Gli Ultimi Eroi

di Emily Kingston
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricevo una visita inaspettata ***
Capitolo 2: *** Faccio dei sogni strani ***
Capitolo 3: *** Ci serve un'impresa ***
Capitolo 4: *** Uno zombie mi chiede un appuntamento ***
Capitolo 5: *** Un amico ci viene a trovare ***
Capitolo 6: *** Riceviamo un passaggio dal taxi degli dei ***
Capitolo 7: *** Mi vogliono uccidere ***
Capitolo 8: *** Ci diamo al campeggio ***
Capitolo 9: *** Scateno una rissa ***
Capitolo 10: *** Incontro un fantasma senza il bisogno di una seduta spiritica ***
Capitolo 11: *** Attacco briga con un morto vivente ***
Capitolo 12: *** Stringo un patto pericoloso ***
Capitolo 13: *** Dico addio alla mia vita ***
Capitolo 14: *** Il sacrificio di un amico (Epilogo) ***



Capitolo 1
*** Ricevo una visita inaspettata ***


     A Percy e Harry, 
perché mi hanno fatto capire 
che ognuno di noi ha un posto nel mondo. 


Gli ultimi eroi
 

#1. Ricevo una visita inaspettata

 
Mi chiamo Percy Jackson e sono un mezzosangue.
Storicamente, noi mezzosangue siamo conosciuti come semidei, figli di un genitore mortale e un genitore divino.
Io sono figlio di Poseidone e di Sally Jackson, la mamma migliore del mondo e la donna più in gamba e intelligente che abbia mai conosciuto.
Fino a qualche mese fa, sulla mia testa semidivina gravava un’importante profezia. La Grande Profezia, pronunciata dall’Oracolo di Delfi parecchi anni fa, diceva che il primo figlio dei Tre Grandi (Zeus, Poseidone e Ade) che avesse compiuto sedici anni avrebbe dovuto prendere una decisione che avrebbe deciso le sorti dell’Olimpo.
Talia Grace, figlia di Zeus, si è sottratta alla profezia a quindici anni, unendosi alle Cacciatrici di Artemide, diventando così immortale.
Nico di Angelo, figlio di Ade, avrebbe potuto essere l’eroe della profezia solo fra qualche anno, dato che aveva ancora dodici anni.
E io, Percy Jackson, figlio di Poseidone, guarda caso avevo compiuto sedici anni proprio quell’agosto.
I requisiti c’erano tutti. Figlio di uno dei Tre Grandi. Sedici anni. Alla fine, però, si è scoperto che io con la profezia c’entravo poco e niente.
Luke Castellan, il figlio di Ermes che aveva tirato fuori Crono dal Tartaro, era l’eroe di cui parlava l’Oracolo.
Sembra quasi assurdo che fosse proprio lui, ma nonostante tutte le scelte sbagliate che ha fatto in passato è riuscito a salvarci tutti. L’unica cosa che dovevo fare io, la mia ‘scelta fondamentale’, era dargli o meno un pugnale di bronzo che lui stesso aveva regalato ad Annabeth quando si erano conosciuti.
La sera del mio compleanno io e Annabeth ci siamo baciati, finalmente, e alla fine dell’estate sono tornato a New York da mia madre e Paul. E tutti vissero felici e contenti, insomma.
Invece no.
Credevo che le mie avventure da semidio fossero finite – o che comunque, mi stessero concedendo una pausa – e pensavo di essere solo un adolescente di Manhattan, figlio di un dio, con una ragazza semidivina, dislessico, con una sindrome di iperattività e disturbo dell’attenzione. Ma ho dimenticato di mettere in conto che sono un mago nell’attirare la sfortuna.
Era quasi mezzogiorno quando mia madre spalancò le finestre della mia camera, lasciando che il rumoroso traffico di New York mi svegliasse.
“Io vado a lavoro,” mi disse, arruffandomi i capelli. Io mugolai, cercando di nascondermi dalla luce del sole e di tornare nel mondo dei sogni (già che per una volta non stavo sognando niente di strano). “Annabeth ti aspetta in salotto.”
Ci misi qualche secondo a registrare ciò che mia madre aveva detto.
Annabeth ti aspetta in salotto.
Balzai a sedere di scatto, spalancando gli occhi.
“Che cosa?!” urlai.
Mia madre uscì dalla stanza con un sorriso e, prima che io potessi aggiungere altro, lasciò l’appartamento.
Mi alzai svogliatamente dal letto, trascinando i piedi sul pavimento. Probabilmente mia madre aveva usato Annabeth per farmi alzare, le non poteva davvero essere in salotto.
Sbuffando e borbottando contro mia madre, mi tolsi il pigiama e cominciai a frugare nell’armadio alla ricerca di qualcosa da mettere.
Era domenica e non avevo alcun programma per la giornata. Annabeth avrebbe passato la giornata con la sua famiglia (una ragione in più per la quale non poteva assolutamente essere nel mio salotto) e Grover era di nuovo in viaggio.
Da quando avevamo sconfitto Crono e Grover era stato premiato diventando un membro del Consiglio dei Satiri Anziani, girava l’America in lungo e in largo, cercando di salvare le selve come gli aveva detto Pan. La povera Juniper era sempre più frustrata.
Il giorno in cui avevamo lasciato il campo per tornare in città, io e Annabeth avevamo raggiunto il suo albero e l’avevamo trovata che parlava con Grover. Stavano discutendo dei suoi viaggi e Juniper sembrava turbata.
“Non ci vedremo per mesi!” aveva protestato, aggrappandosi alle mani del satiro.
“Lo so,” aveva risposto Grover, rammaricato. “Ma devo farlo e tu lo sai bene. Sarò di ritorno per l’inverno,” le aveva assicurato.
Juniper aveva perso qualche foglia per la frustrazione, ma aveva annuito.
“Promesso?”
“Promesso”
“Prometti anche che non morirai!” aveva aggiunto.
“Lo prometto io.” Annabeth mi aveva dato una gomitata e mi aveva guardato male, ma io le avevo fatto intendere con uno sguardo che doveva lasciarmi fare. Mi ero fatto avanti e avevo guardato Juniper. “Se Grover sarà in pericolo io lo saprò e allora andrò a salvarlo. Non morirà, Juniper, lo prometto.”
Grover con le lacrime agli occhi mi aveva stritolato in un abbraccio.
“Sei il miglior semidio che abbia mai conosciuto.”
Ripensare a quel momento mi fece sorridere. Continuai a frugare nell’armadio, quando sentii dei passi nel corridoio.
Probabilmente mia madre aveva dimenticato qualcosa ed era tornata indietro a prenderla.
“Percy?” mi bloccai. Non era la voce di mia madre. “Non ti sarai mica rimesso a dormire?!”
Annabeth apparve sulla soglia della mia camera, con un cipiglio severo stampato in viso. Ma la sua occhiataccia durò ben poco, il tempo di accorgersi che ero in mutande nel bel mezzo della stanza.
Arrossì, abbassando lo sguardo.
“Oh, scusa, avrei dovuto…”
Afferrai un paio di jeans e una maglietta e l’indossai a tempo di record.
“Non importa,” la rassicurai, sperando di non essere rosso come mi sentivo.
Titubante, Annabeth entrò nella mia stanza e si fermò di fronte a me.
La guardai imbarazzato per qualche minuto, poi mi aprii in un sorriso e la strinsi in un abbraccio. Lei ricambiò la mia stretta, avvolgendomi le braccia attorno al collo.
Non la vedevo da un paio di settimane e mi era mancata più di quanto potessi immaginare.
I suoi genitori le avevano permesso di frequentare una scuola a Manhattan e, anche se cercavamo di vederci ogni volta che potevamo, i suoi impegni come architetto dell’Olimpo spesso ci tenevano lontani per giorni.
“Non dovevi passare la giornata con i tuoi?” le chiesi, guardandola in viso.
Annabeth sorrise.
“Cambio di programma. Bobby ha avuto la febbre e papà non è potuto venire,” mi spiegò. “Ho la giornata libera, quindi ho pensato..”
La baciai con un sorriso, impedendole di continuare a parlare.
So quanto Annabeth odi essere interrotta, ma non la baciavo da due settimane, e al momento non m’importava assolutamente niente di ciò che voleva dirmi.
“Mi sei mancata da morire,” le sussurrai, stringendola forte. Sentii i suoi capelli biondi che mi pizzicavano il naso e il suo profumo avvolgermi il viso.
Rise, strofinando il volto contro la mia spalla.
“Anche tu mi sei mancato, Testa d’Alghe!”
Ci sedemmo sul mio letto e parlammo per qualche ora. Annabeth mi raccontò dei suoi progetti per abbellire la sala dei troni sull’Olimpo e anche di una mezza idea che aveva avuto sbirciando i progetti di Dedalo.
Capii la metà di quello che disse, ma sorrisi per tutto il tempo.
“E poi stavo anche pensando di riprogettare i troni,” disse, giocherellando con le mie dita. “Ne aggiungerò uno per Ade e ne farò alcuni più piccoli per gli dei minori.”
“Credo che a Estia ne piacerebbe uno con accanto un focolare.”
Annabeth sorrise e appoggiò il capo sulla mia spalla.
Quando la mia pancia lanciò un acuto brontolio, mi accorsi che era ora di pranzo.
Certo che anche lei dovesse aver fame, mi diressi in cucina e, con mia grande sorpresa, trovai due piatti di pasta al formaggio in frigorifero e un bigliettino da parte di mia madre.
 Buon appetito.
Sorrisi, infilando i due piatti nel microonde.
“Allora, cos’hai voglia di fare?” le chiesi.
Annabeth arrossì leggermente. “Be’, pensavo che non siamo mai riusciti ad andare al cinema…”
L’anno prima, io e Annabeth avevamo progettato di andare al cinema insieme. Poi due empuse avevano cercato di farmi fuori alla Goode High School, l’aula di musica della scuola aveva preso fuoco, io ero scappato dalla finestra insieme a Rachel Elizabeth Dare e il pomeriggio con Annabeth era saltato. Fu più che altro colpa delle empuse e diciò che mi dissero riguardo all’attacco che Luke stava per sferrare al Campo Mezzosangue, ma all’epoca Annabeth guardò Rachel come se fosse stata colpa sua.
“Va bene,” le sorrisi. “Andiamo al cinema.”
Uscimmo di casa nel primo pomeriggio, ma il cinema era già affollatissimo quando arrivammo; riuscii a fatica ad arrivare allo sportello per prendere i biglietti.
Mentre tornavo da Annabeth con aria vittoriosa, andai a sbattere contro qualcuno.
Una ragazza dai capelli rossi, gli occhi verdi e i pantaloni sporchi di pennarello.
“Rachel!” esclamai, aprendomi in un sorriso.
La mia amica si aggiustò la felpa, poi alzò lo sguardo su di me.
Quell’estate Rachel aveva promesso a suo padre che avrebbe frequentato un collegio per sole ragazze, perciò non la vedevo da quando avevamo entrambi lasciato il Campo Mezzosangue.
Era più alta di qualche mese prima e mi sembrava che le fossero cresciuti i capelli.
Prima che iniziasse la battaglia a Manhattan, Rachel era partita con i suoi genitori per St. Thomas, ma aveva insistito per tornare quando aveva iniziato a fare strani sogni su di me. Il rientro a New York le era costato la promessa di frequentare la scuola che suo padre aveva sempre sognato per lei.
Dopo la battaglia, abbiamo scoperto che Rachel aveva lo stesso potere di May Castellan e che avrebbe potuto prendere il posto del vecchio oracolo ammuffito che si trovava nella soffitta della Casa Grande.
Alla fine, Rachel aveva rifiutato di ospitare lo spirito dell’Oracolo di Delfi perché preferiva essere normale.
“Non me la sento,” aveva detto a Chirone.
All’inizio non sapevo se sentirmi sollevato o preoccupato. Ero a conoscenza di ciò che era successo a May Castellan per via della maledizione lanciata da Ade e non eravamo certi che si fosse sciolta, perciò sapevo che se avesse accettato avrebbe corso un grosso rischio.
“Mi dispiace tanto,” aveva continuato, torcendosi le mani in grembo, “spero che la cosa non vi crei problemi, io…”
Chirone le aveva appoggiato una mano sulla spalla e l’aveva guardata in maniera rassicurante.
“La scelta è tua, Rachel,” le aveva detto, “se non accetti di tentare nessuno ti obbligherà. L’Oracolo ha vissuto dentro quella mummia per anni, sopravvivrà fino alla prossima giovane donna destinata ad ospitare il suo spirito.”
Rachel mi aveva sorriso ed io l’avevo guardata con imbarazzo, soprattutto perché sentivo lo sguardo di Annabeth pesarmi sulle spalle.
“Se lo desideri, puoi rimanere al campo fino alla fine dell’estate,” aveva aggiunto Chirone. “Nella casa di Ermes avranno sicuramente un sacco a pelo per te.”
I fratelli Stoll avevano guardata Rachel con un sorriso e le avevano fatto l’occhiolino.
Quando Rachel mi riconobbe arrossì e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Ehi, Percy,” abbozzò un sorriso.
“Come stai? Va tutto bene?”
“Oh sì,” disse. “Ogni tanto faccio qualche sogno strano, ma credo sia nella norma.”
Sorrisi, di sogni strani ne sapevo qualcosa.
“Come va con la nuova scuola?”
Rachel mi disse che era stata dura abituarsi alle divise e a tutte quelle lezioni sul come essere una signora, ma confessò anche che, alla fine, non era poi così male come aveva pensato.
“Sei con qualcuno?” le chiesi.
Per un momento scorsi un brillio nei suo occhi e annuì.
“Sono con alcune compagne di scuola,” spiegò. “E tu?”
Mi voltai e intravidi Annabeth che mi aspettava vicino ad uno dei cartelloni pubblicitari che sponsorizzavano i nuovi film.
Sorrisi. “Sì, Annabeth mi sta aspettando.”
“Oh.”
“Vuoi venire a salutarla?”
Rachel annuì e mi seguì tra la folla.
Quando Annabeth mi vide arrivare con Rachel pensai che avrebbe tirato fuori il suo nuovo pugnale (quando Luke aveva usato quello che le aveva regalato anni prima per uccidersi, Annabeth l’aveva gettato tra le fiamme insieme al drappo funebre del ragazzo) e che l’avrebbe accoltellata nel bel mezzo del cinema.  
Non capivo perché, ma a Annabeth non era mai andata a genio Rachel. Anche l’anno prima, quando ci aveva aiutati ad orientarci nel Labirinto di Dedalo, si era dimostrata un po’ ostile nei suoi confronti.
“Ciao Annabeth,” disse Rachel, sventolando la mano in direzione della ragazza.
“Dare.”
Io cercai di abbozzare un sorriso, ma gli occhi di Annabeth lanciavano saette e Rachel sembrava talmente affranta da non avere il coraggio di rispondere alle sue occhiatacce.
“Sarà meglio che vada,” esordì Rachel, dopo qualche minuto di silenzio. “Ci vediamo Percy.”
Prima di tornare dalle sue amiche mi baciò una guancia. Annabeth la guardò come se volesse strozzarla.
“Andiamo,” grugnì, afferrandomi la mano e trascinandomi verso le sale.
Alla fine, riuscii a impedire che Annabeth distruggesse l’intero cinema e il film si rivelò non essere poi tanto male.
Quando la riaccompagnai a casa era già buio. Il signor Chase aveva comprato ad Annabeth un appartamento vicino alla scuola che frequentava. Non era molto grande ma era abbastanza per una sola persona.
Avevo proposto ad Annabeth centinaia di volte di venire a stare da me – l’idea che sene stesse da sola in quell’appartamento un po’ mi preoccupava – ma lei diceva che la solitudine non le dispiaceva e che suo padre si fidava a lasciarla vivere da sola perché sapeva che Atena teneva sempre un occhio su di lei.
Annabeth ed io avevamo la stessa età, ma lei aveva il cervello di sua madre, perciò sapevo benissimo che se c’era una persona al mondo che fosse abbastanza affidabile per vivere da sola in un appartamento di New York era lei. Forse avrei solo voluto una scusa per vederla più spesso.
“Mi aspetti fuori da scuola domani?” mi chiese con un sorriso.
“Non hai delle colonne da progettare domani?”
“Ahimè, ho mandato i progetti per le colonne sull’Olimpo l’altro ieri,” disse. “Temo che dovrai litigare con me nei prossimi giorni, Testa d’Alghe.”
Le avvolsi la vita con le braccia e l’avvicinai a me.
“Non chiedo altro.”
La baciai e lei mi sfiorò i capelli con le dita. La striatura grigia – un ricordino di quando avevo sostenuto il cielo un paio d’anni prima – ormai si confondeva con e le altre ciocche di capelli.
“Ci vediamo domani,” sussurrò, allontanandosi.
“A domani.”
Le rivolsi un ultimo cenno di saluto con la mano prima che sparisse oltre il portone del palazzo, e poi mi avviai a casa. 


-
Ehm, salve. 
Non so da dove sia nata questa storia, forse da un idea matta che mi è venuta di notte o da qualche meandro del mio cervello. In qualunque caso, adesso è qui.
Non sono esperta del fandom di Percy Jackson, perciò mi perdonerete se i personaggi non sono perfettamente IC. 
Proprio per la mia scarsa esperienza mi farebbe piacere avere delle opinioni da chi scrive in questo fandom da più tempo di me, quindi anche le critiche (soprattutto le critiche!) sono be accette :)
Be', spero che questa nuova avventura di Percy vi piaccia. A presto con il prossimo capitolo, 
Emily. 

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Capitolo 2
*** Faccio dei sogni strani ***


#2. Faccio dei sogni strani

 
I mezzosangue sognano da schifo.
E non intendo che abbiamo problemi a dormire per via degli innumerevoli mostri mitologici che ci danno la caccia, intendo che sogniamo proprio da schifo. Abbiamo visioni del futuro, vediamo stralci di ciò che sta accadendo in altri posti ad altre persone, e ogni sogno è così reale che non siamo mai sicuri se è stato solo un sogno oppure no – nella maggior parte dei casi, ovviamente, non si tratta mai di un sogno e basta.
Quando chiusi gli occhi, mi ritrovai in una grotta.
Faceva freddo e dalle stalattiti che pendevano dal soffitto l’acqua gocciolava sul pavimento roccioso.
Tra alcuni tralci di legna crepitava un fuocherello morente ed una coperta di foglie era stesa ai piedi di un masso.
Non sembrava il posto perfetto per mettere su casa, ma a quanto pareva qualcuno aveva deciso di abitare lì.
Sul fondo della caverna un cunicolo roccioso si snodava verso l’interno, perciò ipotizzai che la grotta si trovasse all’interno di una montagna. Non avevo idea di dove portasse il cunicolo e avevo la sensazione che andare a scoprirlo fosse la cosa meno indicata da fare. Un basso fischio proveniva dalle tenebre, come se una creatura stesse respirando nel buio, profondamente addormentata.
Improvvisamente Nico Di Angelo corse all’interno della grotta. Crollò sulle ginocchia e poi alzò lo sguardo su di me.
“Vuole vendicarsi,” disse, affannato. “Non ci darà pace.”
Mi fissava dritto negli occhi e per la prima volta da quando aveva iniziato a chiacchierare coi morti e via dicendo, vidi la paura nel suo sguardo.
“Gli abbiamo impedito di ucciderlo,” continuò a mormorare. “Non posso fare nulla. È tornato umano.”
La scena della grotta si dissolse in una nuvola di fumo e al suo posto comparve una foresta occupata da arbusti dalle alte chiome.
Grover era nascosto dietro uno degli alberi e tremava, il flauto stretto tra le mani. Aveva gli zoccoli sporchi di fango e l’erba intorno a lui stava seccando. Anche le foglie iniziarono a cadere dagli alberi, gialle e insecchite.
Dei passi scricchiolarono alle spalle di Grover e il satiro balzò in piedi, cominciando a correre verso l’interno del bosco, dove le piante s’infittivano.
“Mi ricordo di te, satiro,” sussurrò una voce profonda.
Aveva un che di familiare, ma non avrei saputo dire a chi apparteneva. Sicuramente non era la voce di Crono e questo mi rassicurò.
In qualche modo sentivo che tra la visione di Nico e quello che stava succedendo a Grover ci fosse un collegamento. Perciò, dato che Nico aveva parlato di qualcuno che era ‘tornato umano’, ero felice che non si trattasse del re dei Titani.
Grover continuava a correre per la foresta, suonando il suo flauto di legno per far spuntare cespugli e radici dal terreno alle sue spalle.
L’ultima volta che avevo fatto un sogno su Grover che fuggiva da qualcuno ero dovuto salpare per il Mare dei Mostri perché lui era stato rapito da un ciclope che intendeva sposarlo (va bene che Polifemo aveva la vista un tantino annebbiata, ma ancora non capivo come aveva fatto a scambiare Grover per una donna ciclope).
L’uomo che stava inseguendo Grover rise.
Non gli vidi né il corpo né il viso, solo i piedi. Indossava un paio di sandali di cuoio e camminava lentamente, come se avesse tutto il tempo per acciuffare Grover.
Rabbrividii. Anche Crono si comportava così.
Intorno al tizio con i sandali volteggiava una strana nebbia densa. Anime.
“Percy!” la voce di Grover era terrorizzata. “Le selve!” esclamò, correndo come un matto tra gli alberi. “Sta distruggendo le selve!”
Il bosco si dissolse in una nuvola di fumo com’era successo con la caverna di Nico Di Angelo e il mio sguardo si spostò sulle rive di un fiume.
Tutt’intorno era buio e il fiume era pieno di sporcizia: quaderni, targhette dorate, rossetti, diademi di plastica, guantoni da baseball…i sogni irrealizzati delle anime.
Mi trovavo sullo Stige, il fiume che scorre negli Inferi.
Nico Di Angelo era inginocchiato a terra e mi stava parlando.
Si trattava di un ricordo e risaliva a qualche mese prima, quando eravamo scesi insieme negli Inferi affinché io facessi il bagno nello Stige e diventassi invulnerabile.
Nel sogno io m’immergevo nelle acque scure del fiume, strizzavo gli occhi e cadevo in acqua dal dolore. Ma non eravamo soli.
All’ombra di un cunicolo, degli occhi ci osservavano.
Se la persona che ci spiava conosceva il rito, allora, probabilmente, aveva capito qual era il mio Tallone d’Achille.
 
Mi svegliai di soprassalto in un bagno di sudore.
Gettai uno sguardo fuori dalla finestra e vidi che era ancora buio, doveva essere notte fonda.
Ancora scosso dal sogno che avevo fatto, mi misi a sedere sul materasso e guardai la sveglia sul comodino: le due del mattino.
Notai anche che mia madre mi aveva lasciato un hamburger insieme ad una lattina di Coca-Cola. Non ero affamato, ma mangiai comunque.
Le luci di New York illuminavano la mia camera quasi a giorno e in qualche modo vedere la città ancora intatta dopo quello che era successo ad agosto mi rassicurò.
Negli ultimi cinque anni avevo viaggiato in lungo e in largo per l’America, ma nessuna città mi aveva mai affascinato come New York.
Ero stato perfino a Las Vegas, ma non c’era paragone.
Con un sospiro, appoggiai il piatto pieno di briciole sul comodino e lanciai la lattina di Coca-Cola nel cestino.
Ripensai al sogno che avevo fatto.
Nico aveva parlato di qualcuno che voleva vendicarsi e che aveva riassunto la sua forma umana. Grover veniva inseguito da un tizio con i sandali che aveva un esercito di anime al suo seguito. E poi quella visione di qualcuno che ci aveva spiati durante il rito nello Stige.
Apparentemente le cose non sembravano essere collegate tra loro, ma doveva esserci un nesso.
I mezzosangue sognano da schifo e la maggior parte delle volte i loro sogni li costringono ad avventurarsi in imprese pericolose. Però se c’è una cosa buona dei sogni dei mezzosangue è che hanno sempre qualcosa a che fare l’uno con l’altro.
E questo a volte può essere davvero utile.
Decisi che ne avrei parlato ad Annbeth e smisi di rimuginarci, tanto non avrei fatto altro che ingarbugliare ancora di più le cose.
Con un sospiro mi stesi di nuovo sul materasso e chiusi di nuovo gli occhi. Questa volta, fortunatamente, nessuna strana visione venne a farmi visita.
 
La scuola di Annabeth era un edificio grigio come tanti altri.
Non era tra i palazzi più alti e tutta la facciata era occupata da file di finestre. Ogni tanto, da una delle finestre del secondo piano, riuscivo a scorgere Annabeth che prendeva appunti (e ci riuscivo perché io esco da scuola quindici minuti prima di lei, non fatevi strane idee).
Quando suonò la campanella una marea di studenti si riversò in strada, investendomi in pieno.
La vidi uscire dall’edificio parecchi minuti dopo gli altri. Stava chiacchierando con un suo compagno di classe, David Walesh.
Quando mi vide mi sorrise e mi fece cenno con la mano di aspettare.
David Walesh era il classico ragazzo perfetto. Alto, biondo, intelligente, con due belle spalle da giocatore di rugby ed un paio di luccicanti occhi azzurri. E io lo odiavo, ovviamente.
Non mi piaceva come guardava Annabeth, tanto per cominciare. Ogni volta che erano insieme la osservava come se volesse mangiarsela con gli occhi – che poi era il modo in cui la guardavano tutti e non potevo certo biasimarli. Però non sopportavo chelui la guardasse così.
Annabeth sapeva perfettamente che quel tipo non mi piaceva, perciò pensai che la sua fosse una specie di vendetta per essermi presentato in compagnia di Rachel il giorno precedente al cinema.
Dopo qualche minuto si salutarono e David disse qualcosa che fece arrossire Annabeth. Sperai per il suo bene che non gli venisse mai l’idea di farsi un bagno al mare.
“Ciao!” esclamò, piazzandosi davanti a me.
Lanciai un’ultima occhiata fulminante alla schiena di David e poi portai la mia attenzione su di lei.
Annabeth sbuffò.
“Ancora con la storia di David?” gemette, infilando nella borsa a tracolla alcune carte.
Io incrociai le braccia al petto. “Non mi piace quel tipo.”
Di solito a questo punto Annabeth iniziava a dirmi che mi facevo troppi problemi per nulla, che David era un bravissimo ragazzo, che erano solo compagni di classe e che io ero paranoico. Quel giorno, però, doveva essere particolarmente felice di vedermi, perché rise divertita e mi baciò di slancio, appoggiando le mani sulle mie braccia incrociate.
“Sei un idiota, Testa d’Alghe.”
Io mi imbronciai, ma le passai comunque un braccio intorno alle spalle mentre ci avviavamo verso il suo appartamento.
Improvvisamente, mentre camminavamo in mezzo al traffico di New York mi tornò in mente il sogno che avevo fatto quella notte.
Abbassai lo sguardo. Annabeth aveva appoggiato la testa sulla mia spalla e sorrideva come una bambina.
“C’è qualcosa che non va?”
Arricciai le labbra, indeciso. Ma Annabeth mi conosceva troppo bene.
Si fermò e mi puntò gli occhi addosso.
“Che è successo Percy?”
Sospirai e le raccontai del sogno che avevo fatto. Lì per lì mi sembrò turbata, poi aggrottò le sopracciglia e mi sembrò di vedere le rotelle del suo cervello che si mettevano in moto, macinando ipotesi.
“Non sei riuscito a vedere la figura nell’ombra?” scossi il capo.
Per quanto avessi provato a mettere a fuoco l’immagine non riuscivo a capire che ci avesse spiati.
“Magari è stato solo un sogno,” dissi, più per convincere me stesso.
Annabeth mi guardò scettica.
“C’è un solo modo per scoprilo: dobbiamo tornare al campo e parlare con Juniper.”
In un primo momento non capii quel che Annabeth aveva in mente, poi mi ricordai della conversazione che Juniper e Grover avevano avuto alla fine dell’estate. Lui aveva promesso di tornare per l’inverno e ormai era quasi dicembre.
Annuii.
Sapevo che mia madre non si sarebbe spaventata troppo non trovandomi a casa – ormai era abituata.
Trascinai Annabeth in un vicolo isolato e lanciai un fischio acuto verso il cielo.
‘Buongiorno capo!’ la voce di Blackjack mi raggiunse prima che lui atterrasse davanti a noi.
“Ehi, bello!” esclamai, accarezzandogli il muso scuro.
Blackjack era un pegaso dal manto nero che avevo liberato quattro anni prima dalla nave di Luke, La Principessa Andromeda. Da allora era diventato il mio pegaso personale.
‘Ho portato Marcello, è uno nuovo,’ m’informò il cavallo, facendo spazio ad un pegaso bianco.
“Ciao Marcello,” gli dissi con un sorriso.
‘Salve.’
Montai in sella a Blackjack e Annabeth salì sulla groppa di Marcello.
‘Dove ti porto, capo?’
“Al campo, dobbiamo parlare con Juniper.”
Blackjack nitrì e spiccò il volo, salendo a tutta velocità sopra le nuvole. Marcello e Annabeth volavano al nostro fianco.
Arrivammo alla Collina Mezzosangue in pochi minuti. Superammo l’albero di Talia, sotto al quale il drago Peleo soffiava fumo dal naso, e Blackjack e Marcello ci lasciarono vicino alle stalle dei pegasi.
Promisi ai due cavalli che gli avrei portato delle zollette di zucchero dopo aver parlato con Juniper e io e Annabeth c’inoltrammo nel bosco.
Il Pugno di Zeus si ergeva minaccioso davanti a noi; sotto di esso alcune rocce coprivano quella che un tempo era stata una delle entrate per il Labirinto di Dedalo.
L’albero di Juniper si trovava proprio lì vicino (era stata proprio lei a dirci che Quintus entrava di nascosto nel Labirinto).
Ci guardammo intorno per un po’ finché Annabeth esclamò: “Laggiù!”
Un albero stava perdendo tutte le foglie e ai suoi piedi una ninfa dai capelli ambrati e gli occhi venati di clorofilla singhiozzava disperatamente.
“Juniper!”
Annabeth le passò un braccio attorno alle spalle per consolarla.
La ninfa alzò lo sguardo su di me e singhiozzò ancora più forte.
“Dov’è Grover?”
A sentire il nome del satiro Juniper nascose il volto tra le mani.
“…ato.”
“Cosa?” tra i singhiozzi non ero riuscito a capire un accidente di quel che aveva detto.
Juniper alzò il viso rigato di lacrime verso di me.
“Grover…” si sforzò di non ricominciare a singhiozzare. “Grover non è tornato.”



-
Velovo ringraziare chi ha recensito il primo capitolo. Davvero, grazie di cuore! :)
Spero che questo secondo capitolo sia di vostro gradimento. 
Qualsiasi critica o comemento sono ben accetti. A presto (e di nuovo grazie), 
Emily. 

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Capitolo 3
*** Ci serve un'impresa ***


#3. Ci serve un’impresa

 
Juniper ci disse che Grover non era tornato per l’inverno e che non aveva avvertito del suo ritardo.
“Poteva mandarmi almeno un piccione viaggiatore!” gemette la ninfa. “O anche un messaggio nel vento! Per quanto ne so io potrebbe essere morto!”
Annabeth cercò di consolarla, ma Juniper piangeva sempre più forte.
“Non è morto, Juniper,” la rassicurai. “Se lo fosse lo saprei.”
Le due ragazze mi guardarono e io sperai che la mia espressione fosse abbastanza rassicurante.
“Penso che dovrei parlare con Chirone,” dissi, guardando Annabeth.
Lei annuì, continuando a dare qualche pacca sulle spalle di Juniper.
Mi allontanai dal bosco e, quando fui certo che la ninfa non potesse vedermi, corsi a rotta di collo verso la Casa Grande.
Alcuni ragazzi che erano rimasti al campo per l’inverno mi guardarono stupiti, probabilmente chiedendosi cosa ci facessi lì e perché correvo come un matto.
Feci qualche cenno di saluto in giro mentre correvo e scorsi Polluce – il figlio di Dionisio – che camminava tra i campi di fragole.
Arrivai alla Casa Grande con i le gambe che urlavano dal dolore.
Chirone e il signor D se ne stavano sulla veranda a giocare a pinnacolo. Non avevo mai capito bene come funzionasse quel gioco, ma loro ci giocavano continuamente.
“Percy!” esclamò Chirone quando gli spuntai davanti.
“Chirone. Signor D,” ansimai.
Dionisio si sistemò meglio sulla sua poltrona, scartando una carta.
“Non dovresti essere a Manhattan tu, Peter Johnson?” mi chiese il signor D.
Nonostante si ostinasse a chiamarmi ancora con il nome sbagliato, sapevo che ricordava il mio vero nome.
“Devo parlare con Chirone,” dissi. Per un momento pensai che il signor D si sarebbe infuriato, invece alzò le spalle e continuò a giocare a pinnacolo da solo. “È importante,” continuai, guardando il centauro. “Si tratta di Grover.”
 
La stanza con il tavolo da ping-pong era diventata una specie di sala riunioni ormai. Sul piano verde del tavolo da gioco si vedeva ancora il segno lasciato dal coltello di Clarisse.
Chirone sistemò la sedia a rotelle davanti ad una sedia e io mi accomodai.
Mi sarebbe piaciuto fare due chiacchiere con lui, chiedergli come andavano le cose al campo (con i nuovi semidei che arrivavano in continuazione), ma non potevo perdere tempo.
Gli raccontai del mio sogno e di ciò che ci aveva detto Juniper, cercando di ricordare più dettagli possibile.
“Non dobbiamo saltare a conclusioni affrettate, Percy,” disse, sistemandosi la coperta patchwork sulle gambe finte.
“Ma Grover non è ancora tornato e non ha dato sue notizie!” protestai.
“Non è la prima volta che Grover non si fa vivo per parecchio tempo..”
“Già,” replicai io. “La prima volta è finito sull’isola di Polifemo e la seconda è stato addormentato da Morfeo che stava addormentando l’intera Manhattan per conto di Crono. Tutte cose meravigliose!”
Forse avevo esagerato perché Chirone mi guardò con una severità che non mi aveva mai rivolto.  
“Mi serve un’impresa,” conclusi.
“Sei un ottimo guerriero, Percy, uno dei migliori allievi che abbia mai avuto,” disse e già sapevo che non si preannunciava niente di buono. “Ma non ti manderò in missione alla cieca. Devi andare a scuola e tua madre ha già avuto troppe preoccupazioni per una vita intera.”
Cercai di protestare, ma Chirone mi zittì con un gesto della mano.
“Non ho intenzione di autorizzare un’impresa per te, Perseus Jackson,” concluse.
Restammo in silenzio per un po’, poi Chirone fece cigolare la sedia a rotelle verso la porta d’ingresso della Casa Grande. “Adesso manda un messaggio-Iride a tua madre e dille che stai bene. Sarà sicuramente in pena per te.”
Mi trascinai fuori dove Dionisio stava sistemando le carte per iniziare una nuova partita a pinnacolo.
Guardandolo un’idea mi balenò nella mente. Un’idea folle e stupida.
Guardai Chirone e poi Dionisio. Avevo bisogno di un’impresa, dovevo trovare Grover e scoprire cosa stava succedendo.
“Divino Dionisio,” dissi, prima che Chirone potesse zittirmi. “Ho bisogno di un’impresa.”
Dionisio alzò lo sguardo dalle carte e mi squadrò.
“Un’impresa? E per fare cosa? Sei già stanco di stare con le mani in mano?”
Sentii lo sguardo di rimprovero di Chirone sulla schiena, ma mi ripromisi di scusarmi più tardi con lui per aver fatto di testa mia.
“Il mio amico Grover, credo che sia in pericolo. Ho fatto dei sogni…” gli raccontai dei miei sogni e del misterioso uomo che era tornato umano per avere vendetta. “Devo scoprire cosa sta succedendo!” gemetti.
Dionisio si grattò il mento, buttando una carta sul tavolo.
“Chirone cosa ne pensa?”
“Sono contrario,” disse il centauro. Per un momento avevo sperato che mi sostenesse, ma la sua metà equina doveva aver influito sulla testardaggine. “Non ritengo necessario mandare un gruppo di eroi in missione senza essere certi del pericolo.”
Il signor D soppesò le parole di Chirone, poi sbuffò.
“Propongo di aspettare qualche altra settimana. Se Grover non si sarà fatto vivo per allora autorizzeremo un’impresa per Percy,”continuò Chirone.
Guardai Dionisio e lo pregai con lo sguardo di ignorare la proposta di Chirone.
“Riunione d’emergenza!” esclamò all’improvviso. “Chiamate i capigruppo di tutte le case, discuteremo dei sogni di Johnson nella sala del ping-pong prima di cena.”
Chirone si schiarì la voce.
“Signor D, i capigruppo sono a casa con i loro genitori, siamo in inverno.”
A Dionisio non sembrò un problema irrilevante. Continuò a frugare tra le carte e poi disse: “Mandate qualcuno a prenderli, allora. Li voglio qui per le sette.”
Buttò sul tavolo l’ultima carta che aveva in mano e poi, dopo essersi stiracchiato, raggiunse Polluce nel campo di fragole.
“Mi dispiace, Chirone,” dissi, abbassando lo sguardo.
Il centauro sospirò, sistemandosi meglio sulla sedia a rotelle.
“Mi serve davvero quest’impresa,” continuai.
“Spero che nessuno di voi rischi la vita inutilmente, Percy,” mi rispose. “Ma su una cosa hai ragione: i tuoi sogni non sono solo sogni.”
 
Per le sette di quella sera i capogruppo di ogni casa erano riuniti attorno al tavolo da ping-pong. Con l’aiuto dei pegasi io e Annabeth eravamo andati a prenderli e li avevamo riportai al campo il più in fretta possibile.
I fratelli Stoll della casa di Ermes si tiravano delle palline di carta, infastidendo Samantha Bell della casa di Afrodite. Clarisse, della casa di Ares, se ne stava imbronciata in un angolo, mentre Aaron Mitchell della casa di Apollo la guardava con una punta di timore.
Intorno a noi i capogruppo delle case degli dei minori stavano seduti in silenzio.
E poi, seduta accanto a Travis Stoll, c’era Rachel Elizabeth Dare.
“E lei cosa ci fa qui?!” esclamò Annabeth.
“L’abbiamo chiamata noi,” ammisero i capogruppo della casa di Ermes. “Ci sembrava che…be’, dopo quest’estate facesse parte anche lei del campo.”
“Ma è una mortale!” protestò Annabeth.
“Lo dici come se fosse una malattia,” intervenne Rachel.
Annabeth la fulminò con lo sguardo.
“Si è allenata con noi dopo la battaglia, è addestrata per essere un eroe,” insisté Travis.
Chirone si schiarì la voce e io e          Annabeth andammo a sederci sulle due sedie rimaste.
“Bene,” esordì Dionisio, tenendo in mano una lattina di Diet Coke. “Siamo qui perché Peter Johnson deve parlare di alcuni suoi sogni e bla, bla, bla. Comincia Johnson.”
“Jackson,” sussurrai, prima di schiarirmi la voce.
Raccontai a tutti dei miei sogni e notai le facce dei semidei assumere un’aria preoccupata. Samantha Bell mi chiese se credevo che i tre uomini (quello di cui parlava Nico, il tizio che inseguiva Grover e quello che ci aveva spiati sullo Sige ad agosto) potessero essere la stessa persona.
“Non lo so,” confessai. “Magari…magari sì.”
Ero teso. Se Dionisio non avesse acconsentito a darci un’impresa sarei dovuto andare in missione di nascosto e la cosa non mi piaceva per niente.
Sentii la mano di Annabeth stringere la mia sotto al tavolo e mi scappò un sorriso.
“Devo trovare Grover e anche Nico Di Angelo,” dissi. “Mi serve un’impresa per capire cosa sta succedendo.”
Calò il silenzio, poi Dionisio si alzò.
“E sia,” disse. “Hai la tua impresa. Ora scegli tre amici e bla, bla, bla..Le regole le sai. E ora addio.”
Guardai Annabeth e le sorrisi.
“Vieni con me?” le chiesi.
“Certo che vengo con te.”
Le sorrisi di nuovo. Stavo per chiedere a Grover se voleva unirsi all’impresa, quando realizzai che non sapevamo dove fosse.
Con una punta di rammarico mi guardai intorno. Non sapevo chi scegliere.
“Vengo io.”
I miei occhi saettarono verso la mano alzata di Rachel.
“Sei una mortale,” protestò Annabeth, “non puoi venire.”
Rachel ignorò Annabeth e si rivolse a Chirone.
“Posso partecipare all’impresa?”
Il centauro rimase in silenzio. “Non è una semplice mortale, Annabeth,” disse infine. “Vi ha guidati nel Labirinto l’anno scorso e non puoi negare che vi sia stata molto utile. Se Percy è d’accordo Rachel potrà accompagnarvi.”
Rachel si voltò verso di me.
“Vuoi che venga?”
Annabeth mi avrebbe scuoiato vivo, ne ero sicuro, ma la vista di Rachel ci avrebbe tenuto lontano dai mostri.
“Sì,” dissi. “Verrai con noi.”
Chirone fece cigolare la sedia a rotelle.
“La riunione è conclusa,” annunciò. “Percy…sai quello che devi fare.”
Io annuii e mi diressi verso il terzo piano della Casa Grande.
Annabeth e Rachel mi seguirono, ma non salirono con me nella soffitta. Prima di aprire la botola sperai solo di ritrovarle entrambe intere al mio ritorno.
L’Oracolo di Delfi era una vecchia mummia incartapecorita seduta su un treppiede vicino alla finestra. Indossava dei vecchi abiti strappati e la pelle consumata e verdognola metteva in evidenza le ossa del volto e delle mani.
Sentii la sua voce nella mia testa che mi diceva di chiedere.
“Voglio sapere cosa accadrà nell’impresa che sto per compiere.”
Una nuvola di fumo verde uscì dalla bocca della mummia: lo spirito dell’Oracolo. Il fumo si addensò e, dopo qualche minuto, la voce di Delfi iniziò a parlare.
 
Tre semidei ritroveranno quello che è perduto
Cinque eroi combatteranno dove serve un aiuto
La vista che tutto vede aiutarli potrà
E tra due fratelli una battaglia si consumerà
Se il signore dei fantasmi un’anima prenderà infine
Degli Ultimi Eroi essa decreterà la dolorosa fine
 
Rabbrividii. Ormai avrei dovuto essere abituato alle enigmatiche profezie dell’Oracolo, ma non era facile sentire qualcuno parlare di morte così facilmente. E le ultime righe delle profezie parlavano sempre di morte.
Uscii dalla soffitta e prima ancora che riuscissi a mettere i piedi a terra Annabeth mi si buttò addosso, stringendomi in un abbraccio.
“Com’è andata?” disse, premendo il viso sulla mia spalla.
Io le accarezzai la schiena, allontanandola delicatamente.
Guardai prima lei e poi Rachel, poi sospirai.
“Andiamo giù.”
Dovevo avere una faccia strana, perché Annabeth non mi staccò gli occhi di dosso neanche per un attimo.
Nella sala del ping-pong ci aspettavano tutti ancora seduti attorno al tavolo.
Quando varcai la soglia, Chirone mi guardò come se già sapesse che le cose non si mettevano bene.
Dissi cosa mi aveva detto l’Oracolo e tutti mi guardarono con aria confusa.
Cinque eroi…” ripeté qualcuno. “Ma voi siete tre!”
“La profezia però parla solo di tre mezzosangue,” aggiunse Samantha della casa di Afrodite.
Mi guardavano come se fossi in grado di dare loro una risposta, ma neanche io avevo la più pallida idea di cosa avesse detto l’Oracolo.
Cinque eroi. Chi erano gli altri due eroi che avrebbero dovuto partecipare all’impresa?
Tre mezzosangue. Io e Annabeth eravamo mezzosangue, ma Rachel era una mortale.
Senza contare che se uno di noi fosse morto saremmo morti tutti.
Mi schiarii la voce, mettendo a tacere il vociare dei miei amici.
“Bene. Quando partiamo?” chiesi, rivolto a Chirone.
Il centauro si avvicinò a me con la sua sedia a rotelle.
“Gli dei ti hanno concesso l’impresa, Percy,” quando mi appoggiò una mano sul braccio ebbi la certezza che mi avrebbe detto qualcosa che non mi sarebbe piaciuta per niente. “Ma non partirete prima delle vacanze di Natale.”
“Cosa?!” esclamai.
Cercai di protestare in tutti i modi, ma Chirone fu irremovibile.
“Non potete saltare la scuola,” non riuscivo a credere che Chirone pensasse alla scuola in un momento del genere. “E poi abbiamo bisogno di fare il punto della situazione. Promettimi che aspetterai Natale, Percy.”
Annuii.
Chirone annunciò che la riunione era sciolta e che potevamo fermarci al campo per la notte. Ci dette appuntamento al padiglione per la cena (che sarebbe iniziata mezz’ora più tardi) e tutti lasciarono la sala.
Rimanemmo solo io, Rachel e Annabeth nella sala del ping-pong.
“Siete sicure di voler venire?” chiesi, guardandole.
Annabeth mi fulminò con lo sguardo e Rachel sorrise.
“Potrebbe essere pericoloso,” continuai.
“Senza di me moriresti,” disse semplicemente Annabeth, alzando le spalle.
“Ma se vieni potresti morire tu!” protestai.
Annabeth era la migliore stratega e la miglior guerriera che avessi mai conosciuto, sapevo perfettamente che il suo aiuto mi sarebbe servito. Aveva partecipato ad imprese più pericolose, ma eravamo sopravvissuti alla guerra contro Crono e non riuscivo a sopportare l’idea che potesse succederle qualcosa.
“Anche tu potresti morire!” ribatté. “Ma io non ti sto chiedendo di restare qui.”
Deglutii. Perché aveva sempre ragione lei?
Mi voltai verso Rachel.
“Rachel tu…”
Rachel sorrise. “La vista che tutto vede aiutarli potrà,” disse. “Credo..credo di essere io. Vi serve il mio aiuto.”
“Bene,” esordì Annabeth. “Ci serve anche il mio di aiuto.”
“Annabeth..”
Lei mi fulminò con lo sguardo.
“Io vado a mangiare,” annunciò, avviandosi verso l’uscita della Casa Grande.
Sospirai, buttandomi su una sedia.
Rachel mi appoggiò una mano sulla spalla e sorrise.
“Ci vediamo a cena, Percy.”
Rimasi da solo per qualche minuto. Annabeth mi avrebbe sicuramente tenuto il muso per giorni e non ero poi così sicuro che portare anche Rachel fosse la cosa giusta.
La vista di cui aveva parlato l’Oracolo poteva essere lei, ma poteva anche non esserlo.
Cercando di scacciare i mille pensieri che mi affollavano la mente, mi alzai e uscii anche io dalla Casa Grande, diretto verso il padiglione.
 
Come avevo immaginato, Annabeth non mi degnò neanche di uno sguardo.
Era seduta al tavolo di Atena insieme ai pochi dei suoi fratelli che erano rimasti al campo per l’inverno e stava chiacchierando con Malcolm.
Rachel, al contrario, mi tenne d’occhio per tutta la sera.
Aveva trovato ospitalità al tavolo di Ermes e i fratelli Stoll sembravano particolarmente felici di riaverla con loro.
Io, ovviamente, mangiavo da solo al tavolo di Poseidone.
Quella sera sentii particolarmente la mancanza di Tyson, il mio fratellastro ciclope, soprattutto quando tornai alla capanna e la trovai completamente vuota.
La casa dedicata ai figli di Poseidone era la seconda della linea maschile – le capanne erano disposte ad U, un braccio per gli dei ed uno per le dee. Le pareti erano ricavate da una roccia marina e all’interno era tutto di un blu scintillante come le acque dell’oceano.
Mi buttai sul letto e socchiusi gli occhi, sospirando.
Stavo per addormentarmi, quando qualcuno bussò alla porta.
Istintivamente portai una mano sulla tasca dei jeans, dove tenevo Vortice, poi mi alzai e andai ad aprire.
Ero pronto a sguainare la spada, ma non ce ne fu bisogno.
Annabeth mi guardava con le braccia incrociate al petto e lo sguardo severo; probabilmente era ancora arrabbiata con me.
Avrei voluto dirle qualcosa, ma lei non mi dette il tempo di parlare. Mi spinse dentro alla casa di Poseidone e si chiuse la porta alle spalle.
Per un attimo pensai che volesse tirarmi un pugno o qualcosa del genere, ma la sua aria arrabbiata scivolò via e mi stritolò in un abbraccio.
“Annabeth, cosa…?”
Lei si allontanò e si mise a sedere sul bordo del mio letto con un sospiro.
Restammo in silenzio per un po’, poi io mi schiarii la voce.
“Non avrei dovuto chiederti di restare,” dissi.
Annabeth alzò lo sguardo su di me.
“Anche io ho paura per te, Percy,” sussurrò.
Mi sedetti accanto a lei e Annabeth appoggiò la testa sulla mia spalla.
“Prometti che starai attenta.”
Lei rise. “Non sono io quella che ha rischiato la vita un centinaio di volte.”
Le passai un braccio attorno alle spalle e la strinsi contro il mio fianco. Fuori si sentivano le voci dei fratelli Stoll che cantavano a squarciagola le canzoni del campo.
“Quindi hai paura per me..” dissi, ridacchiando.
Annabeth alzò il viso, fulminandomi con lo sguardo. 
“Oh, sta’ zitto!”
Io risi e lei mi baciò.



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Volevo davvero ringraziare Dandelion to dream e Prescelta di Poseidone per aver recensito i primi due capitoli: grazie, grazie, grazie! :D E un grazie va anche a Ashleyily95Daughter of Poseidon e Fred_Deeks_Ben per aver messo la storia tra le seguite :) 

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Capitolo 4
*** Uno zombie mi chiede un appuntamento ***


#4. Uno zombie mi chiede un appuntamento

 
Mi sono sempre stupito di come il tempo corra veloce.
Ero andato a parlare con Chirone alle porte di dicembre e in pochissimo tempo New York era stata ricoperta dalla neve e illuminata dalle lucine natalizie. La scuola aveva annunciato l’inizio delle vacanze e un grande albero di Natale era stato allestito vicino alla pista di pattinaggio sul ghiaccio.
Times Square si preparava già per il conto alla rovescia dell’ultimo dell’anno e un sacco di ragazzini alti e allampanati in divisa verde distribuivano volantini su un nuovo negozio di giocattoli.
Quando ero tornato dal Campo Mezzosangue avevo trovato mia madre che faceva su e giù per il salotto torturando la cintura della vestaglia e Paul che, seduto sul divano, cercava di tranquillizzarla.
Appena mi aveva visto mi aveva stritolato in un abbraccio, bombardandomi con una serie di domande su dove ero stato e cosa avevo fatto.
Le raccontai dei miei sogni e dell’impresa che gli dei ci avevano concesso.
“Andremo durante le vacanze di Natale,” le dissi.
Lei si portò una mano alle labbra, scioccata. Probabilmente aveva pensato che con la sconfitta di Crono tutti i pericoli fossero finiti e su una cosa Chirone aveva avuto ragione: mia madre aveva avuto troppe preoccupazioni per una vita intera.
“Dirò alla scuola che sei malato,” mi disse Paul, prima di uscire.
Paul Stockfis faceva l’insegnate d’inglese alla Goode High School, la prima scuola che ero riuscito a frequentare per più di un anno.
Quando Paul si chiuse la porta dietro le spalle io e mamma ci sedemmo sul divano e parlammo un po’. Mi chiese della profezia e quando le dissi ciò che l’Oracolo aveva predetto pensai che sarebbe scoppiata in lacrime.
Sì, mia madre aveva decisamente avuto troppe preoccupazioni per una vita intera.
 
Era l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie e io stavo aspettando Annabeth sul marciapiede.
Mia madre aveva insistito perché mi mettessi la sciarpa di lana che mi aveva regalato il Natale scorso, perciò metà della mia faccia era occupata da un’ingombrante striscia di tessuto blu.
“Percy!” la sua voce mi raggiunse ancora prima che potessi vederla, e sorrisi.
Il mio sorriso, però, si spense appena mi resi conto che Annabeth stava venendo verso di me in compagnia di David Walesh.
“Io e David dobbiamo discutere di un progetto, perciò l’ho invitato a pranzo con noi.”
Per un attimo mi chiesi se non stesse scherzando.
Quella poteva essere una delle ultime volte in cui potevamo passare del tempo insieme (e per insieme intendo da soli) prima che partissimo per la missione e lei invitava quel…quel coso a pranzare con noi?
David si avvicinò a me sorridendo e si presentò, porgendomi la mano. Mi sarebbe piaciuto togliere il cappuccio a Vortice e infilzarlo, ma la spada gli sarebbe solo passata attraverso e io non sono mai stato un tipo violento.
Così gli strinsi la mano e abbozzai un sorriso – anche se sono convinto che fosse più una specie di smorfia.
Annabeth sorrise, intrecciando le dita alle mie. A essere sincero in quel momento mi sono sentito molto fico e tutto l’odio nei confronti di Mr. Perfezione è svanito.
Pranzammo da McDonald’s e Annabeth e David non fecero altro che parlare di architettura. Non capii un’acca di quello che dissero, ovviamente, ma Annabeth mi strinse la mano tutto il tempo.
Non so se l’abbia fatto perché voleva rassicurarmi, perché le andava o perché voleva impedirmi di fare fuori David – e ci sono anche andato molto vicino dato che lui a un certo punto si è messo a fissarla.
“È stato un piacere conoscerti, Perseo,” mi disse Mr. Perfezione sorridendo.
“Percy,” lo corressi.
“Oh, credevo che fosse un diminutivo.”
“Il nome intero è Perseus,” intervenne Annabeth.
David esalò un lieve ‘oh’, poi sorrise ad Annabeth.
“Ci vediamo dopo Natale. Grazie per il pranzo.”
Annabeth scrollò le spalle.
“Grazie a te per quelle dritte, mi saranno davvero utili.”
David le fece l’occhiolino e mi prudettero le mani.
“A presto, Annabeth,” si avvicinò al viso di Annabeth e le baciò una guancia. “Percy,” mi rivolse un cenno di saluto con la mano e sparì.
Quando fu sparito tra la folla, strinsi i denti.
“Io lo ammazzo,” ringhiai.
Mi aspettavo che Annabeth iniziasse una delle sue solite ramanzine, invece scoppiò a ridere.
Con la mascella ancora contratta e gli occhi che lanciavano saette, mi voltai verso di lei, incredulo.
“Stai…ridendo?” esclamai.
“Io…scusa,” balbettò, tra le risate. “È solo che è buffo.”
Alzai le sopracciglia.
“Ti sembra buffo che io voglia uccidere un mortale?” chiesi.
Annabeth mi accarezzò una guancia.
“È buffo perché non pensavo che potessi essere così geloso.”
“Io non sono geloso,” borbottai, incrociando le braccia.
Ero geloso marcio, lo sapevo benissimo.
Ero stato geloso marcio di Luke finché lei non aveva detto che lo considerava come un fratello e adesso ero geloso marcio di David.  Ma non l’avrei mai ammesso davanti a lei. Non l’avrei mai ammesso e basta.
“Oh. Be’, allora immagino che potrei chiedergli di passare con noi anche il pomeriggio...”
Annabeth fece per avviarsi nella direzione in cui lui era sparito, ma io le afferrai un braccio e la fulminai con lo sguardo.
“Non ci provare!”
Lei scoppiò di nuovo a ridere e mi avvolse le braccia attorno al collo.
Quella scena mi ricordò la sera del mio compleanno, quando avevo cercato di dirle che mi piaceva, ma avevo finito per fare la figura dell’idiota.
“Sei insopportabile,” mi lamentai.
“Te l’avevo detto che non ti avrei reso le cose facili, Testa d’Alghe.”
Quando mi baciò fu come se fosse la prima volta. Mi tremavano le mani e avevo come la sensazione di avere il cuore nello stomaco.
Le avvolsi i fianchi con le braccia e sentii i suoi capelli pizzicarmi le guance.
Sentii le sue labbra arricciarsi in un sorriso, mentre portava le mani prima sul mio collo e poi tra i miei capelli.
Ero completamente stordito e per la prima volta provai il desiderio di essere in una stanza da solo con lei. Non è un pensiero di cui vado molto fiero.
Dopo un po’ Annabeth si allontanò ed io appoggiai la fronte sulla sua. Avevo il fiatone.
“Ehi,” sussurrai. “Wow.”
Annbethmi guardò e sorrise, afferrandomi le mani.
Senza aggiungere altro ci incamminammo verso Central Park.
Quando c’ero stato quell’estate, il parco era pieno di gente addormentata ed io avevo appena scoperto che, nascosto da qualche parte tra gli alberi, c’era un ingresso per gli Inferi.
“Ho pensato alla profezia in questi giorni,” disse.
La cosa non mi stupiva affatto, il cervello di Annabeth non stava fermo un attimo, figuriamoci quando c’era un profezia in circolazione.
“E anche ai tuoi sogni,” continuò. “Ma non riesco a venirne a capo.”
Sospirai.
“Credi davvero che Chirone ci farà partire?”
“Ci hanno concesso un’impresa, devono farci partire,” rispose. “E poi Grover non si è fatto ancora vivo ed è passato davvero troppotempo dall’ultima volta che l’abbiamo sentito. Hai fatto qualche altro sogno su di lui?”
Scossi il capo. L’unico che mi era venuto a far visita in sogno in quei giorni era Nico Di Angelo, il figlio di Ade.
Non c’era niente di nuovo da dire, in realtà. Nico era sempre nella solita grotta umida e continuava a ripetermi le stesse cose. “È tornato umano. Vuole vendicarsi.”
“Sei davvero sicura di voler venire con me? Posso nominare qualcun altro...”
Annabethmi fulminò con lo sguardo. Avevamo già discusso del suo ruolo nell’impresa e lei aveva insistito per accompagnarmi. Nonostante tutto, speravo di farle cambiare idea. Ma avevo i miei dubbi.
“Ne abbiamo già parlato, Percy,” appunto. “Io verrò con te, che ti piaccia o no. E sappi che, se dovesse venirti la malsana idea di andartene senza di me, ti seguirò di nascosto!”
“Non c’è proprio modo per farti cambiare idea, vero?”
Annabeth scosse il capo con aria decisa. Non avrebbe mai rinunciato a combattere.
Sospirai, continuando a camminare per il parco.
“Hai pensato a chi potrebbe essere il terzo mezzosangue?” mi chiese dopo un po’.
Avevo pensato ad un sacco di gente a essere sincero. Poteva essere Talia – anche se ora faceva parte delle Cacciatrici di Artemide era sempre una semidea, no?- oppure poteva trattarsi di Clarisse o di uno dei fratelli Stoll. Poteva essere chiunque.
“Considerando ciò che è successo con l’ultima profezia, fossi in te non darei così per scontato che gli altri due mezzosangue siamo io e te.”
Annabeth sorrise.
“E chi ha parlato di te, Testa d’Alghe?” ridacchiò.
“Te l’ho già detto che non ti sopporto?”
Annabeth scoppiò a ridere.
Continuammo a camminare nel parco in silenzio. Annabeth mi fece qualche altra domanda sulla profezia, ma io non sapevo mai come risponderle.
Era quasi buio e stavamo tornando all’appartamento di Annabeth quando una ragazza ci spuntò davanti, correndo come una matta.
Aveva qualche foglia incastrata tra i lunghissimi capelli castani e gli occhi verdi erano spalancati e spaventati.
Ci guardò con aria terrorizzata e ci vollero diversi minuti per convincerla che non volevamo farle del male.
“Mi chiamo Claire,” disse, mentre si toglieva le foglie dai capelli.
Annabeth le fece alcune domande, ma Claire sembrava sapere solo come si chiamava, che si era persa e che mentre cercava la via di casa qualcosa aveva iniziato a seguirla.
“Non hai visto la cosa che ti seguiva?” io e Annabeth ci scambiammo uno sguardo.
Per quel che ne sapevamo poteva essere una mezzosangue inseguita da un mostro.
Claire scosse il capo.
“Mi dispiace,” gemette e pensai che fosse sul punto di piangere.
Le battei un’impacciata pacca sulla spalla e vidi Annabeth abbozzare un sorriso.
“Non importa,” la rassicurai. “Posso accompagnarti a casa, se vuoi.”
La ragazza annuì, pregandomi con lo sguardo.
Salutai Annabeth e Claire mi afferrò la mano, guidandomi attraverso il traffico di New York.
Camminammo per diversi minuti, finché lei non si fermò di fronte ad una sobria villetta dalle pareti grigio fumo.
“Sei stato davvero carino ad accompagnarmi,” mi sorrise.
Io abbozzai un sorriso, alzando le spalle.
“Non è stato un problema.”
All’improvviso, Claire tirò fuori un pennarello nero dai pantaloni e mi afferrò la mano. Girò il palmo verso di sé e mi scrisse un numero di telefono sulla pelle.
“Pensi che potresti avere voglia di uscire con me?”
Arrossii. Non mi era mai capitato di essere invitato a uscire da una ragazza. In realtà non mi era proprio mai capitato di piacere ad una ragazza – a parte Annabeth (anche se all’epoca non ero ancora convinto di piacerle sul serio) e Calipso (ma lei era...be’, non contava credo).
“Sei stato così gentile con me,” continuò, avvicinandosi. “Mi piacerebbe ringraziarti.”
Fece un altro passo verso di me e io arretrai. In quel momento non avevo idea di cosa sarebbe successo dopo.
Lentamente i capelli di Claire presero una disgustosa sfumatura giallo scuro, i suoi occhi si appannarono e la pelle cominciò a colare e a ricoprirsi di macchie verdognole.
“È scortese non accettare un invito a uscire, Percy Jackson,” sussurrò, la voce distorta.
Tirai fuori Vortice dalla tasca dei jeans e le tolsi il cappuccio. Claire lanciò una specie di fischio che rimbombò nel silenzio del quartiere.
Prima ancora che potessi puntarle la spada contro, però, Claire si disintegrò e Annabeth apparve nel buio col pugnale alzato.
“Ti ha chiesto di uscire!” esclamò, indignata.
Io feci per risponderle, ma poi notai lo zombie alle sue spalle.
“Attenta!” urlai, tirandola verso di me e affondando la spada nel petto del mostro.
“Cosa le avresti risposto?”
Altri zombie sbucarono dal buio ed io e Annabeth ci trovammo a combattere schiena contro schiena.
“Non mi sembra il momento di parlarne,” dissi, infilzando una ragazza-zombie.
Annabeth tagliò la testa di un ragazzo-zombie.
“Avresti accettato!”
“Certo che no,” un altro mostro divenne polvere.
Riuscimmo a fare fuori tutti gli zombie che arrivarono e alla fine cademmo seduti a terra, sudati e affannati.
“Dobbiamo dirlo a Chirone,” ansimai.
Annabeth annuì, mentre io rimettevo il cappuccio a Vortice.
“Domattina,” sussurrò lei. “Ci andiamo domattina.”
Se fosse dipeso da me ci sarei andato anche subito. Grover era sicuramente in pericolo e degli zombie si aggiravano per New York con l’intenzione di farci fuori, mi sembrava abbastanza urgente.
“Andare adesso sarebbe inutile,” disse Annabeth, come se mi avesse letto nel pensiero. “Se anche dicessimo subito a Chirone degli zombie non ci farebbe mai partire immediatamente.”
L’ho già detto che Annabeth ha sempre ragione?
“Va bene,” avevo ancora il fiato corto. “Ma tu stanotte dormi a casa mia.”
Annabeth cercò di protestare, ma io fui irremovibile. Non l’avrei lasciata dormire da sola all’appartamento con degli zombie in circolazione.
“So badare a me stessa, Testa d’Alghe,” sbuffò quando arrivammo sotto casa mia.
Le sorrisi.
“Lo so benissimo,” risposi. “Ma dormirai da me comunque.”
Mia madre quasi si mise a piangere quando le dissi che Annabeth si sarebbe fermata per la notte. Da quando stavamo insieme cercavo di non invitarla mai a casa – volevo evitare che mamma iniziasse discorsi stupidi su come ero carino da bambino (e sapevo che l’avrebbe fatto) – perciò quando se la vide davanti le venne quasi un colpo.
Subito dopo cena io e Annabeth ci rintanammo in camera mia, dove mia madre aveva sistemato un sacco a pelo.
“Ti lascio il letto,” le dissi, dirigendomi verso il sacco a pelo.
“Ma è il tuo letto!” protestò. “Sono abituata a dormire per terra, io..”
“Ti lascio il letto,” ripetei, rosso come un peperone.
Mi sentivo l’idiota del secolo, ma Annabeth sembrò capire che ero imbarazzato perché sorrise e s’infilò sotto alle lenzuola.
Spesi la luce e il buio ci avvolse. Rimanemmo in silenzio e sentii il cuore battere così forte che pensai che Annabeth potesse sentirlo.
“Ehm, allora buonanotte.”
Annabeth sbuffò e la sentii che si muoveva tra le lenzuola. Un secondo dopo mi stava baciando.
“Buonanotte, Testa d’Alghe.”
Sorrisi, osservandola che si risistemava sul letto. Poi chiusi gli occhi e, nonostante fino a cinque secondi prima avessi pensato di non essere affatto stanco, mi addormentai immediatamente. 



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Ecco qua il quarto capitolo! :)
Vorrei ringraziare chi ha letto e recensito i capitoli precedenti: davvero, grazie, grazie, grazie! 
Spero che anche questo sia di vostro gradimento. Mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate (se avete anche delle critiche, delle correzioni o delle precisazioni da fare, sarò felice di leggerle (: )
Ora che è ricominciata la scuola non so con che frequenza riuscirò ad aggiornare, spero di non farvi aspettare per mesi!
Di nuovo grazie mille a tutti, 
Emily. 

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Capitolo 5
*** Un amico ci viene a trovare ***


#5. Un amico ci viene a trovare

 
Ho già detto che i semidei sognano da schifo, vero?
Ovviamente, appena chiusi gli occhi, mi fece visita uno dei miei strani sogni.
Ero negli Inferi e la situazione non sembrava essere affatto sotto controllo. Le Praterie degli Asfodeli e i Campi della Pena erano praticamente deserti e tutti i morti in divisa che proteggevano il palazzo di Ade erano scomparsi.
Qualche segugio infernale gironzolava annusando l’erba secca dei prati, mentre le tre Furie svolazzavano da una parte all’altra – intravidi anche Alecto, la Furia che aveva il volto della mia ex professoressa di matematica, e mi sembrò quasi che mi stesse guardando.
L’immagine si spostò nell’Elisio, dove un sacco di gente avvolta da un’aura dorata passeggiava tranquillamente, ignara di ciò che accadeva nel resto dell’inferno.
Intravidi Ercole che parlava con una ragazza vicino a una fontana. Mi ci volle un po’ per riconoscerla, ma dopo qualche minuto mi accorsi che era Zoe Nightshade.
Avevo conosciuto Zoe un paio di anni prima, quando Artemide e Annabeth erano state rapite da Luke per sostenere il cielo al posto del Titano Atlante. Lei faceva parte delle Cacciatrici di Artemide e, all’inizio, pensai che fosse la ragazza più antipatica che avessi mai conosciuto. Non era vero, in realtà.
Zoe è stata una delle migliori ragazze che io abbia mai conosciuto.
Mi aveva raccontato lei stessa di aver avuto una storia con Ercole, secoli prima, e di averlo aiutato a rubare una mela dall’albero delle mele d’oro. Ed era stata lei a donare ad Ercole Anaklusmos (Vortice) la spada che Chirone mi aveva dato quando avevo scoperto di essere un semidio.
Mi avvicinai.
Visto da vicino, Ercole era molto più muscoloso, ma diverso da come l’avevo immaginato.
Era parecchio più alto di Zoe (anche se erano seduti la differenza d’altezza era lampante), aveva le spalle larghe, occhi azzurri, capelli biondi e i lineamenti duri.
Probabilmente per le ragazze doveva essere davvero molto bello.
Stavano parlando dei secoli che avevano passato senza vedersi e decisi di allontanarmi per non disturbarli.
L’Elisio sembrava una città greca. C’erano case bianche, colonne, padiglioni. I giardini pullulavano di anime a passeggio e ogni due o tre metri una fontana zampillava l’acqua più limpida che avessi mai visto.
Mentre curiosavo tra le vie, vidi Charlie Beckendorf e Silena Boureguard camminare mano nella mano. Ero felice che si fossero ritrovati, nonostante tutto.
C’erano anche molti altri dei ragazzi che erano morti durante la battaglia contro Crono e, sebbene vedere così tante facce amiche nell’aldilà mi stringesse il cuore, ero contento che si fossero meritati tutti l’Elisio.
Stavo passeggiando per uno dei giardini quando vidi l’ultima persona che mi aspettavo d’incontrare. Luke.
Sapevo che sarebbe finito nell’Elisio anche lui perché, dopotutto, era stato un eroe e aveva sacrificato la sua vita per salvarci tutti, ma non avevo pensato all’eventualità d’incontrarlo.
Luke se ne stava straiato all’ombra di un albero, con le mani incrociate dietro la testa e le gambe distese sull’erba.
Mi avvicinai e lui, all’improvviso, aprì gli occhi e mi guardò dritto in faccia.
“Stanno arrivando,” disse. Sembrava che mi vedesse. “Arrivano.”
 
Mi svegliai di soprassalto, con Annabeth che mi scuoteva per le spalle.
“Percy!” esclamò, vedendomi aprire gli occhi. “Stavi sognando.”
Annuii e mi misi a sedere sul pavimento, appoggiando la schiena contro il comodino. La testa mi scoppiava dal dolore e gli occhi spalancati di Luke ancora volteggiavano nella mia mente.
Raccontai ad Annabeth del sogno e la vidi inarcare le sopracciglia, confusa.
“Deserti, dici?”
“Quasi tutte le anime erano scomparse,” confermai. “Credo che i segugi e le Furie le stessero cercando perché andavano avanti e indietro per l’inferno come impazziti. E poi Luke ha detto quelle cose.”
Annabethmi guardò.
“Lui sta bene,” le dissi. Non me l’aveva chiesto, ma probabilmente voleva saperlo.
C’erano dei momento in cui mi sentivo ancora geloso di lui. Momenti come quello, per esempio.
Annabeth annuì.
Lanciai uno sguardo fuori dalla finestra: era mattino inoltrato.
“Dobbiamo andare al campo,” dissi, alzandomi dal sacco a pelo.
Non aspettai risposta da parte di Annabeth e mi chiusi in bagno. Non era il momento di arrabbiarsi per ciò che pensavo Annabeth provasse ancora per Luke, eppure avevo un diavolo per capello e mi servivano cinque minuti per calmarmi.
A regola non avrei dovuto preoccuparmi, Annabeth era la mia ragazza, Luke era morto e tanti saluti, ma non è così semplice quando pensi che la ragazza con cui stai provi ancora qualcosa per il suo migliore amico morto.
Magari provava qualcosa per entrambi, ma aveva scelto me perché io ero sopravvissuto e lui no. Non faceva una piega.
Quando tornai in camera, Annabeth era seduta sul letto con il berretto degli Yankee in mano.
Faceva un sacco di pieghe, invece.
“Annabeth..”
Lei mi fulminò con lo sguardo e balzò in piedi.
“Sei un idiota.”
“Mi dispiace,” sussurrai.
Annabeth non rispose, infilò il berretto degli Yankee nella tasca posteriore dei jeans e mi disse di chiamare i pegasi.
Sospirando aprii le finestre e lanciai un fischio acuto verso il cielo. Cinque minuti dopo Blackjack apparve fuori dalla mia finestra.
‘Buongiorno, capo!’ esclamò, nitrendo.
Io gli accarezzai il muso.
“Sei da solo?” chiesi, notando che non c’erano altri pegasi con lui.
Blackjack nitrì e mi spiegò che gli altri erano tutti occupati al campo: alcuni ragazzi li avevano usati per esercitarsi nel volo.
“Ce la fai a portarci tutti e due?”
‘Ma certo, capo!’ mi assicurò il cavallo.
Guardai Annabeth. Sembrava che ce l’avesse ancora con me, ma non protestò. Scavalcammo il davanzale e balzammo in groppa a Blackjack.
Il pegaso nitrì, spiccando il volo verso il cielo nuvoloso di New York.
 
Atterrammo al Campo Mezzosangue dieci minuti dopo.
I ragazzi che si erano fermati per l’inverno si stavano allenando con le spade o con il tiro con l’arco e alcuni, come aveva detto Blackjack, volteggiavano in groppa ai pegasi.
Ringraziai Blackjack per il passaggio e io e Annabeth ci avviammo verso la Casa Grande.
Il signor D era seduto in veranda e stava osservando suo figlio Polluce che camminava tra i campi di fragole.
“Johnson!” esclamò, vedendo me e Annabeth. “È mai possibile che devo averti sempre tra i piedi? Non ti ho dato una missione qualche settimana fa?”
Spiegammo al signor D che Chirone ci aveva autorizzato a partire solo durante le vacanze di Natale e che avevamo urgenza di vederlo.
“È dentro con quel ragazzino, Nico,” ci disse.
Io e Annabeth ci scambiammo uno sguardo ed entrammo in casa. Nella sala del ping-pong, Chirone e Nico stavano discutendo di quella che sembrava essere una questione parecchio importante.
Quando Nico mi vide si zittì e fece un cenno a Chirone che si voltò.
“Percy,” mi salutò. “Annabeth.”
Ricambiammo il saluto e prendemmo posto su due sedie libere.
“Mi hai visto?” mi chiese subito Nico. “In sogno.”
Annuii.
“Che succede, Nico?”
Il ragazzino abbassò lo sguardo. Sembrava più alto dall’ultima volta che l’avevo visto, ma indossava sempre i soliti pantaloni scuri, la maglietta con i teschi e un paio di braccialetti borchiati. Aveva la pelle pallida, i capelli neri e gli occhi segnati da profonde occhiaie.
“Si tratta delle anime,” spiegò. “Se ne sono andate.”
“Andate?!” esclamò Annabeth. “Come posso essersene andate? Le anime non possono scappare e sai meglio di me che per riportare in vita un morto ci vuole uno scambio.”
Nico annuì.
“Una vita per un’altra vita, lo so.”
L’anno prima, Nico aveva cercato di riportare in vita sua sorella Bianca, ma alla fine era stata Bianca stessa a dissuaderlo.
“Non lo so come ci sia riuscito,” disse. “Ma li ha riportati in vita. Papà dice che probabilmente ha usato la magia nera.”
Io mi mossi inquieto sulla sedia.
“Chi è questo lui?” chiesi. Non ero del tutto certo di volerlo sapere, quando facevo questo genere di domande la risposta era sempre pessima.
Nico guardò prima Annabeth e poi me. Chironelo incitò con lo sguardo.
“Minosse,” sospirò.
Avevamo incontrato il fantasma di Minosse l’anno prima, nel Labirinto di Dedalo. Il vecchio re voleva ritornare umano scambiando la propria vita con quella dell’architetto, per vendicarsi di come lui l’avesse ucciso facendosi aiutare dalle figlie del re Colcalo. Alla fine Dedalo era morto comunque, ma Minosse era rimasto un fantasma e il vecchio architetto era finito a costruire ponti nelle Praterie degli Asfodeli.
Minosse!?” esclamai.
Ricordavo anche che era stato il consigliere di Nico, per qualche tempo, e che l’aveva usato per cercare di tornare in vita. Gli aveva fatto credere di voler resuscitare Bianca e invece voleva resuscitare se stesso.
Nico annuì, grave.
“Quando le anime hanno iniziato a sparire, papà mi ha chiesto di capire cosa stava succedendo, così sono finito nella grotta del sogno e quando ho scoperto che c’era Minosse dietro a tutta questa storia ho cercato di contattarti.”
“Quegli zombie che abbiamo incontrato ieri sera allora…” guardai Annabeth.
Chirone si agitò sulla sedia a rotelle.
“Quali zombie?”
Gli raccontai di Claire e degli zombie che ci avevano attaccato a New York.
“Probabilmente fanno parte dell’esercito di Minosse,” disse Nico.
“Un esercito?!”
“Un esercito di morti viventi. Gli Inferi sono vuoti perché le anime sono state liberate.”
Annabeth mi guardò con preoccupazione, le mani strette sull’elsa del pugnale.
“Ma tuo padre non può fare niente?” chiesi. “È il dio della morte!”
Nico scosse il capo, abbassando lo sguardo.
“Abbiamo provato, ma Minosse è invulnerabile e gli dei non possono controllare la magia nera.”
Sospirai, prendendomi il volto tra le mani.
“Bagno nello Stige?”
Nico annuì con un sospiro.
“Fantastico!” esclamai. “C’è qualche altra bella notizia?”
Nessuno rispose.
Annabeth mi appoggiò una mano sul braccio, la rabbia di qualche minuto prima era scivolata via, lasciando il posto alla preoccupazione.
“Dobbiamo partire subito,” dissi, guardando Chirone.
Il centauro annuì. Lasciò la stanza dicendo che avrebbe mandato qualcuno a prendere Rachel e che saremo partiti nel primo pomeriggio.
“Forse dovresti venire con noi,” dissi a Nico.
Annabeth era andata a preparare gli zaini per il viaggio ed io e Nico eravamo rimasti soli nella sala del ping-pong.
Sapevo che portava male partire in quattro per un’impresa – ce l’aveva detto anche Chirone l’anno precedente, quando Annabeth aveva scelto me, Tyson e Grover per entrare nel Labirinto di Dedalo. “Tre è il numero perfetto”.
Però sentivo che Nico sarebbe dovuto partire con noi. E poi, l’anno prima alla fine non era morto nessuno, quanto poteva davveroportaresfortuna essere in quattro?
“Magari sei tu il terzo mezzosangue.”
Nico ci pensò su per qualche minuto, indeciso.
“Conosci Minosse,” lo incalzai. “Potresti esserci d’aiuto.”
“Va bene,” acconsentì. “Partirò con voi.”
Sorrisi e uscii dalla Casa Grande diretto verso il padiglione, dove i pochi mezzosangue rimasti al campo stavano per iniziare il pranzo.
Rachel ci raggiunse subito dopo aver mangiato e Chirone incaricò Argo di accompagnarci in città.
“Sapete come funziona,” disse, prima che superassimo i confini magici del campo. “Può accompagnarvi solo fino a Manhattan.”
Annuimmo.
Chironeci augurò la buona fortuna con un sorriso e mi strinse lievemente una spalla. Ricambiai il suo sorriso e poi raggiungemmo Argo ai piedi della collina. 


-
Salve a tutti! Ecco qua il nuovo capitolo!
Spero che sia di vostro gradimento :) Volevo ringraziare chi ha recensito i capitoli precedenti e chi ha messo la storia tra seguite/ricordate/preferite: grazie di cuore a tutti! :D
Be', fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo (ormai ve lo dico tutte le volte, ma le critiche sono ben accette!)
Un bacione a tutti, spero di aggiornare presto, 
Emily. 

PS. Ricordate sempre che una recensione al giorno toglie il medico di torno! ahahaha, okay, basta. Adieu! :) 

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Capitolo 6
*** Riceviamo un passaggio dal taxi degli dei ***


#6. Riceviamo un passaggio dal taxi degli dei

 
Argo ci lasciò davanti alla Grand Central Station e poi ripartì verso la Collina Mezzosangue.
La stazione era affollatissima e per poco non persi di vista Rachel e Nico.
“Allora, dove andiamo?” chiese Rachel, una volta dentro alla stazione.
La Grand Central Station è un edificio enorme, con i tabelloni con gli orari dei treni sempre in aggiornamento e le casse per comprare i biglietti sempre aperte.
Guardai Rachel.
“Io…io non lo so.”
Già, non avevo idea di dove fosse Grover. Per quel che ne sapevo poteva essere a Central Park come in Canada.
“Non possiamo andare alla cieca!” protestò Annabeth.
Aveva ragione, partire alla cieca sarebbe stato inutile.
“Non riesci a ricordare niente della foresta che hai visto nel sogno?” mi chiese Rachel.
Arricciai le labbra, cercando di concentrarmi sul sogno che avevo fatto su Grover qualche settimana prima.
“C’erano alberi alti e fitti, ma la foresta stava morendo a causa delle anime.”
“Ce n’è una a Nord,” disse. “Hanno chiamato mio padre qualche giorno fa per…be’, sai per cosa.”
Annuii. A Rachel non piaceva parlare del lavoro di suo padre, ma sia io che Annabeth sapevamo che si occupava di comprare terreni per costruirci sopra. E se c’era una foresta morente il cui territorio era sfruttabile per la costruzione di nuovi palazzi, il signor Dare lo sapeva sicuramente.
Mi avviai alla cassa per comprare i biglietti, quando Rachel mi afferrò per la manica del giubbotto.
“Andiamo in autobus,” disse. “Il treno non mi convince.”
“Cosa..?”
“Non lo so,” continuò. “Ma sento che c’è qualcosa che non va.”
“Va bene,” acconsentii, ritornando verso l’uscita. “Prendiamo l’autobus.”
Raggiungemmo la fermata dell’autobus più vicina in dieci minuti e prendemmo quattro biglietti che ci avrebbero portato a Portland, una città a nord di New York.
La strada era quasi deserta – fatto molto strano dato che ci trovavamo a New York – e non c’era nessuno ad aspettare l’autobus a parte noi.
La cosa m’insospettì parecchio ed anche Rachel sembrava piuttosto agitata.
Dopo diversi minuti di attesa, un autobus cigolante e incrostato di ruggine si fermò. Non c’era nessuno all’interno a parte l’autista e un paio di signore anziane sedute davanti.
Feci per alzarmi e salire, ma Rachel mi bloccò.
“Aspettiamo il prossimo,” ci disse.
La guardai. Stava fissando le due passeggere con gli occhi sgranati.
Il tizio al volante aspettò qualche minuto, poi ripartì.
“Cos’erano?” le chiesi, anche se credevo di sapere la risposta.
“Zombie.”
Nico si toccò un ciondolo di metallo che gli pendeva dal collo, mentre Annabeth mi guardò.
Rachel ci impedì di prendere anche i tre autobus seguenti e lentamente si fece tardo pomeriggio.
“Di questo passo non partiremo mai,” borbottò Annabeth, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e prendendosi il volto tra le mani con uno sbuffo.
“Se preferisci essere fatta fuori dagli zombie,” ribatté Rachel.
Annabeth la fulminò con lo sguardo, mentre Rachel si limitò a guardare dritto davanti a sé.
Nico sbuffò, incrociando le braccia al petto.
“Ehi, guardate!”
Io, Annabeth e Nico alzammo lo sguardo e guardammo il punto che Rachel stava indicando. Un taxi giallo emanava luce proprio davanti alla fermata dell’autobus.
Un tizio giovane, con i capelli castani e gli occhi chiari, si sporse dal finestrino con un sorriso.
“Vi serve un passaggio, ragazzi?” domandò, fischiettando.
Noi ci guardammo, interdetti.
“È uno zombie?” sussurrai all’orecchio di Rachel.
Lei scosse il capo.
“La foresta che cercate e su a nord,” disse il tassista, guardando Annabeth con una certa insistenza – non sapevo se essere infastidito o decisamente arrabbiato.
“Che ne sa lei di cosa stiamo cercando?” intervenne Nico bruscamente.
Il tassista gli fece l’occhiolino, picchettando le dita sul volante.
“Io so tutto quel che c’è da sapere,” rispose.
“E perché dovremmo fidarci?” continuò Nico.
Il tassista sospirò, recitando una poesia a bassa voce. C’era solo una persona che avrebbe potuto mettersi a fare rime in quel momento, ma era impossibile che si trattasse di lui. Va bene, forse era solo fortemente improbabile.
“Sono un tassista di New York che vi offre un passaggio, perché non dovreste fidarvi?” ribatté. “Senza contare che non potrei mai permettere a due ragazze così carine di andarsene in giro per l’America su un autobus.”
Va bene, era solo poco probabile.
“Lei è-”
Apollo mi fece cenno di stare zitto e poi mi strizzò l’occhio.
“Vedo che accettate il mio passaggio!” esclamò. “Molto bene!”
“Noi non abbiamo accettato proprio un bel-” provò a protestare Nico, ma io lo zittii.
“Invece accettiamo,” dissi, guardando mio cugino. “È…affidabile, fidatevi di me,” mi giustificai, precedendoli dentro al taxi.
Il dio Apollo mi aveva voluto bene, ma la dea della fortuna, chiunque fosse, doveva odiarmi in maniera particolare.
A Nico toccò il posto davanti, di conseguenza io, Annabeth e Rachel ci sedemmo sul sedile posteriore. Dipinta così la situazione non ha nulla di strano, solo tre semidei, una mortale e un dio che si fanno un giro su un taxi newyorkese. Il punto è che Nico aveva l’espressione più diffidente che gli avevo mai visto, Apollo continuava a sussurrare frasi in rima ed io ero seduto tra Annabeth e Rachel. In mezzo a loro, non so se rendo bene l’idea.
Insomma, quel viaggio in taxi fu un vero inferno.
Annabeth mi tenne per mano tutto il tempo e sarebbe stata anche una cosa piacevole, se Rachel non ci avesse fissato con lo stesso sguardo di qualcuno a cui è appena morto il cane.
“Sai, Percy,” mi disse, “mi piacerebbe tornare in quel posto dove andavate tu e tua madre quando eri piccolo.”
“Montauk?”
Rachel annuì.
Avevo portato Rachel a Montauk all’inizio di quell’estate, quando mi stavo esercitando a guidare con la macchina di Paul. In quel periodo pensavo che Rachel mi piacesse, perciò l’avevo portata lì.
Montauk era in assoluto uno dei posti che preferivo. Era il posto mio e di mamma, e anche di papà, ovviamente.
La volta che ci portai Rachel le cose non finirono poi troppo bene. Rifiutai il suo invito a St. Thomas, lei face delle strane allusioni su due ragazzi che si piacevano e su quanto ci avrebbe messo il ragazzo per baciare la ragazza e poi, quando Charlie Beckendorf atterrò sul cofano della Prius di Paul, mi dette un bacio.
Annabeth non è ovviamente a conoscenza di questa parte della storia.
“Magari possiamo tornarci tutti insieme,” proposi, voltandomi verso Annabeth. “Quando sarà tutto finito e avremo finalmente delle vite normali.”
Annabeth mi sorrise, stringendo lievemente la mia mano.
“Sai che non avremo mai delle vite normali,” mi fece notare.
“Invece è una bella idea,” ribatté Rachel. C’erano dei momenti in cui pensavo che si contraddicessero solo per il gusto di non darsi ragione. “Non importa se le nostre vite non saranno mai normali e se ci sarà sempre qualche guerra da combattere, possiamo essere felici lo stesso.”
Io sorrisi.
“Nei momenti di tregua,” aggiunsi.
“La ragazzina ha ragione,” commentò Apollo. “Mi chiedo perché non hai voluto essere l’Oracolo, saresti stata perfetta!”
Mi voltai di scatto verso Annabeth. Sapevo che dopo ciò che aveva detto Apollo lei avrebbe capito subito chi era il nostro amico tassista, infatti riuscii quasi a vedere le rotelle del suo cervello mettersi in moto.
“Lei è-”
Apollo sbuffò.
“E va bene!” esclamò. “Apollo, dio del sole, della poesia e il datore di lavoro di quel piantagrane dell’Oracolo di Delfi.”
Nico si girò di scatto verso di lui e anche Rachel spalancò gli occhi.
“Però gradirei che non faceste il mio nome,” continuò. “Non ci è permesso interferire con le vostre imprese, piccoli eroi, e non vorrei essere fulminato. Voglio dire, sono troppo bello per essere fulminato.”
Noi lo guardammo con scetticismo.
“Soprattutto non ditelo a Ze…” alzò gli occhi verso il cielo e deglutì. “Insomma, quello là sopra. È molto suscettibile.”
“Oh, l’abbiamo notato,” commentai.
Apollo tornò a concentrarsi sulla giuda, Nico iniziò a giocherellare con il ciondolo che gli pendeva dal collo e Rachel spostò lo sguardo fuori dal finestrino.
“Quindi, le hai fatto fare un giro in macchina,” sussurrò Annabeth diversi minuti dopo.
Io mi voltai a guardare Rachel: si era addormentata con la testa appoggiata al finestrino.
“È successo un sacco di tempo fa,” mi giustificai. “Non è che noi eravamo…sì, insomma…”
“Ho sempre pensato che fosse molto carina,” continuò Annabeth, ignorandomi.
Non sembrava arrabbiata, però.
“Be’, sì, è carina,” l’attimo dopo mi chiesi cosa avessi fatto di male per essere tanto stupido. Annabeth non aveva tutti i torti a chiamarmi Testa d’Alghe, probabilmente avevo quelle al posto del cervello.
Per un attimo pensai che mi avrebbe mollato un pugno, invece non disse nulla, si limitò ad appoggiare la testa sulla mia spalla e a chiudere gli occhi.
La guardai, aspettando che dicesse qualcosa, ma si era addormentata.
Sorrisi, afferrandole la mano e avvicinandomi al suo orecchio.
“Tu sei bella sul serio, invece,” le sussurrai, arrossendo.
Mi guardai intorno per essere certo che gli altri non mi avessero sentito e poi mi sedetti di nuovo con la schiena dritta.
Annabeth sorrise e poi mi sussurrò: “Grazie, Testa d’Alghe.”
 
Quando mi svegliai l’orologio segnava le sei del pomeriggio. Annabeth dormiva ancora con il capo appoggiato alla mia spalla, mentre Rachel stava parlottando con Nico. Sembravano andare d’accordo.
“Dove siamo?” chiesi, con la voce impastata.
Raddrizzai la schiena, cercando di non svegliare Annabeth, e guardai Apollo.
“Mancano ancora due ore di viaggio,” disse il dio. “Ma dobbiamo fermarci per la notte.”
“Lei è un dio, non ha bisogno di dormire!” esclamai.
“Già,” confermò Apollo. “Ma tra un’ora dovrò far tramontare il sole e domattina dovrò farlo sorgere. Non è che io lo porti in giro personalmente, però…”
Cercai di protestare, ma Apollo mi zittì.
“Vedila così: se io non mi faccio vedere all’alba e al tramonto, quello là, scoprirà che vi sto aiutando e mi fulminerà.”
“Ma lei è immortale,” gli feci notare. “Non può morire.”
Apollo mi fulminò.
“Già. Ma sai quanto è fastidiosa una fulminata?! Ti lascia il prurito per secoli!”
Io non replicai, abbassando lo sguardo su Annabeth che si stava svegliando.
“C’è un Bed&Breakfast oltre quella curva,” ci disse il dio tassista. “Vi lascerò lì e tornerò a prendervi domattina. Potete pagare con le dracme, la proprietaria…” Apollo arrossì. “Be’, è una mia vecchia amica.”
Spiegai brevemente ad Annabeth ciò che era successo mentre lei dormiva, mentre Apollo svoltava la curva e si fermava di fronte ad un piccolo edificio di mattoni.
Sentendo il rumore dei freni, una ragazza dai lunghi capelli rossi stretti in una treccia si precipitò fuori, pulendosi le mani sul grembiule che portava legato in vita.
Quando incrociò lo sguardo di Apollo, arrossirono entrambi.
“Ci vediamo domattina dopo il sorgere del sole,” ci disse, allontanando lo sguardo da quello della ragazza. “E non cacciatevi nei guai. È assurdo che lo stia dicendo proprio io. Insomma, fate i bravi,” concluse, riaccendendo la macchina.
Quando sentii il motore rombare chiusi gli occhi, perché sapevo che Apollo stava per prendere le sue vere sembianze divine e sapevo anche che guardare in dio in un momento del genere voleva dire rimetterci la pelle.
Quando li riaprii, Apollo era sparito, c’eravamo solo noi e la ragazza dai capelli rossi.
Ci voltammo verso di lei e la ragazza ci sorrise.
“Ci servirebbe una stanza per la notte,” dissi.
“Ma certo,” il suo sorriso si ampliò ed i suoi occhi azzurri s’illuminarono. Era davvero bellissima. “Benvenuti. Il mio nome è Dafne.”



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Buonsalve a tutti! :)
Come al solito, ecco arrivato il blablabla time. Non ho da dire niente di diverso dal solito, cioè che spero che questo capitolo  vi sia piaciuto e che se aveste qualunque critica da farmi esponetela tranquillamente :)
La parte più importante del blablabla time sono i ringraziamenti, che oggi vanno a:
Nocciolina puff, Ginevra Gwen White e gademo per aver recensito il capitolo precedente
bulmettina, cosmopolitan e di nuovo i sopracitati per aver messo la storia tra le preferite
Ashlelyly 95, beautifulday, darksky98, Daughter of Poseidon, Fred_Deeks_Ben, gademo (again!), GretaJackson16, lettoreaccanito e Nanetta4ever per averla messa tra le seguite
Grazie a tutti, davvero, il vostro supporto per me conta tantissimo. 
Siccome è la mia prima long su PJ e la prima che scrivo con una tematica fantasy ci tengo molto e mi fa piacere sapere che qualcuno apprezza il mio lavoro. 
Be', niente, al prossimo capitolo gente! Lettori, fatevi sentire, mi raccomando! :)
Un bacio a tutti, 
Emily. 

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Capitolo 7
*** Mi vogliono uccidere ***


#7. Mi vogliono uccidere

 
All’interno, il Bed&Breakfast di Dafne era molto più carino di quel che sembrava guardandolo da fuori.
Delle tendine gialle incorniciavano le finestre, mentre lo spazio era suddiviso in due parti. A destra c’era la reception e a sinistra il bar per fare colazione. Tra le due stanze c’erano le scale che conducevano al piano di sopra.
La ragazza ci accompagnò fino alla nostra stanza e ci disse che ci avrebbe chiamato lei per la cena.
Con un sospiro, mi buttai su uno dei letti.
“Credete davvero che possiamo fidarci?” domandò Nico, facendo cigolare un materasso sotto al suo peso.
“È Apollo che ci ha mandato qui,” ribatté Annabeth.
La vidi con la coda dell’occhio che guardava Rachel, come se si aspettasse che lei confermasse ciò che aveva appena detto.
“Non ci sono mostri, è tutto normale,” disse Rachel.
Era la prima volta che le vedevo davvero collaborare.
Mi passai una mano sul viso e sentii Annabeth che mi accarezzava i capelli. Di solito non era così…affettuosa. Quando la guardai, però, notai il suo sguardo preoccupato.
Qualche ora dopo Dafne venne a chiamarci per la cena.
Ci condusse in una piccola stanza occupata da tondeggianti tavolinetti di legno a tre gambe. Un paio di essi erano stati apparecchiati, mentre tutti gli altri erano ricoperti da un sottile strato di polvere.
“Tu sei quella del mito?” domandò a un certo punto Rachel, guardando Dafne.
Io, Nico e Annabeth ci voltammo verso la proprietaria che arrossì.
Ormai per me non era più una novità incontrare le persone di cui parlavano i miti, ci avevo fatto l’abitudine, però non riuscivo a ricordare la storia di Dafne.
Mi avvicinai ad Annabeth con aria interrogativa.
“Chi sarebbe lei di preciso?”
Sperai che non mi sentisse, ma Dafne spostò lo sguardo su di me.
“Il mito di Dafne e Apollo,” rispose Annabeth, senza neanche prendersi la briga di parlare piano. “Dei, Percy, davvero non lo conosci? C’è una bellissima statua del 1600 su di loro! È di marmo ed è alta duecento quarantatré centimetri e-”
“Ho capito,” la interruppi, prima che cominciasse a sparare dati come un computer. “E cosa dice il mito?”
Annabeth guardò brevemente Dafne che annuì con un sorriso.
“Be’, ci sono varie versioni della storia,” iniziò, rivolgendosi a noi. Rachel conosceva già il mito, a quanto sembrava, ma io e Nico guardavamo Annabeth con curiosità. “Alcuni miti dicono che Cupido, per vendetta, fece innamorare Apollo di Dafne senza essere ricambiato. Così, quando Apollo si dichiarò a lei, lei lo rifiutò. Apollo, però, le corse dietro e lei, invocando gli dei, si trasformò in un albero di alloro,” disse, guardando la ragazza. “Altre storie dicono che un giovane mortale si fosse travestito da donna per avvicinarsi a Dafne. Apollo lo smascherò e poi si dichiarò alla giovane che lo rifiutò. Allora il dio tentò di rapire Dafne, ma lei riuscì a fuggire e durante la fuga pregò Zeus affinché la trasformasse in un albero di alloro,” concluse.
Dafne se ne stava con lo sguardo rivolto verso le ginocchia.
“Quindi,” dissi, voltandomi verso di lei, “tu adesso dovresti essere un albero.”
Lentamente, Dafne alzò il viso e mi puntò gli occhi addosso. Aveva dei profondi occhi blu che non avevo notato prima. Per certi versi avrei detto che mi ricordava qualcuno.
Quando mi guardò fu come infilare le dita nella presa della corrente – non che io avessi mai fatto una cosa così stupida, ma penso che sia un paragone azzeccato.
La ragazza mi sorrise e delle piccole fossette le scavarono le guance; un altro dettaglio a cui non avevo fatto caso.
Improvvisamente, mi resi conto che non riuscivo a smettere di guardarla.
“Vedi, Percy, non tutti i miti raccontano sempre la verità,” disse con tono dolce. “Nel mio caso, Zeus ha fatto in modo che le persone sapessero quello che voleva lui.”
Ero totalmente rapito. Accanto a me c’era Annabeth, la ragazza che avevo sudato sette camice per conquistare, e io pendevo dalle labbra di Dafne.
“E..e cosa è successo davvero?” domandai. Sentivo la gola secca e mi riusciva perfino difficile mettere insieme due parole.
Era una sensazione che avevo già provato, ma non riuscivo a ricordare quando.
Dafne mi sorrise.
“All’epoca io e Apollo eravamo molto innamorati,” iniziò a raccontare. “Ma Zeus non aveva mai visto di buon occhio la nostra relazione. All’inizio credo che abbia pensato che fosse una cosa passeggiera, perciò per un po’ ci lasciò fare, poi, quando Apollo gli disse che voleva rinunciare all’immortalità per sposarmi, si scatenò il putiferio.”
Immaginai il dio Apollo che comunicava a Zeus la sua decisione di rinunciare al suo ruolo divino per una mortale. Probabilmente le fulminate a cui aveva accennato in macchina si riferivano a quel momento.
“Litigarono furiosamente e non vi dico cosa successe sulla terra!” immaginai che la cosa fosse andata molto vicina a ciò che era successo cinque anni prima, quando Zeus e mio padre stavano per entrare in guerra. “Alla fine, Zeus minacciò di trasformarmi in un albero di alloro e Apollo cedette, promettendo che non mi avrebbe mai più rivisto. Ovviamente, il vecchio Zeus sa il fatto suo, perciò mi ha rinchiuso qui e ha fatto in modo che io non me ne possa mai andare.”
La storia di Dafne mi fece pensare a Calipso, anche lei obbligata a stare in un posto per volere di un dio.
“È una storia molto triste,” commentò Rachel, appoggiando le braccia sul tavolo e posandoci il volto.
“Be’, mi stupisce che Zeus si sia presto tanto disturbo,” intervenne Annabeth, pensosa. Come al solito il suo cervello stava macinando idee. “Voglio dire, mortali e dei... succede quasi tutti i giorni! E Apollo non è neanche il primo che ha chiesto di diventare mortale.”
La guardai, stupito. Non le chiesi come facesse a saperlo né chi fossero gli dei che avevano espresso il desiderio di rinunciare all’immortalità: lei era Annabeth, sapeva queste cose e basta.
Mi voltai di nuovo verso Dafne e lei mi guardò di nuovo negli occhi. E di nuovo non riuscii a staccare lo sguardo da lei.
“Annabeth ha ragione,” disse. “Ma il nostro amore era ben più proibito del matrimonio tra un dio e un mortale.”
“Cosa intendi?” intervenne Nico per la prima volta, con aria sospettosa.
Per un secondo mi chiesi se Dafne non facesse lo stesso effetto anche a lui, ma non mi sembrava intontito o cose del genere.
“Io sono una mezzosangue. Mia madre è la dea Afrodite.”
Sentii la mascella staccarsi e cadere da qualche parte sul pavimento.
“A-Afrodite?” balbettai.
Dafne annuì, sorridendo.
Mi ci volle qualche minuto per assimilare la notizia, ma almeno adesso le mie sensazioni avevano un senso.
Devo ammettere, però, che non mi era mai capitato di sentirmi così intontito di fronte a una figlia di Afrodite – e ne avevo conosciute tante.
“Una mezzosangue e un dio?” esclamò Annabeth. “È…è….”
“Impossibile,” concluse per lei Dafne. “Già…”
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, ognuno a pensare ai fatti suoi.
Poi Dafne si alzò e ci rivolse un sorriso luminoso. Penso che se fossi stato in piedi le mie gambe sarebbero state di gelatina.
“Vi porto della cioccolata calda, vi va?” Annuimmo e Dafne sparì in cucina.
Rimasi a fissare il punto in cui era sparita per qualche secondo, finché qualcuno non mi strattonò il braccio.
“Togliti quell’espressione da pesce lesso dalla faccia, Testa d’Alghe,” era la voce di Annabeth. La voce altamente irritata di Annabeth, per essere precisi.
Io scossi il capo, come se quel semplice gesto potesse bastare per scacciare via lo stordimento, e mi girai verso i miei amici.
“E pulisciti la bava dalla bocca,” aggiunse Rachel con acidità.
Guardai Nico in cerca di sostegno – non so esattamente cosa mi aspettassi da lui, magari che mi difendesse dicendo che anche a lui Dafne aveva fatto lo stesso effetto -ma il figlio di Ade si stava tranquillamente facendo i cavoli suoi.
“Tu non…?” chiesi, guardandolo.
Nico alzò lo sguardo su di me.
“Io non cosa?”
Deglutii, se mi avesse contraddetto avrei potuto dire addio alla mia testa semidivina.
“Lui non cosa, Percy?” gli fece eco Annabeth, sfidandomi con lo sguardo a dire quello che sapeva avrei detto.
Era imbarazzante, un po’ perché lei mi fissava come se volesse sbranarmi e Rachel sembrava pronta a prendermi a mazzate in testa, un po’ perché Nico sembrava davvero non avere idea di cosa io volessi chiedergli.
“Ecco qua!” esclamò Dafne, salvandomi per un pelo.
Appena entrò, Annabeth mi afferrò la mano e Rachel si affrettò a spostarsi dal suo posto per venire a sedersi accanto a me e potermi prendere sottobraccio.
Vidi le due ragazze lanciarsi uno sguardo fulminante e mi voltai a guardare Dafne, abbozzando un sorriso imbarazzato.
“Ehm,” esordii dopo qualche minuto, quando tutti stavano bevendo la loro cioccolata tranne me. “Non posso prendere la tazza,” dissi, facendo cenno ad Annabeth che mi stringeva una mano e a Rachel che, essendo attaccata al mio braccio, mi impediva di usare anche l’altra.
Annabeth e Rachel si guardarono, invitandosi con gli occhi a lasciarmi andare.
Alla fine, tolsi delicatamente il braccio dalle mani di Rachel e la mano dalle dita di Annabeth, afferrando la tazza con entrambe le mani.
Se gli sguardi avessero avuto un qualunque potere omicida, a quest’ora io non starei raccontando questa storia, perché sarei già diventato cenere per mostri da un pezzo.
“Come mai vi ha portato qui?” chiese Dafne, evitando accuratamente di dire il nome di Apollo. Dovevano essere ancora molto innamorati, era evidente.
Feci per parlare, ma Annabeth mi tolse le parole di bocca.
“Siamo in missione,” disse. “Dobbiamo cercare un amico scomparso.”
“Oh, siete tutti dei semidei?”
Aprii bocca, ma Rachel mi precedette.
“No, io sono una mortale,” rispose. “Be’, più o meno…”
“In che senso?”
“È la predestinata a ospitare l’Oracolo di Delfi,” disse Annabeth prima che io potessi anche solo avere l’intenzione di rispondere. “Però non ha accettato.”
“Già, preferivo essere una normale,” aggiunse Rachel.
Annabeth la guardò male, ma non riuscii a capire il perché del suo sguardo. Anche se, devo dire che non ho mai capito niente sul perché dei comportamenti di quelle due.
“È una cosa seria? Quella che riguarda il vostro amico, intendo?” domandò Dafne.
“Non seria come Crono,” riuscii finalmente a dire. “Diciamo che è più…un brutto presentimento,” mi voltai verso Nico.
Il ragazzino ricambiò il mio sguardo, ma non disse niente.
“Capisco,” commentò Dafne. Io abbozzai un sorriso gentile.
Annabeth mi piantò una gomitata nello stomaco che mi soffocò per qualche secondo, ma cercai di non darlo a vedere.
“Viene molta gente qui?” domandai.
Dafne si strinse nelle spalle. “Molti autisti che si fermano per una sosta, ma nessuno rimane mai per la notte.”
La guardai in viso, mi sentivo un verme totale, ma in quel momento mi sembrò che gli altri non ci fossero più. Eravamo solo io e lei.
“Non ti senti mai sola?”
Dafne sorrise, alzandosi e prendendo le nostre tazze vuote.
“Oh, sì. È triste essere bloccati in un posto per migliaia di anni.”
Il mio sguardo e quello di Dafne s’incontrarono.
Annabeth e Rachel scattarono in piedi.
“È meglio se andiamo a letto adesso,” disse Rachel, guardandomi.
“Dobbiamo pensare a cosa fare quando arriveremo nella foresta domani,” aggiunse Annabeth, afferrandomi un braccio e tirando in piedi anche me.
Entrambe le ragazze sorrisero a Dafne che, dopo averci dato la buonanotte, sparì in cucina.
Con un diavolo per capello, Annabeth e Rachel mi trascinarono fino in camera, seguite da un silenzioso Nico. Almeno lui si comportava come al solito.
“Annabeth, cosa c’è?” le chiesi, quando si chiuse la porta alle spalle con così tanta forza da farci quasi crollare l’edificio addosso. Va bene, dite pure che sono un ritardato, ma io non avevo idea del perché fosse così arrabbiata.
Ovviamente, Annabeth non prese molto bene la mia domanda, perché si voltò verso di me con la stessa faccia di un Minotauro arrabbiato. E ve lo dico per esperienza, i Minotauri arrabbiati dovete proprio evitarli.
“Ma ti sei visto?” esclamò, puntandomi l’indice contro il petto. “Dei, la seguivi come un cagnolino!”
Arrossii.
“Io…non è vero!” protestai.
Annabeth si appoggiò le mani sui fianchi e mi guardò inarcando un sopracciglio.
“Sono solo stato cortese,” continuai, ben deciso a difendermi. “Lei è stata gentile a ospitarci e poi è così sola, poverina…”
Il sopracciglio di Annabeth si alzò come preda di un tic nervoso.
“Io ti ammazzo,” mormorò, stringendo i pugni. “Percy Jackson, io ti ammazzo!”
Un attimo dopo mi stava picchiando. Intendo proprio picchiando, picchiando.
Cercai di afferrarle le mani, ma mi tirava così tanti pugni che era impossibile afferrarle, allora provai almeno a proteggermi la testa con le braccia.
Per Nico e Rachel che ci guardavano, sarà stata una scena comica immagino, ma fidatevi, non c’era niente di divertente.
Quando, finalmente, riuscii ad afferrarle i polsi e a fermarla, arretrai di un paio di passi, tanto per essere sicuro.
“Io non capisco qual è il tuo problema,” le dissi, più dolcemente possibile.
Annabeth fissò i suoi occhi nei miei e mi accorsi che aveva paura. Glielo lessi chiaro e tondo nello sguardo.
“Che guardavi Dafne come se volessi mangiartela,” rispose Rachel, guardandomi male.
Annabeth si voltò verso di lei con un ringhio.
“Tu stanne fuori!”
In altre circostanze si sarebbero messe a battibeccare, ma Rachel dovette capire che non era aria, perciò afferrò Nico per il braccio e lo trascinò verso i due letti in fondo alla stanza, dileguandosi sotto alle coperte.
Annabeth si divincolò dalla presa delle mie mani.
Non disse altro e andò a nascondersi tra le coperte di uno dei due letti rimasti.
Dopo pochi secondi la raggiunsi, sistemandomi nel letto accanto al suo.
“Vuoi spiegarmi che è successo?” le chiesi dopo diversi minuti, quando fui sicuro che Rachel e Nico stessero dormendo.
Lì per lì, Annabeth non rispose, poi vidi il suo viso fare capolino dalle lenzuola.
“Sei un cretino, Testa d’Alghe.”
“Per Ade, cosa ho fatto, si può sapere?”
Annabeth mi fulminò con lo sguardo.
“Davvero non ci arrivi da solo?!”
Ci riflettei. Il fatto era che sapevo di aver esagerato con Dafne; non avevo rivolto la parola ad Annabeth per quasi tutta la cena. Era solo che mi faceva sentire così male essermi comportato così che preferivo fare finta che non fosse successo e basta.
Poi mi venne in mente cosa avevo provato quando Annabeth aveva invitato David a pranzare con noi, il modo in cui la guardava e come lei sembrava avere occhi solo per lui e tutte le cose che diceva sull’architettura.
Mi ero sentito messo da parte e avevo dubitato dei sentimenti di Annabeth, ecco come.
“Mi dispiace,” sussurrai, allungando una mano verso il letto di Annabeth per cercare la sua. “Sono un idiota, davvero, scusami.”
“Non te ne sei davvero reso conto?” domandò lei, raggiungendo la mia mano.
Sorrisi mentre la stringevo.
“Un po’ sì, ma era come se non riuscissi a fare a meno di comportarmi in quel modo,” le spiegai. “Quando mi guardava negli occhi, era come se….”
“Come se tu non fossi più padrone di quel che dicevi o facevi,” completò Annabeth, scuotendo il capo e sorridendo tra sé. “Afrodite e i suoi regalini.”
Io la guardai con aria interrogativa.
“Con le figlie di Afrodite del campo non mi è mai successo.”
“Dafne è nata migliaia di anni fa, all’epoca gli dei facevano un sacco di regali ai loro figli mortali. E Afrodite regalava alle sue figlie la capacità di ammaliare tutti gli uomini.”
“Oh,” sospirai. “Ma allora perché Nico si è comportato come al solito?”
Annabeth alzò le spalle.
“Forse perché non l’ha guardata negli occhi,” rispose.
“Aspetta, non lo sai,” dissi, guardandola con un mezzo sorriso sulle labbra. Annabeth arrossì. “Non lo sai!” esclamai, puntandole un dito contro. “Tu non sai qualcosa!”
Annabeth sbuffò, lasciando la mia mano e rintanandosi di nuovo tra le coperte.
“Guarda che sono ancora in tempo per ammazzarti,” mi minacciò.
Io sorrisi e, dopo averle lasciato una carezza tra i capelli, mi addormentai. 




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Allors, buonasera a tutti! :)
Ho solo un paio di precisazioni da fare e poi passiamo ai ringraziamenti! Le due 'versioni' del mito di Dafne le ho prese da wikipedia, quindi, per coloro che non conoscono la storia possono andare a leggersele là (anche se per il web il mito di Dafne e Apollo lo trovate un po' da per tutto :D). Se ci siano dei che hanno pensato di diventare mortali per amore non lo so, quindi potrei averlo inventato di sana pianta, ma era utile ai fini della storia. Anche le questione 'gli dei facevano tanti regali ai loro figli mortali all'epoca degli antichi greci' non so se sia vera o meno, alcune reminescenze di ciò che ho studiato a scuola e dei cartoni animati che guardavo da piccola (Pollon & Co.) mi hanno fatto pensare di sì, ma la mia memoria potrebbe benissimo avermi mentito spudoratamente. Perciò non fate troppo affidamento su queste due informazioni, mi erano semplicemnete utili ai fini della storia, è per questo che le ho inserite.
Benebenebene, thanking corner!
Come sempre, un grazie granderrimo a chi ha recensito il capitolo precedente: Nocciolina puff, gademo e Dandelion to dream
Un altro grazie enorme va a chi ha messo la storia tra le seguite: Alyssia98, Ashleyily95, beautifulday, darksky98, Daughter of Poseidon, Fred_Deeks_Ben, gademo, GretaJackson16, lettoreaccanito e Nanetta4ever
E infine le sette anime che l'hanno messa tra i preferiti: BiBi96, bulmettina, cosmopolitan, gademo, Ginevra Gwen White, Nocciolina puff e Stella_Skys
Davvero mille, mille grazie, non potete neanche immaginare quanto il vostro supporto sia importante per me :3
Mi farebbe piacere che anche gli altri lettori facessero sentire un po' di più la loro voce. Non sono espertissima in questo fandom e vorrei davvero che chi è più esperto di me si sentisse libero di correggermi, darmi consigli. 'Questo personaggio deve essere più così, meno cosà', 'questa cosa deve essere perfezionata'... tutto quello che volete, siate spietati! Sul serio, sono qui per imparare e migliorarmi :)
Di nuovo grazie a tutti ragazzi, spero che questo capitolo non vi deluda. 
A prestissimo (spero), 
Emily. 

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Capitolo 8
*** Ci diamo al campeggio ***


#8. Ci diamo al campeggio

 
Il mattino seguente Apollo ci aspettava fuori dal Bed&Breakfast con lo stesso taxi giallo con cui ci aveva accompagnati.
“Grazie per l’ospitalità,” ringraziai Dafne con un sorriso.
Annabeth e Rachel mi guardarono male e credo che abbiano pensato di uccidere la ragazza quando si chinò verso di me, dandomi un bacio sulla fronte. Devo ammettere che sentii il cuore accelerare leggermente e arrossii.
Le due ragazze mi trascinarono verso il taxi con poca delicatezza, rivolgendo comunque un gesto di saluto verso la ragazza che ci aveva ospitato quella notte.
“Allora, vi siete comportati bene, vero?” chiese Apollo, quando salimmo sull’auto.
Lanciò uno sguardo a Dafne e le sorrise, poi partì.
“Lei è certo di sapere dove portarci?” chiesi al dio, mentre sfrecciava sull’autostrada.
“Ma certo che lo sono!” ribatté. “Chiedi alla tua amica Rachel, ti dirà che è la strada giusta.”
Mi voltai a guardare Rachel che, come il giorno prima, stava guardando fuori dal finestrino.
Le scossi una spalla e lei sobbalzò, voltandosi. Le rigirai la domanda che avevo fatto ad Apollo.
“Sì,” rispose, guardando la strada con la coda dell’occhio.
“Come fai a esserne sicura?” domandò Annabeth.
Rachel la fulminò con lo sguardo e io sperai con tutto me stesso che non iniziassero a discutere come al solito.
“Lo so e basta,” rispose, incrociando le braccia al petto e tornando a guardare fuori.
Qualche ora dopo, Apollo accostò in una zona di sosta lungo la strada.
“Eccoci qua!” esclamò, voltandosi verso di noi con un sorriso. “Non posso portarvi oltre. Credo di avervi aiutati anche troppo!”
Io sorrisi al dio. A parte quella sua fissazione con la poesia, non era poi tanto male.
“Grazie, divino Apollo,” dissi, mentre Rachel scendeva dal taxi.
Apollo mi fece un cenno col capo prima di ripartire e poi sparì oltre una curva.
Io, Annabeth, Nico e Rachel ci guardammo intorno.
Alle nostre spalle si estendeva una fitta foresta che mi ricordò quella del mio sogno – anche se non avevo visto molto oltre a Grover che fuggiva ed un tizio strano che andava in giro con dei fantasmi.
“E ora? Che si fa?” domandò Rachel.
“Andiamo nella foresta,” rispose Annabeth. “Cosa ci siamo venuti a fare qui, se no?”
“Questo l’avevo capito. Sono mortale non stupida,” ribatté Rachel. “Volevo solo dire che ci serve un piano.”
Annabeth la guardò con un sopracciglio inarcato.
“Annabeth ha sempre qualcosa in mente,” risposi io, rivolgendo un sorriso appena accennato alla mia ragazza. “Inoltre, io posso cercare di mettermi in contatto con Grover attraverso il nostro legame empatico, tu puoi aiutarci a tenere alla larga i mostri e Nico può tenere a bada i fantasmi.”
Rachel annuì, avviandosi con Nico all’interno della foresta.
“Dovremmo davvero mettere a punto un piano, Percy,” mi sussurrò Annabeth, mentre si facevano strada tra gli alberi.
“E tu hai già qualcosa in mente, giusto?”
Lei arrossì.
“Sì, ma…”
Le appoggiai una mano su una spalla e le sorrisi in maniera rassicurante.
“Cercheremo Grover e se entro sera non lo troviamo ci accampiamo e mettiamo a punto un vero piano, ci stai?”
Annabeth mi guardò con uno sbuffo, ma annuì e raggiungemmo Nico e Rachel.
 
“Sono esausta,” si lamentò Rachel, fermandosi vicino a un tronco d’albero. “È tutto il giorno che camminiamo. Non possiamo fare una pausa?”
“La tua amica ha ragione,” disse Annabeth, infilando il pugnale nel fodero. “È inutile continuare a cercarlo, per oggi basta così.”
Annuii, voltandomi per controllare che Nico ci fosse ancora. Era così silenzioso che certe volte sembrava davvero un fantasma e allora non eri più davvero sicuro del fatto che fosse realmente lì. Una cosa piuttosto inquietante.
Tirammo fuori i sacchi a pelo dagli zaini e radunammo un po’ di legna per il fuoco. Rachel, invece, dette un’occhiata in giro per controllare che non ci fossero mostri nelle vicinanze.
“Per ora siamo al sicuro,” ci disse.
“È proprio il ‘per ora’ che non mi piace,” borbottai
Prendemmo il cibo che ci aveva dato Dafne quella mattina e io, Nico e Annabeth ne gettammo una piccola parte come offerta ai nostri genitori.
Mangiammo in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, poi, quando il fuoco stava ormai per spegnersi, iniziammo a discutere sul da farsi.
“Non è possibile che Apollo si sia sbagliato?” chiese Rachel. “Insomma, abbiamo cercato Grover dappertutto!”
“È un dio, Rachel,” le rispose Annabeth. “Un dio che ha rischiato grosso per aiutarci, perciò non credo che l’abbia fatto senza essere sicuro di portarci nel posto giusto.”
“Ha senso,” ammise Rachel, guardandola.
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo indecifrabile. Ero più che certo che sarebbero potute diventare buone amiche e, forse, avrebbero anche voluto esserlo, solo che sembrava esserci qualcosa che impediva loro di andare d’accordo.
“Stanotte provo a mettermi in contatto con lui,” dissi io.
“E faremo dei turni di guardia,” aggiunse Nico. “Questo posto non mi convince.”
Annuii. I  mostri o gli zombie o chissà quale raccapricciante creatura potevano arrivare in qualunque momento.
“Giusto. Le ragazze possono fare i primi due turni, poi io farò-”
“Tu non farai proprio niente,” m’interruppe Nico. “Devi dormire,Percy. Dovrai accettare il fatto che, per stanotte, ci servi addormentato.”
Non replicai, ero l’unico che poteva cercare di mettersi in contatto con Grover e da sveglio non ci sarei riuscito.
Scorsi Annabeth e Rachel che mi guardavano con un sorriso e arrossii.
Li guardai tutti con gratitudine poi, con un sospiro, m’infilai nel sacco a pelo e chiusi gli occhi.
 
Di solito i sogni arrivavano da soli, quella notte, però, dovetti concentrarmi particolarmente per sognare qualcosa.
Grover era accovacciato su un letto di foglie, ai piedi di un albero.
Belava nel sonno e si girava continuamente, doveva stare facendo un brutto sogno.
“Grover,” lo chiamai. “Grover, amico, svegliati!”
Lui biascicò, appoggiando la testa su un braccio.
“Per gli dei, Grover, devi svegliarti subito!”
Il satiro sbadigliò, aprendo lentamente gli occhi.
“Pe-Percy?” balbettò, cercando di mettere a fuoco il mio volto.
“Grover!” esclamai.
“Dove sei?”
“Sto dormendo,” gli spiegai che lo stavo contattando tramite il legame empatico.
“Grazie a Zeus state bene,” sospirò e i vidi i suoi lineamenti stendersi con fatica, come se avesse tenuto il viso contratto per settimane. “Credevo che fosse venuto al campo e che so io.”
“Dimmi dove sei, così possiamo riportarti indietro.”
Grover aprì bocca, ma non uscì alcun suono. O meglio, lui parlò, ma io non sentii nulla.
“No!” gridai, vedendo il suo viso farsi sempre più sfocato. “No! Aspetta!”
In meno di un secondo Grover era sparito e così le speranze di ritrovarlo.
 
Mi svegliai di soprassalto, con il sudore freddo che mi colava dalla fronte.
Doveva essere mattina presto perché il cielo era di un azzurro lattiginoso e non ancora del tutto illuminato dal sole.
“Tutto bene?”
Mi voltai, Nico Di Angelo mi osservava dal suo sacco a pelo.
“Io…credo di sì,” risposi, massaggiandomi la testa.
“Hai sognato?”
Annuii e gli raccontai il sogno che avevo fatto. Annabeth e Rachel dormivano ancora ed io e Nico iniziammo a elaborare un piano.
“Che intenzioni ha Minosse?” chiesi, guardandolo dritto negli occhi.
Sapevo che c’era qualcosa che non ci aveva detto, ma speravo che prima o poi avrebbe parlato da solo.
“Lui non ce l’ha con l’Olimpo, Percy,” disse, sospirando. “È per questo che gli dei non intervengono. Lui è invulnerabile e sta usando la magia nera, ma è pur sempre un mortale. Il fatto è che lui-”
Si zittì all’improvviso, tendendo le orecchie.
“Che c’è?”
“Non lo senti?” indicò un punto alla nostra sinistra.
“Sento cosa?”
Mi fece cenno di stare in silenzio e, dopo qualche minuto, capii di cosa stava parlando. Una voce caprina che belava in lontananza; una voce caprina che conoscevo bene.
Tolsi Vortice dalla tasca dei jeans e le levai il cappuccio, alzandomi lentamente. Feci cenno a Nico di seguirmi e, il più silenziosamente possibile, ci avventurammo nella foresta.
Sapevo che le ragazze ci avrebbero ucciso per non averle svegliate, ma, già che potevo, preferivo evitare loro un’altra occasione per rischiare di morire.
Più ci avvicinavamo, più la consapevolezza di essere a pochi passi da Grover accresceva dentro di me.
Il belato ormai era vicinissimo e io e Nico ci nascondemmo dietro a due alberi.
“Al mio tre,” sussurrai. “Uno…due…tre!
Uscimmo dal nostro nascondiglio con un balzo, io con la spada sguainata e Nico pronto ad aprire voragini nel terreno o che so io.
Grover ci dava le spalle ed era chino su alcuni cespugli di bacche.
“Questa è velenosa, questa è amara… per Pan! Questa fa schifo!” continuava a ripetere, passando in rassegna le bacche e mettendosene alcune in una mano.
Io mi schiarii la voce, riportando Vortice in versione penna.
Quando Grover si voltò le poche bacche che aveva raccolto gli caddero di mano.
Peeercy!” belò, balzandomi addosso e stritolandomi in un abbraccio.
Io gli battei una pacca sulle spalle.
“Sono così felice di rivederti,” mi disse, tirando su col naso.
“Anche tu mi sei mancato, amico.”
Sentii qualche lacrima calda inumidirmi la maglietta e sorrisi: era rimasto il solito vecchio Grover piagnucolone, nonché uno dei satiri più coraggiosi che io avessi mai conosciuto.
“Vieni, se le ragazze si sono svegliate ci aspetta una bella lavata di testa,” guardai Nico, che mi sorrise, e tutti insieme tornammo ai sacchi a pelo.
 
Come temevo, Annbeth e Rachel erano sveglie e stavano già impazzendo nel cercarci.
Quando Annabeth mi vide, prima mi stritolò in un abbraccio, poi mi diede dell’idiota e mi piazzò un pugno sul braccio che mi fece vedere le stelle per dieci minuti.
“Non ve ne dovete andare così!” esclamò, guardando male sia me che Nico. “Ci avete fatto prendere un colpo!”
Rachel non disse nulla, ma mi guardò con aria sollevata e mi dispiacque per aver fatto preoccupare anche lei – voglio dire, mi dispiaceva anche di aver fatto preoccupare Annabeth, ovviamente, ma per lei era diventato quasi normale preoccuparsi per me.
“E noi che vi abbiamo anche portato un regalo,” dissi, guardando Nico con un sorrisetto complice.
Annabeth e Rachel ci guardarono con le sopracciglia inarcate e, dopo pochi minuti, Grover sbucò fuori dal folto.
Vidi gli occhi di Annbeth inumidirsi mentre il satiro l’abbracciava e anche Rache, che non era amica di Grover come lo eravamo io e Annabeth, si commosse.
Passammo il resto del pomeriggio ad ascoltare Grover che ci raccontava cos’era successo nella foresta. Ci disse che era andato lì perché alcuni alberi stavano morendo e che, dopo qualche giorno, era stato raggiunto dai fantasmi di Minosse e da Minosse stesso. Alla fine, dopo essere scappato per giorni, era riuscito a seminarlo del tutto.
“Non credo che tu l’abbia seminato,” disse Nico. “Ti ha lasciato scappare.”
“Cosa te lo fa pensare?” chiesi.
“Aveva le anime dalla sua,” mi rispose, semplicemente. “Quelle possono andare ovunque.”
Pranzammo con alcune bacche che ci procurò Grover e gli ultimi avanzi del cibo di Dafne, poi rimettemmo i sacchi a pelo negli zaini e ci incamminammo verso la strada.
Arrivammo alla zona di sosta dalla quale eravamo partiti la mattina precedente parecchie ore dopo.
“Ho faaaaame,” belò Grover.
“E fa freddo,” gli fece eco Rachel, strofinandosi le braccia.
“Ed è notte,” concluse Nico.
Era vero. Le otto dovevano essere passate da un pezzo, eravamo affamati e quella sera faceva troppo freddo per fermarsi a dormire all’aperto.
“Possiamo cercare qualche zona di ristoro lungo la strada,” proposi, anche se sapevo che avremmo potuto dover camminare per chilometri prima di trovare qualcosa.
Gli altri, però, dovevano essere troppo affamati e stanchi per protestare, perché annuirono e, pochi minuti dopo, ci mettemmo in marcia verso sud.
Per nostra fortuna, pochi chilometri più giù rispetto alla zona di sosta, c’era un autogrill con un pullman di linea diretto a New York in sosta.
Mi sembrò una coincidenza troppo strana, ma quando Rachel ci dette il via non ce lo facemmo ripetere due volte. Io e Grover andammo a prendere quattro panini al bar dell’autogrill e poi salimmo tutti sull’autobus prima che partisse.
Appena toccai lo schienale del sedile con il capo tutta la stanchezza accumulata durante la giornata mi pesò addosso, facendomi chiudere le palpebre.
 
Quella notte feci un sogno assurdo – non che la cosa fosse poi così nuova.
Ero in una stanza buia e avevo come la sensazione che qualcuno mi stesse fissando, ma non c’era nessuno.
All’improvviso una figura si fece strada nell’oscurità, parandosi davanti a me.
“Salve, Percy Jackson.”
Era un uomo con due teste che battibeccavano tra loro: il dio Giano.
L’avevo incontrato un paio d’anni prima nel Labirinto di Dedalo ed era stato un incontro un po’…enigmatico.
“Non ci incontravamo da tempo,” disse il dio. “Ma devo dire che non mi sei mancato.”
“A me un po’ sì, invece,” ribatté l’altra testa.
Le due teste del dio battibeccarono per un po’, poi riportarono entrambe l’attenzione su di me.
“Come mai sono qui?” chiesi e sentii la mia voce rimbombare nella stanza.
Il dio mi guardò con un sorriso beffardo.
“Perché è arrivato il momento di scegliere,” rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Di scegliere cosa? Non capisco?”
Una delle due facce sogghignò e due porte apparvero alle spalle di Giano. Una era la semplice porta di un appartamento, l’altra sembrava la porta d’ingresso della capanna numero sei al Campo Mezzosangue.
“È il suo cuore che deve scegliere, non lui,” ribatté una testa.
La testa che aveva parlato per prima sbuffò.
“Si tratta comunque di scegliere! Scegliere, scegliere, scegliere!”
La voce di Giano echeggiò per qualche secondo.
“Che cosa devo scegliere?” domandai, ansioso. Ero stanco delle scelte, ad essere sincero; avevo passato tutta la vita a scegliere.
Le due teste smisero di litigare e una indicò la porta che sembrava quella del campo.
Essa si aprì lentamente, rivelando la figura di Annabeth.
Istintivamente mi venne da sorridere e cercai di raggiungerla, ma qualcosa mi tratteneva.
All’improvviso, alle spalle di Annabeth comparve uno zombie che le blocco le braccia dietro alla schiena, puntandole un coltello alla gola. Annabeth mi guardò supplicante.
“Annabeth!” gridai, cercando di liberarmi da qualunque cosa mi immobilizzasse. “Annabeth!”
Il dio sorrise e l’altra mano andò a indicare la seconda porta. Quando si aprì riconobbi gli occhi verdi e i capelli rossi di Rachel. Com’era successo poco prima, anche alle sue spalle apparve uno zombie che la immobilizzò, minacciandola con un coltello.
“Che sta succedendo?” gridai, guardando Giano con rabbia.
“Devi scegliere,Percy Jackson,” disse una delle teste.
“La figlia di Atena o la mortale,” le fece eco l’altra.
Io deglutii, guardando prima Annabeth e poi Rachel.
“Cosa succederà all’altra? Quella…quella che non sceglierò?” avevo paura della risposta.
“Morirà.” Appunto.
Mi voltai istintivamente verso Annabeth che mi guardava supplicandomi di scegliere lei. Ma non volevo far morire Rachel. Volevo scegliere Annabeth, ma non volevo che Rachel morisse. Era un rompicapo.
“Sarò buono con te, Percy,” disse il dio. “Per facilitarti la scelta ti farò dare un’occhiata al futuro…”
“Al futuro?” non credevo che gli dei potessero farlo; voglio dire, a parte gli oracoli, nessuno poteva conoscere il futuro, neanche Zeus in persona.
Lo zombie alle spalle di Rachel scomparve e lei si ritrovò sul prato della Collina Mezzosangue. Era insieme a me e stavamo camminando da soli, lontani dal rumore dei semidei che si allenavano.
Lei mi teneva sottobraccio e sorrideva;sorrideva come non l’avevo mai vista sorridere. E sembravamo felici. Davvero felici.
Io le passavo un braccio intorno alle spalle e l’avvicinavo a me, baciandole i capelli.
Per quanto bella quell’immagine potesse essere, dentro di me sapevo che non era ciò che volevo.
Era l’immagine di una vita normale, senza mostri o tizi assetati di sangue e vendetta che attaccavano il campo o profezie enigmatiche di cui preoccuparsi, e per quanto mi allettasse l’idea di avere una vita così, sapevo perfettamente che a quella passeggiata nel prato insieme a Rachel avrei preferito combattere al fianco di Annabeth.
“Saresti felice con lei, sai?” disse Giano.
Io lo ignorai e lui mi mostrò ciò che stava accadendo oltre la porta di Annabeth.
Com’era successo con Rachel, lo zombie che la minacciava si dissolse nel buio e lei si ritrovò seduta sul prato di un parco, con alcuni fogli scarabocchiati sulle gambe. Accanto a lei c’era un ragazzo biondo dagli occhi chiari. Era David Walesh, l’avevo riconosciuto subito. Guardavano insieme le carte e ogni tanto ridevano, scambiandosi qualche sguardo fugace.
Annabeth era sul prato di un parco insieme a un ragazzo che non ero io.
Questa cosa mi fece più male di qualsiasi colpo di spada io abbia mai ricevuto.
“Cosa succede, eroe?” cantilenò una delle facce.
“Non può essere il futuro,” dissi, cercando di liberarmi e correre da Annabeth per portarla lontano da quel tizio. Ma più lottavo più la cosa che mi teneva fermo diventava forte.
“Un giorno ti dimenticherà,” disse Giano. “Se anche vincerai questa battaglia, lei si dimenticherà di te. Lascia stare la guerra, Percy, nessuno dice che devi essere tu a combatterla…”
“Se credi di essere stato intelligente a farti abbindolare da Minosse, allora questo vuole soltanto dire che sei un idiota!”
Entrambe le teste risero e la risata riecheggiò nel silenzio.
“Pensa quello che vuoi,” ribatté. “Ma il futuro è il futuro, non puoi cambiarlo.”
“Invece ti sbagli!” esclamai. “Le cose possono sempre cambiare! E anche il futuro!”
“Oh, quindi tu credi di poter evitare questo?” indicò la porta di Annabeth e mi si gelò il sangue nelle vene.
David e Annabeth si stavano baciando. Annabeth stava baciando qualcuno che non ero io.
Mi sentii soffocare e percepii il cuore che batteva sempre più lento, sempre più lento, fino quasi a fermarsi. Un attimo dopo tremavo di rabbia e dalla voglia di spaccare la faccia di quel tizio.
Ringhiai e, finalmente, fui libero da qualsiasi cosa mi trattenesse.
Corsi a perdifiato verso la porta di Annabeth, ignorando Giano che rideva tra sé, ma quando arrivai ad un passo da lei, tutto scomparve e mi svegliai.
 
Annabeth era china su di me e mi scuoteva le spalle, chiamando il mio nome.
La guardai negli occhi, ancora scioccato per il sogno che avevo fatto, e poi la strinsi forte tra le braccia.
“Percy, cosa…?” rimase immobile tra le mie braccia per qualche secondo, poi si divincolò. In un primo momento questa cosa mi mandò nel panico. “Non c’è tempo!” esclamò e allora notai che Nico, Grover e Rachel stavano radunando tutte le nostre cose, uno con la faccia più preoccupata e spaventata dell’altro.
“Cosa sta succedendo?” domandai, alzandomi il più velocemente possibile e iniziando anche io a raccattare la mia roba.
Annabeth mi guardò con l’aria di una che stava per dire qualcosa che poteva definirsi tutt’altro che una buona notizia.
“Chirone ci ha contattato con l’i-Phone,” mi disse. Inspirò, puntando gli occhi nei miei. “Minosse vuole attaccare il Campo Mezzosangue.”


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Salve a tutti :3 
Ecco qua l'ottavo capitolo, spero che vi piaccia :D
Come sempre un grazie enormissimo a chi ha recesito il capitolo precedente, alle 13 anime che hanno messo questa storia tra le seguite e gli 8 che l'hanno messa tra i preferiti. Grazzissime a tutti **
Lasciate un segno del vostro passaggio :)
Al prossimo capitolo, un bacio a tutti, 
Emily. 

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Capitolo 9
*** Scateno una rissa ***


#9. Scateno una rissa

 
Lanciai un lungo fischio verso il cielo, sperando che arrivasse a destinazione.
In una situazione normale non l’avrei mai fatto; non è saggio usare i pegasi per viaggi così lunghi, soprattutto se c’è qualche tizio assetato di sangue che ti sta cercando. Ma in quel momento, Blackjack e i suoi fratelli mi sembravano l’opzione più veloce per raggiungere la Collina Mezzosangue.
“Ci vorrà un po’ più del solito,” avvertii e gli altri si misero a sedere per terra.
Riuscivo a scorgere la preoccupazione sui loro volti e anche io non dovevo essere da meno.
“Ma ne è sicuro?”
“Per la millesima volta, Percy,” rispose Grover, sbuffando, “sì, ne è sicuro. Alcuni ragazzi di Apollo hanno inseguito degli zombie fuori dai confini del campo e, prima di farli fuori, hanno intravisto un esercito che avanzava.”
“Quanti eserciti di zombie credi che ci siano in circolazione, al momento?” mi domandò Nico, alzando le sopracciglia.
Sospirai, lasciandomi cadere su un masso. Mi presi la testa tra le mani.
“Purtroppo non molti.”
Sentii una mano posarsi sulla mia spalla e alzai lo sguardo. Annabeth stava guardando dritto davanti a sé, ma sapevo che la sua lieve stretta stava a significare che lei era al mio fianco.
Circa una mezzora dopo, cinque pegasi atterrarono nella foresta, provocando un gran polveraio.
‘Buongiorno capo!’ esclamò il pegaso dal manto nero.
Io gli accarezzai il muso dolcemente.
“Blackjack! È bello rivederti!”
Aspettammo dieci minuti per dare ai cavalli il tempo di riposarsi un po’, poi montammo tutti in sella.
“Lo so che il viaggio è lungo e voi siete stanchi ragazzi,” dissi. “Ma dovete riportarci al campo il prima possibile.”
I cinque pegasi nitrirono e presero il volo.
‘C’è un altro putiferio in vista, capo?’
Strinsi forte la criniera di Blackjack e annuii, mentre il cavallo alato balzava tra le nuvole.
“Temo di sì, bello,” risposi, grave.
‘Abbiamo visto gli altri mezzosangue preparare le armi,’ m’informò. ‘Quei figli di Ares hanno delle diavolerie assurde, capo!’
“Meno male!” ridacchiai. “E non chiamarmi capo!”
‘Come vuoi, capo.’
Sbuffai, scompigliandogli la criniera.
“Sei proprio irrecuperabile, eh?”
Blackjack nitrì.
Volammo per quasi mezzora, poi, in lontananza, intravidi un grosso pino la cui corteccia era coperta da una pelliccia dorata: il Campo Mezzosangue.
 
Lasciai che i pegasi tornassero nelle loro stalle con la promessa che, appena possibile, gli avrei portato delle zollette di zucchero come ringraziamento.
Mentre loro scendevano la collina verso le stalle, noi ci scapicollammo verso la Casa Grande, la mano di Annabeth stretta nella mia.
Chirone non c’era e il signor D ci informò che si trovava nell’arena ad allenare i pochi semidei rimasti al campo per l’inverno.
La corsa verso il campo d’addestramento fu ancora più frenetica e, quando finalmente raggiungemmo il centauro e i nostri compagni, ebbi come la sensazione di non avere più le gambe e i polmoni.
“Percy! Annabeth!” esclamò. “Ragazzi!”
“Cosa succede?” ansimai, premendomi la milza con la mano. Il dolore non si attutì.
Chirone guardò i ragazzini a cui stava insegnando alcune mosse di spada e, dopo avergli detto qualche parola, ci fece allontanare da loro.
Mi disse ciò che aveva detto ai miei amici – cioè ciò che mi avevano raccontato loro almeno dieci volte.
“Dobbiamo chiamare gli altri che non sono rimasti!” esclamai. “Entro quando saranno qui?”
Chirone sospirò. “Domani.”
“Domani!?”
Improvvisamente mi tornò in mente ciò che aveva cercato di dirmi Nico nel bosco prima che tornasse Grover. Mi voltai verso di lui con aria furente.
“Tu lo sapevi!” esclamai, puntandogli un dito contro.
Nico indietreggiò.
“Non è come pensi, Percy,” disse. “Non sapevo che volesse attaccare il campo, sapevo solo che non ce l’aveva con gli dei ma con noi.”
Annabeth, Grover e Rachel lo guardarono.
“Con noi?” domandò Rachel. “E cosa gli abbiamo fatto?”
“È per Dedalo, vero?” chiese invece Annabeth.
Nico annuì. E io passai lo sguardo dall’uno all’altro, cercando di capirci qualcosa.
“Nel Labirinto, lui voleva usare Nico per uccidere Dedalo e tornare in vita,” mi spiegò Annabeth. “Noi, però, gliel’abbiamo impedito.”
“Sì, ma Dedalo è morto comunque,” feci notare io. “Non era questo quello che voleva?”
“Non esattamente,” intervenne Nico. “Minosse voleva Dedalo morto, è vero, ma voleva essere lui a ucciderlo. Voleva che Dedalo fosse l’anima con cui scambiare la propria.”
“Rivivere a scapito di quello che l’aveva ucciso,” disse Annabeth, sovrappensiero.
Io la guardai. Non avevo idea di come fosse riuscita a capire tutte quelle cose solo in pochi minuti, io non ci sarei arrivato neanche dopo secoli di riflessioni. Ma Annabeth era Annabeth e, probabilmente grazie a sua madre, sapeva sempre tutto.
“Quindi non ce l’ha con noi semidei,” dissi, insicuro e spaventato al tempo stesso. “Ce l’ha con noi, noi.”
“Temo di sì.”
“Meraviglioso!” esclamai, alzando leggermente le braccia.
Chirone mi strinse lievemente la spalla, cercando di abbozzare un sorriso.
“I vostri compagni sono stati informati e saranno qui domani mattina,” ci disse, guardandomi. “Tutto quello che potete fare adesso è passare un’ultima giornata tranquilla, farvi una bella dormita e lucidare le vostre armi.”
Annuimmo, probabilmente non c’era davvero altro che potessimo fare. Ci allontanammo verso le capanne con il morale sotto ai piedi.
Rachel andò a rifugiarsi nella capanna undici, insieme ai figli di Ermes, e non si fece viva per tutto il resto della giornata.
Grover andò finalmente da Juniper, la quale stava sicuramente morendo di ansia.
Nico si dileguò nella nuova capanna che era stata costruita per i figli di Ade, mentre io e Annabeth andammo a fare una passeggiata.
Per pranzo non raggiungemmo gli altri al padiglione, ma ci dividemmo l’ultimo dei muffin che ci aveva dato Dafne due giorni prima. Non era molto, ma nessuno dei due era poi così affamato. Inoltre, quella scena mi ricordò il dolcetto blu che avevamo condiviso il giorno del mio compleanno. Arrossii lievemente al ricordo.
“Cosa pensi che succederà domani?” chiesi.
Me ne stavo con i piedi a mollo nell’acqua, con Annabeth seduta accanto.
“Non lo so,” ammise. Sentii la sua mano posarsi delicatamente sulla mia. “Ma abbiamo combattuto tante battaglie, Testa d’Alghe, supereremo anche questa.”
Mi sorrise e, anche se rischiavo di morire il giorno dopo, mi sentii felice come non lo ero mai stato.
Girai la mano, intrecciando le dita con le sue.
Dei, quanto mi piaceva! Alzai lo sguardo su di lei e la vidi che fissava l’acqua con le guance arrossate, e mi scappò un sorriso.
Ripensai al sogno che avevo fatto quella notte, a come mi aveva fatto male vederla tra le braccia di un altro.
Annabeth si voltò verso di me, abbozzando un sorriso.
“Che c’è?” chiese, notando che la fissavo. “Devi dirmi qualcosa?”
Forse avrei dovuto farlo, ma scossi il capo. Mi avvicinai e, dopo averle appoggiato una mano sulla testa, la baciai sulla bocca.
Lei rispose subito al mio bacio, allacciandomi le braccia attorno al collo per avvicinarsi di più.
Giano non mi aveva fatto vedere il futuro, ne ero certo. E se anche avesse avuto ragione, io avrei cambiato le cose. Non avrei permesso ad Annabeth di lasciarmi.
 
Era già buio quando riaccompagnai Annabeth alla sua capanna. Le detti la buonanotte con un lieve bacio a fior di labbra e poi mi avviai verso la capanna numero tre, con le mani nelle tasche.
Quando arrivai davanti alla casa di Poseidone, Rachel era ferma davanti alla porta, con lo sguardo basso e le mani giunte in grembo.
“Rachel,” la chiamai.
La ragazza sobbalzò, voltandosi nella mia direzione. Si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e arrossì.
“Oh, ciao Percy.”
Le sorrisi, avvicinandomi di qualche passo.
“Ti serviva qualcosa?”
“Io, ehm, sì,” balbettò. “Volevo parlarti.”
La incitai con lo sguardo. “Dimmi pure.”
Rachel spostò il peso da un piede all’altro per diversi minuti, continuando a guardare per terra, poi alzò gli occhi su di me.
“Non abbiamo mai finito quel discorso nella Prius di Paul, quando mi hai portata a Montauk per fare pratica,” disse. “Sai, Charlie è venuto a prenderti e…be’, poi è successo quello che è successo. Il fatto è che vorrei una risposta…sì, insomma…io…”
non l’avevo mai vista arrancare tanto con le parole. Rachel era sempre stata una ragazza spigliata e spontanea, ma in quel momento sembrava che ci fosse qualcosa che la stava soffocando, impedendole di parlare.
Io la guardai, non capendo dove volesse andare a parare.
“Una risposta su cosa?”
“Certo che sei proprio ottuso,” sbuffò. “Sui tuoi sentimenti, scemo!”
Deglutii. I miei sentimenti? Be’, era facile: mi piaceva Annabeth. Ma avevo come la sensazione che quella non fosse affatto la risposta giusta.
“I miei sentimenti riguardo cosa?”
Rachel si spazientì e mi guardò male, appoggiandosi le mani sui fianchi. In quel momento intravidi la Rachel di sempre, quella che avevo trapassato con Vortice alla diga di Hoover e quella che mi aveva salvato le chiappe il giorno dell’orientamento alla Goode High School quando due empuse avevano cercato di farmi fuori.
La mia amica Rachel.
Colmò la distanza che ci divideva, fermandosi a un passo da me. Era così vicina che potevo sentire il suo naso sfiorare il mio.
“I tuoi sentimenti riguardo a me,” disse.
Non feci in tempo a capire cosa stava succedendo né a dare una risposta: Rachel mi afferrò per la maglietta e mi baciò.
Non era la prima volta che lo faceva, mi aveva già dato un bacetto all’inizio dell’estate, quando Charlie Beckendorf era venuto a prendermi per la missione sulla Principessa Andromeda. Però quella volta era stato diverso. Voglio dire, poteva benissimo essere una specie di bacio d’addio, tipo quello che Annabeth mi aveva dato nel monte Sant’Elena prima di scappare. Ma quello… quello era un bacio vero!
Quando mi resi conto del fatto che Rachel mi stava effettivamente baciando, le appoggiai le mani sulle spalle e l’allontanai dolcemente.
Provai ad articolare qualche parola, ma non ne ebbi il tempo.
Una furia dai capelli biondi afferrò Rachel per un braccio, allontanandola da me.
“Io ti ammazzo!” gridò, lanciando scintille dagli occhi in direzione di Rachel.
Lei arrossì leggermente, abbassando lo sguardo.
Annabeth era furiosa, penso di non averla mai vista tanto arrabbiata. Mi vennero i brividi solo a guardarla.
“Lui è il mio ragazzo!” esclamò di nuovo e potrei giurare che le stesse uscendo del fumo dal naso. “Tu non puoi baciarlo!”
“Senti,” iniziò Rachel, riprendendosi dall’imbarazzo e sostenendo il suo sguardo irato. “Dovevo farlo, okay?”
“No che non è okay!” ribatté Annabeth, sempre più infuriata.
“Oh, come se steste insieme sul serio!” esclamò Rachel. “Vi sbaciucchiate ogni tanto e basta!”
Annabeth spalancò gli occhi, raggiungendo Rachel a passo di carica.
“Percy è il mio ragazzo! E non ci sbaciucchiamo e basta!”
“Ragazze…” dissi. Avevo la sensazione che presto Annabeth avrebbe tirato fuori il suo fedele pugnale di bronzo celeste.
“Be’, ha baciato anche me, una volta,” disse Rachel. Io deglutii, sbiancando. Diciamo che Annabeth non era venuta a conoscenza di quella parte della storia e non mi sembrava il momento migliore per farglielo sapere. Infatti, si voltò verso di me con aria inferocita e mi lanciò uno sguardo alla ‘con te me la vedo dopo’. “E se non fosse stato per la guerra e tutto il resto forse adesso sarei io la sua ragazza.”
“Ragazze…” tentai di nuovo, ma mi ignorarono.
“Ma sono io e ti dico che non puoi baciarlo!”
“E io l’ho baciato comunque!”
“Ma non puoi!”
“Ragazze!” provai ad alzare il tono, ma loro si voltarono con un ringhio e mi fulminarono con lo sguardo.
“TU STANNE FUORI!” urlarono all’unisono.
Fortunatamente, qualche minuto dopo Travis Stoll venne a cercare Rachel e insieme riuscimmo a mettere fine alla rissa.
Augurai la buonanotte a entrambi e Travis riaccompagnò Rachel alla capanna di Ermes. Annabeth, invece, rimase a guardarmi con le braccia incrociate.
“Come mai sei venuta?” le chiesi.
Lei batté un piede a terra, guardandomi male.
“Tu e Rachel avete fatto cosa?!” probabilmente si riferiva al bacio nella macchina.
Deglutii, mettendo almeno venti passi tra me e Annabeth, per sicurezza.
“Prima di tutto, è stata lei a baciare me e non il contrario,” specificai, sperando che questa precisazione potesse salvare almeno parte della mia pelle semidivina. “E poi, be’, non te l’ho detto perché non era una cosa importante…tutto qui.”
Annabeth annuì, ma sembrava ancora piuttosto arrabbiata.
“Ero passata perché volevo darti questa,” disse, dopo un po’, avvicinandosi.
Feci un istintivo passo indietro, ma quando realizzai che non aveva intenzione di tirarmi un pugno o cose del genere mi rilassai.
La osservai mentre si slacciava la collana con le perle e poi l’avvicinava al mio collo.
“Come la prima volta,” sussurrò, arrossendo.
Un ricordo di cinque anni prima m’invase la mente. C’ero io che combattevo contro Ares sulla spiaggia di Los Angeles e poco prima di scontrarmi con il dio Annabeth mi aveva dato la sua collana come portafortuna.
Sfiorai le perle di Annabeth, erano molte di più rispetto alle mie e rispetto a quelle di chiunque altro al campo. Lei era quella che era stata lì più di tutti.
“Se non sbaglio, anche i baci portafortuna sono tradizione, no?”
Annabeth roteò gli occhi, ma mi allacciò le braccia attorno al collo.
“Buona fortuna, Testa d’Alghe.”
Mi baciò e poi corse via, lasciandomi lì impalato come un idiota, con gli occhi ancora chiusi. Quando li riaprii lei era già sparita.
Sospirai, entrando nella capanna di Poseidone e buttandomi sul letto. Appena la mia testa toccò il cuscino mi addormentai e, per la prima volta, non feci nessun sogno.

 



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Ehilà! Oggi arrivo con un po' di anticipo :)
Dato che non avevo niente da fare e questo capitolo era già pronto ho pensato di aggiornare, ho fatto bene?
Be', niente, spero davvero che anche questo capitolo vi piaccia. 
Ringrazio tantissimo i 19 che hanno recensito i capitoli precedenti, i 9 che hanno messo la storia tra le preferite e i 15 che la stanno seguendo. Davvero, il vostro supporto per me è importantissimo. 
Conclusi i ringraziamenti, voglio solo dirvi di nuovo che spero tanto che questo capitolo vi piaccia - e devo anche ammettere che mi sono divertita a scriverlo :D - e spero che mi facciate sapere cosa ne pensate :)
A presto e grazie a tutti, 
Emily. 

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Capitolo 10
*** Incontro un fantasma senza il bisogno di una seduta spiritica ***


#10. Incontro un fantasma senza il bisogno di una seduta spiritica

 
Quando il mattino seguente mi svegliai, non raggiunsi gli altri al padiglione per la colazione.
Me la presi con calma e, dopo essermi preparato e aver controllato che Vortice fosse al suo posto – nella tasca dei miei jeans – andai a fare una passeggiata in riva al lago.
Non me la sentivo di stare con gli altri, in quel momento.
Le parole dell’Oracolo mi vorticavano in testa, tormentandomi come non mai.
Tre semidei ritroveranno quello che è perduto.
I tre semidei eravamo io, Nico e Annabeth e quello che è perduto doveva essere Grover.
Eravamo partiti e avevamo ritrovato il satiro che si era smarrito. Sì, aveva senso.
Cinque eroi combatteranno dove serve un aiuto.
Era chiaro,ormai, che il luogo dove serviva un aiuto era il Campo Mezzosangue.
La vista che tutto vede aiutarli potrà.
In questo caso, Rachel aveva avuto ragione fin dall’inizio. La vista era lei, ed era grazie a lei se avevamo evitato mostri e trappole lungo la strada.
E tra due fratelli una battaglia si consumerà.
Chi erano i due fratelli che avrebbero dovuto scontarsi? Avrei scoperto di avere un qualche fratello sconosciuto e mi sarei dovuto battere con lui? O peggio, avrei scoperto che Minosse era un figlio di Poseidone?
Mi venivano i brividi solo a pensarci.
Se il signore dei fantasmi un’anima si prenderà infine
Essa degli Ultimi Eroi decreterà la dolorosa fine.
Questi erano abbastanza chiari. Se Minosse avesse ucciso anche solo uno di noi cinque – io, Annabeth, Nico, Grover e Rachel – per gli altri sarebbe stata morte certa.
Non capivo con che logica questo sarebbe potuto accadere, ma era così. A quanto pareva non c’erano speranze di vittoria con un eroe in meno.
Senza rendermene conto arrivai in una zona isolata, poco lontano dalla capanna numero undici. Non so perché mi ero spostato così tanto dal lago delle canoe, ma mentre mi arrovellavo sui possibili significati della profezia, le mie gambe avevano iniziato a camminare.
Sospirai, ben consapevole che, finché le parole dell’Oracolo non si sarebbero compiute, non c’avrei capito un accidente.
Alzai lo sguardo e, quando mi resi conto del luogo in cui mi trovavo, trattenni il respiro.
Una piccola lapide bianca si stagliava sul terriccio scuro, coperto da un sottile strato di neve. Le incisioni grigie spiccavano sul marmo bianco e qualcuno doveva aver portato dei fiori, di recente. C’era anche un biglietto appeso al gambo di uno di essi, ma per quanto la curiosità di sapere chi fosse stato fosse forte, pensai che si trattasse una cosa troppo personale e mi trattenni.
“Caduto nella guerra contro il Signore del Tempo,” lessi sottovoce, scorrendo le lettere grigie. “Per il tuo sacrificio, possano gli dei premiarti. Ave, Luke Castellan, figlio di Ermes.”
Mi avvicinai di qualche passo, inginocchiandomi sul terreno umido.
Guardai la foto di Luke che Annabeth aveva scelto per la tomba. Era una foto di quando aveva quattordici anni. I capelli erano dello stesso colore di come li ricordavo e anche i suoi occhi erano identici, forse un po’ più spensierati. Non aveva la cicatrice sul viso ed aveva un’aria decisamente più infantile. Ma sembrava davvero felice.
Osservando i fiori freschi posati ai piedi della lapide, notai una piccola bruciatura sulla busta appesa ad uno di essi e sorrisi, perché avevo capito chi glieli aveva portati.
A pensarci bene, la cosa era piuttosto ovvia.
Una folata di vento fresco mi scompigliò i capelli, facendomi rabbrividire.
Non so perché, ma in quel momento ripensai agli ultimi due versi della profezia. E questo mi fece sentire un peso sul cuore, così forte da farmi male.
Non volevo morire. E il peso sul mio cuore si chiamava paura.
Paura pura e semplice.
Non volevo morire e non volevo che i miei amici morissero.
Non era giusto, ecco.
Eravamo appena sopravvissuti a una guerra e per cosa? Per rischiare di farci uccidere di nuovo da un fantasma vendicatore? Eravamo sopravvissuti per avere paura della morte di nuovo? O per avere di nuovo il terrore di perdere chi amavamo?
In quel momento, istintivamente, pensai agli occhi di Annabeth; quegli occhi grigi nei quali lei riusciva sempre a nascondere tutto. E poi gli occhi di Annabeth divennero blu, come quelli allegri di mia madre. E poi marroni, come quelli di Grover. Neri come quelli di Nico. Blu elettrico come quelli di Talia, la nostra amica che si era unita alle Cacciatrici di Artemide. E infine verdi, come gli occhi limpidi di Rachel.
Arrossii pensando a lei. Avrei dovuto parlare del bacio della sera prima e chiarire un paio di cose, anche se non sapevo con che parole avrei cominciato e neanche quali avrei infilato nel mezzo. Sapevo solo che non volevo che credesse che io provassi qualcosa per lei, perché volevo che fosse felice.
Poteva avere una vita normale e un  ragazzo senza tanti guai quanti ne avevo io, aveva la possibilità di avere la vita che aveva sempre desiderato. Meritava qualcuno meno incasinato di me e poi, io amavo Annabeth.
Arrossii di nuovo – come un idiota, aggiungerei – perché era la prima volta che lo ammettevo a me stesso. Ero innamorato di Annabeth e sapevo che lei era l’unica.
“Non ti facevo così sdolcinato, Percy.”
Sobbalzai, voltandomi di scatto.
Alle mie spalle c’era un Luke evanescente che mi osservava con ilarità e una punta di tenerezza.
“Lu-Luke?” balbettai. Mi aspettavo tutto tranne che ritrovarmelo davanti.
Lui si avvicinò, fluttuando, e si fermò davanti a me.
“È bello rivederti senza una spada in mano,” disse con un sorriso.
“Come mai sei… Non dovresti essere…?” C’erano un sacco di cose che avrei voluto chiedergli, prima tra tutte come aveva fatto a sgattaiolare via dagli Inferi.
Luke mise su un sorrisetto furbo e i suoi tratti elfici si accentuarono.
“Laggiù,” iniziò, indicando il terreno, “sono tutti troppo impegnati a cercare di riportare le anime nel posto dove devono stare per badare a un eroe che scappa dall’Elisio per aiutare i suoi amici.”
Nonostante non ce l’avessi più con Luke da molto tempo, provai una punta di rabbia nel sentirgli pronunciare quella parola riferendosi a noi.
Luke si era meritato l’Elisio, dico davvero, ma aveva comunque fatto delle cose che non era facile dimenticare. Soprattutto, non riuscivo a mandare giù il fatto che avesse fatto soffrire Annabeth e che lei avesse avuto una cotta per lui.
Sì, sono un idiota, ma la cosa mi dava ancora dei problemi. Soprattutto perché c’erano dei momenti in cui pensavo che Annabeth stesse con me solo perché il destino l’aveva costretta a scegliermi. Un pensiero assurdo e totalmente idiota, ma io lo pensavo lo stesso.
Per un attimo pensai che Luke avesse intenzione di parlare anche con gli altri e provai quasi una sorta di paura.
“Arriveranno stasera, se te lo stessi chiedendo,” mi informò, lanciando un’occhiata alle sue spalle, verso la foresta. “Minosse vuole darvi un po’ di vantaggio per farvi credere di essere pronti per la battaglia. Non dovete sottovalutarlo, Percy.”
Annuii. Avevo saputo da Nico che anche Minosse aveva fatto un paio di tuffi nello Stige e che quindi, adesso, era invulnerabile.
“Qualche bella notizia?”
Luke sorrise.
“Gli dei non vi hanno abbandonati, ricordatelo.” Era bizzarro sentire proprio lui dire una cosa del genere; lui che, non molto tempo prima, aveva dubitato dell’appoggio dell’Olimpo e dei nostri genitori adesso ci diceva di credere in loro. “Ma è la vostra battaglia, capisci? Minosse vuole vendicarsi di voi per avergli impedito di attuare il suo piano, non gli interessa il potere degli dei.”
“E questo vorrebbe dire che lasceranno che ci faccia fuori tutti, distruggendo il campo, solo perché non è la ‘loro battaglia’?” Ero leggermente irritato.
Non dubitavo dell’appoggio di mio padre, né intendevo mettermi contro gli dei, ma le parole di Luke mi avevano urtato.
“Sii ottimista,” rispose. “Se c’è una cosa che ho imparato da quando sono morto è che gli dei fanno sempre più di quel che sembra. E se lasciano tutto nelle vostre mani, allora significa che credono in voi.”
Feci una smorfia.
Luke rise. Faceva effetto riuscire a vedere gli alberi oltre al suo corpo, per questo cercavo di non guardarlo direttamente.
“Non credo che siano affari miei, Percy,” disse poi. “Ma penso che dovresti dire ad Annabeth dei tuoi sentimenti.”
Avvampai, abbassando lo sguardo. Non avevo idea di come fosse venuto a conoscenza dei miei sentimenti, dato che, fino a dieci minuti prima, non ne ero a conoscenza nemmeno io. Ma mi dava fastidio che proprio lui mi desse qualsivoglia consiglio sentimentale su Annabeth.
“Già, non sono affari tuoi,” risposi, leggermente ostile. Mi alzai, spazzolandomi via la terra dai jeans. “Mi staranno cercando,” dissi.
“Non è innamorata di me,” ribatté Luke, prima che me ne andassi. “Forse mi avrà amato in passato, ma lei ha scelto te adesso. Ti ha scelto, Percy, non te lo dimenticare.”
Annuii distrattamente e gli voltai le spalle. Quando mi voltai per ringraziarlo per le dritte su Minosse, ormai era sparito.
Sentii solo un ultimo sussurro, prima di lasciare la sua tomba.
Dì a Talia che manca anche a me e che mi piacciono i suoi fiori.”
Sorrisi e raggiunsi gli altri al padiglione.
 
“Dove sei stato?!” gridò Annabeth, quando mi vide.
Tutti gli altri ragazzi si voltarono verso di me e alcuni, come i fratelli Stoll, ridacchiarono.
Annabeth scavalcò con un balzo la panca e mi raggiunse, scura in volto.
Io deglutii e, arrossendo, le afferrai il polso, trascinandola fuori, lontano dagli sguardi curiosi dei nostri compagni.
“Percy, mi hai fatto morire di paura!” Gemette, abbracciandomi forte.
Io le appoggiai le mani sui fianchi, accarezzandola dolcemente.
“Ero solo andato a fare due passi,” le dissi.
Annabeth teneva la testa premuta sul mio petto e riuscivo a sentire i suoi capelli solleticarmi la pelle del collo. Era una bella sensazione e avrei voluto che non finisse mai.
“Non farlo mai più,” sussurrò, strofinando il volto sulla mia maglietta. “Non sparire mai più senza avvertire. Pensavo che ti fosse successo qualcosa.”
Le passai le dita tra i capelli con un sorriso e lei aumentò la stretta.
Ripensai alle parole di Luke e quello mi sembrò decisamente il momento giusto per dirle dei miei sentimenti, ma il rumore di qualcuno che si schiariva la gola distrusse ogni mia iniziativa.
Ci allontanammo, voltandoci. Sulla soglia del padiglione,Grover ci guardava con uno strano sorrisetto sulle labbra.
“Non vorrei interrompervi, piccioncini." Io e Annabeth arrossimmo. “Ma Chirone ha indetto una riunione speciale in vista di…ehm, be’, della situazione.”
Annuii, scambiandomi uno sguardo carico di significato col mio migliore amico.
Era uno sguardo con cui io gli dicevo che avevo paura per lui e lui mi diceva che ne aveva per me. Uno sguardo con cui lui mi augurava buona fortuna e io l’auguravo a lui. E, forse, sul fondo dei suoi occhi, c’era anche qualcosa che mi diceva che era felice per me e Annabeth e che avrei dovuto spicciarmi a confessarle i miei sentimenti.
Ci disse che dovevamo andare nella sala del ping-pong in una decina di minuti e poi ci lasciò soli.
Io e Annabeth ci guardammo, poi lei mi prese per mano e, insieme, ci avviammo verso la Casa Grande.
 
Chirone passò l’ora seguente a discutere di schemi e tecniche di combattimento. Alla riunione, ovviamente, erano presenti i capogruppo di tutte le case.
“Mi servono almeno quindici guerrieri nelle retrovie, pronti ad andare in aiuto,” disse Chirone, mentre faceva avanti e indietro per la stanza sulla sua sedia a rotelle. “Aaron, cinque dei tuoi fratelli prenderanno i pegasi e ci difenderanno dall’alto.”
Aaron Mitchell, il nuovo capogruppo della casa di Apollo, annuì, dicendo che forse sarebbe riuscito a rimediare perfino dieci arcieri.
Chirone annuì.
“Voglio Ares e Atena in campo, tutti, nessuno escluso.” Clarisse e Annabeth annuirono, decise. “Michael, come stiamo ad armi?”
Il capogruppo della casa di Efesto alzò lo sguardo. Somigliava a Charlie Beckendorf e sentii una forte stretta allo stomaco.
“Ci abbiamo lavorato tutta la notte e alcuni dei miei fratelli sono ancora nelle fucine,” riferì. “Un centinaio spade, cinquanta scudi e alcune lance.”
Chirone fece un rapido conto mentale, poi annuì distrattamente.
“Considerato quello che già abbiamo e le armi personali di ogni eroe dovrebbero essere abbastanza come riserva.”
Rimase in silenzio per qualche minuto, poi spostò lo sguardo sui fratelli Stoll.
“Connor e Travis.” I due gemelli guardarono il centauro. “I guerrieri più forti in campo, gli altri nelle retrovie. E discuterete con Annabeth per le imboscate laterali,” poi Chirone spostò lo sguardo su Samantha Bell, la capogruppo della casa di Afrodite.
“Faremo del nostro meglio,” disse solo la ragazza, abbozzando un sorriso.
Chirone annuì, per poi guardare me e Nico con aria stanca.
“Percy e Nico, voi combatterete nella mischia, immagino.”
“Ci puoi scommettere,” dissi, guardandolo con sicurezza.
Il centauro continuò a blaterare riguardo trucchi di guerra e schemi, e anche se avrei dovuto starlo ad ascoltare, il mio sguardo si posò su Rachel. Se ne stava seduta in un angolo, con le mani giunte in grembo e i capelli rossi tirati indietro da una bandana verde. Si stringeva le mani così forte che le nocche le erano diventate bianche. Aveva il volto pallido e sembrava terrorizzata.
Quando la riunione finì, si ammassarono tutti davanti alla porta, e quando riuscii finalmente ad uscire, Rachel si era volatilizzata.
Mi guardai intorno alla ricerca dei suoi inconfondibili capelli rossi, ma sembrava come svanita.
“Hai visto Rachel?”
Annabeth mi guardò storto, sbuffando.
“È andata verso le capanne,” mi rispose infine. “Sembrava un po’ turbata a dire la verità.”
Annuii distrattamente e, senza aggiungere altro, mi affrettai verso le capanne.
Sentii lo sguardo confuso e un po’ irritato di Annabeth pesarmi sulla schiena, ma non me ne curai. Dovevo trovare Rachel.
 
Riuscii finalmente a scovare la mia amica seduta sui gradini della casa di Poseidone.
Si teneva la testa tra le mani e aveva lo sguardo basso.
“Ehi,” esclamai, avvicinandomi.
Quando Rachel alzò lo sguardo sentii come una specie di colpo nel petto. Stava piangendo.
Cercò di asciugarsi velocemente le lacrime, ma non riuscì a nasconderlo.
In silenzio, mi sedetti accanto a lei, non del tutto sicuro di cosa fare. Non sono mai stato un bravo consolatore.
Con gesti impacciati, le passai un braccio attorno alle spalle, stringendola un po’.
Inaspettatamente, Rachel si voltò verso di me e si buttò tra le mie braccia, aggrappandosi alla mia maglietta e affondando il viso nell’incavo del mio collo.
“Va tutto bene,” le sussurrai, dandole dei lievi colpetti sulla schiena.
“Mi dispiace!” gemette con il volto premuto contro il mio petto. “È solo che…” le sue parole si persero in un singhiozzo ed io le dissi di fare silenzio, trasformando le pacche in delicate carezze.
“Non voglio che tu muoia,” sussurrò dopo un po’, quando i singhiozzi si calmarono.
“Rachel, io…”
Lei allontanò il viso dal mio petto, portando gli occhi all’altezza dei miei. Erano ancora rossi e acquosi, ma accesi da una sorta di scintilla.
“Lo so,” si limitò a dire, con tono rassegnato. “Solo un idiota non si accorgerebbe di come la guardi,” abbozzò un sorriso e venne da sorridere anche a me.
Poi si fece seria e mi appoggiò le mani sulle spalle. Per un momento pensai che volesse baciarmi di nuovo, invece si limitò a guardarmi.
“Voglio sapere solo una cosa.” Annuii. “Se non fossi tornato, l’estate scorsa. Se… se non l’avessi rivista, avresti scelto me?”
Deglutii, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi carichi di aspettative.
Se devo essere sincero, avevo provato qualcosa per Rachel e avevo anche pensato che avremmo perfino potuto provare a stare insieme; avevo pensato che avrebbe potuto funzionare. Ma Annabeth era Annabeth e sapevo che avrei scelto lei, alla fine, in qualunque modo fosse andata.
Probabilmente, il fatto che ci mettessi così tanto a rispondere le bastò per capire che la mia risposta non era quella che lei si aspettava.
“Non importa,” sussurrò, più a se stessa che a me.
“Mi dispiace tanto, Rachel.”
Lei annuì, avvicinandosi al mio viso con un sorriso amaro sulle labbra.
“Anche a me.”
Mi stampò un leggero bacio sulla fronte e poi si allontanò, alzandosi in piedi e lasciandomi da solo sui gradini della casa di Poseidone.
Per un momento mi chiesi se, a volte, fare la cosa giusta faccia male come fare quella sbagliata. Ero certo di aver fatto bene, ma vedere Rachel andare via mi aveva fatto sentire una leggera fitta al cuore. Anche se il vero colpo di grazia l’ho ricevuto quando ho alzato gli occhi.
Annabeth mi guardava, lontana non più di dieci metri da me, e aveva gli occhi umidi e arrabbiati e io mi sono sentito uno schifo. Perché la stavo facendo stare male e perché, alla fine, non avevo neanche raccomandato a Rachel di non avvicinarsi alla battaglia.
 
Per tutto il resto della giornata Annabeth mi evitò. Io, da parte mia, passai tutto il tempo a giocherellare con le perle della sua collana e con l’anello di suo padre.
Forse avrei dovuto cercare di avvicinarla e dirle che aveva frainteso e che stavo solo cercando di consolare un’amica, ma non so perché avevo la sensazione che volesse essere lasciata in pace per un po’. Ma io sono iperattivo, e non ci riesco a stare con le mani in mano, perciò, dato che non potevo parlare con Annabeth e non mi sembrava proprio il caso di andare di nuovo a cercare Rachel, sono andato nell’arena ad allenarmi.
“Ti dovresti riposare,” esclamò una voce alle mie spalle, parecchie gocce di sudore e manichini distrutti dopo il mio arrivo.
Nico mi osservava con l’ombra di un sorriso sul volto pallido.
Non sapevo se avercela ancora con lui per non averci detto subito dei piani di Minosse, oppure lasciar perdere. Alla fine, dato che stavamo andando incontro all’ennesimo scontro nel quale rischiavamo di lasciare la pelle, decisi che non valeva la pena serbare rancori e lo invitai ad allenarsi con me.
“La mia arma sono i morti, Jackson,” ridacchiò. “E tu dovresti davvero riposare.”
“Lo so,” risposi, staccando la testa al manichino con un colpo di spada. “Ma ho troppe cose per la testa.”
Nico annuì, anche se non credevo che potesse comprendere ciò che intendevo.
Si mise a sedere al margine dell’arena, in silenzio.
“Sa del tuo Tallone, lo sapevi?”
Mi voltai e annuii.
“Immagino che dovremmo coprirti le spalle,” continuò. “Letteralmente.”
Abbozzai un sorriso.
“Già.”
“Chi altri lo sa?” chiese. “A parte me.”
“Annabeth,” risposi, infilzando la lama di Vortice nel busto del manichino, facendo fuoriuscire qualche ciuffo di paglia. “Solo Annabeth.”
Annuì, osservandomi mentre menavo fendenti in direzione del manichino.
Rimanemmo in silenzio, ognuno concentrato sui propri pensieri, finché il suono della conchiglia, che di solito ci richiamava al padiglione per il pranzo o per la cena, non ruppe la quiete.
Io e Nico ci guardammo: era il momento.
Voltai le spalle al manichino e poi, insieme, raggiungemmo gli altri ai margini della foresta. 


-
Siccome siete dei lettori meravigliosi, io aggiorno! =D
Lo so che sono passati solo cinque giorni dall'ultimo capitolo, che dovrei studiare invece che passare i pomeriggi su EFP e tanti altri bla bla bla, ma la storia è finita e non sto nella pelle per finire di pubblicarla. L'unico problema è che non posso postare un capitolo al giorno (insomma, dopo mi ammazzereste perché vi assillo troppo), perciò devo trattenermi e rispettare dei tempi di cinque-sei giorni tra una pubblicazione e l'altra... eh...
Be', che dire, spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Ringrazio i cinque amorini che hanno recensito il capitolo precedente e tutti quelli che hanno messo la storia tra le seguite e le preferite, e anche chi ha solamente letto. Davvero, mille mille grazie! 
A tra cinque giorni allora, un bacione a tutti,
Emily :3 

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Capitolo 11
*** Attacco briga con un morto vivente ***


#11. Attacco briga con un morto vivente

 
Quasi tutti i ragazzi del Campo Mezzosangue – almeno, tutti quelli che erano riusciti a raggiungerci all’ultimo minuto – erano schierati all’entrata della foresta.
Alcuni figli di Ermes si erano spinti fino al Pugno di Zeus, per vedere com’era la situazione, e sette figli di Apollo stavano preparando i loro pegasi.
Inspirai, avanzando tra la folla.
Alcuni ragazzi mi dettero delle incoraggianti pacche sulle spalle e io li ringraziai con un sorriso.
Quando individuai Annabeth e Grover li raggiunsi, con Nico alle spalle.
“Ragazzi!” Esclamai.
Annabeth e Grover si voltarono, lasciandomi intravedere la chioma ramata di Rachel.
Quando si spostarono dalla visuale, riuscii a vedere cosa indossava: un’armatura.
La mia espressione mutò radicalmente.
“Che cos’hai intenzione di fare?!” Gridai, raggiungendoli con un paio di falcate.
Rachel mi guardò con aria decisa.
“Combattere, mi sembra ovvio,” rispose, alzando il mento.
Se la situazione non fosse stata tanto grave sarei scoppiato a ridere. Rachel non era il tipo da battaglia. Non era una mezzosangue, prima di tutto; non aveva ricevuto il giusto addestramento. Non era il tipo, punto.
“Ma ti ha completamente dato di volta il cervello?” Esclamai. “Ti farai ammazzare!”
Annabeth sbuffò, portandosi le mani sui fianchi.
“Qui tutti state facendo qualcosa,” mi rispose, arrabbiata. “Tutti combattete, rischiate la vita e io dovrei chiudermi nella Casa Grande insieme e aspettare che qualcuno venga a dirmi com’è andata a finire? Puoi scordartelo!”
“Ma è pericoloso!” Insistei, guardandola negli occhi.
“Lo so,” ribatté. “Ma voglio farlo lo stesso.”
“Le coprirò le spalle io,” intervenne Annabeth, guardandomi storto. “E anche Grover baderà a lei, vero?”
Grover annuì, abbozzando un sorriso incoraggiante.
“Ehi, non sono una bambina!” Protestò Rachel, infilandosi un elmo troppo grande per lei. Quando la protezione di bronzo le calò troppo sugli occhi la guardammo e scoppiammo a ridere. Rachel sbuffò.
“Grazie,” le dissi, con un sorriso.
“Non sei l’unico eroe di questa profezia, Percy,” ribatté lei. “Perciò smontati, non lo faccio per te. Lo faccio per me.”
Ridacchiai e potrei giurare di aver visto Annabeth e Rachel che si scambiavano un sorriso.
Appoggiai una mano sulla spalla di Grover, stringendola appena.
“Vedete di non farvi ammazzare,” dissi loro, guardandoli uno per uno.
Annabeth mi rifilò un’occhiataccia; nonostante tutto doveva avercela ancora con me per quella mattina.
“Vedi di non farti ammazzare tu, piuttosto,” replicò, incrociando le braccia al petto.
Io le sorrisi, avvicinandomi di qualche passo.
“Farò il possibile, Sapientona.”
Avrei voluto dirle tante altre cose e magari abbracciarla o darle un bacio, così, tanto per essere sicuro che, se fossi morto, l’avrei fatto per l’ultima volta. Ma non feci in tempo a fare altro, perché Chirone ci richiamò: era arrivato il momento della battaglia.
 
Riuscivo a scorgere la paura sui volti dei ragazzini che erano arrivati al campo appena quell’anno; bambini di dodici anni con in mano spade enormi e armature più grandi di loro. Probabilmente, quando alla loro età ero partito per la mia prima impresa, dovevo avere avuto un’espressione molto simile a quelle che avevano loro.
Il mio sguardo si posò su Grover. Teneva la spada con mani tremanti e sbatteva gli zoccoli a terra con un misto di impazienza e paura.
I nostri sguardi s’incontrarono e lui belò sottovoce.
Spostai gli occhi su Nico che se ne stava in un angolo. Indossava i soliti abiti scuri e pieni di teschi e al fianco sinistro gli pendeva una spada, ma avevo la sensazione che non l’avrebbe usata.
Poco lontano da lui c’era Rachel. Era assurdo vederla in tenuta da battaglia e un po’ mi faceva paura.
Imponendomi di scacciare via le preoccupazioni distolsi lo sguardo e, neanche a farlo apposta, i miei occhi si posarono su Annabeth.
Stava discutendo con un paio dei suoi fratelli. Teneva i capelli raccolti in una coda improvvisata e sia il pugnale di bronzo celeste che il capello degli Yankee pendevano dalla sua cintura.
Una ciocca grigia faceva bella mostra di sé tra le altre bionde e mi venne da sorridere.
Quando Annabeth si voltò mi scoprì a guardarla, ma, diversamente dal solito, non distolsi lo sguardo.
Stavo per raggiungerla quando una voce familiare parlò alle mie spalle.
Mi voltai e mi ritrovai a guardare un paio di occhi blu elettrico circondati da qualche lentiggine.
“Talia!” Esclamai.
La figlia di Zeus sorrise, sistemandosi meglio l’arco sulla schiena.
“Ci incontriamo sempre in circostanze allegre, eh, Testa d’Alghe?” sorrise.
Anche io le sorrisi. Mi sarebbe piaciuto abbracciarla, ma sapevo che le altre Cacciatrici non avrebbero visto di buon occhio la cosa, perciò me ne rimasi al mio posto.
Annabeth, invece, si gettò sulla ragazza, stritolandola in un abbraccio dei suoi.
Talia rise, ricambiando la stretta.
“Come mai siete qui?” Le chiesi, quando Annabeth si fu staccata.
“Mi sembra ovvio, no?” rispose Talia. “Il campo è in pericolo.”
“Ma voi non fate parte del campo,” ribattei. “Voglio dire…alle Cacciatrici non piace questo posto.”
I capelli della figlia di Zeus lanciarono qualche scintilla, rizzandosi.
“Questo posto è stato la mia casa e voi siete i miei amici,” mi rispose, seria. “Loro hanno capito che io dovevo essere qui, oggi.”
Annuii, appoggiandole una mano sulla spalla e stringendo appena.
“Sono felice che ci sia anche tu.”
Lei sorrise e, insieme, raggiungemmo Grover.
Quando il satiro vide Talia scoppiò a piangere e la strinse in un abbraccio.
Taaalia,” belò, tirando su col naso.
“Ragazzo-capra!” esclamò lei, con un sorriso enorme sul viso.
Anche Nico e Rachel ci raggiunsero e, anche se avevano incontrato Talia quell’estate, feci comunque le presentazioni.
Quando le dissi il nome di Rachel, Talia la squadrò e poi spostò lo sguardo su Annabeth che alzò le spalle.
Rimanemmo a chiacchierare per un po’, e più il tempo passava più i battiti del mio cuore aumentavano. Passavo in rassegna le facce dei miei amici e mi chiedevo cosa avrei fatto se uno di loro fosse morto. O come avrei fatto senza di loro se fossi morto io. Mi sono fermato a pensare a come sarebbe stato l’Ade senza i belati di Grover, o i modi di fare di Talia, o senza Annabeth. Quest’ultimo pensiero mi provocò una stretta allo stomaco.
Talia stava parlando di come la sua vita era cambiata da quando si era unita alle Cacciatrici di Artemide – dato che l’ultima volta che ci eravamo visti non c’era stato poi così tanto tempo per parlare – quando un figlio di Ermes sbucò da bosco.
“Stanno arrivando!” Urlò, terrorizzato.
“Eroi!” Gridò Chirone ed il silenzio calò sul Campo Mezzosangue. Tutti i volti erano girati verso il centauro e in ognuno di essi si poteva leggere la paura.
Chirone passò in rassegna le nostre facce una a una e poi, con sguardo rammaricato, alzò la spada verso il cielo. Noi lo imitammo.
“Che gli dei possano proteggervi!” Esclamò e, quando uno zombie sbucò tra gli alberi, ci gettammo tutti all’interno della foresta, senza sapere se ne saremmo mai usciti.
 
Combattere nel bosco era più difficile di quando giocavamo a Caccia alla Bandiera. Forse per colpa dell’oscurità totale che era improvvisamente calata su tutto il campo, o forse perché Caccia alla Bandiera era un gioco, quella battaglia no.
Polverizzai una decina di zombie con estrema facilità ed ebbi come il sospetto che volessero farmi passare. Probabilmente mi aspettava qualcosa di peggio nel cuore del bosco.
Annabeth era alle mie spalle e Grover combatteva fianco a fianco con Rachel.
Non riuscivo a vedere né Talia né Nico, ma sperai che la stessero cavando.
Affondai Vortice fino all’elsa nello sterno di uno degli zombie e vidi i suoi occhi spalancarsi, le pupille dilatarsi e poi il suo corpo ridursi in polvere.
Per un momento pensai che, in quanto morti viventi, anche loro provassero dolore venendo uccisi. Scacciai velocemente quel pensiero quando un altro zombie mi si parò davanti, facendo cozzare Vortice con la lama di un’altra spada.
Non credevo che alcuni di loro fossero armati.
Provai a menare un fendente, ma lo zombie era molto abile. Quando il mio sguardo si posò sul suo volto verdognolo mi accorsi che somigliava a qualcuno che avevo conosciuto. Poi mi resi conto che stavo combattendo contro l’unico zombie armato.
Il morto vivente ghignò, cercando di colpirmi la testa per togliermi l’elmo.
“Non mi riconosci, Percy?” Cantilenò, incalzandomi con colpi sempre più forti.
Io indietreggiai. Menava fendenti così velocemente da mettermi nella condizione di non riuscire ad attaccare. Potevo solo difendermi.
Intravidi alcuni dei figli di Apollo che lanciavano frecce dall’alto ed un gruppetto di figli di Ermes che combatteva vicino al Pugno di Zeus.
“Ti facevo più sveglio,” continuò lo zombie.
Con una risatina, lentamente il corpo del mostro si trasformò. La pelle verdognola e coperta di macchie divenne candida e liscia. Gli occhi velati si tinsero di azzurro, i capelli incrostati di sporco divennero biondi e ordinati. E il suo corpo scheletrico si fece muscoloso.
Alle mie spalle, Annabeth trasalì.
“Da-David?” Balbettò, togliendo la lama del suo pugnale dalla spalla di uno zombie, che si polverizzò.
David Walesh rise, spostando per una frazione di secondo lo sguardo su Annabeth. Io rimasi immobile a fissarlo, ancora scioccato.
David non mi era mai stato troppo simpatico, ma non avrei mai pensato che fosse un mostro.
“Come…? Come hai…?” Annabeth sembrava piuttosto sconvolta.
David le sorrise, lasciando perdere me per avvicinarsi a lei. Sarebbe stato un ottimo momento per colpirlo, ma altri zombie mi vennero addosso, distraendomi.
“Minosse mi ha riportato in vita subito,” lo sentii dire, mentre riducevo in polvere i morti viventi. “Sono stato il primo.”
C’era una punta d’orgoglio nelle sue parole ed io provai una gran pena per lui.
“Dovevo tenervi d’occhio,” spiegò. “Separarvi, se possibile.”
“Separarci?”
Mozzai la testa ad uno zombie e guardai Annabeth e David con la coda dell’occhio.
“Sareste stati più deboli,” disse. “Ma per qualche ragione assurda a te quell’idiota piace davvero, perciò non c’è stato niente da fare.”
Si avvicinò ancora di più ad Annabeth e io feci per raggiungerli, ma un altro gruppo di zombie si avventò su di me, tenendomi impegnato.
“Allora vi ho spiati, riferendo ogni vostra mossa a Minosse. Se siete riusciti a trovare il vostro amico satiro è perché Minosse ha voluto così.”
Annabeth strabuzzò gli occhi e David colmò lo spazio che li divideva. Le prese una ciocca di capelli tra le mani e la guardò negli occhi.
“Potresti passare dalla nostra parte,” le sussurrò. “Posso chiedere a Minosse di risparmiarti e potresti stare con me. Saresti felice, Annabeth.”
In quel momento mi venne in mente il mio sogno e la scena che Giano mi aveva mostrato. Io vincevo la battaglia, ma Annabeth aveva scelto David.
Mi tremarono le gambe e riuscii per miracolo a infilzare lo zombie che mi aveva attaccato prima che facesse qualche diavoleria da morto vivente.
Intanto, David aveva abbassato il viso verso quello di Annabeth. Una rabbia cieca mi fece tremare e lanciai un ringhio.
Mi buttai verso di loro, ma un gruppo di zombie mi parò la strada e Annabeth non si spostava. Annabeth se ne stava lì, in attesa che David riempisse lo spazio tra i loro volti. Sentii le braccia pesanti e Vortice che mi cadeva di mano.
“Saresti più felice, insieme a me.”
Fu un attimo. Annabeth tirò fuori il pugnale dal fodero e lo conficcò nel petto di David che strabuzzò gli occhi.
“Non credo,” gli disse, prima che lui si trasformasse in polvere.
Io riuscii a riafferrare Vortice prima che gli zombie mi fossero addosso e, dopo averli polverizzati uno a uno, raggiunsi Annabeth correndo.
La trovai che ripuliva la lama da un liquido verdognolo che immaginai essere il sangue dello zombie.
“Come va? Stai bene?” Lei annuì, alzando lo sguardo.
“Sai, pensavo che fossimo amici,” mi disse, rinfilando il pugnale nel fodero. Raccattò la spada da terra e poi mi guardò, abbozzando un sorriso.
Non avevo la più pallida idea di cosa dirle, perciò feci la cosa che mi sembrava più logico fare. L’abbracciai.
Intorno a noi infuriava la battaglia, e io la strinsi forte, affondando il naso tra i suoi capelli scompigliati che profumavano di pulito.
La sentii che si aggrappava alla mia maglietta, stringendola tra i pugni chiusi e poi sussurrò un lieve grazie, attutito dalla stoffa.
“Io l’ho sempre detto che ci provava con te,” commentai, dopo qualche minuto.
Annabeth rise, staccandosi da me e impugnando lo spada.
Ci mettemmo schiena contro schiena e riprendemmo a combattere, polverizzando zombie su zombie.
“Anche io ti ho sempre detto che Rachel aveva una cotta per te,” ribatté. “Siamo pari.”
Io arrossii.
“Immagino di sì.”
Combattemmo in silenzio per un po’, poi una domanda mi salì su per la gola e rotolò fuori dalla mia bocca, senza che io potessi farci niente.
“Se Luke non fosse morto, avresti scelto me?”
Sentii Annabeth sussultare. Prima di rispondermi fece fuori un paio di zombie.
“Io ho scelto te, Testa d’Alghe,” disse con tono dolce. “Ti ho scelto molto prima che Luke morisse.”
Le mie labbra si aprirono in un sorriso enorme e, nonostante tutto quello che stava succedendo, mi sentii la persona più felice del mondo. Poco importava che stessimo rischiando la vita e che saremmo potuti non arrivare vivi al mattino seguente.
C’ero io e c’era lei, e ci eravamo scelti, niente poteva andare storto.
“Finalmente ci rincontriamo.” O forse no.
Io e Annabeth alzammo lo sguardo. Gli zombie smisero di attaccare ed un uomo alto, con una lunga tunica scura ed i capelli castani intrecciati ci sorrise da un angolo del bosco.
“Minosse!” Esclamò la voce Nico e la battaglia riprese a infuriare. 



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Et voilà, come augurio anticipato di Halloween, ecco qua l'undicesimo capitolo. Ormai manca poco alla fine e ci terrei tantissimo a far sapere a tutti quelli che hanno seguito questa storia fino ad ora quanto il loro supporto sia stato per me importante. 
Non sono quel tipo di autrice che pubblica le cose per avere recensioni o che, se non ne riceve, cancella le storie perché non vuole far vedere che nessuno le ha apprezzate. Però il vostro appoggio è stato comunque il motore che ha fatto progredire questa storia e che mi ha spinta a migliorarmi e a dare sempr e il massimo per non deludervi. 
Un grazie speciale va a Aurora_Boreale che ha recensito il precedente capitolo correggendolo e facendomi notare gli errori che commetto di frequente: il tuo aiuto è stato davvero prezioso, grazie mille :3
Be', spero davvero che questo capitolo vi piaccia. 
Un bacio a tutti, 
Emily. 

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Capitolo 12
*** Stringo un patto pericoloso ***


#12. Stringo un patto pericoloso

 
Il figlio di Ade si gettò su Minosse, iniziando a colpirlo con la spada. Ma, ovviamente, la lama rimbalzava sul corpo del redivivo re di Micene, senza lasciargli neanche un graffio.
“Dovresti  ringraziare il vostro amico Nico se ho deciso di ottenere l’invulnerabilità,” ci disse, ridendo ad ogni colpo che Nico sferrava. “È stato lui a darmi l’idea.”
Nico ringhiò, colpendolo sempre più forte.
Io e gli altri eravamo impegnati a respingere gli attacchi degli zombie.
Avrei voluto andare in aiuto di Nico, ma una parte di me sapeva che non avrebbe voluto. Minosse l’aveva ingannato e aveva voluto servirsi di lui per ritornare in vita, diciamo che Nico non gli aveva propriamente perdonato la cosa.
Solo dopo parecchi colpi da parte del figlio di Ade, Minosse iniziò a rispondere, menando fendenti sempre più forti.
Quando Nico cadde a terra, con la spada di Minosse puntata contro il petto, trattenni il respiro.
Se il signore dei fantasmi un’anima si prenderà infine
Degli Ultimi Eroi essa decreterà la dolorosa fine
Deglutii, scambiando uno sguardo con Annabeth, Grover e Rachel. Stavano pensando anche loro la stessa cosa.
“Fermo!” Gridai, scansando alcuni zombie e raggiungendo Nico e Minosse.
Il Signore dei Fantasmi alzò lo sguardo su me.
“Ma guarda un po’ chi c’è,” cantilenò. “Il nostro piccolo eroe, Percy Jackson. Cosa c’è, sei in cerca di altra fama?”
Io strinsi i denti, aumentando la presa sull’elsa di Vortice.
Abbassai lo sguardo su Nico che mi fissava con gli occhi sgranati.
“Voglio farti una proposta,” dissi.
Minosse si fece interessato. “Sentiamo, eroe.”
Io deglutii, inspirando.
“Un combattimento tra me e te,” sentii i miei compagni trattenere il respiro e Nico scosse violentemente il capo. “Siamo entrambi invulnerabili, sarebbe uno scontro alla pari.”
Minosse rise, alzando il volto verso il cielo scuro.
“E perché mai dovrei accettare?”
“Perché se mi batti avrai vinto,” dissi. “Sono stato io a convincere Nico che lo stavi usando.”
“Non è vero!” Gridò il figlio di Ade. “Non è vero!”
Minosse lo zittì, affondando lievemente la punta della lama nel suo collo.
“È colpa mia se il tuo piano è andato in fumo. Se mi uccidi, avrai la tua vendetta.”
Minosse sembrò pensarci su e io intravidi Talia che teneva una mano sulla bocca di Annabeth, per impedirle di intervenire.
“Chi mi garantisce che uno dei tuoi amichetti non mi colpirà alle spalle?”
“Perché giureremo sullo Stige,” risposi, sicuro di aver fatto una buona mossa. Minosse, infatti, si fece più attento.
“Un giuramento sullo Stige è un giuramento potente, Percy Jackson.”
Annuii.
“Lo so. Per questo io giuro sullo Stige che nessuno dei miei amici ti attaccherà alle spalle.”
Lo guardai, in attesa di una risposta.
Il vecchio re lanciò uno sguardo al suo esercito di morti viventi, poi riportò l’attenzione su di me. Io e il Signore dei Fantasmi ci guardammo negli occhi, poi lui sorrise.
“E sia, eroe,” acconsentì. “Giuro sullo Stige che nessuno dei miei attaccherà te alle spalle. Ci ritroveremo qui tra due ore e vedi di essere solo.”
Annuii e gli zombie si ritirarono, seguiti dal loro padrone. Quando l’oscurità li inghiottì, sentii Talia imprecare e una mano mi afferrò il polso, voltandomi.
Annabeth mi schiaffeggiò con tutta la forza che aveva, facendomi frizzare la guancia. Mi coprii la parte colpita con la mano, guardandola con incredulità.
“Sei un imbecille!” Gridò, gli occhi pieni di lacrime. “Il più imbecille che io abbia mai conosciuto!”
“Perché gli hai detto che mi hai convinto tu?” Intervenne Nico, furibondo.
“I-io… Era la cosa giusta da fare,” mi giustificai, evitando di guardare gli occhi di Annabeth. “Ci avrebbe uccisi tutti. In questo modo-”
“Ucciderà solo te!” Gridò Annabeth. “Ma che problemi hai, si può sapere?!”
Mi lanciò un’ultima occhiata infuriata e poi se ne andò, dirigendosi a passo di carica verso il margine della foresta.
Io sospirai e Talia mi guardò con comprensione.
“Le passerà,” disse, abbozzando un sorriso. Poi, inseguì la figlia di Atena.
“Sei proprio matto, amico,” commentò Grover, belando.
L’unica che non aveva detto ancora niente era Rachel. Se ne stava con lo sguardo basso e le mani strette sull’impugnatura della spada.
Gli altri ragazzi si erano già allontanati dal campo di battaglia, trascinandosi dietro morti e feriti. Avrei voluto raggiungerli per sapere come stavano, ma le gambe sembravano ancorate al terreno.
“Grover,” il mio migliore amico mi guardò. “Credo che tu debba, sai, spezzare il legame.”
I suoi occhi si fecero cupi, ma annuì.
Afferrò il flauto e, chiudendo gli occhi, iniziò ad intonare una strana
melodia – decisamente migliore delle sue versioni delle canzoni di Michael Jackson e Hilary Duff. Lentamente, un sottile filo dorato si formò nello spazio che ci divideva; sembrava partire direttamente dall’interno del corpo di Grover per finire dentro al mio.
Quando la canzone finì, Grover ripose il flauto e sussurrò qualche strana parola, tenendo con tutte e due le mani la parte di filo che usciva dal suo addome.
“Fai quello che faccio io,” sussurrò e io obbedii.
Afferrai la mia estremità di filo con entrambe le mani e, lentamente, iniziai a farlo vibrare, come faceva Grover.
Senza rendermene conto, mi ritrovai a borbottare qualcosa in greco antico e, pochi minuti dopo, il filo dorato si era spezzato, e ricadeva inerme sul terreno scuro.
Con la stessa lentezza con cui era apparso, il filo sparì.
“È finito?” Domandai, tastandomi il punto dell’addome dal quale era uscito il filo.
Grover annuì, sistemandosi meglio l’armatura sul petto.
Il satiro si avvicinò a me e mi strinse in un abbraccio. Sentii Nico borbottare qualcosa  a proposito della mia stupidità, prima di raggiungere gli altri fuori dal bosco.
“Sei ancora il mio migliore amico,” mi sussurrò Grover.
Io annuii, battendogli delle leggere pacche sulle spalle.
“Anche se sei davvero un idiota,” aggiunse e io risi.
Grover si allontanò da me e disse che doveva andare ad assicurarsi che Juniper stesse bene. Dopo avermi rivolto un ultimo sorriso, sparì tra gli alberi.
Mi ricordai che Rachel era rimasta con me solo quando la sentii tirare su col naso.
Mi guardò nello stesso modo in cui mi aveva guardato Annabeth, poi si avvicinò e mi passò le braccia attorno al busto, appoggiando il viso sul mio petto.
“Non morire, okay?”
Sorrisi, accarezzandole i capelli.
“Ci proverò.”
Rachel si staccò e, dopo avermi afferrato la mano, mi trascinò con sé fuori dal bosco.
 
Dopo essere usciti dalla foresta, Rachel si era allontanata per andare in infermeria e io avevo ripercorso la strada che avevo fatto quella mattina per andare alla tomba di Luke.
Non so perché, ma avevo la sensazione di dover andare lassù.
Come immaginavo, non c’era nessuno e la lapide bianca si stagliava sul terriccio scuro solitaria. Mi avvicinai con pochi passi e poi m’inginocchiai.
“Fa male?” domandai, all’improvviso. “Morire, intendo.”
Non mi aspettavo una risposta, ma il fantasma di Luke mi si parò davanti, proprio come quella mattina. Il corpo evanescente e il viso solcato da un sorriso beffardo.
“Nah,” rispose. “Ma non è ancora il tuo momento.”
“Probabilmente non sai l’ultima novità.”
Luke ridacchiò, fluttuando verso di me.
“Be’, a riguardo posso dire che non cambi mai,” disse. “Devi sempre fare l’eroe. Ma te lo ripeto, non sarai tu a morire, stanotte.”
Mi si gelò il sangue nelle vene. Pensai a tutte le persone a cui volevo bene e la paura mi si propagò nel petto, immobilizzandomi.
“Chi morirà?” domandai, sentivo la gola secca.
Luke non rispose.
Rimanemmo in silenzio per un po’, poi io mi alzai.
“Per quello che vale,” aggiunse Luke, mentre me ne andavo. Mi girai a guardarlo. “Mi dispiace, Percy.”
Lo guardai negli occhi; quegli occhi ora trasparenti che un tempo erano stati azzurri. Era stato mio amico. Nonostante tutto, Luke era stato mio amico.
Gli sorrisi.
“Anche a me.”
Luke ricambiò il mio sorriso e poi svanì nell’aria, e io detti le spalle alla sua tomba.
 
Quando andai in infermeria, trovai decine di figli di Apollo occupati nel curare i feriti. Erano particolarmente nervosi e quando chiesi a uno di loro se aveva visto Annabeth, per poco non mi prese a pugni.
“Solo Zeus sa che confusione c’è qua dentro,” disse, irritato. “Non so dov’è la tua ragazza. Cercatela.” E detto questo afferrò una ciotola piena di ambrosia e mi piantò in asso, dileguandosi.
Sbuffai, guardandomi intorno.
Intravidi Rachel che fasciava una gamba a una delle figlie di Afrodite e Grover che faceva avanti e indietro, passando da un letto all’altro.
Di Annabeth, però, non c’era traccia.
Sconsolato uscii dall’infermeria. Mancava ancora un’ora all’incontro con Minosse, così decisi di andare a fare una passeggiata in riva al lago, come quella mattina.
Il lago delle canoe e la spiaggia erano gli unici due posti in cui riuscivo a pensare. Forse era merito dell’acqua, fatto sta che quando volevo stare solo era lì che trovavo la pace che mi serviva.
Quando arrivai al lago delle canoe, però, mi resi conto che non ero stato l’unico ad avere avuto l’idea di rifugiarmi lì.
Annabeth e Talia erano sedute sul molo, con i piedi a mollo nell’acqua.
Per un primo momento pensai di defilarmi silenziosamente, facendo finta di non averle viste, ma Talia si voltò e mi vide. Mi guardò per qualche secondo, poi appoggiò una mano sulla spalla di Annabeth e le sussurrò qualcosa all’orecchio prima di alzarsi.
Quando mi passò accanto mi guardò con aria severa.
Aspettai che Talia se ne fosse andata prima di raggiungere Annabeth.
“Ehi,” le sussurrai, sedendomi accanto a lei.
Lei non si voltò neanche a guardarmi, continuando a muovere i piedi nell’acqua fresca del lago.
“Ciao,” rispose.
“Sei ancora arrabbiata?” Domandai, sperando che la risposta non fosse un pugno in faccia.
Annabeth, invece, alzò lo sguardo e mi guardò. Non l’avevo mai vista così ferita.
“Non riesci proprio a capirlo, eh?” Disse, sembrava esausta.
Io scossi il capo, rammaricato.
“Perché devi fare sempre l’eroe?” Gemette. “Ti farai ammazzare!”
“Sai anche tu che era la cosa giusta da fare. Dovevo farlo,” ribattei.
“Già e io?”
La guardai sbattendo le palpebre, confuso.
“Tu combatti contro Minosse, ci salvi tutti, diventi un eroe e io? Se tu muori, cosa faccio io?”
Le presi il volto tra le mani, asciugandole con i pollici le poche lacrime che le erano cadute negli ultimi minuti.
“Tu sopravvivi.”
Annabeth scosse il capo, chiudendo gli occhi.
“No!” Esclamò. “Mi lascerai qui con una vecchia foto e qualche ricordo, e io non voglio! Non ti permetterò ti lasciarmi, Testa d’Alghe!”
Avvicinai il suo viso al mio e la baciai, stringendole forte le guance e sentendo le sue lacrime bagnarmi le mani.
“Non me ne frega niente della profezia,” continuò, quando mi staccai. “Questa non è solo la tua battaglia, Rachel ha ragione.”
La baciai di nuovo, premendo la bocca sulla sua per imprimermi il ricordo dei suoi baci nella mente.
“Sei un idiota,” sussurrò infine, appoggiando la fronte sulla mia.
Io annuii. Annabeth appoggiò le mani sui miei polsi e iniziò ad accarezzarmi con i pollici, guardandomi dritto negli occhi.
Rimanemmo sul molo a parlare finché Chirone non venne a chiamarci.
“È ora,” disse solo, guardandoci con rammarico.
Io annuii e, afferrando la mano di Annabeth, mi alzai.
Camminammo mano nella mano fino all’entrata del bosco, dove tutti gli altri ragazzi del campo ci stavano aspettando.
Ricevetti qualche abbraccio e un sacco di pacche sulle spalle. Alcuni ragazzi mi augurarono buona fortuna da parte di quelli che erano rimasti bloccati in infermeria.
Poi Grover si avvicinò a me e, piangendo e belando, mi strinse in un abbraccio, bagnandomi tutta la maglietta.
Anche Talia mi abbracciò, nonostante fosse contro le regole delle Cacciatrici, e, stando ben attento che nessuno ci sentisse, le suggerii di andare a trovare Luke più spesso.
Nico mi strinse la spalla con la mano, incoraggiandomi con lo sguardo, e Rachel si lasciò andare ad un abbraccio, anche se Annabeth le rivolse un’occhiataccia.
Annabeth si avvicinò per ultima e, prima che Chirone o chiunque altro potesse dirmi che era arrivato il momento della mia morte, la strinsi tra le braccia, ignorando gli sguardi dei nostri compagni.
Lei mi appoggiò la testa sul petto, ricambiando la mia stretta.
Dopo qualche minuto, mi allontanai leggermente, mantenendo però le braccia avvolte attorno alla sua vita.
“Se provi a morire giuro che ti ammazzo,” mi sussurrò, appoggiando la fronte contro la mia.
Io sorrisi, avvicinandomi di qualche centimetro.
Presi fiato e sentii le guance andarmi a fuoco. Ero consapevole che l’intero Campo Mezzosangue, Chirone compreso, stava guardando noi, ma dovevo dirglielo. Dovevo dirglielo adesso, altrimenti non avrei potuto farlo più.
“Annabeth?”
Lei mi guardò negli occhi. Abbozzò un sorriso, ma riuscivo a leggere nel suo sguardo la paura.
“Sì?”
Deglutii, sentendo il cuore che aumentava i battiti e le farfalle che avevano fatto il nido nel mio stomaco svolazzare da una parte all’altra.
“Ti amo.”
La vidi spalancare gli occhi e tra la folla qualcuno lanciò dei fischi. Ma non m’importava, era la cosa giusta da dire.
Le detti un bacio veloce e poi mi allontanai, afferrando Vortice e avventurandomi nell’oscurità della foresta. 





Be', ormai siamo quasi alla fine. Come al solito, volevo ringraziare tutti per il supporto che mi date, davvero, siete meravigliosi :) Spero che questo capitolo non vi deluda.
A prestissimo, 
Emily. 

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Capitolo 13
*** Dico addio alla mia vita ***


#13. Dico addio alla mia vita

 
Il bosco non era mai stato così silenzioso e sinistro.
Perfino i mostri che di solito si aggiravano tra gli alberi, nascondendosi dietro a rocce e cespugli, avevano cessato di respirare e si erano ritirati in una sorta di temporaneo letargo.
Dopo aver mosso pochi passi all’interno della foresta mi fermai, voltandomi indietro brevemente. I tronchi degli alberi mi coprivano la visuale, ma riuscii lo stesso a scorgere una ciocca bionda dei capelli di Annabeth e il cuore mi si riempì di paura e di dolore.
Non volevo morire, ecco tutto. Mi avviavo verso una morte quasi certa e non volevo morire. E il motivo, per quanto egoistico, era solo uno: non ci sarebbe stata Annabeth negli Inferi. Non ci sarebbero stati Grover, Tyson, Talia e tutti i miei amici. Sarei stato solo, per l’eternità.
Ma dovevo tentare di battere Minosse, dovevo almeno provarci. Forse non ne sarei uscito vittorioso – anzi, quasi sicuramente ne sarei uscito morto – ma dovevo proteggerli; volevo proteggerli. Soprattutto Annabeth.
Continuai ad avanzare nell’oscurità, Vortice puntata verso il buio che si estendeva di fronte a me. Il bagliore leggero della lama di bronzo celeste illuminava appena le ombre del bosco, permettendomi almeno di vedere dove mettevo i piedi.
Mano a mano che mi avvicinavo al centro della foresta, ogni passo diventava più pesante e sentivo il mio Tallone d’Achille più esposto che mai, già immaginando Minosse che mi conficcava la lama della sua spada nella schiena.
L’unica cosa che mi consolava erano i ricordi che avevano iniziato ad affollarmi la mente. Risate attorno al falò, passeggiate in riva al lago, giornate passate al cinema e scherzi a opera dei figli di Ermes.
Chiusi le palpebre e continuai a camminare lentamente verso il mio nemico, permettendo ai ricordi di cullarmi per un’ultima volta.
 
Mia madre si fermò davanti al cinema e, prima che potesse fare qualche altra battuta su me e Annabeth, scesi dalla macchina e le dissi di venirmi a riprendere entro un paio d’ore.
Lei mi guardò contrariata, ma io le voltai le spalle e mi avviai verso l’entrata.
Nonostante fosse un comunissimo lunedì pomeriggio, il cinema era pieno di gente. Vagai nell’ingresso per un sacco di tempo e, solo dopo aver urtato per due volte di seguito una signora anziana che aveva accompagnato i nipotini a vedere un film d’animazione, finalmente la individuai.
Se ne stava in piedi davanti a un cartellone pubblicitario, con le mani dietro la schiena e lo sguardo assente puntato sulle porte a vetri che davano sull’esterno.
Indossava un paio di pantaloncini di jeans ed una canottiera bianca; la collana con le perle del Campo Mezzosangue e l’anello di suo padre le pendeva dal collo e avrei giurato che il piccolo rigonfiamento sul suo fianco fosse il suo inseparabile pugnale di bronzo.
Aveva la pelle più abbronzata e i capelli leggermente più lunghi rispetto all’ultima volta in cui l’avevo vista e, arrossendo, pensai che fosse anche più carina.
Scuotendo il capo per scacciare quel pensiero, mi avvicinai a lei con un mezzo sorriso.
“Ehi!” Esclamai.
Annabeth spostò lo sguardo su di me, aprendosi subito in un gran sorriso.
Sentii le gambe diventare di gelatina e ci volle tutto il mio autocontrollo per non cadere a terra come un imbecille.
“Percy,” disse e il suo sguardo s’illuminò.
 
“Muovi quelle gambe, Testa d’Alghe!”
Talia sogghignava di fronte a me, parando ogni colpo della mia spada. Probabilmente Luke doveva averle insegnato qualcuno dei suoi trucchetti quando lui, Annabeth e Talia avevano vissuto insieme.
Per quanto mi costasse, dovevo ammettere che il figlio di Ermes era davvero un ottimo spadaccino – almeno, lo era sempre stato tutte le volte che avevo combattuto contro di lui.
“Vai Perce!” Gridò Grover dagli spalti e io mi voltai  un secondo per sorridergli.
Annabeth me l’aveva detto centinaia di volte di non abbassare mai la guardia, infatti, pochi secondi dopo mi ritrovai con il sedere per terra e la spada di Talia puntata alla gola.
“Battuto,” disse la figlia di Zeus, gli occhi scintillanti – letteralmente. “Per la terza volta di fila.”
Mi aiutò a rialzarmi e mi pulii i pantaloni dalla polvere.
“Stai perdendo colpi, Percy,” mi disse la ragazza, battendomi una pacca sulla schiena.
Io e Talia avevamo un rapporto di odio-affetto che anche io faticavo a capire. Un minuto litigavamo furiosamente e quello dopo ci davamo pacche incoraggianti sulla schiena, solo Zeus sapeva come mai.
“Dai, andiamo a darci una sistemata,” propose, passandomi un braccio dietro alle spalle e guidandomi verso le capanne.
 
La spiaggia era deserta – cosa strana dato che era il quattro luglio – e io ed Annabeth stavamo camminando in silenzio sulla riva.
Era stata lei ad invitarmi a vedere i fuochi; o meglio, io avevo cercato d’invitarla, avevo fallito e lei aveva invitato me.
“Allora…” di solito io e Annabeth avevamo sempre qualcosa da dirci, anche se si trattava di insulti, ma in quel momento mi sentivo come se mi fossi dimenticato l’alfabeto. Non ero in grado di mettere insieme neanche una parola, figuriamoci una frase di senso compiuto.
Un boato spezzò il silenzio e il primo fuoco d’artificio esplose nell’aria, tingendo la notte di azzurro.
Io e Annabeth alzammo gli occhi verso il cielo, dove le scintille colorate creavano immagini tra le stelle.
“Sono davvero belli,” commentò Annabeth, mettendosi a sedere sulla sabbia.
Io la imitai, sistemandomi non lontano da lei.
I fuochi d’artificio si susseguirono nel cielo uno dopo l’altro, colorando la notte di mille colori diversi che illuminavano il viso ammaliato di Annabeth, rendendola ancora più bella di quanto già non fosse.
Non era la prima volta che pensavo a lei in quei termini e la cosa mi fece arrossire. Ma Afrodite ci aveva visto giusto, due anni prima, il mio cuore stava andando da Annabeth. In quel momento non avrei saputo dire se l’avesse raggiunta o no, ma ero certo che ci stesse provando con tutto se stesso.
Sentii le dita di Annabeth sfiorare le mie ed abbassai lo sguardo. Dato che sono iperattivo, quello fu come un segno per me e le afferrai la mano, stringendola delicatamente.
Annabeth non mi guardò né disse nulla, si limitò a fissare il cielo con un timido sorriso che le danzava sulle labbra.
 
Il fuoco si alzava imponente, di un rosso acceso.
Eravamo tutti seduti in cerchio e cantavamo le canzoni del campo, accompagnati dalla musica dei figli di Apollo.
Bastoncini pieni di marshmellow sfioravano le fiamme, permettendo ai dolciumi di arrostirsi un po’.
Istintivamente sfiorai la perla sulla mia collana, la mia prima perla, il mio primo anno al Campo Mezzosangue.
Passai velocemente in rassegna i volti di tutti i presenti: Annabeth, Grover, Chirone, Luke, Silena Boureguard, Charlie Beckendorf; perfino la faccia di quella piantagrane di Clarisse mi fece sentire meglio. Sorrisi scorgendo Grover che mi guardava.
Avevo trovato una casa, finalmente, un posto dove ero stato accettato per quello che ero: un ragazzino dislessico e iperattivo, con un forte disturbo dell’attenzione.
Il mio sguardo si soffermò su Annabeth.
Degli amici. Per la prima volta nella mia vita, avevo trovato degli amici.
 
Il vento mi accarezzava il viso, scompigliandomi i capelli.
‘Come va lassù, capo?’
Sorrisi, accarezzando la criniera di Blackjack.
“Quante volte devo dirti di non chiamarmi capo?”
Il pegaso nitrì, scendendo in picchiata verso la spiaggia di Long Island.
Sul bagnasciuga, Tyson si divertiva a lanciare legnetti nell’acqua, rimanendo estremamente deluso quando affondavano.
‘Scendiamo, capo?’
“Sì, Blackjack,” dissi, osservando mio fratello con un sorriso. “Scendiamo.”
Ovviamente quando Tyson mi vide m’incrinò un paio di costole con uno dei suoi soliti abbracci.
“Percy!” Urlò e le sue enormi braccia ciclopiche mi avvolsero.
“Tyson,” gemetti, cercando di respirare nel suo abbraccio. “Mi soffochi così.”
Il mio fratellastro ciclope mi lasciò subito andare, indietreggiando di un paio di passi.
“Oh, Tyson ha fatto male Percy?”
Io scossi il capo, abbozzando un sorriso.
“Nah, tranquillo campione.”
Tyson sorrise e mi strinse di nuovo tra le braccia, nonostante tutto era bello riaverlo a casa.
 
Sospirai, riaprendo gli occhi.
Minosse era in piedi davanti a me, con un ghigno stampato in viso ed una lunga spada nera tra le mani. Era fatta con lo stesso metallo di quella di Nico, il metallo dello Stige.
“La morte ti saluta, Percy Jackson,” disse, brandendo la spada verso di me. “Farò a pezzi te e tutti coloro che hanno impedito la mia vendetta! Questo stupido campo morirà con i tuoi stupidi amici, semidio.”
Assottigliai le palpebre, puntandogli contro Vortice.
Nonostante avessi una paura matta di morire, mi sentii invadere da una strana forza.
Minosse conosceva il mio punto debole, era vero, ma era altrettanto vero che eravamo io e lui, solo io e lui, raggiungere la mia schiena non sarebbe stato così facile. Io non gli avrei reso così facile raggiungere la mia schiena.
“Io invece penso che la morte sarebbe molto più felice di rivedere te,” ribattei, “le sarai mancato.”
Minosse rise, conficcando la spada nel terreno. Chiuse gli occhi e stese le braccia davanti a sé, aprendo le mani con i palmi rivolti verso il basso.
Una profonda crepa si aprì poco lontano dai suoi piedi e da essa fuoriuscì un sottile alito di fumo.
Non era la prima volta che vedevo una cosa del genere e un brutto presentimento mi attanagliò lo stomaco. La mia mente tornò ad alcuni anni prima, in una sera d’estate fuori dal padiglione, con una statuetta di Mitomagia dimenticata a terra e Nico Di Angelo che scappava nella foresta.
“Vedi, Percy, io non sono un mortale qualunque,” disse il vecchio re, con voce cantilenante. “Io sono un semidio, proprio come te.”
Deglutii.
“Un semidio?”
Minosse annuì, compiaciuto per l’effetto che la notizia aveva avuto su di me. Nella mia mente apparve l’immagine del volto della statuetta di Mitomagia che Nico aveva lanciato a terra dopo che Bianca era morta per recuperarla. Probabilmente dovevo avere la stessa espressione di allora, solo che adesso non c’erano statuette di Mitomagia da raccogliere né semidei tredicenni da recuperare.
“Sono sicuro che hai già capito tutto,” mi rispose, gettando uno sguardo sulla crepa che aveva fatto apparire dal nulla.
Non so perché, ma in quel momento mi sentii arrabbiato con lui ancora di più.
Con un grido, mi lanciai in avanti, ma la lama di Vortice cozzò con quella della sua spada.
Tentai un altro affondo, ma Minosse se la cavava bene per uno che era stato un fantasma per secoli. Parò quasi tutti i miei colpi e i pochi che andarono a segno rimbalzarono sulla sua pelle come fosse fatta d’acciaio.
Combattemmo per diversi minuti, o forse per ore, non saprei dirlo, ma le nostre spade continuavano a cozzare tra di loro.
Provai a colpirlo in diversi punti del corpo, ma nessuno sembrava essere il suo Tallone d’Achille, doveva aver scelto con molta cura il punto dove far convergere la sua mortalità.
“Perché non ti arrendi, Perseus Jackson?” Cantilenò, incalzandomi con una serie di colpi velocissimi. “Sai anche tu che non vincerai questa battaglia.”
Io ringhiai, gettandomi su di lui.
In quel momento, mentre la mia spada e la sua riprendevano a scontrarsi, mi tornò in mente l’ultima parte della profezia.
Se il signore dei fantasmi un’anima prenderà infine
Degli Ultimi Eroi essa decreterà la dolorosa fine
Non potevo permettergli di uccidermi, se fossi morto io i miei amici mi avrebbero seguito negli Inferi.
Per un momento non mi sembrò una cosa poi così brutta. Almeno, avremmo potuto passare l’eternità insieme, nell’Elisio.
Scossi il capo, scacciando quei pensieri, e guardai Minosse con gli occhi ridotti a fessure.
Sarebbe stato lui a passare l’eternità con qualcuno, non io e i miei amici. Lui avrebbe passato l’eternità insieme alle Furie e ai Segugi Infernali, bloccato nei Campi della Pena.
“Sei tenace, ragazzino,” disse, parando uno dei miei colpi. “Devo riconoscertelo.”
Poi un sorriso si fece largo sul volto pallido del re. Dalla crepa che aveva creato prima che iniziassimo a combattere uscirono un paio di zombie, entrambi armati.
“Hai giurato sullo Stige!” Esclamai, guardando i morti viventi che si avvicinavano a me.
“Ho giurato che nessuno dei miei ti avrebbe attaccato alle spalle,” rispose, probabilmente aveva calcolato quella mossa sin dall’inizio. “I miei amici non ti stanno arrivando alle spalle, dico bene?”
Strinsi i denti,ingoiando un’imprecazione.
Con un balzo evitai la lama di uno degli zombie e mi feci scudo dietro ad un albero.
I due mostri mi circondarono, attaccandomi su due fronti. Dopo varie manovre riuscii a portarli di fronte a me, così da avere almeno una panoramica generale dei loro attacchi.
Mentre io mi dannavo con gli zombie, Minosse ci guardava annoiato, con una mano stretta attorno all’elsa della spada.
Finalmente, dopo minuti interminabili di combattimento, Vortice ridusse i due zombie in polvere. Ma ne arrivarono altri, e questa volta mi colpirono alle spalle.
Guardai Minosse con incredulità, mentre uno dei mostri mi afferrava per il collo e l’altro mi bloccava le braccia.
Riuscirono a togliermi Vortice dalle mani e mi fecero inginocchiare a terra, con la schiena rivolta verso l’alto.
Vidi i piedi di Minosse avvicinarsi e sentii un brivido nascere dal mio Tallone d’Achille.
“Hai infranto un giuramento sullo Stige,” dissi, la bocca impastata di saliva.
Minosse rise, premendo la punta della spada sulla parte bassa della mia schiena. Mi aveva solo sfiorato, ma una fitta di dolore mi paralizzò gambe e braccia, facendomi strizzare gli occhi.
“Sono un figlio di Ade, Percy Jackson, lo Stige non mi fa affatto paura.”
Lo sentii spingere la punta della spada leggermente più a fondo e pensai al volto di Annabeth: i capelli biondi e gli occhi grigi, la pelle abbronzata e quel suo sguardo di rimprovero che mi rivolgeva spesso. Vidi quel volto cambiare nei miei ricordi, da quello di una ragazzina di dodici anni con una marea di perle attaccate alla sua collana a quello della ragazza più bella che avessi mai visto.
Con un sorriso amaro pensai che mi avrebbe ammazzato per essere morto.
Chiusi gli occhi e tanti altri volti mi inondarono la mente, susseguendosi uno dopo l’altro velocemente.
“Dì addio alla tua vita, figlio di Poseidone.”
Annabeth, pensai e poi fu il buio.
 





-
Non picchiatemi, per piacere! 

Bene, dopo questa implorazione, passiamo alle cose serie. Allora, allora, allora, il capitolo. Be', intutile dire che ormai siamo alla fine, il prossimo sarà l'ultimo capitolo (che conterrà anche un epilogo) e poi quest'avventura sarà finita. Va be', ma lasciamo i sentimentalismi a lunedì quando aggiornerò - e siete autorizzati a venirmi sotto casa con i forconi se non lo faccio. 
So che ho aggiornato appena pochi giorni fa, ma questo capitolo era pronto e non mi piace lasciare troppo le persone sulle spine se posso evitarlo, anche se un pizzico di suspance ci vuole ;)
Comunque, spero che anche questo capitolo vi soddisfi e spero anche, quindi, che mi facciate sapere cosa ne pensate. 
Grazie a tutti per il vostro supporto, 
Emily. 


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Capitolo 14
*** Il sacrificio di un amico (Epilogo) ***


Bene, iniziamo dai saluti lacrimosi. Sì, saranno dei saluti lacrimosi perché io sono sentimentale. 
Allora, volevo ringraziare tutti quelli che hanno seguito questa storia dall'inizio alla fine, quelli che l'hanno seguita solo a metà e quelli che ancora devono leggerla. Grazie mille. 
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito in queste settimane, apprezzando il mio lavoro, incoraggiandomi e correggendomi quando necessario. 
Ringrazio tutti quelli che hanno messo la storia tra seguiti/preferiti, mi metterei qui a citarvi tutti, ma non voglio annoiare nessuno. Voi sapete chi siete e sapete che queste poche righe sono per voi. 
Sul serio, il vostro supporto è stato fondamentale per questa storia, perché mi ha permesso di migliorarmi e di spremermi le meningi alla ricerca delle idee migliori, per soddisfarvi e non deludervi. Mi avete permesso di mettermi alla prova e non c'è 'grazie' che possa bastare per farvi sapere quanto io l'abbia apprezzato. 
Spero solo che questo ultimo capitolo non vi deluda, perché mi ci è voluto tanto per farlo venire fuori, ma ne sono abbastanza soddisfatta, nonostante tutto. 
Niente, tutto qui. Non sono stata poi tanto lacrimosa, dopotutto. 
Le strofe che troverete all'inizio e alla fine del capitolo sono tratte dalla canzone Hello degli Evanescence. 
Buona lettura a tutti e grazie mille, 
Emily. 

PS. Qualsiasi riferimento a Harry Potter e il Calice di Fuoco (il film) è puramente intenzionale. 



 








#14. Il sacrificio di un amico

 

Suddenly I know I’m not sleeping
Hello, I’m still here
All that’s left of yesterday

 
Sentii un clangore metallico accompagnato da un grido di battaglia.
L’Inferno era così rumoroso anche la prima volta che ci ero stato? Boh, magari qualche anima stava cercando di scappare e le Furie si erano infuriate – per l’appunto.
Aprii gli occhi,ma quel che vedi non erano né le teste di Cerbero né l’entrata degli Inferi. Vidi la terra scura della foresta e due cumuli di polvere dorata vicino ai miei piedi: gli zombie.
Udii di nuovo il rumore del metallo che cozzava e, finalmente, mi decisi ad alzare gli occhi. Quel che vidi mi mozzò il fiato in gola.
Nico Di Angelo stava combattendo contro Minosse. Nico Di Angelo stava combattendo contro Minosse con una forza che non gli avevo mai visto sfoggiare. Menava colpi e fendenti a più non posso, guardando l’ex fantasma con una smorfia di rabbia pura, una rabbia che di solito non dovrebbe vedersi sul volto di un essere umano.
“Sembra che anche tu non abbia tenuto fede alla nostra promessa, semidio,” disse Minosse, guardandomi.
“I-io…” l’arrivo di Nico mi aveva talmente scioccato che non avevo idea di cosa dire.
“Lui non c’entra,” intervenne Nico, cercando di nuovo di colpire Minosse. “È una cosa tra me e te, Minosse. Doveva esserlo fin dall’inizio.”
Il re sogghignò, ferendo la spalla di Nico con la lama della propria spada. Non era una ferita profonda, ma Nico strizzò gli occhi dal dolore.
Non ero mai stato ferito da una lama fatta di metallo dello Stige, ma quel fiume infernale aveva il potere di fare un sacco di cose, perciò non mi stupii nel constatare che anche il metallo che proveniva dal suo letto avesse qualche proprietà fuori dal comune.
“Mi hai preso in giro!” Disse Nico, tentando un affondo. “Mi hai usato!” Continuò, colpendolo di nuovo. Ad ogni colpo di Nico, ne seguiva uno di Minosse. “Hai usato mia sorella!” Questa volta gridò, tentando di affondare la lama nell’addome di Minosse, senza risultato. In compenso il re gli provocò un profondo taglio sull’altro braccio, facendolo urlare di dolore.
Nico indietreggiò, premendosi la ferita con la mano.
“Sei sempre stato molto ingenuo, fratellino,” lo canzonò Minosse.
A quel punto Nico dovette vederci rosso, perché avanzò verso l’altro figlio di Ade a passo di carica, ignorando il dolore che le ferite dovevano procurargli. Puntò la spada verso il collo del nemico e lo raggiunse con un urlo bellicoso.
“IO NON SONO TUO FRATELLO!”
La lama della spada di Minosse bloccò il colpo di Nico, ma gli occhi del re furono illuminati da un lampo di paura. Eccolo, il suo Tallone d’Achille.
Avrei voluto tirare fuori Vortice dalla tasca dei jeans e aiutare Nico, ma mi sentivo stranamente affaticato e stanco. Avevo le membra pesanti e gli occhi mi si chiudevano dalla stanchezza. Il semplice tocco della spada di Minosse doveva aver ferito la mia parte mortale molto più di quanto immaginassi.
Nico, intanto, aveva messo qualche metro di distanza tra lui e il nemico, ma anche lui doveva aver capito che Minosse aveva scelto di radunare la sua mortalità  sul collo.
“Non puoi battermi, nessuno di voi può battermi!” Esclamò il re, puntando la spada davanti a sé.
Osservai Nico e Minosse guardarsi con aria di sfida, entrambi pronti a colpire l’altro con la propria spada fatta di metallo dello Stige.
E una battaglia tra due fratelli si consumerà.
Tirai fuori Vortice dai jeans e tentai di alzarmi in piedi, ma ricaddi inevitabilmente a terra.
Minosse e Nico ripresero a combattere, attaccando e difendendo a ritmi sempre più incalzanti. Nico ormai perdeva sangue da più di una ferita e sembrava sul punto di crollare.
“L’anima di tua sorella Bianca non era degna di essere riportata alla vita,” disse Minosse, guardando Nico con aria soddisfatta. “Sta meglio dove si trova, nell’Elisio, insieme a voialtri eroi. Lo stesso posto dove finirai anche tu tra meno di un attimo.”
Nico urlò e si gettò su Minosse. Era un trucco, la spada del re era puntata verso il ragazzino, pronta a trapassarlo da parte a parte non appena fosse arrivato abbastanza vicino.
“Nico, no!” Urlai, ma Nico non mi sentì. Non volle sentirmi.
La spada di Minosse gli si conficcò nella pancia, facendolo rantolare.
“Saluta papà da parte mia,” sussurrò Minosse con un sorriso.
Non riuscivo a vedere bene il viso di Nico dalla mia posizione, ma mi sembrò che stesse sorridendo anche lui.
“Oh, non ce ne sarà bisogno,” nel tempo di un battito di ciglia, con le ultime forze che gli erano rimaste, Nico sollevò la sua spada e la conficcò nella pelle del collo di Minosse, facendolo urlare.
Il re lasciò la presa sull’elsa della spada e cadde a terra, le mani premute sulla ferita infertagli dal fratello. Il modo in cui il suo corpo si contraeva a causa del dolore mi ricordò la morte di Luke e il cuore mi si strinse in una morsa.
Per un attimo chiusi le palpebre, poi vidi il corpo di Minosse smettere di muoversi e un attimo dopo la testa gli ricadde all’indietro e le pupille rimasero immobili a fissare un cielo che non potevano più vedere.
Un gemito e il rumore di una spada che cadeva a terra mi fecero ricordare che Nico era ferito.
Spostai lo sguardo su di lui e vidi che si era tolto la lama dal ventre. Raccogliendo le poche forze che avevo mi alzai e lo raggiunsi, afferrandolo prima che cadesse a terra.
M’inginocchiai e gli feci appoggiare il capo sulle mie gambe, cercando di bloccare il flusso di sangue che usciva dalla ferita con la mia felpa.
“A-allora?” Balbettò, le labbra più pallide del solito. “C-come sono andato?”
Premetti leggermente la felpa sul suo ventre e Nico gemette, strizzando le palpebre con fatica. Sentivo la sua pelle diventare sempre più fredda e vedevo i suoi occhi farsi più opachi, lontani, come se lui non fosse più del tutto lì.
“Dove hai imparato a combattere così?” Gli chiesi, sistemandolo meglio sulle mie gambe.
Nico abbozzò un sorriso.
“S-si imparano ta-tante cose negli Inferi,” mi rispose con fatica.
Rimanemmo in silenzio per un po’e io pensai di lanciare un grido per attirare l’attenzione degli altri e farci soccorrere, ma quando aprii bocca Nico scosse il capo.
“No-non c’è più…tempo,” tossì ed una goccia di sangue gli sporcò le labbra.
“C’è sempre tempo,” risposi, deciso. “Tu non morirai, Nico. Non stanotte.”
Il figlio di Ade mi sorrise, non l’avevo mai visto sorridere per due volte di seguito da quando era morta sua sorella – cioè, praticamente da quando lo conoscevo.
“Va-va bene così,” disse, chiudendo le palpebre.
Io gli afferrai il viso, scuotendolo.
“No, non chiudere gli occhi!” Lo incitai, stringendogli le guance. “Aprili!”
Lui obbedì, ma il suo sguardo non era rivolto a me, bensì a una figura che stava avanzando verso di noi dal folto della foresta.
Era il fantasma di una ragazza. Non era molto più grande di Nico, aveva i capelli che le ricadevano sulle spalle e sorrideva. Lì per lì non la riconobbi, forse perché era evanescente e né i suoi capelli né i suoi occhi avevano più colore, ma Nico capì subito di chi si trattava.
“Bi-Bianca,” rantolò, dando un altro colpo di tosse.
La ragazza annuì, raggiungendoci. Si inginocchiò accanto a Nico e gli accarezzò il volto con una delle sue mani trasparenti.
“Mi dispiace,” sussurrai, guardando il fantasma di Bianca.
Lei alzò lo sguardo su di me e mi sorrise.
“Non devi,” rispose. “Mio fratello ha fatto quello che doveva fare, le cose dovevano finire così.”
Nico la guardò con gli occhi accesi di felicità.
“Sei un eroe, fratellino,” gli disse Bianca, prendendogli il volto tra le mani. Gli lasciò un leggero bacio sulla fronte e poi si alzò in piedi, protendendo una mano verso di lui.
“Posso venire con te?” Domandò il ragazzino. Aveva gli occhi pieni di lacrime e la voce incrinata, un po’ per le ferite un po’ per l’emozione.
Bianca lo guardò con dolcezza, nonostante fosse difficile da dire anche i suoi occhi sembravano essere umidi di lacrime.
“Sì,” rispose. “Adesso sì.”
Un attimo dopo Nico Di Angelo chiuse gli occhi per l’ultima volta. Sentivo il suo corpo senza vita pesarmi sulle gambe, mentre il suo fantasma e quello della sorella si avviavano verso il folto della foresta, mano nella mano.
Io sospirai, ricacciando indietro le lacrime.
Nico Di Angelo era stato un ragazzino davvero difficile in vita e in più di un’occasione mi aveva mandato fuori dai gangheri, ma era stato mio amico.
Mi alzai con fatica e presi il corpo di Nico tra le braccia.
Camminare verso il campo fu più difficile di quanto lo fosse stato camminare verso la foresta. Quando tra i tronchi degli ultimi alberi scorsi i miei amici, presi un respiro profondo.
Appena mi videro, iniziarono ad esultare e vidi gli occhi di Annabeth riempirsi di lacrime, ma la loro gioia durò troppo poco.
Chirone si avvicinò a me al trotto, lo sguardo turbato posato sul corpo che tenevo tra le braccia.
“Dobbiamo fargli una cerimonia,” dissi e Chirone annuì.
Alcuni ragazzi di Apollo arrivarono con una barella e portarono il corpo di Nico in infermeria, gli altri rimasero a guardarmi attoniti.
Annabeth fu la prima ad avvicinarsi a me e a stringermi in un abbraccio. Mi sussurrò qualcosa all’orecchio, ma non capii per via dei singhiozzi che le uscivano dalle labbra.
Dopo di lei, tutti gli altri si riunirono attorno a me e ci stringemmo forte l’un l’altro, chi versando qualche lacrima, chi semplicemente stando in silenzio.
Nella mente avevo ancora stampata a fuoco l’immagine di Nico e Bianca che si allontanavano nell’oscurità.
“Grazie, Percy,” mi aveva detto Nico prima di sparire.
E non l’avrei mai dimenticato. Per tutta la vita.
 

All’improvviso mi rendo conto che non sto dormendo
Ciao, sono sempre qui
Tutto quel che è rimasto di ieri

 

- Epilogo

 
Un drappo funebre nero con un teschio bianco al centro bruciava tra le fiamme, levando un’alta scia di fumo grigio.
Chrione si schiarì la voce, spostando lo sguardo dal falò alla folla riunita nel padiglione.
Avrei voluto che la cerimonia in onore di Nico si svolgesse subito dopo la fine della battaglia, ma eravamo tutti troppo stanchi e provati per sostenere altre emozioni. Ma Chirone aveva promesso che l’indomani mattina, subito dopo la colazione, un drappo funebre sarebbe stato bruciato in onore del sacrificio di Nico Di Angelo.
Ed eccoci lì, tutti riuniti attorno ad un falò, a guardare le fiamme come potessero in qualche modo sostituire l’amico che ci aveva lasciati.
La maggior parte dei ragazzi che erano lì non conoscevano Nico di persona, alcuni neanche sapevano chi fosse, ma Annabeth mi stringeva forte la mano e io guardavo il drappo come se fosse Nico stesso a stare bruciando.
“Qualcuno vuole dire qualche parola?” Domandò il centauro, scandagliando la folla con lo sguardo.
Feci scivolare lentamente la mano via da quella di Annabeth e mi avvicinai a Chirone, lo sguardo puntato verso i miei piedi.
Sentii gli sguardi di tutti addosso, ma li ignorai.
Chirone si fece da parte e io mi posizionai di fronte a tutti. Alzai lo sguardo dopo parecchi minuti di silenzio, ma non lo puntai su nessuno in particolare, lo facevo vagare da un volto all’altro, come se non m’importasse che mi ascoltassero davvero.
“Molti di voi non conoscono la storia di Nico,” iniziai. “Anzi, molti di voi non sanno neanche chi sia e non vi biasimo per questo. Nico è rimasto al Campo Mezzosangue per poco tempo prima di fuggire. Alcuni di voi l’avranno incontrato durante la battaglia di Manhattan, ad agosto, e a quei pochi che davvero lo conoscevano e gli volevano bene chiedo di guardare quel fuoco e pensare a lui per un minuto.”
Ci fu un momento di silenzio, in cui molte facce – sicuramente più di quante mi fossi immaginato – si girarono verso le fiamme.
“È stato probabilmente uno dei ragazzini più coraggiosi che abbia mai conosciuto e sono felice che adesso sia di nuovo con sua sorella. Credo che finalmente abbia trovato la felicità che gli mancava.”
Ed era vero, ci credevo veramente. Da quando Bianca era morta Nico aveva fatto di tutto per entrare in contatto con lei, aveva perfino cercato di riportarla in vita! La morte della sorella l’aveva segnato nel profondo e il pensiero di riunirsi a lei lo seguiva come un’ombra, tormentandolo. Adesso quell’ombra era finalmente andata via, il suo tormento finito. Nico era felice, ne ero sicuro.
Mi allontanai e Chirone riprese a parlare.
Il drappo ormai era bruciato e il centauro abbandonò l’aria solenne per comunicarci l’ordine del giorno. Prima che finisse di parlare, però, io lasciai il padiglione e mi avviai verso la spiaggia.
Per un momento pensai anche di tornare alla tomba di Luke per parlare di nuovo con lui, ma poi scacciai quel pensiero e tirai dritto.
La spiaggia di Long Island era sempre la stessa, solo che quel giorno il vento tirava un po’ più forte, mandandomi i capelli da tutte le parti.
Mi misi a sedere sulla sabbia e puntai lo sguardo verso l’orizzonte.
Dopo qualche minuto avvertii una presenza al mio fianco e alzai lo sguardo. Annabeth mi guardava con un sorriso, tenendosi i capelli con le mani affinché il vento non glieli mandasse sul volto.
“Come stai?”
Alzai le spalle e Annabeth si mise a sedere accanto a me. Mi prese per mano e poi appoggiò la testa sulla mia spalla, sospirando.
“È venuta Bianca a prenderlo, sai?” Le dissi, riportando lo sguardo sull’oceano. “Credo che adesso sia davvero felice.”
Annabeth annuì, stringendo leggermente la presa sulla mia mano.
Rimanemmo in silenzio per un po’e fu solo in quel momento, con la testa di Annabeth sulla mia spalla e le onde del mare che quasi mi bagnavano i piedi, che mi resi conto di essere vivo. Ero vivo e avevo un futuro, e delle cose da sistemare.
Abbassai lo sguardo sulla mia ragazza, ricordandomi ciò che le avevo detto prima di entrare nella foresta.
“Ehm,” mi schiarii la voce, attirando la sua attenzione. Annabeth alzò il volto verso di me. “Riguardo quel che ho detto ieri sera-”
Ma non mi lasciò finire. Mi baciò prima che potessi dire qualunque cosa e io la baciai di rimando, passandole le dita tra i capelli e ringraziando gli dei per essere ancora vivo e poterla baciare così.
“Volevi rimangiarti qualcosa, Testa d’Alghe?” Mi disse, guardandomi con aria di sfida.
Oh no, non mi sarei rimangiato proprio un bel niente.
Scossi il capo con un sorriso. E anche Annabeth sorrise, appoggiando la fronte contro la mia.
“Bene, perché anche io ti amo.”
Avete presente le farfalle nello stomaco? Be’, dimenticatele, io non sapevo più neanche dove fosse il mio stomaco. Sapevo solo che anche Annabeth mi amava e per la prima volta non avevo paura che non fosse vero, o che fosse vero solo a metà.
Amava me, aveva scelto me.
“Pensi che avremo mai un po’ di tranquillità?” Mi chiese. Lei per prima sapeva che non sarebbe stato così. E anche io lo sapevo, ma le sorrisi comunque.
“Che cos’è la vita senza un po’ di mostri?”
Annabeth rise e io feci lo stesso. Eravamo lì, io e lei; eravamo sopravvissuti anche a quella guerra e non importava se ci sarebbero state altre battaglie, in futuro, né se avremmo rischiato la nostra vita almeno un altro centinaio di volte. Eravamo lì ed eravamo vivi, e rimane sempre una vita per chi resta. 

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