La Petite Cerise

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Profumo di Brioche e Ferite di Natura Involontaria ***
Capitolo 2: *** La Promessa Sposa. ***
Capitolo 3: *** La Teoria Del Caos e L’ignoranza Crassa. ***
Capitolo 4: *** Memorie D'Infanzia. ***
Capitolo 5: *** Amareggiante Disagio ed Inaspettata Gelosia. ***
Capitolo 6: *** Lacrime d'Inatteso Sconforto. ***
Capitolo 7: *** La Sciarpa. ***
Capitolo 8: *** Soccorso. ***
Capitolo 9: *** Macedonia. ***
Capitolo 10: *** Rosso Come il Sangue. ***
Capitolo 11: *** Pur Sempre Prostitute. ***
Capitolo 12: *** Egemonica Veemenza. ***
Capitolo 13: *** Quanto Non si Dovrebbe Dire. ***
Capitolo 14: *** La Natura Indifferente. ***
Capitolo 15: *** Il Dubbio. ***
Capitolo 16: *** 21 Settembre ***
Capitolo 17: *** Armistizio? ***
Capitolo 18: *** L'infamia del Bestiame. ***
Capitolo 19: *** L'Adrenalina della Disubbidienza. ***
Capitolo 20: *** Orlo d’Ossessione. ***
Capitolo 21: *** Confini. ***
Capitolo 22: *** Sigarette, Porri e Patate. ***



Capitolo 1
*** Profumo di Brioche e Ferite di Natura Involontaria ***


 La Petite Cerise

PREFAZIO

Gennaio di quattro anni prima.

Silenzio.
Ben rimase immobile a fissare il soffitto. Nonno Max sfilò gli occhiali da lettura e si passò una mano sulla fronte. Gwen invece sedette sul piccolo divanetto in pelle nera dell’austera sala d’attesa e accavallò le gambe sospirando. Scostò i capelli con un cenno e portò i palmi delle mani al mento. Vi adagiò il capo e sussurrò, rivolta al cugino:- quando pensi sia pronto,il responso?
Ben la fissò e tacque per una manciata di secondi. Poi rispose con un mormorio stentato, Gwen non capì, ma lasciò correre.
I cugini Tennyson ascoltarono l’andare dei minuti chiusi nella piccola sala d’attesa di un austero,buio laboratorio. L’unica finestra presente era chiusa e dalle persiane filtrava solo un flebile spiraglio di luce. L’aria da respirare era pesante, le mura d’un bianco stanco e il mobilio dallo stile lievemente kitsh. Tutto induceva all’ansia.
La porta si spalancò :– Ben Tennyson.
Il ragazzo balzò in piedi: – come…cosa…cosa è successo?
Un uomo in camice dall’aria stanca e dal volto segnato da qualche cicatrice in sottile rilievo mormorò:- l’Omnitrix sembra…morto. Mi dispiace ragazzo.
– Che…cosa? – balbettò Ben.
Gwen rimase in silenzio e con lei, un affranto nonno Max .
 
Durante l’ultima battaglia contro Vilgax l’Omnitrix aveva abbandonato il polso di Ben slacciandosi all’improvviso e mutando la forma corporea del ragazzo senza alcun preavviso. Da alieno era tornato ad essere semplicemente Ben Tennyson in un colpo solo, con sorpresa e terrore. Terrore immenso che il rivale potesse ucciderlo senza esitare un attimo. Solo grazie ad un intervento fulmineo ed azzardato della cugina Gwen, avevano potuto darsi alla fuga e sparire. Era stato tutto talmente veloce da lasciarli entrambi spiazzati e disorientati come avessero assistito ad un evento deterrente. Raccolto l’Omnitrix da terra, il giovane Ben non poteva sapere che in quel preciso istante la sua carriera in veste di alieno si fosse, seppur ingiustamente, conclusa.
 

 CAPITOLO PRIMO
Profumo di Brioche e Ferite di Natura Involontaria. 

Ben Tennyson aprì gli occhi verde smeraldo e spiegò le braccia stiracchiandosi. La prima cosa che vide fu la teca con dentro l’Omnitrix. Sviò lo sguardo, irritato.
Riconobbe di essersi alzato piuttosto presto rispetto al solito,routinario orario. Scese dal letto. Infilò i calzini e aprì il cassetto inferiore dell’armadio. Nell’estrarre la sua maglietta preferita, una felpa color blu notte e un paio di jeans neri cominciò a pensare alla sua colazione. Guardò la sveglia con la coda dell’occhio e notò con piacere che fossero solamente le sei del mattino. Abitando a pochi passi dalla scuola aveva la notevole fortuna di potersi svegliare relativamente tardi la mattina e poter sonnecchiare un po’ di più a letto, aspettando le otto meno un quarto ed incamminarsi di buona lena. Gli piaceva, in ogni caso, tardare un po’ sulla tabella di marcia. Faceva la doccia e mangiava qualcosa in più pur di arrivare a scuola appena in tempo. Lo faceva per cercare di ricordare come fosse quando ancora aveva cinto al polso quell’orologio alieno che, anche se per non molto, gli aveva permesso di diventare protettore dell’umanità, sempre impegnato e ansioso. Gli mancava l’adrenalina di un tempo e quella realtà così lontana che tanto lo soddisfava. Ormai erano trascorsi quattro anni e lui era passato al Liceo.
Sospirò profondamente e uscì dalla sua stanza. 

 Gwen Tennyson prese in mano lo spazzolino da denti e con un palmo pulì la condensa formatasi sullo specchio del bagno. Aveva appena terminato la doccia, come al solito a quell’ora. Dopo essersi svegliata alle cinque e mezzo del mattino come spesso faceva, si era data una rinfrescata e aveva scelto i vestiti da indossare. Era quasi immediato il chiedersi perché mai ci tenesse a svegliarsi tanto presto quando avrebbe benissimo potuto permettersi di dormire addirittura un’ora in più. Orbene lo faceva poiché la doccia occupava gran parte del tempo a disposizione. Seppur non esagerasse con il trucco o quant’altro d’analogo, Gwen si prendeva assiduamente cura di se stessa e, peculiarmente, si dedicava lunghe docce mattutine. E dunque, da ragazza, il bath-time diveniva un momento sacro.
La giovane scese le scale e si versò un bicchiere di spremuta d’arancia; estrasse dal pacchetto adocchiato in dispensa qualche fetta biscottata e, per una volta, si limitò a questo poiché decise che avrebbe fatto una sosta al bar cittadino. Amava quel piccolo e lussuoso locale, dove anche la pasta più piccola costava tre volte tanto che in qualsiasi altro posto. Non poteva farne proprio a meno, doveva dedicarsi almeno una volta ogni tanto quel piccolo vezzo. Infilò quindi il cappotto e avvolse attorno al collo la sua sciarpa preferita. Prima di uscire prese la borsa scolastica e si controllò allo specchio. Ai lobi aveva messo gli orecchini che qualche anno prima Ben e suo nonno Max le avevano regalato. Restò immobile a riflettere per qualche secondo. Poi uscì di casa. 

Ben si vestì e uscì dal portone. Appena mise piede in strada venne travolto da una gelida folata d’aria. Si lamentò ad alta voce e sistemò i capelli, scomposti dal potente sospiro del vento.
Gli tornarono alla mente i dolorosi spezzoni dell’ultimo episodio nel quale aveva visto spegnersi l’Omnitrix sotto i suoi occhi. Le parole di quel professore che l’aveva esaminato in quel laboratorio nascosto nei sobborghi della città gli risuonavano ancora in mente. Ma lo faceva sperare solo quella piccola parte di frase conclusiva che, forse con anche una certa ironia, recitava “ ci vorrebbe un miracolo che possa riattivare i circuiti. Non tutto è perduto ma qualcosa si può ancora fare. Con circa…cinque anni di scadenza si potrebbe recuperare qualcosa. Provaci, ragazzo”.
Ben corrugò la fronte con rabbia. “Facile a dirsi” pensò con stizza “quando i problemi sono degl’altri son tutti buoni a parlare…!”. Erano quattro dannati anni che aspettava e non era riuscito a far progredire l’Omnitrix. Ben chiuse gli occhi con violenza e mandò sé stesso al diavolo. Assottigliando lo sguardo in una smorfia di insoddisfatta mormorò a bassa voce:- so benissimo che mi faccio solo del male. Il giovane mosse pochi passi e si immerse nuovamente nei propri pensieri, come da poco era solito a fare. Si era scoperto un gran pensatore. Di quando in quando gli veniva alla mente la cugina Gwen.
– Ma a che diavolo penso?! – commentò il ragazzo a voce alta, rendendosi conto di quanto la cosa fosse sospetta. Tacque per qualche secondo e arrestò il passo. Volle cancellare il pensiero sulla cugina pensando al cibo; si decise e si disse:- andrò a mangiare qualcosa in quella pasticceria del centro che apre presto al mattino…anche se è un po’ cara, le sue paste sono le migliori di Bellwood.

 Gwen oltrepassò le porte a scorrimento automatico della pasticceria. Sorrise inebriata dal dolce profumo delle paste e delle torte esposte mescolato all’aroma decisa del caffè ed il sapore candido del latte appena bollito. La ragazza avanzò. Diede un’occhiata furtiva e si accomodò ad un tavolo, il suo preferito, che pareva aspettarla al solito angolo del locale.
Dopo poco la sua attenzione venne richiamata da una voce di uomo:- cosa le porto, signorina?
Alzò il capo: uno dei camerieri, con taccuino alla mano, si apprestò a prendere la sua ordinazione.
– Direi…un latte macchiato ed un cornetto alla marmellata, grazie mille – sorrise Gwen senza nemmeno dare un occhio al listino plasticato in vernice rossa che, al solito, se ne stava in piedi con aria egemone al centro di ogni tavolino.
L’uomo annuì e, con un sorriso di cortesia, scomparve. Gwen si sentì tastare la spalla.
– Lo sapevo che eri tu! – sussurrò la voce misteriosa.
La ragazza si voltò quasi spaventata, ma poi sorrise: –  oh…!

 Ben giunse al locale. Il languore che già gli faceva brontolare lo stomaco da un po’ divenne improvvisamente fame assoluta. Sedette allora ad un tavolino e braccò all’istante un giovane apprendista cameriere per farsi prendere l’ordinazione.
Quando riuscì a placare l’ingordigia sapendo che presto il cibo sarebbe arrivato, riuscì a vedere le cose con più limpidezza e poté notare che il locale era semivuoto. Solo un tavolo piuttosto in là era occupato. Da una ragazza dai capelli rosso intenso e un giovane belloccio dal fisico scolpito.
Ben aguzzò gli occhi: – ma quella…! E quel tipo chi è?!
Ben si sbigottì da solo: come mai era…? Anche pensare, immaginare, supporre di essere anche vagamente geloso lo scioccò. Impossibile. Poggiò il mento ai palmi aperti delle mani e sospirò, quando si vide davanti un invitante cappuccino con pasta alla frutta. In quella, la gola e l’ appetito presero il sopravvento e preferì divorare l’ordinato anziché perder tempo dietro a “quella pazza di mia cugina e i suoi muscolosi pretendenti-perdenti”.
 
Ben e Gwen terminarono nello stesso istante la loro colazione e si diressero a pagare il conto. Il ragazzo in compagnia della bella Gwen se n’era andato dopo poco, sembrava quasi che si fosse fermato giusto per un saluto, e Ben si sentiva addosso un’impellente e sconsiderata voglia di indagare. Così si avvicinò di soppiatto alla cugina e facendo per mettersi in coda alla cassa le passò un dito lungo la schiena facendola sussultare:- chi diavolo…?! – Gwen si voltò di scatto.
– Ciao – rise Ben – ti ho appena vista.
– Facevo tranquillamente a meno della tua noiosissima compagnia, cugino – mormorò acida Gwen.
– Chi era quel fusto? – ridacchiò Ben malizioso. In cuor suo, a dire il vero, voleva ardentemente saperlo. Anche se non conosceva il perché di tanto interessamento da parte sua.
– Il mio ragazzo – rispose Gwen estraendo il portafogli quando toccò a lei.
Ben tacque. Cosa? Perché si sentiva tanto offeso? Era un emozione totalmente fuori luogo, eppure soffocava il suo cuore.
– Capisco… – rispose abbassando la voce.
Gwen gli accennò: – facciamo la strada assieme, irritante cugino? Ho pagato anche per te.
Ben annuì. Si sentiva quasi accorato. E non sapeva perché.

Continua!

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Capitolo 2
*** La Promessa Sposa. ***


 CAPITOLO SECONDO
La Promessa Sposa.
 

Il freddo pungente dell’inverno carezzò i volti dei due giovani che rimasero in silenzio per un attimo. Ben camminò dietro a Gwen potendo così ammirarne la figura da una prospettiva differente. I lunghi capelli rossi cadevano sulla schiena della cugina, ondeggiando delicatamente ad ogni passo. Il cappotto ne avvolgeva il corpo esile e i jeans skinny coprivano le gambe assurdamente lunghe e magre. Ben sentì un tumulto al cuore. Si chiese con stizza quanto stesse accadendogli. “Per la miseria, un po’ di contegno!” si disse tra sé tanto di mal modo d’intimorir sé stesso. Era inconcepibile che si mettesse a pensare a sua cugina, quell’antipatica smorfiosa che da sempre aveva mal sopportato. Gli pareva qualcosa di estraneo ed inimmaginabile.

Gwen, allo stesso modo, si sentiva a disagio. Si domandava con frenesia perché mai la presenza di Ben l’inquietasse tanto. Guardò il cielo con i suoi grandi occhi e inspirò, provando ad escludere il ragazzo dal proprio campo visivo. Riavvolse mentalmente ogni espressione del cugino…e con gran meraviglia riconobbe di trovarlo piuttosto carino. Specialmente nel sorridere o nel canzonarla quasi con cattiveria. Gwen sgranò gli occhi inorridendo ed il suo viso esplose in un tremendo rossore. Si chiese – peraltro con sconcerto – a cosa stesse osando pensare e, con un certo impeto si disse “ è fuori discussione che quell’obbrobrio di mio cugino possa essere carino. Assolutamente no!”. Che le stava accadendo? Si voltò, ricercando il volto del ragazzo con una certa ansia. Voleva a tutti i costi comprovare la propria teoria per poter dunque mettere a tacere quelle curiose considerazioni sul ragazzo che mai l’erano appartenute e che ora, misteriosamente, le ronzavano in capo con una certa insistenza.
 – Ben…? – chiese allora con voce flebile mordendosi il labbro inferiore della bocca.
Il ragazzo alzò lo sguardo rispondendo lievemente infastidito: – che vuoi?
– Accidenti, và al diavolo! Se devi rispondermi subito male, tanto vale che stia zitta! – sbottò Gwen adirata. Era incredibile. Gwen non ci mise più di mezzo secondo a ricominciare ad odiarlo com’era stato per tutti quegl’anni.
Ben fece per ribattere ma si scoprì a scusarsi e ad aggiungere: – Gwen…continua.
La verità era che Ben era fortemente distratto. Distratto dal corpo di Gwen e, specialmente, da quel ragazzo del bar. Era sicuro di averlo già visto, da qualche parte. Ma ogniqualvolta pensasse a tal viso irritante ricordava le parole di Gwen che lo dichiaravano il suo ragazzo. E questo l’indisponeva tanto da mandarlo fuor di lui. 
 La ragazza, ignorando come ovvio questi tormentati pensieri, lo guardò stranita e gli si avvicinò: i due rimasero immobili, in piedi l’uno di fronte all’altra. Gwen poggiò il palmo della mano destra alla fronte di Ben: – non scotti…la febbre non ce l’hai. Anche se sei strano…Ben.
Quella che originariamente avrebbe voluto esser una frivola burla a scopo non altro che canzonatorio, portò Ben a sentir pulsare selvaggiamente il proprio cuore. Davvero molto più del dovuto. Che stava facendo sua cugina? Erano talmente vicini da far partorire all’atmosfera un forte senso di intimità che finì per intimidire entrambi. Ben era colui che peggio reggeva l’imbarazzo, tanto che, arrossendo, trovò la via più efficace per evitare curiose evoluzioni a quella pericolosa circostanza. Sbottando.
– E scansati!
Gwendolyn rimase decisamente ferita dalla reazione del cugino e si ritrasse con uno scatto: – ma lo vedi come sei?! Odioso e repellente! E io che pensavo di essere stata…
Gwen si sentì morire in gola la fine della frase.
 Ben attese che finisse ma ella, con astio, sentì ribollire il sangue nelle vene: – sparisci dalla mia vista!
– Vale lo stesso per te – le rispose il cugino.
I due giovani presero allora strade opposte, diretti a scuola. 

Gwen si sentiva leggermente indisposta. Aveva mentito a Ben riguardo a quel tipo, Josh, dicendogli che era il suo ragazzo anche se in realtà si trattava di un insignificante belloccio del club di football che da quando si era iscritta al Liceo non faceva che infastidirla. Questa era la voce della verità.
Abbassò dunque lo sguardo. Iniziò a rimuginare con addosso un’ansia febbrile. Aveva toccato Ben in fronte e sentire il calore della sua pelle aveva fatto nascere in lei un curioso sentore. Una sensazione di torpore. Quei pensieri le riportarono alla mente il respiro di Ben sul suo volto, quella pericolosa vicinanza e la brusca rottura di quel legame così particolare, intenso e allo stesso modo fragile che era nato e morto nel giro di pochi secondi.
Di primo acchito,Gwen scosse il capo con energia. Senza molto badare ai passanti che la circondavano borbottò: – è ridicolo che alla veneranda età di sedici anni mi ritrovi a fare di questi pensieri. Dovrei vergognarmi.
E senza esserne poi molto convinta, riprendendo a camminare con esagerata lena, aggiunse: – Che sciocchezze. È ovvio che, se mi ritrovo ad essere tanto stupida, stamani, è sicuramente per via di questo sciocco clima.
– Il freddo mi fa male.

 Ben prese a scaldarsi le mani con il fiato. Ora sì che doveva correre, tra Gwen e la colazione era in anticipo di appena cinque minuti. Tuttavia, per quanto cercasse di dimenticare, il pensiero della lite con la cugina martellava nella sua testa come impazzito. “Sono un vero idiota!” si disse furioso.
– Scusami…? – esordì timidamente una voce alle sue spalle.
 Ben si voltò arrestando di colpo quella ch’era divenuta corsa: – che…?!
Davanti a lui c’era una ragazza minuta dalla capigliatura corvina e mossa, dal fascino particolare e un’aura apparentemente angelica.
– Chi sei? Anzi…che vuoi ? – chiese Ben rendendosi conto di poter parere un tantino indisponente.
– Ben Tennyson? Piacere, hai di fronte la tua promessa sposa.
Ben sgranò gli occhi e lasciò aperta la bocca che, sospesa a mezz’aria, non poté che balbettare: – Che cosa?!

Continua!

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Capitolo 3
*** La Teoria Del Caos e L’ignoranza Crassa. ***


 CAPITOLO TERZO
La Teoria Del Caos e L’ignoranza Cassa.

 Tra i due ragazzi calò un silenzio imbarazzato.
Ben, non capendo più nulla, sgranò gli occhi.
Successivamente, adottando ora un’espressione acidamente scettica borbottò  : –  Ti scoccerebbe ripetere? Promessa…sposa?  Voglio dire, starai scherzando.
La ragazza sorrise e rispose: – Ovvio che no . Sei davvero sicuro di non ricordare?
Il ragazzo scosse la testa ed, inarcando un sopracciglio, precisò: –  Impossibile. Non ti ho mai vista in vita mia…!
La giovane allora gli si pose accanto: –  prova a riflettere…!
– Ti dico che non ti conosco, stai fraintendendo, io…io sono in ritardo pazzesco quindi se vuoi scusarmi…!
Ben corse via, sparendo dalla vista della ragazza minuta. Era confuso, in realtà era una ragazza particolarmente carina, tra l’altro profumava di rosa e il suo volto aveva una forma dal taglio dolce e quasi infantile, ma lui giurava con il cuore in mano di non averla mai vista. Mai. Tentò di riflettere ma senza che potesse nemmeno cominciare una qualunque ponderazione, la campanella suonò. Tennyson allora sospirò e s’affretto ad andare a sedersi. Erano successe troppe cose e tutte troppo in fretta: la colazione guastata alla vista di quel tipo tutto muscoli, il litigio con Gwen e l’apparizione di quella misteriosa ragazzina lo avevano quasi turbato. Sbuffando, Ben entrò in classe.
Anche senza Omnitrix, si disse con amarezza sfiduciata, la vita di un sedicenne poteva risultare davvero problematica.

 Gwen, già in aula da tempo, venne accerchiata dalle amiche.
– Che ha oggi tuo cugino? – chiese una di loro arricciando con le dita una ciocca di capelli e lasciandosi sfuggire un sospiro di ammirazione rapita – è davvero affascinante con quell’aria scocciata e malinconica…
– Mio cugino affascinante? – Gwen fece una smorfia disgustata – vogliate scusarmi, ma mi permetto di dissentire.
 – Per come la vedo io – ribatté una ragazza che se ne stava in piedi alla sinistra di quella che si era espressa positivamente – hai proprio una gran fortuna. Non si vedono con tanta facilità ragazzi così carini.
Gwen corrugò la fronte: – è ovvio quanto voi non lo conosciate. Andiamo è…patetico!
– Via, Gwen, si vede proprio che siete parenti…siete entrambi così attraenti – ribatté l’amica con aria sognante.
Gwen saltò sulla sedia :– Ehi,devo preoccuparmi?! 
 – Certo che no! Ma…Ben è così avvenente…a volte me lo immagino, sapete? Anche se farei meglio a non dire come me lo immagino…!
Successivamente a tale esclamazione nacque tra le giovini una risatina a dir poco ocheggiante. Nel cicaleccio indistinto solo Gwen taceva inorridita.
Sgranò gli occhi: –  per la miseria! Che ribrezzo…!
 – Bé, sognare non costa nulla…e se poi si tratta di fantasticare su d’un ragazzo bello, ben volentieri!
Gwen, annoiata, lasciò adagiare la testa al banco: – mio cugino…bello…? – ripeté a bassa voce.
“Se solo sapessi ribattere dicendo quello che penso davvero…” mormorò tra sé socchiudendo gli occhi.
All’improvviso, però, entrò in aula l’insegnante che, sbattendo la porta, fece sussultare l’intera classe.
– Ragazzi! – annunciò l’uomo – Tirate fuori carta e penna. Oggi compito. Tema sulla Teoria del Caos. Voglio, che dico, esigo un capolavoro nei dettagli con tanto di spiegazioni accurate, il primo che salta un passaggio riceverà un fantastico due. Per i più fortunati, due e mezzo.
 Ben sentì il cuore fermarsi.
– Sbrigatevi a spostare i banchi…!
Nel chiasso generale la classe si posizionò a dovere ed il tempo prestabilito per la prova ebbe così inizio. Ben era nel panico assoluto. Quando si trattava di combattere alieni era forse il più bravo ma per lo studio preferiva calare un velo pietoso. Si raccolse il capo con le mani e dalla tanta ansia non osava nemmeno per scherzo alzare il volto: l’unica soluzione era copiare da qualcuno che sicuramente avesse studiato. “Cioè Gwen!” si disse Ben esultando tra sé come un beota. 
Tuttavia, gli tornò alla mente l’episodio di natura polemica di poco prima e dovette riabbandonarsi allo sconforto. Alzò la testa solo quando sentì la penna del professore ticchettare sul suo banco: –  Tennyson…? Vedo con piacere che qualcuno qui non ha studiato…è vero o no?
Sul suo volto si dipinse un’espressione nata dal sadismo puro.
– Allora? – incitò l’uomo.
– Io…– cominciò Ben – ecco io…in realtà
Gwen ascoltò la conversazione ma proseguì il suo operato per poter consegnare in tempo. Era a soli due banchi a sinistra da Ben e sapeva per certo che il pomeriggio precedente il cugino non aveva fatto altro che giocare con quella sua stupida console. “Infondo” pensò “tutto ciò se lo merita”. 
 – Se vuole la verità, professore, io so proprio tutto! Conosco il Caos come le mie tasche anzi una volta l’ho proprio incontrato di persona, che studioso brillante…!
 Ben pregò perché il professore si bevesse la scusa. Non aveva la più pallida idea di chi o cosa fosse questo “Caos”; nella sua mente altro non c’erano che suggerimenti di carattere inutile o relativi a sinonimi che, ne era sicuro, ben poco centravano con quel Caos.
Gwen dal canto suo non poté che, tra sé e sé, deridere se non compatire quella “somma mente cartesiana d’idiota” com’ella stessa, cinicamente, riconobbe egli fosse.
 – Risparmiami, Tennyson. Scegli: o me lo consegni ora e ti regalo un meritato due oppure continui a scrivere buffonate fin alla fine dell’ora e ti dimezzo il voto…come preferisci. – berciò il professore con aria irritata.
Ben abbassò il capo e prese la penna tra le mani. Con sconfinato rammarico ed un’ansia assurda a cingergli la gola si domandò che avrebbe scritto.
L'insegnante allora se ne tornò alla cattedra e prese a visionare il registro,attendendo il suono della campanella.
Il ragazzo, preda dell’angoscia, spostò allora lo sguardo alla parte opposta del banco, reggendosi la fronte con il palmo madido della mano. Solo allora, i suoi occhi si illuminarono.
“ E questo ? Da dove…viene?” si domandò sgranando gli occhi.

Un bigliettino. Un foglietto piegato elegantemente e scritto su carta da quaderno a quadretti.
Le prime righe recitavano: “ Pezzo di imbecille, la teoria del Caos è una parte della fisica matematica che riguarda i “sistemi caotici”. Per essere “caotico” , un sistema dinamico deve essere: sensibile alle variazioni microscopiche degli ingressi, imprevedibile e […]”.
Ben rimase esterrefatto ma cominciò a copiare come un ossesso il lungo bigliettino. Gli sembrava di ricordare quella calligrafia così rigorosa e apparentemente algida, ma ripose il dubbio e si concentrò su come scrivere qualcosa che sembrasse personale. Quello che ne venne fuori, dopo un’attenta rielaborazione fu: “la Teoria del Caos è una cosa scientifica che riguarda la fisica e la matematica e parla dei sistemi “caotici”. Quindi, si deduce facciano rumore. Per essere caotico un sistema deve essere sensibile ai movimenti delle porte e degli ingressi, imprevedibile e[…]”.
 Il ragazzo guardò il foglio soddisfatto. Così, quantomeno, avrebbe preso almeno quattro.
Gli rimaneva soltanto un dubbio amletico: chi era stato a graziarlo?
Osservò la classe con accuratezza: sicuramente uno dei suoi amici non poteva essere stato, escludendo Brian il secchione che però, Ben ne era certo, mai si sarebbe abbassato a farlo copiare.
Per quel che riguardava le ragazze, rimase perplesso. Non era in confidenza con nessuna. Restava tuttavia una persona. Gwen.
 “In questo bigliettino, mi è stato nientemeno dato che dell’imbecille…vuoi vedere che è stata…?” si scoprì a pensare.
Fu  la campanella ad interrompere il corso dei suoi febbrili pensieri: tutti si alzarono per consegnare, qualcuno sfruttò gli ultimi secondi per sistemare eventuali errori, qualcuno pregò per la riuscita del compito e qualcuno si lasciò abbandonare alle emozioni, chi rise e chi sbuffò. Dal canto suo Ben riteneva assurdo tutto questo scomporsi per della carta, mise in tasca il bigliettino e portò il compito a destinazione. Ed il dubbio, ancora gli pressava la mente.
Rimase solo, tornato al posto.
 – Ben.
Tennyson alzò il viso ad attenzione richiamata: – …?
Davanti al suo banco vide Gwen: – io e te…dobbiamo parlare.
 
Continua!

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Capitolo 4
*** Memorie D'Infanzia. ***


CAPITOLO QUARTO
Memorie d’Infanzia.

 Ben tacque. Gwen voleva parlargli?
– Di che si tratta? – chiese allora, incuriosito.
– Ti spiegherò dopo, all’uscita da scuola.
– Ehi, aspetta! Fallo ora, perché dopo? – domandò il ragazzo prendendo il braccio della cugina.
– Ho detto dopo e sarà dopo, non complicare le cose. E ora mollami – sussurrò Gwen gelida.
Ben rimase in silenzio. Dopo un po’ sussurrò: – certo,va’. Va’ al diavolo.
 
Le ore di lezione parvero non passare mai. Lo scorrere dei minuti, così lento e frustrante, appiccicava addosso a Ben una certa ansia. Si domandò con insistenza cosa volesse dirgli Gwen e perché fosse indifferente tardare. Mordicchiò il tappo nero della penna e si lasciò scappare un lungo sospiro: spostò lo sguardo alla finestra e osservò il cielo grigio dell’inverno. Nulla di più avvilente. Tutto ciò cui potesse aspirare in quell’istante era il suono della campanella.

Gwen terminò di prendere i propri appunti e lasciò scivolare la matita sul banco. Guardò fuori dalla finestra: si era quasi alla terza settimana di un gelido dicembre, composto da giorni schizzati di quando in quando dagli ultimi piovaschi e rasserenati per il necessario. Gwen adorava profondamente rimanersene al caldo sotto le coperte durante le vacanze di Natale ed il tepore dell’atmosfera festaiola la rallegrava e la coccolava. Stravedeva per quelle due Sante Settimane di pace, amava i regali proprio come una bambina e impazziva per la liberatoria possibilità di poter poltrire ad oltranza. Osservò la sua immagine riflessa sulla vetrata sporca della finestra, macchiata dal tragitto (ormai prosciugato) delle gocce di pioggia cadute il giorno prima. Scoprirsi a venerare la pigrizia la comparava al cugino e questo la mandò in bestia.
“Ti odio, nefasto essere inutile,dannoso, stupido, ignorante, zotico! Ti odio.” si disse con furibonda amarezza. Storse il naso. Quello che la ossessionava – ed impressionava – era il non riuscire a trovare una spiegazione logica a tutta quell’incertezza. Cosa pensava di Ben? E perché proprio quella mattina la Provvidenza (o il Fato?) l’aveva voluta a tanto rimuginare per il cugino?

Allo scoccare dell’ultima ora, dopo il sospirato trillo della campanella, la classe sciamò fuori dall’aula diretta all’uscita dell’edificio scolastico.
Gwen e Ben rimasero tra gli ultimi, ma la ragazza fu tra loro la prima ad andarsene, dato il fatto che il cugino si trovava placcato dagli amici. Prima di varcare la soglia Gwen disse a denti stretti: – sappi che non tollererò ritardi.
Tra le gomitate maliziose dei compagni, Ben non le rispose.

Il cielo andava oscurandosi minacciando maltempo e la cosa preoccupava Gwen che aspettava Ben da ormai dieci minuti buoni. Cominciò a riflettere tra sé, tentando di ingannare la snervante attesa: aveva chiesto al cugino di parlare per un motivo preciso che la riguardava davvero per una piccolissima parte. “Non c’è assolutamente nulla di sentimentale in tutto questo” si gridò dentro la giovane Tennyson. Il suo sguardo si rabbuiò improvvisamente, come non fosse lei a volerlo. Le dispiaceva? “No,ovviamente no!” si ridisse, quasi infuriata con sé stessa. Si portò un palmo alla fronte e inspirò intensamente: – è assurdo che io nutra un qualche, seppur minimo, interesse per Ben. E, tra l’altro, siamo cugini. Un grado di parentela tanto stretto non transige circa alcuna perversione – mormorò a bassa voce, quasi per convincersi una volta per tutte e porre fine a simili meditazioni.
 La giovane sospirò e sistemò la sciarpa candida, appoggiandosi al muretto della scuola. Non appena si decise a mandare all’inferno lo sventurato Ben, udì una voce: – Gwen!
Si voltò, riconoscendone il timbro limpido.
– Ne è passato parecchio, è vero – rispose Gwen ricambiando al sorriso appena ricevuto. A dirla tutta, Ben non era l’unico che stava aspettando.
 – Cielo sei diventata stupenda, eravamo tanto piccole allora…!
– Via, non esagerare Sienna…ero giusto in procinto di parlare di te a Ben ma a quanto pare non ha intenzione di presentarsi – si lamentò Gwen con aria stanca.
– Evitati di queste seccature tesoro, l’ho già fatto da me stamani ma Ben è rimasto il solito. Non ricorda nulla della qui presente – commentò la ragazza dai capelli corvini che Gwen aveva chiamato Sienna.
 Gwen allora la guardò con ironia: –  ci speravi? Non cambierà mai. È un idiota. Probabilmente quando Iddio ha distribuito il buon senso Ben non era presente.
Sienna accarezzò la guancia di Gwen: – non avercela con lui…è così dolce.
Tennyson sbottò: –  oh, bella! Lo sai bene che non lo è affatto!
In quell’istante Ben si materializzò alle loro spalle: – … Gwen! Perdonami ti prego,io…!
Si bloccò in istantanea nel vedere che in compagnia della cugina c’era la ragazza mora della mattina stessa. L’osservò di nuovo e, a tentoni,  nell’oscurità delle sue meningi, provò a pensare a chi fosse.
– Ben, tesoro, ci rivediamo – sorrise Sienna.
Ben la guardò incredulo: –  ma io…ti ho più volte ripetuto che non ho alba di chi tu sia!
– Fallito! – Gwen lasciò volare un pugno sulla testa del cugino – sei davvero un inetto! Era di lei che volevo parlarti! Davvero non ti ricordi più di chi si tratti?! È Sienna, la bambina con cui abbiamo trascorso la nostra infanzia, quando ancora abitavo nel tuo medesimo quartiere! Si è trasferita all’età di sei anni negli Sates e da allora non ha più fatto ritorno in Canada È qui in villeggiatura, cretino, e le sarebbe piaciuto trascorrere le vacanze natalizie con noi.
 Ben ammutolì e pian piano vide riaffiorare il ricordi dell’infanzia: – accidenti, ora ricordo! Eri quella che non cambiava mai i calzini…!
–  No, idiota! Quello era Theodore, il puzzolente figlio dei Turner! Cerca di far funzionare quelle stupide meningi! – strillò Gwen.
 Il ragazzo (finalmente) ricordò il giusto :–…Sienna…Butcher!
La ragazza dai lunghi capelli neri sorrise e fece un cenno affermativo con il capo.
– La tua prima fidanzata, non ricordi? E promessa sposa. – sussurrò Sienna nel baciarlo sulla guancia.
Ben trasalì ed arrossì tutt’in una volta: –  ancora con questa storia?! Io non ricordo niente del genere!
Sienna ridacchiò e scrollò la chioma: –  torniamo a casa, Cerise?

Continua!

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Capitolo 5
*** Amareggiante Disagio ed Inaspettata Gelosia. ***


CAPITOLO QUINTO
Amareggiante Disagio ed Inaspettata Gelosia.

 

 

* * *

Molti Anni Prima.

– Mamma! Come si dice ciliegia in francese? – squittì la voce dolce di una bambina.
– Si dice cerise, amour – scandì la voce di un’elegante madame.
– Ben, you are my sweet Cerise! – sorrise la piccola.
 

* * *

 
Il vento gelido dell’inverno soffiava sui tre ragazzi: i cugini Tennyson non osavano guardarsi mentre Sienna, accompagnata dal rumore sordo delle foglie ormai oltremodo secche che si spezzavano sott’i piedi, parlava bellamente del passato rammentando aneddoti ed episodi.
Sienna camminava a braccetto con Ben e appoggiava la testa alla sua spalla con naturalezza.
Il ragazzo si sentiva in imbarazzo: non solo l’ex compagna di giochi si prendeva una confidenza totalmente non richiesta, per giunta Gwen si ostinava ad avercela con lui tenendogli il muso.
Si domandò se non fosse addirittura la sua presenza, o forse la sua esistenza, ad irritarla tanto. Cominciò allora a riflettere mettendo la sordina alle parole di Sienna.
– Gwen. – attaccò allora il ragazzo.
Sienna e la cugina arrestarono il passo e si voltarono verso di lui. Gwen gli lanciò un’occhiata assassina: – che vuoi…?
Nella sua voce si percepiva chiaramente un senso di fastidio, quasi profondo. Questo scoraggiò Ben che, riportando lo sguardo al terreno, sibilò solamente: –  no…nulla.
 
Gwen si scoprì a non ascoltare Sienna. Era coinvolta troppo profondamente dalle proprie,contorte, deduzioni; faticava addirittura a rendersene conto, tanto era assorta. Scostò i capelli dal viso e sospirò. Continuava a chiedersi e richiedersi quale fosse il motivo per il quale così spesso ultimamente si ritrovava a pensare al cugino. Se l’era detto da sola: una parentela di grado così stretto era un elemento da non dimenticare (o sottovalutare) e avrebbe potuto ferirla davvero, se le cose fossero progredite. Gwen si accorse di aver sbarrato gli occhi: cosa stava dicendosi?! Cosa sarebbe dovuto progredire?! Parentela, cugino, dolore…ecco tutto quello a cui pensava. Si maledì e strizzò gli occhi con violenza.
 – Qualcosa non va, Gwen? – chiese Sienna preoccupata.
Gwen scosse la testa obbligandosi a sorridere: –  sto bene, non preoccuparti.
Sienna la ricambiò con un sorriso incerto: – credo si tratti della stanchezza, se riposerai a dovere tornerà tutto a posto.
Sapeva benissimo che a tormentare Gwen era qualcos’altro ed era convinta che la cosa fosse seria. Giurandosi di indagare, proseguì il suo cammino ricominciando a parlare del passato.
  
Ben giunse davanti la porta di casa, seguito a ruota da Sienna ed un’accorata e pensosa Gwen.
– Io sarei arrivato – sentenziò deciso a liberarsi delle due.
– Lo siamo – lo corresse Sienna.
– Prego? – domandò il giovane già preoccupato.
Sienna allora sorrise dolcemente: – non essere scortese…non ci fai entrare?
Gwen, senz’aspettare la risposta del cugino, intervenne: – io abito a poco da qui, è meglio che rincasi per poter…
Venne bruscamente interrotta dalla baldanzosa amica che, senza preoccuparsi particolarmente la spinse ad accomodarsi: –  a Ben non dispiacerà avere un’ospite in più, vero o no, Ben?
Nonostante avesse posto la domanda, Sienna fece a meno di ascoltare quanto Ben avesse anche solo immaginato di ribadire.
Il risultato, fu il ritrovarsi assieme, in tre, nel salotto di Ben, senza una parola da dire. Nemmeno fosse mezza. L’imbarazzo ricopriva da capo a piedi i cugini mentre una rilassata Sienna saliva le scale diretta alla camera di Ben.
 – Cosa…?! Dove vai?! – chiese Ben teso.
– Non saliamo? – ribadì Sienna priva di un qualsivoglia imbarazzo.
Ben sbiancò: –  in camera?!
– Mi pare ovvio – sorrise la ragazza dai lunghi capelli corvini.
Gwen rimase in silenzio a fissare il vuoto, ebbe l'apparenza di udire Sienna dire qualcosa ma le sembrò fosse una propria impressione.
 Le stava per venire un veemente mal di testa a forza di pensare. E la cosa realmente frustrante stava nel fatto di non riuscir a liberarsi di tanti ed assillanti cavilli. Si portò allora una mano alla testa e si accorse di essere talmente concentrata da non appurare che una perplessa Sienna ed un disperato Ben la stessero fissando.
–…Gwen…? Allora? – ripeté Sienna.
Lo sguardo perso della giovane Tennyson le fecero allora capire che neanche una sola delle parole da lei dette le era entrata in testa.
–Vuoi venirci in camera di Ben o no? – reiterò Sienna cercando di sorridere.
Gwen cercò di ricavare del tempo prima di rispondere. Che diavolo stava facendo…?
– Ecco io…gli zii non ci sono? – chiese con voce flebile al cugino.
–No a dire il vero…sono al lavoro, se ci pensi sono le due e mezzo, visti i loro turni, sono passati da casa ormai oltre due ore fa… – rispose Ben.
Gwen non replicò ed incrociò le braccia.
Ci pensò Sienna a rompere il ghiaccio ricreatosi: – non ricordi, Ben…
Il ragazzo voltò il capo, ad attenzione reclamata.
–…che in camera tua ci siamo scambiati … il nostro primo bacio?
Ben balbettò: –…cosa?
Gwen, di sentì fulmineamente addosso un doloroso senso di impotenza: strinse il palmo attorno al gomito e deglutì abbassando il capo, colma più di disagio che imbarazzo. Riconobbe in quell’istante, per la prima vera volta, di provare una folle gelosia. Per chi, mai l’avrebbe ammesso.
 
Continua!

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Capitolo 6
*** Lacrime d'Inatteso Sconforto. ***


 CAPITOLO SESTO
Lacrime d'Inatteso Sconforto.

I tre ragazzi erano soli in casa. Tra Ben e Gwen le cose andavano sempre peggio, come se ad averli investiti fosse stata una coltre d’odio (da parte della ragazza) misto a disagio (per conto di Ben). Sienna, del tutto ignara di tanta tensione, prese a salire le scale. Nel vedere che i cugini cercavano di rimanersene indietro prese un braccio ad entrambi e li trascinò dietro a sé: – coraggio, fate i timidi a casa vostra?
Gwen cercò di ribattere: – veramente io…!
Sienna controbatté (e la mise a tacere) solo con un sorriso.
 
Gwen, costretta dalla presa dell’amica Sienna, percorse i primi gradini dell’elegante rampa di scale in legno di casa Tennyson. Sarebbe stato addirittura qualcosa di ordinario, si disse Gwen, se solo il suo corpo non fosse tanto attiguo a quello del cugino Ben. Il corridoio della scalinata era a dir poco stretto per tre persone contemporaneamente e tale diametro non faceva altro che mettere ansia alla povera ragazza. Gwen sentiva il respiro di Ben tanto addosso da farla quasi piangere di rabbia. Soffriva, si sentiva a disagio. Per cosa, nitidamente non sapeva.
Non ebbe ad ogni modo il tempo per riflettere che Sienna s’apprestò ad annunciare con impeto l’arrivo alla stanza da letto del ragazzo. Gwen e Ben approfittarono del suo momento d’estasi per farsi lasciare andare e si scoprirono a sospirare di soppiatto. Sienna esclamò: – Ben, tesoro…è rimasto tutto come allora…!
Il ragazzo sorrise debolmente. Stava pensando a Gwen per l’ennesima volta e se non fosse stato per Sienna avrebbe già tentato di riappacificarsi con la cugina: saperla tanto irritata da lui lo rendeva irascibile nei confronti di sé stesso. Si malediceva tra sé per aver collezionato un così ricco trascorso di dispetti e prese in giro, si pentiva di non aver mai provato a costruire delle basi migliori per il loro rapporto così complesso e cercava, con il medesimo impegno mentale, di capire perché mai questa semisconosciuta si impegnasse tanto nel corteggiarlo. Proprio non era in grado di venire a capo di tale mistero.

Sienna sedette sul letto accavallando le gambe. Gwen rimase in piedi a contemplare il panorama esterno dalla grande finestra della camera da letto del cugino. La visuale era meravigliosa, seppur così semplice e comune: le gradazioni grigiastre dell’inverno e le chiome spoglie degli alberi, ormai quasi riconducibili ad arbusti dalle forme scheletriche, davano forma ad un panorama tanto ordinario e consono al classico stereotipo dell’ “inverno”, quanto particolareggiato ed eclettico nei suoi piccoli e mimetici dettagli. “Le cose si vedono meglio, anche se piccole, proprio grazie alla chiarezza con cui vengono esposte, prive di fronzoli o illazioni supplementari” pensò Gwen rapita dalla figura acerba del paesaggio “risulta più facile in un contesto di evidenza convenzionale. Peccato che nel mio caso io non possa essere tanto facilitata… ”. Posò la sciarpa sulla sedia e sospirò.

 Ben si lasciò scappare un gemito quasi infinito.
– Che hai, Cerise? – domandò Sienna carezzandogli la guancia.
Ben allora si scostò imbarazzato e si affrettò a risponderle un secco “niente!”.
– Che bel letto, Cerise! – commentò la giovane mora lisciando con l’indice la trapunta blu notte del letto di Ben.
– G…grazie – mormorò Ben domandasse cosa avesse sbagliato nella propria vita per meritarsi cotante attenzioni. E per di più, si chiese il perché quella ragazza dovesse proprio chiamarlo “ciliegia”, dal francese appunto “cerise”.
– Che cos’è questo, Cerise? – chiese allora Sienna indicando una piccola teca di vetro.
Ben rimase ferito nel vedere l’Omnitrix: – questo…è…
Gwen si voltò per un attimo, quasi attratta dalla situazione.
– Quello…è un vecchio giocattolo di Ben – rispose Gwen con voce dolce ed occhi glaciali. Il perché di tale espressione era un mistero anche per lei.
Dopo aver risposto alla curiosa amica, Gwen si immerse nuovamente nel suo paesaggio poetico.
– Un giocattolo? Non lo ricordo davvero…! – asserì Sienna pensosa.
– Può capitare…di non aver sufficiente memoria e non capire…cosa sia potuto accadere nel passato…– sussurrò Ben rapito dal mistero che circondava Gwen. Ne notò lo sguardo perso: pareva concentrata, quasi inabissata in un altro mondo.
– Piove…– mormorò d’improvviso la ragazza dai capelli rossi, facendo della propria voce un flebile sussurro.
Ben si voltò. Essendo il solo ad averlo percepito.
– …sta…piovendo… – sussurrò la giovane attutendo ancora il tono.
– …non lo vedi anche tu, Ben? – aggiunse volgendosi verso il cugino.
Il suo sguardo così cupo e impersonale preoccupò il ragazzo. Poi Gwen parve sorridere. Tanto debolmente da sembrare se ne obbligasse.
– Cosa hai detto? – domandò Sienna accortasi sol’ora del sussurrare di Gwen.
I cugini Tennyson tacquero, entrambi fissi sullo sguardo l’uno dell’altro. Si era venuto a creare un legame quasi viscerale tra i due, come se un filo sottilissimo legasse fra loro i due corpi e le due anime. Per un momento, non erano né Gwen Tennyson né Ben Tennyson. Solo Gwen e Ben.
– Che hai detto? – ripeté Sienna intenzionata a farsi rispondere.
Silenzio.
– Sta piovendo…è vero – balbettò Ben cercando di non farsi prendere dalla tanta felicità dovuta al fatto d’aver potuto parlare per qualche secondo con Gwen. Non osò staccare lo sguardo dagli occhi profondi della ragazza, misurando anche il respiro.
Gwen improvvisamente, annegò negl’occhi di Ben. Vide inaspettatamente in quel torpore verde smeraldo alcune indistinte scene del passato, ch’ebbe che assottigliar lo sguardo tanto torbide apparissero. Ne fu catturata, colpita, incuriosita. Sentiva di non potersene staccare, di dover terminarne l’osservazione.
Ben, per contro, scorse anch’egli in quel momento, specchiandosi nello sguardo della cugina, un qualche brillio, delle immagini confuse. Ognuno rammentava all’altro qualcosa. Qualcosa di subitaneo, qualcosa di vecchio, di sbiadito, ma allo stesso modo forte, infossato, inculcato nel profondo e mai riscoperto in tutti quegl’anni. 
– Cosa hai detto? – chiese nuovamente Sienna un po’ indispettita per non essere ascoltata.
– Ho detto che sta piovendo! Quante volte devo ripeterlo?! – urlò Gwen lasciando allibiti Sienna e Ben.
Calò un silenzio inquietante. L’atmosfera di poco prima tra i cugini s’era spezzata tanto aspramente da sembrare che il sottile velo tessutosi tra loro si fosse strappato di colpo. Gwen rimase incredula. L’era uscito un tono orribilmente acido e davvero poco carino, quasi rude. Era sempre stata un po’ sfrontata, ma mai se n’era resa conto così profondamente.
S’affrettò a dire, portandosi le mani tra i capelli: – ti prego perdonami, Sienna…! Io non mi sento molto…a mio…agio…
Nel pronunciare queste parole abbassò il capo e non osò guardare Ben negli occhi.
L’amica le si avvicinò chinando il capo sinceramente afflitta: – è stata colpa mia, nemmeno a me piacciono le persone insistenti. Voglio che sia tu ad accettare le mie scuse.
La ragazza concluse la frase con un sorriso sincero e Gwen si sentì ancora peggio. Aveva ferito Sienna e sé stessa, non era più in grado di controllarsi, frenarsi o semplicemente ragionare a mente fredda.
  – Io ora devo veramente andare …! – sbottò sull’orlo delle lacrime. Cercò però di contenersi e finse un gran sorriso inghiottendo l’ansia e gli spasmi che la stavano assalendo da dentro. Continuò a sorridere persino nel recuperare la giacca, tanto da sembrare una perfetta idiota. Lasciò correre i dettagli, peggio di così non poteva andare, in ogni caso. Si sentiva addosso gli occhi di Sienna e Ben, questo l’irritava e la sconfortava oltremisura. Si spaventò del fatto di star perdendo il controllo di sé stessa e, agitando nervosamente la mano, salutò i due fuggendosene dalla stanza.
Quando giunse all’entrata si sentì finalmente libera di lasciar andare un mostruoso spasimo.
Pioveva, ed ora a dirotto. Il cielo si era oscurato e le nuvole dalle quali era coperto parevano batuffoli di cotone intrisi di china nera, mostri vaporosi e dall’aria minacciosa. Gwen s’infilò il cappotto e nel farlo, con orrore, si sentì rigare la guancia da una lacrima. Si strinse nella giacca di panno e soffocò un secondo gemito, nato questa volta dal dolore del pianto.
– Imbecille…– sussurrò interrotta dai singhiozzi.

Ben, rimasto solo con Sienna, tacque. Era combattuto. Voleva correre fuori a fermare la cugina e allo stesso tempo fermare sé stesso per riflettere.  Non impiegò più di un secondo netto a realizzare che la presenza di Sienna gli era totalmente indifferente. Poi il suo sguardo si posò sulla sedia: – …la sciarpa…!
– Come dici? – chiese Sienna.
– Resta qui !– le intimò Ben alzandosi, afferrando l’indumento di Gwen e sparendo dalla porta.
La ragazza dai meravigliosi capelli neri allora sussurrò:- è…un deja-vu…a quanto pare. 

 Ben corse per le scale quasi inciampando e spalancò la porta di casa.
– Gwen! – chiamò.
Avrebbe speso tutto il fiato che aveva in corpo, per lei.
– Gwen!
Corse in strada, indirizzandosi  verso casa della cugina, più avanti di due isolati.
Ma fare tutta quella strada non gli sarebbe servito. Infatti vide Gwen poco distante camminare sola sotto la pioggia, senza ombrello, sferzata e inzuppata dal pianto delle nuvole.
– Gwen! Aspetta! – gridò il ragazzo.
La giovane parve accorgersi della voce del cugino ma, abbassata la testa, proseguì senza fermarsi.
Ben corse fino allo spasimo fintantoché la raggiunse: – Gwen…!
 Parandolesi davanti le mise una mano sulla spalla, appoggiandosi a lei,  abbassò il capo per riprendere fiato. Quando l’alzò, il suo sguardo rimase colpito.
Il viso di Gwen era rigato da un pianto amaro e quasi inarrestabile che come affondando i propri artigli nella carne della ragazza l’aveva sfigurata.
– Che vuoi…idiota… – singhiozzò la giovane cercando di tornare ad essere la superiore Gwen di sempre. Anche se fallì. Per di più,miseramente.
– Gwen…– mormorò rattristato Ben assottigliando lo sguardo in una smorfia di compassione.
La ragazza si coprì il volto con le mani: – ti prego…non guardarmi…
– Infatti io…non ti guarderò…– disse fermo Ben – non sono qui per guardarti.
In quell’istante, la pioggia era l’unico suono udibile.
– Non ti guarderò…

Continua!

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Capitolo 7
*** La Sciarpa. ***


 

CAPITOLO SETTIMO
La sciarpa

[…]
– Non ti guarderò… – ripeté Ben.
Senza dire altro abbracciò improvvisamente la cugina, avvolgendola a sé.
– L’idiota sei tu, perché sei scappata?! – la riprese con un sussurro rabbioso. Strinse i denti.
 Gwen non aveva più nemmeno la forza di lamentarsi, e anche se avesse voluto provarci Ben non le avrebbe comunque lasciato il tempo di parlare.
– Sei stupida?! Che ti ha preso?! Ti verrà il raffreddore, la febbre…! Ma che hai?!
Gwen scostò di poco le lunghe dita dal viso: perché Ben stava facendo questo? La stava consolando…? Non l’aveva mai fatto prima.

Sienna osservò la scena per intero , affacciata alla finestra della camera di Ben, e sospirò profondamente. Si lasciò cadere la testa tra le mani e si lamentò: –  l’avevo detto che si trattava di un deja vu…maledizione. Così finirà che soffrirò di nuovo per la mia Cerise. E sempre per colpa tua. È solo che…ti voglio troppo bene, ma petite Fraise

 Gwen si sentì mancare il respiro per l’ansia. L’indecisione l’affogava.
– Che vuoi da me…?! – si dimenò allora dall’abbraccio di Ben.
Nonostante lo scatto della ragazza, Ben si controllò, desiderando intensamente di dare con lei il proprio meglio. Lo fece senza pensare, forse si impose di volersi, con quel gesto, definitivamente riscattare. Voleva il perdono di Gwen.
Gwen dovette riconoscere che la forza delle braccia del cugino era aumentata nonostante l’ ormai lontana perdita dell’Omnitrix. Ad ogni modo, non ebbe la vigoria di soffermarsi troppo a lungo su questo dettaglio.
– Hai dimenticato la sciarpa…– le fece notare Ben avvolgendo Gwen con l’indumento candido – ho pensato che potesse servirti con solo due gradi sopra lo zero – sorrise.
 – Non ce n’era bisogno – rimandò Gwen con rabbia. La ragazza stessa non capì come mai, nonostante le risultasse estremamente ed energicamente dispendioso, s’ostinasse a trattar tanto scortesemente il cugino.
Vi fu un attimo di silenzio. Ben appoggiò la fronte a quella della ragazza: –  se non l’avessi fatto mi sarei sentito un irresponsabile…non credi?
Il suo viso pareva davvero serio, forse addirittura preoccupato.
Gwen avvampò. Con frenesia si chiese perché: perché mai le cose dovessero complicarsi fino a tal punto, per quale motivo dovessero giungere a tal segno. Perché.
Ben sospirò: – maledetta…mi hai fatto preoccupare, lo sai?
 Gwen sentì il pianto gremirle ancora una volta gl’occhi. Si sentiva così triste e ingrata da voler strillare.
Strinse tra loro le dita tremanti. Se Ben avesse sentito anche solo uno di quei suoi battiti cardiaci così impetuosi chissà che sarebbe accaduto. Chissà cos’avrebbe pensato, detto…fatto. Gwen si scansò violentemente, scossa da paure più grandi del suo dolore.
– Dì, Ben, che diavolo volevi fare?! Che vuoi da me?! – l’aggredì dunque.
Il ragazzo rimase spaesato: –  …perché fai così? – balbettò allora tra il contrito e l’offeso.
– Parla…! Che vuoi dopo tanti anni d’odio?! Perché accidenti te ne spunti ora giocando al buon samaritano?! E perché mai mi stai sempre tra i piedi?!
Gwen si afferrò il capo disperata:  – Perché riesci a farti odiare così tanto?! – concluse allora vomitando verbalmente quanto in quell’istante affollava la sua mente.
Ben si  portò una mano al cuore sentendo crescere la rabbia improvvisamente: – ma certo…va sempre a finire così! Uno ti tende la mano, calpesta sé stesso, il proprio orgoglio…e tu?! Tu che fai?! Ci sputi sopra! Gwen…francamente non so davvero quanto ancora io possa riuscire a sopportarti!
 La ragazza sentì il cuore ledersi improvvisamente. Non riuscì più a proferir parola.
– Cosa dovrei fare, secondo te…?–  mormorò aspro Ben, lacerando il silenzio venuto a crearsi. Un silenzio pesante e doloroso, sottile e tanto pungente quanto un ago.
La ragazza lo fissò con disperazione e si morse il labbro. Volle tentare di replicare, ma si fermò quasi inconsciamente. Aveva paura. Paura folle degli occhi di Ben, del suo giudizio, delle sue parole.
 – Cosa…cosa dovrei fare?! –  urlò allora Ben afferrando uno dei due lembi della sciarpa al collo di Gwen.
– Come posso spiegarti quello che penso se ti comporti così?! Non fai che rifiutare l’aiuto degli altri sebbene tu, come un comune mortale, possa averne bisogno!
 Ben, affranto e ansante, mormorò:– Parla, Gwendolyn…
Gwen non eseguì; più che per ripicca per incapacità. Incapacità incontrollabile, handicap mostruoso ad esprimere in quell’istante teso e ferente quanto realmente provasse. Non vi fu verso, sebbene si sforzò più di quanto le fosse concesso. Dalla sua bocca non uscì nessun suono.
–  Sai che ti dico? – sibilò allora Ben stringendo i denti dalla rabbia.
Gwen abbassò lo sguardo piangendo, tirata da un lato della sciarpa.
– Vattene al diavolo, stammi lontana !! – sbottò il ragazzo furioso.
 Il ragazzo lasciò andare la sciarpa che, spostatasi dal collo Gwen, cadde a terra scivolando sulla chiazza d’acqua che s’era formata sotto i piedi dei due.
– Non so come,pur per un solo istante …
–…io abbia potuto pensare di provare sincero abbattimento al sentirti avversa.
Detto questo, con voce dal suono tremendamente tagliente, Ben si diresse verso casa e Gwen rimase sola. Ripudiata anche dal perenne compiacimento di sé stessa.

Sienna era rimasta seduta a terra ad aspettare il ritorno di Ben, dopo aver assistito all’incontro dei due. Non aveva voluto più guardare. Era troppo triste.
La porta si spalancò.
 – …Cerise! – esclamò la giovane sollevando repentinamente lo sguardo.
Ben si sedette a terra, mogio, contrito più che furioso.
– Vattene – mormorò racchiudendo il capo tra le braccia.
– Vuoi…che me ne vada? – balbettò Sienna già conscia della risposta. Le sarebbe dispiaciuto eseguire l’ordine.
– Vattene…– ripeté Ben.
Notando che la voce del ragazzo stava via via sempre più affievolendosi, Sienna gli prese i polsi e
gli scostò le mani dal viso.
– Dimmi che succede Cerise…
Ben la guardò per un secondo, poi si coprì nuovamente il volto trattenendo un singhiozzo di rabbia distruttiva.
– Che è successo? – chiese Sienna con aria triste scostando i lunghi ricci neri. Il dolore di Ben era tale, che se lo avesse voluto, Sienna avrebbe potuto facilmente udire il ruggito della burrasca che prorompeva nel cuore del giovane. Tant’era.

 Gwen rimase ferma sotto la pioggia. Le pesava persino respirare.
– Ti odio…Ben Tennyson – disse ad alta voce sforzandosi più di quanto potesse.
Alzò il viso, lasciandosi rigare dal pianto del piovasco. Le nubi nerastre, inibitrici, la costrinsero a riabbassare la testa. Fissò allora terreno: – è vero che a suo modo…
– L’odio lega tanto quanto l’amore…
Si fermò per un attimo, incapace di continuare. Non sapeva perché dovesse per forza parlare ad alta voce. Ma voleva farlo, quasi come se stesse sputando tutta la propria insoddisfazione. Come se si rivolgesse al cielo col capo chino al terreno, piegata da un timore deterrente.
– Allora mi chiedo…–  si fece forza con un colpo di tosse – se io…
– …provi trasporto, anche solo famigliare,per te…o ti odi…Ben Tennyson.
Gwen si strinse nelle spalle.
– Ma infondo…chi se ne importa. Tanto…è la stessa cosa, alla fine.
 
Sienna prese le spalle di Ben: – raccontami…non posso vederti così.
Ben scosse la testa: – non ha alcuna importanza. Ed ora ti prego, vattene.
 Sienna prese le spalle di Ben: – raccontami…non posso vederti così.
Ben scosse la testa: – non ha alcuna importanza. Ed ora ti prego, vattene.
– Per la miseria, Ben…lascia perdere le mie sciocchezze…! La futura sposa ,la Cerise…! Lascia stare, concentrati sul fatto che ad ogni modo sono tua amica e sì, sarò innamorata di te, ma in quanto a tua sostenitrice quello che voglio è solo la tua felicità. Con addosso qualsiasi ruolo tu voglia etichettarmi – disse Sienna fermamente convinta.
Il ragazzo tacque. Provò un moto di commozione verso di lei, anche se la conosceva poco aveva improvvisamente voglia di rimettere tutto il proprio dolore con lei ad ascoltarlo. Se questo fosse dipeso dal fatto che stesse troppo male per rifiutare l’offerta o perché si trattasse di lei rimaneva un mistero.

Gwen sospirò per la centesima volta. L’unico suo pensiero in quel momento era Ben e solo Ben. O per meglio dire, il suo sguardo bieco che pochi istanti prima aveva zittito ogni sua possibile controbattuta. Gwen temeva, tremava. Soffriva.
 Preferì credere di odiarlo pur di evitare di calpestare il proprio orgoglio. Se questo fosse stato davvero giusto non lo sapeva.
 
Continua!

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Capitolo 8
*** Soccorso. ***


 Ben e Sienna erano accovacciati a terra, soli, all’interno stanza del ragazzo. Ben taceva, totalmente spaesato. Aveva improvvisamente dovuto rivalutare Sienna daccapo: dalla sua ricomparsa non l’era sembrata che una sciocca ragazzina dall’apparenza frivola ed un carattere viziato e puramente materialista che poteva contare su un bell’aspetto e nulla più. Le parole da lei pronunciate pochi secondi prima, però, l’avevano quasi fatto ricredere, cosa che in Ben non accadeva facilmente. Gli occhi scuri della ragazza emanavano ora una luce nuova, dissimile, che del bambinesco non possedeva nulla, nemmeno una minima traccia.
Il giovane Tennyson alzò lo sguardo e lo traslò a quello di colei che s’era da poco proclamata sua amica;
–  Non ha senso che tu finga, Ben. Riesco a leggere la preoccupazione nei tuoi occhi – mormorò Sienna assottigliando lo sguardo. In lei traspariva chiaramente un desiderio limpido, una volontà tersa di corrergli in aiuto: non voleva né canzonarlo né nascondere secondi fini.
Aggiunse dunque: – spesso noi esseri umani tendiamo ad identificare il dolore solo come un sentimento negativo e dal sapore aspro. Ci diciamo che se non soffrissimo la vita sarebbe migliore ed i suoi colori più vivi. Ma quello che io credo…è che senza il dolore non potremmo mai imparare a crescere, decidere cosa sia “bene” o “male” e di conseguenza vivere. Se solo capissimo quanto questo possa essere un efficace mezzo di progresso allora forse sì, la vita sarebbe realmente migliore.
Ben tacque, non osò nemmeno respirare. Dentro sé non poté che comprovare quanto ciò appena udito fosse un insieme sapiente di veri e preziosi frammenti di saviezza. Non aveva mai pensato ad una teoria simile, ma si accorse che gl’erano bastati quei pochi minuti, ad ascoltare un discorso di tale portata espresso tanto semplicemente, per trovarsi in perfetto accordo. Era una modalità di pensiero unanime, si disse.
–  Inoltre – proseguì Sienna – credo fermamente che se tu provassi più spesso ad analizzare il tuo dolore potresti capire meglio quello che poi sarà meglio fare, come agire, quello che dovrai pensare, dire, fare...ed è per questo, per il tuo bene, che ti chiedo di sfogarti. Io ti ascolterò, parola dopo parola. Credi, Ben. Custodire il nostro dolore in noi stessi non farà che danneggiarci. Ma viverlo attivamente non potrà che portare alla luce il nostro coraggio, il coraggio di batterci per una buona causa, una vita serena.
Ben sorrise debolmente. Ma non disse nulla, non ne fu in grado, incapace di aggiungere qualcosa di egualmente saggio.
 
Gwen era giunta, a piccoli passi, di fronte casa. Prima di poggiare il palmo fradicio alla maniglia del portone d’entrata, sospirò profondamente. Era a disagio. Il cappotto era completamente bagnato, proprio come i suoi splendidi capelli color carminio che ormai risultavano un groviglio impreciso. Gwen si sentiva vuota; avvertiva solo uno strano tepore e la testa pulsare ma nulla più. Tossì e si specchiò alla finestra della cucina, che dava sulla strada. Quello che vedeva era il corpo disarmato di una sedicenne, stanco come quello di una vecchia, a racchiudere un sentore doloroso ed un modo di pensare anziano. Si scostò e, con immane fatica, fece girare la chiave nella serratura.
Era a casa, ed ora per davvero. Si chiuse la porta d’entrata alle spalle e si trascinò sulle scale. Quello che ora voleva era solo spogliarsi di quei capi così appiccicaticci e sprofondare nel proprio letto. Il caparbio mal di testa che già da prima s’accingeva a nascerle dentro, scoppiò d’un tratto come fosse un’esplosione. Colta d’improvviso, Gwen si massaggiò la fronte: il dolore non accennava a diminuire. Il tepore che aveva sentito poco prima era diventato fuoco, era in grado di percepire il cuore pulsare in ogni dove e captava il percorso piretico del sangue lungo le vene. Sbottonò il cappotto e piegata dal dolore scivolò sulle ginocchia. Era troppo tardi per potersi pentire ma lo sapeva, era stata una pazza a passare un’ora e mezza sotto la pioggia scrosciante con una temperatura media di due gradi, seduta a terra sull’asfalto gelido del marciapiedi, appiccicaticcio e fradicio, impregnato dal fango e da ciuffi d’erba secca,standosene inerme sotto un cielo impietoso e furibondo, macchiato di nubi piene d’odio e lacrime. Peraltro s’era scoperta a sfiorare la sciarpa oramai non più molto candida, zuppa del suo e del pianto del cielo. Era stata sciocca. Era la prima volta che l’ammetteva senza opporsi. Lasciò cadere le mani lungo i fianchi, cominciavano a pesarle. Chiuse le palpebre ma le riaprì fulmineamente trafitta dal dolore. Stava patendo le pene dell’inferno ma mai, mai  e poi mai, si disse, Gwendolyn Tennyson si sarebbe piegata a calpestare il proprio orgoglio e quindi reclamare soccorso. Mai e poi mai avrebbe chiesto aiuto a chi ritenesse non fosse nemmeno degno d’attenzione, colui – l’unico – che in quel momento avrebbe potuto tenderle la mano e salvarla da quel dolore atroce; e di conseguenza, mai gli avrebbe chiesto scusa. Mai. Tuttavia si rese conto di aver versato forse tutte le lacrime che aveva in corpo. Ma mai lo avrebbe ammesso: piangeva per Ben. Ed il risultato altro non era che soffrire due volte tanto.
 
Ben commentò: – ora…ti racconterò tutto nei limiti del possibile, farò come mi suggerisci. Anche se molte cose le sai già. Dunque…
Sienna osservò i movimenti goffi ed impacciati di Ben e sentì un forte tumulto al cuore. Si sorprese a sorridere sotto i baffi, più che con malizia con amore.
Ben proseguì: – io e mia cugina ci odiamo da sempre. Siamo continuamente stati in conflitto, dove lei c’era, dove lei c’è e dove lei ci sarà, io non c’ero, io non ci sono ed io non ci sarò. È odio puro. Gwen mi ha sempre evitato sicché anch’io ho cominciato ad eludere persino le cene di famiglia. È un’insofferenza reciproca. Io so poco di lei e lei sa poco di me. E dire che siamo cugini…
Sienna s’intromise facendosi piccola piccola: – quando eravate piccoli però…
– Lo so – la fermò Ben secco. Non aveva intenzione di ferire Sienna, ma riguardo alla loro infanzia aveva sempre avuto l’obbligo di tacere. Con chiunque stesse interloquendo.
– Scusami – Sienna abbassò la testa invitandolo a continuare.
– C’è stato solo un unico momento di coesione. Quello che ci ha uniti solo per una volta, e per poco. Risale a sei anni fa, quando è successo… qualcosa che ha coinvolto anche nostro nonno, nonno Max. Mi dispiace dover omettere anche questa parte, ma devo farlo. E comunque…sembra destino: quel piccolo filo che s’era tessuto debolmente tra di noi è in procinto di lacerarsi definitivamente. Se non è già accaduto.
Nel pronunciare tali parole, Ben lanciò un’occhiata alla piccola teca di vetro. L’Omnitrix era cupo, morto come lo era da anni. Il segnale più evidente al mondo ad indicare la fine di quella storia tra loro, quel segreto così recondito che li aveva accompagnati, con nonno Max, per un’estate intera.
 
Gwen, trovandosi sulle scale, prese a salirle a fatica e giunta sulla soglia della propria stanza da letto vi ci si accasciò priva di forze. Era sola, accoccolata scompostamente sul pavimento di parquet freddo. Reputava questo una fortuna ed una disgrazia allo stesso tempo; era peraltro sicura di essersi buscata quantomeno una febbre particolarmente sostanziosa: tutto quel dolore non poteva di certo essere un banale raffreddore. Gwendolyn chiuse gli occhi: ancora una volta si sentiva avvolta da quell’abominevole tepore, un abbraccio colloso e sudaticcio che la faceva respirare a fatica. Si sfiorò la fronte una seconda volta e s’accorse di bruciare, respirare con affanno, di tanto in tanto gemere. Udì crescere dentro di lei un poderoso conato; si trovò a combattere contro sé stessa: la sua Mente ed il suo Corpo, Ragione e Sentimento tra loro dalle opinioni diametralmente opposte, dai sentori differenti.
Prese tra le mani il cellulare. Stavano avendo la meglio Corpo e Sentimento bisognosi e supplicanti d’aiuto e cure. Gwen lasciò cadere il cellulare a terra di scatto:– che sto facendo?! Possa andare al diavolo Ben, il suo aiuto ed il nostro sangue maledetto…! – ansò. Subentrò così la spinta e l’adulazione della Mente, con l’aiuto della Ragione contaminata dalla parte negativa dei Sentimenti, a portar avanti la propria campagna solitaria di rigetto e fastidio. Gwen si cinse il capo con le mani. Riafferrò il telefono, ricevendo uno schiaffo astratto da parte del Corpo alla Mente. Aiuto, aveva bisogno d’aiuto. Digitò il primo numero che ricordò. Fissò lo schermo digitale del cellulare con il risultato di impallidire nonostante il bollore asciutto che le detonava in corpo. “Ben Tennyson ” si disse mordendosi il labbro tanto da farlo sanguinare. – Ben…Tennyson – balbettò distrutta. La voce roca, flebile, rotta dalla devastazione e dall’indecisione che ora molestavano sia Mente che Corpo, uscì debilitata come un sibilo.
– Io…– sussurrò stringendo il cellulare tra i palmi madidi e le lunghe dita.
I suoi occhi si chiusero, la bocca si contrasse e corrugò le sopracciglia.
– Io non ho bisogno di te! – urlò Gwen con tutte le proprie, scarse ed ultime forze, scagliando il telefonino contro la parete candida del muro. Lo vide andare in pezzi nella penombra della stanza, disgregandosi in corpo, batteria e scocca.
“Proprio come me” si disse sentendo il pianto rigarle il volto ancora una volta “ divisa tra i pezzi di quello che sono”.
 
Sienna massaggiò la testa di Ben: – mi dispiace…credimi. Ad ogni modo voi siete pur sempre cugini e legami così stretti sono difficili da spezzare davvero, indipendentemente da fili o avvenimenti del passato.
Ben, un po’ offeso dal gioco di parole lievemente canzonatorio, ma anche colpito dall’ennesima perla di saggezza nata dalla ragazza, mugugnò: – spero che tu abbia ragione.
Sienna ribatté: – mi secca ammetterlo…ma nonostante non ne siate effettivamente al corrente, il vostro rapporto, e parlo di Gwen e Ben Tennyson, è più profondo di quanto voi crediate.
Ben la guardò.
– Ho ragione di credere che sia qualcosa di davvero inossidabile, pur ammettendo a cuore schiuso che questo un pochino mi ferisce. Prima non mi hai fatto continuare quella piccola rimembranza sul passato, sulla vostra infanzia. Ma quell’episodio, lo sai benissimo, Gwen non lo ricorda. Ma tu, tu c’eri! E sai tutta la verità! Il dramma, il dolore ma anche in un certo senso la felicità di quanto accaduto può salvare il vostro rapporto…ed inoltre…lo sai…che Gwen…da “cugina” non è un soggetto che potrei identificare come nemico per il mio amore nei tuoi confronti. Ma da “Gwen” lo è eccome. Ben, te lo dico francamente,spero tu non me ne voglia per essere così impudente: fa chiarezza.
Sienna si alzò: – è meglio che io vada.
Prima che Ben potesse dire qualcosa, gli schioccò un bacetto sulla guancia.
– Sei proprio meschina – quasi ridacchiò il ragazzo.
– Credi, lo so bene – sorrise Sienna.
– Io…–  accennò Ben.
Ad interromperlo, il trillo del cellulare della giovane.
Sienna acconsentì alla chiamata tastando il pulsante dal colore verde; vide comparire il nome di Gwen sullo schermo illuminatosi del telefonino: – che sarà successo?
Ben la fissò cercando di succhiare qualche informazione dal suo sguardo.
Sienna sussurrò: – pronto?
I suoi occhi s’ingrandirono in una smorfia di sorpresa mista a preoccupazione. Ben spostò lievemente il capo: – ma che…?
Sienna si massaggiò la fronte con nervosismo come se si stesse concentrando oltre il limite per captare il un sibilo stentato, il sussurro che proveniva al di la della cornetta.
La spiazzò il finale brusco di quella chiamata.
– Ben…
– Che è successo?! – chiese Ben alzandosi, riempitosi di preoccupazione.
– Cerise.
Il volto della giovane si fece buio.
– Parla! – insistette Ben scrollando con forza la ragazza.
– Corri. Corri da Fraise.
– Fraise…? Fragola? Ma che…? – Ben non capiva più nulla.
– Sai di cosa parlo, dodici anni fa c’eri anche tu!Corri da lei, adesso, più veloce che puoi. Soccorri…la tua parte complementare…!
Ben cominciò ad agitarsi ulteriormente: – la mia parte complementare? Che stai farneticando?
Sienna gli diede uno schiaffo: – sai benissimo di che parlo! Sveglia!
Ben si massaggiò la guancia e biascicò: – temo mi dovrai spiegare.
– Non c’è tempo per spiegare, porca miseria! Corri da tua cugina, datti una mossa!
– Da Gwen?
– E da chi altri? Muoviti, non aspettare un secondo di più! La questione è seria, tutto il tuo fiato sprecato a chiacchierare bellamente qui con me viene due volte meno a Gwen in questo momento, per cui destati fanciulla!
– Cosa…? Ma noi abbiamo litigato…con che faccia mi posso presentare e dire “oh, Gwen, eccomi qui!”?!
– Datti un tono, femminella! Che diavolo vuol dire “avete litigato”?! Che significa?! Prestare soccorso è qualcosa di assolutamente oggettivo, se un dottore si mettesse a scegliere i pazienti che hanno forte bisogno d’aiuto in base alle proprie preferenze saremmo a cavallo! Prometti…! –  Sienna riprese fiato abbassando il capo e poggiandosi alla spalla di Ben. La collera aveva smorzato di molto la sua comprensione nei confronti del giovane ed ora stentava a controllarsi.
– Promettimi che per nessun motivo, dico e ripeto nessuno, ti fermerai;voglio che tu corra lo capisci o no?!
Ben non rispose ma si decise a muovere le gambe.
– Cerise… – lo fermò improvvisamente Sienna titubante.
– Che vuoi?!
La ragazza tacque.
– Che vuoi?! – ripeté Ben ora colto dalla fretta e da un’impazienza febbrile. Mi hai detto tu di correre ed ora mi blocchi, ma che diavolo hai in testa?!
Sienna allungò la propria figura aiutandosi con i talloni. Quello che vide, o meglio sentì, Ben, furono solamente le sue labbra sulle proprie. Sienna lo stava baciando, afferratolo per il colletto. Ben non si scostò.
 
Continua! 

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Capitolo 9
*** Macedonia. ***


Gwen aveva provato a chiamare Sienna. Ma aveva riagganciato presto. Non tanto per dispetto, non per particolari ripensamenti e nemmeno per mancanza di parole da dire. Piuttosto l’aveva fatto per pura fatica. Raccolta la scocca del cellulare, unitala al restante e portatala al cuore, la ragazza s’era raggomitolata a terra alla meno peggio e aveva preferito aspettare che qualcuno si prodigasse a venirle in contro. Perché dal canto suo, la voglia di aiutarsi a sopravvivere era fondamentalmente nulla.
 
Ben aprì gli occhi e guardò Sienna nel mentre lo stava baciando, rovinando così l’atmosfera.
Solo allora si scansò e commentò: – se hai tentato anche solo per un attimo di corrompermi utilizzando quelle belle frasi e la tua saggezza femminile sappi che…
– No, aspetta Ben, non… – cercò di dire la ragazza arrossita selvaggiamente.
Ben proseguì senza curarsene: –… non ci sei riuscita.
Sienna sorrise debolmente, alzando le mani in segno di resa : – credimi…sapevo che avresti reagito così per cui… confermava la tua reazione…
Ben rispose al sorriso: – evitiamoci risentimenti. Faremo finta che non sia mai successo.
La ragazza abbassò il capo: – … certo. Come vuoi, Ben.
All’udire la risposta il giovane scostò con le proprie le mani di Sienna che l’intralciavano: – ora…lasciami andare.
Dalle labbra della ragazza si poté udire un flebile acconsentimento.
In quella, Ben scomparve di fretta dalla stanza, limitandosi a dire: –  forza, usciamo di qui.
Sienna annuì dolcemente e lo segui recuperando le proprie cose. Prima di lasciare la stanza però, non poté non dare un’ultima occhiata all’Omnitrix e quella sua piccola, brillante teca di vetro. Si sentiva come se fosse al suo posto, chiusa nel suo piccolo mondo di egoismi. Chiuse gli occhi.
Ai piedi delle scale Ben prese un ombrello e glielo porse: –  prendi, o ti bagnerai.
La ragazza gli sorrise e ringraziò. Usciti da casa Tennyson, Ben la lasciò al bordo della strada e corse via, facendole appena un cenno. Rimasta sola, Sienna udì solamente il fruscio delicato dei propri capelli cadere lungo il viso. Aprì l’ombrello. Strinse denti ed occhi con quanta più forza poté, recuperata sino alle viscere del proprio corpo. Sentiva la pioggia battere sulla stoffa sottile dell’ombrello, come se la stesse cercando di picchiare. Forse se lo meritava, si disse, seppur fosse solo una metafora. Nonostante questo aumentò ulteriormente le sue insoddisfazione e tristezza, si rifiutò di piangere. Non poteva farlo e non voleva; si era ripromessa di non voler cadere più nella sua dolce trappola. Tutto ciò poiché si era resa conto che fondamentalmente il pianto non faceva altro che incrementare il suo disagio, la sua sensazione di dolore, più che farla sfogare la induceva a rimuginare sull’accaduto sottolineando la sua sofferenza. Assurdo. Era proprio ciò che tentava di evitare. Non avrebbe pianto. Si rifiutava. Anche se le lacrime avessero premuto con tutta la caparbietà loro possibile,anche se ve ne fosse stata veramente ragione. Sienna si strinse nelle spalle.  Stava andando tutto a rotoli. Il suo grande Piano alla Volta della Felicità stava fallendo. Si maledì. “Non piangere, sciocca” si urlò tra sé abbassando lo sguardo. Osservò le scarpe con aria persa, assopita. A Ben non era piaciuto che lei lo baciasse. Quale segno più evidente di sconfitta? Quale disfatta più lampante? E non solo. Ora correva da Gwen. “La bellissima Fraise” mormorò Sienna tra sé e sé. Lasciò cadere le braccia lungo il corpo: – La cerise et la fraise. Una perfetta macedonia.
In quell’istante, come non rendendosene conto, sentì una lacrima rigarle il viso. Accortasi dell’accaduto sbiancò. Era stato qualcosa di inconscio: ed ora piangeva a dirotto, proprio come il cielo grigio sopra di lei. La giovane avvertì il dolore incrementarsi: non solo stava davvero e sinceramente innamorandosi di Ben, non solo riusciva a prevedere un risvolto della vicenda per lei disastroso e doloroso, non solo. Si era addirittura ridotta ad essere una bambina capricciosa incapace persino a mantenere le promesse fatte a sé stessa. Questo la fece crollare.
 
Ben corse per quanto ne fu in grado fintantoché giunse a destinazione, zuppo per la seconda volta.
Poggiò il palmo madido sulla maniglia pregando che la porta fosse aperta. E fortunatamente lo era.
Corse per le scale riducendosi ad avere un ridicolo e quasi immotivato fiatone e senza tanto pensarci aprì la porta della stanza di Gwen. La vide raggomitolata a terra, lievemente tremante e visibilmente dolorante. S’affrettò a venirle accanto: con una mano le tastò la fronte scostandole piano i capelli con le dita, con l’altra tentò metterla supina. Era lampante capire, persino per Ben, che la cugina s’era buscata molto più di una semplice febbre. Molto più davvero. Lo scottare così evidente della fronte lo preoccupò.
–  Che diavolo stai facendo…demente…– mormorò Gwen massaggiandosi le tempie e stringendo i denti dal dolore.
– Sei veramente stupida.Qui l’unica idiota sei tu! – sbottò Ben di tutta risposta.
Per la prima, vera volta nella sua vita Gwen era stata messa a tacere in modo così diretto. Tanto che restò di stucco per quanto il malessere le consentì; preferì allora rimanersene in silenzio, non replicò.
Ben prese in braccio la ragazza adagiandola sul letto e coprendola poi con cura con il piumone. Poggiò per una seconda volta la mano sulla sua fronte. Rimase in silenzio,meditabondo. Poi scese le scale e si raccomandò: –  non osare muoverti.
Gwen tacque. Questa volta per sola stanchezza.
 
Ben arrivò in cucina. Era situata alla destra della porta d’entrata: non vi erano entrate per accedervi, si apriva semplicemente sul salotto, situato per contro alla sinistra, grazie ad un enorme accesso privo di porte. Quel posto aveva sempre un tantino intimorito il giovane Ben: ampio, a dire la verità enorme e dal design esageratamente moderno, fornito di ogni immaginabile comodità. Pavimento nero, lucido come non ne aveva mai visti, ove vi ci si poteva specchiare. Elettrodomestici in meraviglioso acciaio inox, piano di marmo, elegante dispensa in legno biondo lavorato. Una piccola reggia. Ed era solo la cucina. Ben socchiuse il freezer al di sopra del frigorifero: dovette alzarsi sui talloni ma alla fine ci arrivò e afferrò una borsa del ghiaccio. La avvolse in un panno e salì le scale. Dischiusa la porta della stanza da letto, mormorò con un sospiro: – Gwen …la borsa del ghiaccio.
Si accorse che la ragazza stava dormendo. Con un sorriso, ammorbiditosi, le poggiò sulla fronte la sacca gelida, che pregò l’aiutasse ad ammansire quell’esagerata febbre.
Ben si fermò per un momento ad osservare la camera della ragazza. Non l’aveva mai fatto con la dovuta attenzione: era in contrasto con il resto della casa. A differenza delle altre stanze dal design moderno e ricercato, tinteggiate di un nero affascinante, dai pavimenti bianchi e lucidi e di impressionante modernità, la stanza di Gwen era una sorta di piccolo attico illuminato dalla luce solare che penetrava dalle gigantesche portefinestre incorniciate da infissi in legno ciliegio; più che altro si orientava sullo stile retrò. Quello che si poteva ravvisare, entrando dalla porta di legno, era un enorme letto matrimoniale piazzato ai piedi della parete portante della sinistra (tinteggiata di un bell’ed intenso color crema) circondato da una elegante stola di tulle, casomai Gwen desiderasse coprire la visuale nel mentre stesse dormendo. Ben ebbe un improvviso pensiero non molto casto, ma vide di cancellarlo presto.
Il pavimento piastrellato in marmo bianco accoglieva un tappeto candido immacolato, che Ben fece attenzione a non calpestare con le scarpe (che, previdente, aveva tolto prima di salire). Alla parete opposta vi era una scrivania ed una sedia, il computer ed uno specchio a muro. Una stanza perfetta ed ordinatissima. All’appello mancava la libreria ma Ben sapeva per certo che per i fare compiti e leggere i libri era riservato uno studio poco distante dalle camere da letto. Aveva ricordi vaghi ed imprecisi ma quel poco che rimembrava lo riportava ad una collezione indefinita di tomi e romanzi, fino ad arrivare persino a qualche testo antico. Si massaggiò le tempie: il mal di testa ora stava venendo a lui. Ma si ricordò che aveva scordato di cercare qualche antidolorifico ad il termometro per la cugina convalescente. Così si avviò verso il bagno. Percorse il corridoio schivando le scale. Trovandosi maestosamente (e piacevolmente) sopraelevato diede uno sguardo alla vista che da lì dava sul piano di sotto: era stato poche volte in quella casa. Quella volta, in occasione del famoso episodio da Sienna ricordatogli, aveva frequentato parecchio quella casa. Ma successivamente non più.
“Ricordi d’infanzia” si disse manso Ben. E riprese il proprio cammino.
 
–  Tesoro sono all’aeroporto ora; sto per partire, te l’ho detto – mormorò una bella donna  bionda dall’aspetto elegante. Tra le mani il telefonino ed una custodia per occhiali da sole, ai piedi un set di valige firmate.
– Cosa? Perché mai dovresti partire? – sbottò la voce irritata dell’uomo che conversava con lei dall’altro capo del ricevitore.
La donna sbuffò e con fare sbrigativo borbottò: – Oh, misericordia. Mi ascolti quando parlo, Carl Tennyson? Sono settimane che ti ripeto che lo devo fare per lavoro.
– Capisco ma tra poco sarà Natale! – proruppe allora il marito – dovremmo lasciare Ben da solo e la cosa mi scoccia.
– Mi dispiace ma non è colpa mia, caro.– la voce della donna parve sinceramente preoccupata.
– Che si fa allora?
La donna ripose in borsa la custodia reggendo con la spalla il cellulare: – dovremmo mandarlo da Gwen. Credo che sia più al sicuro che a casa da solo, tuo fratello e tua cognata non si offenderanno. So bene che non è più un bambino ma…
Il marito brontolò: – lo sai che si lamenterà, quei due si odiano. E se lo mandassimo da mio padre?
– Maxwell? Oh ti prego, è già troppo quello che fa per noi, devi proprio guastargli il Natale?
– Stai dicendo che Ben è un peso?
– Sto dicendo –  disse la donna irritata – che per un adolescente non è il massimo passare le feste con il nonno…Ben ce ne vorrà.
– Ma Ben adora suo nonno!
La moglie replicò: – piantala! Lasciamo in pace Max per una volta! Ben starà da Gwen, punto e basta!
– Cosa? Ma…! – cercò di ribattere suo marito.
– Silenzio! Sarà così e basta, ora chiamo Ben.
– Donne… – sbuffò l’uomo.
– Che hai detto?!
– Nulla! Non ho detto…nulla di nulla.
 
Continua!

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Capitolo 10
*** Rosso Come il Sangue. ***


 Carl Tennyson chiuse il telefono e lo riposte nella tasca sinistra com’era solito fare. Sospirò ticchettando con la penna sul piano di lavoro: sua moglie era più uomo di lui e anche dopo tanti anni di matrimonio non smetteva di rendersene conto.
Improvvisamente una mano gli si batté sulla scrivania:- Tennyson. Ho un lavoro per te.
– Cosa? – chiese l’uomo risvegliatosi tutt’un tratto.
Davanti a lui il suo datore di lavoro, August Morgue, uomo poderoso sulla cinquantina.
– A Los Angeles. Per qualche settimana. A partire da domani mattina, viaggio sponsorizzato dalla ditta. Sia chiaro, voglio un lavoro eccellente.
– Ma…comprenderà anche il Natale! Venticinque incluso! – si lamentò Carl con una smorfia di letterale sconcerto.
– Mi interessa meno di zero, mio caro Tennyson – sorrise sadicamente l’omone.
– E poi…– gli si avvicinò.
– Il compenso è di oltre cinquecento dollari oltre il solito salario. Guadagneresti quasi il doppio. Pensaci. – sussurrò.
Carl rifletté a bassa voce : – al doppio magari non ci si arriva, però…
– Ho capito, prenoto il volo – asserì Morgue.
– Ma non ho detto che avrei accettato! – ribadì Tennyson.
– Lo avresti detto comunque. Perché lo decido io.
Lo sguardo glaciale del capo penetrò le membra dell’uomo. Carl rimase immobile.
– Ho capito, signore.
– Meraviglioso, vedo che da oltre vent’anni ci intendiamo a meraviglia.
Carl aggiunse flebile: – esatto…proprio a meraviglia.
 
Ben aprì l’armadietto del bagno di Gwen e rimase parecchio impressionato: non aveva mai visto un così vasto assortimento di cosmetici in tutta la sua vita. Mai. Fatta eccezione per quello materno, che però, per lui, era sempre stato off limits.
– E adesso? Dove saranno il termometro e le pasticche? Devo anche tornare in cucina a recuperarle un bicchiere d’acqua per poter prendere l’antidolorifico…Cristo.– mormorò con un filo di voce, sfibrato.
Il povero ragazzo sospirò esasperato gettando il capo all’indietro: – ma che cos’ho fatto di male nella vita per meritarmi tutto questo?
 
Sienna percorse la strada principale per parecchi minuti; la pioggia aveva cominciato ad assottigliarsi ed ora cadeva in quantità più modeste rispetto poco prima. La ragazza giunse di fronte ad un’elegante negozio e per pura curiosità provò ad entrarvi, riponendo accanto alla porta l’ombrello fradicio.
I suoi occhi accolsero la visione superba di merce di finissima fattura, esposta ordinatamente su espositori e scaffalature piuttosto alte. Si spaziava dall’abbigliamento alla pelletterie, dalle calzature a piccoli regali confezionati. Scorse d’improvviso dei piccoli sacchetti decorati appositamente per Natale. Li osservò e notò che contenevano dei dolci ispirati al periodo ed erano legati ad un bigliettino da scrivere. A penzolare da ognuno una pietra d’aspetto prezioso colorata come il sacchetto.
–  Posso esserti d’aiuto? –  sorrise una giovane commessa materializzatasi alle spalle di Sienna.
–  Io veramente…
–  Se lo vuoi posso darti parecchi spunti circa i regali da fare agli amici per le feste. So che è una scelta spesso difficoltosa – aggiunse la commessa che Sienna lesse dalla targhetta chiamarsi Madison.
–  Io…che cosa sono questi pacchettini colorati?
–  Oh…–  sorrise Madison – devi sapere che c’è una piccola storiella che si racconta riguardo al colore di questi pacchettini. Non prenderla troppo sul serio.
 
Ben si chiuse la porta del bagno alle spalle e si diresse verso la cucina. Terminata la lista delle cose da fare si affrettò a raggiungere la stanza di Gwen. Dopo ben mezz’ora di ricerche approfondite era riuscito a trovare ciò che cercava. Finalmente, si disse. Socchiuse la porta della camera e si avvicinò di scatto alla cugina dormiente, dopo aver appoggiato il bicchiere alla scrivania, spaventato dal fatto che il piumone ora giaceva ai piedi del letto. Effettivamente poté capire, vedendo il viso grondante della ragazza quanto caldo disumano avesse patito. Ben si sentì dannatamente in colpa: se avesse evitato di lasciarla sola sotto la pioggia forse questo avrebbe potuto evitarglielo.
L’osservò respirare con affanno ed il suo rimorso crebbe a dismisura. Era colpa sua. Sua e non di Gwen, ecco la verità. La ragazza scostò il capo abbandonandolo stancamente a ridosso del lato sinistro del cuscino. Ben corrugò le sopracciglia e annodò tra loro le dita lasciando cadere a terra la scatoletta di antidolorifici; nel mentre si chinò a raccoglierla, una mano della cugina gli cadde sul capo: – …Gwen, per la miseria…– mormorò allora il giovane sbuffando.
In quella posizione non poteva alzarsi e così cercò di farlo notare alla ragazza. Ma improvvisamente la udì sussurrare qualcosa, mentre le sue lunghe dita si intrecciarono ai suoi capelli. Prestò allora attenzione.
– Ben…
– Dai Gwen, piantala…
Senza tanto meditare allora s’alzò: – la finisci di…?
Si accorse solo allora che Gwendolyn stava parlando nel sonno, come fosse in una sorta di incerto dormiveglia. Ma Ben volle ascoltare ed evitare di svegliarla.
– Cosa c’è Gwen…?– sussurrò cominciando quasi a divertirsi.
– …scusami…mi manchi…
Le parole flebili e ossute uscite dalle labbra della giovane – rese esangui dalla malattia – trafissero Ben,che udì un poderoso tonfo dentro di sé. Era crollato il suo orgoglio.
 
Sienna udì la curiosità crescere e così chiese: – che genere di storie si raccontano su questi pacchettini ?
Madison le rispose flemme: – ora ti spiego; ogni colore ha un suo significato e una sua valenza e le pietre che vedi appese ad ognuno sono semplicemente il corrispondente di ogni tonalità. Ti mostro questo, ad esempio: il colore è il rosso e rappresenta l’amore passionale. È chiaro che questo – le mostrò la pietra sollevandola con le dita – non è un vero rubino ma una varietà di minerale rosso naturale. Tuttavia è di tinta ugualmente sanguigna proprio come la stoffa. Regalerai questo colore a chi ami tenendo la pietra con te. Si dice che quando egli mangerà i dolcetti sentirà in corpo i tuoi sentimenti come se fosse in te. E questo vale per gli altri colori, leggi la tabella illustrativa esposta qui a lato e scegli come meglio credi. È chiaro che si tratta di una diceria…
Sienna rimase impressionata. E parecchio.
– Allora ci metterò giusto qualche minuto, abbia pazienza. Lei mi aspetti alla cassa. – asserì.
 
Ben sospirò confuso. Perché le mancava?
Sentì crescere dentro sé un inusitato sentimento. Prima cercò di riflettere, poi si arrese e si perse nel viso contratto dalla febbre di sua cugina. Si avvicinò. E spense il cervello, mise a tacere ogni pensiero, ogni voce. Avrebbe agito d’istinto. Proprio come uno dei suoi alieni. Strizzò gli occhi. Omnitrix, alieni…il passato si stava affievolendo. Poggiò la propria fronte a quella di Gwen.
– Mi sento così in colpa…
Detto questo, avvicinò le labbra a quelle della cugina. Ma una volta lì, il rimorso lo divorò. E la ragione ruppe la barriera dietro la quale Ben l’aveva riposta poco prima. In quel momento sentì il sangue scorrergli nelle vene e l’orrore corrodergli le membra. Che diamine stava facendo? La vergogna venne travolta dal disonore, che attanagliò lo stomaco di Ben. Quella fulgida sostanza rossa che gli correva in corpo era un legame indissolubile, una relazione che lo legava innegabilmente a Gwen. Sangue.
– Che cosa sto facendo…–  mormorò Ben alzando il capo. Ed uscì dalla stanza. Cercando di dimenticare.
 
Continua!

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Capitolo 11
*** Pur Sempre Prostitute. ***


Giunsero le quattro del pomeriggio, oltre due ore dopo l’arrivo a casa da scuola dei ragazzi.
Gwen riaprì gli occhi con immane fatica sentendosi qualcosa di morbido sulla testa. Il dolore si era lievemente attutito, ma davvero di poco. Quantomeno si era reso appena appena più sopportabile. La ragazza sgranchì le braccia mettendosi a sedere. Si guardò attorno: sulla scrivania vi era un bicchiere d’acqua, una scatoletta di antidolorifici aperta a metà e un termometro con rispettivo involucro. Vide poi una borsa del ghiaccio adagiata sul cuscino del proprio letto, laddove poco prima v’aveva poggiato il capo. Gwen faceva fatica a ricordare e si sentiva particolarmente spossata ma non poté non notare di essere fradicia di sudore. Si domando quanta febbre avesse potuto avere per grondare a quel modo, così a piccoli passi, preso tra le dita il termometro slacciò i bottoni della camicetta. In un certo senso temeva di aver toccato un picco considerevole così era curiosa di sapere quale fosse. Mentre attendeva il responso udì la vibrazione del cellulare sul piano di legno della piccola scrivania. Era abituata a scattare ma in quel momento anche solo pensare od immaginarsi di farlo le risultava davvero arduo. Si massaggiò le tempie provando a placare il dolore e pian piano poggiò i piedi al pavimento, sopra il soffice e candido tappeto.
– Per la miseria, Gwen, datti una mossa – si disse ad alta voce scostando il copriletto color crema.
Alzatasi, provò a leggere il nome del numero chiamante reggendo con stentata prontezza: – oddio…che sarà successo?
– Pronto… – sussurrò colta da una fitta.
– Gwen, ma che ti succede, tesoro?
– Ho la febbre, mamma… – mormorò la ragazza sentendosi già poco stabile sulle gambe.
– Cosa?! Quante linee? – chiese allarmata Lily Tennyson.
– Ora sto misurandole…
– Capisco.Perché hai risposto?! Ed io idiota a farti stancare…cielo amore, vuoi che chiuda?
– Cosa volevi? – l’ignorò Gwen.
– Sarò breve e concisa – disse la donna ad una velocità impressionante – mi ha chiamato zia Sandra, la mamma di tuo cugino Ben. Hai presente?
– Ho capito mamma,ho solo un cugino, so di chi stai parlando… – Gwen andò a sedersi barcollando.
– Perfetto, ho sempre saputo di avere una figlia sveglia, anche con la febbre sei riuscita a…
– Mamma – la stoppò la ragazza – continua e non divagare oltre – sussurrò Gwen con un filo di voce.
Detto questo si stese e poggiò il capo al cuscino sperando di attutire il dolore. Si pose sopra la fronte madida la borsa del ghiaccio pregando che anche ciò contribuisse.
Udendola spossata, la madre Lily bisbigliò: – scusa, cara. Ho chiamato solo per informarti del fatto che Ben passerà il Natale con noi. Zia Sandra sta per partire ora per un’importante progetto di lavoro. È diretta a Mosca ed ora, di fatto, si trova all’aeroporto. Scriverà un articolo importantissimo, forse questo lancerà la sua carriera. E purtroppo non sarà la sola a non poter passare le feste a casa propria: anche zio Carl sarà destinato alla stessa sorte. Non partirà ma starà fuori città, sempre parlando di lavoro; potrai capire che razza di malaffare, poveri cari,passare il Natale lontani dal figlio e dalla propria famiglia. Da quanto ho capito si sentiranno solo per telefono e chiameranno anche da noi per fare gli auguri. Ma nulla più, ahimè. Sembra per entrambi qualcosa di impossibile da rimandare. Mi dispiace…Ben sarà avvertito a momenti. Gradivo fartelo sapere con il dovuto anticipo, in fin dei conti oggi è il ventuno dicembre e la scuola chiuderà per le vacanze a momenti, dico bene?
– Esatto – disse Gwen flemme – domani sarà l’ultimo giorno. Ma il guaio è che dovrò restare a casa per via di questa brutta magagna…mi secca parecchio.
– Secca anche me saperti malata, ma stasera sarò a casa e ti darò un bacetto prima di partire.
Gwen tacque. “Prima di partire?”.
Affaticata dalla malattia e scombussolata di per sé dalla faticosa giornata, la ragazza sentì il bisogno di chiedere spiegazioni: – cosa vorresti dire…?
– Era proprio qui che volevo arrivare…a Sandra non l’ho detto perché rifiutarle una cortesia mi è parso sgarbato ma…io e papà avremmo intenzione di partire per Madrid questo Natale. Abbiamo prenotato ad aprile e disdire…ci seccherebbe. Per questo ti do il permesso di organizzare qualche festa o magari uscire con alcuni amici. Mi dispiace Gwen ma…lo sai com’è. Devo ricucire quello che resta di me…e tuo padre. Forse…provarci è meglio che divorziare.
Gwen strinse i denti; il suo cervello cominciò a partorire un numero pauroso di pensieri febbrili, ostacolati per altro dal dolore che continuava a martellarla. Faceva una fatica immane a seguire il filo del discorso ma il concetto l’era arrivato. Suo malgrado. Solo dopo essersi morsa con dolore il labbro asserì: – si…è vero. Andate pure. Solo che se voi partite…io e Ben potremmo stare benissimo ognuno a casa propria…
– Era qui che volevo arrivare, amore. C’è una condizione: dovreste restare assieme. Infondo è quello che sa Sandra. Il patto è che rimaniate a casa nostra, anche se io vi do il permesso, come ti ho già anticipato, di poter divertirvi liberamente. Infondo Ben è un così caro ragazzo…
– Capisco… –  borbottò Gwen.
– Però…
– C’è anche un però?
– Gwen…ti voglio bene.
La ragazza rispose piano: – anche io…ma che c’entra…?
– C’è solo una condizione, immagino tu la intuisca, per questo soggiorno natalizio.
– Ora proprio no, dovrai spiegarmela – asserì Gwen.
 
Ben spremette il limone che si fuse all’acqua gocciolando.Dopo essere uscito dalla stanza di Gwen era sceso in salotto, deciso ad aspettare il ritorno a casa degli zii per assicurarsi che la cugina restasse in buone mani. E  per due ore era rimasto in salotto a rilassarsi seduto sul divano.
Bevette il preparato chiudendo gli occhi. Si scoprì a chiedersi a cosa sognasse Gwen in quell’istante. Aprì gli occhi: – che idiota…stupido,stupido idiota.
All’improvviso  il suo cellulare prese a vibrare e il ragazzo si accorse che era in arrivo una chiamata.
– Ben Tennyson.
– Ciao, Ben…
Il ragazzo riconobbe la voce: – Sienna? Come hai fatto ad avere il mio numero?
– Me lo ha dato Gwen…giorni fa. Io e lei eravamo già in contatto, prima ancora che io arrivassi.
– Capisco…di che hai bisogno?
– Veramente…volevo scusarmi.
– Per quella cosa…di prima?
– Esatto…me ne vergogno.
– Mi devi scusare tu…è che proprio…non mi piaci – disse Ben.
Sienna tacque. Lo aveva detto. Esplicitamente.
– Lo so. Scusami. Ora…devo proprio riagganciare.
– Capisco. Allora ciao, ci si vede.
– Certo,Ben.
Quando udì il cellulare ammutolire, Sienna strinse tra le dita il sacchettino rosso.
Cadde sulle ginocchia.
– …è che proprio…non mi piaci…– sussurrò lasciando rotolare l’ombrello aperto a terra.
 
Gwen insistette: – che però dovrebbero esserci? Quale condizione?
– Gwen…mi fido di te.
– In che senso? Spiegati, sto impazzendo… – brontolò Gwen stancamente, appesantita via via dalla magagna. Sentì il capo pulsarle, strangolato dal mal di testa.
–E…spesso…a frenarsi non basta sapere di essere imparentati. Capisci ora? Molte volte non è il cervello a farla da padrone – spiegò sua madre con una certa titubanza.
Gwen ammutolì rimanendo per un istante in silenzio. Sbarrò gli occhi.
– Non vorrei…insomma…non divertitevi a quel modo.
– Stai insinuando che potrei finire a letto con Ben? – chiese interdetta la ragazza.
– Non dirlo così brutalmente!
– Ma è così, è vero?! Tu pensi che possa provare qualcosa per mio cugino…?! Che possa farmi mettere le mani addosso da lui?!
– Gwen io…!             Non è questo, è che…
– E cos’è?! Mamma, ma che vai a pensare? Significa che…non ti fidi di me?
Gwen cominciò a sentir salire la tensione, oltre che un gran dolore fisico.
– Ma che dici, tesoro…è che…– ripeté nuovamente la madre tentando di controbattere.
– Io non… – Gwen si portò una mano alla fronte. L’ansia le bolliva dentro. Tanto quanto la malattia.
– Io non farò una cosa del genere! Hai capito?!
Gwen si sentiva strana: era come se fosse costretta a negare qualcosa in cui aveva sempre creduto. E per questo si spaventò. Le sembrò di vorticare, tanto il cuore le batteva.
– Ma io non lo davo certo per scontato! Ti ho solo messa in guardia! – cercò di placarla la madre.
– Ho capito. Ben starà qui. E ti dimostrerò la mia onestà! – sbottò Gwen irritata.
Detto questo chiuse il telefono in faccia alla madre. Colta dal malessere ancora per una volta, afferrò il blister delle pastiglie e, bevendo un sorso d’acqua, ne inghiottì una.
Non aveva parlato a sua madre di Ben, del fatto che ora si trovasse da lei. Tolse il termometro e osservò a quanto la febbre fosse arrivata. Si scoprì a mugugnare: – trentotto e mezzo…
Sbuffò e si alzò. Prese il bicchiere mezzo tra le dita e uscì piano dalla stanza. Anche se barcollava, decise che sarebbe stato bene non perder tempo a letto. In tali circostanze avrebbe fatto quanto (e più) in suo potere per alterare quell’idea perversamente malsana.
 
Ben sedette sul divano e ad un tratto vide il cellulare illuminarsi. Si lamentò: –  ma che vogliono tutti…?!
Rispose bevendo l’ultima sorsata d’acqua.
– Tesoro!
– Mamma! Che è successo, non dovresti essere al lavoro? – chiese allora Ben sentendo uno squittio familiare dall’altra parte della cornetta.
– Ben, amore mio!
– Oh, per favore – Ben si passò una mano lungo il viso con aria sconcertata – potresti evitare queste…sdolcinatezze?
La madre sbuffò e rispose: – se evitassi queste “sdolcinatezze”…so che mi odieresti. Perché hanno un significato estremamente preciso…Ben, ora ascoltami bene.
Il ragazzo si preoccupò udendo il tono di voce resosi flebile e particolarmente strano della madre.
– Io ora sono all’aeroporto, Ben. Devo patire, e potrai intuire per quale ragione. Lavoro, lavoro e sempre lavoro. Lo so che la cosa è una novità ma…tra pochi giorni sarà Natale…ed io…
– Che c’entra, sarai a casa per quella data, vero? – proruppe Ben.
– Ecco…
Sandra Tennyson sospirò profondamente.
– Non esattamente…
– Vorresti dirmi che lavorerai a Natale?! – convenne il giovane.
Ben si accorse di aver urlato e per questo aggiunse a bassa voce: – che storia è questa, il Natale è sacro me lo ripeti da quando sono nato, sono stato obbligato a passare ogni singola, dannata vigilia in famiglia, ogni maledetto venticinque dicembre con i parenti. Ed ora che ho sedici anni, lo ripeto, sedici!, e ho fatto di tutto per liberarmi mi dici che resterò con papà?! Solo come un idiota?! A brindare in due?! E per cosa poi?!
– Veramente…papà starà fuori città. Ma, ho per te anche una buona notizia! – cercò di ammorbidirlo Sandra.
– Che cosa?! Cristo…voglio proprio sentire – asserì il ragazzo assumendo un tono parecchio indispettito e sarcastico. Stava innervosendosi sempre più.
La donna sbuffò: – amore, non mi aiuti se fai così.
Ben tacque, rabbioso. Stava cercando di controllarsi. A fatica.
– Vedi…ho pensato che…sarebbe carino se magari…ecco…questo Natale tu e Gwen…potreste passarlo assieme dagli zii.
Ben smise persino di respirare, come sconvolto.
– Che cosa?! – abbaiò poi d’improvviso alzando pericolosamente il volume della voce. La rabbia combatteva furiosamente per potergli uscire di corpo.
– Ben, non strillare!
– Come potrei non farlo, mamma?! Mi costringi a passare il Natale con Gwen, capisci?! Con Gwen! Lo sai che non l’ho mai sopportata, lo sai che la odio!
Ben pronunciò quelle parole senza molto rifletterci. Anzi, proprio non lo fece.
Alle sue spalle si udì lo scroscio di un bicchiere andato in frantumi.
Si voltò: – …Gwen…!
Ben lasciò cadere il cellulare a terra terminando la chiamata bruscamente: – Gwen…
La cugina abbassò il volto. In un primo momento fu incapace di proferire parola poi, brusì qualcosa tanto piano che Ben non riuscì a capire.
– Cosa? –  chiese Ben preoccupato.
–  …mi fai schifo…– sussurrò la ragazza.
– Aspetta, non fraintendermi – intervenne il cugino incrociando le mani davanti al petto.
Gwen alzò il capo mordendosi il labbro superiore. Una lacrima le solcò il volto: – cosa…
Ben si sentì terribilmente in colpa. Era pronto a inghiottire quanto detto pur di cancellare quel segno così evidente di sofferenza dal volto di Gwen.
– Cosa c’è da fraintendere?! Cosa potrei equivocare?! Sei stato così esplicito! – urlò Gwen afferrando il vaso in acciaio poggiato sul tavolino posto accanto la scalinata (puro vezzo ornamentale).
– Aspetta ti dico! Fammi spiegare! – riprovò Ben spaventandosi.
– Non capisci che non ti voglio ascoltare?!
– Gwen…ho sbagliato, ma…!
Senza accorgersene, Ben si tastò il polso dove un tempo s’allacciava l’Omnitrix.
– Sta zitto…
Il volto di Gwen si piegò ora in una smorfia di dolore. Che più che fisico era partorito dalla sofferenza psicologica che in quel momento la giovane provava. Il sangue che sgorgava dalla ferita apertasi nel suo cuore inondava il suo corpo di congetture,fitte, spasimi, assopiva la ragione e l’accecava d’odio. Gwen alzò ulteriormente la voce: –  maledetto…perché io perdo il mio tempo con te?! Perché mi dici frasucole poetiche sotto la pioggia scrosciante e poi blateri di non soffrirmi?! Perché sei così difficile da capire, perché dell’eroe che eri è rimasta solo una lagnosa e falsa femminella smarrita che si preoccupa solo di vivere alla giornata?! Dimmi perché, Ben! Perché?! Per quale sciocca, intricata, perversa ragione?!
Ben tacque abbassando il capo. Gwen stava reagendo in modo esagerato. Solitamente lo avrebbe preso in giro, messo a tacere con una delle sue battute ironiche. Ma ora no.
Gwen sentì la collera salire. Orribilmente, in modo incontrollabile.
– Io non sapevo quello che andavo dicendo – ammise Ben con il cuore in mano.
– Sei così falso da farmi venire voglia di vomitare, Ben – sussurrò Gwen.
– Non dire così…– sofferse il ragazzo.
– Taci…fai solo finta di non capire – sbottò Gwen corrosa dalla rabbia.
– Ti prostituisci alle occasioni, Ben. È tutto quello che sai fare…– mormorò Gwen abbassando le braccia e lasciandole scivolare.
– Adesso sta zitta tu!- rimandò Ben irritatosi.
La ragazza si spaventò. Sembrava che quella frase avesse risvegliato l’istinto combattivo del cugino.
– Perché ti arrabbi così tanto?! Perché?! Che ti importa di me?! Ti sei mai curata di quello che facessi?! Di come vivessi?! E soprattutto se vivessi?! Smettila, per l’amor del cielo, prima che ti prenda a schiaffi, taci una buona volta con quella tua bocca sporca di continue sentenze, taci,miseria,taci! Impara a guardare anche agli altri e non solo alla tua stupida sopraelevazione del cazzo!
Gwen sbollì d’improvviso, smembrata da quelle parole così ruvide e taglienti.
– Perché te la prendi se ho detto di odiarti?! Ognuno dice quello che pensa. Dovresti saperlo visto che non aspetti mai un attimo a guastare e criticare con quella lingua lorda di giudizi il quieto vivere degli altri!
Ben si avvicinò alla cugina e la prese per il colletto della camicetta, mentre lei abbassava il capo.
– Dai a me della femminella…dici che sono falso…ma tu che sei? Una schiava del moralismo, Gwen. Pur sempre una prostituta, tanto quanto di colei ch’ipoteticamente dai a me. Rifletti bene su questo.
Avvicinò la sua bocca all’orecchio di Gwen: –  impara a non sopravvalutarti troppo, maestrina di vita.

Continua!

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Capitolo 12
*** Egemonica Veemenza. ***


Sandra Tennyson rimase esterrefatta dalla maniera bruta con la quale il figlio le aveva chiuso il telefono in faccia. E mormorò stizzita: – e va bene, anche se stavo per cambiare idea ora Ben rimarrà di per certo da sua cugina per il Natale. Così almeno imparerà quelle che sono le buone maniere.
Dettasi questo, prese posto sul suo aereo.
 
Gwen alzò lo sguardo. Con un sussurro gelido e tagliente mormorò : – toglimi le mani di dosso.
Ben la lasciò andare facendola cadere.
– Misura la violenza, demente – brusì gelida Gwen.
– Non mi tocca quello che pensi, Gwen.
– Dovrebbe, visto che passeremo il Natale assieme.
– Lasciami in pace.
– Certo che no! – ribadì la ragazza.
– Senti, Gwen…smettiamola di litigare, potrebbero esserci altre vie per… –  cominciò Ben massaggiandosi la fronte e ripromettendosi di temperare le frasi.
– Ben, evita di fare il pacifista. Voglio che mi spieghi. Perché ce l’hai così con me?! Dimmi che ti ho fatto, idiota!
– Idiota…? – mormorò dunque il cugino afferrandosi la lingua tra i denti dalla rabbia.
– Sei anche sordo?! – rimandò la ragazza assottigliando lo sguardo e tramutandolo in un’inconfutabile espressione di disprezzo.
– Io eviterei di insultare così gratuitamente, fossi in te.
– Ben…parli di me…ma non ti sei mai guardato indietro?! Che curriculum umano hai?! Una carrierucola da alieno protettore del mondo? – Gwen scoppiò a ridere – O magari un completo imbecille che grazie ad un orologio misterioso è diventato un…eroe?! Oh, certo, misericordia! Sciocca, sciocca, sciocca Gwen, come hai potuto dimenticartene! Hai davanti Mister Universe Hero! Ma chi è?! Chi sei, Ben?! Se vuoi sapere quello che penso io…un emerito balordo che ha vissuto della gloria riflessa di una tecnologia non pensata per lui, un cretino che per l’accondiscendenza del Fato si è assicurato l’ascesa al successo!
In quella il ragazzo non ci vide più. Fu come se venisse accecato improvvisamente. Credette di non ricordare persino più il suo nome ma seppe solo di avere un unico obiettivo. Ed allora le prese il braccio, riafferrandola con violenza.
– Ripeti – sussurrò dunque.
– Lo vedi? – brusì Gwen stringendo i denti trafitta dal dolore.
Ben tacque.
– Ricorri a mezzucci per la tua perversa sete di supremazia.
– Gwen, sto per farti davvero male. Sta zitta, per l’amore di Dio!
– Fa di me ciò che vuoi, non ho intenzione di tacere!
Il ragazzo persistette nel stringerle il braccio con una violenza ed uno sguardo non suoi.
– Ben…anche se mi romperai il braccio…anche… – Gwen ansimò – anche se mi ucciderai…il male più grande che mi hai fatto patire…l’hai commesso poco fa. E non…fisicamente.
A quelle parole lo sguardo di Ben morì e Gwen, liberatasi con uno strattone gli voltò la faccia con un manrovescio : –e tieni le mani in tasca!
Ben era immobile. Quella misteriosa voracità di egemonia era svanita. Ed ora, parve tornare in sé. Lasciò scivolare il braccio di Gwen.
 
Sienna si sentì coprire la testa da una mano.
Alzò gli occhi colmi di lacrime e vide una figura stagliarsi di fronte a lei, con un ombrello in mano.
– Butcher! – esclamò quello che si dimostrò essere un ragazzo.
– …Kevin…!- mormorò Sienna alzandosi.
Il ragazzo sorrise: –  mi dici perché piangi?
– Mi ascolterai per davvero?
– Mi sa proprio di sì – rispose il giovane carezzandole la testa.
Sienna s’alzò e, mordendosi un labbro, gli prese la mano stringendola via via più forte.
– Ne ho…bisogno.
 
Ben non era riuscito a far durare la rabbia dopo essere stato abbandonato da quella curiosa e sconosciuta violenza. Forse perché vedere Gwen lottare con tutte le proprie forze in quelle condizioni lo inteneriva e spaventava allo stesso tempo, forse perché era maledettamente stanco. O forse perché era rimasto ferito dalle parole dette dalla cugina pochi secondi prima. Gli pareva d’essersi acceso, infuocato di rabbia, e poi spento, come se il suo cervello avesse per un attimo perso il comando della sua ragione. Tant’era…
Gwen s’era seduta a terra dopo aver risposto con uno schiaffo alla violenza subita, rimasta offesa , stremata,ferita. Il braccio le cadeva lungo il corpo, inerme. A poca distanza, il vaso in inox che era caduto a Gwen poco prima.
Ben la guardò e si udì divorare dal senso di colpa. Era come se l’avesse picchiata senza sapere di farlo, privo di consapevolezza. Come se qualcuno avesse abbuiato la sua ragione.
– Gwen…– sussurrò Ben.
In quel momento gli tornarono alla mente le parole pronunciate da Gwen. “ Mi manchi”. Il senso di colpa cresceva e Ben ormai non lo sopportava più.
La ragazza non gli rispose, in ogni caso.
– Sto per dirti una cosa importante…volevi chiarire con me circa quello che ho detto, ora ti spiegherò tutto. Basta che mi ascolti.
– Come pretendi che lo faccia dopo che mi hai picchiata ed insultata…–  ribatté Gwen con un filo di voce.
– Se mi scusassi…sembrerei ancora più patetico di quello che ora credi io sia. Però…prima che io inizi a parlare…
Ben abbassò il capo ma le tese la mano: – …ti prego…
Per Ben tutto cominciava a farsi più nitido: aveva una sua interpretazione di quelle parole. Sapeva che, se correttamente da lui comprese, allora le avrebbe condivise. Perché Gwen gli mancava.
Gwen sollevò lo sguardo, alzandosi.
Suo cugino disse: – dimmi ancora una volta e spiegami cosa significa che ti manco. Perché…se è come la capisco io, da perfetto ignorante…da idiota…da imbecille…anche tu mi manchi, Gwen.
Gwen impallidì: –…cosa? Tu…mi mancheresti?
Ben tacque. Sconcertando per un attimo tra sé.
– Aspetta…aspetta! Io non ho mai detto…non ti ho mai…e allora come fai tu a…? –  balbettò la ragazza.
Come era riuscito Ben a leggere dei pensieri così segreti e nascosti nella sua mente? Lui le mancava, era vero, ma il vero significato di quelle parole lo sapeva solo lei, lo aveva celato dentro di sé con gelosia. Ed allora come aveva fatto, lui, il suo repellente cugino, a leggere quella piccola riflessione tra quegli occhi che Gwen aveva sempre creduto mostrare gelidi e distaccati? Come aveva potuto infiltrarsi così profondamente in lei? La vergogna, il bollore della febbre, il fuoco della rabbia l’accecarono. Ben rimase zitto a fissarla con aria sottomessa. Gwen si sentiva violata, ugualmente odiava sé stessa per riuscire a prenderla con quella versione così assoggettata di Ben, la sua mente si ripeteva unicamente quelle poche parole che l’avevano mandata in tilt.
Gwen strinse le dita al vaso in inox che aveva abbandonato poco prima: – smettila…
– C’è chiaramente qualcosa di sbagliato, un malinteso! Come fai a dire questo?! Quando ti avrei parlato di una cosa simile…? – sbottò.
Ben aggiunse: – ascoltami, non obiettare su come me lo hai detto. Ti chiedo solo di rispondermi.
Ed in quella, incredibilmente, cadde sulle ginocchia mentre gli occhi increduli della ragazza lo percorrevano da capo a piedi chiedendosi con ansia come avesse fatto a mettere i suoi pensieri così a nudo.
– Gwen…
La ragazza lo prese per il colletto, quindi riportandolo sulle due gambe.
– Stai delirando, che discorso stai facendo?! Sei passato…di palo in frasca! Sei strano, Ben! Te ne vieni fuori con queste domande dopo che mi hai pestato, cambi totalmente carattere, mi fai queste domande essendo a conoscenza di qualcosa che io…non ti ho mai detto! Ben, che ti succede?!
– Spiegami solo, Gwen. Dimmi il perché di quelle parole…da quando le ho sentite si è attivato un meccanismo che mi ha fatto andare fuori di testa, che mi ha fatto dire e fatto fare cose che…non mi appartengono! Per ciò…
– Le cose che dici “non ti appartengano” però…le hai fatte lo stesso! – obiettò Gwen sentendosi rigare le guance dal pianto e risentendo sulla pelle il bruciore della violenza – e allora…
– COME PRETENDI CHE TI VENGA INCONTRO?! – urlò scagliandoglisi addosso. Sentiva come fosse un flashback tattile più che visivo la stretta di Ben sul braccio, le sue urla, le sue parole che scandivano di odiarla, tutto il dolore che stava patendo. E non vi fu più modo di riportarla alla ragione; strinse forte tra le dita il vaso d’acciaio. Ed ora la sete di vendetta era sua.
 
Fu un attimo, un mezzo secondo. Fu talmente veloce che Ben chiuse gli occhi con forza, aspettandosi uno schianto violento, non potendo fare altro. Ma li riaprì dopo poco sentendosi scivolare addosso il corpo della cugina e udendo cadere a terra con un tonfo assordante il vaso in acciaio che precipitò rimbombando per del tempo.
– Ben…– pianse Gwen.
– Che c’è…–  sussurrò il cugino.
– Non so perché…– mugugnò Gwen avvolta alle sue gambe, con voce rotta dal pianto.
– …ma non riesco ad ucciderti, Ben…
Il ragazzo rimase immobile, lasciò solo cadere le braccia lungo il corpo in segno di resa.
Con orrore si sentì anch’egli gremire gl’occhi di lacrime. Ora sì, ch’era ridotto a piangere come una femminella. Si trattenne con tutte le proprie forze, rendendosi conto di quanto sfacciato era stato e vergognandosi come un ladro.
 
Il chiacchiericcio del bar più frequentato della città invase il capo di Sienna.
– Sei sicuro che va bene se ci fermiamo qui? Le tariffe sono…come dire…elevate – avvertì allora.
Kevin ribatté: –  lo sai che mi piacciono le cose raffinate!
Sienna sorrise e mormorò:- certo che sei sempre uguale!
Il ragazzo le indicò un tavolo e, nel farlo rispose:- no, più che altro…ho concluso certi paragrafi del mio racconto di vita.
Sienna lo guardò e poi abbassò il capo:- a chi lo dici…
Accomodatisi entrambi, Kevin aggiunse:- Cerca di dimenticare. Lo faccio anche io.
– Lo proverò a fare…
– Le tue ragioni sono migliori delle mie – scandì Kevin prendendo il listino – lo sai benissimo.
– Potrebbe essere ma avrei potuto evitarmi uno schifo del genere – rimandò Sienna imitando il gesto del ragazzo.
– Sienna, ognuno si arrangia come può e con i mezzi che ha. Per questo non troverei motivo di rimproverarti.
– Capisco…
Un cameriere si portò al loro tavolo e , con un sorriso esagerato disse:- salve ragazzi, avete scelto?
Kevin diede un’ultima occhiata alla lista di bevande e poi all’orologio a muro del locale:- visto e considerato che sono le quattro e mezza del pomeriggio mi accontenterei di un bicchiere d’acqua.
– Cosa? – Sienna era incredula.
– Perfetto – il cameriere scribacchiò sul suo taccuino in pelle nera e poi si rivolse a Sienna:- e la signorina?
– Lo stesso…grazie.
Il giovane delle ordinazioni allora se ne andò.
– Mi sono sbagliata…sei cambiato! – assentì Sienna sbarrando gli occhi.
– Ho dovuto…perché stavo davvero uccidendomi da me…–  rispose Kevin.
La ragazza abbassò lo sguardo.
 
Ben si piegò sulle ginocchia e scostò le braccia di Gwen che scivolarono senza opporre resistenza. Per rompere il muro eretto dal disagio la ragazza, strofinandosi gli occhi con la manica della camicetta,mormorò:– Sarà meglio raccogliere i resti del bicchiere .
A dire il vero non era ciò che la interessava maggiormente. Più che altro desiderava allontanarsi da Ben. Si alzò ed andò ad accovacciarsi nella zona ove aveva avuto origine il violento litigio di poco prima. Gwen avvertiva il pianto premere ma, mordendosi il labbro fino a farsi male, si decise a non cedere. Cominciò a collezionare ogni tessera di quello che era stato un bicchiere sul palmo della mano destra, barcollando tra le proprie supposizioni. Ben si chinò ad aiutarla prendendone anch’egli qualcheduno tra le mani. Il silenzio si impadronì allora della stanza strozzandola in un abbraccio privo d’amore e lasciando scivolare addosso ai cugini un senso di forte disagio. L’unico rumore udibile era il ticchettio di un vetro su di un altro. Null’altro, nemmeno il grido avvilito del senso di colpa,che rodeva entrambi.
 
Gwen si tagliò: se ne rese conto avvertendo un fastidiosissimo, improvviso formicolio all’indice. Il sangue sgorgava in maniera particolarmente decisa, appiccicandole addosso un certo disagio; nonostante avrebbe voluto mettere un cerotto, preferì tacere l’accaduto a Ben,che pareva non aver visto nulla. Era convinta di avergli procurato fin troppe noie per lasciargli persino disinfettare le proprie ferite. E dunque restò zitta, proseguendo la pulizia del pavimento e badando capillarmente di non far notare il dito macchiato al ragazzo, piegandolo qualora incontrasse il suo sguardo.
D’un tratto, però,Ben e Gwen si sfiorarono le mani, intenti a prelevare il medesimo pezzetto di vetro. In quella Gwen scostò il palmo più fulmineamente che poté. Senza darsi molte spiegazioni. L’atmosfera gravava pesante sul suo corpo schiacciandola contro la sorte che si era cercata. Se avesse taciuto e tralasciato i commenti di Ben su di lei forse avrebbe evitato tutto quel trambusto e, soprattutto, l’acceso diverbio verbale. Toccare Ben le pareva qualcosa di vietato. Come se nel farlo la sua dignità si assottigliasse. Si vergognò. La malattia che le ruggiva dentro cominciava a gravare sulla povera ragazza che chiuse per un momento gli occhi, esausta.
– Non è necessario che tu lo nasconda – sospirò improvvisamente Ben.
Gwen si risvegliò bruscamente dai propri pensieri grazie a quella frase detta così seccamente. Attonita, forse per meglio dire spaventata, si lasciò scappare un gemito. Il perché si sentisse così agitata preferiva tralasciarlo.
– Fammi vedere la mano – ordinò Ben protendendo la propria verso la cugina.
– Guarda che è solamente un piccolo taglietto, non sanguina nemmeno tanto, non è necessario che…
– Dammi la mano. A bocca chiusa, magari.
Gwen provò tanta vergogna da tremare, ma obbedì senza obiettare. Quasi si rattristò nel sapere che Ben si fosse accorto in così poco tempo di quanto sperava di nascondere.
Porse allora la mano sporca, tracciata da un singolo e proteso rivolo di sangue che gattonava fino quasi il polso.
– Un piccolo taglietto? – mormorò sarcastico il ragazzo.
La cugina tacque.
– Idiota – convenne Ben – se la lasci così rischia di fare infezione o peggio, di infilarsi qualche pezzo di vetro…sei una secchiona ma queste cose non le sai.
Gwen non rispose, si limitò ad abbassare il capo. Non era mai stata così mite con Ben. Mai. Lo aveva sempre ripreso, odiato, criticato, non s’era mai veramente curata di lui, mai interessata. Ed ora faticava a parlargli. Si augurò che fosse la spossatezza della febbre, teoria nemmeno tanto sbagliata giacché oltre a vorticarle la testa si sentiva diversa dal solito. Molto.
– Aspettami qui, vado a prendere il disinfettante. – affermò Ben alzandosi.
– Sì… – rispose Gwen sentendosi abbandonare la mano.
 
Ad ordinazioni arrivate, Sienna e Kevin videro con piacere che, come omaggio, il locale aveva offerto una piccola ciotola di patatine. E così ripresero a parlare del più e del meno, di amici e vecchie conoscenze, illuminati dalla luce calda e colorata delle lampade che pendevano dal soffitto.
Improvvisamente Kevin chiese:- non mi parli un po’ delle persone che sei venuta a trovare?
Sienna allora sussurrò: –  ti annoierei…
– Mi permetto di dissentire… –  le sorrise Kevin.
– Mah…si tratta di vecchi amici d’infanzia. Ora abito in Canada ma da piccola, fino a una certa età, io e i miei vivevamo qui. Ben e Gwen, gli amici di cui ti parlo, risiedono qui negli States e per le vacanze, che da noi sono cominciate circa una settimana fa ho deciso di venire a fare un tuffo nel passato.
– Capisco – brusì Kevin – ma ho un dubbio.
– Quale?
– Non prendermi in giro Sienna…qui le vacanze cominciano ufficialmente domani, lo so per certo per via di Julie. Come fate voi canadesi ad essere già in ferie dal…quattordici dicembre?
Sienna arrossì: – ecco…
– Hai marinato! – indovinò Kevin.
– Tanto non devo renderne conto a nessuno! – ribatté lei trovando scoperti i propri piani.
– Non mi pare una buona ragione…– obiettò il ragazzo.
– Senti, mi sono fatta il viaggio in autostop, che altro potevo fare?!
– Prendere un treno…?
– Ero senza un soldo!
Kevin la guardò storto:- Ma se navighi nell’oro! O hai sperperato tutta l’eredità in…
Sienna lo bloccò per tempo: –  tu non ne sai nulla, Kevin.
– Mi ricordo tutto, invece!
– Io…per l’amor del cielo, posso fare quel che voglio! A chi dovrei far firmare le giustifiche, a delle lapidi? Marino spesso. E i miei zii se ne fregano.
Kevin Levin gelò : – essere orfana non è un valido motivo per buttare a puttane la propria vita così!
 
Ben scese le scale, di ritorno dal bagno. Gwen gli vide tra le mani solamente una scatola di cerotti e dunque chiese: –  l’hai trovato, il disinfettante?
Il cugino evitò di rispondere e, sedutosi, raccolti gli ultimi frammenti di vetro, prelevati quelli che aveva radunato Gwen ed infine rialzatosi in piedi scomparve in cucina.
Gwen era sbigottita. Attonita, basita, incredula, smarrita, allibita. Corrugò le sopracciglia ma evitò di trarre conclusioni, generalmente perché in quell’istante faticava anche solo a ricordare come si chiamasse e dove si trovasse.                                                                                 
Udì solo un lieve cigolio di ante, lo scroscio di dei vetri all’interno di quello che le parve un contenitore e il richiudersi degli sportelli. Solo allora realizzò.
Ben ricomparve: –  ho buttato il bicchiere nel contenitore azzurro, quello del vetro, vicino la pattumiera.
– Come facevi a sapere che…? – commentò Gwen.
– Sono comunque un membro della famiglia, ti ricordo…ci sono già stato qui. Poco, ma ci sono già stato.
– Scusami…
Gwen si chiese perché gli avesse posto le proprie scuse. Di solito lo avrebbe zittito malamente.
– Passiamo ora ai problemi secondari – ridacchiò Ben prendendole la mano.
– Cosa?! – ribatté Gwen stizzita.
Quel minuscolo e brevissimo istante la riportò alla loro infanzia, ai loro momenti spensierati tra una lite e l’altra.
– Scherzavo.
– Come pensi di fare senza disinfettante ? – sorrise Gwen.
Ben la guardò.
– Alza il dito – ordinò.
– Quale?
– Quello che sanguina, stupida! – puntualizzò il ragazzo.
– Eccolo…– sussurrò lei.
Gwen non fece a tempo d’alzare gl’occhi che arrossì violentemente.
 
Continua!

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Capitolo 13
*** Quanto Non si Dovrebbe Dire. ***


 Ben si portò alla bocca il dito imbrattato di sangue di Gwen e, guardandola negli occhi, cercò di bloccare l’afflusso insistente del sangue succhiando. Era la più ovvia e popolare tecnica fai-da-te che aiutava in casi analoghi. Gwen abbassò lo sguardo, spaventata ed attratta allo stesso modo da quel gesto. Ma le parole di sua madre le continuavano a rimbombare in capo mettendole una certa ansia. Via, si disse, le stava solo disinfettando una ferita. “Sì ma…” pensò Gwen “perché mi sento così maledettamente ansiosa?”. La rielaborazione psicologica che andava via via contornando l’accenno dato dalla madre preoccupò Gwen.
Ben, dal canto suo, si sentì quasi mortificato nel vederla abbassare il capo.
Così mormorò: – toglilo…se ti fa schifo.
Gwen sentì il cuore rullare come impazzito. Era solo una stupida domanda, per la miseria. Eppure era così dannatamente difficile decidere. Si sentiva in colpa. Se avesse però persistito quella cura così disinibita avrebbe provato rimorso verso sua madre ed il proprio orgoglio che le imponevano la massima castità. E se avesse risposto male a Ben? In fondo la stava aiutando. E poi era suo cugino.
– No…non…
Ben la osservò cominciando a crucciarsi. Gli pareva di aver pronunciato una terribile bestemmia in Chiesa, di aver violato un territorio inaccessibile. Forse era stato un po’ sfacciato.Allora fece per sfilare il dito.
Gwen però, ancora per una volta distogliendo lo sguardo, con una mano lo bloccò. E disse: – non voglio. Lascialo…lì dove sta.
Ben allora non contestò.
 
Sienna osservò Kevin mentre la rimproverava. Sapeva di aver sbagliato e di meritarsi una buona lavata di capo, ma forse un pochino si scusava. Scusava se stessa per essere così permissiva nei propri confronti. Perché infondo, si disse, essere soli di fronte al proprio destino non era poi male.
 
– Forza…– mormorò Ben prendendo Gwen in braccio – ce ne siamo dette abbastanza, per oggi.
La ragazza tacque ma poggiò il capo al collo del cugino respirando piano e profondamente. Il torpore che le bolliva in corpo si mischiava danzando a quello del petto di Ben. Gwen si sentiva stanca, sfibrata dalla lite come pure dalla malattia, dal proprio egocentrismo e soprattutto da quella giornata così densa e ricca d’emozioni complesse. Ma anche appagata dalle attenzioni che il cugino si prodigava a farle avere.
Ben varcò la soglia della camera da notte di Gwen e l’adagiò sul letto adoperandosi a sistemarla come meglio poté sotto le coperte. Il sangue gli gorgogliava turbinoso e bollente nelle vene e martellava il suo cervello, ingarbugliato di pensieri. Non sapeva perché ma lasciò correre. Sospirò esasperato e sedette per un momento ai piedi del letto, dopo essersi accertato che alla ragazza non mancasse quantomeno lo stretto necessario. Cominciò a riflettere riavvolgendo ogni episodio di quella stupida giornata. Cominciava a vedere Gwen come fosse quasi un’amica, più che una cugina. Ripensava a con che sguardo lo aveva contemplato, come avesse subito, seppur per poco, le percosse pur di averla vinta intellettualmente. Era maledettamente forte, sostanzialmente a livello razionale. E iniziava ad avere grosso peso su di lui. Ben si accorse che, scorrendo i fotogrammi della loro lite aveva ripetutamente osservato le movenze del corpo di Gwen. Erano così diverse da quelle di un Tennyson da inculcare qualche dubbio. Ma i suoi capelli erano rossi, i suoi occhi verdi. E quella strana speranza che Ben non si rese nemmeno conto di stare coltivando, svanì sotto i suoi occhi.
– Che fai? – chiese Gwen con un sussurro.
– Vuoi che me ne vada? – mormorò Ben facendo per alzarsi in piedi. Forse Gwen desiderava riposare.
– No – lo fermò Gwen sfiorandogli il braccio sinistro con le dita.
Prendendo con delicatezza un risvolto della felpa di Ben aggiunse: – …ti ho solo chiesto cosa stai facendo…non posso?
Ben rimase zitto, assottigliando gli occhi in una smorfia stanca. Si lasciò scivolare a terra ancora una volta.
– Passeremo il Natale assieme… – asserì allora Gwen.
– Esatto…
– Mia madre mi ha telefonato prima…i miei partiranno per Madrid. E saremo da soli
Ben tacque solamente.
Calò il silenzio. Ancora.
– Era…vero quello che hai detto…di me? – domandò poi Gwen cercando di spezzare quella barriera chiamata “silenzio”.
– Cosa ho detto? – chiese Ben.
La ragazza titubò per un attimo poi specificò: –  che mi odi.
Ben sospirò: – non lo so. Mentirei se ti dicessi di no.
Gwen si sentì come se le fosse stata data una poderosa sberla.
– Ma infondo – aggiunse Ben – non importa né a me né a te, alla fine, quindi possiamo pur lasciar correre. Sai che parlo senza ragionare.
– La smetti di comportarti così?! – sbottò Gwen scostando le coperte con violenza.
– Io mi comporto come sempre…– obiettò Ben.
– Menti! – Gwen alzò la voce.
– No…
Gwen scese dal letto, accovacciandosi accanto al ragazzo: – Piantala! Ben…non raccontarmi storie…! Dovremo passare le Feste assieme, chiariamoci: ti scongiuro. Non potrei sopportare di vederti così. Prima mi odi, poi mi soccorri, poi urli, poi mi picchi!, poi, poi, poi! Che ti succede?!
Ben spostò lo sguardo altrove. Improvvisamente si scoprì a cercare una via di fuga da quella situazione di contatto. Vide solo le dita e le mani affusolate e morbide di Gwen posarsi sul suo braccio, il suo corpo farsi più vicino; sentì il suo profumo crearsi un varco sino alle viscere più nascoste della sua mente (e del suo corpo). La vicinanza faceva paura, o meglio, ne era intimidito personalmente. Ben avvertì un pericoloso torpore in sé e, sicuro che un contagio influenzale non potesse chiaramente essere sviò lo sguardo provando a pensare a quanto bello fosse il mondo ( od altre corbellerie).
Gwen però era seria e cercava a tutti costi un chiarimento; era una persona concreta, non solo molto intelligente, e proprio per questo voleva dipanare ogni dubbio. Ormai la pietra era stata gettata.
– Mi guardi?! – insistette dunque scuotendo le guance di Ben.
Ben entrò in ansia. Che gli succedeva? Stava man mano preoccupandosi. Doveva stroncare quella situazione così pericolosa prima che accadesse qualcosa. Cosa stesse per “qualcosa” preoccupò il ragazzo.
– Non…
– Non toccarmi!– disse poi allontanandola con uno strattone.
– Ben…! – ribatté scocciata la ragazza cadendo di schiena.
– Gwen, sant’Iddio! Smettila di provocarmi, di toccarmi, di parlarmi! Fai le cose con una naturalezza scandalosa! E magari nemmeno ci pensi!
– Che? – balbettò la cugina turbata da quell’ennesimo cambiamento.
– Maledizione, ti è così difficile capire che, visto il tempo che dovremo passare assieme, ho una grossa, enorme, assurda responsabilità?! Tu vuoi spiegazioni, chiarimenti…ma non pensi mai che tante volte sradicare da sé stessi ed ammettere qualcosa di intimo possa risultare complicato? Che diamine, sveglia! Io sono pur sempre un ragazzo, Gwen! Tuo cugino, benissimo, ma un ragazzo!
– Un ragazzo? – ripeté confusamente Gwen.
– Esatto! Non capisco perché i nostri genitori abbiano accettato una simile situazione! Non è perché siamo parenti che io diventi  improvvisamente un essere “neutro”! Capiscimi, Gwen! Se sei un adolescente di sedici anni, chiuso in casa con una ragazza che, ok, è tua cugina ma fondamentalmente è una femmina, certe volte non è poi così scontato riuscirti a controllare! E inoltre, te ne arrivi tu che mi ti si appiccichi addosso come una…!
La voce di Ben tremolò. Il suo viso era acceso da un profondo rosso carminio, evidente marchio dell’imbarazzo cosicché lo nascose tra le mani madide.
Gwen rabbrividì: –  cosa…?
– Hai capito…- mormorò Ben sempre più rosso e agitato. Si sentiva male ad ammettere quelle cose.
– Ma io mi fido di te, sei mio cugino…– sussurrò allora corrugando la fronte con una vena di preoccupazione nella voce.
Ben si strofinò la fronte con ansia e proruppe: – Te l’ho spiegato, ti ho parlato di questo…! E comunque sono io! Sono io che…mi presto a dirti queste cose, avrei potuto tacere, idiota, idiota che non sono altro! Se fai così potrei non rispondere più delle mie azioni…
– Tu mi metteresti le mani addosso?! – mormorò la ragazza spaventata. Le parole della madre le rimbombavano in capo, ossessionandola e imbottendole il cervello di pensieri ed illazioni.
– Non intendevo questo! – convenne Ben ripresosi – certo che no! È che…! Maledizione!
A dire il vero non era molto convinto del fatto di “non intendere proprio quello” . Una gran confusione gli soffocò il capo.
– E allora che altro? – domandò la ragazza sempre più tesa – che altro volevi dire?! A che alludevi?! Spiegami!
– Cerchiamo di fare i bravi cugini… ecco - asserì il ragazzo inquieto.
– Io non capisco, Ben… – si lamentò Gwen sgomenta.
– Mi stai mettendo in seria difficoltà, Gwen! Cosa c’è da capire?! Se non ve n’è motivo non vedo come io possa…toccarti. Ti ho solo detto di non appiccicarti a me, Cristo!
Gwen tacque, rannicchiatasi in un cantuccio. Quindi vi era la possibilità che la predizione della madre si avverasse? Tremò; non capiva più nulla, il senso di quelle parole, il loro suono: le pareva tutto così strano e privo di significato da impazzire, avvolgerle il capo in una stretta di incomprensione poderosa. Non sapeva più cosa fosse realtà e cosa fosse parto della propria mente. Dunque si sentì una domanda nascere in gola; una domanda la cui eventuale risposta le metteva una paura folle. Ma che doveva fare per salvaguardare la propria incolumità.
– Ben…io…ti faccio venire voglia…?  – mormorò allora abbassando gli occhi.
– Che stai dicendo?! – balbettò Ben arrossendo selvaggiamente.
– Nulla! –  mormorò Gwen imbarazzandosi.
Calò un certo e dispotico silenzio.
– Me ne vado…ho creato fin troppi disastri oggi… – disse allora il ragazzo facendo per alzarsi nuovamente.
Gwen prese tra le mani la gamba di Ben facendolo quasi inciampare: – smettila di dire sciocchezze!
– E tu smettila di toccarmi, lo capisci o no?! – ribadì il ragazzo quasi urlando.
– Voglio fare finta di non capire!– asserì Gwen.
Il cugino rimase ad occhi sgranati. 
Gwen iniziava a intendere. La paura parve attenuarsi lasciando spazio alla ragione. E all’intelligenza.
– Ho ammirato la tua sincerità Ben! Se tu non me lo avessi mai detto forse avrei continuato ad irritarti senza saperlo!– disse Gwen tutto d’un fiato, guardandolo da terra completamente spoglia del proprio orgoglio.
Ben rimase di stucco: Gwen adorava bistrattarlo! A cosa era dovuto quel cambiamento subitaneo?
Ed appunto espresse questo concetto:- ma che dici, Gwen? Sembra che tu goda quando mi maltratti, perché ora fai così?
La ragazza rabbrividì:- però…non dirla!
– Dire cosa? – chiese Ben.
– Quella parola maledetta…!– implorò Gwen coprendosi le orecchie.
Ben realizzò di aver ferito profondamente la ragazza mostrando alla luce del sole quei suoi così personali ed impulsivi sentimenti; l’orma di disappunto e paura che aveva impresso con quelle poche parole stava risucchiando Gwen e la sua tranquillità, l’aveva destabilizzata. E dunque Ben si pentì per quella che gli parve la centesima volta in quella maledetta, lunga, estenuante giornata.
Gwen invece incominciava a riflettere sulle parole del cugino e iniziava ad aver chiari i propri sentori. Così lo ammise: –  Mi dispiace per tutte le noie che ti ho dato, Ben. Se tu non…fossi stato così chiaro non mi sarei mai resa conto che l’unica sciocca ad aver sbagliato sono stata io…e per questo devi scusarmi – asserì la ragazza abbassando il capo e lasciando scivolare la mano lungo la caviglia del cugino.
Ben sedette nuovamente e le mise una mano tra i capelli: – adesso non esagerare…anche io ho combinato la mia buona parte di disastri…
Gwen lo osservò alzata la testa. Improvvisamente sapeva che quello che doveva fare. Poteva essere frainteso, certo. Ma sarebbe bastato puntualizzare di non farlo. Semplicemente voleva farlo, in segno di ringraziamento. Abbracciò Ben cingendogli il capo con la mano destra e mormorò: – Ben,io mi fido di te. Tutto il tuo aiuto di oggi, la tua disponibilità…grazie. Dico davvero.
Ben rimase colpito : sia dal gesto che da cotanta spontaneità. Quindi ricambiò l’abbraccio.
Gwen aggiunse: –  non fraintendere, sia chiaro. È che nessuno era mai stato così aperto con me…per un momento vedere le cose come stanno è stato insopportabile. Ma mi sono resa conto che, effettivamente il tuo ragionamento ha un senso. Scusa la mia disattenzione…
– Non fraintenderò perché questo è un tocco diverso. Immagino tu possa intendermi.
– Riposa, ora – fece poi alzandosi.
Porse il palmo a Gwen, per darle una mano ad alzarsi da terra.
La ragazza lo lasciò andare: – te ne vai?
– Ora devo proprio…scusami.
– Figurati.
– Dormi, hai una faccia orribile – rise Ben.
– Tante grazie…– borbottò Gwen.
Ben le sorrise e chiuse la porta.
– Ciao…– sussurrò la cugina scostando le coperte.
 
– Parliamo d’altro! – Sienna sviò il discorso magistralmente.
– Cosa ci fa in questa piccola cittadina il celeberrimo Kevin Levin? – chiese ridendo.
– Smettila! – la riprese il ragazzo arrossendo – diciamo che sono qui per caso.
– Caso…dopo che ti sei messo con quella…Julie? Oh, me l’hai nominata prima…comunque: non ti si vede poi molto, anzi proprio per nulla in Canada.
– Ovvio, ora vivo qui. – sorrise Kevin.
– Ah, bello – rispose Sienna bevendo.
– Che meraviglia, sembri proprio contenta – commentò sarcastico il ragazzo.
– Ho sempre odiato Julie, lo sai, è per quello che sembro così acida.
– Via, è una così brava ragazza! – si lamentò Kevin.
– L’unica che potesse risollevarti dall’abisso… – sussurrò Sienna.
– Sinceramente…io sto ancora risalendo… ora ho altre faccende per le mani. Devo portarle a termine e poi ci arriverò in cima e sopprimerò il mio problema. Per ora ho il canale di fornitura Hallward.
Sienna rimase col bicchiere a mezz’aria: – vuoi dire che la roba fa tuttora lo stesso giro? Amministra ancora quel Josh?
– Esatto, Hallward stava in Ontario fino a un anno fa, ricordi quando abitavamo nello stesso quartiere? Lo conoscevi anche tu, no? Io e lui ci siamo trasferiti qui per motivi diversi, i suoi più nobili dei miei, studio si dice. Ma continua a spacciare.
– Ma quanti anni ha? A me ha sempre detto di averne due più di me…vorrebbe dire diciotto.
– Macché. È stato bocciato un numero di volte innumerevole, deve aver perso sei anni. Fatti il calcolo…
Sienna sgranò gli occhi: – oh, Signore!
– E tu? Sei riuscita a venderla? Dico…la roba vecchia. – chiese Kevin.
– È sparito tutto.
– Brava.
– Cambiare vita…mi ha aiutato parecchio. Fallo anche tu… – suggerì Sienna adottando un tono di voce mellifluo.
– Sienna…lascia che ognuno viva la propria vita come meglio crede – obiettò Kevin ingerendo una sostanziosa sorsata di bibita.
– Certo…dovrei solo tacere.
 
Ben scese le scale e vedendo la porta d’entrata aprirsi disse: –  Ciao zia!
– Ben, tesoro cosa ci fai qui? – chiese Lily Tennyson appendendo il cappotto all’entrata.
– Gwen ha la febbre e dato il fatto che ero con lei quando ce ne siamo accorti, ho preferito assisterla fino tuo al ritorno o quello di zio Frank... – spiegò Ben infilando le scarpe che aveva lasciato all’entrata.
– O cielo caro, tutto questo disturbo ed ora te ne vai così difilato? Lasciami almeno offrirti la cena… - fece preoccupata la zia.
– Non preoccuparti zia, devo rincasare per forza perché stasera ci sarà solo papà a casa. E temo che per questo Natale…sarà l’ultima volta che lo vedrò.
– Certo, Ben, capisco. Sandra mi aveva telefonato. Sapessi come mi dispiace…– Lily assunse un’espressione contrita ma per rimediare al piccolo disagio creatosi provò a scherzare: – sarai costretto a passare il Natale con quella scorbutica di Gwen! Ed è pure malata, che brutte Feste, Ben…
– Non dire così, zia – provò a sorridere Ben – siete stati fin troppo disponibili.
– Sei troppo buono!– rimandò la donna – e poi…ecco…c’è una cosa che non sai. Io e zio Frank partiremo per Madrid la mattina a venire. Era parecchio che avevamo prenotato il volo e …avevamo piacere di andarci. Madrid cela ricordi molto importanti per noi. La casa sarà tutta per voi, sei contento?
Ben lo sapeva di già per cui, finto gran stupore, non si meravigliò più di tanto.
– Lo sapevo – ridacchiò la zia – povero caro costretto alla convivenza forzata!
Il ragazzo si indispettì un tantino poiché, si disse, non v’era proprio alcuna ragione di ridere.
– Ho una piccola ricompensa per la tua pazienza, in ogni caso – gli sorrise la donna arruffandogli i capelli.
– Una ricompensa,dici? Non osare disturbarti per me, non ce n’è alcun…
Fu interrotto prima che potesse terminare la frase: – Ho già avvisato Gwen che per la durata delle Feste potrete organizzare un party con gli amici, o se preferite potrete uscire. Quante volte voi vogliate. Vi autorizzo io.
– Cosa? Zia sei sicura? – chiese Ben non credendo alle proprie orecchie.
–  Certo! Basta che teniate la casa in ordine e la chiudiate ogni volta che uscite. È sufficiente questo. Per i pasti potrete ordinare qualcosa di pronto, o magari uscire a mangiare. Se preferite restare a casa allora c’e il supermercato a poco da qui…lascerò ora qualche soldo a Gwen. A proposito…dov’è mia figlia?
– Dorme in camera sua – rispose il nipote – febbre è salita, solitamente è normale, verso sera.
– Capisco, grazie caro.
– Figurati. Ora io devo proprio scappare si è fatto tardi – mormorò Ben.
– Vuoi che ti accompagni io? – propose la donna.
– Non disturbarti oltre, zia Lily. Sono cinque minuti a piedi, mi arrangio – sorrise Ben.
– Certo. Allora grazie di tutto! – cinguettò la zia dandogli un bacetto sulla guancia – saluta papà mi raccomando e stai attento per strada, non farmi stare in pensiero.
Il giovane annuì con il capo e salutò ma all’improvviso la zia lo bloccò ricordandosi di qualcosa a Ben ancora per poco sconosciuto: –  Ben, ora mi viene in mente!
– Cosa c’è?
– Io…devo chiederti un favore.
– Ben…io voglio pregarti…scongiurarti di…
Il ragazzo corrugò la fronte.

Continua!
 

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Capitolo 14
*** La Natura Indifferente. ***


 Ben rimase stupito dall’espressione contrita della zia. Cosa gli avrebbe chiesto?
- Vedi, Ben – mormorò la donna sedendosi.
- Tu e Gwen siete cugini. Ma ad ogni modo, un ragazzo ed una ragazza.
Ben, d’improvviso, realizzò:- in proposito! Ne abbiamo già discusso, io e Gwen.
Lily rimase immobile a fissarlo con un’espressione incerta, come a non aver adeguatamente afferrato.
- Voglio dire – Ben si schiarì la voce – io e Gwen abbiamo già chiarito di essere pur sempre parenti e di mantenere la dignità per quello che sarà il periodo natalizio. Immagino fosse questo cui volevi alludere.
- Mio Dio, certo, avrei detto anche questo…ma non è ciò di cui parlo ora – lo corresse la zia temperando le parole. Il suo viso, era chiaro, esprimeva una certa inquietudine; il ragazzo la fissò dipingendosi addosso un’aria angustiata ma, soprattutto, vogliosa di approfondire:- potresti…spiegarmi? – domandò con tono titubante.
- Mi dispiace farti perdere tempo con le mie chiacchiere,Ben…ma io devo parlarti assolutamente. Ora che Gwen non c’è. Sono passati tanti anni ma è il caso che tu sappia.
- Ascolterò – promise Ben.
Lily Tennyson sospirò profondamente, massaggiandosi con nervosismo le nocche:- tuo padre e mio marito sono fratelli,lo sai. Tua madre ed io, cognate. Quello che però non ti è mai stato detto è che tu e Gwen…
- Mamma!
Lily sobbalzò udendo la voce della figlia provenire dalla scalinata retrostante.
- Sei a casa! – esultò Gwen poi tossendo.
Ben fissò la zia ammutolendo. La frase era stata troncata prima ancora di svilupparsi ed i suoi dubbi, partoriti certo nella curiosità, ma come pure nella paura e nell’incertezza, rimasero galleggianti in quella che parve essere atmosfera pesante e tagliabile con un coltello. L’arrivo di Gwen aveva spezzato quel canale di comunicazione così prezioso venutosi a creare tra zia e nipote.
- Gwen, che ci fai in piedi? – chiese preoccupata la madre alzandosi.
Ben mormorò:- io…vado a casa.
Si era detto che non avrebbe ad ogni modo potuto insistere circa quel fatidico discorso, visto che la zia – poco prima – aveva ben specificato fosse necessaria l’assenza di Gwen.
- Ben…- sussurrò Lily abbandonando ogni iniziativa – parleremo…alla prima occasione.
- Aspetterò – sorrise lui debolmente.
- Ora corri, prima che faccia buio pesto – sdrammatizzò la zia.
- Certo…ciao a tutte – scandì il giovane sollevando la mano in segno di saluto.
Gwen sollevò a propria volta il palmo avvolto dalla larga manica aperta della camicia e osservò suo cugino sparire. Si limitò a questo.
 
Per strada, camminando a passo svelto, Ben cominciò a rimuginare. Cosa voleva dire sua zia non lo sapeva. Ma moriva dalla voglia di approfondire. Controllò l’ora sullo schermo del cellulare: si erano fatte ben le sette di sera. E non aveva neppure studiato – non che solitamente lo facesse – né s’era cambiato. Si sentiva addosso una sensazione di sudicio che quasi gli piaceva. Per meglio dire, non aveva alcuna voglia di svestirsi per lavarsi, visto il freddo pungente che lo stava torturando. Storcendo il naso proseguì lungo la propria strada.
Si rese conto, continuando a meditare, che la propria mente stava seguitando – con una certa caparbietà – a riosservare tra sé, come si trattasse si riavvolgere un nastro con una monotona ostinazione, il corpo e le espressioni di Gwen, i suoi occhi ed il suo viso. Ricordò quanto successo durante quella sciagurata giornata e scosse la testa, schiacciato dai pensieri. In pochi minuti giunse a casa e socchiuse la porta principale che, inaspettatamente trovò aperta. Suo padre Carl, adagiata la valigia sulla tavola, si preparava per la partenza ultimandone il riempimento alla meno peggio e sbocconcellando qualcosa, in quel caso, grissini.
Ben sussurrò:- papà…
L’uomo si girò di scatto:- Oh, ciao, Ben!
- Sei…pronto per partire? – chiese il ragazzo adagiando il giubbotto sul divano.
- Ero preoccupato a non trovarti a casa Ben – l’ignorò il padre – dove sei stato?
- Da Gwen…è malata – spiegò il figlio con voce flebile. Era quasi intimorito da quello sguardo così nuovo e contratto del genitore.
- Non farmi prendere di questi colpi…- bisbigliò distrattamente Carl.
- Scusa… - balbettò Ben facendosi piccolo piccolo.
- Non ho neanche preparato la tavola… - puntualizzò l’uomo strofinando la fronte con un forte disappunto.
- Non importa, sono appena le sette…- l’assolse Ben.
- Ti vedo pensieroso figliolo – cambiò discorso il genitore.
Ben si mise in bocca un grissino rubato dal pacchetto del padre e, sedutosi, poggiò il mento al palmo caldo della propria mano destra. Borbottò solamente un flebile:- sono stanco, tutto qui…
- Smettila, Ben: non sei mai stato bravo a mentire – lo canzonò Carl sedendo.
- Effettivamente…sto riflettendo… - ammise Ben. 
- Riguardo cosa?
Ben non seppe se effettivamente fosse stato opportuno o meno, ma gli premeva voler fare quello che aveva in mente. Riflettendo tra sé con gran intensità aveva partorito una certa domanda, nel proprio capo, ma non aveva ancora trovato un adeguato qualcuno cui porla. Quel qualcuno avrebbe potuto essere suo padre. Quindi, dettosi questo, si schiarì la voce.
- Avrei una domanda… - mormorò Ben ignorando il padre.
- Chiedi pure ciò che vuoi – l’incoraggiò Carl.
Ben masticò con una lentezza impressionante, come alla ricerca di tempo, necessario a frenare un febbrile nastro di pensieri.
- Hai mai ponderato…nel corso della tua vita…
Ben fece una lunga, interminabile pausa.
- Magari per caso…non lo so…
Silenzio.
- Via Ben, arriva al punto! – si lamentò il genitore impensierito.
- Che diamine, aspetta un secondo! Non sono domande facili! – sbottò il ragazzo corrugando le sopracciglia ed arrossendo piuttosto intensamente.
Allora Carl tacque, limitandosi a sbuffare.
- Hai mai pensato all’incesto? – chiese dunque il ragazzo.
Il padre tossì mandando di traverso il grissino che aveva in bocca. Poi però tacque, osservò il figlio e sussurrò:- dipende cosa intendi.
- Che altro potrei intendere se non quello che sto…intendendo?! – Ben assunse un’aria imbarazzata che gli donò nuovamente un acceso colorito rossastro.
Aggiunse:- gradiresti spiegarmi?
- Spiegami tu – rimandò Carl.
- Voglio dire – sbuffò Ben lievemente indisposto – ti è mai capitato di provare una certa attrazione, nel senso più ampio del termine, sia chiaro, per un tuo familiare?
- Ehi, non dirmi che ti sei innamorato di mamma! Lei è mia! – intervenne il padre.
Ben saltò in piedi:- Certo che no!
- Non so quanto tua madre potrebbe gradire un rinnego così esplicito – ridacchiò il padre.
- Sto parlando seriamente! – si lamentò Ben indispettito.
- Stavo scherzando – gli sorrise il padre - tu volevi in qualche modo alludere a Gwen, non è così?
Ben arrossì:- non è come pensi! È un argomento…che stiamo studiando a scuola in Diritto! Ho solo bisogno di informarmi…
Il padre non disse nulla.
- Allora?! – chiese Ben teso.
- Allora io credo che ci sia qualcosa di strano nelle tue parole, figliolo. Non me la racconti giusta; Ma risponderò alla tua domanda. Provare attrazione per un parente penso sia pressoché impossibile, questa è la mia opinione.
Ben sentì un boato dentro sé. Le parole del padre gli si appiccicavano addosso, rimbombavano nella sua testa, lo fecero sentire quasi male. Curioso il perché, ad ogni modo sconosciuto.
- Rifletti, Ben. Una persona che vedi tutti i giorni – se si parla di membri del proprio e più stretto nucleo famigliare – o molto spesso,quindi nonni, zii, cugini – con cui condividi orbene una casa, tratti somatici, sangue! Una persona così vicina, così simile, così specchio di te non potrà mai farti provare più che amore familiare, quell’amore – s’intende – che una madre può provare per un figlio! Non sarà mai lo stesso che prova per il proprio uomo. Non sto sminuendo né l’uno né l’altro, ma capirai quanto tra loro, per quanto simili, possano essere sentimenti diversi, più che di entità, di carattere. Tra madre e figlio c’è del sangue, mi segui?, un legame così particolare che non può essere altro che amore familiare e non attrazione. È solo un esempio, non esiste solo questo grado di parentela. Come puoi innamorarti quindi di qualcuno che, alla fine, possiede in sé almeno un pezzettino di quello che sei tu? Varrebbe a dire che ti innamoreresti un po’ di te stesso… quindi…ripeto: come potresti innamorarti di un tuo parente?
- E se così fosse? – chiese Ben titubante, abbassando lo sguardo.
Carl sospirò:- credimi…non può essere. C’è senz’altro…qualcosa che non va…
Ben non notò la vena malinconica andatasi a dipingere nello sguardo spento del padre. Era troppo assorto, troppo preso, soffocato da quei mille pensieri che gl’affollavano la mente. Che domande faceva? Perché?!
- Non pensare male – aggiunse Ben – la mia era una domanda casuale, pura curiosità.
Carl gli sorrise debolmente:- non preoccuparti figliolo. Se le cose non si approfondiscono e non si analizzano per come sono, non si potrà né capirle, com’è ovvio, né mai viverne l’essenza.
 
Lily Tennyson apparecchiò la tavola quando suonò il campanello e, nonostante fosse affaccendata, s’apprestò ad aprire la porta.
Davanti a lei, la figura stanca di suo marito.
- Frank…?
- Lily.
- Com’è andata? – chiese la donna con voce flebile.
- Come doveva andare. – rispose il marito cavando il cappotto e mettendosi a sedere.
Lily si riportò ai fornelli e, mescolando il sugo sulla teglia che tanto amava, regalatale da Max pochi anni prima, domandò- Tutto…bene?
- Bene.
- Sei raffreddato?
- Al solito.
- Vuoi una tazza di the, dopo?
- No.
- E se…?
- Vuoi piantarla?! – sbottò l’uomo alzandosi in piedi.
La moglie rimase paralizzata, impaurita come da anni non l’era più capitato. Preferì non voltarsi, sapeva bene che quando era preso dalla rabbia, Frank era intrattabile e facile alle mani. Lo sapeva grazie ai ricordi di gioventù. Perché da tant’anni il loro matrimonio durava, s’era spento e chiuso in sé stesso. E per lei non c’era spazio, tranne quando egli s’accorgeva che non poteva dormire solo.
- Perdonami – mormorò l’uomo rimettendosi a sedere con una certa incuranza.
- Fa nulla – sussurrò la donna.
- Fa nulla…- ripeté soffocando un gemito.
- Dunque andremo a Madrid…?
- Esatto – rispose la moglie.
- Non ho mai detto che Madrid mi fosse particolarmente piaciuta – sottolineò Frank con sarcasmo.
Lily deglutì, ingurgitando l’ennesimo rospo.
- Ma è dove ci siamo conosciuti…- specificò dolcemente.
- Se devo dire la verità non credo sia poi tanto importante – rimarcò l’uomo.
Lily tacque.
- Come al solito decidi le cose per conto tuo – sbuffò dunque il marito aprendo il giornale del giorno posato sul tavolino del salotto.
- Non è affatto vero, Frank. Sai benissimo perché l’ho fatto.
- No, non lo so.
- Non fare finta di niente, miseria!
Il tono zuccherato della donna fu inghiottito dalla rabbia. E divenne aggressivo.
- Non faccio finta di niente, se non so.
- Smettila.
- Cosa devo smettere?
Lili strinse le dita lungo il manico di legno del cucchiaio con il quale mescolava il rossastro sugo di pomodoro. Pregava Iddio di non mettersi a piangere come sempre capitava.
- Smettila e basta.
- Solo io? – chiese stizzito il marito.
- Solo tu. – asserì la donna freddamente.
- Che colpa ne ho, Cristo? Lavoro da mattina a sera e vengo trattato così!
- Ed io no?!
- Che c’entri tu?!
- Io sono ridotta ad una schiava, Frank!
- Forse te lo meriti?!
Un’espressione desolata assalì il volto della donna, contrito ed affranto da poco prima.
- Non puoi trattarmi così…- bisbigliò trattenendo il pianto.
Frank si alzò con il giornale in mano:- davvero?!
- Davvero!
- Non parlarmi a quel modo come se nulla fosse!
L’uomo, stizzito, colpì la moglie in pieno viso con il giornale procurandole un piccolo taglio dovuto ad un lembo di carta fuori posto. Ed in quella, per l’urto subito dal corpo di Lily la padella cadde a terra.
 
Gwen era salita in camera sua dopo quelli che le parvero brevi convenevoli con la madre. L’affaticamento della malattia la scocciava ma non poteva che abbandonarsi al riposo. Infilatasi con stanchezza sotto le coperte spense persino l’abat-jour, consapevole del fatto che fossero appena le sette di sera. Rispetto al pomeriggio, doveva ammetterlo, il dolore si era attenuato, molto probabilmente grazie alle medicine. “E a Ben” si scoprì a pensare.
I ricordi del giorno l’assalirono d’improvviso. Gwen si rese conto di quanto ridicola era stata e si voltò dalla vergogna. Ammise di aver esagerato. Ma improvvisamente udì uno scroscio e sbarrò gl’occhi terrorizzata. Era successo qualcosa e sperava non fosse ciò che credeva.
 
Ben si alzò con aria stanca e annunciò:- vado di sopra, sono infiacchito ad una maniera assurda.
- Allora dobbiamo proprio salutarci ragazzo mio – mormorò il padre Carl alzandosi anch’egli.
- Cosa? Non parti domani? – Ben sgranò gli occhi.
- No, il volo che la ditta mi ha procurato è prenotato per stanotte. Lo sai no, costa meno, a quanto pare…- spiegò il padre.
- Io non sapevo che dovessi andartene così presto, sono le sette e mezzo!, se preferisci resto qui a farti compagnia, io non immaginavo…!
- Lascia stare, Ben, non impensierirti. Non ne vale la pena, credimi, dovrò uscire di casa per le otto circa, non mi resta molto tempo per cincischiare. Contando il tragitto verso l’aeroporto,che già di per sé è impegnativo, l’anticipo che mi voglio assicurare ed il volo sai bene che dovrò proprio partirmene per quell’ora. Ecco tutto…
- Bè…Buon Natale…allora- bisbigliò il ragazzo.
- Anche a te, figlio mio. E mi raccomando, divertiti. Divertiti più che puoi, divertiti anche per me – sussurrò Carl posandogli una mano sulla spalla.
- Lo farò…
- Non farmi pesare di averti lasciato qui da solo, ti scongiuro…
- Fidati di me…
- Ciao, Ben…- mormorò il padre.
- Ciao…papà…
Uno sguardo raddolcito si posò sul giovane, per poi essere inghiottito dalle tenebre e dal gelo dell’esterno. Il chiudersi della porta, con un botto, sgombrò la mente di Ben che, rimasto zitto, sospirò. Si sentì improvvisamente addosso una pesante responsabilità.
 
Gwen socchiuse la porta della propria stanza e, a piccoli passi, sbirciò dal muro accanto alla scalinata. Quello che vide la fece spasimare. Era ricominciata la routine. La teglia che, immaginò, stesse poco prima sui fornelli, era rovesciata a terra ed aveva lasciato il sugo versarsi mentre un cucchiaio di legno, che Gwen dedusse fosse stato adoperato per mescolare, se ne stava abbandonato poco più in là. La ragazza udì la voce di suo padre:- non sei nemmeno in grado di cucinare…
- Partiremo per Madrid in ogni caso, non pensare che rinuncerò…non credere di mettermi paura - mormorò la moglie.
- Fa quello che ti pare…
- Non dirmi “fa quello che ti pare” se sai benissimo che eseguo a testa bassa ogni tuo ordine!
Frank alzò pesantemente il tono di voce:- non dovrebbe essere così dal momento che sei incapace di fare qualsiasi, minima, stupida cosa?!
Lily si morse il labbro inferiore, ingurgitando una forte voglia di singhiozzare.
Gwen scivolò a ridosso del muro andando a rannicchiarsi sulle ginocchia. Soffocò un gemito, quasi ferita personalmente. Così non poteva andare avanti, proprio no, e tutte quelle botte e messe a tacere, tutti quegli sberleffi andavano rispediti al mittente.
- Sei cambiato… - biascicò Lily abbassando lo sguardo.
- Non sono cambiato io! Tu semmai! Da quella stupida storia su Gwen sei ancor più scocciante di quanto non sia al solito…! Che vuoi da me?! Che posso fare se non ascoltarti?! Non posso rispondere io dei tuoi errori di vita!
Gwen sbarrò gli occhi. Il gelo la pervase mentre, come martellandole in capo, quelle parole continuavano a insidiarle quesiti in capo: quale storia? Quali errori? Quale vita?
Sua madre si fece avanti:- come osi dare tanto poco peso a tua figlia?!
- Mia, figlia?
Il tono ruvido e scocciato, particolarmente distante, dell’uomo impaurì Gwen così come pure sua madre che, incredula e scioccata scosse il capo:- E di chi altri sennò?!
Frank tacque per poi aggiungere:- Tua…figlia. Tua, figlia.
Gwen, piegata su sé stessa, tremò. Parlavano come fossero due sconosciuti, due persone stufe le une delle altre, sprovviste d’amore reciproco e danti l’idea d’essersi mai amate; ma soprattutto, prive di qualcosa da spartire. Pericolosi dubbi cominciarono ad intrufolarsi tra i circuiti cerebrali della ragazza mettendole addosso un’improvvisa agitazione e tanta preoccupazione da incominciare a respirare con tacito tormento. Gwen pianse in silenzio lasciando rotolare lungo le guance le lacrime. Pianse perché giorno dopo giorno si rendeva conto di essere una persona – nonostante la sua solita ed ostentata finta-sicurezza – dall’esistenza completamente dipendente dal sostegno e dai consensi solo di sé stessa. E quando sé stessa mancava? Quando lo sconforto le avrebbe imposto, come ora, un momento di indecisione? Avrebbe necessitato di qualcuno. Qualcuno che comunque non era né sua madre né suo padre. Qualcuno che, chiunque fosse, ora non era lì con lei.
- Quanto schifo mi fai – mormorò Lily guardando Frank con disprezzo.
Il marito la contemplò e sorrise. Avvicinandosi le prese il colletto della camicia e le sussurrò:- ricordati che se vuoi che taccia su e con Gwen dovrai sopportare per tutto il viaggio.
Lily scostò il capo:-…sopportare cosa…?
- Sopportare me… - sussurrò Frank.
- Ed il fatto che Gwen sia figlia tua.
Detto questo la lasciò andare; passandosi il dorso di una mano in viso, Lily si pulì la guancia sporca di sangue. Ed evitò di guardarlo, uccisa dal timore.
 
Ben ispezionò la dispensa. Fattasi ora di cena meritava essere cucinato un buon pasto. Il dramma si articolava quindi attorno al tormentato interpellarsi riguardo cosa avesse l’onore di diventare la cena. Il ragazzo si massaggiò la fronte stanco morto ed infine, abbandonando ogni qualsivoglia sorta di indecisione sfilò dalla dispensa un pacchetto di pasta, classico e buon compromesso tra il sapore e la comodità. Perfetto, si disse. Mise dunque una pentola colma d’acqua a bollire rimuginando intanto tra sé ed accese la stufa del salotto adiacente per evitare di morire di freddo. Osservò l’orologio a muro nel mentre apparecchiava sommariamente una piccola parte di tavola a lui riservata: si erano incredibilmente fatte le otto meno pochi minuti. Non poteva credere a come il tempo scivolava via tra le dita, ultimamente.
- Forse – esclamò ad alta voce – potrei averne un giovamento. Come il tempo scorre quando ci si diverte, scorrerà anche mentre mi annoierò domani, l’ultimo giorno di scuola. Per fortuna…
Nel pronunziare tali parole Ben si bloccò. Non sapeva più cosa dire riguardo le imminenti vacanze natalizie, visti i suoi pensieri tremendamente confusi. La causa principale di tutta quella sua indecisione era Gwen, realizzò. Anche riguardo quella domanda posta a suo padre sulla legislazione e sull’incesto, credeva ne avesse responsabilità. La sua presenza lo turbava. Forse perché la osservava e la vedeva con occhi diversi, bramava di conoscerla meglio e consolidare con lei un rapporto migliore. Facendosi un breve esame di coscienza, Ben riconobbe di smaniarne intensamente un contatto e questo lo spaventò, soprattutto visto che era stato lui ad allontanarla non appena si era fatta avanti.
 
Gwen, tornò in camera badando a non farsi sentire, si chiuse la porta alle spalle e poggiò il palmo all’armadio. Provava tanta ansia da scoppiare. Adagiò la fronte calda all’anta per contro gelida e, nonostante si sentisse improvvisamente soffocare da un rinnovato dolore prese una decisione. Aprì l’armadio e sfilò il cappotto in panno con le lacrime agl’occhi; l’indossò lentamente e tossì. L’ansia le si appiccicava addosso, voleva fuggire da quella cappa di inquietudine come pure voleva restarci per tendere una mano alla madre affranta. Fu divorata dai dubbi e dai sensi di colpa finché, seppur strozzata da colpi piuttosto decisi di tosse aprì la finestra e, con un sospiro, scivolò saltando quei cinque metri che separavano la sua finestra da terra. Aveva bisogno d’ aiuto. E in quel momento, seppur le si contraesse il cuore, sapeva benissimo dove e da chi andare.
 
L’abituale passo deciso della giovane ragazza dai capelli rossi si fece dunque corsa. Corsa frenetica nel freddo pungente di una serata d’inverno, per inciso. Il gelo notturno le sferzava il volto arrossatosi grazie alla temperatura, un fastidioso alito di vento, anch’esso freddo oltremisura, le scompigliava i capelli tessendo tra loro una tela di distanze intricate. Gwen non riusciva a fermare le lacrime né tanto meno quello strozzante respiro affannoso che le avvolgeva la gola. Cominciò a battere i denti che via via dettero inizio ad una danza incosciente dettata dall’egemonia del gelo. Ma nulla le importava, ora come ora. Sapeva solo di essere divenuta una sorta di peso che suo padre definiva “figlia di sua madre” come se s’estraniasse dalla sua creazione, aveva perso la fiducia in sé stessa e nella sua famiglia che cominciava a sgretolarsi rovinosamente. Le dita e le gambe affusolate di Gwen cominciarono ad avvertire l’afflusso caldo del sangue, pompato con furia dal cuore per lo sforzo intenso di quella così scellerata corsa. La rabbia della giovane accrebbe nel notare, da buona studiosa, come pure il paesaggio, tutto sommato, contribuisse –  tramite l’idea leopardiana di “natura indifferente” – a complicare lo stato delle cose: infatti quella notte il cielo era spruzzato da una miriade di stelle rilucenti e tinto di uno di quei blu intensi e profondi che catturano il fiato. Senza contare lo splendore ruggente della Luna ( incredibilmente piena ) ad illuminare generosamente il terreno.Uno spettacolo fine e meraviglioso che però Gwen ignorò, abbacinata dal pianto e distrutta dal dolore.
 
Ben osservò il cielo stellato scostando la tenda candida della finestra della cucina. Il suo sguardo si assottigliò sino ad apparire rilassato, calmo ed immerso nelle proprie considerazioni come spesso ormai gli capitava, peraltro cullato da quella meravigliosa esibizione naturale . Improvvisamente però a smuoverlo facendolo spaventare lo spalancarsi violento della porta.

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Capitolo 15
*** Il Dubbio. ***


 Gli occhi di Ben ebbero un lampo improvviso. La sua fronte si corrugò dallo spavento quando udì aprirsi con violenza la porta d’entrata. Il turbamento lo invase nel momento in cui vide il corpo di sua cugina Gwen accasciarsi al suolo come privo di forze; un tremolio impietoso scivolava addosso alla ragazza smuovendo quella sagoma che gli si mostrava dinanzi passiva ed indebolita dal dolore. Gwen, facendosi coraggio e raccoltasi sulle ginocchia tese la mano verso Ben, una mano tremante ed insicura, appigliandosi alla sua felpa, senza parlare, senza mormorare se non gemere, a capo basso, quasi priva di quel suo usuale orgoglio superbo per qualche spicciolo secondo spoglia di sé stessa. Carente di forze, il braccio le scivolò a ridosso della gamba di Ben anche se l’ansia l’ingoiava spietata.
– Gwen cos’è successo?! – chiese allarmato Ben con l’impeto di chi s’aspetta brutte nuove.
Il ragazzo, a negata risposta, non poté che chinarsi sulle ginocchia a prestarle soccorso, sollevandola con le braccia ed accoccolandola al petto.
Gwen non riusciva a parlare, non avrebbe potuto farlo nemmeno se l’avesse desiderato più intensamente che potesse, strozzata dal tumultuoso affanno di certi poderosi gemiti, gemiti opprimenti, possenti, sospiri perfidi che le serravano la gola in una morsa soffocante.
Aveva corso senza sosta, senza riguardo nei confronti del proprio corpo, incurante del gelo, del buio, della paura; si fidava solo della certezza che Ben le avrebbe prestato soccorso, anche se non sapeva perché, una certezza nata d’improvviso ma che dentro lei pareva tanto ovvia da lasciarla basita.
Ed ora eccola, fra le braccia di Ben, giunta a destinazione senza nulla da poter dire, ostacolata, tradita da quello che fino poco prima era stato il mezzo che l’aveva trasportata sin lì, il suo corpo, che aveva martoriato senza ritegno.
La sua pelle chiara chiazzata spietatamente dal rosso venereo del sangue impressionò e fece presupporre a Ben il grosso sforzo fisico da lei tentato. Il ragazzo, preoccupato, l’accolse a sé come meglio ne fu in grado, chiudendo peraltro con sveltezza la porta, onde evitare – si disse – di peggiorare il traballante stato fisico della cugina.
Gwen adagiò il capo al petto di Ben seguitando a respirare con sforzo.
Anche se forse non era proprio il momento adatto, Ben non si risparmiò in rimproveri:- Gwen che diamine fai?! Sei malata, lo hai dimenticato?! – la sgridò sentendosi addosso quel gracile corpo freddo e tremante che stentava a riconoscere.
Gwen scosse la testa e pur di metterlo a tacere si cavò di bocca un ordine claudicante: – sta zitto…!
Ben tacque, punto sul vivo da quelle improvvise e acide parole, zoppicanti tra gli svariati sospiri. Si chiese tra sé cosa potesse essere successo, cosa l’avesse spinta ad uscire di casa con quel freddo immane e soprattutto, perché mai fosse venuta a cercare asilo proprio da lui. C’era un controsenso in quella ragazza che ora giaceva sul suo petto, inerme e strozzata da un respiro appesantito dalla malattia e dalla fatica: quel suo viso provato e che – fondamentalmente – le donava un che di tenero ed indifeso si mischiava inesorabilmente a quella sua solita indole di spietata preminenza, pregiudizio, a quel suo quasi perverso gusto per il comando e l’aver ragione, che s’impadronivano delle sue poche parole violentando quell’apparenza docile e rendendola la solita, cinica Gwen. Era questo che disgustava Ben.
Vi fu un attimo di profondo silenzio, fatta eccezione per gli spasmi ansanti di Gwen che riempivano l’atmosfera egemonizzanti.
Ben non si mosse, rimase immobile con lei fra le braccia; il capo della cugina si posava giusto in linea con il suo collo sicché Ben potesse avvertire la morbidezza quasi innaturale e fiabesca di quei lunghi capelli che l’avevano sempre stranamente attratto. Ecco che ricominciavano i pensieri, pensieri che a Ben parvero pericolosi.
 
Gwen non osò parlare nemmeno quando s’accorse d’aver ripreso qualche briciolo d’energia. Si rese conto infatti di quanto enorme fosse stato l’errore da lei commesso. Aveva fatto un passo troppo lungo rispetto a quello che le sue gambe, allo stato attuale delle cose, le avrebbero concesso. Le fu facile capire come grazie agli eventi burrascosi ed a loro modo anche profondi del pomeriggio, quella mano tesa di Ben che le prestava soccorso l’aveva illusa che nell’arco di qualche ora si fosse ricucito un lungo e tormentato rapporto sdrucito dagli anni, una relazione familiare fatta di indifferenza e menefreghismo che si protraeva oramai da sedici anni. Gwen non seppe dunque come ricavare il benché minimo coraggio per poter guardare Ben in volto. Aveva sbagliato.
 
Ben non poté che ricominciare a riflettere, seppure si rese conto di quanto questo fosse inusuale a farsi in quel momento. Ricordò le sue parole, quelle parole pronunciate con la vergogna di chi si sente in dovere si mettersi a nudo, le parole con le quali pregava Gwen di mantenere un adeguato rapporto durante quel periodo di convivenza. In quell’istante quasi si pentì di quelle sue affermazioni e avrebbe ben voluto rimangiarsele poiché provava un certo disappunto, come la certezza di poter essere il primo ad infrangere il limite. Tremò. Quella situazione lo tentava ed imbarazzava nonostante ne riconoscesse la gravità. Il fascino di quella nuova Gwen, quella ragazza che nell’arco di un solo giorno passato assieme, Ben aveva potuto conoscere veramente, quella sua cugina che non si era mai aperta molto a lui fatta qualche rara eccezione. In quel momento Ben provò quasi un moto di commozione ed un profondo legame nei suoi confronti. Ma, abbassando lo sguardo, cancellò quegli strani sentori incolpando la tale sua misteriosa incertezza d’indurlo in inganno. Ora voleva solo risollevare quella che da sempre riteneva la sua migliore cugina. Non si sarebbe risparmiato anche se mai l’avrebbe ammesso.
 
Sienna Butcher e Kevin Levin si ritrovarono fuori dal locale appena frequentato con le giacche indosso ed un gran freddo.
– Si è fatto ormai buio – si lamentò il giovane guardando il cielo e gli sprazzi luminosi che i lampioni proiettavano a terra lungo le strade circostanti del centro città.
– Ti ringrazio per la disponibilità, Kevin – intervenne di punto in bianco Sienna arrossendo lievemente.
Il ragazzo le passò una mano sulla testa:- gli amici fanno così, suppongo.
– Allora devo riconoscere che sei un amico prezioso – rispose la ragazza sorridendogli.
Vi fu un breve momento di silenzio che tra i due, peraltro da sempre stato usuale.
– Mi ha fatto piacere rincontrarti, alla fine – ammise Kevin abbassando il capo.
– Fondamentalmente anche a me – rimandò Sienna ridacchiando.
– Senti…quanto hai intenzione di rimanere qui…?
– Fino alla fine delle vacanze.
– Non ti andrebbe…se uscissimo, qualche volta?
Sienna rimase spiazzata. Per un momento mise in dubbio la posizione di Ben nel suo cuore. Quel ragazzo, quel Kevin l’aveva conosciuto non appena s’era trasferita e da sempre l’era stato amico. Sempre, anche quando era caduta troppo in basso. In quel momento di solitudine ed afflizione, dopo il rifiuto di Ben, non voleva restarsene sola. L a sua amata Cerise l’aveva ferita ma era pur vero che non se la sarebbe sentita d’abbandonare il pensiero di Ben per così poco dopo tanti anni di ammirazione segreta e passioni celate a chilometri di distanza. Se si fosse lasciata andare sapeva benissimo che sarebbe ricaduta nel circolo vizioso che l’aveva accompagnata per parecchio poco tempo prima. Allora, ripensando con spavento al passato e necessitando di un appiglio in quel mare di incertezza aggiunse:- ne sarei felice.
Kevin rise battendole la spalla:- ottima scelta!
Sienna si limitò a sorridere debolmente. Non avrebbe potuto fare altro.
 
Ben decise che la cosa migliore sarebbe stata intervenire subito con gran tatto, far sfogare Gwen per poi calmarla una volta per tutte. Così si decise: – Gwen…dimmi cos’è successo…– mormorò rompendo il silenzio tombale venuto a crearsi.
La ragazza si limitò a scuotere il capo. Non capiva più nulla, se non il fatto che Ben l’avesse accolta in quell’attimo di pazzia furiosa senza obiettare. Sentiva un gran vuoto all’interno di sé. Le sembrava di stare cadendo da un’altezza di proporzioni indecifrate senza sapere in cosa sarebbe consistito il suo avvenire. Viveva ora, il poi non avrebbe saputo riconoscerlo, costruirlo, anche solo immaginarlo. Viveva al momento grazie a Ben ed alla sua disponibilità, al suo sostegno in quel attimo di dislessia affettiva.
– Voglio aiutarti, Gwen. Basta solo che mi spieghi. – aggiunse il cugino offrendole sussidio.
La ragazza tacque ancora. Volle prima riflettere, formulare un discorso, farsi capire da subito ed a dovere, perché in quello stato non avrebbe saputo o potuto ripetersi.
– Non è facile – sussurrò allora assottigliando lo sguardo.
Ben l’osservò dall’alto della sua posizione con una espressione materna:– sarebbe stupendo se le cose fossero sempre facili e non richiedessero alcun minimo impegno, Gwen. Credimi,parlo per esperienza: me lo hai sempre detto, a me non riesce nulla. Ma è proprio per questo, proprio perché siamo intralciati da cose difficili giorno per giorno che ci impegniamo con costanza a cercare di sbrogliare queste scomode situazioni.
Gwen rimase colpita nel profondo da tale affermazione. Le si fermò il cuore in petto per un istante al solo udire quelle parole, uscite dalla bocca del cugino come fossero ovvietà, pronunciate con quella sua semplicità rara e affascinante. Era la realtà. Si sentì ora come mai profondamente sciocca, stupida. Si stava comportando come una bambina piagnucolosa, voleva la soluzione immediata ai propri problemi senza nemmeno aver provato a districarli.
– Devi scusarmi, Ben – borbottò poi schiarendosi la voce con un colpo di tosse per metà dovuto alla malattia e per metà al poderoso imbarazzo. Il respiro ed ella stessa si stavano finalmente rilassando accomodati dal tepore dell’abbraccio di Ben.
Il ragazzo si dipinse in volto un’espressione di stupore.
– Ti ho sempre bistrattato e riconosco solo ora…quanto tu in realtà abbia ragione – proseguì. Per Gwen pronunciare frasi del genere era un gran supplizio, uno sforzo fisico, qualcosa che si estraniava da lei come mai nessun altra. Non aveva mai dato veramente ragione ad altri se non a sé stessa e trovarsi a lodare suo cugino Ben l’indisponeva. Il suo cugino repellente, inetto, sciocco, insensibile. Ma non poté più tacere poiché sentiva da dentro un bisogno frenetico di confessarsi a lui come stava facendo.
Il ragazzo riconobbe che il comportamento e l’essenza di Gwen stavano abbandonando quell’apparenza  ingannevole di poco prima che s’andava man mano ad appianare raggiungendo un buon  rapporto proporzionale fra le due personalità. Sorridendo dolcemente, senza che lei lo vedesse, le fu sinceramente grato.
– Ti va di dirmi quello che è successo? – chiese allora.
Gwen sentì una stretta al cuore; posò un palmo sulla spalla di Ben e mormorò:- io…mi sento così insicura…
– Capisco…ma mi sto preoccupando…! – mormorò Ben abbassando il capo imbarazzato.
– Non te lo dirò…fidati, sarà più facile così – convenne Gwen esalando un considerevole sospiro.
– Cosa…?
– Voglio dire…è molto…è così…difficile…!
– Cristo, e se non te ne libererai cosa otterrai?  – obiettò Ben con cinismo, infastidito dal solito lamentio tipico di Gwen.
– Non lo so…! – bisbigliò Gwen prendendosi il capo tra le mani con inquietudine.
– Sono qui ad ascoltarti, che ti costa Gwen?! Mi stai facendo preoccupare!– si lamentò Ben preso dalla frenesia di un’ansia improvvisa.
– Lo so…! Voglio dire…! Non è colpa mia…io so solo…!
– So che non sono io ad aver sbagliato! – asserì Gwen portandosi una mano alla bocca.
Ben rimase in silenzio. Si sentì profondamente sdegnato da quelle parole. Quel piccolo grande odio che covava per sua cugina rivenne a galla tutt’un tratto.
– Tu…tu non hai mai colpe, vero?!
Gwen tremò nel mentre il ragazzo le prese il polso stringendolo con la mano destra.
– Cerca di andare un po’ oltre dai tuoi soliti concetti di superiorità, Gwen! Cerca di abbandonare l’idea che solo tu capisci tutto di tutti e tutto di te stessa perché…!
Gwen alzò lo sguardo verso Ben, impaurita da quel tono minaccioso.
– Perché…non è così – sussurrò Ben lievemente calmatosi all’osservare gli occhi affranti della ragazza – mi pareva di avere già fatto questo discorso…
Gwen abbassò il capo. Si chiese con smania cosa stesse accadendo, perché all’improvviso provasse gran conforto,come avesse potuto la foga di Ben quietarla almeno per un attimo quando solitamente era impossibile per chiunque. Ad ogni modo Gwen si rattrappì. Non potevano star bisticciando ancora. Era assurdo; persino in quell’occasione. Era un atteggiamento stupido,dissennato. All’improvviso rivide tra sé le sequenze del litigio fra i suoi genitori e non ne poté davvero più. L’ansia la stava strozzando; voleva chiedere umilmente ed ufficialmente l’asilo ed il perdono di Ben; eppure per quanto lottasse, si sforzasse e si odiasse per non esserne capace, non era in grado di arrivare a tanto.
– Smettiamola di litigare, per favore. Non lo sopporto – sbottò Ben con tono tagliente.
D’un tratto, però, osservando il polso della ragazza sollevato a mezz’aria ed il suo capo chino Ben fu colto da un pericoloso sentore.
– Gwen è successo qualcosa che per caso riguardi i tuoi genitori? – domandò Ben impensierendosi d’improvviso. Gli venne in mente il discorso che la zia stava per fargli ed un terribile dubbio cominciò a nascergli in capo.
Gwen impallidì. Ecco inaspettatamente arrivare la verità nuda e cruda proprio come non aveva avuto il coraggio di guardarla. Fu per un attimo incapace di formulare persino tra sé una frase di senso compiuto. Rivide quelle immagini che poco prima l’avevano fatta scappare, il sangue sulla guancia di sua madre, l’acidità di suo padre e quelle parole che egli aveva adottato nei suoi confronti, tanto agghiaccianti e distaccate da sembrare ad emarginarsi senza riserbo dal legame famigliare.
– Lo so che è successo qualcosa, Gwen…! Voglio solo che tu mi dica cosa, sono qui per aiutarti! – l’incoraggiò Ben. Voleva smuovere quel meccanismo indeciso all’interno della cugina al fine di farla sfogare completamente, vomitare quel disagio assillante e farle spiegare l’accaduto. Ma specialmente voleva sapere. Ben già prevedeva qualcosa di preoccupante.
Gwen, dal canto suo, aveva ripreso a respirare affannosamente come se quelle poche parole l’avessero riportata allo sconforto iniziale.
– Ben…!–  pianse la ragazza stringendosi al ragazzo con forza.
– Gwen, calmati ti prego! – la scongiurò Ben terrificato nel vederla soffocare all’improvviso tra tali grossi, spaventosi singhiozzi di dolore in quell’inaspettato scoppio d’afflizione.
– …Ben…!
– Sono qui, sono qui per te! Ma parla, Gwen! Parla ed io ti ascolterò, è una promessa!
Il ragazzo sentì le dita di Gwen intrecciarsi ed impigliarsi alla sua felpa con spaventosa fame di soccorso come se all’improvviso si fosse risvegliata quella ruggente e disarmante costernazione di poco prima. Pareva quasi che avendo nominato i suoi genitori avesse scaturito nella giovane un meccanismo inquieto, la causa di tutto quel dolore.
– Cos’è successo? – ripeté dunque Ben preoccupato.
– Hanno litigato, Ben…ancora…! – gemette Gwen divincolandosi.
– Hanno litigato…ancora? – ripeté Ben incredulo. Non sapeva affatto che i suoi zii all’apparenza tanto uniti potessero addirittura “litigare”.
Gwen si limitò a muovere il capo in segno affermativo. Parendo incapace a calmarsi, nell’agitarsi, nell’affanno dello sfogo, specificò:- hanno detto cose strane…su di me
Ben le strinse il polso che ancora non aveva lasciato andare :- calmati, Gwen! Ti prego, calmati! Che genere di cose…?
– Non lo so…so solo che mio padre ha affermato con chiarezza, ch’io sia figlia di mia madre.
Ben inarcò un sopracciglio cercando di capire. Poi aggiunse:- Non ci vedo nulla di strano…alludeva alle somiglianze immagino – obiettò dunque la testa.
Gwen tacque per un secondo lasciando cadere le braccia a terra fatta eccezione per quel polso sinistro che Ben teneva bloccato a mezz’aria.
– Non hai capito, Ben…– sussurrò.
Il ragazzo assottigliò lo sguardo.
– Sembrava quasi…che si escludesse completamente dalla parentela... – concluse Gwen mordendosi il labbro inferiore della bocca fino a farsi male.
Ben sentì un tumulto al cuore. Quelle parole rimasero sospese in aria: gli rimbombarono in capo, si insinuavano subdolamente dentro di lui proprio mentre iniziarono a scorrergli in testa l’immagini di sua zia che poco prima aveva tentato di dirgli qualcosa. Ben cogitò. Qualcosa. Qualcosa che non era stato detto e che avrebbe dovuto sapere lui solo. Non  poteva essere quello che pensava. Sarebbe stato troppo duro. Troppo crudele per Gwen.
– Cosa pensi…che volesse dire…?
Ben fu colto dall’ansia. La scelta che avrebbe fatto avrebbe segnato il futuro di entrambi. Perché se il suo dubbio, quel dubbio pericoloso ed inquietante che gl’era appena venuto, fosse davvero la realtà allora sarebbe stata la fine, anche se il significato di quella parola, “fine”, lo sapeva solo lui. In cuor suo equivaleva all’esatto contrario, ovvero “inizio”.
 
Continua!

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Capitolo 16
*** 21 Settembre ***


 Sienna osservò il cielo per un istante. Il chiarore fioco della luna si propagava seppure con fatica con gran ostinazione. La ragazza si sentì all’improvviso ricompensata. Come se d’un tratto avesse dimenticato i suoi mali, il suo passato. E la sua amata Cerise.
 
Ben lasciò andare il polso di Gwen che scivolò inerme lungo il suo corpo, con un fiacco fruscio.
In quell’istante non fu in grado di parlare se non cogitare febbrilmente dentro sé, chiedendosi cosa sarebbe stato meglio rispondere a quella scomoda ed al medesimo tempo straziante domanda. Ben non fece a meno di pensare – seppur fosse per un istante – quanto Gwen pretendesse da lui così all’improvviso, per la prima volta. Gli parve che volesse una soluzione facile ai suoi problemi, che le desse ragione, che non volesse che si limitasse solo a consolarla – o almeno così interpretò l’atteggiamento di sua cugina. I pensieri del ragazzo si fecero ancor più avviluppati quando ricordò un particolare su sua cugina. Lo sapeva per certo, a Gwen, sin dall’infanzia era sempre stato offerto un certo accomodamento ai propri guai, una disponibilità quasi esagerata a risolvere per mano d’altri qualsiasi a partir dai più lievi disagi. Ma lei aveva sempre rifiutato. Ben non capiva perché sin dalla tenera età ella s’ostinasse così cocciutamente a voler far da sé, respingendo caparbia qualunque mano protesa. E dunque – si chiese – a cos’era dovuto questo cambiamento così inopinato nei suoi confronti? A cosa doveva quel trattamento divinatorio e supplichevole che dal pomeriggio sua cugina s’accingeva a dimostrare? Non seppe dire, non seppe rispondersi.
Il flusso piretico delle sue meditazioni venne interrotto bruscamente da un commento di Gwen: – Se solo mi si dicesse il vero…se solo mi fosse stato detto da sempre, ora non starei qui a trarre conclusioni. Alla fine, tanto vale vivere.
Ben si alzò in piedi facendola sbilanciare: – se la verità viene nascosta con la menzogna vuol dire che quella verità…non è poi tanto mansa. Ma via, se ci dicessero sempre il vero, la noia di vivere verrebbe compensata con il desiderio della morte per dar sfogo alla voglia di saper come sia qualcosa di diverso.
Gwen l’osservò sbattendo le palpebre: – non pensavo fossi tanto acculturato.
– Qualche volta mi capita di studiare – sorrise Ben.
Sua cugina riuscì finalmente a dipingersi in volto un lieve riso e, tossendo, si alzò anch’ella in piedi.
– Ed ora spicciati, che è tempo di metter qualcosa sotto i denti. Ho fame – ordinò Ben spingendola per le spalle verso la tavola.
Gwen si lamentò: –  smettila di spingermi, idiota! Mi gira la testa…
Ben tirò indietro la sedia anteriore alla propria e la lasciò sedere: – in proposito, come stai?
– Male – rispose Gwen raccogliendo il capo tra le mani – anche se il mal di testa non sembra più esserci ho comunque la febbre.
– Si vede – ammise Ben ispezionandole il viso biancastro.
– Ad ogni modo non sto poi così male – si corresse la ragazza, senza riuscire a guardarlo direttamente negli occhi. Senza sapere perché, arrossì. Gwen non poté fare a meno di riflettere sull’accaduto odierno ancora una volta, quella che pensò fosse la centesima. Eppure, per quanto cercasse di farne a meno non riusciva a non pensare a quelle ultime ore, susseguitesi tanto velocemente e così intensamente da metterle ansia.
In quel momento, Gwen preferì lasciare da parte il proprio scontento e dare la precedenza alla malattia, che anche se attenuatasi restava pur sempre un gran ostacolo. Non aveva mai sopportato i periodi di convalescenza, in vita sua. Credeva rappresentassero un gran dispendio di tempo.
Sedutasi a tavola borbottò: – non ho molta fame …anzi, proprio per nulla.
– Non ti scomodare – avvertì dunque guardando finalmente verso il cugino.
– Non fare la bambina viziata, Gwen – la riprese Ben alzando il coperchio dell’ampia pentola che conteneva l’acqua a bollire – dovresti sforzarti, o morirai di fame.
– Ti avverto, cugino, che non sono solita ad ingozzarmi alla tua pari. E soprattutto non ho fame perché ho la febbre, non perché sono anoressica, non preoccuparti.
Ben sbuffò: – hai mangiato almeno a pranzo?
Gwen rifletté per quanto l’affaticamento le concedesse e poi rispose: – No. E neanche tu, di conseguenza.
Ben mosse il capo in segno affermativo:–  proprio così, cara mia. Quindi più che un suggerimento il mio diventa un ordine. Sbrigati a farti venire fame, anche solo per finta.
– E se poi vomitassi ? – rimandò Gwen prendendo le proprie posizioni con più decisione.
– Ammetterò che è stata colpa mia – rispose Ben inarcando le sopracciglia.
La ragazza si lamentò riconoscendo dentro sé la bruciante sconfitta, ma poi, abbandonando il capo sulla spalla sinistra, si arrese. Di norma, come aveva sempre saputo, verso sera la febbre tende ad aumentare: Gwen pregò ardentemente tra sé che nel suo caso avrebbe fatto eccezione, anche se sapeva fosse una possibilità minuscola. L’idea di stare ancor più male e quindi infrangere quella tregua del momento con il suo corpo l’inquietava. Non tanto per paura del dolore, ma per il fatto che ad assisterla in quell’istante ci sarebbe stato Ben. Sapeva bene che era stata lei ad andare da lui ma non era stato molto intenzionale, se non istintivo. D’altra parte non sarebbe potuta restare a lungo a casa propria.
 
Ben aprì con uno strattone la confezione trasparente della pasta.
Gwen, con il capo lasciato a ciondolare a mezz’aria tra le braccia, lo rimproverò percependo il rumore: – che razza di buzzurro…
Ben emise quello che parve essere un nitrito e ribatté: – bada, cugina, faresti meglio a tacere.
Gwen alzò lo sguardo: – e se non tacessi?
Ben s’avvicino alla cappa aspirante soprastante ai fornelli e premette il pulsante sulla destra, accendendone quindi la luce soffusa e spegnendo l’illuminazione principale. In quell’istante salotto e sala da pranzo, cucina comprendendo, si rabbuiarono, chiazzati solo dalla luce soffusa della lampadina della cappa e dallo scoppiettio irriverente della stufa.
– Taci, o il lupo cattivo ti divorerà – sussurrò Ben portandosi all’orecchio della ragazza.
Gwen sussultò emettendo un gridolino impaurito.
– Che fifona! – rise Ben divertito.
Gwen gli rispose stizzita: – piantala con questi giochi infantili, Ben Tennyson!
– Piantala di farmi divertire, Ben Tennyson! – la corresse Ben canzonandola.
– Non mi sono divertita – rimandò Gwen incrociando le braccia.
– Oh, invece sì! Eccome, da pazzi. Ci scommetto.
– Impossibile. Non trovo divertente uno scherzo del genere.
– Perché mai? Pensavo ti piacesse essere stuzzicata come tu fai agli altri.
Gwen gelò. Avvertì una sorta di cattiveria nelle parole di Ben.
– E comunque volevo vedere come reagivi alle provocazioni di un ragazzo.
– Non dire cose del genere, sciocco! – lo zittì Gwen arrossendo.
– Vuoi dire che non ti piace che un ragazzo ci provi con te?
– Ci stavi provando?! – urlò sbigottita Gwen sbarrando gli occhi.
Ben ridacchiò:– Assolutamente no . Ma non ho mai ben capito il tuo orientamento. Sai…la quaglia…!
– Cosa staresti insinuando, maledetto?! – strillò Gwen rossa in volto come mai l’era stata.
– Sto scherzando – sorrise dolcemente Ben – scherzavo per tirarti su il morale.
Gwen l’osservò rimanendo in silenzio.
– Sei sempre stato così, Ben – mormorò Gwen sorridendo lievemente.
– Così come, di grazia? – chiese Ben leggermente indispettito. Non capiva se tali parole fossero positive o meno.
– Disponibile ad affievolire i mali degli altri – puntualizzò Gwen abbassando lo sguardo.
Ben tacque. Svuotando metà dose del sacchetto di pasta in pentola non osò fiatare, cercando di godere di quel (addirittura secondo) momento di raro apprezzamento da parte di Gwen.
– Se ho la febbre è colpa tua, certo…che mi hai abbandonata sotto la pioggia.
Ben ricordò all’improvviso il volto straziato dalle lacrime della ragazza sotto il piovasco di quel pomeriggio dal cielo color cenerino. Ma non poté ribattere poiché sua cugina proseguì:– ma è pur vero che se ho patito solo per poco lo devo a te, alle tue attenzioni. Hai lo strano potere…di medicare le ferite che procuri con una velocità incredibile, Ben. È per questo che sotto sotto ho sempre pensato a come fare per poter essere come te. Entri a fondo nel cuore delle persone e dai lezioni difficili da dimenticare, positive, negative, checchessia. Ma fulmineamente accomodi il danno disinfettando le precedenti con parole nuove, più dolci ma pur sempre vere, vere come le prime. Riesci a dire le medesime cose inizialmente con rudezza e poi con dolcezza, o viceversa, tanto da farle sembrare dissomiglianti prima ed identiche poi. Eppure non esiste differenza.
– Fondamentalmente…penso che tu sia un ragazzo che si dona molto agli altri.
Ben all’udire tali parole si bloccò e lasciò cadere le braccia lungo il corpo.
– Non sono la persona poetica che dici io sia, Gwen – ribatté allora con un filo di voce.
La ragazza dunque tacque, zittita dal commento di Ben. Anche se non vi erano tracce di prepotenza o cattiveria alcune, le parole del giovane la bloccarono impedendole di proseguire.
– Devo proprio correggerti. Sono Ben Tennyson, un eroe fallito che una volta era qualcuno, ma ora non più. Non ci sono questi gran ricami attorno alla mia persona, non ho l’aria dell’angelo, non sono poi così buono. Sono una persona vuota, Gwen che deve i suoi momenti di gloria ad un orologio che ora è morto. Se volevi ringraziarmi bastava solamente una parola.
Gwen non fiatò nemmeno. Rimase a capo chino come s’era rannicchiata pochi istanti prima ed assunse un’espressione quasi insoddisfatta.
– Bada, Ben. Non sono una che ama arricchire di fronzoli i ringraziamenti, per questo sei totalmente fuori strada se credi che sia qui unicamente per mostrare il mio lato poetico. Nonostante io non stia poi così bene sono qui a tirarmi fuori di bocca per la seconda volta gratitudini che sento di dover porgerti. Se mi metti a tacere mi offendi, dato il fatto che se decido di ringraziarti è perché mi sento in dovere di farlo. Dico davvero.
Il ragazzo scosse il capo: – il fatto è che vorrei sapere perché vieni da me, perché chiedi il mio aiuto. L’aiuto di qualcuno che ti sei sempre rifiutata di guardare in faccia sin dall’infanzia se non quando ne sei stata costretta! Dimmi Gwen, quando sono nato?
La ragazza alzò il capo ma non rispose. In quell’istante poté solo scorgere in volto contrito di Ben alla luce fioca che la lampadina della cappa propagava nella stanza. Ma nulla di più.
Eppure quegl’occhi l’impressionarono tanto da farle morire le parole in gola.
– Dimmi quando cazzo sono nato, Gwen! Dimmelo!
Gwen tacque. In quell’istante non ricordava, annebbiata da un sudaticcio sentore d’ansia, strozzata dal torpore della malattia. E da quello sguardo denso di fastidio e desolazione che le si piantava addosso. Eppure quella data penzolava sulla punta della sua lingua tanto facile era.
– Il ventuno settembre, Gwen! Il tuo stesso giorno, il tuo stesso anno! – urlò Ben in preda all’ira.
Gwen sentì un violento tumulto al cuore. Come aveva potuto dimenticare una cosa del genere…?
– Ed allora…se ti importo così poco tanto da non sapere nemmeno da quando esisto, perché chiedi il mio aiuto, Gwen?!
Silenzio.
Ben cadde sulle ginocchia con un tonfo.
Gwen, impaurita, scostò la sedia tanto da portarsi a sedere dinanzi a lui: – Ben…!
– La verità…– sussurrò il ragazzo chinando il capo.
– …è che ho paura di non poterti essere d’aiuto, Gwen…ho paura di non poterti sostenere a dovere in questo momento… – mormorò flebilmente. La voce del ragazzo iniziò a tremare.
Gwen lo vide lasciar cadere la testa sulle sue ginocchia, sicché fu invasa dalla preoccupazione: – Ben…!
– … perché al momento non riesco a sostenere nemmeno me stesso e le mie stesse priorità…
Gwen chinò anch’ella il capo: – alludi all’Omnitrix…?
Ben non si mosse. Ma in cuor suo annuiva animatamente.
In quell’istante stava piangendo, ma non avrebbe permesso a Gwen di vederlo. Piangeva tanto da sentire il cuore contrarsi per lo sforzo di trattenere al massimo il dolore del pianto.
Gwen si sentì rigare il capo dalle lacrime. Non aveva capito quando Ben in realtà stesse soffrendo e s’era appoggiata a lui pretendendo asilo senza preoccuparsi molto. In quell’istante si odiò davvero.
Lasciò correre le dita della mano destra lungo il collo di Ben carezzandogli i capelli.
– Perdonami, Ben… – sussurrò cercando di controllarsi.
– Perdonami…Ben.
 
Continua!

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Capitolo 17
*** Armistizio? ***


   
Perdonate la lunga, lunghissima attesa. Ma per scrivere questo capitolo ho dovuto rivedere le bozze svariate volte; aggiungete il tempo che non c’è e capirete appieno il motivo per il quale la Cerise può farsi leggere solo ora :) vi saranno sviluppi inaspettati! Grazie mille a tutti coloro che mi seguono :) Buona lettura.

 
Gwen rimase immobile. Un forte rossore le attanagliava il volto indisponendola non poco.  Non era ammissibile che Gwendolyn Tennyson arrossisse.
Ben, dal canto suo, rimase con il capo poggiato alle ginocchia di Gwen. Combatteva per non tremare, per non farsi sentire, per non gemere. Eppure era talmente difficile da fargli un male immane.
Gwen commentò:– Hai intenzione di rimanertene lì?
Era cosciente d’aver sbagliato ad intervenirsene tanto di malgarbo. Ma lo sapeva, non era mai stata brava a consolare le persone con le parole adeguate. Si maledì tra sé.
Ben non le rispose, ad ogni modo.
Gwen allora provò a rimediare: – non voglio vederti così…Ben, ricordati di quello che sei stato…eri un eroe, un eroe capisci?
Ben tacque ancora.
– Tirati su.
Il ragazzo rimase immobile. E la rabbia cominciò ad invadere Gwen. La contrariava vedere il ragazzo che svariate volte aveva salvato il mondo piegato sulle sue ginocchia. Le sembrava che fosse qualcosa di estremamente assurdo.
– Benjamin Tennyson, alzati.
Nessuna risposta.
Gwen rimase infastidita da quella apparente noncuranza: odiava essere ignorata specialmente quando cercava di tendere una mano. Cosa per lei notevolmente difficoltosa.
– Per la miseria che uomo sei?! – lo riprese orbene alzando la voce.
Ben sentì il sangue ribollirgli nelle vene. Inaspettatamente la collera l’invase sicché il pianto non si tramutò in desiderio irrefrenabile di violenza. Non poteva non contraddire le parole della cugina, non seppe perché. Fu un attimo.
S’alzò: – non lo sono, Gwen!
La sedia della ragazza, subendo un urto particolarmente violento, si spostò all’indietro.
Ben, nella penombra della stanza, rimase in piedi voltandosi e dunque dandole le spalle. Doveva nascondere il viso, solo questo gli importava, anche se la rabbia al momento l’avrebbe spinto a picchiarla.
In quell’istante provò quasi ribrezzo nel sentirla piegarsi a confortarlo. Lo irritava quella sconnessione tra le personalità di Gwen.
La ragazza chinò il capo mentre Ben proseguì:– Non lo sono! Non lo sono più! Ho perso tutto quello che avevo costruito ed ora non ho più NIENTE!
Gwen tacque, incapace di rispondere, sottomessa a quelle urla gelide che le graffiavano le membra; simbolicamente, certo, ma pur tanto dure da farle provare del male reale come se le ipotetiche unghie dell’insoddisfazione di Ben le fendessero la cute.
– Se non sei un uomo – mormorò allora Gwen – non sei nemmeno un Tennyson.
Ben si voltò e, agguantandola nuovamente per i polsi, la mise spalle al muro, scostandola di peso dalla sedia:– vorrei tanto capire cosa ci fai qui! Cosa vuoi che ti dica?! Che ti consoli, forse?!
Gwen rimase in silenzio contraendo lievemente la propria espressione e serrando gli occhi. Ben si contraddiceva, ripeteva ciò che aveva già detto e del quale oramai s’era scusato. Non era più lui; vi era una profonda incongruenza nel suo comportamento. Gwen non avrebbe mai approvato questo crollo.
– Vuoi che ti dica che hai ragione?! Che sforni magicamente la soluzione ai tuoi problemi quando non dovrei che prendere in considerazione ciò che vivo adesso e che mi uccide tanto fa male! Cosa vuoi da me?! Vuoi le mie parole, la mia accondiscendenza, cosa vuoi?! – proseguì Ben inumanamente iroso.
Gwen ribatté: – voglio solo che ti calmi,miseria!
Ben ansò, lasciando cadere il capo e serrando gli avambracci di Gwen.
Gwen si decise ad alzare la voce, seppur questo le richiese gran sforzo:– Abbi il coraggio di rialzare il viso, se davvero ti chiami Tennyson! Compiangi l’eroe che sei stato senza nemmeno muovere un dito per difendere i resti del tuo sunnominato passato! Critichi me ma non sei poi tanto meglio, idiota!
Ben riprese fiato attutendo la voce.
– Non hai capito nulla, Gwen…
– Non ha importanza quanto e cosa io abbia capito! Alza la testa!
– Non posso farlo – brusì Ben con voce glaciale, servendosi d’un sussurro.
– L’eroe che decanti, l’eroe che ho conosciuto non si comporterebbe tanto assurdamente – sibilò Gwen con disprezzo – non approvo in nessun modo questa retrocessione oscena ed infantile!
– Dimmi Gwen – balbettò Ben all’improvviso interrompendo quanto la ragazza stava per aggiungere.
– …chiediti se è concepibile che gli eroi piangano…
– … e poi valuta se richiedermi di mostrarti il volto.
La presa di Ben sui polsi della cugina perse improvvisamente in forza.
Gwen vide finalmente alla debole luce il volto del cugino. La controbattuta le morì in gola.
– Tu…stavi piangendo, Ben… – mormorò mortificata studiando lo sguardo sofferente del ragazzo.
Ben allora abbassò il capo: – non è affar tuo…
– Io non lo so, Benjamin – sussurrò Gwen trattenendo il pianto anch’ella.
– Io non so più cosa dire – aggiunse – per la prima volta in vita mia…
– Ma se cerchi compassione non l’avrai …
Ben scosse lievemente il capo,abbassando lo sguardo.
– Perdona la mia sconsideratezza, cugino – sussurrò Gwendolyn con un respiro – ma al momento non posso rispettare le condizioni che m’hai posto quest’oggi.
Gwen strinse allora il ragazzo, le quali braccia scivolarono inermi lungo il corpo. A quel punto fu ovvio intendere, anche per Ben, a quali condizioni Gwen alludesse.
– Ricorda, Ben, che quanto sta accadendo…
– Non è mai successo. Non farne parola con nessuno. Nemmeno con te stesso.
Ben rimase in silenzio ma mosse il capo. Acconsentì.
Mai.
 
Il telefono di casa Tennyson squillò sicché Lily s’affrettò a rispondere uscendo miracolosamente dalla pesante situazione creatasi con il marito.
– Oh, Lily. Sono Sandra! – trillò la voce aldilà della cornetta.
La donna si sforzò d’apparir felice: – Sandra. Come stai?
– Nulla di che, ho avvisato Ben di quanto deciso.
– Ne sono felice. Come l’ha presa? – azzardò Lily.
– Al solito. Quel ragazzo è proprio figlio di suo padre, stupidi cocciuti – ridacchiò Sandra.
Lily sentì improvvisamente il vuoto dentro sé. Rimase in silenzio, quasi ferita dalla propria realtà, così complessa da farle male,lontana da quello stereotipo.
– Ad ogni modo, telefono per sapere come state – squittì dolcemente la cognata.
Lily rispose: –  non male, non male – anche se la sua convinzione vacillava.
– Sai Lily, mi è venuta in mente una cosa. Non siete vincolati dal fatto che Ben passerà le vacanze da voi, voglio dire…insomma…stavo riflettendo sul fatto che io e Carl non ci vediamo mai e così mi sono detta, accidenti, sarebbe solo un bene se tu e Frank usciste liberamente, queste ferie. I nostri figli hanno ormai sedici anni. A me basta sapere che Ben non sia completamente solo. Ma per il resto…
– Sei molto gentile, Sandra. Terrò presente il tuo consiglio.
– Non prenderla come malizia – s’accertò Sandra – è solo che dal canto mio mi rendo conto che passo sempre meno tempo con Carl, ci vediamo quasi di rado. E siamo sposati…mio Dio, mi sentirei mortificata a sapere che per star dietro a mio figlio anche voi non vi godiate le vacanze. Non potrei mai perdonarmelo.
Lily sospirò: – ti ringrazio molto, Sandra. A questo proposito seguirò il tuo consiglio.
– Perdona il fatto di Ben…è che gli voglio così tanto bene che non posso che preoccuparmi. Ma via, ad esser mamme,si sa, non si finisce mai.
– Lo so – mormorò Lily –…lo so bene.
– Ti lascio – bisbigliò Sandra teneramente.
– Va bene, grazie per le tue parole.
– Di nulla Lily, ciò che va detto è da dire.
Senza rispondere, Lily ripose il ricevitore.
Calò il silenzio.
Frank borbottò:- dov’è Gwendolyn?
– Suppongo sia in camera sua.
– Credo sia bene io vada a salutarla, un padre dovrebbe fare almeno questo.
Lily non rispose.
– Un padre – ripeté a bassa voce vedendo scomparire l’uomo per le scale.
 
Nella cucina dove si trovavano i ragazzi, scese un inquietante silenzio.
Ben si scostò da Gwen,come mosso dalla vergogna:– non sarebbe meglio che tu avvisassi che sei qui?
Gwen annuì: –…non ho con me il cellulare, però.
– Il telefono è in salotto – si limitò a dire Ben sedendosene a terra.
– Grazie mille, Ben.
Il ragazzo tacque, sospirando. Ma all’improvviso, come magicamente, squillò il telefono da sé.
– Dieci dollari che è tua madre – mormorò Ben accingendosi a rispondere.
Gwen obiettò: –  non scherzare…
Ben si voltò e, con una certa professionalità, alzò la cornetta: – casa Tennyson, parla Ben.
– Dimmi che tua cugina è da te – fece freddamente quella che Ben ricordò essere la voce di suo zio Frank.
– Effettivamente è così – confermò il ragazzo sentendo un brivido freddo lungo la schiena.
– Cosa intende fare? – domandò di conseguenza suo zio parendo lievemente irritato.
Ben coprì per un attimo il ricevitore e riferì a Gwen che si limitò ad abbassare lo sguardo con aria combattuta. Quella vena di disagio profondo e malinconico che intersecava il suo volto lo impensierì talmente che con una smorfia di compassione raddolcita, ripresa la conversazione, riferì:–  vista l’ora e la temperatura esterna, credo sia meglio, nelle sue condizioni, che si fermi a pernottare qui.
– Quali condizioni? – chiese distaccato Frank.
– Come quali? – convenne Ben –  Gwen è malata.
– Ah.
Il ragazzo, fece una piccola pausa di sconcerto. Solo poi continuò senza osar guardare Gwen: – Ad ogni modo…la sistemerò in camera dei miei genitori visto che non c’è nessuno dei due…domani mattina andrò a scuola quindi al limite o resterà qui o passerete a prenderla.
– Non v’è maniera che acconsenta, Ben. Ricorda che sono stato un adolescente anch’io, sebbene non sembri. Non posso fare una cosa del genere, sebbene mi fidi di te.
– Certo…capisco – balbettò Ben.
– Lasciami finire di mangiare e vengo a prenderla – concluse Frank Tennyson.
– A presto, Ben – riagganciò allora senza nemmeno lasciargli la possibilità di rispondere.
Il ragazzo ripose la cornetta senza proferir parola.
– Tuo padre passa a prenderti non appena terminerà di mangiare, Gwen.
La ragazza annuì con il capo aggiungendo un misero: – mh…
Ben le si sedette accanto: – non si fida di me, in realtà…
Gwen non rispose, immaginando che alludesse a suo padre Frank.
– Non capisco cosa potrebbe esserci tra noi, Gwen. Non capisco da dove derivi tutta questa paura…sfiducia…
Sua cugina silenziò ancora, raggomitolandosi su sé stessa. Le parole di sua madre le rimbombarono in capo. Quanto comprendeva…
– … io e te abbiamo lo stesso sangue…come potrei arrivare a…
Ben si interruppe. Strozzato dalle sue stesse parole.
– Perdonami – convenne – non dovrei essere così indiscreto da parlarne a te tanto deliberatamente.
Gwen scosse la testa con delicatezza: – a chi altri dovresti parlarne…
– Dovrei tacere…
Dopo qualche secondo di mutismo Ben proseguì: – si dice che i panni sporchi si lavano in casa…che se c’è qualcosa d’inopportuno da dire sarebbe bene solo confidarlo a sé stessi. Non so nemmeno perché ho aperto bocca.
– Panni sporchi…–  ripeté Gwen abbandonando il capo all’indietro con morbidezza.
– Sarà il caso di mangiare, ti vedo fiacca – sviò Ben.
Gwen non riuscì nemmeno a ribattere.
Ben la guardò e sorrise debolmente: –  devi sforzarti o resterai a stomaco vuoto per tutta la notte. S’alzò, dunque, e prese un altro piatto dalla dispensa. Adagiandolo sul tavolo aprì anche il cassetto delle posate estraendo una forchetta ed un coltello.
Gwen lo ringraziò tramite un malinconico, flemme sguardo.
– Perché sei così gentile con me, Ben?
Il ragazzo, colpito da quelle parole la guardò con smarrimento stanco, senza sapere cosa dire quasi agonizzato dalla lassitudine. Non fece ad ogni modo tempo a spiccicar parola che, d’improvviso, ricordò: – per la miseria…la pasta!
– Non mi hai risposto, Ben…
Il ragazzo tacque, sviando lo sguardo. Prese il colapasta ed indossò i guanti.
– Non dirmi sciocchezze come “perché siamo cugini” o simili, perché sai benissimo che ci siamo sempre odiati…
Ben si limitò a dire: –  non so, Gwen. Sarà perché sono una persona caritatevole…
– Se volevi far dell’umorismo…sappi che hai fallito – puntualizzò la cugina intimandogli: – dimmi il vero motivo.
– Non c’è un motivo.
– Come fa a non esserci? – ribatté la ragazza – sei forse l’unica persona al mondo che fa le cose senza un perché?
Ben abbassò lo sguardo: –  le persone che vivono la propria  vita prendendo decisioni casuali sono tante…non riesci a capirle solo perché tu non sei una di queste.
Gwen rimase in silenzio, calando mogiamente il capo.
– Ma è anche per questo che mi rendo conto di star entrando più in sintonia con te…forse perché siamo tanto diversi da imprimere nell’altro un senso di curiosità…
– Non sei mai stato così profondo…–  commentò Gwen.
– Ultimamente invece faccio parecchi pensieri di questo tipo… –  aggiunse Ben – … più che filosofici mi sembrano…intimi.
Gwen sussultò.
Ben scolò la pasta in una terrina di vetro che, per il gran vapore, fu avvolta dalla condensa.
–  Sai Gwen, non mi sembri nemmeno più te stessa – confessò il cugino.
Gwen non gli rispose cosicché Ben, impensieritosi, domandò: –  cosa ti succede?
– Alla fine di questa giornata dimenticheremo quanto successo. E torneremo ad essere Ben Tennyson e Gwen Tennyson…che non si guardano nemmeno e si salutano a malapena, giusto se ve n’è l’obbligo…tanto vale che tu dica tutto ora.
Ben poggiò la terrina sul tavolo.
– Non saprei cosa dire – specificò Gwen piano.
– Allora alzati…e vieni a mangiare.
 
Sienna era rimasta sola ed ora vagava per le vie della città. La pioggia aveva perso molto in intensità ed ora cadeva a piccole lacrime, senza infastidire l’animo di nessuno. La ragazza sospirò facendo uscire dalla propria bocca una nuvoletta di fiato bianco che si disperse nell’aria.
Kevin mormorò: – dove alloggi?
Sienna non poté che dire la verità: – non alloggio.
Il ragazzo sbiancò: – Fammi capire…non hai un posto dove stare?
– No – sorrise Sienna.
– Idiota! Siamo in dicembre, si gela persino a mezzogiorno e tu pensi di dormire senza una stanza la notte?! Cristo!
– Mi è bastato esser arrivata qui…
Kevin fece una pausa.
– Dunque è così forte l’amore che provi per quel ragazzo?
Sienna tacque ma acconsentì con il capo poi aggiungendo: – se ora posso ancora gelare come dici, provare emozioni, ridere, piangere…lo devo a lui.
Levin abbassò il capo: – capisco…in questo caso non accetterai se ti chiedo di pernottare da me.
Sienna, assumendo un’espressione sconvolta domandò: - cosa vorresti dire?
– Non fraintendere! Ho del posto e potrei offrirti l’alloggio per la notte, che ne dici?
La ragazza si rilassò: – in questo senso non posso che accettare umilmente.
– Ne sono felice – sorrise sollevato il ragazzo.
– Scusa che pensavi?! – chiese poi.
– Nulla di nulla!
Kevin scoppiò a ridere: – io lo so a cosa pensavi!
Sienna ritrovò il sorriso: – piantala!
 
Frank Tennyson terminò di mangiare un tozzo di pane che aveva trovato in dispensa dopo aver realizzato, roso dalla rabbia, che sua figlia non c’era più. Non si fidava di lasciarla da Ben, per la notte. Non confessò nemmeno a sé stesso le paure che lo perseguitavano a riguardo. Dopo aver passato una mezzora a meditare a masticare lentamente si decise ad alzarsi ed infilare il cappotto per poter andare a riprendersi sua figlia. Sua figlia. Frank adorava Gwen, sebbene faticasse a mostrare i propri sentimenti voleva un bene dell’anima alla sua piccola bambina. Non poteva sopportare quanto stava occorrendo, a lui, certo, ma anche alla sua famiglia che stava crollando, dei quali onore e sentimenti erano ridotti a miseri brandelli d’insoddisfazione. Invidiava mortalmente la felicità – quantomeno apparente – della bella famigliola di suo fratello Carl. Ben stesso, era oggetto della sua gelosia: un ragazzino spensierato che aveva visto crescere orgoglioso e fiero. E dietro di lui due genitori responsabili e indulgenti al punto giusto. Lui non era mai stato né indulgente né sicuro, aveva mascherato per quarant’anni or erano la propria incontentabilità, insofferenza cenerina, con la rabbia e un comportamento duro.
Senza salutare uscì di casa, afferrando dalla tasca le chiavi dell’automobile. In quel momento desiderava recuperare il tempo perduto. E dimenticare il dolore astioso che lo uccideva ormai da sedici anni.
Gwen ripose la forchetta al lato del piatto: – era buona – si limitò a dire.
– Strano, non ti sei mai complimentata con me, cugina – fece Ben togliendole il piatto da sotto il naso.
Gwen osservò l’orologio con insistenza, senza rispondergli, senza neanche ribattere. Erano passati trenta lunghi minuti durante i quali i due cugini avevano cenato avvolti dal buio spruzzato dalle luci fioche della stufa e della cappa sopra il forno. In silenzio religioso. Senza una parola.
Allorché Ben s’apprestò a riporre le stoviglie nel lavandino la ragazza mormorò: – non capisco più nulla,Ben.
Il ragazzo rimase zitto, dandole le spalle e lasciando scorrere l’acqua sopra i piatti sordidi.
– Spero sia per via della malattia – aggiunse Gwen – ma non ricordo con precisione cos’è accaduto oggi. Ho solo qualche frammentaria reminescenza.
– Smettila di parlare così, sembri una poeta.
– Una poetessa, idiota – lo corresse Gwen.
– Non è necessario che tu mi corregga sempre, Gwendolyn.
– Zitto, Benjamin.
Vi fu un attimo di silenzio seguito da una risatina improvvisa.
– Gwen, cosa ridi?
– Non posso?
Ben ridacchiò: – è solo che non riesco a non copiarti…!
– Armistizio?
– Armistizio.
Suonò poi il campanello.
Ben mormorò: – è sicuramente tuo padre.
Gwen gli sorrise debolmente mentre andò ad aprire la porta.
– Ciao, Benjamin – fece l’uomo apparendo sulla soglia.
– Ciao, zio – rispose Ben intimidito dalla solita aura torbida di suo zio.
– Ciao, Gwendolyn.
Gwen,intimorita, rispose: – ciao, papà.
– Muoviti, andiamo.
– Sì. Subito – acconsentì Gwen a capo chino.
Ben osservò la cugina con compassione ma venne distratto dalla voce di suo zio: – Bene, Benjamin. È il caso d’avviarci. Ti saluto.
Il ragazzo mosse il capo in segno affermativo.
 
– Potresti…prendere i compiti anche per me, domani? – chiese timidamente Gwen.
– Va bene – rispose Ben.
Gwen allora fece per oltrepassare la soglia di casa.
– Gwen,aspetta – la bloccò Ben all’improvviso.
– Che c’è…? – mormorò la ragazza abbassando lo sguardo.
– Come ti senti?
Gwen rimase spiazzata dal tono raddolcito con il quale ora Ben le si rivolgeva.
– Sto meglio, grazie. Mi gira solo un po’ la testa, ho freddo…ma nulla di che.
Frank intervenne: – no guarirai standotene ferma, muoviti.
Ben vide scomparire nel buio della notte le due figure. Con una certa preoccupazione.

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Capitolo 18
*** L'infamia del Bestiame. ***


 Perdonate l’estenuante attesa, ma ribadisco di avere davvero poco tempo per dedicarmi alla scrittura. Ponendo le mie più umili scuse, vi lascio alla lettura (spero piacevole) del nuovo capitolo de La Petite Cerise. Grazie mille a tutti coloro che mi seguono.
AVVISO: Ho tra l’altro una novità :D Ho riveduto e corretto maggior parte dei capitoli precedenti riscrivendo le parti non chiare e migliorando qualsiasi parte potesse risultare difficoltosa. Ecco un’altra motivazione del mio terribile ritardo >.< A presto!
 
Il cielo notturno di quella gelida nottata dicembrina era chiazzato da stelle fulgide. Osservandone la magnificenza, Lily Tennyson terminò di riporre le valige per il viaggio nel bagagliaio della propria automobile. Frank era andato a recuperare Gwen senza nemmeno prendersi la briga d’avvisarla, sparendosene com’era solito fare. Ma la donna sapeva che il loro volo non si sarebbe certo preso la premura d’aspettarli e così, aveva deciso che sarebbe stato meglio caricare la seconda automobile evitando in questo modo di perdere tempo prezioso aspettando il ritorno del marito. Chiusa la portiera, salì le scale della cantina e tornò al piano di sopra. Lily ripose il cappotto sospirando, come colta da una sospetta angoscia la cui natura l’inquietava.
 
Il silenzio invase l’automobile di Frank Tennyson. Gwen non aveva avuto il coraggio di sedersi accanto al padre, preferendo piuttosto rintanarsi nel sedile posteriore.
Frank non si preoccupò molto dello stato di salute della figlia. Gwen, dal canto suo, credé che il padre non se ne curasse letteralmente. E questo le fece abbassare il capo per il dispiacere, dispiacere nato dalla convinzione di non contare più nulla per nessuno.
Per tutto il viaggio non si dissero una sola parola. Gwen, per la prima volta, aveva paura.
 
Ben, pur non sapendo perché, continuava a sentirsi indosso una strana preoccupazione. Lo sguardo, o meglio quello sguardo cinereo che aveva visto macchiare il volto di suo zio l’inquietava. Sperava che tutto fosse filato liscio. Il ragazzo prese e strinse tra le dita il telefonino.
 
Frank e Gwen giunsero a destinazione sicché l’uomo fermò la macchina parcheggiando in prossimità del proprio giardino. Scendendo dalla vettura, non ancora una singola parola. Socchiusa la porta i due trovarono Lily ad aspettarli: Frank nemmeno badò al volto perturbato della moglie che, con un indefinito misto di apprensione e sospetto, osservava l’ingresso tacito dei familiari.
Il silenzio avvolse la stanza.
Il mormorio spedito delle lancette dell’orologio del salotto fece da unico sottofondo non riuscendo che ad aumentare spaventosamente l’ansia delle donne scandendo i minuti con il suo singolare, ligio ticchettare.
Chiusa la porta, Frank sospirò come infastidito. Dover interrogare Gwen sulle proprie malefatte l’indisponeva, non ne avrebbe avuto nessuna voglia.
Lily non si mosse, standosene dirimpetto al tavolo della cucina.
Gwen, sfiancata, non avrebbe desiderato altro che coricarsi. Così accennò un passo, al fine di salire le scale e quindi raggiungere la propria stanza da letto. Ma venne bloccata.
– Fermati, Gwendolyn.
Un gelido senso di terrore fece contrarre i muscoli della giovane che se ne rimase di spalle, trafitta da quell’improvviso rimbrotto dal suono tagliente. Mai suo padre – Gwen riconobbe – aveva usato un tono tanto agghiacciante con lei. Anche se dovette ammettere, seppur tra sé e sé, che da qualche anno a quella parte, ci parlava talmente poco da non aver sentito altre possibili varianti. La giovane rimase in silenzio, senza voltarsi.
– Che diavolo facevi da Ben? – chiese Frank con un filo di voce, terribilmente duro.
Gwen brusì: –  non sono tenuta a dare una risposta.
Frank rimase particolarmente indisposto da una risposta del genere. Incrociò allora le braccia.
– Ti aspetti che te la faccia passare liscia? Cerca di rammentare molto bene che in questa casa comando ancora io e che tu hai l’obbligo tassativo di dirmi quando esci, con chi sei, dove vai. Dimmi perché sei andata da Ben.
La figlia ripeté:– non sono tenuta a dare una risposta.
Il padre inarcò pericolosamente un sopracciglio ed, avvicinandosi, la prese per un braccio, avvertendo sorgere un’ira improvvisa: – Ti rimembro che io sono responsabile di te. Ne sei dunque sollecitata caldamente.
La giovane aguzzò lo sguardo: – non è da te che desidero essere sollecitata né è da te che desidero una qualsivoglia protezione genitoriale, grazie.
Il tono irriverente e arrotato della sua voce trafisse l’atmosfera, ormai pesante come un macigno.
L’uomo, distrutto dalla stanchezza del lavoro e spossato, non poté credere a quanto stesse uscendo dalla bocca della figlia. La rabbia saliva. Frank strinse minacciosamente la presa calcando violentemente sui polsi:- Non rivolgerti con un tono del genere a tuo padre, mi hai capito?!
L’uomo fissò la figlia con una di quelle occhiate che nessuno mai vorrebbe sentirsi puntate indosso: uno sguardo collerico schizzato d’ira, sufficientemente gelida da metter paura folle. Tanta sfacciataggine gli fece quasi dimenticare l’immenso amore che provava per Gwen.
Lily tremò nel captare improvvisamente il lampo furioso che attraversò gli occhi del marito. Sapeva bene che non vi sarebbe stato modo di placare quello che si preannunciava come un selvaggio sfogo di rabbia. Per questo pregò che Gwen smettesse di parlare.
– Non permetterti – sibilò Frank la cui stizza pareva star aumentandosi a dismisura. Frank la prese per la camicetta guardandola dritto negl’occhi: –  non ti azzardare, Gwendolyn!
Gwen scostò il capo: –  non varrebbe la pena d’ascoltare un tuo solo lamento. E credi…a questo punto…non ho più vincoli – rispose non benché minimamente intimorita. La rabbia di anni stava lottando per poter aver libero sfogo. Ma la ragazza si contenne, limitandosi ad una parlata schietta, osando appena quel tono insolente. Se avesse potuto, l’avrebbe ammazzato. In quel momento però il suo stato fisico non l’aiutava, facendole avvertire di tanto in tanto poderose fitte di dolore. Ma volle procedere. Quello che non sapeva era di star aizzando una fiamma pericolosa.
– Non sai quello che dici, Gwendolyn – sibilò Frank stringendo i pugni.
– Credo tu abbia confuso me con te – ribatté Gwen.
– E non è stata una buona scelta – aggiunse scansandosi con uno strattone e dirigendosi verso le scale.
Lily rabbrividì. Poi abbassò il capo, contraendo le palpebre più che poté. Maledì l’ostinazione di Gwen perseguendo a pregare febbrilmente tra sé. Intuiva come sarebbe finita. Lo sapeva. E capitò di fatto quanto aveva previsto seppur tanto avesse supplicato non accadesse.
Frank prese Gwen per il colletto tanto fortemente da voltarla: –  tu sei una Tennyson! Non puoi fare in casa mia quel che ti pare! Qui comando io, è chiaro?!?
– Non vedo la necessità di un rimprovero visto che non ho fatto nulla di male né ho disobbedito – rimandò Gwen.
– Non osare prenderti gioco di me Gwendolyn – sbottò Frank – rammenta che i rimproveri servono a portare gli idioti sulla retta via! – berciò dunque aizzato a tal punto da non riuscir più a controllarsi. Non seppe bene per quale motivo stesse ora tanto inveendo contro la sua adorata figliola. In quell’istante fu abbagliato dalla furia.
Frank continuava ad alzare il tono di voce con una progressione mostruosa:– Ficcati bene in testa che un Tennyson non commette errori! Un Tennyson non disobbedisce! Un Tennyson, per il nome che porta…
– Mi chiedo a cosa mai serva essere una Tennyson… – l’interruppe Gwen seccata.
In quel momento fu colpito mortalmente l’orgoglio del padre che si rimboccò la manica destra alzando il braccio tanto in alto da andar a confondersi – agli occhi di Gwen – con la luce abbagliante del lampadario che irradiava la stanza.
–  Serve a non essere bestiame come tutti gli altri!
Gwen venne scagliata a terra da un pugno esageratamente forte. Nello scivolare sbatté la schiena sul tavolino del salotto capitolando pericolosamente supina.
Lily non alzò nemmeno il capo. In quell’istante temeva. Pativa. Soffriva per la figlia in maniera immane come se venisse percossa in prima persona. Ma non poteva muoversi. Non doveva se voleva restare viva.
Asciugandosi la bocca sporca di sangue al lato sinistro, Gwen sollevò il capo e mormorò: – non sai far altro che usare la violenza…
– Sta zitta! Impara a sottostare a chi di te sa di più! – urlò suo padre piantandole indosso certi occhi di fiera e bloccandole il collo con le mani.
La ragazza non parlò. In cuor suo sapeva che non avrebbe vinto. Stava soffocando, le mancava il fiato. Ma doveva resistere. Doveva.
Frank non provò nemmeno a placarsi. Sentì in corpo un tal inasprimento da voler urlare dalla collera. E fu così che stringendo i pugni afferrò il colletto della figlia scuotendola pericolosamente:.–  Che ne sai tu della vita?! Sei solo una maledetta mocciosa di sedici anni che pretende di sapere quello che prova un genitore!
Gwen, ad un tratto, si rese conto di non star facendocela più. Abbandonò il capo all’indietro, privata  d’ogni qualsivoglia forma di reazione. Non avrebbe mai potuto affrontare un’ennesima lite in quello stato che altro non era se pietoso.
– Perché sei uscita a quest’ora?! Lo sai che non ti è concesso! E tra l’altro sei andata da Ben! Perché proprio da Ben?!
Gwen non avrebbe potuto rispondere. Dentro sé stava urlando quel nome maledetto che le martellava in capo da quella mattina, implorandolo d’intervenire, mentre veniva strattonata e sfigurata a forza di schiaffi dalle mani di colui stesso che l’aveva plasmata sedici anni or erano.
Gwen, estraendo dal proprio corpo le ultime forze, sibilò: – non mi hai mai proibito di andare da Ben…
– Proibisco gitarelle notturne! – rimandò gridando il padre furibondo – proibisco lo scempio!
Gwen improvvisamente capì. Con l’orrore saturo di chi realizza qualcosa di tremendo. La rabbia anestetizzò l’agonia. Alzò un braccio e, pur la vista le si stesse annebbiando, afferrò il colletto del padre con una violenza spaventosa.
Nel frangente di terreo silenzio venuto a crearsi mormorò con voce glaciale :– di cos’hai paura, Frank…?
Gli occhi del padre s’ingigantirono. “Frank”. Non più il canonico “papà”. Quel nome rimase ad aleggiare nell’indigeribile atmosfera generatasi, finché la ragazza non portò avanti il proprio intento.
– Di cos’hai paura?! – gridò Gwen schiaffeggiando all’improvviso il volto del padre.
Lily, ammutolita e dal viso spaventato a morte , si coprì gli occhi con le mani gelide che fino a quel momento aveva portato alla bocca con il terrore di uno spettatore che desidererebbe esser cieco. A quel punto non ebbe la forza di guardare. E sapeva bene il perché.
La fiamma che Gwen aveva istigato con tanta protervia divenne un rogo.
Frank strinse tra le mani il collo di Gwen con tutta la forza che aveva in corpo.
– Come osi?! Come osi, sgualdrina?!
Frank percosse Gwen sino a toglierle il fiato, strattonandola.
– Basta Frank, basta per l’amor di Iddio! – supplicò Lily inginocchiandosi ai piedi del marito che ancora picchiava con violenza atroce il corpo della figlia. Oramai aveva perso completamente il criterio, accecato da quell’ira deterrente.
L’uomo lasciò andare il collo della ragazza scansando la moglie con uno strattone.
Frank rimase in piedi respirando affannosamente, a pochi passi dal corpo sfibrato di Gwendolyn che giaceva a terra a capo rivolto. Respirava affannosamente, consumato da quell’eruzione di collera sovrumana.
– Non ti basta vero…? Non ti è bastato… – sussurrò Gwen dopo pochi secondi. Non era soddisfatta. Voleva morire per mano di quel padre che sembrava non amarla per poter poi urlare che finalmente era colpa sua. Avendo finalmente delle prove.
– Cosa…? – sibilò Frank.
Gwen abbandonò ora il capo lateralmente : – cos’avete entrambi…? Da quando è stata data notizia di questo Natale a due non fate…che ricamare sconce supposizioni attorno ad un ipotetico…orrore… 
Gwen prese fiato.
– Proprio come fossi una puttana.
Calò il silenzio più indigesto che si potesse.
Lily trattenne il respiro.
Frank assottigliò lo sguardo ansando rabbiosamente.
– Sembra desideriate…con tutto il cuore…questa maledizione…
– Disonorerò il nome che porto, se è questo che volete.
– Ma non mi si venga poi a dire che sono una sgualdrina se eseguo gli ordini che mi date tramite subdoli lavaggi di cervello quotidiani...denigrando questo nome infangato da una collezione indistinta di membri pietosi.
Gli occhi di Frank s’accesero nuovamente. E Lily se ne accorse.
La donna, pianse: – smettila Gwen…! Smettila ti prego!
– Sparisci dalla mia vista – mormorò Frank.
– Mi hai ridotta a brandelli…non ne ho facoltà – sussurrò Gwen tanto freddamente da spaventare la madre che la fissava con occhi di immensa pietà.
– Come i peggior zotici lasciano i rifiuti al lato delle strade…tu lasci me nelle mani di un destino che hai creato tu solo…in nome di un appellativo sudicio di false apparenze…Tennyson? Sputatemi addosso, di prego…finché non mi venga estirpato di dosso.
Frank calciò il corpo di Gwen ripetutamente ricominciando ad urlare fuori di sè: – Taci! Non osare un tale affronto!
L’uomo, accecato dalla rabbia, rovesciò con le braccia il tavolo mandando in frantumi l’intero corredo di piatti e bicchieri che vi erano adagiati. Senza fermarsi rovesciò le sedie, con uno sguardo assatanato. Gwen, che aveva ripreso a respirare sentì il cuore fermarsi, come bloccato all’improvviso. Frank urlò ripetutamente: – Sta zitta! – e, prendendo alcuni dei grossi frantumi dei piatti fece loro colpire con violenza il corpo della ragazza, emettendo un rumore sordo e scivolando a terra infrangendosi brutalmente per una seconda volta.
– Basta! Basta Frank! Basta in grazia del Cielo! – supplicò Lily ora piangendo.
– Zitta! – la mise a tacere Frank con un ennesimo strattone.
– Bada! Bada a quel che fai, Gwendolyn! – minacciò poi gridando.
Frank la sollevò per il colletto portandola sulle gambe. Nel silenzio più tombale sibilò:- ricorda...
– …come ti ho insegnato a camminare…
– … posso anche fare in modo che tu non ci riesca più.
E detto questo spinse all’indietro il corpo della ragazza che, cadendo, precipitò malamente in terra.
Lily pregò Iddio tanto che egli parve illuminarla d’improvviso. Seppe, come miracolata, che fare. Prese il cappotto con un gesto fulmineo e trascinò il marito fuori dalla porta: – il volo, Frank! Il volo!
L’uomo continuò ad urlare ma ella, tanto spinse, che riuscì a trarlo all’esterno, diretta verso la macchina che aveva caricato poco prima in previsione della partenza notturna. Non riuscì nemmeno a chiudere il portone di casa tant’era la foga. Nell’andarsene sussurrò tra le lacrime: – Gwen…!
– Mamma…! Non andare…!
Gwen tese la mano alzandosi per quanto poté.
Lily abbassò il capo tra i colpi di Frank.
–...ti picchierà…! Non andare! – implorò Gwen.
– Va a letto Gwen…– mormorò Lily mordendosi il labbro inferiore combattendo per trattenere nuove lacrime.
Sua madre scomparve di fretta inghiottita dal buio gelido di quella notte.
Silenzio.
Il peggiore che Gwen avesse mai udito.
Cadde sulle ginocchia. Sentì la macchina partire con un rombo di motore. Poi il silenzio. Ed il freddo diaccio dell’inverno che entrava violentemente dalla grande porta aperta.
Gwen era sola. Pesta. Ben non c’era.
Il buio della notte avvolse la stanza tra le sue dita subdole. Gwen chiuse gli occhi, sedutasi a capo chino sui talloni. Strinse le palpebre mordendosi il labbro. Ma non riuscì più a contenersi.
Urlò con tutto il fiato che le restava. Urlò tanto da sentir di non poter più continuare, urlò con lo strazio dilaniato che le imprimeva indosso tutto quel dolore . Ma si sforzò finché, sfibrata non scoppiò a piangere nella solitudine straziata di quel che era stato un letterale campo di sterminio.
 
 Ben era rimasto solo, sazio della pastasciutta appena mangiata, appagato dal calore della stufa ma incredibilmente agitato. Sedutosi sul divano, infilò le pantofole. Si chiese come mai si sentisse tanto preoccupato; si scoprì a fissare il cellulare che aveva abbandonato in prossimità della propria coscia destra.
– Maledizione…– borbottò sviando lo sguardo.
Il giovane si portò le mani al volto abbandonando dolcemente il capo all’indietro. Chiuse gli occhi per un istante strofinandosi le palpebre lentamente. Stremato dalla stanchezza, sbirciando da uno spiraglio tra le dita, diede un’occhiata sfuggente all’orologio.
Accese il televisore prendendo tra le mani il telecomando lasciato in un cantuccio,accoccolandosi tra i cuscini.
Lanciò un secondo sguardo al cellulare.
– Per la miseria, Ben! – si rimproverò raccogliendo il capo tra le braccia – ti stai comportando come una ragazzina!
Con uno sguardo contrito abbassò lievemente il gomito destro:-…
– Maledetta… – brontolò.
 
Gwen, accasciata a terra, non ebbe la forza di muoversi. Si limitò ad adagiare il capo al pavimento e rimanersene lì, come morente, senza nemmeno chiudere la porta, dalla quale peraltro entrava un freddo immane. In quel momento era totalmente sprovvista di energie. Respirava lentamente, come ogni singolo sospiro fosse l’ultimo. Non era in grado nemmeno di riflettere.
Socchiuse gli occhi osservando la mano accasciata accanto al viso. Un alone violaceo cominciava a cerchiarle i polsi, evolvendo pian piano.
Gwen sospirò.
Improvvisamente udì il cellulare vibrare.
Senza alzarsi provò ad estrarre il telefono dalla tasca dei jeans. Ma prima che ci riuscisse, ostacolata dal dolore, la chiamata terminò.
Gwen allora abbandonò la mano a terra.
“Sgualdrina”. Solo quella parola ora le martoriava il cervello, oltre che un ennesimo e selvaggio mal di testa.
Se l’era detto da sola, certo. Ma era stato come se fossero state parole di suo padre. Aveva dato la propria infanzia per quell’uomo. Aveva adempito ad ogni dovere, studiato fino allo sfinimento, ottenuto i migliori risultati in ogni campo. Per una ricompensa pari ad un borbottio stanco:- non potevi fare meglio? – ogni santa volta. Ma ora basta.
Sentì il telefonino vibrare di nuovo. Imprecando tra sé alzò nuovamente la mano.
Lo sguardo appannato divenne nitido quando lesse il nome sullo schermo.
 
Il torpore bigio della notte aveva avvolto le membra di Lily Tennyson che ora sonnecchiava
adagiata al sedile dell’automobile al fianco di suo marito. Non aveva riflettuto sulla pericolosità di quel gesto, aveva solo pensato a quanto naturale avesse dovuto essere. Avesse, appunto. Eppure ora lasciava il capo ciondoloni permettendo alla luce dei lampioni autostradali di creare fastidiosi seppur maestosi giochi di luce aldilà delle sue palpebre. La preoccupava solo il fatto di aver lasciato Gwen da sola. Eppure non vi era via alternativa. Doveva salvare sua figlia da quell’uomo che s’incattiviva sempre di più. Sperava soltanto di poter essere ella stessa a placare la ferocia di quello che malgrado tutto era suo marito. Se solo Gwen avesse saputo, probabilmente non avrebbe mai approvato. Ma per quella figlia, avrebbe venduto l’anima. E dato tutto quanto possedesse.
 
Gwen portò il cellulare all’orecchio, ma non parlò.
– Gwen…?
– Che c’è, Ben…
Vi fu un attimo di silenzio.
– Telefono per sapere se va tutto bene…
Gwen tacque osservandosi i polsi. Fu allora che decise.
– … Gwen?
– Non ti preoccupare, Ben.
– Mi chiedevo…hai avuto problemi con tuo padre? L’ho visto così strano…
– No.
Gwen poggiò la guancia al pavimento ancora una volta.
– Gwen…
– Che vuoi…
– Non mentirmi.
La ragazza rimase muta.
– Hai avuto problemi con tuo padre? – ripeté il ragazzo – Ero maledettamente in pensiero.
Gwen sentì un tumulto al cuore.
– No. È solo che la febbre…è salita.
– Allora chiudo. Non voglio che ti affatichi per colpa mia, cugina.
Gwen si accorse che una scheggia di ceramica, sicuramente un rimasuglio di uno dei piatti, giaceva poco lontano. Il chiarore lunare ne rifletté il volto sulla superficie lucida. La ragazza notò un taglio laterale sotto il collo violaceo.
– Ben… va tutto bene. Anzi, sto bene.
– A domani cugina…
– A domani…
Gwen sussurrò: – …Ben.
– … ti voglio…
Ma la chiamata era già finita.
La ragazza lasciò scivolare a terra il telefonino.
 
Continua!

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Capitolo 19
*** L'Adrenalina della Disubbidienza. ***


ATTENZIONE: Per farmi sapere qualunque cosa pensiate riguardo LA PETITE CERISE, sappiate che potete scrivere all’indirizzo ufficiale della storia lapetitecerise@yahoo.it ove potrete esplicitare i vostri pareri ed opinioni riguardo la fanfiction, farmi sapere cosa vi piace e cosa no, criticando liberamente i passi che abbiate qualora trovato difficili, privi di senso o che non abbiate apprezzato. Mi raccomando però, se dovete criticare fatelo costruttivamente, non gradirei ricevere insulti.
Grazie mille, risponderò ad ogni vostro dubbio.
 
Ciao ragazzi! Rieccomi dopo lungo tempo, vi chiedo ancora di perdonarmi. Le Feste caotiche ed i festeggiamenti per l’anno nuovo non mi hanno dato respiro ed il riprendere della scuola poi, non ha certo alleggerito il carico delle cose da fare, vi prego, assolvetemi.
Capiterà spesso che posti così in ritardo, da un mese all’altro. In più i capitoli stanno diventando lunghi e laboriosi e ho bisogno di documentarmi per alcuni passaggi. Per scusarmi e ricompensare la vostra pazienza ho scritto più che ho potuto! Fate attenzione, il capitolo è molto più lungo del solito.Vi lascio alla lettura :)

Capitolo 19
L'Adrenalina della Disubbidienza.

Ben spense e riaccese il cellulare per un quantitativo di volte pressoché inestimabile. Guardata distrattamente la televisione e meditato a lungo, non poté che sviare un profondo senso di vomito rizzandosi in piedi ed indirizzandosi verso la propria camera da letto, spegnendo la stufa durante il suo cammino. Era stata una giornata lunga ed estenuante che ora non faceva che pesare sulle sue spalle.
Ben accese la luce, chiuse i balconi ed azionò il riscaldamento. Era solo. Eppure no, sentiva di non esserlo davvero. In cuor suo, perlomeno.
 
Sienna seguì Kevin sotto quella che ormai era divenuta una pioggerella tanto fine da non infastidir nemmeno. Il buio della notte andava intensificandosi e la boria noiosa dell’inverno macchiava l’atmosfera inquietando lievemente la ragazza.
Kevin faceva strada tutto fiero, guidando Sienna verso il proprio appartamento. Era la prima volta in vita sua che era stato sfiorato dal pensiero d’un opera caritatevole nei confronti di qualcun altro.
Dopo pochi minuti di cammino si trovarono dinnanzi una struttura dal aspetto tipicamente anni settanta, tinta di un rosso bordeaux discutibile, certo, ma allo stesso modo affascinante.
– Ed eccoci arrivati – annunciò Kevin emanando un corposo nuvolo di fiato bianco.
Sienna non disse nulla limitandosi ad abbassare il capo: provò una certa vergogna a trovarsi in quel posto, in quell’istante. Si sentiva come una ladra, un’approfittatrice. Com’era stata.
 
Kevin fece girare la chiave in quella che parve essere una vecchia toppa ed invitò Sienna ad entrare nel suo piccolo appartamento.
– Come sai vivo solo – sorrise orgoglioso – ma ho ormai diciotto anni, posso permettermelo – aggiunse allora ringalluzzendosi pavoneggiante.
– Sbruffone – ribatté Sienna ridendo di gusto mentre il ragazzo azionò le plafoniere della piccola seppur accogliente hall e delle stanze limitrofe pigiando la pulsantiera dell’illuminazione.
La ragazza allora si guardò attorno, sentendosi stranamente rilassata. L’arredamento non era molto moderno, Sienna azzardò seguisse lo stile dell’intero edificio, dando molto l’idea di quel retrò educato degli anni che furono. Le piacque.
All’entrata un armadio, un appendiabiti ed il contatore. Alla destra, invece, un piccolo cucinino a muro dalle ante di un bianco sporcato dal tempo, una finestra abbastanza grande ed un tavolino appena sotto d’essa, affiancato da due panche in legno biondo. Dinanzi loro un minuscolo salotto con appena un divano ed una televisione. Successivamente una porta chiusa. Probabilmente a condurre verso la camera da letto.
– Come potrò ripagare una simile disponibilità? – mormorò dunque la giovane.
Fece tale domanda dopo aver provato un certo sentore, un rimasuglio incerto dal passato.
Il ragazzo se ne rimase di spalle, poggiando il cappotto all’appendiabiti collocato all’angolo.
Si voltò rispondendo: – in natura?
Sienna sgranò gli occhi e arrossì violentemente. Cominciò a balbettare tanto che Kevin scoppiò a ridere non riuscendo più a mantenere l’espressione seria adottata per il bluff:– non ci avrai creduto davvero, razza di perversa!
La ragazza rimase a bocca aperta. Ci aveva creduto. Perché non era per lei cosa nuova. Riuscì appena a bisbigliare: – …maledetto idiota!
Il giovane si prese a contorcere dal tanto deriderla al punto di finirsene bel che seduto a terra.
– Per l’amor del Cielo! – balbettò la ragazza coprendosi il viso rossa come mai l’era stata.
Prese a calciarlo per gioco controllando la propria forza: – vecchio marpione incallito! Vergognati! Impudente! Approfittatore!
Cominciò a ridere: – non potrò più prender marito dopo codesto disonore, ah me tapina!
Kevin le afferrò un piede:- addirittura…! Non sarebbe il primo.
La ragazza ignorò le ultime parole dell’amico:– Mollami! – lo minacciò allora mostrandogli la lingua e continuando a ridere.
– Non ne ho alcuna intenzione – ribatté il giovane prendendo a farle dondolare la caviglia senza smettere di burlarsi di lei.
– Piantala!
– Ora ti tolgo la scarpa, stai a vedere! – ridacchiò Kevin.
– Non osare!
– Hai forse qualcosa da nascondere? – chiese il ragazzo con aria maliziosa.
Sienna divenne ancora più rossa: – Ovvio che no! Cosa dovrei nascondere?!
– E allora…!
Con gesto felino infilò le proprie mani accanto alle gambe della ragazza e dando una lieve ma decisa spinta la fece capitolare ginocchioni sopra di lui.
Sienna sentì il cuore fermarsi. Smise di respirare, mentre deglutì sentendo sulla pelle l’infrangersi brusco di uno strattone immaginario, riapparso dal nulla non appena gli occhi le s’erano collegati con la memoria. Ma no, non poteva accadere. Non con Kevin, Sienna si fidava di lui. Era il suo unico vero amico.
– Perché sei tutta rossa? Non avevi forse nulla da nascondere? – domandò Kevin sviando lo sguardo.
– Io…non sono rossa – balbettò Sienna dopo un breve istante di silenzio. La sua voce aveva assunto un timbro inaspettatamente fermo e ruvido. Aveva ricordato all’improvviso, nuovamente, senza volerlo, come se una forte sberla dal  passato l’avesse riportata dinanzi ad un indicibile promemoria. Che doveva tacere.
– Ho freddo. Il rossore non è che…infreddolimento.
Scusa peggiore non le sarebbe potuta uscir di bocca, in quanto nell’appartamento s’avvertiva perfettamente il caldo emanato dal termostato.
– Racconti anche balle, adesso? – mormorò Kevin sorridendo debolmente sotto i baffi.
– Scusa…è che…non posso.
– Non puoi  cosa…? – sussurrò il ragazzo al suo orecchio.
Sienna si ritrasse, bloccata repentinamente: – non posso starmene…in queste posizioni
Kevin la interruppe, portandole una mano alla guancia e lasciandovi scorrere le dita:– “posizioni”…interessante – ridacchiò con malizia.
Ma Sienna non lo badò e terminò di parlare: – quando … ho giurato eterna fedeltà alla mia Cerise.
Calò un silenzio devastante. Più devastante ancora del gran vortice creatosi nel cuore di Sienna.
La ragazza venne assalita dal terrore che quell’invito altro non fosse stato che la maschera di un terribile secondo fine.
Kevin sbuffò, abbandonate le spalle all’indietro.
S’alzò bruscamente, scostando Sienna: – Con te non si può neanche scherzare…non sei cambiata affatto.
La ragazza piegò il proprio sguardo in un’espressione afflitta: – …scherzare…?
Era dunque “per scherzo” che avrebbe dovuto tradire la sua Cerise? Di nuovo? L’orrore l’attanagliò le membra.
– Idiota…non montarti troppo la testa – convenne Kevin andandosene.
– Che…?
Il ragazzo reagì dipingendosi in volto una smorfia di disappunto. Con voce sprezzante rimandò:– Che pensavi? Che ti avessi offerto di stare qui per cosa…? Non ricordi più come funzionano le cose?
Sienna gelò. Abbassò la testa.
– Ricordavo che facessero questo quelle come te. Non meravigliarti tanto.
La ragazza sentì squarciarlesi il cuore. “Quelle come lei”. Di nuovo. Non doveva essere cambiata? Non lo era? Non lo aveva detto anche lui poco prima? Cosa stava succedendo? Sienna di tastò un braccio con la mano stringendolo poi a sé. Erano dunque tutte menzogne quelle che il giovane le aveva dette? “Cambiare vita”: le venne quasi da piangere ributtata da quella che in cuor suo riconobbe come vile fandonia.
“Quelle come lei”. Non riusciva a scollarsi quella frase di dosso, non era capace di liberarsi dell’effetto amaro che aveva su di lei. Un tempo non le avrebbe fatto tanto male. Già, un tempo. Quante volte l’era stata lacerata la carne da quelle stesse parole. E quante aveva permesso a sé stessa di lasciarsi ledere tanto crudelmente in cambio di brevi, effimere occasioni. La sua coscienza chinava ad ogni occasione il capo, sovrastata e posseduta da spasmodica ed inusitata rabbia, incosciente e infima carestia morale. Pur morendo di volta in volta colta da uno strazio prolisso. Pur tentando – invano – di inabissare la boria per far spazio all’umiltà, nei lunghi momenti di solitudine, per cadere nell’illusione nebbiosa di riuscire ad oscurare un penoso decadimento. Ed anche ora, dopo una faticosa risalita, le pareva di esser scivolata di nuovo all’interno del proprio passato. Erano bastate tre parole. 
– Ed ora seguimi. Non vorrai dormire sul pavimento.
Sienna si alzò tremando.
– Sì.
Era tornato improvvisamente tutto come prima.
“Oh, ma petite Cerise… je suis morte encore une fois. Ed ancora una volta tu non ci sei.”.
 

* * *

 Gwen aprì gli occhi, sola, avvolta dal silenzio di quell’enorme casa vuota. Trovandosi invasa da un dolore frastagliante.
La luce del mattino rischiarava il salotto devastato di casa Tennyson penetrando debolmente dalle grandi finestre in entrata. Gwen si mise a sedere trascinando a fatica le gambe assoggettate dall’indolenzimento, facendo leva sulle braccia indolenzite. Realizzò d’aver dormito raggomitolata a terra per circa otto ore.
Si massaggiò i polsi notando poi con sgomento che la porta d’entrata era rimasta aperta per tutta la notte. Gwen si sentì devastare dalla preoccupazione, dal terrore che qualcuno potesse essere entrato. Nonostante fosse a pezzi e sentisse crocchiare ogni osso del suo corpo si levò in piedi precipitandosi tanto sveltamente quanto poté esserlo a chiudere il portoncino. Si guardò intorno. Pareva essere tutto normale. Un miracolo. A parte un numero esagerato di cocci di ceramica bianca e scaglie di vetro sparsi ovunque, nulla sembrava differente. Gwen si lasciò scivolare a terra poggiando il capo al legno freddo della porta. E sospirò, abbandonandosi a quello che credé fosse rimasto il suo ultimo sostegno; uno stipite in ciliegio gelido.
 
Ben udì la sveglia suonare e con sommo sconforto ebbe che tirarsi su dal letto. La routine l’uccideva, ogni mattina era come il riproporsi noioso d’un film Natalizio sulla rete nazionale,non vi sarebbe stata via di scampo. Eppure, alla fine, a Ben la cosa nemmeno dispiaceva; anche se, sebbene gli rodesse profondamente il fatto d’essersi ritrovato improvvisamente uno studentello anonimo – si sentiva così seppur fossero trascorsi anni dallo spegnimento dell’Omnitrix – non poteva fare a meno di pensare quanto comoda fosse quella vita ciondolante, scandita in buona parte dal volere degli altri.
Sospirò e scostò il lenzuolo, poggiando i piedi al tappeto che se ne stava adagiato accanto al letto. Un pensiero lo bloccò: rifletté sul giorno prima, quel dannato e infinito accumulo sciatto d’ore che altro non aveva fatto se non impensierirlo. Provò un certo ribrezzo nei confronti della propria cattiveria, in fondo si rese conto di star denigrando le pene di Gwen. Ma in quell’istante non fece a meno – quasi senza neppur soffermarvisi a meditare – di lasciar correre l’accaduto oscurando scostumatamente i ricordi. Non ce l’avrebbe fatta ad ammettere che seppur per poco le distanze tra lui e sua cugina si fossero accorciate. Anche (soprattutto) perché ripensando a Gwen non riusciva a vedere alcun legame. L’odio nei suoi confronti – che l’aveva accompagnato per una lunga infanzia – era andato oramai tramutandosi in un sentimento neutro e inanimato. Questo non fece che inquietare ulteriormente il giovane. Scosse selvaggiamente il capo e dopo una capatina al bagno per rinfrescarsi il viso assopito e fare una doccia fulminea si costrinse a scendere per fare colazione. Non volle uscire di casa preferendo uno spuntino casereccio sicché aprì la dispensa e ne estrasse un cartoccio di pane. Con aria stanca sfilò dal sacchetto una pagnotta del giorno prima, che mise a scaldare. Nel chinarsi verso il frigo per prendere del burro, il suo sguardo venne improvvisamente catturato da uno scintillio.
– Che diavolo…?
 
Gwen si trasse in piedi. Era stufa di starsene a ciondolare. Voleva sistemare quel marasma allo sguardo poco meno che macabro; quasi si supplicò da sé di cancellare – se non altro fisicamente – uno degli avvenimenti della sua vita che avrebbe preferito non vivere. Si portò le mani alla fronte madida e bollente, udendo improvvisamente la rotula rumoreggiare nel piegarsi. Non le importava di sentirsi tanto male, non le importava più di nulla, per la precisione.
Doveva rimettere tutto a posto prima che arrivasse Ben dopo la scuola.
Non poteva (né voleva) permettere che qualcuno rovistasse tra le proprie vicende famigliari. Si chinò poco lontano dal divano a raccogliere i primi frammenti di ceramica lucente. “Qualcuno…” mormorò tra sé smettendo di ammucchiare i pezzi indistinti sul palmo caldo della mano sinistra. “ Come se fossimo due estranei...”.
Proseguì la propria raccolta a capo chino, rossa dalla vergogna d’aver pensato qualcosa di orridamente simile.
La sua vita era un controsenso. Lo era per meglio dire la sua logica che in quel frangente definì ella stessa quasi meschina e contorta : pretendeva ausilio pur essendo la prima ad allontanare i soccorsi; Gwen percepì un simile ragionamento (o forse rendiconto) come una scostumata ammissione di miseria intellettuale. Che non approvò.
 
Ben si trascinò a scuola senza il minimo entusiasmo. Sentiva di stare per vomitare. Eppure, veniva rincuorato dal fatto che quello che s’apprestava ad affrontare altro non era che l’ultimo dì scolastico prima delle vacanze di Natale. Nonostante tutto, non riusciva a star sollevato. Si chiese perché, sedendo al proprio banco. Infilatosi la mano in tasca, tastò il piccolo bottone che aveva trovato poco prima sul pavimento della propria cucina. Era stato attirato dalla sua bordatura dorata e l’aveva raccolto dopo un’attenta osservazione. Poteva immaginare di chi fosse. Non lo aveva mai visto prima “se non al petto di quella” si disse. Sgranò gli occhi poi assottigliando lo sguardo, mutandolo dunque in un’occhiata stanca.
“Che noia.”
 
Gwen lasciò scivolare nella pattumiera riservata al vetro la maggior parte dei cocci che sin quell’istante aveva raccolto da terra. Si era tagliata più di qualche volta ma non certo gravemente: le sarebbe bastato mettere qualche cerotto.
Il vorticare funesto che le scoteva violentemente il capo non faceva che intralciare la sua operazione di “cancellazione fisica di eventi” facendola scivolare di tanto in tanto o metter a sedere per ritrovar il baricentro. Ma Gwen non aveva alcuna intenzione di coricarsi se non ad opera terminata. Non seppe come ma riuscì a risollevare il tavolo della sala da pranzo e a sistemarlo esattamente dove originariamente stava. Fortunatamente la maggior parte dei frantumi era rimasta avvolta dalla tovaglia, macchiata dal vino rovesciato nel gran trambusto.
Improvvisamente Gwen cadde sulle ginocchia. Cominciava a sentire la febbre aumentare ed il respiro serrarlesi in gola. Nel panico, raccolse il capo tra le mani pregando Iddio di riuscire per un istante almeno a ristabilirsi; chiuse gli occhi lasciandosi scivolare all’indietro, finendo poggiata mosciamente ad una gamba della tavola. Si odiò per essersi addormentata a terra senza curarsi del freddo tremendo della notte. Non le aveva portato che dolore. “Bell’idiota.”.
Nel portarsi una mano al cuore sentì una sottile sporgenza ruvida correrle poco sotto al collo. Ricordò.
Rimase zitta, immobile. Percorse piano, tracciando dolcemente con le dita quello che sapeva essere un lungo e marcato taglio trasversale, ad albergare poco sotto le proprie clavicole. Lentamente. Tanto lentamente da adattare il respiro a quel ritmo apatico, nel tentativo sconsolato di calmare la furia di tale paurosa evoluzione, evoluzione di quel che era nata come una semplice febbre ed era divenuta sofferenza atroce.
Gwen si sfiorò piano il collo, con dita tremanti; lo ricordava segnato dalla presa animale che il padre vi aveva esercitato senza ritegno. Facendo scivolare cautamente le dita, come a toccar una delicatezza che allo sfioramento si spezzi, carezzò la cute come coccolandola, nutrendola fisicamente delle blandizie che implorava di ricevere ma non otteneva. Con la cautela più avveduta a questo mondo, impaurita continuamente di farsi danno.
Venne assalita dalle rimembranze della sera prima. Rabbrividendo addolorata lasciò scivolare il capo su d’un lato, lottando per stingersi gl’occhi di quei fotogrammi cruenti e a lei tanto irreali che disgraziatamente erano accaduti.
E poi ecco comparire il volto di Ben.
Gwen si morse un labbro, abbandonando le braccia a terra.
Depositando la mano sul pavimento gelido s’accorse s’aver tastato un frammento. Volle tener chiusi gli occhi. Provò ad indovinare da cosa derivasse. Un bicchiere? Un piatto? Una bottiglia?
Gwen aprì gli occhi. Non le importava più cosa fosse. Portò con la mano sinistra quel frammento biancastro sul palmo destro sfregando per un attimo la cute. Piegò lo sguardo in una smorfia morbida.
 
Maria Theresa Hudson era la professoressa che Ben preferiva in assoluto. Era una donna di mezz’età, di gran classe, che insegnava Lettere al Liceo che Ben frequentava; non era una nuova conoscenza, anzi, una vecchia amica di famiglia che Ben aveva già visto in precedenza. La prima cosa che la donna aveva fatto era stata andargli incontro riconoscendone il nome e complimentandosi con lui per l’indirizzo scelto. Ben ne era totalmente affascinato.
– Prestatemi attenzione per un momento, figliuoli. Desidero assegnare i compiti per le vacanze, ma non preoccupatevi, mi conterrò! Infondo – ridacchiò – sono vacanze per tutti.
Ben prese il breviario scolastico con l’energia di un bradipo, ma si controllò in rispetto alla tanto ammirata insegnante.
– Desidero che leggiate la poesia di pagina 187 – ordinò quindi la professoressa riportando le informazioni sfogliando il libro di testo – per quanto riguarda l’antologia è tutto qui, ma non crediate di darci una letta soltanto, figliuoli. Badate a non farmi arrabbiare.
– Dovrete lavorarci a coppie parafrasandola interamente. La poesia verrà esposta al termine delle vacanze.
Ben non si preoccupò di controllare di quale poesia si trattasse, tanto gliene importava. Si limitò a fissare l’orologio con un desiderio premente di udire la campanella suonare.
– Le varie coppie verranno ora selezionate dai rappresentanti previo estrazione – aggiunse la professoressa. Vi lascio dieci minuti, prima del suono della campana che venga comunicato ogni abbinamento.
Ben non si accorse delle parole della donna. Fissava fuori dalla finestra come il giorno precedente. Passarono secondi, poi minuti. Ben non seppe. Scappava da quella situazione rumorosa fissando al di fuori della stanza. Si accontentava di quella via di fuga effimera.
– Tennyson.
Ben si voltò di scatto richiamato dalla voce zuccherina della professoressa, che nel frattempo aveva raggiunto il suo banco nel mezzo del marasma generale.
– Perché tua cugina è assente?
Ben rispose: – Gwen ha la febbre, professoressa.
– Mi raccomando, riferiscile i compiti.
– Non si preoccupi, è ciò che mi ha chiesto ella stessa di fare. Ovviamente, io eseguirò.
La donna sorrise: – a questo proposito. Stavo pensando…non è davvero una fortuna che tu sia capitato in coppia con Gwen?
Ben gelò.
Non aveva ascoltato quelli che credé all’incirca fossero stati gli ultimi quindici minuti di lezione e si era chiaramente perso l’assegnazione dei gruppi. Si maledì.
La professoressa continuò: –…visto che lavorate sempre separatamente è davvero una notevole occasione. Assieme a Gwen potresti davvero produrre qualcosa di buono figliuolo, ed inoltre sareste avvantaggiati, essendo cugini avrete modo di vedervi più spesso, durante queste vacanze.
– Il tempo, le assicuro, non mancherà – rispose Ben cinicamente.
– Non voglio essere sfacciata, Benjamin. Ma sembra che tra te e Gwen non vi sia alcun tipo di tolleranza. Se devo ammetterlo, è anche per questo che approvo la formazione della coppia Tennyson–Tennyson. Per una vostra ulteriore maturazione, è capitata proprio a fagiolo.
Tennyson rimase zitto, osservando gli occhi limpidi dell’ insegnante.
– Non prenderla a male, Benjamin, mi raccomando – s’affrettò ad aggiungere la donna – ma sai trovo che possediate dei potenziali notevoli, anche se tu potresti fare decisamente di più, e non sfruttare un così buono e valido imput per qualche screzio non mi pare molto conveniente…sei un ragazzo maturo, penso tu capisca a cosa alludo. Spesso è infantile rinunciare dapprincipio a qualcosa che potrebbe rivelarsi davvero fruttuoso per qualche antipatia…per questo mi piacerebbe andaste d’accordo o almeno lo fingiate per portare avanti questo piccolo compito.
Ben tacque ma annuì rassegnato. Non poteva più farci nulla.
– E poi…
Ben alzò gli occhi verso la donna non appena l’udì aggiungere dell’altro.
–…è triste vedere quanto vi ignoriate seppur condividiate lo stesso sangue…
Ben sentì il proprio stomaco contrarsi. Lo stesso sangue, diceva. Lo stesso che ora percorreva il suo corpo, vena per vena, irrorando muscolo per muscolo.
– Già…– mormorò il ragazzo tremando al percepire il flusso febbrile di quel maledetto liquido denso su e giù per il suo corpo.
– Non arrabbiarti, Benjamin. La mia era solo una considerazione. So bene di non avere il diritto per intromettermi.
– Si figuri – mormorò Ben a capo chino.
– Non prendermi per una che vuol dar ordini o imporre le proprie idee…ma…io credo che nella vita vi siano cose che vanno fatte perché ne si è obbligati. Ma da esse può sfociare un qualche aspetto positivo che, accecati dalla malavoglia, non avremmo mai considerato. A volte invece siamo entusiasti poiché faremo qualcosa che abbiamo precedentemente immaginato come meraviglioso. La delusione sarà molto più forte nel secondo caso, semmai andasse male. Ti prego, Ben. Lascia da parte l’infantilismo, confido molto in te.
Ben non disse nulla. Si limitò ad acconsentire ancora una volta.
– Mi raccomando,voglio un lavoro eccellente, attivatevi non appena Gwen si sarà ristabilita – sorrise l’insegnante.
Ben abbassò lo sguardo. Quella donna era geniale, una vera e propria Mente.
Suonò la campanella di quella lunga terza ora.
– Ti saluto e ti faccio i miei migliori auguri, Ben – disse la professoressa.
– La ringrazio, un felice Natale anche a Lei.
 
Gwen tracciò con il coccio di ceramica una linea immaginaria sul proprio polso, senza calcare troppo.
– La soluzione.
Fulmineamente, mentre con sguardo cupo e morto osservava l’ondeggiare della scheggia per la propria cute, ricordò frammentariamente le parole di Ben che, inveendo contro di lei, le rinfacciava di star cercando una soluzione facile ai propri problemi la quale – secondo l’opinione del cugino – da lui Gwen pretendesse venisse sfornata.
La ragazza si bloccò. Lasciò cadere il frammento a terra.
Tacque ancora per una manciata di secondi, abbassando poi il capo dopo aver avvertito il premere funesto di un pianto di rabbia. Mormorò:– Né a te…
– … né a mio padre…
–…concederò il gusto di potermi guidare.
Gwen si costrinse in piedi: – solo i deboli dipendono dagli altri.
Al termine di tale soliloquio, la giovane riprese il proprio lavoro, combattendo il dolore con la sola arma che possedeva: la propria forza. In barba alla suddetta e decantata “tenacia” del nome di cui tanto avrebbe dovuto andar fiera.
 
Ben sentì il cuore pendere il volo all’udire il suono dell’ultima campanella dopo il trascorrere straziante delle ore conclusive. Fece la cartella in un batter d’occhi ed, infilato sveltamente il giubbotto, sciamò fuori dall’aula svincolandosi a fatica dalla marmaglia di studenti che con gran voga, si sparpagliavano per i corridoi dell’edificio scolastico colti dall’entusiasmo dell’ufficiale inizio delle vacanze.
Una volta varcati i cancelli scolastici, Ben portò lo sguardo al cielo con grandi occhi di speranza. Lo vide rischiarato e rasserenato rispetto il giorno precedente, notò anche che,con il passare delle ore, il clima s’era andato stabilizzando e l’aria non era più tanto fredda quanto la mattina stessa. Soddisfatto si diresse verso casa.
 
Gwen, dopo aver riordinato il disastro nato dal litigio della sera prima cavandosi di corpo le ultime forze, salì le scale esausta, diretta verso la propria camera da letto. Guardò l’orologio: rabbrividì nel notare che la scuola, stando all’orario, era finita da poco. Le vacanze erano ufficialmente iniziate. L’inquietudine della notifica la cosparse di una certa inusitata angoscia, che Gwen pregò svaporasse a breve. Presto Ben sarebbe stato lì. E Dio solo sapeva che sarebbe accaduto.
Giunta nella propria stanza, passò per caso accanto allo specchio, nel raggiungere il letto. Si fermò. Si avvicinò. Indugiando, mosse una mano verso la propria immagine riflessa; poggiò timorosa un dito in corrispondenza della proiezione del proprio petto e si accorse che quel maledetto squarcio era dannatamente evidente. Così come le macchie violacee che le tracciavano il collo.
Alzando gli occhi all’armadio, lo sguardo le si accese per un istante. E sospirò sollevata.
 
Ben ficcò le mani nelle tasche del giaccone, sperando almeno lì riposte stessero più al caldo. Nel farlo, gli tornò alla mente di possedere quel piccolo bottone trovato poco prima in cucina. Sbuffò portando nuovamente lo sguardo in alto al cielo. Non poteva ancora credere che in una sola giornata – quella addietro – fosse accaduto tutto quel gran trambusto con Gwen. Avevano litigato milioni di volte già in passato, ma Ben sentiva che per quanto riguardasse il giorno precedente non fosse lo stesso. Aveva provato qualcosa di diverso. Ma né in positivo né in negativo.
Cominciava a non sopportare più i suoi stessi discorsi. Come poteva evolvere in positivo l’odio? “Odiare è odiare” si disse infastidito. Arrivare a non distinguere più nemmeno i propri sentimenti lo mandava in bestia. Ed inoltre, non faceva che pensare a ciò. Costantemente. Emise un grugnito esasperato continuando – controvoglia – a mulinare.
Solitamente, o per lo meno durante la loro infanzia, i litigi tra Ben e Gwen nascevano da battute ciniche o antipatici dispetti che davano sfogo ad un trovar da dire indispettito che però sarebbe durato al massimo qualche ora. La situazione tra loro era andata peggiorando negli ultimi tempi, dopo il loro ingresso al Liceo – seppur fossero passati due anni – quando improvvisamente tra loro i rapporti s’erano spezzati. La cosa che più lo sorprendeva era che fossero nella medesima classe e a stento si parlassero. Ben non sapeva come, non sapeva perché. Tant’era.
Inoltre, per il ragazzo, il giorno precedente era stato un vero e sostanzioso sproprio di energie; ancor non si capacitava di come mai avesse tanto inveito contro la cugina anziché preferire una riappacificazione facile. Avrebbe potuto evitarsi battibecchi del genere e invece no, aveva continuato a bisticciare.
Camminando per la via principale di Bellwood , Ben si bloccò di scatto poco prima di giungere dinanzi casa propria.
Rimase dirimpetto alla struttura a riflettere. Avrebbe dovuto entrare e preparare un borsone da portare da Gwen per le tanto annunciate ferie “in compagnia”. Ma bastò un istante: un’idea che gli balenò inaspettatamente in capo lo fece proseguire il proprio cammino vero casa della cugina. Senza alcun borsone.
 
Dopo poco, Ben bussò alla porta della casa della cugina, ma non ricevette alcuna risposta. Immaginò Gwen dormisse sicché prese di tasca le chiavi che suo zio gli aveva lasciato e, infilatele nella toppa del portoncino in legno, si trovò all’interno.
Sfilò il cappotto appendendolo al portabiti vicino l’entrata e si trascinò dietro lo zaino evitando di fare rumore.
 
Gwen udì la porta principale aprirsi e venne assalita dal terrore. Poi però ricordò che altri non avrebbe potuto essere se non Ben ed infilò il capo nuovamente sotto il piumone, stingendo a sé il foulard nero che poco prima, scorto per miracolo, aveva avvolto attorno il collo al fine di nascondere i vari sfregi. Cominciò a domandarsi se suo cugino fosse salito. Le era tornato un lancinante mal di testa ma, per quanto lottasse strenuamente, non fu in grado di cancellare quel pensiero. Spaventata, provò a chiudere gli occhi dopo aver allungato la mano verso il comodino ove una scatola di antidolorifici padroneggiava.
 
Ben guardò l’orologio. Benedì il Natale e le Feste che quel giorno gli avevano assicurato un rientro anticipato rispetto al solito e sedette sul divano. Riusciva ad udir appena il ticchettare dell’orologio, nulla più. Calma piatta. Era indeciso sul se andare a controllare come stesse Gwen o se lasciarla in santa pace. Prese a girarsi i pollici, ciondolò il capo, lo raccolse tra le mani, fischiettò, si adagiò, prese a battere ritmicamente i piedi. Infastidito dalla propria stessa petulanza il ragazzo s’alzò in piedi di scatto dopo ben quasi sicuramente dieci minuti di travaglio etico. Con aria combattuta si decise a fare il primo passo verso la scalinata che portava al piano superiore. Ma si bloccò. Cominciò a non sopportarsi da solo e diede inizio ad un pietoso soliloquio:- che diamine stai facendo?! Io?! Niente! No, tu hai intenzione di salire, mio caro Ben. Non scherziamo! Mi prendi per un idiota?! Perché andare da Gwen? È una ragazza. Una ragazza che sa badare a sé stessa. Ma è malata! E allora?
Ben sgranò gli occhi respirando affannosamente. Che pena, commentò tra sé, che orrida pena.
Si era fatta l’una di pomeriggio e Ben aveva una gran fame. Timidamente diede un’occhiata all’interno della dispensa. Sfilò dal primo ripiano un pacchetto di patatine confezionate. Poi le ripose, quasi vergognandosi delle proprie azioni. Non gli piaceva scroccare, anzi, non gli era mai piaciuto. Stare in compagnia di Gwen per tutto quel tempo non era l’unica cosa che lo bloccava dinanzi quella proposta (che era più un obbligo) di permanenza. Sarebbe dovuto vivere sulle spalle di un’altra famiglia – parenti,certo – ma comunque a scrocco. Impensabile. Si sarebbe sentito troppo in colpa.
Si decise a salire.
 
Gwen sentì bussare alla porta e, spaventata, aprì gli occhi pur mantenendo il capo saldo sotto il piumone, rimanendosene sul fianco opposto alla porta della stanza. Finse di dormire mentre lottava contro il dolore pulsante che le attanagliava le tempie.
– Gwen…?
La ragazza non osò muovere un muscolo.
Ben sedette sul letto accanto a lei e sospirò rumorosamente.
– Hai fame?
Gwen non parlò.
Ben tacque per un istante. Poi continuò: –  non prendermi in giro. So benissimo che sei sveglia.
Gwen si arrese: –  ma ho un mal di testa linciante.
– Hai preso un’aspirina?
– Sì.
– Vuoi una pezza bagnata?
– No.
– Ho capito, la vuoi.
– Ho detto di no .
Ben cambiò discorso:– Devo parlarti. So che stai male, ma non appena ti rimetterai…gradirei scendessi.
Gwen rabbrividì; parlare di cosa…?
– Parlami ora.
– No. Ora me ne vado, se stai male è inutile. Speriamo che cali la febbre.
– Ben, non farmi preoccupare.
Il ragazzo sorrise debolmente:– non è nulla di grave. Riposa.
– Non voglio riposare, ora voglio sapere.
– Riposa. Dopo ti preparerò una tisana e ne parleremo.
Gwen non disse nulla. E Ben uscì dalla stanza.
 
Passarono all’incirca tre o quattro ore durante le quali Ben non fece che ciondolare, guardare la TV o passeggiare per la casa. Gwen riposava ancora.
Il ragazzo si alzò dirigendosi verso la cucina, affamato. A pranzo non aveva mangiato dopo essersi fatto mille problemi per quel benedetto pacchetto di patatine ed ora pativa come un cane.
Gli venne in mente di predisporre quanto gli fosse servito per preparare una bevanda calda alla cugina, quantomeno avrebbe perso qualche minuto. Di studiare non aveva la minima voglia, d’altro canto.
Aprì timidamente quella che ricordava essere la dispensa e ne estrasse una scatola di filtri per tisane.
– Che stai facendo?
Ben si voltò impaurito. Poi riconobbe il volto della cugina, che vide sedersi al tavolo sistemandosi al collo un ampio foulard nero.
– Stai meglio? – le chiese.
– Non ho più mal di testa, al massimo barcollo un po’ ma, oltre al mal di gola – si indicò il collo – mi sento leggermente meglio.
Ben sorrise osservandola.
– Che volevi dirmi?
Il ragazzo venne assalito dal pensiero che Gwen si fosse costretta a scendere pur di sapere, la cosa lo fece sentir talmente in colpa da mormorare: – torna a riposare, non sottovalutare la salute per curiosità.
Gwen lo guardò storto e lo ignorò. Dopo averlo visto parecchio incerto sulla collocazione delle stoviglie rimandò: – tazza in alto a destra, terza anta da sinistra; cucchiaino all’altezza del tuo bacino, nel cassetto centrale e pentolino accanto al frigo.
– Grazie, cugina – ribatté Ben cinicamente.
– Avanti, sputa il rospo – lo incitò lei.
Ben, iniziando la preparazione della tisana, le diede le spalle:– Non mi fermerò qui a dormire. Fino a quando sarai malata ti farò compagnia durante il giorno.
Gwen smise di respirare. Che aveva detto? Inaspettatamente, la giovane si sentì morire. Il perché non seppe. Non disse nulla.
– I tuoi genitori ti hanno detto che devi restare qui, Ben. Disubbidire sarebbe da bambini.
– Infatti.
La ragazza lo guardò inarcando un sopracciglio:– non capisco.
– Non potresti. Tu sei ancora in possesso del Mana. Io invece…
– Ben. Non dirmi che…
Il ragazzo, nonostante avesse già messo il pentolino colmo d’acqua a bollire, non si voltò.
– Sono…un bambino.
Gwen capì. Ben avrebbe ardentemente voluto riprovare le sensazioni d’adrenalina del passato, quando ancora l’Omnitrix gli si cingeva al polso. Ma Gwen si disse che, infondo, la disubbidienza non avrebbe che portato guai, ben altro che adrenalina.
– Cugino, è una scemenza.
– Gwen, non è affar tuo ciò che decido, semplicemente ti ho messa al corrente.
– Sbagli. È affar mio a tuttotondo, poiché in questa casa di te ho io la responsabilità. Trascinami nei tuoi casini e vedrai come ti rovino.
– Basterà che, in tal caso si scoprisse, mi addossi la colpa.
– Non sei un bambino: peggio.
– Pensi che non lo sappia?!
Il silenzio che venne a crearsi successivamente fece gelare il sangue nelle vene ad entrambi.
Al bollire dell’acqua, Ben lasciò scivolarne il filtro all’interno del pentolino. Non andava bene. Stavano litigando di nuovo.
– Ti scoccio, non è vero? – chiese Gwen abbassando il capo.
– Non è per te che lo faccio.
La ragazza deglutì.
– Lo faccio…per me.
Gwen riconobbe la propria teoria come comprovata. Ben pativa in modo incredibile la mancanza dell’Omnitrix, venendo spinto sino a quel segno a commettere azioni poco cogitate e sostanzialmente assurde.
– Lo avevo capito.
Versata la tisana su una tazza pulita estratta dalla dispensa, Ben la porse fumante a Gwen. Il ragazzo lasciò cadere nella pattumiera il filtro usato, soffermandosi per un solo istante, catturato alla vista di qualcosa accanto ad essa. Rifletté per un momento.
Ben assottigliò lo sguardo all’improvviso dopo aver posato il pentolino.
– Alzati, Gwen.
La ragazza, totalmente assorta nel proprio vortice di pensieri, venne bruscamente risvegliata, ed eseguì senza pensare. Una delle poche volte in vita sua che aveva spontaneamente agito senza prima meditare dovutamente sulle probabili conseguenze. Proprio come tra sé aveva appena rimproverato a Ben.
Ben si avvicinò osservandola intensamente mentre Gwen lo scrutava a sua volta;
Il cugino le afferrò inaspettatamente il foulard nero sfilandoglielo di dosso.
Gwen, spaventata, si ritrasse: – che vuoi fare?
Gli occhi di Ben andavano ingrandendosi e la sua bocca schiudendosi, mentre l’espressione del suo viso prendeva a farsi minacciosamente seria, seppur lievemente tracciata da una vena di preoccupazione attonita.
Gwen tremò. 
Ben lasciò scivolare a terra il foulard, e portò una mano allo schiudersi dei lembi del colletto della camicetta di Gwen.
La ragazza si sentì morire. Venne assalita dalle rimembranze dei torbidi discorsi della madre, da quelle parole sospettose e dallo sfondo maliziosamente fosco, ad ipotizzare qualcosa di indicibilmente perverso tra lei e Ben. Le balzò in capo la memoria del padre a rinfacciarle un ipotetico “scempio”, le parole di Ben a confidarle d’esser un comune ragazzo con relative induzioni al “peccato”. Gwen avvertì le membra rivoltarsi in una ribellione angosciosa. Le supposizioni che l’erano nate dentro, in parte favorite dalle confessioni di Ben presero piede, se ne comparvero i fotogrammi partoriti dalla sua immaginazione.
– No! – lo allontanò dunque scostandosi nuovamente.
Ben non accettò alcun genere di ribellione :– sta ferma, Gwen! Togli la camicia!
– No! Và via…! – lo supplicò la ragazza sull’orlo delle lacrime.
– Non farmi far da solo!
– Ti supplico, Ben…ti prego…! Che vuoi farmi?!
Ben prese dunque tra le mani il lembi della camicetta della cugina e, con uno strattone, la sbottonò interamente in un sol colpo, facendola in conclusione scivolare sino ai fianchi di Gwen.
La giovane si scostò per la vergogna: – non toccarmi…!
Ben portò un palmo al poco sopra il petto della ragazza, scostandole piano le mani.
Fece correre lentamente le dita lungo la sua pelle, percorrendo delicatamente quello che Gwen riconosceva essere l’orrendo taglio.
Solo allora la ragazza distinse le intenzioni del giovane.
– Che ti ha fatto…? – balbettò Ben con un filo di voce ed un’espressione sconvolta in volto.
Gwen, senza volerlo, prese a tremare. Era la fine. Ben avrebbe scoperto tutto l’accaduto. Anzi, l’aveva già fatto.
Le dita di Ben si fecero più insistenti, percorrendo più sveltamente la cute della ragazza salendo sino alle macchie violacee del collo.
– Che ti ha fatto?! – urlò allora prendendole le spalle.
– Chi dovrebbe…
– …avermi fatto cosa…– sussurrò Gwen abbassando lo sguardo senza osare portare gli occhi al cugino.
Cominciò a veder affiorare le scene della sera prima tanto fu che prese a mordersi il labbro per contenere il deterrente disagio che prese quasi a strozzarla.
– Non fingere di non sapere! – la scosse Ben.
– Cos’è questo taglio?!
Gwen chinò il capo. Portò una mano alla bocca lottando per contenere il pianto. Ben stava man mano diventando parte di quel disastro in cui la sua famiglia era incappata. Esattamente come Gwen non avrebbe mai voluto. Sarebbe crollata a pezzi la maschera che rendeva la famiglia di Frank quantomeno “parzialmente assestata”.
Giunti a quel segno, Gwen perse totalmente il dominio sulla mente.
– …non toccarmi…così – mormorò incapace di guardarlo.
– Se non mi fossi accorto di uno sfregio del genere me l’avresti taciuto per sempre!
Gwen non disse nulla senza riuscire ad alzare il capo. Poggiò il volto al petto di Ben, sfibrata ancora una volta. Pregando Dio che il ragazzo non avvertisse le burrascose pulsazioni del suo cuore si limitò ad abbandonarsi a lui.
– Non era così debole che mi ero ripromessa di essere…– sussurrò Gwen.
Ben non parlò. Solo strinse forte a sé il busto seminudo della ragazza, obbligandone il capo giacere nell’incavo tra il suo collo e la sua spalla.
– Che ti ha fatto…– sussurrò.
– Che ti ha fatto…
 
Continua!

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Capitolo 20
*** Orlo d’Ossessione. ***


Ciao ragazzi! Scusate l’ennesimo mese di attesa ma tra articoli su giornale , compiti in classe e stesura del capitolo davvero sono presa malissimo. Nel frattempo, voi non disperate, la Petite verrà conclusa regolarmente, nonostante queste pause tra un mese e l’altro vi assicuro che non la lascerò in sospeso senza un finale. Anche se ce ne vuole, che finisca :D Azzardo a dirvi che mi sono data una scadenza tra un capitolo e l’altro, sicché mal che vada coi tempi, troverete ogni 15 del mese un capitolo nuovo pubblicato. Baci.
 
IMPORTANTE: Per questo capitolo, ho fatto una fatica enorme. Vi devo chiedere di calcare pesante con la criticità nelle recensioni per questo capitolo. Non preoccupatevi assolutamente di dover anche dire che non vi sia piaciuto, mi raccomando, anzi accoglierò le obiezioni di buon grado proprio perché lo ritengo mostruosamente fragile a livello di trama. Questo capitolo necessita della critica sincera del pubblico che supplico di leggere con attenzione (scusatemi, sembro una professoressa frustrata ^^” cappero xD) l’intero scritto ed esporre un’opinione principalmente a livello di gradimento circa il senso. Temo questo capitolo barcolli, mi preoccupa un po’. Vi ringrazio immensamente per stare leggendo la mia storia. Grazie mille :) Al prossimo capitolo.
                                                                                                           
Sienna era uscita dall’appartamento di Kevin Levin subito dopo il risveglio. Quanto aveva trovato era stato solamente un foglietto piegato sul tavolino del salotto. Un biglietto di scuse. Ma la giovane, raccolte le proprie cose, tanto ignorò ogni traccia del ragazzo quanto le sue scuse e la colazione lasciatale già pronta. Si costrinse a fingere di non vedere. Il passato continuava a molestarla, a perseguitarla. E l’etichetta di “una come lei” non esitava ad abbandonarla. Uscita a passo svelto dalla stanza non si guardò indietro, colma di risentimento. Se solo non fosse stato per il luccicare sornione della chiave della porta d’ingresso. Che Sienna si cacciò in tasca. E scomparve.
 
Gwen si scansò piano dalla stretta di Ben e si avvolse le braccia al petto, timorosa e rattrappita, emettendo solo un gemito sommesso di imbarazzo. Dopo quel precedente istante di totale abbandono alle braccia del cugino, non poté che riportarsi alla realtà, riconoscendo con vergogna quanto inopportunamente fosse evolutasi la situazione.
Ben, dal canto suo, non pensò certo al pudore, in quell’istante. E lo fece perché davvero non badò allo stato di seminudità della cugina; affatto. In quel momento non riusciva a provar altro, nonostante davvero si sforzasse, che infinito smarrimento, mescolato a tratti ad un certo desiderio di ritorsione, nato in seguito alla vista di quel pauroso taglio che attraversava indomito il petto della ragazza.
Nel silenzio più tombale prese a riflettere intensamente. Riconobbe d’esser stato duramente colpito da quella visione. Ferito, forse. O ancora, preferì, sbalordito. Per l’appunto,la famiglia di suo zio Frank da sempre era stata presentata al mondo come la perfetta sincronia esistente, un insieme dall’aria ovattata e quieta, nel contesto di una situazione di minuzioso e cavilloso ordine e rigido e severo riguardo. A racchiudersi, tutto sommato, in una cornice di semicerta – ma concreta – amorevolezza. Ed ora Ben aveva la prova lampante che tutto ciò non fosse che un’evidente frottola, una menzogna. La cui realtà sperava durasse da poco.
Non era corretto a dirsi d’esser novizio di tale realtà, dovette ammettere. Ebbe che rettificare, di fatto, ricordando l’episodio risalente alla sera prima; Gwen gli era piombata in casa in preda a certi paurosi spasimi, devastata dalla malattia ma dal disperato bisogno di sfogare l’angoscioso cordoglio cui la vista di un – a sua detta – ennesimo litigio tra i propri genitori l’aveva sottoposta. E per Dio, Ben riscontrò, effettivamente la cosa, evolutasi a tal segno, non sarebbe stata né facile a districarsi né una stolidità di per sé. “Altro che ovatta” si disse sconcertato: piuttosto un contesto generale, date le prove che aveva sottocchio, che andava mano a mano a formare un insieme d’un retrogusto sempre più noir.
Nel tanto mulinare, Ben non aveva badato alla cugina, a pochi centimetri da lui.
Ripresosi, realizzò quindi che sarebbe stato opportuno placare tale turbamento personale al fine di dar valido appoggio alla straziata ragazza. Proprio come era accaduto la sera anteriore.
E così fece, pregando di non innervosirsi.
Il guaio, però, fu il conscio impiccio nel cavarsi di bocca qualche buona frase da sfornare in quell’istante per rincuorare la povera Gwen. Arrovellandosi (e scongiurando di non esser colto da ulteriore vuoto d’idee) non riuscì che a tacere.
 
Gwen, per quanto la riguardasse, non osò quasi respirare, ora visionando a mente fredda l’intera situazione. Non faceva che provare rammarico e vergogna, sconcerto, delusione. Non solo, infatti, la propria relazione con il cugino andava  complicandosi, non solo pativa i resti della malattia, non solo si sentiva divampare per lo stato che in cuor suo definì “spudorato” nel quale si mostrava a Ben in quel momento. Non solo. Come se non fosse abbastanza, invero, sentiva brulicare in corpo una seria preoccupazione per la madre, ora sola in balìa dell’uomo manesco quale s’era rivelato essere suo padre. Allo stesso modo la povera ragazza veniva ferita dalla memoria del serio e violento litigio con il genitore e dalla propria situazione famigliare colante a picco. Non era rimasto più niente del proprio, falsamente perfetto, nucleo famigliare. Eppure non aveva il coraggio di abbandonarsi alla realtà e riconoscerne la schiacciante concretezza.
 
Lo sconcerto di Ben, scervellatosi di maniera disumana, evolse in rabbia sorda. E non tanto per il fatto di essere incapace di venire a capo d’una situazione simile, non tanto per aver perso totalmente la solidità con la quale affrontava alieni e disastri universali ai tempi in cui ancora indossava il maledetto orologio che gli consentiva di tramutarsi in infinitesimali specie di mostrucoli, non tanto nemmeno per il fastidioso rendersi conto di essere in una situazione pericolosa. No. Piuttosto perché, percorrendo con le iridi smeraldo lo squarcio obliquo sul petto di Gwen, aveva realizzato freddamente, ora a mente libera proprio su tale aspetto, che qualunque cosa fosse accaduta alla cugina, qualunque crudeltà le fosse stata fatta, qualunque violenza, l’aveva commessa il padre. Il padre di Gwen, fratello del proprio. Ben ormai era certo,null’altro poteva essere. Rabbrividì.
Come può mai un padre che mette al mondo un figlio ritorcere contro il frutto del proprio sangue e parte d’egli stesso – Ben specificò tra sé – tanta violenza?
Socchiuse gli occhi e lasciò uscire dai polmoni tutto il fiato nato dall’angoscioso sfociargli in capo di ipotetiche immagini dell’accaduto. Provò ad immaginare che fosse stato il proprio, di padre, a giocargli tale brutto tiro – se con tali parole s’avesse avuto modo di definirlo, ovviamente. Ed allora sì, riuscitosi a calare una volta e per davvero nei panni della cugina, che il furore si spianò la strada verso un canale di sfogo, strattonandogli le membra.
Ben poggiò il palmo destro alla spalla della cugina, afferrandola saldamente ma con tocco tanto sicuro da convertirne un’eventuale sfocio di dolore in infusione di supporto: – Voglio che tu mi dica cos’è successo.
Indurì la voce tanto sottilmente da far congelare il sangue nelle vene alla ragazza che gli giaceva dinanzi. Precedentemente privo di checché fosse da dire, sentì nascere un inaspettato ed inquietante fiume di interpellanze. Ma poi tacque, preferendo attendere la risposta di Gwen.
Dopo uno straziante silenzio, la ragazza si decise a mormorare: – Non è affar tuo.
Doveva estraniare Ben dai propri dilemmi. Doveva escluderlo addirittura da sé. Era solo uno stupido parente, uno zero. Non seppe quale genereo quale razza di pensieri le fossero nati in capo causa l’assillante tambureggiare delle parole della madre (che aveva considerato e percepito forse più profondamente del dovuto), era certa solo del fatto che non le sarebbe rimasto che distaccarsi da Ben, poiché sentiva germogliarsi in cuore un molesto e poliedrico sentore. Che percepì come pericoloso.
Ben, tormentato figliolo, decise al contrario di prendere iniziativa; lasciò la cugina senza parole puntandole l’indice nel mezzo delle clavicole. Doveva sfogare la propria sete di giustizia. E non vide altra più facile maniera di inveire contro Gwen, che aveva subìto, per quanto Ben immaginava, percosse non decisamente lievi. Ed, ahi lui, non si contenne.
– Pensi non si vedano?!
A Gwen non restò che far l’indifferente:– Cosa?
Ben sentì la rabbia montare e premette sulla pelle calcando pesantemente il tocco: – hai anche il coraggio di chiedere cosa?! Gwen, sei sfigurata da un taglio quasi inguardabile e macchiata da segni violacei tutt’intorno al collo, cosa credi, che tutto questo sia normale?!
– Stai delirando. Io non vedo niente – fu la risposta.
Gwen chiuse gli occhi con forza. Lo scopo di tanta, finta indifferenza non era la profonda volontà di dimenticare. Provando così, una volta tanto in vita sua, a farsi del bene. Se però fosse “bene” ignorare della violenza, non seppe.  Ma d’altronde, ricordare le faceva più male delle dolore fisico. Sicché.
– Gwen, Cristo, non abusare della mia pazienza. Dimmi cos’è successo. Per l’ultima volta.
Gli occhi della ragazza si ingigantirono al pronunciarsi di tali parole; – Non usare questolinguaggio, ti prego – chiese flebilmente accennando ad uno scatto di tremore.
Ben inarcò un sopracciglio corrugando la fronte:– Quale linguaggio? Ti sto solo chiedendo…!
Non…! – l’interruppe la ragazza raccogliendosi in sé stessa solo portandosi dinanzi un braccio, come a far segno a Ben di non muoversi.
Calò il silenzio, mentre Gwen abbassò il capo avvicinandosi le mani alle orecchie.
Ben sospirò esasperato.
– Cos’è successo? Te lo chiederò ancora, fino a che non mi scomparirà la voce.
Gwen scosse la testa, ostinandosi a fingere con la disperazione di chi non riesce a cavarsi di bocca quanto dovrebbe ma non voglia. – Quando…?
Ben inspirò profondamente.
– Lo sai benissimo, quando.
– Cos’è successo? – ripeté.
– Non ti capisco, Ben. No entiendo, je ne comprends pas.
Ben raggiunse il limite.
– Piantala, Gwen!
L’urlo dal timbro profondo e incavato del ragazzo fece scendere lungo i loro corpi e nei dintorni un mutismo sconvolto e timoroso, pesante come un masso.
L’espressione furente del giovane si piegò istintivamente in pietà. Abbassando il capo, riponendo alla cugina una mano sulla spalla mormorò: – dimmi cos’è successo…Gwen.
Per quanto le si stringesse il cuore, alla vista del cugino torto su sé stesso ed ora sinceramente impensierito, ebbe che proseguire la propria politica di falsità. Ma ora con un certo tatto accondiscendente.
– Nulla. Credimi.
Ben, sempre più certo dei propri sospetti, si massaggiò la fronte con stizza. Abbandonò la preoccupazione e, alzato il volto, la pregò: – voglio da te la verità.
A chinarsi, ora, fu invece la ragazza. 
– Che faresti…
Gwen sentì germinare un certo fastidio in sé.
–  Che faresti se anche ti dicessi cos’è successo?
– Potresti cancellare quel che è stato?… o magari togliermi di dosso questi assurdi segni che diventano minuto dopo minuto più neri…?
Ben tacque. E provò ad immaginare nuovamente quanto fosse accaduto.
– Bada, Tennyson. Non è per te che ho indossato quel dannato foulard.
Gwen mentì per parte,ebbe che riconoscerlo; sentì un forte rimbombo in cuore nel pronunciare il maledetto appellativo.
Il ragazzo puntualizzò:– Non l’ho mai pensato.
– Se l’ho fatto, è stato per me – specificò Gwen ignorandolo.
Ben sospirò: – quello che fa le cose per sé sono io, dovresti pagarmi i diritti d’autore, Gwen.
– Non ce la faccio a ridere, Ben. Dico davvero.
– Non avevo intenzione di farti ridere. Perché ti comprendo.
– Come fai a comprendere quanto non sai?
– Possediamo lo stesso sangue. Lo dimentichi.
Gwen sentì il cuore smettere di battere.
Il sangue. Già.
 
Lily Tennyson, al fianco del marito Frank mosse i primi passi nella grande e maestosa Madrid, addobbata per le Feste, dopo uno straziante viaggio in aereo. I suoi occhi dolci di fanciulla, costretti nel volto di una quasi cinquantenne s’ingigantirono estasiati alla vista del paesaggio circostante che le si apriva intorno con la maestosità sottile d’un elegante (e consapevole) padrone di casa ad accogliere nuovi ospiti.
Nel percorrere il centro della meravigliosa città la donna non poté contenere un’espressione immensamente incantata, rapita alla vista di tanto fascino. Ma ebbe velocemente che riprendersi. 
– Lily.
La donna si voltò, sentitasi chiamare dalla voce fredda del coniuge. Ed, al solito, si limitò a fare un segno accorto e tacito, appena movendo il capo in sua direzione.
Frank rimase un attimo in silenzio, rispolverando tra sé le immagini della serata precedente che sin d’ora aveva oscurato per ribrezzo. Abbassando lo sguardo serio raccolse le dita in pugni morbidi dentro le tasche ampie del giaccone invernale che da tanti anni ormai lo accompagnava nella stagione fredda. Non si mosse più.
– Mi chiedo in cos’abbia sbagliato.
Lily rimase spiazzata.
Dopo anni, il marito le si apriva, sebbene di quel poco. Mogio, scuro, dall’aria rabbiosa e contrita,raccolto in sé e nella propria insoddisfazione.
La donna non ebbe modo di parlare, priva di qualsiasi cosa da rispondere. Non esisteva soddisfacente rivalsa verbale in quell’istante di blocco che la costringeva all'immobilità. Non esisteva nemmeno un sentimento provabile, forse appena una punta di pietà;
Frank riprese a camminare.
– Se ho sbagliato…è stato con chi ho di più caro. E la vergogna non mi basta più.
Lily rimase in silenzio ancora ed ancora. Anche se la pena le faceva stringere il cuore, nonostante tutto, non riuscì a perdonarlo.
 
Ben riportò le dita al petto della cugina facendole scendere lungo il taglio, una seconda volta. E tacque, calmatosi lievemente. Gwen si sentì percorrere la pelle dolcemente ed in modo lento.
L’agonia, però, prese a farsi nuovamente – e violentemente – materiale. Il vorticare claudicante che le cingeva il capo andava a smorzarle prepotentemente la vista, riducendole la visuale ad uno spiraglio imperfetto, insicuro, sfocato un po’ dall’emozioni un po’ dalla malattia che, per l’appunto, stava riapparendosene. Gwen ebbe sicché da chiuder gli occhi; non avrebbe voluto farlo, ma ne fu obbligata.
Dopo un breve istante di silenzio, Ben, senza staccare né dita né occhi dal petto di Gwen sussurrò: – è…deterrente…
La ragazza, turbata all’avvertir senza l’uso della vista lo scorrere lieve della mano del cugino, lottò contro sé stessa per cancellare le tracce di quei pensieri malati che le avevano guastato quell’inizio di permanenza congiunta e persistevano nell’esacerbarla.
Ben osservò attentamente la pelle ferita della poveretta che andava via via gualcendosi formando una fenditura agra e scura. Senza pensare alle proprie azioni, proseguì facendo salire le dita al collo caldo della cugina.
Gwen tremò per un istante e chiuse gli occhi, avvertendo, peraltro, un fremere furioso da parte delle labbra.
Ben la stava percorrendo senza tanto interpellarsi. E Gwen non si mosse. Colta dal terrore, realizzò che seppur tentasse di non ripensare a quanto di terribilmente inadeguato le occupava la mente causa il dialogo avuto con la madre veniva costantemente riportata alla concezione personale ricavatane. Totalmente al di fuori del contesto nel quale (e del quale) la povera Lily badava di metterla in guardia.
E, per giunta,Ben cadde in fallo; nell’ispezionare il taglio, ebbe la stolta pensata di esaminarne pure il terminare. Cui lasciamo al nostro lettore l’individuarne la collocazione.
Gwen stava mano a mano scivolando nella coltre della pazzia, stimolata dalle rimembranze torbide del colloquio con la genitrice ed aiutata dalle granulose e scivolose pareti che costituivano la bolla di frustrazione nella quale veniva da sé stessa rinchiusa.
La ragazza scostò con uno scatto il capo, attraversata all’improvviso, o meglio,  nuovamente, dalle parole della madre. “Spesso…a frenarsi non basta sapere di essere imparentati”. Frenarsi. Frenarsi da cosa? Oh, Gwen sapeva. Ed ora immaginava, in una spirare disperata di vergogna e paranoia, macchiata dal pensiero dell’indicibile, che grazie al bel discorsetto della madre ora la perseguitava. “…insomma…non divertitevi a quel modo”. Gwen non faceva che rielaborare con una continuità narcotizzata le dannate parole. Sentì di voler dimenarsi, percuotersi, per scacciarsi di mente e di corpo tali spudorati pensieri. Eppure no, non riusciva nemmeno in quanto, a scatti bloccata da un improvviso pudore dinanzi il cugino quanto pure da una strana involontarietà nell’acconsentire ad un qualsiasi scostamento. Agonia. Null’altro stesse provando, la feriva e perseguitava a tal modo. “…a frenarsi non basta…”. Gwen strinse i denti senza osare guardare Ben che, quasi senza accorgersi dell’accadente persisteva nella propria, ingenua, analisi.  “ … a quel modo…”, “siete pur sempre due adolescenti…”. Gwen si morse il labbro inferiore colta dal panico. “Da soli”, “non lo davo certo per scontato!”.
Ben fece risalire le dita. E Gwen continuò a rammentare, unendo ora alle parole della madre anche quelle del padre, che la sera prima l’aveva disgraziatamente e violentemente picchiata proprio a causa della sua disubbidienza. “Che diavolo facevi da Ben?”.
– Nulla! Nulla! – pianse Gwen ora ad alta voce.
Ben si fermò all’improvviso.
Gwen, senza accorgersene, era entrata in uno stato di incosciente soliloquio, rivivendo sin troppo realisticamente, in capo suo, l’accaduto che di pugno firmava le violenze subite.
“ Proibisco lo scempio!”.
– No! Nessuno scempio! – sofferse Gwen portandosi le mani alle orecchie e scotendo con violenza il capo.
– Gwen? Cosa…?! – balbettò Ben sconcertato.
– Basta! Basta per carità! Nessuno scempio!
– Gwen, calmati! Quale scempio?!
“Proibisco gitarelle notturne!”…“ frenarsi non basta… a quel modo…da soli… divertitevi...”. Gwen si cinse impietosa il capo, dibattendolo ora selvaggiamente.
“ Proibisco…!” “non dico questo!” “Da soli” “gitarelle…notturne!” “Notturne!” “divertitevi”.
– No! No, mai!
Le mani le tremavano, seguite dal rigarsi imperterrito del viso, scosso in “no” fisici senza pietà nei propri confronti.
Battito cardiaco. Folle, battito cardiaco. Leggendo disperata tra le frasi vorticanti colse quanto non avrebbe dovuto, dopo una quasi drogata elaborazione delle singole parole. Eppure erano pur questo, quanto aveva udito. Fu un attimo;
“Divertitevi…a quel modo, da soli…non basta…non basta…!”
Gwen aprì gli occhi macchiati dall’angoscia. Aveva visto.
– Gwen…? – balbettò Ben nel silenzio.
Portò una mano a quelle della cugina al fine di capire quanto fosse accaduto.
Gwen si scansò immediatamente, come fosse stata punta. Ritornò in sé percorrendo con occhi spaventati i dintorni ed il corpo di Ben.
Ben non capiva.
– …è perché ti ho toccata?
Gwen ansimò: – Basta. Basta…!
– Basta che?!
– Basta! Non fai che…!
Cosa?
Gwen esitò.
– Non fai che dar loro ragione!
– Penso proprio di non capire – ammise Ben con cinismo.
Gwen allontanò le mani del ragazzo con una spinta e portò le proprie, madide e palpitanti, al capo rannicchiandosi tra sé e prendendo sommessamente a tremare, ancora.
– Che vorrebbe dire, Gwen?!
Non udendo che silenzio Ben insistette: – Gwen!
Gwen urlò:– Non continui?!
Ben, sconcertato domandò:– cosa dovrei…?!
Il resto della frase gli morì in gola, claudicante ed incerto, ostacolato da quella vista sconfortante che gli si mostrava dinanzi.
– Che fai, concludi così?!
Ben sbarrò gli occhi. Riformulò la domanda postagli dalla ragazza tra sé a velocità supersonica, quelle credé fossero migliaia di volte.
Sicché balbettò:– Cosa vorresti dire?
– Non eri un ragazzo? Non venivi forse anche tu indotto al peccato come tutti gli altri?!
La ragazza si portò le mani alle orecchie, improvvisamente incosciente di quanto le stesse accadendo e totalmente fuori controllo. Solo si sentì uscir di bocca, legate a formar un nastro interminabile, tutte le cose che non sarebbe mai riuscita ad ammettere circa quel suddetto scempio.
– Non dovremmo scivolare man mano nel baratro dell’oscenità?! È quello che ci hanno predetto! Non è forse così?! Non dovresti proseguire, approfondire quanto non s’abbia di fare e arrivare a dar loro ragione sì tanto io ancora abbia perso contro chi predice male di me?! Non t’auguri anche tu, forse, come loro, che si evolva il tutto in qualcosa di pericoloso?! Sono forse io l’unica a tremare di vergogna?!
Ben rimase zitto. Scioccato.
– Non capisco cosa tu intenda.
– Idiota…! Idiota!
– Gwen.
– Taci! – gridò la ragazza raccogliendosi instabile per la centesima volta il capo tra le mani.
Calò il silenzio.
Nessuno più parlò. Ad udirsi, solo gli spasmi di timbro decrescente della giovane.
Gwen non riuscì a proferir parola e rimase, a voce mozzata, con le labbra appena schiuse in un’espressione di sincera afflizione, tra il rinvenimento e la vergogna. Lasciò scivolare in avanti il capo, chinandolo sommessamente mentre una cascata di lunghi capelli glielo nascose, tanto sufficientemente da andare ad occultare il debole affiorar del pianto che prendeva a lambirle gl’occhi, ora più delicatamente.
Si domandò febbrilmente che fosse accaduto, rielaborò – seppur invano – tutte le frasi dette provando convulsamente a cavarne un senso, in un modo od in un altro, chiedendosi impietosa verso i propri nervi cosa l’avesse spinta a confessarsi tanto apertamente a Ben. Si vergognò di sé stessa come pure dei propri pensieri, non osò alzar lo sguardo né tanto meno provar a dirigerlo verso Ben. Sarebbe morta d’imbarazzo.
Ben, intanto, rifletté. Tirate a grandi linee le proprie somme, sussurrò:– calmati.
– Se ci riuscissi credi non lo farei?!
– Calmati.
– Sta zitto, sta zitto Ben!
– Gwen, Cristo, calmati! – urlò il ragazzo prendendola per i polsi.
La pazienza gli scivolò di dosso. La compassione si tramutò in cinismo, disprezzo, fastidio, repellenza. Odiava vedere quella maledetta insicurezza nella spavalda Gwen, la Gwen sprezzante che lo beffava da quanto era al mondo, che lo derideva e decantava la propria superiorità. Ben volle tentare tutto,quanto e non,in suo potere.
La ragazza si bloccò improvvisamente.
– Non muoverti. Sta ferma, calmati, respira.
Gwen scosse il capo:– non fare il buon samaritano, Ben! Non ti spingi oltre?! Non li soddisfi?! Non TI soddisfi?!
Ben perse ogni clemenza (ed ogni preghiera di mantenimento della quale) dopo aver udito tali, sole parole.
– Adesso basta! Non capisco, non capisco, miseria! Invece di pensare che tutto il male sia rivolto sempre e solo contro di te perché non provi almeno a chiedere aiuto?! Non pretenderò addirittura che consideri anche gli altri e i loro sentimenti, certo, figurarsi, l’ho già fatto e per te è risultato impossibile,bene, ma ora…almeno…parla.
– Non è con te che desidero parlare!
– E allora che vuoi da me?! – urlò il giovane.
Ben si portò cavalcioni sopra la cugina costretta a terra e bloccata ai polsi.
– Cosa vuoi Gwen? – mormorò freddamente chinandosi su di lei.
La ragazza sentì il cuore smettere di battere. Immaginò.  E quanto ella volesse, sì, sapeva.
Non riuscì che ad ansimare, avvertendo il corpo del cugino farsi via via più attiguo al proprio: – Ben…!
Il giovane proseguì ignorandola e stringendo la presa: – sei così…perversa…da pensare che ti salti addosso? Che…ti tocchi…– Ben fece salire un palmo gelido lungo il ventre della ragazza – ...? Che abusi di te…?
Gwen tremò. Invocò aiuto tra sé con tutte le proprie forze, incapace di gridare. Mentre il respiro del cugino le lambiva il collo, scendeva sottile e caldo alle sue orecchie scivolando sino alle clavicole.
Gwen, terrorizzata e atterrita prese a piangere più intensamente soffocando i gemiti. Aiuto,aiuto, null’altro supplicasse. E non un filo di voce ad uscirle di bocca. Ecco a realizzarsi la sua terrificante paura.
– Non volevi questo? Non insisti…non batti sempre su questo chiodo?
– Ben…! Smettila…smettila, ti scongiuro…!
Il tono di voce di Ben si fece tagliente e superiore: – Non ero forse io la bestia che si faceva prendere da istinti animali? Se ti impunti tanto…sono qui…mi vedi? Mi senti…?
– …!
Gwen, sconvolta, distrutta e con un fiume di lacrime in viso a scenderle giù, giù fino al collo perse a dimenarsi selvaggiamente. Dibattendosi, piangendo e stringendo le mani in pugni pregò Ben di lasciarla andare.
“ Divertitevi”…”Da soli”…”Due adolescenti”.
Gwen maledisse per un istante la madre, o forse sé stessa.Ben le si premette indosso senza pena.
E la cugina, stremata e sfibrata dal lottare ossesso perse ogni forza e, abbandonandosi al ragazzo, si lasciò cadere a terra sentendo che sarebbe presto stata la fine.
Ben allora, sollevando il volto, mormorò: – sta tranquilla, Gwen.
– Non voglio fare niente di tutto questo.
Serio e contrito si levò sulle ginocchia.
– Basta pagliacciate. Noi siamo legati da del sangue, Gwen: non montarti né riempirti la testa di queste perverse stronzate.
La ragazza, a terra, smise di respirare.
Una finta.
Era stata una finta.
Una stupida finta.
Rimase spiazzata, muta, senza riuscire più a partorire un singolo pensiero.
Per la vergogna,si raccolse su sé stessa levandosi a sedere.
Ben esordì spezzando quel dilaniante silenzio: – E sappi…
In quell’istante la ragazza immaginò stesse per sentirsene di tutti i colori, ricordando bene quanto a Ben facesse divertire appiopparle soprannomi, rifilarle idiote battute di (poco) spirito e cominciare liti di aspro cinismo. Dando il via a liti infinite.
Ben continuò con voce dura: –…che non me ne importa niente.
Gwen rabbrividì, intirizzendosi ancor di più. Ma non parlò, incapace di farlo. Nonostante fosse rimasta prepotentemente ferita.
– Non posso che considerare questo cumulo di scemenze come pura immondizia mentale.
Gwen si sentì morire.
–  Non è per violarti che mi ritrovo obbligato qui. Arrivaci. Se avessi voluto farlo non avrei aspettato certo una tua simile uscita, credi.
La cugina si morse un labbro sprofondando in una nuova spirale di raccapriccio e vergogna, macchiati da chiazze d’odio. Avrebbe voluto morire.
– Ora, Gwen. Dimmidov’è.
La ragazza alzò gli occhi e balbettò: –…che?
– Prima di pensare a come mi eccito, ti ricordo, dovresti concentrarti sul fatto che sei stata evidentemente picchiata. Prima ricordavi. Ho congiunto i fatti: quando urlavi rammentavi di ieri sera. Non mentire. Voglio sapere, per l’ultima volta, cos’è accaduto.
– Non è tuo impiccio. Non immischiarti in quanto non ti riguardi.
Ben ringhiò: – e tu non fai forse lo stesso?!
– Non ho mai fatto…nulla di simile.
Ben non ebbe più parole. Sentì crescere la furia. E, come accadeva ogni volta, nonostante si facesse mille promesse, non fu in grado di mantenere la calma che, accumulandosi alla sete di vendetta verso il proprio zio, divenne ingigantendosi mostruosa collera. Ben si alzò e gridò:– Ora basta! Dov’è?!
Gwen, seguendo imperterrita la propria politica d’esclusione mugugnò: – Chi?
Dov’è?!
Ben assunse un’espressione tanto spaventevole da far morire a Gwen l’ultime parole in gola.
Così gli si aggrappò alle gambe: – non fare un passo, Ben. Ti scongiuro.
Sua cugina era la contraddizione fatta a persona.
E per questo la odiò. Il ragazzo portò lo sguardo al soffitto supplicando la Provvidenza di non mettersi ancora a sbraitare.
– Non difendere chi ti ha fatto del male, deficiente!
Gwen gli puntò indosso un occhiata selvaggia: – non sto proteggendo nessuno, sto solo escludendo dai miei affari chi non ha il diritto di mettervi becco!
Ben fissò la cugina con occhi di fiera.
– Mi chiedo se tu sia umana.
Gwen non rispose, contrita e raccolta timidamente in sé.
– Ben…
– Che vuoi ora?!
–…non lasciarmi...
Ben rimase zitto, poi scosse il capo in segno di diniego.
– Ora basta.
E, prendendo il cappotto, scomparve dalla porta.
 
Continua!

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Capitolo 21
*** Confini. ***


Ciao ragazzi! Come va? Rieccomi come promesso il 15 del mese :D spero solo il capitolo vi piaccia >.< Gwen è distrutta sebbene voglia risollevarsi, e Ben è talmente tonto da rendersi conto sol’ora d’aver sbagliato su tutta la linea. In quanto corto, vi prego d’assolvermi >.< se riuscirò o ne posterò una versione estesa a breve o posterò o molto prima prossimo capitolo. Scusatemi, è tutta colpa della scuola >.< Un bacio.
 

Gwen rimase sola carponi sul pianerottolo di casa, con lo sguardo annegato nel vuoto. Quel violento chiudersi di porta l’avea fatto rimbombare il suono dell’abbandono in tutto il corpo. Raccogliendo il capo tra le mani ed intrecciando selvaggiamente le dita ai capelli sentì di voler urlare. Forse bestemmiare. Mai era giunta a tanto. Non faceva che rivedere Ben chiuderle la porta in faccia. La rabbia salì. “Ora basta”. Questo quanto uscito dalla bocca del ragazzo.
Gwen strinse i denti. Doveva reagire per esalare tutta la devastazione che l’imbottiva.
Notato il vaso in acciaio che era stato protagonista di uno dei loro litigi e che aveva riposto alla propria postazione facendo ordine dopo la sfuriata del padre, gl’occhi di Gwen ebbero un lampo.
Alzatasi traballando lievemente lo prese per l’apertura soprastante.
– “Ora basta” dovrei dirlo io!
Scagliatolo a terra con tutta la propria forza rimase in piedi senza parole. Ansimante per lo sforzo e la collera.
Non era destino che quel povero ornamento se ne stesse in beatitudine somma laddove progettato. Tanto quanto il dolore di Gwen si placasse.
 
Ben camminava a lunghe falcate ad un ritmo quasi frenetico, rabbioso. Non era nemmeno trascorso il primo giorno di convivenza che già andava infuriandosi. Non riusciva che a riavvolgere febbrilmente gli ultimi avvenimenti ricominciando con gran astio ogni volta daccapo. Avrebbe avuto desiderio impellente di gridare e l’avrebbe fatto con gran trasporto se solo non si fosse sentito tanto frenato dall’atmosfera di pudore sociale che lo circondava. Avrebbe voluto sbraitare intensamente, puntare i piedi ed imprecare al cielo additando Colui in preda alla furia; avrebbe preso a calci ogni cestino, inveito contro qualsiasi passante, maledetto ogni intralcio. Si sentì addosso un fastidio doloroso: era uscito per sfogarsi, scappare da quella situazione malaugurata ed ora, povero sventurato, non realizzava fosse che impossibile. Ben si morse collericamente il labbro inferiore raggrumando tutta la propria rabbia in sé. Lo irritava inoltre il fatto d’essersi lasciato guidare dall’istinto – come sempre e senza risparmiarsi, del resto – ed aver finto il falso abuso nei confronti della cugina. Si interpellò svariate volte sul perché, sulla motivazione incredibile per la quale avesse sentito tanto necessario farlo. Eppure, ammise, Gwen doveva essere posta dinanzi la realtà, la concretezza: intuito quanto realmente la poverina temeva, Ben l’aveva condotta sulla soglia della realizzazione dell’incriminato. Pur vero essendo, solo a scopo “formativo”. Come avrebbero potuto sopportare l’intero periodo natalizio, altrimenti? Tra bisticci, zuffe ed incomprensioni? Trinità. Il ragazzo calciò una lattina che si trovò ai piedi, la quale, rotolando, finì poco lontano.
Una mano la raccolse gettandola nel cestino pubblico in acciaio di lì poco distante: – Ben?
Tennyson alzò lo sguardo, stupito per un istante e richiamato alla realtà.
– Sienna.
La ragazza sorrise mestamente e gli si avvicinò.
– Che combini fuori al freddo? – domandò dunque rivolgendo all’amico uno sguardo di quella che Ben lesse come compassione.
– Non…
Calò il silenzio. A Ben morirono le parole in gola ancor prima di nascere. Non sapeva nemmeno più il motivo per cui stesse vagando sì a tentoni per le vie principali della città. Inutile interrogarsi, riconobbe, non sarebbe stato in grado di buscare tra le migliaia alcuna qualificabile giustificazione. Aveva semplicemente agito d’impulso per lasciar passare un po’ d’aria al cervello e rilassare i nervi contrattisi di maniera disumana. Era stato forse un semplice escamotage per pensare a mente fredda. Ecco tutto.
– Ti va se ci sediamo? – domandò Sienna indicando con l’indice latteo una panchina poco distante.
– Preferirei camminare fino al parco…
– Certo – sorrise la giovane dai capelli corvini – non c’è alcun problema.
E dunque i due s’avviarono, l’uno a capo chino l’altra pregando ardentemente in cuor suo per un buon sviluppo.
 
Gwen si guardò allo specchio: era tutto dannatamente sbagliato. Non era più quella Gwendolyn Tennyson d’un tempo. Si indispettì nel dover ammettere d’esser dipesa sì tanto dal cugino negl’ultimi tempi: qualcosa di sinceramente ineccepibile,borbottò. Puntò i piedi dinanzi la specchiera del bagno, ivi era giunta salendo per le scale in preda ad un desio impellente di bagno. Voleva recuperare la propria dignità lavandosi di dosso lo strazio subito e sinora intentato. La dignità della quale aveva sentito svestirsi poco prima per mano di Ben e delle sue lunghe dita a correre labili sulla propria pelle calda per la malattia. Chiuse gli occhi per un istante, ferita. Dannazione. Null’altro le venne in capo. Sentì bollire in corpo uno strano gorgoglio: insoddisfazione, fastidio, rabbia. Ma soprattutto gelosia. Gelosia nei confronti della sé stessa che Ben aveva sottoposto a tale vile, sopraccitato trattamento, che in quell’istante incriminato e tumultuoso era stata indomitamente sostituita dalla personalità sua seconda timorosa, suggestionata e nata dall’angoscia delle parole genitoriali. Gwen azionò la cornetta della vasca da bagno impostando debitamente la temperatura e, aprendo alcuni dei bagnoschiuma poggiati al bordo, lasciò guizzare in acqua una considerevole, cremosa e all’apparenza golosa quantità d’essenze. Slacciò orbene la camicia bottone per bottone, tanto lentamente d’appiccicarsi indosso un senso assurdo di apprensione. Levatala di dosso la lasciò scivolare sommessamente a terra. Rivoltole uno sguardo di commiserazione compunta provvide a proseguire.
Spogliatasi interamente introdusse il primo piede nell’acqua calda, poi il secondo. Avvolta da uno strato schiumoso di calura sadicamente coccolante s’immerse integralmente. Il calore del termostato avvolgeva l’intera stanza, concedendo alla pelle ahimè scoperta una carezza apprezzabilmente degna.
Gwen inspirò piano. Raccolta un’ingente quantità di schiuma tra i palmi prese a dar vita a differenti ed indistinte forme. Silenzio tombale, ad udirsi solo il gocciolare occasionale dell’acqua o l’ondeggiarne mellifluo. Lo specchiarsi danzante della luce della plafoniera sulle bollicine della schiuma fu l’unica cosa ad attrarre la svogliata Tennyson.
 
Sienna e Ben proseguirono nel cammino lestamente ed in silenzio. Nessuno dei due osava parlare. Ben per primo, bloccato dalla propria ira sinora nemmeno scalfita.
– Cos’è successo? – chiese Sienna inspirando.
Il giovane rimase zitto per una manciata di secondi. Poi smise di contenersi sperando nella comprensione dell’amica.
Ammise:– non resisto più.
La ragazza alzò lo sguardo: – in merito a…?
– Sforzati di immaginare – ebbe come (particolarmente arida) risposta.
– Tu e tua cugina mi farete impazzire – sorrise tristemente Sienna.
Ben sbottò: –non capisco come tu possa sopportare quanto io ti dica sebbene tu…ecco…
– Non è difficile, Ben. – venne interrotto.
Il ragazzo assottigliò lo sguardo corrugando lievemente la fronte.
–  Conta l’abitudine.
– L’abitudine?
Sienna silenziò per diversi secondi.
– L’abitudine nel sentirsi dire quanto ferisca. Se capita spesso, con il trascorrere del tempo si riesce a mettere da parte il dolore.
Ben ammutolì. Si sentì improvvisamente un ciarlone. Con quale titolo s’era permesso di domandare qualcosa di simile? In qualità di chi? Ad accompagnare tale realizzazione, l’intuizione amara d’aver ferito la poverina che, sebbene non volesse darlo a vedere, non fu più in grado che di deviarne lo sguardo.
 – Perdona la mia sconsideratezza – si scusò Ben a capo chino.
– Il fatto è che…solo ora mi rendo conto di essere un insensibile.
Nel pronunciare queste parole, Ben si osservò le dita. Le stesse con le quali poco prima credeva di aver fatto una seppur sorta di favore.
 
Gwen avvolse tra i palmi una noce di bagnoschiuma alla ciliegia. In una sorta di trance profondo rimase a fissarne le sfumature; si sentiva maledettamente ridicola, ed in quell’istante quasi impossibilitata a muoversi. Stava divenendo tutto maledettamente pericoloso. Sbagliato, rischioso.
“Se non fossi qui forse starei meglio” si disse velando lo sguardo smeraldino ed insaponandosi con il prodotto semigelido.
Fu allora. Si bloccò. Non di nuovo! –  supplicò –non di nuovo dovesse nascere rimembranza dei fatti! Quale male aveva fatto per meritare tale, indocile persecuzione? Tentando di oscurare ogni qualsivoglia pensiero o sentore raccolse il capo tra le braccia. Senza sapere cosa stesse accadendo venne invasa dall’orrore. Sgranati gli occhi ripercorse la scena dell’inscenata violenza con una deterrente inquietudine nelle carni: Ben le aveva messo le mani addosso e l’unica cosa cui era riuscita a pensare era stata la gelosia – l’ipotetica gelosia – provata nei confronti dell’altra lei?
Sconvolta si rannicchiò in sé. Ecco riemergere quell’orlo ossessionato germogliatole indosso poco prima. Toccandosi per compiere un gesto tanto comune come quello d’insaponarsi era riuscita inconsapevolmente a rievocare l’accaduto che l’aveva indubbiamente scioccata. Rivide Ben. Chiusi gli occhi lottò per scacciarlo, eliminarne la fisionomia quantomeno momentaneamente. Non ne fu in grado. Presasi la fronte tra le dita strinse gli arti con rabbia. Fosse mai possibile non riuscire a dimenticare? Angosciata a furibonda si raccolse in sé piantando le unghie nella carne, tremante, impietosa. Forse, semplicemente stufa. Si torturò fisicamente e mentalmente tentando di cavar qualcheduna soluzione di quel gran groviglio, ansimò di collera scalciando l’acque come tacciandole di colpevolezza, si morse e s’arrovellò impietosa sì tanto non ebbe certezza di starsi solo facendo del male. E l’amarezza restava. Come poteva essere giunta a tal segno? Quanto Ben le s’era insinuato dentro? Era ovunque guardasse, famelico e crudele ma ugualmente manso e timoroso. A Gwen venne da piangere di rancore: strinse le palpebre e corrugò la fronte; l’indignazione le perforò le membra sino a giungerle al cuore, condensandosi con quel dolore nascosto,celato nelle proprie profondità a causa della coscienza amara d’aver lasciato la madre in mani impietose di bestia e sentendosi ulteriormente ignobile. Quale razza d’essere umano s’era ridotta ad essere? Gwen Tennyson aveva amato sempre e solo sé stessa, sin d’ora nessun stupido intrico amoroso con nessun tanto meritamente stupido cristiano; nessuna grazia, pochi sentimentalismi; faceva eccezione la madre: ed ella l’aveva evidentemente abbandonata, o quantomeno questo stesse sentendo. Udiva sgocciolare, sgretolarsi la propria dignità personale ma soprattutto l’orgoglio, oramai raschiato. Alzato appena il capo rivide sui polsi i segni violacei, residui del violento litigio con il padre. Era troppo. Sentendo il sangue pulsare e la testa soffrire, senza prendere il respiro affogò il capo in acqua. Tra le bolle della schiuma e il rancore che credeva d’essersi lavata di dosso.
 
Ben e Sienna sedettero. Il primo a gambe larghe come si conviene ad un uomo, la seconda in gran compostezza.
– Non voglio tu me ne abbia, Ben, ma desidero mi spieghi cos’è accaduto. E non farti banali scrupoli in quanto consapevole della mia situazione sentimentale.
Ben rimase zitto. Poi si accasciò sullo schienale metallico della panchina: – io l’ammazzo.
– Gwen?
– Non ci voleva grande arguzia, ne abbiamo parlato prima. – la rimbeccò il giovane.
– Certo, certo, chiedo perdono.
– Ad ogni modo, ho capito che ha paura di me. Dai discorsi che fa pare che le siano state appioppate strane e perverse conclusioni circa il nostro rapporto per i prossimi giorni assieme. Sembro una bestia assatanata di sesso, dalle sue parole.
– Non avrai fatto nulla, voglio sperare.
– Io…in che senso?
– Non le avrai messo le mani addosso approfittando della cosa…!
A Sienna si contorse lo stomaco. L’immagine di Kevin le riempì la mente comparendosene all’improvviso.
– Ovviamente no! – ribatté Ben sconvolto.
– Ti posso assicurare che questo potrebbe essere…stato…fonte di shock…per lei.
Lo sguardo della ragazza andò a velarsi progressivamente. E Ben lo notò. Ma non disse nulla. Volle evitare di ammettere la verità: non era stato un abuso, era certo, ma se letto indebitamente, di sicuro un atto intentato. Pregò la misericordia: non era quel genere di persona. S’udì ora sudicio di indegnità.
– Ad ogni modo… – lo incitò Sienna.
– Il padre l’ha picchiata. Gwen è pesta di febbre e non so come né bene perché questi l’ha devastata. Ha segni violacei tutt’intorno al collo, ai polsi, ed un taglio spaventoso al centro del petto. Come se non bastasse…mi sta venendo da vomitare. –  Ben raccolse il capo tra le mani – Non so come potrò resistere né come esserle d’aiuto benché voglia sinceramente. Abbiamo litigato ormai un numero di volte incalcolabile. E dico davvero…Gwen è una persona così dannatamente difficile…
– E tu?
Il ragazzo alzò il capo prima volto in basso.
– La chiave è questa, Ben. Comprendo: Gwen non è una persona facilmente gestibile, desidera il controllo, l’egemonia, una sorta di comando perenne. Ma è una ragazza al contempo molto fragile e maledettamente insicura. Se litiga con te tanto spesso è forse perché in tua compagnia sente sfuggirsi il comando di mano. Orbene, valuta: cosa sarebbe bene fare? O meglio, cosa sarebbe più facile?
– Spararmi?
Sienna contorse la bocca in un’espressione a metà tra la risata e un lieve accenno di sopportazione al limite dell’umano. Indubbiamente, Ben era assai poco maturo, in campo.
– No, sciocco. Faresti certamente meno fatica cercando di mettere ognuno a proprio agio. Se sai cosa irrita lei e cosa te stesso bene, evitalo. In ogni caso, mi duole, Ben…ma bisogna essere realisti. L’amore parentale è complesso e differisce ben chiaramente dall’amore tra due estranei. Eppure tra te e lei…io stessa non riesco a distinguerne il confine.
Quella frase rimase appesa nel vuoto. Poi il silenzio.

Continua!

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Capitolo 22
*** Sigarette, Porri e Patate. ***


 Ciao ragazzi! Perdonate la LUNGHISSIMA attesa ma con la fine della scuola ho avuto le mie. Sono appena tornata dalla vacanza, peraltro, quindi abbiatemene in grazia. Perdonatemi >.< spero solo il capitolo vi aggradi. Prometto che sarò più puntuale! Perdonatemi, perdonatemi! Buona lettura.
 

La maestosa pineta di Bellwood cominciò ad ondeggiare cullata da uno scorbutico venticello invernale. Il parco era semideserto e per strada passava appena qualche macchina; le viottole sassose che portavano ai vari sentieri accoglievano qualche foglia secca, ingiallita, rosicchiata, qualche ghianda, qualche ramoscello adusto.
Ben mormorò stancamente, rivolgendosi all’amica Sienna: – in tutta sincerità, e gliel’ho anche detto esplicitamente, trovo che il nostro più grande impiccio sia il fatto di non riuscire mai a trovarci in accordo. Quando accade, viviamo momenti di supporto, d’una gradevolezza quasi inaudita. Ma per il resto non facciamo che inveirci contro mostrandoci l’un l’altra i lati peggiori dei quali siamo fatti. Trovo la cosa logorante.
Sienna, dopo un istante appena di silenzio, aggiunse: – innegabile. Che sia logorante, è innegabile. Ma credo tu debba sforzarti.
La giovane avvertì una fitta al cuore. In quell’istante avrebbe potuto scegliere; si trovava dinanzi un bivio di cui una delle due possibilità di scelta era assai di convenienza: indirizzare Ben alla presa di posizione a suo favore, ovvero, fargli comprovare definitivamente il fatto che Gwen fosse intrattabile e dalla loro relazione non si sarebbe stati capaci di cavar ragno dal buco. Oppure consigliargli quanto sentiva emergere dal suo cuore, ossia combattere per Gwen.
Sebbene stesse soffrendo immensamente, Sienna non ebbe cuore di giocar tiro tanto malandrino né ad egli, né ad ella, che a conti fatti era pur sempre una sua amica.
Portatasi una mano al petto sussurrò: – pazienta, Ben. Per un animo come il tuo, costerà. Ma te ne prego, pazienta.
Ben sbuffò e acconsentì lievemente ciondolando con il capo, quasi abbandonandosi a tal parole.
Poi disse: – sei una brava ragazza, Sienna.
Nell’ascoltare tal genere di parole, la giovane Butcher rabbrividì. Un tremito gelido le serpeggiò lungo la schiena, irrigidendola in maniera quasi totale.
– Sbagli, Ben. Erri profondamente.
Il ragazzo assottigliò lo sguardo. Le si rivolse corrugando le sopracciglia:– perdona la mia stoltezza, ma non ti seguo.
– Ci sono troppe cose di me che tu non sai. Se fossi approfonditamente a conoscenza del vero e non solo del mio nome ed il mio cognome, molto probabilmente non avresti tale, magnanima e clemente opinione di me.
Ben tentò di ribattere ma Sienna si alzò di scatto.
– Credo sia per me il caso di andare.
– Rimani un altro po’, sento il bisogno di sapere. – la pregò Ben con aria incupita (e forse anche con desiderio che qualcun altro confessasse di suoi svariati impicci, in quanto s’era stufato di sentirsi come l’unico in preda ad un vittimismo – ed una sventura – perenni).
– Ciao, Ben. – lo ignorò Sienna sforzandosi di sorridere in maniera dolce seppur d’un retrogusto infinitamente amaro. Alzò la mano destra in segno di saluto.
Tennyson la vide man mano allontanarsi, seguendola con lo sguardo.
– Quanto sono imbecille. – borbottò orbene passandosi un palmo sulla fronte.
 
Kevin Levin passeggiava senza meta tra le principali strade cittadine, dando qualche occhiata alle vetrine, osservando il cielo e rimuginando con aria assorta. A dirla tutta, stava mulinando in maniera particolarmente intensa circa l’accaduto del giorno prima, con Sienna Butcher. La conosceva oramai da molto tempo. Sapeva bene di averle giocato un tiro palesemente mancino ma ne sapeva (quasi) certamente la ragione. Ed essa, si disse, non dipendeva propriamente dal proprio cervello.
Si frugò in tasca. Ne estrasse una manciata di spicci, due banconote da dieci dollari completamente stropicciate ed una bustina di plastica dall’aria vissuta, di quelle a chiusura ermetica. Fissando afflitto i propri possedimenti infilò la mano nella seconda tasca della giubba di pelle ma il risultato fu abbastanza deludente: non vi erano né monetine né banconote, nemmeno bustine. Solo un accendino ed una sigaretta fumata a metà. Si domandò in quale assurdo momento avesse potuto cacciarsi in tascauna sigaretta appena iniziata. E sebbene si concentrò parecchio non parve essere in grado di cavarsi di capo una convincente rimembranza. Sbuffò tossicchiando.
Improvvisamente, avvertì il cellulare vibrargli in una delle tasche posteriori dei jeans, allorché, dopo averle tastate una ad una, estrasse il piccolissimo ricevitore.
– Pronto?
– Ehi, Levin.
Seguì un breve istante di silenzio. Kevin si decise a rispondere:– Oh. Comandi.
– Sei riuscito a riprenderla nel giro?
– Ho avuto alcuni problemi. – si giustificò in tono grave il ragazzo riprendendo a camminare di buona lena.
– Vedi di sbrigarti, la roba non si vende da sola. Siamo troppo pochi. – venne rimbeccato.
– Sarà fatto. – mormorò Kevin.
Riagganciò.
– Al diavolo. Sarà più dura di quanto avessi immaginato.
Detto questo, accese la sigaretta che aveva trovato spenta nella propria tasca.
 
Nel bagno di casa Tennyson, era calato un silenzio fin troppo pesante.
Uccidersi sarebbe stato pressoché veloce, Gwen pensò. Facile. Per un istante la ragazza si convinse fermamente che porre fine a se stessa si sarebbe rivelato perfetto. Spinse il volto ulteriormente sott’acqua, sentendo il respiro venire pesantemente meno. Era la fine. Ed in cuor suo, tra le pieghe di un radicato cordoglio,Gwen si scoprì a sorridere, d’uno di que’ sorrisi ampi, smorfiosi e spensierati, sollevati. Come fosse tornata l’infante gaia la quale era stata in quelli che rammentava essere lontani secoli prima, come se il rimorso e dalla pesantezza degl’ultimi s’attenuassero. Come se fosse tornata a quelle afose estati d’infanzia trascorse in compagnia del cugino e del fido, festoso nonno. Ma di sorpresa si irrigidì. Il volto straziato della madre che la sera prima la pregava di non infierire oltre, rigato, solcato dalle lacrime amare di un pianto insopportabile, le comparve dinanzi, cancellando con prepotenza la parentesi di sollievo che aveva toccato Gwen per quei pochi istanti. Le sue espressioni devastate, intimidite, sconcertate, sempre identiche da anni a quella parte, finirono sotto i riflettori del palcoscenico di conscio ed inconscio di Gwen. Qual’essere immondo sarebbe stata se avesse lasciato la sua genitrice sola al mondo tra gl’artigli sanguigni del padre? Gwen si sentì soffocare, tanto quanto un cane rabbioso cinto ad una catena pesante tre volte tanto la propria stazza. Non l’era concesso neanche morire. Con un profondo spasimo riemerse. Suo malgrado.
Odorando il diffondersi lieve del profumo di ciliegia del bagnoschiuma, raccolse il capo tra le mani e si obbligò a soffocare il pianto. 
 
Sienna Butcher prese a camminare molto, troppo velocemente. Aveva sbagliato a mettere quella pulce nell’orecchio di Ben, se ne rendeva conto ella stessa: la sola idea che egli anche solo avesse potuto avvicinarsi al proprio passato e conoscerne i dettagli la faceva agghiacciare. Eppure nell’istante in cui aveva pronunciatogli quelle parole, – ai suoi occhi col senno del poi tanto inopportune – aveva percepito il sentore di non averne potuto fare a meno. Questo la spaventò. Si impose che d’ora in avanti si sarebbe tenuta tutto dentro ed avrebbe rispettato con ferrea e ligia convinzione la promessa che si era fatta poco tempo prima. Quanto prima avesse cancellato la vecchia se stessa, tanto prima avrebbe vissuto in modo migliore. Strinse un pugno, persuasa. Ad un tratto però vacillò: qualche volta, la debolezza e la paura di quel mostro che le viveva dentro la spingevano a desiderare ancora quelle vie d’uscita così facili. Il passato la torturava, la seguiva come un’ombra, le frusciava dentro, strisciava subdolo lungo i suoi nuovi principi intento a farli vacillare e crollare miseramente.
Sienna si sentì battere la spalla e sussultò, riemergendo tutt’un tratto dai suoi pensieri foschi.
– Ehilà! Poffarbacco, chi si rivede.
– Non parlare come un idiota sperando di farmi ridere, Levin – rispose tagliente Sienna senza rivolgere sguardo alcuno all’amico (se così ancora si poteva dire egli fosse).
– Andiamo, non te la sarai presa!
Sienna digrignò i denti: – vorrai scherzare! Sparisci dalla mia vista prima che faccia brandelli di te. – minacciò incollerita puntandogli un dito in petto.
Ridendo, Kevin le si avvicinò ancor di più: – sono qui, anche se è stato un caso fortunato, per porgerti le mie scuse, via. Non essere così aggressiva.
La giovane non volle ascoltarlo, sentendo riaprirsi la ferita da egli lasciatale la sera prima.
– Dove dormirai, oggi? In un albergo di lusso? – la canzonò il giovane girandole attorno mentre la ragazza aveva ripreso a camminare intenta a scrollarselo di dosso.
– Non è affar tuo – lo liquidò ella aumentando la velocità delle falcate.
– Dai, perdonami. Infondo sei abituata a sopportare idioti come me.
Sienna non ci vide più.
– Sì, sei un idiota! Un maledetto idiota! Che vuoi da me?! Non mi hai forse preso in giro abbastanza?! Va a mettere le mani addosso alla tua ragazza!
Kevin mosse un passo in avanti: – non prenderla così a male! In quel momento stavo…scherzando!
– Tu…scherzavi…? – sussurrò flebile la giovane abbassando il volto.
Improvvisamente venne assalita dai ricordi e si sentì morire. Senza muoversi d’un millimetro brusì: –  “sei così palesemente inutile e vuota che mi fai venire voglia di scherzare anche quando dico che sei una ragazza, Butcher!”… “fai così pena che probabilmente scherzavo anche quando ti ho detto che ti consideravo una da una notte! Forse sei alla pari di una prostituta! Ma aspetta…non è forse quello che sei?”… “Zia…mi vuoi bene?”, “Certo.”, “Davvero?”, “No, sparisci dalla mia vista, non facevo che scherzare.”…
– Che stai dicendo? – domandò Levin basito.
Sienna si sentì riempire gli occhi di lacrime di dolore. Kevin le sollevò il mento ed ella si scansò urlando: – maledizione! Piangere era l’ultima cosa che avrei dovuto fare! – si lamentò abbassando lo sguardo strozzata dalla rabbia e dal rancore.
Kevin tacque lasciandola andare, quasi spaventato. 
– Io lo so! Lo so benissimo quello che sono stata! Ho cercato di cambiare, di diventare migliore! E nonostante questo non riesco ad esserlo davvero, non ci riesco proprio! E no, non mi piaceva fare la prostituta per pagarmi da mangiare! No, non mi piaceva spacciare la cocaina con cui voi imbecilli vi drogavate! Ma che altro potevo fare?! Dimmelo tu se ti credi tanto migliore da perseguitarmi ricordandomi così impietosamente lo scempio che sono stata! – gridò Sienna col fiato corto per lo sforzo immane cui si era sottoposta, cavandosi di corpo tutte le energie che avesse pur di sfogarsi.
– Sono stata una persona mediocre, squallida, che non ha mai ricevuto un briciolo d’affetto da nessuno! Nessuno mi può insegnare come vivere la mia vita, nemmeno tu con le tue stupide fandonie da perbenista! Ho fatto il viaggio in autostop per trascinarmi fino a qui, ho marinato la scuola per questo, ho con me solo un cambio o poco più, non ho un soldo eppure ho voluto promettermi di ricominciare e darmi una regolata perché mi faccio schifo! Dì! Li vuoi tu, questi polsi?! Le vuoi tu queste ossa?! Questi polmoni neri di tabacco e queste membra insozzate dalla cocaina?! A meno che tu già non le abbia, non sarei che felice a lasciarti tutto questo ciarpame! Il mio corpo è paccottiglia, ed ancora ti burli di me, senza nemmeno il rispetto per un’anima sventrata dalla sofferenza qual’io sono, e tu lo sai!
Kevin Levin non seppe ribattere. Aveva tentato di fare il gran filosofo di vita con lei, il giorno prima. E solo ora notificava di avere fatto la figura del completo cretino.
– Vuoi una sigaretta? – domandò Kevin con un filo di voce.
Gli occhi di Sienna si ingigantirono. Prese fiato e sibilò:– allora non capisci…non ci arrivi! – sbottò divorata dalla collera.
– Ma…pensavo ti avesse potuto dare una mano a rilassarti.
Butcher si raccolse il capo tra le mani indolenzite dal freddo:– No che non la voglio! E non voglio nemmeno te! Levati di torno, drogato del cazzo! Lasciami morire qui dove sono, non lo voglio il tuo aiuto, non voglio il tuo alloggio, a questo segno neanche la tua pena! –  Sienna quasi soffocò, poi aggiunse – Muori, muori! Muori come è morta mia madre, sparisci anche tu dalla mia vita e lasciami crepare sola come un cane!
Il ragazzo rimase zitto e la osservò cadere ai piedi del marciapiede di asfalto. Accomodando la giacca di pelle nera sfilò di tasca interna un pacchetto nuovo di sigarette. Ne mise una in bocca, poi ne lasciò scivolare un’altra a terra.
– Favorisci, se ti pare. Altrimenti fa a tuo comodo.
– Ho sprecato fiato per nulla con te – si lamentò affranta Sienna tra un sospiro e l’altro.
– Butcher: io c’ero. Ti vedevo. Io so. Hai sprecato fiato, sì. Sapevo già tutto. Ti osservavo…barcollare su tacchi improbabili e fumare sigarette una dopo l’altra. Ti osservavo e vedevo Tizio o Caio portarti a letto. Io…so, purtroppo.
Sienna rimase zitta. Doveva recuperare aria.
– Faccio più schifo di te, sai? Non riesco a smettere, di essere così idiota, – aggiunse il giovane Levin – ma ho rinunciato all’idea di cambiare in meglio perché mi rendo perfettamente conto, nei pochi momenti in cui sono lucido, che non ne sarei capace. Ti ho detto un mare di stronzate, ieri. Sono un imbecille che fuma cocaina e che si porta a letto la prima che gli si offre calpestando i sentimenti della propria ragazza. E che beve. Non ho il diritto di giudicare te. Mi accontento di aver gettato la mia vita in questa maniera.
– Hai solo diciassette anni, Levin.
– Non ha importanza. Mi sento debole come un vecchio malato; fumo, bevo, mi drogo…cosa pensi che sia il mio corpo? Un catorcio come il tuo, forse, anzi di per certo, peggio. Probabilmente io ti ammiro. Ti spingi a renderti migliore, io non ci riesco, anzi, ci rinuncio senza nemmeno tentare. Eppure te lo dico: se ti va, vieni a stare da me. Sai più o meno quello che ti spetterebbe, ubriaco o drogato non sono un granché, a livello umano, però…la mia proposta…valutala. Ricorda che siamo sulla stessa barca.
Sienna evitò di rispondere.
– E poi – aggiunse Kevin facendo per andarsene – devo proprio ammetterlo. Io ci sono ancora dentro. E se vuoi la verità, non mi frenerò nel trascinarti con me. Mi è stato dato come compito. E devo ubbidire, perché ho bisogno di soldi.
Muovendo lunghe falcate, la salutò: – ci si vede in giro. Pensa bene a quello che ti ho detto.
E Sienna rimase sola, china su se stessa al bordo della strada con gli occhi rossi di pianto. E un dolore immenso a soffocarla cingendole il collo senza pietà alcuna. Strinse tra le dita il pacchettino rosso che aveva ancora in tasca.
– Perché…? Perché volete ancora me?
 
Ben si alzò dalla panchina dopo mezz’ora buona passata a trastullarsi, a sbuffare e a dar forma a nuvolette di fiato candido. Diede un’occhiata all’orologio di acciaio che si ergeva al centro del parco. Sin da piccolo, trovava quella sorta di ornamento cittadino qualcosa di sinceramente accattivante. Anziché cifre arabe v’albergavano numeri romani incisi su base di marmo, il tutto raccolto in un quadrante sferico elevato tanto in alto da un asta di metallo scuro. Magari aveva un’aria vagamente retrò, o forse era semplicemente un orologio qualsiasi, ma Ben lo ricordava come uno dei migliori portavoce degli istanti più belli della sua infanzia, passata con nonno Max a bighellonare e correre qui e la tra le stradelle sassose del Bellwood Park. Ed anche con Gwen, ammise tra sé incupendo lo sguardo nell’osservare lo scorrere delle lancette scure. Si erano fatte le tre e mezzo del pomeriggio.
– E pensare che per almeno trenta minuti buoni ero riuscito a dimenticarmene.
Borbottando annoiato mosse qualche passo verso il cuore della città.
 
Gwen cominciò a respirare più profondamente, recuperando un grano di forze. All’improvviso un’ aroma fresco di ciliegia –  sicuramente derivante dalla profumazione del bagnoschiuma e molto più intenso di quello avvertito precedentemente –  salì sino alle proprie narici, inoltrandolesi sornione in ogni dove del corpo. Aperte piano le palpebre, Gwen sentì di star rievocando qualcosa. I suoi occhi si persero nei giochi di schiuma dell’acqua, ora ammansita dopo il suo tanto dimenarsi e sporca di lei, della sua collera. Le sembrò di rivedere un episodio, una sorta di reminiscenza frammentaria a confondersi tra le pieghe della memoria. Assottigliò lo sguardo.
– Una…ciliegia – sussurrò rinvenendo spaesata.
Gwen si rattrappì a bordo della vasca.
Canticchiò flebilmente:– La petite Cerise…ma petite Cerise…et ma Fraise…ils sont tous mes amis…
 
Sienna alzò il capo, dopo pressoché venti minuti passati a raccoglierlo disperatamente tra le mani. Non v’era passante che circolandole accanto non la guardasse in maniera strana o sospettosa ma ad ella la cosa non interessava minimamente. Anzi, nemmeno la indispettiva, preferiva ignorare tutti nella maniera più assoluta possibile, lasciandosi trascinare dalla propria sofferenza.
Un tuffo così doloroso nel passato la aveva distrutta. In quei venti minuti le era tornata alla mente una gran quantità di rimembranze, nemmeno una un briciolo felice. Od anzi sì, a dirla tutta. Il volto di Ben Tennyson si era insinuato tra i suoi lugubri ricordi, portando un po’ di luce in quel buio devastante. La sua cara Cerise. Sienna sorrise dolcemente guardando il cielo con occhi arrossati. Ah, quanto dolce e felice era stata quella gaia infanzia trascorsa con i cugini Tennyson nella gradevole Bellwood. Sienna deglutì evitandosi un singhiozzo. L’ennesimo. E poi, era colato tutto a picco, si disse mesta.
Lo sguardo le cadde poco lontano, laddove giaceva la sigaretta lanciatale da Kevin, rotolata tra il fango e i sassolini dissestatisi dall’asfalto. Allungò una mano.
Non fumava da…tre settimane? Probabilmente. Osservò la sigaretta, ne percorse la forma con sguardo caliginoso, ne annusò l’odore forte di tabacco, che la pervase. Ventuno giorni prima si era promessa che avrebbe smesso. Sentì di star rivivendo quei momenti del passato la cui memoria la uccideva giorno dopo giorno.
– Chissà se Ben fuma…? – sussurrò piano senza staccare gli occhi dal filtro, come sotto ipnosi.
– No…impossibile. – aggiunse dopo un po’.
Mormorò con voce fioca: – perché lui è un bravo ragazzo.
Introdusse una mano nel taschino interno del cappotto. Ne sfilò un accendino.
Messa in bocca la sigaretta biascicò: –…lui è bravo e buono…
E proteggendo la fiamma con la mano l’accese.
– Ed io sono una puttana.
 
Ben si accorse che si era effettivamente fatto un po’ tardi. Dopo aver abbandonato il parco di Bellwood aveva vagabondato alla cieca per la città e le ore erano passate senza che se ne accorgesse. Si decise a rincasare.
– Già, rincasare – si disse Ben ad alta voce.
– Ma in quale casa? – aggiunse cinico.
Notificò di stare visitando una parte di Bellwood nella quale mai prima d’ora era stato, abbastanza lontana da casa propria. Diede dunque un’occhiata nei dintorni.  Notò all’improvviso un piccolo negozio di frutta e verdura, a livello architettonico dall’aria antica. Si lasciò scappare un lievissimo sorriso, osservando la merce esposta aldilà della vetrina lucida, curata ed organizzata in maniera impeccabile ed incredibilmente deliziosa. Decise di entrare.
 
Gwen si alzò, s’avvolse nell’accappatoio di spugna e si asciugò con cautela, sedendo in quanto avvertì il capo vorticare. Stesa a fatica la crema idratante, vestitasi ed accomodati i capelli alla meno peggio, decise che avrebbe fatto meglio a darsi una mossa e scendere al pianterreno. Aveva già quasi scordato la canzoncina che stava canticchiando con voce sottile pochi istanti prima, sebbene le fosse parso, per un breve lasso di tempo, di conoscerla alla perfezione. Ma non volle soffermarsi troppo a mulinare, in quanto il capo pareva starla minacciando di scoppiarle d’un istante all’altro.
Scese le scale con aria stanca, si strofinò il volto, trascinò le gambe dietro sé.
Decise che stendersi sul divano non sarebbe stata un’idea poi tanto malvagia e dunque, con aria un poco stordita, vi si accoccolò. Fu invasa da un fitto sciame di pensieri.
Guardò l’orologio. Ben mancava da ore, ormai. Si sentì indosso un misto attaccaticcio di preoccupazione e noncuranza. Non poté però fare a meno di guardare fuori dalla finestra. La mancanza di Ben la suggestionava forse un po’ troppo. Avrebbe benissimo potuto fregarsene, per quanto le importava. Ed invece si sentiva in terribile apprensione.
Chiuse gli occhi, li strinse forte sperando che a quel segno ogni brutto sentore svanisse. Ma così non fu. Si sentì costretta a riaprirli, seppur con amarezza. Lasciò correre le dita sulla fodera lucida di pelle del divano. Riprese a riflettere, ma questa volta raggranellando i ricordi, che presero a danzare formando una spirale infinita.
“ Siete pur sempre degli adolescenti”.
A Gwen tornarono alla mente quelle parole. Forse avrebbe fatto meglio a considerare quegli sciocchi sentori solo un ammasso indistinto di melma sentimentale, tipica dell’adolescenza. Ben era suo cugino, punto e basta. Non era particolarmente carino, era un grande incapace, seguiva un’alimentazione ed uno stile di vita sregolati, non aveva norme da rispettare, molte volte si comportava con troppa boria e si lavava poco – o perlomeno, circa quest’ultimo ambito, quella era l’impressione di Gwen. In poche parole, era un gomitolo intrecciato di difetti,uno peggiore degli altri. Dopo aver tratto tali conclusioni, quasi le parve di vedere uno spiraglio di luce.
Mugugnò:– Ho ben altri problemi che pensare a quell’idiota.
Vide improvvisamente il volto di sua madre comparirle in mente. Rimase zitta per un attimo, poi si alzò in piedi sentendo il capo vorticare e gli occhi bruciarle. Prese in mano la cornetta lucida del telefono fisso.
 
Sienna aveva fame. Se n’era accorta quando aveva smesso di fumare quella maledetta sigaretta. Si alzò in piedi e si frugò in tasca, cacciandovi le mani anche per il gran freddo. Le rimanevano una decina di dollari.
– Oh, meraviglioso! – si lamentò cinica abbassando il capo.
Spostando le dita si accorse di stare sfiorando una superficie di metallo. Estrasse di tasca la chiave che aveva sottratto dall’appartamento di Kevin Levin quel mattino prima di sparirsene. La osservò cautamente. Poi la ricacciò da laddove l’aveva estratta.
– Preferisco patire la fame e morire di gelo sotto un ponte.
Tossendo, prese a camminare, stringendo forte tra le dita quei suoi ultimi dieci dollari.
 
Il cellulare di Lily Tennyson prese a trillare, allorché rispose flemme: – Lily Tennyson.
– Mamma.
– Oh! Gwen! Perché mai mi chiami, è capitato qualcosa? Lo sai che le telefonate internazionali costano abbastanza,no?
Gwen rispose: – temevo per te. Non ti ha fatto nulla, vero?
Lily ammutolì. Fissò Frank di sottecchi e mormorò: – no, non aver paura.
– Non mi fido.
Lily sorrise mestamente: – te lo giuro. È piuttosto quieto, a dire il vero. Vuoi…che te lo passi?
– Affatto.
La madre di Gwen gelò. Anche se, infondo, comprese.
– Non me ne importa nulla, che se ne rimanga laddove se n’è andato.
Lily abbassò lo sguardo.
– A me basta sapere – aggiunse Gwen – che tu stia bene. Avevo uno strano sentore.
– Va tutto bene, Gwen.
– Ne sei sicura? Per davvero?
La porta di casa Tennyson si aprì e ne comparve Ben.
Gwen si affrettò: – ti richiamerò. A presto.
Lily salutò la figlia: – ciao, Gwen. Mi raccomando, non stare in apprensione e bada a guarire.
Gwen rispose: – e sia.
Ripose la cornetta sospirando.
Ben chiese: – chi era?
– La nostra compagna di classe Susan Connor – mentì Gwen.
– Che diavolo voleva quell’oca? – domandò Ben poggiando un sacchetto di carta ricolmo sul tavolo.
– Non voleva nulla.
Ben fece spallucce e tolse la giacca. Gwen si vergognò di aver mentito. Ma non del fatto di aver chiamato la madre; piuttosto non voleva che Ben ficcanasasse negli affari della sua famiglia. Sentì una stretta al cuore. Era forse troppo egoista da rifiutare così preventivamente di farsi aiutare?
Ben le si parò davanti.
– Gwen. Scusami. Sono un idiota.
La ragazza rimase totalmente spiazzata.
– No. – lo interruppe allora – l’idiota sono io. Sono maledettamente immatura.
Ben dunque sorrise: – dici che resistiamo qualche ora senza litigare?
Gwen sorrise: – direi che si può fare.
– Hai fame? – le chiese Ben afferrando il grembiule della zia appeso ad una gruccia accanto la dispensa.
– Un po’…–  ammise Gwen.
– Allora siedi. – le intimò Ben.
Gwen sgranò gli occhi: – perché mai, se mi è lecito?
 – Ho pensato che avrei perlomeno dovuto ringraziare per l’ospitalità preparando la cena. E magari cucinando anche qualcosa di salutare per te, cugina.
La ragazza sentì un tumulto.
– Hai fatto la spesa per me? Ma…
Ben si voltò con il grembiule indosso: – taci – le sorrise con aria particolarmente malandrina.
– Sei ridicolo con quella roba addosso! – rise Gwen additandolo.
– Sarà, ma voglio proprio vedere cosa dirai quando avrò finito!
– Perdonami ma...almeno…sai cucinare? – lo interrogò corrugando la fronte Gwen.
Aggiunse: – non voglio morire giovane!
– Sta zitta, grande chef dei miei calli – la rimbeccò Ben mostrandole la lingua.
– Che orrore! – ribatté schifata Gwen.
– Dì – la ignorò Ben – ti piace il porro?
Gwen ci pensò su come a cercar di rammentarne il sapore, poi gli rispose: – direi di sì.
– Molto bene.
Ben salì le scale: – non toccare nulla in mia assenza.
– E perché mai? – chiese Gwen quasi ferita nell’orgoglio.
– Perché sei malaticcia e infetteresti questi lindi doni di Madre Natura. – ridacchiò Ben sparendo in bagno.
– Ehi! Dove vai? – strillò Gwen tossicchiando.
– Me le laverò pure le mani, o no?! – ribatté Ben stizzito.
Gwen si fermò a riflettere. Solo poco prima si era detta che era poco dedito all’igiene personale ed ora…le pareva di doversi evidentemente ricredere.
Poco dopo Ben tornò al piano di sotto lindo e pulito. Si portò nei pressi del lavandino e chiese: – dove tenete le terrine?
Gwen si morse un labbro meditabonda: – guarda alla tua sinistra, nell’anta centrale. Dovrebbero essere impilate assieme ai piatti.
Ben controllò. Estrasse una terrina di plastica blu e vi rovesciò dentro delle patate e dei porri, il tutto pervenuto dalla busta di carta posta sulla tavola. Procedette azionando il rubinetto ed inondando d’acqua il contenitore. Si voltò: – hai del bicarbonato?
– Suppongo sia in dispensa.
Nell’afferrare un cartoccio di bicarbonato e nel versarne una cucchiaiata nella terrina, Ben attaccò:– è bene che tu sappia, cara cugina, che vi sono alcuni ortaggi, quelli invernali, per l’appunto, che proteggono la propria struttura vegetale contro le scarse temperature, in modo da resistere alla diminuzione della luce del sole e superare le variazioni del clima tipiche di questa stagione. – spiegò con aria dolcemente saccente.
Gwen non riuscì ad irritarsi per tanta alterigia ,un po’ per stanchezza un po’ per affaticamento da malattia. Ma borbottò: – come fai ad essere così esperto in campi simili se a scuola sei un allievo mediocre?
Ben scosse il capo delicatamente:– Gwen…devi toglierti dalla testa il fatto che la scuola sia la principale componente di una vita. Sì, sono uno studente mediocre. E allora? Non mi insegnano a scuola a cucinare, l’ho imparato da solo. So queste cose un po’ per le fissazioni in campo di alimenti biologici e prodotti naturali di mia madre un po’ perché mi diverto. Non credo proprio che quello che siamo lo dobbiamo proprio tutto alla scuola, sai.
Gwen rimase lievemente colpita da tali parole.
Dopo una decina di minuti, Ben scolò il porro. Poi domandò guardandosi intorno con aria smarrita.:– Non ricordo…dove sono le padelle?
– Secondo scompartimento a destra – rispose Gwen alzandosi claudicante da tavola.
Il ragazzo ne estrasse una abbastanza capiente e, una volta aver sbucciato dell’aglio, lo versò con il porro all’interno del recipiente metallico, accendendo la fiamma del fornello sicché raggiungesse una media espansione.
– Cosa fai ora? – domandò Gwen incuriosita, fissando la scena un poco attonita.
– Imbiondisco il tutto aiutandomi con l’aggiunta di un po’ d’olio. Una quantità modica, così non ingrassi come una balena! – rise Ben canzonando la cugina.
Gwen tirò fuori la lingua e, con espressione cinica, borbottò: – davvero molto simpatico, cugino.
Ben non le prestò attenzione preferendo darsi da fare con le patate, che cominciò a pelare dopo averle estratte dalla terrina di plastica nella quale le aveva messe a lavare.
– In merito a quel che dicevi…in tutti questi anni ho sempre pensato tu fossi un perfetto imbranato, ai fornelli, sai cugino? – asserì Gwen osservandolo come catturata.
Il giovane ribatté: – non ci siamo frequentati in maniera così approfondita perché tu te ne potessi accertare, cugina.
La ragazza tacque, un po’ imbarazzata.
Ben tagliò a cubetti ogni patata ricordandosi periodicamente di controllare lo stato di porri ed aglio. Ci volle qualche minuto perché s’ammorbidissero al punto giusto per potervi aggiungere anche le patate, del rosmarino ed il brodo che Ben aveva chiamato “vegetale”.
Improvvisamente Ben si rivolse a Gwen, ammutolita per lo stupore ed un briciolo di vergogna residua dalla figura di poco prima:– Il mixer…?
– Oh, ehm…dovrebbe essere nello scomparto accanto alla dispensa.
– Infatti. – confermò Ben estraendo l’oggetto con cura da parte sua definibile persino sospetta.
Posato sul piano lucido, Tennyson si accertò che si fossero ammorbiditi anche i tuberi. Allorché trasferì il composto nel mixer, poi azionandolo.
Gwen ne rimase ammirata. Quello che Ben ottenne fu un variegato morbido, una crema invitante ed omogenea alla quale egli, una volta riportatala in pentola, aggiunse un paio di foglie di salvia e un pizzico di sale e pepe, questi ultimi trovati accanto al fornello negli appositi spargitori.
Coprì dunque la pentola con il coperchio debito ed attese, approfittandone per raccogliere l’umido prodotto e svuotarlo nel cestino apposito. Successivamente si mise ad affettare del pane che estrasse dalla dispensa (molto probabilmente trovato per puro caso).
A quel punto incoraggiò la cugina :– Prepara almeno la tavola, Gwen.
La ragazza sbuffò ma ubbidì.
Ben cominciò a riflettere. Forse non avrebbe dovuto farla sforzare, ma infondo un po’ ci stava godendo. Le diede un’occhiatina furtiva. Notò che, sebbene stesse visibilmente male e fosse altrettanto spossata, Gwen si impegnò al massimo persino per compiere un’azione di importanza sommaria come quella. Ed appunto, in breve Gwen stese la tovaglia ed apparecchiò in maniera al solito impeccabile. Dunque sedette, quasi sfinita.
Tornando a se, Ben estrasse una padella antiaderente e, posizionatala su un nuovo fornello, vi fece scivolare i quadretti di pane appena tagliati. Tornò alle verdure e mescolò delicatamente con un cucchiaio di legno che poco prima se ne stava appeso accanto la saliera. Riposizionato il coperchio si accertò anche che il pane stesse tostando. In quanto così evidentemente era, aggiunse una modica quantità di olio e dell’origano.
Gwen chiese timidamente: – ti serve una mano?
Ben scosse la testa: – no, hai fatto abbastanza – e le sorrise leggermente, riprendendo a dare attenzione alle varie padelle.
La ragazza si arrese e si abbandonò sul divano poco lontano avvertendo: – ti dispiace se me ne resto qui? Mi gira la testa.
– Ti chiamerò poi. – asserì Ben.
Passati dieci minuti il ragazzo versò la vellutata in una fondina e ripose i crostini in una piccola terrina di ceramica ricoperta da carta per fritti.
– Gwen, muoviti. – Ben avvertì la cugina come promesso, la quale si alzò e sedette a tavola.
– Ecco a te, – annunciò Ben servendo a Gwen il piatto fumante – hai davanti una spettacolare vellutata di porri e patate alla Tennyson. Con tanto di crostini tostati con olio e origano. Buon appetito.
– Accidenti sembra anche buono…! – ammise Gwen sgranando gli occhi.
Ben ridacchiò ringalluzzito e prese tra le mani una bottiglia d’acqua. Versatosene un po’ disse:– mangia o si raffredda.
Gwen infilò in bocca una cucchiaiata di vellutata.
– Oh, diamine. Quanto ti odio Ben.
 
Continua!

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