schiavi; si era spezzato la schiena sotto il sole cocente della
Virginia per gran parte della sua vita, lavorando dall’alba al tramonto nelle
piantagioni di cotone.
Portava sulla pelle scura del
corpo robusto, bruciature e frustate, i segni feroci di quella vita disumana.
Prima dell’abolizione, aveva
tentato di fuggire dai suoi aguzzini innumerevoli volte, ma i suoi padroni
erano sempre riusciti a riacciuffarlo e a riportarlo in catene come una bestia,
nelle piantagioni.
Avevano cercato di spezzarlo,
ma Samuel, così si chiamava, non si era mai piegato; aveva una fibra
sorprendentemente dura e coriacea ed era la vita che aveva fatto ad aver
irrobustito la sua corazza.
Riuscì a riprendersi quasi
completamente nell’arco di una settimana; le ferite, almeno quelle del fisico
si rimarginarono, mentre non giurerei di poter dire lo stesso per quelle
dell’anima, perché nello sguardo profondo di quell’uomo era riflesso il
tormento di mille vite come la sua, che io potevo solo sospettare.
Era in situazioni analoghe, di fronte
a simili testimonianze che io spesso mi domandavo chi fossero i veri mostri: i
vampiri, oppure quegli uomini vestiti di bianco che perseguitavano i loro
simili per il colore diverso della pelle?
L’anima di un vampiro può
essere dannata, ma quella di certi individui potrebbe essere altrettanto nera e
questa è una verità con cui mio figlio Edward si confronta ancora oggi.
In quel breve lasso di tempo
che ci volle a Samuel per guarire, la voce fantasiosa che avevo accolto e
prestato soccorso a una specie di stregone, si diffuse generando chiacchiere
spiacevoli e atteggiamenti pericolosi.
Il racconto di quello che era
successo passando da bocca ad orecchio, si arricchiva di sfumature bizzarre e
particolari misteriosi, che la superstizione della gente aveva colorato con
toni accesi; c’era chi giurava di aver sentito l’alito freddo del diavolo
insieme alla sua risata agghiacciante.
La cosa davvero strana era che
non erano del tutto lontani dalla verità.
Alcuni cittadini zelanti
vennero un giorno davanti alla porta del mio studio per esprimermi il loro
disappunto.
Dovetti pararmi davanti
all’ingresso per impedire loro di fare un’ irruzione violenta.
“Dottor Cullen, l’uomo che lei
a preso in cura è un adoratore del demonio… Deve mandarlo via subito!”
Mi sentii dire da una nota
bigotta vestita di grigio, spalleggiata da altri. La gente attorno a lei
rumoreggiava.
“Che sciocchezze sono queste
signora; non penserà davvero le cose che dice!”
Obbiettai respingendo chi
avanzava, deciso a impedire loro di entrare.
Mi sembrava ridicolo dopo due
secoli dover lottare ancora contro stupide idiozie, l’ennesima caccia alle
streghe che avevo già dovuto affrontare da ragazzo quando mio padre era in
vita.
“Lo chieda al dottor Spancer;
potrebbe raccontarle una storia inquietante.”
Continuò decisa la bigotta,
incrociando le braccia sul petto, mentre il dottor Spenser, l’uomo a cui avevo
strappato il cappuccio bianco quella notte, si fece avanti tra la piccola
folla.
Lo bloccai prima che potesse
parlare.
“Lei dottor Spenser è un uomo
troppo intelligente per prestare un minimo di credito a certe dicerie; lei è un
uomo di scienza, eppure si sta mettendo dalla parte dell’ignoranza.”
Lui faticò a sostenere il mio
sguardo che dovette rivelargli ben altro.
“Sono un uomo di scienza, è
vero… ma non sempre la ragione da tutte le risposte; ci sono eventi che non
sono spiegabili razionalmente e alcuni riguardano quell’uomo lì dentro – disse
puntando il dito nella direzione della porta - le mie fonti sono attendibili.”
Certo, era lui la fonte, il
testimone principale.
“Se lei presta fede a persone
che di notte se ne vanno in giro vestite di bianco armate di bastoni, a
picchiare uomini innocenti, non fa onore a se stesso né alla sua professione…
dottore.” Risposi e volli essere insinuante.
Pronunciai quelle parole
guardandolo dritto in faccia; il mio sguardo, già di per sé sconcertante,
doveva essere così eloquente che capì subito a cosa alludevo. Rinunciò a
ribattere in qualsiasi modo, fece un passo indietro e si allontanò con lo
sguardo malfermo di chi sa di avere torto marcio.
La piccola folla era rimasta in
silenzio e non osava ribattere. Io li invitai a tornarsene a casa.
E quando tutti si furono
allontanati rientrai nello studio dal mio paziente che si era accorto del
trambusto e appariva visibilmente agitato.
“Sono andati via?” Mi chiese
Samuel con apprensione.
“Sì, per ora. Non ti
preoccupare: nessuno di loro ti farà del male finché sarai qui…”
Dubitavo che quella gente si
sarebbe arresa tanto presto, soprattutto il dottor Spencer. Temevo che sarebbe
tornato alla carica, principalmente per tutelare se stesso. E così fece.
Due giorni dopo venne da solo a
bussare alla porta del mio studio, con l’atteggiamento ipocrita di chi vuole
dare consigli disinteressati. Mai uomo m’era parso più meschino. Ne fui
enormemente amareggiato.
“Carlisle, lo sai che ho la
massima stima di te; ammiro il tuo lavoro e non ho mai espresso giudizi sulle
tue scelte personali, che sono senza dubbio apprezzabili, ma in questa città
c’è troppa gente che non gradisce la presenza dei negri. Il tuo atteggiamento
troppo tollerante disturba certe persone, inoltre qui stiamo parlando di un
caso particolare; quell’uomo e stato visto pregare il…”
Non lo lasciai finire.
“Lascia perdere questo tono paternale
con me; non renderti ridicolo con la storiella dello stregone perché offendi la
mia intelligenza e la tua. Non mi interessa quello che fai di notte per
divertirti, ma se non vuoi che il tuo nome venga associato a certi atti di
violenza assurdi, faresti meglio a non legarti a certa gentaglia fanatica.”
Fui diretto e allusivo. Mi
risposte stizzito sentendosi messo alle strette.
“Non si possono ignorare certe
realtà. Tu non immagini cosa è accaduto quella notte: se fossi stato lì
capiresti.”
A quel punto, non mi premurai
di nascondere la mia indignazione.
“Io capisco molto più di quanto
immagini; lo avete quasi ammazzato quel poveretto, non è una cosa di cui andar
fieri. Dovresti pensare alla tua reputazione di medico; anch’io ho le mie fonti
e se non vuoi che si sappia in giro che di notte partecipi a dei raid punitivi
nascosto sotto un cappuccio bianco, vattene e lascia in pace quell’uomo, e se
ti è rimasta un po’ di coscienza, non metterti più con certa gente.”
Sibilai tagliente.
Lui si alzò dalla sedia dove si
era accomodato, lasciò il mio studio e non tornò più.
Ma quella vicenda presentò
altri risvolti drammatici che non avevo previsto e che sconvolsero di nuovo la
mia esistenza. Un paio di giorni più tardi, mentre cambiavo le fasciature a
Samuel, ebbi con lui un confronto che non potrò mai dimenticare e che per la
prima volta mi fece riflettere su possibilità che non si erano mai presentate
fino a quel momento.
“Io volevo ringraziarla dottor
Cullen, lei mi ha salvato la vita…”
“Dovere Samuel. Dove pensi di
andare quando sarai guarito completamente?” chiesi mentre preparavo le bende.
Ero tranquillo mentre compivo
con perizia quei gesti usuali per me. Sembravo davvero umano quando lavoravo;
efficiente e scrupoloso.
“Cercherò un lavoro: so che in
alcune città assumono persone di colore…”
“È vero. Beh, ti auguro buona
fortuna Samuel…” dissi mentre continuavo la medicazione.
“Lei che cosa farà dottore?”
Non feci immediatamente caso alle sue parole.
“Resterò qui a occuparmi dei
miei pazienti.”
“Ecco, se posso osare darle un
consiglio, non resti qui ancora a lungo; si è già esposto troppo…”
Non avrei potuto neppure
sospettare a cosa alludesse e fraintesi completamente il senso di ciò che
disse.
“Non preoccuparti; le minacce
non mi intimidiscono. Continuerò senza problemi a fare il mio lavoro.”
Stavo terminando la fasciatura
al braccio. Lui fece una pausa prima di proseguire il suo discorso.
“Lodevole da parte sua, ma ci
rifletta bene. Lei è un medico che cura i negri… la mia gente crede a certe
leggende molto più dei bianchi…”
Improvvisamente mi bloccai,
sollevai lo sguardo su di lui e lo guardai con molta più attenzione, perché ci
fu qualcosa che mi mise in allarme. Qualcosa di sottointeso.
“Leggende?”
Cominciavo a diventare ansioso.
Lui continuò con una strana cautela.
“Storie di esseri
soprannaturali… Per ora l’ho capito solo io, ma potrebbero capirlo altri.”
“Capire… cosa?” Domandai sempre
più teso.
“Tra la mia gente vengono
chiamati con nomi diversi: asanbosam, owenga… spiriti malvagi di uomini medicina.”
Samuel parlava e io sentivo una
vaga tensione crescere dentro di me.
“Cosa sono questi… asanbosam?”
Domandai temendo la risposta che stava per arrivare.
“Asanbosam… bevitori di sangue.
Voi li chiamate vampiri.”
Non riuscivo a credere alle mie
orecchie.
Restai immobile qualche secondo
a guardare Samuel che mi fissava con espressione seria; era convinto di quello
che stava dicendo. Dovevo capire fino a che punto aveva indovinato la verità o
se parlava solo in preda alla suggestione. Cercai di sondare il terreno, di
valutare il pericolo. Lentamente indietreggiai verso la parete come se avessi
bisogno di appoggiarmi. Poi parlai con calma cercando di non tradire il mio
nervosismo.
“Fammi capire Samuel: tu credi
che io sia uno di questi… cosi… questi… bevitori di sangue? Cosa te lo fa
credere?”
“Non vi ho mai visto bere un
solo bicchiere d’acqua, inoltre sembrate instancabile. Sapete cose che nessuno
sa di quella notte che sono stato aggredito. Il vostro tocco è gelido e la
vostra pelle ha il pallore spettrale della morte… i vostri occhi però sono
diversi… dovrebbero essere rossi…”
Era sconvolgente sentirlo
parlare di me, di ciò che ero con estrema naturalezza. Era sorprendente.
Aveva davvero capito tutto, ma
non volevo ancora arrendermi.
“Le tue teorie sono fantasiose.
Supponiamo che io sia ciò che tu dici: non hai paura che possa farti del male?”
“Lo avreste già fatto. E… No.
Non ho paura di voi.”
Samuel era seduto sul suo
lettino e io mi ero accasciato come un sacco vuoto su una sedia vicina.
Fu strana la sensazione che
seguì dopo: mi sentii come alleggerito da un peso che mi gravava addosso. Era
strano essere di fronte ad un uomo che non aveva paura di un vampiro, mi faceva
sentire meno mostro. Era come vedere se stessi attraverso gli occhi di un altro
e trovarsi differenti. Era quasi consolante.
Mi passai una mano tra i
capelli, dovevo avere un’ aria un tantino sconvolta.
“Dottor Cullen?”
“Scusami Samuel, ma io… mi
sento un po’ confuso… Mi pare inutile negare a questo punto… ”
Stavo cercando di riprendermi,
di ritrovare un briciolo di lucidità, ma in quel momento non era facile.
Non mi ero mai trovato in una
situazione simile.
Cosa sarebbe accaduto ora?
Sarei stato costretto a lasciare Detroit?
Avrei dovuto nascondermi finché
il mondo non si fosse dimenticato di me?
Solo un uomo come Samuel
avrebbe potuto intuire il mio segreto.
Attraverso i secoli nel mondo
occidentale le credenze sui vampiri, rispetto alle mie origini si erano
affievolite fino quasi a scomparire, ma Samuel apparteneva a un’altra cultura;
i suoi antenati venivano da un altro continente dove le credenze erano
tramandate oralmente, ancorate nel profondo dei popoli, una terra dove c’era
una spiritualità diversa legata al mondo dell’occulto, il mondo degli spiriti,
degli stregoni, degli sciamani.
Mentre pensavo confusamente a
tutto questo, Samuel interruppe il mio silenzio.
“Voi siete davvero diverso… voi
non siete malvagio… voi aiutate gli uomini…”
Alzai il mio sguardo nuovamente
su di lui, ancora impressionato dal coraggio che stava dimostrando.
“Non credi che io sia un
mostro?”
“Non siete più mostro degli
uomini bianchi che ho incontrato e che hanno reso la mia vita un inferno.”
Le sue parole mi fecero
piacere: un uomo mi stava guardando davvero per quello che ero e non mi vedeva
come una belva. Un uomo mi guardava e vedeva quel lato umano che sopravviveva
in me, scopriva quell’umanità che non aveva trovato negli uomini bianchi che lo
avevano schiavizzato, umiliato e quasi ucciso.
Era una bella sensazione, un’
emozione mai provata prima. Era gratificante.
“In parte hai ragione: io sono
diverso da quelli della mia specie. Nell’arco di tutta la mia esistenza non ho
mai voluto aggredire gli uomini, ma ho pensato di riscattare me stesso
aiutandoli. Adesso devo sapere cosa vuoi fare: dirai a qualcuno la verità su di
me?” chiesi speranzoso.
“Non voglio farlo, ma come vi
ho detto altri neri di passaggio potrebbero capire e la paura potrebbe
spingerli a parlare… per questo dovreste andarvene. Ma potete fidarvi di me;
non parlerò di voi con nessuno.”
Sentivo che potevo fidarmi, la
sua espressione era franca e la sua lingua sicura.
Aveva ragione; sarebbe accaduto
ancora.
E forse non avrei più trovato
altrettanta comprensione, ma soltanto paura del mostro.
Poteva accadere. Qualcuno avrebbe
potuto sospettare qualcosa.
Prima di quel momento non mi
ero mai preoccupato della possibilità di essere scoperto, non avevo mai pensato
che potesse esserci qualcuno con tanto acume, da intuire cosa si nascondeva
dietro i miei occhi dorati.
Ma Samuel mi aveva messo
davanti a una realtà su cui avevo riflettuto molto poco. Come apparivo davvero
agli uomini che incontravo? Che impressione lasciavo su di loro? Dovevo
imparare a camuffarmi meglio, ad apparire più umano. Ma il mio aspetto
estremamente affascinante, la perfezione apparente erano tutte cose che non mi
avrebbero aiutato a passare inosservato.
Samuel aveva guardato dietro la
maschera e stranamente non si era spaventato, forse perché tutto l’orrore che
aveva visto per colpa dei demoni vestiti di bianco era stato più terribile
dell’incontro con un vampiro.
Io non invecchiavo. Io non
cambiavo, ma il mondo attorno, le città, il paesaggio, tutto mutava in
continuazione e io non avrei mai potuto adattarmi a questo. Era terribilmente
ovvio.
Ecco perché i vampiri erano
nomadi. Non avrei mai potuto fermarmi a lungo in un posto, qualche anno magari,
poi avrei dovuto prendere armi, bagagli e ripartire, stabilirmi altrove.
Ricominciare da capo. Quante
volte abbiamo dovuto farlo noi Cullen.
Quante volte lo faremo ancora,
perché non potremo mai mettere radici nel terreno; noi siamo come i semi di un
albero che vengono trasportati dal vento e non si posano mai a terra; quando lo
fanno è solo per un breve istante, finché non verranno di nuovo strappati dal
suolo e sollevati nell’aria dalla brezza improvvisa.
E così sarà sempre.
Samuel guarì completamente e
alla fine partì, come aveva detto, per cercare lavoro in qualche città più
accogliente e tollerante. Affidai a lui il mio segreto, sapendo che lo avrebbe
custodito.
Non ero obbligato a fuggire
subito. Sapevo solo che prima o poi si sarebbe presentato il momento, il giorno
che avessi letto il sospetto o soltanto un dubbio negli occhi di qualcuno più
attento degli altri.
Samuel mi aveva messo in
guardia su qualcosa che poteva accadere, ma anche non verificarsi per lungo
tempo.
Dovevo solo aspettare.
Così rimasi a Detroit ancora
per qualche anno, ripromettendomi di lasciarla appena mi fossi accorto che il
vento stava cambiando...
Continua…
Scusate l’enorme ritardo, ma prima non ho potuto.
Il capitolo è venuto un po’ lungo, ma spero che vi sia piaciuto e
che non vi siate annoiate a leggerlo.
Volevo parlare del Clan di Denali più avanti, ma poi ho pensato
di sviluppare qualcosa in questo capitolo, per far capire come Carlisle abbia
vissuto con loro e che rapporto abbia avuto con Irina in particolare, che delle
tre sorelle mi è sembrata quella più tormentata visto il ruolo che riveste
nell’ultimo romanzo.
Non è lei che va a denunciare i Cullen ai Volturi?
Poi per rispondere a Rebecca Lupin che mi chiede dell’incontro
con Esme, credo che manchi ancora un po’, perché prima dovrebbe avvenire
l’incontro con Edward secondo la storia originale e io mi sto ispirando
liberamente a quella.
Ho fatto una piccola ricerca su internet sui vampiri africani e
ho trovato nomi diversi per questi esseri; in questo capitolo ne cito solo un
paio: asanbosam e owenga (non sono parole che ho inventato io) mi sono serviti
per raccontare l’episodio legato a Samuel.
Come sempre ringrazio per le recensioni che lasciate a questa
storia, per le preferenze e chi segue solamente in silenzio.
Come sempre vi chiedo di farmi notare cose poco convincenti, se
avete delle perplessità esprimetele liberamente così da poter correggere
eventuali errori. Grazie ancora. Ninfea.
Intanto devo ringraziare Rebecca Lupin (scusami per l'errore) e Chiaretta90
per le informazioni e le fonti sul possibile incontro tra Carlisle e Esme. In realtà,
io non ne sapevo molto, e i libri della Meyer non dicono quasi nulla in merito.
Senza di voi questo capitolo forse non lo avrei mai scritto. Ho tenuto per
buone le date che mi avete fornito sulla nascita e l’età di Esme, ma ho voluto
apportare alcune modifiche e ho immaginato tutto un altro sviluppo della
storia. Qui Esme ha più di 16 anni ed è già sposata, ma non vi dico altro.
Leggete e ditemi se vi piace. Grazie comunque per tutto.
*********
Trascorsi a Detroit quasi più di una decade prima di lasciarla.
Nei successivi decenni
attraversai in lungo e in largo l’America, passando da uno stato all’altro, da
una città all’altra, tutte le volte ricominciando da capo: dal Michigan
all’Illinois, dall’Indiana all’Ohio, attraverso località sempre diverse. Ho
vissuto un po’ ovunque, adattandomi a ogni nuova situazione, ai tempi e alle
mode che passavano; Charleston, Belleville, Indianapolis, e poi ancora Albany
nello stato di New York, Andover nel Maine, Boston nel Massachusetts, Rochester
nel Minnesota, e poi ancora Cleveland nell’ Ohio, tra persone sempre differenti
e paesaggi urbani che mutavano periodicamente sotto la spinta edilizia che
imperava in quegli anni di sviluppo.
Seguivo il flusso della
corrente come una foglia secca che galleggia sul pelo dell’acqua e si lascia
trascinare via senza opporre resistenza. E nello scorrere del tempo lento e
inesorabile osservavo i lievi,ma
costanti mutamenti attorno a me, senza che questi incidessero tracce visibili
sulla mia pelle refrattaria ad accoglierle.
In ogni luogo dove mi trovassi
a vivere, solo una cosa sembrava restare invariata: l’atteggiamento degli
uomini bianchi verso le minoranze, e in quel periodo, spesso mi sono trovato a
dovermi scontrare con situazioni già vissute. Quante volte in più di
vent’anni,ho potuto aiutare uomini
disperati come Samuel; mi guadagnavo la loro benevolenza e gratitudine, e se
anche uno di loro, per caso, avesse intuito o sospettato qualcosa di ciò che
ero, nessuno osò mai smascherarmi, non so se per paura, dubbio o riconoscenza.
Ma in quel momento poteva non
avere molta importanza. Non mi preoccupavo delle conseguenze; ascoltavo solo la
mia coscienza, quel senso di profonda compassione che sentivo per ogni vita
umana; quella degli uomini rispetto alla mia, mi sembrava sempre una condizione
privilegiata, addirittura invidiabile.
Forse a causa della mia natura
immortale, ho capito che la vita è troppo importante, troppo preziosa ed
effimera perché gli esseri umani la distruggano: con tutte le sue difficoltà, i
suoi stimoli, con le sue luci e le sue ombre, essa è anche tutto ciò che a me è
stato negato secoli addietro.
I fenomeni di razzismo erano
una realtà tangibile e purtroppo abbastanza tollerata dalla società dei
bianchi. La morte di un negro per omicidio non suscitava particolare scalpore e
la polizia non si impegnava più di tanto nelle indagini di casi di questo
genere.
Io proseguivo la mia attività
sempre con la medesima dedizione e tutte le volte, in ogni città, fosse anche
la più remota dove mi fossi trovato a vivere e operare, passavo per il medico
dei negri, ma la mia fama in società era troppo elevata per incidere sulla mia
reputazione. Ero un ottimo medico e sapevo di esserlo, anche in virtù di
un‘esperienza che nessun altro avrebbe potuto accumulare. Secoli di studi con
all’attivo diverse lauree, erano un enorme vantaggio, che mi permetteva di non
essere quasi mai impreparato.
Tutti, bianchi e neri, avevano
totale fiducia in me e anche se a qualcuno il mio atteggiamento apertamente
tollerante poteva dar fastidio, ero sempre in una botte di ferro: i miei
successi parlavano per me.
Eppure poteva risultare
difficile dichiarare più di trent’anni, davvero troppo pochi per le capacità
che dimostravo di avere.
Dopo l’esperienza avuta con
Samuel ero diventato molto attento a come mi comportavo, e appena fiutavo
l’aria del sospetto tra le persone che avevo attorno, mi dileguavo velocemente,
lasciandomi dietro mistero e incomprensione.
Era un fatto a cui ormai mi ero
rassegnato, una regola acquisita e definitiva, l’unica che ho sempre imposto
anche alla mia famiglia, quella che in realtà ci va più stretta, perché ci
impedisce di mettere davvero radici: non possiamo fermarci troppo a lungo in un
posto, comunque non più di qualche decennio, altrimenti la gente si
accorgerebbe che non invecchiamo. Come potremmo giustificarlo?
Ma neppure tutti i luoghi
andavano bene per viverci: dovevo scegliere regioni che fossero piuttosto umide
e fredde per gran parte dell’anno e quando arrivava la bella stagione
soleggiata, ero costretto ad allontanarmi per qualche mese, fino al ritorno del
clima autunnale.
Ricordo estati torride per gli
umani, mesi di ferie forzate che passavo isolato tra le foreste più a nord o
tra le montagne; per un vampiro il cambio delle stagioni non rappresenta un
problema, non ci disturba né crea disagi di alcun genere, perché il nostro
corpo è praticamente insensibile a ogni variazione climatica. Non sudiamo,
quindi non perdiamo liquidi. Ma i vampiri non possono esporre la loro pelle
alla luce solare, senza creare sconcerto e meraviglia, e rivelare la loro
natura di esseri soprannaturali. Per questo abbiamo sempre evitato stati come
la Florida, l’Arizona, il Texas o la California.
Nonostante tutto, ovunque
fossi, il peso della mia solitudine periodicamente tornava a trovarmi e non
aveva importanza in quel momento quante persone avessi attorno, quante nuove
amicizie e collaborazioni con la comunità scientifica io avessi instaurato.
Perché io non potevo mai davvero essere me stesso con nessuno di loro. Non
potevo davvero relazionarmi con nessuno, non completamente almeno, e questo mi
faceva passare per misantropo, inspiegabilmente asociale. Tutt’oggi è ancora
così per tutti noi.
Allora percepivo nitidamente e
con acutezza il malessere che agitava il mio animo, e che sembrava non placarsi
neppure in quei momenti in cui potevo rifugiarmi nel mio lavoro. Dovevo
camuffare me stesso, prestare sempre la massima attenzione a reazioni,
discorsi, curiosità e commenti possibilmente senza dare nell’occhio. Dovevo cortesemente
rifiutare inviti a pranzi e cene, balli in società, attività di qualsiasi
genere che richiedessero l’uso della forza, ma ancor più triste e patetico era
il dover scoraggiare lo sfacciato interesse che alcune donne non solo in età da
marito palesavano nei miei confronti, affascinate dal mio aspetto, per la
capacità naturale del predatore di attrarre le sue vittime.
Ormai sono abituato all’effetto
che faccio alle umane, ho imparato a gestirlo e a conviverci, a volte anche a
scopo terapeutico: ci sono persone e non solo bambini che hanno paura del
medico, ma tante si sentono rassicurate dal mio aspetto, d'altronde questa è
una delle prerogative di noi vampiri, imbambolare le nostre prede, incantarle
con la voce e con gli sguardi. A me tutto questo serviva per tranquillizzare i
pazienti più nervosi.
Il xx° secolo si aprì con la
sua ventata di innovazione; nuove tecnologie, come l’automobile e
l’elettricità, unite a grandi aspettative per gli anni a venire, speranze deluse
che si sono scontrate con la prima guerra mondiale.
Ciclicamente, al cambio delle
nuove generazioni, noi Cullen torniamo nei posti in cui siamo stati, e qui ci
insediamo per un periodo indefinito, sempre in attesa che un altro alito di
vento non venga a suggerirci di ripartire di nuovo.
Così all’inizio del ‘900, mi
ristabilii nella città di Columbus nell’Ohio, dove già ero vissuto
almeno vent’anni prima, anche se per un tempo talmente breve che nessuno poteva
ricordarsi di me.
Lì trascorsi un periodo
relativamente tranquillo fino al 1915, anno in cui feci uno degli incontri
fondamentali della mia vita, senza sapere quanto questo avrebbe inciso su di
me, senza immaginare lo scossone che stavo per ricevere. Esiste il destino, per
noi vampiri?
Non è la prima volta che mi
pongo una tale domanda. E non sarà neppure l’ultima.
Alla luce delle mie esperienze
passate e attuali, potrei dire di sì, ma per tanto tempo sono stato indeciso
sulla risposta giusta, come su gran parte delle cose oscure e ignote che
riguardano i misteri imperscrutabili dell’ universo di cui pure io faccio
parte.
Il mio incontro col destino
avvenne una fredda mattina di febbraio, con la luce chiara che entrava
attraverso la finestra del mio studio e illuminava il volto delicato di un’
umana, una donna che all’epoca era la moglie di un altro uomo. I coniugi
Evenson erano una giovane coppia sposata da poco più di un anno.
Lui, Charles Evenson era figlio
di gente benestante di Columbus, imprenditori della zona che commerciavano in legname
e mandavano avanti una segheria. L’attività della famiglia era stata rilevata
dal primogenito che sotto le pressioni del padre, aveva preso in moglie la
figlia di un amico della famiglia, la giovanissima Esme Ann Platt.
Non era stato un matrimonio d’amore,
ma di convenienza a cui Esme aveva dovuto assoggettarsi a causa di alcuni
debiti che il padre aveva contratto con gli Evenson e altri imprenditori
locali, in seguito a cattivi investimenti di denaro che lo avevano mandato
quasi in disgrazia, e non essendo riuscito a risarcire completamente i
creditori, era stato costretto ad accettare la proposta fatta dal vecchio padre
di Charles.
Gli Evenson erano una coppia
che suscitava ammirazione: belli e ricchi, godevano di una posizione
invidiabile nella società di Columbus, e secondo la mentalità dell’epoca,
questi erano ingredienti ideali per costruire un matrimonio felice.
Naturalmente questo quasi mai, corrispondeva a verità.
Conobbi la signora Evenson il
giorno che venne nel mio studio come paziente.
Aveva sentito parlare della mia
fama di medico.
Era già stata da altri dottori
e da tutti si era sentita dire le medesime cose, ma desiderava avere un altro
consulto: il problema che l’angustiava era il fatto che nonostante vari
tentativi, non fosse ancora rimasta incinta e temeva che la causa fosse una
presunta sterilità sua o del marito.
Ricordo perfettamente l’istante
del nostro primo incontro e l’impressione strana e indefinita che ne ricevetti
guardandola. Una donna graziosa e fine, dai capelli del colore del grano
maturo, morbidi e ondulati, con gli occhi grandi e dolci, che rivelavano la
luce di una notevole forza e determinazione, eppure nascondevano dietro la loro
sfumatura azzurrognola una vaga tristezza. Per contrasto, si restava colpiti da
un sorriso luminoso e schietto, che lasciava nel cuore di chi la osservava un’
infinita tenerezza. Quella tenerezza che avvertii subito anch’io.
Si presentò tendendomi la sua
mano con naturale scioltezza e non sembrò infastidirla la mia stretta gelida.
“Dottor Cullen, sono la signora
Evenson… ma lei può chiamarmi Esme…”
“Piacere di conoscerla, Esme.
Che posso fare per lei?”
Mi spiegò il suo problema con
estrema semplicità, affrontando senza imbarazzo un argomento che sarebbe stato
delicato, se non spinoso per molte donne che avevo incontrato.
Dopo averla visitata
accuratamente, senza trovare patologie apparenti, le spiegai quella che
ritenevo essere la situazione. Lei mi ascoltò con la massima attenzione e
serietà.
“Allora signora Evenson, forse
la deluderò, ma concordo con gli altri colleghi illustri da cui è stata; io
ritengo che lei goda di ottima salute e fisicamente non c’è nulla che faccia
pensare alla sterilità; se però ci fosse un problema di questa natura, ci
sarebbero da fare analisi più approfondite. Io comunque escludo che possa
trattarsi di questo. Credo invece che l’ansia e l’apprensione non aiutino nel
suo caso. Lei dovrebbe cercare di stare più tranquilla e serena, e lasciare che
la natura faccia il suo corso. A volte avere troppe aspettative non è un bene.”
“Ho capito dottore… cercherò di
seguire il suo suggerimento… la ringrazio comunque per il suo tempo.”
Se ne andò e ricordo che mi
colpì la sua espressione mentre lasciava il mio studio: non mi parve rassegnata
alle mie semplici parole.
Per un po’ non si fece più
vedere, ma negli ambienti della città si parlava della signora Evenson perché
aderiva e sosteneva diverse attività benefiche e culturali, e qualche mio
collega si premurava di informarmi.
Mi capitava di pensare a lei
distrattamente, un fatto inconsueto, perché di solito non indugiavo a lungo su
pazienti che erano solo occasionali. Pensai che avesse seguito il mio consiglio
e che si fosse convinta e adattata alla necessità che non si dovessero
affrettare i tempi.
Ma quando il destino comincia a
imbastire il suo disegno, non sempre la sua trama ci appare chiara fin
dall’origine; è come guardare un arazzo sul retro e vedere un groviglio di fili
apparentemente informi, una matassa colorata senza logica, ma finché non
osserviamo l’immagine sul davanti non capiremo mai il suo reale significato. E
così sarebbe stato per me.
Due mesi più tardi tornò nel mio studio;
i suoi occhi brillavano di euforia: era convinta finalmente di essere rimasta
incinta.
Con dispiacere fui costretto a deluderla
e dall’espressione sgomenta che lessi sul suo volto, compresi che anche nel suo
disperato desiderio di maternità, c’era più della semplice volontà di diventare
madre.
“Non arrendetevi Esme: siete
una donna giovane e forte, e non c’è motivo di credere che non possiate avere
figli. Dovete solo avere pazienza.”
“Pazienza… certo. Ma ho
l’impressione che sia il tempo a mancarmi… che tutto mi stia sfuggendo di mano.
Avevo sperato in una grazia…”
Non compresi cosa volesse dire
in quel momento; le sue parole mi apparivano così amare e non ne capivo la
ragione. Cercai di indagare quel malessere che avvertivo in lei e azzardai una
domanda.
“Scusate Esme, ma vostro marito
come reagisce di fronte a tutto questo? Ve lo chiedo come medico: vi fa una
colpa del fatto che non riuscite a restare incinta? È per questo che siete così
in ansia?”
“No… Credo che per lui sia…
indifferente.” E in quella frase c’era più di quanto io potessi
aspettarmi.
Indifferente…
Quella parola era la chiave di
tutto, ma ancora non conoscevo il suo reale peso.
Non lo avrei compreso per molto
tempo.
Alcune settimane dopo, stavo
tornando da una visita domiciliare a un mio paziente. Stavo attraversando il
parco cittadino; sopra di me, le chiome degli alberi si stagliavano contro un
cielo plumbeo coperto da nubi che promettevano una pioggia sottile e noiosa.
La incontrai lungo uno dei
sentieri coperti di foglie secche che marcivano nel suolo umido sotto i miei
piedi.
Camminava senza fretta, nella
mia direzione, le mani avvolte in un manicotto di pelliccia, assorta in qualche
pensiero che pareva tormentarla.
Quando si accorse della mia
presenza, dopo avermi riconosciuto mi sorrise in quel modo che le era tipico, e
nello sguardo lessi quella dolcezza malinconica che avevo già avuto modo di
scorgere in lei, fin dalla prima volta che era venuta nel mio studio.
Ma quel sorriso non nascondeva
del tutto l’ansia che traspariva lievemente nei suoi occhi; il solito velo di
tristezza le offuscavalo sguardo, che
altrimenti sarebbe apparso più luminoso e solare che mai.
Se fosse in qualche misura
attratta dal mio aspetto, sapeva nasconderlo molto bene; in lei non leggevo
quell’attrazione che spesso coglievo nelle altre donne. Era semmai un’onesta
ammirazione che non sfociava in pensieri poco casti. Era una donna corretta.
La osservavo avanzare verso di
me sicura, e per la prima volta mi sorprendevo in pensieri di ammirazione
tipicamente maschili; era vestita in modo sobrio, elegante, quanto bastava ad
evidenziare la sua figura delicata, ma senza ostentazione e nel suo incedere
c’era una grazia innata.
Esme Evenson mi piaceva più di
quanto volessi ammettere, e l’idea appena nata nella mia testa, mi riempì di
uno stupore profondo.
In passato nessuna umana aveva
mai catturato tanto il mio interesse come quella giovane inquieta, di una
bellezza enigmatica. C’erano profondità da scoprire dietro quelle iridi
grigioazzurre che mi fissavano decise, come se anche lei volesse scavarmi
dentro e guardarmi l’anima.
Come se anche lei fosse alla
ricerca di qualcosa. Esattamente come me.
Mi sono chiesto spesso se
esiste un istante preciso in cui due anime si riconoscono, se magari c’è un
fatto scatenante e determinante che le salda insieme. Si tratta di un pensiero
senza forma, quasi inafferrabile dalla mia stessa mente che mi ha a lungo
accompagnato; l’idea che le nostre anime si siano riconosciute quel giorno non
ha razionalità né logica apparente. Da umano non ho mai fatto una simile
esperienza e non saprei dire se è maggiormente vero per gli uomini o i vampiri.
Ogni volta che incontravo i
suoi occhi, in qualsiasi circostanza mi trovassi, non desideravo altro che
poter parlare con lei, conoscere quell’enigma celato dietro il suo sguardo che
chiedeva di essere svelato.
“Dottor Cullen, che piacere
incontrarla…”
“Signora Evenson…” e mi tolsi
il cappello dal capo in segno di rispetto.
“Esme… preferisco.”
“Come volete Esme. Come state?
Oggi mi sembrate più serena…”
“Sto molto bene, grazie. E
lei?”
Mi chiesi se fosse vero.
“Sono in ottima forma.” Risposi
con gentilezza mentre lei si aprì in un ampio sorriso sicuro.
“Sì, lo vedo. Ma voi sembrate
sempre in ottima forma…”
E solo allora la sua voce tradì
una nota divertita di leggero compiacimento.
“Oh, allora siete una buona
osservatrice.”
“Sì, eppure, so
davvero molto poco di voi. Sento parlare solo della vostra fama di medico, ma a
parte questo, è come se non aveste una vita privata con interessi diversi.
Siete un uomo difficile da comprendere… Non fate molta vita mondana, vero?”
“Sono una persona schiva che
ama il suo lavoro più di tutto: non c’è molto altro di interessante in me…”
“Siete anche modesto… E quando
non lavorate, cosa fate nel tempo libero? Andate a teatro…coltivate le vostre
amicizie?”
“I miei interessi sono
prevalentemente di carattere intellettuale. Quando non lavoro, amo rilassarmi
con un buon libro oppure andare a vedere una bella mostra di pittura. Vi piace
l’arte Esme?”
“Oh, moltissimo, l’adoro.
Soprattutto quella europea. Allora abbiamo qualcosa in comune!” Lo disse quasi
esultando. “Che pittura preferite?”
“Quella classica dei grandi
pittori del rinascimento italiano.”
“Fantastico periodo... l'Italia: paese
meraviglioso che purtroppo non ho mai visto!” Commentò con vivacità.
“Sì, certo – risi - Condivido
il vostro entusiasmo.”
Avevamo ripreso a camminare
fianco a fianco. Esme mi appariva come una donna entusiasta della vita, e
pensai che probabilmente metteva passione in tutto ciò che faceva e progettava.
Continuava la sua indagine su di me e non era la banale curiosità femminile;
era più desiderio di comprendere la persona che aveva di fronte. Voleva
conoscere il dottor Carlisle Cullen, scoprire quello che ero intimamente e io
restai affascinato da quel tentativo diretto e palese, di superare la barriera
protettiva che ponevo tra me è il mondo.
“Vi definite riservato, quindi
evitate accuratamente le comparsate in società, gli inviti dei vostri stessi
colleghi. Però ora non sembrate affatto così… siete addirittura socievole. Come
mai? Forse non sapete stare davvero con chiunque... Oppure temete di
lasciarvi coinvolgere troppo dalle vite degli altri?”
Ero incuriosito dalle sue
considerazioni; la sua acutezza era sorprendente, era come se volesse studiarmi
e non fermarsi alle apparenze. Voleva guardare dietro la maschera, ma non le
avrei lasciato scorgere gli occhi del mostro. Eppure mi dispiaceva doverle dare
un’ immagine falsa di me.
“Perché pensate questo Esme?”
Chiesi con velata circospezione.
“Ve l’ho detto: passate per
essere una persona chiusa, restia al confronto e ora non lo sembrate
assolutamente… è un contrasto curioso.”
“Può essere che abbiate ragione
per entrambe le cose. E a voi piace, Esme, fare vita mondana e avere gli occhi
puntati su di voi?”
“Beh, a dire il vero, non
molto… Ma vedete, essendo la moglie di un uomo facoltoso, non sempre posso
evitare di adattarmi ad alcune situazioni. Però mi fa piacere dare il mio
contributo alle cause giuste, anche se più spesso preferirei poterlo fare
nell’anonimato.”
“Voi non ci crederete, Esme, ma
vi capisco meglio di quanto possiate immaginare…”
Sì, la capivo benissimo.
Quante volte avrei voluto
apparire un uomo comune, e di un uomo comune avere la vita, ma tutto di me mi
metteva nella posizione di chi non poteva passare indifferente.
Da parte mia, era la prima
volta che mi aprivo in una conversazione così amichevole e disinvolta con un’
umana, al di fuori dell’ambito lavorativo.
Troppo amichevole. Troppo
disinvolta.
Ma la stranezza più
sorprendente era che mi veniva naturale, non mi mettevo neanche sulla
difensiva; quella giovane donna aveva il potere di mettermi a mio agio, come se
io stesso fossi stato umano, dimenticando quasi di essere un vampiro, come se
tra me e lei ci fosse una specie di sintonia invisibile.
Non ricordavo di essermi mai
sentito così naturale con qualcuno.
Forse per questo non me ne
accorsi.
Non stavo valutando il
pericolo, il rischio che accadesse quello che era già successo in passato con
Samuel.
E non mi sfiorò neppure
un'altra idea, che nella normalità avrei ritenuto improbabile nel modo più
assoluto, ma è quando siamo meno vigili che siamo più esposti, praticamente
inermi.
In quell’istante io lo ero: un
vampiro indifeso, con la sua probabile anima dannata, esposta di fronte alla
dolcezza di una creatura umana, una donna dallo strano fascino, per giunta
sposata, che mi offriva in modo spontaneo, diretto e senza sotterfugi la sua
piacevole amicizia.
In quel momento non riuscivo a
pensarci ed era qualcosa su cui avrei dovuto riflettere con attenzione, ma non
lo feci. Non sapevo vedere così lontano. E abbassai la guardia.
“Mi accompagnate ancora per un
po’ dottor Cullen? Approfitterei della vostra compagnia, davvero stimolante…”
“Volentieri Esme.” E lei mi
cinse il braccio in un modo naturale. Troppo naturale.
Ringraziai il mio
autocontrollo; per fortuna, non ricordavo cosa fosse il tormento dominante
della sete. Avevo acquisito ormai una tale padronanza del mio istinto, che non
c’era più pericolo che compissi qualche azione sconsiderata. Potevo dunque
permettermi una maggior prossimità con gli uomini anche al di fuori del mio
ruolo di medico.
A volte mi chiedo come sarebbe
stato se il sangue di Esme, avesse rappresentato per me, quello che è il sangue
di Bella per mio figlio Edward. In effetti non ho mai incontrato un essere
umano il cui sangue fosse un richiamo, tale da rappresentare una tentazione. Se
fosse stato così con Esme, credo che sarei fuggito da Columbus immediatamente e
allora, forse, la storia sarebbe andata in un altro modo.
Passeggiammoper un po’, restando quasi in silenzio. Poi
la domanda arrivò come un fulmine a ciel sereno.
“Siete sposato, dottor
Cullen?”
“No…” Risposi un po’
bruscamente, preso in contropiede.
“Lo siete mai stato?”
“Oh… - trattenni un sorriso -
No…”
Ero divertito da quel pensiero
che nell’immediato giudicai improbabile.
Un vampiro sposato.
“E da qualche parte… c’è una
futura signora Cullen?”
Solo a quel punto, sentii i
muscoli del mio corpo duro come la pietra contrarsi impercettibilmente.
La conversazione stava
scivolando sul piano intimo e privato.
Era normale in fondo; una cosa
comune tra due persone che si aprono al dialogo, ma io ne fui turbato, per
quello che avrebbe potuto implicare. Per quello a cui mi lasciava pensare.
E non so come, lei intuì il mio
disagio, senza sospettare quale ne fosse la vera causa.
“Oh, scusate, forse sono troppo
indiscreta…”
“Non scusatevi, non lo siete
affatto… Diciamo che potrebbe esistere… da qualche parte.”
Perché le avevo risposto in
quel modo? Perché stavo lasciando aperte delle possibilità?
Diventare la signora Cullen
voleva dire solo una cosa: per la donna in questione, se mai ci fosse stata una
creatura così sfortunata, avrebbe significato rinunciare a una vita da comune
mortale per diventare… forse… una dannata immortale, al mio fianco.
Ed ecco che stavo ripensando di
nuovo alla possibilità di crearmi una compagna. Da quanto non mi soffermavo su
quel pensiero? E perché proprio lei lo scatenava?
Esme era più pericolosa di
quanto potessi immaginare; con poche parole era riuscita a minare la mia
presunta tranquillità emotiva. Lei si stava aprendo un varco nella mia anima;
vi si sarebbe insinuata come un invasore che occupa un territorio, avrebbe
preso possesso di tutto e io avrei opposto una debole, quanto fiacca
resistenza. Perché l’amore a volte è proprio questo: un occupante invadente che
arriva senza preavviso e butta giù le dighe del cuore più robuste che hai
costruito per difenderti, e non c’è possibilità di fuga o resistenza dai suoi
attacchi e non si può fare altro che arrendersi.
L’ho visto così tante volte e
anche ora, lo vedo accadere a uno dei miei figli.
E lui tenta di opporsi. E io
vorrei dirgli: è inutile Edward.
È inutile opporsi perché
l’amore è più forte anche di noi vampiri.
Esme continuò a parlare,
facendo breccia nel mio cuore addormentato da secoli.
“Non l’avete ancora incontrata…
è strano… un uomo come voi…”
Ma io non sono un uomo…
“Perché strano?”
Dovevo apparirle leggermente
allarmato. Si era arrestata un momento a fissarmi incredula.
“Beh, ecco… siete un uomo di
successo, con una discreta posizione… e avete anche un innegabile fascino che
certamente molte donne saprebbero apprezzare. Ma siete sempre così solo… mi
chiedevo perché…”
Perché un vampiro è
condannato alla solitudine eterna…
“Fino ad ora non sono stato
così fortunato, Esme… Nella vita le cose non sempre vanno come vorremmo noi…”
Se fino a quel momento mi era
apparsa tranquilla, di colpo il suo sguardo s’incupì e dal suo volto scomparve
ogni traccia di leggerezza; diventò improvvisamente seria, quasi grave
nell’espressione del viso.
E quello che disse rivelò un
sottile e inquietante stato d’animo che mal si adattava a una donna che secondo
i canoni comuni doveva essere felicemente sposata. Improvvisamente mi sembrò
diversa; uno spiraglio si era aperto a rivelarmi una sfumatura nascosta fino a
quel momento.
“Già…- sospirò - lo so molto
bene anch’io. Ma bisogna andare avanti e tentare, per quanto possibile, di far
funzionare le cose, anche se è difficile… Per quanto uno sappia che la propria
esistenza è costruita sul niente.”
Quanta amarezza in quelle
parole.
Improvvisamente compresi che
l’immagine esterna che Esme suggeriva al mondo, non corrispondeva affatto al
suo vissuto personale e non si trattava soltanto della sua presunta sterilità.
Il sospetto che fosse
assolutamente infelice della sua vita, del suo matrimonio, fu come una
folgorazione, ma non ebbi cuore di chiederle una conferma. Non volli essere
diretto, ma volevo che si aprisse, che mi lasciasse scorgere quella parte di sé
che teneva segreta. Forse mi muoveva l’egoismo del mostro occultato nei recessi
del mio animo, ma volevo il privilegio di poter toccare la sua essenza più
intima. Volevo che si sbilanciasse.
“Perché mi state dicendo tutto
questo Esme? Suona strano detto da una donna come voi. Siete più fortunata di
tante altre, avete tutto ciò che si possa desiderare, no? Ricchezza, fama,
giovinezza…”
“Fortunata dite? Oh, beh…
sicuramente appaio così agli occhi altrui. Ci sarà anche chi mi invidia. La
gente troppo speso dimentica che nella realtà le cose non sono mai come sembrano
e i soldi non comprano tutto. Avete mai avuto l’impressione di vivere in un
teatrino costruito a beneficio del pubblico, dottor Cullen?”
Il tono piacevolmente complice
che avevamo dato alla conversazione all’inizio, era totalmente scomparso,
lasciando spazio a pensieri gravi e impegnativi.
Inoltre mi rispecchiavo quasi
completamente in quello che Esme aveva appena detto. Io stesso non ero forse un
attore che recitava una parte da troppi secoli? Ed Esme che parte stava
recitando?
“Capisco cosa volete dire Esme,
anche se trovo strano che simili parole possano provenire da voi: mi sembrate
così genuina… limpida… intensa nella vostra voglia di vivere.”
“E lo sono infatti e nel mio
caso non aiuta. Ma non date troppo peso a questo mio discorso… sto parlando come
una sciocca, suppongo. Non dovreste perdere tempo ad ascoltarmi…”
Non seppi trattenermi.
“Io adoro ascoltarvi, Esme.”
Lei sorrise di nuovo in un modo
che mi rapì.
“E io non dovrei dirlo, ma
adoro parlare con voi, perché sapete ascoltare e comprendere, Carlisle… Posso
chiamarvi Carlisle?”
“Certo Esme… anzi, mi farebbe
piacere.”
In lontananza un tuono
annunciava l’arrivo di un temporale e nel cielo si erano addensate pesanti
nuvole grigie. Presto avrebbe piovuto.
“Dobbiamo andare Esme, prima
che il temporale ci sorprenda… se volete vi accompagno a casa.”
“Grazie, ma non occorre. Non
abito lontano. Passate spesso attraverso il parco cittadino?”
“A volte. Perché lo chiedete?”
“Perché magari ci capiterà di
incontrarci ancora, se passerete di qua…”
Aveva tutta l’aria di essere un
invito e io nei giorni che vennero dopo, decisi di accoglierlo.
E fu così che ebbe inizio la
nostra strana relazione.
Non saprei in quale altro modo
chiamarla.
Una relazione inconsapevole,
eppure innocente tra un vampiro e un’umana.
Una relazione pericolosa, solo
apparentemente innocua, dove io per primo nélei percepimmo il vero rischio.
Ci incontravamo apparentemente
per caso nei giardini pubblici, come se fossimo stati due vecchi amici o
conoscenti. Ci sedevamo tranquilli su una delle panchine a parlare degli
argomenti più disparati, a ridere e goderci il fresco delle piante che
crescevano attorno, a guardare le altre persone che passavano, i bambini che si
rincorrevano giocando a nascondino e venivano sgridati dagli adulti se cadendo,
sporcavano i pantaloni.
E negli occhi di Esme passava
un’ ombra di malinconia quando si soffermava ad osservarli troppo.
“Avrei voluto fare
l’insegnante; era il mio sogno, Carlisle.”
“Saresti stata un’ ottima
maestra, ma perché hai rinunciato?”
“Perché mi sono sposata; pensavo
che la mia famiglia sarebbe diventata la cosa più importante…” e il suo tono amaro
era condito da un velo di cinismo che non sempre affiorava, ma si manifestava
se si finiva a parlare del marito.
Col tempo le confidenze
diventarono sempre più naturali, quasi intime e la spontaneità a parlare
liberamente di qualsiasi cosa, ci cucì addosso quel sentimento fatto di fiducia
reciproca che stentavamo entrambi a riconoscere per quello che era.
“Credo che lui mi tradisca…”
Parlava senza esitare, come se
io fossi stato un amico di vecchia data, una persona sicura a cui rivelare un
segreto.
“Come fai a esserne certa?
Forse ti sbagli…”
“Certe cose una donna le
intuisce… Ho avvertito l’odore di un’altra sui suoi vestiti…”
A volte era strano sentirla
parlare così, di cose, di percezioni così fisiche per un vampiro, ma che per
lei dovevano essere infinitesimali, vaghe sensazioni.
I nostri incontri divennero
assidui, necessari, quasi giornalieri, tanto che ci fu chi notò la nostra
strana complicità.
Avrei dovuto prevederlo; non
ero certo il tipo che passava inosservato e farmi vedere in compagnia di una
giovane e bella donna, sposata ad un uomo notoriamente influente, era il modo
migliore per attirare l’attenzione, cosa di cui non avevo bisogno.
Una nota e vecchia pettegola,
avvezza a interessarsi delle cose altrui, sempre a caccia di scandali e
pettegolezzi, ci vide spesso al parco parlare insieme, e fu facile per lei
trarre le sue conclusioni erronee che poi riportò ad altri. Si dice che la
calunnia è come un venticello.
Fu così che nell’immaginario
della società benpensante e moralista della città, il dottor Cullen e la
signora Evenson divennero gli amanti astratti, protagonisti delle
chiacchiere di salotto di gente mediocre e vile.
Ma io ero totalmente a digiuno
di situazioni simili; era la prima volta in assoluto che mi trovavo al centro
dell’interesse curioso della gente. Era una situazione troppo delicata non solo
per Esme che vedeva messa in discussione la sua reputazione, ma anche per me,
che all’improvviso mi trovavo catapultato in un contesto un po’ troppo umano.
Rammento uno dei quei
particolari pomeriggi passati al parco; la giornata autunnale era appena
tiepida, il cielo era di un bianco lattiginoso che poteva confondersi con la
mia pelle smorta e per terra c’era un folto tappeto rosso amaranto di foglie
morte, lasciate cadere dagli olmi; si stava entrando in un inverno che sarebbe
stato rigido.
Esme aveva preso un caffè a uno
dei chioschi per scaldarsi le mani fredde; non si sorprendeva più del fatto che
non prendessi mai niente; la giudicava una delle mie singolarità.
“Ormai l’ho capito che sei diverso
da chiunque io conosca, caro il mio dottor Cullen.”
La prima volta, quella frase mi
aveva lasciato di stucco e anche lievemente preoccupato.
Che avesse capito? Poi aveva
riso, divertita dalla mia espressione.
Un paio di uomini nei loro
cappotti scuri ci erano passati accanto, salutandoci con cortesia e mentre si
allontanavano lungo il sentiero, solo io avevo potuto cogliere i loro commenti
bisbigliati a bassa voce.
Sarà vera la storia fra
Cullen e la signora Evenson?
Come hai visto, sembrano
molto intimi… sono stati visti insieme più di una volta in svariate
circostanze.
Charles fa molto male a
trascurare tanto la moglie… è cosa nota che lui abbia un’ amante, è logico che
lei cerchi di distrarsi con un altro.
Ma il dottore pare sia
davvero innamorato di lei… è la prima volta che lo si vede interessarsi a una
donna… è così schivo di solito…
Io credo sia solo una
scappatella, Cullen è un uomo che potrebbe avere tutte le donne che vuole… lo
invidio un po’…
Una risata soffocata.
Innamorato… Io.
Poteva essere?
Potevo io, un vampiro,
innamorarmi di un’umana?
L’amore o qualcosa di simile,
lo avevo provato una volta sola per Heidi. Era stato qualcosa che mi aveva
investito e posseduto il cuore, i sensie forse l’anima. Era stato qualcosa di forte e violento quanto la mia
stessa natura. Era stato qualcosa quasi di accecante. Era stato sfrenata
lussuria, nebbia che invadeva la mente e la soffocava. Ma Esme che cos’era per
me?
Solo un’ umana diversa da tutte
le altre che avevo incontrato?
Cos’era quel trasporto
avvincente fatto di dolce dolore, quella necessità di starle accanto che
sentivo, quel desiderio di vederla sorridere quasi ogni giorno, quella dolcezza
mista a passione che sapeva infondermi dentro e scaldarmi l’anima fredda e
smarrita nel buio dell’eternità?
C’era un motivo se con lei mi
sentivo stranamente in pace, come se avessi raggiunto un porto sicuro e
tranquillo, come se fossi a casa?
Radici… ancora di salvezza
della mia esistenza.
Radici a cui aggrapparsi,
del solo albero che avrebbe dato frutti.
Ignorava totalmente ciò che
ero, ma a volte avevo la strana sensazione che avrei potuto rivelarglielo,
senza che lei avesse avuto paura di me.
Quante sfumature può avere
l’amore? Quanti colori?
Quanti modi ha di manifestarsi?
Quali forme assume? Quanto può pesare sul cuore?
Può un vampiro per sua natura
immutabile, cogliere tutte queste sottili differenze?
Per questo non sempre gli
uomini riescono a riconoscerlo…
Perché esso ha mille facce e
non è mai uguale. E per questo ti sorprende.
Per me ed Esme, l’amore era
arrivato con la forza di un tornado a spazzare via tutto e inesorabile, aveva
preso possesso di noi, riaccendendo il mio cuore e fatto battere più forte il
suo.
Me ne resi conto che era troppo
tardi per rimediare, ma la cosa era andata troppo avanti perché potesse
continuare senza drammi. Qualsiasi cosa avessi fatto adesso sarebbe stata solo
una pezza raffazzonata sul cuore dolorante. E io non credevo di poter
oltrepassare quel confine che esiste e separa i vampiri dagli uomini.
Soprattutto per lei, perché
superare quella linea avrebbe voluto dire compiere quell’azione che mi ero
ripromesso di non fare mai: condannare qualcuno a diventare come me.
Un giorno ci capitò di andare
insieme a visitare il museo cittadino di storia naturale e all’uscita,
l’accompagnai a bere una cioccolata in un locale adiacente al museo. In
quell’occasione mi raccontò rammaricandosi di una discussione avuta col marito.
“Dice che devo smetterla di
fornire motivo di chiacchiere alla gente. Credo di non averlo mai visto così
adirato. Gli ho spiegato che sono tutte dicerie maligne, ma…”
“Esme, tuo marito non ha tutti
i torti. Io sto rovinando la tua reputazione; è una cosa assurda se
consideriamo che tra noi non c’è nulla. Forse dovremo smetterla di vederci
così…”
“La mia reputazione?” Era
indignata. “Charles per primo, non si è mai preoccupato del rispetto che mi
deve. Non mi interessa quello che pensa o dice la gente: non sono io quella che
ha una relazione clandestina…”
“Lo so Esme, ma la gente lo
pensa ugualmente; vuoi farmi credere che la cosa non ti faccia soffrire?”
“Se io sono infelice, Carlisle
non è per quello che dice la gente…” Era la prima volta che lo ammetteva così
apertamente e potevo leggere la pena malcelata nel suo sguardo inquieto. ”Loro
parlano di qualcosa che non esiste, ma almeno la realtà non la conoscono e non possono
violarla.”
Capivo cosa intendesse; non
potevo evitare di amarla senza ferire me stesso.
“Io mi sento responsabile della
tua infelicità, Esme…”
“Cosa stai dicendo, Carlisle?
La nostra è una bella amicizia a cui tengo molto… Pensi che sarebbe giusto o diverso
se fossimo veramente amanti? Sarebbe ugualmente intenso…”
“Oh, Esme, ti prego… non
dovresti neppure pensarle certe cose. E poi non sarebbe possibile…”
Abbassai la testa e dicendolo
coprii una delle sue mani con la mia in un gesto carico di affetto profondo, ma
a quel punto quello che disse Esme mi lasciò stralunato e confuso.
“Carlisle, cosa ci divide
davvero? Perché le tue mani sono sempre così gelide? Cosa mi nascondi? L’ho
capito che hai un mondo segreto in cui io non entro mai… Perché non provi ad
aprirti? Per me potresti essere un angelo sceso dal paradiso… non ti
giudicherei mai.”
Io ritrassi la mano come
scottato e improvvisamente realizzai che il confine era già stato
pericolosamente superato da lei. Non potevo farla entrare nel mio mondo senza
distruggerla.
“No Esme, non posso
coinvolgerti… non capiresti… ma ora non vorrei parlare di questo…”
Ma lei insisteva a seguire il
corso dei suoi pensieri più intimi.
“Tu sei la sola cosa bella che
ho, la più vera…”
L’avevo lasciata avvicinare
troppo, pensando egoisticamente solo al bene che ricevevo, senza rendermi conto
del prezzo inevitabile che lei avrebbe pagato. Cercai di deviare il discorso.
Non potevo essere io la cura alla sua infelicità. Io potevo essere solo la
soluzione più sbagliata, ma lei non poteva saperlo.
“Esme, ascolta… Io ho ricevuto
una proposta di lavoro allettante…”
“Buon per te, ma… che genere di
proposta è?” Il tono di voce tradiva la sua velata apprensione.
“Si tratterebbe di andare a
lavorare nel grande ospedale di un’altra città…”
“Quale città?”
“Chicago.”
Incrociò le mani sul tavolo e
le strinse convulsamente. Ma la sua voce non tradiva nessun nervosismo.
“Chicago… Da quanto ci stavi
pensando?”
“Stavo valutando l’offerta da
un po’: effettivamente è davvero ottima. Volevo dirtelo…”
“Cosa posso dire? Le buone
occasioni non vanno sprecate – era triste e rassegnata – Perché esiti ancora?
Hai dei dubbi?”
“Ecco, ero un po’ restio ad
andarmene da Columbus, prima… ma adesso, alla luce dei fatti,penso che questo sia il momento migliore per
me… e anche per te.”
“Capisco…- si portò una mano al
viso - avevi già deciso, vero? Non ci vedremo più…”
“No, Esme, ma credimi: è giusto
così…”
Sentivo i suoi occhi fissi su
di me. Mi alzai dal tavolo per allontanarmi, consapevole che non l’avrei più
rivista. Ormai avevo deciso anche per lei.
L’amavo; lo sapevo perché il
mio cuore muto stava gridando per quello stesso dolore che leggevo nei suoi
occhi, eppure mi sembrava che fosse la cosa più giusta da fare. Lei era umana e
comunque la donna di un altro, e se non ci fossi stato io, forse avrebbe potuto
tentare di essere felice a fianco dell'uomo che aveva sposato.
Me lo augurai davvero, e lo
augurai a lei.
“Cerca di essere felice con tuo
marito. Non devi rinunciare. Sei ancora in tempo, Esme.”
Stavo per andarmene: le davo
già le spalle, quando lei si alzò dalla sedia e parlò di nuovo.
“Non sarò io a cercare di
trattenerti, ma…- esitò solo un attimo - Io ti amo, Carlisle… ne sono sicura più
che mai adesso, volevo che almeno lo sapessi…”
Seguì il silenzio, denso e
saturo di ciò che sentivamo; mi ero bloccato mentre quelle parole si
inchiodavano sul mio cuore marchiandolo per sempre. Poi aggiunse. “Avrei voluto
incontrarti prima, Carlisle…”
“Anch’io, Esme…” Fu l’unica
cosa che riuscii a dire in un sospiro doloroso.
Poi me ne andai triste come mai
ero stato.
Ero convinto che quello fosse
un addio.
Ero convinto di essere uscito
per sempre dalla sua vita.
Non potevo sapere che i fili
dell’arazzo che illustrava il mio destino, stavano prendendo forma e colore.
Era un’ immagine ancora troppo
confusa per me, un disegno dai contorni sfumati e oscuri, senza significato, ma
fra qualche anno sarebbe apparso chiaro e limpido sul telaio che reggeva la mia
strana vita.
E di quel disegno, Esme sarebbe
stata una delle figure centrali…
Continua…
Come sempre vi ringrazio per avermi seguito fin qui e spero che
vi sia piaciuto questo capitolo e le varanti personali da me introdotte. La storia
del primo incontro tra Esme e Carlisle, quando lei cade da un albero a 16 anni,
onestamente mi sembrava poco incisiva e banalotta; neppure volevo usare la
figura del marito violento perché mi sembrava scontata e non adatta a ciò che
volevo suggerire in rapporto al percorso personale del nostro dottore. Ho
cercato di dare un certo spessore ad Esme, perché volevo che lasciasse la sua
impronta profonda su Carlisle. Mi sono ispirata anche un po’ al bellissimo film
di Scorzese “L’età dell’innocenza” per delineare il rapporto tra Carlisle ed
Esme, molto alla lontana chiaramente.
Spero che risulti convincente. In questo capitolo ho introdotto
un indizio sul momento in cui penso di terminare questa storia, non so se sia
stato colto, ma se fosse così, potreste dirmi che ne pensate.
Come sempre vi chiedo di farmi notare se qualcosa non va;
dettagli o errori, anche suggerimenti, tracce e informazioni per migliorare la
mia storia sono sempre ben accetti.
Volevo ringraziare anche tutte le persone che hanno letto,
seguito e commentato la mia one-shot su Edward, “Notti insonni”.
Onestamente non so se scriverò altro su di lui, a parte quando
dovrò dedicargli alcune pagine in questa storia.
Capitolo 10 *** Edward: il destino prende forma. ***
10 – Edward: il destino prende forma
10 – Edward: il
destino prende forma.
Io ti amo Carlisle…
Non facevo altro che
pensare alle sue parole, quelle che Esme mi aveva detto durante il nostro ultimo
incontro. Era come avere ustioni sul cuore, quell’organo ormai spento, ma che
bruciava imprigionato sotto la dura scorza del mio corpo gelido.
Volevo che tu lo sapessi… io ti amo…
Vorticavano nella
mia mente come inchiostro nero su una pergamena che le assorbiva.
Lo sapevo. In
verità, lo avevo sempre saputo; una certezza tenera che aveva occupato l’angolo
più intimo del mio cuore, come un ospite segreto che non voleva più andar via.
E io lo avevo custodito, trattenendolo dentro me come un tesoro prezioso che si
ha paura di perdere.
Ne sono sicura più che mai adesso…ne sono sicura… più che mai… sicura…
Erano come un’eco che mi rimbombava dentro, un
suono che mi accompagnava in ogni momento. Come potevo dimenticarla? Come
potevo soffocare sotto le ceneri che restavano del mio cuore quello che anch’io
sentivo per lei?
Io, un vampiro, mi ero innamorato di una donna
che però apparteneva ad un altro uomo; ancor più grave era il fatto che fosse
umana e per questo avevo dovuto lasciarla.
In realtà non sarebbe mai dovuto accadere e
ancora non mi capacitavo del come e perché fosse successo.
Divenni quasi ridicolo, nel vano tentativo di
trovare delle spiegazioni a uno dei misteri più insondabili di tutto l’universo
conosciuto.
Era perché lei mi aveva fatto sentire umano
per la prima volta?
Forse era stata la sua dolcezza a
conquistarmi, la sua sensibilità profonda, l’acutezza di spirito unita all’intelligenza
raffinata. In lei, tutte queste qualità unite insieme, riassunte in un
distillato perfetto e micidiale, avevano fatto accadere quel miracolo che un
vampiro come sono io, non potrebbe neppure aspettarsi.
Invece era accaduto contro ogni logica e buon
senso, contro ogni mia previsione ed esperienza, addirittura contro natura.
Perché la natura umana e quella dei vampiri sono assolutamente incompatibili.
In fondo, poteva essere semplicemente colpa
mia. Del mio comportamento anomalo.
Forse ero io che essendomi avvicinato troppo
agli umani, mi ero messo nella condizione di vivere un sentimento che
altrimenti non avrei mai provato. Perché ero certo che quello che sentivo per
Esme fosse qualcosa di unico ed esclusivo, che non avevo mai vissuto in passato
e che aveva poco in comune con quello che mi aveva legato ad Heidi.
Quella per la vampira di Volterra era stata
una passione carnale più legata all’istinto e agli impulsi, dominata in gran
parte dal sesso più appagante ed estatico, e il sentimento semmai era venuto
dopo.
Con Esme era successo l’esatto contrario e
solo quando mi ero accorto di desiderarla anche fisicamente, quando avevo
iniziato a guardarla come se avessi voluto sedurla, e lei, ignara del reale
pericolo, aveva saputo cogliere i miei sguardi allusivi senza cedervi mai, solo
allora avevo realizzato con chiarezza la portata del mio sentire e mi ero
spaventato.
Quali avrebbero potuto essere le mie reazioni
fisiche al sorgere dell’attrazione verso di lei?
Avevo sempre controllato la mia sete di
sangue, ma non ero certo di poter controllare un’altra sete altrettanto potente
e intensa per noi vampiri. Una sete che poteva trovare sfogo solo con i nostri
simili e con quella non avevo mai dovuto combattere. Ci pensavo con sgomento e
una vaga frustrazione e ho temuto che quella sensazione strana, ma non
completamente ignota, potesse far riemergere il demone assetato di sangue
imprigionato dentro di me.
C’era stato un momento preciso tra noi, in cui
avevo desiderato con spasimo ardente che lei fosse una vampira; avevo provato
l’impulso forte di posare le mie labbra sulla sua pelle morbida, delicata e
fragile per condannarla alla mia stessa sventura.
In passato mi ero lasciato solo sfiorare dalla
remota possibilità di trasformare qualcuno; era qualcosa su cui mi ero
soffermato spesso a ragionare e a riflettere, pieno di dubbi e con dolore. Mi
ero posto delle domande, ma non avevo mai dovuto affrontare la tentazione di
volerlo fare davvero. Era stato più qualcosa concepito in astratto, e
allontanato come un evento da cui rifuggire, perché aborrivo con tutte le mie
forze una eventualità del genere: rendere qualcuno come me.
Ma un giorno che non pareva diverso da tutti
gli altri che avevo vissuto con lei, un giorno in cui lei non sembrava
differente, né più speciale o più seducente della donna che era di solito, un
giorno quasi uguale a tutti quelli che pesavano sulle mie spalle centenarie, se
non per quel piccolo insignificante dettaglio; quell’unico irripetibile giorno,
l’astrazione assunse forma concreta.
Ricordo i colori caldi e accesi di un
pomeriggio d’autunno al parco; eravamo seduti su una panchina; attorno a noi,
le foglie gialle cadevano dagli alberi depositandosi sul terreno bruno. Lei
stava mangiando castagne arrostite appena comperate nel chiosco vicino e io
guardavo avvinto le sue labbra piene e rosse, e osservavo la sua mano
inguantata portare i frutti caldi alla bocca… rideva quando si scottava… il suo
sangue pulsava… e improvviso come un lampo a perforare il cielo cobalto, avevo
immaginato me stesso nell’atto di avvicinarmi alla sua gola… e farla mia per
sempre.
La tentazione improvvisa e seducente era
scoppiata come un boato nella mia testa.
Bastava davvero una tale prossimità tra noi a
scatenare un pensiero simile? Ne fui atterrito.
Mi alzai di scatto, forse un po’ troppo
velocemente, tanto che anche lei quasi si spaventò.
“Carlisle, ma… che hai? – lei aveva smesso di
mangiare le sue castagne – Hai l’aria di uno che è stato morso da una tarantola…”
La sua frase suonò spaventosamente ironica
alle mie orecchie.
Io biascicai qualcosa confuso, passandomi una
mano tra i capelli.
Come potevo concepire di trasformare la dolce
Esme in un mostro, solo per soddisfare l’egoismo della belva che ringhiava
sommessa dentro di me, posseduta dal suo desiderio violento e blasfemo?
Avevo paura che fosse la mia parte cattiva a
provare quella voglia deleteria.
Potevo dire che quello fosse amore e non
altro?
Non lo sapevo con certezza.
Ma se era amore autentico quello che provavo,
non potevo permettermi di lasciar vincere il demone che sembrava ridestarsi,
eccitato dalla vicinanza di Esme.
Cos’è l’amore per noi vampiri? Brama di
possesso fisico, unito alla volontà di sconfiggere la nostra orrenda solitudine?
Possiamo provarlo davvero, quello totale e
integro nella sua purezza, oppure il sentimento si mischia e viene inquinato
dai nostri più biechi istinti vampireschi? Per gli uomini desiderare è un fatto
naturale, ma per un vampiro il desiderio carnale può confondersi con quello
della sete di sangue, e io ero terrorizzato da questa possibilità. Non potevo
ridurre a quello, ciò che sentivo davvero per lei; ero sicuro che non lo fosse.
Dovevo crederlo con fermezza per evitare di compiere una pazzia di cui mi sarei
pentito.
A tutte le mie fobie si erano aggiunte le
maldicenze della gente e solo allora avevo deciso. Dovevo andarmene.
Quella dell’offerta di lavoro era stata una
scusa; in realtà non esisteva nessuna offerta di lavoro, ma avevo comunque
deciso di trasferirmi a Chicago. Era qualcosa che stavo meditando di fare già
da un po’ di tempo.
Feci domanda in uno degli ospedali della
città; col mio curriculum non ebbi difficoltà a farmi assumere e cercavano
medici per i turni serali e notturni.
Ma anche lontano da Columbus i miei pensieri
correvano sempre al passato, alle sue ultime parole, impresse come un tatuaggio
indelebile nascosto sotto strati di pelle morta.
Nel silenzio della notte che avvolgeva le
corsie dell’ ospedale, i ricordi mi assalivano ed erano troppo dolci perché io
riuscissi sempre a scacciarli. Due anni passati a pensare a lei e a quello che
avrei voluto che fosse.
Trasformarla e tenerla vicina me, per il resto
della mia eternità?
Scacciavo quell’idea con orrore, disgustato
dal mio stesso egoismo.
Il come la volevo era il motivo del
perché non potevo e non avrei dovuto averla.
Ma il ricordo di Esme era sempre vivo dentro
di me e a volte avevo l’impressione che non mi avrebbe mai lasciato andare e il
tormento di questo amore impossibile e irrealizzabile, si era abbarbicato alla
mia anima immortale come l’edera rampicante sul tronco di un albero.
Ero ancora lì nel 1917, l’anno in cui esplose
la grande epidemia d’influenza spagnola.
Quando la malattia si diffuse in tutta la sua
virulenza, avevo un motivo in più per pensare a lei con maggior forza di prima
e con ansia sempre crescente.
Chicago come altre città americane fu
duramente colpita; arrivavano informazioni del contagio da ogni parte, e anche
Columbus ebbe i suoi morti. Vivevo col terrore che lei fosse tra questi e tante
volte sono stato tentato dal desiderio di tornare a verificare se fosse
accaduto quello a cui non volevo neppure pensare: Esme uccisa dalla spagnola. Così
pensai di mandare un telegramma ad un medico amico comune che avrebbe potuto
informarmi con discrezione; scoprii che i signori Evenson si erano allontanati
da qualche tempo dalla città proprio a causa del contagio. Restai nell’incertezza
più estrema perché altro non mi era dato sapere.
In realtà non ricordavo una malattia più
virulenta e devastante di quella; fece più morti della peste nera che aveva
colpito l’Europa nel ‘300 e mieté più vittime della grande guerra. Ci furono
tra i 20 e 50 milioni di morti nel mondo; si espanse in meno di un anno su
scala mondiale anche grazie alle truppe statunitensi che sbarcarono in Europa.
Negli stati che erano in guerra, l’informazione veniva censurata, quindi
all’inizio si parlava pochissimo della reale portata della pandemia.
Quando scoppiò il primo focolaio a Chicago, io
facevo i turni di notte.
All’epoca non esisteva una cura adeguata; gli
antibiotici non erano stati ancora scoperti e comunque non sarebbero stati
efficaci; medici e scienziati non sapevano spiegarsi come si era sviluppato il
virus che era simile all’aviaria o all’influenza suina e io, come molti miei
colleghi all’epoca, mi trovai quasi impotente di fronte alla forza
inarrestabile di tutto quel male; in un solo anno ho visto morire centinaia di
persone, anche diversi giovani. Troppi giovani.
Vedevo morire uomini e donne; intere famiglie
distrutte nell’arco di pochi mesi e mi sembrava assurdo che nonostante tutte le
mie conoscenze e la mia esperienza centenaria io non potessi far nulla. Era
deprimente.
Solo in un'altra occasione mi ero sentito così
frustrato e inutile.
La vita umana è davvero troppo fragile e
incerta: un attimo prima esiste e subito dopo, il tempo di schioccare le dita e
può accadere qualcosa che la spazza via in un baleno; come polvere troppo fine
si sparge perdendosi nel vento.
Perché polvere sei e polvere ritornerai…
recitava mio padre, leggendo la Bibbia.
Dopo tutto quel tempo, ancora non riuscivo a
rassegnarmi al fatto che la morte potesse rapire vite ancora in boccio, pronte
a schiudersi. Essa è qualcosa di naturale come la vita, e forse per questa
ragione, mi sembrava spesso altrettanto ingiusta e troppo imparziale.
Forse non riuscivo a rassegnarmi perché di
fatto, la morte per me non esisteva e forse altrettanto, non esisteva neppure
la vita.
Il picco del contagio si raggiunse nella primavera
del 1918 e nei mesi successivi.
Fu in quell’anno che una donna di nome
Elisabeth e suo figlio, Edward Masen furono ricoverati nel reparto di malattie
infettive dell’ospedale dove lavoravo. Avevano contratto il virus della grande
influenza come tanti altri. Il padre del ragazzo mi dissero che probabilmente
era già morto, ucciso dalla malattia in un altro ospedale della città.
L’infezione stava già facendo il suo corso e sia la madre che il figlio
presentavano gli stessi sintomi, manifestatisi velocemente nell’arco di poco
tempo: tosse, dolori lombari, febbre alta.
Conoscevo già il decorso; successivamente i
polmoni si sarebbero riempiti di sangue e la morte sarebbe sopraggiunta in
pochi giorni. Elisabeth restò lucida quasi fino alla fine; era più forte ma
pregiudicò maggiormente le sue condizioni perché fino all’ultimo si ostinò a
volersi prendere cura del suo ragazzo; parlava e interagiva con me e chiedeva
in continuazione notizie del figlio, mentre soffocava sotto i colpi di tosse e
s’indeboliva per la febbre.
“Come sta Edward? Si riprenderà?”
Io le accarezzavo la fronte sudata e le
rispondevo con delle pietose bugie cercando di non farla agitare. Mi ero affezionato
a loro, che è sempre un rischio nel mio lavoro, considerato quanto fossero
fragili le vite umane.
Edward era debole, ma il suo fisico per un po’
reagì, finché anche lui non si arrese al male che lo consumava e perse
conoscenza. Avevo prestato loro tutte le cure del caso, pur sapendo che
sarebbero state inutili, ma la donna prima di perdere definitivamente i sensi,
nell’ultimo momento di assoluta lucidità, afferrò la mia mano con energia
inaspettata e guardandomi fisso, mi disse una frase talmente disperata che mi
lasciò basito e angosciato.
“Dottore fate di tutto per salvare la vita di
mio figlio… anche l’impensabile, anche quello che agli altri non è concesso
fare. Io so che potete… vi affido la vita di Edward…”
Rimasi a fissarla stupefatto, chiedendomi se
non avesse parlato in preda al delirio, mentre i suoi occhi divenivano vitrei.
Morì poche ore dopo verso il tramonto.
Mi restava il dubbio tremendo che avesse
capito davvero il mio segreto; se era così, possibile che volesse per suo
figlio quella condanna eterna? Possibile che fosse disposta a tanto?
Restai immobile a guardare il suo piccolo
corpo emaciato che le infermiere coprivano col lenzuolo; ero depresso e mi
sentivo sconfitto e l’espressione del mio viso doveva riflettere la mia
profonda amarezza. Una tristezza così palese che fu notata da un altro medico,
un collega che stava controllando un altro paziente.
Mi si avvicinò con fare discreto; poi mi
raggiunse la sua voce quasi ovattata eppure nitida, mentre cercava di farmi
accettare la realtà.
“Carlisle, devi lasciarli andare… facciamo
tutto quello che possiamo, ma per tanti di loro non ci sono speranze… è triste
lo so, ma il figlio presto seguirà la madre.”
Nonostante il tono consolatorio, il senso di
quello che disse mi parve assurdo, e in me qualcosa si ribellò gridando senza
voce.
Edward era un ragazzo di diciassette anni, con
i capelli ramati e gli occhi verdi come la speranza. Mi avevano colpito subito
i suoi occhi; erano lo specchio di un’anima buona, lo sguardo intenso di un
ragazzo sensibile che si affacciava alla vita. Una promessa segreta da
mantenere. Un messaggio che aspettavo da tanto, troppo tempo. Quel figlio che
avrei voluto avere io.
Appena avevo posato gli occhi su di lui, il
mio passato era riaffiorato a galla e con esso il dolore di una ferita ancora
aperta; Edward mi ricordava tanto Martin, quel bambino di undici anni morto di
tubercolosi, ben più di mezzo secolo prima in Inghilterra, nella mia patria.
Era il ricordo penoso del mio fallimento, rappresentato da quella morte che per
me era stata inaccettabile. Sembrava che il destino fosse tornato a
perseguitarmi nelle sembianze di quell’adolescente che nei colori me lo
ricordava.
Perché mi sembrava di rivivere la medesima situazione
di allora, lo stesso tormento, la stessa impotenza che non riuscivo ad
accettare.
Edward come
Martin.
La stessa sorte per entrambi.
La stessa dura condanna.
Mi pareva terribile.
E ingiusto. Quale dio colpiva così i suoi
figli? Lo stesso dio in cui io mi ostinavo a credere?
Avevo già visto morire troppi giovani in quei
mesi, ragazzi con tutta una vita da vivere. Ragazzi che andavano in guerra,
giovani che morivano di spagnola. Troppe vite distrutte.
Troppe madri disperate come la madre di
Martin.
Troppe madri come Elisabeth.
Edward non aveva più nessuno; i suoi genitori
non c’erano più.
Aveva solo diciassette anni; mi sembravano
ancora troppo pochi per morire, ma forse potevano bastare per rinascere in
un’altra esistenza… Un’esistenza forse dannata, ma unica possibilità di vita.
Un’esistenza che non sarebbe diventata impalpabile come polvere, ma dura e
resistente come la roccia delle montagne e altrettanto eterna.
Fu così che decisi, e mi convinsi che non lo
avrei lasciato morire. Non potevo permetterlo.
Non sarebbe accaduto di nuovo. Non volevo
fallire ancora. Non volevo sentirmi inutile.
Edward fu credo, la risposta alle preghiere
che avevo invocato allo spirito di mio padre, la mia lezione personale.
Avevo dovuto lasciar morire Martin, perché
quello non era il momento per compiere quell’azione, ma ora mi veniva data una
nuova possibilità. Dovevo salvare il figlio di Elisabeth, anche solo per
soddisfare la supplica di una madre morente che non aveva voluto arrendersi
all’ineluttabile.
Ma non solo per quello.
Perché anch’io come Elisabeth, non volevo
arrendermi e nonostante lo sconforto, non lo avevo mai fatto.
Il segno che stavo aspettando da decenni, si
era finalmente rivelato. Non so se era la risposta di un dio sconosciuto, ma
era quello che serviva a me per fare ciò che ritenevo giusto.
Un ragazzo stava morendo, ma io avrei potuto
salvarlo, trasformandolo in un vampiro, prendendolo sotto la mia ala come un
figlio.
E l’anima che mi pareva di aver scorto in lui,
mi dava la speranza che quegli occhi verdi non sarebbero diventati quelli
vermigli di un assassino assetato di sangue; io potevo aiutarlo ad essere
migliore. Lo avrei fatto.
In un certo senso, potevo essere il suo
Pigmalione. Lo sarei stato.
Dovevo assolutamente credere che fosse così.
Dovevo avere fede, anche se… non sapevo esattamente quanto fosse giusto;
questo lo avrebbe detto solo il tempo.
Non gli stavo per togliere la vita; gliene
stavo per concedere una nuova. Probabilmente diversa e per certi versi più
difficile, ma lo avrei sostenuto per l’eternità.
Nell’istante in cui presi la decisione di
trasformare Edward abbandonai ogni dubbio, ogni remora del passato, mi liberai
del sacco di mattoni che mi ero ostinato a portare fino a quel momento; fui
risoluto e deciso.
Doveva esserci per lui e forse anche per me,
un’altra possibilità; per lui la vita e per me un riscatto dalla solitudine,
trovare un senso al mio eterno vagare per il mondo, condividere quell’esistenza
con un mio simile.
Ogni giorno arrivavano in ospedale nuovi
pazienti e tutti i giorni ne morivano altrettanti, per quanto non c’erano
medici sufficienti per riuscire a seguire i malati come si sarebbe voluto. Non
si poteva andare troppo per il sottile e quando qualcuno moriva, si doveva
liberare velocemente il letto per qualcun altro.
Era una corsa implacabile contro il tempo che
non concedeva speranze a nessuno.
I moribondi venivano spostati e quasi
abbandonati nelle corsie, quando non c’era più nulla da fare, e così fu fatto
con Edward. Era solo questione di ore ormai e io dovevo fare in fretta; respirava
ancora, ma potevo sentire il suo cuore stanco di lottare, che si stava
arrendendo. Nel trambusto generale, con tutti i pazienti che c’erano, nessuno
si sarebbe accorto della sparizione di un corpo.
Quella sera non presi servizio dicendo che non
stavo bene e di nascosto mi intrufolai nella corsia.
Edward giaceva abbandonato in un lettino nel
corridoio e nessuno si curava della sua sorte. Lo coprii con un lenzuolo
fingendo che fosse morto: se qualcuno mi avesse visto avrei potuto dire che
avevano richiesto il corpo in obitorio e che lo stavo portando lì.
Dovevo solo allontanarmi quanto bastava dal
corridoio, prima di caricarmi il suo corpo in spalla e poi correre verso la
terrazza dell’ospedale e da lì attraverso i tetti, iniziare la mia fuga e
sparire nella notte verso il mio appartamento all’estremo limite della città.
Fu una corsa di poche decine di minuti.
Edward era del tutto incosciente e non si
accorse di nulla.
Arrivai a casa mia e deposi il suo corpo con
delicatezza sul letto che io non usavo per dormire.
Ma quello che volevo fare non sapevo
esattamente come farlo; non avevo mai trasformato nessuno prima d’ora, neppure
sapevo se ci fosse un modo meno doloroso per avviare il processo, o rendere
meno lunga quell’agonia che lo attendeva. Ricordavo perfettamente cosa era
stata la mia; attraversare la fornace dell’inferno forse sarebbe stato meno
terribile e spaventoso che vivere quell’esperienza.
Sperai che per Edward potesse essere diverso,
ma non fu così.
Con qualche incertezza pensai di riprodurre le
ferite che avevo subito io.
Appena morsicai Edward sul collo, sentii il
suo sangue malato entrarmi in circolo e procurarmi una sensazione quasi
estatica mai provata prima. Era la prima volta in assoluto che assaggiavo il
sangue umano e staccarmene fu davvero difficile, perché il gusto era così
intenso e sublime che per un istante, fui posseduto dal terrore di non riuscire
ad attuare il mio proposito.
Sarebbe stato facile perdermi, pensare… tanto
è già condannato, quindi non lo privo
di nulla…
Il sangue di Edward era dolce, molto più dolce
e succulento di quello degli animali.
Sarei riuscito a fermarmi per non ucciderlo?
La tentazione che non avevo mai voluto sfidare da vicino, mi sfiorò con i suoi artigli malefici, ma mi imposi di non ascoltare
le sue lusinghe. Dovevo riuscirci. Non mi sarei trasformato in un mostro
proprio ora.
Gli procurai un'altra ferita sul braccio,
prima di lasciare il suo corpo in balia del veleno che ormai era entrato in
circolo. Edward ci mise qualche minuto a riacquistare conoscenza, risvegliato
dal dolore acuto, bruciante e lancinante per rendersi conto di quello che stava
accadendo. Speravo che essendo in fin di vita, la trasformazione per lui
sarebbe stata più rapida, ma anche per Edward ci furono tre giorni spaventosi
di agonia, lo stesso dolore terrificante, disumano e insostenibile che avevo
vissuto io. E per me fu quasi come rivivere la mia trasformazione e se
possibile, fu ancora più straziante e lacerante perché non potevo in alcun modo
limitare tutto quel tormento. Potevo solo restare a guardare e aspettare che
finisse. E soffrire con lui.
Assistere alla trasformazione di un umano in
vampiro fu un’ esperienza del tutto nuova per me; era una prospettiva diversa.
Viverla sulla propria pelle era una cosa, ma guardarla accadere era un’altra.
Quando era successo a me, mi ero trovato nella più totale solitudine, non avevo
ricevuto parole di conforto da nessuno e sapevo perfettamente quello che mi
stava accadendo.
Edward almeno non sarebbe stato da solo ad
affrontare tutto questo.
Ero con lui e forse potevo essergli di
conforto. Almeno lo speravo.
Avrei dato tutto per cancellare quella pena:
la mia eternità, la mia vita, la mia anima se l’avessi avuta fra le mani. Il
fuoco lo stava divorando, bruciava il suo corpo di ragazzo; ma se io ero
rimasto in silenzio tre giorni, Edward urlò in preda agli spasmi per gran parte
del tempo e le sue urla erano come pietre bollenti scagliate contro la mia anima
martoriata. E le sue suppliche quasi di pianto mi facevano sanguinare il cuore muto e freddo.
“Fai smettere questa cosa… ti prego. Che cosa
mi sta succedendo? È la morte questa?”
Parlava e si contorceva.
“Non stai morendo Edward, almeno non
completamente. Ascoltami: so che è doloroso perché l’ho vissuto prima di te… ti
stai trasformando…”
Edward mi riconosceva, si ricordava di me come
del medico che lo stava curando.
“Non… capisco… - intervallava le parole
stentate alle urla di dolore – trasformando in cosa?”
“In un vampiro Edward. Saresti morto di
spagnola, ma ho voluto darti un’altra possibilità di vita. Stai diventando più
forte…i tuoi sensi si acuiscono…”
“NOO! NO! NON VOGLIO!! TI PREGO!!”
E potei sentire tutta la sua disperazione in
quell’urlo allucinante e allora, per un istante pensai davvero di aver commesso
uno sbaglio.
“Non farmi questo…”
“Mi dispiace… non si può tornare indietro.
Solo un giorno e sarà tutto finito. Inizierà per te una nuova vita e io ti
aiuterò… non perderai te stesso. Te lo giuro.”
Edward non parlò più, forse rassegnandosi al
proprio destino, o forse troppo preso dal dolore che lo devastava. Assistere
alla sua trasformazione fu penoso, ma anche interessante e sorprendente sotto
certi aspetti più pratici. Il corpo di Edward mutava e diventava incredibilmente
bello, di una bellezza che i miei occhi percepivano come perfezione assoluta,
disumana e innaturale. Un angelo soprannaturale; ed è così che gli umani vedono
mio figlio, anche se non possono cogliere la sua essenza più straordinaria.
Quello che vedono è già molto per i loro limitati sensi umani.
Il suo cuore lottò per tre giorni contro il
veleno che stava distruggendo ogni cellula del suo corpo umano, e quando
finalmente l’ultimo sussulto di quella corsa si arrestò definitivamente, Edward
aprì i suoi occhi nuovi.
Non si mosse subito come se cercasse di capire
dove fosse. Immaginavo il suo sconcerto, lo stesso che avevo provato io di
fronte alle mie nuove percezioni del mondo che mi circondava. Mi avvicinai per
sfiorarlo su un braccio e solo allora lui ebbe una reazione: in un lampo si
alzò di scatto dal suo letto e piombò dall’altro lato della stanza, vicino all’armadio,
in una posizione di difesa, come se fosse pronto a subire un attacco.
Ringhiò al mio indirizzo.
Non sapevo cosa aspettarmi: anche per me
quella era una situazione del tutto nuova, e non sapevo cosa volesse dire avere
a che fare con un vampiro neonato. Mi guardò minaccioso e solo allora notai i
suoi occhi: erano rossi, cupi come il sangue. Ricordai che dovevano essere
stati così anche i miei in origine e solo il sangue degli animali aveva mutato
il rosso nell’oro che tingeva ora le mie iridi. Al risveglio, una delle prime
cose che si avverte e la sete che brucia la gola, una sensazione dolorosa che
non si capisce esattamente da cosa è data. Mi mossi con cautela verso di lui e
parlai per rassicurarlo.
“Edward, ascoltami; sta tranquillo… non voglio
farti del male. Sei un vampiro ora. Hai bisogno di nutrirti adesso, ma per
farlo dobbiamo allontanarci dal centro abitato. Adesso non sarebbe prudente per
te restare troppo vicino agli umani… potresti far loro del male.”
Per fortuna, io sceglievo sempre case che
fossero alle periferie estreme delle città per avere una via di fuga più
semplice in caso di bisogno. Temevo che incontrando qualche essere umano Edward
potesse attaccarlo. Dovevo impedire che accadesse e ancora non sapevo se ci
sarei riuscito. Io lo avevo creato ed era mia la responsabilità di qualunque
cosa fosse successa. Fortunatamente quella notte non c’era anima viva in giro,
solo due vampiri a caccia di cui uno, era un pericoloso neonato.
“Ora dobbiamo andare verso la foresta, ma tu
trattieni il respiro finché non saremo lontani dalla zona abitata. Se sentissi
odore di sangue umano potresti non riuscire a trattenerti.”
Stranamente Edward non parlava, si limitava a
guardarmi come un allucinato, in modo strano; sembrava confuso e lievemente
spaventato. Dopo diversi minuti non aveva ancora aperto bocca e io iniziavo a
sentirmi inquieto. Non capivo; che fosse andato storto qualcosa durante la trasformazione?
Perché Edward restava in silenzio? Non faceva
domande?
Gli chiesi di seguirmi nel cuore della notte e
veloci come solo due vampiri riescono ad essere, ci spingemmo verso le foreste
al confine col Canada a diversi chilometri di distanza.
Edward era velocissimo: molto più veloce di
me, feci quasi fatica a mantenere il suo passo.
Gli spiegai come fiutare le tracce degli
animali e seguire la loro scia. Si limitava a fare quello che dicevo senza
battere ciglio; sembrava che nulla lo sorprendesse, ma qualcosa nel suo
comportamento non mi quadrava.
Al primo animale seguirono gli altri. Dopo più
di un’ ora passata a cacciare, Edward non aveva ancora proferito parola e io
ero sempre più preoccupato. Perché quel silenzio ostinato?
Forse doveva solo abituarsi alla sua nuova
condizione e sapevo quanto fosse difficoltoso. Ma avevo bisogno di sapere cosa
passava per la mente di Edward.
“C’è qualcosa che vorresti chiedermi? Non hai
domande da fare? Io credo tu sia molto confuso in questo momento. Ti prego, parla;
di qualcosa…”
Esitò un minuto.
“Confuso forse non è la parola esatta che
avrei usato io…”
Finalmente sentivo la sua voce: all’orecchio
umano sarebbe apparsa suadente, al mio era profonda, ma limpida, con un timbro
cristallino e pulito. Venata di incertezza.
“Cosa stai cercando di dirmi?”
“Dottor Cullen…”
“Chiamami Carlisle…”
“Carlisle, tu credi… che un vampiro possa
essere pazzo?”
Per un attimo mi spaventai, ma cercai di
riflettere velocemente sul senso delle sue parole. Forse non riusciva a credere
a quello che gli era capitato. O forse c’era dell’altro.
“Veramente non lo so… suppongo di sì… ma
perché mi fai questa domanda?”
“Tu davvero non senti nulla?”
“Cosa dovrei sentire?”
Continuavo a non capire. Poi la sua
rivelazione inattesa mi lasciò quasi incapace di reagire.
“Carlisle… io riesco a sentire i tuoi
pensieri…in senso letterale. È come… se tu parlassi nella mia testa.”
Era pazzo? Oppure diceva il vero?
Avevo trasformato in vampiro un ragazzo
squilibrato?
Il veleno avrebbe dovuto annullare qualsiasi
forma di isterismo mentale. Avevo già incontrato vampiri con doni particolari;
anche Aro leggeva la mente delle persone, ma per farlo doveva toccarle. Ma tra
me ed Edward non c’era stato nessun contatto fino a quel momento.
Credevo fossero particolarità molto rare.
Eravamo fermi ai margini della foresta, che
era stata teatro della prima caccia di Edward; l’oscurità era attorno a noi e
ci nascondeva, ma non alla nostra vista. La luna in alto si eclissava dietro le
nuvole grigie.
“Tu riesci a leggere nel pensiero? Sai a cosa
sto pensando in questo momento?”
Ero un po’ scettico, dovevo verificare: quando
Edward parlò di nuovo, non dubitai più.
“Io leggo un nome che torna spesso nella tua
mente e che associ al volto di una donna: Esme…”
Restai costernato.
“Tu hai un dono Edward…” La mia voce ridotta a
un sussurro.
Anche Elisabeth aveva intuito o forse
letto nella mia mente ciò che ero? La madre poteva aver trasmesso al figlio
qualche talento particolare che con la trasformazione si era sviluppato in modo
abnorme?
Era una spiegazione possibile.
Quale forma contorta e imprevedibile stavano
prendendo i segni colorati del disegno che doveva raffigurare il mio destino
sulla tela del mondo? Quando aveva iniziato a comporsi?
Un altro tassello di quell’immagine si
concretizzava, ma restava ancora troppo vaga e fumosa.
Ancora non riuscivo a leggerla, ma avevo tutto
il tempo che mi serviva per tentare di decifrarla.
Con Edward al mio fianco, non potevo restare a
vivere in città a contatto con gli uomini, sarebbe stato troppo pericoloso. Lui
avrebbe potuto perdere facilmente il controllo in qualsiasi momento.
Dovevo lasciare il lavoro all’ospedale di
Chicago e mi dispiaceva perché con l’epidemia che c’era in atto, ogni medico
era una risorsa preziosa. Ma fu una decisione inevitabile.
Parlai a Edward di vecchi amici che ci
avrebbero accolto in un momento tanto delicato per lui.
Così dopo una settimana dalla trasformazione,
ci preparammo a lasciare Chicago per stabilirci qualche tempo in Alaska: stava
soffiando il vento che avrebbe spinto le nostre vele fino a Denali.
Continua…
Finalmente ho aggiornato e un
po’ prima del previsto.
A essere sincera avevo qualche
dubbio su questo capitolo e non sono sicura di averlo sviluppato al meglio, ma
non sono riuscita a scriverlo diversamente. Spero che vi piaccia così com’è.
Io ho sempre pensato che la
prima trasformazione che compie Carlisle non sia stata facile da attuare, per
tutta una serie di ragioni: dubbi, sensi di colpa ecc. In più io ho voluto
metterci anche Martin.
Chiaramente per la
trasformazione di Edward mi sono ispirata a New Moon dove Carlisle racconta a
Bella di come ha salvato Edward. Invece le informazioni sulla malattia e i suoi
sintomi le ho recuperate da internet, wikipedia. Come sempre vi ringrazio per
tutta la vostra attenzione, per le preferenze che accordate a questa storia
sotto varie forme, e per le recensioni e suggerimenti che vorrete lasciare. Ninfea
Blu.
In breve, avevo deciso in maniera repentina di
tornare in Alaska.
Era per Edward che lo facevo; era solo un
neonato, posseduto dall’istinto violento e bestiale della sete, unito a un
grosso e ingombrante potere, la lettura del pensiero, che non riusciva
pienamente a gestire e immaginavo quanto fosse difficoltoso per lui abituarsi a
cambiamenti tanto radicali e altrettanto sconvolgenti.
I primi giorni furono i più difficili; avvertivo
tutto il suo tormento e la sua sofferenza per ciò che era diventato. Potevo
capirlo, perché mi ero sentito esattamente come lui. Era in conflitto con se
stesso, nello stesso modo in cui mi ero trovato io, all’inizio della mia vita
da immortale. Anzi, forse anche di più, perché Edward lottava diviso tra la sua
sete di sangue e la volontà di non deludermi. Per molto tempo si è trovato a
metà tra questi due estremi che, in lui, si toccavano. Io, caparbio, ho tentato
di soffocare dall’origine quell’istinto che lo avrebbe spinto a seguire e
soddisfare il demone che possiede ogni vampiro e ancora di più un neonato.
Se almeno all’inizio della sua nuova esistenza,
Edward miracolosamente riuscì a trattenersi dall’uccidere, fu perché rispetto a
me, ebbe un vantaggio: non si trovò mai da solo a sostenere quella prova di
resistenza. Credo che mi sia stato sempre grato di questo.
Per questa ragione, fui e sperai di essere per
lui un sostegno; volevo trasmettergli la forza buona che mi aveva spinto a
superare me stesso, sarei stato il faro che avrebbe potuto seguire per non
perdersi e lasciarsi travolgere dal mare di tenebra contro cui avrebbe dovuto
lottare ancora a lungo, e sapevo quanto quel mare nero potesse essere
spaventoso. La scelta sbagliata che fece, molto tempo dopo, non fu fatta per
apparente debolezza o incapacità; piuttosto, fu accecato dalla presunzione di
poter legittimare le sue azioni per un buon fine, credendo di essere immune al
senso di colpa.
La convivenza tra me ed Edward risultò
immediatamente difficile, e negli anni che seguirono, nonostante tutte le
premesse, gli insegnamenti, i saggi consigli dati con costanza, fu davvero
burrascosa e travagliata. Non fu facile né per lui, né per me. All’inizio, la
rabbia era il sentimento che lo dominava più spesso.
Rabbia verso di me, oltre che
verso se stesso; il suo stato si esprimeva nelle parole a volte feroci e
aggressive, ma dolorose e tormentate che lo lasciavano sempre pieno di rimorso.
Spesso si sentiva debole e lui detestava sentirsi così. Era convinto di non
avere quella stessa forza che aveva aiutato me a resistere e di essere
diventato solo tenebra in cui la luce della speranza si perdeva, scomparendo
inghiottita dall’oscurità.
“Carlisle, io vedo che sei
sincero, sei davvero ammirevole, ma hai troppa fiducia in me… o forse, in te
stesso. Cosa ti fa credere che io sia come te? Perché dovrei seguire il tuo
stile di vita? – mi domandò uno dei primi giorni, prima di partire per L’Alaska
- Quando mi hai trasformato, sapevi cosa sarei diventato… conoscevi il rischio…
ma hai voluto tentare ugualmente…”
“Sì Edward, ero consapevole di quello che stavo
facendo… mi sono posto mille domande prima di farlo… ma lasciarti morire
mi sembrava troppo ingiusto.”
Alternavo le parole ai pensieri sapendo che
poteva sentirmi. Alle mie affermazioni seguivano quasi sempre risposte
d’irritazione mal trattenuta.
“Ingiusto? Perché, questa specie di non vita,
invece è giusta? Sei sicuro che la tua azione fosse solo la conseguenza della
volontà di salvarmi la vita? – Poi scuoteva la testa e la sua voce prendeva una
piega amara e ironica - Salvarmi la vita… per condannarmi a questo… Non è stato
un po’ anche l’egoismo a muoverti, Carlisle?”
Il dubbio di Edward
era legittimo e sentirselo sbattere in faccia in modo così crudo, faceva male,
ma scatenò altre incognite nel mio cuore: in fondo da cosa erano state mosse le
mie azioni? Dal vampiro o dall’uomo che esisteva ancora in me? Anche le azioni
umane possono apparire ambigue, ma le mie potevano esserlo ancora di più.
Per quale vera
ragione avevo trasformato Edward? Per paura della mia solitudine, per egoismo,
per… amore della vita? Altruismo? Come giustificavo quell’azione? Quell’atto
che non avevo mai voluto compiere in precedenza, neppure verso Esme la prima volta
che lo avevo desiderato davvero, forse per paura di commettere un delitto,
risoluto, lo avevo compiuto verso un altro essere umano, un ragazzo di
diciassette anni, giustificando la mia azione con l’attenuante che stava
morendo. Era qualcosa che sarei arrivato a fare comunque, prima o poi, anche
senza il mio incontro con Edward? Oggi so che non è così, e non sarebbe così in
ogni caso; non è mai stato così neanche dopo, con gli altri miei figli, ma in
quel momento non potevo esserne sicuro.
Dal non sapere
nasceva il mio conflitto, e questa inquietudine complicava le cose tra Edward e
me. Stavo cercando di guardarmi dentro e di essere sincero con lui.
“Sei confuso
Carlisle… non lo sai neppure tu?”
“Edward, forse sono
tante le ragioni che mi hanno spinto a fare quello che ho fatto, ma una sola è
quella fondamentale e importante: salvarti la vita e darti un’ altra
possibilità, accettando la sfida che in te esiste ancora quell’anima buona che
ho visto nei tuoi occhi verdi di ragazzo. Questo conflitto che sento e vedo in
te mi dà ragione. Io so che sei forte e che puoi resistere. Io sono convinto
che può esserci qualcosa di meglio per te.”
“Meglio? Questa è la peggior cosa che potesse
capitarmi e lo sai! Hai sbagliato e adesso vorresti correggere quell’errore tentando
di cambiare quello che sono? Tentando di convincermi che io abbia un’anima,
nascosta da qualche parte? Me l’hai tolta quando mi hai trasformato… Sono solo
una belva dominata dalla sete più mostruosa… Caccio gli animali come tu mi dici
di fare e sento che non mi basta, che voglio altro… in me c’è un buco nero e
profondo che potrebbe colmarsi solo in un modo… e tu sai benissimo quale…Dovevi
lasciarmi morire in quel letto d’ospedale… come mio padre… come mia madre, non
ascoltare la sua folle richiesta…”
Nelle sue parole avevo sentito rabbia unita a
triste rammarico. Poi nella notte, era fuggito dall’appartamento per andare a
nascondersi attraverso le strade buie della città e io ero rimasto con la paura
che potesse aggredire qualcuno, e la speranza che non lo facesse.
Benché Edward non volesse deludermi e tentasse
con tutte le forze di adattarsi allo stile di vita che avevo scelto per me e
per lui, il nostro rapporto per lungo tempo fu conflittuale.
Per quanto riuscisse a leggere in me la
sincerità e la convinzione della scelta che avevo fatto, manifestata nella
ricerca estenuante della mia anima e nel tentativo ossessivo di non macchiarla
con delitti indelebili, non riusciva a credere completamente che io potessi
avere ragione. Sapeva e comprendeva il disgusto e il senso di colpa che avevo
nutrito per la mia natura oscura, ma credeva anche che tale natura, almeno per
lui, fosse quella più forte e dominante e che prima o poi essa avrebbe preso il
sopravvento sulla coscienza morale.
Avevo immaginato di dovermi scontrare con
quell’ostacolo e avevo deciso di prepararmi al meglio. Dovevo essere un esempio
per lui.
Edward ancora oggi, crede che siamo esseri che
hanno rinunciato all’anima in cambio dell’immortalità.
Ma se rinunciare significa fare una scelta,
nessuno sceglierebbe volontariamente di diventare un vampiro e questo per
Edward è ancora peggio, perché senza scelta non c’è libertà.
Per Edward non siamo liberi, né di vivere, né di
morire.
Su questo, troppe volte mi sono trovato
d’accordo con lui, ma ho sempre cercato di far capire a mio figlio che anche
noi possiamo scegliere e decidere di essere più grandi di ciò che siamo.
Possiamo lottare per trovare la nostra luce e non rassegnarci a essere dei
mostri. Possiamo essere gli artefici di noi stessi e del nostro destino e
forse, se come credo, anche in noi esiste una minuscola scintilla divina, se
una briciola di anima è rimasta aggrappata alla nostra coscienza, forse su
quella possiamo lavorare, possiamo tentare di costruirla, un pezzetto alla volta,
mattone dopo mattone. Credo di essere riuscito a trasmettere almeno questo ad
Edward.
Pecco un po’ di superbia pensando che molto del
merito del successo ottenuto in tal senso, vada a me come padre.Quel padre che non avrei mai pensato di
poter essere.
A volte indugio col pensiero su
chi sarebbe oggi Edward, se fosse stato un altro vampiro a trasformarlo.
Un vampiro come Aro, o come
Etienne ad esempio; non sarebbe certamente il ragazzo che è, il figlio di cui sono
orgoglioso. Forse sarebbe davvero un mostro senz’anima, una creatura
sanguinaria e spietata…
Allora, rabbrividisco pensando
alla grossa responsabilità che mi sono assunto, ma che non ho mai rinnegato,
neppure una volta…
Poi penso, chissà… il suo spirito
avrebbe trovato il modo di riemergere dal baratro, di seguire la luce di
un'altra strada come aveva fatto Eleazar.
Come in fondo, ho fatto
anch’io.
Il fatto che Edward sentisse i
pensieri di tutti quelli che aveva attorno, non gli rendeva le cose più facili,
anzi, all’inizio creò ulteriori complicazioni. Restare a Chicago, in una grande
città piena di gente, non avrebbe giovato al suo equilibrio psicofisico.
“Vorrei che smettesse questo
continuo bailamme nella mia testa: la mia mente è attraversata dai pensieri più
vili e meschini, quelli che la gente non direbbe mai nemmeno al prete nel
confessionale, idee dalla stupidità presuntuosa e dalle immagini più corrotte.
Da urla, dolore e pianti. Solo il fatto che sono un vampiro mi salva dalla
pazzia. Sto bene solo quando sono isolato in mezzo ai boschi: lì non arriva
alcuna voce. Vorrei che smettessero! Dio, come vorrei che smettessero!!”
Edward si metteva le mani nei
capelli con fare disperato e io non sapevo come aiutarlo. Mi rendevo conto che
era una situazione delicata e da non trascurare. C’era un modo per permettergli
di gestire meglio il suo potere?
Fu così che pensai a Eleazar e
al suo talento, alla sua saggezza. Alla sua amicizia.
Ero certo che avrebbe potuto
aiutare mio figlio.
Partimmo una sera dopo aver
cacciato.
Ci allontanammo dalla città di
Chicago in automobile, una Ford del 1915. [2]
Le auto all’epoca erano beni di
lusso riservati a pochi eletti. Decisamente più lente di quelle moderne, in
realtà ci saremmo mossi più velocemente a piedi, ma era preferibile apparire
come dei viaggiatori normali. Viaggiammo tutta la notte per arrivare al confine
canadese e poi puntare verso l’Alaska. Furono circa un paio di giorni di
viaggio per attraversare tutto il Canada. Ricordo una lunga conversazione con mio
figlio; mi chiedeva notizie del luogo che stavamo per raggiungere, dei vampiri
che lo abitavano. Aveva letto il nome di Eleazar nella mia testa e voleva
saperne di più. La notte scura correva dietro i finestrini dell’auto; Edward
seduto accanto a me, mi ascoltava apparentemente tranquillo.
“Hai profonda fiducia in questo
vampiro, sei convinto che possa aiutarmi…”
“Sì, credo che un confronto con
il mio amico ti possa fare solo bene; è saggio e pieno di esperienza. Anch’io
ho vissuto con lui e la sua famiglia per un po’ appena sono sbarcato in
America…”
“Un giorno mi parlerai della
tua vita prima di venire qui… ogni tanto pensi ad altri luoghi, posti dove hai
vissuto…”
“Un giorno te ne parlerò.
Abbiamo tempo per quello…”
Seguì un momento di silenzio,
come se Edward tentasse di seguire il filo tortuoso dei miei pensieri, che al
momento andava perdendosi nelle spirali del dubbio, in percorsi incerti.
Conoscevo ancora poco il suo potere e non sapevo quanto a fondo riuscisse a
scandagliare la mente che ascoltava.
“Però c’è qualcosa che ti
turba… questa Irina… chi è?” mi chiese all’improvviso.
“Una vampira che vive lì a
Denali…”
Sapevo che era inutile tentare
di nascondergli qualcosa; probabilmente leggeva nella mia mente l’inquietudine
che associavo al ricordo di Irina. Era difficile abituarmi a questa sua
capacità; tentavo di nascondere i miei pensieri camuffandoli dietro ad altre
immagini, ma non sempre ci riuscivo. Non all’inizio della nostra convivenza.
Pensavo che anche in questo,
Eleazar avrebbe potuto aiutarmi.
Ero ansioso per il fatto che
dovevo incontrare Irina e non sapevo come avrebbe reagito rivedendomi.
Ma forse, mi stavo preoccupando
troppo; in fondo erano passati diversi anni e le cose dovevano essere cambiate.
Stavo ragionando su questo, quando Edward si intromise nel flusso dei miei
ricordi.
“L’idea di rivederla ti mette
così in ansia… vi siete lasciati in malo modo… Cosa c’è stato tra voi? – Non mi
diede il tempo di rispondergli - Hai capito tardi che era innamorata di te, ma
tu ritenevi più importante continuare per la tua strada, seguire la tua
vocazione di medico… Non l’avessi mai fatto… caparbio fino all’estremo, già…
mai un’esitazione…”
“Eravamo amici Edward, o così
pensavo io…” Obbiettai con lieve disappunto, alla sua sottile ironia.
Mi pareva di cogliere una
velata disapprovazione nelle sue parole. Continuavo a guidare nella notte,
seguendo la strada che si snodava quasi all’infinito di fronte a noi; attorno,
il paesaggio immutabile e solenne degli alberi scuri faceva da cornice. Il
silenzio fu interrotto da Edward che sospirò fingendosi rassegnato.
“Quanta cieca determinazione!
Credi davvero in quello che fai. E adesso, hai lasciato il lavoro che ami per
seguire un giovane vampiro, e aiutarlo a controllarsi. Mi chiedo se questo
viaggio servirà a qualcosa…”
E mentre lo diceva, scuoteva la
testa e sulle sue labbra nasceva la smorfia sardonica di un sorriso.
“È solo un fatto temporaneo e
non mi pesa minimamente, non preoccuparti per questo. Non è cieca
determinazione, non solo. È stata una scelta meditata e perseguita anche con
fatica…” dissi con convinzione.
“Beh…Tu sei come una roccia
Carlisle, scalfita e battuta dai venti, erosa dalle piogge, ma pur sempre una
roccia. Deciso e ostinato nei tuoi propositi, non ti sei mai piegato a niente e
a nessuno. Io non sono come te… non lo sarò mai… non ho la tua forza… Carlisle,
stai perdendo il tuo tempo con me…”
Era pienamente convinto di ciò
che diceva, come io ero certo che avesse torto.
“Ti sbagli. Perché pensi
questo?”
“Perché mi sento posseduto
dalla bestia che ho dentro. Mi sembra di non avere altro, oltre alla voglia di
sangue; certi pensieri umani scatenano questo mio desiderio ancor di più… non
può esistere l’anima in uno come me. Non ho un obbiettivo più alto. Continuo a
pensare che dovevi lasciarmi morire di spagnola, sarebbe stato meglio… - Quella
restava invariabilmente la sua obbiezione più frequente. - Anche questo
tentativo che stai facendo… ammirevole, ma patetico… Non servirà a farmi
trovare quello che ho perso… io non sono altro che un morto che cammina, va a
caccia, si nutre, non dorme e ascolta pensieri che non vorrebbe sentire.”
Solo e sempre infinita amarezza
nelle sue parole, che io tentavo di mitigare con scarsi risultati.
“Edward credimi:
sono fatto di una sostanza molto più friabile di quanto tu creda. Ho avuto e ho
le tue stesse debolezze; molto spesso ho tentennato, dubitato della mia forza,
creduto di non avere il coraggio di seguire la strada che avevo scelto. Ho
desiderato soddisfare almeno una volta il mio egoismo, l’ho sentito mentre mi
mordeva il cuore muto. Eppure ci sono riuscito… e sono certo che tu stesso
possa riuscirci. Devi solo crederci… Eleazar ti aiuterà…”
“Il tuo egoismo… -
Esitò - Esme… è di lei che stai parlando, vero? Non fai altro che pensare a
quella umana… La volevi, sì… Come un uomo comune vorrebbe una donna. Ma con lei
ti sei fermato; non hai fatto a lei quello che hai fatto a me. Hai rinunciato
alla donna che amavi per permetterle di continuare a vivere… potevi averla
facilmente, ma ti sei sacrificato… non è egoismo questo…” Esclamò convinto.
“Credi che non mi
sia costato Edward? Puoi immaginare quanto io la volessi? Quanto la volesse il
vampiro? – Il pensiero ancora mi faceva male - Non so neppure se è ancora viva.
Ho cercato informazioni su di lei, temendo che si fosse ammalata. All’epoca,
prima dell’epidemia, quando ho capito quello che mi stava succedendo, ho preso
l’unica decisione possibile; non avrei potuto mai condannarla a questo.”
Ma senza volerlo,
dissi la frase sbagliata che accese la miccia.
“Ma hai condannato
me…” Un sibilo che era astio profondo nella voce di mio figlio.
“Ti prego Edward; ti
ho già spiegato perché l’ho fatto, ne abbiamo già parlato. Le circostanze erano
diverse. Non continuiamo a rimarcare la cosa… è inutile e doloroso. ”
“Scusa tanto, ma non
riesco a evitare di pensarci! Per caso ti sei chiesto se lo volevo?”
“Mille volte Edward,
lo sai! Mille volte mi sono chiesto se fosse giusto interferire con l’ordine
naturale delle cose. Nessuno sano di mente, potrebbe voler essere ciò che
siamo, neppure io l’ho voluto, ma Edward… io non volevo lasciarti morire… non
potevo permetterlo…ti prego, sforzati di capire…” [3]
Non riuscii a
ribattere alla sua domanda e addolorato, sentivo e comprendevo il risentimento
di Edward che stava venendo fuori. La sua rabbia si accese, divenendo quasi
incontenibile.
“Non capisco,
invece! Quante volte hai pensato tu stesso che sarebbe stato preferibile morire
che essere ciò che sei? Non ti sembra contraddittorio? Perché tra tutti quelli
che hai incontrato nel corso dei secoli, hai scelto me, maledizione! Spiegami
questo Carlisle!!”
Nella notte che ci
accompagnava potevo vedere il rosso dei suoi occhi che fiammeggiava irruento,
le sue mani che si stringevano sulle ginocchia come per trattenersi. In un moto
di rabbia avrebbe potuto distruggere il mezzo su cui viaggiavamo.
Cosa potevo dirgli?
Potevo dare la colpa al destino, quel disegno strano che stava prendendo forma,
impostando le nostre vite?
C’era una ragione se
avevo scelto lui, una ragione più alta, o forse solo il caso più sfortunato lo
aveva messo sulla mia strada? Non sapevo trovare una risposta, una logica a
tutto quello che era accaduto. Forse non esisteva un motivo preciso e ciò non
mi faceva sentire meglio. Forse, io e lui, eravamo solo inutili pedine su una scacchiera
impazzita, marionette in balia della sorte oscura che tirava i fili. Stavo
sinceramente male per entrambi e lui lo sentiva.
Perché nonostante
tutto il suo risentimento iniziale, Edward non era cattivo o vendicativo. Era
solo molto confuso, amareggiato, e forse spaventato dall’immensità di ciò che
si apriva davanti a lui.
“Mi dispiace…”
Chinai il capo non riuscendo a dire altro.
“Scusami, Calisle…
so che per te non è stato facile. Non volevo infierire. È che mi sembra tutto
così difficile. Non so se potrò mai accettare tutto questo. Mi sembra di avere
davanti una montagna dalla cima inviolabile. Eppure non ho scelta, non posso
fare nulla tranne che rassegnarmi.”
“Io posso solo dirti
che non ti lascerò solo, ma molto dipenderà da te, dalla tua volontà.”
Ed era vero.
Edward attese qualche
minuto lasciando sbollire la rabbia, prima di riprendere a parlare con più
calma.
“Anche lei ti amava;
come è triste e assurda la nostra condizione. Condannati a un’esistenza
solitaria, anche i sentimenti ci sono preclusi, perché non siamo nella posizione
di poter amare e accettare l’amore così come arriva. Perché è pericoloso
legarci agli umani… lo hai scoperto tu stesso.” Fu il suo ultimo commento
amaro.
Anche questo era
vero; era stato pericoloso legarmi a Esme, lo avevo compreso col cuore e con i sensi.
E come è strano che
dopo tutto questo tempo, quando ormai non ci speravo più, anche Edward se ne
sia accorto, eppure ora non trovi la forza di evitarlo, per quanto ne sia
consapevole. E devo ammettere che sono contento che per quanto lui tenti di opporsi,
non riesca a farlo.
Arrivammo in
prossimità del confine con l’Alaska diverse ore dopo a giorno inoltrato. Il
sole brillava alto nel cielo e faceva baluginare la nostra pelle bianca come gesso.
Senza farci notare, lasciammo l’auto in una località a pochi chilometri dal
confine e proseguimmo a piedi, verso Anchorage, correndo attraverso le foreste
di conifere, muovendoci molto più velocemente che in auto. Eleazar sapeva che
stavamo arrivando perché gli avevo mandato un messaggio presso una casella
postale, prima della nostra partenza da Chicago.
Fu questione di
poche ore e arrivammo in prossimità dell’abitazione di Eleazar e Carmen che si
trovava vari chilometri fuori dalla cittadina, sempre isolata rispetto agli
insediamenti umani, immersa nel verde della campagna all’estremità della
foresta. L’abitazione era stata ristrutturata completamente e ora aveva
l’aspetto di una casa d’inizio secolo. La casa bianca col tetto rosso mattone,
piazzata contro il sipario verde scuro degli alberi, nel suo complesso,
nell’aspetto oggi ricorderebbe un quadro del pittore americano Edward Hopper.
I miei due amici ci
accolsero nella loro casa con calore sincero. Erano davvero felici di
rivedermi.
Anche Kate e Tanya
erano venute ad accoglierci, solo Irina era assente e la cosa mi procurò una
leggera ansia. Edward probabilmente lo sentì, ma non fece alcun cenno alla
cosa, troppo occupato a sondare le menti dei vampiri presenti. Dalla sua
espressione capii che fu positivamente colpito dai miei amici.
Presentai loro
Edward; restarono impressionati dal suo aspetto, soprattutto Tanya.
Ne fu affascinata e
non fece nulla per nasconderlo.
Eleazar si avvicinò
per accoglierlo, senza preoccuparsi del fatto che fosse un neonato.
“Piacere di
conoscerti. Hai un potere davvero speciale, Edward. Notevole.” Disse Eleazar
rivolgendosi a lui, con calma e tranquillità. Mio figlio gli rispose con la
stessa pacatezza.
“Il piacere è mio… e
anche tu hai un potere davvero impressionante. Carlisle dice che potresti
aiutarmi ad affinare il mio.”
“Sì, credo di
poterlo fare. So anche che come tutti i neonati, ora hai un problema più
pressante. Qui però non troverai tentazioni; viviamo piuttosto isolati dagli
umani.”
“È per questo che
siamo venuti fin quassù…”
Fu interessante
vedere come questi due vampiri si studiassero; Edward scrutava la mente di
Eleazar e il mio amico si lasciava studiare senza scomporsi minimamente.
Probabilmente si
capirono al volo e dopo si rilassarono, sicuri uno dell’altro. Poi Tanya si
fece avanti con la consueta spavalderia, cercando di attirare l’attenzione di
mio figlio.
“Ciao Edward. Io
sono Tanya. Spero che diventeremo ottimi amici. Carlisle ti avrà parlato di
me…”
“Carlisle mi ha parlato di tutti voi…”
“Allora sai già
tutto… - poi aggiunse maliziosa – è vero: non si possono avere segreti per te… Sei
davvero un gran bel ragazzo... anzi, sei disumanamente bello, come solo un
vampiro potrebbe essere. Dio, non credo di poter resistere a tanto superbo
fascino…”
“So quanto c’è da
sapere, Tanya.”Rispose laconico mio figlio.
Lei poi si rivolse a
me, senza nascondermi il suo palese interessamento nei confronti di Edward.
“Carlisle, ti dovrei
ringraziare per averlo trasformato…è una meraviglia!”
Sorrise in un modo
che un comune mortale si sarebbe sciolto al suo cospetto. Ma Edward parve
infastidito.
Io potevo solo
intuire i pensieri della bella vampira, ma per Edward dovevano essere molto
chiari e inequivocabili. Conoscevo Tanya, e sapevo che poteva risultare fin
troppo disinibita, ma forse non avrebbe dovuto esserlo con un vampiro tanto
giovane, capace di leggere nel pensiero, oltre che di reazioni inconsulte.
Allora Eleazar
intervenne per sbloccare la situazione.
“Tanya, non essere
sfacciata. Col tuo permesso Carlisle, io vorrei parlare subito con Edward del
suo potere, di come esso funziona.”
“Certo Eleazar,
siamo qui per questo ed è meglio affrontare subito la questione.”
In quel momento
arrivò anche Irina; rivederla mi turbò più di quanto avrei potuto credere, ma cercai
di mantenere l’atteggiamento più naturale possibile. Era entrata nella sala
dove eravamo tutti riuniti, quasi senza palesare la sua presenza, ma pochi
secondi prima, uno sguardo di Edward mi aveva suggerito che la vampira stava
per fare il suo ingresso in casa.
Carmen si apprestò a
fare le consuete presentazioni, ma Tanya non seppe trattenere il consueto
entusiasmo.
“Sì, Irina, vieni a
conoscere il nostro affascinante Edward. Cerca di non pensare a cose troppo intime,
perché le vedrebbe subito!! Oppure pensaci se vuoi che le sappia!!” Rise
divertita.
Irina guardò Edward
e notai che anche lei restò colpita, ma seppe mantenere un atteggiamento più
discreto rispetto alla sorella. Lo salutò cortesemente, prima di rivolgermi la
sua attenzione. Il mio respiro si bloccò un istante quando i nostri occhi si
studiarono insistentemente per alcuni secondi; una sfida a chi avrebbe
abbassato i suoi occhi per primo. Né io, né lei rinunciammo, seppure alla fine,
con un certo stupore, vidi lo sguardo di Irina addolcirsi.
“Carlisle, sono
davvero contenta di rivederti… Ne è passato di tempo, ero certa che ti avrei
rivisto, prima o poi…”
La sentii dire, e
capii senza ombra di dubbio che era sincera e mi sentii rincuorato. Non c’era alcuna
traccia di risentimento nel tono della sua voce. Al ricordo di come ci eravamo
lasciati, nell’immediato, provai autentico sollievo.
“Anch’io Irina, sono
felice di rivederti… mi sembri serena…”
“Lo sono.” Ammise
quasi abbassando il capo.
Più tardi Edward mi
confermò che era così.
“Ti ha perdonato… In
realtà ha capito che non c’erano torti da perdonare. Adesso riesce a pensare a
te in modo diverso… è diventata più obiettiva.”
“Hai letto tutto
questo nella sua mente?” Non riuscii a nascondere una velata apprensione nella
mia voce.
“Certo. Se vuoi
saperlo, le è costato un certo sforzo, ma ci è riuscita… però, si è chiesta se
in circostanze normali, senza un pretesto, ti saresti mai ripresentato qui.”
“Oh, davvero…”
Ma era un altro
l’argomento che mi premeva affrontare con mio figlio e non volevo concentrarmi
troppo su Irina e scordare la mia priorità. Nei giorni a venire, avrei avuto
modo di parlare con lei e chiarire eventualmente ogni cosa. Senza drammi per
nessuno.
“Bene Edward, come
ti sei trovato con Eleazar? Io credo che ti abbia suggerito ottimi consigli.”
“Non posso negarlo,
e credo che mi sarà di grande aiuto confrontarmi con lui e con la sua
esperienza.”
Naturalmente ero
stato testimone di quel primo confronto ed era stato oltremodo interessante.
Eleazar aveva potuto valutare la portata del potere di Edward, e in una certa
misura, era rimasto impressionato. Eravamo da soli, seduti nella ampia sala,
Carmen e le altre vampire erano nella stanza accanto e Eleazar aveva iniziato a
fare le suedomande a mio figlio.
“Dimmi, in che
misura senti i nostri pensieri? Quali ti arrivano per primi?”
“Possono arrivare quasi tutti insieme, se pensate tutti
contemporaneamente. I vostri li sento molto chiaramente, in maniera nitida,
perché siete vicini, ma sento anche quelli di chi non è presente in questo
momento, quelli di Tanya e le altre. Li posso sentire anche da notevoli
distanze; mi investono come un’ ondata e allora non sempre riesco a capirne la
provenienza. Sono confusi, come un rumore fastidioso, un ronzio continuo che
non mi permette di concentrarmi su un dettaglio che mi interessa. A volte,
nella mia testa, mi sembra di avere una specie di babele di suoni, voci
concitate che si mischiano in un caos senza fine. Non so come farli smettere.
Poi ci sono le immagini… quelle, forse, sono ancora più aggressive e
invadenti.”
“Vedi anche le
immagini? Sorprendente. Bene, mi pare di capire il fulcro del problema.
Rassegnati, perché non potrai mai farle smettere, non puoi soffocare il tuo
dono, puoi semmai, perfezionarlo…”
“Allora perché mi
trovo qui?”
“Per imparare a
gestire il tuo potere ed usarlo al meglio. Da quello che mi dici, al momento,
tu non riesci ad attivare un filtro che ti permetta di selezionare solo
i pensieri che ti interessano, ma credo che con una buona pratica potresti
riuscirci. Devi provare a concentrarti su una mente per volta ed escludere le
altre. È tutta una questione di concentrazione; punta la tua attenzione sui
pensieri di un singolo individuo. Potremmo iniziare con quelli più vicini a te e
poi, quando avrai capito il meccanismo,tentare con quelli più lontani. In breve dovresti riuscire a
scandagliare una mente che ti interessa e a escludere le altre momentaneamente.
Io direi di provare, ora. Punta la tua attenzione su di me e cerca di escludere
la mente di Carlisle.” Suggerì Eleazar, indicandomi.
Io assistevo a tutto
l’esperimento col massimo dell’interesse.
“Bene Edward, cerca di
sentire solo i miei pensieri, isolali da tutto il resto… Come se in
questa stanza, in questa casa ci fossimo solo io e te. Come se Irina, Tanya e
le altre non fossero nella stanza accanto. Escludi
qualsiasi pensiero che non sia il mio.”
Devo averti a qualsiasi costo… guardarti senza toccarti è
una tortura per i miei sensi…
“Sarebbe più facile se
Tanya smettesse di pensare alle sue fantasie su di me. Quella vampira non ha
nessun freno.”
“Concentrati, Edward. Non
ho detto che sarebbe stato facile. Concentrati su di me ed escludi Tanya.”
Ribadì di nuovo Eleazar. L’allenamento di mio figlio era appena cominciato.
Come aveva detto il mio
amico, non fu semplice; costò anche fatica e qualche fallimento iniziale che
esasperò Edward; ci vollero diversi mesi per perfezionare il suo talento, ma
con impegno, costanza e una buona dose di testardaggine condita da irritazione,
grazie all’esperienza e alle capacità maieutiche di Eleazar, mio figlio riuscì
a sviluppare con maggior efficacia il suo potere e a controllarlo meglio. Le
sue attitudini erano notevoli e imparava davvero in fretta, quando non si
lasciava prendere dal nervosismo.
“Tanya, smettila di distrarmi.
Maledizione!! Sto cercando di concentrarmi… e così, non ci riesco… Non posso
fallire.” Ruggiva esasperato all’indirizzo della vampira, che si divertiva a
provocarlo un po’ per giocoe un po’
per sfida. Eleazar allora diventava indulgente, ma serio.
“Tanya se vuoi essere
utile, sei la benvenuta, altrimenti lasciaci lavorare.”
Edward aveva tutta
l’eternità davanti a sé per imparare a convivere con quel dono ingombrante, ma
che negli anni si sarebbe rivelato utile in svariate occasioni per noi Cullen.
Mio figlio, nel tempo, sarebbe diventato una sorta di sentinella, un campanello
d’allarme per sondare il dubbio nelle menti umane.
Restammo per oltre un
anno a Denali.
Come era già successo con
me in precedenza, Edward instaurò un buon rapporto con i vari membri del
gruppo.
Si fidava ciecamente di
Eleazar e del suo giudizio, e arrivò a provare sincero affetto anche nei
confronti di Carmen che fu sempre molto comprensiva con lui e la sua
inquietudine. Diventò una specie di sorella maggiore molto saggia. Andava
d’accordo con Irina e Kate, cacciava con loro e le sorelle lo aiutavano quando
doveva applicarsi ad affinare il suo talento. Con Tanya in particolare, nacque
anche una bella amicizia, che non divenne mai quel legame che la conturbante
amica avrebbe sperato, io un po’ meno forse. Non perché non mi piacesse Tanya, ma
per un motivo più egoistico: non volevo trovarmi di nuovo solo.
La bella vampira
s’invaghì di mio figlio e nonostante tutta la sua esuberante, estrema voglia di
vivere, non riuscì a contagiarlo né a farlo capitolare.
E forse, in una certa
misura, la fece anche sentire un po’ insicura, fatto sorprendente per una
vampira con le qualità di Tanya. Era la femminilità incarnata, la sensualità
più accesa e dirompente, ma di fronte a Edward era come se la sua personalità
soccombesse. Da tigre, si trasformava in un gattino quasi timido. Forse era solo
una tattica diversa, perché aveva capito che con lui, le armi di conquista
consuete non erano efficaci.
Eleazar stesso ne fu
molto sorpreso.
“Tanya, è senz’altro
molto presa da Edward, eppure sembra che le manchi il coraggio di farsi avanti
come farebbe abitualmente.”
“Edward continua frenare
i suoi slanci. Dice che non vuole illuderla. Può darsi che per lei, essere
respinta sia qualcosa di nuovo… il coinvolgimento l’ha spiazzata tanto, che non
riesce a gestirlo nella maniera solita.” Osservai.
“Sì, credo che tu abbia
ragione, Carlisle. Non è da lei in effetti, trovare chi le oppone resistenza.”
Una volta lo portò con sé
ad Anchorage.
Kate si era unita a loro,
per aiutarla se ci fosse stata qualche difficoltà.
A Tanya piaceva
mischiarsi con gli umani, e del clan, lei era quella che aveva meno difficoltà
a farlo. Io però sapevo che Edward, non possedeva ancora l’autocontrollo
necessario e l’idea che girasse in mezzo agli uomini, non mi lasciò tranquillo.
Mi parve una mossa un po’ troppo azzardata, ma lei non si lasciò impressionare
dalle mie obbiezioni.
“Io non credo sia il caso
Tanya… Edward è pur sempre un neonato…”
“Carlisle, stai
tranquillo. Sei troppo apprensivo verso Edward; lasciagli un po’ di corda. Io
sarò con lui e non gli permetterò di fare stupidaggini. Se deve imparare a
resistere al sangue umano, deve pur cominciare a sopportarne l’odore, no? Saprò
distrarlo quanto basta.”
Così lo trascinò con sé
attraverso la città, per le strade a contatto ravvicinato con gli uomini,
ignari del pericolo che camminava loro accanto; più tardi, avrei scoperto nel
dettaglio, quanto quell’esperienza risultò difficoltosa per Edward e
mortalmente pericolosa.
Lei lo aveva obbligato a
camminare per strada come un ragazzo normale, una cosa apparentemente facile,
ma non se sei un vampiro assetato, e non se gli odori che arrivano alle tue
narici sono assolutamente invitanti e dissetanti. Edward aveva dovuto fare non
pochi sforzi per dominare il suo istinto ancora troppo acceso; era andato a
caccia, eppure, non si sentiva forte. Ma detestava l’idea di fuggire e tornare
indietro nella foresta.
E allora, resisteva. In
agonia.
“Rilassati Edward, sei
troppo nervoso…”
“Facile per te… tu sei
abituata… - sibilò tra i denti – Ma voi fate spesso queste cose? Vi piace
correre il rischio?”
Edward camminava per
strada trattenendo il respiro, tutte le volte che un umano si avvicinava troppo
e il veleno gli bagnava le labbra.
“Abbastanza a dire il
vero, e io faccio anche di peggio. È il rischio che rende tutto più eccitante…”
E l’allusione fu
accompagnata da scene fin troppo esplicite, di Tanya che faceva sesso con un
comune mortale.
“Ti prego Tanya, vorrei
che tu non mi mettessi a parte delle tue conquiste erotiche. Non servirà a
farmi cedere alle tue lusinghe. È già difficile così, con quest’odore
stuzzicante che mi fa bruciare la gola…”
Kate intervenne.
“Tanya, smettila di
provocare Edward. Perché devi essere così infantile? Siamo in mezzo agli umani.
Se perdesse il controllo?”
La vampira sbuffò
lievemente infastidita.
“Grazie Kate… per fortuna
ci sei tu che hai un po’ di buon senso. – poi si rivolse nuovamente a Tanya -
Sei una cara e buona amica, renditene conto. Non voglio illuderti.”
“Edward, sei un vero
cavaliere, ma non ho mai detto che dovremmo fare sul serio…”
“Sei davvero
incorreggibile, lo sai?” Edward sorrideva un po’ forzatamente senza scomporsi;
nel tono una mesta rassegnazione di fronte alla testardaggine dell’amica, che
alla fine sospirava vinta.
“Scusami Edward, cercherò
di pensare ad altro, va bene? Sei davvero impietoso… Non ho ancora imparato a
censurare i miei pensieri in tua presenza. Comunque per me non è un problema,
il fatto che tu legga la mia mente.”
“Parliamo d’altro, va
bene? Ho bisogno di farti alcune domande…”
“Come vuoi…”
Continuavano a camminare
per la strada della cittadina, che per fortuna, nel 1918 non era densamente
popolata. Ogni tanto incrociavano qualche sporadico passante; fosse una donna,
oppure un uomo, chiunque restava affascinato dall’insolita avvenenza del trio
che si trovava a incrociare.
Era una situazione strana
per mio figlio; doveva sforzarsi di comportarsi come un ragazzo normale. Ma per
motivi pratici, legati all’autocontrollo, era incuriosito dal fatto che Tanya
riuscisse ad avere rapporti intimi con le sue potenziali prede.
“Come fai ad andare con
gli umani? Resistere al sangue va bene, ma avere rapporti sessuali con loro… mi
sembra troppo difficile. Come fai a dosare la tua forza? A non fare loro del
male? Come ci riesci?”
“Me lo chiedi perché hai
intenzione di provare a sedurre un’ umana?” Chiese Tanya, con ironica,
malcelata malizia.
“No, assolutamente! Non
penso neppure che potrei riuscirci. In questo momento, le mie pulsioni sessuali
sono l’ultimo dei miei problemi. In realtà, vorrei capire dove trovi tutto
questo eccezionale autocontrollo, quando io avrei solo voglia di affondare i
denti nella loro giugulare.”
“Non è stato facile
all’inizio; c’è stato qualche piccolo problema di… compatibilità fisica. Ma con
la pratica e l’esperienza… beh, si arriva a tutto. Ora sono diventata davvero
brava, e scusa l’immodestia… i miei amanti non si lamentano e io sono molto
soddisfatta dei miei successi. E la tua pratica Edward? Come sta andando? Come
vanno le lezioni con Eleazar?”
“Oh, sto facendo rapidi
progressi. Eleazar dice che miglioro giorno per giorno. Riesco a filtrare i
pensieri e a escludere quelli che non mi interessano, e quando non voglio
ascoltarli, riesco a chiudere la mia mente. È solo la sete di sangue che non
migliora… essere qui è pericoloso…”
“Per quella ci vuole
tempo. Non è una cosa che si può controllare in due giorni e tu sei ancora
troppo giovane. Sei un neonato, non dimenticarlo… non puoi pretendere molto da
te stesso.”
“A volte mi chiedo come
abbia fatto Carlisle, a resistere così…” mio figlio si era messo le mani nelle
tasche e continuava a camminare al fianco delle due vampire che lo tenevano
d’occhio. Fino a quel momento aveva dimostrato una discreta padronanza di sé.
“Carlisle è fuori
dall’ordinario, lo pensiamo tutti. Potrà essere un’ ottima guida per te, se
glielo permetterai… Sei in conflitto con lui, vero?”
“Sì, cerca sempre di
soffocare il mio istinto, di negare quello che sono…”
Tanya smise di scherzare
e divenne seria.
“Ascolta Edward, chiunque
di noi potrebbe dirtelo; se tu cedessi al desiderio della sete e diventassi un
assassino, dopo dovresti fare i conti con la tua coscienza. Il senso di colpa
può essere un peso enorme e insostenibile anche per un vampiro, anzi, lo
sarebbe ancora di più, perché ci dovresti convivere per l’eternità. Sei proprio
sicuro di volerlo?”
Kate, che fino a quel
momento aveva ascoltato ogni cosa in silenzio, intervenne di nuovo.
“Questa volta mi sento di
dare ragione a Tanya. Ci siamo passati tutti e sappiamo cosa vuol dire.”
Edward obbiettò.
“Ho già parlato di questo
argomento con Eleazar, e lui mi ha detto le stesse cose… Ma non si può basare
la propria esistenza sulle esperienze degli altri, no? Dovrei trovare la mia
strada da solo… perché dovrei cercare di essere quello che non sono? Dovrei
illudermi di avere ancora un’anima? Io non potrò mai essere come Carlisle… Lui
ha fatto la scelta più estrema e coraggiosa. Il suo spirito è così… indomabile…
invincibile. Io invece…- esitò, quasi non riuscisse a trovare una definizione
adeguata alla nausea che aveva di sè - Cosa siamo se non dei mostri, errori
partoriti da una natura contorta? Se gli occhi fossero davvero lo specchio
dell’anima, le nostre iridi iniettate di sangue, tradirebbero il riflesso della
nostra. Che scopo potremmo avere, oltre quello di uccidere?”
Queste domande dovresti farle a Carlisle… era il pensiero comune delle due sorelle.
“So già cosa mi
risponderebbe…” Fu la sua risposta a quel pensiero.
Ma all’improvviso, Edward
si bloccò come paralizzato; gli occhi di brace nascosti dietro a lenti scure,
divennero vitrei, fissi e allucinati come quelli di un pazzo furioso. Si era arrestato
davanti all’ingresso di un bar. Dal suo interno, aveva sentito provenire i
pensieri di uno sconosciuto. Prima che Tanya e Kate potessero bloccare ogni sua
iniziativa, era già piombato come un fulmine verso l’ingresso. Per fortuna non
c’erano testimoni in giro. Riuscirono a fermarlo velocemente, prima che potesse
entrare nel locale e lo trascinarono via a forza. Se non fossero state in due,
non sarebbero riuscite a tenerlo, perché Edward smaniava come un ossesso,
scopriva i denti emettendo ringhi bassi che mettevano i brividi, posseduto
dalla furia impellente di avventarsi su quell’uomo per ucciderlo.
“Edward, che ti è preso?
- Chiese Kate allarmata. – Calmati, non possiamo dare spettacolo qui.”
Le sorelle lo spinsero in
un vicolo adiacente alla strada, sulla parte opposta all’ingresso del bar.
Nello stesso momento, l’
uomo basso e tarchiato uscì dal locale: pareva ubriaco. Barcollava leggermente,
ma aveva forza sufficiente a reggersi in piedi. I suoi pensieri nefasti e
terrificanti, arrivarono come scosse violente alla mente di mio figlio. Gli
sembrò quasi di vedere la scena da come quella mente perversa la descriveva.
Le taglio la gola da parte a parte… prima la prendo a
pugni e dopo la sgozzo come un vitello al mattatoio. Voglio vedere il suo sangue
colare sulle pareti della stanza… così impara, quella femmina schifosa…
“Vuoi spiegarci per
favore, perché ti comporti come un indemoniato?”
Tanya ancora stava
lottando per trattenerlo, aiutata da Kate. La rabbia non sembrava volerlo
abbandonare e strattonava violentemente le due vampire nel tentativo di
liberarsi. Ma la loro presa era ferrea, avevano tutta l’intenzione di
trattenerlo ad ogni costo.
“Quell’uomo è un
assassino… vuole uccidere una donna…”
“Non tocca a te
fermarlo!” Intervenne con decisione Tanya.
“Dovrei staccare la testa
a morsi a quell’individuo…” La voce di Edward era ridotta a un sibilo furente.
“Ammetto che la
tentazione potrebbe sfiorare anche me, ma…”
“Tanya!! Ma che dici!?
Non peggiorare le cose… è meglio tornare a casa dagli altri. Non è stata una
buona idea venire qui.” Accusò la sorella.
Piano, Edward cercava di
riprendere a respirare normalmente, più per recuperare il controllo che per
reale necessità. Molto lentamente, con fatica, sarebbe tornato in sé.
Quando tornarono a casa,
io capii che era accaduto qualcosa; mio figlio era nervoso e arrabbiato, forse
per l’impulso che aveva avuto. Sbuffava come un mantice e non riusciva a
restare immobile più di due secondi. Kate mi raccontò tutto senza trascurare
nessun dettaglio.
Eleazar, Carmen e anche
Irina erano presenti; non diedero segno di scomporsi. Ma meditarono sicuramente
sull’accaduto.
Io dovevo essere
piuttosto teso, mentre capivo che si era sfiorata la tragedia e per puro caso,
era stato evitato il peggio. Avevo messo in conto i rischi e le conseguenze,
quando avevo trasformato Edward; da folle, avevo sperato per assurdo, che tutto
potesse risolversi nella maniera più lineare e semplice, ma adesso i problemi
più ostici si stavano presentando e dovevo affrontarli. Ma non ero certo di possedere
gli strumenti adeguati per poterli risolvere, anzi, forse avrei fatto a bene a
pensare all’evenienza peggiore fra tutte; la vicenda in città che aveva
coinvolto mio figlio, mi faceva credere che fosse una possibilità realmente
concreta.
Se il problema minore
della lettura del pensiero era stato risolto, la sete di Edward restava ancora
la questione più opprimente, dolorosa e potenzialmente pericolosa.
E chissà per quanto
ancora lo sarebbe stata.
Più io cercavo di inibire
in lui l’istinto del predatore di uomini, più quel suo lato sembrava emergere
prepotente, come se reclamasse il suo spazio.
Questo generava i nostri
attriti.
Anche lontano dagli
umani, Edward continuava a desiderare il loro sangue e non poter soddisfare il
suo appetito lo frustrava.
Quando tentai di parlare
con Edward per calmarlo, consigliarlo e avere maggiori informazioni da lui, la
discussione scoppiò violenta e divampò come un incendio nella foresta, davanti
ai miei amici che si ritrovarono a dover assistere al nostro alterco. Compresero
la tensione del momento, ma non interferirono.
Nessuno tentò di calmare
Edward o di farlo ragionare.
“Credi che io possa
imparare a controllare la mia sete, come controllo il mio potere di leggere la
mente? È proprio perché posso leggere certi pensieri umani, che mi viene voglia
di uccidere!! Certi individui non meriterebbero neanche di vivere… Come quel
tizio giù in città; tu non hai sentito quanto fosse abbietta la sua mente.”
“Non puoi ergerti a loro
giudice, Edward. Per quanto possano essere meschini, o malvagi nelle loro
azioni, non puoi diventare l’arbitro del loro destino. Devi sforzarti di non aggiungere
un ulteriore fardello a quello che già porti. Non lasciarti trascinare
nell’abisso… non devi per forza diventare un assassino, puoi essere migliore di
ciò che sei… puoi scegliere cosa essere… devi sforzarti di ricordarlo sempre,
soprattutto quando ti senti sopraffare dell’istinto, hai capito figliolo?”
“Non sono tuo figlio!! –
Urlò. - E non ho scelta! Sono soltanto un mostro generato da qualcuno un po’
meno mostro di me!”
Ero ammutolito e anche
tutti i presenti.
Pochi secondi, e Edward si
era dileguato all’esterno, sul retro della casa.
Una frase più dura e
cattiva non avrebbe mai potuto dirla; mi aveva ferito e amareggiato
indicibilmente, ma sapevo anche chetutto quel risentimento era più verso sé stesso che verso di me. Ma
nuove e diverse riflessioni si agitarono nel mio animo.
Ipotizzai che quella
fosse la reazione a tutto l’orrore che Edward aveva di sé medesimo. Un orrore
con cui si era appena scontrato; forse, nel pensiero di quell’uomo, mio figlio
aveva visto il volto reale di sé stesso. Forse di quell’immagine Edward aveva
paura. Forse era per quello che aveva tentato di distruggerla.
La paura non è uno dei
motori che muove il mondo?
Gli uomini non hanno
forse paura della loro parte oscura? Non cercano di distruggere ciò da cui si
sentono minacciati?
Ecco, di nuovo, ritrovavo
nella natura di un vampiro, inquietudini troppo vicine o simili a quelle umane.
La paura di un vampiro,
quando esiste, può essere elevata alla massima potenza, e io per primo, sapevo
cosa volesse dire affrontare il terrore di guardarsi dentro.
Ero lì, immobile e
avvilito, incapace di aiutare Edward nel modo giusto. Eleazar mi guardava
rassegnato.
Non sapevo bene che fare
per ricucire quello strappo ma, come era già accaduto in precedenza, Carmen
fece l’unica cosa che mi mancò il coraggio di fare.
“Non temere, Carlisle.
Vado a parlarci io. Mi darà ascolto.” Non dubitava del suo ascendente su mio
figlio.
Carmen lo avvicinò sul
retro, all’esterno della casa.
Edward si era isolato da
tutti gli altri per restare solo e lei ne approfittò per parlargli. Lui la
sentì arrivare e la precedette.
“So cosa stai per dirmi,
Carmen…”
“Tanto meglio. Dubiti
delle ragioni di Carlisle, o dubiti di te stesso, Edward?”
“Mi dispiace… Ho fiducia
in Carlisle, so che è sincero. Conosco perfettamente i suoi pensieri. Ma credo
che su una cosa si sbagli…”
Si sbaglia su di te… è questo che credi?
“Esatto… Si sbaglia. Lui
ha sempre avuto uno scopo…da lì ha
preso la sua forza… io No. Io non ho un traguardo da raggiungere.”
La rabbia era sciamata;
ora c’era tristezza nel tono di voce di Edward.
“Io mi fido di Carlisle e
del suo giudizio. Lui ha visto qualcosa in te, e se lui lo ha visto, allora
vuol dire che esiste. Ma sono anche certa che se tu dovessi commettere degli
errori, lui non farà nulla per fermarti; ti lascerà sbagliare, ti lascerà
andare per la tua strada, anche se questo dovesse ferirlo… perché Carlisle sa
perfettamente che ognuno di noi deve fare il suo percorso. Se cadrai, dovrai
rialzarti da solo, ma anche le cadute faranno parte del tuo pezzo di strada, ma
lui ci sarà per incoraggiarti. Il traguardo sta a noi cercarlo e trovarlo
Edward… quel senso delle cose che è diverso per ciascuno di noi.”
“È bello quello che dici,
Carmen… ma io, davvero non lo so, se questo vale anche per i vampiri. Vorrei
poterlo credere…”
“Lascia che lui possa
guidarti, Edward. Devi credere in lui… fidati. Ha saputo resistere non solo al
sangue…”
Sono quasi certo che
quelle parole abbiano lasciato il segno sulla coscienza di mio figlio. Credo
che non le abbia mai dimenticate.
Le discussioni che avevo
con Edward oltre a ferirmi, mi lasciavano sempre confuso; avevo molte
incertezze sul mio comportamento verso di lui.
Sapevo che l’atto della
trasformazione avrebbe presentato le sue conseguenze, oltre che nell’immediato,
anche attraverso il tempo, e di fronte all’ostilità manifesta di Edward, era
inevitabile chiedermi se avessi commesso uno sbaglio irreparabile.
Se Edward, un giorno,
avesse ceduto alla sete del demone che dimorava in lui, avrei dovuto accettarlo
e convivere col peso di quella responsabilità per sempre.
Pensai spesso a questo
fatto mentre ero a Denali. Naturalmente, condivisi i miei timori con Eleazar.
Egli non mi lasciò solo a
perdermi nelle mie riflessioni che comunque, non mi avrebbero portato da nessuna
parte in tempi brevi.
“Carlisle, capisco che tu
ti senta responsabile per le possibili azioni di Edward, ma non potrai evitare
che tuo figlio faccia le sue scelte. Devi mettere in conto che potrebbero non
piacerti.”
Avevo bisogno di qualche
conferma e solo Eleazar poteva darmele. Sospirai.
“Amico mio, dimmi: credi
che venire qui, sia servito a qualcosa?”
“Che cosa ti aspettavi da
questa esperienza? Che Edward rinunciasse al sangue così facilmente?”
“Speravo che il suo
confronto con voi, servisse a fargli capire la verità. Pensavo che sarebbe
bastata la vostra testimonianza a dissuaderlo dal seguire la sua natura. Non so
cosa fare di più…”
“Tu hai già fatto tanto.
Hai fatto quello che ti sembrava giusto. Da parte mia, posso dire di aver fatto
tutto ciò che potevo fare con lui. L’ho aiutato a perfezionare il suo potere, a
ottenere il massimo da sé stesso… ma per il resto, tutto dipenderà da lui e
questo lo sai anche tu.”
“Forse ho sbagliato
Eleazar… forse Edward ha sempre avuto ragione; non avrei mai dovuto trasformarlo,
dovevo lasciare che la malattia facesse il suo corso…”
“Non devi sentirti in
colpa, hai fatto quello in cui credevi. Ma ognuno di noi è un mondo a sé. Io
credo che Edward abbia una sua coscienza particolare, come tu sostieni. La
vicenda dell’uomo in città, può essere vista come un tentativo estremo di
difendere i più deboli. Credo che il problema reale di tuo figlio sia il
confronto con te; tu sei un medicoe
hai trovato il tuo scopo, in un certo senso… lui, per quanta stima possa avere
di te, forse non si sente alla tua altezza…”
Le sue sagge parole mi
aprirono gli occhi di colpo; non avevo mai considerato che Edward fosse in
competizione con me per tali motivi.
Era solo all’inizio della
sua vita immortale e forse non vedeva una meta, un senso a cui tendere, che lo
facesse sentire affine a me. Eleazar proseguì.
“Però una cosa devo
dirtela, Carlisle: devi prepararti psicologicamente alla possibilità che un
giorno, non so quando, tuo figlio potrebbe scegliere una strada diversa dalla
tua. Anzi, credo che prima o poi succederà… salvò poi pentirsene… Perché per
quanto si sforzi, Edward non ha la tua forza di volontà. Non ora almeno. Forse
un giorno, quando avrà maggior esperienza e sarà diventato più forte, ma non
adesso.”
Fui scosso dalle sue affermazioni
e purtroppo non potevo dubitarne.
Avrei voluto non credere
alle sue parole, ma Eleazar sapeva vedere lontano e soprattutto, sapeva
giudicare con estrema chiarezza la natura e le inclinazioni di un vampiro.
Eleazar sapeva guardare nel futuro e difficilmente sbagliava.
Io potevo solo sperare
che quel futuro fosse ancora lontano da scrivere per mio figlio…
Continua…
Salve
a tutte. Scusate l’estremo ritardo, ma la stesura di questo capitolo è stata
particolarmente ostica e difficoltosa.
Ma
perché mi sono imbarcata in un’impresa così difficile?
Ma
ormai sono in ballo e in fondo, è stimolante scrivere questa storia e spero di
riuscire a portarla a termine e che mi seguirete fino alla fine, senza
stancarvi.
Due
parole su Edward: la lettura di queste righe vi avrà restituito un personaggio
abbastanza lontano dal vampiro romantico che ci ha descritto la Meyer, ma
personalmente, ho sempre creduto che l’ Edward neonato degli inizi, sia stato
molto diverso da quello “più maturo” presentato in Twilight.
Volevo
presentare un personaggio in conflitto col suo creatore, che forse poteva aver
avuto dei forti contrasti col padre che l’aveva condannato a quella vita che
lui dimostrerà sempre di disprezzare.
Credo
che il loro rapporto all’inizio, possa essere stato burrascoso e travagliato, e
per quanto possibile, ho cercato di rendere questo rapporto conflittuale.
Spero
di esserci riuscita nel modo giusto. Ditemi voi.
Vorrei
ringraziarvi tutte, quelle che mi seguono dall’inizio e le nuove arrivate, per
le vostre recensioni, per i consigli e per il sostegno che mi date e che mi
incoraggia ad andare avanti. Una domanda: qualcuna sa dirmi la città dove
Carlisle e Esme si incontrano nuovamente? Non penso che sia Forks.
[1]Ho aggiunto in apertura questo brano che trovo stupendo. Stavo
pensando anche di metterlo all’apertura del primo capitolo che apre la mia
storia, ma così non l’avreste letto. Le parole mi hanno fatto pensare davvero
all’anima di Carlisle.
2In realtà non so quando sia
stata fondata la casa automobilistica, quindi prendetela come una licenza
letteraria.
[3]Carlisle ha ragione da vendere, nessuno potrebbe voler diventare
vampiro, non lo avrebbe voluto il nostro dottore e non credo lo volesse Edward…
nessuno sano di mente, tranne appunto la nostra Bella, un personaggio che
personalmente io faccio molta fatica a comprendere del tutto; in 4 libri mai
una volta che si fermi a riflettere sulla richiesta assurda che si ostina a
fare, nonostante le esitazioni di Edward.
Scusatemi tutte per l’enorme ritardo di questo aggiornamento, ma
prima non ce l’ho fatta.
Oltre ad altri progetti, avevo un calo d’ispirazione che non mi
faceva andare avanti come volevo. Ma ora eccomi qui.
Vi ringrazio sempre per la vostra attenzione e per le vostre
gentili parole e spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento. Io
credo che possa apparire come un capitolo di transizione e almeno all’inizio,
ero poco convinta, spero che non risulti noioso.Fatemi sapere come lo trovate, mi faranno piacere anche solo
poche parole per dirmi che vi è piaciuto.
Se qualcosa non vi convince non esitate a dirmelo.
Rebecca
Lupin e Chiaretta90 - grazie ai vostri suggerimenti circa il luogo
dell’incontro definitivo tra Esme e Carlisle.
Tetide -
visto i solleciti che mi hai lasciato per questa storia e lo sprone ad andare
avanti, voglio dedicarti questo capitolo.
Spero che
gradirai, naturalmente sono curiosa di sapere se è come ti aspettavi che fosse.
Buona lettura
a tutte.
*****
Restammo a lungo in Alaska, il tempo che fu necessario a
Edward per resistere al profumo, al richiamo violento del sangue.
Un giorno sarei dovuto tornare alla civiltà, perché il
contatto col mio lavoro mi mancava, ma intanto a Denali tentavo di costruire il
nostro rapporto, che si sviluppava tra alti e bassi: eravamo un padre e un
figlio anomali, che dovevano imparare a conoscersi, capirsi e accettarsi. Ma
non ci veniva dato di farlo gradualmente, crescere insieme nella misura in cui
il legame diventava più solido. Si trattava di imparare a convivere per due
esseri quasi estranei. Ci eravamo scontrati all’improvviso e uno dei due, che
ero io, era entrato prepotentemente nella vita dell’altro, mutandola per
sempre. Avevo sovvertito l’ordine naturale delle cose, stravolgendo la vita e
la morte, e per questo, Edward covava un lieve livore nei miei confronti. Con
fatica, bisogna adattarsi all’eternità, un concetto meno semplice di quello che
comunemente si crede. L’adattamento non è mai facile per creature come noi,
proprio perché tendiamo a non cambiare, anche se il tempo a nostra disposizione
è praticamente infinito.
C’erano momenti di tensione e altri in cui tutto sembrava
scorrere lento e placido. Il conflitto tra noi, non si placava mai
completamente; a momenti pacifici, seguivano attimi di profonda crisi emotiva,
per entrambi.
“In questa landa sperduta è piuttosto facile vivere
tranquillamente, salvo qualche imprevisto. L’altro giorno ero a caccia con
Tanya, quando improvvisamente ho avvertito la presenza di umani a pochi
chilometri: erano cacciatori, abbiamo sentito i colpi di fucile. Tanya mi ha
distratto con i suoi pensieri, e poi è stata molto svelta a trascinarmi
lontano…”
“Alcune zone qui vicino, sono terreno per i cacciatori,
dovresti evitarle. Tanya avrebbe dovuto saperlo.”
“Abbiamo sforato per seguire una preda. Quel profumo così
diverso… il cuore che pulsava… mi sembrava di sentirlo nelle orecchie. Erano
eccitati dalla caccia e l’adrenalina faceva correre più forte il loro sangue
nelle vene… è così maledettamente difficile resistere a un richiamo così
potente… Sì, l’ho desiderato, in maniera violenta… A volte ho paura dei miei
pensieri, di quello che potrei fare…Un giorno ti deluderò, Carlisle…”
“Non è detto che debba succedere Edward; fino ad ora ti
sei dimostrato padrone di te. Per quanto possibile, devi sempre evitare le
situazioni a rischio. L’istinto che ci governa può essere molto forte, e non è
il caso di metterlo alla prova. Ma hai reagito bene allontanandoti subito.
Questa è la stagione aperta della caccia. La prossima volta sarà preferibile
puntare nei territori di zone più estreme…”
Devo ammettere che l’isolamento a Denali, in altre
circostanze mi sarebbe andato stretto; nella fattispeciecontribuì a impostare e costruire un
rapporto profondo con Edward, a gettare le basi di qualcosa di autentico,
nonostante tutte le difficoltà che trovammo lungo il percorso che doveva
portarci ad un’ intesa.
Approfittai dell’aiuto di Eleazar e Carmen, che
fortunatamente, avevano un buon ascendente su mio figlio.
Furono come dei maestri di vita per lui, saggi e
comprensivi, ma non cercarono mai di far apparire tutto facile; d’altronde, non
lo era stato neppure per loro.
Senza i due vampiri, non so se sarei riuscito nella mia
opera di convincimento per indurre Edward a non seguire i suoi impulsi più
bestiali. Anche Tanya e le sue sorelle mi furono d’aiuto; il legame che Edward
instaurò con loro, lo aiutò a sviluppare una sorta di coscienza sociale, a non
farlo diventare una specie di selvaggio.
Lui, per lungo tempo, ha continuato a disprezzare la sua
natura, l’essere che era diventato, e in fondo, non potevo biasimarlo; anch’io
nei secoli, avevo fatto un enorme sforzo per accettare quello che ero. In verità, ancora oggi mio figlio tende ad essere sempre in conflitto con se stesso, nonostante abbia avuto il coraggio di affrontare il suo mostro, come nessuno di noi ha fatto.
Chiedevo a Eleazar di darmi qualche consiglio, ogni
suggerimento che potesse aiutarmi con Edward; se in lui avveniva qualche lieve
cambiamento, Eleazar lo percepiva.
“Lentamente, Edward sta imparando; sarà un percorso
lungo, irto di ostacoli, ma sarà costante. Approfitta Carlisle di ogni momento
di apertura che ti concederà. Devi dargli fiducia.”
“Non lo faccio Eleazar? Io credo davvero in lui, nelle
sue potenzialità…”
“Intendo che ti devi aprire, ed eventualmente, mostrare
anche le tue fragilità. Non devi essere un modello irraggiungibile per lui,
deve potersi confrontare con te alla pari, in un certo senso. Se l’allievo deve
superare, o eguagliare il maestro, deve credere in se stesso.”
Le parole di Eleazar mi fecero capire dove sbagliavo.
Viste le capacità di Edward, tendevo a volte, a chiudere
la mia mente per celare a mio figlio certi miei pensieri; una parte del mio
passato di cui non ero fiero, le mie esitazioni, i tentennamenti che avevo
avuto e che avevo ancora.
Ma Edward doveva potersi confrontare con me nel modo
giusto. Spesso mi aveva fatto domande a cui mi ero mostrato restio a
rispondere, inerenti soprattutto al mio passato in Italia. Pensavo a Volterra
come a una patria lontana e remota; a quella terra calda erano legati gran
parte dei miei ricordi, alcuni molto belli, altri decisamente più cupi. Pensavo
di rado a quei momenti della mia vita, ai luoghi, ai volti, e se affioravano
alla memoria immagini tristi o angosciose, tendevo a scacciarle bruscamente.
Quando poi tali immagini mi ricordavano quanto fossi stato vicino a perdermi,
le ricacciavo indietro nel buio da cui provenivano, con maggior forza.
Lui aveva sondato la mia mente e aveva visto le facce di
personaggi, umani e vampiri sconosciuti, ma non era riuscito ad andare troppo
lontano, anche perché io non vi indugiavo più del dovuto.
“Parlami dei Volturi… chi sono?” chiese un pomeriggio
mentre eravamo a caccia nella fitta boscaglia.
Non li avevo mai nominati, eppure lui li aveva trovati in
qualche ansa nascosta della mia mente.
Sapevo che grattando la superficie delle apparenze,
scavando nel mio passato, avrebbe visto ciò che inutilmente tentavo di
nascondere, ciò che avrei voluto dimenticare.
Ma presi il coraggio a due mani, decidendo di rivelargli
tutto, provando forse un lieve sollievo
Raccontai a Edward di come la mia storia si intrecciò con
la loro, cercando di non omettere nulla, parlando di quel tempo lontano che
vissi a Volterra. Parlai senza reticenze di quel periodo in cui l’inquietudine
e l’incertezza, avevano attraversato la mia esistenza. Cominciai a pensare che
se avesse scorto le mie debolezze e le mie fragilità, si sarebbe convinto che
non ero un modello così difficile da imitare. Avrebbe potuto seguire le mie
orme e tracciare liberamente il suo percorso.
“Perché Carmen dice che non hai resistito solo al sangue?
Cosa intende veramente? Ho letto la sua mente e vi ho trovato una profonda
ammirazione per te, per la tua resistenza, ma anche per qualcosa che riguarda
il tuo passato in Italia. Cos’ ha avuto di straordinario quell’esperienza?”
“Non so se posso definire straordinario quello che ho
vissuto…”
Così gli parlai dei signori oscuri di Volterra; di
Marcus, Caius, ma soprattutto di Aro e del suo tentativo di plagiarmi. E prima
ancora che iniziassi a raccontare, restò sorpreso da quello che affiorava alla
mia memoria, dal senso di inquietudine che ripescavo quasi intatto dal fondo
dell’anima.
Era ancora tutto lì, e pareva che non fosse mai andato
via.
“Vedi Edward, quello è stato il solo momento in cui ho
davvero messo in discussione la mia scelta. Aro, con la sapienza della sua
oratoria, sapeva essere molto persuasivo, più di quanto non lo sia mai stato
io, anche con te. C’è stato un istante molto breve, eppure troppo lungo, in cui
davvero ho pensato di avere torto. Cercavo di essere quello che non ero,
rifiutavo la mia natura dannata; ero e sono un vampiro che non vuole uccidere
esseri umani, come se un leone potesse rifiutarsi di mangiare un’ antilope. Aro
riuscì quasi a farmi vedere l’assurdità di quel concetto.”
“Devi ammettere che l’obbiezione di Aro era legittima:
perché il leone non dovrebbe mangiare l’ antilope? Sarebbe logico e naturale…”
“Sì, lo sarebbe… forse potrebbe essere addirittura
giusto… ma in natura esistono delle leggi importanti; ci sono sempre degli equilibri.
Tutto l’universo come noi lo conosciamo, è costruito su questo; anche bene e
male, magari non sono altro che due forze che si bilanciano. Ma tra vampiri ed
umani le forze sono troppo impari, non esistono equilibri, salvo quelli che
mettiamo noi. L’unica fortuna è che siamo in pochi. Nonostante tutto, la mia
volontà è stata sempre più forte, ma fu messa a dura prova… e c’era anche
dell’altro…”
Heidi: da quanto non pensavo a lei? La sua splendida
visione aveva occupato per lungo tempo il mio cuore teneramente, e quella
tenerezza ancora potevo ritrovarla; quello che mancava era il tormento, quel
dolore che avevo provato abbandonandola. Heidi era diventata un ricordo
tiepido, quasi consolatorio, che non bruciava più.
Edward la vide, bella e letale come la ricordavo.
Vide il nostro primo terribile incontro, quel giorno che
la segui quasi senza volontà dentro il palazzo, in quella stanza degli orrori a
Volterra; sentì l’eco delle urla raccapriccianti di quei poveretti che
provenivano dalla mia testa. Sentì il mio dolore e divenne il suo.
Gli occhi di mio figlio si dilatarono e divennero neri
come carbone, come l’anima dannata di quei mostri che avevo lasciato là.
“Dio!! Ti eri innamorato di una vampira che attirava le
prede nella tana dei mostri? Un essere così diverso, una vera creatura della
notte… - mio figlio pareva affascinato e allo stesso tempo, atterrito da
quell’immagine - Com’è possibile che sia accaduto a te? Come ha fatto a
sedurti?”
“È accaduto invece, ed è stato inevitabile… Forse perché
mi fece sentire vivo, non mi sentivo più solo e forse anche lei, in fondo,
aveva i miei stessi bisogni; la pulsione erotica è forte quanto la sete in noi…
ma credo di aver imparato qualcosa anche da quell’esperienza… con Heidi, ho
capito davvero quello che volevo…”
Cercavo da sempre un motivo, o uno scopo che
legittimasse la mia esistenza…
Avevo la mia professione, ma non mi bastava…
Volevo costruirmi una famiglia…
Per assurdo, desideravo qualcuno che fosse come me…
Per dare un senso alla mia vita, e condividerla…
Se c’era ancora e non si era perduta, volevo ritrovare
una parvenza di umanità…
Un modo per avvicinarmi all’essenza dell’infinito, che
non fosse l’eternità buia cui siamo condannati.
Poi un giorno ho incontrato te…
Prima che formulassi a parole i miei pensieri più intimi,
quelli che non avevo mai osato confessare, lui aveva già capito.
“Edward, io…”
“Lo so. Heidi non andava bene per questo?”
Sospirai prima di proseguire.
Stavamo ancora camminando tra gli alberi, e un raggio di
sole ogni tanto ci raggiungeva, filtrando tra i rami intricati.
Sotto i miei piedi potevo sentire i piccoli pezzi di
legno rinsecchito che scricchiolavano.
“Heidi sarebbe andata bene, se avesse potuto seguirmi… se
loro l’avessero lasciata libera di andare… mi amava davvero, e sarebbe stata
pronta a cambiare vita…”
“Già… Però… Sapevi quello che accadeva, e non facevi
niente per impedirlo? Come hai fatto a convivere con quelle atrocità a cui
assistevi? Il tuo desiderio assopiva la coscienza, credo…”
“Sono stato molto male Edward… In certi momenti mi
sono sentito un mostro più di loro…ma ero davvero impotente. Cosa
avrei potuto fare? Ho tentato di convertirli, di far capire loro che potevano
essere più di ciò che erano… che potevano ritrovare la loro anima… Ho dubitato
davvero che alcuni fra loro, ne avessero una… “
Mentre lo dicevo pensavo alla perfida e sadica Jane, al
piacere perverso che provava a torturare gli altri, un’ anima nera come ne
esistono anche tra gli uomini. C’era da chiedersi semmai, perché la natura le
avesse fatto dono di un potere così terribile, un altro dei misteri legati alla
nostra esistenza.
“Se fossi riuscito a convertirli alla mia dieta, avrei
potuto salvare vite future e mi sarei sentito un po’ meno colpevole…”
“Allora anche tu hai avuto dei dubbi… sull’anima dei
vampiri, intendo…”
“Come avrei potuto non averli, in quel contesto? Poi c’è
stata Heidi e forse per il legame che ci univa, con lei c’ero quasi riuscito…
Nonostante il suo operato, in lei c’era ancora una debole traccia di umanità.
Iniziò a porsi qualche domanda, cominciò a chiedersi se non avessi ragione… e
io sperai di nuovo… mi sarebbe parso un buon risultato con uno solo di loro…
voleva dire che ero nel giusto…”
Con i ricordi tornavano le emozioni, confuse e tempestose
ed ero certo che Edward le sentisse; la passione carnale che aveva travolto me
e Heidi, il malessere che mi accompagnava quando lei andava via, la tensione
fra noi.
“Per questo sei rimasto tanto tempo con loro… per lei…”
constatò con calma.
“Non ero sicuro che fosse amore il mio… forse ne aveva
alcune sfumature, ma certamente non era quello che ho provato e provo tutt’ora
per Esme. Ma sicuramente sì… sono rimasto lì a Volterra, oltre dieci anni per
lei… per quella passione potente e irresistibile che ci legava. Avevo capito
quasi subito che non sarei mai riuscito a far cambiare idea ad Aro e gli altri,
e io non potevo lasciarmi influenzare dal loro stile di vita. Aro era
pericoloso…e poi c’era la solitudine; non volevo affrontarla di nuovo…”
Edward parve riflettere sul racconto che aveva appena
ascoltato, sulle immagini spiate nella mia testa.
“Ora puoi capire che anche il mio percorso personale non
è stato facile. Le prove sono state difficili… non sempre mi sono dimostrato
forte e sono stato divorato dall’indecisione, ma ho voluto insistere, convinto
della mia scelta… a dispetto di tutto…”
“Questo non fa che confermare la tua forza, Carlisle; al
posto tuo, io non so se…”
In quel momento fummo interrotti da Tanya che ci
raggiunse; aveva appena terminato la caccia, insieme a Irina.
“Ti va di fare una corsa insieme a me Edward? Arriviamo
al limite della foresta, poco prima della nostra casa. Ti batterò questa
volta.”
“Sono troppo veloce per te, mia cara.”
Io restai da solo con Irina, mentre Tanya e Edward si
allontanavano correndo nella boscaglia.
Lasciammo che ci distanziassero, mentre noi proseguimmo
per il bosco tranquillamente e senza fretta.
Era da un po’ che mi ripromettevo di parlare a
quattrocchi con Irina, e quella mi parve un’ottima occasione.
Ma fu lei ad aprire la conversazione; probabilmente
sentiva la mia stessa esigenza.
“Sai Carlisle, quando ho saputo che saresti tornato qui,
beh… devo ammettere che mi sono sentita un poco inquieta, perché non sapevo
come mi sarei sentita rivedendoti… - fece una pausa prima di proseguire – ho
ripensato spesso al momento in cui te ne sei andato… alla mia reazione
spropositata…”
“Irina, anch’io ero preoccupato, devo dirtelo… ma ti
giuro che non avrei voluto che tu soffrissi…”
“Lo so, Carlisle. Non è necessario che tu lo dica. Ma io
in quel momento non capivo; sentivo solo il dolore che provavo e non mi
preoccupavo di quello che volevi tu, di cosa stavi cercando…”
“Mi sono chiesto tante volte se non fosse colpa mia…
forse non sono stato del tutto onesto con te e me ne rammarico…”
Improvvisamente avevo smesso di camminare per guardarla
con attenzione. Lei si arrestò davanti a me.
“No, non è così: io ho voluto vedere quello che non c’era
e non avrebbe potuto esserci. All’inizio, come una testarda, ho cercato di dare
tutte le colpe a te, ma poi lentamente ho capito che stavo ingannando me
stessa. Tu sei sempre stato franco con me… E io avrei voluto che tu tornassi,
per darmi la possibilità di spiegarti che non ti portavo rancore. Avrei voluto
aggiustare quello che era successo. Ma non potevo sapere se ci saremmo
incontrati ancora. Poi un giorno, all’improvviso piombi qui con un giovane
vampiro che hai trasformato e mi sono venuti altri dubbi; sono rimasta
sorpresa, credevo fosse qualcosa cui eri contrario…”
“Ho trasformato Edward solo perché stava morendo…
altrimenti non l’avrei mai fatto…”
“Allora, senza Edward, non saresti mai tornato a Denali?
Eccola la domanda che le premeva di più; Edward l’aveva
letta nella sua mente svariate volte.
“Ecco… a dire il vero, non lo so. Forse sì e forse No.
Chi può dirlo? Mi sono biasimato tante volte per il modo in cui me ne sono
andato. Mi sentivo come se avessi lasciato qualcosa in sospeso, da risolvere, e
forse un giorno sarei potuto tornare per questo. Ma su una cosa devi essere
sicura: non era il timore di affrontarti che mi teneva lontano. Erano le strade
che percorrevo, le esperienze diverse che mi portavano altrove.”
Era ciò che voleva sentire ed era quello che volevo che
lei sapesse. Tanto bastò a farci sentire meglio con noi stessi.
“Carlisle, sono felice che tu sia tornato, davvero. Sono
felice di essere ancora tua amica. So che te ne andrai di nuovo, ma adesso
riesco ad accettarlo.”
L’abbracciai e mi sentii davvero bene. Ero sereno e
leggero. Irina mi ispirava un profondo affetto. Avevo in comune con lei una
sensibilità che ci trovava affini.
“Irina, vi sono davvero grato per quello che fate per
Edward; significa molto per me…”
“Sì, lo sappiamo…” sorrise poi proseguì divertita.
“Credo che in questo momento, stia subendo le solite
avances di Tanya… Sapessi Carlisle, anche durante la caccia non fa che pensare
a lui, è come un’ ossessione per lei… io credo che quella vampira sia
seriamente malata di sesso… una ninfomane! …è diventata più pesante del solito…
forse resterà un po’ delusa, quando andrete via…”
“È una cosa che un po’ mi aspetto; sai, temo di non avere
una cura per la dipendenza di Tanya…” alla mia battuta, ridemmo entrambi.
Tanya continuava a provarci con Edward, ma mio figlio
l’assecondava pochissimo, spesso la ignorava totalmente e passava maggior tempo
con Kate, che certamente non lo infastidiva nello stesso modo.
“Abbi fede Edward, prima o poi, mia sorella si stancherà
di correrti dietro…” ridacchiava con ironia la sorella di Tanya, alzando la
testa dal libro che stava leggendo.
“Il problema è che i vampiri non si stancano, Kate…”
“Lei sì, e di solito, piuttosto in fretta. Accadrà quando
punterà il suo sguardo su un altro uomo. L’ho visto accadere troppe volte. È volubile
e infedele…”
Ma la vampira era caparbia e testarda, e non rinunciava
con facilità. E anche la sfida alla corsa era stata un pretesto.
“Io non ti piaccio neppure un po’, Edward? È così?”
“No, ma che dici? Tu mi piaci moltissimo, sarei un pazzo a
negarlo, sei una bellissima ragazza… e io subisco il tuo fascino come qualsiasi
altro uomo.”
Rispondeva gentilmente.
“E allora perché non mi vuoi? Evidentemente non ti
piaccio abbastanza. Non sono desiderabile per te?”
“È che con te, non potrei avere l’esclusiva. Mi useresti
come un giocattolino, e poi passeresti al prossimo, e io non voglio essere un
ragazzo oggetto... sono un tipo sensibile…mettiamola così…“
Ironizzava mettendo le mani avanti, lasciando Tanya
sconcertata.
“Stai scherzando spero…”
“Non scherzo affatto. Comunque, gli amanti non ti
mancano, mi pare…”
“Sì, ma l’unico che vorrei in questo momento, il solo che
desidero più di chiunque altro, mi vede come un’ amica… io non voglio essere
tua amica… non soltanto almeno… Edward, tu sai come abbattere l’orgoglio di
una donna…”
“Non dovresti prenderla in questo modo, davvero…”
“E come dovrei prenderla, dal momento che mi sento
respinta? Ti rendi conto che, umani o vampiri, mai nessuno è riuscito a
resistermi, a parte te? Sei un virtuoso o solo un moralista? Non sarà che ti
piacciono gli uomini? Oh, Dio!! Sarebbe un tale spreco…”
“Tanya, se continui così, potrei offendermi sul serio…”
Forse se ti provoco… sarà il caso di verificare…
“Non pensarci nemmeno. Vuoi rovinare tutto quello che di
bello c’è tra noi?”
“Non pensi che potrebbe essere ancora più bello?” e la
vampira si avvicinò pericolosamente a Edward con l’intenzione di fargli sentire
la brama del suo corpo, costringendolo a indietreggiare contro un albero.
“Smettila Tanya, cosa pensi di fare? Non…”
Si schiacciò contro di lui e trascinata dal suo profumo,
prese a sfiorarlo sul collo con le labbra.
Sembrava volesse dominarlo e in realtà, stava cercando di
provocare in lui una reazione e farlo cedere.
Reazione che fu scatenata dalle sue parole, sussurrate
vicino al suo orecchio. Fuoco vicino alla paglia.
E mio figlio, nonostante l’autocontrollo, aspettava solo
il momento di esplodere.
“Io saprei farti dimenticare anche la sete di sangue… non
vorresti altro che me, te lo garantisco…- La voce arrochita era un invito. - …e
non ti basterei mai…”
Poi senza nessun preavviso, gli infilò le mani tra i
capelli per tirarlo a sé e lo baciò.
Un bacio avido che sapeva di possesso. Un bacio che
voleva più di quel che chiedeva.
Edward non ci mise molto a capovolgere la situazione; la
strinse tra le braccia e con un moto fulmineo, la portò con la schiena contro
il tronco ruvido dell’albero, facendo volare schegge di legno per aria, tutto
senza smettere di baciarla con la stessa avidità di lei, immobilizzandola e
schiacciandola col suo peso.
Era stato provocato e aveva risposto, sorpreso e
sconvolto dal risveglio acuto dei sensi, che in un neonato sono estremamente
sensibili.
“Hai ragione; potrebbe essere eccitante come proposta… - la
voce arrochita quanto quella di lei. - …Se tu fossi un’ umana, cosa ti farei
adesso…” sibilò troppo eccitato da altri pensieri.
“Affonderei i denti nella tua gola calda… assaporerei il
tuo sangue che cola per me, e…”
Edward esitò, indugiando con la bocca lungo il collo
invitante della vampira.
Continua Edward… finalmente sento le tue mani… quanto
le ho attese… non fermarti…
“Oh, no… accidenti…Tanya!!”
Solo a quel punto Edward si staccò bruscamente da lei,
lottando contro le sue mani che tentavano di trattenerlo.
“Edward, ti prego…”
“Oh, smettila, smettila!! Non lo vedi a cosa mi fai
pensare!?” Le inveì contro.
Si era staccato da lei ed era rimasto piegato con le mani
sulle ginocchia, come se fosse sofferente.
“Edward, io potrei aiutarti… un po’ di sano sesso ti
aiuterebbe a non pensare al sangue. Sfogheresti in quello la tua frustrazione e
resisteresti molto meglio ai morsi della sete. In un modo o nell’altro, devi
trovare una valvola di sfogo e io ti sto dando questa possibilità… Faresti
felice me e te… Credimi…” Anche lei ansimava.
“Lo sai per esperienza, vero? Lasciami in pace, Tanya…
lasciami stare…voglio stare solo…”
Edward corse via, abbandonandola nella foresta
frastornata e delusa, e tornò verso casa.
Sotto il portico della veranda, mi raccontò tutto, con
dovizia di particolari e anche certi dettagli raccapriccianti sui pensieri che
aveva avuto. Era profondamente turbato, quasi sconvolto; continuava a passarsi
le mani tra i capelli in un gesto convulso.
“Ti rendi conto, Carlisle? Ho sempre respinto Tanya, ma
non posso restare indifferente a tutti i suoi assalti. Cosa accadrebbe se
decidessi di far diventare reali certe fantasie? Mentre penso di far l’amore
con qualcuno, mi assale il desiderio di ucciderlo… Tanya scherza col fuoco e
non si rende conto… non dovrebbe istigarmi così… Sedurre un’umana, fare l’amore
con lei per finire di ucciderla e dissanguarla; è questo che ho pensato, mentre
avevo Tanya tra le braccia…”
“Per fortuna che Tanya non è umana, allora…”
“Carlisle, non è divertente. “
Dopo le parole di mio figlio, mi venne spontaneo pensare
ad Etienne.
“Chi è?” mi chiese subito.
“Un vampiro che si comportava davvero nel modo che tu hai
descritto. Etienne non si preoccupava delle sue azioni. Tu e lui non avete
niente in comune…”
“Tu credi? Non passa giorno senza che non scopra un po’
di più, quanto io sia un mostro di perversione…se davvero il sesso potesse
spegnere la mia sete… zittire il mostro… andrei con Tanya anche subito, e non
mi importerebbe se non sono innamorato di lei… - poi tentennò un attimo - anche
se mi sentirei meschino in un altro modo…”
“Difficile che possa essere così; sono due pulsioni
troppo potenti che non si annullano vicendevolmente, anzi possono essere
collegate. Ma tu non sei perverso; di questo sono sicuro, Edward. Il problema è
che tendi a deformare la visione che hai di te stesso. Tanya ti ha eccitato, ha
giocato con te, e lei è molto brava in questo. Così hai perso il controllo sui
tuoi pensieri, ma non vuol dire che passeresti ai fatti…”
“Non lo so, se hai ragione…”
“Pensi che il sesso potrebbe aiutarti? Allora divertiti
con Tanya… prova e lo saprai…”
Non volevo in alcun modo sminuire Tanya ai suoi occhi.
Edward deve avere ragionato sulle mie parole buttate lì
senza reale convinzione, ma di fronte alla sua confusione, tutte le strade
potevano essere percorribili. Quella che era nata come un’ amicizia sarebbe
rimasta tale, e nient’altro poteva diventare, soprattutto agli occhi di mio
figlio.
Passò altro tempo.
Era più di un anno e mezzo che ci eravamo confinati a
Denali; mi sembrava fosse giunto il momento di ripartire, ma volevo essere
certo che Edward si sentisse pronto, e sapevo che avrebbe potuto sentirsi un po’
insicuro all’idea di lasciare l’Alaska. Ne avevo parlato con Eleazar e Carmen;
secondo loro Edward avrebbe potuto adattarsi a vivere altrove, senza troppe
difficoltà, ma mi misero comunque in guardia.
“Il rischio che Edward decida di attaccare gli umani
esiste ancora, Carlisle. Questo devi saperlo. Sa controllarsi piuttosto bene, è
vero, ma le sue pulsioni sono ancora troppo forti… e in mezzo agli uomini
potrebbe reagire in maniera imprevedibile… non perderlo mai d’occhio. È il
consiglio più saggio che posso darti.”
Affrontai la questione con mio figlio, molto apertamente.
“Edward, stavo iniziando a pensare che siamo qui da
diverso tempo e che potremmo anche lasciare Denali. Io ho sempre cercato di
vivere il più normalmente possibile e vorrei la stessa cosa per te; devo
tornare a fare il mio lavoro e tu dovresti provare a convivere più da vicino
con gli umani. Sai controllarti bene adesso, e puoi farcela. Te la sentiresti?”
Avevo sperato che l’idea di lasciare quell’eremo lo
avrebbe entusiasmato, ma come mi ero aspettato Edward si dimostrò indeciso.
“Andare via? Lasciare Eleazar e gli altri?”
“Ti dispiacerebbe?”
“Sì, credo. Questo posto lo considero un po’ un rifugio.
Mi sento al sicuro qui, al sicuro dal mostro, voglio dire… Qui non ci sono
molte tentazioni.”
Era vero; in altri momenti futuri della sua esistenza
Edward sarebbe tornato a Denali; lo ha fatto anche recentemente, dopo il suo
primo fulminante incontro con questa nuova compagna di banco che ora pare
ossessionarlo.
“Capisco cosa intendi, ma… vorresti davvero restare
confinato quassù per tutta l’eternità? Prima o poi dovrai uscire allo scoperto,
e allora tanto vale affrontare il mondo…”
“Dove vuoi andare Carlisle?”
“Nel Wisconsin. Nella città di Ashland c’è un buon
ospedale dove potrei esercitare come medico. È una piccola località e andrà
bene per cominciare. Non daremo troppo nell’occhio.”
“E mentre tu lavori, io cosa faccio? – seguì un attimo di
silenzio - …No, non lo stai pensando davvero…”
“Sì, invece. Cerchi di vivere come un ragazzo normale;
vai a scuola…”
“A scuola? Vorresti mandarmi in una scuola in mezzo agli
umani? Come un adolescente qualsiasi?”
Edward era veramente perplesso e gli veniva anche un po’
da ridere. Potevo capire i suoi dubbi. Sapevo che era un azzardo quello che mi
proponevo di fare.
“Sì, questa era la mia idea… la mia idea di vita normale…”
risposi con calma.
Edward scosse energicamente la testa.
“Mi pare totalmente assurda… e dimentichi che qui di
normale non c’è nulla…”
“Hai paura Edward?”
“Certo che no, ma… un vampiro in mezzo ad altri ragazzi.
Potrei far loro del male!!”
“Ti aiuterò Edward. Riuscirai a controllarti e comunque,
ti iscriverai solo quando ti sentirai pronto…prenderemo ogni precauzione che
sarà valida a evitare situazioni pericolose.”
Alla fine si convinse dopo una lunga opera di
convincimento.
Ci trasferimmo nel 1920.
Come Irina aveva previsto, Tanya ci restò piuttosto male.
“Torna a trovarmi qualche volta Edward, e ricorda: la mia
offerta per te è sempre valida.”
“Certo Tanya, lo terrò presente.”
Salutammo tutti e partimmo con la stessa auto che avevamo
usato per arrivare lì, quasi due anni prima.
Attraversammo nuovamente il Canada e per me fu bello
rivedere gli stessi luoghi che avevo già attraversato appena sbarcato sul suolo
americano. Mi piaceva la sensazione di famigliarità che riuscivano a
trasmettermi. Questa volta, mio figlio divideva quel viaggio con me. Per
giorni, attraversammo quella natura incontaminata e selvaggia, fatta di alberi
secolari, pinete immense sempreverdi, che creavano un paesaggio immutabile per
dei chilometri, per raggiungere la Baia di Hudson e poi puntare verso il
confine al Sud.
Mi sentivo pieno di speranza per il futuro e mi aspettavo
qualcosa di positivo non solo per me, ma anche per mio figlio; una vita quasi
normale, e magari anche degli amici. Non sembrava un’ utopia e in realtà lo
era.
I vampiri non dovrebbero sognare, non dovrebbero perdersi
in voli pindarici.
Non devono aspettarsi quello che non possono avere perché
la natura di questa esistenza dannata, ci ha privato quasi di tutto quello che
rende felici i comuni mortali. Anche i sogni ci sono negati.
E non troviamo riposo mai, anche se non esiste stanchezza
per noi.
Forse per questo non può esserci concessa la pace.
E forse per questo, io non posso accettare la morte ed è
questa la mia condanna.
Ancora non potevo immaginare che a un anno di distanza,
qualcosa di quella speranza, una porzione di essa, si sarebbe in qualche modo
infranta contro l’inaspettato. Il destino, come un ragno nero, continuava a
tessere la sua tela e io ci stavo per cadere dentro di nuovo, volente o
nolente. O forse, in realtà non ne ero mai uscito.
Il primo anno a Ashland trascorse relativamente
tranquillo.
Il primo impatto con la comunità umana per Edward fu un
po’ incerto. Tendeva a isolarsi ed evitava accuratamente ogni forma di contatto
con loro. Non iniziò subito la scuola.
Divideva le sue giornate tra la caccia che praticava
regolarmente, per essere sicuro di non cedere alla sete, e la sua stanza dove
si rinchiudeva a leggere e magari scrivere.
Percepivo la sua noia e una certa frustrazione e non
posso negare che la cosa mi preoccupava.
“Come fai a lavorare a contatto col sangue, per delle
ore? Proprio non capisco come ci riesci. Io sono qui che soffro tutte le volte
che mi arriva alle narici una folata del suo profumo.”
“Abitudine Edward.”
Forse fu proprio per vincere il tedio delle sue giornate
sempre uguali che si decise, e dopo oltre sei mesi che eravamo in quella
piccola cittadina di provincia, si iscrisse al terzo anno di liceo.
“Almeno faccio qualcosa di diverso, altrimenti potrei
diventare davvero pazzo…”
All’inizio il diversivo lo aveva stuzzicato, nonostante
la fatica di trovarsi così vicino alle sue prede potenziali. Era una prova di
resistenza, una sfida con se stesso. Non si era legato a nessuno, ovviamente, e
aveva la tendenza a isolarsi dagli altri. Scrutava i loro pensieri e vi trovava
la perplessità per il suo aspetto affascinante in modo unico, per l’aria strana
un po’ inquietante e naturalmente, l’ammirazione incondizionata del gentil
sesso. Tutto sarebbe diventato più semplice anche per lui, negli anni futuri
con i suoi fratelli.
Il mio lavoro al piccolo ospedale procedeva nel solito
modo.
In breve tempo, come era sempre accaduto, mi ero
guadagnato la stima di pazienti e colleghi, per le mie competenze. Tutto
sembrava scorrere perfettamente, col suo ritmo più ordinario e consueto. Tutto
normale mentre convivevo con l’illusione di mantenere una parvenza di esistenza
umana.
Tutto perfetto; curavo e salvavo vite umane, la cosa che
so fare meglio e che mi gratifica di più.
Tutto tranquillo, sereno e quasi bello fino a che arrivò quel
giorno di febbraio del 1921.
Era iniziato, uguale a tutti gli altri giorni e sembrava
che come gli altri sarebbe finito: tutto immutabile.
Doveva arrivare, perché il destino è puntuale e non fa
sconti, né ai vivi né ai non morti.
Una mattina bianca e lattiginosa come tante, passata a
visitare e dimettere pazienti ricoverati.
Una piccola pausa per il pranzo che naturalmente io non facevo.
Qualche battuta con i colleghi.
Poi nel tardo pomeriggio, mentre la luce tenue della
giornata invernale, lentamente cede il posto al leggero grigiore serale,
improvvisa, ecco profilarsi la solita emergenza; l’arrivo al Pronto Soccorso di
una giovane donna in gravi condizioni, per un incidente. Come tanti.
Di quelli già visti troppe volte per sorprendermi. O così
credo.
La chiamata d’urgenza tempestiva; è necessaria la mia
presenza immediata al Pronto Soccorso.
Percorro i corridoi, e mi arriva acuto e pungente alle
narici, l’odore preciso e famigliare del disinfettante che satura l’aria di
questi posti. Tutto consueto.
Arrivo, e gli infermieri mi spiegano subito la
situazione: un probabile, tentato suicidio. La donna è in disperate condizioni,
più vicina alla morte; è davvero un miracolo che sia ancora viva. Ma tutti
disperano che possa sopravvivere.
Le hanno apprestato i primi soccorsi in attesa che il
dottor Cullen possa visitarla e fare una diagnosi.
Cartella clinica in mano, vengo informato di ogni
dettaglio anche il più insignificante; è strano che nessuno l’abbia ancora
chiamata per nome.
Per chiunque una sconosciuta. Una paziente anonima e
sfortunata. Si è buttata da una rupe di roccia poco fuori città; nessuno sa
perché. Gli organi vitali sembrano compromessi, anche se il cuore continua
debolmente a battere il suo ritmo contro il tempo, ha emorragie interne e
fratture multiple in gran parte del corpo.
Entro nella sala dove la donna è stata appena ricoverata.
Conosco ogni procedura.
Niente potrebbe sorprendermi e mi appresto a intervenire
con la massima celerità, come al solito.
So già che sarà come tutte le altre volte. Tutto
immutabile.
Niente potrebbe turbarmi, farmi esitare, dubitare, errare
nelle mie decisioni su quello che devo fare.
Niente.
Tranne una cosa.
Una cosa che mi paralizza le mani a mezzaria, mi toglie
l’ossigeno di cui non ho bisogno e scioglie il mio respiro freddo in una specie
di ultimo rantolo penoso.
Un volto che scorgo sul lettino. Capelli caramello
impiastrati di sangue, scivolano sotto un telo bianco.
Lividi sotto a occhi celesti, come ombretto sbavato, neri
come le mie occhiaie.
Un viso che conosco bene, che ricordo con struggente
malinconia e delicato desiderio.
Un volto luminoso che era bello come una giornata di sole
che per me resta nascosto, e che adesso è tumefatto, per metà quasi devastato
dall’impatto col suolo.
Ma lo riconoscerei anche fra mille anni, perché è il viso
della donna che mi ha detto“ti
amo, Carlisle”e che ho dovuto
lasciare per troppo amore.
Non capisco…
Che succede?
Che è accaduto e perchè?
Non mi resta il tempo di fare domande e la disperazione
opprimente non trova sfogo attraverso i miei occhi troppo asciutti.
Vorrei urlare e non posso e forse esito un attimo di
troppo. Qualcuno mi chiama: dottore…
Ma io non sento voce, rumore che non sia il flebile
battito di un cuore che lotta ancora per la vita. Io non so se si può morire due
volte, eppure io mi sento morire di nuovo. Il tempo per me non è mai stato così
prezioso.
So che ogni speranza è perduta: i fili della trama che
traccia il mio destino, cambieranno da questo istante.
Sono immobile come una statua, mentre guardo la suicida
stesa davanti a me, su questo lettino, col corpo pesto e martoriato, celato
sotto al lenzuolo bianco, col volto già livido della morte incombente… E
purtroppo, nessun dubbio che sia lei: la mia vitale, dolce e appassionata Esme…
Continua…
Bene,
spero che vi sia piaciuto fino alla fine.
Io spero
che non troverete troppo azzardata la figura di Tanya e neppure le reazioni di
Edward con lei; volevo suggerire una possibile chiave di lettura alla forzata castità
cui Edward si sottoporrà per anni, e ho letto non ricordo dove, che
nell’immaginario vampiresco, sesso e sangue hanno la stessa valenza.
D’altronde
ho pensato che non avrebbe potuto essere totalmente indifferente agli assalti
della vampira. In realtà di Tanya ne sò per sentito dire e quindi, in massima
parte, su di lei e del suo rapporto con Edward, della sua ossessione per lui,
mi sono inventata tutto, e poi dava un po’ di brio alla storia.
Naturalmente
ringrazio sempre tutti per aver letto fino a qui e ringrazio tutti voi che
leggete in silenzio, inoltre voglio dare il benvenuto agli ultimi miei lettori
che hanno inserito la storia in una delle loro liste.
Grazie di
tutto e alla prossima.E spero che sarà
un po’ prima del solito.
Cosa è successo nella
tua vita che ti ha spinto a questo gesto insano e disperato?
Dov’è tuo marito? È
causa sua questo atto contro natura?
Dov’è la donna
entusiasta, piena di affascinante vitalità che avevo lasciato?
La donna che non
voleva arrendersi, non accettava compromessi e non si lasciava condizionare dal
pensiero comune di uomini meschini, ma voleva diventare madre e dare la vita?
Come hai potuto, tu,
così piena di energia, così coraggiosa dal voler sfidare l’ignoto, concepire e
abbracciare l’idea orribile e seducente della morte?
Oh, Esme… io l’ho
vissuta ogni giorno attraverso i secoli, mi ha rubato il cuore e forse l’anima,
l’ho vista portarsi via giovani e vecchi, la vedo anche ora offuscare i tuoi
occhi con la sua ombra scura, e ti posso giurare che ha davvero poco di
seducente…
Oh, Esme… perché?
Perché io devo stare
qui a guardarti moribonda su questo lettino, mentre attorno, febbrili, tutti si
affaccendano per tentare di trattenerti quel tanto che basta per rianimare una
briciola di speranza, quando vorrei solo rapirti in fretta, sottrarti a lei e
portarti via?
Portarti lontano da
questo cielo grigio e livido che pesa su noi, e andare dove il sole fa brillare
la mia pelle diafana, bianca come gesso, e mostrarti chi sono e cosa sono.
Soprattutto cosa
sono.
Perché io so che
tutto quello che stiamo tentando di fare è inutile; non c’è speranza e le
azioni umane sono vane.
Invece devo stare
qui, perdere tempo e fingere di fare il possibile, che non esiste.
Resta solo
l’impossibile, l’impensabile e l’assurdo di un’ esistenza che non sarà più la
stessa.
Si aggiunge al mio
inferno personale, un ulteriore girone dantesco in cui cadrò se non fermo la
tua corsa mortale; sento già che la realtà attorno si sta sgretolando troppo in
fretta, ma io devo fermarla e intrappolare la tua vita nella mia eternità. In
realtà sto già cadendo, ma ho deciso di trascinarti nella mia caduta. Lo faccio
consapevolmente: l’ho capito nel preciso istante in cui ho riconosciuto il tuo
volto su quel lettino.
Da dove vengo io, il
suicidio è un atto contro Dio.
Mio padre, nella sua
assurda severità, non concedeva neppure le esequie a chi si macchiava di un
simile crimine.
Ma Dio come può
condannare un’ anima sofferente e disperata?
Come può non
comprendere?
Che coraggio ci vuole
per andare contro ogni istinto. Quello della comune sopravvivenza che negli
umani è più forte che in noi.
Quante volte io
stesso avrei voluto concepirlo e attuarlo all’inizio di questa amara esistenza,
ma gli esseri come me non hanno neppure la libertà di svegliarsi dall’incubo
orrendo in cui sono caduti.
Che angoscia si deve
provare per sentire di avere il nulla che ti divora dentro?
Un buco profondo che
assorbe ogni cosa, sogni e desideri, e non restituisce niente.
Una voragine oscura
e infinita che respinge ogni luce di speranza…
Io so perfettamente
cosa significa…
Oh Esme, forse non
siamo mai stati tanto vicini come ora, più simili di così, più disperati di
così.
Ma come posso io,
ora, lasciarti andare? Non vuoi concedermi la speranza di ritrovarti? Hai detto
che mi amavi… allora dimostramelo e combatti per me… per noi, se posso ancora
dirlo. Come posso mettere tra i nostri cuori l’abisso di una tale distanza
incolmabile?
Ci sarebbe
l’eternità a dividerci e la crudele consapevolezza che non potremmo ritrovarci
mai, neppure altrove.
La morte separa gli
uomini, ma non per sempre; a loro resta la speranza di ritrovare chi hanno
amato in un’ altra vita.
E la morte diventa
pietosa, quando riunisce le anime. Ma per i vampiri non esiste pietà, forse perché
nemmeno la provano.
Ora, mentre guardo
questi tuoi occhi vitrei, che già sembrano spenti, e faccio tutto quanto è
umanamente possibile per concederti poche ore sufficienti a darmi il tempo di
agire come voglio, e ti somministro farmaci attraverso una flebo…
Ora in questo
preciso istante, realizzo quale sarebbe il mio inferno peggiore in assoluto;
questa mia vita immortale, che tante volte ho disprezzato per la sua assenza di
significato, diventerebbe un peso insostenibile, sapendo che tu amore mio, potresti
essere da qualche parte, nell’unico posto che io non potrò mai raggiungere, un
posto meraviglioso fatto di luce e di vita che mi sarà precluso in eterno.
Per i suicidi il
paradiso non è previsto, ma io so che tu saresti lì, mentre io sarei condannato
alla più spietata solitudine, separato da te dalla distanza abissale dei nostri
universi siderali, diversi se non opposti.
L’eternità senza di
te; il solo pensiero mi spaventa in modo indicibile.
Non ce la faccio…
Non posso
concepirlo…
Non riesco ad accettarlo.
E non è la pietà che
mi muove, ma l’egoismo che esiste in questo sentimento che indegnamente, oso
chiamare amore e non mi fa rinunciare.
Perdona questo amore
malato che si nutre di egoismo; ti ho lasciata andare una volta, facendo
violenza su me stesso, ma non posso farlo di nuovo.
Perché non voglio
lasciarti a Dio… non posso lasciarti andare.
Oh… Perdonami Esme…
perdonami amore mio…
Perdona quello che
voglio fare e che farò…
Perdona, se puoi,
quello che sono.
Perdonami se ti
voglio con me.
Perdonami se ti
condannerò ad una vita disperata che di vita non ha niente, che io non ho
cercato né voluto.
Perdonami se puoi…
perché ti amo Esme e quest’amore oscuro che non conosce pietà è la sola cosa
che mi muove…
*****
Mi sembra di rivivere ogni istante come se fosse adesso… È adesso…
*****
“Bisogna aspettare
la notte. Vedere come reagisce e sperare nel miracolo...” dico ai colleghi.
Miracolo che non ci
sarà, almeno nel significato comune del termine.
Perché non è un
miracolo, ma una tragedia fatale quella che sta per compiersi e io non ho
controllo su questo destino che ha intrecciato i fili delle nostre vite, la
prima volta che ci siamo incontrati.
Io dovrei attendere
le ore notturne per portarla via e il tempo non l’ho mai avvertito scorrere
così lentamente. Forse è la prima volta che avverto di non averne, come se la
sabbia all’interno di una clessidra stesse scivolando via.
Le condizioni
fisiche di Esme sono stabili, per ora, ma non è fuori pericolo.
È perennemente
attaccata a una flebo, imbottita di farmaci e sedativi per il dolore. Ma credo
che già quando l’hanno portata qui, solo poche ore fa, non sentisse più nulla.
Il vero dolore, quello più crudele verrà dopo. So che ogni ora, ogni secondo è
prezioso; potrebbe spegnersi da un momento all’altro, il suo cuore potrebbe
cedere in qualsiasi istante. Batto il tempo col piede sul pavimento, nervoso e
impaziente. Non posso attendere ancora in questo ufficio di reparto, fare finta
di niente e intanto, compilare stupide pratiche. Devo portarla via, adesso.
Portarla a casa mia. Come faccio a far sparire il suo corpo senza destare
sospetti?
Decido in fretta.
Mi alzo da questa
scrivania muovendomi come un’ombra; vado nella sua stanza senza farmi sentire
né vedere e stacco la flebo. Per fortuna le sue funzioni vitali sono così
deboli che potrebbe sembrare davvero morta. Solo allora chiamo l’infermiera.
“Ero venuto a
controllare la paziente… purtroppo non ce l’ha fatta…bisogna firmare l’ora del
decesso.”
Uso la mia voce più suadente
per convincere l’infermiera e non far sorgere in lei alcun dubbio che stia
bluffando.
“Certo dottore…
povera donna…era in condizioni davvero disperate. Bisognerebbe chiamare i
parenti della signora, il problema è che non sappiamo chi fosse...”
“Di questo e tutto
il resto, mi occupo io, non si preoccupi… facciamola portare subito in
obitorio…”
Più tardi provvederò
a falsificare tutti i documenti del caso.
Poco dopo arriva un
altro infermiere con una lettiga, vi depone il corpo prezioso di Esme.
Con la scusa che
devo parlare con un collega patologo, mi offro di portarla io e l’infermiere
non fa alcuna obbiezione. Naturalmente all’obitorio non ci arrivo mai.
Attraverso l’ascensore, scendo nel sotterraneo per raggiungere il parcheggio
delle auto; il corpo di Esme è avvolto in un lenzuolo bianco, la carico sul
sedile posteriore e parto in fretta e furia. Posso sentire il suo cuore che
pulsa lieve, ma oramai è molto debole.
La sabbia della
clessidra continua a scendere inesorabile.
Il cielo della sera
si sta oscurando e la luce crepuscolare riveste tutto.
Guido mentre il
paesaggio urbano corre dietro i finestrini dell’auto; c’è un po’ di traffico
lungo le strade di questa piccola cittadina e la gente sta tornando alle
proprie case; la vita umana scorre come sempre col suo flusso, una corrente in
cui io non posso entrare; una madre tiene per mano la sua bambina mentre
camminano sul marciapiede, più indietro, due ragazze sorridono e parlano fra
loro dell’appuntamento che le attende per la serata. L’eccitazione della vita
che nasce, si muove, si dilata e assorbe tutto nel suo grembo: la normalità che
non mi appartiene più e che sto per togliere a qualcun altro.
Io osservo ogni cosa
a distanza da estraneo, uno spettatore che non può restare coinvolto e mi perdo
nei miei pensieri; alle mie spalle restano orizzonti perduti nelle nebbie dei
ricordi. Allora mi rendo conto che non sarà facile fare quello che voglio fare,
anzi sarà ancora più difficile di quando l’ho fatto con Edward.
“Io so che si può
essere soli anche vicino agli altri… Soffri mai la solitudine, Carlisle?”
“Sì, a volte…”
“Mai nessuno
accanto… passi da una città all’altra senza mai raccogliere niente, senza mai
legarti davvero a un luogo, a qualcuno. Non lo trovi triste?”
“Molto spesso Esme. Più
di quanto tu creda…”
“E allora perché
insisti nel condurre questa vita?”
“Perché… è l’unica
che conosco…”
“Ti fermerai un
giorno?”
“Non posso fermarmi
Esme… è qualcosa più forte di me…”
“Mi dispiace
Carlisle, davvero… mi dispiace…”
Edward non lo conoscevo.
Non sapevo nulla della sua vita, di quello che era prima di ammalarsi. Che
sogni avesse, a cosa aspirasse. Lui per me era l’ignoto, un ragazzo senza
passato che mi aveva catapultato indietro nel mio.
Edward è un seme
caduto per caso sul ciglio del mio cammino, ma ancora non so in che genere di
pianta possa trasformarsi.
Esme, invece, era un
fiore meraviglioso a cui sono stati strappati i petali setosi che formavano la
sua corolla, lasciandola spoglia di tutto.
Di Esme, ho
conosciuto la vita, i desideri e le speranze.
Ho incontrato la sua
anima e la donna viva che è stata.
E io adesso ho
deciso di distruggere tutto questo e non sono neppure sicuro di quello che
troverò dopo; Edward e la sua ossessione per il sangue…
Esme… o quello che
resterà di lei dopo che il mio veleno avrà bruciato e fatto scempio di ogni
cellula e tessuto umano del suo corpo…
“Allora, ti è
piaciuta la mostra, Esme?”
“Sì, molto direi.
L’artista ha raccolto le influenze degli impressionisti… però per fare un vero
confronto, dovrei vedere le opere autentiche di Manet, Monet e gli altri
pittori francesi.”
“Hai ragione. Per
quelle bisognerebbe andare a Parigi…”
“Un giorno,
Carlisle… non so quando… ma un giorno ci andrò…”
“Quando sarà, vorrò
saperlo per primo…”
“Tu mi hai detto che
sei già stato a Parigi.Devi averle già
viste…”
I ricordi del nostro
piccolo passato continuano ad affiorare mentre guido per raggiungere la zona
esterna della città dove sorge la mia casa. È immersa nel verde un po’ in
fuori, abbastanza isolata rispetto al centro abitato vero e proprio. È una
piccola villetta con una veranda. Accosto sul retro e spengo il motore.
Prendo delicatamente
il corpo di Esme tra le braccia e la trasporto dentro l’abitazione. Mi aspetto
di trovare Edwardad attendermi e
infatti è lì che mi accoglie sulla soglia. Deve aver sentito ogni mio confuso
pensiero, già mentre attraversavo il vialetto d’ingresso. Sembra solo vagamente
sorpreso.
“Che succede,
Carlisle?”
Lo guardo solo un
istante, ed è sufficiente a rivelargli tutta la mia angoscia. Ma non ha bisogno
di attendere alcuna spiegazione, perché vede ogni cosa nella mia mente, e sa
già cosa voglio fare. Depongo Esme sul letto. Edward mi segue dentro la stanza.
“Esme… è lei… la
vuoi trasformare? Cosa le è accaduto?”
Io non parlo, ma
continuo a immaginare ogni dettaglio dei gesti che Esme deve avere compiuto per
arrivare lì. La vedo lanciarsi dalla rupe e volare nel vuoto. Un pensiero che
mi fa stare male. Ma non basta: a tutto si aggiungono le parole aspre di mio
figlio, che bruciano come alcool puro su una ferita aperta.
“Ha tentato il
suicidio… Tu vuoi trasformare una suicida?”
Il tono accusatorio
con cui Edward pronuncia la domanda mi blocca immediatamente. So perfettamente
da dove parte il suo risentimento.
“Non dovrei farlo
secondo te, Edward? Dovrei lasciarla morire? Ti sembra una cosa giusta?”
Sono spazientito e
non riesco a nasconderlo. Ma non posso non tener conto delle giuste obbiezioni
di Edward.
“Lo ha scelto lei
per qualche motivo… neppure tu sai quale.”
E mi rendo conto che
ha ragione, e non sapere mi esaspera ancora di più.
“Ma forse tu puoi
scoprirlo… Tu la senti Edward? Riesci a sentire la sua mente? Dov’è ora?”
“È così lontana
adesso, che non riesco a sentirla… Forse è già in un posto che per noi è
irraggiungibile. Carlisle, se non era più attaccata alla sua vita, pensi che
possa accettare facilmente un’ esistenza come la nostra? Hai scelto per me… non
puoi scegliere per lei…”
“Io non posso
perderla Edward…” Insisto e vorrei che lui capisse, ma so che non posso
aspettarmi tanta comprensione, adesso.
“Lei non voleva
continuare a vivere… - la voce di Edward è un sibilo trattenuto di rabbia -
…pensi che voglia farlo per tutta l’eternità, in una forma mostruosa come
quella di un vampiro? Pensaci Carlisle: l’hai conosciuta davvero, hai detto che
la ami, e vuoi condannarla a questo? Lo sai anche tu, che è mille volte meglio
la morte!!”
“Edward, capisco il
tuo punto di vista e forse anche le tue ragioni, ma io non posso
lasciarla morire, mi capisci? Non la lascerò morire…- parlo e scuoto
energicamente la testa - Ti sembrerà ingiusto, egoistico il mio comportamento e
forse lo è anche un po’… ma ho già fatto i conti con me stesso… ho già deciso,
e sarà così…”
Il mio tono è
perentorio e mi sento teso come una corda di violino.
Edward alza le mani
in segno di resa, ma se possibile, reagisce ancora peggio, e mi scarica addosso
parole sarcastiche, amare e cariche di biasimo.
“Certo, sei tu il
dottore… tu decidi per tutti ciò che è meglio… hai deciso per me, ora
decidi per lei… e non ti chiedi mai cosa vogliono gli altri…”
“Non si può volere
la morte… “
Il mio tono non può
nascondere l’angoscia che mi attanaglia e si rivela nel mio ultimo pensiero… sarebbe
un delitto.
“Neppure diventare
un vampiro!” L’urlo di Edward è quasi rabbioso.
Allora vacillo
mentre tremo combattuto, perché non so più che cosa è giusto, mentre mio figlio
prosegue implacabile e infierisce.
“Forse con me potevi
giustificarti, ma con lei no…”
“Edward, ti prego…”
Ho abbassato la
testa e mi sono accasciato al bordo del letto, dove Esme giace abbandonata, ma
quando rialzo lo sguardo e trovo il suo viso pallido, qualcosa dentro di me si
incrina.
“È così ingiusto che
debba finire così…”
C’è una tale amarezza nel mio tono che anche Edward la
può sentire, e ancor di più sente il mio ultimo pensiero disperato, mentre
accarezzo la guancia livida di Esme.
Perdonami… perdonatemi tutti e due…
Solo allora, avverto provenire da Edward un
sospiro di rassegnazione.
“D’accordo Carlisle, fai quello che ritieni
giusto. Forse hai ragione tu… forse doveva andare così perchè lei è il tuo
destino…” e dopo aver pronunciato quelle parole, lascia la stanza.
*****
Non so se davanti ad Edward, sarei riuscito a farlo.
Lui lo ha capito e ha preferito lasciarmi solo.
Sono rimasto fermo e immobile davanti a Esme per alcuni
minuti prima di decidermi: l’ho guardata a lungo, come si fa con le persone che
stanno partendo per un lungo viaggio e sai che non rivedrai più.
In effetti sarebbe stato esattamente così, perché la Esme
che io conoscevo non sarebbe più tornata, e al suo posto ci sarebbe stata
un'altra identità, un altro essere in parte sconosciuto e mortalmente
pericoloso. Mi sarei trovato a gestire una nuova vampira neonata, che magari
non avrebbe ricordato nulla di me e della sua vita umana. Dovevo essere pronto
anche a questo.
Oppure Edward avrebbe potuto avere ragione, e Esme si
sarebbe trovata imprigionata in una vita disgustosa che non aveva chiesto e che
avrebbe disprezzato con tutte le sue forze. E forse mi avrebbe odiato per
questo.
L’idea di essere odiato da lei mi atterriva e scavava
dentro di me una voragine senza fondo che mi avrebbe portato al centro del mio
inferno.
Ma io speravo di poter ritrovare il suo amore intatto e
incorrotto; volevo credere che il veleno non sarebbe riuscito a cancellare quel
sentimento in lei, che esso fosse, in fondo, la cosa più forte.
Quella era la mia più grande speranza. La sola che
avessi. La più remota.
Lentamente, mi sono avvicinato all’incavo del suo collo e
come avrebbe fatto un amante innamorato, ho deposto un bacio sulla pelle
delicata della gola, aspirandone la fragranza del suo profumo prima di
affondare in essa i miei canini letali.
Dopo aver morso Esme e sentito per la seconda volta il
sapore troppo seducente del sangue umano, sono rimasto al suo capezzale, senza
mai abbandonarla per tre giorni.
Tre giorni che ho vissuto con disperazione e tormento,
come era già accaduto per Edward, ed è stato sempre così tutte le volte che mi
sono trovato a dovertrasformare un
nuovo membro della mia famiglia.
È una pena costante che si rinnova, assistere impotente a
quello strazio e aspettare rassegnati che finisca. Non c’è abitudine né
assuefazione.
Perché un altro modo meno traumatico non esiste per
varcare questa soglia infernale che separa il mondo umano da quello dei
vampiri.
Dopo aver seguito la trasformazione di Edward, avrei
dovuto già essere preparato a tutto, ma in realtà, ogni volta che ho vissuto
questa esperienza, i sentimenti che mi dominavano erano sempre gli stessi:
angoscia, dolore, impotenza.
Ci vollero circa quindici minuti a Esme per tornare dal
suo mondo di oblio e riprendere conoscenza, tormentata dal bruciore lancinante
del veleno entrato in circolo. Quando iniziarono le urla la seguii in quel suo
calvario che diventò anche il mio. E da quel momento, ogni cosa venuta dopo
l’ho divisa con lei.
Edward si allontanava nei boschi anche senza la necessità
di cacciare; andava e veniva per controllare la situazione, per vedere se io
avevo bisogno, ma non restava mai a lungo. Credo che fosse difficile assistere
anche per lui.
Qualche volta faceva delle domande.
“È stato così anche per me… mi chiedo se non ci sia un
modo meno terrificante… indolore…”
“Non lo so, Edward, ma se ci fosse lo adotterei
immediatamente…” rispondevo mentre mi lasciavo torturare dalle grida che Esme
non sempre riusciva a trattenere; se smetteva, era solo per sfinimento fino a quando
una nuova ondata di quel fuoco devastante non l’assaliva.
“Lo sai, ho quasi dimenticato ogni dettaglio della mia
vita umana, ho solo ricordi confusi: i volti dei miei genitori, il posto in cui
vivevo… quello che facevo, le cose che amavo o quelle che detestavo… ma il
momento della trasformazione non lo scorderò mai…”
“Lo so Edward, non si può dimenticare…”
“Cosa farai se Esme non si ricordasse di te? Se
dimenticasse di averti amato?”
Eccola la domanda a cui non avrei voluto, né sapevo
rispondere. Restavo a guardare il paesaggio fuori dalla finestra; il vento
investiva e piegava le chiome degli alberi, nello stesso modo in cui
l’inquietudine strapazzava il mio animo. Intanto Esme a pochi passi da me, si
contorceva in preda agli spasmi. Potevo sperare solo che non accadesse davvero.
“Edward, ricordi di aver sentito la mia voce durante quei
tre giorni?”
“Ricordo tutto dei quei tre giorni…” sentivo ancora
amarezza nella sua voce.
“Cosa pensavi?”
“Pensavo che volevo morire per essere liberato da tutto
quel tormento… ma c’era la tua voce a trattenermi. Mi pareva la sola cosa bella
e mi aggrappavo ad essa…”
“Spero che lo faccia anche Esme; le starò accanto fino
alla fine… poi deciderà lei cosa fare…”
E dopo molte ore, quando Esme riuscì a vedermi in mezzo
alle nebbie dense di quella terribile agonia, mi colpì con l’inaspettato di ciò
che mi sembrava essere solo un delirio.
“Carlisle…sei
proprio tu…”
Con la mano le accarezzai i capelli e accostai il mio
viso al suo. Stava diventando bellissima sotto l’azione violenta e implacabile
del veleno che correva nel suo corpo, che attraversava ogni anfratto e ogni
cellula, che distruggeva e ricostruiva, che cambiava e perfezionava i suoi
lineamenti.
“Sì, Esme… sono io. Scusami amore mio… scusa tutto questo
male che stai penando. Purtroppo non ho il potere d’impedirlo…”
“Sembri un angelo… oh, ma questo… non…non può essere il paradiso…”
Disse in un rantolo stentato. Seguirono altre parole che
non capii.
“Carlisle, devi salvarlo… solo tu puoi farlo…” lo aveva
detto contorcendosi in una smorfia penosa. Mentre la sfumatura azzurrognola dei
suoi occhi stava mutando colore, nel suo sguardo potevo ancora leggere la sua
disperazione. Edward era lì presente; come me, aveva ascoltato tutto.
Facemmo congetture, mentre Esme continuava a urlare
graffiandomi l’anima, come se l’artiglio di una belva feroce e famelica l’avesse
ghermita, e intanto il suo corpo diventava più duro e resistente. I segni
bluastri sulla pelle velocemente scomparivano sotto gli assalti del veleno che
si propagava inesorabile in ogni fibra del suo essere e faceva diventare il suo
incarnato del classico pallore che ci contraddistingue. Alle sue urla
angoscianti, si frapponevano parole apparentemente deliranti, che nella realtà
avevano un significato che ancora ignoravo.
“Non deve morire… Derek…”
Di chi parlava? Cosa era accaduto nella sua vita?
Possibile che stesse delirando?
Sapevo che si diveniva perfettamente coscienti di tutto
durante la trasformazione, non solo della sofferenza fisica, ma anche della
mutazione del corpo, della sensibilità eccezionale dei propri sensi che si
sviluppavano.
I pensieri di Esme erano avviluppati insieme al dolore e
mio figlio poteva sentirli in modo frammentario; sotto l’assalto di quel
martirio, la sua mente sembrava essere tornata vigile solo a sprazzi. Ma Edward
riuscì a venirne a capo.
“Sta soffrendo in maniera indicibile, ma nei suoi ricordi
continua a tornare l’immagine di un bambino di pochi mesi…”
“Quale bambino? Non c’era nessun bambino quando l’hanno
portata in ospedale…” Chiesi senza nascondere la palese sorpresa.
“Suo figlio…- Rispose Edward, ma c’era una verità ben più
triste e dolorosa. - In realtà è morto, ma pare che non voglia accettarlo.
Credo sia la spiegazione del suo gesto… anche se non lo vedo chiaramente… come
se avesse rimosso una parte della verità…”
Era riuscita ad avere un figlio… Quel figlio che aveva
cercato disperatamente, in cui magari aveva riposto le sue speranze ormai
infrante… quel figlio che avrebbe dovuto salvare un matrimonio già naufragato.
“Il mio bambino… il mio bambino non deve morire…”
Esme continuava a urlare, ma alla sofferenza della
trasformazione se ne aggiungeva un’altra. Supplicava disperata per qualcosa che
era già accaduto e non saprei dire perché stesse rivivendo tutto. Quella
rivelazione poteva spiegare molte cose, anche la follia compiuta da Esme. Quale
madre non resterebbe devastata dal dolore di una simile perdita? Era questo,
che era successo a lei?
Quando per l’ennesima volta Esme mi implorò di aiutarla,
di far cessare quella pena disumana, cercai di spiegarle quella verità
terribile che io avevo affrontato molto prima di lei.
“Esme, ascoltami… lo so che fa male, ma non durerà ancora
per molto…”
“Cosa succede Carlisle? Sto tanto male… voglio solo
morire, fammi morire, ti prego…”
“Non posso. Ti stai trasformando Esme, in ciò che sono
anch’io… io sono un vampiro… Non potevo dirtelo, non volevo coinvolgerti nella
mia esistenza nefasta e triste… me ne sono andato per questo…”
“Carlisle…”
“Oh, perdonami Esme, ma ti amo troppo… ho dovuto farlo…”gemetti.
“Carlisle, io…”
Voleva parlare benché le costasse uno sforzo enorme, ma
io forse avevo più paura di lei.
“Perdonami Esme, ti supplico. Ti ho amato fin dal primo
momento che ti ho visto… Ti prego, cerca di ricordarlo… nonostante il
dolore…cerca di ricordare le mie parole… solo le mie parole… senti la mia
voce…”
Volevo che le restassero dentro come la luce di un faro
che l’avrebbe guidata in una notte di tenebra. La luce dell’amore che l’avrebbe
attesa alla fine del tunnel buio che stava attraversando per venire da me.
“Carlisle, io lo sapevo… lo avevo capito che eri qualcosa
di diverso… non sapevo cosa… ma per me, sei sempre stato solo un
angelo…” mi disse e pensai che anch’io avevo percorso il mio tunnel, e lei era
la luce che avevo trovato alla fine di quella lunga notte durata secoli.
Alla fine del terzo giorno, in una notte di luna piena
con la luce pallida dell’astro notturno che entrava nella stanza, mentre
l’alito dell’aria sollevava le tende bianche delle finestre come fantasmi, Esme
si ridestò nella sua nuova vita nella forma splendida, ma letale, di una
bellissima vampira dal corpo armonioso, il volto lunare dai lineamenti delicati
e gentili, in contrasto palese con gli occhi rossi color rubino che
lampeggiavano fiammanti e terribili nel buio. La sua prima reazione appena mi
vide, non fu molto diversa da quella che aveva avuto Edward, forse perché un
neonato avverte subito la minaccia rappresentata da un suo simile.
Anche Edward era presente e come me, restò a distanza di
sicurezza, immobile, per non spaventarla. Lasciò che fossi io a rompere il
silenzio, mentre Esme ci osservava guardinga.
“Esme, sono io, Carlisle… non aver paura, nessuno ti farà
del male… sei un vampiro ora, come me ed Edward…” dissi indicando mio figlio
fermo a poca distanza. Esme che fino a quel momento era rimasta seminascosta
nell’ombra, acquattata come un animale spaventato, emerse lentamente sotto un
raggio lunare che le colpì il viso. Mi guardò a lungo come a sincerarsi che
fossi io; dovevo apparirle assai diverso rispetto alla memoria che poteva avere
di me.
Sapevo che Edward stava scandagliando la sua mente; mi
avrebbe avvertito se ci fosse stato qualche pericolo, ma lui non si mosse né
proferì parola.
La chiamai ancora con il tono di voce più suadente e
allora lei parlò, rivelando la voce più musicale che avessi mai sentito.
“Carlisle…”
Si bloccò stupita dal suono del mio nome sulle sue labbra
e si portò una mano alla gola. La rincuorai subito.
“Sei cambiata; i tuoi sensi si sono fortemente sviluppati
e anche la tua voce non è più la stessa… Ti abituerai…Ti aiuteremo…”
Mi avvicinai un po’ di più a lei che non fece mostra di
volersi allontanare. Lentamente avvicinai una mano al suo volto pallido e le
sfiorai una guancia.
Poi parlò di nuovo rivolgendosi a me.
“Tu sei Carlisle… la creatura più bella che abbia mai
visto… io ricordo le tue parole, ricordo la tua voce; tu puoi amare una come
me? Non so esattamente perché, ma io sento di amarti da prima di questo
istante…” mi chiese. Non avevo bisogno d’altro.
Era lei.
Era la figura centrale dell’arazzo che raffigurava il mio
destino.
Era l’altra metà del mio cielo, quel lembo di celeste che
mi era stato negato.
La mia parte di eternità più preziosa e bella, quella che
dava un senso nuovo e diverso, forse più giusto a un’ esistenza senza scopo.
La compagna, la sposa immortale che avevo scelto, mi
aveva accettato senza riserve, senza scendere a patti; era colei che avrebbe
allontanato per sempre la mia solitudine, che avrebbe scaldato il mio cuore
spento e reso il mio corpo di roccia un po’ meno freddo.
La madre dei figli che non avrei mai potuto avere e di
quelli che ho raccolto per strada e protetto insieme a lei.
Era solo lei; la donna sensibile, vivace e intelligente che
avevo amato contro tutte le leggi, superando il confine tra l’umano e il
sovrannaturale, e la vampira passionale, energica, ma amorevole che avrei amato
per sempre.
Lei.
La signora Cullen: la mia Esme.
Continua…
Non ve lo
aspettavate così presto eh? Non fateci l’abitudine però.
Prendetelo
come un regalo prima delle ferie, se lo gradite.
Per questo
capitolo avevo le idee abbastanza chiare ed è venuto piuttosto spontaneamente.
Credo che per Carlisle trasformare Esme sia stato un po’ diverso rispetto a
quando trasforma Edward, almeno io ho immaginato che fosse così; insomma,
questa volta era direttamente coinvolto anche sul piano affettivo, e c’erano
anche altre considerazioni che ho cercato di valutare, ad esempio la reazione
di Edward alla cosa. Certo, di Esme non ho ancora detto tutto, ma altre domande
penso si chiariranno nel prossimo capitolo. Intanto spero che questo vi sia
piaciuto, ma come al solito, se qualcosa non vi convince o soddisfa ditemelo.
Io cerco di fare del mio meglio e di migliorare, ma non disdegno un aiuto se
arriva. Come sempre, grazie a tutte voi che commentate, leggete in silenzio,
apprezzate, preferite e seguite con interesse questa storia.Spero sempre di non deludervi. Passerà un
po’ di tempo prima del prossimo aggiornamento, che sarà dopo le vacanze estive.
Ne approfitto per salutarvi tutte e augurarvi una buona estate. A presto.
[1] Un omaggio a uno stile e
pittori che amo particolarmente. Naturalmente Carlisle non può avere visto le
opere impressioniste, perché lui è vissuto per un po’a Parigi nel ‘700, e gli
impressionisti sono pittori che operarono in Francia nella seconda metà
dell’800, e all’epoca il nostro dottore/vampiro era già sbarcato in America,
questo almeno nella mia storia.
L’ampia
camera da letto della mia casa era stata teatro della trasformazione di
un’umana in un essere immortale. L’ambiente era avvolto nella semioscurità; la luce
lunare disegnava sul pavimento attraverso la finestra un quadrato chiaro. Io e
Esme, eravamo fermi alle estremità di quel quadrato; ci fissavamo, uno di
fronte all’altra, forse leggermente increduli di trovarci così vicini.
Più
probabilmente l’incredulità di Esme dipendeva da altri fattori: ridestarsi nel
corpo granitico e freddo di una non morta, poteva essere una sorta di trauma
cui non è semplice e immediato abituarsi. Davanti a me, stava una vampira, la
mia futura compagna, quella che aspettavo da tempo immemore, che tante volte
avevo disperato di trovare. Esme adesso, era una creatura diversa, eppure
l’avrei scoperta sempre uguale alla donna di cui mi ero innamorato.
Ma era stato troppo
complicato amare un’umana; non avrebbe potuto che essere tragico l’epilogo di
quella nostra storia di felicità improbabile che avevo solo sfiorato con un
pensiero colpevole.
Ma tutto,
probabilmente era già stato scritto, prima ancora che ci incontrassimo.
Era il destino.
Il mio.
Il nostro.
Affilato e
inciso sulla roccia dura del nostro corpo pallido e freddo, si incuneava tra le
pieghe della nostra pelle di diamante che lo accoglieva come fosse una pagina
da scrivere.
E sembra che la
storia di questo destino si debba ripetere proprio ora per mio figlio; per
lungo tempo, l’idea di averlo condannato alla solitudine mi ha angustiato come
il dubbio di averlo trasformato troppo presto e ho sempre sperato che ci fosse
qualcosa di più per lui. Ma ora c’è qualcosa che Edward sta vivendo sulla sua
pelle, che lo spinge a cercare un nuovo confronto con me come non ha mai fatto
negli ultimi novant’anni.
A lui la stessa
sorte? A lui lo stesso dolore? Le medesime paure?
A suo
tempo, lasciarla era stato un atto doloroso: la rinuncia eterna alla felicità.
Fuggire da
Columbus, dove viveva lei, per andare a Chicago, era stato come dare un calcio
definitivo ad ogni impossibile umana speranza; l’annientamento, lo avevo
sentito nelle ossa e nella carne che pareva diventare più gelida di quanto già
non fosse. Come se il respiro vitale mi fosse stato rubato di nuovo. Poi, era
esplosa l’epidemia di spagnola e l’incertezza della sua sorte mi aveva fatto
quasi morire, perché niente mi era dato sapere su cosa né fosse di lei.
E in
un’altra città, davanti a me, nel suo letto d’ospedale, Edward malato e
sofferente mi aveva dato l’immagine precisa e angosciante di quello che forse
era toccato a Esme; ovunque lei fosse, non avrei mai potuto fare nulla per
sottrarla al bacio gelido della morte umana, per suggellare un altro bacio
altrettanto gelido che le avrebbe strappato l’ultimo respiro per concederle un
alito diverso e malsano di vita fittizia.
Puoi amare una come
me?
E tu come puoi
chiedermelo? Se posso amarti? Sì, posso.
Per quanto
sia straordinario che una creatura quale sono, possa amare, io amo.
Perché io sento di amarti
da prima di questo istante…
Prima…
Cosa c’era stato
prima di noi?
Parole che mi
avevano dato speranza.
Forse Esme
era già disegnata sulla tela del quadro che rifletteva come uno specchio l’immagine
del mio destino. Forse per questo, di me, aveva conservato nel suo animo, una
traccia vaga, impalpabile come un’ombra dai contorni sfumati.
Non so se è
umano questo amore che ci ha legati. Ho ragione di credere che una parte di
esso non lo sia.
Io non sono
umano e forse i sentimenti di un vampiro non possono esserlo. C’è sempre una
componente che li trasfigura in qualcosa di più vasto e oscuro. Non possiamo
vivere e neppure amare come gli uomini.
I sentimenti umani
possono dare sofferenza, ma non tolgono la libertà. Essi sono come la natura
umana; si evolvono a volte con facilità, si sciolgono e si saldano con
tranquilla naturalezza, qualche volta con dei traumi, ma quelli che governano
le creature immortali, sono come la sete di sangue; non si estinguono mai, sono
catene possenti che ti imprigionano e sei fortunato se non fanno troppo male.
Come la nostra
natura immutabile, non sono facili al cambiamento e sembrano non variare mai.
Quindi sono
costanti.
Sei
fortunato quando brillano di luce propria.
Così è
accaduto tra me ed Esme; un fatto certo e assurdamente semplice, ma complicato
e tragico allo stesso tempo. Come un fiore spavaldo che nasce spontaneo in
mezzo alla sabbia rovente del deserto, o tra il catrame nero di una strada, e
rischia ogni istante di essere calpestato o strappato dal suolo.
Amo Esme, una
compagna passionale, una madre comprensiva sempre presente.
Come potrebbe essere
qualcosa di diverso dall’amore, questo sentimento che mi ha invaso la carne
spenta, acceso fiamme sopite da troppi lustri e alitato sospiri quasi ignorati
che credevo perduti per sempre? Non potrebbe esserci altro se non questo amore
contorto che pure ha in sé una scintilla di umano, un amore/vampiro che si
nutre di emozioni perdute nella notte solitaria e infinita che accompagna la
nostra esistenza.
Nello stesso modo,
amo i miei figli, così diversi uno dall’altro, così unici; sono la mia famiglia
redenta, la mia benedizione insperata a cui non saprei mai rinunciare. Li amo
di un amore infinito, potente, grande come l’eternità che sta davanti a noi e
che sarebbe un cielo nero senza stelle, una tristissima condanna senza la loro
presenza. Loro sono l’unica grazia fortuita che mi è stata data in questa
desolazione di vita. Dovrei ringraziare il fato un po’ meno avverso, per averli
seminati lungo il mio cammino, come gemme preziose.
Quello per la mia
famiglia è un amore eterno come la dannazione cui siamo condannati.
Lo stesso amore
marchiava ora lo sguardo di Esme, troppo acceso di rosso. Un rosso che dovevo
cercare di placare in fretta. Per tutto il resto ci sarebbe stato tempo. Molto
tempo.
O almeno
speravo di averlo, che mi fosse concesso.
Dovevamo portare
Esme a caccia e iniziare a spegnere la sua sete di neonata. Tutto era ancora da
scoprire. Per lei e per me.
Sentimenti eterni
albergavano in un corpo nuovo e diverso, forse dormienti sotto un cuore morto;
sentimenti che avrebbero potuto restare sopraffatti da impulsi tremendi e
bestiali che Esme avrebbe scoperto a breve. Io non potevo lasciare che
morissero in lei.
Si trattava di
ripercorrere passi già noti, sentieri già percorsi.
Con me c’era Edward;
con lui sarebbe stato più facile controllarla, dirigere i suoi passi, prevedere
e prevenire le sue mosse sbagliate. Come avevo già fatto in precedenza con mio
figlio, le spiegai tutto quello che comportava essere un giovane vampiro, quali
erano le sue potenzialità e i suoi istinti che all’inizio l’avrebbero dominata;
si sarebbe sentita inevitabilmente attratta dal sangue umano, linfa vitale
quasi irresistibile che avrebbe scatenato la sua sete più violenta e incontrollabile,
ma le dissi che seppur con molta fatica, poteva tentare si seguire un’altra
strada, quella che io ostinatamente, contro ogni logica e normalità, avevo
scelto fin dall’inizio della mia esistenza, più di due secoli fa. Potevamo non
essere degli assassini e ritrovare la nostra umanità. Anche se tutte le scelte
parevano esserci negate, insistevo a voler credere che non fosse
necessariamente così.
Avevo cercato di
convincere Edward di questo, e avrei tentato di fare la stessa cosa con Esme.
“Mi sento così diversa…
anche tu Carlisle, non sembri uguale ai miei ricordi, eppure… io ti riconosco
come qualcuno che mi è famigliare… è così strano…”
“So come ti senti
ora… le tue percezioni sono cambiate, sono più fini… il bruciore fisico,
l’arsura della sete in gola che avverti ti sembrerà implacabile, ma imparerai a
soddisfarla senza che essa ti travolga… Per ora hai ancora la tua memoria
umana, ma lentamente essa andrà scomparendo quasi completamente.”
I suoi occhi rossi
leggermente inquieti sembravano cercare conferme nel mio sguardo dorato.
“È stato uguale per
te?” mi chiese. Eravamo ancora in quella stanza con la luna che entrava dalla
finestra aperta, una grossa sfera bianca contro il buio della notte.
“Sì, è stato così
anche per me… è stato difficile… sarà difficile, ma io sarò con te, se lo
vorrai…”
Esme restò a
fissarmi come se mi dovesse scrutare nelle profondità abissali dell’animo, come
se cercasse qualcosa. Scambiai un’ occhiata con mio figlio e colsi uno sguardo
prima incerto, poi stupefatto. Che cosa stava leggendo nella sua mente che lo
sorprendeva?
Non fu Edward a
parlare, ma lei.
“Dimmi la verità:
hai mai ucciso, Carlisle?”
La sua domanda mi
folgorò; era l’ultima che mi sarei aspettato in quel momento, eppure pareva essere
la più onesta che potesse farmi. Risposi con altrettanta schiettezza.
“No, non ho mai
ucciso, Esme.”
“Hai mai desiderato
farlo?” Un’altra richiesta diretta e lapidaria, che pretendeva una risposta
altrettanto sincera.
Guardai di nuovo
Edward; lui sorrise in un modo strano, ma non tardò a leggere nella mia mente
il dubbio che forse attraversava i miei occhi come un riflesso.
“Vuole sapere se sei
riuscito davvero a dominare i tuoi impulsi: se lei può essere come te… se può
essere degna di stare al tuo fianco, di seguirti su questa strada che hai
scelto. – Fece una pausa. - Già… domande legittime, in fondo… si sta chiedendo
se può riuscirci…”
Solo allora lessi la
determinazione nel suo sguardo di fuoco.
Mi rivolsi a lei con
franchezza, mettendo a nudo me stesso; volevo che sapesse tutto, che fosse
consapevole di ogni scelta e di ogni dubbio, delle cadute nello sconforto e del
coraggio che avevo messo ogni volta nel risollevarmi, deciso a proseguire in
avanti.
“Da quando sono
stato creato, non mi sono mai cibato di sangue umano, Esme… ma può darsi che io
l’abbia desiderato molto tempo fa, in un momento di debolezza. Ho sentito
anch’io i morsi del mostro. Non ti dirò che è stato facile, perché non lo è
stato per me, e non lo sarà per te. La prima volta che ho privato qualcuno
della vita umana è stato quando ho incontrato Edward, e ho agito per una
ragione ben diversa; ora con te ho fatto la stessa cosa. Edward stava morendo,
e tu non ti saresti certamente salvata… - Esitai; non ero sicuro di quello che
potevo dirle, così deviai il discorso in altre direzioni. - Il mio demone era
forte, come il tuo, come quello che domina ancora Edward, ma sono riuscito
sempre ad avere il controllo su di lui. Anche tu puoi riuscirci, se lo vuoi. Ne
sono sicuro.”
“Capisco… - mi disse,
e il suo sguardo si accese di luce ostinata. – Se tu hai potuto resistere, se
mi dici che possiamo vivere senza uccidere esseri umani, allora io ti credo. E
farò di tutto per non deludere la tua fiducia, per essere come te. Voglio
essere degna di poter stare al tuo fianco… Se ci riuscirò, ne sarò felice…
altrimenti, me ne andrò…”
“Non sarà
necessario, Esme… Io ero solo, ma tu non lo sarai: ci saremo io e Edward.” ma
le sue parole mi fecero tremare.
“È vero, ma hai
detto che dipenderà molto dalla mia volontà. Non so ancora quanta ne avrò… se
sarò abbastanza forte.”
Esme stava ponendo
delle condizioni, voleva valutare le sue possibilità e mi sembrò così
determinata da spaventarmi.
“Posso assicurarti
che ci proverò Carlisle, con tutte le mie forze… perché sento… credo davvero di
essere legata a te e non solo perché mi hai trasformata…”
“Esme, lasciami
spiegare… noi due siamo…” Ma lei mi bloccò e con una mano mi sigillò le labbra
livide.
“Non vorrei
lasciarti, ma… se deciderò di stare con te, di abbracciare la tua vita
completamente, la porterò fino in fondo, ma sarà solo mia la scelta. Non voglio
che debba diventare un condizionamento.”
Non potevo
pretendere nulla da lei. Non potevo aspettarmi che accettasse tutto solo perché
ero io a chiederlo, o che per lei fosse tutto ovvio o naturale. Voleva essere
libera di scegliere, come avevo fatto io a suo tempo.
Come forse non aveva
mai scelto.
“Io lo spero e farò
il possibile perché sia così… Voglio la tua felicità… non sarai obbligata a
restare se non lo vorrai.” risposi.
Non puoi scegliere
per lei, mi aveva detto Edward. Aveva ragione più che
mai e lo capivo solo in quell’istante. Avevo voluto credere che l’amore che ci
aveva legati, avrebbe facilitato le cose, quindi che sarebbe stato abbastanza
facile per Esme accettare la sua nuova condizione, ma non avevo considerato che
la trasformazione avrebbe posto Esme di fronte a scelte diverse. Una di queste
era proprio la scelta del sangue.
“La felicità… non
ricordo bene cosa sia… ma forse, una volta con te l’ho provata…”
“Potrebbe essere
ancora così… credimi…” Sussurrai.
Una vaga tristezza
colorò il suo tono melodioso di voce.
“Non vorrei
offendere la memoria del mio bambino e diventare un’assassina… ero una madre,
Carlisle e non lo sarò più… ricordo che fu una gioia immensa…”
Ricordava il suo
bambino, ricordava di essere stata madre. Il passato non era ancora scomparso e
solo in quello stava la mia speranza.
“Non voglio
dimenticare cosa significa provare certi sentimenti… aiutami a non dimenticare,
Carlisle… ti prego…perché ho l’impressione che…”
Alla tristezza si
sostituì l’ansia: aveva paura probabilmente. L’incertezza delle sue parole mi
rendeva inquieto perché non sapevo esattamente come interpretarle. Forse
anch’io avevo paura; temevo decidesse di andarsene per sempre. Ma c’erano altre
priorità da affrontare nell’immediato.
Edward mi chiamò.
“Carlisle… sarà
meglio andare: è assetata…”
Rivolsi un cenno
d’assenso a mio figlio, prima di incoraggiarla nuovamente.
“Ti aiuterò Esme, non
sarai sola. Usciamo adesso: dobbiamo portarti a caccia…”
Uscimmo nella notte
di luna, inoltrandoci nel bosco attorno.
Esme colse
l’ebbrezza quasi delirante della sua nuova natura, aspirando odori, profumi di
resine e fragranze di piante fiorite, all’interno della boscaglia che si
estendeva rigogliosa e fitta per chilometri oltre la nostra casa. La notte
scura era illuminata dalla luce dell’astro notturno; il suo chiarore lunare
filtrava tra i rami intricati e faceva risplendere di candore mortale e inquietante,
la pelle nuova e fredda di Esme. Se occhi umani l’avessero vista nell’atmosfera
ambigua, quasi surreale di quella semioscurità, sarebbero rimasti affascinati
dalla bellezza eterea e forse, atterriti dallo sguardo di brace.
Esme si abbandonò al
suo istinto come io e Edward le dicevamo di fare; seguire le tracce olfattive
che restavano come scie nell’aria, sul terreno, sotto l’erba smossa, fiutare e
riconoscere le prede che non potevano sfuggire a tre vampiri assetati e
famelici.
Quando Esme fiutò la
sua prima possibile preda, successe una cosa strana, che mai mi sarei aspettato
di veder accadere a un membro della nostra specie.
Esme correva
attraverso la vegetazione, saettando tra le sagome nere degli alberi, i sensi
scatenati dall’euforia dell’inseguimento tesi a cogliere suoni, sibili, toni,
movimenti di polvere nell’aria, l’odore di umori, mentre l’adrenalina spingeva
al massimo sforzo i muscoli del povero animale; lo sentiva come lo sentivo io.
Il cuore del cervo pompava furioso il flusso del sangue impazzito, che correva
nelle vene del collo dell’animale impaurito. Il cervo non avrebbe avuto scampo
in circostanze normali. Ma quella non si sarebbe rivelata una circostanza
normale, anche se di anormale non aveva nulla in verità. Pochi chilometri, ed
Esme avrebbe raggiunto il cervo senza difficoltà, non c’era alcuna possibilità
che fallisse. Ma non andò così.
All’improvviso, come
se avesse avvertito un odore differente a confonderla, Esme smise di correre
arrestandosi di colpo; sul suo volto si era palesata un’ aria dubbiosa come di
chi percepisce qualcosa di famigliare che si è perso nella memoria nebulosa di
un ricordo. Esme aveva bloccato la sua corsa e noi con lei.
Si avvertiva
perfettamente l’odore dell’animale, era vicino e non poteva sfuggire, ma Esme
si rifiutò di continuare l’inseguimento. Emise un ringhio, si girò dall’altra
parte e prese a correre in direzione opposta; per un attimo ebbi timore che
avesse percepito delle presenze umane e che fosse partita all’inseguimento
della traccia.
Guardai Edward e per
l’ennesima volta, lo interrogai con lo sguardo; lui sapeva certamente cosa
passava per la testa di Esme. Mio figlio manteneva il passo senza sforzo, e
intanto, nella mia mente si affastellavano interrogativi di ogni sorta, mentre
cercavo di capire se ci fossero umani in giro, cosa che sarebbe stata assai
strana a quell’ora di notte. In risposta, Edward pronunciò solo una frase che
mi lasciò supporre molte cose, senza arrivare a intuire una verità quasi
incredibile. Non capivo cosa stava succedendo.
“Non è quello che
credi… Ha sentito l’odore di una femmina…”
“Ma perché si è
fermata? L’animale non ha cambiato direzione e io non avverto nulla
d’insolito…”
“È più semplice di
quanto credi, ma sarà lei stessa a spiegarti tutto, credo…”
Alla ricerca di
altre prede ci inoltrammo nell’interno del bosco, percorrendo ancora notevoli
distanze.
Quando Esme uccise
la sua prima preda, un vecchio cervo malato, con dei grossi palchi sulla testa,
lo fece senza quell’aggressività tipica dei neonati; lo dissanguò in fretta
concedendo al nobile e mite animale una morte rapida e quasi indolore, placando
solo in parte l’arsura della sete. Le ci vollero altri due animali giovani e
forti prima di ritenersi soddisfatta a cui prima spezzò l’osso del collo con un
movimento repentino delle mani.
Solo in quel
momento, alla fine della caccia le chiesi spiegazioni sul suo strano
comportamento di poc’anzi; mi era venuto un sospetto su quale potesse essere il
motivo, ma giudicavo incredibile che una vampira neonata di poche ore, potesse
fare con tanta immediatezza, una scelta così razionale.
“Esme, cosa è
accaduto prima? Perché hai smesso di inseguire la tua preda e l’hai lasciata
scappare?”
“Ho sentito un odore
che non era quello del sangue; era poco piacevole per me, ma era dolce. Mi è
sembrato stranamente famigliare, come se per qualche motivo mi appartenesse,
eppure non lo riconoscevo. Poi ho capito che era latte…”
“Latte?” domandai
incredulo. Non avevo avvertito l’odore, o comunque, non vi avevo prestato
troppa attenzione.
“Sì. Proprio latte.
Era una madre che stava allattando il suo cucciolo. Non so cosa sia stato, ma
qualcosa dentro di me, come una specie di nausea, mi ha impedito di darle la
caccia per ucciderla. Così ho cambiato direzione.”
Fu troppo
sorprendete sentire la sua risposta. Sia io che Edward, benché lui lo avesse
capito prima di me, ci guardavamo pieni di sconcerto, quasi senza parole. Nella
mia mente presero a vorticare così tanti pensieri, tutti associati all’immagine
delicata di Esme, che non fui capace di controllare le mie emozioni, un
miscuglio tra confusione, sollievo e un certo compiacimento simile
all’orgoglio.
“Sei molto confuso,
Carlisle… ma anche felice…” mi disse Edward. Mio figlio mi guardava con una
strana espressione nello sguardo, velata di un’insolita tristezza, eppure anche
lui era contento per me, né ero sicuro. Però indubbiamente, qualcosa lo
turbava, e questo fatto mi lasciava addosso una vaga inquietudine che offuscava
di poco la serenità che sentivo in quel momento.
Sì, ero inspiegabilmente
felice che Esme non avesse ucciso quella femmina di cervo.
Esme aveva avuto
compassione; quella di una madre per un’altra madre. Il fatto straordinario non
poteva che essere legato alla sua tragica esperienza umana. Era incredibile, ma
era così. La speranza che avesse delle affinità con me, metteva in agitazione
il mio cuore di vampiro e solleticava i miei pensieri.
Lei doveva essere
quella giusta, non avevo dubbi. Era perfetta, volevo crederlo; in qualche modo
inconscio lo sentivo fin dentro le ossa, eppure lei poco prima mi aveva fatto
chiaramente capire che non era sicura di poter abbracciare il mio stile di
vita. Un animale va bene, ma di fronte a un uomo sarebbe stata capace di fare
dietrofront? Di resistere al suo demone?
Guardai Edward per
l’ennesima volta, come se potessi trovare in lui le risposte ai miei dubbi. Ma
anche lui sembrava perplesso.
“È troppo presto per
fare qualsiasi considerazione… certo è incredibile; è come se avesse ancora un
inspiegabile istinto materno…”
Mi ero ripromesso di
chiarire altre questioni che la riguardavano e che avrebbero potuto essere
importanti per lei; il suo passato doloroso, che io ancora quasi ignoravo, se
non per alcuni fugaci dettagli scoperti per caso solo grazie a mio figlio.
Avrebbe conservato il ricordo del suo gesto umano e del perché lo aveva
compiuto? Volevo sapere, ma avevo timore di aprire la porta di una stanza
segreta che avrebbe dovuto restare sigillata.
Cosa restava davvero
della sua memoria umana?
Cosa ricordava davvero
di me, di quello che ci aveva legati in un'altra vita che sembrava lontana anni
luce? E soprattutto cosa rammentava del suo passato tragico e penoso? Volevo
scoprirlo. Ne avevo un disperato bisogno.
Terminata la caccia
tornammo verso casa rapidamente.
Esme camminava di
fianco a me con incedere tranquillo, ma deciso. Stava albeggiando; il cielo si
schiariva mano a mano, facendo apparire le sagome degli alberi un po’ meno
spettrali e inquietanti.
Raggiungemmo la
nostra casa. Ci fermammo in salotto dove c’era un tavolo piuttosto grande con
alcune sedie. Io e Esme ci sedemmo, Edward rimase fermo in piedi a un lato del
tavolo, apprestandosi ad ascoltare il colloquio che di lì a poco si sarebbe
svolto nella stanza.
Guardai Esme con
tutta la dolcezza che potevo riversare nei miei occhi dorati, prima di
incalzarla con le mie domande. Non volevo che si sentisse oppressa, temevo che
potesse rivelarsi restia ad aprirsi, ma l’incertezza di non sapere, mi turbava
rendendomi nervoso. Sarei stato più tranquillo se avessi saputo la verità,
anche quella più scomoda, anche se fosse stata un pegno doloroso da portare.
Per lei potevo sopportare tutto.
“Esme, cosa ricordi
della tua vita umana? Ti ricordi quando ci siamo incontrati io e te?”
Iniziai con assoluta
calma, imponendomi quasi di essere paziente. Dentro smaniavo.
Lei nell’immediato,
si dimostrò assai disponibile a quel confronto e fui meravigliato dalla totale
fiducia che mi dimostrava; mi sembrò una buona partenza, una nuova occasione
che mi veniva concessa contro ogni mia aspettativa.
“I ricordi sono un
po’ confusi, ma alcune immagini sono più vivide di altre… mi ricordo di te,
Carlisle… di noi insieme in un parco tra foglie morte… ricordo bene il nostro
addio… quello che ho provato…”
A quelle parole
tornò un lieve dolore che non avevo mai soffocato del tutto.
“Oh, Esme… Cosa è
accaduto dopo che me ne sono andato da Columbus?” sospiravo.
Lei iniziò a
raccontare, e ogni parola che pronunciava era come un fiore delicato che mi
porgeva, ma recava sempre la controparte di erba amara e cattiva.
“Carlisle, mi sei
mancato così tanto. Questo lo ricordo. Subito dopo la tua partenza, mi sono
sentita male; non avevo più un motivo per andare avanti, la mia vitanon aveva senso, mi pareva piatta e senza
prospettive future. Senza di te mi sentivo sola, abbandonata…”
“Adesso puoi capire
perché fui costretto a farlo; mi stavo lasciando coinvolgere troppo, stavamo
scivolando su una china pericolosa, soprattutto per te… Non immagini quanto mi
sia costato andare via, Esme.”
“Certo, e non è
colpa di nessuno quanto è accaduto. All’epoca, ero una giovane donna sposata,
ma infelice. Profondamente infelice. Mio marito non si curava di me. Il nostro
non fu mai un matrimonio d’amore, anche se a momenti,ho sperato che potesse diventarlo, ma presto ho imparato a
guardare la realtà per quello che era. Nessuna favola per me. Charles,
semplicemente non mi amava, e io del resto, non amavo lui. Sapevo che mi
tradiva abitualmente, ma non mi importava poi così tanto. Lo lasciavo fare,
bastava che mi lasciasse in pace. Vivevo una vita falsa e lo sapevo; accettavo
ciò che era inaccettabile perché ero convinta di non poter cambiare nulla,
finché quell’esistenza divenne insostenibile. Solo allora, ho deciso che doveva
cambiare qualcosa…”
Seguitai ad ascoltarla,
senza interrompere quel flusso impetuoso di ricordi che si erano mantenuti
straordinariamente nitidi, che mi investivano e mi trasportavano lontano, con
la forza di un fiume in piena che rompe gli argini. E mi lasciai travolgere
dall’acqua senza opporre resistenza.
*****
Più l’ascoltavo, più
mi sembrava che una comune sofferenza ci accomunasse; era come se avessimo
vissuto lo stesso vuoto esistenziale, lo stesso tormento scatenato da una vita
con pochi slanci e motivazioni reali.
Un’esistenza assurda
la mia come la sua.
Le nostre vite erano
state menzogne meschine quasi senza scopo e solo apparentemente normali.
Io ero un vampiro
che per secoli aveva finto di vivere come un uomo, cullandosi dentro una
chimera di umanità, e lei era stata una giovane donna sposata, chiusa dentro
un’illusione di felicità, sufficiente a suggerire all’esterno, l’immagine di
una donna soddisfatta del traguardo raggiunto. Mi tornò alla mente un discorso
che avevamo avuto un tempo; secondo Esme, eravamo tutti attori sul palcoscenico
del mondo, che interpretavano una parte a beneficio del pubblico. Quanta era
l’umanità che si prestava a quella recita quotidiana senza fine?
Anche i vampiri - io
più di tutti gli altri - recitavano in quello stesso teatro, senza essere mai
veramente sfiorati nel profondo dalla storia che si andava rappresentando.
Pertutte queste ragioni, insieme potevamo
completarci.
Eravamo due
solitudini che si erano trovate sullo stesso terreno fragile, due vite che
potevano avere un senso, solo tra loro. Eravamo assolutamente affini nel
sentire, nel porci verso le cose.
Forse per questo, ci
eravamo trovati uno sulla strada dell’altro. Per le medesime esistenze. Per gli
stessi bisogni.
- Cominciai a desiderare un bambino…
Iniziai a pensare che un figlio potesse creare un legame
autentico tra me e Charles. Se fossimo stati veramente una famiglia, avrei
avuto qualcuno da amare sul serio. E forse anche Charles mi avrebbe guardata in
modo diverso. Poi, un giorno, sei arrivato tu, e tutto è cambiato in un modo
che non avevo previsto…
Incontrare te, è stato come riscoprire me stessa,
imparare a conoscermi, ritrovare sentimenti che credevo di non poter più
provare verso qualcuno che mi faceva sentire amata, che sapeva ascoltarmi e comprendermi.
Sentivo che quell’amore era totalmente esclusivo, unico. Non lo avevo mai
provato prima e benché fosse sbagliato, mai più avrei amato con la stessa
intensità un altro uomo.
Mi sentivo così affine a te…Erano vere affinità elettive, Carlisle. Era qualcosa di
straordinario.
Eppure mi rendevo conto che c’era un abisso a dividerci,
qualcosa che era insormontabile e che ci avrebbe allontanati, come poi è
successo. Quando esplose l’epidemia di spagnola, Charles si decise ad
abbandonare la sua amante, e insieme, ci allontanammo dalla città di Columbus.
Sperai fosse un nuovo inizio. Dicevo a me stessa che potevo imparare ad amarlo…
devo averci anche provato…
Tu improvvisamente eri uscito dalla mia vita. Doveva
esserci una ragione. Non è accaduto subito, ma col tempo, forse per cercare di
dimenticarti mi sono riavvicinata a mio marito. Dovevo tentare di rassegnarmi
in qualche modo, per non impazzire del tutto, e ho pensato che quella fosse la
soluzione più semplice e immediata. All’inizio, per un certo periodo ha
funzionato…
Charles aveva abbandonato la sua amante che forse gli
faceva troppe pressioni.
Credo che nonostante
tutto, lui tenesse alle apparenze, ed era essenziale mantenere la facciata di
uomo rispettabile nella buona società. Un divorzio lo avrebbe danneggiato; per
calcolo, era preferibile far funzionare un matrimonio che sfasciarlo e si era
riavvicinato a me anche per questo.
Più ci pensavo, più mi sembrava una cosa meschina dovermi
adattare a quelle maledette convenienze, ma non avevo valide alternative. Così
mi sono adattata a vivere in un modo che non era congeniale per me, pensando di
poter trovare un punto d’equilibrio, o forse un compromesso. Di comune accordo
lasciammo Columbus e ci trasferimmo ad Ashland.
L’ascoltavo ed ero
avido di ogni parola, di ogni sospiro, di ogni pausa che inseriva nel suo
racconto; parlava e ogni parola evocava immagini a me sconosciute, momenti che
non avrei mai condiviso con lei, che invece, erano appartenuti a un altro uomo,
quel marito che l’aveva resa infelice, ma che si era decisa ad accettare.
Ero in parte
sbalordito dalla forza che aveva messo nella sua determinazione. Dal coraggio
che aveva saputo trovare per proseguire la sua vita. Potevo capirla; cos’altro
avrebbe potuto fare, se non tentare di mettere le sue energie in quel
matrimonio ancora troppo fragile?
I sentimenti sono
come piante delicate che vanno curate e innaffiate regolarmente, se vuoi che
crescano rigogliose e sane. Le risorse umane sono sorprendenti, la loro
capacità di adattamento è molto spesso quell’elemento che li salva dalle
situazioni peggiori e drammatiche. Ma il destino a volte gioca delle carte che
tu non ti aspetti e non sempre si hanno in mano le figure giuste per
contrattaccare.
Ogni tanto la mia
attenzione si spostava su Edward, che per tutto il tempo era rimasto in
silenzio, assolutamente immobile a braccia conserte, contro una parete della
stanza.
Il suo sguardo
mutevole era indecifrabile, ma capivo che era turbato dal lungo racconto che si
era trovato ad ascoltare. Quello che io potevo solo immaginare attraverso le
parole di Esme, lui lo poteva vedere da una diversa prospettiva, attraverso i
pensieri che leggeva. Forse le sfumature che riusciva a cogliere erano diverse
dalle mie. Ma Esme stava entrando nella parte più drammatica del racconto. La
sua voce melodiosa lentamente diventò grave, carica di un dolore intenso che
pareva essersi inciso nella sua carne dura, come un fossile nella pietra. E lì
sarebbe rimasto, come un marchio indelebile sul suo cuore senza battiti.
- Qui passammo un periodo relativamente tranquillo,
addirittura sereno. Fummo quasi felici, ma i ricordi mi assalivano sempre
perché molto spesso pensavo a te; mi chiedevo dove fossi e se ci saremmo mai
incontrati di nuovo. I sentimenti che provavo per te non erano scomparsi, erano
lì, da qualche parte, li avevo solo nascosti in fondo al cuore. Quando non ci
speravo più, restai incinta.
Mi sembrò qualcosa di meraviglioso, come se la vita mi
stesse dando una nuova occasione per essere felice e anche Charles, accolse la
notizia con gioia profonda.
Si dimostrò
entusiasta di diventare padre e l’evento ci fece avvicinare ulteriormente.
Posso dire con estrema convinzione che fu il periodo più bello del nostro
matrimonio. Quando Derek, il nostro bambino venne alla luce, mi sembrò davvero
di aver superato tutto; era un nuovo inizio, avevo fiducia nel futuro, mi
sembrava che la vita mi si aprisse davanti in tutta la sua meraviglia. Quanto
lo avevo desiderato…
Ma la gioia fu di
breve durata, perché un destino infausto incombeva su di noi e su mio figlio.
Derek si ammalò di un’ infezione polmonare a pochi mesi
dalla nascita.
I medici dissero che
era grave, ma che poteva guarire e noi sperammo, fino alla fine. Ma fu tutto
inutile.
Un mattino troppo
luminoso di fine estate, gli occhi del mio piccolo Derek si chiusero per
sempre, dopo una notte di agonia passata a pregare accanto a lui. La mia vita
finì in quel momento.
Il mio matrimonio
finì in quel momento perché Charles si allontanò di nuovo, chiudendosi in se
stesso, ignorandomi, lasciandomi annegare nel mio dolore, facendomi sentire
colpevole. Per lui semplicemente non esistevo più, tornò a essere l’uomo
indifferente che era stato un tempo.
Sono andata avanti
qualche mese, come un automa. A volte non mangiavo e non mi lavavo nemmeno più.
Restavo ferma tutto il giorno su una sedia a dondolo a guardare una culla vuota
che avevo davanti a me, fino a che il vuoto non mi ha risucchiata.
Non ricordo con
esattezza, dopo quanto tempo mi sono alzata da quella sedia. Non ricordo se ci
fosse il sole, se c’era luce, se era giorno o sera; mi sono allontanata da
casa, e non so per quanto tempo ho camminato senza governare le mie gambe. Era
come se avessero una volontà propria. Devo aver percorso chilometri, ma senza
una meta da raggiungere. O forse, quello che volevo raggiungere non era lì, ma
altrove. Non avevo pensieri di alcuna sorta. Senza sapere come, mi sono trovata
in prossimità di quel dirupo, poco fuori città.
Mi parve così facile,
lanciarmi nel vuoto e lasciarmi andare nell’aria, senza opporre resistenza.
Farla finita col
dolore, con la disperazione, con il senso di vuoto che soffocava la mia vita.
Mentre cadevo, ho
avuto solo il tempo di pensare al volto del mio piccolo Derek.
Pochi secondi… ho
sentito l’attrito freddo dell’aria che mi schiacciava i vestiti addosso…
poi, il buio mi ha
inghiottita.
Quando mi sono
svegliata per il dolore, ti ho visto.
Non capivo; credevo
fosse un sogno o forse, era un incubo. Stavo malissimo e soffrivo in un modo
disumano. Forse era una punizione per le mie azioni. Poi è arrivata la verità
incredibile delle tue parole…
Siamo davvero
maledetti, Carlisle?
Il racconto
di Esme si era concluso con la domanda più difficile e più dura che potesse rivolgermi.
La mia risposta sarebbe stata forse altrettanto dura, ma non priva di speranza.
“Molto probabilmente
sì… la nostra condizione è quella di esseri dannati. Ma non dobbiamo per forza
rassegnarci a questo. Possiamo tentare di alleggerire il nostro fardello,
scegliendo di vivere senza il sangue umano…”
“Prima hai detto di
aver trasformato Edward perché stava morendo…”
“Sì, è esatto.”
“Mi avresti mai
trasformata, se non avessi tentato il suicidio? Hai mai desiderato farlo per te
stesso?”
La guardai fisso per
un attimo. Dovevo dirle la verità? Dovevo dirle che per un istante, il mio
egoismo mi aveva fatto desiderare di non essere più solo?
Rivolsi un’occhiata
a Edward, sempre immobile contro la parete della stanza. Lui colse la mia
esitazione.
Non distolse mai i
suoi occhi ambrati che mi scrutavano lievemente ironici. Eppure, nello sguardo
calmo aveva sempre quell’ombra grigia indefinita che non comprendevo e mi
metteva un po’ in ansia. Sapevo che si aspettava il massimo da me; il coraggio
della verità. Se avessi deluso questa sua aspettativa, sarebbe stato un
ulteriore motivo di scontro con lui. Non avevo il suo potere, ma riuscivo a
immaginare quello che stava pensando…
Coraggio, Carlisle…
dille la verità…
“Hai
indovinato.- Mi confermò - Devi essere
onesto con lei, non credi?” Aggiunse, scostandosi di poco dal muro. Non potevo
mentire, non potevo più nascondermi. Esme attendeva la mia risposta e il suo
sguardo vagava tra me e Edward, nel tentativo di decifrare il nostro strano
linguaggio.
Forse non aveva
ancora capito che Edward riusciva a leggere i nostri pensieri.
“Esme, a
dire il vero, c’è stato un momento… in cui ho desiderato trasformarti. Mi
dispiace, sono fuggito anche per questo… Non volevo scoprire di poter essere
debole…”
Il suo viso
bellissimo si aprì in un sorriso di comprensione, mentre con una mano mi
accarezzò una guancia.
Era la
prima volta che mi sfiorava intenzionalmente.
“Ci vuole
più forza a confessare una cosa così… ti ringrazio di non averlo fatto allora;
mi hai dato la possibilità di essere libera, di lottare ancora per la mia
vita.”
Una libertà
durata poco, che si era scontrata con la realtà più amara e terribile.
Il destino
più crudele e spietato si era accanito su Esme. Forse anche in me, c’era qualcosa
d’impietoso.
Io forse, per
paradosso ero stato la sua mala sorte. Se non ci fossimo mai incontrati, la
vita di Esme sarebbe proseguita senza scosse violente a mutarne il corso degli
eventi?
In quel attimo,
davanti a lei, avevo la forte sensazione che ogni cosa, dalla più lieta alla
più tragica e angosciosa, fosse accaduta allo scopo di ricongiungere e saldare
insieme le nostre vite, i cui fili si erano intrecciati in un arabesco
misterioso, complicato e contorto, non facile da leggere. Ancora lo ignoravo,
ma quei fili, che avevano imbastito la nostra sorte dolce amara, mai più si
sarebbero sciolti…
Continua…
Scusate
davvero l’enorme ritardo, ma prima non ho potuto aggiornare. Spero che non vi
siate stancate di seguire la mia storia.
Ho
visto che si sono aggiunti nuovi lettori tra chi preferisce, ricorda o segue
questa ff. La cosa mi fa un enorme piacere e spero che avrete voglia di
lasciarmi un commento, se vi andrà, e dirmi come avete trovato quest’ultimo
capitolo.
Non
è stato facile da scrivere; l’ho modificato tante di quelle volte che ho perso
il conto, spostando su e giù, tagliando e aggiungendo. Ho fatto del mio meglio,
ma mi resta qualche incertezza su come l’ho impostato.
Ho
qualche perplessità, più che altro nella forma, temo che verso la fine, possa
apparire discontinua, perché ho voluto spezzare il racconto di Esme,
inframmezzandolo di riflessioni di Carlisle. Accetto consigli a riguardo, mi
riservo di modificare quella parte.
Vi
ringrazio sempre di cuore per ogni vostro commento che è sempre bene accetto.
Intanto
vi saluto, e ancora grazie infinite. Alla prossima.
Scusate l’immenso ritardo, ma questo capitolo è stato un grosso
ostacolo da superare. Ci ho messo l’anima per scriverlo e spero che vi piaccia,
anche se… non so. Forse vi sorprenderà. In bene, spero.
Ringrazio Audreyny che lo ha letto in anteprima, mi ha aiutato e
mi ha rassicurato sui dubbi che potevo avere.
Tetide, questo lo dedico a te, per il tuo entusiasmo e la tua
costanza che mi spinge ad andare avanti con questa storia.
Grazie a tutte voi che leggete, e pazienti, continuate a
seguire. Buona lettura.
*****
Iniziò a nascere in me qualcosa che potevo chiamare
felicità, se questo stato dell’essere può esistere per un vampiro, una creatura
cui non è attribuita un’anima.
In passato avevo avuto dei momenti di serenità
legati al mio lavoro, al contatto con altre creature come me, come Eleazar e
gli altri membri del Clan di Denali.
Ma si era trattato solo di attimi fugaci che
duravano lo spazio di una breve stagione della mia esistenza eterna, perché la
solitudine che per poco tempo mi abbandonava, tornava poi ad assalirmi quando
mi accorgevo che non potevo accontentarmi di un benessere illusorio e quanto
mai effimero.
La pace dell’anima anelata col timore di non
raggiungerla mai, per una casualità incredibile e formidabile, l’avevo trovata
in ospedale, a contatto con l’umanità che potevo tentare di salvare, espiando
così quello che ero diventato.
Ma non avevo mai sconfitto davvero la solitudine. Essa
era sempre lì, nascosta, che attendeva di afferrarmi nuovamente appena avessi abbassato
le mie difese. Quell’abisso oscuro che mi divorava l’anima, periodicamente
tornava ad aprirsi e ogni volta, sembrava che il buco che avevo al posto del
cuore si allargasse, e richiuderlo diventava sempre più difficoltoso.
La prima vera mossa per vincere quel malessere cupo
era stata la trasformazione di Edward, ma la tensione che subito era esistita
tra noi, non aveva reso quell’atto perfetto; non ero più solo, ma se possibile,
ero più dilaniato di prima, attraversato costantemente dal dubbio, perché
Edward non concedeva risposte facili ai dilemmi che mi ponevo da sempre.
Solo con Esme, questa pace quasi rubata alla sorte,
divenne completa e totale.
Solo con Esme, avevo scoperto il vero amore, quello
più puro, profondo e costante; quello mai compreso e misterioso, narrato dai
poeti e rappresentato dagli artisti, tanto forte da riempire il cuore muto e
sommergere anche l’anima smarrita di un non morto; quello che travolgeva e
culminava nel desiderio che restava inappagato.
Prima di Esme, non sapevo cosa volesse dire essere
affini a qualcuno.
Accanto a lei, lo scoprii.
Scoprii cosa significasse avvertire una vera
affinità di spirito, di vita, di pensiero e sentire comune, e viverlo insieme;
era comunicare senza usare le parole, senza rubare i pensieri all’altro, ma
solo concepirli un attimo prima che venissero formulati. E lentamente cominciai
a credere che anche le preghiere di un vampiro potevano essere ascoltate e
esaudite, da chissà quale dio remoto e lontano.
Esme, con semplicità davvero straordinaria per una
neonata, sembrò accettare la sua nuova inquietante natura, e si adattò con
sorprendente tenacia a evitare ogni possibile contatto umano, durante il primo
periodo di quella sua nuova vita, nei primi mesi della nostra convivenza.
Anche il suo rapporto con Edward era decisamente
migliore del mio; benché avessero solo pochi anni di differenza e lei potesse
apparire come una sorella maggiore, per istinto era portata ad avere un atteggiamento
comprensivo, quasi materno con lui. Tra loro non c’era distanza, ma una sorta
di confronto quasi ad armi pari.
“Dovresti andare a caccia; è più di una settimana
che non lo fai e nel tuo caso non va bene. A scuola potresti avere delle
difficoltà, vicino agli altri ragazzi. È più facile resistere se non si è
assetati.”
E mio figlio tra il serio e il faceto, molto spesso
l’ascoltava.
“Va bene, mamma apprensiva… Faccio come vuoi.
Così a scuola non assalirò nessuno dei miei noiosi compagni. Alcuni fra loro,
sono particolarmente irritanti…”
“Perché ti sforzi di essere cinico? Tu non sei
così…”
“Cerco di resistere al tedio. Non sai che fatica sia
a volte, dovermi adattare ai loro pensieri, dominati dagli ormoni in subbuglio…
le menti umane degli adolescenti sono così scialbe, banali. Sono davvero poche
quelle interessanti.”
“Potresti anche trovare un amico tra loro… non si sa
mai.”
“Amico? - Esclamava stupefatto e lievemente
divertito. – Che idea bizzarra. Nessuno vorrebbe essere amico di un vampiro, e
non mi avvicino tanto a loro perché questo avvenga.”
“È un peccato Edward…” Rispondeva Esme con una punta
di tristezza. Seguiva un silenzio denso di segreti, che solo Edward poteva
sentire, e immaginavo che fosse saturo del pensiero più intimo di lei, il ricordo
ormai sfocato della sua esperienzada umana, donna innamorata di un
vampiro.
“Già… Sai Esme, forse non dovrei dirlo, ma sono
felice che tu sia arrivata in mezzo a noi… Felice per Carlisle, intendo… Credo
davvero che tu sarai una giusta compagna; sei così forte, così simile a lui,
non lo deluderai come quasi certamente farò io…”
“Ne sei così sicuro? Non puoi sapere che cosa
farai…”
“No, è vero. Ma avverto troppo chiaramente le mie
debolezze…” obbiettava Edward.
Nella risposta di Esme, era espresso, oltre il
timore, un sentimento di affinità.
“Comunque, io non credo di essere come dici; anch’io
ho paura di deluderlo. Di non saperlo amare come merita. In maniera profonda…”
A volte il mio desiderio di sangue, di altro…
è così potente… così deleterio… se lui sapesse…
“Ti comprenderebbe. Esme, non devi vergognarti della
tua natura, dei tuoi impulsi; li hanno tutti i neonati, è normale. Questa è una
cosa che anche lui mi ha sempre detto.”
Sembrava facile per
lei, ma sapevo che in realtà i suoi sforzi erano frutto di una volontà di
ferro. Ma non era il disgusto di se stessa a muoverla.
In lei, non
avvertivo la tensione che c’era in Edward, quel conflitto che dilaniava la
carne e il corpo di un vampiro, tra quello che vorresti soddisfare, la brama di
sangue, quel liquido denso capace di dare calore al nostro cuore di ghiaccio, e
ciò che non vuoi essere, un mostro omicida. Non che in Esme non ci fosse questo
conflitto, ma sapeva controllarlo molto meglio di mio figlio. Semplicemente,
aveva scelto di non ascoltarlo, quasi di ignorarlo. Era stupefacente la forza
che metteva in questo.
Forse non avrei
dovuto sorprendermi, perché in tale atteggiamento, riconoscevo perfettamente la
donna che avevo incontrato un mattino liquido e chiaro, diversi anni prima, nel
mio studio. Era la stessa audacia, la stessa determinazione.
Lo stesso coraggio
che la faceva camminare senza abbassare mai la testa.
“Esme, è
sorprendente il modo che hai di accettare tutto quanto… non mi sarei mai
aspettato una simile capacità di adattamento.”
“È inutile opporsi
alla sorte, no? Si rischia solamente di farsi ancora più male, tentando di
resistere a essa. Sono stata un’umana infelice; non so esattamente come, ma
voglio credere che da vampira potrà essere diverso.”
Rispondeva così, di
fronte alle mie perplessità, quando mi fermavo meravigliato a guardarla, mentre
composta, accettava con apparente naturalezza di essere entrata nel mio mondo.
“L’eternità si paga
a caro prezzo; significa anche rinunciare a molto. Per sempre. Per ora, non te
ne rendi conto, ma domani potresti accorgerti che sei stata privata di tutte
quelle esperienze umane che arricchiscono la vita, Esme… Vorrei che tu mi
dicessi onestamente cosa pensi… vorrei sentirlo da te… prima che Edward possa
leggerlo nella tua mente.”
Le chiedevo col
timore di sentire le stesse accuse che mi erano state mosse da Edward.
“Siamo tutti
responsabili, Carlisle. Io stessa ho fatto una scelta che mi ha portato a
questo. Io ho tentato di distruggere la mia vita, che non aveva senso e tu me
ne hai restituita un’ altra. Forse lo hai fatto perché mi amavi e io non posso
avercela con te per i tuoi sentimenti. Ma so cos’è la solitudine; può fare
molto male e può rendere folli gli uomini. Non voglio prenderla come una
condanna, ma come una possibilità. A volte rifletto su quello che è stato; ho
come l’impressione che ogni cosa dovesse portarmi qui, che tutto sia stato
pianificato da qualcuno che non sono io… e neppure tu. Gli uomini si affannano
tanto a progettare la loro esistenza, lo so bene anch’io, ma a volte si tratta
solo di accettare quello che viene perché non si può fare altro. E allora tutto
va come doveva andare fin dall’inizio…”
Era strano per me
sentirla parlare così, avvertire questa fiducia che metteva nella sua nuova
esistenza e in me. Le sue parole mi davano un enorme conforto.
Ma non tutto era
così semplice come appariva.
Esme non lasciava
che io vedessi la fatica della sua resistenza, la tensione che metteva nei suoi
sforzi. E tutti i neonati devono fare i conti con i loro impulsi primari più
feroci.
A volte pretendeva
di andare a caccia da sola, senza che nessuno la seguisse. Tentavo di
immaginarla in quei momenti di solitudine, e mi riusciva difficile. Edward
aveva sondato i pensieri che la sconvolgevano e io avevo osservato i suoi occhi
rossi e cupi e avevo chiesto spiegazioni.
“Non vuole che tu
veda la rabbia, la ferocia che le annebbia la vista al profumo del sangue. Esme
è molto forte e dolce nello stesso tempo, ma quando il demone vince la sua
volontà, sembra un'altra persona. Stenteresti a riconoscerla. Io stesso sono
sorpreso dai suoi pensieri. Sembra così simile a me, a volte… eppure è
diversa…” Mi confidò.
C’era una lotta
segreta in lei, che Edward aveva colto, ma che non mi rivelava per discrezione.
Sia io che Edward,
cercammo di rispettare questo suo bisogno di riservatezza che col tempo si
sarebbe affievolito da solo. Mi resi conto che conservavo di Esme un’ immagine
ideale, perfetta, che non volevo sporcare con la mostruosità della realtà.
Sapevo bene che non
poteva essere così; ora Esme era un vampiro, con tutto quello che ne
conseguiva. Non troppo latente in lei, doveva esserci una parte oscura, eppure
non riuscivo a visualizzarla nelle sue pulsioni da neonata, mentre lasciava
uscire liberamente la sua furia, lasciandosi dominare dall’eccitazione violenta
della sete, forse perché durante la prima caccia aveva saputo controllarsi così
bene; e lei che magari aveva intuito i miei pensieri senza leggerli, per una
sorta di strano pudore, o vergogna, non voleva mostrare sentimenti così
estremi.
Quando tornava dalle
sue cacce solitarie, i suoi occhi avevano preso una sfumatura diversa, meno
aggressiva, il suo viso bellissimo e pallido era rilassato e mi sorrideva
serafica.
E io la riaccoglievo
vicina al mio fianco, sotto la veranda della nostra casa all’estremità della
boscaglia, e restavamo lì, a guardare la luce morente del giorno che volgeva al
crepuscolo, mentre i nostri silenzi gridavano più delle parole che non osavamo
ancora pronunciare.
La sintonia che si
creò tra noi era tale che ci sorprese negli sguardi che si perdevano a volte,
dentro le profondità dell’altro. Nel pozzo dei suoi occhi rossi che lentamente,
giorno per giorno, andavano schiarendosi in una sfumatura più tenue, ritrovavo
il nostro amore originario che pareva risorgere come una fiamma antica, mai
estinta, che si alimentava di nuova energia. E il desiderio tenace, che
oscurava le nostre iridi, cresceva in me come in lei.
Lo percepivo
chiaramente, dietro le parole, nell’intonazione soffocata ma seducente delle
nostre voci, negli occhi che si inseguivano e si catturavano.
Tornavo
dall’ospedale e la trovavo ad aspettarmi seduta sulla sedia a dondolo della
veranda. Qualche volta Edward era con lei, ma appena io comparivo, mio figlio
si eclissava subito, dileguandosi nell’intrico del bosco. Ero contento che
avesse instaurato un buon rapporto con Esme, e attraverso lei, cercavo di non
perdere il contatto con mio figlio. Era come se Esme gettasse un ponte tra me e
lui. Ma pareva che Edward non sempre avesse voglia di attraversarlo.
“A volte ho
l’impressione che stia cercando di allontanarsi, ma che gli manchi la forza per
farlo… e io non so per quanto potrò trattenerlo. Lo sento molto sfuggente
ultimamente… specie da quando tu sei qui…” confidavo a lei, che mi sorprendeva
sempre un po’ con la sua comprensione, la stessa che avrebbe avuto una madre
verso un figlio.
“Pensi, Carlisle,
che io possa essere la causa dei suoi malumori?”
“No, non sei tu… con
te si confronta volentieri. C’è qualcos’altro…”
“Edward, è un’anima
tormentata. Sembra infelice; mi dispiace perché potrebbe vivere meglio,
accettando la sua vita. Ma dalle sue parole ho capito che è in conflitto più
con se stesso che con te.”
“Lui non crede di
avere un’anima; disprezza profondamente se stesso, ma dà a me, la colpa di ciò
che è… forse non ha neppure tutti i torti… In fondo, non siamo altro che
mostri, abomini di natura.” risposi amareggiato.
“Eppure, Carlisle,
quando parla di te, ha le stesse parole di stima che avrebbe verso un padre… -
diceva convinta. - E io non ho mai pensato che tu fossi un mostro… neppure nel
momento più estremo, quando il mio cuore martoriato si è arreso alla forza del
tuo veleno e ha smesso di battere.”
L’ascoltavo e il mio
cuore freddo e spento da secoli, sembrava si allargasse nel petto per contenere
l’ intima pace che sapevano darmi le sue parole così terribili, eppure piene di
comprensione.
Parlavamo come un
tempo, forse di più, ed Esme mi faceva infinite domande sulla mia vita, sul mio
lavoro, sulle sensazioni che mi dava, sul passato e sul futuro.
“Ti piace davvero
fare il medico; si capisce guardandoti… L’inizio non dev’essere stato facile,
però…”
“È vero, non lo è
stato; una delle ragioni per cui amo il mio lavoro, è perché mi fa sentire
umano...”
“Umano… - Esme mi
lanciò un’ occhiata obliqua indagatrice, mentre mi pareva che stesse soppesando
quella parola. - C’è qualcos’altro oltre al tuo lavoro, che ti fa sentire
umano, Carlisle?”
La guardai
intensamente; lessi dentro quello sguardo profondo come un abisso in cui potevo
perdermi, la risposta che voleva e si aspettava da me. E senza resistere, mi
lasciai imprigionare in quel pozzo ombroso e mutevole che erano i suoi occhi.
“Tu, Esme… Tu mi
facevi e mi fai sentire… umano…” risposi in un soffio, accostando
pericolosamente il mio viso al suo.
Era implicito il
significato delle mie parole e Esme lo colse di sicuro, ma distolse i suoi
occhi che presero a vagare nell’ambiente attorno. Poi tornarono a posarsi su di
me per scrutarmi nuovamente e catturarmi nelle loro profondità.
“Come hai scoperto
la tua vocazione? Come hai fatto a coltivarla, senza farti sopraffare dal
desiderio per il sangue? Non era una tentazione costante?”
Ero ancora troppo
vicino a lei, tanto che percepivo chiaramente il profumo invitante del suo
respiro.
Mi allontanai un
poco.
“Qualche volta sì,
ma sono sempre stato determinato… La vocazione l’ho scoperta per caso; ho
iniziato a studiare medicina e anatomia pochi anni dopo la mia nascita…”
Le raccontai così
dei miei inizi, di come era nata in me la passione per la scienza medica, di
come avevo condotto quella scelta e l’avevo portata fino in fondo.
Passai infiniti
momenti a raccontarle di tutta la mia vita, avevo secoli alle spalle da
dividere con lei e volevo che le appartenessero; ogni pensiero, ogni
esitazione, ogni debolezza che mi avevano attraversato, l’infelicità della mia
condizione maledetta, il senso di disgusto per me stesso. E poi l’amore, quello
vero nato con lei, la voglia di non esser più solo, la paura disperata di
cedere al mio egoismo, il mio desiderio di avere una famiglia, di mettere
radici, di costruire qualcosa che potesse dare un senso a tutto quello che
sembrava non averne, una ragione, un motivo a giustificare il mistero di ciò
che ero. Il mio bisogno di condividere con lei la mia vita assurda.
Una tragedia che
trovava il suo riscatto nello sguardo innamorato di Esme.
Ma lei non si
accontentava della superficie, di quello che osavo mostrare attraverso il
filtro delle mie parole che pure erano sincere; come aveva fatto da umana,
voleva guardare dietro le cose, voleva scrutare oltre la maschera che portavo.
Continuava a fare
domande che mi scavavano a fondo. Voleva entrarmi dentro.
“Sai, Carlisle,
ricordo poco dei nostri incontri a Columbus… un viale alberato, foglie morte
con i colori dell’autunno… ma c’era un particolare che mi aveva colpito; i tuoi
occhi dorati, in certi momenti diventavano più scuri… non capivo esattamente
perché…”
“Cosa pensavi
allora?”
“A volte, mi
sembrava di leggere in essi l’ombra di un’emozione cupa, la stessa che c’è
anche ora…”
Parlava e intanto mi
guardava fisso. Mi sentivo attraversato dal suo sguardo.
“Adesso lo hai
capito cos’era? … Che cos’è?”
“Credo di sì, ma
voglio sentirlo dire da te. Hai mai avuto altre tentazioni più umane,
con me? Mi volevi, Carlisle? Non il mio sangue, ma… Mi volevi come un uomo
desidera una donna?”
Mi domandò
impietosa, provocandomi, avvicinando il suo corpo al mio, e io non mi feci
alcuno scrupolo di parlare liberamente, mentre col pollice le sfioravo una
guancia e scendevo lasciando scivolare la mano aperta lungo il collo bianco e
liscio.
“Tu sei stata un’
enorme tentazione… in ogni senso… anche in quello… Lo sei anche adesso, forse
di più.” le confessai senza remore, mentre i nostri sguardi si allacciavano.
“So cosa vuol dire…”
sospirò, e lo sapeva davvero.
Non l’avevo ancora
baciata, neppure una volta.
Attraverso il
susseguirsi dei giorni, durante le ore passate nelle corsie dell’ ospedale,
quel pensiero aveva iniziato a farsi strada nella mia mente quasi come un’
ossessione, tanto che addirittura Edward ne fu esasperato.
“Perché non ti
decidi? Anche lei si chiede perché ancora non lo hai fatto.”
Edward rivelava
tutto il suo nervosismo, per me abbastanza incomprensibile. In effetti, anche
il suo comportamento era strano. Ma in quel momento ero troppo distratto da
Esme, per osservarlo con la giusta attenzione.
Era la prima volta
che mi trovavo a gestire sentimenti così dirompenti, che mi mettevano addosso
una specie di ansia.
Era strana la mia
esitazione. Quasi fossi in attesa di un segnale da lei.
Era la paura di non
essere accettato, magari respinto, il timore di essere inadeguato; l’amore è un
sentimento che può far sentire così insicuri, una fragilità tutta umana, quasi
sconosciuta per un vampiro, una forza capace di sgretolare e rendere friabile
anche la materia dura di cui sono fatto.
Con Heidi non era
accaduto perché con lei tutto si era acceso in fretta, e altrettanto in fretta
si era consumato.
Non c’era stata
l’attesa, né la scoperta, ma solo voglie divoranti e divorate, bruciate nella
frenesia di piaceri a volte violenti ed estremi, ma sempre uguali.
Quello per Esme, era
un turbamento del tutto nuovo per me; sapevo cosa volesse dire lottare contro
il desiderio, quello del sangue, quello del sesso, nascondere ciò che non si
doveva mostrare, ma non avevo imparato a manifestarlo, a lasciarlo defluire
all’esterno, a tradurre il pensiero, la volontà in un’ azione pura e semplice.
Non sapevo soddisfare il semplice delicato desiderio di un bacio; troppo
naturale, genuino, troppo intimo per un vampiro, troppo coinvolgente. Troppo
emozionante, tenero e vivo per un cuore morto. Troppo umano. Una tenerezza in
conflitto con ben altre brame più spinte che mi infiammavano la carne.
Mi avvicinavo ad
Esme, ma non abbastanza, e questo, mi esasperava e frustrava lei che provava il
mio stesso impulso sofferto.
E poi,
nell’atmosfera c’era la strana sofferenza di Edward e io non sapevo esattamente
da cosa dipendesse. Non era più solo la sete di sangue a tormentarlo. Si
isolava da me e da Esme, molto più di quanto fosse necessario, molto più
rispetto a un tempo quando eravamo solo io e lui. Non gli avevo più chiesto
nulla della scuola, di come proseguissero le sue giornate; forse qualcosa lo
preoccupava. Ne avrei parlato con lui, quando fossi stato più tranquillo
anch’io. Era egoistico il mio comportamento in quel momento, ma il sentimento
di felicità appena nato in me, mi portava a dimenticare tutto il resto di ciò
che avevo attorno, e questo non era un fatto positivo.
Nella mia testa
c’era Esme; lei e la sua bellezza devastante, la sua voluttà che scatenava la
mia eccitazione, il suo fascino che mi stregava, la sua voce profonda e sensuale
che mi rapiva, il suo corpo duro di vampira, ma dalle forme morbide e floride
che conservavano per sempre l’impronta di un ventre che aveva generato la vita,
una femminilità illusoria che scatenava le mie voglie insoddisfatte, violente e
profonde.
La volevo, e allo
stesso tempo, avevo quasi timore del mio desiderio immenso che qualche volta,
si stemperava nella dolcezza dell’immagine di braccia candide che mi
stringevano, che mi accarezzavano, mentre il gelo dei nostri corpi si
confondeva accendendosi nel tepore di un abbraccio.
Volevo i suoi seni
perfetti tra le mie mani grandi, la sua bocca che inseguiva la mia, i segni
delle sue unghie affilate nella mia carne come un marchio sulla pelle, i nostri
corpi di ghiaccio bollente mai sazi e avvinti dopo un amplesso disumano,
risultato di una passione violenta e aggressiva, come può esserlo quella dei
vampiri.
Avevo bisogno di
lei, del suo profumo che mi catturava, della sua immagine che mi stordiva di
cui non sapevo fare a meno.
Forse fu per
sfinimento che un pomeriggio grigio e umido con un cielo di un colore slavato,
per caso, la seguii in una delle sue cacce solitarie. Perché non potevo restare
ad aspettarla con l’ansia di vederla riemergere tra l’intrico del fogliame e
dei rami che si aprivano al suo passaggio; Edward aveva sentito i suoi pensieri
affamati d’amore che il sangue non riusciva a saziare e mi aveva rivelato che
erano rivolti a me in maniera altrettanto ossessiva, ma anche più dolorosa.
“Siete davvero fatti
uno per l’altra; non capisco perché vi ostinate a resistere, quando anelate
soltanto a stare insieme in modo completo. Vi fate del male quando potreste
essere… felici?”
Sentivo tutta
l’incredulità di Edward di fronte a quel concetto puramente astratto che
sembrava non potesse esistere nella realtà di un vampiro. Soprattutto non
esisteva per mio figlio; sentiva la felicità come una meta irraggiungibile,
sogno utopico troppo lontano da sé. Altre volte in passato, mi ero soffermato a
riflettere su cosa fosse per Edward, sentire i pensieri di tutti coloro che
incrociavano il suo passaggio.Per lui,
spesso, doveva essere qualcosa di assordante. Se Esme mi desiderava con un
quarto della passione che sentivo io, le nostre ossessioni dovevano essere un
tormento per mio figlio, cui non riusciva sempre a sottrarsi. Una pena che
esasperava maggiormente il suo senso di vuoto e solitudine.
Anch’io mi ero
sentito, e mi sentivo vuoto, e solo Esme poteva riempire quel vuoto.
E quel giorno, nel
profondo silenzio della foresta, il vuoto fu riempito e il desiderio
soddisfatto, e insieme, godemmo della nostra lussuria, espressione vera e
completa del nostro amore.
La sorpresi nel
cuore della boscaglia mentre assaliva un animale. Era animata oltre che dalla
sete, da una fame ingorda, da quella tipica frenesia che ci rende incapaci di
fermarci e che fa brillare di un desiderio perverso e sinistro i nostri occhi.
La osservai, mio
malgrado ammaliato e sedotto, mentre fulminea affondava vogliosa i denti nel
collo della sua vittima, ne lacerava la pelle e i muscoli che cedevano, fino ad
arrivare alla calda giugulare della sua preda ancora viva, mentre l’abbracciava
in una morsa mortale e scivolava a terra sull’erba con l’animale che si
dibatteva in un ultimo inutile tentativo disperato di resistere.
Era la lotta atavica
della vita con la morte. Era il caldo e il freddo, luce e tenebre.
Ero affascinato
dalla scena selvaggia che si presentava ai miei occhi, dalla sensualità
violenta che emanava, dal sangue che colava e sporcava la bocca di Esme di un
rosso vivo. Mi sembrava di sentirne non soltanto il profumo, ma il calore, mi
pareva di avvertire con ogni senso che possedevo, la stessa eccitazione di
Esme, che godeva di quel liquido che entrava nel suo corpo e lo scaldava.
Sentivo i suoi gemiti estatici come se fosse in preda al delirio. La guardavo,
rubando tutto ciò che il mio sguardo brunito ormai assetato poteva cogliere;
ogni sua espressione, mista tra il piacere e un inspiegabile disgusto, il più
piccolo movimento aggraziato del suo corpo. Le sue mani che artigliavano il
corpo del povero essere mentre moriva.
Ero avido di ogni
dettaglio e non mi importava che lei potesse scoprirmi in fallo.
Dissanguato
l’animale, abbandonò la carcassa e non soddisfatta, riprese la caccia.
Io la seguii,
ancora.
Vagò attraverso il
bosco, famelica come un lupo e decisamente più pericolosa, i sensi troppo acuti
all’ertati.
Attraverso il fitto
del fogliame ombroso che oscillava qualche secondo al nostro passaggio, correvo
insieme a lei senza farmi vedere, mantenendo la giusta distanza, quando
improvvisamente avvertii una traccia fin troppo nota al mio olfatto allenato.
Profumo di sangue
umano vivo e pulsante; ebbi un brivido che era eccitazione e terrore insieme.
C’erano degli
escursionisti; probabilmente si erano persi, perché quella era una zona
abbastanza lontana dai sentieri battuti dalle guide del luogo.
Anche Esme li
avvertì ed esitò per una frazione di secondo, prima di mettersi sulle loro
tracce. Mi colpì la strana luce che le fece brillare lo sguardo di folle
audacia. Non riuscivo a credere che lo stesse facendo; li avrebbe attaccati?
Li raggiunse in
breve tempo e si fermò a osservarli; annusò l’aria che portava il loro odore
come a volersi riempire i polmoni, poi trattenne il respiro per alcuni secondi,
prima di avvicinarsi ancora con una curiosa cautela. Fiutò di nuovo il profumo
e la vidi saltare su un ramo alto, poi appiattirsi contro il tronco dell’
albero, chiudere gli occhi, e dopo, emettere un sospiro prolungato che pareva
un gemito soffocato di puro piacere. Era come se stesse pregustando il sapore
della sua prossima vittima. Decisi che non avrei aspettato per scoprirlo
davvero. Avrei almeno tentato di fermarla. Fui a poca distanza da lei; pochi
alberi ci separavano. E rivelai la mia presenza.
“Esme, non farlo… ti
supplico…” ansimai quasi disperato.
Fu come se l’avessi
schiaffeggiata.
Si volse verso di me
con un’ espressione di puro sgomento dipinto in volto, gli occhi sbarrati e
increduli, la bocca semiaperta in un ringhio senza suono. Ma bastarono pochi
secondi a farle dimenticare gli umani e vidi mutare lo sguardo di sorpresa, in
una profonda infamante vergogna, come se l’avessi colta a compiere l’azione più
mostruosa e delittuosa.
E prima delle sue
parole, fu il suono atterrito, mortificato della sua voce dolcissima a
rivelarmi il senso di un tormento così ben nascosto, che non ero stato capace
di vedere.
“No… Non tu!! Non
dovevi, Carlisle!!”
Gridò con una
disperazione che non avevo mai sentito prima in lei. Si mosse repentina per fuggire,
forse perché l’umiliazione che avvertiva, le impediva di affrontarmi a viso
aperto. Ma le impedii di scappare; con un balzo fui praticamente su di lei e
quasi ingaggiai un corpo a corpo per trattenerla, lottando con difficoltà
contro la sua forza di neonata. Cercai di calmarla, di farla ragionare.
“Esme, ti prego!
Calmati, voglio solo parlare!!”
“Non dovevi
seguirmi!! Perché lo hai fatto? Perché? Non potevi fidarti di me?” mi ringhiò
contro.
“Non volevo, te lo
giuro! È stato per puro caso se ti ho trovato nella foresta…”
Si agitava furiosa
tentando di colpirmi e mi puntava addosso uno sguardo allucinato.
“Oh, Dio… cosa
penserai adesso di me…” Singhiozzava.
Se avesse potuto
farlo, avrebbe pianto. Riuscii a bloccare i suoi polsi dietro la schiena mentre
la stringevo per immobilizzarla.
“Non penso nulla di
terribile, Esme. Davvero, io non voglio giudicarti. Voglio capirti. Scusami se
ti ho seguito, non l’ho fatto di proposito, ma sono fragile Esme e ho bisogno
di te!! Ho un disperato bisogno di stare con te!”
Eravamo finiti a
terra, tra le felci, le foglie secche e la terra umida, il mio corpo contro il
suo che la schiacciava al suolo. Avrebbe potuto facilmente liberarsi, ma
sembrava quasi arresa, oppressa più da se stessa. Solo alle mie parole aveva smesso
di dibattersi. Continuai a parlarle col tono più suadente e morbido che
possedevo, lasciando che il suono della mia voce le toccasse il cuore ferito.
“Io ti amo, Esme. Tu
sai che è vero… So che è difficile per te, ma perché ti vuoi nascondere? Perché
non vuoi che ti aiuti? Non vergognarti delle tue fragilità, ti prego…”
Allora parlò
voltando il viso di lato per non guardarmi.
“Hai visto tutto
vero? Hai visto che non riesco a dominare del tutto la mia sete? Ci provo a
trattenermi, a essere come te… vorrei tanto essere come te…”
La sua voce era un
crescendo di emozioni che mi travolgevano.
“Esme…” Le
accarezzavo il viso dolcemente, mentre lei mi incalzava con le parole; era
tornata a fissarmi, puntandomi addosso i suoi occhi inquieti.
“Ma è così difficile!
Io voglio il sangue, la mia sete mi tormenta e poi… c’è un’altra sete che è
implacabile. Non sapevo che fosse così; mi brucia le viscere, la carne fredda,
e vado a caccia per placarla… ma lei non si placa. Aumenta ogni volta che ti
vedo. Mi divora la mente… Oh, Carlisle!! Impazzisco se tu mi sfiori soltanto!“
Emise un ansito
quasi disperato.
Per istinto naturale
compresi quello che mi stava dicendo; lì, addosso a lei, sentivo lo stesso
fuoco che a breve, ci avrebbe divorati entrambi.
Era come se dovesse
confessare una colpa che la stava schiacciando.
“A volte mi metto
alla prova, come ho fatto oggi. Sfido me stessa. Perché il profumo del sangue
umano mi stordisce e non mi fa pensare davvero a quello che vorrei… a quello
che voglio in realtà, ma è come scherzare col fuoco, e prima ho rischiato di
bruciarmi davvero. Se tu non mi avessi fermato, adesso mi odieresti…”
“Non potrei mai
odiarti, Esme… Mai. Per nessuna ragione al mondo… Non posso odiare quello che
io stesso ho creato…”
“Oh, non questa
volta. Edward crede che io sia forte… ma non è vero!! Il mio corpo è debole,
come la mia volontà…Carlisle…“
La sua voce aveva
perso il tono disperato; ora suonava arresa e vinta mentre invocava il mio
nome.
Avvicinai il mio
volto al suo per confondere i nostri respiri, mentre le mie mani non la
stringevano più con prepotenza, ma avevano iniziato a correre lungo il suo
corpo e già tentavano di superare i vestiti.
Poi bisbigliai al
suo orecchio. Volevo sedurla. Volevo amarla.
Volevo che fosse mia
e volevo essere suo. Per sempre da quel preciso istante, immerso nel verde,
nascosto dentro di lei.
“No Esme; io sono
più debole di te… Lo vedi? Lo senti quanto ti desidero? Qui? Adesso? Non credo
di poter aspettare…”
La mia voce era
diventata un profondo sussurro roco, mentre annusavo la sua pelle. La sua era
un velluto caldo e sensuale che mi calava addosso e stregava i miei sensi.
“Oh Carlisle, la voglia
di te mi divora la carne e forse l’anima che non ho più!”
“La tua sete è la
mia. Possiamo bruciare insieme, Esme.”
Ansimai con le
labbra vicinissime alle sue, aspirandone il profumo.
Fu così che avvenne.
Fu così che la
baciai per la prima volta.
Avvicinai le mie
labbra alle sue e lasciai che il suo gusto mi invadesse la bocca. La sentii
cercarmi, muoversi prima con dolcezza, assaggiare le mie labbra, lentamente;
poi con ardore, morderle con una passione che annullava il freddo e faceva
correre brividi intensi sui nostri corpi.
Così ci amammo,
nell’ intrico del bosco che ci nascondeva.
Così ci prendemmo la
pelle, il corpo, le mani. E ci mangiammo con gli occhi.
La baciai lì, tra le
foglie, stesa al suolo mentre il suo sapore si confondeva col mio e mi faceva
impazzire.
Sentivo il suo corpo
sotto di me, e la mia virilità rispondeva impetuosa a quel contatto. Trattenevo
la sua testa fra le mie mani, affondando le dita tra i suoi capelli color
caramello e Esme mi abbracciava, baciandomi, legandomi stretto a lei.
Sentivo le sue mani
che correvano sotto i miei vestiti, per tentare di superarli.
Mi allontanai solo
un momento e mi misi in ginocchio per spogliarmi; sopra di lei, lentamente,
slacciavo i bottoni della camicia, senza staccare i miei occhi dai suoi, che
seguivano ogni singolo movimento delle mie dita. I suoi occhi brucianti di
desiderio rubavano lembi di pelle del mio corpo e coglievano la luce rada che
filtrava debole e timida, come se non volesse disturbare quella strana intimità
dentro quell’alcova improvvisata, fatta di verde e di muschio. E la baciai di
nuovo fino a succhiarle via il respiro e intanto, le sue dita lunghe e
affusolate cercavano la fibbia dei miei pantaloni per liberare i miei lombi dal
tessuto che li imprigionava.
“Ti prego Carlisle,
spogliami…” mi supplicò.
Le aprii la
camicetta e rimasi a guardare il suo corpo bianco, poi un po’ rudemente le
sfilai la gonna e liberata la sua pelle d’alabastro della biancheria intima,
lasciai correre dolcemente le mie mani lungo le curve piene e sode dei seni per
scendere sui fianchi, mentre Esme inarcava la schiena tendendosi verso di me.
E quando i nostri
corpi nudi furono di nuovo tanto vicini da aderire perfettamente uno all’altro,
fu con gioia che scoprimmo il piacere proibito delle nostre carezze che osavano
cercare, scoprire, giocare con le estremità più segrete. Le nostre mani
aprivano la strada ai baci più infuocati e nuove sensazioni esplodevano ogni
volta, quando il tocco dell’altro accendeva e sfiniva il desiderio.
Quando finalmente
fui nel suo posto più intimo e segreto, caldo e accogliente per me, ebbi
davvero l’impressione che le nostre anime morte si stessero fondendo in una
nuova essenza di vita, mentre la voce di Esme vibrava intensa e sussurrava
suoni quasi magici al mio orecchio.
“Oh, Carlisle…
spegni la mia sete… Continua amore mio, continua a farmi sentire viva in questo
corpo morto. Ti supplico, non fermarti…”
E io non mi sarei
voluto fermare, mai più; non sarei più uscito da lei, perché quella fiamma
ballerina che si era accesa nel buio della nostra anima, vibrava come cosa
viva, e sconfiggeva la morte; scaldava sciogliendo il ghiaccio antico dei
nostri corpi e cullava i nostri cuori e non lasciava dolore, ma solo l’estasi
appagante dell’amore che fa sentire al sicuro. E lasciammo che il cielo sopra
di noi, oltre le fronde degli alberi che ci nascondevano divenisse scuro.
Facemmo l’amore per
ore, come se fossimo in astinenza da secoli e ci furono amplessi dolci come le
maree che salgono, lambiscono, accarezzano la sabbia calda e umida delle
spiagge, e altri violenti e profondi che esplodevano come lapilli e lava
bollente da un vulcano. Fu meraviglioso e bellissimo. Una gioia potente e
straordinaria. Era il mio sogno che diventava realtà.
E il cielo tornò
chiaro e i deboli raggi di una giornata di sole pallido, filtravano tra le
nubi, il mattino successivo, quando finalmente ci rivestimmo per tornare a casa
felici, appagati, con una serenità nuova. Col sole non potevo andare a
lavorare, sarei rimasto a casa. Sarei rimasto accanto a Esme per tutto il
giorno, tra le sue braccia, nel suo corpo accogliente. La nostra voglia era
troppa.
Edward avvertì
immediatamente il cambiamento, percepì i nostri pensieri gioiosi che tornavano
alla notte appena trascorsa. Era impossibile avere segreti con un vampiro come
lui. Manifestò apertamente quanto fosse contento per noi.
E lo era davvero.
Ma avvertivo che
oltre alla felicità, alla gioia condivisa, c’era dell’altro, un’inquietudine
difficile da decifrare e interpretare.
Ogni volta era
complicato confrontarmi con Edward, superare le sue barriere, ma dovevo
affrontarlo senza troppo tergiversare. Una settimana più tardi, mi trovai da
solo con lui. Mi parve l’occasione giusta per parlare.
Ero a casa, nel mio
studio che stavo ricontrollando alcuni appunti che avevo preso sulla
sintomatologia preoccupante di alcuni miei pazienti. Inoltre c’era un altro
problema non del tutto imprevisto, che si era presentato e che dovevo
risolvere; il marito di Esme si era rifatto vivo ed era venuto in ospedale a
cercare notizie della moglie scomparsa. Quest’ultima cosa mi dava da pensare e
stavo valutando la possibilità di dover lasciare la città. Tra un pensiero e
l’altro, fermai Edward, mentre si apprestava ad uscire per andare non so dove.
“Edward, ho bisogno
di parlare con te; mi concedi un minuto del tuo tempo?”
Mio figlio si fermò
un momento ad osservarmi; colse nella mia mente le mie preoccupazioni attuali.
Ma non interpretò con esattezza la mia intenzione del momento.
“Che cosa c’è?
Vuoi lasciare la città a causa del marito di Esme?”
“Veramente, non era
di questo che volevo parlare… sono preoccupato per te…”
“Non c’è motivo…”
Io credo di sì…
“A scuola va tutto
bene. Mantengo benissimo il controllo… La mia è una recita quasi perfetta…”
Sorrise sfacciato.
Si era seduto di fronte a me con una gamba piegata sopra l’altra, proprio come
farebbe un ragazzino per ostentare sicurezza di fronte al padre.
“Non ne dubito, ma
credo che il problema sia qui, non a scuola. Ti isoli più del solito, Edward, e
non so perché… È solo un altro modo di manifestare il tuo disprezzo, oppure è
qualcosa di più serio? Perché non mi dici che cosa ti angustia? Anche Esme si
preoccupa per te; lei c’entra in qualche modo?”
“No, lei non c’entra
niente. Esme è… - esitò - perfetta…”
Fu una vaga
sensazione che svanì in fretta come un vapore leggero. Lo pensai solo per un
istante, ma bastò per far assumere a mio figlio un’espressione seria e
contrariata.
“Non sono geloso di
Esme. Come fai a pensarlo?” Mi chiese irritato.
“Allora dimmi che
cos’è. Parla con me, Edward. Non lasciarmi in questa incertezza…”
Tacque alcuni
secondi; scosse la testa amaramente, prima di aprirsi in una confessione
sofferta e inaspettata, che forse attendeva di uscire da tempo.
“Lo sai che il mio
unico disprezzo è verso me stesso. Io sono felice per voi due, davvero; non
potevi trovare una compagna migliore, ma… quando vi guardo insieme, io
comprendo che non c’entro niente qui con voi… mi sento una specie di estraneo…”
Edward allora, si
alzò in piedi; prese a camminare e parlare con enfasi, manifestando uno strano
malessere che forse era più complesso e profondo della semplice gelosia.
Sembrava timore, nascosto dietro l’aggressività. Una paura quasi indefinibile.
“Mi sento come se
non appartenessi a niente… Carlisle, ho mai avuto uno spazio vero, un ruolo che
fosse mio? Dovrei essere tuo figlio, ma non lo sono veramente… Non potrò mai
esserlo nel profondo.“
“Edward, cosa stai
cercando di dirmi?” Il mio tono non riusciva a nascondere l’apprensione.
“Che io non sarò mai
per te, ciò che vorresti…Voi bastate a voi stessi, non avete bisogno di me…
Anzi, io tra di voi, sono quello stonato che potrebbe rovinare tutta la
composizione armonica, creare dei problemi alla vostra esistenza. Carlisle, io
potrei andarmene domani e per te, per lei non cambierebbe niente… sareste
ugualmente felici, anche senza di me; sono un tassello che non ha un incastro
nella tua vita, e se lo cerco non lo trovo, in questa esistenza assurda cui
siamo condannati. Perché non esiste.”
“Non è così Edward;
per me tutto cambierebbe e anche per Esme, credo…”
“No. Tu hai trovato
la tua parte buona perché forse sei altrettanto buono… per me la condanna
resta… e mi spaventa… C’è il nulla che mi attende là fuori; non ci sono
sentimenti, solo oblio. Tu non puoi compensare tutto questo…”
Dietro quelle parole
amare sorprendenti, che in parte mi ferivano, ma che potevo comprendere, si
celava la vera angoscia di mio figlio; la paura della solitudine. Una paura che
vedevo espressa veramente per la prima volta. Peggio ancora; Edward credeva che
io stesso, il suo creatore, potessi condannarlo alla solitudine dell’abbandono,
della dimenticanza, privarlo di una collocazione all’interno del cerchio che
componeva la mia vita che aveva determinato la sua. E quest’ultimo pensiero fu
quello che mi fece più male.
“Edward, pensi
davvero di non essere importante per me? Pensi che potrei voler perdere mio
figlio, sostituirlo? Dimenticarlo? Ti ho dato questa impressione, forse? Tu e
Esme occupate parti diverse del mio cuore che sanguinerebbe senza una di esse…”
“Forse… io non lo
so. Leggo nel pensiero, non prevedo il futuro. Esme, ha occupato quasi
totalmente i tuoi pensieri, ultimamente. Penso sia normale: la ami come non hai
mai amato nessun’altro prima. Ma lei sa cosa vuol dire perdere un figlio;
un’esperienza questa, che tu non farai mai… e in fondo, tu saresti anche
disposto a lasciarmi andare… anzi, stai cercando di prepararti a questa
possibilità…”
“Solo se questo
fosse per te la felicità… e mi costerebbe comunque…” risposi con profonda
amarezza.
Edward lasciò il mio
studio senza aggiungere altro, ma con un’ evidente tristezza nello sguardo. Fu
quello l’esatto momento in cui iniziai a domandarmi se non l’avessi trasformato
troppo presto, intrappolandolo in un’ età difficile e scomoda.
Mio figlio sarebbe
stato per sempre fermo al punto di partenza, come un atleta pronto allo scatto
della corsa, che resta bloccato allo sparo dello starter; un giovane
prigioniero dell’età dei sogni senza più sogni da coltivare, senza più speranze,
perché distrutte dal morso di una creatura infernale, condannato a guardare
tutti gli altri suoi coetanei che andavano incontro alla vita e costruivano il
loro futuro mattone su mattone. Nessuno di quei ragazzi che andavano a scuola
con lui, lo avrebbe aspettato. Nessuna di quelle ragazze che restavano rapite
dal suo fascino, potevano accompagnarlo lungo il suo percorso.
La mia solitudine
nei secoli era stata grande, vasta e opprimente quanto un deserto chiuso dentro
l’orizzonte ondeggiante delle sue dune di sabbia riarsa dal sole, ma non avevo
mai pensato che quella di Edward avrebbe potuto esserlo molto di più.
All’improvviso, vedere e comprendere tutta la portata di quel peso immane mi
atterrì, facendomi sentire impotente e in colpa per l’ennesima volta nella mia
vita immortale...
Continua…
Scusate di
nuovo per l’immenso ritardo, ma questo per me era l’ostacolo più difficile,
perché non credo di essere portata per l’eccessivo romanticismo e da questo
capitolo penso che si veda. Spero che vi sia piaciuto, anche se forse avrete
trovato Esme, un po’ ooc, ma non so scrivere cose che non siano anche un po’
tormentate.
Non sapevo
in quale altro modo suggerire il desiderio passionale, tormentato che corre
parallelo alla sete di sangue di Esme neonata che deve imparare a essere come
Carlisle. Che per amore vuole essere come lui. E tra loro c’è Edward, un
personaggio certamente non facile; difficile immaginare i suoi sentimenti in
quegli anni, prima che Bella entrasse nella sua vita, spero di essere riuscita
a suggerire il suo malessere, il suo conflitto, che ho intenzione di sviluppare
ancora nel prossimo capitolo.
Come sempre
ringrazio tutte le mie lettrici, quelle che mi seguono dall’inizio e quelle
nuove che si sono aggiunte. Mi sorprende come ogni volta aumenti il numero di
coloro che preferiscono e seguono questa storia, mi fa davvero piacere e spero
che avrete voglia di dirmi come vi è sembrato questo pezzo che mi è costato
parecchio. E ringrazio infinitamente voi ragazze che recensite e che mi
incoraggiate ad andare avanti. Per fortuna che ci siete.
Arte, Rebecca
Lupin, Tetide, Io amo Jasper Hale, gingiolina
Capitolo 16 *** Amore platonico, orgoglio e gelosia ***
16 – Amore platonico, orgoglio e gelosia
16 – Amore
platonico, orgoglio e gelosia
Questo capitolo lo dedico a Rebecca Lupin, perché
lei in parte, lo ha ispirato con la sua recensione e il suo suggerimento.
Grazie e spero che sia di tuo gradimento.
A tutti, buona lettura.
*****
Era bellissimo e dava un senso di completezza appagante
poter vivere finalmente il nostro amore nella pienezza della sua
manifestazione; ci sentivamo come se avessimo trovato una ragione di vita
sufficiente a giustificare la nostra esistenza. Era bello poter fare l’amore
ogni volta che si voleva, ascoltare solo il fervente desiderio che ci prendeva
in ogni momento e soddisfarlo. Non c’erano paure o inibizioni di alcuna sorta.
Quando Esme mi baciava sentivo che non c’erano colpe, dolori, ma solo la gioia
di donarsi, una voglia possente che cancellava quasi totalmente ogni altro suo
terribile impulso.
Quando la spogliavo sul nostro letto, o nel mezzo del
bosco dopo una caccia, non c’era solo lussuria, ma la nostra fame d’amore da
soddisfare e la sensazione che i nostri cuori avessero ripreso a battere e che
il sangue si fosse sciolto e corresse impetuoso nelle nostre vene come un fiume
caldo.
Amarsi, per sentirsi meravigliosamente ancora vivi.
La felicità mia e di Esme sarebbe stata quasi assoluta,
senza l’afflizione per mio figlio; scoprire così chiaramente la sua
inquietudine mi fece sentire triste e inutile.
Potevo solo sperare che trovasse presto una sua
dimensione, un equilibrio all’interno del nostro piccolo mondo.
Esme avrebbe potuto aiutarlo in questo, meglio di quanto
sarei riuscito a fare io. Almeno con lei, a momenti alterni riusciva ad essere
sereno.
Avrebbe avuto bisogno di una compagna, che gli rendesse
più sopportabile l’esistenza amara, ma dove trovarla? Questa era una cosa che
neppure io potevo fare.
Quando e come avrebbe potuto innamorarsi? Sapevo quanto
fosse difficile trovare qualcuno simile a noi.
Ripensai a Tanya; la bellissima vampira era stata
respinta più di una volta e caratterialmente, forse non era del tutto indicata.
Come Esme mi aveva fatto notare, riflettendo su quanto
Edward odiasse la sua natura, era probabile che il disprezzo di sé gli
impedisse di cogliere quello che di bello e delicato, magari fortuitamente,
sarebbe potuto entrare nella sua vita.
A scuola, Edward non aveva mai dimostrato interesse verso
nessuna delle sue compagne, e il suo talento così particolare, uccideva in lui
qualunque curiosità verso di loro. Se all’inizio della sua vita,
quell’esperienza aveva avuto i suoi lati piacevoli e intriganti, col passare degli
anni, i pensieri di quelle ragazze umane che subivano il fascino innaturale di
mio figlio, finirono spesso per annoiarlo. Quando questi pensieri erano troppo
spinti, alla noia seguiva l’irritazione, a cui reagiva escludendo dalla mente
la quasi totalità di quelle voci femminili.
Tutto troppo
prevedibile, senza mistero, componente alla base di ogni interesse maschile
verso una donna.
Mi ero innamorato di
Esme quando era ancora umana per la sua aurea misteriosa, per quel conturbante
fascino femminile che sa celare l’indefinibile nello sguardo, un enigma da
risolvere quasi irrisolvibile, che cattura e avvince l’anima di un uomo e
forse, anche quella bruciata di un vampiro.
Troppo consapevole
di questo, credevo che nessuna ragazza avrebbe saputo esercitare una simile
attrazione su Edward. Per lui, non ci sarebbe mai stato il gusto della
scoperta. Edward sembrava vivere in mezzo agli umani, violando i loro pensieri
più contorti, senza lasciarsi sfiorare da nessuna emozione, senza mai lasciarsi
coinvolgere dai loro drammi personali; appariva quasi indifferente a tutto
quello che poteva turbare la loro vita. Mi era parso così la maggior parte
delle volte e lo sarebbe stato ancora chissà per quanto. Ogni volta che la mia
famiglia avesse lasciato una città, per mio figlio, non ci sarebbe stato altro
che un’infinita sequela di esperienze sempre uguali da lasciarsi alle spalle.
Così pensavo.
Così vedevo mio
figlio, per quel poco che mi lasciava vedere; c’era una parte del suo mondo
privato in cui lui non mi permetteva di entrare.
Lui si confidava con Esme più di quanto non facesse con
me; infatti, a lei per prima, raccontò una storia sorprendente di cui io non
ero mai venuto a conoscenza.
Avevo detto a Esme della nostra piccola discussione e ne
era rimasta molto impressionata.
Lo aveva raggiunto nella sua stanza; Edward, straiato su
un grande divano era sprofondato nella lettura di un libro, ma appena lei mise
piede nella camera le prestò subito tutta la sua attenzione.
Fu investito dai suoi pensieri carichi d’ansia.
- È vero Edward? È vero che hai pensato di
abbandonarci?
“No Esme, stai pure tranquilla. È qualcosa che ho
considerato, ma per ora non lo farò…”
“Se è per causa mia, ti dico subito che non c’ è motivo
che tu faccia una cosa del genere. Perderti sarebbe penoso non solo per
Carlisle, ma anche per me. Ti sembrerà assurdo, ma io ti considero quel figlio
che non potrò mai più avere…”
“Lo so Esme…e ti ringrazio. Tu sei molto cara e io non
voglio darti un dispiacere… e non voglio darlo neppure a lui, in fondo…”
“Edward, non credi che la felicità potrebbe esistere
anche per te, se tu volessi concedere una possibilità al tuo cuore? Perché
pensi di non esserne degno? Hai bisogno di qualcuno accanto… non negarlo. Se l’amore
arrivasse col vento non bisogna chiudere le finestre…”
A quel punto, Edward chiuse definitivamente il libro che
stava leggendo, si alzò dal divano per riporlo sulla scrivania, quindi si
appoggiò contro di essa infilandosi le mani nelle tasche dei calzoni.
“Voglio raccontarti una storia Esme… una storia che
neppure Carlisle conosce…”
Solo un istante, puntò lo sguardo ambrato fuori dalla
finestra, perdendosi nei dettagli del panorama che si intravedeva attraverso i
vetri; il vento freddo dell’autunno scuoteva le foglie che si staccavano dagli
alberi quasi spogli. Edward colse una foglia secca nel momento preciso in cui
la vide oscillare e staccarsi dal ramo, ne seguì il percorso delle volute
disegnate nell’aria, mentre lentamente, si posava al suolo perdendosi con le
altre.
Allora, tornò a spostare la sua attenzione su Esme che
seduta sul divano lo fissava immobile.
Iniziò a raccontare.
“È accaduto pochi mesi prima che Carlisle ti trovasse in
ospedale…
C’era una ragazza a scuola; si chiamava Emy Foster.
Emy era una ragazzina di quindici anni piuttosto chiusa,
timida e riservata, nascosta dietro un paio di lenti che facevano apparire più
grandi i suoi occhi scuri. Non era particolarmente graziosa o avvenente; fisico
acerbo e capelli corti, nessuno badava a lei. I ragazzi non le mostravano alcun
interesse, ma a lei pareva non importare.
Aveva un’ amica del cuore, una compagna di scuola con cui
si confidava e andava d’accordo. Ricordo che erano davvero inseparabili.
Non frequentava i miei corsi, per cui non la vedevo
spesso. La incontravo solo alla mensa della scuola…
Sembrava vivere in un mondo tutto suo, e sondando i
suoi pensieri, capii quale fosse la ragione. -Fece una pausa, come se stesse riavvolgendo pensieri e immagini nella
sua testa. - …Il padre era un alcolizzato, un ubriacone incapace di tenersi un
lavoro, che quando beveva troppo, diventava violento e riempiva di botte sua
madre. Emy viveva una realtà da incubo e per sfuggire a quella realtà squallida
che era la sua vita, si rifugiava nei suoi sogni di adolescente; sognava di
andarsene per il mondo a cercar fortuna, di prendere sua madre e di andare in
un’altra città per ricominciare da capo, senza il padre.
Voleva fare la stilista di moda, ma le sarebbe piaciuto
disegnare fumetti; le pagine dei suoi quaderni, i bordi dei libri di testo
erano pieni di schizzi a biro e disegni a matita che faceva in ogni momento,
anche durante le lezioni di matematica. Vedevo quei disegni nascere nella sua
testa completi di forma e colori; quando li trasportava su carta a volte, erano
diversi da come erano stati concepiti all’inizio. Potevano essere migliori o
peggiori; sciolti e liberi, pieni di energia nella loro espressione di
vitalità, o deboli, poco incisivi. Come si arrabbiava quando non riusciva a concretizzare
l’idea originaria; prendeva il disegno e lo distruggeva con un moto improvviso
di frustrazione. A me pareva che attraverso quegli schizzi, Emy liberasse la
sua anima.
La cosa che maggiormente m’incuriosì di lei, era il fatto
che non sembrava subire il mio fascino come accadeva a tutte le altre; si sarà
soffermata a pensare a me, una volta o due, e mai in maniera morbosa; poco
interessata al mio aspetto, più che altro, si chiedeva perché apparissi così
scostante. Un giorno, mentre stava lasciando la mensa, le caddero a terra i
fogli dei suoi disegni. Mi ero appena alzato dal mio posto per uscire e le
passai accanto, e per uno strano impulso da cui di solito, non mi lasciavo
prendere, mi chinai e l’aiutai a raccoglierli. Lei mi guardò un po’ meravigliata,
mentre per la prima volta, pensava che fossi un ragazzo magari un po’
scontroso, ma comunque gentile.
Belli i tuoi disegni - le dissi.
Grazie – mi rispose.
Praticamente, fu la nostra unica conversazione. Non ci
furono mai altre parole tra di noi.
Ma da quel momento, Emy iniziò a pensare a me in maniera
diversa e con più frequenza di prima. Cominciò a fantasticare su come fossi in
realtà: disponibile, sensibile, generoso, mi attribuì ogni buona qualità le
venisse in mente. In pratica, mi idealizzò trasformandomi nel bravo ragazzo per
eccellenza. Una vera sognatrice.
Non so come fu, ma lentamente, Emy si innamorò di me, o
di ciò che io rappresentavo per lei; l’evasione, la fuga dalla realtà.
Penso che se mi avesse visto baciare una ragazza diversa,
sarebbe caduta nella depressione più nera. E già ne aveva di motivi per essere
depressa.
Il suo era un amore assolutamente platonico. Era la prima
volta che mi capitava d’incontrarlo tra gli umani; non avevo molta esperienza,
ma che io ne fossi l’oggetto era sorprendente. E devo dire che all’inizio, mi
piacque molto.
Mi piaceva guardarmi attraverso i suoi occhi; contemplavo
con sincero stupore il riflesso di me stesso che mi restituiva la sua mente
ingenua e innocente.
Era bello vedersi come un bravo ragazzo, non
semplicemente come il sogno erotico di ragazze più disinvolte. Mi faceva
sentire migliore di ciò che ero.
Era una bella illusione; mi cullai in essa per un po’… -
Edward sorrise al ricordo, come se la dolcezza di una sensazione venisse a
solleticargli l’anima spenta. -
Era bello essere amato anche così, a distanza.
Non c’era il rischio di un reale coinvolgimento che
potesse complicare tutto.
Soprattutto, non era pericoloso; io non ero davvero
attratto da lei. Emy non si sarebbe mai dichiarata, non avrebbe mai manifestato
i suoi sentimenti, non mi avrebbe mai chiesto di uscire con lei; nessun
appuntamento, o bacio furtivo dato sotto la luna, di nascosto dai genitori. Lei
non voleva nessuna di queste cose, perché era troppo timida solo per
immaginarle, e se anche le avesse volute, non le avrebbe confessate neppure
sotto tortura.
Era diventato quasi piacevole andare a scuola per spiarmi
nei suoi pensieri; fuori da quella bolla di grazia, i suoi sogni erano sempre
inquinati dalla realtà più triste che viveva in famiglia. Non avevo bisogno di
conoscere suo padre, per odiarlo in maniera viscerale. Mi bastava vederlo
attraverso la sua mente; dovevo stringere i denti per non cedere alla rabbia
segreta che mi covava dentro. Poi, un brutto giorno non venne a scuola.
Iniziai a preoccuparmi seriamente dopo quattro giorni di
assenze prolungate.
Perché Emy non tornava? Era un’ allieva diligente e
studiosa.
Sondai le menti degli altri ragazzi alla ricerca di
informazioni, ma nessuno sapeva nulla, o si chiedeva il motivo delle assenze di
Emy. Anche la sua amica del cuore non la vedeva da giorni; in lei trovai la mia
stessa preoccupazione e forse, un timore in più; conosceva le cattive abitudini
del padre.
Sapevo dove abitava; la sua casa sorgeva nel piccolo
quartiere popolare della città, una specie di ghetto di uno squallore
desolante.
Decisi di andare a verificare che stesse bene e che non
le fosse accaduto nulla di terribile. Quella sera andai a casa sua, senza
essere visto.
Sua madre era in casa; sentivo i suoi pensieri confusi e
preoccupati, ma non furono quelli a spaventarmi, quanto la paura, il senso di
panico da cui erano pervasi, che le schiacciava il cuore. Un pensiero su tutti
gli altri mi colpì, impietoso come un colpo di frustra che lacera la pelle del
corpo.
- Se l’è presa anche con lei… finché si trattava di
me, potevo sopportarlo, ma non deve fare del male a Emy…
La mia mente si oscurò per un istante; provai autentico
terrore.
Dovevo vedere Emy; dovevo essere sicuro che stesse bene.
Sbirciai dalla finestra della sua stanza che dava
direttamente sulla strada posteriore. E la vidi.
Vidi il suo piccolo corpo, le sue spalle troppo fragili
per quel peso.
Era sul letto, rannicchiata con le gambe piegate contro
il petto, trattenute dalle piccole braccia magre, raccolta in una posizione di
difesa.
Sentii i suoi pensieri e il suo pianto silenzioso e senza
lacrime.
Edward, ti prego… vieni a salvarmi, portami via da
questo posto. Se solo tu potessi… sono certa che lo faresti, perché sei un
ragazzo buono. Non sei come mio padre…
Non avevo mai capito quanto fosse fragile, prima di
vederla lì, sul suo letto.
Confusamente sperava, sognava che io, per qualche assurdo
miracolo venissi a salvarla, a portarla via da lì. Ma sapeva che nessuno –
tanto meno io - l’avrebbe salvata.
I suoi pensieri mi distrassero solo un momento dai suoi
lividi scuri, ne aveva sulle braccia e sulle gambe semicoperte dalla gonna;
sulla tempia all’altezza dell’occhio destro, un grosso ematoma di colore violaceo
si stava riassorbendo.
Fui invaso da un furore folle; se in quel momento, avessi
avuto suo padre tra le mani, so esattamente come sarebbe finita. Lo avrei
ucciso senza nessuna pietà.
Per giorni lottai con l’impulso, la tentazione di attuare
il mio proposito. Desideravo solo liberarla dal padre aguzzino. Volevo uccidere
quell’uomo; volevo ucciderlo perché in fondo, ero più mostro di lui. Volevo
torturarlo e fargli male, fargli pagare il tormento fisico e morale che
infliggeva alla figlia.
Quando ho cominciato a pensare a questo, ho capito che la
bella illusione in cui mi ero cullato fino a quel momento, stava crollando.
L’ideale di Emy, non avrebbe retto il confronto con la
realtà. Il mostro stava ricomparendo davanti ai miei occhi. Per poco, lo avevo
soffocato, o semplicemente rivestito di una livrea nuova. Era inutile
illudersi, credersi diverso. Io non ero perfetto, non ero un bravo ragazzo,
soprattutto non ero qualcuno da poter amare.
L’amore platonico sarebbe sfumato in nulla davanti al
ghigno orrendo del vampiro.
Se Emy avesse saputo cosa ero in realtà, non avrebbe
provato altro che disgusto e orrore. Emy amava un ragazzo che non esisteva e
non poteva esistere.
Amava un’illusione, una sua costruzione mentale che
opponeva alla tristezza della sua condizione d’infelice.
Emy era troppo innocente e pura per amare un vampiro.
Sarebbe stato solo crudele, da parte mia, farla uscire da
un incubo per farla entrare un uno anche peggiore.
Semplicemente, nessuna ragazza poteva amarmi davvero per
ciò che ero.
Io potevo offrire loro, solo un bell’involucro,
un’immagine illusoria che serviva a nascondere un essere mostruoso.”
Esme aveva ascoltato il racconto senza respirare,
lasciandosi invadere dall’emozione.
“Edward, vedi ancora Emy? Cosa le è accaduto?”
“Non è più tornata a scuola; la madre, per proteggerla,
l’ha mandata a vivere con alcuni parenti in un’altra città.”
“Che storia triste e commovente… Però dimostra qualcosa
d’importante…” Edward colse subito il pensiero successivo della vampira.
Hai provato qualcosa di buono per quell’umana… forse
qualcosa di simile all’amore…C’è del buono in te, Carlisle ha ragione di
crederlo…
“No Esme, non pensarlo neppure. Non era amore, non ho mai
guardato Emy in quel modo…”
“Hai provato dei sentimenti per lei, ti sei preoccupato
per un essere umano. Questo vorrà pure dire qualcosa; significa che è
possibile…”
…potresti innamorarti… non sei il mostro che credi…
“Dimentichi che volevo uccidere suo padre; liberarla di
un mostro per imporle la presenza ancora più inquietante di un vampiro sarebbe
stato crudele e assurdo. No… era qualcosa che non poteva funzionare.”
“Perché non hai cercato di avvicinarti a Emy? Avresti
potuto essere suo amico. Avrebbe fatto bene a te e a lei; magari per poco
l’avresti resa felice.”
“Te lo ripeto; non avrebbe funzionato. Un giorno sarei
dovuto andarmene per lasciarla sola. Sarebbe stato solo peggio, non credi?”
Esme sospirò senza sapere che rispondere.
Chissà, magari avrebbe funzionato. Forse Edward con Emy si
sarebbe sentito meno solo.
Di quella storia non ne avevo mai saputo nulla, mio
figlio non mi aveva mai parlato di Emy, di quello che aveva provato per quella
ragazza.
Forse in quel periodo avevo colto in lui qualcosa di
diverso, un’insolita sfumatura nello sguardo meno cupo, ma non l’avevo
attribuita a un evento particolare della sua vita. Era solo all’inizio della
sua esperienza scolastica e credevo che in lui prevalesse il gusto per la
novità.
Quando Esme in confidenza, mi raccontò la storia, restai
assolutamente sorpreso. Ma arrivai alle stesse conclusioni di lei; Edward
avrebbe potuto trovare l’amore un giorno, provare quel sentimento che ci faceva
sentire tanto umani, che ci rendeva più ricchi e migliori.
Credo che anche per
mio figlio, fu una sorta di amore platonico, se questa definizione può essere
esatta e se questo concetto può esistere per un vampiro.
Ma non aveva voluto
crederci fino in fondo. Forse aveva avuto paura delle conseguenze.
La storia di Emy mi
avrebbe fatto riflettere ancora molto sulla condizione di Edward, ma
nell’immediato, avevo altre preoccupazioni.
Charles Evenson era
tornato ancora in ospedale.
Finché mi era stato
possibile, avevo cercato di evitare quell’incontro col passato di Esme, ma
quell’uomo, suo marito in un’altra vita, non si era rassegnato di fronte ai
muri che opponevo alla sua ricerca. Era arrivato una mattina, inaspettato come
una pioggia torrenziale improvvisa che ti sorprende in mezzo alla strada; aveva
chiesto all’infermiera dell’accettazione della misteriosa donna suicida,
anonima sconosciuta che nessuno era venuto a reclamare e che era stata sepolta
nel cimitero della città a spese dell’ospedale.
- Qual è il nome del
medico che prestò i primi soccorsi alla donna?
- Il dottor Carlisle
Cullen…
Appena saputo il mio
nome, Charles Evenson non aveva saputo mascherare un vero moto di sorpresa,
anche l’infermiera l’aveva notato.
- Vorrei parlare col
dottor Cullen…
- Sono spiacente; in
questo momento non è di turno…
- Quando lo posso
trovare?
- Magari domani mattina…
Era tornato diverse
volte a chiedere di me, ma per puro caso, o perché non mi facevo trovare, ero
sempre riuscito ad evitare d’incontrarlo. Non era per mancanza di coraggio che
lo stavo evitando… o forse, tentavo di convincermi di questo; cosa avrei potuto
dirgli? E soprattutto, lui che cosa mi avrebbe chiesto? Sospettava qualcosa?
Sicuramente ricordava i pettegolezzi a Columbus, di cui io e Esme eravamo stati
involontari protagonisti. Sapevo che all’epoca, furono motivo d’attrito tra lui
e la moglie.
Avevo falsificato il
certificato di morte di Esme con un nome fittizio, ma volevo evitare che si
sollevassero indagini sulla donna sconosciuta, o peggio, che venisse richiesta
la riesumazione della salma; nella bara di Esme c’era il corpo di una barbona uccisa
dal freddo, che quell’inverno era stato particolarmente rigido.
In obitorio, era
stato uno scherzo sostituire Esme con il cadavere della povera donna; per
sicurezza, quasi con un senso di leggera nausea, perché mi sembrò di compiere
una profanazione, le avevo anche procurato delle fratture che suggerissero una
morte violenta. Nessuno aveva fatto domande.
In fondo, non c’era
stata mai profanazione più grande e disgustosa di quella che avevo fatto, prima
a Edward, e dopo, alla donna che amavo.
Quindi, perché
tormentarmi, se mi ero già macchiato della colpa più grave?
Ma il destino,
volente o no, viene sempre a chiederti il conto delle tue azioni; con me, lo
stava facendo attraverso il marito di Esme. Ho imparato con l’esperienza che quelle
di noi vampiri hanno sempre un prezzo più alto di quelle umane. Ogni
trasformazione che mi sono trovato a compiere mi ha presentato la controparte
sulla bilancia della sorte. Così alla fine, mi decisi ad affrontare quella
prova che non potevo più rimandare.
Un pomeriggio umido
di pioggia che scivolava sui vetri in una serie infinita di goccioline,
nell’ufficio anonimo dell’ospedale, mi trovai faccia a faccia con Charles
Evenson.
Era un uomo dal
fascino austero; capelli scuri pettinati all’indietro e baffi che gli
conferivano un aspetto severo. Indossava un completo grigio di taglio
sartoriale; il suo aspetto elegante suggeriva un uomo dominato da un forte
orgoglio, abituato ad avere successo in tutti i campi.
“Finalmente ci
incontriamo, dottor Cullen… Non ho mai avuto il piacere, prima…” disse
accomodandosi sulla sedia che gli indicavo.
Percepii una certa
arroganza. Tenni le mani in tasca; di solito non lo facevo, ma non volevo
stringergli la mano. In piedi, dietro la scrivania, parlai simulando una tranquillità
che non ero certo di avere. Ma per noi è sempre molto facile fingere.
“Che cosa posso fare
per lei, signor Evenson?”
“Sto cercando mia
moglie…” esordì senza inutili preamboli.
“Perché la cerca
qui?”
“Gli ospedali sono i
primi posti in cui si cercano le persone scomparse…” ironizzò.
“Dovrebbe rivolgersi
alla polizia.”
“Potrei farlo, ma
credo di non averne bisogno.”
“Perché si è rivolto
a me? Secondo lei, io dovrei sapere cosa è accaduto a sua moglie?” Esclamai un
po’ forzatamente.
“Beh, so che vi
conoscevate molto bene; ho pensato che poteste esservi incontrati prima della
sua scomparsa…”
“Io non la vedo da
anni… Comunque, conoscevo la signora Evenson perché era una mia paziente…”
tagliai corto.
“Mi risulta, invece,
che il vostro non era un semplice rapporto medico/paziente, ma piuttosto, di
intima confidenza…”
Alludeva alle
dicerie che erano girate su di noi. Nascosi un moto di stizza.
“Le ripeto che si
trattava di una confidenza medico/paziente. Qualsiasi altra cosa lei abbia
sentito erano tutte falsità. È venuto qui per gettarmi addosso fango e gettarne
a sua moglie?”
“No. Sono venuto qui
perché mia moglie è scomparsa, sono mesi che non ho sue notizie, e lei dottore,
è una delle poche persone qui in città che la conosceva; il giorno che è
sparita, è stata vista vagare poco distante dalla zona del burrone qui ad
Ashland… e quello stesso giorno, una suicida fu portata in questo ospedale e mi
risulta che fu lei, dottor Cullen, a occuparsene; nessuno venne a riconoscere
quella disgraziata… Ora, sulla base di tutto ciò, solo lei può dirmi se quella
donna era mia moglie…”
“Posso dirle
tranquillamente che non si trattava di sua moglie. Era una perfetta
sconosciuta, di cui non abbiamo mai scoperto il nome. Ma che motivi ha, per
credere che sua moglie abbia tentato di togliersi la vita?”
Colsi un fremito
leggero in lui; bloccò il respiro per un secondo, e forse, l’ombra fugace di un
dolore gli passò sul viso, ma non lasciò che alterasse la sua espressione
decisa.
“Mia moglie era
depressa…”
Nessun riferimento
al figlio che avevano perso. Pronunciò quella frase sintetica quasi in tono
neutro, senza particolari inflessioni.
“Capisco… Beh, mi
dispiace non poterle essere di maggior aiuto. Forse, ha atteso troppo prima di
iniziare le ricerche…”
In quel momento sperai
che se ne andasse, ma non sembrava averne voglia e io stavo diventando
impaziente di liquidarlo in fretta. Come se si fosse perso in una sua
riflessione, Evenson fece una lunga pausa, senza mai staccare i suoi occhi dai
miei. Avevo incontrato poche le persone che sapessero sostenere senza disagio
lo sguardo ammaliante di un vampiro; era lo sguardo di un uomo abituato alle
sfide e sempre pronto a raccoglierle; fissavo quegli occhi neri che sostenevano
i miei senza apparente sforzo, e capivo che non si sarebbe arreso di fronte al
primo ostacolo. Tornò a parlare con uno strano tono ambiguo, quasi cinico.
“Lo sa, è strano
dottor Cullen…”
“A cosa si
riferisce?”
“Al fatto che mia
moglie, che conosceva piuttosto bene a quanto mi risulta, sia scomparsa nella stessa
città in cui lavora lei: è quantomeno, una strana coincidenza. Non trova,
dottore?”
“Davvero, io non
afferro il senso delle sue parole…”
“Suvvia, dottor
Cullen… siamo uomini di mondo, no?” Ironizzò nuovamente mentre piegava la bocca
nella smorfia di un sorriso.
“Le sue allusioni
iniziano a non piacermi…e ora se vuole scusarmi, io dovrei tornare dai miei
pazienti…”
Evenson si alzò
dalla sedia per andarsene.
“Non la trattengo
oltre dottore. Ma le dirò solo una cosa: ho la strana certezza che mia moglie
sia ancora viva. Sono abituato ad andare al fondo delle cose; scoprirò la
verità… può giurarci. Ho molte conoscenze e posso arrivare dove voglio.”
Rimasi solo nel mio
studio a soppesare l’importanza delle parole di quell’uomo. Era chiaro che non
si sarebbe fermato e che aveva una sua idea in testa.
Quale fosse io non
potevo saperlo, ma Edward lo avrebbe scoperto per me. Telefonai subito a casa
mia per parlare con mio figlio e spiegargli la situazione.
Mi rispose subito
all’altro capo del telefono.
“Carlisle, che
succede?”
“Si tratta del
marito di Esme; è venuto qui e ha fatto un sacco di domande… Vorrei verificare
i suoi sospetti; dovresti sondare la sua mente, Edward.”
Tornai a casa un’
ora più tardi, dove Esme mi accolse col suo consueto calore; percepì subito che
qualcosa non andava. Edward era uscito a fare quello che gli avevo chiesto.
“Amore mio, perché
hai l’aria così preoccupata? Qualcuno ha scoperto che sei un affascinante
vampiro?” Rise.
Avrei voluto ridere con lei, ma non ne avevo
voglia.
“Edward non ti ha
detto niente, Esme?”
“No. L’ho visto
uscire in fretta, mezzora fa, ma non mi ha detto dove andava.”
“Andava da tuo
marito…”
“Cosa? E perché
mai?”
“Ti sta cercando
Esme. Non potrà mai intuire la verità, ma dobbiamo sapere cosa ha in mente. È
convinto che tu sia ancora viva…”
Parlai con la
massima tranquillità esponendo i fatti.
Le raccontai tutto
della discussione che avevo avuto con Charles Evenson. Esme mi ascoltò con
calma, senza tradire nessuna apparente emozione o titubanza, prima di chiedermi
quello che già sapeva.
“Dovremo lasciare la
città, vero?” Sembrava più una constatazione che una domanda.
“Credo di sì, ma
aspettiamo di sapere cosa avrà scoperto Edward. Poi decideremo.”
“Carlisle, per quel
poco che posso ricordare di lui, so che è un uomo testardo. Non si arrenderà
facilmente.”
“Lo credo anch’io. –
Mi avvicinai alla mia compagna e l’accarezzai sulle braccia - …Non preoccuparti
Esme; io sono deciso a proteggere questa famiglia. Charles Evenson non potrà
farci alcun male.” La baciai con passione, stringendola a me.
Per quanto Charles
fosse testardo, non avrebbe potuto nulla contro tre vampiri e certamente, non
avrebbe potuto prendere Esme o costringerla a tornare da lui. Ma c’era il
nostro segreto da custodire e proteggere, e non potevo permettere che Evenson
formulasse accuse infamanti contro di me.
Edward tornò circa
due ore dopo. Io e Esme lo attendevamo impazienti.
Era andato a casa
dell’uomo, ma aveva dovuto aspettare che tornasse. Rimase all’esterno
dell’abitazione, ma bastò per sentire i suoi pensieri meschini.
Non dovevi
permetterti di lasciarmi…
Una moglie non
lascia un marito…
Ti troverò Esme…
so che sei con lui,
lo sento.
Prima o poi, lo
scoprirò.
Tu e Cullen non
sarete liberi di essere felici.
Sarà la missione
della mia vita.
Esme aveva ragione,
era un uomo testardo, non abituato ad arrendersi. Ma il vero problema era il
sentimento rancoroso e vile che quell’uomo nutriva. E sulla vicenda di sua
moglie si era fatto un’ idea pericolosa, troppo vicina alla verità, o almeno a
una parte di essa.
“Edward, cosa hai
scoperto?”
Ero ansioso e non
riuscivo a nasconderlo.
“Charles Evenson è
convinto che Esme, non soltanto sia ancora viva, ma che stia con te, Carlisle.
Crede che sua moglie gli sia stata infedele e che ora, dopo averti ritrovato,
abbia deciso di lasciare il tetto coniugale per stare finalmente con l’uomo di
cui si era innamorata a Columbus, dimenticandosi anche del bimbo che hanno
perso. Vuole venire qui con dei testimoni a smascherarla, e rovinare anche la
reputazione del dottor Cullen… è un uomo pieno di risentimento e livore.”
A quel punto Esme,
esplose di rabbia; il suo primo impulso fu quello di precipitarsi dal marito,
forse per fargli del male. Dovetti trattenerla a forza.
“Maledetto!! Come
osa? Come osa solo pensare una cosa del genere?! Che io abbia dimenticato il
mio bambino!! Come può essere così meschino!!”
“Calmati Esme, per
favore. Non risolveremo nulla comportandoci così. Tuo marito sta reagendo come
un uomo che è stato ferito nell’orgoglio; per fortuna non ha nessuna prova a
conferma delle sue teorie. Non dobbiamo fare passi falsi e agire d’impulso.
Possiamo solo andarcene, dobbiamo farlo prima che decida davvero di venire qui.
Troverà solo una casa vuota. Sarà impossibile per lui trovarci.”
E così facemmo.
Preparammo in fretta
e furia tutte le nostre cose.
Caricammo poche
valigie in macchina. Nella casa non restò traccia di noi.
Chi vi fosse
entrato, l’avrebbe trovata spoglia e disabitata, senza alcun riferimento al
luogo della nostra destinazione.
Con l’ospedale avevo
già messo le mai avanti da tempo; una mia lettera di dimissioni era già
depositata da qualche settimana presso l’ufficio dell’amministrazione.
Non era una
procedura molto regolare, ma avevo lasciato intendere di avere problemi di
carattere famigliare, che avrebbero richiesto presto la mia presenza lontano da
Ashland. Il direttore dell’ospedale si era dimostrato dispiaciuto all’idea di
perdere un medico con la mia preparazione, ma non aveva potuto opporsi.
Tutto mi sembrò
risolto. Ma per Esme non fu esattamente così.
In maniera del tutto
imprevista, lei avrebbe messo la parola fine al rapporto con suo marito,
in modo del tutto personale, ma certo, proprio del suo carattere forte.
Quella sera, presa
la decisione di lasciare la città, la vidi correre di sopra nella nostra
camera. Si assentò, mentre io e Edward, seduti in sala da pranzo, decidevamo
dove dirigerci. Ogni tanto Edward puntava lo sguardo al soffitto, dove c’era la
nostra camera da letto, come se ascoltasse.
Percepivo una strana
atmosfera d’aspettativa. Non mi sentivo tranquillo.
Dopo una decina di
minuti, vidi Esme scendere velocemente dalle scale, avvicinarsi a me per
accarezzarmi amorevolmente una guancia.
“Carlisle, devo fare
una cosa… - mi disse. – Torno subito, non preoccuparti e fidati di me.”
Colsi uno scambio di
sguardi tra lei e mio figlio.
“Edward, diglielo
tu… non ho segreti per lui.”
Poi corse fuori,
prima che io avessi il tempo di una qualsiasi reazione.
Incerto, guardai mio
figlio, aspettando spiegazioni. Non avevo nessuna idea di cosa Esme volesse
fare. Non potevo averla.
“Cosa diavolo sta
succedendo? Posso saperlo?” chiesi un po’ spazientito.
Non sapere cosa
stava per accadere a un membro qualsiasi della mia famiglia, mi rendeva nervoso
e insicuro. Fragile.
“Non allarmarti, ma
Esme sta andando da Charles; c’è una cosa che ha deciso di fare e vuole farla
da sola…”
“Cosa vuole fare,
Esme? Dimmelo Edward…”
“Vuole lasciare una
lettera a suo marito, prima della nostra partenza…”
“Una lettera a
Charles? È rischioso! A quale scopo? Quell’uomo capirà ogni cosa… potrebbe
mettersi sulle nostre tracce con un simile indizio tra le mani.”
“È qualcosa che lei
sente di dover risolvere. Per se stessa e anche per noi. Se vorrà, sarà lei a
parlartene; ho letto quella lettera nella sua mente mentre la scriveva. Forse
erano cose che teneva dentro da tanto tempo, ma che non era mai riuscita a
dire. Sente di doverlo fare ora, perché non avrà altre occasioni…”
La mia coraggiosa,
la mia energica Esme; l’amavo per questo. La potevo comprendere.
Voleva affrontare il
suo passato fatto di dolore, per chiudere i conti con esso e non sfuggirlo in
eterno. Non si può iniziare una nuova vita, se non si chiude con quella
precedente. Bisogna tagliare i rami secchi, per dare a quelli nuovi la
possibilità di fiorire rigogliosi.
****
Charles,
ti sorprenderà ricevere questa lettera, ma se ho deciso di scriverti e
perché non voglio lasciare nulla in sospeso tra noi.
Da troppo tempo, aspettavo l’occasione giusta per liberarmi da questa
oppressione che mi ha fatto star male a lungo.
E mentre scrivo, mi rendo conto che è una cosa che ho rimandato per
troppo tempo, e capisco che se l’avessi fatta prima,
forse non saremmo mai arrivati dove siamo ora. Quando leggerai questa
lettera io sarò già troppo lontana perché tu possa trovarmi.
Con questa
lettera ti dico addio, Charles. Devi rassegnarti.
Non
cercarmi più, perché non mi troveresti. Io non esisto.
Per te non
esisterò più.
Non resta
niente di quello che sono stata un tempo, neppure il ricordo.
Lo so che
probabilmente, non afferri il senso delle mie parole, ed è meglio così.
Non
cercare la verità, perché non potresti vederla.
La Esme
che tu conoscevi, non esiste più; è morta per sempre.
Al suo
posto ora, c’è una creatura diversa che tu non potresti neanche riconoscere.
Che tu non
potresti comprendere.
La cosa
più saggia che tu possa fare è dimenticarmi, non cercare una soddisfazione che
non troveresti mai.
Perderesti
la tua vita a inseguire un fantasma. E alla fine, ti ritroveresti solo con la
morte.
Pensaci;
non ne vale la pena.
Sono morta
col mio bambino Charles, e tu non te ne sai mai preoccupato.
Hai
pensato che il tuo dolore fosse più grande del mio.
Hai
lasciato che io affogassi, perché di me, non ti è mai importato nulla.
Ma Derek,
nostro figlio, sarà sempre nel mio cuore e questo è qualcosa che tu non puoi
togliermi.
Nessuna
delle tue bassezze potrà farlo.
Sono morta
e rinata in un’altra forma. Potrei essere addirittura pericolosa per te.
Una
minaccia reale… non puoi capire quanto.
Sei sempre
stato un uomo troppo orgoglioso…Troppo
preso da te stesso.
Come fai
ora, a reclamare qualcosa che tu hai lasciato andare?
Tu mi hai
lasciato morire nel dolore più atroce, ma hai il coraggio del vigliacco di
accusarmi.
Non
augurarti d’incontrarmi ancora; conosco i tuoi pensieri vili.
Posso
quasi sentirli e mi fanno diventare furiosa.
Non puoi
pretendere nulla, perché nulla mi hai dato.
Non hai
diritti su di me e quel pezzo di carta non ci ha mai legati;
non ha
nessun valore e non ne ha mai avuto per te. Tu non mi hai mai amata, Charles.
E questa è
l’unica verità.
Una verità
che ho dovuto accettare, per la quale ho sofferto, inutilmente.
Perché ci
ho provato a farmi amare da te, ma tu hai sempre preferito le altre.
Davvero,
credevi che non lo sapessi?
Io sapevo,
ho sempre saputo.
E ho
sempre finto. Non fingerò più… Torna pure dalle tue amanti.
Neppure
io, ti ho mai amato, ora lo sai come lo so io.
Anche a
questo dovrai rassegnarti.
E lo so, perché
adesso amo davvero, Charles.
Ora
conosco la differenza tra un pallido sentimento che si perde morendo al soffio
dell’aria,
e una
passione profonda che mette radici nell’anima.
Tu non
potresti neppure immaginare quanto sia incredibile. Quanto sia vitale questo
sentimento.
Quanto mi
sia necessario… non potrei più farne a meno.
Lui non è
chi tu credi. Non cercare un uomo che non esiste e in verità, non è mai
esistito.
Amo colui
che mi ha riportato alla vita, che ha dato un nuovo senso alla mia esistenza.
Amo lui,
come non ho mai amato te, e anche questa è una verità che dovrai accettare.
E
soprattutto, lui mi ama, come non sono mai stata amata.
Ora potrei
essere felice e lotterò per esserlo, anche lontano da qui.
Lotterò
per proteggere ciò che ho adesso, qualcosa che mi è stato negato per gran parte
della mia vita,
ma che
nessuno potrà più togliermi. E sarò felice, come non sono mai stata con te.
Tu non
potrai fare nulla per impedire questo. Credimi, ogni tuo sforzo sarebbe vano.
Rinuncia e
vai per la tua strada. Non hai altra scelta.
Lui è il
mio destino. Non potrai mai separarmi da lui.
E neppure
immagini quanto pesi questo mai.
Non
torneremo.
Quindi,
non cercarci.
Addio. E.
Continua…
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto e che mi direte sinceramente che ne pensate.
Forse vi avrà
sorpreso un po’, ma io credo abbia una sua logica e serve a spiegare meglio
l’evoluzione della storia e di alcuni personaggi.
Allora, come avete
trovato la storia di Emy? Spero non troppo patetica, anche se ho rischiato,
devo ammetterlo.
Lo so che prima di
Bella, nessuna ragazza ha turbato la vita del nostro Edward, ma poi ho
cominciato a pensare che il nostro vampiro non poteva essere passato in mezzo
agli umani senza mai lasciarsi sfiorare dalle loro emozioni. Anche se per gran
parte della sua vita deve aver chiuso il cuore a possibili coinvolgimenti,
almeno una volta doveva esserci stato una specie di confronto… così è nata la
figura di Emy.
Spero che vi piaccia
perché in lei c’è un po’ di me (tranquille: io non sono così sfigata).
E poi la storia del
marito di Esme. Vi è simpatico il signor Evenson?
Fedifrago, cinico, non
l’ho trattato molto bene.
Questo è un episodio che
non avevo previsto all’inizio, anzi avevo pensato di liquidare la storia in
fretta e di far ripartire la famiglia Cullen verso altri lidi, ma poi Rebecca
Lupin, (santa donna che si è sorbita tutti i capitoli e li ha recensiti) mi ha
dato questo suggerimento, e io ho detto: cavolo! Ma è un’ idea fantastica!! Una
situazione interessante da sviluppare. Quindi, grazie cara!! Se ti venissero
altri suggerimenti, spara pure. Saranno sempre bene accetti.
Tu hai ispirato questo
capitolo, che altrimenti non sarebbe mai stato scritto, almeno non così nella
seconda parte. La dedica era d’obbligo.
Come sempre vi ringrazio
per tutte le vostre belle parole, per i suggerimenti e l’entusiasmo che mi
dimostrate.
Grazie ragazze, a tutte
voi, vecchie e nuove lettrici che seguite la mia storia. Vorrei rispondervi
singolarmente; ora non posso, ma mi riprometto di farlo nel prossimo capitolo.
A presto.
Abbandonammo il
Kentucky e pensammo di spingerci verso l’estremo ovest; attraversammo gli stati
del Missouri, Iowa, South Dakota, passando per il Montana, per raggiungere lo
Stato di Washington, e magari sostare nella penisola di Olympia: sembrava
essere il posto perfetto per viverci. Era una regione degli Stati Uniti piovosa
e molto umida; la zona occidentale era ricoperta di conifere, e vaste aree
erano occupate dalla foresta pluviale temperata, l’ideale per tre vampiri che
non potevano esporsi alla luce del sole.
C’erano diverse cittadine che potevano fare al caso
nostro; Seattle, Port Angeles, Tacoma, Bellevue, Lakewood, dovevamo solo
decidere dove stabilirci. Avevo sentito parlare di un buon ospedale a Seattle,
avrei potuto esercitare lì, senza nessun problema; le mie ottime referenze mi
avrebbero aperto tutte le porte come era sempre stato in passato; nonostante
apparissi come un dottore troppo giovane per vantare un’ esperienza
invidiabile, la mia vasta preparazione, la sicurezza sfacciata che dimostravo
di possedere, erano sempre riconosciute e altamente apprezzate, e nessuno si
era mai sognato di metterle in discussione.
La mia naturale curiosità per la scienza medica era costantemente
sollecitata da nuove scoperte, studi scientifici sempre all’avanguardia, che mi
stimolavano a spingere oltre il mio limite. Dietro quell’impulso, di recente avevo
approfondito lo studio della psicologia e della psicoanalisi, consultando i
testi di Freud. Era stata una conseguenza naturale, avvicinarmi a un’ altra
branca della medicina: la psichiatria.
Ero da sempre affascinato da quell’organo incredibile che
è il cervello umano, da cui derivava anche il cervello dei vampiri, che per
qualche ignota ragione, non conservava integra la memoria umana; fulcro e sede
delle emozioni e di tutte le funzioni che governano la vita, ero sedotto dal
mistero della mente e dei suoi meccanismi, ma il mio approccio era sempre stato
solo teorico; avevo conseguito la specializzazione, ma non avevo ancora avuto
occasione di fare pratica sul campo, ma volevo e speravo di ampliare la mia esperienza
diretta.
Chissà, magari proprio in quelle nuove regioni.
Ce ne andammo da Ashland, lasciandoci dietro il
risentimento e la gelosia di Charles, abbandonando alle nostre spalle quasi
tutto; domande irrisolte, misteri, dubbi.
Solo paure indefinibili continuavano a far parte del mio
bagaglio, un peso di cui non riuscivo a liberarmi e che ho portato con me per
molto tempo. Ancora oggi, sento gravare sulle mie spalle la responsabilità
delle mie scelte; ho dovuto imparare a conviverci.
Ho viaggiato a lungo, accompagnato dall’angoscia di
fallire, di non essere all’altezza del compito che mi ero assunto, di essere
indegno del mio ruolo di guida e mentore; temevo di perdere il controllo della
situazione, di sbagliare senza poter rimediare. Se io avessi fatto un passo
falso, se non fossi stato fermo nelle mie convinzioni e convincente nel
trasmetterle, le conseguenze sarebbero state terribili.
Non sempre ho creduto che saggezza ed esperienza
potessero bastare a confutare ogni dilemma, a risolvere problemi nuovi ogni
volta. Le mie ansie erano sempre legate alla mia famiglia, a Esme e Edward, e
poi agli altri miei figli, alle azioni che li vedevano coinvolti ed esposti.
Come quella lettera inopportuna che Esme aveva scritto al
marito, rimasta a testimonianza di un nostro passaggio, una traccia, anche se
minima, della nostra presenza nel mondo.
Durante il viaggio
per arrivare nel luogo stabilito, parlai con Esme di quello che aveva voluto
fare. Mi aveva chiesto di fidarmi di lei e io lo avevo fatto, ma il suo gesto
mi aveva reso inquieto, e senza che potessi evitarlo, continuavo a immaginare
le probabili conseguenze; ero sicuro che non fosse stata un’idea saggia.
Pensavo spesso a
quella lettera come ad un azzardo, un frammento pericoloso della nostra vita
nelle mani di un uomo che sembrava troppo determinato a scoprire la verità per
rinunciare. Mi aspettavo che ce lo saremmo trovato di nuovo sulla nostra strada
e manifestai questa mia preoccupazione anche a lei.
“Posso capire il tuo
bisogno di chiudere col passato, Esme, davvero… ma non sono convinto che
quell’uomo non smetterà di cercarti… temo che sentiremo ancora parlare di lui…”
le stavo dicendo mentre viaggiavamo su una strada che si apriva tra vallate di
pascoli erbosi, serpeggiando tra macchie di vegetazione e campi di mais
dell’Illinois; all’orizzonte, il cielo sfumava in striature chiaro scure e la
notte scivolava via, lasciando il posto a una nuova alba che sorgeva.
“Potresti avere
ragione; - rispose pensierosa - Charles tenterà di rintracciarmi, ma non importa…
Non mi interessa quello che farà… Dovevo farlo, Carlisle…”
“Spero tanto che non
si debba rivelare una mossa sconsiderata…” Sospirai senza poter nascondere la
palese apprensione, che mio figlio poteva sentire echeggiare rumorosa anche dai
miei pensieri.
“Sei troppo agitato,
Carlisle… Come credi che potrebbe rintracciarci? Non abbiamo lasciato detto
dove saremmo andati…” obbiettò Edward, convinto.
“Potrebbe fare delle
ricerche, chiedere informazioni; quando ti metti sulle tracce di qualcuno, ci
possono essere mille modi per trovarlo…” ipotizzai, pensando all’ investigatore
privato che Charles Evenson avrebbe potuto pagare per scovarci. Ma forse stavo
diventando paranoico.
“Investigatore
privato?” Una nota ilare oltre che dubbiosa suonò nella voce di mio figlio.
“Non credo che sarà
così facile per lui trovarci; in fondo, sta cercando qualcuno che non esiste
più… e non ho lasciato indizi… solo minacce velate.” Fu il commento
sorprendente, quasi noncurante di Esme.
“Cosa?!!” Quasi
gridai per lo sgomento. La guardai.
“Una minaccia
velata, per scoraggiarlo, o almeno per fargli capire che rischia di immettersi
su una china pericolosa.”
“Non riesco a
credere alle mie orecchie. Che cosa hai scritto in quella lettera? Non avrai…”
“Nulla che possa
ricondurlo a noi…” tagliò corto Esme.
Certe volte, Esme
riusciva davvero a sorprendermi con i suoi comportamenti.
Mi apparivano
azzardati, talvolta eccessivi, ma erano sempre il risultato di motivazioni
profonde, spesso legate alla tutela della sua nuova famiglia. In qualsiasi
frangente, si sentiva spinta a proteggere i suoi cari da interferenze esterne.
Evidentemente, Charles era diventato questo per lei. E non solo.
In verità, l’ex
marito era un canale rimasto aperto col suo passato fatto di tormenti, con cui
lei avrebbe fatto i conti ancora a lungo. Esme, che appariva così forte,
decisa, coraggiosa, un punto di riferimento per Edward, quasi un sostegno,
serena nell’accettazione faticosa della sua nuova esistenza, felice e appagata
dall’amore che ci univa, nascondeva bene quella sua fragilità, quel punto
debole che poteva metterla in crisi, una sofferenza da cui forse, non sarebbe
mai guarita del tutto. Esme portava pesanti cicatrici nascoste sul cuore; la
più vistosa fra tutte, era quel figlio morto, perso per l’eternità, perché
nulla, neppure la morte l’avrebbe più ricongiunta a lui. Di questo, era
consapevole e generava in lei autentico sgomento, per quanto quella distanza
tra madre e figlio fosse incolmabile.
“Mi manca Derek…” mi
confessò smarrita, un giorno. Avevamo raggiunto da poco la nostra nuova casa,
una villetta isolata. Non avevamo ancora preso pieno possesso dell’ambiente;
l’arredamento non era ancora completo, imballaggi e scatoloni erano ancora
sparsi in giro per le stanze quasi vuote, un’ immagine nel suo insieme, che
suggeriva perfettamente l’idea di ciò che eravamo davvero: esseri senza fissa
dimora, erranti per il mondo.
L’avevo sorpresa un
momento, mentre stava sistemando le sue cose in un armadio; tra gli oggetti
personali che aveva portato con sé, c’era un vestitino da neonato. Lo aveva
avvicinato al viso e lo annusava in modo avido, quasi volesse catturare
l’odore, imprigionarlo con l’olfatto.
“Che buon profumo…”
sospirò.
Sembrava persa in un
sogno, lo sguardo fisso davanti a sè, incantata e assente come se la sua mente
fosse lontana chilometri da lì e avesse ripercorso un viaggio a ritroso nel
tempo e nello spazio. Ero davanti a lei e non mi vedeva, mentre i suoi occhi
guardavano oltre il mio corpo come fossi trasparente, e stringeva tra le mani il
piccolo indumento. Era in momenti come quello, che tornava a galla prepotente
la sua umanità. Era la madre che non sarebbe più stata, quella che non avevo
potuto salvare.
L’avevo stretta
contro di me, accarezzandola, lasciando scivolare le mie mani sulla sua schiena
per tentare di darle sollievo.
“Vorrei potertelo
rendere Esme, davvero…” Sospirai con un profondo tono malinconico.
Lei aveva affondato
la guancia contro il mio petto, poi aveva alzato i suoi occhi a incontrare i
miei e aveva parlato in un sussurro che orecchio umano non avrebbe udito.
“Temevo che avrei
dimenticato il suo volto, come qualcosa che va perdendosi nella nebbia più
fitta… invece è l’unica cosa che è rimasta impressa nella mia mente come un
solco profondo… anche il dolore rammento. È qui dentro… - si indicò il petto
con la mano - …non aumenta e non diminuisce. È fermo, inchiodato sul cuore,
imprigionato in un’ anima di cemento… Dimenticherò tutto, Carlisle, ogni
immagine e ricordo della mia vita da umana… ma non questo… mi resterà per
sempre addosso, impastato con la mia stessa carne, lo so…”
Ero certo che fosse
l’assoluta verità; a distanza di tempo, capivo davvero il motivo di quella
reazione rabbiosa che aveva avuto di fronte ai pensieri accusatori del marito.
Non potei non provare
pena per lei e mi rendeva vagamente triste il fatto di non poter alleviare in
alcun modo quella sofferenza. Forse, niente l’avrebbe mai mitigata e a questo,
con tristezza dovevo rassegnarmi. In nessun caso è mai stato facile per me,
accettare la mia impotenza, con Esme questo limite era una dura prova, ancora
più difficile. Per questo, cercavo di compensarla con tutta la dolcezza, con
tutto l’amore che potevo riversare su di lei, magra alternativa a qualcosa che
non avrei mai potuto darle davvero.Esme era ancora tra le mie braccia; quando parlò di nuovo, rivelò la
sfumatura di un malessere che mi era appartenuto per tanto tempo.
“Mi sento strana,
Carlisle; è come se non appartenessi a questo luogo, a questa nuova casa. Tutto
ha un odore così nuovo…diverso; il legno, i mobili, la carta da parati. Ad
Ashland, ogni cosa era più famigliare…”
“Lo so, Esme…” C’era
rassegnazione nella mia voce, mentre Esme si liberava dal mio abbraccio e si
sedeva sul bordo del letto; tra le mani tratteneva ancora la tutina da neonato.
In un angolo della stanza, c’era una valigia lasciata aperta, da cui uscivano
tra le altre cose, un album di vecchie fotografie, e un paio di guanti che le
avevo regalato quando era ancora umana.
“Mi chiedo se
smetterò mai di sentirmi così…” disse, senza staccare lo sguardo dal piccolo
indumento infantile che tratteneva tra le mani. Non compresi il senso esatto di
quella frase, a cosa si riferisse in realtà. Mi sedetti accanto a lei, un
braccio a cingere le sue spalle.
“Mi dispiace... per
tutto. Tante volte ho avvertito il tuo stesso disagio. Ti capiterà ancora; in
pratica, ogni volta che ricominceremo in un’altra città. Vorrei tanto che ti
sentissi a casa. Io ti amo, Esme, così tanto che non avrei mai creduto
possibile, e vorrei solo poter vivere serenamente la nostra vita, per quanto
assurda. Abbi fiducia. Troveremo un modo, insieme.”
Mi guardò con
dolcezza.
“Carlisle, io ho
fiducia, e mi sentirò a casa ovunque tu sarai, ovunque deciderai di andare… di
questo sono certa… Devo solo abituarmi al cambiamento.”
Era difficoltoso
affondare radici in un terreno nuovo. Lo sapevo bene.
La nostra vita
sarebbe continuata, in qualche modo; con le nostre cicatrici marchiate a fuoco
sulle pareti del cuore, con le mie ansie fatte di aspettative e timori, col disgusto
di Edward per se stesso, conseguenza della sua sete di sangue che restava
insoddisfatta. Per le creature maledette che siamo, la vita è una sola lunga
stagione, un inverno rigido che assidera il cuore, congelato in un istante che
diventa perenne. Non ci sono primavere che sciolgono il gelo, né estati che
esplodono di vita che risorge, anche se posso considerare Esme la mia goccia
d’estate in mezzo all’inverno, e i miei figli sono briciole di primavera
seminate sul ghiaccio.
Era la fine del
1922, quando ci stabilimmo nella città di Tacoma.
Io avevo ripreso a
lavorare; esercitavo come medico chirurgo nel piccolo ospedale della città.
Edward si era
iscritto in un’altra scuola. Nuovi compagni accanto a vecchie reazioni e
identici pensieri; mio figlio manteneva la sua tendenza all’isolamento forzato,
tenendo gli altri ragazzi a distanza e senza concedere confidenza a chi lo
osservava con curiosità e sgomento, al punto da apparire scostante e
pretenzioso, comportamento sconcertante che non smetteva mai di preoccupare me
e sua madre.
Nessuna novità
apparente nella nostra vita che scorreva accanto a quella dei mortali,
ineluttabile e senza variazioni. Il ritmo dell’esistenza riprendeva in un altro
luogo, in una città più lontana, quasi non si fosse mai fermato, ogni volta
sempre uguale, scandito nello stesso modo e dalle stesse cose; lavoro, scuola,
caccia.
Vita che fosse, per
quanto possibile, la più normale.
Ma la normalità per
noi è sempre e solo falsa apparenza, una maschera da indossare con
disinvoltura, in ogni frangente e imprevisto. La mia si era adattata
perfettamente al mio volto attraverso i secoli, come una seconda pelle. Non era
così per Edward ed Esme, troppo giovani per saper stare in equilibrio con se
stessi; la profonda solitudine unita all’atteggiamento di chiusura di uno, era
motivo d’inquietudine per l’altra. E anche la maschera, troppo oltre l’umano
per non inquietare, poteva far paura, creare disagio a chi ci incontrava. La maschera
ci proteggeva, ma non tutti si lasciavano ingannare da essa.
L’imprevisto poteva assumere
qualsiasi forma, anche la più incredibile e bizzarra, fino a diventare quasi
altrettanto mostruosa.
Vivevamo a Tacoma,
una città portuale, ma per cacciare ci spingevamo anche nei territori interni,
a volte all’estremo confine col Canada, dove la fauna era molto ricca di
animali selvatici, anche di grosse dimensioni come orsi e puma.
Oppure potevamo
restare dentro i confini della penisola di Olimpia, zona che comprendeva anche
la riserva indiana di La Push, territorio dove vivevano da secoli gli indiani
Quilleutes. La riserva si estendeva dall’entroterra e arrivava fino alla costa,
lambita dalle acque del Pacifico.
Fu durante una
caccia che sconfinammo nelle terre della riserva, senza immaginare cosa questo
avrebbe rappresentato per noi da quel momento in poi.
Quel giorno avevamo
cacciato in gruppo, senza separarci.
Correvamo con
naturalezza, senza far rumore dentro il silenzio ovattato della vasta foresta,
verde e umida di muschio che attecchiva sui tronchi degli alberi imponenti; le
chiome nascondevano alla vista il cielo slavato, gonfio di pioggia che sarebbe
caduta a breve.
Volavamo a gran
velocità sulle foglie morte che marcivano e facevano da tappeto al suolo bruno
e scuro, quando non era punteggiato da ciuffi d’erba verde e delicata.
Tra noi, Edward era
sempre il più veloce, il più rapido a cogliere differenze, tracce e odori
insoliti, a captare per primo segnali d’allarme, e naturalmente pensieri di
presenze umane a distanza. Avevamo già ucciso un paio di animali e ne avremmo
uccisi ancora, se non fossimo stati interrotti in maniera brusca da qualcosa di
assolutamente imprevisto e inimmaginabile.
Oltre a noi, c’erano
altre presenze nella foresta.
Arrivò prima l’odore
sconosciuto a ferire i nostri sensi, un fetore che generò in noi vero disgusto
e una sorta di malessere, senza poter comprendere a quale oscuro essere vivente
appartenesse una puzza simile. Odore di selvatico, ancestrale e selvaggio.
Qualcosa di animalesco, ma oltre l’animale.
Se già quello fu
sorprendente, lo furono molto di più le parole rivelatrici di mio figlio.
“Stanno arrivando
Carlisle; prepariamoci allo scontro…puntano dritti su di noi…” sibilò nervoso.
“Che genere di
creature sono?” domandai altrettanto preoccupato. Ero all’erta, pronto alla
lotta, deciso a difendere la mia famiglia.
Non sapevo cosa
aspettarmi, né contro cosa avremmo dovuto combattere. Col mio corpo feci da
scudo a Esme.
“Non sono del tutto
animali, pensano come uomini… Sono pericolosi per noi; sanno cosa siamo…”
Le sue parole oltre
che inquietanti, erano del tutto oscure. Chi o cosa, poteva sapere della nostra
esistenza?
- Sono vampiri e sono sulla nostra terra.
- Non possiamo
permettere che si avvicinino alla città…
- Sono almeno tre,
Ephraim… ma noi siamo in vantaggio…
“Sono più di noi…”
Precisò.
Edward aveva sentito
i pensieri provenire da un gruppo di creature che comunicavano fra loro. Il
folto della foresta nascondeva il branco che ci stava inseguendo;
fiutavano il nostro odore di vampiro e seguivano la traccia che lasciavamo
dietro di noi.
Quale creatura
incredibile poteva dare la caccia ai vampiri? Chi poteva sfidarci?
Nonostante la mia
esperienza, io non ne conoscevo alcuna. Miti e leggende non mi venivano in
aiuto e poi avevo smesso di crederci da tempo; troppo fantasiosi e lontani
dalla realtà che si era rivelata sempre più terrificante. Anche Esme era
perplessa. Forse spaventata, ma non per sé.
“Cosa sono, Edward?”
“Qualcosa di non
umano…”
“Possiamo
affrontarli?”
“Forse…” rispondeva
mio figlio, i muscoli tesi all’estremo.
“Stai calmo, Edward… Cerchiamo di non attaccare per
primi, meglio valutare bene le loro intenzioni…” aggiunsi velocemente
rivolgendomi a entrambi, mentre Edward si metteva in posizione di difesa,
mostrando i denti e ringhiando verso la boscaglia che pareva animarsi di vita
propria. Sia io che Esme lo imitammo, pronti ad affrontare i nostri presunti e
ostili nemici. Velocemente venivano nella nostra direzione; sentivo la terra
tremare per la vibrazione che trasmettevano al suolo con i loro movimenti.
Poi avvertii la
minaccia di latrati furiosi. Un suono cupo che sembrava far vibrare la
vegetazione attorno.
E mentre aspettavo
di affrontare i miei nemici, mi chiedevo se non fossimo giunti tutti alla fine
del nostro viaggio; a breve, forse avrei scoperto il destino ultimo della mia
razza antica, e se l’inferno avrebbe divorato per sempre il mio corpo di
demone. Credevo di non potermi sorprendere di nulla, credevo che fossimo le
uniche creature partorite dalla leggenda, unici mostri generati da una natura
soprannaturale misteriosa e oscura. Mi ero sempre sbagliato in maniera
clamorosa e quel giorno, realizzai quanto mistero ci fosse ancora nel mondo,
quante zone d’ombra potessero occultare verità bestiali, ignorate dagli uomini
comuni.
Improvvisi, emersero
dalla boscaglia scura che li nascondeva e ce li trovammo davanti; pochi metri
ci dividevano da quattro bestie enormi, grandi come orsi, che degli orsi non
avevano nulla, salvo il pelo scuro, quasi nero di uno di loro. Ringhiavano
minacciosi, scoprendo denti lunghi e affilati come rasoi che avrebbero potuto
tranciare di netto il braccio di un vampiro. Erano i nostri nemici naturali che
non avevo mai conosciuto, né mai incontrato.
Erano lupi e non lo
erano.
Erano uomini e non
lo erano.
Forse erano mostri.
Uomini, lupi o
mostri che fossero, erano senza paura.
Di sicuro, erano
licantropi.
Di sicuro, potevano
distruggerci.
Guardinghi,
iniziarono a girarci attorno pronti ad assalirci. Pareva ci studiassero mentre
si muovevano con cautela, e le loro zampe possenti lasciavano pesanti impronte
nella terra umida. Averli così vicini era nauseante per l’odore bestiale che ci
investiva e quasi ci faceva vacillare. Ci avrebbero attaccato sicuramente e
forse avrebbero avuto la meglio su di noi perché erano più numerosi; nonostante
la mole parevano essere molto agili e veloci. Erano lupi in tutto. Erano
sorprendenti.
Erano qualcosa di
oscuro e mostruoso quanto i vampiri stessi.
Ma nella loro
esistenza c’era un significato più nobile e alto.
Lo spirito del lupo
non è forse dotato di coraggio e forza indomita?
Quella forza fatta
di bene, che serve ad affrontare il nemico più crudele e perverso generato
dall’universo soprannaturale?
Quel coraggio
assoluto che ci vuole ad affrontare un vampiro?
Non avevo mai
trovato motivi plausibili all’esistenza dei vampiri, ma trovare in natura,
qualcosa che poteva contrastarci dava un altro senso a tutto quanto. I
licantropi erano una diretta conseguenza dei vampiri, una soluzione da opporre
al male che siamo. Forse perché a dei mostri, si possono solo opporre altri
mostri altrettanto potenti.
Sfuggire i loro
morsi mortali non sarebbe stata un’impresa facile; il pensiero che una di
quelle bestie avrebbe potuto distruggere Esme, Edward, o anche me stesso, mi
impressionava con una sensazione di stranissimo stupore, che quasi annullava la
mia capacità di ragionamento.
L’eternità stava per
finire in quell’istante, ma i secoli lasciati alle spalle non mi sembrarono più
tanto lunghi, e tutto sembrò accorciarsi all’improvviso.
Non era paura quella
che provavo; era più simile a una specie di sgomento che si avverte davanti a
un evento inatteso che ci coglie impreparati. Non temevo la morte, perché
l’avevo desiderata troppo a lungo; mi aveva sedotto molte volte come qualcosa
che si anela e non si può avere.
Speravo per assurdo,
di poter evitare lo scontro, eppure capivo che era illusorio credere di
risolvere il problema senza spargimento di sangue e saremmo anche potuti
soccombere. Come sarebbe stato morire per davvero? Finire l’esistenza nel
nulla? Smettere di lottare contro se stessi?
Abbandonai in fretta
i miei pensieri poco coerenti e tornai lucido.
L’unico vantaggio fu
poter anticipare le loro mosse, grazie alla capacità di Edward di sentire le
loro menti; per fortuna un’ anima umana dimorava ancora in loro.
“Il loro scopo è
difendere la loro terra e la loro gente; credono di trovarsi davanti a vampiri
predatori di uomini.” Spiegò mio figlio.
Pensai
immediatamente che se si fossero convinti del contrario, nessuno si sarebbe fatto
del male. Ma ci avrebbero creduto? Avrebbero almeno provato ad ascoltarci?
“Ma noi non siamo
vampiri predatori di uomini…” Dissi, guardando direttamente negli occhi
l’enorme, minaccioso lupo nero che mi stava davanti, sollevando la bocca a
rivelare canini aguzzi quanto i nostri.
Come se avesse
compreso perfettamente le mie parole, si mise a ringhiare ancora più forte,
appiattendo le orecchie indietro sulla grossa testa.
Anche senza
leggergli il pensiero, era chiaro che non mi credeva, sospetto che venne
prontamente confermato da mio figlio.
Eravamo tutti tesi,
concentrati nello sforzo di non farci distrarre dall’odore quasi
insopportabile, e attenti a parare un loro possibile attacco che poteva partire
in un momento qualsiasi contro chiunque di noi. Decisamente non sembravano
pacifici, anzi, avevano un’aria piuttosto bellicosa; non parevano disposti a
lasciarci andare per la nostra strada.
“Dovete crederci,
non siamo predatori di uomini. Siamo diversi dagli altri della nostra specie;
noi cacciamo solo gli animali. Non vogliamo fare del male a nessuno.” Ribadii
con più enfasi, cercando per quanto potevo di mantenermi calmo, mentre mi
frapponevo tra Esme e il grosso lupo nero che ci controllava.
“Vogliono delle
prove, altrimenti non ci crederanno.” Sibilò veloce Edward, mentre si muoveva
con cautela per allontanarsi dal lupo grigio che lo puntava.
Manteneva la sua
posizione, pronto allo scatto, terrificante e minaccioso quanto e più del lupo,
ma stava perdendo la pazienza; non sapevo per quanto ancora si sarebbe
controllato. La sua impulsività poteva essere un problema. Volevo assolutamente
evitare lo scontro; se c’era anche una sola debole possibilità l’avrei trovata.
Tentai di nuovo di convincere il lupo nero; mi sembrava il capo branco.
“Prova a guardare
nei miei occhi e vedrai che hanno il colore della verità, che non è quello del
sangue… non potrei ingannarvi su questo…”
Allora, gli occhi di
ghiaccio del capo branco puntarono dritti nei miei; ci fissammo ostinati. Solo
la sfida eraconcentrata nei nostri
sguardi così diversi, riflessi di anime altrettanto diverse. O forse, io per
lui, altro non ero che un guscio vuoto. Lentamente, mi parve che il dubbio
finalmente, gli attraversasse lo sguardo. Sembrò iniziare a rilassarsi, ma si
manteneva guardingo, rigido nella postura del corpo massiccio. Passarono alcuni
secondi interminabili in cui non accadde nulla.
L’espressione del
lupo si manteneva severa; non era più minacciosa, ma continuava a studiarmi con
molta attenzione. Poi, i suoi compagni emisero strani brontolii allarmati al
suo indirizzo; stava accadendo qualcosa all’interno del branco. Tra loro si
agitavano pensieri che non potevo captare. Fu Edward a alluminarmi sulla
conversazione che stava avvenendo e soprattutto, sulle intenzioni del loro capo.
“Vuole parlare con
te; sta per accadere qualcosa…”
Solo a quel punto
accadde ciò che non avrei mai creduto di poter vedere; stupefatto, osservai il
lupo nero iniziare a tremare violentemente come se fosse scosso da strane
convulsioni, e nell’arco di pochi secondi il suo massiccio corpo nero cambiò
nella forma di un uomo; un indiano dal corpo robusto e possente, occhi e pelle
scura tipica di quella gente si parò totalmente nudo davanti a me. Attorno a
lui, gli altri erano rimasti nella forma del lupo, forse per proteggere il loro
compagno e non trovarsi completamente esposti alla mercé di tre probabili
pericolosi vampiri.
Assistere a quella
scena fu così sorprendente che mi trovai del tutto impreparato nelle reazioni.
Dovevo avere un’
espressione oltre che stupita, anche parecchio stupida.
Licantropi, muta
forma. Cos’erano mai quelle creature?
Esistevano da che
esistevano i vampiri? Avrei voluto saperne di più, ma c’erano altre priorità
prima della mia naturale curiosità. Finalmente l’uomo davanti a me parlò.
“Il mio nome è
Ephraim Black; sono il capo della tribù dei Quilleutes. Questa che avete invaso
è la nostra terra. I vampiri sono da sempre i nostri nemici giurati… voi non
potete stare qui…”
“Io sono Carlisle Cullen, loro sono mia moglie, Esme, e
mio figlio, Edward. Non volevamo invadere le vostre terre, ma per inseguire le
nostre prede ci siamo spinti troppo oltre. Non intendiamo fare del male a
nessuno. Veniamo dalla città di Tacoma, dove al momento risediamo stabilmente,
io esercito lì come medico…”
Le mie ultime parole
lo sorpresero, ma non come avrei voluto.
“Tu saresti un
medico? Non prendermi in giro, vampiro…” Il tono era severo, mentre
pronunciava con evidente disprezzo la parola vampiro.
“È la verità. Se
vuoi delle conferme, puoi chiedere all’ospedale di Tacoma…” dissi risoluto.
L’indiano restò a
guardarmi fisso ancora per qualche minuto con un sopracciglio alzato; stava
valutando se ciò che avevo appena detto, potesse essere vero. Era una novità
anche per lui, trovarsi di fronte un vampiro tanto insolito. Alla fine, non ero
sicuro di averlo del tutto convinto, ma tenne per sé i suoi pensieri.
“È la prima volta
che incontro vampiri così strani; vedo dal colore dei tuoi occhi che hai detto
la verità… almeno, per quanto riguarda la vostra dieta. Però non potete passare
sulle nostre terre. Siete comunque una minaccia e potreste attirare altri che
non sono come voi. Dovete andarvene; per oggi lo scontro è stato evitato, ma
non sarà sempre così…”
“Capisco. Non
vogliamo creare problemi alla tua gente. Ma vorrei proporti un patto, Ephraim…”
dissi calmo.
Attesi la sua
reazione; l’espressione accigliata del suo viso rivelava il sospetto e forse,
incredulità.
“Un patto col
diavolo? Non sia mai!”
Non era del tutto
disposto a fidarsi di un vampiro, anche se vegetariano, ma volevo
provare a dimostrargli che si sbagliava.
“Prima di dire di
no, vorrei che mi ascoltassi…”
Non fece altri
commenti e attese che parlassi.
“Non invaderemo più
le vostre terre per cacciare. È una promessa, e mi impegno fin da ora a mantenerla.
Ci limiteremo a transitare vicino al confine durante gli spostamenti, magari a
sostare nei territori vicini. In cambio, vi chiediamo di non rivelare a nessuno
della nostra esistenza; noi viviamo in mezzo agli uomini, cerchiamo di sembrare
normali esseri umani, ma per il bene comune, loro non devono sapere della
nostra esistenza.”
Sembrò soppesare la
mia proposta. Speravo che fosse accettata senza troppe questioni; in fondo, non
chiedevo altro che una tregua che in qualche modo, ci permettesse di convivere
pacificamente.
“Come soluzione mi
sembra possibile. È una richiesta che possiamo accettare. Sia chiaro che se
tenterete di entrare a La Push, ci sentiremo autorizzati ad attaccarvi, e se
uno qualsiasi di voi dovesse mordere un umano, la tregua sarà considerata
infranta…”
“Non accadrà nulla
di simile da parte nostra. Ma non saremo responsabili di altri vampiri che
potrebbero passare da queste parti.”
“A quelli penseremo
noi.” confermò deciso.
Così fu stabilito il
patto segreto tra i vampiri della famiglia Cullen e i licantropi, e tutte le
parti, si impegnarono a rispettarlo; si sarebbe mantenuto nel tempo e negli
anni a venire. Saremmo passati ancora nella penisola olimpica, e sarebbe
diventata una delle nostre tappe fondamentali per il futuro.
Lasciammo la foresta
sotto l’occhio attento dei lupi che ci scortarono fino al confine della
riserva, che da quel momento, per noi divenne limite invalicabile.
Mentre ci
allontanavamo dalla zona, Edward mi rivelò le perplessità di Ephraim, dubbi che
l’indiano non aveva voluto manifestare apertamente.
“Non è sicuro di
aver fatto una cosa giusta accettando questo patto. E poi non era convinto che
tu fossi davvero un medico…”
“Beh, dovrà
convincersi che si sbaglia, perché noi, questo patto lo rispetteremo ad ogni
costo; non entreremo più in queste terre, per nessuna ragione al mondo. Per
tutto il resto, si arrenderà all’evidenza dei fatti.”
“Devo ammettere che
non mi piacciono questi cani puzzolenti. E non solo per il loro odore…”
Commentò Edward con
sarcastico disgusto. Era ancora nervoso. Capivo da cosa derivava il suo
fastidio; il confronto con i licantropi non lo faceva sentire meno mostro.
“Non devono
piacerci, Edward. Neppure noi piacciamo a loro e forse non hanno neppure tutti
i torti. Dobbiamo solo evitare di scontrarci in futuro…”
Anche a me, è capitato di pensare che la loro esistenza
sia più giusta e giustificabile della nostra.
I territori vicini
erano molto vasti e non sarebbe stato un problema, limitare il nostro raggio
d’azione, magari ci saremmo potuti spingere fino alle montagne che formavano la
catena delle Cascade, e spostare la caccia in quei territori.
In definitiva,
restammo a Tacoma qualche anno, ma l’ospedale dove esercitavo non mi offriva
grandi possibilità di crescita, né di approfondire sul campo il mio interesse
per la psichiatria, anche perché la struttura non era dotata di un reparto
attrezzato. Il direttore dell’ospedale, sapeva della mia specializzazione e
conosceva la mia volontà di applicarmi seriamente a quella branca della medicina.
Fu proprio lui a
parlarmi di un posto che si era reso vacante presso l’ospedale psichiatrico di
un altro stato. Aveva ricevuto qualche mese prima, una lettera dal direttore
del manicomio, suo amico e compagno di studi all’università, dove il collega gli
diceva che stava cercando un medico specializzato da inserire nell’organico
della struttura, una casa di cura gestita da privati.
“Dottor Cullen,
volevo parlarle da un po’ di questo posto. Il direttore del manicomio è un mio
carissimo amico, una persona di grande esperienza e altamente qualificata. Il
dottore che c’era prima è andato in pensione, ma nessuno ancora ha fatto
richiesta per prendere il suo posto. Io ho pensato immediatamente a lei; ha
tutte le qualità che servono per un incarico simile, è competente e preparato,
e credo che sarebbe un’ottima occasione per applicare le sue conoscenze e fare
pratica con la psichiatria. La paga potrebbe non essere altissima, ma penso che
questo sia l’ultimo dei suoi problemi. Non è qui con noi da molto, e forse non
trova entusiasmante l’idea di ripartire per ricominciare a lavorare in un altro
stato, ma deve pensare che in questa cittadina sperduta non si presenteranno
molte occasioni di migliorare la sua carriera. Le chiederei di rifletterci
sopra, prima di rifiutare.”
“La ringrazio per la
fiducia. Potrebbe interessarmi davvero, la sua proposta. La valuterò.”
Eravamo nel suo
ufficio privato; lo avevo ascoltato con la massima attenzione e alla fine del
suo lungo discorso, avevo risposto subito con un certo entusiasmo.
Si trattava
certamente di una buona occasione che forse, non si sarebbe ripresentata tanto
presto.
Ci pensai su qualche
giorno.
Ero un po’ restio
solo per il fatto di dover costringere la mia compagna e mio figlio ad un altro
trasloco, ma in realtà, era solo una pura questione di tempo.
Prima o poi, saremmo
dovuti ripartire comunque. Tanto valeva farlo per uno scopo.
Ne parlai con Esme e
poi con Edward, ma loro non mi opposero particolari obiezioni.
Esme mi avrebbe
seguito tranquillamente, mentre Edward non avrebbe avuto alcun motivo per voler
restare ancora a Tacoma. Non riusciva, o forse non voleva mai legarsi ad un
posto più di un altro. Anzi, a volte sospettavo che ogni nuova partenza, per
lui, fosse l’unica distrazione un minimo eccitante che lasciasse entrare nella
sua esistenza.
“Un posto vale
l’altro; possiamo andarcene quando vuoi.”
Rispondeva alzando
le spalle, e devo ammettere che quelle sue reazioni mi preoccupavano sempre un
po’.
Avevo il sospetto che
non fossero sempre sincere, perché ostentava un’ eccessiva indifferenza. Dopo
aver scoperto la storia sorprendente e amara di Emy, avevo capito che la
freddezza di Edward era solo apparente; chissà che razza di sentimenti si
agitavano in lui, chissà che pensieri. Chissà che sforzi doveva fare per
nascondere i suoi impulsi, per non farsi trascinare dalle sue emozioni
violente.
Non avrei voluto che
le mie decisioni fossero prese come imposizioni, pur sapendo che in parte lo
erano.
Dopo qualche anno
diventavano obblighi necessari.
Così, solo dopo
molte discussioni, ripensamenti, confronti aperti tra quello che volevo io, e i
desideri dei miei famigliari, mi decisi per la partenza; nel 1926 ci preparammo
a lasciare Tacoma, per raggiungerela città
di Madison nello stato del Mississippi.
Stava per iniziare
una nuova avventura. Coincideva nel mio cuore con il germoglio tenero di una
nuova speranza.
Cosa speravo di
trovare nel Mississippi? Non saprei dirlo…
La speranza quasi
sempre delude, e alla fine, ci troviamo con qualcosa che non avevamo chiesto.
Cercavo nuove
prospettive per Esme e Edward, o forse solo per me stesso? Il mio, non era solo
l’ennesimo tentativo di placare l’unica vera sete che in tanti secoli, non ero
mai riuscito a soddisfare e far tacere davvero? La sete di sapere, la sete di
esperienza e conoscenza che poteva elevare, salvare dall’abbrutimento. Sapevo
solo che nulla sarebbe mai stato definitivo, né per me, né per loro. Speravo,
sì… Non potevo farne a meno.
Anelavo sempre a
qualcosa di più solido e concreto, che fosse positivo, ricco di esperienze
vitali, costruttive per la loro esistenza. Speravo non avesse senso solo per
me, ma anche per loro, che in qualche modo, erano obbligati a seguirmi.
Speravo… forse, inutilmente.
Forse non avrei
trovato nulla, come niente sarebbe cambiato nella nostra vita.
Ma poi pensavo a
quante inaspettate coincidenze avevano dato forma alla mia esistenza così come
l’avevo vissuta, fino a quel momento.
Ancora non potevo
saperlo, ma stavo per trovare sul mio percorso un'altra tessera misteriosa del
mosaico, un incastro prezioso del puzzle che sarebbe venuto a comporre la mia
vita, una briciola un po’ folle di quella primavera che avrebbe soffiato sul
gelo dei nostri cuori.
Continua…
Ciao a tutte.Eccomi
qui, con questo nuovo capitolo.
Stavo pensando che è già un anno che lavoro su questa storia e
ancora la fine mi sembra lontana.
Avevo qualche perplessità, se inserire o meno questo pezzo della
storia, perché non mi sembrava davvero fondamentale, inoltre non ero certa
delle date, del periodo in cui collocare il patto coi Quilleutes; nel libro, la
Meyer descrive il fatto come se fossero presenti quasi tutti i componenti della
famiglia Cullen, quindi farebbe pensare che sia avvenuto anni dopo, ma i conti
non mi tornavano con il racconto che fa Jakob a Bella, parlando del suo
antenato Ephraim.
Insomma, le mie idee erano un po’ confuse, ma per ragioni
puramente pratiche, io ho preferito anticipare il fatto e inserirlo qui.
In definitiva, non penso che sia importante, almeno ai fini
della mia storia; diciamo che questo può essere considerato come un capitolo di
passaggio, anche se ho cercato di dargli un po’ di spessore per renderlo un po’
più interessante. Spero di averlo fatto nel modo giusto.
Forse vi chiederete perché non ho fatto alcun cenno a Forks;
semplice, la fondazione della città viene fatta risalire agli anni ’40, quindi
ho dedotto che i Cullen vi si siano stabiliti dopo.
Il capitolo che mi preme di più sviluppare sarà il prossimo, e
già in questo, ho lasciato qualche indizio sulla storia che voglio provare a
raccontare. Una storia che forse non vi aspettate, ma che spero apprezzerete.
Sarà un capitolo difficile, quindi dovrete aspettare un po’ prima di leggerlo.
Come al solito, ringrazio tutte voi che leggete, commentate, preferite e
seguite questa storia.
L’ho già fatto, rispondendo alle vostre recensioni
singolarmente, ma vi ringrazio di nuovo.
Spero sempre di non deludervi, ma se avete delle critiche o
commenti da fare, fatele liberamente, vi risponderò e cercherò di migliorare la
mia storia.
Se non ci sentiremo prima, vi saluto e vi auguro Buon Natale e
buone feste in anticipo.
Ciao a tutte le pazienti lettrici che ancora mi seguono.
Scusate per l’immane ritardo, ma questo capitolo non è stato una
passeggiata per tanti motivi.
Sì, lo so; è la solita scusa, ma davvero, non ne ho altre.
Qualcuna fra voi, forse aveva
già intuito qualcosa; non so se sarà esattamente come vi aspettate che sia,
spero che vi possa piacere. Forse lo troverete azzardato, forse vi sorprenderà
un po’, perché certamente i fatti non sono andati in questo modo da me immaginato,
e gli elementi in mio possesso erano davvero pochi. Ma la prospettiva mi
sembrava troppo allettante per non provare a svilupparla. In ogni caso, fatemi
sapere che ne pensate. Spero solo di non deludervi. Al solito, buona lettura.
*****
Arrivammo a Madison dopo quasi
sette giorni di viaggio in auto, intervallati da brevi soste che facevamo solo
per cacciare, o ripararci dal sole che poteva sorprenderci. Durante una sosta
nel Nebraska, quasi al confine col Kansas, ci fermammo in prossimità di una
vallata verde e rigogliosa; il sole era troppo vivo nel cielo, muoversi sotto
quella luce sarebbe stato rischioso, anche se non trovammo quasi nessuno in
viaggio lungo quelle strade polverose. Ancora non esistevano le automobili con
i vetri oscurati. Ci fermammo all’ombra degli alberi che delimitavano la
boscaglia vicina.
Non riuscivo a nascondere una
certa eccitazione quasi infantile, considerata la mia veneranda età; l’idea di
andare a lavorare per la prima volta in un manicomio mi riempiva di entusiasmo
oltre ogni misura. Era la febbre della mia aspettativa che cresceva di ora in
ora, mentre macinavamo chilometri per raggiungere la nostra meta.
Era sempre così la mia prima
volta in qualcosa, non aveva importanza che cosa fosse.
I manicomi non erano posti
idilliaci; non erano certamente famosi come ameni luoghi di accoglienza, tutt’
altro. Spesso non erano altro che il regno più torbido della sofferenza. Eppure
l’idea di andare a lavorare in uno di questi posti mi elettrizzava e pensavo
che avrei potuto portare un valido contributo per migliorare le cose.
Rimanevo stupito e lieto di
quanto fosse umana questa mia genuina debolezza; era qualcosa che mi faceva
tenerezza, eppure rappresentava una caratteristica preziosa che mi ricordava un
po’ ingenuamente, che possedevo ancora qualcosa di umano, un nodo insolubile
che palpitava dentro di me come una fiammella vitale opposta e contraria
all’abisso scuro che avvolgeva il mio spirito, una scintilla che non voleva
saperne di estinguersi.
In tali circostanze, le mie
emozioni erano così vive, che in nessun modo riuscivo a camuffarle, e non
stupivano soltanto me.
“Devo ammettere che mi
sorprendi con questi tuoi atteggiamenti… Se non sapessi che sei un vampiro,
potrei quasi credere che tu sia umano, Carlisle…”
Commentava mio figlio, e mi
pareva di cogliere qualcosa di lievemente ironico e dissacrante nelle sue
osservazioni, quasi volesse burlarsi di me.
“Dovresti scioglierti un po’
Edward: qualche volta è bello lasciarsi turbare dalle emozioni… farebbe bene
anche a te.”
“Non l’ho già fatto una volta?”
mi rispose sorridendo.
“Alludi a Emy, vero?”
“Sì… Conosci la storia.”
Avevamo abbandonato l’auto poco
distante, in prossimità della strada e ci eravamo inoltrati attraverso un
sentiero nella radura e puntavamo verso l’ombra degli alberi più lontani. Il
cielo era terso, solo solcato qua e là da qualche nuvola leggera, pennellate di
bianco che sembravano eseguite da un pittore. Era bello, qualche volta,
lasciarsi avvolgere da quella luce chiara che rendeva i colori attorno vibranti
di riflessi luminosi e vividi.
Nascondersi costantemente nel
grigiore autunnale delle giornate umide poteva essere deprimente. Anche un
vampiro può aver bisogno di un po’ di sole nella sua vita.
“Una volta non basta… Dovresti
lasciare che accada più spesso… Non sarebbe così tragico.”
Esme, che ci ascoltava sempre
attentamente, si intromise, tentando forse di deviare il discorso.
“Chissà come sta quella
ragazza; dovrebbe vivere da queste parti…”
Edward guardò Esme per un
momento, ma continuò a parlare con me.
“Se lasciassi che le mie
emozioni prendano il sopravvento, farei qualcosa di cui ti pentiresti, tu per
primo.”
“Credi che non saprei
impedirtelo?”
Esme intervenne di nuovo, e
nella sua voce colsi una nota di apprensione.
“Carlisle, non esagerare…”
Temeva che la discussione
degenerasse e sapeva che i nostri conflitti nascevano dal nulla, come certi
temporali che esplodono improvvisi e ti sorprendono coi loro nuvolosi neri in
aperta campagna.
“Potresti non fare in tempo… e
allora, che faresti?” Edward mi guardò serio, aveva smesso di ridere.
Io non raccolsi la
provocazione; non volevo guastare un momento in cui mi sentivo sereno e
positivo. Cercai di non dare eccessivo peso alle sue parole.
“Forse non mi dovrò preoccupare
di questo…”
“Certe volte ti sforzi di
essere ottimista in un modo assurdo.”
“Edward, ti prego…” arrivò
chiara la supplica di Esme, che cercava sempre di limitare i nostri contrasti
quando affioravano in superficie come bolle d’aria in uno stagno, rompendo la
quiete incerta della nostra convivenza.
Ci fu un momento di silenzio,
in cui Edward si perse a contemplare il paesaggio attorno, poi continuò a
parlare ostentando volutamente un tono ironico. A lui non piaceva rattristare
sua madre, e mutava atteggiamento appena coglieva i suoi pensieri preoccupati.
“Davvero non capisco; che cosa
potrai trovare in mezzo a mentecatti e schizofrenici, in un posto dove il più
normale, crederà di essere il figlio naturale di Alessandro Magno?”
“O forse, penserà di essere un
vampiro…” Ironizzai.
“Davvero Carlisle, a parte gli
scherzi: che cosa stai cercando veramente?” la domanda era seria, questa volta.
“Risposte? Non lo so, Edward…
forse nulla. Ma sono convinto che la ricerca di se stessi sia un modo per dare
un senso alla nostra esistenza.”
Mi ero sdraiato sull’erba,
sentivo il profumo fresco e umido che saliva dalla terra e arrivava alle mie
narici; le mani sotto la testa, contemplavo la vastità dell’azzurro sopra di
me, Esme era al mio fianco. Mio figlio, poco distante, con la schiena
appoggiata al tronco di un albero, sembrava stesse dormendo, ma in realtà
ascoltava i rumori della natura attorno: il leggero sibilo delle fronde mosse
dal vento, i versi lontani di un animale, cose che amava fare subito dopo una
caccia.
“La ricerca di se stessi… come
si fa a trovare qualcosa se non si cambia mai? Le nostre esperienze sono sempre
le stesse; non c’è possibilità di crescita senza cambiamento.”
Sussurrò Edward fra sé.
“Anche noi possiamo fare
esperienze ricche di significato, compiere scelte che possono modificare la
nostra natura. La nostra evoluzione è difficoltosa, lenta e meno evidente, ma
c’è. Anche le montagne sembrano immutabili, ma in realtà non lo sono. Noi siamo
come le rocce delle montagne…”
Non perdevo occasione per
tentare di convincere mio figlio che ero nel giusto, ma la resistenza che lui
opponeva alla mia dottrina di pensiero era tenace e forte quanto la mia
perseveranza.
“È un bel paragone, ma non so
quanto sia vero…Anzi, escludo che possa esserlo.”
Confutava così, quelle che per
lui, erano solo estrose teorie. Chiudemmo la conversazione e ci apprestammo ad
attendere le ore serali per ripartire. Avevamo ancora molti chilometri da
percorrere.
Pochi giorni dopo la città ci
accolse come si accoglievano tutti gli stranieri: con la curiosità un po’
frivola e sciocca che avevano tutte le cittadine della provincia americana in
epoca proibizionista, una novità un po’ esaltante che si sarebbe esaurita entro
qualche mese, se fossimo stati creature più semplici e insignificanti. Ma la
famiglia del dottor Cullen era troppo attraente per non generare sempre un po’
di scompiglio, ovunque comparisse, e a poco serviva tentare di passare
inosservati, per quanto ci sforzassimo di farlo.
-Avete visto il nuovo psichiatra? Non ho mai visto un
uomo così bello. Si dice che abbia una notevole esperienza medica nonostante
sembri tanto giovane.
-Il dottor Cullen e la famiglia sono arrivati da poco
in città. Anche la moglie è una gran bella donna, molto discreta e riservata; hanno
un figlio… forse adottato.
-Va a scuola con mia figlia e mi ha detto che è un
giovane taciturno dal fascino incredibile e ambiguo.
-Però sono strani… non conducono molta vita sociale;
declinano tutti gli inviti che ricevono…chissà perché…
Le reazioni umane erano sempre
più o meno le stesse; diffidenza mista a inevitabile attrazione.
Il manicomio di Madison sorgeva
in un’area esterna alla città, un po’ isolato rispetto al centro abitato, non
troppo distante dalla nuova abitazione che occupavamo. Si trattava di un
edificio anonimo di colore giallastro, dall’intonaco qua e là scrostato, con
inferiate alle finestre, circondato da una recinzione all’interno di un piccolo
parco verde con qualche aiuola fiorita, alcune panchine e pochi alberi.
Era una struttura gestita da
privati, lievemente trascurata nell’aspetto esterno, mentre all’interno
appariva ben tenuta.
Presi servizio attivo una
mattina, presentandomi nell’ufficio del direttore dell’istituto, un uomo
disponibile e bendisposto che mi accordò subito la massima fiducia.
“Sono sicuro che la nostra
collaborazione sarà proficua per entrambi, dottor Cullen. Ho sentito solo
ottime cose su di lei… e il suo curriculum è invidiabile: una specializzazione
in psichiatria moderna…”
Il direttore era un uomo di
mente elastica e aperta, che non disdegnava di adottare soluzioni innovative e
meno invasive nella cura delle malattie mentali, ma che a volte suo malgrado si
trovava costretto ad adottare mezzi e misure che erano la regola di tutti gli
ospedali psichiatrici a quell’epoca. Erano queste pratiche, a volte estreme ed
eccessive, che spesso io non approvavo, che derivavano da teorie antiche che
all’inizio del secolo non erano state ancora abbandonate.
Le malattie mentali
nell’antichità e nel medioevo erano considerate di natura sovrannaturale,
divina, o peggio, demoniaca, e fino al ‘700 i pazienti erano tenuti in
condizioni disumane. Tante volte mi è capitato di ripensare a come venissero
considerati nella più remota antichità i malati di epilessia, malattia
all’epoca sconosciuta che veniva confusa per possessione diabolica.
Fu inevitabile per me, tra
quelle mura e in quelle circostanze, ripensare a mio padre e agli errori che
lui stesso aveva compiuto, lasciandosi guidare dai suoi pregiudizi, frutto
dell’ignoranza dell’epoca in cui ero nato anch’io. Quante povere anime
deliranti aveva condannato, pazzi visionari incapaci di difendersi dal mondo
che li aggrediva, colpevoli di vedere e sentire cose che non esistevano se non
nella loro mente bruciata dall’insania.
Solo in epoca illuministica le
false credenze cominciarono a essere abbandonate, ipotizzando per i disturbi
mentali origini di carattere fisiologico naturale, come lesioni del cervello, o
traumi di varia entità.
Ma certe pratiche vennero
attuate ancora a lungo.
Nell’ottocento un medico troppo
zelante, un certo Benjamin Rush, aveva scritto addirittura un manuale dove si
spiegavano e legittimavano queste tecniche, vere e proprie torture che
prevedevano l’uso di strumenti come la sedia tranquillante, che
ricordava tanto la sedia della strega, usata nel medioevo per estorcere
confessioni a chi veniva accusato di stregoneria.
Ancora all’inizio del ventesimo
secolo, i poveri disgraziati che finivano rinchiusi nei manicomi spesso erano
vittime di abusi e violenze; trattati come animali, rinchiusi in gabbie,
venivano legati, incatenati, torturati, erano oggetto di vessazioni perché i
medici che si fregiavano del titolo di psichiatri erano convinti che per
mantenere il controllo e il potere su questi individui, fosse necessaria la
forza bruta.
Quanta umanità disperata che
non sapeva di esserlo, trovai tra gli ospiti del manicomio di Madison; un’
umanità ingenua, quasi serena e persa in sogni impossibili, in fantasie malate
e mondi dai colori irreali.
Uomini e donne dai sorrisi
infantili ed ebeti che portavano riflesso negli occhi vacui e opachi, il
malessere che li affliggeva, persone che erano state condannate alla solitudine
prima dalla sorte, e poi da chi avrebbe dovuto volere il loro bene.
Qualcuno li aveva dimenticati
tra le mura dell’ospedale psichiatrico, dove vagavano come miseri fantasmi
trascinandosi sulle spalle il peso di una sofferenza che ottundeva la mente,
gettandola in una strana nebbia fumosa e densa, da cui spesso non potevano
tornare.
C’era Reymond,[1]
un ragazzo autistico che esplodeva in crisi isteriche implacabili se a una
cert’ora precisa, non ascoltava un particolare programma radiofonico; Marta,
una donna demente di quarantacinque anni con il cervello di una bambina di
otto, che si preoccupava di pettinare costantemente la sua bambola semicalva di
nome Melissa. E poi schizoidi violenti che potevano fare del male a se stessi e
agli altri, legati quasi costantemente alla camicia di forza. Paranoici fissati
che si sentivano minacciati da chissà quali mostri partoriti dal loro
inconscio, depressi apatici con tentativi di suicidio alle spalle; come
Jonathan, un ragazzo che sentiva una voce aliena nella sua povera testa che gli
ordinava di fare le cose più assurde.
L’ultima volta era stato salvato
quasi per miracolo e non perché noi, medici o inservienti, ci fossimo accorti
in tempo di quello che aveva fatto, ma perché qualcuno era riuscito a vedere il
suo gesto insano un attimo prima che si compisse. Dopo l’accaduto, Jonathan era
stato messo in isolamento, sedato e tenuto legato per vari giorni.
Non era facile avere a che fare
con quella realtà e mi chiedevo come uomini comuni riuscissero a farlo, perché
io stesso mi sono trovato spesso in difficoltà, ma non escludo che tra qualche
medico cinico e con pochi scrupoli, ci fosse anche chi godeva in modo perverso,
della miseria umana di queste persone sfortunate.
Si trattava di vivere quasi
quotidianamente a stretto contatto con il dolore, una pena che si esprimeva con
un linguaggio suo proprio, spesso indecifrabile, un travaglio sterile che non
si consumava tra le lacrime, ma gridava in una forma muta e opprimente, che
schiacciava la mente bloccata in strane, orrorifiche ossessioni.
L’esperienza del manicomio non
fu una passeggiata e sovente, sarebbe stato facile lasciarsi prendere dallo
sconforto, da speranze deluse e dal senso di fallimento, quando mi accorgevo
che cure e trattamenti, in realtà non erano altro che palliativi inutili,
soluzioni drastiche e inumane, perché la pazzia era ed è ancora oggi, un male
spesso incurabile, sconosciuto e oscuro nelle sue varie forme; lentamente, ma
con amarezza compresi che in quell’ambiente, tra quelle pareti bianche, entrava
molto di rado la speranza della guarigione completa, che altro non era se non
un miraggio che filtrava debole e pallido, tra le inferiate di quella specie di
prigione della mente e dell’anima. In realtà, per coloro che varcavano i
cancelli di questi posti, il più delle volte il soggiorno diventava lungo una
vita intera, perché in massima parte, nessuno di questi miseri infelici guariva
davvero dal suo male; così, quella tra il paziente e le sue ossessioni insane
diventava una convivenza obbligatoria e spesso deleteria, che peggiorava in
maniera lenta e progressiva.
Mai come nel periodo in cui
lavorai in quel luogo triste, mi venne naturale pensare alla condizione della
mia esistenza; la paragonavo a quella di quei poveretti e scoprivo con
angoscioso sgomento che per una macabra ironia, era simile alla loro. Non avevo
mai sentito una tale affinità.
Mai confronto mi aveva posto
tanto vicino a quella condizione umana che cercavo da secoli. Per la prima
volta, davvero, mi specchiavo negli occhi di un’ umanità afflitta e vedevo me
stesso. Ero come loro: prigioniero.
La vera tragedia era che io ne
ero lucidamente consapevole.
Ero consapevole di essere in
prigione.
La mia anima da troppo tempo
non era più libera; le inferiate che la trattenevano erano salde ed eterne,
inattaccabili dalla ruggine dell’ effimero.
Anche per me i cancelli si
erano chiusi per sempre, la mia essenza più autentica era stata intrappolata
tra pareti senza finestre, una roccia priva di spiragli a concedere vie di
fuga. Ma dentro, il veleno di una vita sbagliata bruciava senza sosta.
Forse sarebbe stato così anche
per Alice Mary Brandon, se la sua storia personale così particolare, non si
fosse scontrata con forze troppo grandi per lei. Il suo stesso potere era
troppo grande e ingombrante: quella giovane era posseduta da capacità
precognitive che condizionavano fortemente la sua vita e la sua mente.
Al mio arrivo a Medison, Alice
aveva diciassette anni, ed era dall’infanzia che veniva sballottata attraverso
vari istituti psichiatrici degli Stati Uniti. Era originaria di Biloxi, una
cittadina amena e accogliente, con le sue siepi graziose di azalee e camelie,
che sorgeva all’estremo sud sulla costa del Mississippi e lì, abitava ancora la
sorella maggiore Cynthia, unica parente rimasta in vita che l’aveva fatta
internare e ogni tanto veniva a trovarla.
Consultando la sua cartella
clinica scoprii che era dall’età di sette anni che Alice aveva delle visioni
incredibili, vedeva fatti e cose molto prima che accadessero, o così sosteneva
lei, e naturalmente era per questo motivo che era stata internata, fin dalla
più tenera età. I genitori erano morti alcuni anni prima, ma si erano sempre
preoccupati infinitamente delle sorti di questa figlia così segnata dalla
diversità.
Alice veniva sottoposta ad
elettroshock da molto tempo; subiva il trattamento ogni volta che si
manifestavano le sue crisi maniacali; a dire il vero, le visioni non erano
fenomeni frequenti, ma avevo notato che accadevano se sollecitate da situazioni
particolari. Sottoposta ad elettroshock, imbottita di farmaci e sedativi, Alice
interagiva poco con l’ambiente esterno e anche le sue comunicazioni con i
medici erano minime.
Ma io volevo parlare con lei
delle sue visioni, a mente lucida.
Così, decisi di sospendere la
terapia farmacologica e ogni altro trattamento traumatico cui la sottoponevano.
Inoltre, ero convinto che la pratica dell’elettroshock non fosse di alcuna
utilità per la guarigione della mente, e che anzi, peggiorasse le cose; serviva
solo a torturare il paziente in modo atroce.
Liberata dai farmaci, Alice
aveva perso in fretta la sua apatia apparente, rivelando subito una personalità
vivace, sveglia, dai riflessi pronti, manifestando un carattere aperto,
positivo e solare. Appariva davvero come una ragazza normale, forse un tantino
esuberante, con una gran voglia di vivere che era raro trovare nelle persone
ricoverate in manicomio. Capelli corti e neri, e occhi di identico colore che
brillavano di una luce inusuale in tanta scura profondità, era minuta e molto
magra, un fascio di nervi scattante e quando si muoveva, possedeva una strana
grazia che la faceva sembrare una specie di folletto vivace e birichino; le
piaceva scherzare, anche con battute irriverenti, e lo faceva con chiunque,
medici, infermieri e pazienti. Era sagace e ironica e giudicava tutto con
occhio smaliziato; una personalità insomma, che si adattava perfettamente al
suo essere e alle sue attitudini. Era un raggio di sole che si posava sulle
cose, animandole, una goccia di allegria e zucchero sull’amaro del mondo che ci
circondava. Era la gioia di vivere che contagiava chi le stava attorno e la
gratitudine per la vita.
“Allora Alice, come andiamo
quest’oggi? Ti senti meglio, mi pare, da quando ti ho sospeso l’assunzione di
farmaci.”
“Sì, dottore. Sto benissimo e
volevo ringraziarla. - Ridacchiò. - Lei non teme che le mie visioni possano
tornare? Sa, a volte arrivano all’improvviso, senza che io possa averne
sentore; possono essere inopportune… oppure opportune, dipende…”
Sorrisi mio malgrado.
“Ti prego Alice, vorresti
illuminarmi?”
“Se prevedi una tresca amorosa
tra un aitante infermiere e una parente in visita a un paziente, sa… può dare
fastidio a qualcuno; a un marito tradito, ad esempio.”
“Capisco. Sarei tradito o
traditore? Temi di scoprire una tresca amorosa che mi riguarda?”
“Ne ha una?” Chiese maliziosa.
“No, Alice. Comunque, più del
contenuto in sé, mi interessa capire il meccanismo che le scatena; stabilito
quello, sarà più facile trovare una soluzione idonea che non sia
l’elettroshock. Anche perché credo sia una pratica inutile e assurda.”
“È uno dei pochi a pensarla
così; certi cervelloni qua dentro, pensano che sia un’ toccasana, forse perché
non l’hanno mai provato.”
“Lo so, ma credo che esistano
altre vie.”
“A lei piace infrangere le
regole, vero? Mi è simpatico…”
Mi venne spontaneo sorridere in
un certo modo, per cui Alice parve restare affascinata per un secondo.
Infrangere le regole…
era la prima volta che pensavo a me stesso in quell’ottica. Non era così
sbagliata.
“È un’ottima base di partenza
avere fiducia nel proprio medico. - le dissi, mettendo la parte le mie
riflessioni e proseguendo con le domande. - Come ti trovi con i tuoi compagni,
qui dentro? Hai fatto amicizia con qualcuno? Ti ho visto parlare con Eric.”
Accennai a un ragazzo
dall’aspetto gentile e tranquillo, ma vittima di manie da persecuzione. A quella
domanda, Alice mi scrutò attenta e nello sguardo le balenò un guizzo ironico;
stava trattenendo una risata, mentre giocherellava con una matita sulla mia
scrivania.
“Qui dentro sono tutti pazzi.
Eric è simpatico, quando non si perde nei suoi vaneggiamenti, ma non ha certo
una mente brillante. Non riuscirei a fare una conversazione decente con
nessuno, però mi piace parlare con lei dottore, anche se sembra più strano dei
pazienti ricoverati qui.”
Ignorai la sua ultima battuta,
e proseguii il nostro strano colloquio.
“Ti senti una persona normale,
Alice? Pensi che non dovresti essere qui?”
“No… - esitò solo un istante. -
Non dovrei essere qui, ma quanto a sentirmi normale… che cos’è la normalità,
dottore?” Mi sfidò.
Quella era davvero una bella
domanda; non poteva sospettare, quanto io fossi lontano dalla normalità, quanto
fossi fin troppo adatto a darle la risposta che cercava. Lei stessa poco prima,
mi aveva definito strano. Quante persone normali avevo incontrato nella
mia vita? Sapevo che le persone davvero normali erano poche, né migliori
né peggiori; semmai si poteva parlare di persone diverse, ma la
normalità era forse la cosa che meno esisteva tra gli uomini. La normalità era
solo un paravento dietro cui gli uomini nascondevano la loro diversità per
paura di non essere accettati. Quando il paravento si infrangeva contro la
consuetudine comune, contro la banalità ipocrita del vivere, spesso era un
trauma, una sofferenza che poteva condurre nel posto dove ora si trovava anche
Alice. Quanti poeti, pittori, scrittori, uomini anormali perché troppo
sensibili, incompresi finivano rinchiusi, subendo l’esilio forzato dal mondo
che non capiva la loro natura, la capacità di sentire e vedere più lontano nel
tempo.
Alice stessa era un’incompresa;
anche lei portava il fardello pesante che era la capacità di vedere.
“Prima hai detto che sono
strano.”
“Sì.”
“Quindi, pensi che in me ci sia
qualcosa di anormale?”
“Forse, ma non ho detto questo.”
“Cosa volevi dire?”
“C’è qualcosa che non riesco a
decifrare in lei, qualcosa di nascosto. Io l’ho vista arrivare in questo posto:
ho avuto una visione, vedevo uno sguardo mutevole, dorato come miele.”
Sorrise, i suoi occhi
brillavano di eccitazione trattenuta.
Si stava riferendo ai miei occhi.
Forse mi aveva visto davvero. Anzi, era probabile. Credevo che si stesse
inventando tutto, che volesse impressionarmi, ma era solo questione di tempo
prima che l’evidenza delle cose generasse in me il seme del dubbio.
“Lei non mi crede, vero?”
Sentii la rassegnazione nel
tono di voce.
“Ammetterai Alice, che è un po’
difficile.”
Alice restò in silenzio per un
lungo momento, lo sguardo fisso contro il pavimento di linoleum a scacchi
bianchi e azzurri del mio studio, gli occhi neri, di solito luminosi e
brillanti, improvvisamente diventarono cupi e tristi.
“Avevo sette anni la prima
volta che ho avuto una visione; vidi mia sorella Cynthia che si scottava con la
pentola dell’acqua calda solo un attimo prima che accadesse. Ebbi la visione
del suo volto sfigurato dall’acqua bollente; mi lanciai contro di lei, per
spingerla via dal fornello dove mia madre avrebbe urtato contro il manico della
pentola che sporgeva all’esterno. I miei genitori quella prima volta pensarono
che avessi tentato di farle del male. Io volevo solo proteggerla.”
Bastarono quelle poche parole a
rivelarmi un dolore nascosto dietro il paravento della sua vitalità, una pena
che Alice non manifestava mai, ma che portava aggrappata al cuore. Stare in
quel posto doveva angustiarla più di quanto non mostrasse. Feci una piccola
pausa, per darle modo di tornare al presente. Fuori e attorno a noi pareva
essere tutto tranquillo. Non c’era il sole, ma la temperatura era mite.
Di lì a poco sarei tornato a
casa da Esme, come tutti i pomeriggi alla fine del mio turno, e non mi
aspettavo certamente che qualcosa potesse scombussolare la mia routine
quotidiana.
La finestra del mio studio era
aperta per lasciare entrare l’aria piacevolmente fresca della giornata che
faceva vibrare dolcemente le foglie delle piante nel parco della clinica; fu
per quello che potei sentirlo, l’odore di una scia fin troppo nota, portata dal
soffio leggero e malandrino di un alito di vento.
Fui così sorpreso che
sicuramente il piccolo folletto se ne accorse.
Mi allarmai e mi alzai dalla
sedia per dirigermi verso la finestra sotto lo sguardo curioso e attento di
Alice, che mi scrutava con insolito sospetto. Dovevo sembrarle strano davvero,
ma risultò ancor più strana e oscura la frase che disse di lì a poco. Ero certo
di averlo sentito, e infatti, quando scrutai tra le fronde delle piante, vidi
chi non mi sarei aspettato: un vampiro ci stava osservando e potevo esser
sicuro che avesse ascoltato tutta la nostra conversazione; pochi secondi dopo,
scomparve alla mia vista. Chiusi la finestra con scrupolo inutile; non sarebbe
bastata la doppia mandata a tenerlo fuori. Mi girai di schiena contro il
serramento con l’aria un po’ sconcertata e fu in quel momento che Alice parlò.
“Che aria sconvolta, dottore;
lo ha visto anche lei, vero? Io ho un angelo personale che mi protegge… un
bellissimo angelo…”
Lo aveva detto col tono di chi
confessa un segreto.
Ma che diavolo voleva dire?
Parlava del vampiro? Sapeva che era lì nei paraggi?
Nell’immediato non seppi cosa
credere o pensare, se non immaginare il peggio.
Tornai a casa quel tardo
pomeriggio ed Esme, dalla mia espressione, si accorse subito della mia grande
preoccupazione. Davvero non riuscivo a nasconderle nulla e non le serviva
leggere la mia mente per capire le mie emozioni. Mi accolse con un bacio prima
di mettersi comoda per ascoltarmi.
“Amore mio, che succede?”
Chiese con ansia evidente. Le risposi senza girarci troppo attorno.
“Ho appena scoperto che c’è un
vampiro che gira nei pressi della clinica.”
“Un vampiro, qui? Temi per i
pazienti?”
“Sono preoccupato, non capisco
che intenzioni abbia…”
“Potrebbe essere solo un nomade
di passaggio; forse deciderà di andarsene ora che si è accorto della tua
presenza.” Commentò Esme con poca convinzione. Anche lei appariva visibilmente
preoccupata.
“Non credo; una delle mie
pazienti forse sa della sua presenza… c’è un motivo preciso se è qui.”
Edward rientrò a casa in quel
momento. Tornava da una caccia.
“Che cosa pensi che voglia?” Mi
domandò, leggendo il mio nervosismo.
“Non lo so, ma sarà meglio
controllare la zona. Edward, stanotte andremo a rintracciare la sua scia,
cercheremo di capire da dove proviene. Esme resterà nei pressi dell’ospedale.”
Così facemmo; la sua scia
andava e veniva attorno alla zona della clinica e non si allontanava mai troppo
dal suo perimetro. Doveva essere lì da molto tempo, addirittura da prima che
giungessimo noi, e non sembrava avere alcuna voglia di andarsene. Non aveva
attaccato ancora nessun essere umano, eppure non credevo potesse essere
vegetariano. Forse il suo territorio di caccia era altrove; allora, perché era
interessato a quello che succedeva nel manicomio? Era interessato alla piccola
Alice? Forse era un vampiro in cerca di una compagna, e aveva puntato la sua
attenzione su di lei, per qualche ragione particolare? Se Alice sapeva qualcosa
circa questo misterioso vampiro, Edward avrebbe potuto scoprirlo. Sarebbe stato
opportuno indagare i suoi pensieri.
Edward non avrebbe avuto
bisogno di venire direttamente in manicomio, gli sarebbe stato sufficiente
avvicinarsi quel tanto che bastava per sentire i pensieri della piccola
veggente. E così fece il giorno successivo.
Si accorse subito anche lui
della presenza del nostro misterioso simile.
Era molto vicino; avvertì i
pensieri confusi e stranamente preoccupati.
Alice era l’oggetto della sua
ansia, oltre che del suo interesse e si interrogava sul motivo della nostra
comparsa a Madison. Non manifestava aggressività. Pareva ci stesse
controllando. Ma perché lo faceva? Era davvero un comportamento inspiegabile,
senza un senso apparente.
“Lei lo conosce, che ragazza
bizzarra. - mi disse Edward, divertito, dopo aver sondato la sua mente. - Si
sono già incontrati; lui la va a trovare, ma non credo lei sappia, cosa è lui
in realtà…”
Il mistero si infittiva e tutto
diventava quasi incomprensibile, ma un sospetto ormai si stava affacciando tra
i miei pensieri.
Nei giorni seguenti anch’io fui
presente nel momento in cui Alice ebbe una delle sue visioni.
Eravamo nella sala della
ricreazione, una stanza asettica con tavoli e sedie; c’erano altri pazienti,
qualcuno disegnava scarabocchi su fogli di carta, Marta giocava con la sua
bambola, sgridandola perché si era macchiata il vestitino, alcuni infermieri
distribuivano le medicine prescritte dai medici.
Alice stava guardando una
rivista, ma pareva visibilmente annoiata.
Le mani nelle tasche del
camice, mi apprestai al suo tavolo.
“Buongiorno, dottor Cullen. –
Mi salutò allegra. - Nottataccia, eh? Oggi i suoi occhi sono un poco più scuri
del solito e ha certe occhiaie… Ahi, ahi dottore; non si fanno le ore piccole.”
Disse allusiva, agitando il
dito indice a mo’ di bonario rimprovero. Era da un po’ che non andavo a caccia
e rimasi notevolmente sorpreso dal suo spirito d’osservazione; forse era la prima
volta che un essere umano notava quella sottile differenza. Ma ben altri erano
gli imprevisti sorprendenti che accompagnavano la sua vita.
“Buongiorno Alice. Sempre
spiritosa e irriverente. È interessante quello che stai leggendo?”
“No, per niente. È di una noia
mortale: pettegolezzi e insulsaggini. Non si potrebbe avere qualche bel romanzo
giallo o d’avventura? O magari il fumetto di qualche supereroe? Sarebbe molto
più divertente.”
“Vedrò quello che posso fare. Hai
qualche preferenza?”
“Adoro i romanzi di Aghata
Christie.”
“Va bene. Ora però ho bisogno
di farti altre domande.”
“Vuole sapere del mio angelo?”
mi chiese anticipandomi con perspicacia. Alice era sorprendente e io non
nascosi il mio reale interesse.
“Credi che sia davvero un
angelo?” domandai cauto, sedendomi di fronte a lei.
Ma Alice sapeva evitare i
trabocchetti, con grande intelligenza.
“Crede dottore, che sia un
parto della mia fantasia malata? Non sarei così sciocca e banale neppure da
pazza.”
“Non hai risposto alla mia domanda.
E non credo che la tua fantasia sia malata. Tutt’altro, sei una persona molto
originale. Allora, questo presunto angelo: mi parleresti di lui?”
Alice sorrise con fiducia.
Appariva assolutamente tranquilla.
“Per me lo è. Un angelo entrato
nella mia vita. Lucien illumina la mia esistenza. È lui che mi dà la forza di
sopportare la mia clausura forzata in questo posto. Senza di lui, sarei già
impazzita sul serio…” Disse spiazzandomi completamente. Lo conosceva, ma non fu
questo a sorprendermi, quanto il particolare che lo aveva chiamato per nome. E
io ebbi paura del reale significato di ciò che aveva appena detto.
Quando un vampiro si interessa
ad un’umana, le ragioni possono essere solo due, e in entrambi i casi sono
terrificanti. Alice, o era una preda, o era una potenziale compagna. Si
trattava di stabilire cosa fosse.
Sicuramente, lei lo ignorava.
Ma se aveva una tale confidenza
con lui, poteva voler dire che ci fosse già tra loro una certa intimità
pericolosa.
Forse potevo escludere che
fosse una preda. Ma l’altra alternativa non era meno spaventosa.
“Lucien? Si chiama così?”
Cercai di mantenere un tono neutro, distaccato e professionale, mentre tentavo
di capire quanto Alice fosse già coinvolta emotivamente, una fragile umana
indifesa, irrimediabilmente affascinata dal predatore.
“Sì, è il suo nome…”
“È una forte amicizia, oppure…”
Accadde all’improvviso, quasi
prima che io terminassi la frase; uno dei pazienti aveva gettato a terra un
bicchiere di vetro colmo d’acqua, rifiutando di prendere la medicina che un
infermiere gli stava porgendo. Era stata come una specie di scossa elettrica
per Alice, come se qualcosa avesse acceso un campanello d’ allarme in lei; il
suono del vetro infranto aveva coinciso con un altro vetro infranto in un'altra
stanza. Due rumori quasi indistinti a orecchio umano che si erano annullati a
vicenda, che solo i miei sensi acuti potevano cogliere e distinguere.
La vidi bloccarsi, restare
immobile quasi assente, gli occhi come due pozzi neri spalancati su un abisso
ignoto, erano atterriti da ciò che vedeva; lo sguardo fisso pareva quello di
un’ allucinata e mi chiesi solo per un istante se non lo fosse davvero. La
chiamai, toccandole una spalla, ma parve non udirmi. Poi urlò.
“Jonathan! Fermatelo, presto!
Si farà del male!! Lo specchio… lo specchio è andato in mille pezzi!!”
Si era alzata dal tavolo
spaventata, alcuni infermieri erano intervenuti con una puntura per sedarla.
Non attesi oltre e corsi
umanamente attraverso i corridoi, chiamando altri medici e infermieri nella stanza
di Jonathan; increduli, lo trovammo inginocchiato sul pavimento, mentre
ingoiava schegge di vetro acuminate, e il sangue iniziava a colare dalla bocca
tagliata; lo bloccammo prima che la situazione diventasse irrecuperabile. Se
fossimo arrivati un minuto più tardi, non saremmo riusciti a salvarlo. [2]
Ebbe salva la vita, grazie ad
Alice.
Subito dopo il fatto, trascorso
l’effetto del sedativo, parlai di nuovo con lei; mi aspettava per sapere di
Jonathan. La tranquillizzai.
Ma quando parlò nuovamente, ciò
che disse mi riempi d’ inquietudine.
“Lucien è un caro amico, gli
voglio molto bene, ma non è di questo mondo; ho avuto strane visioni su di lui.
Non riesco a vedere tutto, alcune immagini sono come… oscurate.”
Cosa aveva capito davvero?
Conosceva veramente la sua natura tenebrosa di essere immortale, o la sua era
solo una sensazione?
Fu proprio a causa
dell’incidente di Jonathan che iniziai a pensare che le visioni della piccola
Alice non fossero di natura allucinogena, ma piuttosto erano l’espressione di
una particolarissima caratteristica che la ragazza possedeva. Espressi questa
audace teoria ai miei colleghi, che però non si dimostrarono d’accordo.
“Non penserai che sappia
davvero prevedere il futuro, vero? È ridicolo!”Esclamavano con assoluto scetticismo.
“E come spiegate la sua
visione, allora? Avete visto anche voi, quello che è successo.”
“Solo un caso…”
Non mi lasciai scoraggiare,
deciso a cercare delle prove a sostegno di ciò in cui credevo.
Pensai di sottoporre di nuovo
la mente di Alice al potere di mio figlio. Edward avrebbe notato evidenti
anomalie e forse avrebbe visto le immagini delle visioni. Avrebbe potuto dirmi
quanto fossero reali.
Avrei avuto le mie conferme
senza alcuna ombra di dubbio.
Così Edward vide Lucien e Alice
insieme, vide la loro confidenza fatta di una strana complicità e quanto fosse
reale e solido quel loro rapporto, ma alcune immagini restavano davvero oscure,
come se ci fosse il filtro di una specie di pellicola a velarle.
Forse era proprio Lucien che
con qualche dote particolare da vampiro, oscurava quelle immagini, che poneva
quel filtro fra loro, per non rivelare la sua vera identità.
Edward vide i ricordi delle
visioni, i pensieri, le frasi, le promesse di Lucien ad Alice.
-Ti porterò via da questo posto. Non voglio farti
restare qui dentro in eterno; potrei rapirti e portarti via da qui, ma tu non
vuoi che lo faccia.
-Mia sorella, Lucien… se sparissi morirebbe di
preoccupazione. Non posso farle questo, lei mi vuole bene.
-Non quanto te ne voglio io. E non è vero che ti
vuole bene, altrimenti non ti terrebbe rinchiusa qui; sei un peso di cui
farebbe volentieri a meno.
-Sei ingiusto, adesso. Lei ha la sua famiglia, la sua
vita.
-No, è la verità. Cynthia cerca di dimenticarsi della
tua esistenza, infatti viene a trovarti sempre più di rado. Quando è stata
l’ultima volta? Sei mesi fa…e ancora
non si fa viva. Non ti scrive nemmeno più.
-Sei cattivo quando parli così. Smettila per favore!!
Nel ricordo visto da Edward,
Alice aveva quasi urlato e aveva portato le mani sulle orecchie per non
ascoltare le parole dure del suo angelo demoniaco. Lucien si era pentito subito
e si era rimangiato tutto, scusandosi. Pareva sinceramente preoccupato per lei.
-Non sopporto che ti venga fatto l’elettroshock;
ucciderei quel medico che insiste nel sottoporti a questa pratica.
-Mi spaventi, quando parli così.
-Non è nelle mie intenzioni. Tu hai un potere Alice,
le tue visioni sono un dono, non una condanna. Se imparerai a conviverci, ad
accettarle come naturali, potrai vivere più serenamente. Potrebbero servirti…
-Servirmi a cosa? Quasi sempre, mi fanno stare solo
male. Certe volte non capisco cosa vuoi dirmi…
-Potrebbero essere la tua forza, metterti davanti la
verità e darti la possibilità di scegliere.
-Scegliere cosa? Sono le mie visioni che mi hanno
portata qui dentro. Se non le avessi mai avute, la mia vita sarebbe stata del
tutto diversa. I miei genitori non mi avrebbero mai allontanata dalla loro
vita, non si sarebbero dovuti preoccupare per la mia sorte…
-Alice, io potrei sopperire a tutte queste mancanze
se tu volessi… se tu mi lasciassi davvero entrare nella tua vita… perché non
vuoi seguirmi?
-Seguirti dove, Lucien? Non so dove tu voglia
portarmi. Tu sei importante per me. Sei un amico prezioso, lo sai, ma non sei
del tutto sincero con me. Vorrei che non ci fossero segreti a dividerci,c’è qualcosa che tu non mi dici. C’è
qualcosa di oscuro in te, qualcosa che mi fa paura.
-Hai paura di me, Alice?
-Ho paura di quello che non riesco a vedere, di ciò
che non capisco.
Questo era tutto ciò che Edward
era riuscito a leggere. Non era poco e non era molto.
Ma bastava a dare un senso
abbastanza chiaro alla presenza di questo vampiro nella vita della piccola
veggente.
Mi pareva ovvio che la volesse,
ma per qualche ragione sconosciuta, il vampiro esitava nel compiere il suo
proposito. A casa, ne parlammo fra noi, cercando di decifrare l’enigma che
coinvolgeva Alice e Lucien.
“Certamente ha pensato, o sta
pensando di trasformarla, eppure ancora non lo ha fatto. Non posso permettere
che accada, non a una delle mie pazienti.”
La mia affermazione sorprese
malamente mio figlio.
“È quanto mai strano da parte
tua; condanni una pratica che hai attuato tu stesso? Più di una volta?”
“Alice deve vivere da umana. Non
è necessario che la sua vita finisca. Io voglio che viva, magari fuori di qui.”
“Certo, se lo fa un altro non
approvi, ma se lo fai tu, va bene. Una
giustificazione la trovi sempre…”
Edward stava diventando
sarcastico. Ma quello non era il momento delle recriminazioni e io, colto di
sorpresa, non mi ero aspettato che ne avrebbe fatta una questione personale.
“Edward!! Non è così, e lo
sai!” Proruppi in tono secco e contrariato. Non potevamo lasciarci distrarre
dai nostri attriti personali.
“Non litigate adesso, non è il
momento né il caso.”
Esme si intromise subito, a
smorzare l’animosità di nostro figlio, poi si rivolse a me.
“Come pensi d’ impedire ciò che
potrebbe essere inevitabile? Non vorrai arrivare a scontrarti con questo
Lucien, vero?” Mi chiese Esme, visibilmente in ansia.
“Non metterai a rischio la tua
vita per una giovane umana che forse è già condannata.” Era indispettita.
Mi sorprese la strana
risoluzione che aveva messo nel tono della voce. Forse era la prima volta che
si mostrava così palesemente irritata.
Mi avvicinai a lei, con fare
accomodante. La presi per le spalle e lasciai che le mie mani corressero
leggere lungo le sue braccia. Tentai di placarla guardandola con lo sguardo più
morbido che riuscii a trovare, avvolgendola con tutta la sicurezza che sapevo
infonderle.
“Esme, tesoro, devi stare
tranquilla. Non voglio che accada nulla di drammatico.”
“Lo so, è che… quel vampiro là
fuori, voi due che vi mettete a discutere proprio ora; questo clima
d’incertezza mi rende nervosa.” ammise riluttante.
Edward mi venne in aiuto.
“Potrei captare i suoi
pensieri, ma non si avvicina mai abbastanza e non si lascia avvicinare. È
furbo.”
Commentò, esasperato da quella
calma apparente.
I giorni passavano e pareva non
accadere nulla. Eravamo tutti in attesa di qualcosa.
Un segno, una mossa da parte
del vampiro misterioso che potesse suggerire le sue intenzioni.
Intanto, Lucien continuava a
tenerci d’occhio; mi accorgevo della sua presenza incombente, ci sorvegliava da
lontano, come un falco che aspettava l’istante propizio per planare sulla preda
e sorprenderla.
Poi finì anche l’attesa; la sua
e la nostra.
*****
Ci fu un imprevisto, fortuito
quanto bastava a sbloccare la situazione.
Dopo mesi dall’ultima volta, la
sorella Cynthia venne in visita; Alice fu davvero felice di vederla.
Saltellava dalla gioia senza
riuscire a contenere l’entusiasmo che la prendeva; sembrava una bambina che
riceveva la visita inaspettata di Santa Claus.
Le sorelle Brandon mi parvero
molto legate; parlarono per una buona mezzora, assolutamente prese una
dall’altra e felici di ritrovarsi; Alice non faceva che abbracciare la sorella
con slancio commovente, mentre l’assaliva con domande infinite sul cognato, sul
nipotino che non aveva mai visto, nato l’anno prima, e Cynthia subiva
pazientemente quell’assalto.
Insomma, la sorella maggiore
sembrava ricambiare l’affetto che Alice dimostrava, manifestando un sincero
attaccamento che in parte avrebbe potuto essere autentico, ma che più tardi,
quando ebbi l’occasione di parlarle, scoprii non completamente sincero, nella
misura in cui era condizionato dalle circostanze.
Chiesi un colloquio privato e
invitai Cynthia nel mio studio.
Volevo parlare con lei di Alice
e della sua permanenza in manicomio, delle cure che stava facendo, ed esporre
le mie personali convinzioni sul problema presunto delle visioni.
Le raccontai soddisfatto dei
progressi che Alice aveva fatto da quando era stato sospeso l’elettroshock, ma
quando esposi con chiarezza la mia convinzione che la sorella non fosse pazza e
che non fosse necessario tenerla rinchiusa, Cyinthia reagì in un modo che non
mi aspettai e che subito non mi piacque.
Fraintesi il senso di quella
reazione, giudicai erroneamente l’atteggiamento di chiusura, che in fondo aveva
una sua giustificazione umana.
Restavo sempre un tantino
costernato e deluso di fronte alla grettezza dell’animo umano; io avrei fatto
di tutto per tenere unita la mia famiglia, quindi non compresi immediatamente
il tentativo di Cynthia di isolare Alice dal suo mondo di affetti personali e
famigliari. All’inizio mi parve puro e semplice egoismo, sentimento che mi
amareggiava e che già tante volte avevo trovato tra gli esseri umani; poi
compresi che forse non era altro che paura.
Una paura in fondo,
comprensibile. Anche ragionevole se vogliamo.
“Dottor Cullen, ho capito bene?
Secondo lei, Alice non dovrebbe stare in manicomio? Sta pensando sul serio di
dimettere mia sorella?”
Era perplessa, ma non come
avrebbe dovuto. Non pareva sollevata o contenta per una notizia positiva che
avrebbe rallegrato chiunque altro, pareva piuttosto allarmata.
Spaventata, forse era il
termine piùgiusto. Cercai di parlare
in modo da non innervosirla maggiormente.
“Non nell’immediato, è ovvio.
Ci vorrà un po’ di tempo, ma sì, è una possibilità concreta per il futuro. È
una cosa che andrà fatta per gradi; Alice non conosce il mondo fuori da queste
mura, dovrebbe abituarsi a vivere con le persone attorno a lei. Le ho sospeso
già da tempo certi farmaci, e per gradi, penso di poter arrivare a sospendere
ogni altra terapia. Se Alice avrà modo di tornare a casa, se potrà vivere
liberamente la sua vita senza subire traumi come quelli che ha ricevuto qui,
sarà solo un bene per lei.”
Ma a tutte le mie capacità
persuasive, Cynthia opponeva una resistenza ferrea.
“Dottore, mia sorella è pazza!
Completamente pazza!! – ribadiva ostinata. - È sicuro di quello che vuol fare?”
Seduta di fronte a me, era
esplosa quasi di botto in un tono isterico; capii che non sarebbe bastato il
mio fascino a farla capitolare, ma volli insistere lo stesso.
“Le ripeto; io non credo che
Alice sia pazza. Mi creda signora Parker, l’insania mentale è un’altra cosa;
qui dentro ci sono molteplici forme di questo male che di sicuro non riguarda
sua sorella. Certo, è una ragazza esuberante, forse troppo, dotata di una
notevole fantasia, ma parliamo di una caratteristica umana assolutamente
normale. Non ha motivo di essere così sconvolta.”
Ma Cynthia continuava a
guardarmi incredula.
“Ho tutti i motivi, invece!! Le
sue visioni, come le spiega? Le sembrano fenomeni normali?”
Il tono della sua voce era
sempre alterato.
Gesticolava e le mani avevano
un leggero tremito che tradivano la sua agitazione.
“Sarà sorprendente per lei, ma
credo che Alice abbia davvero la capacità di vedere una parte del futuro. Mi
ascolti, la prego. Credo che sua sorella abbia un dono. Ho potuto constatarlo
di persona.”
Dissi con calma, sottolineando
le parole, aspettando la sua reazione prevedibile.
“Lei sta scherzando, spero!”
esclamò infatti con crescente disappunto, ad occhi sgranati. Per assurdo,
pareva che il mio atteggiamento calmo e rilassato la irritasse maggiormente. Mi
stavo trattenendo; in realtà non avevo motivo di restare così tranquillo. Era
solo la maschera che le presentavo.
“Non scherzo affatto, anche se
mi rendo conto che come affermazione è provocatoria.”
“Io le dico che si sbaglia!! –
sbottò, picchiando con la mano sul bracciolo della sedia. - Lo sa cosa mi ha raccontato,
una delle ultime volte che ci siamo incontrate? Che è destinata a unirsi a un
essere immortale! Non so lei, ma a me sembrano le affermazioni di una
squilibrata! Secondo lei, io cosa dovrei fare? Non posso prendermi in casa una
ragazza visionaria e occuparmene; io ho un figlio piccolo, di appena un anno.
Come dovrei gestire la situazione?”
Avevo capito bene? Aveva detto essere
immortale?
La notizia mi cadde addosso
come pioggia gelata, quasi più fredda della mia pelle; la nefasta conferma di
ogni mio sospetto. Naturalmente, se per Cynthia quelle erano state parole senza
senso, per me avevano un significato spaventosamente chiaro. Oltre ad
un’ulteriore conferma che Alice aveva davvero visioni sul futuro, esisteva la
prova concreta che avesse visto se stessa trasformata in vampiro. Ero basito e
angosciato.
Sembrava che la sciagura
seguisse quella ragazza da anni.
“Signora Parker, lei è sicura
di quello che le ha detto Alice? Quando le ha parlato di questa visione? La
prego, ho bisogno di conoscere ogni dettaglio. Io non ne sapevo nulla.”
“L’ultima volta che sono venuta
qui, sei mesi fa; mi fece discorsi stranissimi su… un ragazzo molto pallido.”
Fece una pausa e vidi mutare
l’espressione del suo viso; divenne nostalgica e triste.
“Allora: è ancora convinto che
mia sorella sia sana di mente?”
“Sei mesi fa, io non ero qui, e
la situazione era un tantino diversa, rifletta su questo. Certo, alcune
visioni, potrebbero essere solo manifestazioni dell’inconscio.”
Tentai di minimizzare
raccontandole delle bugie. Non potevo certamente dirle il vero motivo per cui
desideravo che Alice se ne andasse.
“Vuole lasciare che Alice
invecchi da sola in questo posto? Lei è sua sorella, l’unico affetto che le è
rimasto. Potrebbe davvero aiutarla. Mi creda; prima Alice andrà via da qui,
meglio sarà.”
Lo dicevo a ben vedere, conscio
della reale minaccia che incombeva sulla giovane.
“Cosa crede, che se potessi
aiutarla non lo farei? È mia sorella, le voglio bene. Oh, Dio… - la sua voce
era incrinata ora; era sul punto di cedere al pianto, e aveva perso
l’irritazione di prima.- Avrei voluto
per lei una vita normale, ma non è mai stato possibile. Non avrei voluto vedere
mia madre disperarsi, e mio padre nascondersi dalla gente, perché si vergognava
di sua figlia. Lei non immagina neppure che vuol dire.”
Sputò quasi con rabbia dolorosa
le ultime parole prima di continuare.
“Credo che la cosa migliore per
Alice, sia restare qui.”
“Mi dispiace sentirla parlare
così. Lei non immagina l’errore che sta facendo.” risposi rassegnato.
“Io non posso… non posso… non
ce la faccio… mi dispiace tanto!”
Singhiozzò alzandosi dalla
sedia, trattenendo un fazzoletto tra le mani per asciugarsi gli occhi che si
stavano riempiendo di lacrime. Cercai un momento di trattenerla, la chiamai.
“Cynthia, la prego, non faccia
così.”
Ma non mi ascoltò e fuggì via
correndo, sconvolta.
Uscì dal mio studio lasciando
la porta aperta dietro sè, la vidi correre attraverso il corridoio.
Sentivo i suoi singhiozzi
soffocati che si allontanavano verso l’uscita.
Mi alzai sconsolato, lasciai la
mia scrivania per raggiungere la porta e chiuderla; emisi un pesante sospiro
rassegnato, passando davanti alla mia finestra.
Buttai per caso lo sguardo
oltre il vetro chiuso, le tendine bianche erano aperte come un sipario sul
verde tenue del parco e fu allora che vidi la scena.
Irreale.
Inaspettata.
Mi colse totalmente
impreparato.
Per lo sconcerto restai fermo,
immobile, quasi incapace di reagire nell’immediato.
Ero in piedi al centro della
stanza, davanti al riquadro grigio/azzurro di quella finestra che si apriva sul
mondo esterno. Lì, davanti a me, su una delle vecchie panchine del parco, c’era
Alice.
Non era sola.
Stava parlando con qualcuno
accanto a lei, che le sorrideva. Amichevole.
Un sorriso che avrebbe
abbagliato qualsiasi donna.
Un sorriso che nascondeva il
vero pericolo di una creatura creata per uccidere.
Un sorriso che lei ricambiava
fiduciosa e senza timore.
Il vampiro era lì con lei.
Lucien le era seduto accanto come fosse una persona assolutamente normale.
La loro famigliarità mi apparve
ancora più evidente, pesantemente marcata, come se lui fosse lì per
sottolineare il possesso di qualcosa che era suo.
Parlava con lei come fosse un
ragazzo normale, seppur bellissimo. Un giovane dai capelli lisci, corti, neri
come le ali di un corvo, che portava degli occhiali scuri a celare lo sguardo
rosso fuoco di un probabile assassino.
Era lì, vicinissimo a lei, a
pochi metri da me.
Potevo vedere le sue mani
bianche dalle dita lunghe che indugiavano, accompagnando dietro l’orecchio, una
ciocca dei capelli di Alice.
Improvvisamente lo vidi girarsi
nella mia direzione; anche dietro gli occhiali scuri, immaginavo che mi stesse
guardando. In quel preciso istante compresi perché era lì; stava aspettando.
Compresi cosa dovevo fare io. E
non tentennai neppure un secondo.
Voleva parlarmi.
Dovevo affrontarlo e parlare
con lui.
Fu un lampo.
Mi mossi; ero già fuori.
Continua…
Bene, spero che questa prima parte vi sia
piaciuta. Sono un po’ ansiosa, devo ammetterlo.
Non è stato facile scrivere questo pezzo,
d’altronde questa storia non si è rivelata facile fin dall’inizio.
Forse vi avrà sorpreso, e magari no; dai libri
sappiamo che questo incontro non è avvenuto così, e neppure si colloca in
questo periodo della vita di Carlisle; so di aver anticipato molto le cose, ma
mi sembrava una possibilità così interessante che ho voluto provare a inserirla
nella mia storia.
Della vita umana di Alice, si sa davvero poco
o nulla. Io ho preso le scarse informazioni trovate su internet, e su quelle ho
lavorato per imbastire la vicenda.
Ho dovuto dividere il capitolo in due parti
perché diventava troppo lungo; mentre scrivevo mi sono accorta che la storia
diventava complessa e i personaggi, soprattutto Lucien, si rivestivano di
ambiguità.
Qui ho accennato al rapporto che Lucien
avrebbe con Alice, ma non volevo svelare troppo; penso che vi siate potute fare
un’ idea più o meno precisa della situazione. Naturalmente Lucien è un
personaggio totalmente inventato. Spero che vi sia piaciuta e che un po’ vi
abbia incuriosito, tanto da voler sapere come continuerà nel prossimo capitolo.
Come sempre vi ringrazio per le vostre
preziose recensioni, per l’attenzione, perché preferite e seguite questa
storia; vi invito sempre a dirmi se qualcosa non vi convince, così che io possa
eventualmente correggere e migliorare la storia.
Eccomi
qui con l’aggiornamento, in anticipo sulla tabella di marcia. Prima non potevo.
Questo
potrà essere un capitolo chiarificatore, ma non si concluderà qui, perché più
sviluppo questa idea, più si fa complessa e articolata, in un modo che influenza
e investe un po’ tutti i personaggi.
Vorrei dedicare questo capitolo a tutte voi, ma ad Arte
in modo particolare, e penso che lei capirà perché; c’è una piccola sorpresa
tra le righe. Buona lettura, spero.
******
Attraversai velocissimo i
corridoi della clinica diretto verso l’esterno, senza preoccuparmi della
possibilità di essere visto. Sapevo che non c’era sguardo che potesse notarmi. Sarei
stato come un alito di vento freddo che scuote una tenda, un brivido gelido
sulla pelle, una sensazione passeggera che ti fa voltare, pensando di avere
qualcuno alle spalle, e in realtà non c’è nessuno.
In una circostanza normale non
sarei mai stato così incauto, ma stranamente, in quel momento non mi importava
neppure di essere scoperto. Come poteva farmi diventare incosciente e
impulsivo, la paura per la vita di una mia paziente. Volevo solo proteggere
Alice, correre da lei, capire fino a che punto lui poteva averla irretita.
Ma quando fui nel parco, a poca
distanza da quella panchina dove erano seduti, mi trovai davanti qualcosa di
completamente diverso da ciò che mi aspettavo. C’erano altri pazienti che
gironzolavano tra le aiuole e gli alberi, in compagnia di alcuni infermieri.
Erano quelli meno problematici, i più tranquilli, ma non potevo rischiare che
tra loro, qualcuno si accorgesse di qualche stranezza. Avevo rallentato la mia
corsa e mi ero avvicinato con circospezione.
Aspettavo una reazione di
Lucien, un tentativo di fuga, un qualche gesto di minaccia per il mio ardire,
ma lui restò paziente al suo posto; mi fissava mentre mi avvicinavo, ma non
faceva alcun cenno di volersene andare.
Sembrava estremamente sicuro di
sé e probabilmente sapeva che in mezzo agli altri pazienti, nessuno di noi
avrebbe dato spettacolo.
Mi fermai davanti a loro a poco
più di due metri. Lo scrutai attentamente, spostando il mio sguardo da lui ad
Alice; in apparenza non c’era nulla di insolito, ma sentivo la tensione che
correva tra noi, e la giovane paziente seduta al suo fianco era la causa di
quel disagio che, ero sicuro, avvertivamo entrambi nello stesso modo.
Non parlai, aspettando forse
che lo facesse lui. Non si fece attendere molto.
“Alice, vorresti fare le presentazioni?”
Si era rivolto a lei, ma
continuava a guardare me. La sua voce era suadente, melodiosa, un pericoloso
richiamo atto ad ingannare le inermi prede umane. Fu con sorpresa che vidi
Alice saltare in piedi dalla panchina con la sua consueta vivacità, muoversi
con grazia per avvicinarsi a me con un sorriso gioioso sul volto. Pareva la
ragazza di sempre e non sembrava subire il fascino di Lucien; aveva il consueto
modo di fare che conoscevo.
“Dottore, lui è Lucien, l’amico
un po’ speciale di cui le ho parlato. - sottolineò la parola speciale
- Lucien, questo è il dottor Carlisle Cullen, il nuovo psichiatra.”
Alice aveva parlato con
entusiasmo, come se fosse felice di quell’incontro tra il suo medico e il suo
angelo.
Solo in quel momento Lucien si
alzò dalla panchina; nei suoi movimenti riconobbi quella grazia tipica che
accompagna quelli come noi. Mi tese la mano con estrema naturalezza, e io, con
altrettanta naturalezza, gliela strinsi.
“Dottor Cullen, è un vero
piacere incontrarla di persona. Non immagina quanto fossi curioso di
conoscerla.” Sorrise, ma senza togliersi gli occhiali scuri in cui scorgevo il
riflesso incupito di me stesso.
Non potei fare a meno di notare
la sottile ironia della frase. Non riuscii a trattenermi.
“Lo immagino, eccome.” esclamai,
ironico quanto lui.
Fu ancora Alice a parlare,
rivolgendosi direttamente a me.
“Allora dottore? Ha visto che
non sono pazza? Lui esiste.”
“Non ne ho mai dubitato.”
Risposi serio. Alice sorrise di nuovo.
“Quello che dubita di se
stesso, sono io, semmai…” fu il nuovo commento di Lucien. Mi fu abbastanza
chiaro a cosa si stesse riferendo, ma finsi di non aver compreso e mi rivolsi
ancora ad Alice.
“Scusa, vorrei poter parlare da
solo con il tuo amico; ci concedi qualche minuto?”
“Certo, vado a farmi un giro.
Ma se dovete parlare di me, vorrei essere presente, prima che uno di voi dica
qualche sciocchezza sulla mia salute mentale.” Lucien la interruppe dolcemente,
in un modo che mi sorprese, ma che ribadiva una volta di più la confidenza
naturale tra loro.
“Il tuo benessere non è una
sciocchezza per me, lo sai. – Poi si rivolse a me - Prima di qualsiasi cosa, io
vorrei ringraziarla dottore per quello che ha fatto per Alice; non l’ho mai
vista così bene, da quando è stata rinchiusa qui.”
“Sono d’accordo, e vorrei
proprio approfondire questo aspetto.” fui volutamente allusivo.
Per istinto, io continuavo a
percepire quel legame come una minaccia, ma non potevo più dubitare di quanto
fosse saldo, e non sarebbe stato semplice spezzarlo. Potevo vedere l’espressione
del vampiro anche sotto le lenti scure; qualcosa mi suggerì che aveva capito
l’argomento che avrei voluto affrontare. Alice avvertì la strana inflessione
nel nostro scambio di battute.
“Oh, oh… Chissà che avete di
così segreto da dirvi…” sbuffò il folletto, un po’ sardonica.
“Nessun segreto Alice,
perlomeno nulla di particolarmente interessante. È solo la mia deformazione
professionale; cerco di raccogliere ogni elemento utile ad un’analisi accurata
dei fatti. Ti annoieresti ad ascoltarci.”
Alice scosse la testa poco
convinta, ma si arrese.
“Va bene, me ne vado. Ma non è
giusto!!” Protestò leggermente, prima di dirigersi verso un'altra ala del
parco. Vederla allontanarsi, mi fece sentire un po’ meglio.
Restammo soli io e lui. Faccia
a faccia per la prima volta.
“Mi sembri un po’ nervoso,
Carlisle.” esordì Lucien. Finalmente si era tolto gli occhiali; il suo sguardo
era esattamente come lo avevo immaginato; cupo e sanguigno. Rabbrividii.
“Credo di avere dei giusti
motivi. Sei un vampiro.” constatai con una certa freddezza.
“Anche tu lo sei. Alice ti ha
visto arrivare; mi disse che sarebbe arrivato qualcuno simile a me, mi sono
preoccupato. Per giunta non sei solo…”
Ad orecchio umano sarebbe parso
una specie di bisbiglio il flusso delle nostre parole, pronunciate troppo
velocemente: solo i vampiri si capivano fra loro.
“Sono molto diverso da te.”
“In cosa? Sei davvero un
medico? Come concili tutto questo con la sete di sangue? Non uccidi, tu?”
“No, non uccido esseri umani.
Nè io, nè la mia famiglia. Ci nutriamo di sangue animale.”
“Cosa? Per quello il colore dei
tuoi occhi è tanto diverso.”
“Già. Come vedi sono io, quello
che si deve preoccupare.”
“Non voglio fare del male ad
Alice, se è questo che temi.”
“Perché ti interessi a lei?”
“Davvero non lo hai capito?
Eppure non mi sembri uno sprovveduto.” Rispose sardonico.
Ma io non mi lasciai
impressionare dal suo tono.
“Ho una teoria, ma deve essere
confermata.”
Si stava alzando un po’ di
vento; se avesse spazzato via le nubi che coprivano il cielo, c’era il rischio
che qualche raggio di sole furtivo e inopportuno venisse a disturbarci.
“Te lo spiegherò, ma non
adesso.”
“Vieni stasera a casa mia.
Potremmo parlare, e potrai conoscere gli altri…”
Lucien mi guardò con sospetto.
Forse non si fidava di trovarsi da solo con altri vampiri. Era un atteggiamento
comprensibile, ma non riuscivo a scacciare l’idea che fosse uno strano
individuo, difficile da decifrare. Ma guadagnarsi la sua fiducia, sarebbe stato
fondamentale per capire le sue intenzioni e magari dissuaderlo dal suo intento.
“Non ti devi preoccupare, non
ho cattive intenzioni. Puoi fidarti.”
Sorrise, stirando lentamente
gli angoli delle labbra. Mi salutò, confermando che avrebbe accettato l’invito
e poi si allontanò dileguandosi tra il verde del fogliame. Ero ancora fermo
nello stesso punto dove io e lui avevamo parlato, ma sapevo di avere addosso
gli occhi di Alice; era andata a sedersi su una panchina più lontana e per
tutto il tempo, non ci aveva staccato gli occhi di dosso. Mi chiedevo che cosa
le passasse per la testa.
Lucien non aveva dissolto la
mia perplessità; pareva avere un enorme autocontrollo, ma i suoi occhi erano
quelli di una creatura sanguinaria. Non capivo come riusciva a restare tanto
vicino ad Alice, senza essere attratto dal suo sangue e magari cedere
all’impulso di ucciderla. Il suo interesse per lei doveva essere davvero
notevole, superiore a qualsiasi istinto, se insisteva a restarle accanto. Ma
forse, il prossimo incontro della serata avrebbe chiarito meglio la natura
della catena che lo legava a lei.
Arrivai a casa e informai gli
altri dello strano contatto avuto con Lucien solo poche ore prima; Edward lesse
ogni dettaglio, oltre l’imminente visita, nella mia mente; con sorpresa, approvò
i motivi di quella mia azione. Lucien non sapeva nulla del potere di Edward,
era un notevole vantaggio su di lui. Se avesse mentito o nascosto qualcosa, lo
avremmo saputo subito e ci saremmo comportati di conseguenza.
Lucien non si fece attendere.
Era da poco passata l’ora del crepuscolo, quel momento in cui ci sentiamo più
sicuri perché i colori assumono una sfumatura che pare livellare tutto, e anche
noi sembriamo davvero esseri umani.
Restò impressionato da come
Esme aveva saputo rendere confortevole la nostra casa, per quanto un vampiro
non abbia reale necessità di comodità domestiche; rimase interdetto di fronte a
una cucina perfettamente attrezzata, chiaramente inutilizzata, all’eleganza dei
mobili del soggiorno dove ci intrattenemmo. Potevamo permetterci il meglio.
Tutto faceva parte della facciata. La perpetua finzione della nostra vita.
“Incredibile! Fate davvero di
tutto per sembrare umani.” Fu il suo primo commento.
“Dobbiamo cercare di rendere
assolutamente credibile la nostra copertura; mio figlio Edward va a scuola
normalmente, Esme ha svariati interessi e contatti con i circoli filantropici
della città. Cerchiamo di passare inosservati, ma evitiamo l’assoluto
isolamento, perché scatenerebbe maggior curiosità da parte degli umani.”
“Capisco. È un discorso che non
fa una piega. Sono davvero impressionato. Non ho mai pensato che si potesse
vivere in un modo diverso da quello consueto e naturale.”
Continuò mentre ci accomodavamo
in salotto.
“Come vedi, ti sbagli.”
Ma non era del nostro stile di
vita che volevo parlare e questo lo sapeva anche Lucien. Guardai mio figlio;
nulla traspariva dal suo sguardo, non sembrava turbato o preoccupato per i
pensieri del nostro ospite. Forse era solo un poco perplesso. Ma l’evoluzione
della serata era destinata a mutare e certamente quell’incontro avrebbe
lasciato il segno anche su di lui.
“Veniamo al dunque; se stai
pensando di trasformare Alice, vorrei chiederti di non farlo. Devi renderti
conto che è una cosa che non posso permettere, non a una delle mie pazienti. Ho
visto il legame che c’è tra voi, e per quanto tu possa essere interessato a
lei, non puoi trascinarla nel nostro mondo con l’inganno.”
“Inganno?”
“Lei non sa che sei un vampiro.
Ti crede un angelo venuto qui per lei; è sorprendente che Alice non abbia
visioni precise su di te. Forse non può vedere con chiarezza i vampiri.”
Lucien sorrise tranquillo; non
era certamente impressionato dalla mia richiesta che forse, giudicava
inopportuna. Sembrava deciso a opporre resistenza.
“Onestamente, non capisco. Qual
è il vero problema, Carlisle? Sei davvero preoccupato per Alice, o forse hai
paura di mettere a rischio la tua posizione alla clinica? Se non fosse una tua
paziente, ma soltanto un’estranea ti importerebbe di meno?”
Era un ragionamento logico che
mi lasciò addosso una fastidiosa incertezza. Lucien sapeva come mettermi in
difficoltà. Guardai mio figlio che ricambiò la mia occhiata con un’espressione
indecifrabile. Attendeva che io parlassi, ma già conosceva la risposta che
avrei dato, così come il dubbio insinuato in me. Che ragione valida avevo per
oppormi? Era il mio lato compassionevole o l’egoismo di una creatura che voleva
essere perfetta, a manifestarsi nelle mie parole?
Lucien continuò, deciso ad
andare fino in fondo.
“Dammi un valido motivo per cui
non dovrei farlo. Vuoi salvare la sua vita, la sua anima, o te stesso?”
Era l’ennesimo confronto e non
potevo sottrarmi. Per chi lo stavo facendo? Per Alice? Non stavo tentando di
placare il mio senso di colpa per ciò che ero e per quello che avevo fatto a
Edward e a Esme?
“Sono contrario Lucien, nella
maniera più assoluta e non solo perché Alice è una mia paziente. Non posso
lasciartelo fare. Ho giurato di salvare vite umane, ne ho fatto lo scopo della
mia esistenza dannata. È la mia espiazione per ciò che sono, quindi non posso
accettare che un essere umano perda la sua vita e sia condannato a diventare un
vampiro. Mai. In nessun caso.”
Mentre lo dicevo, mi sembrava
di sentire urlare nella mia testa le obbiezioni di Edward che confutava l’ostinazione
delle mie parole. Lo capivo da come mi fissava. Si controllava, ma stava
facendo uno sforzo enorme per non contraddirmi davanti a Lucien. Prima o poi, avrebbe
riaperto l’argomento, mettendo in evidenza le mie contraddizioni, con cui non
mi ero mai confrontato. Probabilmente mi stava giudicando un bugiardo.
Pretendevo di essere assoluto su
un concetto che io per primo, non avevo messo in pratica.
Questa è la sola verità che
posso accettare; non mi stancherò mai di gridarla senza vergogna, perché è quella
giusta.
Ero stato categorico e il
messaggio doveva arrivare chiaro.
A tutti i presenti. Ma arrivò
anche quello che tenevo nascosto; Lucien notò con precisione il contrasto delle
mie affermazioni con la tensione evidente di Edward. Alla fine, non lo avevo
convinto.
“Allora, vuoi farmi credere di
non aver mai ceduto ai tuoi istinti, Carlisle? Neppure ai tuoi bisogni, magari per
sbaglio?”
Il tono del nostro ospite era
allusivo; sapevo che Edward mi stava osservando e forse si aspettava di vedere
la traccia di un cedimento sul mio viso. Passò forse un minuto in cui restai in
silenzio a sostenere la sfida di uno sguardo cupo e vermiglio. All’improvviso,
quello stesso sguardo si abbassò un secondo e un’ ombra malinconica lo offuscò;
non era certamente la reazione che mi sarei aspettato al mio tono perentorio, e
ancor meno mi sarei aspettato la domanda che mi fece dopo un sorta di sospiro
rassegnato.
“Quanti anni hai, Carlisle?”
“Vuoi sapere la mia età?”
chiesi costernato.
“Sì. Da quanto tempo sei un
vampiro? Puoi dirmelo, Carlisle? Conservi ricordi prima della trasformazione?”
Notai l’intonazione accorata
della sua voce. Era quasi una supplica o forse, era una tattica.
Aveva cambiato totalmente il
suo atteggiamento. Per l’ennesima volta, cercai gli occhi di mio figlio e
quando li trovai, capii che dovevo rispondere a quella curiosa domanda. Lucien
aveva una storia con cui dovevo confrontarmi, prima di poterlo giudicare. Una
storia che ero certo fosse dolorosa, mi pareva di vedere il riflesso di
quell’oscuro tormento, bruciare nelle iridi nere e cupe di Edward. L’oppressione
di quale tristezza, stava trovando mio figlio dentro quella mente?
“Ho più di duecentocinquant’
anni. I miei ricordi da umano sono molto vaghi.”
“Sei fortunato, allora: io ricordo
quasi tutto del mio ultimo anno di vita da essere umano. È il mio dono e la mia
maledizione.”
Parole che avevano un peso
enorme, che Lucien condivise con noi.
Era di origine francese come
lasciava intendere il suo accento piuttosto marcato.
Il suo nome completo era Lucien
Andrè, conte De Laferracy. Era nato e vissuto nella Francia prerivoluzionaria,
ultimo discendente di una potente famiglia di antica nobiltà. Alla vigilia
della rivoluzione, l’ultima notte della sua vita, prima di salire sulla nave
che avrebbe dovuto portarlo in Inghilterra, un immortale si era trovato sulla
sua strada.
*******
Ricordo una notte buia
quanto le tenebre che avvolgevano il mio spirito distrutto. Le stelle si erano
nascoste e il cielo appariva come un mantello nero e pesante.
Non so perché scelse me,
quella notte. Forse sentì l’odore troppo forte della mia pena. Forse intuì che
avevo abbandonato ogni speranza. Forse capì che più nulla mi legava davvero
alla vita.
Avevo perso tutto; una
moglie che amavo più di me stesso, una figlia, un angelo dalle iridi limpide
più del cielo d’agosto che era la luce degli occhi di sua madre. Era stata una
benedizione, dal momento che per molto tempo, avevamo creduto di non poterne
avere.
Eravamo sereni, non
potevamo chiedere più di quello che avevamo: benessere, ricchezza, onori.
Ma le gioie della vita
sono effimere Carlisle, evaporano come rugiada ai primi raggi del sole. Nessun
bene materiale dura per sempre, nessuna cosa terrena che l’uomo si affanna ad
accumulare. Nessun affetto, nessun amore puoi conservare, sottrarre alla morte.
Tutto è destinato alla polvere, anche i ricordi, ma se hai la sfortuna di
abbracciare l’eternità, puoi subire la condanna di dovere rammentare tutto e
anche il dolore più atroce diventa il tuo ossessivo, invadente compagno di
viaggio.
Ascoltavo Lucien e mi pareva di
ritrovare il senso di ogni sua parola. Sembra così strano che un vampiro possa
ricordare il dolore e dimenticare tutto il resto, ma è esattamente così. E se
mi fermavo a riflettere su questa verità, mi rendevo conto che anche per gli
uomini era impossibile dimenticare il dolore, mentre le gioie sfumavano più in
fretta. Io ricordavo i conflitti dolorosi con mio padre e per una strana,
contorta legge naturale, pareva che mi toccasse lo stesso percorso con mio
figlio.
Esme ricordava ancora
vividamente lo strazio della perdita del suo bambino e lei, più di tutti noi,
si sentì partecipe e coinvolta dal racconto di Lucien.
Forse, anche gli dei
erano invidiosi di quella nostra gioia completa; mia figlia Michelle un brutto
giorno, si ammalò.
Fu una malattia oscura,
incurabile; la visitarono diversi medici dell’epoca, non badammo a spese per
farla curare. Avrei dilapidato le mie sostanze per salvarla.
Ci lasciò nella più cupa
disperazione, qualcosa che solo chi l’ha provata può capire. La mia bambina
aveva soltanto otto anni.
Non c’è angoscia peggiore
per un genitore. Il dispiacere distrusse mia moglie Annette; poco tempo dopo,
si ammalò anche lei e seguì sua figlia in una fresca mattina di primavera, con i
fiori che sbocciavano sui davanzali delle finestre e il canto degli uccelli che
accompagnava l’ultimo sospiro della donna che avevo amato.
E io restai solo.
Orribilmente solo.
All’orizzonte di una
nazione ormai al tramonto, si profilava la tempesta. Non avevo più motivo di
restare in Francia, i nobili stavano iniziando a fuggire dal paese avviato alla
rivolta e io volevo allontanarmi il più possibile dai miei tormenti. Forse
avrei desiderato la morte, e certamente, se fossi rimasto in patria l’avrei trovata,
prima o poi, ma non avevo abbastanza coraggio neanche per togliermi la vita.
Rimpiango di non averne avuto un po’ di più.
Decisi così di levare le
ancore e andare in Inghilterra. Non ci arrivai mai; la notte prima
dell’imbarco, fui aggredito. Sentii il suo abbraccio freddo quanto la morte e
la vita che defluiva dalle mie vene. Non scoprii mai la sua identità;
quell’essere, chiunque fosse, scomparve come un sogno di cui non resta traccia
nella memoria, e tre giorni dopo, mi risvegliai diverso per sempre, più solo e
devastato di prima. Non compresi mai perché non si limitò ad uccidermi. Se un
giorno dovessi incontrarlo, glielo chiederò.
Lucien aveva parlato senza
quasi fare pause, come se avesse fretta di arrivare alla fine di quella storia tragica
e penosa. Era come se quei ricordi aggrappati alla sua anima ferita, fossero un
peso insostenibile di cui pure non poteva liberarsi. Il suo racconto
impressionò tutti, ma fu Esme quella che restò enormemente toccata da quello
che aveva ascoltato, e potevo capire perché: si sentì partecipe dello stesso
dolore che affliggeva lui.
“Mi dispiace tanto per la tua
famiglia, per tua moglie e tua figlia. È terribile perdere un figlio, lo so
molto bene. È una cosa innaturale sopravvivere alla propria creatura.”
Se nei giorni precedenti
quell’incontro, Esme era stata diffidente, ora l’atteggiamento era radicalmente
cambiato. Ora manifestava verso Lucien naturale comprensione e vera
solidarietà. Esme dimostrava una volta di più, di saper essere compassionevole,
e questo faceva di lei la compagna più adatta a me.
Lucien non le fece domande,
perché forse comprese. Si limitò a ringraziarla.
Ma non ero sicuro che Lucien
stesse cercando la nostra compassione, avevo la netta sensazione che il suo
scopo fosse un altro. Guardavo Edward seduto di fianco a sua madre e immaginavo
che avesse già scoperto le risposte che cercavo.
“Perché hai voluto raccontarci
questa storia? Che cosa c’entra con Alice?”
“Hai mai sofferto la
solitudine, Carlisle?”
Lucien aveva fissato il suo
sguardo dritto nel mio, come se volesse leggermi dentro e per un attimo,
temetti che potesse farlo davvero. Le sue iridi rosse scavarono un solco e si
aprirono un varco nella roccia che custodiva il mio cuore morto da troppo
tempo. Conoscevo la solitudine, l’avevo incontrata ed era stata la mia costante
compagna per lungo tempo. Era stata pressante, angosciosa ed esigente.
La signora solitudine aveva
reclamato i suoi spazi nel mio passato, era stata possessiva, tanto da fare
quasi paura e sapevo quanto potesse essere difficile liberarsi dal suo giogo.
Sconfiggerla, piuttosto che lasciarsi dominare da lei, era stata una grossa
tentazione e io conoscevo molto bene quale fosse il prezzo per allontanarla.
Volli essere sincero con Lucien. In fondo, lui lo era stato con noi.
“Sì, Lucien. Conosco la
solitudine. Un vampiro ci deve convivere forzatamente e so che vuol dire
desiderare di riempire quel vuoto che porta con sé.”
Lucien riprese il suo racconto.
“Ho lasciato l’Europa e sono
venuto in America dopo qualche anno. Volevo mettere la maggior distanza
possibile tra me e il mio passato. Non soltanto ho sempre evitato gli uomini,
quando non dovevo soddisfare la mia sete, se potevo, evitavo anche i miei
simili. Poi, un giorno ho incontrato Alice. Era una bambina di dieci anni; i
suoi genitori la stavano portando da uno specialista per farla visitare. Capii
subito che era speciale, che aveva un dono.”
Da quanto tempo Lucien
gravitava nella vita di quella ragazza? Da quanto la seguiva? Lucien continuava
a raccontare una storia che era quanto mai sconcertante, con cui era sempre più
difficile confrontarsi.
“Restai davvero impressionato
da lei, ma all’inizio non mi sono avvicinato. Mi limitavo a controllarla da
lontano, seguivo ogni suo spostamento. Controllavo i suoi progressi, il suo
potere cresceva e diventava più forte. Avevo paura di farle del male, attirato
dal suo sangue. Mi ricordava così tanto la mia piccola Michelle, per la sua
vitalità. Era così spensierata, così piena di vita, quando non era preda delle
sue visioni…”
“Ti ricordava tua figlia?” domandò
Esme, assolutamente stupita e commossa.
“Sì, moltissimo. Mi sembrava
che mi fosse stata data la possibilità di vedere mia figlia crescere. Erano troppi
anni che non avvertivo un’emozione simile. Era un dono inaspettato. Ero felice
di poterle essere vicino, mentre la vedevo diventare grande. Passava da un
ospedale all’altro, da una cura ad un’altra. Le visioni negli anni divennero
più frequenti, nel senso che la facevano stare male in modo violento e lei ne
era terrorizzata; venne rinchiusa definitivamente in manicomio e torturata con
l’elettroshock. Era solo una bambina di tredici anni. Fu allora che mi
avvicinai a lei.”
Esme era sempre più provata dal
racconto di Lucien. Aveva appoggiato i gomiti sul tavolo, e lo ascoltava con
attenzione maniacale; era avida di ogni parola e le sue emozioni le passavano
sul volto, negli occhi dorati spalancati, nel tremito leggero delle labbra. Mio
figlio la guardava preoccupato, quasi sconvolto, mentre captava il tumulto
confuso e impetuoso dei suoi pensieri di madre. Se avesse potuto piangere,
abbandonarsi alla consolazione delle lacrime, sicuramente avrebbe pianto.
Immaginavo quanto fosse difficile per lei ascoltare quella storia; sicuramente
stava rivivendo attraverso Lucien, la parte più dolorosa della sua vita da
umana, tutto ciò che la sorte più amara le aveva strappato dal cuore e non
avrebbe più potuto avere, la gioia semplice e vera di vedere un figlio
crescere, vivere, innamorarsi, fare esperienze.
Ebbi paura e mi spaventai per
quel turbamento profondo che la stava prendendo; la tradiva lo sguardo troppo
acceso e cercai di spostare l’attenzione su altri particolari importanti.
“Come hai fatto a nascondere ad
Alice la verità? Perché, nonostante le visioni, non vede ciò che sei?”
“Perché riesco a bloccarle. Agisco
come un’ interferenza su di lei. Ma devo sempre stare in guardia e tenere
alzate le mie difese… all’inizio non è stato facile. Comunque, credo che abbia
delle difficoltà a vedere gli immortali. Ora Alice vede solo ciò che voglio
lasciarle vedere. Probabilmente devo aver bloccato anche alcune visioni che ha
avuto su di voi. Preferisco che non sappia la verità, almeno per ora.”
“Quindi, tornando al nostro
discorso precedente, la stai ingannando.” Ribadii convinto.
“Vorrei solo che avesse il
tempo di comprendere e accettare una realtà non facile.”
Fu la sua risposta decisa alla
mia accusa. A quel punto, mio figlio che non era mai intervenuto e si era
limitato ad ascoltare il detto e il non detto, si rivolse a lui.
“Come puoi pensare che potrebbe
accettarla? Nessun essere umano potrebbe farlo.”
“Infatti non lo penso. –
sospirò Lucien. - È solo un sogno, una speranza. Non mi faccio troppe
illusioni.”
Lucien per quella sera non ci
disse altro. Ci ringraziò per l’ospitalità e se ne andò attraverso la fitta
boscaglia che circondava la nostra casa. Sapevamo che sarebbe andato verso la
clinica. L’oscurità col suo silenzio era scesa su tutte le cose attorno. Fuori,
gli alberi che circondavano l’abitazione erano solo delle sagome scure e
imponenti. Le luci della casa erano accese anche se i nostri occhi non avevamo
bisogno della luce artificiale per vedere.
Eravamo ancora tutti in soggiorno.
Edward si era alzato, forse per allontanarsi verso la sua stanza, ma continuava
ad osservare Esme, ancora seduta al suo posto. Sembrava che si fosse
dimenticato delle mie contraddizioni che tanto lo avevano irritato. Forse era
solo concentrato su un altro problema che lo preoccupava di più. Avevo bisogno
di confrontare le mie impressioni con le sue, sapere se c’era qualcosa che
Lucien non ci aveva detto.
“Puoi dirci qualcosa di più,
Edward?” Lo fermai.
“Lucien ha detto la verità su
tutto. È una specie di scudo: come un segnale che blocca la trasmissione delle
onde cerebrali, credo. Ha il potere di oscurare le visioni di Alice, totalmente
o in parte. Si sta svelando poco a poco a lei…”
“Quindi, vuol dire che riesce a
vedere le immagini delle visioni?” domandò Esme.
“No, non credo. Non stiamo
parlando di lettura del pensiero, non è un potere simile al mio. Da quanto ho
capito, riesce solo a disturbarle.”
Spiegò Edward.
“Perché si comporta così? Cosa
sta cercando di ottenere? Non mi è chiaro questo suo temporeggiare.”
“Forse non vuole spaventare
Alice. Vorrà essere sicuro che lei possa accettarlo…” ipotizzò Esme, quasi
parlando fra sé.
“In realtà, non vuole
trasformare Alice contro la sua volontà. Vorrebbe che lei lo scegliesse
liberamente. Questo è il pensiero più chiaro che ho trovato in lui. In verità,
è molto combattuto, anche se ha cercato di apparire sicuro.”
L’ultima rivelazione di mio
figlio mi parve la più sorprendente; si aspettava davvero che lei potesse fare
una scelta simile? Ma poi ripensai all’ultima frase pronunciata da Lucien.
Forse la sua era solo una remota speranza. Il lusso di un’illusione impossibile
che il vampiro si concedeva.
“Io credo che sia innamorato di
lei; l’ho capito dall’intonazione della voce, mentre ricordava quando l’ha
avvicinata. Si distingueva l’emozione.” Commentò Esme convinta.
“Ma non ha detto che pensa a
lei come a una figlia?” chiesi pieno di dubbi.
Sembrava tutto più complicato
del previsto. Lucien nutriva sentimenti complessi e ingarbugliati, una matassa
contorta da dipanare. Ma di quella matassa, Edward era riuscito a trovare
l’estremità di qualche filo che poteva snodare quel groviglio informe e
pulsante di emozioni.
“È stato così all’inizio, ma
nel tempo le cose devono essere cambiate e una fraterna amicizia si è
trasformata in amore. Ha visto una bambina diventare donna, e mentre Alice
cambiava, ha sentito anche il suo sentimento mutare nel tempo; è andato
crescendo facendosi più profondo, fino a diventare altro da ciò che era in
origine. Non dev’essere stato facile per lui accettare i suoi sentimenti; era
in conflitto con se stesso e probabilmente lo è ancora per via di ciò che è: un
vampiro che uccide gli esseri umani.”
Questa era una cosa da tenere a
mente, che fino a quel momento avevamo preso poco in considerazione. Per Lucien
doveva essere difficoltoso conciliare il suo amore per Alice con il suo lato
sanguinario. Forse avremmo potuto sfruttare questa sua debolezza, agire su
quella per indurlo a rinunciare. Ma il gioco non pareva facile.
“Bisogna sperare che Alice non
sia altrettanto coinvolta, che non nutra gli stessi sentimenti. Lui che cosa
pensa?”
“Non si sente sicuro; ha paura
di esporsi, di non essere ricambiato. Nella mente della ragazza ho trovato un
grande e sincero affetto; si sente sicuramente attratta, ma qualcosa di Lucien
la inquieta e lui lo sa molto chiaramente. Questo è l’unico motivo per cui è
ancora molto restio a rivelarsi.”
Spostai la mia attenzione su
Esme, appariva ancora molto turbata.
Si era alzata con una scusa, ed
era corsa via. Poi, avevo sentito l’acqua del rubinetto della vasca da bagno al
piano di sopra, e il profumo del sapone sprigionarsi e invadere la casa. Ero
davvero preoccupato per la reazione che aveva avuto, e se possibile, ero
rimasto impressionato dall’atteggiamento palese di Edward verso la cosa. Ero
sicuro che avesse trovato nei pensieri di sua madre, qualcosa di talmente
bizzarro da averlo lasciato frastornato, anche adesso coglievo nei suoi occhi
sfuggenti un segreto imbarazzo. Cercava di nascondere l’ansia, ma il tentativo
era maldestro e inefficace, fatto abbastanza curioso per lui, che di solito,
era abilissimo nel dissimulare le emozioni. Che cosa nei pensieri di Esme, lo
aveva turbato tanto? Quale segreta visione era emersa all’improvviso, scatenata
dal racconto di Lucien? Era impossibile per me immaginarlo.
Non volevo forzare il riserbo
di Esme, ma non sapere quello che l’angustiava, mi lasciava inquieto. Avvertivo
un’ indefinibile paura, ma anche cercare di scoprire la verità da Edward non
sarebbe servito, perché non avrebbe tradito i pensieri segreti di sua madre. O così
pensavo.
Sperai che Esme volesse aprirsi
con me, ma quella stessa sera, quando fummo soli nella nostra intimità, lei usò
solo il linguaggio del suo corpo per esprimere quello che, né parole, né
lacrime avrebbero detto.
Mi ero attardato nel mio studio
prima di raggiungerla.
Era rimasta ad aspettarmi e il
suo abbigliamento provocante non lasciava dubbi sulle sue intenzioni.
E io mi lasciai provocare, fino
all’estremo limite.
Facemmo l’amore, e da come
cercò il nostro contatto intimo, dall’urgenza dei gesti quasi violenti e
disperati, indovinai il suo segreto tormento. Quasi non mi permise di
spogliarmi; mi aprì la camicia sul petto con un gesto secco che fece saltare
tutti i bottoni, tanto il suo desiderio era incontenibile. Forse era una fame
ignota, quella che le accendeva lo sguardo con una luce di follia, mentre io
cercavo di superare la sua sottoveste di seta nera, e sentivo la sua bocca che
mi torturava impaziente, le sue cosce che si artigliavano ai miei fianchi.
Avrei voluto farlo con
dolcezza, ma fui vinto dal suo bisogno impellente e mi lasciai trascinare nel
gorgo della passione più impetuosa e divorante, una pulsione che piaceva a me quanto
piaceva a lei. Le risposi accettando la sua foga di animale selvaggio con lo
stesso fuoco, amandola con trasporto tra le lenzuola sfatte del nostro letto,
ultimo teatro della lotta dei nostri corpi.
La sua sottoveste era finita a
brandelli sul pavimento, come la mia camicia e i miei pantaloni.
Scatenavo le sue estasi con i
baci più avidi che riversavo sul suo corpo di marmo bianco. La sentivo
aggrapparsi alle mie spalle, mentre mi possedeva e si lasciava possedere. La
chiamavo sussurrandole tutto il mio amore, la tenevo stretta mentre affondavo
la mia vita nella sua, e un istante prima che il comune piacere esplodesse come
un seme che fioriva nei nostri corpi, affidò a un gemito la confessione di un
bisogno segreto.
“Portami più in alto, fino a
farmi dimenticare quello che ho perso! Che questo amore possa bastarmi.”
Sospirò nel delirio dei sensi.
Lo sentii col cuore, e sono
sicuro che un palpito dimenticato nella mia anima tremò; sentii che sarebbe
stato impossibile per me, soddisfare quel suo desiderio estremo, ma andai fino
in fondo, concedendole l’amorevole illusione di un miracolo. Al culmine
estremo, quando il mio seme arido risalì nel grembo ormai sterile del suo
corpo, immaginai nella follia del momento di averle dato il mio bambino. Lei
alla fine sorrise, come una donna che scopre di portare il germoglio di una
nuova vita nel suo ventre. Neppure un dio potrebbe sapere, quanto avrei voluto
che fosse vero.
Parlammo dopo l’amore,
accoccolati tra le braccia uno dell’altra.
“Mi dispiace per oggi, Esme.
Non dev’essere stato facile per te. Ho visto che stavi male.”
“È vero, ma non preoccuparti. –
Restò un momento in silenzio, assorta in un pensiero lontano. - Carlisle, devo
trovare qualcosa da fare. Qualcosa di concreto. Devo dare uno scopo alla mia
vita. È un po’ che ci sto pensando.”
Mi disse affondando il viso nel
mio petto.
“Fai tutto ciò che può farti
stare meglio, amore mio. Non sarò certo io a impedirtelo.”
Non smettevo di accarezzare il suo
corpo che continuava ad aderire al mio, quasi alla ricerca di un calore
impossibile.
“Te lo immagini, Carlisle? –
continuò. - Vedere il proprio figlio crescere? Che bello che sarebbe; è
un’esperienza che non potremmo mai fare.”
Per un attimo quelle parole mi
fecero paura; sarebbe mai bastato il mondo che potevo darle?
L’abbracciai più forte di
prima, mi spinsi su di lei e la baciai ancora.
“La faremo in un altro modo.”
Le sussurrai sulle labbra, prima di perdermi di nuovo in lei per il resto della
notte.
Passò qualche giorno.
Gli incontri alla clinica tra
Lucien e Alice continuavano e io restavo a guardarli da lontano; coglievo i
loro discorsi e ogni tanto mi inserivo tra loro, oppure era la stessa Alice che
mi coinvolgeva in quei confronti.
In realtà, volevo controllare
che il confine che li divideva non venisse superato e mi rallegravo che fosse
la stessa Alice a tracciarlo, molto più di quanto non credessi. Lucien poteva
oscurare le visioni, ma gli erano altrettanto oscure nei dettagli e nelle immagini
che non poteva vedere, quindi era lei che gliene parlava. Però avevo il
sospetto che non dicesse tutto e più lui si dimostrava interessato e curioso,
più lei taceva.
Esme appariva più tranquilla.
Forse aveva messo da parte la storia di Lucien, come una vicenda che non poteva
condizionare la sua esistenza. Speravo un po’ ingenuamente che tendesse verso
uno sforzo di questo genere.
Poi un pomeriggio, mentre
tornavo da una battuta di caccia, senza volerlo, colsi un brandello di
conversazione tra lei e mio figlio. Il tono di Edward tradiva tutta la sua
apprensione, un’agitazione che di rado manifestava.
Erano davanti all’ingresso, in
procinto di entrare in casa. Io mi bloccai, abbastanza lontano e sottovento per
non essere sentito da Esme, ma non a sufficienza da celare i miei pensieri a
Edward. E lui sicuramente, si accorse della mia presenza. Ma finse che io non
fossi lì, e la cosa mi insospettì.
Voleva mettermi a conoscenza di
qualcosa.
“So che per te è difficile e so
che la tragedia che ha colpito Lucien ti ha toccata nel profondo… - sentivo
esitazione nell’approccio di Edward. La sua voce accorata, quasi affranta bastò
per mettermi in allarme. – Mamma, tu lo sai che non è possibile, vero? Tu ti
rendi conto che è un idea folle… Un bambino in mezzo ai vampiri… Neppure lui
potrebbe sentirsi tanto sicuro.”
Un bambino in mezzo ai
vampiri? Ma cosa…?
La mia confusione non avrebbe
potuto essere maggiore. Niente di quello che stavo sentendo aveva senso per me.
Finché Esme non parlò.
“Lo so, Edward. È stato solo un
momento di debolezza, un sogno impossibile… Mi rendo conto che sarebbe una cosa
da pazzi adottare un bambino…”
Adottare un bambino?
“Ti prego di non dire nulla a
Carlisle, ha già troppi pensieri. Non voglio che si preoccupi di queste
sciocchezze.” Forse smisi di pensare per un secondo.
Forse ne fui incapace.
“Era, ed è ancora preoccupato per
te. Anch’io l’altra sera, quando ho sentito i tuoi pensieri... beh, mi sono
molto spaventato.”
“Non devi. E neppure lui. Sono
più forte di quanto voi crediate…- Ci fu un attimo di silenzio, Esme sembrò
voler entrare in casa, ma ci ripensò. - Edward?”
“Sì, mamma…” E
volutamente sottolineò la parola. Esme sorrise.
“Mi piace, quando mi chiami mamma,
ma lo fai così di rado.”
“Scusami. Per me sei davvero
come una vera madre.” Le aveva risposto sincero. Poi, l’aveva abbracciata.
“Scusami mamma, mi hai fatto
paura.”
“Io…Che faccio paura a te! Ma dai…”
Sorrise divertita, stretta a suo figlio.
Dopo un tempo che mi parve infinito,
mi decisi ed emersi dal fogliame e avanzai verso di loro.
Cercai di cancellare dal mio
viso qualsiasi espressione sorpresa, o anche solo vagamente impressionata. Esme
si liberò dall’abbraccio di suo figlio, lentamente, senza enfasi.
Puntava i suoi occhi su di me.
Aspettava che forse le dicessi qualcosa, ma io non parlai. Non riuscivo a
trovare le parole giuste da dire. Mi sentivo solo terribilmente impotente.
Inutile.
Un bambino…
È questo che vuoi più di
tutto?
L’unica cosa che io non
posso darti? Pensai.
Fu Edward a rompere il
ghiaccio.
“Vi lascio, devo concentrarmi
sulla lezione di letteratura di domani.” Si scusò e si allontanò lasciandoci
soli.
Ma Esme non pareva turbata.
Piuttosto, sembrava che le fosse stato tolto un peso dalle spalle.
Si avvicinò per abbracciarmi,
accogliermi nel suo calore che solo io potevo sentire, come faceva sempre.
“Edward mi ha detto che sei in
ansia per me.” Mi sussurrò sulle labbra.
“È vero. Non riesco a farne a
meno. Ti sembrerò un marito apprensivo e assillante.” Scherzai, incontrando i suoi
occhi che mi fissavano seri, ma ingannevoli.
“Stai cercando di compensare
alle mancanze del mio precedente matrimonio, signor Cullen?” disse
assecondandomi. Stava al mio gioco.
“Forse, solo che non posso
arrivare dappertutto.” Ammisi con troppa delusione.
A un certo punto, sorrise e
notai in lei uno sguardo dolce, eppure determinato. Si scostò leggermente dalle
mie braccia per guardarmi direttamente negli occhi. Aveva smesso di giocare.
“Carlisle, ho deciso che voglio
riprendere l’insegnamento. Era una cosa che mi piaceva fare quando ero umana,
ma che avevo dovuto abbandonare. Ci ho pensato tanto negli ultimi giorni e
penso che sia giusto. Ho valutato con attenzione il rischio; so controllare la
mia sete. Credo di poter affrontare bene una simile esperienza.”
La guardai dritto in quei suoi
occhi ambrati che mi avevano rapito il cuore; non tentai neppure di nascondere
la mia reazione a quella notizia improvvisa. Ero più che sorpreso: oserei dire
che ero molto compiaciuto.
Ricordavo quanto le piaceva
fare la maestra, l’entusiasmo con cui me ne aveva parlato da umana e come le
era dispiaciuto abbandonare l’insegnamento. Mi sembrò perfetto per lei, e non
mi preoccupai neppure per un momento, che fosse una giovane vampira a contatto
col sangue di vite tanto giovani. Esme non avrebbe mai fatto del male a dei
bambini. Se io potevo fare il medico, perché lei non avrebbe dovuto fare la
maestra?
Le diedi tutto il mio sostegno
incondizionato e lei si rallegrò moltissimo.
“Potrei iniziare qui a Madison.
Ho sentito dire che alla scuola elementare hanno bisogno di una supplente per
sostituire una maestra.”
Continuando a parlare dei
dettagli, eravamo entrati in casa ed eravamo finiti sul divano del nostro
comodo salotto.
“Comunque, c’è un’altra cosa a
cui dovremmo ovviare... Noi non siamo davvero sposati, dottor Cullen. Non
sarebbe meglio regolarizzare formalmente questa unione? O volete farmi passare
per una donna che vive nel peccato, fuori dalla sacralità del matrimonio? Lo
dico anche per lei, così eviterà i commenti di certi bigotti che si stupiscono
di non vedere la fede al suo anulare.” aggiunse un po’ maliziosa e ironica.
Convivevamo insieme da qualche
anno, e Esme era per tutti, conoscenti o colleghi, la signora Cullen; però era
vero, non portavamo la fede; io ovvio, non mi ero mai sposato, ed Esme, aveva
gettato alle ortiche l’anello di nozze che l’aveva legata a Charles Evenson. Il
particolare era stato notato e messo in evidenza. Non mi ero interessato troppo
alle chiacchiere, che francamente mi lasciavano indifferente, normali nella
società un po’ rigida e benpensante di quegli anni, ma Esme doveva avervi fatto
caso, e io non avevo mai pensato a farle una richiesta vera e propria e
ufficializzare la cosa.
Mi pareva scontato che fossimo
legati in modo praticamente indissolubile. Che fossimo una coppia, a tutti gli
effetti. Era stato il mio veleno a sancire il nostro patto, a fondere le nostre
vite in una sola. Le sorrisi, riconoscendo che sarebbe stato bello concedersi
una vera luna di miele.
Ne avremmo riparlato.
Nei giorni che seguirono, ebbi
un altro colloquio con Alice; le chiesi delle visioni, se continuavano e con
quale frequenza. Lei aveva risposto che ultimamente erano state meno aggressive
e anche meno frequenti. Mi chiedevo anche lì, se non c’entrasse Lucien, in
qualche modo. Avevo cercato di capire se fosse così.
Ma esisteva anche un altro
problema che andava affrontato; la volontà di Alice di fare il percorso giusto
per lasciare davvero il manicomio. Non che non lo volesse, ma i suoi passi
erano frenati e rallentati. Forse le motivazioni erano più complesse di quanto
potessi credere, e forse Lucien non era l’unico responsabile.
Dovevo scavare nella psiche di
Alice per trovare le reali motivazioni.
“Una volta mi hai detto che le
tue visioni sono oscurate. Ti sei chiesta perché alcune cose non riesci a
vederle?”
“Beh, sì…ma non riesco a darmi
una risposta precisa. Forse dovrebbe essere lei a dirmelo, no?” Rispose vaga.
“Forse non vuoi.”
Volevo scatenare la giusta riflessione
che la inducesse a porsi qualche domanda su Lucien, incognite che sembrava non
voler affrontare. Come la visione di cui mi aveva parlato sua sorella. Visione
che forse l’aveva spaventata.
“Cosa vuol dire che non
voglio?”
“Riconoscere la verità vorrebbe
dire mettere in discussione le poche certezze che hai. Io voglio farti tornare
a casa e dimetterti da questo posto, ma tu devi darmi dei risultati concreti.
Devi metterci la volontà, Alice.”
“Lei crede che mi piaccia stare
qui? Crede che non voglia tornare a casa?” Esclamò decisa, alzando lievemente
il tono di voce.
“No, certo. Ma lasciare il
sicuro per l’incerto, mette sempre un po’ di ansia. È più facile non
affrontarla. Parliamo del tuo rapporto con Lucien, ad esempio.”
“Cosa c’entra Lucien, adesso?”
Aveva emesso un risolino nervoso, sulla difensiva.
“C’entra, se è per lui che non
vuoi andartene. Sei stata tu a dire che Lucien non è di questo mondo. Cosa
intendevi? Credi che lui sia… - scossi la testa indeciso, cercando la parola
più adatta - diciamo, diverso? Diverso da te o da me, ad esempio?”
Alice fino a un istante prima,
era rimasta seduta davanti alla mia scrivania; adesso, si era alzati in piedi e
si era piazzata di fronte la finestra del mio studio con lo sguardo perso oltre
il vetro. Lucien era là fuori, da qualche parte; ero certo che lei lo sapesse.
Il vampiro non si allontanava mai dal manicomio, o comunque solo per breve
tempo, probabilmente quello che gli serviva per nutrirsi. Finalmente Alice si
decise a rispondermi.
“Non è solo diverso da lei o da
me. Lui non è semplicemente diverso. Lui è… altro.”
“Questo può voler dire
qualsiasi cosa…- al mio commento seguì il silenzio. Decisi di essere più
diretto. - Hai paura di lui, Alice?”
“Perché dovrei aver paura di
lui? Mi vuole bene, è mio amico.”
“Sei sicura che sia amicizia?”
“…”
Non rispose, ma la sua
espressione divenne incerta.
“Ho visto come ti guarda,
Alice. Nei suoi occhi c’è molto di più di quello che si vede, o che lascia
vedere. Forse non vuoi riconoscerlo, ma sai che è così.”
Non avevo mai fatto una
dichiarazione più profetica di quella, e neppure una più vera. Alice non
avrebbe potuto immaginare quanto vi era di sottointeso e oscuro nelle mie
parole. All’improvviso, mi domandai se la giovane avesse mai visto il reale
color vinaccia di quelle iridi che tradivano la natura di Lucien. E mentre
annaspavo nelle mie riflessioni, mi colse nuovamente di sorpresa con la sua
sagacia.
“Perché ho l’impressione
dottore, che lei parli sempre per enigmi? È una qualche forma di terapia
particolare, o solo una strategia per carpire segreti ai suoi pazienti? Vuole
farmi ammettere che Lucien è innamorato di me e che per questo, non voglio
andarmene da qui?”
“Allora, ho ragione: ne sei
consapevole. E questo ti condiziona nel tuo rapporto con lui. Sai che non vuole
essere solo tuo amico, ma tu Alice? Tu cosa provi davvero? Hai il coraggio di
guardarti dentro, di uscire dalla gabbia che ti sei costruita attorno?”
“Dottore…” Ma non le permisi di
interrompermi.
“E c’è anche dell’altro; parlo
di ciò hai visto nelle tue visioni. Una in particolare.”
Mi ero alzato, lasciando la
scrivania e mi ero piazzato di fronte a lei che si era girata verso di me,
dando la schiena alla finestra.
“Non capisco cosa sta dicendo,
dottore. Cosa dovrei aver visto?”
“Hai visto qualcosa che non sai
spiegarti, vero? Qualcosa che riguarda Lucien. Tua sorella mi ha parlato di una
visione che hai avuto mesi fa, prima che io venissi qui. Che cosa hai visto,
Alice? Perché hai detto che sei destinata a stare con un immortale? Era uno dei
tuoi scherzi, o c’era un significato in quella frase assurda?”
Alice fece un passo verso di me,
come se volesse affrontarmi.
Credevo che più nulla potesse
sorprendermi, ma stavo per ricredermi di nuovo.
“Cynthia gliel’ha detto?
Benissimo! - esclamò allargando le braccia, in un gesto rassegnato. - Lei
dottore, penserà che sono pazza davvero. Non avrei mai dovuto farmi scappare
nulla.”
Era agitata e scorsi nel suo
viso una strana indefinibile inquietudine.
“Non penso che tu sia pazza, ma
le tue visioni magari hanno un altro significato e noi dobbiamo capire quale
potrebbe essere. Se non mi dici tutto, io non posso aiutarti, intervenire con
la cura giusta.” Mentii.
Per me era più che chiaro il
senso della visione di Alice, ma dovevo convincerla del contrario. Volevo che
non vi desse troppo credito. Tornò a sedersi sulla sedia come se fosse esausta.
Fu solo in quel momento in cui la vidi così indifesa, quasi stremata da
qualcosa di troppo grande, che forse intuii quanto doveva essere pesante per
lei, piccola umana, convivere col suo potere. Quello che disse, non avrebbe
potuto sconvolgermi di più. Le sue parole aprirono davanti a me, l’ignoto più
assoluto.
“Io non lo so che cosa ho
visto. Non riesco a spiegarmelo io stessa. Forse sono davvero pazza. - Sospirò
con un’ inflessione amara nella voce. – All’inizio, avevo pensato che fosse
lei, dottore: occhi dorati come i suoi, una chioma ribelle di capelli biondi,
il volto pallido di un bellissimo sconosciuto… ma lei non è un soldato…”
Le parole di Alice erano
sorprendenti, del tutto inspiegabili. Non potevo collocarle in alcun contesto
conosciuto. Non mi tornava niente.
“Hai visto un soldato nella tua
visione?” chiesi confuso più che mai.
“Non esattamente. Lui diceva di
essere un soldato.”
“Tu eri con lui nella visione?
Eri legata a lui in qualche modo?” Tentavo di capire l’inconoscibile: il
futuro.
“Non posso avere visioni su di
me, vedevo solo quel ragazzo. Lei non immagina come sono confusa.”
In un sospiro, aveva appoggiato
il capo contro l’avambraccio piagato sulla mia scrivania.
Aveva visto qualcosa che era
ancora lontano da venire, ma certamente, non aveva nulla a che fare con Lucien.
E mi venne l’immediato sospetto
che lui fosse totalmente all’oscuro di tutto.
“Alice, hai parlato di questa
visione anche con Lucien?” le domandai, posandole una mano su una spalla.
Alice teneva la testa bassa.
“Quando l’ho avuta, lui era
lontano. Dopo, non gliene ho parlato. In verità, non voglio farglielo sapere. La
prego, non gli dica nulla.” Mi supplicò. E mi premurai di rassicurarla sulla
riservatezza tra medico e paziente.
Era tutto ancora da scrivere,
oppure Alice aveva visto un frammento del suo destino?
Il puzzle continuava a
complicarsi, a diventare indecifrabile, almeno così sembrava.
Non scorgevo nessuna luce nel
suo futuro, ma solo altro buio.
Alice mi pregò di lasciarla
andare, non aveva più voglia di parlare. Appariva provata.
Stanca di cercare spiegazioni
dove non si potevano trovare.
Si alzò dalla sedia e puntò
decisa verso la porta.
Mano sulla maniglia, uscio
spalancato, la bloccai un attimo prima che varcasse la soglia.
Avevo ancora il dubbio assurdo
di essermi lasciato sfuggire un dettaglio importante.
“Scusa Alice, ancora una
domanda: di che colore sono gli occhi di Lucien?”
“Sono neri, credo… - rispose
con un’ alzata di spalle, come se fosse poco importante per lei. - Di solito,
li nasconde con gli occhiali scuri: dice di essere fotosensibile.”
Non aggiunse altro alla
conferma di ciò che già sapevo, e uscì dal mio studio richiudendo la porta
dietro sé.
E io restai solo, ancora più
confuso di prima e con altre incognite irrisolvibili nella testa.
Continua…
Ciao a
tutte le mie lettrici.
Ho
aggiornato un po’ prima, ma non sono riuscita a chiudere la vicenda di Alice,
neppure qui.
Il
fatto è che la storia si complica nella mia testa, si aggiungono immagini e
situazioni che devo collocare al loro posto. Mi servirà un altro capitolo per
definire meglio tutto quanto.
Spero di
non aver fatto troppa confusione con il potere di Alice, di cui francamente non
ricordo bene i limiti. Ad esempio, non sono sicura che Alice possa vedere il
suo futuro. Ho un grosso dubbio su questo.
Trovate
convincente il potere di Lucien?
Ho cercato
di creare situazioni che fossero verosimili e coerenti con la storia che sto
narrando, ma se notate cose che non convincono fatemelo sapere. I vostri
suggerimenti sono preziosi per me.
Mi spiace
di non essere riuscita a rispondere a tutte le vostre recensioni, contavo di
farlo prima di terminare il capitolo, ma questa volta sono stata più veloce del
previsto. Spero non sia un danno.
Io vi
ringrazio sempre tantissimo per la vostra attenzione e le vostre parole di
incoraggiamento, e la prossima volta cercherò di rispondervi per tempo.
Grazie
sempre a tutte voi e spero di non avervi deluso. A presto. Ninfea.
Capitolo 20 *** I colori misteriosi del destino (Fuga) ***
20 – I colori misteriosi del destino (Fuga)
20 – I colori misteriosi del destino (Fuga)
Le parole di Alice erano
impossibili da comprendere nel loro significato più oscuro. Parlavano di
qualcosa ancora lontano nel tempo che forse non sarei stato in grado di
evitare. Eppure, non senza una lieve inquietudine, mi chiedevo se quella
visione non avesse a che fare con me, in qualche modo.
Aveva parlato di occhi dorati
simili ai miei.
Poteva esserci un vampiro
vegetariano nel suo futuro? Avrebbe incontrato altri come noi? Oppure era
un’altra la spiegazione?
Non potevo rispondere con
chiarezza a quelle domande, che pure, mi preoccupavano moltissimo. E mi
incuriosivano. I colori di quell’immagine erano appena abbozzati come
pennellate improvvisate, una goccia d’oro in uno schizzo informe che lentamente
prendeva forma.
Chissà perché, non volli mai
pensare che potesse diventare un membro della mia famiglia, una figlia, eppure
sarebbe stata una conclusione logica, se avessi provato a soffermarmi con più
calma su ciò che avevo scoperto. Non vedevo così lontano, e non avevo davvero
il coraggio di pensare a ciò che era ancora troppo distante dal mio presente e
anche da quello di Alice.
C’erano altre priorità
nell’immediato che meritavano tutta la mia attenzione.
Una di queste, era la costante
presenza di Lucien nella vita della mia giovane, ingenua paziente.
Il vampiro si sentiva
minacciato dalla nostra presenza a Madison, e ormai, aveva capito che cercavo
con tutte le mie forze di allontanare Alice da lui.
Più di una volta avevo tentato
di convincere la piccola veggente a prendere in considerazione la possibilità
di lasciare il manicomio per tornare a vivere con la sorella, appena se ne
fosse presentata la possibilità. Ma Alice si dimostrava molto cauta davanti a
questa evenienza.
“Pensa che potrei
tranquillamente vivere sulle spalle di mia sorella come se niente fosse?
Imporre la mia presenza a suo marito e suo figlio?”
“Potrebbe essere una soluzione
temporanea, finché non troverai una sistemazione più consona a te. Io ci
penserei, Alice.”
“Non credo sarebbe la soluzione
migliore; non per me, e nemmeno per mia sorella o la sua famiglia.”
“Dimmi la verità: intendi
restare qui, per Lucien? Sei innamorata di lui, Alice?”
“No, certo che no. Gli voglio
bene, ma non sono innamorata di lui.”
“E allora, che cosa ti
trattiene dall’andare via?”
“Glielo già spiegato: non ho un
altro posto dove andare.”
“Sai che non è così.”
“Allude di nuovo a mia sorella?
– la giovane esitò, prima di sputarmi in faccia quella verità che doveva
ferirla di più – Mia sorella non mi vuole! La smetta di insistere su questo,
per favore.” Diventava davvero testarda, in una maniera quasi sorprendente.
“Perché credi una cosa simile?”
Obiettai, solo un po’ sorpreso.
“Perché so che è così.” Ribatté
decisa e convinta.
Ricordavo le reticenze della
sorella, ma ero convinto che davanti all’ovvio, avrebbe ceduto volentieri. In
fondo, Cynthia mi era sembrata solo una donna spaventata dall’ignoto e me ne
rendevo conto quelle poche volte che era venuta in clinica a trovarla.
“È assurdo. Non hai motivo di
crederlo. Tua sorella ti vuole bene; è vero, si è dimostrata restia quando le
ho fatto questa proposta, ma credo che si lascerebbe convincere dai tuoi
evidenti miglioramenti.”
“No, mia sorella non vuole… o
non può prendersi in casa una ragazza schizofrenica, che ha delle visioni
assurde.”
“Tu non sei schizofrenica. Non
è questo il problema e lo sai bene. C’entra Lucien, per caso? Ti ha messo in
testa lui, queste sciocchezze? Alice, rispondimi.”
La ragazza tentennò, scuotendo
il capo e io la incalzai senza darle tregua, finché non ottenni la risposta,
quella che sospettavo e temevo.
“Lui non fa che ripetermi che
Cynthia non mi vuole… che ha paura per suo figlio e non vuole che cresca vicino
a una zia malata di mente.”
Dire che restai piuttosto
sgomento dall’affermazione, non basta a spiegare come mi sentii. Intuire
davvero quanto Lucien potesse essere subdolo, addirittura calcolatore, mi
procurò un brivido di paura profonda. Non voleva semplicemente che Alice
scegliesse liberamente di stare con lui, voleva farle credere di non avere
alternative valide. Era un vampiro ambiguo e molto più pericoloso di quanto
potesse sembrare; stava cercando di plagiare Alice, di farle credere cose non
vere. Non c’era altra spiegazione e sarebbero state proprio le parole e le
azioni del vampiro a confermare i miei pensieri. Ma non solo.
Lucien indirettamente, aveva la
capacità di turbare la stabilità emotiva della mia famiglia, me n’ero accorto
quella sera che era venuto in visita a casa nostra; ne ebbi un ulteriore
conferma pochi giorni più tardi quando parlai con Edward. Il mio confronto con
Lucien aveva esposto certi miei punti deboli che mi mettevano in difficoltà con
mio figlio, lasciandomi vulnerabile alle sue rimostranze. Mi chiedevo se Lucien
non lo avesse intuito.
Forse ci aveva studiato
attentamente prima di affrontarci e aveva scelto il momento più opportuno per
uscire allo scoperto e colpire sul fianco più esposto. Forse aveva capito che
Edward e Esme erano gli elementi più deboli, e questo sarebbe andato a suo
vantaggio. Cosa potevo aspettarmi ancora da lui? Ma erano soltanto ipotesi e
dovevo in qualche modo verificarle.
Un pomeriggio mi preparai per
andare a caccia ed Edward mi accompagnò. C’era il sole che brillava nell’azzurro
del cielo, ed Edward non era andato a scuola e io non mi ero presentato al
lavoro.
Riuscivo a capire quando voleva
parlare con me.
Era già qualche giorno che
appariva teso e pensieroso e forse avvertiva dai miei pensieri che lo aspettavo
al varco. Sarebbe stato inutile evitarlo o minimizzare i suoi atteggiamenti.
Così mi rassegnai con la maggior calma possibile, ad affrontare per l’ennesima
volta le sue accuse. Lo incoraggiai.
Coraggio Edward, dimmi
quello che devi.
“Hai mentito, Carlisle.” Esordì
senza preamboli, diretto come sempre.
Feci il possibile per essere
altrettanto schietto, anche se il problema non era far conoscere a Edward il
mio pensiero, quanto piuttosto convincerlo della coerenza delle mie posizioni.
“A proposito di cosa?” chiesi,
mentre sollevavo la bocca dal collo dell’animale che avevo appena ucciso.
Edward aveva già divorato le sue prede, quasi con urgenza. Eravamo immersi nel
silenzio della foresta a diversi chilometri da Madison. Sentivamo solo i suoni
degli uccelli e il vento leggero che stormiva tra le fronde degli alberi
attorno a noi.
“Parlo di quando hai detto a
Lucien che in nessun caso puoi accettare che un essere umano diventi un
vampiro; di fatto non è così. Neppure tu sei stato sempre fedele a questa
regola.”
“Non è la stessa cosa. Lo sai.”
“No, per favore Carlisle. –
sbottò lievemente seccato e impaziente. - Smettila di nasconderti dietro il tuo
altruismo. Non c’entra il tuo lato compassionevole. Hai fatto quello che hai
fatto con me, e poi con Esme, perché ti sentivi orrendamente solo.
Egoisticamente ti sei preoccupato di te stesso, e sul momento hai preferito non
curarti troppo delle conseguenze.”
“Soffrivo la solitudine, è
vero. Ma ho sempre pensato alle conseguenze delle mie azioni. Non ho mai fatto
nulla con leggerezza. Mi preoccupavo per quello che vi stavo togliendo e sapevo
a cosa vi stavo condannando, ma l’ho fatto ugualmente perché credevo di potervi
dare una nuova possibilità.”
“Non è così semplice,
Carlisle.”
“Che cosa vorresti dire?”
“Voglio dire che non sarai mai
sicuro che un giorno non avresti ceduto. Sarebbe successo prima o poi. Come fai
a non capirlo? Sentivi la solitudine, sarebbe stato naturale, in fondo.”
“Sarebbe successo solo se lo
avessi voluto, se fossi stato disposto a cedere al compromesso. Quante volte
dobbiamo parlarne?”
“Non vuoi ammetterlo, vero?
Perché sei così contrario al fatto che Lucien voglia fare di Alice la sua
compagna? Tu più di chiunque altro, dovresti comprendere il suo sentimento.”
“Lo comprendo, Edward. Ma non
può essere una ragione valida. Per me, non è mai stata sufficiente. Non si può
trasformare un essere umano in vampiro con leggerezza.”
“Neppure Lucien vuole farlo con
leggerezza, mi sembra. È un vampiro innamorato. Tu sai bene cosa significa.”
La tensione tra noi non si allentava
e Edward restava fermo sulle sue posizioni.
“Secondo te, io sarei come
Lucien? – Alzai un poco la voce, costernato - Stai cercando di dirmi questo?”
“Il suo egoismo non è molto
diverso dal tuo. Cerchi solo di camuffare le tue ragioni.”
Intuii in fretta che ero io,
quello che doveva cedere terreno se non volevo esacerbare lo scontro. Misi le
mani avanti.
“Come vuoi, va bene? Posso
darti in parte ragione, ma non è mai stato solo l’egoismo a muovermi. È questa la
differenza tra me e Lucien. Ora, secondo te, cosa dovrei fare, eh? Dovrei
lasciare che Lucien trasformi sotto i miei occhi una mia paziente, senza
tentare d’impedirlo? Ti sembra una cosa giusta?”
“Non si tratta di questo. Non
si tratta di cosa è giusto o sbagliato, di Lucien o di Alice. Si tratta di te,
Carlisle.”
Edward non voleva lasciarsi
convincere, e probabilmente neppure io risultavo convincente in quel momento.
Inoltre aveva tratto conclusioni molto personali da tutta la vicenda. In
qualche modo voleva la mia resa, e io avrei dovuto concederla.
“Credo di aver capito perché
sei così ostinato.”
“Davvero, Edward? E cosa credi
di aver capito?”
“Hai riconosciuto nei
sentimenti di Lucien i tuoi, non è così?”
“Se anche fosse, non capisco
dove starebbe il problema. Ammesso che sia come dici tu.” Obbiettai, poco
disposto a prendere per buone le sue teorie.
“Ammettilo Carlisle, ti fa
paura riconoscere che hai nutrito il suo stesso desiderio. Quando hai
conosciuto Esme, ti è accaduta la stessa cosa. Volevi Esme, come adesso, lui
vuole Alice. È questo che ti disturba.”
“Quello che dici non ha senso:
io non volevo trasformare Esme.” Ma la mia obiezione era debole, e lo sapeva
anche Edward.
“Sì, invece. Per questo, la
prima volta sei scappato da Columbus. È una sfida con te stesso e il tuo
orgoglio, perché ti sei sentito in colpa per quegli stessi sentimenti. Tu, il
vampiro che resiste al richiamo del sangue! Che domina la sua natura! Non
potevi soccombere! – esclamò con una certa enfasi derisoria – Che smacco per
te, scoprire adesso che non eri diverso da Lucien nei tuoi istinti più
nascosti. Per questo ti sei preso a cuore la sorte di Alice. Devi dimostrare a
te stesso, che la tua non è una lotta inutile contro la nostra natura.”
“Non è una questione d’orgoglio,
Edward.”
“Io credo di sì.”
Di fronte alla sua ostinazione,
avevo abbassato la testa rassegnato. Era inutile tentare di persuaderlo; era
troppo convinto delle sue ragioni. Mi costava ammetterlo, ma contenevano una
parte di verità che faticavo ad accettare, che pure avrei riconosciuto nel
tempo.
Più volte mi ritrovai a
riflettere sulle sue accuse, e tornavo al mio passato, al momento intenso del
mio incontro con Esme; cercavo di analizzare quei momenti e di mettere sotto la
luce giusta quello che avevo provato per Esme umana, di capire quanto l’avessi
desiderata e quanta paura avessi avuto di lasciarmi trascinare dalla brama di
farla mia per l’eternità.
Ero scappato da lei anche per
paura, perché quello che sentivo era innegabile.
Mi sarei comportato come Lucien?
Avrei ceduto alla tentazione di trasformarla, se non mi fossi allontanato da
lei?
Ero davvero simile a Lucien in
questo?
Su una cosa lui era diverso;
certamente non aveva paura dei suoi istinti, non temeva il suo desiderio. E
arrivò al punto di non temere il rischio di essere respinto da Alice. Si
rendeva conto che non aveva più tempo per costruire una strategia di conquista
e se fino ad ora si era mantenuto cauto, nell’arco di breve tempo cambiò il suo
atteggiamento che parve farsi più audace. Sapeva che io insistevo per
incontrare nuovamente Cynthia; le avevo già scritto svariate volte per
informarla sui progressi raggiunti, e avevo chiesto un altro incontro con lei,
per convincerla ad accogliere la sorella una volta dimessa dalla clinica.
Alice aveva bisogno di sentirsi
voluta, di sentire l’affetto sincero della sorella maggiore. Non doveva avere
dubbi su questo. Lucien avvertiva questa possibilità come una minaccia.
Non ero in grado di prevedere
come avrebbe potuto reagire di fronte ad un vero rifiuto della ragazza.
L’avrebbe accettato, rinunciando all’oggetto del suo desiderio, allontanandosi
da lei, o si sarebbe preso con la forza quello cui anelava ormai da diversi
anni?
Neppure Edward, frugando nella
mente dell’ ambiguo vampiro, aveva trovato una soluzione a questo dilemma.
“È molto confuso su questo. Non
ha ancora deciso cosa fare, ma non è sicuro di avere la forza che gli
servirebbe per lasciarla andare via. Spera ancora che lei lo accetti. È certo
in questo momento, che si sente minacciato da quello che tu stai facendo per
Alice. Questo potrebbe renderlo pericoloso oltre che imprevedibile.”
Lucien provò a scoraggiarmi,
tentando di convincermi che stavo perdendo il mio tempo. Un giorno piombò nel
mio studio alla clinica, proprio mentre stavo scrivendo l’ennesima lettera alla
signora Parker. Aveva già avuto un incontro con Alice, dove forse lei gli aveva
rivelato qualcosa dei contatti che avevo avuto con Cynthia; dopo averle scritto
più di una lettera, avevo ricevuto una breve missiva in risposta, e pareva
iniziasse ad ammorbidirsi.
“Non ci riuscirai, è inutile.
Credi che Cynthia potrebbe accogliere la piccola Alice? Non lo farà mai, puoi
credermi Carlisle. Io conosco quell’umana da lungo tempo.”
“Sai, non penso tu sia del
tutto obbiettivo, Lucien. Io credo che Cynthia soffra davvero per la sorella
rinchiusa qui. Ho visto la sua disperazione, ma certamente ha paura. Bisogna
vincere le sue paure, farle capire che Alice può vivere in maniera normale.”
“Normale? - Lui si mise a
ridere leggermente, inclinando la testa di lato, quasi fingendo noncuranza. -
Conosci il suo potere. Anche Cynthia lo conosce molto bene. Quasi si vergogna
di lei e di quello che è. L’idea che i suoi figli possano avere contatti con la
loro zia, semplicemente la terrorizza e si preoccupa infinitamente di quello
che pensa la gente. Teme di essere additata come la sorella della svitata
uscita dal manicomio. È difficile, se non addirittura impossibile combattere
contro questi pregiudizi umani.”
“Sono pregiudizi umani, o sono
più che altro idee tue, Lucien?” chiesi allusivo. Ma il vampiro non si lasciò
sorprendere; aveva già previsto le mie argomentazioni e seppe opporsi senza
difficoltà.
Mi sorrise calmo prima di
ribattere.
“Credi che abbia bisogno di inventarmi
delle scuse? Potrei rapire Alice e portarla via, quando e come voglio. Tu non
potresti impedirlo, e lei non si opporrebbe.”
“E allora, perché non lo hai
ancora fatto? No, tu non vuoi averla con la forza; tu vuoi la sua resa
incondizionata, e questa è una cosa difficile da ottenere senza qualche trucco.
E tu hai paura…”
Gli occhi di Lucien si
strinsero fino a diventare due fessure; avevo colpito il bersaglio e proseguii,
deciso più che mai a metterlo alle strette.
“Hai una dannata paura di
essere respinto. Ma se lei non dovesse cedere, se non volesse seguirti, allora,
tu che faresti? Sapresti rinunciare a lei? Dimmi, Lucien: la lasceresti
finalmente libera di vivere la sua vita da umana? Oppure saresti disposto a
trasformarla col rischio di essere odiato per l’eternità?”
Avevo l’impressione di giocare
sporco, ma mi sembrava l’unico modo per capire fino a che punto il vampiro si
sarebbe spinto. Lo vidi esitare incerto. La sua risposta non arrivò come avrei
sperato, lasciò il mio studio e corse fuori nel parco della clinica dove aveva
lasciato Alice ad attenderlo.
Lei era nel parco e stava
facendo conversazione con un altro paziente. Vidi Lucien avvicinarsi a lei e
spingerla da parte con ferma dolcezza. Notai la sua impazienza. Colsi tutta la
loro conversazione dalla finestra, nonché la sua confessione appassionata di
quell’amore che nutriva per lei. Lucien rivelava una certa insistenza che era
indice di una palese insicurezza; forse avvertiva che il suo ascendente sulla
giovane era meno forte e lei gli opponeva un’insolita resistenza, raramente
tanto marcata. La postura dei loro corpi tradiva la tensione tra loro. In quel
momento mentre li guardavo, mi era evidente la diversità delle loro nature, ma
nessun altro avrebbe notato quella discordanza. Lucien era rigido e immobile,
fermo davanti a lei, che viceversa, manifestava una certa agitazione;
gesticolava e a brevi intervalli, muoveva qualche passo avanti e indietro.
“Alice, devo parlarti; è
importante.”
“Che cosa c’è? Sembri
preoccupato.”
“Ti prego; rifletti su quello
che stai pensando di fare. Ti lascerai convincere da Carlisle ad andare a
vivere con tua sorella? Dopo tutto quello che ti ho sempre detto?”
“Io non so ancora cosa farò.
Non so risponderti adesso. Ti prego, Lucien; non mettermi tensioni addosso. Che
cosa vorresti che facessi? Non potrò restare chiusa qui dentro per sempre, lo
sai anche tu.”
“Sai bene che non è quello che
voglio.” Ribattè deciso.
Lei era rimasta un lungo
istante a fissarlo.
“Perché non parli chiaro? Che
cosa ti aspetti da me? Perché sei così contrario alla possibilità che io vada a
vivere con mia sorella?”
“Lo sai perché, ne abbiamo già
parlato…”
“Comincio a credere che siano
scuse. Il dottor Cullen mi ha detto che ha ricevuto una lettera da Cynthia; lei
vuole venire qui per parlare con me e valutare la situazione. E poi… ho avuto
una visione a riguardo…”
“Una visione?”
Sentii la voce di Lucien
tradire una chiara nota d’allarme.
“Sì, una visione molto chiara.
– Alice emise un sospiro d’impazienza e proseguì quasi in tono accusatorio. –
Lucien, vuoi che venga con te? È questo che desideri più di tutto, vero?”
“Che visione hai avuto?”
“Rispondi prima alla mia
domanda.” Si impuntò la veggente, incrociando le braccia sul petto.
L’interrogativo di Lucien, a quel punto era anche il mio; cosa aveva visto
Alice?
“Sì, va bene? Voglio che tu
venga con me. Ti sembra così terribile? Posso darti un mondo che tu non
immagini…”
“È proprio questo il problema,
Lucien. Io non riesco a immaginare il tuo mondo. Non so quale sia…Tu sei
entrato nella mia vita e ne sei diventato una parte importante, ma per qualche
ragione oscura, il mio istinto mi dice che non dovrei fidarmi.”
“Stai dicendo che non ti fidi
di me? Ti ho mai dato modo di dubitare delle mie parole?”
“Beh, se proprio vuoi saperlo,
a volte è successo. Io voglio fidarmi di te, ma non capisco perché ti accanisci
a tenermi lontana da mia sorella. Perché cerchi di farmi credere che lei non mi
voglia bene?”
“Perché è così…”
“No! Non è vero. Questa è
un’idea tua.” Alice aveva scosso energicamente la testa in segno di diniego.
Lucien fece un passo verso di lei e tese una mano che la ragazza rifiutò.
“D’accordo, forse mi sbaglio,
ma non su quello che provo per te; io ti amo, Alice. Ti amo come non ho mai
amato nessuno, prima. Ti voglio con me, ma non posso dividerti con altri.
Volevi la verità? Eccola, è tutta qui. Io ti amo e voglio legare le nostre vite
per sempre. Vorrei solo tu mi dicessi di sì.”
Alice all’inizio, si limitò a
fissarlo senza parlare; la vidi abbassare il volto rattristata. Lucien di
fronte a quel mutismo restò un attimo incerto, forse impreparato a quella
reazione senza quasi emozione.
“Ti ho appena detto che ti amo,
e la cosa non pare turbarti in alcun modo. Devo pensare che non t’importa? Non…
senti nulla… per me?”
Prima di rialzare lo sguardo
per rispondergli, Alice emise un lungo sospiro.
“Lucien, come puoi solo
pensarlo? Sono molto turbata, invece. Ho del sincero affetto per te, lo sai,
però… Per sempre è un concetto troppo lungo.”
“Credimi, lo so.”
“Io ti voglio molto bene
Lucien, ma quello che mi chiedi… io non so se posso concedertelo. Davvero, non
lo so.”
Alice si tormentava
stringendosi nelle spalle, come se dovesse trovare le parole più giuste da
dire, o come se avesse paura a dirle.
C’era dell’esitazione in lei, e
Lucien la percepì e forse la sensazione lo mise in allarme.
“Cosa c’è? Cosa stai cercando
di dirmi? Parla, ti prego. Io ti amo, e penso dovresti essere del tutto sincera
con me. Merito una risposta più chiara, non credi?”
“Lucien, noi… Forse noi… Ecco,
non siamo destinati a stare insieme… le nostre strade, a un certo punto si
separeranno, mi dispiace. Io l’ho visto.”
Mai più mi sarei aspettato
quell’uscita finale che non sorprese solo me. Per un istante Lucien parve
irrigidirsi come una statua di sale, ma non seppe trattenere a lungo l’emozione
negativa da cui si sentì sopraffatto.
“Cosa?? Cosa significa?”
La sua voce uscì alterata.
Vidi Lucien avvicinarsi e
afferrarla un po’ bruscamente e per un momento ebbi paura che perdesse il
controllo. Perché si era lasciata sfuggire quella confessione, quando a me
aveva detto che non voleva che Lucien lo sapesse?
“Che cosa hai visto? Dimmelo,
ti prego! Devi dirmelo!!”
Fino a quel momento ero rimasto
a guardare, ma Lucien pareva davvero agitato ed ebbi paura che
involontariamente potesse farle del male, e allora intervenni. Saltai fuori
dalla finestra che si apriva a pochi metri da terra e corsi a separarli. Passai
veloce e invisibile sull’erba, in mezzo alle siepi di piccoli fiori che
bordavano le aiuole. Nella furia del momento, Lucien avrebbe potuto spezzarle
un braccio con una leggera pressione della mano.
Alice non mi vide arrivare;
afferrai Lucien, cogliendolo di sorpresa. Non si aspettava certamente il mio
intervento.
“Lasciala. Stai perdendo il
controllo.” Sibilai deciso vicino al suo orecchio affinché Alice non potesse
sentirmi. Quando la giovane si accorse di me, apparso miracolosamente quasi dal
nulla, non seppe nascondere un moto di stupore profondo.
“Dottore, lei da dove è
uscito?” mi chiese sbalordita e impressionata, con la confusione assoluta
dipinta in volto.
“Ero qui dietro di voi. Mi
pareva che la discussione stesse degenerando e ho preferito intervenire. Alice
torna dentro, per favore. Sarò subito da te.”
Parlai senza staccare gli occhi
dal vampiro che mi guardava stranito. Lo invitai ad allontanarsi per riprendere
possesso di sé.
Ma non si calmò affatto. Era
furioso e si teneva a stento. Indubbiamente le parole di Alice lo avevano
sconvolto. Lo stavo ancora trattenendo, mentre Alice si allontanava verso
l’ingresso posteriore della clinica.
Quando lo lasciai, non attese
molto per lanciarmi le sue accuse.
“Tu lo sapevi, vero? Tu sai
quello che ha visto. Di che cosa parlava?”
“Non lo so e anche se lo
sapessi non potrei dirtelo.”
“Stai pensando di portarmela
via, Carlisle?”
Non gridava, ma potevo sentire
la rabbia che vibrava nella sua voce.
“È assurdo; io ho già una
compagna. L’unica cosa che voglio è che Alice resti umana.”
“Non siamo destinati a stare
insieme… questo ha detto.”
“Lo so, ho sentito, ma non so
che significa. Forse, era un modo gentile per dirti che non vuole stare con te.
– Feci una breve pausa prima di continuare in tono più severo e duro. - Lucien,
hai rischiato di ferirla in maniera grave. Sei un pericolo per lei; stavi per
farle del male.”
“Non lo avrei mai fatto.”
“Ma ci sei andato molto vicino.
Devo chiederti di andartene. Ora.”
Il vampiro mi guardò per un
lungo istante, sostenendo con insistenza il mio sguardo con la stessa audacia che
già altre volte avevo notato in lui. Sentivo il peso di quegli occhi di brace
su di me; arrendersi per lui era impensabile e ora temevo che sarebbe diventato
più temerario, se non avventato e imprudente. Prima di dileguarsi si premurò di
darmi conferma di ogni mio timore.
“Non potrai separarmi da lei,
Carlisle. La seguirò in capo al mondo, anche se dovesse decidere di tornare da
sua sorella. Aspetterò finché dirà di sì, so che lo farà.”
“E se non dovesse farlo?”
“Lo farà. Per fermarmi, dovrai
uccidermi. Sei disposto a tanto?”
“Spero di non doverlo fare, ma
se mi costringerai, lo farò.”
“Come vuoi, allora.” E
scomparve senza darmi la possibilità di replicare.
Tornai verso la clinica; dovevo
parlare con Alice.
La ragazza era seduta a un
tavolo nella sala della ricreazione che in quel momento era vuota. Gli altri
pazienti erano altrove; chi all’aperto sotto il controllo degli infermieri,
altri nelle loro stanze, magari sotto sedativi.
Alice teneva le ginocchia
serrate l’una contro l’altra e le mani su di esse.
Era visibilmente tesa.
Mi parai dinanzi a lei; forse
avrei dovuto attendere che parlasse spontaneamente, ma non lo feci, preferendo
incoraggiarla.
“Credevo non volessi far sapere
a Lucien la verità. Come mai hai cambiato idea in modo tanto repentino?”
“Era necessario; non posso
illuderlo.”
Alice si fregò le mani sulla
veste prima di proseguire.
“Così magari si rassegnerà e mi
lascerà andare.”
“Credi che lo farà davvero? Che
possa farlo, pur essendo innamorato di te? Non mi sembra disposto a rinunciare;
temo che possa commettere qualche pazzia.”
“Sarebbe stupido da parte sua
insistere. Gli ho già dato la mia risposta.” Ma non c’era convinzione nelle sue
parole.
Annuii per rassicurarla, ma più
di lei, mi sentivo inquieto; non avevo motivi concreti per credere che sarebbe
stato così, Lucien non avrebbe accettato il suo rifiuto, e non si sarebbe messo
da parte. Era stato molto chiaro su questo, quasi minaccioso.
Avevo solo un asso nella
manica; l’opera di convincimento che esercitavo da mesi ormai sulla sorella,
stava iniziando a dare i suoi frutti e Cynthia aveva risposto a una delle mie
ultime lettere mostrandosi possibilista.
Le avevo scritto rapporti
dettagliati sui progressi di Alice, rassicurandola sullo stato di salute
pressoché perfetto della ragazza, tranquillizzandola sul fenomeno delle visioni
che non erano più così violente da creare disturbo o paranoia, erano gestibili
e controllabili dalla mente che poteva restare lucida e affrontarle con
distacco.
Insomma, secondo il mio parere
medico, Alice avrebbe potuto condurre un’esistenza assolutamente normale a
contatto con persone normali inserite nella comunità civile e trarne solo
maggior beneficio.
Giudicai che quello fosse il
momento buono per mettere Alice a parte della buona disposizione della sorella
maggiore, e lei l’accolse come mi sarei aspettato; con la gioia sincera che le
faceva brillare lo sguardo e le alleggeriva il cuore, mentre scopriva che una
convinzione dolorosa e negativa era in verità, sbagliata e falsa.
E la gratitudine si fece strada
in lei.
“Lei sta dicendo sul serio? Mia
sorella ha cambiato idea e vuole che vada a vivere da lei?”
“Quasi certamente sì. Vorrà
accertarsi che tu stia davvero bene, prima di dare il proprio assenso. Potrebbe
chiedere un ulteriore consulto medico, ma sono dettagli di cui non dobbiamo
preoccuparci. Alla fine si convincerà, vedrai.”
“Potrò tornare a casa. Non
immagina quanto l’abbia desiderato. Non mi sembra possibile. Grazie, dottor
Cullen.”
Alice sorrise quasi timida, incredula
di fronte a una speranza ritenuta improbabile. Gli occhi le si fecero lucidi di
emozione.
“Una cosa, Alice. Per ora è
meglio non far trapelare la cosa con nessuno, in special modo con Lucien. Lo
informerai a suo tempo, a cose certe.”
“Non voglio dare un dispiacere
a Lucien; non sarà contento.”
“Credimi è meglio. Lucien è
troppo coinvolto con te; temo che possa metterci i bastoni fra le ruote con tua
sorella, visto che ha sempre cercato di tenervi separate.”
Mi chinai di fronte a lei e
continuai a parlare col tono più convincente e rassicurante che trovai.
Una cosa doveva esserle chiara:
Lucien non doveva intromettersi, e tenerlo lontano dipendeva da lei soltanto.
Il vampiro non avrebbe ascoltato me, ma contavo sul fatto che avrebbe
assecondato i desideri della ragazza di cui era innamorato.
“Ascolta Alice, dovrai limitare
molto i tuoi contatti con lui. Devi cercare di porre una distanza tra voi, per
iniziare ad allontanarvi in modo graduale. Non sbilanciarti mai troppo e cerca
di fargli capire che quando lascerai il manicomio, andrai per la tua strada
senza di lui. Forse, si convincerà di questo, e ti lascerà andare. È ciò che
spero di più. Ma molto dipenderà da te e da quanto saprai essere convincente.”
“Mi sta chiedendo qualcosa di
difficile; come farò a trattarlo con freddezza e distacco? Io non voglio
ferirlo.”
“Lo so che ti sto chiedendo
molto, ma non insisterei se non fossi convinto che non ci sono molte altre
possibilità. Tu sei l’unica ad avere potere su di lui. È estremamente
importante che tu faccia come dico.”
Le posai le mani sulle spalle e
la guardai negli occhi profondi e quando Alice parlò di nuovo, non riuscii a
mentire.
“Dottore, lei sa qualcosa di
Lucien che io ignoro, vero? Qualcosa di oscuro… lei conosce l’intima natura del
mio angelo, è così?”
C’era in gioco la sua vita,
forse la sua stessa anima. Non le avrei mai detto che cos’era Lucien; non le
avrei presentato un mostro, ma volevo suggerirle che la realtà era lontana e
quanto mai opposta alle sembianze angeliche che mostrava.
“Sì, Alice. Io conosco
esattamente la natura di Lucien, e so che ti farebbe solo orrore. Io sto
cercando di proteggerti da essa, ma non mi chiedere di più. Ci sono cose che
devono restare segrete agli uomini, per il loro stesso bene.”
Gli occhi neri di Alice si
dilatarono impressionati, mentre forse un sospetto innominabile e spaventoso le
attraversava la mente e il cuore.
“E perché lei, dottore,può conoscere queste cose segrete?”
sussurrò piano.
Abbassai la testa, poi mi
rialzai in piedi e prima di allontanarmi da lei parlai di nuovo, ma senza darle
una vera risposta.
“Ricordati solo di ciò che ti
ho detto. Non serve che tu sappia altro.”
E prima che potesse farmi altre
domande troppo pericolose, mi allontanai verso il mio studio lasciandola sola
con i suoi sospetti.
Alla fine, solo dopo aver
scritto numerose lettere, riuscii davvero a convincere Cynthia.
Alice sarebbe tornata a casa,
l’avrei dimessa dalla clinica psichiatrica entro pochi mesi. Le due sorelle
ebbero l’ultimo incontro in manicomio, su cui vigilai personalmente, un mese e
mezzo prima della fine della degenza. Gestire le interferenze di Lucien non fu
facile, né per me e neppure per la piccola Alice, che soffriva non poco di
quella situazione. Si dimostrò spesso combattuta nell’atteggiamento da tenere
con lui; avrebbe voluto aprirsi maggiormente con chi lei considerava un amico,
ma io le sconsigliai sempre di farlo. Mi dispiaceva crearle difficoltà e
sofferenza, ma non c’era un altro modo. E lui percepiva le reticenze di Alice è
cercava di superarle.
“Lucien non insistere, ti
prego! – esclamava esasperata - Dovresti essere felice per me, invece ti
dimostri ostile. Dici sempre che vorresti vedermi fuori da questo posto. Devo
pensare che in realtà non è così? Ora che potrebbe accadere, fai di tutto per
trattenermi.”
“Non è vero, lo sai. Io voglio
solo che tu sia felice, ma con la famiglia di tua sorella non lo sarai.”
“Ti sbagli. E comunque, sarei
felice solo potendo uscire di qui. Voglio tornare a casa mia, Lucien; casa mia
è Biloxi. Non rinuncerò a questa possibilità solo perché sei tu a chiedermelo.
Non potrai farmi da balia in eterno. Devi rassegnarti.”
“Alla fine è riuscito a
convincerti. Vi ha convinto tutti…”
“Non stai parlando di un
imbonitore, ma di un medico.”
“Carlisle? Oh, certo: un medico
molto particolare. È stato davvero bravo. Ma tu non sai tutto di lui…”
“So che mi ha aiutato e questo
mi basta. Anche tu hai dei segreti, ma non ti giudico per questo, ma ti ho
sempre accettato.”
“Mi hai accettato??”
l’esclamazione vibrò nell’aria come una nota stonata.
“Sì, anche se tu non hai mai
avuto fiducia in questo. Carlisle, è stato bravo; senza il suo intervento sarei
marcita qui dentro, a vita. Invece, ora mi si prospetta la possibilità di
uscire. Gli sarò sempre grata per questo.”
Sembrava che tutto procedesse
per il meglio; Alice era convinta e determinata, anche se Lucien non pareva
rassegnarsi e ormai era chiaro che l’avrebbe seguita. Forse non sarebbe stata
mai libera da lui. Non sapevo quanta pazienza ancora avrebbe avuto, si era
controllato fino all’inverosimile. Quanto ancora avrebbe atteso, prima di
decidere di trasformarla contro la sua volontà? Lo avrebbe mai fatto?
Mi sarebbe rimasto per sempre
il dubbio.
Anche in seguito non seppi mai
chiarire quel punto.
In quel frangente, mentre Alice
pianificava il suo trasferimento a casa della sorella, non ebbi neppure il
tempo di pensare a un’altra soluzione perché pochi mesi più tardi nella nostra
vita piombò l’imprevisto non calcolato, che ci costrinse a riprendere la nostra
eterna fuga verso il nulla.
Fu abbastanza strano il modo in
cui appresi quello che sarebbe accaduto.
Fu Alice, che un pomeriggio
uggioso di novembre, con la pioggia che batteva insistente sul vetro del mio
studio, mi rivelò il mio futuro che le era apparso in una visione improvvisa e
quanto mai chiara.
Fu come se il sole che non
potevo guardare si oscurasse e gettasse un’ombra inquietante sulla mia vita; un
ombra che proveniva dal passato.
Alice mi stava raccontando
entusiasta delle sue speranze per il futuro, di quello che avrebbe fatto,
magari in un’altra città che ancora non conosceva, del suo progetto di
iscriversi all’università alla facoltà di lettere. Era sorridente e allegra, ma
improvvisamente qualcosa nel suo sguardo s’incupì senza un motivo apparente.
“Cosa c’è? Perché
all’improvviso, sei diventata triste?” chiesi, senza immaginare ciò che stavo
per udire.
“Lei tra breve andrà via. Non
riuscirò nemmeno a salutarla un’ ultima volta.”
Sapevo che aveva ragione; un
giorno, non so quando, avrei lasciato Madison, ma non pensavo di farlo
nell’immediato. Immaginavo tranquillamente di restare lì ancora per qualche
anno. Eravamo ben insediati e recentemente, Esme aveva iniziato a fare la
supplente all’interno della scuola della città, guadagnandosi la stima di
insegnanti e genitori. Era davvero portata per quel ruolo e se ne sentiva
gratificata. L’insegnamento soddisfaceva appieno il suo istinto materno.
“Certo che ci saluteremo,
quando tu andrai via, e lo farai molto prima di me.”
Sorrisi rassicurante, senza
dare eccessivo peso alle sue parole.
“No. Lei partirà tra qualche
giorno.” Insistette Alice.
“Perché mai dovrei farlo?
Alice, io non andrò da nessuna parte. Il mio lavoro qui, non è ancora finito.”
“Io l’ho visto; un uomo verrà a
cercarla e lei andrà via.”
Improvvisamente ciò che disse
assunse tutto un altro significato. M’incupii, mentre quelle parole inquietanti
si fissavano nel mio cuore come se fossero diventate pesantissime. Chi sarebbe
venuto a cercarmi e perché? Quale fantasma del passato mi stava inseguendo?
A quel punto mi preoccupai sul
serio, quando mi resi conto che Alice non scherzava. Se aveva avuto una visione
che mi riguardava, dovevo sapere.
“Per favore, potresti essere
più chiara? Chi hai visto? Chi è quest’uomo?”
“Non lo so, ma si incontrerà
con sua moglie. A scuola… le farà delle domande.”
“Mia moglie? Perché?” chiesi, e
un sospetto che giudicavo quasi incredibile si affacciava tra i miei pensieri
sconnessi.
“Perché stava cercando
qualcuno… una donna scomparsa…” rispose semplicemente.
Esme?
Avevo smesso da un po’ di
pensare al marito di Esme; quella figura era lontanissima dal mio presente,
adesso quasi dimenticata, anche perché mai avrei creduto che potesse trovare le
nostre tracce.
Sperai che la visione di Alice
non avesse seguito, in fondo la spiegazione avrebbe potuto essere un’altra, ma
non ero troppo ottimista; le visioni di Alice lasciavano poco spazio
all’errore, a meno che la persona non cambiasse idea, allora anche la visione
poteva cambiare.
Nei giorni che seguirono misi
in guardia Esme, le dissi di stare attenta a strani individui che potevano
aggirarsi tra le persone a fare domande su di noi.
Allertai anche Edward.
“Se avverti dei pensieri strani
dimmelo subito. Se in città c’è qualcuno che cerca Esme, dobbiamo saperlo per
tempo.”
Mio figlio annuì.
Ma a volte le cose accadono
solo perché è il caso più fortuito a crearle.
Così fu per quell’uomo che si
trovò a passare da Medison, dove abitavano dei suoi parenti che non vedeva da
tempo. Era solo di passaggio.
Non era venuto per cercare una
donna che era scappata con un medico.
E furono proprio quei parenti a
parlargli della nuova supplente della scuola, la bellissima moglie dell’
affascinante psichiatra che da oltre un anno lavorava alla clinica della città.
E il nome della signora Cullen suscitò il subitaneo interesse dell’uomo, tanto
che decise che l’avrebbe incontrata, per verificare se fosse proprio la
misteriosa donna scomparsa che era stato incaricato di rintracciare dal
facoltoso cliente che lo aveva assunto come investigatore privato, il signor
Charles Evenson.
Thomas Broobeker una mattina si
presentò alla scuola dove lavorava Esme e riuscì a parlare con lei, alla fine
delle lezioni.
Questo è il resoconto completo
che mi fece Esme del loro incontro.
Thomas era un uomo corpulento e
massiccio, con un faccione rotondo e gioviale, dall’apparenza amichevole, ma lo
sguardo tradiva la tenacia di un mastino che quando afferra l’osso non lo
lascia più.
Esme lo accolse nell’aula
vuota, dopo che tutti gli alunni erano usciti e inizialmente lo prese per il
papà di uno dei ragazzi.
“Che posso fare per lei,
signor…?”
“Broobeker, signora.” Il nome
non le diceva nulla.
“È qui per uno dei ragazzi,
immagino.”
“Non precisamente. Lei è la
signora Esme Cullen, moglie del dottor Cullen, lo psichiatra?”
“Sì, esatto. Sono io.”
“Mi scusi, noto che non porta
la fede.”
“Beh, vede, non sono veramente
sposata. Non ancora, almeno.”
“Capisco. Lo è mai stata?”
La domanda la mise in allarme,
ma non tradì il minimo turbamento.
“No, veramente.”
“Avevo capito il contrario;
pensavo fosse per quello che non portava la fede.”
“No, si sbaglia. Mi scusi
signor Broobeker, qual è il motivo di tutte queste strane domande?”
“Mi perdoni, ha ragione. –
rispose Thomas togliendosi il cappello – Arrivo subito alla questione che mi
sta a cuore; immagino non le dica nulla il nome di un uomo che si chiama
Charles Evenson…”
“No. Dovrebbe?”
“Se non è mai stata sposata,
probabilmente no… Vede, io lavoro per lui. Sto cercando la moglie scomparsa del
signor Evenson. Quando in città, per caso, ho sentito parlare di lei e di suo
marito, ho pensato di avere concluso la mia ricerca.” fu il commento placido di
Thomas.
“Non so come abbia potuto
pensarlo, ma non sono la persona che sta cercando. Nel mio passato non c’è nessun
signor Evenson.”
Se Esme fosse stata umana, al
sentire il nome dell’ex marito sarebbe impallidita ulteriormente, ma la sua
natura la proteggeva dal palesare qualsiasi emozione. Si mantenne
imperturbabile mentre rispondeva, sempre mentendo, ad ogni nuova domanda
dell’investigatore privato.
Thomas le parlò del marito,
l’uomo che lo aveva ingaggiato, e delle ricerche che Charles stava facendo fare
sulla moglie scomparsa, una donna di nome Esme Ann Plat, che aveva conosciuto
il dottor Cullen quando viveva a Columbus prima dell’epidemia di spagnola.
“Vede? – le stava dicendo,
mostrandole una fotografia di lei da umana, in bianco e nero, scattata qualche
anno dopo il matrimonio - La somiglianza è davvero impressionante e poi la
coincidenza del suo nome e del medico coinvolto; lei capisce, dovevo
verificare. Certamente lei signora, è molto più bella. Ma davvero, ci sono
troppi elementi che la accomunano alla scomparsa signora Evenson. Posso farle
qualche altra domanda, prima di lasciarla?”
“Mi dica, anche se non ne vedo
la ragione.”
“Il signor Cullen le ha mai
parlato di una paziente con quel nome?”
“Mio marito non parla con me
dei suoi pazienti; lei capisce, sonoinformazioni riservate.”
“Oh, sì certo… Segreto
professionale. Da quanto tempo conosce il dottor Cullen?”
“Da qualche anno.”
“E dove vi siete conosciuti?”
“Questi sono dettagli
personali, ma voglio risponderle. A Chicago. Mi scusi signor Broobeker, se non
ha altre domande, io ora dovrei andare. A casa mi aspettano.”
“Ma certo, signora. Non la
trattengo oltre. Se non ha nulla in contrario, nei prossimi giorni vorrei far
visita al dottor Cullen; forse lui, potrà darmi qualche informazione in più,
sulla signora Evenson.”
“Quando vuole. Mio marito sarà
a sua disposizione.”
Esme prese i suoi testi e il
registro dei voti e corse via.
Arrivò a casa dove c’era solo
Edward ad attenderla, che colse immediatamente l’agitazione che dominava tutti
i suoi pensieri.
“La veggente allora aveva
ragione; ha un potere davvero sorprendente. Credi che ti abbia riconosciuto?
Che abbia capito qualcosa?” domandò Edward a sua madre.
“Non lo so, ma certamente non
abbiamo a che fare con uno sprovveduto. Mi è sembrato molto deciso. Non so se
l’ho convinto, anzi, sicuramente pensa che io sia la donna scomparsa.”
“Potrei andare a sentire i suoi
pensieri e verificare.”
“Non servirebbe. Ha detto che
vuole parlare con Carlisle.”
“Questo potrebbe essere un
problema, non so se Carlisle, vorrà restare qui a incontrarlo. Non gli piacerà
andarsene così in fretta e lasciare questioni irrisolte in ballo; sto parlando
della piccola Alice e di Lucien.”
“Non credo che potremo fare
altro.”
E avevano ragione. Entrambi.
L’idea di lasciarmi alle spalle
problemi irrisolti, non solo mi irritava in maniera esasperante, mi faceva star
male; era un nodo che non veniva sciolto. E non c’era niente che potessi fare,
se non sollevare di nuovo il mio fardello e ripartire. Ce ne saremmo andati via
da Medison come dei ladri nel cuore della notte, lasciando alla clinica una
sintetica lettera di scuse accompagnata dalle mie dimissioni. Lasciando i miei
pazienti nel dolore.
E lasciando Alice, soprattutto.
L’ennesima fuga nel buio,
l’ennesimo senso di vuoto e la sensazione di non appartenere a niente. Forse
l’ennesimo atto di vigliaccheria che non potevo evitare, come la delusione che
lasciavo in eredità. Non verso me, e quel terribile segreto che mi portavo
addosso come il marchio di un’infamia, ma verso qualcuno che avrebbe meritato
sincerità e verità. Sopra ogni cosa, mi angustiava il senso di oppressione che
avvertivo se pensavo ad Alice e a quello che l’avrebbe attesa.
Cosa ne sarebbe stato di lei?
Alice aveva visto il mio
futuro, ma non poteva vedere il suo, anche se ne aveva intravisto un brandello
rubato al tempo.
Avrebbe raggiunto la sorella a Biloxi,
si sarebbe rifatta una vita imparando a convivere con le sue visioni? Sarebbe
mai stata libera dall’influenza che Lucien esercitava su di lei? Di chi erano
gli occhi dorati che aveva visto in un futuro che sembrava ancora lontano? O
forse, era più vicino di quanto pensassi?
Davvero era nel suo destino,
diventare una vampira?
Quando e come sarebbe successo?
Non volevo pensare a lei con
gli occhi rosso cremisi di un essere sanguinario.
Forse per la prima volta dopo
secoli, pregai davvero con intensità quel Dio che non potevo conoscere, di
proteggere una delle sue creature più fragili.
Ma rivolgermi ad un essere
troppo lontano, che non mi ascoltava più da tempo non mi fece sentire meglio;
non ero sicuro che bastasse una preghiera a tenere lontano una sorte infausta
per lei. Alle dimissioni e alla lettera di scuse, unii una terza lettera.
Era per Alice.
Cara piccola Alice,
alle fine avevi ragione tu.
Chissà, forse mi hai visto scrivere questa lettera.
Probabilmente, sì.
Ho sperato fino all’ultimo che avessi torto, ma ciò
che vedi troppo spesso si tramuta in realtà. Hai un grande potere Alice, ma
questo lo sai già.
Non posso deluderti, perché sapevi che sarebbe
successo. Semmai deludo me stesso. Non immagini quante volte lo abbia fatto.
Devo andar via e lo faccio perché devo proteggere
la mia famiglia.
Ma tutto quello che ho potuto fare per te, io l’ho
fatto.
Mi sono battuto per te.
Ora puoi camminare da sola Alice.
Non hai bisogno di nessuno che ti dica cosa devi
fare.
Devi solo vivere. E non devi aver paura.
Sei una persona straordinaria con una grande luce
negli occhi, ti considero un po’ una figlia.
Sei la gioia di vivere, il cuore che batte
d’emozione, la forza della volontà che grida nel tuo sguardo, il sangue che
corre veloce come la fiamma che ti anima.
Non volevo andarmene come un fantasma e lasciare
solo un’ ombra dietro di me.
Volevo lasciarti qualcosa che potesse accompagnarti
lungo il tuo splendido viaggio.
Devi credere solo questo, tu stai per iniziare uno
splendido viaggio; è quello della tua vita che può offrirti ancora molte
occasioni.
Sei solo all’inizio.
Non lasciarti mai convincere da nessuno che non
vale la pena di farlo quel viaggio.
Non c’è nulla di più importante, non c’è nulla che
valga altrettanto.
Neppure l’eternità è così preziosa.
Quando ti sentirai assalita dai dubbi,
dall’incertezza, ti prego, ripensa a queste parole. Sono vere.
Vorrei che fossero scolpite sul tuo cuore.
Fanne tesoro, ti prego.
Non scegliere nient’altro che non sia la tua vita.
La tua, è solo tua.
Non barattarla mai con niente, neppure con promesse
eterne d’ amore.
Finché sarai tu a tracciare il tuo percorso, finché
sarail’artefice della tua esistenza
non dovrai mai pentirti di nulla.
Lo sbaglio più grande sarebbe lasciare che altri
scelgano per te.
Non so se un giorno il destino ci farà incontrare
di nuovo, ma se ciò avverrà io spero di ritrovare la fanciulla solare e allegra
che porterò sempre nel mio ricordo.
Non cambiare mai.
È il mio più grande augurio per te.
Carlisle
Avevo messo tutto in quella
lettera. I sogni e i desideri.
E anche il mio sincero e
profondo affetto per una piccola umana che era entrata quasi di prepotenza
sulla mia strada.
Se le mie speranze
coincidessero col destino e i suoi colori misteriosi lo avrei scoperto solo
molto più tardi…
Continua…
Ciao
a tutte! Sono tornata!
C’è
ancora qualcuno che segue questa storia o siete scappate tutte, stanche di
aspettare i miei aggiornamenti biblici? Scusate il madornale ritardo, sono
imperdonabile, lo so, ma mancava la voglia e l’ispirazione per continuare a
scrivere, quindi ho lasciato passare un po’ di tempo.
Il
capitolo non è stato facile e dovrebbe risolvere e chiudere questa parte della
vicenda di Carlisle.
Ho
cercato come sempre di mantenere verosimili le reazioni dei personaggi e spero
di esserci riuscita, qui solo voi potete dirlo. Se cogliete incongruenze o
fatti che non convincono, non esitate a dirmelo.
Chiaramente
per restare fedele e non snaturare la storia originale e i fatti che riguardano
Alice, ho dovuto lasciare un po’ di mistero attorno alla vicenda, senza
spiegare tutto, anche se credo che si possa immaginare il dopo. Ho cercato di
rendere sfaccettata la figura di Lucien, forse vi sarà apparso un po’ ambiguo,
probabilmente lo è, ma spero vi sia piaciuto come personaggio.
Ora
invece, mi faccio vergognosamente pubblicità; se avete voglia di ridere un po’,
e vi piace il genere crossover, con la collaborazione di un’altra autrice, ho
scritto anche una ff comico/satirica tra Twilight, Vampire Knight e Lady Oscar.
Scusate
se non sono riuscita a rispondere alle vostre recensioni, lo faccio adesso e vi
ringrazio tutte per i vostri commenti che apprezzo sempre tantissimo.
Per
ora vi saluto e come sempre grazie per aver letto fin qui.
Ci
allontanammo velocemente da Madison, lasciando tutto dietro di noi; la clinica,
i miei pazienti abbandonati a se stessi, la piccola Alice in balia dei desideri
di Lucien, l’investigatore privato che stava cercando Esme, e che forse non
avrebbe rinunciato a seguire le nostre tracce.
Mi
trascinai dietro solo la mia angoscia per la sorte misteriosa e inquietante
della giovane Alice.
Non
so quante volte, nei mesi successivi, indugiai col pensiero su di lei, sul modo
in cui mi ero trovato costretto ad abbandonarla, e mi sentii inetto per il mio
comportamento. Lasciare qualcosa di incompiuto nel mio lavoro mi faceva sentire
inadeguato, come se fossi un perdente. Mi opprimeva un senso di fallimento, e
prendevo quest’ultima fuga come un insuccesso assai più personale, che
professionale. Non era più solo lavoro, forse non lo era mai stato.
Non
era una missione da portare a termine; oltre al riscatto di me stesso, all’evoluzione
che tendevo a perseguire nella ricerca di una pace talvolta quasi impossibile,
erano scattati altri sentimenti, in qualche modo, più terreni e umani.
Mi
sentivo fragile e insoddisfatto e mi chiedevo se il senso d’imbarazzo non
derivasse dalla mia vanità mortificata.
Forse
avevo sbagliato fin dall’inizio a prendere tanto a cuore la vicenda singolare
di Alice, ma il mio coinvolgimento era stato tale e profondo, che non avevo
potuto restare indifferente.
La
sua esistenza intrecciata misteriosamente a quella di Lucien mi riguardava
troppo da vicino per non sentirmi responsabile verso di lei.
E
così, mi ero mosso per evitare ciò che mi sembrava l’epilogo più terribile per
la vita di quella fanciulla piena di speranze e sogni per il futuro.
Ma
il vento che spingeva la mia esistenza in direzioni sempre diverse,
improvvisamente aveva soffiato dalla parte opposta, e come al solito, non avevo
potuto oppormi a ciò che era più forte della mia banale presunzione.
Alla
fine, tornavo sempre a fare i conti con la condizione raminga della mia vita.
Non
avremmo mai avuto radici, né io, né la mia famiglia. Ero ormai rassegnato a
questa costante della nostra tortuosa esistenza. Avrei dovuto evitare di
affezionarmi a un luogo più di un altro, a persone e situazioni contingenti. Ma
non so, se per carattere o acute attitudini, non riuscivo a mantenere la giusta
distanza dall’umanità con cui entravo in contatto.
Edward,
tra noi, era quello che sapeva mantenere maggior distacco da tutto. Esercitava
una fermezza di spirito quasi stoica. Lasciò Madison senza mai guardarsi
indietro, come aveva sempre fatto in precedenza.
Senza
tentennamenti, obbiezioni.
Un
po’ gli invidiavo questa sua capacità di adattamento, unita all’apparente
freddezza, anche se qualche volta sospettavo che fingesse. Tanta glaciale
indifferenza veniva poi tradita da bruschi cambiamenti d’umore e dalle tensioni
più o meno intense che si accendevano tra noi.
In
alcuni momenti mi pareva di cogliere un’ ombra appena velata di tristezza nel
suo sguardo, ma durava sempre lo spazio di un istante; dopo, la sua espressione
tornava quasi indecifrabile e senza sfumature.
Esme
era senz’altro quella che soffriva di più, almeno agli inizi; le dispiaceva
interrompere nuove attività avviate con successo e zelo, o non finire un
trimestre scolastico in dirittura di arrivo, ma non protestava mai, perché
comprendeva sempre la situazione che si presentava ogni volta.
“La
tua comprensione cara, è un sollievo enorme per me. Sei davvero sicura che
questi repentini spostamenti non ti pesino? Puoi dirmelo, lo capirei.”
“Carlisle,
ma cosa stai dicendo? Ho compreso da tempo la situazione; - e dicendolo, Esme
si stringeva al mio corpo guardandomi negli occhi con convinzione. - Certo,
all’inizio non è stato facile adattarmi a questa vita. Ma io ti seguirò sempre,
perché nessun posto lontano da te, sarebbe casa per me.”
Bastavano
le sue parole a scacciare ogni mia incertezza. Esme aveva una consapevolezza
che a me ancora mancava.
Erano
anni particolari quelli che stavamo attraversando, anni difficili e violenti.
Li
avevo sentiti scivolarmi addosso con i loro piccoli e grandi drammi che
condizionavano gli uomini, ma non turbavano l’esistenza dei vampiri. Noi
saremmo passati in mezzo al fuoco più devastante senza raccogliere bruciature
sulla nostra pelle.
C’era
la Grande Depressione, una crisi economica e sociale che avrebbe investito
l’Europa, e nell’arco di un decennio avrebbe portato il vecchio continente e
poi l’America, verso il disastro della seconda guerra mondiale.
Il
boom economico seguito al primo conflitto d’inizio secolo, con la crescita
della produzione industriale e dei consumi, si era rivelato solo un fuoco di
paglia, e il venerdì nero del ‘29 con il crollo della borsa di Wall Street, era
stato il colpo di grazia; la crisi finanziaria aveva arrestato l’economia del
paese facendo fallire imprese, industrie e anche l’agricoltura. Tredici milioni
di persone persero il lavoro e tre/quarti dei contadini furono ridotti alla
fame; non era inusuale vedere file lunghissime di gente per comperare il pane.
C’erano
stati i ruggenti anni ‘20 con i loro balli scatenati come il Charleston e la
musica jazz, e ormai stava per finire anche l’epoca del proibizionismo con i
suoi divieti. [1]
Testimone
silenzioso e impotente del mio tempo, impermeabile alla storia che plasma e
costruisce le vite degli uomini, sapevo che quando all’uomo viene negata una
qualsivoglia libertà, scatta sempre in lui, il rifiuto delle regole e delle
restrizioni; così le bevande alcoliche non cessarono di essere prodotte,
vendute o consumate, favorendo in quegli anni la crescita della malavita
organizzata, capeggiata da gangs mafiose di origini italiane o irlandesi di cui
si potevano leggere le gesta sui giornali di tutto il paese. Era in atto una
vera e propria guerra tra i trafficanti e i contrabbandieri di liquori, e lo
stato che cercava di far rispettare le leggi.
In
questo clima instabile, arrivammo a Rochester, una cittadina situata a sud del
lago Ontario, nello stato di New York presso la contea di Monroe nei primi mesi
del 1930. L’ avevamo scelta come località ideale perché le estati del posto
erano molto brevi e gli inverni, lunghi, freddi e nevosi. Inoltre la zona in
prossimità del lago sarebbe stata un perfetto terreno di caccia per noi
vampiri.
Agli
inizi del ‘900, la città si era sviluppata attraverso una fiorente industria
tessile, ma anche qui, la crisi si era fatta sentire; diverse attività avevano
chiuso per fallimento, mandando molte persone sul lastrico. Questo non era un
problema che poteva toccare l’alta borghesia che deteneva il controllo delle
banche.
Una
delle famiglie più influenti della città erano i King, banchieri da varie
generazioni. Elargivano sostanziose donazioni all’ospedale dove lavoravo come
chirurgo, e naturalmente davano lavoro a molte persone nella comunità. Erano
considerati dei veri e propri benefattori, e in realtà avevano troppi interessi
legati a svariate attività che garantivano loro il sostegno pressoché
incondizionato di tutta la città.
Tra
i dipendenti del signor King, c’era il padre di quella che era considerata a
ragione, una delle più belle ragazze della città, se non di tutto lo Stato di
New York; la fanciulla si chiamava Rosalie Lilian Hale.
La
famiglia Hale apparteneva alla media borghesia; il padre della giovane lavorava
presso una delle banche del signor King. Benché benestanti, i genitori di
Rosalie riponevano nell’avvenenza della figlia tutte le loro speranze per un
futuro, se possibile, ancora più luminoso. Come tutti gli arrivisti, miravano
quasi certamente a elevare il già discreto tenore di vita, puntando ai massimi
vertici che si potessero raggiungere in quegli anni. Probabilmente volevano per
lei un marito facoltoso con un’ottima posizione sociale, e si prodigarono per ottenere
questo risultato, facendo in modo che la figlia venisse notata dal miglior
partito presente sulla piazza.
Incontrai
Rosalie in sporadiche occasioni, ma compresi quanto bastava della sua
personalità e psicologia, perché Edward ebbe accesso immediato alla sua mente
semplice, dal momento che per quasi tre anni, frequentarono la stessa scuola
anche se in corsi diversi. Mio figlio non la trovava particolarmente attraente,
soprattutto sul piano intellettuale, ma ho sempre pensato che nel suo giudizio
ci fosse un po’ di arroganza.
“Rosalie
Hale; la sua mente è un lago quieto e poco profondo. – Commentava con una punta
di supponenza. - È quasi sorprendente, visto il tipo di persona che è, ma non
le piacciamo; considera la nostra bellezza innaturale. Una volta deve avere
visto Esme mentre usciva da scuola; le da fastidio il fatto che siamo più
avvenenti di lei.”
“La
cosa deve sorprenderti molto. Forse non è una persona così banale come tu
credi.” Notai.
“In
realtà, mi sento sollevato; almeno, non ha i pensieri molesti delle giovani
umane incantate dal nostro aspetto, ma non riesce a spiegarsi come mai, mi
risulti indifferente e non susciti in me l’ammirazione che evoca in tutti gli
altri.”
“Penso
davvero non sia una ragazza comune.” Conclusi.
Sì,
forse la nostra presenza a Rochester toglieva un po’ di luce a Rosalie, e
questo magari la rendeva vagamente insicura, ma credo che se non si fosse
lasciata abbagliare dalle false adulazioni, se non avesse goduto dell’invidia
che suscitava, il nostro metterla in ombra avrebbe potuto darle modo di
riflettere maggiormente su se stessa, e su chi aveva attorno.
D’altronde
Rosalie non era pienamente consapevole di tutta quell’aspettativa attorno alla
sua persona; era solo una giovane, bellissima donna senza grandi ambizioni che
sognava cose semplici e vere, come l’amore di un uomo, una bella casa e dei
figli da allevare e accudire. L’unico suo errore era credere che per ottenerle
bastasse essere e apparire come la creatura più desiderabile.
Lei
non doveva fare nessuno sforzo per questo.
Non
c’erano domande da porsi sul cosa fosse davvero importante, se l’obbiettivo o
il percorso per raggiungerlo, sul cosa volesse dire essere dei privilegiati in
un momento storico dell’America segnato da difficoltà e disperazione.
Nella
sua ingenuità adolescenziale, non si rendeva conto che certi doni, niente hanno
a che fare con i meriti e possono diventare sventure; nel suo mondo tutto era
una favola è lei era la principessa di un regno che sembrava perfetto: vita e
famiglia perfetta, amici perfetti, fidanzato perfetto. Nella sintesi, un quadro
idilliaco guastato però da un briciolo d’invidia per la sua amica d’infanzia
Vera, che alla sua stessa età, ma con molte meno attrattive e risorse, era già
sposata con un figlio.
Rosalie
a diciotto anni, era una giovane forse un po’ superficiale e vanesia, un poco
immatura e innamorata dell’idea astratta dell’amore, che amava essere al centro
delle attenzioni, a cui piaceva in sommo grado essere ammirata dagli uomini. E
in questo, in fondo, non c’era neppure nulla di male; una ragazza consapevole
del suo grande fascino, può diventare una donna matura, forte e sicura di sé, e
in tale atteggiamento, spesso non c’è nulla di premeditato.
C’è
solo un pizzico di compiacimento femminile che esiste in varia misura in tutte
le donne.
Una
donna con le potenzialità di Rosalie avrebbe potuto ottenere tutto dalla vita,
affinando intelletto, fascino e carisma; forse col tempo e l’esperienza,
accompagnate dalla maturità avrebbe capito che il luccichio che stordisce i sensi
e il cuore, spesso non è altro che oro fasullo e ingannatore. Ma Rosalie non
ebbe il tempo di fare tesoro delle lezioni della vita e si ritrovò travolta
dalla sorte che altri tentarono di costruirle addosso. E ancora adesso, mi
inquieta pensare a quanto l’influenza pesante dei suoi genitori abbia
contribuito alla sua disgrazia.
A
Rosalie furono tarpate quelle ali che avrebbero potuto portarla in alto, e la
dannazione a cui fu condannata partì da più lontano, rispetto a quell’ ultima
notte in cui io la trovai devastata dalla crudeltà umana.
Fu
la madre, tanto orgogliosa della sua bellezza, che la spinse senza nessuna
remora tra le braccia di quello che avrebbe dovuto diventare il marito, il
ricco e facoltoso Royce King, rampollo ed erede affascinante di tutte le
immense sostanze della famiglia d’origine. Ma se Royce poteva apparire sulla
carta un’ottima prospettiva per avere il futuro più splendido assicurato, nella
realtà non era l’uomo che voleva far credere. Edward lo incrociò poche volte,
ma gli furono sufficienti a farsi un’idea precisa ed esatta di quello che era.
Ricopriva
Rosalie di regali costosi, gioielli, bei vestiti e mazzi di fiori; la
introdusse nei saloni del bel mondo, portandola a feste e ricevimenti di
personaggi importanti, trattandola come una regina da mettere in mostra.
Naturalmente,
di tutto questo la giovane era compiaciuta; come avrebbe potuto non esserlo?
Sembrava che tutti i sogni dovessero realizzarsi per lei, senza il minimo
sforzo. Non sapeva ancora di averli riposti nella persona sbagliata.
Edward
che riusciva a leggere la sua anima nera, ne era irritato in maniera
spaventosamente violenta.
“Royce
King è uno schifoso maniaco debosciato; ha una mente crudele e depravata
attraversata da pensieri innominabili. È un bastardo, violento e meschino; è
andato con alcune prostitute solo per prendersi il gusto di picchiarle a
sangue. Quando beve diventa anche peggio. La signorina Hale non immagina neppur
lontanamente cosa l’aspetta, se davvero si sposerà con quel tizio. Ogni volta
che i suoi pensieri maligni attraversano la mia mente, avverto il bestiale
desiderio di ucciderlo, ma prima forse lo torturerei molto lentamente. Gli
farei provare la vera autentica perversione.”
Le
reazioni di mio figlio mi allarmarono più del consueto; gli consigliai di non
farsi coinvolgere, ma non ero sicuro bastassero le mie parole a calmarlo.
Avvertivo con preoccupazione lo sforzo estremo che faceva per controllare i
suoi impulsi. In effetti, in poche altre occasioni, avevo visto Edward così
provato dalla rabbia; il pensiero di Royce King lo faceva diventare furioso. Fu
molto vicino a perdere il controllo.
Un
pomeriggio tornò a casa da scuola sconvolto perché per un momento, si era
lasciato sedurre dal pensiero di rapire e far sparire velocemente il fidanzato
di Rosalie.
Edward
era uscito da scuola molto prima dei suoi compagni e si era ritrovato solo nel
piazzale davanti all’ingresso, dove a pochi metri di distanza stava
l’automobile di Royce; appoggiato alla fiancata della sua auto, nel suo
elegantissimo completo grigio e un enorme mazzo di rose in mano, l’uomo
attendeva l’uscita di Rosalie dall’edificio scolastico.
Immagini
terrificanti e vermiglie lo avevano assalito.
Rose
rosse gettate su un letto che si tingevano di sangue, e spine nella sua mente,
che graffiavano la pelle bianca come porcellana, e penetravano con forza nella
carne delicata della ragazza stesa sotto di lui.
Gli
era bastato un attimo e la tentazione di assecondare la sua natura omicida, si
era fatta strada senza difficoltà come un fulmine che attraversa il buio;
nessun testimone, un lavoro rapido e pulito, nessuno si sarebbe accorto di
niente.
La
legittimazione di un atto che avrebbe reso un servigio alla comunità, era
bastato a giustificare il desiderio di uccidere e gli aveva procurato una
sensazione di potere.
Edward
aveva mosso un passo, guidato da un istinto troppo forte; poi si era arrestato
di botto, stringendo i pugni in maniera violenta ai lati del corpo immobile e
rigido come una statua.
Non
seppe dire neppure lui, cosa lo avesse trattenuto; forse, il timore di
deludermi.
Forse,
la consapevolezza e la paura che se fosse precipitato, nessuno, neppure io
avrei arrestato la sua caduta verso il baratro. Non erano altro che le prime
avvisaglie di ciò che doveva accadere, ma io non volli vederle.
Si
era trattenuto, e a me questo bastava per credere che non sarebbe mai successo.
Non
si sarebbe mai perso perché era mio figlio, e in lui mi ostinavo a vedere la
mia stessa forza.
Ero
uno stolto.
Non
ero altro che uno stupido, presuntuoso vampiro che non voleva accettare la
realtà che ci fossero tra noi, quelli che devono scendere nel buio più profondo
e lasciarsi inghiottire da esso, per trovare la loro luce. Edward era fra
questi.
E
arrivò anche quella maledetta sera del 1933.
Una
serata scura e senza luna, una di quelle sere fameliche in cui escono solo i
lupi a caccia di prede.
Una
notte da vampiri travestiti da uomini, annidati nei vicoli putridi con gli
occhi offuscati dall’alcool, pronti a uscire dal loro nascondiglio per assalire
la loro vittima ignara. Belve assetate di sangue, mostri senza coscienza
accecati dagli impulsi più disumani.
Avevo
finito il mio turno in ospedale; ricordo la luce fredda dei lampioni che
illuminavano le strade e i fari delle poche macchine che viaggiavano all’epoca.
Per
gli umani era l’ora della cena che vede le famiglie riunite intorno a un tavolo
a dividere il cibo guadagnato col sudore del proprio lavoro. Anch’io stavo
tornando dalla mia famiglia; non c’era una tavola apparecchiata ad attendermi,
ma solo un figlio tormentato dalle sue pulsioni e una vampira innamorata che mi
avrebbe raccontato dei suoi alunni diligenti e dell’entusiasmo che le
procuravano.
Potevo
dire che mi bastava e che era comunque più di quello che mi sarei aspettato da
quella strana esistenza.
Stavo
prendendo la via di casa con il cuore leggero, quando avvertii l’odore
inconfondibile.
Arrivò
come una nota confusa e dolente di vita strappata.
D’istinto
cambiai strada per seguire quella scia che aveva l’essenza inquietante del
tormento più atroce. E purtroppo, ero quasi certo di quello che avrei trovato.
Seguii con angoscia quel percorso che mi portò davanti a ciò che si potrebbe
definire solo orrore. Lo scempio fisico e morale di una donna innocente.
Qualcosa
che forse è peggio della morte stessa.
Rosalie
era andata a trovare la sua amica Vera, quella sera. Non abitavano distanti.
Non
tornò mai a casa.
La
violenza sulle donne è un abominio incomprensibile, uno di quei misteri
insondabili che farebbero arrabbiare con Dio, anche l’uomo più devoto.
Per
questo, dopo tanti anni, mi pesa ancora sugli occhi l’immagine di Rosalie
agonizzante.
Perché
non ci può essere accettazione e neanche perdono, e nonostante tutto, questi
sentimenti esistono nella mia natura, e vivono nella più profonda
contraddizione.
Trovai
il suo corpo in un lago di sangue, seviziato in un modo che non si può dire e
che mente normale non potrebbe concepire, abbandonato come un rifiuto dentro un
vicolo squallido e oscuro.
La
morte, per fortuna o purtroppo, non aveva avuto ancora pietà di lei e del suo
cuore martoriato.
Non
ho mai saputo cosa sarebbe stato meglio. E non so neppure cosa avrei fatto io,
se fossi arrivato lì, un attimo prima. Ma so cosa avrebbe preferito lei.
Quante
volte ero stato testimone di simili scempi nel corso della mia lunga esistenza;
venivo da un secolo oscuro che non concedeva diritti né giustizia al mondo
femminile, e in oltre duecento anni non mi ha mai abbandonato quel senso di
amarezza che avverto di fronte a certe brutture che sembrano non cambiare mai.
Non
era rimasto nulla della Rosalie che tutti conoscevano, la ragazza avvenente
piena di sogni che camminava per strada con passo sicuro, orgogliosa di
attirare gli sguardi dei giovanotti, che sorrideva colma di speranze alla vita.
Tutto il suo essere era stato annientato dalla violenza che aveva subito. I
sogni erano stati abbattuti come uccelli in volo e le speranze erano crollate
come castelli di sabbia travolti dalla bufera.
Sollevai
da terra quel corpo brutalizzato e presi a correre velocissimo verso casa.
Mentre correvo, potevo sentire il suo cuore che lentamente andava spegnendosi,
mentre il suo sangue ancora caldo mi macchiava i vestiti e il suo aroma
invadeva le mie narici, e non fu senza dolore che pensai che sarei stato causa
di una pena ben più terribile.
E
mi angustiavo all’idea che per mano mia sarebbe morta di nuovo nell’arco di tre
giorni terrificanti.
La
morsicai al collo, ai polsi e alle caviglie, per regalarle la sorte dannata che
avevo già concesso ad altri della mia famiglia, ma nell’animo c’era qualcosa
cui anelavo inconsciamente. Strani sentimenti si agitavano nella mia coscienza;
covavo un forte risentimento sconosciuto per coloro che si erano macchiati di
quel delitto che costringeva me, ora a compiere il mio. Se Rosalie avesse potuto
fermarmi, lo avrebbe fatto. Lei più di Edward, non ha mai voluto questa vita e
non l’avrebbe voluta.
Se
avesse potuto scegliere, avrebbe scelto diversamente. Fin dall’inizio.
Ma
quasi tutto, nella sua esistenza mortale e immortale fu determinato da altri.
Esme,
appena la vide, ebbe parole di pietà per la ragazza.
“Povera
cara; ma chi può averle fatto una cosa così spaventosa?”
“Dovevano
essere in tanti; un uomo solo non potrebbe fare una cosa simile. Quando l’ho
trovata, doveva essere appena accaduto.”
“Vuoi
tenerla con noi?” mi chiese.
“Sarà
libera di restare o andarsene per la sua strada. Non la costringerò a fare
nulla.”
Quando
Edward quella sera rientrò a casa non fu contento della mia iniziativa di
trasformare Rosalie.
“Non
hai esagerato, questa volta? Rosalie Hale! È troppo nota. Non dovevi portarla
qui. Muoveranno mari e monti per trovarla.”
La
voce concitata di mio figlio tradiva l’esasperazione che provava.
“Non
potevo lasciarla lì, in quello stato. È vergognoso e riprovevole quello che le
hanno fatto.” Ribattei con assoluta decisione.
“Lo
so, ma nessuno sospetterà mai di quel maniaco, né dei suoi degni compari. Un
branco di canaglie schifose, che meriterebbero di morire tra atroci tormenti.”
Dalla
sua voce rabbiosa, capivo che lo avrebbe fatto volentieri trascinato
dall’emotività. Cercai di esercitare il controllo su di lui; ultimamente, certe
sue reazioni non mi facevano stare tranquillo.
“Edward,
non è compito nostro intervenire nelle faccende umane. – sospirai sull’ultima
frase. - Vedi chi è stato?”
“Certo.
È tutto ancora vivo nella sua mente. Le facce di quegli animali, ogni
raccapricciante dettaglio.”
Durante
la trasformazione, Rosalie coglieva a sprazzi i nostri discorsi, ma il veleno
che bruciava la sua carne non la faceva pensare quasi a nient’altro che il
dolore.
Ci
supplicò svariate volte di ucciderla.
Io
le rispondevo che presto tutto sarebbe finito.
Le
tenevo una mano e rimasi accanto a lei per tre giorni; ad ogni grido di dolore le
chiedevo scusa, mentre le spiegavo quello che le stava accadendo e cosa
eravamo.
Non
si lasciò convincere, finché non si rese conto lei stessa che il suo corpo
mutava e diventava più duro e forte.
Rosalie
era stata un’ umana già molto bella, ma la trasformazione stava esaltando e
accendendo la sua bellezza in un modo impensabile. Stava diventando magnifica.
Alla
fine del terzo giorno, Rosalie, bella come una dea, si risvegliò nella sua
nuova vita con gli occhi rossi che bruciavano di un fuoco che non era
semplicemente quello della sete.
Le
spiegai nuovamente tutto quello che era accaduto e cosa era diventata e lei mi
ascoltò apparentemente calma; ma quel fuoco che ardeva nel suo sguardo non si
placava neppure dopo una battuta di caccia. C’era un desiderio in lei che non
si sarebbe estinto, e io non me la sentii di provare a soffocarlo.
Non
ne ebbi il coraggio.
E
non sapevo quanto fosse giusto soffocarlo.
Avevo
il sospetto di qualcosa che stava per accadere e non sono sicuro di non averlo
in parte determinato.
O
forse, di averlo permesso, e magari desiderato in qualche piega oscura del mio
spirito dannato.
Rosalie
restò abbagliata dalla sua bellezza, ma fu qualcosa che la distrasse per
pochissimo tempo; era un’altra l’ossessione che la dominava e che avrebbe
finito per soddisfare. Sapevo che Edward la sentiva. Ma tra lui e Rosalie c’era
un tacito silenzio che gridava con furia, che soffiava su un tormento troppo
profondo e impietoso per poterlo estinguere. Feci finta di non vedere e
comprendere quello che si agitava nel suo animo di vampira neonata.
Non
mi azzardai a convincerla di nulla. Evitai qualsiasi tipo di frase fatta.
Non
avevo risposte né soluzioni e lei non ne chiedeva.
Un
vampiro dimentica la sua vita umana, resta nella sua mente solo una debole traccia
di qualcosa che fu.
Ma
come già la storia di Lucien mi aveva insegnato, certe tragedie che colpiscono
l’uomo sono incancellabili.
Rosalie
non avrebbe mai dimenticato nulla.
Avrebbe
ricordato per sempre ogni dettaglio di quella notte fatale e dannata. Le
sarebbe pesata addosso per l’eternità come un macigno pesantissimo; se un
vampiro può soffocare, quello l’avrebbe soffocata. Ci sarebbe stato un solo
modo per alleggerire quel fardello quasi insostenibile.
Non
potevo immaginare come e quando.
Era
un’ ipotesi che galleggiava sospesa fra noi, come una barca vuota trasportata
dall’acqua che deve toccare terra; non sai quando questo accadrà, ma sai che
dovrà accadere.
Non
sapevo come mi sarei sentito io dopo il fatto, e un po’ temevo di scoprire le
mie sensazioni, perché forse avrei provato qualcosa di simile al piacere.
Solo
di una cosa ero certo: Rosalie avrebbe perseguito e attuato la sua vendetta su
chi le aveva rubato tutti i suoi sogni e indirettamente, l’aveva resa
bellissima e maledetta.
Continua…
Salve a tutte. Eccomi qui.
Sono stata veloce questa volta. O almeno, più veloce del solito.
Spero prima di tutto che abbiate passato una Buona Pasqua, e poi
che il capitolo vi sia piaciuto.
Avrete notato che è più corto di quelli che scrivo di solito, ma
ho preferito non appesantirlo troppo. Mi è servito per introdurre qualche cenno
sull’epoca storica che ci dà lo scorrere del tempo vissuto dai Cullen, oltre
naturalmente il personaggio di Rosalie che vorrei approfondire meglio nel
prossimo capitolo. Avrete anche notato che ho ridotto molto i dialoghi, spero
non vi dispiaccia, ma qui non mi sembravano essenziali. Io spero che qualcuno
sia ancora lì a seguirmi e che magari voglia dirmi come ha trovato questo
capitolo. Come sempre, anche se l’ho già fatto singolarmente, vi ringrazio per
le vostre recensioni (pochine nell’ultimo, ma grazie lo stesso).Ringrazio chi continua a seguire questa
storia in una delle liste e anche chi legge soltanto senza farsi sentire, ma un
segno di vita anche piccolo, sarebbe gradito. Spero di sentirvi.
Ninfea.
[1]Proibizionismo; periodo che va circa dal 1920 al 1933, dove in
America era vietata la vendita e il consumo di alcolici.
Capitolo
forse un po’ forte, su cui avevo qualche lieve incertezza.
Ringrazio
infinitamente Karmilla che ha letto in anteprima, per i consigli e per il suo
parere. Buona lettura e spero che vi piaccia.
****
Le inutili ricerche per la
scomparsa di Rosalie proseguirono per mesi.
Furono interrogati tutti quelli
che conoscevano la ragazza, amici, parenti e conoscenti, e naturalmente il
fidanzato Royce King, che da vero primo attore, finse una disperazione da copione.
I genitori lanciarono appelli
alla radio, ai giornali locali e nazionali, sostenuti da tutta la cittadinanza,
oltre che dagli appoggi della facoltosa famiglia del colpevole.
Rosalie, le labbra serrate in
una piega amara, ascoltò attraverso la radio, uno di quegli appelli dalla
stessa voce di sua madre; avrebbe voluto rivederla, ma io le sconsigliai
qualsiasi incontro con la sua vecchia famiglia umana.
“Sei una neonata che non saprebbe controllarsi. Potresti
far loro del male.”
“Loro lo hanno fatto a me, non
ero altro che un burattino nelle loro mani; mia madre ha fatto di tutto per
spingermi tra le braccia di Royce; la sera, prima di coricarmi, mi pettinava i
capelli e mi diceva, nessuna sarà mai più fortunata di te, Rosalie. Tu sei
nata per questo. E io, come una stupida, le credevo.Ecco, il
risultato.” Il risentimento vibrava sinistro nella sua voce dal suono di
campane.
“Royce ha ingannato tutti, e i
tuoi genitori ora stanno male. Il loro dolore dev’essere inconsolabile e grande
quanto il tuo, Rosalie.”
“No. Non grande quanto il mio.
Loro non sanno, e sono fortunati per questo.”
Non avevo obbligato Rosalie a
restare con noi, avrebbe potuto andarsene per la sua strada in qualsiasi
momento, ma lei scelse di rimanere, ammettendo di non gradire la solitudine.
Ma che era inquieta si percepiva
in ogni sfumatura, in ogni inflessione della voce, nello sguardo rosso sangue
intriso di amarezza che rifuggiva il mio e quello del fratello e saettava in
tutte le direzioni. Edward non diceva nulla, ma sapeva da quali pensieri feroci
era dominata la sua mente e lo sapevo anch’io. Le prime tre settimane dopo la
sua trasformazione, vivemmo tutti in una sorta di limbo fatto di un’ attesa
inquietante, diversa per ciascuno di noi.
Per Rosalie non si trattava di
adattarsi solamente alla sua nuova terribile natura, tradotta in sembianze
sublimi tanto disumane quanto affascinanti; le sembrava più difficile e
assurdo, accettare la forma meravigliosa di un involucro che poteva restituirle
solo il vuoto assoluto, mentre lentamente diventava consapevole di quanto le
fosse stato sottratto; a conti fatti, un prezzo troppo alto per una bellezza
sterile.
Un pomeriggio, Esme la sorprese
a fissarsi immobile davanti allo specchio posto all’ingresso di casa; guardava
la sua immagine riflessa senza battere ciglio, quasi fosse soggiogata da se
stessa. Come se Medusa, guardando il proprio riflesso fosse rimasta
pietrificata da sé medesima. Sul suo volto perfetto di porcellana cesellata non
pareva passare alcuna emozione, solo le labbra serrate sembravano incurvarsi in
una leggera smorfia.
“Perché siamo così belli? A che
serve se dobbiamo nasconderci?” chiese con amarezza nella voce.
“E chi lo sa? Forse è solo un
modo per attirare le prede e non spaventarle.” Rispose Esme con dolcezza,
accarezzandole i lunghi capelli biondo miele. Quando Rosalie parlò di nuovo,
non riuscì a nascondere il peso dell’enorme rimpianto che l’avrebbe
accompagnata lungo il sentiero fatto di eternità che si snodava davanti alla
nostra razza maledetta.
“Non ho mai pensato che la
bellezza si sarebbe trasformata nella mia condanna. Avevo tutto e mi è stata
tolta ogni cosa, e questo bellissimo aspetto che ho adesso non mi servirà a
niente, salvo ricordarmi il vuoto incolmabile che porto sotto la maschera. Mai
ruga comparirà su questo volto superbo e il tempo non lo segnerà; è
un’illusione di vita senza valore. Avevo un sogno che era semplice; volevo dei
figli belli e sani, invecchiare accanto a un marito gentile e premuroso,
circondata dalla serenità che danno gli affetti famigliari. Cosa c’era di
sbagliato?”
“Nulla, Rosalie. Era un
desiderio più che naturale e legittimo.”
“Non conoscerò mai la gioia di
dare la vita. Avrò solo il desiderio di dare la morte. In questa forma perfetta
sarò sempre dannatamente incompleta. Sai cosa vuol dire Esme? Non ti pesa
questa mancanza?”
“Più di quanto tu possa credere.
Ma forse, non ti sentirai sempre così, le cose miglioreranno…”
“Qualcuno dovrà pagare…”
Intuivo il violento desiderio di
Rosalie e temevo che stesse pensando di attuarlo, ma di più, mi sentivo a
disagio, diviso tra il sollievo che certamente avrei provato per la morte di un
uomo malvagio e la necessità di condannare un sentimento che mi pareva corrotto
e nefando; cercavo di far tacere quella parte della mia coscienza che non voleva
provare compassione, ma cercava una giustizia del tutto simile alla vendetta.
Il mostro in me era ancora vivo,
dopo tanto tempo, e mai si sarebbe sopito per davvero.
Bastava la miccia giusta per
riaccenderlo e farlo agitare dal profondo del suo antro dov’era relegato.
E mi chiedevo a volte, se quella
in fondo, non fosse la parte più buia della mia umanità che cercava di
sopravvivere all’ assenza di emozioni che poteva sopraffarmi.
In quell’incertezza logorante
che avvertivo anch’io per ragioni differenti, avevo proposto di lasciare subito
la città, ma Rosalie si oppose alla mia richiesta con forza e cieca
determinazione.
“No! Prima devo fare una cosa.
Non me ne andrò senza averla fatta.”
Era fin troppo chiaro a cosa
alludesse.
È difficile spiegare i
sentimenti che arrivai a provare nei confronti di quell’individuo; erano
contraddittori, contrari a tutto quello che avevo sempre professato nella mia
vita. Royce King rappresentava tutto ciò che nel genere umano è possibile
disprezzare, e ho quasi paura di aver odiato quell’uomo in una maniera
profonda.
Mi ero sempre fatto un vanto
della mia capacità di comprensione, del mio essere compassionevole verso le
disgrazie degli uomini, e anche quando l’umanità cadeva in basso compiendo le
azioni più turpi, mi ero sempre detto che essa poteva trovare la via per
riscattare se stessa e risalire la china.
Dopo quello che era accaduto a
Rosalie, forse per la prima volta, di fronte alla malvagità compiuta da un
gruppo di esseri umani, non ero più tanto disposto ad essere tollerante e
comprensivo.
Volevo una qualche forma di
giustizia, non importava quale, ma sapevo che non l’avrei trovata tra gli
uomini, che fallibili e corruttibili, tendono a proteggere personaggi come
Royce King, che forte del suo potere si sarebbe comprato le assoluzioni umane,
se mai fosse comparso davanti a un giudice.
Parlai con Esme delle mie
inquietudini, che lei avvertiva con estrema sensibilità e che mi indusse ad
esternare. Seduto sul divano della nostra casa, mentre sfogliavo distrattamente
un quotidiano, Esme si accoccolò accanto a me posandomi le mani sulle spalle.
Era un inverno rigido e le temperature si sarebbero ancora abbassate,
preannunciando neve.
“Hai paura di quello che
vorrebbe fare, e non sai se sia giusto fermarla. È così?”
“Sì, è così.” Stropicciai il
giornale tra le mani.
“Eppure, non ci stai neppure
provando; non tenti di fare con lei, quello che hai fatto fin dall’inizio con
Edward.”
“È diverso. Tu puoi comprendere,
Esme? Tu sei una donna; se fosse successo a te?”
“Vuoi sapere se mediterei la
vendetta? Penso che potrebbe essere il primo pensiero lucido, dopo la vergogna,
che possa attraversare la mente di una donna che subisce una cosa del genere.
Ma per chiunque è difficile mettersi nei panni di chi porta il segno di un
simile affronto.”
Ma poi Esme girò la domanda;
aveva compreso benissimo quale fosse il mio vero tormento.
Era naturale per lei indurmi ad
affrontare le mie paure più autentiche. Lo aveva già fatto in passato.
“Se fosse successo a me, tu cosa
avresti fatto, Carlisle? Cosa avresti provato? Avresti desiderato la vendetta?
Forse quella sera, davanti al corpo umiliato di Rosalie per un secondo, il
pensiero ha attraversato la tua mente.”
Non ero certo di conoscere la
risposta, né di volerla conoscere. Abbassai il capo rassegnato, mentre Esme
continuava in tono comprensivo.
“Non abbiamo tutte le risposte
Carlisle, e alcune più di altre ci spaventano.”
“Già…- sospirai. - Edward la
segue a caccia. Gli ho chiesto di farlo per scrupolo. Vorrei che tra loro
accadesse qualcosa. Pensi che potrebbe essere una buona compagna per Edward?”
“È presto per dirlo, e non è di
questo, ora che dobbiamo preoccuparci.”
Ma anche preoccuparci non
sarebbe servito ad evitare quello che doveva accadere.
Qualche giorno dopo a casa
nostra arrivò un pacco, portato da un corriere espresso durante una nevicata
generosa che nascondeva sotto le coltri i contorni del paesaggio.
Firmai io la ricevuta di
riscossione.
Rosalie prese dalle mie mani il
grosso pacco e vidi i suoi occhi rossi scintillare di una luce diabolica. Corse
in camera sua, euforica.
Ebbi una sensazione strana: era
simile ad ansia che mangiava lo stomaco.
Io e Esme ci guardammo
consapevoli e disillusi.
Inevitabilmente arresi.
“Si tratta di un abito da sposa.
Lo ha ordinato tramite una rivista.” Ci rivelò Edward, caustico.
Su tutto aleggiava qualcosa di
grottesco; un abito da sposa per celebrare la morte e la vendetta.
Vedevo il bianco tingersi di
rosso vermiglio.
Il candore della neve sporcarsi
di lunghe scie di sangue.
Interrogai mio figlio, senza
aspettarmi molta collaborazione da parte sua.
“A cosa le serve un abito
bianco?”
“Non sta pensando di prendere
marito. Ha un progetto in testa, questo è chiaro anche a te. Se hai dei
sospetti, perché non le parli? Perché non provi a fermarla? Magari ti dà retta,
Carlisle.”
Ma non tentai nulla del genere.
Invece, pregai Edward di restarle al fianco, di seguirla.
Sempre.
Ma di non interferire con le sue
azioni. Impedirle semmai di perdere completamente il controllo. Se voleva
uccidere quegli uomini che l’avevano aggredita e violentata, che almeno
quell’odio non si riversasse su altri innocenti.
Edward era sorpreso e forse
anche un po’ scosso dalla mia reazione.
“Con lei non te la senti, eh? La
lascerai diventare un’assassina. Magari è proprio quello che vuoi. La
giustifichi, anche se ti costa uno sforzo notevole. È la prima volta che ti
comporti così con uno di noi…”
Non ebbi il coraggio di
rispondere e mi limitai ad opporre il silenzio. Dovevo apparirgli
contraddittorio in modo non inferiore a come mi sentivo io in quella
circostanza.
Edward fu estremamente zelante
nel suo impegno, ma se avessi sospettato l’influenza profonda che esercitò su
di lui la vicenda personale di Rosalie, forse mi sarei comportato in un altro
modo e non gli avrei fatto quella richiesta. Fu un azzardo da parte mia, e se
avessi colto i segnali della sua insofferenza, non gli avrei permesso di
avvicinarsi tanto a lei in quel momento; come argilla morbida che viene plasmata
su un calco, mio figlio prese su di sé l’impronta pesante di quel desiderio di
vendetta.
Rosalie si comportò con estrema
perizia e lucida, spietata determinazione.
Con pazienza, calcolò le mosse,
valutò le reazioni, studiò le sue vittime; costruì la sua trappola con tenacia
e metodo. Un gatto che si divertiva con i topi.
Attese il momento propizio per
agire, con la pazienza inquietante di un avvoltoio che aspetta di gettarsi sui
resti della carogna abbandonata dalle altre fiere.
Passò oltre due settimane a
seguire gli spostamenti di Royce, tra la casa, l’ufficio di dirigenza, i posti
squallidi che frequentava con i suoi amici, viziati rampolli di famiglie
potenti come la sua, i luoghi dove si rifugiavano, chi incontravano.
Ne osservò i comportamenti, spiò
la loro tranquillità, l’arroganza di uomini sicuri e indisturbati, convinti di
essere al sicuro da accuse o sospetti.
Scoprì le case dove abitavano,
uno di loro proveniva da fuori città.
Fu il primo che lei andò a
prendere.
Trovarono il suo corpo riverso
sulla neve in una posizione del tutto innaturale, un fantoccio molle e svuotato
di sostanza a pochi isolati dalla sua abitazione.
Le ossa del corpo quasi fatte di
polvere, spezzate come fossero rami secchi di un albero.
Doveva aver sofferto moltissimo
prima di morire in un modo lento e atroce, torturato dalla furia impietosa
della giovane vampira.
Negli occhi fissi e dilatati del
cadavere, l’immagine agghiacciante della morte era rimasta impressa come sul
negativo di una fotografia; il sorriso terribile e spietato di Rosalie doveva
essere l’ultima cosa ad aver impressionato il suo sguardo, prima che le sue
dita gelide lo ghermissero lasciandogli solchi profondi e incredibili alla
gola.
Il delitto di Atlanta, fu così efferato,
così carico di inquietante mistero e sconcerto, che finì sulle pagine di tutti
i giornali. Si parlò di un serial killer psicopatico dalla forza brutale e
spaventosa capace di uccidere a mani nude.
Edward quel giorno, tornò a casa
da scuola e quando mi vide leggere l’articolo riportato sulla prima pagina del
New York Times, mi disse soltanto, è iniziata. Ma non ha bevuto una goccia
del suo sangue.
Che volesse rassicurarmi?
Davvero Rosalie non aveva ceduto al richiamo del sangue?
Speravo almeno in quello, perché se fosse stato così, avrebbe potuto continuare
a uccidere anche dopo.
Mio figlio non scese in dettagli o descrizioni di alcun
genere, non mi disse neppure se aveva assistito a tutta la scena o se aveva
osservato ogni cosa nella sua mente. Mantenne il riserbo su tutto, un velo
discreto a coprire ciò che non poteva nascondere. Quelle poche volte che mi
raccontò qualcosa, si limitò a descrivere gli atteggiamenti di Rosalie, i suoi
sentimenti estremi, la sua sofferenza ogni volta che tornava sul ricordo di ciò
che aveva subito ad opera di quegli uomini.
Caduta la sua prima vittima, Rosalie si divertì a studiare
e osservare con discrezione le reazioni delle sue prede. Cercava la loro paura,
la annusava con perverso e voluttuoso piacere, aspettava di vederla salire,
impossessarsi come un tarlo feroce che sgretolava le loro menti deliranti.
Bramava il momento in cui l’avrebbe vista trasformarsi in puro terrore impresso
a fuoco nei loro occhi deboli e vacui.
Al primo delitto, Royce e gli altri colpevoli di quella
sera rimasero turbati il breve spazio di una sensazione fugace e inafferrabile,
come un soffio leggero di vento, ma non diedero una valenza importante
all’accaduto e alla sua efferatezza. Non vi percepirono l’odio che c’era dentro
un atto del genere. Quasi commentarono con macabra ironia la fine che fece il
loro amico. Era un caso che non poteva essere collegato alla scomparsa di
Rosalie, o alla sua aggressione ad opera loro.
Così credevano.
Nessuno sapeva davvero cosa fosse accaduto alla ragazza, e
di quella sera terribile non esisteva un testimone che avesse visto qualcosa;
anch’io ero arrivato sul posto che tutto era accaduto.
Con tali premesse, per Royce e gli altri non c’era ragione
di preoccuparsi.
Finchè, dopo circa due settimane dal primo omicidio,
Rosalie colpì di nuovo.
Uccise ancora, questa volta a Rochester; un altro
colpevole di quella notte, un altro amico di Royce, un altro assassino di sogni
e speranze che aveva distrutto la sua anima. E anche questa volta, senza bere
una sola goccia di sangue. Non so come fece a resistere. Niente di quegli
uomini doveva entrare in lei; sarebbe stato come inquinarsi per sempre.
Lo sorprese in casa di notte mentre era con una donna
rimorchiata in un locale sordido pieno di fumo. Lo trascinò fulminea in
un'altra stanza del grande appartamento, mentre la donna seminuda restava
rannicchiata e terrorizzata in un angolo, cercando di tapparsi le orecchie
mentre sentiva le urla orribili dell’uomo.
Edward presente sulla scena, protetto dal buio, veloce come
un’ombra, le sussurrò all’orecchio che nessuno le avrebbe fatto del male. Forse
la poveretta lo prese per un delirio.
Trovarono il corpo martoriato come quello del precedente
delitto di Atlanta e i media parlarono del misterioso killer, cercando di tratteggiare
un profilo possibile dell’assassino. La polizia forniva poche informazioni, non
avendo indizi su cui lavorare e l’unica testimone era preda di isterismi che la
rendevano inattendibile; si consigliava alla gente di restare in casa e
chiudere a chiave, di non uscire di sera, né frequentare posti poco sicuri. Gli
umani non sapevano che non c’era luogo abbastanza sicuro per difendersi da un
vampiro assetato di sangue, o vendetta come nel caso di Rosalie.
E questa volta, gli altri tre responsabili cominciarono ad
aver paura.
Paura di subire la medesima sorte. Paura uno dell’altro,
sospettando di tutti e nessuno.
Si accusarono a vicenda, presi totalmente dal panico,
corrosi dalla tensione, dall’angoscia di un’ attesa che diventava inquietante e
sinistra col passare dei giorni. Smisero di incontrarsi all’esterno, in
pubblico e nei soliti luoghi di ritrovo; Rosalie ascoltava le voci concitate e
tremolanti, i loro alterchi inutili, li osservava come un falco pronta a
piombare sulla preda.
“Non può essere solo un caso: prima John ad Atlanta,
adesso Sam. Chi sarà il prossimo? Quella sera, qualcuno ci ha visto Royce;
magari qualcuno che conosceva la tua ragazza… forse uno di noi ha parlato con
la persona sbagliata!”
“Smettila!! Credi che sia uno stupido? Non ci hanno visto,
e senza un corpo non esiste reato; comunque nessuno oserebbe accusare me.
Quindi piantala di parlare! Sono stufo di sentirti blaterare assurdità su
questo presunto maniaco che ce l’ha con noi!”
La vampira rideva in segreto della loro paura e si
divertiva a provocarla. E loro pareva che la sentissero, che percepissero il
suo alito freddo sul collo.
Non fu solo suggestione.
Edward mi rivelò che si era avvicinata alle spalle di uno
di loro, mentre l’uomo ignaro della morte che lo aveva appena sfiorato,
camminava veloce per la strada. Si era arrestato di colpo, alzandosi il bavero
della giacca di lana, e si era voltato come se avesse sentito una presenza
vicino, poi aveva ripreso a camminare più veloce di prima, col cuore che gli
martellava nel petto, mentre un timore strisciante e schifoso serpeggiava lungo
la sua spina dorsale.
Rosalie gli era passata accanto come una folata invisibile
di vento; annusando il suo sangue, gli occhi troppo rossi, si erano accesi di
folle desiderio omicida. Edward, sempre dietro a lei, l’aveva bloccata appena
in tempo, prima che testimoni potessero vedere.
“Capisco la vendetta, ma non devi esporti in questo modo.
Metti in pericolo la nostra famiglia e la nostra stabilità qui.” Le aveva
detto, trattenendola quasi a forza.
“Che cosa c’è Edward? Ti sei stancato di guardare e hai
deciso d’intervenire? Gli altri me li hai lasciati ammazzare, però… forse vuoi
farlo tu, per me? - sibilò come una gatta furiosa. – Non mi priverai di questo
piacere, ma puoi continuare a guardare se ti và. Ma non metterti in mezzo!”
Non ho mai compreso quanto sia stata intenzionale e
provocatoria quella frase di Rosalie.
Quanto lei avesse intuito il malessere che ribolliva in Edward.
Forse era semplice sintonia tra fratelli accentuata dal talento di mio figlio.
Forse era lo stesso dolore, la stessa frustrazione che faceva tremare le loro
vene, che si muoveva spinta da motivazioni molto simili.
“Non voglio impedirti di ucciderli, della loro sorte mi
importa poco; probabilmente meritano la morte, voglio solo evitare imprudenze
pericolose. C’è già una testimone di troppo che per fortuna non rappresenta una
minaccia.”
Mio figlio tentava di blandirla, ma Rosalie non si
lasciava ammorbidire, né concedeva scappatoie facili al fratello in cui
avvertiva lo stesso potente, contrastato comune desiderio.
“Non me la racconti giusta, Edward; lo vedo che ti sforzi
di mantenere il controllo. Non vuoi deludere il tuo mentore, ma nei tuoi occhi
a volte, brilla una luce diabolica; tu vuoi uccidere anche più di me. Muori
dalla voglia di bere sangue umano, ma non hai il coraggio di lasciare Carlisle,
né di opporti a lui.”
Forse, Edward tremò a quelle accuse della sorella, ma non
reagì.
Fu dura Rosalie, ma venne assalita da un dubbio che Edward
si affrettò a dissipare.
Non è stata un’idea tua… È stato Carlisle a mandarti
qui?
“Sì, Carlisle mi ha chiesto di starti accanto e di non
interferire…”
“Immagino non sia contento per quello che sto facendo…”
“Lui è molto combattuto, adesso.”
“Non solo lui…” commentò lei con sarcasmo.
Cosa scatenarono quelle parole in mio figlio, in quel
preciso istante posso vagamente immaginarlo; iniziò a precipitare la valanga
che poi lo travolse, trascinandolo lontano, su quella strada terribile che
avevo cercato di scongiurare con tutte le mie forze.
Non sarebbero servite parole né frasi comprensive, e
neppure i miei pallidi tentativi di farla ragionare, a far recedere la vampira
neonata dal suo proposito: ottenere l’attuazione definitiva e completa della
sua vendetta.
Dopo il secondo delitto, due degli amici di Royce,
sentendosi insicuri nelle loro stesse case, cercarono di lasciare la cittadina
di Rochester, per puntare in territori più a nord.
Decisero di viaggiare insieme e qualche giorno più tardi,
si misero in marcia una mattina di quello stesso inverno con la neve sporca
accumulata ai lati delle strade. Sembrava un giorno come tanti, con la vita che
riprendeva con il suo ritmo consueto, con la gente che usciva di casa per
andare a lavorare, mentre io andavo a fare il mio turno in ospedale quella
stessa mattina.
Non arrivarono mai molto lontano.
Rosalie bloccò la loro automobile pochi chilometri fuori
da Rochester, su una stradina provinciale deserta. Diverse ore dopo venne
ritrovata l’auto su cui viaggiavano con delle strane ammaccature e le portiere
anteriori divelte, come se fossero state strappate senza sforzo apparente.
A qualche chilometro in aperta campagna, furono trovati i
due corpi su cui Rosalie si era accanita; braccia e gambe spezzate, costole
rotte e lo sterno schiacciato con la semplice pressione di un piede.
Una delle vittime aveva il cranio sfondato. C’erano strani
segni nella neve sul terreno attorno, come se i due uomini fossero stati trascinati
con estrema violenza, ad una velocità impressionante.
Tre delitti solo nella zona di Rochester.
I giornali non parlavano d’altro che di questo serial
killer spietato, che doveva risiedere nella città o nelle immediate vicinanze.
Si moltiplicarono gli appelli alla prudenza e le segnalazioni di persone
sospette o equivoche. La gente aveva paura, lo sentivo dai commenti che mi
capitava di cogliere anche presso l’ospedale dove lavoravo. Le famiglie degli
uomini uccisi, potenti e altolocate, facevano pressioni sulla polizia, che
brancolava nel buio, ma a tutti era saltato all’occhio che le vittime
appartenevano allo stesso ambiente e che si conoscevano; era assai probabile
che le indagini si stessero muovendo in quella direzione, ma non potevo saperlo
con certezza.
Era quasi un obbligo servirmi del potere di mio figlio per
controllare i passi avanti che faceva la polizia.
Edward vigilava quando venivano ritrovati i corpi; andava
sui luoghi dei delitti e senza farsi notare, sondava le menti degli ispettori e
di chi si occupava dei casi, patologi compresi; erano vagliate diverse
congetture e ipotesi, ma nulla che per fortuna si potesse collegare alla
famiglia Cullen e ai suoi membri. Del resto, sarebbe stato impossibile. La
situazione si fece tesa anche per noi, quando ci fu chi lanciò l’ipotesi che
quei delitti fossero collegati in modo misterioso alla scomparsa di Rosalie
Hale.
Saremmo dovuti andarcene, ma restava ancora
l’ex-fidanzato: Royce King.
Rosalie lo aveva lasciato per ultimo di proposito, perché sapesse
che stava arrivando.
Royce, ormai spaventato a morte, aveva assoldato un paio
di guardie del corpo ed era andato a nascondersi in una specie di bunker senza
porte e finestre, come un ragno dentro a un buco.
Fece la morte del topo in trappola.
Era per lui che Rosalie si era procurata l’abito da sposa.
Solo per lui.
Quella sera io e Esme la vedemmo comparirci innanzi
vestita di bianco, un candore che di giorno, si sarebbe confuso con quello
della neve che ricopriva ogni cosa, le strade, i campi e gli alberi che
sorgevano attorno alla nostra casa.
“Questo sarà l’ultimo. Poi, ti giuro Carlisle, che non
ucciderò più.” Disse prima di allontanarsi velocemente.
Fu una sorpresa quando chiese in modo spontaneo a Edward
di accompagnarla; il fratello l’assecondò senza battere ciglio. Più tardi, dopo
che tutto fosse stato compiuto, avrei compreso il motivo di quella strana
richiesta che un po’ mi aveva intimorito.
Rosalie voleva una testimonianza per l’ultimo omicidio,
non soltanto per un qualche gusto teatrale, ma in realtà per una sorta di
risarcimento; voleva oltre che vedere, sapere tutto, di quelli che sarebbero
stati gli ultimi pensieri, accompagnati dalle ultime parole di Royce King. E
forse attraverso mio figlio, voleva che io comprendessi e arrivassi ad accettare
la sua scelta e quella pena atroce che l’avrebbe posseduta sempre.
Quando Edward mi raccontò tutto fin dentro il dettaglio
dei pensieri più crudeli come lei lo aveva pregato di fare, io sentii tutto
l’orrore e la disperazione che aveva posseduto Rosalie, tutta la delusione e il
rammarico di una vita che non sarebbe mai stata; lei rovesciò sulle spalle
dell’uomo che avrebbe dovuto diventare suo marito, i cocci taglienti di un
animo femminile distrutto, sogni infranti sotto le mani e i corpi di demoni in
doppio petto, che non si nutrivano di sangue, ma rubavano l’anima.
Rosalie non aveva mai sprecato parole con nessuna delle
sue vittime precedenti.
Ma con Royce fu diverso.
Seguita da Edward, piombò nel luogo dove l’uomo si era
nascosto.
Solo un paio di uomini nerboruti che erano di guardia, la
separavano da lui.
Con una semplice mossa spezzò loro l’osso del collo,
lasciandoli senza vita e senza un grido al suolo, dietro la porta pesante di
ferro che sfondò a forza di colpi terribili.
Dentro la stanza Royce King era rannicchiato in un angolo
tra il letto e l’armadio, nel disperato tentativo di nascondersi; gli occhi
fissi, umidi e spalancati per il terrore, osservavano Rosalie e il suo pallore
mortale in cui risaltavano due occhi rossi come il fuoco che la bruciava in
quel momento.
Rosalie avanzò lentamente dentro la stanza e quando trovò
una sedia a sbarrarle il passo, la sollevò mandandola a frantumarsi contro una
parete. Edward si era arrestato qualche passo indietro puntando i suoi occhi
sulla vittima; lo assalirono i pensieri confusi e spaventati di un uomo che si
sentiva in trappola e che tentava inutilmente di trovare una via di fuga.
“Ciao, Royce. Ti ricordi di me? Sono la tua promessa
sposa…”
A quelle parole inaspettate e incomprensibili, l’uomo sbarrò
gli occhi ancora di più, incredulo e terrorizzato. Balbettò qualcosa in modo
sconnesso.
“Rose… Ro… non… non è…”
“Non è possibile? Oh, sì. Lo è, invece. – Poi la vampira,
con vanità tutta femminile, si lisciò la gonna vaporosa del vestito con le mani
altrettanto candide. – Ti piace? L’ho indossato per te, amore mio… Dovevamo
sposarci, ricordi? Me lo avevi messo per iscritto, un bigliettino profumato
insieme alle rose e ai gioielli… finché morte non ci separi…” Sull’ultima frase
la voce le uscì in un sibilo rauco.
Sorrise ironica, un sorriso diabolico e ferino che
scintillava nella semioscurità della stanza.
Un sorriso che non aveva niente di umano e l’uomo lo capì;
il rumore della chiostra dei denti di Royce che batteva in modo irrefrenabile,
insieme al rantolo affrettato del suo respiro, erano gli unici suoni di natura
umana presenti in quella stanza. Per il resto, tutto era avvolto nel silenzio
più glaciale.
Rosalie si avvicinò alla sua preda con movimenti
aggraziati, lenti e sinuosi, quasi ipnotici.
Non aveva ancora rivelato completamente la sua natura.
Edward era seduto su una poltrona in disparte e osservava
in silenzio la scena, senza muovere un muscolo e senza parlare; osservava la
sorella e vedeva in anticipo quello che avrebbe fatto, sapeva quello che
avrebbe detto. Sentiva l’emozione violenta che stava per travolgerla; il sangue
l’avrebbe eccitata in modo pericoloso, ma si sarebbe trattenuta stoicamente.
Sarebbe stata una prova difficile anche per lui, ma sapeva di non poter
interferire; era qualcosa che riguardava solo lei.
Quello che mio figlio non poteva sapere era come sarebbe
uscito da quella prova.
Quello che io non potevo sapere era che non l’avrebbe
superata, non sarebbe andato oltre la convinzione che sarebbe stato giusto e
naturale per lui comportarsi nello stesso modo.
“Non fatemi del male… vi prego…” balbettò ancora Royce,
lanciando un’occhiata veloce al vampiro seduto in poltrona, così immobile e
impassibile da sembrare una statua.
“Oh, stai tranquillo; lui non ti toccherà con un dito.
Sarò io che ti ucciderò, Royce, come ho fatto con tutti i tuoi amici. E
soffrirai anche più di loro… - Rosalie si avvicinò ancora di più, fino a
trovarsi faccia a faccia con l’uomo, puntando i suoi occhi di brace in quelli
azzurri di lui. – Che cosa vedi nei miei occhi, Royce? Scommetto che mi trovi
cambiata… Lo sai che cosa sono?”
Lui cercò di volgere lo sguardo altrove e Rosalie lo
afferrò obbligandolo a guardarla e lui avvertì per la prima volta il tocco
gelido di lei.
“No! Guardami, Royce! Non sono bellissima? Guarda quello
che hai fatto; è a causa tua che sono diventata questo! I tuoi amici sono morti
senza saperlo, ma tu saprai.”
“Ti prego, Rosalie… ero ubriaco, non ero in me quella
sera…”
L’uomo tentò una debole obiezione, piagnucolando senza
ritegno, ma Rosalie s’infiammò ancor di più.
“E credi che questo possa bastarmi? Credi di poterti
giustificare? Quando mi avete abbandonata lì, io ho pregato, ho aspettato di
morire quella sera in quel vicolo, invece qualcun altro mi ha trovata. Tu mi
hai distrutto! Hai annientato la mia vita, condannandomi per sempre! E adesso,
io sono una non-morta, un vampiro, Royce, un mostro che si nutre di sangue.”
A quella orrenda rivelazione, lui iniziò a tremare violentemente,
senza riuscire a staccare gli occhi dalla creatura bella e spaventosa che lo
fissava con sguardo furente. La sua mente posseduta da puro terrore non gli
lasciava spazio per pensare a nulla che non fosse l’incubo che stava per
vivere.
“Oh, ma non preoccuparti: non ho nessuna intenzione di
bere il tuo sangue, per quanto sia una tentazione enorme. Nulla deve restarmi
dentro, di te. E poi se lo facessi, moriresti troppo rapidamente. Oh, No. Tu
dovrai soffrire molto, e ripensare ogni singolo secondo a quello che mi hai
fatto, che hai lasciato che mi facessero quella sera. E mentre morirai, saprai
che è colpa tua.”
E presa dal furore, la vampira gli aprì la bocca a forza e
con due dita, gli strappò un paio di incisivi superiori con tutta la radice.
L’uomo urlò per il dolore lancinante, mentre il sangue grondava a fiotti
sporcando i suoi abiti e qualche spruzzo finiva sul candido vestito da sposa.
L’odore del sangue fu la scintilla che scatenò l’inferno.
Rosalie lo afferrò sollevandolo sopra la testa, ringhiando
e sibilando in maniera spaventosa e lo scaraventò con furia selvaggia
dall’altra parte della stanza, oltre il letto, mandandolo a sbattere con
violenza contro la parete. Si avvertì distintamente lo schianto di alcune ossa.
“Lo sai Royce, che questa condanna è peggio della morte?
Oh, ma non temere. Io sarò pietosa: non ti lascerò in una semivita. Tu mi hai
uccisa quella sera, tu e tutti gli altri. Ma è arrivata l’ora di saldare il
conto. E lo salderai.”
E Royce avrebbe pianto e urlato ancora a lungo. Per ore.
Mentre Rosalie lo torturava spezzandogli tutte le ossa del
corpo e gli apriva ferite profonde nella carne, il suo abito da sposa da
immacolato, si sporcava del colore cupo del sangue che si allargava in una
pozza sul pavimento.
In quelle ore interminabili, Edward sentiva i suoi
pensieri vigliacchi e meschini, imprecare e maledire quella sera
dell’aggressione e in nessuno di essi pareva dovesse esserci l’ombra di un
tardivo pentimento.
E se pentimento ci fu, fu troppo tardi per placare l’ira
di Rosalie.
Ed Edward non seppe mai dire se fosse sincero, mentre la
mente dell’uomo passava in rassegna come in un film muto, le proprie azioni
nefande e crudeli; tornarono a galla violenze, sevizie e tradimenti e il
piacere perverso che aveva provato in ognuna di quelle circostanze, era nulla
rispetto al tormento che Rosalie gli stava facendo scontare.
Quando finalmente Royce King esalò l’ultimo respiro, fu
grato alla morte che era venuta a prenderselo.
Alla fine di tutto, insozzata di sangue e paga della sua
vendetta, Rosalie guardò il fratello che per tutto il tempo di quel gioco al
massacro, era rimasto lì, fermo a guardare come uno spettatore apparentemente
indifferente; in realtà mille pensieri e domande erano turbinate nella testa di
Edward.
Si chiedeva se Rosalie avrebbe mai placato davvero fino in
fondo la sua ansia e il suo tormento.
E alla domanda se fosse giusto o sbagliato ergersi a
giudice, rispondeva la coscienza orgogliosa e inquieta di un vampiro che per
assecondare la sua natura brutale, voleva trovare ragioni valide e legittime
all’omicidio.
Rosalie si era seduta sul letto a contemplare placida
quello che restava di Royce, un corpo sfatto e irriconoscibile, un viso pesto e
violaceo con gli zigomi rotti, capelli biondi incrostati di un liquido scuro
che andava rapprendendosi; era come se tutta la rabbia fosse sciamata via da
lei. Tracce di sangue macchiavano il pavimento un po’ ovunque, e la parete
recava una striscia rossastra, dove l’uomo aveva sbattuto violentemente la
testa.
“Ecco, ora è tutto a posto…” disse con assoluta calma la
vampira. Nelle narici avvertiva forte il tormento dell’odore che le faceva
bruciare la gola assetata, mentre un pensiero vagamente molesto si faceva
strada attraverso la sua mente.
Sono un vampiro, una splendida creatura senz’anima, ma
lui prima di Carlisle, era quel mostro che me l’ha tolta.
A quel pensiero, mio figlio si sentì chiamato in causa.
“Non sentirti in colpa, Rosalie. Sforzati di capire
Carlisle: se avesse potuto ti avrebbe salvata.”
“Non mi sento in colpa e non ho rimproveri da fare a Carlisle.
Lui ha fatto ciò che gli sembrava giusto fare, ma forse io al suo posto avrei
fatto un’altra scelta. Non potevo lasciare che questi uomini seguitassero a
vivere come se nulla fosse, ma da ora in poi mi sforzerò di seguire la scelta
di vita di Carlisle. Tu fai come vuoi, Edward, ma se leggi nei miei pensieri,
saprai che sono sincera.”
Lo sapeva certamente e mi confermò ogni cosa quando mi
raccontò l’epilogo di quel dramma che si era consumato sotto i suoi occhi.
Fratello e sorella lasciarono il luogo di quell’ultimo
delitto e tornarono verso casa correndo per i boschi innevati; Edward mi disse
che per Rosalie fu come una corsa liberatoria.
Lei bruciò l’abito da sposa sotto un cumulo di legna
accatastata in un capanno usato da cacciatori, abbandonato nei dintorni. Quando
Edward colse quell’intenzione nei suoi pensieri, si tolse la camicia per darla
a lei e non lasciarla in biancheria intima.
Ammetto forse con una certa vergogna, che avvertii
autentico sollievo, forse anche soddisfazione profonda, non so se per quella
sorta di giustizia privata perpetrata da Rosalie, o perché lei aveva in
qualche modo chiuso con quella tragedia della sua vita.
Forse semplicemente avevo di nuovo paura di guardarmi
dentro e scoprire di me, qualcosa che non mi sarebbe piaciuto.
L’ambiguità stessa dei miei sentimenti mi portò a
interrogarmi sulle reali motivazioni che mi avevano indotto a trasformare una
ragazza segnata irrimediabilmente come Rosalie.
L’avevo trasformata per darle modo e maniera di
vendicarsi? Per attuare attraverso lei, una sorta di giustizia che non avevo il
coraggio di reclamare direttamente?
Che cosa mi aveva spinto davvero?
Erano le stesse motivazioni presunte nobili che avevo
addotto per Edward o Esme?
Era solo un’altra sfumatura più inquietante di egoismo?
Quanto siamo responsabili per le scelte degli altri, nel
bene e nel male?
Improvvisamente mi chiesi quanto ero responsabile io, per
la morte di quegli uomini, che seppur malvagi, forse avrebbero avuto diritto ad
un processo.
Simili pensieri tanto contraddittori in me, non poterono
non turbare Edward, mettendo nuovamente in discussione quella natura, la mia e
la sua, che pretendevo con supponenza di poter controllare e dominare.
E quello che sarebbe successo in seguito con Edward,
sarebbe stata solo la conferma che con le nostre azioni e le nostre scelte,
determiniamo non solo il nostro destino, ma in qualche misura, anche quello
degli altri; per qualche ragione insondabile, in quel disegno che si andava
tracciando davanti ame, ogni linea era
collegata.
Per il momento non trovai altra soluzione che lasciare i
morti dietro di noi, e tornare da quegli amici di Denali che già altre volte mi
avevano accolto in quel regno del silenzio che era l’Alaska. L’ennesima fuga
per scongiurare un presentimento cupo che mi opprimeva, qualcosa che non avrei
potuto impedire: la caduta di mio figlio nel suo baratro e la vittoria del suo
mostro personale.
Continua…
Come sempre mi
scuso per il mio ritardo nell’aggiornare, ma ormai dovreste esserci abituate.
Il tema mi
sembra forte e anche un po’ controverso; la mia posizione sugli atteggiamenti
di Carlisle nella vicenda di Rosalie, forse a qualcuno sembrerà strana e magari
fuori dal personaggio, ma il medico/vampiro per come io tendo a vederlo, è
posseduto da sentimenti complessi e contrastanti, in conflitto tra loro. Qui
certamente è meno compassionevole del solito. La Mayer non ci dice quasi nulla
di come lui abbia reagito di fronte alla povera Rosalie, salvo quella frase che
scambia con Edward, “Era troppo… troppo orribile, uno scempio tremendo.”
Non so se
condividerete il mio punto di vista, ma mi piacerebbe sapere che pensate.
Come sempre un
sentito grazie a chi ha commentato, alle altre per aver letto fino a qui, sono
grata a tutte le persone che continuano a seguire questa storia.
Avevo telefonato a Eleazar, per
spiegargli per sommi capi, la nuova situazione in cui ci trovavamo. Era più di
un decennio che non ci vedevamo e la mia vita era molto cambiata dall’ultima
volta che ero stato in Alaska. Eleazar non aveva mai incontrato Esme, e non
sapeva nulla del suo vissuto personale, né della nostra sofferta storia
d’amore; gli parlai del marito che si era messo sulle nostre tracce e del fatto
che più di una volta, ci eravamo trovati a dover fuggire da lui.
Ma principalmente, gli parlai
di Rosalie e della sua tragica esperienza di vita che l’aveva portata a
compiere la sua terribile vendetta. Gli chiesi di accoglierci per un po’ nel
suo clan, sino a quando non avessimo trovato un nuovo posto dove stabilirci,
lontano da clamori e situazioni imbarazzanti.
E Eleazar si dimostrò
entusiasta.
“Lo sai Carlisle, tu sarai
sempre il benvenuto tra noi. Non vedo l’ora di abbracciarti e di conoscere la
tua dolce Esme. Di Edward che mi dici?”
“Edward sta bene e cerca di non
deludermi, per quanto può. Il nostro rapporto è fatto di alti e bassi.”
“Capisco. Avremo modo di
parlarne.”
Raggiungemmo l’Alaska una
mattina limpida e tersa; avevamo viaggiato per diversi giorni attraverso il
Canada, facendo una sosta per permettere a Rosalie di nutrirsi adeguatamente.
Una neonata nei primi mesi di vita, ha maggior esigenza di sangue fresco, ed
era sempre meglio placare la sua sete per evitare incidenti spiacevoli. Avevamo
lasciato Rochester, mentre l’interesse attorno alla scomparsa di Rosalie Hale
si affievoliva, ma la gente iniziava a spostare la sua morbosa curiosità sull’
incredibile omicidio di Royce King, l’ultimo di una serie di misteriosi
delitti. Nel trambusto, nessuno pareva aver fatto caso ai Cullen che si
dileguavano in fretta nella notte, ma forse in seguito, qualcuno avrebbe notato
la nostra improvvisa scomparsa. Se anche ciò fosse accaduto, noi saremmo già
stati lontani.
Il clan di Eleazar viveva
sempre nello stesso posto, quell’oasi incontaminata che era la regione montuosa
di Denali, sempre in isolamento per libera scelta, lontani dalla civiltà umana.
Io mi sentivo bene ogni volta
che tornavo in questi luoghi ameni, circondato dalla natura più selvaggia. Per
me era come tornare nella mia vecchia Inghilterra, all’epoca in cui ero stato
un vampiro neonato anch’io. Era come prendersi una pausa dal trambusto della
vita quotidiana, come essere in ferie dal lavoro. Ritrovai tutti i miei amici,
e fui davvero felice di rivederli.
Eleazar e Carmen, insieme a
Irina, Kate e Tanya ci accolsero con calore nella loro dimora, una grande casa
comoda che poteva accogliere tranquillamente un folto gruppo di vampiri.
Nessuno di loro era cambiato e
non parlo certamente del loro aspetto. Erano gli amici di sempre, socievoli,
comprensivi e carichi di un affetto che mi sorprendeva sempre un po’ e che
riempiva il mio cuore morto di un rinnovato calore.
Era bellissimo ritrovarli.
Eleazar e la sua saggezza,
Carmen e la sua sensibilità, l’innata capacità di comprensione.
Tanya e il suo carattere
entusiasta, la sua sensualità vibrante e dirompente.
Irina e Kate, la loro amicizia
incondizionata e profonda che elargivano senza riserve.
Era come ritrovare dei parenti,
famigliari affezionati che non vedevi da tempo.
Potevo sentire quel legame
speciale che univa tutti i membri del clan, quello stesso legame che anch’ io
stavo cercando di costruire e di rendere forte e saldo. Ma guardando loro, mi
rendevo conto che il nostro non era ancora così potente e sicuro. Le nostre
tensioni, quelle tra me ed Edward, minavano ancora l’armonia all’ interno della
nostra famiglia.
Presentai Esme come la mia
compagna, e Carmen le strinse le mani con affetto e commozione.
“È un piacere conoscerti. Sono
davvero contenta per Carlisle; è un uomo straordinario, un vampiro ammirevole
per la forza di volontà che ha sempre dimostrato. Ho sempre pensato che fosse
troppo solo, e che avesse bisogno di una compagna degna di lui. Credo che l’
abbia trovata in te. Sono certa che diventeremo ottime amiche.”
“Ne sono certa anch’io. Sono
davvero felice di essere qui. Carlisle mi ha parlato spesso di tutti voi con
profonda ammirazione e rispetto. Sono sicura che mi troverò benissimo.”
“Noi ce lo auguriamo, Esme.
Sai, siamo curiose; dovrai raccontarci tutti i dettagli del tuo incontro con il
nostro dottore preferito.”
Intervenne Irina con dolcezza.
Poteva sembrare una frase un po’ ambigua detta da lei, ma non colsi alcuna vera
malizia nelle sue parole; tra me e Irina le cose si erano appianate da tempo.
Anche Tanya e Kate le dettero
il benvenuto, manifestandole tutto il loro entusiasmo che Esme ricambiò con
pari slancio.
“Lei è l’ultima arrivata in
famiglia: Rosalie. È principalmente per lei che siamo qui.”
Cinsi le spalle della vampira
col mio braccio, presentandola agli altri. Eleazar la scrutò con attenzione
prima di rivolgersi a mia figlia in tono gentile.
“Ci fa piacere che tu sia qui;
spero che ti troverai bene con noi e che tu possa trovare un po’ di serenità.
Mi sembri una vampira forte e determinata e sono certo che ti adatterai bene al
nostro stile di vita. Noi ti aiuteremo, per quanto sarà possibile.”
Rosalie fece un mesto sorriso.
Si vedeva che Eleazar e la sua
famiglia le piacevano.
Tanya abbracciò Edward con
profondo slancio e calore; in lei, ritrovavo il solito entusiasmo, la sua
passione per la vita. E il suo debole per mio figlio.
“Edward, tesoro! Gran Dio! Sei
ancora più bello di come ti ricordavo.”
In tutto
questo tempo, hai trovato chi ti ha fatto perdere la tua virtù?
La mia
proposta è sempre valida, se occorre.
“Non sei affatto cambiata,
Tanya. I tuoi pensieri continuano a essere spudorati e molesti: non ti arrendi
mai.”
“Dovresti conoscermi molto
bene, Edward; lo sai, per te sarei capace di fare follie. Sei il mio punto
debole.”
La vampira posò il suo sguardo
dorato e ammaliante su Rosalie che la osservava incuriosita. Le due bellissime
vampire si studiarono per un po’, prima che mio figlio interrompesse il flusso
dei loro pensieri, rivelando in parte, quelli sospettosi di Tanya.
“No Tanya. Non è come pensi.”
Immaginai a cosa alludesse e
cosa avesse pensato la vampira, guardando Rosalie. Era molto probabile che
Tanya avesse visto in lei una possibile rivale.
Non sarebbe mai stato così.
Ho fantasticato a lungo su un
possibile coinvolgimento amoroso di Edward con Rosalie, ma tra loro si sviluppò
un semplice rapporto di fratellanza, che a volte sfociava nell’ indifferenza
reciproca. Probabilmente, i loro caratteri erano troppo lontani e incompatibili
perché potesse sbocciare un sentimento più coinvolgente. Si tolleravano
vicendevolmente, ma senza avere una particolare stima uno dell’altra. Il fatto
poi, che Edward cogliesse i pensieri semplici e quieti di Rosalie, conditi di
un’ innocente vanità per lui irritante, toglieva ogni attrattiva per mio
figlio.
L’ orgoglio femminile di
Rosalie inizialmente ne fu offeso, ma in seguito, cambiò atteggiamento quando
ebbe modo di osservare ilcomportamento
distaccato del fratello anche con Tanya.
“Ho un fratello virtuoso! Sei circondato dalle donne più belle e
ti comporti come se fossi un monaco in un convento di clausura. E pensare che
Tanya, farebbe carte false per te.” Ironizzava divertita, davanti allo
stoicismo che Edward opponeva alle avances sfacciate della conturbante vampira.
“Tanya e le altre sono come
sorelle per me. Nient’ altro. Come te, del resto.”
“Ma certo. Sei affascinante
Edward, ma non ti sopporterei a lungo. Con tutti gli uomini che potrebbe avere,
non capisco cosa ci trova Tanya, in te.”
“Chiedilo a lei.”
“Sono sicura che lo sai, ma sei
troppo educato per dirmelo.”
“Pensa quello che ti pare,
Rosalie. Onestamente, non mi interessa il tuo giudizio. Ho altro a cui
pensare.”
Ed era vero.
Erano altre le sue ossessioni,
tentazioni a cui molto presto avrebbe ceduto.
Superate le prime diffidenze, i
rapporti di Rosalie con le altre vampire migliorarono e tra loro si instaurò
una buona sintonia di gruppo. Con Tanya vidi nascere anche una certa
complicità, forse perché il lato ombroso di Rosalie si sentiva attratto dalla
solarità di Tanya, anche se il carattere era più affine a quello di Irina. Le
due donne spesso andavano a caccia insieme, a volte da sole, oppure con le
altre sorelle. Qualche volta anche io e Esme ci univamo a loro.
“Imparerai a convivere con la
tua natura, Rosalie. È solo questione di tempo. Ci si abitua, sai. Carlisle ci
ha spiegato come sei diventata vampira. Io credo che mi sarei comportata come
te. Prima di farne i miei amanti, io gli umani li uccidevo. Ma sedurli è molto
più piacevole.”
“Non sei sempre stata
vegetariana?”
“Tutti noi abbiamo assaggiato
il sangue umano; è stata la nostra dieta per lungo tempo.”
“Io credevo che…”
“No, solo dopo l’incontro con
Eleazar e Carmen, io e le mie sorelle abbiamo cambiato vita.”
Rosalie si dimostrava
incuriosita dal modo di vivere della vampira, dal suo senso di libertà che la
faceva muovere senza inibizioni nel mondo degli umani, dove mia figlia non si
sarebbe mai sentita completamente a suo agio.
“Sei molto bella. Mi chiedevo
perché non hai un compagno fisso, ma solo amanti occasionali. È così difficile
trovarne uno?”
Tanya emise una risata
argentina.
“Un compagno fisso non l’ho
ancora trovato, e per ora non mi interessa; per Edward potrei fare un’
eccezione. Il numero dei vampiri interessanti è troppo esiguo, rispetto agli
umani, e possono passare secoli prima di incontrarne uno, e se non vuoi vivere
in castità la tua eternità, ti consiglio di guardarti attorno. Posso avere
tutti gli uomini che voglio, vampiri o umani. Perché precludermi l’occasione di
una scelta tanto vasta? Se voglio compagnia, so come procurarmela.”
“Puoi averli tutti, tranne
Edward. Perché ti sei fissata con lui? Non è poi così interessante.”
“Forse perché è l’unico che mi
resiste e mi tormenta il cuore. Ma hai ragione: ho incontrato uomini più
interessanti di lui, e molto meno problematici. Dì la verità; la sua
indifferenza un po’ ti rode. Lo posso capire.”
“Sì, ma non per il motivo che
credi tu. Da umana, ero abituata ad essere guardata con ammirazione. Mi piaceva.
Nessuno mi resisteva, un fatto che mi dava estrema sicurezza. È stata la mia
disgrazia. A volte penso che se fossi stata meno bella, il mio destino sarebbe
stato diverso. Comunque, credo che mio fratello abbia altri interessi, ora. Più
che dalle donne è attratto dal sangue. Eddy ha assistito in prima fila al mio
ultimo delitto a Rochester, poco prima della nostra partenza; beh, mi sono
accorta che si tratteneva a fatica.”
“Forse, dovresti dirlo a
Carlisle.”
“Credo che lo sappia.”
“Eddy?”
“È il nomignolo che gli ho
affibbiato per scherzo: lo irrita a morte.”
In realtà, avevo solo semplici
sospetti.
Edward era ossessionato da
altri impulsi, decisamente più micidiali e violenti dell’istinto sessuale. Me
ne accorsi troppo tardi, dopo mesi; il suo desiderio di sangue umano cresceva
col passare del tempo, alimentato dal suo ego e dalla sua presunzione.
Assistere agli omicidi compiuti da Rosalie, aveva riportato a galla la sua
primitiva e bestiale sete di sangue, quell’impulso che con sforzi sovrumani, aveva
controllato per compiacermi. Edward tendeva a mutare opinione e a credere che
non ci fosse motivo di continuare a seguire una strada che riteneva inadatta
alla sua natura di vampiro.
Nella sua mente, piano, stavano
nascendo e maturando le giustificazioni valide all’omicidio, ed era stata
proprio la vicenda personale di Rosalie a gettare quel seme in lui.
Il problema reale fu che
arrivammo a Denali nel momento più sbagliato che potesse capitare; tutte le
coincidenze più nere giocarono contro di me, e per un’ infausta sorte ci furono
una serie di cause fatali che determinarono gli eventi che seguirono, quasi
fosse un destino già scritto e inevitabile.
Ero venuto a Denali per
sottrarre mio figlio alla tentazione di seguire il percorso tracciato dalla
sorella, ma per ironia finii per trovare ciò che non volevo.
Un pomeriggio, io e Esme
eravamo in compagnia di Eleazar e Carmen. Gli altri erano tutti fuori, tranne
Kate che si era rifugiata in camera sua.
Avevo spiegato a Eleazar il
ruolo che aveva avuto Edward in tutta la vicenda di Rosalie e le sue reazioni.
Il mio amico mi ascoltò con molta attenzione, e osservando la sua espressione
perplessa, non potei fare a meno di preoccuparmi.
“Ti prego, Eleazar, dimmi
quello che pensi. Credi che abbia agito male? Io volevo solo che sorvegliasse
Rosalie. Edward, fino ad oggi si è sempre controllato, ma in questa circostanza
ho percepito una violenta tensione in lui. Ti confesso che ho paura che possa
cedere alla seduzione del sangue, trascinato dal suo potere di leggere nel
pensiero.”
“Esiste il rischio reale che
accada. La tensione di cui parli, l’ho percepita anch’io; la sento ogni volta
che esco a caccia con lui. Non ti nascondo che Edward mi sembra sfinito e
pericolosamente orientato verso il suo lato oscuro. Non so dirti per quanto
reggerà. E c’è dell’altro…”
“Che altro c’è?” Tradivo
apprensione nella voce.
“Forse avrei dovuto dirtelo
prima, ma non conoscevo la vostra situazione. Negli ultimi mesi in questa zona
sono avvenuti degli omicidi. Sono scomparse delle ragazze a pochi chilometri da
qui; i loro corpi sono stati trovati abbandonati nei boschi qui attorno.
Presentano tutte gli stessi segni di violenza. Si parla di un serial killer,
forse qualcuno che vive da queste parti o nella città vicina. Chiunque fra noi,
potrebbe imbattersi in lui.”
“Escludi che si tratti di un
vampiro?”
“Sì, assolutamente. Un vampiro
uccide per il sangue e nasconde le tracce. Lo scempio è di mano umana, un
probabile pazzo maniaco. Qualche mese prima del vostro arrivo, io e Carmen, ci
siamo imbattuti in una delle sue vittime. Eravamo a caccia e abbiamo sentito
l’odore della decomposizione. Si trattava di una ragazza scomparsa da Anchorage
da diverse settimane; l’abbiamo trovata seminascosta sotto un cumulo di foglie
secche, a circa una ventina di chilometri da qui. Doveva essere lì, almeno da
una settimana. Naturalmente, abbiamo segnalato il ritrovamento alla polizia in
forma anonima.”
“Anchorage è piuttosto lontana
da qui. Cosa fa questo killer? Prima le rapisce rischiando di essere scoperto,
e poi le uccide?” chiesi costernato.
“Tutto è possibile. Forse la
ragazza si è trovata nel posto sbagliato, al momento sbagliato.”
“Se per caso, mio figlio
dovesse captare i pensieri di questo mostro, potrebbe…”
“Potrebbe scattare la sua
natura di vampiro. Sì, Edward potrebbe uccidere, eccitato da pensieri umani
particolarmente violenti.”
“Potresti sbagliarti, Eleazar;
- lo interruppe Esme - Edward si è già trovato in situazioni analoghe in
passato, ma non ha mai ceduto. Si è sempre dimostrato forte. Perché dovrebbe
accadere ora?” anche lei era visibilmente preoccupata. Seduta accanto a me,
stringeva la mia mano. Percepiva il mio turbamento e cercava di smorzarlo.
“Perché ora è più fragile,
provato; sarebbe facile per lui, cedere di fronte al proprio desiderio.”
“Accidenti, che situazione! La
polizia ha qualche indizio per trovare questo tizio?”
“Solo cinque povere ragazze
assassinate; ne mancano il doppio all’appello. Ci sono poche speranze che le
altre siano ancora vive. Non sanno chi possa essere. È furbo e molto scaltro.”
Aggiunse Carmen, tristemente.
“Che cosa ci consigli di fare,
Eleazar?” chiese di nuovo, Esme, anticipando il mio pensiero.
“State vicino a Edward più che
potete, anche se non so quanto potrà servire. Inoltre, sarebbe meglio evitare
il più possibile contatti con gli umani. Per cacciare spostatevi verso
nord-est. Un ottimo terreno può essere il monte Mckinley.”
Una voce alle mie spalle mi
fece trasalire.
“Credo che sia troppo tardi per
ogni cautela.”
Kate si era unita a noi; dalla
sua camera aveva sentito tutta la nostra discussione e ci aveva raggiunti nel
grande salone.
“Ho sorpreso Edward che leggeva
le ultime notizie apparse sul giornale; sa già tutto. E c’è di più: ha cercato
di rintracciare il killer. Non volevo dirtelo, Carlisle, ma a questo punto, è
inutile nascondere la verità.”
Così, Kate spiegò quello che
era successo durante una battuta di caccia, solo pochi giorni prima.
Mio figlio era rimasto in
compagnia di Kate e Irina, dopo che Tanya e Rosalie si erano separate e spinte
in una zona più a est per inseguire le tracce di un alce. Durante la caccia,
Edward era stato distratto da un odore insolito, un profumo delicato appena
accennato, impalpabile e quasi evanescente. Impaziente, aveva seguito la
traccia che lo aveva portato all’interno del sottobosco, tra felci e muschio,
fino a scoprire un cumulo di terra smossa di recente; sepolti sotto terra e
foglie umide, c’erano i vestiti di una delle ragazze rapite: un paio di scarpe
da donna, una maglia bianca e una gonna di tela. L’odore della fanciulla era
sugli indumenti, insieme a quello forte di un altro individuo, probabilmente un
uomo.
Edward aveva subito memorizzato
l’odore maschile ed era scattato all’inseguimento come un segugio; si era
spinto avanti per chilometri attraverso la tundra, senza dare ascolto alle due
vampire che lo seguivano e che cercavano di scoraggiarlo nell’impresa. Ma
Edward sembrava impazzito; trascinato dall’istinto, non vedeva e non sentiva
altro, se non l’odore di chi sarebbe diventato presto la sua preda. Si era
spinto in prossimità di un lago e lì, aveva perso l’odore, cancellato
dall’acqua di un temporale scoppiato dopo. Il fallimento lo aveva fatto
diventare furioso e a nulla erano valsi i tentativi di Kate e Irina di
placarlo.
Ero atterrito dal racconto di
Kate, e anche Esme, appariva angosciata, lo capii guardandola negli occhi, due
abissi neri, cupi come l’inferno che abbiamo dentro; quasi non riuscivo a
credere alle mie orecchie. Il mio intelletto lottava contro i sentimenti
contraddittori che mi dilaniavano. Avevo l’impressione che addirittura l’aria
nella stanza fosse immobile, statica come ero io, inchiodato sulla sedia come
se una folgore mi avesse colpito. Eleazar e Carmen si mantenevano composti,
benché le loro emozioni fossero nascoste dietro un’aria grave e seria; Edward
non era figlio loro, o forse semplicemente sapevano che quasi nessun vampiro
resisteva a lungo alla sua indole, una debolezza da mettere nel conto.
Non riuscivo a convincermi che
fosse vero; non riuscivo a visualizzare mio figlio che dava la caccia ad un
essere umano.
Mi sembrava assurdo; dopo tutto
quel tempo passato, dopo la resistenza che aveva dimostrato di possedere, lui
non poteva cedere così facilmente.
Mi sforzavo di trovare una
scappatoia, mentre la ragione mi diceva di accettare l’ineluttabile, e la colpa
entrava nel mio cuore come un macigno. Avevo preteso troppo da mio figlio;
iniziavo a rendermene conto. Lo sbaglio più grande era stato coinvolgerlo nella
situazione dolorosa di Rosalie, senza pensare che ne sarebbe rimasto
influenzato.
Kate lesse sul mio viso
l’angoscia che non riuscivo a esprimere a voce.
“Mi dispiace tanto, Carlisle.
Ma forse, non accadrà ciò che temi. Forse Edward non avrà una seconda
occasione.”
“Lo spero tanto, Kate.”
Ma non riuscivo a convincere
neppure me stesso.
Piano, sentivo le speranze
abbandonarmi e i miei giorni passavano nell’attesa di vedere Edward comparire
alla mia porta, con gli occhi iniettati di sangue, scarlatti come quelli di un
demonio. Se avessi potuto sognare, forse sarebbero stati incubi tremendi ad
assillare le mie notti.
Confidai a Esme tutta la mia
angoscia; avevo paura e non sapevo cosa fosse giusto fare. Avevo bisogno di
sentire quella forza che lei sapeva infondermi, la sicurezza che riusciva
sempre a trasmettermi, anche nei momenti più estremi. Esme era un rifugio per
me; in quella circostanza mi sarei sentito perso senza la sua presenza al mio
fianco. La prova che attendeva entrambi richiedeva tutti i nostri sforzi e se
la nostra unione non fosse stata più che salda, quell’esperienza avrebbe minato
sul serio la resistenza del nostro amore. Era la prova del fuoco e noi
l’avremmo attraversata, insieme.
Ero solo con lei, nell’ intimità
della nostra stanza; tenevo la testa tra le mani, mentre pensavo tristemente a
quello che poteva accadere, mentre inutilmente cercavo di trovare una soluzione
al dilemma che mi angustiava.
Lei anticipava i miei pensieri.
Mi venne vicino, accostando il
suo viso lunare al mio.
“Vuoi che ripartiamo, Carlisle?
Pensi che servirebbe? Siamo qui da poco, ma se credi che possa essere utile,
allora lasciamo l’Alaska; allontaniamoci prima che Edward possa lasciarsi
trascinare dal suo istinto. Costringiamolo a seguirci; so essere molto
persuasiva con lui e non oserà deludere sua madre, e neppure te.”
“Vorrei che fosse così facile;
puoi provarci, ma dubito che servirebbe.”
“Io sono disposta a tentare.”
Rispose risoluta.
“Riflettiamo un momento: quanto
tempo passerà prima che in un'altra città, si imbatta in un altro individuo
violento, in un assassino? Quante anime nere potrebbe incontrare sul suo
percorso? Stiamo cercando di ritardare qualcosa che dovrà accadere, prima o
poi. Ho pregato, ho scongiurato questa sciagura, ma temo che siamo arrivati
alla resa dei conti.”
“Stai dicendo che dobbiamo
prepararci a lasciarlo andare? Che devo rinunciare a mio figlio? Non lo farò
mai!”
Alazai lo sguardo su di lei;
l’oro liquido dei suoi occhi mi investì facendo tremare il silenzio che avevo
dentro. Strinsi le mie mani sulle sue braccia.
“Per quanto dolorosa è una
possibilità che dobbiamo considerare, Esme. Tu sai quanta pena mi procuri
questo pensiero, ma dobbiamo essere preparati a tutto. So che cosa significa
per te, e farei di tutto per evitarti un simile dolore, ma non voglio che
quest’idea possa abbatterti; io sarò con te, ti sosterrò, non dovrai
scoraggiarti.”
“Ti preoccupi per come potrei
reagire io! E tu che farai, amore mio? Tu, che di fronte a Edward, sei più
fragile di me! Tu, che l’hai creato e ti senti responsabile per lui! Giurami
che, qualsiasi cosa accada, non ti lascerai mangiare dal dolore, non ti
perderai d’animo e non ti farai colpe inutili. Tu resterai l’uomo che conosco,
manterrai il tuo coraggio!!”
Esme prese il mio viso tra le
sue mani candide e mi costrinse a guardarla negli occhi.
“Guardami, Carlisle, e fammi
questa promessa. Insieme, noi andremo avanti e non perderemo la fiducia nel
domani. Non perderemo la fiducia in nostro figlio.”
Strinsi mia moglie tra le
braccia e la baciai, un bacio impetuoso che aveva il sapore della disperazione,
insieme a un’urgenza incontenibile; poi scivolai in ginocchio lungo il suo
corpo e posai la testa sul suo ventre, mentre le sue dita giocavano tra i miei
capelli.
Lacrime di ghiaccio impossibili
da versare, mi ferivano gli occhi e il cuore. Ero disperato.
“Oh, Esme, non lo so! Non lo
so! Stai vicino a me! Non ti chiedo altro, non spero in altro.”
“Io non ti abbandonerò,
Carlisle. Io sono legata a te per l’eternità.”
Avevo bisogno di quelle parole
per non arrendermi all’oscurità che mi avvolgeva e pareva bloccarmi. La paura
mi opprimeva.
Avrei desiderato celare quel
timore a mio figlio, non rivelargli quanto mi sentissi fragile, ma sapevo che
avrebbe sentito il mio sgomento: non sarei riuscito a nasconderlo. Paventavo la
sua reazione.
Edward era teso, lo sentivamo
tutti. Era scostante, irritabile, infastidito dai nostri pensieri carichi di
apprensione. Tendeva a isolarsi più del solito, per non essere costretto a
sentire le nostre menti.
Esme lo affrontò per prima,
determinata.
Incoraggiata da Carmen, lo
attese dopo una caccia.
Edward rientrò a casa,
accompagnato da Irina e Kate che spesso lo seguivano nelle sue peregrinazioni
attraverso il territorio di Denali, dietro suggerimento di Eleazar. Mio figlio
accolse i pensieri apprensivi di sua madre, con una vaga irritazione che non
seppe nascondere.
“So già cosa stai per dirmi;
dobbiamo proprio parlarne ora? Mi sembra inutile.”
“Dovresti ascoltare, Edward. È
molto importante che tu capisca la scelta che stai pensando di fare.”
Intervenne Carmen.
“Io capisco benissimo. Siete
voi che non capite. E poi, siete così sicure di sapere cosa penso?”
“Non bisogna saper leggere nel
pensiero per sentire le emozioni violente da cui sei attraversato. Lo abbiamo
capito tutti.” Ribattè Carmen senza enfasi.
“Non vorrai dare un dispiacere
a tua madre, vero? Non vorrai deludere Carlisle? Dimostra di essere il ragazzo
che conosco. Tu puoi resistere, Edward. Hai un cuore forte, e puoi dominare la
tua sete. Puoi scegliere di non essere un mostro.”
“È stato lui a chiederti di
parlarmi, Esme? Non ha il coraggio per farlo da sé?” La voce si era fatta
provocatoria.
“Lui teme solo che tu non voglia
ascoltarlo, ma io sono sicura che non vuoi deluderlo. Ho deciso di parlarti io,
perché ci siamo sempre intesi e rispettati, non è così?”
“Esme, ti prego; perché neppure
tu vuoi capire? Io sono un vampiro diverso da te e da lui.”
“No, non è vero.”
“Sì, invece. È inutile tentare
di essere altro; il mio istinto mi porta a voler uccidere, ma per la prima
volta ho capito che posso incanalare la mia ferocia nella direzione giusta. Hai
ragione; io posso scegliere, distinguere le mie vittime, colpire chi non merita
di vivere e salvare gli innocenti. Sembra paradossale, ma solo così potrò dare
un senso alla mia esistenza.”
“Stai parlando seriamente?”
“Mai stato più serio, Esme.”
“E per dare un senso alla tua
vita, stai pensando di lasciare la tua famiglia, per diventare un assassino? Io
e Carlisle ti vogliamo bene. Non ti importa del dolore che ci darai?”
Edward esitò solo un istante;
Esme aveva aperto una breccia in lui. Carmen allora, approfittò di quell’
esitazione per intervenire.
“Sbagli, se credi che potrai
sfuggire al senso di colpa, alla depressione che piomberà su di te.”
“Che colpa dovrei sentire per
la morte di un assassino? Nessuna. Posso leggere il pensiero di chi deve vivere
e chi morire, quindi colpire solo i malvagi; farò un favore a tante persone,
eliminando certi soggetti.”
“No, non sarà così… Non sei un
dio, Edward, anche se ti sembrerà di esserlo. Non ti sentirai migliore dei
mostri che ucciderai.”
Carmen aveva parlato ancora.
Io arrivai in quel momento,
reduce da una battuta di caccia con Eleazar; avevo sentito quanto bastava per
farmi comprendere cosa stava accadendo. Edward aveva ormai fatto la sua scelta;
mi affrontò sfidandomi, cercando quasi la provocazione.
“Oh, non ci provare, Carlisle.
Non iniziare con le tue paternali. Non le sopporterei; mi irriterebbero solo di
più.”
Ero entrato nella sala e mi ero
fermato dinanzi a lui; gli occhi di tutti gli altri vampiri erano puntati su di
noi; la tensione era nell’aria e si poteva tagliare con la lama di un coltello.
Se fossimo stati soli, saremmo
potuti arrivare allo scontro fisico, ma in quella situazione, Eleazar e gli
altri ci avrebbero divisi.
“Edward, non posso lasciarti
fare quello che vuoi. Devi ascoltarmi e convincerti: uccidere non è mai giusto.
Se inizierai a bere sangue umano, prima o dopo non sarai più in grado di
fermarti e arriverai a uccidere anche gli innocenti; se lascerai vincere il tuo
mostro, lui non farà distinzioni. Potrebbe distruggerti!”
Ma Edward non si lasciava
convincere e il nostro contrasto non si sarebbe risolto nel modo in cui
speravo.
“Sciocchezze! Posso controllare
la mia sete! Uccidere dei malvagi non farà di me un mostro disumano; potrei
salvare vite preziose. Sarebbe giusto!”
“Non puoi ergerti a giudice di
nessuno, Edward. Tua madre, vorrebbe lasciare Denali; forse dovresti calmarti e
venire con noi.”
“No. Questa volta non verrò.
Ormai ho preso la mia decisione. Nulla mi farà cambiare idea.”
Parole che non davano adito a
dubbi e che mi parvero definitive.
Qualcosa tremò dentro di me;
sentivo di averlo già perso.
Edward, rigido, ma pronto a
scattare a un mio gesto, ringhiò e sibilò, facendomi capire che non scherzava e
che non si sarebbe fermato neppure davanti a me. Esme si alzò in piedi
tendendosi verso il figlio, in un moto convulso. Se avesse potuto trattenerlo
con la forza lo avrebbe fatto. Emise un suono simile a un tintinnio tremante.
“Edward, ti prego!”
“Esme, per favore! Almeno tu!
Non metterti contro di me.”
La supplicò; non reggeva la
tensione con sua madre.
Tutti insieme, eravamo un buon
numero di vampiri; avremmo anche potuto trattenerlo, ma a cosa sarebbe servito?
Fino a quando saremmo riusciti a controllarlo e a impedirgli di fare la sua
scelta? Questo lo sapevo io, e lo sapeva anche Eleazar che con un gesto
imperioso, impedì l’iniziativa di Tanya; la vampira sopraggiunta poco prima con
Rosalie, si era fatta avanti con estrema decisione, per tentare di blandire mio
figlio e semmai, trattenerlo con l’aiuto di Irina.
“Ti abbiamo già detto tutto quello
che dovevamo dirti, Edward. – Commentò pacato Eleazar. - Rimettiamo a te ogni
futura decisione. Ti chiedo solo di prenderti molto tempo per riflettere, non
agire con leggerezza; tutti noi speriamo che tu faccia la scelta giusta.”
Parole che purtroppo, caddero
nel vuoto.
Io e Esme, restammo lì, fermi
davanti a nostro figlio che non si decideva a muoversi, teso come una corda di
violino pronta a rompersi.
Poi, finalmente si rilassò,
emettendo un lento sospiro, abbassando le braccia lungo il corpo. Scrutò
attentamente tutti i presenti, lesse i nostri pensieri pieni di sgomento e
penosa rassegnazione; senza dire una parola a nessuno, girò su se stesso e
varcò la soglia per dileguarsi nella boscaglia cupa all’imbrunire.
Non lo avremmo rivisto per
settimane.
E noi saremmo rimasti
nell’incertezza per giorni.
Avremmo finto di non essere in
ansia per lui, mentre la pena straziava i nostri cuori. Saremmo andati a caccia
sperando di trovare tracce del suo passaggio, indizi della sua presenza nella
nostra vita, ma ogni volta saremmo tornati tristi e disillusi alla
consapevolezza che Edward si era allontanato e che forse non lo avremmo
rivisto.
Cercavamo di non parlare di
lui, di non interrogarci su cosa stesse facendo anche se quello era il primo
pensiero che ossessionava le nostre menti. Fra noi, solo Rosalie non si
preoccupava dalle azioni del fratello. Aveva capito molto prima di noi, che
avrebbe ceduto al suo istinto.
Semplicemente, lo accettava.
Lo comprendeva meglio di quanto
potessi fare io.
Un giorno, ricordo Esme, ferma
sulla riva del lago; il riverbero del sole del primo mattino faceva brillare la
superficie dell’acqua, mentre lei scrutava l’orizzonte delimitato dagli alberi
secolari sulla sponda opposta, nella speranza assurda di vederlo comparire tra
la vegetazione attorno.
Era talmente assorta che sembrò
quasi dimenticare la mia presenza accanto a lei. Si riscosse solo quando
avvertì che le cingevo la vita col mio braccio. Posai un bacio sulla sua tempia
e la costrinsi dolcemente a guardarmi.
“Dove credi che sia?”
Aveva parlato in un sussurro
che solo io avrei potuto udire.
“Non lo so, Esme.”
“Tu credi che tornerà?
Rinuncerà a seguire il suo istinto? Forse non arriverà fino in fondo e si
fermerà in tempo. Non lo credi anche tu, Carlisle?”
“Non so in cosa credere, Esme.
Sto semplicemente qui, e aspetto… Che lui torni, oppure No. Sto cercando di
farmene una ragione, ma non ci riesco; in verità, mi rendo conto che non ho mai
valutato il fallimento. Edward è mio figlio; ho avuto la presunzione di credere
che questo bastasse a renderlo forte.”
Esme mi abbracciò con un
sospiro, stringendosi forte alla mia schiena. Restammo così per lunghi minuti,
prima di tornare verso la dimora di Eleazar.
Al rientro, trovammo il nostro
amico assorto nella lettura di un quotidiano che riportava la notizia
straordinaria di una ragazza che miracolosamente era riuscita a sfuggire alle
grinfie del mostro di Anchorage, come recentemente era stato battezzato dai
media.
Il giornale, in realtà, era del
giorno prima; Kate lo aveva trovato abbandonato tra l’immondizia da alcuni
campeggiatori che avevano bivaccato nel parco, qualche chilometro più a sud.
La notizia riportata da un
articolo in prima pagina, era certa e attendibile.
Il reportage spiegava come la
ragazza si fosse accorta di essere seguita da un individuo che aveva cercato di
avvicinarla nel campus della scuola, nelle prime ore del pomeriggio. Spaventata
aveva cercato di seminare il suo assalitore senza riuscirvi; l’uomo era
riuscito ad isolare la ragazza in un area lontana dalle strade principali, in
prossimità di vecchi magazzini abbandonati, e lì, aveva tentato di trascinarla
su un vecchio furgone. Non c’erano stati testimoni. L’uomo era giovane, robusto
e molto forte e lei avrebbe ceduto facilmente, se non fosse accaduto un fatto
strano e misterioso che la ragazza non seppe spiegarsi. Da quel punto in poi,
il suo racconto si era fatto confuso e frammentario, a tratti quasi irreale,
tanto che gli investigatori pensarono avesse avuto una crisi isterica; la
ragazza giurava di aver sentito una voce sinistra vibrante di rabbia, bassa e
profonda che intimava all’uomo di lasciare la giovane, ma di non sapere a chi
appartenesse quella voce, perché lei giurava di non aver visto anima viva.
Quindi, il suo assalitore era scomparso all’improvviso, come se qualcosa di
soprannaturale lo avesse sollevato e portato via, senza alcuno sforzo
apparente. Tutto era accaduto nella frazione di pochi secondi e la fanciulla
era rimasta lì, ferma sul posto, in prossimità del furgone, paralizzata dalla
paura, stralunata e sotto shock. Era stata soccorsa poco dopo, da alcuni operai
che lavoravano nella zona e avevano chiamato la polizia.
Interpretare il racconto della
ragazza per gli agenti non fu semplice, almeno nella seconda parte; qualcosa
aveva interrotto l’assassino, cosa fosse era impossibile da dire. La giovane
aveva visto il volto del suo assalitore e sul giornale compariva l’immagine del
possibile identikit che la polizia aveva ricavato dalla descrizione: la faccia
era quella di un giovane dai lineamenti regolari piuttosto marcati, capelli
scuri e ricci, occhi neri.
Cosa fosse accaduto era chiaro.
A me e a tutti gli altri.
La voce che la ragazza aveva
sentito era stata quella di Edward, che era intervenuto, bloccando l’uomo e
portandolo via. Il resto, la morte dell’uomo ad opera di un famelico vampiro,
era avvenuta altrove, a chilometri dal luogo dell’aggressione.
“Il corpo dell’aggressore non è
stato ancora trovato. Edward deve averlo nascosto molto bene.” Fu il commento tranquillo
di Irina.
Nessuno dei miei amici dubitava
che Edward avesse ucciso la sua vittima. Anche Rosalie ne era convinta, lo era
stata fin dall’inizio.
Solo io e Esme nutrivamo ancora
la sciocca speranza che non fosse così. Volevamo ancora credere in un’alternativa,
ben sapendo che era inconsistente come rugiada che evapora ai primi raggi di
sole.
“Forse un corpo non esiste.
Forse Edward si è limitato a salvare la ragazza.”
Esme tradusse in parole la
nostra vana speranza, ma ricevette in risposta solo sguardi perplessi e
rassegnati.
“È davvero improbabile, Esme.
Bisogna essere realistici.”
Carmen le aveva parlato con
dolcezza, posandole una mano sulla spalla, mentre Esme reggeva tra le mani il
giornale con l’articolo. Io mi ero seduto sul divano del salotto, come se non
avessi più la forza di reggermi sulle gambe. Senza ombra di dubbio, Carmen e
Eleazar avevano ragione, ma come tutti i genitori in circostanze simili, non
volevo accettare una possibilità, prima di vederla coi miei occhi.
Non avevo visto Edward
uccidere, non avevo incontrato il suo sguardo iniettato di sangue; poteva non
essere ancora accaduto.
Un’ostinazione assurda, la mia.
Perché non riusciamo ad
ammettere la realtà che abbiamo davanti, che è lì, e aspetta solo di essere
riconosciuta? Come sarebbe più facile accettarla senza opporsi ad essa. Farebbe
meno male, forse. Ma conviene non vedere e credere che abbiamo sempre noi il
controllo di tutto. Ma il momento duro e terribile di aprire gli occhi arriva
sempre, e quando succede è come una cannonata che ti investe e ti lascia ferito
e inerme al suolo. Rialzarsi dopo, sarà ancora più dura.
Il corpo completamente
dissanguato di un uomo che corrispondeva all’identikit del killer, fu trovato
giorni dopo, appena fuori da Anchorage. Presentava profondi e letali morsi sul
collo e su altre parti del corpo dove la carne era lacerata e strappata. Quale
stano animale lo avesse ucciso, non fu possibile stabilirlo dalle intelligenze
umane.
La notizia ebbe una eco
profonda su tutti i giornali e naturalmente, arrivò velocemente fino a Denali.
Bastò un secondo a cancellare
tutte le nostre speranze.
Le mie e quelle di Esme.
Rosalie osservò il nostro
sgomento, in silenzio; le dispiaceva per noi, ma avvertivo il suo risentimento
nei confronti di mio figlio.
In effetti, ancora oggi, lei
mal sopporta tutto quello che viene a turbare la serenità e la quiete della
nostra famiglia, e anche in quella circostanza considerò Edward responsabile
del nostro malessere.
I nostri amici percepirono il
nostro dolore, ma ebbero la discrezione di non dire nulla e di lasciarci
elaborare lo strappo che si era generato nel tessuto fragile della nostra anima
smarrita.
Senza che potessimo prevederlo,
Edward tornò qualche giorno più tardi. Erano passate settimane dalla sua fuga e
soltanto pochi giorni dal ritrovamento del cadavere del serial killer che aveva
terrorizzato quella regione dell’Alaska.
Non mi ero aspettato che lo
avremmo rivisto e temevo la ragione effettiva di quel ritorno; un’ intuizione
dolorosa mi diceva che Edward non cercava una riconciliazione, semmai voleva
confermare una scelta intrapresa.
Una scelta che io non potevo
condividere.
Era venuto solo per dirci
addio.
Non entrò in casa, nonostante
le suppliche di Esme e gli inviti di Carmen, ma restò nella penombra del
portico, mentre l’orizzonte si tingeva di striature rossastre come lingue di
fuoco che incendiavano il cielo della sera.
Ricordo distintamente che
avvertimmo tutti il suo odore inconsueto, quasi irriconoscibile e una
sensazione di strisciante disagio mi colse, come se mi trovassi di fronte un
estraneo e quell’essere diverso non fosse più mio figlio. Fu qualcosa di
terribile.
Non lo avvertii solo io, ma
anche gli altri vampiri che erano lì.
Rosalie ringhiò verso il
fratello, ma Eleazar la indusse alla calma con un gesto. Edward lesse i suoi
pensieri inquieti e spaventati e si premurò di rassicurarla.
“Non preoccuparti Rosalie; sono
qui solo per dire addio.”
Quella parola scatenò una
tempesta di pensieri e voci diverse che investirono Edward. Tanya manifestò
tutta la sua amarezza e lo scoramento che provava; se normalmente reagiva con
ironia alle situazioni più complesse, forse in quell’istante il suo cuore
impetuoso sanguinò.
Rivelò per la prima volta, una
fragilità insospettata.
“Edward, no… ti prego. Non
posso pensare di non vederti più. Se mi vuoi un po’ di bene, non farci questo. Non
tenterò più di sedurti, te lo giuro! Mi basta averti accanto. Non andartene!
Non andartene, ti supplico!”
“Mi dispiace, Tanya. Dico sul
serio, non posso restare.”
Diretto e sincero.
Fu impietoso con tutti noi.
Fu irremovibile.
Le parole accorate e intense di
Esme, furono portatrici di uno strazio che si rinnovava nel suo cuore di madre.
“Non sai che dolore mi stai
dando. Potrai andare dove vorrai Edward, ma ovunque andrai, tu sarai sempre mio
figlio.”
Si avvicinò a lui, scrutandolo
in quegli occhi che avevano perso il colore dorato di una falsa innocenza, e lo
baciò sulle guance pallide e livide.
Soltanto io, ero rimasto zitto
fino a quel momento, incapace di trasformare in suono i sentimenti estremi che
lottavano per liberarsi.
Potevo solo chiudermi nel mio
amaro silenzio e irrigidirmi come una statua di sale, mentre sentivo le parole
di Edward uccidermi dentro.
“Addio, Carlisle. Sei l’unico
padre di cui avrò memoria. So che non puoi accettare la mia scelta e io non
posso importela. Ho ucciso un uomo malvagio, ne ho bevuto il sangue e mi è
piaciuto, non mi sono sentito in colpa per questo; è la dimostrazione che avevi
torto. La natura reclama ciò che gli appartiene.”
Parlai alla fine, con molta
fatica.
“Ripensarci Edward; se non vuoi
farlo per me, fallo per Esme.”
“Non usare lei. Non serve.”
“Non posso trattenerti, né
approvarti. Credo di avere le mie colpe. Se un giorno, chissà quando, tu
cambiassi idea…”
“Non illuderti, Carlisle, e non
incolparti per qualcosa che non hai mai avuto il potere di cambiare. Dopo tanto
tempo, ho accettato la mia natura; fallo anche tu.”
“Come vuoi, Edward. Ma tieni a
mente che io non ti respingerò; come ha detto tua madre, tu sarai sempre nostro
figlio. Nel bene e nel male. Non dimenticarci.”
“Non potrei mai farlo.”
Sostenni quello sguardo
sanguigno, lo sguardo del mostro che possedeva il suo spirito. Avevo quasi
paura a farlo, avevo paura di non riconoscerlo. Cercai qualcosa di lui, in
quelle iridi di demonio, ma non vi trovai nulla del ragazzo che conoscevo.
Stavo osservando un assassino. La belva era emersa e aveva soffocato lo spirito
buono di Edward. Sperai che fosse ancora nascosto sotto la cenere, debole e
inerme, ma abbastanza vivo da tornare a galla.
Pregai che l’anima dagli occhi
verdi, fosse ancora lì, da qualche parte.
Edward aveva smesso di parlare.
Ci scrutò con quegli occhi
vermigli così inquietanti, ancora per qualche istante, indugiò solo quando
incontrò lo sguardo malinconico di Esme che non lo abbandonava.
Per quanto fosse in conflitto
con me, lasciare sua madre, leggere e sentire la sua tristezza doveva essere
difficile anche per lui; fu la sua unica esitazione.
Non durò molto.
Repentino, si girò e corse via
in direzione opposta alla casa.
Non si voltò mai indietro.
Pochi secondi e fu lontano; la
vegetazione vibrava al suo passaggio, oscillando nell’aria come se l’alito del
vento l’agitasse dispettoso.
Per lunghi minuti nessuno di
noi parlò.
Il silenzio pareva irreale,
interrotto solo dallo strano fruscio delle foglie che si muovevano attorno a
noi.
Senza vederli, percepii Carmen
e Eleazar che si allontanavano. Tanya era già scappata via, seguita dalle sue
sorelle. Rosalie, irritata, si era rifugiata in un angolo della casa, ma fra
tutti era la meno impressionata.
Esme era ancora ferma e
immobile, rigida come se avesse perso ogni energia.
Io non avevo più nulla da dire,
né lacrime per bagnare il mio dolore.
Mi sentivo sconfitto, ma non riuscivo
a dare un nome a ciò che avvertivo; il mio cuore aveva smesso di battere da
secoli, e non sapevo decifrare bene, certe strane sensazioni che piano si
facevano strada in me.
Era come se mi avessero
strappato un arto, ma il trauma era stato così violento e brusco, che
l’estremità offesa si era fatta insensibile.
Gradualmente il malessere
divenne più acuto e opprimente.
Mi sentivo vuoto, mentre nel
petto si apriva una voragine, un buco profondo che niente avrebbe colmato.
Furono i singhiozzi convulsi e
strozzati di Esme a ridestarmi dal mio strano torpore.
E allora, capii.
Mai fummo così vicini e così
simili, io e lei, e questo perché il nostro dolore condiviso e vissuto in modo
diverso, era uguale e reciproco.
Una pena che ci isolava da
tutto il resto, perché poteva essere solo nostra. Era un fardello che avremmo
portato da soli; insieme, avremmo trovato il coraggio di sopportarlo.
Trovai la forza per muovermi e
la strinsi, chiudendola nel mio abbraccio.
Ma non era una consolazione,
non poteva esserci.
La realtà più terribile ci
legava nella stessa sorte: avevamo perso nostro figlio e non sapevamo se lo
avremmo mai rivisto.
Continua…
Chiedo umilmente scusa per la lunga
assenza.
Eccomi qui, con un nuovo capitolo.
Spero che sia piaciuto, anche se forse
vi starete chiedendo perché io abbia inserito qui, il momento della ribellione
di Edward.
Leggendo il romanzo “Twilight”, un
dialogo tra Edward e Bella, mi ha fatto pensare che il nostro inquieto vampiro
abbandona Carlisle, poco tempo dopo la trasformazione di Rosalie, ma prima
della comparsa di Emmet. Ecco spiegata la mia scelta; io spero di aver
interpretato bene, ma voi fatemi sapere che ne pensate. Se la condividete
oppure no.
Come sempre, grazie infinite ai
lettori vecchi e nuovi, a chi commenta, a chi segue sempre con interesse questa
storia, a chi continua a preferirla, nonostante gli aggiornamenti siano così
distanti nel tempo.
Grazie davvero. Vuol dire tanto per
me.
Io spero sempre di non deludervi e che
la lunga attesa tra un capitolo e l’altro, sia in qualche modo ripagata.
Trascorse
un tempo che parve interminabile, una parentesi di vuoto quasi assoluto.
Ricordo
un cielo grigio come metallo incombere monotono sul quelle regioni fredde e io restavo
immobile per ore come una roccia a fissare quell’immensità che mi sovrastava.
Quella doveva essere la sfumatura tetra della mia esistenza, il colore piatto e
avvilente della mia anima smarrita.
Difficile
dire come mi fece sentire l’abbandono di Edward. Se fossi stato solo ad
affrontare quella pena, senza Esme, senza Eleazar e gli altri amici di Denali,
avrei reagito molto peggio di quanto feci in realtà.
E comunque, non fu facile o indolore. Per nessuno di
noi.
In maniera differente, tutti abbiamo risentito di
quel taglio forzato nelle nostre vite.
I primi mesi di quella separazione li vissi
nell’amarezza, nel rimorso e nella frustrazione.
Il fallimento di Edward era anche il mio.
Era soprattutto il mio; il primo, il più grande
fallimento che coincideva con il momento esatto della scelta senza ritorno che
avevo fatto trasformando Edward.
A pensarci adesso, era molto umano il mio sentire;
mi comportavo come un vero genitore che si fa carico degli errori di un figlio,
che crescendo deve sbagliare per maturare e comprendere la direzione che vuole
dare alla sua vita, ma da cui si pretende sempre la scelta più saggia e giusta.
Mi sentivo profondamente responsabile per la strada
che Edward aveva deciso di seguire e continuavo a ripetermi che se dopo tanto
tempo, mio figlio aveva ceduto al mostro, era perché io avevo commesso un
errore; io non ero stato abbastanza convincente, autorevole. Io avevo mancato,
non avevo saputo essere la guida sicura e decisa di cui avrebbe avuto bisogno
per non perdere se stesso. In verità, non volevo accettare il fatto che Edward
doveva sperimentare da solo quella prova tremenda, doveva scendere nel suo
abisso e percorrere il suo tunnel di oscurità per maturare e riconoscersi
diverso; doveva incontrare il suo demone per sconfiggerlo davvero, qualcosa che
io non avevo saputo fare o che forse avevo affrontato in maniera diversa,
fuggendo.
Nella mia resistenza ero stato davvero più forte, o
solo più vigliacco?
Non sapevo rispondere con esattezza a questa
domanda. Eppure colpevolizzarsi non avrebbe avuto senso, né avrebbe cambiato il
corso degli eventi, ma non trovavo la forza di reagire, di riprendere il
percorso della mia vita.
Non mi nutrii per lunghe settimane, tanto che le mie
occhiaie diventarono evidenti e marcate. Restavo seduto e immobile su una sedia
per lunghe ore con lo sguardo fisso e nero perso oltre il buio della notte che
avvolgeva tutto col suo silenzio cupo, interrotto solo dal verso di qualche
animale notturno.
Mi passò la voglia di fare qualsiasi cosa, anche
tornare a lavorare sembrava un evento pesante che non avevo voglia di
affrontare, fatto quasi incredibile, considerata la mia passione per la
professione medica. Ero diventato un vampiro apatico, spento, senza più
interessi; vagavo attraverso i miei giorni sempre uguali come un fantasma
triste che non sapeva dove stare. Quasi non parlavo con nessuno, se lo facevo
erano solo monosillabi.
Evitavo i contatti con chiunque e cercavo
costantemente la solitudine, un atteggiamento davvero insolito e preoccupante
per la mia natura.
Ero quasi irriconoscibile a me stesso.
Non ero mai stato così, e certamente non avevo mai
ricercato volutamente la solitudine.
Piuttosto, nei secoli della mia esistenza da
immortale avevo tentato di scacciarla, di sfuggirla il più possibile, anche a
costo di ricercare compagnie sbagliate e inadatte al mio temperamento. Esme,
Eleazar e gli altri si preoccuparono vedendomi tanto depresso.
Esme osservava in un silenzio forzato lo scorrere
dei miei giorni, e scrutava nei miei occhi bui la mia angoscia e la sete che
non soddisfavo più. Non resse a lungo quella mia apatia e fra tutti, fu la
prima che si risolse ad affrontarmi a viso aperto, determinata a scuotermi dal
senso di oppressione in cui ero caduto, da cui non sembravo voler uscire. E se
riuscii ad avere una debole reazione, l’inizio della mia faticosa risalita
verso la fiducia in me stesso, fu solo merito della sua ostinazione che non mi
voleva lasciare al mio abbattimento.
“Carlisle, tu non puoi andare avanti così. Non puoi
abbatterti in questo modo; hai il dovere assoluto di reagire. Lo devi a me e a
Rosalie che ha bisogno di un sostegno forte. Anch’io sto soffrendo per nostro
figlio, non immagini neppure quanto; sto cercando di mantenermi forte, ma senza
di te è tutto più difficile. Ti prego, Carlisle; ho bisogno del tuo aiuto. Ho
bisogno della tua forza per andare avanti. Insieme possiamo farcela, ma
dobbiamo sostenerci a vicenda. Non possiamo stare su mondi separati. Non ora.”
Sentivo tutta l’apprensione trattenuta nella sua
voce accorata, ma io non sapevo come dare coraggio a me o a lei. Seduto sul
letto della nostra stanza, il vestito vecchio di giorni, pantaloni e camicia
sgualciti, affondavo le mani bianche di mostro nei miei capelli biondi che
ricadevano scomposti sulla mia fronte liscia.
“Mi dispiace, Esme. Devo essere una delusione anche
per te. Vorrei trovare il modo giusto per andare avanti, vorrei poterti dare la
certezza che nostro figlio tornerà da noi. Ma non sono sicuro di niente. Non ho
più certezze. Mi sento come se fossi morto dentro… - risi amaramente alle mie
parole. – Strano che io dica una cosa simile: come se fossi mai stato vivo da
oltre due secoli a questa parte.”
“Ti prego, Carlisle; devi riprendere a lavorare.
Fallo per me. Il lavoro ti ha sempre aiutato a ritrovare te stesso, ti darebbe
una nuova ragione di vita e ti aiuterebbe a non pensare troppo a quello che è
accaduto. Eleazar la pensa allo stesso modo e lui non sbaglia. Potresti andare
a lavorare all’ospedale di Anchorage, con le tue referenze non sarebbe un
problema farti assumere. Ti supplico, dammi ascolto. Ti amo troppo per vederti
in questo stato. Io ti starò vicina sempre e più di prima.”
Sollevai la testa a guardare negli occhi dorati la
mia dolce e apprensiva compagna.
“Oh, Esme, tesoro. Vorrei che fosse così semplice; non
riesco più nemmeno a fingere di essere un uomo.”
Lei mi cinse tra le sue braccia, rannicchiandosi
contro di me sul letto che accoglieva i nostri corpi, baciandomi sulle labbra
prima dolcemente, poi con passione crescente.
“Devi provarci. Devi farlo per la tua famiglia; noi
siamo ancora una famiglia e questo non cambierà mai, qualunque cosa accada.”
Era così determinata la mia Esme. Aveva così tanta
fiducia in me, più di quanta ne avessi io. Potevo deludere me stesso, ma dovevo
tentare di non deludere lei. Si spogliò e fece l’amore con me e scatenò il mio
desiderio, quello che da giorni soffocavo sotto l’amarezza che mi opprimeva il
cuore. Mi vinse come da sempre sapeva fare. Mi lasciai trascinare nel suo
gioco, quasi succube delle sue carezze audaci che mi fecero scordare per brevi
attimi il vuoto che sentivo gridare dentro, come un’eco che rimbalzava sulle
pareti del mio cuore silenzioso e freddo.
“Ci proverò, Esme. Ti giurò che tenterò.” Le dissi,
in un momento di trasporto prima di riprendere a baciarla con foga spasmodica,
nel disperato tentativo di zittire il dolore per un breve attimo.
Non sapevo se avrei avuto successo. Anzi, ne
dubitavo fortemente.
Senza troppa convinzione, mi feci assumere presso
l’ospedale di Anchorage. Eleazar e Carmen ne furono contenti.
“Meno male. Iniziavamo a preoccuparci. Non è bello
guardarti mentre ti lasci andare alla depressione in questo modo; per un
vampiro è qualcosa di pericoloso, perché può farlo cedere facilmente al suo
istinto primario. Se tu dovessi cadere in un momento come questo, peggioreresti
solo il tuo stato d’animo. Devi sforzarti di reagire, Carlisle. Lo pensiamo
tutti. Capiamo il tuo dolore per Edward, ma devi fartene una ragione; era
qualcosa che non avresti mai potuto evitare.”
“Solo ora me ne rendo conto, Eleazar… ma è difficile
accettarlo. Non so se mi rassegnerò mai ad averlo perso. Lo so che è inutile,
ma a volte spero ancora che decida di tornare indietro.”
Rispondevo senza particolare slancio lasciando
Eleazar ad angosciarsi per me.
A volte neppure un vampiro ha il coraggio di
affrontare certi dolori. Forse semplicemente, non sa farlo, come se la
sofferenza non dovesse appartenere veramente alla nostra natura; la
infliggiamo, ma non possiamo subirla, o così dovrebbe essere, se fossimo
davvero creature prive di anima.
Trovai notevole comprensione in Irina, un sentimento
che travalicava le parole e si esprimeva in una vicinanza silenziosa.
Tanya e Kate per quanto addolorate non tentarono mai
di consolarmi, come se temessero di non riuscirci, come se trovare le parole
giuste fosse impossibile. Si limitavano a rivolgermi sguardi mesti e contriti,
mentre mi guardavano affondare nei giorni vacui della mia disperazione.
Ma Irina, no.
Lei ebbe maggior coraggio, forse perché lei doveva
essersi sentita molto peggio quando aveva perso sua madre e sapeva cosa volesse
dire convivere con quel dolore che ti logorava dentro.
Un giorno, verso l’ora del crepuscolo me la ritrovai
al fianco.
Ero appena tornato dal lavoro e mi ero seduto in
veranda su una sedia robusta costruita da Eleazar.
Sarei dovuto andare a caccia, ma non ne avevo
voglia; stavo ricadendo nella mia apatia e non facevo nulla per evitarlo. In
certi momenti, soprattutto quando ero solo e non dovevo fingere di sentirmi
bene con gli altri, lasciavo che mi scivolasse addosso come una coperta
pesante.
Avevo l’impressione vaga di non sentire più nulla,
ma era una pura illusione.
Irina si sedette sull’ultimo scalino della veranda,
con la schiena appoggiata a una delle piccole colonne che sostenevano il
portico.
Quella particolare ora della sera generava ombre
scure e profonde intorno a noi.
Anche noi parevamo ombre, sagome nere e immobili
contro lo sfondo del cielo che imbruniva, mentre le nuvole basse e grigie
correvano sull’orizzonte.
“So come ti senti, Carlisle. So che fa molto male; è
una ferita che è quasi inguaribile. Loro possono dire quello che vogliono, che
il tempo aggiusta tutto, che ti riprenderai, ma la realtà è un’altra. Non
troverai facile consolazione, Carlisle. Almeno io non l’ho trovata per lungo
tempo: a volte sembra affievolirsi, a volte torna più forte di prima. Certi
dolori non si spengono. Si tratta di conviverci. Solo quello. Questa è la parte
veramente difficile: nascondere a tutti il dolore. Ma siamo vampiri e possiamo
farlo abilmente.”
L’ascoltavo in silenzio scrutandola attraverso le
ombre della sera, e compresi che aveva ragione. Non si aspettava che le
rispondessi, voleva solo dirmi che conosceva la verità. Quella più impietosa,
quella che non si può camuffare dietro sterili apparenze; sapeva che non
c’erano parole più giuste o più vere da dire. Si alzò per allontanarsi e
rientrare in casa; solo allora la bloccai prima che richiudesse la porta dietro
sé.
“Grazie Irina.”
Anchorage distava diversi chilometri dal posto
isolato dove vivevamo, ma non era un problema. Andavo ad Anchorage in auto, ma
certi giorni correvo attraverso i boschi e raggiungevo l’ospedale a piedi,
facendo sempre attenzione a non farmi notare; se qualcuno faceva domande
curiose, dicevo che avevo degli amici che mi davano sempre un passaggio fino in
città.
Ripresi a lavorare ma non mi sentivo come prima. Per
poche ore potevo anche dimenticare tutto, ma quando tornavo a casa avvertivo
che mancava qualcosa; sapevo che non avrei trovato chi avrei voluto ritrovare.
Rosalie era quella che reagiva meglio di tutti; lei non si disperava per la
fuga di Edward, forse perché con il fratello non c’era mai stato un rapporto
facile, ma era certamente un po’ nervosa per come io stavo reagendo.
Forse anche infastidita.
“Edward ha fatto la sua scelta, è inutile
recriminare; si vedeva lontano un miglio che sarebbe finita così, è
sorprendente che abbia resistito tanto a lungo.”
Ma io non riuscivo a liquidare così in fretta la
faccenda.
Irina aveva ragione; potevo nascondere il dolore, ma
non potevo allontanarlo.
Potevo fingere che non fosse lì, ma esso era sempre
presente, una sofferenza latente e assai costante.
La mia apatia, seppur a tratti nascosta, non fu la
sola conseguenza della fuga di Edward; ne seguirono altre e furono tremende.
Esme era talmente preoccupata per me che si sforzò
più del necessario di starmi accanto, manifestando una strana insicurezza che
non avevo mai creduto potesse provare. E rivelò un lato cupo e passionale del
suo carattere che non era mai emerso in lei prima di quel momento,
un’impulsività irrazionale totalmente impensabile nella sua natura quieta che
non aveva mai espresso, neppure in relazione alle vicende dell’ex-marito.
Esme, con mia grande sorpresa, incominciò a venire a
trovarmi in ospedale durante le ore in cui ero di turno. Non lo aveva mai fatto
prima. Non mi disturbava mentre lavoravo, ma approfittava di ogni momento di
pausa per starmi vicino; nel mio ufficio, in mensa, nella sala d’aspetto dell’
ambulatorio poco prima delle visite o alla fine di queste.
Non mi dispiaceva che venisse a trovarmi, ma a volte
mi pareva apprensiva e vagamente in ansia. Forse era l’ambiente che la metteva
in agitazione, che non la faceva sentire sicura. Forse temeva di entrare in
contatto con il sangue e di perdere il controllo.
Cercai di convincerla a non venire più.
“Esme, tesoro, se ti crea dei problemi venire qui,
non devi venirci per forza. So che vuoi starmi accanto, ma davvero ti stai
preoccupando troppo.”
“Voglio essere sicura che stai bene. Voglio darti
tutto l’appoggio che posso.”
“Io sto bene… davvero. Il lavoro mi aiuta molto.
Esme, mi stai dicendo tutto, vero? Non c’è dell’altro, per caso?”
Qualcosa non andava; avvertivo il suo disagio e non
ero tranquillo.
“Non voglio stare troppo sola a casa, a… pensare.”
“Ma non saresti sola. Ci sono gli altri.”
Esme continuò.
“Sì, ma in questo posto mi distraggo un po’ dal
pensiero ossessivo di nostro figlio. Mi chiedo dove sia… cosa stia
facendo…Sai, cerco notizie indirette
di lui, ogni volta che leggo la cronaca nera di un giornale; omicidi
misteriosi, sparizioni… è ridicolo, lo so, ma non posso farne a meno.”
Fu una confessione che mi sorprese molto; sapevo che
pensava ad Edward, ma non fino a quel punto. Evidentemente era abbastanza forte
da non farmi intuire la sua vera angoscia; Esme appariva lievemente
malinconica, ma non lasciava che vedessi altro nel suo sguardo un po’ triste.
“Oh, Esme… - sospirai addolorato, accarezzandole una
guancia - ladri, assassini, delinquenti e criminali di ogni risma. Se queste
sono le prede di Edward, nessuno si darà pena della loro scomparsa e non credo
che lui lascerà tracce del suo passaggio.”
“Lo so. Sono solo una madre che si preoccupa per suo
figlio… e per suo marito.”
“Perché non riprendi ad insegnare? Anche tu avresti
bisogno di staccare un po’. Devi concentrarti su altro.” Le suggerii, sperando
che davvero il suo lavoro potesse aiutarla, sapendo io per primo che si
trattava solo di un sollievo momentaneo.
“Ora no, non potrei.”
Lasciavamo l’ospedale e riprendevamo insieme la
strada per Denali, io cercando di mascherare il mio malessere dicendole delle
mezze verità, lei sforzandosi di apparire serena.
Ma non era serena; sentimenti tumultuosi
sballottavano il suo cuore e una voragine nera e infernale si aprì nel suo petto.
Esme iniziò a vedere fantasmi che non esistevano, né
sarebbero potuti esistere, ma la distanza che io creai tra noi col mio
atteggiamento di rassegnazione, col mio debole tentativo di proteggerla per non
farla precipitare con me nel gorgo della sofferenza, contribuì a crearli dal
nulla.
Mentivo per non farla preoccupare e lei leggeva
tutte le mie bugie e purtroppo finì per interpretarle nella chiave più distorta
in assoluto.
Tra i miei pazienti c’era una donna, la signora
Johanna Taylor che venne da me diverse volte nell’arco di un tempo molto breve,
con piccoli problemi di salute. Non aveva una patologia grave, ma si presentò
nel mio ambulatorio con notevole frequenza e scuse plateali per potermi vedere.
La signora Taylor si era invaghita di me e non era un fatto sorprendente, né
qualcosa a cui non ero già abituato. L’avevo visto accadere diverse volte, ma
col giusto tatto ero sempre riuscito gestire la cosa senza drammi per nessuno.
Le donne umane da sempre subivano il mio fascino, e alcune più sfacciate di
altre, non esitavano a dimostrarsi compiacenti. Johanna era un’avventuriera e
una probabile cacciatrice di dote; donna avvenente e molto bella, originaria di
una famiglia benestante, era stata sposata con un uomo molto più anziano di lei
che morendo, le aveva lasciato in eredità un notevole patrimonio in terreni e
beni immobili. Aveva un’ intensa vita sessuale, modi disinvolti e spicci con
l’altro sesso. Era consapevole del suo fascino conturbante e sapeva usarlo con
estrema disinvoltura, come quando passava per i corridoi dell’ospedale con il
suo incedere elegante, vestita nel suo tailleur che le fasciava le forme
perfette, una stola di volpe sulle spalle e in testa un cappello all’ultima
moda vistoso e raffinato; non c’era sguardo che non si fermasse a guardarla.
Il suo intento fu presto chiaro: Johanna voleva sedurmi
e azzardava mosse allo scopo; non perdeva nessuna occasione per tastare la mia
resistenza e se fossi stato un uomo normale, avrei potuto cedere facilmente di
fronte ad un carisma tanto sensuale.
“Perché non beviamo qualcosa insieme, dottor Cullen?
Potrebbe venire a casa mia, io vivo sola da quando mio marito mi ha lasciata
vedova. Così, per conoscerci un po’ meglio…” Per darsi un tono, si accendeva
una sigaretta che fumava tramite un lungo bocchino. La guardavo da dietro la
mia scrivania con un misto di preoccupazione e bonaria pazienza, cercando di
non esercitare il potere del mio sguardo su di lei.
“Signora Taylor… non dovrebbe fumare in questo
luogo.”
“Mi chiami Johanna. Suvvia, dottor Cullen, non la
mordo mica… un uomo come lei non avrà paura di trovarsi solo con una donna…” mi
disse inarcando le fini sopracciglia ironicamente, e appoggiandosi con un
gomito al tavolo che ci separava. Mio malgrado, non potei trattenere una lieve
risatina, alla sua battuta.
“Johanna, io non credo che sarebbe una buona idea;
la prego, lei è una mia paziente e io non sono un uomo libero.”
“Non lo saprà nessuno…”
Proprio in un momento simile, Esme si presentò nella
sala d’aspetto del mio ufficio e chiese alla mia segretaria se ero libero;
saputo che ero impegnato con una paziente si apprestò ad attendermi, e quando
mi vide uscire per accompagnare la signora Taylor alla porta, si fece avanti
con un sorriso per salutarmi.
Le due donne si incontrarono in quel momento per la
prima volta e la signora Taylor si fermò un istante a fissare insistentemente
Esme.
Se Esme fosse stata umana ci sarebbero state
conseguenze meno drammatiche, ma i gesti, le parole velatamente sarcastiche di
Johanna, tutto risultò provocatorio alla natura passionale e inquieta di una
donna vampiro che aveva visto il suo mondo minacciato da troppi scossoni
recenti.
“Dottor Cullen, non ci presenta?”
“Oh, ma certo. Signora Taylor, questa è Esme, mia
moglie.”
Johanna sorrideva con uno sguardo colmo d’ironia e
intanto sembrava valutare con un’occhiata obliqua la donna minuta che aveva
davanti. Probabilmente stava decidendo se poteva essere una rivale pericolosa
oppure no; quanto fu erroneo il suo giudizio lo avrebbe scoperto a proprie
spese.
“Che strano, non avevo capito che era sposato… – Poi
si rivolse a Esme. – Signora Cullen, è stato un piacere conoscerla. Dottor
Cullen, spero che accetti il mio invito, ci conto sul serio. Di solito non
accetto rifiuti, non mi deluda, la prego. Arrivederci.”
Si era girata allontanandosi con la sua sigaretta
alzata a mezz’aria e con l’arroganza di una bella donna che sa dominare il
gioco.
Un gioco che però, le presentò una mano sfortunata
che se fosse stata una donna più saggia, avrebbe dovuto rifiutare.
“Non mi piace quella donna, né le sue maniere. -
Aveva commentato Esme, dopo nel mio ufficio. - Di che invito parlava?”
“Vuole che vada a casa sua; è una donna molto
disinvolta su certe cose. Temo che il mio fascino oscuro abbia fatto effetto su
di lei.”
Risi per sdrammatizzare. Esme mi aveva dato le
spalle, mentre col viso rivolto alla finestra guardava verso l’esterno al
parcheggio sottostante l’edificio. L’auto di lusso della signora Taylor si
stava allontanando.
“Per caso, sei affascinato da lei, Carlisle?
Effettivamente è molto bella; mi è sembrato che ti piacesse.”
Esme non disse mai parole che mi sorpresero di più;
erano il sintomo di un gelosia quasi sconosciuta che non avrei dovuto
sottovalutare, ma neppure io ero così vigile da riuscire a valutare con
obiettività certi segnali d’allarme.
“Ma che dici, Esme? Mai nessuna potrebbe sostituirsi
a te. Come ti è venuta un’idea del genere?”
La strinsi tra le mie braccia, le sollevai il volto
per baciarla. Esme rispose al mio bacio con un profondo trasporto, prima di
sospirare piano, appoggiando una guancia al mio petto.
“Scusami Carlisle, sono una sciocca; da quando
Edward se n’è andato, mi sento così strana, mi vengono in testa le idee più
assurde e strampalate. Non sono mai stata così insicura di me stessa, così
preoccupata per la nostra famiglia. Non farci caso amore mio. Sono certa che mi
passerà.”
“Lo so, siamo tutti sotto pressione, preoccupati. Ce
la faremo Esme, non so in che modo, ma ce la faremo.”
Parlavo con lei e volevo incoraggiare me stesso.
Non so cosa avrei fatto se anche lei avesse ceduto
allo sconforto. Ma il cedimento di Esme dipese da altro e fu generato da
rabbia, frustrazione, senso di rivalsa da una situazione già vissuta e
dall’esigenza estrema di difendere l’unità della sua famiglia.
Se la Taylor non fosse stata tanto insistente e sfacciata,
e se io avessi dato il giusto valore alla cosa, forse non sarebbe accaduto
nulla di ciò che poi avvenne. Ma chi può prevedere le reazioni di un vampiro
che si sente minacciato negli affetti più cari? Esme da umana aveva già
sofferto per i tradimenti dell’ex marito e in questa nuova esperienza forse
stava rivivendo tutto ciò che con fatica aveva accantonato e tentato di
superare.
Johanna continuava a venire in ospedale, chiedeva di
me di continuo, arrivò al punto di telefonarmi a Denali e non si preoccupava di
suscitare le contrarietà di Esme.
La vicenda che poteva restare confinata dentro le
mura dell’ospedale, invase la vita di tutti; a nessuno sfuggì quello che stava
accadendo, anche gli amici di Denali ne furono in qualche modo coinvolti.
Esme si sfogava con Carmen e la sagace vampira notò
con preoccupazione lo stato d’animo alterato di Esme.
“Non posso restare inattiva mentre una mortale sta
cercando d’insidiare mio marito. Quanto ancora dovrò subire quest’offesa? Lo fa
apertamente, quasi sfidandomi. Quando capita di incontrarci, mi lancia certe
occhiate spudorate! Una donna senza vergogna. E ora si permette di cercarlo
anche a casa! Ma io sto per perdere la pazienza… Tu che faresti Carmen, se una
donna tentasse di rubarti Eleazar? Se lo facesse senza neppure cercare di
nasconderlo?”
“Esme cerca di restare calma. Non hai nessun motivo
di preoccuparti. Carlisle ti ama profondamente e quella donna non è una vera
minaccia per te. Non vederla in questo modo.”
“Non mi hai risposto Carmen: ti ho chiesto che
faresti.”
“Io… io cercherei
di mantenere calma e lucidità. Tu ti fidi di Carlisle, vero?”
“Ma certo! Che domanda è?- Ma Esme rivelava il suo stato di forte tensione, camminando su
e giù per la stanza, fregando tra loro i palmi delle mani. - Siamo entrambi
fragili in questo momento… oh, quanto vorrei che Edward fosse qui…”
“Se anche fosse qui, non cambierebbe nulla. Cosa
potrebbe farci lui? Questa donnaccia sta minando la stabilità della nostra
famiglia. Io la ucciderei…- Intervenne Rosalie che si trovò ad ascoltare gran
parte di quelle conversazioni e che per temperamento non era portata alla
pazienza. - O potremmo spaventarla a morte, le passerebbe la voglia di
insidiare i mariti altrui.”
“Ottima idea, Rosalie! Non ho mai sopportato le
gatte morte, umane o vampire che siano!” Commentò con vivace entusiasmo Tanya,
ma fu severamente ripresa dalla saggia compagna di Eleazar e guardata con un
certo biasimo dalle sue sorelle.
“Tanya non dire assurdità. Bisogna mantenere il
controllo dei nervi. Uccidere quella donna potrebbe attirare l’attenzione su
Carlisle e quindi su noi. Dobbiamo solo aspettare che si scoraggi. Prima o poi
succederà.”
Non saprò mai se davvero Esme abbia iniziato a
valutare la proposta di Rosalie o se tutto sia precipitato tragicamente quel
maledetto giorno che Esme seguì Johanna fino a casa sua. Mi è difficile credere
che Esme abbia avuto davvero l’istinto di fare del male a un essere umano, ma
non posso del tutto escluderlo.
Perché so che la belva in lei è stata provocatafino allo sfinimento.
L’ imprevisto avvenne diverse settimane più tardi,
dopo l’ennesima visita in ospedale, dopo l’ennesimo spudorato tentativo di Johanna
di farmi crollare di fronte alla sua femminilità provocante che mise a dura
prova il mio controllo, e io sono pur sempre un uomo con degli istinti sessuali
molto forti; Johanna doveva aver creduto di aver vinto di fronte ai miei occhi
che si incupivano di desiderio oscuro, sesso e forse altro, mio malgrado,
mentre con la voce roca la respingevo e mi sentivo un verme per come il mio
corpo tradiva il mio reale istinto di vampiro ispirato dalla lussuria più
bestiale, di fronte ad una donna umana seminuda che mi concedeva tutte le sue
grazie.
A Esme non servì vedere la scena, le bastò sentire
dalla stanza accanto le nostre voci, i sussurri, la nota rauca e cupa della mia
voce, per capire quello che stava succedendo, per capire come mi sentii io.
Forse intuì con spavento che avrei potuto cedere, che quella donna avrebbe
potuto farmi perdere la testa, far tornare a galla il mostro della lussuria che
si nutre inevitabilmente di sangue.
E per non far emergere il mio demone vampiro lei ha
lasciato vincere il suo, un’ altra colpa tremenda che si aggiunge alle altre
della mia vita.
Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno ci fu
l’ultimo, fatale incontro tra Esme e Johanna.
Con calma assoluta, senza teatralità, Esme mi
raccontò ogni cosa senza tralasciare nessun dettaglio di quello che accadde.
Cercò di parlare con lei, dovette essere la sua
primaria intenzione, buoni propositi che furono cancellati in pochi secondi
dalla cieca, stupida arroganza di una donna che non sospettava contro cosa si
era messa.
- Voi state sfidando la sorte. Sono venuta qui per
darvi un consiglio: state lontana da mio marito.
Era
un buon consiglio che Johanna non volle seguire, a cui rispose nell’unico modo
che non avrebbe dovuto. Rispose con una sfida che non era in grado di lanciare né
di sostenere, una provocazione che accese la miccia del fuoco terribile che
Esme non sapeva più contenere.
- Io sono una donna libera, abituata a fare quello
che vuole… se voglio un uomo me lo prendo e non chiedo permesso a nessuno.
Quando una moglie non sa tenersi suo marito, di solito è colpa sua, signora
Cullen. Questa è la mia filosofia, che le piaccia oppure no.
Dopo questa frase inopportuna, Johanna fece l’atto
di allontanarsi come se non avesse nient’altro da aggiungere. Non fece in tempo
a dare le spalle alla mia compagna. Esme deve aver agito d’impulso; forse fino
all’ultimo aveva sperato di trovarsi di fronte un’avversaria ragionevole, non
una donna del tutto priva di scrupoli che si sentì quasi giustificata a
uccidere. Se ci fu un conflitto in lei in quell’istante, Esme non volle
rivelarmi quel pensiero e credo di sapere perché ha preferito così; è un peso
che Esme ha deciso di portare da sola.
Non vuole che io sia responsabile per lei, ma io non
posso fare a meno di pensare che lo sono. Lo sono stato dall’esatto momento in
cui l’ho trasformata.
Esme afferrò Johanna alle spalle serrandole le
labbra con una mano per impedirle di urlare e sibilandole la sua condanna a
morte all’orecchio.
- Ho cercato di avvertirvi, ma visto che non volete
ascoltarmi, allora sappiate che solo voi siete l’artefice del vostro destino.
Se vi prendete quello che più vi aggrada, allora dovete subirne le conseguenze.
Esme affondò i suoi canini letali nel collo della
donna che si afflosciò tra le sue braccia come un pupazzo senza nerbo. Morì
velocemente mentre i suoi singhiozzi soffocavano sotto la mano ghiacciata che
aveva continuato a premerle la bocca. Più difficile poi, fu far sparire il
corpo e lasciare la casa senza essere notati da nessuno. La signora Taylor
viveva da sola in una grande casa signorile con poche persone di servizio e un
autista personale.
Esme
nascose il cadavere nella vecchia soffitta polverosa dove nessuno andava mai, e
si dileguò attraverso la finestra saltando sugli alberi che sorgevano vicini al
grande edificio. Esme attese il buio per allontanarsi dalla città senza essere
notata.
Nessuno l’aveva vista parlare con Johanna.
La
signora Taylor inizialmente fu data per scomparsa, anche se nessuno l’ aveva
vista allontanarsi da casa, finché il cadavere non venne scoperto da una delle
donne della servitù. Si pensò a un malintenzionato che la signora doveva aver
sorpreso in casa sua, magari in piena notte; si interrogarono tutte le sue
numerose conoscenze, gli amici presenti e passati, il personale della casa.
Cosa fosse accaduto era un mistero irrisolvibile.
Il gesto di Esme lasciò tutti noi senza parole;
nessuno se lo sarebbe aspettato. Io meno di chiunque altro. Inutile dire che ne
fui sconvolto, atterrito.
Era rientrata in casa, dove tutti la stavamo
aspettando ansiosi e preoccupati.
“Debbo parlare a tutti voi; è successa una cosa
molto grave.” disse risoluta, ma senza inflessioni particolari nel tono di
voce.
Restai ad ascoltare il suo racconto senza emettere
suono, quasi incapace di reagire o di pensare in maniera logica. Ero
sopraffatto, non saprei dire se da lei o dai sentimenti che mi suscitava. Mi
impressionò la sua tranquilla accettazione, come se fosse stato qualcosa
d’inevitabile cui era impossibile sottrarsi, un incidente di percorso che però,
non l’avrebbe distratta dalla meta.
“Mi dispiace Carlisle. Non so nemmeno come ho fatto
a farlo… ti giuro che non sono andata lì con quell’intenzione. So solo che in
un attimo qualcosa è scattato in me; era come se una forza superiore e più
forte stesse governando la mia volontà. Era terribile e allo stesso tempo
esaltante, come il gusto proibito del sangue di quell’ umana. La cosa più
sorprendente è che non ho esitato neppure un secondo, non mi sono fermata a
pensare se fosse giusto, sbagliato, immorale. Non ero altro che istinto…
istinto puro. Posso solo dire che il vampiro ha preso il sopravvento sulla
donna.”
“Già…”
sospirai rassegnato.
“Non so di preciso cosa lo abbia scatenato: se la
gelosia o il bisogno di difendere la mia famiglia. Immagino di averti deluso;
ti giuro che mi dispiace. Sarai arrabbiato.”
“No, Esme. Non lo sono. – Poi mi rivolsi ad Eleazar
che aveva ascoltato tutto in silenzio. – Qui siamo sul vostro territorio; se
vuoi che ce ne andiamo lo faremo. Non voglio crearti dei problemi; un omicidio
potrebbe attirare l’attenzione.”
“Perché dovremmo andarcene? – Domandò Rosalie
brusca. – Non siamo così vicini ad Anchorage, e quella donna ha avuto ciò che
si meritava.”
“Sono d’accordo.” Intervenne Tanya.
“Ragazze, è una situazione che non va
sottovalutata…” ammisi triste, ma Eleazar mi fermò con un gesto della mano.
“Sarà sufficiente che Esme non si allontani da
Denali; non deve più venire in ospedale a trovarti. Potrebbero averla notata in
relazione a Johanna. Lasciamo che si calmino le acque. Credo che dobbiate
parlarne tra voi, senza la nostra interferenza. Sappiate solo che avete la
nostra comprensione su tutto, e saremo con voi, qualunque decisione
prenderete.”
Fummo lasciati soli nell’ampio salone. Gli altri
vampiri si erano tutti dileguati per il resto della casa; in realtà, potevano
sentirci benissimo, ma era un modo per concederci una parvenza d’intimità.
Tra me ed Esme scese quel silenzio grave fatto di
dolore che non riesci ad esternare, saturo di parole che non trovano sfogo;
poi, lei venne a sedersi accanto a me, sul divano della sala, dove io ero
sprofondato a testa bassa.
“Carlisle, ascoltami, ti prego. Adesso credo di
capire meglio mio figlio e la sua scelta. Ora conosco davvero me stessa, ma non
voglio farmi sopraffare ancora da questa… oscurità. Non ci crederai, ma
ora comprendo davvero la tua forza. Non è mai stata chiara come ora. Tu hai
sempre resistito a tutto questo; è davvero straordinario, Carlisle. Tu sei
straordinario e io sono felice di essere la tua compagna. Non cederò più, è una
promessa. Voglio essere degna di te.”
Sollevai lo sguardo a incontrare i suoi occhi che
avevano perso la loro sfumatura dorata per prenderne una color del sangue. La
ritrovai oltre l’ apparenza ipnotica di quelle iridi inquietanti.
“Io voglio essere degno di te, del tuo coraggio. Oh,
Esme… Vorrei aiutarti a portare questo peso… mi sento in colpa…” e l’abbracciai
in una stretta convulsa per farla sentire sicura e protetta, per farle capire
che l’amavo comunque e non l’avrei mai respinta, né giudicata.
Non provai rabbia, solo tanto rammarico per qualcosa
di cui mi ritenevo responsabile, perché avevo la forte sensazione che la
tragica debolezza di Esme fosse dipesa principalmente dal mio malessere. Ma era
stata davvero debolezza la sua? O forse era stato un sacrificio?
“Tu lo stai già facendo e io posso andare avanti,
posso trovare ancora la forza che mi serve. Non devi sentirti troppo
responsabile per i miei sbagli, né per quelli di tuo figlio o per quelli che
potrebbe ancora fare Rosalie. Sono le nostre scelte, le nostre azioni e tu non
puoi controllare tutto. Dobbiamo imparare a conviverci. Sono certa che tu abbia
lasciato un segno profondo in Edward, come lo hai lasciato in me, e questa è la
vera ragione che lo farà tornare da noi, come io sono tornata da te.”
Era sorprendente la sua consapevolezza; era una
forza in grado di risollevarmi dal baratro.
Non potevo che sentire una profonda gratitudine per
la donna che amavo con tutto me stesso.
Così restammo a Denali, nonostante tutto.
Le indagini sull’omicidio della signora Taylor non
portarono a nulla di sostanziale e diversi mesi più tardi, il caso fu
archiviato come irrisolto.
Per fortuna, non fui mai collegato a lei in alcun
modo.
Il tempo e gli anni passavano, ma Edward non
tornava; non avevamo notizie di lui e certe volte avevo la spiacevole
sensazione che non fosse mai entrato nella nostra vita. Il tempo dei nostri
conflitti pareva un ricordo lontano che andava sbiadendosi come un sogno che si
tende a dimenticare. Invece, in altri momenti, se col pensiero mi fermavo
troppo su mio figlio, avvertivo una tristezza infinita. Per Esme era lo stesso.
Anche per lei era difficile. Guardandoci negli occhi, leggevamo uno nell’altra
il medesimo sentimento di muto dolore, nascosto dietro un sorriso.
Rosalie soffriva di questa situazione penosa e so
che mentalmente malediva il fratello per il dolore che ci infliggeva; avrebbe
voluto vederlo tornare solo per venderci stare meglio. Ma presto, anche lei fu
distratta da altri pensieri ed esigenze.
Rosalie avrebbe desiderato un compagno.
Lo aveva desiderato da umana, e da vampira quel suo
bisogno di calore e affetto non era cambiato.
Vedeva l’amica Tanya consolarsi tra le braccia di
svariati amanti umani, un fatto che le procurava un lieve disagio; Tanya
cercava di incoraggiarla a lasciarsi andare a delle innocenti avventure, ma lei
non era fatta per situazioni promiscue. La disinvolta vampira le presentava i
suoi ragazzi, gli amici che frequentava tra gli umani, ma Rosalie era ancora
troppo distratta dal profumo del loro sangue e preferiva non rischiare.
Le era sempre piaciuto farsi ammirare e ricevere
apprezzamenti anche se da lontano, era una piacevole parentesi per lei, una
distrazione dall’ insoddisfazione quotidiana. Ma non le bastava più. Rosalie
voleva una presenza costante al suo fianco, che la facesse sentire meno sola di
fronte all’eternità che l’attendeva.
So quanto si ha la necessità di un compagno per
alleviare la solitudine. Il problema è che non è così facile trovarlo.
“Potrei prendere un ragazzo che mi piace e tentare
di trasformarlo, ma ho paura di non riuscire a fermarmi in tempo.”
Confessava con un po’ di timore all’amica, mentre
involontariamente coglievo i loro discorsi con una punta di apprensione.
“Sì, potresti farlo, ma non so se Carlisle
approverebbe. E non è detto che il neonato vampiro ricambi la tua passione.”
“Lui con Esme, lo ha fatto.”
“Ma lei stava morendo, come te… come Edward… - e
Tanya sospirava pensando a mio figlio. – Sai, devo ammettere che sono contenta
che tra te e lui non abbia funzionato… gran Dio! Chissà dov’è ora. Cosa darei
per farlo tornare qui! E che farei per trattenerlo!”
“Ci pensi ancora? Che sbandata che hai preso. Ma
perché non lasci perdere? Potrebbe anche non tornare mai.”
“Non posso, non ci riesco. Edward è tutto quello che
potrei volere; per lui, potrei rinunciare a tutti gli altri. Rinuncerò a lui
solo quando saprò di non avere più speranze.”
“Cioè?”
“Cioè, quando troverà una compagna.”
“Secondo me, non ti merita.”
E
lentamente, come tutti gli anni, arrivò una nuova primavera, quella del 1935.
Fu
particolarmente bella quell’anno; la vita che si risveglia genera su di me uno
strano fascino e mi riempie sempre di profondo stupore, ma mi immalinconisce
anche molto perché su di me non ha potere. Eravamo a maggio.
Rosalie
si trovava a caccia in una regione a nord, lontana dal parco di Denali, a
diversi chilometri da casa e dai territori abituali. Era sola.
Era
stata aperta la caccia all’orso e quella zona era piuttosto popolosa.
Quello strano giorno Rosalie fu testimone di un’
aggressione ad opera di un orso ad un giovane cacciatore; il ragazzo, un giovane
robusto dai riccioli scuri, fu preso in contropiede: non fu abbastanza pronto a
caricare il suo fucile e il plantigrado gli fu addosso. L’animale inferocito lo
avrebbe certamente ucciso, gli procurò ferite micidiali al torace, alle gambe e
alle braccia prima che Rosalie potesse intervenire e uccidere la bestia.
Così, verso il tramonto vedemmo tornare Rosalie
coperta del sangue del ragazzo che aveva portato con sé.
Al primo impatto con quell’immagine allucinante,
temetti per un momento che lo avesse aggredito lei; si era caricata sulle
spalle il ragazzo sanguinante, ridotto in fin di vita e sotto il tormento del
sangue, nella disperazione e nella paura di non saper resistere alla
tentazione, aveva corso attraverso la foresta per dei chilometri, per portarlo
da me a Denali.
Cosa dev’essere stato quel viaggio per lei, con quel
profumo dolciastro e invitante addosso, sulla pelle e nelle narici, posso
immaginarlo. Eppure è stata forte, ha dimostrato una volontà spaventosa.
Sentimmo l’odore del sangue molto prima che
raggiungesse la casa, un odore intenso e forte mischiato al profumo di mia
figlia. I miei amici ne furono tutti un po’ sconvolti, impreparati a un impatto
del genere e anch’io, in effetti non sapevo cosa aspettarmi.
Poi, mi ritrovai davanti mia figlia e quel ragazzo
sfortunato.
“Dio Rosalie! Perché lo hai portato qui?” Chiese
Kate turandosi il naso, sconvolta dall’odore. Tanya e Irina tremavano nel
tentativo di resistere al desiderio di saltare addosso a quello che restava di
quel povero corpo lacerato per dissanguarlo completamente. Eleazar capì la situazione
e obbligò le vampire ad allontanarsi. Ma anche lui era sotto pressione. In mezzo
a tutta quella tensione, arrivò la richiesta sconvolgente di Rosalie.
“Carlisle, voglio che trasformi questo ragazzo per
me. L’ho portato fin qui, per questa ragione.”
Eleazar mi guardò. “Puoi farlo solo tu, Carlisle.
Nessuno di noi ci riuscirebbe.” Poi si allontanò anche lui, seguito da Carmen.
Io e Rosalie restammo soli.
Il ragazzo aveva perso moltissimo sangue, non gli
restava molto da vivere. Una decisione andava presa in fretta, una scelta che
io esitavo a fare. In un’altra circostanza sarei stato più pronto, ma avevo
troppi dubbi che mi tormentavano. Il mio fallimento con Edward era ancora
troppo opprimente; non volevo ripercorrere lo stesso tragitto sbagliato. Non
volevo condannare un altro giovane a una semivita che non avrebbe voluto.
Non volevo altri conflitti, incomprensioni, dolori e
delusioni. Non volevo creare un altro mostro.
Non avevo nessuna voglia di trasformare quello
sconosciuto, anche se era Rosalie a chiedermelo, anche se andavo contro me
stesso. Ero quasi pronto a lasciarlo morire come la natura umana chiedeva.
Rosalie colse la mia esitazione. Forse ebbe un fremito di paura.
“Ti prego, Carlisle. Non lasciarlo morire. Dagli un’
altra possibilità. Trasformalo.”
“Scusa Rosalie, ma non posso. Non voglio trasformare
più nessun altro in vita mia. Mi dispiace.”
Il peso grave e triste delle mie parole gettò
Rosalie nel panico.
“Cosa? Perché? Lo farei io se potessi, ma non ne
avrei la forza. Ti supplico, fallo per me. Voglio un compagno da amare.”
“No, Rosalie, non insistere. Non è questo il modo.”
Ero deciso, avrei lasciato quel ragazzo al suo
destino senza condannarlo al mio. I minuti correvano, il cuore del giovane era
sempre più debole.
“Esiste un modo più giusto, forse? Me lo devi,
Carlisle. Lo devi a ciò che sono. Se non lo farai, ci proverò io e se lo ucciderò
sarà solo colpa tua.”
Rosalie era diventata rabbiosa e mi sfidò
apertamente. Io continuavo a oppormi.
Arrivò anche Esme attirata dalla nostra discussione;
aveva saputo ogni cosa dagli altri. Si frappose tra me e Rosalie.
“Tu lo puoi fare Carlisle e so che se fossi
completamente in te, lo avresti già fatto. Non farti guidare dai tuoi
sentimenti negativi. Non sarà mai come Edward, sarà un vampiro diverso e tu lo
aiuterai. Se lo lasci morire, te ne pentiresti dopo e ti sentiresti solo peggio,
perché andresti contro la tua vocazione fondamentale.”
La mia saggia Esme aveva ragione; era vera ogni
parola che aveva detto.
Ma io non riuscivo a decidermi, sentivo solo che non
volevo trasformare quel ragazzone bruno per nulla al mondo.
Il nodo d’angoscia che bloccava il mio petto non
voleva sciogliersi e lasciarmi libero.
Continua…
Eccomi qui, e come sempre scusate il
ritardo.
Questo capitolo (difficile, devo dire) forse
vi avrà sorpreso per la piega che hanno preso gli eventi, ma una lettrice attenta
Coshicoshi, (Allora che ne dici? Ho soddisfatto la tua curiosità?) mi ha messo
la pulce nell’orecchio. Ho preso in esame la frase di Rosalie in “Eclipse”
quando dice che è stata “meglio di Esme” circa la dieta a base di sangue umano.
Io ho cominciato a pensare a cosa volesse dire e così mi è venuta l’idea e
spero che non sia troppo strampalata; ho cercato di renderla credibile e spero
di esserci riuscita. Mi direte voi. Grazie come sempre a tutti i miei lettori
che non si stancano di aspettarmi e che seguono questa storia.
Grazie di vero cuore; è per voi che
continuo a scrivere.
Il ragazzo era lì, davanti a me, ferito e
orribilmente mutilato. Il sangue si stava allargando in una pozza scura sul
pavimento della stanza e l’odore dolciastro saturava l’aria. Stava morendo sotto
i miei occhi; vedere l’agonia di una vita che termina è altrettanto doloroso
che assistere alla trasformazione, solo sarebbe stata più veloce. Io continuavo
a esitare e Rosalie mi supplicava con sguardi e parole. In tutta la mia vita,
mai ero stato tanto combattuto sul da farsi. Forse sarebbe meglio dire deciso a
non trasformare un essere umano in vampiro. Non avevo il benché minimo
desiderio di farlo. Sarei andato contro me stesso, contro il giuramento che
avevo fatto di salvare vite umane.
Ma salvare non significava condannare.
Io non volevo più condannare nessuno a quella
semivita forzata che era la nostra esistenza.
O forse, avevo soltanto paura.
Paura di un altro fallimento.
Paura di generare un altro mostro oscuro senza la
traccia remota di un’ anima.
Ma
la mia volontà non fu tanto forte; ad altre esigenze e desideri mi sarei
piegato; ero troppo debole e fragile per prendere una decisione e portarla fino
in fondo. Esme, Rosalie mi convinsero a modo loro; presero in mano la mia
volontà malferma e la guidarono tra suppliche di una e minacce dell’altra.
Non lasciarlo morire! Mi ripetevano. Te ne pentiresti.
Avrebbero avuto ragione.
Così Emmett McCarty, l’ultimo dei figli da me
raccolti per strada diventò un vampiro, ma non fu la mia volontà a
trasformarlo. Mio fu il veleno che gli attraversò il corpo, ma non lo spirito.
Non furono le mie parole ad accompagnarlo attraverso quell’ inferno. Fu Rosalie
a essergli accanto per i lunghi tre giorni della trasformazione; io mi limitai
a spiegargli quello che stava avvenendo nel suo corpo, prima di abbandonarlo a
se stesso.
Chissà, forse fu in quei tre giorni che si saldò
come cemento il loro legame; Rosalie lo accarezzava dolcemente sulle guance
mentre lo strazio del veleno lo aggrediva tormentandolo, ed Emmett digrignava i
denti in una smorfia atroce di sofferenza. Rosalie lo guardava con attenzione
amorevole, gli sfiorava le tempie e si sorprendeva di come quel volto le
ricordasse il figlio della sua amica Vera. Era per questo che lo aveva scelto.
Emmett non parlò mai durante quei tre giorni
maledetti, si limitò a contorcersi sopportando il dolore, trattenendo la voglia
di urlare, ma spesso i suoi occhi incontravano quelli di Rosalie e solo in
quell’attimo pareva dimenticare la sua pena.
Guardava la vampira bellissima che gli restava
accanto, come se avesse davanti un angelo del paradiso e non un demonio
dell’inferno.
Quando quel giovane si risvegliò nella sua nuova
vita, ci trovammo davanti un nuovo vampiro dalla stazza portentosa e la forza
straordinaria, una vera macchina di morte. Un neonato che poteva rivelarsi
difficoltoso da gestire.
Se la sua sete di sangue fosse stata pari alla sua
mole, mi aspettavano seri problemi e io non mi trovavo nella condizione
ottimale per affrontarli. Era una responsabilità che in quel momento non avrei
voluto, convinto di non poterla sostenere.
La prima volta che spiegai a Emmett quello che era
diventato, mi sarei aspettato da lui una reazione convulsa e quasi
incontrollata, un’ esplosione di violenza incontenibile; invece mi colse
completamente di sorpresa, perché non accadde nulla del genere. Emmett non
parve sconvolto dalla clamorosa realtà che lo investì.
Accettò la sua sorte con tranquilla rassegnazione,
con uno stupore che assomigliava a quello di un bambino che scopre l’immensità
del mondo che lo circonda.
In Emmett c’era e c’è ancora oggi, qualcosa
d’infantile, una sorta d’ innocenza che nulla riesce a scalfire; è la stessa
innocenza che ha fatto innamorare Rosalie e che ha legato i due ragazzi in modo
indissolubile.
Da umano doveva essere stato un ragazzo molto buono
e altruista, dal temperamento aperto e solare.
Tra tutti i miei figli, è sicuramente quello che ha
accettato meglio e senza drammi la sua nuova e tremenda natura; è del tutto
privo di quei tormenti esistenziali che hanno afflitto Edward o Rosalie.
Ciò non significa che anche con lui, non ci siano
stati problemi anche piuttosto gravi.
In assenza di conflitto, Emmett non faceva quasi
nulla per controllarsi, lasciandosi trascinare dai suoi impulsi. Accettava la
sua natura selvaggia e imparò presto a conviverci in massima libertà. Si
dimostrò subito un abile predatore, scaltro e feroce, e la sua forza bruta
vista all’opera era impressionante. Uccideva le prede più piccole in pochi
secondi; era così facile per lui che la caccia lo stimolava per poco.
Probabilmente non era un caso che le sue prede preferite fossero gli orsi;
amava cacciarli in quel periodo appena dopo il letargo, quando erano più
irritabili. Era stato la vittima di un orso e forse quello era il suo modo di
vendicarsi del destino. Allora, ingaggiava delle sfide con quegli animali e
dava libero sfogo a tutta la sua furia e gli scontri diventavano delle lotte
cruente che si esaurivano in fretta. I primi mesi, vista la sua natura e la sua
forza, per controllarlo meglio, non lo lasciavamo mai solo; cacciavamo in
gruppo insieme alle altre vampire e Eleazar e Carmen andavano in avanscoperta
per assicurarsi che non ci fossero presenze umane nei paraggi.
La convivenza con lui era facile e leggera. Nulla
che si potesse paragonare a quello che era stato il rapporto con Edward.
Emmett era un vampiro che sapeva stare con gli altri
e se non era assetato non creava grossi problemi.
Non dimostrò mai alcun tipo di risentimento verso me
o Rosalie.
Amava la lotta e le sfide e Eleazar lo assecondava
più di me in queste passioni.
Era simpatico e vivace e regalava allegria e
buonumore a tutti.
Tanya, Kate e Irina erano entusiaste. Tanya soprattutto
era contenta per Rosalie.
“Beh, sei stata fortunata. Vorrei fosse successo a
me, una volta. Ma io continuo a sperare.” diceva all’amica.
Emmett sviluppò verso Rosalie una vera adorazione
che mia figlia ricambiò immediatamente in ugual misura. Era pieno di premure
verso di lei, sapeva essere molto tenero e affettuoso, oltre che pieno di
passione sensuale con cui sapeva travolgerla e consolarla di ciò che non
avrebbe più potuto avere. Era paziente e tollerante con i suoi sbalzi d’umore,
ma sapeva come farla ridere e riportarla al sorriso. Insomma, si rivelò il
compagno perfetto e ideale.
“Oh, Emmett, se ti avessi incontrato quando ero
ancora umana… perché non è successo?”
“Non mi avresti neppure guardato, piccola. Non ero
alla tua altezza; ero un rude boscaiolo che andava in giro per boschi a
spaccare legna, e tu, una signorina d’alta classe, elegante e ben educata.
Meglio tardi che mai, giusto? E io sono felice di averti incontrata. Forse
dovrei ringraziare quell’orso che mi ha aggredito quel giorno, che dici?”
“Tu non stavi spaccando legna, quel giorno.”
“Non importa; lo avrei fatto il giorno dopo, o un mese
più tardi. Poi, sporco e sudato, sarei andato a bere birra di contrabbando con
gli amici. Un completo bifolco. No, non ti sarei piaciuto.”
Emmett scherzava mentre le diceva queste cose, ma
probabilmente era molto vicino alla verità e questo era l’assurdo paradosso
della loro strana felicità che rese tutti noi un po’ più sereni.
Emmett portò una ventata di freschezza nella nostra
famiglia; non dico che mi fece dimenticare il figlio che avevo perso, ma soffiò
su di me e su Esme una nuova speranza. Risollevò la nostra fiducia.
“Sono davvero felice che Emmett sia entrato nella nostra
vita, anche per Rosalie. Mi sembra molto più serena da quando c’è lui. Sono
davvero una bella coppia e lui si è molto affezionato a lei.”
“Devo darti ragione, Esme.” Sospirai tenendola tra
le mie braccia sotto le lenzuola.
“E pensare che non volevi trasformarlo.” Constatò
sorridendo.
“Lo sai, perché… Ha reagito molto meglio di Edward
alla trasformazione, e questa è una cosa che mi consola molto. Mi preoccupa un
po’ il fatto che non si trattiene quando ha sete… uccide più di quanto sia
necessario.”
“Dagli tempo. Imparerà a controllarsi meglio. Certo, non
può sostituire Edward…”
No, non avrebbe potuto.
Esme dopo quelle parole, abbandonava il letto dove
avevamo fatto l’amore, si rivestiva e si preparava per andare a scuola; aveva
ripreso a lavorare con un nuovo spirito, lontana però da Anchorage.
Emmett era un vampiro da qualche mese e non era mai
entrato in contatto con esseri umani.
Ogni tanto mi chiedevo come avrebbe reagito
all’odore del sangue umano; avevo bisogno di verificare la sua resistenza, così
mi venne un’ idea che non comportava nessun rischio.
Un pomeriggio mentre ero di turno, rubai un flacone
di sangue dall’ospedale e lo portai a casa. (1)
Avevo bisogno di sapere quale sarebbe stata la
reazione di Emmett; sul tavolo della cucina di fronte a tutti lasciai il
flacone di vetro, poi chiamai mio figlio. Erano tutti un po’ in apprensione per
quello che mi stavo apprestando a compiere, anche Esme sembrava perplessa.
“Non capisco cosa vuoi fare.” Mi disse seria.
“Tra breve, lo vedrai da te. Non preoccuparti.”
“Sei sicuro, Carlisle?” Mi interruppe Eleazar,
costernato.
“Non sono impazzito, sta tranquillo.”
Poi mi rivolsi a Emmett spiegandogli le mie
intenzioni; l’attenzione di tutti era concentrata su di me e sul flacone che
conteneva il liquido rosso posato dentro un contenitore di metallo sul piano
del tavolo.
“Ora Emmett, io aprirò il flacone e tu avvertirai
l’odore del sangue umano per la prima volta. Vorrei che tu ti sforzassi di non
berlo. Cerca di resistere, anche se la gola, per la sete, dovesse bruciarti
come fuoco vivo. Voglio capire quanto puoi resistere.”
“Va bene, ho capito. Sono pronto. Sono già andato a
caccia, per oggi, quindi non dovrebbe essere difficile.”
Mi rispose convinto. La sua ingenuità a volte era
disarmante.
Emmett aveva una gran buona volontà, ma le migliori
intenzioni del mondo non sempre sono sufficienti.
Forai il tappo ermetico schiacciandolo con l’unghia
e l’aroma del sangue fu immediatamente percepibile a tutti. Osservai Emmett per
una frazione di secondo e vidi le sue iridi farsi cupe; non esitò neppure un
istante. Prima che potessimo fermarlo afferrò il flacone alla velocità del
vento, emise un ringhio terrificante e piombò sul lato opposto della sala dove
bevve con avidità il contenuto. Non fu sprecata neppure una goccia.
Alla fine, flacone vuoto in mano, si ritrovò a
guardarci quasi meravigliato. Tra noi qualcuno era impressionato; Tanya e le
sue sorelle ridacchiavano un po’ divertite.
“Accidenti Emmett! Sembravi un vampiro in crisi
d’astinenza. Per fortuna che eri andato a caccia.”
Ironizzò Kate.
“Ti avevo detto di provare a resistere; non ci hai
neanche provato, Emmett.” Commentai altrettanto interdetto, forse un po’
seccato. Emmett si scusò, sinceramente imbarazzato, come un bambino che era
stato sorpreso a rubare dei biscotti.
“Oh, scusa Carlisle. Ho agito d’istinto: ho sentito
l’odore e non ho più capito nulla. Il sapore però era fantastico, sul serio… -
L’ espressione divenne incerta. - Mi dispiace, non pensavo fosse tanto
difficile… ci vorrà un bel po’ di pratica. Temo che dovrò scolare diversi altri
flaconi...”
Emisi un lungo sospiro di rassegnazione non privo di
scetticismo; Rosalie indispettita da tutta la scena, lo aggredì verbalmente.
“Brutto scimmione assatanato!! Non potevi tentare di
controllarti?” Sibilò frustrata.
“Perché te la prendi? Che cosa ho fatto?! Non ho
mica ucciso nessuno!” Esclamò lui candidamente, aprendo le braccia in un gesto
di ovvietà, ma ci voleva ben altro a placare la suscettibilità della sua
compagna che si stava allontanando di gran carriera, offesa e risentita. Emmett
le correva dietro cercando di farla ragionare, col risultato di irritarla
ancora di più.
“Dai, Rosalie! Aspetta! Non è così grave… insomma,
per me è la prima volta, mi vuoi dare un’altra possibilità?”
Sì, quella fu solo la prima volta.
Tentai con altri flaconi di sangue.
C’ è ne sarebbero voluti parecchi, prima di vederlo
resistere al richiamo forte che il sangue umano esercitava su di lui.
Mesi e mesi di tentativi, fallimenti e conseguenti
arrabbiature di Rosalie che prendeva molto a cuore i successi o gli insuccessi
del suo compagno; il motivo di queste sue strane reazioni non mi era chiaro.
Forse Rosalie era solo molto esigente.
Forse temeva che Emmett potesse uccidere qualcuno e
deludermi, forse temeva le conseguenze di una nuova tragedia come quella
compiuta da Esme; aveva paura che un fatto simile potesse minare del tutto la
stabilità delle nostre dinamiche famigliari, creare divisioni, incertezze,
risentimenti.
Non avrei mai potuto colpevolizzare Emmett per le
sue naturali inclinazioni, né alcuno dei miei figli. Purtroppo, a dispetto di
tutti gli sforzi, Emmett, più avanti nel tempo, avrebbe ceduto in maniera molto
più grave all’impulso animale della sua natura.
L’omicidio della signora Taylor ci aveva costretti a
restare nascosti per un po’, limitando molto le nostre libertà, un fatto che
aveva irritato non poco Rosalie. Magari si trattava di paure più recondite,
legate al malessere oscuro e indefinibile di mia figlia che ricercava nella
strana famiglia che l’aveva salvata, quella solidità e protezione che non aveva
trovato nella sua esperienza umana.
Rosalie sapeva che non mi sarei fermato ancora a lungo a
Denali.
Tanti vampiri concentrati nello stesso territorio davano
troppo nell’occhio: rischiavamo di attirare l’attenzione, di conseguenza,
creare problemi alla famiglia di Eleazar che ci ospitava.
Il nostro soggiorno era durato più del previsto per vari
motivi; se non avessi avuto la speranza inconscia e irreale di veder tornare
mio figlio in Alaska, saremmo già ripartiti. La fuga di Edward, la depressione,
il delitto di Esme che in altre circostanze ci avrebbe fatto scappare, poi
l’arrivo inaspettato di Emmett, erano una serie di fattori che mi avevano
impedito di lasciare quella terra inospitale.
Volevo restare attaccato all’ultimo luogo che aveva
ospitato Edward, pensando che se fossi andato altrove, avrei messo una maggior
distanza tra noi; se Edward fosse tornato indietro doveva sapere dove trovarmi.
Lontano da troppo tempo, ignoravo dove fosse.
Come Esme, anch’io mi ero ridotto a cercare tracce di lui
sulla cronaca nera dei quotidiani; mi parve di leggere le sue gesta in una
serie di articoli datati dicembre ‘35 che parlavano di alcuni strani delitti
compiuti a New York; la polizia parlava di un regolamento di conti della
malavita: i membri di due clan rivali si stavano decimando in maniera sistematica
e brutale.
Alcune vittime erano state ritrovate completamente
dissanguate con strani segni di morsi profondi in particolari punti del corpo.
Io non potevo avere dubbi sull’origine di quei morsi, e
un vampiro con le doti di mio figlio non avrebbe fatto distinzioni tra
appartenenti a gangs rivali.
Edward poteva essere laggiù? Così lontano dalla sua
famiglia? Probabile.
Magari, solo per stare lontano da me, dal suo mentore,
dal vampiro controcorrente che lo aveva condannato alla dannazione eterna. Come
avrebbe reagito se avessi tentato di raggiungerlo? Di avvicinarmi a lui, in
qualche modo?
Di accorciare la distanza fisica che ci aveva imposto con
la sua fuga? Il rischio era che fuggisse ancora più lontano.
E comunque non potevo dirmi certo che fosse davvero a New
York. Edward poteva essere ovunque.
Avrei potuto perdere la mia eternità ad inseguirlo e non
era il solo di cui dovevo preoccuparmi.
Lasciammo Denali e L’Alaska solo quando fui sicuro che
Emmett potesse resistere alla tentazione; finalmente, dopo infiniti tentativi e
vetri rotti, il flacone di sangue era rimasto sul tavolo, intatto. Tirammo
tutti un sospiro di sollievo.
“Bravo Emmett! Ce l’hai fatta!” Esultai.
Era passato quasi più di un anno dalla trasformazione, ed
era inutile restare ancora lì ad aspettare chi non aveva intenzione di tornare.
Avevo atteso.
Avevo sperato non solo per me, ma anche per Esme.
Non potevo più farlo.
Non potevo continuare a seppellirmi sotto desideri
soffocati dal dolore. Dovevo andare avanti.
Era la fine dell’estate del 1936, il cielo sopra il parco
era terso, libero da nubi, e l’aria di metà settembre frizzante; io ero pronto
a ripartire di nuovo, a rigettarmi nel mondo per dare a quei figli che mi erano
rimasti accanto, una parvenza di vita normale. Ma dovevo lasciare delle
briciole dietro di me; volevo lasciare una porta aperta, un ponte tra il futuro
e il passato e solo Eleazar poteva aiutarmi in questo. Così mi congedai dalla
sua famiglia.
“Potrei fermarmi a Seattle, oppure in Canada a Toronto, o
comunque vicino al confine con gli Stati Uniti. Sono ancora indeciso. Mi terrò
in contatto, Eleazar, e ti aggiornerò sui nostri spostamenti; così, se per caso
Edward dovesse tornare e chiedere notizie della sua famiglia, tu potrai dirgli
dove rintracciarci. Lo farai, vero?”
“Non devi neppure chiederlo, Carlisle. Sei sicuro di non
voler andare a New York?”
Con la consueta sagacia, Eleazar aveva capito; non ero
sicuro che fosse una buona idea, anche se la tentazione c’era ed era
fortissima.
“Meglio di no.” Dissi semplicemente abbassando il capo.
Esme si avvicinò e prese le mani di Eleazar.
“Grazie di tutto, Eleazar, anche della tua comprensione.
Dì a Edward che la sua famiglia lo aspetterà sempre a braccia aperte. Digli che
sua madre lo attende. Rimandalo da noi.”
“Se potrò farlo, lo farò, Esme. Non temere.” La
rassicurò.
Potevo contare su Eleazar. Potevo contare su tutti loro.
Tanya e Rosalie si salutarono con un abbraccio, sigillo
di quella loro amicizia particolare che avrebbero sempre condiviso.
Così partimmo alla ricerca di una nuova casa, di un posto
nuovo dove stare. E arrivammo al confine tra il Canada e lo stato del
Minnesota, poi proseguimmo fino a raggiungere il Tenneessee. E lì decidemmo di
fermarci.
Scegliemmo di stabilirci nella città di Nashville.
La capitale del Tenneessee era la patria della musica
cauntry; le prime radici di questo elemento culturale, che oramai faceva parte
della tradizione cittadina, risalivano alla fine della guerra civile. Sempre
qui, in Tenneessee, ricordavo che in quegli anni tumultuosi, era stato fondato
il temibile Ku Klus Clan, triste associazione con cui in passato mi ero
scontrato.
In queste regioni gli inverni erano miti, ma comunque
piuttosto umidi, ma la stagione più bella era senz’altro la primavera dove i
colori della vegetazione esplodevano con le loro tonalità intense; allora i
parchi cittadini erano un tripudio di camelie, ginestre e fiori di ogni genere.
Era un peccato che noi vampiri, dovendo nasconderci, non potessimo godere
sempre di certi spettacoli della natura.
Attorno alla zona di Nashville si aprivano le estese
vallate dell’altopiano centrale che confinava con i dolci declivi delle
montagne di Great Smoky, dai picchi colore dell’erica; tutto il territorio
comprendeva il parco nazionale con le sue foreste di conifere che ricoprivano i
monti Appalachi, la catena montuosa più antica del pianeta, che correva
parallela alla costa orientale degli stati Uniti, che spesso sarebbe stata
teatro delle nostre cacce agli orsi neri.
Scoprimmo che Emmett McCarty in realtà era originario di
queste terre; Rosalie lo aveva trovato nelle regioni dell’Alaska perché aveva
accettato la sfida di alcuni amici a trascorrere lì, un paio di settimane a
contatto con la natura più selvaggia. Com’ era nella sua natura irruenta, il
giovane aveva accettato subito con entusiasmo. (2)
Neshville era destinata a diventare una forte comunità
commerciale e finanziaria attraverso lo sviluppo delle industrie, ma negli
anni‘30 era attivo l’allevamento del
bestiame e nel futuro sarebbe diventata anche un polo d’interesse per il
turismo. Aveva un ottimo ospedale e ottime scuole in cui volevo inserire Emmett
e Rosalie, come già in passato avevo fatto con Edward. Sarebbe stata la prima
volta per tutti e due, e da qualche parte bisognava iniziare ad avere una vita
apparentemente normale. Per me poteva essere un buon modo di reagire alle
ultime delusioni della mia esistenza.
“Emmett, mi raccomando. Non si tratta di vasetti di
vetro, questa volta. Se non sei convinto, possiamo rimandare il tuo ingresso a
scuola l’anno prossimo.”
“No, Carlisle. Sono sicuro di poterci riuscire. Sarà uno
stimolo interessante. Mi basterà nutrirmi molto bene.”
In realtà temevo che per Emmett fosse troppo presto, ma
lui per carattere, prendeva tutto come una sfida e contavo su questo fatto, per
la sua capacità di resistenza. In effetti, non sbagliai e al primo impatto con
l’ambiente scolastico, Emmett diede prova di un ottimo controllo che lo riempì
di orgoglio.
Rosalie aveva già resistito a prove ben più drammatiche e
l’esperienza scolastica sarebbe stata una passeggiata in confronto. L’unico
fastidio per lei era dover stare in mezzo agli umani e fingersi simile a loro.
Si sentiva a disagio, anche se le piaceva il trambusto che suscitava il suo
aspetto magnifico, ma assumeva maggior naturalezza e si tranquillizzava se
Emmett era vicino a lei: il fratello e compagno aveva davvero un grande
ascendente sul suo equilibrio.
Alcuni mesi dopo il nostro arrivo, telefonai a Eleazar
per informarlo sul luogo del nostro soggiorno; senza farmi sentire da Esme,
chiesi notizie di Edward.
“Hai qualche novità, Eleazar?” chiedevo in tono pacato.
Non ci speravo davvero, eppure non sapevo evitare le mie
inutili richieste. La risposta di Eleazar era sempre invariata.
“Niente, Carlisle. Non abbiamo notizie.”
Le notizie le recuperai io, qualche settimana dopo.
Strane voci giravano in città; una mattina umida e grigia
di nebbia ero passato dal giornalaio vicino all’ospedale e sentii i discorsi di
un terzetto di uomini, fermi a pochi metri dall’edicola; un uomo venuto da
Memphis, stava raccontando di strane morti avvenute nella sua città. Come a New
York, anche lì, erano stati scoperti dei cadaveri con delle strane ferite al
collo. Il tizio, che doveva essere un buontempone, per scherzo aveva parlato
apertamente di vampiro.
“C’è un vampiro a Memphis, vi dico. Una notte l’ ho visto
volare via come un pipistrello!”
A parte la nota folkloristica, era sicuramente l’opera di
un vampiro. Poteva trattarsi di mio figlio?
I giornali non parevano dare molto risalto alla vicenda.
Delle vittime, tutti uomini, non si sapeva nulla; perfetti sconosciuti, senza
alcun legame apparente; solo uno fra essi era già schedato dalla polizia per
atti di violenza.
Era l’unico indizio che avessi.
Ma poteva anche essere solo un caso.
Sul momento, non avevo alcun modo di verificare la
veridicità dei fatti, non avevo altro che sospetti.
Sospetti che nei giorni che seguirono mi consumarono la
mente e il cuore.
Edward
era a Memphis? Era una città di estremi, pericolosa, immensa, un vero
luogo di contraddizioni fin dalle sue origini, un intreccio di cotone, schiavi
e blues, il triste canto dei neri nelle piantagioni.
Il desiderio di sapere si scontrava con la ragione che mi
avrebbe imposto di non ascoltare il vago richiamo di un’ illusione, alla
disperata ricerca di un fantasma che voleva essere dimenticato.
Più io cercavo di allontanare quel fantasma più lui si
avvicinava, continuando a inseguirmi. E non inseguiva solo me; inseguiva anche
Esme, lo sapevo. Lei meno di me poteva lasciar andare il ricordo del nostro
ragazzo, quel figlio che più di tutto ci aveva legati. Troppo sensibile ai miei
cambi d’umore, si accorse del mio stato d’animo, della strana inquietudine che
mi rendeva pensieroso.
Con l’anima ero già a Memphis.
“Mi vuoi dire, cos’hai? Da qualche giorno è come se tu
fossi altrove. Parla con me, Carlisle.”
Decisa come sempre.
Ero seduto alla scrivania; sfogliavo svogliatamente una
rivista scientifica. Alcuni tomi di medicina erano appoggiati in un angolo.
Esme, in piedi, mi osservava con quel suo modo tipico di guardare oltre.
“Non volevo farti preoccupare. Non è nulla di grave; -
sospirai – ecco, stavo pensando di fare una cosa…”
“Cosa?”
“Vorrei andare a Memphis.”
La guardai per cercare il suo sguardo e lei mi fissò per
un breve istante.
“Ti sei già stancato di Neshville? Siamo appena arrivati…
qualche problema all’ ospedale?”
Esme si mosse per venire ad appoggiarsi al piano della
mia scrivania. Ero rimasto seduto nella mia poltrona con le braccia appoggiate
ai braccioli, la rivista aperta sul piano.
“No. In verità, pare ci sia un vampiro laggiù… Ci sono
stati alcuni delitti…”
“Tu credi… - si bloccò per un istante. - Edward?” Sentii
la sua voce vibrare di speranza.
“Non lo so. Forse. Vorrei scoprirlo. Questa incertezza mi
uccide.”
Mi alzai dalla poltrona e mi avvicinai per sfiorarle le
mani.
“Vengo con te!” Esclamò impulsiva.
“No, Esme.”
“Si tratta di Edward.” Protestò.
“Non lo sappiamo. Potrebbe essere un vampiro pericoloso
che non conosciamo, magari un neonato, meglio non correre rischi inutili. Starò
via solo qualche giorno, il tempo di fare delle ricerche. Aspettami qui con
Rosalie e Emmett, veglia su di loro; non voglio che restino soli.”
A malincuore, Esme dovette rassegnarsi.
A Rosalie, il mio viaggio seppur breve non fece piacere.
Rappresentava l’ennesima minaccia per lei. Esternò il suo disappunto,
sfogandosi con Esme.
“Carlisle dovrebbe smetterla di preoccuparsi per Edward.
Ha voluto andarsene per la sua strada, ha fatto la sua scelta e non tornerà
indietro. Noi invece, siamo qui, ora, e abbiamo bisogno della sua guida.”
Esme oppose alla sua irritazione un tono di vago
rimprovero.
“Rosalie, Edward è nostro figlio e anche tuo fratello, e
fratello di Emmett. Qualunque strada abbia scelto, questa sarà sempre la sua
famiglia, e come tale saremo sempre pronti a riaccoglierlo. Ci preoccuperemo
sempre per lui. Non devi temere che per questo, Carlisle si dimentichi delle
sue responsabilità. Si comporterebbe nello stesso modo con te o Emmett. Mi
sembra che in passato lo abbia già fatto, no?”
Due notti dopo ero nel Sud del Tennessee, a Memphis, nel
cuore pulsante della città, nelle sue vie oscure del centro, tra il degrado dei
quartieri più poveri dove viveva da sempre la gente di colore. Gli uomini
uccisi erano tutti bianchi.
Forse ero venuto nel posto sbagliato?
E se anche avessi incontrato Edward in quell’ oscurità,
cosa avrei fatto?
E lui? Che avrebbe fatto lui?
Annusai l’aria che gravitava attorno. Mi pareva che la
gente avesse paura; era un timore indefinibile, qualcosa di sinistro che
strisciava sui muri delle case, qualcosa che non aveva corpo né nome.
Colsi i discorsi di alcuni avventori di un bar d’infimo
ordine; seduto in un angolo fingevo di bere la roba alcolica che avevo nel
bicchiere, mentre captavo sensazioni, ascoltavo commenti sussurrati
all’orecchio del vicino.
“Hanno trovato Willy a pochi isolati da qui; sapevo che
sarebbe finito morto ammazzato, prima o poi. Era una vera carogna, non era un
segreto per nessuno. Il demonio è venuto a prenderselo… pare che non avesse una
goccia di sangue in corpo.”
“E quell’altro tizio che hanno trovato vicino al
cimitero? Tu sai chi fosse?”
“Ah, non lo so. Sembrava un tipo tranquillo. Però anche
su di lui giravano strane voci non confermate; dicevano che avesse violentato e
messo incinta la sorella minore e che poi l’abbia costretta ad abortire di
nascosto.”
Cinque vittime e altrettante storie che non erano
edificanti; cinque uomini che potevano nascondere segreti tremendi, segreti che
solo Edward avrebbe potuto scoprire. La polizia andava alla cieca; né prove, né
testimoni. Nessuna collaborazione da parte della gente. Solo cadaveri
dissanguati e moventi oscuri, sepolti nei loro pensieri.
Andai sui luoghi delle aggressioni; erano punti abbastanza
isolati. Posti perfetti per un vampiro che agisce indisturbato.
Una strada della periferia frequentata da passeggiatrici;
una per ogni lampione a intervalli regolari. Alcune di queste disgraziate erano
andate col cliente sbagliato; furono ritrovate nel fiume Mississippi con la
gola tagliata.
Ma il cliente omicida doveva aver incontrato un assassino
più letale e spietato.
Ero sempre più convinto che fosse Edward il misterioso
assassino e che le sue vittime fossero in realtà mostri a loro volta.
Avrei voluto incontrarlo, parlargli, anche se non sapevo
bene cosa avrei potuto dirgli.
Lo avrei convinto a rinunciare alla sua sete di sangue e
vendetta?
Lo avrei supplicato di tornare a casa?
Vagavo per le strade di Memphis, di notte, e avevo
l’impressione di essere entrato in uno strano girone dantesco, un mondo oscuro
fatto di tenebre dove non arrivava mai la luce, tra miserie umane e desolazione
abilmente nascoste durante il giorno dietro facciate immacolate.
Finché una notte intercettai una scia famigliare; ero
certo che fosse di Edward, anche se lievemente diversa da come la ricordavo.
L’odore toccava la città per chilometri, passando attraverso strade, vicoli che
collegavano il centro con le arterie principali della città fino all’estremo
limite, oltre il perimetro di Memphis, spingendosi nei campi attorno.
Inseguii quella scia per svariate notti; appariva e
scompariva con la rapidità del vento che soffiava da nord.
Come il vento lasciava dietro sé solo foglie morte, polvere
e vecchi fogli di giornale ed era altrettanto inafferrabile.
In un angolo buio dietro un vecchio cinema, trovai l’ultima
delle sue vittime, troppo tardi perché potessi salvarla. Vicina al corpo dell’uomo
che aveva scatenato la furia del vampiro, una scritta era incisa sul lastricato
della strada che mi premurai di cancellare.
- Smettila di
inseguirmi
L’amarezza scese su di me e improvvisamente il buco che
avevo al posto del cuore parve allargarsi; mi sentii immensamente solo quella
notte, in quella città estranea e violenta, troppo lontana da Nashville, da
Esme che mi stava aspettando fiduciosa. Capii troppo presto che sarei tornato a
casa a mani vuote, più amareggiato e sconfitto di prima.
Stavo perdendo un granello di quell’eternità che si
sarebbe perso nell’infinito scorrere del tempo.
Attimi che forse avrei dovuto concedere a qualcun altro
dei miei figli.
Avrei smesso di cercarlo, se era questo ciò che voleva. Ma
la speranza non voleva morire; essa lo avrebbe sempre inseguito come un’ombra molesta.
Fu il pensiero più intenso che gli rivolsi.
Mi chiesi se fosse già tropo lontano per sentirmi.
Era l’ultima notte a Memphis; ne ebbi la certezza solo il
mattino seguente, quando entrai nell’ufficio postale come facevo da quasi una
settimana. Mi attendeva un telegramma da Nashville. Era di Esme.
-Urge la tua presenza qui.
-Grossi problemi con Emmett. Rosalie è spaventata.
-Torna appena puoi.
Il tono allarmistico non faceva presagire nulla di buono.
Il messaggio non dava alcun riferimento su cosa fosse
effettivamente accaduto, ma non avrei avuto bisogno di leggere nero su bianco,
per immaginare il dramma. Emmett aveva impulsi violenti e ciechi che non si
preoccupava di controllare.
Forse qualcuno lo aveva provocato e fatto arrabbiare.
Magari era coinvolta anche Rosalie.
Non sapevo ancora come, né perché, ma ero certo che fosse
una disgrazia. Ero sicuro che Emmett avesse ucciso qualcuno. Speravo solo non
fosse accaduto davanti un pubblico di studenti. Speravo non fosse una strage di
innocenti.
Mentre con rapidità e profonda apprensione mi allontanavo
da Memphis, mi rendevo conto che in nessun caso potevo considerarle speranze.
Nella realtà di un vampiro non potevano esistere.
Continua…
Eccomi qui.
Non voglio tediarvi con le mie scuse, spero solo che abbiate
ancora voglia di seguire questa storia.
Avevo alcune incertezze su questo capitolo, perché non ero certa
di come rendere Emmett.
Apparentemente è un personaggio semplice, senza le paturnie di Edward
o Rosalie, quindi risultava più difficile dargli uno spessore e non renderlo
banale. Non volevo suggerire un colosso tutto muscoli e forza, quindi ho
cercato di far emergere un carattere aperto, quasi ingenuo. Rispetto agli altri
Cullen, mi sembra che mantenga un’ innocenza che non ha neppure Carlisle,
per assurdo. Così ho tentato di interpretare il personaggio. Attendo i vostri
pareri a riguardo.
Come sempre, grazie a tutti coloro che seguono e commentano.
Anche pochi, siete preziosi per me.
Un saluto.
(1) Da una piccola ricerca su internet, mi risulta
che le sacche di plastica non erano state ancora inventate. Si usavano flaconi
di vetro per raccogliere il sangue.
(2)Dalle fonti in realtà risulta che Rosalie abbia trovato Emmett sulle
montagne del Tennessee, ma per esigenze narrative ho dovuto cambiare illuogo dei fatti e spostarlo in Alaska.
Concedetemi una piccola licenza letteraria.
Tornai a Nashville in fretta e furia, senza poter
dimenticare cosa avevo lasciato a Memphis, trascinando con me l’amarezza del
mio insuccesso.
Avrei dato una delusione a Esme che sperava nel ritorno
di suo figlio, un pensiero che mi rattristava enormemente. Sapevo anche che non
avrei avuto tempo di rammaricarmi, perché altre angosce ben più gravi mi
avrebbero investito.
Grossi problemi con Emmett, diceva il telegramma.
Potevo immaginare senza troppi sforzi di quali grossi
problemi, Esme stesse parlando.
Quali problemi poteva avere un vampiro neonato, se
non quelli legati al desiderio del sangue?
Arrivai a casa dove Esme e Rosalie mi stavano
aspettando; varcai la soglia e fui investito dalle rimostranze di mia figlia.
Era agitata, nervosa e neppure la pazienza di Esme aveva effetto su di lei.
“Oh, finalmente sei arrivato! Non saresti mai dovuto
andartene per cercare Edward. Tu hai delle responsabilità qui. Ciò che è
accaduto è anche colpa tua. Trovala tu una soluzione ora.”
Cercai di non prestare troppa attenzione alla
leggera fitta di rimorso che mi colse alle parole implacabili di mia figlia, e
mi rivolsi direttamente a Esme; era più lucida e mi avrebbe esposto i fatti con
chiarezza, senza farsi travolgere dall’apprensione del momento.
“Cosa è accaduto? Emmett ha aggredito qualcuno? È
successo a scuola?” domandai, cercando di mantenere il controllo dei nervi.
L’atmosfera era abbastanza tesa.
“Emmett ha ucciso una donna; - confessò Esme senza inutili
preamboli. Io smisi di respirare. - È successo all’improvviso, mentre lui e
Rosalie tornavano a casa. Ha sentito il suo odore e non è stato capace di
resistere; ha seguito la scia finché non l’ha raggiunta. Rosalie ha tentato di
fermarlo, ma per lei, Emmett è troppo forte.”
“Ci sono stati testimoni?” domandai allarmato mentre
un peso mi gravava sul petto. Mi rilassai un poco solo al diniego di Esme.
Cercai di raccogliere velocemente le idee, mentre tentavo di non farmi vincere
dal mio senso d’impotenza.
“Ora cosa facciamo? Dovremo ripartire ancora? Se tu
fossi stato qui non saremmo in questo pasticcio.” Tornò alla carica Rosalie,
sempre più nervosa, quasi vicino all’isterismo. Inevitabilmente pensai che
avesse ragione. Io ero responsabile per le azioni di tutti i figli che avevo
creato, e se non fossi stato lontano, forse quella tragedia sarebbe stata
scongiurata.
Emmett si unì a noi dalla sala sul retro della casa.
A differenza della sua compagna, era tranquillo, sinceramente dispiaciuto, per
nulla sconvolto dall’accaduto; per lui non era altro che un incidente di
percorso, il prezzo d’obbligo della nostra natura omicida. La sua serenità
d’animo era quasi sorprendente; io mai, nella stessa circostanza, mi sarei
sentito come lui.
“Smettila Rosalie. Non è colpa di Carlisle quello
che è accaduto; sarebbe potuto succedere ovunque, in qualsiasi momento. – Alzò
le mani verso di me, quasi in un segno di resa. - Carlisle credimi: resistere
era impossibile. Almeno per me. Aveva il profumo più invitante e dissetante che
avessi mai sentito… il gusto, poi! Altro che flaconi di vetro!! Sangue giovane
e fresco che accende la sete e scalda le vene… È stato un attimo; quando mi
sono reso conto di quello che avevo fatto, era tardi. Mi dispiace, davvero.
Qualche vittima era da mettere in preventivo, credo, ma starò più attento in
futuro,lo giuro.”
“Ma come fai a parlare così! Ti rendi conto di
quello che significa?! E se qualcuno ti avesse visto? Dovremo lasciare la città
e rimetterci in viaggio.” Strillò di nuovo Rosalie, furiosa come un felino in
gabbia.
“Calma Rosalie. Devo prima capire bene la dinamica
dei fatti. Ora Emmett devi raccontarmi tutti i particolari, dov’è accaduto,
come, quando e perché. Hai parlato di un profumo particolare. Vuoi dire che era
più forte?”
“In un certo senso. Era come qualcosa di magico che
stregava i miei sensi. Non ero più padrone di me; volevo solo poter bere quel
sangue a qualsiasi costo. Non sentivo neppure i richiami di Rosalie, a un certo
punto devo averle anche ringhiato dietro. C’era solo quell’odore delizioso che
mi attirava e non potevo fermarmi.”
“Sei certo che nessuno ti abbia visto?” chiesi di
nuovo, poco convinto. Essere scoperti sarebbe stato un disastro.
“Tranquillo
Carlisle: non mi ha visto nessuno. L’unica testimone è stata Rosalie. E lei,
beh, come vedi non l’ha presa bene.”
Rosalie
ringhiò all’indirizzo del suo compagno, indispettita e frustrata dal tono
leggero con cui lui descriveva una vera e propria tragedia. Ancora non avevo
sufficienti informazioni per stabilire quanto l’azione di Emmett ci avesse
messi a rischio. Dovevo saperne di più per farmi un’idea più precisa, per
decidere cosa fare.
Così Emmett iniziò a raccontare di come avessero
incrociato per puro caso il profumo sconvolgente di una sconosciuta; complice
perverso e tragico, il vento insistente di quel particolare giorno. Lui e
Rosalie erano appena usciti da scuola. Per tornare a casa percorrevano sempre
strade poco frequentate dagli altri ragazzi, quelle periferiche e con minor
traffico. Insistevo sempre molto su certe precauzioni, ma questa volta non era
bastato a evitare il peggio.
Era stato un istante, passando sul retro di una
villetta che sorgeva un po’ isolata dalle altre di quel quartiere;
probabilmente la sua casa.
L’ effluvio che proveniva da lì, afferrò implacabile
i sensi di Emmett e mio figlio, come un segugio che segue una pista, seguì la
scia che lo condusse qualche isolato più in là, all’ingresso di una biblioteca.
Rosalie aveva tentato di fermarlo, richiamandolo più volte, minacciandolo, ma
il compagno aveva iniziato a correre a velocità impressionante passando lungo
le stradine laterali, attraverso i giardinetti privati delle abitazioni fino ad
arrestarsi di botto davanti al portone del palazzo della biblioteca cittadina.
Rosalie lo aveva quasi raggiunto prima che entrasse nell’edificio pubblico, lo
aveva seguito fino all’ultimo istante, ma non era riuscita a impedire che
raggiungesse la sua preda.
“Era incredibile; solo da quel profumo mi pareva di
poter immaginare il suo aspetto: una chioma ribelle di capelli rossi, un viso
pallido pieno di efelidi, una gola bianca che lasciava intravedere le vene
azzurrine del collo. Mi apparve esattamente così quando entrai nella sala di
lettura… l’odore mi investì completamente, annebbiò la mia mente e io non
sentii altro. Sentivo già il gusto del suo sangue sul palato.” ricordava Emmett
quasi con rinnovata eccitazione.
La donna era una delle bibliotecarie ed Emmett la
sorprese mentre riponeva alcuni libri negli scaffali dopo il consulto. Erano
presenti un piccolo gruppo di persone sparse tra i grandi tavoli rettangolari
che per fortuna erano troppo assorbite dalla lettura per accorgersi di strani
movimenti che avvenivano attorno a loro.
Emmett fu attento a non farsi notare e l’ambiente
scarsamente illuminato lo aveva aiutato. Si avvicinò a lei rapido e letale,
volando quasi sui mobili, invisibile come un alito di vento. Quando la donna si
trovò nascosta dietro uno degli scaffali posti più indietro e lontano dai
tavoli, Emmett, senza essere visto le piombò addosso, la trascinò in un angolo
e lì, si avventò sulla sua gola senza battere ciglio. La poverina non emise
alcun suono e il suo corpo esanime venne abbandonato nello stesso angolo,
nascosto dietro lo scaffale dei testi a carattere storico.
Rosalie dovette assistere a tutta la scena impotente
e angosciata dal timore di venire scoperti. A cose fatte, riuscì solo a
distrarlo per portarlo lontano dal luogo del delitto. Ascoltavo il racconto di
Emmett e avevo la sensazione illusoria che fosse qualcosa d’irreale; c’era un contrasto
evidente tra la pacata ingenuità delle parole e la gravità terribile dei fatti
narrati.
Mi chiesi quante volte ancora sarebbe potuto
accadere; se bastava un profumo vagamente diverso a far perdere il controllo a
Emmett, non sarei stato mai tranquillo in nessun luogo. Eppure aveva dato prova
di un buon controllo di sé, fino a quel momento. Avrebbe nuovamente cercato di
bere sangue umano? Sarebbe finito come Edward? Oppure era solo un tragico
scherzo del caso? Non potevo liquidare così in fretta un fatto tanto grave, che
metteva in serio pericolo la sicurezza della nostra famiglia. Dovevo essere
certo che Emmett non sentisse l’esigenza di andare a cercare altre prede umane.
“Emmett, credi che ti potrebbe accadere di nuovo
nell’immediato? Senti per caso l’esigenza di nutrirti di sangue umano? Sei
sicuro che non sia accaduto per questo? È molto importante capire la ragione
del tuo gesto, se vogliamo evitare la morte di un altro innocente.”
“Carlisle, per me non è cambiato nulla. Non desidero
nutrirmi di sangue umano più di quanto non lo volessi prima. E non sto affatto
pensando di cambiare la mia dieta, se è questo che temi. Mi dispiace farti
preoccupare tanto. Te l’ho detto, è stato un incidente, ma sono in grado di
resistere, se voglio.”
“Lo spero bene.” Commentò Rosalie, acida.
Mi ero seduto al tavolo della sala, i gomiti
appoggiati al legno levigato e lucido e le mani intrecciate davanti.
“Resta il fatto che hai ucciso per il sangue ed è
qualcosa che non possiamo sottovalutare; è quasi incredibile che in quella sala
nessuno si sia accorto di nulla. Tu sei davvero sicuro di questo?”
“Sì, te l’ho detto. Mi sono mosso troppo velocemente
per gli occhi umani.”
“Sarà meglio evitare la scuola, per qualche giorno.
Vediamo come reagisce la polizia, la gente in città, poi ci muoveremo.”
Ero rattristato dalle infinite delusioni che mi
riservava la vita, mi sentivo sconfitto dalle difficoltà che mi piombavano
addosso senza che potessi evitarle né risolverle, ma non colpevolizzavo mio
figlio, ce l’avevo più con me stesso.
Era un sollievo che Emmett non vivesse i conflitti
di Edward. Alleggeriva almeno un po’ la mia coscienza.
Quella sera stessa parlai con Esme; la mia compagna
era immersa nella vasca da bagno, avvolta dalla schiuma soffice e bianca del
sapone. Era uno di quei piaceri tipicamente umani che si concedeva con voluttà
e a me piaceva avvolgerla dentro il telo di spugna quando usciva dall’acqua
calda che le scorreva in goccioline sulla pelle. Era un gioco erotico che
finiva sempre in un amplesso consumato sul pavimento o in piedi, contro le
pareti umide del bagno. Ma quella sera io mi accostai alla vasca, appoggiandomi
sul bordo e quando trovai gli occhi color miele di Esme, leggemmo
reciprocamente le nostre anime afflitte dalla pena. C’erano altre domande che
aleggiavano fra noi.
“Che cosa hai trovato a Memphis? Si trattava di
Edward, vero?”
“No, non era Edward, quello. Non posso pensare che
si sia trasformato in un assassino spietato.” Sussurrai amareggiato.
“Lo hai incontrato? Hai provato a parlare con lui?”
“Non ci sono riuscito Esme. E anche se lo avessi
fatto, non sarebbe servito. Mi dispiace tanto.”
Un lieve rumore; sentii la sua mano uscire
dall’acqua e posarsi sul mio braccio.
“Non rinunciare, Carlisle. Non dobbiamo perdere la
speranza.”
Ma la speranza io l’avevo lasciata a Memphis, persa
in qualche vicolo oscuro di quella città violenta.
“Forse ha ragione Rosalie: dovevo restare qui a
proteggere la mia famiglia. Quello che è accaduto con Emmett…- esitai incerto -
se fossi rimasto qui, forse mi sarei accorto della debolezza di mio figlio.
Continuo a fare scelte sbagliate e le conseguenze di queste azioni sono
tragiche. Se fossi stato qui, non sarebbe successo l’irreparabile, avrei potuto
impedirlo.”
“E come avresti fatto? Sei sempre convinto di poter
controllare gli eventi, non è così? Ma non puoi Carlisle, è una cosa che devi
accettare. Vuoi ritrovare tuo figlio e lo voglio anch’io, e questo è un
desiderio legittimo. Io non rinuncerò mai a Edward, ma ci sono Rosalie ed
Emmett; lui non voleva deluderti, ma la sua natura selvaggia è ancora troppo
forte. Anche la sua volontà, per fortuna; ha ceduto alla bestia nera che ci
possiede, eppure sono certa che non farà la scelta di Edward. Devi credere in
lui.”
“Non credo più in me, Esme.”
“Io sì, e anche Rosalie. E anche Emmett; è sempre
disposto a seguirti.”
Esme uscì dalla vasca, si avvolse nell’accappatoio
bianco appeso al muro e venne ad abbracciarmi. L’acqua calda aveva reso il suo
corpo tiepido e invitante. Solo nel suo grembo io riuscivo a dimenticare
l’amarezza che mi portavo dentro da mesi, ormai. In lei annegavano tutte le
delusioni e i rimorsi.
La strinsi tra le braccia mentre Esme affondava le
sue dita nei miei capelli e la baciai, poi lentamente le feci scivolare
l’indumento sulle spalle candide fino a scoprire i seni di giglio; cadde a
terra ai suoi piedi in morbide pieghe scomposte e mi ritrovai davanti il suo
corpo nudo. Presto anche i miei vestiti trovarono il pavimento e mi unii a lei,
lì, con frenesia senza poter aspettare. Era un po’ di felicità balsamica sui
lividi che mi portavo addosso.
Purtroppo non era del tutto vero che Emmett non era
stato notato da nessuno.
Un compagno di scuola lo aveva visto scendere le scale che portavano alla sala della lettura. Il
mattino seguente il mio ritorno a Nashville, si presentò alla porta di casa
Cullen, l’ispettore di polizia che indagava sull’omicidio. Voleva interrogare
Emmett come possibile testimone.
Naturalmente la cosa mi allarmò moltissimo, ma
camuffai abilmente il mio malessere di fronte al funzionario. Ero amareggiato
per la morte di una povera donna che aveva avuto la sfortuna di scatenare la
sete di un vampiro, ma dovevo pur sempre proteggere mio figlio.
Invitai l’ispettore Hoffman ad accomodarsi in
salotto. Non avevo liquori o altre bevande da offrire al mio ospite, solo del
caffè, che tenevamo in casa per le emergenze. C’era sempre la necessità di
salvare le apparenze.
Esme, da perfetta padrona di casa, servì il caffè
caldo con un amabile sorriso.
“Grazie signora, molto gentile. Lei non lo prende,
dottor Cullen?”
Alla domanda, alzai una mano per oppormi.
“No, io l’ho già bevuto; preferisco non esagerare,
altrimenti non dormo la notte.” Obbiettai candidamente.
“Immagino che sappiate dell’omicidio che c’è stato
alla biblioteca; una ragazza che lavorava lì, Mary White è stata trovata
assassinata.” Esordì tranquillamente l’ispettore.
“L’ho saputo recentemente; ero fuori città e sono rientrato
solo ieri. Che cosa terribile.”
“Già. Mai accaduto nulla di simile, qui. Posso
chiederle perché si trovava fuori città, dottore?”
“Per lavoro.”
L’ispettore infilò una mano nella tasca interna
della giacca da cui tirò fuori un taccuino e una penna.
“Stiamo interrogando tutti i possibili testimoni;
pare che nessuno abbia visto niente. Il più giovane dei Moore, Danny mi ha
detto di aver visto vostro figlio in biblioteca quel giorno…”
“Danny Moore, sì lo conosco; un bravo ragazzo. Ma
cosa c’entra mio figlio?”
“Beh, vede, mi chiedevo se potesse aver visto
qualcosa o qualcuno di sospetto. Potrei parlare con lui?”
“Ma certo. Glielo chiamo subito.”
Emmett ci raggiunse di lì a poco. L’ispettore gli
porse alcune domande rapide a cui mio figlio rispose con la massima calma,
senza alcuna enfasi. Io e Esme fummo presenti durante l’interrogatorio, ma ci
mantenemmo imperturbabili e comunque, Emmett seppe gestire la cosa
perfettamente. Hoffman, l’impermeabile sul braccio, teneva in mano il taccuino
e prendeva appunti.
“Quindi lei non ha notato niente di stano, umh…
Quanto tempo si è fermato in biblioteca?”
“Solo il tempo di cercare un libro che però non ho
trovato. Pochi minuti, poi sono andato via.”
“Oh, e qual’era questo libro?”
“Un testo di letteratura medioevale per una ricerca
scolastica.”
Una scusa un po’ plateale che poteva anche reggere,
se l’ispettore non fosse andato a verificare. Se avesse approfondito le sue
indagini avrebbe capito che mio figlio mentiva, e soprattutto, avrebbe
sospettato di qualcosa.
“Lei, quindi, non è entrato nella sala di lettura?
Per caso, ha visto Mary White viva?” Chiese l’uomo sollevando gli occhi dal
taccuino che scarabocchiava.
“No, glielo detto. Non ho visto quella donna e non
ho parlato con lei. Mi dispiace ispettore.”
“Capisco. Per ora è tutto, ma potrei aver bisogno di
farle altre domande. – Poi si rivolse a me, richiudendo il suo taccuino e
riponendolo in tasca. - La sua famiglia, dottor Cullen, dovrebbe rimanere a
disposizione della polizia.”
“Ma certo ispettore. Quando vorrà, saremo a sua
disposizione.” dissi congedandolo in modo formale.
Hoffman lasciò la nostra casa, ma non avevamo
dissolto le sue perplessità. Si vedeva dal suo sguardo, da una ruga sulla
fronte che non si distendeva sotto la pressione di chissà quali pensieri.
Mi mancava Edward anche per questo. Con lui sarebbe
stato facile capire gli sviluppi delle indagini e quanto eravamo compromessi.
Danny aveva notato Emmett mentre scendeva le scale per
lasciare l’edificio pubblico, ma per fortuna, nessuno sembrava aver visto
Rosalie che seguiva il fratello. Era l’unico fatto positivo, ma per tutto il
resto non ero tranquillo. Era una faccenda troppo delicata e pericolosa. Il
rischio a restare in città era troppo alto; i miei pensieri stavano correndo
tutti in quella direzione e non vedevo soluzioni diverse dalla fuga.
L’ispettore Hoffman mi sembrava un uomo ostinato; non si sarebbe arreso tanto
presto. Prima o poi, i suoi sospetti sarebbero caduti su Emmett e le conseguenze
avrebbero potuto essere gravi. E non ero certo che Emmett non avesse lasciato
indizi evidenti; trascinato dal furore dell’istinto non si era preoccupato di
poter essere scoperto, anche se insisteva a dire che era stato attento. Era
solo per puro caso che in quella sala nessuno si fosse accorto di un vampiro
famelico che aggrediva una donna.
Riunii tutti in sala per parlare con loro e fare il
punto della situazione. Ero in piedi con le braccia conserte, Rosalie ed Esme
erano sedute al tavolo, Emmett, dietro la sua compagna le posava le mani sulle
spalle.
“Alla luce dei nuovi fatti, tutta la nostra
situazione è cambiata. – Mi rivolsi direttamente ad Emmett. - Siamo troppo
esposti; c’è un testimone che ti ha visto sul luogo del delitto. Non ha visto l’omicidio,
ma questa è una spada di Damocle che ci pende sulla testa e potrebbe caderci
addosso. Dobbiamo andarcene prima che succeda, perché non v’è dubbio che
accadrà.”
“Dobbiamo organizzarci per la partenza, ci vorrà
qualche giorno.” Obbiettò Esme.
“No, non abbiamo tempo. Partiremo stasera stessa; è
una fuga repentina, ma non abbiamo alternative.”
“Io stavo iniziando ad ambientarmi. Mi piaceva
questa cittadina. Ora dovremo iniziare tutto da capo, in un’ altra scuola,
gente diversa. Tutta colpa tua, Emmett.”
Sibilò Rosalie al suo compagno che non tentò neppure
di contraddirla. Io cercai di blandirla, di farle comprendere la situazione
perché si sforzasse un poco di accettarla. Emmett aveva le sue responsabilità,
ma la sua natura era quella. Era la natura di tutti noi: il leone mangia la
gazzella.
“Rosalie, siamo vampiri; è una cosa con cui dovremo
sempre fare i conti, ovunque andremo. Quello che è successo a Emmett, potrebbe
accadere ancora e non solo a lui. Il profumo del sangue umano sarà sempre una
tentazione enorme. Dobbiamo sempre stare in guardia. Questo deve essere un
monito per il futuro, non creare divisioni tra noi.”
Partimmo la sera stessa portando via le poche cose
che potemmo caricare insieme ai bagagli.
Non avevamo avuto il tempo di pensare a una
direzione precisa, ma puntai decisamente verso il Canada, il primo posto sicuro
che mi venisse in mente.
“Dove pensi di stabilirti?” Mi chiese Esme,
vagamente in ansia, ma fiduciosa riguardo le mie decisioni.
“Toronto, Canada, vicino ai grandi laghi sul
confine; quella è un’ottima zona anche per cacciare. Oppure Cleveland; è
sufficientemente lontano e potremmo arrivare in poco tempo. Potremmo stabilirci
lì, per un po’, finché non troviamo una sistemazione migliore.”
E così facemmo.
Pochi giorni e fummo a Cleveland. Feci qualche
telefonata in Alaska; preparai il nostro arrivo, documenti e quant’altro, prima
di ripartire per Toronto. Non ci saremmo trovati male da quelle parti e il
Canada, con il suo clima freddo era una terra perfetta per noi.
Lasciai Nahville, ma non i sentimenti amari con cui
convivevo da quando Edward ci aveva abbandonati. Amarezza, rimorso, fallimento,
depressione erano un bagaglio pesante, una zavorra che continuavo a portare con
me ovunque, che mi rallentava, ma non riuscivo ad abbandonare. Non immaginavo
quanto ancora mi avrebbe seguito, né se mai sarei riuscito a liberarmi di quel
fardello. Avrei voluto avere maggior speranza, recuperare la fiducia in me
stesso, ma quella era l’unica cosa che non voleva accompagnarmi lungo la mia
strada tortuosa.
L’unica consolazione che mi restava era la mia
famiglia, provata dalle esperienze, dai miei stessi dolori. Emmett incontrò di
nuovo il suo demone, la bestia nera che dominava la sua natura, più forte
ancora della prima volta.
Avrebbe ucciso di nuovo se non fossi stato lì a
impedirglielo con la forza, sulle rive del lago Ontario. Una donna stava
nuotando nelle sue acque scintillanti. Lo avevo bloccato e lo avevo trascinato
via da quel profumo dolce e terribile che annullava la sua volontà, che lo
stregava facendolo cadere in trappola, trasformandolo in un mostro.
Quello stesso profumo che recentemente, ha quasi
sconfitto Edward, che l’ha condotto sull’orlo di un nuovo abisso.
Dovevo ringraziare di avere Esme, la mia dolce e
comprensiva compagna, tanto forte e determinata quanto sensibile ai miei umori
mutevoli. Lei era la marea dolce dell’amore che bagnava la mia riva segreta e
cullava la mia anima angosciata. Tanto preoccupata per me, ma sempre decisa a
sostenermi, sempre pronta a fare di tutto per scuotermi, per non lasciarmi
scivolare nel mio pessimismo, un malessere che durava e pareva non voler
guarire. Era un dolore sordo, persistente, che inghiottiva la luce del bene che
mi sforzavo di conservare.
Sarei mai guarito?
Aspettavo la cura, attendevo quella scintilla di
speranza vitale che poteva essere l’inizio di un nuovo tempo per tutti noi.
Aspettavo contro ogni buon senso e previsione, che Edward tornasse.
Era il 1939; strane nubi nere si addensavano sul
futuro e oscuravano l’immagine della mia vita che andava disegnandosi
sull’orizzonte lontano.
Continua…
Eccomi qui. Salve a tutte care
lettrici e buon anno; ci siete ancora? Spero di sì.
Due cose su questo capitolo, un po’
corto rispetto agli altri, mi è venuto così.
Il titolo e parte del racconto è
liberamente e indegnamente ispirato al romanzo “Il profumo” di P. Suskind.
Anche lì, c’è un assassino che uccide le donne coi capelli rossi per il loro
profumo.
Sappiamo che Emmett si è nutrito di
sangue umano almeno due volte, (ma la seconda volta ho preferito far
intervenire Carlisle) così dice Edward in “Twilight”. Proprio leggendo il
romanzo, mi sono fatta l’idea che Edward non fosse presente al momento dei
fatti, nel senso che era lontano dalla sua famiglia. Detto questo, spero che la
lettura sia stata gradevole, aspetto di conoscere i vostri pensieri a riguardo.
Il mio grazie più sincero va a tutte
coloro che continuano a seguirmi e naturalmente ai commenti sempre molto
graditi che mi lasciate. Spero sempre di non avervi deluso. Al prossimo
aggiornamento e come sempre, scusate il ritardo con cui avverrà.
Mentre in America la vita procedeva apparentemente
tranquilla, le notizie che giungevano dall’Europa erano preoccupanti; il vero
volto del nazismo stava emergendo e le manie espansionistiche di Hitler erano senza
freni, un pazzo posseduto da un’ideologia fanatica e megalomane che stava per
trascinare un popolo intero sull’orlo della perdizione. Prima del ‘39 era
riuscito ad annettere nuovi territori alla Germania, tra cui la Renania,
l’Austria e la Cecoslovacchia e sembrava intenzionato a procedere con la sua
guerra lampo e nessun esercito pareva in grado di contrastarlo.
Aveva invaso e occupato la Polonia in poco più di
tre settimane, così Francia e Gran Bretagna avevano dichiarato guerra ai
tedeschi; era, di fatto, iniziata la seconda guerra mondiale.
Nel 1940 le truppe tedesche invasero la Norvegia, la
Danimarca, il Belgio, l’Olanda e la Francia e in seguito all’occupazione in
quei territori furono imposti governi fantoccio che collaboravano con gli
occupanti.
Gran parte dell’Europa era oramai sotto ferro e
fuoco e le truppe naziste si sarebbero spinte sempre più verso l’Europa
dell’Est con l’intenzione di distruggere lo stato comunista. Era solo questione
di tempo, ma presto anche gli Americani si sarebbero trovati coinvolti,
catapultati con violenza dentro il conflitto in seguito all’attacco fulminante
da parte dei giapponesi nel porto di Pearl Harbour il 7 dicembre del ‘41.
Non si sapeva ancora nulla delle deportazioni, né
dei progetti di sterminio di Hitler ai danni del popolo ebraico; qualche ebreo
fuggito fortunosamente sopraggiungeva dall’Europa e portava notizie di
persecuzioni, leggi razziali atte a interdire gli ebrei alla vita pubblica, e
rastrellamenti indiscriminati di civili per obbligarli a lavorare nelle
fabbriche belliche del regime. Ma le più erano notizie frammentarie, a volte
confuse, perché la propaganda nazista censurava e filtrava ogni informazione.
Avevo già visto troppe guerre e atrocità nella mia
lunga esistenza e avevo sempre fatto di tutto per non farmi coinvolgere dai
conflitti umani. Questa non sarebbe stata più terribile e brutale delle altre
che avevano insanguinato la storia umana. Eppure il tempo e le testimonianze mi
avrebbero insegnato che mi sbagliavo: non esiste limite alla follia,
all’aberrazione, alla crudeltà che l’uomo può concepire e il carismatico
dittatore della Germania si sarebbe dimostrato un uomo peggiore, molto più
ossessionato dal sangue di qualsiasi vampiro avessi incontrato nella mia
esistenza ultracentenaria.
Per quanto attraverso i secoli, io abbia cercato di
non essere altro che un testimone imparziale della storia, la vita alcune volte
ci mette davanti a situazioni impreviste che ci costringono a confrontarci con
i nostri stessi fantasmi. A Toronto la nostra esistenza apparentemente normale
trascorreva pressoché tranquilla; grazie alle mie buone referenze, sempre ben
accolte, lavoravo nell’ospedale della città come primario, ed Esme insegnava
presso la scuola elementare; era un’ ottima maestra, stimata e apprezzata dalle
colleghe, amata dai suoi alunni, rispettata dai loro genitori.
Emmett e Rosalie si erano iscritti al terzo anno di
liceo come due ragazzi normali, e fortunatamente Emmett aveva imparato a
resistere bene all’odore del sangue umano; ormai gli era quasi indifferente, ma
sapevo che se si fosse trovato a dover uccidere, non ne avrebbe mai fatta una
tragedia. Emmett era così, del tutto privo di conflitti.
Una natura semplice, la sua.
Ringraziavo il cielo che fosse tale; il suo spirito
alleggeriva molto il mio senso di colpa e preferivo non fermarmi a riflettere
troppo su questo; se lo avessi fatto sarei certamente ricaduto nella
depressione che cercavo di allontanare e combattere come potevo.
Nel complesso ci eravamo adattati bene alla nuova
situazione.
Di Edward continuavamo a non avere notizie di alcuna
sorta, ultimamente non riuscivo a trovare neppure vaghe informazioni sui
giornali; sembrava fosse sparito dall’intero continente americano.
Esme era preoccupata e a volte intristita, ma
cercava di non mostrare la sua inquietudine, soprattutto a Rosalie, che reagiva
sempre un po’ male al suo malessere. Sentiva enormemente la mancanza di suo
figlio, ma si sforzava di non manifestarla. In rare occasioni, solo quando era
sola con me, cedeva allo sconforto e si struggeva nella malinconia di un
ricordo che le sovveniva alla mente. Pensava ai suoi sorrisi per ritrovare il
proprio. Molto spesso cercavamo di sostenerci a vicenda, quando lo sconforto
diventava, a momenti, insopportabile: io cercavo d’incoraggiare lei, e
altrettanto Esme faceva con me.
Telefonai a Eleazar in un paio di occasioni con la
speranza che lui potesse darci notizie, ma mi bastava sentire la sua voce
affranta dall’altra parte del filo telefonico per capire che non aveva nulla di
nuovo da dirci.
Eleazar soffriva per noi, partecipando del nostro
dolore, e qualche volta con empatia ci concedeva bugie pietose.
“Vedrai che tornerà, un giorno. Non perderti d’animo
Carlisle. Il fatto che non trovi notizie di morti efferate sui quotidiani,
forse indica un qualche ripensamento da parte sua. Potrebbe essere…”
Lo ringraziavo, ma non nutrivo il suo stesso
ottimismo.
Sentivo Edward lontano e irraggiungibile. In
svariati momenti, avevo la forte sensazione di averlo perso per sempre; non
sarebbe mai tornato sui suoi passi. Temevo che si fosse dimenticato di noi, ma
non osavo esprimere a Esme il mio tetro pessimismo.
Solo il lavoro mi permetteva di non farmi sopraffare
dai sentimenti e com’era mia consuetudine, limitavo sempre molto i miei
approcci agli umani, concedendo solo la confidenza necessaria a salvare le
apparenze.
Ma a Toronto accadde quello che in passato era già
accaduto una volta. Mi avvicinai troppo, lasciandomi coinvolgere.
Tra i miei colleghi, in ospedale, lavorava un medico
di origini ebraiche: si chiamava Adam Keller.
Il dottor Keller era un professionista preparato ed
efficiente, un ottimo medico, competente e molto apprezzato da medici e
pazienti. Era una persona solare e disponibile con tutti, in buoni rapporti con
chiunque, sempre pronto a elargire consigli e ben disposto all’ascolto degli
altri. In definitiva, una bravissima persona, un uomo giusto come era ritenuto
dalla sua comunità. Diventammo buoni amici e ottimi collaboratori.
Entrando in confidenza con lui, scoprii che aveva
dei parenti che vivevano in Europa, per l’esattezza in un paesino della Francia
meridionale. Erano parenti della moglie, la famiglia di una delle sorelle.
Finché aveva potuto si era mantenuto in contatto con loro, ma nell’inverno del
‘42, le notizie si erano fatte via via più rade e frammentarie. Aveva ricevuto
non si sa come, e da chi, strane lettere dalla Francia, missive dai contenuti
inquietanti e sinistre; vi si parlava vagamente di ebrei, anche bambini, che
venivano presi e portati via nel cuore della notte dalle loro case, costretti
in quartieri appositi, veri e propri ghetti, che dopo un certo tempo venivano
spediti su convogli verso una destinazione che restava ignota.
Di queste persone nessuno sapeva più niente e le
autorità non davano informazioni a riguardo.
Adam, il camice bianco che pareva troppo grande per
lui, nascosto dietro i suoi occhialini da vista, durante il giro delle visite
ai pazienti in reparto, mi parlava delle sue preoccupazioni, dei suoi timori; attraverso
le sue parole mi pareva di cogliere meglio le mie stesse inquietudini e di
nuovo mi stupivo di trovare negli occhi di un semplice mortale, un lato
profondo di me stesso.Nelle persone
come Adam, nelle loro fragilità, nei loro sentimenti ritrovavo la mia umanità
pressoché intatta. Era qualcosa che non finiva mai di sorprendermi. Era una
delle poche cose che mi facesse sentire migliore di ciò che ero.
Durante la pausa pranzo, a volte, mi fermavo alla
mensa dell’ospedale con lui; mi sedevo al suo tavolo anche se naturalmente non
mangiavo, fingevo semmai di bere dell’acqua; più che altro, lo ascoltavo e
qualche volta esternavo le mie opinioni.
“Pare che Hitler usi gli ebrei come forza lavoro: li
considera manodopera a basso costo.”
“Può essere, ma perché prendono anche i bambini?”
Chiedeva Adam perplesso.
“Forse perché costano ancora meno degli adulti.
Stiamo vivendo tempi difficili e L’Europa è investita dalla bufera; chi ha
sentito i discorsi del Furher alla radio, dice che è un pazzo fanatico fissato
con la razza ariana e la supremazia della Germania sul mondo. Credo che debba
essere fermato, e presto. L’America potrebbe fare di più e spero che lo faccia
quanto prima...”
Parlavo senza enfasi, per non inquietarlo più di
quanto non fosse: avvertivo il cupo malessere che lo angustiava.
“Non so che pensare, Carlisle. Mi sono arrivate
all’orecchio storie raccapriccianti; abbiamo mantenuto i contatti per vie
traverse, con persone fidate in Europa; chi può tenta, se ne ha i mezzi, di
fuggire, cosa non facile dato che i tedeschi controllano tutto. Ho cercato di
mettermi in contatto con la sorella di mia moglie, ma sono mesi che non ho
notizie della sua famiglia. Ho paura che sia accaduto il peggio.”
“Non devi pensarlo. Devi sperare, invece.”
Ma lui scuoteva la testa, poco convinto.
“Sperare? – Sospirò sconsolato – In cosa? Non so se
riesci a capire come mi sento, Carlisle. Le false speranze possono uccidere
quanto la verità più terribile; sarebbe meglio rassegnarsi, a volte.”
Rimasi in silenzio a riflettere sul senso di
quell’affermazione, mentre Adam continuava a svelarmi i suoi pensieri.
“Sai cosa significa dover convivere con il timore di
non rivedere più qualcuno a cui vuoi bene, un amico, un tuo famigliare…- Adam
sospirò pesantemente. - Se non lo hai mai provato ti auguro di non provarlo
mai; vivi nell’incertezza più cupa e triste, e il cuore si fa pesante e amaro.
Io sto cercando di prepararmi ad ogni eventualità, ma è difficile…”
Sapevo di cosa stava parlando, purtroppo; sapevo
cosa voleva dire sentirsi così. Conoscevo il peso dell’angoscia e la ritrovavo
uguale nelle parole del medico ebreo.
“Non perderti d’animo Adam. – dissi, posandogli una
mano sulla spalla. - Potrebbero essere nascosti in un luogo sicuro, forse sono
stati aiutati da qualcuno. Forse sono già imbarcati su una nave diretta qui.”
Lo dicevo con reale convinzione.
“Spero che tu abbia ragione.” Parlava bevendo
l’ultimo sorso del suo caffè.
Volevo che avesse una speranza da coltivare. Anch’io
fino a quel momento avevo cercato di tenere viva la mia, anche se era
difficile, anche se a volte avrei voluto rinunciare; per fortuna, c’era sempre
qualcuno come Esme, che non me lo lasciava fare.
Adam avrebbe trovato le sue risposte amare e
terrificanti alla fine della guerra, con i morti e i sopravvissuti che erano
come morti, privati perfino dei loro nomi.
Io come lui aspettavo la fine di questa stagione
oscura, il passaggio di questi venti di tempesta che investivano le vite degli
uomini.
Quando il vento dell’odio si fosse placato, forse
avrei ritrovato ciò che avevo perso.
Fu proprio in quegli anni, che io e Esme ci legammo
ancora di più e con maggior forza; ricercammo i nostri spazi e la nostra
intimità più che in passato.
Cercavamo di approfittare di ogni momento insieme nello
sforzo di vivere la vita il più serenamente possibile. Ci piaceva andare al
cinema, una passione nata fin dagli anni ’20, con i film muti di Buster Keaton
e le commedie dolci, ironiche e un po’ amare di Charlie Chaplin.
Esme si era commossa con ‘Il monello’, [1]
ed era rimasta impressionata quanto me, dalla scena finale de ‘Il grande
dittatore’,il suo film capolavoro
del 1940, una parodia geniale del tempo storico che stavamo vivendo. [2]
Era stata un’ invenzione quella dei fratelli Lumierre che
dalle origini fino all’avvento del colore, aveva rivoluzionato la vita della
gente, facendo sognare grandi e piccini in tutto il mondo e gettando le basi di
un’ industria fiorente.
Eravamo andati a vedere “Via col vento” più
di una volta, colossal che narrava un’ epopea della storia Americana che aveva
appassionato Esme. Durante la scena dove si vedeva bruciare la città di Atlanta
assalita dei nordisti, lei mi aveva domandato di quegli anni, della guerra
civile e di come ci fossi passato in mezzo. [3]
All’uscita del cinema, sulla macchina che ci
riportava a casa, lungo le strade di Toronto, ne parlammo per tutto il tempo.
Trovava straordinario che io fossi stato testimone
di quel periodo, che potessi aver visto quello che altri uomini avevano solo
immaginato e studiato sui libri di storia.
“Puoi dire di aver visto nascere l’America,
Carlisle. Non è un fatto straordinario?”
“Sì, è vero. Ma è costata molto sangue, e molte ingiustizie.
E lotte tremende, anche se necessarie in nome della libertà. Ho visto troppe
guerre, Esme, e non sono mai una soluzione, lo posso dire senza temere di
apparire ovvio.”
Esme restava in silenzio qualche minuto come volesse
valutare il peso delle mie parole, poi tornava a manifestare il suo entusiasmo
per il film e i suoi protagonisti.
“Rossella O’Hara è una donna dalla forza
straordinaria che non si arrende mai agli ostacoli della vita; passa in mezzo a
tutto e ne esce sempre più forte di prima… la Light è magnifica ad
interpretarla…”
“Hai ragione. Credo di capire da cosa dipende tutto
il tuo entusiasmo per questo personaggio: ti senti un po’ come lei, non è
così?”
“Un po’, sì…” sussurrava convinta.
“Sì, Esme, tu sei un po’ come Rossella. Non vuoi
cedere mai e io ti ammiro così tanto, per questo. A volte penso che sei più
forte di me.”
“Tu sei forte quanto me, solo che non sempre te ne
ricordi. Me ne accorgo, sai? - Faceva una pausa e poi riprendeva, esternando un
pensiero che stava inseguendo in quel momento. – Noi siamo vampiri e con
l’eternità abbiamo il vantaggio di avere una visione ampia delle cose, il mondo
e la storia. Vediamo più lontano e sappiamo già come potrebbe andare a finire.
Sarà per questa ragione che l’umanità non impara mai… forse, dimentica troppo
in fretta.” Commentò.
“Mi sono interrogato spesso anch’io su questo;
nonostante tutto questo tempo ancora non lo so: è una di quelle domande senza
risposta.”
In verità, la guerra non l’avevo mai vista davvero:
l’avevo osservata da lontano, passando ai suoi margini senza farmi travolgere,
ma avevo visto le macerie che aveva lasciato, la disperazione degli uomini.
Dopo, il mondo era cambiato e alla fine di questa nuova guerra sarebbe cambiato
ancora, e sarebbe nato un nuovo ordine mondiale. Tutto cambiava nel mondo degli
umani e tutto restava uguale. Ero profondamente assorto in questo pensiero
quando Esme parlò di nuovo.
“Noi non possiamo dimenticare: fa parte della nostra
condanna. Per questo posso dire con certezza che Edward tornerà…”
Reagii con sorpresa a quella che mi parve la
risposta a una muta domanda che custodivo nel cuore, come se Esme potesse
percepire i miei pensieri.
“Cosa?”
“Lui tornerà perché non potrà dimenticare.”
L’affermazione sembrava inconfutabile, ma per me
restava sorprendente l’assoluta sicurezza di Esme e non riuscivo a capire dove
andasse a pescare tanta forza interiore, dove trovasse la tenacia di continuare
a sperare, quando tutto attorno pareva senza speranza.
“Di cosa parli?” chiesi vagamente incerto.
“Io lo so che tu qualche volta ti scoraggi, anche se
cerchi di non farmelo capire, ma devi avere fede, Carlisle. – Non parlai;
strinsi solo un po’ più forte le mani sul volante dell’auto, mentre continuavo
ad ascoltarla e la sua voce nel buio faceva breccia nella mia corazza. – Non
potrebbe convivere con sé stesso, e non potrà farlo da solo, come non potrei
farlo io, che non riesco a dimenticare la mia colpa. Non potrei accettare me
stessa, senza il tuo aiuto, senza Rosalie ed Emmett. Lo stesso vale per nostro
figlio. Non troverà perdono in sé, ma solo nella sua famiglia, in noi. Per
questa ragione continuo a credere che Edward tornerà.”
Oltre il senso reale di quelle parole, mi aveva
colpito che avesse fatto riferimento alla sua colpa.
Il suo delitto, era di quello che parlava.
“Esme, tu… ti senti in colpa per Johanna Taylor?”
“Qualche volta… sto imparando a convivere col rimorso.
L’amore mi aiuta.”
“Oh, Esme… è la prima volta che me lo dici…”
“è la prima volta che oso ammetterlo…”
Continuammo a leggere con attenzione le notizie di cronaca
nera sui giornali; li consultavamo tutti, dai locali a quelli a tiratura
nazionale, ma senza trovare nulla che fosse riconducibile a nostro figlio.
Nessun cadavere sospetto, nessuna morte insolita.
Ma può capitare che qualcosa arrivi quando meno te lo
aspetti, quando non ci pensi; così, per un caso assolutamente straordinario
trovammo notizie dell’ex marito di Esme, l’ ultimo dei miei pensieri in quel
momento. Mi ero già chiesto altre volte che fine avesse fatto quell’uomo cinico
e tanto determinato; nel tempo, anche grazie alla nostra natura inafferrabile,
dovevamo esser riusciti a sfuggire al suo controllo.
Fu lei la prima a leggere l’articolo, un breve e scarno
trafiletto apparso su un quotidiano nel maggio del 1942.
Il titolo diceva: “Trovato morto in un motel del Maine
noto imprenditore di Columbus.”
- Ieri mattina, un noto imprenditore originario di
Culumbus, Charles Evenson è stato trovato senza vita nella sua stanza
d’albergo, in una piccola e anonima cittadina del Maine. La causa della morte,
per gli inquirenti ha tutta l’aria di essere un suicidio; dai primi
accertamenti, l’uomo si sarebbe sparato un colpo di pistola alla tempia. Vedovo
da tempo, era oppresso da problemi economici legati alle sue attività imprenditoriali.
Duramente colpito dalla crisi economica, come altri imprenditori, aveva debiti
con diverse banche che, pare, a tutt’oggi non siano stati saldati; dopo il
crollo delle azioni in borsa e la perdita di somme ingenti, nel ‘33 aveva
dovuto chiudere per fallimento una delle aziende di famiglia. Nel decennio
successivo, l’imprenditore tentò l’avvio di altri progetti imprenditoriali,
lanciandosi in svariate attività, sempre con scarsi risultati. Da qui, forse,
le motivazioni scatenanti del suicidio. -
“Che strano: è stato come leggere di un estraneo.
Non posso dire di conoscere l’uomo di questo articolo, né riesco a immaginarlo
togliersi la vita. Quanto doveva essere cambiato, dal giovane che avevo sposato
io…” fu il commento assai curioso di Esme.
“Mi sembri turbata: è per la questione del suicidio?
Charles era diverso da te… anche nelle motivazioni, probabilmente.”
“Lo so. Non è niente… ho avuto solo una strana
impressione, come se si fosse chiusa per sempre la porta sulla mia vita
passata.”
Poche righe scarne d’inchiostro nero sintetizzavano
velocemente tutta una vita.
La vita di un uomo fatta di amori, delusioni,
speranze e dolori, vittorie e fallimenti che terminava nella solitudine di uno
squallido motel. Non avevo mai avuto simpatia per Charles Evenson, quell’uomo
arrogante ed egocentrico, ma pensare all’epilogo della sua esistenza mi
procurava un’ inspiegabile amarezza.
Era la mia compassione che bussava alle porte
dell’anima.
Non vi era alcun riferimento alla vicenda di Esme,
salvo quelle tre parole, vedovo da tempo.
Davvero Charles aveva rinunciato a cercarla? Dopo tanto
tempo, si era arreso di fronte alla lettera che Esme gli aveva scritto, oppure
no?
E se si era arreso, perché?
Ricordavo che c’era stato un investigatore privato
al soldo di Evenson, che si era messo sulle nostre tracce; Esme lo aveva
incontrato in una circostanza. L’articolo non ne parlava.
Avevo la strana sensazione che quella vicenda non
era ancora del tutto chiusa; nelle poche righe di quell’articolo, qualcosa
restava in sospeso.
Ma ogni cosa, anche la più ambigua avrebbe avuto il
suo epilogo.
Era un pensiero che avrei accantonato
momentaneamente, perché qualcosa di più importante stava per accadere. Qualcosa
di fondamentale per le nostre vite.
L ’estate stava per tornare e avrebbe bussato alla
nostra porta con un profumo diverso.
L’avremmo accolta come quando si esce da un lungo e
rigido inverno. L’estate con i suoi cieli luminosi, scaldati dal sole, era la
stagione in cui noi dovevamo nasconderci, ma quell’anno non mi sarebbe pesato
come in passato. Ricordo di quel giorno chiaro senza sole di fine giugno, una
strana frase detta da Emmett, che non afferrai immediatamente.
Non gli diedi peso.
Era rientrato dopo la scuola con Rosalie; aveva
posato la borsa con i libri nell’ingresso e aveva salutato Esme con allegria,
come faceva sempre.
“Come è andata oggi, ragazzi?” aveva chiesto lei,
come una madre premurosa.
“Tutto bene, come al solito. Ah, però ho avuto una
sensazione strana stamani, come se ci fosse qualcuno che ci stesse osservando –
rise un po’ nervoso - forse inizio a diventare paranoico, come la mia cara
Rosalie che si sente minacciata dalle fanciulle umane che mi guardano
troppo...”
Rosalie si limitò a investirlo con un’occhiataccia
di disappunto.
“Eppure dovresti essere abituato agli sguardi
curiosi degli umani. Siamo sempre un po’ sotto esame, ovunque andiamo.”
commentai un po’ distratto, mentre esaminavo con scrupolo e calma i referti di
alcuni esami clinici.
“D’accordo, però continuo a pensare che ci fosse
qualcosa di strano… mi sentivo spiato.” insisteva Emmett, che nel
frattempo si era accomodato sul divano del salotto.
“Non dire assurdità! Chi mai potrebbe spiare un
vampiro?” Esclamò Rosalie divertita, seduta al suo fianco.
Fu in quel preciso istante che lo sentimmo, un odore
famigliare eppure diverso che entrava dalle finestre lasciate aperte, insieme a
qualche debole raggio di sole che si infilava tra la coltre delle nubi e
profanava la penombra della camera. Una brezza leggera faceva ondeggiare le
tende e pareva trasportare il profumo da una notevole distanza.
Guardai Esme e la vidi sgranare gli occhi dorati,
sconvolta e turbata, e nella suggestione del momento, fui quasi certo di
sentire il suo cuore silenzioso fare una specie di sussulto.
“Solo un altro vampiro!” Disse sgomenta.
Le parole echeggiarono nitide nel silenzio della
stanza, come una specie di rimbombo, mentre Esme si alzava improvvisamente in
piedi per lanciarsi verso l’ingresso, dove restava con lo sguardo fisso sulla
porta.
Il profumo nel frattempo era diventato più forte, un
odore che era scolpito nella mia memoria e ne sollecitava i ricordi.
Un profumo che aveva un volto, una voce, il colore
di uno sguardo inquinato dal rosso vivo e cupo del sangue.
Il profumo di un figlio.
Esme corse davanti alla porta e afferrò la maniglia;
l’avrebbe divelta per la troppa foga e felicità.
Per i primi cinque secondi non fui capace di muovere
un muscolo; ero semplicemente teso nel momento che precede lo scatto. Poi, come
lei, mi precipitai davanti a quella porta, mentre la sensazione di una potente
emozione travolgeva i miei sensi.
Solo Emmett e Rosalie erano rimasti fermi dov’erano,
perplessi e increduli su quanto stava per accadere.
Emmett si mise davanti a Rosalie in posizione di
difesa, e come se avesse capito, mia figlia gli posò una mano sulla spalla per
smorzare la sua tensione.
E la porta si aprì.
La guerra che faceva bruciare l’Europa sarebbe
durata ancora chissà per quanto, ma per noi finì in quel attimo. Finì in quel giorno
d’estate senza sole in cui io feci pace con me stesso. Finì l’inverno pesante
della mia vita, delle nostre esistenze. Finì il senso di solitudine.
Davanti a noi, l’estate e il suo profumo aveva le
sembianze pallide, meravigliose e sconvolgenti di un viso amato, i capelli
ramati mossi dall’aria e lo sguardo rosso rubino di nostro figlio Edward.
Continua…
Salve a tutte le mie lettrici e
scusate sempre l’enorme ritardo degli aggiornamenti. Ho poco tempo, quindi
queste note saranno molto brevi.
Capitolo più che altro di transizione,
ma che serviva a collocare i fatti in un contesto storico preciso.
Spero che vi sia piaciuto e come
sempre grazie a tutti coloro che seguono ancora questa storia.
Resistete fino alla fine, perché ormai
siamo quasi in dirittura d’arrivo; pochi capitoli (non so quanti di preciso) e
la ff sarà conclusa.
2Il grande dittatore, di
Chaplin è un film del 1940. Nella parte finale, il protagonista fa un discorso
memorabile che ancora oggi ha molto da insegnare.
Capitolo 28 *** Il ritratto di Edward (Grey) Cullen ***
28 – Il ritorno del figliol prodigo
28
– Il ritratto di Edward (Grey) Cullen
Edward
era tornato a casa.
Non
mi sembrava vero.
Lo
vedevo e credevo fosse un sogno, o forse un’allucinazione.
La
fine dell’inverno, quello della mia anima.
Il
sole tornava nella nostra vita ed aveva il colore degli occhi vermigli,
commossi e tristi di un vampiro pentito.
Esme,
sulla porta, abbracciava convulsa suo figlio con una gioia incontenibile che
straripava dallo sguardo acceso, dai gesti febbrili e teneri, dalla voce
argentina e musicale incrinata dall’emozione troppo forte.
Ero
rimasto fermo dov’ero, davanti all’ingresso, bloccato come fossi incapace di
muovermi, quasi l’emozione e la sorpresa mi avessero derubato di tutte le mie
forze.
Percepivo
la felicità della mia Esme esplodere in riso, manifestarsi nelle carezze sul
volto che elargiva ad Edward, quasi dovesse convincersi, toccandolo, di averlo
lì davanti.
“Sei
tornato, finalmente. Oh, Edward, quanto ti abbiamo atteso! Io lo sapevo… lo
sapevo che un giorno saresti tornato da noi. Ne ero certa! Non potevi averci
dimenticato.”
“Non
l’ho mai fatto, Esme. Quanto mi sei mancata.”
Fu
strano risentire il suono melodico della sua voce; l’emozione in quell’attimo
mi attraversò dentro come una scarica di corrente.
Fu
qualcosa di potente.
Non
avrei mai creduto di poter provare qualcosa di simile; era come essere rinati a
nuova vita. Esme si volse a guardarmi, mentre continuavo a restare immobile,
per condividere la sua gioia con me.
Sorrideva
e aveva una luce bellissima che le faceva scintillare gli occhi dorati. Era una
gioia profonda vederla così.
La
felicità stava invadendo il mio cuore e lo sommergeva superando il silenzio in
cui era nascosto da secoli.
“Nostro
figlio, Carlisle. Edward è tornato a casa, dalla sua famiglia. Oh, questa è una
gioia immensa!!”
Continuava
a trattenerlo in un abbraccio possessivo che Edward ricambiava con uguale
slancio.
“Sì,
davvero…” fu l’unica cosa che riuscii a dire e sentii la mia voce tremare.
Allora mi mossi e mi avvicinai a mio figlio e posai una mano sulla sua spalla.
Strinsi la sua carne fredda, per convincermi che fosse reale, per placare
l’emozione che tornò a travolgermi. E io non opposi alcuna resistenza, mentre
sentivo che Edward coglieva ogni singola, minima sfumatura del mio turbamento.
Esme non smetteva di accarezzare il suo volto, di stringerlo nel suo abbraccio
materno, mentre io avevo posato l’altra mano sulla spalla della mia compagna.
“Non
ci speravo quasi più…” gli dissi in un soffio, con voce quasi stanca.
Edward
mi guardò coi suoi occhi rossi, colmi di qualcosa che sembrava gratitudine.
Nell’immediato fui sorpreso. Avrei compreso dopo.
Emmett
e Rosalie erano rimasti indietro e guardavano la scena con una strana
soggezione, quasi avessero timore di infrangere l’idillio perfetto che s’era
creato.
Esme
sciolse l’abbraccio in cui aveva imprigionato Edward e lasciò che il figlio
facesse qualche passo verso la sorella per salutarla.
“Bentornato
Edward. Mi fa piacere che tu sia qui.”
“Sì,
sono contento anch’io… Non ci hai mai creduto, Rosalie…”
“È
vero. Ma sono felice di essermi sbagliata. Felice per la nostra famiglia… e
anche per me, in fondo.”
Era
sincera; Edward lo leggeva nella sua mente. E leggeva anche la perplessità di
Emmett che non comprendeva del tutto quello che stava accadendo intorno a lui.
Gli avevamo parlato di Edward solo per cenni vaghi, perché ricordarlo faceva
male.
E
fu Edward a presentarsi.
“Sono
felice di conoscerti Emmett; è bello avere un fratello. So che qualche giorno
fa avevi avvertito la mia presenza, anche se non avevi immaginato chi fossi.”
“Ecco
perché mi sentivo spiato! Come hai fatto a nascondermi la tua scia? È
sorprendente; avrei dovuto avvertire il tuo odore a chilometri di distanza,
invece niente.”
“So
passare inosservato. E dovevo capire se ci fosse ancora posto per me, in questa
famiglia.”
Quella
frase mi fece uno strano effetto. Non seppi nasconderlo in nessun modo.
“Tu
avrai sempre un posto in questa famiglia, tu appartieni a tutti noi, Edward.
Non devi mai dubitare di questo.”
“Lo
so Carlisle, ma sai… volevo esserne certo.” mi disse con tono mesto.
E
mi chiesi da quanto tempo fosse vicino a noi. Da quanto ci stesse osservando a
distanza e perché. Mi rispose subito.
“Sono
arrivato da pochi giorni in città. Ho visto Emmett e Rosalie andare a scuola,
ho sentito il loro legame, Esme uscire dopo l’orario delle sue lezioni… ma
incontro te per la prima volta, Carlisle. – fece una pausa prima di continuare.
– Non volevo sconvolgere all’improvviso le vostre vite. Mi sono deciso solo
dopo aver visto Esme, la sua malinconia…”
“Le
nostre vite sono sconvolte dalla felicità, Edward. Sei tornato per restare,
vero? Non ci abbandonerai di nuovo…” la supplica quasi accorata di una madre
subito rassicurata dal figlio.
“Come
sapevi dove trovarci?” chiesi con un minimo di curiosità, aspettandomi la
risposta che sentii.
“Eleazar.”
Sospirai
pensando a tutte le telefonate in Alaska, fatte negli ultimi mesi.
Forse
il mio amico mi aveva nascosto qualcosa.
“Abbiamo
tante cose di cui parlare.”
“Lo
faremo. Dammi solo un po’ tempo.” mi disse, e compresi che per lui non sarebbe
stato facile, o forse era la mia reazione che Edward temeva, il mio giudizio
sulle sue azioni. Ma sarei stato pronto ad accettare la verità, anche quella
più cruda e dura da digerire.
Senza
recriminazioni e accuse.
Il
passato era passato; andava lasciato alle spalle.
Gli
occhi di Edward restarono rosso sangue per diversi mesi, nonostante la dieta a
base di animali; c’era il sangue umano di anni da smaltire, le abitudini da
cambiare. Gli uomini non erano più prede, ma dopo che un vampiro s’è nutrito di
loro per tanto tempo, sopportare l’odore dolce, resistere alla tentazione del
loro sangue caldo è più difficile.
Edward
aveva fatto dei passi indietro, ma recuperare la strada persa fu più faticoso
del previsto.
Ma
mio figlio è sempre stato forte, non ricordo una volta che si sia arreso,
neppure davanti alle difficoltà maggiori.
Affrontammo
il discorso dopo quasi due settimane.
Fu
sul far del crepuscolo, dopo una caccia che coinvolse tutta la famiglia. Sapevo
che Edward sentiva il bisogno di aprirsi, di raccontare tutto, ma era come se
fosse frenato; era ancora viva in lui la paura di deludermi, di ferire sua
madre: esitava tra bisogno e incertezza a mostrare l’altra faccia, quella più
oscura e inaccettabile.
Fu
Esme a incoraggiarlo.
“Noi
possiamo comprenderti, Edward... Non ti giudicheremo perché siamo uguali a te.”
Lui
capì cosa intendesse. Guardò Rosalie seduta sul lato opposto della sala, e poi
Emmett accanto a lei, che lo osservava tranquillo e curioso.
“Ho
preso la mia ultima vita umana più di venti giorni fa…” iniziò.
Era
seduto accanto a sua madre, sprofondato sul divano del salone, la testa buttata
all’indietro sullo schienale con gli occhi puntati al soffitto, le mani
appoggiate sulle gambe allungate in avanti.
Parlava,
ma non osava guardarmi, come se l’oro senza macchie dei miei occhi fosse
insostenibile per lui.
“Un
assassino come tanti, all’apparenza. Quanti ne ho presi, Carlisle. Non ne hai
idea. Ne ho perso il conto. Forse cento. Forse mille. Forse molti di più. Non
ha importanza il loro numero. Sembrava non finissero mai. Ne uccidevo uno, ne
restavano centinaia.
Mostri
su mostri.
Assassini.
Stupratori.
Maniaci,
perversi e pervertiti.
Pedofili.
Anime
nere, corrotte, deformi.
Senza
grazia.
Uomini
senz’anima, feccia priva d’umanità.
Mi
chiedevo come facesse il mondo a partorirli, quale Dio sadico e cattivo li
avesse buttati su questa terra per punire gli uomini.
Violenza,
sevizie, odio feroce e cieco.
Erano
peggio delle bestie.
Erano
gli orchi delle favole per bambini.
Avevano
pensieri tremendi, agghiaccianti. Vomitavano i loro insulti nella mia testa.
Dovevo farli tacere. Li inseguivo dentro vicoli bui, in quartieri che erano
fogne di umanità a cielo aperto. Come a Manphis, Carlisle. Ti ricordi quando
venisti a cercarmi?” Mi domandò.
Altroché
se ricordavo.
Rammentavo
tutto di quelle strade fetide che si perdevano dentro notti oscure e solitarie;
non avevo trovato altro che i graffi di una scritta su un muro umido e
scrostato.
“Li
trovavo tra l’opulenza dei ricchi arroganti che nascondevano nell’ipocrisia le
più infime bassezze.
Le
voci delle loro menti erano diventate suoni assordanti. Avevo l’urgenza di
spegnerle. All’inizio mi piaceva, dare loro la caccia era esaltante; mi sentivo
una specie di angelo vendicatore. Mi sembrava giusto.
Mi
sentivo un Dio.
Come
quando tu, Carlisle, operi un tumore maligno; togli il marcio, il male.
Io
pensavo di fare la stessa cosa. Anzi, facevo qualcosa di molto più grande. Io
curavo il mondo intero. Distruggevo il cancro peggiore, quello da cui gli
uomini non possono difendersi.
Quello
che gli uomini comuni non riescono a vedere. Avevo uno scopo che sembrava riempire
la mia vita. Mi sentivo un po’ come te, cercavo quella sensazione… credevo di
averla trovata…”
Trovai
quel concetto sorprendente, eppure logico, anche se in modo distorto. Ritornava
nelle sue parole il bisogno di rapportarsi a me; che anche in quella circostanza
drammatica, inconsciamente avesse pensato al suo mentore, dava un valore
diverso a tutto, anche alle mie responsabilità concrete. Significava che ero
importante, per lui.
Avevo
lasciato un segno che forse lo aveva indotto a recedere dai suoi propositi, un
fatto che mi faceva riconsiderare in maniera diversa il mio presunto fallimento
come padre.
“I
miei occhi diventavano sempre più rossi e il mio cuore sempre più nero. E non
mi accorgevo che stavo diventando come loro. Totalmente assorbito da me stesso.
Sempre
più perverso.
Sempre
più orribile.
Sempre
più mostro.
La
mia discesa personale e infinita all’inferno.
Sempre
più giù nell’abisso, lontano dalla luce.
Un
Dorian Grey, vampiro eterno e bellissimo nell’aspetto, ma roso fin nelle
viscere dai vermi dell’abbrutimento. Un demonio spaventoso.
Un
giorno, mi son visto così, negli occhi allucinati di una delle mie vittime. Per
un istante eterno come la mia natura dannata, ho riconosciuto il mio vero
ritratto, la mia vera immagine deturpata dalle mie azioni nefande.
Eccolo
il vero me stesso.
Con
la consapevolezza, la depressione è diventata sempre più pesante come la
convivenza coi miei delitti. E non riuscivo a fermarmi, travolto dal demone che
mi governava, che reclamava ingordo e avido sangue fresco con ferocia
crescente. Arrivai a compiere una strage in un solo giorno: una banda di
rapinatori assassini che avevano assalito una banca a colpi di mitra, prima che
io li fermassi...”
Edward
aveva sollevato la testa e si era soffermato sulle nostre espressioni attente,
senza emozioni apparenti; mi guardava adesso, scrutava i miei pensieri alla
ricerca della vergogna, del biasimo che potevo avere per lui. Ma io ringraziavo
solo il cielo che fosse tornato.
Il
suo racconto impietoso di sé stesso metteva la pelle d’oca, ma lo ascoltavo
caricandomi del suo orrore per toglierne un po’ a lui.
“Ma
se ora sei qui, vuol dire che hai saputo fermarti in tempo, prima di perderti
del tutto…” constatai, ed ero convinto.
“È
vero. - Confermò Esme con altrettanta convinzione. - Hai scelto di tornare
indietro e lo hai fatto, e questo è motivo d’orgoglio per tutti noi.”
“Grazie
Esme, ma… io mi vedevo realmente per ciò che ero e non volevo essere così. Mi
facevo schifo. Ma non avevo la forza di resistere alla voragine oscura che mi
risucchiava. Mi sentivo perso, ormai. Pensavo che neppure la mia famiglia
avrebbe potuto riaccogliermi.”
Edward
puntò lo sguardo di nuovo su di me.
“Scoprivo
Carlisle, che avevi ragione su tutto e il senso di colpa mi stava annientando.
La decisione definitiva la presi solo dopo l’ultima delle mie vittime. Pare
assurdo, ma i suoi pensieri prima della morte, mi hanno fermato dal continuare
su quella strada senza ritorno. Era un serial-killer che uccideva le donne
strangolandole con una cravatta. Lo schiacciai contro un muro scrostato, una
notte in una strada di Boston mentre pedinava una giovane donna uscita da un
bar di quartiere. Mentre bevevo il suo sangue e la vita lo abbandonava, mi
sorpresero come la folgore i suoi ultimi pensieri: ringraziava Dio o la sorte
che aveva mandato qualcuno a fermarlo, perché lui da solo non sarebbe riuscito
a farlo. E gioiva che la morte fosse venuto a prenderlo. Quando lo lasciai
inerte al suolo in quel vicolo sudicio e oscuro, rimasi lì immobile a guardare
il suo cadavere nella polvere della strada, a chiedermi sconvolto chi mai
avrebbe fermato me. Compresi che solo io potevo fermare me stesso e vincere sul
mio demone. Era quello che mi avevi sempre detto tu. Ci ho creduto davvero solo
in quel preciso momento.”
Edward
aveva terminato il suo racconto scioccante e aspettava forse la mia sentenza
che però non arrivò nel modo che lui credeva. Io stavo cercando di assorbire
tutte le informazioni ricevute e di rielaborarle in pensieri personali.
“È
straordinario quello che hai appena detto: tu hai avuto il coraggio di sfidare
il tuo demone, non avrà più potere su di te. Lo hai riconosciuto e lo hai
battuto.”
“Sì,
ma a quale prezzo. Ho bruciato la mia anima fino in fondo. Dovrò convivere per
sempre con l’orrore delle mie colpe, senza poterle mai cancellare.” Mi rispose
amaramente.
“Tu
avrai la forza di sostenerle.”
Non
avevo dubbi in merito e volevo che lui mi credesse.
Emmett
che aveva ascoltato tutto con attenzione prese la parola.
“Se
posso esprimere la mia opinione, Edward, non devi sentirti in colpa per le tue
scelte; in fondo, hai ammazzato delle carogne che non si meritavano
nient’altro, e noi siamo vampiri. Anch’io ho avuto qualche incidente di
percorso, ma non ne ho fatto una tragedia. Cose che capitano. - Disse alzando
le spalle con ovvietà disarmante. – Sai, questa tua capacità di leggere il
pensiero è straordinaria, potrà esserci molto utile per il futuro; ad esempio,
potresti suggerirmi in anteprima i pensieri di Rosalie, un sistema sicuro per
evitare le sue arrabbiature.”
“Emmett,
sei il solito scimmione che parla a sproposito!” lo rimbrottò lei.
“È
per questo che ti piaccio tanto, piccola!”
Mi
venne quasi da sorridere alla tranquilla, bonaria leggerezza di Emmett che
stemperava la tensione.
Anche
Edward sorrise e mi fece piacere vederlo più rilassato.
“Avevo
chiesto a Eleazar di avvisarmi se tu fossi tornato; non lo ha fatto perché glielo
hai chiesto tu, vero?” Domandai senza girarci intorno, mosso solo dal bisogno
di chiarire le mie idee.
“Sì,
Carlisle. Penso tu possa capire i miei motivi.”
-
Sì, credo… immagino i dubbi che ti hanno angustiato. Hai visto Emmett, il suo
legame forte con Rosalie e hai pensato o temuto che ti avessimo rimpiazzato. Ma
nessuno potrebbe mai prendere il tuo posto. Sei mio figlio, il primo con cui
abbia condiviso questa vita. Amo tutti i miei figli, ma tu sei speciale e
quello che ho costruito con te è qualcosa di unico.
Fu
la mia risposta silenziosa rivolta solo a lui.
Si
doveva tornare alla normalità, alla vita di tutti i giorni, con la routine
quotidiana fatta di lavoro, di contatti, di amicizie fittizie e spesso
occasionali. Per Edward non fu qualcosa di immediato.
Dovette
passare del tempo prima di poter tornare a scuola con i suoi fratelli, e poi
dovevamo giustificare la sua lunga assenza in maniera convincente e realistica.
Trovammo
la scusa di un lungo soggiorno all’estero da alcuni parenti in Inghilterra, che
alla recrudescenza della guerra in Europa, lo avevano rispedito in patria dalla
sua famiglia d’origine.
Edward
riallacciò il suo legame con Esme, più forte e saldo di prima; si confidava, le
apriva il suo cuore tormentato, finché lei non fece altrettanto al punto da
rivelargli il suo delitto, senza per questo sentirsi amareggiata dal rimorso.
Era solo un modo di far sentire al figlio la sua presenza autentica e salda a
dispetto di ogni apparenza, al di là di ogni giudizio. Edward restò sorpreso,
addirittura impressionato dalla vicenda tragica che aveva coinvolto sua madre.
“Non
riesco a credere che tu l’abbia fatto. Ti ho sempre vista così paziente, così
carica di umanità. La madre più dolce, la compagna più affine che potrei
immaginare per Carlisle. Mi chiedo come sia potuto accadere.”
“Ero
debole, insicura, è stato un brutto momento. Mi sentivo minacciata negli
affetti… tu non c’eri e Carlisle non era lo stesso di un tempo: la tua
lontananza lo ha fatto stare male, era depresso…”
“Mi
dispiace. È stata anche un po’ colpa mia.”
“Non
pensarlo neppure. Tu avevi fatto la tua scelta e sei andato via per non farla
pesare su di noi. Sei stato coerente, ma noi abbiamo sofferto. Era
inevitabile.”
“Già…
Ho peccato di presunzione pensando di poter trovare una giustificazione valida
alle mie azioni; non succederà più Esme. Te lo giuro. Non dovrai più temere di
perdere la tua famiglia, almeno non da parte mia.”
“Ti
voglio bene, Edward. Te ne vorrò sempre. Spero solo il meglio per te, per il
tuo futuro. Spero sia pieno d’amore.”
Queste
furono le parole di Esme per suo figlio, che le accolse come balsamo
consolatorio sul cuore pesto.
Io
ero felice come forse non ero mai stato. Edward aveva riportato la gioia nella
nostra famiglia e si rifletteva su tutto ciò che mi stava attorno, la
percepivano le persone con cui entravo in contatto. Adam Keller, il medico
ebreo che divideva i turni con me all’ospedale di Toronto, si accorse del mio
buon umore, della serenità d’animo che mi aveva procurato il ritorno di mio figlio.
Ne
fu sinceramente felice, ma non seppe nascondermi la segreta amarezza che covava
dentro. Nella sua domanda era sottinteso altro.
“È
bello riabbracciare i propri cari; non vedevi tuo figlio da molto, vero? È
qualcosa di meraviglioso. In tempi così difficili, sei un uomo fortunato
Carlisle.” Abbassò il capo con fare mesto e discreto.
“Penso
di sì, Adam. Ti ringrazio. Dei tuoi famigliari in Francia che mi dici? Hai
avuto notizie?”
“Purtroppo
no. Le truppe tedesche hanno occupato quella regione della Francia meridionale.
Gli ebrei dei villaggi vicini pare siano stati tutti deportati in campi di
lavoro in Polonia, ma nessuno lo sa con certezza. Mia moglie è molto
preoccupata. Lo siamo tutti.”
“Mi
dispiace davvero. - Gli posai una mano sulla spalla fragile e piccola. - Se
posso fare qualcosa per te, non esitare a chiedere, Adam.”
“Grazie,
Carlisle. Sei un amico.”
“Mi
auguro che questa guerra assurda finisca presto.”
“Sì,
anch’io.”
Ma
la fine non era dietro l’angolo e altre tragedie prima della conclusione avrebbero
sconvolto il mondo. Mancavano ancora quasi due anni allo sbarco in Normandia e
il Giappone si sarebbe arreso solo dopo il primo attacco nucleare della storia
ad opera degli Americani alle città di Hiroshima e Nagasaki con conseguenze
terrificanti.
Intanto
la nostra vita in Canada proseguiva col suo ritmo, tranquilla e normale
all’apparenza.
In
realtà, stava per bussare alla nostra porta un evento imprevisto, proiettato
direttamente da un passato che pareva ormai sepolto in un tempo lontano.
Venne
un uomo da Nashville, qualcuno che aveva fiutato le nostre tracce in maniera
quasi inspiegabile. Seguendo l’istinto formidabile da segugio, aveva fatto
domande sull’omicidio di Mary White, compiuto nella biblioteca cittadina e
aveva incontrato il poliziotto che era venuto a parlare con me e Emmett,
constatando la nostra conseguente fuga improvvisa da Nashville. L’uomo, di nome
Patrick Stark, altri non era che uno degli investigatori privati assoldati dal
defunto marito di Esme. Mi chiesi quanti uomini avesse pagato quell’uomo per
inseguirci e braccarci, finché era stato in vita. Non ne avevo idea.
Questo
doveva essere l’ultimo della serie.
Lo
sarebbe stato.
Edward,
in un giorno di pioggia che batteva furiosa sui vetri della nostra casa, lo
sentì arrivare alla nostra porta e captandone i pensieri ostinati e
inflessibili, mi mise in guardia.
“Sospetta
che ci sia un collegamento tra l’omicidio e la nostra famiglia, ma in realtà
non è questo che gli interessa. Credo che voglia farci una proposta; sarebbe
meglio ascoltarlo.”
Dietro
le tende, lo vedemmo arrivare in auto dal fondo della strada e fermarsi davanti
all’ingresso della nostra casa. Un uomo alto, dal fisico atletico e asciutto,
elegante e di bell’aspetto, con una luce determinata nello sguardo severo.
Riavere
mio figlio accanto in quella circostanza fu un bel vantaggio, ma dovemmo
risolvere la faccenda una volta per tutte, con un compromesso decisivo, ma
rischioso.
Lo
accolsi in casa nostra affabilmente; Stark mi mostrò il suo tesserino di
riconoscimento. Era un ex poliziotto: aveva lasciato il corpo di polizia per
aprire un agenzia investigativa e lavorava solo per persone facoltose,
facendosi pagare profumatamente.
“Signor
Stark, che posso fare per lei?” chiesi cortese, stringendo la sua mano. Notai
la sua sorpresa quando avvertì la mia temperatura corporea.
“Dottor
Cullen, sono venuto da lei perché credo potrebbe aiutarmi a chiudere un caso a
cui sto lavorando da un po’. Immagino lei abbia conosciuto il signor Charles
Evenson; vede, io lavoravo per lui… saprà che è morto da poco.”
“Ho
saputo. Una tragedia. Conobbi il signor Evenson diversi anni fa, per caso. Non
lo conoscevo bene, in realtà.” Commentai restando sul vago.
“Beh,
vede, recentemente lui mi assunse per rintracciare la moglie; diceva fosse scappata
col suo amante. Era convinto che lei dottore, fosse coinvolto nella faccenda…”
“Oh,
che cosa assurda! - esclamai divertito. - La verità era che la signora Evenson
scomparve e non si seppe più nulla di lei, ma Charles mi accusò di avere una
relazione con sua moglie e che fosse fuggita con me. Una serie di accuse
infondate.” Ammisi cauto.
“Già,
forse…”
Ma
Stark uscì con una osservazione inaspettata che non avrebbe dovuto
sorprendermi.
“Lei
mi sembra molto giovane; stiamo parlando di fatti che risalgono a circa
vent’anni fa… - constatò dubbioso - non mi torna qualcosa…”
“Non
si faccia ingannare: in realtà ho più di quarant’anni…” sapevo benissimo che
non li dimostravo affatto.
“Davvero?
Complimenti, li porta benissimo. Le avrei dato al massimo trent’anni… lei è
sposato, giusto?” mi chiese Stark, tranquillo. Al mio cenno affermativo, mi
chiese di poter parlare con Esme. Io provai a opporre una scusa per negare
l’incontro, ma fui smentito dalla mia compagna che comparve tra noi in quel
momento.
“Buongiorno
signor Stark, sono la signora Esme Cullen.”
Patrick
Stark restò interdetto a guardare la giovane bellissima donna dagli strani
occhi dorati come quelli del marito, che gli era comparsa davanti; quella non
poteva essere la donna che lui stava cercando, pensò, anche se la somiglianza
era impressionante.
Ma
Cullen non lo convinceva del tutto.
Edward
nascosto coi suoi fratelli nella stanza accanto, stava ascoltando tutti i
pensieri perplessi che attraversavano la mente dell’uomo. Stark si riebbe dalla
sorpresa, salutò Esme e riprese a parlare con me.
“Vede
dottor Cullen, ho le prove che la signora Evenson fuggì davvero col suo amante;
lei riconosce questa?” E l’uomo tirò fuori dalla tasca del soprabito un foglio
di carta ripiegato in quattro parti: era la lettera scritta da Esme per suo
marito. La presi e la scorsi velocemente per la prima volta, prima di passarla
con indifferenza a Esme.
“Sono
spiacente; questa lettera non mi dice nulla.” Risposi calmo, restituendo il
foglio all’uomo.
“Le
chiedo scusa signora, se la sto turbando con queste notizie…”
“Non
si preoccupi: io e mio marito non abbiamo segreti. Temo che lei, signor Stark,
stia perdendo il suo tempo, seguendo la pista sbagliata.”
“Non
lo credo del tutto, signora… - E Stark ripose la lettera in tasca. -Ho notato dottor Cullen, che non resta mai a
lungo in un posto; so che era a Nashville qualche anno fa. Esercitava lì come
medico chirurgo. Mi hanno detto che subito dopo l’omicidio di quella ragazza
nella biblioteca, lei ha lasciato precipitosamente la città… una cosa davvero
strana, non trova?”
“Scusi,
non capisco cosa c’entri questo con la scomparsa della signora Evenson…”
“Nulla
immagino. La mia è solo una constatazione. Ho parlato con un collega qualche
anno fa, e mi disse che dopo aver incontrato sua moglie a Madison, se non
sbaglio, accadde la stessa cosa: lasciaste la città. Una donna scomparsa, un
omicidio, suo figlio Emmett sul luogo del delitto; la sua famiglia è sempre,
non si sa come, coinvolta in queste vicende.”
Era
molto ben informato.
O
forse era solo un uomo che sapeva fare i giusti collegamenti. Per me, era
giunto il momento di chiudere per sempre quella porta aperta sul passato. In un
modo o nell’altro.
“Pure
coincidenze. Signor Stark, mi dica che cosa vuole esattamente da me. Lei
lavorava per Charles Evenson che ora è morto, quindi lei ha perso il suo
cliente e la possibilità di essere pagato; ha detto che vuole chiudere il caso.
Come posso aiutarla? Qual’ è la sua offerta?”
“Lei
è un uomo perspicace. Lo avevo intuito. Allora, facciamo così: lei mi stacca un
assegno di diecimila dollari e io chiudo per sempre questa faccenda, con buona
pace di tutti. Le assicuro che non sentirà più parlare di me, e nessuno verrà
più a disturbarla. Che ne pensa?”
Io
accettai la proposta.
Mi
sembrò la cosa più sensata da fare.
I
soldi non erano un problema. Fummo tutti d’accordo.
La
pietra definitiva era stata posta sul passato da umana di Esme; Charles era
morto e nessuno sarebbe più venuto a cercarci.
Ma
mentre consegnavo a Stark il suo assegno, Esme si permise di fargli un’ultima
domanda.
“Può
dirmi se il signor Evenson rinunciò mai a trovare la moglie? Non credo si sia
tolto la vita per questo. Lei sa perché conservò quella lettera?”
“Non
conosco questi dettagli, signora. Però so che rileggeva spesso questa lettera;
ne era quasi ossessionato, come se vi cercasse dentro una verità misteriosa,
una spiegazione. Era uno strano uomo Charles Evenson. Poteva apparire un
bastardo arrogante e sicuro di sé, ma altre volte tradiva una strana fragilità,
questo almeno negli ultimi tempi.”
“Fragilità?”
domandò Esme pacata e perplessa, mentre cercava il mio sguardo con gli occhi.
Stark
parlava in tono grave e serio.
“A
volte, signora Cullen, quando un uomo fa il bilancio della sua vita, può accorgersi
dolorosamente di non aver raccolto niente lungo la strada. Si volta indietro e
trova solo detriti e polvere.Posso
solo dirle che mi spedì per posta questa lettera una settimana prima del
suicidio. Non so altro. Forse Charles Evenson, un giorno si è guardato allo
specchio, e quello che ha visto non gli è piaciuto.”
Concluse,
con una mano in tasca e l’altra sulla tesa del cappello in segno di saluto.
Quindi
Patrick Stark era uscito per sempre da casa nostra e dalla nostra vita.
Ma
la porta di casa Cullen non sarebbe rimasta chiusa a lungo.
La
guerra in Europa sarebbe finita restituendo i poveri fantasmi delle sue
tragedie, mentre un soffio di vento frizzante e leggero, dal profumo dolce e
già noto, avrebbe portato nuove magiche visioni, spalancando porte e finestre
della nostra esistenza.
Continua…
Eccomi qui, e scusate sempre il ritardo.
Capitolo che segna un momento importante nella storia.
È tornato Edward; il paragone con Dorian Grey, ma senza scomodare
O. Wilde mi pareva calzante, ma non so quanto sia originale.
Forse qualcuno ha già avuto la mia stessa idea, ma non lo
ricordo con precisione. Se fosse così fatemi sapere.
E qui si chiude definitivamente anche la vicenda legata ad Esme
e al suo passato. Spero che sia convincente come soluzione, ho tentato di dare
una motivazione al suicidio dell’ex marito, o almeno volevo che si intuisse,
guardando il personaggio sotto un'altra angolazione.
Come sempre ringrazio tutti voi che leggete, seguite questa
storia e qualche volta la commentate.
La
guerra in Europa presto sarebbe finita, ma gli ultimi colpi di coda della belva
che aveva aggredito il mondo furono violenti.
Le
truppe tedesche non volevano ritirarsi dai territori occupati, benché colpite duramente
dalla resistenza partigiana che trovavano tra i popoli che avevano tentato di
sottomettere. Le rappresaglie erano feroci, quanto la lotta per non cedere
all’oppressore. Il Regno Unito aveva resistito all’invasione e gli inglesi
collaboravano con le truppe americane. Ma la guerra miete vittime da ambo le
parti.
Anche
molti dei nostri cadevano.
Il
ministero della guerra spediva ai quattro angoli del paese telegrammi alle
donne, madri e mogli di soldati caduti al fronte.
Un
collega che lavorava nel mio stesso reparto di medicina generale, ricevette la
triste notizia che suo figlio era stato ucciso da un cecchino in territorio
nemico.
E
presto anche Adam, da ebreo, avrebbe solo potuto piangere sull’orrore più
profondo che l’umanità potesse immaginare.
In
quel clima di angoscia e dolore quasi non riuscivo a convincermi della fortuna
che era toccata a me, che avevo potuto riabbracciare mio figlio.
Avevo
smesso di pregare tanto tempo prima, convinto che le mie preghiere non fossero
degne di essere ascoltate, ma adesso tutti i giorni ringraziavo quel Dio
misterioso e incomprensibile, che aveva concesso una tale grazia ad una
creatura infernale qual’ero; non mi pareva di meritare tanto, mentre tanti
giovani dall’altra parte del mondo perdevano la loro vita.
Hitler
doveva essere furioso, ma non volle mai contemplare la resa, almeno fino
all’ultimo, quando ormai palesemente sconfitto si tolse la vita nel suo bunker
a Berlino.
I
venti della tempesta si stavano placando e fu l’inizio di un periodo di gioia,
una profonda felicità che persiste ancora oggi, nonostante tutto, anche a
dispetto degli innumerevoli spostamenti fatti attraverso gli anni, da un
territorio all’altro degli Stati Uniti; avevo compreso nel tempo e dalle
esperienze vissute che ero a casa ovunque fosse la mia famiglia, con mia moglie
e i miei figli il cui numero era destinato a crescere ancora.
Fu
bello ritrovare e ricostruire il legame con mio figlio; sviluppai una sintonia
tale con lui che non avevo mai avuto in quel nostro passato, segnato da troppi
conflitti e incomprensioni.
Edward
abbracciò senza altre esitazioni lo stile di vita ‘vegetariano’ , ma non
aveva mutato la bassa opinione di sé stesso; semmai, con la sua discesa agli
inferi, si era esacerbata la convinzione di essere un demone senz’anima, ma
almeno ora riconosceva pienamente le mie ragioni e le condivideva totalmente.
Era mosso e ispirato dalla volontà ferrea e assoluta di non ricadere
nell’errore.
“Sono
e resto un mostro, Carlisle; questa è una cosa che non posso cambiare, ma da ora
in avanti, per quanto sarà possibile, cercherò di essere un vampiro migliore.
Non cederò mai più al demone che dorme dentro di me; lo relegherò al silenzio,
come hai fatto tu. È una promessa.”
Ero
sicuro che l’avrebbe mantenuta, leggevo una determinazione assoluta in fondo al
suo sguardo.
Instaurò
un rapporto amichevole e cameratesco anche con Emmett e molto spesso andavano a
caccia insieme; i pensieri sereni e semplici di suo fratello, così diversi e
distanti dai suoi, lo distendevano. A Emmett piaceva giocare e coinvolgeva
Edward con l’ entusiasmo un po’ animale che lo distingueva nettamente.
“Avanti
lumaca! Scommetto la pelle di un orso che non riesci a battermi nella corsa.”
“Ti
farò mangiare la polvere Emmett; comincia a correre, ti do un po’ di vantaggio.”
Effettivamente
Edward era più veloce, più agile e scattante, ma in forza bruta Emmett era
imbattibile oltre che micidiale.
Un
vero carro armato inarrestabile per chiunque.
Io
e Esme restavamo lì, a guardare i nostri figli correre veloci attraverso la
foresta, come due ragazzi che si sfidavano in gare di resistenza, mentre i
tiepidi raggi del sole filtravano qua e là tra le foglie verde scuro, facendo
brillare le loro pelli bianche come avorio.
Avevo
la sensazione di aver raggiunto la completezza della mia vita, mentre osservavo
i loro volti distesi e il sorriso amorevole di Esme che si stringeva a me,
serena e appagata.
Era
un momento perfetto, come forse non ne avevo mai avuti.
Nella
quiete suprema della foresta, anche l’aria pareva immobile attorno a me, il
tempo e lo spazio sembravano congelati nell’eternità; in quel sacro silenzio
niente faceva pensare alle bombe che cadevano sulle città in Europa.
Edward
tornò a scuola a Toronto insieme a Emmett e Rosalie, riprendendo a comportarsi
come un normale ragazzo di diciassette anni. I suoi occhi erano tornati quasi
dorati, mantenevano solo una lieve sfumatura che dava sull’arancio.
Eravamo
a gennaio e le temperature si erano molto abbassate e la neve ricopriva le
strade della città, le pianure attorno e le maestose foreste canadesi teatro
delle nostre battute di caccia.
Tutto
era avvolto nella morsa del gelo e il sole pallido dell’inverno non aveva la
forza di oltrepassare lo strato denso delle nubi che coprivano il cielo,
quindi, potevamo esporci alla luce chiara del giorno senza temere di essere
scoperti.
Passò
un altro anno senza che accadesse nulla di eclatante.
Il
ritmo della nostra vita era sempre quello, scandito dal passaggio delle
stagioni, salvo qualche piccola insignificante variazioni: un alunno difficile
dal carattere ribelle per Esme, l’inserimento per lei in una nuova classe, un
nuovo collega all’ospedale sostituiva quello che andava in pensione. I nostri
rapporti sociali con la comunità erano sempre la cosa più difficile da gestire;
avevamo la necessità di inventare scuse convincenti per evitare inviti a cena,
feste di compleanno e altre simili ricorrenze troppo umane.
Nel
maggio del ‘43 Rosalie e Emmett decisero di sposarsi.
Era
diverso tempo che ci stavano pensando, ma avevano sempre dovuto rimandare per
cause di forza maggiore, o perché non si presentava mai l’occasione propizia.
Rosalie desiderava un vero matrimonio completo di cerimonia e luna di miele.
Era un sogno di normalità che coltivava fin da umana; non le pareva vero di
poterlo rendere concreto, sostenuta da Esme, che si dimostrò entusiasta. Aiutò
la figlia in tutto, come una vera madre commossa ed emozionata; curò i
dettagli, gli inviti a pochi umani a noi vicini, come Adam Keller e la sua
famiglia, i preparativi della piccola casa a pochi chilometri dalla nostra,
dove i novelli sposi avrebbero vissuto soli per un po’ di tempo.
E
anche io e Esme ne approfittammo per sancire la nostra unione in maniera
definitiva; ci avevamo pensato spesso negli ultimi anni, ma il momento giusto
sembrava non arrivare mai. Quale migliore occasione di quella, con tutta la
famiglia Cullen felicemente riunita? In un sol giorno furono celebrati due
matrimoni; evitammo la chiesa tradizionale che mi pareva fuoriluogo per dei
vampiri e per l’occasione affittammo una sala esclusiva della città dove
avvenne la doppia cerimonia e anche i membri del Clan di Denali lasciarono il
loro rifugio in Alaska per venire a festeggiare con noi.
Furono
momenti indimenticabili.
Lo
sguardo raggiante di Rosalie, radiosa nel suo abito candido come la neve e
senza il rosso del sangue a sporcarlo, gli occhi colmi d’amore di Emmett, la
tenerezza e la passione di Esme dove abbandonavo me stesso, in balia di una
corrente dolce e calda.
“Questo
è il giorno più bello della mia vita. Lo ricorderò per sempre. Grazie Carlisle.
Non potrei essere più felice di così, amore mio. - Mi disse baciandomi. – Mi
spiace solo che Edward sia solo; ha tanto bisogno di qualcuno accanto.”
“Sì,
è vero. Forse un giorno incontrerà la persona giusta, ora che ha mutato
atteggiamento ed è meglio disposto verso gli umani. – Accarezzai il suo viso di
porcellana finissima e la baciai. - Esme, sono io che devo ringraziare te; tu
mi hai sostenuto mentre io stavo cadendo. Sei stata e sarai la mia salvezza.
Hai dato senso a tutto quanto. Ti amo, Esme. Ti amerò sempre.”
Era
triste che Edward fosse solo; credo che in momenti simili, sentisse più forte
il peso della sua solitudine, ma non lo faceva né pesare né vedere.
Ma
non riusciva a ingannarci fino in fondo.
Sapevo
che era contento di poter condividere quei momenti con tutti noi, eppure mi
accorgevo del velo leggero e impalpabile di malinconia che adombrava il suo
sguardo. In alcuni momenti non potevo fare a meno di pensare a quanto mio
figlio fosse infelice di quella vita.
Nonostante
il suo potere, era discreto: cercava di non invadere l’intimità dei suoi
famigliari.
Si
allontanava, vagabondando attraverso i boschi, cercando i posti più belli
quanto inaccessibili, e tra i suoni ovattati della natura riusciva a rilassarsi
trovando una parvenza di pace.
Molto
tempo prima ero stato tanto simile a lui.
Era
facile rivedermi in mio figlio, adesso.
Doveva
essere difficoltoso convivere circondato dai nostri pensieri senza sentirsi di
troppo.
Edward
si concentrava su altro, coltivando svariati interessi: oltre a letture di
vario genere, si appassionò alla musica classica e non solo; imparò a suonare
pianoforte, a comporre brani lasciandosi ispirare dallo stato d’animo del
momento. Era molto portato. Suonare lo rilassava e allontanava, anche se per
poco, la sua malinconia.
Così
arrivò anche il 1944.
Cominciarono
a filtrare le prime fumose notizie riguardanti Auschwits, Birkenau, Buchenwald,
Dachau, solo alcuni dei 20.000 campi di concentramento e sterminio sparsi in
Polonia e Germania e di quello che accadeva lì dentro agli ebrei. Ma solo con
l’ingresso delle truppe sovietiche ad Auschwits nel gennaio del ‘45 si sarebbe
scoperta tutta la portata dell’orrore inimmaginabile di cui furono teatro quei
luoghi: vi avevano trovato la morte migliaia di ebrei, giovani, vecchi, donne e
bambini soffocati nelle camere a gas, passati per i camini tra il fumo e la
cenere che si depositava sui territori attorno.
Solo
alla fine della guerra fu spaventosamente chiaro cosa intendeva il Terzo Reich
di Hitler per “Soluzione finale”.
Alla
fine Adam scoprì che i suoi parenti erano stati deportati nei campi di
concentramento, una notizia che lo riempì di scoramento.
Non
li avrebbe più rivisti vivi, non tutti almeno. Solo un cugino si era salvato
perché un inglese coraggioso lo aveva aiutato a nascondersi, procurandogli dei
documenti falsi. Ricordo ancora l’espressione sgomenta di Adam e le sue mani
che tremavano.
“Stamani
ho ricevuto una lettera dall’Europa: è di mio cugino. La sorella di mia moglie
e suo marito sono saliti su uno di quei convogli diretti verso la Polonia. La
loro destinazione finale doveva essere Auschwits. Li hanno separati dai loro
figli… non ci sono speranze che siano vivi.” la sua voce era ridotta a un
singulto.
“Mi
dispiace tanto, Adam.” Fu l’unica cosa che riuscii a dirgli.
Il
numero esatto di coloro che finirono in questi posti non si sapeva con
esattezza, ma furono pochi i sopravvissuti.
La
portata di quell’orrore era tanto grande che anche per me era difficile
immaginare la realtà di ciò che mi veniva raccontato. Solo le foto ai luoghi e
alle persone hanno potuto mostrare al modo la crudezza folle di quelle
immagini. Le guerre tirano fuori sempre il peggio dall’animo umano, lo rendono
abbietto e lo fanno regredire a una condizione peggiore della bestia, una cosa
che avevo sempre saputo; da quei racconti e dalle testimonianze dei
sopravvissuti scoprii che l’uomo era stato capace di creare l’inferno sulla
terra e di farlo passare per qualcosa di normale e giustificabile. Era sempre
sorprendente scoprire quanto il male potesse essere vasto tra gli uomini,
oscuro e inspiegabile. Da quella prospettiva la vita di un vampiro era quasi
comprensibile e normale; i miei simili uccidevano gli uomini solo per
sopravvivere, come fanno anche certi animali in natura.
Gli
uomini si uccidevano tra loro dominati dalla follia dell’ odio più feroce e
irragionevole, e anche questa sembrava una costante immutabile attraverso le
epoche.
E
mentre la storia umana faceva i conti con quello che restava di un mondo alla
fine della guerra, ridisegnando confini di stati e un nuovo assetto politico
diviso in due blocchi, noi facemmo i conti con un nuovo sorprendente studente
che proveniva dalla costa orientale del Canada.
Edward
in mezzo agli umani manteneva il suo ruolo di sentinella a protezione della
nostra famiglia; ricordo che un giorno di marzo, piombò come un lampo nel mio
studio presso l’ospedale, agitato e inquieto. Ammetto che vederlo così mi
spaventava sempre un po’, facendomi temere sempre qualche ricaduta.
“Carlisle,
dobbiamo partire subito e lasciare Toronto. È incredibile, ma siamo stati
scoperti.” Disse senza tanti preamboli, gettandomi sotto il naso un biglietto.
Sopra c’era scritto, so cosa siete.
Restai
interdetto a fissare quella grafia tremolante per un breve attimo.
“Chi
te lo ha dato?” Chiesi apprensivo, alzandomi dalla poltrona e corrugando la
fronte.
“Un
ragazzo che frequenta la nostra scuola da poche settimane; è un tipo davvero
sveglio, così tanto da aver capito che siamo vampiri.”
“Sei
sicuro Edward che non si tratti di uno scherzo?”
“Ho
sentito i suoi pensieri; all’inizio aveva solo dei sospetti, ma adesso ne è
assolutamente convinto. Ha scritto quel biglietto per tastare le nostre
reazioni; non saprei dire se è pazzo o soltanto incosciente. Ha iniziato a
parlare in giro, anche se gli altri studenti per fortuna non gli danno troppo
credito.”
Brian
Stone, figlio di un piccolo imprenditore edile, era un ragazzo che aveva la stessa
età di Edward, un giovane dalla mente brillante, intelligente e pericolosamente
attento a certi particolari che sfuggivano alla maggior parte degli umani.
Era
ossessionato dalla vera o presunta esistenza dei vampiri. Conosceva tutte le
leggende su di noi, anche quelle più antiche di origine romena che parlavano
del sanguinario principe Vlad l’impalatore, la figura ispiratrice del Dracula
di Bram Stoker; aveva letto tutte le opere che esistevano in letteratura,
conosceva perfino i racconti della tradizione orale originari dell’ Irlanda che
avevano ispirato scrittori come Le Fanu, oltre alle storie dei Nativi Americani
che parlavano di queste misteriose creature della notte.
Brian
osservò con iniziale curiosità l’atteggiamento dei fratelli Cullen, ne studiò
lo strano comportamento asociale, ma soprattutto fu colpito dai dettagli fisici
dell’aspetto: il pallore mortale, gli occhi che stranamente cambiavano colore,
la superba bellezza al limite dell’umano e la grazia dei movimenti. Soprattutto
notò che in mensa non toccavano cibo né acqua. Iniziò a insospettirsi.
Edward
spiò allarmato i suoi pensieri per settimane, tra una lezione di chimica
organica e le pause in mensa. Captò i suoi discorsi con gli altri ragazzi.
Rosalie e Emmett erano presenti e ascoltarono con attenzione ogni cosa.
“Non
fatevi ingannare dall’aspetto: quelli sono tre vampiri. Hanno un che di
agghiacciante. Il loro pallore non è normale e poi avete notato le occhiaie
violacee? E non toccano cibo: piatti e vassoi sono sempre intatti alla fine del
pasto.”
“Leggi
troppi libri sull’argomento, Brian. I Cullen sono semplicemente molto strani, è
risaputo; stanno per conto loro e non danno confidenza a nessuno. Magari sai
spiegarci perché non si sciolgono al sole! Sono una razza speciale di vampiri?”
I
ragazzi sghignazzavano. Naturalmente Brian non veniva preso troppo sul serio,
ma il giovane non si lasciava impressionare dalle opinioni dei suoi amici.
“Sì,
prendetemi in giro. Posso dimostrarvi che ho ragione. Il padre, il dottor
Cullen, è un vampiro anche lui; l’altro giorno sono andato all’ospedale dove
lavora: ho finto di avere mal di stomaco per farmi visitare. Quando mi ha
toccato ho sentito che era freddo come il ghiaccio, una caratteristica tipica
dei non-morti.”
I
suoi compagni avevano riso di nuovo, ironizzando.
“Un
dottore vampiro! È troppo assurdo! Avrà scelto di fare il medico per avere a
disposizione sacche di sangue sempre fresco! Magari non gli piace bere
direttamente dal collo delle vittime!”
Edward,
Rosalie ed Emmett, seduti al loro tavolo in fondo alla mensa, avevano sentito i
commenti e le risa, restando apparentemente imperturbabili. Rosalie si era
agitata sulla sedia in preda al nervosismo.
“Questa
storia non mi piace. Dobbiamo eliminarlo!” sibilò la bellissima vampira,
guardando Brian con ostilità manifesta. Reagiva sempre così di fronte a una
minaccia di qualsiasi natura fosse. Emmett le aveva accarezzato la schiena per
calmarla, poi Edward aveva parlato.
“Emmett,
Rosalie andate subito a casa. Io corro da Carlisle per avvisarlo. Sentiamo cosa
vuole fare lui. Voi avvisate Esme e tenetevi pronti per la fuga.”
Ora
ricordavo la visita di quel ragazzo in ospedale e i suoi occhi che mi
scrutavano in maniera sospetta. Non avevo capito perché.
Già
in passato mi era venuto il dubbio di essere scoperto, ma in molti casi si era
trattato di suggestione; raramente gli umani erano tanto acuti.
Era
forse la seconda volta in tutta la mia esistenza che qualcuno intuiva il nostro
segreto. La situazione era critica e non potevo sottovalutarla: Brian non era
amichevole né bendisposto a tollerare la nostra presenza. Minacciarlo o
spaventarlo perché tacesse non sarebbe servito e non era quello che volevo per
me e la mia famiglia. Volevo vivere in un clima che fosse il più sereno
possibile, non condizionare la vita di un ragazzino. Provare a parlargli per
portarlo dalla nostra parte non sarebbe servito; ci considerava demoni
pericolosi, creature del male da combattere, e non escludo che ci avrebbe
provato, con tutti i rischi del caso. L’unica soluzione che vedevo era la fuga.
L’ennesima
e inevitabile.
Ma
cercai ulteriori conferme.
-Credi che potremmo
convincerlo a fidarsi di noi?
“No,
Carlisle.”
Edward
era sempre fermo davanti a me; conosceva già la mia decisione.
“Vado
a casa a prepararmi per la partenza: avevo detto a Emmett e Rosalie di tenersi
pronti.”
“Hai
fatto bene. Vai avanti; io ho delle cose da sistemare. Vi raggiungerò a breve.
Punteremo verso la penisola di Olimpia; è molto tempo che non andiamo laggiù.
Un ottimo posto per noi.”
“Ma
là ci sono i licantropi, te ne sei dimenticato?”
“No,
ma basterà non violare i loro territori. Facemmo un patto a suo tempo; credo
sia ancora valido.”
Così
partimmo precipitosamente quella sera stessa. Lasciai all’ospedale la solita
lettera di dimissioni che tenevo sempre pronta per ogni evenienza. Per Brian
sarebbe stata la conferma della sua teoria, ma poco importava. L’importante era
allontanarsi da Toronto il più velocemente possibile.
Tre
giorni dopo eravamo a Seattle.
Pensavo
che avrei potuto trovare un impiego presso l’ospedale della città, ma mi
dissero che l’organico della struttura era al completo; a causa della guerra i
finanziamenti erano pochi, quindi la direzione amministrativa aveva chiuso le
assunzioni. Fu così che mi parlarono della piccola cittadina di Forks e del suo
nuovo ospedale che ricercava medici specializzati e nuove attrezzature.
All’epoca si trattava di un piccolo centro abitato che si sarebbe ingrandito
col passare degli anni, collocato a nord della penisola, in un territorio umido
e piovoso circondato da foreste, luogo perfetto per viverci, dove il sole
usciva assai di rado.
Così
decidemmo di stabilirci lì.
Forks
negli anni sarebbe diventato un luogo stabile per noi, dove tendevamo a tornare
periodicamente.
Appena
presentai le mie referenze all’ospedale mi assunsero senza indugi di alcun
genere.
Comprammo
casa laggiù, a qualche chilometro dalla città vera e propria, una grande casa
bianca in stile coloniale, con un grande portico che si affacciava sulla foresta
che sorgeva attorno.
Si
trattava della prima vera dimora che io e Esme decidemmo di acquistare, un
luogo fisso dove saremmo sempre potuti tornare.
I
licantropi si ricordavano ancora di noi; vennero a controllarci, perché il
nostro numero era aumentato di due unità. Stabilito che non eravamo una
minaccia per la comunità ci lasciarono in pace, rammentandoci di rispettare il
patto per evitare scontri futuri.
Li
rassicurammo che avremmo mantenuto la parola.
Ci
trovammo davvero bene a Forks.
Una
cittadina anonima ma in espansione, dove nessuno aveva mai sentito parlare dei
Cullen.
Un
clima umido, cieli grigi e piovosi, temperature basse.
Attorno,
chilometri e chilometri di foreste che si estendevano fino ai confini del
Canada, una fauna ricca e varia, alci, orsi, puma più a nord, le prede
preferite di Edward.
Era
il luogo ultimo dove tutti i tasselli del quadro della mia vita si sarebbero
composti dando forma all’immagine finale e compiuta.
Tutti
i fili intrecciati dell’arazzo si tesero definitivamente cinque anni dopo il
nostro arrivo a Forks.
Era
il 1950.
Avevo
finito il mio turno all’ospedale ed ero rientrato da poco a casa. Esme era
seduta al tavolo della sala; stava correggendo i compiti dei suoi studenti. Rosalie
aveva trascinato Emmett in città per negozi, ma sarebbero rientrati a breve.
Solo Edward era in casa. Se ne stava chiuso nella sua stanza disteso sul divano
a fissare il soffitto bianco, lasciandosi vincere dalla noia, come a volte
faceva. Sembrava tutto stranamente tranquillo, però io mi sentivo come se
dovesse accadere qualcosa d’incredibile. Un presentimento. Ne avevo a volte.
Pochi
secondi dopo Edward uscì dalla sua stanza, corse in sala e lì si fermò in
attesa. Chiamò tutti noi a raccolta.
Aveva
avvertito i pensieri di due individui che si stavano avvicinando molto
velocemente alla casa, troppo velocemente per essere degli umani e non si
trattava di Rosalie e neppure di Emmett.
Erano
immortali, sicuramente.
La
cosa più bizzarra fu ciò che disse Edward per annunciare i nuovi visitatori.
“Stanno
venendo qui; si tratta di qualcuno che potremmo conoscere. C’è qualcosa di
strano…”
Nell’immediato
pensai al clan di Eleazar, ma Edward mi smentì subito.
“No.
Si tratta di un uomo e una donna. Lui non lo conosco, ma lei ha qualcosa di
famigliare; l’abbiamo già incontrata.”
Non
riuscivo proprio a immaginare di chi parlasse. Passai in rassegna tutti gli
immortali che avevo conosciuto, richiamando alla memoria volti e nomi vecchi di
secoli. Edward pareva perplesso, ma era assolutamente tranquillo, merito di
quel vampiro sconosciuto che aveva il potere di controllare le nostre emozioni,
come comprendemmo in seguito. Ci preparammo ad accoglierli.
La
porta di casa si spalancò su due immortali; una ragazza piccola, minuta, pareva
un folletto uscito dalla fiaba di Peter Pan per come si muoveva, agile,
scattante e allegra; ciocche ribelli di capelli neri tagliati corti
incorniciavano un viso sbarazzino. Il suo compagno era un vampiro biondo dalla
testa leonina che emanava una strana calma attorno a sé. Eravamo tutti
rilassati, fatto assai inconsueto quando ci si trova in presenza di vampiri
sconosciuti, ma c’era una ragione molto semplice. Il ragazzo non lo avevo mai
visto prima, ma lei sì.
Ora
era molto diversa da quando l’avevo conosciuta, ma anche così, non avrei potuto
confondere quella ragazza con nessun altro: era la giovane paziente che avevo
incontrato nel manicomio di Madison, la piccola veggente.
Alice.
Non
era più umana, però.
L’incarnato
pallido in un ovale perfetto e bellissimo, gli occhi dorati come i nostri,
vivaci e curiosi, il profumo seducente tipico della nostra specie non
lasciavano dubbi sulla sua natura.
Improvvisamente
mi tornò alla mente Lucien, il vampiro innamorato di lei, che voleva farne la
sua compagna. Che fine aveva fatto?
Perché
non era al suo fianco?
E
questo sconosciuto dagli occhi color cremisi che la seguiva, chi era? Da dove
veniva?
Quando
era entrato nella sua vita?
Queste
e molte altre domande prendevano d’assalto la mia mente; il tempo e le
circostanze favorevoli mi avrebbero dato tutte le risposte. Una per una.
Si
trattava solo di aspettare.
Giorni,
magari anni.
Non
avrebbe avuto importanza.
Avevo
davanti l’eternità.
Continua…
Eccomi qui con un altro capitolo.
Ho aggiornato prima, questa volta. Sono stata brava, eh?
Sì, lo so, dovrei farmi perdonare per tutte le volte che mi sono
fatta aspettare.
Ormai siamo quasi in dirittura d’arrivo e la storia a questo
punto si scrive quasi da sola. Vi è piaciuto questo capitolo? Forse sembrerà
frettoloso, ma si trattava di concentrare alcuni fatti particolari nell’arco di
pochi anni e non volevo dilungarmi in situazioni che non erano fondamentali.
Spero possa convincere nel suo sviluppo complessivo.
Direi che mancano ancora un paio di capitoli, e poi potrò
scrivere la parola fine. Spero che mi seguirete fino ad allora; avete resistito
fin qui, meritereste un premio alla pazienza, un ultimo sforzo e poi vi lascerò
in pace.
Un po’ mi dispiace, lo ammetto, ma una conclusione doveva
arrivare e volevo che fosse coerente con gli sviluppi successivi della saga di
Twilight scritta dalla Meyer.
Devo ringraziarvi tutte per la vostra costanza e per il
gradimento che avete dimostrato per questa storia. Spero di non deludervi fino
alla fine.
Alice e il suo
misterioso compagno erano fermi sulla porta e pareva che attendessero il
permesso per entrare in casa. Il silenzio era sceso tra noi, ma quella strana
calma che avevo percepito fin dall’inizio perdurava.
La priorità del
momento era capire la ragione per cui erano venuti a Forks a cercarci, così mi
decisi a sbloccare l’incerto di quella situazione.
“Alice, sei davvero
tu…” non seppi nascondere la sorpresa. Lei mi sorrise.
“Ciao, Carlisle. Mi
fa piacere che ti ricordi di me. Immagino ti chiederai come ho fatto a
trovarti.”
“In effetti, sì. Me
lo stavo domandando, anche se ricordo bene che sei una ragazza piena di
risorse.”
Non volevo fare
dell’ironia, solo essere amichevole; avevo sempre avuto una spiccata simpatia
per Alice e la sua esuberanza. L’avrei amata anche come vampira nello stesso
identico modo.
“Sono arrivata fin
qui, seguendo le mie visioni; io e Jasper siamo destinati a unirci alla tua
famiglia.”
E con un cenno
della testa indicò il ragazzo biondo al suo fianco. Non si era ancora
intromesso neppure una volta; aveva lasciato che fosse lei a gestire tutta la
situazione, limitandosi a far la parte dello spettatore, quasi non avesse
diritto di replica. L’impressione era che si limitasse a seguirla e pensai che
lo avrebbe fatto anche in capo al mondo. Guardai il misterioso, silenzioso
vampiro prima di riportare la mia attenzione su di lei.
“Mi fa piacere
incontrarti. Però avrei preferito che finisse in modo diverso; speravo di non
ritrovarti trasformata in vampiro. Avevo scongiurato con tutte le mie forze che
non accadesse…”
“Sì, lo so.”
Mi sorprese nell’immediato,
ma proseguì chiarendo il senso delle sue parole.
“Carlisle, io ho
pochi e radi ricordi della mia vita precedente. So che ci siamo già incontrati…
in un posto lontano da qui. - Mise una mano nella tasca della veste leggera e
un po’ logora che indossava e ne estrasse un foglio tutto spiegazzato. – Quando
mi sono risvegliata in forma di vampira ero sola e l’unica traccia che avevo in
mano era questa lettera; ho iniziato a leggerla, e sono arrivate le visioni dal
passato e dal futuro. Ho visto Jasper. Ho visto te e questa famiglia. Così ho
capito che dovevo trovarvi per unirmi a voi.”
Era la lettera che
le avevo scritto io prima di fuggire da Madison, in cui avevo riposto tutte le
mie speranze per lei. Alice l’aveva conservata tutto questo tempo pensando che
fosse importante, un tassello del suo futuro. E lo era. Cercò con gli occhi lo
sguardo benevolo di Esme, poi quello di Edward, quindi tornò a puntare i suoi
occhi su Esme come se attendesse un cenno d’incoraggiamento dalla vampira.
Segno che non si
fece attendere.
“La nostra famiglia
è sempre pronta ad accogliere nuovi membri, siete i benvenuti.”
Furono le parole
amorevoli di Esme che io potevo solo condividere. Alice stirò le labbra prima
dolcemente, poi all’improvviso la vidi esplodere in un sorriso di gioia e
battere le mani con genuino entusiasmo.
“Oh, stanno per
arrivare i miei fratelli! Sono ansiosa di conoscerli.”
Infatti Rosalie ed
Emmett entrarono in casa in quel momento. Era alquanto bizzarra tutta la
situazione, perché Alice si comportava come se l’avessimo già accettata; lei
semplicemente sapeva già come sarebbe finita. Lo aveva visto.
Elettrizzata
dall’emozione, muovendosi come se stesse danzando, andò loro incontro con fare
amichevole; avvertii di nuovo quel senso di calma pervadere il mio animo e
lessi uguale sentimento sui volti dei miei figli.
“Piacere di
conoscervi, ragazzi! Io sono Alice e lui è Jasper, il mio fantastico compagno.”
Li salutò con la
sua voce musicale e armoniosa.
Emmett, per
carattere aperto e solare, li accolse con un sorriso franco, anche lui pervaso
dalla stessa calma che circondava tutti.
“Oh, bene, una
sorella e un nuovo fratello con cui fare la lotta. Benvenuto Jasper. Io sono
Emmett, il marito di questa splendida bionda.” E stampò un bacio sonoro sulla
guancia di Rosalie, che reagì un po’ ritrosa alla spavalderia del suo compagno.
“Grazie. Sono
felice di essere qui, con tutti voi.”
Era la prima volta
che sentivo la sua voce, rivelava forse una lieve insicurezza; i suoi occhi
indicavano che non era abituato al sangue degli animali; poi notai i segni
vistosi sul suo corpo, innumerevoli segni di morsi che formavano una sorta di
reticolato bianco argenteo sulla sua pelle.
Erano le cicatrici
del suo passato e mi chiesi quanto fosse stato violento e sanguinario; avrei
dovuto preoccuparmi, ma quella strana calma che avvertivo non mi abbandonava.
In verità, era
tutto alquanto curioso: Rosalie nella stessa circostanza, con degli estranei
non sarebbe apparsa tanto rilassata; si sarebbe messa sulla difensiva.
Con Alice non
accadde e le ragazze si salutarono con cordialità.
“Sono felice di
conoscerti Rosalie; sarà bello andare insieme per negozi, e magari anche al
cinema. Mi devi illuminare sulle novità dell’ultima moda; come puoi vedere il
mio vestito non è il massimo.”
“Ne sarò felice. È
bello avere una sorella; Emmett non ha certe delicatezze ed Edward è sempre
troppo serio e tormentato. Non è uno che sa divertirsi…”
“Lo faremo
sciogliere noi, vedrai.”
Edward, suo
malgrado, sorrise.
La mente vivace e
originale di Alice gli era sempre piaciuta fin da quando era umana. In effetti
fra Edward e il simpatico folletto si sarebbe instaurato un bel rapporto fatto
di complicità fraterna, stimolato anche dai loro poteri complementari.
Avrebbero
collaborato spesso e volentieri; insieme sarebbero stati una forza.
Mio figlio intanto,
stava studiando Jasper.
Analizzava il suo
potere mentre sentiva che aveva effetto anche sul suo umore.
Era lui che
controllava le nostre emozioni, riusciva a manipolarle e sapeva creare quel
clima distensivo e sciogliere le eventuali tensioni. Esercitava il suo potere
su chiunque, vampiri e umani; in futuro si sarebbe rivelato assai utile in
svariate situazioni.
Alice e Jasper
furono gli ultimi arrivati.
Gli ultimi figli,
ma non i meno importanti.
Fra tutti, gli
unici che non avevo trasformato io, accolti come figli adottivi in seno alla
famiglia, amati come tutti gli altri. Avrei approfondito la storia di Alice e
Jasper nei giorni successivi. C’erano tante cose da capire, tante che forse non
avremmo capito e sarebbero rimaste avvolte nel mistero. Ma avevo tutto il tempo
che mi serviva per scoprirlo; l’eternità non mi spaventava più come un tempo,
perché c’era la mia famiglia ad accompagnarmi in quel viaggio.
Non era stato
Jasper a trasformare Alice come avevo pensato all’inizio.
Su questo Edward
era stato chiaro.
Si erano incontrati
solo due anni prima, ed era stata lei a cercarlo guidata dal suo potere; era
lui quel vampiro che aveva visto nella sua visione, quando era ancora solo una
fragile umana. Ma a parte questo, Edward non era riuscito a scoprire molto altro.
“Non ha molti
ricordi del suo passato, quasi non si rammenta di Lucien né del manicomio, e
non ricorda nulla della sorella. Le immagini nella sua testa sono molto
confuse. Può darsi che sia stato lui a trasformarla, visto che era la sua
intenzione, ma non possiamo esserne sicuri; ci sono dei buchi neri nella sua
memoria che non mi permettono di scoprire altro. Forse dovresti provare a
parlare con lei.”
“Proverò a farlo.
Non che sia così importante, adesso. Ma sarebbe bene sapere se Alice si è
lasciata dietro qualcosa di compromettente o irrisolto. Dobbiamo stare
all’erta. Di Jasper cosa puoi dirmi?” chiesi incrociando le dita, con i gomiti
appoggiati sul piano lucido della scrivania del mio studio. Edward era immobile
di fronte a me, le mani infilate nelle tasche dei calzoni.
“Ha un passato
burrascoso alle spalle, ma ha un profondo desiderio di cambiare vita. Non penso
sarà facile; si è nutrito per lungo tempo di sangue umano, sarà sempre una
terribile tentazione per lui, ed è vissuto in un clan dove i rapporti personali
erano fragili e dettati da pure necessità, senza valori affettivi autentici.
Non era una famiglia come la nostra.”
“Capisco. - Dissi
con aria grave. – Con tali premesse è impensabile inserirlo a scuola tra gli
umani, come un ragazzo normale. Sarà necessario aspettare.” Sospirai, rivelando
la mia apprensione che Edward avvertì riflessa nei miei pensieri.
“Temi possa
aggredire qualcuno?”
“Non sarebbe da
escludere. Dobbiamo scongiurarlo a tutti i costi. Aspetteremo finché non sarà
pronto e credo che Alice potrà aiutarci; è una fortuna che ci sia lei.”
Nei giorni seguenti
parlai con la piccola veggente.
Alice aveva già
legato con tutti; Esme l’adorava come era prevedibile, e insieme si divertirono
a scegliere l’arredamento della stanza che avrebbe diviso con Jasper; si
dimostrò bendisposta a collaborare, ma la memoria non le veniva in aiuto. La
maggior parte dei suoi ricordi umani erano stati cancellati, forse anche dalle
terapie cui era stata sottoposta per anni.
Le parlai del
manicomio di Madison, del periodo che lavorai lì, e naturalmente di Lucien.
“Tu all’epoca non
potevi saperlo, ma Lucien era un vampiro, Alice. Aveva uno strano ascendente su
di te, che mi preoccupava molto; sapevo che voleva trasformarti e tentai di
impedirlo. Temevo che andandomene, avrei dato via libera alle sue intenzioni,
ma fui costretto a farlo. Solo non capisco perché ti abbia lasciata andare dopo
la trasformazione.”
“Io non ricordo il
momento precedente la trasformazione. A volte affiora alla memoria un volto, un
ragazzo bellissimo dai capelli neri come la notte. Penso sia Lucien, il vampiro
di cui mi parli, ma non lo so con certezza. E non saprei dirti che fine abbia
fatto. Mi sono svegliata lontana da Madison, e non c’era nessuno. Ricordo una
fuga… non so da cosa o da chi… Poi ho visto Jasper in una visione... mi
sembrava di averlo già visto. Ho vagato per giorni da un luogo all’altro, da
una città all’altra per raggiungerlo. Finalmente ci siamo incontrati a
Philadelphia: in un giorno di pioggia battente è entrato nel locale dove mi ero
fermata ad aspettarlo. Non credeva ai suoi occhi quando mi sono avvicinata a
lui.”
Alice ricordava
quel momento del loro incontro con espressione serena; i suoi occhi brillavano
accesi da una forte emozione. Non ricordavo di averla mai vista così felice.
“Cosa sai di lui,
Alice? Del suo passato? Uccideva gli umani e si vede dai suoi occhi.”
“Sì, ma desidera
cambiare stile di vita, così gli ho parlato di te. Non mi ha creduto subito, ma
ho insistito perché sapevo di avere ragione. Quando l’ho incontrato era insieme
ad altri vampiri, avevano lasciato il loro clan. Jasper era depresso e
infelice, ma non sapeva come uscire dall’apatia della sua esistenza.”
Le ultime parole di
Alice mi inquietarono.
“E questi vampiri
dove sono, ora?”
“Non lo so; sono
andati per la loro strada, immagino. Lui li ha abbandonati per seguire me;
sapevo che lo avrebbe fatto. L’ho visto.”
La storia del
maggiore Jasper Whitlok era particolare come la sua capacità di leggere le
emozioni e controllarle.
Un pomeriggio dopo
una caccia con Emmett ed Edward, gli chiesi se avesse voglia di parlarci delle
sue origini; lui con pazienza, raccontò di fronte a tutti noi ogni dettaglio
della sua vita senza tralasciare nulla.
Jasper non era un
neonato; era un vampiro di quasi cento anni e la sua nascita risaliva alla
guerra di secessione americana. Ci raccontò di come era stato trasformato e
perché. Originario del Texas, più precisamente di Huston, si era arruolato
nell’esercito confederato dove aveva combattuto fino a quando sulla sua strada,
all’età di vent’anni, non erano comparse tre immortali: una di queste aveva
nome Maria e fu colei che lo trasformò.
Maria era coinvolta
in guerre cruente tra vampiri neonati per il controllo di territori in Messico
dove potersi nutrire senza concorrenza, e Jasper col suo potere e carisma che
esercitava sulla truppa, le era stato utile per controllare e guidare i giovani
vampiri nelle battaglie. In pratica si era servita di lui, in maniera scaltra,
usandolo come una marionetta. Così aveva imparato a combattere contro i
neonati, vampiri molto forti, selvaggi e brutali, praticamente fuori controllo,
dominati solo dai loro impulsi. Ottimo combattente, ne aveva sterminati un
numero spropositato.
A testimonianza del
suo passato di violenza e scontri, il suo corpo era segnato da morsi e
cicatrici. Mi chiedevo se fossero solo segni superficiali o se ne fossero
rimasti anche sul suo cuore morto. Ormai sapevo che potevamo restare segnati
dalla nostre esperienze quanto gli umani e Jasper non mi pareva diverso in
questo.
Non avevo mai
sentito parlare di simili scontri tra vampiri, per la ragione che all’epoca dei
fatti, io vivevo tra le terre del Canada e l’Alaska, lontano dai territori del
Sud teatro della guerra civile. Era il periodo del primo incontro con Eleazar e
la sua famiglia, ed ero vissuto quasi in isolamento per molto tempo, prima di
ributtarmi nella civiltà.
Quanto tempo era
passato.
Quanta vita era
scivolata via da allora e quanti fatti erano accaduti a cambiare la mia
esistenza.
Era strano
riguardare indietro al passato, ma lo facevo senza dolore, con la
consapevolezza che oggi ero un vampiro molto diverso, appagato, pieno di
esperienze fortificanti; alcune mi avevano senza dubbio segnato, altre
arricchito.
L’incontro
inaspettato con Alice, per Jasper era stato vivificante come ritrovare una
speranza perduta.
“Ero stanco di
combattere, stanco di tutta quella violenza. Lasciai il clan di Maria insieme a
un paio di neonati che avevano deciso di fuggire. Uccidere iniziava ad
atterrirmi, ero disgustato dalla mia esistenza, ma la sete mi dominava; sentivo
tutto ciò che provavano le mie prede, le loro paure, quella soggezione di
fronte al soprannaturale che avevo provato anch’io quella notte fatale che
incontrai Maria e le altre. Non sapevo che ci fosse un altro modo. Pensavo di
non avere scelta. Se non avessi trovato lei sulla mia strada, sarei diventato
un bruto, un mostro senza sentimenti.”
Aveva parlato, guardando
il folletto con uno sguardo inequivocabile; si era profondamente legato a lei,
con una forza indissolubile.
“Mi hai fatto
aspettare parecchio.” Commentò Alice con un sorrisetto indulgente e malizioso.
“Scusami, cercherò
di recuperare il tempo perso.” Le rispose lui di rimando.
Guardavo la piccola
vampira ed ero certo che quel sentimento, Alice non lo avesse mai avuto per
Lucien. La veggente aveva fatto bene a fidarsi delle sue visioni, quanto mai
vere.
Ed ero contento di
trovare in Jasper un vampiro diverso da ciò che era stato Lucien.
Jasper sapeva cosa
volesse dire uccidere esseri umani, ma il suo potere di sentire le emozioni lo
aveva in qualche modo salvato, sviluppando in lui una sorta di empatia per le
sue vittime. La depressione era stata la diretta conseguenza.
Non gli piaceva
allenare ed educare vampiri che, dopo un anno, avrebbe dovuto uccidere, se non
erano già caduti sui campi di battaglia, ma era quello che Maria gli chiese di
fare per lungo tempo.
Non potevo
concepire una vita più difficile, un incubo peggiore di quello cui era stato
sottoposto lui.
Guerre tra clan di
vampiri.
Non riuscivo a
immaginare nulla di più terrificante e spaventoso.
Le guerre umane mi
erano sembrate sempre tremende; le avevo evitate con cura estrema, come certe
terribili pestilenze che fanno paura agli esseri umani; per fortuna, non mi ero
mai trovato coinvolto in faide tra immortali. Detestavo la violenza; la mia indole non era aggressiva e da lotte del genere non ne sarei
mai uscito vivo. Ma mentre Jasper raccontava quelle storie che si perdevano
indietro nei secoli, la mia mente veniva assalita da strani dubbi.
Come mai gli uomini
non si accorgevano di quei violenti scontri?
Come e quando
finivano quelle diatribe, se finivano?
“Vorrei saperlo
anch’io.” Edward diede voce ai miei pensieri.
Jasper si dimostrò
per un momento disorientato.
“Cosa volete
sapere?”
“Non eravate troppo
esposti agli umani? Con tutta quella violenza si saranno accorti di voi…”
Ragionai tra me.
“Il rischio c’è
stato, effettivamente. Ma quando la situazione diventava troppo critica,
interveniva la guardia dei Volturi; facevano piazza pulita di neonati e gli
scontri si interrompevano per un po’ di tempo. Dopo, le ostilità riprendevano,
ma con cautela e i Volturi tolleravano la cosa, almeno fino a quando non si
superavano certi limiti.”
I Volturi.
Ecco che sentivo di
nuovo parlare di loro.
Un pezzo del mio
passato che improvvisamente tornava a galla sul fiume della mia coscienza.
Erano stati così
vicini e non lo avevo saputo.
Ripensai
a Haidi, alla sua malia e sperai che fosse ancora in vita. Cercai di
allontanare il suo ricordo, per non lasciarmi distrarre da pensieri troppo
conturbanti. Era strano che mi fosse tornata alla memoria così. Incrociai il
mio sguardo con Edward e lui mi restituì un’ occhiata perplessa.
Sembrava dicesse, adesso
c’è Esme. Perché pensi ancora a lei?
Distesi
la piega delle labbra in un sorriso indulgente per rassicurare mio figlio: era
solo un ricordo senza conseguenze, una piuma leggera che si era posata sulla
mia fronte a solleticare la traccia di un pensiero fuggito lontano.
Una
lieve impronta sul cuore che si faceva sentire, una debole scossa, quasi un
brivido portato dal vento sollecitato dalla parole di Jasper, dopo tanto tempo.
Jasper
Whitlok aveva finito il suo racconto. Gli altri si allontanarono mentre io e
lui rimanemmo soli.
Alice
aveva guardato il suo compagno con espressione tranquilla; c’era tra loro quasi
un colloquio muto. Era come se comunicassero col pensiero, esisteva una
sintonia perfetta, quasi a livello spirituale, se così si può dire per due
vampiri.
Per
Jasper doveva essere curioso il nostro modo di vivere; intuivo che era
perplesso forse più su se stesso, sulla sua reale capacità di adattarsi.
Restava fermo a fissarmi in quella posa composta da soldato sull’attenti;
l’impronta del militare era davvero netta in lui, una sorta d’imprintig di cui
non si è del tutto liberato, e continua a mantenere ancora oggi. In realtà, il
suo atteggiamento nei nostri confronti mi ha lasciato nel dubbio per
lunghissimo tempo.
“Rilassati
Jasper. C’è qualcosa che mi devi chiedere? - Lo vidi esitare, dubbioso. Sorrisi
mio malgrado, divertito dal suo atteggiamento sospettoso. - Sì, immagino che
tutto questo sia abbastanza strano per te.”
“Beh,
è inutile negarlo. Mi stavo chiedendo quanto sia difficile vivere così. Non hai
mai avuto dei… ripensamenti?”
“Capisco
le tue perplessità. Io personalmente no, ma altri qui potrebbero raccontarti
fatti differenti. Non ho mai detto che sia facile, a nessuno dei miei figli.
Non ho mai negato ciò che siamo, sarebbe da pazzi, ma io insisto a dire che è
possibile vivere quasi in maniera normale.”
“Normale…
mi sembra una parola così lontana da noi…” Lo sentii sussurrare, fra sé.
“Dipende
tutto dalla volontà, Jasper. Io non ho mai obbligato nessuno e non intendo
importi uno stile di vita che non senti. Ma devo chiederti di scegliere; se
deciderai di restare con noi dovrai adattarti e mi aspetto che tu sia almeno
convinto. Posso darti tutto il tempo che vuoi; capirò se fallirai. Si cade e ci
si rialza.”
Restò
per un momento in silenzio.
“Io
ho scelto di seguire Alice…”
“Allora
è per lei che intendi rimanere?”
“Anche,
sì…”
“Mi
basta. Benvenuto nella famiglia Cullen.”
Con
l’arrivo di due nuovi vampiri, i licantropi tornarono a controllarci.
Secondo
loro stavamo aumentando di numero in maniera pericolosa. Avevano visto Jasper i
suoi occhi rossi e non volevano fidarsi. Una notte un branco di cinque lupi,
piombò latrando furiosamente davanti alla nostra casa nel cuore della foresta.
Dovetti
faticare un bel po’ per convincerli che non saremmo stati un pericolo per la
comunità di Forks e gli indiani della vicina riserva.
“Garantisco
io per lui. Si è unito al nostro clan per cambiare vita. Vi do la mia parola
che non accadrà nulla. Al minimo sentore di pericolo per gli umani, andremo
via. Non saremo noi a violare il patto per primi.”
Jasper
e Alice non avevano mai incontrato veri licantropi; restarono sconcertati prima
dall’odore insopportabile, poi dalla sorpresa di scoprire nemici naturali e
letali.
“Avevo
sentito parlare di queste creature, ma non ho mai creduto che esistessero.”
Commentò Jasper, mentre Alice riconosceva di non poter avere visioni su di
loro.
Non
li aveva visti arrivare.
Jasper
si adattò volentieri alla dieta a base di sangue animale; gli sembrò una valida
alternativa. Ma inserirlo fra gli esseri umani fu decisamente più difficile. Ci
volle molto tempo e avvenne per gradi. Piccoli passi alla volta, faticosi e non
sempre costanti.
Sul
palato, nelle narici e nella memoria Jasper manteneva troppo vivo il sapore del
sangue umano.Per lui era una fatica
immane resistere all’aroma del sangue, una vera tortura fisica.
Non
era mai stato tanto difficile neppure per Edward.
Jasper
era come un drogato che aveva bisogno di disintossicarsi e non furono rare le
crisi d’astinenza.
“Mi
brucia la gola. Per placare questa sete, gli animali non bastano; come fate a
resistere? Non vi viene voglia di andare a caccia di un po’ di sangue dolce?”
Era
esasperato e irritato. Emmett rispondeva ridacchiando.
“Beh,
a volte la tentazione assale anche me… di sicuro Carlisle non approverebbe, ma
mi spaventa molto di più la reazione che avrebbe Rosalie, quindi preferisco
controllarmi.”
Allora,
Edward interveniva.
“Emmett
smettila. Jasper proseguiamo la caccia; hai bisogno di nutriti ancora. Vedrai
che la sete ti passerà, cerca di essere paziente.”
Ma
la pazienza non sempre sarebbe bastata. Non in tutte le circostanze.
Quella
di Jasper era una vera dipendenza difficile da estirpare.
Fra
tutti, ancora oggi, dopo tanti anni è quello che ha più problemi a sopportare
l’odore o stare semplicemente vicino agli umani.
Per
aiutarlo, abbiamo trascorso dei lunghi intervalli di tempo in Alaska, facendo
la spola tra Forks, Anchorage, Vancouver e il territorio canadese nell’arco di
oltre un ventennio; meno erano le tentazioni, più facile era per lui resistere.
Era
una fortuna che ci fosse Alice, l’unica in grado di prevedere tutte le sue possibili
reazioni; se c’era il rischio di qualche aggressione, lei ci avvertiva sempre
in tempo, e allora si evitava di andare a scuola, in città, per negozi o al
cinema, e in altri luoghi dove era concentrata la presenza di esseri umani.
Come
quella volta alla scuola di Forks. C’erano un gruppo di operai che stavano
facendo manutenzione all’edificio scolastico. Alice ebbe una visione in cui
vide uno degli uomini cadere dall’impalcatura e ferirsi in maniera seria.
Quel
giorno impedimmo a Jasper di frequentare i corsi, invece lo obbligammo ad
andare a caccia con i suoi fratelli.
“Fratellino,
per oggi è meglio se marini la scuola. Immagino con un certo sollazzo le urla
di terrore degli studenti.” Aveva sghignazzato Emmett in finto tono lugubre.
Mia
moglie lo aveva rimproverato subito.
“Emmett
non c’è nulla di divertente in quello che hai appena detto, smettila di
istigare tuo fratello.”
“Un
po’ di immaginazione non fa male; sai che noia ripassare lezioni di storia che
si conoscono a memoria?”
L’operaio
si salvò dalla caduta e dal vampiro; lo ricoverai in ospedale per oltre un mese
e mezzo con due costole rotte e fratture multiple alle gambe.
Sono
stato a lungo incerto sulle motivazioni di Jasper; credevo che Alice fosse
l’unica ragione che lo facesse restare con noi. Non era facile intuire cosa
pensasse davvero, solo Edward aveva libero accesso alla sua mente.
Si
manteneva freddo, apparentemente distante, indifferente.
Solo
col tempo compresi che in realtà si legò sinceramente ai suoi fratelli e
sorelle, a Esme e anche a me, pur non manifestandolo apertamente.
Era
fatto così.
In
realtà, non era mai stato libero di legarsi davvero a una famiglia in modo
autentico e sincero. Era un soldato che non aveva mai imparato a mostrare le
emozioni, anzi le aveva represse, considerandole fonte di debolezza in un mondo
di suprema violenza.
Solo
recentemente ha iniziato ad ammorbidirsi un po’ nei suoi approcci.
Per
lui resistere diventò una sorta di sfida, una prova di forza con se stesso; era
un combattente e la sua nemica era la sete, la nemica più forte, dura e ostile
che gli fosse mai capitato di affrontare. Vederla in quest’ottica lo aiutava,
ma la sua presunta debolezza rispetto ai suoi fratelli, molto più allenati e
meno provati, lo faceva soffrire.
Il
desiderio di uccidere era ancora troppo vivo e spesso affiorava prepotente;
Alice, aiutata da Edward, controllava le sue reazioni, i suoi pensieri e
desideri, e scongiurava i suoi possibili fallimenti. Jasper era per lei la sua
preoccupazione costante: quasi tutti i pensieri di Alice erano concentrati sul
suo compagno e sul suo autocontrollo.
È così ancora oggi anche se sono passati decenni; sono soltanto un poco
meno ossessivi.
Jasper
a volte è infastidito da tutte queste attenzioni; detesta causare
preoccupazioni ad Alice.
Eleazar
mi aveva messo in guardia; lui ci era già passato, come Tanya e le sue sorelle.
Per questo i vampiri di Denali insistevano a vivere lontani dagli umani, in un
territorio inospitale come l’Alaska.
“Carlisle,
quando un vampiro ha vissuto in quel modo, immerso in tutta quella violenza,
cambiare è ancora più difficile: possiamo fare un paragone con un bambino che
ha ricevuto solo sevizie. Jasper soffrirà per decenni probabilmente. Bisogna
vedere quanto è forte; Alice indubbiamente si controlla molto meglio e questo
lo stimola, lo incoraggia.” Mi disse semplicemente. Sapeva di cosa parlava,
molto più di me.
“Sì,
ho chiaro il concetto, Eleazar. Non farò con Jasper l’errore che feci con
Edward. Non gli imporrò di restare, né gli dirò che questo è il modo migliore
di vivere; voglio che si senta libero, e se un giorno mi dirà che vuole andar
via, non lo fermerò… e allora, perderò anche Alice. Spero che lei possa essere
tanto forte da trattenerlo…”
Per
Jasper l’odore del sangue è un tormento quasi costante; dopo oltre mezzo secolo
deve ancora combattere contro le sue reazioni fisiche: la bocca secca e arida,
la gola che brucia, crampi allo stomaco, muscoli che si contraggono tesi nello
sforzo di dominarsi. Solo i suoi occhi hanno mutato colore diventando dorati
come i nostri.
Alice,
con una dolcezza disarmante, non si stanca d’incoraggiarlo.
D’infondergli
fiducia.
“Tranquillo
Jasper; puoi farcela. Non assalirai nessuno. Io l’ho visto.”
Il
soldato si fida del suo folletto come ci fidiamo noi. Tramite le visioni di
Alice abbiamo sempre scongiurato possibili tragedie e gestito crolli finanziari
in borsa. Anche grazie a lei, il patrimonio dei Cullen è aumentato
considerevolmente attraverso gli anni.
Sembra
trascorso solo un battito di ciglia, dall’arrivo di Alice e Jasper in famiglia,
ma siamo già alle soglie di un nuovo secolo.
Nel
frattempo il mondo è passato attraverso fasi diverse; negli anni del dopoguerra
l’America ha vissuto il suo sviluppo economico imponendo il suo modello di
società consumistica, si è gettata in altre guerre disastrose come quella del
Vietnam, e da superpotenza in competizione con l’ URSS ha imposto al mondo la
cosiddetta guerra fredda, fatta di conflitti indiretti e corsa agli armamenti
nucleari, nel tentativo di impedire l’espansione del pensiero comunista. Quando
nel 1962 ci fu la crisi di Cuba, in quei 13 giorni anche noi come buona parte
dell’umanità, pensammo di essere arrivati alla fine: una guerra termonucleare
distruggerebbe anche i vampiri. Ricordo ancora i telegiornali dell’epoca e la
nostra apprensione.
Noi
come il mondo, abbiamo costruito nuovi equilibri, adattandoci ogni volta a
necessità diverse e l’unico elemento che mutava era l’ambiente attorno che
abbiamo cercato, per quanto possibile, di adattare alla nostra esistenza.
Nonostante
tutto, oggi siamo una famiglia unita. Lo posso dire con profonda convinzione.
Siamo
passati indenni in mezzo a tutto. E non è che siano mancate le prove o le
difficoltà.
I
nostri legami sono solidi, autentici, si sono saldati e fortificati negli anni.
Il bene profondo che mi è stato dato è superiore a tutte le aspettative che potevo
sognare di avere; una moglie che adoro, sensibile e dolce, presente e attenta.
Cinque figli che hanno dato senso alla mia vita, riempito il vuoto e reso meno
pesante e spaventosa questa eternità che mi sovrasta.
Come
nomadi, siamo passati da nord a sud, da est a ovest, attraverso Stai Uniti,
Canada, Alaska.
Anche
le più grandi distanze per noi sembrano accorciarsi, troppo brevi per creature
che trascorrono l’esistenza a ripetere all’infinito gli stessi passi,
ripercorrendo lo stesso tragitto mille e mille volte.
Abbiamo
toccato innumerevoli città passando dall’Indiana, all’Illinois, al Michigan,
fino ad oltrepassare i grandi laghi per puntare verso il Quebec, tutto
nell’arco della vita di un uomo che nasce, cresce e muore sotto questo cielo
troppo vasto, infinito quanto il mistero della vita, lontano e irraggiungibile
come la morte che ci è negata.
Esperienze,
sentimenti, strade accumulate, non sono altro che impronte impalpabili, nuvole
in viaggio inafferrabili a testimoniare che non possiamo esistere se non nelle
fantasie degli uomini.
Non
c’è traccia di noi nella storia, salvo quelle leggende surreali che si perdono
nella notte dei tempi.
Le
nostre origini restano misteriose a noi stessi e neppure i vampiri più antichi
le conoscono.
Mi
sono rassegnato a essere come un maestoso albero senza radici, come quelle
piante che si abbarbicano sulle rocce; mi sono aggrappato ogni volta a un luogo
diverso e ho fatto mio ogni ricordo depositato sulla terra che di volta in
volta ci ha accolto.
Ogni
storia o dramma umano che ha toccato la nostra vita è acqua che scorre sulla
nostra pelle e non possiamo assorbire, se non in minima parte.
Ho
imparato ad accettarlo.
So
che non avrei il diritto di chiedere più di quello che la sorte indegnamente mi
ha donato: è stata una madre fin troppo generosa con una creatura partorita da
un abisso oscuro.
Se
guardo da qui l’immagine dell’arazzo costruito attraverso i secoli, i fili che
lo compongono sembrano tutti al loro posto. Apparentemente.
Il
disegno sembra preciso, completo. Chiaro. I colori limpidi.
Eppure
non è del tutto vero.
So
che l’immagine non è finita.
Resta
un filo, in un angolo della composizione che ancora non ha trovato la sua
giusta collocazione.
Fa
parte del ricamo, quindi è intrecciato insieme agli altri per buona parte, ma
un’ estremità non trova la sua sede. Non ha trovato il modo di annodarsi al
tutto e resta estraneo, alieno all’equilibrio dell’insieme.
Stiamo
tutti aspettando che venga quel momento; che il filo trovi il suo giusto
intreccio.
Dovrà
venire. Voglio continuare a crederlo.
Allora
rivolgo la mia ultima, accorata preghiera all’universo insondabile da cui sono
caduto.
Concedimi
l’ultimo tassello che possa completare l’immagine del quadro.
Il
mio amore egoista si rivestirà di una parvenza di grazia.
Una
grazia che non chiedo per me.
Il
primo dei miei figli è ancora solo.
La
sua solitudine, più amara della mia condanna, è l’unica ferita che ancora
sanguina.
Io
aspetto e spero ancora di vederla guarire.
Continua…
Eccomi qui.
Jasper; avevo
qualche timore ad affrontare questo personaggio, non ero sicura di averlo
capito. Ho lavorato poco di fantasia e mi sono attenuta alle fonti originali.
In effetti mi è sempre sembrato un po’ fumoso, non lo vedevo interagire con gli
altri. Poi non capivo esattamente perché, anche dopo tanto tempo, facesse più
fatica degli altri a stare in mezzo agli umani. Mi sono concentrata sul suo
passato perché credo che la chiave per comprenderlo sia lì, nell’educazione che
ha ricevuto prima come soldato e poi da Maria.
Jasper non ha
conosciuto altro che violenza prima dell’incontro con Alice, quindi ho dedotto
che i suoi primi approcci con la famiglia di Carlisle devono essere stati un
po’ perplessi. Concordate con la mia interpretazione?
Siamo alla
fine ormai. Il prossimo sarà davvero l’ultimo capitolo e poi questa storia sarà
davvero conclusa. Come sempre ringrazio tutti quelli che seguono e hanno
seguito fin qui, in silenzio o meno. Se vi va, fatevi sentire, anche solo per
dirmi se vi è piaciuto o no.
Il nuovo secolo ci aveva
raggiunto, o forse noi avevamo raggiunto lui.
Dicerie legate alla
superstizione popolare volevano che sarebbe coinciso con la fine del mondo e effettivamente,
l’attentato alle Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001, sembrava aver
dato il là, a tutta una serie di accadimenti negativi.
Quella data che ogni anno
l’America ferita ricorda solennemente al cratere di Gran Zero, ha segnato l’inizio
di altri conflitti nelle terre del Medio Oriente; lontano da qui e da noi,
nuove guerre e violenze, attentati, scontri civili e religiosi gettano una luce
sinistra sul futuro di questo mondo.
Ogni volta che esplode un nuovo
conflitto in qualche territorio estremo di questo pianeta, con armi sempre più
sofisticate e un impiego ingente di energie vitali, si rafforza in me la
convinzione che il genere umano non impari mai; la sua condanna è quella di
ripetere sempre gli stessi errori e la nostra come vampiri è quella di dover
star qui a guardare la morte che trionfa sulla vita. La stessa morte che ho
cercato di sconfiggere lungo tutta la mia esistenza, prima come medico, poi
dando l’immortalità a chi non aveva più speranze.
Credo che questo sia stato il
senso di tutta la mia esistenza, più o meno. La ricerca paradossale se
vogliamo, della mia umanità.
È già sera: è passato un altro
giorno uguale a mille altri.
Dopo una giornata di lavoro in
ospedale, rientro a casa; ho imparato anche a rilassarmi, osservando la luce
del tramonto che tinge di un pallido rosa arancio le nuvole sull’orizzonte del
cielo invernale.
Stormi di uccelli fuggono nel
cielo per cercare riparo dal buio che cala, mentre avverto anche attraverso il
vetro i suoni della foresta che si addormenta. Questa è sempre l’ora migliore
per noi.
La televisione del soggiorno è
accesa su un canale d’intrattenimento; Esme e Rosalie aspettano che inizi il
programma successivo; un serial televisivo. Tra poco Alice si unirà a loro.
Emmett e Jasper sono a caccia, ma rientreranno a breve. Edward scende veloce le
scale, prende una rivista di motori abbandonata sul divano e inizia a
sfogliarla, distratto. Sembra nervoso e so che è per qualcosa che gli ha detto
Alice.
Forse stanotte prenderà l’auto è
andrà a farsi un giro: gli piace correre. Se fossi un padre umano, certo mi
preoccuperei di questa sua passione: senz’altro gli sequestrerei le chiavi
della Volvo.
Una volta Edward ha riso,
sinceramente divertito di questo mio pensiero.
Le fiamme del camino rallegrano
l’atmosfera rendendola quasi naturale, intima. È in questi momenti che
stranamente mi sento più umano e mi soffermo a pensare.
Penso ai miei figli, quelli che
io ho creato; Edward, Rosalie, Emmett. Sono tutti così diversi.
Forse con loro non sempre ho fatto
la scelta giusta, ma ho seguito la mia coscienza, il mio senso del bene, la
scintilla di quella piccola luce che resiste alle tenebre e mantiene il suo
alito palpitante nell’oscurità.
Penso a una donna umana, forte e
fragile, dolce e paziente che ha avuto il coraggio di guardare dentro le mie
iridi senza spaventarsi, che contro ogni logica e buon senso mi ha amato con
tutta la forza del suo cuore generoso; penso a una madre vampira che ha amato i
nostri figli come se fossero davvero il frutto del suo seno. Mi sono convinto
che Esme abbia un’anima grande quanto l’infinito che leggo nei suoi occhi
dorati e morbidi.
Penso ai figli che mi hanno
accettato come padre, amico e magari fratello; Alice e Jasper fin dall’inizio
hanno scelto di restare in questa famiglia, si sono lasciati amare e l’hanno
amata. Protetta.
Li guardo tutti, dal primo
all’ultimo, riuniti vicino a questo fuoco che non può scaldarci davvero, ma fa
sembrare i nostri volti un po’ meno pallidi. Osservo e ascolto ogni dettaglio; le
loro espressioni felici e tristi, la piega di un sorriso, il timbro delle loro
voci e la luce che ancora esiste nei loro occhi e mi rendo conto che nulla
potevo raccogliere lungo il cammino di più importante di questi fiori
immortali. Se la sorte vorrà non saranno mai recisi dal mio fianco e da questa
terra che calpestiamo furtivi come aliti di vento. Sono i protagonisti
dell’arazzo che compone la mia vita.
Abbiamo trascorso gli ultimi
dieci anni in Alaska, insieme ai vampiri di Denali, amici sempre pronti ad
accoglierci, prima di ritornare di nuovo a Forks. Sono stati anni di
assestamento per la nostre famiglie: i legami si sono saldati, diventando più
robusti.
Tanya ancora non ha rinunciato
al suo sentimento per Edward, che lui si ostina a non ricambiare. È sempre
solo.
Neppure Alice ha mai visto un
futuro per loro, e Tanya se ne rammarica, mentre Irina e Kate si domandano
perché la sorella non demorde.
Un giorno Emmett, per
scherzo,ha voluto fare il gradasso.
“Se non fossi già impegnato
sarei felice e onorato di consolarti, Tanya.” Le ha detto, e per sua enorme
sfortuna Rosalie era tanto vicina che ha sentito tutto. Si è sfiorato
l’incidente diplomatico; seppur molto amiche Tanya e Rosalie hanno quasi
litigato. Io e Eleazar abbiamo dovuto mediare con tatto e diplomazia per
placare gli animi.
E noi siamo sempre preoccupati
per mio figlio.
La sua solitudine ancora mi fa
sentire in colpa, ma io continuo a sperare che esista anche per lui una
compagna da qualche parte; chissà dove e quando incrocerà la sua strada.
Dunque, la vita procede come al
solito; io passo da un ospedale all’altro, costruendo ogni volta nuovi rapporti
sociali, collaborazioni con colleghi stimati e facoltosi.
Esme continua con entusiasmo ad
abbracciare l’insegnamento; adesso, è docente in una scuola media qui a Forks;
i suoi allievi non sono più bambini delle elementari, ma ragazzi più grandi,
preadolescenti che stanno entrando in quella fase delicata della crescita che
si chiama pubertà.
È un lavoro che la fa sentire
viva, che la stimola a dare il meglio di sé a questi ragazzi che cresceranno e
affronteranno il domani da persone adulte.
È la sua missione e vi trova
energia e forza.
Per i nostri figli non sarà mai
così.
Il loro domani sarà sempre
uguale a ieri. È la pellicola di un film rivisto mille volte che si riavvolge e
non esiste un finale alternativo.
Le scene sono sempre quelle. Più
o meno.
Con lieve malinconia, guardo i
cappelli dei diplomi che sono appesi a dozzine, perfettamente allineati per
gradazione di colore, dai più scuri a quelli più chiari, dentro una cornice
appesa alla parete dell’ingresso: per i miei figli è diventato un gioco. Magari
un po’ monotono a volte.
Tutto scorre come sempre e pare
che nulla sia destinato a mutare.
O così credo io.
I Cullen suscitano ancora
sconcerto e incredulità, oltre a un vago timore, come se la gente attorno
avvertisse inconsciamente una sorta di minaccia al nostro cospetto.
È un fatto che avverto anch’io
in alcuni dei miei pazienti, anche se sempre più raramente: con l’esperienza ho
imparato a rassicurarli.
Jasper ancora soffre quando sta
troppo tempo senza cacciare; Edward sente la sua sofferenza che diventa un po’
anche la sua.
Alice due giorni fa ha avuto una
strana visione; ha visto il volto di una umana, occhi e capelli scuri, pelle
chiara quasi albina. Un’anonima fanciulla senza particolari caratteristiche.
Non dovrei mai sottovalutare le
visioni di Alice, neppure quelle più banali. E questa era sorprendentemente
chiara, limpida. La particolarità è che sono rare, spesso confuse le visioni
sugli umani, perché mia figlia vede con più facilità quelli della nostra razza.
Questo forse dovrebbe mettermi in guardia.
Questa piccola, fragile umana
non può certo rappresentare una minaccia per noi, quindi non mi sono allarmato.
Ma se questa ragazzina ignara e
indifesa non è un pericolo, allora perché Alice ha detto a Edward, stai
attento?
*******
È tardo pomeriggio inoltrato; una luce grigia e spenta
scende sulle cose attorno, sui muri esterni dell’ospedale, sulle chiome
appuntite degli abeti che svettano verso il cielo, dando a tutto un colore
monotono. A Forks il sole è raro quanto la neve all’equatore.
Sono seduto alla mia scrivania quando lo vedo piombare nel
mio studio: è inquieto, agitato come non lo vedevo da tempo; il mio primo
pensiero è che sia accaduto qualcosa con Jasper, che abbia aggredito qualcuno.
Edward esita incerto; non sa se sedersi di fronte a me o restare in piedi,
pronto ad andarsene in fretta e furia. Col pensiero, lancio un invito verso la
sedia che lui non accoglie. Sembra che abbia il diavolo alle calcagna; un fatto
sorprendente, considerando che quasi nulla può spaventarci. Tento di calmarlo,
senza ottenere buoni risultati.
“Che cosa è accaduto? Non vuoi parlarmene Edward? Si
tratta di Jasper? - Chiedo, cercando di farlo parlare. Ci metto un secondo a
capire. - No, se fosse a causa di tuo fratello non saresti in questo stato.”
Ma lui glissa sulla mia constatazione.
“Devo andar via, per qualche giorno. Vado in Alaska da
Eleazar, per un po’. Non posso restare a Forks, adesso.”
Le sue parole mi piovono addosso, improvvise; mi rendono
incerto per un istante.
“Quanto pensi di stare via?”
“Non lo so; il tempo che mi serve, credo.”
Mi rendo conto che è irremovibile e se tentassi di
dissuaderlo ora, si impunterebbe solo di più. Sospiro rassegnato, pronto ad
accettare la sua decisione e spero solo che non sia definitiva.
Il tempo che gli serve per cosa?
La mia mente sta elaborando congetture di ogni tipo: è
accaduto qualcosa a scuola, magari ha litigato con qualcuno; è stanco di vivere
qui e vuole andarsene, oppure ha mostrato la sua natura per un’ azione
sconsiderata ed è stato scoperto. C’è qualcosa che Edward non vuole dirmi, per
paura o forse vergogna ed è il vero motivo di questa fuga precipitosa.
“I tuoi fratelli sono già a casa? Loro stanno bene?”
chiedo, nel tentativo di farlo sbottonare.
“Sì, dopo la scuola li ho lasciati all’incrocio sulla
strada che porta a casa nostra. Dovevo parlare con te, prima di partire.”
“Non che tu mi abbia detto molto. Cosa devo dire a tua
madre? Non le farà piacere questa tua partenza improvvisa e immotivata.”
“Dille di non preoccuparsi. Comunque, penso che Alice le
avrà già spiegato tutto. Esme capirà.”
Quindi Alice sapeva.
Allora, ripenso alla sua visione, al suo avvertimento: la
ragazza umana, la sconosciuta appena arrivata a Forks. Non sappiamo ancora
nulla di lei, né se sia la causa di un tale sconvolgimento.
Possibile che Edward abbia incontrato di nuovo il suo
demone? E che sia così forte da costringerlo a scappare?
-Tu non sei uno che fugge. So che qualsiasi cosa sia,
puoi affrontarlo.
“Non sono pronto, non a questo. Stamattina io… non pensavo
di… Parla con Alice, lei ti dirà tutto. Devo andare, Carlisle.”
Esce dal mio studio.
Se potesse correre sfruttando tutta la sua velocità lo
farebbe subito, ma si limita ad allontanarsi a grandi falcate, con passo umano.
Mi affaccio alla finestra del secondo piano e lo vedo salire in fretta sulla
Volvo parcheggiata nel piazzale davanti all’entrata dell’ospedale. Il motore si
accende con un rombo quasi rabbioso e l’auto parte altrettanto rapidamente.
L’ ho creduto a lungo, quasi fosse una condanna per quelli
come noi, ma non sempre la vita scorre uguale all’infinito; ho appena scoperto
che essa è un mistero imprevedibile, insondabile, capace di stravolgere e
modificare qualsiasi percorso e destino.
Anche quello di un vampiro immortale partorito da chissà
quale regno degli oscuri.
Attendo impaziente che venga l’ora della fine del mio
turno per tornare a casa. Devo parlare con Alice.
********
Una settimana.
Una settimana che Edward è lontano.
Non resisto più in quest’attesa snervante; telefono ad
Eleazar.
So di poter sempre contare sulla sua onestà. Lui mi
conferma quello che Alice aveva già rivelato a tutti noi, la sera stessa della
fuga di mio figlio.
“Pronto Eleazar? Ciao, sono Carlisle… Che mi dici di
Edward? Come sta?”
“Sta bene, non preoccuparti. Adesso è fuori con Irina e le
altre. Gli dirò che hai chiamato…”
“Hai parlato con lui? Ti ha detto qualcosa di ciò che
vuole fare?”
“Sì, certo. Ha parlato con me e Carmen. Ci ha raccontato
di un’ umana appena giunta nella vostra comunità; il mostro di tuo figlio si è
risvegliato al profumo squisito del suo sangue. In novant’anni da immortale, ha
detto di non aver mai desiderato con tale, spaventosa intensità del sangue
umano; era disposto a tutto per averla. Ha parlato di un richiamo
irresistibile, una forza tremenda che ha distrutto in un secondo ogni barlume
di umanità in lui, come se la sua volontà fosse soggiogata, annullata
dall’odore incredibile di quella ragazza sfortunata. Mi ha detto anche della
possibile visione nefasta di Alice; per questo è fuggito, Carlisle.”
“Sì, lo so… Per mutare il futuro di quella giovane.”
Concludo io per lui.
Un sospiro pesante esce dalle mie labbra fredde.
Nella visione di Alice, la ragazza moriva.
Con me Edward non è stato tanto esplicito. Mi ferisce un
po’ e mi chiedo perché si faccia delle tali remore a confidarmi le sue
debolezze. Pensa ancora che non potrei comprenderlo? Teme ancora il mio
giudizio, il confronto con me? Magari questa è una di quelle barriere tra padri
e figli che non si possono superare, una linea di demarcazione oltre la quale
non si può andare e che io devo ancora imparare ad accettare.
Dal mio silenzio, all’altro capo del filo, Eleazar avverte
l’ inquietudine che disturba i miei pensieri.
“Carlisle? Non prenderla male… Dagli qualche giorno di
tempo: vedrai che tornerà da voi e affronterà la cosa con coraggio. Ne sono
sicuro; Edward non è un vigliacco. Tempo fa, fece una scelta che è ancora
deciso a seguire.”
“Lo so. Grazie Eleazar, sei un vero amico. Digli che lo
stiamo aspettando.”
Ho chiuso la conversazione al cellulare con un vago senso
di frustrazione. Esme accanto a me, mi guarda; è più serena di quanto non sia
io. Certamente più fiduciosa e mi chiedo se non sappia vedere più lontano di
me.
“Eleazar parla con la saggezza della sua esperienza, lo
sappiamo. Un giorno nostro figlio troverà il coraggio di aprirsi con te; forse
quel giorno è più vicino di quanto crediamo.”
Sospiro vagamente deluso.
“Sì. Solo vorrei che riponesse in me, la fiducia che
ripone in Eleazar.”
“È solo perché Eleazar è più simile a lui che a te, da
questa prospettiva.”
“Come?”
Resto sorpreso dall’ultima esternazione di mia moglie, e
lei mi illumina sul senso delle sue parole.
“La prospettiva del vampiro sanguinario che ha vissuto
molto a lungo come Edward, uccidendo esseri umani. Probabilmente nostro figlio
sente di poter dire a lui, cose che non riesce a dire a te…”
Dopo tanto tempo, Esme riesce ancora a sorprendermi con le
sue intuizioni.
Una prospettiva chiara e semplice da capire, ma io non vi
ho mai riflettuto. Esme, che aveva provato, anche se solo una volta,
cosa volesse dire, vi era arrivata naturalmente.
D'altronde è sempre stata più immediata di me nel rapporto
con suo figlio; è arrivata subito a lui, come una freccia che colpisce dritto
il suo bersaglio, come io non sono stato capace di fare.
È un termine di paragone che io non avrò mai; devo trovare
un altro canale se voglio sintonizzarmi di più a lui.
********
Il mio saggio amico Eleazar aveva ragione: alla fine,
Edward è tornato a Forks.
Ha ripreso a frequentare la scuola, ha deciso di
affrontare il suo demone e di resistergli.
Fin qui, nulla di strano: mi aspettavo una reazione di
questo genere. Edward non è mai stato uno che fugge.
Non è mai stato un codardo; testardo, iroso. Scostante
magari.
Forse superbo, qualche volta egoista, ma vigliacco mai.
La cosa più sorprendente che sta accadendo è l’interesse
di mio figlio per questa umana che ha sconvolto la sua esistenza.
Isabella Swan, la figlia del capo della polizia. Il
profumo del suo sangue è delizioso, lo posso ammettere tranquillamente.
Capisco la tentazione costante cui è sottoposto Edward, e
quanto sia duro lo sforzo che sta facendo per controllare il suo istinto
primario.
Questa ragazza pare una creatura fragile e delicata,
bisognosa di protezione più di chiunque altro essere umano; l’ho vista una
volta, quando è arrivata in ospedale per l’incidente col furgone nel parcheggio
della scuola.
È stato Edward a salvarla; le è piombato addosso,
frapponendosi tra lei e il mezzo che stava per travolgerla. Una mossa
azzardata, forse, ma inevitabile.
Da qui, tutto ha avuto inizio.
I sospetti e la curiosità di Bella.
L’attrazione potente di mio figlio si sta trasformando in
qualcosa di più profondo, che va oltre il desiderio del suo sangue; sarà il
mistero dei suoi pensieri inaccessibili. È la prima volta in assoluto che il
potere di mio figlio fallisce. Non riesce a sentirla.
Nulla.
Solo silenzio impenetrabile.
La prima volta che me l’ha detto sono rimasto interdetto
anch’io.
“Non riesco a penetrare la sua mente, Carlisle. È come se ci
fosse una barriera che la scherma; è un fatto davvero frustrante. È la ragazza
più strana e indecifrabile che abbia mai incontrato. Non si comporta come le
sue coetanee: in un modo o nell’altro riesce sempre a cogliermi di sorpresa.
Non riesco mai a prevedere quello che farà o dirà.”
Avverto la sua leggera irritazione.
Sto guardando mio figlio e lo vedo diverso, per la prima
volta dopo quasi un secolo. Vedo qualcosa che brilla nel suo sguardo è non è
solo l’oro dei suoi occhi. Non so bene perché, ma sorrido della sua
insicurezza. Mi sembra fragile e non so come, avverto una strana tenerezza per
lui. Non mi è mai sembrato tanto umano.
È una novità anche per me.
Mi piace questa sensazione.
Anche Esme è contenta. Anche lei spera che stia succedendo
quello che attendiamo da tempo.
“Forse Carlisle, questa ragazza potrebbe essere quella
giusta. Non credi? Altrimenti, non si spiegherebbe tutto questo interesse di
Edward per lei.”
“Vedremo, Esme; sperare non costa niente. Spero che non
sia solo eccitato dal suo sangue; è un elemento importante che non dobbiamo
sottovalutare.”
Ma questa cosa scombussola un po’ tutta la nostra
famiglia. Eccitazione e sconcerto attraversano un po’ tutti.
All’inizio, ha tentato di evitarla, di ignorare la sua
presenza, trattandola come una comune mortale, ma si è accorto presto di non
riuscirci.
Esce tutte le notti e non per andare a caccia.
Alice che vede tutto, ed è particolarmente in sintonia con
suo fratello, ci ha detto che va a spiarla mentre dorme. Che cosa buffa.
“Gli piace guardarla dormire, la trova affascinante.
Immagina i suoi sogni. Sta lì, nella sua stanza, fermo per delle ore a
osservarla. Il nostro novello Romeo la lascia poco prima che sorga il sole. Fa
così tutte le notti, da oltre un mese. Mi sembra qualcosa di terribilmente
romantico, non trovate? Credo proprio che Edward sia innamorato. Non è
stupendo?”
Racconta Alice col suo tipico entusiasmo, con la sua voce
musicale e argentina e noi tutti stiamo ad ascoltarla con un leggero sorriso a
fior di labbra, un po’ increduli, quasi inebetiti, ma felici per quello che sta
succedendo.
“È una cosa stupida e pericolosa! Quell’idiota si sta
innamorando di un’ umana! Se Bella scoprisse che Edward è un vampiro, cosa
pensate che accadrebbe? Sta esponendo la nostra famiglia a un rischio tremendo.
E non dimenticate che lui è attratto paurosamente dal suo sangue: se perdesse
il controllo, quella ragazzina insulsa potrebbe diventare il suo prossimo
pasto.”
La reazione nervosa di Rosalie.
Me la sarei dovuta aspettare.
Emmett è più tranquillo, ma in parte le dà ragione.
“Ecco, Rose non ha tutti i torti: è diversa da noi, non fa
parte del nostro mondo. Edward dovrebbe stare attento a quello che fa.”
“Ragazzi, non credo che accadrà, o Alice lo avrebbe
previsto.”
Interviene Esme, esponendo un pensiero anche mio.
“Sto controllando il futuro di Bella, oltre a quello di
nostro fratello: non ci sono fatti drammatici all’orizzonte.” La piccola
veggente conferma.
Jasper accanto a lei, prende per buone le sue parole, ma
neppure lui in realtà, è tranquillo; un vampiro innamorato di un’umana è una
cosa difficile da gestire anche dal suo punto di vista. A maggior ragione.
“Non sarò mai d’accordo. Questa storia porterà solo guai.
Non servono le visioni di Alice per capirlo!”
Sbotta acida Rosalie, prima di allontanarsi seccata e
scontenta. Cambierà idea, bisogna solo darle il tempo di abituarsi. In fondo, è
qualcosa di completamente nuovo per tutti noi, e alle novità Rosalie reagisce
sempre con diffidenza.
Ma poi cosa c’è davvero di nuovo?
Non è un’esperienza che ho già fatto anch’io?
Non è qualcosa che ho già visto accadere? Penso a Lucien
innamorato senza speranza di Alice. E penso a com’ è finita tutte le volte.
L’oggetto dell’amore si trasforma. Chissà se questo è l’unico
epilogo possibile di una storia d’amore tanto difficoltosa.
Giornate grigie e uggiose s’inseguono a scandire il tempo
che passa, i dubbi, i timori e le incertezze. Gli occhi di Bella sono pieni di
domande, sono mutevoli, indagatori come certi sguardi capaci di leggerti
dentro.
È così che mio figlio li percepisce.
Profondi come il mistero della mente che nascondono. Mi
chiedo chi sia davvero Bella Swan; perché il suo destino si sta intrecciando al
nostro? Che sia lei la parte mancante dell’arazzo?
Quella che lo completerà?
Edward si avvicina sempre più, non riesce a prendere le
distanze da lei, anche se vorrebbe, ed è qualcosa che mi fa piacere. Forse
dovrei essere preoccupato, ma non ci riesco; sono soltanto felice di questo
momento che mio figlio sta vivendo.
Finché una sera, non accade ciò che Rosalie temeva di più.
Edward, avuto l’ennesimo confronto con lei, torna a casa e
confessa senza reticenze che Bella ha capito tutto; conosce il nostro segreto e
non pare affatto intimorita da ciò che siamo.
Come ci sia arrivata è difficile da dire, ma non
impossibile.
Intuizione femminile, magari? Oppure, più semplicemente ha
parlato con qualcuno, ha indagato sulla misteriosa famiglia Cullen: sappiamo
che ha un amico tra i giovani Quillete, la tribù che risiede nella riserva di
La Push, il figlio di Billy Black.
Guardo Edward nel tentativo di capire il suo stato
d’animo: mi sembra sereno e allo stesso tempo spaventato.
Parla e la sua voce è quasi concitata.
“Mi ha detto che non le importa cosa sono, capisci
Carlisle? Non le importa se sono un mostro. Non crede neppure che io lo sia.
Dice che ci è già troppo dentro! E a me sembra una follia. Non può parlare sul
serio; un giorno si sveglierà e si renderà conto dell’incubo in cui è entrata e
vorrà scappare. E io sto qui, tra la speranza e il timore che venga quel
momento.”
Rifletto sulle parole di mio figlio, cerco di assimilare
la realtà di ciò che rappresentano e mi rendo conto che un po’ sgomentano anche
me; è una sensazione che ricordo di aver già avuto, una volta, tanto tempo fa,
di fronte a un uomo, un ex schiavo di colore che aveva capito chi ero.
“Non credi che il suo sia soltanto coraggio, Edward? Credo
che per amare ce ne voglia tanto, tra gli umani ma anche tra i vampiri; è un
salto nel buio in ogni caso, per chiunque. Bisogna lasciarsi andare.”
“Tu lo hai fatto?”
Mi domanda, seduto qui, di fronte a me, al tavolo della
nostra casa. Percepisco una nota accorata, un carico di aspettative nella sua
voce.
“Cosa?”
“Ti sei lasciato andare? Con Esme, intendo. L’hai
conosciuta che era umana. Cosa provavi quando le stavi vicino? Spiegamelo.
Com’era il tuo desiderio? Era feroce quanto il mio?”
Il desiderio del sangue, è di quello che parla.
È quello che vuole sapere.
O forse, c’è anche un altro desiderio in lui che si
accende per la prima volta. Le domande piovono su di me inaspettate, quasi non
sono pronto a rispondere. Il tormento di mio figlio improvvisamente mi è
palese.
E allora, eccolo il canale, quella via che attendevo da
tanto per arrivare al suo cuore; l’esperienza che può accomunarci, l’amore e il
desiderio per una donna umana, espresso in forme diverse.
“No, Edward… non era la stessa cosa. Ma era intenso. Io
non desideravo il sangue di Esme. Ma ho desiderato lei, come uomo e poi come
vampiro. La volevo al mio fianco; volevo dividere con lei la mia eternità, e
non è un fatto meno grave dell’impulso di uccidere: è la nostra natura.
Dobbiamo subliminarla.”
“Se almeno, il suo profumo non fosse quell’ossessione che
è! – Sospira quasi sofferente. - Per non pensarci, mi concentro su altro… non
so se sia meglio, pero, l’altro desiderio. È altrettanto deleterio. Ho
chiesto anche ai miei fratelli; Emmett mi ha detto che a lui è accaduta la
stessa cosa e sappiamo come è finita.”
“Non credo che finirà così tra te e Bella. Non le farai
del male, ne sono certo; per questo lei si fida di te.”
Non avrei mai creduto che ci sarei arrivato così, con una
sorta di naturalezza spontanea. Avverto il mio cuore allargarsi, dilatato
dall’orgoglio, dalla tenerezza che provo, suscitata da questa fragilità strana
che avverto in lui.
Vedo una specie di spavento nei suoi occhi.
Sì, l’amore è anche questo.
È un sentimento fatto di tante cose, confuse e mischiate
tutte insieme, in un groviglio inestricabile di emozioni, che ti travolgono
come un treno in corsa, e tu non sei mai preparato ad assorbire il colpo.
Non ci sono contorni e limiti che puoi percepire.
Non sai dove comincia e non sai dove finisce.
Io credo chel’amore non è quel che abbiamo, maquello che ci manca, [1]
va cercato e costruito, scoperto come qualcosa di nuovo ogni giorno; forse è
l’unica cosa che davvero muta dentro di noi.
Muore se non lo fa.
L’unica cosa che può trasformarci.
È quello che sta succedendo a Edward; gli trasfigura lo
sguardo che si fa incerto e tremolante.
È la grazia che ho invocato per lui.
Un pomeriggio d’inizio aprile, Edward ha portato qui
Bella, nella nostra casa nel cuore della foresta, come un ragazzo normale che
presenta la sua ragazza alla famiglia.
Non so se lui si rende conto del dono splendido che ci ha
fatto, del senso supremo di questo gesto. Della fiducia che ci ha dato.
È un raggio di sole che sfida il buio e scaccia
l’oscurità.
È aria nuova, entra come ossigeno, spalanca porte e
finestre come un vento impetuoso e ci fa respirare, fa sentire vivi. Forse
anche normali.
Veramente normali per la prima volta.
Una parola che non ci è mai appartenuta per quanto
inseguita.
Non ricordavo cosa volesse dire, sentirsi così.
Accettati per quello che si è.
Avevo dimenticato quanto fosse bello vivere senza
maschere.
Quanto può essere importante per stare bene con sé stessi
e con chi ci circonda.
La gioia che illuminava lo sguardo di Esme era quasi
indescrivibile; ha accolto Bella come se fosse già una figlia.
Le ha preparato anche da mangiare, cibo umano per farla
sentire a suo agio.
La trova coraggiosa e indubbiamente ha ragione.
Coraggiosa quanto Esme, direi. O forse è solo
l’incoscienza dei suoi 17 anni che la fa muovere, che non le fa percepire il
pericolo.
Abbiamo visto una gioia nuova, appena nata negli occhi di
Edward, quella felicità che dà solo l’amore, una forza misteriosa capace di
trasformare un vampiro in un essere umano.
Il vero miracolo è questa luce diversa che scorgo timida
eppure forte nello sguardo di nostro figlio.
È la sua anima che torna a galla e risorge dall’abisso in
cui era caduta.
Riesco a vederla anche se lui crede che non ci sia.
E la vede anche Bella.
Il ragazzo con gli occhi verdi, luminosi come la speranza
capace di accendere lo spirito degli uomini, è ricomparso davanti a me dopo un
tempo quasi infinito. Ho temuto di averlo perso in quell’ospedale di Chicago in
quel lontano 1918, durante l’epidemia di spagnola.
Attendevo da tanto di ritrovarlo; sapevo che era lì,
nascosto da qualche parte, ancora vivo sotto il ghiaccio che imprigiona il
nostro cuore spento.
In qualche modo è stata Bella a riportarmelo: lo ha
liberato da sé stesso. E libera me dal rimorso, e alleggerisce un po’ il peso
della mia eternità.
Sento un sentimento di riconoscenza salire impetuoso dal
mio spirito, per questa fragile umana inconsapevole che è stata capace di fare
tanto per me e la mia famiglia.
Ho ritrovato un figlio e insieme a lui, anche un po’ me
stesso.
L’ora del crepuscolo scende sulla nostra esistenza e
un'altra notte sta per avvolgerci col suo mantello che ci nasconde agli uomini.
Ma nascerà una nuova alba giovane e antica come il mondo,
puntino di questo universo denso di mistero, che muta ed è sempre uguale, come
acqua corrente che scorre.
Sarà un nuovo inizio.
Sarà l’alba luminosa della loro storia.
Ma non sarò io a poterla raccontare; saranno le loro voci
a farlo.
Io potrò solo guardarla dall’esterno, seguirla con
discrezione, magari proteggerla, se occorre.
Sì, questo lo posso fare.
È uno spazio intimo che io non posso infrangere, né
invadere.
Non ne ho alcun diritto.
Io preferisco mettermi da parte.
Qui trovo il senso di tutto il mio viaggio: come il
capitano di una nave, ho guidato la mia anima indomabile fin qui, per questo. [2]
Ho attraversato marosi e tempeste.
Ho scrutato negli abissi in cerca di una luce.
Non ho radici, ma ho raggiunto un porto sicuro.
L’orizzonte è sereno, una linea infinita senza
interruzioni.
L’occhio la percorre in pace.
Da qui, scorgo la trama spessa dei fili tesi e intrecciati
sul vasto telaio che regge l’arazzo della mia esistenza.
Li osservo comporre un’ immagine.
L’essenza si fonde in forme e colori.
Mi sembrano tutti al loro posto.
Dove dovrebbero essere.
Non sono più alieno a questo universo.
E mi sento finalmente completo.
Fine
Dopo un tempo che pare davvero
infinito, ho concluso questa storia.
Devo ammettere che quasi non mi
pare vero; un po’ mi dispiacerà, e un po’ ne sarò anche contenta.
Ci ho messo più di due anni a
scriverla e l’ho fatto con entusiasmo; entrare nel vissuto e nei sentimenti di
Carlisle è stato come fare un viaggio, qualche volta pesante e difficile, ma
affascinante.
Io spero di avervi dato
qualcosa e che questo viaggio sia stato bello e piacevole anche per voi.
Quest’ultimo capitolo ovviamente
si ispira molto liberamente al primo libro della saga, ma il punto di vista
rimane quello di Carlisle fino alla fine. Bella ho preferito lasciarla sullo
sfondo; dovendo ammettere che non amo particolarmente il personaggio, - anzi, a
volte non la reggo proprio - avrei teso al suo stravolgimento e l’avrei resa
senz’altro diversa. Nella mia idea originaria questa fiction doveva concludersi
nel momento esatto dell’incontro tra Edward e Bella, quindi da qui in poi
sapete cosa succede.
Se non lo sapete, beh… dovete
leggere “Twilight”, ma la voce narrante cambierà e non è una minaccia, ma la
pura e semplice verità.
Un grazie di cuore a coloro che
hanno seguito questa storia, a chi l’ha commentata anche solo sporadicamente.
Un grazie speciale, però va a
Tetide, che non conosce i romanzi originali, ma ha commentato con assoluta
costanza, che mi ha incoraggiato sempre, e spronato a portare avanti questa
storia anche quando io non ne aveva voglia.
Per questo ho voluto dedicare a
lei questo ultimo capitolo, sperando di farle una cosa gradita.
Un saluto a tutti e spero di
sentirvi.
Ninfea Blu
[1] Frase meravigliosa, non
mia, ma ripresa da una canzone di Mario Venuti “Quello che ci manca”, che vi
consiglio di ascoltare: la potete trovare su YouTube.
[2]Frase liberamente ispirata alla poesia iniziale “Invictus” che
apre il primo capitolo di questa storia.