Nec Noctu nec Diu licet Iudices Quiescant di minimelania (/viewuser.php?uid=64923)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Visitazioni ***
Capitolo 2: *** La Belle Dame ***
Capitolo 3: *** Imprevisti ***
Capitolo 4: *** Ad Inferos ***
Capitolo 5: *** Liquami e voci ***
Capitolo 6: *** Per aspera ***
Capitolo 7: *** Buio ***
Capitolo 8: *** Nella tana del Duca ***
Capitolo 9: *** Il gatto e il topo ***
Capitolo 1 *** Visitazioni ***
*
< Nec diu nec noctu
licet
Iudices quiescant >
*
1.
Non era mai stato così vicino a credere a un sogno. Di
solito i sogni non lo interessavano, eppure, in quel momento, lei
sembrava reale.
- Sei un sogno?
- Secondo te?
Si fece ancora più vicina. Emergeva fresca e splendente dal
fondo scuro della stanza illuminata solo da un debole tepore di luna.
- Sei proprio tu? - deglutì, piano, il Giudice. Aveva la
gola secca.
- Secondo te?
Si avvicinò, sorridendo del sorriso vago e maligno che hanno
le statue. Era bellissima.
- Secondo te?
Un dito le scivolò pian piano dal bordo di mogano del letto
alle prime cortine. Poi la coperta, tracciò disegni sul
ricamo, si fermò un istante sopra un fiore rosso. Al Giudice
venne fatto di pensare che - se era un sogno - lui voleva che
continuasse in eterno.
Il dito lieve, un poco abbronzato, dall'unghia liscia come una perla
appena nata scorse il pesante strato di stoffa fino al monticello che
nascondeva il piede di lui. Si insinuò piano sotto le
coperte, fece il solletico.
- Allora? Credi ancora che io sia un sogno?
A lui venne voglia di ridere. Di ridere come forse non faceva da
decenni. Inarcò la schiena, rapito da quell'assurda e
potentissima sensazione di piacere.
- Che cosa sei venuta a fare? Cosa vuoi?
Lei all'istante arrestò il dito sull'incavo del piede. Mise
il broncio.
- Cos'è, non mi vuoi?
Lui stava ancora ridacchiando, piano.
- No. Ti voglio, eccome.
- Ah, bene, ecco.
- Continua, per favore.
Lei ci pensò.
- Non so se voglio.
- Te ne prego.
- Che cosa? Non ho sentito. Di' più forte.
- Te ne prego.
Lei fece un sorrisetto soddisfatto. Ricominciò a fargli il
solletico.
- Meglio.
La mano salì appena, alla caviglia. Lui avvertì
che scostava la stoffa laddove era la camicia da notte.
Sentì un brivido, non per il freddo - pure era freddo, e lei
stava così - ma perché quel tocco era il primo,
di una donna, da tanti anni in quello strano posto. Gli venne di nuovo
da ridere.
- Che cosa fai? Sei impazzito? - chiese lei.
Lui smise subito.
- Perdonami.
- Bravo.
Il dito salì ancora, alle ginocchia. Quando
incontrò la pelle più tenue nell'incavo del
ginocchio, il Giudice esalò una specie di brivido. Nessuno
mai, nessuno mai gli aveva accarezzato un ginocchio in quel modo.
- Certo che sei proprio strano.
Ma stavolta rideva anche lei.
Era bella, bellissima come un mattino di sole pieno. Aveva ancora la
vesticciola lacera che le avevano messo quando era entrata in carcere,
dopo che lui l'aveva salvata perché lei aveva scelto lui,
alla fine. E poi tutto era stato così veloce, lei che non
vuole neanche guardarlo, che lo odia, gli sputa in faccia, in carrozza.
Umiliazione. Questa parola bruciava ancora tantissimo tra le pallide
labbra del Giudice. Per questo non l'aveva più voluta, per
questo avrebbe lasciato che marcisse nonostante le tenebre e il freddo
della cella fossero quasi una tortura per lui quanto dovevano esserlo
per lei. Avevano dormito già quasi un mese intero sotto lo
stesso tetto, al Palazzo. Lui annidato nelle sue corpete di ombra,
morbide, opache, a tormentarsi sognandola dentro il segreto guscio
delle cortine. Lei in una cella, a morire di freddo. Sperando anzi di
morire prima che piegarsi alle lusinghe di lui.
- Perché adesso sei venuta? - le chiese, in un soffio. Ma
sapeva che non avrebbe risposto, quella zingara
imprevedibile. Stava per chiederle come aveva fatto a liberarsi dalle
segrete, ma lei, con la punta del suo dito diabolico, era arrivata
all'interno della coscia, aveva allargato la palma,
e ora aderiva con la mano alla carne.
- Ti sta piacendo? - chiese lei, chinandosi come in un soffio sulle
coperte. Il seno tiepido e i fianchi generosi, la pelle morbida e la
cascata disordinata dei capelli, tutto a non più di qualche
centimetro da lui, dalla sua bocca.
Lui pensava di poter sopportare quasi tutto, ma non il suo alito di
zafferano. Mosse una mano, impcercettibilmente. Cercò di
toccarla, ma lei rise.
- No, no, no, no - sussurrò roca, assestandogli una
minuscola pacca sul naso, come si fa coi cani disubbedienti - No, no,
no, no. Sono io, qui, che faccio le Regole. Sempre se vuoi giocare,
ovviamente.
Lui chiuse gli occhi. Non sapeva come, ma la mano di lei adesso era
magicamente scivolata sul suo petto, aveva disfatto i lacci della
camicia, si era insinuata tra le pieghe della tela ... non aveva mai
provato niente di simile. E credeva di non poterlo provare. E invece
lei, abbondante, meravigliosa, china sopra il suo petto cominciava a
stampigliargli minuscole miriadi di baci praticamente dovunque. Alla
base del collo, vicino all'orecchio, sulle spalle ...
- Esmeralda. Ti prego.
Un sussurro. Un mugolio pietoso, ovviamente. Niente a che fare con la
voce dura che gli usciva dal petto ogni giorno. In quel momento lui non
era niente, cera liquida tra lei sue mani. Un bambolotto che poteva
essere distrutto in un attimo.
- Esmeralda ...
- Che cosa?
Lei, ridendo, gli scivolò accanto, nel letto. Come pervase
da un istinto di vita che non poteva che essere inumano, la stoffe
sovrapposte, i vecchi lini inamidati, il broccato rigido divvennero
come di panna. Panna freschissima e incredebilmente morbida, panna in
cui tuffare le labbra e morire.
- Oh ...
Ma non fece in tempo a dire altro, perché lei era a
cavalcioni su di lui.
- Oh? - rise piano - Non mi dire che è tutto quel che ti
viene in mente ...
Glie lo aveva soffiato in un orecchio, con la sua voce atroce di
colomba, mentre con dita lente e torturatrici giocava con gli ultimi
legacci che trattenevano la virtù di lui.
- Non dirmi che è tutto qui quello che sai dire. Tu facevo
più loquace, amore mio.
Quello era troppo. Amore mio? D'istinto le sue mani si mossero. Non
riusciva più a stare fermo, anche se muoversi, forse,
equivaleva a far scivolare via per sempre quel sogno. Ma lo strazio era
troppo. Doveva, doveva correre quel rischio.
- Amore mio - ripetè lei, in un sussurro, mentre le labbra
rosse di ciliegia scendevano piano dalla sua gola al petto, e
dal petto poi all'ombelico ... ma poi, prima di scendere oltre, si
fermarono. Con una mana gli accarezzò la curva che dalle
costole scende alla pancia. Lui, mugolò, pianissimo, a occhi
chiusi.
- Amore mio ... amore ... ti prego ...
Lei rise, di una rista come mille sonagli d'oro.
- Ti piace?
- Oh, santo cielo, amore mio, amore mio ...
- Ti piace sì o no?
- Mia adorata, mia piccola, splendida ...
- Allora? Non ti ho chiesto come mi chiamo. Ti ho chiesto se ti piace.
Lui aprì piano gli occhi. Talmente accaldato e fremente che
un battito, un battito di ciglia qualunque avrebbe potuto farlo
impazzire.
- Mi stai facendo morire - sussurrò, roco.
Lei lo fisso, un istante, coi suoi occhi immensi e vellutati di
cerbiatta.
- Benissimo - scoppiò a ridere - Proprio quello che speravo
di ottenre.
Poi si alzò, come se niente fosse stato. I piedi nudi
sfiorarono di nuovo il pavimento.
- Buona notte - disse avviandosi, leggera, verso la porta.
- Eh? Che cosa?
Anche lui si tirò su a sedere.
- Esmeralda, dove vai ... ma cosa?
Stava mettendo fuori un piede anche lui. Ma lei lo trattenne con uno
sguardo. Uno sguardo tremendamente reale.
- Non farlo. Non farlo oppure romperai l'incanto. Non
tornerò più, se tocchi terra.
- Che cosa devo fare? - chiese lui, annichilito. Il desiderio di
prenderla, rincorrerla, trascinarla sul letto lo stava letteralmente
soverchiando. Come poteva quella splendida gitana, quella regina
maledetta, quella bambina pretendere di torturarlo in quel modo ... ma
poi pensò a che cosa aveva appena detto.
- Ritornerai? - chiese con un filo di voce.
Lei si portò un dito alla bocca in un'atroce, paradisiaca
pantomima di indecisione. Poi rise, rise di nuovo.
La porta si richiuse in un soffio, prima che il Giudice potesse capire
se era stato solo un sogno o no, a visitarlo.
*
<Angolo Autrice:
carissimi, un piccolo divertissement che avevo scritto qualche tempo fa
e che per caso mi è ricomparso davanti questa sera ... i
personaggi sono sempre i soliti, le situazioni mutano. Stavolta mi sono
chiesta cosa accadrebbe se Esmeralda, prigioniera a Palazzo del
Giudice, decidesse di aprire con lui una sorta di danza notturna
d'incerto esito. Una danza per fuggire o decidere che cosa fare di una
strana ossessione che ha incominciato a impadronirsi di lei ...
Spero di poter scrivere presto il secondo capitolo, comunque
non sarà una cosa troppo lunga, non temete. Nel frattempo,
come al solito, vi abbraccio, sempre vostra Minimelania <3 >
|
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Capitolo 2 *** La Belle Dame ***
*
<
Nec diu nec noctu
licet
Iudices
quiescant >
*
2.
Il
Giudice passò due
giorni d'inferno. Non aveva il coraggio di scendere nelle segrete a
chiedere al
carceriere se la ragazza si era mossa, la notte. Se fosse fuggita
l'avrebbero
avvertito, e d'altra parte era impossibile che fosse riuscita a
liberarsi da
sola: aveva dato disposizione affinché fossero prese tutte
le precauzioni del
caso.
E allora come era riuscita
ad arrivare fino a lui? Questo pensiero tormentava il Giudice, mentre
andava
avanti e indietro nel suo studio, lo tormentava mentre restava immobile
ad
ascoltare le trite sciocchezze burocratiche di cui erano gonfie le sue
giornate,
lo tormentava infine anche mentre cercava di mangiare qualcosa. Ma ogni
boccone
che portava alla bocca era intriso del pensiero di lei. Era veleno.
Passò un giorno e non
seppe niente di lei. La notte si tormentò in vano nella
stanza, sveglio fino
alle luci dell'alba. Con gli occhi incollati alla porta era riuscito
solo a
captare il vagare di un ragno per chissà dove.
Il giorno dopo passò come
un incubo, non credeva che la notte successiva potesse essere ancora
peggio. Ma fu
così.
Tormentato dal desiderio
di rivederla, andò a rinchiudersi in camera all'ora in cui
di solito cominciava
a cenare. Poi pensò che era una cosa ridicola,
uscì di nuovo, andò in
biblioteca. Lì afferrò un qualunque manoscritto e
provò a leggerlo. Niente da
fare. Si versò un bicchiere di vino, tanto per farsi
coraggio.
Le ore passavano e lui non
sapeva cosa fare. Una parte del suo cuore sinceramente sperava che
fosse stato
solo un sogno - doveva esserlo
stato
perché non poteva essere altrimenti. Eppure c'era una parte
di lui che sperava,
desiderava, moriva perché quella non fosse solo
un'allucinazione, il parto
della sua mente riscaldata da ormai troppo notti insonni. Con il
pensiero
tornava alla visione di lei contro la porta, e al biancore della sua
pelle
contro le cortine. Tornava agli anelli di fumo dei suoi boccoli
portentosi,
alle mani e alla carezza sottile contro il suo piede. Pensava a lei, ai
suoi
fianchi, alla pelle e a quel respiro - ahi, quanto malvagio! - che gli
aveva
istillato nelle ossa striscianti fremiti di cui non sospettava neppure
l'esistenza.
- Sta veramente facendo
tutto questo a me? E perché poi?
Lo ricordava, lo ricordava
bene quel brivido che lo prendeva ogni volta che lei era vicina. Come
se non
esistesse più che lei, terribile, perfetta immagine di una
dea guerriera. E lui
cos'era in grado di fare?
Con un gesto nervoso della
mano vuotò il bicchiere. Si alzò in piedi
ricominciò a passeggiare. In fin dei
conti, da qualche parte era ancora un uomo molto morigerato, e la
logica gli
dava un gran conforto.
- Vediamo, perché è venuta
proprio da me? Che cosa vuole?
Ma più ci pensava più
tutto gli sembrava assurdo. Talmente che ormai non credeva neanche
più di dover
distinguere tra la realtà di quell'apparizione e la menzogna.
- Che cosa può volere da
me? Non certo la libertà, perché sa che mi farei
uccidere, prima di rendergliela.
Ho messo a fuoco mezza Parigi solo per avere il supremo piacere di
vedermi
sputare in faccia. Ho distrutto tutto quel che passava tra me e lei, e
solamente per costringerla a morire di freddo e torturare me con lei,
nell'agonia. Sa bene che preferirei vederla morta prima che fuori di
qui, che
posso tutto e tutto farò perché la mia Esmeralda
non veda più la luce del sole,
perché rimanga per sempre mia, nelle segrete. Fin tanto
almeno che non sceglie
me. Sa anche che potrei essere magnanimo, ma a una condizione
irrimediabile che
non penso sia pronta ad accettare. E allora cosa vuole da me?
Perché è comparsa
in tutta la sua gloria, solo per torturarmi?
E davvero questi erano
pensieri di tortura, per il povero Giudice. Forse per la prima volta
nella vita
non riusciva a percepire nient'altro che gli ansiti confusi del suo
cuore. La
ragione si smarriva in quei meandri, e non vedeva che la danza di lei,
non
vedeva che le sue braccia magnifiche, la robusta consistenza del suo
respiro
vicino a suo.
- Che cosa ho fatto di
male? - si chiese. E in quel momento suonò la mezzanotte
lungo le oscure mura
di pietra. Il Giudice, come se fosse un lugubre avvertimento,
tirò indietro la
veste di velluto, e si avviò alla sua camera da letto.
Sapeva di trovarla lì, ma
si bloccò sulla porta, quando la vide. Il cuore in gola, le
labbra confuse,
nessuna forza nelle gambe.
La
sua stanza era lunga e
stretta, col grande letto dalle cortine nere al centro e poco altro.
Una
brocca, un panno di tela e qualche libro sparso sul pavimento. Lei era
lì, in
mezzo a quella roba mezzo macchiata dalla polvere dei secoli, e si lavava.
-
Oh, meno male che sei
arrivato, ecco. Mi aiuti a insaponarmi la schiena?
Lui si bloccò, come se
avesse appena ricevuto un colpo in mezzo al petto. Lei era
lì, tra il catino e
il letto, semi affondata in una specie di tinozza che lui non ricordava
neanche
di avere. Era servita, anni prima, a lavarsi, ma ormai lui ne aveva
perso
memoria. Da lungo tempo aveva preso l'abitudine di farlo da solo, in
uno stagno
freddo poco distante da casa, e in piena notte. Estate e inverno.
- Allora? Mi aiuti o devo
fare da sola? - tubò con la sua voce di colomba. Meno male
che era distante.
Meno male che era un sogno, si
disse
lui.
E' necessario descrivere
quanto era incredibilmente bella? No, ovviamente. Era talmente
abbagliato che
appena notò le spalle scure e lucide, bagnate da un sottile
strato di sapone.
Poco più su i riccioli, grevi, le si incollavano al collo in
larghe ciocche.
- Che cosa vuoi? - fu
l'unica cosa che riuscì a dire, deglutendo. Con una mano si
era aggrappato allo
stipite e non riusciva a staccarsi dalla porta. Le gambe non riuscivano
a
muoversi. A sentire quella risposta lei rise, agitò i soliti
campanelli
d'argento.
- Non voglio niente, te
l'ho detto. Solo che tu mi aiuti a lavarmi, se vuoi. Le carceri sono
talmente
sporche …
Solo allora lui trovò il
coraggio di muovere una gamba, poi l'altra. Fu necessaria parecchia
abnegazione, e tutto il suo autocontrollo. Si avvicinò, e
con la mano prese la
spugna che lei di schiena gli porgeva.
- Che cosa vuoi? -
sussurrò di nuovo. Lei rise e poi fece un cenno con la
testa. Incurvò la
cervice quel tanto che bastava a protenderla a lui. Lui
capì, chiuse gli occhi,
e immerse la mano nell'acqua nera come il petrolio. Era tiepida, e le
misteriose fiamme del fuoco si rifrangevano come animali danzanti in
superficie.
Quando la spugna toccò la
sua schiena, la gitana sussultò appena. Poi
sospirò di piacere.
- Così va bene? - chiese
lui, con una voce che non sapeva neanche di avere. Era cedevole, e
incredibilmente esitante. Lei sorrise, scosse il capo e poi si
abbandonò
completamente all'acqua. Spuntò un ginocchio perfetto da
quel nero.
- Che cosa vuoi? - chiese
di nuovo lui, mentre la spugna percorreva le spalle con la perizia
trattenuta
dei miracoli o delle grandi esitazioni.
- Se tu continui a fare
quello che fai, io ti dirò che cosa voglio. Ma devi farlo
bene, come adesso.
Non devi smettere neanche un secondo.
- No. Non smetto - annuì
lui. In quel momento neanche il Re, neanche la tortura, neppure tutti i
diavoli
dell'inferno sarebbero riusciti nel proposito di farlo smettere. Fosse
stato
per lui avrebbe continuato in eterno.
- Bene - fece lei,
allungandosi ancora un poco. La sua pelle profumava di mandorla e
animale -
Sono qui per proporti un affare.
- Prima non vuoi dirmi
perché ti sei liberata? Come ci sei riuscita?
- No - rise lei - Ti basi
sapere che anche le tue sbarre di ferro e i catenacci e i lucchetti
possiedono
chiavi che possono aprirli. O sistemi per essere aggirati. Io li
conosco, io li
conosco e non ho paura di usarli -
poi
proseguì - Ma adesso torniamo a noi. Sono venuta
perché da qualche notte faccio
un sogno, un sogno strano, e voglio parlartene.
- Non sono mica un
astrologo - mormorò lui, perso nella contemplazione della
meccanica lentezza
con cui lei dondolava il collo mentre parlava. Su quella gola perfetta
avrebbe
voluto marchiare ogni centimetro di fuoco, lasciare impressa la sua
voce, annusare
il suo stesso desiderio.
- Mi stai ascoltando?
- Cosa? Sì. Certo che sì.
- Bene. Ti dicevo che
facci un sogno. Ci siamo io e te davanti a un grande prato di neve.
Tutto
intorno è campagna, sommersa da uno strato bianco e pesante.
Io e te siamo
davanti a tutto questo fermi dentro una carrozza. Tu mi tieni la mano
destra, e
io a te la sinistra. Tu sei vestito normalmente, con la tua lunga
tunica scura.
Sono io che sono diversa. Sono vestita come se andassi ad una festa, a
un
matrimonio. Ho un vestito rosso porpora indosso, e una corona di fiori
sulla
testa. Al collo porto un monile di rubino incastonato in due mani
d'argento. Le
mani sono come la mia e la tua. E poi, intorno a noi, che siamo
immobili,
comincia ad alzarsi una tempesta. Prima è solo vento, ma
presto diventa così
forte che tutto intorno trema, e si sconquassa e geme. Tutto tranne la
nostra
carrozza che resta immobile nella furia degli elementi. E poi arriva
come una
colonna d'aria che turbina in cielo, e ci solleva. E noi andiamo
lontanissimo,
e voliamo, e ogni cosa sotto di noi si allontana. Dalla tua bocca a
quel punto
escono delle parole che io non capisco. Poi io provo a avvicinarmi a
te, ho
paura. Voglio gettarmi tra le tue braccia, tremo. E tu mi guardi, le
allarghi,
ma in quell'attimo un fulmine colpisce la carrozza e la divide. Io
precipito
nel vuoto, e urlo, urlo. Ma tu ormai sei lontano. Mi sveglio pensando
di essere
morta. E ho la faccia inondata di lacrime.
Sorpreso dalle parole di
lei, lui arrestò il moto della spugna per un istante.
- Cosa significa? -
chiese.
Lei si voltò.
- Sono venuta a chiederlo
a te.
- Ma … tu sei la gitana,
non io. Non sono i sogni, le fantasie, le sciocchezze le vostre prime
occupazioni? Non siete voi che siete soliti annebbiare la mente e il
corpo con
le strane dell'immaginazione?
Mentre faceva questo lungo
discorso, lei scivolò dalle sue mani. Per sbaglio la spugna
cadde in acqua, e
per riprenderla, lui immerse il braccio. Trovò invece un
corpo, e lei che gli
sorrise.
- Non vorresti prima
lavati anche tu? E' ancora tiepida.
Lui la guardò allibito,
ma prima che fosse in grado di dire
qualcos'altro lei si era già alzata. Era nuda, nuda e
splendente in tutta la
sua gloria.
- Mi passeresti
quell'asciugamano? - poi uscì senza dire una parola,
sgocciolando dovunque. Il
Giudice non sapeva se stava sognando. Atrocemente stordito dal fugace
sogno di
quella visione folgorante, non seppe fare altro che allungare
meccanicamente un
braccio alla tela che giaceva ai suoi piedi. La prese e la porse alla
gitana.
- Oh, grazie - sorrise
lei, cominciando a sfregarsi e a stropicciarsi davanti al fuoco - Fai
pure.
Quando hai finito riprenderemo il discorso.
*
<Angolo
Autrice:
Carissimi tutti (in special modo gli
affezionatissimi @marguerite90,
@ClaudioFrollo,
@Lhoss, @x_LucyLilSlytherin, @sawadee,
@Ilien e la
new entry @badge9136)
che dire … sono contenta che il primo
capitolo vi sia piaciuto! Mi fa sempre tantissimo piacere ricevere la
vostre
recensioni, soprattutto quando ci danno occasione di discutere su uno
dei
nostri pairing preferiti ^__^.
Spero
che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento: il mistero si
infittisce un pochino, continuiamo a non capire se Esmeralda sia un
sogno
oppure no, ma soprattutto continuano queste lunghissime scene-fiume in
cui i
Nostri si studiano da vicino/lontano come due strani animali selvatici.
Personalmente, è sempre la parte che preferisco nelle FF
dedicate a loro, e
devo dire che ci rimango male quando non ci sono abbastanza parti
descrittive
come questa! Piuttosto spesso mi
viene rimproverato di essere eccessivamente descrittiva,
nelle mie storie, e molto poco narrativa. Temo che sia realmente un mio
difetto, e sto tentando di correggerlo, sul serio … ma
quando ho tra le mani
questi due, personalmente, non capisco più niente.
Così, come Tenerezza ha
fatto forse sbadigliare
tutti quelli a cui le lunghe riflessioni dell'Arcidiacono sembravano un
po'
troppo pesanti, così forse questa nuova FF
risulterà un po' ostica a chi non è Frollo-holic
come la sottoscritta. Ma tant'è: ogni tanto anche io mi
prendo le mie piccole soddisfazioni! Insomma, tutto questo lungo
preambolo per
dirvi che, se ritenete che io stia esagerando con la lunghezza e i
particolari
di queste scene, magari non troppo funzionali alla trama, non avete che
da
farmi un fischio e io vedrò di accorciare. Se invece vi
piacciono così come
sono … beh, allora ancora meglio: Enjoy, e che Nostra
Signora di
Parigi
abbia a proteggervi oggi come sempre! Un casto bacio, nel
frattempo & in attesa di nuovi, interessanti sviluppi, Vostra Minimelania>
p.s. Per
chi se lo fosse domandato, il titolo è un verso latino,
liberamente riadattato, del poeta Titinio. Letteralmente significa 'Non è lecito ai
Giudici riposarsi né di giorno né di notte'.
Un bacione ancora, M.
|
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Capitolo 3 *** Imprevisti ***
*
<
Nec diu nec noctu
licet
Iudices
quiescant >
*
3.
-
Non capisco cosa
significa tutto questo - sorrise il Giudice, posando con un gesto
elegante la
coppa di vino sul tavolo davanti a sé - Se vuoi capire cosa
significa un sogno,
devi rivolgerti a una chiromante, o a una strega. Sempre che te ne
abbia
lasciata qualcuna.
Stavano mangiando
qualcosa, in piena notte, nelle cucine. Naturalmente, un'idea di
Esmeralda.
Fosse stato per il Giudice, mai e poi mai avrebbero lasciato quella
stanza. Ma
si sa, la grazia femminile finisce sempre per avere la meglio, in un
modo o
nell'altro. Anche Esmeralda alzò gli occhi dal piatto che
stava
coscienziosamente spolverando. Stufato di qualcosa di ottimo,
sicuramente
selvaggina. Roba che lei non vedeva neanche in un milione di anni.
- Allora, questo sogno? - fece
lui.
Lei lo guardò, si
sottecchi.
- In effetti non ti ho
detto tutta la verità. Il sogno era solo una scusa.
- E per che cosa?
- Per raggiungerti e
parlarti.
- Vuoi dire che il sogno
non l'hai fatto veramente?
- Perché, adesso ti
importa?
Lui retrocesse
velocemente.
- Ovviamente no. E' solo
che non mi piace essere ingannato.
Lei sospirò.
- L'ho fatto davvero. Il
sogno, voglio dire. Ma il fatto è che volevo dirti un'altra
cosa. Puoi
ascoltarmi? Di quello possiamo occuparci dopo, se vuoi. E' importante,
ma non quanto questo.
- Continui a non volermi
dire come sei riuscita a liberarti. Questo potrebbe essere un modo per
cominciare.
Lei sbuffò. Spostò il
piatto, si avvicinò appena.
- Claude, ascoltami, è una
cosa seria. Sei in
pericolo.
Senza pensarci,
involontariamente, gli aveva posato una mano sul braccio. Lui rimase un
istante
come di pietra. Avvertì un brivido, come una lieve puntura
in su ogni vertebra
della schiena, ma non si mosse. Poi, a bocca stretta:
- Avanti, allora - disse -
Ti ascolto. Sentiamo quale terribile pericolo mi minaccia.
Lei fece di nuovo un
sospiro, poi cominciò. Parve non cogliere l'ironia.
- Non ti dirò che questo
mese passato in cella sia stato il più bello e pacifico che
abbia mai passato.
Diciamo solo che non sei proprio il tipo più premuroso con i
propri ospiti …
- Questo solo perché tu
non vuoi essere ragionevole. Ti avevo dato una scelta, lo sai bene.
- … oh, certo, sì. Una
scelta. Certo. Ma adesso lasciamo
perdere, ascolta. Dicevo che mentre passavo ore in cella completamente
sprofondata nel buio ad ascoltare il rumore dei topi che rosicchiano la
mia
pagnotta ammuffita …
- Noi non serviamo
pagnotte ammuffite. Avevo dato preciso ordine che il vitto per te fosse
decente. Non sublime, ma per lo meno decente.
Esmeralda alzò gli occhi
al cielo, in una comica pantomima di sorpresa.
- E allora vuol
dire che i tuoi ordini contano meno di
zero. Perché ti dico che era ammuffita. Comunque, il punto
è che la mia cella
aveva un foro, non so come, nella parete di destra. Una cosa ributtante
che di
solito vomitava liquami. Beh, un giorno invece di vomitare liquami
cominciano a
venire fuori dei suoni. Io lì per lì non capisco
cosa sono, ma poi mi avvicino
e capisco che sono parole, e vengono dal piano di sopra. La cella ha un
foro
che evidentemente mette in comunicazione le due stanze. E chi ci sta al
piano
di sopra, sopra la mia cella?
Il Giudice aggrottò le
sopracciglia.
- La stanza delle guardie,
penso.
- Esattamente. E guardie
erano, in effetti. Mi accosto e comincio a sentire cose che non ti
piaceranno
per niente.
- In che senso?
Lei fece una breve pausa,
per scostare una ciocca di capelli e riportarla dietro l'orecchio. Poi
continuò:
- C'erano due, e parlavano
abbastanza piano da non farsi sentire. Ma io dal mio buco sentivo
tutto. Uno di
certo era il carceriere, lo riconosco perché balbetta.
L'altro non lo so.
Comunque parlavano … indovina di cosa?
Il Giudice arricciò un
poco il labbro, indispettito. Prese di nuovo il calice, per bere.
- Sono qui per ascoltarlo
dalle tue delicatissime … ehm, labbra.
- Stavano parlando di te -
annunciò lei trionfante, puntandogli un dito contro il
petto. Nella foga dimenticò
il giuramento che mai, mai, lo avrebbe toccato - Dicevano che vogliono
ucciderti.
Al Giudice andò il vino di
traverso.
- Cosa? E perché mai
dovrebbero fare una cosa del genere?
- Perché qualcuno li ha
pagati, zuccone. Qualcuno che ti vuole morto.
- E tu? Ammesso che tutto
questo sia vero, perché lo stai venendo a dire proprio a me?
Perché dovrei
fidarmi? Hai le prove?
Ma in cuor suo il Giudice
era piuttosto turbato. Esmeralda lo capì.
- Ascolta bene, non mi
riesce difficile immaginare che tu abbia dei nemici, molto nemici. In
generale
sei una persona odiosa, e lo dimostri anche adesso, mentre io sto
cercando di
salvarti la vita. Dico davvero, quei due parlavano di un certo tizio
che li
aveva contattati perché ti facessero fuori. Deve aver dato
loro un sacco di
grana.
- E chi sarebbe il tizio?
- Non ne ho la più pallida
idea. Però so che i carcerieri continuano a discutere,
perché sono già tre
notti che li sento. Forse non sono del tutto convinti, o non hanno in
mente
nessun piano. Forse basta che li fai catturare e loro ti dicono tutto.
Per un istante sulle
pallide labbra del Giudice passò un sorriso di interesse.
Come quando si fa
vedere un bel giocattolo a un bambino, ma poi considerazioni
più stringenti
ripresero il sopravvento.
- No. Impossibile. Non
posso far arrestare due miei uomini solo per le accuse folli di una
zingara. Intanto
hai riconosciuto il carceriere ma non il suo complice, e poi chi mi
dice che
non te lo sia sognato?
- Non ti fidi di me?
- Neanche un po'.
Lei mise il broncio. Restarono
qualche tempo in silenzio, lei a giocherellare con una mollica di pane,
lui a
far girare distrattamente il vino dentro al bicchiere.
- Ho un'idea - disse
infine Esmeralda.
Lui alzò gli occhi.
- Sono tutto orecchi.
- E se ci appostassimo, insieme?
Potresti venire domani notte
nella cella, metterti in ascolto, con me. E allora vedresti se dico
bugie!
Lui la fissò come se non
capisse. Alla zingara aveva dato di volta il cervello? Forse la troppa
prigione, si rimproverò. Come era anche solo immaginabile
che lui accettasse
una cosa del genere? Rinchiudersi in cella, con lei, per ascoltare dei
mormorii
da un buco? E poi c'era ancora - irrisolto - il motivo per cui lei lo
faceva?
Cos'era, carità cristiana? Si era per caso innamorata di
lui? Ma andiamo! No,
il fatto era che puzzava tutto di marcio. Davvero, tremendamente, di
marcio.
- Allora? Cos'hai deciso,
è una buona idea?
- Non penso proprio, mia
cara. No. La mia risposta è che tu
forse
dovresti …
Ma non fece in tempo a
finire la frase. Esmeralda si alzò in piedi, indispettita, e
andò verso la
porta.
- Ah, è così? Non credi a
quello che dico? Peggio per te, non ti interessa? Crepa!
Poi, con un fruscio della
veste scomparve esattamente da dove era venuta. Stavolta il Giudice non
si
dette neanche il pensiero di chiedersi come avrebbe fatto a rientrare
nelle
segrete. Non governava più quella ragazza. Non aveva potere
su di lei. Questo
bisognava ricordarselo, e cercare di porvi rimedio.
|
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Capitolo 4 *** Ad Inferos ***
*
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Nec diu nec noctu
licet
Iudices
quiescant >
*
4.
Idiota.
Idiota.
Idiota.
E' questo forse che ti ha
insegnato l'abate Fulgenzio, quel sant'uomo che ti fece da maestro, a
Parigi?
Ovviamente no.
Allora forse sono
gli
insegnamenti del buon Guidone di Guascogna, il diplomatico che ti ha
insegnato
tutto quello che sai di legge e di missioni segrete?
E' allora forse il
tesoro di
prudenza che suggesti dalle opere del Doctor Angelicus a averti indotto
a
questo saggio passo?
No.
E allora
perché ti sei
appena rintanato come un topo di fogna in queste fogne di segrete, col
lume
cieco e la veste rattrappita intorno alle gambe sperando che non si
sporchi di
liquami? Perché stasera, senza farti vedere, sei scivolato
nelle stanze della
Guardia e hai sfilato le chiavi del carcere?
La risposta era
anche
troppo ovvia, ed umiliante. Lo aveva fatto perché, alla
fine, Claude Frollo poteva
resistere a tutto, ma non a un'imbeccata della zingara. Aveva passato
la notte
intera, dopo che lei se ne era andata, a sperare che fosse stato solo
un sogno,
che fossero i brevi deliri di una ragazzina. Alla fine che diritto
aveva, dopo
avergli tolto il sonno per quel fuoco che atrocemente le serpeggiava
addosso, di
permettersi adesso anche il lusso di infilarsi in questioni
strategiche?
Davvero stava cercando di salvargli la vita o era solo una trappola?
Non si
fidava della zingara, no. E dunque era tanto più colpevole
perché, ammantato di
nero come un corvo, stava scendendo giù per le segrete, le
stesse segrete piene
zeppe di demoni che aveva fatto incarcerare, gente che non ci avrebbe
messo un
secondo a sporgersi anche solo dalle sbarre quel tanto che bastava a
strangolarlo. I passaggi erano molto angusti, le sbarre larghe,
disperazione e
vendetta danno agli uomini una forza insospettabile.
Intrattenendosi in
questi
amabili pensieri, il Giudice schivò una pozzanghera, giunse
a una svolta nel
tunnel sotterraneo e si affacciò nella bruna umidiccia che
sempre invadeva
quelle stanze. Ricordava anche troppo bene il piacere sottile di alcune
notti -
troppo poche per la verità - in cui sollecito aveva
strappato da alcune giovani
bocche confessioni che ora sarebbe lungo dettagliare. Ricordava gli
schiocchi
della sferza su membra spossate di traditori, punizioni esemplari di
omicidi,
lamenti lugubri di streghe. Oh, le streghe. Sempre state le sue
preferite, ma
fino al giorno in cui Satana, davvero, non glie ne aveva messa una
davanti. Per
anni si era trattato di gettare in pasto al boia vecchie megere, di
estorcere
il Maligno con la sferza da membra tanto rugose che forse anche il
Maligno ne
avrebbe avuto schifo. Per anni aveva visto di Satana solo la faccia
peggiore,
ed in questo Dio con lui era stato clemente. Poi, un giorno,
inaspettatamente,
aveva deciso che era giunta l'ora di Claude Frollo. L'ora della prova
suprema. Quindi
invece di uno sdentato mucchio di ossa e stoppa, cenci e amuleti, sputi
e
galletti neri - oh, i galletti davano sempre un tocco di gustoso
folklore alla commedia
- gli aveva parato davanti la terribile bestia che gli antichi
chiamavano
Venere. Prima di allora il Giudice credeva di non aver mai visto
bellezza,
credeva di aver addomesticato gli occhi quel tanto che bastava
perché fossero
lapidi cieche alla grazia e all'amore. Oh, come si era sbagliato. Era
bastato
un refolo di vento, un'alzata di ciglia del Maligno, un tiepido lucore
di
gonnella e …
- … era
ora che arrivassi,
testone! - sussurrò Esmeralda dalle sbarre. Lo stava
aspettando, molto ansiosa
- Guarda che è un sacco che ti sto aspettando! Che
c'è? Hai una faccia, ci sei?
Cos'è, stai male?
Lui
preferì soprassedere.
Con un gesto elegante tirò fuori dalla manica una chiave, la
fece scorrere
senza fatica nella toppa, girò e richiuse subito alle sue
spalle. Era arrivato
alla porta, senza accorgersene. Ecco dov'era finito tutto il suo acume.
- Allora? -
bisbigliò lei
eccitatissima - Hai visto che alla fine avevo ragione?
Lui dovette
trattenersi a
forza dal bisbigliarle quello che pensava. Si andava da un formale 'Zitta, donna', a un più
posato 'Taci!' fino a un decisamente
troppo
fiorito 'Che
le fiamme dell'Inferno ti
portino, che ci fai ancora giù dalla pira, strega?'. Ma ovviamente non
aprì
bocca. Lei gli stava addosso in modo intollerabile, e lo tirava verso
un angolo
fetido.
- Vieni, vieni qui,
mettiti a sedere. Il buco è questo, riesci a vederlo?
A parte il fatto
che
quelle dannate mani, quelle mani sul
velluto dell'abito erano la cosa più tormentosa del mondo
per il loro essere
più morbide assai, a parte il fatto che quell'angolo di
cella era inondato di
qualcosa di fluido che sembrava decisamente liquame, a parte il fetore
generale
e la tenaglia di fredda, soffocante umidità, il Giudice non
vedeva proprio
niente. E sì che era sempre stato un'aquila, in fatto di
acume di occhi e
mente.
- Dev'essere
perché non
sei abituato. A stare tanto rinchiusi ci si abitua.
Lui la fisso per un
istante, nell'ombra. Era curva sopra la paglia, e cercava di fargli
posto in
qualche modo.
- Siediti, se ci
sarà da
aspettare tanto vale mettersi comodi.
Dopo un istante di
esitazione, anche lui si accostò, e ripiegata la veste
cercò di mettersi a
sedere come poteva. Il freddo un basso gelava le ossa, e dalla parete
colava
dell'acqua.
- Esmeralda
… fece dopo un
certo tempo. Non hai freddo?
E subito si
vergognò come
un ladro (un idiota) di non aver
pensato a portarle qualcosa, uno scialle, una coperta. Qualcosa che
servisse a
riscaldarla.
Ma lei fece cenno
di no.
- Non preoccuparti,
alla
Corte non è che sia tanto meno freddo, di inverno.
A lui, nel petto,
qualcosa
si strinse. Probabilmente non era il cuore - perché come
diceva un saggio, i
Giudici hanno il cuore molto, molto lontano dal petto - ma di sicuro
almeno lo
stomaco, perché non seppe cosa rispondere.
Ricordò solo che addosso, oltre la veste,
aveva una specie di cappa. Se la sfilò, semplicemente, e
glie la fece cadere
sulle spalle senza dire nulla.
- Grazie -
mormorò lei, e
dopo poco - mi dispiace di avere detto che sei un zuccone. In effetti
sei molto
gentile … voglio dire, quando vuoi esserlo.
Lui sorrise nella
penombra.
- Un giudice non
può
permettersi di esserlo sempre.
- Ma non
può neanche
permettersi di non esserlo.
- Che stai dicendo,
zingara?
- Dico - fece lei
muovendosi, e comunicando la sua dolce spinta alla paglia - Dico che
bisogna
anche stare attenti a non farsi troppo odiare. Altrimenti poi si
finisce con un
sacco di gente che trama alle tue spalle e non lo sai.
Frollo si
risentì.
- Ora vediamo chi
trama
veramente alle mie spalle. E se
trama.
Lei rise, di una
risata
come mille campanelli.
- Non mi credi
ancora.
- Shhht! Vuoi che ci sentano? Vuoi
forse farmi scoprire qui con te?
Sarebbe per lo meno imbarazzante spiegare perché ci sono
finito, non credi?
Lei rise di nuovo,
più
forte. Gli passò una mano sulla fronte, e poi scese, fino
alla guancia. Si
tenne un istante sospesa sul mento. Poi avvicinò le labbra
di ciliegia e
mormorò all'orecchio:
- Non lo sai che a
questo
piano sottoterra le celle sono tutte vuote? A parte me c'era soltanto
un ladro
che hanno impiccato ieri mattina, e comunque era talmente sordo che non
ci
avrebbe sentito neanche se ci fossimo messi ad urlare.
- E
perché dovremmo
urlare? - chiese lui, visibilmente estasiato dal contatto e ancor
più
interiormente irritato perché proprio non riusciva a
trattenersi.
- Perché
- rispose lei
soffocando appena una risata - Sono sicura che io e te litigheremo
cento volte
prima che la nottata sia conclusa.
- Questo soltanto
se vuoi
che sia così. Io sono … molto ben disposto alla
pace. Non voglio guerre con te,
mia cara. Seguimi e vivremo in una pace perpetua.
- Una pace che hai
dettato
tu. Una pace che mi costringerebbe nel tuo letto.
Lui
sospirò, pianissimo.
Era vero, lui la voleva nel suo letto, questo era il punto. La voleva
talmente,
anche adesso, che aveva messo su tutta la messa in scena, aveva finto
con se
stesso di credere ai suoi sciocchi vaneggiamenti di assassinio solo per
poter
riprovare il brivido di averla tanto vicina …
- Allora, dimmi la
verità.
Solo questo. Il probo Giudice sarebbe pronto a scarcerare la strega, a
liberarla, a dimenticare tutti i suoi peccati … solamente
per averla nel suo
letto?
Scivolò
piano ancora più
vicino. Era quasi intollerabilmente bella così svestita,
nella penombra, con la
lucida cascata d'ali di corvo dei capelli e la pesante palandrana
avvolta
intorno al biancore delle scapole …
- Allora?
Li la
fissò, quasi senza
fiato. Se il quel momento gli avesse chiesto di gridare che era il
figlio di
una scimmia e di un quadrupede a scelta tra tutti quelli che popolano
il mondo
mistico del Prete Giovanni, lui avrebbe giurato che sì, lui
era figlio della
scimmia e del quadrupede.
- Allora? -
sussurrò lei a
un centimetro da lui.
- Sì -
mormorò lui, annichilito,
distrutto. Liquida cera di desiderio per lei. Lei si piegò
appena un poco,
lasciando che le loro labbra si sfiorassero.
- Che bella cosa
sentirti
sincero … che bella cosa … oh!
Il Giudice non
aveva resistito,
non poteva. L'aveva presa per la vita, ghermita, l'aveva stesa sulla
paglia
prima che lei potesse anche solo respirare.
- Mi vuoi? - fece -
Dimmi
che mi vuoi.
Lei
annuì,
impercettibilmente. Sentì il peso del corpo di lui farsi
pressante, e
nell'oscurità capì che stava per succedere
qualcosa che poi sarebbe stato
irreparabile.
Il fatto era che lo
voleva
anche lei, solo che non l'aveva saputo fino al momento esatto in cui
non
l'aveva sentito contro di sé.
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Capitolo 5 *** Liquami e voci ***
Nec Noctu 5
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Nec diu nec noctu
licet
Iudices
quiescant >
*
5.
Naturalmente, come in
ogni commedia che si rispetti, i due furono interrotti molto prima che
il Giudice riuscisse anche solo a fare un decimo di quel che si era
proposto. Il che era, nell'ordine: strapparele via la palandrana,
sciogliere i lacci, sfilare quel maledetto corpetto e ...
Ma
come dicevamo, i due furono interrotti. Da dei sussurri, per la
precisione. Venivano dal buco di fogna da cui Esmeralda aveva
già detto di averli sentiti venire. E erano anche abbastanza
distinti. Il Giudice si tirò su, ansando. Fissò
il buco, poi fissò lei.
- Oh, al diavolo! - disse, e
provò a rituffare la testa nell'interessantissima materia
che aveva appena cominciato a approfindire. Ma fu lei a tirarsi su di
scatto, rossa come una ciliegia (anche nel buio, il suo magnifico
carnato radiava). Si liberò dalla
stretta di lui come se fosse niente più che un refolo di
vento. Lui, mezzo stordito dal profumo di tutto quel paradiso
terrestre, non riuscì a fare nient'altro che aprire la
bocca. E poi richiuderla. Lei si posò un dito sulle labbra e
si avvicinò al buco nero, carponi.
- D-doveva essere per
s-stanotte, r-ricordi? - fece una voce balbettante, roca.
- Doveva essere per
questa notte sì. Peccato che il capo abbia detto che
dobbiamo ancora aspettare.
- A-aspettare c-cosa?
N-no siamo g-già a b-buon punto c-col V-vecchio
B-barbagianni?
E rise forte.
L'altro dovette prendersela a male.
- Stai zitto,
imbecille! Vuoi farci prendere?
Il Giudice si
avvicinò ad Esmeralda. Per un secondo gli parve di
intravedere un sorriso sulle sue belle labbra.
- M-ma c-chi v-vuoi
che ci s-senta, c-cretino? I-il B-barpagianni dorme nel s-suo l-letto,
tra d-due guanciali belli imbottiti! Il capo ha d-detto che
prima d-dobbiamo occuparci di l-lui. Poi l-lei. Un bel colpo secco, ed
è fatta.
Esmeralda si
voltò verso il Giudice. Adesso lui era teso, affilato. Ne
intuiva il profilo di nibbio contro il fioco chiarore che anche in
quella parte di fogna disgraziata filtrava. Forse era lo stesso
chiarore di luna a cui quei due farabutti tramavano qualche piano
più sopra.
- Hai sentito? - fece
Esmeralda, a voce bassissima - Parlano di te.
Lui le
lanciò un'occhiata cattiva. Adesso era anche lui in
ginocchio, probabilmente col liquame fetido che gli imbrattava le
caviglie. Ringraziò di avere indosso del panno
così spesso che ci sarebbero voluti minuti prima di
cominciaere a sentire qualcosa. Poi ricordò che quel panno
pesante era quasi stato sul punto di toglierlo. E una fitta inquietante
andò a conficcarglisi nel fianco. Che supplizio che era la
sua povera vita! Ad ogni modo quei due continuavano a complottare
qualcosa, era meglio ascoltarli. Anche perché non era
affatto sicuro di essere lui, il Vecchio Barbagianni.
- Oh, sì
che lo sei! - fece Esmeralda, leggendogli il pensiero. Lui le
assestò una gomitata.
- Il C-capitano ha
d-detto che prima v-vuol prendere la b-bella. Dice che ha una
c-casetta, in c-campagna. D-di lì di certo non lo s-sente
n-nessuno. Può fare q-quello che gli p-pare, e poi ...
Qui Esmeralda si
lasciò sfuggire qualcosa di simile a un gemito.
- E tu saresti la
bella? - commentò sarcasticamente il Giudice. Lei fece per
aprire la bocca. Lui sollevò una mano in aria, le fece cenno
di tacere.
- ... e poi lo
u-uccideremo nel suo l-letto. Quel p-pallone g-gonfiato.
Adesso rise anche
quell'altro. Poi si sentì come rumore di bicchieri che
cozzano.
- Quei due imbecilli
stanno brindando alla nostra? - fece il Giudice, alzandosi furioso. E
in uno scatto delle sue lunghe gambe era già alla porta. Ma
Esmeralda, la bella Esmeralda, lo trattenne con una mano di ferro. Il
Giudice si voltò verso di lei.
- Devo salire e fare
in modo che quei due abbiamo una lezione. Adesso.
- E vuoi lasciarmi
qui?
Lui alzò un
sopracciglio.
- Hai paura?
- Secondo te?
- Tornerò
subito.
A quel punto lei fece
qualcosa che lui non si aspettava. Scoppiò a ridere. Prima
leggera, poi sempre più forte, che lui dovette affrettarsi a
soffocare perché quella sciocchina non li rovinasse tutti e
due. Che succedeva se li trovavano lì? Solo che per farlo,
soffocare quel riso, dovette metterle una mano intorno alla bocca. O,
beate labbra carnose! O meravigliosi petali ...
- Ascolta -
sussurrò lei, mentre ancora non riusciva a smettere i
singhiozzi. Gli prese la mano e gentilmente se la tolse dalla bocca -
Hai capito che sta succedendo?
- Qualcuno che loro
chiamano il capo minaccerebbe di uccidermi. Adesso vado su e ...
- Non hai capito. Il
Capitano. Quel Capitano.
- Hanno detto Capo.
- Sì, ma
una volta il tizio che balbetta si è sbagliato. Ha detto
Capitano. E io penso di sapere di chi parlano.
- E di chi, di grazia?
Lei lo
fissò, con i suoi lunghi occhi dardeggianti.
- Di ... di una
persona. Di un idiota. Di uno che ... ecco, insomma: stanno parlando di
Febo.
Lui la
guardò come si guarda un gattino impegolato nella stoppa.
Con qualche pietosa sufficienza. Poi trasse un sospiro.
- Non so di chi parli.
- Lo sai benissimo,
invece! - e nella foga lei gli strinse il braccio - Lui è
... lui è ... un mostro.
- Ascolta, zingara.
Ascolta bene, non lo ripeterò. Il Capitano Febo di
Chateaupers ... il Signore di Chateaupers è un soldato di
provatissima fiducia. Un ufficiale come ce ne sono pochissimi. Un
servitore che oserei ...
- Ascolta!
E lo tirò
di nuovo verso il buco. Adesso c'era una terza voce sopra le due di
prima. Era una voce irosa, e soprattutto era una voce conosciuta.
- Dov'è?
Dov'è? Vi avevo detto di controllarlo! Nel suo letto non
c'è, e non è nemmeno nel suo studio, e in
biblioteca! Vi avevo detto di controllarlo, accidenti!
I due borbottavano
qualcosa.
- Che si sia accorto,
eh, imbecilli?
- Ma no, Signore, capo
... noi ... aspetti un attimo, forse è con ...
- La zingara.
Dov'è rinchiusa quella maledetta?
Il Giudice era
sbiancato. Quella davvero era la voce di Febo!
Esmeralda non fece in
tempoi a parlare. Si sentivano dei passi sulle scale.
Passi di uomini, in
corsa, che scendevano.
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Capitolo 6 *** Per aspera ***
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Nec diu nec noctu
licet
Iudices
quiescant >
*
6.
- Corri, corri!
- Ma sto correndo!
- E allora non corri abbastanza veloce!
Il Giudice aveva la sottana alle anche, Esmeralda correva come se il
fuoco stesse esplodendo dietro di loro. Intorno, sopra, si sentivano
voci. Voce che facevano eco dovunque. Voci pronte a distruggerli.
- Se pesco quell'imbecille giuro che ...
- Non è il momento di parlare, scappa!
Esmeralda tremava e aveva il fiatone, ma sapeva che se si fossero
fermati sarebbe stata la fine. Dopo avrebbero avuto tutto il tempo per
parlare. Dopo che fossero usciti di lì, e ...
- Da che parte andiamo? - fece il Giudice, artigliandola per un
braccio. E la tirò indietro in una nicchia - Shht! Senti,
arrivano.
In fondo al corridoio (un budello stretto di topi, buio e marciume), si
sentiva uno sferragliare di armi.
- Voi andate di qua! Noi qui, con me, da questa parte!
- Ma quanti cavolo sono? - fece il Giudice. E per la prima volta
Esmeralda gli sentì dire una cosa men che decente. Si
voltò verso di lui. Era buio, ma nel gocciolio delle pareti
riusciva a sentire il rumore del suo respiro.
- Ti tirerò fuori di qui. Non preoccuparti - e gli prese una
mano.
- Allora adesso dormo tranquillo - fece lui. Girò la testa
dall'altra parte. Era sudato, e non era abituato a sudare. Il naso
lungo, affilato, tagliava in due una lama di luce, più in
alto. Esmeralda alzò la testa.
- Aspetta.
Si sentirono altri passi, altri suoni. Là, nella nicchia,
tutto era buio.-
- Sai se ci sono grate qui? - sussurrò lei. E continuava a
guardare per aria. Il lucore era tenue, però ...
Il Giudice fece un sospiro di impazienza.
- Siamo sotto le fogne di Parigi. Vicino al molo della Senna, ma ...
In quel momento una torcia schiarì a giorno il fondo del
corridoio. Un'ombra enorme fu sulla parete di fronte.
- Da questa parte, Michael! Non lo vedi che qui non c'è
nessuno? Laggiù si va soltanto ...
Ma l'ombra esitò per un istante. Sembrò alzare di
più la torcia.
- Michael! Il Capitano ci chiama!
E chiunque fosse stato quel mostro, dovette andarsene. Esmeralda
tirò un sospiro di sollievo. Le voci si allontanavano.
- Allora, andiamo?
- Dove? - fece lui.
Lei indicò qualcosa davanti a loro.
- Per di qua. Sono sicura. Sgattaiolare via è la mia
specialità.
Il Giudice fece un sospiro molto lungo. Poi si rimboccò la
sottana e si decise a seguirla.
Come aveva già detto una volta, il liquame alla caviglia non
era esattamente la cosa più piacevole di questo mondo.
Mentre andavano per stretti budelli che diventavano sempre
più stretti, mentre attraversavano chinati strane porte che
avevano archetti pieni di muffa, mentre si addentavano nei meandri di
quel vasto e sconfinato nulla che era il Palazzo di Giustizia visto da
sotto, il Giudice cominciava a pensare che non sarebbe mai finita. E
rimpiangeva il suo letto. E le sue morbide coperte, e anche ... beh ...
e anche qualcosa dentro quelle coperte. Alzò la testa per
guardare la zingara. Teneva gli occhi fissi in alto e ogni tanto
mormorava qualcosa.
- Ci siamo persi? - chiese lui. Come se passare il resto della vita in
quei meandri fosse tutto quel che si aspettava. Ma Esmeralda si
girò con le labbra bagnate da un sorriso spettrale. Lui per
un istante ne ebbe paura. Ma era la luce della luna.
- Lo vedi? - chiese indicandogli con un dito sottile qualcosa che
proveniva dall'altro - Quella è una grata, ce ne sono molte.
Vedi che cosa filtra da su?
- Luce.
- Appunto. Vuol dire che è aperto: da qualche parte deve
esserci anche il modo di uscire da lì.
- Sono soltanto prese d'aria, probabilmente. Dubito che chi ha
costruito i sotterranei abbia pensato a un modo così comodo
per far fuggire la gente.
Esmeralda lo guardò con disappunto.
- Ma devi sempre rovinarmi tutto?
E prima che lui potesse ribattere era di nuovo avanti. Camminava
più veloce, adesso, e un paio di volte ad una svolta il
Giudice tenette di perderla. Non che avesse paura a rimanere da solo,
ma ... a un certo punto, dopo circa un centinaio di metri Esmeralda si
fermò di nuovo. Erano davanti a una nicchia di pietra,
esattamente come quella in cui si erano riparati mezz'ora prima.
- La vedi anche tu? Qui la luce è più forte.
E il Giudice non fece in tempo ad alzare il suo augusto naso che lei
stava facendo qualcosa. Armeggiava con la sua gonna. Si stava anzi,
precisamente, spogliando.
- Ma cosa fai?
- Adesso te lo faccio vedere - e senza tante cerimonie finì
di fare quello che stava facendo. Si tolse anche la cintura e poco dopo
era davanti a lui, in camicia, corsetto e niente altro. Il Giudice
voltò pudicamente la testa.
- Reggi qui, avanti.
E gli mollò tra le mani il fagotto di gonna e tutto. Lui
aprì la bocca, ma lei si stava già arrampicando.
Aveva proteso le mani avanti, e chissà come sembrava aver
trovato un appiglio. I piccoli piedi agili e nudi scavavano la pietra.
Avevano trovato una lieve increspatura tra le pietre. Esmeralda si
dette lo slancio, e dopo qualche secondo era almeno ad un metro da
terra. Le belle braccia tremavano per lo sforzo.
- Avanti! Che cosa aspetti ad aiutarmi?
Il Giudice le fu sotto. Reggeva ancora in mano il fagotto che - lo
testimonia Iddio - profumava come un cesto di fiori. Puzzava anche,
contemporaneamente, di qualcosa di selvatico e osceno. E anche per
questo, o forse proprio per questo, gli dava una leggera vertigine.
- Stai qui un altro po' a fissarmi o mi aiuti?
Lui si fece sotto di lei. Guardò gli stracci, poi
guardò il piedino che aveva a cinque centimetri dal viso.
Alla fine, con una specie di rantolo, riuscì alla meglio a
sistemarsi in spalla la gonna e tutto. Non voleva sporcarla. Poi si
chinò sotto il piede, spalle al muro. Piegò le
ginocchia.
- Al mio tre, salta.
Esmeralda fece come diceva. Quando il Giudice ebbe inarcato la schiena
e poi di nuovo si raddrizzò di colpo, dal basso lei ebbe la
spinta necessaria per riuscire a fare qualcosa. Quel che voleva,
perché si sentì come un rumore metallico.
- Lo sapevo che c'era!
- Cosa?
- La grata!
- Sì, ma adesso? Sarà chiusissima,
sarà ...
Qualcosa, con un rumore metallico, cadde a terra.
Poco dopo un altro.
- Ma che cos'è? - fece lui, e stava quasi per chinarsi, che
lei urlò: - Ehi! Mi vuoi ammazzare?
Il Giudice si raddrizzò.
- Ma cosa ... sono?
Lei rise, da sopra.
- Aspetta - prese un respiro e dopo qualche secondo anche un terzo coso
metallico cadde per terra.
- Et voilà!
- fece lei. Adesso spingi. E il Giudice, che era quasi allo stremo,
spinse per l'ultima volta. Fu un istante, e poi il peso che aveva sopra
sparì. La sentì volare via, come si fosse
volatilizzata.
- Ma cosa ...
- Ganci! - fece lei. E un istante dopo c'era qualcosa che pendeva
giù dalla penombra in cui era sparita.
- Una catena? - fece il Giudice, incredulo.
- Adesso appigliati e sali anche tu!
Non credeva sarebbe stato possibile. Lui era un Giudice, che
diamine. Il Giudice!
Non avrebbe mai potuto neanche solo pensare di ...
- Allora, mio caro, vogliamo stare qui tutta la notte?
Il Giudice guardò con odio in alto. Adesso che gli occhi gli
si abituavano poteva intuire un foro.
- Avanti!
Fece come Esmeralda gli diceva. Con qualche sforzo si
rimboccò la sottana e fece attenzione anche anche quella di
lei fosse legata bene (al suo collo): Per qualche motivo non voleva che
si sporcasse. E non voleva neanche che essere umano potesse mai sentire
l'odore che lui stava sentendo adesso. Poi, un po' rincuorato un po'
avvilito dal turbine di cose che in quell'ultima ora avevano scosso il
suo povero cervello, si strinse le mani una all'altra, fece schioccare
le nocche, se le sfregò.
- Forse è' il caso che gli anelli li togli.
Lui guardò male, in aria. Ma lei gli stava tendendo una mano.
- Avanti, dalli a me. Non te li frego. Fanno malissimo se cadi
all'improvviso.
Lui sospirò, e se li tolse. Poteva vedere la mano tesa di
lei. Se fosse morto, tanto valeva che ...
- Avanti!
Il Giudice fissò su, nelle tenebre. Stava andando verso
l'ignoto, stava uscendo da casa sua in quel modo incredibile. Stava
andando verso la rovina certa, e scappava come un profugo, nella notte
...
- Avanti, su! Non abbiamo tutta la notte. Prendi la mano.
Il Giudice l'afferrò. Era morbida e calda. Sentì
come una forza nel cuore. E spinse.
Qualche istante dopo, due figure emersero da un buco nella notte
puzzolente del lungo senna. C'era odore di gelsomini nell'aria, ma
anche di fango, e barche marce e tutta una serie di cose terribili.
- Sei ancora tutto intero? - si voltò a chiedere lei. Lui
aprì la bocca. Stava per rispondere. Ma all'improvviso
quattro braccia fortissime lo presero su, per le ascelle. Dopo di che
calò un colpo.
Il Giudice smise di pensare, e di sentire.
Alla fine dovevano averli trovati.
|
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Capitolo 7 *** Buio ***
Amarilli,
mia bella,
Non
credi, o del mio cor dolce desio,
D'esser
tu l'amor mio?
Credilo
pur, e se timor t'assale,
Dubitar
non ti vale.
Aprimi
il petto e vedrai scritto in core:
Amarilli,
Amarilli, Amarilli è il mio amore.
*
<
Nec diu nec noctu
licet
Iudices
quiescant >
*
7.
Buio.
Mal.
Di. Testa.
Ci
aveva messo un po' a capirlo, che quel trambusto di suoni e colori era
dentro di lui.
I
suoni erano tamburi. I colori rosso vermiglio, arancio acceso, viola.
Aprì
gli occhi, e invece era tutto nero. Una fitta gli trapassò
la testa come un laccio di fuoco. Come la sferza della frusta che un
migliaio di volte aveva usato. Ricordava che una volta, entrando nella
sua stanza, sua madre lo aveva guardato.
-
Che cosa è questa, Claude?
-
Niente, Maman. Solo una cosa che mi serve, ogni tanto.
Sua
madre, che si chiamava Luz, ed era una donna per certi versi ben
più strana di lui, lo aveva guardato coi suoi occhi di
ghiaccio. Era stata una donna bellissima, e lo sarebbe stata ancora
adesso se un tempo tanto tiranno quanto ingannatore non l'avesse
ghermita già da tanti, tantissimi anni.
-
Solo una cosa che mi serve, Maman.
Ed
era vero. Aveva cominciato a frustarsi quando aveva poco più
di dieci anni. Un giorno, tornando da un gioco violento con certi
ragazzini di strada, aveva scoperto che il sangue può essere
grandemente piacevole. Era rimasto a fissare nello specchio il rivolo
purpureo che scendeva dal suo ginocchio. E ricordava ancora adesso di
aver pensato che nulla è più puro del sangue,
più bello e immacolato del sottile fiume di ferro vitale che
attraversa ognuno di no.
E
adesso, tutto quel sangue, lo sentiva come coagulato alla testa.
Provò a muovere un braccio: ne era incapace.
Provò a muoverne un altro. Niente.
Doveva
essere incatenato da qualche oscura parte. Il Capitano Phoebus. Quel maledetto,
pensò. E poi, subito dopo, ma perché non mi ha
ucciso? In fin dei conti sono ancora una persona importante. Non
penserà davvero che io stia ... che non mi cerchino ... che
non ...
Ma
di nuovo una fitta gli trapassò la testa. Esmeralda ...
faceva male ... dove avranno messo Esmeralda?
E
con la spalla dette un altro strattone. Sentì soltanto
qualcosa di freddo che gli lacerava le carni. E rumor di catene. Ma
dove mai erano finiti?
-
Esmeralda? - fece con la voce ancora impastata.
-
Esmeralda?
Gli
rispose solo l'eco.
-
Esmeralda!
E
adesso nella sua voce c'era come una nota di panico. Come la prima
volta che aveva fatto sfilare la sferza sulla sua schiena. E sentendo
il sibilo, in aria, aveva chiuso gli occhi. Ma adesso, dove diavolo era
Esmeralda?
Idiota. Sei soltanto un idiota.
Chi
sei?
La tua vocina interiore. E tu
sei soltanto un imbecille. Lei si fidava di te, e tu, tu, caro Giudice,
che cosa hai fatto? Non sei riuscito neanche a proteggerla. Lei si
fidava di te, e tu l'hai portata a morte certa, nelle braccia di quel
disgraziato!
Il
Giudice pensò al capitano, alla neanche troppo celata
lascivia con cui guardava la zingara. Possibile che avesse fatto tutto
questo solo per impossessarsi di lei? Che avesse intuito l'amore che lo
legava a quella donna-demonio, e che avesse preferito far fuori il suo
rivale?
-
Oh, ma andiamo, questo è ridicolo! - borbottò
all'aria nera, d'intorno. E stavolta gli venne un capogiro,
perché aveva parlato troppo forte. Si sentiva davvero
debolissimo, quasi al limite della consunzione.
Ma
da quanto tempo sono qui? Da quanto tempo non mi danno da bere?
Aguzzando
l'orecchio sentì come il rumore di una goccia stillante.
Sentiva umido dietro la schiena. Doveva essere in un sotterraneo.
-
Ma da quanto tempo sono qui? Fuori è giorno o notte? E il
sole? Dov'è finito il sole?
Piegando
la testa sotto una nuova fitta, si accorse che qualcosa di bagnato gli
attraversava una guancia.
-
E' sangue? Quando mi hanno colpito ...
Ma
non sentiva dolore alla fronte. Non sentiva il bruciore del taglio, no
... si rifiutò di pensare che quella fosse una lacrima.
-
Che cosa ho fatto di male, per essere qui?
E
nel fulgore della notte una voce, una voce dolcissima rispose.
- Tutte le cose dunque che volete
che gli uomini vi facciano, anche voi dovete similmente farle loro.
Matteo 7.12, mi pare. Ma tu dovresti conoscerlo.
-
Chi sei? - fece lui, scattando in piedi. Ma aveva dimenticato di aver
le catene. Il movimento gli valse solo un'insostenibile dolore e uno
strappo lancinante alla spalla. Tornò a sedere mordendosi a
sangue il labbro pur di non gemere.
-
Chi sono? - sorrise la voce. E anche se lui sapeva che una voce non sorride, che
tutto intorno a lui era buio, una speranza nacque nel suo cuore.
-
Sei Esmeralda? Sei incatenata con me?
Sentì
un rumore di catene, poi di passi. Se era anche lei incatenata, lo era
più liberamente. Poteva muoversi, cosa che a lui non era
data di fare.
La
voce rise, di nuovo.
-
No, caro. Non sono affatto incatenata. Vedi? Mi poso muovere.
Claude
sentì un movimento veloce, e poi qualcosa che era accanto a
lui. Era morbida. Era gentile, come Esmeralda. Però non era
lei, era sicuro.
Un
refolo di capelli leggeri come il vento gli sfiorò la
guancia.
-
La tua Esmeralda è al sicuro, tu non temere, caro Giudice.
-
E tu? E tu allora chi sei?
La
voce rise.
-
Una che si è stancata di sentirti fare tante domande. Non
sei affatto prigioniero di Phoebus, se questo ti consola. E adesso - e
qui i capelli scomparvero - Adesso avrei ben altro da fare.
-
No! Aspetta! Non te ne andare?
La
donna doveva già essersi allontanata quel tanto che bastava
per farla tornare indietro.
-
Non lasciarmi qui solo, ti prego! Dimmi almeno dov'è
Esmeralda!
La
voce fece come un breve sospiro.
-
La ami molto, non è vero?
Il
silenzio avvolse la mente del Giudice. Non doveva parlare con estranei.
Con gente che potrebbe averla
già uccisa.
-
Voglio sapere dove è Esmeralda!
Fece,
cercando di raggranellare nella voce tutta quel po' di
autorità che gli restava. Non era molto facile essendo
completamente incatenato, spalle al muro fetido, a terra. E poi,
neanche un minuto prima, quella lacrima ... pregò,
stringendo gli occhi, che nessuno dovesse mai accorgersi che lui, lui,
proprio lui, aveva pianto.
-
Vedo che ti interessi di lei. Allora è vero quello che
dicono. Bene, almeno - e qui la voce rise - vedremo di essere un po'
più clementi. Ma adesso scusa, devo andare. Magari dopo
tornerò a farti bello. Ci sono un sacco di cose da fare,
oggi, e poi tu sarai processato. Non vorrai mica presentati male al tuo
processo,. vero Giudice?
Claude
sbatté le palpebre, e poi, nel martellare delle sue tempie
vide quella che era l'evidenza.
Uno
scherzo. Era solamente uno scherzo.
-
Non penso proprio, caro il mio Giudice - fece la voce. E poi lui
sentì il cigolio di una serratura che si apriva.
-
No! Aspetta ...
Ma
la porta si era già richiusa. Neanche una lama di luce era
riuscita a bucare il nero intorno a lui.
Chiuse
gli occhi. Ora la goccia, da qualche parte laggiù dentro il
buio, era il suo nome.
Esmeralda.
Luce,
capelli, vento e sole.
Amore.
Esmeralda.
Gioia,
fulgore, penitenza.
Strazio.
Esmeralda.
Cosa
ti ho fatto?
Perché siamo qui?
Chiuse
gli occhi, il dolore alla testa ronzava come un alveare. Aveva sete,
tra poco non avrebbe più avuto la forza di pensare. Ma un
ultimo pensiero, ancora, e ancora ...
Esmeralda.
Amore
mio.
Perdonami.
|
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Capitolo 8 *** Nella tana del Duca ***
*
< Nec diu nec
noctu
licet
Iudices quiescant
>
*
8.
-
Allora,
Giudice, sei pronto a morire?
Un tonfo sordo, poi qualcosa di grosso che si
spingeva nella cella. Un secondo
e l'aria asfittica intorno a lui si riempì di un lezzo
orrendo. Cipolla,
probabilmente mal digerita.
Il Giudice aprì gli occhi, e sulle
prime non vide niente. Poi qualche cosa che
si muoveva. Fu un attimo, poi la massa informe, davanti a lui, gli
allungò un
calcio.
- Allora, impiastro, ti muovi si o no?
Claude
Frollo, coperto di graffi, immerso a metà nel liquame,
strattonò la catena.
Provò
a
muoversi, con l'unico risultato che il ferro pesante gli
penetrò più nelle
carni. Il collo era ormai solo una fascio pulsante e martoriato. Il
tizio lo strattonò.
- Allora, andiamo? - Adesso il fiato doveva
essere a un centimetro, perché
nell'esplosione di lame dei suoi occhi, vedeva nero. Ombra. E sentiva
l'odore
quasi fino a svenire.
Il
Giudice scattò, con i denti. Ma il tizio aprì
semplicemente una mano. Doveva
essere un gigante, perché Frollo sentì due dita -
due dita - una di qua e una
di là dalla testa. Puzzavano orribilmente di qualcosa cui
non voleva neanche
pensare. Sembrava spazzatura marcita, topo di fogna e cavolo putrido.
- Se adesso hai finito di far lo scemo, adesso
vieni con me.
-
Dove mi
porti?
- Questi non
sono affari tuoi, ficcanaso.
E
due mani calarono sopra di lui, scostarono il suo povero corpo,
girarono
intorno alle costole. Il suoi occhi cominciavano un poco ad abituarsi
alla luce.
-
Chi sei? -
biascicò al carceriere, che non riusciva a mettere
a fuoco - Dove sono?
Aveva
la gola in fiamme. Quello intanto era riuscito a spostare le catene
(dovevano pesare almeno una tonnellata), e adesso tentava il difficile
compito
di tirarlo in piedi. Ma il fatto era che Claude Frollo aveva perso la
sensibilità a entrambe gambe. Il colosso dovette alzarlo di
peso e issarselo in
spalla, di traverso.
-
Questo è
troppo! - grido Frollo. Ma l'unica cosa che ottenne fu strappare un
singhiozzo
al carceriere.
-
Ma lo sai
che sei proprio uno spasso? Cosa mi fai se non ti lascio andare? Mi fai
frustare dalle signorine che tieni come guardie del corpo?
-
La mia
Guardia, il Capitano Phoebus …
- E' stato
molto gentile con noi. Non ci saremmo riusciti, altrimenti. Ma meno
male che …
- Lasciami
scendere, animale!
Il tizio, ignorandolo,
prese la porta.
- Attento
alla testa, Signoria.
Passarono in
una sorta di stretto corridoio. Adesso c'era una parvenza di luce, e
Frollo
poteva vedere per bene in che razza di posto lo avevano messo: un lungo
sotterraneo muffito, topi dovunque, pozze di marcio. Niente da
invidiare alle
sue segrete.
- Tenete
altra gente rinchiusa qui? - chiese cercando di registrare le
coordinate, la
posizione, qualcosa.
Il
carceriere fece un saltello, Claude Frollo sobbalzò insieme
a lui.
- Un topo morto - fece il carceriere. E
disgustosamente, Claude Frollo, vide
qualcosa sotto di lui. Un sacco nero, della grandezza di un piccolo
cane,
completamente sventrato. Certe cosette ci si muovevano sopra. Poco
mancò che
vomitasse.
- Andiamo, le vostre carceri non sono peggiori.
- Ah, ci sei stato? - fece Claude. Lui rise. E
prese un corridoio a sinistra.
C'era una fila stretta di scale che si snodava dentro a un muro fetido.
Il
carceriere cominciò a salire. Ad ogni passo prendeva un bel
respiro.
- Ci sono stato, chiedi? No. Ci sono stati che
conosco, però. Midicono che è un
posto piacevole ... quando hai fretta di morire .. da cane.
Il Giudice non poté impedirsi che
un sorrisetto gli alleggiasse sul volto.
- La nostra fama si spande.
- Anche la nostra - fece il carceriere. Poi si
fermò - Lo vedrai tra poco
quanto possiamo essere famosi. Riconoscenti.
Erano
arrivati in cima a una scala.
Il
carceriere prese da una tasca qualcosa che sembrava un altro topo
sventrato. Ma
questa volta era una bisaccia. Ci cacciò dentro le mani.
Estrasse un lungo
mazzo di chiavi. Le chiavi brillavano in modo inquietante nella
penombra.
- E adesso stai fermo.
Prima che Claude avesse il tempo di fiatare,
il carceriere lo depose a terra.
Poi lo tirò su come un bambolotto. Claude Frollo era
abituato a tutto, ma
quando si trovò faccia a faccia con lui, non si sa come non
si mise ad urlare.
La faccia del gigante era una maschera, una poltiglia di carne e
cicatrici che
correvano dovunque, biancastre, come un groviglio di vermi impazziti.
- Questo è per Miguel, questo per
Jago - fece mollandogli, in rapida
successione, due cazzotti dritti alle costole - Questo per Jona e
questo per il
Duca. E stai contento che non te ne do altri. Ce ne sarebbero, ma ho
finito le
scorte. Questo è l'ultimo.
E come un fulmine fece calare sulla sua
guancia almeno dieci chili di mano.
Qualcosa esplose dentro Claude Frollo.
Sentì la testa girargli, il cuore fare
come una specie di rantolo. Sentì i polmoni che gli si
accartocciavano. E poi
più niente. Si accasciò a terra.
- Andiamo - fece il carceriere, e un lungo
sorriso si dipinse sopra il suo
volto - pensavo fossi di una pasta più forte, Giudice.
Frollo provò a dire qualcosa, ma
aveva la bocca piena amaro. Sangue.
- Tu spera
solo che esca morto di qui - sibilò piano, come se ogni
sillaba gli costasse una
fatica impossibile - Tu spera solo che esca morto di qui,
perché se esco vivo
...
Ma il carceriere rise. Gli allungò
un ultimo, ben calcolato calcio. Claude
quasi neanche sentì la punta del grosso stivale contro lo
stomaco. Ormai forse
neanche lo aveva più, uno stomaco. Orma era solo carne e
sangue che veleggiava
allegramente verso l'incoscienza. L'ultima cosa che sentì fu
di nuovo il fiato
di cipolla sopra di lui. E adesso, oltre al fiato terribile, c'era
anche
qualcosa di nuovo. Sembrava la musica di un piffero, e in sottofondo un
batter
di tamburi. Sembrava anche l'argenteo scampanellio delle cavigliere di
Esmeralda. Certo stava morendo, sognava quello che gli piaceva di
più.
- Su, su, andiamo. La festa comincia. Tu sei
l'ospite di eccezione.
Poi le due mani sulla testa, una benda nera.
Cigolio di chiavistello. Poi
la musica esplose, e insieme a quella migliaia di voci.
In tutta la
sua lunga, e per certi versi piuttosto tormentata esistenza, Claude
Frollo
aveva visto molte cose. Alcune terribili, altre orripilanti, certune
addirittura indegne di essere nominate da umano. Ma adesso, sbattendo
le
palpebre alla luce accecante di decine di torce accese, tra il pulsare
del
sangue alla testa e il dolore delle costole rotte, pensò che
nulla di quel che
aveva mai visto poteva essere confrontato con quello. La musica si era
interrotta nell'esatto istante in cui il
Giudice aveva fatto la sua comparsa. Non era esattamente l'ingresso cui
era
abituato, ma forse era meglio così. Comparsa era la parola
adatta.
Davanti a
lui c'era un gigantesco teatro, o meglio, un semicerchio enorme che si
alzava,
come una cavea da terra fino a pareti lontane, perdendosi nel buio e
digradando
in scaloni che parevano enormi. Doveva essere scolpito nella pietra
perché qua
e là si vedevano enormi squarci nel tufo, o in che diavolo
era. Enormi panni,
tendaggi, velami pendevano da ogni parte a mo' di tende, tendoni,
strascichi.
Il retro era tutto un brulichio mormorante di uomini, donne e bambini.
Claude
Frollo chiuse gli occhi, piano, e li riaprì. Dovunque gente,
e ancora. Lo
fissavano. Erano vestiti degli stracci multicolori degli zingari, ed
erano
migliaia. O forse solo centinaia, ma lui in quel momento non voleva
sapere.
Erano tutti silenziosi, come tombe, e tutti fissavano lui. C'erano un
paio di disgraziati,
lì vicino, con ancora i loro pifferi in mano. Una ragazza
con un tamburello che
aveva trecce come la sua Esmeralda ma mani tozze e uno sguardo cattivo.
C'era
una vecchia coperta di stracci che gli sputò, appena lo
vide. Lo sputo atterrò
a pochi centimetri dalla sua gamba.
Claude
Frollo fece scorrere gli occhi sulla folla. Poi qualcosa
attirò al sua
attenzione. Un uomo enorme, ben più enorme del carceriere,
lo stava fissando da
molto lontano, e i suoi occhi, in mezzo a tutti quegli occhi, erano
neri.
Claude
Frollo di istinto abbassò la testa, e sa Dio se questo non
gli costò, perché
dalle spalle alle costole, dalla fronte alle scapole era tutto un unico
grumo
di dolore.
Non aveva
più un colletto, e neanche quasi più i polsi
della camicia. Quello destro
sembrava essere stato rosicchiato. Lo guardò, con vago
disgusto. Cercò di
muovere la mano sotto. Il polso ruotava ancora, anche se indolenzito.
Alzò una
mano, se la portò alla guancia. La parte destra era in
fiamme. La ritrasse.
- Da quanto
tempo sono qui? - mormorò. Ancora si sentiva quegli occhi
addosso. Occhi neri e
maligni come carboni.
Poi d'improvviso
la folla si zittì.
- Hai fatto
un buon soggiorno, caro Giudice? - fece una voce, che sovrastava le
altre come
la nave da guerra si scaglia contro le onde, e le soverchia.
Claude
Frollo seguì quella voce fino in alto, dove il grande
anfiteatro (naturale?
Scavato dalla mano dell'uomo?) si apriva in un circolo che si perdeva
nel buio.
Se fosse stato un teatro, lassù sarebbero stati i palchi
più ambiti.
- Guardami,
Giudice.
Era enorme. Lo stesso uomo dagli occhi neri di
brace.
- Mi vedi,
adesso?
Sembrava tutto ruotasse intorno a lui. Nella
nebbia del dolore e del
sangue, Claude Frollo vide migliaia di occhi puntati tutti su quel
capo. Occhi
cattivi, occhi che aspettavano in silenzio.
- Mi
riconosci, Giudice?
Aveva
indosso vesti ricchissime e un gran cappello con la piuma. Un lungo
squarcio
gli attraversava il petto nudo. Ma sotto portava una fascia coperta di
gemme e
attraversata da molti pugnali. In mano aveva una brocca d'argento.
Claude
Frollo strinse gli occhi, provò a raggranellare quel minimo
di voce che ancora
da qualche parte gli restava. Fece appello a tutta la sua
autorità.
- Sembri la
parodia di un Écorcheur.
Come
potrei non riconoscerti, Duca d'Egitto?
Quello rise.
Alzò la brocca e bevve.
- Brindo alla tua
salute, Signore. E alla
buona memoria che dimostri.
Posò la
brocca, e una bella gitana che era
al suo fianco gli sorrise.
- Sai
perché sei qui?
- Me lo immagino.
- Non hai paura?
- Neanche un po'.
Non era vero. Ma
avrebbe lasciato che lo
squartassero, prima di mostrarne anche un'oncia.
- Bene. Sono
contento che tu la prenda così.
Ci rende tutto più facile. Il tuo avvocato dice che
…
- Il mio avvocato?
Il Duca si
fermò, la folla rise. Il Duca
sollevò una mano. La folla si zittì all'istante.
-
Perché tra poco qui ci
sarà un processo.
Nonostante tutto,
a Claude Frollo venne
voglia di ridere.
- E da chi dovrei
essere giudicato, e per
cosa?
- Da un'Alta Corte
di cui sono il Capo, il
Giurato e il Giudice.
- Oh, molto bene.
Peccato che mi paia di
essere ancora l'unico e solo Ministro di Giustizia.
- Forse
lassù - e così dicendo il Duca puntò
un dito per aria - Peccato che qui siamo da tutt'altra parte. Qui ci
sono delle
Regole che forse tu non hai neanche mai sentito. O forse durante la
notte hai
studiato le Pandette Gitane?
Dagli spalti si
levò, come un mare, una
fragorosa risata. Erano tutti, e stavano ridendo, quella ciurmaglia di
zingari.
Claude Frollo sentì una fitta molto più atroce
del dolore fisico, ma si costrinse
a non abbassare gli occhi. Serrò le labbra, le
stirò in una pallida imitazione sorriso.
Ricordati
che adesso ne va della tua vita.
- Cosa
c'è scritto in queste Pandette?
Il Duca, piano,
alzò una mano in aria. Ora i
suoi occhi erano neri come i pozzi di paura che stagnano in fondo al
cuore di
ogni male.
- Ora vedrai - poi fece un gesto -
Entri la
corte. Ho proprio voglia di vederti morire.
|
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Capitolo 9 *** Il gatto e il topo ***
*
< Nec diu nec noctu
licet
Iudices quiescant>
*
9.
Il Giudice capì che era
spacciato nell'istante in cui fecero il loro ingresso l'Accusa e la
Difesa. Alzò la testa, lentamente. Strinse gli occhi. Nella
luce abbacinante delle torce vide due figure che entravano accompagnate
da una torma di gente. Una era alta, severa, e un sottile sfregio gli
attraversava la faccia. Aveva lunghi capelli crespi, corvini, e uno
sguardo da fare paura al Demonio. L'altro era pallido, tremante.
Vestito di qualcosa che sembrava terribilmente fuori luogo: sotto il
mantello, una casacca colorata a grandi strisce, e un paio di brache
coi campanelli. Quando fu entrato nella stanza girò
nervosamente gli occhi intorno. Un istante, poi si incontrarono con
quelli del Giudice. Claude Frollo sentì un pugno artigliarli
lo stomaco. Poi lo sconosciuto dell'accusa prese posto su un
banco alto, a sinistra del Duca. La difesa invece tremante,
andò a raggiungere il Giudice Frollo.
- Cosa ci fate qui, mastro
Gringoire? - sibilò il Giudice alla sua difesa. E quello,
che tremava e ancora non aveva smesso di farlo, si rattrappì
ancor di più sullo scranno che gli avevano assegnato. Era
molto più basso di quello del suo collega, e era intagliato
in più punti con versi e frasi oscene.
- I ... io? -
balbettò l'altro, ritraendosi ancora. Il Giudice
alzò gli occhi al cielo. E per un istante ebbe terribilmente
voglia di ridere - V... Vi giuro che i-io non c'entro nulla. Passavo
ecco ... passavo di qui per caso. Mi hanno preso per questa ... farsa.
Il Giudice fissò
con disprezzo il cumulo di stracci variopinti che si contorceva accanto
a lui. Lo aveva perso di vista un anno prima, quando Pierre Gringoire,
già scadente filosofo, aveva smesso di andare a frequentare
anche le sue lezioni di legge.
- E a... adesso che cosa
facciamo? - gli chiese, passando la lingua sulle labbra. Gli occhi dei
gitani erano tutti su di loro. L'Accusa stava parlottando col Duca. Era
evidentemente un processo non troppo equo.
- Chi è quello
lassù? - chiese Claude Frollo cercando di non perdere la
calma. E indicò lo sfregiato,.
- Que...quello? E...
eccellenza, quello è Clopin, il peggiore di tutti i banditi
che voi possiate mai aver visto.
- Clopin. Uhm, il suo nome
non mi è nuovo.
- E'... stato lui a dare
fuoco a quella carovana di cardinali che tornavano da Aix. Il mese
scorso, ricordate. E quel furto con ... con scasso e ... violenza
carnale, quello alla casa del mugnaio, bene ... fonti certe mi dicono
che ...
Il Giudice lo
fermò con un gesto.
- Quella era colpa del
mugnaio. Ha dato fuoco a metà del mulino per far credere che
i gitani ce l'avessero con lui. Era sospettato di stregoneria, e in
qualche modo sperava che ...
- E la figlia?
- Quella l'aveva violata lui
stesso. Brutta storia.
- Capisco.
- Ma insomma, adesso che
dobbiamo fare?
Gringoire lo
guardò con occhi smarriti. Il Giudice abbozzò un
mezzo sorriso.
- Penso sia meglio che mi
difenda io stesso. Tu puoi stare a guardare, Gringoire - si
sistemò una manica, poi alzò la voce - Signori e
signore della Giuria (sempre di qualche giuria qui si tratti), voglio
fare una dichiarazione. Rifiuto il difensore, mi difendo da solo.
Dai palchi esplose una
fragorosa risata. Si erano fermati anche il Duca e Clopin, che adesso
lo guardavano attentamente.
- E come pensi di fare?
Questo è contrario alle Pandette gitane - fece qualcuno,
berciando dall'alto.
Il Giudice lo
ignorò. Guardava fisso davanti a lui.
- Davvero pensate che io
possa sottostare a una stupida sciocchezza di questo genere.
- Attento a come parli,
animale! - gridò qualcun altro. Ma il Duca aveva alzato una
mano per intimare il silenzio.
- Voglio dire, signor Duca -
fece Claude - che se mostrate tutta questa premura, dovete essere ben
spaventato.
- E da cosa? - fece il Duca,
sporgendosi un poco - Forse dalla vostra Difesa, messer Claude?
- No, proprio, appunto. Se mi
avete dato quest'asino come avvocato è proprio
perché avete paura di me. Non so se conoscete le
sue doti, io le conosco, come suo professore. E direi che
sarebbe assai meglio se mi faceste difendere da un cane, da un
cincillà, da un orangotango. Voglio molto bene a Gringoire,
ma la Legge non è proprio il suo campo.
Il povero filosofo
abbassò la testa piuttosto mortificato. Tutti ridevano, e
adesso rideva anche il Duca.
- Devo ammettere che avete un
bello spirito, Mastro Frollo. Chiunque altro, in queste condizioni, se
la sarebbe già fatta sotto. Ma voi siete il Giudice Frollo,
e noi gitani, gente d'acciaio, non possiamo certo essere perseguiti da
un avversario meno degno di voi. Avete del fegato, davvero. Mai pensato
di avere sangue gitano?
Di nuovo intorno esplose una
risata, ma ora Claude si sentiva più sicuro.
- Probabilmente, se fossi
figlio bastardo, qualche domanda me la farei. Ma mia madre, che era una
santa donna ...
(Qui partì un
fischio dalla platea)
- ... penso che si sarebbe
fatta sgozzare piuttosto che aprire le gambe davanti a un essere come
voi, messer Duca.
Il Duca rise, anche stavolta.
E si batté una mano sulla gamba.
- Il suo nome era Claudine,
per caso?
Tutti risero.
- Nossignore.
- No? Allora forse
Bernadette? O forse Julia? Me ne ricordo una che aveva un bel paio di
tette ...
- Mia madre si chiamava Luz,
caro Duca. E penso che se l'aveste incontrata adesso non avreste ancora
quella lingua per raccontarlo.
Il Duca fischiò
piano, fischiarono tutti. E poi dalla platea si levò un coro
di applausi.
- Davvero voi sapete come
catturare l'attenzione. Se davvero era così anche vostra
madre, che il Diavolo di porti il papà.
Claude Frollo fece un breve
inchino.
- Un uomo nobile, ma non
formidabile come mia madre.
- Che cosa chiedete, dunque?
- Che mi sia concesso di
difendermi da solo.
- Ve l'ho già
detto che è contro le regole.
- E allora almeno qualche
giorno per preparare come si deve quest'asino a sostenere la mia
difesa. O dovrò andare a dire in giro che il Duca d'Egitto
non è più pieno d'onore come si dice.
A questo punto il Duca si
voltò verso l'alta figura nera che era sempre stata al suo
fianco. Il gitano dagli occhi di carbone li sogguardava quietamente,
con lo sguardo di un cane che non ha alcuna fretta di saltare la rete e
sbranare.
- Che cosa ne dici, Clopin?
Il tizio alto, dalla lunga
capigliatura corvina, guardò a lungo dentro gli occhi di
Claude. E Claude ricambiò il suo sguardo.
- Di certo non mi farò
intimorire da uno zingaro - pensò. Ma c'era
qualcosa di strano, nei suoi occhi. Qualcosa di ben più
torbido e oscuro di quel che aveva visto in quelli del Duca. Quello che
sarebbe stato la sua Accusa lo guardò a lungo, come se
volesse leggere ogni segreto della sua anima. Poi, alla fine,
parlò.
- Io penso che non si a
giusto, mio Duca, lasciare a un prigioniero la scelta di come
dev'essere condotto il suo processo. Forse che lui la lascia mai a noi?
- dalla folla partì un mormorio basso - Forse che lui lascia
mai a noi il diritto di giudicare se possiamo avere una dilazione del
tempo, una proroga al processo. Ci lascia forse chiamare a fianco a noi
un avvocato? - e qui il mormorio si fece più alto. Con occhi
che avevano qualcosa di ipnotico, Clopin lasciò che il suo
sguardo vagasse lentamente in cerchio, su tutti loro - Ci lascia forse
mai sperare in una vera
giustizia?
I gitani ora stavano in
silenzio. Claude Frollo poteva sentire il rumore dei loro pensieri.
Spostò uno sguardo su Gringoire, e vide il tremore della sua
gola, dove il pomo d'Adamo sussultava sotto la pelle mal rasata. E
pensò che non sarebbe uscito vivo da lì.
- Forse che ci ha mai
lasciato una scelta su come essere? Lui ci perseguita, ci insegue, ci
stana. Fa come un cane con la lepre. Lui non chiede affatto quel che
vogliamo essere, non si domanda che cosa deve fare con tutti noi. Lui
semplicemente ci acchiappa, ci stringe forte dentro al suo pungo e poi
... non ne rimane più nulla.
Qualcuno tra la folla
annuì. Ma gli altri erano muti. Vicino a lui Claude Frollo
poté scorgere con la coda dell'occhio una vecchietta che
piangeva. Pensò che forse aveva ucciso il figlio, o il
marito, di quel cumulo di stracci. E per la prima volta
sentì qualcosa chiuderglisi in gola.
Il Duca meditava, con la
fronte appoggiata alla mano. Non si sarebbe potuto dire se era un
farsa, forse soltanto una messinscena crudele fatta ad uso e consumo di
un prigioniero già con il laccio annodato alla gola. Forse
si stavano, pensò Claude Frollo, tranquillo, semplicemente
prendendo un po' di piacere. Esattamente come se ne prendeva lui quando
la sera scendeva le scale delle segrete. E andava calmo a controllare
che tutti fossero ancora vivi per le torture dell'indomani.
- Allora, che cosa dite,
dobbiamo impiccarlo? - chiese il Duca, alzando la fronte dopo una pausa
che parve di un secolo. La faccia di Clopin era di marmo, quella di
Pierre Gringoire di cera. Tutti guardavano verso Claude Frollo.
- C'è un altro
modo per morire? - chiese lui.
E fu in quell'esatto istante
che qualcosa si mosse, dietro di lui. Non lo aveva né visto
né sentito. Ma fu un alito come di paradiso, come se un
angelo avesse per caso sbattuto le ali su questa terra.
- Duca, faccio richiesta alla
corte che il Giudice sia mio prigioniero. Lo custodirò io
finché la Corte non avrà preso una decisione.
Clopin guardò
verso il Giudice con odio. Alle sue spalle c'era qualcuno, qualcuno la
cui voce era risuonata come acqua fresca nel deserto.
- E perché
vorresti occupartene tu, Esmeralda? In fin dei conti ti ha tenuto
prigioniera. Non ti farebbe piacere vederlo morto, penzolante a una
forca?
Esmeralda rise pianissimo. E
anche se la sua risata era come mille campanelli d'argento, Claude
percepì come una nota di scherno. Era diretta a
lui? Nel suo cuore duro e tormentato dall'odio del peccato,
sentì nascere qualcosa, una radice che forse era di
vergogna. Adesso lei lo vedeva legato. Adesso era incatenato a lei e
alla sua gente da una lunga caduta che lo avrebbe condotto alla forca.
Forse adesso, finalmente, lei lo aveva in suo potere. Si divertiva a
volergli provocare la morte? Si divertiva a vederlo così,
agonizzante e difeso da un idiota? Alle sue spalle il trionfo della
voce di lei continuava a spargere meraviglia, e Claude non riusciva
più ad ascoltare altro che il suono fatato di lei. Non
distingueva più le parole, e come una dolce debolezza lo
invase. Perché non lo facevano morire senza lasciargli il
tempo di smettere di ascoltarla?
- Che cosa chiedi, dunque,
Esmeralda?
- Che gli sia concesso quello
che desidera. Giorni per preparare sua difesa che ... lo
condurrà alla morte.
- E perché mai?
- Perché noi, a
differenza sua, siamo civili.
Noi non vogliamo che i condannati muoiano senza giusto processo.
Lo disse con una voce
dolcissima, ma qualcosa doveva essere andato storto, perché
dalla folla si alzarono grida, e urla e risa misteriose. Il Dica rise,
anche lui, e Claude Frollo vide negli occhi di Clopin un lampo che
poteva essere rabbia. Come a un gatto cui un bambino crudele sottragga
il topo solo per avere il piacere di vederlo morire lui stesso,
Esmeralda aprì le belle labbra e disse:
- Duca, fallo soltanto per
me. Quest'uomo merita di soffrire ancora un poco prima che arrivi una
giusta morte. Siete d'accordo con me, amici miei?
Dagli spalti partì
un coro di applausi. Esmeralda fece un inchino compito.
Poi si accostò di
dietro a Claude.
- Ora sei mio -
sibilò mentre lo portavano via.
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