Something Wicked

di ConsultingFangirls
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Phantom Travelers ***
Capitolo 2: *** Mystery Spot ***
Capitolo 3: *** The Monster at the End of This Book ***
Capitolo 4: *** Dead Men Don't Wear Plaid ***
Capitolo 5: *** There Will Be Blood ***
Capitolo 6: *** Swan Song ***
Capitolo 7: *** Abandon All Hope ***
Capitolo 8: *** What Is and What Should Never Be ***
Capitolo 9: *** Fallen Idols ***
Capitolo 10: *** Children Shouldn't Play with Dead Things ***
Capitolo 11: *** Epilogo - Time Is on My Side ***



Capitolo 1
*** The Phantom Travelers ***


Era iniziato in un nebbioso mattino di febbraio quando, marciando per l'appartamento di Baker Street con le mani nei capelli e gli occhi da folle, Sherlock Holmes si era imbattuto in qualcosa che non sarebbe dovuto esistere.
L'uomo seduto nella poltrona dei clienti, un tizio magro, alto, con un completo a righe blu e marroni, Converse rosse e capelli spettinati, stava imperturbabile e con le gambe accavallate, seguendo con gli occhi il famoso detective uscire di testa. John non ci avrebbe scommesso, ma sembrava si stesse divertendo.
«Un alieno» disse Sherlock. No, più che altro lo ripeté, per la centesima volta. Il tizio seduto là davanti sbuffò «No, te l'ho detto. Mi chiamo John Smith, sono della polizia» e gli mostrò il suo tesserino di pelle con un'espressione annoiata. Sherlock Holmes ridacchiò «È ovvio che non sei della polizia. Conosco tutti, là dentro, e tutti mi devono almeno un favore. E poi guardati - completo di almeno quattro anni fa, scarpe da ginnastica che nessun uomo sano di mente ci abbinerebbe mai, hai la barba perfettamente tagliata, ma non ci sono segni di rasoio, come se non ti fosse mai nemmeno cresciuta. Ma devi avere almeno venticinque anni, e non è possibile che sia così. Hai i capelli puliti, ma non sanno di shampoo, come se non avessi dovuto lavarli, e poi le tue mani…»
«Cos'hanno le mie mani che non va?»
«Hai dei calli all'interno della mano, come se avessi tenuto un remo troppo stretto, ma non ne hai sulla punta delle dita, come invece succederebbe ad un rematore, e hai le unghie pulite, corte, come se non dovessi mai usare le dita. Quindi niente rematore. Potresti esserti messo a scrivere con una penna un po' troppo grande, ma non hai macchie d'inchiostro e…» 
Il tizio col completo si girò verso l'altro uomo nella stanza, seduto sul divano con il computer sulle gambe «Ehy, ma il tuo amico tiene mai la bocca chiusa?»
«Non puoi neanche immaginare» gli rispose quell'altro, sorridendo prima a Sherlock, che si decise a tacere. Sì, in effetti anche John si stava divertendo.
«Ciò non toglie» continuò “l'alieno” «che una cosa giusta l'abbia detta. Di sicuro, non sono un uomo sano di mente.» Allungò i piedi, mettendo in mostra le sue ridicole scarpe da teenager, e sorrise mostrando tutti i denti. Sembrava entusiasta. «Ma è davvero brillante il modo in cui sei riuscito a capire chi - no, be', tecnicamente cosa - sono e a non svenire. Di solito c'è bisogno di spiegazioni e spiegazioni e… ah, perché non sono tutti come te? Potresti venire con me, farmi da interprete, spiegare che ci si può inconfutabilmente fidare di me e della mia alienitudine.» Si fermò e sbatté un attimo le palpebre, come se persino lui si fosse perso nel proprio ragionamento, poi alzò lo sguardo su Sherlock, come in attesa di una risposta seria.
Lui aveva ancora gli occhi da pazzo e sembrava poco incline a prendere sul serio quel tizio che parlava senza neanche respirare e inventava parole sul momento. John sospettava che vi riconoscesse un po' troppo di se stesso. «Che ci si possa fidare di te, è ancora tutto da vedere.»
Il tizio sporse il labbro inferiore e fece gli occhi da cucciolo scontento, come un bambino che avesse improvvisamente scoperto che il suo ultimo giocattolo non era perfetto come aveva creduto. Poi balzò in piedi. «Te lo dimostrerò, allora. Non sono certo venuto qui solo per prendere un tè - graziosa la tua cameriera, a proposito, davvero magnifica - quindi muoviamoci
Sherlock aveva il vizio di far muovere la gente senza dar spiegazioni, e sembrava che essere soggetto allo stesso trattamento lo infastidisse più che mai. Si lasciò cadere accanto a John sul divano, stringendosi le gambe al petto, in un deciso rifiuto. «Quando mi dirai dove andremo…»
«Oh, non saperlo è molto più divertente!» si esaltò il pazzo, con un sorriso immenso. 
Holmes aggrottò le sopracciglia. Sembrava che si stesse raggrinzendo come dopo aver mangiato un limone. «Non ci hai ancora spiegato a cosa ti serve il nostro aiuto» gli fece notare allora John; perché sì, vedere il suo coinquilino impazzire era divertente, ma anche lui iniziava ad avere dubbi sull'entità di quell'uomo. «E neanche chi sei, in effetti.»
«Oh, giusto, giusto… Be', sono il Dottore!» Come se ciò spiegasse tutto.
«Non sei un medico» intervenne subito Sherlock. «Non ne hai l'odore né l'aspetto, non come il qui presente…» John fu quasi certo che avrebbe detto traditore «Dottor Watson.» E lo indicò.
«Oh, ma io non sono quel tipo di dottore! Be', sì, lo sono, e perdonami se te lo dico ma penso che tu sia afflitto da una specie di anoressia nervosa - oh no, non mangi? Chi ne ha tempo, con tutti questi misteri da risolvere, eh?» Prese una mela dal cestino lasciato da Mrs Hudson e la lanciò un paio di volte in aria. «Preferisco le banane, comunque» asserì, rimettendo il frutto a posto. «Chiamatemi il Dottore, e basta. Vedrete, è un titolo che merito. Ora… vogliamo andare? Non vi ho forse incuriosito abbastanza? Scommetto che vi stavate annoiando.» Guardò, neanche tanto velatamente, il giornale accartocciato accanto al caminetto. Sherlock l'aveva lanciato via dieci minuti prima che il campanello suonasse, disgustato dalle notizie inutili sulle vacanze invernali del Principe William.

Il Dottore iniziò a camminare veloce davanti a loro, indicando palazzi a caso e urlando frasi sconnesse e senza un apparente senso logico, mentre Sherlock e John gli tenevano dietro. «E lì è dove ho salvato Elisabetta!» John alzò un sopracciglio «La Regina Elisabetta?»
«Sì, ma la prima. Non quella di adesso. Anche se avrei un paio di aneddoti interessanti anche su di lei» sorrise e girò in una stradina buia e che sapeva di piscio di cane. In mezzo alla strada c'era solo una cabina telefonica della polizia, di un colore che in principio doveva essere stato un blu acceso, con le finestre troppo grosse. Il Dottore ci si fermò davanti, estasiato. 
«Beh?»
«Beh cosa? Questa è la TARDIS!»
«La cosa?»
«La TARDIS, John, la sua macchina del tempo» Sherlock si fece avanti sorridendo e il Dottore annuì verso di lui, compiaciuto. «Time And Relative Dimension In Space. Tempo e relativa dimensione nello spazio. Altresì, welcome to my crib» 
«Per favore, queste citazioni evitale. Non ti si addicono» Il detective sembrava aver ritrovato la sua famosa lingua tagliente. 
John, come al solito, si sentiva un pelo lasciato indietro. «Come…?»
«Cosa, John?» Impaziente come suo solito.
«Uno; davvero credi sia un alieno?»
«L'ho dedotto» ribatté Sherlock, come se gli stesse spiegando che sì, uno più uno fa due.
Lui lo ignorò. Era più facile che prenderlo a pugni. «Due; macchina del tempo
«Ovviamente, ha detto di aver conosciuto la prima Elisabetta, e poi, cos'altro avrebbe potuto voler dire quella sigla?»
«Ma certo» sussurrò John, lanciandogli un'occhiataccia.
Il Dottore aveva aperto la porta della TARDIS e stava appoggiato allo stipite, nascondendo l'interno, osservandoli con aria affascinata e divertita. John entrò e sentì la mascella cadere. «È…» vide il Dottore portarsi le mani al viso «Se hai intenzione di finire questa frase con "più grande all'interno" ti prego, risparmiatelo. L'hanno detto così tante volte che sta iniziando a diventare noioso» John chiuse la bocca e si ficcò le mani così a fondo nelle tasche che per un attimo ebbe paura di sfondarle. Sherlock si aggirava per la sala con il naso all'insù, e sembrava un bambino in un negozio di caramelle. «E quindi? Dove andiamo? Cosa facciamo?» 
Il Dottore gli sorrise «Dove volete»

***


La prima sensazione era stata un pizzicore nella punta delle dita, come quando le metti vicino al fuoco dopo essere stata a lungo al freddo. Non ci badò, perché quella era una missione, e Rose non si faceva distrarre, durante le missioni. Non quando aveva un'arma sonica fra le braccia ed una roba viscidosa e verde che le strisciava incontro. Certo a lei gli alieni non facevano paura, non desiderava neanche ammazzarli tutti come alcuni suoi colleghi - il Torchwood dell'universo parallelo era molto più, uhm, simpatico di quello del suo mondo, ma alcune cose faticavano a cambiare - ma questo aveva appena divorato l'intera popolazione di uno sperduto villaggio Gallese, quindi no, Rose non poteva permettersi di distrarsi per un pizzicore alle dita.
Fu quando la mano che reggeva il fucilone-spara-metastasi, come l'aveva chiamato Clint, iniziò a sparire che si fermò un secondo. Alzò gli occhi verso l'uomo con il cappotto nero - lungo, di pelle. Infatti, alcune cose faticavano a cambiare -, ma il suo sguardo terrificato non la rassicurò. «Clint. Clint, che…» il fucile era ancora sospeso a mezz'aria, come se fosse effettivamente retto da qualcosa. Peccato che quel qualcosa avrebbe dovuto essere il suo braccio, e dopo la sua spalla non c'era più nulla. «Rose!» sentì ancora quel pizzicore, molto più intenso però, come una vera e propria scarica elettrica che partiva dalla fronte e si spandeva per tutto il corpo. Quando le arrivò alle gambe si trovò a spalancare le braccia e urlare. Ma dalla sua nonbocca non usciva nulla, e anche se i suoi nonocchi riuscivano a vedere tutte le espressioni sbalordite dei suoi colleghi, le sue nonmani non tenevano più il fucile. Si limitò a urlare - a nonurlare - nella sua nonmente. 
Quando le riaprì, le palpebre erano vere palpebre, e tutto il suo corpo sembrava tornato a posto, vistoso e corporeo. Tutta gialla e rosa, le avrebbe detto qualcuno. Le scintillò una lacrima sulla guancia. Già, alcune cose faticavano davvero a cambiare. 
Un attimo dopo, era tornata al presente. Basta lacrime, era appena scomparsa dal mondo. La nausea le attanagliava le viscere, eppure la sensazione era quella di un deja-vù, e non avrebbe mai potuto scordarla. Quella era la sensazione che ti lasciano addosso i viaggi nel tempo. Quella specie di polvere che pare depositartisi addosso, subito scacciata da un vortice di eccitazione che ti parte dalla testa e da ogni singolo centimetro di pelle e istinto che urla sbagliatosbagliatosbagliato - non dovremmo essere qui.
Rose sbatté le palpebre, ed il mondo tornò a fuoco. Tornò al presente, solo che non era presente quanto avrebbe dovuto. Oppure il vintage era tornato di moda in quei due secondi fra un battito di palpebre e l'altro. Ma d'altro canto non ne era sorpresa. Sapeva già di essere in un altro tempo.
«Be', signorina» disse la donna mora seduta in poltrona - più che seduta raggomitolata, con addosso un cappotto lungo e blu scuro ed una tazza da tè in bilico sulle ginocchia. «Raramente chiedo spiegazioni alla gente, ma lei come diavolo è arrivata qui

Rose si mise a sedere sulla poltrona davanti alla donna col cappotto, e un uomo le portò una tazza di tè su un vassoio «Layne, guarda che disordine…» l'uomo sbuffò e fece per andarsene «QUEL TESCHIO. Ti avevo detto di ritirarlo in un qualche angolo buio dimenticato da Dio e dagli uomini!» 
«Ianto, smettila, e portaci dei biscotti, per favore»
«Sono il tuo padrone di casa, tesoro, non il tuo cameriere» 
«Come al solito» lei gli strizzò l'occhio e Ianto scomparve nella tromba delle scale. Rose aveva assistito a tutta la scena in silenzio, con la tazza di tè bollente fra le mani e le sopracciglia leggermente alzate, come se avesse già visto quella scena. Poi la donna tornò a concentrarsi su di lei. «Non di questo tempo. Centovent'anni, se non vado errata. È il tuo odore. Niente da queste parti ne ha uno simile. Ma» la donna si mordicchiava la punta delle dita, fissandola intenta. «C'è qualcosa di fuori fuoco. Fuori spazio. Sì, sì. Il potere della faglia ha agito più a fondo di quanto non pensassi.»
Saltò in piedi - il tè che un attimo prima era sulle sue ginocchia si salvò in una qualche misteriosa e soprannaturale maniera - e in un unico passo arrivò a uno scrittoio ingombro di libri e provette. Aveva le dita lunghe, sottili e bianche, e quando le infilò in mezzo a quel ciarpame ci misero poco a trovare ciò che stavano cercando. La donna - Layne - le puntò contro un tubetto di metallo lucido, troppo lungo per essere una penna e troppo inspiegabile per essere un semplice frustino antelitteram. Sulla punta aveva una sferetta di vetro. Che si illuminava. Di blu.
Rose sussultò, e le immagini del Dottore con quel coso stretto in mano le ferirono la mente «Dove l'hai preso?» sibilò, con gli occhi stretti a due fessure. Il Dottore non si separava mai dal suo prezioso cacciavite sonico. Il Dottore teneva più a quel pezzetto di latta che all'intero ordine cosmico. Poi il pensiero la colpì: il Dottore era lì.
«L'ho costruito» le rispose Layne con una scrollata di spalle, polverizzando ogni sua speranza con una violenza così brutale e involontaria da farle quasi male «sai, un pezzetto di metallo qui, una biglia di là… ho sistemato dei contatti elettrici con dei pezzi di una lampadina rotta - invenzione geniale, tra l'altro, non trovi? E all'improvviso ha iniziato a fare così» le indicò la punta sonica del cacciavite. Si illuminava ad intermittenza. Quattro flash, pausa, quattro flash, pausa. E non faceva rumore. Ricordava il rumore del cacciavite del Dottore come se l'avesse usato come suoneria del cellulare, e quel surrogato di apparecchio cosmico costruito da una strana ragazza in cappotto nero e pigiama appollaiata su una poltrona di un salotto di chissà quale epoca storica era completamente muto.
«E tu» continuò Layne «sei qualcosa che non gli piace. Sei…» Osservò la punta luminosa con sguardo concentrato. Le ricordava molto, molto qualcun altro: ma doveva sforzarsi di tornare al presente, perché quella ragazza non sembrava avere nulla in comune col Dottore. «Sei carica. Hai una carica, tua, propria, come… come uno ione.» Si mise a borbottare fra sé e sé qualcosa d'inintelligibile.
«Ed è strano? Scusa, posso chiederti che anno è?»
Lei alzò di scatto la testa, facendosi cadere qualche ciocca sul viso. Aveva i capelli ricci, lunghi fino a sfiorare il colletto alzato del suo cappotto. La guardava e sorrideva, adesso, come le avesse annunciato di esserle apparsa d'improvviso in casa perché sì, sono Babbo Natale. «Oh! Oh! Lo sapevo. 1888. Inghilterra. Londra. 221B Baker Street. A casa - be', non lo rimarrà per molto se non pagherò l'affitto - di Miss Layne Holmes. E» puntò quel surrogato-sonico verso se stessa. «no, in questa casa non è strano. Sono carica anch'io, vedi?» Le mostrò la punta lampeggiante di blu, anche se Rose non sapeva davvero cos'avrebbe dovuto vedere. «Ma se uscirai in strada, non troverai nessun altro sonicamente carico. E una persona diventa sonicamente carica solo se assorbe una grande, grandissima emissione di energia.» 
«Allora mi sa che il tuo apparecchio non funziona, Layne» Rose sorrise del sorriso più accondiscendente che riuscì a confezionare «io non ho certo assorbito energia, come dici tu, né fatto niente di speciale» "L'alieno nella gabbia di vetro continuava a picchiare, Clint, il capo del Torchwood, la fece allontanare prendendola per il braccio. Le disse che aveva fatto davvero un buon lavoro, che in pochi riuscivano a catturare uno Sleethin così in fretta e con così poca esperienza, e a lei venne da ridere. Poca esperienza…" «…beh, quasi niente di speciale» "La TARDIS era in lei. Lei era la TARDIS. Sentiva la sua voce, antica e potente, roboante, la sentiva urlare in ogni sua vena, in ogni osso, in ogni muscolo, premeva contro tutto ciò che Rose Tyler era e che smetteva di essere nell'istante stesso in cui lo pensava. Il Cuore della TARDIS vorticava nella sua testa, e lei sapeva tutto, del tempo, dello spazio, dell'universo, di ogni cosa, tutto era antico, tutto era nuovo, tutto era nello stesso momento in cui pensava che fosse, mondi che si sovrapponevano in un valzer unico di tempo e… «…Ok, forse non funziona poi così male. Ma il Dottore mi aveva assicurato di essersi preso tutto, che non era rimasto niente a me»
«Il Dottore?» Layne si era fatta improvvisamente interessata, e la sua voce profonda era scivolata ancora più in basso. Prese una pipa dallo scrittoio e se l'accese, prendendo grosse boccate di tabacco e sputando nell'aria del fumo azzurrognolo «Oh, ti dispiace se fumo? So che non dovrei, è così difficile sostenere un'abitudine da fumatrice nella Londra di oggi… ma cosa ci posso fare?» soffiò un altro paio di nuvolette grigioazzurre e si raggomitolò ancora più sulla poltrona. Teneva le mani sotto le ascelle, ne tirava fuori una di tanto in tanto per sistemarsi la pipa. Aveva gli angoli della bocca piegati verso il basso, gli occhi azzurri così concentrati da parer fissi - no, non erano azzurri, e neanche grigi o verdi; erano dello stesso colore del ghiaccio. O il colore della fine dell'Universo. «Chi è questo Dottore?»
«Lui è… il Dottore.» Rose scosse il capo. «Lui è… aiuta la gente. Viaggia nel tempo e nello spazio con la sua cabina blu e mette a posto le cose. E io ho viaggiato con lui, e-» ma si fermò in tempo. «È stato allora che ho assorbito quell'energia. Lui è morto - be', quasi - per tirarmela fuori, era sicuro che non sarebbe tornata mai più…»
Layne scosse la testa, togliendosi la pipa di bocca. «Non è tornata… è stata riattivata. Da me.»
«Da te
«Be', dalla quantità di energia che io ho assorbito e che nessuno s'è preso la briga di tirarmi fuori. Oh, non preoccuparti, sto benissimo» Aveva notato il lampo di preoccupazione negli occhi della bionda prima ancora che lei potesse pensare di far domande. «È utile. Aiuta a combattere la noia.»
«E come?»
«Un sacco di alieni mi trovano interessante, adesso. E dovrei anche menzionare il fatto che mi faccia piovere graziose ragazze seminude in casa.»
«Non sono seminuda!» Questo le ricordava molto qualcos'altro. Si strinse le braccia attorno al petto, per buona misura, anche se indossava solo una t-shirt a mezze maniche.
«Non preoccuparti, siamo di vedute aperte, qui.» Layne si alzò di nuovo per andare a svuotare la pipa nel camino spento. «Ad ogni modo, la mia energia ha risvegliato la tua. L'ha richiamata, sarebbe più preciso dire… e tu ti sei ritrovata qui.» Le puntò contro il cannello della pipa. «Complimenti per la pazienza, mi hai lasciato divagare quanto ho voluto.»
«Anche al Dottore piace divagare.»
«Capisco» Layne annuì, concedendole uno sguardo di sbieco. «Ora, mia cara… come ti chiami?»
«Rose, Rose Tyler. Vivevo… vivo a Londra… beh, una storia troppo lunga.»
L'altra annuì; sembrava non fosse molto interessata, ad ogni modo. «Sì. Bene. Non ho la minima idea di come farti tornare indietro. Non è qualcosa che ho scelto volontariamente. Quindi, ora, è meglio se ti presto un vestito, se speri di ambientarti qui.»

***
 

«Ma santa di quella miseria, Dottore! È sempre così?» John era appeso ad una sbarra di ferro all'interno della TARDIS, dopo essere stato sbattuto per tutto il vortice del tempo e dello spazio, con la sciarpa che gli scendeva fino alle gambe e il maglione alzato fino allo sterno, che mostrava la sua pancia piatta e bianchiccia. Sherlock, invece, era in piedi perfettamente immobile al centro della macchina, che fissava il Dottore con un interesse quasi rapace. «Dove siamo, Dottore?»
«Oh, non ne ho idea. Così è molto più divertente!» Toccò un paio di volte quello che sembrava lo schermo di una televisione d'annata appeso ad un tubo di un'aspirapolvere e sorrise «La TARDIS mi sta dicendo che sembra che ci sia una forte energia temporale, da queste parti. Come… un catalizzatore. Qualcosa di elettronicamente e sonoramente… non so come spiegarvelo. Attivo. Come uno ione» Sherlock annuì, impassibile «Ovviamente» 
Uscirono dalla TARDIS troppo velocemente perché John potesse seguirli, e si trovò a correre dietro ad un pazzo con una cabina blu e ad un sociopatico troppo pallido, entrambi con gambe molto più lunghe delle sue, per un mondo e un tempo che avrebbe potuto essere qualunque. 
Sherlock e il Dottore si fermarono in una strada che sapeva di piscio e vomito non pulito, ma questa volta poteva sentire benissimo l'odore dolciastro di alcool. Avevano tutti e due gli occhi che si muovevano veloci tra una mattonella e l'altra, tra un dettaglio e l'altro. «Londra. 1890» il Dottore fissò Sherlock ammirato, e John pensò che si stesse trattenendo dal battere le mani e saltargli attorno urlando che sì, finalmente aveva trovato il suo amichetto. «Impressionante!»
«No, ovvio. La calce dei palazzi, i manifesti che ci sono appesi in giro, la stampa del Times… non usano il Times New Roman, deve essere prima dell'inizio del '900» si portò la pagina di giornale che aveva raccolto da terra al naso «e l'odore non è dell'inchiostro chimico, è ancora una miscela di china. E poi… beh, c'è la data. 13 aprile 1890» 
«Bene, adesso sappiamo quando. Dovremmo solo capire cosa, o chi» 
John aveva smesso di seguire i loro ragionamenti da tempo, ma tornò presente a sé «Cosa o chi… cosa?» ricevette sguardi stupiti sia da parte del suo coinquilino che da parte del Dottore. 
«Ma chi o cosa sta catalizzando l'energia, è ovvio, John» 

 

***

 «Rose? È finito il latte» 
«E perché non vai a prenderlo?»
«Perché ci vai tu» Layne le tese il cappotto con un sorriso e svuotò la pipa sul divano «E prendi anche del tè, che è quasi finito» 
Due anni. Erano passati due anni da quando era arrivata in quella Londra in cui tutto sapeva di vapore e sporco, ma ancora non si era abituata a Layne. Si era abituata a tutto, agli scarichi in mezzo alle strade e ai mercati del pesce che puzzavano a chilometri di distanza, ma non era ancora riuscita ad abituarsi a come quella ragazza potesse essere così incredibilmente intelligente, spigliata e pigra. 
«Non sono pigra, cerco di tenere le mie energie per quando serviranno davvero»  
«Non puoi sapere a cosa stessi pensando, dai. Lì non ci arrivi neanche tu.» 
Layne le strizzò un occhio e le lanciò un cappello marrone «Questo lo credi tu, dolcezza.»
«Ma va a cagare, dolcezza» le lasciò un bacio delicato sulle labbra e si chiuse la porta alle spalle. Si calcò il cappello in testa e scese rapidamente le scale dell'appartamento, incontrando Ianto che invece saliva dal pianterreno.
«Latte?»
«Come faccia a finirlo così velocemente, è un mistero.»
«Magari vuole solo far esplodere la casa mentre non ci sei, così da poter fare la gnorri al tuo ritorno.»
«L'ha mai fatto?»
«Oh, sì. Corri, signorina, corri.»
Rose uscì dal palazzo ridendo e avviandosi a passi veloci lungo la strada, tenendosi il cappello sulla testa. Tirava un vento freddo e forte, che però, almeno per un po', scacciava quella nebbia tanto cupa che, se gliene avessero parlato nel XXI secolo, non ci avrebbe creduto. Lungo Baker Street passavano calessini e carrozze, dame dai lunghi abiti e uomini distinti in bombetta. Rose ci aveva fatto ormai l'abitudine; e d'altro canto, stranamente, una parte di lei trovava quel tempo più normale, suo di quello in cui era nata. Qualcuno avrebbe detto che era una vera viaggiatrice; ma ormai Rose aveva imparato a non pensare più così spesso al Dottore, e anche vedere un uomo con indosso un cappotto lungo non le faceva più saltare il cuore in gola. Avrebbe avuto come minimo dieci infarti al giorno, visto la moda del tempo.
Ovviamente non l'aveva dimenticato. Le era impossibile, come non provare malinconia per i suoi genitori. E c'erano ancora notti in cui si svegliava di soprassalto con la sua voce nella testa, e la sensazione che il mondo si stesse muovendo sotto di lei, girando, correndo; i vortici del tempo si aprivano nella sua mente, in quel momento in cui non si è sicuri di essere svegli o di star sognando.
Ma in quei momenti arrivava Layne. Era sempre lì, un'ombra più scura delle altre nella sua stanza, accanto al suo letto, una presenza calda quando di solito tutto il suo calore consisteva in semplici occhiate di sottecchi. E quindi Rose aveva lasciato che il dolore e la perdita si allontanassero da lei, rimanendole da qualche parte nel petto, proprio sotto il cuore, intrappolati sotto qualcosa che doveva essere malinconia, ma con cui stava imparando ad avere a che fare. Era un po' come sentire una vecchia canzone di Bob Dylan passare alla radio. Mette tristezza, ma in ogni caso sorridi, anche se sul parabrezza della tua macchina stanno piovendo gocce grosse come pugni, perché ti senti a casa. E Rose, con quella strana ragazza che aveva l'intelligenza di tutti i premi Nobel messi insieme e quel maggiordomo che continuava a chiamarla "signorina" si sentiva finalmente a casa. Era parecchio che pensava che il Torchwood non facesse davvero per lei, c'era troppa morte, troppa cattiveria, troppe gabbie nei metodi di quella protopolizia perché lei potesse andarci d'accordo.
Non si era neanche resa conto di essersi messa a camminare così velocemente. Si era tirata su la gonna - nei limiti della decenza - ed era entrata nel mercato. Era già davanti ai primi banchetti, e non se n'era accorta. Scosse la testa, con quel sorriso a trentadue denti che a Mickey era sempre piaciuto tanto, e si chinò sui sacchetti di telina viola che una signora con una mantella nera stava vendendo. Sapevano di biscotto spappolato sotto la pioggia e lavanda. 
«Ma'am, ne prenda un paio» le mormorò la donna da sotto il cappuccio della mantella. Aveva dei riccioli biondi che sfuggivano alla crocchia alta e due occhi chiari che sprizzavano vita. Per un attimo le sembrò di vedere qualcosa di familiare in quelle fossette, ma scacciò il pensiero scuotendo la testa «Davvero Ma'am, si fidi di Miss River Song. I migliori biscotti da che Londra è stata fondata - e si fidi, ne so qualcosa! Solo una sterlina, per lei» 

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Capitolo 2
*** Mystery Spot ***


«ROSE! Oh, per fortuna sei arrivata!» Layne era in piedi sul divano, con addosso la sua vestaglia di raso lilla, e agitava una pagina di giornale come fosse la bandiera del primo Americano sulla Luna. La pipa era abbandonata lontano, in un angolo, sporgeva appena da sotto la poltrona, e Rose aveva imparato che da una parte poteva essere un buon segno, perché voleva dire che la sua compagna sarebbe stata impegnata almeno per le prossime due ore. Dall'altra indicava qualcosa di così vicino alla fine del mondo da spaventarla, perché la sua compagna sarebbe stata impegnata su qualcosa almeno per le prossime due ore, e lei non avrebbe avuto modo di scapparne. «È appena passato Lestrade… guarda!» le sventolò il giornale sotto il naso tutta agitata. Rose si limitò ad annuirle e girarle le spalle, mettendo il latte nella credenza e porgendole il sacchetto dei biscotti. «Vedi, Rose? Vedi? L'hanno ammazzato questa mattina… non se n'è accorto nessuno, non li hanno neanche sentiti urlare, ma erano sotto Buckingham Palace! Nel Cortile Reale, santo Dio!» 
«Beh, Layne, non tutti si esaltano per un po' di sangue e qualche intestino fuori posto…»
«Tu non capisci! Guarda chi hanno ammazzato» la fotografia era di un uomo stempiato, con delle borse sotto gli occhi che avrebbero fatto invidia a quelle di Jackie dopo una settimana senza sonno, basettone folte e guance troppo piene. Lei sbatté le palpebre per metterlo a fuoco, poi si passò la lingua sulle labbra ed inclinò un po' il capo. «Oh, Gesù, Rose! È il cameriere personale del principe! Una storia scandalosa, si diceva che avessero una relazione…»
La bionda sbuffò. Layne avrebbe anche potuto sapere quante macchie c'erano sulle mutande del suddetto principe e nessuno si sarebbe sorpreso. «Okay, è morto… quindi?»
La detective saltò giù dal divano e iniziò a marciare per la stanza, scavalcando i mucchi di disordine e frugando nel sacchettino di biscotti. «Nessun rumore. Nessuno se n'è accorto, e sai cosa- chi c'è sotto Buckingham Palace?»
«Uh…»
«Rose! Sono due anni che vivi qui! Le guardie, tesoro. Quelle col cappello ridicolo. Non si può ammazzare il cameriere personale del principe sotto il naso delle guardie della Regina e farla franca!»
«Oh, Dio… E io che stavo ancora cercando un regalo di compleanno da farti. Sembra che mi sia risparmiata la fatica.»
«Non essere stupida, sai già cosa voglio per il mio compleanno.» Layne le rivolse un'occhiata da attraverso le ciglia e si portò alla bocca un biscotto. Ma, appena lo addentò, fece un salto e lo sputò.
«Che succede?» Rose fece un balzo in avanti, e dopo un attimo si ritrovò a fissare il mezzo biscotto con espressione stralunata. Da dentro ne sporgeva qualcosa di metallico e argentato.
Prima che potesse tirarla fuori lei, le mani della bionda si mossero di scatto. Teneva quel pezzo di ferro fra le mani e lo fissava. «È una chiave» sussurrò. Un attimo dopo prese a frugarsi nella scollatura del vestito e ne tirò fuori una uguale. La teneva al collo da quando si era resa conto che i vestiti vittoriani non avevano tasche comode. Non la toccava spesso, ma c'era, un peso freddo al mattino, che in pochi secondi assorbiva il calore della sua pelle. La chiave della TARDIS. 
Le mise al confronto tenendole nel palmo. Non erano semplicemente simili. Erano uguali. Stesse scanalature e incisioni.  Layne gliela rubò dalla mano e iniziò ad osservarla con la sua lente d'ingrandimento. «Chiave, dici. Ma di cosa? Non ci sono impronte, non c'è… nulla. Come se non fosse mai stata toccata. Non ci sono impronte, segni, graffi…A cosa serve?»
«Layne…»
«Cosa può aprire una chiave che non è mai stata usata?»
«Layne, davvero…»
«È come se non l'avessero presa in mano neanche per metterla dentro il biscotto»
«Layne, ascoltami!» si rese conto di aver urlato soltanto quando vide la mora zittirsi di colpo «No, scusa… comunque, io so cosa apre» sentì le lacrime pungerle contro gli occhi, e una le scivolò sulla guancia, per finire sulla generosa scollatura del suo vestito. La TARDIS, Raxacoricofallapatorius, i Dalek… aveva tutto in testa. Nel suo hard disk personale. Anche quel viso con gli occhioni grossi, da passerotto, che dicevano più di quanto lui non volesse, di tutti i suoi anni, di tutto quello che aveva visto, di tutto quello che aveva perso e lasciato. Era inutile che si contasse storie, le mancava più di qualsiasi altra cosa; più di sua madre e più di Mickey, più di tutto. 
Ma il Dottore stava tornando. Stava tornando per lei.
«Tesoro, stai piangendo…» Rose però sorrideva ancora.
«Layne, sta arrivando»
«Chi sta arrivando, Rose?»
«Il Dottore»

«Non è che solo perché voi due avete due trampoli per gambe vuol dire che io riesca a starvi dietro!» John stava ansimando pesantemente per tenere il passo degli altri due, che camminavano spediti confabulando di Dio-solo-sa-quali morti e feriti. Dai pochi stralci di conversazione che era riuscito a comprendere aveva dedotto che Sherlock finalmente doveva aver trovato qualcuno che capisse davvero la differenza fra 243 diverse polveri di tabacco, e non aveva la minima intenzione di entrare nel merito. 
Si fermarono davanti ad una strada un po' più larga delle altre, dove il cartello verde e oro diceva "Baker Street". «Ma guarda un po' le coincidenze…»
Il Dottore era diventato pallido «Mai ignorare una coincidenza. A meno che tu non sia impegnato, nel qual caso sempre ignorare una coincidenza. Ti sembra che possa essere davvero una coincidenza?» tirò fuori dalla tasca del suo cappotto uno strumento lungo, come una penna, di metallo grigio. «E quello sarebbe…?»
«Il mio cacciavite sonico. Io amo il mio cacciavite sonico. Ci indica la fonte dell'energia» sulla punta del cacciavite iniziò ad illuminarsi ad intermittenza una lucina blu accompagnata da un rumore… sonico. «E guarda caso, sembra che tutta l'energia della faglia converga proprio qui. Eh, già» John e Sherlock alzarono gli occhi al palazzo che avevano lasciato appena qualche ora prima. Era completamente diverso, sembravano essere passati secoli e che si fossero ritrovati all'improvviso in uno di quei film post-apocalittici in cui il mondo torna ai regimi dell'ottocento. O - per quanto la mente di John non volesse ancora prendere in considerazione l'idea - erano davvero nel 1800. Le pareti del palazzo erano scrostate e macchiate d'umidità scura, si vedevano i mattoni rossi e sbriciolati sotto la vernice marrone, dal camino usciva un filo di fumo nero come la pece e il cartello con scritto "221b" era di legno dipinto di nero ma scheggiato, che si intravedeva il bianco sotto, e si era stortato sul chiodo che lo teneva appeso al muro. Il batacchio sulla porta invece era rimasto lo stesso. 
«Ma quindi come facciamo, Dottore? Semplicemente bussiamo alla porta e diciamo di venire dal futuro? Un po'… Spock, non credi?» 
Lo sguardo del Dottore si inumidì «C'era una mia amica che mi chiedeva sempre di fare le cose un po' più Spock. Se mi vedesse adesso allora sarebbe fiera di me» prese un grosso sospiro, come a scacciare la tristezza, e alzò gli occhi al cielo nuvoloso. «Io vado a dare un'occhiata qui in giro. Voi non vi allontanate»

Rose si buttò giù dalle scale, inciampando più volte nel vestito lungo e nel cappotto troppo grosso che si era buttata sulle spalle. Layne era dietro di lei che scendeva, più calma, come se fosse la principessa del regno incantato di Baker Street. «Ianto, portaci su tre tazze di tè, per favore. Abbiamo ospiti»
«Oh» rispose il cameriere, con il suo solito sorriso gentile, sistemandosi la giacca «Qualcuno di importante?» Rose si voltò dal fondo delle scale e gli rivolse il sorriso più grosso che Ianto Jones, nei suoi trent'anni di vita in universi diversi avesse mai visto «La persona più importante dell'Universo»
L'aria fresca le colpì il viso, ma non se ne accorse neppure. Si guardò intorno, appena fuori di casa, alla ricerca di un cappotto lungo, di una cabina telefonica blu più grande all'interno o di un cacciavite sonico un po' difettoso, ma tutto quello che vedeva davanti a sé erano due uomini che sembravano fuori luogo quasi quanto lei: uno era troppo alto e troppo pallido, vestito di scuro con un cappotto che ricordava inquietantemente quello di Layne, un colore di capelli che ricordava inquietantemente quello di Layne, degli occhi che ricordavano inquietantemente quelli di Layne e degli zigomi che ricordavano inquietantemente quelli di Layne; l'altro invece era più basso, con i capelli corti a metà tra il biondo e il castano e un sorriso gentile sul viso. Restarono per un attimo a fissarsi a vicenda, e negli occhi di quello alto vide lo stesso sguardo che la sua compagna le rivolgeva ogni volta, quella stessa piega nelle labbra che le era a premonizione del fatto che stava per dire qualcosa di assolutamente assurdo e assolutamente vero, Dio solo sapeva come. «Neanche tu sei di qui vero?»
Layne uscì dall'appartamento con gli stivali che ticchettavano sui ciottoli della via. Arrivò appena fuori dalla casa e mise un braccio attorno alla vita sottile di Rose. «Rose, tesoro, sai chi sono questi signori?» sia Rose che l'uomo più basso rimasero con un'espressione sbalordita. Erano uno davanti all'altra, Layne e quell'altro ragazzo. Stessa pelle pallida all'inverosimile, stesso sorrisetto da "io-so-e-tu-no", stessi occhi cangianti… stesso tutto. Anche stesse espressioni, micromovimenti, come se fossero la stessa persona. «Beh, c'è da ammettere che questo è… interessante.» giunse allora una voce che, oh, Rose conosceva bene, fin troppo bene, anche se quel tono - sorpreso, devastato, spaventato, felice - gliel'aveva sentito poche volte.
Si girò di scatto. Il Dottore, con passo esitante e lungo cappotto marrone, si avvicinò, spostandosi dal muro che stava sondando col suo cacciavite sonico. «Ciao, Rose.» La voce gli tremava. «È… bello, vederti.»
E lei si mosse. In realtà, il suo cervello non registrò il movimento, ma si era indubbiamente mossa - riusciva a vederlo attraverso gli occhi appannati di lacrime e a sentirlo; all'inizio furono due passi timidi, poi uno slancio, finché non si ritrovò contro di lui, addosso a lui, le braccia strette attorno al suo collo ed i piedi sollevati da terra perché lui era così incredibilmente alto, e le braccia del Dottore erano strette attorno alla sua vita ed era tutto proprio com'era stato un tempo, tranne che il lungo vestito di Rose, svolazzando, li aveva praticamente avvolti entrambi.
Ci fu un lungo momento di silenzio, poi lui la lasciò andare. «Tu eri in un altro universo» sussurrò il Dottore, prendendole il viso fra le mani. «Come puoi essere qui? A meno che io non sia impazzito del tutto, il che, dopo novecento anni potrebbe anche essere possibile.»
«Credo di poterglielo spiegare io… Dottore, giusto?» Layne si era avvicinata, e per la prima volta aveva un'espressione incerta, quasi comica perché non le derivava da una deduzione poco probabile, ma dai suoi sentimenti, che sembrava ascoltare poco volentieri.
Il Dottore si voltò verso di lei e le rivolse quel suo sguardo penetrate e attento, con gli occhi castani grandi e lucidi che mostravano sempre più di quanto lui non volesse, e sembrò capire tutto anche solo guardandola. «Tu hai aperto una frattura» sussurrò. «Nello spazio-tempo, e ti sei impregnata della sua energia.» Infilò una mano nel suo cappotto e con un guizzo ne tirò fuori il cacciavite, che puntò verso la detective. La punta iniziò subito a illuminarsi e vibrare.
Layne sorrise. «Le storie che Rose mi ha raccontato erano giuste, sei davvero brillante. Sì, è vero - non era mia intenzione, ma ho fatto un piccolo… errore di calcolo con un esperimento.»
Il Dottore si passò una mano fra i capelli; con l'altra continuava a tenere Rose per la vita, sembrava non se ne accorgesse nemmeno, come fosse un riflesso condizionato. Lei sapeva che l'avrebbe fatto e sapeva anche ciò che avrebbe detto dopo. Era inquietante il modo in cui lo conosceva, in cui le era entrato nel sangue. Era suo. «Un piccolo errore?!» strillò il Dottore, ancora strofinandosi la testa con il cacciavite, che iniziò a illuminarsi. Rose rise e prese il suo polso per tenergli la mano fra le sue. «Calmati, okay?»
Lui la guardò, mugugnò qualcosa d'incomprensibile, distolse lo sguardo e tornò a guardare Layne. Tirò un profondo sospiro. «Quanto è grande, la frattura che hai aperto con quel… piccolo incidente?»
La detective sospirò. «Mai sentito parlare della… faglia di Cardiff?»

«E quindi tu saresti me.»
«Apparentemente, sì.»
«Donna.»
«L'ultima volta che ho controllato lo ero.»
«Nell'800.»
Layne sospirò. «Inizio a dubitarne. Vuoi che ti faccia un disegnino?»
La faccia di Sherlock si raggrinzì di dispetto, e John soffocò la risata nel suo tè «Un'altra donna che ti batte, Sherlock?»  Sherlock sbuffò e raccolse il giornale dal tavolino «Quindi la gente viene ammazzata anche qua da voi, e tu fai quello che faccio io nel tempo vero»
«Il tempo vero?»
«Sì, quello giusto» 
Layne gli lanciò uno sguardo di ghiaccio «Questo è il tempo giusto»
«Piantatela, bambini, o la mamma non vi da i vostri biscotti» mormorò il Dottore, che si era buttato su una poltrona di pelle con Rose seduta sul bracciolo «Ogni tempo è giusto in sé. Il tempo non è una linea retta, ma può intrecciarsi, modificarsi e disegnarsi con arzigogoli stupendi che neanche vi immaginate. Un po' come se Lady Diana incontrasse Cleopatra»
«Lady chi?» chiese Layne, con una voce stupita ma condita già di abitudine; in quelle ore si era già stupita più di quanto non avesse fatto in tutta la sua vita.
«Ups. Spoiler»
«Spoiler? Oh, ma piantala, tu e il tuo "oh, sì, sono un alieno, sono misterioso, viaggio su una cabina telefonica blu e dico cose senza senso". Me ne bastano due di creature del genere nella stessa stanza e, per inciso, con una di queste vivo. Quindi, se non ti dispiace…» la voce di John era alterata, ma scherzosa, non irritata. Sorrideva, e Sherlock sorrise di riflesso, senza neanche accorgersene. 
«No, nulla di importante. Era solo una cosa che mi ha detto una volta una signora in una libreria, che poi era una foresta di esseri che mangiavano la carne umana ma erano la polvere dei libri, in cui siamo andati per aiutare delle persone che erano già state… salvate nell'hard disk di un computer che era una bambina salvaguardata da un… antivirus, che poi, per inciso, era la luna, per evitare che venissero mangiate dalle suddette creature. Uh,» tirò il fiato alla fine della frase «più ne parlo più mi sembra incredibile. Sono incredibile, vero?» Rose gli batté una pacca sul ginocchio e rise. Sì, le era mancato anche il suo folle egocentrismo e la sua tendenza a dire cose apparentemente senza senso, oltre a quel ciuffo castagna di capelli spettinati e a quei grossi occhioni da passerotto spaventato. Era così felice di averlo di nuovo di fianco a sé, e di sentire il suo odore di sapone e legno vecchio, ma aveva paura per Layne. Era brillante, certo, era sveglissima, ma forse neanche lei era pronta per tutto questo. Erano successe troppe cose, due ragazzi di cui uno era probabilmente un suo pronipote - o una sua reincarnazione - e un alieno le sbarcavano davanti a casa e le dicevano che aveva aperto una frattura nello spaziotempo, anche se lei doveva già sospettarlo, e iniziavano a parlare di cose fuori da ogni grazia di Dio tipo computer, hard disk, antivirus e creature mangia-uomini provenienti da un'altra dimensione. Fisso la ragazza per un attimo da sotto il ciuffo biondo, sperando che lei non se ne accorgesse: stava guardando Sherlock, incuriosita, e si soffiava via dalla faccia un ciuffo di capelli neri che le cadeva sulle lentiggini tra il naso e gli occhi. Non sembrava spaventata, ma neanche troppo a suo agio, stava tamburellando per terra con un piede, veloce, un ritmo in quattro tempi. Qualcuno che conosceva troppo bene e di cui adesso sentiva il profumo non l'avrebbe chiamata coincidenza, ma c'erano già abbastanza elementi in campo senza necessariamente fargli presente anche quello. 
«Quindi abbiamo due Holmes in azione» disse Layne, sorridendo con quello che Rose conosceva già abbastanza bene come il sorriso delle cattive intenzioni «Possiamo risolvere quest'indovinello in cinque minuti, vero?»
«Indovinello?» 
«Omicidio» John annuì sconfortato in risposta al Dottore. Ormai era abituato a quel tipo di fraintendimenti. 
«Insomma, cosa ci facciamo ancora qui? Abbiamo due superintelligentoni, un superintelligentone galattico dotato di una notevole avvenenza -sì, sono io - e una ragazza che ha vissuto in tre tempi diversi. Andiamo a risolvere misteri come una vera squadra! Come… CSI BakerStreet!» gli occhi del Dottore brillavano come ad un bambino con un giocattolo nuovo.
«Oh, questa mi sembra di averla già sentita da qualche parte. E comunque grazie della considerazione» 
«Di niente, John» gli strizzò un occhio e si ficcò di corsa il cappotto addosso «No, sul serio. Cosa stiamo aspettando? Su, su, non sono capace di starmene con le mani in mano ad aspettare che le cose capitino!» Mentre scendevano in massa le scale con la leggerezza di un branco di elefanti ipereccitati, Layne si avvicinò a Rose «Cos'è CSI?»
«Oh, sai una fic… beh, una di quelle cose che passavano in televis… Nah, lascia perdere. Roba da alieni»

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Capitolo 3
*** The Monster at the End of This Book ***


C'era troppo rumore e troppa gente, ma per il resto non era molto diverso da casa sua.  Non sapeva neanche come ci era finito, lì, era a Cardiff, nella Prigione, e poi era lì, in mezzo a tutta quella gente che correva da ogni parte e vociava, vociava, vociava, e c'erano quelle guardie, con quei ridicoli così neri in testa, e rumore, rumore, rumore… tutto quel rumore… e luce, i suoi occhi non erano più abituati alla luce, dopo tre anni nella Prigione… e poi tutte quelle persone, che sapevano di carne e di sangue e si ricordava solo di essere caduto in ginocchio, con la testa tra le mani, e che cercava di strapparsi i capelli mentre gli occhi gli pulsavano fin dentro le tempie, ma nessuno si fermava ad aiutarlo, perché nessuno lo vedeva, perché lui all'improvviso era ma non era, e quella bambina ricciola per mano alla madre gli era passata in mezzo e lui l'aveva sentita distintamente, fredda e dura, passargli attraverso alle costole, la spina dorsale che si allargava come una via per farla passare, e la testa, la testa, la testa, la testa esplodeva, in un turbine rosso e blu, e d'oro e verde, in un vortice che faceva male e non poteva essere ma c'era, presente più che mai, come alla Prigione, che in molti lo chiamavano pazzo, ma lui non si era mai convinto di esserlo davvero, no, lui non era pazzo, no, era solo giusto, perché non aveva ucciso quelle persone per la sua follia, come quei signori con il camice bianco sostenevano, ma per le parole, le parole, le parole erano lì, scritte addosso a quelle persone, la loro pelle bianca come pergamena, ed erano parole che non aveva mai sentito, in altre lingue che chissà come riusciva a capire e le gustava sulla lingua, se ne appropriava mentre il loro sangue scorreva fra le sue mani, nei suoi capelli e quelle parole, lì, erano dappertutto, le leggeva sui palazzi e sulle carrozze e sulle persone e voleva assaporarle sulla lingua, come ai vecchi tempi, prima di essere rinchiuso in quella cella buia e dura e morbida e il freddo delle sbarre sulla sua lingua, senza neanche un filo d'aria all'esterno, che non si ricordava più neanche come fosse, l'aria, l'aria, l'aria che respirava e si fermava lì, fredda, nei suoi polmoni che sembravano sudare, e ancora non riusciva a muoversi, ancora non riusciva a carpire quei suoni, quei simboli, erano inarrivabili, le sue mani troppo deboli, inconsistenti come tutto il suo corpo, non sapeva quanto fosse rimasto immobile in mezzo alla strada, la folla attorno, sopra, attraverso di lui, un dolore simile a mille squarci di coltelli arrugginiti ogni volta che si aprivano un varco nella sua carne invisibile, inesistente, giacché ormai la pallida luce del sole, per lui, non aveva più alcun significato, finché, ad un certo punto, non l'aveva sentito, il potere, il potere, il potere, quel potere dentro di lui, sedimentato in quell'impossibile passaggio da un luogo all'altro, il potere era un fiume tumultuoso e dorato di energia, scorreva dentro di lui, occhi, denti, tempie, capelli, mani, unghie, sentiva ogni parte del proprio corpo come non ne era mai stato capace ed era riuscito ad alzarsi e a camminare perché il potere era fuoco e ghiaccio e terra e acqua, ma quelle parole troppo nuove ancora sconvolgevano la sua mente, gli esplodevano sulla lingua e nel cervello, accecandolo, impedendogli di carpirle, ma era riuscito a entrare in una fortezza dove i simboli erano incisi a caratteri cubitali, chiari sui marmi bianchi venati del nero dello sporco di quel mondo disgustoso ma così infinitamente pieno di parole, parole dorate e dolci, parole di ferro e buio e dure, dure, dure, e chiunque passasse per quel palazzo ne aveva di ancor più potenti incise addosso, passò per un salotto pieno di rasi in cui due donne, una vestita d'oro, l'altra in un completo da uomo, parlavano con le teste accostate, ma era ancora troppo debole per prendere i simboli impressi loro addosso, nonostante fossero tanto brillanti da accecarlo e si ritrovò di nuovo nel cortile, e fu allora che la prima scarica di potere, tanto forte da bruciargli la pelle e strinargli le ciglia, lo colpì e lo vide un uomo grasso scendere da una carrozza, tutto quel flaccidume recava impressi marchi che, benché non potenti quanto quelli delle due donne, erano molto più splendenti di quelli che aveva visto per strada, ma si offuscavano in nuvole di cenere verde e oro, e lui aveva diretto il potere su tutti quei colori vaporosi e vacui, e il sangue era schizzato dalla gola, dai polsi, dal petto di quell'uomo, mentre la sua carne bruciava, e lui la prendeva, la prendeva, la prendeva stringendosela forte perché bruciare all'inferno non era male come bruciare in mezzo agli angeli e anche l'uomo urlava, urlava, e sentiva la sua gola aprirsi nelle sue dita, ancora, ancora, amara e brillante, ma quando le sue guardie arrivarono il suo cadavere era già quasi completamente dissanguato, e accanto al non c'era nessuno né niente, se non un paio d'impronte di sangue, fatte dalle dita di un piede nudo, e le parole erano di nuovo libere, e poteva prendersele, adesso, e giocarci come aveva fatto per tutto quel tempo, poteva metterle di nuovo in fila in ordini precisi e sentirsi il Dio di un universo tutto suo. Con quelle parole di luce e pietra poteva tornare a costruire il suo mondo. 

***

«E adesso che siamo qui cosa sperate? Di poter prendere ed entrare a Buckingham Palace come se nulla fosse?»
«Oh, io sì» il Dottore sorrise e mostrò la sua carta psichica «Ma non so se riesco ad inventarmi una copertura decente per tutta la troupe»
«Ma non serve. Ho… delle conoscenze, lì dentro. Diciamo delle conoscenze molto prossime» Layne si tirò su il colletto del cappotto, al che John diede di gomito a Sherlock «Ah, ma allora è un vezzo di famiglia»
«Non fare spirito, John, siamo su una scena del crimine» 
La ragazza entrò nel cancello di ferro battuto a passo deciso, e le guardie non cercarono di fermarla. Mentre attraversavano il primo cortile si girò verso Rose e il Dottore «Rose, ti avevo parlato di mia sorella, Liza?»
«Un accenno, forse…» e in quel momento si rese conto di quanto poco conoscesse la ragazza con cui aveva diviso la vita e il letto per quei due anni; sì, una sorella. Ma cosa faceva, e perché avrebbe dovuto lasciarli entrare con così tanta facilità nel centro del potere Britannico? E perché la polizia si fidava ciecamente di lei e le dava credito, nonostante fosse una ragazza che da sola si era procurata la sua fama? E come riusciva a guadagnarsi da vivere, se non voleva mai essere pagata? Scrollò la testa. A Layne bastava guardarla per capire anche quale fosse il cognome da nubile di sua nonna, ma per lei non era così. Lei era solo… umana, e quel pensiero le fece salire una specie di nodo alla gola, ma più simile ad un nido di tristezza nascosta per troppo tempo. Lei non era speciale, non era brillante né con poteri particolari. Era banale, tutto quello che aveva dalla sua erano una medaglia di bronzo ad un campionato di ginnastica artistica under sedici e una militanza di neanche un anno al Torchwood. Il Dottore percepì lo stato d'animo di Rose e le fece passare un braccio sulle spalle. Era sempre così. Lui sapeva sempre a cosa stesse pensando. Le sorrise, stringendola più forte. Sì che era speciale. Era una Figlia del Tempo. Aveva salvato il mondo da un invasione di Dalek. Aveva evitato il collasso dell'Universo nel Nulla. E la persona che l'aveva resa speciale ora le teneva una mano sulla spalla e la guardava con occhi brillanti. Sì, era decisamente felice. 
«… continua a dire che occupa una posizione minore qua dentro, ma in realtà lo sanno tutti che si porta a letto Vittoria» Layne aveva continuato a parlare, ma Rose era troppo assorta nei suoi pensieri per accorgersene. Però il sesto senso da gossip che le derivava da tutte le riviste scandalistiche che sua madre lasciava davanti al water era sempre sveglio «Scusa, chi si porta a letto chi?»
«Mia sorella. Si porta a letto Vittoria.» rispose la mora, con il tono di una persona che racconta di essersi fatta la doccia quella mattina. Anche al Dottore scappò un risolino adolescenziale, mentre John e Sherlock continuavano a guardarsi stupiti. «Una posizione minore nel Governo Britannico. E poi praticamente fa le veci del re- beh, della regina. Anche questa mi sa di già vista» 
Una ragazza alta, con i capelli rossicci lunghi ma legati in una crocchia alta che spuntava appena da sotto un cilindro di seta nera splendente come lo smoking e i pantaloni e che si appoggiava elegantemente ad un bastone di legno scuro venne loro incontro «Oh, Layne. Che sorpresa averti qua in giro. In genere non passi per riunioni familiari. Devo dedurre che è la morte del povero James a portarti qui, e non un improvviso slancio d'affetto per la tua amata sorella, dico bene?» 
«Oh, Liza. Parlavamo giusto di te. Ragazzi, lasciate che vi presenti Elizabeth Johanna Holmes, detta Lizard. O, se vogliamo essere terra terra, l'Impero Britannico.»
La donna agitò una mano, con aria infastidita, gli occhi curiosi appuntati su Sherlock. «Che trucco è questo, Layne? Mi ricorderei di sicuro di avere un altro fratello minore…»
«E questo è il Dottore, la fonte di tutti i mali» la detective spinse in avanti l'alieno, che incespicò nei lacci quasi sciolti delle Converse e fece un mezzo inchino. «Sempre felice di servire la corona» disse, con un sorriso e la voce squillante. Layne roteò gli occhi. «Lei è Rose Tyler, te ne ho già parlato, e loro sono John Watson e Sherlock Holmes, compagni del Dottore. Lui…»
«Viaggia nel tempo?» Liza fece roteare il suo bastone e sollevò un sopracciglio. Il lieve tono sarcastico della sua voce non lasciava capire se stesse scherzando o facesse sul serio, e Rose si ritrovò a chiedersi come potessero due persone così intelligenti nascere nella stessa famiglia. Tre se si presumeva che Sherlock ne fosse un discendente. E lei ancora non sapeva di Mycroft.
«Precisamente, milady.» Il Dottore fece il suo sorriso largo tutto denti.
Liza sospirò. «Ormai, Layne, sono abituata alle tue stranezze. Giochi ancora con quel… come l'avevi battezzato?»
«Rivelatore sonico di carica statica retroattiva» rispose la sorella, con la massima naturalezza. Il Dottore sbuffò. «Ti ho già spiegato-»
«Non lo chiamerò mai "cacciavite sonico", ci ho messo un intero pomeriggio a costruirlo e non lo definirò un semplice strumento di carpenteria, caro» La detective si ficcò le mani in tasca con decisione, prendendo la stessa espressione di Sherlock di fronte ad Anderson, al che John decise di salvare la situazione, perché se i tre - quattro, sospettava - cervelloni si fossero messi a begare sulla porta delle residenze del consigliere-scopamica della regina Vittoria la Prima Guerra Mondiale sarebbe potuta anche arrivare con trenta anni d'anticipo. «Sì, ehm, si potrebbe avere un tè?»
Liza lo guardò come se si fosse improvvisamente accorta della sua esistenza, e lui si pentì di aver parlato. Quello sguardo gli ricordava con fastidio le occhiate di Mycroft, come se lo stesse valutando come un pollo allo spiedo. "Quest'ex dottore militare potrà aiutarmi a parare il dorato culetto del mio sconsiderato fratello minore?" Sì. Sì, anche troppo. «Ma certo, un tè. Entrate.»
Dopo essersi accomodati su poltrone imbottite rosse, ed essere stati serviti da un maggiordomo materializzatosi al minimo sfioramento del campanello, Liza posò la caviglia sul ginocchio, si tolse il cilindro e fece roteare il ghiaccio nel bicchiere che non conteneva precisamente tè.
«Whisky alle quattro del pomeriggio, Liz? Il tuo fegato si allargherà… come va la dieta?»
John rischiò di sputacchiare tè dappertutto nel tentativo di contenere una risata. «Splendidamente, sorellina, grazie. Ora. Ho indagato io stessa sul luogo del delitto-»
«Il tuo indagare di solito comporta farti portare sul posto con una lettiga per non muovere le gambe, poi dare un'occhiata disinteressata e sforzarti di pronunciare il tuo verdetto.»
«E nonostante questo, sorella, riesco a cogliere l'essenziale.»
«Ma certo…» Layne bevve un sorso di tè, gli occhi freddi e sottili come lame - per la verità non sembrò neanche inghiottire, come temesse che la sua bevanda fosse avvelenata. Per precauzione, Rose riposò discretamente la propria tazza sulla vassoio. «E cos'hai visto?»
«Gradirei la tua opinione e quella dei tuoi stravaganti… amici» Liza si alzò e si rimise il cilindro. «Se volete seguirmi. Purtroppo non ho molto tempo libero.»
«Il letto di Vittoria si raffredda velocemente?» suggerì la sorella, melliflua. Il sorriso che ricevette in risposta avrebbe fatto rizzare i capelli sulla nuca anche al Dottore.
«Layne…» sospirò Rose.
«Oh, sono abituata al suo sarcasmo» commentò Liza. «Meglio ignorarla. Se vuole precedermi, Mr. Holmes…»
«No, sono ancora abbastanza fedele al buon vecchio galateo, che ho avuto la fortuna di imparare per dirle prima le signore»
«Devo dissentire. Prima le donne  e bambini, ma mi sembra che sia Layne che Rose siano già andate» 

***

Nessuno aveva ancora toccato il cadavere, anche se si poteva vedere che Lestrade doveva già aver mandato i suoi uomini dal fatto che il cortile era completamente vuoto, eccezion fatta per loro sei e il corpo bianco e grassoccio steso in una pozza di sangue. «Oh, è completamente antiestetico» si lamentò il Dottore, strappando un sorriso a Rose «il suo sangue rovina il bianco delle calle!» 
Layne, Sherlock e John erano già attorno al cadavere. «Dottor Watson, cosa sa dirci?» il dottore toccò il corpo sotto al collo e sul polso, per poi passargli una mano sotto la nuca «È morto da almeno ventiquattr'ore, ma il rigor mortis è intervenuto tardi, al massimo sedici ore fa. È stato ucciso con quella che direi essere… un'arma da taglio, ma deve avere una lama speciale, anzi, a giudicare dalle labbra della ferita non solo una lama, ma tante lame, una più grande e altre più piccole e più forti tipo… un coltello con tanti uncini o…» divenne bianco di colpo, e Sherlock gli rubò la parola «O l'assassino ha prima tagliato con un coltello e poi ha aperto la ferita con le dita. In questi punti ci sono dei piccoli ematomi che devono essere stati fatti mentre era ancora semi-cosciente, perché non sono verdi, ma viola, e sono delle dimensioni delle dita di un essere umano. Sappiamo che il nostro uomo - sì, è un uomo, nessuna mano di donna può avere dita così grosse e forti - è mancino, perché gli ematomi sono più vividi sul lembo sinistro della ferita, e il taglio sulla gola va da sinistra verso destra. Sarebbe stato un po' scomodo per un destrorso, no?» Layne si era accovacciata di fianco al petto dell'uomo e stava cercando nelle tasche della sua giacca «Ma perché avrebbe dovuto compiere uno scempio simile? Se voleva qualcosa da lui avrebbe potuto semplicemente ucciderlo e poi derubarlo, ma il suo orologio da taschino è ancora qui, e anche le vincite dell'ultima partita a carte… ci sono anche i risultati. Bridge, vero?» lanciò uno sguardo verso Liza, che annuì svogliata, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Forse voleva qualcosa che era dentro di lui…» azzardò timidamente Rose, ma tre sguardi glaciali di tre diversi Holmes la bloccarono «Ma cosa, Rose? Cosa può volere un assassino psicopatico dall'interno di un corpo umano?»
«Non potrebbe essere solo una minaccia, come Jack lo Squartatore, solo che al posto di prendersi le ovaie magari si è preso… non so, un polmone? Un rene? Un pezzo di intestino? Il cuore?»
«No, gli organi ci sono. Non proprio a posto, ma ci sono tutti» John scosse la testa e si ripulì una mano sporca di sangue sui pantaloni. «È come se si fosse semplicemente divertito. Ha giocato all'allegro chirurgo, ha incassato la banconota da cinquecentomila  e poi ha rimesso tutto a posto per il prossimo che deve venire a giocare»
«No,» mormorò il Dottore, che era diventato improvvisamente pallido «No. Non è vero, non c'è tutto. Manca una cosa fondamentale. Mancano le parole»



Se la parte senza punti vi ha spaventato fareste meglio a non leggere il resto - altrimenti, grazie, grazie mille, sia a coloro che continueranno che a quelli che hanno recensito e letto gli scorsi capitoli :D
Vorrei inoltre conferire alla mia socia l'award per il flusso di pensieri più lungo dai tempi di Joyce - A BAFTA FOR YOU! AND STILL NONE FOR BENEDICT CUMBERBATCH!

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Capitolo 4
*** Dead Men Don't Wear Plaid ***


Corsa, corsa, corsa, lontano dalla gente, giù, giù, giù, nel buio dei tunnel e al rumore scrosciante del Tamigi. Aveva le sue parole, adesso. Non erano ancora abbastanza, e non erano brillanti come aveva sperato, ma erano già un inizio. Il mondo vorticava sempre più veloce, ma almeno adesso la gente non gli passava più attraverso. Anzi, qualcuno riusciva addirittura a vederlo, e quindi anche le sue mani sporche di sangue, tutti i vestiti coperti di pezzetti di pelle umana strappata, lacerata, divorata per prendere quei marchi che gli bruciavano nella mente, sulla lingua, sulle labbra, dietro ai denti e premevano per uscire, ma non sapeva come, non sapeva come, aveva bisogno della sua carta, della sua penna, della sua collezione di parole nascoste, che alla Prigione gli avevano bruciato, ma adesso ne avrebbe iniziata un'altra, con parole nuove, più potenti perché prese con più violenza, e avrebbe architettato la migliore delle storie, si sarebbe creato il suo intero Universo, con i suoi piccoli soli e le sue piccole lune e… la testa, la testa faceva ancora male, le gambe urlavano perché non sapevano più correre, le mani tremavano e lo stomaco bussava contro la pelle, chiedeva di poter uscire dal suo piccolo mondo ricavato sotto sterno, tutto era dolore e libertà e gioia e tristezza e paura e eccitazione e movimento e stallo. Il rumore dell'acqua si faceva più forte via via che si lasciava alle spalle la città con tutto quel rumore, tutto quel rumore, tutto quell'odore di carne, tutto quel sudore, tutta quella gente, e più la città era lontana più l'acqua era vicina, e quando fosse arrivato all'acqua si sarebbe lavato, sì, lavato via il sangue avrebbe seppellito le sue parole per bene, in modo che non potessero prendergliele mai più, no, mai più, e avrebbe segnato con il suo, di sangue, dove le avesse lasciate, e sarebbe andato a cercarne di nuove mentre si faceva sempre più presente e sempre più vivo e tutto continuava a fare più male perché essere vero è dolore, quando non sei tutto è più facile, sei solo un pensiero, possono attraversarti, e tu non puoi fare nulla, ma quando ci sei davvero allora no, allora devi combattere per non essere calpestato, perché se ti calpestano fa ancora più male, allora devi fare vedere che ci sei e ci sei davvero, e devi trovare le tue parole, le parole, le parole, quelle parole che dovevano brillare più di dieci milioni di soli e incantare più di altrettante eclissi, perché lui era da tanto che non vedeva il sole, e non aveva mai visto un'eclissi, e non sapeva cosa fosse quella parola che aveva addosso, e doveva trovarla, ma era male, male, male, ma un male che spingeva a fare di più, di più, di più, sempre più lontano dalla città, doveva arrivare, sì, più lontano, dove c'era l'acqua, e sarebbe stato come nuovo, da solo con le sue parole, poi sarebbe andato e altro sangue, altro sangue, altro sangue, altra pelle che si strappa con il rumore di una cerniera che si apre e le mani che frugano e cercano anche le parole più profonde, quelle che ci sono ma che nessuno vuole mai dire, perché sono parole potenti e fanno paura, paura, paura è quello che urlavano i suoi muscoli, di non farcela, di cadere, di diventare reale e morire ma no, no, no, poteva farcela, era uscito dalla Prigione, non c'erano più pareti morbide e dure, e nere e bianche intorno a lui, non c'era quella luce che era buio, ma ora vedeva davvero il sole che calava e facevano male gli occhi, e la luna si stava alzando, e voleva piangere e correre, correre, correre, ancora più veloce, perché la città era grande, e vicina, e lui stava diventando vivo e vero e lì dentro in una città che era pronta a mangiarlo, rubargli le sue parole, ma erano sue, le parole, non potevano prendergliele, lui le vedeva blu e bianche e rosse e brillanti d'argento sulla superficie nera degli esseri umani e sapeva che doveva prenderle se no le avrebbero buttate e non si possono buttare le parole, non si può, non si può, perché le parole erano sue, lui le voleva per sé e scriverle, scriverle, scriverle, perché erano potenti come un tempo e l'acqua era sempre più vicina, il rumore più forte, più forte, più forte…
Si buttò nel Tamigi.

***

«Ogni mondo ha le proprie parole» spiegò il Dottore, concitato, muovendosi nella TARDIS come avrebbe fatto in un campo da football: agitava le braccia, correva in giro, frugava nei bauli e nei cassetti sparsi in giro; e anche se la nave era più grande all'interno, tutto quel suo entusiasmo finiva per scontrarsi con le altre quattro persone lì dentro. «Parole di potere. Sono impresse negli oggetti, e nelle persone.»
Lanciò a Rose un libro che aveva estratto da un grosso baule in stile piratesco; lei se lo rigirò fra le mani e aggrottò le sopracciglia. «Eragon? Davvero?»
«Ben povero esempio, lo so, ma facile da interpretare. Nel libro si parla di un'antica lingua che dà veri nomi alle cose, nomi che conferiscono un potere su di loro… "Brisingr" ed ecco un bel fuocherello scoppiettarti fra le mani» spiegò, continuando a frugare nel baule. Gettò via circuiti elettrici, una testa di cyberman e una sciarpa multicolore, prima di trovare ciò che cercava: una sfera simile a quella di una veggente, piena di fluttuanti figurine nere come corvi. «Ora, esiste - be', esisteva una razza di alieni nell'universo che possedeva la conoscenza dei veri nomi, ma hanno cercato di conquistare la Terra, così…» Inclinò la testa con una smorfia. «Eccoli qui, chiusi in questa boccia. Non ne è sfuggito nessuno. Ma il nostro assassino, proprio lui, ha preso le parole di quell'uomo, gliele ha strappate, le ha quasi… divorate.» Rimise libro e sfera nel baule, che chiuse con un tonfo prima di sedersi sul coperchio per osservare i suoi ascoltatori; Rose appoggiata alla consolle della TARDIS, Layne seduta per terra accanto al pilastro dove lui aveva buttato il suo cappotto, John e Sherlock vicini alla porta in piedi.
«Quindi che stai dicendo?» disse la detective, annoiata e infastidita; aveva fatto per tirare fuori la sua pipa, ma il Dottore l'aveva subito redarguita - «Non si fuma nella mia nave! Un po' di rispetto.»
«Sto dicendo che il nostro assassino, o è il frutto di un folle esperimento genetico fra Carrioniti e un essere umano oppure viene da un altro universo. E chissà cosa può esserci in altri universi? Può esserci anche una stella che brucia fredda, per ciò che ne so!» Si grattò la testa e si alzò dal baule per iniziare a girare attorno alla consolle. Dopo tre giri Rose lo afferrò e lo tirò accanto a sé; «Non farmi venire il mal di mare.»
«Aspetta, non vorrai forse dire…»
«Chi è che di recente ha aperto una spaccatura fra due mondi generando un sacco di energia e attirando a sé una ragazza che non avrebbe più dovuto mettere piede su questa Terra?» il Dottore passò un braccio attorno alla vita della bionda e ammiccò in direzione di Layne.
«Ehi!»
«Solo ipotesi» si difese l'alieno, alzando le mani.
«Ipotesi molto plausibili» rimarcò Sherlock.
«Oh, non mettertici anche tu» lo rimbeccò la sua pro-pro-pro-pro-pro-pro-pro-pro-zia, o quello che era, sventolandogli un dito contro. «Io non volevo trasportare qui nessuno, ho fatto solo esplodere una provetta!»
«Va bene, va bene, non è questo il punto!» tentò di calmarla Rose. Nel corso degli anni l'apertura della faglia di Cardiff aveva avuto varie ripercussioni sulla loro vita, prima fra tutte un'invasione di muffe aliene al 221B di Baker Street, ma in realtà non era mai morto nessuno. Non era mai successo niente di tanto grave da attirare il Dottore lì. «Il punto è che la faglia è aperta da quanto, cinque anni? Quel qualunque-cosa-sia ne è uscito solo adesso?»
Il Dottore guardò verso la consolle della TARDIS con aria pensierosa. «La faglia emana in continuazione energia, e spesso anche cose e persone provenienti da altri mondi. Ed è arrivato a Londra come te, Rose: la persona che gli ha permesso passare è qui.» Indicò Layne. Lei pareva volesse tirargli la propria pipa, o uscire sbattendo la porta. Non era abituata a essere rimproverata per i suoi errori.
«In realtà, Miss Tyler, il punto è come prendere l'assassino» disse, con voce glaciale. Rose si sentì colpire in pieno petto. Layne non aveva mai usato un tono così freddo, con lei. «Non importa com'è uscito, né perché, e neanche cos'è. Tutte queste domande potremo fargliele dopo.»
Il Dottore sembrò voler protestare, ma Sherlock lo interruppe. «Ha ragione.» Aveva unito la punta delle dita e le teneva sotto il naso. «Concentriamoci su quello che abbiamo. Mancino, mani umane. Non sembrava avere più di cinque dita, non erano troppo grosse, la forma dei lividi lasciava intuire polpastrelli. Poi. C'erano anche impronte di denti nella carne di quell'uomo.» 
John annuì. «Squadrate, incisivi e canini.»
«E le impronte insanguinate accanto al corpo» aggiunse Layne. «Erano piedi nudi, grandi, se ne andavano a passo di corsa. Erano comunque ben definite. E poi, puff!, sparivano nell'aria. Non si sarebbe potuto pulire i piedi da nessuna parte, è come se fosse… svanito.» Si voltarono tutti a guardare il Dottore, aspettando un suo verdetto.
«Be', adesso v'interessa cosa potrebbe essere, vero? Non fosse che questo è un problema, un vero problema, vi spedirei tutti fuori di qui» la sua voce era incredibilmente dura, tutta spigoli di metallo. «Non pensate minimamente a… lui, a qualunque cosa sia, spaventato o magari pazzo - non è facile passare attraverso a una frattura nello spazio-tempo. Quando qualcuno o qualcosa viene fatto passare da una parte all'altra, per un certo periodo di tempo diventa - come spiegarlo? - inosservabile. È come se non ci fosse, ma di fatto c'è. Avete mai giocato a SuperMario?» mentre Layne lo guardava stranita, Rose e John ridacchiarono «Benedetti anni novanta! Comunque, quando Mario veniva colpito per un po' poteva camminare tra i mostriciattoli senza essere visto e ucciso, vero? Poi, dopo poco tempo, tornava visibile, e attaccabile. È la stessa identica cosa, è l'unico meccanismo di difesa che offre il passaggio spazio-temporale. Come altro farebbe, se no, qualcuno che viene attratto dall'energia cosmica e magari si trova sbattuto sotto un treno in corsa? Morirebbe. Ma morire in un Universo diverso da quello di provenienza significa scomparire per sempre, non essere mai nati. E la faglia non può permettersi certi paradossi, perché adesso non ha l'energia per cancellare il ricordo. Quindi da il tempo a chiunque sia stato trasportato di ambientarsi. Il tempo di…» si mise una mano sulle tempie, cercando una parola che non suonasse troppo ridicola «di non-esistenza fisica dipende da quanto uno è forte. Mente e corpo, ovviamente. Per questo tu, quando la gentile signorina Holmes ti ha trasportato da questa parte, sei subito stata reale, perché tu sei fortissima, e il tuo corpo era già abituato ai viaggi nel tempo, tanto che la faglia è riuscita a trovarti proprio per l'energia residua» si trovò a fissare Rose con gli occhi che luccicavano, come se si stesse congratulando con una sua figlia che aveva appena passato un esame particolarmente difficile.
«Quindi, se quello che il Dottore dice è vero, abbiamo a che fare con un pazzo malaticcio. Ha ucciso quest'uomo quasi due giorni fa, e di lui ancora nessuna traccia» John aspettò l'approvazione di Sherlock, che non arrivò, sostituita però da un «No, John. Pazzo, sì. Ma non malaticcio. Da quello che ho capito, deve essere - come diresti tu - sano come un pesce e fuori come un balcone. Ha lasciato delle tracce sul corpo e sul pavimento, no? Quindi si presume che o la mente o il corpo siano state abbastanza forti da non farlo scomparire del tutto. E sappiamo di per certo che un uomo che ammazza a denti e morsi un altro per cercare delle parole che noi non riusciamo neanche a percepire non sia particolarmente dentro con la testa. Quindi deve essere forte» 
Il Dottore annuì, compiaciuto «Sì, forte e sano, credo di corporatura abbastanza robusta, anche se credo che il passaggio nella frattura possa averlo un po' prosciugato»
«Quindi dobbiamo cercare un uomo sano, grosso ma che sia dimagrito di colpo e che va in giro a cercare parole» mormorò Layne, segnando tutto su un quadernino nero già aperto oltre la metà «Non mi sembra un'impresa così impossibile. Ci saranno… sei o sette uomini in tutta Londra, forse dieci in tutta l'Inghilterra, a corrispondere a una descrizione del genere»
«Devi ricordarti che potrebbe essere chiunque. Non è di questo universo, Layne» Rose le fece un sorriso sbilenco, come se cercasse di incoraggiarla. «Ma insomma!» urlò poi il Dottore, quasi ridendo «Siamo la squadra investigativa migliore di tutti i tempi! Quanto pensate che ci possa volere per trovarlo?»
«Già. Quanto tempo, visto che è invisibile?»
«Ma non lo sarà ancora per molto. Anzi, potrebbe già essere tornato allo stato corporeo. Dipende tutto da quanto è fuori e da quanto crede di essere fuori. I pazzi sono sempre convinti di essere più sani degli altri, quindi sul secondo punto non dovremmo avere problemi. È sull'attenerci alla realtà dei fatti che potremmo trovarne»
Rose ridacchiò «Ma dai, Dottore. Stiamo davvero cercando l'omino invisibile?»
«Mm-mmh. Adesso è soltanto questione di aspettare»
«Aspettare cosa?» chiese Layne, con la voce alterata «Aspettare che uccida ancora? Aspettare che ammazzi altra gente?»
«Non farà in tempo, Layne, non prima di tornare corporeo. La materializzazione era già in atto quando ha ucciso James. Dobbiamo solo capire dove colpirà la prossima volta. Chi altro possa avere addosso parole così forti da richiamare la sua attenzione.»

Una volta tornati al 221B di Baker Street avevano steso una lista di persone, sotto consiglio del Dottore. «Solo le persone con una storia da raccontare hanno addosso parole potenti. Quindi possiamo escludere brave madri di famiglia che cucinano e badano ai figli e uomini che dormono e mangiano tutto il giorno. Inoltre, se la storia è stata già scritta, le parole… non spariscono, ma diventano come inaccessibili. Le ha già prese qualcun altro. Fine del lavoro, ragazzi.»
«Vuoi dire che la persona è già morta?» chiese John.
L'alieno scosse il capo. «Nah, le parole non vengono strappate così. In effetti, il modo di prendersi le parole di quest'uomo è un po'… atipico» Rose si mise a ridere con una mano sulla bocca, ma il Dottore continuò imperterrito «In genere scivolano semplicemente via dal corpo, e la persona rimane… spenta, ma non morta. Non brilla più»
Layne scrollò le spalle, continuando a compilare la sua lista. «Il campo non si restringe più di tanto» fece loro notare. «Possiamo includere i politici, i militari… ma i vagabondi nei pub, per esempio? I viaggiatori di cui non conosciamo neanche il nome?»
Il Dottore si passò le mani fra i capelli. Poi s'immobilizzò. «Aspetta… politici, hai detto?»
Lei fece un cenno d'assenso.
«Lizard è in pericolo» commentò Sherlock, inclinando il capo verso Layne. «E tu lo sai.»
«Non mi preoccuperei per Liza» fu la risposta, secca. «Ha delle guardie, e ha se stessa. Mia sorella è un osso duro.» Si alzò, infilandosi il foglio piegato nella tasca del cappotto. «Andiamo.»
«Dove?» Rose si mise in piedi a sua volta.
«A perlustrare Londra, mi pare ovvio.» Sherlock, dicendolo, aveva già imboccato la porta, subito seguito da Layne e dal Dottore. John sospirò e lì seguì, rassegnandosi a correre dietro a tre sociopatici ultra intelligenti con le gambe lunghe come trampoli. 
«So come ti senti» gli disse Rose, comprensiva. «In pratica, c'è solo da correre.»

***

Ne aveva bisogno di altre. Ancora altre. Uscire dall'acqua faceva male, male, perché i polmoni tornavano a respirare aria, e adesso la sentiva, quell'aria fredda, che sapeva di sporco e fumo, e che bruciava la gola, dentro il corpo, tutto, tutto, tutto, tutto faceva male, e non poteva farci niente, perché aveva bisogno delle sue parole, le voleva, e il sole seccava gli addosso i suoi vestiti, ma non erano più sporchi di sangue, no, non sapevano più di metallo e freddo, ora era caldo e morbido, e sapeva di fogna, ma la Prigione era peggio, oh, sì, era peggio, perché lì facevano male, e ti prendevano la testa e te la sbattevano contro il muro finché non iniziavi a sanguinare, e tu piangevi, piangevi, ma anche piangere non serviva a nulla, non ti curavano mai, e tu restavi con il tuo odore di sangue e metallo, e adesso non c'era più, l'acqua l'aveva lavato via, via, via, se l'era portato lontano, e lui era pulito, adesso, aveva seppellito per bene le sue parole, e si era tagliato la mano, e il suo sangue era caduto sulla roccia, l'avrebbe poi trovato, sì, perché il suo sangue non aveva quell'odore normale, sapeva di tutto, di pulito, di dolore, e lui lo sentiva bene il dolore, dopo anni alla Prigione, lo conosceva bene il dolore, perché lì ti cercavano sempre di fare male, e più tu piangevi più loro erano felici, e non mangiavi, e non bevevi, e non scrivevi, e adesso lui poteva mangiare, e bere, e scrivere, e nutrirsi di tutte le parole che aveva lasciato indietro, e poteva trovarne altre che splendessero anche di più, perché lui le vedeva brillare sulla fronte, sulla pelle, negli occhi della gente, quella gente, quella gente che non sapeva di portarle, ed erano aperte, e lui poteva prendersele ma no, no, no, lui non voleva quelle parole, che brillavano così poco, lui voleva che le sue brillassero come mille soli, e mille lune, mille di quei soli e di quelle lune che vedeva passarsi sopra la testa, e che non si ricordava come fossero, e correva, correva, correva, adesso lontano dal fiume, aveva sentito l'acqua e ora la lasciava via, dietro di sé, perché l'acqua l'aveva pulito e lui le aveva lasciato le sue parole, e ora via, via, via, di nuovo verso i vivi, ora che tutti potevano vederlo, nei vicoli dove c'era il buio, e le parole brillavano ancora di più, e le cercava, le cercava, le cercava, ma non trovava quelle che voleva, perché erano tutte così medie, così sporche di essere umano, lui voleva parole pulite, che sulla sua carta spiccassero, e le avrebbe scritte, sì, scritte, fino a che non avessero bruciato il foglio, perché le parole gli bruciavano nella testa come quell'aria che ora entrava e usciva nel suo corpo, porto, sì, era un porto d'aria, e tutta entrava e cercava di fargli del male, lui smetteva di respirare, ma i suoi polmoni ne volevano ancora, di quell'aria che gli faceva male, e allora i suoi occhi lacrimavano, ma doveva prendere altra aria, altro mondo che gli picchiava la pelle, altro essere vivo che feriva tutto e niente, quello che era ed era stato lui, perché lui adesso non era, ma brillava, cercava le sue parole e le avrebbe riunite, lui, Dio di parole e signore di inganni, e quando ne avesse avute di nuovo abbastanza avrebbe scritto, scritto, scritto fino a che la mano non si fosse staccata, con il sangue avrebbe continuato, e poi avrebbe sparso le sue parole in giro, ovunque, e tutti avrebbero voluto ascoltare, e sarebbero state le più belle parole che fossero mai state messe, parole, ancora, giù, non più pazzo ma dio, veloce, veloce, a cercarne di nuove e più belle perché non dicessero più di lui lo psicopatico ma il genio, perché raccontassero la sua mente, nei vicoli dove adesso correva, veloce, sempre più forte, con l'aria che gli feriva tutto, gli scompigliava i capelli, i capelli, i capelli che adesso c'erano sulla sua testa piena di idee, e vorticavano, vorticavano, cercavano spazio nelle strade, e parole, cercavano parole, e non trovavano, finché avessero fatto male, preso tutto quello che c'era da prendere e poi via, di nuovo, via veloci, e niente più Prigione ma libertà e libero, scrivere, scrivere, scrivere, sempre di più, nelle stradine, di pescivendoli e puttane, e di soldati e di bambini e tutto, tutto, tutto, perché tutto aveva una storia da raccontare e non voleva che scappassero, ma ne stava cercando una, una, una sola storia, che era sua, ma non erano pescivendoli, né puttane, né soldati né bambini, erano loro, lui, sue parole che gli spettavano di diritto, perché lui era il Signore delle parole, e tutte le parole sarebbero arrivate, prima o poi, con il sangue o col sorriso, ma le avrebbe avute, tutte, più forti e più brillanti, e sapeva chi cercava, perché era lontano come lui, e seguiva la scia di lettere che lasciava ed era dietro di lui, vicino e lontanissimo, ed eccolo, eccolo… eccolo.

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Capitolo 5
*** There Will Be Blood ***


Per prima cosa ne percepì l'odore. Aveva un che di salino ma aspro, come un limone. Fece guizzare la lingua per coglierne anche il sapore. Sì, proprio come un limone cosparso di sale. Poi arrivò anche la seconda sensazione. Che era infinitamente più potente e definitiva - impossibile resistere, ma lui non l'aveva mai voluto, perché ciò che gli sarebbe arrivato era l'unica cosa importante, per cui valeva la pena soffrire e morire. Era come fuoco a scorrergli proprio sotto la pelle; ma era una metafora riduttiva, perché era più come un torrente di luce. Bruciante, lo consumava dall'interno, gli imponeva di muoversi, far strisciare ancora una volta l'aria nei polmoni e inseguire quell'odore, quello splendore. Qualcosa dentro di lui rispondeva allo splendore delle parole, risuonava come le unghie di corno di una ragazza contro un bicchiere di cristallo finissimo.
Corse. C'era buio fuori dai suoi occhi e luce dentro, come lampi, come la spuma del mare in tempesta. Erano le parole più potenti che avesse mai sentito, e avevano un retrogusto così familiare… quello della sua casa, quel vecchio odore di erbe essiccate nei cassetti della biancheria, e il brandy rovesciato a terra dal tavolino di legno pregiato, e il sigaro che consumava l'angolo del tappeto persiano e poi tutto bruciava e le scintille danzavano davanti a lui e s'appiccicavano alle sue ciglia… Urla, dolore… era stato allora che aveva iniziato a vedere le parole; prima erano solo una percezione simile a uno spiffero freddo sulla nuca. Ma adesso, oh, adesso… adesso sapeva che le parole erano l'unica cosa ad importare e sulla sua schiena c'erano ancora parti di pelle raggrinzita dove le fiamme l'avevano accarezzata con troppo accanimento.
Strinse i pungi, sorridendo. Lo sentiva sulla lingua, quel sapore, e man mano che si avvicinava diventava più forte e dettagliato, capelli al sole, saponette ai fiori d'arancio e briciole di biscotti nelle tasche e sapore di tè un-cucchiaio-di-miele-un-goccio-di-latte, e riusciva a percepire tutto questo solo attraverso i sensi normali; quelli speciali avrebbero operato meglio da vicino. E per questo corse e corse, finché la folla non gli si strinse attorno e a fatica riusciva a passare loro attraverso e sembrava che si accorgessero di lui anche se non lo vedevano, lo colpì l'idea di essere come quell'aria immobile dentro certe chiese o palazzi antichi, quella sensazione di essere al cospetto di qualcosa di superiore e lui lo era, e quelle povere menti potevano a malapena concepirlo… I muscoli del suo viso si tesero in un sorriso, era come il ghigno di un teschio e lui non poteva vederlo, mentre finalmente arrivava a lei, al suo sapore proprio lì, non più sulla punta della lingua ma palato-gola-polmoni-narici-testa, le sue parole erano come la stella che, ricordava quel vecchio racconto, una fiaba, i Magi avevano inseguito per arrivare al loro Dio. E quelle parole dovevano avere un che di divino, come lui: gli appartenevano di diritto.
Fece un paio di passi ancora, ed era su un ponte. L'acqua che scorreva sotto sapeva di muffa e cadavere, un odore che conosceva fin troppo bene, e che, per qualche strana ragione, gli piaceva, gli ricordava di casa, ma non era quello che stava cercando. Non vedeva il senso nel cercare cadaveri. I cadaveri non avevano più storie da raccontare,  e quello che lui stava cercando urlava la sua storia a pieni polmoni, con un urlo così forte da entrargli nelle orecchie, risuonargli nella testa. Erano più di una sola, che si intrecciavano, e cantavano. Lui ne aveva sentita una sola, all'inizio, quella dolce che sapeva di buono, ma ora ce n'erano altre a prendergli la mano e a farlo ballare, che avevano un sapore più nero, di zenzero e latte cagliato, di zucchero e topo. Sentiva gli odori sulla lingua, i sapori negli occhi, e correva verso di loro, per raggiungere, arrivare a toccarli. Non aveva mai visto storie così potenti, che gridassero così forte e chiedessero così disperatamente di essere raccontate, ma adesso che le aveva trovate sentiva quegli stupidi pettegolezzi di corte che aveva raccolto come le briciole che restano nel sacchetto del pane dopo un picnic. Non era di cortigiani e regine che voleva scrivere, era banale. Voleva parlare di quel sapore di arancio e di muffa, di miele e di umido… di viaggi nel tempo. Quello vedeva scritto con lettere dorate lungo la via su cui stava correndo. C'erano lettere d'argento, di rubino, di smeraldo, che raccontavano sfaccettature della terra, e che sapevano di mare, e le raccoglieva, dolcemente, semplicemente chinandosi. E poi c'era quella scia d'oro, che raccontava di sapienza e conoscenza, esperienza e passione, che non riusciva ad afferrare. Doveva arrivare ancora più vicino per prendersela, ma era quello che voleva. Voleva quella saggezza, che sapeva di foglie d'acacia e immondizia. Si leccò le labbra, e iniziò a correre ancora più veloce, disseminando per la strada parole che avevano perso di splendore.
 
***
 
 
«Ma state calmi, lo sapete che non ho bisogno della balia» Liza si portò la tazza di tè alle labbra; non si era neanche tolta il cilindro, e aveva appoggiato il bastone sul tavolo del bar. Erano tutti seduti intorno ad una teiera di porcellana con biscotti e coppe di panna, e Rose teneva una mano di Layne stretta nella sua «Me la son sempre cavata per conto mio, e con problemi ben più materiali di uno strano tizio che sostenete venire da un altro mondo in cerca di parole nascoste. Io» sibilò, avvicinando il viso a quello di Sherlock «ho combattuto in India»
«Sì, anche se la mamma ha cercato di impedirtelo in ogni modo, ma questo non fa di te una persona responsabile, Liz»
«Disse la ragazza che sancì la fine del mondo.» Elizabeth si esibì nel suo miglior sorriso cattivo e intinse un biscotto nel tè.
«Io ho combattuto in Afghanistan, se per questo,» intervenne John, timido «ma nonostante questo non credo di essere in grado di affrontare un uomo che ha ucciso semplicemente armato dei suoi denti. Dovete riconoscere che un po' fa paura»
«Comunque» li interruppe il Dottore, sventolando la lista dei nomi sotto il naso di Liza «queste sono le persone che riteniamo bersagli sufficientemente a rischio. Con quanti puoi metterci in contatto?» Lei guardò la lista per un attimo, con un sopracciglio alzato «Mah, se non tutti quasi… questione di ore. E cosa dovrei far dire?»
«Di non uscire di casa. Di stare attenti a quello che dicono e che fanno. Di preoccuparsi se qualcuno chiede loro del loro passato. Di bruciare i loro diari. Ah, beh, e naturalmente di cercare di non essere ammazzati da un pazzo furioso che…»
«Manca qualcuno»
«Come, scusa?» il Dottore si girò verso Sherlock, che aveva parlato con il suo solito tono sicuro.
«Manca qualcuno»
«E chi? Ora non dirmi che conosci tutti i personaggi illustri della storia dell'800, perché, ragazzo mio, capisci che stento a crederci»
«No, non è così difficile. Pensaci, Dottore. Chi è che ha una storia interessante, di cui si potrebbe parlare all'infinito senza mai stancarsi, a cui è difficile credere ma che l'evidenza dei fatti ci porta a dover considerare come vera? Chi potrebbe avere… parole più interessanti di un viaggiatore nel tempo?»
«Ma su di me è già stato scritto così tanto che il mio potere deve essersi esaurito molti anni fa. Ho inni scritti in ogni parte dell'Universo, e canzoni che cantano della mia gloria, non per vantarmi, ma…»
«No, Dottore! Non capisci! È ovvio che non possa essere solo tu. Qui abbiamo tre viaggiatori nel tempo, e una ragazza che è impregnata di quella che chiami "energia residua". Manchiamo noi. Siamo quello che cerca. Non potrebbe trovare di meglio, ora come ora, in un momento noioso come questo. Persone che non sono ancora nate ma che già camminano sulla terra, persone che non inizieranno ad esistere almeno per altri duecento anni. Storie che saranno scritte soltanto tra molto tempo sono già qua a camminare per strada e ad imporsi su quelle mediocri della gente comune»
Il Dottore si illuminò in viso «Ma è brillante! È ovvio! È giustissimo! Come ho fatto a non arrivarci?» John guardò verso Sherlock, come a dirgli "no-non-farlo-di-nuovo-non-con-lui", e Sherlock rimase incredibilmente zitto «Siamo noi - siete voi -  il suo prossimo bersaglio! È soltanto questione di aspettare»
Layne aveva stretto ancora di più la mano intorno a quella di Rose «Aspettare che venga a prenderci per squartarci a mani nude e raccontare poi delle sue imprese ai nipotini?»
«Esattamente! Solo che magari saremo così bravi da fermarlo prima che possa avere dei nipoti a cui raccontare tutto l'ambaradam»
«Non credo avrò mai nipoti» dissero Layne e Sherlock, con una sincronia inquietante, per poi guardarsi negli occhi e stringersi nelle spalle.
«Mai dire mai. Una volta sono stato clonato da una macchina azionata da un popolo in lotta contro dei pesci, e…» Diede un'occhiata a Rose e tacque. «Be', insomma, state attenti alle macchine clonanti.»
Layne sbuffò. «Sì, va bene. Il punto, Dottore, è che il mio… postipote e il suo fidanzato stanno per essere ammazzati prima di nascere.»
«Non sono il suo fidanzato!» Come al solito, John non venne ascoltato.
Il Dottore puntò il dito verso la detective e annuì. «Giusto, giusto. Quindi, uhm… Non dobbiamo farvi morire. Ma possiamo usarvi… scusate se suona terribile… come esca.»
Sherlock annuì. «Terribile, perché? È necessario.»
L'alieno gli diede uno sguardo triste. Sospirò. «Coinvolgerà anche John.»
Sul viso del detective ci fu un impercettibile cambiamento, ma non fece altro che annuire di nuovo.
«E a quel punto? Non possiamo rispedirlo nella faglia di Cardiff… e comunque tutto ciò ch'è uscito da lì è arrivato a Londra, compresa me» disse Rose.
«Perché c'era Layne, ovviamente.» disse Liza, versandosi un altro po' di tè nella tazza. La sorella le allungò la propria, mettendo su una faccia per cui un giocatore di poker l'avrebbe di certo pagata. 
«Sì.» Il Dottore non disse nient'altro. Fra lui, Layne, Elizabeth e Sherlock passò uno sguardo che vibrò nell'aria come una corda di violino pizzicata. Rose e John tentarono, in quell'attimo, di avere la loro stessa intuizione, o certezza; ma poterono solo rimanere lì, senza osare chiedere, perché era solo uno sguardo e gli sguardi possono essere fraintesi e possono mentire e possono essere fatti passare per qualcos'altro, e tutti e quattro quei geni erano anche dei gran bugiardi. Comunque, quando il Dottore si sfregò le mani sul viso ed i tre Holmes si guardarono attorno con aria improvviso distratta, la mano di Layne un pelo più stretta attorno a quella della bionda, sia Rose che John sentirono quella stretta in fondo allo stomaco.
«Sì, bene. Direi che è il momento di… mettere a punto un piano.» Il Dottore fece un sorriso vago, mettendo una mano sulla testa di Rose e facendola sentire improvvisamente una bambina a cui i grandi stanno nascondendo un segreto.  
 
***
 
Li aveva visti. Aveva sentito il loro sapore, era dolce, di miele amaro che scendeva lungo la gola e bruciava, bruciava come fosse benzina incandescente e petrolio, ma sapeva di zucchero e canna e biscotti alla panna che si prendono con il tè delle cinque, e lo sentiva in tutto il corpo, nella testa, nelle mani, negli occhi, fino alla punta dei capelli, e faceva male ed era bello, e sentiva quel fuoco di parole, di fiume e cascata, di tempesta di neve e cannella e zenzero, che pizzicava sul fondo della lingua, ma sapeva che se avesse preso quelle parole sarebbe stato per sempre felice, perché erano parole importanti, non erano banali, non sapevano di pioggia quotidiana e di onde sporche di mare, ma sapevano di storia, e la storia aveva il suo odore, il suo sapore, la sua consistenza di neve e spugna, e lui la cercava, la cercava, la cercava perché alla Prigione l'avevano tenuto troppo tempo nel buio con gli occhi bendati, e la luce non l'aveva più vista, e quelle parole brillavano più forti del fuoco del sole, e più bianche della luna, ed erano forti, forti, forti come quei corpi abbandonati ma ancora vivi contro le pareti di pietra, che erano fredde, e sapevano di muschio, ma quelle parole non sapevano di muschio, era menta, menta e sale, e acqua di fiume e sudore e sussurri sotto le coperte di un tempo che non vedeva, ma non era così lontano, e ancora, ancora, ancora, era così vicino che poteva toccarle ma aveva paura ad allungare la mano perché non poteva chiederle ma le voleva, le voleva così tanto da fargli male, e tremava tutto mentre si formava in vortici di carne e ossa e tendini e sangue e muscoli che si stiravano in un corpo che conosceva ormai ma che non vedeva, perché alla Prigione non potevi vederti, vedevi solo le tue mani, e le sue mani sapevano di inchiostro e verità, e una verità sana, perché lui non era pazzo, e gli dicevano che la luna sapeva di latte e crema, ma lui non poteva toccarla, ma adesso l'avrebbe presa e se la sarebbe divorata, solo lui e le sue parole, e più si avvicinava più prendevano forma, figura di uomini, uno più alto, alto, alto come il muro che gli impediva di vedere fuori, e che non gli faceva assaggiare quella luna di crema, e l'altro era buono, ma non sapeva cosa fosse buono perché non l'aveva mai sentito, e nessuno era mai stato buono con lui, ma gli avevano detto che lui non era buono, era cattivo, e quelle parole non erano cattive, quelle parole brillavano di dolore e perdita, di armonia ritrovata e di corse nella notte, di stelle apprezzate ma non capite, e di una luna di crema che erano quasi riusciti a toccare, loro, le sue due figure di lettere sparse nel flusso del fiume, e lui non voleva fermare quel fiume, ma prendere le parole, le parole sì, le parole erano sue di diritto e lui le voleva per scriverle, e rubarle, così che fossero per sempre legate al suo polso e non fili di storie sparse nel vento, e si avvicinava ancora di più, e non correva perché i muscoli facevano male, perché adesso poteva vedersi ed era brutto quello che vedeva, e la pelle cadeva sulle ossa ed era scura e piena di tagli, e di macchie viola che facevano male quando cadeva sulla strada e sapeva che quello era cattivo, e che non era buona la madre che prendeva quel suo bambino, parole di seta e di sapone, parole di lavanda appena sbocciata nelle due mani unite, e se lo portava lontano, via, e lo guardava, adesso, adesso lo vedevano perché lui era lì, più vivo di prima, e non voleva perdere quella vita e quel sangue che scorreva sotto la sua pelle ed era verde, e blu, e del colore della sabbia dopo la pioggia, e splendeva di ogni sfumatura della luce e di ogni riflesso del mare, mare, mare, di quel mare di parole che non vedeva scritte sulla sua pelle, alla Prigione gliele prendevano con la frusta e le portavano via, via, le strappavano insieme alla pelle che cadeva sul pavimento di pietra ed era coperto di sangue, sangue tuo e di altri, sangue fresco e ormai secco, che sapeva di pesci che risalgono la corrente, ma non aveva più voce, niente da raccontare, nessuno alla Prigione brillava perché tutti erano troppo stanchi anche per fare risplendere la loro voce di luce e lui era cieco in quel mondo di figure, in un mondo dove tutto era materia e nulla poesia, lui era la poesia, la sua voce che danzava nel bocciolo della rosa, e non poteva vederla, e sapeva che c'era stata perché ricordava i solchi delle lettere nelle mani e sulle braccia e sulle gambe e correre nel prato da bambino e splendere di storie ancora da raccontare e poi raccogliere quelle di tutti allungando la mano, e le botte che prendeva, e avere bisogno di quelle storie, e prendersele con la forza, e il buio della Prigione, dove non c'erano più storie e non c'erano più attimi di luce, solo il buio e il dolore, e quel cattivo, quel buono che lui non poteva capire, che era solo follia immaginata nei sogni di delirio di un sano, ed era vicinissimo adesso alle due figure di luce, le vedeva e vedeva i loro occhi, brillare, e parole che uscivano ad ogni loro movimento, brillavano della matrice stessa della luce, ed erano parole che non conosceva, che non aveva mai scritto, parole nuove, nuove, nuove, parole che avrebbe preso non con la forza per non rovinarle, ma le avrebbe accarezzate via, dolcemente, ma prendendo anche le più profonde, ferendo i contenitori ma non il contenuto, e le avrebbe raccolte in sacchetti di seta cuciti dai raggi di quella luna di crema che non aveva mai visto, e che avrebbe assaggiato volando su quelle sue nuove parole, ed erano belle, belle, belle, le sentiva premere contro la gabbia dei corpi che aveva di fronte, volevano uscire ed essere libere e lui le avrebbe liberate perché nessuno aveva liberato lui dalla sua gabbia di pietra, che non era più dura della pelle e del cuore, e di quei muscoli di cui adesso tornava a ricordarsi, e di quegli occhi che vedevano i contorni delle cose ma anche il brillio della vera vita, che si scriveva e si leggeva, passo dopo passo, parola dopo parola, e le due figure leggevano e completavano le voci dell'altro, e si trovavano e danzavano insieme in una mescolanza di parole conosciute che non sapeva e sconosciute che gli erano madre e padre, e sorella, ed erano tutti lì intorno a prenderlo per mano e lui le voleva tutte per sé perché sapeva che gli avrebbero fatto assaggiare la sua luna di crema e sentì qualcosa di forte, forte, forte, che picchiava contro i suoi nuovi occhi che vedevano e bruciavano, e bruciavano di fuoco di polvere di stella, e lui si stringeva le braccia al petto e piangeva senza fermarsi perché le parole lo stavano chiamando e c'era quell'angolo, e dietro l'angolo i suoi contenitori che erano uno in due che prendevano e si spegnevano e si completavano e insieme brillavano più di quanto avesse mai brillato il sole e tutte le stelle e i pianeti di una galassia intera. Brillavano più di quella sua dolce luna di crema.


La mia socia sta partendo in questo esatto momento lasciandomi sola, quindi vi salutiamo per un po'! Arrrrivederrrrrciiii!
edit: Scusate per l'inconveniente dell'HTML... quando si fanno le cose di fretta si smerda tutto ^^

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Capitolo 6
*** Swan Song ***


«Quindi il vostro piano geniale sarebbe questo? Buttarci in mezzo ad una strada, aspettare che ci trovi e farci inseguire fino al tetto del Bart's?» John scosse la testa «Giuro che da quattro teste come voi mi aspettavo un po' di più di un inseguimento alla Tarantino. Oltretutto non abbiamo neanche una valigetta di dollari da scambiare» quando si accorse che solo Rose aveva colto la battuta sospirò e si girò verso Sherlock «Ma poi il tetto del Bart's? Perché, bontà divina, ci sono un milione di scale per arrivare in quel posto»
«Prima di tutto è perché ci sono un milione di scale. Abbiamo buoni motivi di credere che l'assassino stia riprendendo la sua forma corporea, e non deve essere un'esperienza piacevole…»
«Un po' quanto essere fatti a pezzettini minuscoli, buttati in un frullatore con un po' di olio, mangiati, digeriti, vomitati. Ah, e poi qualcuno dovrebbe pretendere di potervi riassemblare esattamente come eravate usando soltanto degli spilli senza capocchia e lo sputo» finì per lui la frase il Dottore, sorridendo.
«Ecco, come dicevo, appunto. Quindi, se sarà obbligato a fare una fatica fisica molto superiore a quella a cui è abituato, probabilmente potremmo avere dei punti di vantaggio, e questo è il primo punto a favore del Bart's. Il secondo è che Layne e il Dottore hanno scoperto che proprio sotto il tetto del Bart's potremmo essere così fortunati da aprire una microfrattura nella faglia, grossa abbastanza perché si riprenda il nostro amico ma non abbastanza grossa perché distrugga completamente Londra, il che alla lunga potrebbe risultare un po' fastidioso»
«Eh, già» sospirarono John e Rose quasi insieme.
«Chi riesce ad immaginarsi una vita senza Harrod's?» aggiunse giocosamente lei. Il Dottore le sorrise, facendosi comparire una fossetta nella guancia. I suoi occhi avevano un che di febbrile e triste dietro quel lucido color castagna, e non era la solita tristezza della solitudine, ma qualcosa di più simile a paura, a preoccupazione. E lui non si preoccupava mai, o meglio, fingeva di non farlo. Rose sentì i palmi delle mani inumidirsi. Per contro, tentò di avvicinarsi a Layne, che sembrava incapace di stare immobile, continuava a sfregare un piede per terra o a stringere le spalle, e Layne era sempre impaziente, ma a questo punto iniziava a chiedersi se non ci fosse qualcos'altro che non volevano dire né a lei né a John, perché loro non sapevano controllarsi e le loro emozioni prendevano sempre il sopravvento su ciò che era giusto e finivano per preferire di salvare i loro cari piuttosto che un'intera città. Clint gliel'aveva detto una volta, al ritorno da una missione particolarmente pericolosa col Torchwood.
Le venne da stringere i denti e schiaffeggiarli tutti e tre, Sherlock e Layne e anche il Dottore, sì, perché riuscivano ad essere così incredibilmente altruisti ed eroici e tutta quella merda lì, e lei era solo una ragazzina che voleva proteggerli tutti anche a costo di far saltare in aria Londra, Big Ben, Harrod's e tutto.
«Voi andate avanti, verso il Bart's; lui è già qui, vi terrà dietro» stava dicendo il Dottore a John e Sherlock. «Noi vi seguiremo. In fondo siamo tutti viaggiatori nel tempo, potrebbe confondersi, e se decidesse di fare qualcosa in mezzo alla strada potremmo intervenire subito per aiutarvi.»
Sherlock annuì, un cenno rapido a cui John fece eco. Il movimento delle loro teste sembrò fondersi l'uno con quello dell'altro, stranamente fluido. Il detective allungò una mano e strinse quella del Dottore, guardandolo dritto negli occhi; anche John gli riservò lo stesso trattamento, e d'improvviso il Signore del Tempo sembrava vagamente commosso e a disagio. Rose sentì sparire la rabbia e allungò una mano per fargli una carezza sulla schiena. «Andrà tutto bene» disse a tutti e cinque, soprattuto a se stessa. 
Fuori da Buckingham Palace, videro John e Sherlock allontanarsi insieme, una figura troppo alta e l'altra più bassa che gli teneva accanto. La folla si apriva e chiudeva attorno a loro; non venivano notati, come succedeva ai viaggiatori del tempo, eppure c'era qualcosa che li contraddistingueva, forse il modo in cui si muovevano l'uno in successione all'altro, il modo in cui stavano insieme.
Quando li videro girare l'angolo della strada, il Dottore prese un profondo respiro.
«Be', signore,» disse, offrendo a ciascuna un braccio, «in marcia.»
Rose lo prese a braccetto. Layne era rimasta un attimo rigida, e quindi la bionda la prese per mano, la strinse forte. «In marcia, capitano» 
Intanto Sherlock e John avevano già iniziato a camminare a passo di corsa verso la stradina che il Dottore aveva indicato. Sherlock alzò un sopracciglio quando notò che John stava aprendo e chiudendo a scatti le mani, come gli aveva visto fare più di una volta da che si era trasferito al 221B di Baker Street, nel 2010, in una Londra che era quella in cui stavano camminando ora senza però esserlo davvero.  «John? Smettila. Non hai nulla di cui aver paura, se il Dottore ci ha assicurato che non saremo in pericolo ho buoni motivi per credere che non lo saremo sul serio. E poi sei un sodato, hai visto molto peggio di un piccolo unico uomo che va in giro ad ammazzare con i denti» guardò verso di lui con un sorrisetto che gli increspò le guance magre. John aveva imparato bene a conoscere quel viso allungato, e poteva dire con sicurezza che, nonostante tutto, anche il grande Sherlock Holmes era nervoso. Non disturbato, non preoccupato, ma nervoso. Annuì e si schiarì la gola, tenendo il passo del moro. La gamba aveva iniziato a fargli male, e, anche se sapeva che non era vero, ed era soltanto un riflesso della sua mente, si ritrovò a zoppicare e inciampare nei sampietrini sconnessi. «Oh, dio… stiamo arrivando, vero?» osservò Sherlock guardare nel vuoto per qualche istante e muovere velocemente gli occhi, per poi annuire sicuro «Sì. Lì dietro, proprio oltre l'angolo. Credo che dovremmo aspettare, ma non dovrebbe essere particolarmente difficile da riconoscere. Non per me»
Si fermarono appena sotto un balcone da cui scendevano dei gerani rossi fin quasi alla strada. John si appoggiò contro il muro, sospirando rumorosamente, mentre l'altro guardava intorno, catturando ogni dettaglio con quei suoi occhi cambiacolore. «Andiamo?»
Si guardarono un attimo negli occhi; il respiro di John andò calmandosi man mano che quel loro tipo d'intesa che li univa si sollevava attorno a loro. Ci fu uno strano lampo negli occhi di Sherlock, le sopracciglia chiare che si aggrottavano appena, poi allungò una mano verso di lui, le dita tese ed il palmo bianco. Il dottore rimase un attimo immobile. Era un gesto così lontano dal suo collega che non avrebbe mai pensato di vederglielo fare, eppure eccolo lì, impossibile da fraintendere. Prese la sua mano, vi serrò le dita intorno con una stretta nervosa e fece un rapido cenno di assenso, ripetendosi come una cantilena John Hamish Watson non osare arrossire non è il momento per arrossire e comunque non c'è niente per cui arrossire, e ormai la sola parola "arrossire" gli dava la nausea.
Sherlock lo lasciò andare, fece uno strano movimento come se volesse allargare le braccia e scrollare le spalle insieme, poi inclinò la testa in direzione del Bart's e adesso le gambe di John erano ferme mentre camminava al suo fianco e varcavano i portoni dell'ospedale.

***

Li stava seguendo. Erano entrati dentro l'ospedale, dove tutto sapeva di bianco e di morte, e loro sembravano combatterlo con il loro odore di polvere di biscotto e cenere e menta e sale e zucchero e cose che non riusciva più a capire perché non era come le ricordava, ma sapeva di aver bisogno di loro perché le loro parole brillavano ancora, e adesso anche più forte di prima, e lui le avrebbe prese e tenute per sé, perché dopo tutti gli anni alla Prigione, nel buio e nell'odore di acqua rappresa e ferro e sangue, se le meritava davvero, le sue parole, si meritava di poterle stringere e morsicarle e strapparle con i denti e con le unghie e poter digerire quello scintillio e poter vedere il loro sapore di carne e sensazioni e ore passate davanti a schermi illuminati che vedeva ma che non capiva e tazze di tè e un appartamento con delle scale e una faccia gialla sorridente sul muro lo guardava attraverso i loro occhi, lo guardava come le guardie, fissava direttamente dentro la sua anima e prendeva i suoi sentimenti anche se lui non riusciva a vederli e loro vedevano lui con le loro luci blu, blu come gli occhi di quell'uomo che brillava così tanto e non sapeva se voleva prenderlo per sé o aprirlo e le parole sarebbero state sue e le avrebbe scritte ma prima doveva prenderle e iniziò a correre, correre, a inseguirli su per le scale di quel posto dove entrava troppa luce per i suoi occhi e c'erano troppe persone tutte vestite di bianco e le loro erano parole che splendevano di viola e curavano a guardarle, e quella era la loro missione, salvare e non essere salvati, e abbandonarsi al nulla perché qualcun altro fosse vivo e quei bagliori nei loro occhi erano stelle e voleva fermarsi e ammirare ogni sfaccettatura delle loro anime e delle loro parole e stringerle a sé e prenderne anche da loro, perché sapevano di lavanda e limone appena tagliato e colto dal sole, e se le sarebbe tenute contro il petto, ma non poteva, non poteva, non poteva, le parole degli altri erano troppo forti e lo chiamavano, urlavano nella sua testa, piangevano e ridevano insieme tutti le lacrime e tutte le risate che avessero mai sentito, ed erano lacrime gentili e tremende, e un dolore che sarebbe venuto ma non ancora, a breve, a breve, presto, lo vedeva nella storia delle loro lettere anche se non riusciva a fermarsi per prenderle, ma correva, ancora di più, sempre più veloce, vedendo ma senza essere visto da nessuno ma sentiva le parole lì intorno, di malattia e salvezza, ed erano bianche ed erano nere, ed erano di tutte le sfumature del grigio che avesse mai visto, sentito, fin dentro al cuore e giù, giù, giù nel petto ma su, su, su per le scale perché stavano scappando e non potevano scappargli, le sue parole preziose, più preziose di quelle di tutti gli altri, avevano colori del futuro e ombre di un passato conosciuto ma non visto, ed erano sue, e gli spettavano, e le avrebbe prese e tenute strette, non sotto un sasso o legate ad un albero, ma più vicine, le avrebbe divorate e tenute nel cuore, ed erano così forti che avrebbero preso il posto delle sue, che non c'erano più perché le guardie alla Prigione gliele avevano prese, e non solo con la frusta, quella frusta che faceva male, ma con la voce e con le labbra, labbra che si posavano sulle sue, labbra che non sapeva di chi fossero nel buio della Prigione, dove non vedevi nulla ma tutti vedevano te, e adesso era lui a correre, e lui vedeva tutti ma nessuno vedeva lui, e non era invisibile e c'era, c'era, c'era, sentiva i muscoli che iniziavano a tirare perché stava correndo troppo forte e c'era, sentiva i polmoni che si aprivano in cerca di un'aria troppo lenta per entrare e c'era, sentiva le ginocchia iniziare a tremare perché non era ancora abbastanza veloce e non era mai stato così lento nella sua velocità e gli altri erano più veloci di lui e le loro parole lo guidavano, lo guidavano come una traccia luminescente di sensazioni ed emozioni e animo chiuso in una gabbia di cioccolato che si scioglieva, sempre più veloce, sotto il sole di un pomeriggio di settembre che vedeva chiaramente ma non aveva mai vissuto, ma splendeva negli occhi castagna del portatore di parole, e quel cioccolato marrone che si scioglieva sulle dita sapeva di dolce e amaro come le loro emozioni, come le loro immagini che le parole formavano, sempre più chiare più si avvicinava, e più le loro vite entravano dentro di lui con refusi di parole più lui saliva le scale che sembravano portare direttamente al cielo, con quelle nuvole di zucchero filato che non sapeva cosa fosse, e poi c'era la luce, sempre più forte più saliva e il vento, il vento, il vento che fischiava e urlava, e cantava canzoni che non aveva mai sentito ma conosceva fin dalla culla, la culla, la culla in cui aveva dormito senza esserci mai stato e non aveva mai giocato con quelle bambole di cui sentiva il profumo di fiori appassiti e la morbidezza della stoffa sotto le dita, stoffa, stoffa, stoffa morbida e liscia, come il refolo che ora gli accarezzava la faccia, e c'era una porta aperta e si fermò per un istante, perché nella Prigione le porte non erano mai aperte, ma le chiudevano con lucchetti invisibili che facevano male e ti lanciavano contro il muro indietro, forte, forte, forte e faceva sempre più male ogni volta quando ti sbattevano contro la pietra fredda e scivolosa perché c'era il sangue, sangue che non era tuo, ma adesso questa porta era aperta, aperta, e dalla porta entrava del vento e della luce e c'era l'aria e c'era l'odore della strada, ma le loro parole erano più forti, e lui uscì, correndo, e si buttò sul tetto di malta e pietra ed era fredda la pietra sotto i suoi piedi nudi e loro erano lì, in piedi, immobili, uno di fianco all'altro, e c'era un'esplosione di parole in mezzo a loro e lì intorno, ne vedeva altre, meno forti ma più numerose, ma loro avevano quelle che cercava, ed erano sue, adesso, le sentiva così presenti da fargli quasi male e si buttò verso di loro che parlavano ma non sentiva cosa stessero dicendo perché le voci delle loro storie erano troppo forti, troppo rumorose, anni e anni e anni e anni tutti insieme in un unico momento come un flusso di pensiero e lui lo distingueva chiaro come i suoi pensieri, e forte, forte, forte, ma bello perché finalmente vedeva, come vedeva le loro mani unite e le loro labbra che si muovevano ma poteva solo saltare, saltare e prenderle e tutto era tutto e niente e luce e buio e ombra disegnata su foglie di parole. Cadere era solo come volare. 
 

***

«Si aprirà una microfrattura» Il Dottore non ansimava nemmeno mentre saliva le scale a due a due, il cacciavite sonico puntato davanti a sé per testare l'ambiente. «Sarà così minuscola da lasciar passare solo il nostro amico… o amica… solo lui. Ma l'energia necessaria per aprirla sarà pari a quella dell'esplosione di… uh… un aereo, se non di una centrale nucleare.»
«Oh, bene. Come evitiamo che il mondo esploda?» Rose si scostò una ciocca bionda dagli occhi. Stava iniziando a sudare nel panciotto di tweed che Layne le aveva prestato. La detective non fece commenti né domande su cosa fossero un'aereo o una centrale nucleare, il che era strano, ma in effetti non aveva parlato molto fin da quando avevano messo appunto il piano.
«Non succederà nulla… dal punto di vista fisico. Al massimo un po' di vento, dei fulmini, un acquazzone. Dal punto di vista spazio-temporale, invece… Hai mai messo del metallo in un microonde, Rose?»
«Ovviamente no. Se l'avessi fatto mia madre mi avrebbe tagliato le mani… Tu sì?»
«Ehm» il Dottore si grattò un orecchio. «Io non ho una Jackie che mi tagli le mani… Comunque, volevo capire perché proibissero di mettere il metallo nel microonde, è impossibile che sia tossico come dicono, dev'essere per forza divertente se te lo proibiscono - oh, be', ci ho provato ed è stato…» Fischiò.
«Illuminante.» La voce di Layne non era mai stata altrettanto piatta.
«Be', in pratica lo spazio-tempo si contorcerà, prenderà fuoco, inizierà a lampeggiare e poi si squarcerà con un rumore agghiacciante.» Il Dottore fece un gran sorriso. «Ma, siccome ciò che vogliamo fare noi non è una cosa di proporzioni apocalittiche, e siccome io sono un esperto, conterremo questa forza che Layne ed il nostro amico scateneranno, la imbottiglieremo e la useremo come un bisturi.» Schioccò le dita.
«Se nessuno ci rimarrà secco.» La voce della detective fu simile ad un alito di vento che fluttuava su per le scale. Rose si voltò per guardarla. A dispetto delle sue gambe lunghe, non aveva fatto alcun tentativo di muoversi velocemente. Teneva dietro loro con un passo leggero ma lento, come se fosse stanca, come se si stesse… dissolvendo.
«Cosa vuoi dire?» La guardò, ma gli occhi chiarissimi di Layne erano tristi e duri e vuoti. Si voltò di scatto verso il Dottore. Lui non avrebbe osato distogliere lo sguardo da lei, ma i suoi occhi erano lucidi e senza speranza e lei sapeva cosa voleva dire, glieli aveva già visti scostando un paio di occhialini 3D. «Cosa volete fare?»
«Rose…» Si bloccò di scatto. Nella sua mano, il cacciavite sonico aveva preso a ronzare e brillare come impazzito. Il Dottore alzò lo sguardo verso l'alto ed un secondo dopo, con un boato, il soffitto iniziò a tremare.



Ssssiamo tornate :D

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Capitolo 7
*** Abandon All Hope ***


Sherlock e John erano rimasti con le spalle verso il fondo del terrazzo. Si guardavano l'un l'altro, risoluti, e sentivano i passi affannati del tizio che li stava inseguendo. «Sherlock?»
«Sì?»
«Ho paura» il moro lo guardò per un secondo, con gli stessi occhi fermi di prima, stringendo solo un po' di più la presa contro la mano di John. Poi gli sorrise, per la prima volta un sorriso vero, grosso e felice, che brillava nel pomeriggio grigio «Non devi, John. Non ti preoccupare. Ci sono io» gli si avvicinò di un passo. John pensò che era alto, così tanto più alto di lui da intimorirlo quasi, e ancora una volta si scoprì a chiedersi quanto fosse bello, con i ricci scuri e il viso di ceramica. Era bellissimo. E gli stava infondendo una sicurezza profonda, come mai gli era successo prima in vita sua. Sentì appena le braccia di Sherlock attorno alla sua vita, il viso contro il suo petto e il battito del  cuore nelle sue orecchie, calmo, lento, rilassato e rilassante. Durò appena una manciata di secondi, ma a John bastò per annuire, ed essere sicuro nel suo profondo che sì, ce l'avrebbero fatta. Ci sono io.
L'uomo salì dalle scale, e si fermò ad osservarli. Aveva occhi grandi, infossati, di un verde militare, un ciuffo di capelli scuri che dovevano essere cresciuti molto negli ultimi tempi e la pelle tirata sulle guance di chi non mangia da troppo tempo. L'uomo si appoggiò per un attimo allo stipite della porta e continuò ad ansimare, velocemente, senza dire una parola. Sul suo viso c'erano tutte le emozioni del mondo e insieme nessuna, un po' come tutti i colori mescolati insieme danno il nero. Quell'uomo era nero, lo si vedeva nel profondo di quegli occhi persi e incavati e troppo lucidi, come comete che bruciano nello spazio e bruciano e bruciano e bruciano e sono fatte di ghiaccio, e potrebbero essere infinite non fosse per il calore delle stelle che, a poco a poco, le scioglie. All'anima di quell'uomo doveva essere successa la stessa cosa.
«Quindi sei tu.» La voce di Sherlock suonò come al solito sicura, profonda e brillante. I suoi occhi non mostravano alcuna paura, e brillavano. Gli occhi dell'uomo sembravano dipinti, invece.
«Piacere d'incontrarvi, milords. Davvero piacere.» Era una voce nervosa, ansimante e sottile, e spezzata. Ma non priva d'intelligenza, e John se ne accorse con un brivido. Sapeva che spesso i pazzi si considerano lucidi, e lui doveva essere uno di questi. Mentre ci pensava, aveva fatto un passo avanti. Si tormentava le mani come un bambino che si dice di dover ascoltare la mamma e non toccare la crostata appena sfornata perché è calda e si deve conservare per gli ospiti ma, oh, è così buona, chi mai se ne accorgerebbe se ne raccogliessi le briciole? Briciole. È questo ciò che siamo, per lui?
«Immagino che per te lo sia. Le nostre parole sembrano così buone?» John deglutì. A che gioco stava giocando, Sherlock? Perché lo istigava? Serrò la presa attorno alle sue dita e gli rispose una pressione rassicurante, il pollice che creava cerchi quieti sulla pelle del dorso della sua mano.
Lui annuì con forza, le braccia percorse uno spasmo. «Non solo buone, milord. Sono… come le stelle. Infinite e brillanti e potrebbero inghiottirti e bruciarti vivo - io le ho viste le stelle, sapete? Quando ero nel non-dove fra la prigione e qui. E bruciavano la pelle, ma mai quanto il sole che c'è su questa terra… ma a voi non interessa, è vero. E d'altro canto non interessa neanche a me, fintanto che sono venuto qui semplicemente per-» si passò la lingua sulle labbra, poi riprese; «potrebbero bruciarmi vivo ma sono così belle che vorrei metterle in uno scrigno e tenerle al sicuro e non toccarle mai più perché le sporcherei, ma sono debole e le voglio, non so se mi capite, le voglio perché sono solo un essere umano che non ha avuto niente per tanto tempo e ha fame e deve riempirsi di quella luce per essere vivo. Anche se…» Si portò le mani al viso, le fissò come se non le avesse mai viste, come se non fossero le sue. «…ho così tanta energia adesso.»
«Quella con cui hai ucciso le tue vittime precedenti. Ma loro non ti bastavano, vero?» Lui scosse la testa. Sherlock continuò, la voce quasi metallica. «Quindi ora vuoi prendere noi perché siamo meglio di tutti quelli di questo misero mondo? E dopo? Non ti basteremo neanche noi, lo sai?» Scuoteva ancora la testa, più forte. «Hai perso chi eri, non credo che ricordi neanche il tuo nome, non sai dove ti trovi. Hai perso, perché non vedi più le cose chiaramente. Hai lasciato che il mondo ti entrasse dentro come un veleno, mentre si dovrebbe solo osservare le cose e catalogarle e conoscerle, senza lasciarle entrare.» John fissò il profilo impassibile del detective, i riccioli bruni e gli occhi di ghiaccio, strinse forte la sua mano. Avrebbe voluto chiedergli cosa intendeva. Si vide insieme a lui, seduti sulle poltrone del 221b di Baker Street, la loro Baker Street, a sforzarsi di non innervosirsi per lo sguardo mentre ne discutevano. Ma Sherlock non si voltò neanche verso di lui, come se non lo vedesse.
«Io ho un nome!» L'uomo aveva iniziato a urlare, scuotendo ancora la testa con ferocia. Se la reggeva fra le mani, gli occhi sgranati, sembravano pezzi di carta colorati con le tempere da un bambino preciso, verdi slavati e vuoti, e; «Mi hanno tolto il mio nome, ma è ancora lì! È, è-» Si fermò di scatto. Sollevò la testa. Sorrise. «Ma di cosa me ne faccio, ora? Potrei semplicemente» ed il sorriso si allargò. «Prendermi i vostri.»
Allargò le mani ed i suoi palmi iniziarono a emanare una luce argentea e metallica, simile a quella dei fulmini. Dal cielo nuvoloso iniziarono a cadere gocce di pioggia pesanti come piombo. In quello stesso momento, l'essere scatenò la sua energia. Aveva ancora quel largo sorriso folle sul viso. Il tetto del Bart's tremò. Il cielo iniziò a tuonare.

Scatto. Velocità. Sarà troppo veloce per fermarlo. Lo vedo. La mano di John è nella mia. Vedo la cosa che salta verso di noi e ha l'aspetto di un uomo ma non lo è. Ha il corpo anchilosato di chi viene malnutrito e la pelle di chi non vede la luce da troppo tempo. I suoi occhi hanno quella stessa sfumatura. Velocità. Goccia di pioggia sulla mia guancia. Dura. Tirare indietro John. Troppo veloce. Non lo vedo più. La sua energia è come un campo elettromagnetico. La sento ed è come vento che mi solleva capelli e giubbotto. Mi investe. Pizzica, brucia. BRUCIA. «JOHN! JOHN!» Non sento più la sua mano nella mia. L'ho visto. Si è mosso. Prima c'era. Adesso non c'è più. John. Trovare John. Sono solo, adesso. Perché? Non capisco. Io capisco sempre tutto. Cosa succede? Questa è pioggia. Brucia. Cade sulla mia faccia e fa male. Non riesco più a vedere John. Non è più qui, ma c'era. Non è un sogno. Sento ancora il suo sudore umidiccio sulla mia mano. Ma lei non c'è più. La mano. Smetti di piovere. Mi manda in confusione. Non sento gli odori, solo muschio e calce bagnata. Pioggia. E il mio John è sparito. Forse lo so. Si è mosso in fretta. Era veloce. Guardo giù dal tetto. Non sento nulla, solo il rumore della pioggia. Sulle mie spalle. Sulla mia testa. Sulla mia faccia. È laggiù. Sembra un rospicino, da qui. È piccolo. Ha i capelli sporchi di rosso. Mattone. È mattone. Lo so che è mattone. Continua a piovere. Non sento neanche la sua voce. Perché non mi chiami, John? Adesso arrivo. Non preoccuparti. Adesso arrivo e ti tolgo tutta quella polvere di mattone dalla testa. Perché è polvere di mattone. Arrivo. Alla fine non ce l'ho fatta. Sono umano anche io. I sentimenti hanno vinto anche in me. Ma adesso arrivo, John. Arrivo e ce ne torniamo a casa. Appena smette di piovere. Perché questa pioggia fa così male? Mi bagna. Ora capisco.
Questa pioggia sono lacrime.

Quando l'ho visto iniziare a correre non ho fatto in tempo a scansarmi. Scusami, Sherlock. Sono sempre stato un po' troppo lento. E adesso stiamo volando insieme, sento il corpo scheletrico dell'uomo senza nome che preme sulle mie costole. È aggrappato al mio maglione come se fosse un paracadute, ma mi fa male. Mi sta strappando qualcosa che non sapevo di avere, e fa male. Intanto, continuiamo a cadere. Sento il vento che fischia, mi stanno esplodendo i timpani perché è troppo forte, e vorrei fermarlo, ma non posso. Non posso perché quando cadi non puoi bloccarti. Smetti di cadere solo quando colpisci la terra. Non ho paura di farlo. Alzo gli occhi oltre la spalla dell'uomo, e vedo Sherlock ancora girato di spalle sul tetto. No, non ho paura di cadere. Non ho paura di… morire. Morire. Come suona definitivo. Non si torna indietro, dalla morte, e io dovrei saperlo bene. Eppure non ho paura. Come quel ragazzo, in Afghanistan. L'avevo lasciato andare la mattina e la sera non era tornato. E neanche quella dopo. Ma lui non aveva paura. Sapeva di esserselo scelto. Neanche io ho paura. Se cado io cade anche lui. Non c'è scampo per me, ma neanche per lui, che continua a mordermi il collo. Questo fa male. I suoi denti che affondano nella mia pelle, questo sì che fa male. Eppure dovrei esserci abituato. 
Guardo di nuovo verso l'alto. Sherlock si è girato, adesso. Ora che ci penso, non sento neanche più il vento nelle orecchie. È tutto così… silenzioso. I colori sono diventati all'improvviso più forti, nitidi, come se qualche divinità impazzita si fosse divertita a sovraesporre il mondo.  E io sono leggero. Tanto leggero. Non so se voglio davvero guardarmi intorno, forse ho paura di quello che potrei vedere se lo facessi. Ma Sherlock è la sopra, e mi sembra sempre più… vicino. Sempre più nitido. Mi faccio coraggio. Guardo verso il basso.
Oh. Beh, non sono davvero un bello spettacolo. No, proprio no. Sono un piccolo rospetto rachitico in una posizione scomposta e decisamente innaturale. I miei capelli sono tutti sporchi di rosso e impiastricciati, devo farmi una doccia appena arrivo a cas… già. In questo momento realizzo. Non ci tornerò mai più, a casa. Che strana impressione che fa, dirlo. Mai più suona così definitivo, adesso che devo affrontarlo. Beh, direi che buttarsi giù dal tetto di un ospedale è abbastanza definitiva, come cosa. Non mi ha neanche chiesto il permesso. Si è semplicemente buttato su di me, e siamo caduti insieme. Per un attimo devo anche averlo sentito urlare. E se io non avessi voluto morire? Non che mi abbia fatto male, o cosa, mi ha solo dato fastidio, perché magari io non volevo morire. Magari volevo continuare a vivere la mia esistenza pacifica e senza uno scopo particolare. Insomma, di sicuro non ero io quello interessante, dei due. Però è meglio così. Vedermi schiacciato per terra come una marmellata d'essere umano fa molto meno male che immaginare Sherlock al mio posto. No, è meglio così. Probabilmente sarei morto in ogni caso, se a cadere fosse stato lui. Una morte un po' meno fisica, certamente, ma comunque sarei morto. Mi sarei spento come una candela sotto una cascata. Però almeno poteva chiedermelo. Beh, sì, non è particolarmente scenografico. «Salve, Dottor Watson, che gliene pare di morire, oggi pomeriggio?» No, in effetti non funziona. Meglio così. Meglio essersene andati in silenzio. Ma se guardo proprio bene, laggiù, in quella poltiglia scura fatta di pelle, sangue e pioggia che è il mio cadavere, vedo ancora lo stupore, nei miei occhi. Sono rimasti aperti. Sinceramente avevo smesso di pensare alla morte da che ero tornato dall'Afghanistan. Non ho mai pensato di morire così. Ero sicuro che me ne sarei andato con un proiettile, o una bomba, o chissà quale diavoleria Afghana, ma mai avrei pensato di morire per essere caduto da un ospedale nell'Ottocento. Non che possa farmene una colpa, in effetti non è particolarmente realistica come ipotesi. Eppure eccomi qui. Morto. Se non fossi sicuro che quello che vedo sotto di me è il mio corpo, e che quindi i miei occhi sono rimasti laggiù insieme a tutta la mia faccia - a quello che ne resta dopo un volo di quasi dieci metri, almeno - e con loro tutto il mio apparato lacrimale sarei quasi sicuro di star piangendo. Ma non sto piangendo, sono solo invaso da una tristezza inutile e profonda. Sto lentamente realizzando di essere morto. 
Di essere morto senza aver mai neanche… senza aver mai neanche detto a Sherlock quanto lo amassi. Oh, dio santo, se non sono patetico. Sì, lo so. Ma concedetemelo, in fondo sono morto. Mi meriterò un po' di facezie da diva, almeno adesso, no. Comunque mi dispiace. Tornerei indietro volentieri, adesso che sono sicuro di non poterlo più fare, e glielo sussurrerei ogni momento. Anzi, se tornassi indietro sapendo che finirebbe così, mi godrei ogni nota di violino alle tre di notte, ogni suo esperimento nel microonde e ogni testa umana nel frigo. Alla fine non erano così male. Almeno… erano. Non come me. GIà. Perché io adesso non sono. Non sono più. Posso vedere tutti gli universi paralleli, e tutta la linea temporale - tra l'altro, che pessima scelta di parole. Non è affatto una linea. È più simile ad una sfera. Neanche una vera sfera, però, è più un ammasso strano di cose, una "wibley-wobley-timey-wimey" roba che ondeggia su e giù - e il suo svolgimento, di qua e di là dalle barriere che separano i mondi. Quante cose che non sappiamo, noi piccoli miseri cuccioli mortali. Adesso che non sono più uno di noi, mi facciamo pena. Credo che la mia nuova condizione di morto mi stia mandando in pappa il cervello con i pronomi personali. Noi, voi, essi. No, tutto uguale. Solo che voi camminate ancora sulla terra, e vedete ancora una sola dimensione alla volta. Io invece vedo tutto insieme, e vi assicuro che non è bello come pensate. Se è quello che vede davvero il Dottore tutti i giorni, mi chiedo come faccia a non esserne uscito pazzo. Ah, già, scusate. Lo è. 
Adesso sono di fianco a Sherlock. Vorrei toccarlo, ma non trovo la mano per farlo. Vorrei parlargli, ma non mi ricordo più com'è, parlare. Riesco solo a pensare, se questo è pensare, poi. Vedo i miei pensieri che si scrivono in giro per la testa come se fosse un foglio di carta, e vedo anche i pensieri di tutti gli altri. Vedo delle figure scure che, là in basso, si raggruppano accanto al mio corpo - ma quanto siete premurosi! Vedo il Dottore che pensa un grido verde, ma non lo sa neanche lui davvero. Vedo Rose che pensa in grigio e nero, e in mezzo al grigio ci sono una macchina e un vaso, chissà che è. Sherlock invece non pensa. Cioè, sì, pensa, ovviamente, lui pensa sempre, ma i suoi pensieri sono trasparenti, sono pensieri di vetro. E si stanno rompendo, velocemente. Mi muovo - faccio qualcosa che sicuramente se avessi un corpo sarebbe muovermi, se non altro - e mi metto faccia a faccia con lui. Piange. 
Non ho mai visto Sherlock piangere. Piange davvero. Lacrime. Tante, grosse. Cadono per terra. Seguono la linea di quei suoi zigomi troppo marcati, scivolano sul mento e si fermano per un secondo sul colletto del suo giubbotto, come se si stessero prendendo una pausa meditativa. Poi, in file ordinate, cadono per terra. Sono tutte colorate. Sono belle, le sue lacrime. Hanno tutte le sfumature di vita che i suoi pensieri non hanno più, sono un arcobaleno di parole ed emozioni intrecciate, fuse, cadute e perse per sempre. Non può riprendersele, quelle lacrime. Me ne rendo conto solo in questo momento, perché vedo tutti i mondi insieme, e tutti i momenti della storia, e ogni ora, e ogni ticchettio di orologio: i suoi pensieri resteranno per sempre pensieri di cristallo. Resteranno brillanti, sì, e splenderanno sotto la luce del sole; ma appena il sole tramonterà scompariranno, e nessuno andrà più a cercare i cocci di quella che è stata la mente più brillante della nostra generazione. È come in Blade Runner, tutti questi momenti andranno persi come lacrime nella pioggia. Ed è colpa mia. No, in realtà è colpa sua, che non mi ha chiesto il permesso. Se soltanto mi avesse chiesto se volevo vivere ancora adesso Sherlock avrebbe ancora quell'arcobaleno che sta cadendo dai suoi occhi nella sua mente. Piove, adesso. Piove forte, e nasconde le sue lacrime. Sì, in effetti la pioggia sta lavando via tutti i nostri momenti. Ha la bocca un po' socchiusa, una lacrima si ferma sul labbro increspato. In quella lacrima ci siamo noi, mano nella mano sul tetto del Bart's pochi minuti fa. La lacrima si ferma sul suo colletto. Sbiadisce. Cade in una pozzanghera ai suoi piedi, e diventa solo briciola d'acqua nel mare. Alla fine è questo che siamo, no? Briciole. Briciole che vengono spazzate via semplicemente perché nessuno ti chiede se può. 
Fa niente. Ho vissuto la mia vita da briciola, e ho colorato i pensieri di qualcuno. Se avessi una bocca sorriderei. Guardo ancora un attimo nella mente di vetro di Sherlock. La crepa che si sta aprendo diventa sempre più grossa.

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Capitolo 8
*** What Is and What Should Never Be ***


Layne lo capì quando sentì la prima scossa. Seppe già in quel preciso momento. Vide la caduta, vide l'essere precipitare avvinghiato a John Watson. In quell'esatto istante, voltò le spalle a Rose e al Dottore e iniziò a correre. Giù di volata per tutti i gradini che aveva faticato a salire. Giù, giù e giù. Lo seppe perché nella sua mente c'erano idee e statistiche precise, ma lo seppe soprattutto perché, a suo modo, aveva capito ciò che c'era nella mente dell'essere. Perché, se l'aveva richiamato lei, un po' era lei.
Corse e corse e arrivò in strada con il fiato intrappolato nei polmoni. Per terra c'erano persone e sangue. Ne sentì l'odore, gli occhi presero a lacrimarle più per riflesso che per sentimento. Non erano lacrime vere. S'inginocchiò accanto al corpo di John e guardò un attimo in su e vide Sherlock. Sentì il suo dolore per un istante e fu un po' come quella volta in cui le avevano piantato uno stiletto nel petto ma poi si chinò su quel sangue e quella carne e tutto il resto sparì. Era Layne Holmes. I sentimenti erano cose che aveva relegato a Rose.
Lo vide. L'essere era lì accanto al dottor Watson, ma nessuno sembrava vederlo. Era un mucchietto patetico di carne e stracci e non c'era neanche sangue, era tutto di John, perché ciò che usciva dall'essere era luce. Sembrava che qualcuno avesse catturato un fulmine e l'avesse reso liquido. Scintillava e turbinava e usciva dalle ferite dell'uomo-che-non-era-un-uomo, dalle narici, anche, e dagli occhi, come lacrime che non erano lacrime, come le sue. Quegli occhi verdi adesso non sembravano più dipinti, perché quella luce li illuminava dall'interno, ed erano ancora fatti di buio e dolore, questo sì, ma erano vivi. Vivi mentre morivano.
In quel momento, Layne non pensò al fatto che avrebbe potuto morire. Aveva cancellato dalla propria consapevolezza Rose ed il Dottore e Sherlock e il cadavere di John ed Elizabeth e Londra e la faglia di Cardiff; c'erano solo lei e quell'essere che un tempo era stato un uomo, un problema da risolvere, come due elementi che combinati insieme ne devono formare un terzo.
E come aveva saputo, per idee e statistiche precise, che John e l'essere sarebbero precipitati, come dicevano avessero fatto gli angeli, come metaforicamente facevano le comete, allora sapeva anche, senza dubbio, cosa doveva fare. Gliel'aveva sussurrato, in sogno, la voce di una donna dagli occhi chiari ed i ricci biondi che aveva vissuto tre vite e si era innamorata dell'uomo dello spazio. Allungò una mano, e toccò quella dell'essere che stava tornando ad essere un uomo, lì di fronte a lei.

Sento di star diventando leggero e di star scivolando via da Sherlock. Non voglio. Voglio aggrapparmi a lui e fargli sapere che ci sono. Voglio raccogliere le sue lacrime. Ed è come se la mia preghiera fosse udita, perché tutto si blocca. Come uno strappo, come un pugno battuto sul tavolo. Tutti i mondi e gli universi che ho nella testa si fermano. Le lacrime di Sherlock si fermano. Una è ancora in bilico fra le sue ciglia. Se soffiassi, cadrebbe.
Poi sento un rumore. Il più delicato, come una foglia che si raggrinzisce e diventa rossa e poi cade dal ramo e volteggia e arriva per terra con il fruscio più lieve. Che d'improvviso, diventa un boato. Guardo in basso e c'è una crepa che squarcia il mondo, piena di luce, d'oro e d'argento e fulmini, e c'è una mente lì in mezzo che ancora si muove, è d'arcobaleno come quella di Sherlock ma diversa, e accanto a lei c'è quello che mi ha ammazzato e la sua mente è ancora lì pure lei, ed è ingiusto perché dovrebbe essere morto, ma vedo che si sta spegnendo, non è altro che un buco nero che ancora si sforza d'inghiottire tutto quello che gli sta attorno, soprattuto lei, soprattuto quella luce.
La mente simile a quella di Sherlock si muove appena, come le ali di un uccellino appena nato. È lei che controlla la crepa, il flusso di luce. Si muove verso di me. Sento che ritorno pesante. Sento che ripiombo nel mio corpo.

Cadeva. Aveva sempre saputo che sarebbe successo, ma non pensava così in fretta, e non aveva mai pensato che il vento facesse così tanto rumore nelle orecchie e che gli occhi potessero vedere così tante cose tutte insieme, colori, espressioni, voci che urlavano direttamente nella sua testa ma nessuno c'era a parlare, nessuno era lì, vedeva tutti ma nessuna figura, solo quell'uomo strano, alto e scuro, che gli chiedeva cose e lui rispondeva, rispondeva perché ricordava appena come si facesse a parlare, perché nella Prigione non ti facevano parlare, e se urlavi era ancora più dolore, dolore, dolore che si diramava in tutto il corpo come un albero rosso di sangue e oro di puntura ed era come quello adesso, e lo colpiva il vento freddo, ma lui stava già saltando quando l'uomo alto continuava a parlare, e chiedeva, chiedeva, e la sua mente era nebula e tempesta, e grigio colorato di ogni possibile sfumatura e non vedeva i colori nelle loro menti, nelle loro menti c'erano stati colori e lui li strappava, lentamente ma in fretta, insieme alle loro parole, e le parole di quello dorato erano più pesanti, avevano visto tempi di buio e tempi di luce, e una scia speciale di lucciole argentate entrava nelle sue ultime parole, ed erano parole dolci, dolci, dolci come quello zucchero di cui gli raccontavano un tempo, e non le capiva davvero, non nella profondità di cui era sicuro fossero vestite perché non le aveva mai sentite pronunciare, ma solo nella sua mente o sulla carta, su quella carta bianca che divorava e che era stata divorata da altri in altri tempi, e aveva scritto quelle parole, ma era come quando si scriveva di emozioni contrastanti in nuvole di gas tossici, e si scriveva perché piaceva, ma non perché fosse capito, e invece l'uomo d'oro le capiva, e le aveva come sue, e lui le voleva, le voleva, voleva quelle parole e voleva capirle come le capiva l'uomo d'oro e gli mancava quello spessore, quella pozzanghera infinita di mercurio liquido e emozioni, emozioni, emozioni che voleva provare ma non aveva mai provato e lacrime che voleva versare ma non aveva mai versato perché di lacrime ne aveva dovute piangere troppe alla Prigione, ma non erano mai quelle lacrime di cui vedeva scritto nella mente dell'uomo d'oro, lacrime di parole che non conosceva come felicità e amore, ma le sue erano lacrime di parole che gli erano troppo chiare come dolore, tristezza, perdita, perdita, perdita era la parola che vedeva nella mente di cristallo dell'uomo nero, alto, mentre saltava con l'uomo dorato e lo mordeva e lo rompeva per prendere le sue parole perché l'altro all'improvviso non era più importante, lui voleva sapere, voleva poter scrivere, ancora, ancora, ancora, ancora con il flusso compulsivo con cui scrivevano i suoi pensieri su tavole di carta non ancora inventate che ticchettavano nella notte, una notte fredda, fredda, fredda come gli occhi di quell'uomo che li guardava, e vedeva ora, vedeva, vedeva, vedeva la terra su cui stava per scontrarsi, e faceva male, la pietra sotto la schiena, nelle ferite già aperte dalla frusta, e voleva sentire il sangue uscire, uscire come usciva quello dell'uomo d'oro, e il suo era liquido e caldo come il mercurio che cercava nelle sue emozioni, ed era dolce e salato e amaro e miele, e gli mancava il sapore del suo sangue anche se l'aveva sentito abbastanza, abbastanza nella sua mente e nella sua bocca, abbastanza ovunque in tutto quello che era stato il suo mondo, ma non poteva non uscire dai tagli profondi che aveva su tutto il corpo e nell'anima, quelle cicatrici sull'anima facevano ancora più male perché non poteva uscire sangue ma sentimenti, sentimenti che non credeva possibile provare e lì, steso su quell'acciottolato li provava ed erano orrendi ed era tempesta ed era la calma che veniva appena prima, in quell'attimo di silenzio, silenzio, silenzio come quello che usciva dalle labbra dell'uomo dorato, sapeva di essersi aggrappato a lui per cadere, ed erano caduti insieme, ma adesso l'uomo dorato non brillava più, le sue parole di pietre preziose sembravano essersi rotte per terra, perse in mille schegge rosse e verdi, e adesso stavano volando insieme e adesso erano caduti ma ancora cadevano e da per terra vedeva ogni attimo insieme, tutto correva, tutto era fermo, tutto era niente e niente era tutto nei suoi occhi che ormai dovevano essere vuoti ma ancora vedeva e sentiva il vento e voleva chiuderli perché il vento bruciava, ma le palpebre erano pesanti, troppo pesanti per essere chiuse, e non voleva e sì che lo voleva, certo, perché il vento gli stava seccando gli occhi, e lui voleva continuare a vedere, perché non vedere era come tornare alla Prigione, dove tutto era buio, buio, buio così denso che faceva male, feriva la pelle e tagliava ferite già aperte con lame bollenti, perché la febbre era dolce alla Prigione, la febbre era bella e ti portava via nel sonno e tu non vedevi più nulla e non sentivi più nulla e nessuno ti faceva più male, come male stavano facendo a lui ora, che tutto era dolore perché era caduto dall'alto, troppo in alto, era caduto direttamente dal cielo, e mentre prima non era stato adesso era, era decisamente, e essere era doloroso, adesso ancora più di prima, perché nulla si stava più formando, tutto era già fatto, pronto ad essere rotto, spezzato, tagliato, mutilato, e non solo con i salti nel nulla, dall'alto verso il niente, da tutto verso il buio, ma solo guardare era male, perché male era la situazione normale, dolore era quello che c'era ed era una parola che conosceva anche troppo bene, ogni singola lettera era un ricordo, un colore sferzante nei suoi occhi ormai secchi che avevano contenuto tutto l'universo, e vedeva quello stesso universo nelle parole che stavano scivolando via dal corpo dell'uomo d'oro, mentre l'altro si affacciava da lassù, ed erano rubini quelli che cadevano dai suoi occhi, e lo vedeva come se fosse stato lì, lì, lì vicino a soffiare sul collo di quell'uomo che aveva ancora le parole, anche se stavano sbiadendo, sembravano storie importanti sciolte nel latte acido, acido, acido che bruciava come quello che stavano buttando sulle sue ferite e lui era scappato, scappato, scappato via, il più lontano possibile perché non voleva mai più vedere quel buio perché era un buio che gli faceva male, e lui aveva sofferto già abbastanza, abbastanza per quanto la sua mente ricordasse, ed era così male che anche i suoi ricordi erano stati spazzati via, alcuni erano solo nuvole grigiastre di indifferenza e di espressioni vuote che fissavano il vuoto e i suoi carcerieri che lo vedevano ma lui non vedeva loro, e ricordava solo i loro occhi rossi in un mare di niente, e adesso era di nuovo così, e sentiva tutto che pizzicava, ogni parte del suo corpo era pizzicore come una scossa elettrica che passasse dalla sua testa e arrivasse fino ai piedi, e lo riempiva di paura perché sentiva lentamente il suo corpo scomparire verso qualcosa che non sapeva cosa fosse e aveva già viaggiato abbastanza e basta, basta, basta, basta, non ne poteva più di quel pizzicorio che lo trasportava via, lontano da dov'era, e lo faceva scivolare verso altri universi bianchi e gialli e verdi e azzurri che sapevano di tutti i sapori dell'arcobaleno come quello che scivolava via dagli occhi dell'uomo nero e alto che lo aspettava la sopra, e guardava verso il basso mentre le sue parole volavano via nelle lacrime, immagini di vita che racchiudevano perle di storie che non sarebbero state usate mai più in quell'universo, e lui ora comprendeva tutti gli universi, e li vedeva, tutti insieme, sovrapposti in catene dorate come l'uomo con cui era caduto, e i raggi scrivevano in lingue che non sapeva ma che adesso conosceva perfettamente, e questo non faceva male, era una carezza di seta sulla sua mente mentre i suoi occhi tornavano umidi, e tutto quello che vedeva intorno virava al grigio, ad un grigio che non aveva mai visto perché erano mille sfumature di perle perse ed era da solo ma c'era qualcun altro, lo sentiva, la sentiva, vicina, vicina, vicina, e tutto nella sua testa tornava a posto, ogni nodo tornava a legarsi, ogni filamento tornava a tessere quella ragnatela che aveva avuto un ordine primordiale, all'inizio, quando l'aveva provata ed era solo un bambino e nella sua testa adesso tutto aveva senso e le frasi tornavano ad essere linee lunghe e dritte senza curve né nodi, perché adesso il suo pensiero era dritto, dritto, dritto come era stato nelle notti d'estate passate sulla spiaggia, quando sentiva ancora il sapore del mare, e guardava la figura negli occhi e lei guardava lui e sapeva cosa stava per fare e lui sapeva di essere pronto.
Quando la ragazza gli parlò, sapeva esattamente come rispondere.

È tutto grigio di nebbia e gas di scarico. Le carrozze si muovono attorno a loro con le urla secche dei cocchieri e il chiacchiericcio degli uomini che passano in gruppetti sui marciapiedi. È come il loro mondo, ma diverso. Layne sa che il rivelatore sonico di carica statica retroattiva - o cacciavite sonico, come lo chiama quell'uomo strambo che è il Dottore - non funziona, qui. Sa, anzi, che non esiste niente di simile. Sa che non esiste neanche il Dottore, non esiste nemmeno lei, non esiste Sherlock - e non esiste neanche quest'uomo che è accanto a lei. Che è tornato un uomo. Che è vivo e vegeto, adesso.
È accanto a lei e la guarda con gli occhi ancora vivi anche se non sta più morendo. «Milady» dice, con una voce soffice, calma. «Credo di doverla ringraziare.»
Lei si mette le mani nelle tasche del cappotto. «Non so quanto abbia senso ringraziarmi ora, e dovrei ucciderla perché lei ha ucciso il fidanzato del nipote che avrò fra un paio di secoli, secondo il principio del codice di Ammurabi, ma… ormai lei è in un altro tempo.»
«Come farà a tornare indietro?»
«Da quello che ho imparato stando col Dottore, siamo ancora in uno spazio di confine. Dovrei riuscirci. Lei, piuttosto, rimarrà qui. Non è una scelta.» Si guarda attorno. «Questo mondo è privo di parole. Almeno, non le parole che conosciamo noi.»
Gli occhi dell'uomo diventano lontani e tristi e poi si stringe nelle spalle e annuisce. «Lo so, lo sento. Forse è meglio così, però, sa? Una nuova scelta, una nuova vita… Mi dispiace per John Watson, cercherò di rendergli onore come posso.»
Layne scrolla le spalle. «Avrà bisogno di un nome, qui, di una vita. Ha già pensato a qualcosa?»
Lui sorride. «Come ho detto al suo futuro nipote, lassù sul tetto, ce l'ho un nome. L'avevo dimenticato, o perso, ma questo posto me l'ha fatto ricordare. Mi chiamo Arthur Conan Doyle. E credo che il suo tempo qui stia scadendo, Milady. Mille grazie.»
Layne sente le punta delle dita iniziare a formicolare, come quando le mette accanto al fuoco dopo essere stata a lungo fuori al freddo. Guarda quell'assassino pazzo che adesso ha gli occhi da bambino, solleva una mano e fa un cenno minuscolo che non è neanche un vero saluto, e sente di star iniziando a scomparire

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Capitolo 9
*** Fallen Idols ***


Layne cadde fra delle braccia morbide che profumano di rose e di una leggera punta di sudore e umido di pioggia. «Layne! Layne, stai bene?»
Sbatté a fatica le palpebre e si staccò da Rose, che era calda e confortevole e solida, come se tutto non si fosse appena dissolto attorno a lei e non fosse appena stata in un universo parallelo.
«Ti abbiamo vista sparire nell'aria e poi ritornare indietro un secondo dopo… che è successo all'assassino?»
«Conan Doyle» biascicò lei. «Arthur Conan Doyle. Si chiamava così.» Alzò gli occhi e la prima cosa che vide fu il viso del Dottore, corrucciato e sollevato e triste. «L'ho lasciato lì. Era un universo parallelo senza parole… e lui stava bene, era normale.»
Sul viso dell'alieno si dipinse un piccolo sorriso. «Layne Holmes, sei la prima che mi strappa dalle mani il salvataggio della giornata. Complimenti.»
Lei scosse la testa. Appoggiò tutto il proprio peso su Rose, che ancora la stringeva fra le braccia, e faticò a non nasconderle il viso nel collo come aveva fatto certe volte in cui un'indagine era fallita e delle vite erano state spente. Rose era morbida e accogliente e calda, e lei faticava a pensare che alla fine di tutto quello sarebbe andata via, perché di certo non sarebbe rimasta in un altro posto, in un altro tempo, con lei, quando l'amore della sua vita era arrivato… non su un cavallo bianco ma dentro una cabina telefonica blu. Si trattenne dal ghignare. Sarebbe stato un ghigno troppo amaro. «Non ho salvato nessuno.» Affondò le dita nel braccio di Rose e sentì una specie di rigurgito amaro salirle nella gola. «Sherlock…» sollevò la testa, ruotata in un'angolazione quasi impossibile. Lo vide, ancora in cima al palazzo. La pioggia ora era sottile, le gocce rade. Si stava trasformando in nebbia.
«Non credo di poter fare qualcosa per lui» La voce del Dottore si spezzò un po'. «Non tutti sono in grado di scappare alla morte… E più di tutti, a quelli che lo meriterebbero non succede mai.»
«Non può essere…» Rose tremava e si stringeva a Layne e aveva gli occhi lucidi. «Dobbiamo fare qualcosa per lui… Non si può morire in universo parallelo, l'hai detto tu! È come se non si fosse mai esistiti in nessun universo.»
«E presto inizieremo a dimenticarlo… be', voi.» Il Dottore aveva per la prima volta uno sguardo fisso e spento mentre osservava il sangue di John coagularsi sul marciapiede, mischiato alla pioggia. «Io lo ricorderò… ma per voi altri sarà solo una storia, un sogno triste di cui non ricorderete i particolari, per Sherlock più di tutti. E ora dobbiamo portare via il cadavere, o tutta questa gente…»
Ma tuta la gente di cui il Dottore parlava si stava già diradando sotto la spinta di una donna con indosso una mantella viola con un tesserino bianco in mano. «Detective inspector River Song, se volete… Sgomberate l'area, per favore… Ciao, dolcezza!»
Il Dottore sgranò gli occhi e spalancò la bocca come un pesce preso all'amo.
La donna con la mantella viola rise mentre si scostava il cappuccio dal capo, svelando una chioma riccia e pelle dorata. «Oh, ricordo quello sguardo! Non sai ancora chi sono, vero?»
«L'ultima volta che ti ho vista» sussurrò il Dottore «eri quasi mor-»
«Ah-ah! Spoiler, ricordi?» Il sorriso della donna non era per niente turbato. Sembrava che avesse tutto sotto controllo. Anche la bocca di Rose era spalancata.
«Ma tu sei la donna che mi ha dato la chiave della TARDIS nei biscotti!»
«Proprio io! Felice che tu non ti sia rotta un dente, tesoro, ma non potevo dartela senza svicolare domande se non nascondendola in qualcos'altro. Ora» s'inginocchiò accanto al cadavere di John. «Una linea temporale pasticciata è un bel casino e lo sappiamo tutti, e abbiamo anche poco tempo per rimediare, per cui ci serve l'aiuto di un esperto, e abbiamo poco tempo. Fate scendere il signor Holmes da quel tetto, raccogliamo questo poveretto e andiamo alla TARDIS. Hai lavorato sullo schiocco di dita, dolcezza?»
«Layne, Rose» disse il Dottore, ignorandola, «andate a prendere Sherlock, per favore… Ma non illudetelo. Non so cosa voglia fare questa psicopatica.»
La donna che si era chiamata River Song rise piano mentre posava due dita sul collo di John.
Rose passò un braccio sulle spalle di Layne e la guidò di nuovo verso le porte del Bart's. «Stai bene? Devi essere stanca… tutta la tua energia è stata risucchiata per mandare quell'uomo - hai detto Conan Doyle? - nell'altra dimensione.»
«Sto bene. Muoviamoci.» Non avrebbe voluto essere fredda, ma aveva già iniziato a proteggersi dal momento in cui Rose avrebbe detto addio con quelle sue labbra morbide e sarebbe sparita nelle porte blu della TARDIS. Salirono scale su scale in silenzio, finché, finalmente, non giunsero al tetto. Sherlock era ancora lì sul bordo. La pioggia, che ormai aveva smesso di cadere, aveva lasciato ombre nere sul suo giubbotto blu. Lui era immobile e con gli occhi aperti. Non sembrava neanche stesse guardando il cadavere di John quanto piuttosto il vuoto che c'era nell'aria fra lui e il selciato, metri e metri più in basso.
Layne allungò la mano e gliela posò sul braccio. Non ci fu nessuna reazione.
«Dobbiamo scendere, Sherlock» disse Rose, la voce dolce, esitante. «Il Dottore… è arrivata una donna che dice di poter fare qualcosa per John.»
Lui voltò lentamente la testa. Alcuni ciuffi di capelli gli si erano appiccicati alla fronte. Aveva il viso rigato di pioggia, come strisce ancor più chiare sulla sua pelle d'alabastro, ma gli occhi erano asciutti, adesso. Sembravano vuoti. Sembravano dipinti. «È morto, Rose.»
«Certo che è morto» disse Layne. «Ma si può anche tornare indietro nel tempo. Abbiamo una macchina per farlo, sai.»
«Non si può riscrivere la propria linea temporale.» Teneva le mani incrociate dietro la schiena e sembrava una statua di marmo e ghiaccio, e veniva voglia di scuoterlo e dirgli di star zitto e muovere le chiappe e basta. Layne fece uno scatto per prenderlo di peso e portarlo giù a forza, ma quando era ad un passo dal toccarlo, lui si sedette sul bordo del tetto, con i gomiti sulle gambe e la testa fra le mani «Sai cosa, Layne? È che ho passato tutta la vita - tutta la vita -  a cercare di starmene alla larga da queste cose. Non le ho mai capite davvero, non ho mai capito perché qualcuno dovesse chiudersi in un cinema e piangere fino a farsi cadere gli occhi, o restare emozionalmente ferito da un libro, come dicono loro, perché ho sempre pensato che si può ragionare davvero solo se si è al di sopra delle cose, al di sopra dei sentimenti, specialmente, perché alla fine con quei sentimenti finisci sempre male, sono sempre loro a farti fare quello che vogliono. E ci ero quasi, sai?» girò appena la testa per guardare Layne, che lo guardava come se non capisse «Ma sì, ce l'avevo fatta, perché non mi importava di nulla, perché ero io e il mio lavoro. E io e il mio lavoro andiamo d'accordo. Mycroft me lo diceva spesso, quando eravamo piccoli, che quella che tenevo era una maschera, che in realtà io sono molto più fragile di quello che cerco di non far capire. E ha ragione. Sono fragile. Sono debole. Sono… normale. Sono come tutti gli altri, vedi? Sono anche io qua a piangere su qualcuno a cui tenevo. Non sarei mai voluto arrivare a questo punto» prese un respiro profondo, e Rose riconobbe in quel sospiro il fiato rotto di una persona che sta per scoppiare a piangere, perché era un sospiro che anche lei, le prime volte, seduta sulla sabbia della Baia del Lupo Cattivo, si era lasciata scappare, quando le si bagnavano tutte le scarpe di acqua salata, e abbassando gli occhi ai piedi si rendeva conto di star indossando un paio di Converse rosse. «E invece eccomi qui! Eccomi qui insieme a tutti voi altri. Piangiamo per le stesse cose. Mi vedi? Io sto… tremando» guardò verso il basso, di nuovo non verso il corpo di John che la donna bionda e il Dottore stavano portando via ma verso il nulla. 
Rose fece un passo avanti e gli poggiò una mano sulla spalla «Io ti capisco» mormorò, sedendosi di fianco a lui, e lasciando le gambe a penzolare giù dal tetto. Guardò verso Layne per assicurarle con gli occhi che era tutto a posto, ma in quelli della detective trovò solo durezza «Anche io pensavo di averlo perso per sempre. Eppure eccolo laggiù. È tornato da me. È tornato, e non è detto che non riesca a far tornare anche John. Ti giuro, gli ho visto fare cose che credevo non potesse fare neanche… Dio. L'ho visto parlare con Charles Dickens e salvare il mondo dai manichini viventi, l'ho visto curare tutte le malattie del mondo e distruggere i Dalek. Il Dottore può fare cose che neanche riesci ad immaginare. E in ogni caso…» gli fece un sorriso storto, accarezzandogli premurosamente una spalla «in ogni caso vale la pena provare, no?»
«Non ho nient'altro da perdere» mormorò Sherlock, più a se stesso che a lei. Poi alzò gli occhi cercando quelli della bionda, che ci vide dentro uno smarrimento e un terrore che di sicuro non dovevano essere abituali a quei due buchi ghiacciati di saccenza e sicurezze «E se non ci riesce?»
«Hai già provato il dolore, Sherlock» gli rispose fredda Layne da dietro le spalle, anche se tenne gli occhi puntati a terra «peggio di così non può essere. Adesso sbrigati e vieni giù»
Il Dottore e River li aspettavano nella TARDIS. Quando Sherlock entrò e vide John disteso per terra sul pavimento dorato sentì il cuore perdere un battito, ma si limitò a stringere i denti, senza lasciarsi sfuggire neanche un fiato. Si sedette per terra accanto a lui, diviso fra la voglia di coprirgli il viso e continuare a guardarlo in eterno. Si era dimenticato che gli occhi di John fossero così grandi, ma forse era solo un effetto della paura. Forse stava cominciando a dimenticare e non c'era modo per rimettere tutto a posto e forse, forse… lo sapeva, l'aveva letto in un libro di fantascienza quand'era bambino, che si dimenticano le persone che muoiono in un tempo sbagliato. Serrò fra le mani quella di John, che era fredda e molliccia ma presto sarebbe diventata dura e gelida, e sentì di essere sul punto di vomitare. Serrò un pugno e se lo premette sulle labbra.
Intanto, il Dottore e River danzavano attorno alla consolle della TARDIS, in un silenzio insolito nei due, e Rose e Layne stavano in un angolo loro due da sole ma sembravano lontane e separate da un muro e Sherlock desiderò che si parlassero, perché erano stupide e non capivano cos'era perdere un amico e si vide che parlava con John per tutto il resto della sua vita anche se John era morto, anche senza ricordare più il colore dei suoi occhi o persino il suo nome. Stupido Sherlock, senza sentimenti, che improvvisamente capisce di provare più di quanto vorrebbe.
Guardò il viso del suo compagno e mormorò, come un bambino: «Tutta colpa tua, Dottor Watson.»

((PROMEMORIA PER IL FUTURO: Questo coso l'abbiamo scritto giocando a strizzacapezzolo. Siamo persone serie e mature. Ah, inoltre stavamo anche sceneggiando un film porno con degli Sleethin. Nevermind.))
«Cos'hai?»
«Nulla» Rose guardò verso Layne, che a sua volta guardava verso il basso e si mordicchiava il labbro di sotto. Odiava quando era così, perché poteva vedere chiaramente il flusso di pensiero nella mente della sua compagna, ma non riusciva a capire perché non volesse parlargliene. «Quanti anni pensi che abbia, Layne? Sono abbastanza grande e ti conosco abbastanza per capire quando qualcosa non va»
«Tu non capisci proprio niente» sbuffò l'altra, infilandosi le mani a fondo nelle tasche del cappotto «Tu non capisci proprio niente e continuerai a non capire niente fino alla fine. Che, ti assicuro, non è così lontana.»
«Eh?»
Layne si voltò e la fissò dritta in viso, per la prima volta da quando John e l'assassino erano caduti dal tetto del Bart's. «Pensi che non ti abbia visto, vero? Pensi che non me ne sia accorta? Di come lo fissi. So benissimo cosa succederà, appena sistemeranno questo casino. Finiremo tutti a casa. A casa davvero, intendo.» 
Rose scosse la testa «Non ti seguo, Layne. Chi ha visto chi? A casa cosa?»
La detective si lasciò sfuggire una mezza risata sarcastica, ma amara nel profondo. «Penso che girando a lungo come hai fatto col Dottore, tu abbia capito che c'è una sottile differenza fra amare una persona o avere bisogno della sua vicinanza perché si è molto, molto soli, e la solitudine non è una delle condizioni preferite dall'essere umano, no? E tu, Rose, tu sei la persona perfetta per riempire quella solitudine, perché sei morbida e calda e riesci a capire le persone, a consolarle, a farti ascoltare. Tu amavi il Dottore ed il Dottore ha amato te, ti ama ancora, è evidente, perché ad un certo punto della vostra storia tu non sei stata più solo la sua compagna d'avventure.»
«Stai dicendo che» Rose deglutì «è successa la stessa cosa anche a te?»
«No.» La voce di Layne fu come un coltello, tagliava carne e i muscoli e anche le ossa. «Io sono sola, lo sono sempre stata, e lo rimarrò sempre. Ecco perché quando tu sparirai su questa cabina blu insieme all'uomo che è diventato dipendente da te - perché è questo che è l'amore, dipendenza - per me non sarà cambiato niente. Niente
Le guance della bionda erano sbiancate. Si portò una mano alla bocca come a voler trattenere un gemito o forse una parola, ma in realtà non c'era niente da dire, non sapeva cosa dire, perché anche se una parte di lei sapeva che Layne stava mentendo, l'altra non ne era poi così sicura. Imperscrutabile com'era, Layne non concedeva molte certezze su se stessa agli altri.
«È solo che» sembrava che le parole fossero sfuggite dalle labbra esangui della detective prima che potesse fermarle, «ci si abitua a certe cose, come una presenza fisica nel letto quando ti svegli e qualcuno che compra davvero il latte per te. In questo io ed il Dottore condividiamo qualcosa, come con Sherlock.» Tornò a rinchiudersi nella sua corazza, osservando il cadavere del medico sul pavimento.
«Credo che mi fermerò qui» disse Layne a voce alta e chiara, facendo un passo avanti. «Mi sono buttata in mille cose troppo pericolose in questi giorni, quindi è meglio se resto qui al sicuro a Londra. Ora che non ho più l'energia della faglia addosso la mia vita sarà molto più noiosa.»
Rose fissava la sua schiena sottile nel cappotto lungo e scuro. Sherlock fissava il viso di John. River tirava le leve della TARDIS. Il Dottore si voltò senza capire. «Ti… fermi?»
«Sì. Mi sono messa in abbastanza guai, meglio non aggiungere i viaggi nel tempo.» Fece quel sorriso che non era un sorriso, Rose lo conosceva così bene, avrebbe potuto appartenere alla migliore delle attrici. Quel sorriso, così naturale e morbido e ironico, celava dentro di sé i frammenti di mille specchi in frantumi, in quel momento. Lei, che li aveva rotti, non sapeva neanche come rimetterli a posto, ed entrambe, lei e Layne, sanguinavano all'interno della TARDIS senza che nessuno lo notasse. Il loro sangue invisibile era tutto ciò che avevano di un addio. Forse le gocce sparse sul pavimento si stavano unendo in una cosa sola. «Comunque, Dottore, gradirei che mi facessi sapere com'è… finita.» Guardò ancora una volta John e Sherlock, ma non ottenne nessuna reazione.
«Vai pure, Miss Holmes» disse River, premendo un pulsante e scostandosi un ricciolo dalla fronte.
«Cosa, la TARDIS non-»
«È atterrata, e Miss Holmes può andare» sbuffò la donna. Il Dottore la fissò con aria contrariata.
«Grazie, e arrivederci.» Layne si voltò senza concedere un secondo sguardo a nessuno, aprì la porta della cabina e rimase un attimo lì a stagliarsi in quella cornice; si poteva vedere la nebbia di Londra davanti a lei. Si voltò, solo per un attimo, verso Rose; le labbra socchiuse come se volesse dire qualcosa. Forse era un augurio, forse un'ultima pugnalata, anche se i suoi occhi apparivano troppo trasparenti e indifesi per lasciar pensare davvero quell'ultima ipotesi; era uno sguardo che nessuno le aveva mai visto. Ma non disse nulla, un attimo dopo si era di nuovo voltata, era tutto sparito. «Comunque, non credo di meritarmi un viaggio nel tempo» disse, quasi ridendo, e un attimo dopo la porta della cabina si chiudeva.
River sollevò una leva e digitò dei comandi sulla consolle. Il Dottore si avvicinò a Rose e lei rimase immobile mentre lui la abbracciava, il viso premuto nel suo completo a righe, quell'odore di polvere e vento e menta e mille altre cose, odore di tempo, e decise di non piangere, perché Sherlock, a pochi metri da lei, aveva gli occhi asciutti.
«Rose-»
«Dopo. So cosa vuoi chiedermi, ma posso risponderti dopo?» sollevò appena il viso e provò a sorridergli. Gli occhi lucidi e scuri del Dottore erano profondamente comprensivi e preoccupati. Il fantasma di quella frase troncata alla Bad Wolf Bay aleggiava fra di loro. Neanche Layne le aveva mai detto di amarla, ricordò. Quei due, in fondo, si somigliavano. Le venne da ridere. Alcune cose faticavano davvero a cambiare.

Essere morti è davvero una strana sensazione. Beh, sì, dovevo immaginarlo. Ma non pensavo che fosse così strano. È come se tutto il tuo corpo venisse improvvisamente punto da un'armata arrabbiata di formiche rosse. E api. E qualsiasi altra cosa che punga. Poi, però, in realtà dura poco, e te ne ricordi appena. Ti senti soltanto prudere perché sai che il veleno sta entrando in circolo, anche se, ovviamente, non c'è nessun veleno, perché la morte non è velenosa. Credo. Dopo ti senti soltanto leggero, leggerissimo, e vedi tutto intorno a te che prende colori che non ti aspetteresti mai. Vedi le cose come sono davvero. Noi siamo abituati da sempre a vedere le cose in un certo modo, siamo abituati a vedere che le fragole sono rosse e il cielo è azzurro, a sapere che abbiamo due braccia e due gambe, a sentire il profumo dei biscotti quando escono dal forno, ma non è così. Non esistono fragole rosse o cieli azzurri nella realtà che non sappiamo vedere, e non sappiamo vederla semplicemente perché non vogliamo vederla. Ma adesso, cioè, quando muori, non c'è più pericolo, ti dimentichi di cosa vuoi o cosa non vuoi, quindi vedi le cose per quello che sono. E vi assicuro che le fragole che mi sembra di vedere qui sono molto più simpatiche di quelle inglesi. 
Ma la cosa che mi stupisce di più sono gli esseri umani. Sono rimasto a gironzolare attorno al mio corpo per un po', tanto per vedere che effetto faceva. Pensavo che sarei uscito di testa, invece è semplicemente come vedere un film in 3D particolarmente realistico.  Mentre guardavo, ho visto davvero come siamo. Non siamo umani, non nella concezione di umano che intendiamo di solito, almeno. Voglio dire, siamo sicuramente umani, perché… beh, perché siamo umani, ma non abbiamo il corpo che riconosciamo come quello di un essere umano. Siamo insiemi di colori e sfumature, tutti i colori e le sfumature delle emozioni che proviamo. Ho visto un insieme di nero scintillante e argento, che doveva per forza essere Sherlock, uno giallo e rosa che doveva essere Rose e altri che non riuscivo a riconoscere, però il Dottore mi ha stupito. L'ho visto. Ho visto com'è Lui, oltre alla facciata di pelle e ossa che cerca di farci vedere per non farci sentire troppo a disagio. È un ammasso informe di sensi di colpa e odio e tristezza e rabbia, e guardarlo negli occhi, in quegli occhi enormi e nerissimi che gli riempiono quasi tutta la testa brucia, perché sai che lui ti sta guardando di risposta, ma il suo sguardo è così infinitamente triste che vorresti potertene andare e chiudere una porta sulle sue sensazioni, così che magari a te facciano meno male. È orrendo. Lui è piccolo, e vecchissimo, e io riesco a vederlo davvero. Perché, beh, sono morto, e forse essere morto ha i suoi vantaggi. 
Sento anche delle onde, che partono da quelli che sono abituato a chiamare umani. Credo siano le sensazioni che stanno provando adesso. Sherlock emana tristezza e rancore, e posso sentire i suoi pensieri. Anzi, posso entrare nella sua mente, se voglio. Posso farmi un viaggio nel suo palazzo mentale, finalmente, e vedere un po' come funziona. Entro, in silenzio, non voglio disturbare, e non voglio che si accorga che sono qui. È davvero un castello, enorme, sembra quasi rispecchiare il suo ego, ma è tutto buio, e posso camminare solo lungo un corridoio, perché tutte le porte che ci si affacciano sono chiuse. Avvicino l'orecchio a qualcuna, e sento dei rumori che escono. Urla, principalmente, grida di gente che piange e spari. Continuo a camminare, e i miei piedi che non fanno rumore sul pavimento del corridoio mi inquietano. Cosa mi aspettavo, alla fine? Sono lo spirito di un uomo morto che cammina in una costruzione artificiale nella mente di una persona, speravo di avere anche la colonna sonora? Il corridoio finisce di botto, e io inizio a piangere, incontrollatamente, e le lacrime cadono sulla pietra, queste sì.
Sul muro, in fondo, c'è un'immagine che si muove, come se fosse proiettata, l'immagine di una stanza chiara. Il laboratorio del Bart's dove ci siamo conosciuti. È come un vecchio film muto, il video va a scatti e poi ricomincia da capo. Io che entro. Lui che prende il mio telefono. Noi che ci diamo l'appuntamento. Lui che esce. Buio. Da capo. 
Vorrei poter semplicemente girare le spalle e andarmene, ma non ci riesco. Mi siedo lì davanti per terra, e mi stupisco di stupirmi che il pavimento non sia freddo. Sono lì davanti a quel video muto, seduto a gambe incrociate come un bambino delle elementari e piango, perché sento già che mi mancherà. Che dovrò tornare spesso a guardare questo globo di nero e argento che continuerà con la sua vita. Che dovrò aiutarlo ad andare avanti. Che, per quanto possa sembrare cattivo, non vedrò l'ora che mi raggiunga, per poterlo abbracciare di nuovo. 

Una goccia di sangue. Due. Tre. Pallini perfetti. Poi diventavano una sbavatura rossa sul dorso della sua mano, lì dove aveva toccato la testa di John. E lungo il polso, due strisce, che ricalcavano la forma delle sue dita. Continuava a guardare il sangue sulla sua mano. Nell'altra quella di John diventava sempre più dura. Sherlock guardava il sangue e pensava a Londra e a quanto fosse bello e difficile seguire le tracce di un omicidio nella nebbia.
Improvvisamente si rese conto che la donna era accanto a lui, inginocchiata sul cadavere di John.
«So come ti senti» non lo guardava neanche negli occhi, si limitava a parlare, passando una mano tra i capelli biondi sporchi di sangue del dottore «È successo anche a me» gli sorrise - non direttamente, più quel sorriso lontano che si fa quando si ripensa a qualcosa che ci è successo molto tempo fa, qualcosa di orrendo ma con cui siamo riusciti a venire a patti. Lui la guardò per un solo secondo «Lo so»
«Lo… sai?»
«Certo. Ti sei innamorata di lui, vero?» indicò con la testa il Dottore, senza mai guardarla «Beh, non proprio lui. Un lui che verrà dopo. Che avrà poco del Dottore che conosciamo adesso, ma che alla fine sarà la stessa persona, se questo è possibile. L'ho visto dalle tue pupille, da come si sono allargate quando gli hai parlato, e da quella tua minuscola increspatura del labbro, quella che sembra dire che ti manca, ma che ancora non ti va bene per com'è. È come se ne avessi conosciuto un… evoluzione. E poi tutto questo mistero che metti intorno alle cose, come gli sorridi e come gli parli, ma senza mai dirgli nulla di te, anche se è chiaro che lui vuole sapere» per la prima volta da che avevano iniziato a parlare si guardarono negli occhi «Tu vieni dal futuro. Sei sua moglie, nel futuro.»
Lei fece una mezza risata «Complimenti. Ma lui non deve saperne nulla. Beh, anche se credo che abbia già capito buona parte del tutto. Le nostre linee temporali non vogliono proprio intrecciarsi quando dovrebbero. Il mio passato è il suo futuro e vice versa. E sì, ci siamo sposati… tra molti anni. Per salvargli la vita, non credo che fosse davvero interessato ad accasarsi. Diciamo che è molto complicato»
«L'avevo intuito» tornò a rivolgere il suo sguardo verso il cadavere di John, e sentì come se qualcuno gli stesse trapassando lo stomaco con la punta di un compasso «Per caso ti ha parlato di noi?»
«Di voi?»
«Sì, di come ne usciamo da questa storia. Sai come va a finire?» lei gli sorrise di nuovo, ma questa volta un sorriso vero, di quelli che scaldano il cuore, anche a chi è stato informato da fonti attendibili di non averne uno. Gli strizzò un occhio alzandosi e volteggiando nella sua matassa di riccioli biondi «Spoiler, dolcezza»


Stavate aspettando una soluzione al problema di John? AhahahAHAH. Abbiamo imparato da Moffat, babes

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Capitolo 10
*** Children Shouldn't Play with Dead Things ***


«Siamo arrivati» disse River, tirando una leva della TARDIS. Questa si posò senza alcun rumore, il che non mancò di far aggrondare il Dottore. «Pianeta Terra del Sistema Solare, Regno Unito, Galles, Cardiff, 16 giugno 2007. Vi è familiare, come posto?»
«La frattura di Layne…» Rose si passò una mano sul viso. Era rimasta in disparte per tutto quel tempo, seduta in un angolo con le ginocchia sotto il mento ed il Dottore seduto accanto, con un braccio attorno alla sua vita. Non si erano detti niente per tutto il tempo, ma fra di loro c’erano legami che si riformavano e altri che si spezzavano, ed era assurdo il modo in cui riuscivano a non volersi separare anche se reagivano l’uno all’altra come due poli che si respingono. 
«Già. Ma non è per questo che siamo qui…» River alzò lo sguardo sullo schermo appeso alla consolle e controllò l’ora. «Mancano esattamente dieci, nove, otto…»
«A cosa?» chiese il Dottore.
«All’arrivo di qualcuno, mi pare ovvio» lo rimbeccò Sherlock. Essere se stesso era più facile che sentirsi spezzato dentro, diviso perfettamente a metà, un parte persa e morta ai suoi piedi.
«…quattro, tre, due, uno…»
La porta della TARDIS si aprì con un tonfo. «Accidenti, Dottore! Non pensavo ti avrei più rivisto… Sempre la stessa faccia, eh? E… Rose!» L’uomo appena entrato era fra i trenta e i quaranta, bello e mascolino, con un lungo cappotto da militare stile anni Quaranta. Notando le altre persone nell’astronave, fermò il suo chiacchiericcio, smise di stritolare Rose in un abbraccio e prese un’espressione grave. «Sono il Capitano Jack Harkness» disse, e per una volta nessuno lo zittì. Nella sua voce non c’erano i soliti sottintesi. «A quanto pare avete fatto un gran bel casino e vi serve il mio aiuto.»
«Adoro la tua perspicacia, dolcezza. Ora, se tu avessi un mantello dell’invisibilità sotto cui nascondere il cadavere…»
«Oh, e tu chi sei, dolcezza?»
«Non mi pare il momento, Capitano» disse il Dottore, in tono stanco. Adesso che non stava più vicino a Rose non sembrava sapere cosa fare delle proprie mani, e per buona misura le infilò in tasca. «Lei è la dottoressa River Song. Ora… dove siamo?»
«Nella base operativa del Torchwood. Operativa da un paio di mesi, cioè, e con me solo come manovale.» Jack si strinse nelle spalle. «Non preoccuparti, troverò qualche bel culetto da piazzare su queste sedie.» Così dicendo aprì la porta della TARDIS e mostrò quello che sembrava l’interno di una grotta con dell’alta tecnologia – parecchia aliena – appesa alle pareti di roccia.
«È stranamente sobrio per essere tuo» commentò Rose.
«È perché non hai ancora visto le camere di congelamento e le prigioni per il bondage.»
«Aaah, chiaro» Rose rise un po’, fiocamente, ma il Dottore sapeva che la sua risata sarebbe stata molto più aperta, se solo… se solo.
«È meglio che portiamo fuori John. Anche se, dottoressa Song, non capisco come la base operativa del Torchwood potrebbe aiutarci.»
«Vado a prendere una barella. Però, Dottore, ero sicuro che saresti uscito di testa vedendo tutto questo… che fossi contro il Torchwood.»
«Sono uscito di testa, quando l’ho scoperto… fra un paio d’anni.»
Jack fece per dire qualcosa, ma River lo interruppe. «Spoilers, tesoro. Questa barella?» 

«… e quindi stai dicendo che puoi riportare la gente in vita con quei cosini dorati?»
«No, ovvio che no. Quelli possono soltanto guarire le sue ferite. Per riportarlo in vita ci va qualcosa di un po’ più… epico» Jack iniziò a frugare in un grosso scatolone nero fino a tirare fuori un guanto d’argento. 
«E quello l’hai rubato dal set del Signore degli Anelli?» 
«No, Rose, sarebbe stato troppo facile. Lo inventerà una mia amica tra qualche anno, ma questo è il principale vantaggio del viaggiare nel tempo. Può riportare in vita le persone per due minuti, giusto quanto serve per sapere perché siano morte» fece per metterselo addosso, ma Sherlock lo fermò con un colpo di tosse «Credo sia meglio che lo faccia io»
«TU? Stai scherzando vero? Serve forza fisica, il guanto prosciuga in parte chi lo usa per donare la forza all’altro… non per offenderti, ma tu non solo sembri una mezza sega, ma pure una mezza sega un po’ denutrita»
«Mezza sega? È un termine tecnico?» il Dottore guardò verso Jack e gli tese una mano «Sai anche tu cosa succederà con Ianto. Se avessi potuto farlo tu, non l’avresti fatto?» il Capitano abbassò gli occhi e un angolo della sua bocca si piegò in un sorriso strano, più amaro che triste, e lanciò il guanto a Sherlock «Vedi di non scomparirmi, pallidone, ne ho abbastanza di gente che mi sparisce sotto il naso senza bisogno che ti ci metta anche tu» lui annuì e si infilò il guanto. Posò la mano sotto la testa di John e si fermò a guardarlo.
«Com’è, Sherlock?» Rose gli si era avvicinata, e si tormentava le mani sopra la gonna di velluto. 
«Caldo» mormorò lui «Caldo e vivo»

Mi ci ero abituato, in realtà. Avevo già iniziato a farmi tutti i miei piani, osservare Sherlock dall’alto, restare all’appartamento, magari, guardarlo dormire. Aiutarlo, se avessi potuto. Vedere ancora il mio cadavere su quella barella, però, è stato davvero un colpo basso. Sono così… piccolo, e insignificante, e pallido quasi quanto lui. Solo che io sono morto. Wow. Almeno adesso l’ho ammesso. Morto. Come suona definitivo. Andato, scomparso, estinto… quello sembra tutto un temporeggiare. Quando qualcuno muore nessuno dice “è morto”. Abbiamo inventato miliardi di parafrasi per non doverci affacciare alla verità. Se n’è andato è più socialmente accettabile. Se n’è andato non fa capire che non tornerà mai più, anche se è sottinteso. Noi esseri umani siamo così barocchi che a volte mi da anche fastidio. Ma quando sei morto accettare l’evidenza è più facile. Sì, sono morto. Addio. 
Però il problema è che se sei morto dovresti… restare morto. Vederli che si affaccendano così tanto intorno a me per cercare di riportarmi indietro è brutto. Bruttissimo. Sono morto, ormai, e scommetto che vi siete anche già abituati all’idea. Scommetto che parlate già di me al passato. Perché farmi tornare in vita, così poi un giorno dovrete riprendere tutto da capo? Tutti moriamo. Non c’è nulla di più naturale della morte. Eppure continuiamo a combatterla con tutte le armi che abbiamo, io primo tra tutti. Forse questo è un concetto che si capisce solo una volta che si è morti sul serio, però. 
Sherlock e quel guanto magico del ballerino di tip tap non mi rassicurano per niente. Ho paura per lui. Una parte di me vorrebbe… beh, vorrebbe che morisse anche lui. Così resteremmo insieme. Poi però c’è la parte razionale, naturalmente, quella che vuole che continui a vivere la sua vita tranquillo tranquillo aiutando l’umanità, e ho paura che quel- cos’è, alla fine? L’ultimo armamentario di Iron Man? - quello non gli farà nulla di buono. Lo sento. È come se mi avesse legato le mani e i piedi e cercasse di riportarmi dentro il mio corpo. Ma, ehy, nessuno ha contemplato la possibilità che io non lo voglia? Forse sto benissimo così come son…
La luce è troppo debole. Non ci sono più abituato. Sono abituato a vedere, non a guardare tutti questi colori smorti e grigiastri, che non hanno il minimo senso di essere. Voglio tornare alla mia condizione di morto. LASCIATEMI MORTO, CAZZO! L’unica cosa che si illumina davvero sono questi pallini dorati che adesso mi circolano intorno. Zanzare luminose? Cerco di scacciarle, ma non riesco ad alzare le braccia. Sono legato. Sono vivo, adesso, sento l’odore dell’aria, un odore malato di metallo e febbre, e sento la barella sotto il corpo, ma mi fa schifo, è appiccicaticcia di sangue e fredda. Quanto vi costava lasciarmi andare? Queste mosche geneticamente modificate mi entrano nel naso, nella bocca, nel.. eh no, eh! Così non ci sto! Però mi danno una sensazione calda dentro, è come se mi avessero acceso un fuoco sotto lo sterno, e sento i tagli rigenerarsi e il sangue tornare al suo posto. Anche quello che sono sicuro essere il mio fegato è tornato dove avrebbe dovuto essere, e le ossa della cassa toracica si stanno riattaccando l’una all’altra come se ci avessero messo dei giri di scotch. Non è poi così male, come sensazione. 
Appena finisce, e tutto diventa un po’ più freddo, ora che i miei occhi si sono abituati di nuovo alla piattezza del mondo reale, guardo verso Sherlock.
«Quindi? Che mi è successo?»

Erano tutti attorno a lui, ma John, anche se voleva delle risposte, non riusciva a concentrarsi. Essere vivo era distraente quanto essere morto, in un certo senso. Perché, pur non vedendo, vedendo sul serio, colori, suoni e gusti - vedendoli, sì, visto che erano troppo reali e lui era morto, morto, e il suo corpo era laggiù come un mucchietto patetico di ossa e sangue e l’unica cosa che gli rimanevano erano gli occhi, come un’immagine residua che aveva catturato molto più di quanto non ci si accorgesse al primo sguardo - insomma, vedere da vivo era quasi sconcertante come vedere da morto. Dov’erano finite le vere essenze di queste persone? Dov’era quella cosa immensa e spaventosa e bellissima che era il Dottore, e quella cosa infinitamente più piccola e corazzata che era Sherlock, e…
E perché c’erano quei puntini luminosi che sembravano volere entrare ancora una volta dentro di lui, riempirlo di luce - il suo spettro ottico catturava troppa luce, rispetto a quella che c’era nella grotta, ma forse erano solo quelle strane lucciole che Rose stava chiamando “nanogeni”. I capelli di Rose sembravano d’oro e gli occhi di Sherlock una galassia intrappolata in uno spazio troppo piccolo e quello spazio era la sua testa, che lentamente tornava ad essere se stessa. Aveva visto quell’universo gocciolare lentamente via attraverso le sue lacrime.
Adesso Sherlock stava seduto contro il muro con quel guanto-da-Iron-Man sulle ginocchia e le mani che gli penzolavano lungo i fianchi e la testa china e sembrava sfinito e se fosse stato un’altra persona probabilmente avrebbe pianto o tentato di trattenere le lacrime; ma invece sembrava più che altro che stesse per scoppiare a ridere, quella risata stanca e sfinita delle situazioni che prosciugano tutta l’energia e ti lasciano semplicemente sollevato che sia finita. Finita. John era morto e sarebbe dovuta finire lì, e invece finiva con lui che tornava in vita.
Buttò le gambe giù dalla barella e quando poggiò i piedi per terra la sua gamba sinistra tremò così forte che ebbe paura di cadere a terra. Subito un nugolo di moscerini dorati - nanogeni, nanogeni - si raggrupparono attorno a lui, danzandogli attorno come i pallini di neve finta in uno di quei globi che si comprano a Natale. Lui era immobile e fermo come le chiesette dentro quei globi e i nanogeni erano la neve, e anche se la sua gamba non tremava più il dolore era ancora dentro la sua testa, come un chiodo di ferro arrugginito, passava attraverso tutte le zone del suo cervello - lobo frontale, area di Broca, uditoria primaria no fermati aspetta cosa c’entra questo - e l’unica cosa che gl’impediva di squarciarlo, ne era sicuro, era un pensiero che faceva a mo’ di muro ed il pensiero era Sherlock, era sempre stato Sherlock fin da quando era tornato dall’Afganistan.
Si avvicinò a lui barcollando con Rose che cercava di sorreggerlo; Sherlock alzò il capo, allora, gli occhi che sembravano lucidi ma forse era solo stanchezza, doveva essere così, persino nel suo cervello confuso e dolorante c’era la consapevolezza che far piangere Sherlock due volte in un giorno, in un’intera vita, anzi, doveva essere impossibile, anche se in realtà non era lo stesso giorno, visto che erano balzati nel futuro - insomma, dettagli. Gli si avvicinò e quell’insopportabile idiota aprì la bocca per dire qualcosa ma lui lo troncò lasciandosi cadere per terra e avvolgendogli le braccia attorno al collo.
Affondò il viso nella sua spalla e i nanogeni finirono dappertutto attorno a loro come se il globo di neve finto si fosse spaccato e i pallini di neve avessero deciso che la forza di gravità non li riguardava. Le spalle di Sherlock tremavano un po’, o forse erano le sue mani, John non riusciva a capirlo. Però le braccia di Sherlock erano anche loro attorno a lui, lo stringevano tanto forte da fargli uscire l’aria dai polmoni. I nanogeni svolazzavano nell’aria e non erano neanche fastidiosi, a questo punto, perché li nascondevano ed era un po’ come essere tornati al 221B, il loro 221B, come se tutto ciò che il Dottore aveva mostrato loro non fosse mai successo. La luce era accecante quasi come mentre John tornava in vita, ma era più morbida, come lampade a olio.
Sherlock sussurrò qualcosa che solo John poteva capire, non ascoltandolo, in realtà, ma percependolo con quella cognizione del mondo che gli era rimasta di mentre era, chissà, un fantasma?, e che lentamente stava scemando. E quindi ripose e si dissero cose, in quell’abbraccio di luce, cose ch’erano fatte di luce anch’esse ed erano meglio che stringersi la mano in cima ad un tetto, meglio che aver paura l’uno per l’altro, meglio che sorridersi di nascosto mentre nessuno vedeva. 

Rose pensò cose, guardando la luce dei nanogeni scintillarle attorno alle mani, anche se non c’era niente da guarire, cose che riguardavano Layne e il Dottore e i viaggi nel tempo. Gli occhi lucidi e scuri del Dottore splendevano e catturavano la luce di quelle scintille di vita, ed il sorriso che gli attraversava il viso le ricordò quella volta a Londra durante la seconda guerra mondiale, e… Just this once, Rose, everybody lives!
Si avvicinò al Dottore e prese la manica del suo cappotto lungo e appoggiò il mento sulla sua spalla, e mentre lui la guardava con tutta la sua attenzione, forse un po’ preoccupato, gli parlò.

 

((FINALE ALTERNATIVO PER ARIA: John stave morendo, oh che male, oh che male, ma arrivò una scimmia meccanica che suonava i piatti e Jaawn se ne innamorò perdutamente, quindi decise a) di mandare a cagare Shuuurcock e b) per una questione puramente pratica e riproduttiva - anche se ancora non ci è dato di sapere esattamente come si sia riprodotto con una scimmia meccanica che suona piatti - decise di restare vivo. Oh, niente più male, niente più male. Quindi Shuuuurcock andò in bianco per il resto della sua vita e Jawn e la scimmia meccanica che il buon dottore aveva chiamato Ashassarenbamdnednrosnehrksanejn II, per gli amici Ash Ketchum, ebbero tanti figliolini mezzi piatti mezzi umani che poi divennero l’armata del Dottor Destino. THE SWEETEST END. ))



S. vorrebbe rendervi partecipi dell'onore di cui viene investito questo capitolo, chiamandosi come uno dei suoi episodi preferiti di Supernatural *fades*

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Capitolo 11
*** Epilogo - Time Is on My Side ***


«Prima fermata: Londra, 2010, 221B, Baker Street! A te serve un passaggio, Dottoressa Song?»
«Grazie, dolcezza, ma ho altri impegni… tipo salvarti le chiappe in un altro tempo.» John rise. «Oops, spoiler. Ci salutiamo, bocconcini!» River sollevò la manica del vestito vittoriano che indossava e scoprì un braccialetto di pelle. Ci armeggiò per un attimo e poi scomparve.
«La solita misteriosa» bofonchiò il Dottore, poi tirò una leva e la TARDIS si mise in moto. Questa volta, col suono giusto.

«Beh, grazie, allora. Ci stiamo dicendo addio?» John restò a fissare il Dottore con un'espressione amara.
«No, niente addii, ne ho già avuti troppi. Diciamo… arrivederci. Anche perché ho come la sensazione che avrò bisogno del cervello del tuo amico ancora, più in là. Quindi se ci vedete arrivare iniziate a correre!»  Sherlock rise, ed era una risata di gusto che John non gli aveva mai sentito. Quando il Dottore rientrò nella TARDIS, che iniziò a scomparire, John fissò in alto verso Sherlock. «Quindi?» 
«Quindi?»
«Pensi davvero che possa continuare tutto com'era prima? Nel senso… siamo tornati indietro nel tempo, mi hai presentato a tua nonna e - dettaglio che credo non essere particolarmente ininfluente -  sono morto. Tutto nel giro di» diede un'occhiata veloce all'orologio «venticinque secondi netti. Credo che abbiamo appena battuto ogni record di velocità» ma il detective non lo stava già più ascoltando. Fissava un punto vuoto in mezzo alla strada, mentre frugava con una mano nella tasca del cappotto. «Sherlock, che..»
«Hai ragione, John. Non può restare tutto come prima. Ci ho pensato parecchio, sai? In realtà ci stavo pensando anche prima di partire per questa follia controversa, è per questo che quando ho pensato di averti perso non riuscivo a concepirlo: non mi è mai capitato di non poter dire a qualcuno quello che volevo. Layne mi ha dato questo» tirò fuori dalla tasca una scatolina di velluto blu con un lucchetto d'argento «Credo che la nonna sappia più di quanto non voglia farci credere. Deve aver capito tutto nel momento stesso in cui sono arrivato. Il problema è che non sapevo. Non sapevo se ti sarebbe andato. Non sapevo se è così che funziona, tra la gente normale. Non sapevo se è una cosa che si fa davvero.» Sforzandosi di non ridere in una maniera non indifferente fece per inginocchiarsi, ma vide le guance di John diventare più rosse e i suoi occhi grigi inumidirsi. «John. Non vuoi?»
«Oh, che idiota che sei. È solo… risparmiamoci la scenetta, ok?» stava iniziando a ridere, in mezzo alle lacrime che cercava di nascondere. Gli buttò le braccia al collo e Sherlock lo strinse, tanto che il medico si trovò a penzolare con le gambe in aria. Avvicinò le labbra all'orecchio di Sherlock, attraverso i riccioli neri. «Sì, lo voglio»

«Per favore, Ianto, manda a mia sorella un messaggio dicendole che no, non andrò a quella stupida cena di ringraziamento.»
«Come vuoi, Miss Layne. Ma rifiutare un'onorificenza dalla Regina… e soprattutto a Capodanno…»
«Ho di meglio da fare.» Layne aprì il giornale del giorno - 31 dicembre 1980 - e iniziò a perlustrare la colonna degli annunci alla ricerca di qualcosa d'interessante, sospetto… alieno. Solo che di alieno c'era stato molto poco, da qualche mese a quella parte. Otto mesi, per essere precisi. Sul caminetto c'era una cornice ribaltata in modo da coprire la monografia al suo interno. Ne aveva abbastanza dei ricordi. Si era lanciata sul lavoro, aveva risolto casi anche oltre la Manica, e ancora si sentiva come se stesse vagando inutilmente. Meno di un mese e sarebbe iniziato l'anno nuovo. Layne non aveva mai riposto importanza in quel tipo di credenze popolari, ma in quel momento un nuovo inizio non le sembrava male. Per niente, proprio.
Ianto scrollò le spalle, controllando che la busta della lettera che lei gli aveva dato fosse ben chiusa, poi diede uno sguardo fuori dalla finestra. La neve vorticava e faceva sembrare il mondo lì fuori soffocato e silenzioso. Persino gli strilli dei vetturini si erano zittiti. In effetti, non erano in molti a prendere una carrozza a poche ore dall'inizio dell'anno nuovo.
Peccato che lui avrebbe dovuto, per soddisfare quella piccola viziata della sua affittuaria. Layne prese un sorso di tè dalla tazza che le aveva portato e inarcò un sopracciglio come a dire "perché non ti sei ancora mosso?". Ianto sbuffò e fece per dirgliene quattro, ma improvvisamente scorse un bagliore bluastro fuori dalla finestra, e senza dire nient'altro, ma nascondendo un sorriso, aprì la porta dell'appartamento e scese in fretta le scale.

Rose aprì la porta della TARDIS e una folata di neve le sferzò il viso. «In tempo come sempre, Dottore! Di sicuro non siamo ad aprile!» Rose scoppiò a ridere e gli saltò al collo per abbracciarlo. Il Dottore ricambiò stringendola un po' più del necessario. Rose sapeva che gli faceva male, ma sapeva anche che lui sarebbe andato avanti - andava sempre avanti - e che avrebbe trovato qualcun altro che si sarebbe preso cura di lui. Layne non aveva nessun'altro, eccetto una sorella con cui bisticciava come fossero entrambi cinquenni con un QI spaventoso.
La neve si stava accumulando nell'ingresso della TARDIS, quando lui la lasciò andare. «Grazie mille per quest'ultima avventura. Barcellona, gran bel pianeta. Peccato fosse infestato da cavallette giganti.»
Il Dottore rise, le prese la mano e la guidò fuori dall'astronave. Rose respirò l'aria non proprio profumata dell'800, mitigata dall'umidità della neve e da quella della nebbia. Faceva freddo nel vestito vittoriano che aveva indossato per tornare a casa - sì, era casa - non quello che aveva quando se n'era andata, ma uno che le aveva prestato il Dottore.
La targa dorata del 221B, Baker Street scintillava alla luce di un lampione. La porta si aprì e ne uscì una figura in un pastrano scuro elegante. Quello che di sicuro era Ianto fece un cenno di saluto a lei e al Dottore, prima di affrettarsi lungo la strada. Aveva lasciato la porta aperta. 
Rose si voltò verso il Dottore e fece per dire "devo andare", ma lui le aveva già lasciato la mano e la guardava con tutta la dolcezza di questo mondo. «Rose Tyler, questa è la tua vera avventura. Crescere, decidere di voler rimanere in un posto, farti una famiglia. Ti auguro tutto il mio bene.»
Lei si sentì prossima alle lacrime, ma non voleva che Layne la rivedesse con l'aria di una bambina che fa i capricci per non aver avuto lo zucchero filato. Sorrise, invece, e si allungò per baciarlo sulla guancia. «Grazie di tutto.»
«Grazie a te.»
Corse verso la porta senza voltarsi indietro, e proprio mentre la richiudeva sentì il rumore della TARDIS che spariva. Dentro, le scale che portavano agli appartamenti suoi e di Layne erano fiocamente illuminate e profumavano di tè e cera per legno, e il tappeto era un po' polveroso, come al solito, mentre lo calpestava per salire i gradini e si ritrovava sul suo pianerottolo.
Bussò.
«Ianto, ti ho detto che da Liz non ci vado» disse Layne, con una voce da bambina indispettita, aprendo la porta di malagrazia. Quando la vide, sembrò che le avessero tirato un pugno nello stomaco. Era la prima volta che vedeva Layne senza parole per la sorpresa. Adesso si sentiva di nuovo sul punto di piangere, e anche stavolta sorride invece che mettersi a far acqua da tutte le parti.
Layne si ricompose velocemente, mettendo su un'aria fredda e scocciata. «Immagino che sarò costretta ad andare da Liz.»
«Già. A giudicare dal tempo sembra Natale…»
«Capodanno.»
«… ancora meglio. Le feste si passano in famiglia, no?»
Layne emise un borbottio incomprensibile. Il sorriso di Rose si allargò. «Mettiti una giacca, e… potresti prestarne una anche a me? Questo vestito è un po' leggero.»
«Ma certo.» Le porse una mano, e lei la prese. «Vieni.»



Oh, gentaglia, questa l'abbiam portata alla fine! Ed è anche finita bene, quindi non potete incolparci di danni morali e fisici - ed è tutto merito di S., se no sarebbe stata una carneficina angstiosa - grazie per aver volato con MJN Air! No, vabbè, ok. Grazie per essere arrivati fin qua in fondo, e diamo tutti un bel premio di biscotti e scimmie meccaniche alla povera piccola dolce Aria che si è sopportata anche i finali alternativi su misura. THANKS, LADS.

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