Le mie Vacanze al Mare

di LawrenceTwosomeTime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo Antilogico ***
Capitolo 2: *** Il Giorno della Notte ***
Capitolo 3: *** Gli Stronzi che Fumano in Spiaggia ***
Capitolo 4: *** Ubriaco di Vinogiòchi ***
Capitolo 5: *** Più Cuochi e Meno Strateghi ***
Capitolo 6: *** Uno su Mille ***
Capitolo 7: *** Bacio al Lampone ***
Capitolo 8: *** La Confraternita degli Animatori ***
Capitolo 9: *** Susine a Ripetizione ***
Capitolo 10: *** Scorciatoie ***
Capitolo 11: *** La Corriera che Non Arrivava Mai ***
Capitolo 12: *** Epilogo Logistico ***



Capitolo 1
*** Prologo Antilogico ***


Stavo spaparanzato sul divano di poliuretano a bere una bibita dietetica, diuretica e oftalmica, quando improvvisamente mi specchiai nel televisore spento. Il riflesso mi guardava storto, distorto nel suo alveo di sporco, e per un momento fui distolto dal risucchio del cannolicchio.
Si, ero ancora abbastanza bello, ma l’esatta precisa immediata puntuale concava sovietica immagine che avevo di me qualche mese fa non combaciava con l’attuale prognosi riservata. Per spiegarlo in parole più comprensibili: ero inesatto perché ingrassato, impreciso perché semiaddormentato, ritardatario perché ritard… bé, diciamo poco avvezzo a sfruttare debitamente l’impulso motorio, doppiamente ritardatario perché non avevo un cazzo da fare tutto il giorno e perciò mi rifiutavo di adeguarmi agli orari impostimi dagli altri (le sporadiche volte che si facevano vivi) e democristiano perché masochista.
Ora, chiariamo che… anzi, fanculo, non c’è bisogno di chiarirlo. Sono un figo della madonna, e lo sono sempre stato.
Vorrei, ah, ringraziare le mie concubine per avermi reso ciò che sono: Lussuria, che non è mai in casa (ti penso sempre, soprattutto al gabinetto); Gola, che mi fa degli scherzi un sacco brutti, qualche volta; Avarizia, compagna di nottate passate a cercare di ordinare un CD prodotto in culo al mondo e confezionato con fibre di canapa, salvo scoprire che costa come una partita di reni umani e comprarlo lo stesso; Invidia, che a essere onesto trovo poco attraente, ma che ogni tanto mi spinge a migliorarmi; Superbia, che ho ripetutamente castigato per impedirle di affermarsi; Accidia, che mi uccide lentamente, con dolcezza; e infine Ira, la mia preferita, con cui ho trascorso momenti di fuoco, che mi ha procurato meravigliose bili, parentesi di ci vedo rosso e ti voglio morto, contrasti filosofici, furia cieca, rimpianto vendicativo e tanto sano esercizio cardiovascolare.
Per la prima volta dopo infimo tempo, mi sembrò di vedere il vero me - sapete, tipo “guardare oltre lo specchio” e tutte quelle stronzate New Age/autoaiuto per macachi con disturbi dell’attenzione/Ave Scientology et similia…
E sapete che c’è? Non mi piacevo per niente.
Era estate, ma io non stavo vacanzeggiando. Stavo cazzeggiando. E non andava bene.
Così mi prese la fissa di fare un viaggio: non roba pretenziosa, tediosa, faziosa, preternaturale o prete barra suffisso anale. E nemmeno farmi di ganja.
Nossignore: volevo solo staccare il cervello e rinverdire il morale. Sferzare il metabolismo. Cablare il cervello.
Inforcai le ciabatte e spalancai il cancello.

Fu in cotanta maniera che presi a camminare.
Ci sono tantissimi modi di camminare, sapete: in bullet time – detto anche “in fondo al mar, son titubante per qualche motivo e giuro su Dio non c’ho un cazzo da far”, manageriale – se sei un omicida seriale, nervoso, intrattabile, o stai per arrivare in ritardo all’appuntamento della tua vita perché tuo figlio di sette anni ti ha vomitato sul gessato acquistato specificamente per l’occasione e l’hai pulito col Cif che invece era cera d’api e a quel punto hai bestemmiato i martiri cristiani in cinque lingue latine e sei uscito con la camicia e basta; spensierato – che non vuol dire rilassato, quanto piuttosto avvinto alla certezza che non ti potrà capitare niente di male, al punto che finirai murato vivo nel cemento fresco senza neanche accorgertene; e poi ce ne sarebbero molti altri, ma ho l’impressione che questi elenchi comincino a scartavetrarvi le palle – che ci volete fare, io adoro gli elenchi, sono un ottimo diversivo tra le degustazioni di yogurt e le sbirciatine underskirt. A proposito…
Se siete uomini, vi stringo la mano con cameratesca virilità e vi auguro di avere successo nella vita.
Se siete donne, lasciatemi il numero di telefono.
Dunque, dicevo… Io camminavo.
Camminavo come fa chi vorrebbe andare da qualche parte, ha chiara la destinazione ma non confida di poterla realmente raggiungere. È quando si producono queste contraddizioni intellettive che il tessuto della realtà si sfalda. Come dar vita a un’emulsione tra filosofia e meccanica quantistica. Come farsi le pippe con la mente che trabocca di immagini disgustose per prevenire l’eiaculo. Facile, no?
Girai l’angolo e vidi il Mare.
È bene precisare che io non abito vicino al mare. Casa mia sorge davanti a un fiume, anzi un affluente, una stringa di piscio piccina picciò.
Eppure, tutto intorno a me era Mare. Azzurro. Non sentivo la terra sotto i piedi.
E caddi.
Caddi in Mare, e mi sembrò di volare.
Riemersi, mi aspersi, tersi e detersi, e vidi: là, in fondo in fondo, una Spiaggia.
Era iniziata la Vacanza.

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Capitolo 2
*** Il Giorno della Notte ***


“Cos’è questa follia?”

Avevo trascorso due giorni a negoziare con l’umidità dell’aria, l’erosivisi ventale, la procacità di femori liposoluti tampinati d’appendici umane.
Alloggiavo in un bell’alberghetto provvisto di tutto e mi ero già fatto qualche amico – più che altro, si trattava di conoscenze ricorrenti.
C’era un tizio dal volto talmente anonimo che pareva privo di lineamenti. Il suo nome era Wishaw Hatred, ed era davvero un personaggio strambo: indossava un berretto di lana grigia che aveva l’aria di tenere troppo caldo, e quando camminava, lo faceva sempre rivolto all’indietro. Mi stava simpatico perché non chiedeva mai “Come va?”, bensì “Come sto?”; al che io rispondevo: “Come uno che sta per avviare la lavatrice e scopre di essere una lavatrice”. Al che lui sorrideva e non lo vedevo più per il resto della giornata.
La proprietaria, una Vergine di nome Andromeda che dimostrava il doppio dei suoi anni e passava le giornate a titillare le vergogne di un gatto con una macchia bianca sull’occhio sinistro, sosteneva che fosse nato in qualche remota isola dei Caraibi o giù di lì. Il fatto che parlasse italiano non stupiva nessuno: era come svegliarsi in un corpo di uomo sentendosi donna – principio base di tanta parte dell’omosessualità, ma ovviamente non di tutta.
Poi c’era un figuro di cui non riuscivo a ricordare il nome, cosa piuttosto snervante dato che ero sicuro si trattasse di un infimo appellativo. Non sembrava molto in sé. A quanto ne sapevo era – o era stato, chissà – un giudice che aveva infilato le mani nell’impasto sbagliato, e nessun sapone, per quanto aggressivo, l’avrebbe mai ripulito da quell’onta.
Barba incolta e capelli lunghi, continuava a bofonchiare che l’albergo era nella sua testa, che era la sua testa, e che l’uscita si trovava da qualche parte nei sotterranei.
Non ho mai appurato se avesse ragione. Cioè, magari era davvero così, ma chi sono io per arrogarmi il diritto di smentire ciò che ritengo giusto?

Ospiti a parte, il posto era a posto, se ho reso l’idea.
Quel dì del dato mese stavo sognando di camminare ignudo sul lungomare. Ma non era un sogno: stavo davvero camminando ignudo sul lungomare.
La presa di coscienza mi disorientò un momento, subito rimpiazzata da una presa di corrente sullo stato corrente: anche la gente era nuda dalla testa ai piedi.
“Forse sono finito nel sogno di qualcun’altro”, pensai. Non era una spiaggia di nudisti, o meglio lo era, ma di solito nessuno stava nudo. La colpa si attribuiva a una sorta di figura pagana denominata “Il Ricamatore”.
Il Ricamatore colpiva solo chi giaceva supino sulla sabbia, occhi chiusi e mascella rilassata. Nessuno che avesse gli occhi aperti l’aveva mai visto di persona.
Gli sventurati si limitavano a udire una voce dallo spiccato accento arabo, qualcosa tipo: “Amico, vuoi io insegna cos’è vero dolore?”
Quelli di solito rispondevano “No” per una sorta di riflesso condizionato, e subito dopo si ritrovavano: se bambini, un polipoide nel culo; se ragazzi, un piercing sul frenulo; se ragazze, una moneta rovente sul grilletto; se uomini, circoncisi (se già circoncisi, deprivati dei capezzoli); se donne, incinte al nono mese (se già incinte, affette da precoce depressione post partum).
Di conseguenza, i fruitori della spiaggia erano tutti piuttosto guardinghi, se non irritabili. Poi notai altre cose strane: nella fascia mediana del litorale era stato acceso un immenso falò, che con quaranta gradi all’ombra non si poteva proprio dire che fosse necessario. E i nudisti gli ballavano attorno. Gli ombrelloni, le passatoie, i muretti e i palazzi che fiancheggiavano la costa risplendevano di una moltitudine di lucine colorate, piccoli neon, spoiler intermittenti e diavolerie elettriche di ogni sorta. Con il sole a picco sul mare. A un angolo della spiaggia, una bancarella impregnata di vapore serviva tazze di punch. Il quadrante digitale all’entrata della zona balneabile segnava la mezzanotte.
“Cos’è questa follia?”
“Questo è il Giorno della Notte”
A parlare era stata una deliziosa pulzella nel fiore degli anni, come si usava dire una volta, cioè un gran tocco di figa, se posso permettermi, che come tutti i tocchi di figa, stava bene con indosso nient’altro che la propria pelle (alla faccia dei sofisticati fondatori del movimento “Vedo-non-vedo”, probabilmente cugini degli altrettanto cagoni sostenitori della nouvelle cuisine).
Aveva i seni sodi e piccoli, le spalle dritte, i fianchi generosi e le gambe lunghe. Vado in fregola solo a scriverlo.
“E cosa sarebbe?”, dissi, badando a contenere la vistosa reazione di trazione esercitata dal mio estensibile.
“Qui amiamo la notte”, rispose lei con un sorriso indulgente (invero, più simile al risolino impietosito di chi contempla una larva che si contorce in agonia, piuttosto che la smorfia a trentadue denti tipica delle persone che si rifugiano nell’ombra proiettata da un grattacielo di cento piani – naturalmente, questo non rispecchia con dovere di cronaca le reali dimensioni del qui presente… oh, finiamola qui).
“Amate la notte? Ma se volevate la notte, non potevate piantare un tendone? O infilarvi in una discoteca? Magari, aspettare che arrivasse un’eclissi?”
Lei continuava a scuotere il capo in segno di diniego.
“Abbiamo deciso così. Per un giorno all’anno, ci appropriamo di una notte in più. Privando la luce della sua egemonia, disturbando l’equilibrio… attenuiamo la cacofonia del sole, affermiamo il nostro libero arbitrio di esseri umani”
“È questo che scrivete nei vostri opuscoli?”
“No, niente opuscoli. Basta convincersi che è vero, e niente – nemmeno i famigerati cinque sensi – potrà opporsi alla tua verità. Io vedo la notte. Il cielo è nero e trapunto di stelle, l’aria frizzante mi accarezza i capelli”
“E tutto questo senza LSD”
“Sei un tipo divertente. Io mi chiamo Ilaria”
Le dissi il mio nome. Quella ragazza mi faceva paura come un CD dei This Mortal Coil, ma c’era qualcosa in lei che prometteva di liberarmi dalle catalogazioni, dalle etichette, da tutto. E questo, con la facilità con cui ci eravamo tolti i vestiti. Due minuti con lei, e non sapevo più cos’ero: votavo Destra o Sinistra? Credevo in Dio? Preferivo il prosciutto o le acciughe sulla pizza?
Era bello esserne all’oscuro. Era bello vivere la notte dentro di noi.
La notte che era di là da venire sarebbe sembrata ancora più nera.

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Capitolo 3
*** Gli Stronzi che Fumano in Spiaggia ***


Avevo perduto da anni il brutto vizio di fare la corte a una ragazza. E con ciò, avevo perduto anche l’esercizio.
Si sa, flirtare è come andare in bicicletta. Ma io non ci so andare, in bicicletta. Facciamo che è come nuotare.
E poi non stavamo propriamente amoreggiando: eravamo più che altro complementari, che non so esattamente dove vada a parare. Ci eravamo incontrati nudi e ci eravamo ritrovati vestiti, più bizzarro di così…

“Perché fumano?”, chiese lei un giorno. Questo fu l’inizio dell’inizio. Io odio i fumatori.
Si, sono fottutamente razzista nei confronti di chi fuma. E se c’è una cosa che odio ancor di più, sono Gli Stronzi che Fumano in Spiaggia e poi Buttano la Cicca Accesa sulla Sabbia.
“Intendi quello Stronzo e quella Troia?”, dissi.
“Non è vagamente iniquo?”
“Cosa?”
“Dare dello Stronzo a lui e della Troia a lei. Voglio dire, stronzo è un insulto comune, generico, tutt’ora insuperato ma comunque commerciale… Troia, invece… non lo so. Sembra sottendere un giudizio più sottile, più spietato, come a scavare nell’indole femminile per tirarne fuori una debolezza che vive nella nostra zona cieca, e bollarla come tale perché contraddittoria”
“Si, hai ragione. Ma prova ad ascoltare il mio punto di vista. Una troia è – in senso lato – una puttana. E le puttane esistono sin dai tempi della creazione. Non è forse merito delle puttane se i grandi condottieri dell’antichità riuscirono a mantenere alto il morale del loro esercito e vincere così le battaglie? La puttana lavora per il proprio tornaconto più di chiunque altro, eppure dona sé stessa come nessun altro. A volte per sua libera scelta; a volte perché costretta. Il giudizio negativo che le viene attribuito è quasi sempre colpa dei benpensanti, a dispetto di ciò che si sarebbe portati a credere, quegli stessi omini morigerati e insoddisfatti che le cercano. Certo, il Male vive in ogni strato della società. Ma quello che conta, è che nel mondo esistono anche persone che ne traggono gioia, felicità, appagamento. E allora cos’è una baldracca se non la salvezza del genere umano?
Uno stronzo, invece, è solo un pezzo di merda. Non è nemmeno una creatura senziente. È uno scarto del culo, e se galleggia non fa che protrarre la miseria della propria condizione.
Certo, nutre la terra. Ma non lo fa mica di sua iniziativa”
Lei ci pensò per qualche secondo.
“Mmm. Bé, mi pare un ragionamento che fila. Ma rischia di cadere vittima del relativismo”
“Bella, io sono più relativo delle teorie di Einstein”
Il vento violento ci sferzava le chiome, a seguire caligine color amianto.
Il Rottinculo saturava soddisfatto, gonfiando le gote come un rospo ingrifato, narici sbuffanti tipo toro in calore. Sboccian le more d’amore apripista, al tiro solenne del tabagista. La Sgualdrina esalava cenere celere, sporadici sbuffi di spore e bacilli, ossa da grillo e rorida pelle. Arida sabbia ancorata al cratere di scabbia ingrigiva in una perpetua fioritura di tumorale indivia.
Io… Gli Stronzi che Fumano proprio… Pezzi di Merda Ingoiacazzi… cioè, proprio… Dio, che Odio! Porca Puttana! Merda! Cazzo! Potessi fargliele mangiare, quelle sigarette… Spegnergliele su quelle chiappe obese e pelose… tipo, andare lì e dire: “Fanculo! Porca Troia! Porco beeeplamadonnachepescastorionintrecciandolesetoleinguinali… E strangolarli con un laccio emostatico, scavare una buca, riempirla d’acqua, gettarceli dentro e lanciargli addosso un phon acceso! E se sono vivi, strappargli l’intestino, legarlo a una picca, pungolarli con una lancia e costringerli a girarci intorno di modo che si srotolino le budella da soli!
… L’ho già detto che sono incline all’Ira?

Raccolsi due manciate di sabbia, una per mano, e mi avviai in direzione dei fumatori.
… L’ho già detto che il vento era forte?
Passandogli davanti, aprii incidentalmente le dita, ma con discrezione, e la sabbia gli volò dritta in bocca. Li vidi con la coda dell’occhio che sputavano e tossivano, le sigarette ballonzollanti prima sul petto, poi sulla pancia, poi tra le gambe, e poi sparite come per magia.
Sghignazzando, feci il giro della zona balneabile e ritornai alla mia sdraio, da Ilaria.
“Soddisfatto?”, disse.
“Mai come ora”, risposi.

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Capitolo 4
*** Ubriaco di Vinogiòchi ***


Ilaria mi aveva lasciato. Non che fossimo mai stati una coppia.
Cosa cosa cosa? Vi aspettavate degli sviluppi? Rivolgetevi a un fotografo!

Non rimanemmo amici. Giuro che se rivedo quella troia le spiego la distinzione che intercorre tra una Pastafariana e una Puttana. Questione di dettagli. Come direbbe William Gibson, sparuti brandelli di codice.
Suvvia, sto scherzando. Se la rivedo, incasso la testa nel torace, mi trasformo in una morphing ball e rotolo nella fogna più vicina.

Mi misi alla ricerca di un localino abbordabile per annegare la disperazione, impresa tutt’altro che semplice.
Trovare il locale, intendo. A quei tempi, la Città soffocava nella coltre del ProProibizionismo, una specie di ramificazione primitiva della Legge sul Contrabbando degli Alcolici. Per dirla con parole semplici, chi beveva una birra doveva successivamente sciropparsi tre lattine di Fanta; chi beveva vino, avrebbe poi ingollato a forza una tanica di Sprite; e chi viveva di amari, veniva costretto a fronteggiare una maratona di Coca Cola Zero. Le bibite gassate prodotte da(lla) Multinazional(e) fungevano da deterrente per chiunque avesse buon gusto e non desiderasse rovinarsi lo stomaco anzitempo, scoraggiando l’assunzione di sane partite di alcool mediante la diffusione virale di pubblicità merdose in cui un figlio di puttana di razza bianca caucasica inseriva clandestinamente nel vostro drink un beverone distillato dalla sintesi di petrolio OGM e sborra di caprone.

E così, non del tutto certo che sarei uscito vittorioso da quell’impresa, inciampai senza preavviso (si può inciampare “senza preavviso”? Di solito c’è un preavviso ma si inciampa lo stesso? Io dico di si. La vita è fatta di cose come queste) in una scatola di fiammiferi.
Cominciava a piovigginare. Raccolsi da terra la scatola. La aprii. Provai a sbirciare all’interno.
Dentro c’era un bar.

Due ore dopo

“Accidenti, signor cameriere. Questa roba da alla testa di brutto. Come ha detto che si chiama?”
“Vinogiòco”, rispose il signor Ebola, colorato e zelante.
“Oook. Chiunque l’abbia inventato è un genio. Ma anche per berlo, per capirlo, ci vuole del genio. E anche per i geni nella bottiglia giunge il tempo di rincasare. Quanto le devo?”
“Due anni di vita”
“Come pago? Contante o bancomat?”
Il signor Ebola si trasformò in qualcosa che era contemporaneamente un Silvio Berlusconi Immortale, un Pene Perennemente Flaccido e una Mozzarella in Carrozza Senza Mozzarella. Sbiancai in volto. Sbiancò anche qualche capello.
Il signor Ebola ritornò variopinto e affabile.
“Ecco, ha pagato”
Con il cuore che mi martellava nel petto al triplo della velocità, boccheggiai.
“Come esco di qui?”
“Dovrà attraversare i quartieri del suo subconscio, finché l’effetto del Vino non svanisce. È l’unico modo per non perdersi nelle maree di senso, nelle maglie del tempo”
“Il vino… stimola il mio spirito di pixel, non è vero? La mia parte di poligoni. L’avevo capito”
E presto, troppo presto, stavo scivolando attraverso un’autostrada di crome, tirato da una forza intangibile.

“Welcome to the Fourth Place. David Lynch is Not Here”
Vidi una strega vestita dei suoi soli capelli che prendeva a revolverate un esercito di angeli somiglianti a galline.
Una reporter dagli occhi verdi e un maiale antropomorfo nascosti dietro una caldaia, intenti a fotografare un energumeno metà uomo e metà mutante.
Una città invasa dalla nebbia e popolata di creature assemblate nella colpa, nel desiderio e nel ribrezzo.
Un tipo albino abbigliato con un elegante spolverino rosso che si faceva strada attraverso un muro di marionette assassine asserragliate in un castello gotico.
Un nutrito gruppo di persone con la fissa di salvare il mondo che attraversava una pianura erbosa in groppa a enormi volatili giallo canarino.
Un detective e una ragazzina che scavavano nella coscienza collettiva di un villaggio irlandese, visitando inferno e paradiso.
Un ragazzo con le corna che aiutava una fanciulla eterea a fuggire dalla fortezza in cui l’aveva relegata la madre.
Un uomo che in realtà era sette uomini, un killer incaricato di porre fine alla minaccia terroristica incarnata da abomini sghignazzanti.
Un bambino armato di una gigantesca chiave che cercava di ricucire il tessuto del cosmo.
Un gatto dalle orecchie enormi, vestito da postino, che viaggiava con un anello magico in una terra fatta di circhi e templi, arche e rocche.
Un fanboy munito di lightsaber che scalava una bizzarra classifica privata, collezionando morti e figurine.
Un fantoccio senza braccia che si batteva per liberare la sua terra da pirati meccanici venuti dallo spazio.
Un giovane che viaggiava nel tempo per prevenire il proprio assassinio, negoziando con homuncoli, alchimisti e chiromanti.
Un paladino che abbatteva colossi di pietra per liberare il dio del trapasso e ridare la vita al suo perduto amore.
Un ex-soldato ferito mortalmente e costretto nella cabina di pilotaggio di un mech da combattimento che sfidava il suo vecchio mentore.

E poi non ci fu più niente da vedere.

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Capitolo 5
*** Più Cuochi e Meno Strateghi ***


Se c’era una cosa di cui non potevo proprio lamentarmi era la tradizione culinaria della Città.
Non un singolo ristorante, non una trattoria che proponessero spazzatura riciclata, siero di cloaca, secrezione avariata o simili rifaciture farcite.
Nessuno tentava di imbrogliarti, nessuno faceva leva sul fatto che fossi un Ventiduenne dall’Aria Visibilmente Credula Capitato Casualmente in una Località per Turisti Disponendo di un Patrimonio Quantomeno Trascurabile.
E un’altra cosa: sono sicuro che quand’anche gli ingredienti non fossero stati di prima qualità, gli specialisti che ci lavoravano sarebbero riusciti a ricrearne l’architettura biologica, dando vita a veri e propri mostri di Frankenstein di bontà (si, eventualmente glassando la tua torta con cerume vecchio di settimane).
Ho scorto infide cariatidi con botoli da riporto farsi querule e sollecite al primo boccone di millefoglie purgatorio (non purgava perché contenesse fenilalanina o simili sostanze; piuttosto era il cervello dell’assaggiatore che ordinava di scaricare il prima possibile la voluminosa ghiottoneria, così che il palato potesse conoscerne nuovamente la sublimità); pater familiae dalla carnagione colesterotica e l’udito insensibile per protratti pianti di neonato riacquistare una tonalità, se non proprio vanigliosa, perlomeno tonnata, sorbendo un consommé di zucchine tagliate a stiletto; bambini crudeli con l’anima nera mutarsi in giovani discepoli di Gandhi dopo un assaggio di torta al formaggio mareggio.
Persino la mia rabbia veniva meno (e il mio pene veniva come un treno), l’amarezza controbilanciata dalla glassa, il cinismo scongiurato in equilibrismi di gusto, massa e raffinatezza.
Un giorno come un altro che pazzeggiavo con scioltezza nel Borgo di Peltro, udii strillare una sirena. Non di quelle che abitano i fondali. Una Sirena del Coprifuoco. Quasi me la feci addosso per la paura.
Il cielo scolorì come nel preludio di un’Apocalisse in miniatura, e slanciate sagome nere si infittirono tra le nubi di lassù. Il rombo ricordava l’eruzione di un vulcano, come se dieci Krakatoa avessero la diarrea.
Ci attaccavano. Non si sapeva bene chi.
Mi strizzai il doppiopacco in una caricatura blasfema del segno della croce. E poi arrivò.
Il Profumo. Come di noci, sardine affumicate, pane appena sfornato, caramello, fuliggine, erba pregna di rugiada… e mille altre amenità.
I cuochi del circondario sbucavano fuori dalle rispettive cucine, e intonavano un canto senza note agitando le mani imburrate, farinose, zafferanensi. Tracciando complessi simboli sul selciato, imponevano le dita grassocce e poi rivolgevano i palmi al cielo, spalleggiati dall’olezzo benigno che ingigantiva negli altari gastronomici ai loro piedi.
Caddero bombe.
Ma non scoppiarono.
Ogni volta che qualche ordigno si avvicinava al campo di forza creato dai cucinisti, la magia lo scomponeva in una cascata di banane, o in sculture di gelatina, o ancora in grappoli di quaglie farcite.
A nulla valsero i ripetuti tentativi degli aerei da combattimento di sterminarci con il loro fuoco. La brace che ardeva nel cuore dei cuochi era più tenace, e non ne voleva sapere di estinguersi.
Sconfitti ora e per sempre, gli invasori batterono in ritirata.

Ora, io mi chiedo: in un mondo come questo, a cosa servono le guerre? A cosa serve la Politica?
Preferisco trascorrere le mie primavere a discorrere di questioni stupide, a combattere le insulse battaglie quotidiane che assecondiamo per dimenticarci di avere una data di scadenza, piuttosto che incarnare la volontà di una Nazione e finire i miei giorni a marcire in un – perdonate il gioco di parole, probabilmente l’ennesimo tra molti – carnaio.

Servono Più Cuochi e Meno Strateghi.

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Capitolo 6
*** Uno su Mille ***


Care le mie lettrici, cari i miei lettori: se avevate qualche dubbio sull’origine della rabbia che mi motiva, ebbene sappiatelo: non sono gli esseri umani la causa di tutto ciò. E nemmeno i mammiferi di piccola taglia, gli anfibi, i volatili, i rettili o i lombrichi.
Piuttosto, è quello che voi definireste karma. O destino, anche se si tratta di un termine dallo scarso valore esplicativo.
Il karma è ciò che siamo, il karma è l’origine del mondo; è il nastro che lo imbriglia, lo spago intrecciato che pulsa come un cuore, il tesserino personalizzato che cambia colore.
E quello stesso karma che vi fa innamorare e vi aggiudica un futuro fatto di parti cesarei, coliti spastiche e incontinenza, fa si che si producano situazioni come questa

Mercatino dell’usato. File e file di bancarelle intasate da rigurgiti della società che frugano, macchiano, fregano.
C’è un rivenditore di libri abusati che sosta in un buco puzzolente collezionando la muffa tramandatagli dai suoi predecessori.
Possiede un libro, un libro che vi interessa. Non c’è nessuno al momento, non un’anima che lo degni di attenzione, ma è sempre meglio essere prudenti.
Vi avvicinate strategicamente ostentando il passo del ranocchio focomelico, per passare inosservati.
Girati di tre quarti rispetto alla bancarella, prendete in mano il tomo. È veramente quello che cercavate!
Il prezzo non è proprio abbordabile, ma va considerato in relazione alle circostanze (posate un momento il volume). Abbassate lo sguardo e lo stronzo è sparito. Non c’è più.
Anzi no. A trenta centimetri da voi, un signore dall’aria esecrabile e la sua consorte si passano il vostro libro elogiando il suo stato di conservazione, la pregevolezza della rilegatura e chissà quante altre menate.
Si, esatto. Non c’era l’ombra di un cane, e adesso, proprio adesso, un tizio sbucato fuori da chissà dove vi depriva del vostro tesssoro. Ditemi se non c’è da incazzarsi.

Sturaculi rompicazzo
“Come?”
“Ha sentito bene, sturaculi rompicazzo!, fottuto figlio di puttana!!”

Tra l’altro, l’esempio corrente mi rimanda con la mente a quella volta in cui avevo adocchiato le ultime tre brioches della sala buffet, e una donna me le fregò da sotto il naso. La ritrovai che borbottava tra sé e sé nella zona yogurt. E magari si aspettava che replicassi con una risposta razionale al suo incoerente ciarlare.
Ecco, se c’è un’altra cosa che non sopporto, sono gli anziani che passeggiano quietamente con un bastardo al seguito e incrociano il vostro sguardo come se foste l’ultimo appiglio rimastogli a quel salvagente consunto che chiamano vita sociale.
Il sacco di pulci si strozza col guinzaglio, perché il padrone si è fermato. Il padrone fa commenti sul tempo, sta parlando all’incirca con il suo cane. Ma guarda voi.
Avete presente quei dipinti di Velazquez in cui i reali sembrano scrutarvi come se volessero farvi partecipi delle loro dissolute girandole di masochismo, endogamia e genocidi? Ecco, lo sguardo dei vecchi mi fa lo stesso effetto.
E rispondo nello stesso modo tutte le volte che mi capita di sbatterci la testa.
“Cazzo guardi?”

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Capitolo 7
*** Bacio al Lampone ***


Il titolo del summenzionato capitolo sembra suggerire un velato riferimento – o più plausibilmente un entusiastico omaggio – al mio manga preferito…
Sbagliato! Non era questa l’intenzione. Se porterete pazienza ve lo rivelerò.

Quel sabato pioveva, sotto forma di gocce leggere che fendevano la nebbia. La Città era diversa. La sua conformazione cambiava durante la notte.
Un opus di movimenti tellurici aveva sprofondato nel fango le fondamenta delle case e innalzato il livello dei canali. Foreste di scale che portavano al nulla. Cortiletti immacolati ripiegati su sé stessi come minareti pagani. Argani divelti simili a minatori stanchi che galleggiavano nel pantano del guado principale. E poi antenne satellitari svolazzanti nel vento, paramenti di fortuna che imbrigliavano colonne danzatrici, uffici scoperchiati come ostriche al chiaro di luna.

Anche la compagnia era cambiata. Giulia, una vecchia amica, transitava in quel Quadrangolo delle Bermuda in cerca di non si sa cosa – forse di una casa, o magari di una Rosa.
I capelli di spuma le schiumavano sulle spalle, un prisma di luce in un tramonto d’estate.
Parlavamo. Per la prima volta dopo tanto tempo, il Teatro e la Poesia erano gli argomenti di conversazione (e di quanto fosse spassoso “Nostra Signora dei Turchi”, e di come non volevamo diventare carne da cannone, e che una volta spariti zingari, ebrei, omosessuali e comunisti non ci sarebbe stato più nessuno a protestare, e la vita di Galileo, e le avventure di Culo Splendente, e sempre a proposito di Shakespeare, che Bene e Male sono nomenclature frangibili e via dicendo).
Poi mi fermai, la presi e la baciai in fronte. La baciai sulla punta del naso. Mi bloccai, non so per quale motivo, scosso da un tremito che era solitudine e gratificazione insieme.
No, non sapeva di lampone. Sapeva di pelle bagnata.
Silenziose creature di bruma strisciavano tra i palazzi sussurrandomi il loro disappunto.
Perché non mi ero fermato prima? Perché mi ero fermato?
Siamo talmente invisi a noi stessi che soffochiamo il controcanto dell’istinto infilandogli nelle chiappe fallaci cablature morali, e scusate se l’ho detto male: ci nascondiamo dietro maschere prive di fori. Respiriamo illusioni, vediamo visioni. Tutto traslato, come un caleidoscopio.
“Potevi andare fino in fondo”, disse lei, “Te l’avrei permesso. Comunque preferisco il Signor G.”, aggiunse poi, “Almeno lui è un uomo di mondo”
Le si solleva la gonna mentre parla, e al di sotto le zampe di un insetto agguantano l’aria, mammelle di cagna stillano fiele.
“Sei reale o illusoria? Nei miei sogni ti ho dipinto migliore di così”
“Non ti rendi conto che il tuo mondo è pura speculazione? Vivi come un tarlo in un pianoforte, la tua è un’esistenza piena di buchi. La realtà che discerni non è univoca. Per te è tutto reale; ed è tutto instabile”

“Sai che ti dico? Questa nostra mescita di esperienze condivise non vale un trogolo delle mie allucinazioni. In fondo esistiamo nella speranza di essere ingannati: un costume senza occhi per un palco di pertugi, convinti di spianarci un sentiero sicuro”
Lei era una mantide religiosa, ma aveva il muso di un cane. Le zampe giunte in atteggiamento devoto, pregava la pioggia che cade.
Non so perché mi disturbasse. Non so perché continuavo a camminare, a osservare, a parlare.
“Lasciamo perdere cosa è vero e cosa non lo è. Qualunque sia la tua natura, non rifugiarti nel mantra consolatorio di un Credo: il Paradiso è giurisdizione dei vivi”
E poi capii di stare monologando.
“Tornatene a espellere ovuli e allattare mastini”

Perché si intitola “Bacio al Lampone?”, mi chiedete.
Ma è ovvio, per catturare la vostra attenzione.

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Capitolo 8
*** La Confraternita degli Animatori ***


Erano dappertutto. Avevano invaso l’albergo, le spiagge, la zona sudoccidentale della Città e l’Arteria Sopraelevata che in Modo Poco Credibile Collegava l’Isolotto al Resto del Mondo.
Tempo fa mi capitò una cosa del genere. Con i rifiuti organici, intendo.
Intasarono la fossa biologica e mi costrinsero a miniaturizzarmi alle dimensioni di un Lillipuziano per sgominare dall’interno la maleodorante minaccia. Quando riemersi, avevo la mano sinistra gonfia come un palloncino, e schiacciandola il mio dito indice sparava pus come una pistola ad acqua caricata di yogurt.
Insomma, avevo una certa esperienza in tema di parassiti. Ma le cose stavano degenerando rapidamente.
A quanto pareva, una qualche agenzia privata aveva assunto una compagine di Stronzi per allietare la vita notturna della Città. Gli Stronzi non sopravvivevano alla luce del sole; o almeno così credevamo.
Approfittando dello stordimento provocato da droghe sintetiche tagliate con un borotalco per bambini dal culo sensibile, la combriccola inseminò una nutrita moltitudine di femmine, che generarono una nuova specie di Stronzi dalla riproduzione cellulare accelerata (cioè avevano vita breve), immuni ai raggi UV e, se possibile, ancora più tamarri.
La cosa peggiore è che i Tamarri contagiavano gli spiriti a loro affini, trasformando esseri umani comuni in Teste di Cazzo con il Senso del Ritmo.
In breve tempo le Chiaviche si evolvettero e conquistarono anche il sottosuolo, il mare e il cielo. Il fatto che la maggior parte di loro fosse in grado di evocare una genia di folletti pedofili disegnando simpatiche mascotte antropomorfe con la bomboletta spray, li rese noti al mondo come “Gli Animatori”.

Il che ci porta alla situazione corrente. Mi ero nascosto nell’unico posto dove non avrebbero potuto trovarmi: un cassonetto per la raccolta differenziata. Quello del vetro. Quello pieno di bottiglie rotte.
Se fossero riusciti a stanarmi, mi avrebbero costretto a partecipare alle loro famigerate ATTIVITÀ PER TUTTA LA FAMIGLIA, da cui avevo scarsissime possibilità di uscire vivo e sano di mente.
Ci sarebbero state la pallavolo in spiaggia, le bocce, il limbo, la conga, la caccia al tesoro, la gara di nuoto, il ping pong, le sciarade…
Una mano le cui dita erano spesse come il mio collo scoperchiò il bidone dell’immondizia e si mise a frugare tra i cocci. Mi agguantò per il colletto della camicia. Mi tirò su di peso.
Davanti a me torreggiava un animatore dal muso cavallino, chioma ricciuta e peluria mascolina su ogni centimetro del petto. Era sproporzionato in maniera disturbante, con quel busto interminabile da tuffatore professionista e le falangi callose, perfette per suonare la chitarra davanti a un falò di gattemorte.
Una voce cavernosa mi rimbombò nei timpani.
“VI-eni a GIUoca-RE cON nOi!”
Il suo alito alla Simmenthal provocò in me uno svenimento sincopato, a cui seguì il tumulto del trasporto in un circolo settario di ominidi incappucciati a la Ku Klux Klan che comprendeva Animatori, bertucce ammaestrate ed esseri umani. Ero capitato nel cuore della loro Confraternita: il Gioco della Bottiglia.
Ironica la sorte: prima mi rifugiavo in un confortevole giaciglio di vetri rotti che un tempo erano stati recipienti, e poi quegli stessi vetri, ora reincarnatisi in una bottiglia, avrebbero deciso il mio destino.
C’era di che implorare la pietà divina: donne di mezz’età con le smagliature sulle labbra, vecchiardi decrepiti dalla lingua villosa, cozze ingobbite in svariate tonalità di screpolatura, Animatori inzuppati di olii essenziali e soprattutto… quelle cazzo di scimmie.
Quando la bottiglia girò per me, la mia vita mi si srotolò dinanzi agli occhi come un betamax in modalità fast-forward. E quando li riaprii…
Una graziosissima biondina in tenuta da gothic lolita attendeva diligentemente che io le veicolassi il mio battesimo salivare.
E poi quella stessa biondina volle partecipare con me alla Corsa dei Sacchi. Io davanti, lei dietro, dovevamo saltellare come coniglietti in calore sfregando i rispettivi deretani per mantenerci in equilibrio. Fu in cotale stato d’animo che divenni un Adepto del Circolo Democratico degli Animatori Confederati, non proprio una setta, ma nemmeno un partito.
Senza nemmeno rendermene conto, mi trasformai in una Testa di Cazzo con il Senso del Ritmo, e capii che non tutte le istituzioni dalle apparenze minacciose celano risvolti sgradevoli.

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Capitolo 9
*** Susine a Ripetizione ***


La luce dell’alba perforava con insistenza lo spiraglio di finestra non coperto dalla tenda.
Ignorai ostinatamente quel dettaglio, e rimasi sveglio fino all’ora di colazione.
Seppure irritato dal protratto periodo di veglia, l’accorto sguardo di cui mi glorio individuò seduta stante una gradita aggiunta al buffet della sala da pranzo. Parevano prugne nane. Un cartellino recitava: “Susine a Ripetizione”
Feci per appropriarmi di una manciata di frutti, quando una donna dall’aria stanca e il volto adornato di una veletta nero pece mi toccò delicatamente la spalla.
“Non abusarne”, disse in tono di ammonimento.
“Usale quando ne avrai davvero bisogno”
In che senso usarle, avrei voluto chiedere, ma si era già dileguata.
Decisi di infilarmi le susine in tasca e finire di fare colazione.
Uscendo incrociai la proprietaria, che con una notevole dose di nonchalance commentò il mio aspetto disordinato servendosi di una smorfia del tipo: “È finito sotto un treno o non ha mai visto un ferro da stiro?”
Giunto in spiaggia, capii che la giornata era iniziata con il piede sbagliato. Un energumeno villoso dagli zigomi prominenti e l’acconciatura minacciosamente turca occupava la MIA sdraio, che era stata appositamente riservata dal MIO albergo, il quale sorgeva – giusto per pontificare – nel MIO litorale.
“Mi scusi, quel posto sarebbe riservat…”
Una mistura male assortita di carica papaya, ananas comosus e cocos nucifera impattò contro la mia faccia.
L’invasore non si era nemmeno accorto che lo sollecitavo a tirare le tende; rivolgeva piuttosto la sua attenzione ad un giovanotto vestito da pinguino che sculettava a qualche sdraio di distanza.
“Cameriere, questo cocktail fa schifo!”
Ferito nell’amor proprio e deciso a trascorrere una mattinata piacevole, mi diressi verso il mare.
Nuotavo serenamente badando ai fatti miei, quando vidi una cosina che si sbracciava tra le onde. In una sequela di pinnate la raggiunsi, misi a fuoco la sagoma in controluce e realizzai che si trattava di una bambina non più alta di un soldo di cacio. Nei paraggi galleggiava una coppia di braccioli.
Sforzandomi più di quanto avessi immaginato, la trascinai a riva. Lo scricciolo non piangeva più, nemmeno si muoveva, pareva praticamente aver cessato le sue funzioni vitali. Riflettei quel tanto che basta per accantonare un’istintiva riluttanza e le praticai la respirazione bocca a bocca.
Dopo un po’ vidi che la bambina tossicchiava e sputazzava e cominciava a riprendere colore, e che una folla riconoscente si stava assiepando intorno al luogo del salvataggio. Solo che sentivo degli strilli disgustati, e gente che gridava “Dagli al pedofilo!” e “Porco schifoso!” e dove diamine si erano procurati le torce e i forconi, e soprattutto la parrilla – che per chi non lo sapesse è quella macchina costruita allo scopo di spararti 15000 volt dritti nei coglioni.
Riuscii a scampare sfruttando un tunnel a cui lavoravano da secoli i bimbi della catechesi parrocchiale.
Mi rifugiai nel mio ristorante preferito e ordinai una generosa porzione di paella, recapitatami con lodevole celerità dal maitre. L’infausta sorte volle che un detestabile ex-compagno di scuola mi individuasse mentre portavo alla bocca il primo boccone, coinvolgendomi in una conversazione sull’allevamento dei petauri al termine della quale il riso era freddo e il chorizo frigido.
Dedicai il pomeriggio alla ritrattistica clandestina, immortalando i turisti che avevano rinnegato l’egemonia oggettivistica delle macchine fotografiche. L’atto di disegnare possedeva l’innata capacità di ingentilirmi l’animo e appesantire di qualche grammo il mio portafoglio.
Gli insperati benefici della mia attività cessarono quando un piedipiatti dai probabili trascorsi reazionari appoggiò con studiata freddezza il suo sfollagente sul ripiano di compensato e mi ordinò di mostrargli una licenza. Licenza per cosa, gli chiesi, e lui mi smanganellò il naso e temperò le mie matite fino a ridurle a monconi di grafite.

Rientrai all’hotel con la luna storta. Era stata una giornata di merda.
Nel momento in cui sprofondai tra le confortevoli lenzuola del mio giaciglio, la leggera pressione esercitata dai corpi sferici che mi trabalzavano in tasca riportò alla mente il ricordo delle Susine.
Ne cavai fuori una e l’addentai. Non sapeva di niente.

La luce dell’alba perforava con insistenza lo spiraglio di finestra non coperto dalla tenda.
Mi persuasi a ruzzolare giù dal letto e soffocare l’ostinato bagliore. Non riuscii comunque a dormire, perché tirando la tenda avevo risvegliato una zanzara tigre a dir poco bellicosa. All’ora di colazione ero stracotto e disseminato di bubboni.
Quando scorsi gli esotici frutti denominati “Susine a Ripetizione”, il riverbero della consapevolezza mi pulsò in fondo al cranio come un colpo di gong. Ne agguantai una manciata e, passando accanto alla donna con il volto coperto dalla veletta nera, dissi: “Lo so. Stia tranquilla”
Uscendo incrociai la proprietaria, che con una notevole dose di nonchalance commentò il mio aspetto disordinato, oltre che prosciugato di una notevole quantità di sangue, servendosi di una smorfia del tipo: “Ha visitato la rocca del conte Dracula o non ha mai visto una bomboletta di Autan?”
Giunto in spiaggia, mi diressi a passo di marcia alla mia sdraio. L’energumeno era lì, schiena curva e occhi strabuzzati, visibilmente disgustato dal beverone che stava sorbendo.
Una mistura male assortita di carica papaya, ananas comosus e cocos nucifera impattò contro la sabbia, a circa dieci centimetri da dove sostavo io.
L’invasore si voltò per dirne quattro al cameriere che l’aveva servito, ma il sottoscritto ebbe la brillante idea di prevenirlo piazzandogli una mano sulla spalla e declamare nel suo pluripremiato piglio da smargiasso: “Signore, vada fuori dai coglioni. Questo posto è mio”
Cinque minuti dopo, nuotavo con entrambi gli occhi pesti, seminando una scia di sangue talmente densa che temevo di attirare gli squali; e vidi una cosina che si sbracciava tra le onde.
Prima ancora di capire cosa fosse, feci dietrofront e ripercorsi la secca fino a riva. Una folla inferocita mi attendeva come un sol uomo.
“Quell’individuo spregevole ha lasciato annegare mia figlia!”, sentivo gridare, “Se non ci fosse stato il bagnino sarebbe morta!”, e poi l’immancabile: “Dagli al negligente!”
Riuscii a scampare al Toro di Falaride sfruttando un tunnel a cui lavoravano da secoli i bimbi della catechesi parrocchiale.
Mi rifugiai nel mio ristorante preferito e ordinai una generosa porzione di paella, recapitatami con lodevole celerità dal maitre. Mi ero premurato di posizionarmi dietro un separé, cosicché nessuno potesse disturbarmi, ma purtroppo incappai in una coppia di finocchi che come me desideravano intimità, e venni coinvolto in una conversazione sull’efficacia dei lubrificanti anali al termine della quale il riso era freddo e il chorizo... bé, l’appetito mi era comunque passato.
Dedicai il pomeriggio alla ritrattistica clandestina, immortalando i turisti che avevano rinnegato l’egemonia oggettivistica delle macchine fotografiche. L’atto di disegnare possedeva l’innata capacità di ingentilirmi l’animo e appesantire di qualche grammo il mio portafoglio.
Gli insperati benefici della mia attività minacciarono di cessare quando un piedipiatti dai probabili trascorsi reazionari appoggiò con studiata freddezza il suo sfollagente sul ripiano di compensato e mi ordinò di mostrargli una licenza. Cercai di corromperlo con la promessa di ritrarre sua moglie quella sera stessa. La proposta gli riportò alla mente che la moglie l’aveva lasciato portandosi via il loro bambino di tre anni, e per scaricare la frustrazione mi spaccò sulla testa la tavola di legno, mi tolse i vestiti e mi ammanettò a un albero.

Rientrai all’hotel con la luna storta e i polsi segnati dai ripetuti tentativi di liberarmi. Era stata una giornata più che merdosa.
Addentai una Susina animato da un desiderio di rivalsa.

La luce dell’alba perforava con insistenza lo spiraglio di finestra non coperto dalla tenda.
Uccisi la zanzara parcheggiata nei pressi e soffocai l’ostinato bagliore. Mi svegliai fresco e riposato.
Agguantai una susina dal suo alveo e poi mossi verso la donna con la veletta.
“È necessaria un po’ di pratica, ho forse ragione?”
Lei ammiccò da sotto la retinatura.
“La convinzione di commettere uno sbaglio è sempre suscettibile ai punti di vista. Di solito, quando abbiamo la possibilità di rimediare ai nostri errori, è necessaria una fase di apprendimento che comporta un dolore ulteriore, a cui talvolta segue una nuova consapevolezza – ma questo non significa aggiustare le cose. È solo un modo per mettersi il cuore in pace”
“Dunque i paraculi che difendono la tesi secondo cui è impossibile modificare un fato prestabilito… sparano solo fandonie?”
“Si, abbastanza”
Uscendo incrociai la proprietaria, che non mi disse un accidenti di niente.
Giunto in spiaggia, evitai la sdraio che usavo di solito e distesi l’asciugamano in riva al mare.
Nuotavo serenamente badando ai fatti miei, quando vidi una cosina che si sbracciava tra le onde. In una sequela di pinnate la raggiunsi, misi a fuoco la sagoma in controluce e realizzai che si trattava di una bambina non più alta di un soldo di cacio. Nei paraggi galleggiava una coppia di braccioli.
Sforzandomi più di quanto avessi immaginato, la trascinai a riva. Lo scricciolo non piangeva più, nemmeno si muoveva, pareva praticamente aver cessato le sue funzioni vitali.
Chiamai a gran voce il bagnino e quello risolse la situazione con un massaggio cardiaco eseguito con competenza di causa. I genitori della piccola mi ringraziarono per aver contribuito al salvataggio. La folla radunatasi mi lanciò qualche fiore.
Mi diressi al mio ristorante preferito e ordinai una generosa porzione di paella, recapitatami con lodevole celerità dal maitre. Un mio ex-compagno di scuola che si trovava da quelle parti rischiò di rovinarmi il pranzo, ma lo blandii informandolo che a cinque chilometri di distanza si teneva un’esposizione di petauri.
Dedicai il pomeriggio alla ritrattistica clandestina, immortalando i turisti che avevano rinnegato l’egemonia oggettivistica delle macchine fotografiche. L’atto di disegnare possedeva l’innata capacità di ingentilirmi l’animo e appesantire di qualche grammo il mio portafoglio.
Gli insperati benefici della mia attività minacciarono di cessare quando un piedipiatti dai probabili trascorsi reazionari appoggiò con studiata freddezza il suo sfollagente sul ripiano di compensato e mi ordinò di mostrargli una licenza. Gli dissi che avevo un messaggio da parte di sua moglie: se faceva voto di non picchiarla più, lei e il bambino sarebbero ritornati a casa. Mi ringraziò in lacrime e si fece fare il ritratto.

Rientrai all’hotel pensando che in fondo non c’è gusto nel trascorrere una bella giornata se prima non si è sofferto un po’.

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Capitolo 10
*** Scorciatoie ***


L’ultimo giorno di vacanza, mi sovvenne di pensare che da quando ero sbarcato in quel luogo non avevo visitato neanche una libreria.
“La lettura è bandita in questo angolo di Paradiso. Incoraggia idee bislacche, da adito a rivoluzioni e fa pensare alla Morte”, disse la signora Andromeda con quella sua voce gracchiante.
“Questo mi spinge a supporre che lei abbia letto parecchio. Altrimenti, come saprebbe queste cose?”, replicai sornione.
La proprietaria sbuffò, contenendo a stento l’irritazione. Il suo cipiglio poteva voler dire: “Ora mi sono rotta i coglioni e da me non sentirai altro”, oppure: “Potrei essere tentata di rivelarti un segreto”, oppure ancora: “Se proprio insisti ti metterò a parte di una verità di natura confidenziale che cambierà per sempre la tua esistenza”
La risposta che seguì fu un mix di tutte e tre.
“Esiste una stamperia che contrabbanda i Libri messi all’Indice dalla Giurisdizione Televotiva, quella che forza i palinsesti a trasmettere in prima serata i programmi ad alto contenuto di messaggi subliminali regredienti – acciocché la gente ordini all’ingrosso batterie di salviettine ascellari per canarini. Ma io non ti ho detto nulla”
La casa editrice veicolava i suoi articoli servendosi di gatti ammaestrati con una macchia bianca sull’occhio sinistro, probabilmente clonati per evitare la grattugiata di marroni causata dalla ricerca di un gatto con una macchia bianca sull’occhio sinistro ogni qualvolta si doveva spedire un libro.

L’elenco dei romanzi ordinabili era vasto ed esotico, e comprendeva titoli del tipo: Il giorno che rinchiusi mia sorella in un castello di carte, Malattie Veneree tra gli anelli di Saturno e Amico intimo di una piattola.
Ciononostante, scelsi quello dal titolo più innocuo, e perché mi ispirava un certo senso di meraviglia prepuberale, e perché si trattava di una manciata di pagine: Scorciatoie.

Recapitatomi immantinente il volumetto, accarezzai il gatto, gli misi in bocca una banconota da cinque euro e mi barricai nella mia stanza.
Di seguito, la storia che lessi:
La Ragazza e i Bambini vagavano per la Foresta Pluviale da settimane, nutrendosi di ciò che offriva loro la natura e ingaggiando lotte concitate con pericolosi esponenti della razza degli anfibi.
Le paludi disseminate in giro come caccole di gigante avevano il potere di prostrare la volontà, scoraggiando il più motivato degli esploratori, ma il Bambino sembrava non accorgersene: la sua curiosità era patologica; nei momenti di calma, si perdeva a studiare il volo delle libellule o gli intricati motivi stampigliati sulle ali delle farfalle. Poneva molte domande alla Ragazza; ad alcune lei sapeva rispondere, ad altre no.
La Bambina, invece, era diametralmente opposta a suo fratello: si lamentava di continuo, gli insetti le facevano schifo e spesso la Ragazza era costretta a caricarsela in spalla. Ciononostante, i Bambini erano molto uniti. Yin e Yang, due facce della stessa medaglia, indubitabilmente diversi ma incatenati da un legame indissolubile.
La Ragazza pensava che le cose andassero bene com’erano. Qualunque foresta, qualunque acquitrino, erano preferibili alle Gabbie.
Una manciata di giorni prima, per un caso fortuito che le era parso addirittura sospetto, la Ragazza era riuscita ad evadere dalla sua prigione. Sgattaiolando furtiva al margine estremo del Campo, aveva incrociato la Gabbia in cui erano rinchiusi i Bambini e, mossa a pietà, aveva rischiato di farsi catturare nel tentativo di forzare i lucchetti che li tenevano segregati.
Sfuggiti per miracolo a quell’incubo, si sentirono subito a loro agio insieme, come se fossero una famiglia che si riuniva dopo molto tempo. Nessuno ricordava il proprio nome, ma che importanza aveva? In quella giungla c’erano solo loro: Adamo, Eva e la loro Custode Celeste.
Un pomeriggio in cui le zanzare erano particolarmente aggressive, i tre capitarono in una specie di santuario fatto di ninfee galleggianti, gigantesche foglie a ombrello e una parete di liane intrecciate che costituiva una rudimentale volta.
Dal buio della navata, la Megera Oleaginosa li scrutava nel suo manto di muschio e alghe in decomposizione.
“Vi propongo una scelta. Conosco una Scorciatoia che conduce fuori dalla Foresta. Posso indicarvela”
“Che cosa vuoi in cambio?”, chiese la Ragazza.
La Megera sorrise.
“Voglio”, e li indicò a turno, “L’Imene di quella Bambina, il Frenello di suo fratello e i tuoi Denti del Giudizio, Ragazza”
Lei ci rifletté per qualche istante.
“E se decidessimo di rifiutare?”
Questa volta la vecchia rise di un riso sgradevole.
“Oh, potreste anche farcela… Ma quando sarete usciti di qui, i Bambini avranno suppergiù la mia età”
La possibilità di imboccare una scorciatoia era allettante, e il prezzo da pagare non sembrava così alto.
Accettarono.
La Bambina soffrì molto di quella perdita, e il Bambino non gridò per evitare di impensierire la sorella. La Ragazza, invece, non sentì nulla. Perlomeno, non nel corpo.
La Megera ripose in una scatolina di madreperla le offerte, e poi, con un gesto teatrale, scoperchiò la trama di una Sottilità. Un passaggio fatto di vapore che diffondeva una nota acuminata ed esanime.
I tre fuggitivi lo imboccarono, e in pochi attimi la Foresta fu alle loro spalle. Sotto i piedi, una striscia di terra grigiastra; e davanti, il mare.
“Potremmo costruire una zattera”, disse la Bambina, che dopo la privazione era diventata più determinata.
Il Bambino rispose con un grugnito. L’operazione l’aveva reso sfiduciato.
La Ragazza, invece, si limitò a desiderare che ci fosse un modo più agevole di superare quegli abissi.
E come per magia, un gigantesco battello a vapore del colore della ruggine emerse dalle onde. I suoi fumaioli vomitavano un denso miasma che faceva lacrimare gli occhi. Ritto sulla prua, un giovane in divisa inamidata si arricciava gli eleganti baffetti ostentando un’espressione altezzosa.
“Mi sembra di capire che a lor signorine – e signorino – occorra un passaggio”
“Lei potrebbe farci attraversare il mare?”, domandò la Ragazza.
“Perché no? Sulla mia barca c’è posto per tre passeggeri”
“E cosa vuole in cambio?”, chiese il bambino, guardingo.
L’uomo allargò le braccia a comprendere tutti loro.
“Ma niente, è ovvio!”
La Ragazza mosse un passo verso il battello, ma la Bambina la trattenne per la vita.
“Non andare! Questo signore non mi piace, e poi ha detto che non vuole niente. Di sicuro c’è sotto qualcosa”
La Ragazza abbassò per un momento lo sguardo. C’era una luce nei suoi occhi che suggeriva un conflitto interiore: colpa, dubbio, addirittura vergogna.
“Bambini, questo signore ci sta offrendo un’opportunità irripetibile. Potrebbe essere la nostra unica speranza”
Si morse il labbro. Il giovanotto irradiava un aplomb da cui era difficile non rimanere stregati.
“Bambini, io vado con lui. Voi siete liberi di seguirmi o di rimanere qui”
I fratelli non risposero. Rimasero a guardarla mentre lei voltava loro le spalle e saliva sul battello. Li aveva traditi.
Quando la barca non fu che un puntolino nerastro all’orizzonte, loro fissavano ancora qualcosa che non c’era più. Si avvicinava l’imbrunire.

I giorni che seguirono furono lenti e ammantati da una cappa di afflizione. I bambini costruirono la zattera annodando insieme un filare di bambù e si avventurarono in mare aperto.
Il viaggio li prostrò oltre ogni previsione, e quando furono sul punto di esaurire l’acqua, sbarcarono su un’isoletta rocciosa in cui si intersecavano moltitudini di caverne.
La Bambina era allo stremo. Non le restavano che poche ore di vita.
Distesi in una pozza di sale, i fratelli stipularono un patto.
“Mio buon amico… Devi promettere che sopravvivrai. Che troverai la nostra madre adottiva e che non vi separerete mai più”
Lui si limitò ad annuire, soffocando le lacrime. Era diventato praticamente muto.
Quando la sorella morì, lui ne mangiò le carni, e divenne adulto.
Riprese nuovamente la via del mare, viaggiò come in preda a una trance che lo rendeva immune alla fame, alla sete, alla stanchezza.
Fu così che raggiunse la Grande Metropoli. Un nuovo mondo, un mondo terrificante, caotico, assurdo e ricco di possibilità gli si spalancò davanti agli occhi.
Si sottopose ai lavori più umilianti, impiegò il tempo di cui disponeva a risalire le vette più infime della scala sociale. E poi la trovò.
Studiava in una pregevole università dei quartieri alti, il capitano del battello l’aveva adottata. Nessuno sapeva dirgli con esattezza se per lei fosse un padre, un fratello o un amante.
E ora quello che era stato il Bambino, divenuto il Ragazzo, la spiava da una delle vetrate dell’aula a semicerchio. Ben vestita, ben pettinata, china su un libro. Il giovanotto non le aveva chiesto nulla in cambio, come promesso: le aveva dato tutto. C’è forse qualcosa di più spregevole?
Il Ragazzo batté le mani e il Tempo si fermò. Consapevole che gli rimanevano solo pochi istanti prima che il suo cuore smettesse di battere, si introdusse nell’auditorio e fecondò la sagoma immobile della donna che in un’altra vita gli aveva fatto da madre. E infine si dissolse nel nulla. Per lei fu come se il tempo non si fosse mai fermato.

Ma un giorno avrebbe dato alla luce due Bambini, due gemelli, che avrebbero messo a repentaglio l’integrità della Grande Metropoli, e per questo sarebbero stati imprigionati ai margini estremi del mondo. E allora una Ragazza, una Ragazza pura e innocente li avrebbe liberati, portandoli via con sé, e forse la società degli uomini avrebbe assistito alla nascita di una nuova famiglia. O di un nuovo scisma.


Una buona lettura rasserena l’animo e arricchisce la coscienza. Quella notte dormii come un ghiro.

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Capitolo 11
*** La Corriera che Non Arrivava Mai ***


Infine era giunto il momento di tornare a casa. Non saprei dire se mi sentivo felice o dispiaciuto. Diciamo che in quella partenza c’era un senso di giustezza, ecco.
La cosa che sapevo per certo era che il rientro non sarebbe stato agevole come l’andata: avevo viaggiato fin lì come per magia – e contravvenendo a tutte le leggi del calcolo probabilistico. Un evento così straordinario non si ripete due volte.
Il taxi che dall’albergo mi avrebbe portato alla stazione delle corriere era in ritardo. A quanto pare il tassista era inciampato in un diverbio con una combriccola di tedeschi che non gli avevano lasciato la precedenza, comportando la rottura del fanalino anteriore destro e un’incazzatura domenicale aggravata dal fatto che nessuna delle due parti parlava la lingua dell’altra.
Poco male. Ci sciroppammo il tragitto a novanta chilometri orari sotto l’egida di Carmen Consoli.
Il fatto che fossimo arrivati in ritardo venne mitigato dalle circostanze particolari della mattinata: anche la Corriera era in ritardo.
Un’ora e dieci minuti dopo, giunsi a un’altra stazione per scoprire che la mia coincidenza era partita in anticipo. Mi vennero in aiuto i precetti fondamentali della filosofia Zen, che mi impose di sorridere mentre bestemmiavo ricorrendo al linguaggio dei gesti.
Aspettare non mi pesa. Dopo il mai troppo remoto periodo che trascorsi in ospedale, ho raggiunto una forma di illuminazione che mi impone di considerare il Tempo come – e qui cito il caro Burroughs – una mera invenzione umana. Fermo resta che mi cadono i coglioni.
Aspettare, aspettare nella convinzione che i minuti non passino, li rende effettivamente statici, e questo è quanto di più vicino esista all’immortalità. Tremendo, non trovate?
Leggetevi quell’invasato di Lewis, e scoprirete che secondo lui le anime che volano in Paradiso saltellano in giro come gnomi sotto l’effetto di stupefacenti, facendo mostra di insospettabili poteri cosmici.
Leggetevi Houillebecq, e scoprirete cosa significa aspettare… Nel suo caso, siccome è un menagramo, aspettare di morire, e qui mi strizzo i cosiddetti, perché diamine, sei davvero un menagramo se la tua visione materialista delle cose ti impedisce di goderti la vita.
Spulciate le pratiche rituali neopagane, e scoprirete che per entrare in comunione con la Natura è indispensabile liberarsi delle false percezioni che circoscrivono lo scorrere del tempo lineare; prima che ve ne rendiate conto avrete trasceso il Tempo stesso, e di conseguenza lo Spazio.
A questo proposito, Castaneda… Oh, la Corriera è già arrivata.

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Capitolo 12
*** Epilogo Logistico ***


Che altro dire?
Prima di partire per il mare ero un ciccione debilitato. Adesso sono un ciccione robusto.
Sono sicuro che in men che non si dica ritroverò la mia verve e riprenderò ad arrabbiarmi, ma non mi importa.
L’unica soluzione è programmare una nuova vacanza.
Dopotutto, l’Angola è dietro l’angolo.







Ringrazio il Signor Totto, che ha piazzato sul mio desktop una delle sue foto. Mi ha ispirato.

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