Nec Noctu nec Diu licet Iudices Quiescant

di minimelania
(/viewuser.php?uid=64923)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Visitazioni ***
Capitolo 2: *** La Belle Dame ***
Capitolo 3: *** Imprevisti ***
Capitolo 4: *** Ad Inferos ***
Capitolo 5: *** Liquami e voci ***
Capitolo 6: *** Per aspera ***
Capitolo 7: *** Buio ***
Capitolo 8: *** Nella tana del Duca ***
Capitolo 9: *** Il gatto e il topo ***



Capitolo 1
*** Visitazioni ***



*


< Nec diu nec noctu
licet
Iudices quiescant >



*


1.



Non era mai stato così vicino a credere a un sogno. Di solito i sogni non lo interessavano, eppure, in quel momento, lei sembrava reale.
- Sei un sogno?
- Secondo te?
Si fece ancora più vicina. Emergeva fresca e splendente dal fondo scuro della stanza illuminata solo da un debole tepore di luna.
- Sei proprio tu? - deglutì, piano, il Giudice. Aveva la gola secca.
- Secondo te?
Si avvicinò, sorridendo del sorriso vago e maligno che hanno le statue. Era bellissima.
- Secondo te?
Un dito le scivolò pian piano dal bordo di mogano del letto alle prime cortine. Poi la coperta, tracciò disegni sul ricamo, si fermò un istante sopra un fiore rosso. Al Giudice venne fatto di pensare che - se era un sogno - lui voleva che continuasse in eterno.
Il dito lieve, un poco abbronzato, dall'unghia liscia come una perla appena nata scorse il pesante strato di stoffa fino al monticello che nascondeva il piede di lui. Si insinuò piano sotto le coperte, fece il solletico.
- Allora? Credi ancora che io sia un sogno?
A lui venne voglia di ridere. Di ridere come forse non faceva da decenni. Inarcò la schiena, rapito da quell'assurda e potentissima sensazione di piacere.
- Che cosa sei venuta a fare? Cosa vuoi?
Lei all'istante arrestò il dito sull'incavo del piede. Mise il broncio.
- Cos'è, non mi vuoi?
Lui stava ancora ridacchiando, piano.
- No. Ti voglio, eccome.
- Ah, bene, ecco.
- Continua, per favore.
Lei ci pensò.
- Non so se voglio.
- Te ne prego.
- Che cosa? Non ho sentito. Di' più forte.
- Te ne prego.
Lei fece un sorrisetto soddisfatto. Ricominciò a fargli il solletico.
- Meglio.
La mano salì appena, alla caviglia. Lui avvertì che scostava la stoffa laddove era la camicia da notte. Sentì un brivido, non per il freddo - pure era freddo, e lei stava così - ma perché quel tocco era il primo, di una donna, da tanti anni in quello strano posto. Gli venne di nuovo da ridere.
- Che cosa fai? Sei impazzito? - chiese lei.
Lui smise subito.
- Perdonami.
- Bravo.
Il dito salì ancora, alle ginocchia. Quando incontrò la pelle più tenue nell'incavo del ginocchio, il Giudice esalò una specie di brivido. Nessuno mai, nessuno mai gli aveva accarezzato un ginocchio in quel modo.
- Certo che sei proprio strano.
Ma stavolta rideva anche lei.
Era bella, bellissima come un mattino di sole pieno. Aveva ancora la vesticciola lacera che le avevano messo quando era entrata in carcere, dopo che lui l'aveva salvata perché lei aveva scelto lui, alla fine. E poi tutto era stato così veloce, lei che non vuole neanche guardarlo, che lo odia, gli sputa in faccia, in carrozza. Umiliazione. Questa parola bruciava ancora tantissimo tra le pallide labbra del Giudice. Per questo non l'aveva più voluta, per questo avrebbe lasciato che marcisse nonostante le tenebre e il freddo della cella fossero quasi una tortura per lui quanto dovevano esserlo per lei. Avevano dormito già quasi un mese intero sotto lo stesso tetto, al Palazzo. Lui annidato nelle sue corpete di ombra, morbide, opache, a tormentarsi sognandola dentro il segreto guscio delle cortine. Lei in una cella, a morire di freddo. Sperando anzi di morire prima che piegarsi alle lusinghe di lui.
- Perché adesso sei venuta? - le chiese, in un soffio. Ma sapeva che non avrebbe risposto, quella zingara  imprevedibile. Stava per chiederle come aveva fatto a liberarsi dalle segrete, ma lei, con la punta del suo dito diabolico, era arrivata all'interno della coscia,  aveva  allargato la palma, e ora aderiva con la mano alla carne.
- Ti sta piacendo? - chiese lei, chinandosi come in un soffio sulle coperte. Il seno tiepido e i fianchi generosi, la pelle morbida e la cascata disordinata dei capelli, tutto a non più di qualche centimetro da lui, dalla sua bocca.
Lui pensava di poter sopportare quasi tutto, ma non il suo alito di zafferano. Mosse una mano, impcercettibilmente. Cercò di toccarla, ma lei rise.
- No, no, no, no - sussurrò roca, assestandogli una minuscola pacca sul naso, come si fa coi cani disubbedienti - No, no, no, no. Sono io, qui, che faccio le Regole. Sempre se vuoi giocare, ovviamente.
Lui chiuse gli occhi. Non sapeva come, ma la mano di lei adesso era magicamente scivolata sul suo petto, aveva disfatto i lacci della camicia, si era insinuata tra le pieghe della tela ... non aveva mai provato niente di simile. E credeva di non poterlo provare. E invece lei, abbondante, meravigliosa, china sopra il suo petto cominciava a stampigliargli minuscole miriadi di baci praticamente dovunque. Alla base del collo, vicino all'orecchio, sulle spalle ...
- Esmeralda. Ti prego.
Un sussurro. Un mugolio pietoso, ovviamente. Niente a che fare con la voce dura che gli usciva dal petto ogni giorno. In quel momento lui non era niente, cera liquida tra lei sue mani. Un bambolotto che poteva essere distrutto in un attimo.
- Esmeralda ...
- Che cosa?
Lei, ridendo, gli scivolò accanto, nel letto. Come pervase da un istinto di vita che non poteva che essere inumano, la stoffe sovrapposte, i vecchi lini inamidati, il broccato rigido divvennero come di panna. Panna freschissima e incredebilmente morbida, panna in cui tuffare le labbra e morire.
- Oh ...
Ma non fece in tempo a dire altro, perché lei era a cavalcioni su di lui.
- Oh? - rise piano - Non mi dire che è tutto quel che ti viene in mente ...
Glie lo aveva soffiato in un orecchio, con la sua voce atroce di colomba, mentre con dita lente e torturatrici giocava con gli ultimi legacci che trattenevano la virtù di lui.
- Non dirmi che è tutto qui quello che sai dire. Tu facevo più loquace, amore mio.
Quello era troppo. Amore mio? D'istinto le sue mani si mossero. Non riusciva più a stare fermo, anche se muoversi, forse, equivaleva a far scivolare via per sempre quel sogno. Ma lo strazio era troppo. Doveva, doveva correre quel rischio.
- Amore mio - ripetè lei, in un sussurro, mentre le labbra rosse di ciliegia scendevano piano dalla sua gola al petto, e dal petto poi all'ombelico ... ma poi, prima di scendere oltre, si fermarono. Con una mana gli accarezzò la curva che dalle costole scende alla pancia. Lui, mugolò, pianissimo, a occhi chiusi.
- Amore mio ... amore ... ti prego ...
Lei rise, di una rista come mille sonagli d'oro.
- Ti piace?
- Oh, santo cielo, amore mio, amore mio ...
- Ti piace sì o no?
- Mia adorata, mia piccola, splendida ...
- Allora? Non ti ho chiesto come mi chiamo. Ti ho chiesto se ti piace.
Lui aprì piano gli occhi. Talmente accaldato e fremente che un battito, un battito di ciglia qualunque avrebbe potuto farlo impazzire.
- Mi stai facendo morire - sussurrò, roco.
Lei lo fisso, un istante, coi suoi occhi immensi e vellutati di cerbiatta.
- Benissimo - scoppiò a ridere - Proprio quello che speravo di ottenre.
Poi si alzò, come se niente fosse stato. I piedi nudi sfiorarono di nuovo il pavimento.
- Buona notte - disse avviandosi, leggera, verso la porta.
- Eh? Che cosa?
Anche lui si tirò su a sedere.
- Esmeralda, dove vai ... ma cosa?
Stava mettendo fuori un piede anche lui. Ma lei lo trattenne con uno sguardo. Uno sguardo tremendamente reale.
- Non farlo. Non farlo oppure romperai l'incanto. Non tornerò più, se tocchi terra.
- Che cosa devo fare? - chiese lui, annichilito. Il desiderio di prenderla, rincorrerla, trascinarla sul letto lo stava letteralmente soverchiando. Come poteva quella splendida gitana, quella regina maledetta, quella bambina pretendere di torturarlo in quel modo ... ma poi pensò a che cosa aveva appena detto.
- Ritornerai? - chiese con un filo di voce.
Lei si portò un dito alla bocca in un'atroce, paradisiaca pantomima di indecisione. Poi rise, rise di nuovo.
La porta si richiuse in un soffio, prima che il Giudice potesse capire se era stato solo un sogno o no, a visitarlo.  



*



<Angolo Autrice: carissimi, un piccolo divertissement che avevo scritto qualche tempo fa e che per caso mi è ricomparso davanti questa sera ... i personaggi sono sempre i soliti, le situazioni mutano. Stavolta mi sono chiesta cosa accadrebbe se Esmeralda, prigioniera a Palazzo del Giudice, decidesse di aprire con lui una sorta di danza notturna d'incerto esito. Una danza per fuggire o decidere che cosa fare di una strana ossessione che ha incominciato a impadronirsi di lei ...  Spero di poter scrivere presto il secondo capitolo, comunque non sarà una cosa troppo lunga, non temete. Nel frattempo, come al solito, vi abbraccio, sempre vostra Minimelania <3 >

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La Belle Dame ***


*

< Nec diu nec noctu

licet

Iudices quiescant >

 

*

2.

 

Il Giudice passò due giorni d'inferno. Non aveva il coraggio di scendere nelle segrete a chiedere al carceriere se la ragazza si era mossa, la notte. Se fosse fuggita l'avrebbero avvertito, e d'altra parte era impossibile che fosse riuscita a liberarsi da sola: aveva dato disposizione affinché fossero prese tutte le precauzioni del caso.
E allora come era riuscita ad arrivare fino a lui? Questo pensiero tormentava il Giudice, mentre andava avanti e indietro nel suo studio, lo tormentava mentre restava immobile ad ascoltare le trite sciocchezze burocratiche di cui erano gonfie le sue giornate, lo tormentava infine anche mentre cercava di mangiare qualcosa. Ma ogni boccone che portava alla bocca era intriso del pensiero di lei. Era veleno.
Passò un giorno e non seppe niente di lei. La notte si tormentò in vano nella stanza, sveglio fino alle luci dell'alba. Con gli occhi incollati alla porta era riuscito solo a captare il vagare di un ragno per chissà dove.
Il giorno dopo passò come un incubo, non credeva che la notte successiva potesse essere ancora peggio. Ma  fu così.
Tormentato dal desiderio di rivederla, andò a rinchiudersi in camera all'ora in cui di solito cominciava a cenare. Poi pensò che era una cosa ridicola, uscì di nuovo, andò in biblioteca. Lì afferrò un qualunque manoscritto e provò a leggerlo. Niente da fare. Si versò un bicchiere di vino, tanto per farsi coraggio.
Le ore passavano e lui non sapeva cosa fare. Una parte del suo cuore sinceramente sperava che fosse stato solo un sogno - doveva esserlo stato perché non poteva essere altrimenti. Eppure c'era una parte di lui che sperava, desiderava, moriva perché quella non fosse solo un'allucinazione, il parto della sua mente riscaldata da ormai troppo notti insonni. Con il pensiero tornava alla visione di lei contro la porta, e al biancore della sua pelle contro le cortine. Tornava agli anelli di fumo dei suoi boccoli portentosi, alle mani e alla carezza sottile contro il suo piede. Pensava a lei, ai suoi fianchi, alla pelle e a quel respiro - ahi, quanto malvagio! - che gli aveva istillato nelle ossa striscianti fremiti di cui non sospettava neppure l'esistenza.
- Sta veramente facendo tutto questo a me? E perché poi?
Lo ricordava, lo ricordava bene quel brivido che lo prendeva ogni volta che lei era vicina. Come se non esistesse più che lei, terribile, perfetta immagine di una dea guerriera. E lui cos'era in grado di fare?
Con un gesto nervoso della mano vuotò il bicchiere. Si alzò in piedi ricominciò a passeggiare. In fin dei conti, da qualche parte era ancora un uomo molto morigerato, e la logica gli dava un gran conforto.
- Vediamo, perché è venuta proprio da me? Che cosa vuole?
Ma più ci pensava più tutto gli sembrava assurdo. Talmente che ormai non credeva neanche più di dover distinguere tra la realtà di quell'apparizione e la menzogna.
- Che cosa può volere da me? Non certo la libertà, perché sa che mi farei uccidere, prima di rendergliela. Ho messo a fuoco mezza Parigi solo per avere il supremo piacere di vedermi sputare in faccia. Ho distrutto tutto quel che passava tra me e lei, e solamente per costringerla a morire di freddo e torturare me con lei, nell'agonia. Sa bene che preferirei vederla morta prima che fuori di qui, che posso tutto e tutto farò perché la mia Esmeralda non veda più la luce del sole, perché rimanga per sempre mia, nelle segrete. Fin tanto almeno che non sceglie me. Sa anche che potrei essere magnanimo, ma a una condizione irrimediabile che non penso sia pronta ad accettare. E allora cosa vuole da me? Perché è comparsa in tutta la sua gloria, solo per torturarmi?
E davvero questi erano pensieri di tortura, per il povero Giudice. Forse per la prima volta nella vita non riusciva a percepire nient'altro che gli ansiti confusi del suo cuore. La ragione si smarriva in quei meandri, e non vedeva che la danza di lei, non vedeva che le sue braccia magnifiche, la robusta consistenza del suo respiro vicino a suo.
- Che cosa ho fatto di male? - si chiese. E in quel momento suonò la mezzanotte lungo le oscure mura di pietra. Il Giudice, come se fosse un lugubre avvertimento, tirò indietro la veste di velluto, e si avviò alla sua camera da letto.

 
Sapeva di trovarla lì, ma si bloccò sulla porta, quando la vide. Il cuore in gola, le labbra confuse, nessuna forza nelle gambe.

La sua stanza era lunga e stretta, col grande letto dalle cortine nere al centro e poco altro. Una brocca, un panno di tela e qualche libro sparso sul pavimento. Lei era lì, in mezzo a quella roba mezzo macchiata dalla polvere dei secoli, e si lavava.

- Oh, meno male che sei arrivato, ecco. Mi aiuti a insaponarmi la schiena?
Lui si bloccò, come se avesse appena ricevuto un colpo in mezzo al petto. Lei era lì, tra il catino e il letto, semi affondata in una specie di tinozza che lui non ricordava neanche di avere. Era servita, anni prima, a lavarsi, ma ormai lui ne aveva perso memoria. Da lungo tempo aveva preso l'abitudine di farlo da solo, in uno stagno freddo poco distante da casa, e in piena notte. Estate e inverno.
- Allora? Mi aiuti o devo fare da sola? - tubò con la sua voce di colomba. Meno male che era distante. Meno male che era un sogno, si disse lui.
E' necessario descrivere quanto era incredibilmente bella? No, ovviamente. Era talmente abbagliato che appena notò le spalle scure e lucide, bagnate da un sottile strato di sapone. Poco più su i riccioli, grevi, le si incollavano al collo in larghe ciocche.
- Che cosa vuoi? - fu l'unica cosa che riuscì a dire, deglutendo. Con una mano si era aggrappato allo stipite e non riusciva a staccarsi dalla porta. Le gambe non riuscivano a muoversi. A sentire quella risposta lei rise, agitò i soliti campanelli d'argento.
- Non voglio niente, te l'ho detto. Solo che tu mi aiuti a lavarmi, se vuoi. Le carceri sono talmente sporche …
Solo allora lui trovò il coraggio di muovere una gamba, poi l'altra. Fu necessaria parecchia abnegazione, e tutto il suo autocontrollo. Si avvicinò, e con la mano prese la spugna che lei di schiena gli porgeva.
- Che cosa vuoi? - sussurrò di nuovo. Lei rise e poi fece un cenno con la testa. Incurvò la cervice quel tanto che bastava a protenderla a lui. Lui capì, chiuse gli occhi, e immerse la mano nell'acqua nera come il petrolio. Era tiepida, e le misteriose fiamme del fuoco si rifrangevano come animali danzanti in superficie.
Quando la spugna toccò la sua schiena, la gitana sussultò appena. Poi sospirò di piacere.
- Così va bene? - chiese lui, con una voce che non sapeva neanche di avere. Era cedevole, e incredibilmente esitante. Lei sorrise, scosse il capo e poi si abbandonò completamente all'acqua. Spuntò un ginocchio perfetto da quel nero.
- Che cosa vuoi? - chiese di nuovo lui, mentre la spugna percorreva le spalle con la perizia trattenuta dei miracoli o delle grandi esitazioni.
- Se tu continui a fare quello che fai, io ti dirò che cosa voglio. Ma devi farlo bene, come adesso. Non devi smettere neanche un secondo.
- No. Non smetto - annuì lui. In quel momento neanche il Re, neanche la tortura, neppure tutti i diavoli dell'inferno sarebbero riusciti nel proposito di farlo smettere. Fosse stato per lui avrebbe continuato in eterno.
- Bene - fece lei, allungandosi ancora un poco. La sua pelle profumava di mandorla e animale - Sono qui per proporti un affare.
- Prima non vuoi dirmi perché ti sei liberata? Come ci sei riuscita?
- No - rise lei - Ti basi sapere che anche le tue sbarre di ferro e i catenacci e i lucchetti possiedono chiavi che possono aprirli. O sistemi per essere aggirati. Io li conosco, io li conosco e non ho paura di usarli  - poi proseguì - Ma adesso torniamo a noi. Sono venuta perché da qualche notte faccio un sogno, un sogno strano, e voglio parlartene.
- Non sono mica un astrologo - mormorò lui, perso nella contemplazione della meccanica lentezza con cui lei dondolava il collo mentre parlava. Su quella gola perfetta avrebbe voluto marchiare ogni centimetro di fuoco, lasciare impressa la sua voce, annusare il suo stesso desiderio.
- Mi stai ascoltando?
- Cosa? Sì. Certo che sì.
- Bene. Ti dicevo che facci un sogno. Ci siamo io e te davanti a un grande prato di neve. Tutto intorno è campagna, sommersa da uno strato bianco e pesante. Io e te siamo davanti a tutto questo fermi dentro una carrozza. Tu mi tieni la mano destra, e io a te la sinistra. Tu sei vestito normalmente, con la tua lunga tunica scura. Sono io che sono diversa. Sono vestita come se andassi ad una festa, a un matrimonio. Ho un vestito rosso porpora indosso, e una corona di fiori sulla testa. Al collo porto un monile di rubino incastonato in due mani d'argento. Le mani sono come la mia e la tua. E poi, intorno a noi, che siamo immobili, comincia ad alzarsi una tempesta. Prima è solo vento, ma presto diventa così forte che tutto intorno trema, e si sconquassa e geme. Tutto tranne la nostra carrozza che resta immobile nella furia degli elementi. E poi arriva come una colonna d'aria che turbina in cielo, e ci solleva. E noi andiamo lontanissimo, e voliamo, e ogni cosa sotto di noi si allontana. Dalla tua bocca a quel punto escono delle parole che io non capisco. Poi io provo a avvicinarmi a te, ho paura. Voglio gettarmi tra le tue braccia, tremo. E tu mi guardi, le allarghi, ma in quell'attimo un fulmine colpisce la carrozza e la divide. Io precipito nel vuoto, e urlo, urlo. Ma tu ormai sei lontano. Mi sveglio pensando di essere morta. E ho la faccia inondata di lacrime.
Sorpreso dalle parole di lei, lui arrestò il moto della spugna per un istante.
- Cosa significa? - chiese.
Lei si voltò.
- Sono venuta a chiederlo a te.
- Ma … tu sei la gitana, non io. Non sono i sogni, le fantasie, le sciocchezze le vostre prime occupazioni? Non siete voi che siete soliti annebbiare la mente e il corpo con le strane dell'immaginazione?
Mentre faceva questo lungo discorso, lei scivolò dalle sue mani. Per sbaglio la spugna cadde in acqua, e per riprenderla, lui immerse il braccio. Trovò invece un corpo, e lei che gli sorrise.
- Non vorresti prima lavati anche tu? E' ancora tiepida.
Lui la guardò  allibito, ma prima che fosse in grado di dire qualcos'altro lei si era già alzata. Era nuda, nuda e splendente in tutta la sua gloria.
- Mi passeresti quell'asciugamano? - poi uscì senza dire una parola, sgocciolando dovunque. Il Giudice non sapeva se stava sognando. Atrocemente stordito dal fugace sogno di quella visione folgorante, non seppe fare altro che allungare meccanicamente un braccio alla tela che giaceva ai suoi piedi. La prese e la porse alla gitana.
- Oh, grazie - sorrise lei, cominciando a sfregarsi e a stropicciarsi davanti al fuoco - Fai pure. Quando hai finito riprenderemo il discorso.

 *

 

<Angolo Autrice: Carissimi tutti (in special modo gli affezionatissimi @marguerite90, @ClaudioFrollo, @Lhoss, @x_LucyLilSlytherin, @sawadee, @Ilien e la new entry @badge9136) che dire … sono contenta che il primo capitolo vi sia piaciuto! Mi fa sempre tantissimo piacere ricevere la vostre recensioni, soprattutto quando ci danno occasione di discutere su uno dei nostri pairing preferiti ^__^. Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento: il mistero si infittisce un pochino, continuiamo a non capire se Esmeralda sia un sogno oppure no, ma soprattutto continuano queste lunghissime scene-fiume in cui i Nostri si studiano da vicino/lontano come due strani animali selvatici. Personalmente, è sempre la parte che preferisco nelle FF dedicate a loro, e devo dire che ci rimango male quando non ci sono abbastanza parti descrittive come questa! Piuttosto spesso mi viene rimproverato di essere eccessivamente descrittiva, nelle mie storie, e molto poco narrativa. Temo che sia realmente un mio difetto, e sto tentando di correggerlo, sul serio … ma quando ho tra le mani questi due, personalmente, non capisco più niente. Così, come Tenerezza ha fatto forse sbadigliare tutti quelli a cui le lunghe riflessioni dell'Arcidiacono sembravano un po' troppo pesanti, così forse questa nuova FF risulterà un po' ostica a chi non è Frollo-holic come la sottoscritta. Ma tant'è: ogni tanto anche io mi prendo le mie piccole soddisfazioni! Insomma, tutto questo lungo preambolo per dirvi che, se ritenete che io stia esagerando con la lunghezza e i particolari di queste scene, magari non troppo funzionali alla trama, non avete che da farmi un fischio e io vedrò di accorciare. Se invece vi piacciono così come sono … beh, allora ancora meglio: Enjoy, e che Nostra Signora di Parigi abbia a proteggervi oggi come sempre! Un casto bacio, nel frattempo & in attesa di nuovi, interessanti sviluppi, Vostra Minimelania>

p.s. Per chi se lo fosse domandato, il titolo è un verso latino, liberamente riadattato, del poeta Titinio. Letteralmente significa 'Non è lecito ai Giudici riposarsi né di giorno né di notte'. Un bacione ancora, M.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Imprevisti ***


*

< Nec diu nec noctu

licet

Iudices quiescant >

*

3.

 

- Non capisco cosa significa tutto questo - sorrise il Giudice, posando con un gesto elegante la coppa di vino sul tavolo davanti a sé - Se vuoi capire cosa significa un sogno, devi rivolgerti a una chiromante, o a una strega. Sempre che te ne abbia lasciata qualcuna.
Stavano mangiando qualcosa, in piena notte, nelle cucine. Naturalmente, un'idea di Esmeralda. Fosse stato per il Giudice, mai e poi mai avrebbero lasciato quella stanza. Ma si sa, la grazia femminile finisce sempre per avere la meglio, in un modo o nell'altro. Anche Esmeralda alzò gli occhi dal piatto che stava coscienziosamente spolverando. Stufato di qualcosa di ottimo, sicuramente selvaggina. Roba che lei non vedeva neanche in un milione di anni.
- Allora, questo sogno? - fece lui.
Lei lo guardò, si sottecchi.
- In effetti non ti ho detto tutta la verità. Il sogno era solo una scusa.
- E per che cosa?
- Per raggiungerti e parlarti.
- Vuoi dire che il sogno non l'hai fatto veramente?
- Perché, adesso ti importa?
Lui retrocesse velocemente.
- Ovviamente no. E' solo che non mi piace essere ingannato.
Lei sospirò.
- L'ho fatto davvero. Il sogno, voglio dire. Ma il fatto è che volevo dirti un'altra cosa. Puoi ascoltarmi? Di quello possiamo occuparci dopo, se vuoi. E' importante, ma non quanto questo.
- Continui a non volermi dire come sei riuscita a liberarti. Questo potrebbe essere un modo per cominciare.
Lei sbuffò. Spostò il piatto, si avvicinò appena.
- Claude, ascoltami, è una cosa seria. Sei in pericolo.
Senza pensarci, involontariamente, gli aveva posato una mano sul braccio. Lui rimase un istante come di pietra. Avvertì un brivido, come una lieve puntura in su ogni vertebra della schiena, ma non si mosse. Poi, a bocca stretta:
- Avanti, allora - disse - Ti ascolto. Sentiamo quale terribile pericolo mi minaccia.
Lei fece di nuovo un sospiro, poi cominciò. Parve non cogliere l'ironia.
- Non ti dirò che questo mese passato in cella sia stato il più bello e pacifico che abbia mai passato. Diciamo solo che non sei proprio il tipo più premuroso con i propri ospiti …
- Questo solo perché tu non vuoi essere ragionevole. Ti avevo dato una scelta, lo sai bene.
- … oh, certo, sì. Una scelta. Certo. Ma adesso lasciamo perdere, ascolta. Dicevo che mentre passavo ore in cella completamente sprofondata nel buio ad ascoltare il rumore dei topi che rosicchiano la mia pagnotta ammuffita …
- Noi non serviamo pagnotte ammuffite. Avevo dato preciso ordine che il vitto per te fosse decente. Non sublime, ma per lo meno decente.
Esmeralda alzò gli occhi al cielo, in una comica pantomima di sorpresa.
- E allora  vuol dire che i tuoi ordini contano meno di zero. Perché ti dico che era ammuffita. Comunque, il punto è che la mia cella aveva un foro, non so come, nella parete di destra. Una cosa ributtante che di solito vomitava liquami. Beh, un giorno invece di vomitare liquami cominciano a venire fuori dei suoni. Io lì per lì non capisco cosa sono, ma poi mi avvicino e capisco che sono parole, e vengono dal piano di sopra. La cella ha un foro che evidentemente mette in comunicazione le due stanze. E chi ci sta al piano di sopra, sopra la mia cella?
Il Giudice aggrottò le sopracciglia.
- La stanza delle guardie, penso.
- Esattamente. E guardie erano, in effetti. Mi accosto e comincio a sentire cose che non ti piaceranno per niente.
- In che senso?
Lei fece una breve pausa, per scostare una ciocca di capelli e riportarla dietro l'orecchio. Poi continuò:
- C'erano due, e parlavano abbastanza piano da non farsi sentire. Ma io dal mio buco sentivo tutto. Uno di certo era il carceriere, lo riconosco perché balbetta. L'altro non lo so. Comunque parlavano … indovina di cosa?
Il Giudice arricciò un poco il labbro, indispettito. Prese di nuovo il calice, per bere.
- Sono qui per ascoltarlo dalle tue delicatissime … ehm, labbra.
- Stavano parlando di te - annunciò lei trionfante, puntandogli un dito contro il petto. Nella foga dimenticò il giuramento che mai, mai, lo avrebbe toccato - Dicevano che vogliono ucciderti.
Al Giudice andò il vino di traverso.
- Cosa? E perché mai dovrebbero fare una cosa del genere?
- Perché qualcuno li ha pagati, zuccone. Qualcuno che ti vuole morto.
- E tu? Ammesso che tutto questo sia vero, perché lo stai venendo a dire proprio a me? Perché dovrei fidarmi? Hai le prove?
Ma in cuor suo il Giudice era piuttosto turbato. Esmeralda lo capì.
- Ascolta bene, non mi riesce difficile immaginare che tu abbia dei nemici, molto nemici. In generale sei una persona odiosa, e lo dimostri anche adesso, mentre io sto cercando di salvarti la vita. Dico davvero, quei due parlavano di un certo tizio che li aveva contattati perché ti facessero fuori. Deve aver dato loro un sacco di grana.
- E chi sarebbe il tizio?
- Non ne ho la più pallida idea. Però so che i carcerieri continuano a discutere, perché sono già tre notti che li sento. Forse non sono del tutto convinti, o non hanno in mente nessun piano. Forse basta che li fai catturare e loro ti dicono tutto.
Per un istante sulle pallide labbra del Giudice passò un sorriso di interesse. Come quando si fa vedere un bel giocattolo a un bambino, ma poi considerazioni più stringenti ripresero il sopravvento.
- No. Impossibile. Non posso far arrestare due miei uomini solo per le accuse folli di una zingara. Intanto hai riconosciuto il carceriere ma non il suo complice, e poi chi mi dice che non te lo sia sognato?
- Non ti fidi di me?
- Neanche un po'.
Lei mise il broncio. Restarono qualche tempo in silenzio, lei a giocherellare con una mollica di pane, lui a far girare distrattamente il vino dentro al bicchiere.
- Ho un'idea - disse infine Esmeralda.
Lui alzò gli occhi.
- Sono tutto orecchi.
- E se ci appostassimo, insieme? Potresti venire domani notte nella cella, metterti in ascolto, con me. E allora vedresti se dico bugie!
Lui la fissò come se non capisse. Alla zingara aveva dato di volta il cervello? Forse la troppa prigione, si rimproverò. Come era anche solo immaginabile che lui accettasse una cosa del genere? Rinchiudersi in cella, con lei, per ascoltare dei mormorii da un buco? E poi c'era ancora - irrisolto - il motivo per cui lei lo faceva? Cos'era, carità cristiana? Si era per caso innamorata di lui? Ma andiamo! No, il fatto era che puzzava tutto di marcio. Davvero, tremendamente, di marcio.
- Allora? Cos'hai deciso, è una buona idea?
- Non penso proprio, mia cara. No. La mia risposta è che tu  forse dovresti …
Ma non fece in tempo a finire la frase. Esmeralda si alzò in piedi, indispettita, e andò verso la porta.
- Ah, è così? Non credi a quello che dico? Peggio per te, non ti interessa? Crepa!
Poi, con un fruscio della veste scomparve esattamente da dove era venuta. Stavolta il Giudice non si dette neanche il pensiero di chiedersi come avrebbe fatto a rientrare nelle segrete. Non governava più quella ragazza. Non aveva potere su di lei. Questo bisognava ricordarselo, e cercare di porvi rimedio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Ad Inferos ***


*

< Nec diu nec noctu

licet

Iudices quiescant >

 

*

4.

 

 

Idiota.
Idiota.
Idiota.

E' questo forse che ti ha insegnato l'abate Fulgenzio, quel sant'uomo che ti fece da maestro, a Parigi?
Ovviamente no.
Allora forse sono gli insegnamenti del buon Guidone di Guascogna, il diplomatico che ti ha insegnato tutto quello che sai di legge e di missioni segrete?
E' allora forse il tesoro di prudenza che suggesti dalle opere del Doctor Angelicus a averti indotto a questo saggio passo?
No.
E allora perché ti sei appena rintanato come un topo di fogna in queste fogne di segrete, col lume cieco e la veste rattrappita intorno alle gambe sperando che non si sporchi di liquami? Perché stasera, senza farti vedere, sei scivolato nelle stanze della Guardia e hai sfilato le chiavi del carcere?
La risposta era anche troppo ovvia, ed umiliante. Lo aveva fatto perché, alla fine, Claude Frollo poteva resistere a tutto, ma non a un'imbeccata della zingara. Aveva passato la notte intera, dopo che lei se ne era andata, a sperare che fosse stato solo un sogno, che fossero i brevi deliri di una ragazzina. Alla fine che diritto aveva, dopo avergli tolto il sonno per quel fuoco che atrocemente le serpeggiava addosso, di permettersi adesso anche il lusso di infilarsi in questioni strategiche? Davvero stava cercando di salvargli la vita o era solo una trappola? Non si fidava della zingara, no. E dunque era tanto più colpevole perché, ammantato di nero come un corvo, stava scendendo giù per le segrete, le stesse segrete piene zeppe di demoni che aveva fatto incarcerare, gente che non ci avrebbe messo un secondo a sporgersi anche solo dalle sbarre quel tanto che bastava a strangolarlo. I passaggi erano molto angusti, le sbarre larghe, disperazione e vendetta danno agli uomini una forza insospettabile.
Intrattenendosi in questi amabili pensieri, il Giudice schivò una pozzanghera, giunse a una svolta nel tunnel sotterraneo e si affacciò nella bruna umidiccia che sempre invadeva quelle stanze. Ricordava anche troppo bene il piacere sottile di alcune notti - troppo poche per la verità - in cui sollecito aveva strappato da alcune giovani bocche confessioni che ora sarebbe lungo dettagliare. Ricordava gli schiocchi della sferza su membra spossate di traditori, punizioni esemplari di omicidi, lamenti lugubri di streghe. Oh, le streghe. Sempre state le sue preferite, ma fino al giorno in cui Satana, davvero, non glie ne aveva messa una davanti. Per anni si era trattato di gettare in pasto al boia vecchie megere, di estorcere il Maligno con la sferza da membra tanto rugose che forse anche il Maligno ne avrebbe avuto schifo. Per anni aveva visto di Satana solo la faccia peggiore, ed in questo Dio con lui era stato clemente. Poi, un giorno, inaspettatamente, aveva deciso che era giunta l'ora di Claude Frollo. L'ora della prova suprema. Quindi invece di uno sdentato mucchio di ossa e stoppa, cenci e amuleti, sputi e galletti neri - oh, i galletti davano sempre un tocco di gustoso folklore alla commedia - gli aveva parato davanti la terribile bestia che gli antichi chiamavano Venere. Prima di allora il Giudice credeva di non aver mai visto bellezza, credeva di aver addomesticato gli occhi quel tanto che bastava perché fossero lapidi cieche alla grazia e all'amore. Oh, come si era sbagliato. Era bastato un refolo di vento, un'alzata di ciglia del Maligno, un tiepido lucore di gonnella e …
- … era ora che arrivassi, testone! - sussurrò Esmeralda dalle sbarre. Lo stava aspettando, molto ansiosa - Guarda che è un sacco che ti sto aspettando! Che c'è? Hai una faccia, ci sei? Cos'è, stai male?
Lui preferì soprassedere. Con un gesto elegante tirò fuori dalla manica una chiave, la fece scorrere senza fatica nella toppa, girò e richiuse subito alle sue spalle. Era arrivato alla porta, senza accorgersene. Ecco dov'era finito tutto il suo acume.
- Allora? - bisbigliò lei eccitatissima - Hai visto che alla fine avevo ragione?
Lui dovette trattenersi a forza dal bisbigliarle quello che pensava. Si andava da un formale 'Zitta, donna', a un più posato 'Taci!' fino a un decisamente troppo fiorito 'Che le fiamme dell'Inferno ti portino, che ci fai ancora giù dalla pira, strega?'. Ma ovviamente non aprì bocca. Lei gli stava addosso in modo intollerabile, e lo tirava verso un angolo fetido.
- Vieni, vieni qui, mettiti a sedere. Il buco è questo, riesci a vederlo?
A parte il fatto che quelle dannate mani, quelle mani sul velluto dell'abito erano la cosa più tormentosa del mondo per il loro essere più morbide assai, a parte il fatto che quell'angolo di cella era inondato di qualcosa di fluido che sembrava decisamente liquame, a parte il fetore generale e la tenaglia di fredda, soffocante umidità, il Giudice non vedeva proprio niente. E sì che era sempre stato un'aquila, in fatto di acume di occhi e mente.
- Dev'essere perché non sei abituato. A stare tanto rinchiusi ci si abitua.
Lui la fisso per un istante, nell'ombra. Era curva sopra la paglia, e cercava di fargli posto in qualche modo.
- Siediti, se ci sarà da aspettare tanto vale mettersi comodi.
Dopo un istante di esitazione, anche lui si accostò, e ripiegata la veste cercò di mettersi a sedere come poteva. Il freddo un basso gelava le ossa, e dalla parete colava dell'acqua.
- Esmeralda … fece dopo un certo tempo. Non hai freddo?
E subito si vergognò come un ladro (un idiota) di non aver pensato a portarle qualcosa, uno scialle, una coperta. Qualcosa che servisse a riscaldarla.
Ma lei fece cenno di no.
- Non preoccuparti, alla Corte non è che sia tanto meno freddo, di inverno.
A lui, nel petto, qualcosa si strinse. Probabilmente non era il cuore - perché come diceva un saggio, i Giudici hanno il cuore molto, molto lontano dal petto - ma di sicuro almeno lo stomaco, perché non seppe cosa rispondere. Ricordò solo che addosso, oltre la veste, aveva una specie di cappa. Se la sfilò, semplicemente, e glie la fece cadere sulle spalle senza dire nulla.
- Grazie - mormorò lei, e dopo poco - mi dispiace di avere detto che sei un zuccone. In effetti sei molto gentile … voglio dire, quando vuoi esserlo.
Lui sorrise nella penombra.
- Un giudice non può permettersi di esserlo sempre.
- Ma non può neanche permettersi di non esserlo.
- Che stai dicendo, zingara?
- Dico - fece lei muovendosi, e comunicando la sua dolce spinta alla paglia - Dico che bisogna anche stare attenti a non farsi troppo odiare. Altrimenti poi si finisce con un sacco di gente che trama alle tue spalle e non lo sai.
Frollo si risentì.
- Ora vediamo chi trama veramente alle mie spalle. E se trama.
Lei rise, di una risata come mille campanelli.
- Non mi credi ancora.
- Shhht! Vuoi che ci sentano? Vuoi forse farmi scoprire qui con te? Sarebbe per lo meno imbarazzante spiegare perché ci sono finito, non credi?
Lei rise di nuovo, più forte. Gli passò una mano sulla fronte, e poi scese, fino alla guancia. Si tenne un istante sospesa sul mento. Poi avvicinò le labbra di ciliegia e mormorò all'orecchio:
- Non lo sai che a questo piano sottoterra le celle sono tutte vuote? A parte me c'era soltanto un ladro che hanno impiccato ieri mattina, e comunque era talmente sordo che non ci avrebbe sentito neanche se ci fossimo messi ad urlare.
- E perché dovremmo urlare? - chiese lui, visibilmente estasiato dal contatto e ancor più interiormente irritato perché proprio non riusciva a trattenersi.
- Perché - rispose lei soffocando appena una risata - Sono sicura che io e te litigheremo cento volte prima che la nottata sia conclusa.
- Questo soltanto se vuoi che sia così. Io sono … molto ben disposto alla pace. Non voglio guerre con te, mia cara. Seguimi e vivremo in una pace perpetua.
- Una pace che hai dettato tu. Una pace che mi costringerebbe nel tuo letto.
Lui sospirò, pianissimo. Era vero, lui la voleva nel suo letto, questo era il punto. La voleva talmente, anche adesso, che aveva messo su tutta la messa in scena, aveva finto con se stesso di credere ai suoi sciocchi vaneggiamenti di assassinio solo per poter riprovare il brivido di averla tanto vicina …
- Allora, dimmi la verità. Solo questo. Il probo Giudice sarebbe pronto a scarcerare la strega, a liberarla, a dimenticare tutti i suoi peccati … solamente per averla nel suo letto?
Scivolò piano ancora più vicino. Era quasi intollerabilmente bella così svestita, nella penombra, con la lucida cascata d'ali di corvo dei capelli e la pesante palandrana avvolta intorno al biancore delle scapole …
- Allora?
Li la fissò, quasi senza fiato. Se il quel momento gli avesse chiesto di gridare che era il figlio di una scimmia e di un quadrupede a scelta tra tutti quelli che popolano il mondo mistico del Prete Giovanni, lui avrebbe giurato che sì, lui era figlio della scimmia e del quadrupede.
- Allora? - sussurrò lei a un centimetro da lui.
- Sì - mormorò lui, annichilito, distrutto. Liquida cera di desiderio per lei. Lei si piegò appena un poco, lasciando che le loro labbra si sfiorassero.
- Che bella cosa sentirti sincero … che bella cosa … oh!
Il Giudice non aveva resistito, non poteva. L'aveva presa per la vita, ghermita, l'aveva stesa sulla paglia prima che lei potesse anche solo respirare.
- Mi vuoi? - fece - Dimmi che mi vuoi.
Lei annuì, impercettibilmente. Sentì il peso del corpo di lui farsi pressante, e nell'oscurità capì che stava per succedere qualcosa che poi sarebbe stato irreparabile.
Il fatto era che lo voleva anche lei, solo che non l'aveva saputo fino al momento esatto in cui non l'aveva sentito contro di sé.

 

 


Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Liquami e voci ***


Nec Noctu 5

*

< Nec diu nec noctu

licet

Iudices quiescant >

 

*

5.




Naturalmente, come in ogni commedia che si rispetti, i due furono interrotti molto prima che il Giudice riuscisse anche solo a fare un decimo di quel che si era proposto. Il che era, nell'ordine: strapparele via la palandrana, sciogliere i lacci, sfilare  quel maledetto corpetto e ...

Ma come dicevamo, i due furono interrotti. Da dei sussurri, per la precisione. Venivano dal buco di fogna da cui Esmeralda aveva già detto di averli sentiti venire. E erano anche abbastanza distinti. Il Giudice si tirò su, ansando. Fissò il buco, poi fissò lei.
- Oh, al diavolo! - disse, e provò a rituffare la testa nell'interessantissima materia che aveva appena cominciato a approfindire. Ma fu lei a tirarsi su di scatto, rossa come una ciliegia (anche nel buio, il suo magnifico carnato radiava). Si liberò dalla stretta di lui come se fosse niente più che un refolo di vento. Lui, mezzo stordito dal profumo di tutto quel paradiso terrestre, non riuscì a fare nient'altro che aprire la bocca. E poi richiuderla. Lei si posò un dito sulle labbra e si avvicinò al buco nero, carponi.
- D-doveva essere per s-stanotte, r-ricordi? - fece una voce balbettante, roca.
- Doveva essere per questa notte sì. Peccato che il capo abbia detto che dobbiamo ancora aspettare.
- A-aspettare c-cosa? N-no siamo g-già a b-buon punto c-col V-vecchio B-barbagianni?
E rise forte. L'altro dovette prendersela a male.
- Stai zitto, imbecille! Vuoi farci prendere?
Il Giudice si avvicinò ad Esmeralda. Per un secondo gli parve di intravedere un sorriso sulle sue belle labbra.
- M-ma c-chi v-vuoi che ci s-senta, c-cretino? I-il B-barpagianni dorme nel s-suo l-letto, tra d-due guanciali belli imbottiti! Il capo  ha d-detto che prima d-dobbiamo occuparci di l-lui. Poi l-lei. Un bel colpo secco, ed è fatta.
Esmeralda si voltò verso il Giudice. Adesso lui era teso, affilato. Ne intuiva il profilo di nibbio contro il fioco chiarore che anche in quella parte di fogna disgraziata filtrava. Forse era lo stesso chiarore di luna a cui quei due farabutti tramavano qualche piano più sopra.
- Hai sentito? - fece Esmeralda, a voce bassissima - Parlano di te.
Lui le lanciò un'occhiata cattiva. Adesso era anche lui in ginocchio, probabilmente col liquame fetido che gli imbrattava le caviglie. Ringraziò di avere indosso del panno così spesso che ci sarebbero voluti minuti prima di cominciaere a sentire qualcosa. Poi ricordò che quel panno pesante era quasi stato sul punto di toglierlo. E una fitta inquietante andò a conficcarglisi nel fianco. Che supplizio che era la sua povera vita! Ad ogni modo quei due continuavano a complottare qualcosa, era meglio ascoltarli. Anche perché non era affatto sicuro di essere lui, il Vecchio Barbagianni.
- Oh, sì che lo sei! - fece Esmeralda, leggendogli il pensiero. Lui le assestò una gomitata.
- Il C-capitano ha d-detto che prima v-vuol prendere la b-bella. Dice che ha una c-casetta, in c-campagna. D-di lì di certo non lo s-sente n-nessuno. Può fare q-quello che gli p-pare, e poi ...
Qui Esmeralda si lasciò sfuggire qualcosa di simile a un gemito.
- E tu saresti la bella? - commentò sarcasticamente il Giudice. Lei fece per aprire la bocca. Lui sollevò una mano in aria, le fece cenno di tacere.
- ... e poi lo u-uccideremo nel suo l-letto. Quel p-pallone g-gonfiato.
Adesso rise anche quell'altro. Poi si sentì come rumore di bicchieri che cozzano.
- Quei due imbecilli stanno brindando alla nostra? - fece il Giudice, alzandosi furioso. E in uno scatto delle sue lunghe gambe era già alla porta. Ma Esmeralda, la bella Esmeralda, lo trattenne con una mano di ferro. Il Giudice si voltò verso di lei.
- Devo salire e fare in modo che quei due abbiamo una lezione. Adesso.
- E vuoi lasciarmi qui?
Lui alzò un sopracciglio.
- Hai paura?
- Secondo te?
- Tornerò subito.
A quel punto lei fece qualcosa che lui non si aspettava. Scoppiò a ridere. Prima leggera, poi sempre più forte, che lui dovette affrettarsi a soffocare perché quella sciocchina non li rovinasse tutti e due. Che succedeva se li trovavano lì? Solo che per farlo, soffocare quel riso, dovette metterle una mano intorno alla bocca. O, beate labbra carnose! O meravigliosi petali ...
- Ascolta - sussurrò lei, mentre ancora non riusciva a smettere i singhiozzi. Gli prese la mano e gentilmente se la tolse dalla bocca - Hai capito che sta succedendo?
- Qualcuno che loro chiamano il capo minaccerebbe di uccidermi. Adesso vado su e ...
- Non hai capito. Il Capitano. Quel Capitano.
- Hanno detto Capo.
- Sì, ma una volta il tizio che balbetta si è sbagliato. Ha detto Capitano. E io penso di sapere di chi parlano.
- E di chi, di grazia?
Lei lo fissò, con i suoi lunghi occhi dardeggianti.
- Di ... di una persona. Di un idiota. Di uno che ... ecco, insomma: stanno parlando di Febo.
Lui la guardò come si guarda un gattino impegolato nella stoppa. Con qualche pietosa sufficienza. Poi trasse un sospiro.
- Non so di chi parli.
- Lo sai benissimo, invece! - e nella foga lei gli strinse il braccio - Lui è ... lui è ... un mostro.
- Ascolta, zingara. Ascolta bene, non lo ripeterò. Il Capitano Febo di Chateaupers ... il Signore di Chateaupers è un soldato di provatissima fiducia. Un ufficiale come ce ne sono pochissimi. Un servitore che oserei ...
- Ascolta!
E lo tirò di nuovo verso il buco. Adesso c'era una terza voce sopra le due di prima. Era una voce irosa, e soprattutto era una voce conosciuta.
- Dov'è? Dov'è? Vi avevo detto di controllarlo! Nel suo letto non c'è, e non è nemmeno nel suo studio, e in biblioteca! Vi avevo detto di controllarlo, accidenti!
I due borbottavano qualcosa.
- Che si sia accorto, eh, imbecilli?
- Ma no, Signore, capo ... noi ... aspetti un attimo, forse è con ...
- La zingara. Dov'è rinchiusa quella maledetta?
Il Giudice era sbiancato. Quella davvero era la voce di Febo!
Esmeralda non fece in tempoi a parlare. Si sentivano dei passi sulle scale.
Passi di uomini, in corsa, che scendevano.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Per aspera ***


*

< Nec diu nec noctu

licet

Iudices quiescant >

 

*

6.





- Corri, corri!
- Ma sto correndo!
- E allora non corri abbastanza veloce!
Il Giudice aveva la sottana alle anche, Esmeralda correva come se il fuoco stesse esplodendo dietro di loro. Intorno, sopra, si sentivano voci. Voce che facevano eco dovunque. Voci pronte a distruggerli.
- Se pesco quell'imbecille giuro che ...
- Non è il momento di parlare, scappa!
Esmeralda tremava e aveva il fiatone, ma sapeva che se si fossero fermati sarebbe stata la fine. Dopo avrebbero avuto tutto il tempo per parlare. Dopo che fossero usciti di lì, e ...
- Da che parte andiamo? - fece il Giudice, artigliandola per un braccio. E la tirò indietro in una nicchia - Shht! Senti, arrivano.
In fondo al corridoio (un budello stretto di topi, buio e marciume), si sentiva uno sferragliare di armi.
- Voi andate di qua! Noi qui, con me, da questa parte!
- Ma quanti cavolo sono? - fece il Giudice. E per la prima volta Esmeralda gli sentì dire una cosa men che decente. Si voltò verso di lui. Era buio, ma nel gocciolio delle pareti riusciva a sentire il rumore del suo respiro.
- Ti tirerò fuori di qui. Non preoccuparti - e gli prese una mano.
- Allora adesso dormo tranquillo - fece lui. Girò la testa dall'altra parte. Era sudato, e non era abituato a sudare. Il naso lungo, affilato, tagliava in due una lama di luce, più in alto. Esmeralda alzò la testa.
- Aspetta.
Si sentirono altri passi, altri suoni. Là, nella nicchia, tutto era buio.-
- Sai se ci sono grate qui? - sussurrò lei. E continuava a guardare per aria. Il lucore era tenue, però ...
Il Giudice fece un sospiro di impazienza.
- Siamo sotto le fogne di Parigi. Vicino al molo della Senna, ma ...
In quel momento una torcia schiarì a giorno il fondo del corridoio. Un'ombra enorme fu sulla parete di fronte.
- Da questa parte, Michael! Non lo vedi che qui non c'è nessuno? Laggiù si va soltanto ...
Ma l'ombra esitò per un istante. Sembrò alzare di più la torcia.
- Michael! Il Capitano ci chiama!
E chiunque fosse stato quel mostro, dovette andarsene. Esmeralda tirò un sospiro di sollievo. Le voci si allontanavano.
- Allora, andiamo?
- Dove? - fece lui.
Lei indicò qualcosa davanti a loro. 
- Per di qua. Sono sicura. Sgattaiolare via è la mia specialità.
Il Giudice fece un sospiro molto lungo. Poi si rimboccò la sottana e si decise a seguirla.
Come aveva già detto una volta, il liquame alla caviglia non era esattamente la cosa più piacevole di questo mondo. Mentre andavano per stretti budelli che diventavano sempre più stretti, mentre attraversavano chinati strane porte che avevano archetti pieni di muffa, mentre si addentavano nei meandri di quel vasto e sconfinato nulla che era il Palazzo di Giustizia visto da sotto, il Giudice cominciava a pensare che non sarebbe mai finita. E rimpiangeva il suo letto. E le sue morbide coperte, e anche ... beh ... e anche qualcosa dentro quelle coperte. Alzò la testa per guardare la zingara. Teneva gli occhi fissi in alto e ogni tanto mormorava qualcosa.
- Ci siamo persi? - chiese lui. Come se passare il resto della vita in quei meandri fosse tutto quel che si aspettava. Ma Esmeralda si girò con le labbra bagnate da un sorriso spettrale. Lui per un istante ne ebbe paura. Ma era la luce della luna.
- Lo vedi? - chiese indicandogli con un dito sottile qualcosa che proveniva dall'altro - Quella è una grata, ce ne sono molte. Vedi che cosa filtra da su?
- Luce.
- Appunto. Vuol dire che è aperto: da qualche parte deve esserci anche il modo di uscire da lì.
- Sono soltanto prese d'aria, probabilmente. Dubito che chi ha costruito i sotterranei abbia pensato a un modo così comodo per far fuggire la gente.
Esmeralda lo guardò con disappunto.
- Ma devi sempre rovinarmi tutto?
E prima che lui potesse ribattere era di nuovo avanti. Camminava più veloce, adesso, e un paio di volte ad una svolta il Giudice tenette di perderla. Non che avesse paura a rimanere da solo, ma ... a un certo punto, dopo circa un centinaio di metri Esmeralda si fermò di nuovo. Erano davanti a una nicchia di pietra, esattamente come quella in cui si erano riparati mezz'ora prima.
- La vedi anche tu? Qui la luce è più forte.
E il Giudice non fece in tempo ad alzare il suo augusto naso che lei stava facendo qualcosa. Armeggiava con la sua gonna. Si stava anzi, precisamente, spogliando.
- Ma cosa fai?
- Adesso te lo faccio vedere - e senza tante cerimonie finì di fare quello che stava facendo. Si tolse anche la cintura e poco dopo era davanti a lui, in camicia, corsetto e niente altro. Il Giudice voltò pudicamente la testa.
- Reggi qui, avanti.
E gli mollò tra le mani il fagotto di gonna e tutto. Lui aprì la bocca, ma lei si stava già arrampicando. Aveva proteso le mani avanti, e chissà come sembrava aver trovato un appiglio. I piccoli piedi agili e nudi scavavano la pietra. Avevano trovato una lieve increspatura tra le pietre. Esmeralda si dette lo slancio, e dopo qualche secondo era almeno ad un metro da terra. Le belle braccia tremavano per lo sforzo.
- Avanti! Che cosa aspetti ad aiutarmi?
Il Giudice le fu sotto. Reggeva ancora in mano il fagotto che - lo testimonia Iddio - profumava come un cesto di fiori. Puzzava anche, contemporaneamente, di qualcosa di selvatico e osceno. E anche per questo, o forse proprio per questo, gli dava una leggera vertigine.
- Stai qui un altro po' a fissarmi o mi aiuti?
Lui si fece sotto di lei. Guardò gli stracci, poi guardò il piedino che aveva a cinque centimetri dal viso. Alla fine, con una specie di rantolo, riuscì alla meglio a sistemarsi in spalla la gonna e tutto. Non voleva sporcarla. Poi si chinò sotto il piede, spalle al muro. Piegò le ginocchia.
- Al mio tre, salta.
Esmeralda fece come diceva. Quando il Giudice ebbe inarcato la schiena e poi di nuovo si raddrizzò di colpo, dal basso lei ebbe la spinta necessaria per riuscire a fare qualcosa. Quel che voleva, perché si sentì come un rumore metallico.
- Lo sapevo che c'era!
- Cosa?
- La grata!
- Sì, ma adesso? Sarà chiusissima, sarà ...
Qualcosa, con un rumore metallico, cadde a terra.
Poco dopo un altro.
- Ma che cos'è? - fece lui, e stava quasi per chinarsi, che lei urlò: - Ehi! Mi vuoi ammazzare?
Il Giudice si raddrizzò.
- Ma cosa ... sono?
Lei rise, da sopra.
- Aspetta - prese un respiro e dopo qualche secondo anche un terzo coso metallico cadde per terra.
- Et voilà! - fece lei. Adesso spingi. E il Giudice, che era quasi allo stremo, spinse per l'ultima volta. Fu un istante, e poi il peso che aveva sopra sparì. La sentì volare via, come si fosse volatilizzata.
- Ma cosa ...
- Ganci! - fece lei. E un istante dopo c'era qualcosa che pendeva giù dalla penombra in cui era sparita.
- Una catena? - fece il Giudice, incredulo.
- Adesso appigliati e sali anche tu!
Non credeva sarebbe stato possibile. Lui era un Giudice, che diamine. Il Giudice! Non avrebbe mai potuto neanche solo pensare di ...
- Allora, mio caro, vogliamo stare qui tutta la notte?
Il Giudice guardò con odio in alto. Adesso che gli occhi gli si abituavano poteva intuire un foro.
- Avanti!
Fece come Esmeralda gli diceva. Con qualche sforzo si rimboccò la sottana e fece attenzione anche anche quella di lei fosse legata bene (al suo collo): Per qualche motivo non voleva che si sporcasse. E non voleva neanche che essere umano potesse mai sentire l'odore che lui stava sentendo adesso. Poi, un po' rincuorato un po' avvilito dal turbine di cose che in quell'ultima ora avevano scosso il suo povero cervello, si strinse le mani una all'altra, fece schioccare le nocche, se le sfregò.
- Forse è' il caso che gli anelli li togli.
Lui guardò male, in aria. Ma lei gli stava tendendo una mano.
- Avanti, dalli a me. Non te li frego. Fanno malissimo se cadi all'improvviso.
Lui sospirò, e se li tolse. Poteva vedere la mano tesa di lei. Se fosse morto, tanto valeva che ...
- Avanti!
Il Giudice fissò su, nelle tenebre. Stava andando verso l'ignoto, stava uscendo da casa sua in quel modo incredibile. Stava andando verso la rovina certa, e scappava come un profugo, nella notte ...
- Avanti, su! Non abbiamo tutta la notte. Prendi la mano.
Il Giudice l'afferrò. Era morbida e calda. Sentì come una forza nel cuore. E spinse.

Qualche istante dopo, due figure emersero da un buco nella notte puzzolente del lungo senna. C'era odore di gelsomini nell'aria, ma anche di fango, e barche marce e tutta una serie di cose terribili.
- Sei ancora tutto intero? - si voltò a chiedere lei. Lui aprì la bocca. Stava per rispondere. Ma all'improvviso quattro braccia fortissime lo presero su, per le ascelle. Dopo di che calò un colpo.
Il Giudice smise di pensare, e di sentire.
Alla fine dovevano averli trovati.


Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Buio ***


Amarilli, mia bella,
Non credi, o del mio cor dolce desio,
D'esser tu l'amor mio?
Credilo pur, e se timor t'assale,
Dubitar non ti vale.
Aprimi il petto e vedrai scritto in core:
Amarilli, Amarilli, Amarilli è il mio amore.


*

< Nec diu nec noctu

licet

Iudices quiescant >

 

*

7.

Buio.

Mal. Di. Testa.

Ci aveva messo un po' a capirlo, che quel trambusto di suoni e colori era dentro di lui.
I suoni erano tamburi. I colori rosso vermiglio, arancio acceso, viola.
Aprì gli occhi, e invece era tutto nero. Una fitta gli trapassò la testa come un laccio di fuoco. Come la sferza della frusta che un migliaio di volte aveva usato. Ricordava che una volta, entrando nella sua stanza, sua madre lo aveva guardato.
- Che cosa è questa, Claude?
- Niente, Maman. Solo una cosa che mi serve, ogni tanto.
Sua madre, che si chiamava Luz, ed era una donna per certi versi ben più strana di lui, lo aveva guardato coi suoi occhi di ghiaccio. Era stata una donna bellissima, e lo sarebbe stata ancora adesso se un tempo tanto tiranno quanto ingannatore non l'avesse ghermita già da tanti, tantissimi anni.
- Solo una cosa che mi serve, Maman.
Ed era vero. Aveva cominciato a frustarsi quando aveva poco più di dieci anni. Un giorno, tornando da un gioco violento con certi ragazzini di strada, aveva scoperto che il sangue può essere grandemente piacevole. Era rimasto a fissare nello specchio il rivolo purpureo che scendeva dal suo ginocchio. E ricordava ancora adesso di aver pensato che nulla è più puro del sangue, più bello e immacolato del sottile fiume di ferro vitale che attraversa ognuno di no.
E adesso, tutto quel sangue, lo sentiva come coagulato alla testa. Provò a muovere un braccio: ne era incapace. Provò a muoverne un altro. Niente.
Doveva essere incatenato da qualche oscura parte. Il Capitano Phoebus. Quel maledetto, pensò. E poi, subito dopo, ma perché non mi ha ucciso? In fin dei conti sono ancora una persona importante. Non penserà davvero che io stia ... che non mi cerchino ... che non ...
Ma di nuovo una fitta gli trapassò la testa. Esmeralda ... faceva male ... dove avranno messo Esmeralda?
E con la spalla dette un altro strattone. Sentì soltanto qualcosa di freddo che gli lacerava le carni. E rumor di catene. Ma dove mai erano finiti?
- Esmeralda? - fece con la voce ancora impastata.
- Esmeralda?
Gli rispose solo l'eco.
- Esmeralda!
E adesso nella sua voce c'era come una nota di panico. Come la prima volta che aveva fatto sfilare la sferza sulla sua schiena. E sentendo il sibilo, in aria, aveva chiuso gli occhi. Ma adesso, dove diavolo era Esmeralda?
Idiota. Sei soltanto un idiota.
Chi sei?
La tua vocina interiore. E tu sei soltanto un imbecille. Lei si fidava di te, e tu, tu, caro Giudice, che cosa hai fatto? Non sei riuscito neanche a proteggerla. Lei si fidava di te, e tu l'hai portata a morte certa, nelle braccia di quel disgraziato!
Il Giudice pensò al capitano, alla neanche troppo celata lascivia con cui guardava la zingara. Possibile che avesse fatto tutto questo solo per impossessarsi di lei? Che avesse intuito l'amore che lo legava a quella donna-demonio, e che avesse preferito far fuori il suo rivale?
- Oh, ma andiamo, questo è ridicolo! - borbottò all'aria nera, d'intorno. E stavolta gli venne un capogiro, perché aveva parlato troppo forte. Si sentiva davvero debolissimo, quasi al limite della consunzione.
Ma da quanto tempo sono qui? Da quanto tempo non mi danno da bere?
Aguzzando l'orecchio sentì come il rumore di una goccia stillante. Sentiva umido dietro la schiena. Doveva essere in un sotterraneo.
- Ma da quanto tempo sono qui? Fuori è giorno o notte? E il sole? Dov'è finito il sole?
Piegando la testa sotto una nuova fitta, si accorse che qualcosa di bagnato gli attraversava una guancia.
- E' sangue? Quando mi hanno colpito ...
Ma non sentiva dolore alla fronte. Non sentiva il bruciore del taglio, no ... si rifiutò di pensare che quella fosse una lacrima.
- Che cosa ho fatto di male, per essere qui?
E nel fulgore della notte una voce, una voce dolcissima rispose.
Tutte le cose dunque che volete che gli uomini vi facciano, anche voi dovete similmente farle loro. Matteo 7.12, mi pare. Ma tu dovresti conoscerlo.
- Chi sei? - fece lui, scattando in piedi. Ma aveva dimenticato di aver le catene. Il movimento gli valse solo un'insostenibile dolore e uno strappo lancinante alla spalla. Tornò a sedere mordendosi a sangue il labbro pur di non gemere.
- Chi sono? - sorrise la voce. E anche se lui sapeva che una voce non sorride, che tutto intorno a lui era buio, una speranza nacque nel suo cuore.
- Sei Esmeralda? Sei incatenata con me?
Sentì un rumore di catene, poi di passi. Se era anche lei incatenata, lo era più liberamente. Poteva muoversi, cosa che a lui non era data di fare.
La voce rise, di nuovo.
- No, caro. Non sono affatto incatenata. Vedi? Mi poso muovere.
Claude sentì un movimento veloce, e poi qualcosa che era accanto a lui. Era morbida. Era gentile, come Esmeralda. Però non era lei, era sicuro.
Un refolo di capelli leggeri come il vento gli sfiorò la guancia.
- La tua Esmeralda è al sicuro, tu non temere, caro Giudice.
- E tu? E tu allora chi sei?
La voce rise.
- Una che si è stancata di sentirti fare tante domande. Non sei affatto prigioniero di Phoebus, se questo ti consola. E adesso - e qui i capelli scomparvero - Adesso avrei ben altro da fare.
- No! Aspetta! Non te ne andare?
La donna doveva già essersi allontanata quel tanto che bastava per farla tornare indietro.
- Non lasciarmi qui solo, ti prego! Dimmi almeno dov'è Esmeralda!
La voce fece come un breve sospiro.
- La ami molto, non è vero?
Il silenzio avvolse la mente del Giudice. Non doveva parlare con estranei.
Con gente che potrebbe averla già uccisa.
- Voglio sapere dove è Esmeralda!
Fece, cercando di raggranellare nella voce tutta quel po' di autorità che gli restava. Non era molto facile essendo completamente incatenato, spalle al muro fetido, a terra. E poi, neanche un minuto prima, quella lacrima ... pregò, stringendo gli occhi, che nessuno dovesse mai accorgersi che lui, lui, proprio lui, aveva pianto.
- Vedo che ti interessi di lei. Allora è vero quello che dicono. Bene, almeno - e qui la voce rise - vedremo di essere un po' più clementi. Ma adesso scusa, devo andare. Magari dopo tornerò a farti bello. Ci sono un sacco di cose da fare, oggi, e poi tu sarai processato. Non vorrai mica presentati male al tuo processo,. vero Giudice?
Claude sbatté le palpebre, e poi, nel martellare delle sue tempie vide quella che era l'evidenza.
Uno scherzo. Era solamente uno scherzo.
- Non penso proprio, caro il mio Giudice - fece la voce. E poi lui sentì il cigolio di una serratura che si apriva.
- No! Aspetta ...
Ma la porta si era già richiusa. Neanche una lama di luce era riuscita a bucare il nero intorno a lui.
Chiuse gli occhi. Ora la goccia, da qualche parte laggiù dentro il buio, era il suo nome.


Esmeralda.
Luce, capelli, vento e sole.
Amore.

Esmeralda.
Gioia, fulgore, penitenza.
Strazio.

Esmeralda.
Cosa ti ho fatto?
Perché siamo qui?

Chiuse gli occhi, il dolore alla testa ronzava come un alveare. Aveva sete, tra poco non avrebbe più avuto la forza di pensare. Ma un ultimo pensiero, ancora, e ancora ...

Esmeralda.
Amore mio.

Perdonami.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Nella tana del Duca ***


*


< Nec diu nec noctu

licet

Iudices quiescant >
 
*
8.



 
- Allora, Giudice, sei pronto a morire?
Un tonfo sordo, poi qualcosa di grosso che si spingeva nella cella. Un secondo e l'aria asfittica intorno a lui si riempì di un lezzo orrendo. Cipolla, probabilmente mal digerita.
Il Giudice aprì gli occhi, e sulle prime non vide niente. Poi qualche cosa che si muoveva. Fu un attimo, poi la massa informe, davanti a lui, gli allungò un calcio.
- Allora, impiastro, ti muovi si o no?
Claude Frollo, coperto di graffi, immerso a metà nel liquame, strattonò la catena.
Provò a muoversi, con l'unico risultato che il ferro pesante gli penetrò più nelle carni. Il collo era ormai solo una fascio pulsante e martoriato. Il tizio lo strattonò.
- Allora, andiamo? - Adesso il fiato doveva essere a un centimetro, perché nell'esplosione di lame dei suoi occhi, vedeva nero. Ombra. E sentiva l'odore quasi fino a svenire.
Il Giudice scattò, con i denti. Ma il tizio aprì semplicemente una mano. Doveva essere un gigante, perché Frollo sentì due dita - due dita - una di qua e una di là dalla testa. Puzzavano orribilmente di qualcosa cui non voleva neanche pensare. Sembrava spazzatura marcita, topo di fogna e cavolo putrido.
- Se adesso hai finito di far lo scemo, adesso vieni con me.
- Dove mi porti?
- Questi non sono affari tuoi, ficcanaso.
E due mani calarono sopra di lui, scostarono il suo povero corpo, girarono intorno alle costole. Il suoi occhi cominciavano un poco ad abituarsi alla luce.
- Chi sei? - biascicò al  carceriere, che non riusciva a mettere a fuoco - Dove sono?
Aveva la gola in fiamme. Quello intanto era riuscito a spostare le catene (dovevano pesare almeno una tonnellata), e adesso tentava il difficile compito di tirarlo in piedi. Ma il fatto era che Claude Frollo aveva perso la sensibilità a entrambe gambe. Il colosso dovette alzarlo di peso e issarselo in spalla, di traverso.
- Questo è troppo! - grido Frollo. Ma l'unica cosa che ottenne fu strappare un singhiozzo al carceriere.
- Ma lo sai che sei proprio uno spasso? Cosa mi fai se non ti lascio andare? Mi fai frustare dalle signorine che tieni come guardie del corpo?
- La mia Guardia, il Capitano Phoebus …
- E' stato molto gentile con noi. Non ci saremmo riusciti, altrimenti. Ma meno male che …
- Lasciami scendere, animale!
Il tizio, ignorandolo, prese la porta.
- Attento alla testa, Signoria.
Passarono in una sorta di stretto corridoio. Adesso c'era una parvenza di luce, e Frollo poteva vedere per bene in che razza di posto lo avevano messo: un lungo sotterraneo muffito, topi dovunque, pozze di marcio. Niente da invidiare alle sue segrete.
- Tenete altra gente rinchiusa qui? - chiese cercando di registrare le coordinate, la posizione, qualcosa.
Il carceriere fece un saltello, Claude Frollo sobbalzò insieme a lui.
- Un topo morto - fece il carceriere. E disgustosamente, Claude Frollo, vide qualcosa sotto di lui. Un sacco nero, della grandezza di un piccolo cane, completamente sventrato. Certe cosette ci si muovevano sopra. Poco mancò che vomitasse.
- Andiamo, le vostre carceri non sono peggiori.
- Ah, ci sei stato? - fece Claude. Lui rise. E prese un corridoio a sinistra. C'era una fila stretta di scale che si snodava dentro a un muro fetido. Il carceriere cominciò a salire. Ad ogni passo prendeva un bel respiro.
- Ci sono stato, chiedi? No. Ci sono stati che conosco, però. Midicono che è un posto piacevole ... quando hai fretta di morire .. da cane.
Il Giudice non poté impedirsi che un sorrisetto gli alleggiasse sul volto.
- La nostra fama si spande.
- Anche la nostra - fece il carceriere. Poi si fermò - Lo vedrai tra poco quanto possiamo essere famosi. Riconoscenti.
Erano arrivati in cima a una scala.
Il carceriere prese da una tasca qualcosa che sembrava un altro topo sventrato. Ma questa volta era una bisaccia. Ci cacciò dentro le mani. Estrasse un lungo mazzo di chiavi. Le chiavi brillavano in modo inquietante nella penombra.
- E adesso stai fermo.
Prima che Claude avesse il tempo di fiatare, il carceriere lo depose a terra. Poi lo tirò su come un bambolotto. Claude Frollo era abituato a tutto, ma quando si trovò faccia a faccia con lui, non si sa come non si mise ad urlare. La faccia del gigante era una maschera, una poltiglia di carne e cicatrici che correvano dovunque, biancastre, come un groviglio di vermi impazziti.
- Questo è per Miguel, questo per Jago - fece mollandogli, in rapida successione, due cazzotti dritti alle costole - Questo per Jona e questo per il Duca. E stai contento che non te ne do altri. Ce ne sarebbero, ma ho finito le scorte. Questo è l'ultimo.
E come un fulmine fece calare sulla sua guancia almeno dieci chili di mano. 
Qualcosa esplose dentro Claude Frollo. Sentì la testa girargli, il cuore fare come una specie di rantolo. Sentì i polmoni che gli si accartocciavano. E poi più niente. Si accasciò a terra.
- Andiamo - fece il carceriere, e un lungo sorriso si dipinse sopra il suo volto - pensavo fossi di una pasta più forte, Giudice.
Frollo provò a dire qualcosa, ma aveva la bocca piena amaro. Sangue.
- Tu spera solo che esca morto di qui - sibilò piano, come se ogni sillaba gli costasse una fatica impossibile - Tu spera solo che esca morto di qui, perché se esco vivo ...
Ma il carceriere rise. Gli allungò un ultimo, ben calcolato calcio. Claude quasi neanche sentì la punta del grosso stivale contro lo stomaco. Ormai forse neanche lo aveva più, uno stomaco. Orma era solo carne e sangue che veleggiava allegramente verso l'incoscienza. L'ultima cosa che sentì fu di nuovo il fiato di cipolla sopra di lui. E adesso, oltre al fiato terribile, c'era anche qualcosa di nuovo. Sembrava la musica di un piffero, e in sottofondo un batter di tamburi. Sembrava anche l'argenteo scampanellio delle cavigliere di Esmeralda. Certo stava morendo, sognava quello che gli piaceva di più.
- Su, su, andiamo. La festa comincia. Tu sei l'ospite di eccezione.
Poi le due mani sulla testa, una benda nera. Cigolio di chiavistello. Poi la musica esplose, e insieme a quella migliaia di voci.

In tutta la sua lunga, e per certi versi piuttosto tormentata esistenza, Claude Frollo aveva visto molte cose. Alcune terribili, altre orripilanti, certune addirittura indegne di essere nominate da umano. Ma adesso, sbattendo le palpebre alla luce accecante di decine di torce accese, tra il pulsare del sangue alla testa e il dolore delle costole rotte, pensò che nulla di quel che aveva mai visto poteva essere confrontato con quello. La musica si era interrotta nell'esatto istante in cui il Giudice aveva fatto la sua comparsa. Non era esattamente l'ingresso cui era abituato, ma forse era meglio così. Comparsa era la parola adatta.
Davanti a lui c'era un gigantesco teatro, o meglio, un semicerchio enorme che si alzava, come una cavea da terra fino a pareti lontane, perdendosi nel buio e digradando in scaloni che parevano enormi. Doveva essere scolpito nella pietra perché qua e là si vedevano enormi squarci nel tufo, o in che diavolo era. Enormi panni, tendaggi, velami pendevano da ogni parte a mo' di tende, tendoni, strascichi. Il retro era tutto un brulichio mormorante di uomini, donne e bambini. Claude Frollo chiuse gli occhi, piano, e li riaprì. Dovunque gente, e ancora. Lo fissavano. Erano vestiti degli stracci multicolori degli zingari, ed erano migliaia. O forse solo centinaia, ma lui in quel momento non voleva sapere. Erano tutti silenziosi, come tombe, e tutti fissavano lui. C'erano un paio di disgraziati, lì vicino, con ancora i loro pifferi in mano. Una ragazza con un tamburello che aveva trecce come la sua Esmeralda ma mani tozze e uno sguardo cattivo. C'era una vecchia coperta di stracci che gli sputò, appena lo vide. Lo sputo atterrò a pochi centimetri dalla sua gamba.
Claude Frollo fece scorrere gli occhi sulla folla. Poi qualcosa attirò al sua attenzione. Un uomo enorme, ben più enorme del carceriere, lo stava fissando da molto lontano, e i suoi occhi, in mezzo a tutti quegli occhi, erano neri.
Claude Frollo di istinto abbassò la testa, e sa Dio se questo non gli costò, perché dalle spalle alle costole, dalla fronte alle scapole era tutto un unico grumo di dolore.
Non aveva più un colletto, e neanche quasi più i polsi della camicia. Quello destro sembrava essere stato rosicchiato. Lo guardò, con vago disgusto. Cercò di muovere la mano sotto. Il polso ruotava ancora, anche se indolenzito. Alzò una mano, se la portò alla guancia. La parte destra era in fiamme. La ritrasse.
- Da quanto tempo sono qui? - mormorò. Ancora si sentiva quegli occhi addosso. Occhi neri e maligni come carboni.
Poi d'improvviso la folla si zittì.
- Hai fatto un buon soggiorno, caro Giudice? - fece una voce, che sovrastava le altre come la nave da guerra si scaglia contro le onde, e le soverchia.
Claude Frollo seguì quella voce fino in alto, dove il grande anfiteatro (naturale? Scavato dalla mano dell'uomo?) si apriva in un circolo che si perdeva nel buio. Se fosse stato un teatro, lassù sarebbero stati i palchi più ambiti.
- Guardami, Giudice.
Era enorme. Lo stesso uomo dagli occhi neri di brace.
- Mi vedi, adesso?
Sembrava tutto ruotasse intorno a lui. Nella nebbia del dolore e del sangue, Claude Frollo vide migliaia di occhi puntati tutti su quel capo. Occhi cattivi, occhi che aspettavano in silenzio.
- Mi riconosci, Giudice?
Aveva indosso vesti ricchissime e un gran cappello con la piuma. Un lungo squarcio gli attraversava il petto nudo. Ma sotto portava una fascia coperta di gemme e attraversata da molti pugnali. In mano aveva una brocca d'argento.
Claude Frollo strinse gli occhi, provò a raggranellare quel minimo di voce che ancora da qualche parte gli restava. Fece appello a tutta la sua autorità.
- Sembri la parodia di un Écorcheur. Come potrei non riconoscerti, Duca d'Egitto?
Quello rise. Alzò la brocca e bevve.
- Brindo alla tua salute, Signore. E alla buona memoria che dimostri.
Posò la brocca, e una bella gitana che era al suo fianco gli sorrise.
- Sai perché sei qui?
- Me lo immagino.
- Non hai paura?
- Neanche un po'.
Non era vero. Ma avrebbe lasciato che lo squartassero, prima di mostrarne anche un'oncia.
- Bene. Sono contento che tu la prenda così. Ci rende tutto più facile. Il tuo avvocato dice che …
- Il mio avvocato?
Il Duca si fermò, la folla rise. Il Duca sollevò una mano. La folla si zittì all'istante.
- Perché tra poco qui ci sarà un processo.
Nonostante tutto, a Claude Frollo venne voglia di ridere.
- E da chi dovrei essere giudicato, e per cosa?
- Da un'Alta Corte di cui sono il Capo, il Giurato e il Giudice.
- Oh, molto bene. Peccato che mi paia di essere ancora l'unico e solo Ministro di Giustizia.
- Forse lassù - e così dicendo il Duca puntò un dito per aria - Peccato che qui siamo da tutt'altra parte. Qui ci sono delle Regole che forse tu non hai neanche mai sentito. O forse durante la notte hai studiato le Pandette Gitane?
Dagli spalti si levò, come un mare, una fragorosa risata. Erano tutti, e stavano ridendo, quella ciurmaglia di zingari. Claude Frollo sentì una fitta molto più atroce del dolore fisico, ma si costrinse a non abbassare gli occhi. Serrò le labbra, le stirò in una pallida imitazione sorriso.
Ricordati che adesso ne va della tua vita.
- Cosa c'è scritto in queste Pandette?
Il Duca, piano, alzò una mano in aria. Ora i suoi occhi erano neri come i pozzi di paura che stagnano in fondo al cuore di ogni male.
- Ora vedrai - poi fece un gesto - Entri la corte. Ho proprio voglia di vederti morire.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Il gatto e il topo ***


*


< Nec diu nec noctu

licet

Iudices quiescant>

*

9.


Il Giudice capì che era spacciato nell'istante in cui fecero il loro ingresso l'Accusa e la Difesa. Alzò la testa, lentamente. Strinse gli occhi. Nella luce abbacinante delle torce vide due figure che entravano accompagnate da una torma di gente. Una era alta, severa, e un sottile sfregio gli attraversava la faccia. Aveva lunghi capelli crespi, corvini, e uno sguardo da fare paura al Demonio. L'altro era pallido, tremante. Vestito di qualcosa che sembrava terribilmente fuori luogo: sotto il mantello, una casacca colorata a grandi strisce, e un paio di brache coi campanelli. Quando fu entrato nella stanza girò nervosamente gli occhi intorno. Un istante, poi si incontrarono con quelli del Giudice. Claude Frollo sentì un pugno artigliarli lo stomaco. Poi lo sconosciuto dell'accusa prese posto su un banco alto, a sinistra del Duca. La difesa invece tremante, andò a raggiungere il Giudice Frollo.
- Cosa ci fate qui, mastro Gringoire? - sibilò il Giudice alla sua difesa. E quello, che tremava e ancora non aveva smesso di farlo, si rattrappì ancor di più sullo scranno che gli avevano assegnato. Era molto più basso di quello del suo collega, e era intagliato in più punti con versi e frasi oscene.
- I ... io? - balbettò l'altro, ritraendosi ancora. Il Giudice alzò gli occhi al cielo. E per un istante ebbe terribilmente voglia di ridere - V... Vi giuro che i-io non c'entro nulla. Passavo ecco ... passavo di qui per caso. Mi hanno preso per questa ... farsa.
Il Giudice fissò con disprezzo il cumulo di stracci variopinti che si contorceva accanto a lui. Lo aveva perso di vista un anno prima, quando Pierre Gringoire, già scadente filosofo, aveva smesso di andare a frequentare anche le sue lezioni di legge.
- E a... adesso che cosa facciamo? - gli chiese, passando la lingua sulle labbra. Gli occhi dei gitani erano tutti su di loro. L'Accusa stava parlottando col Duca. Era evidentemente un processo non troppo equo.
- Chi è quello lassù? - chiese Claude Frollo cercando di non perdere la calma. E indicò lo sfregiato,.
- Que...quello? E... eccellenza, quello è Clopin, il peggiore di tutti i banditi che voi possiate mai aver visto.
- Clopin. Uhm, il suo nome non mi è nuovo.
- E'... stato lui a dare fuoco a quella carovana di cardinali che tornavano da Aix. Il mese scorso, ricordate. E quel furto con ... con scasso e ... violenza carnale, quello alla casa del mugnaio, bene ... fonti certe mi dicono che ...
Il Giudice lo fermò con un gesto.
- Quella era colpa del mugnaio. Ha dato fuoco a metà del mulino per far credere che i gitani ce l'avessero con lui. Era sospettato di stregoneria, e in qualche modo sperava che ...
- E la figlia?
- Quella l'aveva violata lui stesso. Brutta storia.
- Capisco.
- Ma insomma, adesso che dobbiamo fare?
Gringoire lo guardò con occhi smarriti. Il Giudice abbozzò un mezzo sorriso.
- Penso sia meglio che mi difenda io stesso. Tu puoi stare a guardare, Gringoire - si sistemò una manica, poi alzò la voce - Signori e signore della Giuria (sempre di qualche giuria qui si tratti), voglio fare una dichiarazione. Rifiuto il difensore, mi difendo da solo.
Dai palchi esplose una fragorosa risata. Si erano fermati anche il Duca e Clopin, che adesso lo guardavano attentamente.
- E come pensi di fare? Questo è contrario alle Pandette gitane - fece qualcuno, berciando dall'alto.
Il Giudice lo ignorò. Guardava fisso davanti a lui.
- Davvero pensate che io possa sottostare a una stupida sciocchezza di questo genere.
- Attento a come parli, animale! - gridò qualcun altro. Ma il Duca aveva alzato una mano per intimare il silenzio.
- Voglio dire, signor Duca - fece Claude - che se mostrate tutta questa premura, dovete essere ben spaventato.
- E da cosa? - fece il Duca, sporgendosi un poco - Forse dalla vostra Difesa, messer Claude?
- No, proprio, appunto. Se mi avete dato quest'asino come avvocato è proprio perché avete paura di me. Non so se conoscete le sue  doti, io le conosco, come suo professore. E direi che sarebbe assai meglio se mi faceste difendere da un cane, da un cincillà, da un orangotango. Voglio molto bene a Gringoire, ma la Legge non  è proprio il suo campo.
Il povero filosofo abbassò la testa piuttosto mortificato. Tutti ridevano, e adesso rideva anche il Duca.
- Devo ammettere che avete un bello spirito, Mastro Frollo. Chiunque altro, in queste condizioni, se la sarebbe già fatta sotto. Ma voi siete il Giudice Frollo, e noi gitani, gente d'acciaio, non possiamo certo essere perseguiti da un avversario meno degno di voi. Avete del fegato, davvero. Mai pensato di avere sangue gitano?
Di nuovo intorno esplose una risata, ma ora Claude si sentiva più sicuro.
- Probabilmente, se fossi figlio bastardo, qualche domanda me la farei. Ma mia madre, che era una santa donna ...
(Qui partì un fischio dalla platea)
- ... penso che si sarebbe fatta sgozzare piuttosto che aprire le gambe davanti a un essere come voi, messer Duca.
Il Duca rise, anche stavolta. E si batté una mano sulla gamba.
- Il suo nome era Claudine, per caso?
Tutti risero.
- Nossignore.
- No? Allora forse Bernadette? O forse Julia? Me ne ricordo una che aveva un bel paio di tette ...
- Mia madre si chiamava Luz, caro Duca. E penso che se l'aveste incontrata adesso non avreste ancora quella lingua per raccontarlo.
Il Duca fischiò piano, fischiarono tutti. E poi dalla platea si levò un coro di applausi.
- Davvero voi sapete come catturare l'attenzione. Se davvero era così anche vostra madre, che il Diavolo di porti il papà.
Claude Frollo fece un breve inchino.
- Un uomo nobile, ma non formidabile come mia madre.
- Che cosa chiedete, dunque?
- Che mi sia concesso di difendermi da solo.
- Ve l'ho già detto che è contro le regole.
- E allora almeno qualche giorno per preparare come si deve quest'asino a sostenere la mia difesa. O dovrò andare a dire in giro che il Duca d'Egitto non è più pieno d'onore come si dice.
A questo punto il Duca si voltò verso l'alta figura nera che era sempre stata al suo fianco. Il gitano dagli occhi di carbone li sogguardava quietamente, con lo sguardo di un cane che non ha alcuna fretta di saltare la rete e sbranare.
- Che cosa ne dici, Clopin?
Il tizio alto, dalla lunga capigliatura corvina, guardò a lungo dentro gli occhi di Claude. E Claude ricambiò il suo sguardo.
- Di certo non mi farò intimorire da uno zingaro - pensò. Ma c'era qualcosa di strano, nei suoi occhi. Qualcosa di ben più torbido e oscuro di quel che aveva visto in quelli del Duca. Quello che sarebbe stato la sua Accusa lo guardò a lungo, come se volesse leggere ogni segreto della sua anima. Poi, alla fine, parlò.
- Io penso che non si a giusto, mio Duca, lasciare a un prigioniero la scelta di come dev'essere condotto il suo processo. Forse che lui la lascia mai a noi? - dalla folla partì un mormorio basso - Forse che lui lascia mai a noi il diritto di giudicare se possiamo avere una dilazione del tempo, una proroga al processo. Ci lascia forse chiamare a fianco a noi un avvocato? - e qui il mormorio si fece più alto. Con occhi che avevano qualcosa di ipnotico, Clopin lasciò che il suo sguardo vagasse lentamente in cerchio, su tutti loro - Ci lascia forse mai sperare in una vera giustizia?
I gitani ora stavano in silenzio. Claude Frollo poteva sentire il rumore dei loro pensieri. Spostò uno sguardo su Gringoire, e vide il tremore della sua gola, dove il pomo d'Adamo sussultava sotto la pelle mal rasata. E pensò che non sarebbe uscito vivo da lì.
- Forse che ci ha mai lasciato una scelta su come essere? Lui ci perseguita, ci insegue, ci stana. Fa come un cane con la lepre. Lui non chiede affatto quel che vogliamo essere, non si domanda che cosa deve fare con tutti noi. Lui semplicemente ci acchiappa, ci stringe forte dentro al suo pungo e poi ... non ne rimane più nulla.
Qualcuno tra la folla annuì. Ma gli altri erano muti. Vicino a lui Claude Frollo poté scorgere con la coda dell'occhio una vecchietta che piangeva. Pensò che forse aveva ucciso il figlio, o il marito, di quel cumulo di stracci. E per la prima volta sentì qualcosa chiuderglisi in gola.
Il Duca meditava, con la fronte appoggiata alla mano. Non si sarebbe potuto dire se era un farsa, forse soltanto una messinscena crudele fatta ad uso e consumo di un prigioniero già con il laccio annodato alla gola. Forse si stavano, pensò Claude Frollo, tranquillo, semplicemente prendendo un po' di piacere. Esattamente come se ne prendeva lui quando la sera scendeva le scale delle segrete. E andava calmo a controllare che tutti fossero ancora vivi per le torture dell'indomani.
- Allora, che cosa dite, dobbiamo impiccarlo? - chiese il Duca, alzando la fronte dopo una pausa che parve di un secolo. La faccia di Clopin era di marmo, quella di Pierre Gringoire di cera. Tutti guardavano verso Claude Frollo.
- C'è un altro modo per morire? - chiese lui.
E fu in quell'esatto istante che qualcosa si mosse, dietro di lui. Non lo aveva né visto né sentito. Ma fu un alito come di paradiso, come se un angelo avesse per caso sbattuto le ali su questa terra.
- Duca, faccio richiesta alla corte che il Giudice sia mio prigioniero. Lo custodirò io finché la Corte non avrà preso una decisione.
Clopin guardò verso il Giudice con odio. Alle sue spalle c'era qualcuno, qualcuno la cui voce era risuonata come acqua fresca nel deserto.
- E perché vorresti occupartene tu, Esmeralda? In fin dei conti ti ha tenuto prigioniera. Non ti farebbe piacere vederlo morto, penzolante a una forca?
Esmeralda rise pianissimo. E anche se la sua risata era come mille campanelli d'argento, Claude percepì come una nota di scherno. Era diretta a lui? Nel suo cuore duro e tormentato dall'odio del peccato, sentì nascere qualcosa, una radice che forse era di vergogna. Adesso lei lo vedeva legato. Adesso era incatenato a lei e alla sua gente da una lunga caduta che lo avrebbe condotto alla forca. Forse adesso, finalmente, lei lo aveva in suo potere. Si divertiva a volergli provocare la morte? Si divertiva a vederlo così, agonizzante e difeso da un idiota? Alle sue spalle il trionfo della voce di lei continuava a spargere meraviglia, e Claude non riusciva più ad ascoltare altro che il suono fatato di lei. Non distingueva più le parole, e come una dolce debolezza lo invase. Perché non lo facevano morire senza lasciargli il tempo di smettere di ascoltarla?
- Che cosa chiedi, dunque, Esmeralda?
- Che gli sia concesso quello che desidera. Giorni per preparare sua difesa che ... lo condurrà alla morte.
- E perché mai?
- Perché noi, a differenza sua, siamo civili. Noi non vogliamo che i condannati muoiano senza giusto processo.
Lo disse con una voce dolcissima, ma qualcosa doveva essere andato storto, perché dalla folla si alzarono grida, e urla e risa misteriose. Il Dica rise, anche lui, e Claude Frollo vide negli occhi di Clopin un lampo che poteva essere rabbia. Come a un gatto cui un bambino crudele sottragga il topo solo per avere il piacere di vederlo morire lui stesso, Esmeralda aprì le belle labbra e disse:
- Duca, fallo soltanto per me. Quest'uomo merita di soffrire ancora un poco prima che arrivi una giusta morte. Siete d'accordo con me, amici miei?
Dagli spalti partì un coro di applausi. Esmeralda fece un inchino compito.
Poi si accostò di dietro a Claude.
- Ora sei mio - sibilò mentre lo portavano via.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=723688