The truth beneath the rose

di Elizabeth_Tempest
(/viewuser.php?uid=104074)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Capitolo I

Era una giornata noiosa, il cielo era grigio, l’azzurro coperto da nubi che promettevano pioggia e saette e l’aria era tanto pregna di umidità che l’acqua la si poteva respirare; la sagoma dell’antico maniero spiccava, scura e a tratti minacciosa, dominando il villaggio di casupole che era cresciuto a ridosso dei signori di quelle terre che, in tempi immemorabili, le avevano difese valorosamente.

Ma erano appunto tempi immemorabili, persi nell’oblio delle gesta passate, in parte dimenticate ed in parte ingigantite, impreziosite da fantasiosi dettagli, fatte leggenda e poi mito: dei valorosi padroni di quell’angolo di mondo non era rimasto che un anziano conte, che dimorava nel palazzo coi suoi figli, un baldanzoso giovanotto dai modi raffinati e dall’animo sregolato ed una fanciulla tanto bella quanto notoriamente caparbia e scapestrata.

L’anziano conte era un uomo conosciuto soprattutto per la sua biblioteca, che vantava volumi antichissimi, copie pregiate e raffinate eseguite da monaci amanuensi, ma anche tomi moderni ordinati dalla Francia e della Germania ed alcuni addirittura dalla Spagna e l’impressionante mole di conoscenza spaziava dagli autori antichi come Plinio il Vecchio alla matematica, dalla botanica all’alchimia, dai grandi filosofi greci fino ai pensatori contemporanei, vi erano spartiti e riviste, tragedie greche e commedie latine.

Chiunque, anche il più povero dei mendichi di Danimarca, conosceva l’infinito numero di libri in possesso del conte  Frydendahl, la cui ragione di vita era collezionarli e sfogliarli, per poi ripetere nozioni su nozioni, aforismi e citazioni colte con la sua voce profonda e un po’ petulante nei salotti della capitale durante la stagione invernale, quando vi si recava coi figli nella speranza di veder maritata la figlia diletta con un buon partito, magari qualche appartenente alla corte reale o qualche ufficiale dell’esercito con una buona rendita ed un’ottima posizione.

Il conte non era mai stato famoso per essere attraente o brillante, al contrario, fin dalla più tenera infanzia, si era mostrato una persona pacata e tranquilla, dall’aspetto piuttosto spiacevole –era infatti molto in carne e bassoccio, aveva dita tozze e grassocce, i capelli sottili di un indefinito castano ormai grigio e due occhietti infossati azzurri e offuscati che spiccavano sull’incarnato pallido e malaticcio del viso tremolante-, amante della buona tavola quanto di un buon librone, costretto a letto da frequenti polmoniti e stretto conoscente delle arti mediche e dei loro praticanti, ad egli estremamente invisi.

I suoi più intimi conoscenti non potevano non rimproverargli una certa pigrizia e ingenuità, ma, a conti fatti, non era né meglio né peggio di altri nobili: si recava alle feste e ai salotti quando vi era invitato, si metteva in mostra quando era richiesto dal suo ruolo di studioso, altrimenti stava nel suo maniero, dedicandosi alla lettura e, con scarsi risultati, all’amministrazione delle sue terre.

Non era portato per esser né guerriero né pensatore, era sempre indeciso e preferiva di gran lunga lasciare agli altri i compiti spiacevoli; aveva gran cuore, ma era incapace di aiutare concretamente gli altri e le sue opere di carità si riducevano sempre a qualche corona donata alla chiesa del villaggio o al figliolo di qualche bracciante messo di servizio presso qualche suo conoscente o in una bottega.

Era vedovo da molti anni di una graziosa fanciulla, Amalie, che era morta al terzo parto con la sua creatura e l’aveva lasciato coi due figlioli ancora bambini, Ludvig, di dodici anni e Friederieke, di sei, che avevano ereditato molto dalla madre e quasi nulla dal padre: erano entrambi belli ed affascinanti, estremamente benvoluti pressi tutti i salotti e i balli di Copenaghen.

Erano però di carattere differente: il giovanotto, ormai uomo, era di carattere allegro, gioviale e gaudente, sempre preso in piacevoli attività come la caccia –indifferentemente alla volpe o alle fanciulle, nubili o sposate che fossero- o far bisboccia con i suoi compagni di collegio e piuttosto spendaccione.

La fanciulla era invece introversa e sempre taciturna, ma dimostrava spesso una mente brillante e attenta, che ne aveva fatta la prediletta del padre, il quale passava molto tempo ad insegnarle la matematica e la filosofia, preferendo però affidare il resto della sua educazione ad una rigida istitutrice, la signorina Bernstein, fatta venire dalla Prussia per il decimo compleanno della bimbetta, il cui compito era stato insegnare a Friederieke il canto, la danza, il cucito, il francese, il disegno, la composizione di amene poesie sui prati fioriti e a discorrere da vera signora, cosa che invece la giovinetta -cresciuta come una selvatica per quattro anni dalla morte della madre e a cui avevano badato distrattamente le serve del maniero e la cuoca- aborriva, preferendo le cavalcate o le camminate solitarie per la campagna e i giochi col fratello.

Oppure le visite all’anziano Jens, il fratello della capo-cuoca, che per anni aveva svolto il lavoro di capo-stalliere e maniscalco e che era stato il marito della sua balia, un uomo schietto e sincero, sempre molto simpatico, che l’aveva messa sulla groppa del suo primo cavallo e che, con una cerca soddisfazione, l’aveva osservata per anni introdursi nelle stalle di soppiatto per scappare dalla signorina Bernstein.

 

Friederieke guardava fuori dalla finestra, annoiata, rigirandosi pigramente il lavoro tra le mani; il cucito non l’aveva mai entusiasmata, lo aveva sempre trovato noioso dato che non ne trovava una vera utilità pratica –del resto i suoi abiti arrivavano sempre da qualche sartoria della capitale, dove suo padre spendeva un vero e proprio patrimonio per farle avere sempre i modelli più in voga alla corte francese.

Si concentrò sul ricamo, tentando di ricordare cosa fosse di preciso… forse un usignolo? si chiese, lanciando un’occhiata perplessa ai fili azzurri.

Non le sovvenne nulla ed alzò lo sguardo, sperando di poter sbirciare il lavoro della signorina Bernstein che invece pareva tutta presa dalla sua opera e la teneva in modo tale che la fanciulla non potesse vedere cosa stesse ricamando.

Con un sospiro a stento trattenuto, la ragazza fece vagare lo sguardo per il salottino -molto femminile, avrebbe squittito la severa donna tedesca, estasiata dal lavoro che aveva fatto per rendere la stanza adatta alla presenza di una “signorina di una certa levatura sociale e morale”-, soffermandosi sui dipinti appesi alle pareti, alcuni opera della giovane nobildonna –in gran parte paesaggi dei dintorni e qualche ritratto qua e là-, sui mobili di squisita fattura francese –“così moderni” li aveva definiti sua cugina Sophie durante l’ultima visita- di legno laccato e dalle imbottiture pompose, lontani dal resto dell’arredamento del maniero, antico e reso lucido dalle mani generazioni di Frydendahl, di legno scuro e pesante, che raccontava di congiure e vendette, di tradimenti e passioni mai sopite.

Ma Iedike era quasi certa che, dall’epoca del nonno di suo nonno, la congiura più eclatante fosse stato un cambio nel menù natalizio. La sua attenzione andò tutta al caminetto e alle fiamme: almeno quello si era salvato dalla signorina Bernstein, si disse. Dei mobili, dei drappi, dei tappeti e delle pellicce che una volta avevano riempito quella stanza non rimaneva molto.

-Una vera signorina non ozia inutilmente quando ha un ricamo da terminare.- la riprese l’istitutrice, senza nemmeno alzare gli occhi.-Una vera signorina termina il suo ricamo con attenzione e perizia, perché il ricamo è un’attività piacevole e conveniente.

Volse di nuovo gli occhi cerulei alla finestra, quasi supplicando il cielo di scagliare un fulmine sull’insopportabile signorina Bernstein. Pazienza se quello non era un comportamento da cristiana, Dio di sicuro l’avrebbe capita.

Provò a finire il suo ricamo, decidendo che il disegno informe doveva essere un usignolo, ma ogni tentativo di concentrarsi scompariva appena l’ago di faceva strada nella tela candida e la sua tenue determinazione si trasformava nella noia più tetra e arrivata al punto in cui era ormai sicura che quella fosse la punizione per chissà quale grave colpa, qualcuno bussò alla porta: era una delle serve, una ragazzetta mingherlina e pallida, mai vista prima d’allora –di certo doveva essere la serva nuova, visto che in casa la servitù era sempre ridotta all’osso- che fece una riverenza.

-Signorina Bernstein, il signor conte l’attende nel suo studio.- sussurrò, quasi avesse paura della sua stessa voce e, appena venne congedata, per poco non corse via.

La donna si alzò dal sofà su cui stava lavorando, ritirando il suo lavoro e lisciandosi le pieghe dell’abito blu notte.

-Torno subito signorina, voi continuate il vostro ricamo.- le disse con un tono che sapeva di ordine e quindi uscì, lasciando Friederieke da sola.

La ragazza posò il lavoro e si alzò, quatta, accostò l’orecchio alla porta e solo quando fu certa che ormai la sua “carceriera” fosse lontana, la spalancò, correndo fino alle cucine, evitando i corridoi principali e scegliendo quelli di solito usati dalla servitù.

Entrò nell’ampio e fumoso locale, ringraziando di indossare una semplice veste da casa e non uno degli abiti nuovi che suo fratello le aveva portato dal suo viaggio in Inghilterra, altrimenti chissà quali invisibili macchie la signorina Bernstein sarebbe stata in grado di scovare.

La capo-cuoca senza nemmeno salutarla, ma col sorriso di chi la sapeva lunga, le indicò un involto su uno dei tavolacci attorno a cui, normalmente, alle ore dei pasti si affaccendavano le sguattere della cucina.

-Se passate per la casa di mio fratello, portategli un po’ di zuppa… ah, se non ci pensassi io a lui, signorina Iedike!- borbottava la donna, tagliando le cipolle.

La fanciulla annuì, infilando la mano in un piccolo vano che i costruttori del palazzotto avevano lasciato nelle pareti delle cucine ed estraendo un paio di stivali di cuoio e una mantella di lana scura; s’infilò stivali e cappa e, preso sottobraccio l’involto, salutò la giunonica donna, allontanandosi dal maniero e sistemando il cappuccio e le falde della mantellina affinché nessuno potesse conoscerla.

Il villaggio non distava molto dal maniero e, dopo una breve camminata sul sentiero proprio a ridosso del fiumiciattolo che irrigava quella zona, si trovò nella piazza principale proprio quando una lieve pioggerella iniziò a cadere. La giovane fece l’ultimo tratto di strada correndo, uscendo dal villaggio e prendendo un sentiero polveroso, attraversando il ponticello che portava al mulino e proseguendo verso la casupola di legno al limitare del bosco.

Bussò alla porta. –Jens, sono io, Iedike, apritemi. Vostra sorella mi manda con la vostra cena.

Sentì il cane di Jens, un grosso bestione di razza indefinita, dal manto folto e scuro, abbaiare, riconosciuta la voce della ragazza e poi la porta si schiuse, rivelando il volto cotto dal sole e solcato da profonde rughe dell’anziano.

-Signorina Iedike! Entrate, entrate! Ma non avete visto che tempo fa? Voi volete proprio ammalarvi!- esclamò l’uomo, facendosi in la per far passare la contessina, che svelta s’infilò nell’ambiente caldo, che profumava di carne messa a seccare, di resina e di zuppa di cipolle, sfilandosi il cappuccio di lana e sorridendo all’omaccione ricurvo, una volta imponente ed ora ridotto pelle e ossa, dolorante per i reumatismi.

L’enorme meticcio continuava a saltare, cercando di infilare il muso sotto le gonne della ragazza e di annusare l’involto contenete la zuppa per l’anziano Jens, che da parte sua cercava di mettere il bestione a cuccia.

-Mi ammalerei se rimanessi sempre ferma a ricamare notte e dì come vuole la signorina Bernstein! Non so con che fanciulle abbia avuto a che fare in Prussia, ma le donne danesi sono di altra pasta, non son fatte per star tutto il tempo con le mani in mano! Se Dio avesse voluto ch’io fossi una damina di porcellana, non sarei stata certo una Frydendahl!- rispose la fanciulla, ridendo e voltandosi verso il tavolo, per poi ammutolire.

Seduto al tavolo, con una grazia ed un’eleganza fuori dal comune, vi era l’uomo più bello che avesse mai visto, che la fissava curioso.

 

 

 

 

 

 

 

****L’angolino dell’autrice****

Lo so, ho tipo sedicimila storie da finire e lo so, sono stra in ritardo, ma questa storia andava scritta.

Che dire se non che nasce dalla mia mente malata e già questo dice molto? Nulla, a parte il fatto che il nostro bel sconosciuto è uno dei miei personaggi preferiti del LC.

Ah, e ringrazio petitecherie perché io della Danimarca so giusto la posizione sulla cartina e la capitale. E che ci stavano gli juti… e i sassoni, credo. E i vichinghi :3

Buona, ho già detto abbastanza cavolate, a presto!

Beth

 

P.s.: Iedike è il diminutivo danese di Friederieke.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II

Il Patriarca aveva stretto la bocca in una smorfia amara e preoccupata, continuando a leggere la lettera che gli era stata fatta recapitare. Proveniva dal nord, dalla Danimarca e recava con sé pessime notizie e presagi oscuri, presagi di morte: la mano del mittente aveva tremato nello scrivere quelle righe e Sage, in cuor suo, sperava che fosse solo l’effetto della vecchiaia e non la preoccupazione dell’anziano.

Rilesse la missiva ancora una volta, imprimendosi a fuoco le parole nella mente e continuando a camminare, inquieto; la mente vagava tra ricordi antichi ma mai sopiti, che gli parlavano di amicizie, di compagni caduti e di enormi sacrifici e tra pensieri novelli.

Con un sospiro rassegnato, ripiegò la lettera, volgendo lo sguardo ad Hakurei, il quale era appena giunto dal Jamir proprio per portare consiglio al fratello e che lo osservava di rimando.

-Così Hades sta iniziando a fare le sue mosse.- disse l’anziano cavaliere dell’Altare, scandendo le parole con lentezza.

-No, non ancora. Se fosse tornato sulla Terra in un corpo umano l’avremmo avvertito Hakurei e se non noi, la somma Athena di sicuro ne avrebbe sentito la presenza.- lo corresse il Gran Sacerdote, lanciando una fugace occhiata al trono che la ragazzina soleva occupare durante i momenti più solenni.

Certo, madamina Sasha era solo una bambina, aveva solo undici anni e lo spirito di Athena in lei era ancora in parte sopito, ma non era né sciocca né incapace di controllare il suo cosmo e se il suo più acerrimo nemico si fosse realmente reincarnato nel corpo di qualche sfortunato quanto innocente umano, di certo sarebbe stata la prima ad allarmarsi… e, doveva ammettere, sperava che davvero il signore dell’Oltretomba non fosse tornato prima del previsto: il Santuario non era ancora pronto alla battaglia che si sarebbe prospettata, egli non era realmente pronto e nemmeno Athena, il cui campione ancora non era giunto.

-No, sono certo che ci sia Pandora o uno degli Dei gemelli dietro a tutto ciò.- concluse l’anziano guerriero.

Hakurei annuì, continuando a camminare affianco al fratello. –Potrebbe aver ragione? Jens, dico. Potrebbe davvero essere che qualche creatura maligna stia cercando di mietere vittime innocenti da immolare ad Hades in modo tanto spudorato? Non fraintendermi fratello.- s’affrettò ad aggiungere, quando l’altro gli scoccò uno sguardo truce –So quanto quelle creature siano prive di morale o di cuore… ma senza il pieno potere di Hades, perché rischiare di farsi scoprire?

-L’hanno già fatto altre volte, dovresti saperlo. E se non lo rammenti, lo si potrebbe chiedere alle tue care armature, perché esse di sicuro non l’hanno dimenticato.- lo sguardo di Sage era carico di significati e ricordi, di vite innocenti che ancora piangeva e di corpi martoriati che non avevano mai abbandonato i suoi occhi.

-Hai ragione, ma speravo non fosse come l’ultima volta. Non come in Egitto, due secoli fa. Che intendi fare? Se Jens ha ragione, dobbiamo aspettarci una vera e propria carneficina che verterebbe a vantaggio di Hades e delle sue truppe.

-Spero di giocare di anticipo. Manderò uno dei Gold Saint in Danimarca, per monitorare la situazione, sperando che arrivi per tempo.- annunciò Sage, che aveva già pensato al piano e al candidato perfetto.

Hakurei annuì, rimanendo in silenzio. Se gli specter davvero si stavano già muovendo e a quel modo, la guerra era molto, troppo vicina. C’erano ancora troppe cose da fare, non erano ancora pronti e non potevano più perdere tempo: che Pegasus fosse giunto o no, ormai poco importava, da quel punto in poi, non si poteva più tentennare.

Il cavaliere dell’Altare salutò il fratello, tornando in Jamir e, una volta rimasto solo, Sage mandò a chiamare Albafica.

 

Il Cavaliere di Piscis era in piedi all’entrata del suo tempio, appoggiato ad una delle colonne e lo sguardo perso verso la Prima Casa; chiunque lo avesse visto, l’avrebbe scambiato per una statua, tanto era immobile.

Il Silver Saint inviato dal Patriarca non si avvicinò più del dovuto, rimanendo a distanza di sicurezza, intimorito dal gelo che quell’uomo dalla bellezza ultraterrena emanava: in molti parlavano di un ego spropositato, nato dal quel dono che Afrodite aveva evidentemente elargito al cavaliere, ma il guerriero sapeva -poiché il suo maestro aveva veduto combattere Lugonis, precedente Saint di Piscis e gliel’aveva raccontato- che quell’avvenenza nascondeva in realtà il più letale dei veleni e la più raccapricciante delle morti. Doveva ammettere di non invidiar nulla a quell’uomo venefico e di esserne anche intimorito.

-Nobile Albafica, il Patriarca desidera parlarvi. Vi prega di raggiungerlo nella sala delle udienze.- declamò il Silver Saint, dopo essersi schiarito la voce. Attese qualche istante, poi retrocedette, pronto a lasciare quel luogo.

Aveva già fatto qualche passo, che il suo superiore si voltò a guardarlo, gli occhi azzurri e splendenti velati da ombre insondabili, però non proferì una sola parola, lo osservò semplicemente andarsene, prima di staccarsi dalla colonna e dirigersi verso dov’era atteso.

 

A memoria d’uomo raramente Albafica aveva rivolto la parola a più di una decina di persone: era sempre stato un giovane silenzioso e schivo e spesso il suo atteggiamento era stato imputato ad un animo troppo vanitoso e superbo, cosa che lo rendeva inviso a molti, nel Santuario.

In realtà fin da fanciullo, Piscis aveva rifuggito il contatto umano per via del proprio sangue velenoso, insopportabile l’idea di poter avere sulla coscienza la vita di qualche innocente che, inconsapevolmente, l’avesse toccato, nella sua mente la dipartita di Lugonis, il suo amato maestro, l’unica famiglia che avesse mai avuto, era un dolore ancora troppo forte e un monito indelebile su quanto egli fosse pericoloso.

Bello e mortale, come le sue rose.

Percorse velocemente la scalinata che lo separava dalla Tredicesima Casa e, giunto di fronte al Patriarca, s’inginocchiò.

-Albafica, ti ringrazio per essere accorso subito.- disse Sage, seduto sul trono, osservando il ragazzo.

-É mio dovere.- rispose il cavaliere d’oro.

Il Gran Sacerdote annuì; sì, di certo il giovane Piscis era la scelta più azzeccata, per la sua discrezione e per la perizia che aveva sempre mostrato nelle missioni, spesso accanto a quello scapestrato di Manigoldo, il suo giovane allievo, sempre pronto a cacciarsi in mille guai.

-Devi andare a nord, Albafica, in Danimarca. Le armate di Hades si stanno muovendo ed una stella malefica brilla sopra un villaggio di quelle terre.

Il giovane assorbì l’informazione e rifletté, prima di parlare. –Una stella malefica?

-Sì. Dal nord mi giungono notizie preoccupanti, l’influsso di questa stella potrebbe causare seri danni anche agl’innocenti che vivono nei pressi di Frydenjord, la tua destinazione.- spiegò Sage, con la sua solita compostezza imperturbabile -A breve salperà una nave diretta a Venezia su cui ti imbarcherai e poi prenderai una diligenza a Kolding per Århus. Frydenjord è a solo un paio di ore di cavallo dalla città… devo raccomandarti ancora la massima discrezione.- concluse l’anziano Patriarca.

Albafica si rialzò. –Non avete nulla da temere, sarò il più discreto possibile e risolverò la situazione.

-Ne sono certo. Arrivato a Frydenjord, chiedi di Jens Andersen, fu un apprendista del precedente cavaliere dell’Aquila, è lui ad avermi scritto. Ti potrà spiegare tutto e ti aiuterà.- e così il Patriarca concluse l’udienza, infine si alzò e lasciò solo Albafica, che attese che l’uomo se ne andasse per poi fare altrettanto.

Tornò verso il Tempio dei Pesci, rimuginando sulla sua missione, senza ben sapere che aspettarsi. Certo, assieme a Manigoldo –e, qualche volta, a Sisyphus- aveva già combattuto gli specter, erano esseri crudeli, ogni traccia di una passata umanità era stata cancellata nello stesso istante in cui avevano accettato Hades come loro signore e non era raro che, per puro divertimento, distruggessero interi villaggi, ma erano sempre attacchi improvvisi, nulla poteva lasciar presagire una delle loro scorribande.

Perché, dunque, questo Jens Andersen temeva che gli specter stessero tramando qualcosa?

Decise che non valeva la pena porsi troppe domande senza avere la piena comprensione della situazione, se al mosaico fosse mancato un tassello avrebbe potuto giungere alla conclusione errata, partendo già prevenuto. Mise insieme un bagaglio leggero, si cambiò d’abito –scegliendone di più consoni al lungo viaggio- e messosi in spalle la cloth box, percorse la Scalinata.

Giunto presso la Quarta Casa, gli si parò di fronte Manigoldo, cavaliere del Cancro.

-Albuccio! Buondì! Parti?- chiese il cavaliere, con un sorriso divertito.

-Così pare Manigoldo. Posso passare?- rispose Albafica, serio.

Da che conosceva Cancer, era sempre stato un uomo spaccone ed impulsivo, con un eterno sorriso dipinto in volto. Era ciò di più simile ad un amico che avesse.

-E così il vecchio ti manda a divertirti e tiene me a casa ad annoiarmi? Deve avercela ancora per l’ultima missione…- disse il ragazzo, incrociando le braccia dietro il collo e ghignando.

-Hai rischiato di far rompere l’osso del collo a Regulus, direi che avercela con te è quasi d’obbligo.- sorrise il giovane dai capelli color pervinca, divertito da quella specie di Arlecchino vivente che, per tutta risposta, sbuffò con fare fintamente irritato.

-Non è colpa mia se Sisyphus non ha insegnato a quel gattaccio a starsene buono in un angolino… talentuoso stratega… ba’!- disse Manigoldo, facendo segno all’amico di passare e affiancandolo mentre attraversava la Casa –Secondo me quel ragazzino è solo un marmocchio esagitato…

-Di esaltato al Santuario ci sei solo tu, amico mio.- lo riprese Albafica, scrollando il capo divertito.

-E di mortalmente noioso tu… e Sisyphus… e Asmita… e anche Dégel, a ben pensarci… e Sion… Aldebaran non saprei, se si escludono le lodi ad Athena e i discorsi ai suoi discepoli –anche più noiosi di quelli del vecchio- direi che non parliamo molto.- elencò il giovane guerriero, tamburellandosi il labbro superiore coll’indice, pensoso.

Albafica non poté trattenere un mezzo sorriso, pensando a quanto il compagno fosse sopra le righe e scanzonato; difficilmente lo si poteva vedere triste o disperato, il suo sorriso, a volte allegro, a volte sarcastico, altre volte venato da crudeltà, era sempre presente su quel viso brunito dal sole.

Giunti all’uscita della Quarta Casa, si separarono, salutandosi.

-Buona fortuna, Albuccio.- sorrise Manigoldo, cercando di dare una pacca all’amico, che prontamente lo schivò, riservandogli uno guardo di profondo rimprovero. –Ah! Che lagna che sei!- detto questo Cancer girò sui tacchi e lo lasciò.

Albafica riprese la sua discesa senza essere interrotto nuovamente e in breve tempo raggiunse l’uscita del Santuario.

 

Il viaggio in nave fino a Venezia era stato, in fin dei conti, abbastanza veloce: il mare era calmo in quei giorni e un venticello fresco aveva gonfiato le vele e fatto procede l’imbarcazione a tutta velocità, quasi la natura stessa comprendesse la fretta del giovane guerriero, che aveva poi corso –con la velocità tipica dei Gold Saint, pari a quella della luce- fino a Kolding, incurante della cloth box che, per un normale umano, sarebbe stato un notevole peso sulle spalle.

Raggiunse una locanda, dove desinò con una modesta zuppa di pesce e richiese una carrozza. L’oste, un uomo vigoroso con una barba simile a quella dei filosofi dell’antichità e dall’incarnato rubicondo, forse dovuto al continuo urlare alle sguattere e ai garzoni o forse al vino che, con poca discrezione, continuava ad ingollare, e con la pelle butterata, forse a causa di una qualche epidemia di vaiolo, gli aveva detto un paio di parole in un tedesco stentato, forse apprese ascoltando le discussioni dei mercanti che si fermavano a desinare e aveva fatto cenno ad un ragazzetto minuto, berciando qualcosa in danese.

Il monello, tutto sporco e lacero, scattò subito, correndo via.

-Lui ora torna. Volete ancora vino?- chiese il taverniere, sforzandosi di mettere insieme le parole in tedesco, mentre il ragazzo gli pagava il conto.

Albafica rifiutò con garbo, andando poi a sedersi davanti al caminetto. In quello che doveva essere il salone principale della locanda, erano radunati molte persone: alcune stavano giocando –d’azzardo, presumibilmente, visti i monticelli di monete sui tavoli- , altre bevevano in compagnia, altre, invece, parlavano e dall’aspetto buona parte dovevano essere mercanti.

Riconobbe, dalla parlata e dall’accento, un paio di bavaresi, un austriaco, tre francesi, un italiano e due olandesi, tutti presi a parlare di affari, di locande a buon prezzo che offrivano ottimo cibo e buon vino e di jolies filles.

Erano tutti uomini, tranne qualche ragazzetta pelle e ossa e con indosso vestiti molto scollati che ogni tanto si affacciava dalla scala che portava al piano superiore, per salutare un cliente, chiamarne un altro o chiede qualcosa all’oste.

Il giovane rimase nel suo cantuccio in ombra, il tricorno ben calcato in testa per cercare di mascherare almeno un po’ il viso; non voleva attirare troppa attenzione su di sé e si trovò a pensare che la bellezza, spesso e volentieri, gli era uno svantaggio.

Il ragazzetto mandato a chiamare la carrozza tornò nel giro di qualche decina di minuti e il giovane Saint si alzò in piedi –nonostante fosse più basso di molti suoi parigrado, aveva comunque un’altezza considerevole, che attirava molto l’attenzione assieme ai lungi capelli pervinca- e si caricò il pesante bagaglio appena questi gli fece segno con la mano.

-Viene, viene!- aveva squittito il monello ed il ragazzo l’aveva seguito in strada, dopo aver rivolto un saluto all’oste: una carrozza scura lo aspettava e il cocchiere, un ometto mingherlino e con un lungo naso, berciava qualcosa al bambino. –Lui porta a Århus!- continuò.

Allungò una manina tozza e lurida, con le unghi rosicchiate e sporche e Albafica, facendo ben attenzione a non sfiorarlo nonostante i guanti, fece cadere due monete nel palmo del ragazzino, che prontamente lo richiuse e biascicando un grazie, scappò a gambe levate nella taverna.

Albafica caricò, rifiutando l’aiuto del vetturino, la cloth box nella carrozza e, chiuso lo sportello, l’ometto mingherlino diede una sferzata ai cavalli, che partirono di buona lena.

Il paesaggio della Danimarca sfilò davanti al suo finestrino per ore: campi, prati, boschi, fiumi e stagni, villaggi piccoli e grandi o semplici fattorie sparse qua e là, altre carrozze o carri di qualche contadino carichi di sacchi o bestie, alla cui cassetta c’erano uomini dall’aria vissuta, ragazzini e donne coi pargoletti stretti al petto, ed altrettanta povera gente camminava sul ciglio della strada, i piedi gonfi negli zoccoli e le schiene curve sotto il peso dei bagagli che trasportavano, coi figli piccoli appesi al collo delle madri e quelli più grandicelli indaffarati a correre qua e là o a badare a qualche animale.

Era passata forse l’ora del pranzo quando entrarono ad Århus. Diede indicazioni al vetturale di portalo ad una locanda ed infine lo licenziò, pagandogli il dovuto ma senza dire una parola di più.

Entrò nella taverna, che di certo aveva passato momenti migliori, a giudicare dalla sporcizia e dalla polvere accumulata ovunque e subito una donna piuttosto anziana –o forse solo sciupata da una lunga vita di lavoro e da numerosi parti, a giudicare dal petto prospero e floscio, messo in mostra da una scollatura profonda, che la diceva lunga sul lavoro praticato in passato- uscì da dietro un vecchio e malandato bancone di legno e gli si fece incontro.

-Siete in cerca di una camera?- chiese, in un buon tedesco, adocchiando subito il suo abbigliamento inequivocabilmente olandese.

-Sì. Mi chiedevo se voi aveste una stanza per me, non so ancora quanto dovrò trattenermi in città, sperando che questo non vi sia di disturbo.- disse il giovane uomo.

La donna si mise a ridere. –No, quale disturbo! Vedete anche voi che qua non c’è nessuno… ormai questa città è morta, non arrivano più mercanti, non partono quasi più navi…- sospirò la donna –Ma venite… e lasciate il bagaglio… Ulrik! Ulrik! Benedetto ragazzo! Ma dove si sarà cacciato?- sbottò l’anziana ostessa.

Reprimendo un sorriso, Albafica scrollò il capo. –Posso portarlo da me, non si preoccupi.

La donna, dopo l’ultima occhiata alla stanza, gli sorrise. –Venite…- iniziò a salire le scale lentamente- Se vorrete mangiare, sappiate che la cuoca, cioè la sottoscritta, è sempre disponibile, il cibo è buono ed il vino…- s’interruppe, lanciandogli un’altra occhiata e decidendo che il suo ospite era un signore di classe -be’, è un buon vinello davvero, vino del Reno, ottimo ma non si deve mai esagerare, ché altrimenti si finisce sotto al tavolo. Questa è la stanza, le mie ragazze verranno a rifarla a breve… ah, signor…- riprese la matrona, interrompendosi subito.

-Van Dijk.- le venne in soccorso Albafica, dandole l’identità fittizia che usava sempre in missione.

-Signor Van Dijk… se doveste gradire compagnia di notte, non esitate a chiedere. Le mie ragazze sono belle e pulite e san fare il loro mestiere.- concluse la locandiera.

Il ragazzo dovette proibirsi di avvampare, rimpiangendo l’assenza di Manigoldo, che avrebbe di certo ribattuto con qualche frase sagace. –Penso che non avrò né l’opportunità né il bisogno di avvalermi di tali servigi, signora.- sussurrò.

-Sono Solveig. Ebbene, se cambiaste idea, avvertitemi. C’è altro che posso fare per voi? Volete desinare?- chiese la donna, con fare materno.

-No, non ce n’è bisogno. Poserò i bagagli e uscirò.- rispose il giovane.

-Se mi permettete, siete in città per affari?- inquisì la donna.

Di nuovo la risposta fu negativa. –Diciamo che sono ad Århus per motivi privati.- le disse e quella parve accontentarsi, perché con una riverenza si congedò e scese le scale, i gradini di legno che scricchiolavano sotto il suo peso.

Albafica entrò nella stanza, guardandosi attorno. Certo, non era come i suoi appartamenti al Santuario, ma non pareva nemmeno così male: il letto pareva pulito –ma non ci avrebbe giurato e sperò ardentemente di non trovarci pulci o cimici-, il catino per la toeletta e la brocca erano di ceramica e non vi erano sbeccature né crepe, un tavolino di legno con la sua seggiola era posto davanti al caminetto, con la sua brava catasta di legna di lato ed in un canto vi era uno scrittoio, mentre ai piedi del letto era stata posizionata una cassapanca dall’aria consunta. Un tavolino era accanto al letto e su di esso c’era una bugia in cui era infilata una candela smoccolata, mentre alle finestre vi erano tende pesanti, che lasciavano passare solo un tenue raggio di sole.

Posò in un angolo la cloth box, coprendola con una coperta trovata nella cassapanca, dove infilò i pochi vestiti che aveva portato con sé, quindi uscì, sistemandosi meglio il giustacuore e il tricorno.

Con poca fatica trovò un cavallo –voleva passare inosservato e non era certo il caso di farsi notare da un possibile nemico correndo alla velocità della luce- e partì quindi per Frydenjord.

 

Già intorno al villaggio, l’atmosfera si fece strana: il cielo era nuvoloso, pesante di pioggia e dava una sensazione di oppressione, il bosco ai lati del sentiero polveroso pareva malaticcio e non incontrò anima viva finchè non si trovò a costeggiare un fiumiciattolo.

Da quel punto in poi si estendevano alcuni campi e qua e là vi erano contadini al lavoro o pastori con le proprie bestie al pascolo, un paio di ragazzini pescavano e alcune donne si recavano dai familiari maschi per portar loro da mangiare, ma tutti alzarono lo sguardo al suo passaggio, guardandolo ad occhi sgranati: mai in quel luogo si era visto un uomo tanto bello e le donne bisbigliarono fra loro che anche Ludvig Frydendahl sfigurava in confronto allo straniero.

Albafica abbassò il capo, continuando a cavalcare finchè le prime case apparvero, assieme alla sagoma lontana di un maniero medievale. L’atmosfera nel villaggio era così strana, pensò il giovane; pareva che tutto dormisse, come se ci fosse una calma eccessiva, anche per un luogo così piccolo.

Tirando le redini fermò il cavallo e smontò davanti ad una casa meno modesta delle altre: una donna secca ed alta, coi capelli acconciati alla francese e l’aria arcigna, si affacciò, stringendosi al petto un bimbetto piccolo, col viso rosso per il gran pianto che faceva.

Sì sfilò il tricorno in segno di saluto. –Buondì madama. Sarebbe così cortese da potermi dire dove trovare Jens Andersen?- chiese, augurandosi che conoscesse il tedesco.

La donna lo guardò, parecchio impressionata dai tratti raffinati del giovane e dovette umettarsi le labbra, prima di parlare. –Tornate indietro e prendete il primo ponticello sul fiume, quello che va al mulino e continuate sulla strada. Non potete sbagliarvi, è la catapecchia al limitare del bosco.- gracchiò.

Albafica prese congedo e rimontò a cavallo, seguendo le indicazioni della donna arcigna. Aveva ragione, non poté sbagliarsi perché proseguendo oltre al mulino non vi erano altre case.

 

Avendo udito un cavallo avvicinarsi, Jens uscì di casa, sorreggendosi sul suo bastone, mentre il suo cane, un bestione di razza e colore indefinito che aveva semplicemente chiamato Cane andò incontro al visitatore, abbaiando. L’anziano lo richiamò con un latrato secco e la bestia tornò da lui, accucciandosi ai suoi piedi.

Quando il visitatore smontò da cavallo, il vecchio stalliere non ebbe dubbi sulla sua identità: una tale bellezza poteva appartenere solo ad un uomo solo in tutto l’universo e questi non poteva essere che il cavaliere di Piscis.

Senza proferire parola, rientrò il casa, facendo cenno al giovane di seguirlo e fu solo dopo aver chiuso la porta col chiavistello, che si decise a parlare.

-Il nobile Piscis, suppongo. Un viso così non può che appartenere al cavaliere d’oro della costellazione dei Pesci.- disse, indicando ad Albafica una delle sedie sbilenche attorno al rozzo tavolo.

-Sì, sono Albafica dei Pesci. E voi, a meno che la gentil dama che mi ha qui indirizzato non si sia ingannata, siete Jens Andersen.

L’uomo prese una bottiglia da un pensile dalle antine quasi scardinate e due tazze sbeccate, le mise sul tavolo e poi si sedette.

-Grappa. Davvero scadente e disgustosa, ma non ho altro. Sì, sono Jens. E così il Patriarca ha mandato voi? Bene, il sommo Sage sa sempre ciò che fa.- borbottò tra sé e sé.

-Ne sono certo, la sua saggezza e la sua lungimiranza sono doti che ben pochi possono affermare di condividere.- disse il ragazzo, osservando il vecchio versarsi del liquore e tracannarlo.

-Ah, nessuno lo mette in dubbio ragazzo, il Patriarca ne sa sempre una più del Diavolo! Non vi dispiace se bevo? Alla mia età fa bene alle ossa.- affermò l’anziano, facendo una carezza a Cane, che invece osservava Albafica, tra il curioso e l’intimorito. –Sì, gli animali la sanno proprio lunga.

Il giovane non disse nulla, pensando che però il vecchio Jens aveva ragione: nessun animale gli si avvicinava, consci istintivamente del pericolo che rappresentava. Ma gli umani era ammaliati dalla sua bellezza e cercavano sempre un contatto che non potevano avere, a meno di pagarlo con la vita.

-Avete scritto al Sommo Sage dicendo che accadono cose strane in questi luoghi, fatti legati ad Hades.

Il vegliardo guardò intensamente il fondo della sua tazza. –Già. Sono iniziate quando il vecchio pastore, padre Peder, è venuto a mancare. Un vero sant’uomo lui. È stato quando è arrivato il suo sostituto, padre Hans che il tempo è cambiato.

-Il tempo?- chiese il cavaliere, senza capire.

-Il tempo. L’avete visto il cielo, no? Sono mesi che succedono cose strane: il fiume che straripa, invasioni di topi e bisce, un’epidemia di polmonite che ha mandato al campo santo sei bambini, il raccolto che marcisce mezzo nei campi, il vecchio Øve che si prende in pieno un fulmine nemmeno avesse sfidato il Cronide in persona… e la gente si rifugia in chiesa. E dove, altrimenti? E cambia. Siete stato in paese, avete visto anche voi che mortorio. Una volta… ah, c’erano ubriachi pure a mezzodì e i bambini facevano un gran bel baccano, ora invece sono tutte pie persone di chiesa, tranquille e… morte dentro. Gli unici che paiono salvarsi sono gli abitanti del maniero.- concluse l’anziano, alzando lo sguardo.

-In effetti pare tutto molto sospetto.- concordò il giovane guerriero. Fuori iniziò a piovere e il rumore delle gocce che s’infrangeva sul tetto gli parve un fosco presagio.

-Pare? Ve lo dico io, è! Vivo qua da quando mi ruppi la gamba e finì storpio, qua vivevano i miei genitori e qua ho vissuto con la povera anima di mia moglie Maria e non ho mai visto nulla del genere. E se il Patriarca vi ha mandato è perché ho ragione e una stella malefica brilla su Frydenjord.

Albafica aprì la bocca per rispondere, ma venne bloccato da un insistente bussare alla porta e da una voce femminile.

L’anziano scattò in piedi con un’agilità sorprendente per la sua età, che rivelava almeno in parte il suo passato al Santuario ed andò ad aprire borbottando, seguito dal suo animale.

-Signorina Iedike! Entrate, entrate! Ma non avete visto che tempo fa? Voi volete proprio ammalarvi!- esclamò, aprendo la porta e lasciando entrare una giovane donna. Cane iniziò a farle le feste, cercando di strapparle l’involto che teneva in mano, mentre Albafica studiava la nuova venuta.

Poteva essere tutto, fuori che una contadina: nonostante l’incarnato non fosse diafano come la moda esigeva, la pelle era liscia e ben curata e i capelli, anche se un po’ spettinati per via del rozzo cappuccio di lana nera, erano acconcianti alla Fontanges. Le falde della mantella si aprirono, rivelando una robe andrenne verde tenue di raso, il cui bordo era schizzato di fango e gli venne spontaneo chiedersi come mai una nobildonna si recasse di quella maniera nella casa di un anziano. Davvero solo per fare una cortesia alla sorella?

Quando gli occhi della giovane –di un incantevole azzurro cielo che si sposavano alla perfezione coi capelli corvini- si posarono sui suoi, si spalancarono per l’evidente sorpresa e subito la giovane fece una riverenza.

-Che sbadata… mi dispiace di non essermi accorta prima della vostra presenza, monsieur.- si  giustificò la giovane donna, in tedesco. I suoi abiti proprio non lasciavano dubbi sul fatto che fosse straniero.

Albafica si alzò, eseguendo a sua volta un perfetto inchino. –Non è stata una vostra colpa, avrei dovuto palesarmi.- rispose, tornando a sedersi, mentre l’anziano Jens faceva accomodare la ragazza e le prendeva la mantella.

-Iedike, non avreste dovuto uscir di casa! Non con questo tempo.

-E voi avreste cenato di nuovo con un tozzo di pane raffermo? Giammai!- protestò la giovane, lanciando un’occhiata sconsolata dalla sedia. –Nessuno di voi si offende se rimanessi in piedi? Il panier è piuttosto scomodo.

L’anziano si mise a ridere. –Ah, piccola Friederieke, voi non cambiate mai. Perdonatemi se ancora non vi ho introdotta. Lei è Friederieke Amalie Maria Frydendahl, contessina di Frydenjord, che tutto sembra fuorché una nobildonna- aggiunse, scatenando una risata alla ragazza -mentre il mio ospite…

-Sono Albafica Van Dijk, per servirvi.- concluse il giovane cavaliere, captando l’occhiata perplessa della ragazza quando udì il suo nome.

 

 

 

 

Eccomi col secondo capitolo e... Albafica! Yes, è lui!

Ringrazio ancora petitecherie per i consigli sulla Danimarca, altrimenti mi troverei l'esercito danese in casa ad arrestarmi per villipedio.

Che aggiungere? Ah sì, le note!

  • Frydenjord è totalmente inventato, mentre le altre città danesi citate esitono davvero (e il nome l'ha suggerito petitecherie).
  • Qua e là ho leggiucchiato che Albafica è olandese, dunque in questa ff ha finito per usare un cognome olandese e la moda di tale paese.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III

Albafica? si chiese Iedike. Un nome insolito di certo, anzi, mai udito prima di allora; eppure suonava bene.

-Se mi è premesso, monsieur Van Dijk, cosa vi ha portato a Frydenjord?- chiese la fanciulla, lanciando un’occhiata sconsolata alla seggiola.

L’anziano Jens prese un’altra tazza, sbeccata come quelle che erano già sul tavolo, e versò alla giovane dell’acquavite. –Ché altrimenti vi ammalate.- disse, mentre la contessina accettava la chicchera con un sorriso.

Albafica osservò l’insolita scena e quando la giovane iniziò a sorseggiare il liquore, rispose. –Affari, si potrebbe dire, che mi hanno portato in zona e una visita a questo vecchio amico di mio padre.- disse, sperando che tale risposta bastasse alla giovane nobildonna, che invece alzò un sopracciglio.

-Dunque vostro padre è amico di Jens?- domandò Friederieke. Che strano, Jens non aveva mai accennato ad un amico olandese, anche se, ascoltando i pettegolezzi nelle cucine, aveva scoperto che per anni l’uomo aveva vissuto all’estero; eppure mai qualche “amico” s’era recato a far visita all’uomo, che escludendo la moglie Maria, la nutrice di Iedike, che s’era riunita al Signore quattro anni prima, e il vecchio padre Peder, aveva vissuto in solitudine per anni.

-Sì, vecchi amici, signorina Iedike.- intervenne l’anziano stalliere, correndo in aiuto di Albafica, che lo ringraziò con un impercettibile movimento degl’occhi. –Dovreste essere più discreta, sapete?- la riprese, bonario.

La ragazza, sorprendendo il cavaliere d’oro, fece la linguaccia all’anziano. –Io sono discreta, Jens, dovreste saperlo. La discrezione fatta a persona. Oh, signor Van Dijk non fate caso a noi due, siamo vecchi amici.- disse Iedike, regalando una carezza al muso di Cane, che scodinzolava continuando a fissarlo negl’occhi.

Il giovane guerriero si sentì a disagio davanti a quegl’occhi azzurri, che lo stavano evidentemente studiando e non solo per la sua effimera bellezza. Poteva quella fanciulla aver compreso qualcosa? No, si disse, dandosi dello sciocco, semplicemente

-Capisco.- si limitò a commentare, preferendo vedere dove la contessa volesse andare a parare, ma quella tacque e guardò fuori dalla finestra, dando loro le spalle.

-Se continua così, non so quando potrò tornare a casa…- sussurrò la ragazza.

Jens si alzò e ravvivò il fuoco nel camino. –Non sareste dovuta venire con questo tempaccio.- disse, prendendo una pentola di coccio e ponendola sul gancio, prima di versarci dentro la zuppa di verdure e cotiche mandatagli dalla sorella.

-C’è sempre un tempaccio qua.-  Iedike parve adombrarsi –Sempre.

Albafica si fece subito attento, appoggiando le mani sul tavolo ed incrociando le caviglie. Dunque non erano solo impressioni del vecchio Jens…

-Già… un tempaccio noioso, come le prediche del nostro caro pastore.- ridacchiò l’anziano –Sarà lui che fa piovere? Sono ormai dieci mesi, da quando è arrivato il nuovo predicatore…- e lanciò un’occhiata carica di significato al cavaliere d’oro.

-Forse il povero pastore attira la pioggia.- disse la nobildonna, voltandosi e sorridendo, un’ombra scura negl’occhi chiari che invece esprimeva appieno la sua inquietudine.

-Un uomo di Dio che attira la pioggia… magari è un dono del Signore.- suggerì il ragazzo, con un sorriso divertito.

Iedike abbassò lo sguardo sulle mani, prima di rispondere. –Non saprei, potrebbe essere.

Lasciarono cadere la conversazione, ognuno pensieroso per i fatti propri, finché Jens non offrì loro un secondo giro di grappa, per stemperare la tensione.

Cane si accucciò davanti alla porta e iniziò a sonnecchiare.

 

Tornare nel salottino e non trovarci la contessina Friederieke non era una cosa così insolita: la signorina Bernstein era ormai abituata alle fughe della ragazza, che fin da bambina era stata solita scappare dalla sua sorveglianza nei modi più strani, una volta, addirittura, si era calata da una finestra e aveva usato una vecchia quercia come scala.

Con un gemito stizzito, alla vista della pioggia che aveva iniziato a scrosciare, era corsa –anzi, si era elegantemente affrettata- verso la biblioteca, quando aveva incrociato il conte Ludvig.

Il giovane uomo era fradicio e camminava a grandi passi verso le sue stanze, i capelli castani che aderivano al volto per la pioggia, così come i calzoni da cavallerizzo.

-Oh, conte Frydendahl!- esclamò la donna, cercando di non arrossire, fermandolo. Il giovane uomo le riservò uno sguardo benevolo, intuendo, dalla fretta e l’agitazione della severa istitutrice, che di certo sua sorella minore aveva combinato una delle sue marachelle.

-Signorina Bernstein, quanta agitazione! Calmatevi e respirate…- le suggerì garbatamente.

-Conte, come posso calmarmi? Vostra sorella…- pigolò la donna, affannata. Ogni fuga della sua allieva era una sconfitta inaccettabile, una vittoria dell’inciviltà e della rozzezza sulla civiltà e la raffinata cultura di cui si sentiva paladina in quella terra di sempliciotti.

-Mia sorella ha pensato bene di scappare. Lo immaginavo. State tranquilla, non può essere andata lontano con questo tempo tanto brutto. Di certo è al villaggio o dal vecchio Jens. Vi faccio preparare una carrozza, se volete, così potrete andarla a prendere.- disse il giovane conte.

La signorina Bernstein annuì, di fronte a cotanta bellezza e leggiadria, le labbra dischiuse e lo sguardo completamente catturato dall’uomo che, senza smettere di sorridere, si chinò verso di lei, sussurrandole qualcosa all’orecchio.

Ludvig Frydendahl tornò sui suoi passi dirigendosi verso le stalle, mentre la precettrice rimaneva ferma nel mezzo del corridoio, come incantata.

 

La carrozza percorse le strade fangose velocemente, la signorina Bernstein guardava fuori dal finestrino, immobile, lo sguardo vacuo. Si sentiva sempre strana uscendo dal castello, come se uno strano torpore le fosse penetrato nelle ossa.

Quando infine la carrozza si fermò, dovette impiegare qualche secondo per riprendersi e ricordarsi il perché di quel viaggio.

 

Il rumore inconfondibile delle ruote di un landò distrasse gli ospiti di Jens Andersen, che conversavano amabilmente –cercando di scrutare l’una nell’animo dell’altro e viceversa- sul viaggio di Albafica.

Friederieke si augurava che non fosse stato troppo spossante né troppo noioso, “la Danimarca è un paese molto bello, io non mi annoierei mai di viaggiarvi in lungo ed in largo” e, con fare disinvolto, gli chiese dove alloggiasse.

Albafica proferì il nome della locanda e Iedike annuì semplicemente e fu proprio allora che la carrozza e il nitrire dei cavalli li interruppero.

-Chissà chi è…- disse Jens, alzandosi per andare a vedere, ma la mano piccola e curata della sua giovane ospite lo bloccò, posandosi su quella grande e callosa del vecchio.

-Lo so io chi é. Non vi disturbate Jens, la mia carceriera può tranquillamente prendersi un po’ d’acqua.- disse la contessina, storcendo la bocca –Albafica non poté non stupirsi nuovamente per come quella giovane se ne infischiasse dell’etichetta.

Subito dopo qualcuno bussò alla porta e Iedike aprì.

Un uomo magro e alto, con grandi baffi biondi, si levò il tricorno in segno di saluto e disse qualcosa alla giovane donna, che annuì e rispose, prima di voltarsi. Il padrone di casa le porse il mantello di lana scura e ruvida, che Iedike si drappeggiò addosso prima di fare una riverenza in beneficio del cavaliere.

-Arrivederci contessa Frydendahl.- la salutò Albafica

-Spero di rivedervi presto, monsieur Van Dijk.- e così dicendo si congedò.

 

Corse fino alla carrozza e s’infilò dentro, cercando di bagnarsi il meno possibile e preparandosi alla sgridata che certamente la signorina Bernstein le avrebbe dato per le condizioni degli abiti.

Ed infatti, appena si accomodò e lo sportello venne chiuso, la rigida donna tedesca la guardò come se fosse stata il peggiore dei birboni.

-Ma… signorina Friederieke! Come vi siete conciata! Guardate i vostri abiti! Oh, quante volte vi ho detto che non è un comportamento da signora il vostro? Volete rimanere nubile per sempre? Volete davvero che nessun uomo vi trovi attraente o adatta al matrimonio? Volete dare un tale cruccio al vostro povero padre!- esclamò la donna, concitatamente.

Iedike assunse l’aria più contrita che le riuscì e quasi fu capace di farsi sfuggire una lacrimuccia e la signorina Bernstein subito si calmò. –Oh no, contessa, non dovete piangere!

-Mi sento così male, signorina Bernstein… non vorrei mai deludere il mio caro padre! Come potrei farlo? È sempre tanto buon con me…- singhiozzò –Ma il povero Jens, che mi è così caro… dovete capire, è anziano e solo e la cara, cara Maria è venuta a mancare… non può provvedere a sé stesso e sua sorella mi aveva chiesto di portargli la cena, ma è venuto a piovere…

-Avete un cuore d’oro, ma dovete ricordare l’etichetta.- le suggerì l’istitutrice, addolcendosi davanti alla sua perfetta interpretazione  e alla carità che la sua protetta aveva elargito, degna di certo della miglior nobildonna, proveniente di sicuro dalla profonda sensibilità della contessina nei confronti del marito della donna che le aveva dato il seno.

-Lo so, lo so, ho sbagliato e me ne dolgo ma…- e ad Iedike venne un’illuminazione che forse le sarebbe costata qualche smanceria, ma che avrebbe di sicuro calmato la donna e portato un piacevole diversivo nella sua monotona vita –Be’, dovete sapere che un altro motivo mi ha trattenuta: il caro Jens aveva un ospite.

-Un ospite?- chiese curiosamente la donna. Mai nessuno, ad esclusione del povero padre Peder, ormai deceduto e della signorina Friederieke, visitava il vecchio Andersen.

-Sì, un ospite. Un magnifico giovane straniero… un signore davvero distinto, sapete? Si tratterrà qualche giorno…- Iedike gettò l’esca e attese che la signorina Bernstein abboccasse.

 

-Povera ragazza.- disse Jens, chiudendo la porta dietro alla contessina, che era uscita correndo nonostante lo scomodo panier –La signorina Bernstein è l’ottusità fatta a persona, ha la testa troppo piena di smancerie da donna… ah, mai vista una vera Frydendahl che passasse il tempo a ricamare o suonare.- sospirò l’uomo, tornando a sedersi.

-Non lo metto in dubbio… quella fanciulla quindi viene spesso a farvi visita?- chiese Albafica. Poteva  quella nobile così particolare rivelarsi un intralcio?

Jens fece una carezza a Cane, che aveva alzato il muso sfregandolo contro la sua gamba storpia.

-Mia moglie Maria, diciassette anni fa, rimase incinta. Eravamo entrambe molto anziani e non pensavamo di poter avere figli, ma Dio voleva farci questo dono, diceva sempre. Sapete, lei era molto credente… nello stesso periodo la contessa Amalie, la madre di Iedike, rimase incinta del secondogenito del conte... Mia moglie perse il bambino nel parto ma aveva il latte e le venne chiesto di allattare la piccola contessina. La madre della signorina era, pace all’anima sua, un po’ scioccarella, non si è mai presa molta cura dei figli, quindi ci pensavano mia moglie e mia sorella. E la contessa Maria, la zia della signorina Iedike, un'altra bella testolina. Comunque, quella ragazzina l’abbiamo praticamente cresciuta noi, quindi la vedo più spesso di quanto non faccia sua padre; il povero conte non prese bene la morte della moglie e non è stato più né meno presente come padre di altri aristocratici.- raccontò Jens, allungando la mano alla bottiglia, il viso incartapecorito segnato da un’ombra di sofferenza. –Per tornare alla vostra domanda –scusate questo vecchio sentimentale- è qua un giorno sì e l’altro pure… una volta si calò da una finestra del primo piano con una corda trovata chissà dove per venire a trovare Maria, durante la sua malattia.

Albafica sorrise conciliante. –I sentimenti non sono mai negativi… e mi è parso che la contessa la sapesse lunga su ciò che accade qua a Frydenjord.

-Oh, se la sa lunga. È una sveglia, la signorina Iedike… e, se proprio posso dirvi tutto, è stata lei a spingermi a scrivere quella lettera al Patriarca.- ammise l’anziano, guardandolo dritto negli occhi.

Piscis poteva leggervi un gran affetto, in quello sguardo grigio e mutevole come il mare in tempesta. -In che senso?

-Nel senso che la signorina mi riferisce sempre di strani presentimenti… da quando è arrivato padre Hans. E ogni tanto mi pare stanca, svuotata. Qualunque cosa succeda a questa gente non m’importa, nessuno a parte padre Peder ha alzato un dito per mia moglie, ma per lei quella bambina era il figlio che Dio le ha strappato dalle braccia appena nato… e non posso permettere che Hades se la porti via.- affermò l’anziano, negli occhi una determinazione disarmante.

 

 

 

 

 

Ciao! Eccomi col terzo capitolo!
Bene, come abbiamo letto: Alba è figo, Jens è teneroso e Iedike trama qualcosa... e la signorina Rotten-ops, Bernstein si rimbecillisce quando vede Ludvig Frydendahl... bella situazione, vero? Ora cosa succederà?
Non ve lo dico, tié u.u
Al prossimo capitolo.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

Dopo la veloce cena a base di carne di fagiano in compagnia di Ludvig –il conte aveva fatto sapere di non sentirsi bene-, Friederieke si ritirò nelle sue stanze, seguita dalla sua cameriera.

Per tutto il tempo impiegato per la vestizione, non poté non ripensare al signor Van Dijik: era l’uomo più bello che avesse mai visto con quei tratti tanto delicati, quella chioma splendida e insolita e quegli occhi… due zaffiri come quelli potevano veramente essere iridi? O aveva dei gioielli incastonati nel viso?

Perfino suo fratello sfigurava al suo confronto e Ludvig non poteva certo considerarsi brutto. Però quell’uomo nascondeva qualcosa, ne era certa, il suo sguardo mentiva e l’aveva incuriosita abbastanza da voler scoprire il più possibile.

Licenziò Ina con un gesto della mano e prese un libro dallo scrittoio, per poi distendersi. Lesse un paio di pagine, ma la sua mente continuava a tornare al giovane olandese.

Aveva tessuto le lodi dell’uomo con la signorina Bernstein proprio per quello ed aveva ottenuto la sua curiosità: la donna, durante il breve viaggio in carrozza, aveva continuato a chiederle del giovane sconosciuto, affamata di dettagli ed infine, con un sospiro triste, aveva detto che era stata proprio una gran sfortuna non aver avuto la possibilità di incontrare una persona tanto distinta.

“Oh, non vi angustiate, signorina Bernstein… è mia intenzione dare il benvenuto al signor Van Dijk al più presto, che nessuno abbia mai da dire che i Frydendahl non sanno accogliere degnamente i forestieri.” aveva detto Iedike, sorridendo, mentre la sua mente elaborava un piano per l’indomani.

Soffiò sulla candela che illuminava la stanza e lentamente cadde in un sonno profondo, popolato da incubi e sibili demoniaci.

 

Non riuscì a prendere sonno fino a notte tarda, continuando a rigirarsi nel letto scomodo e a ripensare alle parole dell’anziano Jens e al suo sguardo determinato.

Hades minacciava davvero quella gente o l’atmosfera strana, malsana ed innaturale era dovuta ad altro? Un luogo in cui la natura pareva impazzita e la gente quasi morta, vuota…

Albafica si passò una mano sul volto, girandosi di nuovo per tentare di addormentarsi, ma venne sorpreso da un altro pensiero con gli occhi azzurri.

Friederieke Frydendahl era pericolosa? Era strana, certo, ma poteva rappresentare un intralcio al suo compito o, addirittura, essere in combutta con la presenza che stava cambiando il villaggio?

Dopotutto gli abitanti del maniero, secondo l’anziano, erano immuni dall’influsso malefico che aveva colpito Frydenjord, poteva forse la contessa essere collegata alla stella malefica? O essere una vittima?

“…la signorina mi riferisce sempre di strani presentimenti… da quando è arrivato padre Hans. E ogni tanto mi pare stanca, svuotata…” quelle parole rimbombarono nelle sue orecchie. E se stesse sbagliando? E se il male che stava colpendo il piccolo borgo fosse stato come un arto in cancrena e l’infezione si stesse pian piano espandendo verso il palazzo e, poi, verso Århus?

Quando infine cadde vittima di Morfeo, gli occhi azzurri e inquieti di Iedike e quelli grigi e determinati di Jens accompagnarono il suo sonno.

 

Iedike si alzò di buon ora, incapace di rimanere nel letto un minuto di più e quando Ina, la sua cameriera, entrò per svegliarla, la trovò già seduta sul letto, intenta a leggere.

La ragazza, una fanciulla minuta sui sedici anni coi capelli di un biondo tanto chiaro da parere bianco, fece un inchino, scusandosi per il ritardo e trasse dall’armadio e dalla cassapanca gli abiti della giovane donna, mentre la signorina Bernstein entrava, seguita da altre due domestiche.

-Ina, prendi il nuovo abito della signorina, quello verde.- ordinò la donna con stizza alla serva, che abbassò lo sguardo intimorita. La tedesca lanciò poi un’occhiata a Iedike. –Su signorina, venga a vestirsi! Abbiamo ricevuto notizie dalla vostra cara zia, la contessa Maria, lei e le vostre cugine Sophia e Christina arriveranno a prima di pranzo per farvi visita… rimarranno qualche giorno e vostro fratello il conte ha deciso che sarebbe il caso di dare un ballo… nulla di grandioso, non ne abbiamo il tempo, ma ve ne parlerà lui meglio di me.-  diceva l’istitutrice, mentre la nobildonna veniva letteralmente trascinata giù dal letto e spogliata.

Rimasta nuda di fronte allo specchio, Ina l’aiutò ad indossare e sottoveste di lino inamidato, poi la giovane si aggrappò ad una delle colonnine del baldacchino, mentre un’altra serva cingeva il torace col corsetto e stringeva i lacci; trattenne un gemito di dolore, pensando che prima o poi sarebbe morta per l’impossibilità di respirare con quella morsa attorno al petto.

-Un ballo, avete detto?- chiese alla sua precettrice, cercando di distrarsi da quella tortura.

-Sì, un ballo… non pretendiamo molto, solo qualche amico intimo… le signorine Eckersberg sono abituante alla capitale, vostro fratello vorrebbe render loro questa visita piacevole e poco traumatica.- cinguettò la donna, mentre una delle ragazze, Edda, l’aiutava a mettersi le calze di seta bianca e le giarrettiere. –sarà molto piacevole, con credete?

-Oh, ne sono certa.- sussurrò la contessa, trattenendosi dal piangere quando Edda e l’altra serva si avvicinarono col panier ed iniziarono ad ingabbiarla, poi fu il turno dei cuscini sui fianchi e delle sottogonne di un verde intenso. Infine Edda e Ina si avvicinarono coll’abito nuovo e la giovane sgrano gli occhi: era una robe à la française di un bel raso verde chiaro ricamato d’oro, il corpetto pieno di echelles e la scollatura squadrata bordata di pizzo, che, ad esser franchi, era presente ovunque, assieme a nastri e trine. Le maniche erano ampie, en sabot e le parvero molto più che scomode, ma le tre serve e la signorina Bernstein si sperticavano in lodi sulla magnificenza del vestito, raffinato ma “molto semplice”, come l’aveva definito l’istitutrice, su come il colore s’intonasse col suo incarnato e i capelli scuri e su quanto fosse incantevole così abbigliata.

Iedike, però, si sentiva tutto fuori che incantevole: le dolevano le costole e quasi faticava a respirare, le scarpine di raso coordinate al vestito erano tanto scomode da impedirle di camminare, l’esclavage col ciondolo porta ritratto era troppo tirato sulla sua gola e le doleva la testa tanto Edda le stava tirando i capelli, arricciandoli sapientemente in boccoli che avrebbe fermato poi con un nastro.

Nel frattempo la signorina Bernstein continuava a ciarlare allegramente sul ballo, rassicurandola sul fatto che non avrebbe sfigurato rispetto a quelli che suo padre soleva dare a Copenaghen nonostante sarebbe stato ben più modesto e intimo e quello fece scattare un pensiero nella sua testa.

-Mio fratello potrebbe offendersi se invitassi a pranzo monsieur Van Dijk? Penso sia molto scortese da parte nostra non dargli un degno benvenuto.- chiese la giovane, assumendo l’espressione più innocente che poté.

-Avete ragione, sarebbe scortese… parlatene con vostro fratello a colazione.- le consigliò la severissima donna –Dubito vi negherà questo favore, gli siete così cara… e se il signor Van Dijk è un giovane distinto come l’avete dipinto, di certo sarà una piacevole compagnia.- detto questo, licenziò le domestiche, che se ne andarono profondendosi in inchini, poi, dopo aver riflettuto, riprese –Anzi! Scrivetegli subito, prima che possa prendere altri impegni, anche se nessuno preferirebbe quel vecchio zotico- la donna sottolineò l’ultima parola con un’espressione di disprezzo e disgusto che esprimeva tutto l’odio che notoriamente provava per Jens Andersen –alla contessa Frydendahl? Oh, vi aspetto nel salone per la colazione!

Iedike lanciò un’occhiata di profondissimo odio alla donna, mentre usciva, piccata dal trattamento che sempre riservava al suo caro amico, ma si trattenne dal rimproverarla: la signorina Bernstein era comunque una preziosa alleata e la fanciulla desiderava ardentemente rivedere Albafica Van Dijk.

Quel giovane bellissimo nascondeva qualcosa che aveva stuzzicato la sua curiosità… e, dovette ammettere, che anche la sua avvenenza l’aveva molto colpita.

Si sedette allo scrittoio ed iniziò a redigere la sua lettera.

 

Albafica si era alzato molto presto, quella mattina, incapace di rimanere a letto un secondo di più dopo quella notte di sogni strani e inquietanti di cui non ricordava nulla, tranne una strana sensazione di disperazione… la stessa che aveva provato quando aveva realizzato cosa comportasse il rosso legame e aveva stretto a sé il suo amato maestro morente. Eppure era sicuro di non aver sognato Lugonis…

Si era alzato, lavandosi il viso nel catino e continuando a rimuginare sui dubbi che l’avevano già impensierito la sera prima, poi aveva iniziato a vestirsi ed era sul punto di infilarsi la croata , quando avevano bussato alla porta.

Aprendo, aveva trovato sulla soglia una ragazzetta smunta sui tredici anni che gli aveva fatto un’impacciata riverenza. –Signore, colazione.- aveva balbettato, in un tedesco stentatissimo. L’aveva congedata chiedendole solo pane e formaggio e una tazza di latte, come avrebbe fatto al Santuario – al contrario di Manigoldo, che tendeva ad ingozzarsi e di Cardia, che pareva vivere di mele e carne- ed aveva finito di vestirsi prima che la servetta tornasse, con un vassoio carico di pane nero, formaggio, del prosciutto freddo ed una brocca di latte.

La ringraziò e prese a mangiare, decidendo il da farsi: sarebbe andato a Frydenjord e avrebbe chiesto a Jens di spiegargli per filo e per segno gli avvenimenti di quei mesi, che, per quanto insoliti, avrebbero potuto anche essere casuali e non legati alla stella malefica e poi si sarebbe recato a conoscere padre Hans.

Si disse che come programma poteva andare quando bussarono di nuovo: questa volta era Solveig.

-Ah, signor Van Dijk! Spero abbia apprezzato la colazione.- esclamò la donna con fare materno e il ragazzo rispose cortesemente, affermando che era tutto delizioso.  La locandiera sorrise e gli porse una lettera. –Guardi qua che cos’ho, una lettera per voi! E viene dal maniero del conte Frydendahl… non sarete per caso un pretendente della contessina? Perché, fatemelo dire, scegliereste bene: le donne di quella casata son tutte delle vere ribelli, ma molto belle e di polso.

Albafica prese la lettera facendo attenzione a non toccare le mani rosse e ruvide dell’ostessa e le diede una rapida scorsa, poi ringraziò la donna.

Era invitato a pranzare presso la dimora dei Frydendahl dalla contessa Friederieke… con un mezzo sorriso, si disse che poteva essere un’opportunità per studiare l’operato della stella.











Capitolo corto (credo) ed intenso (ma anche no).
Iedike fa strani incubi, Alba sogna lei e Jens e ha molti dubbi e ora avranno l'occasione di stare vicini e cercare di studiarsi a vicenda... che ne salterà fuori? Dai, ve lo dico io: tanti guai.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V

Non l’avrebbe mai ammesso, ma aveva passato gran parte della mattina seduta nella “stanza delle torture”, cioè ne salottino della signorina Bernstein, guardando fuori. Le finestre della stanza, infatti, davano sul viale alberato che portava ai cancelli di ferro battuto del maniero, che suo nonno aveva fatto erigere per sostituire le antiche mura ormai cadute in rovina e di cui spiccavano qua e là dei monconi coperti da rampicanti ed era possibile osservare, tra le fronde folte che iniziavano a tendere all’oro e all’arancione, le carrozze e i cavalli che si recavano al maniero.

Fece fatica a concentrarsi sul suo ricamo, seduta su uno scomodo sgabello –di quelli adatti alla voluminosa gonna che indossava quel giorno- mentre la signorina Bernstein ciarlava del più e del meno, di quanto fossero belle, raffinate ed educate le signorine Eckersberg, di come si vestissero sempre all’ultima moda di Versailles, di quanto fossero colte, istruite dai migliori precettori venuti dalla Francia, di quanto i loro disegni fossero perfetti, le loro esibizioni di canto e pianoforte… ad un certo punto Iedike prese un libro a caso –un romanzo, una lettura che suo padre avrebbe definito frivolo, ma non ebbe la voglia di impegnarsi su qualche tomo di filosofia, la sua mente non poteva rimanere concentrata per più di pochi istanti, prima di tornare a due occhi di zaffiro che parevano nascondere mille segreti.

Sfogliò pigramente le pagine per un po’, finchè con la coda dell’occhio non intravide una carrozza precorrere il sentiero orlato di colossi arborei.

-Devono di certo essere vostra zia e le vostre cugine, contessa!- esclamò la signorina Bernstein con un tale gaudio nella voce, che a Iedike parve quasi una timida vergine in attesa del suo futuro sposo.

Del resto, come si poteva non preferire la perfetta Sophia o la talentuosa Christina, così attente all’etichetta e alla buona creanza? si chiese, con un sorriso divertito, alzandosi e dirigendosi, a passi lenti e ben calcolati –più per non cadere e rischiare di farsi male, che per risultare femminile-, dando il braccio alla sua istitutrice, nell’ampio atrio di pietra scura, ove erano riunite le tre visitatrici.

 

Maria Eckersberg era nata come Marie Helene Christina Frydendahl, figlia dei conti Frydendahl e sorella di Ludvig, il padre di Iedike.

In gioventù era stata conosciuta in tutta la Danimarca per la sua avvenenza e la sua grazia, ma anche per il suo carattere fiero e ribelle: era stata una graziosa fanciulla dai lunghissimi capelli dorati e gli occhi verdi come i prati di quella terra gelida, di statura alta e di costituzione un po’ robusta, allegra e di mente acuta, tanto scapestrata quanto posato e tranquillo era il fratello minore.

Aveva dovuto lasciare la sua casa molto presto, quando si era sposata all’età di quattordici anni col figlio di un ramo cadetto di un antico casato nobiliare della capitale, a cui aveva dato cinque figli, tre maschi e due femmine, che il suo sposo aveva messo nelle mani dei migliori precettori ed istitutrici del regno, ma il matrimonio era stato tutt’altro che sereno o felice: Sebastian Eckersberg era un uomo violento e ottuso, dotato di una cattiveria non indifferente, dedito all’alcool quanto alle belle donne e aveva sparso in Danimarca non pochi bastardi; aveva sposato la contessa Maria solo per interesse e se n’era sempre disinteressato, ritenendo che un paio di gravidanze sarebbero bastate a tenerla a bada, ma aveva sbagliato i suoi calcoli e il carattere indomito che aveva caratterizzato per secoli la casata dei Frydendahl s’era acuito col tempo.

Sebastian Eckersberg aveva dunque tolto i due figli maschi, Søren e August, alle cure materne, rimettendoli ad una delle sue amanti –come gesto di disprezzo verso quella moglie tanto ostinata- proprio nello stesso periodo in cui la contessa Amalie rimaneva incinta del primogenito del conte Ludvig, con sommo disappunto del mercante, che aveva sempre sperato di divenire l’erede della tenuta di Frydenjord.

Maria, senza dir nulla, si era recata in visita dal fratello, notando che la cognata non possedeva molto, all’infuori di una certa bellezza e di un carattere frivolo che a prima vista poteva apparire allegro e gioviale: Amalie non era adatta ad essere una moglie e tantomeno una madre e così il piccolo Ludvig aveva passato i primi anni della sua vita sotto la sorveglianza della zia, che lo aveva amato come un figlio.

Sebastian Eckersberg aveva però reclamato la moglie e così Maria era tornata a Copenaghen in tempo per partorire la figlia Christina, una bimbetta malata e triste che le era stata tolta che ancora non camminava e la piccola Sophia, l’esatto contrario della sorella maggiore e che Sebastian Eckersberg, come rappresaglia per la troppa indipendenza della moglie, aveva affidato alla madre e una sorella rimasta nubile –due donne della sua stessa pasta che non avevano potuto non rovinare le menti giovani delle due fanciulle.

Maria era dunque tornata al maniero in cui era nata e cresciuta per occuparsi della seconda gravidanza della contessa e della bambina che ne era nata, la contessina Friederieke Amalie Maria.

Di nuovo Amalie si era rivelata una pessima madre e così la cura dell’infante era passata alla ribelle contessa Eckersberg. Col tempo, però, soprattutto con la nascita di Victor, il suo ultimogenito, un bambino molto delicato, Maria aveva diminuito le visite e dopo la morte della madre, Friederieke e Ludvig erano cresciuti selvatici e ribelli, mentre i suoi quattro figli maggiori erano diventati ottusi esattamente come il padre e la donna non aveva mai fatto mistero di preferire la nipote Iedike alle figlie.

Ed infatti si lasciò andare ad un sorriso ampio e sincero quando la vide comparire assieme alla signorina Bernstein –la donna più vuota e stupida che conoscesse, dopo le sorelle di suo marito e le sue figlie-, agghindata con abiti che mai quella giovane scapestrata avrebbe scelto di sua spontanea volontà, tutti fiocchi, ruches, pizzi e trine.

-Iedike! Che gioia vederti, mia cara ragazza!- esclamò Maria, prendendo le mani della fanciulla tra le sue.

La ragazza ricambiò il sorriso con altrettanta gioia. –Mia cara zia! È così tanto che non vi si vedeva, pensavo vi foste dimenticata di me!

Sophia, scuotendo il capo con leggiadria, rise. –Dimenticarsi di voi, mia cara cugina? E come si potrebbe?

Iedike ingoiò il sottinteso della cugina, rivolgendole un sorriso falso ed affrettandosi a salutare le due giovani parenti, mentre la contessa Maria prevedeva una lunga visita.

 

Albafica montò a cavallo subito dopo la colazione e raggiunse in poco meno di un paio d’ore Frydenjord, rimpiangendo il dono della velocità, inutilizzabile dato che doveva fare attenzione a non farsi scoprire, ma non aveva mai amato particolarmente cavalcare ed il tempo perso in groppa a quella bestia –un bell’esemplare robusto e dal manto bianco sporco, quasi grigio e lucido- poteva essere impiegato più fruttuosamente nella missione.

Decise che, prima di recarsi al maniero, il quale si stagliava in modo inquietante contro il cielo plumbeo del villaggio, si sarebbe recato dall’anziano Jens Andersen, per discutere con lui.

Percorse con un trotto sostenuto la strada che già aveva fatto il giorno prima, osservando ancora più attentamente il paesaggio opprimente e grigio, morto per certi versi e gli abitanti del villaggio, dalla pelle smunta e lo sguardo assente, che si sfilavano il cappello al suo passaggio. Le vacche e le pecore che punteggiavano i prati parevano malate, pascolavano stancamente, gli occhi vacui come quelli dei loro padroni.

Il giovane cavaliere d’oro piegò le labbra in una smorfia amara, pensando che, qualsiasi cosa stesse succedendo, doveva intervenire velocemente, prima che per quella gente non ci fosse più nulla da fare.

Arrivato davanti alla casupola di legno smontò, legando la sua cavalcatura ad un palo ed entrando: l’anziano l’aveva sentito arrivare ed aveva aperto la porta, con un sorriso sul volto rugoso.

-Nobile Albafica.- lo salutò, con una finta solennità. Cane era sdraiato davanti al caminetto e sonnecchiava pacifico.

Il giovane sorrise mestamente. –Jens Andersen.- disse, a mo’ di saluto, sedendosi su silenzioso invito dell’uomo, che trasse dal pensile scardinato la solita bottiglia di liquore, versandone una tazza piena per l’ospite. –So che effetto possa fare questo paesaggio desolato e voi avete la faccia di qualcuno che ha appena visto un mucchietto di cadaveri. Bevete, questa, sicuro come il fatto che mi chiamo Jens, vi rimetterà in sesto.

Sicuramente avrebbe rimesso in sesto anche un morto, pensò il ragazzo, prendendo un sorso di quel liquido trasparente e fortissimo e strabuzzando gli occhi quando l’alcol gli bruciò la gola, scendendo fino alla stomaco da cui si propagò un calore fortissimo. Non era certo la prima volta che beveva, ma quella grappa non l’avrebbero retta nemmeno Manigoldo e Dégel, si disse.

Jens scoppiò a ridere nel vedere gli occhi sgranati e il rosso che tinse le guance del suo ospite e batté un palmo nodoso sul tavolo sbilenco. –Questa grappa stenderebbe anche Hades… bisogna essere abituati, signor Albafica!

Il giovane guerriero annuì, poiché gli pareva di non avere più una lingua per parlare.

-La tengo per le grandi occasioni… di liquori così non se ne trovano più!- esclamò l’anziano, soddisfatto, per poi farsi mortalmente serio. –Qualcosa vi preoccupa.

-Sì.- gracchiò il guerriero, la gola ancora in fiamme. –Sì… ho ricevuto una missiva dalla contessa Frydendahl. Mi invita presso la sua dimora per pranzare.- spiegò.

Jens tacque qualche istante, poi si versò ancora un chicchera di grappa. –Avete incuriosito la contessina… la conosco bene, è sempre stata una bambina curiosa e non è per niente cambiata. Di certo il vostro modo di fare riservato le fa immaginare cose che non dovrebbero esserci.

-Potrebbe essere pericoloso, se non per la missione, per lei.- disse il guerriero.

-O forse no. Qualsiasi cosa sta intaccando questa gente, fa fatica ad attecchire negli abitanti del maniero, ma dubito che Iedike non si sia accorta di nulla. Potrebbe essere d’aiuto, ma fareste bene ad indagare anche al castello… ieri, dopo che ve ne siete andato, ho ricordato una cosa.- Jens fece una pausa, accarezzando il capo di Cane, che s’era svegliato e aveva strusciato il muso contro la gamba storpia del padrone. –Padre Hans arrivò proprio quando Ludvig, il fratello di Iedike, tornò dalla Francia… non so quanto c’entri, ma…-

-Indagherò.- promise il ragazzo, scrutando gli occhi dell’anziano, carichi di supplica e di determinazione. Quell’uomo desiderava con tutto sé stesso proteggere la contessa Frydendahl, ma Albafica non sapeva quanto fosse obbiettivo… se quella ragazza fosse stato il nemico, nessuno gli avrebbe garantito che Jens non decidesse di tradire lui e il Santuario per quella giovane donna.

-Sono certo che lo farete… e, perché so che lo state pensando, Iedike non è coinvolta. La conosco bene, so che non c’entra nulla.- disse il vecchio, prima di sorridergli –E preparatevi, perché oggi sono giunte al maniero la contessa Maria Eckersberg, la zia della contessina e le sue figlie… quelle due ragazze sono due belle testoline vuote e vanitose… vi auguro buon divertimento.- e, detto questo, l’uomo scoppiò in una risata.










Sì, Alba è stato messo K.O. dalla grappa. Capita.
Bene, nel prossimo capitolo la Iedike vs. Sophia e chissà cos'alto...

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI

Rimontò a cavallo poco dopo, dirigendosi alla tenuta, osservando che il “grigiore”, come lo aveva definito Jens Andersen, pareva farsi meno forte nelle vicinanze del maniero, rafforzando l’idea della cancrena: ciò che stava accadendo a Frydenjord pareva in tutto e per tutto una setticemia purulenta che lentamente, ma inesorabilmente, attaccava le altre membra del corpo, divorando il tessuto sano. Ma egli non era un cerusico e desiderava tutto, fuori che dover amputare quell’arto: avrebbe fatto di tutto per curarlo e per salvare quegli innocenti.

Varcando i cancelli della tenuta dei Frydendahl, l’influsso diminuiva, ma si rese conto che stava diventando più vigoroso… non sapeva come lo avesse compreso, ma era certo che stesse diventando più forte, che stesse attecchendo in quei luoghi ancora “sani”.

Percorse il viale alberato, scrutando il parco alla francese oltre ai tronchi coperti di muschio, alla ricerca di qualche dettaglio fuori dall’ordinario, ma a parte una coppia di germani reali che si dilettava in una delle fontane, non c’era nulla.

Lentamente la facciata del maniero si andò dettagliando:  il palazzotto era abbarbicato su una bassa collinetta e doveva essere molto antico, risalente a secoli prima, era di mattoni e pietra rossastra ormai annerita dal tempo e tutto, della sua figura un po’ tozza ma solida, lasciava intendere il suo ruolo di fortezza in un passato lontano e le battaglie che doveva aver visto. Le finestre erano strette e piccole nella maggior parte dei casi, anche se sulla facciata se ne aprivano pure di enormi, evidentemente aggiunte in seguito secondo il gusto dei padroni di quei luoghi.

Anche se ingentilito dai giardini squisiti, tutto, in quel luogo, parlava di sangue, morti, battaglie e di antichi padroni barbari e affermava il prestigio dei Frydendahl come signori e protettori di quella zona da innumerevoli generazioni.

Ad un tratto non riuscì più a stupirsi del carattere della contessa, perfettamente in linea con quello che doveva essere stato il passato non così lontano della sua casata e che ancora scorreva nelle sue vene, nel sangue dei suoi antenati.

Giunto davanti al portone, un omone grande e grosso, vestito da valletto, gli si fece incontro, esibendosi in inchini e frasi di circostanza, chiedendogli il nome e avvertendolo che la signorina contessa lo stava attendendo.

Il giovane olandese gli consegnò le redini della sua cavalcatura, ringraziandolo e si allontanò al seguito di una serva che era corsa ad accoglierlo: la ragazza lo aveva fissato per qualche momento, dimentica della buona creanza, col viso arrossato, prima di farfugliarli di seguirla e avviarsi verso la passeggiata nel boschetto di querce che si estendeva dopo il jardin à potager.

Maledì la propria bellezza, prospettandosi veri e propri sforzi titanici per tenere lontani gli abitanti di quel palazzo.

 

Iedike aveva deciso di attendere il suo ospite passeggiando nel boschetto di querce, che sinceramente aveva sempre aborrito, tanto pareva falso e irreale, curato in ogni minimo dettaglio e così lontano dalle selve in cui i suoi avi aveva cavalcato in sella a bestie possenti, spade e scudi alla mano, le folte barbe da barbaro intrecciate e gli occhi scintillanti per la sete di battaglie e avventure.

Era riuscita ad ottenere dalla signorina Bernstein un cambio d’abito, scegliendo un negligé blu scuro e delle scarpe più comode, supplicandola quasi e ricattandola con possibili cadute che avrebbe di certo rovinato l’abito tanto “raffinato” che indossava.

La rigida donna tedesca era subito corsa ai ripari, concedendole di indossare vestiti più comodi –per proteggere l’investimento del conte Frydendahl in seta e pizzi- e le aveva consigliato quel nuovo abito blu notte, che “s’intona così bene con i vostri occhi e la vostra pelle, contessa!” ma le aveva imposto la pesante presenza di Sophia, ricordandole che lei era l’ospite e avrebbe dovuto essere cortese con la cugina.

La fanciulla aveva represso l’istinto di spingere la parente giù per le scale appena aveva aperto bocca e ora camminava a braccetto con la cugina, che ciarlava di abiti, di balli e di altre amenità.

-E quindi il giovane Oldenburg ha chiesto la mano di Theresia Thorvaldsen: vi lascio immaginare quanto sia stato imbarazzante per quella poverina… insomma, si sa che August Oldenburg ha una rendita infima ed è così noioso, sempre parlando di politica, politica e politica, altrimenti di filosofia. E poi come si veste! Oh, cugina cara, sembra sempre indietro di dieci anni sulla moda parigina! Anche se… be’, non è l’unico. Ma si sa, non tutti hanno classe.- commentò la ragazza bionda, coprendosi la bocca col ventaglio cinese.

Iedike si impose di non ucciderla facendole ingoiare quella sciocca cineseria, non sarebbe stato cristiano riservare un trattamento del genere alla cugina, anche se, effettivamente, l’assenza di qualsiasi organo pensate avrebbe potuto anche classificarla come non umana… in quel caso non sarebbe stato omicidio… o forse sì? si chiese, rivolgendole un sorriso mellifluo.

-Già cugina… non tutti hanno classe, come non tutti hanno intelligenza e capacità di discorrere in modo profondo e piacevole, per tutto ciò è necessaria una mente profonda e studiosa e non è cosa da tutti. Gli abiti sono di certo un passatempo più che delizioso, quando si ha una mente ristretta come la maggior parte delle persone.- disse. Touché, pensò, guardando l’altra arrossire violentemente sotto la cipria.

-Ottimo davvero, credimi. Non so che farmene di certi libroni polverosi, sapete, un uomo in una donna cerca molto altro. Ella deve essere piacevole, bella, saper discorrere, suonare, cantare e ricamare, comporre poesie e danzare… a noi non viene certo chiesto di fare politica o filosofia, quelle sono cose da uomini. Se Dio avesse voluto il contrario, non sarebbe stato così.- ribatté Sophia, seccata.

Proprio non le riusciva di trovare simpatica la cugina e di fingersi sua intima amica, quando avrebbe voluto essere con Theresia o la cara, cara Helene, era arduo. Come poteva quella fanciulla così rozza e ribelle, così poco femminile, essere la rampolla di una famiglia antica come i Frydendahl? Come poteva essere così… così… villana? Era una specie di ribelle popolana a cui aveva infilato dei bei vestiti!

-Sapete, cara cugina, penso di non trovarmi d’accordo con voi… se Dio non ci avesse voluto come voi dite, ci avrebbe fatte nascere tutte quante come delle capre o delle pecore. E ora, se mi permettete, ma quello pare Henning ed è davvero affannato…- disse, con un sorriso di scherno, allontanandosi dalla giovane ospite, che la guardava furente e avviandosi lungo il viale.

Henning, un bambino piuttosto minuto con gli occhi strabici e i tratti grossolani che lavorava nelle stalle, la raggiunse –in un angolo dopo una statua di Eros ricoperta d’edera, piuttosto nascosto alla vista di Sophia., il viso rosso per la corsa.

-Contessa, contessa! È arrivato il vostro ospite! È con Ina, sta venendo qua!- pigolò il bimbetto, gesticolando e strascicando le parole.

-E sei venuto di corsa per dirmelo? Che caro bambino sei.- si complimentò Iedike, che per quell’infelice aveva una certa predilezione. Henning era sempre stato piuttosto esile e malaticcio ed era orfano, la madre e il padre erano morti anni prima, lasciando sei bocche da sfamare che erano state prese dall’ormai defunto padre Peder in quello che era l’orfanotrofio del villaggio, una catapecchia in cui erano alloggiati almeno una decina di bambini e fanciulli, molti dei quali privati dei parenti da un’epidemia di vaiolo che aveva colpito la zona una decina di anni prima. La povera creatura, che era la più piccola della famiglia, era anche nato un po’ sempliciotto.

Il fanciullo fece un sorriso. –Sì, contessa.

-Allora fa una cosa: va nelle cucine e dì alla cuoca, la signora Jacobsen, di darti un po’ di arrosto freddo e qualche dolcetto. Dille che ti mando io e che mi hai reso un gran mestiere.- disse Iedike, cercando di chinarsi alla sua altezza –impresa quantomeno difficile per via del panier e delle stecche di osso di balena del corpetto- e facendogli un buffetto sulla guancia sporca.

Il bambino emise una specie di cinguettio e, con un sorriso imbarazzato, corse via.

 

La cameriera lo aveva accompagnato per un po’ sul sentiero, ma alla fine aveva deciso di proseguire da solo e l’aveva licenziata, facendosi indicare il sentiero che di solito prendeva la contessa.

La intravide poco dopo, su una passeggiata laterale, mentre parlava con un bambino. Il piccolo era magrolino, sporco, con gli occhi scialbi e certamente non doveva essere normale, ma Friederieke gli sorrideva con dolcezza e gli parlava con calma.

-Allora fa una cosa: va nelle cucine e dì alla cuoca, la signora Jacobsen, di darti un po’ di arrosto freddo e qualche dolcetto. Dille che ti mando io e che mi hai reso un gran mestiere.- stava dicendo la fanciulla. Il bambino pareva felice e quando la contessa smise di parlare, emise un urletto e corse via.

Albafica decise di palesare la sua presenza, sapendo che spiare a quella maniera era davvero poco educato e decidendo che non valeva la pena fare figure grame con la contessa, quando proprio su di lei avrebbe potuto dover contare per scoprire di più.

-Siete stata molto gentile con quel bambino.- disse, comparendole davanti. La ragazza si raddrizzò, sorridendo senza però lasciare trapelare i suoi pensieri.

-Henning è un caro ragazzino, non vedo ragioni per cui non dovrei essere gentile con lui.- gli venne risposto.

Freiderieke Frydendahl aveva il dono di stupirlo sempre e il sorriso che gli rivolse, luminoso e sincero, gli fece distogliere lo sguardo.

Rimasero in silenzio qualche istante, poi la fanciulla si decise a parlare. –Dunque avete accettato il mio invito. Ne sono contenta.- la sua voce esprimeva una contentezza genuina,

-Siete stata estremamente garbata, contessa.- rispose Albafica, venendo interrotto dall’arrivo di una fanciulla dai capelli biondi e il viso incipriato come la migliore cortigiana francese.

Indossava un abito ingombrante, dai toni tenui, color primula e faticava a camminare; era graziosa, con grandi occhi azzurri e i capelli biondi raccolti in un’acconciatura ricercata, ma al guerriero parve fin troppo artefatta.

 

Sophia, nonostante fosse infuriata con la cugina, rimase a bocca aperta davanti al giovane e avvenente sconosciuto che stava parlando con Friederieke.

Dire che fosse bello era troppo riduttivo, perché la sua persona era la cosa più squisita che occhio umano potesse mai vedere: i tratti fini e armoniosi, ogni dettaglio che perfettamente s’intonava con gli altri e quell’aria angelica non potevano che appartenere ad un qualche dio pagano.

Gli occhi erano di un blu senza rivali, parevano due zaffiri incastonati in quel bel volto dalla pelle candida e dall’aria morbida e vellutata come il più succulento e peccaminoso frutto –che fosse lo stesso che aveva indotto in tentazione Eva? si chiese Sophia-, dai tratti tanto perfetti che sembravano scolpiti da mano divina, incorniciato da una folta e lunga chioma color pervinca, lucente e liscia come la più bella seta cinese.

Tutto, nel giovane estraneo, esprimeva raffinatezza, superiorità d’animo, nobiltà e la giovane si stupì non poco che una creatura tanto perfetta stesse parlando con la cugina, così poco a modo, una villana qualsiasi che si atteggiava a nobile.

-Cugina! Oh, monsieur, buongiorno… Friederieke cara, non mi presentate?- cinguettò, sventagliandosi.

Il viso di Iedike era immobile, ma lo sguardo lanciava fiamme e Sophia sentì i brividi correrle per la schiena. Quand’erano bambine, quello sguardo significava una rana nel piatto o dei lombrichi nel letto.

-Monsieur Van Dijk, vi presento mia cugina, la baronessa Sophia Ulrika Maria Eckersberg. Sophia cara, egli è Albafica Van Dijk.









Vi aspettavate la morte di Sophia? Naaaa, per ora rimarrà in questo mondo a rompere a Iedike...

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII

Albafica Van Dijk? si chiese Sophia, sorridendo e facendo una riverenza. Un nome così esotico… di certo adatto alla sua figura tanto squisita e raffinata, di certo frutto della migliore nobiltà olandese.

-Monsieur Van Dijk, sono così heureuse di conoscervi! La mia cara Friederieke non mi aveva avvertito di aver ospiti.- cinguettò, iniziando a sventagliarsi.

-Sono comparso all’improvviso, mademoiselle. Vostra cugina ha avuto la bontà di invitarmi ad unirmi a voi per pranzo nonostante io non sia intimo dei vostri parenti.- rispose il giovane olandese, sorridendo educatamente.

Iedike trattenne una risata velata di cattiveria davanti alla vanità di sua cugina e riuscì a captare uno sguardo scocciato da parte del bel straniero: di certo le maniere false e affettate di Sophia dovevano averlo nauseato e ne ebbe pietà.

Prese la ragazza a braccetto, rivolgendole un sorriso gelido. –Sarà ora di tornare al maniero… sono molto stanca e dubito che ricevere un ospite in mezzo ad un boschetto di querce sia previsto dall’etichetta, no, signor Van Dijk?- chiese.

Il ragazzo rispose qualcosa, ma la giovane non lo ascoltava più, trascinandosi dietro l’ingombrante familiare.

 

Si sentì grato nel profondo alla giovane contessa per averlo liberato da quella ragazza insopportabile; non era forse nobile trovare una donna sciocca e vuota, ma non poteva pensare diversamente?

L’unica presenza femminile nella sua vita erano sempre state le ancelle della Dodicesima casa, silenziose ed instancabili serve che operavano nell’ombra –anche se sapeva che in molte delle restanti Case queste ricoprivano anche il ruolo di compagne per una notte dei loro padroni, ad eccezione di quella di Leo, ove le serve facevano a gara per essere le madri del piccolo Regulus- e Athena, la dea guerriera, la sacra vergine, lontana ed irraggiungibile nella sua forma corporea, ma vicina e intima conoscente nella sua forma spirituale.

Un supporto per l’anima e uno scopo nella vita, ecco cos’era la sua dea; mentre quelle due ragazze rappresentavano un universo estraneo, lontanissimo da Albafica e il Santuario.

Sophia era una donna-bambola, come una volta le aveva definite Manigoldo, il ritratto della perfetta signora: vuota, superficiale e leziosa, probabilmente già esperta dei ménage amorosi e degli intrighi di corte, ma Friederieke?

No, quella fanciulla, che ora ciarlava allegramente sul boschetto e su come fosse falso, era lontana dalla brava damina intrisa di etichetta e apparenze… pareva non dare conto del giudizio altrui –e quello che la baronessa Eckersberg pensava della parente era chiarissimo-, era allegra e aveva una bella dose di ironia e un cuore buono… eppure era così indefinibile, qualcosa in lei lo confondeva e, doveva ammetterlo, lo intrigava.

-Signor Van Dijk, non trovate anche voi che questo boschetto sia delizioso?- chiese Sophia, voltandosi verso di lui e scoccandogli un sorriso che, forse, altri uomini avrebbero trovato seducente e innocente, ma che, al contrario, risultava solo insincero. –È così ben curato e armonioso…- continuò la ragazza, elogiando, quasi in estasi, la natura attorno a lei.

-Bello davvero.- rispose il giovane –Un ottimo esempio di cosa possa fare un buon giardiniere con ottimi mezzi a disposizione.- concluse, mantenendo il tono di voce neutrale.

-Ma, in questo caso, forse non si dovrebbe parlare di bosco.- intervenne Iedike, rivolgendogli uno sguardo penetrante –Un bosco è un luogo selvaggio… e i busti dei Cesari che mio padre vi ha fatto mettere non sono così selvatici, no? È tutto così falso, in questo luogo, da sembrare vero.

-Falso da sembrare vero? Ma, cara cugina! Che dite? È senza senso, una cosa falsa non può sembrare vera.- la derise la bionda baronessa, ma lo sguardo di Iedike era fisso negli occhi di Albafica.

-Signor Van Dijk e voi che ne pensate? Non è forse vero che più una cosa è falsa, più sembra sincera?- gli chiese, senza distogliere gli occhi azzurri dai suoi.

Le sue parole nascondevano altro, comprese il ragazzo; nascondevano una promessa sottile: “qualsiasi cosa tua stia nascondendo, io la scoprirò”.

-Forse dipende dagli occhi di chi la guarda, è anche vero che più una cosa è sincera, più sembra falsa.- replicò il guerriero, scegliendo con cura le parole. Non ti nascondo nulla, le disse silenziosamente.

-Un pensiero degno di nota.- ribatté la contessa. Non ti credo.

Il giovane distolse gli occhi, la mente che cercava freneticamente di inquadrare la contessa Friederieke e, soprattutto, di trovare una maniera per impedirle di scoprire troppo.

 

Quando Albafica Van Dijk tacque, Iedike assaporò per un secondo il sapore di un po’ di sano divertimento in quella vita noiosa: il giovane olandese era di certo molto bello e particolare, con quella chioma pervinca e un viso tanto delicato da farlo sembrare un angelo, educato e colto, ma nascondeva troppe cose, che stuzzicavano la sua naturale curiosità. E visto che era sempre schietta anche con sé stessa, doveva ammettere che il suo aspetto e i suoi modi di fare le erano particolarmente congeniali.

Cambiò velocemente argomento, dopo quello scambio di sottintesi, parlando del tempo e del giardino, che sua cugina aveva prontamente elogiato definendolo pittoresco, armonioso, luminoso e altre decine di aggettivi che esprimevano la cultura artistica di Sophia che, come spesso diceva la signorina Bernstein, aveva un gusto sopraffino per il disegno ed ogni sua opera era degna della reggia di Versailles.

Il suo affascinante ospite rispondeva educatamente, ma era certa che non potesse più sopportare le chiacchiere noiose e artefatte di sua cugina e più di una volta cercò di metterla a tacere, senza ottenere nulla.

Quando infine giunsero al maniero, vennero accolti da Ludvig, che, in tenuta da cavallerizzo –probabilmente aveva passato tutta la mattina fuori casa a dilettarsi con una passeggiata, invece che aiutare loro padre coi rendiconto come gli aveva promesso- si fece loro incontro.

-Iedike, sorella cara, perché accogli sempre gli ospiti come se fossi una selvaggia?- la riprese bonariamente il giovane conte, con una strizzata d’occhio che la diceva lunga su quando lui e sua sorella fossero complici.

-Mi dispiace tanto, ma io sono una selvaggia. Monsieur Van Dijk, siete proprio sfortunato ad avere un’ospite come me.- rise la fanciulla, rivolgendo al guerriero uno sorriso divertito e dolce –L’anfitrione di casa è mio fratello. Monsieur Van Dijk, egli è Ludvig Markus Nils Frydendahl, mio fratello maggiore. Ludvig, ti presento monsieur Albafica Van Dijk, un amico dell’anziano Jens Andersen.

Fatte le presentazioni e scambiati i dovuti convenevoli, entrarono tutti nello spazioso atrio. Il conte stava scusandosi con Albafica per i modi della sorella, che, dal canto suo, cercava di tenere a bada Sophia senza strangolarla. Come poteva essere tanto sciocca? si chiese la ragazza, rassegnata all’evidenza che il buon Dio non avesse fornito la parente di buonsenso ed intelligenza.

 

Albafica osservava attento il nuovo venuto, il conte Ludvig, cercando di dargli una posizione ben precisa in tutta quella storia.

Era un giovanotto sui vent’anni, piuttosto alto e magro, dotato di una certa bellezza e di un gran fascino ed ogni sua parola traboccava di non poco carisma. D’aspetto era simile alla sorella minore e totalmente opposto alla cugina: aveva un viso dai tratti tipicamente danesi, labbra sottili e occhi grigi ornati da lunghe ciglia, che dovevano averli valso non poche ammiratrici. Il viso era ben cesellato ed incorniciato da riccioli mori, lunghi fino alle spalle e raccolti con un nastro blu in una coda morbida.

Ma era il suo sguardo quello che più attirava l’attenzione: era profondo, divertito da qualcosa che solo lui pareva comprendere, ma allo stesso tempo nascondeva un certo acume e una strana inquietudine.

Di primo acchito il giovane guerriero l’avrebbe semplicemente classificato come un damerino un po’ vanesio, ma dopo sole poche battute, aveva capito che quella che pareva superficialità era ben altro… solo non sapeva che altro fosse.

Indefinibile come la sorella, ma decisamente diverso dalla fanciulla: nonostante i suoi dubbi, Friederieke non gli dava una sensazione spiacevole, ma una strana aura avvolgeva il conte. Non avvertiva nessun cosmo provenire da lui, ma uno strano presentimento gli diceva di restare in guardia.

-Nostro padre desinerà con noi.- disse il giovane, ad un certo punto, rivolto alla sorella.

Friederieke sgranò gli occhi, con un sorriso felice. –Diceva di non sentirsi molto bene…

-Oh, il brodo della signora Christensen rimetterebbe in piedi anche un morto.- rise il giovane –Soprattutto se corretto col liquore del vecchio Jens. Penso che voi, signor Van Dijk, abbiate già fatto la conoscenza con la grappa del nostro vecchio stalliere e sappiate bene cosa può fare a qualcuno di poco abituato.

-Un’acquavite davvero portentosa.- concordò il giovane olandese, ricordando la sensazione dell’alcol che gli corrodeva la gola e lo stomaco.

-Oh, il caro zio sta meglio? Sono così contenta di saperlo!- esclamò Sophia –Ma siete sicuri che ci si possa fidare dell’anziano Andersen?- chiese e probabilmente, se non fosse stato per Albafica, sarebbe andata avanti, ma si interruppe prima di dire qualcosa di spiacevole –Non sarebbe meglio chiamare un medico?

-Non ve n’è bisogno, il conte è sempre stato di salute debole, ma la grappa danese è la cura ad ogni male.- disse Friederieke, decisamente irritata.

-Mie care, non sarebbe meglio che andaste a cambiarvi? È disdicevole che pranziate così conciate, soprattutto in presenza di ospiti, no, signor Van Dijk?- disse il conte, interpellando Albafica che, educatamente, gli diede ragione, anche se era incapace di trovare il disdicevole nell’abbigliamento, se non di entrambe le ragazze, della contessa. –Ah… vi consiglio abiti semplici, il mio signor padre ha invitato anche padre Hans.

-Padre Hans?- sbottò, stupefatta e parecchio contrariata, Freiderieke, lasciando intendere all’ospite olandese che non doveva avere molto in simpatia il pastore di anime.

Il cavaliere di Piscis, però, non poté ritenersi più fortunato di così: nella stessa occasione avrebbe avuto l’opportunità di vedere la contessa, Ludvig Frydendahl e padre Hans e di studiarli.

Quando le due ragazze si congedarono, profondendosi in scuse e riverenze, il giovane seguì docilmente Ludvig, che, contrito, gli disse di doverlo lasciare: non avendo il pastore una carrozza a sua disposizione, toccava a lui, in quanto figlio del conte Frydendahl, andare al villaggio per portarlo al maniero.

Albafica rispose che non sarebbe certo stato un problema e che, anzi, le sue premure come anfitrione gli facevano onore e che avrebbe atteso nella bella biblioteca in cui era stato condotto.

Il conte aveva sorriso. –Siete certo un uomo molto insolito, signor Van Dijk… meglio delle solite compagnie di mia sorella. Penso che mio padre trarrà molto piacere dalla vostra presenza. Se volete scusarmi…- prese congendo, lasciando solo il guerriero.

Appena la porta della biblioteca si fu chiusa, Albafica decise di curiosare un po’ nella stanza, che, forse, come oasi di cultura poteva competere benissimo con la biblioteca di Degél. Vi erano libri di ogni spessore, in lingue diverse e di ogni argomento possibile, alcuni erano molto antichi, altri molto recenti, tutti stipati nelle loro belle vetrinette di legno di noce scuro, di foglia squisitamente italiana, decorate da ghirigori dorati, mentre i pavimenti erano coperti da tappeti orientali. Al centro della stanza vi era un tavolo dalle gambe sottili ed elaborate, coperto di altri libri e fogli e due poltrone di velluto scuro. Sul caminetto che dominava la stanza, dal lato opposto della porta, vi era un bel quadro che ritraeva, vista la somiglianza, la madre di Friederieke e Ludvig, con indosso un grazioso abito blu.

Il giovane non trovò nulla, ma non si arrese: qualsiasi cosa stesse succedendo a Frydenjord, l’avrebbe scoperta e debellata.





Bene, ora abbiamo conosciuto anche Ludvig... e padre Hans è in arrivo... che succederà?

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII

Iedike si chiuse nella sua stanza, ignorando bellamente la signorina Bernstein e spalancando l’armadio: la tentazione di presentarsi a pranzo come la più convinta delle meretrici, giusto per il gusto di vedere la faccia scandalizzata di padre Hans –e, perché no, magari uno sguardo infiammato dal desiderio da parte del suo ospite; di certo non l’avrebbe offesa- era tanto forte che farla sragionare.

Da quando quell’incantatore vestito da prete era arrivato a Frydenjord, tutto era cambiato, si era rovinato: la gente era diventata strana, morta dentro, il villaggio non risuonava più del suo caos allegro e piacevole, al suo posto rimaneva solo un'apatia generale che, sempre più spesso, stava degenerando in atti di una violenza inaudita, cose che nemmeno la grappa poteva spiegare e ora quell’uomo voleva introdursi anche nella sua casa?

Non gli bastava aver rovinato il villaggio? Aver plagiato suo padre?

Il suo caro padre, sempre così buono con lei, così ingenuo, che ora pendeva dalle labbra del predicatore come mai aveva fatto con padre Peder e che, sempre più spesso, pareva volerla spingere ad abbracciate in toto la religione e a maritarsi. Non prendeva più alcuna decisione, il conte Frydendahl, senza aver consultato padre Hans, quell’uomo ora era la sua Bibbia vivente… anche Ludwig pareva andarci molto d’accordo… ma quell’uomo, quel maledetto parassita, perché altro non poteva essere, ne era certa, l’odiava.

Padre Hans sapeva bene che Friederieke Frydendahl non poteva essere messa nel sacco con qualche moina e la blanda minaccia dell’Inferno e per questo la odiava…

A distrarla dai suoi pensieri fu la sua precettrice, che schioccò la lingua con disapprovazione. –Signorina Friederieke, questo modo di fare è poco consono ad una signorina nella vostra posizione: una signorina per bene non mostra la sua rabbia, ma la cela e porge l’altra guancia.

Iedike si voltò, gli occhi azzurri che mandavano lampi d’ira; non sapeva perché quella rabbia fosse fuoriuscita così repentinamente, ma le parve inarrestabile, un incendio che divampava divorando tutto ciò che trovava sulla sua strada. –Sinceramente, signorina Bernstein, non è mia aspirazione divenire una martire e qua, in camera mia, penso di avere il diritto di cedere alla rabbia. Mettete via quel vestito, non ho intenzione di vestirmi come una monaca: ho caldo, penso che metterò il vestito rosso che mio fratello ha portato da Londra.- sibilò la ragazza ed in quel momento il viso fiero e barbaro rivelò l’antica e famosa vena sanguinaria dei Frydendahl.

-Ma… signorina Iedike!- esclamò la donna, in parte spaventata da quella reazione, che, come sapeva bene, portava solo guai, ed in parte scandalizzata. –Signorina contessa, ragionate per carità di Dio! Quell’abito non è certo adatto per pranzare con un ministro del Signore!- ma non ebbe il coraggio di continuare dopo l’ennesimo sguardo di Iedike.

Tacque e prese l’abito che la contessa desiderava, dando poi ordini secchi a Ina ed Edda, che erano appena entrate nelle stanze della giovane aristocratica.

In poco tempo la fanciulla venne abbigliata e acconciata e Iedike non poté dirsi che soddisfatta: l’abito, che Ludvig aveva fatto cucire con qualche modifica pensata appositamente per lei, la sorella scalmanata e selvaggia, esaltava la figura snella ma non la costringeva troppo, lasciandole una certa libertà di movimento. La profonda scollatura quadrata, bordata da pizzo italiano leggero e candido che ne nascondeva la profondità, contrastava col rosso cupo dell’abito, decorato da ricami dorati, i quali riprendevano certe cineserie esibite da non si sapeva bene quale principessa francese, mentre le maniche si allargavano sopra il gomito, en sabot, rivelando diversi strati di mussolina leggera e finissima di un bianco quasi accecante.

I capelli vennero semplicemente raccolti in una treccia morbida, come Iedike li preferiva, ed infine la contessa indossò dei gioielli di perle.

Con un sorriso soddisfatto la giovane si rimirò allo specchio, mentre infilava le scarpette di raso rosso.

-Siete così bella, contessa.- si lasciò sfuggire Ina, ammirata. La signorina Bernstein le scoccò uno sguardo di rimprovero, ma Iedike, con un sorrisetto furbo, la ringraziò, poi, presa sottobraccio l’istitutrice prussiana, scese nella sala da pranzo.

 

Albafica, dopo aver speso molto tempo a frugare nella biblioteca, era giunto alla conclusione che quella stanza non nascondesse nulla e si era infine accomodato, aspettando che venissero a chiamarlo per il desinare e pensò a quel poco che sapeva.

Padre Hans era giunto alla morte del precedente curato, padre Peder, un uomo “di spirito e di nerbo, con un cuore da santo e la battuta facile”, come aveva spiegato Jens, il quale era un amico di vecchia data dell’ormai passato a miglior vita prete.

Il nuovo predicatore era un uomo raffinato, colto e scaltro, da come gli era stato descritto, che preferiva occuparsi delle belle parole e delle promesse di torture ed Inferno, piuttosto che delle persone che Dio gli aveva affidato, dalla parlantina “pericolosa come il veleno di una vipera”, che aveva incantato perfino di conte Frydendahl.

“L’unica ad esserne immune, per ora, è Friederieke. Per ora, perché, anche se è una gran testarda, non so quanto potrà resistere al grigiore: prima o poi diventerà un morto vivere come tutti gli abitanti del villaggio.” aveva sussurrato sconsolato Jens, tracannando una chicchera di grappa.

Già, Friederieke Frydendahl, la contessa più bizzarra che avesse mai conosciuto: bellissima ed orgogliosa, gli occhi di cielo inquisitori ed intelligenti ed il sorriso più radioso mai visto, almeno fino al Giapango.

Così sfuggevole… non aveva un posto preciso, in quel mosaico confuso, eppure, se smetteva di ragionare con la mente, il cuore gli diceva, anzi, gli urlava, che quella fanciulla non era che un’innocente e che, ben presto, sarebbe stata una vittima da vendicare, se non avesse scoperto in fretta cosa stava succedendo.

Ma, Albafica lo sapeva bene, col cuore non si poteva andare molto lontani, lo aveva imparato a sue spese e quasi invidiava il dono dei cavalieri dei ghiacci, quello di essere gelidi e adamantini come l’elemento che padroneggiavano con assoluta maestria.

E poi c’era il conte Ludvig, il fratello della giovane ed incantevole contessa, altrettanto sfuggente, ma, a differenza della giovane donna, non così innocente. Lo avvertiva nel profondo, quell’uomo nascondeva qualcosa, un segreto pericoloso forse, ma in ogni caso era un qualcosa che lo inquietava. Un’incognita che poteva rivelarsi pericolosa.

Possibile che quel fratello tanto affezionato e complice potesse davvero essere alleato della stella malefica o, peggio ancora, esserlo lui stesso? In quel caso davvero avrebbe venduto ad Hades quella giovane nata dal suo stesso grembo? Non sapeva rispondersi, aveva visto troppi orrori e depravazioni, nella sua vita di Saint, per poter affermare con assoluta certezza che mai un fratello avrebbe venduto la propria sorella per gloria e potere.

Per quanto riguardava la baronessa Sophia, non gli era parsa pericolosa ed era solo un’ospite, in effetti. Una fanciulla scioccarella e vanesia, che non aveva abbastanza influenza su quelle terre per determinare un morbo dell’animo come quello che stava colpendo gli abitanti di Frydenjord.

Era così assorto nei suoi pensieri, che nemmeno si accorse che una delle serve era entrata nella biblioteca finchè la giovane, col viso in fiamme e gli occhi pieni di ammirazione –Albafica maledì mille volte il suo aspetto, così inutile e controproducente- , fece una riverenza e si schiarì la voce. Il giovane guerriero alzò lo sguardo su di lei.

-Monsieur Van Dijk è atteso dal conte Frydendahl e dai suoi figli, la contessa Friederieke e il conte Ludvig, per il pranzo. Vi prego di seguirmi.- balbettò la giovinetta.

Il ragazzo si alzò e quella gli fece da guida fino alla porta, di legno scuro ed antico, intagliato con scene di guerra ormai cancellate dall’usura, davanti al quale stava aspettando una donna alta e bionda, dal viso severo e con lo stesso sguardo impertinente di Friederieke. Il viso, dai tratti danesi alteri, assomigliava molto a quello di Sophia ed Albafica non ebbe dubbi sulla sua identità: di certo era la baronessa Maria Eckersberg.

La nobildonna si accorse del nuovo venuto e, con un sorriso di circostanza, lo salutò cortesemente, continuando a sventagliarsi: al giovane parve preoccupata, ma non sapeva spiegarsi il perché.

Pochi istanti dopo il pesante silenzio che era calato tra i due ospiti venne rotto da delle risatine divertite che rivelavano l’arrivo di Christina e Sophia: le due fanciulle, bardate con abiti stranamente semplici per il loro gusto, anche se uno sguardo più attento rivelava quanto la stoffa dovesse essere costata al barone Eckersberg –e non si parlava certo di poche corone- e quanto le cuciture e i ricami fossero di buona fattura.

Christina, che delle due sorelle era sempre stata la più modesta e la più timida, il cui carattere tranquillo era stato però intaccato dalle cattive abitudini della nonna e delle zie, aveva scelto un abito scuro, dalla linea abbastanza semplice e molto accollato, ma Sophia aveva optato per un bell’abito dai colori tenui, forse il modello più casto tra quelli proposti a Versailles, ma di certo non adatti alla vista di un prete di campagna.

La giovane baronessa era accompagnata da un bimbetto di non più di otto anni, la pelle nera come la notte, vestito come un piccolo pascià, con abiti preziosi e chiari, che esaltavano ancora di più l’esoticità della sua persona. Gli occhi della creatura, grandi e profondi, erano tristi e, allo stesso tempo, vuoti, come quelli di tanti schiavi: chissà quando aveva rinunciato all’idea di essere stato libero, si chiese Albafica.

O forse era nato in schiavitù e la libertà non era stato altro che un tarlo doloroso nella sua mente, che l’aveva spinto proprio nella direzione opposta, nella passiva accettazione di quella prigione, alla morte dei moti di spirito che caratterizzavano l’uomo libero dai ceppi mentali della schiavitù.

Quel fanciullo, dopotutto, non era differente dagli abitanti di Frydenjord e, con un terrore quasi inconcepibile, immaginò Friederieke e Jens –ma soprattutto quella giovane donna innocente- al posto del bambino nero.

Il giovane olandese fece un inchino alle due giovani baronesse, che risposero con riverenze aggraziate e sorrisi ammaliatori –o sciocchi, come meglio si voleva definirli- e subito Sophia prese la parola.

-Oh, monsieur Van Dijk! Spero non abbiate atteso troppo! Purtroppo Karim ha rovinato uno dei miei vestiti, sapete… fatto arrivare da Versailles, dallo stesso sarto che veste la Regina! Purtroppo è un selvaggio, non si può certo pretendere che capisca il valore delle cose.- disse la giovane, con un sorriso convinto. –Si sa, i negri un anima non ce l’hanno e bisogna che noi, che siamo loro superiori, insegniamo loro a comportarsi a dovere… confido che il buon Dio, che mi ha dato questa missione, guidi il mio giudizio, perché non posso non soffrire per questo sfortunato.

-Davvero buona, baronessa.- commentò Albafica, fingendosi commosso da quelle parole che urtavano il suo animo nel profondo.

Al Santuario, da secoli, arrivavano persone di ogni dove, pronte a servire Athena per il bene dell’umanità e quella sciocca ragazza, dall’alto del suo finto perbenismo, parlava con un tale disprezzo della razza nera, da fargli seriamente venirgli voglia di urlarle in faccia.

Non era da lui, ma il pensiero dei piccoli apprendisti cavalieri –di cui un piccolo gruppetto di fanciulli tra i cinque e i dieci anni era appena giunto da un angolo remoto dell’Africa- che imparavano ad immolarsi per la salvezza di certa gente gli divenne insopportabile.

-Oh, me lo dicono spesso, sapete? Non è da tutti avere tanta pazienza con questi selvaggi!- esclamò la giovane.

Christina, annuendo, cantò le lodi della sorella, ma il suo sguardo esprimeva tutto fuori che ammirazione: ne era invidiosa e, allo stesso tempo, era succube di quella personalità così forte e dispotica.

Il guerriero iniziava a sentirsi nauseato da quelle due, mentre la baronessa Maria osservava la scena in silenzio, il viso una maschera gelida ed immobile che nascondeva fiumi di disprezzo per quelle due creature che aveva messo al mondo: dei Frydendahl le sue figlie non avevano assolutamente nulla, erano solo due stupide Eckersberg, la sua più grande vergogna.

I suoi poveri genitori, se le avessero viste, si sarebbero vergognati e l’avrebbero disconosciuta come figlia, ma, grazie al cielo, essi non erano vissuti abbastanza per vedere quello scempio. Ovunque essi fossero, Maria sperò che seguissero con il loro sguardo solo Iedike, che di tutti i loro nipoti era l’unica ad avere davvero sangue Frydendahl nelle vene.

 

Iedike riusciva a sentire le voci delle cugine fin da infondo al corridoio e, più si avvicinava, più intuiva l’argomento della conversazione: Karim, lo schiavo negro di Sophia, un bambino sveglio ed intelligente che quella sciocca ragazza Eckersberg aveva ridotto da un giocattolo rotto.

Quel povero infante, catturato nella Sierra Leone, era giunto tra le grinfie della sua parente due anni prima, come dono di compleanno, era stato un bambino scalmanato e allegro, come tutti i fanciulli della sua età e più di una volta aveva tentato la fuga, forse nella vana speranza di rivedere la madre, che era stata venduta ad un mercante di schiavi il quale, a quanto ne sapeva la giovane contessa, l’aveva rivenduta ad una piantagione di cotone ad Haiti.

Ogni volta il barone Eckersberg lo aveva fatto frustare finchè, di quell’animo allegro e selvatico, non erano rimasti che i cocci. Iedike guardava sempre quel bambino con pietà e dolore, perché lo comprendeva: se fosse stato per Sebastian Eckersberg, che sperava sempre nella morta prematura di suo padre e suo fratello, ella stessa avrebbe fatto una fine simile a quella di Karim.

Era una donna, sarebbe per sempre stata una schiava, nel bene e nel male. Ma non poteva dirlo ad alta voce.

Sempre a braccetto della signorina Bernstein, comparve nel piccolo atrio di fronte alla sala da pranzo, sorridendo quando gli occhi di zaffiro di Albafica Van Dijk su posarono su di lei.

 

-Ma come si è vestita?!- bisbigliò Christina, mettendo a tacere Sophia. Albafica, non intuendo istantaneamente a cosa si riferisse, si voltò e si trovò davanti una bellissima contessa Frydendahl.

L’abito rosso scuro che indossava era forse un dono della stessa Afrodite, perché la sua figura già squisita ora pareva assolutamente celestiale: non gli sovvenne donna più bella della giovane danese di fronde a lui, nemmeno quando si sforzò di ricordarne una.

Fece un inchino e la fanciulla rispose con una riverenza. –Monsieur Van Dijk, zia, cugine care. Vedo con piacere che non sono in ritardo come pensavo.- disse la fanciulla, ma il suo sguardo azzurro era solo per Albafica.

Ci ho messo un po', mi dispiace ^^ Niente, il mio prof di diritto è pazzo e io sto cercando di studiare senza libro, la motivazione di fondo è questa ^^ Non so voi, ma io arrivo sempre a fine ottobre con almeno un libro che manca.

Bene, Alba è cotto, Iedike è nera, nel prossimo capitolo vedremo qualche scintilla.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX

 

Il silenzio tra Iedike e il giovane straniero venne interrotto dal rumore di passi, tre suoni distinti e caratteristici: uno era il rumore prodotto da stivali da uomo, l’altro passi leggeri e frettolosi di una donna ed il terzo… il terzo suono era qualcosa a metà tra il passo di una donna ed un fruscio leggero.

Tutti i presenti si voltarono verso il corridoio che, dall’entrata del palazzo, conduceva fino alla sala da pranzo, passando per una galleria in cui facevano bella mostra di sé i ritratti degli avi del conte Frydendahl; in capo a pochi istanti, la figura del giovane Ludvig e quella di Edda comparvero, seguiti da un uomo alto e magro.

-Scusate il ritardo, amici miei, ma purtroppo ha iniziato a piovere e c’era un tale fango per strada…- si scusò l’uomo, ridendo e scrollando il capo, come a voler dire che ne aveva viste delle belle. –Il povero Ulrik non riusciva più a liberare la ruota! Ah, padre Hans, non è forse vero che pareva ci fosse un fossato nel mezzo della strada?- chiese, interpellando il suo compagno di disavventura.

Padre Hans, che superava in altezza Ludvig di mezza spanna, ma di contro era esile come un giunco, dal viso lungo e serio, con occhi di un verde scuro, pensosi e attenti e con capelli biondi e sottili, liscissimo ma parecchio folti, annuì.

Le labbra sottili e pallide si contrassero in un sorriso di circostanza –chi mai, dopotutto, poteva trovare la ruota della carrozza impantanata nel fango divertente? si chiese Albafica- e, con una voce straordinariamente suadente, rispose al conte.

-Certamente, conte Frydendahl, un vero fossato. Ah, contessa! Vedervi è sempre un balsamo per gli occhi!- esclamò l’uomo, con un mezzo inchino rivolto alla giovane nobildonna, che invece gli riservò uno sguardo gelido ed un sorriso falso.

-Padre Hans. Aspettavo con ansia la domenica, per udire uno dei vostri così eccezionali sermoni, ma a quanto vedo Dio ha deciso di accontentarmi quanto prima.- disse Iedike.

Ludvig le rivolse di nascosto uno sguardo freddo, di rimprovero, ma Albafica riuscì ad intercettarlo: non capiva l’odio mal celato della sua ospite per il pastore, dall’aspetto innocuo e dai modi gentili.

Rimase in silenzio, rimuginando.

 

Maria Eckersberg, intuito che l’atmosfera a breve sarebbe diventata simile a quella del mare in tempesta, intervenne e, con un sorriso cortese, rese i suoi saluti al pastore.

Padre Hans, doveva ammetterlo, non le andava a genio: in una delle sue precedenti visite l’aveva trovato viscido e, per qualche ragione che mai seppe spiegarsi, inquietante.

Forse erano quegli occhi estremamente profondi ed intelligenti, che parevano nascondere una scaltrezza insolita, o forse era lo sguardo che gli aveva visto rivolgere a sua nipote quando questa non guardava: uno sguardo pieno di ombre.

Qualcosa, nella sua testa, le aveva detto che l’odio di Iedike era motivato, ma nessuno pareva accorgersi di quanto quell’uomo paresse lontano da Dio: tutti erano così incantati dal pastore, lo osannavano quasi… ma non era forse vero che bisognava guardarsi dai falsi idoli? Il Signore non aveva forse dettato a Mosé “Non avrai nessun altro Dio al di fuori di me”? Parevano esserselo dimenticati tutti quanti, in quella casa.

Padre Hans rispose con cortesia ai suoi saluti, dedicandosi poi a Christina e Sophia, che, con mille moine, gli porsero i loro più affettuosi saluti, affermando che di certo era il migliore pastore di tutta Danimarca, anzi, ma che dicevano, di tutto il mondo intero! e che era di certo un gran peccato non poterlo avere a Copenaghen.

-Caro, caro padre Hans, credetemi, se certe signorine della capitale vi avessero come guida, sarebbe di certo un bene per tutti!- squittì Sophia, ridendo. –Non potete nemmeno immaginare quanto certe nostre conoscenze possano vivere nel peccato… un’indecenza! Oh, ma che maleducati che siamo stati! Ludvig, mio caro cugino, non abbiamo presentato il nostro ospite!- esclamò poi la ragazza, portando una delle manine curate a coprirsi la bocca. –Che terribile mancanza! Non vi sarete offeso, vero signor Van Dijk?

-No, non angustiatevi, baronessa Eckersberg.- rispose il giovane olandese, tentando di essere il più possibile cortese.

-Be’, caro padre Hans, vi presento l’ospite dei miei cugini, monsieur Albafica Van Dijk. Monsieur Van Dijk, egli è padre Hans, il pastore di Frydenjord.- cinguettò la giovane donna.

-Amici miei, direi che non è il caso di rimanere qua alla porta, mentre nell’altra stanza ci attende un lauto pasto.- intervenne Ludvig, un po’ abbacchiato dalla sua mancanza. –Mia cara zia, permettete?- chiese, porgendo alla donna il braccio.

Maria, con un mezzo sorriso, accettò il braccetto. –Oh, ma che giovane galante! Davvero, se dieci anni fa mi avessero detto che saresti diventato così, nipote mio… eri un piccolo selvaggio!

La coppia si mise in capo agli altri, entrando nella sala; chiudevano la fila Albafica e Iedike che camminavano una accanto all’altro.

-Vostro padre non pranza con noi, contessa?- chiese il ragazzo.

Iedike fece un mezzo sorriso. –Mio padre è un uomo molto semplice, di poche pretese su qualunque cosa, sapete, ma se c’è qualcosa che ama sopra ogni altra, sono le entrate ad effetto. Entrerà di certo dopo di noi, ama avere il suo istante di visibilità… be’, dopotutto, ognuno di noi ha una stranezza alla quale mai rinuncerebbe, no?- chiese la giovane, guardandolo negli occhi, per distoglierli subito dopo, posandoli sulla sala da pranzo.

Era stata apparecchiata una tavola più piccola di quelle usate normalmente –che i servitori avevano provveduto a portar via-, il conte Frydendahl odiava, infatti, che i propri ospiti, soprattutto quando in numero tanto esiguo, sedessero lontani: come si poteva avere, in quel caso, una conversazione eccitante che, secondo l’anziano aristocratico, aumentava l’appetito e rendeva il desinare più piacevole?

Sulla ricca tovaglia di tela di Fiandre erano stati disposti i coperti di delicata porcellana di Limoges, di argento inglese e di cristallo di Boemia e fiori delicati e dai colori tenui decoravano la tavola. La sala, di notevole diametro, aveva muri di pietra scura coperti da arazzi antichi e il grande camino era stato collocato sul lato opposto a quello della pesante porta, tra due finestre di squisito gusto gotico.

Sopra al camino, con sdegno della signorina Bernstein, che ogni volta non poteva trattenere uno sguardo truce, era appesa la testa impagliata di un cervo –ad onor del vero, nessuno sapeva perfettamente quanti secoli prima fosse stata lì collocata-, che fissava severo i commensali.

Sul pavimento erano stati messi molti tappeti e agli angoli vi erano delle antiche cassapanche di legno scuro; il lampadario, piuttosto moderno, di cristallo, che stonava con l’alone di sobria e selvaggia antichità del luogo, pendeva dal soffitto di pietra e le candele erano già state tutte accese nonostante l’ora, ma, del resto, Frydenjord era assediata dal grigiore e la poca luce che filtrava tra le nubi minacciose non sarebbe bastata per rischiarare tutta la stanza.

Il valletto le scostò la sedia, permettendole di accomodarsi, proprio accanto a Sophia, con sommo scorno di entrambe le fanciulle, e davanti al suo giovane ospite. Il piccolo Karim, invece, seguì Edda, verso le cucine, dove avrebbe mangiato.

Appena tutti si furono accomodati, da una porticina sulla parete sinistra, fece la sua comparsa un valletto –un ometto basso e secco- vestito di tutto punto e, subito dietro di lui, il conte Frydendahl.

 

Ludvig August Markus Frydendahl era noto in tutta la regione –in tutta la Danimarca, effettivamente- come un uomo di grande cultura, un topo di biblioteca un po’ pedante e dalla vocina petulante e, per questo motivo, molti se lo figuravano grassoccio e non cadevano certo in errore.

Il conte Frydendahl, uomo che della vita apprezzava soprattutto tre cose: i libri, il buon cibo ed il vino del Reno, non era mai stato amante del movimento; all’età di quarantacinque anni, aveva un ventre tondo come una mela, un collo tozzo e grassoccio e un viso rubicondo, dai tratti piuttosto brutti: le labbra erano sottili sottili, gli occhi infossati, di un bel color cielo, simili a quelli della figlia minore, offuscati e miopi, le guance cadenti e la pelle solcata da rughe profonde che erano comparse il giorno in cui la sua povera moglie Helene aveva partorito il terzo figlio e non se ne erano più andate. Un’espressione bonaria e divertita era dipinta sul suo viso, mentre faceva correre lo sguardo sulla tavolata.

A causa di una brutta caduta da cavallo da ragazzo, s’era fratturato entrambe le gambe e le ossa, rinsaldandosi male, avevano smesso di crescere, rendendolo basso e piuttosto sgraziato e doveva camminare con un bastone; era però fasciato da abiti di buona fattura, di certo non nuovissimi, ma di gusto semplice e dai toni sul verde scuro.

Il conte Frydendahl prese posto a tavola, facendo un cenno di capo alla figlia, che sorrise di rimando.

-Ah, buongiorno, mie cari ospiti. Maria, cara sorella, scusa se non ho potuto riceverti prima, ma i miei affari… puoi ben capire che in un periodo come questo, mi prendano molto. E caro padre Hans, avervi alla mia tavola è sempre un piacere enorme. Ho alcune questioni di cui parlare con voi, ma non credo che questa sia la sede adatta, non vorrei annoiare le mie care nipoti e mia figlia.

-Padre, non mi annoio mai a sentirvi parlare.- intervenne la contessa, sorridendo e sporgendo un po’ il viso, su cui si era dipinta la stessa espressione affettuosa che Albafica le aveva visto con Henning.

-Troppo buona, Friederieke, troppo buona con questo povero vecchio, davvero. Ma, miei cari amici, nessuno ha pensato di presentarmi il nostro ospite: sia mai che si dica che il conte Frydendahl non è un bravo ospite. Iedike, bambina cara…- disse l’ometto, accompagnando la richiesta con un gesto della mano.

-Padre, vi presento Albafica Van Dijk, un caro e vecchio amico del vecchio Jens.- disse la fanciulla e subito il guerriero si affrettò a rendere i suoi omaggi al padrone di casa.

-Oh, il vecchio Jens… mai visto uno stalliere migliore, ne sapeva una più del diavolo, quell’uomo. E ditemi, come sta? È molto che non lo vedo… purtroppo lascio la mia casa molto raramente.- sospirò il conte Frydendahl.

-Sta molto bene, signor Conte.- rispose il giovane, proprio mentre le serve iniziavano a servire il pranzo: nulla di eccessivamente raffinato, le portate erano semplici e poco elaborate, prevalentemente pesce ed ortaggi, ma fu servita anche un ottimo stufato di carne.

Albafica non si perse un attimo delle conversazioni dei suoi commensali, curioso di completare il mosaico: le persone chiave di quella storia erano tutte lì, accanto a lui e doveva approfittarne.

Sophia prese la parola per prima, mettendo subito tutti al corrente dei nuovi pettegolezzi che giravano per i salotti della capitale e ogni sua parola era accompagnata dalla conferma di Christina e dai commenti emozionati della signorina Bernstein che, per tutto il tempo precedente al pranzo, non aveva detto una parola e ora pareva essersi risvegliata dal suo torpore, gli occhi pieni di estasi per quei succulenti bocconi di vita mondana.

Contemporaneamente Ludvig prese a parlare di una qualche battuta di caccia, in cui una volpe particolarmente scaltra aveva messo nel sacco i segugi di un suo amico, mentre sua zia e, di tanto in tanto, Christina, ascoltavano. La giovane baronessa sembrava rapita dalle parole del cugino e ben presto smise di prestare ascolto alla sorella minore, dedicandosi completamente al racconto del giovane conte, con sommo scontento di Sophia che, privata di parte del suo pubblico, per poco non mise il broncio.

Padre Hans e l’anziano conte Frydendahl parlavano di questioni filosofiche e scientifiche: il conte stava osannando uno dei lavori di Voltaire, mentre il predicatore, con frasi gentili, cercava di convincerlo che Newton e Voltaire fossero in combutta col Diavolo.

Solo Iedike e Albafica tacevano: il giovane ascoltava le conversazioni altrui, la fanciulla studiava discretamente lo strano ragazzo.

 

Albafica Van Dijk era di certo un bel ragazzo, Iedike non poteva certo ribattere un fatto tanto ovvio e spiazzante: il viso aveva tratti armoniosi, da angelo –poteva mai esistere un uomo tanto simile alle statue delle divinità pagane?-, perfettamente cesellati, gli occhi erano profondi, contornati da ciglia lunghe, da donna, di un colore così poco comune e pieni di ombre irrequiete e la sua chioma, altrettanto insolita, pareva fatta da fili di seta; non aveva il fisico pigro dei nobili, anzi, sotto gli abiti si indovinava un corpo robusto e possente, seppur snello, come abituato alla fatica e allo sforzo, eppure le mani erano curate e apparentemente lisce e la pelle era candida, segno che non aveva mai lavorato in vita sua.

No, decisamente era molto più che bello e tutte quelle contraddizioni la intrigavano e stuzzicavano la sua innata curiosità, che spesso le era valsa una quantità notevole di problemi.

Anche il modo in cui l’ospite olandese si esprimeva lasciava intendere una buona educazione: certo, forse non aveva avuto il migliore dei precettori, ma era istruito e doveva aver viaggiato molto, in vita sua. Ed era dotato di grande pazienza, poco ma sicuro: qualsiasi altra persona intelligente sarebbe fuggito da Sophia o l’avrebbe strangolata, ma il poveretto, vittima delle mire della sua così mal sofferta cugina, era riuscito a mantenersi calmo ed impeccabilmente cortese.

Come avesse fatto era un mistero.

Be’, si era detta Iedike, concentrandosi sullo stufato di lepre, magari viaggiando molto era abituato ad oche come e peggio di sua cugina.

Ma ciò che più la incuriosiva e la rendeva simile ad un bambino davanti ad un dolce particolarmente succulento era il suo sguardo: pareva quasi che lo straniero avesse qualcosa da nascondere e, al contempo, stesse cercando qualcosa.

Ma cosa? Perché quegli occhi pervinca scrutavano tanto attentamente il mondo? Soprattutto, perché la osservavano con insistenza? Possibile che cercasse qualcosa da lei?

No, si disse la giovane, probabilmente era lei a lasciar cavalcare l’immaginazione a briglia sciolta, perché, carattere a parte, la sua persona non nascondeva nulla di così curioso o misterioso. O forse, le suggeriva una voce fastidiosa e piena di inspiegabile eccitazione, quell’uomo tanto bello e misterioso voleva davvero qualcosa da lei.

Scacciò quel pensiero con una smorfia infastidita, irritata da quelle fantasticherie da fanciulla svenevole.

 

Albafica notò che la contessa Frydendahl era immersa nei suoi pensieri e che, ad un certo punto, aveva assunto un’espressione estremamente scocciata, come se i suoi ragionamenti fossero giunti ad un punto morto o ad una soluzione che non le piaceva per niente.

Chissà a cosa stava pensando… che avesse capito qualcosa di troppo su di lui? si chiese il giovane. Un rischio da non correre e di certo non così impossibile: ormai si era accorto che la giovane nobildonna era di mente acuta e piuttosto curiosa e che pareva essersi particolarmente presa a cuore smascherare le sue intenzioni. Non doveva assolutamente succedere: se Friederieke Frydendahl fosse stata sua nemica, avrebbe rischiato di certo il fallimento della missione, la sua vita e la vita degli abitanti di Frydenjord e del castello, se invece era una creatura innocente, la povera ragazza avrebbe rischiato la vita.

Quando il suo sguardo incontrò quello azzurro della giovane, lo distolse, osservando il resto dei commensali.

Sophia e Christina erano due ragazze scioccarelle e vuote, nulla poteva collegarle alla stella o al grigiore che regnava su quelle terre, erano solo ospiti e nessuno avrebbe mai potuto fingersi tanto sciocco.

Sophia, però, aveva dalla sua una certa arguzia, che la portava a moti di intelligenti piuttosto sorprendenti, anche se sempre subordinati ai suoi desideri e capricci. Christina pareva essere più tranquilla della sorella e forse anche più intelligente, ma debole di spirito: il suo carattere piuttosto malleabile si era sottomesso a quello dispotico della sorella minore, che imitava ed invidiava.

Un comportamento illogico, forse; ma, ragionò il ragazzo, se Sophia aveva davvero tanto successo nell’alta società –o almeno, era ciò che traspariva dalle sue parole, probabilmente esagerate dalla sua superbia, l’arte della dialettica di certo non le difettava-, questo aveva probabilmente oppresso e, in qualche modo, angustiato la sorella, che non poteva contare su un aspetto fisico particolare e imitarla, agli occhi della giovane baronessa, doveva essere stata l’unica soluzione.

Sulla signorina Bernstein non poteva dir molto… gli era parsa una donna vanesia, amante della mondanità e molto severa con la sua protetta, ma tranquilla e docile, il contrario della baronessa Maria, simile nel carattere alla nipote, ma, a dispetto della giovane contessa, meno impetuosa, resa dura come l’acciaio dal mondo in cui era nata e astuta dall’ambiente in cui era vissuta dopo il matrimonio, fatto di sotterfugi e tranelli.

Una specie di Friederieke adulta, con molta più esperienza e decisamente più scaltra: per quanto intelligente potesse essere la contessa, una donna più adulta ed esperta del mondo avrebbe di certo saputo celare meglio i propri pensieri e, soprattutto, la propria curiosità, cosa che la contessa Frydendahl non era totalmente in grado di fare. Forse avrebbe potuto sfruttare quel piccolo difetto a suo vantaggio, per incriminarla o scagionarla del tutto.

Ludvig, invece, pareva un semplice nobilotto di campagna, donnaiolo incallito e amante della caccia, un uomo fatto per i piaceri più che per le preoccupazioni –non si sarebbe affatto sorpreso se, ad occuparsi della tenuta assieme al conte, fosse stata la signorina contessa e non il giovane- eppure il suo sguardo, sfuggente e torbido, lasciava intendere una personalità più profonda e mille segreti nascosti nell’animo.

Avrebbe continuato con quelle riflessioni, ma la voce dell’anziano conte Frydendahl lo riportò alla realtà.




Questo capitolo è stato un parto. 48 ore di travaglio. Tre gemelli. Podalici.
Ringrazio (e ringraziate) Petitecherie, senza di lei avrei pubblicato un capitolo pietoso.
Alla prossima.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Capitolo X

Albafica si sedette sulla seggiola di legno del tavolino, nella sua stanza nella locanda. Quando era tornato si era stancamente sfilato la finanziera, posandola sul letto e si era seduto davanti al camino, a riflettere.

Il pranzo era stato di certo tranquillo e le conversazioni erano quelle tipiche della tavola, leggere e gioviali, che a volte vertevano su argomenti più complessi ma che il buonsenso tendeva a riportare su temi più banali, più consoni all’atmosfera.

Eppure era stato anche illuminante, in un certo senso: mangiare impegnava l’uomo a tal punto da impedirgli artifici complessi per nascondere la propria natura. O per lo meno, in generale era così e dunque aveva potuto formulare alcune opinioni.

Prima di tutto, gli venne da scartare il conte Frydendahl: era un uomo tranquillo, gioviale e pacato, attento e curioso, ma non gli aveva dato l’idea che potesse nascondere una natura tanto oscura come quella delle Stelle. Gli occhietti infossati dell’uomo esprimevano una sincerità genuina e il giovane guerriero non riuscì a trovarvi nulla di offensivo o ambiguo. No, decisamente il conte era da scartare, si disse.

Come era da scartare sua sorella, la baronessa Eckersberg: in primo luogo, la donna andava a trovare i parenti sempre più raramente –o almeno, era ciò che aveva inteso dalle conversazioni e dai racconti dell’anziano Jens- e dunque non poteva esercitare l’influenza malefica necessaria a rendere Frydenjord il villaggio moribondo che era. Ed in più, quella donna non gli trasmetteva alcuna sensazione di pericolo, anzi, infondeva una certa pace e serenità, coi suoi modi di fare dolci e materni, che però mai le aveva visto rivolgere alle figlie.

Il giovane seguiva le venature del legno del tavolo con le dita, mentre pensava. Sophia e Christina… no, nemmeno loro, escluse categoricamente. La prima era troppo sciocca, anche se di uno sciocco cattivo e malvagio e a modo suo, scaltro, ma non era di certo tagliata per entrare nelle file di Hades: era un dio crudele, non stolto.

Christina, invece… era una ragazza a suo modo pacata e tranquilla, dal carattere remissivo che si lasciava influenzare troppo facilmente da quello dispotico della sorella minore. Nei suoi occhi chiari aveva letto un’adorazione mista a invidia e rabbia nei confronti di Sophia, che, evidentemente, doveva godere dei favori dei suoi parenti più di lei. O così gli aveva detto Solveig, che era ben informata su tutto.

-Ah, la baronessa Sophia… tutti la tengono sul palmo della mano, parenti e amici. Sa, è vuota come un barile di vino buonodopo un giorno di festa, ma sa come comportarsi con la gente della sua risma e come spendere e spandere le rendite del padre come si conviene ad un’aristocratica francese –dicono sia segno di buona educazione, ma’... Sua sorella no; la ricordo quando erano ancora bambine, la baronessa Christina era una ragazzina tanto timida e gentile, certo, non aveva il carattere dei Frydendahl, ma nemmeno quel cattivo carattere degli Eckersberg –son gente davvero pessima, nobili o meno. La nonna e le zie le han proprio rovinate, soprattutto Sophia, Christina, povera ragazza, l’han sempre valutata meno della sorella.- aveva detto l’ostessa la sera prima, versandogli un boccale di vino.

Forse la ragazza traboccava di sentimenti repressi, ma non la credeva proprio in grado di essere una Stella Malefica e poi, come sua madre, frequentava poco Frydenjord.

Il reverendo Hans invece, lo lasciava un po’ perplesso. Né Jens né Friederieke Frydendahl parevano averlo molto in simpatia, a differenza del conte, di suo figlio e della signorina Bernstein; gli era parso un uomo calmo e inoffensivo, certo, forse un po’ fanatico rispetto al suo credo, ma nulla di così esagerato o preoccupante. Non gli aveva fatto un’impressione particolare, ma… forse era comunque meglio tenerlo d’occhio, Jens conosceva il villaggio e il castello meglio di lui e se quell’uomo aveva dubbi sul pastore, poteva anche non avere tutti i torti.

Per quanto riguardava la signorina Bernstein, la donna era forse quella che gli aveva destato meno sospetti o dubbi: vanesia e sciocca, non sembrava nemmeno in grado di nuocere ad un insetto, forse era solo in grado di far irritare la contessa sua allieva.

Erano Ludvig e Friederike Frydendahl a lasciarlo perplesso: il giovane conte era una persona decisamente ambigua, il suo sguardo sfuggente pareva nascondere molte cose, sotto quell’apparenza da damerino dongiovanni e ad Albafica non piaceva per niente la sensazione che gli trasmetteva, come di pericolo imminente e di minaccia. Eppure, al tempo stesso, visto l’affetto che l’uomo evidentemente provava per sua sorella, si sentiva sciocco a diffidare di lui: come poteva una persona tanto attaccata alla propria sorella tramare contro il villaggio e allearsi con Hades? Farlo significava anche mettere in pericolo Friederieke e Ludvig non sembrava proprio in grado di farlo. Anche dopo il pranzo, durante la breve passeggiata nei giardini, il giovane si era intrattenuto con la sorella, parlando e scherzando e tutto era parso come un idillio… poteva essere davvero solo una finzione? Davvero il conte poteva fingere quei sentimenti d’affetto per la sorella minore ed in realtà tramare alle spalle della sua famiglia?

E Friederieke, la bella contessa, poteva essere lei la Stella? si chiese, sentendo il cuore stringersi. Non riusciva a convincersi che lo fosse, ma il dubbio rimaneva. Era una giovane donna scaltra ed intelligente, forse anche troppo, a cui quella vita pareva stare stretta. Forse la sua astuzia era ancora impacciata dalla vita di agi che conduceva e dalla protezione del padre e del fratello –che evidentemente adorava-, ma Albafica non dubitava che crescendo sarebbe diventata più simile a sua zia, più brava a recitare la sua parte in quel gioco di menzogne e intrighi che era la nobiltà. Poteva davvero essere lei…?

Albafica, sentendo un fastidio sconosciuto a quella domanda, la scacciò dalla mente. Decise di riposare un poco, si era accorto che stando troppo a Frydenjord lo stancava, forse a causa del grigiore ed invece aveva bisogno di essere riposato e lucido; si sdraiò e lentamente riuscì a prendere sonno.

 

Quando Albafica Van Dijk se ne andò, Iedike, stanca, si scusò e andò nel suo salottino privato. Si sedette davanti al caminetto con un libro, forse Voltaire avrebbe potuto distrarla, ma non ci contava molto.

Si era accorta che lo strano senso di spossatezza che la prendeva quando scendeva al villaggio iniziava a comparire anche al maniero e tutto ciò la inquietava: qualunque cosa fosse, stava diventando più forte.

Da quando era comparso il grigiore, nessuno al villaggio era più lo stesso, tranne il caro, vecchio Jens: la gente era sempre triste, stanca eppure ormai scoppi di ira violenta, quasi omicida, erano all’ordine del giorno. Però, finchè al castello tutto era normale, Iedike non si era preoccupata troppo, ma ora… ora… no, non voleva pensarci. Non poteva nemmeno immaginare cosa sarebbe successo se il grigiore avesse mutato anche loro: era come un morbo malefico che succhiava l’anima delle persone e le trasformava in bestie rabbiose.

Più passava il tempo, più era sicura che padre Hans c’entrasse qualcosa: era dal suo arrivo che tutto aveva iniziato a diventare strano, ma… quello stesso giorno suo fratello era tornato da Londra e le era parso diverso, c’era qualcosa, nel suo sguardo… no, non poteva essere Ludvig la causa di tutto.

Suo fratello era una brava persona, anche se un po’ vanesio e donnaiolo, non avrebbe mai fatto del male a nessuno! E poi Jens, che pareva saperla lunga sul grigiore, le aveva detto che pure lui dubitava di padre Hans. Sì, doveva per forza essere così, doveva essere padre Hans, non poteva essere Ludvig!

Jens era un uomo saggio, non avrebbe mai dubitato del pastore, se no fosse stato certo e di sicuro sapeva o aveva un’idea di cosa fosse il morbo che affliggeva il villaggio.

-Non abbassate mai la guardia, contessina.- aveva detto l’anziano stalliere –Questa nebbia, questo grigiore si nutre di anime semplici. Ma voi avete una mente forte.- l’aveva redarguita l’uomo. –Non fatevi mai incantare, tenete sempre la mente in movimento.

Provò a leggere un paio di righe, ma non ne aveva voglia. La stanchezza e i pensieri che si rincorrevano per la sua mente le rendevano arduo concentrarsi su quella lettura così colta e che pure sembrava superficiale e vanesia: che poteva saperne Voltaire di problemi seri e inquietanti come il grigiore? Oh, se solo tutte le risposte che le servivano avesse potuto trovarle in uno dei libri di suo padre!

Posò il tomo sul tavolino accanto a sé.

Oltre al grigiore, c’era anche qualcos’altro che la impensieriva: lo straniero, Albafica Van Dijk.

Era un uomo straordinariamente bello e affascinante, di certo quel genere di giovane che faceva battere molti cuori, ma non pareva curarsi o rendersi conto di quanto il suo aspetto fosse piacevole e attraente, era molto modesto, doveva dire. Ed educato e anche intelligente, aveva uno sguardo vivo ed indagatore e, nonostante dissimulasse bene i propri pensieri, vi aveva potuto scorgere un’inquietudine e un sospetto non dissimile da quelli che albergavano nel suo cuore.

Che anche lui sapesse? Be’, si era presentato come un amico dell’anziano Jens, ma forse era ben altro. Forse Jens gli aveva parlato del grigiore, gli aveva chiesto aiuto… o forse lei si stava illudendo.

Forse era davvero un mercante, forse Frydenjord e i Frydendahl erano condannati a soccombere al grigiore. No, si disse, non l’avrebbe permesso! Si alzò e si diresse in camera sua, chiamando Edda. Le disse di aiutarla e si cambiò, indossando abiti più adatti ad una cavalcata: doveva andare al villaggio, a parlare con Jens.

Percorse i corridoi un po’ tortuosi del maniero, poiché chi l’aveva costruito evidentemente non aveva ritenuto necessario creare una pianta regolare, diretta alle stalle, quando incontrò la signorina Bernstein.

-Ma… contessa! Dove andate?- chiese, sorpresa di vederla. Pensava che la giovane nobile stesse riposando, invece si era cambiata e si dirigeva verso le cucine, o le stalle.

-A farmi una cavalcata.- rispose la ragazza, senza nemmeno fermarsi. Si lasciò alle spalle la sua istitutrice, che rimase ferma a guardarla per qualche istante, prima di dileguarsi.

Iedike fece sellare un cavallo e partì al galoppo verso Frydenjord; due figure la osservavano dalla finestra.

-La contessa ha molti dubbi nel cuore e si fa troppe domande. Che dobbiamo fare?

-Attendiamo e vediamo come si evolve la cosa. Potrebbe tornarci utile.




Sì, sono tornata. Té, speravate che i Maya m'avessero fatto la pelle, ne?

Scherzi a parte, ho un ritardo assurdo e mi dispiace :/ Spero di essere più regolare con i prossimi capitoli :)

Alla prossima.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


 Capitolo IX

Iedike mandò il cavallo al galoppo, ma poi lo rallentò ad un trotto sostenuto una volta arrivata al villaggio: non voleva travolgere nessuno e, grigiore o no, i bambini avevano sempre la brutta abitudine di bighellonare proprio nel mezzo della strada. Uscì dal villaggio, passò il ponte ed infine arrestò la bestia davanti alla casa di Jens. Smontò, legò il cavallo e bussò.

-Jens, sono Iedike, aprite.- disse. Subito la porta di legno robusto si schiuse e Cane balzò fuori, facendo le feste alla fanciulla. –Giù, Cane.

L’anziano fece per salutarla, ma scorgendo la sua espressione, un misto di tristezza, disperazione e confusione, la fece entrare senza dire nulla; la casupola non era vuota però: Albafica Van Dijk era seduto al tavolo sbilenco.

-Monsieur Van Dijk, di nuovo buongiorno.- disse la giovane, con una riverenza.

 

Albafica aveva dormito ben poco: il sonno era stato irrequieto, pieno di sibili e sussurri strani, inquietanti. Si era svegliato di soprassalto, ma non ricordava il perché, così aveva deciso che era inutile perdere altro tempo ed era andato a trovare il vecchio Jens Andersen.

L’uomo l’aveva accolto nella stanza principale della sua malmessa e modesta dimora, offrendogli la solita grappa, che però il ragazzo aveva rifiutato: ormai conosceva bene gli effetti di quel liquido malefico e voleva evitare di ritrovarsi di nuovo gola e stomaco in fiamme.

-Allora, vi siete divertito, oggi al maniero?- chiese l’anziano, quando il giovane Piscis si fu accomodato.
-Direi che è stata una visita educativa.- rispose Albafica.

-Oh, immagino… allora, le baronessine Eckersberg sono di vostro gusto?- inquisì l’uomo, con un sorriso bonario e divertito dipinto in volto.

-Se potesse, le chiederei in sposa entrambe, domattina.- rispose il giovane, a tono, facendo un mezzo sorriso.

Jens si mise a ridere. –Ah! Allora avete anche senso dell’umorismo! Bene, bene. Mai fidarsi di chi non sa farsi due risate. Ora, torniamo a noi.- iniziò, tornando serio –Che idea vi siete fatto?

Albafica si strinse le spalle. –Uhm… difficile a dirsi. Ho escluso il conte, sua sorella e le sue nipoti e la signorina Bernstein, ma…- tacque un secondo, cercando le parole giuste –Ma ho ancora dubbi sul conte Ludvig e sulla contessa.

Jens bevve un sorso di grappa, poi annuì. –Comprendo e credo sia giusto così, che vi facciate le vostre idee… ma credetemi, quella povera bambina non c’entra nulla, ve lo posso giurare sulla tomba di mia moglie e di mio figlio. So che può sembrare un tantino strana… ma che dico, quella ragazzina è strana, ma non è cattiva e non farebbe del male a nessuno, tranne, forse, a sua cugina.

-Non intendevo accusarla.- disse il giovane straniero, colpito. Non erano le parole di un servo, erano quelle appassionate e piene di affezione di un padre.

-Lo so.- rispose Jens –Lo so bene. Vi prego, fidatevi di lei, Friederieke…- ma non potò continuare, poiché si udì il suono di zoccoli che si avvicinavano, un nitrito e poi un bussare insistente.

-Jens, sono Iedike, aprite.

-Parli del Diavolo, spuntano le corna.- sorrise l’anziano, alzandosi scortato da Cane, che poi balzò addosso alla contessa. Albafica rimase al suo posto, in silenzio, guardandola entrare: non indossava più l’abito rosso, ma uno marrone scuro, semplice, adatto alla cavalcata. Il viso lo attirò: sembrava molto pallida e gli occhi erano inquieti, incapaci di posarsi stabilmente su qualsiasi cosa, non pareva la stessa giovane donna di poche ore prima, come se fosse tormentata da chissà quali orribili e spaventosi pensieri.

La contessa gli rivolse una riverenza ed un saluto, ma la voce sembrava incerta; si sedette anche lei al tavolo. Jens le versò una chicchera di grappa. –Bevete bambina, che pare ne abbiate molto bisogno.

La giovane prese la tazza e mandò giù quel fuoco liquido, ma evidentemente su di lei, che aveva sangue danese nelle vene, l’effetto non era lo stesso di quello che aveva sul Saint, perché non diede nemmeno segno di aver bevuto un alcolico tanto forte.

-Contessa, parlate pure. Avete una faccia, qualcosa vi preoccupa.- la esortò l’anziano stalliere.

La ragazza tacque per qualche istante, poi sospirò. –Dovevo parlarvi di quella questione, ricordate, no? Ma penso di aver sbagliato momento, avete ospiti…

Jens si sedette e scrollò il capo. –No, parlate liberamente davanti al signor Van Dijk. Lui sa.- disse, alzando un sopracciglio. –Potete fidarvi.

Friederieke rivolse uno sguardo indagatore ad Albafica. Tu sai davvero?

Il giovane semplicemente annuì e, se non fosse stato il cavaliere di Piscis, le avrebbe preso le mani, per rassicurarla. –Non abbiate paura di parlare davanti a me.

-Potrei sembrarvi pazza, signor Van Dijk.- gli rispose la giovane –Perché nulla di ciò che devo dire pare avere un senso.

-Non è necessario che esista un senso, se qualcosa è vero.- la rassicurò il giovane straniero.

La contessa sospirò. –Jens vi ha parlato del grigiore, immagino.- Albafica annuì. –E’… quando è nato, era limitato soltanto al villaggio e nemmeno a tutto… si è espanso pian piano, di giorno in giorno, per mesi, dal centro del borgo fino alle ultime case e poi verso i campi. All’inizio pensavamo fosse solo quella malinconia che coglie la mia gente in inverno, ma più passava il tempo, più peggiorava: la gente iniziava ad essere sempre più stanca e svuotata. Ad un certo punto Frydenjord si è popolata di… morti che camminano. La gente si alzava la mattina, andava nei campi e tornava la sera. Qualcuno andava all’osteria, altri rimanevano in casa, ma… ma è come se avessero smesso di vivere, persino i bambini non ridono più, giocano come se fosse un loro dovere, ma non si divertono. Questo è un villaggio di fantasmi, che ogni tanto si riscuotono per qualche spaventoso attacco d’ira, come se fossero delle belve assetate di sangue. E ora questa sensazione spiacevole, di stanchezza, che provo stando al villaggio, la provo anche al castello. Pian piano… è come se fosse una foschia che lentamente sale dai campi e oggi è finalmente giunta nella mia dimora. Mi sono sentita così stanca…- spiegò.

Jens strinse la bocca in una linea sottile e amara. –E così il morbo si propaga… Se continua così, fra qualche mese sarà ad Århus… e poi in tutta la Danimarca. Friederieke, altri ne risentono, su al castello?

La ragazza scrollò il capo, ad occhi bassi. –Non lo so… forse la signorina Bernstein, negli ultimi giorni sembra sempre immersa in uno strano torpore… e forse anche mio padre, è già un uomo cagionevole di salute…

-Chi è di mente debole è il primo a cedere al grigiore.- disse Jens al giovane ospite. –L’ho notato quando ha iniziato a diffondersi. Attacca la mente delle persone e le loro anime, non il fisico. Su di me ha pochi effetti, per via del mio Cosmo, che seppur infimo, c’è. E anche voi, Iedike, siete stata poco intaccata perché avete una mente forte…

La giovane sospirò. –Temo che vi sbagliate… ho una mente forte, ma è come se anche il morbo si fortificasse, ormai sta intaccando anche me.

Albafica sentì una fitta al cuore, uno strano e doloroso dispiacere. No, il grigiore non poteva incantare anche la contessa! La Stella Malefica non poteva sacrificare anche lei a Hades! Non poteva permetterlo e non voleva che accadesse perché… ma quando provò a pensare al perché, non lo trovò. Sapeva solo che voleva che lei si salvasse. Di certo perché era una creatura innocente, non poteva essere altrimenti.

-Contessa, se avete tenuto duro fino ad adesso, significa che siete forte. Non disperate.

-Come posso non disperare, signor Van Dijk? Se nessuno ci aiuterà… non voglio nemmeno pensarci.- rispose la giovane.

-Ma il signor Van Dijk è qui per aiutarci, bambina.- s’intromise Jens. Rivolse uno sguardo al guerriero. Fidatevi di lei, non ve ne pentirete. Aiutatela.

-Dite davvero?- la fanciulla si rivolse a Jens, con gli occhi sgranati pieni di speranza, poi si voltò verso lo straniero –È vero, signor Van Dijk? Ci aiuterete?

Albafica annuì.

-Ma… come potete voi, che siete un uomo, sconfiggere questa piaga?- chiese la ragazza.

Jens prese un’altra tazza e la mise di fronte al suo ospite, poi versò grappa per tutti. –Mi sa che sarà un lungo pomeriggio.

Albafica sospirò.

 

-E così la contessina inizia a sospettare, eh?- era rimasto in silenzio per tutto il tempo, ascoltando il riassunto del suo sottoposto. Fece un sorriso. –E allora lasciala sospettare.

-Non è rischioso?- chiese l’interlocutore.

-Come hai detto tu, potrebbe tornarci utile, molto utile. Quel Jens la sa fin troppo lunga e quello straniero... non mi fido di lui. Credo che non sia chi dice di essere.-

Poteva essere che quella vecchia volpe del Patriarca…? Scrollò il capo, infastidito dal pensiero.

-E allora chi è?

-Non lo so ancora, anche se ho un sospetto e se fosse fondato... ma ne riparleremo, ora torna al maniero e tieni sottocontrollo quella mocciosa.- ordinò, seccato.

-Sì.

-La ragazza può esserci utile, ma può anche scoprire troppo e riferire a quel vecchiaccio.- ammonì il suo sottoposto. Non si fidava di Friederieke Frydendahl, fin troppo sveglia, per essere così giovane.

-Non accadrà.

-Oh, ne sono certo. Hades ti ricompenserà bene…- rise.

 

Iedike aveva ascoltato, senza fiatare, tutto il racconto di Albafica Van Dijk e ad ogni parola la sua iniziale incredulità aveva lasciato il posto ad una certa irritazione. Lei parlava di cose serie e quei due… disgraziati si beffavano di lei?!

E quindi quel giovane olandese avrebbe dovuto essere uno dei… Saint di Athena? Un guerriero in grado di distruggere una montagna con un pugno e di spostarsi più veloce del vento, che combatteva in nome della dea pagana Athena, signora della giustizia e protettrice dell’umanità, ora impegnata nell’eterna guerra contro il dio degl’Inferi Hades?!

Ma… la credevano una bambina credulona o cosa?

Cercò di mantenersi calma: sia Jens che il signor Van Dijk avevano bevuto, probabilmente l’alcol aveva annebbiato loro la mente.

-Signori… direi che è una storia interessante, ma davvero pensate che io possa credervi?- chiese –Per l’amor di Dio, sono favole da ubriachi o storie da raccontare ai bambini per farli addormentare!- esclamò, indignata.

Jens sospirò: doveva immaginare una simile reazione, dopotutto Iedike era stata cresciuta da timorati di Dio che nulla sapevano della realtà del mondo. –Contessa, state calma…

-No che non sto calma! Mi sono fidata di voi, vi ho raccontato… e tutto ciò che ottengo è che vi prendiate gioco di me?!- disse. Sentiva di avere le lacrime agli occhi, come aveva potuto essere tanto sciocca ed ingenua?

Albafica intervenne. –Vi prego contessa, credetemi. Sono stato sincero, non mi sto affatto prendendo gioco di voi.- le disse, con un tono di voce ragionevole e un poco supplichevole.

-E allora dovete essere pazzo o ubriaco, signore.- gli venne risposto.

-Iedike, non fate così. So che è difficile da comprendere, ma… fidatevi bambina, mia moglie vi fu madre di latte, dovrà valere qualcosa.- le disse Jens –Se proprio non ci credete, il nostro signor Van Dijk vi dimostrerà di non avervi mentito.

La ragazza, ormai stanca di quella situazione, si alzò e fece per andare alla porta, ma Albafica, decidendo che ormai, dopo averle detto tutto, doveva pure convincerla, in qualsiasi modo fosse necessario, le comparve davanti. Si era mosso alla velocità della luce e la contessa non aveva potuto certo vedere il movimento, quindi la ragazza lanciò un urlo sorpreso e atterrito.

-Che stregoneria è mai questa?! Come avete fatto?!- disse la ragazza.

-Ve l’ho già spiegato, mi pare.- le rispose.

Friederieke Frydendahl si voltò verso il suo vecchio amico, che annuì, poi si voltò a fissarlo negli occhi.

-È tutto vero.

Albafica annuì. La ragazza si portò le mani davanti alla bocca, mentre gli occhi le diventavano lucidi: se il racconto dello straniero era veritiero, come avrebbero potuto battere un dio?!

-E allora è tutto perduto. Frydenjord è perduta. La mia famiglia è perduta.- sussurrò.

Jens si alzò e le mise una mano sulla spalla. –No, non lo è. Il signor Van Dijk è uno dei Saint più potenti, saprà come aiutarci. Confidate in lui, Iedike. E voi, Saint di Piscis, abbiate fiducia in questa giovane, come alleata vale certo più di me. Signorina Friederieke, siete disposta ad aiutarci?

La ragazza annuì. –Per il bene del villaggio, di mio padre e di mio fratello. Ma cosa posso fare io?- chiese.

Albafica le fece un mezzo sorriso rassicurante. –Conoscete questo posto meglio di me e potete arrivare là dove Jens non può. Dovrete essere i miei occhi e le mie orecchie, signorina contessa.

La fanciulla tentennò per un istante, poi gli rispose. –Ebbe, così sia. Vi aiuterò.




Allora? Dubbi? Sospetti? Teneteveli, che con Beth, non si sa mai che succederà XD

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Capitolo XII
Jens sorrise. –Bene! Un’alleata in più, signor Van Dijk: un’alleata giovane, scaltra e anche piuttosto bella, no, signorina Iedike?- disse alla sua giovane amica, facendole l’occhiolino, poi si mise a ridere, quando questa arrossì lievemente.
La giovane contessa abbassò lo sguardo sulle sue mani: ma a Jens parevano cose da dire? Soprattutto davanti ad un giovane uomo –tra parentesi più bello di qualsiasi altro essere umano? Schiarendosi la gola, cambiò discorso. –Farò ciò che potrò, ma prima di tutto devo sapere cosa sospettate di preciso.
Albafica, dopo aver ignorato, più per delicatezza che per altro, il commento di Jens Andersen, sospirò. Sì, se la contessa doveva aiutarli, avrebbe dovuto essere messa al corrente di un bel po’ di cose, forse molte di più rispetto ai già grandi segreti di cui era stata messa a parte nella spiegazione di qualche minuto prima.
-Avete ragione… ci sono molte cose di cui parlare, forse dovreste mettervi comoda…
-Ah no, cari ragazzi.- disse Jens –Anche se sono una roccia, beata grappa, ormai sono anziano e dovrei riposare un poco, ultimamente mi sono strapazzato troppo… e la signorina deve tornare a casa, prima che qualcuno si accorga che è scomparsa.
-In realtà, ho detto che sarei andata a cavalcare.- intervenne Iedike.
-Sì, ma bisogna stare attenti, la Stella ha occhi e orecchie ovunque, se si accorgesse di ciò che state facendo, potreste essere in pericolo.- disse l’anziano. Albafica dovette convenire con lui. –Dunque, visto che io sono stanco e la signorina deve tornare a casa, direi che potreste scortarla per un po’ di strada, signor Van Dijk e parlare con lei. Dopotutto due giovani nel fiore degl’anni che chiacchierano amabilmente attirano meno sospetti di due ragazzi di una certa levatura sociale che si nascondono nella casa di un povero anziano.
Sia Iedike che Albafica dovettero convenire e Jens li sospinse fuori, sorridendo. –Su, fingetevi in confidenza e tornate al maniero: meno la Stella sospetterà, più questa recita potrà andare avanti.
-Se fossimo troppo in confidenza- intervenne la giovane contessa –tutti potrebbero pensare che il signor Van Dijk sia un mio pretendente.- a quel pensiero, arrossì lievemente. Certo, il pensiero dei pretendenti che ogni tanto si presentavano in visita a suo padre la infastidiva –che giovani e che uomini sciocchi infestavano la sua casa!-, ma se fosse stato il giovane straniero a presentarsi a suo padre… oh, doveva togliersi certe sciocchezze dalla mente! Ma che mai andava a pensare? Di sicuro era colpa delle parole di Jens.
Jens sorrise furbescamente. –Meglio ancora, mia giovane ragazza! Un giovane innamorato ha più libertà di un ospite, soprattutto se deve ficcanasare in casa della sua bella!
Albafica non era certo meno imbarazzato della giovane nobildonna, ma non arrossì, riflettendo: sì, era un ottimo piano davvero e gli avrebbe dato una notevole capacità di movimento, sia nel maniero che al villaggio e poi nessuno si sarebbe mai insospettito se due giovani innamorati avessero passato molto tempo a discorrere… e la sua condizione di “mercante” avrebbe di certo aiutato a dissimulare le preoccupazioni di Friederieke: tutti avrebbero pensato che la contessa fosse in pena perché di condizioni diverse e dunque ritenesse il matrimonio improbabile, non certo che i suoi dolori fossero frutto della consapevolezza.
-Sì,- disse infine –Jens Andersen ha ragione, questa è la miglior soluzione. Nessuno sospetterà nulla, contessa.
-E sia.- convenne la giovane donna… sì, dopotutto non era un’idea così malvagia, si disse. E poi cos’erano mai i sussurri della gente, di fronte alla fine della sua famiglia e di Frydenjord? O era tanto sciocca da non riuscire a sopportare quelle voci e preferiva vedere il suo piccolo mondo spazzato via da un dio pagano malevolo e crudele? No, ella non era Sophia e poteva benissimo mettere il suo buon nome sotto ai piedi, se fosse stato necessario, per le persone che amava e quelle che i Frydendahl proteggevano da secoli, concluse, lo spirito battagliero dei vichinghi suoi antenati infiammato.

Uscirono dalla casa di Jens Andersen poco dopo e s’incamminarono verso Frydenjord camminando lentamente, tendendo i propri cavalli per la cavezza e per le redini. A vederli sarebbero parsi due amici o forse due innamorati intenti a passeggiare e chiacchierare amabilmente, ma la realtà era diversa: il cuore della povera fanciulla scoppiava di troppe emozioni e sentimenti –paura, rabbia, confusione…- e la sua testa le doleva fastidiosamente mentre tentava di raccapezzarsi in tutta quella lunga e complessa storia che il signor Van Dijk le stava raccontando.
E dunque Athena e Hades e Poseidone e lo stesso Zeus padre degli dei esistevano, non erano solo fantasie di popoli antichi che non avevano conosciuto la benevolenza del Cristo Nostro Signore e tra loro si facevano la guerra tanto spesso che più e più volte i due figli maggiori di Crono avevano quasi distrutto tutto ciò che Iedike sapeva esistesse al mondo. Athena, bella e gloriosa nella sua bontà, combatteva contro i suoi zii –ma anche contro i propri fratelli, quando era necessario- per salvare gli uomini, poiché ella riteneva che non fosse compito degli dei distruggerli in modo tanto arbitrario e per far questo si era fatta carne mortale –come Cristo, si trovò a pensare la fanciulla, forse era comune tra gli dei buoni diventare uomini per l’amore che portavano alle loro creature?- e si era attorniata di giovani coraggiosi a cui gli astri del cielo avevano fatto dono di capacità tanto singolari e speciali da renderli gli esseri più potenti dopo gli dei stessi.
-E dunque voi siete uno di questi giovani, signor Van Dijk?
Il cavallo di Iedike diede uno strattone infastidito appena entrarono nel villaggio, come se pure lui, che era solo una bestia, avvertisse il pericolo. La contessina gli accarezzò il muso umido, sussurrandogli di star tranquillo in danese.
Albafica la osservò, era stata dolce e gentile con il suo cavallo come lo era stata col bambino nei giardini del maniero, poi rispose. –Sì, lo sono, sono uno dei Saint della Diva Athena.
-E dunque proteggete il mondo.- la fanciulla rimase in silenzio per un istante, poi riprese. –E proteggete il mondo con coraggio. E con onore, ne sono certa.
Il giovane fece un triste sorriso. –Sì, con onore e coraggio, mia bella signora, ma di certo io, di tutti i miei compagni, sono colui con cui è meno consigliabile avere a che fare.
-Più della Stella che sta distruggendo la mia terra? Ne dubito.- rispose la fanciulla –E poi non mi parete poi così spaventoso o malvagio, sapete? Se lo foste stato, avreste cercato il vostro nemico spazzando via il villaggio e il maniero, se lo aveste ritenuto necessario. O sbaglio?
Quelle parole gli strapparono un piccolo sorriso e un lieve calore gli avvolse il cuore. -Chi sono io per commentare il mio animo, mademoiselle? Potrei ingannarmi e ritenermi migliore o peggiore di quanto non sia, com’è costume dell’essere umano, ma non è per questo che voi non dovreste essere qua con me.
-E perché, dunque? Se non siete malvagio o crudele, se non avete una passione per il vino e le donne e se non siete un nobile da corte –cosa che rende gli uomini più effeminati e smidollati di quei messeri francesi, come dice sempre Jens-, allora non ho nulla da temere.- affermò la ragazza. 
Ad Albafica la sua ingenuità fece tenerezza: il mondo era pieno di cose da temere, ma quella bambina ancora non le conosceva tutte e pregò che non avesse mai a conoscerle. Ma con lei doveva essere franco, almeno per quanto lo riguardava: una piccola disattenzione e quella povera creatura avrebbe potuto morirgli tra le braccia, avvelenata dal suo sangue maledetto. –Purtroppo la mia fedeltà ad Athena ha un prezzo, contessa. Un prezzo che pago ogni giorno, ma che sono felice di fare, se ciò serve a salvare persone come voi e la vostra gente.
-Un prezzo?- chiese la giovane. –Forse un’intera vita al suo servizio come fedele cavaliere non è abbastanza? Mettete a repentaglio la vostra vita per così tante persone e per la vostra dea, perché dovreste pagare lo scotto?
Non le parve affatto giusto, era come se il grande Carlo Magno, che Dio l’avesse in gloria, avesse chiesto al suo caro e fedele Orlando, che infine era morto in battaglia, per difendere il suo signore, di tagliarsi una mano o di umiliarsi davanti alla sua illustre corte ogni dì come ringraziamento per essere uno dei suoi!
-Un prezzo, mia signora. Io sono il cavaliere dei Pesci, presiedo l’ultimo tempio, al Santuario della Pallade, prima della dimora della stessa dea e così devo essere il più grande ostacolo ai suoi nemici, se mai questi riuscissero a sconfiggere tutti i miei compagni d’arme. E dunque ho dovuto accettare il rosso legame.
-Il rosso legame?- chiese la ragazza, l’animo completamente catturato dalle parole calme del giovane straniero.
-A Piscis, Atena Glaucopide, che ogni genere d’arma disprezza, fece dono di rose letali per fermare i nemici.- spiegò.
-Rose?!- Iedike era incredula: quel giovane cavaliere combatteva con delle rose? Ma come potevano quei fiori tanto belli quanto fragili –quante volte da bambina aveva pianto perché le sue rose appena colte avevano iniziato subito ad appassire e perdere i loro bei petali?- abbattere gli dei e i loro guerrieri?! Che la stesse prendendo in giro? No, era mortalmente serio. 
-Sì, contessa, rose. Ma di un genere particolare, che nessuna persona normale può cogliere o annusare, a meno che non voglia morire tra sofferenze atroci: sono rose pregne del più letale dei veleni. E io, per poterle usare, ho dovuto avvelenare il mio stesso sangue, che ora è mortifero quanto uno dei miei fiori. Dunque, mia signora, dovete badare bene a non toccare mai il mio sangue, una sola goccia e voi morrete. 
Iedike rimase in silenzio a lungo, poi annuì. –Per questo portate quei guanti?
Albafica l’aveva osservata per tutto il tempo, sentendosi triste; il viso della ragazza era impassibile e freddo, non esprimeva nessuna emozione e gliene fu grato: non avrebbe sopportato di leggere della pietà nei suoi occhi. Quella strada l’aveva scelta egli stesso tempo prima, privandosi inconsapevolmente del suo amato maestro e del calore della pacca di un amico o del corpo morbido di una donna, ma non desiderava la pietà o la compassione di nessuno, soprattutto quella della contessa. Non ne sapeva il motivo, ma era certo che quello l’avrebbe ferito più di ogni altra cosa. Sospirò. –Sì, è per questo.
-Siete stato molto coraggioso, signor Van Dijk.- disse dunque Iedike. Sì, coraggioso e forse era ancora troppo poco: quante persone avrebbero rinunciato all’umanità intera per proteggere gli ideali di una dea? 
Lo sguardo e la voce di Friederieke Frydendahl erano fermi, non v’era pietà in essi. –Vi ringrazio.
-Non dovete ringraziare quando qualcuno vi dice la verità. Ringraziate se vi rivolgono vane parole e complimenti lusinghieri.- affermò la contessa, guardandosi attorno. Poca gente era per strada, molta era chiusa nell’osteria, da cui però non provenivano né risate né canti di ubriachi né le urla di una rissa, mentre donne e bambini stavano nelle loro case, in silenzio. Eppure non era poi così tardi, malapena era l’ora del desinare, pensarono entrambi i giovani.
All’improvviso la campana della chiesa suonò a messa e tutte le porte si spalancarono: nelle stradine polverose si riversarono donne e uomini, giovani e adulti, anziani e bambini, tutti vestiti di nero, i visi di cera pallida, gli occhi febbricitanti e fissi. Camminavano lentamente, come se fossero stanchi, nessuno parlava e il rumore dei passi nella polvere erano l’unico a risuonare a Frydenjord. Nessuno parve accorgersi di Albafica e Iedike.
-Paiono morti che camminano.- disse la fanciulla. –Il cavaliere della Morte è passato tra noi e si è preso la mia gente, signor Van Dijk.
I due cavalli nitrirono e iniziarono a muovere la coda, come innervositi da uno sciame di mosche invisibili, poi il rumore di zoccoli al galoppo fece voltare la folla morta e nera: Ludvig Frydendahl era giunto.
Il giovane uomo smontò da cavallo e sorrise alla gente, che gli si faceva attorno come se fosse il re o il Messia. Iedike sentì un gran freddo e la testa prese a girarle come la trottola di un bambino.
Albafica si voltò verso di lei: la contessa era pallida e un velo di stanchezza le offuscava gli occhi, pareva uno di quei morti che camminavano. Ludvig alzò lo sguardo verso di loro e sorrise, levandosi il tricorno a mo di saluto, poi, in testa alla folla, entrò in chiesa e il pesante portone di legno si chiuse dietro di loro. 
-Venite contessa, vi riporto a casa.- disse alla giovane, che annuì lievemente.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***


Capitolo XII

Quando aprì faticosamente gli occhi, si ritrovò a fissare il baldacchino del suo letto, foderato di pesante velluto blu notte ricamato d’argento. Si mise a sedere, confusa e si guardò attorno, aggiustando il cuscino.

Sì, quella era proprio la sua stanza, si disse: i mobili di pesante legno scuro, noce italiano, tutti finemente intagliati e lucidi, il caminetto nuovo, coperto di marmo, con putti e motivi floreali sapientemente scolpiti –idea della signorina Bernstein- , i tappeti folti come il vello di un agnello posati sul gelido pavimento di pietra, le strette finestre e le tende di velluto verde smeraldo era inconfondibili.

Scostò le lenzuola e mise i piedi nudi su uno dei tappeti, scostando una ciocca di capelli corvini da davanti agl’occhi e tirando in giù la raffinata e leggera camicia da notte di lino bianco in un gesto automatico a cui non fece minimamente caso.

Come ci era arrivata lì? Stava parlando col signor Van Dijk al villaggio e le campane avevano suonato a messa, quello era il suo ultimo ricordo. Sì, le campane… una sinistra sinfonia, note inquietanti che si inseguivano e la testa che girava e girava… Le vennero i brividi e pensò che fosse uno spiffero d’aria gelido.

Iedike si mise in piedi, la testa che pareva una trottola lanciata con troppa foga; si accorse solo allora di indossare la camicia da notte: chi l’aveva spogliata e messa a letto? Non riusciva proprio a ricordare.

Sentiva la testa pesante, la mente annebbiata e il filo dei suoi pensieri era ancora aggrovigliato come un gomitolo di lana dalla stanchezza e dal timore.

Si avvicinò alla finestra e guardò fuori: tutto era grigio e pioveva come doveva aver piovuto durante il Diluvio universale: acqua grigia picchiettava sul prato grigio, sugli alberi grigi, sulla terra grigia. Era circondata dal grigio: il cielo era grigio, le nuvole erano grigie.

Osservò la sua mano: anche la pelle aveva una vaga sfumatura grigiastra.

Piombò per terra come un burattino a cui avevano reciso i fili.

 

 

Seduto al tavolino della sua stanza, Albafica seguiva con la punta delle dita le venature del legno e i graffi che i precedenti avventori avevano lasciato su quella rozza superficie.

La sua cena era ormai fredda, ma non aveva potuto ingollare più di qualche boccone di quello stufato. Era ottimo, la carne di montone era eccezionalmente tenera, il sugo denso ed insaporito dal grasso e da manciate di erbette, cipolle, carote e orzo e accompagnato da del pane nero appena sfornato –Solveig lo trattava sempre come se fosse stato un principe o un re e non il mercante che affermava di essere-, ma semplicemente non aveva fame, lo stomaco ancora contratto da quando aveva visto l’orda di morti viventi.

La sua mente continuava a tornare a Frydenjord e alla sua gente. E a Iedike, al suo viso pallidissimo, gli occhi blu che diventavano vacui, le labbra viola e il tremito alle mani e alle gambe che le aveva quasi reso impossibile camminare.

Ludvig Frydendahl aveva sorriso loro, salutandoli con un cenno del tricorno, come se non avesse notato le condizioni della sorella minore ed era entrato in chiesa per assistere alla funzione assieme al popolino delle sue terre. Iedike era rimasta immobile a fissare il pesante portone di legno chiudersi e non aveva dato segno di volersi muovere finchè non l’aveva chiamata. A quel punto si era voltata, il viso grigiastro e le pupille dilatate come se fosse sotto l’influsso di una qualche erba strana o di una maledizione.

Sospirò, versandosi del vino del Reno, zuccherino e robusto: quello sguardo era così sperso, così… non sapeva come spiegare, era pieno di paura e di cose non dette e allo stesso tempo vuoto.

Facendosi non poca violenza, il giovane l’aveva aiutata a montare a cavallo –dopo essersi infilato degli spessi guanti di cuoio morbido- e poi aveva fatto lo stesso, montando sul suo stallone. Aveva condotto a casa la contessina stringendo le redini della cavalcatura della fanciulla con una mano, mentre ella si aggrappava debolmente alla cavezza dell’animale. Lo sguardo era tornato attento appena avevano varcato i cancelli del maniero dei Frydendahl.

“Monsieur…” aveva sussurrato, confusa. “Cos’è successo?”

Non le aveva risposto subito, ma alla fine le aveva raccontato tutto; non che Iedike avesse compreso, il suo sguardo stanco gli aveva fatto capire che la sua mente era sprofondata di nuovo nell’oblio. Per lo meno non era svenuta come aveva temuto ed era arrivata al castello sana e salva: l’aveva affidata alle sue serve ed era tornato ad Århus.

Non aveva potuto fare a meno di pensare ed inquietarsi per tutto il tempo, ripensando a quel macabro spettacolo: una folla di persone dagli occhi spenti e i volti grigiastri che camminava a perfetto sincrono, come se fossero un esercito. Nessuno parlava, perfino i neonati non emettevano un singolo suono e nemmeno i loro passi parevano fare rumore.

Le loro bestie –il suo mansueto stallone ed il castrone della contessina- si erano subito innervosite e un randagio pelle e ossa evidentemente affetto dalla rogna aveva preso ad uggiolare ed era corso a nascondersi con la coda tra le gambe. Perfino gli animali, dunque, avevano paura di ciò che stava succedendo.

Terminò il vino e posò il boccale, poi si sdraiò, ancora vestito, sul letto. Niente gli tornava, tutti parevano sospetti, tutti potevano essere colpevoli… no, non tutti.

Lei non poteva esserlo.

 

 

-Allora?- chiese, sorseggiando del vino. –Ottima vendemmia.- si complimentò, con un sorrisetto melenso sul viso. I suoi due sottoposti, in piedi davanti a lui e rigidi come due baccalà, si scambiarono una breve occhiata.

-La contessina ha risentito degli influssi della Stella.- sussurrò il suo discepolo prediletto.

Storse la bocca: pensava che non lo sapesse? La mocciosa l’aveva vista pure lui, pallida come una morta, le gambe che tremavano per l’ardente desiderio di seguire la sua gente che aveva provato. Per un secondo, un lunghissimo secondo, aveva potuto assaporare la vittoria sulla mente di Friederieke Frydendahl… sbagliava: la ragazzina aveva lottato con le unghie e coi denti per rimanere dov’era. Una lotta totalmente inconscia, ma all’ultimo sangue.

-Risentito, dici? Per un istante, forse, ma non è abbastanza.- sbottò, gettando il vino in faccia a quei due incompetenti.

Ora c’era anche quel ragazzo, che poteva benissimo essere una spia del Santuario… be’, poco male, si sarebbe divertito di più.

-Cosa mi dite del giovane straniero?- chiese, prendendo la sua Bibbia ed aprendola.

-La contessa pare andare molto d’accordo con lui.- rispose il secondo sottoposto con uno squittio spaventato. Gli irritò i nervi: quanto odiava quella voce fastidiosa e quel modo di fare da persona inutile.

-Non intendevo questo.- sbottò, poi tornò calmo –La ragazza sembra interessata a lui… e scommetto che pure il nostro signor Van Dijk ha un debole per la nostra piccola e dolce Iedike. Possiamo usare la cosa a nostro favore.- spiegò pazientemente. L’amore era una debolezza incantevole, uccideva più della spada o di una lingua biforcuta e si sapeva che gli esseri umani erano più inclini a commettere sciocchezze per una donna amata che per una bambina insipida e condannata alla verginità eterna.

-E come?

Si versò dell’altro vino, infastidito. –Ebbene, se il ragazzo è solo un mercante, ben per lui, se è un Saint… credetemi, rimpiangerà il giorno in cui lo tirarono fuori dal grembo di sua madre. La contessa è ancora vergine e non è in programma di maritarla a qualcuno, no? È una fanciulla graziosa e di carattere e prova interesse per questo misterioso straniero. Io dico di lasciare che si amino: se quel ragazzo è pericoloso, useremo la povera bambina contro di lui, come ostaggio o, chissà, come nostra fida alleata. Basta saper toccare i tasti giusti. E se invece fosse solo un mercante… be’, il nostro conte presto avrà bisogno di denaro, tanto è stato incapace di gestire la tenuta. Non credo che storcerebbe così tanto in naso davanti a dell’oro. Gli uomini sono tutti uguali, sangue blu o meno.- concluse, con un ghigno soddisfatto.

-Ma è un mercante…- sussurrò quella piattola del suo ultimo adepto.

-E con ciò? Anzi, è meglio per noi: fingetevi amici di questo amore che ancora deve sbocciare, aiutate i due amanti a stare assieme, guadagnatevi la loro fiducia.- ordinò e sperò che la spia fosse così sciocca da caderci. Per quanto riguardava Iedike, non aveva dubbi, la sua mente candida non avrebbe mai capito chi erano le pedine della Stella.

 

 

Era rimasta a letto per quasi un intero giorno e, quando si era svegliata, si era scoperta ancora stanca e affamata. Aveva ordinato ad Edda di portarle qualcosa da mangiare –il sole era ormai alto nel cielo, doveva essere mezzogiorno - mentre Ina l’aiutava a vestirsi.

Scelse un abito verde smeraldo, dalla linea semplice e comoda, con pochi fronzoli oltre agl’orli di pizzo bianco. I capelli scuri vennero acconciati in una semplice treccia e fermati con un nastro in tinta con l’abito, poi si recò nel suo salottino.

-Ina, andate dalla signorina Bernstein e ditele che ha un giorno libero. Sto poco bene e non voglio vedere nessuno, a meno che non sia mio padre.- ordinò, sedendosi mollemente sulla poltrona. La servetta uscì facendo un profondo inchino e la ragazza rimase sola.

Volse lo sguardo alla finestra, guardando fuori: un timido e pallido sole splendeva sulle sue terre, ma nulla pareva dare anche solo una parvenza di vita e di normalità a Frydenjord.

Edda entrò qualche tempo dopo, portando con sé il suo pranzo: una semplice zuppa d’orzo, aringhe affumicate e pancetta e pane appena sfornato. In silenzio posò tutto sul tavolino accanto alla sua poltrona, assieme ad una brocca di vino.

-Contessa, vostro padre desidera avere novelle sulla vostra salute.- disse la cameriera in un timido sussurro. Sapeva che quando la sua signora stava riflettendo era meglio non disturbarla.

Iedike giocherellò con una ciocca di capelli, senza degnare Edda di uno sguardo. –Ditegli che sto bene e che non deve preoccuparsi. Ho solo un lieve mal di testa che mi causa dei capogiri, ma un po’ di tranquillità mi gioverà. Potete andare, ora.

Edda s’inchinò e fece per uscire, quando la fanciulla la fermò. –Aspettate… chi mi ha riportata qui?

-Come?- chiese la cameriera.

-Non ricordo come sono arrivata qua.- ammise Iedike.

-Capisco… ecco, sembravate inferma e di sicuro avevate un po’ di febbre, scottavate… è stato il signor Van Dijk a riportarvi qua al maniero, contessa.- le venne risposto.

La giovane nobildonna annuì. Albafica Van Dijk… la sua unica speranza.

-Edda, fate preparare una carrozza e andate a prendere il signor Van Dijk. Voglio che lo portiate qua, avete capito?- le ordinò –E ora andate. Fate in fretta.

Quando la cameriera uscì, Iedike si versò un calice di vino. Era ora che le danze iniziassero… e pregò Iddio che tutto andasse bene.

 

 

 

 

Un parto. Di nuovo. Ma be', eccoci. Oggi non vi seccherò, voglio solo avvisarvi che, se andate sulla mia pagina d'autore, troverete tutte le date degli aggiornamenti.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


Capitolo XIV

 

 

La carrozza sfrecciava per la strada di campagna che portava a Frydenjord, ma ruote e zoccoli erano l’unico rumore che si udiva all’interno: Edda, una delle cameriere di Friederieke Frydendahl, taceva tenendo gli occhi bassi, intimorita dall’uomo che la sua signora l’aveva incaricata di portarle, Albafica van Dijk, la cui bellezza la spiazzava al pari della serietà del suo volto.

Del resto, che la contessa e lo straniero si fossero intesi e piaciuti fin dal primo sguardo, era cosa risaputa tra la servitù del palazzo e l’episodio del giorno prima aveva solo rinforzato l’opinione di cuoche, cameriere, sguattere, valletti e stallieri: tra quei due c’era qualcosa. Certo, la signorina Iedike non pareva tipo da perdere la testa per il primo sconosciuto di passaggio, ma del resto aveva solo sedici anni ed era l’età in cui si iniziavano a cogliere le prime rose dell’amore, no? E poi il signor Van Dijk era incredibilmente bello, attraente e molto intelligente, da ciò che le avevano detto e, soprattutto, da Århus avevano saputo che navigava nell’oro, mentre i Frydendahl… be’, ormai il conte aveva scialacquato le proprie fortune. Era un uomo caro, generoso e di buon cuore e nessuno poteva dire il contrario, ma non sapeva farci col denaro e la morte della sua amata moglie lo aveva reso più insofferente vero cose materiali come le economie della tenuta.

Era pur vero che i Frydendahl erano blasonati da secoli e secoli e che godevano anche di un posto a corte, ma quante possibilità aveva la contessina di fare un buon matrimonio, se si fosse scoperto che le rimaneva ben poco come dote? E che il giovane conte Ludvig non sembrava in grado di badare alle finanze di famiglia, lasciando la sorella poco più che bambina a controllare i conti e le spese? Ben poche, probabilmente e sapevano tutti che il barone Eckersberg avrebbe avuto interesse a far sposare uno dei propri figli maschi con Iedike… o magari la baronessina Christina, perché no? Del resto il barone aveva le sue belle mire sulla tenuta, un matrimonio di interesse sarebbe stato perfetto… magari non con Ludvig –del resto la cuoca, la signora Christensen, diceva sempre che il barone, da lei chiamato “quella vecchia canaglia imbellettata” pregava che il giovane conte si prendesse certi brutti mali da certe donnacce che frequentava, lasciando la sorella come unica erede-, ma si sicuro la signorina contessa sì: era pur sempre una femmina e se avesse sposato uno dei cugini, sarebbero stati gli Eckersberg a comandare.

Mentre il giovane straniero… non solo era bello e a modo –e scommetteva ciò che aveva di più chiaro che la baronessa Maria avrebbe fatto carte false per vedere la nipote maritata con lui, piuttosto che con uno dei propri figli-, ma si diceva fosse molto ricco, un mercante di stoffe preziose. Certo, non era blasonato, ma nelle condizioni in cui versava la famiglia sarebbe stato un buon affare e la contessina pareva molto presa, cosa mai successa prima d’allora.

 

 

I pensieri del giovane guerriero erano di natura diversa da quelli di Edda: era infatti preoccupato per la contessina, incapace di non pensare a in che condizioni fosse quando l’aveva lasciata alle cure della servitù di casa Frydendahl. E al grigiore: durante il viaggio il cambiamento di atmosfera era stato palpabile, passando dalla relativa normalità di Århus al via via maggiore influsso della Stella Malefica. Anche il paesaggio mutava, fuori dalla carrozza: dal normale paesaggio danese dei primi giorni autunnali si stava passando ad un territorio letteralmente grigio e smorto: la terra e la polvere erano grigie, le piante grigie e morenti, il cielo grigio e nuvoloso. Perfino le case e le persone che incontravano lo erano.

Non sapeva dire se la colpa era della mancanza di luce o della Stella o era solo una sua percezione, però anche la stessa Friederieke chiamava quello strano fenomeno “grigiore”, quindi, forse, non era lui ad essere impazzito o condizionato.

Il fatto di non riuscirne a venire a capo, però, lo rendeva inquieto: chi era il colpevole? Chi stava tramando per consegnare decine di innocenti ad Hades?

Non la giovane contessa, no… perfino lei era vittima di quel maleficio e sentiva che non era sua nemica. Ma allora chi? Il giovane conte Ludvig, dopo ciò che aveva visto, pareva l’opzione più plausibile… eppure Jens Andersen e Friederieke Frydendahl puntavano il dito contro il sostituto dello storico pastore di Frydenjor, padre Hans.

Chi aveva ragione? Forse quei due erano solo trascinati dai sentimenti di affetto che provavano verso il giovane conte –del resto, era il fratello maggiore di Iedike- o forse era proprio lui a sbagliare. Ma c’erano troppe coincidenze… il lungo viaggio di Ludvig Frydendahl, il suo ritorno in concomitanza dell’inizio del morbo, la sua apparente immunità…

Già, immunità e ritorno, cose in comune con padre Hans” si disse, mentre la carrozza si fermava. Scoraggiato, si chiese se il Patriarca non avesse sbagliato a scegliere proprio lui per quella missione.

 

 

Iedike attendeva con impazienza il proprio ospite. Aveva chiamato Ina, subito dopo aver impartito ad Edda l’ordine di portarle Albafica Van Dijk, perché l’aiutasse a vestirsi, scegliendo un abito semplice e comodo, perché un corsetto troppo stretto l’avrebbe seriamente uccisa. Si avvolse in uno scialle caldo, continuando a sentire freddo ed ordinò ad Ina di attizzare il fuoco. Quando la servetta uscì, si immerse nei propri pensieri, rievocando gli avvenimenti del giorno prima.

Padre Hans e la sensazione di gelo e malessere che le causava. Quell’uomo dallo sguardo gelido che sapeva perfettamente dissimulare la propria natura e che aveva ingannato tutti, a Frydenjord; che s’era perfino insinuato nella sua famiglia, manipolando suo padre come una marionetta. Il suo caro padre, così buono, gentile ed ingenuo… e che ora pendeva dalle labbra del predicatore del Demonio che nascondeva mille segreti ed intenzioni oscure, ne era certa.

Ludvig e tutti i suoi misteri. Non era cieca la contessina Frydendahl, anche lei sapeva che suo fratello era cambiato, dopo quel viaggio, ma non poteva e non voleva credere che ci fosse proprio lui dietro al grigiore.

Non Ludvig. La fanciulla e suo fratello erano sempre stati uniti, sempre: quando la sfortunata contessa Amalie era morta, era stato Ludvig a badare a lei. Correvano per il giardino, facevano dispetti alla servitù, passavano intere giornate a cavallo galoppando per i campi o nelle stalle ad ascoltare i racconti di viaggio di Jens, si nascondevano nelle cucine per sfuggire a precettori e governanti, facevano impazzire la vecchia e cara Maria: erano sempre stati assieme, crescendo come due selvaggi.

Era suo fratello, con il suo infallibile coltellino preso chissà dove, a stracciarle le gonne perché potesse correre e arrampicarsi tranquillamente e sempre lui l’aiutava a montare a cavallo.

Era Iedike a cercare rane e lombrichi da mettere nel piatto e nel letto dell’istitutore del fratello e sempre lei ad ascoltare i racconti delle battute di caccia, prima a qualche bestiola selvatica, poi alle timide vergini della corte, poi a donne sposate e vedove del fratello.

Si erano sempre detti tutto, si erano sempre voluti bene, poi egli se n’era andato ed era tornato con quel malefico pastore… diverso, sfuggente. Ridevano, chiacchieravano, si raccontavano ancora aneddoti e segreti, ma sapeva che suo fratello non era davvero lì con lei, glielo leggeva negli occhi e aveva paura. Non di Ludvig, ma di ciò che lo aveva cambiato, ma… no, non poteva essere lui la causa del grigiore!

Ed infine c’era lo straniero, Albafica Van Dijk… o Albafica di Piscis, Cavaliere d’Oro di Athena…

Si sistemò meglio sulla poltrona, fissando le fiamme del caminetto eseguire la loro magnetica, sensuale e pericolosa danza.

Athena… non era che un mito, no? Eppure esisteva davvero. Dea vergine della strategia, della tessitura e delle arti, la figlia di Zeus si era fatta paladina di giustizia e compassione difendendo il mondo e gli umani dai terribili progetti dei suoi divini parenti, circondandosi di giovani e valenti uomini, eredi degli antichi eroi, a cui le stelle avevano fatto dono di forza e velocità inumane e di poteri spaventosi e che venivano chiamati Saint, santi.

Ripensò alle parole del giovane straniero e si disse che egli santo lo era davvero: chi, se non un uomo pio e coraggioso, avrebbe rinunciato per sempre al tocco di una mano amica per avvelenare il proprio sangue e rendersi un’arma nelle mani della propria dea? Chi avrebbe scelto una vita da eremita, una vita di solitudine e precauzioni? Quanto solo era quell’uomo? Sempre vicino alla gente eppure sempre impossibilitato a stare con gli altri, ad amare un amico o una donna, a generare dei figli… ed era terribilmente giovane, aveva malapena quattro o cinque anni più di lei… chi avrebbe mai potuto desiderare un’intera esistenza così? Solo un uomo devoto, coraggioso, pio e pieno di ogni virtù che lo Spirito Santo potesse donare.

Un ciocco di legno crollò, scoppiettando e lanciando scintille.

Aveva paura, ecco la verità. Paura di non essere abbastanza forte –anche se l’anziano Jens era certo del contrario e lo sapeva bene-, paura che nemmeno Albafica Van Dijk potesse far qualcosa contro il grigiore, emanazione di una Stella Malefica, una costellazione malvagia, a quanto aveva capito, che aveva fatto dono di poteri eccezionali ad uno Spectre, un sottoposto di Hades, dio della morte e degl’Inferni, mortale nemico di Athena e dell’umanità intera.

Una spiegazione tutto sommato logica e razionale, quando la situazione non lo era affatto… ma cosa poteva volere un dio simile da Frydenjord? La risposta le aveva ghiacciato il sangue e fermato il cuore.

La Stella ha un solo obiettivo… sacrificare degli innocenti al proprio padrone.” aveva detto il guerriero delle rose “Gli Spectre non conoscono pietà alcuna, mademoiselle; non fanno distinzione tra donne, bambini, anziani e uomini validi, il loro scopo è uccidere e sterminare l’umanità.

“E allora tutto è perduto, signor Van Dijk!”

“No, ve lo prometto… vi giuro, signorina contessa, che troverò la Stella Malefica e la sconfiggerò prima che possa portare a termine il proprio piano.”

La ragazza sospirò e si sistemò meglio, proprio mentre Edda entrava per annunciarle l’arrivo del suo ospite.

 

 

-Allora?- chiese la signora Christensen, mentre Edda tornava in cucina. –Che faccia hai, figliola!

-L’avreste anche voi, se foste rimasta sola con quell’uomo!- esclamò la ragazza, lasciandosi cadere su una sedia ed accettando una chicchera di grappa che la signora Jacobsen, l’aiuto-cuoca, le porgeva e sventagliandosi con una mano.

-Ho sentito che è incredibilmente bello!- sussurrò Agneta, la sguattera, una ragazzetta pelle e ossa con mille lentiggini ed un visetto da topo, strabuzzando gli occhi di un azzurro slavato.

-Incredibilmente bello non gli rende affatto giustizia!- rise Edda, scrollando la testa bionda. Era una bella ragazza e ormai andava per i ventuno, di uomini ne aveva visti parecchi –e molti le avevano fatto la corte-, nella regione e pure alla capitale, ma come Albafica Van Dijk mai. –Ha il viso di un angelo, occhi che sembrano gemme con queste ciglia lunghissime, quasi da donna e dei capelli pervinca e liscissimi, farebbero invidia a qualsiasi damina per bene! Nemmeno il signor conte potrebbe essere definito bello, paragonato a lui! E, per Dio, non è nemmeno uno di quei cortigiani impomatati, signora Christensen!

-Che il Signore sia ringraziato, allora, cominciavo a temere che la signorina contessa dovesse sposare uno di quei suoi orribili cugini o qualcuno di quei damerini che ogni tanto vengono qua… di sicuro sarebbero perfetti per la signorina Christina –povera creatura, non ha un brutto carattere, ma di certo non è nemmeno questo granché- o per la signorina Sophia, non vanno certo bene per una Frydendahl, quelli!- commentò la cuoca, continuando a tagliare le verdure per la zuppa.

Aveva passato tutta la sua vita lavorando come cuoca in quel palazzo, conosceva bene le donne della famiglia: cocciute, ribelli, maliziose ed intelligenti. Non erano certo fatte per qualche damerino effeminato o per uomini molli e pigri e, grazie al cielo, Iedike dalla madre aveva preso solo la bellezza e non la civetteria e la stupidità: il carattere l’aveva preso dal nonno, un Frydendahl fatto e finito.

-Annika, di certo il carattere di questo olandese è l’ultimo dei problemi della contessa.- intervenne la signora Jacobsen, la calma, razionale e posata aiuto-cuoca, amica di Anna Christensen fin dall’infanzia, con cui condivideva il nome di battesimo e anni di esperienze.

-Certamente Anka, ma la vorresti veder sposata con un barone Eckersberg? Uno così me la ucciderebbe quella povera figliola.- rispose la capo-cuoca.

-Sì, ma abbiamo anche altri problemi, ormai la famiglia è in rovina… se la signorina ed il conte non fanno buoni matrimoni, perderanno tutto e povere noi, chissà che fine faremo…- ricordò la signora Jacobsen.

-Non l’ho certo dimenticato, ma conosco Friederieke e Ludvig fin da quando sono nati, non posso augurar loro un matrimonio infelice.

Edda alzò gli occhi al cielo, sbuffando. –Suvvia, non fatevi prendere da questi pensieri! Il signor Van Dijk è bello, intelligente e possiede un ottimo carattere o no?

-Per ciò che abbiamo visto… ma impara, Edda: un uomo non lo si conosce mai fino in fondo fino a quando non ci condividi il letto.- la rimproverò bonariamente la signora Jacobsen –E questo valga da lezione anche a te, Agneta: bellezza e intelletto non sono nulla, se sposi uno scansafatiche ubriacone come il mio povero marito. Noi vediamo lo straniero così, ma chissà… potrebbe essere solo un inganno.

-Si sa che tutte le rose, sotto la loro bellezza, nascondono spine affilate.- rincarò la dose la signora Christensen. –Eppure… da quel che mi dici la signorina pare molto presa da lui.

-Molto presa è dir poco!- esclamò la cameriera bionda –Dovreste vedere con che velocità mi ha mandata a prenderlo: giusto il tempo di svegliarsi e schiarirsi le idee e poi mi ha subito ordinato di andare ad Århus! E quando è entrato nel salottino… pareva così felice di vederlo! Vi giuro, signore: mai vista in vita mia la contessina così ansiosa di incontrare un uomo!- concluse, ridendo.

La signora Christensen e la signora Jacobsen si cambiarono uno sguardo, sorridendo sotto i baffi: e così la piccola Iedike finalmente si era innamorata. Le avrebbe fatto un gran bene, di sicuro.

-Edda, cara, è anche molto ricco, no?

-Oh, ricchissimo, signora Christensen, almeno così dicono ad Århus. È un mercante di stoffe preziose o qualcosa di simile e dicono che navighi nell’oro.- confermò la ragazza.

La cuoca si alzò, prendendo le verdure e gettandole nella zuppa che sobbolliva assieme a qualche mangiata d’orzo. –Be’, se lui è ricco e lei lo vuole, tra qualche mese festeggeremo di sicuro un matrimonio, qua a Frydenjord.

-Ne siete sicura?- squittì Agneta –Il signore non è nobile…

-Ma è ricco, figliola. Molto ricco.- rispose la signora Jacobsen –La contessa ha il titolo, lo straniero tutto quello che serve per continuare a far vivere la casata. Agneta, bambina, sei ancora così ingenua… è il denaro a muovere il mondo. Del resto, un nobile squattrinato cos’è, se non un povero con un titolo? Anche conti, baroni e re corrono dietro ai soldi… ma lo fanno con più grazia dei mendicanti.

 

 

Il silenzio calò nella stanza e Iedike puntò lo sguardo sulle fiamme, riflettendo su tutto ciò che le aveva appena raccontato il suo giovane ospite, poi sospirò e lo guardò di nuovo, gli occhi azzurri pieni di determinazione.

-Abbiamo un nemico in comune… ma ho mille motivi più di voi per combatterlo. Non rimarrò in un angolo a pregare, sappiatelo.

Il giovane le sorrise tristemente. –Ne ero certo, contessa. Ma so che sarete un’ottima alleata.

 

 

 

 

 

 

 

NdA

 

Salve a tutti, dopo un anno di assenza, sono tornata. Penso di dovervi delle scuse per questo “ritardo”, ma la verità è che per un bel pezzo ho pensato di non continuare questa storia ed in generale di non scrivere qualcosa di più impegnativo di un One Shot per motivi personali e perché avevo davvero perso fiducia in quello che scrivevo.

Quindi vorrei davvero ringraziare Kuroshitsuji per la sua recensione che mi ha dato davvero la carica e mi ha fatto venire i sensi di colpa per aver piantato The Truth così e la mia beta Pepe che mi tollera ancora.

Voglio anche approfittare della situazione per farmi un po’ di pubblicità: ho appena aperto un blog –link qui- su cui pubblico i miei lavori e che con ogni probabilità a breve diventerà l’unico posto dove trovarmi, almeno per un po’ di tempo.

Infine ringrazio tutti quelli che hanno letto e seguito o ancora leggono e seguono The Truth.

Grazie mille,

 

Beth

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Capitolo XV

 

-Abbiamo un nemico in comune… ma ho mille motivi più di voi per combatterlo. Non rimarrò in un angolo a pregare, sappiatelo.

Albafica sorrise tristemente, osservando il viso pallido della contessina, che conservava una sfumatura grigiastra a causa di ciò che era successo il giorno prima: quella povera creatura non meritava una prova simile, così ardua che avrebbe messo in difficoltà molti suoi parigrado, ma disgraziatamente era nel mezzo di quella tragedia e non poteva sottrarsi al suo compito di protettrice di quei luoghi. -Ne ero certo, contessa. Ma so che sarete un’ottima alleata.

-Lo sarò certamente e voi avete bisogno di me.- disse la ragazza –Conosco Frydenjord e il palazzo come le mie tasche, così come i suoi abitanti, mentre voi siete uno straniero. Se vi mostraste troppo curioso, chiunque sia questa… Stella Malefica si insospettirebbe, la scusa dell’amicizia tra Jens e vostro padre reggerà ancora poco, la gente si chiederà come mai un mercante lasci i propri affari per così tanto tempo solo per venire a trovare un povero anziano. E scusate la mia maleducazione, non vi ho chiesto di accomodarvi.

Non poteva certo dire che la contessa non avesse ragione, ragionò Albafica mentre si sedeva sulla poltrona che la fanciulla gli indicava: presentandosi come mercante in visita di cortesia ad un amico di famiglia si era costruito un alibi che sarebbe durato solo pochi giorni, ma le cose si stavano trascinando e presto avrebbe dovuto trovare un’altra scusa. –Cosa suggerite? Non posso certo andarmene.

-Potreste dire che i vostri affari vi tratterranno in zona, ma poi dovreste trovare qualcuno che vi regga il gioco… e poi in cosa commercereste? Qua non c’è produzione di stoffe preziose e ormai il porto di Århus è in rovina, i suoi giorni gloriosi si sono conclusi e probabilmente non torneranno più. No, Jens Andersen aveva ragione, ieri… dovrete fingere di essere un mio pretendente.- concluse la contessa con molta disinvoltura.

Albafica si fece pensieroso: non era affatto una pessima idea, dopotutto in veste di pretendente di Friederieke avrebbe probabilmente avuto più libertà di movimento e sicuramente una scusa migliore di quella utilizzata fino a quel momento, ma lo imbarazzava non dopo dover fingere interessi di un certo tipo nei confronti di quella ragazza –di solito quello era il genere di cose che lasciava a Manigoldo-.

-Non fate quella faccia, monsieur Van Dijk, sapete anche voi di aver poche alternative.- disse Iedike –Se vi fingete mio pretendente, avrete una scusa perfetta per rimanere nei dintorni e per incontrarvi con me. Da parte mia, io fingerò di ricambiare il vostro interesse, anzi, di essere follemente innamorata di voi… Nessuno si insospettirà molto: ho sempre avuto comportamenti sconvenienti per una donna del mio rango, almeno secondo ciò che dicono le mie cugine e la signorina Bernstein e tutti mi considerano una vera selvaggia, ovviamente nessuno si stupirà se manifesto così apertamente le mie preferenze per voi e tantomeno si stupiranno di vedervi in mia compagnia così spesso. Ovviamente, oltre che bello, siete anche colto e molto ricco, così crede la gente e quindi dubito che mio padre vi proibirà di avvicinarvi a me… mi dispiace doverlo dire ad alta voce, ma le nostre finanze sono piuttosto dissestante e se io e mio fratello non faremo buoni matrimoni, il destino della tenuta sarà ben poco felice[1]. Vedete? Questo è un piano perfetto.

-Lo è.- convenne Albafica, sorridendo davanti alla logica della giovane donna. Aveva proprio ragione, il vecchio Jens: la contessina non era solo bella, testarda e curiosa, ma aveva una bella testolina i cui ingranaggi lavoravano instancabilmente. -Quindi io e voi siamo innamorati.

-Follemente, signor Van Dijk. Più tardi vi farò recapitare una lettera in cui accennerò alle tenere parole che ci siamo appena scambiati e mi dirò entusiasta delle vostre proposte. Voi ricambierete, chiamandomi “mia cara Iedike” –e, a proposito, chiamatemi pure Iedike, non mi offendo di certo e vista la nostra alleanza mi sembra più consono che chiamarmi “contessa”-, ribadendo i vostri sentimenti per me e poi parlerete di quanto felice potrebbe essere il nostro matrimonio. Fatemela recapitare il prima possibile. Poi mandate un biglietto in cui annunciate la vostra visita: passeggeremo nel parco e appena qualcuno sarà abbastanza vicino da vederci, voi mi taglierete una ciocca di capelli e la metterete in un fazzoletto. Io sorriderò adorante ed il gioco sarà fatto: nessuno dubiterà che voi ed io siamo innamorati e progettiamo di sposarci e siccome le chiacchiere si spargono velocemente, presto si saprà fino ad Århus se non oltre.

-Un piano molto ben congegnato.- riconobbe il giovane uomo.

-Grazie, ci ho riflettuto mentre Edda vi andava a prendere. Ma ora ditemi… cosa mi è successo ieri? Ricordo ben poco… voi mi avete parlato di quel rosso legame e poi… è tutto così nebuloso.

Albafica si mise comodo. –Ricordate che conducevamo i cavalli a mano per il paese, parlando? Bene… la campana ha suonato a messa e gli abitanti del villaggio sono usciti dalle loro case, parevano dei morti ed erano grigi in volto; si sono diretti verso la chiesa in un silenzio che nulla aveva di umano. È peggio di quanto pensassi, quando sono arrivato qua qualche giorno fa sembravano molto meno influenzati dal grigiore, pare che questo maleficio diventi ogni giorno sempre più potente… e ad un certo punto è arrivato vostro fratello.- disse, guardandola di sottecchi in attesa della sua reazione. Certo, si fidava di lei, ma i suoi sentimenti avrebbero potuto rivelargli qualche dettaglio, magari qualche paura o pensiero che la ragazza non aveva voluto esprimere ad alta voce.

-Ludvig?! Ne siete certo? Stava male anche lui?- chiese Iedike, preoccupata.

-No, affatto: stava magnificamente, non pareva risentire del grigiore. È smontato da cavallo e ci ha salutati e a quel punto mi sono accorto che il maleficio stava agendo anche su di voi. Vi ho aiutata a montare in sella e vi ho riportata qua, affidandovi alle vostre serve.- le spiegò.

-Com’è possibile? Ludvig non è un servo degli dei, dovrebbe risentire del grigiore se perfino io sono stata male! A meno che…- sussurrò la ragazza, senza trovare la forza di continuare.

-A meno che non sia in combutta con la Stella… o lo sia lui stesso.- disse il guerriero delle rose, terminando la frase per lei.

-Ah, no, questa è follia! Mio fratello non lo farebbe mai, signor Van Dijk! Certo, non è la persona più onesta di questo mondo ed ha mille e più difetti, ama dileggiarsi con le donne sposate e non si cura molto dell’etichetta o di salvaguardare Frydenjord, ma non farebbe mai una cosa simile! Ludvig non è così!- disse la ragazza, inalberandosi. Albafica si limitò ad osservarla, chiedendosi come risponderle senza urtarne i sentimenti: perfino a Cardia, di sicuro non noto per la sua sensibilità, sarebbe stato evidente che quella ragazza condivideva col fratello maggiore un legame profondo, ma non ebbe bisogno di arrovellarsi troppo, perché la fanciulla si lasciò andare mollemente sulla poltrona, serrando gli occhi. –O forse mi illudo di conoscerlo, che sia la stessa persona che era quand’era un ragazzino. Signor Van Dijk, perdonatemi. Io voglio bene a Ludvig e sono certa che, almeno in passato, lui ne ha voluto a me e a nostro padre e non posso sopportare l’idea che qualcuno abbia plagiato la sua mente o che… che abbia volontariamente scelto di tradirci per cupidigia. Voi avete fratelli?- chiese, riaprendo gli occhi blu, lucidi di lacrime che si sforzava di trattenere.

-No, non ne ho, contessa.- le rispose.

-È un peccato… da bambina io non avevo che lui. Mia madre morì presto, di parto e poco dopo fu raggiunta dalla creatura che aveva messo al mondo, un bimbetto piccolo e debole che non visse che poche ore. Mio padre ne fu devastato, penso che l’amasse davvero nonostante il loro matrimonio fosse stato combinato e credo che, a modo suo, la contessa mia madre lo ricambiasse: dopo il suo funerale il conte si chiuse nella biblioteca e per quasi un anno non ne uscì che raramente. Qua, oltre a noi, c’erano ben pochi bambini: è stata un’infanzia abbastanza solitaria e io e mio fratello, nonostante la differenza di età, passavamo molto tempo giocando assieme, soprattutto a causa dei suoi istitutori prima e della signorina Bernstein dopo, che non vedevano di buon occhio le nostre amicizie, per lo più figli dei fittavoli e dei piccoli possidenti di Frydenjord. Ludvig, per me, era anche un gradino sopra a Nostro Signore e so che per lui io non ero da meno… l’idea che possa averci fatto questo mi devasta.- spiegò, con disarmante sincerità, la giovane contessa. Per lei, Ludvig era il mondo: vissuta nell’isolamento della campagna danese per molti anni, il fratello era stato un compagno di giochi e di punizioni, un confidente fidato e un maestro di vita. Era stato lui ad insegnarle come funzionava la corte e l’animo di certi nobili che incontravano alla capitale, lui a svelarle come funzionavano i rapporti tra messeri e dame e sempre Ludvig l’aveva aiutata a sbarazzarsi dei suoi pretendenti, che avevano iniziato ad affollare la sua casa quando non aveva che dodici anni; era stato Ludvig, assieme alla sua amata Maria, a darle l’amore che sua madre, un po’ troppo vanesia, non era riuscita a darle nonostante gli sforzi e il conforto che suo padre, chiuso in un lutto che le era parso eterno, non era riuscito ad elargirle quando la contessa era morta –che Iedike, nonostante tutto, aveva amato e che rimpiangeva ancora-, troppo preso dal proprio dolore. Come poteva il suo amato fratello tradirla a quel modo? Da quando quella brutta storia era iniziata si sentiva così confusa…

-Non posso immaginare cosa stiate provando, contessa.- disse Albafica, riportandola alla realtà –Non pretendo nemmeno di fingere di saperlo, poiché mio padre non mi ha mai tradito nel modo in cui temete che vostro fratello abbia fatto, ma non sono ancora del tutto certo che sia proprio Ludvig il nostro nemico, quindi rasserenatevi, forse i miei sono timori infondati… per ora possiamo solo indagare con la maggior razionalità possibile e tentare di non saltare a conclusioni affrettate.

-Avete ragione, monsieur. Perdonatemi…- disse la ragazza, tentando di sgombrare la mente e ritrovare la calma. L’agitazione non avrebbe fatto che peggiorare il senso di stanchezza e renderla inutile, non doveva cedere ai nervi. –Bene, credo sia il momento di mettere in atto la nostra commedia. Spero che siate un bravo attore. Fatemi un favore, aiutatemi ad alzarmi, mi sento ancora debole… passeggeremo lungo il viale di querce, lì nessuno ci spierà.

Albafica la guardò per un lungo istante: l’idea di toccarla non gli piaceva affatto, ma indossava i soliti guanti di pelle e quindi il rischio di avvelenarla era decisamente minimo. Si alzò con grazia e aiutò la ragazza ad alzarsi. Le parve ancora più pallida di prima e prima di lasciarla aspettò qualche secondo, perché evidentemente faceva fatica a reggersi, forse colta da un lieve giramento di testa. –State bene?

-Starei meglio se questa Stella avesse scelto di mettere a ferro e fuoco la Svezia[2]… di certo il nostro sovrano ne sarebbe stato felicissimo.- rispose sarcasticamente la fanciulla, facendolo sorridere. –Monsieur, potete lasciarmi, ora, credo di poter camminare senza svenire. Vi chiederei di darmi il braccio, ma non voglio angustiarvi più del dovuto. Venite, usciamo da qua, mi manca l’aria.

 

Entrò nella stanza buia in preda all’agitazione, facendo abbastanza rumore da svegliare il suo complice, che imprecò.

-Che succede? Perché questa fretta?- disse la figura in ombra, mettendosi a sedere.

-Lo straniero è qua… ha passato quasi un’ora con la contessa, parlando di chissà cosa.- rispose l’altro.

-Nessuno ha sentito?

-No… ho chiesto alle serve, ma non ne sanno nulla.

-Brutto affare… ora dove sono?

-Li ho visti uscire… che devo fare?

-Scrivi un biglietto al nostro maestro. Meglio che sappia che quei due tramano qualcosa… spero per loro che si tratti di un matrimonio… e per Dio, comportati normalmente! Ci vuoi fare scoprire?!

 

Iedike era rimasta in silenzio finché non erano usciti dal palazzo: fortunatamente i corridoi parevano vuoti e non avevano nemmeno incontrato Sophia e Christina, che forse dormivano ancora o forse ricamavano in compagnia della signorina Bernstein. Una volta all’aperto, inspirò golosamente l’aria fresca e si beò della poca luce che riusciva a superare la coltre di nubi grigie e minacciose.

-Bene, ora possiamo parlare. Venite, il viale è molto grazioso e ha il vantaggio di essere visibile da parecchie stanze. Diamo alla buona gente del palazzo un buon motivo per sparlare dei nostri sentimenti.- disse al suo alleato con ritrovata vitalità. Camminando con calma, i due giovani imboccarono il viale di querce. –Ebbene, prima di tutto, voglio saperne di più di voi. Ieri avete parlato della vostra dea e vi assicuro che ancora ci sono molte cose che non so o non capisco, ma non avete detto una sola parola sul vostro conto, se si esclude quel vostro segreto che non intendo rivelare a nessuno.

-Siete molto curiosa, sapete?

-Oh, sì. E secondo la signorina Bernstein anche incredibilmente sfacciata e villana. Vi disturbo, per caso?

Il ragazzo sorrise: in quel momento la contessa gli ricordava Manigoldo. –Assolutamente no e non vi trovo affatto villana. Forse sfacciata, ma non villana: continuate a sembrarmi graziosa e amabile come sempre.

-Continuate così e sarò io a chiedervi di sposarmi, sappiatelo.- rise la ragazza, facendo arrossire lievemente i guerriero –Ma tornando a noi… Albafica Van Dijk è il vostro vero nome?

-In parte sì. Mi chiamo davvero Albafica, questo è il nome che mi impose il mio maestro, ma Van Dijk è un cognome inventato che uso quando sono in missione per conto della dea. Non conosco quale sia il cognome con cui sono nato, in realtà e da dove vengo non mi serve nemmeno.- le spiegò.

-Oh... siete orfano?

-Sono un trovatello. Di più non so: i miei genitori o chi per loro mi abbandonarono in un campo di rose, di quelle velenose che solo il cavaliere dei Pesci può maneggiare senza perire. Il mio maestro mi trovò miracolosamente ancora in vita e mi prese con sé, deciso a fare di me il suo successore.

-Era a lui che vi riferivate quando parlavate di vostro padre?

Albafica annuì. Lugonis, il suo caro maestro, l’unico padre che avesse mai avuto, l’unica famiglia che gli era stata concessa, l’unica mano amica che lo aveva mai toccato da che lui ricordasse… e l’ultima ad averlo fatto. Dopo la sua dipartita, il suo mondo era stato per sempre privato del calore umano.

-Comprendo… avete visto molte guerre?

-Più che guerre, battaglie, ma non sono che il preludio a ciò che accadrà a breve.

-Battaglie come questa?- chiese la ragazza, ansiosa di sapere.

-A volte… e vi voglio rassicurare: finora ne sono sempre uscito vittorioso. Non sempre per mio solo merito, lo ammetto, perché di solito lavoro con un mio camerata, Manigoldo del Cancro.

-Manigoldo? Che nome strano… mi sembra una parola di qualche lingua del sud… italiano, forse?- disse la contessa, che aveva avuto la fortuna di poter tentare la lettura di alcuni libri in quella lingua. Tentare, perché, nonostante parlasse latino, ella le lingue dell’Italia non le parlava affatto, ma era stata comunque un’esperienza istruttiva.

-Se non avessi visto quella vostra splendida biblioteca, mi stupirei del fatto che abbiate indovinato, contessa. Sì, il mio compagno viene dall’Italia, anche se credo che Manigoldo sia più un nome d’arte che non quello con cui è stato battezzato, ma ormai tutti lo chiamano così e dubito che qualcuno sappia qual è il suo vero nome.- chiarì il guerriero dei Pesci.

-Che strano mondo… non fraintendetemi, ma per me è tanto strano: i nomi contano talmente poco che potete sceglierveli da voi o ignorare i cognomi. Se fosse così ovunque, sarebbe il caos o dominerebbe la più somma delle giustizie, non credete? E per favore, chiamatemi Iedike.- disse la ragazza.

Albafica sorrise a quell’osservazione: perché no? Il potere spesso non si basava che sui nomi: una famiglia era rispettata invece che un'altra perché portava un cognome ben preciso e poco importava che un uomo non fosse veramente figlio del proprio padre, se il cognome che portava era potente, lo avrebbe protetto e gli avrebbe garantito i diritti di cui non avrebbe certamente goduto se, invece, si fosse scoperto figlio di uno stalliere. –Contes… Iedike, posso farvi una domanda?

-Certamente! Voglio essere equa: io vi sto interrogando sulla vostra vita, non vedo perché dovrei essere immune dalla vostra curiosità.

-Davvero credete a ciò che vi ho raccontato?- chiese il giovane. Era un dubbio che gli ronzava in testa dal giorno prima: possibile che quella creatura cresciuta da timorati di Dio gli avesse creduto praticamente subito? Avrebbe potuto accusarlo di essere in combutta col Demonio, ed invece aveva accettato le sue parole molto velocemente.

Iedike ci rifletté un attimo… che domanda, non era affatto facile come poteva sembrare! Aveva troppi sentimenti contrastanti per dare una risposta univoca… -Presumo di sì. Una parte di me continua a darvi del bugiardo, perché vorrebbe continuare a credere che il villaggio sia solamente afflitto da una malinconia temporanea, ma la verità è che la mia parte razionale sa benissimo che nulla, di tutto ciò che sta accadendo, si può spiegare con la malinconia. Solo il Demonio o qualcuno di altrettanto potente può aver causato tutto questo e mi fido delle parole del mio caro amico Jens… non mi ha mai mentito fino ad oggi, mai. Vi credo, signor Van Dijk, perché nulla, qua, può essere spiegato con le nozioni e le idee che abbiamo su come funzioni davvero il mondo e poi ieri, quando mi siete comparso davanti nel tempo di un battito di ciglia, siete stato anche troppo convincente.

-Non volevo spaventarvi, sappiatelo.

-Non lo avete fatto, non preoccupatevi e sappiate che non solo vi credo, ma ripongo in voi la mia fiducia: sono certa che mi… che ci aiuterete.- gli sorride la ragazza: un sorriso caldo e dolce, di quelli che le aveva rivisto rivolgere ad Henning e ai suoi parenti più cari. –E ora torniamo a noi! Sapete ballare, signor Van Dijk?

 

Sophia mise giù il ricamo, fissando la cugina passeggiare giù, lungo il viale alberato, in compagnia del bel signor Van Dijk. Ma com’era possibile?! Come? Davvero quella ragazza senza né arte né parte poteva aver ammaliato un uomo tanto bello e raffinato, talmente perfetto che era impossibile crederlo un misero mercante?

Christina allungò il collo, osservando anch’ella la coppia e sorridendo, emozionata come se si parlasse di lei. –Oh, non sono adorabili? Signora madre, guardate! Iedike passeggia con quello straniero… paiono due innamorati! Credete che sia possibile? Signorina Bernstein? Di sicuro voi la conoscete abbastanza bene…

-Non mi pare quasi vero, baronessa Christina. Non l’ho mai vista passeggiare con un uomo che non fosse il conte Ludvig! Che Dio abbia ascoltato le preghiere del conte vostro zio?- intervenne la signorina Bernstein, altrettanto colpita.

Maria sorrise alla maggiore delle sue figlie, continuando a ricamare, mentre Sophia riprendeva il suo lavoro, schiumante di rabbia: a volte Christina la sorprendeva, tornando la bambina buona e generosa di un tempo e chissà, forse sua figlia aveva ragione, forse Iedike si era innamorata davvero. Quel ragazzo le ispirava fiducia e sicuramente a sua nipote una buona dose di amore avrebbe fatto bene.

-Sarà come dite voi, signore, ma non credo che Friederieke sia persona da questo genere di cose. Credo di essere abbastanza sicura di averle sentito dire di non aver intenzione di sposarsi.- s’intromise Sophia –Madre, sapete per caso se il signor Van Dijk è stato invitato al ballo? Sarebbe scortese non farlo.

Maria colse subito l’occasione. –Oh, mia cara, sono sicura che ci abbia già pensato Iedike.- le disse, tornando al proprio ricamo.

 

 

 

 



[1] In realtà le ragazze nobili dell’epoca non parlavano mai delle finanze di famiglia per due ragioni: non ne sapevano nulla, in quanto, al massimo, avevano solo nozioni di economia domestica e non era una cosa molto ben vista. Per esigenze di copione, Iedike è stata invece istruita dal conte anche nella nobilissima arte della contabilità –dato che suo fratello è uno scansafatiche e ha notoriamente le mani bucate-.

[2] Danesi e Svedesi all’epoca non si amavano particolarmente. Anzi, proprio si odiavano.

Sono tornata. Ci ho messo un anno e più -non ho controllato l'ultima data di pubblicazione, non lo voglio sapere, non voglio essere a conoscenza, voglio ignorare prima di schifarmi da sola-, ma eccovi il 15° capitolo di The Truth, ammesso che interessi ancora a qualcuno.
Ho avuto due anni pesanti, purtroppo e il blocco dello scrittore che questa volta si è digievoluto in blocco del lettore -cosa drammatica, giuro-, ma sto cercando di  riprendere a scrivere. Sappiate che ho già pronto il prossimo capitolo, quindi non temete, la stesura di questa storia procede e ringraziate la mia beta Pepe -petitecherie- che evita accuratamente che io scriva boiate.
Ringrazio chiunque abbia letto e recensito la storia finora e tutti quelli che hanno avuto la pazienza di aspettarmi e leggere questo capitolo: siete fantastici. Inoltre tenterò di rispondere alle recensioni in arretrato -ne ho un casino, non so nemmeno a quali storie corrispondano-. Scusatemi ancora tantissimo.
Colgo anche l'occasione di pubblicizzare il mio blog, The Tempest's novels, dove pubblico parallelamente The Truth Beneath The Rose e dove, se mi ripiglio, troverete anche news sulle storie e approfondimenti sui personaggi e le storie.
Ci vediamo il 1° settembre con il prossimo capitolo :)

Beth 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Capitolo XVI

Albafica si era trattenuto al palazzo dei Frydendahl fin quasi all’ora di pranzo, quando aveva deciso che era il caso di tornare ad Århus: avrebbe redatto un rapporto per il Patriarca e poi si sarebbe preparato per il ballo a cui Iedike Frydendhal lo aveva invitato.

–E ora torniamo a noi! Sapete ballare, signor Van Dijk?- gli aveva chiesto la contessina, sfoderano un sorriso malandrino che aveva ridato un po’ di colore alle gote ancora smorte.

-Abbastanza bene, credo. Purtroppo il Santuario di Athena difetta di questo genere di avvenimenti.

-Bene, perché tra un paio di giorni si terrà un piccolo ballo, una festicciola tra amici, a cui saranno invitati tutti i miei parenti, padre Hans, alcuni cittadini “importanti” di Århus, per lo più creditori della tenuta e un paio di giovani aristocratici amici di mio fratello. È Ludvig ad aver organizzato tutto, io non sono brava con queste cose e ne so ben poco, ma vi inserirò nella lista degli invitati: i vostri sospetti, mio fratello e padre Hans, saranno nello stesso posto e in qualità di mio presunto pretendente e mio ospite, vi sarà facile studiarli. Ve la sentite?

-Certamente, Iedike.

-E non preoccupatevi, non vi lascerò nelle grinfie di Sophia.- gli aveva detto, ridendo.

Il ballo, in realtà, non lo preoccupava troppo, era un ballerino decente, forse un po’ mediocre –non aveva il talento di Dégel per gli eventi mondani e le danze-, ma per nulla negato come Manigoldo e Cardia, che erano più per balli e canti da osteria; il vero problema sarebbe stato passare tutta la serata a così stretto contatto con delle persone, col rischio di ferirsi in un modo qualsiasi e avvelenare qualcuno, magari proprio Iedike. Al solo pensiero della contessina Frydendahl pallida, riversa al suolo, le labbra sporche di sangue e gli occhi vuoti, privi di vita, sentì lo stomaco accartocciarsi dolorosamente e il cuore perdere un paio di battiti.

Non voleva arrecarle alcun danno, non lo avrebbe sopportato… non avrebbe sopportato di rivivere la morte del maestro Lugonis, di perdere quella ragazza a cui si era affezionato, così come si era affezionato al vecchio, testardo ed irriverente Jens. Iedike non aveva che sedici anni, era nel pieno della sua giovane vita e se fosse morta a causa del suo sangue non avrebbe potuto perdonarselo… certo, il solo contatto con la sua pelle non le avrebbe causato alcun danno –per di più portava i guanti, ma la prudenza non era mai troppa nel suo caso-, ma se egli avesse avuto una qualche ferita o anche un solo graffio troppo piccolo per essere notato, l’avrebbe condannata ad una morte terribilmente dolorosa. Poteva rischiare tanto per scovare la Stella?

Venne riportato alla realtà da un lieve bussare alla sua porta: era una delle servette di Solveig, che gli portava il materiale da scrittura che aveva richiesto alla locandiera. Ringraziata la ragazzina, tornò al suo tavolino e dispose ordinatamente il tutto, studiando con cura ogni pezzo: pareva tutto di buona qualità e la carta era di gran lunga migliore di quella che credeva avrebbe ricevuto. Non sapeva se imputare la cosa al fatto che, probabilmente, era uno dei pochi ospiti benestanti della locanda o alla simpatia che evidentemente ispirava alla giunonica locandiera.

Preparato il pennino, lo intinse nell’inchiostro e iniziò a scrivere il proprio rapporto, ripensando a ciò che era successo nei giorni passati… era ormai quasi una settimana che mancava dal Santuario ed erano successe fin troppe cose: Frydenjord, un normalissimo e tipico villaggetto danese si era trasformato in una landa grigia e opprimente, i cui abitanti parevano sempre più morti che camminavano, completamente svuotati della propria vita e forse anche dell’anima. Solo gli abitanti del maniero che sovrastava il paesello si erano momentaneamente salvati, ma quella specie di gangrena stava risalendo lentamente la strada che portava a quell’antico castello, iniziando ad avvelenare anche la famiglia Frydendahl e la servitù.

Aveva incontrato Ludvig Frydendahl e padre Hans, i maggiori indiziati, giunti a Frydenjord nello stesso periodo, ossia quando il grigiore aveva iniziato a contagiare la popolazione del villaggio: il primo era il figlio maggiore del conte di quelle terre, un libertino i cui passatempi preferiti erano, a detta del vecchio Jens Andersen, la caccia alle donne sposate e quella alla volpe; il secondo era il nuovo pastore, un uomo rigoroso, fermamente convinto della parola che predicava ogni domenica, che aveva preso il posto di padre Peder, il vecchio pastore e che, secondo Jens e la contessina, era il maggiore indiziato.

E poi c’erano Jens e la contessa Friederieke: il primo era stato allievo del precedente Cavaliere dell’Aquila –una donna che tutti ricordavano ancora per la sua furia in battaglia- e aveva abbandonato il Santuario quando, rimasto gravemente zoppo, aveva perso l’opportunità di diventare un Saint; la seconda, sorella minore di Ludvig, era passata dall’essere una delle sospettate a sua migliore alleata in quella brutta storia.

Continuò a scrivere riversando sulla carta tutto ciò che aveva avuto modo di vedere fino a quel momento, i progressi fatti nella sua indagine –praticamente nulli, nonostante gli indizi vertessero quasi tutti su Ludvig Frydendahl- e i suoi dubbi su quanto stava accadendo. Una volta terminato posò con cura il pennino, sparse della sabbia sull’inchiostro, scrollò il foglio, lo sovrappose ad un altro e li piegò con cura, prima di sigillare la missiva e scrivere –questa volta con caratteri latini e non in greco antico- l’indirizzo a cui veniva recapitata la posta del Santuario, una bottega ad Atene.

Terminata l’operazione, si ritrovò a pensare che gli servivano degli abiti per il ballo… sperò di avere abbastanza denaro anche per quello.

 

Con l’intera famiglia seduta attorno alla tavola, i Frydendahl si dilettavano a parlare del più e del meno, a seconda dei gusti personali: Sophia, Christina e Ludvig discorrevano allegramente della vita alla capitale –la signorina Bernstein, che il conte ammetteva più che volentieri ai propri pasti, trovandola una donna, se non proprio di mente brillante, comunque piacevole, li ascoltava avidamente ed interveniva di tanto in tanto-, mentre la baronessa Maria, Iedike e il conte parlavano di filosofia e scienze. Il pasto, seppur semplice, era sempre ottimo grazie al talento delle cuoche e, tutto sommato, nella stanza si respirava un’aria leggera e felice.

In realtà Sophia di tanto in tanto scoccava occhiate in tralice alla cugina che, dal canto suo, la ignorava accuratamente, mentre la baronessa Maria studiava la nipote attentamente, alla ricerca di un qualche dettaglio che lasciasse intendere i sentimenti che provava per il mercante olandese.

Fu Ludvig a correre inaspettatamente in suo aiuto, richiamando l’attenzione del padre –e di tutta la tavolata- e annunciandogli che il ballo si sarebbe tenuto entro un paio di giorni.

Il conte annuì, poi si rivolse alla figlia. –Pensavo che sarebbe gentile, da parte nostra, invitare monsieur Van Dijk, Iedike, dopotutto è amico del vecchio Jens e Dio solo sa quanto egli e sua moglie ci abbiano reso dei gran mestieri in passato. Inoltre mi sembra che andiate d’accordo e sarebbe piacevole averlo qua per una serata tra amici, chissà quante cose ha da raccontare e sembra anche molto ben educato.

Iedike posò il calice dal quale stava bevendo e sorrise al genitore. –Oh, non v’ingannate, padre, è una persona estremamente interessante e a modo e anche molto colta, nonostante non abbia goduto del privilegio di avere i migliori insegnanti come Ludvig ed io, ma so che ha letto molto e ha viaggiato abbastanza da supplire a questa sua sfortunata mancanza con la conoscenza diretta che, credo converrete con me, spesso fa più di molti libri.

-Sicuramente, mia cara, sicuramente. Anche io da giovane desideravo viaggiare, sai? Ma purtroppo con queste gambe… se non fossi caduto da cavallo lo avrei fatto certamente, ma Dio mi ha ricompensato per le mie sofferenze e le mie speranze giovanili dandomi due figli splendidi.- disse l’anziano conte.

-Padre, non esagerate, Dio avrebbe potuto darvi figli migliori di me e Ludvig.- disse la ragazza, rivolgendo un sorrisetto al fratello, che le strizzò l’occhio con fare complice.

-Certo che no, bambina mia, ma torniamo al signor Van Dijk: cosa ne diresti di scrivergli dopo pranzo, pregandolo di farci l’onore di prendere parte alla nostra festa?- le chiese l’anziano Frydendahl.

-Io penso, mio caro fratello, che sarebbe un’idea ottima, come dici tu Iedike e monsieur Van Dijk paiono andare tanto d’accordo e sarebbe proprio bello che, per una volta, vostra figlia fosse circondata da giovani invece che da noi poveri vecchi.- rise la baronessa Maria, gettando l’amo e attendendo la sua giovane nipote abboccasse. Venne subito ricompensata dalle lamentele di Christina, che le assicuravano che non fosse affatto vecchia e, anzi, fosse ancora splendida e quelle di Iedike, che diceva di apprezzare la loro compagnia più di quella di molti giovani.

-In ogni caso- continuò la contessina –stavo proprio per informarvi di aver già invitato il signor Van Dijk questa mattina, quando è venuto a farmi visita. Mi pareva molto ineducato non farlo, vista la sua gentilezza: se non fosse stato per lui, ieri sarei svenuta nel bel mezzo di una strada.

La signorina Bernstein inorridì all’idea e concordò con la sua protetta, cosa sulla quale Iedike aveva contato. –La contessa ha ragione, monsieur Van Dijk è stato estremamente gentile ad aiutarla di un momento simile. Chissà cosa le sarebbe potuto accadere, povera cara. Spero che vi sentiate meglio.

-A meraviglia, mia cara amica, non preoccupatevi: ho riposato a lungo e la passeggiata fatta questa mattina mi ha rinvigorita.- la rassicurò la giovane, sorridendo. Era proprio ora di tender la sua trappola.

-Sei uscita a passeggiare, bambina mia? Non ne avevo idea… non è stato un po’ imprudente?- si preoccupò infatti suo padre.

-No, padre, non vi preoccupate. Il signor Van Dijk è venuto a farmi visita questa mattina ed è stato tanto caro da passeggiare con me per assicurarsi che non mi accadesse nulla.- gli rivelò la ragazza, sorridendo compiaciuta.

Sophia le lanciò un’occhiataccia. –Monsieur Van Dijk è davvero molto garbato, a maggior ragione con un’estranea come lo siete voi, cugina. Presumo che lo faccia come dovere verso il suo vecchio amico, l’anziano Andersen, del resto siete stata tenuta a balia da sua moglie, no?

-Sì, dite bene, la povera, cara Maria, che Dio l’abbia in gloria, mi ha fatto da balia e di lei non serbo che bei ricordi, ma il signor Van Dijk sta diventando un amico carissimo, pare che abbia molti gusti in comune con me, anche se a volte la pensiamo diversamente. Il che è un bene, perché le mie poche amiche sono ormai maritate e trovano ben poco tempo per scrivermi.- si rammaricò Iedike, cercando di mostrarsi corrucciata. In realtà di amiche ne aveva ben poche, anzi, l’unica a cui avesse voluto davvero bene per la sua gentilezza e la sua dolcezza, Dagmar, le era di tre anni maggiore e aveva sposato felicemente un nobile norvegese, ma era meglio che suo padre pensasse che la sua adoratissima figlioletta si sentisse sola.

Ed infatti il conte, nel vedere quell’espressione in volto, si intenerì. –Povera la mia bambina, è colpa mia che ti tengo sempre qua, accanto a me. La tua presenza mi fa così tanto piacere, ma forse dovrei mandarti più spesso a Copenaghen, affinché tu possa stare con persone della tua età. In ogni caso mi fa piacere che tu abbia un amico simile.

-Già, anche perché l’unica persona con cui potrei discorrere, qui, è Ludvig, ma a volte mi sembra troppo ottuso per capire le questioni importanti.- scherzò la ragazza, punzecchiando il fratello, che, dal canto suo, rise.

-Purtroppo, sorella cara, io sono davvero troppo ignorante di scienze e filosofia per parlare con voi, ma anche voi! Mai che facciate uno sforzo per intendervi di caccia o vini!- la dileggiò Ludvig, stando al gioco della sorella minore come aveva sempre fatto.

-Avete ragione, mea culpa. Prometto che mi applicherò di più per capire quale sia il divertimento che sta alla base dell’inseguimento di un animale che tanto sapete già di poter prendere senza il benché minimo sforzo. Si trattasse almeno di un orso!-  disse la ragazza, ridendo e pian piano tutti i commensali tornarono alle loro conversazioni originarie, anche se l’acrimonia di Sophia pareva cresciuta di pari passo alla soddisfazione, originatasi per ragioni diverse, di Iedike e sua zia Maria.

 

Terminato il pranzo, le baronessine Eckersberg si ritirarono con Iedike e la signorina Bernstein nella “stanza delle torture” per leggere e ricamare, Ludvig uscì per una cavalcata e Maria, con una scusa, si ritirò in biblioteca col fratello.

Il conte si sistemò comodamente sulla poltrona e coprì le gambe storpie con una coperta, mentre Maria si piazzava accanto al caminetto, guardando il ritratto di Amalie Frydendahl.

-Friederieke le somiglia sempre più in bellezza.- disse, con una punta di nostalgia, il conte –A volte non mi capacito ancora che sia venuta a mancare così tanto tempo fa.

-In effetti fu qualcosa di improvviso, tua moglie non aveva mai avuto alcun problema durante le sue gravidanze e i parti… purtroppo le vie del Signore sono infinite e ad Amalie è toccato ciò che le è toccato.- disse la baronessa, dando del tu al fratello come faceva sempre in privato. Fin da bambini avevano avuto un rapporto strettissimo, quasi pari a quello che vi era tra Ludvig e Iedike e avevano sempre tralasciato i convenevoli inutili.

-Mi manca ancora oggi… ma sono felice di aver potuto passare con lei tutto quel tempo, l’amore per la mia Amalie ha resto questa vita meno grama.

-A proposito di amore, tua figlia è innamorata.- annunciò, sorridendo.

-Come? E di chi? Quand’è successo?- si stupì il conte.

-Oh, Ludvig, ma sei proprio ottuso, certe volte! È così palese, fratello mio, solo a te potrebbe sfuggire una cosa simile! Non cambierai proprio mai.- rise –Iedike è innamorata di quello straniero, del signor Van Dijk, no?

Il conte si fece pensieroso. –Dici davvero? Proprio non me ne sono accorto… deve aver nascosto tutto molto bene, quella furbetta.

Maria roteò gli occhi. -In realtà lo ha capito anche tutta la servitù, fratello. Alcuni, addirittura, dicono che quei due si siano già confessati a vicenda e pianifichino di chiedere il tuo consenso per il matrimonio.

Il conte sgranò gli occhi. –Come? Di già?

-Be’, vedila così: se fosse vero e ne dubito, Iedike ha troppo buon senso per sposarsi su due piedi con un perfetto sconosciuto di cui solo Jens sa qualcosa, conoscerebbe suo marito sempre meglio di quanto io non conoscessi quel dannato Eckersberg quando i nostri genitori mi costrinsero a sposarlo. Ha le stesse probabilità che avevo io all’epoca di essere felice.- disse amaramente la donna.

-Non li hai ancora perdonati?

-Chi, mamma e papà? Oh, Ludvig… io voglio loro così tanto bene anche se il Signore li ha chiamati a sé anni fa, ma ciò che mi hanno fatto, pur a fin di bene, mi ha rovinato l’esistenza: loro pensavano al mio futuro e credevano che combinando un matrimonio con un Eckersberg, non avrei mai dovuto preoccuparmi del danaro. Non sono arrabbiata con loro, ma solo amareggiata dalla loro cecità: la reputazione di Sebastian non era poi così segreta.

-Se fossi stato un fratello migliore, mi sarei occupato di te.- mormorò il conte, dispiaciuto nel vedere la tristezza negli occhi della sorella.

-Ma che dici? Tu sei il miglior fratello che si possa desiderare, Ludvig: mi hai accolta ogni volta che scappavo e mi hai consolata ogni volta che mi strappava un figlio per darli alla sua amante. Mi ha strappato persino Søren, che solo un cieco potrebbe scambiare per figlio suo e solo per farmi un dispetto…- prese un libro e lo aprì -E Christina, la mia piccola bambola, che mi era così cara, con quei dolci sorrisi e quel suo modo delizioso di ridere? Ricordi che mi teneva lontana anche quando stava male? La mia povera bimba dilaniata dalla febbre e invece di sua madre, al suo capezzale c’era l’amante di suo padre. Purtroppo la riuscita di un matrimonio è solo nelle mani di nostro Signore.- dichiarò, richiudendo il libro e rimettendolo al suo posto.

-Dove vorresti arrivare?- chiede il conte.

-Lascia che Iedike sposi chi ami. Per un uomo il matrimonio è molto diverso, se non vi è amore nel vincolo coniugale, può cercarlo altrove e mantenere una reputazione limpida, permettendo alla propria amante e agli eventuali figli di vivere una vita dignitosa, ma per una donna è diverso: un matrimonio infelice è un fardello, soprattutto per una ragazza tanto giovane come tua figlia e persino cercare conforto in un amante è motivo di sofferenza. Se ti chiederà il permesso di sposare questo giovanotto, lascia che segua il suo cuore: di certo il signor Van Dijk non difetta di denaro e sono ragionevolmente sicura che tua figlia sarà felice con lui.- concluse Maria.

-Presumo tu abbia ragione, sorella mia. Presumo che sia così.

 

 

Nella “stanza delle torture”, Christina stava ricamando assieme alla signorina Bernstein, mentre Sophia suonava, deliziando tutti con una serie di arie. Iedike, invece, era seduta allo scrittoio e stava tentando di comporre una lettere che, se letta da occhi indiscreti –quelli del nemico, possibilmente- potesse sembrare il normale carteggio tra due innamorati; non era affatto un compito facile, poiché non si era mai innamorata di nessuno e le poche lettere simili ricevute le aveva bruciate tutte. Si diede della sciocca, rimpiangendo quell’atto così puerile, ma effettivamente come avrebbe potuto sapere che le sarebbero tornate utili?

Mio carissimo Albafica” le parve un inizio incoraggiante. “Mio carissimo Albafica, non posso esprimere a parole quanta gioia io abbia provato nel vedervi questa mattina.

Forse era un po’ esagerato, ma la mancanza di pratica e precedenti non le era di troppo aiuto. “…provato nel vedervi questa mattina. Sono felice di sapere che avete una così alta considerazione di me e che proviate un tale affetto nei miei confronti e sono desolata se, per caso, io vi abbia creato un qualche disagio con quella richiesta così improvvisa. Le parole che ci siamo scambiati stamane mi hanno dato da riflettere e sono giunta alla conclusione di provare lo stesso per voi, di ricambiare la vostra ammirazione e la vostra stima in maniera incondizionata. Ancor più mi ha reso felice il vostro disinteresse per il mio patrimonio o per le condizioni finanziarie in cui versa la mia famiglia: considero questo vostro modo di fare un segno di reale interesse per me e nulla potrebbe rendermi più felice ed orgogliosa di voi.”

Rilesse ciò che aveva scritto e le parve buono. Forse era un po’ troppo… dolce, per i suoi gusti, ma poteva andare.

“Ho anche una bella notizia da darvi: ho parlato a mio padre della mia intenzione di invitarvi al ballo ed egli era d’accordo, anzi, me lo ha proposto egli stesso prima che potessi informarlo. Sembra che gli piacciate molto e spero che, approfondendo la vostra conoscenza, egli acconsenta ad una nostra frequentazione più assidua e, se Dio lo vorrà, all’unione delle nostre famiglie. Non potete immaginare quanto sia felice per tutto ciò.”

In parte era vero, era felice di avere un amico o qualcosa di simile al ballo e di non dover affrontare da sola l’allegra comitiva messa assieme da Ludvig. “Ora, purtroppo, vi devo lasciare o rischio di insospettire troppo la mia istitutrice e le mie parenti. Vi aspetto domani, mi avete promesso di farmi visita, ricordate? La vostra sincera Friederieke.”

Sorrise soddisfatta, dicendosi che nessuno si sarebbe aspettato da una ragazzina nuova alle dolcezze dell’amore qualcosa di meglio e che, dunque, era perfettamente credibile, sistemò la missiva con cura, si alzò e uscì dalla stanza, alla ricerca di qualcuno che potesse recapitarla al giovane guerriero.

 





Come promesso, ho pubblicato il nuovo capitolo <3 Amatemi <3
Scherzo...
O forse no, chi lo sa.
Intanto inizio a ringraziare petitechérie per aver betato il capitolo e avermi illustrato l'importanza dei guanti: grazie, Pepe, senza di te qua le cazzate si sprecherebbero.
Ringrazio anche le persone che hanno letto e/o recensito lo scorso capitolo: siete fantastiche, avreste avuto tutte le ragioni per sfancularmi dopo un anno di assenza. Grazie ancora.
Bene, che dire? Siamo a circa metà della storia, più o meno -purtroppo non so bene di quanti capitoli si comporrà la storia, ma presumo che ce ne saranno almeno un'altra decina- e nel giro di qualche capitolo le cose finalmente si movimenteranno un po'... ma intanto dobbiamo prepararci mentalmente al ballo: vi assicuro che ci sarà da divertirsi. Albuccio scoprirà chi è il nemico? Forse... ma intanto raccontatemi i vostri sospetti, si apre il toto-cattivo! Chi è la Stella Malefica secondo voi?
Ci risentiamo il 23 settembre <3
Beth

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


Capitolo XVII


-Allora? Avete scoperto qualcosa?- chiese Jens Andersen, posando davanti ad Albafica un bicchiere di grappa. Ormai il giovane guerriero ci stava facendo l’abitudine e pian piano gli pareva che la bevanda fosse meno forte. Mandò giù un goccio… no, era stata una pia illusione: bruciava come al solito, quel sorso era stato come bere della lava.
-No…- ansimò il ragazzo, con la gola in fiamme e le lacrime agli occhi. –O meglio, ho avuto modo di parlare con Iedike, cioè, con la contessina, di ciò che è accaduto negli ultimi mesi e abbiamo ricostruito la dinamica del grigiore con precisione.
-E non avete costruito solo quello.- disse l’anziano con un sorrisetto sornione dipinto in volto mentre accarezzava il testone di Cane, che pareva soddisfatto delle attenzioni del suo padrone. –Ho sentito dire che a breve al castello si festeggerà un bel matrimonio. Ditemi, come pensate di sistemare il problemuccio delle differenti religioni?
Albafica impallidì per poi arrossire violentemente, ma avrebbe dovuto aspettarselo: il vecchio Andersen non era persona da perder l’occasione di fare battute. Il problema era che non era l’unico ad aver toccato l’argomento: nel giro di un paio di giorni la notizia era arrivata fino in città e Solveig si era discretamente –per quanto discreta l’ostessa potesse essere- congratulata con lui, strizzandogli poi l’occhio e promettendogli di non dir più nulla finché il matrimonio non fosse stato annunciato; avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sprofondare mentre due delle ragazze della locanda ridacchiavano in un angolo, additandolo come il futuro signore di Frydenjord –apparentemente metà delle prostitute di Århus era convinta che Ludvig sarebbe morto per mano di qualche marito geloso e l’altra metà che lo avrebbe fatto nel letto di una di loro prima di ereditare o comunque nel giro di breve tempo-.
Senza contare che al castello egli e Iedike avevano gli occhi costantemente puntati addosso: nei due giorni che erano trascorsi da quando la fanciulla aveva messo in piedi quell’inganno il conte e la baronessa li avevano osservati cercando di nascondere i sorrisetti compiaciuti, Sophia sembrava sul punto di avvelenare la cena di Iedike e faceva impazzire tutti quanti coi suoi capricci, Ludvig si stava evidentemente trattenendo dal fare battutacce al “futuro cognato” e alla sorella –a quanto pareva la contessina lo aveva minacciato in un qualche modo, ma non aveva voluto riferire al guerriero il come- e Christina pareva sul punto di impazzire perché la madre le aveva proibito di esprimere il proprio entusiasmo e la sorella minore le aveva tolto il saluto; solo la signorina Bernstein pareva riuscire a mantenere la calma e di sicuro quel clima gli metteva ancora più agitazione indosso: ogni gesto suo e della contessina doveva risultare quello di due innamorati e non era affatto facile, ma l’anziano Andersen era venuto in loro soccorso, insegnandogli un paio di cosucce sulle donne… che Athena l’avesse in gloria, senza quell’uomo non avrebbe saputo cosa fare.
-Presumo che sarà il conte a levarci da questo impiccio, Jens.- rispose il ragazzo, tentando di non lasciar trapelare i propri sentimenti.
-Ah, sicuro! Vi crede ricco, colui che salverà la tenuta e per di più è convinto che sua figlia vi ami. Foste pure un infedele con la pellaccia nera, troverebbe il modo di farvela sposare, statene certo.- rise l’anziano, battendo un palmo sul tavolaccio di legno mentre Cane, deciso di non essere interessato all’argomento, si accomodava mollemente sul pavimento, cercando una posizione comoda per dormire.
Albafica osservò Jens, soppesando le sue parole: quell’uomo ne sapeva una più del Diavolo, pareva conoscere tutti fin troppo bene… per essere stato solo uno stalliere sembrava fin troppo in confidenza col conte, che, da parte sua, non faceva che dire un gran bene sul suo vecchio servitore, la voce piena di affetto e di un caldo entusiasmo per quell’uomo che ci sapeva fare tanto bene coi cavalli, con i racconti di viaggio e con quei due monellacci che erano stati i suoi figli.
Jens Andersen, si disse, doveva essere stato un bell’uomo in gioventù: viso squadrato –ormai cotto dal sole e solcato da decine di rughe profonde-, tratti virili e un fisico che, nonostante l’età avanzata e la vita di miserie che doveva aver conosciuto dopo il Santuario, conservava ancora qualcosa della possanza che doveva aver avuto da giovane.
-Jens, non vorrei risultare maleducato, ma potrei chiedervi quanti anni abbiate?- disse il giovane, guardandolo negli occhi. L’anziano rise, buttò giù un sorso di grappa e accarezzò Cane.
-Lo senti questo impertinente, eh, bestiaccia? Ma certo che potete chiedermelo, siamo tra colleghi… be’, più o meno.- disse, liquidando quella questione con un gesto della mano –In ogni caso ne ho cinquanta, ragazzo, ossia un bel po’ più di voi, che, ad occhio, ne avrete diciotto, al massimo una ventina, anche se con quei muscoli lì sembrate più grande.
-Ne ho venti.- confermò il giovane guerriero.
-A che età siete diventato Cavaliere dei Pesci?- chiese l’anziano facendosi serio e mettendosi comodo sulla seggiola.
Il ragazzo posò i gomiti sul tavolo. –Sedici.
-L’età della contessina adesso. Gran brutto colpo per un ragazzino.- disse l’anziano –Conoscevo Lugonis, sapete? Di vista, non eravamo di certo amici, aveva una decina di anni meno di me e si sa come sono i ragazzi di quell’età, un branco di idioti che si credono già grandi e snobbano i mocciosi, ma lo conoscevo… Ricordo quando arrivò, io ero lì già da parecchi anni: un bimbetto sui cinque, sei anni con questa massa di riccioli rossicci che sgambettava dietro al Cavaliere dei Pesci dell’epoca. Non era un bello spettacolo, per niente: noi allievi avevamo una paura dannata di Piscis, se potevano stargli alla larga ne eravamo ben felici e ci dispiaceva per il ragazzino, non sapeva evidentemente a cosa stava andando incontro. Ricordo che era sempre gentile con tutti… poi mi rovinai la schiena e addio sogni di gloria, appena mi ripresi me ne andai e per anni evitai ogni contatto con il Santuario.- concluse l’uomo. Si era fatto scuro in volto e gli occhi erano diventati pensierosi.
Come quelli di Albafica, del resto: non avrebbe mai pensato che Jens avesse conosciuto il suo maestro eppure, facendo due conti, la storia dell’anziano era verosimile.
Lugonis era morto quattro anni prima, all’età di trentasette anni, quindi ne avrebbe avuti quarantuno se fosse stato ancora in vita: Jens, invece, ne aveva cinquanta, nove in più, quindi, quando Lugonis era giunto al Santuario, l’anziano stalliere danese ne aveva una quindicina.
Provò ad immaginare l’uomo che lo aveva cresciuto così come Jens lo aveva descritto: un bambino dalla bellezza fuori dal comune –dono che gli dei avevano fatto a tutti i precedenti Cavalieri dei Pesci da che se ne avesse memoria-, coi riccioli rossi e gli occhi verdi che caracollava dietro ad un uomo in armatura, camminando verso un futuro di solitudine e isolamento forzato, un futuro il cui unico conforto era stato proprio egli, Albafica.
Il figlio che non aveva mai potuto avere, il figlio che lo aveva ucciso inconsapevolmente. Si chiese se suo padre avesse mai rimpianto il giorno in cui le stelle lo avevano scelto per il rosso legame. “Padre, sono un debole o questo dubbio che cerco di scacciare è normale? Vorrei che tu fossi ancora qua, per potermi rispondere.
-Figliolo, fatevi un altro cicchetto, ne avete decisamente bisogno.- ordinò perentoriamente Jens, rabboccandogli il bicchiere con quel liquido trasparente ed infernale –Immaginavo che fosse ancora una ferita aperta… ebbene, volete sapere una cosa? Lo sarà sempre. Qualsiasi cosa voi facciate, non cambierà mai. La mia Maria è morta più di cinque anni fa eppure ogni giorno mi sveglio e spero che lei sia accanto a me. Era più giovane di me di quindici anni, sapete? Eppure una sera è andata a dormire e la mattina dopo era fredda come il ghiaccio. Dicono che il tempo rimedi a tutto… e lo fa, ma non come ce lo immaginiamo: il tempo ci aiuta soltanto a trovare un modo di scendere a patti con la perdita, di non impazzire, ma non potrà mai cancellare quello che è stato. Il tempo aiutò Maria facendole incontrare Iedike quando il nostro ragazzino venne chiamato a sé da Dio e Iedike facendole amare disperatamente mia moglie quando sua madre e suo fratello raggiunsero mio figlio; ha aiutato Lude, facendogli conoscere i piaceri della carne e dell’alcol per dimenticare il dolore per sua madre e il conte, dandogli una bambina bellissima su cui riversare l’amore che non poteva più donare a sua moglie. Vedrete, il tempo aiuterà anche voi a trovare il vostro modo. Non è sempre un modo facile o costruttivo, ma prima o poi tutti lo troviamo.- buttò giù un sorso di grappa, invitando Albafica a fare lo stesso con lo sguardo, poi proseguì –Ma non siamo qua per mettere su un circolo di povere vedove, ragazzo. Stasera parteciperete ad un ballo, no? Siete pronto?
Albafica scacciò il viso del proprio maestro morente dalla mente e annuì. –Presumo di sì, anche se si tratta di qualcosa di decisamente nuovo per me.
-Oh, ho notato, non temete, ma presumo che per voi sia difficile corteggiare o portare nelle vostre stanze una ragazza… certo, c’è da dire che anche quel genere di esperienza vi servirebbe a poco, al momento, non siamo alla corte di Francia. E non arrossite così, perbacco!- ridacchiò l’anziano –Ricordate: cortesia, amabilità, conversazioni piacevoli e di poco conto, lasciate che siano gli altri ad intavolarne di più profonde e cercate di non risultare troppo originale e concedente un ballo anche alle baronessine Eckersberg, ma ballate soprattutto con la nostra Iedike.
Il ragazzo annuì, concentrato; aveva già mandato a mente quelle istruzioni, ma sentire la voce ruvida dell’anziano ripeterle lo rassicurò.
-Al resto- concluse Jens –ci penserà Iedike. Fidatevi di lei e fate ciò che dice e tutto andrà per il meglio.
Tra i due calò il silenzio.
 
Infilò due dita nella croata tentando di allentarla, mentre la carrozza che aveva noleggiato percorreva il viale di querce che portava al maniero dei Frydendahl. Si sentiva nervoso e sapeva che, dopotutto, era normale: quella era una situazione nuova e pericolosa, correva il rischio di farsi scoprire o di fare un buco nell’acqua; per di più sarebbe stato attorniato da persone e, nelle sue condizioni, di certo non era l’ideale.
Quando il cocchiere fermò i cavalli prese un profondo respiro e scese, mentre un valletto si avvicinava per scortarlo all’interno; gran parte delle finestre del pian terreno erano illuminate, ma persino la luce che filtrava diventava quasi grigiastra all’esterno. Lanciò uno sguardo al giardino che circondava il maniero, ormai il grigiore era arrivato a non più di una cinquantina di piedi dall’entrata dell’antico palazzo e più tempo passava, meno speranze aveva di salvare quelle persone.
Scacciando quel pensiero orribile, entrò all’interno e si fece guidare dal valletto; pian piano sentì la musica, poi il chiacchiericcio ed infine venne annunciato e fatto entrare in un’ampia sala dall’arredamento moderno, perfetta per le danze e la musica, che comunicava con un’altra sala che non riusciva a vedere; la luce la rendeva calda ed accogliente, mentre i mobili francesi e le cineserie le davano un’aria raffinata che era sicuramente da imputare alla signorina Bernstein o a Ludvig e le decorazioni per quella piccola festa tra amici, come l’aveva definita Iedike il giorno prima, rendeva il tutto più allegro. In un angolo una piccola orchestra –Ludvig non aveva certo badato a spese, si disse Albafica- stava suonando, mentre gli ospiti si erano riuniti in piccoli campanelli e parlottavano del più e del meno; ad una rapida occhiata fu evidente che il conte Frydendahl e sua figlia mancassero all’appello: Ludvig stava parlando con due giovani uomini a lui sconosciuti, ma abbastanza simili da far pensare che fossero parenti –probabilmente fratelli-; Sophia si stava intrattenendo con due giovani donne e sua sorella, mentre altri due gentiluomini chiacchieravano con la baronessa Maria; quando il giovane guerriero comparve tutti si girarono verso di lui, fissandolo con occhi rapaci e Ludvig gli andò incontro, apparentemente felice di vederlo come se si trattasse di un amico di vecchia data che non vedeva da tempo.
-Ah, monsieur Van Dijk, proprio di voi si parlava! Venite, venite, permettetemi di presentarvi a questa modesta compagnia di amici che siamo riusciti a metter assieme per svagarci un po’. Mia sorella sarà qui a breve, non temete.- gli disse il giovane conte con fare amichevole, prima di dare inizio ai vari convenevoli: venne presentato a tutti i presenti e più di un paio di occhi si accesero di bramosia nel sentirlo definire “amico di Friederieke”: ecco il prossimo pettegolezzo che avrebbe rallegrato la corte danese.
Per un istante si dolse di ciò che stava facendo a quella povera ragazza, gettandola in pasto alle malelingue che sicuramente le avrebbero infangato la reputazione e cosa vi era di più pericoloso di una reputazione rovinata per una donna tanto giovane e di una certa levatura sociale? Ma non ebbe che pochi istanti per rimuginarci sopra, prima che venisse investito da una serie di nomi, titoli, professioni e alberi genealogici: vi erano Christian e Gottlob Kaas, due ragazzotti ben piantati –parecchio lontani dall’immagine raffinata di Ludvig con quelle spalle larghe, le braccia grosse e le mani grandi come badili- figli di un nobile locale di rango inferiore rispetto ai Frydendahl, ma che, stando a quanto gli aveva spiegato Iedike il giorno prima, era dotato di grande accortezza e di uno spiccato talento per la gestione della propria tenuta e di una moglie che aveva fatto dell’economia e della parsimonia una ragione di vita, tanto da essere diventato in breve tempo uno dei maggiori creditori del conte Ludvig.
Gli furono poi introdotte Louise Hvide, anch’essa figlia di un nobile locale e sua cugina Vilhelmina Hansen. Le due ragazze non si assomigliavano minimamente –una era minuta, rossa e civettuola; l’altra alta, bionda e parecchio sgraziata- ed era palese che Louise dominasse la cugina in tutto e per tutto, dato che questa le stava due passi dietro e pareva essere un’ombra sbiadita, più che una persona vera e propria. “Ve lo dico per il vostro bene, ché voi non conoscete i lupi travestiti da agnelli che attorniano la mia famiglia: Louise è simile a Sophia, solo che a differenza di mia cugina è povera in canna: il padre era… be’, un debosciato.” aveva detto la contessina Friederieke quando, il giorno prima, aveva deciso di istruirlo in vista del ballo. Dopo aver pronunciato quella parola con evidente disprezzo, aveva storto la bocca “So che sta male parlare così dei morti e non dovrei farlo, ma è vero: ha dilapidato il proprio patrimonio per vivere come il più immorale dei pascià dell’Oriente e quando egli e sua moglie sono morti prematuramente –si mormora che abbia preso un brutto male da una delle sue maîtresse, se capite quel che voglio dire e che l’abbia trasmesso a sua moglie-, la figlia –be’… la sola figlia legittima, per lo meno-, è andata a vivere con gli zii materni. La sorella di sua madre ha sposato un mercante –fu un gran scandalo, ne parlano tuttora- ed evidentemente fece bene i suoi calcoli, perché suo marito ha avuto successo e vende stoffe preziose a tutti quelli che contano qualcosa a corte, quindi il denaro agli Hansen non manca… purtroppo mancava loro un’erede degna di tale nome: il loro unico figlio maschio è morto di morbillo quand’era un infante e Vilhelmina è sempre stata una ragazzina goffa e timida. Immaginatevi quanto siano impazziti di gioia quando han preso con sé una ragazzetta graziosa, compita, scioccarella e ruffiana come Louise. Povera Vilhelmina, la odia con tutta sé stessa, ma non può dir niente, ché i suoi genitori le preferiscono la cugina e si dice che l’abbiano scelta come loro erede, lasciando alla figlia solo una misera rendita…
Il turbine di visi, riverenze ed inchini si concluse con Hans Ulrik Astrup e Andreas Wenner, i due gentiluomini che stavano discorrendo con la baronessa Maria: il primo, un uomo sulla trentina dai tratti fini e uno sguardo sveglio, era uno dei tanti creditori del conte Frydendahl –un brav’uomo, secondo Iedike, che però lo mal sopportava perché già una volta l’aveva chiesta in moglie al conte, il quale aveva però declinato l’offerta estremamente vantaggiosa vista la tenera età della sua figlioletta, all’epoca nemmeno quattordicenne-, mentre il secondo, un ragazzotto di belle speranze e d’aspetto piacevole che gli doveva essere maggiore di un paio di anni, prestava servizio nell’esercito danese come ufficiale ed era amico di Ludvig –nonché compagno abituale di battute di caccia, sia alla volpe che a donne sposate-.
Nel giro di qualche istante i gruppi si riformarono ed Albafica venne dolcemente sequestrato da Sophia, Christina e Louise –Vilhelmina sembrava più che altro vittima, al pari suo, della volontà delle altre tre ragazze-, ansiose di saperne di più sui suoi viaggi, sulle stoffe preziose e sulle storie buffe che sicuramente avrebbe avuto da raccontare sui suoi clienti. Ancora una volta chiese ad Atena di benedire Jens e Iedike, che molto previdentemente gli avevano scritto qualche aneddoto da spacciar per vero, alla condizione di mascherare, “per decenza, s’intende”, l’identità di una tal signora delle Fiandre, di un certo messere tedesco o di un tal mercante turco: le buffe storielle inventate dai suoi due alleati mandarono in visibilio le fanciulle.
Mentre raccontava la storia di un mercante di seta cinese –“che ho sentito da un mio caro amico che l’ha sentita a sua volta da un certo italiano con cui fa affari, il quale non si sa bene da chi l’abbia sentita, ma garantisce che sia vera” si premurò di specificare, ringraziando Jens e i suoi pellegrinaggi-, padre Hans fece la sua entrata, che però passò quasi sotto silenzio, sia per la compostezza dell’uomo, sia perché in capo a qualche secondo il conte e Iedike apparvero.
La fanciulla ammiccò e Albafica restò senza fiato.

 

 
 
 


 
Lettori, lettrici, ave a voi.
Speravate che ci fosse il ballo, vero? Ed invece nada. Ma ho un’ottima spiegazione, giuro.
Prima di tutto mi scuso per il ritardo, ma questo capitolo ed il seguente si stanno rivelando belli tosti da scrivere… c’è un manuale di storia dei balli del Settecento? Non avevo idea che descrivere un ballo potesse essere così complesso D:
Che dire? Questo è sicuramente un capitolo pieno di feels, almeno da parte di Albafica –ma pure Jens non scherza- e spero non sia risultato troppo pesante.
In più è entrata in scena la degna compare di Sophia, ma, per la vostra gioia, vi assicuro che si eclisserà in fretta… mentre chissà se Hans Ulrik potrebbe rivelarsi un problema per la copertura di Albafica? Oppure sono io che adoro mettervi in allarme per niente? Chissà.
Tornando alle cose serie, vi aspetto per il prossimo capitolo –sì, questa volta il ballo ci sarà-, che pubblicherò negli ultimi giorni di ottobre –università permettendo, visto che finalmente inizio anche io <3 Yeeeh-.
Alla prossima, con Albuccio fulminato e Iedike amiccante.
Beth

P.S.: purtroppo, dopo una vita senza usare NVU, non mi ricordo come si usa -non che prima fossi molto capace-, ergo se il carattere dovesse essere troppo piccolo o troppo grande, mi scuso.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1257192