The Snape Trilogy

di Delirious Rose
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Electricity ***
Capitolo 2: *** L'orsacchiotto di pezza ***
Capitolo 3: *** Fratelli ***



Capitolo 1
*** Electricity ***


.: Electricity :.



La donna camminava a passo spedito per le sale di marmo, il suo passo era leggero e lo scialle ondeggiava dietro di lei. La precedeva un bambino di quattro o cinque anni, che correva e si nascondeva dietro ogni tenda di broccato color cobalto, sotto ogni tavolo di legno intarsiato.
“Severus Gareth Snape, smettila di fare i capricci!” esclamò la madre, mani ai fianchi, quando riuscì a raggiungere suo figlio.
“Non voglio fare il bagno!” rispose il bambino, stringendo la tenda e pestando i piedini. “Non voglio, non voglio e non voglio.”
La donna roteò gli occhi e strinse le labbra, cercando di assumere l’espressione più irata di cui fosse capace. 
Ma Lilike Snape era incapace di provare rabbia per più di dieci minuti, ed era una specie di sacrilegio vedere quei lineamenti contratti dalla furia, perciò prese fra le braccia suo figlio e mormorò con voce delicata. “Sev, il tuo papà verrà a cena, questa sera, sarebbe triste se sapesse che non sei un bravo bambino.”
Severus tirò su col naso, e rispose con voce lamentosa. “Però il papà a me non mi vuole bene…”
Lilike sentì come una fitta al cuore, ascoltando le parole di suo figlio: fece un sorriso forzato e posò un bacio sulla sommità del capo del bambino. 
“Non dire sciocchezze, Sev: certo che il papà ti vuole bene, è solo che…” esitò un attimo, mentre portava il bambino nella stanza da bagno. “È solo che lui ha tante preoccupazioni, e poi non è solo dicendo ti voglio bene che si dimostra a qualcuno il proprio affetto.”
Severus non rispose, appoggiò il capo sulla spalla della madre e prese ad attorcigliare un ricciolo nero attorno al dito indice.
Lilike strinse a sé il bambino, cercando di cacciar via un pensiero inopportuno. Che vuoi di più dalla vita? Bisbigliò una voce sottile sottile nella sua mente, Hai una casa e degli elfi domestici che tuo fratello t’invidia, abiti e gioielli che fanno diventar verde le tue ex compagne di scuola ed un bambino meraviglioso. Perché sei triste, perché ti senti insoddisfatta della vita da regina che conduci?
“Mamma, mammina, facciamo il bagno insieme?” chiese il bambino alzando gli occhi sul viso della madre.
Con un battito di ciglia, Lilike cancellò la tristezza dal viso e rispose di sì con un sorriso, quindi iniziò a spogliare il bambino, e dopo essersi avvolta i capelli in un asciugamano di lino, entrò con lui nell’enorme vasca. Ridendo, Severus iniziò a soffiare sulla schiuma, candidi fiocchi simili a neve s’alzarono e poi ricaddero. Lilike dovette faticare non poco per convincere il bambino a star fermo e a lasciarsi lavare, ma l’operazione si tramutò in un’impresa impossibile quando la saponetta finì nelle sue mani.
“Il sapone vuole scappare!” esclamò Severus, non appena la saponetta schizzò dalle sue mani.
“Sev, non correre o scivolerai,” l’ammonì la madre, non appena il bambino uscì dalla vasca per recuperare il pezzo di sapone.
Ma il bimbo era sordo a quelle parole e rincorreva la saponetta, che pareva davvero aver vita propria, poiché ogni volta che Severus l’afferrava, questa scivolava dalle sue manine. E Severus rideva, promettendo alla madre che presto le avrebbe riportato il sapone monello che non voleva lavarli; ma come Lilike aveva previsto, Severus scivolò su una chiazza d’acqua e cadde, battendo sonoramente il sederino sul pavimento. Sembrava che il bimbo fosse sul punto di scoppiare in lacrime, ma guardò basito sua madre, sbattendo le palpebre un paio di volte e rise: anche Lilike sorrise, contagiata dall’allegria di suo figlio.



Your daughter.. she's a dancer
Living in Buenos Aires
Sleeping on a mattress on the floor
Yes, sleeping on a mattress on the floor
Did you ever ask her how she feels?
Did you ever ask her if she feels?
Electricity through her body
That one thing that can make one happy
Like electricity through a body


Canticchiando con voce delicata, Lilike strinse il nastro di velluto scuro che raccoglieva i capelli di Severus in un piccolo codino, e quindi fece voltare il bambino e gli aggiustò il colletto della giacca. Severus fece una smorfia: non amava mettersi in ghingheri, soprattutto per una visita che, molto probabilmente sarebbe stata rimandata all’ultimo minuto per l’ennesima volta.
Quando ebbe terminato di vestire il bambino, Lilike lo prese per mano ed andarono nel salotto, dove avrebbero atteso il suo arrivo. Mentre percorreva i corridoi adorni di specchi e quadri preziosi, Lilike non poteva fare a meno di provare un sentimento simile al panico: a che servivano quelle enormi sale e quegli immensi corridoi se in fondo mancavano della cosa più importante? Sapeva che doveva esser grata, che doveva essere felice di quello che aveva, eppure c’era sempre delle parole che la tormentavano giorno e notte, ed erano quelle parole che le impedivano di godere appieno della felicità che molti le invidiavano.
Mantenuta, sei solo una mantenuta, la voce di sua madre le rimbombava attorno. Visto che sei un’incapace, ti sei risolta a fare la puttana? Faceva eco la voce di suo padre, carica di disgusto.
Non è vero, non è vero! Il cuore di Lilike urlava, cercando di sopraffare quelle voci. Solo perché lui non è libero, solo perché un’altra è sua moglie, non significa che uno qualsiasi possa prendere il suo posto nella mia vita! Non significa affatto che siano sufficienti un paio di galeoni per avere il mio amore! Preferirei mille volte vivere con lui in un tugurio che la solitudine di questa casa!
“Mamma? Mamma, perché piangi, ti fa male la pancia?” chiese Severus, fissando gli occhi neri come il carbone su quelli tanto simili della madre.
“Solo un po’, Sev, ma non ti preoccupare, ora mi è passato,” mentì la donna sforzandosi di sorridere.
Ecco, la felicità che Lilike Snape mostrava al mondo era solo un’illusione, una maschera di vetro fragile che si sarebbe spezzata quando lui si sarebbe stancato e si sarebbe trovato un’altra amante. 
Perché è questo che accadrà, sorellina, si stancherà di te e ti caccerà da quella bella casa a calci in culo, la voce di Sagremor Snape era come sempre cinica e beffarda. 
La donna scosse appena la testa, per cacciare via quel pensiero. Era fin troppo cosciente della reale precarietà della sua condizione, ma questo non significava che suo figlio dovesse pagarne le spese.
La pendola batteva lo scorrere del tempo, e Severus era nervoso: lo era sempre, quando una visita del padre era imminente. Lilike amava pensare che quel nervosismo fosse dovuto alla naturale frenesia di un bimbo che aspetta il ritorno dell’amato genitore, ma la realtà era ben diversa: Severus aveva paura, temeva quelle visite quasi quanto sua madre temeva… quella visita.
Con un rumore secco, simile ad un ramo che si spezza, un uomo avvolto in un mantello scuro apparve nel bel mezzo del salotto.
“Ben arrivato Arthur, ti stavamo aspettando,” Lilike lo accolse con il frizzante entusiasmo di una giovane sposa. 
L’uomo rispose con un grugnito annoiato, consegnando in malo modo il mantello ad un elfo domestico. Era un uomo sottile e ossuto, dal fare nervoso e lo stesso naso aquilino, che pareva essere l’unico tratto ereditato da Severus.
Nascondendo il nervosismo dietro una maschera di freschezza, Lilike annunciò che, data l’aria dolce, avrebbero cenato sul patio: una volta a tavola prese a parlare vivacemente di come Severus fosse un bambino precoce, dell’autunno che tardava ad arrivare, di come le sarebbe piaciuto tornare a danzare, ma che, davvero, non se la sentiva di lasciare il bambino ad una witch-sitter. E chiedeva, chiedeva su come andassero gli affari, se l’altra continuava a bombardarlo con le sue paturnie. Ma soprattutto Lilike chiedeva se avrebbe ripreso a frequentare la casa con la stessa frequenza di un tempo.
“Non ho alcuna intenzione d’ascoltare le tue, di paturnie,” rispose seccato Arthur. “Dovresti essere riconoscente che sono riuscito a trovare un buco fra i miei impegni per venire!”
Lilike si morse il labbro inferiore e abbassò gli occhi; Severus, seduto alla sua destra, fissava la madre un po’ preoccupato. 
Non ci fu molta conversazione, dopo quel rimprovero, e subito dopo il dessert Severus augurò la buonanotte al padre ed attese che la madre lo accompagnasse nella sua camera. Lilike prese il bambino per mano, scusandosi con Arthur per la momentanea assenza, ma quando gli passò accanto, lui le afferrò un polso.
“Se è davvero un bambino così precoce, perché non è capace di andare a letto da solo?” chiese con una voce strana, difficile da decifrare.
Lilike lo guardò stupita, sorpresa dall’implicita richiesta di quella provocazione, quindi si chinò su Severus, e baciatogli la fronte, lo affidò ad un elfo domestico.



Your father he's a rich man
And he's got many questions
He always wakes up with you in his head
He always wakes up with you in his head
And did you ever ask him how he feels?
And did you ever ask him if he feels?
That electricity through his body
That one thing that can make one happy
Like electricity through a body
It's that one thing that can make one happy, yeah



Il cuscino era umido: solo quando tutti dormivano e Lilike Snape era sola nella sua stanza, allora e solo allora, si concedeva il lusso di sfogare le lacrime che di giorno si costringeva a sciogliere nel sangue. Ogni centimetro del corpo le doleva e la sua pelle era tutto un ematoma: era sempre stato così, almeno per lei, perché Lilike sapeva che Arthur non avrebbe mai e poi mai alzato la mano su sua moglie, e così toccava a lei subire la furia repressa dell’uomo. Per lo meno Arthur non l’aveva mai picchiata davanti a Severus, almeno per il momento.
Negli ultimi tre anni, Lilike s’era chiesta come aveva fatto lui ad innamorarsi di lei: certo, gli Snape erano una famiglia antica, ma ormai in rovina e decaduta. Sua madre non era neanche una Pureblood, cosa che il marito le rinfacciava spesso. Suo fratello Sagremor era talmente indebitato che non faceva altro che cercare una moglie ricca per scialarne il patrimonio e la dote. Che cosa aveva spinto Arthur, discendente di un mobile ed antico casato, che aveva fatto della purezza del sangue magico il suo vessillo, ad interessarsi ad una ballerina dal sangue non proprio puro, non eccezionalmente bella, non particolarmente raffinata, ma con la dolcezza e la mitezza di cui era priva la moglie? Lilike non era più neanche tanto sicura che lui l’amasse almeno la metà di quanto lei amasse lui.
“Mamma?” la voce di Severus era sottile e piena di timore.
Lilike trasalì a quel richiamo, e presa la bacchetta, nascose i lividi con un incantesimo. “Cosa c’è, Sev, hai fatto un brutto sogno?”
Il bambino annuì, fermo sulla soglia e stringendo il suo coniglietto di stoffa. Lilike gli sorrise, e con un cenno gli disse di andare da lei: il bambino si arrampicò sul grande letto e s’accoccolò affianco alla madre. La giovane strega prese ad accarezzargli i capelli, cantando una nenia a mezza voce: lentamente il bambino si tranquillizzò, confortato dall’abbraccio materno, fino a addormentarsi.

.: ° :.

Severus Gareth Snape, smettila di mangiare la crema, o non ce ne sarà a sufficienza per la torta!” Lilike rimproverò il bambino, corrugando appena la fronte.
Severus le rivolse un largo sorriso al cioccolato e privo di un dente. “E mi metti le violette candite sulla torta?”
Lilike roteò gli occhi, quindi bagnò un tovagliolo e gli ripulì il viso. “Sev, quante volte la mamma deve dirti che un bravo bambino deve essere sempre pulito e ordinato?”
Severus cercò di sfuggire a quella tortura, allontanando le mani della madre e protestando vivacemente. Lilike sorrise: era un bambino ubbidiente e tranquillo, ma quando si trattava di igiene personale, ecco che iniziava a fare i capricci. La madre ripose il tovagliolo sul tavolo e riprese la preparazione della torta: era il compleanno di Severus, e Lilike sperava che, almeno in quell’occasione, Arthur non si dimenticasse di loro.
“Padrona, presto!” esclamò l’elfo domestico, comparendo in cucina. “Il padrone è arrivato con degli ospiti!”
Lilike corrugò la fronte: ospiti? Arthur non aveva mai portato ospiti in quella casa, veniva sempre da solo. Con un brutto presentimento, la donna si sciacquò le mani e si tolse il grembiule, quindi sorrise nervosamente a suo figlio. “Sev, aspettami qui, la mamma tornerà presto.”
“Ma…”
“Niente ma. E non magiare la crema!” concluse, allontanando la ciotola dalla portata del bambino.
Lilike si sentiva un groppo in gola e senza realmente sapere perché, si sentiva gli occhi bruciare di lacrime. Dall’ingresso giungevano delle voci, riconobbe quella di Arthur, che lodava i marmi e la fattura della scalinata che portava ai piani superiori: la donna si fermò un attimo, posando le mani sul viso, inspirò ed espirò profondamente quindi guardò il proprio riflesso in una finestra, s’aggiustò un riccio ribelle che le ricadeva sulla fronte e atteggiò le labbra in un sorriso il più possibile genuino e allegro per accogliere al meglio i nuovi arrivati, ma i suoi occhi tradivano una certa ansia. 
“Certo che l’attuale inquilino ha dei gusti orrendi. Queste tende, ad esempio, sono un pugno in un occhio!”
“Non ti preoccupare, Hilary, potrai cambiarle come preferisci. Anzi, stavo pure pensando di vendere i mobili, almeno recupero un po’ di spese.”
Quelle parole furono come tante stilettate al petto: Lilike s’appoggiò alla parete, chiudendo gli occhi e premendo le nocche della mano contro le labbra. sapeva che sarebbe accaduto, prima o poi, sapeva che suo fratello aveva ragione, ma una cosa era immaginarsi un evento, e viverlo era un altro. Prese dei respiri profondi e schiuse appena la porta che conduceva all’ingresso: era una bella donna, di diciotto o diciannove anni, avvolta in una pelliccia di zibellino dello stesso colore dei suoi capelli, con l’aria altera e vuota di una graziosa bambolina della società bene.
Possibile che Arthur preferiva una donna del genere a lei? Una donna che di certo aveva neanche un cucchiaino di cervello? Che era stato di quelle dolci parole che le diceva quando s’erano conosciuti, su come preferiva una donna non proprio bella, ma con cui fosse piacevole discorrere?
“Merin, accompagna la signora a visitare i piani di sopra,” disse Arthur, rivolto ad un elfo domestico.
Lilike udì i suoi passi sempre più vicini, così come sentiva farsi più vicino il momento che aveva sempre temuto e cercato d’ignorare.
“Oh, buon pomeriggio Lilike,” disse egli affettato. “mi era stato riferito che eri in cucina.”
Ella lo fissò con gli occhi sbarrati, sconvolta dal tono dolorosamente gioioso della sua voce. “Lei… chi è lei?”
Arthur fece spallucce. “Ma come, davvero credevi che non mi sarei mai stancato di te? Ti facevo più intelligente.”
“Ma… non puoi farmi questo! Non puoi fare questo a tuo figlio!”
“Se fosti stata più accorta o più sensata, non avresti questo problema,” rispose egli, rabbuiandosi.
“Un problema? È questo quello che Severus è per te? Un problema è basta?!” esclamò Lilike istericamente. “ma come puoi essere così crudele con un bambino così piccolo! Possibile che non hai a cuore quello che sarà di lui?!”
Con un gesto irato, Arthur l’afferrò per la collottola, soffiandole in viso. “Ho già un erede, e non mi serve un peso in casa.” Poi le sfiorò la guancia in un gesto sadicamente gentile e addolcì la voce. “Suvvia, sei ancora graziosa, a tuo modo, potresti venire a Londra e proporti a Madame Bàthory. Certo non potresti essere tanto… remunerativa come lo saresti stata qualche anno fa, ma avresti di che vivere.”
“Preferisco morire piuttosto che…”
“Cos’è, ti sei tanto abituata ad avere solo un uomo che ti sei convita di non essere una puttana?!” ringhiò egli lasciando andare in malo modo la donna, che andò a sbattere contro il muro.
“Mamma!” esclamò Severus, che dalla soglia della cucina aveva visto tutto. Il bambino corse verso l’uomo e prese a dargli pugni sulla gamba. “Tu, brutto cattivo, hai fatto piangere la mia mamma!” 
Arthur lanciò un’occhiata infastidita al bambino. “E non rompere, razza di moccioso petulante!” esclamò irato, allontanandolo da sé con uno schiaffo.
Lilike si frappose fra padre e figlio, facendo da scudo a questi. “Come hai potuto, è solo un bambino!
“Perché ti comporti così Arthur? Dov’è finito l’uomo gentile che ho conosciuto? Possibile che non-”
l’uomo l’afferrò per la gola, portando il suo viso allo stesso livello del proprio. “Ascoltami attentamente Lilike, ti voglio fuori di qui entro due ore, te e il tuo moccioso,” sibilò Arthur perentorio, e si voltò con un movimento elegante del mantello.



Your daughter is a woman living with her lover
And she's trying to do the best that she can
Yeah she's trying to do the best that she can
And did you ever ask her how she feels?
And did you ever ask her if she feels?
Electricity through her body
That one thing that can make one happy
Like electricity through your body
That one thing that can make you happy
And you don't need to have more, oh no, oh no,
Oh no, you don't need to have more
You don't need to ask for more
You don't need to have more
You don't need to have more 
You don't need to ask for more
You don't need to have more.


La neve fioccava leggera, ricoprendo con una coltre silenziosa la città. Una notte fredda, che invitava a restare in casa, al caldo, eppure una figura solitaria s’aggirava per le strade della città.
Lilike strinse il mantello attorno a suo figlio, cercando di ripararlo il più possibile. E per la prima volta, Lilike non nascondeva le sue lacrime: alla fine quello che aveva sempre paventato era accaduto, e per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare una soluzione. I suoi genitori avevamo più volte manifestato l’opinione che avevano di lei e tornare da loro avrebbe significato un’altra, cocente umiliazione. Sagremor, conoscendolo, avrebbe riso, aggiungendo un bel te lo avevo detto, per poi sbatterle malamente la porta in faccia. Lilike setacciò ogni conoscenza, ogni nome che probabilmente sarebbe stato disposto ad offrirle il suo aiuto, ma o i suoi vecchi amici s’erano allontanati da lei oppure erano persone detestate, che avrebbero goduto della sua disgrazia. Per un attimo, il suggerimento di Arthur di rivolgersi a Madame Bàthory le parve un compromesso ragionevole, ma fu solo un attimo e Lilike si disse che non si sarebbe mai abbassata a tanto.
“Mamma, perché non torniamo a casa?” disse Severus, con la voce impastata di sonno.
La donna si morse il labbro inferiore: come poteva spiegare quello che era accaduto ad un bambino così piccolo? Come poteva spiegare al suo bambino che non aveva più una casa cui tornare, che non aveva più i suoi giochi, nulla di quello che amava? Come poteva spiegarli che suo padre non li voleva più?
“Ush… dormi, tesoro,” fu l’unica cosa che disse, cullandolo appena.
Alzò gli occhi al cielo, cercando una risposta, un senso a quello che era accaduto, ma l’unica risposta che riceveva dal firmamento era neve, leggera, fredda e costante. Trovò riparo sotto un portone e si sedette su un gradino di pietra e chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, era smesso di nevicare ed il cielo biancheggiava: Lilike si sentiva intorpidita e infreddolita, nonostante i numerosi incantesimi riscaldanti che aveva fatto al suo mantello. Con un sospiro passò il bambino sull’altro braccio, che mormorò qualcosa nel sonno.
I primi lavoratori percorrevano le strade deserte, il rumore dei loro passi attutito dalla neve notturna: il porto iniziava ad animarsi, le voci si levavano nell’aria gelata, dando ordini impastati di sonno.
Il Brue scorreva placido, con quel suo meandro a C prima che l’estuario s’aprisse nel Canale di Bristol: un acqua scura, che cantava una nenia dolce e triste che pareva raccogliere tutte le lacrime che Lilike s’era costretta a non versare in quel lustro in cui s’era creduta amata.
“Mamma?” la voce di Severus era impastata di sonno, appena lamentosa.
Lilike pareva non essersi accorta che suo figlio s’era svegliato: continuava a fissare l’acqua che scorreva verso il mare, l’acqua che andava via, lontano da quel luogo che le aveva dato più dolori che gioie. Un passo…
“Mamma…”
Solo un passo, e non ci sarebbero più state lacrime, non ci sarebbero stati più sorrisi falsi. 
Un solo passo, e Lilike Snape non sarebbe più stata costretta a recitare una parte che non era la sua.
Severus si strinse a sua madre, e disse fra il querulo e lo spaventato. “Mamma, non lo voglio fare il bagno…”

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Capitolo 2
*** L'orsacchiotto di pezza ***


Document sans nom

L’orsacchiotto è seduto su uno scaffale, in uno spazio sgombro da libri polverosi. Il pelo è lungo, di un bel marrone caldo; la bocca ricamata è atteggiata ad un sorriso vivace e birichino; gli occhi a bottone paiono vivi e attorno al collo ha un nastro di tartan azzurro e verde pallido.
Accanto all’orsacchiotto, c’è una cornice di legno dorato, con gli angoli decorati da festoni floreali, con un passe-partout color crema con un ovale al centro. E nella foto, ci siamo tutti e due, o meglio, tutti e tre. Sono inginocchiato davanti a te, nelle mani stringo l’orsacchiotto, sorridendo a te e a tua madre, che sta scattando la fotografia. Tu sei seduta sulla sedia a dondolo, ora ridi, ora t’imbronci, ora ti sistemi lo scialle sulle spalle. Lui è lì, nascosto dalla veste che copre la dolce curvatura appena accennata del tuo grembo.
Questo è tutto quello che mi rimane di noi.

La prima volta che ti vidi eri seduta su una seggiola, la luce bianca di un meriggio di gennaio pioveva dalla finestra, illuminando di un alone infuocato i tuoi capelli rossi e fra le mani stringevi una bambola, dondolando le gambe che non toccavano il pavimento.
“Ciao! Io mi chiamo Tia, e tu come ti chiami?”
“Dov’è la mia mamma?”
Facesti spallucce, sporgendo le labbra in avanti. “È nella stanza della nonna, sta dormendo.”
Ti fissai per qualche istante, ammutolito. “Allora portami lì così la sveglio e torniamo a casa.”
“Ma la mia mamma ha detto che dobbiamo stare qui, e che tu devi restare nel letto perché altrimenti ti viene di nuovo la febbre alta alta e il dottore deve farti la puntura.”
Io mi alzai lo stesso dal letto, anche se non riuscivo a stare in piedi: non ricordo come riuscii ad arrivare in quella stanza, però ricordo le candele che fluttuavano attorno al letto, degli adulti di cui non riuscivo a vedere il volto, quello strano silenzio che mi faceva paura. Mia madre era stesa sul baldacchino ed indossava un vestito che non le avevo mai visto addosso: aveva un colorito strano, come se fosse fatta di cera opaca, ed era gonfia come non era mai stata.
“Mamma? Mamma, voglio tornare a casa,” dissi piano. “Mamma, mammina, svegliati!”
La mano di mia madre era così fredda che mi spaventai: ripresi chiamarla, a scuoterla. Svegliati mamma, e torniamo a casa, le ripetevo, ma nel profondo sapevo che mia madre non avrebbe più aperto gli occhi, che non avrei mai più visto il suo sorriso. Era tutto perduto, i suoi abbracci, le sue carezze, i suoi rimproveri. La vita di Lilike Snape era rimasta nel Brue, ed in quel fiume maledetto io avevo perso la cosa più importante.
Degli adulti senza volto e senza nome mi riportarono nella stanza in cui mi ero svegliato, e qualche anno più tardi seppi di come nessuno dei miei parenti si era presentato al funerale di mia madre, di come i tuoi genitori mi avessero avuto in affidamento quando né mio padre né i miei nonni o mio zio vollero prendersi un bastardo in casa.

Fu a Hogwarts che seppi la verità su mio padre, durante il mio primo banchetto in quella scuola. Avevamo appena iniziato a mangiare e Lucius Ares Malfoy, l’Headboy, si stava informando circa i natali dei nuovi Slytherin: chiedeva delle loro famiglie, dei loro antenati, ed io mi sentivo in imbarazzo perché di mio padre sapevo solo… beh, che era mio padre. Non sapevo neanche quale fosse il suo nome di battesimo, perché quelle due parole erano un tabù per me. Così, quando egli posò lo sguardo su di me e disse altero “E tu saresti… ?”
“S-Snape, signore, Severus Snape,” fui capace di mormorare con un fil di voce.
“Ah, sì, il figlio di quella puttana di Lilike Snape,” rispose egli con voce annoiata, e poi increspò le labbra, più simile ad un ghigno cattivo che ad un sorriso. “Sai, sono curioso di sapere che si prova nel guardare il figlio legittimo,” aggiunse facendo cenno verso il tavolo Gryffindor. E fu odio a prima vista.
Te lo dissi il giorno dopo, alla prima lezione che noi Slytherin avevamo con gli Hufflepuff. Mi dicesti di non lasciarmi andare in inutili vendette o ritorsioni. “Ecco, se dimostri d’essere più bravo di lui a scuola, penso che tuo padre ti rivaluterà, Sev,” fu il tuo consiglio, sussurrato nella serra mentre concimavamo le piante.

Scuoto la testa. Non voglio pensare a lui, a quello stupido idiota. A che pro dovrei dedicare un solo pensiero a lui? Avrebbe potuto fare di meglio nella vita se solo avesse sfruttato un po’ di più quel neurone che più o meno gli funzionava! Mi verso un bicchiere di liquore, il sapore amaro ed erbaceo mi brucia la lingua, ma non m’importa perché non mi fa pensare. Ma a quanto pare la mia mente è di tutt’altro avviso, e mani curiose aprono i tiretti dei miei ricordi.

Fu durante le vacanze di Natale del nostro quinto anno che la nostra vita prese quella strada che mi ha portato fin qui, la guerra diventava ogni giorno più furiosa e noi camminavamo sulla lama di un rasoio. Sin da quando eravamo tornati a casa, il comportamento dei tuoi genitori ci parve strano, come se avessero qualcosa in mente e volessero tastare il terreno per sincerarsi che tu ed io avremmo… non so, compreso? Condiviso?
Fatto sta, che l’ultimo giorno delle vacanze si decisero: tuo padre iniziò un discorso su com’ero diventato parte della vostra famiglia e che già da tempo mi considerava quel figlio che il Fato o gli dei non gli avevano concesso. Tirò in ballo il fatto che mia madre non mi aveva lasciato molto e che di certo non avrei avuto nulla una volta che i miei nonni fossero morti; quanto a mio padre, era come se per lui non esistessi. Ci guardammo in faccia, chiedendoci dove tuo padre volesse andare a parare. Tua madre prese in pugno la situazione, e con la sua voce pacata c’espose la conclusione cui erano giunti: data la non idilliaca condizione, poiché nessuna strega rispettabile avrebbe accettato di sposare un… illegittimo, così come nessuna famiglia Pureblood avrebbe accettato una nuora priva di dote –gli Weasley, non erano stati neanche enumerati- la soluzione ideale era che tu ed io ci sposassimo, se lo avessimo voluto anche noi.
Come facemmo a non scoppiare a ridere, non lo so: eravamo come fratello e sorella e stare insieme ci sembrava quasi un incesto! E che dire poi del fatto che ognuno di noi aveva rivolto altrove i propri interessi romantici, anche se entrambi sapevamo di non aver speranza. La cosa che ci dava respiro, era proprio il fatto che non ci volessero obbligare.

I mesi che seguirono, ci videro parlare spesso di quell’argomento e quando avevo saputo che la ragazza che amavo aveva accettato le profferte del ragazzo che odiavo, mi parve che il mondo mi fosse crollato addosso.
“Sev, dovresti pensare alla tua povera fidanzatina, che dovrei essere io, invece che a quella.
“Vedi il lato positivo: noi ci conosciamo da sempre, pensa a Black che la sua futura sposa non l’ha mai vista neanche in fotografia e dubito seriamente che ne sappia il nome!” dicesti quelle parole allegramente, senza alcuna traccia di serietà, giusto per tirarmi su di morale.
“Ma senti da che pulpito viene la predica! Tu che sei completamente persa dietro a quel cerebroleso del mio fratellastro!”
Eri l’unica persona che riuscisse a farmi ridere in quel modo, come se la gioia e la luce facessero parte della mia vita.
Non era così, già dalla metà del nostro sesto anno mi ero pian piano avvicinato all’Oscuro Signore: ne condividevo in parte gli ideali, perché non accettavo il fatto che noi maghi dovevamo vivere nascosti e lasciare che i Muggles facessero il bello ed il cattivo tempo. Le loro stupide guerre, il modo in cui trattavano e ancora trattano questo mondo non possiamo ignorarlo, perché la sostanza stessa di cui è intessuta la magia dipende da cose che per loro non hanno importanza. E poi volevo dimostrare a mio padre d’essere migliore di quello scavezzacollo del mio fratellastro: io ero il suo erede, non quell’idiota che riusciva a passare un esame solo per la sua bella faccia e grazie all’occhio di riguardo che il preside ha per i suoi piccoli ed innocenti Gryffindor. Innocenti un corno.
Mi ricordo benissimo tutti gli scherzi innocenti che mi hanno fatto, ed una volta mancò poco che fossi sbranato da quel maledetto Licantropo. Ah, ma sapevo ben difendermi, io, ero riuscito a trovare ed inventare maledizioni ed incantesimi che mi permettevano di avere delle vendette coi controfiocchi. E questo parve interessare l’Oscuro Signore: tu non approvavi questa mia scelta, Tia, ma nonostante questo non mi esponesti al preside. Sapevi, forse meglio di me, perché avevo deciso di diventare un Death Eater.

Verso la fine del nostro settimo anno, decidemmo di seguire il suggerimento dei tuoi genitori e di sposarci: in fondo l’unica cosa che sarebbe cambiata, era il fatto di dover dormire nello stesso letto. Optammo per la soluzione più economica, in fondo un matrimonio in grande stile era troppo oltre le nostre possibilità.

Severus Gareth Snape Hipatia Pelagia Panayiotopoulos

I nostri nomi sul contratto di nozze mi fanno uno strano effetto, anche se sono passati tutti questi anni.
E come avevamo previsto, c’erano poche differenze fra la nostra vita prima e dopo il matrimonio: tu eri impiegata nel negozio di tuo padre, uno di quei posti troppo Oscuri per Diagon Alley e al tempo stesso inadatti a Knockturn Alley, mentre io avevo trovato un lavoro come Assistente Pozionista allo Jigger Institute, una copertura perfetta per la mia attività di Death Eater. Non potevamo lamentarci, anche se definire la nostra vita perfetta era un’inutile esagerazione.
E tu, con le tue idee così diverse dalle mie, cercavi di convincermi a tirarmi indietro prima che fosse troppo tardi, mentre lavavi dal mio mantello le macchie di sangue. “Sev, credi che in questo modo tu possa dimostrare a tuo padre d’essere migliore del tuo fratellastro? Credi davvero che uccidere sia il modo per metterti in luce ai suoi occhi?”
Non sapevo cosa risponderti, sapevo che il mio fratellastro avesse fatto una scelta opposta alla mia: nostro padre lo approvava, oppure avrebbe preferito che si fosse schierato con l’Oscuro Signore? Non lo sapevo e non potevo neanche andare da lui a chiedere: Tia, Tia, Tia, sei sempre stata così brava a farmi dubitare di me stesso, anche se lo facevi a fin di bene.

Prendo l’orsacchiotto e lo rigiro fra le mani, un sorriso amaro m’increspa le labbra mentre una nuova ondata di ricordi riaffiora nella mia mente.
Mi ero infilato in quel negozio di giocattoli Muggle per far perdere le mie tracce agli Auror: osservavo gli scaffali, come chi cerca un regalo adatto per un bambino, cercando di sembrare il più naturale possibile, fu allora che lo vidi, in mezzo a tanti altri orsacchiotti di pezza. Tu eri rimasta incinta qualche mese prima, e la vista di quell’orsacchiotto col fiocco di tartan celeste e verde pallido mi fece pensare al bambino che sarebbe nato: sarò ancora capace di uccidere, dopo che sarà nato? Mi chiedevo mentre lo stringevo fra le mani.
Tu fosti sorpresa per quel regalo fatto con largo anticipo, e scoppiasti a ridere quando ti dissi dove lo avevo comprato, non potevi credere alle tue orecchie. Presi l’abitudine di sedermi accanto a te, la sera, e di giocare con l’orsacchiotto e con quel bambino che stava crescendo dentro di te: ammetto che era un comportamento stupido e lo sapevo anche allora, ma era un momento di felicità, un attimo di luce che illuminava l’oscurità crescente in cui era piombata la mia vita.

L’Oscuro Signore stava assegnando i compiti ad i vari gruppi di Death Eater: dovevamo far separare gli Auror, in modo da indebolire le difese del Ministero, e se l’attacco fosse riuscito, il potere del Ministro della Magia sarebbe stato irrimediabilmente destabilizzato. Ad un tratto Egli fu interrotto da un elfo domestico, non potevamo udire le parole della creatura, ma doveva essere qualcosa di grave: mille pensieri affollarono la mente d’ogni Death Eater in quel momento, e ci si chiedeva con voci bassissime cosa fosse accaduto. Egli si alzò, camminando verso di noi, poi si fermò davanti a me (mi chiesi cosa potessi aver fatto per scatenare la sua ira) e si chinò, mormorando con voce così bassa che solo io riuscii a capire quello che disse.
“Torna a casa, lei ha più bisogno di te di quanto possa averne io.”
Ero letteralmente basito, eppure quelle parole mi diedero una brutta sensazione.
Tornai a casa di corsa, e lì trovai tuo padre, sconvolto. “Tia s’è sentita male, Eleni l’ha portata a San Mungo. Io ho preferito aspettarti.”
Mi sentii come se qualcosa si fosse rotto dentro di me.
Quando arrivammo a San Mungo, trovammo tua madre piangere in corridoio. “Hippolytus, hanno detto che… che T-Tia ha avuto un distacco della placenta!” singhiozzò ella, nascondendo il viso nel petto di tuo padre, e balbettò frasi sconnesse in greco, la vostra lingua madre.
Io fissavo la porta della stanza, pregando e supplicando ogni divinità conosciuta che i medimaghi potessero aiutare te e il nostro bambino. Poi la porta si aprì, il medimago aveva un’espressione fredda e indecifrabile, non riuscivo a capire quello che provava.
“Mi dispiace, signori, ma per il bambino era già troppo tardi.” Che cosa prova una persona quando viene colpita da un Avada Kedavra? “Quanto alla madre, abbiamo fatto il possibile, ma non le rimane molto da vivere, per cui-” Che cosa prova una persona quando sta per morire?
“Che vuol dire non le rimane molto da vivere?!” urlai, afferrandolo per la collottola. “Esistono pozioni capaci di-”
“Signor Snape, crede che se ci fosse stato un modo per salvare sua moglie, non lo avrei fatto?” mi rispose il medimago con voce pacata liberandosi dalla mia stretta.
Eppure, Tia, i modi c’erano, eccome! Quante pozioni avevo studiato con gli altri dietro ordine dell’Oscuro Signore! Pozioni capaci di riportare alla vita chi era ad un attimo dalla morte! Certo, pozioni oscure e illegali, pozioni che richiedevano ingredienti terribili. Pozioni che non avevamo ancora sperimentato sugli esseri umani. In un primo momento, provai l’impulso di andare nei laboratori e prenderne alcuni campioni: non m’importava di quello che avrebbero detto, non mi importava che Egli mi reputasse un traditore.
“Può parlarle, signor Snape, ma ricordi che sua moglie deve morire tranquilla.”
Avrei fatto in tempo ad andare e tornare con le pozioni? Non lo saprò mai.
Nella stanza aleggiava l’odore del sangue, un odore che conoscevo bene e cui ero abituato, ma che in quel momento mi diede la nausea.
“Sev, guarda, è un maschio,” mi dicesti con una voce sottile sottile mentre stringevi un fagotto. “Sai, ho dovuto insistere per poterlo tenere in braccio almeno una volta, non me lo volevano lasciare.”
Mi sentii un groppo alla gola, mi sembrò d’essere tornato indietro di quindici anni, a quel meriggio di gennaio in cui avevo visto il corpo senza vita di mia madre. La tua pelle era diventata come la sua, i tuoi occhi verdi erano vuoti e spenti, la vita scivolava via da te.
“Certo che sono proprio un’incapace come moglie, non è vero Sev? Non sono neanche capace di avere un bambino…”
“Ce ne saranno altri, Tia,” mentii, e lo sapevamo entrambi.
Non mi rispondesti, ma quando l’infermiera fece per prenderti il bambino, lo stringesti con rinnovata forza. “No, non ancora! Voglio guardarlo ancora un po’…”
Stavo di nuovo per perdere la persona più importante della mia vita, ancora una volta sarei rimasto solo e disperato.
“Sev, vorrei tanto che tu… lasciassi…”
“Sssh… non ti sforzare Tia.”
“Promettimelo, non voglio che… tu sia in… pericolo…”
“Te lo prometto, te lo prometto…”

Dei giorni seguenti ho solo dei ricordi confusi, un vortice di suoni e colori senza senso, come un sogno che non si sa d’aver fatto o meno. Il primo ricordo netto, ero di fronte alle vostre tombe, la primavera attorno a me era insopportabilmente viva e prorompente: ripensavo alla promessa che ti avevo fatto, di voltare le spalle ai Death Eater e tradire l’Oscuro Signore. Egli aveva sempre perseguito i traditori, e Regulus Black ne era la prova. Se lo tradisco, egli mi ucciderà, mi dissi, così avrò mantenuto la promessa che ti ho fatto e potrò raggiungere te ed Eleutherios. Quella sera stessa mandai un gufo ad Albus Dumbledore, la sua risposta non si fece attendere: non mi rimaneva che aspettare la punizione del mio ex padrone.
Perché sono ancora vivo, Tia? Perché sono ancora da questa parte?

Sai Tia, la moglie di un mio collega ha avuto una bambina: non l’ho ancora vista, non voglio vederla, eppure… eppure penso che sia tempo per quest’orsacchiotto di pezza d’avere un compagno di giochi.

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Capitolo 3
*** Fratelli ***


Nota: La tesi che ha ispirato questo breve brano la trovai tempo fa nel luogo supremo del canon potteriano: The Sugar Quill. Rimasi affascinata da questa teoria, anche se non più accettabile dopo HBP.

 

Di che reggimento siete, fratelli?
G. Ungaretti

È strano per chi come me vive di morte, il trovarsi in questo luogo, fra i propri morti.
Ho portato un giglio bianco per mia madre, ed i myosotis che tanto amava: li ho osservati silenziosamente, mentre l’acqua scura del Brue li trascinava via come tanti anni fa aveva fatto con mia madre. Di lei ho solo qualche ricordo, pallido come un sogno, ed il fantasma dei suoi abbracci e della sua voce che mi accompagnava nel sonno.
Sono stato sulla tomba di 'Tia ed Eleuterios, ho osservato quelle croci greche e quei nomi incisi nella pietra. Dell’edera sta crescendo lì dove è sepolta quella che sarebbe dovuta essere la mia famiglia: non è ironico trovare un simbolo di vita in un luogo di morte? Ho sorriso a questo pensiero, un sorriso che s’è sciolto in pianto quando mi si è figurato quella che avrebbe potuto essere la mia vita se loro fossero ancora vivi: ci sarebbero stati altri figli? 'Tia avrebbe continuato a non condividere e a tacere sulla mia scelta? Ed io avrei ugualmente tradito? Non ne ho la più pallida idea e non si vive di se e di forse.
Ed ora sono qui, per un beffardo scherzo del destino, davanti alla tua di tomba, un mero simulacro vuoto innalzato a mo’ d’ipocrite scuse: non abbiamo mai avuto modo di chiamarci fratelli, Sirius. Immagino che, ovunque tu sia, ti stia rivoltando e sia nauseato dal fatto che ti ho chiamato fratello: beh, se proprio te la vuoi prendere con qualcuno, porgi le tue rimostranze a nostro padre e non ritornare in questo mondo per impedirmi di dormire la notte, troverei ugualmente un modo per fartela pagare.
Ti ho odiato dal primo istante in cui ti ho visto, perché non era giusto che uno come te avesse quello che mi era stato negato: perché tu sì ed io no? mi chiedevo mentre ti guardavo fare il cretino a scuola. Avevamo lo stesso sangue, eravamo nati dalla stessa carne e dallo stesso seme, eppure non riuscivo a capire, a districare quella matassa assurda e ingarbugliata dal Fato. Anche tu mi odiavi, ma non per la conscia paura d’essere privato della tua primogenitura (un diritto cui hai rinunciato di tua iniziativa, tra l’altro.) Io sapevo che tu non sapevi, questo mi faceva sentire superiore e al tempo stesso frustrato da quella competizione continua, perché volevo dimostrare a nostro padre che io, io ero il suo degno erede, il suo lascito al mondo e non uno scavezzacollo come te!
Con Regulus è stato un altro paio di maniche e ricordo quella sua smania di compiacere i vostri genitori: nessuno lo considerava più di tanto, c’era sempre qualcuno prima di lui. Lui mi era fratello non solo nella carne, ma anche nel desiderio di riconoscimento e di dimostrare a nostro padre il proprio valore.
Regulus era molto di più di quello che sembrava: tu in lui vedevi solo un ragazzino debole che si lasciava comandare a bacchetta, una spugna che assorbiva avidamente le idee ed i principi che detestavi. Com’eri stupido, Sirius, non ti sei accorto che lui aveva molta più forza e coraggio di te, che sapeva essere tanto astuto da passare per un idiota: io me n’ero accorto, e forse anche l’Oscuro Signore lo sapeva.
Eri così cieco, così inquadrato nei tuoi pregiudizi da Gryffindor, che della nostra Casa vedevi solo il male e della tua solo il bene: non hai idea di quanto risi la prima volta che vidi il “tuo caro e fedele amico” Peter fra i Death Eater! E se penso che eri stato proprio tu a suggerire al tuo compare di fare del Sorcio il suo Secret Keeper… per me quella è stata la massima espressione della tua stupidità, ovviamente dopo il modo idiota in cui sei morto.
Ma non sta bene parlare male dei morti, anche se in vita li si è odiati svisceratamente.
Anche se non si ha avuto la possibilità di chiamarli fratelli.

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