Bleeding in Baker Street

di Fusterya
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bleeding in Baker Street ***
Capitolo 2: *** Dreaming in red ***
Capitolo 3: *** Both sides are even ***
Capitolo 4: *** Night ***
Capitolo 5: *** Captain John Watson ***
Capitolo 6: *** Grieving survivor ***
Capitolo 7: *** Breathe, draw, wake, talk ***
Capitolo 8: *** Bulletproof ***
Capitolo 9: *** Soulmate dry your eye ***
Capitolo 10: *** Captain, tell me where I’m been ***
Capitolo 11: *** I’d rather be here than be anywhere ***



Capitolo 1
*** Bleeding in Baker Street ***


Bleeding in Baker Street
- JOHN -

Sono qui solo perché devo prendere delle cose.
Non sono cose importanti, non per me, ma ho trovato un'altra casa da tempo e non posso più pagarne due: Mrs. Hudson deve riaffittare, non può tirare avanti senza quei soldi. Ha aspettato, ha provato a supplicarmi in tutti i modi, ha promesso che mi avrebbe fatto pagare metà dell'affitto, tagliando anche lei delle presunte spese superflue, ma io non posso.
Non posso stare qui. Non più.
I mobili resteranno, non erano né suoi né miei.
Non sono nemmeno tutti di Mrs. Hudson, forse lei non ricorda nemmeno da quali e quanti inquilini si è formato quel caos incontrollato di poltrone, lampade, carte da parati, suppellettili messe insieme per caso ma non proprio senza senso, alla fine.
Io credo di non aver mai notato nemmeno il colore della cucina. Lui, invece, sono sicuro avesse ben registrato ogni più insignificante dettaglio: ogni remoto angolo di questa casa, ogni più insulso soprammobile, sono sicuro avessero la loro perfetta riproduzione nel suo palazzo della mente.
Io non avevo portato niente di mio, non avevo niente quando sono arrivato qui.
Non ho niente adesso che vado via.
Meno di niente.
Davanti al portone esito. Ho ancora la chiave, Mrs. Hudson non l'ha mai voluta indietro fino ad oggi, sperando che cambiassi idea. Guardo su e alla finestra non c'è nessuno.
Come potrebbe?
Una volta stava suonando vicino alla finestra con così tanta foga che, quando ebbe un'intuizione e volle comunicarmela in tempo reale, si girò di scatto e l'archetto mandò il vetro in frantumi.
Ecco, sorrido di nuovo. Durerà pochi secondi.
Giro la chiave nella toppa, contemporaneamente delle dita invisibili mi prendono per lo sterno e stringono forte.
Quella supplica che mesi fa gli ho rivolto davanti alla lapide è decisamente rimasta inascoltata.
Ferma tutto questo. Fermalo.
Non ha potuto.
Non ha voluto.
Apro ed entro. La penombra dell'ingresso e il familiare odore casa, quello proprio e definito che hanno tutte le case, mi investono con dolcezza, come se non volessero ferirmi, e invece mi feriscono.
L'odore, soprattutto.
Un misto di polvere, solventi, profumo di Mrs. Hudson, legno e moquette un po' consumata. Forse anche qualcosa di chimico in sottofondo. Chiudo la porta alle mie spalle e guardo le scale. Se ora ci fosse in sottofondo una musica drammatica, sarebbe una perfetta scena da film. E potrei anche sperare di salire e trovarlo seduto al microscopio.
Ma la risposta può essere una sola.
Salgo con passo stanco, aggiro il pianerottolo di Mrs. Hudson. Lei è via per qualche giorno, ho preferito non incontrarla: mi avrebbe supplicato ancora.
Ma io non posso.
Non.
Posso.
Dicono che le persone si attacchino agli oggetti per mantenere vivo il ricordo di qualcuno; c'è chi conserva intatti gli armadi, stanze che non vengono ripulite, riordinate… in cui non vengono rifatti i letti. Qui c'è una casa intera, invece, ed è troppo per me.
Non voglio cancellarlo, non è questo.
 Anzi, voglio conservare intatto, immacolato il ricordo di quei quasi due anni della nostra vita. Ma conservando anche la mia sanità mentale.
Guarderò cosa c'è da buttar via e domani tornerò con un furgoncino in affitto. Terrò solo poche cose, l'appartamento che ho trovato è davvero molto piccolo.
Arrivo alla nostra porta e la apro senza esitare, devo evitare di riflettere troppo, di soffermarmi sulle cose.

Ore dopo sono ancora qui. Non ho fatto niente di tutto ciò che mi ero ripromesso.
Sono entrato e mi sono guardato attorno, era tutto al suo posto, come se non fossimo mai andati via. Neanche Mrs. Hudson pare abbia mai avuto il coraggio di mettervi mano.
C'erano ancora delle tazze sporche di thé su un tavolino nel soggiorno, credo risalissero a quel giorno. Una era sua, ma quale?
Il divano coi cuscini scomposti, quello con l’immagine dell’Union Jack appoggiato a dun bracciolo, un po' schiacciato al centro... se lo avessi preso, forse ci avrei trovato dei capelli neri. Era là che si sdraiava per qualche minuto quando il suo grosso cervello carnivoro gli aveva consumato tutte le energie.
C'è la sua vestaglia blu a righini sulla spalliera di una sedia. Vorrei prenderla e annusarla, ma mi sento patetico e non lo faccio.
Di cosa potrebbe odorare dopo tutti questi mesi, se non di vecchio?
Carte, libri ovunque, giornali. L'attrezzatura scientifica. Tutto intatto e coperto di polvere. Non vado nelle stanze da letto, la mia è rimasta così, ho portato via solo dei vestiti in un borsone.
La sua non voglio vederla.
Mi siedo nella poltrona. Prima nella mia, quella lisa e gigantesca.
Guardo la sua, grande e nera, avvolgente e spigolosa, confortevole di seduta, scomodissima di spalliera: una sorta di gemella inanimata.
Mi alzo e mi siedo là, voglio guardarmi attorno dalla sua angolazione, dal suo punto di vista.
Il silenzio assoluto non si addice a questa casa.
Domani prenderò solo il violino e questa poltrona, nient’altro. Ma per adesso sto qui ancora un po'. Altri 10 minuti.
Lo prometto.

Ormai è sera inoltrata, è buio.
Sto al buio e voglio starci.
Ogni tanto i fari delle auto che passano in strada disegnano archi di luce sul soffitto, ma è tutto.
Non penso a niente, non faccio la carrellata dei ricordi… non serve, ogni istante mi compaiono negli occhi del flash di tutto ciò che ci è successo.
Respiro lentissimamente, come faccio da quel giorno, per cercare di tenere giù quello che potrebbe uccidermi.
Quella cosa là.
Cerco di tenerla sotto, di renderla impotente, come quando ti insegnano da soldati a gettare per terra il nemico e a tenerlo sottomesso, immobilizzato a terra con il tuo ginocchio sul suo collo.
Prima o poi le forze mi mancheranno, ne sono consapevole: i muscoli non avranno più energia, nè la mia respirazione lenta e controllata servirà a niente.
Quella cosa solleverà l’oscena testa in una frazione di secondo e mi strapperà via la carne.
Per adesso, reggo.
Sto pensando proprio a questo e salto letteralmente in aria quando squilla il cellulare, all'improvviso.
Avevo persino dimenticato di averlo, lo cerco nella giacca per farlo smettere, voglio silenzio, silenzio, sile…
Molly.
Non rispondo, guardo il display che illumina la stanza a quasi giorno e il nome di Molly Hooper lampeggiare nella schermata. Perché dovrebbe chiamarmi Molly? Oggi?
"Molly, ciao". Il mio è un sospiro, forse.
Anche lei esita, balbetta. La sua voce non è mai stata il suo punto di forza.
"John? Sei tu?"
"Non ci vediamo dal… da allora… come stai?"
Lei non risponde. Sta ansimando.
"John…."
"Molly, sono qui, io ti sento. Tu mi senti bene? Mi devo spostare?"
"John, sei a casa?"
"Casa? No… non sono a casa mia…sono..."
"Sei a casa a Baker Street?"
Credo di star facendo una delle mie facce da Sherlock.
"Io… sì. Sono qui…come fai a…"
"John, devo parlarti, ti raggiungo. Sono qui vicino." Lo dice a valanga, come se avesse fatto un grosso sforzo.
Mi sembra trafelata.
Sono davvero basito.  Forse è nei guai… ma come fa a sapere che…
"Molly, ti è successo qualcosa?"
"Devo assolutamente parlarti… arrivo lì, sono a cinque minuti"
"Ok… ok, sono qui, ti aspetto… Molly…"
Ma lei ha già chiuso.
Resto qualche istante a farmi mille domande, sono stranito, curioso… ma d'altro canto lei sarà presto qui e potrò chiederle come ha fatto a sapere… come diavolo ha fatto, se sono qui da almeno 3 ore e non ci sono mai venuto prima in tutto questo tempo? Mai?
Mi ha cercato altrove, prima?
Perché non chiamarmi, semplicemente, per chiedermi dove fossi?
“Tu lo avresti già capito” - gli dico.
Mi alzo in tutta fretta, accendo le luci, mi stiro un po' la giacca con le mani, provo ad andare in cucina per vedere se posso mettere su un po' di thè, fuori fa freddo, ma il bollitore è incrostato di calcare, le tazze sono tutte sporche e dal rubinetto esce acqua di un colore rossastro mai visto prima. Forse non è il caso.
Incrocio le braccia e aspetto, appoggiato al lavandino.
Il campanello suona simultaneamente.
Allora non era a cinque minuti, era qui sotto… Molly, ma che diavolo…???
Premo il bottone di apertura e sento che corre su per le scale, corre, corre. Molly che corre… la timida, prudente, silenziosa Molly…
Arriva su rumorosa, compare sulla porta trafelata e scomposta. E' pallida, spettinata.
Le vado incontro perplesso.
"Molly. Che è successo? Qualcuno ti segue? "
"John" ansima cercando di riprendere fiato "devo dirti qualcosa… qualcosa che devi sapere da me prima che tu lo sappia… in un altro modo"
"Entra, siediti" cerco di prenderla per un braccio e accompagnarla più all'interno dell'appartamento, ma lei si divincola.
"No, devo fare presto, John… io non so come farlo…"
La guardo adesso sì, preoccupato, molto.
"Qualcuno vuole farti del male? Come mai eri qui sotto? Come sapevi che io ero qui?"
"Perché c'è qualcun altro che sta venendo qui, deciso a dirti qualcosa! John…."
"Chi?"
"John, ascoltami" mi prende gli avambracci, me li arpiona letteralmente con le dita fredde, stringe forte, i suoi occhi sono supplichevoli "devi… devi essere ragionevole, devi… prima di qualunque reazione, devi ascoltare, mi devi credere. Sei disposto a credermi sulla parola?"
"… Molly, certo, ma cosa…?"
"Forse è meglio che ti siedi tu" fa per tirarmi verso la poltrona ma io resisto, lei cambia idea "ok, non c'è tempo..."
Mi ripianta in faccia quegli occhi spaventati, umidi... sta per piangere.
"John, tu lo sai come è fatto, di cosa è capace… lo sai?"
Vorrei parlare ma il mio cervello balbetta.
C'è qualcosa che non torna nei verbi che sta usando.
Resto in silenzio, lei respira rumorosamente, ha delle perline di sudore sulla fronte e sul labbro superiore, noto.
Poi riesco appena a sussurrare.
"Sherlock?".
"Ha voluto proteggerti, lo sai questo?"
"Sì"
"E non l'ha fatto solo… quel giorno… con quella cosa… lo ha fatto anche dopo."
Dopo? Dopo… come?
"Dopo? Dopo…come? Cosa?"
Ora lei sta cercando le parole, le sue labbra tremano.
La prendo io per gli avambracci, adesso.
"Molly… come? Ha lasciato qualcosa per me? Ha scritto… ha registrato qualcosa che non so? Ha fatto qualcosa che non so prima di quella… stronzata???"
"John, devi restare calmo e concentrato, o dopo sarà peggio" prova a contenermi, ma ormai è tardi, c'è qualcosa che non so.
C’E’ QUALCOSA CHE NON SO.
Cosa hai lasciato per me, Sherlock?
"Dopo cosa, Molly, cosa?"
"Ti ha protetto, ti ha protetto fino ad oggi! Sempre.. io non so come dirlo…."
"Molly, dillo e basta! Come mi avrebbe protetto fino ad oggi? Da cosa? E come?”
"Da sé stesso!" sbotta lei… e piange. "Da sé stesso, per non farti altro male… e poi ha deciso che non poteva più… poi ha deciso che era troppo, oggi… ma secondo me…"
"Ha deciso??? Ha deciso???"
Sto gridando? Sono io?
"HA DECISO QUANDO, MOLLY???? Che stai dicendo, Cristo! Che cazzo stai dicendo? Oggi?"
"John, non farmelo dire, arrivaci da solo, se ci arrivi da solo è meno terribile… non farmelo dire…" piange sconsolata, appoggia la fronte sulla mia spalla destra
"è colpa mia, non avrei dovuto dargli retta… l'ho aiutato io in quella cosa, è colpa mia… e avrei voluto dirtelo mesi fa come era andata veramente, per non vederti cadere a pezzi…. e anche lui cadeva a pezzi, ma me lo ha sempre impedito… diceva che era meglio così, doveva rimettere insieme le cose, prima… ricomporre tutto, aggiustare tutto come prima… e solo dopo… oddio…. oddio"
"Come… come è andata…. VERAMENTE?" ansimo.
Ansimo come un levriero dopo una corsa.
Mi manca il fiato.
"Cristo, io l'ho visto cadere, Molly!!! Che cazzo stai dicendo!" urlo e mi allontano, la respingo come se fosse infetta.
Lei singhiozza.
Io comincio a sentire dei pezzi che si incastrano nella mia mente.
Stridono e sbattono tra loro, come se non potessero mai e poi mai trovare una configurazione… e invece si incastrano.
Come è andata veramente… la riabilitazione… le inconfutabili prove che non fosse un truffatore, che Moriarty fosse davvero Moriarty… la campagna sui giornali… l'arresto di Kitty Riley…
I tardivi funerali di stato, appena due mesi fa.
Io in prima fila.
Il primo ministro che diceva solennemente "Glielo dobbiamo, tutto il Paese glielo deve"
Il principe Carlo in piedi ad un banco.
Il cuore mi sta strozzando la gola, mi prendo la testa tra le mani.
Ho capito solo adesso.
Ho capito.
Ho... capito?
"È vivo? è vivo… è vivo???? E' vivo, Molly?"
Lei piange e non riesce a parlare, ha le mani sulla faccia, vedo solo che annuisce con la testa… annuisce.
Annuisce.
"Oh, Gesù…" sento le ginocchia che si piegano. Come quell'altra volta, sul marciapiede.
Ma io devo sentirlo dire, devo sentire le parole precise.
Io l'ho visto cadere, l'ho toccato, gli ho preso la mano, ho visto suoi occhi spalancati… due vetri opachi, ho annusato il suo sangue…. gli ho sentito il polso... sono un medico, cristo santo!
Cristo santo… cristo santo…
"E' VIVO, MOLLY? DIMMELO!"
"SI'!" urla anche lei "e sono stata io… l'ho aiutato io…. dio, John…perdonami…."
"Come…. " Ho la testa tra le mani.
Me le porto sulla bocca senza voce.
"…."
"Volevo dirtelo prima… da mesi… ma non me lo ha lasciato fare"
"Perché…" barcollo verso la mia poltrona.
Cosa sta succedendo? Mi sento mancare fisicamente.
La pressione del mio sangue è crollata di colpo, se non mi siedo cadrò.
Ricado pesantemente sui cuscini.
Mi guardo attorno come se stessi annegando... guardo lei.
"Perché non te lo ha lasciato fare? Dov'è… dov'è Sherlock?"
Non posso credere alle mie stesse parole.
Dov'è Sherlock? Ora? Al presente?
Sta succedendo davvero? Non mi avranno mica drogato?
"Diceva che oggi era il giorno giusto, ti ha seguito, ti ha visto venire qui, non potevi dar via la casa….questo gli ha dato il segnale: ho dovuto impedire che ti si presentasse davanti come se niente fosse, era quello il suo piano… non so cosa gli abbia impedito di fermarti per strada ore fa... allora è venuto da me, era confuso... poi è voluto tornare qui e io non riuscivo più a trattenerlo"
Molly piange ancora.
O mio dio. Fatico a respirare, mi sta venendo un attacco di panico.
Non sono felice, sono terrorizzato.
Terrorizzato che sia una mia allucinazione.
"Non riesco… oddio…"
"John, respira, ventila…. respira lentamente" Mi viene vicino, si accovaccia accanto a me, mi accarezza una spalla.
"Perché non te lo ha lasciato… fare? Non resp… oh…dio… dov'è?"
"Voleva sistemare tutto. Rimettere tutto al suo posto… poi non ne ha avuto più il coraggio, fino ad oggi"
"Dov'è? Adesso? Chi altro lo sa… non riesco…"
"Mycroft"
"Ah!" rido, più che altro è un rantolo.
La riabilitazione pubblica. Era ovvio.
"Lestrade?"
"No. Nessun altro."
"Come… come avete fatto? Come avete fatto? Come? Come, Molly".
Il mio respiro è troppo veloce, non riesco a controllarlo, l'aria che entra nei polmoni non basta, ho la vista annebbiata.
comeavetefatto? comeavetefatto? comeavetefatto?
Io ero lì. Io ero lì.
Ma ora che importa? Cosa può importare, adesso?
Mi sento sospeso su un cavo a 300 metri da terra.
E' solo adesso che capisco la portata di quello che mi si è rivelato.
Posso vederlo. Posso toccarlo.
Figlio di puttana!
La sua voce. Voglio sentirgli dire il mio nome.
"Dov'è?" fisso Molly e, da come trasalisce, credo di avere gli occhi del pazzo.
"Voglio vederlo… dov'è?"
"In strada" risponde lei dolcemente, finalmente più calma "è qui sotto… siamo venuti insieme, è dall'inizio del quartiere che gli corro dietro, voleva salire e… non so… fare cosa. Fare cucù. Come se niente fosse. Avresti avuto un infarto, qualcuno doveva preparati, prima."
Perdo di nuovo qualche battito cardiaco.
E' qui sotto.
A tre, quattro metri lineari da me.
Mi alzo di scatto, lei mi trattiene per un braccio.
"Se mi mostro alla finestra, salirà: è il nostro accordo"
Sento uno scricchiolio nel legno alle nostre spalle e non ho il tempo di dire a Molly che è troppo tardi, che non c'è bisogno che lei si mostri alla finestra.
Mi giro piano, lo guardo stagliarsi sulla soglia della porta come se non fosse mai accaduto niente.
Era morto cinque minuti fa, era morto da quasi 11 mesi, e adesso è vivo.
Come nei libri, come nei film.
E' vestito di nero, come sempre. Il cappotto è nuovo.
Perché sto notando questa cosa adesso?
"John" dice lentamente, solenne. Io chiudo gli occhi. Quando li riaprirò non sarà più là, sto immaginando tutto.
Anche se sento ancora la mano di Molly sull'avambraccio.
Li riapro ed è lì.
L'espressione contrita, come quando lo rimproveravo per aver fatto una gaffe di cui non si sarebbe mai reso conto senza di me.
Gli occhi trasparenti.
Non posso proprio muovermi, parlare.
Le labbra si aprono… rimangono mute.
Si avvicina, forse vorrebbe corrermi incontro ma si controlla, lo vedo da come contrae le dita in due pugni nervosi; in qualche secondo appena riesco a far scorrere i miei occhi su tutta la sua figura, dall'alto in basso, dal volto pallido alle scarpe scure, e poi di nuovo su, fino a che me lo ritrovo davanti, gli occhi cristallini piantati nei miei.
Appena un po' arrossati agli angoli interni.
Sento l'odore familiare.
E non riesco ancora a parlare.
Avverto la presa di Molly allentarsi, esce dal nostro spazio, mi lascia da solo.
"John" ripete lui.
La sua voce mi rimbomba dentro come un'eco ancestrale, guardo in alto oltre la sua spalla e penso "forse sono morto anche io… oggi pomeriggio su questa poltrona".
Che pensiero cretino.
Mi abbraccia, forte. Affondo il viso sul collo del cappotto nuovo, investito dall'odore mi è mancato così tanto.
Vorrebbe che lo abbracciassi anch’io, lo capisco da come stringe.
Sento dolore, disperazione.
Ma le mie braccia rimangono lunghe sui miei fianchi.
Mi respira sulla spalla.
"John. Mi dispiace. Perdonami".
Lui che non sapeva usare questo tipo di parole, lui che non amava essere toccato da nessuno.
"Perdonami".
"Sherlock". Il mio è appena un sussurro.
"Sherlock" ripeto.
Lui stringe più forte. Finalmente alzo le braccia e lo abbraccio anch’io, con tutta la forza che ho.
Sono sempre stato un uomo riservato, in una maniera diversa ma nello stesso tempo simile alla sua.
Io, quello falsamente cauto, ingannevolmente moderato.
Apparentemente controllato.
John, tu sei il mio freno a mano, mi diceva. Tu mi dai degli argini.
Il mio argine si rompe adesso.
Singhiozzo come un bambino di pochi anni, un bambino che qualcuno ha perso e qualcun altro ha ritrovato.
Lui mi tiene come se stessi cadendo. Come se io cadessi al posto suo da quel tetto e lui stesse venendo con me.
Giù, insieme.
"Sherlock…"
"Lo so, John… mi dispiace"
Non voglio chiedere niente, né come abbia fatto né perché, non adesso.
In altri momenti pericolosi, drammatici…oh, quanti ne avevamo passati insieme!, uno dei due avrebbe fatto una battuta qualunque e l'altro l'avrebbe colta al volo.
Avremmo riso.
In un libro qualunque scritto su noi due ci sarebbe stata dell'ironia, anche in un frangente disperato, ma adesso non era possibile.
Semplicemente dovevo piangere in quel modo, come non avevo fatto in 11 mesi di lutto, nemmeno quando ero da solo e nessuno poteva vedermi: ero sopraffatto e basta.
Indifeso.
Inerme.
Mi lascia il tempo di sfogarmi, non so quanto passa, ma mi rendo conto che, quando distolgo la faccia, il suo cappotto è bagnato fradicio.
Allento le braccia, lui allenta le sue, ci guardiamo. Ha gli occhi umidi anche lui. Per la prima volta in vita mia, lo vedo con il volto bagnato, il naso rosso.
Vorrei dire qualcosa che spezzi tutto questo... dolore con uno schiocco secco, qualcosa che faccia ricomparire per magia- sì, esattamente una magia come quella che si è compiuta adesso- la nostra vita di prima.
Vorrei che la polvere si sollevasse da tutti questi oggetti, che la sua vestaglia avesse di nuovo un odore, che la vita riprendesse esattamente da dove eravamo rimasti.
Ma ora il dolore, quello pesante e viscoso, quello che si è rintanato dentro di me come un parassita e mi si è appiccicato alle pareti dello stomaco, si muove e mi dà un brutto colpo di coda.
“E adesso te ne puoi anche andare” gli dico fissandolo in quegli occhi arrossati che sembrano pozzanghere dopo un brutto temporale.
Lui volge lo sguardo in terra, poi di nuovo a me.
“Mi aspettavo che non l’avresti presa bene” mormora “Prenditi tutto il tempo che vuoi, davvero... io capisco”
“No...” quasi mi viene da ridere, ma una mezza risata così grottesca io non l’ho mai sentita “no, tu non capisci. Tu non hai la minima idea di quello che mi hai fatto.”
Mi guarda disperato.
Disperato.
Ha le labbra strette, livide. Le sue iridi azzurre... verdi... ma che colore è? Dio, lo avevo quasi dimenticato, quel colore... mi fissano cercando di aggrapparsi alle mie.
Mi sta dicendo che sta per saltare di nuovo.
Ma io stasera non lo fermerò.
Mi muovo e gli passo davanti, vado verso la porta e mi sembra di sanguinare.
Ho gli occhi stretti perché non riesco a fermare queste lacrime maledette.
“John... John, ti prego!”
Mi fermo davanti a Molly, che mi guarda affranta e mi fa cenno di no con la testa, ma io non posso.
Io e lei ci guardiamo e mi sembra tutto quasi comico. Una soap opera di bassa lega.
“John... per favore” Sherlock mi chiama da dietro le spalle.
La sua voce è incrinata.
Io non smetto di guardare Molly.
Ho desiderato questo momento a costo della mia vita, avrei voluto morire mille volte per vivere questo istante anche solo per venti, trenta secondi, e ora che il destino ha deciso di regalarmelo, io non lo voglio.
Non lo voglio.
“Non ho mai contato niente per te” dico a Molly, ma non è per lei. Ho la voce roca, mi devo schiarire la gola.
“Non ho mai significato niente. Adesso lo so.”
“Non è vero” si difende “questo è ingiusto... non è vero, John!”
Molly mi stringe le mani, forte. Si sporge con delicatezza verso di me e mi dà un leggero bacio sulla guancia.
“Perdonalo” dice in un soffio “non sai ancora tante cose”.
Poi mi lascia e corre via, non saluta neanche lui. La vedo scendere per le scale un po’ scoordinatamente, vedo che si asciuga la faccia con la manica dell’impermeabile, poi sparisce dietro la curva della prima rampa.
Faccio un passo anch’io.
“John... non è vero, ho dovuto, aspetta...” mi implora.
Sherlock che implora.
“E’ stata l’ultima che mi hai fatto, Sherlock. Moriarty aveva ragione. Un animale domestico, niente di più.”
Non ce la faccio più a parlare.
Mi giro a guardarlo l’ultima volta.
E’ fermo in mezzo alla stanza, piange in silenzio ma come un bambino, i pugni stretti lungo i fianchi e testa abbassata.  
E io mi sento esattamente come quel giorno su quel marciapiede.
Avverto quella stessa orribile sensazione di definitivo, ma io ho bisogno di salvare la mia, di vita.
O quello che ne resta.
“Sono contento che tu sia vivo” gli dico piano “E’ bellissimo sapere che sei vivo, ma devi esserlo lontano da me. Se ho mai significato qualcosa... non devi farti vedere mai più.”
“No, non lo farò” si riscuote, si raddrizza nelle spalle, mi guarda con quello sguardo che conosco bene, quello di quando ha deciso qualcosa.
E quel qualcosa, in un modo o nell’altro, sarà.
“Non finché non avrai sentito tutto quello che c’è da sentire, non avrai saputo tutto quello che c’è da sapere, ti avviso.”
Si passa il dorso della mano velocemente sotto gli occhi, tira su col naso.
Mi scappa un sorriso amaro.
Dio, è meraviglioso guardarlo. Vedere che è lì.
Ma in questo momento, semplicemente, non posso.
“Avrei voluto sapere solo una cosa, ed è proprio quella che non mi hai detto in tutto questo tempo. Avrei...” mi si spezza di nuovo la voce “avrei voluto sapere che ero tuo amico e che ti fidavi di me. Non avrei dovuto essere parte di una delle tue... macchinazioni, mai. Mai, Sherlock.”
“Saresti morto! Ti avrebbe ucciso!” mi risponde disperatamente “Cosa avrei fatto se fossi morto, John?”
Capisco profondamente la sua frustrazione ma sento che la cosa non cambia nulla, per me.
“E’ sempre la stessa storia... riguarda sempre te.”
Mi giro di nuovo, adesso devo proprio andarmene.
Devo... assorbire.
Devo processare.
Devo dormire.
Non lo so.
“Ok, ok, allora sii arrabbiato, insultami...” mi viene vicino, vorrebbe forse prendermi per le braccia, scuotermi, si vede chiaramente che è fuori di sè “fai tutto quello che devi fare, ma non pensare neanche per un attimo di dirmi seriamente che non devo più cercarti”.
Resto in silenzio.
“Non lo fare.” Mi supplica.
Respiro profondamente.
Non mi sento bene.
Pensavo che avrei fatto mille cose, che l’avrei preso a pugni, che avrei urlato... invece mi sento svuotato, privo di ogni volontà.
Voglio solo continuare a piangere, da solo.
Devo ricacciare dentro il mio lutto, il mio terribile stato di abbandono.
“Mi hai abbandonato quando sei morto e mi hai abbandonato quando hai scelto di non dirmi che eri vivo. E’ troppo da sopportare.” gli confesso.
Dalla sua faccia, comprendo che per lui dev’essere una verità devastante.
Resta zitto, non riesce a ribattere niente. Mi fissa imbambolato.
Credo che stia finalmente realizzando, con una lentezza davvero inusuale per lui, quanto male abbia fatto e quanto un essere umano sia capace di essere ferito.
E io sono felice che stia soffrendo.
“Ti volevo bene” affondo senza pietà “te ne voglio. Eri... sei il mio migliore amico. Ma adesso stammi lontano.”
Poi mi giro davvero e mi incammino verso le scale.
“Adesso?” sento l’eco della sua voce malferma “Hai detto adesso. Va bene, adesso lo farò, ma solo adesso, John. Ascolta quello che dico.”
So che intende proprio questo.
E che non mi libererò mai di lui, per quanto io in questo momento lo desideri con tutte le forze... per puro istinto di sopravvivenza.
Mentre scendo le scale aumento l’andatura, verso la fine mi metto quasi a correre, lui non mi insegue, resta lì da solo con la sua angoscia come ho fatto io in questi ultimi mesi.
Mi sento strappare la carne dallo stomaco.
Mi avvio a passo veloce nella strada buia, fa un freddo cane, cerco di asciugarmi gli occhi come posso, ma non si asciugano, proprio non ce la fanno.
Cosa ho fatto?
E’ tornato, e io l’ho respinto.
E quando arrivo quasi di corsa all’angolo della strada, lo giro e mi fermo per appoggiarmi al muro, senza forze. Ho il fiatone, non riesco a contenere tutta questa emozione.
Non sono lucido.
Cosa ho fatto?
Ed ecco che sento il cellulare vibrare nella tasca, appena due ronzii contro la mia anca sinistra.
Lo tiro fuori con le dita ghiacciate e cerco di guadare il display attraverso gli occhi appannati, ma già so chi è il mittente.
- Non ti darò tregua - SH.  
Mi viene da ridere, sembra una minaccia da arcinemico.
Poi il dolore mi sopraffà un’altra volta.
Come hai potuto farmelo, Sherlock?
Come hai potuto abbandonarmi così?
Ridurmi all’ombra di me stesso?
Non rispondo, rimetto il cellulare in tasca e mi incammino di nuovo.
Rido e piango, la gente che mi incrocia penserà che sono malato.
La mia vita è di nuovo sfigurata, deformata, sull’orlo della follia, e io ci sto annegando ancora dentro, un’altra volta, per colpa di Sherlock Holmes.
Sono furioso.
Distrutto.
Assolutamente deciso.
Ma dentro di me - nel profondo- io lo so che alla fine, fosse anche tra mille anni, l’avrà vinta lui.
Come succede ogni fottuta volta.

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Capitolo 2
*** Dreaming in red ***


Secondo capitolo: dopo la reazione di John, Sherlock sta annegando nel sangue.  



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"Andiamo, Sherlock, alzati!" la voce di John era concitata, dura.
 Lo teneva per l'omero destro e le sue dita gli si conficcavano nella carne, gli facevano male. Sherlock era seduto per terra, su un marciapiede grigio, QUEL marciapiede grigio, e guardava il cemento davanti a sé, col capo abbassato.
C'erano pozzanghere di sangue scarlatto tra le sue gambe. Accompagnato da un suono suono viscoso e sinistro, ne cadde un altro grosso fiotto che gli schizzó l'interno cosce dei pantaloni.
John, accovacciato davanti a lui, quasi urlava. Lo scuoteva. Aveva la sua pistola automatica nella mano destra, la stringeva tanto che le sue nocche erano bianco latte.
"Mi senti, cazzo? Ti devi muovere, devi alzarti!".
Lui si portò le mani al volto e sentì il viscido calore del sangue imbrattargli i palmi. Era lui che sanguinava così?
Non provava dolore, non sentiva niente altro che la sensazione calda del sangue che fluiva giù dalla sua testa, gli scivolava lungo il collo, impregnandogli i vestiti, e gocciolava dalla sua fronte, zampillando per terra nella pozza già formata davanti a sé.
"Non posso" gli rispose guardandosi le mani zuppe "devo stare qui".
Alzò la testa e lo sguardo di John era folle di rabbia.
C'era altra gente intorno, gente blaterante che provava ad avvicinarsi a loro, ad allungare le mani per prendere Sherlock: vide due braccia strette in una giacca beige venire verso di sé, urtando John. Che senza neanche guardare, sollevò la pistola verso quel volto sconosciuto e fece fuoco.
Sherlock sussultò, l'uomo cadde all'indietro, gli altri urlarono.
Gli occhi di John avevano una luce distorta che lui non gli aveva mai, mai visto.
"Li ammazzo tutti se non ti alzi in piedi e non vieni con me!"
"Non posso!" ansimava lui, sentiva il terribile sapore del sangue in bocca" devo stare qui, è previsto che io resti qui!"
La folla si stava di nuovo radunando attorno a loro, sentiva le loro voci allarmate e sovrapposte, frasi confuse come : aiutiamolo, chiamate un'ambulanza.
 Una ragazza dai tratti asiatici si accovacciò tra loro ed prese Sherlock per il bavero "Signore, ho chiamato i soccorsi, come si sente?"
"No!" mormorò lui cercando di allungare le mani verso John, ma John, fulmineo come il bravo soldato che era, continuò a fissarlo senza battere neanche una volta le ciglia, gli lasciò il braccio, agguantò lei per i capelli tirandola violentemente in mezzo a loro, esattamente nel mezzo, e le sparò in testa.
Sherlock avvertì l'odore forte della detonazione bruciargli il naso e il sangue della ragazza, bollente, che gli schizzava in faccia come fosse sotto la doccia.
John la lasciò andare e quella cadde di faccia nella gigantesca pozzanghera cremisi tra le gambe di uno Sherlock ammutolito.
"Li ammazzo tutti" ripeté John calmo. 
"Non servirà, non posso!" finalmente si riscosse, si arrabbiò, urlò "non posso venire con te, non ora!"
John tacque un istante, quello sguardo livido di follia era sempre lì.
Anche il suo volto era schizzato di sangue, ne aveva tra i capelli biondi, sulla giacca verde militare.
Per una frazione di secondo, il suo sguardo si addolcì e tornò ad essere quello placido e rassicurante  del suo vecchio amico di sempre.
"Ok, come vuoi" accondiscese "allora non c'è altro modo".
John Watson sollevò la mano destra che stringeva la pistola, se la puntò sotto il mento e sparò.
Sherlock Holmes sentì un urlo che non aveva niente di umano prorompergli dalla gola mentre il corpo di John si sbilanciava in avanti e si accasciava tra le sue braccia insanguinate.

Il thé che placidamente roteava nella tazza di porcellana, sospinto da uno dei più brutti cucchiaini d'argento che avesse mai visto, era scuro e viscoso, aveva il colore profondo di un cognac invecchiato bene.
Sherlock si chiese se non fosse il caso di svuotarlo nel lavabo e passare al cognac vero, anche se non erano ancora le 6 del mattino.
"Notte tranquilla, naturalmente" chiosò una voce ironica da dietro le sue spalle.
Sherlock storse le labbra.
"Come ogni notte, Mycroft,"
"Ti ho sentito a due piani di distanza" lo informò il fratello, già perfettamente sbarbato e vestito, affiancandosi a lui e prendendo tazza e bollitore "E credo ti abbia sentito anche John Watson dall'altra parte della città."
Sherlock gli si allontanò per andarsi a sedere al tavolo di cristallo della enorme cucina moderna. Casa di Mycroft era immensa, costosa e vittoriana: tutto era nuovo ma perfettamente classico, sembrava un'ala privata del Diogene's.
Tranne la cucina, appunto, che sembrava la plancia di comando dell'Enterprise.
Sherlock scivolò in una sedia di plexiglas trasparente di chissà quale designer e si prese le tempie tra le dita.
Il mal di testa quella mattina era atroce.
Dietro gli occhi chiusi rivedeva John che si puntava la pistola sotto il mento con quello sguardo folle ma carico d'affetto.
Quasi sentiva in bocca il sapore di tutto quel sangue.
Non gli era mai accaduto prima, ma i sogni degli ultimi giorni, che esplodevano così vividi e violenti durante un sonno veramente esiguo e agitato, cominciavano a spossarlo.
Aveva pensato che di dover cambiare qualcosa in quello che stava assumendo, poi aveva deciso che era più sicuro smettere.
Doveva riacquistare equilibrio, istinto, raziocinio.
Mycroft gli si sedette di fronte con la tazza tra le mani e lo scrutò per lungo tempo mente lui si passava le mani tra i capelli neri, trasandati, e poi si rimassaggiava le tempie, e poi di nuovo si passava le mani tra i capelli, in una specie di strano loop.
"Sei ridotto male" sentenziò infine.
Sherlock lo guardò di traverso.
"Dovresti smettere con quello schifo che prendi per dormire... o per stare sveglio... o qualunque cosa faccia, visto che a quanto pare non ti aiuta neanche in quello"
Sherlock scrollò le spalle "è una tua impressione, dopo penso meglio e lavoro meglio, invece. E quello che penso ultimamente non mi piace".
"Fai questi sogni da quando hai rivisto John, non è vero?"
Sherlock bevve un sorso di thé che in bocca gli sembrò sapone.
Dover dire cose scontate e inutili lo irritava più del solito, in questa situazione.
Per un attimo immaginò di ribaltare il pesante tavolo di vetro e farlo spaccare in mille pezzi sul pavimento.
Sarebbe stato liberatorio. Una volta, forse, lo avrebbe fatto senza neanche rifletterci.
"Mycroft, sai bene quanto me che i sogni sono il sistema che usa il mio cervello, e quello di tutti, per processare le informazioni ricevute di giorno”
“... e per sfogare tutto ciò che di insensato abbiamo dentro” concluse il fratello, senza malizia alcuna.
Sherlock si sollevò gli occhi inviperito, ma poi trattenne le parole.
Mycroft era... triste.
Lo guardava senza compatimento, senza sufficienza, senza ironia. Era triste e basta.
Un’espressione non nuova per Sherlock, ma che affondava la sua radice in un tempo lontanissimo che a lui non piaceva ricordare.
Sherlock distolse lo sguardo infastidito.
“Smetti di essere preoccupato” gli ordinò “non sopporto quando lo fai. Questa agonia sta per finire. Libererò il tuo scantinato e anche te.”
Mycroft si arrese e aprì il giornale che aveva portato con sè.
“Tra qualche giorno la notizia sarà ufficiale. Sei pronto per tutto il clamore mediatico?”
Sherlock terminò il thè con un lungo sorso: lo disgustava... il suo scarso senso del gusto  era definitivamente andato a farsi benedire, ultimamente, ma almeno era ancora caldo.
“La cosa mi preoccupa molto poco per quanto mi riguarda.”
Mycroft appoggiò il quotidiano sul tavolo.
“John sarà di nuovo assalito dai cronisti, e non solo. E’ il caso di parlargliene. Se ha ancora conservato intatte le sue facoltà mentali dopo la tua... visita da fantasma.”
Sherlock guardò il fratello con aria greve.
"Non vuole vedermi, ma neanche posso affidare a qualcun altro una cosa così delicata, a nessuno."
"Posso parlargliene io"
Sherlock sorrise, un sorriso da crotalo: "Odia te più di me, tu che mi hai venduto a Moriarty e hai dato il via a tutto questo".
Mycroft sollevò le sopracciglia: "Casomai non me lo ricordassi...."
Sherlock gli fece cenno con la mano di lasciar perdere.
"Avevi i tuoi motivi, lo so" minimizzò.
In fondo suo fratello era per una buona percentuale come lui. Il fine giustifica i mezzi.
“Troverò un modo”
Si alzò facendo stridere la sedia sul pavimento, intenzionato a rifugiarsi nel suo antro.
“Sherlock...” Mycroft aveva una voce perentoria “trova il modo, sì. La matassa non è ancora del tutto sbrogliata e tu lo sai.”
Mancano dei pezzi, lo so bene, pensò Sherlock senza rispondere.
Tutto ciò che c’era dietro Jim Moriarty è stato quasi portato alla luce, ogni cecchino cacciato come una lepre e fatto fuori, ogni fiancheggiatore, ogni insospettabile collaboratore, ogni spia, ogni pedina. Quasi ogni filo della ragnatela è stato seguito, dipanato, spezzato.
Quasi.
Ne manca uno di cui non conosciamo nemmeno il nome, ma troverò quel filo, lo seguirò, lo dipanerò, lo spezzerò.  
“Troverà lui me quando saprà che sono ancora vivo, è per questo che dobbiamo farlo al più presto” disse come se Mycroft avesse potuto sentire quello che aveva detto nella propria mente. E Mycroft aveva potuto.
“Troverà anche John, non appena saprà che sei ancora vivo. L’esca perfetta per te, un’altra volta.”
Sherlock aveva camminato lentamente fino alla grande vetrata che dava sul giardino curatissimo, guardava fuori sapendo che tra meno di un’ora, all’arrivo della governante e del giardiniere, sarebbe ricominciata la sua prigionia. E per una volta provò sollievo, non poteva più sopportare la puntura dello sguardo del fratello dietro la sua schiena.
La luce cominciava a cambiare, il giorno si faceva spazio a fatica in una giornata nuvolosa e pesante.
Si morse le labbra esangui e screpolate.
“Troverò un modo anche stavolta, Mycroft: che il diavolo mi porti se non lo farò.”
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Ore dopo, Sherlock è ancora seduto sul suo letto - un detestabile letto singolo posto vicino ad una parete qualsiasi - con la schiena appoggiata al muro, e fissa la finestra in alto, la cui cornice superiore termina appena sotto il soffitto, un rettangolo soffocante che dà sul cortile esterno della bella magione di Mycroft.
Il fratello lo nasconde lì da allora, nessuno ficcherebbe mai il naso in casa di Mycroft Holmes. Inoltre i sistemi di sicurezza e di sorveglianza avevano dato per mesi a Mycroft la flebile illusione che forse sarebbe stato difficile per Sherlock uscire non visto.
Mito sfatato dopo la sua visita in Baker Street, naturalmente. E molte altre visite in giro per Londra, da Molly soprattutto, come  Mycroft aveva scoperto dopo.
Ha allestito parte del seminterrato per lui. Una spartana camera da letto, un bagno, un grande spazio antistante che serviva da laboratorio-sala computer-soggiorno.
Ci sono un divano, una tv, una libreria, una serie infinita di apparecchiature ultratecnologiche, monitors, pc, libri... ma non assomiglia in niente a Baker street.
Ogni volta che si guarda attorno, Sherlock prova umanissima, irritante, miserabile nostalgia.
In fondo nessuno più di lui è abitudinario, un ossessivo borderline tenuto insieme da sempre, e  alla bell’e meglio, da una serie di punti fermi che era meglio non cambiassero mai. Il violino, che ora non poteva né desiderava suonare. La sua poltrona, che era rimasta là. La sua tazza da thè. La sua casa, che ora rischiava di essere data via.
John.
Ovviamente.
Nominarlo davanti a Mycroft è una tortura.
Dover fingere distacco, preoccupazione dovuta solo alle notizie negative che arrivano dal fronte delle indagini ed essere cosciente che non si tratta solo di quello.
Dopotutto era ciò che lo aveva spinto fuori, per la strada, fino a Baker Street, in un’azione tanto avventata quanto stupida, seppur ben pianificata.
Una cosa non da lui, il vecchio lui.  
Perché si sente cambiato, profondamente, e non in meglio.
La sua vita è confinata in 47 metri quadri camuffati dietro un finto muro affinché il personale di servizio di suo fratello non sappia mai che lì sotto c’è qualcuno. Durante il giorno, fino al primo pomeriggio, Sherlock si sforza di non far rumore e di non fare imprudenze che ne possano tradire la presenza, e questo non è da lui.
Niente, in questa situazione, è da lui.
Le droghe hanno aiutato molto, fino a un certo punto. Quelle per dormire di tanto in tanto, quelle per restare sveglio e processare tutte le informazioni che l’intelligence gli passa. Mycroft è spaventosamente preoccupato, ma gliele ha sempre procurate: ha paura di cosa potrebbe fare se rimanesse là sotto completamente lucido.
In questo momento è lucido, infatti, e riesce solo a guadare la finestra in alto, le braccia strette attorno al proprio stomaco che comincia a fare male per il digiuno, la mancanza di  sostanze, il dolore.
Non fisico.
Ancora poco e potrà venire fuori definitivamente da quel buco, ma la cosa non lo fa stare meglio. Ha i nervi a fior di pelle, l’esigenza impellente di fare in modo che John lo ascolti comincia a mangiargli la carne, letteralmente.
Gli manda almeno 5 messaggi al giorno da una scheda anonima prepagata, intervallati da ore di distanza per non essere ossessivo ma non dargli nemmeno tregua, come gli aveva promesso.
I testi dei messaggi sono abbastanza anonimi, sembrano provenire da un conoscente qualsiasi, ma lui sa che John è in grado di interpretarli. Non può chiamarlo. Se lo chiamasse e John rispondesse, dovrebbe parlare... e scommetterebbe qualunque cosa che il telefono di John è sotto controllo, non solo da parte di Mycroft.
Ma è anche piuttosto sicuro che John non risponderebbe affatto.  
Non avrebbe mai creduto che tre sole parole avrebbero potuto devastarlo tanto.
Lui che non aveva mai dato peso alle parole altrui.
Ma quelle parole erano diventate una pioggia di vetri che gli precipitava addosso con fragore, facendogli prendere coscienza, in maniera sanguinaria, di cosa avesse fatto veramente.
Mi hai abbandonato, gli aveva detto.
Mi. Hai. Abbandonato.
Mi hai abbandonato quando sei morto e mi hai abbandonato quando hai scelto di non dirmi che eri vivo.
Sherlock ricorda, deglutisce a fatica e si piega in avanti.
La nausea gli risale in gola come una marea nera e viscida, non riesce a contrastarla. Ha deciso da ieri di smettere con la chimica, come ha fatto altre volte, ma non sa davvero se quell’impellente necessità di vomitare sia dovuta all’astinenza che comincia, e che lui ha sempre saputo controllare, o alle parole di John.
Parole che lo fanno pensare al rosso, al sangue, al sangue del sogno. Alla pioggia di sangue del sogno.
John che, con sollievo, si punta la pistola e fa fuoco perché è stato lasciato solo, in mezzo alla morte, di fronte ad un cadavere spiaccicato sul cemento. Non ci vuole uno psicologo per interpretare quel sogno ricorrente.
Rigetta sul pavimento una roba giallastra, un residuo di chissà cosa rimasta nel suo stomaco perennemente semivuoto, poi si riappoggia esausto con la schiena contro il muro.
John. Devi ascoltare.
Stasera uscirò senza essere visto, non potrai non ascoltarmi.
Non ti ho abbandonato, ma tu devi ascoltare.
Non lo avrei mai fatto.
Non lo farò mai.

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Capitolo 3
*** Both sides are even ***


3° capitolo -
Ispirato dalla bellissima canzone dei The Boxer Rebellion “Both sides are even”, che mi sembra quasi scritta apposta e che vi consiglierei di ascoltare prima (o durante).
Link qui: http://www.youtube.com/watch?v=Ai1e25txoEo

You don't need a reason                                     Non hai bisogno di una ragione
For I know that, what I've done is wrong             perché so che quello che ho fatto è sbagliato
No one there to argue                                        Nessuno era lì per discutere
About the way that our moment's gone               il modo in cui il nostro momento se n'è andato


It's the same, right or wrong                              E’ lo stesso, giusto o sbagliato che sia
It's the same thing, right or wrong                      E’ la stessa cosa, giusta o sbagliata che sia


These are my suspicions                                     Questi sono i miei sospetti
And I'll never know how this was a lost cause       E io non saprò mai perché questa sia diventata una causa persa                    
          
And both sides are even                                      Ed entrambe le parti sono pari
They are even and alone                                     Sono pari e sono sole


It's the same, right or wrong                               E’ lo stesso, giusto o sbagliato
 
It's the same thing, right or wrong                       E’ la stessa cosa, giusta o sbagliata che sia


John -

Stasera è una pessima sera.
Sto tornando a casa dalla stazione della metro e piove.
Piove sempre in questa cazzo di città.
La strada è lucida come la pelle di un serpente nero che riflette le luci intermittenti e sfocate delle insegne che si susseguono senza posa.
Semafori, fari di auto, vetrine.
Luci che si liquefanno sull’asfalto bagnato, si mischiano, si distorcono.
Mi danno la nausea.
Cammino più velocemente possibile, ranicchiato sotto l’ombrello; sento gli schizzi che  si sollevano dal marciapiede ad ogni passo e mi bagnano l’orlo dei pantaloni, ho il bavero sollevato ma fa freddo.
Freddo, cazzo.
Non so nemmeno io perché, dopo tutti questi giorni, ho deciso di uscire con Floren.
Lei sa.
Sa tutto dall’inizio.
Lo sa dal primissimo pomeriggio in cui ha incontrato quest’uomo ridotto ad un involucro vuoto, nel silenzio di una biblioteca in cui ero andato a cercare solo immobilità e assoluta mancanza di suoni, due mesi dopo il disastro.
Qualche parola gentile alla macchinetta del caffè era bastata per farmi capire che avevo bisogno di un essere umano che mi ascoltasse e che non fosse un terapista.
Non una ragazzina, non un appuntamento qualsiasi, ma una donna dalla voce ferma e dal sorriso diretto che, dopo un po’ di conversazione, aveva saputo in qualche modo farmi pensare che potevamo rivederci e parlare di qualcosa, perché ormai la gente si sfiora e non parla più di niente, e si convince che sono meglio i libri per imparare a vivere.
Non parlavo con nessuno da quando Sherlock aveva gettato via il telefono e si era lanciato giù.
Ma lei, con quello sguardo caldo e consapevole, carico di vita precedente, aveva fatto sì che il miracolo si compisse appena il giorno dopo, seduti in un qualunque caffè.
Non c’era attrazione in quel momento, non era stata una cosa spinta da chissà quale intento, non certo da parte mia.
Incapace di intendere e di volere, incapace di vedere tutti gli altri esseri umani, così mi sentivo.
E per smettere di sentirmi tale, da quel pomeriggio, e per molti altri, raccontai tutta la vita mia e di Sherlock a questa perfetta sconosciuta.
Tutto quello che era successo.
Tutta la mia verità.
Oh, lei aveva seguito la storia sui giornali e in tv, come tutti, ma fin dal primo momento mi aveva ascoltato e basta, senza mai sollevare un dubbio, senza mai dire una cattiveria.
Avrebbe potuto essere chiunque, una giornalista sotto copertura.... non mi sarei stupito se fosse scomparsa all’improvviso e avesse pubblicato un libro con le mie confessioni.
Non me ne importava.
Forse addirittura lo speravo, avrei potuto aggiungere una involontaria voce, per quanto fioca, a quelle poche e deboli che proclamavano l’innocenza di Sherlock Holmes.
Ma non era successo.
Lei aveva ascoltato e basta, volta dopo volta, e io le ero così grato per questo.
Mi aveva aiutato a mantenermi vivo.
Un paio di volte, a casa sua, mi aveva tenuto la testa in grembo mentre singhiozzavo disperato, e mi aveva accarezzato i capelli.
Era stato tutto così, per un po’.
Poi, di recente, com’era ovvio che fosse, l’àncora di salvezza era scesa un po’ più in profondità e ci eravamo baciati.
Io avevo voluto provare a baciarla: per cercare di capire cosa, proprio non so.
Non era stato spiacevole, ma nemmeno bellissimo: oh, Flo è una donna attraente, una persona sicura di sé, tenace, riflessiva... in un’altra epoca me ne sarei innamorato follemente, forse. Ma in quel momento ero un guscio vuoto.
Da allora riesco a provare un piacere solo momentaneo in tutte le piccole cose, e svanisce nell’arco di un respiro.
Lei ha capito anche questo.
“Non c’è bisogno di farlo adesso, John” aveva detto con la sua solita pacatezza, accarezzandomi la guancia destra “siamo amici senza benefici” aveva aggiunto poi, e per la prima volta da mesi io avevo riso.
E avevo sentito sorgere nel petto qualcosa di vagamente simile a un sentimento umano.
Fino ad adesso.
Adesso che so che è stato tutto vano, sprecato, inutile.
Il mio tempo e il suo.
Le mie lacrime e le sue carezze.
Le ore a parlare di te, le ore ad ascoltare di te.
Figlio di puttana!

Stasera ho provato a proporle un film al cinema, ma lei mi scrutava sospettosa appoggiata di spalle al lavello della cucina di casa sua, un delizioso piccolo studio non lontano dalla fermata di Angel, e mi guardava sottecchi.
Dopo 12 giorni, forse, presentarsi così non era il massimo anche per una persona paziente e riflessiva come lei.
Mi ha detto col solito tatto che era stata molto preoccupata, visto che per 12 giorni non avevo risposto alle sue chiamate con nemmeno un solo messaggio, e che avevo fatto appena in tempo a farmi vivo perché era seriamente in pensiero e il mattino dopo aveva in programma di passare in clinica per vedere se mi fosse successo qualcosa.
In clinica, non a casa. Sempre delicata, discreta.
Non ho potuto dirle che un certo figlio di puttana è resuscitato, per cui ho dovuto inventarmi che Harry, povera Harry, ha avuto una ricaduta e sono dovuto correre a Cardiff.
Non ci ha creduto neanche per un attimo, lo so da come mi ha sorriso.
Poi mi ha osservato. Ha di sicuro notato le occhiaie, il dimagrimento, la camicia stropicciata.
Ma non ha insistito.
Ha detto solo: se e quando vorrai parlarmene, io ci sono.
E’ stato allora che ho balbettato che sì, sarebbe stato meglio aspettare un altro po’, era presto, anche se per un istante sono stato lì lì per aprire bocca e vomitare a valanga tutto quello che avevo dentro.
Sono una diga crepata, sul punto di rompermi.
Invece l’ho abbracciata con gli occhi lucidi, sussurrandole quanto le sia grato e quanto non capisca perché perde tanto tempo con me, e poi sono andato via.
Sa che ha a che fare con te, figlio di puttana.
Non so perché ancora mi sopporti, ma non ti lascerò rovinare anche questo.
Non ti lascerò rovinare più niente.

Finalmente volto nella mia strada, in mezzo a un blocco di palazzi alti e anonimi, e raggiungo in fretta il portone squadrato sotto la pioggia sempre più fitta.
Non dormirò neanche stanotte, me lo sento.
Mi aspetta un’altra nottata di programmi spazzatura e coca cola. Almeno fumassi!
Finalmente sono nell’androne, scrollo l’ombrello e salgo velocemente per le scale malamente illuminate.
Chissà perché non mi spavento né mi stupisco quando, all’altezza del mio pianerottolo, vedo che sei seduto sui gradini che portano al piano superiore.
Mi fermo e resto immobile, non ho nessuna reazione.
Non riesco ad averne.

_______________________________

Sherlock si alza lentamente dal gradino e si staglia sulle scale con tutta la sua statura.
Sta da schifo, vedo.
E’ completamente bagnato, i capelli appiccicati alla fronte, agli zigomi pallidissimi.
La pelle sotto gli occhi sembra trasparente come carta di riso scurita dal thè.
Le iridi azzurroverdi, invece, bruciano intense come sempre sotto i neon da pochi soldi, mi guardano come se dovessero registrare ogni dettaglio qui e ora, e fare un back up che duri per l’eternità.
Io riesco a fatica a staccare lo sguardo dal suo e guardo per terra, scuotendo la testa.
Doveva accadere, prima o poi.
“Ok” dico a un certo punto. Mi giro ad aprire la porta e la spalanco verso l’interno, poi mi sposto e lascio libero il passaggio.
Lo guardo di nuovo e mi si chiude la gola.
Non smette di fissarmi con quell’espressione da cane abbandonato sull’autostrada.
Lui, l’ultimo al mondo che dovrebbe permettersela.
“Entra” gli dico “facciamola finita”.
Quando mi passa davanti e sfiora con la spalla bagnata la mia, sento il suo odore unico, un misto di dopobarba e follia, e devo strizzare gli occhi per non urlare lì e subito, per le scale.
Appena siamo dentro, lui fa qualche passo nel piccolo soggiorno e si guarda attorno: non voglio soffermarmi a immaginare come stia deducendo quanto miserabile sia la mia vita adesso, mentre io lascio cadere l’ombrello in una specie di vaso e mi tolgo la giacca.
Non posso davvero credere che lui sia qui in piedi, in questo squallido posto da single che nulla ha di Baker Street.
Faccio anche io qualche passo verso il centro della stanza.
C’è un divano, un mobile, un tavolo con delle sedie, una grande finestra in fondo, che forse è la cosa migliore di tutto.
Non ho avuto molto desiderio di fare l’arredatore negli ultimi mesi, sapete com’è...
La cosa che più mi lascia stupito è il suo non parlare.
Ora mi sta guardando di nuovo. In quel modo.
Le vecchie abitudini sono dure a morire e ti colpiscono quando meno te lo aspetti con quelle piccole bastardate che si chiamano riflessi condizionati.
“Togliti il cappotto, prenderai una polmonite”. Ecco, questo è uno di quelli.
Mi mordo le labbra appena finisco di dirlo.
Lui si guarda addosso e poi mi riguarda.
“Non importa” dice.
Le vibrazioni della sua voce profondissima mi arrivano allo stomaco.
“Puoi ascoltarmi stasera, John?”
Sembra aver ripreso un po’ di colore sulle guance. Appena un po’.
Viene verso di me.
Io mi difendo andando verso il tavolo e sedendomi ad una delle sedie.
“Ti ho fatto entrare, mi sembra” dico fingendo disinvoltura.
Io che non ho mai finto con te, Sherlock. Questo pensiero mi incattivisce.
“ma non credere che cambierà qualcosa”.
Lui si muove piano, si siede di fronte a me senza togliere il cappotto zuppo, poi prende  qualcosa dalla tasca, ci digita sopra e me la porge.
E’ uno smartphone.
“Devi prima sapere quello che c’è da sapere, John”.
Io prendo il telefono dalla sua mano e nel farlo gli sfioro la punta della dita.
Il fugace contatto mi dà la stessa sensazione di vuoto allo stomaco che si prova quando si va sulle montagne russe, un risucchio improvviso, la terra che scompare da sotto i piedi.
Non sopporterò a lungo tutto questo, deve andarsene. Devi andartene.
Ma prendo il telefono e vedo che sullo schermo nero compare un video tutto sfocato.
Lo avvicino meglio per capire... nel video sento la sua voce ma non vedo lui, vedo delle ombre nere, poi uno sfondo che sembra uno skyline, e poi sento un’altra voce che forse conosco e intravedo per un istante una porzione di un volto.
Il telefono mi salta dalla mano.
“gesù cristo!”
Mi sono ritratto come se mi avesse morso le dita.
Sherlock con pazienza lo riprende dal tavolo e me lo riporge, ora è allungato verso di me e il suo sguardo ribolle come l’oceano sotto un uragano.
“Avevo delle telecamere nascoste nei bottoni, Mycroft e i suoi dovevano avere piena visione di ciò che stava succedendo” mi dice per convincermi “è meglio che tu lo veda con i tuoi occhi piuttosto che sentirlo raccontare”.
Guardo lui e poi il telefono.
Sullo schermo c’è il fermo immagine di un occhio di James Moriarty e io sento che mi sta per venire da vomitare.
Respiro profondamente e riallungo la mano, che trema leggermente.
Tutto ciò per cui mi sono torturato per mesi è qui dentro. Tutte le risposte.
E la mia unica domanda è seduta di fronte a me.
Riprendo il telefono, sento che ho le labbra serrate, le mandibole contratte, e faccio ripartire il video.
Mentre lo guardo resto impassibile. Sherlock non dice una parola.
Le immagini sono velocissime, si vede molto poco... inquadrature casuali, imbizzarrite, sottosopra, sfocate e piene di pixel deformi. Per lo più si vede il nero dell’abito di Moriarty, soprattutto quando sono vicini e si strattonano, e Sherlock cerca di buttarlo giù.
Ma l’audio è perfetto.
La parte dei tre proiettili è cristallina.
I tuoi amici moriranno se non lo fai.
John.
Non solo John. Tutti. Tutti.
Stringo così forte l’altra mano in un pugno che sento dolore. Mi sto conficcando le unghie nel palmo.
Voglio fermare la riproduzione ma non ci riesco, i miei occhi sono inchiodati a quel video osceno e il mio battito cardiaco sembra fuori controllo.
Sussulto quando sento il colpo secco di pistola e, nella confusione totale di immagini insensate, intravedo per un istante Moriarty che va giù.
Adesso sono Sherlock che vaga sul tetto ansimante, che gira su sé stesso, impazzito.
Vedo gli altri tetti, le antenne, i tubi dell’areazione che corrono lungo il perimetro del parapetto.
Il parapetto.
Quando ci sale su e la videocamera registra il panorama lontano, a perdita d’occhio, e  sento il fruscìo della mano di Sherlock che tira fuori il cellulare e il suono della composizione dei numeri, capisco che io sono lì sotto, che sono arrivato.
Tocco lo schermo e interrompo.
Non posso.
Non posso sentire di nuovo quella conversazione.
Non posso volare giù con lui.
Poso il telefono con lentezza e resto con la testa bassa.
Faccio fatica a deglutire.
La tristezza che provo è un abisso spalancato sotto di me, ancora una volta.
"Non è tutto qui" dice lui con cautela, vedendo che io non rialzo la testa.
"Lo so" dico allora. La mia voce è una specie di gracchiare indistinto. Devo schiarirmi la gola prima di proseguire.
Lo ammetto, non mi aspettavo questo.
Sapevo, avevo capito che doveva esserci stato un motivo più che plausibile, anche se lo respingevo in ogni caso, ma nulla di simile a questo.
Mi ha salvato la vita, lo immaginavo, e davvero, davvero mi si contrae lo stomaco al pensiero di come possa essersi sentito su quel ciglio, aspettando di buttarsi.
Al telefono l'ho sentito piangere.
Sono certo di questo.
Appoggio i gomiti al tavolo e la fronte fra le mani per raccogliere un attimo le idee, per ricacciare indietro il desiderio di crollare di nuovo davanti a lui, no, non di nuovo.... poi finalmente mi raddrizzo e lo guardo.
Questo nuovo Sherlock silenzioso, immobile, ha un'espressione sul volto mai avuta prima, insieme a quella nuova ruga verticale tra le sopracciglia: è empatico, comprensivo.
Sinceramente addolorato, non ne dubito.
Sono pronto per le mie domande.
"Quel... corpo non eri tu."
"Ovviamente no, sono atterrato nel finto camion della spazzatura che era parcheggiato li".
Io non ho visto nessun camion.
Ero a terra, dolorante e sconvolto.
"E quel... ciclista mi ha buttato giù di proposito. Forse mi ha anche drogato, quando mi sono alzato vedevo tutto annebbiato."
Sherlock annuisce.
"Il cadavere è stato portato fuori dal Bart's e messo lí, la gente lì attorno era tutta addestrata, solo quando sei arrivato tu hanno cominciato ad avvicinarsi anche altri passanti."
Annuisco io.
Mi mordo le labbra.
Stringo gli occhi in due fessure.
"E il perché di tutto questo? Perché non sei venuto a dirmelo qualche ora dopo? Perché non lo ha fatto Mycroft? O Molly?"
Sherlock si irrigidisce, si assesta sulla sedia, capisce che quello che ho visto mi ha toccato, ovvio, ma non ho reagito come sperava: la parte importante è questa e non mi piacerà.
"Perché non era finita. Non è finita." ammette.
I suoi occhi non reggono i miei. Vanno su e giù tra me e il ripiano del tavolo.
Io incrocio le dita delle mani e aspetto.
"Raccontami".
 E lui racconta.
Racconta della incredibile organizzazione alle spalle di Moriarty, nemmeno lui e Mycrof avrebbero mai immaginato fosse così articolata, così estesa.
Celle isolate attive in ogni paese conosciuto, che lavorano autonomamente e hanno a disposizione mezzi incredibili, mantenendo al minino i contatti tra loro.
James Moriarty non ne era a capo, era uno dei partners.
Sono stupito anche io, certo, ma allora perché, mentre lo ascolto, sento che non me ne importa niente?
Che facciano esplodere l'Inghilterra intera.
Chi se ne frega, ormai.
E' allora che Sherlock arriva all'altro punto.
Lui, Mycroft, lo Yard, con tutti i loro... sforzi, con tutti i sacrifici, compreso il mio, hanno quasi catturato o fatto fuori tutti: quasi tutti, manca qualcuno all'appello. Qualcuno che, ancora là fuori, ascolta, osserva... e forse vuole finire il lavoro.
Io sospiro e mi allungo all'indietro, appoggiando la schiena alla spalliera della sedia e incrociando le braccia.
Stai giocando la carta della paura, Sherlock?
Forse, per una volta, stai mancando qualche dettaglio.
"Se tutto questo è vero" lo interrompo "perché sei venuto qui così impunemente? Se anche loro sospettavano fosse tutto un trucco ("addirittura loro lo immaginavano, non io! non io!", urlo nella mia mente) non pensi che io possa essere sorvegliato?"
Per un attimo resta basito dalla mia premessa "se tutto questo è vero" e mi guarda come se non mi conoscesse, poi si scuote.
"E' questo il punto. E' tempo che sappiano che sono vivo. La stampa darà comunque la notizia entro pochi giorni, Mycroft è pronto, e anche io."
"E io?" incalzo.
Lui sgrana gli occhi e tace.
"Io sono pronto, Sherlock?"
Serra le mascelle, comprendo che il mio atteggiamento sta cominciando ad irritarlo.
"john, come sarai in grado di immaginare, mi auguro" già dal tono dell'incipit, capisco che la tempesta sta montando. Infatti si dà indietro anche lui e incrocia le lunghe gambe, posandovi su le mani con atteggiamento presuntuoso "potresti correre dei rischi. Non è affatto inverosimile l'ipotesi che possano di nuovo puntare te per arrivare a me, dovremmo pensare a un modo per metterti al sicuro"
"Ah!" sto ridendo.
Rido davvero, di cuore. E mi guardo attorno non credendo alle mie orecchie.
Lui è costernato.
"Dio, Sherlock!" rido e mi liscio il mento con le dita "li attiri qui di proposito - chiunque essi siano e se esistono davvero - sperando che io abbia paura e venga via con te?"
Sherlock perde la calma e sbatte i palmi sul tavolo.
Il silenzio piomba nella stanza, freddo come l'orlo dei pantaloni bagnati di pioggia che toccano le mie caviglie.
"Devi avere paura, John! Non è uno scherzo!"
Sarebbe stato meglio che restasse zitto.
"Io non ho paura, Sherlock, l'unico di cui ho paura qui dentro sei TU!" urlo.
Finalmente urlo.
Mi alzo con tale foga che la sedia ricade all'indietro con un tonfo metallico, appoggio i palmi sul tavolo, mi sporgo verso di lui e devo combattere l'impulso di saltargli addosso e pestarlo a sangue.
"Vieni qui con il tuo bel video e mi racconti una bella storia, ok, bene, grazie per avermi salvato la vita, te lo devo, ma poi basta, Sherlock, tutto il resto non mi interessa, non mi interessi tu, i tuoi arcinemici, Moriarty, chi c'è dopo Moriarty, tuo fratello, la fottuta regina... non mi importa niente, niente!" sbatto io il pugno sul tavolo, adesso, la mia voce è bassa, sembra un monotono ringhiare "Ci ho messo mesi anche solo per accettare lontanamente di svegliarmi la matttina e non avere più la mia vecchia vita, ancora non lo accetto, ancora non riesco ad averci a che fare davvero, cosa cazzo credi me ne freghi se sono in pericolo o no? Che vengano e mi sparino! Qui!"
Mi tocco la fronte con l'indice.
"Vorrà solo dire che tutta la tua manfrina sarà servita solo a ritardare il mio proiettile"
Lui mi fissa con gli occhi spalancati.
Ogni mia parola è una coltellata, lo vedo da come sbatte le ciglia seguendo il ritmo della mia voce e cerchi di assorbire, di capire, ma non ci riesca.
E' il suo limite.
Era convinto che avrei ragionato, che dopo un po’ di giorni di riflessione sarei stato accondiscendente... razionale, mentale, assennato.
Non lo sono adesso, non lo sono mai stato.
"John, non voglio che tu muoia, non ho fatto tutto questo per vederti morire!"
"Cosa pensi che io abbia fatto in tutti questi mesi???” gli urlo in faccia.
E’ sconvolto, prova a muovere le labbra per dire qualcosa ma ha perso la capacità di articolare qualunque cosa.
Ho zittito Sherlock Holmes.
Io ansimo, ho i pugni stretti sul tavolo e sono più che sicuro di essere rosso in faccia e di avere la vena sulla mia tempia destra ingrossata all’inverosimile.
Provo a inspirare per riprendere un po’ di controllo, ma è difficile, cazzo.
“Dove hai vissuto da quel giorno?” chiedo in tono quasi normale “dove ti sei nascosto?”
Lui si passa le mani nei capelli bagnati, abbassa gli occhi. Li rialza intimorito. Sono lucidi. Ha le guance arrossate.
“Nel seminterrato di Mycroft”
Io ho il respiro accelerato, ogni parola che dice mi manda fuori di testa.
Ma certo, perché non ci avevo pensato?
Sorrido amaramente.
 “Non c’era posto anche per me? Troppo angusto?”
“John...”
“Vattene.”
“John, no. Farò qualunque cosa...”
“Vattene e sparisci definitivamente”
Allunga le mani verso le mie, le pone sui miei pugni chiusi.
“Possiamo ancora avere quella vita, possiamo tornare a Baker Street... John...”
Sfilo via le mani da sotto le sue, per un attimo sono stato tentato di non farlo.  
Ho cercato di convincere chiunque in questi mesi che io credevo fermamente in Sherlock Holmes.
Mi sbagliavo.
“Vattene” ripeto passandomi una mano sugli occhi.
Sono esausto.
“La prossima volta non ti aprirò, non mi fermerò per strada, non ti vedrò neanche. Voglio...”
Sospiro.
Lui è rimasto con le braccia allungate sul tavolo, mi fissa come se stesse facendo un brutto sogno.
E’ impassibile, ha le labbra strette, le occhiaie più scure.
Vedo chiaramente una piccola lacrima che sfugge dall’occhio destro e serpeggia lenta sul suo zigomo aspro, lasciando dietro di sé una piccola stria bagnata.
Il dolore che questo mi provoca è a malapena sopportabile, mi mordo le labbra, ma non è anche solo pensabile, per me, passare sopra tutto questo.
Ha lasciato che agonizzassi tutto questo tempo senza fare niente, non una fottuta cosa.
“... Voglio una vita normale, voglio ricominciare da capo... sto ricominciando da capo” termino “e se qualcuno mi ucciderà, ok... lasciamo che succeda. Adesso, fuori.”
“Una vita normale ti ucciderà, e tu lo sai bene” replica guardandomi.
Adesso anche dall’occhio sinistro scivola giù una lacrima.
Lui non si scompone, non si maschera, non fa finta che non lo stia facendo.
“Se sono sopravvissuto a questo, sopravvivrò a tutto” gli dico deglutendo a fatica.
Se non se ne va subito, finiremo abbracciati a piangere come l’altra volta.
Ma questo non può succedere: se lo toccassi, penso che non potrei più controllare il mio furore.
Lo odio ferocemente.
Quanto ho odiato James Moriarty.
Si arrende.
Ritira le braccia, si accavalla il cappotto sul petto e si alza.
Mi guarda duramente, ora, nonostante gli occhi arrossati e gonfi, trasparenti come vetri appoggiati sull’acqua.
“Non mi vedrai più.” dice solenne “farò in modo che tu non mi veda, ma ti guarderò le spalle, John. Sempre.”
“No. Non devi...”
“Lo farò” esclama perentorio “non puoi impedirmelo.”
“Voglio essere libero, Sherlock!”
“Lo sei” mi concede tristemente.
Indugia un attimo, forse vorrebbe... non so... fare qualcos’altro, stringermi una mano. Ma decide di no.
Mi rivolge appena un cenno col capo e si avvia verso la porta, passandomi vicino come quando è entrato, lasciando dietro di sé una scia di pioggia e distruzione.
Appena la porta si chiude, le ginocchia semplicemente cedono.
Scivolo giù e mi siedo per terra, aggrappato con una mano al tavolo.
Respiro rantolando, come la prima volta che l’ho rivisto: come può farmi tanto male? Come può essere che io provi più dolore di quando l’ho creduto morto?
Aspetto qualche minuto, ho le mani che mi tremano, anzi... mi rendo conto che tremo tutto.
Non so cosa mi sia successo... non so il perché di tutta questa furia, avrei dovuto essere felice, avrei dato tutto, tutto, per questo, ma il suo tradimento è la cosa più atroce che io abbia mai subito in vita mia.
Devo... devo uscire di qui.
Devo prendere aria, devo lasciar uscire tutto quello che ho dentro o prenderò la mia pistola e me la punterò alla tempia.
Possiamo ancora avere la nostra vita?
Come hai osato dirlo?
Come hai... osato???
Chi mi restituirà quella stessa vita, Sherlock?
Quella che tu hai preso con una scrollata di spalle e hai spremuto nella tua mano bianca ed elegante???
Sono morto quel giorno, alla fine Moriarty c’è riuscito: io ho avuto il mio proiettile, e tu sei una truffa.
Tu, la cosa che più ho amato al mondo.













 



 

 

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Capitolo 4
*** Night ***


4° capitolo (breve, di transizione e preparazione al resto): durante la stessa sera del 3°, in cui ognuno affronta i fantasmi a modo suo.


Canzone ispiratrice: The Boxer Rebellion “We have the place surrounded “

link: http://www.youtube.com/watch?v=AXpU2MDxO3o


You doubting what I see    

For a fraud                
Is all you are to me            

And you don’t know what i’ve been through
You come in from all sides
No you don’t know what i’ve been through
You come in from all sides
You wanted
You wanted love

And it’s so hard
It’s so hard

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Il salone è quasi buio, appena rischiarato in fondo dalla luce delle ultime braci del grande camino... Mycroft ha intuito che è lì non appena è entrato in casa.
Ha scrollato e chiuso con la solita cura uno dei suoi ombrelli di James Smith & Son, uno dei più resistenti per una serata come questa, e lo ha riposto nella rastrelliera all’ingresso insieme all’impermeabile.
Si sistema la giacca, sospira lentamente per contrastare la pesantezza che gli si sta lentamente adagiando nel petto, poi si dirige di là.

Non accende le luci, sa che non lo sopporterebbe.
Lui è seduto davanti al camino, nella grande poltrona di cuoio dalla spalliera alta.
Ha ancora il cappotto addosso.
Le gambe incrociate.
Le mani da violinista appoggiate ai braccioli, le dita che tamburellano sulla pelle pregiata come se stesse portando il ritmo di qualche brano musicale.
Man mano che si avvicina, Mycroft può scorgerne il profilo immobile, incorniciato dai bagliori arancio del camino.
Un profilo indurito, imperturbabile, se non fosse per quelle mandibole serrate.
Gli zigomi sembrano più affilati del solito, stasera.
Ha i capelli arruffati in una confusione senza senso; gli occhi sono spalancati, trasparenti: mentre gli si porta accanto, Mycroft può intravedere i riflessi del fuoco attraverso il loro cristallino.
Non batte le ciglia neanche una volta.
Sono trasparenti eppure senza luce.
Si ferma a fianco a lui e appoggia una mano sulla spalliera della poltrona.
Lo conosce fin dalla nascita, sa che non è un buon momento per una conversazione, ma deve sapere, anche se il suo linguaggio del corpo ha già parlato per lui.
Sospira di nuovo, cercando le parole.
“Non sospirare”.
Mycroft trasalisce impercettibilmente.
La sua voce è gorgogliante e scura come un fiume sotterraneo.
“Ci sei riuscito?”
“No.”
Silenzio.
Mycroft si muove e si va a sedere sulla poltrona gemella, di fronte a lui. Come in una versione stonata di quell’altra casa.
Sherlock non muove un muscolo, solo le dita continuano il loro tamburellare nervoso in una sequenza che non sembra casuale.
Mycroft ora lo guarda bene in viso, sembra una statua di pietra.
“Cosa ti ha detto?”
Sherlock tace e fissa un punto lontano oltre il fratello, oltre la casa, oltre i confini della città.
Mycroft comincia ad esasperarsi.
“Sherlock... adesso sa che può essere in pericolo. Cosa pensa di fare?”
Sherlock muove impercettibilmente le iridi e lo fissa.
“Niente. Non gli importa.”
Torna a guardare quel punto lontano.
“Che vuol dire... non gli importa?”
Sherlock ferma le dita e le affonda nel cuoio.
“John Watson non esiste più, Mycroft. Non ha più niente a che fare con me, con noi, con tutto. Vuole essere dimenticato e non più disturbato, e noi gli faremo volentieri questo favore.”
Mycroft è colpito. Davvero non avrebbe creduto...
“Glielo faremo?”
“Dopo che avremo chiuso il cerchio: per il momento mi sento in dovere di assicurarmi che non gli venga fatto alcun male. E così farai tu. Rafforzeremo la sorveglianza, aumenteremo i tuoi uomini sotto copertura, io stesso lo seguirò, intercetterò le sue comunicazioni e quant’altro. Non è necessario che lui lo sappia per certo, anche se lo immaginerà. Alla fine di tutto, ognuno di noi andrà per la sua strada. Io, tu, Lestrade, tutti. E’ questo il suo desiderio, e così sia.”
Mycroft abbassa per un momento il capo.
E’ strano come la durezza di John stia colpendo anche lui.
Sherlock è annientato, può sentirne l’odore. E non può fare nulla per aiutarlo, non ha mai avuto nessun potere su di lui.
Anni e anni trascorsi nel timore di trovarlo ammazzato in un vicolo, o impazzito completamente... e poi, miracolosamente, aveva potuto respirare grazie a John.
John era quello che lo teneva qui, inchiodato a questa Terra.
John aveva abbracciato le sue esagerazioni, le sue ossessioni, le sue mancanze, ed era riuscito ad addomesticarle un po’, a impedire che gli facessero del male.  
E adesso?
“Sherlock... ci ripenserà.”
Silenzio.
“Passerà il tempo e andrà tutto a posto, tu per lui...”
“Stai zitto!”
E’ immobile come prima, gli occhi adesso sono chiusi.
Muove la testa indietro e la appoggia alla spalliera, esausto.
Prosciugato.
“Taci, Mycroft. Non lo nominare mai più. E adesso vattene, sto pensando al caso.”

John -

E’ da pazzi, sono andato via di qui poco più di un’ora fa, ed eccomi di nuovo con la schiena appiccicata a questo portone verde scuro.
Per fortuna non è notte fonda, ma, anche in quel caso, sono convinto che ci sarei venuto lo stesso.
Non riesco a far entrare aria nei polmoni normalmente, faccio solo corti respiri nervosi che non aiutano la mia tachicardia.
Mi sento come quando sono tornato dall’Afghanistan.
Questo è peggio.
Il mio personale campo di battaglia.
Piove ancora e non ho preso l’ombrello, uscendo.
Che imbecille.
Cerco il telefono nelle tasche con le mani bagnate, che tremano per il freddo, e compongo il numero.
Ho pena per me stesso.
Ho pena per l’essere costretto a mendicare aiuto così.
Ho pena per chi deve essere costretto a farsi infettare da Sherlock Holmes.
“John?” La voce è calda, con una punta di ansia.
Stringo gli occhi, va già meglio.
“Flo... “
“John, è tutto ok?”
“No,... cioè...no, sono di nuovo qui sotto. Posso salire?”
Silenzio.
“Lo so che è tardi... scusami”
Il ronzio e il clik della serratura che scatta alle mie spalle sono la risposta, e la folle gratitudine che mi risale in gola mi riscalda per un breve istante.
Quando mi apre la porta e mi guarda, sgrana gli occhi castani per lo stupore.
“John, dio... sei zuppo!”
Allunga le mani e mi prende gli avambracci, mi tira letteralmente dentro.
“Non fa niente” balbetto io.
Chiude la porta, mi spinge verso il piccolo soggiorno caldo e riposante.
Non è come casa mia, questa qui.
Non è una landa arida e desolata.
Ci sono bei mobili chiari, una lampada a vetri colorati che emana una luce iridescente che fa probabilmente addormentare sul divano azzurro, coperto di cuscini dipinti a mano.
La tele è accesa su uno di quei programmi serali che conciliano il sonno.
“Togliti la giacca... ma che è successo?”
Mi aiuta a sfilare il giubbotto bagnato e lo appoggia sulla spalliera di una sedia.
Mi giro a guadarla.
Ha i capelli ricci sciolti e un po’ arruffati, senza trucco, ma il suo viso è regolare, franco come sempre.
Gli occhi grandi e castani mi guadano ansiosi.
Non riesco a trovare le parole, non so da dove cominciare.
Come glielo dico senza piegarmi?
Prendo due respiri profondi, cerco di controllare il caos che ho dentro, lei non merita la mia disperazione.
“Una cosa... assurda.”
Non riesco proprio a dire altro.
Mi scruta per un po’, si stringe la vestaglia azzurra sul petto e, come sempre, ci pensa lei.
“Riguarda Sherlock.” dice.
Mi sfugge una sottile risatina sarcastica.
“Penserai che sono pazzo, che tutto quello che ti ho raccontato in questo mesi sia frutto di una mente malata....”
“John, no!” mi interrompe perentoria, si avvicina, mi appoggia le mani sul petto “non ricominciare. Io ti credo e tu lo sai. So che non sei un pazzo, credo di averti conosciuto un po’ in tutto questo tempo. Cosa è successo?”
Io sbatto le ciglia confuso, indeciso se quello che sto per dire l’ho visto davvero o l’ho solo sognato.
“E’ vivo, Flo.”
Adesso sta zitta. Ovvio.
Mi guarda dritto negli occhi e aggrotta le sopracciglia.
“E’ vivo” ripeto con lo stesso sorriso distorto di prima.
Posso quasi vedere i suoi pensieri confusi accavallarsi dietro gli occhi scuri e brillanti: sta decidendo se portare avanti questa conversazione o meno.
“Cosa dicevi a proposito del non essere pazzo?”
“Cosa...” balbetta “Che vuol dire: è vivo? Come può essere? E tu.. tu come lo sai?”
Sento la pioggia fredda scivolarmi dai capelli fino al collo.
Come posso spiegare?
Come?
“Stasera l’ho visto per la seconda volta” comincio, e sento la mia voce assottigliarsi “la prima è stata 12 giorni fa. Non è morto... è stata tutta una messinscena. Solo lui poteva esserne capace.”
Lei continua a fissarmi esterrefatta.
In quel momento mi rendo conto di cosa sto facendo.    
“Oh dio... perché vengo qui a scaricarti addosso questa roba? No, che idiota. Scusami, ti prego... scusami!”
Mi muovo verso la sedia su cui è poggiata la mia giacca ma lei mi trattiene per un braccio e mi rifà voltare verso di sé.
“John, io ti credo. Non devi dubitare di questo.”
Dio, grazie!
Abbasso la testa. Non me lo merito.
Sento che mi abbraccia, anche se sono inzuppato d’acqua, e freddo.
Il suo calore mi fa cedere.
“Oh, John... “ sussurra e mi stringe per consolarmi.
Piango in silenzio.
Non vorrei.
In questi ultimi 12 giorni mi sembra di non riuscire a fare altro, ma proprio non riesco a combattere.
Piango in silenzio sul collo di Floren, con la testa piegata e affondata tra i suoi capelli, e non provo alcun sollievo.
Non provo alcun calore.
Solo abbandono, e freddo, e solitudine.
E’ tutto quasi uguale a come era prima di incontrarti, ma allora non mi mancavi.
Vivevo sereno nell’ignoranza, nella routine, nel bisogno di tornare in guerra, in una specie di solitudine in un certo senso organizzata, ed era una cosa buona.
Adesso non c’è un pezzetto di me che non urli e non mi faccia male.
Perché, quando sei caduto, io ho capito che non avrei mai potuto dirti una cosa fondamentale, nè posso adesso, anche se mi basterebbe fare una telefonata e sentirti anche ridere di me, nè potrò in futuro.
Perché l’insopportabile verità, per quanto tu stasera abbia cercato di convincermi del contrario, è che per te io sono nessuno.
Io sono nessuno per chiunque.
Anche per Floren, buona e dolce, che forse è solo una donna nella sua quarantina con l’istinto dell’infermiera, come ce ne sono tante, e ha pensato che quella di riaggiustarmi fosse una missione.
Le sono grato, sì, ma francamente non provo niente per lei, niente in assoluto, anche se lei lascia che io pianga in silenzio, lentamente, senza fretta, finché la disperazione si trasforma in una sottile, asciutta linea di agonia che corre piatta nel mio sterno.
Quando mi rendo conto che è così, mi stacco pian piano da lei, che mi guarda comprensiva.  
“Ti porto un asciugamani” mi dice con dolcezza “metto su un po’ di thé e poi mi dici tutto, è ok?”
Annuisco. Sì, è ok.
Ho bisogno di parlarne.
Ne devo parlare per ore, come non ho potuto fare in tutto questo tempo, perché la mia forza di volontà resti salda, incrollabile.
Perché davanti a te tutto crolla, Sherlock.
Il bene e il male.
Le leggi stesse della fisica.
Le mie convinzioni.
Il mio passato.
Le idee che avevo di me stesso.
L’idea che mi ero fatto di te.
L’idea che credevo avessi di me.
E’ tutto sottosopra, tutto sbagliato.


Un paio d’ore dopo siamo nel suo letto.
No, non è successo nulla di ciò che può sembrare, come potrei anche solo pensarci?
Per lo meno non oggi.
Mi ha semplicemente chiesto se volessi restare perché sono le 2 del mattino, e non abbiamo trovato nulla di strano nello sdraiarci insieme.
Questo potrebbe essere un segnale per il futuro, credo.  
Una piccola, misera, per ora insignificante promessa di pace, di riposo, ma che in questo momento conta qualcosa.
Mi sono asciugato, ho parlato, ho detto tutto ciò che c’era da dire, lei mi ha risposto con tutto ciò che c’era da rispondere... e sai una cosa?
Ti ha difeso.
Ti conosce solo attraverso la mia voce, e ti ha difeso. Anche con parecchia convinzione.
Ogni volta che imprecavo contro di te, mi chiedeva “ma ne sei sicuro?” “sei certo l’abbia fatto per questo motivo?”
Come il fatto inconcepibile che tu non mi abbia mai detto da subito di essere vivo.
Immagino, come mi hai fatto capire stasera con quel video, che il mio dolore dovesse essere genuino agli occhi di chi mi osservava per fugare da me ogni male: essere accusato e processato per complicità nei tuoi presunti, falsi crimini, o essere in ogni caso fatto fuori dalla gente di Moriarty.
Lo capisco, è una grossa giustificazione: lei me lo ribadisce, e ascoltarlo attraverso la sua voce mi fa sentire in apparenza meno arrabbiato.
Ma la mia ferita è irreversibile.
La sento, come se fosse fisica, come quella dai bordi irregolari che ho sulla spalla destra e che ancora si irrita e tira la pelle nei giorni di brutto tempo.
Mi sto addormentando lentamente, finalmente provo un po’ di sollievo.
Il letto è caldo, confortevole, e la presenza discreta di Flo mi aiuta a trovare un po’ di pace.
Forse non è impossibile come credevo fino a qualche ora fa.
Forse posso davvero andare avanti.

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Capitolo 5
*** Captain John Watson ***




5° capitolo - C’è qualcosa che non va. Troppo silenzio. Sherlock è scomparso. John viene trascinato in un vortice di caos e violenza. E di nuovo non è più un dottore.


Song: Battle for the sun - Placebo
http://www.youtube.com/watch?v=Kp7p4GqngLY

I will battle for the sun

And I won’t stop until i’m done

You are getting in the way

And I have nothing left to say.

I will brush off all the dirt

And I will pretend it didn’t hurt

You are a black and heavy weight

And I will not participate

I will battle for the sun

Cause I have starred down the barrel of a gun

You are cheap and nasty fake

And I am the bone you couldn’t break.

Dream brother

My killer, my lover

Dream brother

My killer, my lover

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

- JOHN-

Sono passati pochi giorni.
Troppi, secondo me.
Aspetto con ansia quella notizia, quella conferenza stampa, ma non ce n’è traccia da nessuna parte.
Non ho ripreso a dormire, per cui ogni mattina, non appena sento per le scale lo scalpiccio del ragazzo che porta i giornali, corro alla porta e lo raccolgo come un indemoniato, spalancandolo lì, sul pianerottolo. Mi collego ogni mezz’ora con il cellulare ai quotidiani principali, ma niente.
Nessuno parla di Sherlock Holmes.
Non ci sono breaking news: lui non è ancora vivo, per il mondo non esiste.
Mi sto preoccupando.
Non dovrei, non dopo tutto quello che ho giurato a me stesso, ma non ce la faccio a non pensarci.
Sento addosso la responsabilità di averne parlato a Floren, ma nello stesso tempo mi giustifico da solo: come avrei potuto sopportare di tenermelo dentro ancora?
Quando vado al lavoro, o al supermercato, o da Flo, cammino per strada e mi guardo attorno con aria tesa, e inconsciamente spero di intravederlo da lontano. Anche per un tempo uguale a un battito di ciglia.
Sono sicuro che mi segua.
A volte sono in grado di riconoscere qualche scagnozzo che mi viene dietro, di Mycroft, immagino.
Lo spero.
Più che altro per Floren.
Ho timore di averla messa in qualche guaio, a dire il vero: mi aspettavo che in capo a qualche giorno, come aveva detto lui, le cose venissero alla luce, e che io in qualche modo ne fossi definitivamente escluso.
Avrei avuto la rogna dei giornalisti di nuovo sotto casa, ma nulla che in un paio
di settimane di “no comment” non avrei saputo gestire.
Dopodiché... di nuovo la mia vita.
Bene o male.
Invece...

E’ passato un altro giorno, con oggi sono sei.
C’è qualcosa che non va.
Ho spiegato a Flo che è meglio vederci di meno, e che è meglio farlo sempre in
posti pubblici: è ansiosa, lo vedo.
Ha accettato con sollievo, e ancora mi chiedo perché non mi scarichi e basta.
In queste sere sono restato seduto nel mio appartamento a percepire il nervosismo fluire sottilmente nel mio corpo, sotto tutta la mia pelle, come un liquido fastidioso che si espande dopo un’iniezione ipodermica. Ho le orecchie tese, la pistola sempre addosso.
Ma non mi preoccupo per me. Quella fase è ormai superata.
Il sapore di cenere che avverto ogni mattina in bocca, quando mi sveglio da solo in questo appartamento, mi fa sapere per certo che se morissi oggi, ora, sarebbe una benedizione.
Perché nulla è cambiato.
Ma devo proteggere Flo.
Penso che prestissimo la lascerò andare per la sua strada.
Proverò un piccolo dolore, mi rimprovererò per essere stato il solito approfittatore e sparirò nell’anonimato. Lei ha bisogno di essere al sicuro, io ho
bisogno di stare solo, senza sguardi che mi autorizzino a parlare di lui.
Come stasera.
Ho appena pulito la pistola e la sto guardando tra le mie mani.
Precisa, affidabile, letale.
Un certo tassista lo sa bene.
Mi chiedo se mi servirà mai più e mi si contrae lo stomaco al pensiero che no,
non lo farà.
E’ inutile rimuginare su quanto mi manchi quella parte della nostra vita.
L’adrenalina. Le situazioni più grottesche. Il divertimento puro. Tranne nel caso
di Moriarty.
Ho bisogno di una birra, su questo non ci piove.
Mi alzo, infilo la pistola dietro la schiena e prendo la giacca.
Se mi va bene, nel mio solito pub qui vicino ci sarà poca gente e potrò chiacchierare del più e del meno con Tom, il gestore.
Dopo due-tre pinte mi sento sempre meglio senza mai essere ubriaco, e guardo fuori dalla vetrina a fianco del mio solito tavolo, stuzzicato dalla ansiogena possibilità di intravedere da lontano una figura alta, coi capelli mossi.
Ed è tutto ciò che vorrei stasera.
Una birra e l’idea di Sherlock che mi osserva da lontano.

Il pub è quasi deserto, infatti.
Tom mi saluta da dietro il bancone e io gli faccio un cenno; mi vado a sedere all’angolo con vetrina sulla strada e dopo un po’ lui mi porta la solita bionda, ma io ho cambiato idea, non sono più in vena di chiacchiere.
Un saluto veloce è tutto quello che gli rivolgo.
Piuttosto... sto pensando di chiamare Mycroft.
Lo so, è da pazzi.
Nessun contatto, mai più, mi sono ripromesso.
Ma il silenzio intorno a Sherlock comincia ad atterrirmi.
Sta succedendo qualcosa. Perché avrebbe dovuto dirmi che erano in procinto di
rivelare tutto? Non avrebbe fatto nessuna differenza per me, quella sera.
Anzi, voleva chiaramente anticiparmi lo shock.
Tra poco chiamerò. Pregherò Mycroft di non dirgli che ho chiesto notizie, e lui lo farà, se lo conosco come credo.

La porta del locale si apre dietro di me, sento la folata di aria fredda sulla schiena, ma me ne accorgo veramente solo quando vedo un paio di Jeans fermarsi affianco al mio tavolo, allora alzo gli occhi e resto perplesso.
L’uomo alto e squadrato mi guarda come se mi conoscesse da secoli.
Il suo viso non mi è nuovo.
Affatto.

Istintivamente mi irrigidisco.
Lui, senza battere ciglio, si siede di fronte a me.
“John Watson” dice con una strana voce, profonda ma nasale.
Ha gli occhi castani e allungati che mi rimandano uno sguardo ostile, un viso affilato in cui campeggia un naso da antico romano. Un accenno di barbetta, i capelli rossastri ben pettinati.
Chi sei? Io ti conosco.
Chi cazzo sei tu?
Il sorrisetto fintamente cordiale che si allarga leggermente sulla sua faccia mi induce a spostare in avanti il bacino per allargare lo spazio tra la mia pistola e lo schienale della sedia, pronto per infilarvi la mano in caso di necessità.
“Capitano John Watson, per la precisione. Che strano ritrovarci qui dopo tanto tempo.”
“Chi cazzo sei?”
Io sono fermo e rigido come ogni volta che mi trovo di fronte a qualcosa che  non conosco. Il sangue freddo non mi è mai mancato.
“Non ti ricordi di me, peccato” il sorriso si allarga.
Mi fa venire i brividi.
E’ ovvio che si riferisca al mio periodo da militare. La mente vola laggiù, ma non lo annovera tra nessuno dei miei ex compagni. Forse è solo un vecchio conoscente di un altro plotone, ma la sua faccia fa suonare dentro di me un campanello d’allarme che non posso ignorare.
"Ero nei fucilieri anch'io, ma non ho mai avuto bisogno della tua... professionalità. Agivo da dietro le linee, non visto. Una pacchia."
Un cecchino, quindi.
Un reparto speciale, gente difficile.
Passo in rassegna i volti di quelli che conoscevo anche solo di vista e, quando
lo trovo, capisco che qualcosa di terribile è appena cominciato.
Ci siamo, dunque.
Una volta avrei avuto un sussulto, avrei sudato freddo, mi sarei guardato intorno disperato per capire cosa fare.
Adesso non più.
"Moran" dico senza scompormi "criminale di guerra. Ti credevo a marcire da qualche parte in una prigione militare per aver arbitrariamente ucciso...ricordami... quanti civili?"
"Ventiquattro in un pomeriggio solo" dice con tutta calma "e dodici di noi, in varie azioni insospettabili. Mi piacciono i numeri pari. Il mio nome è Sebastian. Posso?"
Mi sfila il bicchiere dalla meno e beve, ed è più questo che mi fa rizzare i peli
sulla nuca che ciò che ha appena detto.
"Se hai qualche buon amico" continua dopo una lunga sorsata "evadere non è poi la fine del mondo. Soprattutto quando non è conveniente che lo sappia l’opinione pubblica".
Sebastian Moran è uno squilibrato da manuale, uno completamente fuori di testa.
Da cecchino compì una silenziosa, immane strage durante varie missioni prima di essere scoperto e arrestato in maniera rocambolesca: ricordo lo sgomento cupo che serpeggiava in tutto l'esercito in quei giorni.

Non fornì mai nessuna spiegazione, soprattutto circa il suo allegro tiro al bersaglio sui suoi stessi compagni, nemmeno dopo la sia condanna a infiniti ergastoli da scontare in un carcere militare.
Io credo solo che sia un amante della morte pura, come Moriarty: un lucido malato di mente da cui non aspettarsi nessuna spiegazione.
Prendo un profondo respiro.
Ho le mani sul tavolo e vedo che lui le tiene d’occhio, pronto a cogliere qualunque movimento improvviso. Sa che sono armato, come lui.
"Immagino che tu non sia qui per caso...”
"No, infatti." spinge nuovamente il bicchiere verso di me, ma io, ovviamente, non berrò di nuovo "visto che siamo in vena di rimpatriate, parliamo di amici comuni."
Porta una tracolla di traverso sul petto, la tira verso il proprio grembo e apre la zip.
“Ti conviene lasciare le mani bene in vista su quel tavolo, Watson, ma penso tu lo abbia già capito.” mi avverte con noncuranza.
Tira fuori un i-pad e lo accende, esattamente come ha fatto Sherlock quella sera con il telefono, e io ho il terribile presentimento di sapere cosa sto per vedere.
Quando lo appoggia sul tavolo, sotto i miei occhi, il fermo immagine mi fa stringere i pugni dolorosamente.
Ha il capo reclinato in avanti e l’immagine non è definita, ma riconoscerei quella figura ovunque, in qualunque situazione.
Serro le mascelle con così tanta forza che mi fanno male.
Moran allunga una mano e tocca lo schermo: il video parte.
Per lunghi secondi sembra ancora un fermo immagine: c’è una parete grigia come sfondo, poca luce; Sherlock, che sembra svenuto, è sbilanciato in avanti ma non cade perché dev’essere legato alla sedia metallica che vedo alle sue spalle.
“Non è una registrazione, è una trasmissione in tempo reale” mi avverte Moran, e sento il compiacimento nella sua voce da matto.
“Da quanto è lì?” chiedo con la gola strozzata.
Ma non è una cosa dovuta alla sorpresa, allo sgomento, alla paura.
E’ furia. Furia cieca.
Per un istante valuto seriamente di prendere la pistola dalla mia cintura e sparargli sotto il tavolo, dritto nei coglioni da cecchino pavido che ha, anche sapendo che, forse, uno come lui avrebbe tutto il tempo e la tecnica di uccidermi a sua volta.
“Due giorni” mi risponde tranquillo.
Alzo lo sguardo su di lui, incredulo.
Lui beve di nuovo dalla mia birra.
“E’ stato più facile del previsto, devo ammettere. E’ bastato seguire te.”
Si è distratto. Sherlock si è distratto.
Moran appoggia il bicchiere, di nuovo, e stira le labbra sornione.
“Sei sempre la chiave per tutto, Watson.”
Il mio stomaco si contrae in uno spasmo di disperazione. E’ ancora colpa mia.
“Cosa vuoi da lui?”
Sì, gli sparo, cazzo. Ora gli sparo!
“Una cosa che appartiene agli amici che mi hanno fatto evadere.” Moran è divertito, la ruga che gli si forma sul labbro superiore quando fa quel ghigno felice è la cosa più malata e distorta che io abbia mai visto.
“Una cosa che, per colpa delle sue manie di grandezza, James Moriarty gli ha erroneamente lasciato in eredità”
“Cosa, figlio di puttana?”. Sto ringhiando. Lo odio.
Pensavo di non poter odiare più nessuno dopo Moriarty, ma questo qui ha ucciso anche Paulson, e Jagger, e Smith.
“Penso che tu lo sappia, John.”
“Non mi chiamare John, stronzo!”
Si dà un po’ indietro e si appoggia allo schienale, compiaciuto.
“Ok, ok, niente John. Nè giochini mentali del cazzo, io sono uno pratico. Il codice, Watson.”  Solleva il bicchiere e fa una specie di brindisi a me.
“Il codice binario che il signor Holmes ha chiuso a chiave in quella bella testa.”
Faccio un attimo mente locale.
Ricordo il racconto di Sherlock circa il thè con Moriarty, e poi il video sul telefono. Quando Jim Moriarty lo prende in giro.
Era un’esca, non un’inverosimile chiave per aprire tutte le porte del mondo.
Non esiste nessun codice. Era una partitura di Bach!
Sono confuso.
Ora sì che ho paura.
“Il codice non esiste” dico all’improvviso senza voce “il codice era un bluff...”
“Il codice è reale” mi risponde Moran sollevando il labbro superiore e mostrandomi i denti come un animale “Moriarty lo possedeva e non si decideva a venderlo a nessuno, lo prometteva a mezzo mondo e alla fine lo ha dato a chi? A Sherlock Holmes! Il codice esiste, eccome, e qualcuno adesso lo rivuole indietro.”
Guardo di nuovo lo schermo con terrore, ora ho il respiro spezzato.
“Ma lui non ve lo dà” termino al posto suo.
Non riesco a deglutire, sento un sapore amarissimo in bocca.
“Per ora resiste. Ecco perché sono venuto a prenderti, Watson.”
Lo guardo di nuovo, ha un’espressione placida e beata, come se fossimo davvero vecchi amici che stanno conversando.
“E immagino che un piccolo incentivo sia sempre utile, credo” aggiunge.
Noto ora che ha un auricolare appeso al collo, lo prende con le dita e lo infila all’orecchio destro, poi parla nel microfono.
“Dai un esempio al capitano Watson.”
“No... non c’è bisogno... fermati!” esclamo tendendomi verso di lui, ma nell’inquadratura subentra una mano che prende Sherlock per capelli e gli tira
la testa indietro.
Non so come spiegare... non è dolore, il mio, né disperazione.
E’ raccapriccio puro dinanzi a quella maschera di sangue.
Non riesco a distinguerne gli occhi. Ha uno zigomo spaccato, dalla bocca massacrata il sangue gocciola copioso sul mento, sul collo, sulla camicia.
Per sua fortuna è chiaramente privo di conoscenza.
La canna di una pistola gli viene puntata sotto la gola.
Lo stomaco mi si torce, scalcia, credo di dover vomitare.
“Chiaramente i nostri metodi non stanno funzionando” mi spiega Moran sempre
tranquillo “e tu sei la nostra ultima speranza. Ci auguriamo che la tua presenza ne stimoli il senso di collaborazione.”
Sudo freddo. Ho le mani ghiacciate.
Sento la voce di Moran ma a malapena lo ascolto. Il mio cervello sta vorticosamente cercando di pensare ad un modo per tirarlo fuori di lì.
Solo questo conta.

Tiralo fuori di lì, John.
In qualunque modo.

All’improvviso è scomparso tutto.
Tutto è stato risucchiato in un vortice senza senso: la caduta, la morte, Moriarty, il mio lutto, la mia disperazione, il suo ritorno, le lacrime, la mia rabbia... tutto è lontano e ovattato come se volasse via da me, senza toccarmi più.
Senza essere nemmeno mai esistito.
Devo tirare fuori Sherlock da lì, solo questo.
Devo impedire che muoia davvero.
Non so ancora come, ma in qualche modo farò.

Il cuore mi martella in gola, sembra stia per saltare via dallo sterno.
“Ok! Ok... basta” mi affretto spingendo via il tablet “verrò con te, fai togliere quella pistola di lì”.
Mi sentono dal microfono, la mano lascia i capelli, il capo ricade pesantemente in avanti.
Il mio cuore perde dei battiti, cerco di rallentare il respiro agitato.
“Bene” conviene Moran “sarà il caso che tu infili la pistola e il telefono qui dentro.”
Mi porge la tracolla. E sorride.
“Puoi farlo sotto il tavolo, così nessuno vede. Non credo mi sparerai a bruciapelo.”
Io lo faccio senza battere ciglio.
Poi Moran si alza, tira fuori dalla tasca 5 sterline e le getta sul tavolo.
E aspetta che io lo segua.

Quando usciamo, l’aria è gelida e sferza la mia faccia.
Sono un fascio di nervi, gli cammino qualche passo davanti. Non dubito che una delle mani infilate nelle tasche del suo giubbotto stringa una pistola, ma se mi conoscesse davvero, saprebbe che non ce n’è bisogno.
Guardo la strada trafficata attorno a me.
Automobili, pedoni, vita varia, ignara di tutto quest’orrore.
I miei sensi sono acuiti dalla tensione, i miei occhi osservano tutto con una chiarezza impressionante, è come se il mondo fosse trasparente. L’aria fredda nei polmoni mi sveglia definitivamente, mi fa essere più attento.
Mi sento come gli ultimi tempi al fianco di Sherlock, quando camminavo con lui sul campo di battaglia, cominciando a imparare a dedurre.
E capisco di aver commesso un errore fondamentale.
Un errore che costerà la vita a Sherlock, e al quale io devo rimediare.
Non ho propriamente paura, adesso.
Sento l’eccitazione che corre dentro le vene e so, mentre prendo un profondo respiro carico di ossigeno freddo, che probabilmente morirò stasera.
La cosa al momento non mi impressiona.
La mia mente è concentrata sul mio errore, e su Sherlock.
Gli occhi guizzano in tutte le direzioni, sono certo che la gente di Mycroft ci segua, non può essere diversamente.
Ma non so se e quanto servirà.
Moran avrà fatto bene i suoi calcoli, uscendo allo scoperto così con me, per cui non devo farvi affidamento.
Devo usare l’istinto. Qualcosa farò, ho detto.
Mi si affianca e mi tocca un braccio, indicandomi una strada secondaria. La imbocchiamo e zigzaghiamo nel traffico, fino a un’auto scura ferma in doppia fila.
Mi ci spinge dentro, sui sedili posteriori, non dandomi la possibilità di guardare l’autista, si infila accanto a me e tira fuori la pistola, puntandomi la canna sull’esterno della coscia sinistra.
“Stai giù, faccia schiacciata sul sedile.”
Ovviamente obbedisco.
L’auto parte, io respiro polvere e odore di vecchia tappezzeria mentre le orecchie mi fischiano a causa della pressione e il battito cardiaco mi rimbomba nelle tempie.
Troverò un modo, riesco a ripetermi solo questo, me lo ripeto ancora e ancora, un po’ per farmi coraggio e un po’ perché mi aiuta a riflettere.
Ma prima devo arrivare da te.

L'auto si ferma circa 45 minuti dopo, riesco a calcolare per sommi capi.
Minuti di silenzio assoluto, con la canna della pistola di Moran sempre più a fondo nella mia carne e crampi alla gamba, quella con cui zoppicavo, ma non devo darvi importanza, devo fare finta di non averla, questa maledetta gamba.
Quando freniamo e mi fanno scendere, vedo che siamo in una specie di capannone pieno di furgoni e motrici di camion. Dev'essere uno dei tanti siti industriali e commerciali in una delle tante periferie della città, sembra tutto di recente costruzione.
Moran mi spinge in direzione di una porta antipanico sul fondo, mentre mi guardo attorno.
"Muoviti".
Camminiamo a lungo.
Corridoi, scale, un tunnel sotteraneo.
Non potrei ripercorrere la strada all'indietro nemmeno se l'avessi filmata con il  cellulare.
Non devo pensare.
Se lo faccio, andrò nel panico.
Non c'è oggettivamente speranza che io da solo possa fare qualcosa, ma devo aspettare di essere lì dove lo tengono prigioniero, osservare, capire che possibilità ho.
Nessuna, credo.
Il posto pullulerà di loro uomini, ma non devo pensarci ORA.
Alla fine di un lungo corridoio senza finestre e illuminato da neon accecanti, Moran mi fa aprire una porta grigia, l'ultima. Entriamo in una stanza piccola in cui ci sono tre uomini attorno a un tavolo, che si alzano appena siamo dentro. Uno di loro va ad aprire un'ulteriore porta in fondo a questa specie di anticamera, Moran mi fa cenno col mento di andare là.
Mentre passo, squadro i tre gorilla. Grandi e grossi, sì, ma i capelli, lo stato delle mani, gli abiti, dichiarano che probabilmente non sono militari.
Qualcosa da Sherlock Holmes l'ho imparata anch'io.
Oltrepasso la soglia e mi ritrovo in uno stanzone rettangolare, enorme.
In fondo c’è luce, dobbiamo camminare un po’ attraverso delle colonne, della mobilia da ufficio sparsa e roba del genere. Intravedo due persone in piedi, un grande tavolo, la famosa sedia con sopra una specie di fantoccio riverso.
E quando arriviamo lì, mi ritrovo faccia a faccia con il mio errore.
Mi sfugge un mezzo sorriso sarcastico e mi sembra che per un istante, un istante solo, lei non riesca a sostenere il mio sguardo fermo.
Poi, invece, lo fa. E lo distolgo io, disgustato.
Sembra sorpresa che io non abbia avuto nessuna reazione, è abituata a un altro John, lei.
Il John distrutto, emotivo, che l’ha condotta fin qui e ha consentito tutto questo.
Sherlock è in fondo alla stanza, abbandonato come prima su quella sedia metallica. C'è un altro di quei tizi vicino a lui.
Lo stomaco mi si contorce così forte che mi devo mordere l'interno della guancia per non emettere un suono doloroso.
"Novità?"
"Nessuna" dice Floren, o chiunque sia, andando verso di lui con una siringa in mano "proviamo a svegliarlo."
Moran mi spinge verso di lui, io comincio ad essere veramente irritato da tutte queste spinte.
L'uomo a fianco di Sherlock lo tira indietro e dal vivo la scena del suo volto devastato è ancora più impressionante.
Respira a fatica, rantola.
Deve avere delle costole rotte. Anche sul petto, sotto la camicia, è pieno di sangue.
Riesco solo a pensare che, se non potrò fare nulla per lui, dovrò trovare un modo per ucciderlo velocemente.
L’uomo gli toglie le manette che lo tengono legato alla sedia e lo tiene fermo all'indietro. Floren, che dev’essere un medico o una specie di esperta di droghe, gli prende il braccio e lo appoggia sul grande tavolo di metallo che ingombra la stanza, a fianco a lui, e poi gli inietta quella roba.
“Quanto ci vorrà?” chiede Moran.
Floren si gira e non riesce più a guardare me, nonostante io ora la stia fissando.
“Un paio di minuti, forse meno.”
La sua voce è diversa da quella che conoscevo io.
Non mi suscita nulla che non sia odio.
Bene.
Moran è alla mia destra, mi afferra per un braccio e solleva la canna della pistola, una bellissima automatica nera di ultima generazione, e me la punta sotto la gola.
“Gli piacerà vederti morire davanti ai suoi occhi. John.”
Scandisce il mio nome sapendo che il suo suono pronunciato da lui mi disgusta.
“Che senso ha tutto questo?” gli chiedo senza scompormi, senza mai distogliere gli occhi dalla faccia di Floren.
“Perché lo avete ridotto così? Non vi potrà dare nessun codice in queste condizioni.”
“Glielo chiederai tu. Lo supplicherai di dartelo. E poi la faremo finita.”
“Se mi hai seguito tu, saremo stati seguiti anche adesso” gli faccio notare con un sorriso scettico “non ne avrai il tempo. E io non farò niente di quello che dici.”
Moran ride. Una risata franca, leggera, quella di un uomo normale.
“Esther, questo è l’uomo di cui mi parlavi? Quella specie di checca? Questo qui è un vero duro” poi mi strattona più vicino a sè “allora vi ucciderò prima” mi sussurra all’orecchio “il mio ricchissimo cliente sopravvirà anche senza codice.”
Finalmente mi giro a guardarlo.
Ora i suoi occhi sono pieni di un disprezzo puro. Definitivo.
Mi mordicchio il labbro inferiore.
“E’ personale... “intuisco “Questa pagliacciata è personale. Codice un cazzo.” gli dico in faccia.
“Non scherziamo!” interviene quella che ora so chiamarsi Esther, e che sarà un ennesimo nome falso, con un tono allarmato che non ammette repliche “Moran, non dire idiozie. Ci sono milioni di sterline in ballo. Tiriamogli fuori quella merda e andiamocene velocemente. Faranno irruzione tra poco grazie alla tua imprudenza.”
“Resta calma. Abbiamo la fuga perfetta pronta”
”Non dovevamo farlo stasera, qui, in questo modo!”
Si avvicina a Sherlock per controllare, gli prende il mento con una mano.
Gliela vorrei staccare a morsi, quella mano.
“Tu non hai capito.” dice Moran con estrema calma.
Lei si gira a guardarlo con l’aria di una belva.
“Stasera nessuno di noi uscirà di qui, sei una puttana idiota come tutti quelli là fuori.”
Floren... cioè... chiunque lei sia, si irrigidisce insieme all’uomo che trattiene Sherlock per le spalle.
“Cosa?”
Moran mi lascia andare il braccio, allontana la canna della pistola da me e la punta verso di loro.
Il suo profilo svela un uomo tranquillo, determinato, assolutamente divertito.
“Aspetteremo che il signor Holmes si svegli, lo osserveremo mentre guarda me sparare in testa al capitano Watson, spareremo anche a lui e poi attenderemo insieme che entrino. Sono sicuro che sono già qua fuori. Sempre se non volete morire prima.”
Sorride. Sorride sempre. Questo momento deve essere per lui una vera delizia.
“Figlio di puttana...” mormora lei, con gli occhi sgranati, all’improvviso evidentemente consapevole di qualcosa di orribile.
Vedo chiaramente la luce snaturata della presa di coscienza nelle sue iridi scure, spalancate di fronte a qualcosa che non può negare ma che no, non può essere la verità!
“Avevi detto che non aveva importanza! Non aveva più importanza!!! Che questo era un lavoro come tanti altri!”
“Jim avrà sempre importanza” sorride lui.
Jim?
Moriarty?
Che cazzo sta succedendo qui?
“Hal... “ chiama con angoscia l’uomo vicino a lei, che è stato ad ascoltare la conversazione con aria da beota, esattamente come me.
Ma mi è chiaro che sono tutti distratti da questo.
L’uomo non si è mosso, non ha nemmeno lasciato andare Sherlock, sta ancora cercando di capire da che parte, eventualmente, gli convenga stare, o per lo meno di processare quello che lei ha già compreso.
E cioè che Moran li ha messi tutti in trappola per un suo motivo personale: per poter uccidere me di fronte a Sherlock e chiudere i conti.
L'errore, adesso, è loro.
Anche di Moran, che si sta beando del suo momento e impercettibilmente allenta la presa del calcio della pistola, lo vedo da come sistema appena le dita attorno ad esso.
Come il liquido giallastro che scorre veloce dentro le vene di Sherlock, così l'adrenalina si impenna nel mio sangue ed erutta  dietro i miei occhi.  
Qualunque cosa debba accadere, che accada.
Ricordo di aver pensato solo questo, e rivedo a rallentatore la mia mano destra muoversi verso il braccio teso di Moran, agguantargli il polso e torcerlo dietro la sua schiena con un unico movimento, con tutto il peso del mio corpo.
Posso ancora sentire nelle orecchie lo schiocco secco dell'osso che si spezza, mentre  lui urla di dolore e rotea in maniera innaturale: è costretto a flettersi davanti a me mentre io, con la sinistra, gli sfilo la pistola e la punto da dietro lo scudo del suo corpo.
L’altro tizio sta ancora cercando di estrarre la sua pistola in maniera confusa e agitata quando gli sparo in piena gola. Cade come una statua di piombo, si appoggia alla sedia, trascina Sherlock per terra con sè. Per fortuna è una caduta lenta, spero innocua. Credo di aver udito un lamento di Sherlock e la cosa mi rincuora.
Sposto immediatamente la mira a destra, contro una donna che sta alzando le braccia per difesa nel solito riflesso condizionato che ho già visto altre volte.   
Un altro colpo per lei.
Dritto in faccia.
Quella faccia che mi ispirava tanta calma, che era una promessa di riposo.
Il suo sangue si vaporizza nell’aria intorno come se fosse spruzzato da un aerografo.
Dietro le mie lacrime c'ero io, ma lei non mi ha mai visto.
Nessuno, oltre Sherlock, mi ha mai visto.
Non provo niente, sono perfettamente lucido e saldo sulle gambe, un colpo per uno, devo farmi bastare i proiettili.
Moran cerca di rimettersi dritto e si voltaverso di me, cercando di colpirmi con la mano buona, non devo neanche scansarmi. Gli sparo in una gamba a nemmeno 30 cm di distanza, spero di avergli preso l'arteria femorale.
Crolla a terra con un gemito, ed è adesso che le cose si fanno complicate.
Quei tre che stavano di là stanno correndo attraverso la porta. Mi giro verso di loro, nonostante la grande distanza e il fatto che siano in movimento, e quello che nel frattempo si è fatto più vicino non ha scampo.
Gli altri due si gettano a terra dove capita.
Bene.
Mi muovo verso il grande tavolo metallico come se non fossi io: ho tutto così chiaro nella mente, tutto così cristallino... è pesantissimo, ma lo ribalto con un rumore assordante e mi ci abbasso dietro.
È probabile che io li stia terrorizzando.
Non tutti gli uomini sono eroi, soprattutto se devono sparare per soldi.
Sento che cercano di comunicare con dei bisbigli concitati, forse odo le scariche elettriche di una trasmittente, ma non si muovono ancora.
Bene. Sì, bene.
Mi sporgo quanto basta per afferrare Sherlock per un braccio e tirarlo con me dietro il tavolo. Potrei avergli slogato una spalla nel farlo, ma tant'è...
Sto ansimando, sto sudando.
Sento i lamenti di Moran sempre più deboli, ma nessun altro suono.
Mentre trascino Sherlock, riesco anche a mettere le mani sulla pistola del tizio a cui ho sparato in gola.
Questa è fortuna, cazzo! E allora giochiamocela, eh, Sher? Tu e io, come una volta. Come cazzo dovrebbe essere sempre!
Lui emette un lungo rantolo accanto a me, la sua testa è vicino alla mia coscia. Qualunque cosa gli abbiano iniettato, sta riprendendo conoscenza e non sarà bello.
Gli metto la mano libera sulla fronte senza guardarlo.
"Shhhh" mormoro come se potesse sentirmi "è tutto ok".
Sento un impercettibile cigolio, sporgo dal tavolo e sparo alla mia sinistra.
Quell'imbecille era in mezzo alla stanza, crolla come un pupazzo.
L' altro sbuca fuori da una colonna ma, con mia sorpresa, corre nella direzione opposta. Gli sparo dietro un paio di volte ma lo manco, mi fermo, non posso sprecare munizioni. Attraversa come uno scalmanato la porta da cui siamo arrivati.
Tornerà con qualcuno, immagino.
Ma non è importante adesso.
Ho guadagnato minuti preziosi e devo pensare a cosa fare.
Sherlock si lamenta.
Mi inginocchio e mi piego su di lui per valutare la situazione.
"Cristo santo!"
Quanto sangue, cristo!
Mi tolgo il giubbotto come se scottasse e mi sfilo la camicia febbrilmente, per poi strapparla nel centro e cercare di ripulire quel... casino sulla sua faccia.
Per fortuna scopro che il grosso dell'emorragia proviene da un taglio sul cuoio capelluto. Un brutto taglio, ma nulla di mortale.
È altro che mi preoccupa.  
Gli sento il battito con le dita sulla carotide e percepisco un ritmo assurdo, ai limiti dell’attacco cardiaco.
Gli apro le palpebre e osservo con orrore le pupille dilatate al massimo della loro possibilità: non voglio nemmeno immaginare cosa gli abbiano sparato nelle vene in queste ultime 48 ore.
Dopo quest’ultima iniezione, capisco che sta chiaramente andando in overdose. Di non so cosa, cristo!
Spalanca gli occhi all’improvviso, con un lamento rauco che mi fa accapponare la pelle.
Gli sollevo il capo e lo appoggio nell’incavo del mio gomito.
Respira a fatica, mi fissa... ma non mi vede.
“Sherlock, sono io... sono qui: stai calmo, ti porto via, ce ne andiamo insieme... stai calmo....” sussurro più a me che a lui.
Già. Come? Mi guardo attorno disperato. Non abbiamo nessuna possibilità.
Anche caricandomelo in spalla, e non so se davvero ce la farei, come posso portarlo via e cercare di difenderci contemporaneamente?
No, dobbiamo stare qui e resistere. Resistere.
Sherlock tossisce come se stesse soffocando, e adesso sì, mi guarda.
E mi vede.
Vedo chiaramente i suoi occhi velati farsi consapevoli.
Una mano mi afferra il braccio.
“John...” rantola.
“Shhh.... sì, John...” rido sottovoce.
Sto andando in pezzi.
Stiamo per morire e sono felice che almeno sappia che io ci sono.
“Stai buono, dobbiamo pensare a cosa fare adesso.”
“John...” ripete stremato, con un filo di voce irriconoscibile.
Poi rivolta gli occhi all’insù, mostrandomi il bianco delle sclere, e smette di respirare.
Cazzo.
Gli riappoggio il capo sul pavimento, non ragiono più: a che serve rianimarlo se tra pochi minuti sarà tutto finito? Ma adesso c’è solo l’istinto del dottore, quello del medico militare sul campo di battaglia.
Cazzo! Cazzo!
Comincio le compressioni sul petto e la respirazione bocca a bocca, mentre il sapore metallico del sangue bagna le mie labbra secche di dolore.
Un, due, tre...
Sono disperato.
Sta succedendo di nuovo, ancora sotto i miei occhi, con la variante che stavolta è vero.
Non ancora. Ancora due minuti... apri gli occhi e chiamami.
Apri gli occhi e dì il mio nome.
Ti supplico.
Sento dei crepitii in lontananza, ma non mi fermo. Mi scivolano tra le orecchie come fossero suoni qualsiasi, e invece sono sordi colpi di fucile.
Di chi? Contro chi?
Non importa.
Uno, due, tre, quattro, cinque... sapore di sangue.
Non ancora.
Ti supplico.
E poi succede. Tossisce e mi spruzza del sangue in faccia, cerca aria con un altro gemito rauco. Gli tengo la testa giù, gliela fornisco io. Soffio forte non so quante volte, con tutta la tecnica di cui sono capace.
In quel momento sento un fracasso provenire da in fondo allo stanzone.
Eccoli.
Mi stacco da lui e con un’occhiata rapida vedo che sta respirando da solo.
Non so perchè lo faccio, cosa credo di poter risolvere?
Ma lo faccio.
Prendo le pistole e mi sporgo oltre il tavolo, puntandole entrambe.
Con la coda dell’occhio vedo Moran a terra, che ancora si muove leggermente e mugola.
Ci sono uomini in tenuta da truppe d’assalto che corrono attraverso la porta, in fondo. Due di loro sono già quasi a tiro.
Miro con un braccio, anche se il loro sofisticato equipaggiamento mi confonde.
L’altro lo abbasso verso Sherlock, la pistola pronta contro la sua testa.
“Dottor Watson!” urla uno di loro, alzando il fucile. E’ a un soffio dal limite invisibile olte il quale potrei centrarlo senza problemi in uno degli spazi lasciati scoperti dalla tuta di kevlar, è uno che conosce il suo mestiere.
“Sono il maggiore Henley! Reparti speciali! Non spari!”
Si congelano nelle loro posizioni.
“Come lo so?” urlo io.
“E’ un’operazione di recupero, c’erano altri sei loro uomini nella struttura, sono morti. Getti la pistola!”
“Come lo so???” urlo un’altra volta.
Poi sento il rumore ovattato delle pale di un elicottero che si avvicina. Forse due.
Il maggiore si china e posa il fucile per terra, alzando le mani.
“Non posso garantirglielo in nessun modo, da qui. Mi avvicino. Se non si fida, mi spari.”
Fa qualche passo, ma io gli credo.
Devo credergli.
Perchè sono stanco, spaventato. Sconvolto.  
Però lascio che arrivi a tiro, a due metri da me. La mano con cui gli punto la pistola trema per lo sforzo dei muscoli tesi.
il maggiore si alza lentissimamente la visiera del casco e rivela il volto, vedo chiaramente che non ha altre armi addosso, ma dopo Moriarty, dopo questo... come posso fidarmi?
“Dottor Watson... posso prendere la radio dalla cintura?”
“Fallo senza movimenti bruschi” gli ringhio.
Devo avere l’aspetto terribile dell’animale in trappola.
Con una mano sola, si sfila pianissimo la ricetrasmittente e preme un tasto.
“il dottor Watson è in linea” esclama a voce alta, e poi preme il bottone di ricezione dell’altoparlante.
Una voce che non mai sentito fuori controllo così.
 “John! John! Sono io! Come state? Sherlock???”
“Mycroft... “ sussurro, ma la voce mi si è strozzata in gola.
Non riesco a dirgli che c’è bisogno di un’ambulanza urgente, che ho appena ucciso 4 o 5 persone, che tutto questo è un incubo che sembra non finire mai, mai, mai.
Abbasso la pistola, scivolo seduto al fianco di Sherlock e fatico a respirare io, adesso.
E’ finita?

Tutto il resto avviene in slow motion.
Delle mani robuste mi afferrano, mi sollevano, qualcuno si china su Sherlock, sento il rumore assordante dell’elicottero sempre più vicino... ma le gambe mi si piegano, la vista si annebbia, e tutto ciò che voglio è che sia vivo.
Vivo.
Dio, fallo vivere, ti prego.









 




















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Capitolo 6
*** Grieving survivor ***


6° capitolo - John è lì. Con lui. Sporco del suo sangue.


[Consiglio di leggerla con in sottofondo Exogenesis dei Muse, che è uno dei pezzi che ho usato per scriverla; qui c’è il link con tutt’e tre le parti mixate in una:
http://www.youtube.com/watch?v=zR073s8UWqY ]

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La luce del neon è livida, dà fastidio agli occhi.
Apro il rubinetto dell’acqua e mi guardo nello specchio.
Sono irriconoscibile.
Ho la faccia e i capelli imbrattati di sangue coagulato, le labbra rosse come un grottesco clown e gli occhi dalle cornee violacee, come se fossi sbronzo.
Ma di certo non lo sono.
La maglietta grigia che avevo sotto la camicia è impregnata da larghe chiazze scarlatte dai bordi irregolari.
Il sangue di Sherlock.
Mi piego sul lavandino del bagno dell’ospedale e cerco di lavarmi la faccia, mi bagno la testa, vedo l’acqua rossa scorrere giù per lo scarico.
Se lui muore, quel rosso non andrà più via dal mio corpo.
Io sto bene, non ho nemmeno un graffio.
Mi asciugo con le salviette di carta e mi riguardo.
Ho il cervello completamente, assolutamente vuoto.
Hanno cercato di visitarmi in un ambulatorio, ma mi sono rifiutato divincolandomi e correndo qui dentro.
Sto bene.
Io sto bene, cazzo.
Ho solo i muscoli delle braccia indolenziti per tutti gli sforzi che ho dovuto fare.
Non è a me che dovete pensare.

Non so niente di lui.
Mi hanno segregato in questo corridoio, guardato a vista dai militari, in attesa che arrivi qualche spocchioso capo a dirmi quello che devo o non devo fare, e il solo pensiero mi è insopportabile.
Non ricordo bene come mi abbiano portato qui.
Ho la vaga reminiscenza di Henley che mi sorreggeva per un braccio e che mi faceva entrare in un’ambulanza, nella quale sono restato seduto tutto il tempo mentre il personale addetto mi rivolgeva domande a cui non rispondevo, e mi visitava sommariamente.
Mentre uscivamo dall’edificio sono solo riuscito ad alzare gli occhi e guardare l’eliambulanza che volava via, con Sherlock legato nella sua pancia rumorosa.
Perché non mi avete fatto salire con lui? Perchè?
Lo vorrei chiedere, ma le parole non mi si formano sulle labbra.

Apro la porta del bagno e il maggiore Henley è lì, un omone di colore dalla ingannevole faccia rotonda, insieme a un infermiere che mi porge un camice.
“Si tolga quella maglia, dottore” mi consiglia bonariamente.
Io mi guardo il petto. Il sangue incrostato ha irrigidito il tessuto.
Prendo il camice dalla mano dell’infermiere, che si allontana subito con un brivido, e guardo Henley dritto nelle pupille.
“Notizie?”
“Ancora no. Ma posso scortarla dove si stanno prendendo cura di lui. Deve rilasciarci una dichiarazione, lo faremo in una stanza lì vicino.”
Capisco.
E’ la procedura. Non me ne frega un cazzo, ma devono sapere com’è andata o non mi lasceranno stare.
“Ok, grazie.” mormoro, e infilo il camice da sopra la maglietta sporca.
Non la toglierò.
Quel sangue deve restare a contatto con la mia pelle. Se lo rimuovessi, smetterei di mantenere la calma.
Mi fa strada lungo dei corridoi dipinti di azzurro, i tipici corridoi da ospedale, pieni di porte, vetrate, corrimano, personale vario che viene e che va, e che mi guarda.
L’infermiere ci segue (nel caso io mi senta male, suppongo).
“Come si sente adesso?” mi chiede Henley.
E’ gentile. Mi ricorda un vecchio amico poliziotto dei tempi dei casi con Sherlock.
“Bene” è tutto ciò che dico.
L’ultimo corridoio si allarga in una grande sala d’aspetto, ma è deserta.
Al desk della ricezione ci sono due infermiere che prendono a fissarci. Ci sono altri uomini come Henley davanti ad ogni varco, porta o vetrata.
Ce ne sono due davanti a una grande porta a vetri a due battenti, su ognuno dei quali c’è serigrafata la scritta “Blocco operatorio”.
Mi fermo.
“E’ già lì dentro?”
“Sì” mi dice il maggiore, e delicatamente mi tocca un gomito per invitarmi a girarmi verso la mia sinistra, di fronte ad un’altra porta chiusa. “Abbiamo fatto chiudere l’area al pubblico per sicurezza, ci siamo solo noi. Ci metteremo qui dentro, dottor Watson.”
Apre la porta davanti a noi ma io non smetto di guardare quella a due battenti, là in fondo. In un certo senso è tranquillizzante che sia in sala operatoria, almeno so che non è già morto.
Quando guardo davanti a me, oltrepassando la soglia, vedo che nella stanza ci sono altre tre persone in piedi.
Non mi stupisco quando riconosco Mycroft Holmes tra loro.
Si muove rapido, scansa gli altri due e mi viene incontro con un viso tirato e gli occhi ingranditi dalla tensione.
“John!”
Non so... non lo so se voglio vederlo... se voglio stare nella stessa stanza con lui. Lui è uno dei motivi per cui siamo qui dentro.
Ma a questo punto che differenza fa?
Mi viene quasi addosso.
Il controllato, severo Mycroft sembra quasi che mi voglia abbracciare, ma ovviamente non lo farebbe mai. Nè io glielo permetterei.
Mi tende le mani e aspetta che io gli tenda la mia. Lo faccio per stanchezza. Lui me la stringe forte con entrambe.
“John... stai bene, ne sono felice. Grazie... davvero... grazie” la sua stretta è fortissima. Trapela della contenuta emozione da lui, il che vuol dire che dentro deve avere l’inferno.
Facciamo a gara a chi ha dentro l’inferno più grande, Mycroft?
“Come sta lui?” taglio corto.
“Non ci hanno ancora comunicato niente, credo sia presto.”
Annusico e sfilo via la mano.
Non chiedo altro, so già quanto sia brutta la situazione.   
Vado a sedermi al grande tavolo da riunione che è lì, un posto qualunque.
“Con me ci sono il procuratore generale Darren e il capo delle operazioni del Ministero, il signor Crawley.” rivolgo appena un cenno ai due uomini, che ricambiano. “Te la senti di fare una deposizione?”
Annuisco di nuovo.
Non mi va di parlare, mi sembra che far uscire le parole sia uno sforzo sovrumano. Vorrei sedermi di là, in una delle poltroncine di plastica della sala d’aspetto, chiudere gli occhi e... aspettare.
Aspettare di sapere quale sarà il mio futuro.
Un terzo tizio in giacca e cravatta, mi hanno detto il suo nome e la sua funzione ma ho immediatamente rimosso, si siede davanti a me e apre un notebook, tira fuori un microfono, una videocamera con un treppiedi da tavolo, fa delle cose.
Io guardo fisso il riflesso di tutto sul ripiano lucido del tavolo, e penso a tanto tempo fa.
Penso in particolare a quando facevamo colazione, al mattino.
Al fatto che, nonostante avessimo vite, orari e abitudini diverse, riuscivamo a entrare in quella cucina praticamente alla stessa ora e a fare quasi sempre colazione insieme. Se io mi svegliavo tardi, lui aspettava. E viceversa.
Non credo di aver mai preparato del thè o del caffè per me solo, in quella casa.
Vedo le tazze piene sul nostro tavolo della cucina, sento il rumore del suo cucchiaino che tintinna contro la porcellana mentre ruota placidamente nel caffè caldo per sciogliere lo zucchero.
“Mrs Hudson ha portato su dei muffin, prima. Ne vuoi uno, John?”
Mi scappa una risata leggera, mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime.
No. No. Non è il momento. Le ricaccio indietro, deglutisco, scuoto un po’ la testa per distrarmi.
“John, ti faccio portare del thè” dice Mycroft gentilmente, mentre si siede alla mia destra.
“Caffè, niente zucchero. Grazie.” correggo con voce roca. Mi schiarisco la gola. Continuo a guardare il riflesso su questo tavolo lucido, nuovo, qualunque.
Lasciatemi andare.
Vi prego.

Henley comincia per primo e descrive tutta l’operazione dal suo punto di vista, dall’irruzione in poi. Io non ascolto neanche una parola.
Quei riflessi sul tavolo mi fanno ricordare. E mi sento meglio.
Sherlock che esce dal bagno in accappatoio, gocciolando acqua lungo tutto il percorso.
Sherlock che guarda con aria disgustata un programma trash in tv, ma non cambia canale.
Sherlock che a volte si stende sul divano per leggere, proprio quando ci sono io seduto all’altro capo, e con nonchalance poggia le sue lunghe caviglie incrociate sulle mie ginocchia.  Senza che io protesti mai.
“John?”
La voce di Mycroft mi scuote, l’odore della tazza di caffè che qualcuno mi ha messo sotto il naso minuti fa, penetra nelle mie narici.
“Preferisci cominciare tu o ti facciamo delle domande noi?”
Mi lecco le labbra, le sento secche e spaccate. Bevo un sorso di caffè e lo sento scivolare giù nella gola riarsa.
“A dire il vero preferirei cominciassi tu... Mycroft.”
Mi giro verso destra e lo fisso con curiosità.
Lui mi guarda con le sopracciglia aggrottate.
“Perché non mi hai avvertito che l’avevano preso?”
“Non c’era motivo di coinvolgerti fino a quel momento. Sembrava che te ne stessero lasciando fuori. Per quanto io ricordi...” passa una mano sul tavolo come se volesse lentamente lucidarlo “... hai detto tu che volevi dare un taglio a tutto.”
“Non giocare con me” lo interrompo “Un’esca è tanto più efficace quanto è più inconsapevole, no?”
Mycroft è uno che non incassa mai i colpi. Lui ha sempre qualcosa da dire.
“Te ne dispiace?”
“No, certo che no” sorrido con sarcasmo “Mi meraviglio che tu ancora non sappia che l’avrei fatto lo stesso, anche se me lo avessi chiesto.”
“Sherlock era stato chiaro, tu dovevi essere tagliato fuori. Per protezione e per tua volontà.” 
“Sherlock è un idiota. Per fortuna ti servivo per trovarlo.” commento più a me stesso.
“Signori” incalza uno di quelli di fronte con un colpetto di tosse “cominciamo,”
“Una cosa ancora” li fermo con un tono che non ammette contraddizioni, e stavolta mi rivolgo a Henley “Perchè non siete intervenuti prima? E’ durato un’eternità, lì dentro.”
Lui sembra imbarazzato. Ci mette un attimo a focalizzare.
“Abbiamo dovuto localizzarvi, c’è voluto un po’ in un luogo tanto dispersivo. Abbiamo fatto irrruzione entro i tempi previsti dal protocollo, esattamente il tempo che ci ha messo lei a fare quello che ha fatto, dottore. Pochi minuti. E’ ... semplicemente incredibile.”
Pochi minuti. A me sono sembrati venti, trenta... o anche ore intere.
Lo guardo incredulo.
“John” la voce di Mycroft è vellutata “Hai fatto una cosa eccezionale. Te ne rendi conto?”
Oh. Quindi ora sono un eroe?
Come posso esprimere a parole quanto non me ne fotta niente?
“Adesso che farete? Mi darete una medaglia?” chiedo fissandoli uno a uno.
E soffermandomi negli occhi di Mycroft, che non respinge il mio risentimento.  
“Possiamo cominciare, John?”
Sì. Sì, Mycroft.
Cominciamo.
Lascia che io vi racconti come sono diventato un eroe dal cazzo duro. E poi un vampiro, visto che ho rianimato tuo fratello bevendo il suo sangue. Lasciate che io vi riempia di queste stronzate, mentre lui, di là, probabilmente è già morto e non me lo avete ancora detto perchè volete prima registrare la favoletta di John-cazzoduro-Watson per i vostri verbali.
Racconto tutta la serata dall’inizio con tono monocorde: spesso mi interrompo e mi incalzano loro con le loro domande.
Quando dichiaro che conoscevo la donna a cui ho cancellato la faccia, Mycroft fa la sua solita espressione da “lo so già” e gli altri mi costringono a tornare indietro, a raccontare di come la incontrai in biblioteca.
Sono costretto a pensare a lei, ma non provo assolutamente niente.
Come il momento in cui ho sparato.
Nessun ricordo piacevole di lei, nessuna reminiscenza di conversazione benefica o di serata accettabile riescono a stimolare in me un minimo di costernazione, o di pseudo-nostalgia, nemmeno di rabbia per essere stato preso in giro.
Nell’esatto istante in cui ho capito chi era Moran e il nome di Sherlock ha attraversato la mia testa con quella violenza, la mia vita si è semplicemente resettata.

Quella donna non è mai esistita.
Nè tutti questi mesi sono mai esistiti, non li ho mai vissuti.
Nulla di tutto questo è mai stato vero.

Ho visto lui, l’ho toccato e tenuto stretto per pochi minuti, gli ho praticato un massaggio cardiaco e una respirazione bocca a bocca, ho preso il suo sangue con me, e mi ci sono riconnesso con l’anima, con tutto me stesso, senza nemmeno un battito di ciglia.

Mycroft si dilunga ad aggiungere dei particolari ai suoi illustri colleghi, ma io di nuovo non ascolto più.
Ascolto il mio stesso battito cardiaco che rimbomba regolare nelle mie orecchie, pregando non so cosa che quei colpi sordi, silenziosi, controllati, vibrino nell’aria, impercettibili per chiunque altro, e che vadano in soccorso di quegli altri battiti impazziti, schizofrenici, e li aiutino a calmarsi, a rallentare, a ritrovare la strada.

A un certo punto, tutti si alzano.
Credo di aver udito dei convenevoli biascicati da quei due pezzi grossi che non so più nemmeno chi siano, e a cui ho probabilmente risposto solo con un cenno del capo.
Mycroft li accompagna alla porta con fare amichevole, Henley è in piedi impettito, il tizio con il pc e la strumentazione ha rimpacchettato tutto in una valigetta e sta andando via anche lui.
Spero con tutto me stesso di poter restare solo, ma Henley si viene a sedere vicino a me e mi scruta.
“Ha bisogno di qualcosa, dottor Watson? Qualunque cosa?”
Sento della solidarietà da militare nella sua voce. E’ impressionato da ciò che ho fatto: nel suo mondo, che conosco bene, quelli come me sono da rispettare. Eppure sono tanto più basso di lui.
Sento che devo essere educato almeno nei suoi confronti, visto che è arrivato a un passo da me mentre gli puntavo una pistola contro, in evidente stato di stress. Ci è andato vicino, insomma.
“Grazie, sto bene” mi sforzo di fargli anche un mezzo sorriso “questo caffè era quello che ci voleva.”
Mycroft rientra nella stanza, il vago sorriso che ho riservato a Henley scompare.
Lui lo percepisce, aggira il tavolo e mi si siede di fronte, al posto uno di quei due di prima.
Adesso lo guardo.
Identico a sè stesso. Spocchioso, macchinoso, elegante Mycroft.
Indossa uno dei suoi completi sartoriali a doppio petto, sembra sbarbato di fresco e immacolato, ma so che non è così.
Lo fisso negli occhi un po’ acquosi, rotondi, così diversi da quelli di Sherlock.
Non so descrivere quello che provo. Se potessi, gli taglierei la gola.
“Maggiore, ci può lasciare, per favore?”
Henley si alza immediatamente, mi rivolge un lieve cenno con la testa e si allontana, chiudendo la porta alle sue spalle.
Io non ho smesso di fissare quello che credo essere il responsabile di tutto, nonostante la conclamata e sciatta idiozia del fratello minore abbia fatto anch’essa la sua parte. E che dio mi perdoni se non ho ragione!
“Sembri tranquillo” gli dico.
Anche lui fissa me. Ha uno sguardo amichevole e accondiscendente, non so quanto sincero o meno.  E non me ne frega un cazzo.
“Lo sai che non lo sono” dice.
Incrocia le mani sul tavolo e prende un grande respiro.
“John... non ti ringrazierò mai abbastanza per...”
“No.” lo interrompo “no, non dirlo. Non l’ho fatto per te.”
“Certo, lo so... ma ti ringrazio lo stesso.”
Mi bagno le labbra secche con la lingua.
“Dimmi la verità almeno adesso: in che condizioni è?”
Mycroft chiude gli occhi per un attimo.
“Critiche. Molto.”
“Lo so, lo immagino, l’ho visto. Sii più specifico.”
“Non posso esserlo, ho parlato con un medico solo attraverso l’interfono, non hanno neanche aperto la porta. Hanno accennato a... fratture, pressione fuori controllo e una costola rotta che ha perforato il polmone.”
Ogni parola è un artiglio che mi stringe la trachea e mi impedisce il passaggio dell’aria.
Forse quella costola rotta è colpa mia, del mio massaggio cardiaco... forse già c’era e ho peggiorato la situazione.
“Dobbiamo aspettare” aggiunge.
“Almeno è vivo” mormoro io a me stesso “un passo alla volta... è già un bene che sia vivo.”
“John... lo so che non vuoi parlare con me, non ti sottrarrò altro tempo. Pensavo avessi delle domande. Più specifiche.”
“Di che genere?”
“Chi è quel Moran, per esempio. Com’è tutta la storia che ha portato a stasera.”
Io lo fisso con astio, che importanza può avere in questo momento?
“All’improvviso senti l’esigenza di condividere con me i tuoi segreti governativi?”
Non si scompone, ma non risponde subito.
“Pensavo volessi sapere.”
“No, adesso non voglio. So chi è Moran, stasera ho capito quello che dovevo capire, il resto me lo racconterà Sherlock quando si riprenderà. Adesso vorrei stare da solo, se non ti dispiace.”
Lui inarca le sopracciglia.
“Immagino resterai qui”
“Immagino anche tu. Preferirei in stanze separate.”
“Dovresti andare a riposare e a rinfrescarti, John. Quello che è successo stasera avrebbe provato chiunque. Ti avviserò tempestivamente di qualunque...”
“Mycroft, vaffanculo.” glielo dico sorridendo, un sorriso tirato e sardonico come quello di Moran.
Lui sospira. Ci ha provato.
“Ok, va bene.”
Mi alzo con una certa energia, la sedia stride sul pavimento. Devo muovermi, devo far camminare le gambe indolenzite.  
“Vado di là, le poltrone mi sembrano più comode.”
Mycroft non dice niente mentre mi allontano e apro la porta per andare fuori, via da lui e dalla sua faccia.
Mi sistemo nella grande sala d’aspetto, in fondo. Allineata alla parete, c’è una fila di poltroncine di plastica tipica di quei posti là.
Gli uomini di guardia tutt’intorno sono immobili, le infermiere al desk fanno finta di non guadarmi, una è al telefono.
Ho gli occhi puntati sulla grande porta a vetri.
Quanto tempo è già passato? Un’ora? Due? Non saprei dirlo.
Mi stiracchio nella poltroncina che ho scelto, incrocio le braccia e le gambe e aspetto. Aspetto come faccio da 11 mesi, diciotto giorni e qualche ora, sentendomi esattamente come mi sono sentito sotto quel palazzo, durante quella telefonata.
Una cosa che mai, giuro, mai avrei pensato di poter vivere due volte.
Solo tu sei stato capace di far sì che accadesse.
Giuro che, se ne vieni fuori, ti prendo a pugni e te la provoco io, una commozione cerebrale.
Idiota.

Vedo Mycroft in lontananza che sia avvicina per dire qualcosa alle due infermiere, poi parlotta con Henley ed infine scompaiono insieme lungo il corridoio.
E’ andato solo qualche porta più in là? Sta andando forse via dall’ospedale, richiamato dalle sue responsabilità di grande manovratore dell’occulto? Tornerà?
O preferisce essere avvisato che suo fratello è morto attraverso un messaggio cifrato sul telefono?
Meglio così.
Sono stanco. Distrutto. Mi fa male ogni muscolo del collo, delle spalle, delle braccia.
Ma non è niente rispetto a ciò che ho dentro.
Alterno pensieri di angoscia a momenti di speranza esaltante. E’ ridotto male, ma sono riuscito a rianimarlo, perchè non dovrebbe farcela? Nonostante l’overdose, la massiva emoraggia, le fratture, le probabili lesioni interne?
L’hanno pestato a sangue, era evidente.
Moran ci si sarà divertito personalmente, immagino.
Una faccenda più che personale, dai risvolti inquietanti.
Come ha detto? “Jim avrà sempre importanza.”
E’ probabilmente ciò che avrà pensato ad ogni colpo che assestava alla faccia di Sherlock, ad ogni calcio che sferrava contro il suo torace.
Quello squarcio in testa sembrava fatto da un corpo contundente, forse il calcio della pistola.
Avrà goduto come un matto, credo. Non lo ha finito solo perchè voleva terminare lo spettacolo con me. Per fortuna.
Se non è morto, come credo (ricordo di averlo percepito vivo mentre mi portavano via), giuro che lo ammazzerò. In qualunque cazzo di prigione di massima sicurezza lo seppelliscano di nuovo, io farò in modo di ammazzarlo.
Sistemerò le cose con Mycroft, me lo lavorerò per bene, e farò in modo che mi dia la possibilità di strangolarlo a mani nude mentre è ammanettato ad un tubo.
Questo pensiero assurdo mi conforta e mi impedisce di pensare troppo in profondità a ciò che sta succedendo oltre quella parete.
Apppoggio la testa all’indietro, contro il muro, e chiudo gli occhi per un attimo.
Sherlock, se proprio devi morire, aspetta almeno che mi permettano di vederti per un minuto.
Come nei film.
Il tempo di dirti una cosa importante, anche se non mi puoi sentire.
E’ una cosa che posso dire solo a te.

Spalanco gli occhi quando sento una mano sulla spalla destra, un tocco gentile che però mi fa sobbalzare come se mi avessero accoltellato.
Sbatto le ciglia varie volte e vedo su di me il volto gentile di una delle due infermiere, e solo ora realizzo che mi sono addormentato di botto, come ci avevano  insegnato a fare in Afghanistan per recuperare le forze durante le azioni.
“Signore, mi hanno detto di avvisarla. Il dottor Kaplan è uscito.”
Mi scuoto e guardo verso la porta, un battente è aperto.
Un uomo in tenuta da chirurgo è lì e si guarda attorno.
Dal corridoio alla mia sinistra vedo Mycroft dirigersi verso di lui.
“Grazie!” mormoro alla donna, e quasi la travolgo per alzarmi il più velocemente possibile.
I passi che mi separano da quell’uomo sono pura angoscia, sono cessazione di ogni cosa, non sento nemmeno il sangue che circola più.
Quando gli sono davanti, e Mycroft si ferma simultaneamente accanto a me, lui si abbassa la mascherina verde e non sa chi guardare prima.
E’ un uomo sulla cinquantina, dalle guance pingui e lo sguardo fermo e affaticato.
“Come sta?” incalzo io.
“Per adesso è stabile.”
Ed è tutto quello che volevo sentire.
Sento le ginocchia farsi molli, ma resto perfettamente immobile.
Da quel momento in poi recepisco delle frasi smozzicate, nulla che io non sappia già.
La situazione è grave. Fratture. Polmone perforato. Emoraggia. Quello che ci preoccupa è l’intossicazione da droghe. Ematoma lombare. Prossime 36 ore critiche. Coma farmacologico.
Nulla che io non abbia già visto, valutato e previsto in quei momenti allucinanti in cui ho cercato di tenerlo con me.
Le spiegazioni tecniche non hanno senso, adesso.
E’ stabile. Per ora. E’ ciò che conta.
Un passo alla volta.
Una piccola cosa alla volta.

Resta qui.
Con me.

Non possiamo entrare a vederlo, non ce lo permettono.
Vedere cosa, poi?
Un uomo immobile, intubato?
No, non voglio vederti così.
Tu sai che ci sono, mi hai guardato.
Il dottore smette di parlare e ci rivolge un piccolo cenno con la testa, poi scompare di nuovo oltre la porta e richiude il battente.
Mycroft mi guarda. Noto la fasulla espressione controllata, le labbra strette per non mostrare il tremolio. Non ce la fa. Semplicemente. E non può permettere che qualcuno lo veda.
“Andiamo via” mormora “riposa, John. Poi torna. Sarà una lunga attesa.”
All’improvviso mi dispiace per lui quanto mi dispiace per me stesso.
Vedo nei suoi occhi il mio stesso buio.
E’ colpa sua e lo sa, non deve essere un peso facile da portare.
Che senso ha tutto quest’odio, adesso?
Se lo perdiamo, che senso avrà dopo qualunque tipo di sentimento, buono o cattivo che sia?
Ho bisogno di riposo, sì. E di una doccia. E di qualcosa che mi svegli fra qualche ora, e mi faccia restare sveglio per qualche giorno.
E ho bisogno di pensare che non è finita, incessantemente, come uno di quegli idioti new age convinti che, se pensi intensamente ad una cosa, magari con qualche cristallo in mano o una bacchetta d’incenso accesa, questa si avvererà.
“Accompagnami a casa” gli dico.
 Ma ciò non significa che lungo il tragitto gli dirò altro.

Oltre il finestrino oscurato della macchina, la città scorre addormentata.
Ho vissuto tante volte questa scena, il ritorno a casa in piena notte, stanco, magari sporco di sangue, bisognoso di un thè e di una doccia.
Solo che stavolta al mio fianco c’è il fratello sbagliato.
Io e lui avremmo chiacchierato di come avevamo acciuffato quel tizio, magari sottolineando i particolari raccapriccianti con delle risate fragorose, per l’orrore del tassista di turno.
E’ anche capitato una volta che il malcapitato ci abbia fatto scendere terrorizzato, brandendo una bomboletta spray al peperoncino.
Siamo tornati a casa a piedi, con i crampi per il ridere. E ci siamo fatti un thè.
E quella sera è stata la prima volta che avrei voluto baciarlo, mentre eravamo in cucina e armeggiavamo uno col bollitore, l’altro con le tazze, gomito a gomito.
Rideva ancora, aveva una microscopica goccia di sangue sullo zigomo sinistro.
Lo guardavo e pensavo che avrei potuto toccargli un braccio, fare in modo che si voltasse verso di me, con quegli occhi trasparenti e scintillanti di buonumore, e avrei potuto baciarlo. Piano. Con dolcezza.
E perchè io non l’abbia fatto, non lo so.
Dio, proprio non lo so.

Avrei potuto cambiare le cose, Sherlock?

 





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Capitolo 7
*** Breathe, draw, wake, talk ***


John aspetta. Sherlock deve scegliere.



Brave new world- Richard Ashcroft (inspiration song)
http://www.youtube.com/watch?v=2Ga0oZANsnQ

Into the brave new world
I hope I see you on the other side
Of this changing world

Baby when my ship pulls in
I try to believe in anyone
Look at the state I'm in, I'm fine

But for now I'm just sitting at the table
Hearing songs
Wishing I was able, stable


Quando arrivo a casa, non riesco a fare nient’altro che gettarmi a faccia in giù sul letto, così come sono, senza nemmeno togliermi le scarpe.
Non riesco a spiegare quanto mi senta esausto, prosciugato, senza più forze. Riesco solo a prendere il cellulare dalla tasca - lo hanno recuperato e me lo hanno restituito - e controllare che sia acceso e con la batteria carica.
Mycroft ha promesso che mi chiamerà appena dovesse succedere qualcosa, anche una piccolissima cosa.
Lo stringo in mano e chiudo gli occhi, dietro i quali vedo l’immagine di Sherlock bagnato di pioggia, seduto al tavolo del mio soggiorno, che lacrima in silenzio.
Non so perché io pensi proprio a quel momento.
Non lo recrimino, se lo meritava, ma quel ricordo me lo fa sentire più vicino, e fa sentire me più simile a lui. Non so se certe situazioni dolorose si possano paragonare: apparentemente non ci dovrebbe essere nessun possibile accostamento tra me che l’ho visto morto su un marciapiede e lui, che è stato respinto per rabbia.
Ma... alla fine, chi può dire come ognuno misura il proprio dolore?
Ho la sensazione di percepire solo ora di avergli fatto del male. Un male esorbitante, incommensurabile.  
E non so perché.
Mi addormento prima di poter cercare altre risposte.
Un sonno buio, denso, e senza sogni.

Qualche ora dopo guardo il display del telefono, non ci sono state chiamate.
Sono in cucina e bevo caffè, guadando dalla stretta finestra che dà nello squallido cortile interno.
Ho fatto la doccia, mi sono cambiato, ho posato la maglietta grigia macchiata di rosso sul letto, ben distesa con i palmi delle mani.
Deve stare lì, devo poterla guardare ogni volta che verrò a cambiarmi o a dormire qualche ora.
Sherlock lì, lei qui.
Ora devo andare. Comincia la parte più difficile.
Riuscire a trovare la calma, la pazienza per aspettare qualunque cosa debba accadere.
Pensare e cercare di assorbire il concetto che potrebbe ancora morire.
Come mi sono ritrovato di nuovo qui, a questo punto?
Ammanettato a lui. E di nuovo io sono dall’altra parte della grata, e non riusciamo a coordinarci.
Piccoli passi, Sherlock - penso mentre prendo il portafogli e me lo infilo nella tasca posteriore dei jeans.
A piccoli passi, come l’altra volta, ci sganceremo da queste sbarre.
Non so ancora se scavalcherai tu dal mio lato, o viceversa.
Vedremo.

Quando arrivo in ospedale, al piano in cui ero stanotte, vedo che è ancora tutto isolato: due uomini mi fermano prima dell’ingresso nella grande sala d’aspetto, ma mi basta dire il mio nome per far sì che si facciano da parte con deferenza. Henley deve aver parlato di me, a quanto pare.
Entro nel grande spazio, ed è così diverso da stanotte, adesso, illuminato dal sole invernale che filtra dalle grandi vetrate sulla sinistra, e mi fermo al centro della stanza perché c’è una figura che sta venendo verso di me.
Mi si stringe la bocca dello stomaco.
Un vero e proprio spasmo di contentezza, e di nostalgia.
Lestrade mi viene incontro a grandi falcate. Io allungo il passo verso di lui.
“John!” esclama, e senza tanti convenevoli mi abbraccia.
In maniera robusta, non troppo invadente, in due potenti strette che terminano con un paio di pacche sulla spalla.
“Greg” dico io, ricambiando.
Ci distacchiamo subito, come fanno i maschi adulti.  
Tiene le sue mani sui miei omeri e stringe.
“John... come sono felice di vederti!”
E’ identico a un anno fa, solo meno abbronzato.
Finalmente riesco a fare il mio primo sorriso aperto e sincero. Forse il primo in assoluto da un intero anno.  
“Greg... come stai?”
“Beh, le circostanze sono un po’ surreali... “
Oh. Adesso realizzo. Lui non sapeva.
“L’hai saputo stanotte. Che era vivo.”
Si passa una mano tra i capelli un po’ più brizzolati di come li ricordassi.
“Non è stato facile... ho pensato a una specie di scherzo.”
All’improvviso mi ricordo del perché sono qui. Guardo la porta a vetri, in fondo.
“Ci sono cambiamenti?”
“Cosa? No. E’ tutto uguale. Ho saputo...” mi guarda quasi imbarazzato “quello che hai fatto, John.”
“Sono una star, a quanto pare” sorrido con amarezza.
Greg si fa serio e mi trafigge con gli occhi.
“Se mi avessi chiamato, io sarei venuto, John.”
“Non c’è stato il tempo, non è stato possibile, quell’uomo mi ha preso alla sprovvista nel pub...”
“Non intendo ieri, John. Intendo nei giorni scorsi.” ha un tono dolce, ma mi sta rimproverando.
Resto un attimo senza parlare.
“Se mi avessi chiamato, se me lo avessi detto tu, avrei potuto ascoltare, e magari fare qualcosa in proposito.”
“Non... lo avevo previsto” rispondo imbarazzato. Poi lo guardo, sentendomi in difficoltà. “In realtà, Greg... non avrei mai immaginato che succedesse tutto questo: avevo deciso di chiudere con lui, non avevo bisogno di parlarne. Men che meno delle sue oscure faccende criminali”
Greg sospira.
“Ma adesso sei qui.”
“Già.”
Gregory Lestrade si mordicchia il labbro inferiore, non è uno stupido, non lo è mai stato.
Siamo stati fianco a fianco in tante di quelle occasioni che forse è l’unico a poter capire chi siamo veramente, io e te.
“Anche tu” gli faccio eco.
“Sono suo amico, anche se lui sembra non saperlo.”
“Allora siamo in due.”
C’è un attimo di imbarazzo.
Dopo quella cosa... il salto, Greg mi ha chiamato centinaia di volte. Io ho risposto solo le prime due.
Mi ha avvicinato al funerale per chiedermi se volessi mai andar fuori per una birra con lui, per parlare; io gli ho fatto un sorriso da psicofarmaco-dipendente e ho detto sì, certo, quando vuoi, e poi non ho risposto mai più al telefono.
E’ stato un amico, e io no.
Il mio dolore mi ha impedito di restare umano e civile con chiunque.
“Greg... ti chiedo scusa.” esordisco con difficoltà “per non aver mai risposto alle tue telefonate, ma, sai, non ero... propriamente in me. Io non...”.
E’ difficile trovare le parole.
Greg ha un’espressione morbida e benevola, e mi tira fuori dall'impasse.
“Andiamo a prenderci un caffè, ok?”
Io guardo con apprensione la grande porta a vetri alle sue spalle.
“Non ci sono novità, è una cosa buona, no?” incalza lui.
E’ un buon amico, e io sono un coglione.
“Sì, è buona” mormoro, e lo seguo quando si incammina verso il corridoio.

Aspetto.
E aspetto.
Circolo per la grande sala, vado a bere caffè, guardo oltre le vetrate.
Aspetto con la pazienza più grande del mondo, quella che non ho mai avuto in circostanze normali, e che ho avuto solo per Sherlock.
Scambio qualche parola con un paio di ragazzi di guardia, vado giù in caffetteria a mangiare un panino, risalgo, aspetto.
Mycroft compare un paio di volte durante l’arco di quelle ore, vorrebbe restare  ma non può, ma non fanno entrare nemmeno lui di là della porta a vetri.  
Scambiamo qualche convenevole.
Mi chiede se voglio un passaggio a casa.
Io sorrido, e aspetto.
Le infermiere al desk cambiano turno.
Una di loro mi avvicina e mi consiglia di andare via, se ci saranno notizie mi chiameranno loro, ma io sorrido e aspetto.
Finché non è sera.
E io mi sto assopendo sulla poltrona.
Un tocco leggero sulla spalla mi riscuote ed è il dottor Kaplan, il chirurgo che l’ha operato.
Evidentemente li sto prendendo per sfinimento, ma non era mia intenzione.
E’ gentile, si siede accanto a me e mi chiede finalmente chi sono veramente.
Glielo spiego per sommi capi, ma credo che nella sua testa si sia fatto l’idea che si fanno tutti.
A me non importa più da tempo.
Mi spiega che è sempre intubato, ma che l’insperata stabilità della situazione porta a pensare bene. Dovrei andare a casa, mi dice.
Mi chiamerà lui personalmente, mi dice.
Mentre il dottore mi parla, io annuisco e continuo a guardare oltre il battente della porta semichiuso.
Non gli rispondo, sono sovrappensiero.
Mi mette una mano sulla spalla.
Ok, venga con me, dottor Watson.
Lo guardo con gli occhi spalancati.
La sua faccia, grassoccia e solcata da rughe di espressione profonde sulla fronte, è benevola ed esprime empatia.
Non potrei, mi dice, ma un minuto non farà male a nessuno.

Mi conduce oltre la maledetta porta a vetri ed entro in un mondo silenzioso, reso reale solo dai ronzii e dai bip che provengono dalle vetrate ai lati di un largo corridoio dalle luci basse che si estende all’infinito.
Ai miei lati scorrono le stanze che contengono altri pazienti gravi, stanze dalle porte automatiche a vetri e dalle tende tirate.
Stanze da coma.
Stanze da trapianto.
Stanze da gente quasi assassinata.
Quando finalmente si ferma, da questa porta a vetri posso vedere dei macchinari.
La finestra di osservazione della camera, che dà sul corridoio in cui siamo noi, ha le veneziane chiuse.
Kaplan mi spiega che non posso entrare, ma io sono un medico, lo capisco, il rischio di portare dentro qualche batterio nocivo è alto.
Ok, va bene così. Non importa.
Spinge un pulsante accanto alla porta e la veneziana scorre in su.
Ho il cuore che pulsa a fatica, come se dovesse smuovere una enorme mole di sangue, e istintivamente mi avvicino di più al vetro, ci respiro su.
Finalmente lo vedo.
O meglio, lo intravedo, la luce nella stanza è piuttosto soffusa.
Riesco a intuire la sua snella sagoma sotto il lenzuolo, che a un certo punto si innalza in un rigonfiamento spigoloso, in base al quale capisco che deve avere la gamba destra ingessata e sollevata da qualche supporto. Ho sentito di una frattura al femore.
Vedo un braccio abbandonato sul materasso, dalla carnagione lattea e con una cannula infilata nell’incavo del gomito.
La sua mano è aperta, col palmo in su, le lunghe dita appena distese, come se mi dicesse: vieni.
La parte superiore è semi-coperta da una macchina con un monitor, non vedo il torace ma posso intravedere la fronte, la macchia scura dei capelli sul cuscino,  immaginare parte del viso. Poi c’è un tubo, ci sono flebo tutto intorno.  
Nulla che io non abbia già visto.
Ho visto di tutto, di peggio.
In tanti anni di ospedale e in tanti anni di guerra.
Quello che ho visto allora non riesco ancora a descriverlo, ma di fronte a questo è niente.
Questa cosa è ripugnante, per me e per tutti quelli che hanno costantemente beneficiato della sua presenza nel mondo.
Questa cosa mi spezza la schiena in due, mi fa appoggiare i palmi al vetro freddo, mi fa trattenere il respiro.
Vorrei quasi tornare al momento in cui l’ho tirato verso di me, dietro quel tavolo ribaltato, con la consapevolezza che era la fine, ma con il conforto di farlo morire stretto a me.
Invece così morirà solo.
E lui non deve essere solo.

Deve smettere di essere solo.

Mi trattengo dal pronunciare il suo nome, ho gli occhi puntati su di lui e cerco di registrare tutto, di assorbire ogni piccolo particolare del suo corpo. 
Posso sentire il bip del monitoraggio cardiaco provenire attutito da dietro i vetri: è accelerato, in certi momenti irregolare. Immagino non riescano a fare di meglio.
Se potessi entrare, se potessi prendergli il polso e premere la sua pelle con le mie dita, toccare le sue vene, rallenterebbe. Lo so.

Mi chiedo come io possa ancora sostenere quello che sto provando.
Rabbia, preoccupazione, dolore, frustrazione, nostalgia, paura... quante cose grandi per un uomo solo. Quante cose incontrastabili, pesanti, provenire da una sola fonte.
Come se non ne avessi avute abbastanza nell’ultimo anno.
Ma tu non le fai finire mai, dopo un’ondata ne fai arrivare un’altra.
Cerco di osservare come posso il tuo profilo mezzo coperto, impossibile da registrare nella mia mente con completezza da questa distanza, e mi domando se sia davvero colpa tua. Se invece non sono io quello che è andato fuori controllo, io che avrei dovuto lasciare che fossi solo il mio coinquilino, e io il tuo strano collega.
Ma quando hai detto “tieni gli occhi fissi su di me”, e io ho capito DAVVERO cosa stavi per fare, quella crepa che riuscivo a malapena a tenere insieme da tempo con un po’ di volontà, di sano rifiuto maschile e di istinto di sopravvivenza, si è aperta come burro, e ha lasciato tracimare in me tutto il peggio che io potessi mai immaginare.
E’ da quella che arriva tutto questo. E’ colpa mia.
Se fossi stato solo mio amico, sarei andato avanti. Con afflizione, ma senza smettere di avere una vita.
E soprattutto ti avrei riaccolto, con un po’ di sospetto e un po’ di rabbia, miscelati in parti uguali, e avrei evitato che ti facessero questo.
Per cui, anche se tu non c’entri e non ne sai nulla di quello che ho combinato nella mia testa, te lo richiedo adesso. Un'altra volta.
Smettila. Fermati.
Sherlock, fermati.

Dobbiamo andare, dice Kaplan.
Io annuisco e deglutisco a fatica.
Adesso andrò a casa, mangerò qualcosa, dormirò, se ci riesco, e poi domani tornerò qui e aspetterò.
Aspetterò che tu la smetta.
La veneziana si riabbassa con un sibilo elettrico, io tengo gli occhi fissi su di te, come quel giorno, finché il grigio del pannello non vi cala davanti, e giuro che questa volta non ti lascerò andare da solo.

E’ una promessa.

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Tre giorni, più o meno.
Scarse 72 ore.
Sono sul mio letto, in dormiveglia e un po’ oltre l’alba, in attesa di riprendere le forze per poter aspettare ancora, per potermi ancora ripiegare in quella poltroncina.
E’ un gocciolio costante, questo tempo che scorre.
L’immagine che mi si forma negli occhi è quella di me stesso sotto una stalattite, immobile, mentre stille di acqua ghiacciata colpiscono la mia nuca, scoppiettano sulla mia pelle, mi fanno male.  
L’altro ieri è stata una buona giornata, ieri è stata anche migliore.
Hanno provato a stimolarti gli arti e hai risposto, l’ematoma lombare non dovrebbe essere un problema.
Il battito si è regolarizzato, il temuto blocco renale è sopraggiunto ma la funzionalità è ripresa dopo una sola dialisi.
Sei robusto, sei resistente, lo so.
E io sto meglio.
Comincio a credere che ne stiamo venendo fuori. Comincio timidamente a immaginare cosa succederà una volta che starai meglio.
Ho un’idea molto chiara, in verità.
Molto chiara.

Il cellulare vibra sul materasso. Salto su come quando ero in Afghanistan e lo afferro, ho la gola improvvisamente strozzata. Non sono ancora le 6.
E’ Mycroft.
“Cosa?”
“Provano a estubarlo, John.”
Oh. E’ un’ottima, ottima cosa.
E tu respirerai da solo? Vero?
“Arrivo.”
“Troverai una macchina sotto casa fra cinque minuti”
La sua premura mi gratta di nuovo le corde vocali, ma solo per un istante.
“Grazie.”
Mentre sono in auto e guardo il primo, livido cielo del mattino attraverso i palazzi ancora deserti di Londra, sono eccitato come un ragazzino alla prima festa mista ragazzi/ragazze. Non mi viene in mente un paragone più calzante.
Provo quel fremito costante che mi fa muovere la gamba destra nervosamente,  e all’improvviso non posso aspettare più.
Quando arrivo, correndo, nella grande sala d’aspetto, Mycroft è già lì, vestito di grigio e impeccabile come sempre.
La doppia porta è chiusa.
Gli piombo davanti trafelato, non mi dà il tempo neanche di parlare.
“Lo stanno facendo adesso, dobbiamo aspettare.”
Ok. Ok, aspettare.
Ho le ginocchia molli, da questo dipende tutto.
Se respirerai, vuol dire che ce l’abbiamo fatta.
Vado davanti alla vetrata e guardo la città che scintilla sotto il primo sole. Tetti, finestre, angoli metallici di edifici lontani.
Controllo il mio respiro accelerato, prendo grosse boccate d’aria e faccio rallentare i miei polmoni.
Respira con me, Sherlock.
Respira con me.

Il dottor Kaplan esce dopo pochi minuti.
Ci vede e sorride.
Non so cosa mi impedisca di scivolare per terra e piangere come un bambino, sento solo la sua voce raccontarci che hai reagito bene e che, eventualmente, potranno spostarti in terapia intensiva.
Domani forse proveranno a svegliarti dal coma farmacologico, per vedere se ci sono danni cerebrali.
E’ finita?
Sì, sì che lo è.
Sono un medico, posso dirlo.
Se credessi in qualcosa di divino, potrei cercare una cazzo di cappella in quest’ospedale e ringraziare chi si suppone si debba ringraziare.
Torno davanti alla vetrata e mi stropiccio gli occhi varie volte.
Sono stanco. Ma mai quanto voglio esserlo. Voglio esserlo di più, in maniera insostenibile, perché vuol dire che sono riuscito a fare quello che voglio fare.
Farmi perdonare.
Riprendere ad esistere.
Mi sento già come se i miei contorni fossero più definiti, come se riaffiorassi da un foglio bianco e man mano qualcuno ricalcasse la mia figura col carboncino.
Prima in maniera leggerissima, distratta, poi con mano sempre più ferma.
Disegnami, Sherlock.
Non lasciarmi qui appena accennato, indistinto, nel bianco.

La giornata trascorre tranquilla.
Gentilmente rifiuto l’offerta di Mycroft di fare colazione insieme, dopo qualche ora vado a casa, ritorno qui, resto fino a sera.
Vedo le cose attorno a me con più nitidezza, i colori più brillanti. Le persone con i lineamenti più riconoscibili.
Il caffè ha più sapore.
E’ una piccola cosa, ma va bene, va benissimo.
Anche la caramella alla menta che ho appena messo in bocca sembra avere un gusto più pieno e frizzante.
Vado a casa.
Dormo ore ed ore, e ti sogno, e stavolta non è un incubo.

E così l’odore pungente e acidulo del disinfettante sembra più forte, più irritante, quando stamattina Kaplan mi dice che oggi proveranno a diminuire i farmaci che ti tengono in coma.
Resterai intontito dai medicinali per il dolore, ma potranno valutare la situazione.
Potremo sapere se sei ancora tu, o no.
Questo è un aspetto con cui fare i conti adesso.
Potresti aver subito danni cerebrali in conseguenza agli arresti cardiaci, ma ho imparato a sopportare le cose che mi arrivano addosso una alla volta, minuto per minuto, per non impazzire.
Al resto penseremo poi.
Adesso devi svegliarti.
Come sono sveglio io, con ancora il bicchiere di carta del take away tra le mani che contiene il mio caffè.
Svegliati, Sherlock.
Svegliati con me.

E’ sera, un’altra volta.
E stasera non andrò a casa.
Sto giocando con un gioco cretino sul telefono per ammazzare il tempo e perdo in continuazione, ma non so davvero cosa io stia facendo.
Le infermiere cambiano i turni, vanno e vengono, e mi guadano come se fossi un cucciolo di cane che qualcuno ha dimenticato qui.
Ogni tanto qualcuna mi offre qualcosa da bere o da mangiare, o viene a scambiare due parole. Una in particolare, Alice, mi si avvicina spesso, mi incoraggia, fa sorrisi chiaramente interpretabili: io camuffo con la gentilezza il mio totale disinteresse. Totale, totale disinteresse.
Anche perché la porta a doppi vetri si apre e Kaplan viene verso di me.
Dire che siamo diventati amici è un azzardo, ma credo mi abbia preso a cuore. O forse è solo gentile perché sono un collega e non uno sciroccato qualunque.
“Va bene, dottor Watson” mi dice “Sta andando bene. Può entrare, adesso.”
Qualcosa di nero e pesante si stacca dal mio petto e rotola per terra.
“E’ sveglio?”

“Tecnicamente sì” mi dice lui dondolando un po’ sui piedi grandi, con le mani infilate nelle tasche del camice “Ma in pratica no. E’ in uno stato di incoscienza controllata, è imbottito di antidolorifici, ma è sveglio quanto basta per averci potuto permettere di fare una visita neurologica preliminare. L’esito è positivo ma non è un dato attendibile, solo quando potrà vedere e parlare sapremo in che condizioni è davvero.”
Mi alzo e lo guardo disperato.
Portami in quella stanza, cazzo.
“Lo aiuti” mi dice “gli parli. Vediamo se ha qualche reazione.”
Certo. Certo che lo aiuto.
Cosa credete che ci stia a fare io qui?
“Andiamo” lo sollecito nervosamente. Lui mi precede.
Ok, andiamo.
Mycroft è andato via un paio di ore fa, mi dimentico completamente di lui.
Nè voglio che ci sia ora.
Lui non c’entra con noi, non dovrà entrarci mai più, tra noi.
A parte per farmi ammazzare Moran.
Ed è un’altra promessa.

Prima di avviarci, Kaplan mi fa togliere il giubbotto, lavare le mani come se facessi lo scrub prima di un intervento e mettere i copriscarpe di plastica, poi mi guida di nuovo nel lungo corridoio pervaso dai ronzii dei macchinari.
Mi sento teso, ho lo stomaco contratto, percorro i passi che mi separano dalla stanza con un senso di vuoto nella testa.
Ho di nuovo paura di quello che sarà.
Poi finalmente oltrepasso la porta automatica della stanza e mi avvicino al letto, frontalmente.
Uno spettacolo così bello e così devastante allo stesso tempo io non credo di averlo mai visto.
Il viso non è più il suo.
Gli occhi sono serrati, gonfi, dalle palpebre violacee. Le labbra, oh... le sue labbra perfette, sono un’unica tumefazione disidratata. Vedo i punti sulla fronte e sullo zigomo sinistro. Un taglio che lascerà una cicatrice bianca e sottile che scorrerà parallela all’osso sporgente e levigato.
Vedo il segno rosso e profondo, una specie di livido, che ha impietosamente lasciato il respiratore all’angolo della bocca e su tutta la guancia sinistra.
Il sondino dell’ossigeno che parte dal naso ripercorre la stessa traiettoria, quasi a coprire con dolcezza quello sgarbo.
Ha la testa leggermente reclinata sulla destra, il cuscino è cosparso di piccole macchie di sangue.
Il lenzuolo lo copre fino petto, ma vedo chiaramente al di sotto di esso la pesante fasciatura che contiene le costole rotte e la ferita dell’intervento, posta presumibilmente sul fianco destro.
Le braccia nude sono abbandonate sul materasso, una cannula per parte, alberi di flebo tutto intorno.
Non sembra molto diverso da tre giorni fa, eppure adesso so che respira.
E non è in coma.
Dovrei sentirmi straziato a vedere davanti ai miei occhi questa... cosa che non é Sherlock, e invece sono felice. Perché, qualunque cosa si sia rotta, ci penserò io ad aggiustarla.
Stringo forte tra le mani il ferro della pediera del letto fino a farmi sbiancare le nocche e a sentire i palmi sudati.
Ce l’ho fatta, ti ho tirato fuori di lì.
E’ solo adesso che, finalmente, realizzo.
Che sono un eroe, sono un soldato tosto, un figlio di puttana, e tu ora mi devi qualcosa in cambio.
Mi devi parlare.
Come ti sto parlando io adesso.
Parla con me, Sherlock.
Parla con me.

Come io sto parlando a me stesso.
 
La verità è più semplice di quello che si creda, penso mentre poso una mano sui tuoi capelli neri, unti di sangue secco e di sporco di giorni, che qualcuno ha provveduto a pettinare all’indietro per evitare che tocchino la ferita sulla fronte, ed è disarmante.
Ti amo come non avrei mai pensato di poter amare. Io che credevo di averlo provato, in passato, e mi sentivo tanto pieno di esperienza.
E invece non sapevo niente.
Della vita, delle cose del mondo, di te.
Il vergine, tra noi due, sono io.
Sei tu che mi hai fatto scoprire cose che non conoscevo, anche se per farlo hai distrutto tutto.
E adesso sei di nuovo qui, e mi sento sopraffatto un’altra volta dall’incredulità che tu non sia morto col cranio fracassato su quel marciapiede.
Hai fracassato me, ma io non ci voglio più pensare: ti sei fatto quasi ammazzare pur di farti perdonare.
E io ti ho perdonato quando ti ho visto indifeso, zittito dalla brutalità, alla mercé di un pazzo, una fine che non potevi scegliere, stavolta, e che non meritavi, nonostante tutto.
Ti ho perdonato nonostante la rabbia accecante. Nonostante la desolazione dell’abbandono.
Perché ti amo, e non mi importa se tu non ami me.
Vorrei dirti questo come prima cosa, sperando che tu mi senta, non importandomi di cosa risponderesti.
Ma c’è Kaplan, qui, e non posso. Credo che legga sulla mia faccia tutto quello che mi sta passando in mente, perché aspetta pensoso e fa finta di guardare altrove.
Mi hanno fatto trovare una poltroncina accanto al letto, mi siedo lentamente, senza smettere di guardarti.
Sei tu ma non sei tu.
La tua bellezza è nascosta da questi rigonfiamenti, spaccature, sfregi sanguinolenti. Stai soffrendo e si vede.
Vorrei essere al tuo posto.
Non ho mai tolto la mano dai tuoi capelli, comincio ad accarezzarli lentamente, sperando che tu possa sentire il contatto.
“Sherlock” ti chiamo piano. Mi sembra così strano pronunciare il tuo nome senza rabbia, senza associarlo a maledizioni o invocazioni strazianti.
Non c’è nessuna reazione, ovviamente.
Stai respirando bene, posso sentire, ma con respiri corti e veloci, il dolore al petto non ti consente di inspirare in profondità.
Avvicino di più le labbra al tuo orecchio.
“Sherlock… sono io”
Calco un po’ la mano sui capelli.
Niente.
Mi giro a guardare Kaplan, alle cui spalle sono arrivati altri due colleghi.
Faccio cenno di no con la testa.
E’ presto, è troppo presto.
“Dobbiamo tentare” insiste lui “è importante”
“Soffrirà.”
“Sarà una cosa breve.”
Uno degli altri due medici si è avvicinato al macchinario per l’infusione dei potenti antidolorifici, armeggia con dei regolatori, si scambia un cenno di intesa con Kaplan.
Ci riprovo.
La mia mano non ha mai lasciato i tuoi capelli, la mia voce è più ferma nel tuo orecchio.
“Sherlock... sono John... dimmi qualcosa, un suono qualunque, qualcosa che mi faccia capire che sei cosciente”.
Niente.
“Sherlock. Sono John.”
Allungo l’altra mano e prendo la tua abbandonata sul letto, stringo lievemente le tue dita.
Il groppo che ho in gola accresce le sue dimensioni, comincia a stringere con tentacoli invisibili al pensiero di ciò che potrebbe essere accaduto.
Vivo, sì, ma vegetale.
Tu? Oh, no.
Mi scappa una risata.
Sarebbe uno scherzo del destino veramente ben fatto.
Ma nemmeno così ti lascerei, sappilo.
“Sono John” ti ripeto. Non so dirti altro. Sono John. Tu lo sai chi sono.
Beh, adesso cerca anche di capire che sono qui, testa di cazzo.
Se c’è ancora qualcuno in quella testa.
“Sherlock, sono John, sono qui.”
Sento appena uno spasmo delle tue dita tra le mie dita, leggerissimo, da farmi pensare che sia la mia immaginazione.
“Sherlock.”
Un altro piccolo spasmo.
Sobbalzo visibilmente.
Kaplan si sporge sul letto. “Che succede?”
Il cuore mi sta uscendo dal petto, sta prendendo a cornate la mia gabbia toracica, vuole uscirne con prepotenza.
“Sta cercando di stringermi la mano” mormoro a fatica.
Sherlock.
Un altro piccolo movimento delle dita.
Adesso in quattro fissiamo la punta delle tue dita lunghe, appena arrotolate attorno alle mie. Le tue unghie pallide, eleganti.
Sherlock, sono John, puoi farmi capire che mi senti?
I tuoi polpastrelli si piegano e toccano le mie nocche.
“E’ lui” dico a Kaplan guardandolo con eccitazione “è ancora qui dentro.”
“Bene, sì, bene!” è sinceramente contento, mi dà una piccola pacca sulla spalla.
Ed è adesso che emetti un suono basso, un lamento strozzato che sembra provenire da... non saprei... da un’altra galassia?
“Non parlare” ti sussurro “non ti sforzare, non...”
Apri gli occhi.
Spalancati. Verdi e trasparenti. Rossi di sangue tutto intorno. Con due buchi neri enormi al centro.
Mi spavento.
“Sherlock.”
Kaplan si sporge su di me e ti apre completamente le palpebre con le dita, prima una e poi l’altra, e annuisce con un piccolo movimento del capo.
Tu giri le iridi su di me. Io mi sento trafitto.
Ma, esattamente come dietro quel tavolo, giorni fa, vedo la consapevolezza affiorare in essi attraverso il velo dei farmaci e del dolore.
Un’altra debole stretta delle tue dita, seguita da un altro lamento strozzato, lieve.
Solo io capisco che quel lamento significa: John?
“Sì, sono qui.” riesco solo a dirti.
Sento le lacrime affiorare, le inghiottisco con uno sforzo sovrumano.
Sei qui tu, e sono qui io.
Non è meraviglioso?
Socchiudi gli occhi e poi li serri, questo è dolore fisico.
Un mugolio indistinto mi conferma che è così, ma a me basta, per me va bene, io so tutto quello che c’era da sapere.
“Basta” supplico Kaplan mentre fisso te, senza potermi fermare dall’accarezzare i tuoi capelli “Basta, sedatelo, vi prego.”
Il medico di prima si riavvicina al diffusore e lo regola di nuovo.
Tu riapri gli occhi per un istante, appena due fessure sottili, ora, non riesci a fare di meglio, e cerchi di nuovo me.
Ti sorrido mentre li richiudi lentamente e scompari, vai di nuovo a galleggiare nel tuo mare di misericordiosa incoscienza.
Rimango così, senza muovermi, come se la prova non fosse terminata.
“Può restare un po’, se vuole” sento che mi dice Kaplan.
“Grazie, lo vorrei davvero. Può avvertire l’altro signor Holmes, per favore?” rispondo mentre studio tutte le piccole rughe che si diramano tra le occhiaie e il naso, o quelle orizzontali sulla fronte.
Un libro che ho imparato a memoria. Le ricordavo una ad una.
Non avrei mai sperato di contarle addirittura, non dopo quel volo.
Ma tu sei incredibile, sovverti le leggi stesse della natura.
Fai sembrare tutto semplice, anche una cosa come quella appena successa.
Quando escono tutti dalla stanza, posso farlo.
Mi chino e appoggio delicatamente le labbra sulla tua fronte.
Non è un bacio, non ancora, è solo contatto. Le poso soltanto, per sentire la consistenza della tua pelle, la temperatura, l’odore pungente di tintura di iodio, capelli non lavati, medicine, attraverso il quale avverto, netto e inequivocabile, il tuo profumo naturale.
Ti respiro addosso.
Avevo bisogno di farlo. Erano giorni che lo speravo, desideravo, sognavo.
Tu non sai cosa vuol dire avere l’urgenza di fare una cosa simile.
Prendere con sé parte di un’altra persona. 
Come vorrei che fosse possibile con solo questo gesto, ma ovviamente non lo è.
 Non importa, me lo farò bastare.
Sono io quello che ti ha cacciato da casa sua, intransigente e imbecille come non mai?
Sono io quello che aveva deciso di vivere senza di te?
Sono io quello che aveva rivolto contro sé stesso tutto questo amore?
Te lo racconterò, e rideremo.
Ora so che potrà succedere, anche se mi prenderai in giro. O forse no.
Davvero vorresti farmi credere che non te ne fossi accorto?
Io penso che l’avessi capito tu prima di me. 
Io l’ho saputo... sentito... solo quando ti ho perso.
Dovrei scriverlo nel mio blog, quello che non tocco da un anno.
Dovrei scrivere come ci si sente a poter toccare di nuovo Sherlock Holmes.
A poter appoggiare le labbra sulla pelle trasparente della sua fronte.   
Ma non credo esistano le parole adatte.

Per un tempo indefinito, nessuno viene a dirmi di andarmene.
La loro indulgenza è commovente, davvero.
Ti faccio compagnia, come una volta, facendo finta che tu stia sul divano a leggere.
Mi sono ranicchiato sulla poltroncina e ho cominciato a pensare ad occhi chiusi.
Faremo questo, faremo quello.
La felicità che provo è un anestetico potente, mi sta facendo scivolare in un limbo dolce come miele.
Sono giorni che non vado al lavoro, probabilmente lo avrò perso, ma chi se ne frega.
Chiamerò Sarah, alle cui telefonate di queste ore non ho mai risposto.
In qualche modo, farò. Come ho sempre fatto.
Poi nella mia testa cala il silenzio, il mio udito segue vagamente il lontanissimo bip del monitor cardiaco, una ninna nanna che ora non mi spaventa più.
Niente mi spaventa più.

“John”.
Apro gli occhi e Mycroft è dall’altra parte del letto.
Mi raddrizzo, mi stropiccio la faccia.
Gli hanno portato un’altra sedia, si accomoda di fronte a me, con Sherlock tra noi due. Nulla di nuovo, in questo.
Lo guarda, poi riguarda me.
“Scusa se non ti ho chiamato prima” esordisco un po’ imbarazzato “non ci ho pensato.”
La sua espressione è sempre poco interpretabile.
“No, va bene” mi risponde calmo “Kaplan mi ha raccontato ogni dettaglio. Non credo che con me avremmo avuto lo stesso risultato.”
So che è vero, ma non me ne compiaccio.
Sherlock non lo ama come lui ama Sherlock, è fuori di dubbio.
Non ho mai capito perché, ma è così. Credo sia qualcosa che affonda le radici nel passato, qualcosa di cui Mycroft deve farsi perdonare, a parte le sua ultima idiozia di darlo in pasto a Moriarty. Non lo so e non mi interessa saperlo, in questo momento non provo compassione per quest’uomo elegante, apparentemente morbido, e anche lui umano in un modo diverso da tutti gli altri esseri umani.  
“Sono contento.” continua “Lo siamo tutti.”
“Credo che il peggio sia passato” dico guardando il volto di Sherlock.
“Il peggio deve ancora venire” riflette lui accavallando le gambe “una riabilitazione lunga e laboriosa. Ci vorranno mesi. Considerando di chi stiamo parlando, sarà un incubo.”
Lo guardo con espressione interrogativa.
“Incubo?” mi sfugge un sorriso sarcastico “Non importa, è vivo.”
Mycroft sospira.
“Gli troverò una sistemazione adeguata prima in una clinica di riabilitazione, poi a casa mia. Prenderò del personale medico fisso, farò in modo che sia una cosa veloce e ben fatta.”
Mi sistemo meglio sulla sedia, riappoggio le spalle allo schienale, incrocio le mani e le gambe, e lo guardo con gli occhi socchiusi in due fessure ostili.
“No, Mycroft.”
Mi guarda aggrottando le sopracciglia interrogativamente.
“Ecco cosa farai” comincio con tutta la calma del mondo “Manderai qualcuno a Baker street, farai ripulire e rinfrescare l’appartamento, pagherai Mrs Hudson per tutto il prossimo anno e farai portare lì tutte le attrezzature necessarie. Assumerai fisioterapisti, infermieri, procurerai tutto ciò che serve, dopodiché io tornerò a casa con lui, visto che grazie a dio sono un medico, lo rimetterò in sesto e tu ti leverai dai piedi. Puoi venire in visita quando vuoi, naturalmente.”
Quando termino, sto sorridendo con soddisfazione.
Resta un attimo interdetto, poi scuote la testa.
“No... John, è fuori discussione, i primi tempi avrà bisogno di stare in una struttura...”
“Sono io la sua struttura, Mycroft.”
Mi sporgo in avanti per sottolineare il concetto. E ora non sto sorridendo.
“Non credo mi sarà possibile fartelo fare.”
“Vorrei vederti provarci.” digrigno i denti. L’odio mi risale in gola.
Quel salto è colpa tua, bastardo. E ora tu farai la tua parte.
“E vorrò esserci quando Sherlock darà la propria opinione al riguardo.”
“E’ mio fratello, John” si acciglia.
“E’ una motivazione opinabile.”
Segue un istante di silenzio teso.
Lui si strofina il mento con le dita. Mi guarda pensoso.
“E’ un impegno fuori dalla portata di una persona sola.”
“Lascialo decidere a me.”
Sospira e mi guarda scettico.
“Che cambiamento da qualche giorno in qua, John. L’ho visto fatto a pezzi dalla tua intransigenza poco più di 10 giorni fa, e adesso vuoi fargli addirittura da infermiera.”
“Dottore. Sono un dottore.” in questo momento non apprezzo lo spirito idiota che ha sempre accompagnato ogni sua uscita “Ho il diritto di cambiare idea come qualunque altro essere umano. Ho rischiato il culo per tirarlo fuori da quella... assurdità in cui mi avete calato un’altra volta, l’ho rischiato ben più di te, ben più di chiunque altro, e perché io lo abbia fatto sono cazzi miei, per cui da qui in poi me ne occupo io. E’ tutto chiaro, spero.”
Mycroft sospira di nuovo. Non l’ho mai visto così arrendevole e poco combattivo, in questi giorni.
E’ stanco, è preoccupato, e soprattutto sa che io sono la soluzione.
Ha fatto di tutto per mettermi a mio agio, per essere amichevole, scommetto che è opera sua anche il fatto che mi lascino stare qui a dispetto di ogni norma.
Sa che se non lo perdono io, con Sherlock sarà tutto più spinoso del solito.
E lui lo ama profondamente.
Ha fatto di tutto perché gli restassi accanto in questi giorni, ha perfino evitato di essere troppo presente perché sapeva che mi avrebbe dato fastidio. Non ti sopporto, Mycroft, ma so che devo un minimo rispetto all’intelligenza. Sai che ha bisogno di me, ti sei assicurato che io ci fossi, ma adesso devi lasciarmi continuare.
“John, sarà distruttivo. Fisicamente e psicologicamente. Lo dico per te , davvero.”
“Sono un dottore, fammi fare il mio lavoro.”
Sì, fammi fare il mio lavoro, Mycroft Holmes.
Non replica più.
Io mi giro a guardarti e noto che, mentre parlavo con lui, ho posato la mia mano sulla tua.
La stringo piano, gli occhi fissi su di te.
Gli occhi sempre, sempre fissi su di te.  
Mycroft dice: “Va bene.”
Non potrebbe andare diversamente, Mycroft. Non andrà diversamente.
Parola mia.



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Capitolo 8
*** Bulletproof ***


8° capitolo -   John chiude gli occhi. Tiene i nervi saldi. E’ prigioniero.


"Bulletproof.. . I Wish I Was" - Radiohead
http://www.youtube.com/watch?v=hfJsrJ-lKGc

Limb by limb and tooth by tooth
Tearing up inside of me
Every day every hour
I wish that I was bullet proof

Wax me
Mould me
Heat the pins and stab them in
You have turned me into this
Just wish that it was bullet proof

So pay the money and take a shot
Leadfill the hole in me
I could burst a million bubbles
All surrogate and bullet proof

And bullet proof...


                                                                         


Il concetto di tempo è diverso per ognuno di noi.
Relativo, come in quelle formulette di fisica che ci hanno insegnato a scuola.
Per alcuni corre veloce, ti alzi una mattina e scopri che hai la pancetta della mezza età e le borse sotto gli occhi.
A me non è mai importato di queste cose, anche io ho vissuto sempre alla giornata: mi sembra che la mia vita, fino a un certo punto, sia passata in un battito d’ali e io sia stato lì a guardare, senza mai recriminare sulla cosa. Nessuno più di chi è stato in guerra può veramente dire di aver vissuto con leggerezza, con superficialità.
A cosa serve fermarsi a riflettere, far rallentare il tempo con pensieri profondi, quando puoi morire in ogni istante?
Così ho vissuto io.
Come un refolo di vento sulle pianure dell’Afghanistan, e prima ancora sui tetti di Londra, probabilmente cercando qualcosa a cui agganciarmi, per planare sull’aria leggera e stabilizzare la mia vita.
Darle un peso.
Questo fino a te. Fino a quando ho camminato sul tuo campo di battaglia.
Ho sentito... sì, sentito, i miei piedi agganciarsi al suolo, assumere una massa, prendere consistenza.
Ho sentito le mie membra formarsi, riempire lo spazio con il loro volume.
Ho preso la forma di un uomo. Un uomo agile, vigoroso, rigoglioso di entusiasmo e buonumore.
E poi, questo stato di grazia, di cui non ero affatto consapevole nel momento in cui lo vivevo, si è esasperato nel suo opposto esattamente quando ti sei lanciato dal tetto del Bart’s.
Il mio corpo è diventato di piombo.
Il peso specifico di ogni mia cellula mi ha tirato giù, giù, trascinato da una catena di lutto

insostenibile.
In certi giorni non riuscivo letteralmente a combattere la forza di gravità. Camminando per strada, mi sembrava che le gambe dovessero affondare nel

marciapiede e farmi restare incastrato lì, senza aiuto, senza speranza.
Il tempo si è ripiegato su di me, una grande, enorme, spaventosa massa scura che mi ha inglobato e ha fermato qualunque progresso, qualunque movimento, qualunque funzione.
Quest’ultimo anno è passato in altri cento. Mille, forse. Posso quasi ricordare  cosa ho fatto, provato e vissuto giorno per giorno, ed è un incubo senza fine.  
All’inizio ti parlavo. Alla tua lapide. E nella mia testa.
Tu mi rispondevi.
Sì, questa è una novità che tu non conosci, e che probabilmente non ti dirò mai.
Nel supermercato, davanti alla tv, in taxi. Qualunque considerazione io facessi, tu dicevi o non dicevi la tua, nel tuo solito modo, con la tua voce caustica e i tuoi atteggiamenti disarmanti, comprensibili solo per me.
Eri proprio tu, non ero io che parlavo per te.
Ero sicuro di questo.
Talmente sicuro che un giorno, in casa, quando ti ho chiesto cosa avresti fatto tu di fronte a quel nuovo caso di cronaca di cui stavano parlando al telegiornale, e tu non mi hai risposto, sono rimasto seduto alla sedia, con davanti il mio pranzo che si andava raffreddando, intatto.
E poi ho urlato.
Ho urlato come mi chiedeva di fare la mia terapista ad ogni seduta, mesi prima, scuotendo la testa dinanzi al mio finto contegno quando le rispondevo: “No, sto bene, davvero.”

Ho urlato piegandomi su me stesso, con la faccia premuta contro i miei pugni, come non ho urlato su quel marciapiede, e poi ho sentito dentro uno schianto secco, ho sentito che mi frantumavo senza più possibilità di salvezza.
Ho sentito che avevo superato quel limite.
Questo è stato il giorno prima che io tornassi a Baker Street.
Solo il giorno prima che Molly corresse su per le scale così trafelata, spettinata.

Tu lo sapevi, vero?
Sapevi che avevo con me la pistola?

“Sì, lo sapevo.”

Come potevi?

“John, ti prego.”

Scusa.

“Avevi deciso.”

Sì. No. Forse non lì. Non avrei permesso che Mrs Hudson...

“Avevi deciso, John.”


Il tempo adesso scorre come dovrebbe in una dimensione normale.
Ore, minuti. Altri due giorni.
Mi stai parlando, nonostante tu sia ancora quasi sempre sedato, ma io so che questa è la tua voce.
E’ tornata nella mia testa, insieme a te.
E io sto comodamente appoggiato al tuo letto con un gomito, pigramente allungato tra la sedia e il materasso, col viso nel mio palmo e un libro sotto i miei occhi, un libro inqualificabile che ho appoggiato sulle coperte e sfoglio con l’altra mano.
C’è un’atmosfera decisamente più normale attorno a noi, in questa nuova stanza che ha perfino una finestra in fondo.
Beh, con le tende tirate, per ora: è meglio non far entrare troppa luce. Mi sto abituando a leggere anche così.
Ti hanno tolto anche la piccola cannula dell’ossigeno, respiri bene senza. Sempre piccoli respiri corti, le costole ti staranno torturando.
Le flebo ti infondono nutrimento e droghe in egual misura.
La situazione perfetta per te, sorrido mentre leggo una riga ma, in realtà, penso a questo. Non sei costretto a mangiare, non davvero, ma sei imbottito di morfina.
Bello, no? La tua condizione ideale.
Ma siamo arrivati fin qui... tu senza respiratore, senza nemmeno l’ossigeno, e io che riesco perfino a sorridere tra me e me.
Non voglio più parlare di tempo immobile, di urla, di limiti oltrepassati.
Non ne parleremo mai, mai più.
Nemmeno della pistola.
Giro la pagina di questo stupido libro che ho trovato in sala d’aspetto, una cosa di genere storico-romanzato, il cui protagonista scimmiotta in maniera indecorosa il famoso gladiatore. Ma per carità. Stasera porterò qualcosa di mio.
Lo chiudo e mi tiro su per stiracchiarmi, ti guardo per un attimo, e tu hai gli occhi aperti.
Resto immobile.
Guardi fisso su di te, il soffitto. Da qui posso vedere il movimento lieve che fanno le tue iridi in cerca di fuoco.
Mi raddrizzo un po’ e mi sporgo verso di te, sono più o meno all’altezza del tuo fianco destro, ed è allora che percepisci il movimento.
Guardi in giù, verso di me. Guardi me. Muovi perfino leggermente la testa.
Non so descrivere quello che provo, Sherlock.
Non c’è modo di poterlo fare.
Mi affretto a venirti vicino per non farti sforzare.
Vorrei prenderti la faccia tra le mani, crollare con la mia fronte contro la tua, baciarti le palpebre.
Vorrei aggredirti con tutto quello che sento.
Ma non posso.
Sei appena sveglio e, in realtà, non ci vediamo da un anno.
Quella sera nel mio appartamento non conta.
Non ci vediamo da un anno nel ruolo di quelli che eravamo prima.
Non so neanche se lo saremo ancora.
Realizzo adesso che tu non sai niente. Niente di niente. Se davvero ricordi qualcosa, probabilmente sarai fermo alle sevizie che ti hanno fatto, fino al momento in cui hai perso conoscenza.
Calma, John. Calma. Guidalo. Confortalo. Non lo spaventare.
“Ehi” ti sorrido appoggiato sui miei gomiti, in realtà più vicino al tuo viso di quanto mi sia ripromesso.
Sbatti le palpebre varie volte, il tuo occhio destro è ancora rosso per l’emorragia, ma non so come, riesci appena a stirare le labbra in un microscopico sorriso.
Immagino che il taglio sul labbro inferiore non ti consenta di fare di più.
Ma a me basta. Sei felice che io sia qui, posso vederlo.
“Non parlare” ti dico “non ti muovere, è ancora presto.”
Ma tu quando mai mi hai ascoltato?
Apri leggermente la bocca e tenti di emettere un suono, ma dopo giorni e giorni di intubazione la cosa richiede un po’ di tempo.
Provi a schiarirti la gola, strizzi gli occhi, probabilmente la faringe ti brucia come se avessi la tonsillite, ma non demordi.
“John” riesci a sussurrare alla fine. Sì, sussurrare va bene, sussurrare è meglio.
Tanto io sono qui, vicinissimo, e ti sento.
John, hai detto.
“Sherlock.”
Tutte le cose vanno al loro posto. Senza sforzo. Senza rumore.
E’ una cosa semplice, i nostri due nomi insieme, che rimette in moto la parte morta di me.
Fa pompare sangue al mio cuore esausto, con furiosa energia. Ogni battito mi sembra un calcio dall’interno dello sterno. Mi fa sentire le orecchie accaldate, la faccia arrossata.  
Ti umetti le labbra con la lingua, sono molto screpolate. Riapri gli occhi su di me. Occhi storditi, non perfettamente lucidi, che non sono abituato a vedere.
“Hai sete?”
Annuisci appena.
Se potessi, ti bacerei.
Qui, ora, in queste condizioni, approfittando del fatto che, a causa degli antidolorifici, forse non lo ricorderesti.
O forse sì? Con te non si sa mai.
Sono così felice che vorrei abbracciarti e piangere sul tuo lungo collo bianco.
Voglio toccarti ma non posso mentre sei sveglio, non sei più quello che parla nella mia testa, sei quello vero.
Se solo ti toccassi, però, credo urleresti dal dolore per via delle costole incrinate.
Nè so cosa ne potresti pensare.
Non posso. Non potrò mai, ma non importa, adesso.
Devo fare piano, devo rientrare lentamente, gentilmente, nel tuo spazio: non posso assaltarti con la mia presenza dopo tutto questo tempo, dopotutto tu sei sempre lo stesso, immagino... ma io sono cambiato.
Profondamente, in un modo che non puoi sospettare nemmeno tu.
Mi allungo verso il comodino, ci sono dell’acqua e delle garze.
Le bagno velocemente, ne faccio una pallottola morbida e grondante, la appoggio delicatamente sulla tua bocca. Chiudi gli occhi dal piacere nel sentire quel contatto rinfrescante, sento che cerchi di suggere tutta l’acqua che puoi.

Non possiamo esagerare, ancora non sappiamo se puoi trattenere qualcosa nello stomaco.
Mi guardi supplichevole e ripeto l’operazione.
Riappoggio le garze bagnate sulle tue labbra adesso umide e premo un po’.
Ti guardo, e devo trattenere il fiato.
La mia stessa felicità mi fa torcere lo stomaco, come se fosse un sentimento pericoloso e negativo. Ed è un controsenso che mi trova impreparato.
“Fai piano” ti esorto.
Tu riesci a sollevare una mano, lentamente, e io me ne accorgo solo quando la posi le dita fredde sulla mia, quella che ti tiene la garza sulla bocca.
Il contatto spontaneo mi fa tremare dentro.
Un mese fa eri morto. Venti giorni fa eri morto. Adesso mi stai toccando.
Io credo di non aver ancora elaborato questa cosa in maniera giusta: prima sono stato troppo arrabbiato, poi non ne ho avuto il tempo.
Ma non adesso, no.
Adesso è questo che faremo, Sherlock.
Io ti bagnerò le labbra per farti bere, e tu mi farai riabituare all’idea che sei qui, vivo, con me.
Piano, perché mi sento sopraffatto. Te ne prego.

Due minuti dopo sei di nuovo assopito. Mi hai guardato un’altra volta, poi hai richiuso gli occhi lentamente, riaddormentandoti, e la tua mano è scivolata via con un movimento leggero, allontanando la pistola da me.

                                                                                           *****

Esco nel corridoio, un corridoio piccolo con sole quattro stanze che vi si affacciano, in una zona isolata del piano: credo sia dove tengano i detenuti, quando serve.
Ora ci sei solo tu. E gli uomini di guardia all’interno e all’esterno. C’è una stretta sorveglianza anche qui.
Le indagini non sono terminate, mi ha detto Mycroft stamattina, quando ci siamo incrociati.
Non sappiamo se oltre Moran, che oltretutto è vivo, seppur ridotto male, non ci sia DAVVERO più nessuno... per cui, non si sa mai.
E io sono più tranquillo, mi sono risparmiato di dover passare qui tutte le notti, di guardia davanti alla tua porta con la pistola in pugno.
Perché lo avrei fatto, sta’ pur sicuro.
Uscendo dalla porta della zona protetta, dopo aver salutato i ragazzi di guardia, quasi mi scontro con Lestrade sulla soglia.
“John”
“Greg!”
“Venivo da te, come sta?”
“Si è svegliato di nuovo, riesce a parlare un po’. A muoversi un po’” sorrido.
Oh, Greg, come ti sorrido! Come se tu fossi uno spettacolo meraviglioso, sono così felice che vorrei abbracciarti e dirti che provo un profondo affetto per te, ma forse ti farei pensare cose strane. E non è il caso. Le pensi già da solo, immagino.
Come tutti gli altri. Come me, del resto.
Ma Greg ha l’espressione tirata e non mi oltrepassa per venire da te.
Invece mi prende per un braccio e mi accompagna, è scuro in volto, preoccupato.
E’ qui per me.
“Greg?”
“C’è una conferenza stampa in corso, John. Stanno dando la notizia. Hanno deciso che doveva essere oggi.”
Mi fermo nel mezzo della hall che stiamo attraversando.
“Chi?”
Lui sospira. “Quelli importanti. I miei capi. I servizi. Tutti insieme. C’è un tavolo di persone lungo un miglio di fronte a quelle telecamere, è cominciata dieci minuti fa. Non mi hanno anticipato niente, non so cosa si siano inventati per poter annunciare che è vivo.”
“Sarebbe stato meglio di no” dico a denti stretti. Sarebbe stato meglio che per il mondo rimanesse morto. Morto per tutti, tranne che per me.
“Per il paese è un eroe, la riabilitazione di Mycroft Holmes ha funzionato alla perfezione... non poteva passare inosservato.”
Già.
Ricordo di nuovo i funerali di stato, recenti, pomposi, che coronavano mesi di notizie in cui il piano di Moriarty era stato smontato pezzo per pezzo. Che spreco di soldi e di personaggi famosi.
Ricordo me stesso, in un elegante completo nero procuratomi da chissà chi, assolutamente immobile nel banco della chiesa.
Perché in chiesa, poi? Non hai mai creduto in niente, né l’ho mai fatto io.
Non hanno chiesto il mio parere nemmeno per quello.
Io ero lì, immobile, colpito dai flash della stampa che mi facevano battere le palpebre, e battevano solo quelle, perché tutto il resto di me era immobile, congelato sotto quella densa piega del tempo che aveva fermato tutto. Pensieri, circolazione sanguigna, desideri, energie.
Volevo solo stare con te. Tornare a stare con te, in un modo o nell’altro.
Credi sia stato durante il coro del “Te deum” che ho pensato per la prima volta alla pistola, mentre guardavo la nuca ordinata di Mycroft, che era in piedi nel banco davanti al mio, dritto, impettito, immobile, circondato da altri come lui.
Altri che avevano orchestrato tutto, senza che io lo sapessi mai.
Vorrei tornare per un attimo a quel giorno, rivivere quella scena e piantare un coltello in quella nuca ben rasata, rosea, perfettamente inglese.
No, non vorrei. Perché in quel momento eri morto.
Morto.
Il solo ricordo di ciò che mi mangiava dentro, mentre ero ben vestito e stavo in piedi composto, silenzioso e ossequioso, in quella fottuta chiesa, mi fa emettere un impercettibile gemito.
Greg pensa che sia disappunto, invece è la memoria più atroce che io possa serbare.
“Troverai una folla di giornalisti fuori di qui, ti assaliranno come allora.”

“Non è il momento adatto, è ancora troppo debole, avrebbero dovuto aspettare. Si infileranno qui dentro come vermi per poter rubare qualche foto!”
“Le notizie cominciavano a filtrare dall’ospedale, c’è sempre qualcuno desideroso di rilasciare un’intervista.”
Stiamo camminando insieme, fianco a fianco, e io sono grato a quest’uomo rude, in apparenza lento di comprendonio, che è venuto a dirmi questo.
L’uomo che, in realtà, ha permesso a Sherlock di essere quello che è.
Che è passato indenne, inconsapevolmente, attraverso un’indagine disciplinare degli affari interni dello Yard per aver permesso a uno psicopatico di rovistare nei suoi casi per tutti quegli anni.
Così mi hanno raccontato.
Così mi ha confermato lui l’altro giorno, davanti al nostro primo caffè insieme dopo un anno.
Poi, ha detto, le indagini sono improvvisamente terminate, senza conseguenze: immagino che abbiano accertato che è sempre stato fatto tutto secondo procedura (beh, più o meno), e che i casi risolti avevano avuto la giusta conclusione.
Già, immagino di sì, ho ribattuto io sorridendo, sapendo bene che la vera ragione era Mycroft Holmes. Ora credo lo sappia anche lui, ma non ne parliamo.
Non è uno sprovveduto, Gregory Lestrade.
Sherlock lo ha incluso nella lista dei salvati, in quella telefonata.
Voglio che tu lo dica a Lestrade, Mrs Hudson, Molly.
Questo significa qualcosa, no?
Un amico, una madre, una sorella. E io.
Io, cosa?
“Se vuoi ti accompagno” dice mentre percorriamo il corridoio che porta alle scale. In effetti, lo sta già facendo.
“Grazie, Greg.”
Quando usciamo, in realtà, ci sono solo un paio di fotografi in lontananza, le breaking news sono in onda da nemmeno un quarto d’ora, non c’è stato il  tempo di organizzarsi. Ma anche così, corrono verso di noi, schivando il traffico, e cercano di fare il possibile mentre noi entriamo nell’auto della polizia pronta davanti all’ingresso.
“A casa?” chiede Greg infilandosi gli occhiali da sole, mentre siede affianco a me.
“A Baker Street” dico io “Forse è il caso di capire come se la sta cavando Mrs Hudson.”

Mentre siamo in auto e l’autista si lancia in una guida un po’ disinvolta per l’ora di punta di Londra, Greg cerca di guardare la conferenza stampa sul suo telefono, tenendolo ben in vista tra noi due, ma lo streaming si blocca in continuazione. Nei frame congelati dal caricamento posso dare un nome ad alcune facce, ad altre no.
Mi sembra di riconoscere uno di quei tipi presenti alla deposizione.
E Mycroft, ovviamente.
‘Fanculo.
E’ dappertutto, come un cancro. Avrebbe potuto bypassare Sherlock e dirmelo, ora che so che mi hanno osservato per tutto il tempo.
Per TUTTO il mio fottutissimo tempo. Con le telecamere a circuito chiuso, con gente che mi seguiva, con cimici dappertutto. Ovvio che sia così.
Avresti potuto, Mycroft, almeno per pietà. Ti avrei perdonato.
Ma tu sei il meno umano dei due, dopotutto.  
Sherlock ha cercato di proteggermi, nel suo sbagliatissimo modo, ma tu sei stato sadico.
Ti immagino guardarmi, una sera in cui sono seduto da solo nel pub di Tom, a testa china su una birra, mentre rotei in mano il bicchiere basso e largo con dentro il tuo scotch preferito, gambe accavallate e occhi indifferenti.
No, forse non indifferenti.
C’è un sorrisetto beffardo, appena accennato, all’angolo della tua bocca. Identico a quello che ha tuo fratello, eppure così diverso.
Senza il fremito di intelligenza e di passione che ha lui.
Il tuo è un sorrisetto vuoto, ignobile. Il sorrisetto di chi fa queste cose per proprio piacere personale.
Ok, gestiscimi, Mycroft Holmes, fai come vuoi, fai quello che vuoi di me, ma non mi separare mai più da lui.
Mai. Più.
Quello che ho fatto a Moran sarà niente in confronto a quello che farò a te.
Perché sto pensando a questo?
Greg mi parla e io sono con la mente fissa sulla faccia di Mycroft. Come può avere tanta importanza?
Ella, la mia psicoterapeuta, che ho finalmente piantato mesi fa, direbbe che sto trasferendo su di lui la mia rabbia.
‘Fanculo anche tu, Ella.
Non hai fatto altro che dirmi che dovevo dirlo.
Dire cosa? A chi?
Tutto quello che avevo da dire lo dicevo già a lui, nel buio del mio letto, di notte.
Mentre tentavo disperatamente di dormire, o dormivo in preda agli incubi, o mi masturbavo compulsivamente per stancarmi e crollare stecchito.
Volevi che dicessi delle cose per chiudere il cerchio e andare avanti, ma io non ho mai voluto.
Cocciuto, testardo John.
E alla fine avevo ragione. Ho ragione. Lui è qui.
E’ tornato da me, puttana.
Vorrei vedere la tua faccia adesso, mentre mastichi il tuo cibo vegano per pranzo, in quel localino tanto cool vicino al tuo studio, e resti a bocca aperta davanti alle notizie in tv. Cosa pagherei per vedere la tua faccia, Ella Thompson!
Ok, basta, John.
Devo calmarmi.
Respirare.
Sono fuori dall’ospedale. Sherlock si sta riprendendo e devo cominciare a gestire la vita vera.
Ci sono cose da fare, da organizzare, non ci deve essere più spazio per la rabbia, non ci deve essere più dolore.
E’ finita, cazzo. E’ finita.
“John?” Sento Greg che mi chiama timidamente.
Ma io sono girato verso il finestrino e piango in silenzio, il pugno stretto contro le mie labbra.
‘Fanculo tutti.
Perché mi avete fatto questo?

                                                                                           *****

Quando l’auto si ferma davanti al portone lucido e scuro che conosco così bene, non ho ancora detto una sola parola a Greg, che ha messo via il cellulare ed è rimasto in solidale silenzio.
Vedi, Ella? Lui non mi chiede di dire cose. Non ne dice neanche lui.
Però è come se mi stesse mettendo una mano sulla spalla, ed è esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Mi sono ricomposto, nel frattempo. Finalmente riesco a voltarmi verso di lui, che non sembra nemmeno imbarazzato per me, come invece sarei io al posto suo.
“Vieni anche tu?” gli chiedo in maniera diretta.
Ho bisogno di aiuto, Greg, non credo di poter reggere Mrs Hudson che ha un infarto. O, peggio, si scioglie in lacrime.
“Certo” risponde lui tranquillo.
Avevi ragione. Se ti avessi chiamato prima, tu avresti ascoltato.

C’è gente fuori, cronisti.
Ho scelto il momento sbagliato per venire qui, ma Mrs Hudson non può attraversare da sola tutto questo.
Ho il rimorso di non averlo fatto io nei giorni scorsi, ma purtroppo credo di essere stato leggermente impegnato.
Io e Lestrade prendiamo un profondo respiro a testa e usciamo dall’auto.
Conosco la sensazione.
Nelle settimane successive alla tua morte mi hanno perseguitato.
Microfoni sbattuti sui denti e gente che mi si pressava addosso per strada, facendomi perdere l’equilibrio. 
- Dottor Watson, lei è coinvolto? Come mai non l’hanno arrestata? Ci dica la verità. -
E io la dicevo, la verità.
Ci ho provato, all’inizio. Ho rilasciato interviste, ho accettato inviti.
Non è un impostore, non ha mai mentito. Lo vedrete. Moriarty è reale. La verità verrà a galla, vedrete.
Tutto quello che ottenevo era notare il luccichio di scherno negli occhi dell’intervistatore di turno, che contemporaneamente annuiva con aria greve e solidale, le labbra ripiegate all’ingiù. Una bionda giornalista, una volta, si era spinta persino a darmi due piccole pacche di comprensione sulla mano, mentre aveva negli occhi quel bagliore da iena.
I titoli sui giornali sempre più impietosi, crudeli con te, canzonatorii con me.
Io non ero più lo scapolo impenitente, ma l’ambiguo dottor Watson.
Ambiguo dottor Watson.
Strano? Complice? Coinvolto? Ma certo, sarebbe stato assurdo pensare il contrario.
Mi sono defilato sempre di più, nonostante l’assedio.
Mi sono arreso. Che armi avrei mai avuto per contrastare tutto questo?
Mi hanno persino offerto di scrivere un libro, due, tre.
Di riprendere il mio blog, a pagamento, stavolta. Mi sono stati dietro per mesi, ma io non avevo più niente da dire.
Dopo di te, non c’era più niente da dichiarare. Nè ti avrei mai dato in pasto al mondo.
Volevano tutto. Volevano divorarti.
Sapere chi eri dentro casa, cosa facevi, cosa dicevi, come ti vestivi, cosa mangiavi, cosa leggevi, come ti procuravi i soldi, se eri omosessuale, se eravamo amanti, e se sì, se eri perverso, drogato, lunatico, quanti ne avevi uccisi davvero, se nascondevi cadaveri in cantina.
In frigorifero, avrei potuto rispondere. In frigorifero sì, spesso e volentieri.
Ma non l’ho mai raccontato.
Né del violino, né della vestaglia blu, né di come certe sere sembrava ti assopissi sul divano, ma in realtà chiudevi solo gli occhi arrossati perché non dormivi da 36 ore e dovevi farli riposare. Nè ho raccontato del tuo passeggiare nevrotico per il soggiorno, in traiettorie sempre uguali e incuranti degli ostacoli, come il tavolino da caffè che non aggiravi ma scavalcavi, salendoci su con tutto il tuo peso, né ho detto a nessuno di loro delle pallottole sparate contro il muro senza alcun motivo apparente.
Non l’ho fatto. Nemmeno Mrs Hudson l’ha fatto.
Merita che io sia qui, oggi.

Mrs Hudson sta bene.
Mrs Hudson è una con i nervi d’acciaio; a volte dimentico che è stata aggredita in casa sua, per colpa nostra, ed è riuscita a nascondersi addosso una cosa preziosa mentre un tizio grosso e pericoloso le puntava contro una pistola, dopo averla colpita malamente.
Mrs Hudson è una strana creatura che fluttua a metà tra un mondo fatto di dolori alle anche, film sentimentali e gite domenicali, e uno di quei videogiochi di guerra in
soggettiva che tanto piacciono adesso.
Se avesse avuto la forza fisica per imbracciare un bazooka, lo avrebbe puntato senza difficoltà dritto su quella marmaglia che pressava noi sulla sua porta, e avrebbe fatto fuoco senza il minimo rimorso.
Mrs Hudson è stata la prima a pensar male di me e Sherlock: non per malizia, no di certo, ma perché è una che non veste bene i suoi 70 e passa anni.
Potrebbe essere una di queste giovani donne colte e disinvolte che al mattino vanno al lavoro, nella city, vestite in tailleurs scuri involontariamente sexy e con le cuffiette dell’ipod nascoste tra i capelli, ben consapevoli della loro indipendenza, della loro forza, del loro posto nel mondo. Lei dovrebbe essere una di loro, ma è nata nell’epoca sbagliata. E non se ne è fatta influenzare.
E’ questa la peculiarità di Martha. Non si fa influenzare da nulla.
Quando ci porge le tazze del thé, nonostante sia quasi mezzogiorno, sembra un po’ scossa per condizioni di salute di Sherlock da noi descritte ed edulcorate (parecchio edulcorate), ma non sembra sconvolta dalla sua resurrezione.
Forse se lo aspettava molto più di me.
“Non ci posso credere, quando ho visto la tv non ci potevo credere”, continua a dire torcendosi le mani, ma in realtà ci crede, ci ha creduto subito. Non ha avuto bisogno di giorni e giorni di tortura, di dubbio, di angoscia.
Forse ti ama più lei di me.
Ti accetta con una scrollata di spalle, più di quanto faccia io. Dovrei imparare qualcosa, da questo.
Si fa raccontare ogni dettaglio, guardando me e Greg in alternanza, con gli occhi un po’ umidi ma fermi, sgombri da ogni domanda superflua.
Il suo commento più ricorrente è che tu sei tu, ce lo dovevamo aspettare.
No, io non me lo aspettavo.
Non me lo sarei aspettato nemmeno in un milione di anni.
Ma io ti ho visto cadere, lei no. Hai fatto in modo di darmi un posto in prima fila, e dio solo sa se non ti chiederò perché, estenuandoti, fino a quando non mi avrai dato una risposta vagamente accettabile.
Ci chiede se può venire in ospedale, ovviamente le risposta è no, non adesso.
Motivi di sicurezza, mente Greg, non fanno passare nessuno, solo John.
Lei sembra crederci, ma non sono proprio sicuro che non abbia capito la reale entità del danno.
Ci metterai mesi a camminare di nuovo. Mi chiedo dove io possa aver messo il mio vecchio bastone. Sarà strano vedertici appoggiare, se mai lo vorrai fare.
Mycroft ha ragione, sarà un incubo.
Le dico finalmente del programma che ho in mente. Ci ritrasferiamo qui, se è ancora libero (lo è, certo che lo è, fino a poco tempo fa mi ha supplicato di tornare qui a costo di dimezzarmi l’affitto, certo che è libero), ci saranno dei cambiamenti, attrezzature, gente che va e viene, roba così.
“Fate tutto quello che serve, anche tirare giù le pareti” risponde, e stavolta è commossa davvero.
Quando andiamo via, mi abbraccia come se fossi suo figlio.
Fatico a deglutire quando le restituisco l’abbraccio.
E’ banale da dire, Sherlock, ma non mi sei mancato solo tu.
Ti eri portato via tutto in un colpo solo, e me lo stai restituendo di nuovo senza la minima delicatezza.
Sempre estremo, sempre violento.
Particolarmente con me.
Mi domando se, quando sarà tornato tutto come prima, quando starai di nuovo bene e sarai tornato ad essere lo strafottente coglione di sempre, io conserverò ancora questa calma che ho adesso.
Se non mi risalirà tutta la nausea per quello che mi hai inflitto.
Adesso no, anche questa è una cosa da rimandare.
Nervi saldi, mente concentrata sull’obiettivo.

Ripassiamo tra la folla di giornalisti: domani, anzi, stasera, ci saranno foto mie e di Lestrade, facce tirate e occhiali da sole, su tutti i giornali.
Non me ne importa.
Sopporterò.
Sgomito e mi faccio strada senza nemmeno pronunciare una vocale, Greg cerca di allontanarli da me. Respiriamo solo quando la macchina riesce a partire e ci guardiamo in faccia sgomenti.
“Si vede che è tornato. Guarda come siamo ridotti.” dice lui.
Siamo tutti stropicciati.
Scoppiamo a ridere come due ragazzini delle medie. Non credo di aver mai riso tanto in vita mia.

Ci fermiamo a pranzare in un qualunque caffè, poi io tornerò in ospedale, lui andrà a sentire notizie fresche a Scotland Yard: spero non ci riconosca nessuno, e così è.
Mentre mastichiamo un sandwich abbastanza insipido, parliamo.
Oltrepassiamo agevolmente l’argomento Mrs Hudson: sta bene, l’ha presa bene, starà bene.
Parliamo di quale piano avranno mai architettato le grandi menti che hanno fatto resuscitare un uomo oggi, ma possiamo fare solo ipotesi.
Siamo stanchi tutti e due dell’argomento.
Basterà accendere un qualunque pc per saperlo. In questo posto non c’è nemmeno la tv, ed è un bene.
E allora andiamo oltre, parliamo d’altro.
Di tante cose, cose che avevo dimenticato.
Ti sei visto con qualcuna in questi mesi?
Mi sono visto per un po’ con la donna che ho a cui ho sparato in faccia, per cui no, non davvero.
Tu?
Ah, io ho finalmente divorziato. E’ dura, ma sto bene. Il lavoro?
Non so se ancora ne ho uno. A te come va?
Come vedi ho abbastanza di che essere impegnato. Andiamo a vedere una partita qualche volta, John?
Il calcio.
Una volta tifavo per l’Arsenal. Tu hai sempre pensato che seguire il calcio fosse una cosa totalmente idiota, e su questo non sono mai riuscito a mantenere molto la calma.
Ti rispondevo male, litigavamo, ti giravi sul divano e mi davi le spalle.
Avevo persino dimenticato l’esistenza dell’Arsenal, in quei giorni avrebbe potuto essere qualunque cosa: una marca di surgelati, un cartello luminoso su un autobus di linea.
Ne parlo con Greg, mi faccio aggiornare, e mi sento normale.
Un uomo normale. Con una pistola infilata nella cintura, dietro la schiena, dove a fine giornata mi lascia sempre un profondo segno rosso.
No, non un uomo normale, in fondo.
Nessun impiegato, dottore o fattorino porta una pistola mentre pranza con un amico e parla di calcio. Ma è normale per me, per il John che ero prima del Bart’s. Il John che fa la spesa e spara ai tassisti.
Mi hai sempre preso in giro, per questo.
L’assassino con le buste di Tesco, il killer ben informato sui prezzi dell’insalata e del detersivo per lavare i piatti.
Tu non hai mai ucciso nessuno, che io sappia. Non in mia presenza, non nel nostro tempo. Io sono quello a cui piace questa roba. E gli sconti di fine stagione.
Fosse stato per te, avremmo speso una fortuna ogni settimana.
Sei senza il minimo senso pratico, senza speranza.
Lasciare te in un un supermercato è come lasciare un cieco alla guida di un aeroplano. Lo dico a Greg, e ridiamo.
Come siamo arrivati a chiacchierare di questo?
Ci raccontiamo a vicenda degli aneddoti sconosciuti e ridiamo alle lacrime, con la poca gente agli altri tavoli che ci guarda in tralice.
Una pessima giornata è adesso una buona giornata, incredibilmente.
Sei tu che fai tutto questo, e non lo sai.
Come non sai quanto sia felice lui che tu sia vivo.
E che sia vivo anche io, a questo punto, perché ha ritrovato anche me.
Gli siamo mancati come lui non è mancato a noi, purtroppo.
E mi dispiace di questo.
Perdonaci, Greg.

                                                                                                    *****

Quando torno in ospedale, Mycroft Holmes mi sta aspettando.
Mi ferma nell’anticamera, prima della tua porta, guardandomi con quella che a me sembra, e sempre sembrerà, supponenza del cazzo.
Ma magari non lo è.
Per un attimo mi balena negli occhi l’immagine della sua nuca perfetta, così vividamente correlata alla mia disperazione.
Inspiro profondamente per avere la forza di lasciar perdere. E’ una cosa lontana, non è mai accaduta. Non ne verremo mai fuori, così.
Deve toccare a me aggiustare anche questo, i fratelli Holmes non lo faranno al posto mio.
“Mycroft...” lo saluto
“John...” risponde lui con un cenno della signorile testa.
“Vieni, John, ci sono cose che devi sapere” mi dice.
Devi. A quanto pare, devo.
Entriamo in una saletta-ufficio nello stesso corridoio, deserta per via della sorveglianza. Mycroft chiude la porta dietro di sè.
Oggi è perfetto in tweed e panciotto.
Mi sembra che osservare ogni volta come è vestito, mi aiuti a capire meglio che questa è la realtà.
Mi è capitato di sognare anche lui, sempre in compagnia di Sherlock, la sua figura alta che si accavallava alla sua.
Ma nei miei sogni, o incubi, non è mai stato così impeccabile... mancava sempre un particolare, un bottone al gilet, un ciuffo di capelli fuori posto, che mi dava un senso di vertigine e mi faceva spalancare gli occhi angosciato.
Mycroft trasandato significava che Sherlock non era lì, era morto.
Lo squadro ogni volta, ogni volta, per accertarmi che sia tutto dove deve essere.
Non manca nessun bottone, vedo.
“Una tua versione della storia, immagino... per cui non è la verità.” esordisco.
Lui non sembra infastidito dalla mia allusione.
“Lo è, ma non possiamo diffondere tutti i particolari.”
“Perché lo avete annunciato oggi?”
“Cominciavano le fughe di notizie, era impossibile da rimandare oltre-”
All’improvviso voglio sapere dei particolari, quelli che non ho voluto sentire durante la deposizione, posto che quello che sentirò sia la verità.
Incrocio le braccia e attendo.
“Moran è una scheggia impazzita, isolata, però si è trovato a disporre di grandi mezzi per terminare l’opera, beffandosi della sua stessa organizzazione. Organizzazione che noi abbiamo smontato pezzo per pezzo in tutto questo ultimo anno, come ben sai. Non potremo mai sgominarla, è diffusa a livello mondiale, ma sembra che, al di fuori dei nostri confini, nessuno sia interessato a Sherlock, per fortuna.”
“E il codice? Se esiste, sarà sempre in pericolo.”
“Abbiamo ottimi motivi di credere che fosse davvero un bluff. Ha ripetuto il bluff del suo... maestro per poter smuovere ingenti capitali e disporre di tutti gli strumenti necessari.”
“E se non lo è?”
“Lo sapremo solo quando Sherlock potrà parlare.”
Rifletto. Ritorno al momento in cui io ero in quello stanzone, con la canna della pistola di Sebastian Moran schiacciata sotto la mia mandibola.
“E’ stata una vendetta personale, era lampante. Un’operazione kamikaze. Sapeva bene che sarebbe stato ucciso o catturato, subito dopo averci eliminati” dico “Era legato a Moriarty non solo per via dell’organizzazione.”
Jim avrà sempre importanza, aveva detto.
Per lui, ovvio.
Mycroft si appoggia col fondoschiena a una scrivania che è lì dietro di lui, e rilassa un po’ le ginocchia.
“Una vendetta più che personale: avevano un rapporto... esclusivo, se capisci cosa intendo” incrocia le braccia anche lui e aspetta che io deduca.
Io lo faccio.
“Oh...”
Non che non ne avessi avuto il sentore.
Cos’è? Una specie di romanzo di serie B, come quello che leggevo stamattina sul letto di Sherlock?
Voleva ucciderci drammaticamente, uno di fronte all’altro, per vendicare il suo amore?
Idiota di un Moran. Tra noi non è così. Non lo è mai stato. Non lo sarà mai.
Rido di gusto.
“Che imbecille.”
“Non proprio” sospira Mycroft “Ce l’ha quasi fatta.”
“Il quasi è rilevante, Mycroft.”
“E’ stato uno sforzo angosciante: gli stavamo dietro ma non riuscivamo mai a raggiungerlo. Il fatto che volesse compiere la sua... vendetta in modo così costruito è stata la tua fortuna, John.”
Lo sto guardando con scetticismo misto a un vago disprezzo.
“E’ un cecchino, avrebbe potuto spararmi in qualunque momento, luogo e situazione. Non mi sembra ve ne siate preoccupati molto. Non potevate sapere che non l’avrebbe fatto.”
“Eri costantemente sorvegliato. E coperto. Hai vissuto quasi 12 mesi con i nostri cecchini alle tue spalle. Mezza città si muoveva dietro di te, John.”
Sbuffo dal naso il mio disdegno.
“Sarebbe stato più facile dirmi la verità e farmi sparire in un luogo sicuro. Ma così non lo avreste mai preso. Giusto?”
Lui annuisce.
“Ed è tutta un’idea di Sherlock, vero?”
Annuisce ancora.

Mi fa male. Mi fa male. Male.
So che è per una giusta causa, ma mi fa male.
Usato e abusato di nuovo, lasciato a marcire nel mio dolore.
Non che non lo sapessi, ma ogni evidente conferma è un colpo basso.
Uno in più.
Moran avrebbe dovuto sparare, per come la vedo adesso.
Ma tu hai fatto in modo che io fossi a prova di proiettile, mio malgrado, senza volerlo.
Per concertare in tutta grazia il tuo capolavoro.

Poi qualcosa è cambiato.
E’ stato commesso un errore.
Sherlock ha commesso un errore e si è fatto prendere.
E’uscito allo scoperto, è venuto in Baker Street, si è fatto vedere.
Ha confermato a Moran e ai suoi di essere vivo.
Loro sospettavano che fosse vivo (loro, non io. Di nuovo questo pensiero mi tormenta), ha detto Mycroft, e lui lo ha confermato.  
E anche se le sue precauzioni e coperture avessero funzionato, se fosse riuscito a non farsi vedere quando è venuto con Molly a Baker Street, e poi a casa mia, io ne ho parlato a Floren. E lui non mi ha avvisato di non farlo.
Sicuramente sapeva chi fosse lei.
Ma non mi ha messo in guardia.
Si è fatto catturare.
A pochissima distanza dal raggiungimento del suo obiettivo: perché?
Come è accaduto che abbia perso lucidità?
Perché, Mycroft? Come èsuccesso che l’abbiano colto di sorpresa? O aveva pianificato anche questo?”
No, no, come avrebbe potuto sapere che avrei fatto quello che ho fatto?
Che sarei stato così avventato, e fortunato?
“No, questo no. Secondo la nostra idea, Moran aveva in progetto di prendere te per primo, e usarti per attirare lui. Lo avremmo beccato quando lo avesse fatto. Ti abbiamo usato, e ti chiedo scusa.”
“Mpfff! Oggi sei in vena di battute.”
Sorrido con la bocca contratta in una piega amarissima, mentre scricchiolo dentro.
Posso sentire le mie stesse ossa scricchiolare.
Lui non sta sorridendo, mi guarda sinceramente contrito.
“Non so cosa gli abbia fatto cambiare idea. Un giorno è sparito, e quando è tornato mi ha detto che era venuto da te, senza altre spiegazioni. Io avrei voluto dirtelo prima, ti prego di credermi. Avrei voluto fare in un altro modo.”
“No, non dirlo.” lo fermo alzando una mano.
Avrei preferito sentire il contrario.
Avrei preferito che mi raccontasse di Sherlock che lo supplica di lasciarlo venire da me, e lui che glielo impedisce per il bene della nazione, per portare a termine il suo piano perfetto con l’esca perfetta, quel John di cui a lui, Mycroft Holmes, non importa nulla.
Invece no.
Tu sei la mente. Tu hai perseverato. Tu.
Come a Baskerville, quando mi hai fatto rintanare in quella gabbia.
Quasi 12 mesi di caccia, 12 mesi in cui mi hai lasciato annegare in un oceano di dolore, lutto, pazzia.
Dovrei essere sorpreso, allibito, ma non lo sono.
Addolorato, sconquassato ancora una volta, sì.
E allora perché?
Perché hai rovinato tutto alla fine?
Perché hai mandato al diavolo il tuo piano perfetto, orchestrato per un anno intero, spietatamente?
Cosa ti ha fatto mollare all’improvviso il caso della tua vita, la tua ossessione per Moriarty e i suoi macabri strascichi?
Cosa ha frenato il tuo desiderio folle di schiacciare l’ultimo di loro, Moran il cecchino, e ti ha fatto trasformare la tua vittoria in uno di quei files irrisolti di cui non volevi che scrivessi nel blog?
Perché? Perché?
Non è da te.
Guardo il muro che idealmente dà in direzione della tua stanza, come se tu potessi sentirmi e rispondermi.
Perché?

“La pistola, John.”

La pistola.
La sento, calda come la temperatura del mio corpo, la canna che gratta la mia pelle all’altezza del rene destro. Un attrito e un peso a cui sono abituato, come se fosse un altro arto, un altro organo.
La pistola.
Mi hai fermato, lo abbiamo già detto.
Oh. Certo.
Hai dovuto impedire che facessi io quello che stava per fare Moran.
C’era solo un modo.

Tornare da me.

Darmi altro tormento, altra rabbia, altra disperazione.
Ma facendomi intravedere una possibilità.
Lo sapevi bene che, quando avessi saputo che tu eri ancora in questo mondo, io non me ne sarei mai andato.
Non ti avrei mai, mai lasciato, anche se non avessi voluto vederti mai più.

Come fai a sapere di me?
Come, Sherlock?

Alla fine, dunque, non è Mycroft. Non è del tutto colpa sua.
Se devo credergli, e non ho la forza di fare altro, non ne ho la volontà, e ti conosco troppo bene per non credergli, è lui il mio amico, qui.
E’ lui che ha cercato di aiutarmi. E continua a farlo in questi giorni così confusi, mettendo un intero ospedale a mia disposizione.
Perché la verità è che tu usi tuo fratello come usi me.
Lui ruota attorno a te come tutti noi.
Lui si preoccupa costantemente del suo crudele fratello minore.
Poi, un giorno, me lo dovrai dire... perché lo disprezzi tanto?
Io ho le mie buone ragioni, ma tu? Cosa è successo quando eravate ragazzini?
O, più semplicemente (e credo sia la spiegazione più logica), tu non provi nessun interesse per lui.
Come per nessuno, d’altronde.
E’ un’appendice, Mycroft Holmes, di cui non puoi liberarti per obbligatori legami familiari. Semplice.
Non ci sono traumi infantili, vecchi rancori, eventi irreparabili che hanno scosso il passato della vostra famiglia: semplicemente, lui non ti piace e lo devi sopportare perché è tuo fratello. E perché, con il lavoro che fa, ti serve come il pane, non fosse altro che per il fatto che paga i tuoi conti della lavanderia e saltuariamente ti salva il culo.
O lo vende a Moriarty. Perché, alla fine, il DNA non mente, no?
E’ così, non è vero?
Io sono più fortunato, mi hai scelto. Come un ragazzino sceglie dalla vetrina di un negozio di animali il cucciolo da portarsi a casa, nei giorni precedenti al Natale.

“John, lo so che è tanto da accettare, soprattutto dopo l’ultimo anno” mi dice con aria rassegnata.
La sua premura nei miei confronti è quasi commovente, potrei pensare che gli stia venendo una cotta per me.
O che cerchi, come al solito, di riparare i tuoi danni. Questa volta, con un ben misero risultato.
Io prendo un profondo respiro e mantengo un contegno.
Ho preso una decisione, giorni fa, e non tornerò indietro.
So come sei fatto, ho detto sì a quello che sei. Molto tempo fa.
Adesso hai bisogno di me per rimetterti, e io di te, per ricollocarmi in questa vita e ritrovare l’orientamento.
“Lo conosciamo, Mycroft. Non mi stupisco di niente. Va bene così”
Mi avvicino a lui, gli tendo la mano. Credo di avere uno sguardo sincero.
“Grazie per tutto” gli dico “Non è facile per nessuno di noi due”
Lui mi stringe la mano e sembra stanco, sembra voglia dirmi che farebbe di tutto per non essere tuo fratello, per non conoscerti, per non aver niente a che fare con te.
E così anch’io, a volte. Ma siamo intrappolati nel fondo di una delle tue provette.
“Grazie a te, John. Sei la salvezza più mia che sua.”
Sorridiamo. Non siamo amici, non lo saremo mai, ma forse possiamo darci un po’ di tregua, visto che tu non ne dai a noi.

Esco da quella stanza e vengo verso la tua.
Resto sulla soglia, a guardarti da lontano.
Dormi.
O, meglio, sei preda del solito stordimento da antidolorifici. Mi hanno detto che da domani ci andranno più leggeri.
Da domani, probabilmente, sarai di nuovo insopportabile.
Tra qualche giorno andremo a casa e io mi comporterò come se non avessi mai visto e sentito tutto questo, perché, per il momento, tutto quello di cui ho bisogno è parlare con te, vederti sveglio, lucido, e farmi anestetizzare dalla tua voce.
Mi è sempre piaciuto sentirti parlare.
Anche quando menti, la tua voce è avvolgente come velluto nero.
Quando piangi dall’orlo di un tetto, e menti, la tua voce può far incrinare per sempre l’interno di un uomo.
O ridare speranza, Sherlock.
Anche se è una bugia.
Ma io sono a prova di proiettile. Ne ho beccato uno e ne ho schivati molti, e sono ancora qui.
Per il momento, posso sopportare.

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NOTA: E’ la prima volta che inserisco una nota personale. Volevo ringraziare di cuore tutti coloro che seguono questa FF con costanza e scusarmi perché non riesco ad aggiornare spesso, nonostante l’affetto (insperato!) e il desiderio folle che ho di fare solo questo per tutto il giorno, ma purtroppo non posso. Non è facile, quando il tempo che si ha a disposizione è tanto risicato (lavoro, famiglia, figlio e bla bla bla, sì, non sono propriamente una ragazzina...). Sono davvero colpita dalle recensioni lusinghiere, a volte addirittura sconvolgenti, con cui mi onorate, e ci tenevo a dire che, grazie a questo fandom meraviglioso, ho ritrovato la mia passione, la mia energia, e tutto il mio buonumore.
Grazie, sinceramente grazie. 
 

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Capitolo 9
*** Soulmate dry your eye ***


9° capitolo - John persevera, si nasconde, raccoglie i cocci.



Sleeping with ghosts -  Placebo
http://www.youtube.com/watch?v=noMrs6Q1RpM&feature=fvst

“It seems it's written
But we can't read between the line

(...)

Dry your eye
Soulmate dry your eye
Cause soulmates never die “
 

                                                                           ***

Giorni dopo


Come immaginavo, non riesci a stare zitto neanche in queste circostanze.
Non è che tu stia straparlando, ovviamente non puoi, ma io posso leggere nei tuoi occhi e interpretare ogni grugnito, ogni lamento, ogni sbuffo.
Sono entrato nella tua stanza, stamattina, con un bicchiere di Starbucks in mano e il giornale sotto il braccio, pronto a mettermi comodo, rilassarmi, starti accanto se hai bisogno, o solo guardarti dormire.
Mi ero preparato psicologicamente al guardarti dormire.
Solo dormire, non essere in coma, o pesantemente sedato: un desiderio che cullo dentro di me da giorni e giorni, che ho sperato potesse diventare realtà , angosciandomi, sentendo il sangue scivolare via da me quando ho temuto di non poterlo fare. Più.
Devo prendere quello che posso, rubare come un affamato. Non riesco nemmeno ad ammetterlo a me stesso ma ne sono perfettamente consapevole.
Caffè, notizie e guardarti dormire.
Perfetto.
E invece hai gli occhi spalancati e giri la testa quando entro nella stanza.
Dio, ti ringrazio che possa ancora solo sussurrare. L’immobilità totale lo starà rendendo pazzo.
A momenti getto il caffè per aria, poi mi rendo conto che è bene poggiarlo sul tavolo sotto la finestra.
Mi sporgo su di te preoccupato. Sei sveglio e non c’è nessuna infermiera qui? Perché non mi hanno chiamato?
“Sherlock?”
Si capisce che, se muovi un solo muscolo, il dolore allo sterno ti mozzerà il fiato, per cui non lo devi fare.
“Hai perso il lavoro” sussurri, stringendo gli occhi.
Ancora non lo so, a dire il vero: in effetti ho argomentato con Sarah in maniera... vivace solo la sera precedente, non mi ha perdonato il non aver mai risposto alle sue telefonate cariche di ansia.
“E tu sussurri come un prete.”
Ridi, o almeno tenti, e subito l’espressione del volto assume la forma del dolore. Vorrei mordermi la lingua.
Ma è solo la conferma di quanto ci capiamo io e te. Di quanto ci siamo divertiti. Era una delle cose che più amavo: un input qualunque, una battuta stupida, e giù a ridere come due ragazzini.
Non ho mai riso con nessuno come ho riso con te.
Mi è mancato, mi è mancato tanto da farmi sentire la tua voce nella mia testa per mesi e mesi, la tua voce calda e densa come il caffè che non riuscirò a bere nei prossimi minuti.
La voce che mi rispondeva se io domandavo, che mormorava al mio orecchio nel buio, nelle notti più miserabili della mia vita.
Ti appoggio una mano sulla fronte: quegli occhi strizzati e le labbra contratte dal dolore mi provocano uno smarrimento profondo.
Vorrei, ti giuro, vorrei poterti sottrarre un po’ di sofferenza. Vorrei la tua gamba rotta. O l’ematoma lombare.
Qualcosa che mi procuri dolore e contemporaneamente liberi te.
“Piano” sussurro io, stavolta “esageri, come sempre. Piano, Sherlock.”
Non recrimini per la mia carezza, probabilmente non ci stai facendo nemmeno caso.
Ma io ho bisogno di toccarti.
Quando starai bene, dovrai permettermi di abbracciarti una volta sola, come non ho fatto quella sera a casa mia, quando ti ho cacciato.
E invece avrei dovuto osservare le tue lacrime.
Lacrime.
Una cosa che non avrei mai pensato di vedere in tutta la mia vita. Quello che provavo mi ha impedito di capire.
Ti sono mancato. Ma certo. Lo so, lo sapevo anche prima.
Ti sarai sentito solo, disgraziato e misero senza di me. Ma c’era una partita da vincere. Con telecamere a circuito chiuso e uomini sotto copertura.
Chi, Sherlock?
Tom del pub? Il ragazzo dei giornali? Il buon Chandra della drogheria da cui compro il latte e la schiuma da barba, e di tanto in tanto una bottiglia di scotch?
Quanto del tempo speso a seguirmi con le telecamere è stato effettivamente speso per proteggermi da Moran, e quanto è stato dedicato a guardare me?
Semplicemente?
Sai che te lo chiederò, vero? Passerai ore a rispondere a tutte le mie domande. Giorni. Dovrai farlo, sarai mio prigioniero.
Avrai bisogno di me anche per pisciare.
E’ una specie di miserabile rivincita, ma è la pura verità.

Riapri gli occhi e mi osservi.
Io tolgo la mano dalla tua fronte.
Sei pallido, gli zigomi sono più affilati del solito, si cominciano a vedere i segni di tanti giorni di nutrimento esclusivo con le flebo.
E’ ora di fare il dottore.
Mi tolgo la giacca, la appoggio alla sedia ai piedi del tuo letto e penso che, in fondo, ho sempre fatto questo.
Quando hai avuto l’influenza, quando ti hanno spaccato una bottiglia in testa, quando sei quasi caduto nel fiume e hai preso uno strappo alla spalla, quando ti hanno quasi strangolato, sparato e accoltellato. Ho fatto il medico più con te che in clinica.
Questi ricordi mi danno la misura esatta di quanto tu sia sempre a rischio. Non starò mai tranquillo. Dio, no. Non starò mai più tranquillo come prima.
Quando pensavo che te la potessi cavare da solo.
Mi rendo conto che sono restato a fissarti più del necessario.
“Si sta rimarginando bene”.
Non so se mi sia mai riuscito di fare bene la parte del disinvolto, francamente non credo, ma ci provo anche stavolta e fingo di osservare il taglio sotto lo zigomo sinistro, che adesso si presenta come un cordoncino gonfio e giallastro. Lo spacco sul labbro è ancora molto evidente e deve fare un male cane.
“Morfina!” mormori sofferente.
L’infusore è collegato alla flebo, ma gli dò una rapida occhiata e mi rendo conto che hanno abbassato il dosaggio. Non molto, ma quanto basta per non farti dormire o essere rimbecillito tutto il tempo, e indurti ad affrontare la parte più difficile.
“Fammi dare un’occhiata”.
Non è da molto tempo che ti sei risvegliato, devo capire quanto si può andare lontano.
Con delicatezza ti prendo un polso e sollevo appena un braccio, poi l’altro, quanto basta per tirare via piano, pianissimo, il lenzuolo e la leggera coperta.
Indossi il camice tipico dell’ospedale, sottile come carta. Avvolto attorno ad una magrezza che non ricordavo.
Respiri piano per far muovere le costole il meno possibile, il torace si solleva a malapena, posso quasi vedere le linee delle ossa dello sterno affiorare dal tessuto leggerissimo.
Si intuisce la forma della garza che ricopre la ferita dell’intervento al petto, a destra, appena sotto il braccio. I drenaggi non ci sono più.
Bene. Ma non così bene.
La tua magrezza mi morde a tradimento.
“Oggi dobbiamo provare a mangiare un po’” dico, e non è un consiglio.
Tu fai una smorfia. No, non l’avrai vinta, ti avviso.
Guardo subito la gamba destra intrappolata nel tutore, sollevata su una specie di sostegno di metallo e fasce elastiche.
All’altezza della coscia, tra una cinghia e l’altra, si vede l’incisione dell’intervento. Non è una frattura scomposta, per fortuna, saranno bastati due o tre bulloni.
I margini del taglio sembrano regolari, puliti. Non è un gran taglio, sono stati bravi.
Ma è un’altra la cosa che voglio controllare.
“Hai prurito dietro la schiena?”
“Sì, e sete” rispondi in un soffio. Ora tieni gli occhi chiusi, ti stai stancando.
“In che punto?”
Riapri gli occhi, mi trafiggi come un tempo. Sono carichi di tutta la loro vecchia energia, di tutta la loro frenesia. Non dovrebbero essere così.
“Andiamo, John... è normale che si stiano formando, quanti giorni sono ormai?” mormori, ma la tua voce sembra più chiara, è sicuramente determinata.
Sei petulante.
Sai sempre tutto.
Sei tu.
“Chiamerò qualcuno, bisogna farti cambiare posizione.”
“Fa male” mormori, mentre io verso dell’acqua in un bicchiere.
“Le piaghe da decubito faranno ancora più male” ti spiego, chinandomi su di te e infilandoti la mano dietro la nuca per farti sollevare un po’ la testa.
Il contatto con il calore intenso del retro del tuo collo mi procura una contrazione al basso ventre.
Sono davvero in queste condizioni?
Davvero, John?
Bevi con avidità. Io cerco di trattenere indietro il bicchiere per non farti esagerare, ma tu sporgi le labbra in avanti e cerchi di bere con ingordigia, quanto ti pare, come fai sempre. Poi ti dai indietro con una smorfia. Per darti slancio, devi aver contratto un muscolo del torace da qualche parte e le costole ti hanno fatto capire chi comanda.
“Devo girarti, Sherlock, e procurati un materasso antidecubito. E devi mangiare. Da oggi devi mangiare in maniera decente: vitamine, frutta e verdura fresca” dico, appoggiando il bicchiere sul comodino.
Hai gli occhi chiusi, stai cedendo.
Le tue forze sono davvero esigue, eppure posso sentire la tua vitalità che riempie la stanza, quell’energia passiva che si attaccava alle pareti di ogni angolo di Baker Street, anche quando restavi per ore sul divano con gli occhi chiusi, o non parlavi per giorni.
Una specie di liquido denso, proteico, in cui mi muovevo come un pesce in un acquario. E respiravo a pieni polmoni.
Dò una rapida occhiata alla busta del catetere appoggiata per terra, è ancora mezza vuota.
Non sarà piacevole, per te.
Dovrò avere accesso ad ogni centimetro del tuo corpo.
Non ne sono felice, mi sento imbarazzato al posto tuo: io ci sono abituato, ho rimesso a mani nude budella dentro ventri squarciati, ho operato alla bell’e meglio sul terreno rosso, tra la polvere, gente che mi vomitava addosso e rilasciava gli intestini dalla paura.
Ho visto e toccato qualunque cosa di perfetti sconosciuti.
Questo mi fa sentire a disagio, però. Non è come desiderare di vederti dormire.
Dovrò violare la tua intimità, e non mi piacerà. Mi sentirò come se stessi aspettando quest’occasione a discapito della tua sofferenza, il che non è vero.
Ma io mi sentirò come se lo fosse a causa di quello che provo.
Cerco di scrollare per il momento il pensiero dalla mia mente e mi accingo a ricoprirti con le lenzuola.
“Vado a parlare con qualcuno” dico, la mia voce è un po’ roca “dobbiamo sistemarti meglio e...”
Mi artigli il polso con la mano proprio mentre sto facendo scivolare il copriletto sul tuo petto.
Un movimento netto, veloce.
Ti guardo stupito.
Mi osservi con occhi vividi, gli occhi di una persona che non è nelle tue condizioni. Sono pieni di luce, indagatori.
“Quando starò meglio non te ne andrai”.
E’ un’affermazione.
“Hai ripreso a dedurre, vedo. Bene.” Faccio finta di niente, ma il mio sguardo ondeggia nervosamente tra i tuoi occhi e le dita che stringono forte il mio polso.
Più forte di quanto ti avrei creduto capace.
“E poi?” chiedi.
“Poi, cosa?”
“Quando mi dimetteranno.”
Ti guardo ben bene. Sbatti le ciglia scure un paio di volte. Mi soffermo sulle labbra rovinate, meravigliose. Te le umetti con la lingua, stringi un po’ gli occhi indagatori, e io capisco che lo sai, forse te l’ha detto Mycroft, forse l’hai capito da solo, in fondo oggi è la prima volta che parliamo veramente, dopo un anno in cui ti ho creduto morto, perso, svanito, sotterrato, ma vuoi sentirlo da me.
“Andiamo a casa” ammetto con un sospiro “Torno a Baker Street con te. Chi altri ti sopporterebbe?”
Sorridi a labbra chiuse, gli occhi sono attraversati da un lampo di luce, ma non è un sorriso di sollievo, o di contentezza, o di commozione.
Quella luce negli occhi è rivalsa. Vittoria. La tua solita sicumera. La voglia di dirmi che è così che avevi predetto quella sera in Baker Street.
Non ti darò tregua, diceva il tuo messaggio.
Nessuna tregua. E quando me ne dai tu, non me ne do io.
E’ esattamente così.
Avrei voluto vederti arrendevole, grato, e invece hai lo sguardo quasi arrogante, nonostante il dolore e l'assoluta perdita di indipendenza.
Avrei voluto scoprirti fragile, indifeso: ma tu non sei così, esprimi gioia con un mezzo sorriso e un'espressione lievemente beffarda.
Che poi è un’altra parte di te che mi è mancata, quella che nessuno ha mai sopportato.

Te l'ho fatta, John: sei mio di nuovo, ma io non sono tuo.
Me l’hai fatta non sai quanto tempo fa, Sherlock.


“Riposa, adesso” sciolgo il mio polso dalla tua presa, a malincuore “ho un caffè da bere, e dei colleghi con cui parlare.”
“Mangerò” prometti mentre chiudi gli occhi, e così spolveri via un po’ la mia delusione.
E’ una buona promessa. Una grossa promessa. Spero tu lo stia facendo per me e non per lo spauracchio delle piaghe.
Quelle che cercherò di tenerti lontano con tutte le mie forze.

                                                  
                                                                      ***


Sono rassegnato.
Anche la nostra prima conversazione dopo tutto questo delirio non è stata come ho immaginato nei giorni scorsi.
Non eri stupito di vedermi, non mi hai accolto con nessuna trepidazione, non ti sei scusato.
Non hai fatto una piega.
Ora dovrei dirmi da solo: cosa pensavi? Cosa pretendi? Lo sai com’è fatto.
E’ un mantra che cerco di farmi girare in testa da giorni e giorni, cerco ostinatamente di adattarmici. In molta parte della giornata ci riesco, e sono sereno.
Eppure adesso l’amarezza mi impedisce di ingoiare questo insulso caffè. Lo getto nel bidone della spazzatura ancora intero.
Ho appena parlato con i medici: va bene, è tutto sotto controllo, di questo passo ti dimetteranno in pochi giorni.
Va tutto bene, John.
E’ quello per cui ho pregato mentre ti rianimavo.
Qualunque cosa, ho supplicato rivolgendomi non so nemmeno a chi, qualunque cosa, ma lascialo vivere.
Sono stato accontentato.
Il prezzo da pagare sono io.
Mi guardo le mani: quanti uomini ho ucciso, quella sera, e perché ci sto pensando adesso?
Perché ora, mentre sono in piedi davanti a una vetrata al quarto piano di questo ospedale che odio, e guardo la città che vive senza di me?
Londra a cui non frega niente di John Watson?
Ho fatto una follia da solo, a mani nude, spinto dall’unica speranza di riaverti con me, con me di nuovo, mio.
Adesso comprendo quanto io sia stupido. Come tu mi dici sempre.
Conduttore di luce, un cazzo.


Raddrizzo le spalle e torno nella tua stanza: ora sì, stai dormendo.
Mi siedo in silenzio accanto al tuo letto e mi dò il tempo di assuefarmi alla situazione.
Mi calmo, l’amarezza regredisce: resto impressionato da me stesso.
Anche così, sono contento. Anche se prima mi hai guardato in quel modo e mi hai dato per scontato, ma sono felice lo stesso.
Non mi capacito: come fai a farmi questo?
Mi imbottisci di infelicità con ogni cosa che fai, eppure, quando sono nella tua stessa stanza, io sono felice.
Hai il capo leggermente girato dalla parte opposta rispetto a me, posso seguire la linea del tuo zigomo, del tuo naso, osservo il profilo delle labbra socchiuse, stai russando leggermente.
Potrei sporgermi su di te e baciarti sulle labbra, succhiarle dolcemente tra le mie, indugiarvi su per interi minuti, non te ne accorgeresti mai.
Lo saprei solo io, e dio solo sa se in questi giorni non ho pensato se farlo o meno.
Ma penso che una cosa simile mi farebbe sentire un inetto, un povero cristo.
O, peggio, credo che non riuscirei più a fermarmi.
No, no, lasciamo perdere.
Ti prendo la mano, invece. E’ calda, è possibile che tu abbia un po’ di febbre, ma è normale.
Alle mie spalle entra Liz, l’infermiera con cui ormai siamo quasi vecchi amici, e io non ti lascio le dita nemmeno mentre ti cambia la flebo.
Prima di andarsene mi sorride con affabilità, io sorrido a lei. So che tutti pensano che io sia il tuo compagno, chi altri farebbe ciò che sto facendo io per te?
Tutti lo pensano, i ragazzi di guardia qui fuori, i dottori, quelli che lavorano nella caffetteria. E io sono contento che lo pensino.
Voglio che lo pensino.
Almeno in questa situazione, un po’ di fraintendimento generale e di sana illusione mi fa bene, mi fa sentire speciale, mi fa anche venire un po’ da ridere, se penso a quanto mi sentivo imbarazzato quando la gente fraintendeva prima. Prima del Bart’s.
Mi devo ripetere: sono un idiota. Hai sempre avuto ragione, su questo.


Sento il telefono che mi vibra in tasca. Mrs Hudson?
Quando rispondo, mi dice che è arrivata gente in Baker Street, persone con camion, roba da lasciare e cose da fare. E giornalisti fuori dalla porta.
John, sono come avvoltoi, sono sempre qui.
E’ meglio che vada. Devo rimettere in piedi anche quella casa, oltre che te.
Devo fare tante di quelle cose che mi gira la testa.
Ti lascio un bacio sulla fronte, questo sì, posso farlo, lo faccio spesso, ne approfitto finché non sarai del tutto lucido e non potrò farlo più, e penso che l’amore che ho per te mi porterà alla consunzione, presto o tardi.
Credo presto.
Tornerò per aiutarti a mangiare, lo farò.


                                                                                      ***


Fuori è un delirio.
Sembra che l’attenzione mediatica non riesca a placarsi.
Certo, non succede tutti i giorni che un personaggio famoso (suo malgrado) resusciti, ma adesso è passata l’ondata di interesse dei mezzi di informazione più autorevoli, che Mycroft è riuscito a tenere su una certa linea equilibrata, ed è cominciata questa parte squallida, quella dei tabloid.
Il mio telefono ancora non fa che squillare, mi invitano a qualunque becera trasmissione del pomeriggio, mi chiedono qualsiasi genere di commento, anche un monosillabo, ma io appena sento l’accenno di una voce che non sia Mycrotf, o Greg, o Mrs Hudson, termino la chiamata senza nemmeno dare loro il tempo di pronunciare un altro solo suono.
Mi vorrebbero appendere a un gancio e strapparmi via la carne, come l’altra volta.
Gente come Kitty Riley, che ha ancora da scontare la sua pena in un penitenziario statale per aver collaborato con Moriarty.
Nessuno ha creduto alla sua buona fede.
Io so che lei è cascata in pieno nelle sue bugie e ha fatto il suo gioco inconsapevolmente, povera piccola imbecille, ma sono felice lo stesso che stia pagando.
E’ responsabile anche lei, e se non lo è, che paghi lo stesso.
Qualcuno deve farlo.
Qualcuno mi deve rendere conto di quello che ho passato.
Non puoi essere tu, non ancora, e allora che sia qualcun altro.
Penso a Moran mentre cerco di scansare i giornalisti appostati fuori dall’ingresso dell’ospedale, mentre Michael e Peter, i due agenti che mi scortano sempre fuori,
cercano di tenermi al riparo dagli assalti fisici.
Lo ucciderò.
Lo farò. Vorrei che anche Moriarty ricomparisse per poter uccidere anche lui.
Ma, a quanto pare, si è sparato davvero.
Non riesco a pensare a cose normali.
In viaggio verso Baker Street sull’auto della polizia, dovrei solo pensare a come risistemare la casa, e invece penso alla morte, alla sofferenza che vorrei infliggere.
Per un brevissimo istante, che scaccio subito scuotendo la testa, penso che dovrei tornare in terapia.
Il mio odio mi spaventa.
Potrei torcere il collo a uno di questi due che mi siedono davanti senza battere ciglio, se minimamente sospettassi che hanno avuto a che fare con questa faccenda.
L’allegro Michael con la testa penzolante e i collo angolato in maniera innaturale, il pingue Peter bucato tra gli occhi con la pistola di Michael, che avrei tutto il tempo di estrarre e usare.
E poi la macchina che carambola contro un autobus, ed è la fine.
Chissà se non sarebbe meglio per me.
Chissà cosa proveresti.
Se verresti sulla mia tomba, fingendo una forza che non hai, e scivolando per terra quando sai che nessuno ti guarda, poco prima della chiusura, quando ormai se ne sono andati tutti.
Chissà se emetteresti quei suoni rochi, lancinanti, che non avevo mai sentito provenire dalla mia gola in un’intera vita, nemmeno in guerra.
Chissà se resteresti a occhi spalancati per giorni.
Tu sei abituato a non dormire, lo so, ma quale effetto pensi abbia avuto su di me? E quanto resisteresti, in realtà?
Ti parlerei anche io nella mente? Sentiresti la mia voce che ti riporta coi piedi per terra, ti fa riflettere, ti calma?

Cosa faresti se io morissi, Sherlock?
Non vuoi saperlo.

Hai mandato a puttane tutto il piano per Moran perché non vuoi saperlo.
Sei corso a fermarmi. La cosa mi lusinga, mi commuove.
Ma mi fa anche pensare che sei un vigliacco. Ti sei dato una chance, non hai voluto rischiare di passare attraverso ciò che hai visto accadere a me.
Ora ti ringrazio di questo, ma qualcosa ribolle dentro me in maniera cattiva, sotterranea.
Ti avevo perdonato, cristo.
Quando ho capito che ce l’avresti fatta e il sollievo si è sciolto dentro me attraverso le mie lacrime, ti ho perdonato in pieno, al cento per cento, senza neanche un dubbio, grato alla vita che tu respirassi ancora, e non fossi un vegetale, e io potessi godere ancora di te.
Ma quello che hai fatto mi confonde e non riesco a mandarlo via, non ce la faccio.
Se sono così importante, perché ti sei lanciato giù?
Perché non mi hai reso partecipe di tutto?
Perché?

Sono in camera da letto, la tua, e mi guardo attorno con le mani sui fianchi e il fare pensieroso.
Hanno portato un letto da ospedale, di quelli che hanno tutti i comandi per angolare la spalliera, abbassarlo e alzarlo come occorre a un lungodegente.
Ci sta, possiamo spostare il tuo letto contro il muro. Metterlo a fianco.
E poi?
Come ti sentirò da lassù, durante la notte, se avrai bisogno di qualcosa? Ci vorrà almeno un mese per aiutarti a fare il primo tentativo di alzarti in piedi.
Un interfono. Sì, è la soluzione. Uno di quegli aggeggi che si usano nelle stanze dei neonati.
E se non ti sentissi?
Sotto la finestra c’è spazio, tra l’armadio e la scrivania. Questo letto possiamo metterlo lì, parallelo al muro.
Durante il giorno potresti guardare fuori, come il tizio in quel film di Hitchcock. E sulla scrivania, frontalmente, posso piazzare una tv, il dvd, qualunque cosa ti aiuti a passare il tempo. Che dio mi aiuti!
Guarderemo la tv insieme, io mi sdraierò sul tuo letto e ti terrò impegnato con ogni genere di chiacchiere. Tra me e te è sempre stata una bella gara.
Tu straparli, ma io di più, se voglio.
Mi rassegno anche all’idea che mi aspettano almeno due mesi di tutti i tuoi programmi e film preferiti, il che comprende l’intera saga di James Bond, di cui ho la nausea, varie soap opera di cui non ti ho mai chiesto cosa ti attragga perché ho paura della risposta, e alcune tra le più inutili televendite mai concepite da mente umana.
Almeno finché non potrai leggere di nuovo senza sforzo e senza mal di testa, e non darai in grado di riprendere in mano il laptop.
Per cui, so che in piena notte mi chiamerai incessantemente tramite quell’affare, perché avrai bisogno di sfogare rabbia e frustrazione, e lo farai come lo facevi prima, cioè svegliandomi per nessun motivo in particolare.
Quindi, faccio prima a dormire qui.
Bene. E’ deciso. Mi sento meglio.
Faccio sistemare il letto come ho stabilito e poi faccio un giro per l’appartamento.
Hanno fatto un buon lavoro, è tutto pulito a fondo e riordinato.
Hanno ritinteggiato la cucina e il bagno, la roba che non sapevano dove mettere è chiusa in degli scatoloni che poi si sistemerò io.
I vestiti che erano rimasti qui sono stati portati in lavanderia e ora sono appesi nel tuo armadio, imbustati, perfetti.
Mycroft mi sta rendendo la vita semplice, per quello che può.
Il pensiero del mio piccolo appartamento squallido mi dà la nausea, credo che andrò a preparare un borsone di roba e da stasera dormirò qui.
Non ci posso credere, non davvero.
Non finché tu non entrerai da quella porta.
Ma penso che da stanotte dormirò un po’ meglio, almeno spero.

                                                                              ***

E’ venuto qualcuno a trovarti.
Ci sono dei fiori sul tavolino all’angolo della stanza, qualcuno che non si rende proprio conto delle cose che fa. Molly, credo.
“Molly” mormori quando ti accorgi che li sto guardando.
“Li porterò fuori. Adesso mangia.”
Detesti il profumo intenso dei fiori, e così io.
“Non posso.”
Ho fatto sollevare lentamente la spalliera del letto con il telecomando per cercare di farti stare un po’ più dritto, ma il movimento ti ha fatto male, si vede dal tuo pallore e da come stringi gli occhi.
Mi si annoda lo stomaco a vederti così: come posso non provare odio per tutto? Ma non è il caso che tu te ne accorga.
Spero sempre che gli antidolorifici ti impediscano di guardarmi veramente, in questi strani giorni, perché mi sento nudo.
Trasparente.
Temo che ogni mia parola, ogni mia mossa, ti facciano capire in un battito di ciglia quello che nascondo.
Non deve accadere.
Potrei sopportare tutto, ma non che tu rida di me. O che mi respinga spaventato.
Non devi spaventarti, Sherlock: io sarò quello di sempre, lo prometto.
Attendo che tu ti senta più o meno confortevole nella nuova posizione e provo a raccogliere un po’ di minestra nel cucchiaio.
Sei il solito bastardo privilegiato: verdure fresche in un denso brodo di carne, fatte preparare apposta per l’ospite speciale di questo reparto speciale.
A casa mi dovrò sforzare un bel po’, dovrò seriamente imparare a cucinare. La cosa mi preoccupa.
“Prova” ti esorto avvicinando il cucchiaio al tuo viso. Le labbra si storcono con disgusto.
“Ho la nausea”.
Mi guardi senza riuscire ad aprire gli occhi completamente, devono averti dato da poco un’altra dose.
“Hai promesso” ti dico con pazienza “devi riabituare l’organismo al cibo, bastano pochi cucchiai.”
La punta del cucchiaio tocca il tuo labbro inferiore.
Con l’altra mano tengo fermo un grande tovagliolo sotto il tuo mento.
“E’... imbarazzante” dici con una smorfia.
Eccoci, si comincia.
“No, non lo è, non hai idea di cosa sarà veramente imbarazzante, mangia.”
Chiudi gli occhi, li riapri, mi guardi, ci provi.
Sorrido soddisfatto quando ti guardo mandare giù il primo boccone in settimane, nonostante dalla tua espressione sembri che tu stia ingoiando limatura di ferro.
“Cosa sarà veramente imbarazzante?” chiedi scherzosamente dopo quel primo sforzo.
Mi viene da ridere.
“E’ meglio che tu non lo sappia.”
“Posso immaginarlo”.
Sorridi ma non ce la fai a ridere, sai che ti darebbe delle fitte lancinanti come stamattina, per cui ti trattieni.
Vederti trattenere la risata è doloroso. Mi sta facendo un buco all’altezza del diaframma.
Ti osservo e sento un freddo repentino, come se capissi solo ora che sei stato per morire davvero, tra le mie braccia, come in un film di pessima qualità.
Quando ti porgo il cucchiaio per la seconda volta, la mia mano trema leggermente; vedo il liquido che ondeggia un po’, molto vicino a tracimare dai bordi.

Calma, John. Va tutto bene.

“Un altro, forza.”
“Vomiterò.”
“No, non lo farai. Ti terrò chiusa la bocca con le mie mani, se sarà necessario.”
Non mi rispondi, deglutisci e riabbandoni il capo sul cuscino, sei provato.
Ogni minimo sforzo è dolore e spossatezza, un attimo prima hai gli occhi luminosi, un attimo dopo sei bianco come queste lenzuola, con gli occhi stretti e le labbra disidratate ridotte a una linea.
La fitta è passata, riapri gli occhi e mi guardi un po’ intontito.
“John...”
“Niente storie, andrò più lentamente, ma devi mangiare.”
Giri all’insù la mano che è sul letto, rivolta nella mia direzione, apri le dita, mi mostri il palmo.
Ho le mie mani impegnate e non capisco subito, il mio cervello non può riconoscere quel segnale, non da te. Per cui non mi muovo, non faccio niente.
Mi stai guardando, in realtà senza nessuna espressione particolare, e io resto lì come un imbecille. Fino a che non richiudi le dita.
Sherlock.
Ti sto guardando stupito e devo sembrare molto intelligente, con il tovagliolo in una mano e il cucchiaio sospeso nell’altra, e un piatto di minestra appoggiato sul tavolino portatile tra di noi.
Ho capito bene?
“Non devi” mi sussurri, senza darmi il tempo di riflettere su quanto è appena accaduto.
“Cosa?” chiede l’idiota che è in me.
“Fare questo. C’è gente, qui, che può farlo.”
“Voglio farlo”.
Sento i battiti accelerati, sto ancora pensando a quella mano.
“Perché?”
Stringo le labbra, aggrotto le sopracciglia. Perché.
“Perché sì. Un altro cucchiaio, su.”
“Dobbiamo parlare io e te” dici in un soffio.
Non adesso... non... ti prego, non adesso.
“No, quando starai meglio.”
“John...”
“Ho detto no!”
Ho avuto uno scatto, uno dei miei. I tuoi occhi si ingrandiscono un po’.
Credo tu abbia appena percepito un piccolo accenno della rabbia che mi trascino dietro come un bagaglio ingombrante.
Se fossi lo Sherlock di una volta, insisteresti.
Ma qualcosa mi dice che c’è qualcosa di profondamente mutato anche in te, perché resti zitto e non protesti più quando ti infilo in bocca un altro cucchiaio di cibo.
Riesco a farti mangiare in silenzio fino a quando mi rendo conto che non ne puoi proprio più, e, mentre il silenzio nella stanza cresce, io mi calmo di nuovo, come prima, come sono calmo quando ti guardo dormire e so che non mi puoi dare ulteriori spiegazioni.
Le ascolterò quando sarò in grado di farlo senza sentirmi strappare qualcosa dentro. Non so quando accadrà, magari tra un altro anno, magari mai.
Ma non adesso.
Non adesso.


                                                                               ***


Il giorno è arrivato.
Andiamo a casa.
Stai meglio, i dolori al petto sono diminuiti, ora riesci a stare più dritto, appoggiato alla spalliera reclinata, e riesci a portarti da solo alla bocca i cibi solidi e il bicchiere.
Sono strabiliato dalla tua docilità.
Nelle due ultime settimane non ti ho sentito lamentarti di niente, né della noia, né dell’immobilità.
Sei spesso silenziosissimo, nonostante tu ora sia lucido e con i dosaggi di antidolorifico decisamente diminuiti.
Ti colgo di frequente mentre sei assorto e cerchi di tenere lo sguardo fisso oltre la finestra, nonostante sia lontana dal letto.
Non protesti se ti aiuto lentamente e con cautela a girarti un po’ per far prendere aria alla pelle della schiena, se cerco di farti ingurgitare più cibo di quello che vorresti, se vado in bagno a inzuppare di acqua tiepida un asciugamani di morbida spugna e te lo passo ovunque per rinfrescarti.
Sto prendendo lentamente confidenza con il tuo corpo, che non avevo mai visto prima così da vicino, e lo faccio da medico, esattamente come mi sono imposto di fare.
Sto andando bene. Ho creato un netto distacco dentro me.
Comincio a mappare mentalmente ogni tua asperità, ogni muscolo, ogni curva, ogni piega della pelle.
Hai una piccola voglia violacea sotto l’ascella destra, per esempio. Non avrei mai potuto scoprirla, né avrei mai voluto, così.
Qualche giorno fa c’è stato un problema col catetere, hai lasciato che te lo togliessi io, prendendo tra le dita guantate il tuo pene soffice, avvertendo solo per un istante la bocca secca e una certa difficoltà a deglutire. E’ un’operazione fastidiosa e difficoltosa, ma tu hai sopportato stoicamente, senza emettere un solo suono, esprimendo il disagio solo con una smorfia sul viso e gli occhi strizzati.
Ti lasci fare tutto, in silenzio.
Sono quasi spaventato, non ti riconosco.
Uno Sherlock docile e silenzioso, che non è il mio.
Anche io non sono più io, e so che lo sai da come mi fissi di sottecchi, da come mi segui con lo sguardo mentre mi muovo per la stanza.
Posso sentire fin nelle ossa la tua domanda sospesa, quel perché che aleggia nell’aria e si scontra con il mio.
Abbiamo dei perché che ci pesano addosso come macigni, ma io non sono intenzionato a lasciar rotolare giù il mio, nonostante io ci abbia pensato ossessivamente in tutto l’ultimo anno e lo abbia chiesto a tutti. A Molly, a Mycroft, a Lestrade.
Ma non voglio ancora sentire la tua voce. Mi diresti cose diverse da quella sera in casa mia?
Cambieresti il racconto, mentiresti?
Ora che sei un pupazzo tra le mie mani, probabilmente pieno di sollievo e gratitudine, forse mi diresti ciò che mi fa piacere sentirmi dire.
Forse hai inventato una versione che mi faccia meno male, e non vedi l’ora di rifilamela.
Ti credo capace di addolcire il racconto di come mi hai lasciato indietro per Moran, quella mezza schiappa che ho atterrato in quattro secondi, che ho fatto fuori per te.
Il tuo arcinemico numero due.
Il numero tre, evidentemente, sono io. Dopo Moriarty, dopo Moran.
Sempre dopo.


Lasciamo stare, oggi è una splendida giornata.
Sono seduto sul tuo letto e sto mangiando una mela.
Continuano ad arrivare cesti di frutta e fiori dai tuoi ex-clienti, dagli Yarder, dalla gente qualunque. Hai dei fans.
Mycroft ti ha portato persino gli auguri della sua Vecchia Amica.
Riprenderò il mio blog mentre riposerai e io non avrò niente da fare, sento di avere l’energia giusta, adesso. E darò la mia versione gratuita.
Quella che tutti leggeranno e a cui crederanno.
Quella in cui farò di te un grande eroe, quello che penso tu sia, in cui ho sempre creduto, e nessuno saprà di come mi hai mangiato vivo.
E di come continui, inconsapevolmente, a masticarmi adesso.
Ti sorrido, oggi sei colorito. Le cicatrici sul viso stanno regredendo, sei bello come un tempo. Lo sei sempre stato.
“Sei contento?”
“Naturalmente” rispondi pacato. Di camminare ancora non se ne parla, ma possono dimetterti.
Ora di tratta di far rimarginare del tutto le costole e il femore, e cominciare a farti alzare pian piano dal letto.
Kaplan è venuto spesso a trovarti per ammirare il suo lavoro da vicino e per scambiare qualche chiacchiera con me.
Ti ha strappato dalla tomba quanto me, forse di più, e io sarò sempre grato a quest’uomo panciuto e amante della musica folk con le mani benedette.
Ogni punto di sutura che ha dato alle tue vene per fermare le emorragie interne, ha rimesso insieme un po’ dei miei pezzetti.
Sono cucito alla bell’e meglio, come una bambola vodoo, ma mi sento più o meno tutto intero.
“Considerato che non puoi circolare per fare danni, credo che la casa manterrà intatto il suo attuale aspetto per un po’.”
“Cosa che ti rende molto felice, immagino” tendi la mano e mi richiedi la mela.
Te la passo e le dai un morso soddisfatto, attento a non fare movimenti bruschi con il busto.
“Preferisco pensare a quando potrai camminare e la devasterai di nuovo.”
Mastichi guardandomi sornione, cadi in un altro dei tuoi strani momenti di quiete.
“Mi stai davvero sorprendendo” ti dico con sincerità. “Calmo e tranquillo come nemmeno nei miei sogni avrei potuto sperare. Mi vuoi rendere la vita facile, ti ringrazio.”
Tiri un altro morso alla mela.
“Sto aspettando” mi dici senza fare una piega.
Cosa, lo so.
Vuoi che io ti parli, che ti dica che ti ho perdonato. Che è tutto come prima.
Per me dovrebbe esserlo, ti amo, voglio starti vicino... ma se penso a quello che hai fatto... se ci penso... dio!
Mi adombro un po’.
“Non c’è bisogno, ci siamo detti quello che c’era da dire.”
“Oh, no “mi contraddici “tu non ne hai la più vaga idea.”
Abbasso lo sguardo, mi sento a disagio.
“Non adesso.”
“Ok, non adesso” un altro morso. “Portami a casa, John.”

Seguo con la macchina di Lestrade l’ambulanza che ti sta trasportando a luci e sirene spente: c’è una discreta scorta attorno a noi.
Moran è stato sepolto vivo in un carcere militare segreto, un po’ più sicuro di dove è stato rinchiuso l’ultima volta, e a quanto pare le indagini sono state chiuse... fino a quando non te ne vorrai accertare tu di persona (spero di no).
L’organizzazione non esiste più, non in quella forma, non con quel fine. Sei libero. Lo sono anch’io, mi auguro.
Ma immagino che Mycroft voglia stare tranquillo. E Greg, anche.
Sono giorni che mi fa da chaffeur appena metto piede fuori dall’ospedale e io non riesco mai a grattare dal fondo della mia testa le parole giuste per ringraziarlo.
Ieri sera siamo usciti per un paio di gustosissime pinte al pub, insieme ad un altro paio di yarders, e io mi sono sentito di nuovo normale, pronto a riprendere posto nel mondo.
Ma poi penso a te e questa sensazione svanisce.
Mi sento come se dovessi ricostruire la muraglia cinese a mani nude, senza calcestruzzo e senza utensili.


Davanti casa ormai c’è solo qualche annoiato fotografo di qualche giornalaccio minore, nulla di cui preoccuparsi, ormai la bolla si è sgonfiata e il mondo è andato avanti con le news.
E poi la tua è una storia a lieto fine: eri il peggior criminale schizzato del Paese, ora sei un riabilitato eroe, non c’è nulla di morboso in questo finale.
L’unica cosa su cui insistono è la nostra presunta relazione.
Se solo sapessero quanto ci sono andati vicini, per quanto mi riguarda.
Greg è comunque previdente, mi fa scudo quando esco dall’auto, come i suoi agenti impediscono a chiunque di avvicinarsi quando la barella che ti trasporta viene fatta scendere dall’ambulanza e spinta verso il portone.
Ci siamo. Siamo a casa.
Mi sento come se avessi superato un esame difficile, compiuto uno sforzo sovrumano. Una prima parte.
E’ sollievo quello che provo quando i due paramedici che sono con noi fanno passare la barella attraverso la porta della camera da letto, e tu apri gli occhi solo allora, sollevi un po’ la testa e ti guardi attorno con fare critico.
“Cos’è... quello?”
“E’ il tuo nuovo letto” rispondo appoggiato con una spalla allo stipite della porta.
Mi guardi costernato.
“No, non ci entro, in quello. Voglio il mio!”
“Non sei nelle condizioni di dettare legge. Ragazzi...”
La smorfia che mi rivolgi mi fa capire quanto tu ti debba essere sforzato in questi giorni per essere quieto, silenzioso, accondiscendente, e mi viene da sorridere.
Preferisco questo Sherlock. Questo è il mio Sherlock.
Che mi farà ancora più male, ora che saremo soli in queste mura.
“E quella?” chiedi sdegnato una volta che ti hanno sistemato nel letto, spostandoti pianissimo mentre tu reprimevi soffocati mugolii di dolore, e indichi con la testa la sedia a rotelle piegata e ancora avvolta dal cellophane che è appoggiata contro il muro.
“Non pretenderai che io ti prenda in braccio” scherzo sedendomi di nuovo sul tuo letto, che è il posto che mi appartiene naturalmente, una volta che sono andati via tutti.
“Sono abbastanza certo di riuscire a muovermi con le stampelle da subito” sibili all’indirizzo di quell’affare “non è la prima volta che mi rompo una gamba.”
“Ma è la prima volta che hai un ematoma lombare di queste dimensioni” obietta il medico “che non è del tutto riassorbito e ti impedirà di stare in piedi per più di tre o quattro secondi, per i primi giorni.”
“Umpf!”
“Durerà poco, stai avendo un recupero incredibile” ti consolo soddisfatto “se pensi che hai avuto qualche arresto cardiaco qui e là, non molto tempo fa.”
“Evidentemente non ce la faccio proprio, a morire.” Lo dici incrociando le braccia e guardandomi arrabbiato.
E’ una battuta stupida, ma io la ingoio con nonchalance, anche se mi è passata la voglia di scherzare.
“Ti va un po’ di thè?”
Ignori la domanda e non stacchi gli occhi dai miei.
“John, piantala di essere così... disgustosamente gentile e dimmi quello che mi interessa!”
Resto smarrito.
“Che sarebbe?”
Un lampo nello sguardo da felino col pelo irto.
“Mi hai perdonato?”
Guardo un attimo in basso, indeciso se farti male o meno.
Decido che puoi sopportare, adesso.
“Non lo so” mormoro piano.
“E allora perché sei qui?” Mi incalzi a denti stretti: “perché stai facendo questo? Perché mi hai salvato da Moran?”
Ti guardo, scorro con gli occhi il tuo viso, scivolo dai tuoi occhi trasparenti lungo la linea degli zigomi, mi soffermo sulle labbra vibranti di stizza, e le mie parole
sono sospese a mezz’aria.
“Ci sono cose che non si possono spiegare. Sono così e basta.”
Che risposta idiota. Posso vedere l’ira che avvampa nei tuoi occhi.
“Questo significa che è una cosa a termine? Mi rimetto in salute e te ne vai?”
La gola mi si restringe, non sono mai stato bravo a mentire. Non ho mai riflettuto veramente su questo che, più che un pensiero, fino ad oggi è stata una vaga idea istintiva, aleggiante in un angolo remoto della mia testa confusa. Ma me la fai guardare in faccia tu, adesso.
Sento un profonda tristezza irradiarsi in tutto il corpo.
“Non lo so. Probabilmente sì.”
Mi guardi come mi guadasti quella sera a Dartmoor, davanti al caminetto.
Stringi le labbra con rabbia e sento che vorresti dirimi qualcosa tipo ”vattene adesso”, ma se lo farai, io probabilmente lo farò, e allora ti trattieni, fremendo, e io mi rendo conto di quanto sia stupido tutto questo.
Non è così che deve essere,
“Dammi tempo” ti dico dolcemente.
Appoggio una mano sulla tua gamba sana.
Dio, che bisogno di toccarti, che ho!
Se mai dovessi decidere di andare, questa sarà la parte peggiore. Non poter nemmeno rubare un piccolo contatto.
Lo so che hai bisogno di me, e non come infermiere. Che vorresti che tornasse tutto come prima.
Ma le cose sono cambiate, tu sei hai dimostrato quanto facilmente puoi fare a meno di me, e io sono disperatamente innamorato.
Due cose che insieme non vanno d’accordo.
Per cui, quando starai bene, credo che ognuno andrà per la sua strada, e io dovrò vivere accontentandomi di sapere che sei vivo, che stai bene, percorri le strade del mondo, facendo svolazzare dietro di te il cappotto nero come una coda impertinente.
O forse questo mio è solo un vaneggiamento momentaneo dettato dal risentimento.
Mi guardi con quegli occhi... ora in essi non c’è più rabbia. C’è paura. E tristezza.
Come potrei lasciarti di nuovo da solo?
Sei sempre stato solo, fino a me, come me. Questo pensiero mi ha sempre fatto ammattire.
Mi guardi in quel modo e non la smetti di farmi male, ma io ti sorrido per tranquillizzarti.
“Dammi un po’ di tempo, davvero” ripeto, e faccio una cosa che fino a qualche secondo fa avrei soppesato in mille modi nella mia mente, e poi alla fine non avrei fatto per paura di infastidirti, e di spaventarti.
Salgo sul letto, che è largo abbastanza, e mi siedo accanto a te, anche io con la schiena rilassata contro la spalliera sollevata.
Con cautela, lentamente, ti circondo le spalle con il braccio destro, infilandolo dietro la tua testa, stando attendo a non muoverti troppo, a non farti provare dolore.
E’ solo un leggerissimo accerchiamento, e ti piace. Reclini subito la testa sulla mia spalla e resti così.
Sollevo la mano e la infilo tra i tuoi capelli appiccicosi. Lo shampoo secco che ti ho portato in ospedale non è servito a granché, ma meglio di niente.
Odori di farmacia e di deodorante, quello che ti ho comprato io, che ti ho aiutato io a mettere stamattina dopo le spugnature.
“Non lo farai, non ci provare” mi dici con una voce all’improvviso bassa, un soffio.
E’ bello sentirmi così importante.
E’ bello vedere che non hai respinto con sdegno o imbarazzo questo mio gesto così naturale, in cui ti sei abbandonato.
In questo momento, mentre sento il calore del tuo corpo lungo tutto il lato destro del mio, e il peso della tua testa tra la spalla e il mio collo, potrei pensare che...

Cosa, John?
E’ stanco, dolorante, spaventato, è stato per morire davvero e ha solo te, non pensi sia naturale? E’ un essere umano, tu lo conosci meglio di chiunque, sai che
tanta della sua freddezza è di facciata. Non fraintendere, John, non farti questo.


“Ci penseremo a tempo debito, adesso sono qui. E ci resto, devi stare tranquillo.” ti mormoro tra i capelli.
Riesci a capire o sei davvero idiota come in certi momenti penso che tu sia, stramba creatura?
Capisci quanto mi sei mancato?

Sì, lo capisci, o non saresti così arrendevole sulla mia spalla, in questo momento. Sarebbe facile, per me, così accecato dalla tua presenza, capire una cosa
per un’altra: nessun normale amico si farebbe abbracciare così, per quanto lievemente, e poggerebbe la fronte sulla mia mascella, ma in queste cose tu non sei un normale essere umano.
Non hai il senso della convenienza dei rapporti, non hai l’imbarazzo derivante dalla consapevolezza di come funzionano queste cose.
Vivere con te mi ha insegnato tanto, da questo punto di vista. Da te e dalla tua ignoranza mi posso aspettare tutto e il contrario di tutto.
Però adesso l’unica cosa che mi interessa è la tua vicinanza e il benessere che per me ne deriva, fino a che non sospiri in maniera un po’ più profonda e ti sposti, allontanandoti e riappoggiando la testa sul cuscino.
Hai lo sguardo infastidito.  
Resto congelato, non sapendo bene cosa fare e come ignorare la delusione che mi sta corrodendo internamente.
Ogni cosa di questo genere con te dura poco, immagino.
Non voglio saperlo, tanto per me non cambia niente, nessuna risposta piuttosto che un’altra allevierebbe quest’angoscia.
“Vado a fare quel thè?”
Annuisci arrabbiato, guardando lontano.


                                                                                             ***

Sono stanco fisicamente.
Sono passati altri giorni e continui a recitare la parte del paziente facile, ma ci sono orari da rispettare, fisioterapie da fare, medicine da prendere durante la notte, e da un paio di giorni hai una febbriciattola che non mi piace, anche se credo sia normale influenza gentilmente fornita da una della tante visite che ricevi, per cui sono sempre all’erta.
Dormo poco, male e in maniera leggera, di sicuro meno di te, ancora ben rimpinzato di medicinali a base d’oppio.
“John...”
Per l’appunto.
Accendo la luce sul comodino e mi metto a sedere nel letto, sono le tre e quarantaquattro, appena quarantaquattro minuti fa mi sono alzato per darti l’antibiotico.
“Cosa?”
“Non...”
Il tono mi allarma, salto fuori dal letto e vengo verso il tuo.
“Cosa?” ripeto guardandoti in faccia. Sei molto pallido. Ti metto una mano in fronte, per fortuna non scotti: come potresti, con tutto quello che prendi?
“Credo di dover vomitare.”
Sono attrezzato anche per quello, ho sempre tenuto una bacinella sotto il tuo letto, faccio appena in tempo a prenderla e a mettertela in grembo che ti sollevi e ti pieghi in avanti.
“Grandioso, vorrei proprio sapere chi ti ha attaccato questa cosa” ringhio mentre ti sostengo la testa e tu rigetti con due violenti conati.
Poi mi rendo conto che devo essere sembrato insofferente, perché quando finisci, mi guardi con aria colpevole.
“Tranquillo, è solo un virus influenzale” mi affretto a rimediare mentre appoggio la bacinella per terra, prendo un kleenex dalla scrivania lì accanto e mi siedo sul bordo del letto.
“Addio cena di stasera, non hai digerito niente.”
“Scusami.”
“Non è colpa tua, non dirlo.”
“E’ colpa mia, tutto è colpa mia.”
“Sherlock... ti prego.”
Mi guardi, bianco come un lenzuolo, abbandonato sul cuscino, gli occhi come due fessure lucide.
“Dovresti andartene” sussurri in un patetico tentativo di essere quello che non sei, cioè generoso e pronto al sacrificio.
“Non fare la vittima, piantala.”
“Non che io lo voglia” aggiungi, e questo è decisamente più da te.
Resto zitto per un attimo ad assorbire la pena che questo momento mi sta procurando.
“Ho scelto io, mi sta bene così” dico poi.
“Non sta bene a me.”
Appallottolo il kleenex con cui ti ho tamponato la bocca.
“Non sta a te decidere per me, non più. Mai più.”
“Devi rifarti una vita altrove.”
E’ un colpo basso, mi arriva dritto tra le costole. Eppure l’ho detto io per primo, giorni fa, provocandoti risentimento e paura.
“Non adesso. Ho calcolato che da domani possiamo cominciare a provare a metterti in piedi, virus permettendo. Tutto il resto può aspettare.”
“Devi perdonarmi, John. E’ il momento.”
La tua voce è bassa, ma lo sguardo è fermo.
Fino a che punto lo dici perché lo senti? Non è, invece, quello che io voglio sentirmi dire?
Perché tu sei così: riesci a radiografarmi e poi piazzi una frase qua e là, senza mai rivelare davvero quanto te ne importi.
Mi mordo il labbro inferiore, attanagliato da uno sgradevole senso di difficoltà, ma mi rendo conto, guardandoti così, che la mia lotta interiore è sterile.
Ho sempre avuto la presunzione di conoscerti, ma non è vero.
Da quando ti sei risvegliato e io sono stato costretto a confrontare il vero te con quello con cui ho parlato nella mia testa, so che non riesco a decifrarti più con lucidità.
“OK” ti prometto “Aiutami a farlo. Lo farò se mi aiuterai”
Annuisci lentamente.
“Niente bugie”
Fai cenno di no con la testa.
“Non mi addolcirai la storia”
Un altro no accennato.
“Se dovrai farmi male, fallo.”
Annuisci ancora.
“Ok, appena starai meglio. Vado a prenderti un antiacido. Hai mal di stomaco?”
“Non più”
“Ok, bene.”
Ti dò due piccole pacche sul petto e vado di là con nonchalance, portandomi dietro la bacinella.
La svuoto nel bagno e apro l’armadietto dei medicinali, ma prima mi soffermo un attimo a guardarmi allo specchio.
Sto da schifo. Si vede nelle occhiaie, nella bocca perennemente serrata in una linea sottile.
Sono stanco. Sto finendo le forze, sono quasi due mesi di reclusione, ormai, in ospedale prima, e qui dentro poi.
E pensare che un tempo avrei dato qualunque cosa affinché questa evenienza mi fosse anche solo lontanamente prospettata.
Vorrei uscire, prendere aria, passare le giornate a passeggiare nel parco, farmi due risate con qualcuno.
Vorrei lasciarti indietro, sei come una maledizione.
Tu stai guarendo, e io sto morendo.


Il giorno dopo stai meglio, ti sei svegliato di buonumore, probabilmente sollevato da quello che ti ho detto stanotte (mi piace immaginarlo), e io mi sento un fantasma mentre preparo la spremuta d’arance in cucina. Ti sento che parli al cellulare, non so con chi, non mi interessa.
Hai espresso il desiderio di mangiare e ne devo approfittare. Il pane tostato è pronto.
Vorrei sdraiarmi sul letto e dormire fino a stasera, ma, visto che ti sei svegliato inaspettatamente così in forma, ho chiamato il fisioterapista del St. Thomas che mi aiuterà a farti alzare la prima volta senza, presumibilmente, vederti stramazzare al suolo.
Possiamo provare. Devo accelerare. Ho bisogno di recuperare le forze.
Vengo di là col vassoio e tu stai digitando sul laptop che da qualche giorno sei in grado di tenere in grembo e usare senza svenire per il mal di testa, anche se ti sporgi verso lo schermo con gli occhi stretti, cercando di focalizzare.
Hai il capo chino e l’espressione concentrata, le sopracciglia aggrottate, sei lontano e rigido nel tuo mondo, sei il perfetto Sherlock in modalità lavorativa.
“Colazione, togliamolo di lì.”
Non mi rispondi, non sai nemmeno che sono nella stanza.
“Sherlock!”
Sollevi una mano e mi fai cenno di aspettare con un dito alzato.
Vorrei sbattere il vassoio per terra e andarmene via: questa era la normalità, un tempo, ma io adesso non la sopporto più.
Conta fino a 100, John. Conta.
Resto in piedi e cerco di regolamentare la respirazione per non fare cose di cui mi potrei pentire, spaventato dalla rabbia che mi susciti, e probabilmente ti starò sembrando l’imbecille con cui vivevi prima, ma non lo sono più, Sherlock.
Il tuo spaventoso QI è in grado di farti intravedere il me attuale?
Poi parli, finalmente.
“Il mio sito è esploso. Ci sono migliaia di messaggi. Richieste di aiuto. Potrei diventare ricco, con tutto questo lavoro. Credo di aver già risolto un paio di casi via mail, a dire il vero.”
Io ricaccio indietro con ostinazione tutto ciò a cui stavo pensando prima.
“Sei già ricco, mister fratello-del-governo-inglese.” sospiro.
“Non considero mie le risorse di famiglia.”
“Chissà chi sta pagando tutto questo” dico posandoti il vassoio sulle ginocchia mentre tu sollevi il portatile e me lo passi.
“Mycroft è un’altra faccenda, lo sai.”
“Mangia e bevi, devi avere abbastanza energie per alzarti. E vedi di riuscirci, basta vaschette, spugnature e shampoo secco: prima o poi devi fare un bagno come si deve.”
“E magari andarci pure, come si deve” scherzi, visto quanto palesemente odi quando sei costretto a rivolgerti a me e all’apposito attrezzo anche per quello.
Ormai non c’è più niente che io non abbia fatto per te, ogni limite di pudore e intimità è stato superato da tempo, e con un certo sorprendente successo.
“Soprattutto quello” scherzo anche io, all’improvviso un po’ più leggero.
Sul vassoio c’è anche la tazza del mio caffè. Mi siedo sul letto, come faccio ogni mattina, e la prendo.
“Sei esausto” mi dici radiografandomi con lo sguardo trasparente.
“A breve sarai di nuovo sulle tue gambe e potrai fare tu la spesa, lavare i piatti e portare la roba in lavanderia mentre io dormo.”
“Preferisco farmi ammazzare di botte un’altra volta.”
Sorseggio un po’ di caffè e il mio sguardo vaga in un punto indefinito.
“Ci pensi mai?”
“A Moran?”
Mi leggi nel pensiero, come sempre. Annuisco.
“No, ormai è finita.”
Mi è sembrato di vedere un’ombra passare sul tuo viso. Ma forse mi sbaglio.
“Lo vorrei uccidere” dico con tranquillità “sapere che è vivo mi disturba.”
Mi guardi con intensità e sai che non sto scherzando.
“Ho spesso pensato di chiedere a Mycroft di portarmi dove lo tengono rinchiuso, e lasciarmi solo con lui. Per finire quello che ho cominciato.”
“Raccontamelo, John.” Mi chiedi dopo aver bevuto un sorso di spremuta.
Lo guardo sorpreso.
“Avrai sentito questa storia cento volte, almeno.”
“ Non da te.”
Sospiro. Da dove comincio? Dovrei srotolare tutta la cronaca di quella sera con distacco?
Non so cosa provo, mi sembra di non averlo fatto io, era un’altra persona, quel John lì.  A malapena mi ricordo i particolari.
Ma comincio a raccontartela da quando Moran è entrato nel pub e non riesco più a fermarmi, mentre tu mi osservi con le sopracciglia un po’ aggrottate e fai colazione lentamente.

Alla fine ho parlato io e non tu.
E’ una buona scusa, per me, per non ascoltare.
Quando termino, mi stai osservando con la tua tipica espressione analitica e riflessiva. Hai le labbra strette in qualcosa che sembra disappunto.
O è preoccupazione?
“E’ stato un po’ più... confuso di quanto ti aspettassi, suppongo” dico perché non so bene cosa dire, in realtà.
“E’ meglio di quanto mi aspettassi” dici con voce cavernosa “ero sicuro che la partita fosse finita. Che saremmo morti entrambi.”
“Perché gli hai dato la prova definitiva che eri vivo venendo quella sera in Baker street? Non è da te sbagliare i calcoli.”
Emetti un sospiro nervoso e distogli lo sguardo da me.
Io lo so, ma sarebbe ora che tu lo dicessi, Sherlock.
“Non ho sbagliato i calcoli, ho preso una decisione imprevista.”
Sento un formicolio che mi risale per la gola, la sensazione sgradevole di esposizione, di trasparenza, che sapevo avrei provato, ma che ora mi sta impedendo di respirare.
Comprendi che sto aspettando, e allora lo dici.
“Ho deciso di vederti prima che tu morissi. In un modo o nell’altro, stava per accadere.”
Sento lo stomaco che si stringe.
“In un modo... o nell’altro?” provo a mentire.
Mi stai trafiggendo con gli occhi, nel modo in cui lo facevi quando sapevi qualcosa che io non sapevo.
“Avevi deciso. Avevi la pistola” dici lentamente.
Io scuoto la testa. Perché sto negando? Perché mi vergogno all’improvviso del dolore che ho provato, della mia debolezza?
Era per questo che non ne volevo parlare, lo vedi?
Perché devi sezionarmi da vivo, strappare fuori da me tutto ciò che voglio sia sepolto nei miei strati più profondi?
“No.”
“John...”
“E anche se fosse, come diavolo avresti mai potuto saperlo?”
“Ti ho sempre osservato. Sempre.”
La sicurezza che leggo nel tuo volto mi spaventa. Non sono mai stato solo, ma non avevo modo di saperlo... quanto può essere orribile averlo saputo dopo?
Non deve essere stato difficile, per te.
Ti sarà bastato guardare in un monitor collegato a una della tante migliaia di telecamere a circuito chiuso, le stesse che ama tanto tuo fratello, e notare come camminavo per strada, quella sera, toccandomi ogni tanto dietro la schiena, non più abituato da un anno a portare quel peso là dietro.
Come per accertarmi che la pistola fosse proprio lì e non mi fosse caduta da qualche parte.
Ti sarai trovato faccia a faccia con il povero, povero John, e avrai deciso che valeva la pena darmi qualche giorno in più, qualche giorno fino a Moran.
E poi saremmo morti lo stesso per mano sua, probabilmente, nonostante gli sforzi di Mycroft, del MI5, di Scotland Yard, perché ormai era saltato tutto.
C’era solo da sperare che non andasse così, che qualcuno che non fossi tu riuscisse a intralciare Moran in tempo.
Tu che ti affidi alla speranza e non ai freddi calcoli.
E’ una cosa di una portata enorme.
Abbasso il capo e mi vergogno profondamente di me stesso.
E’ veramente brutto doverti confermare che sono andato vicino ad uccidermi piuttosto che continuare a vivere senza di te: mi fa tornare indietro a quei giorni, non posso sopportarlo.
Non posso sopportare che tu mi stia guardando e mi faccia sentire così piccolo.
“Mi volevi vivo per poterlo attirare fuori dal suo buco, non potevi rischiare di lasciarlo scappare.”
“Ti volevo vivo e basta, John. Un altro po’. Fino a quando fossi riuscito a fartici restare. In qualunque modo.”
Lo dici con enfasi, irrigidendoti, sporgendoti un po’ verso di me.
Allora ti guardo. Hai gli occhi scintillanti di rabbia perché non ti credevo. Ed è esattamente nel vederli così che comincio a crederti.
Avevi il tuo piano, è vero. C’è anche un po’ di quello, ma c’è anche questo.
Questo.
E io lo sento. Lo vedo adesso, nei tuoi occhi.
Hai impedito che morissi lanciandoti nel vuoto, hai impedito che morissi tornando da quel volo, senza sapere che per me, in quel momento, non avrebbe fatto alcuna differenza.
Non sono stato solo una pedina, allora.
Non mi mentire su questo, ti prego. Non farlo. Non c’è menzogna in quegli occhi, in questo momento, ma io so che ne saresti capace... no, non su questo, non su di me, ti ho visto, quella sera in casa mia.
Hai pianto.
Hai supplicato.
La rabbia mi ha impedito di vedere. Un muro rosso sangue che non mi ha permesso di raggiungerti, che ha dato a Moran l’occasione di mettere le mani su di te.
Mi sento misero.
Non riesco a dire niente, sopraffatto dalla mia nudità di fronte a te.
Se non ti avessi respinto... se non fossi stato così ottuso.
“Sono un idiota” dico finalmente a voce alta, dopo tutti questi giorni in cui me lo sono detto da solo, facendolo rimbombare nella mia testa.
Tu mi fai una smorfia che probabilmente significa sì, lo sei.
“Sono un idiota...” ripeto lentamente, con la testa bassa: mi accorgo che sto piangendo solo quando vedo due piccole macchie scure allargarsi sul lenzuolo sotto di me.
“John...” sento che mi chiami allarmato.
Le reazioni umane ti spaventano, lo so, ma adesso non mi posso preoccupare di questo.
Guardo in basso, guardo la porzione di lenzuolo situata tra me e te, e piango.
Di sollievo, di confusione, di frustrazione... perché forse mi rendo conto ora che non sono uno strumento, o almeno non solo, ma l’unica persona in carne ed ossa che tu, tuo malgrado, hai cercato di tenere con te, nel tuo strano e deviato modo.
Sento le tue mani nei capelli.
Mi attiri lentamente verso di te, titubante, fino a quando la mia fronte tocca la tua spalla, e mi lasci piangere, tenendomi la testa in quella posizione, senza dire niente, perché consolare la gente non è mai stato il tuo forte.
Afferro i tuoi avambracci con le mani e voglio restare così, sopraffatto da questa intimità che non è quella degli ultimi due mesi, non è quella del corpo nudo, delle terapie, dei lavaggi, ma è quella che mi stai concedendo di nuovo senza riserve, come una volta, quando ce n’era talmente tanta tra di noi che non c’era bisogno nemmeno di toccarci.
Questo contatto mi restituisce il respiro.
Sapere con certezza che non sono stato solo il tuo piano mi rende di nuovo John, quello che avevo perso, quello per cui ti sei fatto massacrare così.
Non me lo perdonerò mai, Sherlock.
Le tue mani sulla mia testa sono calde, affettuose, impacciate.
“Ho fallito” sento che dici, la tua voce è un basso brontolio che ascolto attraverso la pelle della mia fronte “non sono riuscito a fare quello che dovevo.”
“Che vuoi dire?” riesco a chiedere sforzandomi di riguadagnare un tono normale.
“Ho cercato di proteggerti e non ce l’ho fatta.”
“Sì, che ce l’hai fatta. Sono qui.”
“Per un caso fortuito. Ho trasformato te nella peggiore arma che potessi puntarti contro.”
Questo Mycroft non lo sa, non ha potuto dirmelo.
Sherlock.
“Ho dovuto rimediare in fretta: ho rimediato male” aggiungi con una nota nella voce che mi suona come disperazione.
“No. Sono vivo” sussurro, e voglio intendere molto di più di quello che sto dicendo.
Non togliere le mani dai miei capelli, non farlo.
“Non avevo idea che...”
Cosa?
Che ti avrei pianto così tanto? Che la tua morte senza spiegazioni mi avrebbe ridotto a un guscio vuoto, senza futuro?
Ora lo sai. Sai anche molto altro, suppongo, ma non ho la forza di nascondermi o negare.
Voglio solo stare così, con la fronte appoggiata alla tua clavicola, a cercare di contenermi mentre respiro il tuo odore.
Realizzo per la prima volta che una condizione pateticamente umana come la mia, il mio dolore, ti abbia costretto a fare cose non previste.
E‘ straordinario che tu le abbia fatte: è un onore.
“Dammi un minuto...” ansimo cercando di calmarmi, comprendendo che questo momento per te deve essere insopportabilmente imbarazzante, fastidioso.
Non voglio vedere che espressione stai facendo, fammi restare così, un altro minuto solo.
Sento che sospiri. Impazienza? Disagio?
Scusami, non posso fare altro.
Un minuto ancora e tornerà tutto come prima.
Togli le mani dalla mia testa, inducendomi a lasciar scivolare i tuoi avambracci dalle mie... ecco, è il momento di rientrare nei ranghi, di risucchiare indietro questa debolezza: sì, lo so, sono quasi pronto.
Un altro respiro profondo o due e sarò pronto.
Invece allarghi le braccia e mi circondi le spalle con un movimento non fluido, e mi abbracci piano.
Non è da te, stringi troppo e troppo all’improvviso, mi induci a slittare con la fronte sul tuo collo, sconvolgendomi con il contatto e con l’istantaneo calore in cui è affondata la mia faccia, e mi scappa una leggera risata nel pianto.
“Pensa che spreco se mi fossi ammazzato.”
Riesco solo a dire questa stupidaggine perché non posso sostenere questa cosa, la devo sdrammatizzare, spezzare, prima che mi pieghi in due, prima che mi faccia perdere il controllo.
Sento che ti metti a ridere anche tu, assorbo il rimbombo della tua voce attraverso la tua gola, sulla mia guancia destra.
Dio, che cosa sono stato sul punto di fare!
“Un spreco colossale” dici.
Ridiamo ancora, insieme. Rilassi le braccia, lasciandomi andare.
Se avessi fato quello che per un istante mi è passato per la mente, durante questo abbraccio, saremmo tornati al punto di partenza: fraintendimenti, imbarazzo, paura, dolore.
Ho avuto la forza di non farlo, sono orgoglioso di me. Addolorato, ma orgoglioso.
Mi discosto da te e ti guardo sorridendo con un certo disagio, asciugandomi gli occhi con il dorso delle mani.
Tu sorridi a labbra chiuse, hai le guance un po’ arrossate: credo sia la prima volta un assoluto che abbracci qualcuno spontaneamente, credo.
Un altro piccolo punto per me?
“E’ tutto ok?”
Annuisco.
“E’ tutto ok.”
Ed è vero. Per la prima volta dopo tanto tempo, credo che sia vero.
Il campanello della portone principale trilla due volte, due tocchi veloci, uno dietro l’altro: David, il fisioterapista.
Quello grosso e nero che ogni pomeriggio ti prende per la collottola, come fossi un gatto arrabbiato, e ti obbliga a fare quello che dice lui, nonostante le proteste, le maledizioni sibilate tra i denti e i bronci da bambino di due anni.
Per la prima volta non storci il muso nell’udire la scampanellata.
Con una certa emozione, ti dò due piccole pacche sul ginocchio della gamba rotta e ti guardo.
Non smetterò mai di guardarti. Almeno questo, me lo concederò.
“E’ ora di rimettersi in piedi, signor Holmes.”






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Nota:
Ancora una volta ringrazio la splendida Minerva 74 per la guida spirituale e materiale. Erroracci e ridondanze scongiurate grazie a lei, anche se le chiedo scusa nel caso in cui alcune correzioni mi siano sfuggite: ho pubblicato in piena notte e non ci vedevo quasi più. Betare è un lavoro per veri duri (e ottimi scrittori). Grazie, Stef. Quanta pazienza!

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Capitolo 10
*** Captain, tell me where I’m been ***


 



Canzone ispiratrice: “Lord, I’ve been trying” - Richard Ashcroft

(purtroppo su youtube ci sono solo un paio di versioni live il cui audio è pessimo, ma il pezzo ascoltato dall’album è bellissimo e il testo veste PERFETTAMENTE il capitolo - o almeno così voglio vederla io... gosh!)

http://www.youtube.com/watch?v=BJJy44P1UVs&feature=related


Lord, I've been trying

Trying to keep myself from crying

And it gets hard, there's no use denying

There's been some nights when I did a little lying

Sure feels like I've been here before

Yes it sure feels like I've been here before


Captain tell me where I've been,

Are there waves left there for me?

Is there something left to see?

Is there something left to be?

Oh I know that I'm holding on but I've got time to grow

Alright, alright, alright

Said it's alright, now


Days that I've been spending

And all these blues - they're never ending

And it gets hard, and life will go on again

Gonna shake off these blues, I'm leaving them now


Sure feels like I've been here before

Yes it sure feels like I've been here before


Captain tell me where I've been,

Are there waves left there for me?

Can you see the warning sign

Flashing there in my mind?

My mind is free and I'm talking up to you - I say

"Alright, alright, alright"


It feels good, it feels good,

My love is alright now,

It's alright, it's alright


                       ***



- Sherlock -


David, il fisioterapista.

Grosso, alto. Triste.

Ha grandi mani dai palmi rosati e usa magliette troppo strette. Va in palestra, ma ha una pancia prominente che non va via a causa dell’alcol che ingurgita di venerdì e sabato.  

Un tipo ombroso, di cattivo umore. Neanche un briciolo di ironia, non sul lavoro. Non che mi interessi.

Un uomo sbiadito, che nel portafogli ha la foto di un figlio che oggi dovrebbe avere sei o sette anni, ma che in quella specifica foto ha ancora pochi mesi: uno non troppo sentimentale, quindi.

Nostalgico, forse. Ma non attaccato alle persone nel presente.

Alle cose, sì. Controlla cento volte che il costoso smartphone nuovo sia al suo posto, nelle tasche dei jeans che sembrano esplodere attorno a una vita bassa e molle. Si porta dietro il laptop, non si capisce bene per far cosa, visto che il suo lavoro è allungare i muscoli e rinforzare le ossa alla gente: è evidente che teme che qualche coinquilino non fidato glielo rubi, da quando ha dovuto traslocare dopo la separazione. Un appartamento grande ma spoglio, tipico da lavoratori, condiviso con almeno altre due persone.

Glielo leggo negli abiti non stirati, nell’odore sempre diverso di shampoo e deodorante, chiaramente presi a caso in un bagno troppo condiviso, nella mania che ha di enunciare cosa tocchi a lui comprare dal supermercato ogni mercoledì: un turno prestabilito.

Un uomo senza luce, ma nemmeno oscuro nel senso romantico del termine: uno opaco.

Gentile perché sul lavoro deve esserlo, ma brusco il più delle volte, soprattutto con me, che mi diverto a stuzzicarlo per far irritare John di riflesso: uno che non ha niente da dire.

David l’opaco, quindi, che ogni pomeriggio, quando ha finito con me, chiacchiera con John, il luminoso.

Siedono al tavolo del soggiorno, uno di fronte all’altro, con il thé tra le mani, in una perfetta opposizione di niente e di tutto.

Inconsistenza e massa.

Vuoto e significato.

John che ha trova sempre un modo gentile per intrattenerlo, ligio alla sua educazione, fedele al suo temperamento in apparenza quieto ed equilibrato.

John che sorride a lui e mai a me.

Non credo se ne renda conto.

Io sto qui sul divano, seduto come sempre, dolorante dopo la sessione, e lo fisso in attesa di un cenno, di una battuta, ma quando c’è David lui fa finta che io non sia nella stanza.

E non solo quando c’è David.

Non che mi interessino minimamente le loro chiacchiere sportive o di circostanza, insopportabili e da morte cerebrale, dio me ne scampi, ma preferisco stare qui in attesa che John mi parli.

Ma non succede mai.

A volte, quando David è di buon umore e indugia nella conversazione, sapendo che John non chiede di meglio che poter parlare con qualcuno che provenga dall’esterno, ci resto anche un’ora, qui, ad ascoltare queste scempiaggini.

Quando se ne va, il silenzio ripiomba nella casa.

Io sono arrabbiato, e John, inconsapevole, va in cucina a lavare le tazze e a fischiettare.

Come se io non ci fossi.

Sempre come se io non fossi qui.

Allora prendo le stampelle, che riesco finalmente ad usare da qualche giorno, seppure con una certa difficoltà, e cerco di alzarmi per andare nella mia stanza.

Quando sente il tramestio che provoco incrociando le grucce tra loro per darmi lo slancio, John esce dalla cucina, placido come sempre, e viene ad aiutarmi, senza dire una parola. Probabilmente, verosimilmente, temendo che io cada e mi rompa l’altra gamba, tenendolo bloccato qui per altri due mesi.

Io a volte grugnisco, a volte neanche quello.

Non ce n’è motivo, è tutto inutile.  

Appena potrò, scapperò sul tetto a fumare una sacrosanta sigaretta.


Non è vero che il mio cervello sia un motore a reazione.

O, meglio, non è sempre vero.

Non lo è mai stato.

Lo controllo come riesco a controllare qualunque altra mia parte del corpo: so calmarlo ed eccitarlo a mio piacimento, e questo è il momento della calma. Niente rotelle che mulinano, dunque: niente meccanismi vorticosi che girano fino al surriscaldamento.

Ci sono, certo che ci sono, spesso io stesso ne sento il rumore; è vero che a volte, durante i casi, sfuggono momentaneamente al mio controllo e mi fanno assumere comportamenti pericolosi, inusitati, stravaganti... ma non mi fanno del male, non mi rendono loro schiavo, non c’è nulla che io non possa gestire, smussare, organizzare nella mia testa.

Altrimenti sarei uno psicopatico incapace di pensieri compiuti.

E sappiamo bene che non lo sono.

Il mio è un problema emotivo. Ho difficoltà a provare empatia, non sono capace di entrare nella sfera emotiva della gente. O, meglio, ne sono capace come per tutte le cose, ma non la so condividere.

Più semplicemente, non mi interessa.

Non mi interessava.

Non fino a John.  

Quando l’ho conosciuto, ho analizzato il suo mistero fino allo sfinimento, per capire in seguito che non c’era niente di complesso da analizzare.

Notti intere sul divano, a guardare il soffitto, a tracciare diagrammi mentali perfettamente logici che incrociavano i dati che accumulavo su di lui durante la giornata: perché in quella circostanza aveva detto proprio quella cosa, perché aveva riso in un certo modo, perché si era arrabbiato con me, cosa gli piaceva, cosa no, come mangiava, come dormiva, gusto, abitudini, preferenze.

Dati comuni a chiunque, stupidi, senza alcun significato, se presi singolarmente: che davano, però, un quadro generale di una compiutezza disarmante alla luce di tre aspetti che ho rilevato da subito, e in cui si risolveva tutta l’analisi.

John è un essere umano completo, perfetto, io l’ho sempre percepito così, a causa di tre sole caratteristiche che davvero lo contraddistinguono: a) l’essere totalmente, profondamente empatico nei miei confronti; b) l’essere onesto con sé stesso e con gli altri; c) avere la capacità di ammazzare la gente a sangue freddo.   

John è l’essere più a sangue freddo che io abbia mai conosciuto: più di me, più di Mycroft.

Il che non vuol dire che non abbia un temperamento istintivo e sanguigno, so bene cosa succede quando perde le staffe, ma più semplicemente che non prova rimorso.  

Non si guarda indietro.

L’ho indotto a seguirmi nelle imprese più folli, a compiacermi in alcune mie piccole manie, a collaborare con me nelle forme più disparate e pericolose, ma solo perché lui lo voleva.  

Al contrario di come tutti pensano, io non ho mai controllato John.

E’ impossibile.

E’ una cosa che si colloca fuori da ogni scenario, o immaginazione.

E’ ciò che mi ha indotto a fingere la mia morte senza renderlo partecipe del piano, nonostante il dolore che ciò abbia causato a tutte le parti in gioco.

Per primo, a me.

John decide per sé stesso, e quando decide una cosa, anche inconsciamente, non torna indietro, mai.

Ecco perché ho sinceramente, effettivamente paura.

Che se ne vada, intendo.

Da quando mi sono ripreso, le prima delle tre caratteristiche vacilla pericolosamente.

Non è più empatico nei miei confronti: non comunica, non stabilisce un contatto che non sia legato a un mero fatto di quotidianità o doveri da sbrigare (doveri? Ancora non mi è del tutto chiaro perché lo stia facendo!), non mi interpella, non mi fa domande più incisive o personali che non siano cosa voglio per colazione o se ho bisogno di un cuscino in più.

Il che mi porta alla seconda caratteristica.

E’ onesto con sé stesso e con gli altri. Se lo è ancora, per come lo conosco io, non credo sia vero che è passato oltre. Nemmeno se lo ha detto.

Nemmeno se ha pianto sulla mia spalla.


Questo mi fa soffrire in un modo che non credevo possibile.


La vera sfida che so sostenendo con me stesso, ora, è questa.

Sopportare la sofferenza che John mi da inconsapevolmente.

Nulla di ciò che mi ha fatto Moran è minimamente paragonabile a ciò che mi sta facendo John fin da quando sono tornato.

Non che io non abbia mai sofferto prima, sono un essere umano: ho passato la vita a dare l’impressione che io fossi totalmente immune dai grossi impatti emotivi, e invece no.

Ma è sempre stato per motivi diversi da questi.

Pochi motivi, sepolti tanto tempo fa. La morte di mio padre, quella di mia madre, il problema con Mycroft.

Il problema di Mycroft.

Roba vecchia, su cui non mi sono mai più soffermato da allora.


Non ho mai voluto farmi vedere da nessuno.

Non credevo neanche ci fosse qualcosa da vedere.

Mi conosco, so chi sono, so quello che faccio: chi lo sa meglio di me?

Non c’è niente da vedere, solo il mio lavoro, la mia precisione, la mia assoluta superiorità in questo, la mia ossessione per le sfide, il piacere puro che ciò mi procura.

Di nuovo, fino a John.

John ha visto delle cose, senza tanti preamboli, dopo poche ore che ci conoscevamo.

L’ha fatto quando, con tranquillità disarmante, mi ha detto che stavo per prendere quella capsula solo per dimostrare quanto fossi intelligente, e poi mi ha dato dell’idiota, ridendo. Dopo aver sparato a un uomo.

Cedo di non aver potuto rispondere, stranamente non ricordo.

Ero impegnato a capire chi fosse lui, probabilmente.

Non sa che tutto è cominciato allora, da quella sera.

Non lo sapevo neanch’io.

Erano solo sensazioni che ricacciavo indietro, distrazioni, note stonate, non interpretabili a causa delle mie calcolate mancanze.

Ho sempre avuto delle mancanze: sono uno che vive di mancanze nei confronti degli altri esseri umani.

La mia sociopatia non è neurologica (no, Mycroft!), ma mi si è impiantata dentro per pura necessità di difesa, per istinto di sopravvivenza, nella mia prima infanzia, ed io l’ho coltivata: mi rende le cose facili, mi da la giusta distanza che cerco per ragionare.

So cos’è il sentimento.

So cosa sono le emozioni, di qualunque natura esse siano. Spesso non le capisco, non le provo, non riesco a sentire mie le loro sfumature, ma quando le vedo sulle facce degli altri, le riconosco, o non potrei fare quello che faccio.

La loro mancanza mi da la visione più chiara del mondo.

A quella mancanza, ne ho aggiunte altre per mio comodo, per gli stessi motivi.

Mancanza di educazione, sì, lo so; mancanza di tatto; mancanza di interesse nella gente. 


Tutto è più semplice, se si riduce a mera osservazione e mero perseguimento degli obiettivi, senza sovrastrutture in mezzo.

Era così, prima di John.

Quando è arrivato lui, io sono partito per un viaggio senza rendermene conto.

Lentamente, inconsapevolmente.

Ho iniziato ad avere dei dubbi.

Dubbi.

Io.

Quando, in sua compagnia, le cose si semplificavano ancora di più, in un modo diverso.

La gente collaborava.

Io insultavo, lui chiedeva scusa per me.

Io correvo via, lui restava a fare l’altra parte del lavoro, il suo viso gentile gli rendeva più facile tutto. Con le persone.

Le porte si aprivano meglio. Le messinscene per arrivare all’obiettivo primario - la risoluzione di un caso - funzionavano alla perfezione.

Affidabile. Presente. Perfettamente efficiente. Letale, all’occasione.


Un’immediata dipendenza, ecco cosa ne ho guadagnato.


Come il tabacco, come la droga.

Convinto, io, di potermene liberare senza difficoltà come ho fatto in passato con le prime due.

Il primo errore della mia vita.

Il secondo, è stato non fermarmi mai a pensare davvero a John, prima di dovermi separare da lui.

A cos’altro c’era dietro l’efficienza, la lealtà, il vago desiderio di morte che si è sempre trascinato dietro.

Impulsivo, John. Coraggioso. Affamato di pericolo. Di oscurità.

Come me.

Molto più simile a me di quanto si creda.

E poi, invece, lo guardavo preparare con aria dimessa il thé nel suo piccolo, orribile appartamento del dopo, e io restavo lì a osservarlo, a pensare, focalizzato su di lui con un’urgenza sconosciuta.

John e il suo thé.

Due cose saldate col fuoco. Non ho bevuto thé per un anno, mai, men che meno da Mycroft.

Ero perso in uno strano viaggio e non potevo semplicemente bere del thé, mi scendeva in gola amaro come veleno.

Guardavo John attraverso le telecamere in ogni momento della giornata, bevendo caffè. Lui thé, io caffè. A volte mi portavo la tazza alla bocca nel suo stesso momento, con il suo stesso movimento. Io con la mano destra, lui con la sinistra.

Infantile, inevitabile.

E, osservandolo, mi sentivo giorno dopo giorno distaccarmi da me stesso, da quello che ho coltivato e costruito per tutti questi anni.

Capivo.

Vedevo.

Come in uno specchio.

Attraverso quello che vedevo, riuscivo a interpretare quello che provavo, e che volevo ricacciare indietro.

Dolore. Abbandono. Solitudine. Nostalgia.

Mancanza.

Sempre in difetto, sempre per sottrazione.

All’improvviso non sono stato più capace di sentire tra le mie mani quello che ancora avevo: il mio piano, l’intuito, la sicurezza di star facendo bene quello che mi ero prefissato.

Vedevo solo ciò che non c’era. Ciò di cui mi ero privato consapevolmente e inevitabilmente, con le mie stesse mani.

John.

Lui che si aggirava per l’appartamento senza sapere bene cosa fare.

Lui che restava ore in poltrona a guardare la tv ma con gli occhi fissi sul muro bianco dietro essa.  

Lui che non andava a dormire. Che non mangiava. Che qualche volta nascondeva la faccia tra le mani.

E io con lui, da quell’altra parte.

Mentre fluttuavo via non so dove, perso, confuso in una nebbia di sentimenti mai provati prima.

Sentimenti atroci.

Non li volevo, non potevo. Ho passato una vita a tenerli sotto la suola delle mie scarpe, ad addomesticarli con rigidità esasperante.

E poi, all’improvviso, John mi ha reso impotente.

A volte, di notte, mentre dormiva, quelle rare volte e per quelle poche ore, restavo a fissare lo schermo buio, nel quale si intravedeva appena il fioco riverbero della luce del lampione stradale che filtrava dalla finestra della sua camera da letto, e io restavo a pensare a me, a cosa mi ha fatto diventare quello che sono.

Avrei voluto telefonargli.

Immaginavo di prendere il cellulare e cercare il suo numero nella rubrica. Immaginavo che avrebbe acceso la luce, assonnato, e poi avrebbe preso il telefono dal comodino, e avrebbe risposto, preoccupato, gentile.

John - gli avrei chiesto- perché sono così? Perché faccio queste cose?

E lui si sarebbe messo a sedere, la schiena contro la spalliera del letto, e mi avrebbe detto: perché è necessario, Sherlock. Perché tu sei tu, sei infallibile. Sei fantastico.

No, non mi avrebbe risposto così.

Ma io avrei avuto bisogno che lo facesse.

Allora mettevo in stand by il pc e tiravo una striscia di eroina. Poca, giusto per staccare l’angoscia da ogni osso del mio corpo mentre John dormiva.


Lui crede che io sia stato sempre fermo nei miei propositi.

Che lo abbia sempre osservato freddamente, focalizzato solo sul mio piano.

No. Non è vero.

C’erano giorni che lo osservavo per strada, o al lavoro, e il suo modo di tenere la testa bassa mi faceva venire voglia di spaccare tutto, in quel seminterrato.

Perché io provavo le stesse cose e non avevo la testa bassa.

Guardavo lui e lavoravo su altri tre laptop per stare dietro a Moran e ai suoi, per seguire tutti i movimenti della rete internazionale.

Forza, John, lo esortavo parlando allo schermo, stai dritto! Stiamo per farcela, non manca molto!

Lui invece continuava a camminare per strada e andare al supermercato a passo lento, assorto in un mondo di pensieri lugubri.

Pensando a me. Distrutto da me.

Come ho potuto non capirlo prima? Come ho potuto credere che avrebbe fatto più male a me che a lui?

Arrogante come sempre. Impacciato e ignorante su tutto ciò che riguardi la sfera dell’umano.

Cominciavo a realizzare.

Lo fissavo da lontano, al cimitero, e cominciavo a vedere, finalmente.

Capivo giorno dopo giorno, thé dopo thé, che il suo non era un lutto normale. Non era un pianto normale.

Era come il mio dolore, la mia nostalgia. Pressante, continua, asfissiante.

Quello che mi faceva stordire di droghe di notte, che mi rendeva pieno di odio per me stesso, per tutti.

Quando ero sul parapetto del Barts’ sapevo che avrei dovuto fare i conti con il mio dolore, ma non con quello di John.

Non sapevo... non so cosa fare davanti al dolore di John.

Avrei dovuto immaginare che la sua tenacia avrebbe giocato un ruolo pericoloso anche in questo caso.

John è uno che persevera. E’ un cane da guardia. E’ un mastino che non molla la presa.

John resiste anche nel male.  

E non va avanti, se non ha nulla per cui andare avanti; rimane lì, attaccato al suo osso.

A me.

Non lo avevo previsto.

Pensavo riguardasse solo me.

Qualche mese, e poi di nuovo una serata al pub con Greg, una nuova ragazza con cui confortarsi per un po’, fino alla successiva, e poi la routine che riprende lentamente, la normalità che avanza: ecco, cosa avevo immaginato. 


Avrei avuto più tempo, sarei stato meno disperato.

Avrei potuto finire con calma quello che stavo facendo e trovare un modo non dico indolore, ma meno traumatico per tornare a casa. Per tornare da lui. Sapendo bene che avrei potuto trovare dei cambiamenti definitivi, che avrei rischiato di non poter tornare mai più.

Ma ero pronto ad avere a che fare col mio dolore.

Lo avrei gestito, combattuto: il fine era tenerlo al sicuro, sapere che sarebbe stato vivo, e bene, da qualche parte. Bastava questo per stringere i denti.

Non ero preparato a quello che ho visto accadere, invece.

Non ero preparato a prendere il suo polso.

Non ancora!


“Sei stanco? Vuoi sdraiarti?”

Non mi sono nemmeno accorto che David è andato via.

John è in piedi vicino a me e mi guarda con la solita bonarietà.

Io scuoto solo la testa, affondando la nuca sulla spalliere morbida del divano, e chiudo gli occhi, disperato.

Impotente.

Mi sento scavare dentro.

E’ come se avesse infilato le mani dentro di me e stesse aprendo un buco con le dita.

Mi ha scaraventato in un posto sconosciuto e non riesco a tornare indietro, ho bisogno di aiuto.

Siediti qui vicino a me e parlami come una volta.

“Sicuro che non vuoi andare un po’ sul letto?”

Non voglio aprire gli occhi.

Faccio ancora cenno di no con la testa.

“Sherlock, ti senti bene?”

Annuisco. So di avere l’espressione impassibile di quando parto con i miei pensieri per ore ed ore, e so che lui la interpreterà così e mi lascerà stare.

Sento i suoi passi allontanarsi dopo qualche istante.

John. Ti prego.

Non so che cosa fare.

So cosa ho visto in quei mesi di telecamere nascoste. Ma so anche cosa vedo adesso.

Due cose contrapposte, che il mio cervello non sa mettere insieme in nessun modo.


Durante il pomeriggio, dopo un pranzo silenzioso, triste, durante il quale ho mangiato qualcosa solo per non sentirmi assalire da rimbrotti ed esortazioni continue, e durante il quale sono stato scrutato, analizzato e sezionato dal suo sguardo indagatore come una cavia su un tavolo da laboratorio (lui ci prova sempre ma non ci riesce, non è colpa sua), mi accorgo che John sta lavorando intensamente sul sul pc.

Sono sul divano (maledetto divano, ti odio, ti darò fuoco, liberami dalle tue spire!) e lo osservo, mentre io sono col mio laptop sul mio grembo, la gamba destra tesa e appoggiata sul pouf davanti a me, comprato appositamente per questo. John non ha lasciato nulla al caso, ha pensato proprio a tutto.

Lui è seduto al tavolo, ha la fronte corrugata, digita due o tre parole, poi si ferma. Appoggia il mento sulle mani, rilegge varie volte. Fa cenno di no con la testa, le labbra strette nel disappunto, poi cancella, riscrive.

Non è il blog.

Ha ripreso a scriverlo mentre io ero ancora in ospedale, stupendosi del numero assurdo di utenti che ormai ha raggiunto, e che lo seguono trepidanti.

Quando scrive sul blog è felice.

Sorride con soddisfazione mentre digita velocemente, cerca di star dietro a tutti i messaggi (impossibile!): a volte, se c’è qualcosa che lui ritiene divertente, si alza, mi porta il pc, mi fa vedere quanto io sia ammirato, quanto la gente mi ami, come se me ne potesse importare qualcosa, senza rendersi conto di quanto amino lui, invece.

Per non aver mai mollato, come un vero soldato che non lascia mai i compagni indietro, scrisse un tizio dalla vena particolarmente melodrammatica.

Ricordo che sputacchiai non so quale frase caustica in proposito, e lui rise, in un rarissimo momento di appena accennata complicità che io anelavo come  l’aria, rimarcandomi che mi aveva mostrato quel post proprio per osservare la mia reazione di fronte a un tale orribile esercizio di scrittura.

Senza sapere che io la penso esattamente come quel tizio.


Il mio capitano non ha mai mollato.  


E non so perché lo abbia fatto adesso, ora che sono qui in carne ed ossa, e non mi guardi quando gli parlo.


Non resisto.

Abbandono il mio pc sul cuscino di fianco a me e prendo le stampelle, appoggiate al divano: mi metto in posizione.

Il solito rumore metallico fa alzare la testa a John.

“Stai fermo là, mi voglio alzare da solo.”

“Sherlock...”

“Ho detto non ti muovere!”

John si alza, ma non viene subito verso di me.

Io metto lentamente giù la gamba dal pouf e scivolo con le natiche sul bordo del divano, caricando il peso sul ginocchio flesso dell’altra: punto le stampelle per bene per terra e mi preparo a darmi lo slancio.

John mi si è avvicinato, è teso.

“Sentirai dolore.”

“No.”

“E’ presto.”

“NO.”

Devo tornare ad essere quello di prima, devo eliminare questa patetica barriera di bisogno, di compatimento, di disgustoso assistenzialismo che lo tiene inchiodato qui.

Devo poter vedere come John mi guarda adesso, senza obblighi, stampelle e medicine di mezzo.

E devo vedere cosa c’è sul suo pc, senza che abbia il tempo di non rispondermi e di abbassare lo schermo.

Mi do lo slancio, testardamente, e sono quasi in piedi quando un’inaspettata fitta mi parte dal torace, dalla ferita ormai quasi del tutto rimarginata dell’intervento alla costola, e mi attraversa il corpo come una sciabolata.

“AH!”

Perdo il respiro, vacillo, mi sfugge la stampella sinistra.

John, come sempre, viene in mio soccorso e mi afferra saldamente da sotto le ascelle, in un abbraccio frontale goffo ma efficace.

Un’altra fitta quasi insopportabile si irradia dai miei lombi fino a tutta la schiena, io trattengo il respiro, mi aggrappo alle sue spalle con disperazione.

Vorrei urlare dalla frustrazione. Sembra non finire mai.

Restiamo così qualche lunghissimo secondo: John aspetta che io riprenda una respirazione regolare, io vedo dietro i miei occhi chiusi lampi bianchi di dolore e percepisco il suo corpo teso nello sforzo di sorreggere tutto il mio peso.

Lentamente recupero, riesco a restare stabile sulla gamba sinistra fino a che il dolore comincia a defluire, a liberarmi l’interno delle palpebre da quel bianco insopportabile, e io inizio a rilassare il mio petto contro il suo torace e prendo ad assorbire il suo calore, che calma il mio corpo e placa la mia furia.

“Te l’avevo detto, imbecille. Ma tu non ascolti mai” mi sussurra quasi sul collo.

Ciò mi provoca delle scariche di pura elettricità lungo tutto lo sterno, fino al basso ventre. Non riesco ancora a parlare.

“Rimettiti giù” mi esorta, spingendomi leggermente indietro.

“No. E’ passato. Voglio stare in piedi.”

“Sherlock, ascoltami, meglio di no.”

“Voglio camminare un po’, lasciami fare!”

Sono rabbioso, ora.

Si scosta da me con circospezione, assicurandosi che io ora sia saldo su una gamba e una stampella, e si china a prendere l’altra. Me la porge con un’espressione scettica, è corrucciato.

“Lentamente.”

“Ovvio.”

Mi sistemo la stampella sotto l’altra ascella e provo a fare qualche passo, sotto il suo sguardo vigile. Me la cavo, al contrario di quello che pensa lui.

Mi segue da vicino, io faccio un giro casuale per la stanza e poi punto verso il tavolo.

“Puoi continuare a fare quello che stavi facendo, faccio solo qualche giro qui intorno” gli dico brusco.

John si ferma e mi lascia andare un po’, ma senza mai distogliere gli occhi da me.

E’ fastidioso. Per quanto io voglia che mi guardi, non voglio che lo faccia in quel modo.

Finalmente passo davanti alla sua postazione e provo una piccola soddisfazione nel notare che le vecchie abitudini non sono cambiate, e che non ha attivato lo screensaver. Non lo ha mai fatto in vita sua.

Mi fermo spudoratamente davanti al pc e guardo lo schermo. Con la coda dell’occhio percepisco John che scuote lentamente la testa, rassegnato, e incrocia le braccia.

Quello che vedo non mi piace.

Sollevo lo sguardo e lo trafiggo.

“Stai compilando una domanda di impiego per la clinica.”

Lui sostiene il mio sguardo con fermezza, gli si forma tra le sopracciglia quella ruga verticale che riesce a far comparire quando è molto serio, sul ciglio della rabbia.

“Devo tornare al lavoro. Ho parlato con Sarah e ho sistemato le cose, c’è ancora una possibile posizione aperta.”

“Quando?”

Sospira spazientito.

“Ieri. Tu dormivi.”

Resto in silenzio, ma posso sentire lo stridio dei miei denti mentre serro le mascelle.

La consapevolezza irrompe dentro me con il rumore secco di un ramo che si spezza. Il suo desiderio di tornare alla vita che ha avuto senza di me mi attraversa in maniera crudele.

Ma non faccio trapelare nulla con le parole, credo possa leggermelo in faccia.

Vedo la sua espressione cambiare. Ammorbidirsi.

“Sherlock, non... ascolta, per me è giusto così. Ne ho bisogno.”

Mi rivedo a caccia per Londra, da solo, una cosa che desidero con ogni fibra del mio corpo, che mi fa bruciare di aspettativa e occupa tutti i miei pensieri che non siano John, ma che in questo momento mi lascia un sapore rivoltante in bocca.

Se quella che sto provando è autocommiserazione, credo sia la cosa più brutta che abbia mai sperimentato in tutta la mia vita.

“Certo. Fai bene.” Lo dico, ma è come se stesse parlando un altro al posto mio.

“Vado in camera.”

John abbassa la testa e combatte con sé stesso.

Cosa vuoi dirmi? Se c’è qualcosa che vuoi dirmi, dimmela, per dio!

Ma non dice niente.

Sospira. Uno dei suoi sospiri prolungati, con i quali si è sempre caricato di pazienza nei miei confronti, e si muove per accompagnarmi e aiutarmi a sdraiarmi.


                       ***


Due pillole grosse e farinose che prendo la sera, antidolorifici abbastanza potenti da servire anche da sonnifero.

Ho grosse difficoltà a stare steso per così tante ore senza svegliarmi pieno di dolori. Non posso ancora girarmi nel letto senza cautela, la gamba è ormai libera dal tutore, ma se faccio movimenti bruschi mi fa male.

Ho ancora un indolenzimento fastidioso al torace, e tanta immobilità mi fa urlare i muscoli della schiena al mattino.

Mi sento esasperato e sull’orlo della follia, ma non ho scelta. Aspettare e impegnare la mente sono le uniche cose logiche da fare.

Per cui, durante le notti che sarebbero interminabili se restassi sveglio, le due pillole sono quello che ci vuole.

Anche stasera John me le porge sul palmo della mano.

E’ seduto sul mio odioso letto da ospedale, che non vedo l’ora di scaraventare fuori dalla mia stanza, e ha un bicchiere d’acqua nell’altra mano.

Non ho parlato per tutto il pomeriggio, fino ad ora, e adesso lui ha lo sguardo di chi vuol capire.

Prendo le pillole dalla sua mano con un movimento brusco.

“Perché hai quel muso?”

Sorride appena, come un adulto farebbe con un bambino di sette anni.

“Vorrei tornare nel mio letto. Se non ti dispiace.”

Mentire a John è come vestire una seconda pelle, ormai.

“E’ troppo basso, ci vorrebbero troppe manovre, è ancora presto. Quello che è successo oggi pomeriggio dovrebbe averti convinto.”

Allunga una mano e mi sistema il colletto del pigiama. Io sussulto lievemente.

Fa sempre dei gesti del genere. Tutto il giorno.

Non riesco ancora a vestirmi da solo senza digrignare i denti, ma lui interviene prontamente contro ogni piccola piega, bottone saltato, stortura o difficoltà.

Sento per un attimo la punta delle sue dita sul mio collo.

Tutto quello che voglio è baciare quelle dita.

Per un attimo ho come un’allucinazione, o forse è un ricordo... non posso saperlo, è scientificamente impossibile.

Ho chiara in mente la visuale del soffitto della mia stanza di ospedale, quella in cui mi sono risvegliato la prima volta, dalla prospettiva del letto.

Sono sdraiato, vedo tutto sfocato. Nel mio campo visivo appannato c’è quella che sembra un’asta di flebo che incombe su di me. Ho la nausea. Ho paura. Non riesco a muovermi né parlare.

Sono in preda a un terrore sconosciuto. Posso udire i bip cadenzati di una macchina che evidentemente sta rilevando i miei battiti cardiaci: li sento accelerare bruscamente.

Vedo gli occhi di John. I begli occhi scuri e blu di John, che mi scrutano dall’alto, il suo viso indefinito ma non confondibile. E’ lui, è lì. Credo fosse il mio terzo o quarto tentativo di connettermi col mondo esterno.

Sento qualcosa di caldo sulla fronte: le sue labbra. E poi la sua mano. Il palmo grande e confortevole della sua mano sulla mia fronte, sui capelli.

Movimenti lenti, calmanti.

Una bellezza infinita nel mio mare di dolore fisico, nel mio distacco farmacologico dalla realtà.

“Stai tranquillo” dice una voce.

“Passerà presto, devi stare tranquillo.”

Potrebbe essere la sua, come non potrebbe. In quel momento non so se sia davvero lui, potrei star sognando. Ma io voglio che sia lui.

Deve essere lui.

Credo fermamente che fosse lui, ma non saprei dire con certezza se questo sia accaduto davvero o meno.

Voglio pensare che sia stato così.

E adesso questo ricordo-sogno-allucinazione mi risale in gola, soffocandomi.

Poso le pillole sul comodino che John ha posizionato accanto al mio orribile letto.

“Le prendo tra un po’, adesso voglio leggere.”

Anche lui posa il bicchiere d’acqua accanto ad esse.

“Cosa ti porto?”

Sto guardando le mie mani abbandonate sul copriletto.

Sto pensando di afferrarlo per le spalle e spingerlo contro di me.

“Una cosa qualunque.”

“Uh, idee confuse, non è da te.”

Ora lo guardo, inferocito.

“Niente è più... da me, John.”

Mi osserva stupito per qualche istante.

Chiedimi cosa! Perché!

No, invece starà pensando alla mia insofferenza per l’immobilità. Con la sua solita accondiscendenza, ora starà pensando che mi deve lasciar perdere, che è uno dei miei momenti no.

Infatti si alza e va di là, tornando con un libro qualsiasi, e me lo mette in grembo.

“E’ ok?”

Non ho nemmeno guardato cosa sia.

“E’ ok.”

John va via di nuovo, e mi lascia solo.


Quando viene a dormire, quella notte, le pillole sul comodino sono sparite e l’acqua nel bicchiere è a metà. Ma le pillole sono nel cassetto del comodino e io fingo di dormire. Sento che mi toglie il libro dalle mani, delicatamente, e poi odo il fruscio delle lenzuola quando lui si mette a letto.

Non so neanch’io perché non abbia preso le pillole.

Attendo paziente per lunghi minuti, senza muovermi. Passo attraverso tutta la gamma dei tipici rumori che John fa prima di addormentarsi.

Sospira. Si gira varie volte sotto il piumone, cerca la posizione. Tossicchia un paio di volte.

Sospira di nuovo, più pesantemente, adesso: come se avesse un peso sul petto. Poi resta in silenzio.

Se avessi potuto alzarmi da solo senza far rischiare di cadere o far rumore con le stampelle, sarei sgusciato fuori e sarei andato a sdraiarmi accanto a lui.

Per cercare un indizio, un segnale.

O semplicemente un po’ di pace.

Niente mi calma come John, niente mette a riposo il mio tumulto interiore continuo, rabbioso, a volte estenuante.

E’ stato un azzardo lavorare su Moran senza lui vicino.

A volte ho perso il controllo in maniera grottesca.

Ho esagerato con la droga. Ho rischiato di mettere le mani addosso a Mycroft per una parola di troppo. Ho spaccato oggetti e vandalizzato muri in quel tugurio di seminterrato.

Ho posato le mie mani sul video, un pomeriggio, mentre lo guardavo visitare i pazienti al lavoro. E ho pianto.

Una volta sola, ma senza potermi fermare, come se dovessi piangere anni interi della mia vita.

Come se John mi fosse mancato dal giorno esatto della mia nascita.

Per questo ora sto qui, immobile, e lascio che il suo lievissimo russare culli delicatamente il mio dolore.


                              ***


Il mattino successivo sono un unico grumo di indolenzimenti ossei e muscolari.  

Mi sono assopito per pochi minuti alla volta durante il corso della nottata, e ho cercato di cambiare posizione, ma senza grande successo. Ad ogni fitta, restavo fermo e cercavo di coordinare la mia respirazione al leggero russare di John. Così sono riuscito restare sveglio, come volevo, ad ascoltarlo.

Quando si alza, non sono ancora le sette.

Io sono riuscito a scostare la tenda dalla finestra che è alla mia destra, proprio sopra il letto, e guardo il panorama poco attraente del cortile interno su cui affaccia la mia camera. Il solito palazzo di fronte, le sue finestre, di cui ormai conosco ogni abitante, ogni dettaglio, ogni particolare.

John viene verso di me, spettinato e con gli occhi ancora mezzi chiusi.

E’ il segnale della routine che ricomincia.

Mi aiuterà ad alzarmi, a camminare in parte con le stampelle e in parte sostenuto da lui, andremo in bagno. Dovrò fare pipì con un braccio appoggiato saldamente alla sua spalla, dal lato della gamba rotta, cosa che comincio seriamente ad odiare, e poi mi aiuterà a stare in equilibrio davanti al lavandino per potermi lavare la faccia, i denti, il collo.

Poi andremo nel soggiorno e io sederò sul divano, dove lui mi porterà il caffè e insisterà perché mangi una brioche, o delle uova. Preferirei le uova, oggi.

Non mi dice buongiorno.

Invece si siede sul mio letto e mi guarda con aria serena. Quando lo guardo negli occhi sento un groviglio che mi si attorciglia nello stomaco, sempre più stretto e nervoso.

“Ti sei annoiato senza di me?”

Sgrano un po’ gli occhi. Non rispondo.

“Durante tutto quel tempo, ti sei annoiato senza di me?” Ripete.

“Molto. Sì.”

Le sue labbra sono stirare in un placido sorriso. E io non capisco.

E’ come se avesse assorbito i miei pensieri durante tutta la notte, ma ovviamente non è possibile.

“Pensa che quando starai bene ricominceremo con i casi, niente più noia.”

Il suo tono è consolatorio, ma anche allegro.

Io sento un tonfo sordo dentro di me, come se fossi un pozzo e qualcuno mi avesse gettato dentro un grosso masso.

“Ricominceremo?”

John sorride di più. Gli si formano le tipiche rughe d’espressione attorno agli occhi.

“Ovviamente. Caffè?”

Mi posa una mano sulla gamba, quella buona, ancora sotto le coperte, e me la strizza amichevolmente.

“Così non ti dovrò mai più vedere dell’umore che avevi ieri.”

Le parole che vorrei dire mi si accavallano talmente violentemente nella testa che non riesco ad articolarne una.

Lo guardo con meraviglia assoluta.

Sa di avermi spiazzato ed è divertito al massimo. Io ho una deflagrazione di felicità assoluta dentro me, che mi vibra in tutto il corpo e mi fa accelerare il respiro.

“Riprenderai... a lavorare con me?”

Ergo, non andrai mai via. Resterai qui. Non mi lascerai più solo in una stanza quando non voglio esserlo.

Tornerà tutto com’era.

E’ questo il tuo perdono. E’ questo, John?

John.

“Non prima di aver trovato di nuovo un lavoro come medico. Ho bisogno del mio lavoro, ho bisogno di qualcosa di mio. Ti aiuterò nel tempo libero.”

Fatico a rimettermi insieme, a mantenere un contegno.

Vorrei abbandonarmi contro il suo petto, abbracciarlo con ogni muscolo del mio corpo.

“Ok” dico in un soffio “Part time... è ok. Sì. E’ perfetto.”

(No, non è perfetto, ma io farò in modo che lo sia).

E’ come se mi fossi fermato.

Come se stessi tornando da quel viaggio oscuro e confuso per il quale lui e la sua assenza mi avevano fatto partire: come se vedessi una strada, finalmente.

La gioia che provo è la mia strada, John me la sta indicando.

Come ho potuto pensare che mi lasciasse solo e disorientato chissà dove?

Non lo ha mai fatto.


Perché John, a suo modo, mi ama.

E io amo lui, nel mio modo.


Poso le mani sulla sua, quella che è sulla mia gamba, e non posso dire niente. Lo guardo come se fosse acqua fresca che sgorga dentro un me disidratato da millenni. Uno che non sono più io, ma che sono sempre io, contemporaneamente.


Dove sono stato, John?

Dove mi hai condotto con il tuo dolore, con la tua perseveranza, e il tuo coraggio?

Dove mi stai portando, adesso, con la tua gentilezza?

E con il tuo amore?


Sfila la mano da sotto le mie, dopo interminabili secondi in cui ci fissiamo scavandoci nel profondo, ma io non me ne dolgo, perché ormai so.

Anche se dovessimo restare così per sempre, chiusi in questa strana amicizia blindata, fatta di piccoli gesti e mezze frasi, io sarei felice lo stesso: lui è mio.

Di nuovo.

“Vado a preparare la colazione, più tardi invierò il documento a Sarah: è una fortuna che abbia capito e non ce l’abbia ancora con me.”

“Nessuno può avercela con te, John.”

Sto sorridendo.

Sto ridendo, in realtà.

“Vuoi alzarti o te la porto qui?”

Qui. Devo processare. Mi devo calmare.

E’ quasi dura accettare l’insperata idea che torneremo ad essere quelli di prima... non sono abituato ad avere a che fare con queste sensazioni.

“Qui, voglio riposare ancora. Non ho dormito molto bene.”

Vedo la sua fronte aggrottarsi con preoccupazione.

“Ti senti bene? E’ tutto ok?”

Annuisco, lo rassicuro con l’espressione più rilassata che io possa avere in questo momento.

“Ok” ribadisce lui, e si alza per andare via.

Abbandono la testa sul cuscino, chiudo gli occhi e lascio andare un profondo sospiro.

Mi sento tornare al mio posto.

Tutto si ricompone armoniosamente, tutto va dove deve andare.

Io sono qui, dove devo essere. E John è con me.

Non so se sia tornato col caffè o meno, perché mi addormento profondamente prima di scoprirlo.

Ma non dubito che l’abbia fatto.

John.


____________________________________________________________



Note: dedico questo capitolo ad AssenzIa-Giusy, la mia soulmate di fandom. Ti voglio bene, gurl. Don’t give up!


Grazie con il cuore a Minerva74-Emma W., che stavolta non ha potuto betare ma mi ha dato l’incoraggiamento più caloroso che si possa sperare. Minerva cara, alla fine ho lasciato intatta la parte centrale, non ho davvero trovato un modo efficace per risolvere il nodo che sai, ma mi sento stanca e spremuta (e altre idee avanzano prepotenti). Mi sono detta semplicemente... whatever!  


Infine, chiedo scusa a tutti coloro che detesteranno il mio Sherlock profondamente OOC (credo), ma il cambiamento non può avvenire se uno, appunto, non... cambia un po’. Quando parla lui in prima persona, non so davvero fare di meglio. E comunque, a me uno Sherly totalmente robotico proprio non piace. Sorry. :-)  


 


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Capitolo 11
*** I’d rather be here than be anywhere ***


Ok, gente, ultima fermata!

La canzone ispiratrice è Rather be, dei miei amatissimi The Verve. Ci voleva una cosa un po’ celebrativa, no? Il testo è, ancora una volta... perfetto. Soprattutto se lo canta John: proviamo a immaginarcelo tutti insieme.
 


Rather Be -  The Verve -   (link http://www.youtube.com/watch?v=OyihjeFGOzU)


There’s no need for introductions

No dark corridors and fame

you’ll find your fortune

you might find some pain

i wanna lie, lie together

feels like our last embrace

in a world full of confusion

yeah, human race


But I’d rather be here than be anywhere

is there anywhere better than here?

you know these feelings I’ve found they are oh so rare

Is there anywhere better than here?


sometimes life seems to tear us apart

don’t wanna let you go

sometimes these feelings hidden

i start to cry

cause i won’t ever let you go


Mmm… Multiplying


Always livin’ under some vow

Always on the eve of destruction

Make you wanna scream out loud

and as i watch the birds soar

amount of lies of which you spun

o mmm, while I’m still crying

Oh another day is coming


Cause i’d rather be than be anywhere

is there anywhere better than here

You know these feelings i’ve found they are oh so rare

Is there anywhere better than here


Sometimes life seems to tear us apart

don’t wanna let you go

sometimes these feelings hidden

i start to cry

Cause i won’t ever let you go


But i’d rather be here than be anywhere

is there anywhere better than here

you know these feelings I’ve found they are oh so rare

is there anywhere better than here.


Sometimes these feelings hits me

sometimes these feelings hits me

these feelings are oh so rare


                        °o°o°

Non c'è bisogno di presentazioni

Nessun corridoio nero e fama

troverai la tua fortuna

potrai trovare del dolore

Voglio stendermi, stendermi accanto a te

sembra il nostro ultimo abbraccio

in un mondo pieno di confusione

E' la razza umana


Ma preferisco essere qui che da qualsiasi altra parte

C'è un posto migliore di qui?

sai che i sentimenti che ho trovato sono così unici

C'è un posto migliore di qui?


A volte la vita sembra dividerci

Non voglio lasciarti andare

A volte questi sentimenti nascosti...

Inizio a piangere

perché non ti lascerò mai andare

Mmm… moltiplicandoci


Viviamo sempre sotto qualche giuramento

sempre sull'orlo della distruzione

voglio farti aver voglia di urlare

e mentre guardo gli uccelli che si librano

su tutte le bugie che hai raccontato

Mmm, mentre sto ancora piangendo

un altro giorno sta arrivando


Perché preferisco essere qui che da qualsiasi altra parte

C'è un posto migliore di qui?

sai che i sentimenti che ho trovato sono così unici

C'è un posto migliore di qui?


A volte la vita sembra dividerci

Non voglio lasciarti andare

A volte questi sentimenti nascosti...

Inizio a piangere

perché non ti lascerò mai andare


(...)
 


_______________________________________________________________________________________________________________________
 




-John-




Cosa è stato?

Quando è stato quell’attimo in cui è cambiato qualcosa?

Come è successo che io abbia sentito provenire da te qualcosa di diverso?

Una speranza.

Irradiata in maniera oscura, silenziosa, tesa, come sei tu.

Una speranza, davvero? Qualcosa di simile?

O è forse il mio desiderio mal celato, mal nutrito, mal protetto?

Il desiderio che mi ha riarso la gola in questi interminabili giorni in cui hai permesso che io fossi semplicemente qui, come un tizio qualunque.

Nei giorni in cui ti ho lasciato essere te stesso, ombroso, scostante, lontano, ferito, frustrato, senza infastidirti mai, perché... perché poi?

Perché sei una creatura strana e bellissima. Ma bisogna maneggiarti con cura, altrimenti ti divincoli, digrigni i denti, mordi. O voli via.

Devo essere cauto, discreto.

Devo tenere a bada ogni mia piccola felicità, ogni malumore, ogni manifestazione esagerata, non devo strafare: non posso rischiare di farmi ferire ancora.

E ancora.

Ormai basta uno sguardo infastidito, una vibrazione irritata sulle tue labbra serrate, un gesto di congedo della mano affusolata. Ognuna di queste cose, più di altre, tracciano solchi profondi nella mia carne, all’interno della mia pelle.

C’è stato un tempo in cui non vi facevo nemmeno caso, tanto erano e sono parte di te.

Ma, dopo tutto quello che è successo, il mio universo è cambiato: ora mi sento lontano, come se fluttuassi in uno spazio diverso dal tuo, e queste tue piccole compulsioni mi spingono via, sempre di più.

Come se davvero tu potessi controllarle!

So benissimo che non ne sei capace.

Sarebbe come se qualcuno pretendesse che io non sorrida a Mrs Hudson, o non dica buongiorno al negoziante che mi porge il sacchetto della spesa riempito con perizia.

Ma per me avresti potuto farlo. Dovresti farlo adesso, almeno per gratitudine.

Trattenere la tua mano dal fare quel movimento sciatto e disinteressato, equivarrebbe a prendere la mia, lo sai?

Sarebbe tutto quello che vorrei, dopo tanta separazione, dopo addirittura la morte.

A volte mi soffermo a guardarti e ancora mi stupisco. No, non del fatto che tu sia qui, ma di come ci sia arrivato io.

Ancora mi aggiro per la casa sfiorandone le superfici, incredulo.

Il posto che ho desiderato più di ogni altro, in cui ho lasciato più impronte di me di quanto credessi.

Briciole di John sparse sul pavimento: cellule epiteliali appiccicate ai mobili, alla carta da parati, capelli incastrati nello scarico della doccia.

Io questa casa io sono dappertutto, nel profondo.

E questa casa è dentro me, con o senza te: anche per questo non sono riuscito a tornarci.

C’era troppo me, solo me.

Adesso non più.

Sorrido, quindi, pensando a ieri: tu sei sul divano e digiti sul computer aperto sulle ginocchia, e io avverto di nuovo quella piccola speranza.

Solo perché ti ho visto andare in crisi quando hai capito che cercavo lavoro.

Una stupidaggine, una piccola cosa, che non cambierà realmente molto di noi due, ma è come se mi avessi preso per le spalle e mi avessi detto “rimani con me”.

Ecco, lo vedi?

Un piccolo gesto, Sherlock, e io farei qualunque cosa per te.

Mi sentirei patetico, se non fossi così felice.

Felicità.

Ne avevo scordato l’esistenza. Persino la parola.

E’ più di un anno che non la pronuncio, che non la penso, non la immagino.

Ed è qui. Adesso. Senza preavviso.

Solo ieri è stata una brutta giornata di malumori e dubbi: stamattina, invece, sono in cucina e mi gratto il mento davanti al frigorifero aperto, indeciso su cosa preparare per pranzo, e so che tu dormi di là, placido ed esausto, e mi sento felice.

La mia vita che torna tra le mie mani, corposa e reale come questo pacchetto di bacon che sto tirando fuori dal frigo. Cosa ci faccio? Piselli. Mi servono dei piselli. Dello scalogno, forse.

C’è qualcosa di rilassante nel prendere la pentola e fare i soliti gesti meccanici: fino a ieri mi ci sono frustrato dentro, sentendomi né più né meno che una colf.
Oggi, invece, sono di nuovo il tuo amico, e l’oppressione che attanaglia il mio petto ogni giorno, ogni ora, quella consapevolezza malsana che tutto ciò che vorrei non si realizzerà mai, oggi mi schiaccia un po’ di meno e mi fa ritenere possibile vivere così, per sempre.

Dolorante ma felice.

Rassegnato ma soddisfatto.

Spero che duri, anche se so che non succederà, ma ora voglio godermi il momento.


C’è un silenzio piacevole.

Mi lascio trascinare dal ticchettio dell’orologio della cucina come se fosse una musica, guardo le mie stesse mani tagliare e sbucciare verdure, cospargere d’olio il fondo di una casseruola, crogiolandomi nell’inusuale ordine di questa cucina che tornerà presto ad essere un convulso e insicuro laboratorio chimico/succursale di obitorio, e avverto di nuovo quella calmante sensazione di avere una famiglia che avevo totalmente rimosso per difendermi.

La mia famiglia: è questo che siamo, per me. Che tu lo sappia o no.

Non importa in che forma, non importa nemmeno se tu ne sia consapevole o meno.
Ho ipotizzato di potermene andare via, accecato dalla rabbia e dall’impotenza, ma so che non è vero. Anche se lo facessi, la mia vita girerebbe in tondo, persa in grandi cerchi inutili e senza scopo, e poi tornerebbe qui.

E tu lo sai.


Poi, come è d’obbligo, ogni cosa bella, o almeno un minimo decente, finisce bruscamente e nei modi più inaspettati.

In questo caso a causa di Lestrade, per esempio.

Greg che si presenta nel primo pomeriggio con una grossa scatola tra le braccia e un sorriso soddisfatto stampato sul volto sbarbato. Greg che vuole fare una cosa buona per te.

Tu sei di nuovo sul divano, rilassato, dopo una mattinata di sonno e un pranzo che, stranamente, hai buttato giù senza fiatare, e io sono in uno stato euforico che potrei definire ridicolo se non avessi i miei buoni motivi per ritenerlo più che opportuno.

Quando apro a Greg, sono felice di vederlo.

“E’ il tuo compleanno, Sherlock!” esclama venendo verso di te, che subito lo guardi accigliato.

“No, non lo è.”

“E’ come se lo fosse. Tieni.”

Posa la scatola sul divano, accanto a te, e si drizza nelle spalle soddisfatto.

“Cos’è?” Chiedo io incuriosito.

Tu fissi la scatola, poi guardi me. All’improvviso vedo quella scintilla nei tuoi occhi. La fame.

“Fascicoli. Casi.” Dici in tono vorace. I tuoi occhi si sono fatti grandi, le spalle si sono irrigidite nella vestaglia blu.

“Sono quattro. Grossi. Irrisolti da mesi. Li stiamo per chiudere come insoluti, ma se vuoi dare tu un’occhiata...”
Greg è speranzoso, di buon umore.

Io avverto un’improvviso disagio, come se un malefico sesto senso mi stesse avvertendo di qualcosa mentre ti guardo aprire la scatola febbrilmente e lanciare il coperchio in mezzo alla stanza.


Nel giro di pochi minuti è il caos.


“John, aiutami. Devo sedermi per terra!”

“Ma Sherlock...”

“JOHN!”


Foto sparse sul pavimento, carte che volano tra le tue dita, domande a raffica a Lestrade... ecco la macchina da guerra in movimento. Era dai giorni di Moriarty che non ti vedevo così: ho paura e mi fa male.

L’eccitazione è palese sul tuo viso, ma anche uno strano malessere, una furia che non è solo desiderio, che non è solo ingordigia di risolvere il primo caso.

E’ un’altra cosa.

Io sono in ginocchio accanto a te, che sei in terra con le gambe divaricate e le spalle appoggiate alla seduta del divano, e sfogli con frenesia i file spalancati tra le tue cosce. Ti farà male la gamba se stai troppo tempo così, ma non ho il coraggio di dire niente.

“Avete interrogato questo qui?” Ringhi a Greg sventolando un foglio con una foto allegata.

“Il primo giorno, ma non c’erano element...”

“Idioti! Imbecilli!”

Greg ti guarda a bocca aperta. Poi guarda me. Tu stai soffiando dalle narici come un toro.

Timidamente si rivolge di nuovo a te.

“Non sono stati fatti rilevamenti su di lui, la conosceva a malapena, abbiamo varie testimonianze, e poi nessuna prova... ho detto che non c’erano abbastanza elementi per ritener...”

“Siete una massa di amebe inutili e dannose!” Sbotti.

Il foglio vola via, i tuoi occhi lanciano fiamme di frustrazione.

“La linea temporale è chiara, la presenza di quell’auto in quelle foto è più che evidente! Dovete andarlo a prendere e metterlo sotto torchio!”

“Stai dicendo che è lui?’” Greg vacilla.

“Sua moglie, ma non dubito che lui sia a conoscenza di ogni cosa,” sibili. “Se tu non fossi un cretino totale, Lestrade, e se Anderson avesse fatto quantomeno le scuole serali di patologia forense, forse, insieme alle peculiarità delle ferite sul corpo, avreste visto questo!”

E, dopo averla osservata lungamente con la lente d’ingrandimento, indichi qualcosa in una foto che ritrae un gruppo di persone, una di quelle foto random che vengono scattate tra la folla curiosa che si raduna fuori dai luoghi in cui è accaduto un delitto.

“Non vedo niente,” ribatte Greg.

Tu sbuffi e serri le mascelle, battendo il dito sulla foto. “Concentrati, specie di primate! Tra queste due persone. C’è uno spazio infinitesimale. Cosa vedi?”

“Una roba... viola...?”

“Rossa. Una roba rossa che questo tipo di carta fa sembrare viola. Un faro. Posteriore. Di un’auto. Quell’auto.”

Cerco di guardare anche io, è proprio una cosa impercettibile.

Ora che sono stato imbeccato, posso dire che sembra proprio il faro di un’auto, ma da solo non ci sarei arrivato mai. Non so da cosa tu possa assumere che è di quel modello, di quell’auto, ma, lo sai, mi fido sempre delle tue intuizioni.

Non dubito che tu abbia catalogato nel tuo personale database cerebrale tutti i modelli di tutte le auto del pianeta.

“In questa non c’è più.” Sbatti sotto il muso di Greg la foto successiva, scattata nemmeno un minuto dopo. Le due persone in primo piano si sono leggermente allontanate tra di loro, ora si vede solo una minuscola porzione di prato verde.

“Era lì... e se ne stava andando solo allora? Quale imbecille farebbe una cosa del genere?” Obietto io.

Chi resterebbe così a lungo sulla scena di un delitto tanto da aspettare la polizia e poi andarsene con tutto comodo?

“Una donna molto gelosa, molto stupida e che vede troppo crime in tv, sicura di poter tenere sotto controllo la situazione grazie a siffatto addestramento!”

Me lo dici come se mi volessi sputare addosso.

“Come sai che fosse lei alla guida e non il marito?”

“Cristo, John! Sei un medico! Guarda le ferite sulla vittima: è stata palesemente uccisa da un’altra donna.”

“Ma non abbiamo nessun elemento probante per poter ritenere che...”

“Lestrade, se potessi alzarmi ti prenderei a calci! Dovete riaprire il caso e vivisezionare questi due.”

“Senza prove.”

“Ma con un indizio.” Sventoli di nuovo la foto sotto il suo naso.” Se sarete bravi, cosa di cui francamente dubito, basterà per trovare altro.”

“Gregson non acconsentirà mai.”

Oh, dio. Gregson! Chissà se gli è andato a posto il naso che gli ho rotto!

“Gregson è l’essere meno senziente in assoluto di tutti voi sottosviluppati yarders, aggiralo. Se solo potessi uscire di qui, te le darei in cinque minuti, le tue prove! E dammi un altro fascicolo!”

Greg sospira e mi guarda, cominciando a rendersi conto che non è stata una buona idea.

Per te bloccato, ancora inabile e incapace di alzarti e correre dietro alle tue prove, questo esercizio è una bomba a orologeria.

Che non tarda a scoppiare.

Questo secondo caso è molto meno semplice e coinvolge un ragazzino di 14 anni, il che è già di per sé disturbante. Almeno per me.

Hai sequestrato me e Greg con te da ore: io sono riuscito a malapena a convincerti a sedere almeno sulla tua poltrona mentre noi ti passiamo documenti, foto, referti e quant’altro, e Greg ti ripete le stesse come un registratore.

Ma non si arriva da nessuna parte.

Ti vedo stringere gli occhi, ti sento pensare, posso quasi udire lo stridio del tuo cervello che macina ferocemente informazioni, tenta di collegarle, di dare loro un senso.

So che, se potessi alzarti, ora staresti percorrendo la stanza in lungo e in largo, sbattendo cose e gesticolando, farneticando tra te e te con le mani tra i capelli.  

A un certo punto resti in silenzio per un tempo lunghissimo, piegato in avanti, con i gomiti puntati sulle cosce e la faccia tra le mani, con noi accovacciati ai tuoi piedi: sembriamo un grottesco trittico di qualche pittore fiammingo, questo penso mentre mi massaggio la nuca indolenzita. E’ quasi sera, e io ti osservo preoccupato.

“Devo andare in quella casa,” mormori all’improvviso tra le dita. “Devo vedere, toccare... così sono inutile... queste carte sono inutili.... devo interrogare i genitori... devo andare... devo andare... così sono inutile, inutile, inutile....”

Sento l’angoscia risalirmi lungo la spina dorsale.

So cosa significa. Mi preparo ad alzarmi dal pavimento.

Greg si muove leggermente verso di te: “Sherlock, va bene così, possiamo continuare domani.”

“Inutile!” urli all’improvviso.

Con uno scatto impossibile per le tue condizioni, calci con la gamba buona il tavolino da caffè che è davanti a te, e tra me e Greg, ribaltandolo con violenza e rovesciando fascicoli, carte, tazze da thè.

Io salto in piedi. Greg è diventato bianco in volto. Del thé gli è schizzato sulla camicia, e ora la macchia si sta allargando sulla sua spalla come se fosse sangue color nocciola scuro.

“Greg, vai.” Lo esorto con tono perentorio.

Tu ti sei riaccasciato su te stesso.

Inutile, inutile, inutile, mormori di nuovo tra le tue mani.

“Non posso capire... non posso sentire... percepire... devo andare in quella casa, devo andare là, devo osservare di persona... devo osservare, John!”

Il tono della tua voce è lamentoso, straziante.

Non è il caso che ti strazia. E’ tutto quello che hai passato. Tutto ti sta ritornando addosso, ti sta trapassando, ti dilania. E non lo puoi combattere così come sei ora. Non è vero?

Nessuno ti conosce come me, Sherlock.

Nessuno.


“Greg, ti prego...”

Anche lui si è alzato e annuisce, con l’espressione colpevole di chi ha commesso un involontario guaio, raccoglie velocemente le sue cose e arretra verso la porta di ingresso, mentre mi guarda sedermi sul bracciolo della poltrona e poggiarti delicatamente una mano sulla schiena.

Ci scambiamo un cenno da lontano e va via.

Inutile. Inutile. Inutile.

Continui a mormorarlo come se fosse una preghiera. Macabra. il tuo tono di voce è lugubre. E’ spaventoso.

Ti accarezzo la schiena come si fa con i grossi cani, lentamente ma con forza.

“Sherlock, ti prego. Guardami.”

Inutile. Inutile. Inutile.

“Sherlock, ti prego.”

Ma tu scuoti la testa e non mi ascolti.

So cosa fare. Ormai lo so e basta.

Scivolo giù, di nuovo, stavolta sulle mie ginocchia, davanti a te, e ti prendo i polsi, ti costringo a toglierli da quella faccia angosciata.

“Smettila,” sussurro “smettila, non sei inutile, lo sai. Smettila.”

Lottiamo per un attimo, tu con i tuoi polsi, io con le mie mani, ma poi vinco io. Allenti la resistenza, mi permetti di abbassarti le braccia e di entrare nel tuo spazio.

“Un mese, forse meno. Sarai quello di prima, lo sei già.”

“No no no...”

Sei sempre piegato in avanti, posso vedere solo la massa dei tuoi capelli neri.

“Sherlock, fidati di me, ti prego. Ascoltami.”

Il triste mantra inutile, inutile, inutile, è diventato John, John, John. Appena poco più di un soffio, sarebbe anche bello se io non sapessi cosa significa.


Aiuto.

Sono qui.


So qual è la tua angoscia più profonda.

Non ne abbiamo mai fatto parola, ma io la conosco come se fosse mia. Ho capito molto di te in questi anni, più di quanto tu possa sapere e  immaginare.  

Faccio con determinazione ciò che in passato non avrei fatto mai, ma non siamo più quelli, non è vero?

Non siamo più quei due.

Siamo altri. Diversi. Sfregiati da cose più grandi di noi, di te, anche se non lo vuoi ammettere.

Ti lascio andare i polsi e ti abbraccio.

Non come quella volta sul tuo letto, ma in un modo ben più vigoroso: devo spezzare questo momento, lo devo bloccare con l’unica cosa che ho.

Me stesso.

Riesco a stringerti forte le spalle, a fare in modo, quasi con uno strattone, che tu appoggi il mento sulla mia spalla destra. Ti scuoto un po’, con forza.

“Sherlock, ascoltami... “

Ora taci. Posso sentire solo il tuo respiro accelerato. Guardo la finestra, dritta davanti a me, e resto un attimo sospeso ad osservare le ombre proiettate dalla strada sui muri, sul soffitto.

“No...”

La tua voce è piccola, lontana. Come se mi stessi sfuggendo via. Ma non te lo permetterò.

Ti appoggio una mano dietro la nuca, accosto di più la tua testa alla mia, ho la presa salda, sento i muscoli tesi. Quasi respiro nei tuoi capelli.

“Sì, ascoltami. Tornerà tutto come prima. Stai guarendo, tra poco potrai uscire, camminare, riprendere a fare tutto quello che facevi.”

“No, non tutto... no no no, ho qualcosa che non va! C’è qualcosa che non funziona in me...”

Eccola. E’ venuta fuori, finalmente.

Come se io non sapessi quanto imputi a questo le cose che fai. Questa bestia nera che tu credi che esista, e che invece non c’è. Quando te ne sei convinto, Sherlock? Da ragazzino? Da adulto?

“No,” ti stringo di più “Non hai niente che non vada. Niente. Non voglio sentirtelo dire.”

Non. dirlo.

Non devi, non è vero.

“Non è vero... non è vero, Sherlock.”

Resti in silenzio, restiamo in silenzio. Non accenni a liberarti dalla mia stretta, io non accenno ad allentare la presa.
E’ un abbraccio doloroso per me, e pieno di paura: il contatto più intimo e profondo che abbiamo mai avuto, e che non mi fa sentire felice.

Mi spezza, invece. Mi fa essere terrorizzato per te.

“Tu credi davvero che io sia normale?” dici finalmente, la tua voce è di nuovo tua, quasi. Mi parli nell’incavo del collo, posso sentire il tuo fiato bollente mentre pronunci le parole.

Chiudo gli occhi e prego che tu mi creda.

“Cosa intendi per normale? Non sei... normale, e lo sai cosa voglio dire. Ma non sei certo pazzo. Come ti viene in mente?”

Ansimi un pochino, non rispondi, ma sento che ti stai calmando. Sono bravo con te, cristo, ci so fare.

Non so se sia una benedizione o una condanna.

“Nemmeno dopo quello che ho fatto... a te, a tutti.”

Questo mi scuote. Mi accorgo solo ora che hai le braccia intorno al mio busto.

Ti sei aggrappato a me per tutto il tempo e io non me ne sono accorto.

“Nemmeno dopo quello che hai fatto.” Sorrido tra i tuoi capelli.

“Non sei normale: tu sei straordinario. Fantastico. Non ricordi?”

La tue spalle sussultano, stai ridendo. Sento il sommesso rombo della tua bassa risata contro la pelle del mio collo.
Ecco, così va bene.

Così posso cominciare a sentire davvero quello che provo in questo abbraccio.

Soprattutto perché ora mi stringi di più, mi tieni come se io dovessi svanire in una nuvola di fumo da un momento all’altro, ed io faccio scorrere lentamente le mie mani sulla tua schiena, godendo del contatto dei miei palmi che premono sulla tua muscolatura tesa e calda, e comincio a indugiare con il naso tra i tuoi capelli, respirando deliziato, accostando senza pensare le mie labbra al retro del tuo collo, appena dietro l’orecchio, tradendomi inconsapevolmente.

Non è un bacio, è solo un tocco.

E’ unicamente un appoggiarmi sulla tua pelle e restare lì ad inspirare piano, senza far niente se non cercare di arrivare a te in quell’altro modo, istintivamente, senza premeditazione, ma me ne accorgo troppo tardi.

Tutti i miei propositi, tutti, dal primo all’ultimo, si sbriciolano nell’esatto istante in cui sento che ti irrigidisci contro il mio petto, e le mie mani congelano il loro massaggio amorevole.

E’ adesso che mi si blocca il respiro, e il sorriso mi muore sulla bocca.

Anche tu taci.

Percepisco fisicamente... non saprei come altro spiegarlo... sì, fisicamente, il pensiero che è esploso nella tua testa, si è dilatato velocissimo, è tracimato tra le mie braccia.

Non so se muovermi o meno.

Non so se respirare più forte.

Se espandere i miei polmoni un po’ di più significherà infrangere questo momento così incomprensibile con un solo, impercettibile movimento della mia cassa toracica contro la tua.

Non voglio. No. Non respiro.

Ma poi tu cominci a sollevare la testa, a staccare il viso dalla mia spalla, permettendo a dell’aria fresca di insinuarsi e pungermi là dove ti sei appena scostato, e so che, appena potrai, mi guarderai con occhi severi, forse arrabbiati, o forse no, magari saranno solo carichi di nubi grigioazzurre e pietà.

Pietà.

Il solo pensare la parola mi atterrisce. E allora no, no, non voglio...

Non voglio.

Lo faccio io.

Mi stacco da te repentinamente, allargo le braccia e ti respingo all’indietro quasi con brutalità, e ora sì, posso vedere la tua faccia incredula mentre mi allontano, perdo l’equilibrio, cado seduto per terra.

Resti fermo con le mani vuote, respiriamo rumorosamente.

So che stai leggendo tutto sul mio volto, tutto quello che non mi spiego tu non abbia letto prima.

E’ scritto qui, nei miei occhi spalancati, sulle mie guance impallidite, nelle mie labbra strette dall’angoscia: è sempre stato scritto qui.

Dai tempi di Irene Adler, dalla notte a Baskerville, dalla sera in cui siamo fuggiti insieme ammanettati.


Non leggere, ti supplico, non leggere, non leggermi.


Vedo le tue iridi chiare saettare sul mio volto, posarsi su ogni angolo, tracciare ogni ruga, soffermarsi su ogni piccolo fremito dei miei muscoli facciali.

Credo, spero di aver congelato ogni mia espressione, ma ovviamente non è così.

Abbasso lo sguardo, mi alzo goffamente aiutandomi con le mani, schiacciato dal tuo scrutinio sanguinario, e credo di farfugliare qualcosa a proposito della cena.

“John?”

No. Stai zitto.

Ho il cuore che scalcia contro le costole, mi fa male, per cui stai zitto.

Non rispondo, mi volto e provo a uscire dalla stanza, sento di avere le spalle curve come non lo sono state mai.

“John,” mi chiami, la voce profonda come l’oceano.

Mi giro a guardarti con mestizia, non so perché lo faccio: dovrei già essere fuori di lì.

“Tu mi ami?”


Ecco.


Guardo altrove, la finestra. Guardo la sua cornice scrostata, i vetri appannati di polvere, il rosso ruggine dei mattoni del palazzo di fronte, che ormai conosco a memoria, che comincia a fondersi con la luce del tramonto.

Non sento un tuffo al cuore, non sento emozioni che dovrei impiegare pagine e pagine a descrivere, solo un piccolo fremito nel petto, umiliante come la verità.


Sono all’angolo.


“John, guardami.”

Ti guardo.

E’ come dicevo io, hai gli occhi pieni di nubi cangianti.

Non c’è affetto, non c’è tenerezza.

Nemmeno pietà, per fortuna.

“Non ha importanza,” ti dico stancamente.

“Ha importanza per me.”

Perché fai quello sguardo?

Sei sempre così... furioso. Pretendi. Esigi. Non accetti mai un no come risposta.

Cosa ti cambia? Cosa potrai mai fare per me che metta fine a tutto questo?

“Più di qualunque cosa,” ammetto con una semplicità di cui non mi sarei mai creduto capace.

E non mi vergogno.

Per lo meno ti ho ammutolito. No?

Mi giro di spalle ed esco dal soggiorno, diretto non più in cucina ma verso le scale.

Per la prima volta da mesi.

Mi chiami più volte, disperato.

Non mi fermo, non mi volto, e tu non puoi corrermi dietro.

Va bene così. Non posso farlo adesso.



Non vengo a trattenermi qui dentro da quando sono andato via, cioè il giorno dopo la caduta, trascinato via dalle braccia compassionevoli di Gregory Lestrade.

Ogni tanto ci salgo per dare una sistemata, togliere un po’ di polvere, prendere qualche vestito che non sono riuscito a infilare negli armadi di sotto.

Hanno risistemato anche questa stanza, è dipinta di fresco, il materasso è nuovo, ancora arrotolato e coperto dal cellophane, i mobili all’interno sono stati puliti e ora sono immacolati.

Da stasera dormirò qui.

Sono crollato seduto sulla nuda rete del letto e sto respirando con la faccia tra le mani.

Ho rovinato tutto.

La nostra amicizia è rovinata.

Da oggi mi guarderai come uno strano animale; forse avrai timore di me, forse un po’ di disgusto. Ma in fondo, che ne so? Chi ha mai capito cosa davvero passa in quel tuo cervello paradossale?

Credevo di saperlo, e ho peccato di presunzione.

Mi hai chiamato per un po’ dal fondo delle scale, a cui sarai arrivato sulle stampelle: hai detto delle frasi che, attraverso il filtro della porta chiusa, non sono riuscito a capire, poi ho sentito la suoneria dei messaggi del mio cellulare provenire dal piano di sotto. Hai provato a fare anche quello, ma io l’ho lasciato giù.

Hai smesso.

E’ seguito uno strano silenzio calmante, che adesso dura da almeno mezz’ora.

E’ ovvio che scenderò.

Dovrai mangiare. Dovrai cambiarti e andare a letto.

E’ ovvio che scenderò, tra poco, e farò come se niente fosse, accompagnandoti e prendendomi cura di te, come sempre: dammi solo cinque minuti per poter dire a me stesso quanto sono stupido.

Poi, però, dormirò qui. E’ la mia stanza, no?

E’ ora di mettere una certa distanza tra noi due.

Non stai più così male, è da tanto che non ti svegli durante la notte, e poi c’è sempre il cellulare, o l’interfono...

Farò finta di niente.

Mi passerà.

Se ne vorrai parlare, ne parleremo, e io ti chiederò di ignorarmi perché mi passerà, ricomincerò ad uscire, incontrerò qualcuno, vedrai... non dovrai sentirti imbarazzato per me, farò in modo che non succeda.

Farò in modo di non essere imbarazzato nemmeno io: io le so gestire, le emozioni, so come si fa, non è il caso di preoccuparsi.

Respiro in profondità, prendo grandi boccate di ossigeno sperando che abbassino il rating del mio battito cardiaco.

Non so se questo disperato tentativo di tenere insieme i miei pezzi mi venga così facile per superficialità o puro istinto di conservazione.

Mi sento quasi pervadere dall’ottimismo: individuato il problema, mi posso concentrare sulla sua soluzione.

Andava fatto.

Doveva venir fuori.

Dovevo darmi un motivo per scuotermi, per riprendere la mia vita in mano, e lo penso quasi con sincero sollievo, come se mi avesse investito un autocarro e io pensassi “oh, mi sono solo fratturato il bacino, ma non sono morto.”

E’ il dolore, la cosa difficile.

Ma sono passato attraverso la tua morte.

Posso farcela anche stavolta.
 


Poi sento un grattare sconnesso.

Dei tonfi sordi. Rumori ovattati e non meglio definiti, all’inizio, forse perché sono ancora piegato con le mani attorno alla mia testa e cerco ancora di dirmi idiozie autoconsolatorie, che non so quanto stiano funzionando.
Inghiottisco il ciclico pensiero che mi dice che ti ho perso, soffocandolo con deboli frasi da film come a
ndrà tutto bene, è tutto ok.

Voglio che il mio cervello ci creda, anche se la mia tachicardia e il bruciore che sento dietro gli occhi gridano il contrario.

Ecco, chiamerò Greg. Verrò giù fra cinque minuti e ti sorriderò come se niente fosse, preparerò la cena, lo chiamerò, andrò con lui a bere una birra, e prima di uscire ti aiuterò a metterti a letto.

Nel turbinio di pensieri sconnessi, il mio orecchio lentamente comincia a riconoscere il rumore per quello che è.

Metallo che  graffia contro il muro. Gomma rigida che batte sul legno.

Stampelle.

Oh, dio.

Dio.


Mi alzo come se qualcuno mi avesse accoltellato alla schiena e corro verso la porta: non ho bisogno di aprirla per sapere che stai salendo su per le scale.

“Che stai facendo?” Urlo appena attraverso la soglia e guardo giù.

“Se non scendi tu, salgo io. Un po’ di logica, John!”

Sei a metà e mi fissi con occhi spiritati: ansimi, hai i capelli appiccicati alla fronte sudata, posso vedere chiaramente le stampelle tremare sotto lo sforzo delle tue mani...

Come ti viene in mente, cristo? Ancora così debole... basta una vertigine, un calo di pressione, il femore che cede sotto il peso caricato malamente...

Cristo santo!

Ma io sto già correndo giù, perché nella vita non posso fare altro, già costretto ad allacciare le mie braccia attorno alla tua vita, come prima, eppure in un modo totalmente diverso, perché stavolta non devi cadere.

Non devi cadere.

Ma che sia ben chiara una cosa.

“Devi lasciarmi in pace,” ti ringhio mentre ti strattono verso di me con la mia presa ferma “lasciami vivere la mia cazzo di vita.”

Mi aspetto una battuta cretina o una frase caustica, non certo che tu lasci andare volontariamente tutto il tuo peso contro di me, facendomi sbattere di spalle al muro, costringendomi a piantare le gambe sul gradino con tutta la mia forza per impedirci di ruzzolare giù insieme, e che sgraziatamente provi a baciarmi.

Confusione.

Odo il frusciare della tua vestaglia sul mio maglione, lo scricchiolio dell’unico gradino che sostiene entrambi, il sospiro buffo che ti sfugge, inondandomi di fiato caldo la parte destra del volto: piccoli dettagli estremamente vividi, adesso, in questo momento, senza che io sappia il perché, mentre agganci senza delicatezza il mio labbro superiore con la tua bocca, lo graffi con i denti.

C’è una piccola lotta comica per mantenerci stabili, io sto perdendo l’equilibrio e tu hai sbagliato mira: per la differenza di altezza, per inesperienza, per puro caso, chissà...

Non c’è niente di comico, invece, in come io tengo gli occhi spalancati sul tuo viso, mai stato così vicino al mio, pressato al mio, tanto da farmi notare ogni minimo dettaglio della pelle sul tuo zigomo sinistro, come un piccolo capillare che nasce di là e muore più giù, sulla guancia lattea.

Una stampella rotola giù, provocandomi un microinfarto, ma poi con quel braccio ti avvinghi al mio collo e so che lo hai fatto apposta, così come hai abbassato di più la testa, l’hai angolata meglio, e adesso quello che mi preme su tutte le labbra è un bacio che ha senso, anche se subisco passivamente e non corrispondo ancora.

Sono ritratto nelle spalle, attaccato al muro come se mi stessi aggredendo, e tu sai di medicine, di normalissima saliva, come l’ho assaggiata in altre occasioni, da altre persone, e stranamente, da così vicino odori di inchiostro di giornale.

O magari non lo è, è il mio cervello che lo interpreta così, per poter catalogare in qualche modo... questo.

“La gamba...” mi parli in bocca, letteralmente.

Posso sentire il vibrato della tua voce oscura direttamente sulla mia lingua.

Non ho il tempo di restare ammaliato, di restare immobile a godere di questa cosa inverosimile e insensata.

“Vai giù lentamente,” ti dico io stavolta, nella tua bocca, perché non è pensabile per me staccarmi ora, e stringo forte la tua vita sottile accompagnandoti nel movimento, facendoti delicatamente sedere sul gradino superiore a quello su cui siamo, e sul quale mi inginocchio, io inclinato in avanti e tu che mi soffochi il collo con le braccia.

Una stretta fortissima, non potrei divincolarmi nemmeno se lo volessi.

Ma io, ovviamente, non voglio.

Non riesco a chiudere gli occhi, li tengo fissi e spalancati sulle tue ciglia nere, non riuscendo a mettere a fuoco la tua faccia perché sei troppo vicino, troppo, e sento la tua lingua, bollente, dio, scivolare con assoluta prepotenza dentro di me.

Chi l’avrebbe mai detto che saresti stato capace di una cosa simile?

Dio... non respiro.... sto perdendo l’equilibrio... non stringere così...

“Sherlock...”

Non riesco nemmeno ad ansimare, devo fare forza per potermi allontanare di un millimetro, appena per permettermi di articolare un suono, ma tu serri di più la stretta attorno al mio collo... e io non ho fiato... non ho terra sotto i piedi... mi sta sfuggendo il gradino da sotto il ginocchio, mi aggrappo attorno alla tua vita strappandoti un gemito per le ferite non ancora del tutto guarite e ti gravo praticamente addosso con tutto il mio peso.

“Così ti faccio male...” gemo terrorizzato, sapendo che sei di schiena sul taglio dello scalino

“Sì, me ne fai,” mormori succhiandomi il labbro superiore.

Io ancora non so se sono sveglio o meno, e se questa è davvero la mia vita.

So, però, che il mio stesso battito cardiaco mi sta scardinando le ossa nello sterno.

E’ meraviglioso.

E io ho paura. Paura. Paura.

Riesco a udire solo il nostro leggero ansimare che in qualche modo riempie tutto il vano delle scale.

Hai un sapore singolare.

Ne ho baciate di persone, nella vita, ma questo sapore è solo tuo.

O io voglio che lo sia.

L’ho immaginato tante volte... nei miei più patetici sogni immaginavo sapessi di frutta, o thé, o, chissà perché... cuoio misto a dentifricio, o una qualunque di quelle stupide descrizioni presuntuosamente poetiche che si leggono nei romanzi minori.

E invece sai del mio stesso sapore.

Sento me stesso in questo bacio, sento umido e calore sulla lingua, ma non distinguo la tua saliva dalla mia, e se non fosse per il retrogusto dei medicinali e per quella vaga nota dolciastra del caffè iperzuccherato che hai bevuto dopo pranzo, no, non saprei dire quale sapore sei tu e quale sono io.

Non so dire, in questo momento, dove finisco io e dove cominci tu.

Mi viene da piangere. No, no. Non adesso, John, andiamo!

“Sherlock...”

“Stai parlando troppo.”

No, non sono parole. Sono sussurri.

Ho la gola completamente chiusa.

“Sherlock... ne sei sicuro? Sei sicuro?” Vorrei continuare a parlarti sulla bocca per sempre. Tu non ne hai idea. Non ce l’hai.

“Stai ancora parlando troppo.”

Anche tu sussurri, ma è più un basso ringhiare sommesso.

Poi non posso dire più nulla, perché mi mangi letteralmente via ogni volontà con le labbra e con i denti, e lavi via ogni mio equilibrio con la lingua.

E io non voglio piangere, ma piango.


“John.”

“Cosa?”

“Credo che dovremmo cambiare location. Mi si sta incrinando la spina dorsale.”

Rido e tiro su col naso, ho la faccia affondata sul risvolto anteriore della tua vestaglia e sì, anche a me si stanno incrinando le rotule.

Non posso credere stia succedendo a me.



Sono vari minuti che stiamo sul tuo letto, così, labbra su labbra, senza baciarci.
Respiriamo. Condividiamo l’aria, semplicemente.

Sono riuscito a farti sdraiare lentamente, mentre tu trattenevi qualche mugugno di dolore per non farmi capire che ti fa male un po’ dappertutto.

In tutta la manovra, dalla discesa dalle scale fino a qui, non ci siamo guardati, non ci siamo parlati, ma ora ti sei sdraiato e mi hai portato giù con te, delicatamente, tirandomi per le spalle.

Ti sono addosso, attento a non schiacciarti, guardo nei tuoi occhi e vedo delle cose che non avevo mai visto prima.

“E’ gratitudine,” dico in un soffio. Ho gli occhi rossi ma mi viene da ridere.

“Sei un idiota,” mi rispondi. Ovviamente.

Occhi. Li guardo da vicino, da così vicino non li ho visti mai.

Non so dire davvero di che colore siano. Verde, blu, grigio, celeste... i colori non hanno mai avuto così senso da che ho la capacità di percepirli.

Li assorbo, chiari e trasparenti, come se mi stessero entrando letteralmente nelle pupille. Né ha una spiegazione il calore di questo fiato che lambisce il mio labbro superiore.

Da quando sono te? Da quando voglio una spiegazione?
E da quando tu sei me, e agisci d’istinto?

Se non fossi ancora convalescente, se non sapessi che ogni mio tocco più ardito, che ogni pressione più intensa possano farti male, ti crollerei addosso, letteralmente.

“Cos’è... questo?” Ti chiedo durante un altro bacio.

“E’ quello che é. E’ la verità.”

Sorridi appena. Mi baci ancora, con più foga. Se continui così, mi ucciderai.

E’ come se mi succhiassi via un dolore per volta, assottigliando le stratificazioni che mi si sono sedimentate dentro da quando ti conosco.

La paura di vederti prendere quella capsula.

Il timore di averti ferito con Sarah.

Il terrore di vederti con i puntatori laser sulla fronte, a pochi metri da un giubbotto pieno di esplosivo.

Irene. Oh, Irene... la paura più grande.

L’essermi sentito dire “io non ho amici”.

La distanza, l’inganno: la caduta... l’abbandono.

Tutto, tutto stai risucchiando via da me.

Sta bastando così poco... forse è poco più di un’illusione, cosa succederà più tardi... domani? Lo vorrai ancora? Non lo so, ma per adesso funziona: mi alleggerisce il petto.

Mi toglie anni di angoscia, spiana le righe in più che mi hai provocato, mi restituisce una felicità che non ho mai davvero provato.
Mai, da quando sono nato.

“John. Oh, John.” Mi dici quando di nuovo affondo il viso sul tuo collo e respiro piano.
Singhiozzo piano, privo di ormai qualunque difesa.

Da quando sono così sentimentale? Mi fai scoprire cose che non credevo di essere, soprattutto se strofini la mia schiena con le mani, come stai facendo ora, e poi stringi forte.

Non ho il coraggio di chiedere di più, però la verità è che voglio di più, ma ho paura. Di quello che dirai, di come ti comporterai. Se questo che stai facendo... è vero. Se non è perché hai compassione per me.

“Non pensarlo, smettila.”

Non mi chiedo più come tu faccia a leggermi nella mente da tempo, ormai.

Sento le tue labbra sulla tempia, bollenti. Sicure.

“Io sono capace di questo, John. Di amarti. Lo sono.”

Amore. E’ quello che hai detto.

Oh, io lo so che ne sei capace, non sei mai stato un mostro, uno scherzo della natura, sei il più umano tra gli umani, io lo so, ti ho sempre visto... ma... me?

“Amare?” Ripeto con la voce malferma. “Me?”

“Nessun altro. Mai.”

Un sussurro perentorio che si spegne sulla mia guancia e me l’asciuga.

“Mi devi promettere che...” cerco di dire, ma tu mi interrompi come sempre hai fatto e sempre farai.

“Lo prometto.”

Cosa, non lo so bene: ma è qualcosa di definitivo, di talmente desiderato che mi sento deflagrare dentro. Lo sappiamo io e te.



Ore dopo.

Migliaia di parole e silenzi dopo.

E baci, fino alla consunzione, fino a sentire le labbra secche e screpolate e l’anima a un passo dalla trance.

E’ buio. Notte fonda.

Ci siamo dimenticati le cena, le medicine, persino di bere un po’ d’acqua.

Le mani. Ho le mani stanche, ho fatto troppo, di tutto.

Ho passato settimane e mesi a muovere le mani per fare cose, sono esauste.

I miei polsi sono indolenziti, gli stessi che tu stai baciando lievemente adesso, e io non ho più la forza di essere incredulo.

Sono abbandonato in uno stato di grazia che mi ha fatto sciogliere ogni muscolo, ogni nodo nel mio collo teso, ogni brutto pensiero passato e presente.

Sei qui, vivo, capace di muoverti, capace di stare qui, sdraiato con me, a togliere ogni male dal mio corpo stanchissimo.

Per varie volte e per lunghi minuti ci siamo avvinghiati e strusciati, ed ho avvertito ogni volta la lingua saettante dell’eccitazione far tremare entrambi; ho sentito il sangue pulsare sotto il tuo collo e nel mio inguine, come nel tuo, ma poi, ansimando, ci siamo calmati.

Io non so da dove cominciare, e tu sei ancora troppo malandato per uno sforzo simile.

Non so come farlo, ti ho detto onestamente.

Non sono mai stato con un altro uomo.

Lo so io, mi hai risposto, stupendomi, e nel buio ti ho sentito sorridere.

Mi insegnerai a tempo debito, mi racconterai come fai a saperlo a tempo debito: non è questa la cosa importante, adesso.

Ciò che conta sono le mie mani sulla geografia aspra del tuo corpo, che ho curato e che conosco ormai a memoria, per motivi diversi da questo: scivolano sulle cicatrici, che adesso sono più numerose delle mie, più scabre, profonde e pericolose, e le mie labbra scorrono su ogni centimetro di pelle, su ogni osso sporgente, su ogni turgore inaspettato, su ogni punto morbido che addirittura tu hai.

E viceversa.

Non c’è nulla di me che tu non stia toccando lentamente, con i palmi e con la bocca.

Con candore.

Dolcezza.

Con una devozione che mi fa ritornare varie volte le lacrime agli occhi senza che tu te ne accorga. O forse sì, chi voglio prendere in giro.

E’ un’altra forma di sofferenza, liberatoria, stavolta.

E’ una redenzione dolorosa, come quando il sollievo dopo uno scampato pericolo ti fa cadere sulle ginocchia: tu sei il mio grande pericolo, e ti sei trasformato in salvezza come il più grande dei miracoli.

Cosa avrei fatto se fossi morto in quell’ospedale, Sherlock?

Se ti avessi avuto solo per quell’istante in cui mi hai riconosciuto mentre ti rianimavo, e poi di nuovo mai più?

Il pensiero mi brucia negli occhi e nella carne, e nemmeno mi rendo conto che ti sto baciando con disperazione e che la mia voce disegna parole sulle tue labbra.

Ti amo ti amo ti amo.

Sento il tuo abbraccio farsi più stretto, il tuo respiro tremare.

Ci sarà tempo per dire altro, mi auguro.

Tempo, tanto tempo: non ne abbiamo mai avuto, il poco tempo che tutto il mondo ci ha concesso non ci ha mai permesso di allungare le mani e intrecciarle come adesso.

Ci diremo perché, perchè non lo abbiamo fatto prima, e ci racconteremo cosa c’è stato prima e cosa ci sarà dopo, se ci sarà un dopo.

Certo che ci sarà, a giudicare da come mi stai sussurrando sulla pelle del collo che non ci separeremo più.

Non è importante parlare ora.

Ora conta solo che io ho smesso di sanguinare insieme a tutto quello che mi circonda: te, la casa, le altre persone del nostro strano universo.

Guarire... ognuno a modo suo, per merito tuo. Ecco cosa conta.

Voglio che stiamo sdraiati qui, insieme.

Voglio stare qui più di ogni altra cosa: non ti lascerò andare, non mi lascerai andare.

Mai più, amore mio.




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- Nota personale -

Ci siamo. E’ finita.

Ho amato questa storia per quello che mi ha lasciata esprimere e l’ho odiata per la fatica che ha comportato, soprattutto alla fine, quando ormai l’ispirazione è difficile da trovare e nella testa premono nuove idee.

Chiedo perdono per il vergognoso fluff, stavolta davvero senza ritegno alcuno, ma basta con il dolore. Soprattutto perché dedico questo finale a tutte le mie ragazze del gruppo TCATH, e allora non può che esserci amore.

Grazie di cuore per tutto l’affetto e per ogni singola recensione passata, presente e futura.

God bless this fandom and EFP!












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