While your lips are still red

di cerconicknamesugoogle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Orme sulla sabbia ***
Capitolo 3: *** Il favore del non ritorno ***
Capitolo 4: *** Pezzi di vetro ***
Capitolo 5: *** Che cosa sei davvero? ***
Capitolo 6: *** Che tu sia per me il coltello ***
Capitolo 7: *** Istinto e pietà ***
Capitolo 8: *** Animal i have become ***
Capitolo 9: *** Il mondo è freddo ***
Capitolo 10: *** La natura di un predatore ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


Le luci rosse si spostavano lungo gli spalti pieni nell’Anfiteatro. L’aria era carica di profumi e intrisa d’eccitazione. L’atmosfera intorno al grande palco colma d’attesa.
La gente parlottava sottovoce, con voce concitata e chiaramente impaziente.
Tutta Capitol City, probabilmente tutta Panem, aveva gli occhi puntati su l’intervista che si stava svolgendo al centro del palco. Il primo capo stratega di quell’anno sfoggiava un abito bianco in seta. Col pizzetto alle maniche ed al colletto. Faceva risaltare il volto dalla carnagione più scura, segnata però dalle basette bianche che lo incorniciavano.
Caesar Flickerman scambiava battute di gusto con lui da una buona mezz’ora.
Una buona distrazione prima delle grandi domande.
La gente, nell’Anfiteatro, era in delirio. Molti si piegavano sugli spalti dal ridere per quella serie di botta e risposta esilarante scambiata fra i due. Ma il resto di Panem.. Oh, il resto di  Panem si teneva la testa tra le mani e tremava impaziente. Per la nuova edizione della memoria della centesima edizione degli Hunger Games, tutti sapevano che le cose sarebbero state fatte in grande.
<< Allora >> Cominciò Caesar Flickerman. Il sorriso di poco prima aveva lasciato il posto ad un’ espressione più cordiale e concentrata
<< Sappiamo tutti, o almeno speriamo, che quest’anno i giochi saranno diversi.. Parlaci di questa nuova edizione >> Il silenzio calò<< E non risparmiarci i dettagli >> Aggunse.
Per un attimo, nessuna risposta.
 << Purtroppo temo di non poter rivelare molto >> Disse lo stratega << Fa parte della sorpresa, dopotutto. Diciamo solo che ci siamo impegnati affinché gli Hunger Games che amiamo si svolgano in una maniera diversa dal solito.. >> Una pausa ad effetto. Panem fremette << … è appunto per questo che i distretti avranno l’onore di offrire per la seconda volta il doppio del tributi >>
 Un sorriso, come se fosse un grande privilegio, per loro << E noi di certo non vogliamo deluderli è chiaro.. >> Parole. Le sue erano soltanto parole. Ma ancora, nessuna risposta << .. Ma prima che il grande evento accada posso solo dire che questa edizione sarà di certo, come hai detto tu, diversa… Strutturata in maniera più stimolante, il pubblico non potrà staccare gli occhi dallo schermo e… >> Una pausa ben studiata calò per un breve attimo << … Beh, sono sicuro al cento per cento che questa volta gli Hunger Games saranno molto più… >> Parole, ancora parole
<< Divertenti >>
Uno scroscio d’applausi irruppe nella piazza.
Mentre la gente sugli spalti si scambiava pacche d’eccitazione sulle spalle, il resto di Panem piangeva.


NOTE AUTRICI:

Clalla97 commenta:
Questo prologo non l'ho scritto io, quindi se dovete lanciare pomodori tirateli a lei *indica Wania*
Ok, a parte gli scherzi, a me questo prologo piace, anche se probabilmente vi ha lasciate (il maschile è sottointeso ù-ù sono nata femminista) un po' di amara curiosità. Se è così... beeeeene! Almeno andrete avanti a leggere!
Sono curiosa di sapere cosa vi immaginate. Come vi immaginate i protagonisti, se avete qualche fiuto da sensitivi sull'andamento della storia, così da un primo impatto con la descrizione della storia (se li avete e imbroccate il colpo, mi tolgo il cappello e vi do un enorme bacione- cosa che io non faccio mai- e in più vi regalo il tesserino per l'associazione Creature Potenzialmente Distruttive. Io sono già iscritta ù-ù non come sensitiva ma come schizzopatica *si inventa termini a caso... o forse no??* Dite che un sensitivo non è potenzialmente distruttivo? Forse avete ragione... forse è più costruttivo... in quel caso non è a me che dovete rivolgervi ù-ù)
Beeene... vi lascio alla mia compare (compare è maschile?? Sì, credo di sì... mi nascondi qualcosa per caso Wa'??), nonché quasi altrettanto pazza Wania! ù-ù

Wania97 commenta:
No, sono una femmina -.-'' Ma meglio che tu resti col dubbio, Cla!
Allooora, lettori. Pensatemi come se fossi con le braccia spalncate e gli occhi chiusi al fine di ricevere i pomodori! 
Questo prologo a me non fa impazzire (come non mi fa impazzire il novantanove per cento di quello che scrivo), un po corto, spiega troppo poco, chisà quanti errori di battuta che non riesco a intercettare! A momenti queste note delle autrici sono più lunghe di quello che ho scritto!! Vaaabbè, tanto sgobba la Cla coi capitoli lunghi ( *Wania fa una risata malefica*)
No dai, seriamente. Fateci sapere cosa ne pensate, siamo aperte a tutte le critiche!
Il titolo della fict è ideato dalla Cla, ho fatto ambarabaccicoccò con quello che avevo fatto io e ignorando il risultato ho pubblicato il suo =) (Ma non diteglielo! Mi raccomando, SSSH!)
La stavo facendo impazzire a furia delle indecisioni!
Sperando che i pomodori vadano per una fortunata coincidenza alla Cla
Wany

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Capitolo 2
*** Orme sulla sabbia ***


Orme sulla sabbia

Ciò che vedeva era soltanto questo: 
comicità e miseria, comicità e miseria.
E allora, insieme con la pena e l'orgoglio 
della conoscenza, venne la solitudine, 
perché gli riusciva intollerabile la vicinanza degli inetti 
con lo spirito gaiamente ottenebrato, 
e il marchio che lui recava sulla fronte li respingeva. 
(T. Mann, Tonio Kröger)


Non importava che fosse ancora buio, lì nel distretto 4. L'oscurità era una buona amica dei pescatori, dopotutto. L'alba non era ancora sorta, ma la città era già animata dalle voci di chi era rimasto sveglio tutta la notte ad aspettare di poter ritirare a bordo le reti, di chi aspettava il pesce da vendere la mattina al mercato o da stipare nel primo treno merci diretto a Capitol City, di chi usciva semplicemente per fare quattro passi a quell'ora, perché la solitudine era una brutta cosa e i pescatori erano i migliori, nel farti sentire accettato. Lenore sentiva le risate anche dalla soglia di casa sua, ilarità suscitata da un umorismo tutto loro, un umorismo che non la toccava.
Era silenziosa, la casupola in cui abitava, la madre non era ancora tornata. Non c'era nessuno che potesse preoccuparsi di lei, che potesse ordinarle di tornare a letto e rimanerci per un altro paio di ore. Avrebbe quasi desiderato che qualcuno lo facesse, almeno una volta. Quasi.
Si incamminò con calma verso la pineta che affiancava quel piccolo pezzo di erba incolta che lei si azzardava a chiamare giardino.
Il tappeto di aghi secchi scricchiolava sotto i suoi piedi senza che lei facesse nulla per mascherare il rumore, in fondo non c'era anima viva che lo ascoltasse. Non era proibito gironzolare tra quegli alberi, ma nessuno ci pensava nemmeno, non vicino alla loro casa. 
Annusava a fondo quell'aria dall'odore salmastro, quell'aria che tanto odiava perché si appiccicava alla sua pelle, ai suoi capelli, facendola sentire un'alga maleodorante. Gli uccelli erano già svegli, come sempre e le facevano compagnia con il loro canto fastidioso, rubandole il silenzio. Tutto sommato, però, le piacevano, con la loro inconsapevole allegria, con la loro libertà...
Camminò per parecchi minuti alla ricerca dei familiari cespugli che si erano arrampicati lungo gli steli spinosi dei rovi, sentinelle del suo piccolo angolo di mondo in cui nessuno poteva penetrare.
Li superò, non senza aver pagato un paio di graffi e versato qualche goccia di sangue come pedaggio, lacerando l'ennesimo paio di pantaloni che sua madre avrebbe guardato con occhio stanco e che avrebbe gettato sull'altissima pila di vestiti da rammendare. Che Lenore avrebbe ricucito, non di certo lei.
Ed eccolo lì, dopo un altro tratto di strada fra sterpaglie ed ortiche, il suo rifugio.
La piccola spiaggia sembrava inglobata nella pineta come una spirale colorata in una biglia di vetro soffiato, una di quelle palline con cui giocava da piccola. La striscia di sabbia non era molto larga, e gli alberi incombevano quasi minacciosi, tentando di soffocarla. Quello su cui si affacciava era un tratto di mare piuttosto agitato, in qualsiasi stagione dell'anno, e perciò pressoché deserto, ma la piccola insenatura accoglieva acqua placide in cui le piaceva nuotare, quando era troppo tesa e il peso della gravità la schiacciava al suolo.
E come tutte le mattine Lenore si sedette, togliendosi le scarpe e affondando le dita nella sabbia fine e bianca alla luce del sole che sorgeva all'orizzonte. E come tutte le mattine dopo qualche minuto si stese completamente, disegnando un angelo con gambe e piedi. Sognava di farlo con la neve, un giorno, ma da quelle parti non nevicava mai. Odiare il caldo e nascere nel Distretto 4 era un pessimo scherzo del destino. Almeno c'era il mare...
Solitamente a quell'ora, quando i riflessi arancioni cominciavano ad allungarsi sull'acqua limpida, Lenore si toglieva lentamente i vestiti e scivolava a sfiorare il fondale marino con le labbra, nuotando e osservando le figure sfocate attraverso gli occhi che bruciavano per il sale.
Ma non quel giorno. Perché c'era una Mietitura, ad aspettarla, e l'acqua per una volta non sarebbe riuscita a darle la sicurezza che voleva.
Così si alzò e frugò tra i cespugli spinosi, tirandone fuori un fagotto ormai consumato dal tempo. C'erano dei coltelli e una spada lì dentro, le lame corrose dalla salsedine, qualche piccola macchia di ruggine a incrinarne l'opacità uniforme.
Ricordava quando sua madre glieli aveva regalati, era stata l'ultima volta che avevano litigato sul serio. Non perché poi le cose fossero andate meglio, ma semplicemente perché fra loro non cerano più stati contatti degni di tal nome.

Lenore era stesa sul pavimento di legno rovinato della casa, braccia e gambe larghe, un vago sorriso stampato sulle labbra. Aveva superato indenne la sua seconda Mietitura, ne rimanevano solo cinque da affrontare. La prospettiva non era così rassicurante, ma lei era ancora lì, ancora viva e non su un treno diretta a Capitol City, e ciò non poteva che renderla felice.
La madre entrò nella stanza sbattendo la porta, cosa che innervosiva immancabilmente la ragazza, e si sedette sulla sedia a dondolo zoppicante, appoggiando un grande fagotto sulle proprie ginocchia. Non si era tolta lo scialle, né le scarpe sporche di terra. Era strano, considerato che era sua madre, quella di cui si stava parlando. Miss Ordine A Qualunque Costo.
“Che c'è, mamma?” chiese la ragazza con voce annoiata, evitando di guardarla negli occhi. Non lo faceva mai, c'era sempre quel riflesso di tacita accusa, nelle sue iridi verde ghiaccio, un riflesso che la faceva sentire un'intrusa nella vita di sua madre, una zecca che si era appiccicata alla sue gambe e che non voleva saperne di mollarla.
“Oggi c'è stata la Mietitura.”
“Come ogni anno, d'altra parte. Che cosa c'è di così anormale? Tanto non mi hanno estratta. Sono ancora qui. Non hanno portato via il tuo capro espiatorio preferito.”
Si aspettava un coro inviperito di recriminazioni, una fila interminabili di “Sei ingiusta, io faccio così tanto per te. Non sei il mio capro espiatorio, se la mia unica ragione di vita.”
Eppure quella fila interminabile di balle non arrivò. Lenore si scontrò invece con un'espressione di dura rassegnazione.
“Lo faranno invece. Prima o poi ti estrarranno. Succede sempre a quelli che se lo meritano meno.”
La ragazza la fissò, senza lasciare che la sorpresa che animava i suoi pensieri trapelasse. Sua madre non si meritava quel premio. Non avrebbe visto ciò che provava.
“Cosa ti fa pensare che io me lo meriti meno degli altri? Cosa ti fa pensare che abbia meno colpe della ragazzina di dodici anni che è stata estratta oggi?” chiese, senza avere la soddisfazione di vedere la comprensione giungere alla mente di sua madre e il rimorso straziarne l'espressione. Elisha rimase ferma, torturando il nodo che legava il fagotto.
“Tutto quello che io ho passato... quello che hai passato tu... quello che abbiamo passato insieme.”
Lenore rise, un suono amaro che riempì l'aria e colpì la madre come un pugno.
“Sai, è per questo che ti disprezzo tanto, mamma.” La donna trasalì, come se la figlia l'avesse schiaffeggiata veramente. “Tu e la tua patetica convinzione di essere sempre la persona più sfortunata di questo mondo. Sei sicura di non soffrire di manie di persecuzione? Mettitelo bene in testa, mamma. Noi non siamo nessuno di speciale. E il fatto che tu sia ancora convinta del contrario dimostra quanto ti stia illudendo. Credevo fossi più realista. Soprattutto considerato quello che fai tutti i giorni. O quello che non fai, dipende dai punti di vista.”
Elisha strinse con forza i denti, impedendosi di rispondere e slegò il sacco di stoffa, rivelando una spada lucida e una mezza dozzina di pugnali da lancio.
“Non mi importa quello che pensi di me... ma queste...”
“Come hai avuto quella roba?” la interruppe la ragazza, alzandosi a sedere.
“Lo sai benissimo come l'ho avuta, quindi evita di farmelo dire.” rispose la donna con espressione impassibile.
“Già... e cosa vuoi che ci faccia? Potrei aprirci qualche scatoletta di latta, in effetti.”
“Non fare domande di cui conosci già la risposta. Dovresti allenarti, non voglio che tu finisca nell'Arena senza essere preparata.”
Lenore si mise le mani fra i capelli, tirando le ciocche per combattere il nervosismo.
“Smettila, mamma! Smettila di dare per scontato che verrò estratta. Sembra quasi che tu lo speri, in fondo in fondo. Se dovessi uscire viva saremmo ricche e tu non avresti più bisogno di passare le sere ad... intrattenere uomini che hanno voglia di un paio di ore particolarmente divertenti. Se dovessi rimanerci secca tu ti saresti tolta una bocca da sfamare. Non è vero?”
“Non lo dire. Nessuno si augurerebbe una cosa simile, per i propri figli.”
“Nessuno si augurerebbe nemmeno questo.” ribatté lei allargando le braccia per mostrare la casa che la circondava, comprendendo nel suo disgusto anche la stessa madre.
Elisha si alzò in piedi ficcando il fagotto fra le mani di Lenore.
“Fai quello che ti pare. Non so che altro dirti. Io vado, ho da fare.”
La ragazza fissò la madre che usciva dalla porta, le spalle rigide, la testa bassa, ma il rimorso non si fece sentire. Tredici anni passati da sola. Il rimorso non faceva parte dei suoi amici. La rabbia, invece, sì.
Fissò la madre uscire e non la fermò, ma il fagotto finì nella baia alla spiaggia.
Nell'Arena non ci sarebbe finita. Ma era meglio essere previdenti.


Il coltello si conficcò a fondo nella corteccia di pino che svettava ai limiti della striscia sabbiosa su cui affondavano i piedi di Lenore.
La ragazza sospirò, fissando quei pochi millimetri di lama che ancora sporgevano dal legno scheggiato dagli innumerevoli lanci, passando le dita della mano destra sull'avambraccio sinistro, sentendo il profilo familiare delle cicatrici che si era procurata da sola col tempo e l'ispida morbidezza dei peli schiariti dal sole. Era un gesto che le dava sicurezza, che la faceva aggrappare alle poche cose veramente reali della vita. Il dolore era una di quelle. Non che Lenore avesse provato molto dolore, nella sua vita, forse era il caso di dire che la sensazione constante nel corso degli anni fosse stata la delusione. Delusione di scoprire quello che faceva sua madre per procurarle del cibo, delusione di capire che le cose non sarebbero cambiate, delusione di scoprire che suo padre era un maledetto bastardo e non il principe azzurro dei suoi sogni, delusione ogni volta che si guardava allo specchio perché era troppo debole per sottrarsi a quella spirale di solitudine che lei stessa aveva generato. Delusione nel pensare che forse non erano gli altri ad essere sbagliati, forse era in lei ad esserci qualcosa che non andava.
Camminò fino al tronco per poi divellere quell'ultima serie di coltelli che aveva lanciato. Erano dei buoni colpi, ma la cosa aveva smesso di importarle pochi giorni dopo il primo ottimo tiro che era riuscita a fare, l'anno prima. Una volta vinta quella sfida che l'aveva appassionata per molto tempo, anche l'Allenamento era diventato qualcosa di meccanico, una routine senza senso.
Si voltò per tornare al proprio posto e ricominciare, per l'ultima volta, ma si fermò, fissando le sue impronte sulla sabbia, per niente nitide e poco pronunciate. Non era un'impresa facile lasciare orme così leggere su un suolo simile, ci aveva lavorato tanto, ma in quel momento quelle sagome la infastidirono, fastidio che aumentò quando un soffio di vento più forte degli altri smosse quei piccoli granelli che coprirono definitivamente i solchi.
Lasciò cadere i coltelli, decidendo che per quella mattina era abbastanza, tutto considerato, e si incamminò verso la riva del mare, affondando con deliberata forza i piedi nel terreno, lasciando impronte profonde e definite. Il vento non avrebbe cancellato un'altra volta i segni del suo passaggio.
Le dita entrarono a contatto con l'acqua gelida del mattino, che la fece rabbrividire, ma non era fra le sua abitudini quella di rimanere coi piedi in ammollo fino a che la temperatura non le fosse divenuta familiare, perciò continuò ad avanzare, per poi chinarsi sentendo la familiare sensazione delle ginocchia che sprofondavano nel fondale marino, facendo sì che l'acqua le lambisse i fianchi. Si lavò il viso bagnato di sudore, grattando senza troppe cerimonia le guance sporche, lasciando tracce di pelle morta sotto la mezzaluna pronunciata delle unghie. Il volto le bruciava per quella combinazione di graffi e sale e il freddo provocato dal vento che soffiava impietoso doveva averle arrossato il viso.
Lenore esaminò il pelo dell'acqua, alla ricerca della propria immagine, ma quella era troppo limpida per restituirgliela. Il fondale appariva chiaro, sotto la superficie danzante, e il suo viso non era altro che un'ombra informe, ma la ragazza sapeva già cosa ci avrebbe visto, in quel riflesso.
Avrebbe visto i capelli neri sfuggiti da una coda improvvisata, bagnati, appiccicati dal sudore e dall'acqua alla pelle arrossata. Avrebbe visto il viso dorato dal sole, i tratti induriti dall'espressione distante, le labbra contratte, i muscoli tesi. Avrebbe visto un paio di occhi grandi, azzurri come il mare che vedeva fuori dall'insenatura, ma vuoti.
Nessuno avrebbe mai potuto dire che lei avesse ereditato la bellezza di sua madre. Lei che aveva quegli stupendi occhi verdi, quei capelli biondi, i lineamenti delicati e il viso a cuore...
Avevano lo stesso fisico, certo, magro, dall'ossatura sottile e fragile, slanciato, i fianchi disegnati da una curva morbida ma non troppo accentuata, la vita stretta, il seno non troppo pieno... Ma la loro somiglianza finiva esattamente lì dove cominciava.
Lenore aveva il viso di suo padre e spesso si chiedeva come Elisha potesse sopportarne la vista senza arrivare ad odiarla.
Aveva quattro anni quando aveva chiesto per la prima volta alla madre dove fosse “il suo papà”, perché non fosse lì a tagliare la legna per il fuoco, a dare la buonanotte alla figlia e a portarla sulle spalle in giardino. Tutte le bambine che lei osservava da lontano, nella sua solitudine, ne avevano uno. Ma non lei.
La risposta era stata secca, pronunciata in modo amaro, da labbra talmente contratte da apparire invisibili. “Sei fortunata che non sia più qui con noi.”
Lenore era rimasta sorpresa da quelle parole. Sembrava che la madre fosse così in collera con quell'uomo di cui la bambina conosceva l'aspetto solo grazie allo specchio in camera sua, solo grazie al proprio riflesso.
“È morto?” aveva insistito. Elisha non si aspettava quella domanda, non da una bambina di quattro anni, perciò la risposta era stata frutto di un puro istinto.
“Magari...” parole sputate fra i denti, fatte di rabbia e risentimento.
Lenore si era bloccata, fissando la madre.
“Non si dicono queste cose.” era stata la sua infantile conclusione, prima di andarsene. “Mai.”
Non ne avevano più parlato, nonostante i numerosi tentativi della ragazza. Elisha sembrava una campionessa a schivare l'argomento. Ma cosa pensava? Che Lenore non lo avrebbe saputo? Che non avrebbe sentito le voci che giravano per la città? La figlia bastarda della puttana e dell'uomo che l'aveva messa incinta a diciassette anni per poi filarsela e lasciarla sola come un cane.
Era in quel modo che aveva saputo anche del lavoro che faceva la madre. Non dalla sua voce, non dalle sue parole esitanti, per addolcire il concetto. Lo aveva saputo dalle sentenze dure di gente che la vedeva passare per strada, che si chiedeva se lei avrebbe fatto la sua stessa fine, a vendersi per del pane e dei vestiti. Non l'avevano mai detto ad alta voce, in casa. Elisha sapeva che Lenore sapeva. E lì finiva il discorso. Allusioni velate, commenti pungenti. Ma mai quella parola detta ad alta voce. Puttana.
No, Lenore non aveva preso la bellezza della madre, e ne era contenta.
Forse era bella anche lei, a modo suo, quella bellezza che passa inosservata a meno che non ci si concentri a fondo. Avrebbe preferito cento volte essere brutta, forse. Pur di non avere nemmeno la possibilità di prendere la strada di Elisha.
Odiava quei commenti fatti a mezza voce, senza nemmeno curarsi che lei non li sentisse, come se non fosse realmente presente o che non valesse la pena di premurarsi di essere discreti.
“Me la farei, se solo non fosse così snob. Col lavoro che fa sua madre anche lei deve essere parecchio brava. Voglio dire, guardala.”
Erano quelli i momenti in cui si pentiva di avere lasciato i coltelli alla spiaggia ed era esattamente quello il motivo per cui li lasciava lì, anche se la tentazione era tanta.
Era per quello che odiava Elisha, anche se era l'unica persona che le fosse mai stata vicina. Perché l'aveva marchiata, aveva fatto sì che si richiudesse in quella fortezza per tenere lontano il mondo, per non lasciare il corpo nudo, inerme alle sassate che tutti le rivolgevano.
Aveva creato quella crisalide, occupata solo da un piccolo bozzolo di rabbia che a volte si dilatava fino ad occuparla del tutto, ma che il più delle volte era confinata in un angolino, lasciando il guscio vuoto.
Un guscio vuoto che si lasciava scivolare addosso ferite, pugnalate, colpi, bruciature, senza curarsi dei segni che lasciavano. Facendo finta che non facessero male. Era più facile, in quel modo. Era più facile conservare il rancore e rivolgerlo contro una sola persona. Era soddisfacente.
Era tardi, si rese improvvisamente conto e si alzò, uscendo frettolosamente dall'acqua, raccattando i coltelli e la spada e nascondendoli di nuovo fra i radi cespugli, agguantando le scarpe e avviandosi verso casa, i piedi ricoperti di sabbia bagnata, gli aghi secchi che le graffiavano le piante callose.
Non se n'era accorta, Lenore, che le sue impronte erano di nuovo impercettibili. Era quello uno dei suoi difetti: vampate di attenzioni quasi ossessive che duravano quanto la fiamma di un cerino per poi consumarsi velocemente e farla di nuovo cadere nell'apatia.
Ma quelle orme esasperatamente calcate, quelle che aveva lasciato in quel precedente momento di rabbia, erano ancora lì, sulla spiaggia.
Lenore era stata in quel posto.
Aveva lasciato una traccia nel mondo.
Che fosse la prima?

“Finalmente! Dove accidenti sei stata? Cielo, guardati, sei impresentabile.”
Era facile ignorare quella voce, ormai. Un grugnito, come risposta, le parve più che sufficiente.
“Non vorrai mica entrare in casa con quei piedi, spero. Sporcherai tutto di sabbia.”
Ecco, quella frase non si meritava nemmeno il grugnito.
La mano della madre afferrò saldamente il braccio di Lenore, bloccandola sulla soglia di casa.
“Degnami della tua attenzione.”
“Di che ti preoccupi, Elisha? Questa casa la pulisco io. Spazzerò quando torno.” Non mamma, Elisha. Veleno, in quelle parole. Veleno puro. La donna lasciò il braccio come se si fosse scottata.
“Ti... ti ho preparato l'acqua per il bagno... se vuoi. Il vestito è sul tuo letto.”
“Mi lavo fuori. È più veloce.”
Era vero, almeno quello. Era come prendere due piccioni con una fava: fare più in fretta e allo stesso tempo ferire la madre. Anche se l'acqua gelida non la attirava più di tanto.
Lenore si ritrovò a guardare il letto su cui aveva dormito per anni, in quello sgabuzzino di camera, dopo essersi lavata. Ma per una volta, l'oggetto della sua attenzione non era il disgusto per quella sottospecie di stanza che era la sua camera, ma per il vestito adagiato sul materasso, fra le lenzuola sfatte.
Era sicuramente nuovo, o era di sua madre, perché non lo aveva mai visto. Era di un tortora chiaro, con dei disegni neri lungo uno dei fianchi. Era bello, ma di una cosa era sicura: non lo avrebbe messo. Neanche morta.
Una gonna dall'orribile stampa a fiori, una canottiera nera, dei sandali bassi e consumati dal tempo e una treccia disordinata erano più che sufficienti, per andare al macello.
La madre sospirò rassegnata, vedendola entrare in salotto.
“E il vestito che ti avevo preparato?”
“Non mi piaceva, preferisco così.”
“Vuoi che ti pettini io? O che ti trucchi un po'?” Acconciature? Trucchi? La speranza nella voce della donna la infastidì.
“Vatti a truccare tu, mamma. È un gran giorno. Stasera avrai uomini disperato per la perdita di un figlio oppure una schiera di esaltati perché il loro non è stato estratto. Devi farti bella.”
L'espressione ferita la ricompensò più di mille lanci andati a segno.
Affonda. Colpisci. Sorridi. Leccati il sangue che è rimasto sulle mani.
Sei contenta di averla ferita così a fondo, non è vero, Lenore?
Sì.
No.
Ormai non lo sai nemmeno tu.

Era una fortuna che il vento si fosse calmato, o la sabbia volante sarebbe stato un gran fastidio per gli spettatori della Mietitura annuale. Era tradizione svolgerla sulla spiaggia.
Il palco sembrava leggermente traballante a causa del terreno poco solido, ma Capitol City non avrebbe mai permesso che una cosa solenne come quella si trasformasse in una burla.
Il Sindaco e i Mentori erano seduti su delle sedie, sul palco. Non erano molti, i Vincitori sopravvissuti, negli ultimi cinquanta anni gli eroi del Distretto 4 erano scarseggiati, e fra quelli ancora vivi, non colpiti da malattia o non ancora raggiunti dalla vecchiaia, si contavano una ragazze e tre ragazzi. Una magra annata, sicuramente.
La maggior parte dei ragazzi era arrivata ed era già schierata, in piedi, in attesa dell'estrazione. C'erano pochi ritardatari, come lei, che si affrettavano per raggiungere i banchi di registrazione.
Le due bocce di vetro sembravano fissarla ridendo, mentre lei si disponeva assieme alle altre ragazze, ignorando quel piccolo vuoto che le si formò intorno. Era normale.
Lei e sua madre avevano la lebbra, no?
C'era silenzio, come al solito. I ragazzi persi nei loro pensieri e nelle loro preghiere, i genitori altrettanto infervorati dalla speranza che non toccasse al loro figlio, o magari accesi dal desiderio che fosse proprio il sangue del loro sangue ad essere estratto, per dare gloria alla loro famiglia.
Chissà se Elisha era tra la folla di adulti. Probabilmente no, dopo le parole che le aveva rivolto. Non sapeva se essere triste all'idea di essere sola per l'ennesima volta o soddisfatta che il suo colpo fosse andato a segno. Probabilmente tutte e due.
Farika salì sul palco, sorridente e allegra come sempre. Lenore si era sempre chiesta se i Presentatori fossero fatti con lo stampino. Tutta quell'ostentata ipocrisia, quella desolante allegria quasi grottesca...
La ragazza raggiunse il microfono, con la sua pelle azzurra cosparsa di brillantini dorati, il vestito bianco come schiuma marina, i capelli castani accesi dal sole e da sfumature più chiare non di certo naturali, l'età non identificabile sotto tutti quegli strati di chirurgia. Erano dieci anni che era la Presentatrice del Distretto 4 ed era ancora identica alla prima volta.
“Felici Hunger games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore”
Ormai tutti i presenti sarebbero stati in grado di ripetere il discorso con le esatte parole che Farika avrebbe pronunciato. Prima la formula di rito, poi il filmino di Capitol City, poi le solite cavolate dette giusto per mantenere le apparenze. E poi il sorteggio.
“Come tutti sapete questo è il Centesimo anno di Hunger Games, la nostra Quarta Edizione della Memoria. E la busta che il nostro amato Presidente ha estratto ci ha rivelato che quest'anno le Arene saranno due, e che perciò ogni Distretto dovrà estrarre quattro Tributi. Non la trovate un'idea meravigliosa?”
Quel commento avrebbe potuto o meglio, dovuto, risparmiarselo, e la donna lo capì dagli sguardi che l'intero pubblico le rivolse, ammutolì, si schiarì la voce e si avvicinò alle sfere di vetro che contenevano i bigliettini con i nomi.
Lenore aveva avuto bisogno di tessere supplementari solo poche volte, perciò il numero di possibilità di essere estratta erano dieci su... su quanti, nemmeno lo sapeva. La cosa la rassicurava.
“Prima le signore...”
Declamò immergendo la mano fra quel turbinio di pezzetti di carta.
“Rosemary Carlton.”
Lenore respirò lentamente osservando la ragazza bionda raggiungere il palco e salire le scale con espressione fiera, anche se sotto quella maschera si leggeva a chiare lettere il terrore.
Assomigliava troppo ad Elisha, quella Rosemary, e la ragazza si ritrovò a pensare che se fosse stata un Tributo nell'Arena della ragazza le sarebbe quasi piaciuto, ucciderla.
“E poi... Lenore Reeds”
Lenore...
Lenore Reeds...
Era lei?
Spazzerò quando torno.
Smettila, mamma! Smettila di dare per scontato che mi estrarranno.
Nell'Arena non ci sarebbe finita.

Vide i visi che si voltarono verso di lei, mentre avanzava verso il palco. Sentì i sussurri quando la riconobbero, lesse il disgusto nel volto di Rosemary, incontrò gli occhi pieni di orrore della madre.
Era lì.
Aveva avuto ragione.
L'avevano estratta.
E il fatto che fosse successo veramente gliela fece odiare ancora di più.
Il viso di Farika le fece venire una strana voglia di vomitare, ma rimase ferma, impassibile, a differenza della bionda che continuava a sorridere, sorniona, finta.
“Bene... passiamo ai maschietti.”
I visi femminili, giù nel pubblico erano rilassati, si abbracciavano, loro, che l'avevano scampata. Lenore odiò anche quelle ragazze che erano colpevoli, perché sarebbero tornate a casa, perché avrebbero dormito nel loro letto, perché sarebbero rimaste vive.
“Brett Hank.”
“Dave Sharp.”
I due ragazzi le raggiunsero sul palco, calmi, sembravano sicuramente più veri della bionda. Tutti e due coi capelli castani schiariti dal sole, la pelle abbronzata, gli occhi scuri. Si assomigliavano, anche se uno sembrava decisamente troppo contento di essere al centro dell'attenzione.
“Felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore.”
Li condussero giù dal palco, senza fretta, lasciando che i sopravvissuti potessero compatirli e ammirarli con calma.
Salutarono il sindaco e i Mentori, tutti meno che lei, troppo presa dai suoi pensieri per riuscire a fare un gesto che non fosse camminare o pensare... o respirare.
Stavano andando verso il Palazzo della Giustizia, lo sapeva.
Ripensò a quelle impronte sulla sabbia, quelle che aveva marcato con forza.
Chissà se il vento le avrebbe cancellate.
Avrebbe cancellato lei, questo era certo.
Magari qualcosa sarebbe sopravvissuto a testimoniare che lei c'era stata. Anche solo quelle orme.
“Mamma mia che faccia... va tutto bene?”
Uno dei due Tributi l'aveva fermata. Brett? Dave? Non lo sapeva.
Non ebbe nemmeno la presenza di spirito per meravigliarsi che qualcuno la toccasse e le rivolgesse la parola di sua spontanea volontà.
“No... non va per niente bene.”
Il vento era tornato a soffiare, prepotente.
Le orme, lì nella sua amata spiaggia, vennero spazzate via.




Clalla97 commenta:
Ok, lo ammetto... questo capitolo è mio. Purtroppo. Quando lo scrivevo mi venivano in mente centomila cose da dire nelle mie note e ora... ora... vuoto totale.
Stavolta il lancio dei pomodori me lo prendo io, vero?
Beh, Lenore mi piace come personaggio, silenziosa, una di quelle che soffre in silenzio, che dice cento cose senza dire nulla.
Quindi vedremo cosa combinerà nell'Arena... non so voi ma io mi sento male solo a pensarci, considerato che sarò io a doverle scrivere. Speriamo non finisca male come tutti i miei personaggi, per una buona volta.
Bene, vi lascio alle lettura... e beh... siate buoni, io e i pomodori abbiamo un cattivo rapporto
Clara

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Capitolo 3
*** Il favore del non ritorno ***


Il favore del non ritorno.

<< Facci il favore di non tornare, chiaro, Darren? >>
Teneva lo sguardo incollato al pavimento, come se la moquette scadente a terra potesse in qualche modo cavarlo fuori da quella situazione.
Gli sarebbe piaciuto sprofondare nel terreno all’istante. Gli sarebbe piaciuto che il legno ai suoi piedi si aprisse facendolo cadere in una voragine nera. Ma era inutile concedersi con tanto desiderio ad inutili speranze. Nessuno poteva toglierlo da lì. Tanto valeva adattarsi.
Era seduto su un divanetto di velluto rosso. Nella sala del palazzo della giustizia del distretto dieci. Le sue mani continuarono a giocherellare fra il tessuto del sofà anche dopo quell’ultima frase da parte del patrigno. Contorcendosi intorno ai corti fili che, bastardi, osservavano la scena ammutoliti.
Il suo sguardo, fisso a terra, s’alzo molto lentamente fino a quello del suo interlocutore. Gli occhi di ghiaccio perforarono quelli verdi dell’altro.
Gelandoli nell’esatto istante in cui li incontrarono. Avevano quella capacità, gli occhi di Darren. Sembravano poter congelare qualsiasi cosa toccassero, senza che nemmeno il loro proprietario se ne rendesse conto
<< Non m’interessa cos’hai da dire >> Darren Thomson, soprannominato il bastardo, non avrebbe potuto assumere tono più calmo. Calmo e distaccato. Calmo, distaccato e freddo
<< Non m’interessa cosa penserai guardando lo schermo alla tv. O cosa dirai a Melissa per spiegarle che il fratellastro cui teneva non c’è più, o almeno non ci sarà più >> Il suo tono, ricolmo di gelo, traboccava della determinazione di un ragazzo quasi adulto.
Un ragazzo forse ancora scioccato. Forse ancora spossato, nel sottofondo. Ma anche terribilmente cosciente di avere una meta. Uno scopo da raggiungere.
<< Io tornerò da lei, da Micheal e da Hod >> La sua voce non s’incrinò, mentre dentro di sé si chiedeva quanto fossero veritiere quelle parole. Una pausa. Lo sguardo del patrigno mandò lampi di rabbia, repressa al solo scopo di ascoltare la fine della frase
<< Ma ti assicuro che non tornerò da te. Ne dalla mamma. Me ne andrò al villaggio dei vincitori, il più lontano possibile dalla tua casa >> Il muro era lì, palpabile fra i suoi veri sentimenti e quelli che invece lasciava trapelare. Come una diga che trattiene il lago lasciando fuoriuscire solo qualche fiume.
<< Spero che tu muoia >> Disse l’altro.
Quella frase, dopo almeno due minuti di silenzio teso, gli risuonò nelle orecchie. Vibrò come un elastico fra le loro figure, si espanse fino ai muri. E, lentamente, sembrò quasi spegnersi. Il suo patrigno continuò, imperterrito
<< Lo spero io. Lo spera tua madre. Ti preferiamo morto >>
Quelle parole aprirono vecchie ferite mai cicatrizzate. Come se lentamente la punta di un coltello avesse cominciato a girare all’altezza delle viscere del nuovo tributo del distretto dieci, giocandoci ripetutamente.
<< Mi chiedo perché non sia venuta a dirmelo di persona >> Rispose il ragazzo, senza riuscire a nascondere quella ferita. La diga nella sua testa di certo non era esattamente sotto controllo << Lei vuole solo dimenticarsi di te. Tutti lo vogliono, bastardo >> Il patrigno uscì dalla stanza con in volto lo stesso disgusto di quando era entrato. La porta sbattè con violenza sui cardini con un tonfo fastidioso. Darren rimase solo.
Diciassette anni, corporatura abbastanza muscolosa. Capelli neri, ricci. Occhi azzurro ghiaccio da poter gelare chiunque con lo sguardo.
Seduto su un divanetto a tenersi la testa fra le mani.
Stanco.
Frustrato.
Impaurito.
Determinato.
Non era venuto solo Alec, il patrigno, a salutarlo. Erano venuti anche i suoi fratellastri, tranne Joshua, naturalmente. Lui non sarebbe mai venuto. Lo odiava troppo.
Melissa si era fiondata su Darren non appena entrata in quella stanza. Una bambina di nove anni magrolina, lo sguardo ribelle attraverso quegli occhi verdi. Gli si era appesa al collo e non lo aveva lasciato andare per alcuni minuti, tentando invano di trattenere i singhiozzi.
Poi c’era stato Micheal. Lui gli aveva assicurato che anche il piccolo Hod, paralizzato alla schiena, lo salutava e gli diceva di vincere. Imbarazzato, Micheal l’aveva addirittura abbracciato. Ed imbarazzato, Darren aveva ricambiato quello slancio. In uno di quei gesti goffi che fanno i ragazzi per dimostrare che ci tengono.
Di sangue, erano fratellastri. Ma avendo la stessa età, avendo caratteri simili, erano fratelli. E questo, si disse Darren, nessuno poteva toglierlo. Nemmeno Capitol City.
<< Mia madre.. >> Aveva cominciato il fratellastro << … Lei non viene.. Cioè non.. >>
<< Va bene così >> L’aveva interrotto Darren << Non c’è problema >>
<< Lei ti vuole bene >>  Alchè, lui aveva sorriso tristemente
<< Sappiamo tutti che non è così. Sono il suo bastardo, no? >> Era calato il silenzio a quelle parole
<< Tu però vinci, okay? >> Melissa era intervenuta, con occhi pieni di preoccupazione << Spacchi sempre la legna, qui nel distretto.. E poi badi agli animali più grossi… >> Un altro abbraccio. Una lacrima scese sulla guancia della sorellastra.
<< Sai che puoi vincere. Devi solo volerlo. >> Quelle parole, Melissa gliele aveva urlate mentre due pacificatori li scortavano via. Ora, nella stanza, regnava il più assoluto silenzio. Devi solo volerlo. Ma lui, realmente, lo desiderava? Valeva la pena vincere quell’edizione? E per tornare da chi? Anche i suoi fratellastri, per quanto gli volessero bene, potevano fare a meno di lui. Per cosa doveva provare a vincere, allora?
Per lo stesso istinto di sopravvivenza che ti ha tenuto in vita per tutti questi anni gli sussurrò una vocina nella sua testa. Perché non sei capace di arrenderti. Ma sei capace almeno di vivere?
Con un moto di stizza scrollò la testa, accantonando quei pensieri.
 Più tardi venne portato in treno, attraversando la folla.
La gente gli riservava occhiate lunge e cariche di compassione o di sollievo. Più di uno riuscì ad avvicinarglisi abbastanza da rifilargli una pacca sulle spalle. Non erano molti a cui Darren piaceva. Ma il distretto dieci era uno dei distretti poveri. In simili circostanze, la gente ingoiava i problemi e sosteneva chi ne aveva bisogno.
Almeno fin dove poteva.
C’erano altri tre tributi, per l’edizione della memoria. Le ragazze avevano chiaramente pianto, anche se una sembrava ostinata a non farlo vedere, mentre attraversava il fiume di gente che la separava dal treno. Come si chiamava? Maggie, Megan… Qualcosa del genere... No, era Lacey. Con Maggie e Megan proprio non centrava.
Il ragazzo aveva un anno più di Darren, ma nessuno poteva considerarlo una vera minaccia. Magro, la faccia smunta. Gli occhi scuri, febbrili. La carnagione pallida, i capelli chiari. Mani fini, dita lunghe e sottili.  Jamie non era certo il ritratto della salute. Non che avesse qualche malattia od altro, lui era sempre così.
Era chiaramente agitato, mentre si contorceva le mani con sguardo basso. Perso in chissà quale orda di pensieri che a tratti affioravano flebilmente dalle sue labbra. Un sorrisetto smunto gli invase d’un tratto il volto. Darren si fece l’appunto di tenerlo d’occhio. Non era forte. Ma poteva sempre comportare un problema. Poi si ricordò improvvisamente che erano in due arene diverse.
Stranamente, quel pensiero lo fece sentire meglio.
L’altra ragazza avrà avuto quattordici anni, forse quindici. Gli occhi rossi, impastati da lacrime svanite, bastavano a mostrare la sua paura. Darren si sentì fortunato, guardando quei tre. Lui era più muscoloso, non un gigante, ma forte. Passava le giornate a sollevare pesi, a star dietro ad animali. Talvolta li uccideva anche, per il macellaio. Un lavoretto che gli consentiva abbastanza soldi per un regalino a Melissa, di tanto in tanto. 
Quella in cui viveva non era mai stata una famiglia povera, inoltre. Nemmeno ricca, certo. Ma il cibo bastava per tutti. La fame l’aveva patita poche volte in pochi inverni. E non era mai stata atroce. L’unica cosa che gli era veramente mancata era l’amore materno e quello paterno, non che fosse poco. In ogni caso, fisicamente era più forte. La fame poteva costituire un problema ma riteneva di essere abbastanza sano di mente da non rischiare di impazzire, come capitava frequentemente ad altri tributi, nell’Arena.
Quello che non ti uccide ti rende più forte.
 E lui si era costruito una corazza mentale abbastanza dura, considerata la sua vita.  Si, lui era decisamente più fortunato di quei tre. Ma questo, riflettè, poteva anche costargli caro. I tributi favoriti le minacce, anche piccole, tendevano a spazzarle via in branco. E se lui poteva essere una minaccia, allora era chiaramente un bersaglio che altri si sarebbero impegnati a trovare.  La morte sarebbe stata sempre dietro l’angolo. Ma dopotutto, erano gli Hunger Games, la morte era sempre dietro l’angolo.
 
 Forse, il suo vero padre sarebbe stato davanti ad uno schermo a guardarlo. Sicuramente. Ma l’avrebbe riconosciuto? Avrebbe capito che il tributo corvino del distretto dieci era suo figlio?
 Ma che differenza fa?
Quella vocina, nella sua testa, sembrava scavargli dentro.
Tuo padre è solo un pacificatore divertitosi con tua madre per una notte. Lo sanno tutti che l’ha stuprata. Lo sanno tutti che lei non lo voleva. Ne lui, ne te.
 Era cresciuto in una famiglia che, dopotutto, non era la sua. Con fratellastri che l’avevano accettato, tranne Joshua, il maggiore. Ma un patrigno ed una madre che invece non l’avevano mai digerito.
Erano stati costretti, a tenerlo. A tutto il distretto risultava lampante che Darren non facesse veramente parte di quella famiglia. Quando a dodici anni, a scuola, avevano parlato dei vecchi costumi di antiche case nobiliari era saltato fuori che i figli illegittimi dei nobili venivano chiamati i “bastardi” . Da allora, quel soprannome lo aveva perseguitato, nonostante l’incoerenza con i tempi e gli usi di ora.
Nel momento stesso in cui Darren salì sul treno, la sua mente si svuotò. Forse per il silenzio iniziale, una volta chiuse le porte dietro di lui. Il vociare delle persone di poco prima svanì mentre il treno si metteva in moto. Vennero condotti in un salotto, dove, tranquillo, il conduttore del distretto dieci sorseggiava una bevanda dallo strano color viola, mangiucchiando chissà quale dolce di Capitol City.
<< Oh, buongiorno miei cari, finalmente siete qui >>
 I tributi del distretto dieci si scambiarono un’occhiata.
Erano l’uno vicino all’altro, in una formazione compatta. Come se aspettassero di essere colpiti da chissà cosa da un momento all’altro. Come se non avessero ancora capito che in quella stanza la vera minaccia per sè stessi erano i propri compagni di distretto. E non quel treno. E non la gente di Capitol City. Per un attimo, furono in quattro uniti a fronteggiare uno.
Ma non durò più di un istante.
Un secondo dopo, ritornarono ad essere quattro sventurati persi.
<< Allora, avrete a disposizione una sola mentore, per quest’anno >> Cinguettò l’uomo. Era pelato, occhiali spessi dalla forma perfettamente tonda pieni di luccichini.
<< Ora è di là, potrete vederla fra una mezz’oretta >> Siccome nessuno sembrava intenzionato ad aprir bocca, il conduttore, Luzio, riprese
<< Ora rilassatevi, okay? Potete mangiare e bere ciò che più vi aggrada, potete visitare il treno o andare a cambiarvi nelle vostre camere. Le troverete contrassegnate dal numero d’ordine con cui siete estratti >> Nessun parlò, ancora.
Il silenzio si fece teso.
Teso e lungo.
 Poi Jamie, come Darren aveva predetto, si fece avanti per allungare una delle sue mani scheletriche verso un dolce dal colore del latte
<< Oh, quello è un muffin alla crema >> Cinguettò Luzio << Attento, nascosto all’interno c’è un mirtillo >> Sorrise apertamente, mentre anche la ragazzina quattordicenne (come si chiamava?) si fece avanti per provare uno di quei dolci.
In meno di due minuti, tutti e tre i tributi escluso Darren cominciarono ad abbuffarsi smaniosamente << è davvero buono >> Esclamò una delle ragazze << Questi mirtilli sono squisiti! >>
Darren passò quella mezz’ora senza mentore nella sua camera, lontano dagli altri. Girovagò senza meta nella stanza. Pigiò bottoni di cui non capiva l'uso (fino a quando un ' aria improvvisa non invase la stanza per poi svanire ), cercò di intendere come funzionasse l'armadio. Esplorò il bagno... Alla fine, fu certo che in quella stanza non si sarebbe mai trovato bene.
Troppo perfetta.
Troppo complicata.
Un passo avanti rispetto ciò cui lui era abituato.
Adesso anche le doccie sono un gradino più sopra di me. Pensò rassegnato.

Quando tornò nel soggiorno la mentore era già arrivata.
Si chiamava Katrhine Label.
Aveva capelli castani scuri e gli occhi color nocciola. Alta, dal fisico magro ma allenato. Sul viso portava una vecchia cicatrice all’altezza dell’occhio, ricordo della sua vecchia arena. I lineamenti del volto induriti dal tempo, severi e fieri. Aveva al massimo quarantatre anni, ma lo sguardo era quello di chi di vite ne ha viste più di una.
Era l’unica mentore del distretto dieci che ancora respirava.
<< Sei in ritardo >> Disse questa col tono di chi non ammette repliche.
Diceva la verità, gli altri tributi erano già seduti su dei divanetti di fronte alla sua poltrona. Darren si affrettò a prendere posto accanto ai suoi compagni di distretto
 << Mi spiace, ho perso la cognizione del tempo >>
La Label liquidò le sue scuse con un gesto infastidito della mano
<< Sei qui adesso. E noi abbiamo faccende più importanti da discutere >>
Nessuno fiatò
<< Allora >> Riprese la donna << Farò ciò che è in mio potere per aiutarvi, statene certi. Mi assicurerò che entriate in quelle arene con qualche carta da giocare >> Jamie aprì la bocca per dire qualcosa ma la mentore lo interruppe << Tuttavia, non potrò salvarvi tutti e quattro. Dio mi benedica se riuscirò a portare fuori anche solo uno di voi >>
Darren corrugò la fronte contrito.
<< Avrete tre giorni d’allenamento per imparare tutte le tecniche che potranno esservi utili nell’Arena, del resto questo lo sapete già, no? È importante che lavoriate sodo. Non fatevi mai intimorire dagli altri tributi o vi vedranno come cuccioli spaventati. Io posso aiutarvi con la spavalderia, giusto per non rovinare in primis la vostra immagine >>
Darren contrasse la mascella.
<< Inoltre esigo che qualsiasi decisione prendiate riguardo alla vostra strategia mi sia comunicata. Se dovessi essere allo scuro di..  Thomson, c’è qualche problema? >>
Darren aveva involontariamente fatto un gesto con la testa mentre si ripeteva di non dire nulla. Non era sfuggito agli occhi della Label << Qualcosa non ti convince? >> Chiese questa, guardandolo dritta negli occhi.
Darren ricambiò lo sguardo
<< è solo che ti comporti come se potessi salvarci ma… alla fine saremo noi nell’Arena, non tu. Ben poco sarà nelle tue mani, allora >>
Non aveva usato un tono arrabbiato o in qualche modo alterato. Era stato perfettamente calmo. E con quella stessa calma, la mentore rispose
<< Pensavo sapessi come funziona con gli sponsor, loro.. >>
<< So come funziona >> La interruppe il ragazzo
<< A me non sembra >> replicò la mentore << Vedi, sono loro che potrebbero fornirti cibo nell’Arena, od altro materiale che potrebbe risultarti utile. Pertanto tu devi piacergli, è così che funziona il gioco. E per piacergli hai bisogno di.. >>
<< A che servirà tutto questo per salvarsi da un coltello alla schiena o da una freccia alla gola? >> Replicò Darren alzando di un tono la voce    << Servirà a mantenerti in forze per poter reagire a simili minacce.. >> Rispose la mentore alzando ugualmente di poco la voce
<< Ma quante speranze di vita può avere uno che non sa cavarsela in determinate situazioni? Se bisogna ricorrere all’aiuto degli Sponsor per sopravvivere allora è come essere già spacciati >> Sbottò Darren.
La Label  indurì lo sguardo, quasi fosse fatto di pietra << Avere degli sponsor è un vantaggio. E più carte hai da giocare negli Hunger Games più sei fortunato >> Replicò a tono
<< E quali saranno le nostre carte? Aver fatto i bravi pappagalli alle interviste? Aver indossato dei vestiti indimenticabili? È ridicolo ! >>
<< Non è ridicolo >> Questa volta la Label s’alterò << Si Darren, sono queste le vostre possibilità, voi.. >>
<< è una cosa idiota! >> Sbottò di nuovo lui << I favoriti si allenano da quando erano piccoli! Cosa può una bella intervista contro questo? >>
<< Può farvi amare dal pubblico >> Questa volta, la Label sembrava decisamente alterata << Ed è l’unica cosa che conta negli Hunger Games. Più il pubblico vi ama più speranze avete di non morire. Ed io ti chiedo, tu vuoi morire? Perché ogni anno ne vedo a palate di ragazzi capricciosi come te che si lamentano di quanto la vita sia ingiusta! Ma io cerco di farvi sopravvivere, in un modo o nell’altro, e questo è l’unico che conosco >> Gli altri tributi presenti si erano  fatti sempre più silenziosi, ma Darren era troppo testardo per non replicare << E quanti ne hai salvati in questo modo? >> Chiese.
La mentore fece uno sbuffo << Nessuno fino ad oggi. Ma ciò non vuol dire che io non ci provi. Farò il possibile per aiutarvi, l’ho già detto. Se questa cosa non ti va bene, Darren Thomson, quella è la porta >>
Il ragazzo irrigidì la mascella a quelle parole.
Una vocina nella sua testa gli intimò d’andarsene sbattendo la porta
Che t'importa, tanto lo sai che devi fare tutto tu. Lei non ti aiuterà, nessuno ti aiuterà.
Fremette l’impulso, serrando le labbra e incatenando alla sua gola l’ennesima risposta.
La voce della mentore era diventata così stanca, improvvisamente, che lui non se la sentì di andarsene, né di replicare. Rimase inchiodato al suo posto, fissando lo sguardo ricambiato della Label. L’iride nocciola scavò nel ghiaccio per qualche istante.
Ma non lo sapeva, quella, che il ghiaccio è troppo duro per essere scavato? Poteva solo essere rotto. Dopo attimi che parvero interminabili, in cui nessuno dei presenti s’azzardò a parlare, lo sguardo della mentore passò oltre, spostandosi verso gli altri tributi.
<< Non ci vorranno più di dieci ore per arrivare a Capitol >> Disse, recuperando un tono normale << Verrete messi nelle mani degli stilisti, addobbati come se foste alberi di natale. Non lamentatevi, non fate i difficili. Fate esattamente come vi è detto di fare >>
La Label lanciò un’occhiata ammonitrice a Darren a quell’ultima frase << Domani sera ci sarà la sfilata dei carri, arriveremo a Capitol in mattinata. Avrete tutto il tempo per prepararvi >>Continuò << Fra qualche minuto daranno le mietiture in diretta. Mi aspetto che siate concentrati sui volti che vedrete, perché saranno quelli dei vostri potenziali ostacoli verso la vittoria >>
La tv alla loro destra venne accesa.
Il sigillo e la sigla di Capitol City incombettero sulla stanza.
Poi le telecamere puntarono Caesar Flickerman che, smagliante in un abito viola, presentava le mietiture.
Da quel momento in poi Darren fu impegnato a registrare ogni singolo dettaglio dei tributi che sarebbero stati nella sua Arena.
Il primo che vide fu un tributo muscoloso dell’uno farsi avanti volontario mentre la folla applaudiva. Non prestò attenzione a coloro che non sarebbero stati suoi compagni di Arena, così che in seguito non seppe descriverli.
Il distretto uno passò.
Nel distretto due il ragazzo estratto per primo era il più grasso tributo della storia.
Sembrava sul punto di piangere, quando chiamarono il suo nome. Inoltre, ci mise molto a salire sul palco. Ogni suo movimento era goffo e scoordinato.
In cuor suo, Darren ringraziò che ci fosse lui nella sua Arena. Sarebbe morto al bagno di sangue iniziale.
Non avrebbe dato problemi. Gli altri ragazzi del distretto due e del distretto tre sfilarono davanti ai suoi. Venne il distretto quattro.
La prima ragazza estratta, nella sua Arena .
Era ancora impegnato a memorizzare dati su di lei quando venne la seconda. Lenore Reeds.
Quindicenne chiaramente scioccata.
Capelli neri, occhi azzurri.
Avanzava lentamente verso il palco, come se arrivarci fosse significato morire all’istante.
Darren non fu certo dei suoi sospetti fino a che il viso della ragazza venne inquadrato.
<< Ma chi diamine è quella li? >> Chiese Jamie << Ti assomiglia molto, Dar.. >> << Sta zitto >> Sbottò il ragazzo.
Temeva che, se qualcuno avesse osato pronunciare quelle parole, tutto ciò non sarebbe stato veramente uno scherzo della propria mente.
Tuo padre è solo un pacificatore divertitosi con tua madre per una notte. Lo sanno tutti che l’ha stuprata.
La Lenore nello schermo puntò per un solo istante gli occhi nella telecamera.
In quell’istante, per Darren, fu come vedere allo specchio il suo stesso viso. La sua stessa espressione. Una versione femminile e più giovane di sé stesso per un attimo lo inchiodò con lo sguardo. Ghiacciandolo con i suoi stessi occhi
<< Sarà una coincidenza >> Ma lo era davvero? Quella tonalità d’azzurro così glaciale non la si trovava tutti i giorni negli occhi della gente.
Quei capelli così corvini abbinati ad essa non potevano essere una coincidenza. Darren si dimenticò degli altri tributi che sfilavano sul grande schermo.
L’attenzione rivolta solo a quella ragazzina.
Quando apparve lui sullo schermo perfino Caesar Flickerman ammise in tv che effettivamente c’era una certa somiglianza tra lui e la ragazzina del quattro, Lenore. Ma venne decretata come una “curiosa coincidenza”.

Alla sera Darren evitò la cena e scampò alle domande di Luzio.
Si rifugiò nella sua stanza.
Pieno di dubbi.
La sua mente di rivelò un vulcano in procinto d’esplodere. Una matassa di pensieri si aggrovigliò nella sua testa, senza coerenza. Senza logica.
Alla fine, esausto, fece l’unica cosa che non avrebbe dovuto fare. Accese la tv mentre davano le repliche, ancora una volta, della mietitura.
Casualmente capitò al momento dell’estrazione del tributo dell’uno della sua Arena << Oooh, un tipico ragazzo del distretto uno! Darà filo da torcere agli altri tributi >> Diceva Caesar Flickerman.
Il ragazzo, muscoloso almeno quanto Darren ed alto uguale, sorrideva felice mentre avanzava verso il palco.  Darren spense di colpo la televisione.Il pensiero tornò al ragazzo grasso del due. Poi alla quindicenne del quarto.
Forse, dopotutto, i suoi nervi non erano così saldi. Gli Hunger Games avrebbero potuto fra impazzire anche lui. Scacciò quel pensiero con un movimento brusco della testa. No. Lui poteva farcela. Doveva solo tenere gli occhi sulla meta, ricordarsi di vincere. Solo in quel modo avrebbe fatto tutto il necessario per raggiungerla.
Gli ci vollero tre ore prima di addormentarsi.
E non furono certo i bei sogni a raggiungerlo una volta chiusi gli occhi. 
 
 
Facci il favore di non tornare, chiaro, Darren?
 
Note autrice:
Ed ecco il mio capitolo.
Lo so, nulla di che se lo si confronta a quello della Cla ma, ehi, abbiate pietà, lei è una poetessa nata ed è pure fuori di cocuzza!
E si sa che tutti quelli fuori di cocuzza sono pure dei geni è.è
Maaa, intanto, ecco a voi il tributo che seguirò nell’Arena..
Immagino che, a questo punto, più a meno si sia capito il legame tra Lenore e Darren.. No? Ancora meglio =)
Che altro si può dire? Ah si, preferisco i cetrioli.. Quindi, se per caso aveste la buona grazia di lanciarmi quelli.. Oppure delle arance!
Ma non i pomodori, please!
Grazie a chiunque abbia letto questo capitolo che, personalmente, non mi piace!
Wani

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Capitolo 4
*** Pezzi di vetro ***


Pezzi di vetro

Non voglio offrire il corpo nudo,
senza riparo, ai chiodi che volano
per l'aria smaniosi di conficcarsi.
(G. Ceronetti, Un viaggio in Italia)


Lenore era distesa su quel divano da ore, ormai, lo sguardo fisso sul finestrino, sul paesaggio che sfrecciava davanti ai suoi occhi, mutevole, incerto, sfocato. Lo detestava, con tutte le sue forze. Perché ogni secondo che passava la portava più vicina alla propria morte. Ci stava correndo incontro e quello scorrere frenetico di fotogrammi non faceva che aumentare la sua angosciosa sensazione.
Qualcuno le passava davanti, di tanto intanto: Farika, uno dei Mentori, uno dei Tributi... Le oscuravano la vista per un istante, e per un decimo di secondo lei aveva la possibilità di fingere che quel maledetto treno fosse fermo, che la sua corsa verso la fine fosse sospesa. 
Illusa. 
Tornare ad osservare l'esterno diventava ogni volta più doloroso, eppure non smetteva di fissarlo.
Masochista.
Gli sguardi che le rivolgevano sembravano vedere la sua paura e sembravano prendersene gioco. Non poteva permetterlo, ecco perché la stava seppellendo sempre più giù.
Stoica... magari.
Era ora di cena, così le aveva detto Dave. Ormai li riconosceva: Dave era quello silenzioso, calmo, dall'espressione indecifrabile, quello che era finito nell'altra Arena, ringraziando il cielo; Brett era quello sicuro, forse troppo... desideroso di essere al centro dell'attenzione, con un sorriso palesemente finto sempre stampato sulla faccia, quello che avrebbe rappresentato una ben scarna minaccia, durante i giochi, anche cercando di essere il più generosi e paranoici possibile.
Era ora di cena, ma lei non aveva fame, perciò era rimasta lì, senza schiodarsi da quella conca che si era formata sui cuscini del divano e che aveva la sua forma, ascoltando le allegre conversazioni che provenivano dalla tavola, la voce musicale di Rosemary, i petulanti commenti di Farika, le penose battute di Brett...
Avrebbe tanto voluto riuscire a fingere come loro, autoconvincersi che fosse tutto a posto, sorridere. Ma non ce la faceva.
Debole.
Le faceva male la testa. Da quando aveva varcato la soglia del vagone del treno, il suo cervello si era accesso di una concentrazione ossessiva per ogni singolo particolare: da come la moquette era segnata dai loro passi, da come la tovaglia si arricciava in maniera strana in quell'angolo, fino al modo in cui i pannelli di legno di cui erano rivestite le pareti riflettevano la luce del lampadario che penzolava dal soffitto e dondolava lievemente. Era una cosa spossante.
Anche i Mentori avevano subito il suo esame. Nella sua mente erano stati dissezionati, i pezzi posizionati ordinatamente su un tavolo lucido con precisione chirurgica, per poi essere rimontati e riportati alla vita normale, la loro cartella clinica bene impressa nella sua memoria.
C'era Leanna, con i suoi vaporosi capelli color caramello e i suoi freddi occhi nocciola che bruciavano tutto ciò che incontravano, che aveva preso sotto la sua ala protettiva la bella Rosemary, che camminava sempre radente alle pareti, come se in quel modo fosse meno facile essere colta di sorpresa, che trasaliva al minimo cenno di rumore improvviso. Era abbastanza giovane, trentacinque anni compiuti da poco, e sembrava che i Giochi fossero una ferita ancora aperta nel suo corpo. Aveva sempre la risposta pronta, acida, tagliente, e questo faceva di lei una donna forte e rispettata, ma soprattutto ascoltata. Una donna che sapeva portare i pantaloni.
C'era Walt, un uomo sui quarantacinque, con i capelli biondo grano e una barba di un tono più scuro che era abituato a torturare con le dita, quasi fosse un tic nervoso di cui non riusciva a liberarsi. Sembrava aver scritto la parola “pescatore” in fronte e Lenore sapeva che era così: lo aveva visto spesso al porto, a scaricare cassette piene di pesce, con un sorriso soddisfatto a tagliare in due quella folta fascia barbuta, i muscoli che si gonfiavano sotto il grave peso. Evidentemente l'uomo aveva trovato nel suo lavoro l'unico modo per resistere agli incubi della notte. La ragazza non lo biasimava. Era buono, Walt, sotto quella ruvida corazza e aveva una risata che ti faceva sorridere anche se non ne avevi intenzione. Le sue mani callose avevano già tirato parecchi colpi, seppur delicati, alla nuca di Brett, visto che aveva preso come sfida personale il compito di mitigarne il carattere troppo esibizionista.
C'era Stan, Stanley in realtà, con i suoi settant'anni suonati, ma ancora vispo come una cavalletta, con le articolazioni più sottili che avesse mai visto, la pelle macchiata dal tempo, una pelata nella quale avrebbe potuto specchiarsi e lo sguardo ancora acceso di vita e furbizia, nonostante tutti gli orrori visti, tutti gli anni passati e tutto il dolore che le ossa indebolite e i reumatismi dovevano provocargli. Settant'anni e mai un raffreddore, un'influenza o un'infezione per la ferita con un vecchio amo arrugginito. Aveva un umorismo di quelli che lo portava a dire la frase più impensabile con tutta la naturalezza che possedeva, lasciando passare un paio di secondi di attonito silenzio che venivano poi rimpiazzati dalle risa più sfrenate. Era una brava persona, Stan, i suoi occhi appannati dalla cataratta non riuscivano a nascondere la limpidezza dello sguardo. Lui e Dave erano una bella coppia, così aveva pensato quando li aveva visti imboscati a confabulare mangiando una fetta di pane con la marmellata che aveva sporcato gli angoli delle loro bocche.
E poi non c'era mai Gregory. Ventotto anni. Sarebbe stato carino dire “Greg per gli amici”, ma lui di amici quasi sicuramente non ne aveva. Lenore non aveva avuto il tempo di analizzarlo, perché l'ultima volta che l'aveva visto era stato durante la Mietitura e in quel momento non sarebbe stata nemmeno in grado di trovare le proprie dita dei piedi, ma se lo ricordava. Eccome.
Gregory O'Berris era da dieci anni la prima persona su cui si posavano gli occhi di ogni singola persona che assisteva alla Mietitura. Se ne stava sempre lì, seduto, con gli lo sguardo impazzito che guizzava da una parte all'altra, i capelli scompigliati, talmente scuri da sembrare neri, che però si animavano di riflessi rossastri quando il sole li colpiva direttamente, le occhiaie pronunciate che testimoniavano le ore passate in bianco, la pelle pallidissima di chi non vedeva il sole da troppo tempo, un sorriso inquietante che aleggiava sempre velatamente sulle sue labbra. Era la persona più ossuta che Lenore avesse mai visto, le guance scavate, la schiena gobba sotto il peso della testa, le mani scheletriche, infagottato tra quei vestiti cadenti che lo facevano sembrare ancora più goffo di quanto già non fosse. Ogni tanto le sue spalle erano scosse da risate silenziose, senza la benché minima ragione apparente, ogni tanto dalle sue labbra uscivano sussurri di cui nessuno capiva il senso e ogni tanto si alzava dal suo posto di Mentore e se ne andava, solo il Cielo sapeva dove.
Era il classico esempio di come gli Hunger Games logorassero anche la mente, oltre che il corpo e di come nemmeno i Vincitori fossero al sicuro.
Gregory O'Berris era stato eletto Spauracchio del Distretto 4, da quando se n'era tornato a casa, Vincitore. Altro che il Taglialegna Assassino, il Lupo Nero, il Minatore Rabbioso... era lui il vero terrore dei bambini.
Se non mangi Gregory verrà a cercarti, ti taglierà la testa e si traccerà una linea col tuo sangue sul braccio, per tenere il conto delle vittime, come faceva nell'Arena. Mangia.
Non c'era una sola persona che non ubbidisse a quella minaccia. Era vero: il ragazzo faceva veramente così, per ricordarsi di quante persone aveva ucciso. Giravano voci che avesse ancora quei segni rossi sulle braccia, sotto le maniche lunghe delle maglie che portava sempre. Lenore non ci credeva.
Gregory O'Berris era, ovviamente, il suo Mentore, quasi gli altri avessero pensato che fra persone sole se la potessero intendere. Lenore non poteva far altro che provare simpatia per quel ragazzo, marchiato dai pregiudizi della gente, così come lo era lei. Ma non riusciva a non essere irritata di fronte al fatto che lui non si fosse ancora fatto vedere per parlarle anche solo un paio di minuti.
Ma da Gregory che ci si poteva aspettare?
Farika si era appena appostata davanti alla porta della sua camera, nel corridoio poco distante, con un vassoio di cibo in mano, bussando come un picchio ostinato che colpisce il tronco dell'albero sulla quale ha deciso che costruirà il nido, e si era lanciata in un dettagliato racconto della giornata. Se Lenore fosse stata nei panni del ragazzo avrebbe spalancato la porta e avrebbe colpito la donna con una scarpa, prima di tornare a farsi gli affari propri.
La Presentatrice alla fine aveva abbandonato il cibo davanti alla porta, rassegnata, ma non senza un ultimo tentativo.
“Gregory. Te lo dico per l'ultima volta. Esci da quella maledetta stanza e abbi la decenza di parlare con quella povera ragazza che ti è stata assegnata. Lenore non vede l'ora di poterti vedere. Non è vero, cara?” le urlò attraverso i muri che le separavano.
Le sopracciglia della interpellata schizzarono verso l'altro, mentre cercava una buona risposta che non suonasse troppo... scortese. Il silenzio fu l'unico risultato decente che ottenne.
“Lenore! Se non mi dai una mano tu sono finita! Digli che deve uscire di lì. Per favore.”
Il tono di Farika suonava così sconsolato che la ragazza non poté far altro che sospirare e cedere. Respirò a fondo e, dal basso della sua postazione sul divano, si lanciò in uno strano verso dal dubbio significato e da un Sì strascicato e stridulo che scatenarono l'ilarità dei presenti.
“Cielo, con che gente sono finita? Perché proprio a me?”
La donna rientrò con passo stanco nella sala, ma adocchiata Lenore si fermò di fronte al divano con le braccia saldamente piantate sui fianchi.
“Eh no, cara. Ne basta uno. Da quanto tempo sei ferma in quella posizione? Se credi di passare tutto il viaggio distesa lì, ti sbagli di grosso. Anche a costo di farti sollevare da Walt.”
La voce aveva una forte sfumatura materna, qualcosa che Lenore non sentiva da tanto tempo. Qualcosa che le era mancato. Qualcosa che in quel momento detestò con tutta se stessa, senza averne un vero motivo, forse perché proveniva dalla persona sbagliata. Per quando potesse odiare Elisha, Farika non era sua madre e il fatto che si comportasse come tale la infastidiva. Perciò la ignorò, perché di certo non sarebbe stato carino risponderle come faceva a casa. In quel posto non ne aveva il diritto.
“Mi sta ignorando! Guardatela, mi ignora! Aiutatemi voi!”
Quella volta la preghiera era rivolta ai Mentori e ai Tributi che, ancora seduti a tavola, continuavano a ridere sotto i baffi.
“Cosa ne dici di andare da Gregory e chiedergli di darti una mano dicendo a Lenore che deve schiodarsi di lì perché lui non vede l'ora di vederla?”
Persino Lenore provò la strana voglia di ridere alla frase di Walt e ancora di più dopo aver assistito al suono esasperato e alla teatrale uscita di scena con tanto di “Povera me!” della donna.
“Però Farika ha ragione. Non puoi stare su quel divano per tutto il tempo che rimane. Non ti fa bene.”
“Sì, ti farà male la schiena, non appena tenterai di alzarti.” le parole di Rosemary la sorpresero, quasi quanto quelle che aveva pronunciato appena prima Stan, per quanto il tono della ragazza fosse altero e fastidioso alle sue orecchie.
“Dovresti venire a mangiare qualcosa.” Dave?
“Già... non voglio una compagna pelle e ossa nell'Arena!” Persino Brett, ci si metteva...
Leanna sbuffò sonoramente. “Per quanto Hank, qui, sia stato indelicato, ha ragione.”
“Certo che ho ragione.”
Lenore sentì una sedia che si spostava e qualcuno che si avvicinava al suo divano, accucciandosi di fronte a lei, intravide i capelli biondi e un braccio muscoloso che si avvicinava al suo viso e decise di serrare gli occhi.
La mano di Walt le accarezzo i capelli, scompigliandoglieli.
“Lo so, piccola. È dura. Ma arrenderti così non migliorerà le cose. Fidati di me. Ci sono passato.”
La ragazza decise di fissare l'uomo e di inchiodarlo con le sue iridi color ghiaccio. Non l'aveva mai guardata negli occhi, Walt, vero? Cosa si aspettava? Una bambina impaurita, sperduta, una creatura debole e fragile da aiutare perché non crollasse al primo assalto? Forse, ma di certo non fu quello che vide. Quello di Lenore era lo sguardo duro di chi ormai non si cura più delle ferite, che spazza via il sangue con noncuranza, che ferisce senza più provare rimorso. Era lo sguardo di chi sa già come si dovrà comportare. Di chi non ha paura. O meglio, di chi paura ne ha, tanta, ma riesce a far finta di non averne. Di chi si mostra forte senza esserlo, ma che inganna tutti.
Walt si ritrasse, scottato da quel ghiaccio. Aveva capito.
“Io non vi ho chiesto niente.”
Anche le parole furono di ghiaccio, così come il silenzio che le seguì. Avevano capito tutti, si sperava.
“È tardi, dovremmo andare a letto. Cerca di non esagerare nemmeno tu, Lenore.”
Se ne uscirono uno a uno, lasciandola sola. Per l'ennesima volta. Anche se era solo colpa sua.
Le facevano paura, tutti quanti, perché stavano riuscendo a farle sentire cosa voleva dire avere qualcuno che si preoccupasse per lei, qualcuno che glielo dimostrasse palesemente, qualcuno che volesse aiutarla senza chiedere nulla in cambio, nemmeno gratitudine.
Era stata convinta, da quando il suo nome era stato pronunciato ad alta voce, che l'unico suo vero vantaggio sarebbe stato il non avere niente da perdere.
Le persone che non avevano niente da perdere erano le più pericolose, sempre.
E ora qualcuno le stava togliendo anche quell'unico vantaggio.
Non lo avrebbe permesso.
Darren.
Quel nome abbatté il muro dietro alla quale lo aveva richiuso e inondò la sua mente. Rivide la faccia del ragazzo identica alla propria, sentì nuovamente il suo nome rimbombarle nelle orecchie. Lo detestò un'altra volta, perché era l'ennesima cosa destinata a diventare debolezza. Già lo sapeva.
Debole.
Era riuscita a combattere quella maledetta fragilità per tutta la vita, doveva perdere la guerra proprio in quel momento?
Fragile vuol dire morta.
Sei morta, Lenore.
Fai qualcosa. Inventati qualcosa.
Non puoi spezzarti.


Un colpo secco, una imprecazione sputata a mezza voce.
Lenore si alzò a sedere di scatto, brutalmente strappata al sonno leggero in cui era sprofondata.
La coperta, rimboccata fino alle sue spalle, scivolò di lato, cadendo a terra. Non fece nemmeno in tempo a chiedersi chi gliel'avesse messa, la sua attenzione era totalmente incentrata su quella figura allampanata che era troppo impegnata a frugare in giro, per accorgersi di lei. Non ci impiegò molto a riconoscere il suo Mentore.
Gregory si voltò, interrompendosi a metà di un sorso appena accennato.
“Oh... a quanto pare non sono solo.” biascicò, quasi deluso dalla sua presenza.
“Già...”
“Sai... il succo d'arancia...” sembrava quasi a disagio.
Lenore alzò le mani, facendogli chiaramente intendere che quello che lui decideva di fare non la riguardava.
“Mi dispiace di averti svegliata, ma sai... solitamente la gente dorme su un letto, possibilmente in camera propria.”
“Beh... se vogliamo dirla tutta solitamente la gente dorme di notte e sta sveglia di giorno, non il contrario.”
Il sarcasmo nella voce di Lenore fece sogghignare il ragazzo che scrollò le spalle in segno di assenso.
“Forse hai ragione... tu devi essere Lenore, vero? Quella che è stata assegnata a me e che era ansiosissima di vedermi. O sbaglio?”
La ragazza aggrottò le sopracciglia, sorpresa.
“Sì... sono io.”
“Andiamo, ragazzina, non fare quella faccia sorpresa. Da quello che ho capito delle parole di Farika, Rosemary considererebbe un sonno sul divano terribilmente antiestetico.”
“Farika? Mi vuoi dire che la ascolti sul serio?”
Gregory si lanciò in una risata che salì lungo la spina dorsale di Lenore, facendole venire voglia di rabbrividire.
“Sì... Farika... grande donna. Sottovalutata.”
Lo sbigottimento della ragazza fu palese e le impietrì il volto. Il Mentore annuì, sorridendo.
“Sì lo so, la pensavo come te. Frivola, petulante, fastidiosa. Ed è così, sul serio. Eppure è stata una delle poche persone che mi sono state vicine dopo la Vittoria. Dopo che sono diventato... strano, come dice la gente. Viene a trovarmi ogni volta che può e una porta chiusa non la ferma. Per quanto sia insopportabile ci tiene veramente. È questo il suo difetto: si affeziona troppo a noi Tributi e poi quando moriamo ci sta male. Per mesi. Eppure ogni volta è pronta a ricadere nello stesso sbaglio. Credimi, non tutti i Presentatori sono come lei.”
Lenore rimase qualche istante in silenzio, riflettendo su quelle parole.
“Bene, Lenore... se non l'hai capito io sono...”
“Sì, sei Gregory. Il Tributo Pazzo del 4. L'uomo nero dei piccoli pescatori in erba.”
Il ragazzo rimase a fissarla sorpreso, passandosi una mano fra i capelli scompigliati.
“L'uomo nero, eh? Questa me l'ero persa. A quanto pare sono diventato famoso.”
“Hai idea di quante infanzie hai traumatizzato?” chiese Lenore divertita.
“Tante?” la sua voce suonava quasi speranzosa.
“Sicuramente.”
“Posso dire di essere realizzato, allora.”
La ragazza scoppiò a ridere, soffocando i singulti con il palmo della mano, mentre il Mentore era scosso da un tremito silenzioso.
“Voglio essere chiaro con te, Lenore. Mi piaci. Io non ho mai addestrato un Tributo in vita mia. Non ho mai contrattato con Sponsor e cazzate varie. Non posso fare niente, per te. Mi dispiace.”
“Lo so.”
“E allora perché non chiedi a Walt di darti una mano?”
“No. Tu vai benissimo.”
“Ma hai sentito quello che ho detto?”
“Certo. Ma il punto è che a me non fa differenza che tu possa o no salvarmi. Non voglio un Mentore che riveda in me sua figlia, che tenti di proteggermi, che mi dia consigli su come scampare le lotte. Non mi serve a nulla. Io voglio un Mentore che sia chiaro, che si limiti a dirmi la verità così com'è, che non abbia paura di rompermi a parole. Non sono di vetro.”
Gregory la fissava in silenzio, soppesandola con il suo sguardo di onice.
“Va bene. Ma prima rispondi ad una domanda. Sinceramente. Cosa pensi di me? Da quello che hai visto, dalle voci che hai sentito...”
Lenore fissò le proprie dita lunghe e sottili, mentre rispondeva, cauta.
“Penso che siamo uguali.”
“E cosa ti fa avere la presunzione per dire una cosa simile?” la mascella del ragazzo era tesa. Lenore sapeva di aver fatto un passo falso, ma le aveva chiesto sincerità e lei gliel'aveva data.
“A forza di scontrarci con i giudizi della gente abbiamo deciso che la solitudine era migliore. Ci hanno marchiati, contro la nostra volontà. Ci siamo adeguati, non potevamo fare altro. È più facile, fa meno male. È l'unico modo in cui possiamo sopravvivere.”
Non vivere, sopravvivere. Forse era stata proprio quella scelta di termini ad ammorbidire l'espressione del Mentore, che annuì in silenzio. Sì, erano uguali.
“Va bene. Cosa ne dici se ci guardiamo di nuovo la Mietitura, questa volta sul serio? Ci scommetto tutti i miei vestiti che non hai prestato la minima attenzione.”
“Allora comincia a spogliarti, Gregory. Ricordo tutti i loro nomi a memoria, anche di quelli che non sono nella mia stessa Arena.”
Il ragazzo sorrise.
“Ripeto, non hai prestato la minima attenzione.”
Lenore lo fissò, un'ombra di confusione perfettamente visibile anche alla luce fioca della luna.
“È inutile che tu conosca i loro nomi se non conosci le loro potenzialità, le loro abitudini, i loro punti deboli, le armi con cui combattono più volentieri. Non hai molto tempo. E il fatto che un Tributo non sia nella tua stessa Arena non vuol dire che tu non debba conoscerlo meglio di te stessa.”
“Mi stai prendendo in giro?”
“Per niente.”
“E come dovrei riuscire a capire l'arma preferita di una persona da una semplice Mietitura?”
“Puoi supporlo.”
Gregory fece partire la registrazione.
Lenore si era messa comoda, aspettandosi di doversi sorbire per la seconda volta quei quaranta minuti di scena trita e ritrita, ma al primo nome estratto, non appena la ragazza del1'Uno salì sul palco e pronunciò il suo nome, il ragazzo stoppò il video e lo fece ripartire, salvo poi puntare l'attenzione su un fermo immagine.
“Rowena Dallis, 17 anni, Distretto 1. Non è una volontaria. Ma è stata addestrata.”
La ragazza sbuffò divertita.
“Fino a qui ci arrivavo anche io.”
“Concentrati, Lenore. Vedi come mantiene lo sguardo sulla faccia della Presentatrice? Come tiene fisso un punto nel vuoto? Non è una che si fa distrarre facilmente, quella. Ha chiaro l'obiettivo. È meno scontato di quello che pensi. Credimi, quando avrà puntato la preda non la mollerà fino a quando non sarà stesa ai suoi piedi. Fai in modo di non essere quella preda.”
“Capito.” la voce della ragazza suonava esitante di fronte a quella precisione inattesa.
“Vediamo un po'... cosa mi dici tu, di lei?”
“Che sono fregata! Quella è con me. Saranno cazzi. Ed è solo la prima.”
Il suo Mentore si passò una mano sugli occhi, a metà fra l'esasperato e il divertito.
“Sii seria, per favore. Fissale le mani.” la esortò facendo ripartire il video.
“Pessima manicure. Unghie sbeccate e mani screpolate. Vuol dire che è più interessata a fare fuori la gente che alla sua cura personale. Non è un buon segno. Decisamente.”
Gregory scoppiò a ridere per l'ennesima volta.
“Sì beh... lettura interessante. Ma non era quello che volevo farti notare. Vedi il modo nervoso in cui muove il polso? Sono gesti secchi e rapidi, ma sono controllati, anche troppo per un semplice tic.”
“Maneggia la frusta.”
“Quasi sicuramente. Impari in fretta. Le sue braccia sono troppo poco muscolose per il tiro con l'arco o per la spada, quindi il massimo che ti puoi aspettare sono i coltelli. Ovviamente stiamo parlando in linea teorica, tienine conto.”
Ripeterono lo stesso rituale per ogni singolo Tributo, compresi quelli del Quattro. Lenore aspettava con nervosismo il momento in cui Gregory avrebbe stoppato il video osservando attonito la sua copia sputata fissa sullo schermo, ma non successe. Il suo Mentore dedicò a Darren esattamente la stessa dose di attenzione che aveva riservato agli altri. Lenore fu costretta ad osservare il proprio sosia in modo estremamente analitico, a prenderne le distanze, cosa che apprezzò enormemente, a considerare oggettivamente tutti i suoi punti di forza e i suoi punti deboli.
“Solleva pesi e deve avere dei gran bei pettorali, oltre che ai bicipiti.” aveva commentato distrattamente, fissando lo schermo concentrata.
“Cosa te lo fa pensare?” la voce di Gregory suonava curiosa, più che divertita.
“La camicia è della sua taglia, ma il bottone all'altezza dello sterno tira. Ha i pettorali.”
“Ho creato un mostro.” commentò il Mentore facendo scorrere il filmato fino al Tributo successivo.
Quando spensero il video il sole stava quasi per sorgere, schiarendo l'aria fredda del mattino.
“E con questo abbiamo finito.” il ragazzo si stiracchiò sul divano, allungando le lunghe gambe ossute, strisciando i piedi sulla moquette. Il suono che uscì dalla sua bocca assomigliò vagamente alle fusa di un gatto. “Era da un sacco di tempo che non facevo tutta questa fatica.”
Lenore era distesa più o meno in una posizione simile, ma occupava nemmeno la metà dello spazio.
“Farika direbbe che ti fa bene, ogni tanto...”
“Avrebbe ragione. Piuttosto... hai niente da dirmi?”
La ragazza si strinse nelle spalle.
“Di cosa stai parlando, esattamente?”
“Mah... sai... quel piccolo particolare... nella fattispecie Distretto Dieci, muscoloso, pettorali, che guarda il caso ti assomiglia in maniera impressionante?”
“Ah, Darren.”
“Esattamente. Lui.”
Lenore storse la bocca, incerta.
“Non so nemmeno io cosa dirti. Non l'ho mai visto in vita mia. Anche se probabilmente c'entra qualcosa mio padre. O forse, più probabilmente, è una pura coincidenza.”
“Tuo padre?”
“La seconda ipotesi non l'hai nemmeno sentita, vero? Mio padre, sì... argomento che non mi piace toccare. Era un bastardo. Cioè... la bastarda di fatto sono io, se proprio vogliamo essere precisi. Ma il mio voleva essere un insulto.”
“Ah, ho capito. Discorso scottante, in cui non mi devo impicciare. Fai finta che non ti abbia chiesto niente.”
Gregory rimboccò le maniche della maglia, portando le braccia dietro la nuca, rivelando la pelle pallida e perfettamente pulita. Lenore sorrise.
“Che hai?” le chiese lui, fissandola.
“Avevo ragione io. Era una bugia.”
“Che cosa?”
“Non hai i segni rossi di sangue sulle braccia. Al Distretto si diceva che tu li conservassi ancora. Non ci ho mai creduto.”
Il ragazzo sorrise, osservandosi gli avambracci.
“Quelle tacche... sono state una grande trovata, non è vero?”
“Una trovata? Vuol dire che non le hai tracciate perché eri completamente fuori di testa?”
“Beh, qualcuno pensa che io sia veramente fuori di testa...”
“E ha ragione.”
Gregory alzò gli occhi al cielo.
“Forse. Ma sì... quei segni erano una decisione ben calcolata.”
Lenore rimase perplessa da quella rivelazione.
“Perché mai avresti dovuto fare una cosa così macabra?”
“Hai mai sentito dire che la qualità più utile negli Hunger Games è la furbizia?”
La ragazza sbuffò, annuendo.
“Centinaia di migliaia di volte.”
“Beh, hanno ragione.”
“Oh, andiamo, non ti ci mettere anche tu, Gregory. La furbizia non ti salva da una lama puntata al tuo collo.”
“Lo so, ma una lama non ti salva da un piano furbo ben congegnato.”
“E allora qual è la cosa migliore?”
Il ragazzo gettò la testa all'indietro, probabilmente cercando di distogliere lo sguardo da dei ricordi da cui invece non poteva fuggire.
“Io ho fatto credere alla gente a casa di essere forte. Non abbastanza da vincere, ma abbastanza da poterli far divertire. Poi ho fatto credere agli altri Tributi di essere pazzo, talmente tanto da aver perso totalmente la lucidità, talmente tanto da non costituire un pericolo troppo grosso. E poi li ho fatti fuori, uno ad uno. È questa la strategia vincente: convincere tutti di qualcosa che ti fa comodo e tirare le fila dall'alto, manovrando tutti per raggiungere il tuo scopo. Almeno, per me è stato così.”
Lenore rimase affascinata dalla logica del suo Mentore e si scoprì ad annuire.
“Mi dispiace... non deve essere stato facile, vero?”
“Non lo è mai, Lenore. Per nessuno.”
“Hai ragione... ma... grazie. Sul serio. Per fortuna che non potevi fare nulla per aiutarmi! Ho imparato più in queste ore con te che in anni di Allenamento da autodidatta. Sei tu il mostro!” la ragazza gli sorrise.
“Me l'hanno detto in tanti. Ma non era un complimento.” un sospiro sfuggì dalle labbra del ragazzo.
“Non ti ci mettere, Gregory. Non è il momento per fare il ragazzo depresso. Hai avuto dieci anni.”
Il Mentore voltò la testa di scatto per piantare lo sguardo su di lei, sbigottito. Lenore sostenne quegli occhi scuri, con il mento alto. La gente come Gregory, come lei, a volte aveva solo bisogno di una spintarella.
“Hai ragione. Ma mi sa che sono io a doverti ringraziare. Per la prima volta da dieci anni ho la vaga voglia di fare qualcosa che non sia addestrare i ragni che fanno la tela sopra al mio letto.”
“La gente griderà al miracolo.”
“Puoi dirlo forte.”
La bocca di Lenore si spalancò in un sonoro sbadiglio.
“Mmm... credo che la bambina abbia bisogno di fare un po' di nanne.”
“Sono d'accordo con te. Ma il mio Mentore seviziatore mi ha tenuta sveglia fino ad ora.”
“Che persona crudele. Beh... vedila così. I veri Eroi nascono da queste.” asserì allungando una mano per toccare con i polpastrelli scarni le occhiaie che coronavano gli occhi della ragazza.
“Allora sono sulla buona strada.”
“Certo, come no. Ti conviene andare a dormire, per quel poco tempo che rimane. Domani sarà la giornata peggiore. Almeno credo.”
“Oh... la Sfilata.” gemette Lenore alzandosi dal divano e barcollando verso il corridoio.
“Sì, avevo ragione. Povera piccola.”
La ragazza stava per lasciarlo quando la sua voce la richiamò indietro.
“Lenore?”
“Sì?”
“Hai buone possibilità, lo sai?”
“Non credo. Ma lo apprezzo.”
“Io ne sono uscito vivo. Ce la farai anche tu. In fondo noi siamo uguali. Fidati di me, Len.”
Len. Nessuno l'aveva mai chiamata così.
La ragazza sorrise, guardandolo, disteso sul divano come lo era stata lei fino a quella sera, a riguardare per la centesima volta la Mietitura, i piedi che penzolavano nel vuoto, le mani che tamburellavano sul tessuto azzurrino.
Sì, erano uguali.

Lenore continuava a fare avanti e indietro lungo lo stesso pezzo di stanza, torcendosi le mani ed evitando accuratamente di guardarsi allo specchio.
Erano arrivati a Capitol City quella mattina e, dopo aver superato lo shock per un Gregory seduto a tavola che beveva la sua tazza di tè con le mani che tremavano visibilmente, erano stati attirati ai finestrini dalle urla di una folla in visibilio per il loro arrivo.
Lenore vi aveva dato solo un'occhiata distratta e disgustata, prima di sedersi a tavola con il suo Mentore. Odiava Capitol, così caotica, piena di colori che ferivano gli occhi, piena di rumori molesti, di gente pronta a fissare il suo sguardo su di lei. Odiava ogni singola cima di grattacielo che tentava inutilmente di andare a toccare le stelle, odiava ogni fontana zampillante che voleva solo imitare il suo mare, odiava ogni singolo granello di polvere che fluttuava in un'aria che sembrava tentare di soffocarla.
E dalla padella si era trovata nella brace, lasciata nelle mani di tre Preparatori che l'avevano rivoltata come un calzino. Le avevano strappato ogni pelo che era passato loro per le mani, compresi quelli, totalmente inesistenti a suo avviso, nel naso e nelle orecchie.
C'era stata una tizia, dai vaporosi capelli rosa zucchero filato e ogni centimetro di pelle nuda ricoperta di tatuaggi color ciclamino, che si era accanita contro i suoi capelli ribelli. Lenore aveva sperato con tutta se stessa che rimanessero di quel colore, di quella lunghezza e di quel volume, ma a guardare l'acconciatura che sfoggiava Darla, quella nuvola che assomigliava pericolosamente a un coniglietto peloso, le era preso il panico.
C'era stata Jenae, una ragazza dai capelli verdi, gli occhi a mandorla, le orecchie a punta e le ciglia che assomigliavano in modo inquietante a dei lunghi fili d'erba. Aveva spalmato litri di crema profumata sulla sua pelle arrossata e poi si era dedicata minuziosamente alla sua manicure, quasi le sue unghie fossero copie in miniatura di costosissimi quadri.
C'era stato Rastus, un uomo con la testa completamente rasata, a parte un'alta cresta rosso fuoco, e la rima interna degli occhi della stessa tinta dei capelli, tanto che sembrava stesse sanguinando. Si era dedicato al suo viso e quando aveva finito Lenore si era convinta di non avere più addosso la sua faccia, tanto la sentiva impasticciata. Ma almeno era stato carino e aveva chiacchierato a vanvera, pur di allentare la tensione che riempiva completamente la stanza.
E poi, ultima ma non per importanza, c'era stata Sybil, la sua Stilista. La prima parola che le era venuta in mente fissandola era stato “Viola”. E come poteva essere altrimenti quando quella donna lo era quasi totalmente? Mancava solo la pelle. Lilla, malva... qualsiasi tinta potesse essere ricondotta nella scala cromatica era stata impiegata. L'unico stacco di colore erano dei pansè gialli intrecciati in alcune ciocche di capelli melanzana. Lenore si era chiesta se la lasciassero entrare in teatro o se per quelle serate cambiasse eccezionalmente colore.
Non aveva avuto il tempo di domandarlo perché l'avevano malamente infilata nel suo vestito e l'avevano lasciata sola nella stanza, dopo essersi beati del loro capolavoro.
E così Lenore si era trovata faccia a faccia con lo specchio, posando le dita sul vetro freddo, chiedendosi se quella che la fissava fosse veramente lei.
I capelli lisci, lucidi e cosparsi di glitter erano legati in una coda alta che le metteva in risalto il collo magro e il viso ovale, ma non potevano essere i suoi, sempre in disordine e arruffati.
Non si era mai truccata in tutta la sua vita. Ma ora che l'aveva fatto la sua faccia sarebbe mai tornata quella di prima, con quelle piccole imperfezioni che la rassicuravano? O sarebbe rimasta per sempre così innaturalmente uniforme? Gli occhi sembravano troppo grandi sotto quel trucco iridescente, le labbra erano troppo lucide, le guance troppo... magre? Come erano riusciti a far sembrare magra le sue guance, che erano sempre state morbide?
Il suo corpo non era mai stato così in mostra, accentuato da quella calzamaglia dello stesso colore della sua pelle che la faceva sembrare nuda quando, grazie al Cielo, non lo era. Quella calzamaglia che sembrava essere decorata con squame di pesce che riflettevano la luce, intrecciandosi in disegni strategici. Ogni sua curva era esaltata, troppo.
Persino i suoi piedi, nudi, non sembravano più quelli di una volta, privi dei calli che le permettevano di camminare sui sassi appuntiti della scogliera.
Quella non era lei. Non poteva esserlo.
Non voleva esserlo.
Era un vestito che avrebbe potuto mettere sua madre e sembrare a suo agio, che avrebbe potuto mettere Rosemary e sembrare una sirena appena uscita dal mare. Ma non lei.
Non lei.
Le lacrime erano salite a pungerle i lati degli occhi ma non le avrebbe lasciate uscire. Erano anni che non piangeva, non avrebbe di certo ricominciato in quel momento.
Si era voltata con decisione, fuggendo l'immagine riflessa e si era messa a camminare per la stanza torturandosi le mani, in attesa che Gregory venisse a prenderla.
Quando la porta finalmente si aprì, Lenore provò l'impulso di saltargli addosso.
“Sei arrivato... finalmente.”
Il ragazzo la stava fissando, sorpreso.
“Siamo sicuri che io non abbia sbagliato stanza?”
“No, sono io.” non era proprio in vena di scherzare, ma il Mentore sembrava non avere intenzione di mollare l'osso.
“Beh, allora credo che potrei anche innamorarmi di te.” sorrideva, lui.
“Pedofilo. Così non mi aiuti!”
Gregory riuscì finalmente a leggere l'ansia nella voce della ragazza e la fissò preoccupato.
“Len, che ti prende?”
“Non voglio uscire così.”
“Ma sei bella...”
“Ma non sono io!”
Il suo Mentore sospirò avvicinandosi a lei.
“Ascoltami, Len... alla gente lì fuori non interessa che tu sia te stessa, interessa che tu sia bella...”
“Greg! Ti stai impantanando e non migliori le cose.”
“Fammi finire... a loro interessa solo questo.” asserì prendendole il mento fra le dita. “Il tuo aspetto. Ma se tu ci metti questo e questo... ” continuò toccandole il petto e la tempia “... vedrai che a loro non importerà più nulla del tuo bel visino. Tu fregatene. Funziona sempre.”
“Diamine, come sei melodrammatico!”
“Però era una frase d'effetto... Ora vai, e voglio vederti a testa alta. E Greg mi piace. Nessuno mi ha mai chiamato così.”
Lenore sorrise.
“Idem per Len.”
Si voltò, uscendo dalla stanza con passo deciso.
“Len?”
“Si?”
“Non sei di vetro. Non ti possono rompere così facilmente.”
“Lo so.”

Lo so...
Tutta la sua sicurezza svanì quando sentì il rumore della folla che urlava, fuori dallo stanzone in cui era entrata.
Che cosa stava facendo?
Una vita intera passata a girare per le strade con la testa bassa, senza alzare gli occhi, cercando di proteggersi dal mondo esterno e di limitare i danni al minimo.
Perché diavolo si stava mettendo in piedi su un carro, offrendo loro il suo corpo? Offrendo loro anche le pietre da tirarle addosso?
Non aveva nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo, le mani che tremavano visibilmente.
Non ce la poteva fare.
Non sei di vetro. Non ti possono rompere così facilmente.
Una vita di ferite. Le sapeva sopportare, oramai.
Lei era debole, certo, ma gli altri non lo sapevano.
Convincere gli altri di qualcosa che ti fa comodo e poi tirare le fila dall'alto.
Era così semplice...
Io sono forte.
Lenore alzò lo sguardo, determinata, sicura di sé. Pericolosa.
Prendete una pietra. Vedremo chi crollerà.
Io non sono di vetro.
Voi non avrete i miei pezzi.




Clalla97 commenta:
Allora... ho promesso alla mia cara Wania che non avrei mai detto che il mio capitolo era schifoso, quindi non posso dirlo. Ma a buon intenditore poche parole.
Comunque... alzi la mano chi adora Greg!! *Clara alza tutto quanto*
Mi sto innamorando di questi personaggi. Comunque, vi chiedo perdono per tutte queste descrizioni in questo capitolo. Credo sinceramente che non vedrete l'ora di leggere il prossimo capitolo su Darren che, diciamocelo sottovoce, è veramente bello ù-ù
Speriamo che vi piaccia, nonostante sia più lungo di tutta la Bibbia
Clara

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Capitolo 5
*** Che cosa sei davvero? ***


Cosa sei davvero? 

Avevano sfilato, quel giorno. Hod, il fratellastro di Darren, con soli cinque anni di vita alle spalle. Melissa, sorellastra di sei anni. Gwen, amica d’infanzia con la veneranda età tanto agoniata di undici anni.
Darren, Micheal e Joshua erano seduti sul letto, nella cameretta di Melissa. Mentre gli altri tre, cambiando di continuo gli abiti nel bagno, giocavano a sfilare davanti a loro.
Darren aveva quattordici anni, come Micheal, pertanto esagerava di gran lunga nell’esprimere l’entusiasmo ad ogni nuovo abbinamento. Ma andava fatto, e lui lo sapeva.

 Ad un primo sguardo poteva sembrare un gioco innocente,quello. Qualcosa che prima o poi fanno tutti i bambini.
In realtà, era molto di più.
Era stata Melissa a proporlo al resto del branco. Normalmente tutti avrebbero detto immediatamente di no, ignorando quella richiesta. Non fosse stato che la bambina stesse passando proprio quelmomento della vita. Il periodo delle domande.
Domande sugli Hunger Games.
Poneva interrogativi a destra e a manca, cercando di comprendere i giochi nell’Arena. Ma la sua era la mente di una bambina. Una mente ancora troppo ingenua e pura per poter comprendere tali atrocità.
La sfilata, inizalmente, mirava a imitare la parata dei carri fino all’anfiteatro di Capitol City, che la bambina vedeva da cinque anni alla tv. Era stata una richiesta innocente, la sua. Un semplice spunto di gioco. Eppure, gli altri speravano che, almeno un po’, quel gioco l’avrebbe aiutata a capire.
Così in tre sfilavano, mentre Darren, Micheal e Joshua urlavano in segno di eccitazione, con un entusiasmo esagerato.
 Gwen aveva ideato gli abbinamenti dei vestiti. Non erano granchè in confronto a quelli di Capitol City, ma non erano neppure male. Melissa li indossava tutti con entusiasmo, contenta di aver trasformato i suoi abitudinari indumenti in abiti da parata.
 Era pomeriggio, il sole inondava la stanza della bambina dentro alla quale giocavano.
 Darren aveva una vaga percezione di come quel gioco facesse bene a tutti loro. Ridere degli Hunger Games non poteva certo nuocere a nessuno.
 O almeno lo pensò fino al vestito lilla.
Era semplice, con le margherite disegnate sopra ed uno sfondo violetto. Melissa lo indossava con grazia, abbinato ad un paio di scarpette bianche. Quando, a metà della finta di pedana, la bambina si fermò.
D’improvviso.
Colta da chissà quale pensiero.
Un attimo prima col sorriso sulle labbra, un attimo dopo con  lacrime ad imperlarle le guancie. Tutti le andarono vicino, anche il piccolo Hod, cercando di capire quale fosse il problema. Era così raro vederla piangere.
Darren si mantenne silenziosamente in disparte.
Non fai parte della sua famiglia si disseRestane fuori.
<< Che succede piccola Mel? >> Chiedeva Joshua << Non piangere avanti >> Ripeteva Gwen.
La bambina dovette farsi forza, per riuscire a sorpassarli. Darren fu sorpreso, quando se la ritrovò abbracciata alle gambe. Come se lui fosse stato la sua unica ancora di salvataggio.
<< Non voglio più farlo >> Aveva singhiozzato lei, stringendosi ancora di più a lui.

 Allora il ragazzino l’aveva sollevata di peso,  appoggiata al proprio petto e cullata piano. Non erano servite parole, per farla smettere di piangere.
Inutili sarebbe stato prometterle che nessuno di loro avrebbe mai sfilato coi carri. Inutile sarebbe stato dirle che sarebbe andato tutto bene.
Sarebbe stata una bugia, e lei l’avrebbe intuito.
Così si limitò ad abbracciarla.
 
 
Quel ricordo gliene rammentò un altro, ancora peggiore. Si voltò immediatamente verso la ragazza alla sua sinistra, compagna di distretto. Ma non destinata alla sua Arena. Era così diversa da come se la ricordava. Erano passati tre anni dall’ultima volta. Mallory… La ragazzina che l’aveva evitato per tutto il viaggio in treno. La ragazzina che non gli aveva ancora rivolto la parola. Che era andata a vivere in un'altra parte del distretto tanto tempo prima. Che non vedeva da anni. Lei aveva riconosciuto lui.
Ma lui non aveva riconosciuto lei.
Non erano mai stati per così dire amici, semplicemente non si erano degnati di reciproca attenzione. Eppure, dall’incidente di tre anni prima, la ragazzina era completamente diversa. Non che Darren ne avesse un ricordo vivido.
Era così cambiata… Quello sguardo pieno di vita che il ragazzo ricordava non c’era più. Sostituito da un espressione chiusa, di chi parla poco e pensa tanto. Pensa tanto a cose brutte. Il viso della ragazzina, incorniciato dai capelli castani, era più scavato dell’ultima volta. Ma il resto era corperto dal trucco. Inutile tentare di capirci qualcosa.
 Sei un idiota, Darren gli disse quella sua vocina interiore L’avrai vista un po di volte al distretto ed ora non l’hai nemmeno riconosciuta..
Sospirò spostando lo sguardo altrove.
Preso dalla furia dei ricordi, non si era nemmeno accorto di Stephan, il suo stilista, intento a maneggiare con le pelliccie che lui stava indossando. Gli girava attorno tutto preso dai fermargli, talmente concentrato sul suo lavoro da non pensare ad altro.
Darren emise un sospiro di compatimento verso sé stesso.
Alla fine, stava andando a fare una sfilata.
Vestito con una pelliccia nera sulle spalle, che gli copriva il collo ma lasciava scoperto gli addominali, ed un paio di pantaloni di pelle nera. Sembrava che lo avessero preso per un vedovo, invece che per un tributo. Drizzò le spalle, a disagio.
<< Sta fermo >> Borbottò Stephan, scrutando concentrato la pelliccia
 << Sembro un orso >> Si lamentò il ragazzo << Non potrei essere più pesante di così >> Aggiunse.
Lo stilista sbuffò << è tardi per lamentarsi >> Fece notare << E poi non ricordi un orso, ma un lupo. Il costume è stato progettato affinchè richiamassi questo. >> Spiegò, senza prestare particolarmente attenzione a quel discorso.
Non andavano d’amore e d’accordo, lui e Darren. Due razze completamente diverse. Il pregio di Stephan era che non indossava alcun tipo di vestito pomposo alla Capitol City. Ma veniva subito accantonato nel notare la precisione con il quale lui vestiva sempre da gentiluomo.
 I capelli neri e lisci cosparsi da sfumature dorate. Il volto e la pelle perfettamente curati.  Darren non avrebbe mai potuto pensare di avere tanta cura per il suo corpo. Lo faceva sentire ridicolo il solo pensiero.
Accantonò il discorso senza tante cerimonie, lasciando vagare lo sguardo nella sala.
Sorvolò i volti dei favoriti.
 Andò a stanare con lo sguardo coloro che davvero servivano per i giochi. I bambini, i ragazzi dalle facce smunte e lo sguardo impaurito. I tributi spaventati al solo sentire gli echi delle urla della folla là fuori.
Sono questi, i veri partecipanti degli Hunger Games si ritrovò a pensare Senza di loro non ci sarebbe spettacolo, nè show. È con le loro facce che Capitol City dice ai distretti di essere la più forte.
Sospirò, trovando con gli occhi il tributo del due, quello grasso. L’aveva già notato alle mietiture, ma dal vivo non potè che apparirgli più goffo. Aveva lo sguardo di chi sta per farsela addosso, tutto intento a non cadere dal carro. Ecco un’altra faccia da vittima degli Hunger Games Pensò, con l’amaro in bocca.
 << Non farlo >>
La voce dello stilista tagliò netto il filo dei suoi pensieri ù
<< Cosa? >> Domandò Darren, corrugando la fronte.
<< Non guardare i volti dei deboli. Loro non sono affar tuo. Sono già spacciati e tu non devi averci nulla a che fare, se vuoi vincere.  >> Darren non capiva
<< Ma che stai dicendo? >>
Per un attimo, lo stilista si prese una pausa dal suo lavoro, sospirando. Poi riprese ad armeggiare con la pelliccia << Tu sembri uno di quelli che si dispiacciono per i deboli anche troppo. Potresti addirittura pensare di poter salvarne uno. Ma sarebbe un illusione. Lascia che chi ha la morte scritta in fronte muoia Darren. Non sono affare tuo, non devono avere nulla a che fare con te. Moriranno. Tu lasciali morire >> Darren restò in silenzio, senza sapere cosa rispondere.
Sapeva di avere un buon istinto di soppravvivenza.
Ma sapeva anche quanto detestasse le ingiustizie.
A undici anni lui e Micheal si erano legati ad un albero secolare per evitare che lo tagliassero. A dodici distribuivano volantini a scuola dicendo che il costo dell’acqua alle macchinette era eccessivo.A tredici tornarono a casa con un braccio rotto e una spalla lussata, per averle prese da un gruppo di ragazzi più grandi che si divertivano a tormentare una ragazzina.
Loro due erano intervenuti. Quello era stato il risultato.
Erano fatti così. Non potevano sopportare di vedere i deboli lasciati a fare i deboli. Per non parlare delle innumerevoli volte che erano quasi finiti nei guai coi pacificatori.
Il suo sguardo si spostò di nuovo.
 Sapeva che l’avrebbe trovata, una volta nella sala.
Eppure, vederla dal vivo fu anche peggio che vederla per la prima volta. Lei ricambiò il suo sguardo.
 Il ghiaccio incontrò il ghiaccio
 È la mia fotocopia Pensò Siamo praticamente identici. Darren fissava i suoi occhi, scrutando il freddo nelle iridi azzurre di Lenore. Cercando una frattura. La più piccola venatura di bianco.
Qualcosa, qualsiasi cosa, che li rendesse diversi dai suoi. Ma fu una ricerca vana. Mentre si osservavano qualcosa, non seppe dire che cosa, sembrò frantumarsi nello sguardo di lei. Come se, all’improvviso, la ragazza cedesse a un qualche peso. Un attimo prima mostrava il mento con fare fiero, un attimo dopo lo sguardo da dura si disintegrava in mille pezzi. Ma fu per un attimo. E fu come aprire la scatola di Pandora. Dolore, rabbia, sconcerto e tristezza fuoriuscirono dal muro azzurro dei suoi occhi.  E Darren non seppe fare altro che guardarla. Non era un buon bugiardo. L’unica cosa che gli riusciva bene era gelare le persone con lo sguardo. Ma coma fai a gelare ulteriormente occhi nati apposta per quello?
Non sapeva bene che espressione avesse, lui. Era però sicuro di aver dipinto in volto lo sconcerto. Fu un attimo, Lenore ricostruì in un battito di ciglia il muro. Lo sguardo da dura che tanto la faceva apparire sicura otrnò a dipingerle il volto.
 Forse anche lei è debole Pensò Darren Forse anche lei è una vera faccia degli Hunger Games.
 Ma non era così. Darren sentiva che non era la verità.
I deboli non sono affar tuo, ecco cos’ha detto Stephan. Sono già spacciati e tu non devi averci nulla a che fare, se vuoi vincere.  Ma se anche lei lo fosse, come potrebbe non essere un problema mio? 
Rabbia. Fu il primo sentimento sensato che il ragazzo riuscì a provare. Aveva sempre saputo che suo padre era un qualche stronzo maniaco. Ma la vista di Lenore non fece che rafforzare quella convinzione Quante donne avrà stuprato? Ma si rende conto di cosa ci ha marchiati? Si chiese al colmo dell’ira
 << Sta calmo >> La voce di Stephan lo raggiunse
 << Sono calmo >> Ribattè lui.
<< Nemmeno lei è un affare tuo, Darren. >> Gli disse lo stilista. Il ragazzo contrasse la mascella, evitando di rispondere. Ci fu un attimo di silenzio << Spiegami una cosa Stephan >> Cominciò Darren. Lo stilista annuì distrattamente << Perché mi dici questo? >>
Stephan sorrise. Prima d’allontanarsi dalla pelliccia nera. Contemplò soddisfatto il lavoro << è un bel costume quello di quest’anno >> Disse, come se stesse parlando con sé stesso << Penso sia azzeccato con te, Darren. Lui da promesse. Promesse di vittoria. Tu potresti anche esaudirle. >> Sospirò << Conosco i tipi come te, ragazzo >> Aggiunse << Coloro che sono più pericolosi per te sono i deboli, non i forti. Ed io non vorrei aver sprecato una simile pelliccia per un'altra faccia morta dei giochi. >> Il discorso venne chiuso. Lo sguardo di Darren tornò a Lenore. Poi, i carri cominciarono ad avviarsi verso lo stradone infernale.
 
 
Silenzio.
Tum-Tum
Tum-Tum
Un tamburo risuonò nella sua testa.
Tum-Tum
Tum-Tum
Il ritmo sembrava accellerare, come la pulsazione del sangue nelle vene.
Tum-Tum
Tum-Tum
Poi, come il volume di una radio alzato, vennero le urla.
Grida d’approvazione, urla d’entusiasmo.
Sempre più forti, sempre più feroci.
La gente sugli spalti strepitava. La folla si spintonava a vicenda pur di conquistare uno sguardo, anche solo per un attimo, da parte dei tributi.
Facevano a gara pur di farsi notare, come bambini. E come bambin urlavano, lanciavano fiori. Allungavano le mani come per protendersi verso i carri in sfilata davanti a loro.
Sembrano animali Disse una vocina dentro alla sua testa. Sono animali.
Darren si costrinse a murare dietro ad una parete di ghiaccio i sentimenti che inondavano la sua mente. Voglia di scappare, sconcerto. Paura.
Paura perché, dopotutto, per la prima volta da una vita, era davvero solo.
Nessun fratello con cui fare a gara su tutto. Che avrebbe trovato una sfida anche per quella situazione. Nessuna sorellina di cui prendersi cura.
Sei sempre stato solo, Darren. Gli disse quella fastidiosa vocina nella sua testa Hai solo mentito a te stesso per tutto questo tempo.
Il ragazzo alzò una mano in segno di saluto verso la folla. Mallory, al suo fianco, lo imitò. E ci aggiunse un sorriso. Diedicato a tutta Capitol City.
Darren non ci provò nemmeno. Aveva imparato a conservare i sorrisi per momenti speciali, occasioni particolari. Non per Capitol City. Avevano già la sua vita, non avrebbero preso nient’altro di lui.
Le urla della folla lo disorientavano.
La consapevolezza delle telecamere puntate lo snervava.
La paura di fare un passo falso lo attenagliava.
Nonostante questo Darren alzò il mento, fiero.
Come se ci fosse qualcosa di cui andar fieri.
Che cosa starà pensando adesso, Melissa? Si chiese Cosa proverà nel vedere il suo fratellastro sfilare? Non voleva che capitasse a nessuno, me l’aveva detto. Era la sua paura più grande. Ed ora è diventata realtà.
Gli venne l’amaro in bocca e sentì il suo cuore martellare nel suo petto. Una rabbia crescente s’impossessò di lui.
Come può questa gente dormire la notte? Come può vivere senza rimorso? Non lo sa? Non capisce che è  l’incubo peggiore di una bambina?Tutti loro lo sono.
Quella sfilata era diversa dal gioco di anni prima. Vestiti più eccentrici. Un pubblico più rumoroso. Era tutto così dannatamente reale.
Chiuse quell’orda di pensieri dietro alla barriera di ghiaccio. No, non poteva farli fuoriuscire proprio in quel momento.
Non ora. Non lì.
Ed eccoti qui, Darren. Burattino nelle loro mani. Alla fine  ti hanno preso.
Quella vocina sembrava farsi beffe di lui, quasi.
Mise a tacere anche quei pensieri. Avrebbe avuto tutto il tempo più tardi per preoccuparsene.
<< Che cosa direbbe Melissa? >> Sussurrò quasi a sé stesso, muovendo le labbra impercettibilmente. Mallory, al suo fianco, parve sentirlo.
<< Ti sei ricordato di me >> Bisbigliò in risposta, continuando a sorridere alla folla.
Una ragazzina, dagli spalti, si protendeva verso di lui con le braccia in avanti, strillando “Darren, Darren”. Una donna anziana alzava in alto il suo bastone tempestato di brillantini, urlando la medesima cosa.
<< Ti amano di già >> Sussurrò Mallory. Darren non replicò.
Dimenticheranno il mio nome nel momento esatto in cui morirò. Pensò, tenendo la mano alzata in segno di saluto.
Dopodichè non ci fu più spazio per i pensieri.
Man mano che i carri avanzavano, le grida sembravano alzarsi. L’entusiasmo del pubblico cresceva sempre di più. Darren si concesse una breve occhiata i vestiti degli altri tributi. Strano come avesse ignorato quegli indumenti fino a quel momento. Una ragazza del distretto uno esibiva una tunica rosa pallido, un ragazzo del distretto tre teneva fra le mani un gladio. Jamie, il carro dietro di lui, doveva indossare una qualche specie di tunica a scaglie di vipera. Lacey un vestito di una qualche tonalità di giallo. Mallory, al suo fianco, un abito a mo di pelliccia, come abbinato al suo costume.
Tanti costumi diversi, tanti colori differenti. Eppure siamo tutti uguali. Siamo tutte marionette che non hanno il controllo sui propri fili.
Il carro continuò ad avanzare liscio come l’olio. I cavalli che lo trainavano sembravano aver subito la stessa follia di Capitol City, con i paraorecchi di pelliccia nera e le briglie tempestate di diamanti.
Capitol City continuava ad apparire a Darren una città in cui la ricchezza veniva manifestata con troppo sfarzo e dove il kitch andava troppo di moda. Era tutto diverso dal distretto dieci.
Troppo diverso.
Darren contrasse le mani a pugno, facendosi sbiancare le nocche.
Alla fine sto sfilando sui carri Melissa. Mi dispiace.
 
 
<< … Darren è… >>
<< Sparisci Jamie, adesso >>
<< Tu non puoi.. >>
<< Esci fuori, immediatamente >>
Il ragazzo dai capelli chiari e gli occhi febbrili arretrò aldilà della soglia della stanza di Darren. Chiuse la porta con un tonfo timido. Quasi temesse che sbatterla con più rabbia avesse suscitato in Darren chissà quale reazione violenta. A dire il vero, nel corso di quella conversazione appena conclusa, il ragazzo dai capelli neri aveva provato più volte l’impulso di picchiare Jamie con tutta la sua forza. Era arrivato al punto da inchiodarlo al muro e caricare un pugno fatto su misura per la faccia dell’altro. Ma non l’aveva fatto arrivare a destinazione. In un assurdo lampo di lucidità in quel mare di rabbia repressa. E l’aveva lasciato andare. Jamie era scivolato a terra tossendo e tenendosi il collo fra le mani. Reazione esagerata, Darren era stato attento ad evitare di fargli troppo male con quella stretta. Erano le regole di Capitol City ad impedirgli di picchiarlo. Fargli male. Forse l’avrebbe addirittura ucciso.
Ma non poteva. Dannazione, se solo fosse stato nella sua arena.
Darren si scrollò di dosso quello stato di rabbia.
Maledizione. Maledizione!
C’erano stati giorni, nel distretto dieci, in cui certi ricordi non gli avevano dato tregua. Ricordi infuocati cui lui era la causa.
Ma aveva imparato ad arginarli. Dannazione, era stato bravo a fingere di dimenticarsene. Era stato accettato dal distretto, alla fine. I suoi fratelli lo avevano aiutato.
Fratellastri.
Ed allora perché i ricordi riaffioravano adesso? Perché proprio ad un passo dall’Arena?
Perché sei un maledetto masochista. È passato tutto. TUTTO. Facevi parte di un distretto quando ti hanno estratto. Ma a te non basta mai nulla di quello che hai.
Gli suggerì una vocina fastidiosa nella sua testa. La stessa che lo assillava da tanto tempo. 
Darren arrancò fino al bagno. S’infilò sotto alla doccia senza nemmeno levarsi i vestiti puliti. Lasciò che il getto d’acqua bollente arrivasse ad arrossargli la pelle, infiltrandosi tra le stoffe dei vestiti. Con gli occhi chiusi ed una mano alla cieca cercò di schiacciare qualche tasto della tastierina dei comandi per l’acqua. Di colpo, il getto divenne gelido. Tanto da fargli drizzare i peli delle braccia sotto alla camicia.
L’acqua scorreva fredda sul suo corpo. Darren lasciò che filtrasse gli abiti, che facesse il suo corso sul suo corpo. E che poi cadesse a terra, staccandosi da lui.
Quando uscì dalla doccia, si sentiva più stanco che mai. Buttandosi sul letto dopo essersi cambiato, sprofondò in un sonno che, fortunatamente, non portava con sé sogni.
 
La cena era stata la parte peggiore.
Gli stilisti al tavolo non avevano fatto che parlare della parata. La ritenevano una delle migliori riuscite da anni. Luzio non la finiva di complimentarsi con Mallory per lo sguardo accattivante assunto durante la sfilata. La Label non si faceva partecipe dei discorsi. Jamie e Lacey trasformavano ogni discorso in monologhi passo dopo passo più noiosi.. Darren se ne era stato zitto. Consapevole di non essere con il branco giusto. Consapevole di essere lontano dal suo branco.
Era fuori posto lì.
Ogni sua parola, ogni suo gesto era sbagliato.
Tutto quello che faceva aveva un che di sbagliato, lì.
Il cibo era stata un’amara consolazione. L’unica ragione per la quale si era seduto a quel tavolo.
Nemmeno quando era finalmente finita, quando finalmente stava per ritirarsi nella sua camera, aveva avuto pace.
Era arrivato Jamie. Era arrivato Jamie a spingere il suo umore di per sé pessimo ancora più in basso.
 
Ma dopotutto non era stata colpa sua. Jamie aveva solo richiamato alla mente vecchi ricordi, passati che Darren odiava.
Si erano accumulati nella sua testa, come tante diapositive disordinate. E non se ne erano andate. Non se ne sarebbero mai andate.
 
 
Mostro.
è quello che il distretto dieci pensò di lui per i primi undici anni della sua vita.
Ibrido, creatura di Capitol City.
Lo sussurravano al suo passaggio, nascondendo il movimento delle labbra. Lo urlavano nelle taverne, ubriachi, quando lui non c’era.
Era quasi un abitudine, quella della sua esclusione. Faceva ormai parte della routine del distretto dieci.
Darren era il bastardo. Lo era per gli altri. Lo era diventato per sé stesso.
Viveva nella casa di sua madre. Coi figli di sua madre. Con il vero uomo di sua madre. Mangiava con loro, dormiva accanto a loro. Viveva accanto a loro. All’epoca Micheal, Melissa, Hod.. Nessuno di loro lo odiava, tranne Joshua, certo. I suoi fratellastri cercavano sempre di integrarlo. Il primo era stato Micheal. Non usciva mai di casa senza chiedere al fratellastro di venire con lui. Nonostante Darren continuasse a rifiutare. Hod cercava il suo aiuto quando si trattava di svolgere i compiti per la scuola, o quando voleva qualche consiglio.
Melissa non aveva trovato nessun pretesto che la giustificasse agli occhi di sua madre. Si era avvicinata a Darren, senza chiedere il permesso. Senza domandare scusa.
Nonostante tutto, Darren spariva alle feste. Lo si vedeva gironzolare in giro per il distretto la viglia di Natale, la notte ed il giorno seguente. Spariva al pranzo di pasqua. Spariva alle feste dei compleanni dei fratellastri, sebbene in seguito facesse loro gli auguri. Nelle date più importanti, lasciava che la famiglia che lui aveva frammentato potesse fingere di non averlo mai visto. Nessuno aveva mai detto una parola in proposito. Faceva parte della routine.
Una notte di Natale, Darren aveva otto anni, gironzolava per il distretto alla ricerca di una panchina, un piccolo angolo, dove sdraiarsi e dormire. Faceva freddo, cadeva la neve. Senza dire una sola parola, quella stessa mattina, Melissa gli aveva lasciato il cappotto più pesante di casa vicino all’ingresso. Sapeva che sarebbe stato fuori la notte. Non aveva potuto fare nulla per impedirlo. Ma si era preoccupata per lui, di questo Darren gli era grato.
All’epoca i sentimenti del ragazzo erano confusi. Odiava Joshua, odiava l’uomo che viveva accanto a sua madre.. Odiava tutti quelli che, apertamente, manifestavano il loro recirpoco odio verso di lui. Tranne sua madre. Quante volte, Darren, si era trovato a piangere dinnanzi a lei per gli stupidi motivi di un bambino? E quante volte, lei, dinnanzi ad un bambino tremante gli aveva sbattuto la porte in faccia? Ma lui non la odiava. Era sua madre. Non avrebbe mai potuto nutrire simili sentimnti verso di lei. Perfino a diciassette anni non era riuscito a provare un briciolo di rabbia nei suoi confronti. E come avrebbe potuto? Era lui la piaga. Era lui che aveva rovinato a lei la vita. Il frutto crescente di un avvenimento da dimenticare.
Quella notte il distretto dieci era immerso nel bianco.
Buio e freddo avevano smesso di spaventare Darren da un po’. Si era abituato a loro. O almeno, poteva fingere con sé stesso che non lo scalfissero minimamente.
Arrancava per le strade, le braccia incrociate a riscladarsi reciprocamente. Nuvolette di fumo condensato uscivano dalle sue labbra tremanti. Passo dopo passo, si faceva largo per i vicoli più periferici del posto. Quando, in lontananza, vide un fuoco non esitò a dirigercisi.
Lo chiamavano Brandey lo stolto, ma quantomeno bisognava riconoscergli quell’abilità: sapeva accendere un fuoco maestoso con della semplice immondizia.
Viveva fuori casa da quando sua moglie lo aveva sbattuto fuori, probabilmente stanca di averlo ubriaco in casa. Alcuni abitanti del distretto si erano offerti di aiutarlo, ma lui aveva rifiutato ed ora viveva per strada, farneticando che la moglie sarebbe tornata a prenderlo. Ma in cinque anni, quella non si era fatta viva.
Così viveva per strada, di sua scelta. Ai pacificatori la cosa non andava a genio, però bastava che andasse a fare il suo lavoro, di giorno, e non davano problemi. Darren si fermò a pochi passi dall’ombra del suo fuoco.
Guardava ammirato le scintille, ma non osava avvicinarsi troppo. L’uomo aveva la faccia da vecchio, le rughe a corrugargli la fronte. Il viso squadrato, l’espressione assimmetrica.. Nessuna donna avrebbe mai potuto trovarlo attraente, questo era certo.
<< Che fai lì, bimbo, non vieni a scaldarti? >>Aveva i denti gialli. Dicevano che per vivere rubasse sempre qualcosa durante il lavoro. Ma di certo non l’avevano mai preso.
 Darren fece incerto qualche passo avanti.
Poi, deciso, si sedette davanti al fuoco.
<< Non parli molto tu, eh? >> La risata che seguì risuonò gracchiante << Dì un po, non sarai mica il bastardo del distretto? Che domande! Se sei qui fuori è ovvio che sei il bastardo >> Darren contrasse la mascella, evitando di rispondere
<< Oh, un bastardo susciettibile! Beh, si da il caso che questo sia il Mio fuoco, quindi, perché non parli un po? >>
 Darren lo guardò in silenzio. Gli occhi azzurri illuminati dal bagliore del fuoco.
 << E che dovrei dire? >> Chiese
<< Questo è già un buon inizio! >> Esclamò l’anziano << Sei qui fuori tutto solo, eh? T’hanno sbattuto fuori come con ma ha fatto mia moglie? Ah! Gente ingrata! >> Sembrava pazzo. Probabilmente lo era.
 Ma aveva un fuoco.
Darren avrebbe sopportato qualsiasi cosa, per esso
<< Me ne sono andato io >> Rispose << Nessuno m’ha sbattuto fuori >>
Il vecchio sorrise. Guardandolo attraverso il fuoco, Darren notò che gli mancavano due denti. Distolse lo sguardo.
<< Hai la voce tagliente per essere un bimbo di.. Quanti anni? Sei, sette? >>  
<< Otto >> Lo corresse automaticamente il bambino.
<< Otto anni e sbattuto fuori di casa. Se così puoi chiamare il posto in cui dormi >>
Lo scoppiettare del fuoco riempì il silenzio che seguì, mentre il vecchio scrutava il suo interlocutore.
Gli occhi che riflettevano lo scintillio delle fiamme gli donavano un aspetto da matto.
Darren se ne sentì in qualche modo intimorito.
<< Devi odiarti davvero tanto >> Continuò imperterrito Barney.
<< Io non mi odio. Sono gli altri che lo fanno. >> Ribattè prontamente l’altro.
<< Non dire sciocchezze >> Il vecchio lo liquidò con un cenno della mano << Gli altri vedono te esattamente come tu vedi te stesso. Se ti senti un vigliacco, loro penseranno che lo sei. Se ti credi un impertinente, loro crederanno lo stesso. E se tu ti credi un bastardo, Darren Thomson, loro ti vedranno come tale. >>
Il bambino fissò in silenzio le fiamme
<< Io non mi odio >> Ribattè con ostentata calma.
<< Non dire menzogne bambino. >> Barney scrollò le spalle << Sei il frutto di uno stupro, hai diviso una famiglia che senza di te sarebbe potuta essere più felice. Vivi nel distretto dieci e non ne fai parte. E quandoi tuoi fratellastri cercano di integrarti non hai nemmeno il fegato per provare a farlo. Chiunque si odierebbe, al tuo posto. >>
<< Sta zitto! >> Sbottò Darren
<< Francamente dovresti sperare davvero che gli Hunger Games ti prendano. Avresti la possibilità di estraniarti da questo posto e magari vinceresti addirittura! >>
<< Sta zitto! >>
<< Io li conosco i tipi che potrebbero vincere. Ah, tu hai la faccia di uno di quelli! Che sia il sangue di Capitol City, a renderti così? >>
<< Smettila di.. >>
<< Dopotutto sei un tipo molto solo. Chissà se alla capitale ti troveresti meglio che qui.. >>
Darren scattò in piedi, contraendo la mascella. Chiudendo le mani a pugno al punto di farli sbiancare. In un balzo aggirò il fuoco e si portò a sovrastare Barney, comodamente seduto.
Era piccolo, un bambino. Ma ci mise tutta la sua forza nel caricare quel pugno.
Quando allontanò la mano dalla faccia dell’altro, vide schizzi di liquido rosso colare dal suo naso. Fece un passo indietro, sorpreso dalla sua azione.
Barney si teneva il viso tra le mani, senza però lamentarsi. Niente di grave, dopotutto.
<< è questo che sei, bambino? Un violento? >>
Darren corse via, lontano da quel piccolo fuoco che avrebbe potuto riscaldarlo per tutta la notte.
La notte la passò nel buio di un angolo, rannicchiato su sé stesso.  
SI tenne lontano da Barney, da quel giorno in poi. Poi, un giorno, tutto cambiò. Almeno per il distretto. Darren venne riconsiderato.
Ma nei suoi ricordi, quella notte non cessò mai di ripresentarsi.


Angolo Wani:
Non ho nemmeno finto di fare una trincea. 
Questa volta, i pomodori me li merito. Questo capitolo non è granchè. 
Maaa, ho fatto un patto con la Cla per il quale nessuna delle due ha più il diritto di dire che quello che scrive fa schifo.
Quindi potete dirlo voi =)
Allora, sinceramente, preferisco la seconda parte. La prima è stata scritta velocemente e siccome sono in ritardo nel pubblicarla non provo nemmeno a riscriverla.
Ho già il capitolo della Cla, come seguito, nelle cartelle. Lo pubblicherò fra un pò... 
Sperando di avere dei consigli nelle vostre recensioni
Wani

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Capitolo 6
*** Che tu sia per me il coltello ***


Che tu sia per me il coltello

Ma dentro di me esisti 
in un modo che mi atterrisce. 
“David Grossman, 
Che tu sia per me il coltello”


Farika non si era ancora evidentemente abituata a vedere Gregory seduto a tavola come tutti loro, a mangiare un croissant inzuppandolo nella crema di nocciole, a bere succo ai frutti di bosco e a guardare civilmente i presenti. Certo, era ancora piuttosto silenzioso e restio a concedere espressione facciali che non fossero vuote o annoiate, ma era con loro.
“Sul serio, Lenore... come hai fatto? Ti prego, svelami il trucco.” la donna continuava a spostare lo sguardo, alternandosi fra i loro visi, squadrandoli come se fosse alla ricerca della risposta ad un mistero irrisolvibile. Non c'era nessun mistero. Eppure la reticenza di Lenore non faceva che aumentare quella convinzione.
“Sono rimasti svegli tutta la notte assieme. Sua madre le avrà insegnato i segreti del mestiere. Non ci vuole molta fantasia per immaginare quale sia il trucco.”
Rosemary aveva sfoderato un sorrisino divertito mentre portava alla bocca una fragola sovrastata da uno sbuffo di panna. Era fiera della propria frase, lei. Lenore invece era mortificata. Ma aveva semplicemente serrato la mascella, tenendo lo sguardo fisso sulla propria tazza, senza rispondere alla provocazione, combattendo la rabbia.
Reagire era la cosa peggiore, lo aveva imparato molto tempo prima. 
Farika aveva guardato le ragazze con aria perplessa, senza capire dove volesse andare a parare Rose. Ma tutti gli altri avevano inteso, eccome, e la fissavano con palese disapprovazione.
“Cosa sono quelle facce? Ho semplicemente espresso il pensiero di tutti, credo.”
“A nessuno di noi era venuta in mente una cosa simile.” aveva ribattuto Stan battendo debolmente i palmi delle mani sul tavolo, facendo tintinnare le porcellane.
“Però avete capito subito cosa intendevo. L'unica che a quanto pare non ci aveva proprio pensato è Farika.” ribatté subito la ragazza, sorridendo, certa di aver colpito il punto giusto. Ed era vero. Nella sala cadde un silenzio imbarazzato. Fu la risata di Lenore, ad interromperlo. Una risata piena di amarezza per la verità delle parole di Rosemary, una risata accompagnata da un risentito movimento della testa, una risata che sapeva di delusione. Era tutto vero. Come aveva potuto anche solo pensare che quella gente potesse interessarsi a lei? Erano esattamente come tutti gli altri.
Stava per alzarsi e andare in camera sua, dove probabilmente se la sarebbe presa con un cuscino, quando Gregory alzò lo sguardo e gelò tutti quanti. Non aveva ancora aperto bocca dalla prima volta che si era seduto con loro, né aveva dato segno di interessarsi alle loro discussioni.
“Non ho idea di cosa tu stia parlando, Carlton, ma dal tuo tono mi sembrava un commento di pessimo gusto. Lasciati dare un consiglio spassionato: non puoi permettertelo. Qual è il motivo di tanta fatica? Lenore ti spaventa? Sai, credo che sia una paura immotivata. Lei è nell'altra Arena, nel caso tu fossi stata troppo occupata a fare altro, per accorgertene. E ora come ora tu non riusciresti a superare nemmeno la Cornucopia. Forse dovresti pensare ad allenarti con Leanna, invece di lanciare cattiverie a destra e manca. Sarebbe più utile e producente.”
Rosemary arrossì dalla testa ai piedi e le sue guance si ricoprirono di piccole chiazze purpuree che testimoniavano con irriverenza il suo imbarazzo. Il tono di Gregory erano stato affilato come la lama di un coltello. Lenore si era goduta il modo in cui quella lama era penetrata dentro la ragazza, ma avrebbe scommesso qualsiasi cosa sul fatto che lei, in realtà, non si fosse affatto pentita di ciò che aveva detto. 
“Andiamo, Len. Io e te abbiamo cose migliori da fare che rimanere qui a discutere con una bambina.” affermò il Mentore alzandosi in piedi, prontamente seguito dalla ragazza. “Oh, aspetta... magari Rosemary desidera fare un commento anche sulla mia ultima frase. In questo caso diamole pure il tempo per farlo.”
Di fronte al silenzio della ragazza Gregory annuì con approvazione.
“È stata una colazione deliziosa. Veramente. E voi tutti siete delle persone altrettanto deliziose. Senza dubbio. Anche se trovo il rosmarino veramente fastidioso.”
Farika si riscosse dallo stupore che l'aveva paralizzata.
“Di che rosmarino parli? Non c'è rosmarino in questa...”
“Fidati, ce n'è anche troppo per i miei gusti.”
Rosemary sembrava avere l'aria di una persona che vuole sprofondare nel pavimento e Lenore non stentava a crederci. Gregory ci era andato pesante, ma lei non poté impedirsi di sorridere quando lo seguì fuori dalla sala.
Di Gregory si fidava, più di chiunque altro al mondo e quella consapevolezza, per una volta, non portava paura, né dolore, né insicurezza. Gregory era diventato, in quei pochissimi momenti passati insieme, la cosa più simile ad una famiglia, per lei. E gliene era profondamente grata.
Il Mentore la portò nella sua camera, che era praticamente identica a quella di Lenore, e le fece segno di accomodarsi sul letto.
“Non credi di aver esagerato?” gli chiese la ragazza togliendosi le scarpe e incrociando le gambe sul materasso.
“No. Ma credo che tu invece avresti dovuto difenderti.”
“Non avevo niente da dirle.” la scrollata di spalle che seguì le parole riuscì a far innervosire il ragazzo.
“Mi deludi, Lenore. Pensavo che fossi abbastanza coraggiosa da rispondere a chi cerca di umiliarti.”
“Ti ripeto, Greg, non avevo nulla da dirle. Il mio sguardo era fisso sul coltello da burro e mi stavo chiedendo se si sarebbe piantato in mezzo agli occhi, anche da spuntato, se lo avessi lanciato abbastanza forte. Ma parlare... era l'ultima cosa che mi veniva in mente di fare, in quel momento.”
Gregory rimase in silenzio qualche istante, per poi ridere, in quel suo modo strano, un angolo delle labbra stirato verso l'alto, con la sua voce roca e bassa.
“Già, avrei dovuto immaginarlo che non sei proprio così innocente. E così maneggi i coltelli, eh?”
Lenore scosse la testa, divertita.
“No, io non ho mai detto una cosa simile. Che cosa ti ha fatto sorgere questa balzana intuizione, oh mio sapiente Mentore? Chiunque può avere l'impulso di accoltellare qualcuno.”
“Appunto. Accoltellare. Non lanciare coltelli. Non cercare di prendermi in giro, Len. Ho qualche anno in più di te e una edizione di Hunger games alle spalle. L'esperienza gioca a mio favore.”
“C'è qualcosa che ti si possa nascondere, brutto antipatico?” borbottò la ragazza incrociando le braccia, infastidita.
“Se ti può consolare non lo sapevo fino ad oggi. Sai, riguardando la Mietitura ti ho osservata, per capire con chi avevo a che fare ed ero arrivato alla conclusione che tu e l'arco saresti stati fidati compagni. E ne sono ancora certo. Solo, non mi ero accorto dei coltelli.”
“E cosa te l'ha fatto pensare?” chiese la ragazza, incuriosita.
“Beh, hai una calma terrificante, in certe situazioni. All'inizio, quando ti hanno estratta sembravi maledettamente spaventata eppure non hai mosso un solo muscolo, sul palco. Insomma, hai nervi saldi. Ma le tue braccia erano troppo allenate per limitarsi alla frusta e alle lame da lancio e in più hai una buona postura, perciò ho pensato all'arco. Non è stato difficile, dopotutto.” sembrava soddisfatto della sua analisi.
“Già, non sarebbe stato per niente difficile, se solo tu avessi avuto ragione.” lo smontò lei senza nessuna pietà. Ebbe la soddisfazione di vederlo aggrottare le sopracciglia, sorpreso.
“Cosa?”
“Non tiro con l'arco. Non ne ho mai toccato uno in vita mia.” era una bugia. Se la ricordava, la sensazione del telaio di legno sotto le sue dita. Ma non ne aveva mai impugnato uno, non per colpire qualcosa. Non per colpire qualcuno.
“Dici sul serio? Mai?”
“No, mi sono allenata con quello che avevo.”
Gregory sembrava curioso.
“E cosa avevi, esattamente?”
“Tanti pini marittimi dal tronco maledettamente liscio su cui arrampicarmi, tante piante da riconoscere, tanti libri più o meno inutili da studiare, tanta sabbia e tanta acqua per allenare i muscoli, dei coltelli da lancio e una spada.”
“Tiri di spada... Sta' a vedere che quest'anno Capitol mi ha affibbiato un Tributo addestrato meglio di quelli del Due senza neanche saperlo.”
Lenore rise, gettandosi all'indietro e rimbalzando sul materasso morbido.
“Magari, Greg. Sarebbe tutto più facile.”
“Beh, non possiamo saperlo. Intanto, tieniti lontana dalle cose che sai fare bene, in Allenamento. Oppure sbagliale apposta, ma non clamorosamente. Non attirare l'attenzione, né in positivo né in negativo. È importante. Ti vuoi alleare coi Favoriti?” Greg la fissava negli occhi, quasi preoccupato.
“No. Non se ne parla.” la risposta era arrivata di getto, senza pensarci.
“Approvo. Non ti puoi fidare.”
“Non mi posso fidare di nessuno.” osservò la ragazza.
“Di loro ancora meno.”
“Sono d'accordo. Passare inosservata.”
Il ragazzo annuì e le concesse un ultimo sorriso prima di farla uscire dalla stanza.
Passare inosservati.
Non doveva essere poi così difficile, no? Non lo faceva da una vita?
Sarebbe stato facile.

Non era stato facile, per niente, rifletté Lenore mentre era seduta su una panchina a riprendere fiato, dopo un paio di ore.
Si era resa conto di una cosa, mentre era ferma sulla pedana, aspettando il proprio turno per tirare con l'arco: lei non era mai passata inosservata. Certo, camminava a testa bassa, per le vie meno affollate, senza rivolgere la parola a nessuno, eppure c'erano sempre centinaia di sguardi puntati su di lei, anche solo per sputare cattiverie o per deriderla bellamente. Il massimo che poteva aspettarsi era di essere ignorata. Ma nulla di più. Tutti si accorgevano della sua presenza.
L'aveva capito quando aveva sentito il tocco intimo, carezzevole e soprattutto terribilmente familiare di un paio di occhi che la studiavano attentamente e, voltandosi, aveva inquadrato il volto di Annika, il Tributo del Due nella sua Arena, affiancato da quello di Rosemary, mentre ridevano. Di lei.
Lenore aveva commesso il suo primo errore, in quel momento. Aveva fissato Annika negli occhi, sfidandola tacitamente a raggiungerla e a parlare in faccia invece che deriderla alle spalle. Lo sguardo della ragazza si era affilato, mentre coglieva la sua provocazione.
Annika non le faceva paura, nemmeno un po', con le sue braccia forti, la statura massiccia, il volto arcigno sempre corrucciato in una espressione di superiorità. Le palpebre erano sempre contratte, per guardare il mondo attraverso quella piccola lunetta, ma nelle iridi non si leggeva nessuna arguzia. Sarebbe stata in grado di staccarle la testa con un solo colpo della sua ascia, cosa che tutti ritenevano più facile di quanto non fosse in realtà, ma dubitava che sarebbe stata capace di ideare un piano ingegnoso per catturare un qualsiasi Tributo. Sarebbe stata un burattino nelle mani degli altri Favoriti.
Ma era proprio quello il punto: per quanto potesse essere relativamente inoffensiva, Annika era una Favorita e come tale aveva cercato subito appoggio nel gruppo, facendo sì che Lenore si trovasse i loro occhi puntati sulla schiena per tutto il tempo, mentre saggiava per la prima volta la tensione della corda, la resistenza del telaio, mentre ascoltava le istruzioni del vecchio che le spiegava pazientemente come posizionare mani, braccia e spalle.
Gregory aveva avuto ragione: l'arco le piaceva, apprezzava la forza con cui le frecce si scagliavano contro il bersaglio, gustava la vibrazione della corda che si irradiava lungo il suo avambraccio, dopo averla lasciata con dita indolenzite dallo sforzo, amava la soddisfazione di vedere la punta conficcarsi in un buon punto, per essere una principiante. Eppure sapeva che non ci avrebbe mai fatto affidamento, durante i Giochi. Era un'arma che le piaceva, ma di cui non si fidava abbastanza per considerarla una buona compagna. Così aveva lasciato la postazione, soddisfatta, dirigendosi verso il test sulle erbe, elementare, che aveva superato senza troppe difficoltà. Gli occhi l'avevano seguita. E non l'avevano lasciata nemmeno quando aveva preso in mano la spada, anzi, se possibile si erano interessati ancora di più.
Lenore aveva l'aveva fatta cadere, facendolo passare come un errore involontario e si era ferita leggermente, costringendosi a pensare a cose totalmente differenti mentre maneggiava l'arma. Aveva funzionato. La ragazza si era gustata la delusione dei Favoriti.
Eppure quando vide Aaron avvicinarsi a lei, mentre era seduta su quella panchina con i gomiti appoggiati alle ginocchia e i capelli appiccicati alla fronte per il sudore, Lenore non poté fare a meno di chiedersi disperatamente cosa avesse sbagliato.
“Tu sei dei nostri, vero, Quattro?” esordì lui, con quell'arroganza che ormai la ragazza sapeva appartenergli.
Lenore trovava curioso che fosse stato mandato proprio lui a chiederglielo, quando Rowena ed Elia stavano a monitorare la scena da lontano, con l'attenzione mortale del falco. La ragazza sapeva che erano loro a manovrare sottilmente i Favoriti, lasciando credere ad Aaron di avere il comando. Erano astuti, intelligenti, letali. Doveva stare lontana da loro.
“A cosa mai potrei servirvi?” chiese aggrottando le sopracciglia.
“Beh, non sarai bravissima con la spada o con qualsiasi altra arma ti abbia visto usare, ma con l'arco non te la cavi male. E noi non abbiamo nessuno che lo maneggi. Ci potresti essere utile. E magari almeno tu sai pescare visto che quell'idiota del tuo compagno sembra un incapace. Oppure ci farai divertire, se sei brava quanto tua madre.”
Lenore non sapeva se mettersi a ridere o strapparsi i capelli. Non aveva prestato attenzione al tiro con l'arco, appunto perché si trattava della sua prima esperienza, e invece i Favoriti volevano la sua alleanza esattamente perché ai loro occhi sembrava cavarsela.
“Mi dispiace, ma credo di non essere disponibile.” rispose alla fine, guardando fisso davanti a sé.
“Non scherzare, ragazzina.”
“Sono serissima, Due. Il vostro aiuto non mi interessa.”
“Non puoi essere così incosciente da non voler entrare nei Favoriti. Chiunque pagherebbe per questa alleanza, stupida.” il ragazzo si stava arrabbiando, era evidente da quella piccola vena sulla tempia che diventava più evidente ad ogni secondo.
“Ti ho detto che non ho nessuna intenzione di schierarmi con voi.” sibilò lei a denti stretti. La pazienza non era mai stata una delle sue virtù.
Aaron le afferrò il braccio, torcendoglielo con forza, fino a farle male, costringendola ad alzarsi in piedi, ma la ragazza si impedì di emettere un solo suono.
"Te ne pentirai, ragazzina. Te lo giuro."
"Mollami." le mani del ragazzo erano troppo forti perché riuscisse a liberarsi da sola senza attirare troppo l'attenzione, ma mettersi in mostra era proprio l'ultima cosa che voleva fare.
“Ehi, adesso lasciala.” Lenore non riconobbe la voce, ma il viso che comparve nel suo campo visivo pochi istanti dopo, quello era inconfondibile. Darren.
"E tu cosa c'entri, bastardo?" era incredibile come Aaron si fosse informato delle situazioni di ogni Tributo. A sentirlo sembrava più una pettegola che il micidiale tributo super-favorito di quella edizione quale in effetti era considerato. "Lei non è affar tuo."
Lenore si era limitata a rimanere in silenzio, cercando senza troppi risultati di liberare il braccio, anche quando ormai la discrezione era andata a farsi benedire. Dopo l'intervento di Darren tutti li stavano fissando.
“Ti ho detto di lasciarla” ribatté lui come se il tributo non avesse parlato e l'insulto non lo avesse minimamente scalfito. "O ti assicuro che ti darò un buon motivo per chiamarmi bastardo.” 
"Le risse sono proibite, Thomson." aveva ribattuto il ragazzo con un sorriso beffardo, ma le aveva lasciato il polso. Forse c'era stato qualcosa negli occhi di Darren, forse Aaron aveva capito che non ne valeva la pena, ma aveva mollato. Il ragazzo del Distretto Due se ne andò non prima di lanciare uno sguardo di fuoco ai due. "Sei fortunato di essere in un'altra arena."
Lenore fissò Darren, le labbra strette in una piega sottile. Il disagio stava crescendo dentro di lei in maniera esponenziale, di fronte al ragazzo.
"Grazie." si limitò a dire con un cenno del capo. 
Il ragazzo lanciò l'ennesima occhiata minacciosa all'altro tributo, per poi rivolgersi a lei. "Non c'è di che." rispose "Quelli come lui non piacciono a nessuno."
A vederlo così da vicino la somiglianza era veramente sbalorditiva e ciò non fece che amplificare ulteriormente in senso di irrequietezza che la agitava.
"Questo è evidente. Non sono in molti ad avere il coraggio di afferrare il toro per le corna, però." osservò la ragazza, senza guardarlo negli occhi. 
"Non sono in molti che se lo possono permettere" ribatté lui. "Che cosa voleva da te?" 
"Sono del Distretto Quattro. Faccio parte dei Favoriti quasi di diritto, voleva che mi alleassi con loro." spiegò scrollando le spalle. 
I miei tentativi di sembrare un'incapace a quanto pare non sono andati a segno o quantomeno non hanno sortito l'effetto sperato. 
Non lo disse ad alta voce, ma quel pensiero si riflesse nella sua espressione.
Darren sembrò studiarla per qualche istante. 
“Non vuoi essere dei Favoriti?” sembrava sorpreso all'idea. Probabilmente non se l'aspettava, di certo non da un Tributo del Distretto Quattro.
"Aaron non è il mio tipo." commentò ironicamente, ben conscia del fatto che nessuno lo avrebbe mai considerato un motivo plausibile. 
"Immagino non siano affari miei"
Lenore scrollò nuovamente le spalle. "E' solo che... non voglio fare l'ipocrita dicendo che io sono diversa, che non voglio uccidere. Il punto è che attaccare in branco dei Tributi indifesi, come fanno loro, è da codardi. Se dovessi vincere sarà perché sono riuscita a contare solo sulle mie forze. Loro si divertono, io lo faccio perché devo. Non abbiano nulla in comune. E poi... se hai paura che un serpente ti morda di certo è meglio non dormire accanto a lui. Potresti essere l'unica cosa commestibile nei paraggi, nel caso gli venisse fame."
“Una ragazzina del Distretto Quattro che sceglie di propria volontà di non stare coi Favoriti." Darren la inchiodò con lo sguardo "Secondo me sotto c'è qualche trucco." la diffidenza traboccava dalle sue parole come una cascata.
"Fra di loro non c'è spazio per una come me. Questo è sicuro. Chissà dov'è, poi, il mio posto." ritrovò a dire, fra sé e sé, guardando a terra. "Ma sono piuttosto sicura di non doverti nessuna spiegazione. Sappi soltanto che far parte di un Distretto non è sempre una garanzia. Dovresti averlo capito anche tu." 
Il ragazzo sorrise "Dovrei" concordò "Ma non spreco parecchio tempo a preoccuparmi di quelli come lui. Sono un po' più muscoloso di te, ho più possibilità in un corpo a corpo" Osservò tranquillamente. 
"E sei stato anche più fortunato. Il Tributo maschio del Due nella tua Arena non è poi questa grande minaccia." ribatté lei rivolgendo lo sguardo all'interessato. "Anche se...chi può dirlo. Comunque, fossi in te, mi preoccuperei più per quello dell'Uno... o magari proporranno anche a te l'alleanza, in fondo è vero... non sembri preso male." 
"Non l'accetterei mai. Io faccio da solo" disse, come non fosse stato esattamente quello che aveva detto Lenore. Volse lo sguardo al tributo grasso del Due. "Secondo qualcuno quelli come lui sono la minaccia più grande, per me" borbottò, quasi parlando con se stesso. 
"Ci credo. Hai la faccia da 'paladino dei deboli'" affermò la ragazza come se fosse la cosa più normale del mondo. "Sotto tutto quello strato di ghiaccio artico." era questa la caratteristica più spiccata di Lenore, il suo sguardo non gelava, il suo sguardo scendeva in profondità, scivolando dentro le persone. 
"Ghiaccio artico?" Chiese Darren "Paladino dei deboli? Mi hai già inquadrato, eh? 
"Merito di Greg. So come combatti, con quale mano scrivi, quali presumibilmente erano le tue attività al Distretto, so che deve essere piuttosto difficile trovarti una camicia, ho intuito quali armi userai. Capire le persone non è poi così difficile una volta imparato come fare." commentò in tutta tranquillità, anche se probabilmente sarebbe sembrata una psicopatica. Stavano evitando l'argomento che premeva sulle labbra di entrambi... e Len non era mai stata portata per i giri di parole. 
“Chi è Greg?" Chiese il ragazzo, perplesso. Poi la osservò per un istante "In pratica, sai tutto il necessario di me per sapere come mi comporterò nell'Arena." constatò "Non lo trovo molto corretto, però. Io so così poco di te." Lenore dubitava che fosse esattamente poco quello che Darren supponeva di lei. "Comunque ci hai azzeccato con le camicie" 
"Greg è il mio Mentore e anche tu potresti sapere tutto di me se avessi guardato la Mietitura con attenzione. Io l'ho fatto." la ragazza fissò lo sguardo sul suo viso, evitando accuratamente gli occhi. "Ma vedi... non ho ancora capito una cosa. Chi sei, Darren Thomson?" ecco, l'aveva detto. Aveva dato voce al suo tormento. 
Chi sei, Darren? Perché quando di guardo in viso rivedo gli stessi incubi che terrorizzano me? E quali acque tormentose si nascondono sotto il ghiaccio?
"Sono solo un ragazzo del Distretto Dieci..." disse " che non ha mai visto suo padre."
Lenore comprese a fondo quelle parole, che arrivarono a toccarla nel profondo. Lui probabilmente la capiva meglio di chiunque altro. Persino più di Gregory.
"Io sì. Lo vedo tutti i giorni davanti allo specchio, così come lo sto vedendo ora qui, davanti a me." si limitò a sussurrare, abbassando lo sguardo sui propri piedi. 
“Lo hai conosciuto?" chiese lui di scatto "che tipo era?"
La ragazza scosse la testa. "No. Non l'ho mai visto in vita mia. E il mio viso è stata l'unica cosa che mi ha lasciato. Ma credimi... al Distretto le voci corrono. Conosco la mia storia. Anche se vorrei che non fosse così." commentò amaramente. 
“Come io conosco la mia" concluse lui, con uno sbuffo quasi di delusione. 
"Non sembrava un uomo cattivo, dicevano. Se ne stava tutto il suo turno al suo posto, sorridendo da dentro alla sua divisa a tutte le donne che passavano. Ogni tanto aveva delle fragole selvatiche, trovate chissà dove, da regalare ai bambini..." Lenore si interruppe, chiedendosi perché diceva queste cose, perché le diceva proprio a lui quando non erano nemmeno sicuri che i loro padri fossero la stessa persona, anche se diventava più evidente a ogni secondo che passava. Ricordava con spietata chiarezza l'unica volta in cui aveva sentito parlare del suo papà. Era un falò. Lenore c'era andata solo perché sua madre gliel'aveva proibito. Aveva otto anni. Avevano raccontato la sua storia, così come raccontavano quella delle principesse, delle sirene, con così tanti particolari. Avevano ridotto il suo passato ad una fiaba che li facesse divertire. Squisitamente drammatica. Da quel giorno non era più andata ai falò sulla spiaggia. 
Darren annuì "Immagino sia la stessa persona, dopotutto. Un Pacificatore." Disse, sospirando. "Penso di non voler sapere nient'altro." aggiunse, voltandosi verso la sala "Tu ha studiato tutti i tributi, non è vero?" Era un evidente cambio di argomento, ma a Lenore non dispiacque. 
"Tutti." confermò la ragazza con un sorriso tirato che assunse un'aria divertita. "Chi ti interessa?" 
Il ragazzo esitò per poi indicare il ragazzo grasso del Due. “Lui.”
"Non mi stai chiedendo di dirti con che armi combatte, vero?" chiese "O forse sì... beh... sulle sue qualità fisiche puoi rifletterci anche tu. Non corre né è agile. Non sa tirare di spada, probabilmente sollevarla e utilizzarla diventa troppo difficoltoso dopo i primi cinque minuti. Lo stesso vale per l'arco. Le sue mani tremano, non ha la precisione necessaria per la cerbottana, per la frusta o per i coltelli. Oppure per creare trappole. Deve essere emotivamente fragile, è evidente da come ha reagito alla Mietitura. Tiene gli occhi bassi, ma non nel modo ostinato di chi vuole passare inosservato: lui lancia occhiate di sfuggita ai visi delle persone per poi ritirarsi di corsa. Non so tu, ma io me lo vedo spacciato." disse semplicemente. Probabilmente non gli aveva detto nulla di nuovo. "Eppure c'è una cosa che mi ha colpito. Si è fatto parecchio male, oggi. E non ha emesso un solo lamento. Credo ci sia abituato. Non deve essere facile essere come lui, giù al Due." 
Darren annuì "E che mi dici del ragazzo con cui litigavi?”
"Quello?" Lenore rise. "Quello, invece, è il classico ragazzo Favorito. Forte, decisamente. Anche se, oserei dire, in un corpo a corpo l'avresti vinta tu. Tira di spada, ovviamente. Gli avambracci sono decisamente troppo sviluppati per essere altrimenti, ma non c'è da escludere che maneggi anche l'ascia. Non è tipo da coltelli o da arco, il nostro Aaron: il suo difetto è di essere troppo impaziente e nervoso, lo vedi come batte il piede a terra, mentre aspetta il suo turno? Agisce prima di pensare. Prima uccide e poi si chiede CHI ha ucciso. Non credo abbia molte più possibilità di quante ne abbia l'altro del Due, a dispetto di tutto quello che dice la gente." 
“Lo farai fuori" osservò Darren "Potresti, con un coltello o un arco." 
"Penso che si distruggerà da solo anche prima..." rifletté a mezza voce lei. "Ma se ce ne sarà bisogno... sì, potrei farlo io, a debita distanza. A patto di riuscirci. E' comunque una minaccia. Senza possibilità, ma pericoloso." 
Il ragazzo annuì pensieroso "Non sei come mi aspettavo che fosse un tributo del Quattro"
"Non è il Distretto a fare di noi quello che siamo, Darren. E' la vita che viviamo. Se io fossi nata in una famiglia diversa forse adesso sarei lì con loro." disse semplicemente Lenore. 
“Immagino sia vero, ma credevo che da voi foste tutti ricchi sfondati " rispose lui con un' alzata di spalle.
La ragazza rise, gettando la testa all'indietro. "Oh, credimi, io e mia madre non morivamo di fame. C'era moltissimo lavoro dalle nostre parti." rideva, Lenore, pur sapendo che Darren non poteva capire il perché. 
Lui le lanciò un'occhiata perplessa. 
"Scusami ma... mi dimentico sempre che le graziose storielle su di noi sono raccontate solo all'interno del Quattro. Anche se Rose deve aver sparso la voce." commentò disgustata ripensando alle parole che Aaron le aveva rivolto poco prima. 
“Storielle? Ma penso che non siano affari miei" si affrettò a ritrattare lui.
"Sei il mio fratellastro, a quanto pare, no?" ribatté scrollando le spalle. Lenore non credeva a quei titoli familiari. Si poteva essere fratelli anche senza condividere totalmente il proprio sangue, si poteva essere estranei anche vivendo nella stessa famiglia. "Hai il diritto di chiedermi ciò che vuoi. Diciamo che mia madre... non faceva esattamente il lavoro più dignitoso del mondo. Ma lo faceva bene. Gli uomini hanno sempre apprezzato." commentò amaramente. 
"Mi dispiace. Ma vi ha tenute in vita entrambe, in un modo o nell'altro." 
"Lo so. Non c'è niente di cui essere dispiaciuti, Darren. Ognuno ha la vita che ha. Non è mai tutto rose e fiori. Chissà perché scommetterei che nemmeno tu te la sei passata da figlio ricco, viziato e coccolato." rispose lei, impassibile. "Quello che dobbiamo ringraziare è papà." 
"Già" borbottò il ragazzo "Che intenzioni hai, per questa Arena? Proverai a vincere?” 
"Non voglio dirti bugie. Non è una questione di vincere, Darren." chiarì lei. La sua voce era piatta, mentre si guardava attorno, fissando uno ad uno gli altri Tributi. "Io tenterò di sopravvivere. Come ho sempre fatto. Solo che questa volta non mi lascerò scivolare tutto addosso, non posso farlo. Le parole feriscono dentro, ma le lame uccidono. Le armi sono state concesse anche a me. E' ora di approfittarne, per una volta. Anche se fosse l'ultima." 
Lui annuì. “Sì, è chiaro.”
"E tu cosa farai? Vuoi sopravvivere o vuoi vincere?" chiese, senza distogliere lo sguardo dalla sala. 
Darren fissò lo spazio attorno a lui in silenzio "Prima di vederti la faccia ero sicuro che avrei vinto. Ero certo di volerlo, giusto per ripicca verso il mio patrigno. Ora non so cosa voglio" disse, semplicemente.
Lenore voltò il viso per fissarlo. Sarebbe stata pronta a fissare i propri occhi nei suoi, se solo non fosse stato lui, ad essere girato. "Perché? Perché vedere me ha fatto crollare le tue sicurezze?" non gli parlò delle proprie, non gli disse che anche lui era diventato l'unica cosa che le impediva di desiderare di uscire viva di lì con tutte le sue forze, non gli disse che cercava di escluderlo dai propri pensieri perché lui la terrorizzava. Non gli disse nulla di tutto ciò, chiese solo perché. 
Darren esitò prima di parlare, voltandosi a fissarla "È un po come se non fossi più l'unico bastardo... No, lascia stare. Quello è uno stupido soprannome... Voglio dire, a certa gente è sicuramente andata peggio che a me ma... Sapere di non essere per certi versi totalmente soli fa uno strano effetto. È ridicolo. Perché non è il sangue che lega due persone.. Non necessariamente, almeno.”
"Hai ragione. Non è il sangue a renderci fratelli. E tu devi avere qualcuno da cui vuoi tornare, lo dicono i tuoi occhi." ghiaccio nel ghiaccio, per l'ennesima volta. "Perciò non devi permettere che qualcuno o qualcosa ti distolga dal tuo obiettivo. Di certo non devi farti distrarre da me. Hai delle possibilità, Darren. Più di una. Usale. Ma tu non puoi fare nulla per aiutarmi, così come io non posso aiutare te. E' inutile pensarci, quindi." 
Darren si ritrovò a sorridere "In due potevano farsi avanti per me. In due sono rimasti al loro posto. Quel qualcuno da cui voglio tornare non è la mia vera famiglia. E potrà fare a meno di me. La mia vittoria li sconvolgerebbe molto di più di quanto non lo farebbe la mia morte" 
"Non è così facile sacrificare la propria vita per qualcun altro, Darren, per quanto gli si possa voler bene. Non puoi far loro una colpa, per questo. Ma di certo non ti permetto di dire che sarebbe meglio vederti morto, quando è evidente che loro tengono a te e tu tieni a loro. Tu almeno le hai, delle persone da cui tornare. Non tutti qui dentro possono dire lo stesso." affermò, piuttosto duramente. Non parlava di lei, non necessariamente. 
"Funzionava bene tra di noi. Ma se tornassi indietro non sarei me stesso. Sarei qualcosa su misura di Capitol City. Sarei qualcuno che è tormentato dagli incubi di notte e che non trova pace di giorno. Loro darebbero qualsiasi cosa per farmi tornare indietro. Ma quell'io non sarebbe realmente la persona con cui parli. Sarebbe qualcun altro che li legherebbe a vita agli Hunger Games, più di quanto non siano già. La mia morte, col tempo, potrebbero anche sopportarla" Scrollò le spalle "Ma hai ragione, ha molti è andata peggio che a me."
"Io credo che tu ti sbagli." disse con semplicità. "A volte una mano stretta alla tua basta a superare gli incubi e una persona cara basta a farti desiderare di vivere anche al di là di tutto l'orrore visto. Tu potresti tornare ad essere te stesso, un giorno." era strana la sensazione che provava, parlando con lui. Era talmente vicino da sentire il calore della sua pelle sulla propria, ma Lenore aveva l'impressione che se avesse allungato un dito e l'avesse toccato le sue mani avrebbero semplicemente afferrato il vuoto. Così vicino eppure così distante. In lei combatteva la voglia di sfiorarlo, anche solo per assicurarsi che fosse vero, e quella di allontanarsi, preda della paura di scottarsi se solo lui avesse intuito quello che si agitava sotto il suo, di ghiaccio.
“Non lo so, Lenore. Ma nessuno è mai uscito se stesso dagli Hunger Games." Disse semplicemente.
"Forse hai ragione, ma con i fantasmi si può arrivare a convivere. In tanti ci sono riusciti." rispose lei continuando a fissarlo. "Comunque se tu preferisci morire, di certo non è affar mio." 
Sorrise "Direi di si, invece. Come è affar tuo cosa faranno tutti i Tributi di questa edizione."
"Beh, è affar mio se effettivamente sopravvivranno o meno. Ma non so se mi riguardino tutti i giri mentali che si faranno nel frattempo. Nel tuo caso sembrano parecchi. Probabilmente non ti starei dietro." commentò divertita. 
"Si ma se mi seguissi sapresti anche il risultato di tutti questi giri mentali... e sapresti dove colpire meglio" le fece notare.
Io non ti colpirò. Non te. Pensò Lenore, fissandolo. Chissà se lui avrebbe letto quelle parole nei suoi occhi. "Forse hai ragione." disse invece. "Ma i tuoi pensieri, come quelli degli altri, per me rimangono un mistero. Riesco a leggere solo quello che fate trapelare." 
"E tu, non fai trapelare nulla?" le chiese. 
Io faccio trapelare anche troppo, si ritrovò a rimproverarsi Lenore, senza dar voce per l'ennesima volta a ciò che le passava per la mente. "Non lo so... dimmelo tu." gli rispose, rigirandogli la domanda. 
Lui sembrò rifletterci per un istante "Non userai armi pesanti, ma è troppo ovvio... Te la caverai col cibo, la fame non sarà un tuo problema... Userai armi come arco o coltelli, ma questo possono dirtelo tutti... Pensi di essere debole" Aggiunse, pensieroso. 
Lenore rise, un suono divertito, allegro. "Hai detto esattamente le stesse cose che ha detto il mio Mentore." commentò guardandolo. "E hai fatto i suoi stessi errori." 
“Soffrirai la fame ed hai un ego enorme?" chiese "Chissà perché lo escludo... " 
La ragazza rise nuovamente. "Ho un ego smisurato. E sono talmente schizzinosa che pur di non mangiare cibo ancora sporco di terriccio o uno scoiattolo mi lascerei morire di fame. L'unico coltello che io abbia mai maneggiato è quello per spalmare la marmellata sul pane. Armi? Io?" quella descrizione si adattava in modo inquietante a Rosemary, guarda un po'. "Ma cosa ti fa pensare che io mi creda debole e che non lo sia veramente?" 
"Non ho detto che tu non lo sia" fece notare. "Ad esempio, perché la prima volta che ti ho guardata, per un momento, non hai tenuto quella faccia da dura?" Sbuffò "E poi tu hai i miei occhi. Le tue espressioni le vedo quando mi fisso allo specchio. Qualcosa dovrò pur capirci, no?"
In realtà lui non aveva esattamente la faccia di uno che si capisce al volo.
“Io non credo di essere debole, Darren." bugia, enorme bugia. "Io so semplicemente di avere delle debolezze. E tu sei una di queste." disse chiaro e tondo. 
"Ma se io sono una tua debolezza allora nei miei riguardi tu sei tecnicamente debole" osservò lui imperturbabile. 
"Possiamo metterla in questi termini, se ti pare." concesse lei, con una scrollata di spalle. "Fatto sta che tu per me sei un enorme problema che non so come risolvere. E che probabilmente non risolverò mai." 
Darren sospirò "Già. Vale lo stesso per me" 
La ragazza sorrise amaramente, annuendo. "Com'è che ci siamo ficcati in questo casino?" chiese, anche se una risposta non c'era. "Tu... credi che ci vedrà?" era ovvio di chi stesse parlando. 
"Si" Disse "Tutti ci vedranno. Anche lui. Se non è morto, almeno."
Dalla sua faccia sembrava quasi che se la augurasse, la morte di quel bastardo che li aveva messi al mondo. Lenore non poteva dargli torto.
"E pensi che un po' di rimorso gli verrà?" chiese, anche se non ci credeva più di tanto.
“Non lo conosco. Ma non ci spererei.”
"Già, sarebbe troppo bello per essere vero. Sai... sembrerà stupido, ma anche se era un grandissimo stronzo io sogno ancora di conoscerlo." disse sospirando. 
"Beh, io non voglio altre figure di genitori nella vita. Quelle che ho mi hanno già distrutto abbastanza" Borbottò lui.
Lenore annuì. "Credimi, ti capisco. Com'era la storia? Ah sì... possiamo contare solo su noi stessi." la ragazza contrasse la bocca in una smorfia dubbiosa. "Non so se sono d'accordo." 
"Io non contavo sempre solo su me stesso" ribatté "Ma qui è tutta un altra storia" 
"Credo che qui l'unica cosa da fare sia stringere le giuste alleanze, ma non fidarsi di nessuno. Compresi i propri sosia." commentò pacatamente. 
Peccato che nemmeno io sia in grado di seguire la regola. 
Darren annuì silenziosamente "Si, hai ragione" si guardò attorno, pensieroso "Ma dopotutto non siamo nella stessa Arena, ed ho l'impressione che se tu rimanessi sola quello là ti verrebbe a molestare. Quindi, sosia, a che postazione andiamo?" chiese, come se fosse la cosa più normale del mondo.
La ragazza lo fissò stranita. "Stai scherzando? Ha intenzione di farmi da fratellone protettivo finché non saremo nell'Arena?" chiese passandosi distrattamente una mano sulla nuca.
“Non esagerare" disse Darren "Voglio solo conoscerti un po', giusto per oggi. " 
"Andata... ma scegli tu la postazione... io ci rinuncio." disse sospirando. 
“Dipende” Disse "Per quel che mi riguarda, tutti qui dentro sono abbastanza svegli da capire che vado forte con la forza, quindi quel genere di allenamenti possiamo affrontarli... Ma nessuno deve sospettare che io sia intelligente, quindi niente test. Tu, che impedimenti hai? 
"Beh... il mio mantra questa mattina doveva essere 'passare inosservata'... ma non so se si è notato, non mi è riuscito bene." commentò sconsolata. "Quindi a questo punto penso che farò tutto cercando di defilarmi il più possibile." 
“D'accordo, propongo un normale corso di mimetizzazione."
"La trovo un'ottima idea." approvò la ragazza annuendo. 
Darren.
Che gran casino.
Quando aveva analizzato i Tributi con Gregory si era illusa di poterlo considerare un nemico, esattamente come ogni altra persona. Si era illusa di arrivare a vederlo come un semplice ostacolo. Era arrivata persino a convincersi che Darren stesso fosse solo il frutto della sua mente stanca. 
Ma lui era reale, terribilmente reale, e quando aveva incrociato i suoi occhi per la prima volta, alla Sfilata, tutti quei buoni propositi erano andati in fumo, lasciandola atterrita.
Ogni suo sguardo era una coltellata, proprio lì, in mezzo alle costole e ogni sua parola un pugno che prima o poi avrebbe sbriciolato la sua mascella.
Eppure, guardandolo, mentre si avviavano verso la postazione Lenore non poté fare a meno di pensare che perdere per mano sua non sarebbe stato poi così triste.
Se proprio devo morire, Darren, spero che tu sia per me il coltello.

Il fuoco non riusciva a rischiarare del tutto l'oscurità della notte, ma proiettava ombre scure sulla sabbia e illuminava i visi dei presenti, dando loro un colorito rossastro e un aspetto stanco e sciupato, eppure l'atmosfera era impagabile.
Le risate, l'aroma del pesce arrostito che si spandeva per tutta la spiaggia, l'aria viziata da un fumo dall'odore inspiegabilmente dolciastro, il mare che sciabordava allegro lungo il litorale sabbioso... tutto in quel falò così sapientemente organizzato inebriava la piccola Lenore, seduta in disparte ai piedi di un pino marittimo ad osservare la piccola folla, e soffocava l'amarezza per quel duro litigio che le aveva lasciato il sapore di acido in bocca.
Non voleva lasciarla andare, Elisha, dicendo che quello non era posto per loro. Lenore lo sapeva, ma si ostinava a non darle ascolto, impuntandosi a voler uscire, finendo poi per correre via lasciando la cena sul tavolo, portandosi dietro solamente Laila, la vecchia bambola di pezza dai capelli rosso fragola, ignorando la voce adirata che le urlava di non andare a piangere attaccata alle sue gambe una volta che l'avessero presa in giro.
Così Lenore si era trovata a sedersi a terra stringendo con forza i denti e affondando le unghie nella morbida imbottitura di Laila, che aveva la sola colpa di non averla difesa. Ma il falò era riuscito a calmarla, alla fine, e, quando tutti gli avanzi del pesce furono portati via e i bambini e gli adulti formarono un grande cerchio, i peli praticamente invisibili sulle braccia della bambina si rizzarono, quasi anche loro fossero impazienti di assistere al grande momento, il suo preferito: le storie attorno al fuoco.
“Allora, bambini, che fiaba volete che vi racconti?” Zio Cedric, come erano soliti chiamarlo tutti quanti, era stato nominato 'Cantastorie' del Distretto alla morte di suo padre, che a sua volta aveva detenuto il titolo per l'intera durata della sua lunga vita. Si diceva che il vecchio Jeb fosse il migliore nel raccontare, e di certo non aveva permesso nemmeno alla vecchiaia di corrodergli mente e memoria, impedendogli di fare ciò che amava tanto, ma il figlio se la cavava quasi altrettanto bene, con quella sua voce calda e ammaliante e con la ricchezza di particolari che inseriva in ogni descrizione.
“Papà, raccontaci la storia del Pacificatore e della puttana del Distretto, tu eri suo amico, no?”
A parlare era stato suo figlio, di cui Lenore non conosceva il nome, un piccolo bambino dai riccioli talmente biondi da sembrare bianchi e dal viso angelicamente paffuto. Aveva una vocetta stridula che irritò la bambina, facendole dubitare che un giorno si sarebbe trovato a sedere al posto del padre, attorniato da una folla di persone che pendevano dalle sue labbra.
Zio Cedric era rimasto spiazzato dalla richiesta e non sembrava particolarmente entusiasta della scelta, ma di fronte all'insistenza dei bambini e all'approvazione dei genitori non poté che cedere.
Lenore, dal basso dei suoi otto anni, già sapeva che cosa facesse sua madre per procurare il cibo che finiva sulla loro tavola e se ne vergognava, perciò non ci mise molto a capire che storia parlava proprio di lei.
“Sì, Elisha era mia amica, una volta, prima di questa storia che vi sto per raccontare. Non potete immaginare quanto mi dispiaccia non rivolgerle più nemmeno la parola, ma lei ha fatto delle scelte che io non approvo e deve pagarne le conseguenze.”
Lenore aveva sempre ammirato Zio Cedric, ma dopo quella bugia non poté non esserne disgustata: lei sapeva per certo che il Cantastorie rimaneva uno dei clienti più fedeli di sua madre.
“Elisha era una delle ragazze più belle del Distretto, sempre sorridente, allegra, pronta ad aiutare chi ne aveva bisogno. Aveva un sacco di amici su cui contare ed è tuttora la persona più brava ad ascoltare che io abbia mai conosciuto.”
La bambina dovete sforzarsi non poco per far coincidere l'immagine di quella donna descritta dal Cantastorie con quella altera, silenziosa e fiera di sua madre. Il suo sorriso l'aveva visto poche volte e non le era mai sembrata pronta ad ascoltare i problemi degli altri, troppo presa dai propri per fare attenzione a qualcos'altro.
“Si diceva che avrebbe sposato il figlio del sindaco, in fondo erano sempre stato piuttosto legati, ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe stato un Pacificatore a rubare il suo cuore. Elisha aveva diciassette anni quando un nuovo gruppo giunse in città. Lui si chiamava Dwayne e aveva quasi trent'anni, ma sembrava che il tempo non provasse il desiderio di scalfire il suo viso fiero, né la vitalità dei suoi occhi di ghiaccio, facendolo sembrare sempre più giovane di quanto non fosse. Se ne stava fermo al suo posto, dentro la sua divisa bianca, per tutto il suo turno, sorridendo ai passanti, senza distinzioni, e aveva sempre delle fragole selvatiche, raccolte chissà dove, da dare ai bambini, dicendo loro, in tono cospiratorio, di mantenere il segreto. Di certo era bello, molto, e anche gentile, e per un po' di tempo tutte le ragazze chiacchierarono di lui con l'entusiasmo femminile per una infatuazione passeggera, ma rimaneva pur sempre un Pacificatore e dopo poco tempo l'eccitazione generale passò e tutte quante tornarono ai loro flirt abituali. Non Elisha. A lei non passò. Mai. Continuò ad allungare inutilmente la strada per il Fornaio, solamente per scambiare quattro chiacchiere con lui, cominciò ad ignorare i suoi amici, del tutto presa dal suo amore impossibile. Girava sempre con un libricino di poesie fra le mani, solo perché lui le amava e ogni tanto ne citava un pezzetto. Ancora oggi mi chiedo perché Dwayne non la allontanasse, in fondo era solo una ragazzina, ma poi ricordo quale marcio si celava dietro la sua facciata. Perché Elisha passava ogni singolo istante possibile in sua compagnia, di giorno, ma di sera se ne stava a casa a fantasticare su un futuro che non ci sarebbe mai stato. Eravamo noi, quelli che si fermavano alla taverna per passare un po' di tempo in compagnia. Lui era sempre lì e l'alcol portava a galla la sua vera natura e così se ne stava seduto con i suoi compari a ridere e a raccontare delle sue conquiste nei vari Distretti. Si vantò persino di uno stupro o due, una volta. Elisha non ci credette, quando tentammo di raccontarglielo, e da quel giorno si rifiutò addirittura di parlarci. Accadde tutto dopo un falò come questo. Elisha si era allontanata per passeggiare. Nessuno l'aveva seguita, o almeno, così credevamo. Lui non aveva nemmeno la scusa dell'alcol: era in servizio, e in quelle situazioni non beveva mai. Ma la trovò comunque e forse lei era troppo bella alla luce della luna per resisterle o forse lo fece solo perché gli andava... La stuprò. La cercammo per tutta la notte per poi trovarla distesa fra la sabbia, il vestito strappato, le guance ricoperte di lacrime. Sapevamo tutti cosa fosse successo e chi fosse stato, ma lei non lo ammise mai, forse nemmeno a se stessa. Non lo accusò quando glielo chiedemmo, dieci, cento volte, non lo accusò quando scoprì di essere incinta e si ostinò a voler partorire il bambino, né quando i genitori la cacciarono di casa, indignati, e nemmeno quando lui sparì dalla sera alla mattina, senza una parola. Alla fine, sola e disperata, non poté far altro che fare della propria bellezza e della propria innocenza perduta un lavoro, offrendosi agli uomini del Distretto per potere nutrire la figlia che quel mostro le aveva dato. Mi chiedo se lo ami ancora. Mi chiedo se riesca a voler bene a quella bambina che per un crudele scherzo del destino ha lo stesso viso del Pacificatore... E mi chiedo se quella bambina risponderà alle mie domande, visto che sembra ascoltarci con tanta attenzione.”
Una storia... è solo una storia... non deve essere per forza vero. Ma in cuor suo lei sapeva che non era così. Quella era la pura verità.
Lenore non si era accorta di essersi alzata e di aver camminato verso il fuoco con Laila che pendeva mollemente dalla sua mano, lasciando un leggero solco sulla sabbia con i suoi piedini. Divenne cosciente di tutto in un attimo: le lacrime che le scorrevano sul volto, calde e brucianti, gli sguardi puntati su di lei. E non poté fare altro che scappare, rifugiandosi nel buio del boschetto.
Fu l'ultima volta che andò ad un falò.
Fu l'ultima volta che si permise di piangere.
Da quel giorno ogni mese Lenore accese un fuoco nella sua spiaggia segreta e lesse alla piccola Laila quegli stupendi libri di fiabe, pieni di figure e di storie eroiche, che la mamma le portava a casa di tanto in tanto. Leggeva quelle storie e a volte ne inventava, con principi azzurri che accorrevano a salvare le loro figlie in groppa a dei cavalli bianchi. A Laila quelle storie piacevano.
Finì tutto un anno dopo, all'incirca.
Lenore si alzò, gettando il libro che aveva in mano e Laila nel fuoco.
“Le fiabe non esistono, Lenore. Sei solo una stupida.” disse, fissando le fiamme che divoravano le pagine.
Da quel giorno Lenore odiò il fuoco, perché le aveva dato ragione e le aveva dimostrato che le storie che tanto amavano era solo carta. E nulla di più.
E quando Lenore tornò a casa e la madre le domandò che fine avesse fatto Laila, la bambina rispose semplicemente: “È partita.”
“E dov'è andata?”
“In cerca del suo posto nel mondo. Qui al Distretto si sentiva un'estranea. Non c'era nulla per lei.”
La madre l'aveva fissata, chiedendosi quale fosse la cosa giusta da dire in quella situazione e alla fine si era limitata a scompigliarle i capelli.
“Vedrai che tornerà a prenderti e ti porterà nel bellissimo posto che avrà trovato.”
“Non essere ingenua, mamma. Quello sarà il suo posto nel mondo. Io non ne ho uno.”
Ed Elisha non poté far altro che assistere impotente allo scempio di quel mostro che divorava da dentro sua figlia, portandole via l'innocenza dell'infanzia.
Lenore, che aveva gli occhi di un'adulta in un viso da bambina.
Aveva solo nove anni.


Clalla97 commenta:
Capitolo lunghiiiiiissimo e senza senso ù.ù
Non dico che sia brutto (non posso, colpa della promessa con la Fra) ma di sicuro quello di Darren era migliore e io avrei potuto fare di meglio.
Ma sapete che vi dico? Chi se ne frega! :)

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Capitolo 7
*** Istinto e pietà ***


Istinto e pietà

Lenore rise, le spalle sobbalzarono a ritmo con i suoi respiri corti.
<< Certo che ci è rimasto proprio male, poverino.>> commentò non appena riuscì a racimolare il fiato necessario.
<< Poverino un corno >> Rise Darren << Se lo è meritato >> Aggiunse, con il sorriso stampato in volto.
<< La faccia, poi, è stata una cosa epica! >> Continuò Lenore, scuotendo la testa.
Darren rievocò l'immagine mentale del favorito che, un'ora prima, se ne era andato con la coda tra le gambe fino al suo piano << è stato esilerante >> Concordò, senza trattenere l'ennesima risata. Questa riempì la sala, unendosi a quella di Lenore, ormai vuota. Era strano essere lì, nella palestra, che era l'anticamera dell'inferno, e ridere come gli era capitato ben poche volte nella sua vita.
Eppure, allo stesso tempo, sembrava una cosa spontanea. Qualcosa che una volta imparato a fare riesci a compiere perfettamente.
Come leggere. Si, stare con la sorellastra era esattamente come leggere. Facile, qualcosa che una volta appreso il meccanismo diventa automatico. Ma al contempo una continua scoperta

<< Len? >> Una voce, che Darren non identificò, si unì alle loro risate, facendo spegnere quella della ragazza. La figura sottile di un uomo, che il ragazzo non aveva mai visto, fece il suo ingresso nella sala.
Lenore gli sorrise.<< Sono qui. Immagino sia tardi. Scusami >> Disse. Darren smise di ridere, osservando il nuovo arrivato.
<< Buonasera >> Salutò, il più cortesemente possibile. Riconoscendolo come il mentore di Lenore, di cui aveva sentito si e no due parole dalla ragazza. Questi si era bloccato a fissarli, con qualcosa nello sguardo che sapeva di rabbia repressa. Lenore sembrò notarlo. << Te lo ricordi, Darren, immagino. >> chiese, con leggerezza. << Sai, grosso, distretto 10, uguale a me. >>
<< Smettila, Len. Pensavo fossimo d'accordo... >> sibilò il mentore, con fare arrabbiato. Darren rimase in silenzio, passando lo sguardo dall'uno all'altra. Qualcosa, nei comportamenti dell'altro, lo convise a tenere chiusa la bocca. Era fin troppo bravo a dire cose inopportune nei momenti più tesi.
<< Che diavolo stai dicendo, Greg? >> chiese la ragazza alzandosi in piedi.
<< Tutti quei discorsi: non farti distrarre, pensa all'obbiettivo, lui è uno come tutti gli altri... >> Cominciò il mentore, guardandola dritta negli occhi
<< Ma come fa a essere uno come tutti gli altri? >> chiese lei, stringendo i pugni lungo i fianchi. L'altro era pallido, anche se Darren nutriva il sospetto che lo fosse sempre. Ed era chiaramente furioso.
<< E perché dovrebbe essere diverso? >> Domandò Gregory, cogliendo evidentemente nel vivo la ragazza. Lenore esitò. Un lampo d'incertezza passò nei suoi occhi chiari.
Dubitava, capì Darren. Dubitava di lui. Si poneva quelle domande inevitabili che prima o poi sarebbero soppraggiunte.
<< Se può essere in mia difesa >> S'introdusse il ragazzo, alzandosi in piedi e maledicendo sè stesso per non essere stato capace di tenere la bocca chiusa << Stavamo solo parlando. >>
<< No, non è in tua difesa, maledizione! >> Sbottò l'altro, volgendosi verso di lui << Io sto cercando di proteggerla. E tu stai distruggendo tutto il mio lavoro. Tu la ucciderai, Darren Thomson . E non te ne rendi nemmeno conto. >> l'occhiata che Gregory rivolse al ragazzo non fu di rabbia o di stanchezza, fu solamente bruciante odio puro. Tanto, profondo, odio.
Lenore lo fissò a bocca aperta. Darren puntò i suoi occhi azzuri in quelli di Gregory facendo proprio un autocontrollo che non sapeva di possedere
<< Scusami >> Disse << Potresti ripetermi il tuo nome? E potresti ricordarmi quando hai appreso abbastanza informazioni su di me da poter prevedere le mie future azioni? >> Domandò, senza concedersi il tempo di apparire sorpreso alle affermazione dell'altro.
Era gelido, Darren. Non colmo di odio, come Gregory, ma terribilmente freddo. Era scattato qualcosa, dentro di lui.
Qualcosa era stato incosciamente scoperto ed ora stava invadendo la sua mente.
<< Io non sto parlando di te, Darren. Sto parlando di lei. Lenore. La ragazza di cui sono Mentore. Quella di cui conosco molto più di te. Quella a cui tu stai portando via ogni probabilità di sopravvivere. >> rispose lui, il tono terribilmente controllato ma ancora grondante odio.
<< Adesso smettila, Gregory. Stai esagerando. >> La voce di Lenore suonò fredda quanto quella di Darren.
<< Sono io, il Mentore, Len. E mi sembrava che fino a ieri tu la pensassi come me. >>
<< Cosa sto.. >> Darren smise di formulare la domanda nel momento stesso in cui comprese appieno l'affermazione dell'altro. Si concesse un secondo solo, uno soltanto, per riordinare le idee, prima di chiedere << Che c'è di male a tentare di avere dei rapporti umani poco prima di finire nell'arena? >> Probabilmente conosceva già la risposta a quella domanda. Ma doveva sentirla. Doveva sentirsela sbattere in faccia, prima di fare qualsiasi cosa.
<< Oh, nulla. Capisco perfettamente il tuo bisogno di trovare sostegno in qualcuno di uguale a te. Io stesso l'ho trovato in Len. >> rispose Gregory, la voce ora traboccante di sarcasmo. << Ma mi sfugge una cosa... cosa succederà se, per esempio, alla fine rimarrete tu e lei? Perché è vero, non conosco te, ma Len è un libro aperto. Non ti toccherebbe mai. E se questa è la tua strategia, allora complimenti, ci eri quasi riuscito. Ma stalle lontano. >> Darren vide di sfuggita Lenore dischiudere le labbra un paio di volte, cercando di parlare, ma non le uscì niente.
L'altro le lanciò uno sguardo, sgonfiandosi come un palloncino.
<< E ogni parola che scambia con te la porta a guardare tutti gli altri come persone, a vedere dietro di loro la famiglia, i problemi che hanno, i loro sogni... La stai distruggendo. >> concluse sommessamente.La ragazza scosse la testa, ma fu tutto ciò che fece e Darren non dovette nemmeno voltarsi verso di lei, per intuire le sue reazioni. Sapeva che Gregory aveva ragione. E lo sapeva anche lei.
<< E cosa succederà >> Le parole sorsero spontanee, senza che Darren le avesse realmente richieste << Quando, trovandosi di fronte uno sconosciuto, lo ammazzerà e tornerà a casa? >> Continuò, fissando Gregory << Pensi davvero che il tuo approccio l'aiuterà a conservarsi come persona vera e propria? Dev'essere una bella prospettiva, averla come vicina da quest'anno in avanti. Ma quanto gelida la farai diventare prima che basti per farla vincere? Quanto dovrà rinchiudersi in sè stessa, dimenticandosi cos'è la vita, prima che tu possa gioire per non essere più solo? >> Ed eccolo lì. Quel suo stupido vizio di parlare. Quella sua dannata implusività.
Complimenti, Darren Pensò Perfino con i mentori sei capace di andare a cercare rogne.
<< Cosa succederà? Cosa succederà quando tornerà a casa, Darren? Succederà che avrà una vita! Una vita intera per imparare cosa vuol dire amare qualcuno, cosa vuol dire svegliarsi e ringrazie il Cielo di essere vivi, una vita per capire che c'è anche altro oltre al dolore e all'umiliazione. Che cosa le ha dato il mondo? Nulla. Si poteva prendere qualcosa, questa, e tu le stai togliendo la possibilità di avere ciò che potrebbe ottenere con le sue forze. Len è una persona, lo è sempre stata. E non l'ho mai messo in dubbio. Fino a che non sei arrivato tu lei poteva vincere. Poteva vincere veramente. E sì, se vuoi metterla così diciamolo pure: me la stai portando via. Mi stai portando via la persona che è riuscita a farmi sentire meno solo, che mi ha tirato fuori da quella camera e che mi ha insegnato che una vita, dopo gli Hunger Games esiste, anche solo per cercare di salvare qualcuno. E mi stai togliendo la possibilità di ricambiarle il favore. >>
Le parole erano state decise, eppure dette evitando ostinatamente gli occhi di Lenore. Lei era ancora l', immobile. Evidentemente incapace di pronunciare una sola, singola, frase.
Darren rimase in silenzio per un secondo, poi, pacatamente, disse:
<< Allora vedi di insegnarle una vita anche quando si sarà sporcata le mani di sangue, e sarai tu a doverla tirare fuori dai suoi incubi. O verrò a farti una visita dall'inferno >> Scandì le frasi lentamente, senza guardare la diretta interessata. Gregory aveva ragione. Uno come lui, così auto-distruttivo, era come una bomba ad orologeria accanto a lei. << Sono in ritardo per la cena, c'è qualcos'altro che devo sapere, o posso andare a mangiare? >> Ghiaccio.
Da quanto tempo non si faceva così freddo, Darren? Da quanto tempo non usava quei modi glaciali? Ed eccoli lì. Così naturalmente freddi. Così spontanei. Come leggere. No, ancora più facile. Gregory si torse le mani con ansia.
<< Sì, vattene. E' meglio così. >>
Lenore invece rimase con gli occhi fissi a terra, lo sguardo appannato.
<< Darren? >> Lo chiamò, la voce esitante. << è giusto così Lenore >> Disse questi voltandosi verso di lei << Sono io il bastardo. è giusto così >> La guardò per un istante. Ancora freddo, ancora glaciale.
Sei troppo vicino al distruggerti da solo da rischiare di distruggere anche lei. Sei tu che cerchi i guai tenendo gli occhi troppo aperti. Ma lei può vincere, e il ba.. Mentore, ha ragione. Non hai il diritto di fargli scivolare la vittoria dalle mani. Darren aprì i lineamentei del viso in un sorriso inaspettato anche per lui, ma che era il massimo che potesse dare in un momento del genere
<< Ora hai qualcuno da cui tornare. >> Disse. Si voltò ed uscì.

 

 

 

 

 


Istinto.
Era istinto correre, saltare l'ostacolo. Era istinto rotolare sul materasso e rialzarsi subito. Era istinto giungere fino al muro ed appoggiarvi le mani per segnalare l'arrivo. Era istinto spingere i muscoli delle braccia a gettare il proprio corpo indietro, puntando nuovamente verso la pedana di partenza. Era istinto rifare il percorso al contrario, come da programma.
Spingere i muscoli al massimo, regolare il respiro. Saltare, rotolare, correre. E ancora, ed ancora.
Continua, Darren. Puoi fare meglio di così. Una pedana da saltare in corsa ed un materassino su cui cadere. Alzati subito Darren, non hai tempo per prendere fiato. E ancora correre ed appoggiarsi al muro di fronte al precedente. Gli altri tributi sono in fila, Darren. Aspettano che tu finisca e che tocchi loro. Aumentare la velocità, flettere i muscoli per dare il massimo. Rotola ancora Darren, ma attento all'ostacolo. Forza di più, Darren. Sei troppo lento, Darren. Regolare il respiro, puntare alla fine. Sei come già morto.

Arrivò alla fine del percorso respirando faticosamente.
Non si permise di rallentare fino a che non ebbe raggiunto la fila di partenza. Un tributo aspettò che arrivasse proprio al suo fianco, prima di dargli il cambio e cominciare a correre verso il muro dall'altra parte della sala.
Era un esercizio che comprendeva tutti i tributi, uno dei pochi che erano obbligati a fare. Richiedeva quasi cinque minuti di corsa ossessiva. La sua vera difficoltà consisteva nelle numerose cavalline da saltare, nei materassi su cui obbligatoriamente dovevi rotolare e su tutti i punti che dovevi toccare per poter procedere. Era più faticoso di quanto all'apparenza sembrasse. Il guaio era che, mentre lo compievi, tutti quanti ti guardavano fissi. Darren emise uno sbuffo, mentre un rivolo di sudore gli scendeva lungo la fronte.
Appoggiò i palmi delle mani alle ginocchia, piegando la schiena in segno di stanchezza.
Erano le undici di mattina. Mancava ancora un'ora al pranzo. Darren sospirò frustrato, mentre un tributo del cinque cadeva rovinosamente a terra dopo una cavallina particolarmente alta. L'osservò rimettersi a fatica in piedi, mentre l'istruttore andava a controllare che non si fosse slogato niente. Forse fu il caso, ma subito dopo il tributo del cinque, una chioma di ricci capelli neri partì verso il muro opposto alla sua figura snella.
Darren osservò in silenzio, riprendendo fiato, il corpo di Lenore scattare compiendo l'esercizio. I capelli sobbalzavano ad ogni movimento, mentre con un abile balzo superava una cavallina.
<< Gran bel tempo >> Una voce maschile interruppe il filo morto dei pensieri cui Darren tentava d'aggrapparsi, strappandolo dalla figura di Lenore.
Si voltò verso il nuovo arrivato, senza capire se stesse effettivamente parlando con lui. Lo riconobbe immediatamente come il tributo del dodici che fortunatamente non era nella sua stessa arena. Aveva capelli neri ed occhi grigi. Caratteristica che Darren riconosceva sempre a quelli del dodici. Quelli che, per quanto ne sapeva, finivano a diocittanni a lavorare in miniera.
<< Come? >> Chiese il ragazzo, scrutando il nuovo arrivato e riportandosi in posizione eretta
<< Ho detto gran bel tempo >> Rispose l'altro.
Darren corrugò la fronte << C'ho messo quattro minuti e sei >> Disse, mentre riprendeva fiato << Non mi sembra affatto un bel tempo >> Aggiunse.
L'altro sorrise
<< Lui ce ne ha messi quattro e due >> Disse indicando con un cenno del mento un favorito. Darren lo aveva già visto, in precedenza. Più che altro perchè aveva tutta l'aria di essere il più pericoloso, fra quelli che sarebbero stati nella sua stessa arena
<< Io ce ne ho messi quattro e basta. Come vedi il tuo tempo è stato molto buono. Considerato che in media ci vogliono cinque minuti per completare il percorso. >> Darren dubitava di essere andato bene. O almeno, si convinceva di poter fare di meglio. Dopotutto, aveva pensato, avere uno spirito critico verso sè stesso avrebbe soltanto potuto migliorare le sue prestazioni. Non aggiunse nient'altro.
Il suo sguardo venne catturato dal ragazzo grosso ed impiacciato del distretto due. Con movimenti goffi si preparava al suo turno nel percorso. Non era solo grasso, pensò Darren. Certo, aveva quei chili di troppo che rendono impacciati i movimenti di chiunque. Ma non era solo questo. Era la sua goffaggine esagerata, il suo tremolio ad ogni movimento, che lo rendeva una persona debole. Forse una delle più deboli.
<< Lui ce ne metterà come minimo otto >> Disse il ragazzo accanto a lui, seguendo il suo stesso sguardo. Darren gli rifilò un'occhiataccia
<< Sai che ho ragione >> Bonfacchiò questo.<< Comunque io sono Hamal , distretto dodici >>
<< Darren, dal dieci >> Si presentò l'altro, ritornando a guardare il ragazzo impacciato che stava per cominciare l'esercizio. Rimasero in silenzio per minuti. Giusto il tempo per osservare lo spettacolo del tributo grasso.
Questo cominciò a correre, ed a svolgere gli esercizi come meglio poteva. Fu uno spettacolo penoso. Correre e saltare erano due azioni a lui estranee, e tutte le volte che doveva alzarsi dal tappetino sembrava in procinto di avere un attacco d'asma.
I favoriti risero. Risero e fischiarono. Gridarono incitamenti al solo scopo di divertirsi ancora di più.
Ed ad ogni parola rivolta verso di lui, il tributo del due arrossiva sempre più pericolosamente. Darren contrasse la mascella e chiuse le mani a pugno, evidentemente contrariato. Hamal osservò in silenzio il comportamento del ragazzo, per poi ritornare a rivolgere gli occhi scuri verso la scena. I due rimasero muti. Quando, minuti e minuti dopo, il tributo finì, nella sala calò il silenzio, interrotto dagli sghigniazzi dei favoriti.
Darren distolse lo sguardo dalle loro figure, puntando gli occhi verso il povero tributo.
<< Non me lo dire >> Bonfacchiò Hamal, da parte a lui
<< Cosa? >> Domandò Darren, senza guardarlo << Tu sei uno di quelli >>
<< Uno di quelli chi? >> Chiese l'altro, senza star realmente ascoltando il discorso
<< Uno di quelli che non appena trovano un paio di occhioni dolci da cucciolo diventano delle mammollette senza fegato >> Darren girò la testa di scatto verso di lui
<< Come, scusa? >> Chiese, senza aver davvero bisogno di una ripetizione
<< Insomma, dovresti vederti adesso! Tutta quell'aria da incazzato nero non ti farà guadagnare punti, lo sai vero? Ma certo che lo sai. E allora cosa? Hai davanti un tributo grassone che nella sua vita avrà pensato chissà quante volte che i soldi l'avrebbero protetto dalla morte. Non ti sembra già abbastanza ridicolo senza che ti aggiungi al quadretto come il cavaliere della giustizia ? >>
Darren lo guardò storto, mentre Hamal scrollava le spalle con noncuranza
<< Si chiama verità radicale >> Disse, dopo un attimo << Consiste nel dire sempre ed esattamente quello che si pensa. Io in questo momento penso che tu ti sia auto-proclamato il cavaliere della giustizia. Come se ce ne fosse, in questo mondo >>
Darren contrasse la mascella. Aprì la bocca un paio di volte, prima di dire, piuttosto irritato
<< Ti rendi conto che hai detto tu, vero? Sei venuto tu qui da parte a me. Io non ho aperto bocca e tu hai.. Sparato sentenze >> Sbottò abbastanza irritato
<< Lo si capisce fin troppo bene dai tuoi occhi, quello che sei >> Bonfacchiò Hamal. Darren lo fissò in silenzio, irritato. E non solo per Hamal, sconosciuto comparso all'improvviso e senza un apparente motivo. Non solo per quelle sue uscite totalmente fuori luogo. Forse la maggior parte della sua irritazione era dovuta al fatto che, a quanto pare, tutti lo avessero scambiato per un paladino dei deboli. Prima Stephan, poi Lenore e poi quel mentore spara sentenze gli avevano detto qualcosa di simile.
Perfino la Label, la sera precedente, lo aveva avvertito di pensare solo a sè stesso. Ed ora ci si metteva pure uno sconosciuto che non gli aveva mai rivolto parola prima d'ora. Darren aprì la bocca, in testa un sacco di frasi per farlo tacere. Alla fine, però, sfogò la sua irritazione pronunciando due parole molto, ma molto, liberatorie
<< Fottiti, Hamal >> L'altro rise di gusto
<< Questo si che sporca il tuo mantello azzurro, cavaliere >> Darren era già pronto a rispondere, quando un urlo spaventato ruppe di netto la routine degli allenamenti. Darren non si sarebbe mosso così in fretta, se non avesse riconosciuto la voce all'istante. Un urlo di terrore.
Fuoco nella voce.
Darren si mosse prima che chiunque potesse anche solo girare la testa. Aveva già sentito quell'urlo.
Così dannatamente spaventato. Così dannatamente vicino al panico. Scattò immediatamente verso la sua provenienza.
Una ragazza, dagli incondibili capelli lisci e castani, stava a mezz'aria, ancorata alla parete d'arrampicata. Il suo corpo era scosso da fremiti violenti, e fino a terra si potevano sentire i suoi singhiozzi terrorizzati. Mallory era salita fino a quasi metà della parete, prima di avere la sua crisi di panico. L'istruttore, a terra, le urlò preoccupato le istruzione per scendere. Puntare i piedi, spostare il peso del corpo, aggrapparsi alla corda che le impediva di cadere. Ma si trattava di Mallory. Mallory che soffriva le vertigini. Mallory che soffriva di attacchi di panico.
Mallory, con lo sguardo vacuo e gli occhi costantemente terrorizzati. La quindicenne troppo debole anche solo per camminare un'ora sotto al sole cocente senza svenire. La quindicenne del suo distretto. Mallory. Un minuto per fare queste considerazioni. Un altro minuto per allacciarsi la cintura con la corda di sicurezza attorno alla vita.
Ed eccolo lì, Darren Thomson. Bastardo che salì frettolosamente la parete, senza che l'istruttore avesse il tempo di fare alcunchè, e si portò all'altezza della ragazza.
<< Ehi Mallory, guardami >> Disse il ragazzo << Mi guardi? >> La ragazza si voltò verso di lui. Il mento le tremava e due lacrime di paura le rigavano le guancie scavate. Ed eccola lì, la povera Mallory.
Terrorizzata al solo stare a quattro metri d'altezza. << F.. Fammi scendere per.. Per favore.. >> Piagnucolò, guardondolo come se fosse un'ancora di salvataggio.
<< Okay Mallory >> Disse Darren, studiando per un attimo la situazione << Voglio che tu ora sposti il peso del corpo indietro. Non devi stare così attaccata alla parete >> La ragazza fece come per muoversi, ma il piede quasi le scivolò dalla sporgenza cui era appoggiato e questo la fece tornare ad aggrapparsi ossessivamente alla parete. Non era affatto una situazione pericolosa, valutò il ragazzo. Ma era inutile farlo notare a lei, così dannatamente spaventata.
<< D'accordo, tranquilla. Tranquilla >> Ripetè Darren. Mallory lo fissò terrorizzata
<< Io voglio.. Ti prego fammi scendere.. >> Sussurrò. Il ragazzo esitò << Lo so che vuoi scendere. Ma ti devi fidare di me, è chiaro? Devi essere coraggiosa >> Sotto di loro, gli altri tributi si aggregarono per osservare la scena, insieme ad un numero elevato d' istruttori.
<< Ehi innamorati, che c'è, paura dell'altezza? >> Gridò qualcuno, dal basso. Sicuramente un favorito. Darren alzò gli occhi al cielo. Ci mancavano solo loro. Vide chiaramente il corpo di Mallory fremere violentemente, rischiando di perdere la presa sugli agganci
<< Fammi scendere >> Ripetè in preda al panico << Darren fammi scendere >> Sembrava una cantilena sempre più acuta. Il ragazzo le rivolse lo sguardo più sicuro che potè << Ascoltami >> Disse. << Adesso tu devi spingere con le gambe verso l'esterno, okay? Nello stesso tempo abbandoni gli appigli delle mani e dei piedi. Se vuoi puoi afferrare la corda. Andrà bene >> La ragazza scosse la testa
<< No io non.. Non.. >> Ripetè svariate volte
<< Mallory >> Ripetè il ragazzo << Ti devi fidare di me. Sei collegata all'istruttore a terra, ti farà calare tranquillamente non appena ti sposterai dalla parete. >> Lei annuì tremando. Darren la vide muoversi irrigidita, flettendo le ginocchia tremanti e riuscendo finalmente a spostarsi di un centimetro dalla parete. << Stai andando alla grande >> Pronunciò confortante. Mallory tremò ancora, spostando sempre più rigida il peso all'indietro. << Ho pausa del vuoto >> Singhiozzò, posando i suoi occhi spaventati in quelli di lui
<< Sarà solo per un istante. Un istante puoi sopportarlo, non sarà così tremendo. Promesso >> Disse Darren. Lei annuì. Inspirò ed espirò, terrorizzata << Ti sei già fidata di me in passato >> Aggiunse il ragazzo << Puoi farlo anche ora >> Gli occhi di lei brillarono nel loro verde. Lo notò solo in quel momento, Darren. Notò solo in quel momento il verde smeraldo ed uniforme negli occhi di lei.
Talmente insolito. Talmente omogeneo.
Nessuna sfumatura, nessuna striatura. Solo e semplice verde.
Questo era quello che chiunque potesse vedere nel suo volto da ragazzina terrorizzata.
Ma il ragazzo, scrutandoli a fondo, lasciando che l'azzurro del suo ghiaccio ci cozzasse contro, vide anche qualcos'altro.
Vide fiamme bruciare colonne di una casa in procinto di cadere. Vide una folla di persone incuriosite davanti a quel falò, immobili. Vide un uomo urlare, protendendosi verso l'abitazione. Vide altri due uomini afferrarlo per le braccia, impedendogli di gettarsi fra le fiamme.
Vide lo sgomento sui volti delle persone. Vide paura. Vide impotenza. Vide e sentì, Darren. Sentì il grido spaventato di una bambina, attutito dal rosicchiare delle fiamme. Sentì le grida dell'uomo, osessive, pronunciare una sola parola. Mallory. Poi il fuoco divenne verde ed il panico tornò ad essere smeraldo negli occhi di lei. Mallory annuì appena, inspirando lievemente. Poi si spinse con le gambe e fece come Darren gli aveva detto di fare. Gli uscì un urlo strozzato, quando si trovò penzolante per aria. Ma l'istrutture fu veloce a farla scendere, anche se delicatamente.
Darren ridiscese tranquillamente, calandosi alla sua stessa velocità, ancora appoggiato alle presi sulla parete. Mallory non gli staccò mai gli occhi di dosso, nemmeno quando fu a terra, sana e salva. La folla si radunò attorno alla sua sagoma tremante, sdraiata sul materassino. Un istruttore riuscì in qualche modo a farsi largo tre i tributi, ed a controllare le condizioni fisiche della ragazza. Darren si tolse la cintura di sicurezza. Potè notare chiaramente che, in prima fila, godendosi lo spettacolo appieno, i tributi ridevano fra di loro rumorosamente. Poi, di sfuggita, il ragazzo vide anche la faccia di Hamal, dietro al resto degli altri tributi. Il ragazzo provò un moto di stizza, quando l'altro gli rivolse quella tipica occhiata alla " te l'avevo detto".
Un giro di testa nella sala e potè vedere distintamente la figurda di Lenore allenarsi sola, ad uno step. Un sorriso amaro gli increspò le labbra.
Non le ci è voluto molto per seguire le orme del suo mentore pensò Meglio così, renderà le cose più facili ad entrambi. Spostò lo sguardo altrove, su Mallory, per esempio. Che era un ottimo modo per evitare di guardare sia Hamal che Lenore.

Entro l'ora di pranzo la ragazza venne portata in infermeria, perchè apparentemente sotto shock. Gli allenamenti ripresero come se niente fosse, anche se Darren si ritrovò a lanciare occhiataccie sempre più frequenti ai favoriti, che non smettevano di ridere sull'accaduto. Hamal sembrò girargli alla larga fino a che non venne a sedersi proprio al suo tavolo, a pranzo, come se nulla fosse. << Bella scenetta, quella di prima >> Commentò, sbocconciellando un po di pane.
<< Hamal >> Cominciò Darren << Si può sapere che cosa vuoi da me? >> Domandò, con una punta d'irritazione nella voce. << Ti diverte così tanto innervosirmi? >> L'altro sorrise, degluetendo un boccone
<< Anche. In realtà ero curioso di sapere qualcosa riguardo il tuo distretto >>
<< Il mio distretto? >> Gli fece eco Darren
<< Esattamente >> Concordò l'altro. Il ragazzo sembrò interdetto, prima di rispondere
<< Hamal, io e te siamo in due arene diverse. Se vuoi imparare qualcosa dei tuoi avversari devi attaccar briga con Jamie, non con me >>
<< Chi è Jamie? >> Domandò l'altro, basito.
<< Lui >> Disse Darren indicando il ragazzo dagli occhi febbrili che mangiava qualche tavolo più in là.
<< Basta un'occhiata per capire che è un serpente velenoso. Ma io ai serpenti gli taglio la testa. >> Cominciò Hamal << In realtà non voglio sapere qualcosa sui miei avversari, ma sui loro distretti. >>
<< E come mai? >> Chiese Darren. Hamal scrollò le spalle << Mi interessa sapere com'è il mondo. Se devo essere una pecora che va al macello, voglio essere una pecora che sa come funzionano le cose anche oltre il suo cortile >> Fu così che cominciarono a parlare. Non era l'inizio di un amicizia, ma più di un reciproco informarsi e contemporaneamente distrarsi. Darren informava Hamal che distraeva Darren. Entrambi ricavarono vantaggio a passare così il pranzo. Non risero, non scherzarono. Niente. Nessun legame, nessuna possibile amicizia. Solo il tacito accordo di aiutarsi.
Almeno un po, anche solo per sè stessi. Vennero interrotti a metà pasto, quando un rumore improvviso, di nuovo, catturò tutta la sala. Fortunatamente non si trattava di persone terrorizzate. O di altezze. Sfortunatamente si trattava di uno sgambetto da parte dei favoriti al tributo grasso del due, che, ora, lottava per rimettersi in piedi.
<< Merda >> Sbuffò Darren.
<< Hai intenzione di fare qualcosa, paladino dei deboli? >> Domandò Hamal. L'altro lo inchiodò con lo sguardo << No >> Disse Darren. << Anzi si, ho intenzione di mangiare un altro po di pane >> Hamal annuì << Deve costarti molto, ignorare un "ingiustizia" >> Darren sospirò, appoggiando il pezzo di pane sul tavolo. << Siamo a Capitol City, qui tutto è un' ingiustizia >> Sospirò << Ma io non sono sicuro di voler morire. Anzi, sono certo di non voler morire. Quindi devo mettermi l'anima in pace, no? >> Lenore ha preso le sue decisioni per vincere. Anchio devo prendere le mie. Hamal sembrò soppesarlo con lo sguardo << Si, immagino di si. >> Disse. Poi lanciò un 'occhiata al tributo grasso poco più in là
<< Sta di fatto che quello è uno sfigato >> Aggiunse, osservandolo alzarsi faticosamente.
<< Fottiti, Hamal >>

Erano le undici di sera quando Darren stabilì che era inutile tentare di dormire. Erano le undici di sera quando s'alzò dal letto ed uscì dalla sua stanza. Non aveva una meta. L'unica cosa che desiderava era un pò di riposo mentale. Senza rendersene conto si ritrovò con una bottiglia di qualcosa, sicuramente alcolico, in mano, in cucina. Se lo versò frettolosamente in un bicchiere e ne tracannò metà. La gola s'infiammò all'istante e Darren dovette imporsi di non fare baccano, pur di evitare di tossire rumosamente. Sfortunatamente per lui, quando alzò gli occhi dal bicchiere che aveva riposto sul tavolo, trovò gli occhi nocciola della mentore a fissarlo.
<< Darren >> Salutò questa, noncurante. La sorpresa annullò i suoi tentativi, quando, d'improvviso, la bevanda gli andò di traverso e lui finì quasi per strozzarsi.
<< Signora >> Tossì, cercando una scappatoia da quella situazione.
Era davanti alla Label, la donna che più lo detestava a Capitol City, e per giunta teneva fra le mani una bottiglia di liquore.
Non esattamente il modo migliore per chiudere in bellezza la giornata << Io posso.. >>
<< Perchè non me ne versi anche a me un bicchiere? Scoprirai che aiuta il sonno >> Lo interruppe la donna, con fare stanco. Il ragazzo la fissò sorpreso, prima di acconsentire riempiendole un altro bicchiere. La donna ne bevve gran parte tutta d'un colpo, per poi scoprirsi a tossire proprio come Darren
<< Odio gli alcolici >> Bonfacchiò, mentre il ragazzo la fissava basito, ed anche piuttosto irrigidito.
<< Beh, tu ti accontenti di un solo bicchiere? >> Gli chiese lei. Lui, se possibile, divenne ancora più rigido
<< Ecco.. Io.. >>
<< Ragazzo, sei ad un passo dall'Arena. Hai ancora un giorno d'allenamento, le sessioni, le interviste, e poi ci sei. è comprensibile che tu abbia bisogno di questa.. Roba.. >> Borbottò la mentore, guardandolo.
<< Come mai siete sveglia? >> Chiese allora Darren.
La donna sorrise. Le rughe sulla sua fronte si corrugarono, il suo viso prese una piega quasi.. Triste
<< Odio i giorni prima dell'Arena. Passo il tempo ad analizzare tributi su tributi ed a calcolare le loro probabilità di vittoria. E tu le hai viste le scorse edizioni, nessuno passava >> Bevve un altro sorso dal bicchiere << Ma sai, mi piace avere un quadro completo della situazione. E quando mi trovo di fronte dei ragazzi che non potrebbero farcela nemmeno con tutte la loro volontà.. Mi prenderai per pazza, ma lo preferisco ad avere delle speranze su di loro. >> La donna porse il suo bicchiere vuoto, in modo che Darren potesse riempirglielo
<< Nei miei primi anni da mentore puntavo su tutti i ragazzi dallo sguardo perso che mi capitavano davanti. Investivo tutta me stessa per loro. Ma quanti ne hai visti vincere l'edizioni? Nemmeno uno. >> Il ragazzo non proferì parola, sorpreso dallo sfogo della mentore. Si scoprì a portarsi ancora il suo bicchiere alle labbra ed a trangugiarne il contenuto. Sia lui che la mentore dovettero lottare per non tossire rumorosamente
<< Alla fine devi imparare a distaccarti da loro. Specialmente da quelli che ti ricordano una te più giovane e più piena di vita >> Gli lanciò un 'occhiata, che poteva significare tutto e niente. Darren non sapeva bene cosa dire, ancora sorpreso da trovare la mentore in quella situazione.
<< Ti chiederai perchè ti dico tutto questo >> Commentò la Label << O perchè d'improvviso io abbia smesso di lanciarti occhiate assassine >> Aggiunse, facendosi sfuggire un piccolo sorriso divertito
<< Tu non mi vai a genio, ragazzo. Ne ho parlato anche con Stephan, e nemmeno con lui sembri avere rapporti migliori. Da una parte sei glaciale, e testardo come una capra. Dall'altra sei pieno di pietà da rivolgere verso gli altri e sappiamo entrambi che la cosa non ti aiuterà nell'arena >> Fece una pausa, mentre il ragazzo rimaneva in silenzio, aspettando di capire che piega prendesse quel discorso. Le luci nella cucina, si rese conto, erano ancora spente. Non fosse stato per la grande vetrata che dava su Capitol City, non sarebbe nemmeno riuscito a vedere la Label in volto.
<< Conoscevo una ragazza come te, una volta >> Riprese la mentore, facendo girare il liquido rimasto nel bicchiere << Aveva diciassettenne anni, veniva dal dieci anche lei. >> La Label osservava ossessivamente l'alcolico nel bicchiere. Come se, guardandoci attentamente dentro, avesse potuto vedere rispecchiata la ragazza di cui stava parlando << A dire il vero le mancavano i modi glaciali che usi tu. Quell'abitudine a rifugiarsi dietro un muro di diffidenza non ce l'aveva. Non come te >> Un altra pausa. << Ma la pietà era la stessa. Ne era piena, e nonostante la distribuisse in giro come coriandoli di carnevale ne aveva sempre un po con sè. Aveva delle chance e le sfruttò tutte quante nell'arena, comunque. Ma aveva con sè un alleato. Se non ci fosse stato lui, sarebbe morta prima del tempo. Ma non è questo l'importante. Quella ragazza non è soppravvissuta, Darren >>
La Label alzò gli occhi dal suo riflesso nell'alcol e li puntò in quelli del ragazzo, agganciandoli. << Era troppo buona, per soppravvivere. Di lei è rimasto solo un guscio vuoto, alla fine. Qualcosa di irrecuperabile. E tutti le hanno dovuto dire addio. Tutti coloro che l'aspettavano a casa. Darren, qualcuno ti sta aspettando, al distretto? >> Il ragazzo esitò, prima di annuire
<< Io credo di si >> Rispose. La mentore sorrise, finendo l'alcol
<< Allora privati della pietà che hai in corpo, ed alla svelta. O di te non rimarrà altro che un corpo. >>
Ha detto corpo pensò Darren Non ha detto cadavere. La mentore appoggiò il bicchiere ormai vuoto sul banco che divideva la sua figura da quella di Darren. << Sarà meglio che vada a dormire, ora. Ti consiglio di fare lo stesso >> Stava oltrepassando la porta della cucina, quando Darren aprì bocca per parlare << Si chiamava Katrhine*, non è così? >> Domandò.
La donna si bloccò sulla soglia. Rispose dandogli le spalle, senza nemmeno girare la testa.
<< Si, si chiamava Katrhine >> Confermò. Prima che potesse fare un altro passo verso la sua stanza, Darren aggiunse
<< Lei pensa che io potrei vincere >> Disse. Non era una domanda, più un affermazione sorpresa. La mentore si girò verso di lui. Il volto le si illuminò in un sorriso appena visibile << Io penso che tu vincerai >> Ripetè, sottolineando l'ultima parola. Non c'era un condizionale. << Ma sarà più semplice e meno doloroso per te se per allora avrai un'altra concezione delle tue priorità. >> Fece un passo verso la soglia, ma Darren la interruppe di nuovo << Non è così semplice >> Disse. La donna rimase ferma al suo posto. Ancora una volta, non si girò a guardarlo
<< L'ha vista in faccia. Ha visto il volto di Lenore. E poi c'è Mallory che è così vulnerabile.. Come faccio a girare la testa dall'altra parte? Come faccio a fingere di non vedere tutto questo? >> Non voleva che la disperazione trapelasse, ma una punta di questa s'infilò nella sua voce. La Label rispose guardando avanti, nella sua postura rigida e composta << Non so come sia, quella ragazzina del quattro con il tuo stesso viso. Lenore, giusto? So che c'hai parlato. E dal tuo umore posso capire che ci sia stata una rottura sul nascere del vostro rapporto. Ma sono anche sicura che lei riuscirà a pensare a sè stessa molto meglio di quanto possa fare tu, ragazzo. Non posso chiederti di dimenticarla o magari di ignorarne l'esistenza. Però una cosa posso dirtela, e voglio che tu mi ascolti attentamente. >> Si girò a guardarlo negli occhi, inchiodandolo con le iridi nocciola
<< Nell'arena nessuno resta innocente. Di certo non chi soppravvive alle prime tre ore. Nell'arena, ogni tributo che abbia sorpassato la curnocopia diventerà un potenziale assassino. Paura, confusione, senso di panico.. Tutte queste cose si confondono nella mente. Alla fine la maggior parte dei tributi che non siano favoriti impazzisce. L'istinto di soppravvivenza è così alto in ognuno di noi che ogni nostra azione diventa fine al soppravvivere. Non importa se ti senti una pedina, se ti rendi conto di star giocando agli scacchi di capitol city, alla fine, ogni tributo, anche un bambino, farà tutto il possibile per soppravvivere. Anche sporcarsi le mani di sangue. Non puoi cambiare le cose, Darren. Devi giocare per Capitol City. Devi giocare con le sue regole. Fallo, e posso assicurarti che vincerai. Non esiste umanità nell'arena. Se sei l'unico che se la porta dietro, sarai anche il primo a morire. >> La Label abbondò la stanza silenziosamente com'era entrata. Darren riuscì a prendere sonno solo due ore dopo, in un letto che sapeva di panico.

<< Ehi.. Emm.. Darren >> Palestra d'allenamento. Dieci del mattino. Darren era sicuro, più che sicuro, che qualche divinità lassopra ce l'aveva con lui. Forse perchè era sempre stato un ateo convinto. Forse perchè dai cinque anni in poi non aveva messo piede in una chiesa.
<< Che c'è? >> La domanda suonò più acida di quanto non volesse essere. Il tributo del due, quello grasso, lo guardò mentre la timidezza gli scintillava negli occhi << Ecco.. Io.. Volevo solo... >> Si umettò le labbra, il tributo, cercando parole che pareva non trovare
<< Ti sto rubando tempo per gli allenamenti? Perchè io posso anche parlarti più... >>
<< Perchè non mi dici che vuoi? >> Domandò il corvino, scrutandolo negli occhi. C'era un filo di goffaggine mista a timidezza, in ogni azione dell'altro, che lo rendeva impossibile anche solo da detestare << Io volevo ringraziarti >> Disse, con fare quasi agitato
<< Perchè? >> Darren corrugò la fronte, senza capire
<< Io.. >> Cominciò l'altro << Ho.. Ho visto come hai reagito quando in mensa.. Ieri... Si insomma, sei l'unico che sembrava davvero arrabbiato ecco.. >> Sembrava quasi stesse per inginocchiarsi a terra per fargli una dichiarazione d'amore.
<< Sono Mark >> Si presentò, un attimo dopo. Darren continuava a non capire << Ma io non ho fatto nulla per te.. >> Osservò, costringendo sè stesso ad essere gelido come ghiaccio << No ma... Ecco.. Sembrava che ti costasse molto. Quindi, grazie >> Senza aggiungere spiegazioni, il più goffamente possibile, Mark gli voltò le spalle e s'incamminò verso una postazione a caso.
Hai sentito la Label Si disse Darren Non ti riguarda. Fu così che voltò le spalle al tributo grasso del due, guadagnandosi un' occhiata d'apprezzamento di Hamal, ed una ancora più strana da parte di Mallory. Sbuffò, riprendendo l'allenamento.

<< Darren Thomson >> La voce all'autoparlante lo ridestò dai suoi pensieri. I palmi della mani sudate, lo sguardo perso, Darren era il primo tributo del dieci che avrebbe fatto le sessioni private. S'incamminò verso la porta, senza che nessuno degli altri tributi nella sala d'attesa dicesse nulla. Hamal aveva il capo chino, troppo perso in chissà quale orda di pensieri per accorgersi di chi era stato chiamato.
Ma meglio così. Lui e Darren non avevano legato molto, anzi, per nulla. C'era stato un solo vero e proprio scambio di frasi, l'ultimo pomeriggio d'allenamento, da cui Hamal era uscito cupo un volto. Qualcosa che di certo sviava ogni sua possibile strategia. Era stata un'idea, totalmente improvvisa, di Darren. Un'idea che non si sarebbe mai aspettato da sè stesso, ma che sapeva avrebbe avuto i suoi risultati.
Hamal e Lenore.
Alleati.
Era perfetto. Hamal, così menefreghista da poterla tenere sotto d'occhio con i giusti limiti. Lenore, così puntata verso la vittoria da aver bisogno di un alleato. I due sarebbero stati nella stessa arena, era un'idea perfetta. Tanto più che la sorellastra non era stupida. Affatto. Avrebbe tenuto quell'alleanza sotto controllo e l'avrebbe rivolta contro all'altro non appena avesse dovuto. Si, era una buona idea. Bastava che Hamal si mettesse immediatamente dalla parte della ragazza Cosa che Darren lo aveva subdolamente costretto a fare.

Mallory seguì la figura di Darren con lo sguardo, stringendosi convulsamente le mani. Gli altri rimasero semplicemente al loro posto: Jamie e l'altra ragazza del dieci che Darren aveva tagliato fuori fin dal primo istante,i tributi sconosciuti dell'undici, quelli del dodici... Tutti fermi ad aspettare il proprio turno.

I passi del tributo rimbombavano nella palestra vuota, fatta eccezzione per gli strateghi.
Darren si muoveva imponendosi calma, senza affrettare il passo e dar a vedere la sua agitazione. Il silenzio era più di quanto s'aspettasse. Lo sguardo degli strateghi lo seguiva, meccanico, come un unico grande occhio del giudizio.
Avevano gli occhi fissi su di lui, ma le pieghe dei lori visi lasciavano trapelare quanta poca attenzione gli stessero davvero rivolgendo. Il ragazzo sapeva di dover prendere un buon punteggio. Esattamente come sapeva di dover fare le cose al meglio. Non esitò quindi a prendere una spada dalla sua postazione e dirigersi verso uno dei vari percorsi.

Ispirò ed espirò più volte, prendendosi quel poco tempo che nessuno gli aveva mai espressamente concesso.
Quando partì, fu istintivo. Correre e piantare la spada nel ventre del primo manichino.
Istinto fu estrarla ed andare avanti. Saltare una cavallina, rotolare su un materasso.
Istinto fu staccare di netto la testa ad un altro manichino. E poi di nuovo correre e saltare.
Istinto, spingere i muscoli verso la fine. Un altro manichino a terra, altro polistorolo tinto di rosso.
Istinto saltare ancora, flettendo le gambe.
Correre.
Saltare.
Rotolare.
Flettere i muscoli.
Caricare la spada.
Trapassare.
Tagliare.
Istinto ed impulsività si mescolarono come fratelli durante tutto il suo allenamento.
Non ci fu un solo istante in cui Darren completò un pensiero completo. Con una spada in mano, con un obbiettivo e solo manichini a sbarrargli la strada, il ragazzo era una macchina per la morte, catalogata fin dal principio per l'arena. Quando finì aveva il respiro corto e il sudore gli colava sulla schiena. Uscì dalla palestra dopo che lo ebbero congedato. Il silenzio lo accompagnò fino al decimo piano.


*Katrhine è il nome della mentore di Darren.

ANGOLO WANI:

No, questo capitolo non è degno nemmeno di essere chiamato tale. Non mi piace, non è fatto bene. Non è lavorato come i miei precedenti, non ha nulla a che fare con loro. è una sequenza di eventi scritta anche male, che fa perdere tutto l'interesse che potevo nutrire nei confronti di Darren. Me ne vergogno, davvero. Ma ero in un ritardo pazzesco, ogni cosa che scrivevo la cancellavo e beh.. Alla fine ho tenuto l'unico che sia riuscita a completare. Chiedo scusa, sono pronta per i pomodori D:

Il prossimo mio sarà meglio, promesso. E beh, il prossimo della Cla sarà sicuramente stupendo!

Grazie se lo avete letto per intero.

Sono davvero tanto, tanto, mortificata..

(Ora potete uccidermi D:)

Wani

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Capitolo 8
*** Animal i have become ***


Animal I have become

"Quattro zampe buono,
due zampe cattivo."
George Orwell,
La fattoria degli animali

Lo studio era percorso da un vocio sommesso, nell'attesa che la busta fosse finalmente aperta e che fosse rivelato a tutta Panem lo svolgimento di quella Centesima Edizione.
Ed ecco che il pubblico fu accontentato: il presidente fece il proprio ingresso nella sala, impettito e impeccabile come al solito.
Fu una cosa veloce, la presentazione, l'attesa era palpabile nell'aria. Tante parole una in fila dietro l'altra, in uno schieramento così serrato da rendere la battaglia persa in partenza.
Il rumore della ceralacca che si spezzava fu, alla fine, come musica per le orecchie di tutta Capitol City. Non per lei. Non per i Distretti.
"Nella nostra Quarta Edizione della Memoria, per ricordare che, comunque vadano le cose, ne rimarrà soltanto uno..."
Due Arene. Ventiquattro Tributi per Arena. I due rimasti si scontreranno. Ne rimane sempre e solo uno... Solo uno...
Non furono quelle le esatte parole, ovviamente. Ma fu tutto ciò che rimase nella mente di Lenore.

"Rowena Dallis, Distretto Uno, voto 9."
Il volto di Lenore era contratto, mentre ascoltava Caesar che enumerava i risultati con un tono di voce rilassato e terribilmente impostato.
Aveva gli occhi chiusi, la testa gettata all'indietro sullo schienale del divano, rifiutandosi di guardare i presenti. Sentiva Gregory al proprio fianco, la gamba quasi a contatto con la sua.
Non si erano più rivolti la parola in privato, dopo quel litigio con Darren. Il Mentore ci aveva provato, a dire il vero, ma il rifiuto di Len era stato di una veemenza tale che aveva rinunciato dopo il primo tentativo. Nessuno se n'era accorto, lì al quarto piano, dato che erano stati entrambi particolarmente attenti a non dare il minimo segno di screzio: Greg continuava a sedersi a tavola per i pasti, Len si sedeva accanto a lui e gli passava il sale quando lui glielo chiedeva, ma nulla di più.
La verità era che lui le mancava. Le mancava avere qualcuno su cui contare, ma la rabbia continuava a invaderla ogni volta che lo guardava in viso e ripensava al modo in cui aveva trattato il fratellastro e di come gli aveva parlato, come se lei non fosse nemmeno presente. Come se il suo, di parere, non fosse poi così importante.
Peccato che avesse ragione. Da vendere. E peccato che la ragazza fosse troppo orgogliosa per tornare a rivolgergli la parola.
Così, quando il ginocchio ossuto sfiorò inavvertitamente la sua coscia, Lenore si ritrasse riaprendo gli occhi e rivolgendo uno sguardo tagliente al ragazzo al suo fianco.
Gregory rimase a fissarla per qualche istante, apparentemente ferito da quel gesto, e poi riportò l'attenzione sullo schermo, le spalle ingobbite, le mani tremanti e il labbro inferiore segnato dai denti.
Era questo che alla ragazza dava più fastidio: il fatto che tutta la sua rabbia andasse a schiantarsi contro un muro di rimorso e di tristezza che le toglieva tutte le forze che le servivano per arrivare ad odiare anche il suo Mentore.
"Lenore Reeds, Distretto Quattro, voto 7."
La ragazza sorrise, abbandonando di nuovo il capo contro l'imbottitura. Sette. Doveva essere più basso, ma poco importava. Andava bene comunque. Sentì chiaramente la risatina di Rosemary, dall'altro capo del divano, ma non ci diede troppo peso, dopotutto lei cosa ne sapeva?
Ci aveva messo tutto il suo impegno per tenere un basso profilo, davanti agli Strateghi, mentre invece Rosemary doveva aver impiegato tutto il proprio per strappare, in effetti, lo stesso voto alla commissione. Non c'era nulla di male a lasciare che si illudesse di potercela fare. L'avrebbero tolta di mezzo più facilmente.
I voti si susseguirono uno dietro l'altro, prontamente schedati nella sua testa, perché nessun dato dei potenziali ostacoli andasse perduto. Ognuno di loro era una minaccia.
"Darren Thomson, Distretto Dieci, voto 10."
Una risata silenziosa scosse le spalle della ragazza, che sentì, anche senza vederli, gli occhi pungenti del proprio Mentore puntati su di lei. Dieci. Non si aspettava niente di meno, da lui.
Solo l'ennesima minaccia.
La vuoi sapere la verità, Lenore? Non hai bisogno di guardarti tanto attorno. Il pericolo più grande si nutre dei tuoi sentimenti. Più gliene dai e più lui diventa forte.
La minaccia vive dentro di te.

"Il vestito ti sta a meraviglia."
La voce nasale di Sybil scosse Lenore dal torpore dolorante che l'aveva avvolta finché era rimasta fra le mani degli Stilisti.
Le sembrava che avessero scardinato ogni osso del suo corpo, stirato ogni muscolo e grattato a sangue la sua pelle. E la stanchezza residua degli allenamenti in cui si era gettata con anima e corpo, per sfuggire ai pensieri, di certo non era di aiuto. Il sudore sapeva di sale e fatica, eppure aveva un gusto cento volte migliore di tutti i pensieri che affollavano la sua mente.
La donna la spinse con urgenza davanti allo specchio, lasciandola a fissarsi con indifferenza.
Ricordava la propria reazione davanti alla trasformazione per la Sfilata, ma quella volta, in qualche modo, era diverso.
Ora non provava semplicemente nulla. Sì, l'avevano snaturata un'altra volta. Sì, il vestito era bello, lungo, fatto di un tessuto leggero e di un colore che andava sfumando da un azzurrino pallido quasi bianco della parte superiore fino al blu scurissimo della parte inferiore. Sì, il trucco la faceva sembrare una bambola priva di difetti e fatta di plastica. Ma in fondo faceva tutto parte del gioco, e ormai lei ne era parte integrante. E non era compito delle pedine decidere le regole.
"Ti slancia e ti fa sembrare ancora più magra di quello che sei." approvò la Stilista, facendola girare su se stessa.
"Sai, è una fortuna poter lavorare con te, quest'anno. La scorsa edizione mi era capitata fra le mani una ragazzina smunta, scialba in una maniera sconfortante. E con una postura terribile. L'ho rimaneggiata in un sacco di modi, ma niente da fare. Riusciva a far sembrare uno straccio anche il mio vestito migliore. Era simile a questo, ma non ho voluto sprecarlo con una come lei."
Lenore fu infastidita dal tono della donna. Come se quel Tributo fosse stato solo un oggetto che lei aveva usato per un po' e di cui si era stancata quasi subito, delusa dai risultati. Se la ricordava, quella ragazzina. Aveva un viso smagrito dalla fame: una delle poche famiglie povere del Distretto. Aveva scosso la testa, quando l'aveva vista salire sul palco, quell'anno, leggendole in fronte che non avrebbe superato nemmeno la Cornucopia. La previsione si era rivelata corretta. Avevano inquadrato i cadaveri a terra, una volta che i Tributi si erano sparsi nell'Arena. Lei era lì, le gambe scomposte e il viso ridotto ad una maschera irriconoscibile. Qualcuno doveva averla calpestata, nella fuga, perché il torace era stato sfondato, le fragilissime costole collassate una sopra l'altra, schiacciando i polmoni che non avrebbero più accolto l'aria. Lenore aveva sperato con tutta se stessa che la ferita alla testa l'avesse uccisa prima di quella mostruosità e che lei fosse morta senza dover affrontare quella terribile agonia.
"Si chiamava Linda, aveva solo tredici anni e la sua famiglia non aveva di che mangiare." protestò, sibilando.
"Beh, è morta." la donna liquidò la faccenda con un irritante gesto della mano. Lenore serrò la mascella.
"Già... è morta." ripeté quasi meccanicamente, mordendosi la lingua per non replicare. "Come moriranno quarantasette di noi, quest'anno."
"Un vero peccato. Ci sono proprio delle belle ragazze, forse troppe. La rossa del Cinque e le due del Sette sono veramente uno spettacolo. Ho suggerito io alle loro Stiliste le mise per stasera."
Sybil la fissò qualche secondo, per poi aggiustarle lo scollo a V del vestito.
"Ma non temere, cara... Credo che tu le superi tutte."
La ragazza non rispose nemmeno, troppo basita per riuscire a spiccicare parola.
"Ora va' e mi raccomando: sta attenta a non rovinare tutto il mio lavoro. Gli Hunger Games saranno niente in confronto a quello che ti farò se mi sciupi quell'abito."
Lenore si avviò verso la porta, un incidere quasi militaresco che mal si accordava all'elegante delicatezza del suo aspetto.
"Sciogliti un po', ancheggia e... ti prego... sorridi!"
Fu solo quando si trovò in mezzo alla folla di Tributi che la ragazza sentì il peso di tutto ciò che stava succedendo calarle sulle spalle: stava per apparire in tv davanti a tutta Panem, aveva evitato l'incontro con Farika e anche quello con Greg, non sapeva cosa fare né cosa raccontare a tutta quella gente stipata nell'auditorium e soprattutto... il giorno dopo l'avrebbero getta nell'Arena.
Doveva parlare con qualcuno.
Qualcuno che la spronasse ad essere forte, anche inconsapevolmente.
Non Gregory, ovviamente. Con lui era ancora furiosa.
La risposta la sorprese, per la sua banalità.
Darren.

Lenore era appoggiata con la schiena al muro, totalmente dimentica di quelle che erano state le vive raccomandazioni della Stilista sul suo vestito. Il suo sguardo era puntato sul ragazzo, che scambiava un paio di parole con la sua Mentore prima della Intervista. Era elegante, nel suo smoking nero, anche se sembrava leggermente a disagio e fu facile, per lei, ritrovare nella postura e nella rigidità dei muscoli qualcosa che sapeva essere nervosismo.
Avrebbe preferito non parlargli né essere costretta a farlo, ma dopotutto era suo fratello e le serviva.
Il campanello d'allarme suonò un secondo in ritardo, nella sua testa.
Fratellastro, Lenore, fratellastro.
La Label si allontanò e Darren si appoggiò alla parete in un modo che ricordava inconsapevolmente quello della sorellastra. Lo distinse con chiarezza, il momento in cui lui si accorse del suo sguardo: fu un tremito involontario, quasi impercettibile, di quelli provocati dalla morsa del freddo infido che si insinua nell'anima. E, non appena lui ricambiò lo sguardo, sentì con chiarezza che quel freddo stava attraversando anche lei.
"Cosa vuoi, Lenore?" le chiese, avvicinandosi. Era esattamente la voce che si aspettava da lui, dopo l'ultima conversazione: gelida e scortese. Eppure fece male lo stesso.
La ragazza scrollò le spalle impedendosi di manifestare alcune espressione.
Mi dispiace. Erano quelle le parole che premevano sulle labbra, ma non furono quelle che uscirono.
"Sapere che cosa dovrò dire a quella gente quando mi chiederanno perché siamo sputati." rispose, nello stesso tono distante.
Darren scrollò le spalle, quasi la cosa non gli importasse o non fosse poi così fondamentale. In effetti non lo era.
"Di' loro che è una coincidenza e che non significa nulla. Nessuno dei pezzi forti di Capitol City vorrebbe comunque che saltassero fuori gli svaghi di certi bravi Pacificatori." Era freddo, Darren. Come al solito. Forse troppo. Era qualcosa che andava al di là dell'Arena, si rese conto Lenore: avevano oltrepassato una linea da cui era impossibile tornare indietro. Spezzati. Divisi.
"Sarebbe un bel colpo, però." commentò, con un sorriso stirato in una smorfia beffarda che in verità non aveva nulla di divertito. "E se non fosse per il fatto che quei bastardi hanno in mano la... mia... vita, potrei quasi farci un pensiero."
Bloccata appena in tempo. Appena prima di dire 'la nostra vita'. Appena prima di far crollare il muro di ghiaccio che la separava da lui, che però, per fortuna, rimase lì, saldo al suo posto e più bruciante che mai.
Il viso di Darren si mantenne altrettanto immobile ed impassibile.
Sta diventando di pietra. Si ritrovò a pensare Lenore. Nessuna possibilità di sciogliersi... Non più. Ho davvero lo stesso viso?
"Puoi fare quello che vuoi." sillabò lui "Ma evita di tirarmici dentro."
"A dirla tutta io dovrei cercare un modo per sbarazzarmi di te." replicò lei con ostentata indifferenza. "Ma ti accontenterò, fratellone." concluse alla fine mantenendo un mezzo sorriso sulle labbra e calcando sull'ultima parola.
"Non puoi buttare a fondo me durante questa intervista senza buttare a fondo anche te stessa." replicò lui, perfettamente conscio, evidentemente, di quello che era il suo bluff. I muscoli del viso come sigillati, la mandibola serrata e lo sguardo implacabile di chi odia ciò che guarda.
E solo l'altro giorno rideva...
"Vale sempre la pena di tentare." lo gelò lei. Pregò con tutta se stessa che i suoi occhi fossero come quelli che vedeva davanti e che lui non potesse capire. Nulla. "Bene, in bocca al lupo, Darren." concluse, il più piattamente possibile.
"Ti ucciderò se mi capiterai davanti, Lenore. Tu mettiti sulla mia strada ed io farò tutto quello che posso, ogni cosa, per ammazzarti."
Ecco. L'aveva sganciata, alla fine, la bomba. E quella era esplosa, togliendole tutto il fiato dai polmoni. E, così come lui le aveva riversato dentro il suo odio, così lei gli scaricò addosso il proprio, in una bruciante cascata di acido.
Lenore si voltò, strappando dalla propria gola una risata fredda e priva di emozione.
"Per quel che vale, Darren, non sono mai stata più d'accordo di così, con qualcuno. Farti fuori non sarà poi così difficile." Ruotò di nuovo il collo, per fissare gli occhi in quelli del ragazzo per l'ultima volta. "Avrei dovuto ascoltare Greg fin dall'inizio, mi sarei risparmiata un sacco di problemi. Non vali niente più degli altri. Ci vediamo, bastardo."
Le pensava veramente, tutte quelle cose? Forse. Dopotutto le bugie migliori erano quelle che avevano un fondo di verità. E quella era una bugia molto buona. Perché il vero c'era, eccome: si sarebbero uccisi a vicenda e lo sapevano entrambi. E quell'odio, sotto sotto, non era pura finzione.
"Sarai morta prima che tutto questo abbia fine." sibilò Darren, a bassa voce.
"Vedremo. È un gioco, no? Tu pensa a giocare."
Lenore se ne andò, senza voltarsi indietro.
Aveva avuto ragione: parlare con lui era servito.
Era successo. Tutto stava andando lentamente al proprio posto. Il puzzle prendeva forma, definitivamente. Ora che aveva convinto Darren e anche una buona parte di se stessa, mancava solo tutto il resto di Panem.
Si dipinse sul volto un'espressione decisa e sicura, inserendo le ultime tessere nella facciata che avrebbe presentato al pubblico.
Sorrise amaramente.
Le telecamere la stavano aspettando.

L'applauso salutò Dave, che scese di nuovo dietro le quinte con gli occhi spiritati e l'eccitazione che si spandeva nell'aria con la stessa violenza del profumo che gli Stilisti gli avevano versato addosso a litri. Len avanzò, respirando a fondo.
Era il suo turno.
"Ed ora... accogliamo con un bell'applauso la seconda, splendida, ragazza del Distretto Quattro: Lenore Reeds!"
Si era aspettata che la vista del pubblico, sicuramente numerosissimo, l'avrebbe impietrita, ma non fu così: la luce accecante dei fari faceva sì che, per chi fosse stato seduto sul palco, la platea fosse immersa nella più totale oscurità.
I muscoli si rilassarono istintivamente e la ragazza si diresse verso il conduttore, sorridendo sicura e rivolgendo un cenno di saluto agli spettatori che non riusciva a distinguere.
Caesar, impeccabile come al solito nel suo vestito lilla, la invitò a sedersi, seguendo a propria volta quel consiglio tanto sensato quanto inutile.
L'uomo la fissò qualche istante senza dire nulla e in Lenore nacque per la prima volta una sensazione sconosciuta: la paura del silenzio. Non volava una mosca, sullo studio. Caesar non parlava, il pubblico nemmeno e Lenore era totalmente nel panico. Ma fu un solo istante, dilatato fino a diventare un secolo, e poi le labbra del presentatore si aprirono in un sorriso accattivante.
"Eh sì... l'ho pensato quando ti ho vista alla Sfilata e non ho nessuna paura di ripeterlo: veramente adorabile, non è così?"
Si levò una serie di mormorii di assenso, che la ragazza identificò come maschili. Sorrise, una mezza smorfia che ebbe il risultato di apparire allo stesso tempo indifferente e divertita. Affascinante.
"Oh, allora nessuno ha notato che questa, in pratica, non è la mia faccia." replicò lei con indolenza.
Sorridi. Sii pungente. Non aver paura di risultare sfacciata. Va tutto bene.
"L'ho sentito dire. A quanto pare, gli Stilisti fanno miracoli con il trucco."
"Sì, immagino che tu l'abbia solo sentito dire..." lo stuzzicò lei, accavallando le gambe sotto la stoffa leggermente trasparente. Quel gesto forzato le ricordò inevitabilmente la naturale sensualità della madre, che dopo tutto quel tempo si portava addosso i segni del mestiere ovunque andasse. La rivide sedersi, spostarsi le gonne perché si adattassero alla sua figura, sistemarsi i capelli dietro l'orecchio per poi sorridere con le ciglia basse di finto pudore e ripeté ogni singolo gesto, cercando di non apparire ridicola, goffa.
Il pubblico si profuse in una serie di versetti, divertito dallo sfacciato commento della ragazza.
"Ma sentitela!" Caesar proruppe in una risata allegra "Che lingua lunga..."
L'espressione di ostentata innocenza di Lenore sembrò alimentarla ulteriormente.
"Ah, cara... un bel caratterino, per un bel visino. Ne vedremo delle belle, nell'Arena."
La ragazza si lanciò in un verso volutamente teatrale.
"Oh no, Caesar, ti prego: non parliamo di Hunger Games!"
"Ma... Lenore... tu sei agli Hunger Games." la informò lui, reggendole in gioco di buon grado.
"Ah, già."
L'espressione che le si dipinse in viso sembrò di un disappunto così sincero che l'ilarità della platea divenne presto un boato che scosse la sala.
"Immagino che avrei dovuto ricordarlo."
"Eh, probabile... Ascolta, vogliamo sapere un po' di te, però. Chi hai lasciato a casa?" le chiese, ritornando serio.
"Nessuno." rispose istintivamente la ragazza, con un tono che non lasciava spazio a repliche. Eppure Caesar riuscì a trovarle.
"Nessuno? Non è possibile. Amici, parenti..." chiese allibito.
"Mia madre." rispose lei, a testa bassa. La carta della ragazza sola forse le sarebbe servita, per una volta.
"Solo tua madre? Mi dispiace... Le vorrai bene, immagino." la incitò lui, comprensivo.
"Lei non ne vuole a me, non vedo perché non dovrei ricambiare questa assenza di interesse."
"Non ci credo! È tua madre!" esclamò Caesar, quasi senza parole.
"Le ricordo mio padre. Lei lo amava ma lui l'ha abbandonata ed è tutta colpa sua se è diventata quello che è. Perciò, non riuscendo a smettere di amarlo, allora odia me."
Fu una conclusione priva di sentimento, quella di Lenore. Una conclusione che sapeva essere una bugia. Ma in fondo Caesar aveva toccato uno dei punti che erano passati in secondo piano, in quei giorni. Sua madre in quel momento non poteva ucciderla, fino a prova contraria.
"E che cos'è tua madre, Lenore?" chiese lui, cauto. La ragazza non poté fare a meno di chiedersi se lui lo sapesse già. Abbassò gli occhi, fingendo una reticenza che era vera solo in parte: se parlare di sua madre fosse servito a qualcosa, allora lo avrebbe fatto di buon grado, pur odiando l'idea.
"Io non..."
"Lenore, non c'è niente di cui vergognarsi."
Che cazzata.
"Una prostituta... mia madre è una prostituta." sputò lei alla fine, trovandosi di nuovo faccia a faccia con quell'odioso silenzio. Quella volta non fu solo un'impressione, il tempo passato senza nessuna parola fu veramente infinito, un silenzio ricolmo di ipocrita pietà.
"Mi dispiace." sussurrò alla fine il Maestro di Cerimonie, che a quanto pareva aveva scoperto che le cose di cui vergognarsi esistevano, eccome. "E tu..."
La ragazza colse al volo il significato di quell'esitazione e l'orrore che le sfigurò l'espressione fu pienamente sincero.
"Oh no, io no! Candida come una colombella! Non ho ancora raccolto il testimone. Né penso che lo farò mai."
L'uomo, ancora lanciato nel compassato ruolo di consolatore, fraintese le ultime parole.
"Lenore, non essere così pessimista. Hai delle possibilità di vincere."
La ragazza lo ringraziò silenziosamente per non aver aggiunto altro.
"Ma certo. È un peccato che io non mi sia fatta mai spiegare i trucchi da mia madre, magari sarebbero tornati utili. Più di un coltello, forse."
Ed ecco che tutta l'empatia e il rammarico del pubblico scomparve sotto l'ondata dell'ennesimo eccesso di risa che scosse i presenti. Persino Caesar non riuscì ad impedirsi di sogghignare.
"Immagino che gli uomini rimangano sempre uomini. Ma a proposito di genere maschile: c'è un ragazzo in particolare di cui ti volevo parlare..."
Lenore annuì, sistemandosi comoda sulla sedia.
"Chiedi pure. Al massimo, se la domanda sarà troppo imbarazzante, potrei fingere un mancamento."
"Oh, non ce ne sarà bisogno" ridacchiò lui "Darren Thomson, Distretto Dieci. Siete due gocce d'acqua, ma i vostri Distretti sono parecchio lontani." esordì con curiosità.
"Oh, non me ne parlare. Ci sono rimasta di stucco, quando l'ho visto. Una coincidenza davvero mostruosa. E un po' inquietante, a dire il vero. Per fortuna che almeno è nell'altra Arena, cercare di uccidere un mio sosia mi avrebbe messo leggermente a disagio. Sarebbe stato come rompere il proprio riflesso. Dicono che infrangere gli specchi porti parecchia sfortuna. E io avrò bisogno di tutta la buona sorte che è possibile racimolare in così poco tempo."
"Quindi è solo un caso. Nessuna parentela." chiese lui con un sorriso rilassato.
Evidentemente Darren aveva avuto ragione: Capitol City era preoccupata per la spiacevole piega che avrebbero potuto prendere gli eventi se si fossero scoperte alcune cose.
"Assolutamente."
"Beh, meglio così. Mi dispiace veramente, ma il nostro tempo a disposizione è finito."
Si alzarono di nuovo il piedi, mentre lui le prendeva la mano e la indicava al pubblico.
"Lenore Reeds, Distretto Quattro."
Gli applausi fioccarono di nuovo e qualcuno si azzardò addirittura a gridare il suo nome.
Lei sorrise, decisa, e tornò di nuovo verso la scaletta che l'avrebbe trascinata via da quell'inferno.
Lontano dai riflettori il suo viso divenne di nuovo una maschera imperturbabile e tutta la tensione che l'aveva irrigidita fino a quell'istante scivolò via, lasciandola vuota e priva della forza di camminare oltre.
Una volta sorridere era stato un regalo che la vita riservava, era stato qualcosa di speciale, qualcosa che le piaceva. Non più. Odiava le risate, l'allegria. Odiava chiunque era felice.
Li sentiva sulla pelle, gli sguardi disgustati e sprezzanti degli altri Tributi, ma decise di ignorarli. Non ne valeva la pena. Non le valeva mai.
Non si guardò intorno, nella paura di incontrare un paio di occhi di ghiaccio o un paio di ebano.
Sfilò via, alla ricerca di calma, di solitudine e di un silenzio che non potesse leggerle dentro.

Sybil l'aveva lasciata sola, ovviamente. Non c'era da aspettarsi che una come lei potesse rimanere a darle conforto, lì nella Camera di Lancio.
Le aveva dato il pacco con i vestiti, l'aveva osservata e aveva rivolto un cenno di approvazione ai pantaloni marroni, alla maglia nera, al cappotto dello stesso colore e ai robusti scarponi, per poi augurarle buona fortuna e andarsene a godersi lo spettacolo. Niente di nuovo.
Len non aveva toccato cibo, né quella mattina, né la sera precedente, ma era troppo tesa per sentire la fame o la stanchezza delle numerose notti passate in bianco.
La sua mente si era accesa di nuovo, traditrice, a farle notare ogni singolo particolare della sala, stordendola ancora di più di quanto già non fosse.
Sola. Terribilmente sola. Nessuno a farle compagnia, a parlarle, a sorriderle...
Si grattò nervosamente la pelle ancora dolorante per l'iniezione del rilevatore. Ce la poteva fare.
Doveva farcela.
La sentì subito, l'esitazione della persona che stava aprendo la porta, e capì subito a chi apparteneva, ancora prima di sentire gli esili respiri spezzati o di vedere la figura allampanata.
Si gettò fra le braccia del ragazzo, affondando il viso nel suo torace scheletrico e ignorando la sua instabilità di fronte a quel gesto inatteso.
Gregory impiegò qualche secondo a rendersi conto di ciò che stava succedendo veramente.
"Io... credevo che tu non volessi vedermi. Sarei venuto prima se..."
"Mi dispiace." li interruppe lei, con un filo di voce. "Sono stata una stupida. Mi dispiace."
Il respiro di lui le risuonò nelle orecchie e le sue braccia nervose la avvolsero, stringendola a sé.
"Diciamo che in quanto a stupidità io e te ci facciamo parecchia concorrenza."
Si sedettero entrambi sul divanetto, in un angolo. Lenore si aggrappò a qual contatto fisico come se fosse l'ultima cosa che le rimaneva. Ed era così.
Alzò il viso, cercando di incontrare gli occhi scuri del Mentore, ma non li trovò, o almeno, non fissi su di lei: vagavano impazziti su tutta la sala, senza soffermarsi su un singolo particolare per più di un secondo; i muscoli era tesi, troppo rigidi; il piede destro continuava a battere per terra, in una sorta di cadenzato ritmo che stava cominciando a esasperarla. Quello era il Gregory che ricordava dalle Mietiture, non quello degli ultimi giorni.
"Greg... perché hai paura?" La frase era uscita di getto, senza essere veramente intenzionale.
Che domanda stupida. È ovvio che ha paura, ne abbiamo tutti, no?
Il ragazzo si impietrì.
"Non ho paura." la smentì invece lui, senza troppa convinzione.
"Il tuo corpo dice di sì."
Gregory rise, una risata che fece calare il gelo fin dentro le sue ossa.
"Sta succedendo di nuovo. Tu me la ricordi così tanto..." sussurrò, lo sguardo ancora impazzito.
Lenore capì subito a cosa si riferiva e strinse fra le mani la maglia del ragazzo.
"Le assomiglio molto?"
Finalmente gli occhi del Mentore sembrarono vederla davvero.
"Oh... no. No, non le assomigli per nulla. Lei aveva i capelli castani, i tuoi invece sono così scuri... non c'è luce tra i tuoi capelli, Len, così come ormai non ce n'è più dentro di te. Ti ho costretto a spegnere tutto..." disse passandole le dita fra le ciocche corvine.
"Non è colpa tua, io..."
"Sai, anche gli occhi sono così diversi." continuò, ignorandola. "Non ricordo di che colore fossero i suoi, in realtà, ma erano così... espressivi. I tuoi sono così distanti, non sei mai con me quando ti parlo, non veramente. Eppure sai ferire così bene, Len. Fai male come nessun altro. Come ci riesci, ragazzina? E come riesci a farti scivolare addosso tutto quanto?"
Lenore scosse la testa, deglutendo.
"La... la amavi?" chiese sommessamente.
"Cosa?" domandò lui, come se la domanda lo avesse sorpreso. "No, io... No, non la amavo. Anzi, la maggior parte delle volte era irritante." una smorfia di fastidio gli increspò le labbra, sotto i ricordi di tutti i momenti che doveva aver passato insieme a quella ragazza.
Lenore annuì.
"Immagino che in questo sia molto simile a me." constatò, quasi rassegnata.
"Cosa te lo fa pensare? No, tu non mi irriti, Len. Anzi." l'idea sembrava divertirlo.
"E allora cosa, Greg? Perché hai ritirato fuori questo fantasma proprio ora?" chiese lei esasperata.
"Perché finisce sempre nello stesso modo. Non avete nulla in comune, nulla. Eppure il risultato sarà sempre lo stesso: le si fidava di me, io dovevo proteggerla ma lei è morta comunque. E non importa quanto io ci abbia messo impegno: tu te ne andrai e non tornerai più da me. Che sia per Thomson, per un insulso Favorito o per quel tributo del nove che dietro le quinte dell'intervista non ti staccava più gli occhi di dosso. Tu mi lascerai di nuovo solo. E ho paura che non provi nemmeno a tornare da me." Gregory le stava stringendo i polsi. Non tanto da farle male, ma abbastanza da farle sentire quanto avrebbe voluto tenerla a fianco a sé e non lasciarla andare. Abbastanza per farla sentire meno sola.
"Sai una cosa, Greg? Vattene a quel paese!" sbottò lei strattonando le braccia per poterlo colpire al petto. "Io me ne sto andando nell'Arena e tu hai il coraggio di farmi sentire in colpa perché ti lascio qui da solo? E hai il coraggio di dirmi che non mi impegnerò abbastanza? Direi che non hai capito proprio nulla."
Il ragazzo la guardò sbattendo le palpebre, quasi stordito da quelle parole.
La voce metallica li informò entrambi che era tempo di prendere posto.
Lenore si alzò in ginocchio sull'imbottitura cedevole del divano, per poter arrivare all'altezza del viso del Mentore.
"Mettitelo bene in testa, O'Berris," lo informò lei con uno sguardo di ghiaccio "io farò fuori ogni singola persona che mi impedirà di tornare qui. E giuro che, se non mi dai una mano da fuori, quando ti rivedo ti faccio un culo grande come una casa."
Lui rise, guardandola con una tacita sfida dipinta sul volto.
"Uccideresti anche tuo fratello? O fratellastro che sia?"
"Soprattutto, lui!" esclamò lei alzando gli occhi al cielo. "Smettila di dubitare di me. Avevi promesso di non trattarmi come una bambina."
Gregory la guardò teneramente e si avvicinò a lei per stamparle un bacio sulla fronte.
"Non sei mai stata una bambina, per me. Mi raccomando, però. Stai attenta."
Lenore si alzò in piedi, dirigendosi verso il cilindro di vetro che l'avrebbe portata sull'Arena.
La voce del ragazzo la fece voltare di nuovo.
"Me lo prometti veramente, Len? Tornerai sul serio?"
"Sì, Greg. Io vincerò, ci puoi scommettere."
Le labbra si erano mosse da sole a pronunciare quelle parole.
Le labbra avevano mentito.
Perché c'erano gli occhi, le mani, tutto il suo corpo e tutta la sua mente che si stava chiedendo se sarebbe riuscita a superare la Cornucopia e urlavano 'Addio' ad un uomo che sapevano non avrebbero più rivisto.
Eppure Gregory la guardò negli occhi e non lesse nessuna menzogna nelle sue iridi color ghiaccio. Len riuscì a cogliere il suo pensiero.
Lei non mi mentirebbe mai.
Si voltò di nuovo ed entrò tra le pareti curve del cilindro.
Lo spero anche io, Gregory. Spero di non averlo fatto.

"Dodici..."
"Undici..."
Lenore guardò il proprio riflesso sulle pareti di vetro e si rivede, per una volta senza trucco né altri inutili orpelli.
Per la prima volta si rese conto di essere ancora la persona che conosceva. Non era cambiata, a dispetto di tutto quello che dicevano. Non ancora.
Appoggiò i polpastrelli sulla parete fredda, sentendo che la pedana cominciava ad alzarsi.
Non aveva paura, non proprio...
"Dieci..."
"Nove..."
Ripensò all'unica persona che era rimasta a casa, si chiese se avrebbe sorriso vedendo il sangue della figlia spandersi sul suolo.
Elisha.
Mamma.
"Non la voglio vedere" disse impassibilmente al Pacificatore che aveva aperto la porta per far entrare la donna nella stanza.
"Mi stai prendendo in giro, ragazzina?" l'uomo la squadrò con le sopracciglia aggrottate.
"Direi proprio di no. Mandatela via."
L'uomo la lasciò di nuovo sola, la porta e i muri troppo sottili per zittire i suoni dal corridoio: "
Lasciatemi passare, è mia figlia." "Non la vuole vedere." "Non m'importa!"
Il volto stravolto dalla rabbia di sua madre fece capolino nella stanza, seguito dal suo corpo flessuoso che si diresse con incedere minaccioso verso la ragazza.
"Non ti azzardare a farlo un'altra volta, Lenore... Dopo tutto quello che ho fatto per te ho il diritto di salutarti almeno un'ultima volta."
La figlia sorrise e quel sorriso ricolmo di disprezzo fu la cosa più dolorosa, per la donna.
"Non ti ho mai chiesto nulla, mamma. Non ti ho chiesto di farti stuprare da papà. Non ti ho chiesto di non denunciarlo. Non ti ho chiesto di non abortire né ti ho chiesto di diventare una puttana per mantenermi. Sono io quella che sta per morire, è un mio diritto volerti fuori da quel poco di vita che mi rimane."
Lo schiaffo bruciò sulla guancia di Lenore, che portò una mano al viso fissando la madre con una freddezza disumana.
Le lacrime scorrevano sulle guance di Elisha, che fissava la figlia sconvolta. La ragazza rise di nuovo, pensando che probabilmente l'altra non immaginava quanto lei sapesse di quella storia. Ma, con sua grande sorpresa, una seconda risata si unì alla sua.
"Sai cosa c'è Lenore? Sei identica a tuo padre. Oh, non solo di aspetto, sarebbe stato troppo poco doloroso. Sei una maledetta stronza. E giudichi tanto gli altri per il loro egocentrismo ma non ti rendi conto che tu stessa ti credi il centro del mondo. Rimani lì a disprezzare me e tutti coloro che ti circondano. Sei solo un'egoista. E sei talmente brava ad esserlo che riesci addirittura a scaricare la responsabilità sugli altri, facendoli sentire veramente colpevoli. Vuoi veramente saperlo? Sì, ti odio. Ed è tutta colpa tua. Non avrei mai potuto detestare quel fagottino urlante che si calmava solo al mio seno, mi sarei venduta mille e mille volte per lui, senza mai provare disgusto. Ma tu, Lenore, credimi, non hai bisogno del fantasma di tuo padre per renderti insopportabile. Ci riesci benissimo da sola. E vuoi sapere anche se mi sono mai pentita di quello che ho fatto? Sì, Lenore, mille e mille volte. E ogni singola notte che passo con un uomo non riesco a non pensare che lo sto facendo per una persona che invece continuerà a disprezzarmi. Sai... forse tutto sommato te lo meriti, tutto questo. Buona fortuna."
Elisha uscì dalla stanza senza voltarsi nemmeno una volta.
Lenore non rise.
Beh, aveva sempre avuto ragione, dopotutto: sua madre la odiava.
"Otto..."
"Sette..."
Lenore scosse la testa, scacciando l'ennesimo pensiero doloroso. Si guardò intorno, esaminando ogni particolare di quell'ambiente estraneo, imprimendo tutto nella sua mente, eppure i ricordi sembravano aver deciso di tornare a tormentarla, a distoglierla dal suo obiettivo.
La ragazzina camminava lentamente, attenta a non far scricchiolare troppo rumorosamente il tappeto di aghi di pino che si era formato a terra.
Nessuno entrava mai in quella foresta, esattamente come nessuno si avventurava mai nella loro pineta. Si diceva che ci fossero i fantasmi. Nemmeno i Pacificatori ci si addentravano, se avevano possibilità di farne a meno. Lenore non credeva a quello storie, dopotutto erano solo quello: una serie di parole, probabilmente finte. Eppure, nonostante questo, non era mai arrivata fino al centro del bosco. Da sola. Senza nessuno. Nemmeno Laila a proteggerla dal resto del mondo.
Ci mise quasi un'altra mezz'ora, incespicando tra i rovi, a trovare una radura in cui poter giocare. Era più grande di quanto si sarebbe aspettata ma c'era una casetta che vi sorgeva al centro, malmessa e cadente, che la fece sorridere, nel compararla alla propria. Troppo simili.
Poi lo vide, seduto su un ciocco di legno, vicino all'entrata, a intagliare un pezzo di corteccia con il suo coltello arrugginito.
"Sei troppo rumorosa, ragazzina." la voce cavernosa la fece sobbalzare di sorpresa, soprattutto quando si rese conto che era rivolta proprio a lei.
"E anche piuttosto lenta. Ma con quelle gambette corte non mi sorprendo. Piuttosto, non hai paura dei fantasmi per arrivare fino a qui?" le chiese, guardandola di sbieco.
La bambina sporse il mento orgogliosamente.
"No. Se tu ci vivi non c'è assolutamente nulla di cui avere paura."
"Magari sono proprio io ad essere pericoloso."
Lenore ci pensò su qualche istante prima di annuire.
"Sì, potrebbe essere. E allora vorrà dire che mi sono sbagliata. A volte succede."
L'uomo scoppiò in una risata grassa e raschiante, facendole cenno di avvicinarsi.
"Quanti anni hai, piccolo scricciolo?"
"Dieci. Meno di te, comunque." rispose lei, entrando nella radura e arrivando a posarsi alle pareti di legno sbeccato della casupola.
"E ci credo. Perché sei venuta qui?" le chiese gettando il pezzo di legno a terra e alzandosi con uno sbuffo affaticato.
"Non avevo nulla da fare."
"E come potrei rimediare, io? Raccontandoti una storia?"
"Non mi piacciono le storie." la bambina incrociò le braccia in attesa di una alternativa.
"Bene, nemmeno a me. Io sto andando a pescare... vieni?"
Era nata così, quella specie di amicizia. Non parlavano spesso, anzi. Dopo quel giorno i loro pomeriggi erano divenuti pieni di silenzi, eppure Lenore non aveva mai apprezzato così tanto l'assenza di parole. Lui non conosceva il suo nome, lei nemmeno. Non si chiamavano mai, riconoscevano a pelle la presenza dell'altro. Le insegnò a pescare a mani nude, a seguire le tracce degli animali, ad essere silenziosa, a tirare con la fionda, a trovare erbe commestibili. Doveva insegnarle ad usare l'arco. Ce n'era uno nel salotto. Lo aveva toccato, una volta.
Solo che poi i Pacificatori l'avevano trovato. Lenore aveva immaginato che non avesse il permesso di stare lì, ma non ci aveva mai pensato molto.
Era stato quando aveva visto il pennacchio di fumo sopra il bosco che aveva capito che qualcosa non andava. Lui non accendeva mai il fuoco.
Era arrivata solo ai limiti della radura. Lo stavano picchiando e avevano dato fuoco a tutto. A tutto. Anche alla statuetta che aveva intagliato Lenore, rimediandoci un bel taglio sulla mano. Tutto.
Lui l'aveva vista, le aveva detto con gli occhi di scappare e Len aveva obbedito.
Si era resa conto a casa che ancora allora non sapeva il suo nome. E si era resa conto, con altrettanta chiarezza, che la cosa che le dispiaceva di più era che lui non le aveva ancora insegnato a cacciare con l'arco.
"Sei..."
"Cinque..."
Gli altri Tributi la stavano guardando di sottecchi, lo sapeva. Eppure si sentiva così sollevata nel non sentire uno sguardo che già sapeva l'avrebbe gelata. Uno sguardo di ghiaccio. Uno sguardo come il suo.
Darren.
L'avrebbe uccisa. O lei avrebbe ucciso lui, se fosse stato necessario.
Eppure non riusciva a non pensare a come sarebbe potuto essere, se solo si fossero conosciuti diversamente. A come era anche effettivamente stato, solo per poco tempo.
Lenore osservò dubbiosa la propria faccia riflessa nello specchio.
"Siamo sicuri che questo dovrebbe aiutarmi a mimetizzarmi?" chiese borbottando, fissando le macchie che le campeggiavano il viso.
Darren la guardo, pensieroso. "Beh," cominciò, con fare serio "dopotutto non puoi sapere cosa ti capiterà nell'arena. Se mai dovessi finire in un campo di panda con le macchie marroni affetti da disturbi daltonici... Allora sì, sarebbe davvero molto utile."
La ragazza contrasse il viso in una smorfia, nel vano tentativo di cercare di rimanere impassibile e sembrare vagamente offesa.
"Oh, quindi dici che fra i panda passerei inosservata? Certo, Darren, veramente molto delicato."
"Beh, magari anche fra le zebre con chiari problemi di autocoscienza" disse. Poi, notando il viso di Lenore, scoppiò a ridere "Non negare che la cosa ti diverta! Dimmi piuttosto, con cosa cercavi di mimetizzarti?"
La ragazza espresse tutto il proprio disappunto in una espressione confusa.
"Perché, bisogna cercare per forza di mimetizzarsi con qualcosa? Non ci può mimetizzare in generale?" chiese.
"Oh no" negò Darren "Sono sicuro che travestirsi da panda sarà molto, molto utile" rise "Eddai Lenore, sono sicuro che farai di meglio."
"Non sono mai stata brava con i colori e con l'arte." rispose, ridendo, suo malgrado. "Ma tu hai poco da ridere, sai?"
"E perché mai?" domandò lui, divertito.
"Già... perché mai? Il tuo lavoro è decisamente migliore del mio." osservò abbattuta, fissando la mimetizzazione di Darren. "Bastardo. Cioè, bastardo nel senso di carogna." lo informò.
Darren rise "Non preoccuparti per questo Lenore, davvero. Sono abituato, se mi ferisse sentirmelo dire a quest'ora sarei già morto d'emorragia." scrutò il proprio volto allo specchio "Già, se mai dovessi trovarmi su una spiaggia nemmeno tu mi riconosceresti." commentò, soddisfatto "Sono davvero troppo, per voi poveri mortali senza alcuna capacità." scherzò.
"Oh, certo... Che sua altezza ci perdoni per aver anche solo pensato di poter competere con lui." proferì lei cerimoniosamente, con un inchino beffardo. "Fatemi l'onore di uccidermi qui e ora, sarebbe un piacere versare il mio sangue per voi. Sebbene, così impanato, il mio signore assomigli più ad una cotoletta di pollo che ad un essere umano, se mi è concesso dirlo. Segui il mio consiglio, Darren: evita quella mimetizzazione vicino all'olio bollente, nell'arena. Sarebbe triste sapere che sei morto perché ti hanno scambiato per un petto di tacchino."
"Questa era bella." le concesse Darren, sorridendo.
"Dio, siamo proprio presi male." commentò lei. "Lo sai che se ci prendessimo a cazzotti sarebbe meno dannoso, vero?"
"Ti spiego il mio punto di vista, Lenore." iniziò. La ragazza sentì l'esitazione nella sua voce, dovuta alla sicurezza di non poter parlare del tutto liberamente al centro di una palestra popolata da strateghi ed altri tributi. Perfettamente comprensibile. "Se devo trovare la forza di sopravvivere, la devo trovare apprezzando ciò che c'è fuori dall'inf... Arena." si corresse "E non è che abbia avuto molte occasioni per farlo, in generale. Ma scoprire di poter ridere, di sapere come si fa, mi fa apprezzare la vita."
La ragazza lo fissò un attimo, in silenzio, e poi sorrise. "Non ti facevo così sentimentale. Bello, profondo e misterioso... aspetta di vincere e tornare a casa e le donne non ti si staccheranno più di dosso. E a differenza delle zecche, non scappano con l'aceto."
"Quattro..."
"Tre..."
Gregory aveva avuto ragione. Stava sbagliando tutto quanto.
Gregory... era sotto di lei, in quel momento. Gli aveva promesso di tornare.
"Che cos'è che fa un essere umano, Len?" le chiese il ragazzo lasciandosi cadere sul divano.
Lenore lo fissò con un gigantesco punto interrogativo stampato in volto.
"Che cos'è che lo differenzia dagli animali?"
La ragazza ci pensò qualche istante.
"I sentimenti, credo..."
"Dici? E magari anche la capacità di soffrire, avere pietà, amare qualcuno, essere disposti a morire per quella persona o addirittura sacrificare la propria vita per un ideale?"
"Ehm... non è così?"
Il Mentore rise, scuotendo la testa.
"No, non essere così poetica, Len, queste sono solo parole. La cosa è più semplice: l'essere umano si chiede se sbaglia. Beh, ti svelo un segreto: gli Hunger Games non sono fatti per gli umani. Non avrai il tempo di decidere se ciò che stai facendo è giusto, perché tanto la risposta sarebbe no. Se vuoi uscire viva di lì, sii un animale."
"Due..."
"Uno..."
La tensione svanì tutta in un momento.
Sorrise.
Non è poi così difficile.
E Lenore divenne animale.


clalla97 commenta:
Uh, per carità che capitolo osceno. Ma vediamo di non parlarne troppo, vah, va a finire che mi deprimo sul serio. Ma proprio tanto tanto ù.ù
Beh, diciamo che in questo capitolo ci sono delle cose abbastanza strane, direte voi (almeno credo): c'è quella tremenda discussione tra Len e Darren, no? Probabilmente ci starete odiando perché abbiamo diviso i vostri eroi però era giusto così, alla fine, si stavano condannando a vicenda. Così ora sono più al sicuro. E poi, anche se voi avete visto solo i pensieri di Len, è ovvio che Darren non è così indifferente alla cosa come vuole far credere. Recitano veramente bene, quei due, non è vero?
La seconda cosa che secondo me vi spiazzerà è tutta colpa mia: è stato il volervi mostrare che Len non è la ragazza vittima che tutti noi (io compresa) avevamo identificato all'inizio. E' una bastarda egocentrica, ragazzi, rendiamocene conto. Ci sono un sacco di riferimenti, nel capitolo che lo testimoniano alla grande (guardate per esempio il pensiero dopo che l'uomo della foresta è stato scoperto). Se avesse avuto un passato diverso sarebbe diventata un'oca insopportabile, credo. Insomma, non è poi tutto questo rose e fiori. Non so se cambierete opinione su di lei, dopo questo capitolo, io mi auguro di sì ma spero che non arriverete ad odiarla. Il mio intento era di mostrarvi come dopotutto sia una persona anche lei, con un carattere fatto di mille sfaccettature, e che le cose non sono sempre come le vede il nostro protagonista, anzi, di solito l'oggettività è in mano ai personaggi secondari. E dopo questa filippica che cosa vi posso dire? Sì, che vi aspetto al prossimo capitolo... in cui Darren sarà nell'Arena! Augurate a Wani buona fortuna, per favore... e anche a me ù.ù
Clara
 

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Capitolo 9
*** Il mondo è freddo ***




Il mondo è ghiaccio.


<< Mancano cinque minuti e trenta secondi Darren >>
La voce di Stephan suonò incolore nella stanza.
Il ronzio degli apparecchi metallici riempì il silenzio altrimenti creatosi nell’ambiente ristretto.
Il corpo del tributo si mosse automaticamente verso il divanetto di pelle nera. Lui si sedette in silenzio, senza produrre il minimo rumore.
Come se quella stanza fosse sottile, come se vibrazioni nell’aria potessero disintegrarla e portarlo immediatamente all’arena.
Cazzo, l’arena.
Darren non era tipo da pregare. Accidenti, lui era ateo. Ora, non sembra, ma essere ateo convinto è una bella sfortuna.
Perché lui non credeva nell’aldilà. Non credeva in un posto in cui sarebbe stato meglio. Non credeva nell’eternità.
Lui non credeva.
Non credeva in nulla.
Come si fa ad affrontare la morte senza fede? Come si fa a sopravvivere senza immaginarsi una vita migliore e ritenerla possibile?
Okay, adesso calmati, Darren Thomson. Si disse Non credi, ed allora? Sei qui ormai. Lo sapevi che ci saresti finito. Stanotte non hai dormito per questo. Calmati. Tu sei pronto, chiaro? Sei dannatamente pronto. Hai preso dieci nell’allenamento. Dieci. Nessuno ha preso più di te. E poi sei istintivo. L’istinto è sempre l’arma migliore.
Il monologo di auto-incitamento proseguì sotto gli occhi di un inconsapevole Stephan.
Questo lo fissava in silenzio, guardando con freddezza i muscoli del ragazzo contrarsi nel vano tentativo di stare calmo.

Ed eccolo lì, Darren Thomson.
Diciassette anni, corporatura abbastanza muscolosa. Capelli neri, ricci. Occhi azzurro ghiaccio da poter gelare chiunque con lo sguardo.
Seduto su un divanetto a tenersi la testa fra le mani.
Stanco.
Frustrato.
Impaurito.
L’ultima volta che era successo era stato anche determinato.
Si. C’era stato anche quell’aggettivo, un tempo. Determinato. Ma erano successe troppe cose nell’arco di pochi giorni.
Tutto era cambiato.
 Il mondo s’era capovolto una, due, tre volte. C’era stata Mallory. Mallory ed il suo bacio. Poi Hamal, ed il ragazzò grasso. C’era stata la Label, c’era stato Jamie.
Ma più di tutti, c’era stata Lenore. Lenore che aveva capovolto la frittata. Lenore che aveva appena conosciuto. Lenore, che aveva promesso d’uccidere se fosse stata d’intralcio. Una, due volte.
Eri già una creatura di ghiaccio anche prima. Lei era solo una tua simile. Disse una vocina all’interno della sua testa.
<< Tre minuti Darren >>
La voce di Stephan interruppe di nuovo il filo dei suoi pensieri.
Merda. Merda, merda.
Merda!
Ad un passo dall’arena, molti tributi cadono nel panico. Stephan ne aveva visti tanti scoppiare in singhiozzi, cominciare ad urlare di frustrazione. Altri erano semplicemente rimasti zitti a sudar freddo. Alcuni avevano lasciato che i loro occhi parlassero al posto loro, dimostrando un attaccamento alla vita tipico di chiunque.
E lui era sempre stato lì.
Offrire parole rassicuranti, pacche sulle spalle. Stringere le mani.
Menzogne, illusioni di protezione che sarebbero svanite di li a breve. Forse era quello, dopotutto, il vero lavoro dello stilista. Creare una rete di finzione attorno ad ogni tributo, circondarlo di un velo provvisorio.
Donargli una maschera, nonostante questa sarebbe caduta in frantumi poco dopo.
Per Darren non era stato così, s’accorse Stephan.
Per Darren era bastato uno sguardo, per capire con che vestiti accompagnarlo.
Per Darren erano bastate due parole, per sapere cosa offrire al pubblico.
Quella di Darren non era stata una maschera.
No, a lui lo stilista aveva fatto il lavoro opposto. Aveva abbassato quelle pareti di ghiaccio che il ragazzo aveva pitturato da sé, mostrando il vero Darren.
Lupo solitario che aveva tutto il diritto di sentirsi sicuro di sé.
Lasciando che Capitol City, Panem, vedesse quanto forte ed istintivo lui fosse.
Panem lo sapeva.
Panem lo aveva capito ad uno sguardo.
Ma lui? Lui no.
Lui doveva ancora capirlo. E quello, quello, poteva farlo solo da solo.
Darren rimase immobile.
Darren nascose la testa fra le mani per impedire a Stephan di vedere qualsiasi espressione accompagnasse il suo volto.
Era la sua lotta interiore.
Era la sua guerra per acquistare fiducia in sé stesso.
Era lui che se la sarebbe vista con il panico.
Stephan allora non proferì parola, conscio del fatto che quella, come l’arena, era una faccenda del tributo. Un tributo che non aveva chiesto aiuto.
Vuole solo dimenticarsi di te, bastardo.
Grida e sussurri echeggiavano nella testa di Darren
Facci il favore di non tornare.
Solo un bastardo.
Sei come gli altri.
Bastardo.
Dovresti sperare di finire agli Hunger Games.
Sperare. Sperare.

Ehi Darren, tu puoi vincere. Devi solo volerlo.
Devi solo volerlo.
Ma lo voglio?
A volte si passa una vita a tentare di cambiare.
A volte ogni giorno viene speso a promettere a noi stessi che, un domani, saremo diversi da quelli che siamo ora e che eravamo ieri. Ma a volte, quando il destino è parecchio in vena d’ironia, è solo ricordando chi siamo che sappiamo andare avanti.
E Darren aveva promesso a sé stesso che sarebbe tornato. Tornato per sbatterlo in faccia al suo patrigno, a Joshua. Tornato per avere una vita migliore, in cui non sarebbe dovuto uscire di casa alle festività, per lasciare che i suoi coinquilini fingessero di essere una famiglia felice.
Ed era questo, Darren.
Un ragazzo pieno di rabbia repressa, eppure pronto ad accogliere il prossimo.
Il paradosso fatto a persona.
E quando Stephan vide la sua testa alzarsi, e gli occhi azzurri puntati nei suoi, seppe che, seppure piccola, una battaglia era stava vinta dal ragazzo.
<< Trenta secondi >> Annunciò una voce all’auto-parlante.
Stephan e Darren si guardarono in silenzio.
<< Creature diverse hanno sfilato sotto ai miei occhi, ragazzo >> Disse lo stilista << Nessuna di queste aveva tante possibilità di vittoria quante ne hai tu. >> Il ragazzo annuì, alzandosi in piedi. Si strinsero la mano, senza pronunciare parola.
Era tardi per fingere che siamo amici.
<< Dieci secondi >> La voce proruppe dall’auto-parlante. Darren entrò nell’ascensore metallico, guardandosi attorno con apprensione.
<< Tre, due, uno >>
Il ragazzo scomparì gradualmente dalla vista dello stilista.
Lui rimase in silenzio, nella saletta vuota.
Una voce metallica, esterna a quel luogo, cominciò il conto alla rovescia.
Stephan sospirò, scoprendo un tavolino di vetro con tanto di rose, proprio lì. Curioso che non l’avesse notato prima. Le rose erano di uno stravagante colore azzurro, chiaro.
Ibridi di Capitol City, poco ma sicuro.
Eppure avevano qualcosa.
Come se si protendessero verso il cielo, lontano da quella terra. Lontane da quel suolo. Ne colse con delicatezza una. Si avviò ad aprire un armadio in una stanzetta vicina. Lì, un completo bianco capeggiava, tenuto accuratamente. Lo stilista sorrise, tendendo appena l’orecchio verso il conto alla rovescia, la fuori. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo.
Sapeva che era sciocco, da irresponsabili, creare da subito l’abito per la grande serata della vittoria di un tributo che non aveva nemmeno cominciato a giocare.
Non era una cosa che era abituato a fare ma, ripensando a Darren, ai suoi modi di fare ed alle sue parole, sentì che era stata la scelta più gusta, accelerare i tempi per un vestito. Sentiva qualcosa, Stephan.
Aveva un presentimento, su quel tributo.
Posizionò la rosa nel taschino del completo.
Lì, azzurra per Capitol City, questa si protendeva verso il cielo.
<< Sai, io non penso che l’Arena per quel ragazzo sarà uno scontro con altri tributi >> La Label comparve alle sue spalle, rigida come sempre. Stephan non si sentì sorpreso, a vederla lì. Più volte negli anni passati lei aveva raggiunto lui nelle “stanze d’attesa” prima dell’arena. Probabilmente era il suo unico modo per evitare di guardare alla tv qualcosa che aveva già predetto nel momento della mietitura.
<< Io penso che sarà più un braccio di ferro tra la sua pietà e la sua impulsività >> Continuò la mentore. Lo stilista annuì appena, senza nemmeno voltarsi. Continuando ad ammirare il completo.
<< Lo sai Stephan, no? Quel ragazzo è uno di quelli che potrebbero vincere, se solo si dimenticassero i buoni propositi >>
<< Vincerà >> Sussurrò lo stilista << è troppo stupido per morire >> Aggiunse, chiudendo le ante dell’armadio, nascondendo il completo ad occhi altrui.
Sicuro che, tempo due, tre settimane,  le avrebbe riaperte.


Inconsapevole di questo, un tributo scattò al suono del gong. Inconsapevole di questo, un tributo cominciò a correre, per l’arena cosparsa di pericoli.

Ehi, Darren, solo, non lasciare che l’istinto abbia la meglio.


Qualche ora dopo
Quella brezza fredda pungeva il viso, arrossando le guance.
Un tenue sibilo s’innalzava di tanto in tanto, quando l’aria sfilava sfrusciando sui grossi ed imponenti massi di ghiaccio. Tutto era bianco o grigio, nell’arena. Il cielo perdeva il colore azzurro di cui il giorno si vanta secondo dopo secondo.
La luce del sole batteva a terra grigia, fastidiosa agli occhi umani. Il terreno era ghiacciato, ma abbastanza compatto da non risultare scivoloso, ad eccezione di pochi e pericolosi punti. Il silenzio vigilava come una sentinella sporadica, a tratti sveglia ed a tratti interrotta dai passi. Passi che s’univano al coro del vento sibilante nel ruolo di percussioni. Passi affrettati. Passi di chi corre alla cieca senza sapere dove andare o casa fare.
Darren sentiva il proprio respiro farsi più pesante, via via che s’allontanava dalla curnocopia. Il gelo gli pungeva la testa, il viso scoperto. I guanti di pelle nera tenevano al caldo le sue mani e gli stivali proteggevano i piedi abbastanza da non permettere alle dita di gelare.
Gli indumenti neri, dannatamente neri, erano meno pesanti di quanto chiunque si sarebbe aspettato. Non erano ingombri, non impacciavano i movimenti del ragazzo. Tuttavia preservavano il calore del corpo, evitando alla brezza gelida di infilarsi tra loro e la sua pelle.
Darren correva.
Era sicuro di essere abbastanza veloce, era sicuro di aver lasciato alle spalle tutto e tutti. I favoriti, alcuni doni allettanti. I cadaveri stesi a terra, pennelli tramite i quali Capitol City colorava gli Hunger Games di rosso. Darren poteva richiamare alla mente la fugace prospettiva che aveva avuto di quei dieci tributi caduti tutt’attorno alla curnocopia. Poteva rivederli bianchi quasi come quell’arena, così dannatamente fredda.
Poteva vedere il sangue fuoriuscire da loro, farsi spazio tra la carne che via via diventava più gelida. Poteva richiamare quel colore scuro, così intenso, nella sua testa. Poteva farsi appello ad esso, per ricordarsi che al mondo esistevano altri colori che non fossero il nero, il bianco ed il grigio.
E poteva inorridire ancora una volta davanti a quella scena, poteva fremere e mordersi le labbra per impedire a sé stesso di urlare.
Forse stava scappando più da quella visione che dagli altri tributi, lui. Forse correva per scaricare l’adrenalina e smaltire il panico.
Forse.
Fermati. Gli sussurrò una vocina nella sua testa Cerca un posto dove nasconderti per la notte.
Darren ubbidì, rallentando progressivamente. Si ritrovò a camminare, aguzzando la vista attorno a sé.
Sentiva sulle proprie spalle il peso della sacca, appesantita poiché contenente la sua arma.
Quando ci aveva pensato, Darren, aveva ritenuto che se avesse visto una spada nell’arena, o magari un’ascia od un martello, avrebbe dovuto correre il doppio perché quell’arma sarebbe dovuta essere sua. Eppure, all’interno della curnocopia non aveva trovato l’ombra di una lama pesante.
O almeno, l’aveva vista ma qualcuno l’aveva preceduto. Così, aveva preso la prima cosa che gli era capitata in mano, troppo preoccupato a ripercorrere al contrario la strada verso l’esterno, per evitare di finire con la testa staccata dal corpo. Non si era preso il tempo di guardare ma quando, lontano dalla curnocopia, aveva cominciato a pensare aveva capito.
Guanti.
No. Non semplici guanti.
Guanti con placchette di ferro alle nocche, a mezze dita. Abbastanza larghi da poter essere indossati senza difficoltà sopra a quelli di pelle che già il ragazzo possedeva. Non erano una spada, ma Darren si sentì in qualche modo protetto dalla loro presenza.
Si fermò in prossimità di una cavità, quasi una grotta, tra una parete di ghiaccio e il terreno freddo. Non era molto larga, quasi una cuccetta in cui il ragazzo si sarebbe dovuto rannicchiare per poter starci all’interno. Inoltre era alta poco meno di un metro, impossibile stare al suo interno in piedi. Era un ottimo spazio, avrebbe nascosto bene la sua figura ed inoltre era un buon riparo dal vento.
Darren si sedette vicino, con la schiena appoggiata al ghiaccio, riprendendo fiato. Sospirò, ringraziando il cielo per il colore della sua sacca, chiara, facile da mimetizzare a differenza dei suoi indumenti.
Non sapeva cosa fare, ora.
Aveva visto così tante arene alla televisione che, meccanicamente, avrebbe dovuto averne una vaga idea. Ma non era così. Semplicemente, non sapeva cos’avrebbe fatto l’indomani, o quando si fosse trovato faccia a faccia con un altro tributo.
Magari un bambino, magari quel ragazzo grasso.
Li avrebbe uccisi a suon di pugni? Sarebbe scappato, come un vigliacco? Il suono di un cannone lo fece sussultare, rompendo il silenzio che era l’arena e scomparendo immediatamente, senza lasciare nessuna prova, nessun eco, che dimostrasse il suo manifestarsi nell’aria.
Era l’undicesimo.
Dieci morti nel bagno di sangue iniziale ed uno a distanza di quanto? Una, forse due ore. Il ragazzo rivolse uno sguardo al cielo, sempre più cupo. Era nell’arena.
Più tardi, quando il vento s’alzò pericolosamente, Darren si nascose nella cavità, rannicchiandosi per mantenere un po’ di calore corporeo.
Sorprese sé stesso, scoprendosi a pensare a Mallory.
Cavolo, Mallory. Chissà se era viva, nell’altra arena.
Forse aveva fatto squadra con Jamie, anche se il ragazzo ne dubitava. Nemmeno un disperato si sarebbe mai voluto alleare con quella vipera. Forse era riuscita a scappare, forse non s’era nemmeno addentrata nella curnocopia.
Si, forse era ancora viva.

Le mani scivolavano sudate ad asciugarsi sul completo nero, tentando invano di mascherare l’agitazione del loro proprietario.
Stephan aveva passato tutta l’ora precedente a rimproverarlo, per questo.
<< Non rovinare il mio capolavoro solo perché sei un po’ agitato, idiota >> Era particolarmente irritabile quella sera.
<< Capolavoro? >> Aveva risposto a tono il ragazzo << Tu mi hai trasformato in un pinguino >>
Odiava quel vestito nero, quell’aria fintamente disordinata che Stephan gli aveva procurato.
Non lo sapeva, quel pazzo del suo stilista, che i ragazzi in genere evitano di mettersi il gel fra i capelli? Considerazione stupida, dato il fatto che il suolo sotto i loro piedi era quello di Capitol City.
<< Io ti trovo molto bene >> Aveva detto una voce timida, alle spalle del ragazzo.
Ancor prima di voltarsi Darren aveva potuto sospettare ciò che i suoi occhi avrebbero incontrato.
Glielo aveva detto la voce di Mallory, ancor più tenue ed imbarazzata del solito.
Glielo diceva il viso del suo stilista, con la bocca spalancata ed uno sguardo di stupore tipico di chi ha visto una bella donna.
Quando Darren si girò le sue supposizioni andarono a farsi benedire con tanto di saluto. Perché Mallory non era una bella donna, quella sera.
Mallory era una dea.
Il vestito che indossava era verde smeraldo, con una scollatura a v.
Inutile dire che evidenziava quelle curve di cui Darren aveva sempre ignorato l’esistenza.
Cadeva leggero sul corpo magro, aprendosi appena all’altezza delle ginocchia per mostrare le gambe. I capelli di lei erano stati acconciati dietro alla testa in una crocchia da cui cadevano accuratamente un paio di ciuffi, le labbra sottili messe in risalto e gli occhi circondati da matita nera le donavano un aspetto divino.
<< Anch’io ti trovo molto… Bene >> Sillabò Darren, riprendendosi appena dallo stupore iniziale. Alle sue spalle, come un uomo a cui hanno tagliato la lingua, Stephan annuì
<< Cioè, voglio dire >> Riprese il tributo << Sei davvero bella, stasera >> E, di nuovo, lo stilista annuì ammutolito.
Mallory arrossì visibilmente, spostandosi una ciocca di capelli dietro alla testa e mordendosi il labbro.
<< Veramente volevo parlarti di una cosa, sai.. >> Lanciò un’occhiata fugace a Stephan.
Darren annuì << Ma certo >> Sorrise. Stephan non sembrava intenzionato a muoversi. Aveva gli occhi attaccati a quelli di una Mallory che evidentemente lo voleva via.
Darren ci mise un secondo a capire che il suo stilista stava facendo di tutto per non abbassare lo sguardo fino alla scollatura.
Gli rifilò una gomitata potente, facendolo gemere << Stephan, va via >> Disse, scoprendo che, effettivamente, l’impresa dell’altro non era poi cosa facile. Lo stilista se ne andò mugugnando un saluto.
<< Allora >> Domandò Darren << Di che volevi parlarmi? >>
<< Ad essere sincera volevo ringraziarti.. >> Lo sguardo di Mallory s’incollò teneramente al pavimento. Quella sua espressione in viso, quei suoi modi di fare così carini, stonavano terribilmente con l’immagine sexy che qualcuno le aveva affibbiato.
<< Intendi per la palestra? Non ti devi preoccupare per.. >>
<< Non intendevo per quello >> Mormorò la ragazza.
Alzò timidamente lo sguardo fino agli occhi azzurri di lui.
Sembrava costarle una fatica tremenda, guardarlo.
Ma Darren non gliene fece una colpa. In tanti spesso evitavano i suoi occhi così chiari e freddi, non era uno sguardo semplice da sostenere, il suo.
Tutto merito dell’eredità.
<< Mi sono resa conto che non ti ho mai ringraziato per.. L’incendio, di qualche anno fa. Nessuno sarebbe entrato in quella casa, non per me. E poi sei arrivato tu e… Non ti ho mai ringraziato per questo. Lo ha fatto tutto il distretto ed io.. Io lo faccio adesso. Grazie >> Il ragazzo non seppe che dire.
Rimase in silenzio, passando lo sguardo da un punto morto ai suoi occhi. Si accorse più tardi della vicinanza di Mallory. Della pericolosa vicinanz. Sempre, sempre, più vicina. Il bacio che seguì fu di Mallory. Mallory s’alzò in punta di piedi ed appoggiò le proprie labbra sulle sue,
Mallory rimase li, qualche secondo. E lui restò fermo, basito. Aveva visto quella ragazza in tanti modi. Un’amica, una bambina spaventata, un tributo dannatamente timido… Ma mai, mai, l’aveva vista come una ragazza sexy da stringere a sé.
Era come avere a che fare con un alieno, un clone.
La bocca di Darren s’aprì appena dallo stupore. Il sapore di lei gli inondò le papille gustative e quel tenue, casto bacio si trasformò in qualcos’altro. Qualcosa di meno puro ed innocente. Le loro lingue cominciarono a giocare, danzare, fra di loro.
Si rincorrevano, si lasciavano.
Una parte della testa del ragazzo cominciò ad urlare. Sbraitava contro il ragazzo, contro ciò che stava accadendo.
Ma il sapore di Mallory soppresse quelle strilla, soffocandole man mano.
I due si fecero così vicini da essere l’uno spalmato sull’altro.
Mallory affondò le mani nei capelli di lui. Darren spinse i loro bacini ad avvicinarsi pericolosamente.
E per secondi, o forse minuti, il mondo si tinse di verde smeraldo.
C’era solo Mallory. Il suo fisico esile, il calore del suo corpo, il sapore delle sue labbra.
Ed ogni singolo gesto che i due ragazzi fecero fu solo all’insegna dell’istinto, dell’ essere sempre più vicini. Ed era bello, era liberatorio. Qualcosa di automatico, qualcosa che non richiedeva la presenza dei pensieri. Che il mondo bruciasse, mentre loro due erano lì.
Non avrebbe avuto importanza.
La mente di Darren era piena di Mallory, inebriata. Del suo fisico, dei suoi occhi.
Accidenti, era un ragazzo che si sarebbe trovato in pericolo di morte solo la mattina dopo. Era un tributo, un diciassettenne condannato a morire. Avrebbe visto cadaveri e più sangue di quando entrava, da piccolo, dal macellaio.
E Mallory lo stesso..
Perché no? Si domandò Darren, in un attimo di lucidità. Erano lì, in due, messi in tiro per l’inferno.
Perché non baciarsi, allora? Perché non trasgredire questa unica tacita regola? Nessuno avrebbe potuto dire nulla, dopotutto. Stava andando verso la morte e Mallory era lì, bella come non era mai stata.

Perché fermarsi? La risposta arrivò immediatamente, senza nemmeno farlo aspettare. La verità era che Mallory adorava Darren da tanto tempo, e forse una parte del ragazzo lo sapeva, dopotutto.
Lo ammirava, lei.
Forse lo amava, anche.
E quello era un attimo che probabilmente aspettava già da troppo tempo.
Ma Darren… Darren no. Darren non ricambiava. Darren non l’amava. Desiderare un corpo è una cosa atrocemente diversa. Come lo è volere bene a qualcuno. Non è amare. Puoi unire il voler bene al desiderio fisico, ma non sarà nemmeno lontanamente simile all'amare. E Darren non era in condizione di provare un tale sentimento, ora. << Scusami >> Sussurrò, voltandosi, uscendo dalla stanza.


<< Lo hai visto, Darren? Sei capace di voltare le spalle a qualcuno, dopotutto >>
 
Silenzio. C’era così tanto silenzio, ora. Silenzio e freddo.
La sera andava calando, il buio s’impadroniva pian piano del territorio. Darren avvertiva chiaramente uno sbalzo di temperatura notevole, per essere le prime ore della sera. Sospirò, sicuro che la notte avrebbe dovuto coprirsi per bene, per evitare a sé stesso il congelamento.
Chissà a cosa poteva portarlo una bassa temperatura. Dalle scorse edizioni ne aveva una vaga idea. Insomma, un anno undici tributi su quindici restanti erano morti in posizione di feto, durante la notte, in mezzo alla neve. Se possibile, Darren si trovò ancora più sfortunato.
Almeno, in quella scorsa edizione, non c’era stato tutto quel ghiaccio. Sospirò. Doveva aver letto da qualche parte che quando la temperatura scendeva oltre i trenta gradi sotto zero, circa, le funzioni del corpo s’alteravano e le cellule non producevano più energia.
Rabbrividì.
Poi c’era l’ipotermia. Piuttosto plausibile, dopotutto, soprattutto lì.      
Scacciò quei pensieri.
Gli indumenti che indossava erano caldi, avrebbero preservato caldo a sufficienza. O almeno così sperava. Sfruttò gli ultimi minuti di luce per aprire la sua sacca bianca, alla ricerca di qualcosa di utile. Ravanò nella tasca esterna, trovando una borraccia vuota ed un pacchetto di radici.
Represse un moto di rabbia.
Costava tanto una confezione di gallette? Nella tasca più piccola trovò una corda che aveva tutta l’aria di essere abbastanza resistente ed un piccolo cuscinetto. Lo girò fra le mani, alla ricerca di un suo utilizzo pratico. Era largo circa undici centimetri. Non era nemmeno morbido. 
S’arrese, rimettendolo nella sacca. Il buio s’impadronì dell’Arena poco dopo. Darren si nascose nella cavità, rannicchiandosi su sé stesso.
Quando le tenebre calarono, il cielo di Capitol City s’illuminò del sigillo di Panem.
Undici facce viste nei giorni precedenti illuminarono l’Arena. Darren trovò ironici quei loro sorrisi stampati in faccia. A parte questo, si costrinse a memorizzare chi fossero i morti del primo giorno. I due del cinque ed i due del sette. Sconosciuti che sicuramente erano morti sotto i colpi dei favoriti.
I loro visi sparirono nel cielo con la stessa rapidità di una stella cometa.
Che ironia.
Come se fossero stati davvero stelle, per Capitol City, e non carne da macello etichettata con il sigillo di Panem.
La ragazza del tre sfoggiava una grande dentatura pulita, nella foto che la riprese. Inutile tentare di ricordarsi i loro nomi, Darren li aveva già fuori dalla sua testa. Poi ci furono i ragazzi del sei e dell’otto, immortalati in smorfie alquanto buffe. Chissà quanto ridevano dalle loro facce, i favoriti. Un’ altra ragazza del nove. Darren rimase a bocca aperta quando vide in cielo il volto della sua compagna di distretto… Maggy, Megan.. Lacey!
Se la ricordava, Lacey. Eccentrica e spaventata a morte dagli Hunger Games.
Doveva aver preso qualcosa come sette alla sessione privata. Sapeva solo questo di lei. Apparino infine i visi, smunti, della ragazza del dodici e del ragazzo dell’undici. Ecco fatto. Intatti restavano solo i distretti numero uno, due e quattro. Il ragazzo richiamò alla mente i loro visi ed il loro punteggio alle sessioni, mentre il sigillo di Panem svaniva nel cielo stellato.
Fu proprio quel cielo che, più tardi, il ragazzo ammirava attentamente. Era alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, che suonasse famigliare. Non trovò nulla. Non una stella nota, non una costellazione conosciuta.
Alla fine riabbassò lo sguardo sull’arena, consapevole che non c’era nulla che somigliasse al distretto dieci, qui. Fu la prima volta in cui quasi desiderò di poter rivedere il cielo del distretto dieci.
Ma quella era terra straniera e quel cielo gli era ignoto.
Durante la notte la temperatura scese pericolosamente sotto ai venti sotto zero, ma probabilmente era mille volte peggio.
O almeno, Darren ne era quasi certo. In ogni caso, era brutto.
Molto, molto brutto.
Se la prima notte c’era una simile temperatura, di lì a qualche giorno sarebbe stato ancora peggio. E Darren sapeva che bastavano cinque gradi di meno a farlo morire per assideramento, o almeno a far cominciare tal processo.
Si strinse nella sua tuta, ringraziando il cielo fosse così straordinariamente calda. Abbastanza da impedirgli di gelare. Scoprì di non riuscire a dormire. Scoprì sé stesso rigido, teso nello sforzo di ascoltare oltre il sibilo del vento nell'arena. Scoprì di non voler chiudere gli occhi, sebbene il buio dell’Arena rimanesse impenetrabile. Alla fine desiderò soltanto che il giorno giungesse in fretta, alzando quella dannata temperatura.
Dopo un’ora di veglia scoprì che, da qualche parte, il sonno c’era, ma una parte di lui lo stava deliberatamente ignorando. Scese a patti con sé stendo, tastando nella cavità fino a trovare la superfice dei guanti da combattimento. Li indossò.
Così nel momento stesso in cui mi svegliassi e fossi in pericolo sarò pronto a combattere. Ora però devo dormire. Assolutamente. E fu così che Darren Thomson chiuse gli occhi, nel silenzio di un’arena desolata.
La sorte, e questo era certo, non aveva giocato a suo favore.

Si svegliò al rumore di un battere lento sul ghiaccio.
Non, non era un battere, più qualcosa che schiacciava lievemente il terreno, accuratamente piano. Aprì appena gli occhi, sbattendo cautamente le palpebre. La luce accecante del sole lo costrinse a chiuderli immediatamente.
Rimase immobile, tendendo le orecchie e ritentando vagamente ad aprire gli occhi. Quello che vide non gli piacque affatto. Una ragazza era china verso di lui, immobile nello sforzo di non fare rumore, con un coltello seghettato fra le mani teso verso il suo collo.
Bastò che Darren riaprisse gli occhi.
Si guardarono un istante. E fu un errore, per quella ragazza. Evidentemente aveva sperato che lui continuasse a dormire. Evidentemente aveva pregato di ucciderlo nel sonno perché, un tributo maschio da sveglio, aveva ragione di spaventarla.
Darren scattò.
Quando si è creature istintive non importa se si sia in svantaggio. Non ci si concede il tempo di pensare, o di avere paura. O di considerare che l’avversario ha un’arma da taglio quando tu invece hai cosa? Un paio di guanti con tanto di ferro? Darren si trascinò appena fuori dalla cavità nel momento in cui lei, evidentemente indecisa tra lo scappare ed il rimanere lì ad ammazzarlo, sceglieva la seconda opzione.
Il movimento con cui cercò di colpirlo fu sbagliato, da principiante. Si allungò, spostando il peso del proprio corpo verso la cavità e protendendo il coltello per.. Infilzarlo? Comunque bastò una presa veloce del ragazzo, che ancora sdraiato le afferrò il braccio e glielo storse, e lei perse la sua arma.
La ragazza rantolò indietro, cadendo seduta. Mentre Darren usciva trafelato della cavità, impossibilitato ancora ad alzarsi, lei si rimetteva in piedi a tentoni. Corse, la ragazza. Corse e lanciò un grido. L’urlo vibrò fra le pareti di ghiaccio, suonando distintamente nel silenzio mattutino dell’Arena.
Impossibile non sentirlo.
<< Jason! >> Merda. Jason era un favorito. Lei stava coi favoriti. I favoriti dovevano essere lì vicini.
Darren sentì l’urgenza farsi largo in quella situazione. Corse verso di lei, mosso da un impeto di panico. La raggiunse prima che riuscisse a gridare di nuovo.
La gettò a terra con forza bruta, cadendole sopra. I corpi caddero sul terreno freddo con un tonfo ben udibile. Darren tappò frettolosamente la bocca di lei con una mano e con l’altra caricò il pugno. Questa si divincolò sotto alla sua presa. Estrasse un coltello da chissà quale tasca.
Prima che lui potesse fare qualsiasi cosa lo brandì contro il suo volto, solcandogli la guancia ed evitando di grazia un occhio. Darren spostò vagamente il peso di lato, sotto alla furia del colpo, e tanto le bastò per strisciare via, sfuggendo alla sua presa
<< Jason >> Gridò di nuovo la ragazza, nel silenzio dell’arena, alzandosi faticosamente in piedi, cercando di correre via. << Jason >>
Darren sentì il panico attraversarlo, mentre realizzava che, nel momento in cui i favoriti l’avessero raggiunto, sarebbe stata la fine. Doveva ucciderla immediatamente. Frettolosamente, quando ormai gli occhi s’erano abituati alla superficie scintillante del ghiaccio alla luce del sole, s’alzò a tentoni, ignorando deliberatamente la ferita.
Non c’era tempo, doveva ammazzarla subito.
Fiotti di sangue gli cadevano sull’occhio, laddove il taglio era andato appena sotto alle sopracciglia. Il ragazzo si pulì con il dorso della mano, ma il sangue riprese a sgorgare. Decide di ignorarlo, per quanto gli costasse fatica.
Riuscì a raggiungere l’altra di nuovo, correndo, parecchi metri più in là. La sbattè a terra e si assicurò di bloccarle le braccia con il peso del suo corpo. Lei si divincolò di nuovo, agitò la testa. Tentò di gridare. Il silenzio del mondo era interrotto dai loro respiri affannati.
L’arena contemplava silenziosa quell’imminente massacro. Senza muovere un dito, senza dar segno di vedere.
Darren caricò la mano guantata, pronto.
<< Ti prego, non uccidermi >> Pianse lei, vedendo quel pugno pronto a colpire << Ti prego, ti prego >>
Darren vide chiaramente la paura nei suoi occhi. La paura della preda afferrata dal cacciatore. La vide, lui,a riconobbe.
Ma nemmeno questo lo fermò.
Un tonfo.
Un altro.
Gocce di sangue schizzarono sul viso di Darren. Lui caricò un altro pugno. Un altro colpo s’assestò sul viso di lei.
I guanti di lui entrarono in collisione con il viso della ragazza.
Un colpo.
Scricchiolare di ossa, mutamento delle loro postazioni.
Un altro.
Sangue, movimenti sconnessi e privi di vita.
Ancora, ancora.
Non si fermava, Darren.
Caricava pugni su pugni, aiutato dai guanti che portava. E non importava se la ragazza sotto di lui aveva perso conoscenza.
Non importava se la ragazza sotto di lui aveva perso segni vitali.
Non importava quanto sangue avesse sporcato il suo viso, i guanti di lui o il terreno bianco, sotto di loro.
La ragazza sconosciuta perse la vita sotto i colpi di un tributo che non aveva ancora trovato il tempo per fermarsi, pensare.
E Darren andò avanti, mosso da cieca follia. Istinti di rabbia pazza. Un pugno, un altro.
Anche dopo aver sfigurato il suo viso. Anche dopo averla resa irriconoscibile.
Un ammasso di ossa storte, rotte. Di carne, di sangue. Occhi le cui orbite erano state rotte. E Darren provò repulsione per quel viso. Quel viso che era diventato impossibile da guardare, quel viso contorto, privo di vita.
Ed allora lo colpì di nuovo, in un moto di rabbia. Ancora, ancora.
Devi correre via, loro potrebbero avere sentito. I favoriti potrebbero essere qui
Sussurrò una vocina dentro alla sua testa. Lui non l’ascoltò. Non importava.
Ti uccideranno Darren! Fermati! Lei è morta. Lei è morta Niente. Darren non sentiva ragione.
Darren era sordo a sé stesso.
Darren, Melissa ti sta guardando ora. Il ragazzo si staccò dal cadavere in un moto di repulsione, scattando in piedi.
Ecco fatto, aveva ucciso il suo primo tributo. Un colpo di cannone vibrò nell’aria, segnalando la morte della ragazza.
Lui la guardò per un istante. Non era la morte in sé, a farlo inorridire. Era come l’aveva uccisa. Quando si possiede un arco, una spada, non si è mai faccia a faccia con un simile spettacolo.
Non si vedono mai gocce di sangue sulle proprie mani.
Non si guarda mai un cadavere irriconoscibile. Perché il viso di lei, ora, era sfigurato. Un ammasso confuso di carne ed ossa.
Nient’altro che uno shangai caduto, disordinato. Solo, sporco di cervella e sangue. Troppo sangue.
Solo guardandolo attentamente, riassociandolo a quando, poco prima, lei era viva, Darren capì chi aveva appena ucciso.
Tributo femmina del quattro, dallo stesso distretto di Lenore.
Rosemary era morta piangendo e chiedendo pietà.
Vattene via, ora. Avanti. Il ragazzo voltò le spalle al cadavere. Raccolse il coltello seghettato con cui, pochi istanti – o minuti ?- prima era stato ferito.
Se lo infilò in una tasca, sicuro che sarebbe potuto tornare utile.
Raggiunse la cavità nella roccia, dove aveva dormito.
Non si diede tempo. Afferrò la sacca e l’altro coltello appartenuto a quella che ora era un cadavere, s’assicurò di non star abbandonando nulla e corse via. Lontano da lì. Lontano da un nuovo pennello tinto di rosso, che già decorava la tela bianca.
 
Benvenuto nell’Arena, Darren Thomson.

Angolo wani:
Questo capitolo, come al solito, non mi piace. Alcune parti sono state scritte frettolosamente, altre buttate giù in malomodo.
iedo scusa, davvero.
Spero che, almeno, qualcosa possa esservi piaciuto!
La morte di Rosemary è stata scritta cinque volte prima di essere stata buttata giù appena appena decentemente!
V ringrazio per la lettura!!!
Wani







 

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Capitolo 10
*** La natura di un predatore ***


La natura di un predatore

Come un esercito, si cade
uno ad uno
(Linkin Park, In my remains)

Corri.
Le gambe di Lenore stavano obbedendo già prima che quell'ordine fosse impartito.
Correva senza sapere di correre; respirava senza sapere di respirare; sentiva nelle orecchie il battito accelerato del suo cuore senza sapere di averlo ancora, un cuore. Puntava dritta verso la Cornucopia, dove la attendevano armi, provviste, possibilità.
Corri.
I primi zaini si stavano avvicinando, o lei si avvicinava a loro, ma non le interessavano. Era quello che c'era più avanti, che doveva conquistare. Il filo tagliente della lama di una spada le sorrideva da lontano, lì nella bocca della Cornucopia. Lenore ebbe la tentazione di ricambiare, ma non aveva più una bocca per sorridere. Quello che in lei contava erano solo le gambe, in movimento verso l'obbiettivo. Era al di là del sentire, al di là del pensare, al di là del vedere, al di là dell'udire. Sorda, muta, cieca. Inconsapevole, ignara... Incontrollabile.
Corri.
E all'improvviso qualcosa decise di mettersi fra lei e l'arrivo. La attaccò da dietro, quel contrattempo codardo, uno strano modo di tentare il sorpasso.
Ma appena sentì quella freddezza metallica premere con dolorosa insistenza alla base del suo collo capì che nessuno voleva superarla.
Troppo lenta.
Qualcuno era già arrivato dove lei non era riuscita a giungere, per poi tornare indietro a finire chi non aveva corso abbastanza velocemente.
Per finire quelli come lei.
Era in trappola. Braccata appena pochi secondi dopo il suono del corno di caccia. Preda e non predatrice. Messa all'angolo da qualcosa che aveva braccia e armi, oltre a gambe e piedi.
Ma non era così che doveva essere. Il lupo non era fatto per essere ucciso dalla pecora.
Eppure la lama tagliò la carne della sua gola con un gemito di soddisfazione, prendendosi il nutrimento che le spettava, rubandole la vita. Penetrò a fondo. Ma non abbastanza. Non abbastanza per ucciderla.
E fu un errore fatale, per quell'assassino incapace.
La mano candida che reggeva il manico dell'arma era salita troppo in alto, troppo vicina a quella bocca che Lenore si era dimenticata di avere.
Mordi.
I denti affondarono nella carne cedevole, lottando contro la resistenza della pelle, fino a quando la ragazza non sentì un sapore salato e metallico che ricopriva, invadente, tutto il suo palato.
Il coltello cadde a terra con un rumore sordo, coperto totalmente dall'urlo di dolore che si mischiò a quello di molti altri, nell'aria.
Bastò un secco colpo al viso, con il gomito, perché poi il corpo del suo aggressore cadesse a terra, rantolando debolmente, stringendosi al petto la mano ferita e posando l'altra a fermare il sangue che usciva copioso dal naso quasi sicuramente rotto.
Ma a Lenore non bastava.
Raccolse il coltello e si voltò, lasciando che la rabbia facesse il proprio dovere.
Distinse il fragile corpo di una ragazza, i capelli neri come i suoi, le stesse rade efelidi che spuntavano sul suo naso quando il sole picchiava troppo forte... Ma gli occhi erano sbagliati. Troppo scuri, talmente tanto da sembrare vuoti, privi di espressione.
Perciò quella pallida somiglianza non bastò a fermarla. La lama calò verso il basso, precisa, priva di esitazioni.
Un solo colpo. Len non avrebbe sbagliato.
Un fiotto liquido le bagnò le guance e quando si passò le dita sulla pelle le ritirò rosse.
Rosse di esultanza, di soddisfazione, di vittoria...
Ed ecco che le cose tornavano al loro posto. Il lupo che finalmente apriva la sua caccia.
Lo sentite, il mio ululato?
Bastarono pochi rantoli perché la vita scivolasse via da quel corpo ormai inutile. Pochi secondi per riconoscere quella che era stata Lydia, del Distretto 3.
Fu strano, eppure così naturale, in quel momento, ripensare alla sua Stilista, a ciò che avrebbe detto vedendo quel corpo abbandonato a terra con tanta mostruosa grazia.
“Che spreco.” sussurrò. Sì, avrebbe detto proprio così, Sybil.
Travestile come vuoi, ma le pecore resteranno sempre pecore.
Lenore si voltò e non le ci volle poi molto per capire che non poteva correre di nuovo nella stessa direzione. Gli animali avevano seguito tutti il suo stesso istinto e la mischia si era formata proprio davanti alla bocca della Cornucopia, in un affascinante miscuglio di urla, ferite e colpevole soddisfazione. I predatori avevano già circondato le prede... Il sentore della paura di quegli animi braccati già si spandeva attorno a lei.
Troppo tardi.
Il sorriso della spada si era trasformato in un ghigno di scherno, di fronte alla consapevolezza che Lenore non l'avrebbe mai impugnata.
Fu un'altra mano, un altro animale, a toglierla dal suo posto, a profanare quell'arma che sarebbe dovuta essere solo sua.
E lei dovette accontentarsi di afferrare il primo zaino che le capitò fra le mani, il più grande fra quelli che aveva davanti a sé. Perché non poteva gettarsi in quel groviglio di corpi per rivendicare ciò che le apparteneva.
Il branco è più forte del lupo solitario.
Non poteva correre di nuovo nella stessa direzione, ma poteva correre comunque. Le gambe scattarono, portandola verso destra, cercando di allontanarsi il più possibile dal massacro. Cercando di mettersi al sicuro.
Tu corri, corri... Ma dove stai correndo, Lenore?
La ragazza si bloccò, rendendosi finalmente conto di che cosa la circondava.
La punta finale della coda della Cornucopia arrivava quasi a sfiorare il soffitto della grande grotta di forma vagamente circolare. Le poche lampade alogene concedevano solamente una luce fioca a quelle ombre che combattevano per la vita proprio lì sotto, bloccate da quell'unica parete curva, irregolare, fatta di fili di roccia tagliente che sembrava pericolosamente vicina a crollarsi addosso.
Una sola, grande sala. Nessuna via di fuga.
Ma non poteva essere tutto lì, pensò la ragazza, facendo vagare febbrilmente lo sguardo. Non potevano averli rinchiusi lì dentro.
Lenore non aveva possibilità, in quella grotta. Se ne rendeva conto da sola.
Lei aveva bisogno di acqua. E non solo per sopravvivere, ma anche per sentirsi viva. Per avere una forza che senza acqua non sarebbe durata in eterno.
Sapeva anche che il panico sarebbe arrivato presto se non avesse di nuovo respirato all'aria aperta, ma per quei pochi secondi di calma che ancora le rimanevano Lenore continuò a cercare un'uscita.
Quelle pareti, che in realtà erano fuse in una sola, sembrarono chiudersi su di lei, soffocandola, affogandola nel loro pulviscolo pietroso, ma fu proprio perché erano ormai così apparentemente vicine che riuscì a vederle per la prima volta nella loro interezza.
Ed eccole, finalmente, quelle fenditure che si nascondevano, traditrici, confondendosi nella penombra della sala, nei deboli giochi di quella luce artificiale.
Erano solo spaccature, larghe a malapena per un uomo. Lenore non sapeva se l'avrebbero portata veramente in superficie o se l'avrebbero gettata nelle viscere della terra, ma il solo pensiero di allontanarsi da lì, di scampare al massacro, la fece sentire talmente leggera da pensare di poter arrivare a battere la testa sul soffitto con un solo salto.
E per una volta correre ebbe un senso.
Scelse la strada più stretta che riuscì a distinguere, stretta a tal punto che fece non poca fatica ad infilarcisi dentro, facendo poi seguire lo zaino voluminoso.
Scelse proprio quella con la consapevolezza che nessuno di troppo pericoloso avrebbe mai avuto la possibilità di seguire la stessa via e continuò a spostarsi lentamente, di profilo, sentendo le braccia e la schiena graffiate incessantemente da quella roccia impietosa che cercava di trattenerla dentro di sé. Fu un'avanzata lenta, claustrofobica e sfibrante, tanto che Lenore credette veramente che non sarebbe uscita da quei corridoi stretti e che sarebbero passati giorni prima che la fame o la sete ponessero fine alle sue sofferenze, lasciando che il liberatorio colpo di cannone esplodesse per testimoniare a tutti la sua uscita di scena.
Ma poi l'oscurità divenne gradualmente penombra, e la penombra si trasformò alla fine in luce. Una luce solare talmente forte che la ragazza ne fu accecata, dopo quelle ore immersa nel buio più totale.
Bianco. Solo bianco, un bianco talmente puro da cancellare tutto il sangue e l'oscurità che lei si portava addosso da troppo tempo, da sempre...
C'era aria, intorno a lei, sopra di lei, dentro di lei... Aria fresca, ossigeno che arrivava al suo cervello facendola barcollare di vita.
Così rimase lì, cieca, a sentire quel ribelle refolo di vento che baciava la sua pelle accaldata, che accarezzava con dita gentili i graffi che la pietra le aveva crudelmente inferto.
Corri.
L'esortazione si propagò lungo la sua spina dorsale, con la violenza di una scarica elettrica, facendola sussultare di fronte a quella disperata urgenza.
Era un suicidio, certo, avanzare, senza vedere cosa la circondava. Ma era anche peggio rimanersene lì, ferma, ad aspettare, inerme, che qualcuno, o qualcosa, la trovasse.
Così corse, di nuovo. Senza sapere dove la stessero portando i suoi piedi, verso il vuoto di un burrone o verso l'ombra ristoratrice di un salice, con le sole mani sporte in avanti per non colpire qualcosa in quella febbrile fuga.
Corse più veloce che poteva, accelerando gradualmente fino a sentire i muscoli bruciare per lo sforzo prolungato.
Corse e inciampò, una, due, tre volte... Cadde battendo il mento a terra, fermando la caduta con ginocchia e palmi, sbucciandoseli immancabilmente ogni singola volta. E ogni singola volta si rialzò con più fretta, spazzando via i sassolini che si conficcavano nella carne arrossata e rimettendosi in moto, senza badare all'umiliazione di trovarsi faccia a terra davanti a se stessa.
Quel bianco che prima l'aveva avvolta con tanta benevola freschezza si trasformò velocemente nel rosso di un sole che batteva, insistente, contro le palpebre serrate.
Rosso, di nuovo...
Troppo chiaro per ricordarle una ferita.
Abbastanza scuro per ricordarle che poteva diventarlo.
E tutto scivolò via di nuovo, pensieri, ragionamenti, paure... rimase solo l'istinto, fedele compagno di viaggio, e il suo corpo, pronto ad obbedire ai suoi ordini muti.
Socchiuse lentamente le palpebre, cercando di mettere a fuoco l'ambiente circostante.
Il profilo decadente delle montagne di macerie che la circondavano si dipanò in fretta davanti ai suoi occhi. Calcinacci, intere lastre di cemento, strutture in ferro, schegge di metallo... avrebbe potuto giurare di aver visto persino un lavandino sbeccato.
Ma non era quello a preoccuparla.
Dopo centinaia di metri percorsi a folle rapidità, era ancora allo scoperto, esposta su tutti i fronti.
Quegli instabili agglomerati di detriti non le avrebbero dato nemmeno lontanamente la protezione di cui aveva bisogno.
Non c'era acqua, nutrimento... nemmeno erba. Il sole bruciava il suolo con la stessa forza di un incendio.
No, la sua meta era più avanti, distante almeno il doppio di quanto si era già lasciata alle spalle.
Il limitare della foresta la attendeva con impazienza lì davanti. Anche dalla sua posizione riusciva a distinguere l'algida fierezza con cui gli alberi si ergevano a testimoniare la loro posizione.
Sì...
Non aveva nemmeno preso in considerazione l'ipotesi che le rocce potessero essere un buon nascondiglio, realisticamente non lo erano, eppure per qualcuno avevano funzionato.
Il corpo schizzò verso di lei talmente inaspettatamente che Lenore non ebbe la prontezza di reagire nemmeno quando due mani più grandi e più forti delle sue le circondarono il collo con violenza, facendo esplodere una profusione di puntini e scie luminose davanti ai suoi occhi, portandole via quella vista così faticosamente riconquistata.
No...
Sotto quella ferrea presa, da cui non riusciva a sottrarsi nemmeno dibattendosi convulsamente, l'ossigeno cominciò ben presto a scarseggiare.
Hai un coltello, idiota! Usalo!
La mano di Lenore tagliò l'aria incoerentemente, agitando la lama quasi a caso, eppure, stranamente, il colpo trovò da solo il proprio bersaglio.
L'aria tornò ad invadere i suoi polmoni, mentre il suo aggressore la lasciava con un grugnito di dolore. Lenore non si fermò ad aspettare una seconda mossa.
Si gettò a peso morto contro la sagoma sfocata del ragazzo, che barcollò per poi cadere a terra, trascinandosi dietro anche lei.
E ancora una volta la lama sembrò agire di volontà propria. Affondò nella carne e cozzò contro l'osso con quella superba facilità che prima o poi avrebbe condannato definitivamente Lenore.
Perché le bastò aprire gli occhi per capire che il colpo non era nemmeno lontanamente mortale, che aveva sprecato l'unica possibilità che le rimaneva.
Eppure le braccia del ragazzo non la circondarono, soffocandola di nuovo, non ci fu alcuna risposta a quella ferita, innocua ma sicuramente dolorosa.
La ragazza provò la malsana voglia di ridere, quando alla fine vide la tempia sanguinante che aveva colpito le pietre sotto di loro. Tramortito ma non ucciso.
Quelle stesse macerie che lo avevano protetto fino a quell'istante erano diventate in una frazione di secondo la causa della sua morte.
Perché era ovvio che Lenore non lo avrebbe risparmiato.
Non fidarti di niente e di nessuno. Ogni cosa, può uccidere, nell'Arena. Persino una pietra.
Le ciglia del ragazzo già tremavano impercettibilmente, segno che prima o poi avrebbe aperto di nuovo gli occhi per tentare di nuovo di ucciderla. Ma non ne avrebbe avuto il tempo.
E fu proprio Lenore, e non il coltello stesso, a guidare per l'ennesima volta la lama, nello stretto spazio fra le costole fino a trovare il cuore, con lentezza, sotto lo sguardo del Tributo del Distretto 6 che alla fine si era svegliato, appena in tempo per fungere da spettatore alla propria morte.
Il petto smise lentamente di sollevarsi nel suo ostinato moto meccanico e le palpebre smisero di fremere nel vano tentativo di rimanere alzate.
La bocca rimase leggermente socchiusa, la lingua pesta per un morso di cui probabilmente il Tributo non si era nemmeno reso conto.
Ma Lenore non rimase a notare tutte quelle cose. Pulì la lama sulla giacca del Tributo e si alzò con calma, voltando le spalle al corpo e ricominciando la sua corsa verso la rassicurante ombra del bosco.
Il lupo continuava il suo lento massacro.
Non essere stupida, Lenore. Non sarai mai un lupo. Non sei abbastanza forte. Sii un rapace, piuttosto. Gioca di furbizia. Mantieniti in volo. Confondili. Sii un puntino nero nell'aria. Fa' che non capiscano se sei solo un pettirosso a bassa quota o una aquila, centinaia di metri sopra di loro. E quando vedrai che è il momento giusto scendi in picchiata e prenditi ciò che ti è dovuto.
Comportati da predatrice quando puoi. Ma fino a quel momento... vola via.

E quando il colpo di cannone risuonò Lenore non poté impedirsi di sorridere sapendo che era colpa sua.
Merito suo.

La semplicità dell'Arena la metteva a suo agio. Forse anche troppo.
Ci aveva provato davvero, a rimanere guardinga, ma i risultati non erano stati poi così soddisfacenti.
Era la foresta di conifere a fregarla veramente.
Perché sapeva di casa.
Non casa: quattro cadenti pareti di legno tarmato, qualche mobile zoppicante e aria intrisa di odio, litigi e recriminazioni. No. Casa: aghi sotto le piante dei piedi, terreno umido, odore di pino nell'aria, vita, tante vite attorno a lei, sciabordare lento e scostante ma allo stesso tempo metodico dell'acqua, silenzio rumoroso del tempo che scorre... Semplicemente, Casa.
Non era riuscita nemmeno a correre fra gli alberi. C'era troppa pace in quel luogo per infettarlo con i suoi febbrili movimenti scoordinati.
Aveva camminato lentamente, passando le dita sui tronchi degli alberi, flettendole con leggera fatica dopo che questi le avevano lasciato piccole schegge di legno sottopelle come regalo di benvenuto.
Aveva passato in rassegna l'intero contenuto dello zaino: una tela cerata, filo di ferro e di nylon, una borraccia, un paio di contenitori ermetici, qualche scatoletta, presumibilmente di cibo, sottovuoto, un pacchetto di gallette, una polvere che odorava di brodo di carne e un piccolo set di coltelli da lancio, piccoli ma familiari, nel peso e nella forma.
Aveva ringraziato il suolo umido, ma non fangoso, che le permetteva di muoversi senza fare rumore ma senza lasciare tracce troppo evidenti.
Aveva ascoltato, come solo chi è abituato al silenzio dei boschi sa fare, e aveva sentito il gorgogliare allegro di un ruscello o di un fiume, poco distante.
Aveva sorriso perché lei, lì, era forte.
Ma soprattutto aveva ignorato quella persona che la seguiva da quando si era addentrata tra le piante, cosa più facile a dirsi che a farsi visto tutto il rumore che quel Tributo stava facendo.
Lenore era arrivata persino a pensare che lo stesse facendo di proposito, soprattutto perché sembrava aver calpestato tutti i rametti secchi caduti a terra nel raggio di due chilometri.
Perciò era rimasta in attesa di un suo attacco, rilassata, mantenendo però i sensi all'erta, protesi a captare qualsiasi movimento che facesse scattare il suo sistema d'allarme.
Ma dopo quasi un'ora lui, o lei, non era ancora uscito allo scoperto.
E lei continuava a camminare, consapevole che fare la prima mossa avrebbe fatto sfumare tutto il vantaggio che aveva: quello di sapere di essere seguita di fronte a qualcuno che credeva di passare inosservato e di essere in grado di agire di conseguenza.
Consapevole di quanto quella situazione la stesse esasperando e della promessa fatta a se stessa di ucciderlo non appena avesse raggiunto la cima del piccolo dosso che stava salendo in quel momento, quando si sarebbe trovata in posizione sopraelevata rispetto a lui e quindi più sicura.
Un altro passo.
Un altro ancora.
Lentamente.
Passò il coltello dalla mano destra a quella sinistra, stringendo con forza il manico, per poi allungare le dita fino alle tasche laterali dello zaino, prendendo una di quelle piccole lame da lancio, i muscoli tesi come la corda di un violino.
Le bastava solo girarsi e...
Acqua.
Nessun attacco. Nessuna reazione.
Il fiume era lì, a cantare sulla superficie delle rocce, danzando insieme ai pesci argentei che si inseguivano trasportati dalla corrente.
Acqua.
Lenore corse a rotta di collo lungo il piccolo pendio, saltando con impazienza sulle pietre che la separavano da quella miniera di vita, dimentica di tutto ciò che la circondava.
Il suono metallico del coltello che cadeva accanto a lei non la fermò, non la fermò la presenza di quel Tributo dietro di lei, non la fermò il pericolo, né la paura, né la cautela.
Era acqua, dopotutto.
Crollò in ginocchio sul piano irregolare, senza badare al dolore che aggredì con ferocia le sue articolazioni già abbastanza maltrattate.
E fu con esitazione che all'inizio le dita sfiorarono il pelo tremolante dell'acqua.
Affondarono lentamente, centimetro per centimetro, fino a quando anche le vene pulsanti dei polsi non furono lambite da quella sensazione di freschezza, di pulizia... di perdono.
Eppure non bastava: le unghie erano ancora sporche di terra, sangue e sudore; i polpastrelli, le nocche e il dorso della mano erano graffiati irrimediabilmente; i capillari spiccavano quasi violacei sulla pelle pallida di tensione.
Perdonata sì, ma non abbastanza.
E in quel momento sopraggiunse la paura. Paura di vedersi, di guardarsi. Paura dell'odio che la sua immagine avrebbe potuto suscitare.
Lenore aveva semplicemente paura di sporgersi e di scontrarsi contro il proprio riflesso, contro un viso stravolto dall'accusa verso se stesso, dai segni che quegli omicidi avevano lasciato irrimediabilmente sopra di lei. Perché Lenore aveva bisogno di quel perdono.
Ma non era lei a partecipare a quei giochi: c'era Len, da qualche parte, che sbraitava per essere stata rinchiusa in un piccolo angolino di mente e che le urlava di riprendere il controllo perché, cazzo, dietro di lei c'era qualcuno che l'avrebbe fatta fuori da un momento all'altro. Era quella creatura plasmata da Gregory che impugnava il coltello senza chiedersi chi stava uccidendo ma solo quale era il modo migliore per farlo, che non aveva bisogno di conferme o assoluzioni ma che guardava il proprio riflesso con il distacco di chi non appartiene a se stesso bensì ad uno scopo, che amava il sapore di quelle vite che si prendeva con la forza.
Era Len, l'animale.
Era Len, che avrebbe vinto.
Ma era Lenore che in quel momento decise di ignorarla, trovando, sepolto da qualche parte nelle profondità della sua umanità, il coraggio di fare quel gesto che tanto la spaventava.
Sollievo.
Sono ancora io.
Orrore.
Sono... davvero così?
Rosso.
Rassegnazione.
Sì. Ormai Len è parte di me.
C'era il sangue, ancorato con ostinazione alla sua pelle, ad indicare con chiarezza il marchio che andava delineandosi, il tarlo della violenza che cominciava il suo minuzioso lavoro. Schizzi di vita strappata che aveva raggiunto le guance, pasticciato le ciocche di capelli sfuggite alla coda... E altrettanti residui dalla vita che invece era così ansiosa di abbandonare lei che colavano pigramente dal labbro spaccato e dalla lunga ferita che partiva dalla base del collo, appena sopra lo sterno, e che raggiungeva l'attaccatura dell'orecchio sinistro in una parabola di morte mancata.
C'erano i lividi provocati dalla stretta ferrea del Tributo del 6 che se ne stavano lì ad abbracciare lo sfregio sulla sua pelle, in un tacito segno di solidarietà, anche nel comune fallimento.
Ma c'erano quegli zigomi così rossi, dopo che il sangue era affluito con velocità invidiabile al suo viso, che parevano dirle che di vita ne aveva ancora, eccome.
E c'era quella piega soddisfatta che non riusciva ad abbandonare le labbra, ostinatamente contratte in quella dimostrazione di freddo cinismo.
Rabbia.
Soddisfazione.
Eppure non erano lì, le risposte che cercava. Non le bastavano, quelle che aveva già ottenuto.
Voleva vedersi negli occhi. Guardare al di là della superficie di ghiaccio e vedere quello che c'era in lei, quello che c'era dentro di lei. Quello che stava nascondendo anche a se stessa. Quello di cui aveva paura.
E lo sguardo si avvicinò cauto al bianco della sclera, che riflesso sull'acqua pareva azzurro anch'esso, dirigendosi verso il confine che segnava l'ingresso alla sua anima.
E venne sbalzata indietro.
Il ghiaccio stesso le impedì il passaggio, respingendo ogni tentativo di intrusione. Portandole via ogni sentimento che le era ancora rimasto addosso, lasciandola vuota e priva di energie per continuare quella lotta estenuante con le proprie forti debolezze.
Aveva pensato di trovare una luce, all'uscita di quell'infinito corridoio nero. Ma si era sbagliata.
Non c'era luce in fondo al tunnel.
Crack.
Eccola, finalmente, la crepa in quel freddo artico, pensò, ma la verità non impiegò poi molto tempo a far presa su di lei.
Solo l'ennesimo rametto spezzato da quel goffo intruso.
Fu sufficiente.
Bastò a ribaltare la situazione di quel penoso braccio di ferro.
Len irruppe con tutta la forza che possedeva, occupando tutto quel vuoto involucro di carne e Lenore si lasciò cancellare di buon grado, perché il lento logorio del senso di colpa non era preferibile nemmeno all'oblio. Anzi, accolse quella perdita di coscienza come un dono.
E così rimase solo l'animale, a contemplare quel volto tirato dalla tensione, che per lui aveva due occhi al posto giusto, un naso non ancora rotto, un labbro che forse aveva bisogno di una leccatina a favorire la coagulazione del sangue, ma niente di più. Un viso normale, come tanti. Un viso a cui bastava una semplice lavata.
L'acqua colpì la sua pelle accaldata, facendola rabbrividire di piacere, scrostando via ogni disagio. E fu allora, ancora bagnata da quel getto di vita, che Len si sentì terribilmente forte. Non tanto da affrontare la parte di sé che aveva rinchiuso da qualche parte nella propria mente, ma abbastanza da andare avanti e fare ciò che doveva.
Avrebbe ucciso il Tributo, annegandolo in quelle goccioline che adornavano la punta delle sue dita, o spillandogli ogni goccia di sangue rimasta nel suo inutile corpo.
Raccolse di nuovo le sue armi, facendo forza sulle cosce per sostenersi, nel tornare in posizione eretta, e sorrise, con il ghigno di un predatore che non ha nessuna intenzione di farsi braccare.
“Allora? Quanto credi che dovrò aspettare, ancora, prima che tu ti decida ad attaccarmi?”

Hamal- il nome era ancora chiaro nella memoria della ragazza- la fissava compiaciuto, appoggiato con studiata, pigra indifferenza al tronco di un larice piuttosto spoglio.
“Mi chiedevo quando te ne saresti accorta.” la schernì con un mezzo sorriso.
Lenore non ritenne indicativo contraddirlo rivelandogli la verità, ma la sua espressione fu di gran lunga sufficiente a spegnere il principio di quel falò autocelebrativo che si stava accendendo nel ragazzo.
“Non voglio ucciderti.” si affrettò a chiarire lui, avanzando di qualche passo, con un tentativo di mostrarle i palmi delle mani, per tranquillizzarla, rovinato però dall'effetto della spada che stringeva nel pugno destro.
La spada.
La spada che doveva essere sua.
“Molto convincente.” ribatté lei, impassibile.
“Non mi credi. Normale. Ma se devo dire la verità quella più pronta a uccidere qualcuno, fra noi due, sei tu. Io sono ancora pulito. Tu, invece, sembri avere proprio voglia di piantarmi qualcosa nello stomaco.”
Lenore non rispose, ma la contrazione involontaria degli angoli delle sue labbra palesò il suo assenso.
“Grandioso. Quanti ne hai già silurati? Uno? Due?” borbottò lui, avvicinandosi ancora.
“Facciamo che te ne stai lontano, eh? Così sono più portata a credere ai tuoi ideali non violenti.” lo fermò la ragazza, con un semplice cenno del mento, senza muovere le braccia che se ne stavano apparentemente distese lungo i fianchi.
“Va bene, come vuoi.”
Len piegò la testa da un lato, fissandolo con sguardo tagliente.
“Hamal. Distretto Dodici.” si presentò lui, con una cortesia decisamente fuori luogo.
“Lo so.”
“E io so chi sei tu, ovviamente. Lenore. Quattro.” continuò, imperterrito.
“Senti, se non mi vuoi uccidere, allora cosa vuoi?” chiese lei, senza lasciare che dalla sua voce trapelasse la curiosità che invece la divorava, interrompendo bruscamente i convenevoli dell'altro.
“Un alleanza.”
Un alleanza.
Se Len non fosse stata così basita probabilmente si sarebbe messa a ridere, ma in quel momento rimase semplicemente immobile a fulminarlo e a sperare che una saetta scendesse veramente dal cielo risparmiandole il lavoro sporco.
“Grande scusa. Complimenti.” si limitò a rispondere a quei folli vaneggiamenti.
“Sto parlando sul serio. Insomma, potremmo aiutarci a vicenda. Io ti aiuto a difenderti e tu mi aiuti a cercare da mangiare e roba varia.”
Alla fine la risata riuscì a sfuggire dalla bocca della ragazza, che la soffocò, tramutandola in singhiozzi di ilarità di fronte a quella divisione dei compiti estremamente sessista.
“Che c'è?”
“Nulla, continua pure. Convincimi.”
Evidentemente Hamal era immune a qualsiasi segnale di ironia, perché prese alla lettera l'invito e ricominciò a blaterare.
“Ti seguivo da prima che entrassi nella foresta. Ti ho visto uccidere il tizio del Sei...”
“Ah sì?” lo interruppe lei, bruscamente “Ci ho quasi rimesso la pelle. Se vuoi davvero un'alleanza, il fatto di non essere intervenuto non fa pendere esattamente la bilancia a tuo favore. Non cominciamo per niente bene.”
“Non puoi rimproverarmi di non aver rispettato un'alleanza che non avevo ancora stretto.”
Non aveva tutti i torti.
“Ma la volevi stringere. O ti è saltato il grillo ora?” insisté, comunque, la ragazza.
Hamal sbuffò, scuotendo la testa.
“Pensala come vuoi. Questa è la mia proposta.”
“E se io preferissi rifiutare?”
“Dovrei ucciderti.”
Il ragionamento, effettivamente, non faceva un grinza.
“Ottima ragione per accettare, quindi. Solo...” il sorriso e la voce di Len grondavano miele.
Il coltello da lancio fendette l'aria e si piantò nel tronco d'albero alle spalle di Hamal, prima che questi avesse il tempo di reagire o anche solo di rendersi conto del gesto.
Miele pieno di mosche.
“Chi uccide chi?” concluse la ragazza, placidamente, di fronte agli occhi sgranati dell'altro.
“Merda.” era evidente che il Tributo stava rigirando il Sette della Valutazione di Len contro il Nove del proprio e si stava chiedendo dove fosse il trucco, così come era evidente che la cosa lo infastidiva parecchio. “Ascolta, ho fatto una promessa. E in altri casi non me ne fregherebbe un cazzo, ma questa volta Dieci ha ragione: è una buona idea. Un'ottima idea.”
Lenore aggrottò le sopracciglia.
“Dieci? Che c'entra Jamie?” chiese perplessa.
“No, non quella serpe. Thomson.” chiarì l'altro, come se la cosa fosse ovvia.
“Darren?
Non era ovvio per niente e l'espressione del ragazzo mutò considerevolmente quando vide la rabbia di lei spandersi in tutto il corpo, irrigidendo muscoli e postura.
“Che hai, ora?”
“Cosa ti ha detto quel bastardo?” sibilò Lenore con la mascella irrigidita dalla tensione.
“Perché?”
“Dimmi che ti ha detto.” il tono della ragazza non lasciava spazio a obiezioni.
“Che potevamo esserci utili a vicenda. E poi mi ha fatto promettere, testualmente, di darti una mano e di tenerti un po' d'occhio. È stato convincente. Non mi sembrava poi una così brutta idea.”
Darren. Ancora lui. Sempre lui. Sempre in mezzo.
Si era immischiato anche nelle questioni dell'Arena di Len.
Beh, le opzioni erano palesemente due: o il suo fratellastro teneva veramente a lei e voleva che qualcuno cercasse di proteggerla, visto che non poteva farlo lui stesso, o stava cercando di toglierla di mezzo in un modo rapido e per lui indolore.
Stando a come erano andate le cose fino a quel momento la ragazza sentiva di propendere per la seconda ipotesi.
Scoppiò a ridere di nuovo, amaramente, fissando la pedina del piano di Darren che le stava davanti e la guardava, perplesso.
“Che figlio di puttana...” sussurrò tra sé e sé.
Poi scoppiò a ridere con maggiore forza.
Forse avrebbe dovuto smetterla di affibbiare al ragazzo epiteti che avrebbe dovuto rivolgere solo e solamente a se stessa.
Gli aveva dato del bastardo quando lo era anche lei.
Gli aveva dato del figlio di puttana quando in realtà era Len ad esserlo propriamente.
Ma aveva scoperto di odiarlo veramente, alla fine, e scaricargli addosso tutta la rabbia dei propri pensieri era diventato estremamente liberatorio.
“Sai che ti dico, Hamal? Va bene. Accetto.”
Lo avrebbe tenuto d'occhio e fatto fuori al primo cenno sospetto. Ma tutto sommato poteva esserle utile, in qualche modo.
“Finalmente qualcosa di sensato, Quattro.”

“Allora? Mi rispondi?”
Camminavano da un paio d'ore, ormai, alla ricerca di un riparo sicuro che non fosse in cima ad un albero visto che a quanto pareva il ragazzo soffriva di vertigini. E Hamal non aveva smesso di parlare un solo istante, anche di fronte all'ostinato mutismo di Lenore, che veniva interrotto solo in occasione degli improperi verso tutto il rumore a lui prodotto.
Anche a quell'ennesima domanda la risposta si fece pregare parecchio.
“Lo sai che la mia impressione era giusta? Sei proprio stronza.” la informò allora lui, con lo stesso tono con cui le avrebbe fatto un cortese complimento. “E sembri anche un po' frigida. Sei frigida, Reeds?”
Len si voltò a freddarlo con un'occhiata ostile. In quelle due ore tutte le sue prospettive di utilità si erano praticamente azzerate.
“Senti, te ne vuoi stare zitto e smetterla di ciarlare? Sei una palla al piede.” sbottò bruscamente.
L'altro la fissò, risentito.
“Si chiama verità radicale, consiste nel dire sempre ed esattamente quello che si pensa.” le spiegò con una offesa scrollata di spalle.
“Bene, in questo caso... Se fiati ancora ti uccido.” ribatté, ripagandolo con la stessa moneta.
“E come? Io ho una spada, tu no.” gongolò l'altro.
La ragazza gli sorrise dolcemente, in netto contrasto con quella che poi fu l'asprezza della sua voce.
“Tu hai anche il sonno pesante. Io no.”
Hamal la fissò, quasi spaventato dalla prospettiva che lei potesse conoscerlo così bene.
“Come fai a saperlo?” chiese cautamente.
“Lo so ora.” sghignazzò, celando dietro il suo sguardo una chiara promessa che fu certamente recepita. “Sì, questa verità radicale comincia a piacere anche a me.”
Purtroppo il silenzio così ottenuto non durò a lungo.
“Allora? Dove possiamo accamparci? Non si trova nulla?” chiese lui, impaziente.
“Cerchiamo qualcosa di sicuro e possibilmente nascosto.”
Len faceva saltellare il coltello dal palmo della propria mano, respirando lentamente dal naso.
“Prima di notte.”
“Già.”
“Ma se è nascosto mi sa che non lo troveremo neanche noi.”
La ragazza si ritrovò a puntare il filo della lama sotto al mento del ragazzo senza nemmeno essersi accorta del proprio movimento.
“Ripetimi di nuovo quei buoni motivi che avevo quando ho accettato l'alleanza. Ho la folle tentazione di farti fuori. Qui. Ora.” gli ringhiò contro.
Fu quella, la prima volta, per Hamal. La prima volta in cui il suo sguardo cozzò contro quello di lei. E ne rimase impietrito.
A Lenore sembrò quasi di vederlo, solo e sperduto su quell'iceberg deserto, a vagare sotto la neve, percosso dalla tempesta, alla ricerca di una scintilla di fuoco che non c'era. Non tra il ghiaccio perenne.
La pressione contro la sua gola si allentò, ma lo sconcerto del ragazzo non scemò con quel gesto.
Fu una prima volta anche per Lenore, tutto sommato: si chiese se Hamal potesse esserle davvero utile, se l'alleanza fosse stata realmente una buona idea. Ma non ci fu una risposta.
Se hai paura che un serpente ti morda di certo è meglio non dormire accanto a lui. Potresti essere l'unica cosa commestibile nei paraggi, nel caso gli venisse fame.
Ricordava di aver detto una cosa simile a Darren, quando si erano parlati per la prima volta.
Ma Hamal non era serpente. Così come non era una pecora.
No, Hamal era un lupo, si vedeva dal modo in cui impugnava la spada, dalla determinazione nei suoi occhi, dalla fame repressa...
Lui era un lupo e Lenore un rapace.
Forse il punto era proprio quello.
Sarebbe riuscito lui, a mantenersi in alto tanto quanto lei? Probabilmente le correnti ascensionali lo avrebbe sostenuto per un po', dandogli l'illusione di essere in grado di volare. Ma poi la direzione del vento sarebbe cambiata. E la realtà lo avrebbe fatto precipitare a terra. Lui non avrebbe mai avuto le ali.
E meglio che tu preghi che le tue correnti durino molto, Hamal.
Ma la realtà era che la cosa non la interessava. Non erano affari suoi.
Io dovrei pensare a me e basta. Se ci fosse una tempesta persino un paio d'ali potrebbe non essere sufficiente, in volo.
Lenore contrasse le labbra nel suo sorriso gelido, di fronte all'altro, ammutolito.
“Cerchiamo questo maledetto rifugio.”

clalla97 commenta:
Bene, come al solito non so cosa dire... Partiamo dalle prima cosa: lo so, questo capitolo non è nemmeno lontanamente all'altezza di quello precedente, di Darren, ma perdonatemi, in questo periodo il blocco dello pseudo-scrittore si è fatto sentire, eccome.
Detto questo, avrete capito che il capitolo non mi piace: l'intenzione era quella di inserire una prevalenza di paratassi per dare l'idea di azioni istintive, non pensate, insensate... la verità è che alla fine mi sono trovata davanti ad una semplicissima costruzione ipotattica che non era nei miei programmi. Quindi tutta la parte riguardante l'istinto è andata gentilmente a farsi benedire.
Len è animale: voi vi aspettavate di peggio, immagino, ma pensate che è ancora il primo capitolo e che la nostra “cara” ragazza avrà tutto il tempo per combinarne delle sue (e vedrete che cosa ho pensato... persino Wania ha detto che alcune sono un po' carognate).
Ebbene sì, Lenore e Hamal hanno un'alleanza. Alla fine lei ha accettato. Che cosa credete che abbia pensato Greg da fuori? Secondo me non è d'accordo u.u
Uh, ultima cosa (credo)... delusi dall'arena, vero? Già, è semplice... ma anche qui... è il primo capitolo ^-^ non è nulla di speciale, ma ci saranno altri “colpi di scena”. Insomma, alla fine cerchiamo di lavorare un po' in parallelo fra le due arene o in senso contrario (sì, il primo paragone sarebbe stato: prima arena fredda= seconda arena calda... in realtà il collegamento che ho fatto io è diverso u.u assurdo ma diverso) in parecchie vicende che accadono ai due... perciò, insomma, senza fare spoiler, starete a vedere! A proposito... vi ho mai chiesto come vi immaginate la fine?
Alla prossima (non linciatemi per questo orrore)
Clara

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