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di Vakarian
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dee: Tacofobia ***
Capitolo 2: *** Maryon: Reintegrazione ***



Capitolo 1
*** Dee: Tacofobia ***


1.1 - Dianna: Tacofobia


Charon, uno dei tre soli di Echo, stava per tramontare.
I tramonti a Hera erano sempre lentissimi. Dee non ci si era ancora abituata, anche se ormai viveva su Echo da tre anni. Non si era abituata a quei tramonti, né allo strano profilo di torri e palazzi allungati di quella città, né all’odore della pelle sintetica dei sedili del tram, né all’idea di lavorare alla LEXA.
«L’hai sentito? Ne sono tornati altri due.»
«Dall’aldilà?»
«Già. Anche lui ha parlato delle stesse cose. Di un’immensa stanza. Erano tutti lì... con macchine, o droni, a monitorarli…»
Dee smise di prestare attenzione alla conversazione dei due uomini seduti dietro di lei e guardò fuori dal finestrino, ma tutto scorreva troppo velocemente davanti ai suoi occhi. Distolse lo sguardo.
«Certo, adesso andranno avanti a raccontare le stesse cose finché non se ne dimenticheranno.»
Non riusciva a sentirsi a casa, a Hera. Probabilmente era per via della gente delle Vecchie Colonie, per via del lusso o degli ambienti asettici.
In ogni caso, non aveva intenzione di tornare indietro. Era stata fortunata a trovare un impiego nelle Vecchie Colonie. Non era facile riuscire ad essere assunti dalla LEXA – non era semplice riuscire ad ottenere da loro neanche un semplice colloquio, a dire il vero. Molti consideravano il suo lavoro invidiabile e prestigioso. Dee non trovava niente di invidiabile nel lavorare per un’azienda che vendeva mercenari, ma la pagavano bene e questo le bastava, per il momento.
«Non dirmi che ci credi, Gaius.»
«Non saprei...»
Dee scese dal tram all’ultima fermata prima del capolinea.
Si trovava in periferia, in un quartiere residenziale. Le strade erano quasi sempre deserte e silenziose, anche perché erano poche le aeromobili che sorvolavano quell’area. I passanti che incontrava di tanto in tanto andavano sempre di fretta. Dee invece adorava passeggiare lentamente per quelle strade – forse per questo chi la incrociava la guardava sempre con un’espressione mista tra curiosità e fastidio.
Erano in pochi a visitare la biblioteca di Hera, a parte qualche studioso o qualche vecchio bibliofilo. La carta era un’inutile lusso, ormai – Dee non avrebbe saputo dire esattamente da quanto tempo le cose stavano così; sicuramente da generazioni. Ormai soltanto l’Unione usava la carta, esclusivamente per le sue comunicazioni ufficiali. La carta era tanto costosa da fabbricare quanto inutile, ormai – così come tutte le biblioteche che nelle Vecchie Colonie la conservavano. Non conservavano soltanto libri, ma anche quaderni, diari, quotidiani, riviste, o fumetti; ma per molti era inutile e scomodo raggiungere una biblioteca per consultarli, dato che le loro riproduzioni fotografiche erano accessibili da qualunque tab.
A Dee piaceva quella biblioteca. Era un luogo familiare, in cui si sentiva a suo agio. Non riusciva a spiegarsi perché. Prima di trasferirsi su Hera non era mai stata in una biblioteca, né aveva mai visto o toccato un libro di carta. Tuttavia, fin dalla sua prima visita, si era sentita inspiegabilmente al sicuro in quel silenzio e tra quegli scaffali. Forse perché i libri della biblioteca non cambiavano e restavano fermi nello stesso posto ogni giorno, pazienti – a differenza dei passanti delle strade di Hera che, sempre di fretta, scappavano ovunque, impedendole di memorizzare i loro volti per riconoscerli quando li avrebbe incrociati di nuovo. Dee non avrebbe saputo dire se incontrava ogni giorno gente diversa, oppure se incontrava sempre le stesse persone – che non sarebbe mai riuscita né a conoscere né a riconoscere. I libri di carta dentro la biblioteca, invece, erano sempre uguali. Anche i dipendenti della biblioteca erano sempre uguali, e anche quelli che si fermavano spesso nella biblioteca come Dee erano sempre le stesse persone – ed erano anche piuttosto abitudinarie: occupavano sempre gli stessi posti e rispettavano gli stessi orari. Tutti, dipendenti e visitatori, si muovevano lentamente dentro la biblioteca. Appartenevano a una dimensione diversa, dove si misurava il tempo e lo spazio in un altro modo.
Quando raggiunse la biblioteca, Dee si accorse che Tim Grayson, il vecchio custode, stava chiudendo il portone. Guardò l’orologio: non era ancora l’orario di chiusura. Gli si avvicinò e lo salutò. Lui la guardò perplesso, senza riconoscerla. Si sistemò gli occhiali spessi sul naso e strizzò gli occhi.
«Dianna» disse, dopo averla fissata per un po’ senza cambiare espressione.
«Già.»
«Purtroppo da oggi siamo stati costretti a modificare gli orari. Ci hanno ridotto i fondi, sai…» disse Tim, e abbassò lo sguardo sul grosso mazzo di chiavi che teneva in mano. Cominciò a esaminarle una per una, cercando quella giusta.
«È questa, signor Grayson» disse Dee, indicando la chiave più lunga del mazzo.
L’uomo prese la chiave fra le dita e la rigirò, fissandola. Poi guardò Dee.
«Hai ragione, Dianna. È proprio questa…  A volte mi pento di aver insistito così tanto per avere un portone così. Con le chiavi» spiegò Tim, parlando lentamente e facendo lunghe pause, come suo solito. «Ma non so. La nostra biblioteca è una ricostruzione. Anche all’interno. Un portone così, automatico… non so.»
Tim afferrò il battente del portone, ancora socchiuso, tirandolo a sé; qualcuno, però, lo tirò dall’interno nella direzione opposta, impedendogli di chiuderlo.
«Aspetti, signor Grayson!»
Tim fissò il portone, confuso. Poi si allontanò, per lasciare uscire la persona che stava per chiudere all’interno. Era uno dei dipendenti della biblioteca, quello con i capelli biondo scuro sempre spettinati e gli occhi grigi. Le era capitato di incontrarlo tra gli scaffali mentre controllava lo stato dei libri, qualche volta.
«Ah, Garrett, sei tu…» mormorò. «Chi altro poteva essere, del resto? Non rispetti mai gli orari di chiusura!» lo rimproverò.
Garrett si passò una mano tra i capelli, imbarazzato.
«Mi dispiace. Ha ragione, ma ogni volta sono così preso dal lavoro che dimentico di guardare l’orologio…»
Tim scosse la testa e sospirò.
«Lavoro, lavoro. Come devo fare con te?» Tim chiuse il portone con un tonfo e infilò la lunga chiave nella toppa. «Finirò per chiuderti sul serio qui dentro, un giorno o l’altro» concluse. Poi guardò Dee. «Conosci Dianna, no?»
«L’ho visto, qualche volta…»
«Sì, la vedo spesso venire in biblioteca» la interruppe Garrett. «Ma non ci siamo mai presentati» osservò, e le sorrise.
«Garrett è il nostro restauratore. Restaura libri» spiegò Tim.
Rimasero bloccati per qualche secondo in un silenzio imbarazzante. Poi Tim diede a Garrett una pacca sulla spalla, salutò Dee con un gesto della mano, e si incamminò verso casa.
«Allora ci vediamo.»
«Ci vediamo!» la salutò Garrett.
Dee si voltò per tornare indietro e raggiungere la fermata, ma si accorse che Garrett si era mosso nella sua stessa direzione. Si scambiarono uno sguardo imbarazzato. Decisero tacitamente di fare la strada insieme.
«Restauri i libri, quindi…»
«Già.»
«Deve essere impegnativo.»
«Non ho molto da fare. Potrei salvare molti più libri, ma non abbiamo i mezzi, né i fondi. All’Unione non interessa conservarli. Parlano di chiudere le biblioteche, ultimamente. Per riciclare tutta quella carta.»
«No!» esclamò Dee. Garrett sorrise.
«Non sono poi così utili le biblioteche, ormai. Esistono le riproduzioni digitali di tutti quei libri. A nessuno interessa toccarli e sfogliarli.»
«A me piace. Adoro l’odore della carta.»
«Non dirlo a me. Soprattutto della carta vecchia.»
«C’è differenza?»
«Certo! La carta dei libri antichi profuma di liquirizia» cominciò a spiegarle Garrett, con un’aria così seria da fare sorridere Dee.
«È vero!» le assicurò Garrett, credendo che stesse sorridendo perché non lo prendeva sul serio; ma Dee non poteva dirgli che era l’enfasi e l’entusiasmo con cui parlava del suo mestiere a renderlo così tenero e buffo. «Va bene, se non ci credi vieni a cercarmi appena torni in biblioteca.»
«Ti credo, ti credo. » gli disse, abbassando lo sguardo sul marciapiede.
Camminarono rimanendo in silenzio per un po’. La luce si era fatta più tiepida e più obliqua, l’aria più fredda e umida. Il secondo sole stava per tramontare.
«Sei delle Nuove Colonie, vero?» chiese Garrett.
«Il mio accento si sente così tanto?»
«Un po’» confessò Garrett. Dee rise.
«Vengo da Urania. E tu?»
«Hesper.»
Anche Garrett proveniva dalle Nuove Colonie. Ecco perché aveva riconosciuto il suo accento.
Un passante urtò il braccio di Dee nel sorpassarla, mormorando qualcosa come un rimprovero perché stavano occupando tutto il marciapiede, camminando troppo lentamente. Non riuscì a capire cosa il passante stesse dicendo, perché camminava a passi rapidi e si allontanò prima di completare la frase. Dee, ormai, c’era abituata.
A Hera camminava più lentamente degli altri. Era stupita dal fatto che Garrett riuscisse a camminare al suo fianco senza sembrare insofferente. Non le era mai capitata una cosa simile, da quando si era trasferita su quella città. Era strano. Ormai si era rassegnata all’idea di viaggiare a una velocità diversa. Raggiungeva le sue mete sempre un po’ più tardi – ed era costretta, in ogni caso, a rimanere più a lungo sul campo di battaglia. Era costretta a guardare la realtà trascorrere e trasformarsi davanti ai suoi occhi, cambiare. E anche – spesso – a restare da sola. Perché era sempre l’ultima ad andarsene.
Dee si accorse di aver raggiunto la fermata del tram.
«Io mi fermo qui» disse a Garrett.
«È stato un piacere, Dianna.»
«Puoi chiamarmi Dee.»
«Allora ci vediamo.»
«Ci vediamo.»
Arrivò il tram. Dee salì, e Garrett la salutò con un sorriso.
Le porte del tram si chiusero sibilando, e il mezzo ripartì.
Dee guardò l’orizzonte dal finestrino: anche Geryon era tramontato. Adesso toccava all’ultimo sole. Distolse lo sguardo quando il tram iniziò ad accelerare.
Sentiva qualcosa di molto simile a quanto provava sempre nella biblioteca. Era solo più intenso e complesso. Si sentiva a casa. A Hera non le era mai capitato, nemmeno nel suo appartamento o nel suo ufficio alla LEXA. Non sapeva spiegarsene il perché. Non aveva fatto niente di diverso. Aveva solo camminato fianco a fianco con uno sconosciuto. Era strano che bastasse quello.
Non appena si convinse della sua stranezza, quella sensazione svanì.

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Capitolo 2
*** Maryon: Reintegrazione ***


1.2 – Maryon: Reintegrazione

 
«C’è un ospite, di sotto. Chiede di vederti.»
Maryon sospirò.
«Digli che arriverò fra qualche minuto. Devo finire una cosa» disse, senza sollevare lo sguardo dal documento che stava leggendo.
«Sarà meglio che tu vada subito. Ha detto che è urgente.»
Sbuffò. Odiava essere interrotta. Le faceva perdere la concentrazione.
Posò il tab sul tavolo e si voltò a guardare suo fratello. Era in piedi, alle sue spalle, sulla soglia, e la guardava preoccupato. Continuava a dondolarsi sui talloni, come faceva sempre quando era impaziente.
«Fallo aspettare nell’atrio.»
«È un membro dell’Unione.»
Maryon sgranò gli occhi e balzò in piedi. «Chi?»
«Non… non me l’ha detto» balbettò Ryan, stupito dalla sua reazione.
Rimase senza parole. Perché, dopo tutto quel tempo, e dopo tutto quello che era successo?
Cos’altro volevano da lei?
«Ha detto che è urgente» ripeté Ryan. «Cosa gli dico?»
Maryon non rispose. Uscì dallo studio di suo padre e scese le scale in fretta per raggiungere l’atrio.
Un giovane uomo la stava aspettando seduto su una poltrona. Quando la sentì arrivare alzò lo sguardo su di lei. Maryon non riuscì a riconoscerlo subito.
«Ciao» la salutò.
Maryon sbatté le palpebre.
«Jared? Sei proprio tu?» gli chiese, incredula.
Jared si alzò in piedi, le mani nelle tasche del cappotto.
«A quanto pare» disse, accennando appena un sorriso.
Maryon gli andò incontro e avrebbe voluto abbracciarlo, ma Jared non si mosse di un millimetro. Sembrava rigido e imbarazzato. Si limitò a chiedergli come stava.
«Bene. Tu, piuttosto? Ho saputo di tuo padre…» le rispose Jared.
«Non… non bene» gli disse, abbassando lo sguardo.
Poteva raccontargli tutto? No, forse avrebbe dovuto aspettare di avere delle risposte certe tra le mani prima di parlarne a chiunque. E poi, poteva fidarsi di lui? Perché era lì? E soprattutto, perché aveva detto a Ryan di essere un membro dell’Unione? Avrebbe potuto annunciarsi come un amico, e invece non l’aveva fatto.
No. Non gli avrebbe detto nulla. Piuttosto, era lui a doverle delle spiegazioni.
«Perché sei qui? È successo qualcosa?»
Jared la guardò, in silenzio.
«Ho bisogno di fumare» disse.
Maryon aggrottò le sopracciglia. Non tanto perché fosse strano che Jared avesse voglia di fumare, ma perché sembrava un po’ teso e nervoso.
«Credevo che avessi smesso» rispose, sperando di spezzare un po’ la tensione. Jared rimase a guardarla con un pacchetto di sigarette in mano.
«Vieni, andiamo in giardino» lo invitò. Lui la seguì senza dire una parola.
Maryon attese in silenzio che Jared le dicesse qualcosa. Lo guardò mentre lottava con l’accendino per accendersi una sigaretta.
Da quanto non lo incontrava? Quattro anni? No, erano cinque anni, ormai. Anche lui era cambiato un po’. Aveva le spalle più larghe, e si era lasciato crescere la barba. E sorrideva meno del solito. Maryon non riusciva a capire se fosse dovuto effettivamente a un cambiamento del suo carattere. Forse era semplicemente teso per qualcosa che stava per dirle. Probabilmente era solo una sua impressione. Oppure in quei cinque anni in cui si erano persi completamente di vista qualcosa in lui era cambiato davvero, e aveva perso l’abitudine di scherzare come faceva sempre. Forse, più che il tempo che era passato, a cambiare le cose era stato quello che era successo a South Forth. Gli aveva fatto passare la sua voglia di scherzare. O forse non riusciva più a essere se stesso davanti a lei, perché erano rimasti lontani l’uno dall’altra per troppo tempo. Quel pensiero le fece troppo male, e decise di scacciarlo.
«Allora?» gli chiese, impaziente.
Jared non rispose. Si limitò ad estrarre una busta di carta bianca.
Maryon la fissò per qualche istante, prima di decidersi ad allungare la mano per prenderla. Aveva sperato di non vederne mai più una, dopo il processo.
«Cartaceo?» mormorò. Soltanto l’Unione poteva permettersi ancora di usare la carta, e – vista la sua rarità – la impiegava solo nell’occasione di comunicazioni ufficiali.
Sperò che non si trattasse di un’altra convocazione per l’ennesima udienza o per un altro processo.
Tentò di mantenere la calma, ma non riuscì a controllarsi. Le mani le tremavano, e fece una gran fatica per riuscire ad aprire la busta ed estrarne la lettera che conteneva. Una lettera di poche righe, che lesse velocemente un paio di volte sperando di averne frainteso il senso.
Il suo sguardo si concentrò su una sola parola: reintegrazione.
«Perché?» fu l’unica cosa che riuscì a dire.
«Hanno reintegrato anche Dan» disse Jared, tutto d’un fiato. «Non mi hanno detto nient’altro, se non che ci sarà affidata a una missione.»
«A noi tre?»
«Esatto. A Dan daranno il comando.»
«Hanno convocato soltanto…»
«Gli unici sopravvissuti agli eventi avvenuti a South Fort» Jared completò la frase. «Non so se è una coincidenza, ma...»
«Di che missione si tratta?» lo interruppe Maryon. Non voleva pensare all’idea di rivedere Dan, e addirittura di dover partecipare a una missione con lui. Voleva riempirsi la testa di dati per non pensarci. Esattamente come aveva fatto per non pensare alla morte di suo padre. Funzionava.
«Lo sai come sono, quelli. Non si lasciano sfuggire indiscrezioni qualsiasi. E non direbbero mai niente del genere a un aviatore qualunque.»
Maryon fissò la busta e scosse la testa.
Perché proprio adesso?
Perché proprio con Dan?
A quegli stronzi piaceva proprio prendersi gioco di lei. Un processo lungo, estenuante e umiliante, l’espulsione dall’esercito e la distruzione della sua carriera non erano stati sufficienti, evidentemente. Non era bastato neanche quello che avevano fatto a suo padre.
No, era ancora presto per dire questo. Era ancora presto per dire qualunque cosa. Anche per sospettare che avessero deciso di reintegrarla per impedirgli di proseguire con le indagini sulla morte di suo padre.
«A cosa stai pensando, Maryon?»
Guardò Jared. Perché non avevano mandato un loro messo qualunque? Perché proprio Jared?
«Perché hanno mandato proprio te? Non abiti proprio dietro l’angolo» osservò Maryon.
Jared sorrise.
«Avevo voglia di vederti» disse, e aspirò una boccata di fumo.
«Sì, certo» commentò lei. La risposta di Jared era poco convincente, e l’aveva resa ancora più sospettosa. Aveva voglia di vederla adesso, dopo cinque anni?
Jared non disse nulla. Si limitò a continuare a sorriderle.
Forse stava esagerando. Stava pensando troppo. Magari per Jared non era stato facile. Magari aveva davvero voglia di rivederla, e aveva semplicemente approfittato di quell’occasione.
C’era qualcos’altro che voleva chiedere a Jared, prima che se ne andasse.
«Come sta… lui?»
«Ti preoccupi ancora, eh?» la prese in giro. «Non l’ha presa molto bene…»
«Dovrà interrompere la campagna elettorale?»
«Sai anche della campagna elettorale. Pensi davvero ancora a lui!» esclamò Jared, ma nel suo tono di voce c’era una nota di tenerezza che a Maryon non sfuggì.
Già. Pensava ancora a lui e non aveva mai smesso, nonostante tutto. Era così che stavano le cose.
«Allora? Ha dovuto interromperla?»
«Peggio. Ha dovuto rinunciare alla carica.»
Maryon sgranò gli occhi.
«Hiddleston si è preso il suo posto con uno stratagemma…»
«Hiddleston? Io credevo che lo appoggiasse in pieno!»
«Lo credeva anche Dan. E molto più di noi, probabilmente» aggiunse Jared. «Ma è meglio così. Dan è troppo pulito per la politica.»
«Già…» disse Maryon, con un filo di voce. Aveva pensato alla stessa cosa quando aveva saputo della storia della sua candidatura. Dan era troppo pulito, era troppo onesto. Dan era troppo, semplicemente troppo.
Maryon immaginava come dovesse sentirsi. Deluso e confuso. Non doveva succedere a lui. E neanche tutto ciò che era accaduto a South Fort, con le conseguenze che aveva portato, doveva capitare a lui.
Si arrabbiò. Si arrabbiò con Hiddleston, con l’Unione, con se stessa, con il mondo intero e con il destino. Si arrabbiava sempre per Dan, e al posto di Dan, perché lui non era mai stato davvero capace di provare rabbia per qualcuno o qualcosa. Il pensiero che tra loro due esistesse ancora quella sorta di legame la fece sorridere.
Jared continuava a fumare, in silenzio. Maryon si chiese come sarebbe stato lavorare di nuovo insieme. Forse non ci sarebbero riusciti. Non doveva illudersi che sarebbe stato tutto come cinque anni prima. Erano accadute molte cose, e ne erano cambiate troppe altre.
In effetti, Maryon non credeva nemmeno che avrebbe potuto accettare.
Doveva indagare sulla morte di sua padre. Forse l’Unione era coinvolta nel suo assassinio. Avevano trovato suo padre nello studio, morto, ancora seduto alla sua scrivania; nessun segno di colluttazione, solo un proiettile che lo aveva colpito al cuore con precisione chirurgica. Tutti i dati sull’indagine che suo padre stava svolgendo – che non avrebbe portato alla luce buone cose sull’Unione – erano spariti. E l’assassino non aveva lasciato tracce. Nessuna. Né una porta sfondata, né una finestra aperta. La stanza era perfettamente in ordine, come l’assassino doveva averla trovata.
Probabilmente solo le Ombre, gli assassini addestrati dall’Unione, erano capaci di uccidere in modo così pulito. Forse era davvero il caso di sospettare che avessero deciso di reintegrarla solo per tenerla lontana dalle indagini.
«Non so se accetterò di essere reintegrata» disse, interrompendo il silenzio. Jared si voltò a guardarla.
«Perché?»
«Se ci pensi, è anche ridicolo che l’Unione convochi me e Dan per affidarci una missione. Ci hanno processati ed espulsi perché abbiamo fatto fallire una missione cruciale…»
Jared scrollò le spalle. «Finché ha funzionato, quella tra voi è stata un’ottima collaborazione. Forse si sono decisi a considerare quell’incidente per quello è stato… una disgrazia, non un errore.»
Maryon trattenne una risata. Non la pensava così, ma non sapeva se poteva fidarsi ancora di Jared; quindi preferì non esprimere quale fosse il suo punto di vista, e rimanere in silenzio.
«Forse hanno proprio bisogno di voi» osservò Jared. «In  ogni caso, puoi sempre rifiutare.»
Non aveva nessuna voglia di tornare a lavorare per l’Unione, non dopo quello che era successo a suo padre.
«Secondo me, però, dovresti almeno provare a sentire quello che hanno da dirci. Poi deciderai se rifiutare o meno.»
Forse hanno proprio bisogno di voi, aveva detto Jared. Per molto tempo, Maryon non aveva aspettato altro. Aveva desiderato che l’Unione avesse bisogno di lei per poter rifiutare l’incarico, per ostacolare la realizzazione di qualunque disegno avessero in mente. Poi si era resa conto di quanto fosse stata immatura, stupida e presuntuosa a pensare qualcosa del genere. L’Unione non aveva bisogno di lei. Non aveva nessuna abilità particolare. Non aveva ricoperto nessuna carica di rilievo. Le avevano dato il comando solo perché, durante la guerra, con tutte quelle perdite e con tutti quei fronti aperti, non avevano avuto niente di meglio a disposizione che un paio di soldati specialisti.
Aveva di nuovo voglia di rifiutare, adesso. Sapeva di non contare niente e sapeva che l’Unione avrebbe potuto tranquillamente convocare qualcun altro, al suo posto. Sentiva di nuovo il bisogno di rifiutare un incarico, ma per se stessa. Per una soddisfazione personale. Una soddisfazione stupida, in effetti.
E poi c’erano le indagini sulla morte di suo padre.
«Non lo so…» disse, alla fine.
«Pensaci» suggerì Jared. Gettò a terra la sigaretta e la spense sotto il tacco della sua scarpa.
«Adesso devo andare. Partiremo insieme, domani. Dall’hangar di nord-ovest, molo 15.»
«Va bene. Ti accompagno all’ingresso…»
«Non serve. Grazie» disse Jared. Si allontanò, verso il cancello. Fece qualche passo. Poi si fermò, e si voltò a guardarla.
«Non te l’ho detto subito perché non ero sicuro che ti facesse piacere, ma… Dan mi ha chiesto di salutarti. Ha saputo di tuo padre, me l’ha detto lui. Mi ha chiesto di dirti che gli dispiace.»
Maryon sorrise. Non si era dimenticato di lei, forse. Avrebbe preferito che Dan le parlasse direttamente, ma non poteva pretenderlo.
Anche Jared le sorrise. Era un sorriso così malinconico che Maryon non riuscì a reggere il suo sguardo.
Rimase a fissare la sigaretta schiacciata che Jared aveva lasciato a terra, mentre lui se ne andava.

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