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di roxrox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Paul is dead ***
Capitolo 3: *** L'incidente ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


9 dicembre 1980

Quando George rientrò in albergo e si diresse alla reception per ritirare la chiave della propria camera, lo sguardo gli cadde distrattamente sulla televisione che si trovava nella sala accanto. La sua attenzione venne catturata dallo scorrere di alcune immagini dei tempi d’oro, e di altre più recenti di John Lennon. Pochi secondi dopo lo schermo mostrò il palazzo in cui abitava John a New York; la zona era piena di auto della polizia. George comprese che era successo qualcosa, ed entrò nella sala in penombra per sentire l’audio della televisione. La telecamera inquadrò il mezzobusto di una giornalista che non conosceva che parlava sovrastando il cicaleccio intorno a lei.
- Ancora non siamo in grado di confermarvi il nome dell’assassino di John Lennon, che ieri sera è stato ucciso con quattro colpi di arma da fuoco davanti all’ingresso del palazzo in cui abitava, mentre stava rientrando con la moglie, ma pare che fosse un suo fan squilibrato che ha perso il controllo di se stesso… - Non sentì altro, il mondo pareva essersi fatto improvvisamente stretto e soffocante.
John era morto? John era stato… ucciso?
No, non era possibile. Non poteva essere vero.
Si voltò come un automa, e si avviò verso le scale.
- Signor Harrison – gli si avvicinò la receptionist, premurosa – Ho appena saputo del signor Lennon. Non so dirle quanto mi dispiace –
- Grazie – rispose meccanicamente.
- Non so se è il momento, ma prima ha telefonato una persona per lei. Ha lasciato il proprio nome e numero, e chiede di essere richiamato. Non avrei voluto dirglielo e lasciarla in pace, poi ho pensato che potrebbe essere importante… –
Prese il bigliettino che la ragazza gli porgeva, e un mezzo sorriso gli comparve sulle labbra. Anche in quel momento il suo amico non aveva voluto rinunciare alla propria privacy, che si era tanto faticosamente conquistato.
Se avesse saputo chi era al telefono, la signorina si sarebbe fatta decisamente meno scrupolo e meno riguardo. Ma ormai erano passati gli anni in cui chiunque sapeva che Richard Starkley era il vero nome di Ringo Starr.

Entrò in camera e compose il numero scritto sul bigliettino. Ringo rispose al secondo squillo.
- Hai saputo? – rispose direttamente, senza salutare, come se fosse certo che dall’altra parte ci sarebbe stato proprio lui.
- L’ho visto proprio adesso in televisione –
- Oddio, George! Sono stati loro! –
- Forse. Qui dicono che invece fosse un suo fan fuori di testa che è impazzito –
- Già, guarda che caso, è impazzito giusto pochi giorni dopo il nostro incontro e le minacce che ci hanno fatto. Potremmo essere in pericolo anche noi! –
- No, non credo, certamente non ora. Non possono eliminare tutti i Beatles senza destare sospetti. John in questo momento era il più pericoloso, eravamo tutti arrabbiati con Faul per non aver mai smesso di fare musica dopo il nostro scioglimento, ma io e te non abbiamo mai minacciato di raccontare la verità se non si fosse ritirato, lui sì. Non lo avrebbe mai fatto, voleva troppo bene a Paul, ma probabilmente non potevano correre rischi. E in questo modo hanno tappato la bocca anche a noi –
- Che intendi dire? –
- Vuoi continuare a vivere, Ringo? –
- Certo –
- Allora taci, e portati la verità nella tomba. Questo è il loro messaggio – 

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Capitolo 2
*** Paul is dead ***


13 ottobre 1969

John era sotto la doccia quando squillò il telefono. Yoko era rimasta in salotto, e lo aspettava leggendo un libro.
Quel giorno erano fuggiti da Liverpool per fare un pic-nic in campagna, senza nessuno tra i piedi, e volevano concludere la giornata con una romantica cenetta in qual ristorantino nei sobborghi che Yoko aveva notato qualche settimana prima.
Ma prima doveva assolutamente farsi una doccia.
- John – lo chiamò Yoko al di là della porta – C’è George al telefono. Gli ho detto che lo avresti richiamato, ma insiste per parlarti subito; è molto agitato, riusciresti…? –
- Certo, certo – sbottò chiudendo l’acqua ed uscendo dalla cabina – Arrivo – si avvolse velocemente un telo attorno alla vita e, ancora gocciolante, uscì dal bagno borbottando rabbiosamente lamentele incomprensibili.
- George, che c’è? – chiese brusco accostandosi il telefono all’orecchio.
- John, abbiamo un problema… -
- Che genere di problema? –
- Lo sanno –
- “Lo sanno” chi? Cosa dovrebbe sapere chi? –
- Pare che qualcuno l’abbia detto in radio in America. Sanno di Faul –
John rimase ammutolito, come se un fulmine si fosse abbattuto su di lui. Gli occhi si posarono sopra una foto di loro quattro – dei veri loro quattro – scattata qualche anno prima ad Amburgo. Paul lo guardava da dietro il vetro con aria scanzonata, pieno di vita.
Gli era piaciuta subito quella foto, proprio per l’espressione di Paul.
Era sempre malinconico, come se sentisse su di sé il peso del mondo intero, e i suoi occhi sembravano incapaci di scrollarsi via quella tristezza, nemmeno quando sorrideva per le foto, nemmeno nei primi mesi in cui era diventato un Beatles; nulla sembrava cacciare via quello sguardo pensoso. Invece, quella sera, sembrava infinitamente felice e libero, come se per una volta il mondo si fosse disteso ai suoi piedi.
Quella gioia improvvisa e inconsueta, era stata quella a spingerlo a prendere la foto e metterla in una cornice sopra la mensola del camino.
E non l’aveva mai tolta, nemmeno dopo il suo arrivo. Gli era capitato di accorgersi che la guardava con una luce strana negli occhi, e credeva di aver capito il perché: quella era l’unica foto del gruppo che John avesse in casa, e risaliva a “prima”; probabilmente si domandava se sarebbe mai riuscito a prendere davvero il suo posto, o recriminava di non poterlo davvero fare, non con loro.
Eppure era bravo, dannatamente bravo. Sin da subito aveva imparato velocemente le movenze e gli atteggiamenti; la voce era stata un po’ più difficoltosa, ma quell’insegnante di dizione e quel logopedista avevano fatto miracoli. La cosa più difficile era stata trasformarlo in un mancino, e ancora non ci riusciva completamente, ma riusciva a nascondere abbastanza bene la propria natura. Certo, la composizione delle canzoni all’inizio era stata un po’ difficile e avevano dovuto aiutarlo non poco, ma da qualche mese sembrava addirittura in grado di fare da solo; e questo era ciò che più aveva dell’incredibile.
Era solo più alto di Paul, a quello non avevano certo potuto rimediare. Ed era anche per quello che non si erano più esibiti dal vivo, che non avevano più fatto concerti; la cosa avrebbe potuto destare qualche sospetto. Ma ultimamente aveva iniziato a pensare che forse si sarebbe potuto riprovare, erano passati anni ed era possibile far credere ad una crescita, magari un po’ tardiva, di qualche centimentro; anzi, avrebbero potuto sfruttarlo per una battuta in uno show televisivo o durante un concerto…
John sentiva che c’era non poca ingiustizia nei suoi confronti, era un bravissimo ragazzo, molto simpatico, e Julian gli voleva un bene dell’anima – meno male, dato che lui come padre era stato un vero disastro -, eppure era chiaro a tutti che, in privato, non avrebbe mai potuto sostituire davvero Paul.
Ma anche se non era Paul, John si sentiva molto legato a lui, e sperava che, un giorno o l’altro, lui potesse apprezzare la loro amicizia senza doversi sentire un sostituto.
Ma i Beatles erano loro quattro.
- John? Ci sei ancora? –
- Sì George, non sono svenuto – “Non ancora, per lo meno” – Siamo sicuri che non sia qualcosa che possiamo mettere a tacere? –
- Temo di no… Sanno tutto perfettamente –
- Ma come è possibile? Chi ha parlato? –
- Non credi che ci sia la possibilità che qualcuno ci sia arrivato da solo? –
- Credi che i nostri messaggi siano stati compresi? Andiamo, nessuno di noi ci credeva davvero! –
- E’ vero, ma non sono solo quelli. Mi sono sempre domandato come fosse stato possibile mettere a tacere medici, soccorritori, poliziotti… Non tutti hanno fatto la fine dell’altra ragazza. Certo, lei era la più pericolosa, ma… Insomma, i genitori di quella morta con lui? I parenti? Nessuno si è mai posto domande? –
- I Servizi Segreti sanno lavorare bene… Fin troppo… Non abbiamo mai voluto sapere come si sono mossi, forse gli unici che avevano più notizie di noi erano Brian e Mal –
Già, Brian Epstein, il loro manager al momento del fatto. Era stato lui ad orchestrare tutto, ad occuparsi di tutto, insieme a Malcom Evans, il loro ‘angelo custode', mentre loro erano schiantati dal dolore.
Quando avevano preso quella maledetta decisione, aveva detto loro che si sarebbero occupati personalmente di insabbiare la faccenda, aiutati dall’MI5, rappresentato dal misterioso uomo accanto a lui in quel momento. Non avevano mai saputo, non avevano mai voluto sapere come si fossero mossi.
A loro era toccato l’ingrato compito di vagliare (di nascosto) i possibili candidati alla sostituzione, ma era accaduto qualche tempo dopo, quando il peggio era passato.
John ricordava quei tempi: era stato d’accordo con Brian praticamente da subito, ma non per questo era stato meno difficile. Ed era stato lui a dettare le condizioni.
- Sai vero – disse a George, che restava in silenzio dall’altro capo del filo – che cosa significa questo? –
- John… - si era fatto improvvisamente titubante – Non si può… riparlarne? Del resto, sono ormai passati tre anni… -
- No, non possiamo. So di essere stato il primo ad accettare la soluzione Faul, ma già allora ero stato chiaro, e non intendo rimangiarmi quanto avevo detto. Non posso fare anche questo a Paul. Voi tre potete continuare, se volete, ma io me ne chiamo fuori –
- Hai ragione. Non possiamo fargli anche questo. Ma rifletti, se lo facessimo adesso, subito dopo quanto hanno detto, non rischiamo che gli si dia ancora più importanza? Che facciano troppi collegamenti tutti insieme e che la cosa acquisti di credibilità? –
- E non era quello che in fondo tutti noi volevamo sin dall’inizio? E’ ora di tirar fuori Very Together –
- Si aprirà la caccia alle streghe, ora. Tutti cercheranno qualunque cosa in ogni nostra canzone o disco, scoveranno tutto. Probabilmente troveranno indizi anche dove non ci sono –
- Sapevamo… speravamo che sarebbe successo. Altrimenti, perché avremmo sparso tutti quegli indizi? La verità è che aspettiamo questo momento da tre anni –
- Lo so. Ma ora che è arrivato, vorrei solo che… - sospirò - Non lo so nemmeno io cosa vorrei… -
- Senti, facciamo così. E’ da… da “allora” che non ci esibiamo dal vivo, proprio per questa faccenda, quindi non sarà un problema. Resteremo al gioco ancora qualche tempo, appronteremo un piano fatto di litigi ed incomprensioni, e tra poco la nostra separazione sembrerà a tutti la soluzione migliore. Mi spiace, ma non posso concedere più di così –
- Allora… -
- Allora da stasera i Beatles sono ufficialmente sciolti –
Un rumore strano lo avvisò che sentirlo dire così brutalmente era stato un po’ troppo per il suo amico; George con ogni probabilità aveva iniziato a piangere.
John posò il telefono, restando poi immobile, meditando su quella decisione. Ricordò che anche allora era stato George a chiamarlo.


9 novembre 1966

Lo squillo del telefono lo strappò con violenza al sonno pesante in cui si era lasciato andare dopo essere rientrato in casa soltanto… guardò l’orologio posato sul comodino… cinque ore prima!
D’accordo, erano già le nove, il sole filtrava tra le tende male accostate, ma non era certo andato a divertirsi! Registrare fino alle tre del mattino non era stata una grande idea, e la lite con Paul era stata la degna ciliegina sulla torta.
Ragazzi, che nottataccia…
Il telefono continuava a suonare, sembrava non volerlo lasciare in pace; probabilmente Cynthia era già uscita con Julian, quindi si alzò dal letto e lo raggiunse.
- Pronto – rispose sbadigliando, la voce ancora impastata dal sonno.
- John… sono George –
- George, ti pare l’ora di chiamare? Stavo dormendo! – non sentì nulla dall’altra parte del filo, e iniziò a preoccuparsi – George, che succede? – gli rispose un singulto, e comprese che l’amico stava piangendo – George! Rispondi! Non farmi spaventare! –
- Paul… Paul è… - non riuscì a continuare.
- Paul cosa? Cosa è successo a Paul? George! COSA DIAVOLO E’ SUCCESSO A PAUL? –
- John… Paul è morto –
Era rimasto in piedi, per snebbiarsi la mente dopo il brusco risveglio, ma sentì improvvisamente il bisogno di sedersi. Lo fece lì, in quel preciso punto, senza muovere un passo, semplicemente lasciandosi cadere sul pavimento.
- George… stai scherzando, vero? Guarda che sono io il burlone del gruppo, e questo scherzo non è divertente! –
- Non sto scherzando. Mi ha appena chiamato Brian, ha parlato di un incidente stradale, o qualcosa del genere… -
- Ma… come è possibile? Ieri… stanotte era lì con noi… -
- Forse Brian sa qualcosa di più e ce lo dirà non appena ci vedremo. Vuole che andiamo tutti allo studio –
- Allo studio? Ma… perché allo studio? Dov’è Paul? E’ in ospedale? Quale? –
- Non lo so! Non so nulla – si interruppe nuovamente, e ricominciò a piangere – Oh John, che faremo adesso? Senza Paul? Lui… lui era… è uno di noi… -
- Non so, George. Non so cosa potremo fare… -

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Capitolo 3
*** L'incidente ***


8 novembre 1966

Rebecca sospirò, seduta sul letto insieme alla sua migliore amica. Non c’era altro da fare, e lo sapeva, ma voleva che fosse Rita a rendersene conto da sola, o quella decisione avrebbe distrutto la sua vita. Doveva essere brutale: le avrebbe fatto male, e probabilmente Rita dopo quella sera l’avrebbe odiata per sempre, ma sapeva di doverle forzare la mano.
- Dunque, ricapitoliamo la questione: aspetti un bambino, e hai diciassette anni. Jeremy, il pervertito sconsiderato tuo coetaneo che ti ha messa incinta, dice di non potersi accollare un figlio perché è troppo giovane, perchè vuole studiare e diventare uno stimato avvocato come quel debosciato di suo padre, a cui ovviamente non vuole raccontare di averti “disonorata”. Oh, non guardarmi così, non ti ho mai nascosto quello che penso di lui e della sua famiglia! E, tra le altre cose, sarebbe capace di dire, se tu decidessi di scavalcarlo e chiedere aiuto ai suoi, che sei andata andata anche con altri e che quindi il figlio potrebbe benissimo non essere suo, anzi, che non lo è sicuramente. E, nella sua infinita ipocrisia, non vuole che tu abortisca, nemmeno adesso che è diventato legale e sicuro per te e non devi più andare dalla mammana che c’è a St Helens, perché il bambino è una vita e merita di essere vissuta; sulle tue spalle, ovviamente, perché lui se ne lava le mani. Ah, e ovviamente negherà anche davanti ai tuoi genitori, e stamattina quando avete litigato ti ha anche dato della puttana e della arrampicatrice sociale, che hai tentato in tutti i modi di circuirlo e che ti sei fatta mettere incinta apposta per farti sposare e mantenere da uno più ricco di te. I tuoi genitori al momento non ne sanno nulla, e temi che tuo padre ti riempia di botte o, peggio, che ti cacci di casa nel momento stesso in cui lo scopre. Ho dimenticato qualcosa? –
Rita la guardava con gli occhi sgranati, da cui scendevano lacrimoni enormi, le mani a pugno premute sulla bocca in un gesto di orrore. No, Rebecca non aveva dimenticato nulla, ma sentirsi sbattere in faccia la verità in quel modo faceva male, troppo male. Si ripiegò su se stessa, poggiando la fronte sulle ginocchia, e gemette in una maniera talmente disperata che la sua amica si sentì salire le lacrime agli occhi.
Le ricacciò indietro con forza: no, non era lei che doveva piangere!
- Coraggio – la abbracciò, non riusciva più ad essere crudele con lei – Le soluzioni ci sono, ma devi essere tu a decidere. E devi farlo qui e ora –
- Io… io lo so cosa devo e cosa voglio fare… ma… -
- No. Niente “ma”. Vuoi tenere questo bambino? –
La risposta di Rita, una via di mezzo tra uno sbuffo e una risata disperata, era abbastanza eloquente, ma Rebecca voleva di più.
- Allora, lo vuoi tenere? Sì o no? –
- No –
- Ne sei sicura? –
- Sì - Rita ricominciò a piangere – Ma come faccio? Come arrivo in città? Non ho nemmeno la macchina! Cosa dico ai miei genitori? –
- Non gli dici nulla. Ascolta cosa faremo: io ho la macchina e la patente, e i miei genitori questa settimana sono in ferie. Digli che vieni a dormire da me, così poi stanotte andiamo in ospedale e domani pomeriggio potrai tornare dai tuoi genitori a cose fatte, e non sapranno nulla –


- Accidenti! – imprecò Rebecca nel buio – Adesso che diavolo è successo? –
Scese dalla macchina per l’ennesima volta e le girò intorno, ma non aveva idea del perché si fosse improvvisamente fermata, spegnendosi e rifiutandosi di riaccendersi. La benzina c’era, o almeno così era indicato sul cruscotto, ma era l’unica cosa che fosse in grado di controllare.
Scosse la testa. Era inutile, non sarebbe ripartita.
- Qui non si può far nulla –
- Oh cielo, Rebecca – gemette Rita dal sedile del passeggero – E adesso cosa facciamo? Siamo a metà strada, ci metteremo un’eternità a tornare indietro… -
Rebecca sospirò. C’era una sola cosa da fare.
- Chi ha parlato di tornare indietro? – sorrise – Va bene, la macchina è andata, ma le nostre gambe no. Cammineremo fino in città, in un paio di ore sono sicura che ci arriveremo, troveremo un autobus che ci porterà in ospedale e domani mattina prenderemo il treno per tornare. Su, vieni! – e ostentendo una sicurezza ed una serenità che non provava, aiutò l’amica a scendere dalla macchina e si avviarono a piedi.


- Basta! Basta! BASTA! Non vi voglio più vedere! –
Paul McCartney uscì dallo studio di registrazione sbattendo la porta. Lo raggiunse attutita la voce di Ringo, che ancora urlava:
- Bravo, vattene! Comportamento maturo, complimenti! –
Paul non lo ascoltò. Salì in macchina e mise in moto immediatamente. La sua fedele Aston Martin rossa si infilò in strada e partì velocissima, obbedendo alla volontà del suo autista, che premeva sull’acceleratore con tutto il proprio peso, cercando nella velocità lo sfogo a tutta la sua rabbia e la sua frustrazione.
Rallentò solo dopo parecchi chilometri, quando si accorse di essere uscito dalla città e di essere finito in campagna, in strade prive di illuminazione e strette. D’accordo che era nervoso, ma non voleva ritrovarsi in uno di quei campi solo perché aveva litigato con gli altri.
Chissà poi dove diavolo era finito… Le stradine di campagna al buio sembravano tutte uguali, ma era abbastanza sicuro di aver svoltato a sufficienza per essere di nuovo in direzione di Liverpool. Non ne era sicurissimo, però…
La sua attenzione venne attratta da due figure che camminavano sul ciglio della strada. Avvicinandosi ulteriormente, si accorse che erano due ragazze sole; non era certo dell’ora, ma era sicuro che fossero passate abbondantemente le tre del mattino, e si domandò se quelle due non fossero “passeggiatrici”, anche se sembrava che fossero parecchio lontane da qualunque possibile cliente.
Avvicinandosi, si accorse che non avevano assolutamente l’aria delle donne di strada; anzi, sembravano smarrite…
Obbedì ad un istinto e, avvicinandosi, rallentò e si affiancò a loro, allungandosi per abbassare il finestrino dalla parte del passeggero:
- Ehi, ragazze – le chiamò – Tutto bene? –
Gli parvero entrambe esauste. La biondina, in particolare, sembrava non riuscire più a stare in piedi.
- Sì, grazie – gli rispose sostenuta l’altra, capelli mori e sguardo fiero – Non abbiamo bisogno di nulla –
- Dove state andando a quest’ora del mattino lungo una strada deserta? –
- Non sono affari suoi. Vada per la sua strada, che noi andremo per la nostra –
Paul fu sorpreso di sentirsi apostrofare così, e gli fu evidente che la pochissima luce aveva impedito alle due ragazze di riconoscere il loro interlocutore.
Improvvisamente la bionda si voltò e si chinò, appogginadosi le mani sulle ginocchia. La sua amica la sostenne e le tirò indietro i capelli. Il rumore fu inequivocabile: la ragazza stava vomitando.
- Forse lei potrà anche andare per la propria strada – ricominciò Paul non appena la situazione parve migliorata – ma la sua amica non sembra stare molto bene. Andiamo, vi accompagno io, ovunque vogliate andare. Anche se preferirei accompagnarvi in un ospedale. Non sono molto pratico di queste stradine, ma credo che ce ne sia uno poco distante, appena dentro il confine del centro abitato di Liverpool. A piedi ci mettereste una vita, io vi ci posso portare un meno di un quarto d’ora… -
La ragazza esitò, poi guardò l’amica: era pallidissima, sembrava stesse per svenire.
- D’accordo – si chinò ed afferrò una pietra piuttosto grossa – ma io mi siederò dietro, e se ti azzardi a fare anche un solo passo falso, giuro che ti ammazzo come un cane –
- Va bene, va bene – sollevò la sicura – Salite –
Le due ragazze entrarono in macchina; la bionda, sedutasi davanti, non appena appoggiò la testa al sedile si laciò andare ad un sospiro di stanchezza e di sofferenza.
- Grazie – disse soltanto, voltando appena la testa per guardarlo mentre metteva in moto. Nel buio era solo una sagoma scura, ed era impossibile vederne i lineamenti.
Si avviarono nel silenzio, fino a che Paul lo trovò troppo pesante per i propri gusti:
- Allora, posso sapere quali sono i vostri nomi? –
- Io mi chiamo Rita – rispose quella accanto a lui – e lei è la mia amica Rebecca –
- Il mio nome è Paul, piacere di conoscervi. Cosa vi porta su questa strada così deserta e persa nel nulla? –
- Potremmo farti la stessa domanda – ribattè Rebecca, ancora scontrosa. Paul scoppiò a ridere:
- Avete ragione! Beh, la mia storia è parecchio semplice: ero… a casa di un amico, eravamo in quattro, abbiamo litigato per una sciocchezza e sono venuto via furibondo. Sono montato in macchina e ho guidato il più velocemente possibile per farmi passare il nervoso, prendendo direzioni e strade a caso, fino a che non mi sono accorto di essere finito in aperta campagna. Quando vi ho incrociato stavo tornando indietro –
- Come vorrei – sospirò Rita – che la nostra storia fosse così semplice e lineare… -
- Rita… - la ammonì Rebecca – Non sappiamo nemmeno chi sia questo, non credo che sia il caso di sbandierare la tua situazione ai quattro venti –
- Tranquilla – sorrise Paul – non voglio sapere a tutti i costi gli affari vostri, soprattutto se si tratta di cose delicate; se è un problema per voi parlarne, allora non voglio sapere nulla. Guardate, queste sono le prime case di Liverpool, tra poco più di cinque minuti siamo arrivati all’ospedale, come vi avevo promesso, se preferite possiamo anche trascorrerli in silenzio –
In quel momento incrociarono un camion, e le luci dei fari illuminarono l’interno dell’abitacolo, strappando un urlo a Rita.
- Oddio, oddio, oddio – esclamò, agitatissima – McCartney! Tu sei Paul McCartney! – si voltò improvvisamente verso la sua amica, dando un colpo al braccio di Paul, che teneva il volante.
- Ehi! – protestò lui, dopo aver ripreso il controllo del mezzo – Attenta, o finiamo fuori strada! –
- Rebecca, è Paul McCartney! Quello dei Beatles! – urlava Rita, senza nemmeno averlo sentito – Oddio, oddio, oddio! –
- Per l’amor del cielo, stai calma! – la richiamò Paul, ma lei era troppo agitata e continuava a muoversi a scatti e a urlare frasi sconnesse.
Paul era talmente preoccupato che i continui colpi di lei lo mandassero fuori strada, che non si accorse del semaforo che diventava rosso, e prosegì la sua strada nell’incrocio.
Un clacson fu l’ultima cosa che sentì, prima dell’urto.


- Dannazione! – esclamò Frank, saltando giù dall’abitacolo del camion, cercando di capire nella penombra dei lampioni che danni avesse il proprio mezzo – Cosa diavolo gli ha preso, a questo? Passare a tutta velocità con il rosso, ma è…? – si interruppe, vedendo le conseguenze dell’incidente sull’auto che aveva colpito: si era schiantata contro un albero piantato sul marciapiede, il guidatore aveva sfondato il parabrezza con la testa, che aveva evidentemente poi sbattuto contro l’albero, in una posizione innaturale, ed ora era accasciato su quel che rimaneva del cofano, le gambe sul volante piegate in un angolo opposto a quello che avrebbero dovuto avere; la portiera dalla parte del passeggero era spalancata, e un corpo di donna ne era stato sbalzato fuori per metà, riverso sulla strada in una macchia di sangue che si stava allargando velocemente.
- Oddio… - esalò, spaventatissimo.
- Che è successo? – la voce di una signora anziana arrivò dalla finestra di una casa che affacciava sull’incrocio.
- Signora! – gridò allora Frank, molto vicino al panico, correndo verso la macchina – Chiami immediatamente la polizia ed una ambulanza! E in fretta! – avvicinandosi, gli fu fin troppo evidente sin da subito che per il guidatore non ci fosse nulla da fare, la torsione del collo non lasciava alcuna speranza, quindi non pose attenzione a lui, ma si chinò sulla donna riversa sulla strada; un gemito uscì dalle sue labbra quando si accorse di quanto fosse giovane, e che il cuore non batteva più.
Percepì un innaturale calore e si voltò verso il motore. Dalla apertura distrutta del cofano fuoriusciva del fumo: l’auto stava per prendere fuoco.
Si rialzò per allontanarsi, quando scorse una figura sul sedile posteriore: un’altra ragazza era a bordo di quell’auto!
Non poteva lasciarla lì, se l’auto si fosse incendiata per lei non ci sarebbe stato nulla da fare… sempre se era ancora viva…
- Signorina! Signorina! – iniziò a chiamarla e a battere furiosamente contro il finestrino, ma la ragazza non diede segni di vita. Il fumo diventava sempre più denso, doveva fare in fretta. Afferrò un pezzo di lamiera e lo sbattè contro il vetro finchè non si infranse; si allungò all’interno dell’auto finchè riuscì ad afferrarla, ed iniziò a tirarla verso di sé. Fu una fortuna che fosse così magra, così che potè estrarla senza troppa fatica dal finestrino rotto.
La prese in braccio e si allontanò velocemente, raggiungendo il proprio camion prima che l’auto prendesse davvero fuoco.
Si sedette sul bordo del marciapiede, tenendo la ragazza sempre tra le braccia, e sospirò di sollievo quando si accorse che respirava, anche se a fatica.
Dopo pochi secondi sentì una sirena che si avvicinava.

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