Questione di apparenza

di Black Drop
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tattoo Disaster ***
Capitolo 2: *** Disappointed girl, Big trouble! ***
Capitolo 3: *** Roller Coaster Sickness ***
Capitolo 4: *** End of War ***



Capitolo 1
*** Tattoo Disaster ***


Tattoo Disaster

 


Faceva un caldo terribile quando uscii di casa. Scrutai strizzando gli occhi il cielo illuminato dal basso sole pomeridiano, non c’era una nuvola. Osservai il ragazzo davanti a me passarsi una mano sui capelli neri, mentre raggiungevamo la macchina metallizzata parcheggiata proprio fuori dal recinto del piccolo giardino.
Quando salimmo sull’auto e mi accomodai nel sedile del passeggero mi passai stancamente una mano sulla fronte, constatando con fastidio che lì dentro faceva ancora più caldo.
“Ti prego spalanca i finestrini, accendi l’aria condizionata, fa’ qualcosa!” esclamai, voltandomi verso il mio interlocutore, seduto al volante.
Lui sorrise e infilò la chiave nel quadro, per poi girarla, accendendo con un rombo la macchina. In un attimo i finestrini erano completamente abbassati e noi percorrevamo velocemente la strada verso il centro città.
“Allora, dove abita la tua amica?” chiese Kirk con aria vagamente annoiata.
“Vicino alla fontana del barbone.” Spiegai con un minuscolo sorriso. Da quando quel barbone si era installato al lato di una fontana in centro, noi eravamo soliti usarlo come punto di riferimento.
Passavamo di lì abbastanza spesso, io soprattutto per andare a lavoro.
In un attimo fummo davanti alla fontana e Kirk accostò.
“Arrivati!” esclamò con un sorriso allegro. “Paghi in contanti?”
“HA!” lo canzonai, prima di stampargli un veloce bacio sulle labbra e scendere dall’auto.
Mi affrettai verso la porta di legno scuro, a cui ero diretta, mentre vedevo con la coda dell’occhio l’auto argentata del mio ragazzo allontanarsi. Automaticamente mi chiesi dove fosse diretto. A fare un giro, aveva detto lui.
Sospirai e suonai il campanello.
“Dana!” sentii pronunciare il mio nome da dietro e mi voltai per squadrare una ragazzina assurdamente familiare, mora, piccola di statura e magra da far paura, con un grosso zaino sulle spalle.
Mi venne quasi un colpo, riconoscendo la mia cuginetta. Per qualche ragione la prima cosa che mi chiesi fu come facesse a tenere quello zaino senza cadere o sbilanciarsi.
“Elena! Che ci fai qui?” domandai, scacciando le stupide domande nella mia testa e facendo spazio ai pensieri più importanti.
Intanto  la porta a cui avevo suonato si apriva con uno scatto dietro di me che osservavo perplessa Elena barcollare verso di me, sotto il peso dell’enorme bagaglio sulle sue spalle.
“Ciao, sei arrivata!” esclamò raggiante la mia amica Juliet, comparsa da dietro la porta di casa sua, mentre mia cugina perdeva l’equilibrio.
La afferrai al volo, impedendole di finire a faccia in terra, schiacciata dal suo stesso zaino e si strinse a me in tutta la sua piccolezza, sotto lo sguardo perplesso di Juliet.
“Ti ho trovata!” strillò Elena tutta contenta e in quel momento realizzai  che c’era qualcosa che non andava.
 
 
“Ok, ora che siamo sole a casa possiamo parlare chiaramente.”
Elena, smise di guardarsi intorno ammirata e mi scrutò curiosa dal divano dove era seduta.
“Cosa ci fai qui?” chiesi, forzando un sorriso. Durante il viaggio in macchina, gentilmente offerto da Juliet, non avevo ascoltato il suo racconto estremamente evasivo e confuso su come era arrivata nella mia città, ma avevo tristemente captato alcune parole tra cui ‘scappata’ e ‘autostop’.
“Mi ci hai portato tu.” Fece lei con naturalezza, cercando di distrarmi. “Così questa è casa tua? È davvero bella!” esclamò mentre riprendeva a guardarsi intorno.
“No, no! Io parlo di Pasadena!” esclamai, cercando di mantenere un tono di voce moderato. Per qualche ragione mi sentivo nervosa. “Che ci fai in questa città? Tu non vivi qui.”
“Solo perché mia madre se n’è voluta andare dopo il divorzio.” Precisò annoiata.
“Mmh…” mi mordicchiai il labbro inferiore, ragionando. “E tua madre è a casa vostra?” Avevo quasi il timore di sentire la risposta.
Lei annuì con un sorriso innocente.
“E sa che tu sei qui?” sibilai , cercando di mascherare il panico che stava iniziando a invadermi. Pregai con tutta me stessa che non avesse davvero fatto ciò che pensavo.
Lei sembrò esitare. “Be’, te l’ho accennato prima in macchina, no? Abbiamo litigato e io… ho deciso di venire a trovare la mia cugina preferita. Non ci vediamo da almeno quattro anni dopotutto.”
“Non cambiare discorso!” le puntai contro un dito con fare brusco. “Sei scappata di casa? Andando in un’altra città, per di più! Sei impazzita?!”
Lei abbassò il capo con aria vagamente colpevole. Esasperata afferrai la mia borsa e cercai il cellulare.
“Che fai, ora?” mi chiese in un filo di voce, mentre componevo il numero di telefono.
La guardai per alcuni secondi, portandomi il telefono all’orecchio e pregando che mia madre rispondesse in fretta.
“Pronto?”
“Ciao, mamma.” Sussurrai facendo scattare in piedi Elena.
Mi dileguai in cucina, ignorando le urla di mia cugina e chiudendo la porta in modo che non potesse entrare.
“Ascolta, Elena è a casa mia.” Cominciai a spiegare frettolosamente. Grave errore con mia madre. “Devi chiam…“
“Chi è a casa tua?” urlò dalla cornetta, sovrastandomi.
Sbuffai. Con mia madre era sempre così. Io le volevo un bene immenso, ma parlare al telefono con lei era terribilmente snervante. Kirk diceva sempre che ero io ad avere poca pazienza, forse era anche un po’ vero, ma nessuno ne avrebbe avuta molta dopo aver avuto una telefonata con quella donna.
“Elena, mamma. Tua nipote.” Sentii solo silenzio come risposta. “La figlia di zia Bernardette.”
“Aaaah!” gridò nuovamente mia madre. “Elena, la piccola Elena!”
Sospirai di sollievo. “Ecco, devi chiamare Bernardette, appunto. Dille che…“
“Aspetta, aspetta!” mi interruppe nuovamente, facendomi sbuffare nervosamente. “Perché devo chiamarla?”
Mi morsi il labbro. Forse avevo davvero troppa poca pazienza e in situazioni come quella – chiusa in cucina, ignorando le urla isteriche di mia cugina provenienti dal soggiorno – non era una cosa buona.
“Ok, te lo spiego di nuovo.” Dissi velocemente. “Elena è a casa mia. È scappata di casa ed è venuta da me. Chiama zia Bernardette e diglielo, così non si preoccupa.”
Ci fu qualche attimo di silenzio.
“Mamma, hai sentito?” domandai, notando che anche Elena si era zittita. Che si fosse fatta male?
“Sì, ora la chiamo.” Rispose mia madre con voce leggermente tesa. “Poi ti faccio sapere quando può venire a prenderla.”
E terminò così la telefonata.
Quando tornai in salotto trovai Elena accoccolata sul divano con le lacrime agli occhi, impegnata a cercare di accarezzare il gatto, che invece la fissava diffidente.
“Glielo hai detto?” chiese in un soffio.
Mi sedetti al suo fianco, separata da lei solo dal gatto. “Ovvio. Hai idea dello spavento che si sarà presa tua madre?”
Lei non rispose. Tirò su col naso, tentando di accarezzare il manto nero di Randy. Lui si ritrasse con uno scatto.
“Questo gatto non vuole essere accarezzato?”
Non capii se fosse una domanda o meno, comunque sorrisi. In un certo senso era vero. In generale sembrava non fidarsi mai delle persone, con la sola eccezione di me e Kirk.
“Non sapevo che avessi un gatto. L’ultima volta che ti ho visto non ce l’avevi.” Mormorò.
“No. Diciamo che l’ho acquisito.” Passai dolcemente una mano sulla testa dell’animale. I suoi occhi freddi mi scrutarono per diversi secondi.
“Acquisito?” mia cugina mi lanciò un’occhiata perplessa.
Annuii. “Quando ho iniziato a vivere col mio fidanzato,” Ammisi con un sorriso dolce. “Il gatto era di un suo amico in realtà, ma non poteva più prendersene cura, quindi l’ha ceduto a noi.” Mormorai, accarezzando delicatamente il diretto interessato.
“Il tuo fidanzato?” chiese Elena. “Hai un fidanzato?”
Risi. “Tesoro, non ci vediamo da quattro anni, io nel mentre ho cambiato lavoro, ho cambiato casa e mi sono fidanzata.” Conclusi compiaciuta. “E ho pure avuto un gatto gratis.”
Grattai il collo dell’animale, mentre lui si acciambellava sulle mie gambe. Dopo alcuni secondi di silenzio alzai lo sguardo su mia cugina, sembrava scioccata.
“In quattro anni è successo tutto questo? Io ho semplicemente quasi finito le superiori e tu in quattro anni…?”
“È normale. Sono adulta, a volte penso che tu lo dimentichi.”
Lei sembrò seccata. Sospirò e iniziò a guardarsi intorno diffidente.
“Quindi vivi con il tuo ragazzo?”
Osservai, deglutendo, l’espressione circospetta che aveva assunto il suo volto.
“Sì.” Risposi con un filo di voce.
Sapevo cosa stava succedendo. E avevo anche una vaga idea di quello che sarebbe successo più tardi, quando il soggetto di quella conversazione sarebbe tornato a casa.
La mia cuginetta era sempre stata un po’ troppo severa e superficiale coi ragazzi. Ma non superficiale come possono essere le oche che si vedono nei film, quelle che pensano solo al bell’aspetto, fregandosene del cervello.
No, Elena era superficiale nel senso che giudicava unicamente dall’aspetto esteriore e sembrava ricordare solo le cose negative di ogni persona. Un uomo poteva anche essere la persona migliore del mondo, ma se aveva qualcosa che a lei non piaceva allora veniva classificato come il male.
E la ciliegina sulla torta era proprio la sua famiglia abbastanza bigotta, se si tralascia il divorzio dei miei zii.
Perciò io sapevo che sicuramente il mio ragazzo non le sarebbe piaciuto. Per niente. Ne ero sicura.
“E dov’è adesso?” chiese sempre più sospettosa.
Bella domanda. Guardai l’orologio e mi chiesi anch’io dove fosse. Non era un po’ troppo tardi per fare solo un giro? Mi domandai se fosse il caso di preoccuparmi. Magari era stato scippato oppure coinvolto in qualche altro casino. Cercai di tranquillizzarmi pensando che Kirk si sapeva difendere discretamente. Era adulto e vaccinato e patentato e chi più ne ha più ne metta.
“È andato… a fare un giro.” Mormorai debolmente.
Lei sembrò notare la mia insicurezza. “Siamo tornate da un bel po’ di tempo ormai.”
Sollevai un sopracciglio leggermente irritata.
“Non è un po’ troppo per fare un giro?” chiese lei con sguardo eloquente.
Capii cosa stava pensando. Non si fidava minimamente di lui ancora prima di vederlo. Mi chiesi come avrebbe reagito quando lui sarebbe tornato.
“Questi non dovrebbero essere affari che ti riguardano.” Sbottai d’un tratto, passandomi nervosamente una mano sui capelli. “Piuttosto tu hai idea di cosa hai scatenato? Non hai ancora compiuto diciotto anni, sei ancora minorenne!”
Lei deviò lo sguardo con aria imbronciata.
“Non ne potevo più di stare lì con quella.” Borbottò alludendo a sua madre. “E comunque manca solo una settimana al mio compleanno.”
Alzai gli occhi al cielo esasperata. Possibile che non capiva.
“Ma come pretendevi che andasse tutto come nei tuoi piani? Scappi di casa, vai in un’altra città, tutta sola, a diciassette anni. Credevi forse che tua madre non avrebbe mosso un dito?” sentivo la testa pulsare. “Magari aveva già chiamato la polizia, non ci hai pensato?”
Gli occhi verdi di Elena si spalancarono posandosi su di me. Sembrava esterrefatta.
“Ma io… credevo… io…” balbettò improvvisamente insicura.
Sospirai, massaggiandomi le tempie con le dita. Iniziavo a sentire un leggero mal di testa. “Non hai pensato minimamente alle conseguenze, lo so.”
Parve indispettirsi.  
“Credevo che tu avresti capito! Sei sempre stata dalla mia parte, mi hai sempre aiutato!”
“Questo è molto più grave di qualsiasi altra cosa tu abbia mai fatto! E quattro anni fa tu eri molto più piccola, ora mi aspettavo un po’ più di maturità da parte tua!”
Osservai i suoi occhi. Erano lucidi. Stava per scoppiare a piangere ed era tutta colpa mia.
“Aspetta” mormorai. “Lo dico per te. Hai idea di cosa poteva succederti?”
Elena parve calmarsi lievemente. Si morse il labbro scrutando con insistenza la vetrata che dava sul giardino.
In quel momento sentii le chiavi entrare nella toppa della porta di casa. Mi alzai di scatto, facendo balzare Randy sul pavimento, per osservare il mio fidanzato che, notai con un sorriso, era tutto intero.
Fu solo dopo che mi ricordai della situazione in cui mi trovavo e sentii mia cugina trattenere il respiro mentre lo guardava.
Sapevo benissimo cosa avrebbe pensato dei suoi capelli lunghi, della sua maglietta dei Cannibal Corpse, della catena appesa ai suoi jeans stretti neri, del tatuaggio sul suo braccio che si intravedeva dalla manica della maglietta. E di tutto l’insieme, in generale.
Guardai Kirk alzare gli occhiali da sole sulla testa e osservare perplesso Elena che dal divano lo fissava ad occhi sgranati, scioccata. Quasi terrorizzata, pensai con un brivido.
Notai che lui a quel punto assunse un’espressione a metà tra il confuso e l’offeso. Poi spostò gli occhi chiari su di me.
“Ciao.” Salutò, avvicinandosi. Scavalcai il divano per raggiungerlo e lui tornò a guardare Elena confuso.
Mi schiarii la gola e mi permisi di colpire delicatamente la nuca della mia cara e bigotta cuginetta. Lei mi lanciò un’occhiataccia e tornò a scrutare orripilata Kirk che probabilmente ai suoi occhi doveva sembrare una specie di teppista di strada. Se non peggio.
“Lei è mia cugina, Elena, è scappata di casa ed è venuta a Pasadena senza dire nulla a sua madre.” Spiegai sentendomi come una guida in un museo. “Ovviamente ho fatto sapere a mia zia che lei è qui. Non so cosa faranno ora.” Aggiunsi a bassa voce.
“Ah.” Disse lui con gli occhi puntati su Elena. “Ciao.” Le disse.
Lei fece una smorfia e si appiattì contro lo schienale del divano, come se avesse paura anche solo di guardarlo in faccia. Come se sparasse raggi laser dagli occhi.
Sospirai e presi per mano il mio fidanzato, trascinandolo in cucina. Dopo aver chiuso la porta lo guardai mortificata.
“Prima che tu possa dire qualcosa, ti spiego subito.”
Kirk parve un attimo confuso. “Be’, innanzitutto, perché mi guardava come… come… se avessi una pistola in mano?”
Pensai a come spiegarmi, corrugando leggermente le sopracciglia.
“Vedi, lei è molto superficiale, tu le devi sembrare una specie di criminale. È stata cresciuta con la convinzione che le persone per bene non vanno in giro con tatuaggi o i capelli lunghi.”
Lui sollevò un sopracciglio, leggermente infastidito.
“Fammi capire, una sorta di esagerazione dei luoghi comuni?” chiese seccato.
Sorrisi mortificata, annuendo. Speravo che non si infastidisse troppo, avrebbe solo peggiorato le cose. Drasticamente.
“Come può una persona simile essere parente tua?” domandò lanciandomi un’occhiata eloquente.
Risposi con uno sguardo inceneritore, facendolo scoppiare a ridere. Mi diede un pizzicotto sulla guancia con un sorriso stupido stampato sulle labbra. Sospirai di sollievo constatando che non sembrava tanto seccato.
Mi diressi verso la porta per sporgermi sul salotto e chiamare Elena. “Vuoi qualcosa da mangiare? O da bere?” chiesi mentre la guardavo alzarsi dal divano.
Comparve sulla soglia subito dopo, alzando le spalle.
“Cosa c’è da bere?”
Aprii il frigo e studiai ogni minima bottiglia.
“Mmh… birra, ma tanto non te ne do , acqua, succo all’ananas, the alla pesca e Cocacola.”
Lei sembrò pensarci su. “Succo.” Mormorò.
Presi la bottiglia e chiusi il frigo. Quando vidi le occhiate scioccate che Elena lanciava in direzione di Kirk, che mangiava innocentemente un dolcetto, capii che non sarebbe stato facile farglielo accettare. Sperai che mia madre chiamasse presto.
 
*
 
“Ecco il tuo succo.” Dana poggiò il bicchiere sul tavolo dove sua cugina si era seduta e mi squadrava come se dovessi tirare fuori da un momento all’altro un fucile o qualche altra arma.
Mi chiesi se la mia faccia fosse davvero così malvagia.
Poi Dana tornò in salotto, lasciando me e la ragazzina soli, in silenzio. L’aria si fece estremamente pesante.
In un primo momento decisi di ignorare lei e le sue occhiatine e pensare solo al mio dolcetto. Non ci riuscii e alzai lo sguardo su di lei, studiando la sua espressione. Notai con fastidio che oltre alla diffidenza o paura che fosse, i suoi occhi mi scrutavano con un velo di superiorità.
Sospirai, passandomi una mano sul viso e andando alla pattumiera per buttare la carta del mio spuntino. Voltandomi notai che la situazione non era cambiata minimamente. Indietreggiai fino a toccare il bancone e poggiarmici riflettendo.
Cosa potevo dirle per rompere quell’atmosfera?
“Dana  non mi aveva mai detto di avere una cugina così piccola.” Dissi cercando di ignorare il suo sguardo e tentando di mantenere un tono o un’espressione neutra.
Lei si mosse nervosamente sulla sedia. Sembrava un tantino a disagio.
“Ah no?” domandò con voce tesa. Poi parve incupirsi. “Da quanto state insieme tu e lei?”
Mi chiesi il perché di quella domanda in quel momento. Cosa c’entrava con il resto del discorso?
“Quattro anni.” Mormorai senza pensarci troppo.
Mai l’avessi fatto!
Lei fece una smorfia. “Oh. E in quattro anni lei non ti ha mai parlato di me?” chiese col capo chino sul suo bicchiere di succo.
Immediatamente mi resi conto del casino in cui avevo appena infilato Dana. Se prima ero a disagio, ora mi sentivo un completo idiota. Dovevo riparare il danno. E in fretta.
“Uhm… be’ sì l’ha fatto!” mi affrettai a ribattere, scrutando il frullatore come se dovessi trovare lì l’ispirazione. “Solo… non ha mai accennato alla tua età. Insomma, tu sembri una delle superiori ancora.” Conclusi con un mezzo sorriso, forse un po’ nervoso.
Lei parve soddisfatta della mia risposta, quindi tornò a scrutarmi torva.
Alzai gli occhi al cielo. Ora ero punto e a capo. Tirai un sospiro di sollievo quando Dana rientrò in cucina.
“Kirk posso parlarti?” chiese, afferrandomi un braccio e trascinandomi fuori dalla stanza, senza troppi preamboli.
“Che succede?”
Lei alzò le spalle e mi sorrise con aria colpevole. “Ecco, mia zia può venire a prenderla solo domani e io non me la sento di lasciarla sola, è ancora piccola.”
Ragionai su quel ‘è ancora piccola’. “Quanti anni ha?”
“Diciassette. Fra una settimana diciotto.” Mormorò chinando il capo.
“Io alla sua età andavo in giro da solo in tutta tranquillità.” Constatai con una risata, prima di ricevere un pugno sulla spalla.
“Lo so, ma non posso mica lasciarla…” sibilò lei indispettita. “E poi tu sei un altro discorso.”
Le lanciai un’occhiataccia e la vidi ghignare.
“Farò finta di non aver sentito.” Decretai stizzito. “Va bene. Rimarrà qui, ovviamente.”
“Ok, ma non dirle che arriverà sua madre. Scapperebbe di nuovo, perciò le diremo che può rimanere.”
Annuii.
Quando tornammo in cucina la ragazzina aveva finito il succo e aveva cominciato a fissare con spiccato interesse la ciotola dei croccantini di Randy.
Si voltò con uno scatto e ci osservò come fossimo le guardie di una prigione con una carcerata.
“Hai parlato con mia madre?” chiese in un filo di voce, stringendo gli occhi puntati su Dana a due fessure. “Avete deciso di mandarmi via?”
Non riuscii a trattenere una risata e mi guadagnai così un’occhiataccia da parte della ragazzina.
Mi ero già dimenticato il suo nome.
“No.” Dana sostenne lo sguardo di sua cugina. “Puoi stare qui per un paio di giorni.”
Lei mostrò un’espressione vagamente stupita e compiaciuta al tempo stesso. Mi schiarii la gola.
“Ok” esordii, chiedendomi se fosse indelicato fare quella domanda. “Scusate ma mi sono dimenticato il suo nome.”
“Elena.” Dana mi sorrise dolcemente. Era stata carina. Tutto il contrario della diretta interessata che invece aveva ricominciato a guardarmi male, probabilmente lanciandomi maledizioni.
Sospirai, seccato da quella situazione. Perché diavolo questa ragazzina ce l’aveva con me?
Va bene, avevo i capelli lunghi e un tatuaggio. Cose a cui lei non era abituata probabilmente, ma non si può giudicare una persona dalla lunghezza dei suoi capelli. Non si fa.
E poi i miei arrivavano appena alle spalle.
“Tu ti chiami Kirk, giusto?” sibilò Elena, mostrando di nuovo paura mista a superiorità.
E di nuovo provai fastidio.
Annuii meccanicamente.
“Dana prima sembrava preoccupata, dove eri tutto questo tempo?” sbottò con aria sospettosa.
Cos’era un interrogatorio?
Mi voltai verso la mia ragazza. “Eri preoccupata?”
Lei fece spallucce, ma capii lo stesso che non era rimasta del tutto tranquilla. Conoscendola, aveva sicuramente dato retta a qualcuna delle sue strane paranoie, che la maggior parte delle volte includevano criminali e assassini.
“Comunque, dov’eri?” chiese anche lei piano, molto più gentilmente di sua cugina.
“Sono andato a casa dei miei genitori.” Risposi semplicemente, soffiando via una ciocca nera che ricadeva insistentemente davanti agli occhi.
Elena sembrò quasi delusa dalla mia risposta. Magari stava già pensando che avessi qualche affare losco da mandare avanti oppure un’amante.
Mi trattenni dal ridere al pensiero delle sue possibili supposizioni.
Dana la scrutò riflettendo per alcuni secondi.
“Vieni ti faccio vedere dove dormirai. Non è un granché, è solo una stanza che abbiamo in più, ma dovrebbe andare bene.”
Uscimmo tutti e tre dalla cucina, Elena prese un enorme zaino che prima non avevo notato dal divano e seguì Dana al piano di sopra.
Io mi buttai sul divano accendendo la tv con un sospiro e lasciando che Randy si accoccolasse sulle mie gambe.
Non sarebbe stato facile. Per niente.
 
 
Quando Dana si chiuse in cucina dicendo che doveva preparare la cena capii che qualcosa non andava.
Scrutai poco convinto la ragazzina seduta sul divano, chiedendomi se fosse la sua presenza a renderla così nervosa.
Lei probabilmente si sentì osservata, perché ricambiò il mio sguardo, a metà tra l’essere impaurita e seccata da quelle attenzioni.
Pensai che fosse meglio tenermi fuori dalle loro questioni familiari, mi sarei risparmiato anche un mucchio di seccature. Puntai gli occhi sulla tv cercando di concentrarmi sul programma.
“Kirk, dai da mangiare a Randy!” fu il soave strillo delle mia dolce fidanzata dalla cucina.
Con un sospiro mi alzai dal divano guardandomi intorno, in cerca del gatto.
“Per caso hai visto…?” iniziai rivolto a Elena, ma mi fermai quando notai il suo sguardo scioccato, puntato dritto sul mio braccio destro.
Abbassai la testa, seguendo la direzione dei suoi occhi e mi ritrovai a fissare il mio tatuaggio. Come ero seduto nel divano la manica si doveva essere alzata e ora era ben visibile dalla sua posizione.
Non sarebbe dovuto succedere! Mi rendevo conto io stesso che qualcuno che non mi conosceva poteva fraintendere. Il tatuatore aveva fatto quel disegno e a me dopotutto era piaciuto. Era l’unico motivo per cui un teschio con due stelle sataniche nelle orbite faceva bella mostra di sé dal mio braccio. Non ero un satanista, anche se dallo sguardo di Elena potevo capire che era quello che stava pensando.
Alzai gli occhi al cielo e mi dileguai in cucina, richiudendomi la porta alle spalle.
Dana trafficava frettolosamente davanti ai fornelli e sembrava estremamente irritata.
“Tua cugina ha visto il mio tatuaggio.” Iniziai indignato.
“E perché tu glielo hai fatto vedere?” chiese, mentre girava il contenuto di una pentola col mestolo.
“Non l’ho fatto apposta, mi si è alzata la manica.” Mi lamentai andando davanti alla dispensa. “Mi sa che ha peggiorato le cose.”
Dana sbuffò esasperata.
“Credo che ce l’abbia anche con me.” Disse mentre cercavo i croccantini per gatti.
“Perché?” mormorai, afferrando la scatola blu e avvicinandomi alla ciotola di Randy. Sentii il tintinnio di qualche cucchiaio poggiato sul bancone.
“Che ne so.” Dalla voce Dana sembrava estremamente stanca e seccata al tempo stesso. “Improvvisamente ha iniziato a rispondermi male e fare l’acida.” Concluse a bassa voce.
Riempii la ciotola di croccantini e rimisi la scatola al suo posto. Mi avvicinai a lei.
“E ti lasci trattare così?” domandai scettico.
Sembrò esitare. Strinse gli occhi a due fessure, mentre afferrava un uovo dalla scatola e lo avvicinava a una padella.
“Che vuoi che mi importi di quello che pensa una ragazzina?” chiese con voce stridula, rompendo l’uovo con molta più violenza del dovuto.
Gettò malamente il guscio nella pattumiera, imprecando poco finemente.
“Oh, certo.” Dissi, inchinandomi a raccogliere i pezzetti di guscio finiti sul pavimento solo perché a Dana non importava nulla di come si comportava sua cugina.
Tornai in soggiorno con uno sbuffo, attirando le occhiatacce della causa di tutto quel casino.
Ricordai nuovamente il mio pensiero riguardo il fatto di non mettermi in mezzo alle loro questioni e lo mandai beatamente a quel paese.
“Che hai fatto?” sbottai brusco, senza pensare alle conseguenze.
Elena deglutì e si fece piccola piccola contro il bracciolo del divano. Mi diedi dello stupido pensando a come rimediare.
“Scusa, sono stato troppo…” non trovai un aggettivo adatto e lasciai in sospeso la frase.
Lei sollevò un sopracciglio, confusa e io presi fiato. Per qualche strana ragione il suo sguardo mi rendeva nervoso. Non ero abituato a fare quell’effetto alle persone.
“Ok” iniziai lentamente. “Sei arrabbiata con Dana?”
Elena sbatté le palpebre nervosamente.
“Non sono fatti tuoi.” Bisbigliò aspra, lanciandomi uno sguardo di fuoco.
Non so come la guardai, i muscoli della mia faccia si mossero automaticamente, ma mi resi conto che non doveva essere un’espressione molto amichevole.
Lei distolse immediatamente lo sguardo, stringendosi le ginocchia al petto e mordendosi nervosamente le labbra. Sbuffai per l’ennesima volta e ringraziai mentalmente Dana quando gridò senza farsi troppi problemi che la cena era pronta.
Una volta seduti a tavola smisi di pensare e iniziai a mangiare, fregandomene di tutto il resto. Nonostante tutto, mi resi conto che Dana fece di tutto per ignorare sua cugina. Teneva lo sguardo basso, puntato sul suo uovo fritto e mangiava in silenzio.
Fu quando i suoi occhi si posarono sulla saliera, posizionata a fianco del piatto di Elena, che vidi un’ombra passare sul suo volto.
“Kirk.” Mormorò con voce roca.
“Mmh?” muggii gustando la mia bistecca.
Dana sbatté nervosamente le palpebre. “Mi passi il sale?”
Con un sospiro feci ciò che mi aveva chiesto. Quella ragazzina era riuscita a fare tutto questo casino in sole due ore?
Continuai a mangiare, guardando di sottecchi Dana che sembrava estremamente nervosa mentre tagliava con troppa foga e troppa poca pietà la sua bistecca.
Cercai di ignorarle entrambe, inutilmente. L’aria si era fatta troppo pesante e io non riuscivo più a sopportare quella situazione. Persino la tv era spenta, contrariamente al nostro solito.
Non appena finii di mangiare mi alzai dal tavolo, sparecchiando la mia parte e infilando tutto nella lavastoviglie.
Tornai in salotto e mi accomodai nel divano, accarezzando Randy. Lui mi osservò curioso per alcuni secondi, poi si accucciò al mio fianco, lasciandosi accarezzare il manto nero.
Non passò molto tempo da quel momento a quando entrambe tornarono in salotto, Dana visibilmente seccata e Elena imbronciata.  Si sedettero sul divano, la prima al mio fianco, l’altra il più lontano possibile da me.
Randy balzò sul pavimento con grazia e fissò la nuova arrivata con insistenza. La ragazzina ricambiò il suo sguardo, leggermente nervosa.
Si schiarì la gola. “Come… come si chiama questo gatto?”
“Randy.” Rispondemmo in coro io e Dana.
“Ma è un nome di persona.” Protestò Elena.
Dana le lanciò un’occhiata irritata. “Non fare la pignola.”
Lei sembrò offendersi.
Scossi impercettibilmente il capo, dicendomi che avrei patito l’inferno a sopportare quella situazione. Mi passai una mano sul volto con un sospiro.
“E perché Randy?” chiese in un soffio, tenendo lo sguardo fisso sul gatto.
Non capii la domanda.
“In che senso?” domandai sentendomi estremamente stupido.
“Perché si chiama Randy?” specificò spazientita.
Provai l’impulso di mollarmi io stesso un ceffone. Quella ragazzina mi stava facendo passare per l’idiota di turno.
“Per Randy Rhoads.” Risposi senza pensare troppo, afferrando il telecomando.
Elena mi squadrò perplessa. “Chi?” chiese in un soffio.
“Randy Rhoads. Era il chitarrista di Ozzy Osbourne.” Spiegai come se fosse una cosa ovvia.
Fu solo quando sentii Dana ridere al mio fianco che realizzai che probabilmente sua cugina non aveva neanche la minima idea di chi fosse Ozzy Osbourne.
Perciò non poteva fare altro che sbattere le palpebre e osservarci confusa. Era normale, dopotutto. Se lei avesse iniziato a parlare di musica latina io avrei avuto la sua stessa reazione.
“Sono musicisti, Elena.” Precisò Dana tra le risate. “Ozzy Osbourne è un cantante e Randy Rhoads era il suo chitarrista.”
Lei tornò a fissare il gatto con aria vagamente stranita.
“E perché hai chiamato il tuo gatto come un chitarrista?” balbettò sempre più confusa.
Che razza di domanda era?
“Scusa, non hai mai dato a un animale il nome di un musicista che ti piacesse?” ribattei stizzito.
Lei fece spallucce. “Del tipo?”
Dana si intromise facendo un gesto vago. “Paris Hilton?” tentò poco convinta.
Non riuscii a trattenere un accenno di risata.
“A me non piace quella drogata!” esclamò Elena indignata.
A quel punto scoppiai a ridere, mentre Dana al mio fianco si copriva la bocca con una mano, cercando di nascondere il ghigno divertito.
“Andiamo, chi ti piace?”
Elena ci pensò su. “Lady Gaga. Ma solo la musica, lei è strana.”
Riuscii a calmarmi abbastanza per intervenire nuovamente.
“Ecco, è come se tu chiamassi il tuo cane Lady Gaga.”
Lei non sembrò convinta. Continuava a guardare incerta Randy.
“Però io non ho un cane.”
Alzai gli occhi al cielo, mentre Dana si copriva il viso con una mano.
“Lasciamo perdere.”
 
*
 
Quando mi distesi sulla brandina mi maledii per non aver pensato prima al fatto che Dana poteva anche non avere un posto dove farmi dormire comodamente. Così mi accontentai della brandina, nonostante fosse stretta, rigida, e puzzasse di chiuso.
Chiusi gli occhi, cercando di mettermi più comoda, inutilmente.
Sentivo dal piano di sotto le voci di Dana e del suo fidanzato che parlavano. Non riuscivo a distinguere le parole.
Pensai a che razza di persona era quel Kirk. Come poteva mia cugina frequentare uno del genere?
Ripensai con un brivido al teschio tatuato sul suo braccio. Se non ricordavo male quelli che aveva nelle orbite erano simboli satanici.
Mi rigirai nervosamente nella brandina, facendola scricchiolare pericolosamente.
Dopotutto Kirk non sembrava così malvagio, forse era solo suggestione. Eppure c’era qualcosa di estremamente sbagliato in lui. A partire dalla sua maglietta. Perché mettersi una maglietta con su scritto Cannibal Corpse? Cadaveri cannibali… cos’era una specie di setta?
E Dana viveva con questo tizio da quanto tempo?
Deglutii, pensando che ora mi trovavo anch’io in casa sua. Mi guardai intorno, studiando nei minimi dettagli la stanza in cui mi aveva sistemato mia cugina.
Era abbastanza piccola, con due finestrelle che davano sulla strada. C’era un armadio, un divano e una scrivania ingombra di giornali e riviste. Sotto tutta quella carta intravedevo un portatile nero.
Il divano aveva tutta l’aria di averne passate di tutti i colori. Era vecchio, visibilmente sfondato e il tessuto aveva un colorito marroncino-rossastro. Dana aveva accennato al fatto che un tempo era un bel divano rosa, ma mi dissi che avevo sicuramente capito male.
Per il resto la stanza era solo occupata dal mio grosso zaino e dalla brandina dove ero coricata.
Sbuffai spazientita. Magari il divano era più comodo, nonostante il suo aspetto poco invitante.
Provai a coricarmi sui cuscini bordeaux e per un attimo credetti di essere stata infilzata da qualcosa di estremamente appuntito che mi si stava infilando tra le costole.
Tornai nella brandina, decisa a non voler indagare su ciò che aveva ridotto a quel modo il divano.
Chiusi nuovamente gli occhi.
Sentii la voce di Dana e mi innervosii. Come aveva potuto farmi questo?
Lei era sempre stata buona con me, mi aveva sempre aiutato. Perché ora si comportava in quel modo? Stava diventando noiosa come gli altri adulti?
Mi morsi il labbro, cercando di pensare a qualcos’altro e ricordai gli occhi freddi, color ghiaccio di Kirk. Rabbrividii e pensai che se non fosse conciato in quella maniera sarebbe stato anche un bel ragazzo. Eppure nel suo volto c’era qualcosa che mi metteva inquietudine, non so se fossero gli occhi così chiari, la pelle così bianca o i capelli lunghi e neri come la pece. Però c’era un qualcosa che mi turbava.
Per non parlare della catena nei suoi jeans.
Mi girai su un fianco, spostandomi i capelli dalla faccia.
Avrei dovuto convincere Dana a liberarsi di lui. Ovviamente quando lei si sarebbe resa conto del suo errore.






Non ricordo come mi sia venuta in mente questa idea, comunque spero non sia una completa schifezza, come mi è sembrata un attimo prima di pubblicarla. E spero che vi strappi almeno un sorriso.
Inoltre mi scuso con gli eventuali fan di Paris Hilton, Lady Gaga, e Cannibal Corpse. Non ho niente contro di loro, mi servivano per la storia. :)
Bene, direi che ho preso abbastanza del vostro tempo.

See ya! :D

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Capitolo 2
*** Disappointed girl, Big trouble! ***


Disappointed girl,
Big trouble!



Mi guardai intorno, cercando di decifrare l’ambiente in cui mi trovavo, ma c’era troppo buio.
Improvvisamente il terreno sotto di me si illuminò e mi resi conto di essere su una piattaforma sospesa su un immenso incendio.
Ero forse sopra l’inferno?
Sentii una vocina squillante alle mie spalle e voltandomi mi trovai faccia a faccia con il Bianconiglio.
“Alice!” strillò in preda al panico. “Dobbiamo andare!”
“Io non sono Alice!”
Il coniglio sgranò gli occhi, spaventato. “E dov’è Alice, allora?”
Scossi il capo. “Non lo so.”
Il Bianconiglio guardò terrorizzato il suo orologio da taschino e scappò in tutta fretta, tamponandosi la fronte con un fazzoletto.
In quel momento sentii caldo. Guardai in basso e notai che il fuoco era più vicino. la piattaforma si stava abbassando, o erano le fiamme ad essersi alzate?
Cacciai un urlo, arretrando e cadendo sul pavimento duro e ruvido, sempre più caldo per via del fuoco.
“Dana!”
Spalancai gli occhi e fissai il soffitto bianco della mia stanza, cercando di tornare alla realtà.
Kirk mi strattonava per un braccio con sguardo assonnato.
“Ti stanno chiamando.” Biascicò porgendomi il cellulare.
Lo afferrai e diedi una fugace occhiata al nome di mia madre sul display, prima di rispondere.
“Dana, tesoro, Elena è sempre lì da te, vero?” chiese mia madre con voce lontana.
“Sì. Avvicina il telefono alla bocca mamma, non si sente nulla.”
“Ma così non ti sento io.” Si lamentò.
Sospirai. “Lascia stare.”
Mi alzai dal letto e andai davanti allo specchio. Notai subito le occhiaie violacee.
“Comunque Bernardette ha detto che non può venire oggi!” Gridò mia madre dal telefono.
Stordita dal tono troppo alto, ragionai su ciò che mi aveva appena detto. Mia zia non sarebbe venuta? Cosa?
“E perché?” chiesi, cercando di moderare la voce.
“Dice che c’è uno sciopero dei treni!” Strillò mia madre.
Vidi nello specchio la mia faccia deformarsi in una smorfia.
“Non può prendere un autobus o venire in macchina?” la mia voce era un sibilo stridulo.
“Lei non ha la patente!” rispose a voce alta. Allontanai di qualche centimetro il cellulare dal mio orecchio.
“Mamma perché stai urlando in questo modo?” esclamai spazientita.
“Sei tu che hai detto che non sentivi!” ribatté come a volermi assordare.
Sollevai gli occhi al cielo, digrignando i denti. Stavo cominciando ad arrabbiarmi sul serio.
“Vabbè, perché non può prendere un autobus?” domandai con una smorfia.
“Chi?”
“Zia Bernardette, mamma! Stiamo parlando di lei!” strillai, pestando un piede sul pavimento.
Notai in quel momento Kirk che rideva beatamente spaparanzato sul letto, con le lacrime agli occhi. Probabilmente riusciva a sentire anche mia madre, da quanto stava urlando.
“Oh, sì!” riprese lei facendomi allontanare di nuovo il telefono. “Dice che ha paura!”
Esitai per alcuni secondi.
“Ha paura delle persone che stanno nell’autobus?” chiesi scettica.
“No, no! Niente del genere!” urlò guadagnandosi le proteste del mio orecchio indolenzito. “No, lei ha paura degli autobus!”
L’unica cosa che sentii nel mio silenzio interdetto fu la risata di Kirk. Lo vidi affondare la faccia in un cuscino, cercando di calmarsi. Non ci riuscì.
Dal canto mio, non sapevo cosa dire, non sapevo se ridere o piangere.
“Ha paura degli autobus?”
“Sì!” confermò mia madre sovrastando i singhiozzi soffocati di Kirk. “Quindi verrà fra due giorni, quando ci saranno di nuovo treni.”
Fissai la schiena di Kirk, scossa dalla risate. Forse avrei dovuto anch’io reagire in quel modo, eppure non riuscivo a togliermi di dosso quella sensazione di nervoso e negatività.
“Sicura che non hai capito male?” mormorai implorante.
“No, non sono ritardata!” ribatté mia madre, tutta indignata.
“Ah… certo.” Feci sconsolata, continuando a tenere gli occhi puntati su Kirk, che era riuscito a calmare un po’ le risate.
“Salutamela.” Balbettò asciugandosi le lacrime.
“Kirk ti saluta.” Dissi atona rivolta al telefono.
“Oh, che tesoro!” esclamò mia madre, alzando nuovamente la voce.
“Sì, sì, ciao mamma.” Sibilai, prima di chiudere la chiamata.
Kirk si lasciò sfuggire un’altra risata, mentre mi avvicinavo a lui, con aria affranta.
“Mia zia è pazza.” Affermai mentre mi lasciavo cadere sul letto.
Lui si coprì la bocca con una mano, cercando di controllarsi.
“Ma no. Non dire così.” Mi mostrò un sorriso raggiante. “Ognuno ha le sue fobie.”
E ricominciò a ridacchiare. Aspettai che si calmasse e si mettesse seduto, al mio fianco.
“Scusami.” Mormorò, coprendosi il volto con le mani. Dalla sua voce intuii che stava ancora sorridendo.
“Figurati.” Sospirai imbronciata.
Fissai Kirk e per un attimo lo invidiai. La sua famiglia tutto sommato era abbastanza normale, il più strano probabilmente era lui.
“Andiamo, non sarà poi così terribile tenerla altri due giorni o quanto è.” Kirk poggiò una mano sulla mia spalla, cercando di confortarmi.
Abbassai il capo. “Ce l’ha con me. E io non so nemmeno perché.” Piagnucolai, mentre lui mi accarezzava la schiena.
“E io che devo dire? Si terrorizza solo a guardarmi in faccia.” Mormorò con un sorriso. “Sono così brutto?” chiese poi sarcastico.
“Ma con me non è mai stata così acida. Io ero l’unica che trattava sempre bene” protestai guardandolo tristemente.
Kirk non rispose. Mi strinse a sé e mi accarezzò i capelli. “Vedrai che tornerà a comportarsi bene.” Bisbigliò a bassa voce.
Chiusi gli occhi, sistemando la testa dell’incavo del suo collo.
“Grazie, Kirk.”
 
*
 
Aprii l’armadio violentemente, sovrappensiero. Dana passava dall’essere triste all’essere isterica e tutto per colpa di quella ragazzina. La stessa ragazzina che mi trattava come se fossi feccia, che aveva visibilmente paura di me, senza una ragione vera e propria.
Era arrivata all’improvviso e aveva scatenato tutto quel caos in meno di un giorno.
Seccato pensai che aveva bisogno di imparare a comportarsi meglio con gli sconosciuti e mi ritrovai a ridere quando osservai la maglietta che mi era capitata tra le mani. Me la infilai, pregustando la reazione della cuginetta di Dana e scesi al piano di sotto. Non mi chiesi se fosse meglio non provocarla, non ci pensai minimamente.
Nel salotto c’era la tv accesa e Randy si voltò a guardarmi non appena arrivai. Dana uscì dalla cucina dicendo che andava a farsi una doccia e io entrai, deciso a cercare qualcosa con cui fare colazione.
Elena era seduta nel tavolo, sorseggiando una tazza di latte.
“Ehi.” La salutai con un cenno della testa, guadagnandomi un’occhiata stranita. Poi il suo sguardo si abbassò sui miei vestiti e i suoi occhi si spalancarono.
Mi avviai verso il frigorifero sorridendo di sottecchi, per poi afferrare la bottiglia di succo. Quando la poggiai sul tavolo Elena mi osservò stupita.
“Fai colazione con quello?” mormorò impaurita.
Annuii. “Non mi sembra una cosa così strana, dopotutto.”
Lei fece spallucce e tornò a guardare la sua tazza di latte.
“Credevi forse che bevessi birra a colazione?” domandai sospettoso.
Lei non rispose, diventando improvvisamente rossa, confermando il mio pensiero.
Strinsi leggermente gli occhi, studiandola. Da una parte non m’importava nulla di quello che pensava, dall’altra il suo comportamento superbo mi dava profondamente fastidio. E mi irritava il fatto che Dana stesse male a causa sua.
“Senti un po’” iniziai poco convinto. “Dana dice che con lei sei sempre stata gentile, ma ieri a me non è sembrato che tu lo fossi.”
Lei alzò gli occhi su di me, infastidita.
“Ieri ti ho detto che non erano fatti tuoi.” Bisbigliò, senza convinzione.
Ghignai beffardo. “E ti aspetti che io faccia come vuole una bambina?”
Una parte di me si pentì immediatamente di averla provocata, rischiavo di peggiorare la situazione. E come volevasi dimostrare Elena strinse gli occhi a due fessure.
“Tu non c’entri nulla in questa storia. Che t’importa?”
“Mi importa di Dana.” Risposi secco.
Lei sembrò sorpresa, quasi non si aspettasse quella risposta.
Seguì il silenzio, un po’ pesante, che ci avvolse per diversi minuti. Mi chiesi come si sentisse a stare sola con me nella stanza, visto l’effetto che le facevo.
“Ti faccio paura?” domandai di colpo.
Lei reagì come se le avessero dato uno schiaffo. Sobbalzò, dandomi l’impressione di essersi rovesciata un po’ di latte addosso.
“Co… come?” balbettò in un filo di voce.
Sbuffai. “Direi che questo è ovvio. Mi chiedo perché.”
Elena abbassò la testa e si mordicchiò il labbro nervosamente. Poi mi fissò ad occhi sgranati, visibilmente turbata.
Sollevai un sopracciglio, aspettando che parlasse. Tutto quel silenzio mi dava fastidio.
“Non è che tu… ecco…” si sistemò nervosamente i capelli scuri. “Io non…”
Sollevai lo sguardo al cielo con uno sbuffo.
“Va bene!” esclamai spazientito. “Andiamo per esclusione.”
La ragazzina mi scrutò stranita.
“È il tatuaggio?”
Elena deglutì. “Quelli non sono simboli satanici?” domandò a voce talmente bassa e fine che quasi faticai a sentirla.
“Sì, ma li ha scelti il tatuatore. Io ho solo accettato perché mi piaceva come ci stavano.” Precisai con un sorriso beffardo. “Non sono un satanista.” Aggiunsi tornando serio.
Lei annuì poco convinta. “E la tua maglietta?”
“Che ha la mia maglietta?” domandai sforzandomi di non riderle in faccia.
Fece una smorfia. “C’è disegnata la morte che mostra il dito medio. È macabro e volgare.”
Risi. “Tu dici macabro, io originale.”
“E quella di ieri?” chiese stizzita. “Quella con scritto Cannibal Corpse.”
Le sorrisi. “È una band.”
Elena mostrò un’espressione scioccata. “Che razza di band ascolti, tu?”
Le feci cenno di lasciar stare e mi alzai dal tavolo, iniziando a sparecchiare.
“In ogni caso, non dovresti comportarti così male con le persone.” Constatai mentre aprivo la lavastoviglie. “Dana ci è rimasta male.”
Dopo di che uscii dalla cucina, lasciandola sola.
 
*
 
Entrai nella mia stanza, richiudendomi la porta alle spalle. Quel Kirk era davvero strano. Accettava di farsi tatuare simboli di dubbia esistenza solo perché gli piacevano, indossava magliette macabre e ascoltava musica fatta da gente strana come quei Cannibal Corpse e il tizio che aveva indirettamente dato il nome al suo gatto.
Sospirai, mentre cercavo con foga una maglietta pulita. Ne presi una giallo pallido e la poggiai sul letto, mentre mi toglievo quella sporca di latte che avevo addosso.
Quando Kirk mi aveva chiesto se mi faceva paura me ne ero versata mezza tazza addosso per lo spavento. Sperai che lui non se ne fosse accorto. Non potevo dargli anche quella soddisfazione.
Una volta che mi fui cambiata mi chiesi dove avrei dovuto mettere la maglia da lavare. Dana stava facendo la doccia e non mi andava di tornare dal suo strano fidanzato a chiederglielo, così decisi di aspettare.
Mi avvicinai alla scrivania e osservai da vicino le riviste che la notte prima avevo visto dalla mia scomoda e scricchiolante brandina.
Erano riviste di vario tipo: alcune erano musicali, altre di moda e faidate e qualcuna di videogiochi. Sotto di quelle c’era il portatile nero, circondato da vari quaderni e blocchetti. Mi chiesi cosa fossero.
Prima che potessi aprirne qualcuno sentii bussare alla porta e la voce di Dana mi avvisò che stava entrando.
Chiuse la porta dietro di sé e mi lanciò un’occhiata leggermente nervosa. In quel momento ricordai le parole di Kirk: secondo lui Dana ci era rimasta male. Non avrebbe potuto sbagliare più di così.
Conoscevo Dana da molto prima di lui, ero sicura che se lei si fosse offesa me ne sarei accorta. E poi perché avrebbe dovuto? Ero io quella a cui era stato fatto un torto.
“Tutto a posto?” chiese gentilmente mia cugina, nonostante l’aria un po’ ostile.
Annuii meccanicamente.
“Ho una maglietta sporca, dove la metto?” dissi afferrando la maglia dalla brandina.
“Oh, dalla a me. La metto a lavare subito così sarà pulita già domani.” Fece un sorriso educato, mentre prendeva tra le mani l’indumento.
Feci spallucce. “Non è necessaria tutta questa fretta.”
Lei si morse il labbro, aveva una strana espressione. Tornò a scrutare la maglia.
“Cosa è successo?” domando studiandola.
“Ah…” mi sentii improvvisamente in imbarazzo, non volevo parlarle del discorso fatto con quel Kirk. “Sono la solita distratta, sai. Mi sono buttata un po’ di latte addosso per sbaglio.” Mi sforzai di sorridere.
Dana annuì senza commentare, fortunatamente.
Ci furono alcuni secondi di silenzio prima che io mi schiarissi la gola, attirando nuovamente la sua attenzione.
“Posso chiederti cosa sono quelli?” balbettai accennando alla scrivania.
Dana sussultò, portandosi una mano sulla bocca.
“Oddio, ho lasciato tutto qui!” esclamò picchiandosi sulla fronte e lasciando la mia maglietta. “Non hai toccato nulla vero?” mi chiese come fossi una bambina piccola. Mi sfuggì una smorfia.
“No.” Ribattei indispettita. Non avevo mica cinque anni. “Ho solo chiesto cosa sono.”
Lei sospirò di sollievo.
“È il mio lavoro.” Rispose, afferrando le riviste e i quaderni. “Ora lo porto in camera mia, non preoccuparti.”
“Non c’è bisogno, non mi dava alcun fastidio.” Le dissi un po’ brusca.
Dana mi guardò con aria seria, forse anche un po’ triste. Mi chiesi che problema avesse.
“Preferisco tenerli io. Non vorrei che si perdessero, sai.” Mormorò piano, le braccia occupate dalla montagna di carta che prima ingombrava la scrivania.
Mi offesi. Perché Dana non voleva lasciare le sue cianfrusaglie di lavoro nella mia stanza, aveva forse paura che facessi qualche guaio, come i bambini piccoli?
“Fa’ come vuoi!” sbottai pungente, fregandomene delle sue occhiatacce.
Mi sedetti sulla brandina, facendola scricchiolare sotto il mio peso, mentre mia cugina usciva dalla stanza. Mi accorsi che aveva dimenticato la maglietta.
Mi sporsi dalla porta nel corridoio.
“Dana devi lavare la maglietta, ti sei dimenticata?” mi accorsi solo dopo del tono aspro che avevo avuto. Più o meno nello stesso momento in cui una mano afferrò la mia maglietta da dietro.
“Non è mica la tua serva.” Sibilò Kirk infastidito, superandomi con la mia maglia in mano. Entrò in camera sua e lo sentii parlare a Dana, troppo flebilmente per capire cosa stesse dicendo.
Richiusi la porta della mia stanza con uno sbuffo. Dana era diventata come gli altri adulti, dovevo riportarla indietro. E convincerla a mollare quel tipo spaventoso.
 
*
 
Kirk entrò in camera con qualcosa di bianco in mano.
“La tua cara cuginetta vuole che lavi questa.” Biascicò guardandomi storto. “Anzi, pretende.”
Sospirai, prendendo l’indumento.
“Sì, l’ho dimenticata in camera sua. A quanto pare si è sporcata con il latte, prima.”
Notai Kirk stringere per un secondo gli occhi e sorridere.
“Be’?” sollevai un sopracciglio, perplessa.
Lui scosse la testa, facendomi cenno di lasciare perdere.
“In ogni caso, la tua ragazzina dovrebbe imparare a portare rispetto agli adulti.” Mi lanciò uno sguardo eloquente. “O almeno ad essere più gentile.”
Annuii con uno sbuffo.
“Però con me non era mai stata così.” Mi lamenti sottovoce. Mi sentivo stupida ad offendermi per una cosa simile, io che avevo sempre ignorato l’opinione altrui e che ora mi abbattevo perché una ragazzina mi aveva risposto male.
Kirk mi circondò le spalle con un braccio.
“Ti rende così triste?” domandò dolcemente.
Mi sfuggì un minuscolo sorriso. “Io ero la sua preferita.” Mormorai ripensando ai bei tempi passati, quando ero ancora tra le grazie di Elena.
Sospirai, pensando che avrei dovuto sopportare tutto quello per altri due giorni prima che mia zia arrivasse a Pasadena.
“Su col morale.” Sussurrò con un sorriso, cercando di incoraggiarmi. “Stasera devo andare a lavoro, devi resistere per alcune ore sola con lei.”
“Certo, visto che mia zia ha paura degli autobus.”
Kirk cercò inutilmente di trattenere una risata e si coprì il volto con la mano libera. Sorrisi anch’io sforzandomi di prenderla sul divertente e cercando di trattenere il nervoso.
“Magari ha paura degli incidenti.” Ipotizzò lui tra le risate.
“Non dovrebbe neanche prendere il treno, allora.”
Kirk corrugò le sopracciglia riflettendo. “Non so cosa dirti.”
Gli accarezzai il volto con una mano e lo baciai.
“Forse è solo una fobia insensata. Come la tua paura delle api.” Bisbigliai a un centimetro dal suo viso.
Lui fece una smorfia, imbarazzato.
“Non è insensata, sai benissimo cosa mi è successo con le api.” Ribatté indignato, mentre il suo viso prendeva un colore rossastro. “Ho ancora le cicatrici.”
Risi beffarda prima di baciarlo di nuovo.
“Come no, Kirk.” Sussurrai ironicamente sulle sue labbra per poi catturarle con le mie. Lui ovviamente non si oppose.
 
 
“Dov’è andato il tuo fidanzato?” Elena parlò per la prima volta da quando avevamo iniziato a guardare quel film. L’aveva scelto lei, dicendo che gliene avevano parlato bene. Dal canto mio Mega Piranha non mi stava piacendo per niente.
“Ha un nome.” Sibilai stizzita.
La sentii sospirare. “Dov’è Kirk?”
Notai il tono pungente che assunse la sua voce quando pronunciò il suo nome.
“È a lavoro.” Risposi passandomi una mano sugli occhi.
Randy saltò con grazia sul divano e si accomodò al mio fianco, sotto lo sguardo distratto di Elena.
“Che lavoro fa Kirk?” domandò, pronunciando di nuovo il suo nome, quasi fosse un insulto.
“Lavora in un dojo.”
“Un che?”
Sorrisi. Quella situazione sapeva di dejà vu.
“Un dojo, Elena. È una palestra di arti marziali.” Spiegai, felice di non dover più seguire il film.
Lei assottigliò lo sguardo, ragionando. “Non farà l’inserviente?” chiese quasi disgustata.
Mi sfuggì una risata. “No. Lo gestisce insieme al suo maestro.”
Elena mostrò un’espressione confusa.
“Maestro?”
Le sorrisi gentilmente. “Sì, il suo insegnante di arti marziali.” Dissi mentre lasciavo che Randy annusasse la mia mano. “Quando Kirk ha finito le scuole è andato ad aiutarlo nel dojo e ora oltre a fare l’insegnante aiuta anche nella gestione.”
Lei sembrò ragionare sulla mia frase. Corrugò le sopracciglia.
“Quindi... lui sa picchiare?” domandò leggermente turbata.
Per poco non scoppiai a ridere a quella definizione. Sapevo benissimo che se l’avesse detto a Kirk lui si sarebbe offeso e avrebbe spiegato che le arti marziali erano una disciplina superiore rispetto al semplice pestaggio, come diceva sempre il suo maestro.
“Se la vuoi mettere così.” Risposi semplicemente.
Elena non sembrò convinta. “Scusa, se fa l’insegnante dovrà pur saper fare qualcosa.”
“Ovvio. Però a lui non devi dire che sa picchiare.” Ridacchiai immaginando la scena. “Potrebbe prendersela.”
Mia cugina sollevò un sopracciglio, poi decise di continuare a fare domande.
“E quanto è bravo? Insomma, che cintura è?”
Mi sfuggì un sorriso compiaciuto. “Kirk è cintura nera di karate. Ha partecipato anche ad alcuni tornei.” Dichiarai tutta contenta che me l’avesse chiesto. Forse stava iniziando ad apprezzarlo.
Elena parve ragionare su tutto ciò che aveva appreso, per poi guardarmi con un’espressione a metà tra l’incuriosita e l’indignata.
“Come fai a stare con lui?” domandò acida.
Mi morì il sorriso in faccia.
“Che razza di domanda è?” chiesi a mia volta, cercando di moderare il tono.
Elena sollevò le spalle con fare innocente, lanciandomi un’occhiata eloquente, come se la risposta fosse ovvia.
“È ricco?” abbassò la voce come se l’oggetto della conversazione fosse dietro di lei.
Strabuzzai gli occhi, non credevo alle mie orecchie. Cosa diavolo era successo in quei quattro anni in cui non ci eravamo più viste?
“Non sto mica con lui per i soldi!” sbottai non riuscendo a placare del tutto la rabbia.
 “Meno male, sarebbe stato davvero squallido!” esclamò con una smorfia.
Mi morsi il labbro, facendo violenza su me stessa per non urlarle contro. Mi coprii il volto con le mani, tentando di calmarmi.
“Come… come puoi pensare che io faccia una cosa simile?” dalla mia voce traspariva l’irritazione, nonostante tutto.
Elena fece spallucce, senza dare troppa importanza a quella domanda. Almeno così mi sembrava.
“Quindi perché stai con lui?” ripeté testarda.
La guardai come se fosse pazza. O forse un po’ lo era davvero.
“Elena perché credi che le persone si fidanzino?” domandai sconcertata.
Lei fece una smorfia, senza rispondere. Abbassò la testa e si osservò le ginocchia per alcuni secondi.
“Vuoi dire che lui ti piace davvero?” mormorò con voce flebile.
Sbuffai, stanca di quella storia.
“Cos’ha che non va?” sbottai nervosa e la mia voce risuonò stridula. “Cioè, so cosa non ti piace di lui, ma aldilà di tutto questo, cos’ha che non va?!”
Elena mi lanciò un’occhiataccia.
“Aldilà di tutto questo? Ma l’hai visto?!” ribatté aspramente.
Risi beffarda. “Direi che lo conosco abbastanza!”
Come risposta ricevetti uno sguardo indignato. “Come fai a non renderti conto del pazzo con cui vivi?! Quello è fuori come un balcone!”
“Potrei dirti la stessa cosa!” ribattei tagliente.
Lei si zittì, forse offesa. Avevo esagerato.
Si alzò in piedi fulminandomi con lo sguardo.
“E tu sei più pazza di lui a non renderti conto di come stanno le cose!” se avesse sputato veleno probabilmente sarebbe stato più dolce del suo tono.
Scappò verso le scale e salì al piano di sopra, lasciandomi sola con Randy e i Mega Piranha della tv.
 
*
 
Non appena misi piede dentro casa fui travolto dall’abbraccio di Dana, che mi stringeva con troppa foga. Capii in un istante che qualcosa non andava.
“A cosa devo questa calorosa accoglienza?” domandai ricambiando perplesso l’abbraccio. “Soprattutto quando torno tutto sudato da lavoro.”
Dana mi guardò in faccia con un sorriso e captai subito il velo di rabbia e tristezza che traspariva nel suo sguardo. Intuii che dovevano aver litigato. Di nuovo.
“È stata molto cattiva?” borbottai. Non ero sicuro di voler sentire la risposta.
Dana abbassò il capo e alzò le spalle.
“Lo siamo state tutte e due, credo.” Sussurrò malinconicamente.
Sbuffai infastidito. Da quando era arrivata Elena non aveva fatto altro che incasinarci la vita. Mi irritava parecchio, ma non avrei mai potuto dirlo perché sapevo che, anche se ora era arrabbiata con lei, Dana ci teneva davvero tanto.
“Ce la fai a resistere ancora qualche minuto mentre mi faccio la doccia?”
Lei sorrise nuovamente, annuendo.
Le diedi un bacio prima di allontanarmi raccomandandole di non farsi venire una crisi isterica. La sentii ridere nervosamente e non seppi dire se fosse un buon segno o meno. Preferii non indagare.
 
 
Mi accorsi di aver dimenticato l’accappatoio fuori dal bagno solo una volta uscito dalla doccia. Imprecai stringendomi le braccia al petto, cercando di combattere il freddo.
“Dana!” urlai avvicinandomi alla porta per farmi sentire meglio.
Aspettai alcuni secondi, nudo, completamene bagnato, in mezzo al bagno. Dopo un po’ decisi di riprovare.
“DANA!!” gridai con tutto il fiato che avevo, sperando con tutto il cuore che non fosse in cucina o dove non potesse sentirmi.
Perché diamine c’era così freddo, improvvisamente?
Certo, bisognava considerare che era notte, che la finestra era socchiusa, che io ero bagnato e senza vestiti in un bagno che lentamente si stava trasformando in una ghiacciaia.
Finalmente ricevetti risposta.
“Kirk, stai chiamando?” chiese Dana da fuori.
Mi venne quasi da ridere.
“Ho dimenticato l’accappatoio. Me lo porti, per favore?” risposi ad alta voce. “Mi sto congelando!” aggiunsi come a chiederle di fare in fretta.
La sentii allontanarsi. Girai la chiave nella serratura, così che Dana potesse entrare subito con la mia salvezza, mi voltai e feci qualche passo verso il centro del bagno, giusto per non rischiare di morire assiderato.
Quando sentii la porta aprirsi alle mie spalle feci per girarmi, felice di potermi finalmente asciugare al caldo. Mi fermai giusto in tempo, sentendo un urlo perforante assordarmi e intuendo con un secondo di ritardo che quella non era Dana.
Mi si gelò il sangue nelle vene e questa volta non era per il freddo, mentre la porta alle mie spalle sbatteva e Elena scappava lontano dal bagno continuando a urlare.
Cercai di ragionare lucidamente sulla situazione senza ridere o farmi prendere da un attacco di vergogna acuta. Ero girato. Elena non aveva visto niente che non fosse la mia schiena e, va bene, ora sapeva che anch’io avevo un sedere. Tutto qui. Non c’era da imbarazzarsi.
Eppure intravidi nelle specchio sopra il lavandino il mio volto arrossarsi violentemente. Mi accorsi di non avere più freddo, al contrario provavo un gran caldo, soprattutto alla faccia.
Deglutii nervosamente, sperando che Dana tornasse presto.
Come se mi avesse letto nel pensiero, entrò in quel preciso istante tenendo tra le mani il mio accappatoio.
“Che è successo?” domandò corrugando le sopracciglia. “Ho sentito Elena urlare.”
Afferrai l’accappatoio e me lo infilai velocemente, non so se per il freddo o per paura di essere visto da qualcun altro.
“Oh, niente di che.” Cominciai sarcasticamente. “Credo che forse tua cugina non riuscirà più a guardarmi in faccia.” Proferii mentre mi tamponavo i capelli bagnati. “O a guardarmi proprio.” Aggiunsi con un minuscolo e amaro sorriso.
Dana strinse gli occhi scuri tenendoli puntati nei miei.
“Che hai fatto?”
Sollevai le sopracciglia sconcertato.
“La mia unica colpa è quella di aver girato la chiave per poter fare entrare te!” esclamai indignato.
Come risposta ricevetti solo un’occhiata dubbiosa, seguita poi da un’aria consapevole.
“Non sarà mica entrata?” chiese, con uno strano luccichio negli occhi, mentre le sue labbra si allargavano lentamente in un sorriso derisorio.
Le lanciai uno sguardo eloquente facendola così scoppiare in una risata. “Hai finito?” sbottai indispettito, facendola ridere ancora di più. Alzai gli occhi al cielo e cominciai ad asciugarmi, mentre Dana usciva dal bagno tra le risate borbottando qualche cosa che non capii.
Sbuffai infastidito. Elena non faceva che lanciarmi occhiatacce e parlarmi sgarbatamente. Mi chiesi come sarebbe stato il suo comportamento dopo il suo faccia a faccia col mio candido sederino.
Preferii non pensarci.
 
*
 
Mi strinsi le ginocchia al petto, cercando di calmarmi. Mi passai una mano sul volto, asciugando le lacrime, con un singhiozzo.
Ero andata da mia cugina convinta di passare dei bei momenti e invece stavo facendo una collezione di terribili esperienze. Tanto valeva che rimanessi a casa con mia madre.
Presi fiato e soffocai un singhiozzo. Non volevo che mi sentissero piangere. Chissà cosa stavano pensando ora. Perché ovviamente Kirk l’aveva detto a Dana, ci avrei scommesso qualsiasi cosa.
Mi coprii il viso con le mani.
Dana era stata un mostro. Si era innervosita e mi aveva trattato male, ingiustamente. Provai nostalgia per i bei momenti passati con la vecchia Dana, quella simpatica, quella gentile.
Ora era solo noiosa come gli altri adulti e innamorata di un pazzo. Che tra l’altro avevo appena visto nudo, come se non bastasse tutto il resto. Dopo avergli fatto capire senza volerlo che avevo paura di lui ero pure entrata in bagno nel momento più sbagliato possibile.
Stava andando tutto storto.
Ormai le lacrime scendevano senza che riuscissi più a trattenerle. Mi diedi della stupida tentando di non farmi sentire. Sarebbe stata la ciliegina su una terribile torta.
 
 
Quando Dana era venuta a chiamarmi per la cena avevo detto di non aver fame. Avevo mentito.
Non mi andava di scendere e cenare con loro. Non mi andava di vedere lei. Tanto meno mi andava di vedere lui. Non dopo quello che era successo. Era troppo imbarazzante.
E così mi ero ritrovata più o meno tre ore dopo, raggomitolata nella mia brandina cercando di placare la fame.
Sbuffai irritata. L’unica era di scendere giù e cercare qualcosa da mangiare.
Guardai l’orologio che avevo al polso. Era mezzanotte.
Decisi di aspettare ancora mezz’ora per non rischiare di incontrare nessuno.
Presi il cellulare e schiacciai un tasto a caso, facendo illuminare lo schermo. Mia madre non aveva più richiamato né tentato di contattarmi in qualche modo. Ricordai quando Dana mi aveva rimproverato: aveva detto che mia madre sarebbe stata davvero preoccupata.
Con un sospiro cercai di convincermi che si era tranquillizzata sapendo che ero a casa di mia cugina. Eppure una parte di me sembrava convinta che l’avessi solo liberata di una scocciatura.
Passai una mano sul volto, decisa a distrarmi da quei pensieri negativi. Ne avevo già avuti fin troppi per quella sera.
Decisi di uscire dalla mia stanza subito. Una volta fuori fui avvolta dal buio del corridoio. Scesi lentamente le scale e mi avviai verso la cucina, mentre il mio stomaco ruggiva per la fame. Mi accorsi troppo tardi della luce accesa nel soggiorno e mi ritrovai senza volerlo davanti al divano dove mia cugina e il suo fidanzato erano intenti a scambiarsi tranquillamente effusioni.
Non so dire cosa successe prima, loro si scostarono o io urlai, con gli occhi sbarrati e le mani sul volto. Le loro voci si aggiunsero alla mia e sentii solo un miscuglio di esclamazioni e imprecazioni, senza più capire di chi fosse ogni voce.
“Oddio!”
“Merda!”
“Oddio!”
“Ma che cavolo!”
“Oddio!!”
“Elena!”
“ODDIO!!”
Mi coprii la bocca con le mani, rossa in volto. Cosa si dice in queste situazioni?
“Ditemi che non ho interrotto niente di troppo intimo!” sbottai tentando un’occhiata fugace nella loro direzione. Due paia di occhi mi fissavano spalancati. I primi neri come la pece e imbarazzati, gli altri color del ghiaccio e irritati.
Dana si schiarì la gola, nervosa.
“No. Ma che dici?” balbettò in evidente difficoltà.
Kirk sorrise perfidamente, almeno così sembrò. “Ma poteva diventarlo.” Dichiarò con aria di sfida.
Vidi mia cugina dargli una gomitata nelle costole e la faccia del ragazzo deformarsi in una smorfia. Si massaggiò gli occhi per un istante per poi puntarli dritti su di me.
“Dico solo che potrebbe fare più rumore quando entra in una stanza.” I suoi occhi di ghiaccio si assottigliarono e mi sentii gelare. “Soprattutto se non sei in casa tua.”
Presi fiato, sforzandomi di reggere il suo sguardo. “Perché potrei interrompere i padroni di casa mentre si dedicano ad attività private?”
Dana si sollevò dal divano lanciando un’occhiataccia prima al suo fidanzato poi a me.
“Basta così!” esclamò allargando le braccia.
Sospirai e il mio stomaco si contorse nuovamente. “Stavo scendendo a prendere qualcosa da mangiare.” Mormorai.
Mia cugina annuì e mi trascinò in cucina. Una volta sole mi fece un cenno verso il tavolo e andò al bancone.
“Ti ho lasciato la cena qui. Immaginavo che ti sarebbe venuta fame.”
Mi porse una pentola chiusa e un piatto di ravioli e mi osservò mangiare in silenzio per diversi secondi. Sembrava triste. Per un attimo mi chiesi se fosse perché avevo interrotto lei e Kirk.
“Mi rendo conto di essere stata troppo dura prima.” Iniziò a bassa voce, dopo essersi schiarita la gola, sedendosi di fronte a me.
Presi un raviolo e me lo portai alla bocca, senza rispondere e tenendo gli occhi puntati sul mio piatto. Con la coda dell’occhio notai le sue mani muoversi nervosamente sul tavolo.
“Però non posso neanche darti ragione.” La sua voce s’indurì appena. “Non dovrei scusarmi solo io, Elena.” Detto questo si alzò ed uscì dalla stanza. Fissai i ravioli, mentre una minuscola lacrima mi scorreva sulla guancia.






Salve! Non ho molto da dire. Sono negata a trovare i titoli. :/
Anyway... questo è sicuramente il capitolo che mi sono divertita di più a scrivere, spero che per lo meno vi faccia sorridere. :)
See ya! 

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Capitolo 3
*** Roller Coaster Sickness ***


Roller Coaster Sickness



Mi svegliai maledettamente presto. Odiavo quando succedeva perché molto raramente riuscivo a riaddormentarmi.
Fissavo con aria contrariata la sveglia sul comodino, la cui unica colpa era quella di segnare le 6 e mezza del mattino.
Mi rigirai nel letto, con uno sbadiglio. Rimasi sorpresa notando che vicino a me non c’era nessuno. Che Kirk si svegliasse prima delle dieci, se non costretto, era davvero raro. Alla faccia delle eclissi.
Mi alzai perché non avrebbe avuto senso rimanere lì a fare nulla e uscii dalla stanza. Entrai in bagno e per poco non balzai per lo spavento, notando di non essere sola.
Kirk stava seduto sul bordo della vasca, la testa poggiata sulla mani. La alzò lentamente e mi regalò un’occhiata stanca e nauseata. Notai che era ancora più bianco del solito e sotto i suoi occhi erano ben visibili le profondissime occhiaie violacee.
“Che ti è successo?” sbottai preoccupata avvicinandomi a lui. Sentii un forte odore di sapone provenire dal suo volto, contrastato dall’odore pungente di detersivo. Quello proveniva dal water invece.
Kirk prese fiato. “Credo di non aver digerito la cena di ieri.” Sussurrò stancamente.
Lo osservai perplessa, mentre si passava una mano sul volto, che lentamente si deformava in una smorfia sofferente. Si portò l’altra mano alla pancia, affondando le dita nel tessuto della maglia blu.
“Ti fa male lo stomaco?” balbettai turbata, sedendomi al suo fianco.
Lui deglutì con aria disgustata.
“Ho già vomitato una volta.” Spiegò, indicando il water. Notai il detersivo poggiato lì vicino. Tornai ad osservare il suo volto pallido e dolorante. Gli posai una mano sulla spalla, ragionando su cosa fare.
“Da quanto sei in questo stato?”
Sembrò riflettere. “Alle 5 mi sono svegliato con i crampi allo stomaco e circa mezz’ora fa ho vomitato l’anima.” Mormorò flebilmente togliendosi i capelli dal viso.
“Starà passando.” Ipotizzai senza troppa convinzione. Sembrava così dolorante.
“Lo spero.” La voce di Kirk era un soffio appena udibile. “Comunque non preoccuparti, sono sopravvissuto a cose ben più gravi.”
E un secondo dopo era piegato su sé stesso, gemendo di dolore. Le ultime parole famose.
 
 
Elena si affacciò nella cucina e mi osservò pulire il bancone per alcuni secondi prima di parlare.
“Ciao.” Disse piano, entrando nella stanza.
Ricambiai il saluto con un cenno del capo, strofinando più forte. La sentii sospirare.
“Mi dispiace…” balbettò.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Si stava scusando sul serio?
“Non volevo interrompervi ieri, giuro che è stato un incidente.”
Senza quasi rendermene conto strinsi convulsamente lo straccio nella mano, facendo diventare le nocche bianche.
Elena si era scusata. Scusata per l’unica cosa per cui non avrei preteso delle scuse. Non riuscivo a crederci. Non volevo crederci.
“Ah.” Non riuscii a dire altro. Non senza urlare o imprecare.
Elena chiese della colazione, come se niente fosse. Chiusi gli occhi e contai mentalmente fino a cinque, tentando di mantenere la calma. Indicai il frigorifero.
“Lì trovi il latte.” Borbottai imbronciata.
Mi concentrai sullo straccio che stavo usando per pulire, ignorandola completamente e riuscendo a placare la rabbia. Pensai di nuovo che forse Kirk aveva ragione quando diceva che avevo poca troppa pazienza.
“Dana dove la trovo una tazza?” domandò Elena col cartone del latte in mano, distogliendomi dalle mie riflessioni. Con uno sbuffo aprii la credenza e presi una tazza da porgerle. Tornai al mio bancone sospirando.
I minuti seguenti passarono in un religioso silenzio, interrotto soltanto dai rumori della colazione di Elena e dal mio strofinare. Quando la sentii alzarsi e avvicinarsi mi voltai a guardarla interrogativa. Aveva la tazza vuota in mano.
“La metto nella lavastoviglie?”
Feci segno di no con la testa e indicai stancamente il lavandino, ingombro di due bicchieri e alcune posate.
“Si è guastata stamattina.” Spiegai a denti stretti. “Come se non bastasse già il resto.”
Elena si fermò di botto e mi scrutò torva.
“A cosa ti riferisci?” sbottò scontrosa.
Mi morsi la lingua per impedirmi di risponderle male per il tono usato. Forzai un sorriso educato. “Kirk sta poco bene.”
Lei sollevò un sopracciglio, vagamente meravigliata.  “Ok.” Borbottò prima di uscire dalla cucina.
Sbuffai e ripresi a strofinare. Almeno lo straccio era sempre dalla mia parte.
 
*
 
Sentii la porta aprirsi e poi il silenzio. Incuriosito sollevai lentamente il capo dalle mie mani e vidi la ragazzina di Dana sulla soglia. Mi osservava inespressiva, un tantino a disagio forse.
“Sta diventando un’abitudine entrare quando ci sono io, vedo.” biasciai tentando un tono ironico, senza riuscire a togliermi l’espressione nauseata dalla faccia.
Elena arrossì violentemente e abbassò la testa.
“Scusami.” Mormorò in un filo di voce. I suoi occhi si sollevarono nuovamente su di me. “Perché sei seduto lì in terra?”
“È il mio hobby.” Risposi sarcastico, passandomi una mano sulla fronte. Lei non sembrò gradire la battuta e mi lanciò un’occhiataccia.
“Dana ha detto che non stai bene.” Dichiarò seria, facendo alcuni passi verso di me.
Sbuffai, non capendo dove voleva andare a parare.
“Senti, se devi entrare me lo dici e aspetto fuori.” Borbottai stancamente, nonostante il mio stomaco facesse ancora i capricci.
Elena fece per rispondere, ma effettivamente non sentii se parlò o meno. Pensai piuttosto alla fitta lancinante che provai improvvisamente alla pancia, per l’ennesima volta in quella dannata giornata e mi sporsi, con uno scatto, verso il water e sentii la nausea aumentare. Per i minuti che seguirono non pensai a nulla che non fosse svuotare il mio stomaco e sentirmi meglio, dimenticandomi della presenza di Elena. Quando mi voltai, lei si era allontanata e mi fissava dalla soglia della porta con gli occhi sbarrati e una smorfia disgustata.
Con un sospiro tirai lo sciacquone ed andai a lavarmi la faccia. Una volta pulito anche il water uscii dal bagno, ritrovandomi davanti alla ragazzina e le feci un cenno verso il bagno, invitandola ad entrare.
“Vai pure, dolcezza!”
M’incenerì con lo sguardo.
 
*
 
Dopo aver passato cinque minuti a imprecare, cercando le chiavi della sua macchina, Dana infilò la mano nella borsa e tirò fuori l’oggetto della sua disperata ricerca.
Tornai a guardare il mio telefilm con un sospiro. Mi sembrava interessante, dopotutto.
“Starò fuori per un’ora circa.” Dichiarò mia cugina con aria distratta. “Sei sola. Se hai bisogno di qualcosa chiama, va bene?”
Già, ero sola. Quell’altro era uscito poco prima per andare a lavoro e a quanto avevo capito non sarebbe tornato per diverse ore.
“Quando hai detto che torna… Kirk?” mi sforzai di dire il suo nome, visto che a Dana dava così fastidio sentirlo chiamare in altri modi.
“Oh, molto più tardi di me. Farò in fretta.” Mormorò sistemandosi gli occhiali da sole sui capelli biondi. Si voltò e mi sorrise gentile.
Mi piaceva come si era truccata, avrei dovuto provare a farlo anch’io. Dana era molto brava con i trucchi e da lei avevo imparato tanto. Sorrisi tristemente, ricordando quando in passato mi aveva truccato lei.
La salutai quando uscì di casa e ripresi a guardare il telefilm. A quanto avevo capito da quel poco che avevo visto parlava di una ragazza che decideva di vendicarsi di tutte le persone che le avevano fatto perdere suo padre. Un enorme torto, insomma.
Con un sospiro pensai al torto che era stato fatto a me, invece. Io e Dana non ci eravamo viste per quattro anni e ora lei era diversa. Era troppo… adulta.
Cercai di ragionare su quanti anni avesse ora e rimasi un po’ sorpresa constatando che erano ventinove. Dana aveva ventinove anni. E io non me ne ero quasi accorta.
Eppure credevo che mi avrebbe comunque capito, ma sembrava perennemente arrabbiata con me. Le avevo anche chiesto scusa per essere entrata in salotto mentre lei e Kirk si stavano dimostrando il loro affetto, ma aveva continuato ad essere arrabbiata.
Per un attimo mi chiesi se forse quel pazzo di Kirk avesse ragione, se Dana fosse offesa per come mi ero comportata. Ma io mi ero comportata solo come lei mi aveva costretto a fare, con le sue ramanzine da adulta noiosa.
Sbuffai alzandomi in piedi. Spensi la tv prima di salire le scale e andare al piano superiore. La casa di Dana e il suo bello non era grandissima, era una villetta a due piani non troppo spaziosa e non troppo piccola. Era carina nell’insieme, ben arredata e molto ordinata.
Al piano inferiore c’erano il soggiorno, la cucina e un bagno di servizio. Al piano superiore c’era un bagno più grande, con tanto di vasca e doccia, un ripostiglio, la piccola stanzetta dove dormivo io e la camera da letto dei padroni di casa.
Quando l’occhio mi cadde sulla porta di quest’ultima stanza pensai che non ci ero mai entrata. Attraversai il corridoio ed entrai lentamente. In realtà non aveva senso essere cauti, visto che ero sola in casa.
La stanza era bella. Forse la migliore di tutta la casa. C’era un grande letto, di quelli che fanno venire voglia di coricartici sopra, una cassettiera, una cabina-armadio, uno specchio enorme, un televisore e una libreria.
Non era in ordine. Ai piedi del letto erano poggiate delle magliette, tutte di Dana, e su una sedia un cumulo di vestiti faceva la sua bella mostra.
Nelle pareti erano appese diverse foto e moltissimi poster. Sopra la cassettiera era appeso bello e incorniciato un attestato con il nome di Kirk N. Evans. Lessi distrattamente qualcosa che riguardava il karate e la cintura nera. Sulla cassettiera c’erano tre premi, sempre con il nome di Kirk. Allora era davvero bravo.
Lì vicino c’erano delle foto: in una c’erano mia cugina e Kirk con un lago nello sfondo. Nella seconda c’erano i miei zii con Dana e Jenny, l’altra mia cugina. La terza foto era vecchia, non avrei saputo dire di che anno fosse, ma si capiva che aveva sicuramente più di quindici anni. Nella foto erano ritratti un uomo e una donna di mezza età, entrambi biondi, abbracciati davanti al Colosseo che sorridevano all’obbiettivo. Mi chiesi se fossero i genitori di quello, ma non vidi nessuna somiglianza.
Mi avvicinai al letto e mi ci sedetti. Era davvero comodo come sembrava.
Studiai il comodino più vicino a me.
C’era una sveglia, una lampada e un elastico per capelli. Intuii che era il comodino di Kirk solo quando voltandomi notai una boccetta di smalto poggiata sull’altro.
Senza pensarci due volte aprii il primo cassetto. Se volevo convincere Dana a mollarlo avrei dovuto avere delle prove, visto che non mi ascoltava.
Trovai solo cianfrusaglie inutili, niente di sospetto così decisi di passare al secondo cassetto. Cominciai a rovistare tra la roba e le mie dita toccarono qualcosa. Carta.
Afferrai tutto in una mano e la tirai fuori.
Mi trovai sul palmo dei bigliettini. Uno era il biglietto da visita di un ristorante. In un altro c’era scritto un numero di telefono, almeno così sembrava. L’ultimo foglio non era un biglietto, bensì una piccola foto di una ragazza. Una bella ragazza, sui venticinque anni circa, bionda con gli occhi verdi.
Constatai con una smorfia che quella non era sicuramente Dana.
Voltando la foto notai delle scritte. In basso a sinistra c’era una data, l’anno era diventato illeggibile, seguita dal nome Lisa.
Lisa?
Sentii il sangue gelarsi nelle vene. Perché cavolo Kirk teneva la foto di una certa Lisa nascosta nel cassetto?
Era forse la sua amante?
Sbiancai. Dana ci era cascata, aveva creduto che fosse un bravo ragazzo. Chissà come poi.
Misi i bigliettini al loro posto nel cassetto, tranne la foto, che infilai nella tasca dei jeans. Chiusi il cassetto ed uscii di corsa dalla stanza.
Dovevo inventarmi qualcosa. Avrei dovuto dirlo subito a Dana o farlo ammettere a quel verme?
Tornai in salotto con un tempismo perfetto, mentre la porta di casa veniva aperta.
Mi preparai ad accogliere Dana con un sorriso, che mi si spense quando Kirk fece il suo ingresso.
Era tornato troppo presto.
 
*
 
“Che ci fai qui?” sbottò col suo solito tono gentile ed educato la ragazzina di Dana.
Chiusi la porta con un calcio, sbuffando. Non avevo minimamente voglia di discutere.
“Ciao anche a te, raggio di sole!” mi sforzai di sorridere, nonostante il pessimo umore.
Buttai a terra lo zainetto che avevo su una spalla e mi mossi verso le scale.
“Non dovresti essere a lavoro? Ti ho chiesto che fai qui.” Esclamò stizzita Elena, seguendomi.
Mi voltai, fulminandola con lo sguardo. L’ultima cosa che volevo ora era perdere tempo in inutili discussioni con una ragazzina che mi odiava senza una ragione vera e propria.
“Sto ancora male. Ora per favore non disturbarmi.” Esclamai infastidito. Non mi importava se si offendesse, lei non aveva fatto che rispondermi male e fare l’antipatica da quando era arrivata.
Salii le scale, maledicendo qualsiasi cosa mi avesse fatto venire quel dannato mal di pancia.
Entrai in camera e mi sedetti sul letto, vicino al comodino. Aprii il secondo cassetto in cerca del numero di telefono del medico, ero sicuro di averlo messo lì. Lo trovai poco dopo e mi affrettai a prendere un appuntamento per quella sera stessa.
Quando terminai la telefonata lanciai il cellulare nel letto e rimisi a posto il numero di telefono, osservando il contenuto del cassetto. Mi resi conto che mancava qualcosa.
La mia foto non era più dove l’avevo lasciata.
Rovistai nel cassetto con foga, doveva essere lì. Non potevo averla persa. No.
Sentii il panico invadermi. Come avevo potuto essere così stupido?
Mi passai una mano sul volto, sentendo nuove fitte allo stomaco. Con un sospiro chiusi il cassetto e mi alzai. Dovevo andare subito dal medico se non volevo trovare troppa fila.
Avrei cercato la foto più tardi.
 
 
Quando arrivai a casa erano le sette e dieci. Ero rimasto in fila dal dottore per quasi due ore, nelle quali il mio stomaco aveva smesso di farmi patire l'inferno, per poi sentirmi dire che avrei potuto essere allergico ai peperoni. Dannati peperoni.
Non ne avevo mai mangiati in tutta la vita fino a ieri sera. Lo dicevo io che non andavo d’accordo con quegli ortaggi, ma Dana aveva insistito per farmeli assaggiare.
Non avevo voglia di andare all’ospedale a fare uno stupido test per l’allergia ai peperoni, mi sarebbe bastato evitarli da quel momento in poi.
Spensi il motore e scesi dalla macchina con uno sbuffo. Attraversai il giardino, arrivando davanti alla porta di casa e infilando le chiavi nella toppa. Una volta dentro fui accolto da un buon odore.
Dana uscì dalla cucina di corsa e mi venne incontro, seguita dalla sua ragazzina.
“Ciao. Elena mi ha detto che eri dal medico.”
Annuii stancamente, mentre Dana mi fissava turbata. Sembrava anche nervosa, probabilmente aveva avuto l’ennesima discussione con sua cugina. Quest’ultima si accomodò nel divano a guardare la tv, ignorandoci completamente.
“Cosa ti ha detto, allora?” domandò impaziente Dana.
Sospirai. “Potrei essere allergico ai peperoni.” Dichiarai con una risata beffarda. Era così ridicolo.
Dana sgranò gli occhi e si portò una mano alla bocca.
“Oh no! È colpa mia!” esclamò scioccata.
“Ma no.” Risposi con un sorriso gentile, posandole una mano sulla spalla. Lei non sembrò tanto convinta, continuò a scrutarmi con occhi mortificati.
“Non ci pensare ora.” Dissi prima di darle un leggero bacio sulla guancia. “Piuttosto devo chiederti una cosa.”
“Dimmi.”
“Per caso hai guardato nel mio cassetto? Quello del comodino.” Domandai con una vaga speranza.
Dana strinse gli occhi riflettendo. Scosse la testa.
“Io non ci metto mai le mani nei tuoi cassetti.” Spiegò alzando le spalle. “Perché?”
Sospirai. L’avevo sul serio persa allora.
“Non trovo una cosa.” Mi lamentai con una smorfia.
“Una foto, per caso?” intervenne bruscamente Elena. La guardai perplesso chiedendomi da quanto aveva smesso di guardare la tv e iniziato ad ascoltare il nostro discorso.
Aspetta, che aveva detto?
“Come fai a sapere che è una foto?” sbottai sgarbato, fregandomene di essere carino con lei. L’aveva forse presa lei? Aveva rovistato tra la mia roba?
Elena mi incenerì con un’occhiataccia senza rispondermi e rivolse verso Dana uno sguardo eloquente.
“Ricordi quello che ti ho detto poco fa, riguardo il tuo fidanzato?” le chiese con un sorriso trionfante e maligno al tempo stesso.
Mi domandai cosa c’entrasse tutto questo con la mia foto. Iniziavo a perdere la pazienza.
Dana sollevò gli occhi al cielo. “Sì, ogni singola parola del tuo discorso sulla fiducia.” Biascicò stancamente.
Elena ghignò perfida, mentre i suoi occhi mi scrutavano con aria di sfida.
“Magari la foto che cerchi è di una ragazza.” Cantilenò fastidiosamente, mandandomi il sangue alla testa.
La foto di una ragazza. La mia foto! L’aveva presa lei! L’aveva rubata!
“Dammela!” urlai senza quasi accorgermene.
Dana sobbalzò ed Elena indietreggiò corrugando le sopracciglia. Sentii la rabbia invadermi, annebbiarmi la mente.
“Dammi subito la mia foto!” ripetei cercando di moderare il tono.
Vidi Dana lanciarle un’occhiataccia. “Elena perché hai preso una sua foto?”
Lei fece una smorfia irritata. Poi il mio sguardo fu catturato dalla sua mano, che tirava fuori dalla tasca la mia foto. Allungai il braccio verso di lei, che indietreggiò ancora.
“Avevi la foto di una ragazza nel cassetto, come lo spieghi questo?” gridò con tono stridulo sventolando l’oggetto della discussione per aria. Ebbi la terribile paura che si rovinasse.
“Smettila di sventolarla così!” strillai fregandomene del tono isterico che aveva assunto la mia voce. “Stacci attenta, maledizione!”
Dana si avvicinò a sua cugina. “Elena, rendi quella foto!” sibilò tra i denti.
Lei non ascoltò nessuno dei due. Si portò la foto davanti alla faccia, con il retro rivolto verso di lei.
La ragazza nella foto mi sorrideva dolcemente e provai un moto di rabbia verso quella ragazzina malefica che me l’aveva rubata.
“Credo che Lisa sia il nome della ragazza.” Dichiarò a voce alta. “Direi che è abbastanza come prova.”
Per un secondo mi chiesi di cosa stesse parlando. “Che cazzo stai dicendo?!” sbottai con rabbia.
Elena fissò Dana come se si aspettasse di sentirsi dare ragione.
“Finiscila, Elena!” esclamò la mia fidanzata con tono severo.
“Chi è questa? La tua ex o la tua amante?” gridò la ragazzina, sovrastando Dana e la televisione.
Regnò il silenziò per alcuni secondi, interrotto solo dall’audio della pubblicità dei pannolini, dove una donna spiegava la formidabile efficacia e assorbenza del pannolino Pampers. Quale momento meno adatto, pensai.
“Scusa, che hai detto?” balbettai, non sapendo se ridere o esasperarmi in quella situazione che ormai era diventata tragicomica.
Dana decise di prenderla dal lato divertente, scoppiando in una risata incontrollata. Immaginai che fosse normale una reazione simile, essendo lei a conoscenza dell’identità della ragazza, presunta amante, secondo sua cugina.
Approfittai del momentaneo sgomento di Elena per prenderle dalla mano la tanto agognata foto. Lei sobbalzò e mi fulminò con lo sguardo.
Dana calmò la sua ilarità per alcuni secondi. “Oddio, non ridevo così da un sacco di tempo.” Ansimò piegata in due, tenendosi la pancia, per poi ricominciare a ridere.
Elena la guardò male, forse delusa. Poi i suoi occhi si spostarono su di me.
“Chi è allora?” borbottò imbronciata.
Mi resi conto in quel momento di sentire caldo alla faccia. Ero arrossito.
Sbuffai nervoso, quella mocciosa aveva frugato nella mia roba, mi aveva rubato una foto. Quella foto. Ci ero particolarmente affezionato.
“È mia madre!” sbottai brusco, prima di chiamare a raccolta tutta la mia dignità, girarmi e sparire su per le scale, allontanandomi dalle risate di Dana e dalla sua malefica cugina.
 
*
 
Entrai in camera e richiusi lentamente la porta dietro di me. Osservai Kirk, seduto nel letto a gambe incrociate e schiena contro la testiera. Aveva la foto di sua madre tra le mani e uno sguardo irritato.
Mi sedetti al suo fianco e osservai la foto. Lisa Evans era stata una bellissima ragazza da giovane. Tutt’ora era una bella donna.
Poggiai la testa sulla spalla di Kirk.
“Te ne sei andato in camera tua come un bambino piccolo.” Mormorai con un sorriso triste. Kirk aveva tutti i motivi per reagire in quel modo.
Lo sentii sospirare.
“Non offenderti, ma tua cugina è una carogna.”
Ci rimasi male. Non perché mi avesse offeso con quel commento, ma perché sapevo che aveva perfettamente ragione.
Non risposi, non sapendo che cosa dire. Passarono alcuni minuti di silenzio. Sentii la testa di Kirk chinarsi verso la mia e il suo respiro sulla mia fronte.
“Perché piangi?” chiese in un soffio di voce.
Tirai su col naso, passandomi una mano sulla lacrima solitaria che scorreva lungo il mio viso.
“Perché sono una stupida.” Sussurrai, mentre il braccio di Kirk mi avvolgeva le spalle.
Cercavo sempre di tenermi tutto dentro e poi scoppiavo a piangere come una bambina.
Lui sembrò capire cosa intendevo.
“Non è colpa tua.” Disse a bassa voce. “Vi ho sentito litigare dopo che me ne sono venuto qui.” Aggiunse dopo poco.
Mi sfuggì un singhiozzo e cercai di trattenere altre lacrime.
“Prima non eravamo così. Prima eravamo amiche e ora si comporta come se mi odiasse.” Mi lamentai, non riuscendo a soffocare il pianto. “Forse mi odia davvero.”
Kirk mi strinse più vicina a lui con uno sbuffo indignato. “Non dire cazzate.” Borbottò contrariato.
Risi. Nonostante tutto Kirk sapeva essere così dolce, bisognava solo capirlo.
“Mi sento una cretina.” Constatai con un sorriso amaro.
“Perché?”
“Perché sto piangendo.” Sospirai, asciugando le lacrime.
Kirk rise beffardo. “Ma fammi il piacere.”
Alzai lo sguardo e notai il vago rossore sul suo volto.
“Io ce l’ho a morte con una ragazzina perché mi ha rubato una foto di mia mamma e tu ti senti una cretina?” mugugnò imbarazzato.
Risi di nuovo, riappoggiando la testa sulla sua spalla.
“Kirk sei così tenero, con quella foto.”
Lui si mosse nervosamente.
“Stai zitta.” Bofonchiò impacciato, facendomi sorridere di nuovo.
 
 
Scesi le scale assonnata e assetata. Mi ero svegliata di soprassalto quando Sheldon Cooper di Big Bang Theory mi aveva urlato contro di non toccare la sua lavagna, nonostante lo avessi aiutato per tutta la durata del mio sogno a trovare un modo per far estinguere le api-zombie che stavano infestando il suo appartamento.
Mi chiesi cosa avesse di sbagliato la mia testa per farmi sognare simili vaneggi ogni singola notte.
Quando arrivai in salotto per poco non cacciai un urlo. Elena era in piedi nel buio, al centro della stanza e mi fissava ad occhi sbarrati. Era immobile.
“Elena?” mormorai in un filo di voce. Faceva venire i brividi.
Lei non parve sentirmi, non si mosse di un centimetro e i suoi occhi erano sempre puntati su di me.
“Che ci fai in piedi a quest’ora?” chiesi deglutendo. Cominciava a diventare davvero inquietante.
Elena rimase immobile per un altro po’ di tempo poi iniziò a guardarsi intorno.
“Le montagne russe.” Farfugliò con aria confusa.
Sbattei le palpebre, cercando di non farmi prendere dal panico. Non era molto normale che qualcuno si comportasse in modo così strano, per di più alle tre e mezza del mattino.
“Volevo andare sulle montagne russe, ma non riesco a trovare mia mamma.” Spiegò, confondendomi ancora di più. “Che ci fai qui, Dana?”
Tentai di decifrare quelle frasi apparentemente senza senso, poi ci arrivai. Era sonnambula.
“Oh, cavolo.” Balbettai sudando freddo. Cosa dovevo fare?
Sapevo che i sonnambuli non andavano svegliati, anche se non avevo mai capito il motivo. Dovevo farla tornare a letto.
“Ehm… è tardi per andare sulle montagne russe ora.” Esclamai avvicinandomi a lei. “Ci pensiamo domani. Ora andiamo a dormire.”
La presi per mano e mi diressi verso le scale, seguita da una Elena particolarmente vivace. Le chiesi più gentilmente possibile di fare piano.
“Perché?” bisbigliò mentre arrivavamo nel corridoio del piano superiore.
“Perché Kirk sta dormendo.” Risposi piano, sempre stringendo delicatamente la sua mano.
Elena sembrò ragionare. “Kirk…” sillabò, come se stesse studiando quel nome. All’improvviso scoppiò a piangere, facendomi andare nel panico.
“Oddio, non piangere!” senza pensarci troppo la abbracciai, sempre delicatissima, avendo il terrore di svegliarla.
“Tu e Kirk mi odiate, vero?” gemette, accasciandosi su di me, che cercavo in tutti i modi di tenerla in piedi.
“No, non potremmo mai odiarti.” Le sussurrai dolcemente, accarezzandole la testa e trascinandola verso la sua stanza. Arrivate lì, la feci sedere sulla brandina e la riabbracciai, tentando di calmarla.
Quando Elena smise di piangere la convinsi a mettersi a dormire e lei si coricò nella brandina.
Tornai al piano inferiore con il cuore che batteva all’impazzata. Avevo avuto sul serio paura di fare qualcosa di orribile. Avevo sentito dire che svegliare i sonnambuli fosse pericoloso, mi chiesi nuovamente il perché.
Bevvi un lungo sorso d’acqua e tornai a letto anch’io. Dopotutto Elena era ancora la stessa ragazzina di prima. Altrimenti non si sarebbe preoccupata di quello che pensavamo di lei io e Kirk.
Lo sperai. 






Salve! So che questo capitolo è una cavolata, ma spero vi strappi almeno un minuscolo sorriso.
Per scriverlo ho dovuto fare un sacco di ricerche sulle allergie alimentari e ai peperoni. Poi sui sonnambuli, dopo che mi è venuto l'atroce dubbio del perchè non vadano svegliati... ora che lo so il mondo ha un senso per me. C:
Bene, ringrazio chiunque arriverà a leggere almeno fin qui. :) Ancora un capitolo e vi lascerò in pace.
Alla prossima!

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Capitolo 4
*** End of War ***


End of War



Mi svegliai di bruscamente, dimenticando istantaneamente il sogno che stavo facendo. Mi guardai intorno e riconobbi la stanzetta dove avevo dormito negli ultimi due giorni.
Mi sollevai tra gli scricchiolii della mia scassata brandina, per mettermi seduta e afferrai l’orologio da polso che avevo poggiato nel divano al mio fianco. Erano le 11 e 40.
Mi alzai di scatto. Non avevo mai dormito così tanto. Soprattutto perché mia madre non me l’aveva mai permesso.
Mi cambiai in fretta ed uscii di corsa dalla mia stanza, fiondandomi al piano di sotto.
Kirk era seduto nel divano e giocava con un videogioco di combattimento. Repressi una smorfia mentre guardavo lo schermo della televisione e osservai lui.
Aveva i capelli neri disordinati, una maglia blu e dei pantaloni neri corti fino alle ginocchia. Mi ignorò completamente, non mi salutò né mi guardò. Continuò a giocare con la sua Play Station, come se io non fossi stata nella stanza.
Entrai in cucina con un sospiro.
“Ciao.”
Alzai gli occhi su Dana, che mi sorrideva, mentre lavava i piatti.
“Ciao Dana.” Ricambiai il saluto, sedendomi al tavolo con un sospiro. Probabilmente erano tutti e due arrabbiati con me, anche se Dana mi aveva sorriso. Ma lei era sempre gentile dopotutto.
“Quando mi hai sgridato l’hai fatto perché ti sei preoccupata per me?” mi resi conto di averlo detto a voce alta con un secondo di ritardo.
Dana mi osservò stupita. Tolse le mani dall’acqua del lavandino e se le asciugò, poi si sedette di fronte a me.
“Certo.” Disse piano, annuendo.
Mi mordicchiai il labbro, non sapevo bene cosa dire. Anche mia cugina sembrava nervosa.
“Dana mi dispiace.” Sussurrai, cercando di non scoppiare a piangere davanti a lei.
Mi sorrise dolcemente. “Lo so.”
Mi spostai i capelli dal viso riflettendo su cosa dire.
“Perdonami se sono stata così cattiva, mi ero offesa perché mi avevi rimproverato. E Kirk non mi piaceva e volevo convincerti che non era una brava persona così sono stata cattiva anche con lui. Mi dispiace!” mi coprii la bocca con una mano, cercando di trattenere un singhiozzo. “Alla fine Kirk si è comportato molto meglio di me.”
Dana rise piano. “Posso chiederti una cosa?”
Annuii tirando su col naso.
“Non hai notato che dietro la foto che hai preso ieri c’è scritto l’anno?” Dana strinse gli occhi riflettendo. “Sarà 1977 o ’78, non ricordo.”
Scossi piano il capo. “Non si leggeva.” Risposi in un soffio.
Dana ridacchiò di nuovo. “Ma sulla cassettiera c’è una foto dei genitori di Kirk, anche se è più recente. Non ti sei accorta che era la stessa persona?”
Scossi di nuovo la testa. “Lo so, sono una stupida. Mi dispiace.”
“Almeno hai capito dove hai sbagliato.” Mormorò dandomi un buffetto nella guancia, come fossi una bambina piccola. “L’importante è che ti scusi per tutto.”
Annuii con foga.
“Ho anche pensato a un’altra cosa.” Esordii asciugando le due lacrime traditrici che mi erano sfuggite. “Torno a casa. Qui ho fatto abbastanza danni.”
Dana sorrise nervosamente. “Oh, bene!”
Sbattei le palpebre perplessa.
“A questo proposito, Elena.” Iniziò a testa bassa giocherellando con l’orlo della sua maglietta. “Io potrei aver chiamato tua madre i giorni scorsi e averle detto di venire a prenderti.”
Sgranai gli occhi. Aveva chiamato mia madre?
Ecco perché mi avevano fatto rimanere tranquillamente da loro.
“E quando dovrebbe arrivare?” domandai turbata. Dopotutto non ero arrabbiata. Era la cosa giusta da fare. Semplicemente non ero pronta a farmi vedere da lei: avrebbe potuto uccidermi solo con lo sguardo per essere scappata di casa.
“Uhm…” Dana si passò una mano sui capelli chiari con aria impacciata. “Oggi. Ma non so a che ora.”
Deglutii. Mia madre sarebbe arrivata da un momento all’altro e mi avrebbe fatto patire le pene dell’inferno. Mi passai una mano sul volto, sforzandomi di accettare quella situazione.
Forse avrei dovuto prepararmi un discorso, magari tentare di calmarla.
Con un sospiro uscii dalla cucina e feci per andare al piano di sopra. Mi fermai, sentendo l’audio del videogioco di Kirk.
Mi diressi verso il divano e dopo aver preso un lungo respiro mi sedetti vicino al ragazzo, che continuò a comportarsi come se io non ci fossi.
Mi morsi il labbro, non sapendo bene cosa dire e osservai lo schermo della tv, seguendo con lo sguardo il personaggio di Kirk (un ammasso di muscoli coi capelli a punta e un tatuaggio nella spalla) mentre atterrava il suo avversario.
“Kirk” chiamai piano il suo nome con una vocina estremamente fine. “Mi dispiace.”
Non lo guardai in faccia, non ne avevo il coraggio. Lui continuava a giocare e io a guardare lo schermo.
Presi fiato lentamente un’altra volta.
“Mi dispiace di essere stata così… maleducata?” tentai non trovando un termine adatto.
Sentii una sorta di risata beffarda provenire da lui, tentai di non farci caso.
“Mi dispiace di essermi comportata così male e mi dispiace di aver preso la foto di tua madre.” Continuai cerando di dare alla mia voce un tono più deciso. “Sono una persona orribile.”
Seguirono alcuni secondi di silenzio. Nella televisione intanto un combattimento era appena giunto al termine. Quando ebbe inizio il seguente Kirk mise il gioco in pausa con un sospiro.
“Mi dispiace di averti fatto paura, ragazzina.” Borbottò con tono leggermente annoiato.
Mi voltai verso di lui e scrutai il suo volto serio, quasi scocciato, che lentamente si illuminava in un minuscolo sorriso.
Ricambiai, dapprima titubante poi sempre più convinta.
Kirk tornò serio. “Questo non vuol dire che non ce l’abbia ancora con te, ma posso chiudere un occhio.” Il suo sguardo tornò verso la tv e lui riprese a giocare. “Vedila così: concediamoci una tregua.”
Annuii con un sorriso timido. Nonostante mi fossi abituata un po’ a lui, continuava a farmi un effetto particolare: mi sentivo come in soggezione. Mi chiesi come facesse Dana a non provare niente di simile.
“In questo gioco si deve solo picchiare la gente?” mormorai, tentando di allentare la tensione.
Sentii una risata e me ne concessi una minuscola anch’io.
Dopotutto non era così malvagio.
 
 
*
 

Cinque  mesi dopo

 
Guardai l’orologio con un leggero fastidio. Non mi piaceva aspettare, soprattutto se dovevo farlo in inverno, nel bel mezzo di una stazione che sembrava più una ghiacciaia.
Infilai le mani nelle tasche del piumino con uno sbuffo, facendo formare una nuvoletta davanti alla mia bocca e rivolsi lo sguardo verso Dana. Si stringeva nel suo cappotto nero con aria infreddolita e si guardava intorno con gli occhi strizzati.
“Il treno è in ritardo.” Si lamentò in un filo di voce.
“Me ne sono accorto.” Sibilai a denti stretti, stizzito.
Dana starnutì.
“Salute.” Ci mancava solo che ci ammalassimo per colpa di uno stupido treno.
Un Babbo Natale saltellava allegramente tra le persone, agitando una campana e augurando un Felice Natale a tutti con un barattolo in mano. Mi chiesi se fossero le classiche offerte per i poveri o qualche trovata geniale di un barbone particolarmente attivo.
Quando una vecchietta, probabilmente sentendosi molestata, lo colpì con la borsetta l’uomo scivolò e cadde rovinosamente a terra.
“Merda!” imprecò, facendo scoppiare a piangere un bambino che scappò disperato tra le braccia di suo padre.
Mi lasciai andare in una risata divertita, mentre Dana saltellava nervosamente.
“È arrivato il treno!” esclamò strattonandomi per una manica del piumino e trascinandomi verso i binari.
Scrutammo i volti delle persone che ci circondavano non riconoscendo nessuno di loro.
“L’ho vista!” Dana mi afferrò per un braccio e mi guidò verso la minuscola ragazzina, tutta imbacuccata, che si guardava intorno con aria dispersa.
Una volta raggiunta Elena, lei ci salutò con un sorriso.
“Il treno era in ritardo.” Si giustificò afferrando la borsa che aveva poggiato a terra.
“Abbiamo notato.” Borbottai lanciando occhiatacce al treno.
Uscimmo dalla stazione e ci affrettammo verso la mia macchina, parcheggiata lì di fronte. Mentre aprivo il cofano Dana si schiarì la gola e sorrise verso sua cugina, che dal canto suo la fissava perplessa, probabilmente chiedendosi che problema avesse.
“Dobbiamo dirti una cosa.” Esordì tutta contenta, lanciandomi occhiate complici.
Infilai il bagaglio di Elena nel cofano e lo richiusi con un colpo secco.
“Non vuoi aspettare di tornare a casa?” chiesi in un mormorio. “Potrebbe iniziare a insultarmi e bloccare la crescita di bambini innocenti.” Spiegai facendo un cenno verso i passanti.
Elena mi fissò con le sopracciglia corrugate, mentre Dana mi assestava una debole gomitata nelle costole.
“Va bene.” Mi spostai i capelli dal viso e puntai gli occhi sulla cuginetta di Dana. “Senti un po’, ragazzina, a me non importa se non ti piaccio, ma è giusto avvisarti, prima che tu possa scappare di casa di nuovo per cercarti una nuova famiglia, dove io non sono coinvolto.”
Elena mi fissò confusa, mentre Dana ricominciava a saltellare sul posto.
“Ci dobbiamo sposare!” esclamò gongolante in direzione di sua cugina.
Lei sgranò gli occhi e mi osservò stupita per alcuni secondi, senza dire nulla. Poi si sciolse in un sorriso.
“Congratulazioni.” Disse semplicemente, guardandomi con aria di sfida. “Sono felice per voi.”
Ricambiai il suo sorriso con un pizzico di perfidia.
“Quindi ti rendi conto che diventeremo come parenti, dolcezza?” sibilai per poi scoppiare in una risata beffarda alla vista della sua smorfia scioccata.
Dopotutto a me stava bene così.
 

The end!


 




Dopo aver passato un quarto d'ora a fare ricerche sul clima invernale di Pasadena, eccomi qua con l'ultimo capitolo. 
Non ho niente da dire, spero che tutta la storia non sia un completo disastro e che vi abbia almeno fatto sorridere (anche un sorrisino piccolo piccolo).
Grazie mille se siete arrivati a leggere fino a qui, lo apprezzo. :)

Good Bye! :D

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