Come morning light

di Lue
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I parte ***
Capitolo 2: *** II Parte. ***



Capitolo 1
*** I parte ***



COME MORNING LIGHT


Ricordo le lacrime rigarti il volto
quando ti ho detto che non ti avrei mai lasciato,
quando tutte quelle ombre avevano quasi ucciso la tua luce.
Ricordo che mi hai detto “Non lasciarmi solo”,
Ma stanotte è tutto finito e chiuso e passato.
 
Chiudi gli occhi,
Il sole sta tramontando.
Starai bene,
Nessuno può ferirti ora.
Vieni, luce del giorno.
Io e te saremo sani e salvi.
 
Non osare guardare fuori dalla tua finestra,
tesoro, ogni cosa è in fiamme.
La guerra fuori dalla nostra porta continua a imperversare.
Aggrappati a questa melodia,
anche quando la musica se ne sarà andata.

[Taylor Swift & The Civil War – “Safe and sound”]

“Aspettami qui”.
Così gli aveva detto Mycroft. E Sherlock aveva aspettato. Era rimasto a tamburellare con le dita sulla familiare tappezzeria del muro, seguendo i disegni coi polpastrelli, per un sacco di tempo. Era stufo e Mycroft non scendeva al piano di sotto. Quante cose doveva dire ancora a John? Certo, Sherlock era stato via tre anni, ma Mycroft avrebbe solo dovuto spiegare come c’era riuscito! Questione di pochi minuti!
E se Mycroft – si ritrovò a pensare con una punta di fastidio – avesse riferito a John tutto quello che Sherlock aveva fatto in quei tre anni? Sherlock voleva raccontarglielo di persona! E vedere l’espressione ammirata sul viso di John! No, non aveva assolutamente senso aspettare, si disse Sherlock, e si decise a salire i primi gradini che portavano al piano di sopra, alla casa che era stata – e che sarebbe stata di nuovo – sua e di John.
Non fece in tempo a salire il terzo gradino che Mycroft apparve in cima alle scale, fermandolo con un cenno. Quando gli fu a pochi centimetri di distanza sospirò.
“È meglio che tu non salga, Sherlock”.
Lui scosse la testa con un gesto stizzito.
“Non dire stupidaggini, certo che posso salire”.
“Sherlock…”, Mycroft cercò di fermarlo, ma lui lo ignorò e lo sorpassò deciso, superando gli scalini a due a due, con ampie falcate.
John era a piedi nudi, sprofondato nella sua solita poltrona. Non alzò lo sguardo quando Sherlock entrò nella stanza.
A Sherlock batteva il cuore, fortissimo, non c’era tempo per pensare a spiegazioni scientifiche per quello strano fenomeno.
“John”, sorrise piano.
Quello, per tutta risposta, serrò le labbra e chiuse gli occhi. Inspirò profondamente.
A Sherlock si insinuò, leggero, il dubbio che qualcosa non andasse.
“John?”, ripeté.
Lui riaprì gli occhi, ma li tenne fissi davanti a sé, senza degnare Sherlock di uno sguardo.
“Fuori da casa mia”, sussurrò.
“Cosa?”, domandò Sherlock spiazzato, certo di aver capito male.
“Ho detto… Fuori da casa mia”.
Rimasero in silenzio, immobili.
“Hai capito?”, la voce di John tremava, “Vattene, ora”.
“No”, disse Sherlock, sorpreso, “Perché dovrei andarmene?”.
John scoppiò in una risatina che non aveva nulla di divertente.
“Perché mi hai ingannato, forse? Perché hai reso gli ultimi tre anni i peggiori della mia vita? Sei solo uno stronzo, Sherlock, un maledettissimo stronzo egoista”, sputò con amarezza, “Quindi fuori da casa mia”.
Per un paio di secondi Sherlock rimase in silenzio, sconcertato e confuso, poi si diresse verso la poltrona di John e gli si piazzò davanti.
“Non è casa tua, è anche casa mia, è ancora casa mia, Mycroft ha pagato la mia parte di affitto per tutti e tre questi anni. Quindi”, continuò con ovvietà, “Non puoi chiedermi di andarmene”.
John annuì.
“Perfetto, allora. Benissimo. Me ne vado io”.
Si alzò, ignorando totalmente Sherlock, e si infilò le scarpe. Fece per andare verso la porta quando la voce di Sherlock lo raggiunse.
“John”, c’era una nota ferita nel suo tono, “Non puoi… non puoi andartene”.
“E perché no? Tu l’hai fatto. Senza troppi problemi”.
Se ne andò senza voltarsi.
 
Sherlock rimase immobile, nel mezzo della stanza. Non si era mosso quando John si era alzato, quando se n’era andato. Aveva una tremenda voglia di piangere, la stessa che aveva provato sul tetto, una lontana mattina di tre anni prima. Si sentiva solo, in un modo completamente nuovo e doloroso. La solitudine aveva sempre fatto parte della sua vita: da piccolo non aveva mai avuto amici, come tutti i ragazzini della sua età e poi, cresciuto, non aveva sentito il bisogno di farsene. C’era abituato. Era abituato a parlare da solo, interrogarsi e rispondersi, mettere sempre alla prova la propria intelligenza. Era stato solo, si era sentito solo, ma non gli aveva mai fatto davvero male. Poi era arrivato John, che non era certo un essere umano dall’intelletto fuori dall’ordinario, era un qualcuno di perfettamente normale che era precipitato nella sua vita. E Sherlock, semplicemente, gli aveva permesso di rimanerci. John era diventato il suo amico. Suo. E amico. L’unico, in effetti.
Sherlock aveva pensato molto a lui negli ultimi tre anni, aveva parlato con lui (anche se John non era propriamente lì), aveva ricevuto mensilmente informazioni su di lui da Lux, Pit e altri senzatetto, e aveva programmato perfettamente il giorno del suo ritorno: John sarebbe stato felice e ammirato, gli avrebbe chiesto tutto di come aveva eluso la morte, avrebbero parlato fino a tardi e alla fine John si sarebbe appisolato sul divano, come sempre.
Sherlock detestava quando le cose non andavano come previsto. Non c’era abituato.
E ora John se n’era andato e gli aveva detto che era uno stronzo.
Si accoccolò per terra, davanti alla poltrona di John, stringendosi le ginocchia al petto. Sherlock se la ricordava quella sensazione, sapeva a cosa avrebbe portato. Era un senso di vuoto, come se stesse precipitando giù, giù, giù. Prima gli capitava abbastanza spesso, quando non lavorava per tempi troppo lunghi: entrava in uno stato di apatia profonda e c’era solo un modo di uscirne, di sopravvivere fino al prossimo caso. Poi, da quando era arrivato John, non gli era mai più successo.
Ma ora John lo aveva abbandonato. Singhiozzò piano.
Sobbalzò quando avvertì qualcuno avvicinarglisi.
“Oh, caro…”, mormorò Mrs Hudson. Gli si inginocchiò accanto e gli accarezzò delicatamente i capelli. Mycroft l’aveva avvertita, ma Sherlock non aveva alcuna voglia di raccontarle dove era stato negli ultimi anni.
“È andato via”, bisbigliò, “Perché mi odia”.
“Oh no, tesoro, certo che non ti odia, si è comportato così proprio perché tiene a te e tu l’hai fatto stare molto male…”.
Sherlock la ignorò.
“John è andato via”, ripeté.
Mrs Hudson sospirò e continuò ad accarezzargli i capelli. Rimasero così per molto tempo, per terra, in una casa che Sherlock non sapeva più come definire. Forse gli sfuggirono un paio di lacrime, ma Mrs Hudson non pronunciò comunque una parola a riguardo. E Sherlock pensò che sapeva esattamente di cosa aveva bisogno.
 
John e Mary stavano insieme da quasi un anno ormai. Era senza dubbio la relazione più lunga che John avesse mai avuto. Se non conti quella con Sherlock, gli sussurrò una vocina all’orecchio. Lui la scacciò: a parte il fatto che lui e Sherlock erano – erano stati solo amici, non aveva la minima voglia di pensare a lui.
Mary era una buona fidanzata. Gliel’aveva presentata Sarah (loro due erano rimasti in buoni rapporti), era una sua vecchia amica, conosciuta all’università. Sarah era riuscita a convincere John a invitarla a uscire dopo settimane, pensava che gli avrebbe fatto bene. John in realtà l’aveva accontentata solo perché non aveva più voglia di starla ad ascoltare, ma alla fine Mary si era rivelata una piacevole sorpresa: era intelligente e spiritosa, e lavorava al Bart’s (quel posto sembrava perseguitarlo) da qualche mese in quanto chirurgo pediatrico. Avevano passato la serata a chiacchierare – John aveva accennato leggermente a Sherlock, ma quella era stata l’ultima volta in cui ne aveva parlato – e poi si erano visti ancora molte volte.
John stava bene con Mary. Oddio, non era proprio un rapporto passionale, John non pensava a Mary dalla mattina alla sera, ma lei era stata il salvagente che gli aveva impedito di affondare, trascinandolo nella sua vita ordinaria, nella sua routine. La routine lo aveva aiutato: la notte non poteva pensare a Sherlock, non più, doveva accarezzare i capelli di Mary e sperare di non russare troppo forte.
Per questo John stava andando da Mary. Aveva bisogno di dimenticarsi del ritorno di Sherlock, di fingere che non fosse tornato per davvero, di perdersi nelle camere ordinate, nelle cornici d’argento sul caminetto, nelle pareti color panna – non come quelle bucate e disordinate di Baker Street –, nelle chiacchiere di Mary, prevedibili e confortanti (lavoro, amiche, famiglia) – non come i discorsi assurdi che faceva con Sherlock – e nel sentimento calmo e leggero (talmente leggero che a volte John si chiedeva se ci fosse addirittura un sentimento da parte sua) che lo legava a lei. Non come quello per Sherlock. Quello sì che c’era, era così vivido e prepotente e violento da riuscire sempre a fargli male.
No, John, non pensare a Sherlock. Non pensare a Sherlock.
Mary gli aprì la porta con un sorriso sorpreso.
“Ciao! Non sapevo saresti passato…”.
John la interruppe, baciandole le labbra con veemenza. Si chiusero la porta alle spalle.
 
Solo nelle situazioni di emergenza. Solo quando ti sentirai di nuovo così.
Stanco, arrabbiato, annoiato, solo, desolato, ordinario, inutile.
Per la prima volta una di quelle situazioni non corrispondeva a una mancanza di lavoro. Non era colpa di quello. Era colpa di John. Aveva avuto ragione Jim Moriarty, ai suoi tempi: Sherlock un cuore ce l’aveva, eccome. Gliel’aveva messo davanti agli occhi, avvitato in un circuito di fili elettrici ed esplosivo, con i suoi vestiti odorosi di flanella e di caffè, e gli occhi tristi (perché mai aveva sempre gli occhi così tristi?). Era lì, il suo cuore. John.
Ma ora John era andato via, e Mrs Hudson poteva dire tutte le stupidaggini romantiche che voleva, ma Sherlock sapeva che non sarebbe tornato.
Esaminò la siringa alla luce dell’abat-jour.
 
John non riusciva a togliersi Sherlock dalla mente. Ogni volta che il suo nome o il suo odore o il suo viso gli appariva tra i pensieri, John si stringeva a Mary nel letto, la baciava.
“A cosa devo tutta questa passione oggi?”, ridacchiò lei.
John alzò le spalle.
“Continuavo a pensare a te”.
Il suono della voce di Sherlock gli esplose nella testa.
 
Sherlock chiuse gli occhi e sospirò di soddisfazione. Rabbrividì quando sentì i primi effetti della droga pervadergli rapidamente il corpo. Tutte le sensazioni che lo avevano fatto stare male cominciarono velocemente a scomparire, sostituite da una felicità tiepida che cresceva col passare dei minuti.
Ridacchiò beato, avvicinandosi alla scrivania. Prese tra le mani gli otto fascicoli che gli aveva affidato Mycroft e cominciò a esaminarli febbrilmente.
John scomparve dai suoi pensieri.
 
Era dimagrito. Sherlock, era dimagrito.
Mary cominciò a posargli dei piccoli baci sulla tempia.
L’aveva guardato di sottecchi, solo un’occhiata: il suo cuore non avrebbe retto. John era… incazzato nero.
La mano di Mary gli carezzò piano la guancia.
Così, quell’idiota si era svegliato una mattina e si era detto “Ehi, magari torno a vedere come sta John, mi sa che c’è rimasto un po’ male quando sono morto!”.
Mary gli si strinse ancora di più.
Che stronzo, che brutto stronzo! Non si meritava niente! John era così arrabbiato, così arrabbiato che avrebbe voluto ucciderlo, fargli provare quello che aveva provato lui…
“Sposami”, disse a Mary. E si vergognò immensamente di se stesso.
 
*****
 
“Te l’ha detto John, che Sherlock è tornato?”, Sarah puntò gli occhi su Mary, che stava esaminando uno degli abiti da sposa nel negozio.
“Ah, sì, me l’ha accennato”, rispose Mary con noncuranza.
“E John è corso da te appena ha rivisto Sherlock”.
“Mhh, sì”.
“E…”, continuò Sarah, “Poi ti ha chiesto di sposarlo”.
“Sì, Sarah, quindi? Vai al punto, per piacere”.
“Voglio dire… Non ti sembra strano? Io li ho visti insieme, non è semplice amicizia, Mary, è qualcosa di quasimorboso. C’è un motivo se, quando c’era Sherlock, John non è mai riuscito a stare con una donna. E io… Sono preoccupata per te”.
Mary rimase a fissarla per qualche istante.
“Hai finito?”, chiese lei glacialmente, “Forse ti risulta difficile credere che John mi ami, forse non ti va giù che tra voi non sia durata nemmeno un mese, mentre noi tra una settimana ci sposiamo, ma non mi interessa…”.
“Oh, Mary, ti prego!”, la interruppe Sarah, “Ho solo paura che tu soffra! John e Sherlock avevano un rapporto speciale, non sembrava amicizia, sembrava… amore!”.
Mary inspirò profondamente.
“Sarah, smettila. John è il mio fidanzato e mi ama. Vorrei che tu riuscissi a essere felice per me, e se proprio non ci riesci sappi che nessuno ti trattiene qui”.
“E va bene”, sospirò Sarah, “Non ti dirò più niente”.
Mary sorrise, “Bene, che ne dici di questo vestito? È troppo elaborato?”.
 
“Sposami”.
“Dici sul serio?”.
“Beh, sì…”.
“Sposiamoci! Sì! John, sì! Facciamolo subito!”.
“Subito? Subito quando?”.
“Non lo so, tra una settimana! Tanto, cosa c’è da aspettare?”.
“Niente, niente…”.
“Ti amo, John”.
Lui l’aveva baciata. Non le aveva risposto. Se questo l’aveva lasciata interdetta, Mary non lo aveva dato a vedere. Erano rimasti a letto, e John le aveva raccontato, con molto distacco, che Sherlock era tornato.
“Ma… credevo che fosse morto!”, aveva esclamato lei.
Lui aveva bofonchiato una risposta confusa, e aveva cambiato discorso. Mary gli aveva proposto di rimanere da lei per la notte, così avrebbero potuto cominciare a fare una lista degli invitati (lei voleva solo gli amici più intimi), e John era stato ben contento di accettare: era sicuro che Sherlock fosse rimasto in Baker Street, e non voleva rivederlo.
Non sapeva cosa pensare. Si sentiva spezzato a metà: c’era la parte di lui che amava Sherlock e voleva cercare un modo di perdonarlo, e c’era la parte arrabbiata, ferita, delusa che voleva fingere di essere un’altra persona, qualcuno che potesse essere felice accanto a Mary e dimenticarsi di Sherlock.
Uscì sul balcone e l’aria fredda gli sferzò il viso.
Ma come cazzo penso di dimenticarmi di Sherlock?
 
L’effetto stava svanendo piano piano. Tre volte in due giorni, era sopra i suoi standard anche nei periodi peggiori, ma Sherlock ne aveva bisogno, più che mai. La droga lo faceva sentire vivo ed eccitato, al massimo delle sue capacità e… meno umano. Di questo aveva bisogno Sherlock, di sentirsi meno umano. Ma ora percepiva tutta l’eccitazione scivolare via dalla sua pelle, e tutte le emozioni – Sherlock odiava le emozioni – tornare a galla, soffocandolo.
Per questo Mycroft non avrebbe potuto scegliere momento peggiore per varcare la soglia di Baker Street ed entrare in salotto, senza nemmeno bussare.
“Ah, sei vivo allora”.
Sherlock non rispose nemmeno, rannicchiato nella poltrona di John.
Ci volle una frazione infinitesimale di secondo perché Mycroft capisse.
“Eroina?”, sussurrò.
“Mycroft”, sbuffò Sherlock con voce impastata, “Mi consideri così poco elegante?”.
“Oh, giusto. Morfina e cocaina. Endovena, dico bene?”.
“Naturalmente”.
“Sai cosa ne penso, Sherlock”.
“E credi ancora che mi interessi?”, ridacchiò Sherlock amaramente.
“Come stride tutto questo, caro fratello, con la tua natura. Una mente così brillante e al contempo così debole…”.
Gi ultimi residui di droga stavano scomparendo, Sherlock ci si aggrappò con tutte le sue forze ma non riuscì a riportarle indietro. Una rabbia dolorosa prese possesso di lui, bruciandogli il sangue.
“Sei la solita delusione, Sherlock”.
Scattò in piedi.
“Taci, Mycroft!”.
Mycroft si mosse lentamente finché non gli fu perfettamente di fronte.
“Lasciarti andare in questo modo, soltanto perché John si sposa, è la cosa più infantile che tu abbia mai…”, Mycroft si interruppe, vedendo l’espressione che era apparsa sul viso di Sherlock. Capì in quel momento che Sherlock non sapeva nulla e comprese quanto fosse profondo il legame che legava suo fratello al medico militare, se un semplice allontanamento da parte di quest’ultimo era riuscito a minare – quasi ormai distruggere – l’equilibrio di Sherlock.
Sherlock indietreggiò di qualche passo. Si schiarì la gola.
“Credo che tu possa andare adesso”, mormorò, abbassando lo sguardo.
Mycroft dischiuse le labbra, come per dire qualcosa, ma poi sospirò, gettò un ultimo sguardo al fratello. Poi gli voltò le spalle e se ne andò.
Sherlock rimase solo al centro della stanza. Si fissò l’incavo del braccio, eburneo, a parte il piccolo cerchio nero nel mezzo. Poi si guardò intorno e la desolazione di quella stanza lo colpì come un pugno allo stomaco. D’un tratto si sentì incredibilmente debole, boccheggiò in cerca d’aria e scoppiò in lacrime. Ne aveva ancora bisogno, ma sapeva che la droga era finita, come ogni altra cosa, era tutto finito.
Si buttò per terra.
“John”, pianse, “John, John…”, ripeté il suo nome per ore, finché non crollò addormentato, sul pavimento.
 


_____________________________



Ciao :) All'inizio volevo pubblicare questa storia intera, ma poi mi sono accorta che era talmente lunga che probabilmente qualcuno sarebbe invecchiato leggendola, quindi ho deciso di dividerla in due capitoli! :) Non sono un'esperta per quanto riguarda le droghe ma mi sono informata! Se qualcuno di voi ha notato degli errori non esiti a dirmeli e provvederò! :) Mi sono ispirata allo Sherlock e al John di Conan Doyle, quindi Mary e la droga usata da Sherlock non sono mie invenzioni.
Se vi è piaciuta la storia non esitate a recensire, fa sempre tanto piacere! :)
A prestissimo e grazie a coloro che hanno recensito le mie precedenti storie, siete adorabili!!
Un bacio!
Lu

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Capitolo 2
*** II Parte. ***


COME MORNING LIGHT


I remember tears streaming down your face
when I said I’d never let you go
When all those shadows almost killed

your light.
I remember you said “Don’t leave me alone”,
But all that’s dead and gone and past tonight.

Just close your eyes,
The sun is going down.
You’ll be alright,
No one can hurt you now.
Come, morning light.
You and I will be safe and sound.

 
Don’t you dare look out your
window,
darling, everything’s on fire.
The war outside our door keeps

waging on.
Hold on to this lullaby,
even when music’s gone.


[Taylor Swift & The Civil War – “Safe and sound”]

18:03, MOLLY: John, mi ha chiamato il fratello di Sherlock, dice che non riesce a contattarti e di andare subito in Baker Street
18:37, MOLLY: John, a quanto pare è una cosa seria
18:54, UNA CHIAMATA PERSA
19:25, MOLLY: Ho provato a chiamarti, hai visto?
19:42, MOLLY: John, è importante, è la dipendenza di Sherlock, credo sia ricominciata
19:45, MOLLY: John?
20:01, MOLLY: Va bene, ci vediamo domani al matrimonio

John spense il telefono.
 
E l’aveva sposata, dunque. John inghiottì un sorso di vino, assordato dalle risate degli invitati. Erano pochi, solo gli amici più stretti, ma forse era solo il disagio di John ad amplificare il volume delle loro parole. Si accorse solo in quel momento che Mary gli stava parlando.
“Scusa, ehm, non ho capito cosa hai detto…”.
“Ho detto che laggiù c’è Molly Hooper che dice di doverti parlare!”, esclamò lei, raggiante nel suo vestito bianco. John si sentiva uno schifo.
“Oh, ah, già. Sì, vado. Torno subito”.
Molly era stretta in un abito a quadretti rossi e neri, e sorseggiava da un calice di vino, nervosamente. Quando lo vide avvicinarsi gli si fece incontro.
“John, ciao…”, si passò il bicchiere da una mano all’altra.
Poi prese un grande respiro.
“Hai ricevuto i miei messaggi?”.
John sospirò, “Sì, Molly, ma non me ne frega niente se Sherlock ha ripreso a fumare…”.
“A fumare!?”, esclamò lei interrompendolo e guardandolo sorpresa, “Non… non parlo del fumo!”.
Ci mise mezzo secondo a capire. E un altro mezzo secondo per sentirsi un totale idiota.
“Oh, merda…”, boccheggiò, “Io non avevo… non credevo che…”.
“Devi andare da lui”, sussurrò Molly con decisione, “Ha bisogno di te e non so… non so davvero perché tu abbia fatto tutto questo, il matrimonio, lei”, indicò Mary che ballava con un amico, “Ma John, una cosa la so. E la so perché ho passato due anni a vedervi fianco a fianco e a… a…”, le tremò la voce, “Sai, no? A sperare che mi vedesse allo stesso modo in cui vedeva te. Ma non è di me che ha bisogno, ora. Ha bisogno di te, e tu devi andare da lui”.
John non sapeva cosa dire.
“Ora io devo… devo andare da Greg”, indicò Lestrade con un sorrisino timido, “Sai, stiamo uscendo insieme, spero che mi vada meglio che con Jim!”, gli lanciò un ultimo sorriso e poi si allontanò.
A John venne un’infinita voglia di piangere.
Guardò Mary. Rideva. Il loro matrimonio: erano passati dieci minuti ed era già lo sbaglio più grande che avesse mai fatto.
E gli sbagli si pagano. John stava pagando al momento, sudato nel suo abito nero, con una fede al dito. Stava pagando con l’immagine degli occhi di Sherlock stampati indelebili nella sua mente e nel suo cuore, stava pagando col pensiero di lui, solo, in una casa vuota che non avrebbe mai più visto il furore delle loro litigate, avvertito il tepore delle loro risate, ma semplicemente ospitato il peso dell’assenza di John e del dolore di Sherlock. Come aveva potuto pensare di potercela fare, di nuovo, senza di lui? E come aveva potuto pensare che Sherlock, abbandonato, non sarebbe crollato? Era stato sciocco e infantile, e stavano entrambi pagando l’irrazionalità e la superficialità con cui John aveva fatto la sua scelta.
Si avvicinò piano a Mary.
“Mary, senti, io devo andare”, davanti al suo sguardo smarrito si sbrigò a spiegare, “Sherlock non sta… non sta molto bene, vado a dargli un’occhiata, ma poi torno, prima che finisca la festa”.
“Ma John”, protestò lei, “Non può andarci qualcun altro?”.
“È una cosa importante!”.
“Anche questo lo è!”, esclamò Mary.
“Lo so, certo, ma… devo andare”, le posò un bacio sulla guancia, “Torno tra poco”.
Mary si sforzò di mantenere il sorriso. Si diresse verso un paio di amiche, raccontando che John aveva avuto un’emergenza sul lavoro, e sarebbe tornato a breve. Ignorò volutamente Sarah, e i suoi occhi fissi su di lei.
Te l’avevo detto, parevano gridare.
 
John scese dal taxi e fece per dirigersi verso il 221B.
Si fermò. Rimase immobile a fissare la porta di legno scuro e le lettere chiare incastonate, ricordando d’un tratto quello che lo aspettava, varcata la soglia. C’era un intero mondo, lì dietro, il mondo straordinario di Sherlock Holmes, del suo violino e delle sue dita bianche, delle sue deduzioni, di un blog abbandonato da tre anni e di uno smile di vernice gialla, in alto sulla tappezzeria.
Ma John quel mondo l’aveva rinnegato nemmeno un’ora prima, sposando Mary. Aveva fatto una scelta. Non poteva semplicemente entrare ed essere trascinato di nuovo nella vita di Sherlock. E non poteva nemmeno riprendere il taxi e tornare alla festa come se niente fosse. Non voleva, più che altro.
Da una parte Sherlock. Dall’altra Mary. Da una parte un amore rumoroso, ingombrante, doloroso. Dall’altra la sicurezza dell’affetto. In mezzo, lui.
Annegando in un mare di confusione, tra quello che desiderava e quello che era giusto, si sedette sui gradini di quella che era stata la sua casa. E rimase lì, per ore.
 
John aveva perso la cognizione del tempo. Aveva spento il telefono, perché Mary continuava a chiamarlo. Stava bene lì, nel suo limbo, sospeso nel mezzo di tutto. Un taxi si fermò davanti a lui. John alzò lo sguardo. Mary abbassò il finestrino.
“Allora?”, lo guardò con freddezza.
“Non sono ancora salito”.
Mary divenne rossa in volto.
“Mi stai prendendo in giro? Sono rimasta lì da sola! E tu non sei nemmeno entrato?”, inspirò profondamente, “Dai, muoviti, sali. Ho preso anche le tue valige, siamo in ritardo”.
John la guardò smarrito. Poi ricordò: il viaggio di nozze.
“Ah, già, giusto”, mormorò, “Dobbiamo andare all’aeroporto”.
Mary si passò le mani tra i capelli.
“Sì, John”, disse esasperata, “Dobbiamo andare all’aeroporto. E siamo già in ritardo, quindi sali su questo maledetto taxi”.
“Va bene”, John si alzò, poi rimase un attimo interdetto, “Dammi solo un secondo!”, esclamò, “Devo soltanto salutarlo!”.
Lei lo fissò sconcertata.
“Stai scherzando?”.
“Dammi un secondo”, ripeté lui, prima di svanire dentro Baker Street (quante ore fa Mrs Hudson gli aveva aperto la porta, convinta che sarebbe entrato, prima o poi?), fregandosi di ciò che era giusto fare e tutte quelle altre stronzate.
 
Saliva le scale e pensava a cosa avrebbe potuto dirgli, ma le parole erano confuse nella sua testa, non sapeva proprio da che parte cominciare.
“Ciao”, John non riuscì a fermarsi, lo disse prima ancora di essere entrato nella stanza.
Sherlock era in vestaglia, seduto sul divano. La manica destra era arrotolata fino a sopra il gomito: non si era premurato nemmeno di nascondere le prove.
“Molly?”, sussurrò Sherlock, alzando gli occhi su di lui. Due enormi occhiaie violacee li circondavano.
John annuì. Avanzò di qualche passo.
“Ci hai messo parecchio ad arrivare”.
“Beh sai”, John alzò le spalle, “Avevo un paio di cose da fare”.
Questo fece ridacchiare Sherlock. John, di riflesso – era un’abitudine che gli era rimasta, evidentemente –, sorrise.
Rimasero in silenzio per qualche secondo.
“Allora, congratulazioni”, Sherlock parlava con un tono di voce bassissimo.
“Sherlock…”, John si avvicinò ancora.
“Sarai contento, spero”, le sue parole tagliavano come coltelli, “La mediocrità è confortante, no?”.
“Piantala”, disse John, secco.
Sherlock fece spallucce.
“Commentavo semplicemente una tua scelta. Molto meditata, vero? Quanto ci hai messo per decidere, tre minuti?”.
“Sherlock!”, esclamò John, “Non fai più parte della mia vita, non hai il diritto di parlarmi così”.
“Mi hai implorato di tornare, di ‘fermare tutto questo’”, Sherlock lo guardò negli occhi, “E adesso riesci solo a essere… crudele”.
“Cosa ti aspettavi!?”, John si mise le mani tra i capelli, “Mi hai sentito dire quelle cose! E non hai fatto nulla, nulla di quanto ti avevo chiesto! Ti ha fatto ridere, Sherlock, guardarmi piangere, per mesi, per anni? Come hai potuto rimanere lì? Come hai potuto? Saresti dovuto venire da me! Tornare da me! Invece mi hai solo fatto soffrire!”, ansimò.
Sherlock chiuse gli occhi.
“Quello che ho fatto…”, si passò una mano sulle palpebre chiuse, “Ho avuto le mie ragioni. E mi dispiace che le mie azioni ti abbiano fatto male: non era mia intenzione. Ma quello che hai fatto e stai facendo tu ha un solo scopo: ferirmi”.
John scoppiò in una risata priva di allegria.
“Non sei così importante, Sherlock”, mentì.
Lui lo guardò con aria canzonatoria.
“Nemmeno tu”, replicò, “Eppure guarda come siamo finiti”.
Restarono a guardarsi negli occhi, con un misto di dolore e dolcezza nello sguardo.
“Immagino che ora tu debba andare”, mormorò infine Sherlock.
John si riscosse.
“Oh, sì, sì, giusto”, fece un movimento in avanti, come per accarezzargli il viso, ma poi si ritrasse e gli rivolse un mezzo sorriso, “A presto, Sherlock”.
Lui voltò la testa e girò lo sguardo verso la finestra. Non rispose.
Quando John uscì da Baker Street, col cuore in mano, trovò Mary ad aspettarlo, appoggiata al taxi. Sembrava davvero molto arrabbiata.
“Abbiamo perso l’aereo, ormai”, soffiò, stringendo gli occhi.
“Ah”, John non si sentì di dire altro.
“C’è un altro volo stanotte, alle 4 e mezza. Quindi ora sali su questo cazzo di taxi e torniamo a casa. Usciamo verso l’una”.
John non aveva la forza di ribattere. Gettò un ultimo sguardo al 221B, e poi la seguì in taxi. In silenzio.
 
Sherlock guardò il sole calare lentamente. Da piccolo il tramonto gli metteva tristezza. Rimaneva a fissare la luce trasformarsi in buio, seduto sul letto della sua cameretta. Con gli anni era passato. La sera gli lasciava solo un briciolo di malinconia nelle ossa.
Quel giorno Sherlock si sentiva di nuovo un bambino – magro, pallido, strano – che piangeva davanti a un tramonto e voleva essere un pirata, invincibile e ammirato, perché credeva che sulla sua nave il sole non sarebbe mai calato.
L’ultima volta, si disse, stringendo la siringa tra le dita lunghe. E pensò che, insomma, dato che era l’ultima volta tanto valeva usarla tutta.
E la usa tutta, la sente scorrere nelle vene e nel cuore, e si sente finalmente un pirata, così forte, così grande, capace di affrontare ogni cosa. Ma poi un dolore cieco, furioso, prende possesso del suo corpo, Sherlock strappa il violino dal divano e lo sbatte in terra. Le corde schizzano via, insieme ai frammenti di legno di quello che è stato il compagno di una vita. Se ne pente subito, cerca di recuperare tutti i pezzi, ma il violino è distrutto e Sherlock vorrebbe urlare: perché riesce sempre a distruggere tutto quello che c’è di importante nella sua vita?
“Sei un povero sciocco, Sherlock”, c’è Moriarty sul suo divano, la faccia slavata, beffarda, Sherlock scuote la testa, com’è possibile? È un incubo, lui non può essere qui…
“Io sono te, Sherlock. Sono te, sono te, sono te”, ride Moriarty, e quella risata gli gela il sangue, gli mozza il fiato.
“No… Tu non sei me! NO!”, scatta verso il divano, vuole scagliarsi contro Moriarty, ma… dov’è Moriarty? È scomparso, Sherlock era sicuro che fosse lì, e ora la sua risata rimbomba in tutta la casa, Sherlock non sa cosa fare, sta sudando freddo e non riesce a respirare. No, ora Sherlock ha caldo, un caldo improvviso che gli scotta la pelle e Sherlock trema, si sente cadere per terra, annaspare nelle risate di Moriarty che lo schiacciano in terra, e poi silenzio, è finito tutto, la sua fronte poggia sul pavimento freddo, qualcuno urla in sottofondo e poi è tutto buio.
 
“Sì, pronto?”.
“John”.
“Mycroft. È successo qualcosa?”.
“Sì. Ma non allarmarti, ora sta bene”.
“Sta bene? Chi? Sherlock? Cos’è successo?”.
“È andato in overdose. L’ha trovato Mrs Hudson, fortunatamente pochi minuti dopo. Io le avevo dato una dose di Narcan da iniettargli se fosse successo, ma lei è andata nel panico e dopo avergliela somministrata ha chiamato anche l’ambulanza. Comunque, è fuori pericolo”.
“Oh Dio, Dio, Dio, quel cretino… Dove siete? Dov’è? Io arrivo subito”.
 
John cominciò a girare per la stanza, in cerca di chissà cosa, in preda al panico.
“Mary, io devo andare in ospedale, Sherlock ha avuto un’overdose…”.
“E come… come sta?”, mormorò lei, quasi infastidita, stringendosi la borsetta al seno.
“È fuori pericolo. Hai visto la mia giacca?”, John sparì nella stanza accanto, e poi ricomparve con in mano la giacca.
“John, se è fuori pericolo, allora puoi andare a trovarlo quando torneremo dal viaggio…”, osò Mary, stringendo ancora di più la borsa.
“Cos- No! Non posso! Sarà spaventato, e solo!”, lui la guardò come se fosse impazzita.
“Parli di lui come se fosse un bambino, John! Non è un bambino! È un adulto che deve imparare a prendersi cura di se stesso! E io e te dobbiamo partire!”.
“Mary, io non voglio partire, non posso! Con lui in ospedale!”, esclamò John.
“È la terza volta che mi molli da sola oggi per colpa sua!”, le tremarono le labbra.
“Non ti ho mollata da sola!”.
John”, sussurrò Mary, “Devi rimanere qui con me…”.
John scosse la testa piano, stringendo il telefono nella mano.
“Ha bisogno di me”.
Lei fece un passo verso di lui.
“Io ho bisogno di te adesso”, due grossi lacrimoni le scesero lungo le guance, tracciando due righe nere di trucco, drittissime e simmetriche, “Sono tua moglie…”.
John trattenne il fiato per un istante.
“Sherlock è… Io devo andare, Mary”, si infilò la giacca.
Lei gli afferrò il polso e i suoi bracciali tintinnarono.
“John”, soffiò con voce strozzata, “Se vai da lui ora, di nuovo… Non tornare qui… mai più”.
Lui la fissò sorpreso.
“Mary, non puoi chiedermi di scegliere…”.
“Perché sceglieresti sempre lui, non è vero?”, mormorò Mary tra le lacrime, “Sarah aveva ragione, sceglierai sempre lui”.
E John non si azzardò nemmeno a pensare a una risposta anche lontanamente accettabile da darle, perché era tutto chiaro, lo era sempre stato.
“Puoi ancora rimanere, John, io sono tua moglie, siamo sposati, abbiamo fatto una promessa…”, gli occhi di Mary erano immensi e disperati, e John si sentì disgustato da se stesso e da quello che le stava facendo.
Abbassò gli occhi, “Mi dispiace”, fu tutto quello che riuscì a dire.
Scappò fuori dalla porta, cercando di non sentire il pianto di Mary lungo le scale.
Sceso in strada cominciò a correre, nell’aria fredda di ottobre, verso l’ospedale, verso di lui.
 
“Sherlock”, mormorò John, sfiorandogli piano la fronte con le dita. La sua pelle era ancora più pallida del solito, traslucida, quasi trasparente.
E se scomparisse?, si ritrovò a pensare scioccamente. Un panico selvaggio e immotivato gli riempì il cuore. Non poteva perderlo di nuovo, non poteva, non poteva.
Le lacrime scesero prima che potesse fermarle, John piangeva e singhiozzava e poco importava che Mycroft potesse vederlo, da dietro il vetro appannato della camera di ospedale, perché John piangeva e voleva piangere, perché si era reso conto che il suo scopo nella vita non era essere un buon medico, un bravo marito per Mary, era amare Sherlock e vivergli accanto e proteggerlo da ogni cosa, da se stesso in primis.
Ci sarebbe stato tempo per pensare alle conseguenze, tempo per pensare a un annullamento del matrimonio, a come fronteggiare il dolore di Mary, a cosa fare poi. Ora John non ne aveva né la voglia né la forza.
Continuò ad accarezzargli la fronte e piangere, finché Sherlock non diede segno di essersi svegliato, cominciando ad aprire piano gli occhi.
“John…”, la sua voce era roca e impastata. Lo guardò.
“Sono qui, Sherlock”, John si asciugò le lacrime goffamente col dorso della mano.
“Non andare via”.
“Non vado da nessuna parte”.
“Ti prego, non andare via…”.
“Shh”, John lo zittì. Lievemente, quasi avesse paura di ferirlo, gli posò un bacio sulle labbra.
Una lacrima scivolò dall’angolo dell’occhio di Sherlock e finì tra i ricci neri, sparpagliati sul cuscino.
“Non ci lasceremo mai più”, John gli promise, accarezzandogli i capelli, “Staremo bene, io e te”.
“Insieme”, sussurrò Sherlock con la voce rotta.
Insieme”, ripeté John, baciandogli la fronte.
Poi gli si strinse forte, e rimasero lì, insieme, fino a che si addormentarono tra le pareti asettiche di una stanza d’ospedale, mentre la luce del mattino stava già bagnando i loro volti.
 



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Grazie a tutti coloro che hanno recensito questa storia, sembra banale ma le recensioni fanno sempre tanto bene agli autori, è un modo per pensare "ehi, forse il mio lavoro non è andato sprecato". Quindi grazie di cuore per il vostro tempo. Spero che questa storia vi sia piaciuta :)
Un bacio e a presto,
Lu.

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