L'uomo Sbagliato

di Niglia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I. ***
Capitolo 2: *** Capitolo II. ***
Capitolo 3: *** Capitolo III. ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV. ***
Capitolo 5: *** Capitolo V. ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI. ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII. ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII. ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX. ***
Capitolo 10: *** Capitolo X. ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI. ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII. ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII. ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV. ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV. ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI. ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII. ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII. ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX. ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX. ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI. ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII. ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII. ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV. ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV. ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI. ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII. ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVIII. ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXIX. ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXX. ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXXI. ***
Capitolo 32: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I. ***


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Capitolo I.









Non so che destino avremo, ma io non ho mai mancato un appuntamento in vita mia.

Se vuoi fuggire, vai. Non ti fermerò. Ma come si dice: non voltarti, perché io sarò lì, a guardarti.
Ti voglio. Comunque vada.


Imprecai in silenzio, stritolando la cinghia della borsa che tenevo sotto il braccio. Non era la prima volta che mi trovavo in quella situazione, giusto? Né sarebbe stata l’ultima. Ma tutte le volte era qualcosa di tragico, perché non si poteva mai sapere quale sarebbe stato il risultato. Fino all’ultimo, c’era la cosiddetta “sorpresina”. Sospirai, rallentando l’andatura.

L’idea di andare a controllare gli esiti non mi entusiasmava granché. Anzi, non mi era mai piaciuta, sin dalle scuole elementari. Eppure, come ogni anno, la mia migliore amica Alessandra mi aveva costretto ad andarci con lei.

Ero passata a prenderla a casa sua, rigorosamente a piedi – per colpa mia: non avevo mai voluto la moto, per quanto mia madre mi avesse pregato di prenderla. Abitando fuori paese, sarei stata molto più autonoma di quanto non fossi, ma io non ne avevo voluto sentire: avevo troppa paura. Ed ora aspettavo con ansia di compiere diciotto anni per poter prendere la patente per la macchina.

Cosa che sarebbe successa esattamente tra un mese.

E questo spiegava parte della mia esitazione nel voler vedere gli esiti: non che mi aspettassi di venire bocciata, oh no, grazie al cielo no. Più che altro temevo di essere rimandata a settembre in qualche materia nella quale ero piuttosto debole, come, senza fare tante storie, matematica. E non volevo proprio trascorrere l’intera estate dei miei diciotto anni a studiare come una disperata per non perdere l’anno!

Anche Alessandra, comunque, temeva per matematica. Non era decisamente il nostro punto forte, ma per fortuna nelle altre materie ce la cavavamo abbastanza.

Mi voltai verso di lei, osservandola attraverso le lenti scure dei miei occhiali. Sembrava l’immagine della tranquillità: un’espressione sorniona sul volto, i capelli ricci e rossicci raccolti in una coda di cavallo e un paio di occhiali da sole come i miei sugli occhi. Sembrava tranquilla, già: ma osservando il modo in cui giocava nervosamente con il ciondolo del suo cellulare decisi che era preoccupata esattamente quanto a me. Ah-ha.

“Nervosa, geme?” Le chiesi, sorridendo maliziosa. Oh già, forse vi starete chiedendo perché quel soprannome. Beh, nulla di top secret: è il diminutivo di “gemellina”, ci chiamiamo così a causa dell’assurda identicità dei nostri caratteri. A qualcuno potrà sembrare imbarazzante, ma in realtà è divertente urlare “geme!” quando usciamo o ci incontriamo in giro e vedere le altre persone che ci fissano stranite!

Ad ogni modo, lei finse di non cogliere la mia provocazione. “Nervosa, io?” replicò, senza guardarmi. “Io ho studiato tutto l’anno, geme, e non ho proprio nulla da temere.”

“Ah si? E allora perché stai tormentando in quel modo quel povero ciondolo?”

Per tutta risposta mi fece la lingua. “Lo sai che la matematica ed io non siamo grandi amiche!”

Risi, scuotendo la testa. Non si smentiva mai.

Una volta arrivate al liceo ci scambiammo un’occhiata nervosa. Dopo esserci strette la mano per infonderci coraggio a vicenda, prendemmo un profondo respiro e varcammo la soglia. Nell’atrio c’era fresco, si stava molto meglio rispetto all’esterno: era la prima volta che mi faceva piacere essere a scuola, pensai con un sorriso.

“Devono averli appesi di là.” Annunciò Alessandra, indicando il corridoio alla nostra destra. Io annuii, seguendola mentre faceva strada. C’era silenzio, e i nostri passi rimbombavano rumorosi per tutto il corridoio.

“Infatti, eccoli.” Dissi, quando arrivammo di fronte ad una parete tappezzata di fogli bianchi. Non c’era nessun’altro oltre a noi, così ci avvicinammo alla bacheca con tutta tranquillità e ci mettemmo alla ricerca della nostra classe.

Finalmente la trovammo: IV° D.

“Sei pronta?” mormorai, evitando fino all’ultimo di scorrere con lo sguardo l’elenco dei nomi.

Lei annuì. “Vai.” Mi disse, come se mi stesse dando il via per una battaglia.

Presi un profondo respiro e poi posai il dito sul foglio, facendolo scorrere lentamente in verticale alla ricerca del mio nome: quelli delle mie compagne di classe si susseguivano velocemente davanti ai miei occhi ma io non li vedevo, troppo in ansia nell’attesa del mio… E poi… Eccolo.

O. Giulia.

Deglutii, dopodiché feci scorrere il dito in orizzontale, alla ricerca della lapidaria parola che avrebbe segnato il destino della mia estate, ignorando momentaneamente i voti scritti… Poi, di nuovo, trattenni il fiato. Promossa.

Chiusi gli occhi, lasciando andare tutto d’un colpo il fiato che avevo trattenuto fino a quel momento. “Promossa!” Esclamai poi, mettendone a parte anche la mia amica.

Lei stava saltellando sul posto, innervosita ed impaziente. “Dai, dai, ora cerca il mio!”

“Si si, un attimo!” Ricominciai a far scorrere il dito sulla pagina, fino a quando trovai quello della mia gemellina. “Eccoti qui, S. Alessandra…”

Lessi il risultato, e subito dopo mi lasciai sfuggire un gemito dispiaciuto. “Oh, Ale… Cavolo…”

“Cosa? Cosa?!” Esclamò, cercando di sbirciare da dietro le mie spalle.

Ma io non glielo feci leggere. “Mi dispiace…” Aggiunsi, triste.

CHE COSA?!” Urlò quasi, spingendomi come una furia da una parte e catapultandosi sopra il foglio degli esiti, cercando freneticamente il suo nome. Lo trovò, lo lesse, e rimase in silenzio per alcuni secondi buoni.

Poi esclamò. “Brutta disgraziata, mi hai fatto prendere un colpo!”

Accanto al suo nome spiccava, teneramente, la parola Promossa.





*




“Beh, andiamo a festeggiare?” Chiesi, dopo essermi asciugata le lacrime delle risate.

Lei mi imitò, con un sorriso che le attraversava il volto da una parte all’altra. “Ci prendiamo un bel gelato con un bicchiere di spumante!”

Sollevai un sopracciglio. “Spumante? Alle dieci del mattino?”

Lei annuì con la testa, ostentando un’aria di superiorità che aveva sempre l’effetto di farmi ridere come una scema. “È sempre l’ora dello spumante.”

Risi di nuovo, prendendola sottobraccio e guidandola verso l’uscita. “Guarda che quelli sono i pavesini!”

“È la stessa cosa.” Disse, scrollando con noncuranza le spalle.

Continuammo a chiacchierare parlando di scemenze e cose senza senso fino a quando non arrivammo in piazza, e ci mettemmo alla ricerca di un bar o una gelateria. Ci sentivamo finalmente più leggere e più tranquille, come se ci fossimo tolte un peso enorme dallo stomaco. Scendemmo nel Corso, un lungo viale alberato le cui fronde ci avrebbero protette dal calore asfissiante di giugno.

“Andiamo da Agnese?” Chiesi, guardando l’orario. Agnese era la proprietaria del Bar Centrale, ma il nome del locale era quasi sconosciuto: la gente lo conosceva con il nome della donna, che lo gestiva insieme a uno stuolo di giovani camerieri che facevano letteralmente impazzire le ragazzine dalle medie in su, come poteva testimoniare anche Alessandra. Lei era infatti perdutamente cotta di Riccardo, un cameriere assurdamente bello, con i capelli lunghi e biondi e un paio di occhi che ricordavano l’ambra. E, cosa più importante di tutte, non era fidanzato.

Perciò, la mia gemellina non replicò quando le proposi quel locale. Anzi, i suoi occhi iniziarono a brillare a metà tra il posseduto e l’entusiasta, dedicandomi uno sguardo che avrebbe fatto impallidire il leone più feroce ed affamato.

“Si, geme, andiamo da Agnese.” Disse, con aria da cospiratrice.

Quando entrammo nel locale venimmo investite dall’aria gelida del condizionatore, che per un attimo ci fece rabbrividire. Salutammo la proprietaria che, come sempre, si trovava dietro al bancone, e ci cercammo un tavolino libero, sedendoci poi nelle poltroncine rotonde intorno ad esso. Alessandra si diede una rapida controllata allo specchio che occupava tutta la parete, sistemandosi i capelli e passandosi una mano leggera sulla faccia. Io alzai gli occhi al cielo.

“Neanche stesse arrivando Brad Pitt…” mormorai, scuotendo la testa.

Lei si voltò e mi fece la lingua. “Ti ho sentito, sai! E comunque, lui è più bello di Brad Pitt.”

Sgranai gli occhi, stupita, ma mi limitai a scrollare le spalle. “I gusti sono gusti…”

Prima che Ale potesse ribattere, un cameriere si avvicinò al nostro tavolino: con grande piacere della mia amica, si trattava proprio del suo Riccardo.

“Ciao, ragazze. Che cosa vi porto?” Esordì, sorridendoci cordiale.

Io presi una coppa di gelato al gusto di cioccolato e tiramisù, mentre Alessandra ne prese uno al gusto di vaniglia e pesca. Riccardo ci fece un altro sorriso e tornò dietro il bancone, preparandoci le nostre ordinazioni.

In quel momento, nel locale fece irruzione un rumoroso gruppo di ragazzi, tutti ben vestiti, con pantaloni blu scuro o neri e camice chiare, come se avessero avuto una divisa. Ridevano e parlavano ad alta voce, ma si capiva che ruotavano tutti intorno ad una ragazzo in particolare, che indossava un paio di pantaloni neri e una camicia bianca a maniche corte e che camminava con un’aria indisponente di superiorità, come se fosse stato il padrone del mondo. Si sedettero nel tavolo vicino alla porta, separati da noi da un altro tavolino vuoto, ed io mi ritrovai a fissarlo a lungo un po’ perché mi dava fastidio il suo atteggiamento, e un po’ perché era incredibilmente bello. Altro che Riccardo! Il giovane cameriere, per quanto fosse di tutto rispetto, non poteva competere.

Il nuovo arrivato aveva morbidi capelli neri, folti ma non troppo lunghi, che teneva costantemente in sensuale disordine passandovi ogni tanto una mano in mezzo, con noncuranza. Gli occhi erano chiari, a quella distanza non riuscivo a vederli bene ma avrei potuto scommettere che fossero verdi, circondati da una cornice di ciglia lunghe e nere. Le spalle erano larghe, e quando era ancora in piedi avevo notato che aveva un fisico asciutto e muscoloso, come se facesse palestra. Il volto aveva dei lineamenti decisi e marcati, che lo rendeva bello in modo selvaggio.

Peccato che non mi piacesse l’aura da bastardo che emanava.

Ero così presa ad osservarlo che non mi accorsi del ritorno di Riccardo.

“Non fissateli troppo, ragazze.” Sussurrò dando le spalle al gruppo, mentre ci distribuiva le due coppe di gelato.

“Perché? Chi sono?” Chiesi, rispettando la sua scelta di parlare a bassa voce.

Lui aggrottò leggermente le sopracciglia. “Vedi quello più alto? Con i capelli neri?” Disse, senza voltarsi. Io annuii: era quello che avevo osservato fino a due minuti prima. “È un Occhi Belli, il più giovane della famiglia… E quelli che sono con lui sono i suoi amici. Non guardateli troppo, ragazze, ignorateli.”

Alessandra annuì, accogliendo come oro colato le parole del ragazzo, mentre io lanciai nuovamente uno sguardo al loro tavolo, incuriosita. Un Occhi Belli, eh? Sapevo di chi si trattava. “Occhi Belli” era il soprannome di una delle famiglie del paese, anzi: era quella più conosciuta nonché benestante, se così si può dire. Il nome derivava dal nonno dell’attuale capo della famiglia, che, presupposi, doveva essere il padre di quel ragazzo; il nonno aveva gli occhi strabici, ed era stato soprannominato scherzosamente in quel modo. Il nome era rimasto, ed ora ogni volta che si pronunciava quel nome tutti sapevano che era meglio parlare a bassa voce o cambiare direttamente discorso.

Perché? Perché erano una famiglia di delinquenti. Non solo gestivano un traffico di droga pesante in tutta la provincia, ma giravano anche delle voci a proposito di un traffico di armi illegale. Da poco mi era capitato di sentire addirittura che la morte di un noto ex assessore – ufficialmente un infarto – era causa loro. Solo voci? Non si sapeva, ma nell’incertezza era comunque meglio tacere.

Purtroppo, però, ignorarli si rivelò essere estremamente difficile.

“Ehi, Riccardo! Perché non vieni a servirci?” Esclamò il figlio degli Occhi Belli, sollevando un braccio in direzione del cameriere e fissandolo con quell’insopportabile aria di arrogante superiorità. Le risate dei suoi compari accompagnarono la sua scortese esclamazione, mentre Riccardo si sforzò di non alzare gli occhi al cielo e si diresse tranquillamente verso di loro.

Con la coda dell’occhio notai che Agnese, da dietro la sua postazione abituale, stava osservando la scena piuttosto preoccupata. Anche Alessandra lo era, e neppure io riuscii ad astenermi dall’osservarli. In quel momento il ragazzo coi capelli neri si accorse del mio sguardo e mi fece l’occhiolino, complice. Ma complice di che cosa?!

Purtroppo arrossii, com’era mio solito, e abbassai lo sguardo sul mio gelato. “Che razza di presuntuoso…” bisbigliai, certa che Ale mi avrebbe sentito.

Lei scosse piano la testa, prima di iniziare a mangiare il gelato ignorando volutamente tutto quello che succedeva a pochi passi da noi. Io la imitai, ma purtroppo non riuscimmo ad evitare di sentire quello che stavano dicendo.

“E così, Riccardo, adesso lavori qui.” Era sempre lui, quel ragazzo. Parlava come se avesse voluto deriderlo per il suo lavoro, ma il nostro cameriere non si lasciò intimidire.

“Esatto, Enrico.” Rispose, solo. E così era quello il suo nome? “Allora, che cosa vuoi ordinare?”

Tuttavia il ragazzo non rispose, continuando il suo discorso. “Quando eri dei nostri non avresti mai osato fare un simile lavoro. Servire ai tavoli come uno schiavo… Se fossi ancora nel gruppo non ti avrei mai permesso di scendere così in basso.”

A quella frase Riccardo non resistette più, e batté con forza il pugno sul tavolo, facendo tremare i bicchieri e zittendo all’istante le risate degli altri ragazzi. Io e Alessandra alzammo stupite la testa, decise a seguire attentamente quello che sarebbe accaduto dopo.

Gli amici di Enrico si erano fatti improvvisamente seri, messi in una posizione che indicava che erano pronti a scattare e mettergli le mani addosso, ma il loro capo fece un cenno con la mano che li riportò “all’ordine”, mentre Riccardo rispondeva.

“Non ti permetto di parlarmi così!” Ringhiò furioso, ignorando il resto del gruppo che lo fissava con astio. “Non ti devo più niente, Enrico, ho chiuso con te e con la vita che fai! E non hai nessun diritto di venire a criticarmi per quello che ho deciso di fare.”

L’altro strinse gli occhi, minaccioso. “Questo non è certo il posto migliore per parlare del tuo passato, vero, Riccardo? Dimentichi che non siamo soli.” Sibilò, senza scomporsi. “Sappi che non rispondo alla tua provocazione solo in ricordo della nostra vecchia amicizia, ma la prossima volta non sarò così generoso. E adesso…” Aggiunse poi, sorridendo con un ghigno sarcastico. “Portaci da bere.”

Riccardo gli diede le spalle, dirigendosi furente verso il bancone, mentre io e Ale ci scambiammo una rapida occhiata stupita e sconvolta. Ma cosa stava succedendo? Grazie al cielo avevamo già finito il nostro gelato, così potevamo andarcene subito prima che l’atmosfera diventasse troppo tesa.

“Vieni, geme, andiamocene.” Mormorai, prendendo la borsa alla ricerca del borsellino.

In quel momento sentii nuovamente la voce di Enrico. “Ehi, Riccardo, pago io per le signorine!”

Io aggrottai le sopracciglia, sollevando di scatto la testa per cercare lo sguardo di Alessandra e capire se si trattava o meno di uno scherzo. Ma lei era arrossita completamente, e questo mi fece capire che, sfortunatamente, non lo era.

“Cosa facciamo, Giuly?” Mormorò, guardandomi.

Io mi alzai, decisa, voltandomi verso il ragazzo e ostentando un sorriso forzato. “Grazie, ma siamo capaci benissimo di pagare da sole il nostro conto.”

Raggiunsi il bancone ignorando i fischi che provenivano da quel tavolo maledetto, deponendo i soldi accanto alla cassa. “Grazie, Riccardo, a presto.”

Poi mi voltai verso Alessandra. “Geme, andiamo?”

Riuscimmo ad uscire a testa alta dal locale, senza più degnare di uno sguardo quei ragazzi. Ma fu solo dopo essere uscite e aver camminato a passo sostenuto per una trentina di metri che riprendemmo a respirare normalmente.

© Disclaimers. I personaggi e la trama di questa storia sono di mia proprietà, dunque sarebbe gradito evitare di copiare o trarre ispirazione da essi. Ogni fatto e/o riferimento a eventi o persone realmente esistenti è da considerarsi puramente casuale.

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Capitolo 2
*** Capitolo II. ***


Eccomi al 2 capitolo!
Innanzitutto un bacio enorme alle mie prime fan, ladyramione, Charlie_me, SweetCherry, Merry NIcEssus e Telli! Grazie per avermi letto e recensito! Non credevo che questa storia avrebbe riscosso tutto questo successo (anche se tecnicamente è un pò presto per parlarne!), perciò è grazie a voi se esiste questo capitolo!
Buona lettura, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!
Smack :*










Capitolo II 











 

 

 

 

 

 

“Allora, per stasera è deciso? Andiamo alla Favola?”

Annuii, prima di ricordarmi che Alessandra non poteva vedermi dall’altro capo del telefono. “Si, certo.” Dissi ad alta voce. “Dobbiamo pur festeggiare, no?”

La sentii ridere, felice. “Certo! L’unica cosa che mi dispiace è che non potremo incontrare Riccardo, perché stasera lavora…”

Non riuscii a trattenere un sospiro, spostando il telefono da un orecchio all’altro. Cavolo, era proprio cotta: come diceva sempre lei, aveva superato da tempo la fase “bava alla bocca”, ed ora si trattava di vero e proprio innamoramento… L’unica cosa che mi interessava davvero era che anche lui nutrisse un minimo di interesse nei suoi confronti. In caso contrario, temetti che mi sarebbe spettato nuovamente il ruolo di Cupido.

Mamma mia.

“Dai, geme, l’abbiamo incontrato stamattina! Non ti basta?” Replicai, gettandomi sul letto a pancia in su e trattenendo uno sbadiglio. Ma come ci sarei arrivata in discoteca? Ero stanchissima, anche quella mattina mi ero svegliata presto per andare al liceo… Magari se avessi bevuto qualcosa mi sarei svegliata. O almeno me lo augurai.

“Bastarmi?? Geme, tu non hai capito che lo sto sognando di notte!” Esclamò; me la immaginai mentre sgranava gli occhi, sconvolta, e scuoteva la testa con fare rassegnato. “E ci tengo a sottolineare che non sono sempre sogni innocenti…”

Questa volta toccò a me ridere. “Credo che tu abbia un irrefrenabile bisogno di sfogare i tuoi ormoni…!”

Sospirò. “Puoi dirlo forte.”

Lanciai lo sguardo all’orologio, controllando l’orario. Si stava facendo tardi. “Beh geme, ora entro in doccia e poi mi preparo… Passo a prenderti a casa con Matteo, okay? Ha detto che ci accompagna lui alla Favola.”

Matteo era il ragazzo che stavo frequentando da circa un mese. Oh beh, “frequentando” è una parola grossa, troppo impegnativa: diciamo che andavamo insieme in discoteca, ma comunque c’era sempre Ale con noi, oltre ad altri due amici, Laura e Federico, che stavano insieme. Quindi, dubito che si potesse definire “frequentare”. Ma a me stava bene così: non avevo bisogno di un ragazzo, in quel momento, né tantomeno di un rapporto serio. Amavo la mia libertà, e perderla non faceva parte delle mie ambizioni future.

Alessandra, comunque, non era della stessa opinione. “Oh-ho, con Matteo, eh?” Riecco il tono da cospiratrice: era un peccato che non potessi vedere i suoi occhi che luccicavano maliziosi.

“Ci sono anche Laura e Fede!” Volli sottolineare, arrossendo leggermente. Ora, voglio specificare che Matteo non era brutto, anzi, piaceva a molte ragazze, ma purtroppo – o per fortuna – io non facevo parte di quelle. Lo trovavo… Un ragazzo superficiale, ecco, troppo attaccato a cose che io non riuscivo a comprendere… Forse sarò anche stata esagerata e troppo pretenziosa nei suoi confronti e mi dispiaceva non poter ricambiare l’interesse che lui nutriva per me, ma certe cose proprio non riuscivo a tollerarle nei ragazzi della sua età. E poi, sono dell’opinione che un rapporto di questo genere non debba mai essere forzato… Altrimenti rischia di avvelenare il sangue e produrre esattamente l’effetto opposto.

“Si si, certo…” Mi accontentò lei, per il momento. Non mi diede il tempo di replicare, che già mi aveva salutato. “A dopo, geme, mi raccomando puntuale!”

E attaccò. Gettai il cellulare sul letto, dove atterrò in mezzo ai cuscini, e dove rimase fino a quando non fui pronta.

Decisi di non mettermi dei vestitini troppo eleganti, anche perché era solo venerdì sera. Così, quando spalancai le ante dell’armadio, afferrai un semplice vestito color porpora, con le bretelline, lungo fino a sopra il ginocchio dove terminava con una delicata sfasatura. I sandali erano invece neri, alti circa 9 centimetri, con dei lacci che si legavano intorno alla caviglia: erano i miei preferiti, e li abbinai ad una borsetta dello stesso colore, regalo di Alessandra.

Dopo aver dato una spazzolata ai capelli, ed averli lasciati sciolti solo con due forcine laterali, afferrai di nuovo il cellulare per mandare un messaggio a Matteo: mi aveva detto di avvisarlo appena fossi pronta, e così feci. Mi rimasero una decina di minuti per dedicarmi al trucco, ma come al solito mi limitai a mettere il mascara sulle ciglia bionde – che odiavo profondamente! – e un leggero filo di lucidalabbra. Giusto per dire di aver usato quei dieci minuti!

In quel momento suonò il citofono.

“Mamma, apri!” Esclamai, affacciandomi alla ringhiera. “Dev’essere Matteo!”

Presi un coprispalle nero e mi precipitai giù dalle scale, in modo da non far perdere tempo ai miei amici. Passai per la cucina per salutare mia madre, schioccandole un bacio sulla guancia.

“Avete intenzione di fare tardi?” Chiese, osservando il mio abbigliamento.

Scrollai le spalle. “Non lo so, mammi. Ora andiamo in pizzeria, la Favola apre verso le undici… Vabbè, tanto ho le chiavi, non c’è bisogno di aspettarmi alzati.”

Lei sorrise. “Stai tranquilla che quando torni starò già dormendo. Divertitevi, e salutami Ale!”

 

Si erano fatte già le undici e mezza quando arrivammo alla Favola. Matteo era il fratello del barista, ed era grazie a lui se potevamo entrare gratuitamente tutte le volte che volevamo. Perciò, non appena fummo dentro ci dirigemmo per prima cosa al bancone, per salutarlo e prendere qualcosa da bere.

“Geme, cavolo, sei pallida!” Esclamò Alessandra, non appena ci sedemmo sugli sgabelli rotondi e imbottiti. “Che cos’ hai? Stai male?”

Scossi la testa, sforzandomi di sorridere. “No, tranquilla. Ho solo un po’ di sonno. Ora bevo qualcosa e mi passa…”

Al sonno si era aggiunto un improvviso mal di testa, e la musica assordante e ripetitiva della discoteca non faceva che peggiorare la mia situazione. Avrei dovuto prendere l’aspirina, ma ormai era troppo tardi. Dovetti solo sperare che mi passasse al più presto.

“Buonasera, ragazze! Che cosa prendete?”

Ci voltammo entrambe verso Giorgio, il barista: la somiglianza con il fratello era incredibile, se non fosse stato per i vari piercing che gli ricoprivano la faccia. Ne aveva uno al sopracciglio, uno al labbro, sulla lingua e nella narice… Ogni volta che lo guardavo mi faceva male. Contento lui!

Sorrisi, indicando il menù appeso alle sue spalle. “Lo sai che amo il Red Heart!”

Rise, annuendo. “Certo, Giuli! E tu, Ale?”

Sorrise anche lei, contagiata dal buonumore di Giorgio. “Un Pink Sweet, grazie.”

“Arrivano!”

Mi guardai un po’ intorno, vedendo che la pista era già gremita di ragazze e ragazzi che si agitavano come pazzi scatenati. Le luci stroboscopiche erano terribili, se le fissavi troppo a lungo rischiavi di vedere solo delle macchie lampeggianti e confuse. Comunque, bastava rimanere voltati verso il bancone per evitare di rimanere abbagliati, anche se così si perdeva la maggior parte del “divertimento”. Tra la folla intravidi Laura e Federico che ballavano seguendo un ritmo tutto loro, che non aveva nulla a che vedere con quello della musica che invadeva il locale. Sembravano essere da soli in mezzo a tutta la gente, come se fossero sospesi in una bolla che li separava dal resto del mondo… Per un attimo mi ritrovai a provare una fitta di invidia nei loro confronti: sarebbe stato bello poter godere di un simile rapporto.

“Comunque, geme, secondo me stai male.”

Mi voltai stupita verso la mia amica, sollevando un sopracciglio. “Ma se ti ho detto che sto bene!”

Alessandra fece una strana smorfia. “Non so, hai uno sguardo strano.” Mi studiò a lungo con un serio cipiglio, prima di aggiungere. “Si, sembri triste… Non vuoi dirmi cos’ hai?”

Scrollai le spalle, sinceramene sorpresa. “Non so cosa dirti… Sono solo stanca. Spiegami perché dovrei essere triste!”

A quel punto Ale incrociò le braccia, seria. “Senti, geme: avevi lo stesso sguardo che ho io quando guardo Riccardo, la stessa espressione di nostalgia o desiderio… E stavi guardando Laura e Federico. Conosco quello sguardo e conosco quelle sensazioni, perché ci sono passata migliaia di volte… Ed ora non venirmi a dire che non è così. Siamo amiche, cavolo, ma se mi impedisci di consolarti o capire cos’ hai allora non ti stai comportando come tale.”

Sgranai gli occhi, stupita. Se quelli erano discorsi da discoteca…

Fortunatamente in quel momento tornò Giorgio con i nostri aperitivi, il che mi diede un po’ di tempo per pensare ad una risposta. Cosa potevo dirle? Mi ero appena autoconvinta del fatto di non aver bisogno di un ragazzo perché amavo troppo la mia libertà, e poi invece mi ritrovavo a fissare con invidia i miei due amici fidanzati… Non era normale, e non sapevo spiegarmelo!

Quando rimanemmo nuovamente da sole, sospirai. “Geme, sinceramente non so cosa dirti… Ci sono delle volte in cui desidero ardentemente avere un ragazzo da abbracciare e che mi stringa forte a sé, mentre altre volte… Amo così tanto la mia indipendenza che quasi compatisco le ragazze come Laura che non vivono che per il proprio fidanzato…!” Tacqui, bevendo un sorso del mio Red Heart: il sapore del succo d’arancio misto a bitter e martini rosso mi invase la bocca, scivolando in gola come un nettare rinfrescante. “Temo che oggi sia invece una di quelle volte in cui vorrei avere un ragazzo…” Terminai con un sussurro.

Alessandra rimase in silenzio, senza sapere cosa rispondere. Fu una fortuna che tornasse Matteo a quel punto, scotendoci dal nostro cupo torpore.

“Giuli, vieni a ballare?” Chiese, poggiando un bicchiere da birra sul bancone.

Ballare? Quell’oscura parola proprio non faceva parte del mio vocabolario! Scossi la testa, alleggerendo il mio rifiuto con un sorriso. “Matte, forse non hai visto le scarpe che mi ritrovo! Vai con geme, che oggi ha i tacchi bassi.”

Matteo aggrottò le sopracciglia, scuotendo la testa. “Non capirò mai la passione di voi ragazze per i tacchi alti!” Esclamò, rassegnato. Si passò una mano tra i corti capelli castani, prima di voltarsi verso Ale. “Vieni a ballare almeno tu? Non lasciatemi solo!”

Ridemmo entrambe, mentre Ale scendeva dallo sgabello e gli batteva una mano sulla spalla, comprensiva. “Povero Matte, solo soletto!”

Rimasi da sola, mentre i miei amici raggiungevano la pista e iniziavano a ballare – o meglio, a dimenarsi – arrivando accanto a Laura e Federico con la chiara intenzione di interrompere il loro romantico chiacchierare. Diedi nuovamente le spalle a quella scena, voltandomi verso il bancone e prendendo un altro sorso del mio aperitivo.

Tra un mese avrei compiuto 18 anni. Ed eccomi qui, una vecchia diciassettenne che non è capace di divertirsi nemmeno in discoteca, con i suoi amici… Ma perché dovevo sempre rovinarmi da sola le serate? Che bisogno c’era di fare determinate riflessioni nei momenti più insoliti e impensati? Amavo farmi del male, a quanto pareva…

Chiusi gli occhi, portandomi una mano alla testa e massaggiandomi le tempie. Riecco il mal di testa: si, direi proprio che è stata una magnifica serata!

“Ciao.”

Aprii di nuovo gli occhi, stupita. Chi era quello che mi aveva salutato? Non conoscevo la voce, non apparteneva sicuramente a nessuno dei miei amici, così fui costretta a voltare la testa verso destra per controllare. Per poco non caddi dallo sgabello.

Era il ragazzo di quella mattina. Enrico Occhi Belli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 3
*** Capitolo III. ***


Ringraziamenti!!!
Ed eccomi arrivata al 3 capitolo!
Beh, non credo che l'avrei mai scritto senza di voi, perciò GRAZIE!
Grazie di avermi seguito e di avermi commentato, e soprattutto grazie per avermi messa tra le preferite... sono davvero commossa :.)
Un grazie a Alebluerose91 (la mia geme!!), bella95, checcaaaa_ , Cherasade, fallsofarc, Irza93, ladydramione, Merry NIcEssus, nisha_7, SweetCherry, Veronica91, nimi_chan e chany41!
Spero di non deludervi con questo capitolo, fatemi sapere!
Buona lettura!
Bacioooo :*










 

 

Capitolo III






  

“Ciao.”

Aprii di nuovo gli occhi, stupita. Chi era quello che mi aveva salutato? Non conoscevo la voce, non apparteneva sicuramente a nessuno dei miei amici, così fui costretta a voltare la testa verso destra per controllare. Per poco non caddi dallo sgabello.

Era il ragazzo di quella mattina. Enrico Occhi Belli.

Beh, in effetti i suoi occhi erano davvero splendidi, verdi come il mare più profondo e cristallino: ma che cosa ci faceva lì? E perché mi aveva rivolto la parola?

Oh, cavolo… Forse avevo fatto male a rispondergli, al bar…

“Ciao…” Risposi, titubante. Perché era solo? Che fine avevano fatto i suoi compari? Mi sembrava proprio strano che un individuo come lui gironzolasse da solo. A meno che, non fosse un lupo solitario… In effetti, in quel momento aveva proprio l’aria del predatore.

“Come mai sei da sola? Non c’è la tua amica?” Chiese malizioso, come se fosse stato contento di trovarmi senza i miei amici.

Mi ritrovai a fissarlo come se fossi stata incantata. Indossava una camicia nera a maniche lunghe, strette ai polsi, il cui soffice tessuto ricordava molto la seta, e un paio di jeans dello stesso colore. Il colletto della camicia era aperto, mettendo in mostra la sua pelle abbronzata e senza alcuna imperfezione: al collo portava una collanina dal filo nero dal quale pendeva una piccola croce di oro bianco. Non avevo mai visto un ragazzo che portasse un girocollo simile.

Si sedette sullo sgabello che era stato di Alessandra, poggiando un gomito sul ripiano in marmo del bancone e fissandomi come se avesse voluto perforarmi. Distolsi lo sguardo da lui, puntandolo sulle file allineate di bicchieri che riempivano la parete del bar di fronte a me. Ma cosa accidenti voleva?

“Non credo che ti riguardi.” Replicai, cercando di mantenere un tono calmo e disinvolto mentre bevevo un altro sorso dell’aperitivo. Avevo bisogno di tenermi impegnata.

Decise di cambiare discorso – o forse tattica – visto che dovette accorgersi del fatto che mi stavo innervosendo. Prima di rivolgermi nuovamente la parola, però, si fece portare lo stesso aperitivo che avevo ordinato io, un Red Heart. Cosa credeva di fare?

Giorgio si avvicinò quasi subito e glielo porse, lanciandogli un’occhiataccia che avrebbe intimidito chiunque. Chiunque tranne lui, evidentemente; ad ogni modo mi sentii più tranquilla. La presenza di Giorgio, per quanto lontana, era abbastanza rassicurante.

“Mi permetterai di offrirti da bere almeno stasera?” Domandò, cercando di essere gentile.

Come se lo avesse sentito, il barista tornò con una scusa accanto a noi. “Per la signorina offre la casa!” Esclamò, facendomi l’occhiolino e porgendomi un nuovo bicchiere di Red Heart, visto che dal nervoso avevo bevuto il mio tutto d’un fiato.

Riuscii a sorridergli, mimando un Grazie con le labbra. Eppure, malgrado stessi facendo tutto quello che era in mio potere per ignorarlo, Enrico sembrava non volersi arrendere.

“Ti do fastidio, eh?”

A quel punto non riuscii a impedirmi di sbuffare, e mi voltai verso di lui, irritata. “Esatto!” esclamai. “Ma non hai niente di meglio da fare che rimanere qui?”

Il suo sorriso mi abbagliò per un istante, facendomi battere un paio di volte le palpebre: anche se vedevo che si stava chiaramente divertendo non potei fare a meno di notare quanto fosse bello. Aveva la stessa aria presuntuosa che avevo visto in alcune statue greche, come se fosse consapevole della sua bellezza e del suo potere da rendere arrogante ogni minimo gesto che faceva. Come quando prese il bicchiere dell’aperitivo per portarselo alle labbra, bevendo senza mai staccare gli occhi da me. Era davvero imbarazzante.

“Credo che tu sia la sola cosa interessante, stanotte.” Mormorò, passandosi la punta della lingua sulle labbra umide di drink.

Ovviamente arrossii come una bambina colta con le mani nella marmellata, riuscendo a fare concorrenza anche al mio vestito. Fu in quel momento che mi ricordai della scollatura assai poco castigata che rivelava invece parecchio delle mie forme: le mie guance ormai ardevano, ma se non altro riuscii ad incrociare con disinvoltura le braccia sul petto scambiandolo per un gesto di irritazione.

“Forse non hai visto le ragazze che ballano sulla pista.” Replicai, lanciando uno sguardo in mezzo al locale. Stavo osservando con malcelata disperazione la folla alla ricerca dei miei amici, o almeno di Alessandra, ma con quelle luci e con tutto quel dimenarsi furioso di corpi era praticamente impossibile.

“Oh, si che le ho viste.” Rispose; mi accorsi in ritardo che, approfittando della mia distrazione, si era avvicinato un po’ troppo a me. “Ma a me interessi solo tu.”

Adesso si che era riuscito a sorprendermi! Guardandolo in viso temetti quasi che stesse parlando sul serio, ma nel dubbio era meglio non lasciare spazio a fraintendimenti. Bevvi un sorso dal mio bicchiere, poi mi schiarii la voce. “Credo proprio che tu abbia sbagliato ragazza, sai.” Replicai, senza celare il disgusto che quel ragazzo mi ispirava ogni momento di più. “E, anche se questo non ti riguarda, sappi che sono già impegnata.”

Lo vidi sgranare impercettibilmente gli occhi, mentre un’ombra strana gli attraversò come un fulmine minaccioso lo sguardo. “Ma davvero?” Disse; sembrava arrabbiato, ma con quale diritto!

“Davvero.” Ripetei. Mentalmente continuavo a pregare che Matteo o qualcun altro apparisse all’improvviso per salvarmi e portarmi via, ma più scrutavo la folla e meno vedevo qualche volto familiare. Accidenti, se solo fossi andata a ballare…!

“Uhm.”

Mi voltai di nuovo verso di lui, ormai sull’orlo dell’esasperazione. Calma Giulia, pensavo nel frattempo, non alzare le mani, respira… Ormai stavo stritolando la mia borsetta, cercando di resistere alla tentazione di mollargli uno schiaffo. Sapevo che tecnicamente non mi stava facendo niente, ma era bello ed era stronzo, e queste, a mio avviso, sono due delle caratteristiche che giustificano il gesto più estremo!

“Perché ho l’impressione che tu non ci creda?” Chiesi, mostrandogli un sorriso irrisorio: volevo che capisse che anch’io ero in grado di prendermi gioco di lui, se solo volevo.

Tuttavia lui doveva essere più pratico di me in quel gioco, perché il sorriso che mi rivolse mi fece saettare un brivido lungo la schiena, facendomi deglutire nervosamente. Odiavo il fatto di sentirmi così in disagio, non riuscivo a tenergli testa.

“Semplicemente, dubito che se tu fossi davvero impegnata rimarresti qui, da sola, al bar. Il tuo ragazzo non può essere tanto stupido da lasciare una bella ragazza come te del tutto incustodita.”

Rimasi semplicemente a bocca aperta: okay, qui stavamo davvero sforando tutti i paletti della normalità. Senza che lui mi vedesse mi diedi un pizzicotto, strizzandomi la pelle del dorso della mano; sfortunatamente il dolore mi confermò che non si trattava di un sogno, ma della pura e triste realtà. Anche perché, voglio dire, in quale sogno avrei mai potuto sognare uno come lui?

Grazie al cielo, qualcuno dovette aver ascoltato alla fine le mie preghiere silenziose, perché dalla folla arrivarono all’improvviso Matteo e Alessandra, accaldati ed euforici. Il loro entusiasmo però svanì non appena videro il ragazzo che mi teneva compagnia, come se avessero premuto un interruttore. Ale mi rivolse uno sguardo preoccupato, mentre vidi che Matteo si stava arrabbiando.

“Beh, Giulia, mi sembra che tu abbia trovato compagnia.” Esordì il mio amico, non appena ebbe raggiunto il bancone. Perché la sua voce era così… gelida?

Non seppi cosa rispondere, e dopotutto non ne ebbi nemmeno l’opportunità, perché fu Enrico a rispondere per me. “Allora era vero.” Disse, rivolgendomi un fugace sorriso. Poi si rivolse verso Matteo, ma questa volta anche la sua voce era fredda e dura. “Fossi in te, serberei con gelosia una ragazza come lei, e starei molto attento a non lasciarla da sola… Visto che non vuoi che qualcun altro le si avvicini. Ma poi, se questo avviene, non prendertela con lei.”

Matteo gli si avvicinò, minaccioso, con uno sguardo che non gli avevo mai visto: okay, eravamo amici, ma mi sembrava che la sua reazione fosse esagerata! Certo, tutti conoscevamo Enrico e la sua famiglia almeno di fama, e quasi tutti avevamo le stesse opinioni su di loro… Ma da qui ad arrabbiarsi se mi trovava mentre parlavo con un altro ragazzo – che per puro caso era Enrico – ce ne passava…!

“Razza di bastardo, non osare dirmi come mi devo comportare!”

Sgranai gli occhi all’esclamazione furente di Matteo. Okay: avevo appurato che il suo comportamento era esagerato. Ma non mi sembrava il caso di farglielo presente davanti al “nemico”, anche perché mi serviva che Enrico credesse che io fossi già fidanzata. Da quel punto di vista il mio amico mi stava dando una mano, e io stavo cercando di convincermi di quello… Ma dall’altra mi stava decisamente facendo innervosire, e fu solo perché Alessandra mi stava stringendo comprensiva una spalla che non diedi un bello schiaffo ad entrambi. Ma chi si credevano di essere? Parlavano di me come se non fossi presente!

Avrei dovuto chiarire le cose con Matteo al più presto.

Tuttavia, al momento avevo altro di cui preoccuparmi.

All’insulto del mio amico, il volto di Enrico aveva assunto un’espressione tale che, malgrado non fossi più da sola con lui, mi fece rabbrividire. Era spaventoso, avrei potuto giurare che in quel momento avrebbe voluto colpire o uccidere Matteo… I suoi occhi ardevano, tremendi.

Scivolò con grazia giù dallo sgabello, in modo da trovarsi di fronte a Matteo: era più alto di lui almeno di una decina di centimetri, e la sua terribile imponenza fece scemare leggermente la furia ingiustificata dell’altro ragazzo. Senza neppure sollevare un dito l’aveva fatto indietreggiare di un paio di passi.

“Ringrazia che non siamo da soli.” Sibilò soltanto, stringendo gli occhi a due fessure. “Ma la prossima volta che ci incontreremo fai in modo di non essere tu da solo, e forse non ti farò troppo male.”

Vidi Matteo deglutire, ed io trattenni involontariamente il fiato. Poi Enrico si voltò verso di me, e la sua espressione sembrò essersi trasformata.

“Piacere di averti conosciuto, Giulia.” Disse, dolcemente. Ma come poteva essere così dolce la sua voce, dopo la minaccia che aveva appena fatto? “Ci vediamo presto.”

Ci diede le spalle e, in pochi secondi, sparì in mezzo alla folla senza lasciare nessuna traccia dietro di sé. Certo, a parte l’espressione sconvolta di Matteo e quella senza parole di Alessandra.

Quanto a me…

Non lo conoscevo, e non avevo nessunissima intenzione di farlo. Se mai ci fosse stato un altro incontro, avrei finto di non conoscerlo e avrei girato la testa da un’altra parte.

Non volevo avere nulla a che fare con i delinquenti come lui. Ma dopotutto, se l’avessi ignorato lui avrebbe presto lasciato perdere…

In quel momento, inaspettatamente, mi tornò in mente un documentario che avevo visto tempo prima alla televisione; parlava del comportamento di animali come i leoni, che cacciavano le loro prede senza mai arrendersi, fino a sfiancarle e poi colpirle. Alla fine, i loro sforzi venivano sempre premiati. Sarei stata io la preda di Enrico?

Mio Dio, mi augurai proprio di no.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV. ***


Ringraziamenti!
Ciao ragazze! Perdonatemi il ritardo nello postare questo capitolo, ma sono stata occupata e non ho potuto dedicarmi come volevo al proseguimento di questa storia. Spero come sempre di non deludervi! Tengo molto a ringraziare nimi_chan, ladyramione, la mia geme xD, silvietta_in love 4ever, SweetCherry, Merry NIcEssus e tutte coloro che mi hanno aggiunta tra le preferite e le seguite, vi ringrazio tantissimo di dedicarmi il vostro tempo, non so come farei senza di voi!
Beh, ho scoperto che vi siete quasi tutte innamorate di Enrico! xD tecnicamente doveva essere il "cattivo" della situazione, ma vedo che per ora ha riscosso parecchi consensi! Non nascondo che anch'io ho un debole per lui u.u Chissà che cosa ne penserete di questo capitolo, spero comunque che me lo farete sapere :)
Bene, mi sembra di essermi dilungata anche troppo!
Buona lettura e a presto!
Baciooo :*














Capitolo IV







 

 

 

 

 

Ero al mare con Alessandra e Laura quando mi squillò all’improvviso il cellulare.

In genere non mi cercava mai nessuno quando ero con loro – a parte mia madre – ma visto che eravamo da sole per una giornata interamente femminile, senza i ragazzi tra i piedi, per intenderci, poteva essere uno di loro che sentiva la nostra mancanza. Forse Federico, visto che il telefono della sua ragazza era scarico.

Invece era un messaggio di Matteo.

Stupita mi misi a sedere, schermandomi gli occhi con la mano e iniziando a leggerlo.

Ciao, Giulia…Sono Matte. Volevo scusarmi per quello che è successo l’altra sera. Non dovevo comportarmi in quel modo… Ammetto di aver esagerato.

Sollevai un sopracciglio: ma pensa, il grande eroe era pentito. Mi prudevano ancora le mani per quello che era successo quando mi aveva riaccompagnata a casa, dopo la serata in discoteca, perché si era comportato in un modo che davvero non mi sarei mai aspettata.

Baciata. Mi aveva baciata.

E con prepotenza, anche. Era successo prima che scendessi dalla sua auto, eravamo da soli e mi aveva afferrato il polso con forza, attirandomi verso di lui. Le sue labbra erano calate sulle mie senza che potessi fare nulla per impedirlo, e mi era rimasto attaccato come se fossi stata l’unica fonte di ossigeno presente in quel momento. Ero rimasta talmente sconvolta dal suo gesto da restare immobile come una statua, chiudendo gli occhi non per il piacere, ma nell’attesa che si stancasse e mi lasciasse andare.

Quando poi lo fece, l’avevo guardato con un’espressione talmente disgustata che era arrossito, imbarazzato e colpevole, e aveva cercato di parlare per giustificarsi.

“Cosa ti prende?” Avevo sibilato, furiosa. Non so che cosa mi aveva trattenuto dal colpirlo.

Lui si era passato una mano tra i capelli, distogliendo lo sguardo da me. “Non ho sopportato il modo in cui ti guardava…” Aveva mormorato, riferendosi chiaramente ad Enrico.

“E allora hai pensato di baciarmi?!” La mia rabbia stava davvero crescendo.

Matteo sollevò di nuovo lo sguardo su di me, allungando le mani per sfiorarmi ma ritraendole subito nel vedere la mia espressione poco amichevole. “Giulia, credevo che tu conoscessi i miei sentimenti… Insomma… Tu… Tu mi piaci…”

Aggrottai le sopracciglia, afferrando la maniglia dello sportello. “Proprio un pessimo modo di dimostrarlo.” Poi lo spalancai e uscii fuori prima che potesse fermarmi, correndo dentro casa.

Da allora non gli avevo più rivolto la parola.

Ma evidentemente non aveva resistito troppo, perché questo era successo solo tre giorni prima e lui mi aveva già mandato un messaggio. Un tempismo davvero perfetto, pensai.

Non sapevo che cosa fare. Che cosa avrei dovuto rispondergli? Che avevo già dimenticato, che non portavo rancore, amici come prima? Non era quello che pensavo, il ricordo di quel bacio bruciava ancora troppo ed era difficile da dimenticare. Non che mi fosse piaciuto: semplicemente, non potevo scordare il modo in cui si era imposto, baciandomi con forza e obbligandomi ad assecondarlo.

E poi… C’era un’altra cosa che mi faceva disperare…

Ogni volta che ripensavo al bacio di Matteo e alle sue complicazioni – perché questo avrebbe senza dubbio rovinato il rapporto tra noi e all’interno del gruppo – il ricordo nitido del suo viso si sostituiva a quello di un altro ragazzo.

Perché Enrico si insinuava in quel modo nella mia mente? Era perché mi avevano scioccata le sue parole? Si trattava di una scusa debole e patetica, ma non riuscivo a giustificarlo con altro. Quando Matteo mi aveva baciato non avevo provato niente di niente, nessun brivido, nessun calore, se non lo stupore e il ribrezzo che il suo gesto mi aveva provocato: nulla a che vedere con quello di cui era capace Enrico con un solo sguardo.

Beh, Enrico è davvero molto bello… Cercai di obiettare, giustificandomi. Matteo non può competere, ed è ovvio che non è suo pari neanche in esperienza.

Tuttavia, già il fatto che stessi mettendo a confronto il mio amico, che conoscevo ormai da un paio di mesi, con un completo sconosciuto, avrebbe dovuto farmi riflettere. Okay, che leggessi troppi libri era risaputo: ma da qui a inventarsi storie strane sulla mia, di vita!

Con un sospiro chiusi il telefono senza rispondere, ritirandolo nuovamente in borsa. Volevo parlarne con Alessandra, prima, per vedere che cosa poteva consigliarmi… Avevo raccontato solo a lei quello che era successo l’altra sera, ed era superfluo dire che si era arrabbiata almeno quanto me. Mi aveva detto di lasciarlo sbollire per un po’, e la mia intenzione era proprio quella, ma non pensavo che lui prendesse l’iniziativa e mi cercasse di nuovo.

Mi alzai, sciogliendomi i capelli ed entrando in acqua: era l’unico modo per andare a parlare subito con la mia amica, visto che io ero l’unica ad essere rimasta a crogiolarmi al sole sugli scogli. Purtroppo l’acqua era gelida e mi sfuggì una poco gentile imprecazione, così avanzai in punta di piedi nell’acqua che mi arrivava a metà gamba e che diventava man mano più profonda, ma io mi ostinavo a non tuffarmi. Grazie al cielo non si erano spinte molto lontano, e le raggiunsi prima che l’acqua diventasse troppo alta.

“Geme! Laura!” Le chiamai, agitando un braccio mezzo intirizzito dal freddo.

Loro si voltarono quasi contemporaneamente, e quando videro che ero abbastanza restia a bagnarmi si scambiarono uno sguardo complice che non mi piacque per niente, prima di tuffarsi e raggiungermi sott’acqua.

Se provano a schizzarmi le picchio, fu l’unica cosa che pensai mentre le osservavo preoccupata.

Ad ogni modo la loro intenzione era proprio quella. Sempre senza emergere nuotarono fino ad arrivare vicino alle mie gambe, e prima che potessi spostarmi saltarono fuori dall’acqua e iniziarono a gettarmi addosso tutta quella che potevano. Lanciai un grido di spavento – malgrado tutto non me l’aspettavo! – e mi immersi tutta d’un colpo per sottrarmi alla loro tortura.

Quando tornai in superficie le sentii ridere, e inevitabilmente mi unii a loro.

“La prossima volta state attente perché vi ricambierò il favore!” Esclamai, cercando di sembrare minacciosa. Ma loro risero ancora di più.

Ripensai fugacemente al messaggio di Matteo, ma decisi subito di lasciar perdere. Ne avrei parlato con Alessandra in un altro momento, quando saremmo state da sole e quando avevo voglia di farmi del male: per ora ne avevo abbastanza, e volevo solo divertirmi.

 

 

Trascorsero solo altri due giorni prima che avessi nuovamente notizie di Matteo.

Era mattina, e mi ero appena svegliata quando Alessandra mi aveva telefonato: già dal suo tono di voce preoccupato avevo intuito che c’era qualcosa che non andava.

“Cos’è successo?” Chiesi, iniziando seriamente a preoccuparmi anch’io.

La sentii deglutire. “È per Matteo… Mi ha appena mandato un messaggio Laura…”

“Allora?” La esortai.

“Lo hanno picchiato.”

Rimasi per un attimo in silenzio, stupita, lasciando che quella notizia si impossessasse di me. Lo avevano picchiato? Perché? Matteo non era un ragazzo che andava in cerca di rogne: era un po’ montato, e forse qualche volta aveva esagerato nel fare dei “complimenti” poco carini, ma non credevo che questo bastasse per venire picchiati!

“Ma… Perché? E quando è successo?” Continuai, preoccupata. Okay, avevo intenzione di non rivolgergli più la parola, ma davanti a determinati avvenimenti chiunque si deve ricredere, e lui era comunque un mio amico.

“Non lo so, geme…!” Replicò Alessandra, ansiosa. “Ti ho chiamato perché volevo chiederti di venire con me a casa sua, per vedere come sta… Devono andare anche Laura e Federico…”

Annuii, prima di ricordarmi che lei non poteva vedermi. “Certo, è naturale. Mi faccio accompagnare a casa tua e ci andiamo! Aspettami.”

Circa mezz’ora dopo eravamo tutti e quattro seduti nel soggiorno della casa del nostro amico, aspettando che la madre tornasse per farci salire da lui. Io ero rimasta in piedi: ero troppo agitata per stare tranquillamente seduta, malgrado le richieste dei miei amici.

“Matteo si è vestito, potete salire.” Ci annunciò la madre con voce triste, ricomparendo all’improvviso dalla ringhiera delle scale e facendoci sobbalzare. Io fui la prima ad arrivare in camera sua, e quando lo vidi in quelle condizioni dimenticai immediatamente il motivo per il quale avevo intenzione di tenergli il broncio.

Era disteso sopra il materasso, con un braccio piegato dietro la testa e una mano che reggeva una borsa per il giaccio che teneva premuta sul lato destro del viso. Indossava una tuta da ginnastica che si era messo probabilmente in fretta e furia per accoglierci, e l’espressione del suo volto era davvero sofferente. Era ovvio che doveva essergli successo qualcosa di brutto.

Eppure, quando si accorse di me girò la faccia da un’altra parte, come per evitare di guardarmi negli occhi. Non compresi il suo gesto.

“Matte!” Esclamai, raggiungendolo accanto al letto e ignorando il fatto che lui si fosse messo seduto per non rimanere sdraiato accanto a me. “Che cosa ti è successo?”

Fece una smorfia strana prima di rispondermi freddamente. “Beh, non lo vedi? Me le hanno date di santa ragione.”

“Ma chi? Perché?” Insistei, ben decisa a non lasciarmi intimidire dal suo tono. Capivo che stava male e soffriva, ma non sopportavo che se la prendesse con me. Non ero io quella che l’aveva picchiato, accidenti, anche se l’avrebbe meritato anche da parte mia!

Ad ogni modo continuò a non rispondermi, almeno fino a quando non ci raggiunsero anche gli altri. A quel punto mi sedetti da una parte, nella sedia della scrivania, incrociando le braccia e attendendo che svuotasse il sacco con i suoi veri amici. Che bello, mi stavo innervosendo…!

Federico si sedette sul letto, e gli fece la mia identica domanda. “Allora, Matte? Che cosa ti è successo?”

L’altro si tolse la borsa del ghiaccio dalla faccia, strappando un gemito alle mie amiche e non riuscendo a nascondere un mezzo sorrisetto compiaciuto. Ma guardalo, evidentemente gli faceva piacere essere al centro dell’attenzione, circondato da ragazze che si occupavano di lui! Aveva messo in mostra un occhio completamente nero, che stava iniziando a diventare violaceo nei bordi, mentre il resto del volto era tumefatto come un frutto maturo caduto dall’albero e pestato con forza. Chiunque fosse stato a fargli quello non doveva averlo molto in simpatia.

“È successo ieri notte, prima che andassi alla Favola a prendere Giorgio.” Esordì, socchiudendo gli occhi. “Stavo andando a recuperare la macchina, e nel parcheggio della vecchia stazione era quasi tutto buio, c’erano solo pochi lampioni… Ero solo, e loro mi hanno circondato. Quei bastardi si sono messi a ridere, dopo avermi tagliato ogni via d’uscita, e a quel punto il capo si è fatto avanti venendo verso di me, con le braccia incrociate…”

Dio mio, pensai, non riuscendo a trattenermi dall’alzare gli occhi al cielo. Dacci un taglio, Matte. Raccontare la storia in questo modo non ti farà passare per un eroe.

Tuttavia sembrava che lui non volesse perdersi quel momento di gloria. “Si è messo a ridere anche lui, mentre gli altri alle sue spalle chiudevano il cerchio. ‘Ci incontriamo di nuovo, Matteo.’ Ha mormorato, con una voce incredibilmente cattiva. ‘Ti sei già dimenticato che cosa ti avevo detto? Beh, io ti avevo messo in guardia…’ Poi ha fatto un gesto con la mano a due dei suoi amici, che sono scattati in avanti e mi hanno afferrato alle braccia, in modo da tenermi fermo. Si è avvicinato ancora, e in quel momento l’ho visto… ‘Spero che questo ti serva di lezione per la prossima volta.’ Ha aggiunto.”

Sospirò, massaggiandosi la testa con le mani. “Beh, il resto potete immaginarlo… Non mi ricordo come sono riuscito ad entrare in macchina e a tornare a casa… Però grazie al cielo ce l’ho fatta.”

Federico imprecò ad alta voce, furioso. “Ma chi cazzo erano questi?” Esclamò, guardando in faccia l’amico.

Matteo chiuse un secondo gli occhi, prima di rispondere, e quando aprì la bocca mi sporsi leggermente in avanti, perché temevo di aver capito chi fosse stato, malgrado la mia parte razionale cercasse di trovare un’altra risposta.

Che però non era quella che speravo.

“Era il tipo che abbiamo incontrato qualche giorno fa in discoteca.” Disse, lanciandomi un’occhiata di sottecchi. “Occhi Belli.”

Non riuscii nemmeno io a trattenere un’imprecazione.

 

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V. ***


Aggiornamento rapido! xD
Vi ringrazio tantissimo per le recensioni, nonchè per la lista delle preferite e delle seguite che diventa ogni giorno più lunga... Purtroppo adesso il tempo mi sfugge per ringrarvi una per una, ma prometto che recupererò con il prossimo aggiornamento! Spero che anche questo nuovo capitolo - scritto piuttosto di getto - sia di vostro gradimento, e spero anche che me lo facciate sapere :)
Un bacio enorme a voi che mi seguite, non so cosa farei senza il vostro appoggio!
Buona lettura!
Ciao ciaoooo :*
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Capitolo V 












 

“Non riesco a credere che l’abbia fatto davvero.”

Alessandra scrollò le spalle, mentre io incrociavo le braccia e mi sedevo sulla prima panchina libera. Quella mattina ero rimasta seriamente sconvolta nel venire a conoscenza del nome di colui che aveva ridotto in quello stato uno dei miei amici.

Non credevo che Enrico sarebbe stato capace di attuare la minaccia che gli aveva fatto in discoteca, anche perché non era nata da nulla di serio. O almeno questo era quello che credevo.

Stranamente mi sentivo un po’ in colpa per quello che era successo a Matteo, anche se non sapevo bene perché avrei dovuto. Non l’avevo certo picchiato io, eppure avevo la sensazione che se non avessi parlato con Enrico, quella sera alla Favola, questo non sarebbe successo. Ad ogni modo non volevo avere più nulla a che fare con quella storia, e non credevo di dovermi intromettere più di tanto. Matteo era mio amico, ma evidentemente non aveva più intenzione di rivolgermi la parola, e in quel caso non l’avrei fatto neppure io. Avevo già troppi problemi.

“Tutto il paese sa che gli Occhi Belli non sono degli individui proprio… raccomandabili, ecco.” Replicò Alessandra, con cautela. Beh, aveva ragione.

“Lo so, ma perché picchiare Matteo?” Continuai, facendole cenno di sedersi vicino a me. “È un’idiozia se l’ha fatto solo per ‘tener fede’ alla sua minaccia.”

Sollevò un sopracciglio, guardandomi incuriosita. “Credi che ci sia dell’altro?”

“Non lo credo, ne sono decisamente convinta!” Ribattei. “Solo che non so che cosa possa essere questo altro… Tu non hai nessuna idea?”

“Beh…” Iniziò lei, leggermente titubante.

Tacque, e io sbuffai. “Geme, parla chiaro.”

Sospirò, guardandomi in modo piuttosto strano. “Non pensi che… ecco… In mezzo ci sia tu?”

Aggrottai le sopracciglia, confusa. “Cioè?”

“E se… Se Occhi Belli fosse in qualche modo geloso di Matteo?”

Sgranai gli occhi, a bocca aperta. “Ma stai scherzando? Perché dovrebbe essere geloso?”

Ale incrociò a sua volta le braccia, sporgendosi verso di me. “Hai visto come ti guardava in discoteca? Sembrava che ti volesse mangiare! E poi è arrivato Matteo a fare il ragazzo geloso e lo ha insultato… Non credi che questo sia abbastanza normale?” Concluse, mimando le virgolette sulle ultime due parole.

Non sapevo che cosa dirle: crederle era impossibile! “Io e Matteo non stiamo insieme!”

“Lo so, ma forse Occhi Belli ha capito il contrario.” Mi guardò interrogativa, poi, visto che io mi ostinavo a non rispondere, aggiunse. “Oppure sei tu che glielo hai fatto capire…”

Inevitabilmente arrossii, distogliendo lo sguardo da lei. “Okay, va bene, gli ho detto di essere già fidanzata, e quando è arrivato Matteo non l’ho contraddetto… Ma geme, mi serviva che lui lo credesse, perché non mi piaceva come mi si stava rivolgendo! E comunque, è stato uno stronzo ad averlo picchiato per questo.”

Mi alzai dalla panchina, subito imitata dalla mia amica. “Dai, facciamoci un giro…”

Continuammo a discutere a lungo di quello, anche se avremmo avuto tutta la notte per farlo. L’idea era infatti di mangiarci una pizza e raggiungere poi Laura e Federico a casa di quest’ultimo, per vederci un film tutti insieme. Poi Ale mi aveva invitato ad andare a dormire a casa sua, quindi sarei stata tranquilla anche per l’orario di rientro.

Dopo essere andate via dalla pizzeria, ci incamminammo verso casa di Federico, prendendo delle stradine poco trafficate per fare prima. Tuttavia non si dimostrò essere una buona idea.

“Geme, ho l’impressione che qualcuno ci stia seguendo.” Mormorò Alessandra, tirandomi la manica della felpa. “Non girarti, ma secondo me sono un paio di ragazzi.”

Deglutii. “Facciamo finta di niente e non accelerare… Vediamo un po’ se ce l’hanno proprio con noi.”

Sempre senza voltarci seguitammo a camminare, ma i passi di quelli che ci seguivano si stavano facendo sempre più vicini, e alla fine, spaventate, non resistemmo più e ci mettemmo a correre. Fu la cosa peggiore da fare: gli sconosciuti ci imitarono e corsero così in fretta da riuscire quasi a raggiungerci, sennonché noi riuscimmo ad arrivare all’angolo della strada per poi voltare a destra e sparire in un’altra viuzza laterale.

“Li abbiamo seminati?” Ansimò Alessandra, poggiandosi al muro e cercando di riprendere fiato dopo la corsa.

Scrollai le spalle. “Non lo so.” Mormorai.

In quel momento dal buio della via sbucarono i due ragazzi di prima, che ci raggiunsero in due rapide falcate e ci imprigionarono contro il muro per impedirci di fuggire. Da un’altra parte ne apparvero altri due, ed io ebbi la tremenda visione di quello che avevano fatto a Matteo, e iniziai a tremare temendo che anche noi saremmo potute finire così, se non addirittura… peggio.

E urlare non sarebbe servito.

“Calme, ragazze, se vi comportate bene nessuna di voi si farà male…” Disse uno di loro, facendosi avanti e permettendoci di vederlo in faccia alla luce della luna.

Trattenni a stento un’imprecazione, quando lo riconobbi: era uno dei compari di Enrico, uno di quelli che erano al bar con lui quando l’avevo visto per la prima volta!

Provai a divincolarmi, ma sfortunatamente quello che mi stringeva i polsi era il doppio di me e non riuscii nemmeno ad allontanarmi dal suo petto di pochi centimetri. Lanciando uno sguardo ad Alessandra mi accorsi che lei non se la stava cavando meglio di me, ma se non altro entrambe stavamo riuscendo perfettamente a mantenere la calma e non piangere.

“Cosa accidenti volete da noi?” Esclamò a quel punto Alessandra, stupendomi. Dove aveva trovato il coraggio di aprire bocca e parlare? Le rivolsi un sorriso grato di sincera ammirazione che fui certa che lei vide.

“Da te niente, tesoro.” Rispose il tipo che aveva già parlato prima, sorridendole malizioso. “Non è te che siamo venuti a prendere, ma la tua amica. E tu,” aggiunse, voltandosi verso di me. “Ci seguirai senza fare tante storie.”

Sgranai gli occhi, sentendomi le guance andare in fiamme dalla rabbia. “Non credo proprio! Non sono così stupida da venire con voi solo perché è quello che volete! Lasciateci andare!”

Gli altri ragazzi erano immersi nel silenzio più totale, e quella era una cosa che mi terrorizzava molto più della prospettiva di dover essere trascinata chissà dove. Sembrava che stessero tramando qualcosa, e proprio non mi piaceva… Deglutii quando poi sentii sul collo il respiro caldo del tipo che mi teneva stretta a sé per non farmi scappare. Che cosa avevano intenzione di fare? Mio Dio!

Come se si fosse accorto di quel gesto, però, il ragazzo che stava parlando si avvicinò a me per dare uno spintone a quello che avevo alle spalle, staccandomi da lui ma prendendo lui stesso il possesso dei miei polsi. Bene…

“Cosa stai facendo, idiota?” Esclamò, arrabbiato. “Non devi toccarla! Dobbiamo solo prenderla e portarla dal capo, niente di più!”

“Non rompere, Stefano, non le ho fatto niente!” Replicò quell’altro, incrociando nervoso e irritato le braccia. “È solo che ha un bell’odore…”

Il modo in cui mormorò quell’ultima frase mi fece rabbrividire, disgustata, ringraziando mentalmente il Cielo di essermi allontanata da lui. Scoccai una rapida occhiata alla mia amica e vidi che anche lei, come me, non aveva per niente apprezzato l’uscita di quel tipo.

“Non voglio sentirti dire altre cazzate, Lorenzo.” Lo ammonì, minaccioso, il ragazzo chiamato Stefano. “Non penso che al capo farebbe piacere sapere quello che hai detto della ragazza…”

“Non provare a minacciarmi! Non sei tu il capo!” Replicò ancora l’altro, stringendo le mani a pugno ed avanzando verso di noi. Stefano mi spostò dietro la sua schiena, in modo da togliermi dalla visuale dell’amico che stava iniziando ad agitarsi un po’ troppo.

“No, è vero.” Rispose, con voce pacata. “Però mi sembra che Enrico vi abbia detto di darmi ascolto e fare quello che vi dico in questa occasione, e se non sbaglio tu non stai obbedendo.”

Sgranai nuovamente gli occhi, cercando Alessandra con lo sguardo. Ero convinta che quel nome ci avesse fatto rabbrividire entrambe. Mio Dio, ancora lui! Ma allora era una persecuzione! Prima picchiava Matteo, e poi mandava i suoi amici a perseguitare me e la mia amica… Che cosa dovevamo fare? O, meglio, che cosa noi avevamo fatto a lui? Davvero non riuscivo a capire perché si stesse accanendo contro di noi.

Lorenzo imprecò a bassa voce, incrociando nuovamente le braccia. “Fai quello che vuoi! Non me ne frega niente, purché finiamo in fretta. Avrei fame, sai.”

“La macchina sta arrivando.” Annunciò uno dei ragazzi alle spalle di Stefano, subito dopo aver concluso una breve telefonata.

Lui annuì, sollevato. “Bene. Francesco, accompagna la ragazza il più vicino possibile alla piazzetta, ma fai in modo che non ti veda nessuno…” Il ragazzo che teneva Alessandra annuì, ma prima che se ne andasse con la mia amica Stefano richiamò la sua attenzione. “Quanto a te, tesoro, ti conviene non parlare con nessuno di quello che è successo stasera. Fosse per me ti porterei con noi, per restare più tranquilli, ma Enrico ha detto esplicitamente di prendere solo Giulia. Perciò stai attenta a quello che dici.”

Alessandra era spaventata e mi guardò ancora una volta, prima di venire portata via da Francesco. Quando i nostri sguardi si incrociarono, riuscii a mimarle con le labbra una parola che lei doveva per forza comprendere, altrimenti non avrei avuto nessuna speranza di uscire da quel pasticcio.

Ringraziai il Cielo quando la vidi illuminarsi, nello comprendere quello che stavo chiedendo. Poi il ragazzo la voltò, trascinandola via, e in breve sparì dalla mia vista, lasciandomi completamente da sola in mezzo a tutti quei ragazzi. Non ebbi neppure il tempo di spaventarmi, perché Stefano mi fece voltare dalla parte opposta della strada, seppur con gentilezza, invitandomi a precederlo per tenermi sotto controllo.

Quando raggiungemmo la fine di quella via poco illuminata trovammo ad aspettarci una Picasso nuova, di un colore nero metallizzato, parcheggiata con i fari spenti come per passare inosservata. Infatti, esclusa la luce che proveniva dall’interno, sarebbe stato uguale anche se non ci fosse stata.

Il ragazzo che aveva fatto la telefonata salì davanti, accanto al guidatore, mentre Stefano mi fece salire dietro, ed io mi trovai circondata da lui e da Lorenzo, stretta nei sedili posteriori.

“Andiamo.” Disse Stefano al ragazzo che stava al volante, controllando fuori dal finestrino che non ci fosse nessuno. Ma chi ci poteva mai essere? Eravamo in una zona pressoché disabitata, e leggermente malfamata… Chi poteva mai accorgersi del mio rapimento e venire a riportarmi a casa? L’unico ragazzo per il quale contavo qualcosa aveva deciso di non parlarmi più, e la mia amica probabilmente era ancora in compagnia di quel tipo… Nessuno sarebbe arrivato in tempo.

Deglutii, lasciando alla fine che le lacrime scorressero sulle mie guance, implacabili.

Temevo di essere davvero finita nella tana del leone.

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 6
*** Capitolo VI. ***


Et voilà, eccomi qua!
Nuovo aggiornamento :) Ragazze, vi ringrazio immensamente per i vostri complimenti, mi fate arrossire e non sto scherzando! Mi fa piacere che la storia vi piaccia, e mi fa ancora più piacere che vi piaccia la mia scrittura!! Wao :.)
Bene, ringrazio coloro che hanno messo la mia storia tra le preferite (un baciooo!!), tra le seguite (smack :*), e ovviamente ringrazio SweetCherry, Merry NIcEssus, silvietta_in love 4ever, nimi_chan, ladydramione che mi hanno recensito!! Vi abbraccio tantissimo, ragazze :)
Adesso vi lascio con il nuovo capitolo! Buona lettura!
Baciiiii :*

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 Capitolo VI










 

 

 

Erano trascorsi più o meno una decina di minuti da quando quei ragazzi mi avevano rapita. La macchina stava viaggiando a 90 all’ora, e con quella velocità eravamo già usciti dal paese e ci stavamo dirigendo verso la campagna. Entrai nel panico quando mi accorsi che la stradina sterrata che stavamo percorrendo attraversava un boschetto che non avevo mai visto prima, come se ci stessimo dirigendo in una zona impossibile da trovare persino su una mappa. Fantastico.

Le uniche luci che illuminavano il sentiero erano quelle dei fari dell’auto, che tuttavia non erano sufficienti a permettermi di capire in che posto mi stessero portando. Tuttavia loro non sembravano preoccuparsene: o conoscevano benissimo quella zona perché l’avevano percorsa un sacco di volte, oppure avevano solo intenzione di scaricarmi nel primo posto isolato che avessero trovato. La mia mente si rifiutò categoricamente di approfondire in che condizioni sarei stata a quel punto.

Deglutii, sollevando una mano ad asciugarmi le lacrime che non avevano ancora smesso di scorrere. A quel gesto notai che Stefano, il ragazzo alla mia destra, aveva armeggiato con le tasche dei suoi pantaloni, per poi avvicinarsi a me e porgermi un fazzoletto di stoffa bianca. Sbattei più volte le palpebre per accertarmi di non stare sognando: ma lui fece un pallido sorriso che mi incoraggiò, e questo bastò per convincermi a prendere il suo fazzoletto.

Mentre mi asciugavo gli occhi, sentii che Lorenzo, a sinistra, sbuffava scocciato per poi chinarsi su di me: istintivamente mi scostai, ma ciò non bastò ad allontanarlo.

“Sei spaventata?” Chiese, beffardo. La sua mano giunse a sfiorarmi il collo, ritirandomi poi i capelli e seppellendo il suo volto nell’incavo tra la spalla e la clavicola. “Eppure non mi sembravi così impaurita l’altro giorno, al bar…”

Mi divincolai e riuscii a guardarlo in cagnesco, malgrado il buio della vettura non lo permettesse granché. “Stammi lontano.” Sibilai, non riuscendo però ad impedire che le nostre gambe si sfiorassero. Ho sempre detestato sedermi nel sedile posteriore centrale, soprattutto se dovevo dividerlo con altre persone. E ora sapete perché.

A quel punto per fortuna intervenne Stefano. “Stuzzicala di nuovo e ti faccio proseguire a piedi, Lorenzo.” Lo minacciò, con voce dura. “Mi hai proprio rotto con le tue stronzate.”

L’altro ragazzo sollevò le mani in segno di resa, ma non ci cascai: la sua espressione era tutto fuorché arrendevole. “Come vuoi, capo.” Rispose ironico, mettendo tutto il sarcasmo di cui disponeva su quell’unica parola. Stefano fu abbastanza saggio da non raccogliere la sua provocazione, altrimenti quella battaglia verbale si sarebbe protratta per tutta la notte. Per un attimo fui sinceramente curiosa di sapere come si sarebbe comportato Lorenzo di fronte ad Enrico, giusto per vedere se si sarebbe sgonfiato un pochettino.

Più tempo trascorrevo in compagnia di quel ragazzo più mi si rompevano le scatole. Sperai se non altro che quel ‘piacevole viaggetto’ fosse quasi giunto al termine.

Come se avesse capito ciò che stavo pensando, il ragazzo che sedeva accanto alla guida annunciò, ad alta voce: “Siamo quasi arrivati.”

Perfetto. Stavo per incontrare il mio carceriere.

 

Quando vidi la villa rimasi letteralmente senza parole, tanto che dovetti affacciarmi tra i due sedili anteriori per poterla ammirare meglio.

L’edificio era stato costruito sopra una piccola collinetta, e sembrava sorgere dal nulla in mezzo al verde, quasi completamente nascosto dalla vegetazione e dalle alte querce se non fosse stato per le luci che ne illuminavano la facciata. Man mano che la macchina si avvicinava riuscivo a scorgere sempre più particolari. Per esempio, mi accorsi che era composta da tre piani, e che ricalcava perfettamente la struttura di una di quelle splendide ville toscane che avevo più volte visto nelle riviste o nei documentari. Era impossibile definire il colore del muro, perché una fitta edera rampicante lo ricopriva pressoché tutto, lasciando visibili solo le finestre e il portone d’ingresso, pesante e massiccio.

Ma dove ero finita? Che cosa ci potevo fare io in quel posto?

Una parte di me avrebbe tanto voluto scappare, per diversi e logici motivi: punto primo, ero stata rapita da quattro ragazzi che non conoscevo, tra cui ne spuntava uno che, da come si comportava, non sembrava aver voglia di rimanere a chiacchierare con me amabilmente; punto secondo, non avevo idea di quali fossero le loro intenzioni, ma per quello che ne sapevo io – una ragazza deve sempre tenersi informata, e io guardavo abbastanza telegiornali da esserlo – potevano anche voler abusare di me e poi gettare il mio corpo senza vita nel primo fosso disponibile… Troppo drammatica? Okay, ma il punto terzo sottolineava che mi avevano portata in una villa che avrei detto abbandonata, in un luogo dimenticato da Dio e sicuramente sconosciuto alle persone che sarebbero potute accorrere in mio aiuto: cosa che comunque non avrebbero potuto fare, visto che durante il tragitto Stefano si era premunito di portarmi via il cellulare che, ad ogni modo, in quel posto non prendeva!

Malgrado questa simpatica ed idilliaca visione, tuttavia, c’era un’altra parte di me che moriva dalla voglia di sapere chi si nascondeva all’interno di quella ricca e fastosa villa di inizio Novecento, e soprattutto che cosa poteva mai volere da me – escluso quello che affermava il già citato secondo punto.

Comunque c’era qualcosa, come una delicata vocina dentro la mia testa, che mi diceva che non avrei tardato a scoprirlo.

Finalmente infatti la macchina parcheggiò, fermandosi quasi di fronte all’enorme portone di legno istoriato. Stefano e Lorenzo aprirono lo sportello e scesero dall’auto quasi simultaneamente, ma non fu difficile per me scegliere di scendere dalla parte di Stefano. La prudenza non è mai troppa, come si dice.

“Non preoccuparti, andrà tutto bene.” Sussurrò quest’ultimo al mio orecchio, stringendomi una spalla incoraggiante. “Nessuno ti farà del male.”

Quanto avrei desiderato potergli credere!

Ci dirigemmo tutti verso l’entrata della casa, circondati dall’intimo silenzio della notte. C’era un po’ di venticello che mi scompigliava i capelli, e il profumo del bosco mi rammentò che quello in cui mi trovavo era tutto tranne che un sogno. Magari un incubo.

Il ragazzo che aveva guidato e di cui ancora non conoscevo il nome si avvicinò al portone e afferrò uno dei battenti, sbattendolo con decisione e facendo rimbombare il rumore in tutta la casa. Non dovemmo aspettare molto prima che qualcuno arrivasse ad aprirci: tuttavia non fu nessun maggiordomo in stile Dracula o famiglia Addams, e già questo fu, per me, un sospiro di sollievo non indifferente. Almeno mi trovavo ancora sulla Terra.

Chi aprì la porta fu invece un altro ragazzo, più o meno della stessa età dei miei ‘rapitori’, o forse più giovane: era vestito come loro, jeans scuri e camicia bianca a maniche corte, ma il suo abbigliamento faceva a pugni con il colore rossiccio dei suoi corti boccoli e le leggere efelidi spruzzate sulle guance. A primo acchito mi sembrò subito simpatico.

“Finalmente siete arrivati.” Disse evidentemente sollevato, facendosi da parte per permetterci di entrare. Anche la sua voce sembrava quella di un ragazzino: se aveva compiuto diciassette anni era troppo. “Il capo stava già iniziando ad innervosirsi.”

Stefano abbozzò un sorriso, invitandomi a precederlo dentro casa. “Non preoccuparti, Enrico abbaia ma non morde. Non con i suoi amici, almeno.”

Il ragazzino sgranò leggermente gli occhi, scuotendo poi la testa nel chiudere la porta dietro di noi. “Venite, è in biblioteca.”

Quella frase mi suonò stranamente estranea e al contempo familiare: avevo l’impressione di essere catapultata in una dimensione parallela alla mia! Quella villa aveva una vera biblioteca? Come quella dei libri? Wao, forse non era del tutto la mia giornata sfortunata.

Il nostro era un vero e proprio corteo: davanti c’era il ragazzino che ci aveva aperto la porta, subito dopo seguito da me e Stefano, mentre gli altri chiudevano le fila. Il disagio che avevo provato mentre ero in macchina tornò come a colpirmi con forza, facendomi rabbrividire. Mio Dio.

Adesso avrei scoperto che cosa ci facevo lì, ma la domanda era un’altra… Avrei davvero voluto scoprirlo? Perché non potevo essere insieme ad Alessandra, come sempre? Avevo una voglia incontrollata di piangere, ma non avevo nessuna intenzione di farmi vedere in lacrime anche da Enrico, se era davvero da lui che stavamo andando.

Quando raggiungemmo la fine del lungo corridorio si fermarono tutti, e il ragazzo dai capelli rossi bussò deciso alla porta della biblioteca. Da dentro provenne la voce che non avrei mai creduto di risentire in una situazione simile. “Avanti.” Disse, solo.

Stefano mi spinse gentilmente in avanti, avvicinandomi alla porta. “Devi entrare da sola, Giulia.” Mormorò piano, vicino al mio orecchio. “Enrico non ama che noi invadiamo la sua biblioteca.”

Mi voltai verso di lui, inarcando un sopracciglio. “E allora perché mai dovrei entrarci io?” Replicai, forse con più amarezza del necessario.

Il ragazzo fece uno strano sorriso e poi scrollò le spalle. “Beh, è abbastanza chiaro, in realtà.”

“Per me non lo è.”

Sospirò, e mi sembrò sinceramente preoccupato. “Non ti farà niente. Vuole solo parlare, ma noi non possiamo entrare nella sua biblioteca. Comunque staremo qui fuori, se può farti sentire più tranquilla.”

Scossi la testa e aprii la bocca per ribattere, ma lui me lo impedì. “No, senti: non è con me che devi arrabbiarti o discutere. Parla con lui, anche perché forse avrà più risposte di quante potrei dartene io. Okay? Tranquilla.”

Aprì la porta, spingendomi piano verso di essa e riuscendo a farmi entrare nella stanza. Gli lanciai un’occhiataccia, perché se non mi fossi mostrata arrabbiata avrei sicuramente finito per piangere, ma lui mi sorrise dolcemente e mi salutò con la mano.

La porta si richiuse, ed io rimasi ad osservarla, stupita e spaventata, nella sciocca attesa che si riaprisse. Visto che questo non accadeva afferrai con entrambe le mani la maniglia, abbassandola e cercando di sforzarla per aprirla, ma evidentemente era stata chiusa a chiave, oppure da fuori la stavano tenendo. Imprecai a bassa voce, prima di abbandonare il mio debole tentativo di fuga.

Mi poggiai con la schiena alla porta, chinando la testa e nascondendo il viso tra le mani. Avevo paura. Mio Dio, non credevo di essere mai stata così spaventata come in quel momento. Stefano aveva detto che nessuno mi avrebbe fatto del male, si, certo! Come si potevano aspettare che io credessi a quelle storie?

Poi, improvvisamente, mi accorsi di non essere più sola. Il mio corpo all’erta aveva  avvertito la presenza di un estraneo, e subito raddrizzai la testa, pronta a scattare, o comunque a cercare di nascondermi o fuggire…

Lui era lì. “Benvenuta.” Disse, con un sorriso.

Adesso sì che mi sentivo davvero in trappola.

 

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 7
*** Capitolo VII. ***



Ringraziamenti!
Wao ragazze, l'ultimo capitolo ha avuto proprio successo :..) non avete idea di quanto mi faccia piacere trovare tutte queste recensioni per la mia "opera"!! Se esiste un capitolo 7 è solo merito vostro!! Mi limito a ringraziare coloro che mi hanno recensito: morbidina, Merry NIcEssus, lara27, nimi_chan, Bastard87, Charlie_me, Silvietta (:p), Vale728, SweetCherry e ChasingTheSun, poi un grazie e un abbraccio grande grande a coloro che mi hanno aggiunta tra le preferite e tra le seguite!! GRAZIE!!!
Ora vi lascio al capitolo. Buona lettura!!
Smack :*










Capitolo VII






 

 

 

 

“Benvenuta.”

Sgranai gli occhi, guardandolo. Stava scherzando? Benvenuta? Se aveva intenzione di prendersi ancora gioco di me non glielo avrei permesso!

Incrociai le braccia, rimanendo con le spalle contro la porta in modo da tenere d’occhio ogni suo minimo movimento e controllare che si tenesse ad una degna distanza da me. Lui sembrava del tutto a suo agio… Beh certo, non era mica lui quello che era stato appena rapito.

Odio doverlo ammettere, ma era ancora più bello di come lo ricordassi. Indossava una camicia bianca a maniche corte allacciata dentro un paio di jeans neri lunghi e stretti, e malgrado il semplice abbigliamento aveva uno strano qualcosa che lo faceva somigliare ad un modello… Forse erano i capelli neri o gli occhi verdi, che sembravano risplendere, allegri e compiaciuti.

Che faccia da schiaffi! Pensai, aggrottando la fronte. Enrico rimase immobile al centro della stanza, continuando a sorridere nell’inutile tentativo di mettermi a mio agio, presumo, e solo allora notai che aveva un bicchiere pieno tra le mani. Forse era un aperitivo, a giudicare dal colore.

“Non vuoi sederti?” Chiese, indicandomi il divano posto accanto al camino di pietra spento.

Io sollevai un sopracciglio. “Che cosa ci faccio qui?” Replicai invece, dando finalmente voce ad una domanda che mi martellava la testa da quando ero salita in macchina, prima.

“Volevo rivederti.” Rispose, semplicemente.

Sgranai gli occhi, scuotendo la testa. “Cosa vuol dire che volevi rivedermi?” Esclamai, facendo qualche passo avanti ma stando ben attenta a non avvicinarmi troppo a lui. “Stai scherzando? Mi hai fatta rapire per questo?”

Mi tremava la voce da quanto ero arrabbiata, e l’espressione che assunse lui di tenerezza non fece che farmi infuriare ulteriormente.

“Non arrabbiarti.” Sussurrò. “Vieni, siediti e parliamone con calma.”

“Non ho nessuna intenzione di sedermi!” Ribattei, tornando verso la porta. “Voglio tornare subito a casa mia, hai capito? Subito!”

Lui sospirò, incrociando le braccia e guardandomi con tristezza. “Credevo che Stefano te lo avesse detto…”

Scossi la testa. “Stefano ha detto che avrei dovuto discuterne con te. Che cosa avrebbe dovuto dirmi?”

“Stanotte dormirai qui. E forse anche le notti dopo.”

Sbattei più volte le palpebre, come per assimilare meglio quella notizia. Era… Era uno scherzo, vero? “Non puoi credere davvero che io rimarrò a dormire qui!” Esclamai, più stupita che furiosa.

Enrico sorrise debolmente, come se fosse incredibilmente stanco. Beh, non mi importava. Avevo abbastanza problemi miei senza che mi mettessi a preoccuparmi anche di quelli del mio rapitore. Figuriamoci!

“Vieni a sederti,” ripetè, gentilmente. “Poi vediamo. Può darsi che io cambi idea.”

Lentamente, come se temessi che da un momento all’altro potesse aggredirmi con un qualche coltello nascosto, mi avvicinai a lui, raggiungendo il divano e sedendomi su di esso. Enrico invece si sedette sul bracciolo della poltrona che mi stava di fronte. Accavallai le gambe e incrociai le braccia, in modo che il messaggio corporeo non fosse frainteso; sembravo urlare in silenzio: Non ti avvicinare o peggio per te!

“Come sta il tuo fidanzato?” Esordì, con tono nuovamente malizioso.

Mi ci vollero alcuni secondi per capire che stava parlando di Matteo. “Beh, come vuoi che stia? Ha metà della faccia completamente viola, e quasi non riesce ad alzarsi dal letto!” Esclamai, forse con troppa animosità: non ero arrabbiata perché aveva picchiato Matteo, ma perchè era il principio che mi faceva infuriare. “Era necessario pestarlo a quel modo?”

Gli occhi di Enrico si ridussero a due fessure, e per un attimo vidi lo stesso sguardo minaccioso che aveva rivolto al mio amico quella notte, in discoteca. “Lo avevo avvisato, è stato stupido da parte sua uscire da solo.” La sua voce tremenda mi fece rabbrividire.

“E credi che questo sia normale?” Sbottai, senza pensarci. “Dì un po’, picchi tutti quelli che minacci, così, per il semplice gusto di farlo?”

Lui però non mi rispose. Mi stava fissando con uno strano sorriso stampato sul volto, come se si fosse appena reso conto di qualcosa che lo rendeva incredibilmente felice. “Lui non è il tuo ragazzo.” Disse: non era una domanda. “Non sei preoccupata per lui, ti da semplicemente fastidio che io l’abbia picchiato. Non è così?”

Non seppi cosa rispondere: era assurdo, come l’aveva capito? “E se anche fosse?” Replicai, decidendo che era meglio reagire che farsi vedere spaventata.

Scrollò le spalle, disinvolto, rivolgendomi poi un sorriso che fu senza dubbio il più sincero che avessi mai visto sul suo viso. “Mi fa piacere che tu non sia fidanzata.”

Quella frase sussurrata mi fece mio malgrado arrossire. Distolsi lo sguardo da lui, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio in un gesto che, ne ero sicura, mi faceva sembrare una ragazzina timida e imbarazzata: il che non si allontanava molto dalla verità, ma era un gesto che facevo in continuazione quando ero agitata o mi sentivo a disagio. Oh mamma.

“Questo non fa nessuna differenza.” Replicai, sforzandomi di ignorare il tono in cui aveva pronunciato le ultime otto parole. “O almeno, non la fa per te. Prima o poi si accorgeranno che non sono rientrata a casa, e quando verranno a prendermi andrò subito dai carabinieri a raccontare che razza di delinquente tu sia!”

Purtroppo, la mia ‘velata’ minaccia non sortì alcun tipo di effetto. Anzi: Enrico si mise a ridere come se avessi raccontato la barzelletta più divertente del mondo, e fu costretto a posare il bicchiere sul tavolino che separava la sua poltrona dal divano nel quale ero seduta per non rovesciarsene il contenuto addosso. Sicuramente il mio sguardo fu talmente furioso e offeso dalla sua reazione che si costrinse a ricomporsi, tornando serio ed impeccabile e mantenendo solo uno sguardo allegro. Ero l’unica ad essere arrabbiata? Molto sicuramente, si.

“Perdonami, non avevo intenzione di mancarti di rispetto.” A quella frase sussurrata sgranai impercettibilmente gli occhi, stupita da quelle parole. Per essere un delinquente parlava in modo piuttosto forbito. “Ma non crederai davvero di andare a denunciarmi, vero? So che non lo farai.”

Questa volta spettò a me ridere, anche se lo feci con molta più amarezza. “Ne sei davvero sicuro?” Ribattei. “Fossi in te non ci conterei troppo.”

A quel punto si alzò dalla poltrona e venne a sedersi accanto a me, incurante del fatto che mi fossi allontanata da lui il più possibile. Mi imprigionò con le braccia contro lo schienale del divano, nell’angolo del bracciolo, in modo da impedirmi di alzarmi o anche solo di spostarmi di qualche centimetro. Era vicino, accidenti. Troppo vicino.

Deglutii.

“I tuoi amici non sanno dove sei, però loro sono al sicuro.” Mormorò, avvicinando le labbra al mio orecchio e facendomi rabbrividire con il suo caldo respiro. “Cerca di fare in modo che rimangano tali… Se mi disobbedisci in qualsiasi modo, farò loro del male, e ti assicuro che sembrerà un incidente.”

Parlava come farebbe un amante nell’intimità di una camera da letto, con la stessa voce calda e rassicurante, leggermente roca: eppure le sue parole erano tutto fuorché rassicuranti. La sua era una minaccia bella e buona; non era ricorso a metafore complicate per farmi capire che, qualsiasi cosa io avessi fatto di sbagliato e che lo avesse innervosito o fatto arrabbiare, lui non avrebbe esitato a far del male ai miei amici. Prima di allora avevo sempre creduto che tutte le storie che si raccontavano sulla famiglia Occhi Belli fossero delle semplici leggende metropolitane dettate dall’invidia che la maggior parte delle persone del paese nutriva nei loro confronti, e perciò, in quanto tali non bisognava prenderle troppo sul serio.

Ma forse mi sbagliavo. In fondo, Enrico non si era messo troppi scrupoli a picchiare un mio amico per il semplice fatto che aveva osato rispondergli. Che razza di creatura senza cuore poteva mai essere?

Avevo l’impressione che il cuore volesse uscirmi dal petto, da quanto stava battendo furioso. Mi limitai ad annuire, senza guardarlo, senza osare perdermi in quei bellissimi occhi verdi come il mare in tempesta e altrettanto pericolosi… Eppure non riuscii ad impedire ai miei di trattenere le lacrime. Ero davvero troppo, troppo spaventata. Anzi, a dire il vero le sue ultime parole mi avevano letteralmente terrorizzata.

Cosa di cui lui si accorse.

Mi portò due dita sotto il mento, sollevandomi il volto in modo che lo guardassi. Non volevo che mi vedesse piangere, ma non potei fare nulla per oppormi. La sua minaccia bruciava ancora.

“Non piangere, tesoro.” Quello che mi stupì fu che non c’era traccia di scherno nella sua voce, ma solo una sincera e dolce preoccupazione. “Se ti comporterai bene non ci sarà nessun bisogno di essere cattivo. Devi solo fare da brava, e voglio che tu mi prometta che non proverai a scappare in nessun modo. La campagna che c’è qui intorno può essere molto più pericolosa di me, te lo assicuro.”

Rinunciai ad asciugarmi le lacrime e lo guardai con decisione, cercando di non far tremare la mia voce. “Cosa vuol dire che devo fare da brava? Hai intenzione di violentarmi e pensi che io te lo lascerò fare senza neppure provare a difendermi? Sei davvero uno stupido se lo credi!”

A quelle parole si allontanò da me come se lo avessi colpito con uno schiaffo, osservandomi con un’espressione sinceramente ferita e confusa. “Violentarti?” Ripeté a bassa voce, come se non credesse a quello che avevo appena detto e stesse cercando una conferma da me. Io però tacqui, limitandomi ad osservarlo disgustata.

“Non ho nessuna intenzione di abusare di te! Come puoi credermi capace di fare una cosa simile?” Esclamò poi, mettendo nuovamente una bella distanza tra me e lui.

“Io non ti conosco, non so chi sei.” Replicai, senza staccare gli occhi da lui. “E se non è per questo, allora si può sapere perché accidenti mi hai fatta rapire e portare in questo posto sperduto?”

“Te l’ho detto,” mormorò, tornando a sedersi sul bracciolo della poltrona. “Volevo rivederti, e volevo anche… uscire… con te.”

Quell’ultima frase mi fece davvero restare a bocca aperta. “Non… Non potevi semplicemente… chiedermelo?” Chiesi, raddrizzandomi ed eliminando le ultime stille salate dalle mie guance. Non riuscivo a credere che la conversazione avesse preso quella piega.

Enrico scosse la testa. “Non sapevo come trovarti, e inoltre… Volevo essere certo che non mi avresti dato una risposta negativa.”

Oh, ma certo, adesso sì che si spiegava tutto! Come avevo fatto a non capirlo subito? L’ultimo discendente della famiglia più potente e temuta di tutta la regione mi aveva fatta rapire e portare in una vecchia villa abbandonata da Dio perché aveva paura che, se mi avesse chiesto di uscire in circostanze normali, avrei potuto rispondergli di no! Mio Dio, in che razza di situazione ero finita!

Credo di essere rimasta per una manciata di interminabili secondi in silenzio, seduta, senza quasi respirare. Ma poi scossi la testa, mi alzai e sollevai il capo per affrontarlo.

“Okay, basta. Credo di averne avuto abbastanza, per stanotte.”

“Vuoi andare a letto?” Chiese, con assoluta ingenuità.

Io sospirai, ormai completamente esasperata. “Mio Dio, no! Voglio che mi riporti subito a casa! Ti lascerò il mio numero di telefono, se proprio ci tieni, ma non ho nessuna intenzione di passare la notte qui, né ora né mai! Perciò, per favore, prendi la macchina e portami a casa. O, se tu non ne hai voglia, fammi uscire da qui e chiederò a Stefano di accompagnarmi.”

La sua espressione non mi piacque per niente. Temetti che stesse per mettersi ad urlare, furioso, o che chiamasse i suoi amici per legarmi e portarmi di peso in un qualche sotterraneo con celle segrete… Insomma, in quei pochi secondi pensai ad infinite e possibili sue reazioni. Ma neanche una si avvicinò a quello che fece lui.

Chiuse un secondo gli occhi, prese un bel respiro e poi, quando il suo sguardo si posò nuovamente su di me, mi sorrise. Io tremai.

“Non c’è nessun bisogno di chiedere a Stefano, ti posso accompagnare io.” Si avvicinò ad un tavolino di legno sul quale facevano bella mostra di sé delle bottiglie di vino e degli aperitivi, e con molta naturalezza versò in due bicchieri di vetro un po’ di questi ultimi, creando un liquido rosso che già conoscevo.

“È un Red Heart, ti ricordi?” Sorrise, porgendomelo. “Facciamo un piccolo brindisi a questo nostro incontro e poi ti accompagno a casa. Va bene?”

Non ne ero molto sicura, ma in fondo un piccolo sorso del mio aperitivo preferito non avrebbe certo fatto cascare il mondo. Presi il bicchiere dalla sua mano, e poi me lo portai alle labbra. Non era molto, così con due sorsi lo terminai.

Enrico ora mi stava guardando con una strana malinconia nello sguardo. “Non volevo arrivare a questo, Giulia. Mi dispiace.” Mormorò, prendendomi il bicchiere ancora freddo dalle mani per poi posarlo sul tavolino.

Non compresi le sue parole, ma dopotutto non ebbi il tempo di dire o fare qualsiasi cosa. Sentii un feroce mal di testa, che giudicai colpevole anche della strana sensazione di pesantezza delle palpebre… Che cosa mi stava succedendo? Avevo sonno… Tanto sonno…

La vista mi si annebbiava, e persino le gambe divennero più deboli, fino a quando non cedettero.

Prima che il buio e l'oscurità mi inghiottissero, credetti di sentire un paio di braccia forti e muscolose afferrarmi prontamente in modo da non farmi cadere per terra, ma era come il ricordo di un sogno, perciò non ne fui molto sicura…

Sentii il calore del suo corpo contro il mio, e poi tutto diventò nero.



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Capitolo 8
*** Capitolo VIII. ***


Ringraziamenti!!
Ecco il nuovo capitolo! La storia sta diventando sempre più torbida +____+ muahahaha xD In realtà, Enrico sarebbe dovuto essere il "bastardo" per eccellenza, ma si sta forgiando in modo troppo dolce >___< prima o poi dovrò rimediare u.u
Comunque!! Voglio ringraziare ChasingTheSun, Silvietta, Vale728, claudina cullen, valespx78, nimi_chan, SweetCherry, Bastard87, morbidina e Merry NIcEssus che hanno commentato il capitolo precedente, e poi di nuovo chi mi ha aggiunta tra le preferite e le seguite :.) vi adoro!!
Spero di non deludervi con questo capitolo, perdonatemi se è troppo corto é.è fatemi sapere!
Buona lettura!
Smack :*












Capitolo VIII

 

 

 

 









 

Il giorno dopo mi svegliai con un incredibile mal di testa.

Mi avvolsi nelle lenzuola, mugugnando infastidita, cercando di tornare al confortante torpore del sonno senza tuttavia riuscirci. Allora aprii lentamente gli occhi, portandomi però una mano a coprirli quasi subito a causa della luce che entrava dalla porta finestra di fianco al letto, e che mi aveva quasi accecato. Mi sembrava di essere reduce da una sbronza colossale, eppure non ricordavo di aver mai esagerato con le bibite…!

Feci capolino da sotto le coperte, per dare un’occhiata in giro e controllare chi era stato ad aprirmi le tende. Tuttavia, non appena misi il naso fuori dal letto mi accorsi che c’era qualcosa che non andava, e che non coincideva assolutamente con gli ultimi ricordi che serbavo della mia stanza.

Tanto per cominciare, il mio letto non aveva la testata in ferro battuto!

Quando mi accorsi finalmente che il letto in cui avevo dormito non era il mio, balzai subito a sedere, avvolgendomi il lenzuolo attorno al corpo e guardandomi intorno piuttosto spaesata. Una poco gentile imprecazione mi sfuggì dalle labbra nel capire che, sfortunatamente, quello che mi era accaduto la notte prima non era stato il frutto di un sogno troppo movimentato.

Mio Dio, mi trovavo ancora prigioniera di Enrico?

Il mio sguardo saettò immediatamente lungo il mio corpo, facendomi accorgere con un misto di ira e imbarazzo del fatto che stavo indossando solo la biancheria intima.

Lo uccido, giuro che lo uccido, pensai, fumante di rabbia.

Con cautela scesi dal letto, che era anche piuttosto alto, e mi avvolsi bene nel lenzuolo per evitare di essere sorpresa in quelle condizioni. Non appena mi misi in piedi, però, un violento capogiro mi fece piombare nuovamente sul materasso, costringendomi ad aspettare una manciata di minuti che passasse. Accidenti a lui, chissà che cosa mi aveva fatto bere insieme a quell’aperitivo; era sicuramente per quello se avevo quel terribile mal di testa.

Alla fine mi alzai con un grugnito, massaggiandomi le tempie e poggiando una mano alla parete per evitare di barcollare e cadere. Accanto all’armadio c’era una porta, ed escludendo che fosse quella di ingresso alla camera, visto che questa si trovava dalla parte opposta della stanza, supposi che si trattasse di quella del bagno. La raggiunsi e, con sollievo, scoprii di non essermi sbagliata.

Il bagno era molto grande, con le pareti piastrellate di bianco e arancione e dotata di un divisorio in muratura che separava la doccia e la vasca. Con un sospiro chiusi a chiave la porta alle mie spalle e mi preparai l’occorrente per farmi una bella doccia rinfrescante. Avevo bisogno di essere lucida per poter nuovamente affrontare il mio carceriere alla luce del sole.

Quando ormai decisi di aver finito, avevo i polpastrelli delle dita completamente ammorbiditi. Mi avvolsi in un corto asciugamano bianco e mi frizionai i capelli con un altro, ricordandomi solo allora di aver dimenticato i miei vestiti nell’altra stanza. Quando mi ero svegliata ero troppo nervosa e non li avevo visti, ma ero sicura di trovarli poggiati da qualche parte.

Aprii la porta del bagno e tornai in camera da letto.

Mi sfuggì un grido.

Sul letto, morbidamente sdraiato sopra le lenzuola che erano rimaste, c’era Enrico. Con le braccia incrociate dietro la testa e le gambe accavallate sembrava l’immagine stessa dell’innocenza e della tranquillità, ed era proprio questa l’espressione che aveva quando si voltò pigramente ad osservarmi. Sorrise, ed io non potei fare a meno di arrossire.

“Che cosa ci fai qui?” Sbottai, senza osare avvicinarmi al letto. Tuttavia se volevo andare alla ricerca dei miei vestiti sarei dovuta passargli proprio davanti, ma non ne avevo nessuna intenzione, visto e considerato che al momento stavo indossando solo un asciugamano che mi copriva a malapena fino a metà coscia.

Il suo sorriso si allargò ulteriormente mentre mi rispondeva. “Sono venuto a svegliarti, visto che sono già le nove e mezza e tu non sei ancora scesa a fare colazione. Mi stavo preoccupando.” Poi il tono della sua voce cambiò, diventando improvvisamente serio. “Temevo di aver esagerato con quel sonnifero, ieri…”

“Ah, allora non me lo sono sognato! Mi hai davvero drogata!” Esclamai, mentre la rabbia che si era in parte dissolta sotto la doccia riaffiorava, più decisa di prima.

“Mi hai costretto tu a farlo.” Mormorò cauto, raddrizzandosi e rimanendo seduto in modo più composto sul letto.

Io incrociai le braccia sul petto, un po’ perché se non l’avessi fatto sarebbe prevalsa in me la tentazione di prenderlo a schiaffi e un po’ perché altrimenti l’asciugamano avrebbe rischiato di scivolare per terra. E rimanere nuda davanti a lui era proprio una di quelle cose che volevo evitare, se possibile!

“Certo, che stupida sono stata a chiederti di riportarmi a casa!” Replicai, per nulla intimidita. “E dimmi un po’, spogliare una ragazza indifesa e priva di sensi fa parte dei tuoi hobby preferiti?”

Vidi che gli angoli della sua bocca si piegarono lievemente all’insù, ma poi mi rispose senza nessuna traccia di divertimento nel tono. “Credo che dormire vestiti sia piuttosto scomodo, soprattutto per una ragazza.” Rispose, gentilmente. “Mi dispiace di non averti messo un pigiama, ma purtroppo non ne avevo. Ad ogni modo, sono stato attento a non indugiare troppo a lungo nello spogliarti, per quanto fosse un’attività alquanto piacevole, lo ammetto… Ma ho fatto tutto al buio. Magari questo ti fa stare un po’ meglio.”

Mio Dio. A domanda scema…

Ormai avevo perso il conto delle volte che ero rimasta senza parole davanti a lui, e questo era comunque abbastanza grave, visto che quella era solo la terza volta che gli rivolgevo la parola. Non seppi cosa replicare: dopotutto, che cosa si risponde ad un ragazzo che confessa con tutta tranquillità di aver trovato piacevole toglierti i vestiti di dosso? Credevo di essere talmente rossa in viso da poter fare concorrenza ad un pomodoro; mi sentivo le guance in fiamme.

“Non… Non preoccuparti per il pigiama.” Balbettai alla fine, incapace di dire qualcos’altro di più sensato. “Non lo uso mai.”

Rimase in silenzio per un attimo, poi rise, piano. “Credo che tu sia l’unica ragazza che dorme senza il pigiama!” Esclamò, guardandomi con gli occhi che brillavano, divertiti.

Arrossii ancora di più. “Si, me l’hanno già detto.” Mormorai.

Distolsi lo sguardo da lui ma mi accorsi con la coda dell’occhio che si era alzato dal letto per dirigersi verso una poltroncina che prima non avevo notato.

“Ti ho portato dei vestiti per cambiarti.” Dichiarò, prendendo della roba accuratamente piegata tra le mani e tornando verso di me per porgermela.

Non so come riuscii nell’acrobazia di prenderla dalle sue mani, aprirla per guardarla e contemporaneamente riuscire a non sciogliere il nodo dell’asciugamano. Comunque, il pericolo aguzza l’ingegno, e immagino che fosse per questo che ci riuscii tranquillamente.

“Dovrei indossare questa cosettina?” Esclamai stupita, osservando un vestitino appena più lungo dell’asciugamano che stavo indossando, di uno sgargiante blu elettrico e a dir poco scollato. Era uno di quei vestitini che si potrebbero indossare per andare al mare, non certo per gironzolare nella casa del proprio rapitore, circondata da maschi di tutte le specie e le età!

“Purtroppo è l’unica cosa che ho.” Disse scrollando le spalle, per nulla dispiaciuto. “Almeno è più comodo di quei pantaloni che indossavi ieri notte, no?”

“Si, ma…”

“Allora non vedo quale sia il problema.” Sorrise, poi fece un altro paio di passi nella mia direzione fino a trovarsi ad una distanza per niente rispettabile da me. Fui costretta ad indietreggiare, ma incontrai il muro e lui mi imprigionò molto facilmente contro di esso.

“Hai paura?” Sussurrò contro la mia pelle, sorridendo in un modo che mi ricordò parecchio l’espressione compiaciuta di un leone che ha appena catturato la sua preda e si appresta ad assaggiarla. Non mi sarei stupita se avessi visto delle zanne spuntargli da quel bel sorriso.

Il mio respiro si fece più accelerato ed irregolare, e sicuramente lui se ne accorse, visto che quello stupido asciugamano rivelava più che coprire. “Dovrei averne?” Mormorai.

Lui posò le labbra appena sotto il mio orecchio, accarezzando la pelle ancora umida e facendomi venire la pelle d’oca lungo tutto il corpo. Potevo sentire chiaramente il suo odore, era un profumo dolce e al contempo frizzante, di dopobarba… Mi odiai profondamente per quello che pensai in quel momento, ma quel profumo mi piaceva…

“No…” Sussurrò ancora, la voce improvvisamente roca. Le sue mani premevano forte contro il muro, come se si stesse sforzando di tenerle pressate contro la parete per non farle scivolare a sfiorare altro. “Non voglio farti del male…”

Depositò sul mio collo una scia di baci lenti e casti come se mi volesse realmente assaggiare, e io rimasi immobile, senza neppure cercare di allontanarlo, perché in verità non avrei mai voluto che si fermasse. Dalle mie labbra sfuggì invece un inconfondibile gemito di piacere e chiusi gli occhi, imbarazzata per non essere riuscita a mordermi le labbra piuttosto che fargli capire quello che stavo provando. Quando si allontanò da me quel tanto che bastava per potermi osservare in viso, sorrise, compiaciuto, e mi rivolse uno sguardo reso torbido dal desiderio. Deglutii: questa volta ero davvero spaventata.

“Hai un dolcissimo profumo…” Mormorò, abbassando lo sguardo per posarlo sulle mie labbra.

Ma io avevo ritrovato abbastanza lucidità per potermi maledire in silenzio, e con la stessa determinazione posai le mani sul suo petto e lo costrinsi ad allontanarsi, cosa che, grazie al Cielo, fece senza opporsi.

“Vattene.” Dissi, non senza tentennare. “Mi devo vestire.”

Lui annuì, prendendo un profondo respiro come per richiamare a sé il suo autocontrollo. “È un’ottima idea.” Ammise. La sua voce sembrava essere tornata normale. “Non credo di riuscire a trattenermi ancora, se rimani così…”

Prima che potessi replicare ulteriormente mi sfiorò la fronte con un piccolo bacio, poi sorrise e raggiunse la porta. “Ti aspetto in sala da pranzo, non dovrebbe essere difficile da trovare.” Disse, voltandosi ancora verso di me. “Fai in fretta.” Aggiunse, con un altro sorriso. Poi uscì.

Una volta rimasta sola potei riprendere a respirare normalmente, sentendo il forte peso della tensione sulle mie spalle che scivolava lentamente via. Mi gettai sul letto, notando che le mie mani stavano ancora tremando, e con cautela ne sollevai una per sfiorare il punto dove mi aveva baciata.

Dio, in che razza di incubo ero finita? La notte prima Enrico aveva sottolineato con forza di non avere nessuna intenzione di abusare di me in qualsiasi modo, eppure non volevo credere che quello fosse il suo normale modo di augurare il buongiorno ai suoi ‘ospiti’. Avevo il cuore che batteva ancora all’impazzata, nervoso, ma temetti che non fosse solo per la paura: era normale desiderare, seppur in minima parte, il ragazzo da cui si era stati rapiti?

Certo che no!, pensai con forza, nascondendomi il volto tra le mani. Non sapevo che cosa fare, accidenti, sapevo che avrei dovuto odiarlo, e forse l’avrei anche preso a schiaffi, se… Oh, se che cosa? Aveva già minacciato di far del male ai miei amici se avessi provato a contraddirlo in un qualche modo. Non potevo fare molto, da sola… Solo aspettare. Se Alessandra aveva capito il mio messaggio, allora non avrei dovuto attendere molto prima della mia liberazione. E poi c’erano i miei genitori, sicuramente a quel punto si sarebbero dovuti accorgere della mia sparizione, anche se in teoria avrei dovuto dormire dalla mia amica!

Insomma, c’erano tutta una serie di prospettive che mi faceva sperare in positivo. Inoltre, se io non avessi fatto nulla per liberarmi, se non attendere l’arrivo della ‘cavalleria’, Enrico non avrebbe nemmeno potuto attuare la sua minaccia. O, almeno, questo era quello di cui stavo cercando disperatamente di convincermi.

Con un sospiro mi alzai dal letto, togliendomi l’asciugamano e rivestendomi con quel quadratino di stoffa che mi aveva portato lui. Non era molto corto, in effetti, però era troppo scollato. Va beh, pazienza, tanto non avrei dovuto indossarlo ancora per molto, se le mie speranze si fossero rivelate esatte.

Mi asciugai i capelli e, quando pensai di essere finalmente presentabile, uscii alla ricerca della sala da pranzo. Speravo solo che i bollenti spiriti di Enrico si fossero già placati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX. ***


Ciao a tutte!!
Perdonatemi per il ritardo nello postare questo capitolo, ma ho avuto un brutto calo di ispirazione che spero non si ripeta più..! :(
Ad ogni modo, ora non mi dilungherò troppo e vi lascerò alla lettura, spero che sia di vostro gradimento anche se ci ho messo un pò troppo a scriverlo e non ne sia molto convinta.... è un capitolo di transizione, ma ci stiamo avvicinando al punto clou..! :) Fatemi sapere!!
Vi ringrazio tantissimo, un abbraccio!!
Smack :*


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Capitolo IX
 

 



 

Entrai in sala da pranzo convinta di trovarci tutta l'allegra combriccola di Enrico riunita intorno al tavolo. Beh, mi sbagliavo.

La stanza non era molto grande, ma possedeva un’immensa vetrata nella parete frontale alla porta e le tende color panna tirate per far entrare la luce calda del sole. Di fronte alla vetrata c’era il tavolo, in pesante mogano scuro, con due sottopiatti arancioni e un vaso di vetro con dei fiori colorati. A destra, separata dalla zona pranzo con un basso muretto in pietra, c’era la cucina, una moderna cucina ultra accessoriata.

Qui, rivolto verso i fornelli, c’era Enrico.

Degli altri ragazzi non c’era neanche l’ombra.

Quando richiusi la porta con un leggero tonfo, Enrico si voltò verso di me, sorridendomi. Mio Dio, aveva davvero il più bel sorriso che avessi mai visto.

Cercando di ignorare il leggero brivido che avevo provato nel vedere quel sorriso, avanzai e mi avvicinai alla cucina, poggiando i gomiti sul ripiano in legno del muretto. Osservai curiosa quello che stava cucinando il mio ‘carceriere’: chissà perché ero convinta che avesse delle governanti che si occupavano dei  pasti e delle pulizia, ed ero piuttosto sorpresa nel constatare che invece era lui a cucinare. Okay, non che fosse particolarmente difficile mettere a bollire il latte!

“Quel vestito ti sta proprio bene.” Affermò ad un certo punto, dando le spalle ai fornelli e poggiandosi sul ripiano della cucina, incrociando le braccia come a volermi studiare attentamente.

Io sostenni il suo sguardo, cercando di ignorare il modo insistente in cui mi stava fissando. L’importante era che non gli tornasse la tentazione di alzare le mani, come era successo prima, in camera… A quel ricordo avvampai, ma sperai sinceramente che lui non se ne fosse accorto.

“Credevo che a colazione ci fossero anche i tuoi amici.” Dissi invece, decidendo fosse più saggio cambiare l’argomento.

Lui sorrise nuovamente. “Sono le dieci passate, loro hanno già fatto colazione da un pezzo. E poi se ne sono andati.” Rispose, scrollando quasi indifferente le spalle.

A quell’informazione, istintivamente, mi irrigidii. “Vuoi dire che ci siamo solo tu ed io?”

Enrico annuì, guardandomi come se avesse voluto trapassarmi da parte a parte con i suoi magnetici occhi verdi. Ricordavano lo smeraldo, ora che ci pensavo. "Si, solo tu ed io." Ripeté: non mi piacque per niente il tono roco e profondo che assunse la sua voce. "Ti da fastidio?" 

Se avessi detto di si sarebbe forse cambiato qualcosa? “No,” risposi pertanto. “Purché tu tenga le mani a posto.” Specificai subito dopo, in modo che non si facesse strane idee.

Stranamente, lui rise, ma la cosa ormai non mi infastidì più di tanto. Difficile da credere, eppure stavo iniziando ad abituarmi al suo strano modo di fare.

“Come vuoi.” Concesse, senza smettere di sorridere compiaciuto. “Eppure non mi è sembrato che il mio tocco ti fosse sgradito, prima…” Aggiunse in un sussurro, facendomi sgranare gli occhi e arrossire come una bambina.

Grazie al Cielo mi ripresi abbastanza in fretta. “Vuol dire che la prossima volta ti darò uno schiaffo, se rifai una cosa del genere.” Replicai fredda, incrociando a mia volta le braccia.

Lui sollevò le mani in segno di resa. “Hai ragione, scusami. È stato poco delicato dirlo.”

Si era scusato? Wao! Questa si che valeva la pena scriverla sul calendario! Il grande leone che chiede scusa alla sua preda, proprio carina.

Il mio sguardo tuttavia dovette lasciar trapelare la mia diffidenza, perché lui si sentì in dovere di aggiungere qualcosa a sua difesa. “Parlo sul serio. Non ti toccherò più, a meno che non sia tu a volerlo… È una promessa.”

Lo fissai per un attimo in silenzio, poi sospirai ed annuii. “Grazie…” Tanto sapevo benissimo che non avrei mai osato chiedere una cosa del genere! Dunque potevo dormire sonni tranquilli.

Quando mi diede le spalle per tornare ad armeggiare con l’occorrente per la colazione mi voltai anch’io, andando a sedermi a tavola. Se fosse stato un altro l’avrei aiutato senza pensarci due volte, ma voglio dire, perché facilitare il compito al proprio carceriere? Volevo che si stancasse il prima possibile di me, in modo da farmi tornare a casa senza più nessuna intenzione di cercarmi.

Sarebbe stato troppo bello.

“Ecco qua.” Disse, raggiungendomi a tavola con un vassoio pieno di dolci di vario tipo. “Ora ti porto il latte e il caffè.”

Un pensiero simile a quello che avevo avuto poco prima mi balenò in mente: accidenti, se fosse stato un altro l’avrei sposato senza pensarci due volta! Dove l’avrei ritrovato un altro ragazzo che mi preparasse una colazione così splendida? Okay, forse era la fame a parlare per me.

Quando tornò mi accorsi che anche lui doveva ancora mangiare: infatti aveva portato due tazze da caffelatte che posò rispettivamente prima sul mio e poi sul suo sottopiatto, ma prima di servirsi si occupò di me. Versò gentilmente il latte e il caffè caldo nella mia tazza, porgendomi poi lo zucchero, e solo allora si sedette per prepararsi la sua.

Mangiammo in silenzio, io avevo troppi pensieri per la testa e non ero in grado di sostenere una conversazione con chicchessia. Tuttavia non potevo continuare a ignorare una domanda che mi bruciava in gola sin da quando avevo aperto gli occhi, quella mattina, così, dopo un breve sorso di cappuccino, sollevai gli occhi su di lui e parlai.

Anche lui dovette avere un’idea simile, perché parlammo contemporaneamente.

“Hai dormito bene?” Lui.

“Quando hai intenzione di riportarmi a casa?” Io.

Tacqui, incerta se ridere o innervosirmi, ma il suo sorriso decise per entrambi.

“Vuoi che ti riporti a casa?” Chiese leggermente divertito, allungando la mano a prendere dei biscotti e guardandomi con la coda dell’occhio. “Il letto era così duro?”

“No, no, il letto era perfetto.” Fui costretta ad ammettere, seppur a malincuore. Non avevo intenzione di discutere della morbidezza del mio letto con lui, ma sembrava che la cosa non gli facesse effetto; o forse era solo molto bravo a nascondere le sue emozioni. Va beh. “Ma ciò non toglie che voglio tornare a casa mia. Ieri alla fine si è fatto come hai deciso tu, ho dormito qui, ma non voglio che questa cosa si ripeta. Tra l’altro non ti ho disobbedito, anche se non per mia volontà, e quindi non dovrai neppure prendertela con i miei amici. Poi i miei genitori si preoccuperanno, e se non torno a casa sono anche capaci di andare dai carabinieri! E siccome tu questo non lo vuoi, penso che ti convenga riportarmi a casa prima di pranzo.”

Ecco, avevo detto quello che dovevo. Mi sentivo quasi più leggera nell’avergli fatto quel piccolo discorsetto, e ora non restava che attendere la sua risposta… Anche se sembrava un po’ restio a darmela. Mentre parlavo mi aveva osservato con uno sguardo apparentemente tranquillo, i gomiti poggiati sul tavolo e il mento posato su una mano. E quando tacqui rimase ad osservarmi ancora a lungo, prima di sospirare, socchiudere gli occhi e prendere un profondo respiro.

Poi rispose. “Il punto è che io non voglio che tu te ne vada…” Mormorò, guardandomi dal di sotto delle lunghe e folte ciglia nere. Io non parlai, e lui continuò. “Se te ne vai, non vorrai più rivedermi, e questo è abbastanza comprensibile… Ma io non penso di riuscire ad accettarlo. Anzi, so già che non lo farò. E…” Distolse per un attimo gli occhi da me, lasciandoli vagare per la stanza, prima di farli ritornare decisi sul mio volto. “…non voglio ricorrere alle maniere forti con te. Perciò non obbligarmi a farlo.”

Sgranai leggermente gli occhi, allontanandomi dal tavolo e scuotendo la testa. Ero abbastanza colpita dalle sue parole, ma la piega che aveva preso il suo discorso non mi convinceva per niente.

“Non riesco a capire il tuo discorso!” Replicai, infatti. “Prima dici che non vuoi usare le maniere forti per trattenermi qui, poi però ti contraddici dicendo che non esiterai ad usarle se me ne vado! Ma che cosa vuoi da me!?”

Mi alzai dalla sedia, spinta da un’improvvisa ondata di rabbia impossibile da trattenere oltre. Avrei voluto piangere dal nervoso, ma non avrei risolto nulla: non avevo nessuna intenzione di dargli ancora corda, credevo di essere stata fin troppo accondiscendente con lui, e adesso era tempo che i giochi finissero!

Preoccupato, Enrico aggrottò le sopracciglia, alzandosi lentamente a sua volta e tendendo una mano per prendere una delle mie; cosa che io non gli permisi, ritraendomi. Sospirò. “Ti ho già detto ieri notte che cosa voglio…” Disse, parlando con calma.

Io strinsi i pugni. “Si, me l’hai detto, e allora?” Replicai, con tutta la dura freddezza che riuscii a mettere nelle mie parole. “Che cosa vuoi fare? Hai intenzione di tenermi qui fino a quando non mi stancherò e verrò a letto con te? Così ti sarai stancato e mi lascerai tornare a casa, forse.”

Lo vidi esitare e trattenere il respiro, come se non si aspettasse la mia risposta e non sapesse che cosa ribattere a sua discolpa. Poi chiuse gli occhi, scuotendo la testa, e quando mi rivolse nuovamente lo sguardo vidi che sembrava sinceramente dispiaciuto. Dovevo ammettere che era un grande attore. “Credi ancora che ti voglia portare a letto.” Mormorò, con una strana incrinatura triste nella voce. Emise una breve e secca risata, strofinandosi gli occhi con la mano, poi tornò a guardarmi. “È vero, non voglio nasconderti che lo desidero più di qualunque altra cosa.”

Io rabbrividii, ma lui sembrò non accorgersene, o forse decise di ignorare la mia reazione, perché continuò imperterrito il suo discorso. “Ma non voglio costringerti. Quello che voglio da te è  che tu mi permetta di frequentarti, in modo del tutto normale, ovviamente, come farebbero due amici…” Il suo tono all’improvviso cambiò d’umore, diventando dolce e promettente. “Vorrei andare al mare o guardare un film insieme a te, portarti a ballare in discoteca, invitarti  a cena… Mi ritieni davvero così bastardo da impedirmi di cercare di… di conquistarti?”

Sussurrò l’ultima parola, ma io la compresi benissimo. Ero arrossita? Senza alcun dubbio.

Dunque era questo che voleva, conquistarmi? Stavo sognando o mi stava succedendo davvero?

Distolsi lo sguardo, imbarazzata, senza sapere che cosa dire. Tornai a sedermi, e con la coda dell’occhio mi accorsi che lui faceva altrettanto. Enrico voleva cercare di conquistarmi. Era per questo che mi aveva fatta rapire, era per questo… che mi aveva baciata, quella mattina.

Immaginavo che se lo avessi assecondato per un po’ , uscendoci qualche volta, forse si sarebbe sentito soddisfatto e presto si sarebbe stancato di me… Dopotutto, credevo di non essere poi quella gran bellezza da giustificare un comportamento del genere. Magari era solo un ragazzino viziato abituato ad avere tutto ciò che gli passava per la testa, e non gli sarebbe andato giù che lo rifiutassi: per questo aveva minacciato di far del male ai miei amici se non gli avessi obbedito.

E in fondo, che cosa mi costava?

Scossi la testa, troppo stupita per fare o dire qualunque cosa. Sapevo che lui era in attesa di una mia risposta, ma io cosa potevo dirgli? Dovevo pensarci. Avevo bisogno di riflettere, maledizione!

Tuttavia, per fortuna o per sfortuna, la nostra conversazione venne interrotta.

Dal corridoio sentii provenire dei passi veloci e decisi, sicuramente maschili, seguiti da qualcuno che correva in modo piuttosto nervoso. Anche Enrico dovette accorgersene perché saltò subito in piedi, fissando la porta con uno strano sguardo minaccioso a deturpargli il viso bellissimo. Forse aveva ordinato di non essere disturbato, e evidentemente qualcuno stava contravvenendo ai suoi ordini diretti. Mio Dio, il solo pensarlo mi fece accorgere dell’assurdità di tutta la cosa!

Nello stesso momento la porta della sala da pranzo si aprì, e l’intruso si fece avanti, entrando con decisione furiosa. Non appena lo vidi non mi trattenni dall’emettere un sospiro di sollievo e mi alzai a mia volta, sorridendo, pronta a raggiungerlo. Grazie al Cielo Alessandra mi aveva capito!

Tuttavia Enrico mi afferrò per il polso, trattenendomi e attirandomi verso di lui, fissando con espressione cattiva Riccardo, che sembrava pronto a dare inizio ad una rissa.

“Tu non vai da nessuna parte, Giulia.” Mormorò al mio orecchio, in modo abbastanza alto da poter essere sentito dall’altro ragazzo.

“Questo è tutto da vedere, Enrico!” Replicò lui, avanzando verso il centro della stanza. A quel gesto potei vedere, in piedi sulla soglia della porta, la mia amica che osservava la scena piuttosto preoccupata.

“Ale!” La chiamai, sollevata e allo stesso tempo preoccupata che si trovasse lì. Perché Riccardo l’aveva portata con sé? Poteva essere pericoloso! E se gli altri ragazzi non se ne fossero andati, ma stessero aspettando un cenno di Enrico per poter partecipare alla rissa? Riccardo sarebbe finito peggio di Matteo…!

“Che cosa ci fai qui, Riccardo?” Domandò con calma il mio carceriere, senza la minima intenzione di mollare la presa e lasciarmi andare. “Credevo ti disgustasse entrare in casa mia.”

“Lascia andare la ragazza, Enrico.” Sibilò l’altro, fissandolo con odio crescente.

Inaspettatamente Occhi Belli scoppiò a ridere, stringendomi maggiormente contro il suo petto e passandomi le braccia intorno alla vita. “Perché dovrei farlo? Di sicuro non perché sei stato tu a dirmelo.”

Oh, bene. Se Riccardo non fosse venuto, lui mi avrebbe lasciata tornare a casa? Fantastico, davvero, soprattutto visto che ora, per una stupida questione di orgoglio, non l’avrebbe mai fatto.

Deglutii, lanciando uno sguardo disperato alla mia amica.

Come diavolo ne saremmo usciti adesso?

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo X. ***


Eccomi!!
Perdonatemi il ritardo nello postare questo capitolo, ma man mano che la storia prosegue diventa sempre più arduo dividere i capitoli e decidere cosa scrivere in questo, cosa nell'altro.. >___<
Comunque, forse dovrei esserci riuscita! Questo è un capitolo di transizione - l'ennesimo, temo, vogliate perdonarmi! - e la parte più interessante arriverà solo nell'11, dove scopriremo qualcosa in più del nostro "cattivo" e del suo ex compare... Basta, non dico nient'altro altrimenti vi rovino il gusto della lettura!! =p
Ringrazio ancora tutte coloro che mi recensiscono e che hanno la pazienza di leggere i miei scarabocchi!! Un abbraccio a tutte!!
A presto - mi auguro - con il prossimo capitolo, e adesso godetevi questo!!
SmAcK!!! =*


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Capitolo X













Il mio sguardo si spostava a salti da Riccardo ad Alessandra, e da lei ad Enrico.

Temevo davvero che Riccardo ed Enrico si sarebbero picchiati, soprattutto visto che stavano per venire alle mani anche al bar, l’ultima volta che li avevo visti insieme. Ma perché? Perché sembravano odiarsi così tanto? E adesso il mio rapimento era solo uno sciocco pretesto per dare inizio alla lotta! E pensare che, se non fossero arrivati, forse avrei potuto risolvere io stesso la situazione con Enrico, raggiungendo un accordo… Accidenti!

All’improvviso, decisi tutto in un attimo: non ero disposta a lasciarmi trattare come la fanciulla indifesa di un libro di qualche secolo fa. Se Riccardo era pronto a battersi, bene, lo sarei stata anch’io!

Con una mossa decisa del braccio riuscii ad allentare la presa di Enrico, sgusciando via dalla sua stretta e allontanandomi da lui di qualche passo. Mi avvicinai di più ai miei amici, ma per non irritare troppo il mio rapitore rimasi al centro della stanza, a metà strada tra i due.

“Non è davvero il caso di prenderla in questo modo!” Esclamai, rivolgendomi questa volta a Riccardo. “Non c’è nessun bisogno che vi picchiate. Non è successo nulla di grave, perciò…”

“Nulla di grave?!” Esclamò Alessandra, avanzando verso di me. “Ma stai scherzando? Geme…”

“Non è successo nulla di grave,” ripetei, implorandola con lo sguardo di assecondarmi. “Adesso noi ce ne andiamo, e nessuno picchierà nessuno! Okay?”

Questa volta guardai dritta negli occhi Enrico, certa che lui avrebbe cercato di raggiungere la faccia di Riccardo in un modo o nell’altro.

Tuttavia la sua reazione mi sorprese. Dopo il fastidio iniziale causato dalla brusca interruzione e dal mio ‘allontanamento’, sembrava essersi quasi rassegnato. Annuì serio, poi sollevò le mani in segno di resa. L’aveva già fatto, e sembrava sincero.

“Come vuoi tu, Giulia.” Ammise, con calma. Era solo una mia impressione, o la sua voce era davvero diventata più morbida e dolce? “Immagino che possiate andarvene tutti, visto che sono in netta minoranza.”

Sui nostri volti era già apparsa un’espressione di sollievo e incredulità, ma purtroppo lui non tardò a dettare le sue condizioni, anche se lo fece in modo che solo io potessi capirle.

“Tu sai cosa voglio, Giulia.” Sussurrò nella mia direzione, in modo che potessi sentirlo. “E non mi arrenderò fino a quando non l’avrò ottenuto. Ora potete anche andare, ma la cosa non finisce qui. So dove posso trovarti, e so come fare per arrivare al mio scopo.” Sorrise, e in quel momento mi sembrò realmente una belva feroce. “Non puoi sfuggirmi.”

Non riuscii a rispondere niente, primo perché le sue parole mi avevano davvero spaventata, e secondo perché non volevo che i miei amici capissero a che cosa si stesse riferendo. Deglutii senza riuscire a staccare gli occhi da lui, indietreggiando piano verso la ‘cavalleria’. Quando raggiunsi la mia amica, lei mi afferrò il braccio e mi attirò a sé, guardando Enrico a sua volta spaventata.

“Ti conviene non cercare più di avvicinarla, Enrico.” Sputò Riccardo con disprezzo, raggiungendoci. “Altrimenti la prossima volta non verrò da solo.”

Enrico rise, ma lo sguardo che lanciò al suo vecchio amico fu di odio puro. Non avrei mai voluto essere la destinataria di un tale sguardo… “Non sarà certo un traditore come te ad impedirmelo!”

Successe all’improvviso, in pochi secondi: ebbi solo la vaga sensazione di un movimento d’aria accanto a me e il rimbombo di due corpi che si scontravano. Era stato così veloce e così risoluto da spingermi da una parte e farmi cadere per terra, e quando sbattei le palpebre per capire quello che era successo, vidi Riccardo addosso ad Enrico, e quest’ultimo bloccare i tentativi di colpirlo con le sole mani. Accidenti. Doveva allenarsi molto per riuscire ad immobilizzare in quel modo un ragazzo più o meno della sua stessa stazza.

Alessandra si precipitò accanto a me, dandomi una mano per rialzarmi. Quando fui nuovamente in piedi, notai che Enrico aveva un brutto taglio al labbro superiore, e quindi Riccardo doveva essere riuscito a colpirlo! Non pensavo che un Occhi Belli glielo avrebbe mai permesso.

Infatti, poi, non tardò a vendicarsi.

Lo vidi tendere tutti i muscoli delle braccia in modo da concentrare la sua forza su di esse, e dopo una breve resistenza da parte del nostro amico, riuscì a spingerlo e farlo barcollare. A quel punto approfittò del fatto che Riccardo era distratto, per raggiungerlo in due passi e colpirlo con un pugno all’angolo della bocca, in modo da procurargli il suo stesso identico taglio. Tuttavia mi accorsi che Enrico si era abbastanza trattenuto nel colpirlo, perché ero più che certa che, se avesse usato tutta la sua forza, Riccardo non sarebbe rimasto in piedi così a lungo.

Ma quando lo vedemmo portarsi dolorante una mano alle labbra, io e Alessandra non riuscimmo a trattenere un gemito, e subito lo raggiungemmo per interrompere quell’assurda lotta.

Alessandra afferrò Riccardo per un braccio, riuscendo a trascinarlo lontano dal suo antagonista e condurlo verso la porta. Io invece rimasi immobile, fissando Enrico dritto negli occhi. Ad essere sincera non mi dispiaceva per nulla che l’avesse colpito, ma io rimanevo dell’idea che se Riccardo non fosse intervenuto, io avrei potuto tranquillamente raggiungere un accordo con lui, e nessuno si sarebbe fatto male.

Eppure, quando lo vidi passarsi la lingua sopra il taglio, leccandosi il sangue senza distogliere lo sguardo da me, non riuscii a trattenere un brivido di paura, e pensai che, in fondo, l’entrata eroica dei miei due amici non era stata del tutto inopportuna.

Gli diedi le spalle, raggiungendo gli altri sulla porta, e prima che ad Enrico potesse venire in mente di bloccarci un’altra volta, la richiusi alle mie spalle senza neppure voltarmi indietro.

Per il momento l’avevo scampata, ma chi poteva dire fino a quando?



Riccardo sembrava furioso.

Stringeva con forza il volante della sua auto, lo sguardo fisso sulla strada e un lieve tremito che gli percorreva le mani contratte. Mi voltai leggermente verso Alessandra, seduta nel sedile posteriore, per scambiare con lei uno sguardo stupito e insieme preoccupato per la reazione del ragazzo: speravo che lei avesse saputo spiegarmi qualcosa di più, ma evidentemente ne sapeva quanto me.

“Stai bene, Riccardo?” Chiese lei dopo un po’, mettendo in quelle poche parole tutta la calma di cui disponeva.

Ma lui non aveva nessuna intenzione di calmarsi. “Posso sapere perchè diavolo appena hai saputo che eri sola in casa con Enrico non hai cercato qualcosa per spaccargli la testa?” Ringhiò invece, voltandosi appena verso di me. “Saresti potuta fuggire, e avremmo evitato questa ridicola messinscena!”

“Stavamo parlando!” Ribattei, contrariata. “Volevo risolvere questa storia una volta per tutte, e fuggendo avrei solo rimandato il momento della verità! Come è successo grazie alla tua brillante idea di picchiarlo.”

Sentii Alessandra trattenere il fiato, stupita per il mio tono. Forse ero stata troppo acida, lo ammetto, ma in quel momento ero troppo arrabbiata per tenere sotto controllo le parole.

“Ah, si?” Replicò lui, accelerando ulteriormente. “E credi che con lui sarebbero bastate le parole? Non lo conosci, Giulia, non sai di cosa è capace!” Scosse la testa, prendendo un bel respiro. “E comunque è meglio che tu non lo sappia…”

Mi voltai completamente verso di lui, sganciando la cintura di sicurezza per non essere impedita nei movimenti. “Adesso basta! Basta!” Esclamai, dando libero sfogo a tutto quello che avevo trattenuto la notte precedente. “Cosa accidenti sono tutti questi segreti? Non sono una bambina! Se hai qualcosa da dire, allora fallo! Non me ne frega niente se hai avuto problemi con lui in passato, voglio solo sapere in che razza di situazione sono finita! E se non hai nessuna intenzione di dirmelo, benissimo: ma non venire da me a predicare saggezze e a pretendere di controllare la mia vita.”

A quel punto frenò quasi bruscamente, facendomi rimpiangere di aver slacciato la cintura. Per fortuna eravamo ancora in una stradina di campagna, e l’unica macchina in circolazione era la nostra.

Spense il motore con un gesto furioso della mano, e si voltò verso di me. I suoi occhi furiosi mandavano lampi, quasi nel vero senso del termine. “Sbaglio o sei stata tu a dire ad Ale di venire a cercarmi?” Sibilò. La sua rabbia era palpabile. “Se non volevi che mi intromettessi, bastava dirlo!”

“È stato prima di sapere che non voleva violentarmi!” Esclamai, raggiungendo il suo stesso tono di voce.

“E chi ti dice che non l’avrebbe fatto, eh?” Ribatté Riccardo, sbattendo il pugno chiuso contro il volante. “Eravate da soli, e... Dio! Guarda come ti ha fatto vestire! Dov’è la tua roba?”

Malgrado fossi furiosa non potei impedirmi di arrossire violentemente, tirando il lembo del vestitino in modo che mi coprisse un po’ di più. Impresa inutile. Accidenti, avevo lasciato i miei vestiti a casa di Enrico! “Devo averli dimenticati a casa sua.” Risposi seccamente.

“Ecco!” Esclamò ancora lui, voltandosi nuovamente verso la strada ed incrociando le braccia.

Lo vidi scuotere piano la testa, come se stesse riflettendo su qualcosa di terribilmente importante, e allora mi voltai verso la mia amica, cercando da parte sua un minimo di sostegno. Come prima, però, si limitò a scrollare le spalle. Al che sospirai, abbassando lo sguardo. Non sapevo che cosa dire, e a quel punto le parole non sarebbero servite a nulla.

Fu Riccardo a rompere nuovamente il silenzio.

“Che cosa hai intenzione di fare, Giulia?” Chiese, usando un tono più pacato rispetto a prima, voltandosi verso di me. “Pensi di frequentarlo?”

Quella volta spettò a me scrollare le spalle, senza avere la minima idea di come rispondere. “Sinceramente, non lo so...” mormorai, senza osare incrociare i loro sguardi. “Potrei farlo, se questo servisse a farlo stare tranquillo fino a quando non gli sarà passata... In fondo, Enrico non mi sembra così cattivo come vuole far credere...”

Riccardo fece una strana e breve risatina. “Enrico è molto abile a nascondere il suo lato peggiore, credimi... Evidentemente, ti ha mostrato solo ciò che voleva che tu vedessi.”

Mi trattenni a stento dallo sbuffare, innervosita. La mia pazienza si stava già esaurendo, ero più che convinta di averne usata troppa in soli due giorni. “Ascolta, Riccardo. Se mi vuoi dire quello che sai a proposito di Enrico, ti invito a farlo... Voglio sapere in che situazione mi andrei a cacciare, nel caso decidessi di dargli corda. Ma se invece vuoi tenerti i tuoi piccoli segreti, allora faresti prima a stare zitto, e vedrò di trovare da sola una soluzione.”

Avevo parlato piano, a bassa voce, ma con tutta la freddezza di cui ero capace, perciò ero sicura del fatto che le mie parole avessero convinto almeno uno di loro. E in effetti era proprio così. Il mio ‘salvatore’ mi osservava con un’espressione forse troppo seria per il suo bel viso – oh, niente a che vedere con Enrico, ma potevo ammettere che, quella volta, la mia amica aveva visto giusto – anche se d’altra parte sembrava non vedermi. Fissava il vuoto, forse riflettendo su quanto avevo appena detto. Alla fine dischiuse le labbra, e parlò.

“Okay, Giulia, hai ragione tu. Hai tutto il diritto di sapere quello che il nostro Occhi Belli ha ben pensato di tenerti nascosto.” Mise in moto la macchina, cambiando marcia e tornando in strada. Io e Alessandra ci scambiammo un rapido sguardo incuriosito prima di tornare a sederci normalmente nei rispettivi sedili, in attesa di qualche altra spiegazione da parte sua.

Tuttavia Riccardo aveva evidentemente deciso di tenerci sulle spine, perché rimase in silenzio fino a quando non arrivammo a casa sua. Non seppi mai quello che gli passava per la testa durante quel lungo tragitto, perché non lo disse né a me né ad Ale. Ma sicuramente non doveva essere qualcosa di allegro o di cui andare fieri, perché il suo sguardo oscurato rimase perennemente fisso sulla strada, e la sua presa sul volante talmente forte che le nocche erano diventate bianche.

Più tardi, quello stesso giorno, credetti di capire quello a cui aveva pensato.

Aveva cercato a lungo di dimenticare quella parte della sua vita, del suo passato, e noi invece gliel’avremmo fatta rivivere tutta. Dopotutto, tutti e tre avemmo di che pentirci per quella scelta.


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Capitolo 11
*** Capitolo XI. ***


Eccomi di nuovo! Questa volta ho fatto più in fretta :p
Non mi trattengo molto, vorrei solo ringraziare tutte coloro che hanno trovato il tempo di recensirmi e di leggere il mio nuovo capitolo, non credevo che lo steste aspettando così tanto!
Comunque, ecco a voi il nuovo capitolo :) Buona lettura!

Un bacio, a presto! smack =*








Capitolo XI

  


 

 

 

Ultimamente ero stata nella casa di troppi ragazzi.

Okay, nel primo caso si trattava di un amico e non potevo farne a meno, e nel secondo ero stata rapita e neppure quella volta era dipesa molto dalla mia volontà... Ma forse la terza avrei potuto evitarla. Non tanto per il fatto che fosse un ragazzo, quanto per quello che avrebbe significato. Riccardo aveva deciso di raccontarci tutto, o meglio, avrebbe voluto raccontarlo solo a me: voleva tenere Alessandra fuori da questa storia, e io non potevo certo dargli torto. Ma d’altra parte, io per prima sarei corsa a raccontarle tutto, quindi tanto valeva che lo parlasse direttamente di fronte a tutte e due. Avevo la sensazione che il nostro amico provasse un certo interesse nei confronti della mia amica, e malgrado la situazione piuttosto confusa nella quale mi trovavo, non potevo che essere felice per lei.

Ma torniamo a Riccardo.

Anche se la mia gemellina gli correva dietro da tempo immemorabile, non sapevamo quasi nulla di lui, di quello che faceva al di là del suo lavoro da Agnese. Era sempre stato molto riservato e restio a chiacchierare con le altre persone per quanto riguardava la sua vita privata, perciò anche lui era un bel mistero, quasi quanto Enrico. Perciò, quando arrivammo a casa sua – nel frattempo, io avevo già provveduto ad avvisare mia madre del fatto che non sarei rientrata a pranzo a casa, ovviamente dovetti usare il telefono di Alessandra perché il mio era rimasto a casa di Enrico, e fui un po’ delusa per il fatto che nessuno si fosse preoccupato per me; comunque, meglio così – quando arrivammo a casa sua sia io che la mia amica fummo piuttosto sorprese di trovare due bambine piccole corrergli incontro, ed abbracciarlo tanto da soffocarlo.

“Ale, Giulia... Vi presento le mie sorelline,” ci spiegò poi, con un sorriso tanto affettuoso che fece arrossire la mia amica. Non capii il perché, ma lasciai stare.

“Piacere,” dissi io, cercando di stemperare quella strana atmosfera. Mancavo un giorno e già crollava il mondo? Cavoli!

La più piccola, una bambina di circa sei o sette anni con i boccoli biondi e gli occhi castani, si avvicinò a me e mi diede la mano, stringendo la mia e annunciando: “Io sono Francesca!”

La più grande, forse aveva dieci o undici anni, aveva i capelli neri e gli occhi chiari, sul grigio, e non somigliava per niente né al fratello né alla sorella. Strinse la mano alla mia amica e si presentò con un educato: “Piacere, io sono Anastasia.”

Non avevamo nessuna idea che Riccardo si occupasse di due sorelline piccole, anzi, a dire la verità eravamo convinte che fosse figlio unico. Ma forse ci avrebbe spiegato anche quello, prima o poi. Con un altro sorriso mandò le bambine in camera loro, perché ‘i grandi’ dovevano parlare; loro obbedirono senza protestare, ci salutarono sorridendo e si eclissarono nella loro cameretta. Che invidia, pensai: mia sorella non mi avrebbe mai obbedito in quel modo.

Ad ogni modo, Riccardo fece gli onori di casa: ci fece accomodare in cucina, visto che il salotto era invaso dai giocattoli delle sue sorelline, e dopo averci chiesto se volevamo bere o mangiare qualcosa – deformazione professionale, immagino! – si sedette di fronte a me e incrociò le braccia sul tavolo.

“Allora... Vediamo da dove posso iniziare.”

Mi portai il bicchiere di the alla pesca alle labbra, bevendone un sorso giusto per fare qualcosa in attesa che iniziasse a raccontare. Poi, quando lo fece, mi dimenticai di qualsiasi altra cosa che non fosse quello che sgorgava, a fiotti, dalle sue labbra.

 

“Ho conosciuto Enrico quando entrambi avevamo diciassette anni. Mi ero appena trasferito, prima abitavo in un’altra città, e quando arrivai qui ero completamente da solo. Anastasia aveva solo quattro anni e mia madre era incinta di Francesca, e avevamo deciso di traslocare subito dopo il divorzio. Ero praticamente io l’uomo di casa, e il dover occuparmi di mia madre e mia sorella mi impedì per un bel po’ di rifarmi una vita, o almeno di conoscere gente. Questo fu così fino a quando non mi iscrissi a scuola, per finire la quinta. Nei primi tempi ero piuttosto indifferente per quanto riguardava i miei compagni di classe, e per i primi due mesi di scuola non legai con nessuno in particolare. Poi però, un giorno questa situazione cambiò.

“Il mio atteggiamento riservato non era per niente piaciuto ad un gruppetto di ragazzi delle professionali, che mi conoscevano per sentito dire visto che una mia compagna di classe era l’ex di uno di loro, e a quanto pare si stava interessando a me. Questo ovviamente non fece una buona impressione su di loro: potete immaginarvi, un ragazzo nuovo che viene da fuori e già crede di poter rubare la donna ai ragazzi del paese! Naturalmente, non aveva nessuna importanza che io non fossi interessato a lei, visto che avevo troppe cose per la testa per poter anche solo pensare di iniziare una storia con qualcuno: anche questo non piacque. Chi mi credevo di essere per rifiutare le attenzioni di una loro ex ragazza? Credo che abbiate già sentito parlare di queste stronzate dell’onore e cose così. Beh, alla fine trovarono un pretesto per ‘farmela pagare’.

“Mi avevano aspettato al rientro da scuola, un pomeriggio, vicino a casa mia. Erano una decina, con i cappellini calati sugli occhi e le mani in tasca, cercando di mantenere un aspetto disinvolto anche se si capiva lontano un miglio il perché di quell’appostamento. Erano poggiati ad entrambi i muri della strada: avete visto com’è fatta questa via, è abbastanza stretta da non lasciare scampo a nessuno. Così, per tornare a casa avrei dovuto passare proprio in mezzo a loro. Cambiare strada era fuori discussione, primo perché ero ancora nuovo del posto e non conoscevo tutte le varie scorciatoie, e secondo perché ormai loro mi avevano visto. Perciò, mentre imboccavo la strada, a piedi – se allora avessi avuto la macchina forse sarebbe stato diverso, e certe cose non sarebbero successe... Ma ora è inutile pensarci – iniziai a prepararmi per la difesa.

“Avevo già individuato i meno pericolosi, che avevo deciso di lasciare per ultimi. Purtroppo, l’unico vantaggio che avevo dalla mia parte era l’altezza e la prontezza di riflessi, visto che quando abitavo nell’altra città avevo seguito per sei anni dei corsi di arti marziali. Ovviamente, questo era quello di cui cercavo di autoconvicermi, visto che ero solo un bambino quando seguivo quei corsi, ed era da un bel pezzo che avevo smesso di praticarlo: inoltre, se in quel momento avessi ammesso a me stesso di non poter competere con quella specie di branco di scimmioni, avrei fatto prima a rimanere immobile in attesa che finissero di ‘sistemarmi’. Mi avevano circondato. Non voglio né annoiarvi e né impressionarvi con in dettagli di quel combattimento, basta che sappiate che, quando tornai zoppicante a casa, mia madre stentò quasi a riconoscermi.

“Rimasi a casa solo un paio di giorni, e tornai a scuola benché non fossi del tutto guarito. Ero in quinta e per giunta in una scuola nuova, quindi non potevo permettermi di perdere molte lezioni. L’occhio nero, però, non riuscii a nasconderlo, e nemmeno il passo leggermente claudicante. Fu per questo che, alla ricreazione, mi si avvicinò proprio l’ultima persona da cui potevo aspettarmi un minimo segno di interesse. Enrico.

“Come ho già detto, ero nuovo, e ancora non sapevo chi era meglio frequentare e chi evitare per poter vivere tranquilli. Enrico in fondo era come me: studiava, era tra i primi della classe, ed era uno di quelli che facevano impazzire le ragazze. Ovviamente, il fatto che nessuna di loro gli si avvicinasse, preferendo girargli alla larga, e lo strano rispetto che gli mostravano i professori non mi aveva dato da pensare, all’inizio; ripeto, a me bastavano i miei, di problemi.

“Comunque, quel giorno mi si avvicinò, alla ricreazione, poggiandosi con le spalle contro la finestra e le braccia incrociate, voltandosi poi verso di me e studiandomi seriamente.

“’Presumo... Tu sia caduto dalle scale.’ Disse, solo. Non era una domanda, ma sapevo benissimo che cosa mi stava chiedendo. L’unica cosa che non capivo era il perché lo stesse facendo.

“Scrollai le spalle, evitando di guardarlo. ‘Avrei dovuto stare attento.’ Replicai.

“Mi accorsi che annuiva, lentamente. In quel momento mi era sembrato molto più adulto dei suoi diciassette anni, ma non ci feci caso. Rimasi ancora più sorpreso da quello che mi disse dopo.

“’Mi piaci, Riccardo. Si,’ annuì ancora, mentre sollevavo lo sguardo per fissarlo. ‘Mi piaci.’

Dopodiché tacque, rimanendo in silenzio fino alla fine dell’intervallo. Durante le lezioni successive lo osservai attentamente, cercando di non perdermi neppure un suo gesto; notai che aveva un’espressione assorta, distratta, sicuramente si trovava altrove, in quel momento, come dimostrò il suo sussultare, stupito, al suono della campana. Non ebbi il tempo di avvicinarmi a lui prima che se ne andasse, perché sparì in mezzo alla folla di studenti prima che me ne accorgessi. Non sapevo che, dal momento in cui aveva parlato con me, aveva già iniziato a programmare un piano per dare una lezione a coloro che mi avevano fatto ‘cadere dalle scale’: quello, lo scoprii solo in seguito.

“Ricordo che il giorno dopo, appena entrato in classe, la prima cosa che feci fu controllare se Enrico fosse presente: lui c’era, naturalmente, non mancava quasi mai. Ma ciò che attirò la mia attenzione furono i lividi che aveva sulle mani e i vari graffi sulle nocche, per non parlare di un brutto taglio al labbro superiore che sembrava incredibilmente recente. Mi avvicinai a lui, raggiungendolo con fare circospetto accanto alla finestra. Lo imitai e mi affacciai, osservando fuori.

“’Anche tu caduto dalle scale?’ Non riuscii a trattenermi dal chiederglielo.

“Lo sentii ridere piano, a bassa voce. ‘Si,’ rispose, passandosi una mano sul viso. Poi si voltò verso di me. ‘E puoi stare tranquillo che tu non ci cadrai più.’

“Istintivamente gli porsi la mano, intuendo subito quello che doveva essere successo. Lui mi fissò per un po’, come se fosse indeciso sul da farsi, ma alla fine sorrise e mi afferrò la mano, stringendola a sua volta.

“’Stasera devo uscire con i miei amici. Hai voglia di venire?’ Mi chiese, senza lasciare la presa sulla mia mano. Io non ci vidi nulla di male ed annuii, sorridendo. ‘Okay,’ continuò lui, ricambiandomi il sorriso. ‘Perfetto.’

“Fu allora che tutto, come si suol dire, ebbe inizio.

“Quella notte fu la prima volta che uscimmo insieme: Enrico aveva una S 1000 RR, a quanto aveva detto lui era un regalo di compleanno, e con quella venne a prendermi a casa per andare a farci un giro al mare. Mi aveva detto che gli altri suoi amici lo aspettavano lì. Quando arrivammo a Maladroxia, però, Enrico non proseguì verso la spiaggia, fermandosi invece davanti ad una delle villette costruite vicino al ristorante. Entrò come se fosse a casa sua – benché prima mi avesse detto che la casa apparteneva ad un suo amico, Stefano – e, sceso dalla moto, mi fece strada fino all’ingresso. Entrare in quella casa fu il primo passo della mia iniziazione.

“I suoi amici ci stavano aspettando in soggiorno. Enrico conosceva quella casa come se fosse stata sua, anzi, si comportava come se ne fosse stato il padrone. Allora comunque la cosa non mi stupì più di tanto: eravamo dei ragazzini, comportarci così faceva parte della normalità. Questo, però, lo pensai solo fino a quando non conobbi gli altri.

“Nel soggiorno, discutendo animatamente tra di loro, c’erano cinque ragazzi: un paio mi sembrava di averli già visti, al liceo, mentre gli altri erano completamente sconosciuti. Enrico fece le presentazioni: strinsi la mano di Stefano, Lorenzo, Francesco, Alberto e Davide.

“’Lui è Riccardo,’ mi presentò. ‘È il nostro settimo uomo.’

“Gli altri annuirono seriamente, come se avesse detto chissà che cosa. Decisi di non dare a quelle parole più peso di ciò che erano, così mi sedetti con Enrico nell’unico divano vuoto. Il mio nuovo amico prese un paio delle birre che giacevano sul tavolo, porgendone una anche a me e invitandomi ad un brindisi silenzioso. Dopodiché iniziò a parlare.

“’Adesso, finalmente, siamo al completo. Voi conoscete le mie regole,’ disse, rivolgendosi agli altri cinque ragazzi, ‘ed è ora che le sappia anche Riccardo.’ Bevve un altro sorso di birra, poi si rivolse completamente a me.

“’Noi ci occupiamo del commercio di droghe. Non interrompermi!’ Alzò bruscamente la voce quando feci per ribattere, stupito e piuttosto contrariato. Tacqui e lasciai che proseguisse, benché non fossi del tutto contento della piega che aveva assunto la conversazione. ‘Ci limitiamo a venderle, né più e né meno di un qualsiasi commerciante: ed è qui che entrano le prime regole. Non devi farne uso per nessuna ragione, non me ne frega un cazzo se la tua ragazza ti ha lasciato o se hai voglia di passare una serata diversa: se scopro che ne fai uso ti assicuro che quello che ti hanno fatto quel gruppetto di ragazzini ti sembrerà niente al confronto. Noi facciamo affari con i drogati, ma non siamo come loro. Non voglio tossicodipendenti nel mio gruppo, ho bisogno di gente sveglia che rimanga lucida mentre trattiamo gli affari. Perché è solo di questo che si tratta, bada bene: affari. Non c’è niente di personale, non lo facciamo per noia o per dispetto, ma solo per affari. Neanche te lo immagini quanto riusciamo a guadagnare in una sola settimana, ma sinceramente spero che non tarderai a scoprirlo da solo.

“’C’è un’altra cosa: generalmente partecipo anch’io alle vendite, ma adesso che ci sei anche tu, Riccardo, non c’è più ragione che lo faccia. Vi dividerete in tre zone, mentre io mi occuperò di contrattare con quelli che ci passano la roba: ovviamente non sarò da solo, mio padre mi presta alcuni dei suoi uomini per guardarmi le spalle, quando non posso contare su di voi.

“’Ah, e naturalmente bisogna occuparsi di coprire Riccardo. Alberto, prendi la valigia.’ Disse, in modo forse troppo autoritario, riferendosi al ragazzo che fumava una sigaretta mollemente sdraiato sulla poltrona. Ormai non riuscivo a formulare neppure un pensiero coerente: ero troppo sconvolto da quello che aveva detto Enrico, ed inoltre non riconoscevo più il ragazzo che vedevo tutti i giorni a scuola. Accidenti, il nuovo Enrico mi faceva paura, eppure rimasi e lo ascoltai fino alla fine!

“Quando Alberto tornò in soggiorno con la valigia, la porse ad Enrico e tornò a sedersi sulla sua poltrona, accendendosi con un’invidiabile disinvoltura un’altra sigaretta. Non appena sentii il click della valigetta scattai, voltandomi nuovamente verso Enrico ed osservando tra l’inorridito e l’affascinato il suo contenuto. Nella fodera nera della valigia faceva bella mostra di sé una pistola, con tanto di fondina ascellare e di munizioni.

“’Questa è una Browning Hi-Power, una semiautomatica calibro 9 millimetri: è piuttosto leggera e si adatta perfettamente al nostro lavoro, visto che ha una gittata massima di cinquanta metri e in canna ha tredici colpi.’ Iniziò ad illustrare le funzionalità dell’arma con una sicurezza spaventosa, il che indicava che se ne intendesse parecchio. Io riuscivo solo ad ascoltare, affascinato. ‘Per l’uso che ne facciamo noi è perfetta, visto che serve solo per le situazioni di estremo pericolo. Giusto per non farti strane idee, noi non andiamo in giro a sparare la gente. Questo è lavoro che spetta ad altri.’ Lorenzo e Alberto risero piano come per una battuta che a me sfuggiva, ma bastò un’occhiata di Enrico per farli tacere di colpo.

“Poi si voltò nuovamente verso di me. ‘Sai sparare, Riccardo?’ Chiese, senza traccia di scherno nella voce. Voleva semplicemente una risposta sincera.

“Perciò scossi la testa. ‘No,’ dissi. ‘Non so neppure impugnarla, se è per questo.’ Aggiunsi, indicando la pistola. Non so come mai ero diventato così calmo.

“Enrico annuì, serio. ’Lo immaginavo. Bene, non preoccuparti: avrai modo di imparare. Ma sappi che non ti permetterò di andare in giro disarmato. È un lusso che nessuno di noi può più permettersi.’”

 

Riccardo interruppe bruscamente il racconto, prendendosi la testa tra le mani e trattenendo a stento il tremito di rabbia a lungo repressa che gli percorreva tutta la superficie del corpo. Era chiaro che quei ricordi avevano la capacità di distruggere tutto il suo autocontrollo, e mi dispiacque davvero di essere in parte io la causa del suo malessere. Ma avevo bisogno che continuasse a raccontare, io dovevo sapere, volevo sapere! Volevo sapere che razza di individuo fosse Enrico, dovevo sapere la verità su di lui, in modo da potermi comportare di conseguenza! Non mi sarei più potuta accontentare di ciò che si andava raccontando di lui e della sua famiglia in paese: Riccardo conosceva cose di cui nessun’altro avrebbe mai potuto sospettare l’esistenza, perciò volevo che terminasse il suo racconto.

“Riccardo, per favore.” Mormorai, cercando di attirare la sua attenzione. “Non interromperti proprio adesso... Ho bisogno di sapere anche il resto.”

Lui sollevò la testa, osservandomi a lungo seppur senza vedermi: sembrava che il suo sguardo fosse perso lontano, in un passato che aveva cercato di dimenticare ma che adesso, per colpa mia, era costretto a riportare alla luce.

“Ti prego.” Insistei, guardandolo supplicante.

Finalmente sembrò tornare nel presente, sbatté più volte le palpebre e si passò una mano tra i capelli con un gesto incredibile di insofferenza. Annuì, alzandosi per andare a prendere una bottiglia di birra fredda dal frigorifero, dopodiché tornò a sedersi a tavola: sembrava aver recuperato la forza di volontà necessaria per continuare la sua storia. Bevve un lungo sorso di birra, dopodiché posò la bottiglia sul tavolo e mi guardò attentamente.

“Molto bene.” Mormorò a sua volta, annuendo gravemente. “Dove eravamo rimasti?”

 

 

 

 








_____________________________________________________________________________

Note dell'Autrice:
Primo spazio riservato alle mie note ^^ Allora, premesso che io non mi intendo molto di armi e motori, non credo di essere riuscita a descrivere bene nè la pistola di Riccardo e nè la moto di Enrico... Limitandomi a dirne il nome! Comunque, per facilitarvi la comprensione, ecco qui:

S 1000 RR
Browning HI-Power

Spero che il concetto sia arrivato!! :) Un bacio al prossimo capitolo!!


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Capitolo 12
*** Capitolo XII. ***


Note a fine capitolo. Buona lettura! =)


 

 

 Capitolo XII

 

 

 

 

“Quella sera non accadde nient’altro di così importante. L’argomento che più mi premeva approfondire sembrava essere stato chiuso, e per il resto della serata ci comportammo come dei normalissimi ragazzi del liceo. Dovevo aver fatto una buona impressione ai compari di Enrico, o almeno quasi a tutti, visto che fecero subito in modo di farmi sentire parte del gruppo. Sembrava che la pistola che giaceva nella valigetta non avesse per loro lo stesso valore che le avevo da subito attribuito io. Ma, come compresi presto, avrei fatto meglio a farci l’abitudine.

“Quando Enrico mi riaccompagnò a casa, mi consegnò definitivamente la valigia con la pistola, raccomandandomi di tenerla al sicuro e di non nasconderla troppo bene, dato che presto ne avrei dovuto fare uso. Non compresi il significato di quelle parole, ma non ebbi il tempo di chiedergli spiegazioni, dato che già era andato via. Così, non mi rimase che rientrare in casa e affrettarmi a raggiungere la mia stanza prima che mia madre potesse vedermi armato. Per fortuna lei e Anastasia stavano già dormendo, così potei dedicarmi alla ricerca di un posto dove nascondere la pistola.

“Dopo averci pensato a lungo, decisi che avrei fatto meglio a nascondere la valigia sotto il letto, vuota naturalmente, e nascosi invece la Browning in un cassetto dell’armadio, sotto strati e strati di felpe e biancheria, dove mia madre raramente metteva mano. Per un po’ quel nascondiglio avrebbe funzionato, in seguito avrei pensato a qualcosa di più definitivo e sicuro: per il momento volevo solo gettarmi a letto e dormire.

“Il mattino dopo andai a scuola, come tutti i giorni. Come sempre, non appena entrai in classe cercai con lo sguardo Enrico, che era già seduto al suo posto e che si voltò solo per salutarmi con un cenno del capo. Stranamente non mi rivolse la parola per tutto il giorno, neppure alla ricreazione, tanto che durante tutte le lezioni non potei fare a meno di pensare che si era già pentito di farmi entrare nella sua ‘compagnia’. Col senno di poi, posso dire che sarebbe stato cento volte meglio se fosse andata così, ma allora... Oh, non potevo saperlo.

“Tuttavia, alla fine delle lezioni mi si avvicinò, portandomi un braccio dietro le spalle in un modo del tutto innocuo e insospettabile. “Alle sei vengo a prenderti,” sussurrò. “Prendi tutta la roba che ti ho dato, non dimenticarti nulla.”

“Lo fissai, cercando di chiedergli a che cosa potesse servirmi la pistola quella sera, ma lui mi fece un chiaro cenno di tacere. “Stasera.” Ribadì, con decisione. Dopodiché sparì in mezzo agli altri ragazzi.

“Quella sera attesi con impazienza il suo arrivo: alle cinque e mezza ero già pronto, seduto sul bordo del divano in attesa dello squillo del campanello che mi avrebbe annunciato la sua presenza. Nello zaino che tenevo tra le gambe avevo infilato tutto quello che mi aveva detto, la Browning insieme ai caricatori e la fondina: la valigia l’avevo lasciata sotto il letto. Ritenevo che, qualsiasi cosa avesse avuto intenzione di farmi fare, sarebbe stata assai difficile cercare di farla passare inosservata.

“Finalmente, il citofono squillò. Salutai mia madre e corsi giù per le scale prima che lei potesse affacciarsi a vedere con chi stavo uscendo, cosa che volevo, per il momento, evitare. Come avevo immaginato, Enrico era accanto alla sua moto, a braccia incrociate, aspettando che lo raggiungessi. Mi venne incontro con un mezzo sorriso, stringendomi la mano e porgendomi un casco.

“’Dove andiamo?’ Chiesi, salendo sulla moto dietro di lui.

“Tuttavia lui non rispose. ‘Lo vedrai.’ Si limitò a dire, enigmatico.

“Come c’era da immaginarsi, Enrico mi portò nella sua casa di campagna, quella dove ha portato anche te, Giulia, dove avremmo potuto esercitarci con le armi senza essere disturbati. Chi avesse sentito l’eco degli spari avrebbe sicuramente pensato ai cacciatori, e di certo non a due ragazzi che lo facevano per... beh... chiamiamolo hobby. Per la prima volta in vita mia mi ritrovai ad impugnare una pistola. Purtroppo non fu anche l’ultima.

“Trascorsero solo una decina di giorni, durante i quali Enrico mi portò instancabilmente ad esercitarmi con l’ormai mia Browning nel suo terreno, senza la presenza degli altri suoi amici che, a quanto diceva, potevano distrarmi e rallentare il processo di apprendimento. Per essere solo un ragazzo di diciassette anni la prendeva tremendamente sul serio, ma capivo da solo che uno come lui doveva essere stato abituato quasi sin da piccolo a mostrarsi duro e pronto a tutto.

“Non fraintendetemi, non lo sto giustificando... Ma allora mi sembrava un ragazzo da ammirare e da prendere come punto di riferimento, per quanto le sue ‘attività extrascolastiche’ fossero alquanto discutibili.

“E questo ci porta alla mia prima notte da complice dei suoi traffici.”

 

Riccardo tacque momentaneamente di raccontare, portandosi la bottiglia di birra alle labbra e bevendone un lungo sorso, come se questo avesse potuto aiutarlo a raccogliere meglio i ricordi di quei non certo piacevoli eventi. L’espressione che aveva sul volto esprimeva un dolore tale che non avevo mai visto sul viso di nessuno, e durante tutta quella serata odiai Enrico come non l’avevo mai fatto. Se qualcuno era capace di far soffrire in quel modo un ragazzo grande e grosso come Riccardo, la sua crudeltà doveva essere davvero inimmaginabile...

Alessandra sembrava soffrire con lui, ma c’era qualcosa nei suoi occhi che mi fece capire che vi era ben altro oltre la semplice e amichevole preoccupazione, e non si trattava solo della cotta di cui mi faceva una testa tanto ogni giorno: no, conoscevo quello sguardo, e sapevo che c’era dell’altro... Beh, se davvero era così, in fondo ero contenta per loro: Riccardo aveva bisogno di non essere più solo, e la mia amica aveva bisogno di qualcuno da amare. E quanto a me... Io avevo solo bisogno di sapere come continuava il racconto di Riccardo.

 

“Quella notte guidava Alberto, era un sabato come tanti altri anche se noi non eravamo proprio dei ragazzi comuni. Come Enrico mi aveva spiegato più volte, non saremmo andati alla Favola, visto che quella discoteca entrava nel raggio del suo territorio e lui non voleva nel modo più assoluto che i suoi clienti fossero anche i suoi stessi concittadini. Credo che in realtà temesse che qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo, ma non lo ammise mai. Non davanti a me, comunque.

“Perciò, ricordo che ci impiegammo almeno un’oretta buona prima di arrivare alla discoteca che invece Enrico aveva designato come centro principale dei suoi traffici, o almeno quello di cui si occupava personalmente. Il buttafuori lo fece passare con un mezzo sorriso, senza battere ciglio: era incredibile quanti contatti avesse quel ragazzo, all’epoca non ero ancora del tutto consapevole di quanto grande fosse la sua influenza e quella della sua famiglia. Una volta dentro, Enrico si diresse automaticamente verso una saletta divisa da un separé orientale dal resto della sala, nella quale prese posto come se si trovasse a casa sua. Mi fece cenno di sedermi accanto a lui, poi mi porse uno dei menù e sorrise.

“’Funziona così, Riccardo.’ Esordì, parlando a bassa voce. ‘Ancora non ti ho spiegato il perché della mia squadra... Molte ragazze, a quanto pare, ci trovano parecchio attraenti: bene, spero che tu sappia sfruttare questa tua caratteristica, perché il tuo lavoro consiste nell’avvicinare le ragazze che vedi sedute, ovviamente sole, ai tavoli... Loro faranno finta di non sapere perché sei lì, ma in realtà sanno perfettamente cosa nascondi nelle tasche e sotto la giacca.’

“Ammiccò in direzione di Alberto, prima di continuare. ‘La mia spiegazione non ti servirà a niente... Ora guarda cosa fa Alberto, e cerca di memorizzare ogni suo gesto.’

“Come se non avesse aspettato altro, il nostro compagno si alzò con disinvoltura dal tavolo, prendendo un bicchiere di qualche alcolico sconosciuto dal vassoio di un cameriere che passava accanto a noi. Sempre sorseggiandolo attraversò la sala, finché non raggiunse un tavolo occupato da tre ragazze che ridevano maliziose tra di loro alla vista del ragazzo che prendeva posto di fronte a loro. Dubitavo che quelle tre potessero avere più di quindici anni: il trucco pesante e i vestiti scollati e provocanti denotavano, al contrario, una furiosa voglia di crescere che le ragazze più grandi e mature avevano abbandonato da tempo. Ad ogni modo,  non era quello che mi interessava. Il mio sguardo si puntò solo su Alberto, e cercai di non perderlo di vista per un solo momento.

“Notai che si comportava come se le conoscesse da sempre: aveva iniziato a chiacchierare con un dolce sorriso dipinto sul volto per far diminuire l’involontario disagio delle sue clienti, malgrado tutto troppo giovani per comportarsi con la spudoratezza che sarebbe stata più appropriata alla situazione. Eppure, solo pochi minuti dopo, una di loro lo seguì docilmente alla toilette.

“Sapevo cosa sarebbe successo, e potete benissimo immaginarlo anche voi. Lui l’avrebbe presa, e dopo le avrebbe consegnato la merce per lei e le sue amiche; e solo in seguito l’avrebbe riaccompagnata al suo tavolo e sarebbe poi tornato da noi. Era tutto molto semplice.

“Beh, io non approfittai mai di questa occasione per comportarmi come loro: portarle in un posto appartato era d’obbligo, in modo che nessuno avrebbe potuto sospettare di niente, ma non feci mai nulla che andasse oltre l’aspetto professionale. Grazie a Dio, non ebbi mai neppure l’occasione di usare la pistola, se è per quello.”

 

A quel punto, Alessandra non riuscì a trattenere oltre la sua curiosità. Posò il bicchiere sul tavolo e, sporgendosi verso di lui, chiese: “Ma che cosa ti ha spinto a lasciare Enrico? Voglio dire... Malgrado tutto, sembra  che  le cose tra di voi stessero andando bene...”

In effetti me lo stavo chiedendo anch’io. Era da quando avevo sentito Enrico chiamare Riccardo ‘traditore’ che volevo saperne il perché. Dopotutto, nella storia che ci aveva raccontato il nostro amico non sembrava esserci traccia di nessun tipo di rancore da parte di entrambi, anzi, Enrico si comportava da amico nei suoi confronti, lo aveva addirittura vendicato in quella faccenda dei ragazzi delle professionali.

Perciò, il motivo del loro odio reciproco continuava a rimanere un mistero.

Ma, grazie alla domanda di Alessandra, Riccardo saltò subito alla parte conclusiva della storia.

 

“In realtà è più semplice di quanto possiate immaginare,” disse, con un sospiro.

“Una notte, decisi che ne avevo abbastanza. Erano trascorsi parecchi mesi da quel primo giorno in discoteca, la scuola era finita e io stavo dando l’ultima ripassata generale prima degli esami. Ma quella sera ricevetti una telefonata da parte di Enrico. Quella volta aveva voglia di puntare in alto, di colpire grosso. Ed io purtroppo non riuscii a dirgli di no.

“Come compresi solo più tardi, non si trattava di una ‘normale’ serata di affari. A quanto pareva, alcuni clienti del padre erano stati poco fiscali e puntuali nei pagamenti, anzi, a quanto ci disse Enrico, avevano proprio dimenticato di versare alcuni conti corrente, confidando forse nel fatto di vivere lontani dal territorio centrale degli Occhi Belli. Tuttavia, purtroppo per loro, non così lontani.

“Sempre stando alla versione di Enrico, suo padre gli aveva ordinato di stare fuori da quella faccenda e soprattutto lontano da quegli individui, visto che erano pesci troppo grossi per potersene occupare lui. Ma il nostro amico decise al contrario che quella sarebbe stata l’occasione buona per dimostrare alla sua famiglia quanto valeva, in modo che il padre iniziasse ad affidargli incarichi ben più importanti che lo elevassero agli occhi di tutti. Perciò, prendemmo la macchina e andammo alla ricerca di questi fantomatici clienti.

“Beh, non furono difficili da trovare. Ci sono delle persone che preferiscono non cambiare spesso luogo d’incontro, anche se così facendo c’è il rischio di attirare troppo l’attenzione della giustizia; per quanto questa sia, spesso e volentieri, loro alleata. Ad ogni modo, li trovammo in un albergo che frequentavano abitualmente, e la ragazza che c’era alla reception non fece storie quando Enrico le chiese il loro numero di stanza; dopotutto, non si può negare che sappia usare il suo fascino e bell’aspetto.

“Scoprimmo presto che quello che aveva detto il vecchio Occhi Belli non era un’esagerazione: si trattava davvero di gente di un certo... calibro, e solo guardandoli si coglieva l’antifona di ‘stargli lontano’. Sembravano catapultati in un film de Il Padrino, e la cosa terribile era che quei tipi non avevano per niente l’aria di voler scherzare o perdere tempo con dei ragazzini.

“Parlare si rivelò inutile in partenza; non appena Enrico si fu presentato, i due scimmioni che facevano da guardaspalle al capo tirarono fuori le pistole, e prima che ce ne rendessimo quasi conto era iniziata la sparatoria. Più per la paura che per il vero obiettivo di colpire qualcuno, mi ritrovai a sparare a tutti e a nessuno, stando solo attento a non colpire i miei compagni. La stanza si trasformò in un vero inferno, non credo di aver mai visto tanto sangue in vita mia, e i colpi sparati a pochi centimetri dalle mie orecchie mi assordavano, perciò persi la poca cognizione della realtà che mi era rimasta. Alla fine si scaricò il caricatore della mia Browning, e solo in quell’istante realizzai che cosa era successo, di cosa ero stato complice. Gettai la pistola per terra e mi guardai intorno, ma non c’era nessun silenzio, nessun attimo di riflessione, niente. Fuori dalla porta sentivamo urla e colpi sulle pareti, e prima che qualcuno riuscisse ad entrare ci dirigemmo tutti e sette verso la finestra. Io e Enrico rimanemmo per ultimi.

“Si voltò verso di me, il volto trasfigurato dalla rabbia. ‘Prendi la pistola, cazzo! Ci sono le tue impronte!’

“Mi voltai con una lentezza che lo disarmò, tanto che mi diede una spinta per esortarmi. Gli altri si erano già calati giù dal balcone – per fortuna eravamo solo al secondo piano – e quando tornai dentro la camera l’unica cosa che c’era erano i cadaveri di tre persone sul pavimento. La mia pistola era accanto alla mano aperta di uno di questi, e dovetti reprimere un conato improvviso per riuscire ad avvicinarmi, afferrarla e correre nuovamente verso la porta a vetri dove Enrico mi stava ancora aspettando.

“Mentre scavalcavo il davanzale, sentii la porta dell’appartamento cedere sotto i colpi insistenti di coloro che erano accorsi già dai primi spari, e le urla dei primi che videro i cadaveri. Poi mi lanciai nel vuoto, e poi... Più niente.

“Mi risvegliai in macchina, madido di sudore e coperto di sangue, circondato dagli altri ragazzi. Erano tutti parecchio scossi, ma credo che nessuno lo fosse più di me. Di che cosa ci eravamo fatti complici? Ma l’unico pensiero coerente che la mia mente riusciva a produrre era questo: se continuo a stare con loro, a frequentarli, a quante altre occasioni simili dovrò assistere?

“Fortunatamente, dal giorno dopo in poi, per quasi un mese, ebbi la scusa degli esami che mi tenne occupato per tutto il tempo: studiavo come un forsennato mattina e sera per cercare di non pensare a quella notte, a quei corpi, e riuscii a strappare un novanta alla maturità. Ma nel mentre avevo anche pensato a lungo a cosa fare. Non sarei più rimasto con Enrico e i suoi. Basta. Non volevo più averci nulla a che fare, avevo deciso. Rimaneva solo una cosa da fare, e cioè dirlo ad Enrico.

“Come potete immaginare, lui non la prese molto bene. Dire che era incazzato è solo un gentile eufemismo. Tuttavia mi lasciò andare, facendomi però giurare di non dire mai a nessuno le cose che avevo visto e sentito. O meglio, minacciandomi che, se mai qualcuno ne fosse venuto a conoscenza, se la sarebbe presa con la mia famiglia. Mia madre era incinta, e Anastasia era piccola, e lui lo sapeva. La posta in gioco era troppo alta, perciò non dissi mai niente.

“Voi siete le prime a cui lo racconto, dopo sei anni.”

 

E con questo, si concluse il racconto di Riccardo.

Non ci fu nessun applauso, nessun pianto, nessuna obiezione, come spesso accade nei film.

Solo silenzio.

E paura, tanta.

La mia.

 

 

 






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Note dell'Autrice:
E così, eccomi tornata. Dopo quasi tre mesi di assenza - di cui vi chiedo umilmente perdono, davvero, ma purtroppo, tra impegni vari e poca ispirazione, non ho potuto fare altrimenti - la mia mente - a questo punto potete tranquillamente dire "malata"! - ha partorito il 12 capitolo.
E che parto, oserei dire. L'ultima parte è stata scritta d'un fiato, la pubblico senza nemmeno osare rileggerla perchè ho paura di cancellarla del tutto, ma mi ci è voluto molto per trovare una "degna" conclusione al racconto di Riccardo, volevo qualcosa che colpisse i lettori e che colpisse la mia protagonista, ovviamente. La sua storia, come già forse si era intuito, non è una storia facile, ma a me del resto le storie che filano lisce come l'olio non sono mai piaciute. L'unica cosa che temo è di aver calcato un pò la mano, di avere esagerato, insomma. Ma questo potrete dirmelo solo voi! =)
Spero di aver reso l'idea, comunque. Enrico non stava uscendo molto bene nei precedenti capitoli, spero invece di essere riuscita a trasmettergli un pò dell'oscurità e della... mmh... magari malvagità è una parola troppo forte, però ecco, io me l'ero immaginato con l'animo molto più nero di come invece l'ho dipinto finora!
Bene, con questo concludo. Mi farà piacere trovare nuove recensioni, mi spingono ad andare avanti e mi dimostrano che, forse, questa storia non è un completo disastro. Inizio a scusarmi sin da ora se gli aggiornamenti non saranno molto puntuali (quest'anno ho la maturità e ho poco tempo a disposizione...)
Un bacio a tutte quante, non mi stancherò mai di ringraziare chi recensisce, chi legge senza recensire, chi mi ha aggiunta tra le preferite e le seguite... Insomma, Grazie Mille! =)
Al prossimo capitolo =*

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII. ***


...

Riassunto delle puntate precedenti.

Giulia è una ragazza di diciassette anni come tante, con un solo problema: è diventata la nuova preda di Enrico Occhi Belli, il giovane figlio del boss locale che gestisce i vari traffici di armi e droghe dei dintorni, incutendo timore in chiunque senta anche solo il suo nome. Giulia è appena venuta a conoscenza dei trascorsi del ragazzo dall'ex compare di quest'ultimo, Riccardo, nuova fiamma della migliore amica della nostra protagonista. Enrico ha detto chiaro e tondo che se Giulia non accetterà di uscire con lui, lui non esiterà a far del male ai suoi amici... Come si evolverà la situazione?

Fine del riassunto.

Buona Lettura ^^





Capitolo XIII
















“Giulia, stiamo uscendo! Ti serve qualcosa?”

“No, mamma!”

“Allora a più tardi, tieni la porta aperta così se squilla il telefono è la volta che forse lo senti!”

“Okay, ciao!”

Tornai con calma in camera mia, massaggiandomi la gola indolenzita. Non capivo perché ogni volta che dovevano uscire avevano il bisogno di urlarmi raccomandazioni dal piano di sotto... Ad ogni modo, attesi di sentire la macchina di mio padre accendersi e scendere nel vialetto di casa, e solo dopo essermi accertata che fossero usciti mi rimisi le cuffie del mio fidato Ipod.

Canzoni tristi e angoscianti, ovviamente, visto che ero solita ascoltare la musica a seconda del mio stato d’animo: e non si poteva certo dire che in quel momento fossi serena e tranquilla. E d’altra parte, come avrei potuto esserlo? Solo due giorni prima Riccardo mi aveva raccontato delle cose inenarrabili, che in passato non avrei nemmeno lontanamente immaginato, e che invece per lui erano state all’ordine del giorno.

Che Enrico fosse in un brutto giro si sapeva, come si è certi del sorgere e del tramontare del sole. Ma che la situazione fosse così grave, mio Dio... Si parlava di armi, omicidi... No, anche il solo pensarci mi metteva i brividi; sarebbe stato indubbiamente più semplice fingere che la storia di Riccardo fosse stata inventata di sana pianta in modo da spaventarci e spingerci a stare lontano da lui, eppure c’erano cose, troppe cose che coincidevano... Avevo fatto alcuni calcoli, e il giorno seguente alle rivelazioni di Riccardo mi ero rimboccata le maniche per documentarmi meglio sulla faccenda. Avevo cercato in Internet tutte le notizie e gli articoli di giornale che risalivano a sei anni prima, e quello che avevo trovato mi aveva fatto letteralmente rizzare i capelli.

L’ennesima tragedia si è consumata, ieri notte, nel lussuoso Hotel ***, dove uno dei clienti più abbienti e affezionati è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco insieme a due delle sue guardie del corpo...

Seguiva una lunga e accurata descrizione della scena del crimine, e il commento del giornalista che ammetteva che non erano state trovate impronte digitali per risalire agli assassini, di cui si pensava che potessero essere un gruppo di ragazzi non meglio identificati dalla receptionist. E poi, ancora, mentre scorrevo i vari articoli, le notizie si susseguivano in un crescendo di dati, nomi, cifre e foto...

...Uno dei cadaveri è stato riconosciuto come il Russo, un noto trafficante di armi e droga di San Pietroburgo che da qualche tempo aveva spostato il suo giro di affari nei nostri territori... un pareggiamento di conti?... Il Russo, così come anche i suoi due uomini trovati morti con lui, era sempre riuscito a scampare alla giustizia, malgrado gravasse sulla sua testa una pesante condanna di quattro ergastoli, trent’anni per evasione fiscale e venti per violenza sessuale...

Ad un certo punto avevo dovuto smettere di leggere, perché più cose scoprivo di quel fatto meno voglia mi veniva di uscire di casa con il pericolo di incontrare Enrico. Che cosa ne sapevo io, infatti, se anche su di lui gravavano di condanne come quelle? Anche se non aveva alzato un dito su di me, chi mi assicurava che non l’avrebbe fatto la prossima volta, se mai ce ne fosse stata una? Certo, l’idea di trascorrere tutta l’estate chiusa in casa non era molto allettante, ma di sicuro era preferibile alla prospettiva di venire nuovamente rapita.

Tuttavia, non ero sicura di voler paragonare Enrico ad un individuo come il Russo, mi sembrava un confronto azzardato e senza fondamenta. Forse Occhi Belli padre ne sarebbe stato anche all’altezza, ma il figlio... No, non potevo capacitarmi del fatto che un ragazzo appena più grande di me potesse essere capace di simili cose. Okay, aveva ventiquattro anni, ma sinceramente non riuscivo ad immaginarmelo mentre impugnava una pistola e faceva fuoco, checché ne dicesse Riccardo. E, se è per questo, non riuscivo a immaginarmi nessuno dei due in una simile situazione.

Ma dopotutto, io ancora non li conoscevo...

Sbuffando mi gettai sopra il letto, nascondendo il viso nel cuscino. Come sarebbe stato bello premere un pulsante per riavvolgere le ultime settimane della mia vita e cancellarle definitivamente! Mi avrebbe fatto davvero molto comodo... E invece, niente. Dovevo arrendermi all’idea che adesso mi trovavo letteralmente nei casini fino al collo, e sarei anche affogata senza che nessuno potesse fare qualcosa. Parlarne con mia madre era fuori questione, no... Anzi, dovevo fare in modo che i miei genitori non venissero mai a saperlo. E se avessero davvero coinvolto i carabinieri, la polizia? Enrico poteva prendersela con chiunque di loro...

No, no, dovevo smetterla di pensarci. E soprattutto di vedere certi film. A furia di guardare quei thriller da cardiopalma tipici dei miei genitori stavo diventando paranoica e ansiosa. Anche se, accidenti, con quello che stavo passando...

Con un gesto arrabbiato mi strappai le cuffie dell’Ipod dalle orecchie, gettandolo dall’altra parte del letto: un’altra canzone del genere e mi sarei buttata dalla finestra! Avevo bisogno di riposare... Mi strinsi il cuscino al petto e chiusi gli occhi, aspettando che giungesse un bel sonno ristoratore e pregando che non portasse con sé altri incubi.

Non sono sicura di essermi effettivamente addormentata, quel pomeriggio, ma probabilmente non ne ebbi il tempo materiale. Dopo neanche una decina di minuti che ero a letto, sentii dei rumori provenire dal piano di sotto, leggermente attutiti a causa della porta chiusa. Ovviamente non mi preoccupai, o almeno non subito, dato che è da quando ero bambina che sento tutti i rumori e gli scricchiolii di casa mia quando rimango sola a casa: certe cose non si perdono con l’età. Comunque, quella volta ero certa che non si trattasse né del mio cane, né tantomeno dei gatti... E dubitavo fortemente che si potesse trattare anche dei miei genitori, visto che non avevo sentito la macchina.

Perciò, iniziai a preoccuparmi seriamente.

Mi alzai cauta dal letto, decidendo che, se davvero si trattava di un ladro, avrei dovuto fare molta attenzione: non potevo sapere se era armato, infatti. Sfortunatamente l’unica arma di difesa presente in camera mia era un ombrello, ma lo afferrai lo stesso, brandendolo come se fosse stata una mazza da baseball. Avrei riso davvero tanto se avessi scoperto che il rumore era causato solo dai miei gatti che giocavano in cortile, ma nel frattempo era meglio essere cauti. Aprii lentamente la porta della mia stanza, rimanendo seminascosta dietro la parete, e solo dopo aver preso dei profondi respiri decisi di affacciarmi fuori.

A quel punto non potei davvero trattenere un urlo spaventato. Cercai di richiudere velocemente la porta per blindarmi al suo interno e telefonare ai miei genitori, ma l’intruso riuscì a bloccarla facendo semplicemente forza con le braccia, come se non fosse pesante da tenere con una sola mano. Alla fine lasciai andare la maniglia e indietreggiai fino all’interno della camera, continuando a brandire l’ombrello.

La sua risata mi fece venire voglia di ucciderlo.

“Andiamo, Giulia... È così che si accolgono gli ospiti?”

“Non fare un altro passo, Enrico!” Replicai, cercando di non perdere di vista il suo più minimo movimento. “Cosa diavolo ci fai in casa mia? Come accidenti hai fatto ad entrare?!”

Lui sorrise, divertito. “Se mi fai accomodare gentilmente, magari posso anche risponderti.” Disse, incrociando le braccia.

Sbuffai. “Non sono per niente in vena di scherzare con te, Enrico. Non è il momento. Parla e smettila di sparare tutte queste stronzate.”

Il suo sorriso si allargò, mentre sollevava le mani in segno di resa e mi osservava gentile. “Va bene, come vuoi. Ammetto che hai ragione. Come sono entrato?” Sospirò, come se la cosa fosse del tutto scontata. “Ho aspettato che i tuoi genitori uscissero di casa e poi sono passato dal cancello prima che si richiudesse... Nulla di così difficile. Inoltre, la porta era aperta.”

Avrei voluto prenderlo a schiaffi. Ma come si permetteva? Non bastava tormentarmi in discoteca e rapirmi, adesso veniva anche a casa mia? Credeva di poter fare quello che voleva solo perché era un Occhi Belli?

“A proposito... Sai che tua sorella è proprio una bella bambina?”

Non ci vidi più; lasciai cadere a terra l’ombrello e mi precipitai verso di lui, sollevando una mano con l’intenzione di schiaffeggiarlo. Sfortunatamente lui comprese le mie intenzioni perché mi bloccò il braccio a mezz’aria, con un’aria non più tanto divertita. Meno male, mi ero stancata del suo sorrisetto arrogante.

“Che ti prende?” Sibilò, leggermente arrabbiato.

Al contrario, io ero del tutto furiosa. “Lascia stare mia sorella!” Esclamai, tremante. “Lascia la mia famiglia fuori da questa storia, non provare ad avvicinarti a loro nemmeno per sbaglio!”

“Credi che se avessi voluto far loro del male non l’avrei già fatto?” Ribattè, stringendo la presa sui miei polsi e strappandomi un gemito di dolore. “Mi sembra di averti dimostrato di rispettarti più di una volta.”

Non potei trattenermi dallo sbuffare. “Certo, come no! Perché magari l’essere entrato di nascosto, come un ladro, in casa mia è un segno del tuo rispetto, vero? E anche rapirmi è sempre segno di rispetto? Abbiamo proprio delle concezioni diverse su questi termini, Enrico.”

Improvvisamente mi lasciò andare, facendomi barcollare e indietreggiare prudentemente.

“Sono solo venuto a portarti la roba che hai dimenticato a casa mia.” Disse con voce neutra, gettando una borsa sul mio letto. “C’è anche il tuo cellulare, pensavo ti servisse.”

Non potei impedirmi di usare un tono grondante sarcasmo. “Oh, davvero molto gentile da parte tua. Dovrei anche fare qualcosa per ringraziarti?”

Questo mi fece guadagnare un’occhiataccia da parte sua, che però si trasformò in uno sguardo malizioso che non mi piacque per niente. Ed ero di nuovo sola con lui…

“Faresti bene a non tentarmi con simili proposte, Giulia, perché potrei anche approfittarne…” Mormorò, avanzando di qualche passo.

“Ti ho già detto di starmi lontano,” ripetei, non troppo convinta. Il ricordo delle sue labbra bollenti sul mio collo era ancora troppo vivido e recente, e decisamente non volevo che ricapitasse una cosa simile. Più manteneva le distanze meglio era.

Come se avesse intuito lo scorrere dei miei pensieri, sorrise. “Non ti ho mai costretto a fare qualcosa contro la tua volontà, Giulia…” Sussurrò facendosi più vicino, riuscendo a farmi indietreggiare fino alla parete. Oh no, merda, non di nuovo

“Beh, sei venuto a riportarmi le mie cose, giusto? Ora te ne puoi anche andare…” Dissi, sforzandomi di sembrare tranquilla come se avessi avuto tutto sotto controllo. Si, come no…

Ridacchiò piano, come se fosse stato contento di avermi intrappolata un’altra volta. “Andiamo, Giulia, mi mandi via così? Senza neppure ringraziarmi? Non è molto corretto da parte tua…”

Deglutii, chiudendo gli occhi per dimenticare la sua terribile vicinanza. “Accidenti, Enrico, cosa diavolo vuoi da me?”

Sentii il suo respiro sul collo mentre mi rispondeva, parlando a bassa voce. “Mi sembra di avertelo detto… Permettimi di invitarti ad uscire, qualche volta… Ti prometto che mi comporterò bene…”

Mentalmente gli diedi del pazzo. “Spiegami perché dovrei fidarmi di te! Dimmi perché dovrei dirigermi di mia spontanea volontà tra le fauci del leone!” Esclamai, osando finalmente aprendo gli occhi per guardarlo.

Lui aveva di nuovo quell’irritante sorriso. “Mi piace come immagine, sai?” Poi dovette accorgersi della mia espressione nervosa e arrabbiata perché si affrettò ad aggiungere, sempre con il medesimo sorriso: “Ma ti assicuro che le mie intenzioni sono più che onorevoli. Ti puoi fidare di me, dico sul serio.”

Sospirai, distogliendo lo sguardo da lui. Avevo altre alternative, dopotutto? Anzi, magari se avessi accettato di uscire con lui per un po’ lo avrebbe fatto felice, e quando si sarebbe stancato di me io sarei sparita dalla sua vista come se non fossi mai esistita, e tutto sarebbe tornato normale sia per me che per lui, per quanto mi potesse interessare.

E di sicuro io non avrei fatto menzione di quello che sapevo grazie alle rivelazioni di Riccardo, perché ancora non ero tanto stupida da tirarmi la zappa sui piedi per il semplice gusto di farlo. Avrei cercato di trattarlo come un comune ragazzo al pari di Federico o Matteo, senza pensare al fatto che possedeva una pistola – sperando che non ne avesse altre – e che probabilmente la usava spesso. Ma al di là di questo, cosa c’era che poteva impedirmi di accontentarlo per un po’? D’altronde non stavo firmando nessun patto col diavolo. O almeno questo era quello di cui stavo cercando di convincermi.

“Va bene, facciamo come vuoi tu, allora.” Mormorai alla fine, senza volergli dare la soddisfazione di dirlo ad alta voce.

“Oh, perfetto! Era questo che volevo sentire.” Esclamò con un sorriso se possibile ancora più largo, puntando le mani contro il muro e avvicinando pericolosamente il volto al mio. “Sei davvero una ragazza giudiziosa, Giulia.”

Deglutii, distogliendo lo sguardo da lui e facendolo scorrere sul resto della stanza che intravedevo da dietro le sue spalle; era incredibilmente alto, tremai al pensiero di quello che avrebbe potuto fare se… Oh Dio, perché devo terrorizzarmi da sola? Io e le mie manie di protagonismo…

“Okay, hai ottenuto quello che volevi, Enrico. Perché adesso non te ne vai? Avrei da studiare.”

Che scusa patetica! Era ovvio che a luglio non avessi nessun genere di compiti da fare, ma questo di certo non volevo che lui lo sapesse. E cacciarlo in malo modo dopo essere uscita palesemente sconfitta da quella battaglia, beh… Non mi sembrava né molto onorevole né tantomeno intelligente.

Mi sembrava già di vedere i titoli del giornale del giorno dopo… Ragazza trovata priva di vita nella sua camera da letto, con brutali segni di violenza sul corpo. La polizia brancola nel buio…

Si beh… Magari stavo un po’ esagerando, e forse il fatto di non aver ancora visto ‘la vita passarmi davanti agli occhi’ avrebbe dovuto tranquillizzarmi, ma… Ero con le spalle al muro, da sola in casa, con la sola – e poco confortevole – figura di Enrico a tenermi compagnia! Davvero una bella mossa.

Tornai sulla terra quando lo sentii ridacchiare, scuotendo la testa. I miei occhi tornarono inevitabilmente su di lui, dato che era sempre meglio tenerlo sotto controllo.

“Proprio non riesci a sopportare la mia presenza, eh?” Mormorò, sfiorandomi una guancia con la punta delle dita. Perché prima non mi ero resa conto di quanto fosse delicato il suo tocco?

Sospirai, sentendo i brividi che quella breve carezza mi aveva procurato. “Diciamo che quello che è successo l’altro giorno mi ha un po’ spaventata…”

Mezza bugia: se stavo tremando era per la maggior parte a causa delle rivelazioni di Riccardo, e non tanto per il rapimento, che avevo ormai archiviato sotto il nome di ‘Esperienza vissuta’. Piuttosto mi era difficile accettare che le stesse mani che mi stavano accarezzando in quel modo fossero in realtà sporche di sangue… Ed io ero a conoscenza solo di una millesima parte della sua vita, dato che Riccardo se ne è allontanato prima che fosse davvero troppo tardi.

Si, avevo paura. Non mi dava fastidio ammetterlo, ma mi irritava che lui lo capisse.

“Oh, non preoccuparti. D’ora in avanti, non ci sarà bisogno di ricorrere a simili mezzi per stare insieme…” Sussurrò, dolce come il miele e pericoloso come un’ape.

Avrei voluto ribattere con un ‘Sei davvero convinto che io voglia stare con te?’ Ma per fortuna stavo diventando abbastanza saggia da capire che quello era il momento per mordermi la lingua.

Coraggio, Giulia, stringi i denti e resisti. Tanto, quanto potrà mai durare il suo interesse nei tuoi confronti? La settimana prossima si sarà già dimenticato di te, pensai, con un invidiabile ottimismo.

Oh…

Non mi ero mai sbagliata tanto in vita mia.







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Note dell'Autrice:

Accidenti, quanto tempo... L'ultimo capitolo l'avevo pubblicato a novembre... Novembre! Sono passati secoli =O Perdonatemi per l'attesa - ho visto che alcuni dei miei lettori assidui ci hanno rinunciato e mi hanno dato per dispersa - ma avete ragione. E' stato - ed è ancora! - un periodo piuttosto incasinato a scuola, ormai scrivo proprio pochissimo... Diciamo che l'unica cosa che scrivo sono gli appunti in classe... =( Ma mi dispiacerebbe davvero tanto non riuscire a terminare e portare avanti questa storia, mi ci sono affezionata!

Cercherò di aggiornare in tempi meno apocalittici, promesso ^^ Magari ogni due settimane... Studio permettendo!

Intanto ringrazio tutti voi che continuate a seguirmi: Grazie, Thank you, Danke schön, Merci beaucoup, Muchas Gracias!! XD

Alla prossima puntata (a proposito: il riassunto iniziale era d'obbligo, dato che dopo quasi 4 mesi senza storia anch'io mi ero quasi dimenticata ciò che stava succedendo ^_^; ) Un bacione!

Auf wiedersehen =*

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV. ***


Capitolo XIV

















Se ne andò quasi subito dopo.

Lo accompagnai al cancello – più per assicurarmi che uscisse che per semplice cortesia, in realtà – e ritornai di corsa dentro casa, con l’unico desiderio di mangiare qualcosa con un alto contenuto calorico. Avevo avuto un pericoloso calo di zuccheri, e dovevo rimediare il prima possibile.

Una volta rimasta sola con i miei pensieri, mi decisi ad aprire la borsa che Enrico aveva usato come scusa per entrare in casa mia. Effettivamente, dentro c’erano i miei vestiti e, cosa più importante, il mio cellulare: era spento, anche se ero più che sicura di averlo lasciato acceso… Quindi, o si era scaricato nel frattempo, oppure Enrico si era messo a frugarlo; beh, avrei dovuto aspettarmelo. Con un sospiro mi sedetti a gambe incrociate nel letto e lo accesi, digitando automaticamente la password. Chissà se aveva letto i miei messaggi? Arrossii lievemente al pensiero dei messaggi di Matteo che poteva aver trovato, ma alla fine decisi che non mi importava: non era mica il mio ragazzo! Anzi, nessuno dei due lo era, quindi perché avrei dovuto sentirmi imbarazzata?

Scorsi velocemente la rubrica, e poi trovai quello che stavo cercando. Enrico. Ma certo, aveva memorizzato il suo numero nel mio telefondo, Dio che arroganza… Come se sapesse anche prima di venire da me come si sarebbe conclusa la sua ‘visita’! Fissai a lungo quel nome, assorta e indecisa sul da farsi. Gli avrei dovuto mandare un messaggio? Del tipo Domani, davanti alla banca a mezzogiorno in punto o sarebbe stato troppo western?

Mi passai la mano tra i capelli in un gesto innervosito, sbuffando. Stavo diventando matta…

Poi un pensiero mi fulminò, facendomi sgranare gli occhi. Alessandra! Dovevo dirlo a lei, dovevo metterla al corrente del fatto che avevo deciso di uscire con il leone! Cercai il suo numero e feci per avviare la chiamata, ma subito dopo mi bloccai, il dito sospeso sopra il tasto.

Mi avrebbe dato della pazza se l’avesse saputo… Inoltre lei era chiaramente dalla parte di Riccardo, mi avrebbero chiuso a chiave in casa mia senza permettermi di vedere Enrico – non che mi importasse, ma il fatto era che lui avrebbe fatto del male a loro se io non avessi rispettato la promessa fatta…

Avevo vissuto diciotto anni in una specie di campana di vetro, in tutta tranquillità… E ora le avventure e i casini dovevano arrivare tutti insieme? Ma che cavolo!

Gettai il telefono sul letto, decidendo di non chiamare la mia migliore amica. Non ora, almeno, specificai tra me; era ovvio che prima o poi glielo avrei detto, anche perché se l’avesse scoperto da altri sarebbe stato peggio… Dovevo solo trovare il momento giusto per dirglielo. Che poi, adesso che ci pensavo, avevo bisogno che Ale mi coprisse le future uscite con Enrico! Non potevo vederlo di nascosto dai miei genitori e dalla mia amica contemporaneamente, prima o poi sarebbe saltata tutta la copertura. No, dovevo dirlo ad Alessandra. Perciò, con un sospiro rassegnato, presi di nuovo il cellulare e digitai rapidamente un messaggio, inviandolo prima che potessi cambiare idea.

Geme, ti devo parlare. Ci vediamo più tardi?

Se la conoscevo, avrebbe capito già da quel semplice messaggio che c’era qualcosa che non andava, e mi avrebbe risposto subito. Bene, almeno si sarebbe preparata psicologicamente… Non tardò molto, infatti, a rispondere.

Certamente, geme. Vieni a casa mia? E’ tutto okay?

Un altro sospiro. Si si, non preoccuparti… Dai, appena tornano i miei mi faccio accompagnare da te. Mi raccomando, preparami qualcosa di estremamente fritto e che grondi cioccolato…

Riuscii a sorridere debolmente mentre le inviavo quel messaggio: il fatto che riuscissi ancora a sdrammatizzare era un buon segno o semplicemente era sinonimo della mia estrema stupidità?

Lo squillo soffocato del telefono mi avvisò della risposta della mia amica. Ahia, è grave se vuoi strafogarti di cibo… Va bene comunque, la cucina lasciala a me. E portati il pigiama che stasera dormi a casa mia!

Almeno sarei stata al sicuro da Enrico, almeno per quella notte. Perciò annuii, rispondendo affermativamente al suo invito e aspettando il rientro dei miei genitori. Nell’attesa, mi gettai sul letto e ripresi l’Ipod e le sue tristi colonne sonore; si, stavo proprio male.

“Cosa diavolo hai fatto?!”

Osservai senza rispondere Alessandra che sgranava gli occhi, sconvolta, mentre scattava in piedi e faceva su e giù per tutta la larghezza della sua piccola cameretta. Si portava le mani tra i capelli nel mio stesso gesto nervoso – era lei che l’aveva preso da me o il contrario? – e gemeva tra sé. Alla fine si fermò di fronte a me, scuotendo la testa e alzando le braccia al cielo. “Sei del tutto pazza!”

Sospirai, scrollando le spalle; sapevo con una certezza quasi matematica che quelle sarebbero state le sue prime parole.

“Geme, non potevo fare nient’altro…” Provai a dire a mia discolpa, giocherellando con uno dei pupazzi che aveva sopra il letto.

“Non potevi?” Replicò invece, sedendosi nell’altro letto, di fronte a me. “Oh, si invece! Avresti dovuto dirgli chiaro e tondo che non eri interessata a lui, e farlo scendere dal suo piedistallo! Che razza di stronzo presuntuoso ed arrogante!”

Non potei fare a meno di sorridere debolmente, ma tornai seria più in fretta del solito. “Senti geme, te l’ho già spiegato… Ha minacciato di farvi del male! Avrei dovuto dirgli di no dopo che era entrato di nascosto in casa mia con me dentro, e da sola? Chissà cosa cavolo sarebbe potuto succedere!”

Le avevo detto tutto quanto, perciò non c’era proprio niente che dovessi tenerle nascosto; sapeva per filo e per segno quello che era successo, aveva addirittura voluto vedere il numero che lui aveva memorizzato nel mio telefono, dopodichè mi aveva fatto ripetere la storia un’altra volta. E adesso eravamo al punto di partenza, senza nessun odore di soluzione.

“Okay, anche tu hai ragione…” Sbuffò. “Accidenti, sembra senza via d’uscita! Che si fa?”

Scrollai per l’ennesima volta le spalle, lo sguardo perso nel vuoto. “Non lo so…”

Alessandra rimase in silenzio per un po’, intrecciandosi una ciocca di capelli intorno al dito. “Ci vuoi uscire, vero…?” Mormorò alla fine, guardandomi.

Sospirai per l’ennesima volta. “Non è che voglio… Il punto è che devo… Dovrei inimicarmi gli Occhi Belli, secondo te? Ti sei già dimenticata quello che ci ha raccontato Riccardo?”

“È proprio perché non me ne sono dimenticata che te lo sto dicendo!” Replicò, incrociando le braccia.

Questa volta toccò a me sbuffare. “Senti geme, non mi stai rendendo per niente le cose più facili. Lo so che mi sono infilata in un casino più grande di me, ma non è colpa mia! Enrico è un ragazzino viziato, e quando io ci sarò uscita due volte, massimo tre, si stancherà e mi lascerà perdere. Quanto scommetti che la settimana prossima starà già uscendo con qualcun’altra?” Scossi la testa, abbassando la voce. “È solo una situazione temporanea, Ale, fino a quando non ne avrà avuto abbastanza. Stai tranquilla.”

Il problema, a quel punto, era che ero io a non essere per niente tranquilla.

Mi raggiunse, sedendosi accanto a me, e dopo l’ennesimo sospiro si decise a parlare. “Okay, va bene. Allora dimmi, geme… Cosa vuoi che faccia? Sputa il rospo.”

Accennai un debole sorriso, annuendo colpevole. “Era proprio questo che ti volevo dire… Dovresti farmi l’immenso favore di coprire le mie uscite con Enrico. Non posso certo dire ai miei che esco con lui, mi farebbero il terzo grado e non è proprio il caso… Quindi, quando dovrò uscire con Occhi Belli, dovresti assicurarti che i miei non lo vengano a sapere.”

Ale trattenne per un attimo il fiato, preoccupata. “Si, ma… E se ti dovesse succedere qualcosa, mentre sei con lui? Che si fa?”

Scossi la testa, stranamente tranquilla. “Non credo che abbia intenzione di farmi fuori al primo appuntamento!” Dissi, cercando di buttarla sul ridere.

La mia amica però non sembrava molto disposta a stare al gioco. “C’è poco da scherzare…” Disse infatti, aggrottando le sopracciglia.

“Oh dai, geme, ora non esagerare!” Replicai, leggermente scocciata. “E comunque, se proprio vogliamo stare sicure, posso portare quel coltellino a serramanico in borsetta, nel caso la situazione diventi ingestibile. Sei più tranquilla?”

La vidi chiudere gli occhi per una manciata di secondi, prima che scuotesse la testa per l’ennesima volta. “No, non ti ci vedo proprio ad aggredire un ragazzo che è il doppio di te…” Sospirò, poi mi attirò in un abbraccio. “Comunque si, sono più tranquilla. Però tieniti sempre il telefono acceso, okay? Così mi mandi un messaggio ogni tanto per farmi sapere che sei ancora viva.”

“Geme, non sto andando in guerra!” Ribattei, ricambiando l’abbraccio.

“Eh, oddio…”

Purtroppo non potevo fare niente per tranquillizzarla, dato che non lo ero del tutto nemmeno io. Speravo solo che quella storia finisse il prima possibile, in modo da non doverci più pensare. Un po’ come quando si va dal dentista per togliere un dente… Prima si toglie, prima cessa il dolore.

Davvero una bella metafora; avrei voluto che fosse così anche per me, ma… Oh beh, quanto mi sbagliavo…

Non sapevo proprio che cosa accidenti avrei dovuto indossare.

Se avessi messo un semplice paio di jeans con una maglietta a maniche corte – cosa che avevo puntato da subito – si sarebbe sicuramente arrabbiato, dato che nel messaggio aveva precisato di vestirmi in modo elegante. Ma se pensava che avrei messo un vestitino o una gonna solo per far piacere a lui, beh, aveva proprio sbagliato persona!

Okay, sapevo che non era il caso farlo innervosire al primo appuntamento, non sapendo ancora di che cosa fosse realmente capace; così, finii per indossare un paio di pantaloni bianchi e lunghi, a sigaretta, abbinati ad una leggera camicia rossa in lino, con le francesine dello stesso colore. Non troppo elegante ma neanche troppo casual: insomma, era una mise che avrei potuto mettere anche per uscire con Alessandra e che, soprattutto, non avrebbe fatto insospettire i miei genitori. Comunque la giacchina nera avrebbe mascherato un po’ quel completino, per fortuna.

Adesso non mi restava che farmi accompagnare a casa di Ale. Se avessi avuto la patente sarebbe stato tutto più facile, ma avrei compiuto diciotto anni solo tra una ventina di giorni, e di conseguenza non avevo ancora neppure iniziato il corso. Pazienza: avrei dovuto semplicemente dire qualche bugia in più, nulla di che rispetto a quello che avevo intenzione di tenere loro nascosto… Comunque, avevo avvisato la mia amica che mio padre mi avrebbe accompagnato da lei alle otto e mezza, e che l’appuntamento con Enrico – oddio, mi faceva un po’ specie dirlo così, ma bisognava chiamare le cose per quello che erano – sarebbe stato solo una mezz’ora dopo. Fin qui tutto okay, non sarebbe successo nulla di grave. Inoltre gli accordi erano che avrei dovuto dormire da Alessandra, quindi alla fine sarei tornata da lei. Non sapevo che cosa avesse raccontato ai suoi genitori a proposito di quella situazione, ma speravo davvero che, qualsiasi cosa fosse, non avrebbe aggravato la mia già debole posizione.

Perciò, quando arrivai da Ale, non mi rimase che aspettare con lei, sedute sulle poltroncine nella veranda di casa sua, che arrivasse Enrico. Era stata la mezz’ora più lunga della mia vita: quasi non ci scambiammo una sola parola, limitandoci a lanciarci sguardi ansiosi, guardare l’orologio ogni minuto e sussultare ad ogni rumore di macchina che sentivamo in strada. Mio Dio, non credevo che sarebbe stato così terribile aspettare quel ragazzo.

Alle nove in punto poi, puntuale come un orologio, sentimmo una macchina frenare di fronte al cancello della casa della mia migliore amica, e io compresi ancora prima di vederlo che si trattava di lui. Presi un bel respiro, alzandomi dalla sedia, e abbracciando Alessandra con un leggero tremito del braccio.

“Vuoi che ti accompagni alla porta?” Domandò, preoccupata.

Ma io scossi la testa. “No, no. Non voglio che pensi che ho così tanta paura di lui da andare con la scorta. Ci sentiamo più tardi, okay? Ti mando un messaggio non appena ci sono novità.”

Lei annuì, tremendamente seria. “In bocca al lupo, geme.”

Sorrisi, raggiungendo il cancelletto. “Crepi. Ciao, a dopo!”

Una volta in strada, osai sollevare lo sguardo sulla macchina nera decappottabile parcheggiata dal lato opposto al mio.

Enrico era lì, come avevo immaginato. Era sceso dall’auto ed ora era in piedi, poggiato sul cofano della sua cabriolet Focus nuova di zecca, e con un’espressione assurdamente arrogante stampata in volto. E io sarei dovuta uscire con quell’essere? Oh mamma…

Comunque, detesto ammetterlo ma non potevo non pensare che malgrado tutto faceva la sua bella figura. Insomma, era un bel ragazzo, e questo era un semplice dato di fatto. Indossava un paio di morbidi pantaloni neri, una camicia bianca che portava con nonchalance al di fuori di essi, una cravatta a righe allentata intorno al collo e una giacca altrettanto nera che sembrava essersi appena buttato sulle spalle. Le mani erano posate sul cofano, all’indietro, così che la camicia si tendeva sull’addome sottolineandone i muscoli scolpiti.

Non potei impedirmi di arrossire, mentre cercavo di rivolgere lo sguardo da tutt’altra parte. Accidenti, se quello era l’inizio non volevo immaginarmi il seguito… Sarebbe stata una lunga serata.

“Ciao, Giulia.” Mi salutò, con un tono di voce incredibilmente carezzevole e sensuale. Mio Dio, aveva già intenzione di provarci? Beh, gli avrei fatto cambiare idea subito.

Lo raggiunsi cercando di sembrare minacciosa, ma ammetto che l’effetto sarebbe stato migliore se avessi avuto delle scarpe più comode: fare la dura con i tacchi alti otto centimetri non era il massimo.

“Voglio mettere in chiaro subito un paio di cose, Enrico.” Sbottai, non appena gli arrivai di fronte. “Non ho intenzione di assecondare ogni tuo capriccio, sono qui solo perché mi hai gentilmente minacciato, e pertanto sei pregato di limitare le chiacchiere maliziose a zero. Okay?”

Come avrei dovuto aspettarmi il suo volto si aprì in un sorriso, come se fosse maledettamente divertito da quello che gli avevo appena detto. “E sentiamo, di cosa dovremmo parlare?” Chiese, cercando di non ridermi in faccia. Apprezzai lo sforzo.

“Di calcio, se vuoi, o di qualche altro argomento che non sfiori il personale. Vorrei fare in modo che questo non sembri un appuntamento.” Replicai, rendendomi conto, non appena chiusi la bocca, di quanto stupide dovevano sembrargli le mie parole. Oh beh, per quello che mi importava…

A quel punto non riuscì più a trattenersi e ridacchiò, piano, facendosi da parte e aprendomi lo sportello della macchina. “Mi dispiace, Giulia, ma questo non rientra negli accordi. Questo è un appuntamento, e farò anche in modo che sia indimenticabile.” La sua voce era tornata ad essere un dolce sussurro, malgrado io lo stessi guardando come se fosse stato un alligatore che stava aspettando solo il momento buono per saltarmi addosso. “Prego.” Aggiunse, facendomi cenno di salire in macchina.

Mi limitai a sbuffare, salendo in macchina e biascicando un “Grazie” innervosito che tuttavia non sembrò sfiorarlo minimamente. Accidenti, era davvero una testa dura!

Fece il giro dell’auto e poi vi salì con una calma invidiabile, mentre io cercavo di ignorarlo combattendo con la cintura di sicurezza. Vedendomi in difficoltà – non riuscivo a farla scorrere da dietro! – si chinò su di me, afferrandola e facendola scattare nella serratura. Trattenni istintivamente il fiato nel vederlo e nel sentirlo così vicino, e il suo sorrisetto mi confermò che anche lui era palemesemente conscio di quella vicinanza. Ad ogni modo non fece nulla di riprovevole, limitandosi ad allacciarmi la cintura.

“Ammetto che è un po’ dura da togliere.” Disse, tornando al suo posto.

“Già…” Balbettai, guardando dritta davanti a me.

Avevo le guance in fiamme, e non ero con lui che da pochi minuti. Perfetto, davvero perfetto.

Alessandra avrebbe raccolto il mio cadavere alla fine di quella serata.














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Accidenti... Sono di nuovo in ritardo -.-'' Sto scrivendo e studiando talmente tanto, ultimamente, che faccio fatica a concentrarmi su una cosa alla volta! Comunque siamo arrivate al 14 capitolo, alleluja XD Spero che vi piaccia, ma saprete del loro primo appuntamento solo nel prossimo (prego di riuscire a postarlo prima di Natale, oddio ^^'') Scherzi a parte, voglio ringraziare ChasingTheSun, renesme & jacob, XXX_Ice_Princess_XXX, rodney e Merry NIcEssus per aver recensito, le 66 fantastiche persone che l'hanno inserita tra le preferite e le 88 tra le seguite! Sono davvero, davvero tanto commossa :')

Bene, questo è il mio regalino di Buona Pasqua! *-* Inoltre, vorrei mostrarvi Enrico come io me l'immagino in questo capitolo...

Enrico Occhi Belli

E questa è la sua macchina!

Cabriolet Ford Focus

Bene, spero vi piacciano entrambi +____+ E con questo vi saluto! Un bacione, al prossimo capitolo!

Ciao ciao ^^

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Capitolo 15
*** Capitolo XV. ***


Capitolo XV









Well, it's a marvelous night for a moondance
With the stars up above in your eyes
A fantabulous night to make romance…















Eravamo in macchina da circa cinque minuti; io cercavo di ignorare l’alta velocità tenuta dal mio accompagnatore guardando il paesaggio fuori dal finestrino, eppure non avevo ancora capito il perché del nostro abbigliamento semi-elegante.

Presumo che parte della colpa fosse mia: non avevo nessuna intenzione di scambiare con Enrico più parole dello stretto indispensabile, e da parte sua lui sembrava aver accettato quella mia battaglia silenziosa. Già, perché potevo mostrarmi arrabbiata e nervosa quanto volevo, ma questo non avrebbe cancellato il fatto che, intanto, ero nella sua auto. Il ragionamento non faceva una piega.

Così, Enrico si era limitato ad accendere lo stereo e mettere un cd di musica che avrebbe risparmiato ad entrambi di affrontare inutili discorsi per spezzare il silenzio. A me stava benissimo così. Tuttavia, quando mi accorsi che non eravamo più in paese da un pezzo, mi decisi a rivolgergli la parola.

“Dove stiamo andando?” Chiesi, diretta e concisa. Okay, forse anche un po’ brusca.

Lui distolse lo sguardo dalla strada per una frazione di secondo, rivolgendomi un sorrisetto che non avevo ancora deciso se considerare attraente o indisponente. “Oh, mi sà che hai perso il gioco.” Rispose invece, con una risatina.

Inarcai un sopracciglio, interdetta. “Che cos’è che avrei perso?”

Senza guardarmi annuì, continuando a sorridere. “Sei stata la prima a rompere il silenzio. Dunque, hai perso. Mentre guido penserò ad una penitenza, non preoccuparti.”

Scossi la testa, stupita. “Come vuoi.” Dissi, decidendo di non dargliela vinta. “Ora però mi puoi dire dove stiamo andando?”

“Oh, in un posto che ti piacerà sicuramente, credimi.” Rispose, misterioso. Evidentemente neppure lui voleva cedere, e compresi che non mi avrebbe detto altro fino a quando non fossimo arrivati a destinazione. Perfetto; mi accomodai meglio sul sedile e mi trincerai di nuovo nel mio silenzio, dubitando altamente che mi sarebbe potuto mai piacere qualunque posto avesse in mente.

Ovviamente, così come mi stava accadendo molto spesso in quell’ultimo periodo, mi sbagliavo.

Arrivammo una mezz’ora dopo al ristorante più ricercato dell’isola: Le Fleur-de-Lys. Si trovava su di una piccola altura che sovrastava una scogliera, e che io avevo avuto modo di vedere solo dalla spiaggia sottostante. Aveva le dimensioni di una villa, completamente circondata da alberi, aiuole fiorite e fontane come se fosse uscita da un film, e le macchine parcheggiate lungo il vialetto erano tutte di un certo… stile. Davvero, non osavo neanche immaginare come potesse, un ragazzo di ventiquattro anni, permettersi un posto del genere, e non appena scesi dalla macchina provai un insano istinto di girare i tacchi e correre via, letteralmente.

Tuttavia, come se avesse in qualche modo intuito lo scorrere dei miei pensieri, Enrico mi raggiunse, portandomi un braccio intorno al fianco e attirandomi pericolosamente verso di sé.

“Cosa stai…?” Provai a ribattere, cercando di districarmi dalla sua stretta.

Per tutta risposta lui accentuò la presa, chinando il capo e avvicinando la sua bocca al mio orecchio. “Non essere antipatica, sto solo cercando di comportarmi da gentiluomo.” Replicò con un sorrisetto, facendomi innervosire ancora di più.

“Certo, come no…” Borbottai, decidendo di ignorarlo per rivolgere la mia attenzione al bellissimo – detesto ammetterlo – posto dove mi aveva portato. Mi aveva promesso che sarebbe stato indimenticabile, oh beh… E chi se lo sarebbe scordato?

Percorremmo il vialetto in ghiaia verso il ristorante, e dopo qualche passo traballante dovetti ringraziare silenziosamente Enrico per avermi fatta aggrappare a lui: quei maledetti tacchi scivolavano sulle pietruzze della strada, e sicuramente sarei già finita col sedere per terra se Occhi Belli non mi avesse retto.

Odiavo farmi vedere così in difficoltà, ma dopotutto non c’era altra scelta.

Finalmente arrivammo alla villa, che vista da vicino ricordava le vecchie abitazioni americane delle piantagioni di cotone, con le edere che si arrampicavano sulla balaustra della veranda e i lampioncini che proiettavano la luce dal prato verso la facciata. Davvero molto suggestivo e romantico, se solo avessi avuto un diverso accompagnatore…

Dovette tuttavia accorgersi della mia espressione sorpresa ed incantata, perché il suo sorriso si allargò ancora di più – possibile che fosse lo stesso ragazzo che solo la settimana prima aveva quasi spaccato il labbro di Riccardo? – e si chinò su di me, facendomi agitare per quella continua vicinanza.

“Te l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto…”

Mi voltai verso di lui, decidendo per il momento di issare la bandiera bianca. Basta, per quella serata mi sarei arresa. Perciò mi limitai ad annuire, senza nessun accenno del sorriso che forse si aspettava, e sospirai. “Già…”

Incredibilmente, quel monosillabo sembrò bastargli.

Salimmo i gradini in pietra della veranda e, non appena mettemmo piede sulla soglia del ristorante, venimmo affiancati da un cameriere, forse sui quarant’anni o qualcosa di più, a giudicare dalle striature grige dei suoi capelli, vestito con dei pantaloni blu scuro, una semplice camicia bianca e un fiordaliso azzurro appuntato sul petto. Ci sorrise in modo piuttosto professionale ma non potè fare a meno di studiare il mio abbigliamento: okay, stavo iniziando a pentirmi di non aver indossato il vestitino, e allora?

Tuttavia il suo sguardo si spostò su Enrico con molta rapidità, salutandolo con un cenno del capo e un sorriso che mi fece capire che non era la prima volta che frequentava quel posto. Accidenti, doveva essere più ricco di quanto immaginassi…

“Buonasera, signor D’Angelo. Ha prenotato un tavolo, se non sbaglio?”

Enrico salutò ed annuì, accentuando lievemente la presa sul mio fianco. Mio Dio, ma allora era un vizio! Realizzai in ritardo che quella era la prima volta che sentivo il suo vero cognome: per un attimo avevo creduto che si chiamasse Occhi Belli sul serio. Non si finisce mai di imparare.

“Prego allora, da questa parte.” Aggiunse il cameriere, facendoci strada attraverso l’ampio salone pieno di tavoli occupati da persone vestite come alla prima de La Scala. Che esagerazione… In un angolo, sopra una piccola pedana, si trovava addirittura un’orchestra che suonava dal vivo, come nei migliori film. Ma dove caspita ero finita? Forse se avessi guardato bene avrei trovato delle telecamere, magari un film lo stavano girando sul serio. Se l’avessi raccontato ad Alessandra non mi avrebbe mai creduto.

Il cameriere ci portò al secondo piano, che era un po’ più vuoto rispetto al salone; forse era solo una mia impressione, ma lì anche le luci sembravano soffuse. Ci condusse in un angolino appartato, reso ancora più intimo da un elegante paravento nero con dei disegni orientali che separava il nostro tavolo dal resto della sala, rendendoci praticamente invisibili agli altri. Avrei voluto ribattere in qualche modo – non mi ispirava molto l’idea di restare completamente sola con lui – ma poi realizzai che in quel modo avrei finito solo col fare la figura della ragazzina stupida. Così, con un sospiro, mi sedetti.

Non appena sollevai lo sguardo per dare un’occhiata in giro, mi si mozzò il respiro nel notare l’immensa vetrata che troneggiava di fronte al nostro tavolo, e dalla quale si vedeva la spiaggia e il mare dall’alto della scogliera. Non avevo realizzato che ci trovavamo così in alto…

“Volete già ordinare?” Domandò il cameriere, cortese.

Enrico mi rivolse un’occhiata interrogativa, io annuii lievemente e lui prese il menù, sfogliandolo. “Si, dunque…”

Iniziò ad ordinare con nonchalance tanti di quei piatti che mi venne voglia di interromperlo e ricordargli che eravamo solo in due, ma dopotutto se lui c’era già stato doveva sapere che cosa stava facendo. Perciò lo lasciai fare, permettendogli di ordinare anche per me: d’altra parte io non avrei saputo cosa prendere.

“Per finire, potrebbe portarci un Chateau Clinet del 2005?” Concluse, parlando molto probabilmente di un vino; doveva intendersene, per conoscere anche l’annata.

Il cameriere fece un sorriso di compiacimento. “Posso complimentarmi per l’ottima scelta?” Disse, ritirando i due menù. “La cena sarà pronta nel minor tempo possibile. Vi faccio portare subito il vino e qualche antipasto.”

Non appena rimanemmo soli, non potei fare a meno che chinarmi verso di lui e chiedergli, piuttosto preoccupata. “Ma cosa tutto hai ordinato? Siamo solo in due, non in venticinque!”

Come avrei dovuto aspettarmi, lo feci sogghignare. “Tranquilla, il trucco è assaggiare un po’ di tutto.” Rispose, togliendosi la giacca.

Oh, mossa sbagliata… Prima di potermene accorgere mi ritrovai a fissare poco finemente i muscoli che guizzavano al di sotto della camicia, e quando distolsi lo sguardo, pregando che lui non se ne fosse accorto, mi sentii le guance in fiamme. Non potevo continuare così tutta la sera…

All’improvviso si alzò, raggiungendomi e porgendomi una mano. “Vieni, voglio farti vedere una cosa.” Disse, aspettando che accettassi il suo invito.

Malgrado non rientrasse nei miei desideri toccarlo così spontaneamente, la presi lo stesso per non essere maleducata: in fondo non stava facendo nulla di male, no? Deglutii quando la sua mano si richiuse sulla mia ma cercai di ignorarlo, alzandomi e seguendolo docilmente. Ricorda, bandiera bianca, continuavo a ripetere in silenzio tra me.

Come se fosse stato a casa sua Enrico aprì la grande vetrata con noncuranza, portandomi nella terrazza all’aperto, abbellita da vasi di fiori profumati. Una volta fuori la richiuse, ma io non me ne accorsi: raggiunsi invece la balaustra, poggiandomici sopra e guardando lo splendido paesaggio che si ammirava da lassù. Soffiava una leggera brezza che mi scompigliava i capelli e chiusi gli occhi, inspirando il fresco odore del mare che saliva dalla spiaggia. Non ricordavo che quella notte ci sarebbe stata la luna piena, e quando la vidi risplendere come se fosse stata sollevata pochi metri dalla superficie del mare nero, rischiarato dal suo riflesso, non potei trattenere un sospiro. Era tutto così bello… Perché un simile spettacolo doveva essere rovinato dalla minaccia di Enrico che incombeva su di me?

“Bello, vero?” Mormorò alle mie spalle, come se non volesse rovinare quella strana magia.

Annuii, senza voltarmi. “Si…”

Improvvisamente avvertii la sua presenza proprio dietro di me, così vicino che avrebbe potuto toccarmi solo con un respiro più profondo. Rimasi immobile, con tutti i sensi all’erta, tanto che mi sarei accorta anche del battito del suo cuore se fossimo rimasti in silenzio. Il venticello mi portò al naso il profumo frizzante e sensuale del suo dopobarba, e mi ritrovai a cullarmi in quella fragranza come se potesse avvolgermi.

“Sei ancora pentita di essere venuta?” Domandò in un sussurro, chinandosi sulla mia spalla.

Presi un profondo respiro, prima di voltarmi per fronteggiarlo. “Adesso lo sono anche più di prima.” Replicai, incrociando le braccia.

Inarcò un sopracciglio, sorpreso dalla mia brusca risposta. “Come mai? Credevo ti piacesse qui…”

“Non è questo il punto.” Dissi, distogliendo lo sguardo. Non riuscivo a guardarlo per più di pochi secondi senza arrossire o balbettare, perciò tanto valeva ammirare il cielo stellato. “Non aveva senso portarmi qui, Enrico… Come posso spiegartelo? Tra qualche giorno ti sarai già stufato di me, il che è anche normale, dato che avrai altre decine di ragazze disposte a scaldare il tuo letto, e a me non resterà che decidere se esserne contenta o triste, e sarà un qualcosa che mi tormenterà per sempre.”

L’avevo fatta tragica? Si, lo ammetto, ma dato che non sembrava capire il discorso semplice del tu-non-mi-piaci e stammi-lontano, allora dovevo inventarmi qualcos’altro. L’unico problema era che quel discorso mi era uscito più realistico di quanto avessi previsto… Dovevo iniziare a preoccuparmi?

Comunque non credevo di essere riuscita a scalfirlo, come dimostrò la sua risposta.

Mi dedicò un sorriso terribilmente malizioso. “Mio Dio, Giulia… È il primo appuntamento e sei già così gelosa?”

Sgranai gli occhi e fu con un immenso sforzo che non spalancai la bocca, allibita. Ma allora parlare con lui era come parlare al muro! “Ma cosa diavolo dici?!” Ribattei, indietreggiando e sentendo il viso andarmi in fiamme. Maledetto imbarazzo! “Non sono gelosa!”

Rise, avvicinandosi alla balaustra e poggiandosi ad essa con un movimento sinuoso ed elegante. “Lo so, stavo solo scherzando… Ma volevo vedere la tua reazione.” Scrollò le spalle, con un sospiro. “Ad ogni modo… Giulia, tu sei ancora convinta che io ti voglia solo portare a letto, per poi dimenticarmi di te il mattino dopo… Mettiti bene in testa che una cosa del genere non accadrà mai. Cos’altro devo fare per fartelo capire? Io…”

Si portò una mano a sfregarsi il volto, indeciso su cosa aggiungere, e, potrei giurare, anche leggermente imbarazzato. Poi abbassò la mano e mi fissò a lungo negli occhi, facendomi desiderare ardentemente di trovarmi ad una distanza di sicurezza da lui.

“Mi piaci, Giulia.” Sussurrò, semplicemente. “E non farei mai nulla che possa farti star male, perciò… Inoltre cosa ti fa pensare che tra qualche giorno mi sarò stancato di te? Non ti capisco!”

Mi aveva messa con le classiche spalle al muro, dato che quella mezza dichiarazione mi aveva lasciata senza parole: non sapevo nemmeno più cosa pensare. È davvero un bravo attore… Pensai, prima di fare l’errore di ricambiare lo sguardo e perdermi in quegli occhi assurdamente verdi. La parte razionale del mio cervello sembrò aver chiuso i battenti, per dare libero sfogo a quella inconscia che avrebbe desiderato solo poter credere a quelle parole. Ma perché avevo simili pensieri? Avevo l’impressione che dentro di me si stesse svolgendo una di quelle battaglie epiche impossibili da ignorare, ma all’esterno questa si manifestava solo con il solito rossore sulle guance e con un improvviso accelerare della corsa del sangue nelle vene.

Continuai ad osservarlo senza rispondere, e quando mi si avvicinò rimasi immobile, lasciandolo fare. Si chinò lentamente sul mio collo in modo da lasciarmi la libertà di ritrarmi, se avessi voluto, ma la cosa assurda fu che non lo feci: notai appena il suo debole sorriso prima che le sue labbra si avvicinassero al mio orecchio, sussurrando una strana melodia che avevo l’impressione di conoscere.

«Well, it's a marvelous night for a moondance, with the stars up above in your eyes… A fantabulous night to make romance…» Portò una mano a sfiorarmi i capelli, portandomeli dietro l’orecchio così da potersi chinare sul collo ormai nudo per concludere quella dolce nenia, cantata con un sussurro roco che mi fece venire dei pericolosi brividi lungo la schiena.

Sentii le sue labbra bollenti sfiorarmi la pelle delicata dell’incavo della spalla e tremai, temendo e allo stesso tempo aspettando con una sorta di morbosa curiosità quello che sarebbe avvenuto dopo. Ma non ebbi mai l’occasione di saperlo.

La vetrata si aprì e un cameriere si affacciò sul terrazzo, attirando la nostra attenzione con dei colpetti discreti di tosse. «Signori, la cena è servita.»

Senza allontanarsi particolarmente da me, sentii Enrico rispondere. «Grazie, arriviamo subito.»

Il cameriere tornò dentro il ristorante, richiudendo la porta. Ma ormai l’incantesimo che aleggiava su di noi fino a qualche attimo prima si era spezzato, per fotuna – o per sfortuna?

Indietreggiai fino ad essere ad una distanza di sicurezza, prendendo un bel respiro e accorgendomi solo in quel momento di aver trattenuto il fiato per tutta quella breve eternità. «Penso sia meglio andare.» Mormorai, ben consapevole del tremito della mia voce.

Lui annuì, ma non riuscì a cancellare del tutto l’ombra scura che gli aveva invaso lo sguardo. Oh mio Dio… «Si, hai ragione… La cena dovrebbe riuscire a calmarmi.»

Cercai di ignorare il significato volutamente malizioso di quell’ultima affermazione e gli diedi le spalle, correndo quasi verso la vetrata che in quel momento, per me, rappresentava la salvezza o qualcosa del genere. La aprii ed entrai senza controllare che lui mi stesse seguendo, precipitandomi al tavolo ormai colmo di pietanze di ogni genere. Aspettai che si sedesse di fronte a me prima di mangiare, ma la fame mi era ormai passata del tutto: avevo l’impressione di avere un macigno sullo stomaco, e non ne capivo il perché. Se mi avesse fatto quell’effetto tutte le volte non sapevo se sarei riuscita a continuare a vederlo…

Osai sollevare gli occhi con l’intenzione di spiarlo di nascosto, ma ovviamente non fu possibile, dato che anche lui mi stava osservando, invece di mangiare: aveva il mento posato sulla mano e con l’altra tamburellava sul tavolo, al ritmo, forse, della stessa canzone che aveva canticchiato poco prima. Mi sorrise quando si accorse del mio sguardo, ed io lo distolsi nuovamente, in modo piuttosto codardo. Non vedevo l’ora che quella serata terminasse…

Anche se ero quasi certa che, una volta al sicuro in casa mia, ne avrei sentito stranamente la mancanza.

Stupida, io? Oh, si… Immensamente.












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Wao, dicesi aggiornamento lampo xD Non fateci troppo l'abitudine, però u.u
Comunque consideratelo un regalo per le belle recensioni e l'incredibile aumento di preferiti e seguiti... Sono davvero commossa e contenta! Non me l'aspettavo *-*
Allora, QUI trovate la musica e la canzone presente in questo capitolo, trovo che sia splendida (poi, se a cantarla è Jonathan Rhys Meyers, ancora di più ;D )
Bene, e ora passo ai ringraziamenti!

_Aleidita_: Eccoti accontentata! Aggiornamento rapido ^^ grazie mille per i tuoi complimenti, continua a seguirmi <3

lara27: Eeeh, purtroppo non sono autorizzata a divulgare simili spoiler u.u Non vi resta che continuare a leggere! =P comunque, ancora grazie per i complimenti ^^

Ada Wong: Mia cara, ti ho già risposto ma rinnovo i miei grazie ^^ L'utilizzo dei nomi italiani piace molto anche a me, inoltre era un modo come un altro per rendere la storia il più realistica possibile - anche se mi accorgo che, purtroppo (o per fortuna!!) cose del genere non accadono nella vita reale... Inoltre la scrittura in prima persona rende questa immedesimazione più possibile, mi auguro ;) Lieta anche di sentire che ti piacciono tutti i personaggi! Povero Stefano, per ora ha fatto solo una breve apparizione, ma ti assicuro che è felice di avere una fan xD al prossimo capitolo! ^^

prettyvitto: Aggiornato, come promesso ^^

Maka27: Wao, l'hai letta tutta in due giorni?? Vabbè, non è certo quel gran mattone, però ti ringrazio ^^ Sono proprio tanto contenta :') Piaciuto il luogo dell'appuntamento? Spero proprio di si, avercene ragazzi che ci portano in questi posti! ;D

luis: Tranquilla cara, ti sei spiegata benissimo e io ho capito al volo quello che intendevi ^^ Anch'io concordo con te sul fatto che Enrico emani sensualità pura, ma purtroppo quello che fa non è proprio un punto a suo vantaggio, ecco... D'altra parte, io non amo neppure le storie d'amore facili u.u E hai ragione quando dici che ne è attratto in modo ossessivo! Sto cercando di rendere proprio questo aspetto, ma siamo ancora agli inizi ;) Per quanto riguarda il suo punto di vista, al momento non te lo so dire! Chissà, magari riesco a dedicare un qualche capitolo solo a lui in modo da lasciarlo parlare, o forse potrei rifarne un altro con il suo POV... vedremo ^^ Nel frattempo, continua a seguirmi =*

Sfosfy4ever: Ciao nuova fan! ;D grazie mille per i complimenti ^^ Mi è piaciuto quello che hai detto a proposito di Enrico, sul fatto della "doppia personalità"... Sai che non ci avevo proprio pensato? Mi è uscito così, dal cuore! Benedetto inconscio mio =D L'appuntamento comunque non è ancora finito, ce n'è un piccolo pezzo anche nel prossimo capitolo u.u Mi farai sapere che te ne pare di questo, comunque ;)

rodney: Eh, anch'io adoro tantissimo Damon *-* Mi spiace per Stefan, sarà pure lui il buono della situazione.... Ma io voto per Damon +__+ Viva i cattivi! XD Hai ragione a dire che la vedi dura, cavoli, come si fa a restistere?? Eppure si deve u.u Un bacione, al prossimo capitolo ^^

E con questo ho finito! ^^ Grazie mille per aver letto, per aver recensito, per avermi aggiunta tra le preferite (71) e tra le seguite (108)! Grazie, grazie, grazie! Continuate sempre così ;)
Un bacione, al prossimo capitolo!
Smack =*

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI. ***


Capitolo XVI

 












 

 

 

 

Alla fine la serata terminò.

Enrico mi aveva riaccompagnato a casa di Alessandra, senza dire o fare nulla che mi avrebbe potuto far ricredere sull’idea sbocciata fresca fresca nella mia mente, e cioè che, dopotutto, un minimo di fiducia valeva la pena concedergli. Oh, non fraintendetemi: intendo dire che mi ero dovuta ricredere sul fatto che mi avrebbe violentata o cose del genere, come invece aveva predetto la mia amica. Ma dopotutto lei era la solita tragica.

Parcheggiò la macchina esattamente di fronte al cancelletto in ferro battuto della casa di Ale, spegnendo il motore e venendo ad aprirmi lo sportello come il più educato dei gentiluomini. Ammetto che avevo lottato durante tutto il viaggio in auto per non aprire il cruscotto e controllare se ci fosse la pistola, come nei vari film che avevo avuto modo di vedere, ma ero riuscita a spedire in un lontano angolino del mio cervello questa malsana idea. A parte che mi avevano sempre insegnato che non è educazione frugare tra le cose degli altri, ma poi, anche se avessi aperto e trovato l’arma, che cosa avrei risolto? Non potevo certo puntargliela contro, no?

Malgrado tutto quello che mi ero ripromessa di fare, mi conoscevo troppo bene per poter anche solo credere di essere capace di fare una cosa del genere. Semplicemente, non era da me. Grazie al Cielo!

Ad ogni modo mi accompagnò fino alla porta, con le mani in tasca che gli davano una strana aria da bello e impossibile, con gli occhi neri e quelle labbra disegnate… Okay, il concetto è arrivato. Insomma, anche se si trattava di lui potevo certo permettermi di ammirarlo senza che lo capisse, no? Un po’ come si fa con le statue dell’antica Grecia, che si osservano con adorazione mentre si cerca in tutti i modi di ignorare la loro nudità: in questo caso, la sua nudità era rappresentata dalla sua fedina penale, in un certo senso.

Comunque non erano questi i pensieri che mi affollavano la mente, mentre cercavo le chiavi che la mia migliore amica aveva lasciato nella veranda – sotto un vaso, per la precisione – per permettermi di rientrare in silenzio senza svegliarla. Come se non mi stesse aspettando alzata per farsi raccontare tutto!

Dopo averle trovate e aver armeggiato con la serratura della porta fino ad aprirla, il tutto con la presenza leggermente opprimente di Enrico alle mie spalle, mi voltai per salutarlo. Dopotutto, non avevo ancora perso le mie buone maniere.

Ma quello che mi disse mi sorprese per l’ennesima volta.

“Ti ricordi della penitenza?”

Osservai piuttosto stupita il sorriso che gli aveva nuovamente illuminato il volto, mentre incrociava le braccia e si posava sullo stipite della porta, incurante della sensualità che sembrava emanare. Si, decisi, era sicuramente colpa di quel dannato Chateau Clinet che mi aveva fatto bere. Non ero più in me!

“Quale penitenza?” Domandai incerta, cercando di temporeggiare. In realtà sapevo perfettamente di cosa stava parlando, ma non volevo di certo dargliela vinta. Sciocco da parte mia, ma volevo prendermi almeno una piccola, piccolissima rivincita. Che illusa.

Infatti il suo sorriso si allargò ulteriormente, mentre si avvicinava pericolosamente a me. “Hai perso un gioco, e ora ti spetta una penitenza. Non hai mai fatto queste cose, da piccola?” Mormorò, malizioso.

Cercai di indietreggiare, ma sfortunatamente incontrai la sedia a sdraio sulla quale sbattei l’incavo delle ginocchia, il che mi fece cadere all’indietro su di essa. Enrico rise piano, come se sapesse che la mia amica e i suoi genitori stavano dormendo e non volesse svegliarli, e prima di potermi rialzare mi si inginocchiò davanti, posando le mani sui braccioli di legno della sdraio e chinandosi verso di me.

“Com’è che si dice in questi casi?” Sussurrò, fingendosi pensieroso. “Ah, si… Sei in trappola.”

Sentii il cuore battere talmente forte che temetti per un attimo che volesse uscirmi dal petto, per abbandonarmi insieme all’ultima goccia di lucidità che credevo mi fosse rimasta. Deglutii, mentre cercavo inutilmente di appiattirmi contro lo schienale della sedia per sparire al suo interno.

“Cosa… Cosa vuoi…?” Balbettai, senza staccare lo sguardo da lui per cercare di prevenire le sue mosse.

Il suo sorriso, come sempre, non mi piacque per niente. “Prova ad indovinare…”

Lo vidi venirmi lentamente sempre più vicino, le sue mani che avevano bloccato le mie sopra i braccioli per impedirmi ogni genere di movimento: sembrava che volesse gustarsi ogni singolo secondo di quell’attimo. A quel punto iniziai a sconnettere e a pensare a cose senza senso. Com’è che diceva Bergson, in proposito? Ah si, qualcosa del tipo ‘la durata di un evento dipende dall’intensità con cui lo si è vissuto’… Dove l’avevo già studiato? In arte, in filosofia? O forse era francese, con Proust?

E perché diavolo stavo pensando a quello?!

Sbattei più volte le palpebre e ritornai con i piedi per terra, anche se la mia realtà non mi piaceva particolarmente. Enrico era ormai a pochi centimetri dalle mie labbra – come aveva fatto ad avvicinarsi tanto? – e all’ultimo momento, quando socchiuse gli occhi e fece per annullare ogni distanza rimasta, io voltai di scatto la testa, deviando il suo bacio che andò a posarsi sulla mia guancia.

Si allontanò, sorpreso e divertito, mentre io gli rivolgevo un’occhiata furiosa. “Si può sapere cosa ti è preso?” Sibilai, del tutto impotente. Ero ancora bloccata sotto la sua stretta, dopotutto.

Scrollò le spalle con eleganza e nonchalance, continuando a sorridere. “Era la tua penitenza.” Rispose, guardandomi di sotto in su attraverso le sue lunghe ciglia nere.

Dio, perché dovevo trovare attraente proprio l’unica creatura con cui non volevo avere nulla a che fare?

“Non credo proprio.” Sibilai, cercando di incenerirlo con lo sguardo.

La sua risata era terribilmente irritante, inoltre vederlo così prossimo al mio viso mi metteva fin troppo a disagio; okay, mi aveva già vista mezzo nuda e certo, purtroppo aveva anche avuto modo di baciarmi, in un certo senso, ma non poteva di sicuro aspettarsi che io avrei continuato a lasciarglielo fare con tutta quella nonchalance che lui amava mostrare.

“È solo un bacio.” Sussurrò insistente, imbronciando le sue labbra carnose e invitanti…

No! Accidenti, Giulia, riprenditi!

“È meglio se adesso te ne vai, Enrico.” Mormorai con la voce leggermente tremante, distogliendo lo sguardo da lui e rivolgendolo altrove.

Lo sentii sospirare, rassegnato, e alla fine si alzò in piedi liberando i miei polsi dalla sua stretta. “Va bene, è ora.” Acconsentì, palesemente di malavoglia.

Con un sospiro sollevato mi alzai anch’io, dirigedomi verso la porta cercando di continuare a tenerlo sotto controllo; tuttavia sembrava aver terminato con le cattive intenzioni, almeno per quella notte, e allora feci per entrare in casa prima che potesse cambiare idea. Ciò nonostante la mia maledetta buona educazione mi costrinse a voltarmi nuovamente verso di lui per salutarlo, e alla fine accadde.

Mi ritrovai le sue labbra posate sulla mia guancia talmente all’improvviso che rimasi imbambolata davanti a lui, senza fare assolutamente nulla per staccarlo da me; il profumo del suo dopobarba mi investì più di prima ed io mi scoprii ad annusarlo con gli occhi socchiusi, rendendomi conto solo dopo della stupidità del mio gesto. Ma ormai…

Si allontanò lentamente dal mio viso con un sorriso che non aveva nulla di malizioso ma che era provocante nella sua assurda dolcezza, e infine dischiuse le labbra per parlare. “Per stanotte mi accontenterò di questo… Buonanotte, Giulia.” Mormorò, con voce roca.

Detto questo indietreggiò di qualche passo, continuando a sorridermi, e solo all’ultimo mi diede le spalle ed uscì dal cancelletto, lasciandomi sola. Rimasi ad osservarlo fino a quando il rumore della sua macchina non sparì dietro l’angolo, e a quel punto ripresi a respirare normalmente; ero più scioccata per il fatto che il suo bacio era stato così tenero e gentile o per il fatto di sentire il cuore esplodermi nel petto…?

Stupida! Ma che vai a pensare!

No, decisamente non poteva essere per quello. Semplicemente mi aveva stupita il suo gesto, tutto qui: non mi aspettavo si comportasse in quel modo – al limite avrei creduto che mi avrebbe obbligata a baciarlo, ma non era successo… Allora Enrico era sincero quando aveva detto, qualche giorno prima, che nei miei confronti nutriva un autentico rispetto?

Scossi piano la testa, sollevando una mano a sfiorarmi la guancia ed entrando in casa senza allontanare le dita dal punto in cui le sue labbra avevano incontrato la mia pelle. Avevo l’impressione che il suo profumo aleggiasse ancora intorno a me, come una scia, a dispetto del mio profondo desiderio di cancellare quegli ultimi minuti della serata che erano giunti tanto inattesi quanto indesiderati. Accidenti, adesso avrebbe creduto chissà cosa a giudicare dalla mia reazione!

 

 

Quando, la mattina dopo, aprii gli occhi, per poco non mi sfuggì un grido di spavento.

Mi ritrovai il volto della mia migliore amica sospeso pochi centimetri sopra il mio, con uno sguardo talmente penetrante e indagatore da riuscire a farmi arrossire. Comunque, quando si accorse che mi ero svegliata, si allontanò quel tanto che bastava per farmi sollevare.

“’Giorno, geme…” Biascicai, passandomi una mano tra i capelli per renderli un po’ meno sconvolti.

Com’era da aspettarsi, lei non si degnò neppure di rispondere. “Allora?! Non hai nulla da raccontarmi?” Esclamò, incrociando le braccia.

Per tutta risposta sbuffai, tuffandomi nuovamente tra le lenzuola e nascondendo la testa sotto il morbido cuscino. “Ho sonno, geme…”

“Ah no, ora ti svegli!” Sentii il lenzuolo scoprirmi e la mia migliore amica, che in quel momento detestai con tutta me stessa, saltò sul letto per farmi il solletico e costringermi con le buone o le cattive a svegliarmi del tutto.

“Ti odio!” Grugnii, guardandola di sbieco.

Lei imbronciò le labbra, per nulla disposta a lasciar perdere. “Voglio sapere che cosa è successo ieri notte! Accidenti, hai fatto tardi! Io mi sono addormentata intorno alle due e tu non eri ancora arrivata!”

Cavolo, avevamo fatto così tardi? Non me n’ero accorta, forse ero ancora troppo sconvolta per guardare anche solo l’orologio. Del fatto che fosse già coricata, in effetti, mi ero sorpresa anch’io, ma avevo preferito non svegliarla proprio per evitare una scenata come quella che, invece, mi stava facendo adesso.

Sospirai, mettendomi a sedere e rinunciando all’idea di scampare all’interrogatorio. “Prima che ti faccia strane idee, lasciami premettere che non è successo nulla di imbarazzante, contrariamente alle tue oscene aspettative.”

Alessandra ebbe il buonsenso di arrossire, ma non per questo rinunciò al suo obiettivo. “Beh, meglio così. Però non credere di cavartela con questo! Voglio i dettagli! Det-ta-gli!” Esclamò, scandendo ben bene le parole.

Mi affrettai a portare un dito alle labbra, facendole cenno di abbassare la voce. “Zitta! Sei scema? Vuoi che tua madre lo venga a sapere?!”

“No, lo voglio sapere io!” Esclamò ancora, lanciandomi un cuscino che – vista la mia scarsa prontezza di riflessi mattutina – mi prese in piena faccia.

Sbuffai, ricambiandole la cortesia e tirandoglielo nuovamente addosso. “Okay, va bene!” Sibilai, incrociando le gambe e cercando una posizione più comoda. Qualcosa mi diceva che sarebbe stato un lungo interrogatorio… Forse era il luccicchio assassino nei suoi occhi?

“Mi ha portato a cena al Fleur-de-Lys, sai, quel ristorante sulla scogliera…” Esordii, non riuscendo ad impedirmi di provare una punta di orgoglio nel poter dire di essere stata in un simile locale. Saltai senza pensarci due volte la parte del terrazzo – non mi sembrava davvero il caso di dirlo a qualcun altro – e le raccontai della cena nei minimi dettagli, dato che era questo quello che voleva.

“Ho mangiato cose di cui non conoscevo neppure il nome!” Le confidai, con una smorfia.

Tuttavia, la strana espressione con cui mi stava osservando la mia amica mi fece intuire che non era esattamente quello ciò che voleva sentire. Perciò mi interruppi e, con un sospiro, chiesi. “Cosa c’è?”

“Stai tergiversando, geme!” Esclamò, alzando le braccia al soffitto in un gesto spazientito.

Roteai gli occhi, decidendo di arrendermi. “Okay, saltiamo direttamente al punto clou, visto che ti stai annoiando… Ha cercato di baciarmi.”

“CHE COSA?!” Gridò, quasi.

Mi lasciai sfuggire un’imprecazione assai poco gentile. “Ma cavolo, geme, vuoi davvero vedermi morta? Non urlare!” La supplicai, lanciando uno sguardo preoccupato verso la porta chiusa. Le nostre due madri erano molto amiche, avevano un buon rapporto, e se sua madre avesse anche solo sospettato qualcosa sulle mie uscite, di conseguenza l’avrebbe saputo anche mia madre… Per carità, mi sarebbe servita solo quella scusa per non dover più uscire con Enrico, ma ormai avevo fatto una promessa!

Alesssandra annuì, tappandosi la bocca con le mani. Prese un bel respiro, poi tornò all’attacco. “Ha cercato di baciarti?” Ripetè, questa volta sussurrando. “E lo dici con questa leggerezza?”

Alzai le spalle, indifferente. “Ho detto che ha cercato di baciarmi, non che ci è riuscito!” Spiegai. “L’ho mandato via prima che lo facesse. Grazie al cielo eravamo già arrivati a casa…”

“No, aspetta un attimo.” Mi interruppe ancora, stupita. “Mi stai dicendo che lui ti ha quasi baciata nella veranda di casa mia? E io stavo dormendo?!”

“Perché ho l’impressione che avresti voluto assistere?” Domandai retorica, con una smorfia.

Per tutta risposta la sentii sbuffare. “Dai, hai capito benissimo cosa volevo dire!” Insomma… “Beh, e alla fine? Com’è finita la serata? Ha cercato di baciarti, tu l’hai mandato in bianco, e…?”

Il suo tono era davvero parecchio insinuante, che mente perversa. “E niente, mi ha dato la buonanotte e se ne è andato.” Conclusi, mascherando uno sbadiglio con il dorso della mano.

Rimanemmo in silenzio per un po’, poi fu Alessandra a riprendere la parola. “Non è andata così male…” Mormorò, osservandomi di sottecchi.

Come prima mi limitai a scrollare in modo noncurante le spalle, come a dire che in fondo, in qualunque modo sarebbe potuta andare, non me ne sarebbe importato lo stesso. In realtà, mi aveva sorpreso quando mi aveva detto di avere un debole per me – okay, in realtà aveva proprio detto “Mi piaci”, ma quanta parte di verità poteva mai esserci? – tuttavia non mi sembrava il caso di metterla a parte anche di quello. Certo, era la mia migliore amica, e un giorno sicuramente l’avrebbe saputo, ma… Non adesso.

Mi sentivo un po’ in colpa nel tacerle parte della verità, ma per il momento non potevo fare altro. Inoltre aveva ammesso lei stessa che la serata non era stata un completo disastro – anche se probabilmente non avrebbe detto così, se avesse saputo del terrazzo – e in questo modo avrebbe anche potuto dire a Riccardo di stare tranquillo e di non comportarsi da guardia del corpo nei miei confronti. Anche perché in tal caso Enrico si sarebbe potuto arrabbiare, e vederlo nuovamente infuriato non rientrava nei miei piani futuri; non avevo forse accettato di assecondarlo proprio per evitare questo?

“Spero che presto si stufi di me.” Dissi schiettamente, senza guardare la mia amica negli occhi. “Non voglio essere il giocattolo di nessuno…”

Ale si alzò dal suo letto e venne a sedersi al mio fianco, passandomi un braccio intorno alle spalle in un gesto che voleva essere confortante e che, stranamente, vi riuscì. Almeno in parte.

“Dai geme, non pensarci.” Disse, dispiaciuta. “Senti, ne hai voglia di uscire con Fede e Laura, stasera? Ieri mi hanno chiesto se andavamo con loro a fare un giro.”

Una domanda mi sorse spontanea. “Ci sarà anche Matteo?”

Ma lei scosse la testa, aggrottando la fronte. “No, siamo solo noi. Sembra che Matteo si sia preso un periodo di pausa dal gruppo… Bah, è uno stupido.”

Il suo tono e le sue parole mi strapparono un sorriso. “Si, concordo!”

Il mio cellulare era rimasto spento dalla notte prima, e non lo accesi per controllare se vi fosse qualche messaggio importante. Ero con la mia migliore amica, quindi se lei avesse dovuto dirmi qualcosa l’avrebbe fatto a voce, e mia madre non aveva motivo di cercarmi…

Ma suppongo che avrei dovuto controllare lo stesso. In fondo, Enrico conosceva il mio numero…

Oh, che stupida. Dovevo smetterla di pensare a lui.



















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AA - Angolo Autrice:
Oggi è serata di aggiornamenti xD
Comunque... Da quanto tempo! Vi chiedo umilmente scusa per il ritardo, ma come avrò di certo già detto, quest'anno ho la maturità... E' molto probabile che questo sia l'ultimo capitolo che pubblicherò prima dell'esame, ma non per questo preoccupatevi, perchè la storia continua! Anzi, the show must go on! xD
Dunque, che dire... Le vostre recensioni sono splendide, come sempre! Purtroppo non posso rispondere singolarmente, ma voglio citare voi anime pie che commentate i miei capitoli spassionati ^^ Perciò, un grazie infinito a:
  • _Aleidita_
  • renesme e jacob
  • Sfosfy4ever
  • Ada Wong
  • prettyvitto
  • freyja
  • lara27
  • luis
  • Alebluerose91
  • xmas
Un altro ringraziamento va alle fantastiche 78 persone che hanno aggiunto la mia storia alle Preferite e alle 119 che l'hanno messa tra le Seguite! Vi voglio bene =*
Sperando che questo capitolo non sia così deludente - purtroppo non può esserci un colpo di scena in ogni capitolo, visto che sono anche piuttosto brevi! - vi lascio con un forte abbraccio =) Sono davvero commossa nel vedere tutte queste recensioni e nel notare che questa storia, malgrado gli aggiornamenti centellinati e la trama non così profonda, stia piacendo! ^^ Un bacione a tutti coloro che leggeranno, commenteranno, eccetera ^^
A presto! Smack =*
GiulyRedRose

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII. ***


Capitolo XVII

















 

Ormai avevo capito che i calcoli che avevo fatto si stavano rivelando sempre più sbagliati.

Dopo quella prima sera, Enrico mi chiese di uscire praticamente tutti i giorni, portandomi sempre in posti diversi, e comportandosi – questo punto andava a suo favore, lo ammetto – sempre da gentiluomo. Per intenderci: non aveva più cercato di baciarmi seriamente, limitandosi ad un innocente bacio sulla guancia che mi sembrava perfido far seguire ogni volta da uno schiaffo. Era l’unica cosa che concedevo, comunque, dato che avevo sempre baciato sulle guance sia Matteo che Federico, e non mi era mai sembrata una cosa così malvagia o maliziosa: tutto stava nel non permettere che diventasse tale.

Alla fine, comunque, dopo una settimana che andavo a dormire a casa di Alessandra, mia madre si spazientì per questo mio comportamento e mi fece un bel terzo grado – lei avrebbe voluto che, per ricambiare il favore alla mia amica, anche lei venisse a dormire da me una notte, ma di certo questo avrebbe compromesso le mie uscite forzate con Enrico.

Così, fui costretta – molto a malincuore – a confessarle che stavo frequentando un ragazzo. Malgrado quello che mi aspettavo da parte sua, non mi fece nessuna scenata: mi chiese semplicemente per quale motivo non glielo avessi detto subito e, ovviamente, aveva voluto sapere vita, morte e miracoli del giovane in questione. Rimasi piuttosto vaga – non specificai che si trattava di un Occhi Belli, tanto per essere chiari – e mi limitai a dire che mi era stato presentato da Federico – bugiarda! – e che ci stavo uscendo più per gioco che per altro. Le dissi che, per quanto mi riguardava, avrebbe anche potuto dirlo a mio padre, dato che non avevo nessuna intenzione di far si che quella storia diventasse troppo seria.

“Aspetta prima di dire una cosa simile, nella vita non si può mai sapere…” Mi disse, con un’aria da saggia veggente che mi terrorizzò. Stava scherzando, vero? Se avesse saputo chi era davvero Enrico mi avrebbe chiuso a chiave in camera mia per il resto della mia esistenza…

Come se non fosse bastato, inoltre, il mio improvviso rossore di spavento era stato scambiato per un imbarazzo da cotta. Si, come no!

Comunque, i miei piani stavano andando a rotoli. Adesso che anche mia madre sapeva di Enrico e che mi incoraggiava inconsciamente in qualcosa di assurdo, come avrei fatto? Il discorso che avevamo avuto su quella famosa terrazza, a proposito del fatto che, se mi fossi affezionata a lui, poi avrei finito solo per soffrire quando si sarebbe stufato di me, ora si era amplificato: averlo rivelato a mia madre suonava come una ufficializzazione non desiderata…

Ma quello che davvero stava iniziando a darmi fastidio – ed era grave, dato che ci stavo uscendo solo da poco più di un paio di settimane – era che non riuscivo più a vedere né Alessandra, né i miei amici. Enrico mi aveva praticamente monopolizzato, pretendendo la mia presenza quasi ad ogni ora del giorno. Aveva iniziato a tempestarmi di messaggi inutili e superflui, a volte semplicemente per chiedermi cosa stessi facendo, e se tardavo a rispondergli mi telefonava direttamente. Personalmente stavo sfiorando l’orlo di una crisi di nervi precoce: non avevo mai tollerato un simile comportamento da parte di nessuno, e più volte mi ero ripromessa che non avrei permesso a nessun ragazzo di comportarsi in quel modo con me, e invece adesso mi ritrovavo invischiata in una situazione che odiavo da tutti i punti di vista!

E poi c’era stato l’episodio delle rose. Era un mercoledì mattina, mio padre era al lavoro – grazie al Cielo! – ed ero sola con mia madre in casa: ad un certo punto squillò il citofono e mia madre fu più veloce di me a rispondere. La vidi sgranare impercettibilmente gli occhi nell’ascoltare quello che doveva essere il postino, e dopo aver premuto il pulsante per farlo salire si voltò verso di me, stupita.

“Cos’è successo?” Avevo chiesto, iniziando a preoccuparmi.

Lei aveva scosso la testa. “Adesso lo vedi…”

Quando il postino bussò alla porta andammo insieme ad aprirgli, e a quel punto avevo visto l’uomo seminascosto da un enorme mazzo di rose bianche e rosse che annunciava, in tono interrogatorio: “Una consegna per la signorina Giulia…?”

Avevo annuito, allungando le braccia per privarlo di quell’ingombro. “Si, sono io…”

Come al solito mia madre fu molto più rapida di me, così chiese, sollecitamente: “Chi le manda?”

Il postino frugò nella sua borsa in pelle fino a tirarne fuori un’agendina, che aprì all’ultima pagina scorrendone i vari nomi segnati, prima di rispondere. “Un certo… D’Angelo Enrico…”

Ecco, quella da parte sua proprio non me l’aspettavo; passassero pure i messaggi e le chiamate, per quanto poco le tollerassi, ma che mi spedisse fiori a casa mia, senza sapere se ero sola o con i miei genitori – tremavo alla sola idea di mio padre che accoglieva il postino con un simile pacco! – era qualcosa che andava contro ogni logica! Accidenti, non eravamo mica fidanzati! Chi si credeva di essere?

Mia madre invece prese la cosa con molta più filosofia. Sembrava parecchio emozionata, mi aveva dato un vaso per permettermi di tenere quei bellissimi fiori in camera mia, anche se al momento avevo solo il desiderio si prenderli e buttarli nella spazzatura – cosa che non le dissi, per non farla insospettire. Si supponeva che in fondo mi facesse piacere un simile gesto, no? Anche perché lei sapeva che, quando non ero interessata ad una persona, non mi facevo tanti scrupoli a dirlo o a farlo capire: perciò, dato che queste uscite con Enrico stavano andando per le lunghe, lei si era fatta l’idea che forse qualcosa per lui la provavo…

Certo, ora provavo il bisogno fisico di picchiarlo!

Così quel mazzo di fiori sulla mia scrivania rimase a fissarmi per tutta la sera come una costante minaccia. Anche se mia madre trovava tutto l’insieme parecchio romantico, a me sembrava solo inquietante: mi sembrava solo un modo come un altro che Enrico aveva utilizzato per farmi capire che io, in fondo, non potevo fare nulla per scappare da lui – sapeva dove abitavo, chi frequentavo, quando e come uscivo… Insomma, anche volendo fuggire sarebbe stato impossibile.

Inoltre mi ero accorta che, quando non ero con Enrico, avevo sempre e costantemente alle calcagna i suoi ‘uomini’: Stefano, Lorenzo, Francesco, Alberto e Davide, erano diventati la mia ombra. Sembrava si dessero il cambio per tenermi sotto controllo, e lo facevano sempre a due a due: potevo stare tranquilla solo rimanendo a casa, così fu inevitabile iniziare ad uscire sempre meno ed essere costretta a vedere Alessandra solo invitandola a pranzo da me.

 

“Non capisco come fai a sopportare questa situazione.”

La mia migliore amica mi osservava seriamente, poggiata contro la finestra e sotto il condizionatore, con le braccia incrociate sul petto e un tono terribilmente severo. Ormai la maggior parte delle nostre poche conversazioni ruotava intorno al medesimo argomento, tanto che avevo l’impressione di vedere Enrico anche quando lui non c’era. Incubi, stavo iniziando ad avere gli incubi.

Scrollai le spalle, lanciando uno sguardo alla porta chiusa: non volevo che mia madre entrasse all’improvviso e ci scoprisse a parlare di cose simili. “Non lo capisco nemmeno io, geme. Eppure lo faccio, ma non chiedermi il perché.” Mormorai con un filo di voce.

La sentii sospirare, combattuta. “Cavolo… È tutto troppo assurdo!” Esclamò, prima di abbassare strategicamente la voce. “Voglio dire… Se non fosse lui sarebbe anche divertente, no? Le rose, le uscite… Ma accidenti, è come se ti stesse tenendo sotto chiave! Ti rendi conto che non puoi fare nulla senza avere lui o i suoi compari alle costole? Sono cose che non si vedono più neppure nei film!”

Ormai non sapevo neanche più che cosa risponderle, perché capivo che aveva cento volte ragione. La cosa che più mi dava fastidio, ora, era che Enrico non si era ancora stufato di me. Insomma, davvero, che cosa mai poteva volere? Di sicuro non stava con me per il mio corpo, dato che non ci ero mai andata a letto – e ci sarebbe anche mancato altro. Non l’avevo mai neppure baciato, se si escludevano quei casti baci sulla guancia che aveva preso l’abitudine di darmi come ‘buonanotte’ tutte le sere, ma che comunque accettavo in modo piuttosto passivo. Insomma, che cosa diavolo voleva da me? Più mi ripetevo questa domanda meno trovavo una risposta, come se, in fondo, una risposta non ci fosse.

Era un capriccio, punto. Lui mi voleva, ed eccomi qui!, al suo completo servizio. E se provavo a ribellarmi, beh, sapevo cosa sarebbe accaduto… Se la sarebbe presa con i miei amici, così com’era accaduto con Matteo – e per quanto avessi smesso da tempo di preoccuparmi di lui, di certo non potevo ignorare di aver messo in pericolo Alessandra, Laura e Federico. Per non parlare della mia famiglia!

Che situazione schifosa.

“Lo sai cosa ti dico?” Sbottò all’improvviso la mia amica, facendomi sussultare.

La guardai, sorpresa dal suo tono rabbioso. “Cosa?”

“Se tu non fossi vergine, saresti potuta andare a letto con lui da subito e togliertelo di torno. E adesso non avremmo tutti questi problemi!”

Mi rendevo conto di avere la bocca aperta – scioccata da quell’esclamazione – ma non riuscii a mantenere un certo contegno neppure dopo. Scossi la testa, completamente rossa in viso. Accidenti, mi sentivo bollente!

“Geme, ma cosa stai dicendo?!” Esclamai, sorpresa e leggermente arrabbiata. Va bene che ci dicevamo sempre tutto, però ogni cosa ha un limite. “Che razza di cose da dire sono queste? Adesso sembra quasi che la colpa sia mia! E poi non sarei andata a letto con lui neppure se non fossi stata vergine, tanto per chiarire le cose.”

Alessandra sospirò, pentita della sua affermazione. “Scusami, geme, ho esagerato. Non volevo dire che… Oh senti, hai capito benissimo cosa intendevo!” Sbuffò, incrociando le braccia.

Certo, io capivo benissimo, ma certe uscite poteva risparmiarsele.

“Okay, senti, non importa. Non voglio litigare con te, lo so che non l’hai detto con cattiveria.” Scossi la testa, innervosita. “È che ho un po’ i nervi a fior di pelle, in questo periodo, e sapere che… Beh, in fondo anche tu hai ragione, se fossi stata un altro tipo di ragazza…” Lasciai il discorso a metà, certa che anche lei avrebbe compreso alla perfezione ciò che volevo dire.

Subito mi strinse in un abbraccio, cercando di confortarmi come poteva. “Dai, questi sono discorsi inutili.” Decise. “Senti, perché non provi a sentire qualche altro ragazzo? Potrei chiedere a Riccardo se ha qualche amico… Così, quando Enrico si sarà stufato, tu non soffrirai più del necessario.”

“Si certo… Così Enrico vi farà fuori tutti quanti!” Sbottai, alzandomi e poggiandomi al muro. “Non è per niente una buona idea… Tanto non mi interessa avere un ragazzo, adesso, la parentesi con Enrico è solo questo, un intermezzo nella noia della mia vita quotidiana. Quando finirà, come dici tu, sta pur certa che non ne soffrirà nessuno.”

“Se lo dici tu…” Sospirò, per nulla convinta.

Dopo una manciata di minuti in silenzio, durate i quali entrambe avevamo preso a frugare i nostri cellulari, ripresi la parola. “Mi ha appena chiesto se stasera posso uscire con lui…” Rivelai scuotendo la testa, rassegnata. “Il bello è che riesce a non farle passare per minacce… Senti cosa dice: Ciao, Giulia. Allora, hai voglia di fare un giro con me, dopo cena, o sei impegnata? Che faccia tosta…”

“Se non conoscessi la situazione, direi che ti sta davvero dando la possibilità di scegliere se accettare l’invito o mandarlo a quel paese.” Concordò la mia amica, con aria grave.

Sbuffai, passandomi una mano tra i capelli. “Accidenti, non ho nessuna voglia di uscire con lui, stanotte. Mi sento anche poco bene…”

“Perché non provi a dirglielo?”

La fissai, inarcando un sopracciglio, ma in realtà stavo ponderando davvero l’idea. Dopotutto non gli avevo ancora dato ‘buca’ ad un appuntamento, non sapevo quale sarebbe stata la sua reazione… Avrei potuto provare, no? Perciò annuii, lentamente, mentre le dita scorrevano veloci sulla tastiera del telefono.

“Si, hai ragione. Voglio proprio vedere…” Non conclusi la frase, scrivendo il messaggio e inviandolo prima di poter cambiare idea. Un sospiro fece capire ad Alessandra che gliel’avevo mandato.

“Cos’hai scritto?” Domandò, curiosa. Mi limitai a porgerle il cellulare e lei lo prese, scorrendo la lista dei messaggi inviati fino a trovare quello incriminato.

Scusa, Enrico, ma oggi non ho molta voglia di uscire. Ti spiace se facciamo un’altra volta?” Disse, leggendo ad alta voce. Poi alzò lo sguardo su di me, divertita. “Cavoli, sei stata anche fredda al punto giusto! Sembri quasi pentita!”

Ridacchiai, incrociando le braccia. Ero curiosa di sapere cos’avrebbe risposto…

“Oh, un messaggio. Sarà lui?”

Ecco qua.

“Passamelo, vediamo un po’.”

Mi porse di nuovo il telefono e io aprii il messaggio, notando che – com’era prevedibile – era proprio da parte di Enrico. “Tutte le volte che vuoi. Ma come mai non vuoi uscire oggi? Mi devo preoccupare?

Alessandra soffiò, spostandosi i ciuffi dalla fronte. “Ma dico, farsi gli affari suoi no? Perché ho l’impressione che suoni come una minaccia?”

Più che minaccia, mi sembrava stranamente comprensivo… Forse anche troppo. Senza rispondere alla mia amica digitai il messaggio di risposta, sforzandomi di essere gentile anche se, in effetti, avevo una voglia matta di dirgli che non erano fatti suoi.

No, mi sento solo un po’ male. Sai, cose da donne… Non preoccuparti. Ci sentiamo un’altra volta, ciao.

Inviai e lo feci leggere alla mia Coscienza, che per tutta risposta sbuffò per l’ennesima volta. “Troppo dolce e troppo gentile, geme. Non dovresti mostrarti così docile con lui.”

Alzai gli occhi al cielo con una breve scrollata di spalle. “Tanto, ormai…”

“Geme, ha già risposto.” Mi avvisò, restituendomi il telefono senza che glielo chiedessi.

Appena lessi il suo messaggio ridacchiai, innervosita. “Avevi ragione… Senti cos’ha scritto: Ci sentiamo più tardi, Giulia, ora non voglio disturbarti perché sarai con la tua amica. Se non posso vederti, voglio almeno sentirti… Va bene? Divertiti e prendi qualche aspirina. Ciao.

Alessandra scosse la testa, stupita. “’Se non posso vederti, voglio almeno sentirti’? Mio Dio, ma che razza di pretese sono queste?”

Gettai il telefono sul letto, decidendo che se l’avessi gettato per terra – come invece avrei voluto fare – avrei dovuto aspettare fino a Natale prima di vederne uno nuovo. “Non ho nessuna intenzione di rispondergli, mi ha proprio scocciato.”

“Brava geme! Così mi piaci!” Esultò la mia amica, saltando sul letto. Poi si fermò, giungendo le mani e guardandomi con gli occhi che brillavano. “E adesso che hai sistemato il tuo carceriere, che ne dici se stasera vieni da me a cena e poi ci incontriamo con Fede e Laura per vederci un film? Tanto per cambiare!”

L’idea era molto, molto allettante. Stavo per accettare – oh, l’avrei voluto fare così tanto, una serata con i miei amici! – ma in quel momento mia madre bussò alla porta della mia camera, affacciandosi e mostrando un viso leggermente preoccupato.

“Cos’è successo?” Le chiesi, contagiata da quello sguardo turbato.

“Hanno ricoverato nonno, dobbiamo andare in ospedale. Vieni anche tu, vero?” Disse, terribilmente seria.

Io annuii, staccandomi dal muro. “Certo, mi preparo. A che ora dobbiamo andare?”

“Adesso, Giuli. Vestiti e andiamo.” Poi si voltò verso Alessandra, sorridendole a mò di scusa. “Mi spiace interrompere la vostra serata, ragazze. Ti riaccompagniamo noi a casa, okay Ale?”

La mia migliore amica annuì, e quando fummo rimaste di nuovo sole sospirò. “Cavolo geme, spero non sia nulla di grave… Non preoccuparti se stasera non puoi venire, okay? Lo dirò io a Laura.”

“Grazie mille, geme. Dai, inizio a prepararmi…” Mormorai, aprendo le ante dell’armadio. Fantastico, ci mancava anche quell’ennesima preoccupazione alla mia già incasinata esistenza. Non aspettavo altro…

 

Quando, verso l’ora di cena, rientrammo dall’ospedale, andammo a cenare a casa di mia nonna per non lasciarla sola, dato che il nonno era ancora ricoverato. Mi ero del tutto dimenticata di Enrico e del fatto che avrei dovuto sentirmi con lui, perciò lasciai il cellulare nella borsa per tutta la sera, preferendo godermi una delle poche serate in famiglia nelle quali erano presenti anche i miei zii che vivevano in altre città.

Non potevo di certo immaginare che Enrico avrebbe interpretato questo mio ‘silenzio’ improvviso come una sorta di ribellione al suo desiderio di sentirmi, così come non avevo immaginato che sarebbe ricorso ai suoi uomini per tenermi sotto controllo. Così, quando verso mezzanotte andammo via da casa di nonna per tornare a casa nostra, fu con non poco spavento che vidi la macchina di Stefano seguire a distanza quella di mio padre, scortandoci fino a casa.

Dunque mi faceva pedinare anche quando ero con i miei genitori? Questo era davvero troppo, non aveva nessun diritto di intromettersi fino a quel punto nella mia vita! E io non ero di certo tenuta a rendergli conto di ogni cosa che facevo, che diavolo.

Dio, come lo odiavo!

Non appena l’avessi rivisto, gli avrei detto chiaro e tondo che non volevo più avere nulla a che fare con lui, e che per quanto mi riguardava poteva attuare tutte le minacce che voleva. Io con lui avevo chiuso.

Mi hai sentito, Enrico? Ho chiuso!

 


















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AA - Angolo Autrice:
Eccomi qui, dopo secoli di silenzio stampa, ad aggiornare questa storia! Wao, l'ho iniziata un anno fa... Non sembra vero... Mi viene da piangere :'(
Okay, questa è la serata della commozione. Non voglio sprecare il mio angolino per fare un discorso da Oscar (per la serie: ringrazio i miei genitori, la mia famiglia, il mio gatto e la mia tartaruga per essermi stati vicini) perchè non è il caso - ehi, dopotutto non è nemmeno l'ultimo capitolo! Anzi, a ben vedere siamo un pò lontani dal traguardo... Chissà se, di questo passo, riuscirò a finirla prima di Natale? Ci sono così tante cose che vorrei scrivere, ma se non altro la FINE è già ben delineata nella mia mente *-* Anzi, ad essere sincera stavo già pensando ad un seguito xD
Ma non voglio stancarvi oltre con queste mie baggianate - passo ai ringraziamenti!

Dunque, un grazie alle 90 persone che hanno aggiunto questa storia alle Preferite e un altro grazio alle 129 che l'hanno aggiunta alle seguite! ^^ Vi adoro =*

Poi, un grazie immenso a Alebluerose91, Alida Dreamer, Valentina 78, xmas, daykiria e Rosella  per aver recensito lo scorso capitolo - grazie, grazie, grazie, mi fa sempre un grande piacere leggere le vostre recensioni e sapere che cosa pensate dei miei scarabocchi ^^
Okay, questo era ufficiamente l'ultimo capitolo che posterò prima dell'Esame di Maturità, perciò ci sentiamo direttamente a Luglio ^^
Un abbraccio e un bacione a tutte, grazie per stare appresso a questa storia da più di un anno!
Ci sentiamo al prossimo capitolo =)
GiulyRedRose

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII. ***


Capitolo XVIII















 

Avevo smesso di rispondere ai suoi messaggi.

Il giorno dopo Enrico aveva iniziato a tempestarmi di SMS dalla mattina alla sera, ma io li ignorai tutti e non spensi il telefono solo perché avrebbe potuto chiamarmi Alessandra. Non avevo nessuna idea di cosa volesse da me – forse si era pentito di avermi trattata come la prigioniera di un carcere di massima sicurezza? – e sinceramente non mi interessava. Che facesse pure quello che voleva, l’importante era che smettesse di stressarmi. Non avrei più voluto vedere la sua faccia, di questo ero del tutto certa.

Sfortunatamente, qualche giorno dopo iniziai il corso di scuola guida. In realtà, si trattava solo di seguire le lezioni di teoria – dato che avrei compiuto diciotto anni solo dopo tre settimane – ma l’insegnante mi aveva detto che non sarebbe stata una cattiva idea iniziare a portarsi avanti con lo studio. L’unico problema era che avrei dovuto andarci a piedi, e da sola.

Questo aumentava notevolmente le possibilità che avrei avuto di trovarmi faccia a faccia con Enrico, dato che, a giudicare dagli ultimi messaggi, non sembrava ancora essersi rassegnato.

Anzi, in alcuni sembrava quasi minaccioso…

Beh, non avevo più tempo da dedicare a lui e ai suoi capricci: avevo già abbastanza problemi per conto mio. Da quando mio nonno era stato ricoverato io avevo iniziato a dormire a casa di mia nonna per farle compagnia, così le mie uscite notturne si erano ridotte notevolmente – per non dire direttamente che si erano annullate. Mia nonna non sopportava l’idea di andare a dormire sapendomi in giro, da sola – il fatto di essere in compagnia dei miei amici non contava, per lei – e così anche i miei genitori mi avevano chiesto di fare uno sforzo e resistere per un po’. Okay, potevo anche adeguarmi.

Di mattina andavo al mare con Alessandra, in pullman o accompagnata dai suoi genitori, e di sera andavo con i miei in ospedale, in una routine che presto divenne abituale. Non avrei potuto vedere Enrico nemmeno se l’avessi voluto, perciò…

Oh, che diavolo, ma perché continuavo a pensarci?

Forse perché alternava i suoi SMS a mazzi di fiori che mi faceva arrivare a casa e che riceveva in gran parte mia madre, tanto che più volte mi telefonò per chiedermi, sinceramente preoccupata, se avessimo per caso litigato. Ma se non stavamo neppure insieme! Ovviamente, aggiornarla su una simile notizia era fuori discussione, dato che in tal caso avrebbe avuto parecchio da ridire sulle numerose uscite che avevo fatto con lui. Accidenti, avevo le mani davvero legate: non potevo sfogarmi con nessuno, perché ognuno conosceva una versione diversa della storia! Che nervoso.

 

Ma, per tornare alle lezioni di scuola guida, fu esclusivamente colpa loro se non riuscii a levarmi Enrico dai piedi una volta per tutte.

Accadde alcuni giorni dopo la prima lezione. Non avevo idea di come fosse entrato a conoscenza di quel mio nuovo impegno – anche se era altamente probabile che mi avesse messo qualcuno dei suoi amici alle costole, come sempre – fatto sta che, non appena uscii dall’autoscuola, notai subito la sua macchina parcheggiata di fronte, dal lato opposto della strada. Sgranai gli occhi, stupida, e imprecai silenziosamente: dovevo tornare a piedi, quindi non avrei potuto evitare di passare di fronte a lui…

Feci finta di non averlo visto e accelerai il passo, andando per la mia strada con lo sguardo fisso davanti a me: inutile dire che nemmeno pochi secondi dopo venni affiancata dalla sua macchina, e iniziò a seguirmi a passo d’uomo. Aveva i finestrini abbassati – era sempre la sua decapottabile, solo che ora aveva il tettuccio sollevato – e in quel modo potei sfortunatamente sentire la sua voce.

“Ciao, Giulia. Ti va di salire?” Domandò, con una strana voce gentile.

Sempre senza guardarlo scossi la testa, alzando gli occhi al cielo. “No, grazie. Anzi, sei pregato di lasciarmi in pace.” Sbottai, sottolineando velenosamente il finto ringraziamento. Naturalmente mi sarei dovuta immaginare la sua risposta.

“Non era una domanda. Sali.” Replicò: ed eccolo tornare al tono minaccioso.

A quel punto mi fermai e mi voltai verso di lui, innervosita. “Smettila, Enrico, io non ti devo niente! Smetti di seguirmi, smetti di mandarmi messaggi e stupidi regalini, smettila di fare tutto quello che fai! Ti ho assecondato anche per troppo tempo, mi sembra il caso di finirla qui.”

Avevo alzato leggermente la voce, cercando comunque di contenermi e non urlare per evitare di far sapere tutta la storia agli abitanti delle case lì intorno. Mi sentivo incredibilmente orgogliosa dopo quel piccolo sfogo, e visto che Enrico sembrava non avere nessuna risposta pronta gli diedi di nuovo le spalle e feci per andarmene, camminando a passo sostenuto.

Quando però sentii il motore della sua macchina spegnersi e il rumore della portiera che si apriva e si richiudeva, compresi che non sarei riuscita a liquidare l’intera faccenda con così poco. Infatti mi raggiunse subito, afferrandomi al polso e facendomi voltare verso di lui. Aveva un’espressione terribilmente seria e arrabbiata in viso, tanto che fu capace di terrorizzarmi benchè ci trovassimo in mezzo ad una strada, con il sole alto e circondato da case abitate – insomma, volendo avrei potuto urlare e qualcuno sarebbe anche venuto a salvarmi, ecco.

“Dimmi, ho fatto qualcosa di sbagliato?” Sibilò, chinandosi pericolosamente verso di me. “Perché tutt’ad un tratto hai smesso di rispondere ai miei messaggi? Ti ho offeso? Oppure non ti piacciono le rose? Strano, perché credevo fossero i tuoi fiori preferiti…”

Con uno strattone riuscii a liberarmi, indietreggiando poi di qualche passo e guardandolo furiosa. “Tutta questa storia è sbagliata, Enrico!” Proruppi, stringendo gli occhi. “Non essere così stupido da pensare che l’errore sia nei fiori, Dio!, ti facevo più intelligente!” Scossi la testa, ignorando il suo sguardo furibondo e pericoloso. “Credi che mi faccia piacere uscire di casa e avere l’ansia di essere spiata da te o dai tuoi amici, solo perché hai questa mania di volermi tenere sotto controllo? Ma stai scherzando? Non sono la tua ragazza, come ti permetti di comportarti in questo modo! Fatti un esame di coscienza e dimmi se mi sto sbagliando! Cercati qualcun’altra vittima da tempestare con le tue attenzioni e i tuoi capricci, perché io ne ho abbastanza! E se continuerai, Enrico, non esiterò ad andare a denunciarti, non sto scherzando. Non so perché ti sei impuntato con me ma voglio che tu la smetta, e soprattutto dimenticati dove abito perché non voglio più ricevere neppure uno spillo da parte tua. Ti è chiaro il concetto?”

Tacqui, riprendendo il respiro, e mi allontanai ancora di più da lui. “Adesso me ne vado, e se provi a seguirmi mi metterò ad urlare. Questa situazione è durata sin troppo.”

Poi, prima che potesse in qualche modo ribattere e costringermi ad andare con lui, gli diedi le spalle e corsi via, ignorando il caldo e desiderando raggiungere la casa di mia nonna nel minor tempo possibile. Speravo che Enrico avesse afferrato il concetto, perché non volevo davvero arrivare a denunciarlo. Ma, ovviamente, l’avrei fatto se mi ci avesse costretta.

Fu solo quando fui al sicuro dietro la porta di casa che riflettei su quanto erano state avventate le mie parole: oddio, avevo aggredito in quel modo un tizio con la pistola nascosta probabilmente in macchina… Che cosa mi era saltato in mente?

Crollai a terra, paralizzata dalla paura, e nascosi il viso tra le gambe per soffocare i singhiozzi di ansia respressa.

 

 

Dal giorno trascorsero quasi due settimane. Non accadde nulla di particolare, ma Enrico non si era arreso proprio per niente: aveva continuato a mandarmi messaggi su messaggi, ma in genere si limitava a quelli della buonanotte alternati, ogni tanto, con brevi SMS di scuse. Non avevo mai risposto a nessuno di questi.

Alla fine mia madre mi aveva chiesto se avevamo fatto pace, ma avevo deviato l’argomento e non le avevo risposto, visto che avevamo tutti altre cose a cui pensare. Per esempio, il fatto che le condizioni di mio nonno avevano iniziato drasticamente a peggiorare.

Ormai le nostre giornate ruotavano intorno all’orario delle visite dell’ospedale, visto che eravamo lì sia di mattina che di sera, e in quel modo avevo anche una scusa più che ragionevole per non pensare ai miei problemi con Enrico – come se non bastasse, mi innervosiva il modo in cui avevo iniziato a pensare a lui, quasi come se fossi in debito con lui o come se gli dovessi qualcosa: semplicemente ridicolo.

Alessandra ormai faceva coppia fissa con Riccardo, e le poche volte che era capitato di trovarci tutti e tre insieme si erano mostrati molto sollevati per il fatto che avevo deciso di mettere la parola fine a quella situazione, orgogliosi come dei genitori di fronte alla prima parola pronunciata dal loro bambino. Inoltre non avevo più notato nessuna macchina sospetta – segno che anche gli amici di Enrico avevano smesso di spiarmi. Eppure, quando lessi uno dei suoi ultimi messaggi nel quale mi chiedeva come stesse mio nonno, non potei che ricredermi sul fatto delle ‘spie’: insomma, chi diavolo poteva averglielo detto? Naturalmente, non risposi neppure a quel messaggio. Non aveva nessun diritto di intromettersi anche in quella parte della mia vita, aveva già visto abbastanza di me.

Ben presto, però, le cose cambiarono radicalmente – per l’ennesima volta.

 

 

***

 

 

Era il sedici agosto.

Da due settimane non parlavo più con Enrico, ormai, benchè avessi continuato ad avere sue notizie tramite i messaggi che dimostravano che non si era mai arreso di fronte all’evidenza. Il tempo era passato così in fretta da lasciarmi piuttosto interdetta – nel frattempo avevo compiuto diciotto anni e la mia migliore amica aveva ‘festeggiato’ anche il suo primo mese insieme a Riccardo – eppure la piccola parentesi delle uscite con Enrico mi sembrava sempre recentissima.

Negli ultimi giorni, comunque, le condizioni di mio nonno erano sembrate migliorare, tanto che i medici furono del parere di trasferirlo nuovamente dal reparto di rianimazioni a quello, più ‘sereno’, di cardiologia. Com’era prevedibile tutti noi avevamo iniziato a contare i giorni che mancavano dalle sue dimissioni, tanto che il quindici avevamo festeggiato Ferragosto con assoluta tranquillità.

Il mattino dopo, invece, le cose precipitarono improvvisamente come un castello di carte.

Stavo facendo colazione – erano all’incirca le 8 – quando i miei genitori erano arrivati a casa di mia nonna con una strana agitazione, dicendomi di sbrigarmi perché sarei dovuta tornare a casa per far compagnia a mia sorella mentre loro andavano in ospedale, dove a quanto pare le condizioni di nonno erano peggiorate. Fu mio padre a riaccompagnarmi a casa prima di tornare a prendere mia madre e mia nonna per andare in ospedale, lasciando me e mia sorella da sole a casa con la promessa che mi avrebbero fatto sapere il prima possibile.

Attesi fino alle 10, impaziente, andando su e giù per tutta la casa cercando di distrarmi con qualsiasi cosa, ma alla fine non resistessi. Afferrai il cordless e digitai freneticamente il numero del cellulare di mio padre, ascoltandolo però squillare a vuoto. Leggermente in ansia chiamai invece al telefono di mia madre, chiamandola un paio di volte perché sembrava non sentire la suoneria: la terza volta, invece, rispose.

“Mamma?” Chiesi, preoccupata. “Va tutto bene?”

Dall’altra parte del telefono sentivo il suo respiro pesante, come se stesse prendendo dei profondi respiri. “Giulia…” Mormorò, con la voce che tremava.

Il mio cuore prese a battere all’impazzata: improvvisamente non ero più tanto certa di voler avere una risposta, ma la mia bocca si aprì per conto suo. “Cos’è successo?” Balbettai.

Altri respiri, un singhiozzo… E lì compresi ancora prima che rispondesse. “Nonno…” Sussurrò. “Il nonno… Non ce l’ha fatta…”

Sgranai gli occhi, sentendo le lacrime iniziare a inondarli immediatamente. Scossi la testa, più volte, come a voler scacciare quell’orrenda verità. “No…” Mormorai. “No, no…”

“Tesoro…” Mormorò anche lei, tra le lacrime. “Tesoro, vorrei essere lì… Non volevo dirtelo così…”

Ma io non l’ascoltavo già più. Piangevo in modo incontrollato, cercando di non farmi sentire da mia sorella che si trovava in camera sua: uscii in veranda, richiudendo la porta dietro di me e continuando a mormorare “No, no, no…” come se questo fosse potuto servire.

Dopo aver cercato di consolarmi – cosa pressochè inutile, a telefono – e avermi raccomandato di non farmi vedere da mia sorella in quelle condizioni, perché voleva esserci almeno per dirlo a Clara, mi salutò e richiuse la chiamata, dato che doveva aiutare gli altri a ‘sistemare’ tutto quanto. Rimasi a piangere, fuori, per non so quanto tempo, ignorando il mio cellulare che aveva iniziato a squillare imperterrito. Era Enrico: ma cosa diavolo voleva?

Spensi il telefono, resistendo alla voglia di gettarlo per terra, e piansi ancora, versando tutte le mie lacrime. Non volevo crederci – non potevo farlo. Sentivo un dolore lancinante al petto come se avessero strappato un pezzo del mio braccio, tanto quella notizia mi aveva scioccata. Di certo Enrico era l’ultimo dei miei pensieri, anzi, in quel momento non meritava neppure di farne parte.

 

Quello stesso pomeriggio, dopo pranzo, tornammo tutti in ospedale.

Non credo che mi capiterà ancora un’esperienza così tragica, o almeno lo spero. Com’era ovvio, poiché il nonno era morto in ospedale, era lì che sarebbe dovuto rimanere fino al funerale: nessuno di noi era molto a proprio agio con quest’idea – mia nonna, poi, desiderava disperatamente poterlo vegliare tutta la notte, così come si usava – ma invece ci saremmo dovuti accontentare di andare da lui solo per l’orario delle visite stabilito dall’ospedale.

La differenza tra l’afa terribile che aleggiava fuori e il freddo dell’obitorio, dentro, era notevole. Arrivammo quando ancora non c’era nessuno – solo estranei venuti per i propri cari – e fummo costretti ad entrare a turno nella piccola camera mortuaria dove, tra l’altro, si trovavano anche altre salme. I miei genitori non avevano voluto portare mia sorella proprio per quel motivo.

Non appena vidi mio nonno, però, le altre salme scomparvero, come se nell’obitorio ci fossimo stati solo noi; mi portai accanto a lui, non riuscendo a credere di vederlo in quello stato, e tutte le lacrime che credevo di aver esaurito quella mattina si affacciarono nuovamente dai miei occhi, colando copiose sulle guance. Da quel momento, non so per quanto tempo rimasi in quella stanza.

Vidi parenti su parenti susseguirsi in continuazione per dare il cambio a questo o a quell’altro, mentre la mano elegante di mia nonna non cessava un momento di accarezzare la pelle gelida del volto del marito, come se quelle carezze potessero in qualche modo riscaldarlo e confortarlo nella muta immobilità della morte. Sarei rimasta ancora – chissà quante ore erano passate, a me sembravano un’eternità – ma ad un certo punto mia madre mi si avvicinò e mi strinse in un abbraccio, riscaldandomi con il suo corpo. Non mi ero quasi accorta, infatti, del freddo che c’era in quella camera.

“Giulia, sei gelida.” Mormorò, con la voce leggermente roca. “Esci un po’ fuori, prendi aria e riscaldati, altrimenti ti ammali.”

Annuii, come in trance, ed uscii all’obitorio attraversando la piccola sala d’attesa e raggiungendo direttamente gli altri nel cortile, sotto il caldo sole pomeridiano. Starnutii a causa del brusco cambio di temperatura e, non appena vidi mio padre, mi diressi lentamente verso di lui per poi poggiarmi al suo petto e nasconderci il viso troppo pallido. Rimasi immobile mentre mi accarezzava i capelli, socchiudendo gli occhi e cercando di estraniarmi da quel dolore che non voleva saperne di abbandonarmi.

 

“Giulia…” Mi chiamò ad un certo punto, facendomi sollevare la testa. “C’è un tuo amico.”

Un mio amico? Chi mai poteva essere, visto che non avevo ancora detto a nessuno quanto era successo, neppure alla mia migliore amica? Lentamente mi voltai, sentendo le braccia di mio padre che mi stringevano abbassarsi e liberandomi dal suo abbraccio; fu uno shock ritrovarmi a fissare il volto serio e duro di Enrico.

“Che cosa ci fai qui?” Mormorai, non riuscendo ad impedire alla mia voce di tremare.

La sua mascella fece un guizzo, irrigidendosi. “Ho saputo… di tuo nonno…”

Sentii i miei occhi riempirsi nuovamente di lacrime, e mi maledii per questo: l’ultima cosa che volevo era piangere di fronte a lui, come se in quel modo potessero crollare tutte le mie difese. Non risposi, ma sfortunatamente fu mio padre a farlo al posto mio.

“Enrico, giusto?” Chiese, mentre il mio incubo personale annuiva. “Ti posso chiedere un favore?”

Lui annuì ancora, mostrandosi incredibilmente cortese. “Certo, signore.”

“Per piacere, portala al bar. È rimasta dentro dalle 2 e mezza, le farebbe bene cambiare un po’ d’aria.”

Sollevai lo sguardo verso mio padre, piuttosto sconvolta dalle sue parole. Mi stava mandando a fare un giro con Enrico? In che razza di dimensione parallela ero finita? Okay, mio padre non lo conosceva e non sapeva cosa tutto c’era dietro, ma chiedergli di tenermi compagnia, io e lui da soli, non mi sembrava il caso… A meno che, certo, mia madre non avesse un po’ gonfiato la storia raccontandogli che stavamo insieme. Ma cavoli, non era di certo il momento più adatto per accettarlo come mio ragazzo, ad ogni modo!

L’altra cosa che mi faceva innervosire era che mio padre non volesse farmi restare in ospedale… Se potevano rimanere loro, perché io me ne sarei dovuta andare?

“Ma papà, voglio restare qui…” Provai a replicare, con scarsi – diciamo pure nulli – risultati.

Infatti lui scosse la testa, risoluto. “No, Giulia, vai. Se rimani qui ancora per molto finirai per sentirti male, e non voglio. Vai con il tuo amico.”

Probabilmente solo a me era suonata male la parola amico riguardo ad Enrico, dato che né lui né mio padre si erano scomposti più di tanto.

“Vieni, Giulia…” Disse Enrico con dolcezza, prendomi la mano.

Con un’espressione piuttosto contrariata e storcendo il naso fissai mio padre, ma poi mi limitai a seguire docilmente l’unica persona che avrei voluto evitare. Tutti gli sforzi che avevo fatto in quei giorni per cercare di non incontrarlo erano svaniti nel nulla, e visto che ci stavo riflettendo, mi accorsi di non avere neanche il cellulare con me qualora avessi dovuto chiamare rinforzi. Davvero fantastico.

Augurandomi che non avesse intenzioni strane, almeno per quella volta, salii nella sua macchina – che per l’occasione aveva il tettuccio rialzato come se in qualche modo si fosse voluto adattare al mio cupo stato d’animo. Bah, sciocchezze.

Ascoltai il ruggire dell’auto che ripartiva, guardando fuori dal finestrino mentre l’aria condizionata iniziava a circolare nell’abitacolo. Non avevo nessuna intenzione di litigare quel giorno, così decisi di issare momentaneamente la bandiera bianca.

Avrei avuto di certo altre opportunità per gridargli ancora quanto lo odiavo.

















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AA - Angolo Autrice:
Ed eccomi tornata con un - alquanto sudato - aggiornamento! Temevate che non fossi sopravvissuta all'esame, vero? Tranquille, la vostra GiulyRedRose rimarrà connessa su questi schermi fino a storia finita, anche se dovessero volerci secoli! ù.ù (In realtà, spero di impiegarci meno tempo :p)
Scherzi a parte, non ho molto da commentare su questo capitolo. La relazione tra Giulia ed Enrico è parecchio tesa, chi sa come si evolverà? Questo tragico avvenimento li avvicinerà oppure no? Sbizzarritevi pure con le ipotesi, sarà divertente sapere che cosa si immaginano le mie lettrici ^^
Perdonatemi per il capitolo tristissimo - temo che anche il prossimo sarà più o meno su questa linea - ma poi le cose dovrebbero tornare "spensierate" come prima. Almeno lo spero!
Voglio ringraziare con tutto il cuore le 100 fantastiche persone che hanno aggiunto questa storia tra le preferite e le altrettante 149  meravigliose che l'hanno aggiunta alle seguite... Grazie grazie grazie, grazie infinite, non so che farei senza di voi =*
Inoltre ringrazio Rosella, Valentina78 e savy85 per aver recensito lo scorso capitolo ^^
Il capitolo 19 è stato scritto già per metà, quindi non dovrete attendere un altro mese per leggerlo... E poi ora che ho finito con la scuola e lo studio avrò più tempo a disposizione ^^
Continuate a seguirmi, vi adoro! <3
Un abbraccio, al prossimo capitolo =*
GiulyRedRose



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Capitolo 19
*** Capitolo XIX. ***


Capitolo XIX

 

 


















Il pesante silenzio che si era creato in macchina fu spezzato proprio da lui. D’altra parte io non avevo nulla da dirgli – a parte l’impellente bisogno di inveirgli contro e al limite supplicarlo di non intromettersi ancora nella mia vita.

Purtroppo avevo capito che tanto erano sforzi inutili.

“Hai letto i miei messaggi?” Esordì a bassa voce, cercando di essere gentile.

Io scossi la testa, decidendo che trincerarmi in un mutismo ostinato non avrebbe giovato a nessuno, tantomeno a me. “No, ho il cellulare spento da ieri notte.” Mormorai, odiandomi per la mia voce roca a causa del lungo pianto.

Dalle sue labbra sfuggì una sorta di sospiro sollevato. “Bene, non farlo allora.”

Non potei impedirmi di essere curiosa, così mi voltai inarcando un sopracciglio e osservandolo con fare interrogativo. “Che significa?”

Vidi la sua mano stringersi sopra il cambio, facendo guizzare gli agili muscoli delle braccia, lasciate scoperte dalla T-shirt blu a maniche corte. Com’è che non avevo mai fatto veramente caso a quanto fosse muscoloso? Sbattei più volte le palpebre, stupita da quel mio stesso pensiero, e mi sforzai di ascoltare la sua risposta titubante. “Continuavi a non rispondermi dall’ultima volta che ci siamo visti, e anche se avrei potuto capirlo, non sopportavo il tuo silenzio. Sapevo che stavi bene, ma quando ho saputo di tuo nonno, beh… Non ho potuto tollerare che mi tenessi fuori anche in questa… occasione. Ero preoccupato e arrabbiato, e mi sono lasciato un po’ prendere la mano nei messaggi. Ti chiedo scusa.”

Probabilmente il vero evento fu il fatto che si fosse appena scusato, ma non ci feci poi molto caso. Non mi degnai neppure di guardarlo e così tornai ad osservare la strada, innervosita ma troppo stanca per dimostrarlo. “Questa è la mia vita, Enrico, non hai nessun diritto di farne parte. Soprattutto in questa occasione.” Specificai, giocherellando con le cinghie della mia borsa. “Credevo che dopo il nostro ultimo incontro avessi deciso di lasciarmi stare.”

“Invece ti sbagliavi.” Sussurrò, senza approfondire oltre l’argomento. Io feci finta di niente e non risposi, in parte perché non ne avevo voglia e in parte perché effettivamente non sapevo cos’altro replicare. Era talmente cocciuto da far perdere la pazienza ai santi.

Senza più dire una parola, alla fine, raggiungemmo il bar. Enrico parcheggiò all’ombra, sotto un pino, e mi accompagnò dentro precedendomi, come se si fidasse che l’avrei seguito senza cercare di andarmene. Cosa che comunque non avevo intenzione di fare, visto che mio padre sapeva che ero in sua compagnia e lui non poteva né rapirmi né farmi del male. Aprì la bocca solo per chiedermi che cosa volessi.

“Credo che un thè freddo possa bastare.” Risposi, guardandomi pigramente intorno.

Lui annuì. “Okay. Vai a sederti, allora, arrivo subito.”

Con la coda dell’occhio lo vidi dirigersi al bancone, mentre io andai a cercare un tavolino appartato, in un angolo, in modo da non essere disturbata. Purtroppo la parete del locale era ricoperta da specchi, così mi trovai ad osservare di malavoglia il mio riflesso: beh, non avevo di certo un bell’aspetto. Malgrado l’abbronzatura, il mio viso era estremamente pallido, e gli occhi erano arrossati dal pianto e leggermente violacei. Mi strofinai il viso con i palmi delle mani e mi pizzicai le guance per farvi tornare un po’ di colorito, in modo che la gente non pensasse che fossi una drogata o una moribonda, e per un po’ l’effetto sembrò funzionare. Ma per quello che m’importava…

Enrico non si fece attendere molto e, quando tornò, aveva un bicchiere di gelido thè alla pesca in una mano e un croissant al cioccolato nell’altra. Posò entrambe davanti a me, costringendomi a sollevare sconcertata un sopracciglio. “Non ho chiesto un croissant…”

Lui abbozzò un sorriso, annuendo. “Lo so, te l’ho preso io. Credo che tu abbia bisogno di zuccheri, fuori c’è troppo caldo e tu sei troppo pallida.”

Non trovai niente di meglio da dire che: “Tu non ti arrendi mai, vero?”

Il suo sorriso si allargò impercettibilmente, mentre incrociava le braccia e le posava sul tavolino. “No, decisamente no.” Rispose, con un tono sin troppo dolce per i miei gusti.

Mi limitai a sospirare, rassegnata. “Va bene, come vuoi. Quanto ti devo per…?”

“Non dirlo neanche per scherzo, mi sembra evidente che qui offro io.” Mi interruppe, risoluto.

Lo guardai a lungo, indecisa su cosa dire. “Enrico, senti, voglio chiarire che…”

Ma neanche questa volta mi diede l’opportunità di parlare.

“Questo non è né il luogo né il momento adatto per parlare di certe cose, Giulia. Adesso non preoccuparti e mangia, ne hai bisogno… Va bene?”

Mi limitai a scrollare le spalle, senza alcuna voglia di discutere. “Okay.” Mormorai, portandomi alle labbra la bevanda ghiacciata – che, effettivamente, mi fece parecchio bene.

Rimanemmo in silenzio, grazie al Cielo avevo la scusa di dover tenere la bocca occupata nel mangiare, altrimenti la mia stupida educazione mi avrebbe costretto a trovare per forza qualcosa da dire. Per quanto il silenzio non fosse eccessivamente imbarazzato, anzi: ma il solo fatto di essere per l’ennesima volta da sola, in sua compagnia – in quello che somigliava terribilmente a uno dei nostri vecchi appuntamenti – beh, diciamo che era qualcosa di cui avrei fatto volentieri a meno.

Quando, finalmente, ebbi terminato sia il thè che il croissant, ci alzammo entrambi e, senza dire una sola parola, come se ci fossimo letti nel pensiero a vicenda, ci dirigemmo verso l’uscita. Una volta fuori notai una panchina libera sotto un albero, nel piccolo giardinetto del bar, e la raggiunsi per cercare un po’ di riparo al calore terribile del sole. Mi sedetti, ma non invitai lui a fare lo stesso.

“Vuoi che ti riporti subito in ospedale?”

Sollevai lo sguardo per incrociarlo lentamente con il suo, notando che i suoi profondi occhi verdi erano colmi di preoccupazione. Per me? Stentavo a crederlo. Poi scossi la testa. “No, non subito. Fra un po’.” Mormorai.

Lui annuì, poggiandosi al tronco dell’albero e facendo per estrarre il pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni. Distolsi lo sguardo mentre stava per accenderne una: se avessi anche solo sentito l’odore acre del fumo mi sarei sentita male.

Enrico d’altra parte sembrò capirlo perché ritirò nuovamente il pacchetto, che sparì all’improvviso così com’era apparso. “Scusa,” disse. “Ti prometto che oggi non fumerò.”

Scrollai le spalle, ostentando indifferenza. “Fai come vuoi…”

Lo sentii sospirare paziente, mentre veniva a sedersi accanto a me. “Giulia,” esordì a bassa voce, cercando di sfruttare tutta la calma e la dolcezza di cui era capace. “Sono venuto da te non appena l’ho saputo. Voglio solo starti vicino e consolarti. Ma tu… Tu non me lo permetti. Perché? Mi odi così tanto? So che non è il momento più adatto per affrontare un simile discorso, ma a questo punto voglio saperlo. Non riesco a pensare ad altro, solo a te… Tu credi che sia solo l’ennesimo capriccio di un ragazzino viziato, ma ti posso assicurare che non è così. Io tengo molto a te, davvero… Cosa dovrei fare per dimostrartelo? Neppure i miei regali sono valsi a qualcosa…”

A quel punto scossi la testa, voltandomi finalmente per fronteggiarlo. “I tuoi regali non servono a niente, Enrico, e sai perché? Perché non puoi comprarmi con soldi e fiori profumati, io non sono quel tipo di ragazza! E mi sembra di avertene dato prova in più di occasione. E sai cosa ti dico? Sì, è vero, credo che il tuo sia solo un capriccio, perché se tenessi davvero a me non mi obbligheresti a frequentarti e non ti arrabbieresti se non rispondessi ad uno dei tuoi cento messaggi giornalieri! Anch’io ho una vita, lo sai questo? Non ho sempre il cellulare in mano, e se non ti rispondo c’è una ragione! Uscivo con te ogni santo giorno, ho trascurato i miei amici e la mia famiglia per te, Dio! Ma questo non ti è bastato, perché sei l’essere più egoista del mondo, e allora hai pensato di farmi tenere sotto controllo anche le poche volte che non ero insieme a te. Ti sembra un comportamento da persona matura? No, non direi proprio. Quindi, se davvero tieni a me – cosa di cui, lasciami dire, ma dubito – vedi di cambiare atteggiamento, perché io non sono una cosa tua.”

Lui mi fissava improvvisamente rabbuiato, ma non mi importava: era ora finalmente che capisse a che cosa mi aveva portato il suo stupido orgoglio e il suo egoismo. E se ero riuscita a farlo arrabbiare, tanto meglio: forse era la volta buona che si stufava e mi lasciava stare una volta per tutte. Distolsi nuovamente lo sguardo da lui, fissando un punto imprecisato davanti a me. Speravo con tutta me stessa che se ne andasse e mi lasciasse in pace, ma avevo sottovalutato – per l’ennesima volta – la sua testardaggine.

“Non c’è proprio niente che io possa fare per farti cambiare idea?” Mormorò tristemente.

Oh no, caro, pensai. Non usare quel tono da cucciolo bastonato con me!

Mi presi la testa tra le mani, poggiando i gomiti sulle ginocchia e lasciando che i capelli sciolti mi piovessero sul viso per nascondermi al suo sguardo. Sospirai profondamente prima di rispondergli. “Potresti sempre lasciarmi in pace. Rinuncia e ritirati con onore.” Citai, senza guardarlo.

Dalle sue labbra fuoriuscì una strana risata, a metà tra l’amaro e il divertito: forse perché il mio tono era risultato talmente tanto stanco – e con una linea sarcastica di troppo – che preferì non prendermi sul serio.

“Mi dispiace, ma questo non rientra nei miei piani.” Mormorò, suadente.

Beh, valeva la pena tentare. Scrollai le spalle, rimettendomi a sedere normalmente. Non parlai per un po’, e lui rispettò il mio silenzio. Dopo quelli che mi parvero i minuti più lunghi di tutta la mia vita mi alzai, sempre senza guardarlo: temevo che i suoi occhi avrebbero potuto incantarmi un’altra volta.

“Mi puoi riportare in ospedale?”

Lui annuì.

 

 

***

 

 

Se c’era qualcosa che avrei dovuto riconoscergli, in quella occasione, era che non mi aveva lasciata sola per un attimo durante tutta la sera. Persino quando l’orario delle visite fu terminato e dovemmo tornare a casa, Enrico ci seguì in macchina – senza forzarmi ad andare con lui, cosa di cui gli fui grata – e rimase a farmi compagnia, mentre la casa di mia nonna veniva invasa da un via vai di parenti che sembrava non voler cessare.

Dopo averne visti talmente tanti da non ricordarne neppure il nome, però, ne ebbi abbastanza. Andai a rifugiarmi nel salone che la nonna non usava più – e che serviva soltanto per conservarvi libri, foto, vasi e soprammobili di vario genere. Era la stanza più fresca di tutta la casa, probabilmente, e senza alcun bisogno del condizionatore: perciò mi chiusi dentro e mi accoccolai sul divano, stringendo con forza il cuscino. Ormai non avevo nemmeno lacrime da versare.

Tuttavia non rimasi sola molto a lungo. Anzi, forse non passarono nemmeno cinque minuti. Dopo un po’ infatti la porta si aprì e sentii il rumore attutito di passi sopra il tappeto: temevo di sapere a chi appartenessero, e infatti non mi sbagliavo.

“Ah, sei qui.” Un tenero sussurro che sembrava però un urlo, nell’avvolgente silenzio della sala. Sollevai una mano in modo che capisse che mi trovavo dall’altra parte del divano, nascosta dietro lo schienale, e subito i passi vennero nella mia direzione.

Fece il giro del divano fino a trovarsi di fronte a me, e qui si inginocchiò sul tappeto, poggiando le braccia incrociate sul divano. “Mi sono spaventato, sei sparita all’improvviso…”

Non potei trattenermi dallo sbuffare, infastidita. “Sono a casa mia, Enrico, dove diavolo sarei potuta andare?”

Il suo sguardo – ferito? – mi fece capire di aver frainteso le sue parole, come del resto si affrettò a spiegare lui stesso.

“Sai bene che non intendevo quello.” Ribattè infatti, aggrottando le sopracciglia. “Credevo fossimo arrivati ad una tregua, noi due.”

Lo fissai ancora un po’ poi sospirai, arrendendomi. “Sì, lo so. Hai ragione. Scusa.” Ammisi, senza guardarlo negli occhi. “Sono solo un po’ nervosa…”

“Posso capirlo benissimo…” Replicò, con rinnovata tenerezza. “Sai, quando… Quando è morta mia madre… Credevo che il mondo mi fosse crollato addosso. È stato come essere privato dell’ossigeno…”

Quell’improvvisa quando inaspettata confessione mi colse del tutto impreparata. Sgranai gli occhi, stupita e malgrado tutto addolorata, e non potei fare a meno di provare pena per lui e di sentirmi male al solo pensiero. “Tua madre… Enrico, non lo sapevo… Mi dispiace così tanto…” Balbettai, incerta se sfiorarlo o meno.

Ma lui scosse la testa, con un amaro sorriso sulle labbra. “Ero più che un bambino, avevo otto anni. Non ricordo molto di lei.” Mormorò, abbassando lo sguardo. Le folte ciglia scure gli sfiorarono la pelle sotto gli occhi, tremando impercettibilmente.

A quel punto non potei fare a meno di allungare una mano e posarla sulla sua spalla, cercando di confortarlo con un misero tocco – non sapevo in che altro modo fargli sentire la mia presenza. “Non me ne hai mai parlato…” Sussurrai poi, come ripensandoci.

A quel punto alzò lo sguardo, immobilizzandomi con quei maledetti occhi ora incredibilmente cupi. “Non volevo fare la parte del povero orfanello, Giulia. Magari questo avrebbe influito sull’idea che tu avevi di me e forse mi avresti visto diversamente, ma… Ad essere sincero, preferivo che tu odiassi il vero me piuttosto che farti provare un affetto derivante dalla compassione.”

La fermezza con cui aveva pronunciato quelle parole – vere, d’altronde – mi diede l’opportunità di riflettere brevemente e farmi un ennesimo quadro generale della situazione. Come aveva detto lui, in effetti mi sarei aspettata di più che usasse quella tragedia per toccare quella maledetta sensibilità femminile che sembra appartenere ad ogni essere privo del cromosoma Y – se mi avesse detto una cosa simile, dovevo ammetterlo, ma l’avrei guardato con occhi diversi. Probabilmente anche giustificando le azioni che invece, nella mia beata ignoranza, mi facevano innervosire.

Ma quello che mi aveva davvero colpito era stata la sua ultima frase. Preferivo che tu odiassi il vero me piuttosto che farti provare un affetto derivante dalla compassione. Che cosa voleva dire con questo? Perché queste sue parole non coincidevano minimamente con l’idea di ragazzo egoista e arrogante che mi ero fatta di lui? Credevo che uno della sua risma potesse arrivare a tutto pur di raggiungere il proprio scopo, e se davvero il suo scopo ero io, allora, perché non usare anche quella triste verità?

Possibile che fosse sul serio… Poteva essere…?

Che diavolo, certo che no!

Scossi la testa, sentendomi la bocca improvvisamente arida. “Non so… Non so cosa dire, Enrico.” Mormorai infine, scrollando lievemente le spalle. Ero dispiaciuta, certo, e mi odiavo per provare l’irritante impulso di abbracciarlo, ma quelle parole mi avevano confuso e scioccato più del lecito.

Il mesto sorriso che apparve sulle sue labbra non fece che terminare di mandare al diavolo tutto il mio severo autocontrollo. “Non c’è nulla da dire, Giulia. Volevo solo dirti che capisco come ti senti.”

Oh bene, perfetto. Io mi riferivo alla seconda parte del discorso mentre sembrava che lui avesse deciso di ignorarla, come se si fosse pentito delle parole che gli erano sfuggite di bocca in un momento di appartente intimità… Che fare con un ragazzo così?

Sospirai, scostandomi per fargli spazio sul divano. “Vieni, su. Devi essere scomodo lì per terra.” Dopotutto avevamo firmato una tregua, no?

Un angolo delle sue labbra si curvò verso l’alto, mentre Enrico prendeva posto di fianco a me e si posava un cuscino sulle gambe. Poi fece qualcosa che – senza ombra di dubbio – non mi sarei mai aspettata. Picchiettò leggermente sul cuscino e mi sorrise, dolcemente, indicandomi di avvicinarmi. “Metti la testa qui e sdraiati, forza. So che hai bisogno di riposarti.” Mi invitò, senza nessuna ombra di maliziosità o doppi sensi.

Il mio sguardo dovette esprimere tutto il mio scetticismo perché il suo sorriso si fece leggermente più ampio. “Davvero, Giulia, sono serio. Non voglio fare nulla di male, soltanto… Permettimi di essere il tuo conforto adesso, senza nulla in cambio. Non ti chiedo altro.”

Con parecchia esitazione mi avvicinai a lui, senza mai distogliere lo sguardo per paura che potesse fare qualcosa di cui mi sarei sicuramente pentita. Tuttavia si comportò proprio da bravo ragazzo e non fece nulla di tutto quello che mi ero invece immaginata io, lasciando che posassi la testa sul suo cuscino e rannicchiassi le gambe lungo il divano, in lungo.

Rimanemmo immobili per un tempo che mi parve infinito, prima che le sue mani, capricciose, raggiungessero i miei capelli e lì si fermarono, intrufolandosi tra i ciuffi e accarezzandomi con una strana dolcezza che preferii non considerare tale, perché in caso contrario sarei stata costretta a cambiare completamente il parere che avevo di lui.

Il rumore del suo respiro e le carezze tra i miei capelli mi cullarono, trascinandomi in un lieve sonno senza sogni. Ero troppo stanca per combattere anche quella battaglia, ed Enrico di certo non ne avrebbe approfittato. Speravo solo che non si facesse strane idee, perché io non avevo nessuna intenzione di cambiare o di rivedere la mia posizione al riguardo.

Enrico era cattivo, egoista, arrogante e presuntuoso. Ed io dovevo stargli alla larga.

O forse no?

























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AA - Angolo Autrice:
Acciderbola, che parto! Chiedo scusa per il ritardo - okay, tutti i miei aggiornamenti contengono delle scuse, che bello -.-'' ormai mi conoscete! :D
Dunque! Siccome è tardi e sono stanca, non mi dilungherò nelle note come mio solito... Ma corro a ringraziare i miei fedeli discepoli che, bene o male, seguono tutti i miei aggiornamenti ^^
Un enorme grazie a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, ossia Rosella, Alebluerose91, Ada Wong e lara27;
grazie infinite alle 108 fantastiche persone che l'hanno aggiunta alle preferite e alle 162 che l'hanno messa tra le seguite! Grazie, grazie, grazie! =*
Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate dei nuovi capitoli e di come si sta evolvendo la storia di Giulia ed Enrico, sono ansiosa di sapere che ne pensate e - soprattutto - che idea vi siete fatta! Si metteranno insieme o no? Giulia è troppo cinica? Enrico troppo stronzo? Mistero! :O
Lo scoprirete alla prossima puntata... Forse xD
Un bacio e un abbraccio a tutte! Vostra,
GiulyRedRose




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Capitolo 20
*** Capitolo XX. ***


Capitolo XX

 

 

 

 

 

 










 

 

Non avrei mai immaginato che un giorno avrei potuto pensare una cosa simile, ma dopo che Enrico se ne fu andato, quella notte – era rimasto fino alla fine a farmi compagnia, limitandosi ad accarezzarmi i capelli in perfetto silenzio – mi sentii improvvisamente sola. Proprio come se ne sentissi la mancanza.

Mia madre, ben lungi anche solo dall’immaginare quello che in realtà c’era tra me e lui, sembrava felice del nostro riavvicinamento, e mi aveva confidato che sperava che la sua presenza mi aiutasse ad alleviare il dolore della perdita di mio nonno, che era stato per me un secondo padre. Non avevo replicato, trovando come scusa il dover apparecchiare per mangiucchiare qualcosa per cena – anche se nessuno di noi aveva voglia di cucinare, tanto che mio padre fu costretto ad andare a comprare una pizza.

Rimasi per tutto il resto della serata, fin quando non mi arresi e andai a dormire, a pensare e riflettere sul comportamento di Enrico e su quello che avrebbe potuto significare la sua presenza in quell’occasione. Non avevo mai avuto un fidanzato serio, in genere mi sentivo saltuariamente con qualcuno ma senza nessuno scopo particolare, e di conseguenza non era mai capitato di doverne presentare uno ai miei genitori. Questa volta, invece, non solo i miei lo avevano conosciuto, ma era stato al mio fianco in una circostanza nella quale quel suo comportamento poteva essere benissimo frainteso: inoltre, mia madre ne sembrava stranamente entusiasta, e mio padre, col suo silenzio, aveva dato una sorta di beneplacito alla situazione. Come se io avessi richiesto una cosa simile! Enrico non era il mio ragazzo, che diavolo, non lo sarebbe mai stato! Ma come spiegare l’intera faccenda ai miei genitori senza provocare uno scandalo nazionale? Senza contare poi che quello non era di certo il momento adatto.

Insomma, fatto sta che quella notte, tra una cosa e l’altra, dormii pochissimo e dormii male.

 

Il mattino dopo, appena svegliata, il primo messaggio che ricevetti fu da parte di Enrico.

Buongiorno, Giulia. Hai dormito bene? Spero davvero di si. Vuoi che venga all’ospedale a tenerti compagnia, questo pomeriggio? Fammi sapere – io sono sempre disponibile, lo sai.

Rilessi a lungo e più volte quel piccolo SMS, come se da un momento all’altro si fosse potuto trasformare in una minaccia delle sue o in una bomba ad orologeria: non sapevo cosa rispondergli – ma sapevo che, in ogni caso, qualcosa avrei dovuto dirgliela. Dopotutto era stato molto gentile con me, malgrado… Beh, malgrado tutto quello che era successo.

Comunque, quel messaggio non sembrava una minaccia. Anzi, mi aveva chiesto se volevo che venisse a farmi compagnia, così, semplicemente, come avrebbe potuto chiedermelo Alessandra. Ecco! Magari, se avessi potuto vedere il rapporto con Enrico così come vedevo quello con Ale, cioè come un bel ma semplice legame di amicizia, non sarebbe stato così difficile accettare le sue attenzioni e gentilezze… Benchè sapessi chiaramente, tuttavia, che non era l’amicizia quello che voleva da me. Sospirai, iniziando a digitare una risposta che non sembrasse né troppo gelida ma neanche troppo amichevole. Che cavolo, non ero brava con le mezze misure! Una cosa poteva essere o bianca o nera, non grigia… Ma in questo caso evidentemente la mia filosofia non poteva essere applicata.

Buongiorno Enrico. Diciamo che avrei potuto dormire meglio… Ad ogni modo, decidi tu. Non voglio esserti di disturbo, hai già fatto… molto… per me. Davvero, se sei impegnato non sei obbligato.

Pigiai il tasto di invio prima di poterci ripensare – anche se ciò fu inevitabile. Dandomi mentalmente della sciocca, digitai un nuovo messaggio e glielo spedii frettolosamente. Grazie per ieri, comunque. Fu tutto quello che scrissi.

Non dovetti aspettare molto la sua risposta – chissà perché, sembrava che quando si trattava di me aveva sempre il cellulare a portata di mano.

A me non disturbi affatto, Giulia, altrimenti non te l’avrei chiesto. Sai già qual è la mia posizione, al riguardo… E comunque, non devi ringraziarmi per ieri. L’ho fatto con piacere…

Oh no, ecco che riprendeva con il tono… dolce! Scossi piano la testa, il dito sospeso a mezz’aria sopra la tastiera nel vano tentativo di pensare una risposta. Che diavolo, era sempre così difficile mandargli un messaggio, perché lui avrebbe potuto fraintenderlo come niente!

Alla fine, piuttosto innervosita, scrissi la risposta. Senti, fai come vuoi. A me non cambia nulla. E lo spedii prima di cambiare idea. Non avevo tempo e non avevo voglia di essere diplomatica in quel momento, che mi prendesse per quello che ero. Naturalmente, neanche due minuti dopo mi arrivò il suo messaggio: proprio a tempo di record.

Allora va bene, verrò. Una faccina che sorrideva. A più tardi, Giulia. Un bacio.

Un bacio. Un bacio? Aveva davvero voglia di irritarmi? Abbandonai il telefono sopra la cassettiera e scesi a fare colazione, senza neppure rispondergli. Avevo già fatto abbastanza danni in quei pochi minuti. Eppure, stranamente, il fatto che sarebbe venuto a farmi compagnia mi aveva in un certo senso… rincuorata.

 

Quella mattina, verso le dieci, Alessandra mi raggiunse a casa di mia nonna. Le avevo mandato un messaggio di notte, prima di andare a letto, per darle la notizia, e mi aveva promesso che sarebbe passata. Così mi sarei potuta sfogare e le avrei anche raccontato di quello che stava succedendo con Enrico – avevo davvero bisogno di dirlo a qualcuno. Naturalmente ci appartammo nel salone in cui avevo trascorso tutta la serata del giorno prima, in modo da essere al sicuro dalle orecchie indiscrete degli ospiti e dei parenti della nonna che non avevano cessato un solo momento di fare avanti e indietro.

Così, tra un sorso di thè alla pesca e qualche biscotto, le raccontai gli ultimi aggiornamenti della Questione Enrico. Lei mi ascoltò in silenzio senza mai intervenire, come se volesse entrare a conoscenza di tutto quanto prima di esprimere qualsiasi genere di giudizio. Alla fine poi, con un sospiro, parlò.

“Sarò breve e concisa, Giulia: sai benissimo che a me, Enrico, non piace.” Esordì guardandomi negli occhi, senza tanti giri di parole.

Io annuii, certa che avrebbe detto qualcosa del genere. “Neanche a me, se è per questo.” Replicai, sorseggiando il thè. “È solo che il suo recente comportamento mi ha lasciato piuttosto confusa…”

“Beh, non ti nasconderò che potrei anche pensare che si tratti di una misera mossa per legarti di più a sé, o per intenerirti, o chissà cos’altro…”

“Hai sentito cosa ti ho detto a proposito di sua madre, vero?”

Lei fece un cenno con la mano. “Sì, sì, infatti ho detto potrei.” Ribattè. “Comunque, mi chiedo: perché tirare fuori questa apparente dolcezza solo ora? Voglio dire, avrebbe potuto intuire che se avesse cercato di conquistarti così sin dall’inizio, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma devo rinfrescarti la memoria? Ti ha rapito, ha picchiato Matteo, ha minacciato di farci del male, e tutto perché tu – in chissà quale remota realtà – avresti potuto non accettare le sue attenzioni. Cosa che, ad ogni modo, mi sembra che tu stia facendo. O no?”

Scrollai le spalle, senza guardarla. “Sì, beh, ci stavo provando, ma poi ha tirato fuori questa storia della tregua e…”

“Lo so, e tu sei troppo presa da quello che è successo per poter riflettere lucidamente sul significato dei suoi gesti.” Ammise, con un tono di voce decisamente più dolce. “Senti, geme, io non posso fare a meno di credere che tutte le sue azioni nascondano un doppio significato. Ed era quello che credevi anche tu, cavolo! Perché adesso sei così titubante? Gli è bastato farti gli occhioni dolci per ammaliarti? Sei troppo tenera col prossimo, lasciatelo dire…”

Accennai un sorriso, mentre annuivo lentamente. “Potrebbe essere…” Mormorai.

Lei continuò imperterrita col suo discorso. “Senza contare, poi, che stiamo pur sempre parlando di un… Come vogliamo chiamarlo? ‘Assassino’ mi sembra troppo forte, ma credo che ‘mafioso’ possa andare.”

“Geme!”

“Lasciami finire!”, mi pregò. “Sì, dicevo, è comunque un delinquente. Anche se adesso può sembrare il ragazzo più dolce della terra, che cosa ti assicura che una volta finito tutto questo non tornerà ad essere l’egoista viziato che conoscevi? Ammesso e non concesso che tu lo conosca davvero, comunque.”

Questa volta spettò a me sospirare – ero costretta a darle ragione. “Dai voce alle mie stesse preoccupazioni, geme, e questo non mi aiuta… Speravo di trovare un parere più netto e deciso.”

La sua mano si posò gentilmente sulla mia spalla, facendomi sollevare lo sguardo per incontrare il suo, scuro come la cioccolata. “Cosa vuoi che ti dica? Di lasciarlo perdere di nuovo? Abbiamo già appurato che questo non funziona. Ma non puoi aspettarti che io ti faccia gettare tra le sue braccia, non dopo tutto quello che ha fatto. Mi dispiace di non poterti essere realmente d’aiuto, ma questo purtroppo è tutto ciò che posso fare.”

Scrollai le spalle con insofferenza, senza sapere che pesci pigliare. Sembrava davvero quella che si diceva impasse… una situazione senza uscita, eh? E io che mi lamentavo di non avere una vita emozionante. Dopo aver fatto sparire l’ennesimo biscotto – se ogni volta che ero così stressata mi veniva da mangiare in quantità industriale, nel giro di poche settimane avrei raggiunto il girovita di una balena – mi rivolsi nuovamente ad Alessandra, questa volta cambiando prudentemente discorso. Ne avevo fin sopra i capelli di quella storia di Enrico.

“E tu, invece, cosa mi racconti? Va tutto bene con Riccardo?” Chiesi, riuscendo a distrarci entrambi. I suoi occhi infatti si illuminarono, e un dolce sorriso apparve sulle sue labbra: ah, quanto la invidiavo… Riccardo almeno non andava in giro a spaventare la gente.

“A gonfie vele, direi! Non avrei mai immaginato che potesse essere così tenero…” Iniziò, partendo subito in quarta con descrizioni dettagliate su quello che facevano e che le diceva – sempre rimanendo nei limiti della decenza, naturalmente: non volevo che mi colpisse una carie improvvisa, e la mia migliore amica tendeva ad essere particolarmente smielata quando si trattava di situazioni di cuore. O perlomeno lo era con le sue. Ad ogni modo, le fui immensamente grata per essere riuscita a strapparmi delle serene risate – per la prima volta dopo troppo tempo, purtroppo; così, almeno per qualche ora riuscii a godermi la vicinanza della mia geme senza pensare quasi per niente ad Enrico.

A lui, invece, fui costretta a pensarci quando, quel pomeriggio, tornammo per la veglia in ospedale. Lui era lì – o meglio, ci raggiunse poco dopo per non sembrare troppo invadente – e rimase accanto a me per tutta la sera, come aveva già fatto il giorno prima. Non fece nulla di riprovevole, a meno che non fosse considerato una trasgressione l’avermi tenuto compagnia come un buon amico.

Ed ecco l’altro problema – spuntavano come funghi, ultimamente! Come diavolo dovevo considerarlo, soprattutto di fronte alla mia famiglia? Ricordo che alcuni dei nostri parenti l’osservarono con occhio critico e sospettoso, evidentemente conoscendo di fama la sua famiglia, ma il fatto che fosse abbigliato decentemente e avesse un atteggiamento elegante ed garbato – oltre a quello che lo presentai come un mio amico – servì a soffocare eventuali domande e commenti imbarazzanti.

In effetti, sembrava essersi voluto dare apposta un aspetto meno inquietante. Indossava lunghi jeans chiari, scarpe da tennis e una camicia nera con le maniche lunghe arrotolate fin sotto i gomiti; non aveva tatuaggi né piercing strani, insomma, aveva proprio le sembianze del bravo ragazzo o del principe azzurro. Ah, non il mio, chiaramente.

Comunque, visto che a dispetto di tutti i più famosi adagi, l’abito faceva il monaco, nessuno avrebbe mai potuto dubitare che sotto quell’apparenza di perfetto ‘fidanzato’ si celasse quella di un altrettando perfetto criminale. E ancora non sapevo se considerarlo come un bene o un male per la mia causa.

 

Poi, il giorno dopo ci fu il funerale.

Probabilmente non era il massimo seguire una funzione di quel genere alle tre del pomeriggio, con il caldo che penetrava fin sotto la pelle e che mi fece rimpiangere sinceramente di aver indossato tutto quel nero e di aver lasciato i capelli sciolti. Il ventaglio purtroppo serviva relativamente.

Malgrado per tutta la messa fossi rimasta accanto alla mia famiglia, seduta tra mia madre e mia sorella, mi accorsi che Enrico non mi aveva lasciata moralmente sola neppure per un istante. Lui era seduto a qualche bancata di distanza, abbastanza lontano da concedermi un po’ di intimità con i miei ma abbastanza vicino da farmi accorgere della sua presenza. C’era anche Alessandra, certo, eppure rammento che fu Enrico quello di cui mi ricordo di più in quell’occasione – forse perché era tutto talmente assurdo…

Una volta che la messa fu terminata, mia nonna con mia madre e gli altri zii si misero vicino per ricevere le condoglianze di rito – perfetti sconosciuti che si mischiavano agli amici più stretti, e che pretendevano di poter condividere il dolore della nostra perdita e di quella, più grave, di mia nonna. Dopo una vita trascorsa insieme al marito, dubitavo che sarebbero bastate quelle gelide condoglianze a tirarle su il morale. Io cercai di rimanere da una parte insieme a mia sorella, come se avessi voluto proteggerla da quella folla a mio avviso indesiderata, ma qualcuno ci raggiunse lo stesso e ci abbracciò, e come se non bastasse noi dovemmo anche sforzare un sorriso di circostanza tra le lacrime, per far vedere che eravamo grate di quella partecipazione.

Ma, grazie a Dio, anche quello strazio terminò presto. Il feretro venne accompagnato all’esterno della chiesa, e dietro la macchina funebre ci accodammo tutti noi – questa volta non avevo voluto lasciare sola mia nonna e mi misi accanto a lei, davanti, insieme a mia madre e ai suoi fratelli. Il caldo era sempre più terribile, e noi eravamo ancora ben lontani dal camposanto.

E potevo chiaramente avvertire la presenza di Enrico a pochi passi dietro di me, così vicino che avrei potuto toccarlo se solo avessi allungato una mano. Ma cercare il suo contatto non era qualcosa che potevo desiderare razionalmente – un conto era stato permettergli di accarezzarmi, la sera prima, in un momento in cui non sarei stata capace di fare nient’altro, ma un altro conto era cercarlo di mia spontanea volontà: il sole non aveva ancora smesso di sorgere, dopotutto, no?

Ripresi coscienza del luogo in cui mi trovavo solo dopo aver raggiunto il camposanto, quando il prete iniziò a recitare le ultime preghiere e a benedire il feretro prima che esso venisse tumulato. Ormai non avevo più lacrime da versare, i miei occhi erano completamente asciutti, e non riuscii a piangere neppure quando la bara venne calata nella buca nel terreno, precedentemente scavata. In mezzo a tutti i miei parenti che continuavano a piangere mi sentii a disagio e, imbarazzata seppur senza alcuna reale ragione, mi spostai da una parte, cercando di allontanarmi da quella calca di gente. Andai a ripararmi sotto un albero, una quercia forse, e da lì rimasi ad osservare la scena da lontano.

Tuttavia, non rimasi sola molto a lungo; qualcuno si accorse della mia sparizione e venne a cercarmi, e quel qualcuno era proprio Enrico – ancora non avevo capito se desideravo vederlo o meno.

Mi raggiunse con passo rapido, come se non avesse fatto altro che aspettare quel momento tutto il tempo, e quando mi fu di fronte lo sentii chiaramente ansimare, seppur leggermente. Decisi tuttavia che doveva essere infastidito da altro, non potevo accettare – questa era la mia ragione che parlava – che fosse sul serio in pena per me. Maledizione, era più forte di me!

Eppure, quando me lo trovai davanti, e i miei occhi incrociarono i suoi, le lacrime che avevo creduto di aver terminato sgorgarono un’ultima volta, facendomi benedire il momento in cui avevo deciso di non truccarmi. Spalancò le braccia, e malgrado l’avessi fissato incredula – i miei occhi stentavano a credere a quel suo gesto – lui non demorse, e dopo aver fatto un altro passo verso di me mi attirò nel suo abbraccio, stringendomi contro il suo petto. Non mi lamentai per il caldo terribile che quella stretta non faceva che acuire, e non cercai neppure di sgridarlo per aver approfittato della mia debolezza in modo così sfacciato. Non lo feci semplicemente perché non lo pensavo. In quel momento ero certa che Enrico volesse solo ed esclusivamente confortarmi, come confermò la sua mano tra i miei capelli e i sussurri con i quali cercava di tranquillizzarmi. Ma io continuavo a piangere, e i singhiozzi mi facevano sussultare come una bambina di cinque anni che non riesce a mantenere il controllo di sé: mi accorsi vagamente di aver accentuato io la stretta, sprofondando sempre di più nel suo abbraccio e aderendo con tutto il corpo al suo.

Non c’era nient’altro da fare, se non rimanere ancora e ancora stretta tra le sue braccia. La sua vicinanza non mi era mai parsa più serena e confortante come in quel momento.

Enrico non cercò di allontanarmi da lui nemmeno quando il caldo si fece intollerante: sembrava che l’unico suo scopo fosse diventato quello di tenermi aggrappata a lui, all’ombra di quella quercia, e di questo non potei che essergliene grata. Alla fine, quando il mio pianto sembrò essersi acquietato e la mia voce sembrò essere tornata, seppur debolmente, non potei fare a meno di mormorare, indistintamente, queste precise parole.

“Grazie… Enrico.”

Ma quella che mi sorprese di più fu la sua breve risposta.

Potrei giurare che abbia sorriso, nel sussurrarmi all’orecchio. “Dovere,” mormorò, teneramente.

Grazie al Cielo non riuscì a vedermi arrossire.


























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AA - Angolo Autrice:
Buonasera! ^^ Da quanto tempo... Praticamente un mese senza aggiornamenti! Mai che riesca a rispettare le scadenze, porca paletta! -.-''
Ma bando alle ciance! O, come dice una mia amica, ciando alle bande! :D Sbaglio o qui abbiamo un piccolo cambiamento della situazione?? Sì, per la vostra gioia  Giulia sta cambiando idea sul nostro bello - ma stronzo - Enrico! Anzi, forse l'ha già cambiata, dai, voglio farvi felici ù.ù Che ne pensate? E comunque siamo un pò lontani dal lieto fine, anche se adesso l'atmosfera tra loro sarà più tranquilla non rilassatevi troppo, perchè devono ancora succederne delle belle. Ma qui taccio perchè non voglio mica svelarvi troppi retroscena, nè ù.ù
And now... Ringraziamenti! *__*
Grazie infinite alle mie preziose Discepole (ormai vi chiamerò così fino alla fine :D) che continuano a seguirmi malgrado gli aggiornamenti centellinati goccia a goccia! In particolare un grazie speciale a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, e cioè prettyvitto, Aly in Wonderland, roxb, Eky_87, irene862, Rosella, Alebluerose91, SenzaFiato, Valentina78, Elly4ever e Ada Wong - vi ringrazio tantissimo per le splendide recensioni e per i complimenti che costantemente fate alla mia storia e a me, sono sempre molto felice ed emozionata quando li leggo, davvero, continuate così! ^^ Inoltre voglio dare il benvenuto a tutte le nuove arrivate, spero che questa storia continui a piacervi fino alla fine e che riusciate ad affezionarvi ai personaggi almeno quasi quanto li amo io! *__*
Grazie ancora alle 115 che hanno raggiunto la storia alle Preferite, e grazie alle 181 che l'hanno inserita tra le Seguite: oh, come farei senza di voi? ;)
Ora vi saluto, fatemi sapere cosa ne pensate di quest'altro capitolo! ^^
Un bacione, ci sentiamo al prossimo chapter - in tempi, se non proprio brevi, almeno accettabili... Spero ç__ç (a tal proposito vi invito a non demordere, il 15 ho il test d'ingresso per l'università e dovrei anche studiare, perciò se tardo sapete il motivo :p) Bye bye, a presto!
Ancora grazie mille e tanti baci! =*
La vostra
GiulyRedRose

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI. ***


Capitolo XXI















 

 

 

 

 

 

 

 

Quello stesso giorno conobbi i genitori di Enrico – suo padre e la sua matrigna, ad essere precisi.

Io e lui eravamo ancora sotto la quercia, il mio volto ancora seminascosto sul suo petto e una sua mano tra i miei capelli; mi sarebbe piaciuto rimanere a lungo tra le sue braccia, se soltanto non si fosse trattato di lui. Ma ormai neppure questo aveva importanza: anzi, sembrava quasi che senza Enrico non fossi destinata a potermi sentire protetta, al sicuro. Questo era un bel paradosso: come potevo non sentirmi indifesa tra le braccia di un assassino? Eppure era proprio così. In quel momento non sarei voluta essere da nessun’altra parte.

I signori D’Angelo, ad ogni modo, ci raggiunsero una manciata di minuti dopo. Riflettendoci col senno di poi, presumo che non volessero sbandierare la loro presenza a quel funerale ai quattro venti, dopotutto erano di quelle persone che venivano precedute dalla loro fama. Chissà cos’avrebbero pensato tutti, se mi avessero vista circondata dagli Occhi Belli?

Fu Enrico ad avvertirmi della loro presenza.

“Giulia… C’è qualcuno che vorrebbe conoscerti.” Mormorò, facendomi sollevare lo sguardo.

Mi voltai, cercando di asciugarmi le lacrime con scarso risultato, e mi ritrovai a fissare un uomo sulla cinquantina d’anni accompagnato da una donna che ne dimostrava circa quaranta: il sorriso comprensivo e materno che apparve sul suo volto mi strappò l’ennesimo singhiozzo, soprattutto quando rammentai ciò che mi aveva raccontato Enrico e realizzai che quella doveva essere la seconda moglie del padre. L’espressione di quest’ultimo era altrettanto malinconica, anche se i suoi occhi cupi, neri, non mi avrebbero fatta sentire tranquilla in nessun’altra situazione: il suo sguardo avrebbe fatto scappare chiunque, o almeno questa fu l’impressione che mi diede.

Grazie al Cielo, Enrico intervenne per spezzare quel silenzio.

“Giulia, ti presento i miei genitori. Papà, mamma, lei è la ragazza di cui vi ho parlato.” Disse con voce pacata, dolce?, prima che la mia mano si stendesse istintivamente verso di loro per stringergliela.

“Piacere di conoscervi,” mormorai, odiando la mia voce roca.

“Sappiamo bene che non è il momento più adatto, tesoro, ma sono molto felice di incontrarti,” replicò lei – il sorriso della madre adottiva di Enrico avrebbe fatto sciogliere il cuore più gelido: era davvero molto affettuoso. “Mi chiamo Elisabetta, ma chiamami pure Betta.”

Non potei impedirmi di ricambiare debolmente quel sorriso, prima che la voce profonda e rauca del padre di Enrico non catturasse la mia attenzione.

“Io sono Raffaele,” replicò, stringendomi a sua volta la mano. “Conoscevo tuo nonno: mi dispiace molto per quello che è successo.”

Annuii, prendendo un profondo respiro; ad essere sincera ero sorpresa che l’avesse conosciuto, ma non mi sembrava il caso di dirlo ad alta voce. Il braccio intorno alla mia vita mi attirò leggermente più verso di sé, forse perché si era accorto che stavo per riniziare a piangere, e non voleva che mi sentissi sola.

“Papà, ci vediamo a casa. Io resto con lei, va bene?” Disse, più per educazione che per chiedergliene il permesso.

L’uomo infatti annuì, mentre la madre non resistette e si avvicinò per abbracciarmi e darmi due baci sulle guance. “Spero che ci rincontreremo in un’altra occasione, cara.” Sussurrò al mio orecchio, gentile.

“Mi farebbe piacere,” mormorai, accennando un sorriso. Non potevo di certo ricambiare la sua gentilezza con una risposta seccata o irritata – anche perché quelle le riservavo ad Enrico.

“Bene. A presto, allora,” disse, salutandoci con la mano e passando da un altro viale poco affollato per uscire dal camposanto. Il padre – Raffaele – le aveva passato un braccio intorno alle spalle e la stringeva a sé, incurante del caldo: forse era un’abitudine di famiglia.

All’improvviso sentii Enrico sospirare.

“Scusami, Giulia. Hanno insistito loro per conoscerti.” Confessò, guardandomi.

Feci un cenno di diniego col capo, per nulla turbata. “Figurati, non è un problema.” Una domanda, però, esitava sulla punta della lingua. “Betta, lei… è tua…?”

Gli scappò un sorriso nel vedermi in difficoltà. “La mia matrigna. Stai tranquilla, non è mica una parolaccia.” Mi portò un ciuffo dietro l’orecchio, lo sguardo assorto tutto d’un colpo. “Mio padre l’ha sposata tre anni dopo che è morta mia madre. È sempre stata molto gentile con me, forse perché non ha mai potuto avere figli… Non è stata come la matrigna delle favole, per fortuna.”

Scossi la testa, incapace di credere che potesse sembrare così indifferente a quell’argomento. “Mi è sembrata molto dolce,” aggiunsi, studiando la sua espressione.

Lui si limitò ad annuire. “Sì, lo è. Le voglio bene come se fosse mia madre.” Sussurrò.

Vederlo così impensierito, con lo sguardo perso verso un passato che non conoscevo e in cui aveva sofferto la perdita più grande che un bambino potesse avere, ebbe uno strano effetto su di me. Dovetti reprimere l’impulso di abbracciarlo e accarezzargli i capelli in un tentativo di confortarlo, perché sarebbe stato fuori luogo visto tutto ciò che gli avevo detto. Sì, mi dispiaceva immensamente per lui, ma questo non avrebbe mai potuto cambiare ciò che pensavo.

Preferii anche trascurare il fatto di essermi persa ad osservare la sua lingua che gli percorreva le labbra per umettarle – il calore era troppo, mi stava dando alla testa. Era l’unica spiegazione sensata che potevo darmi.

Sospirai, chiudendo gli occhi un attimo e premendo le dita sulle tempie. Avevo un terribile mal di testa, la gola secca e gli occhi mi dolevano terribilmente a furia di piangere: non potevo continuare così, stavo per sentirmi male sul serio. Perciò, gettando uno sguardo verso i miei genitori – circondati da una folla di persone accorse per far loro le condoglianze – sussurrai: “Dovrei andare da loro, Enrico. Ti dispiace?”

Per tutta risposta scosse la testa, non resistendo all’impulso di sfiorarmi ancora i capelli in un gesto che voleva essere confortante. “Certo che no, Giulia. Vuoi che ti accompagni?”

“Sì, certo. Grazie.” Improvvisamente, l’idea che avrebbe anche potuto andarsene senza quell’ulteriore favore mi sembrò estranea, quasi inconcepibile. Stavo iniziando a contare troppo su di lui, forse?

No, maledizione, non potevo. Non volevo rischiare di provare qualcosa per lui, per uno che aveva una simile vita! Che bisogno c’era di complicarsi l’esistenza per un misero sentimento di tenerezza? Alessandra aveva ragione, da quel punto di vista: Enrico aveva cambiato atteggiamento all’improvviso, cogliendomi impreparata, e in tutta quella situazione non avevo potuto fare a meno di abbassare la guardia.

Basta, quello non era il momento adatto per quel genere di ragionamenti – anche se, iniziavo a rendermi conto, sembrava che nessun momento fosse giusto per riflettere su quelle decisioni. Accidenti, odiavo non riuscire ad avere il controllo sulla mia vita. Ma in quella circostanza potevo accettare il calore del braccio di Enrico stretto intorno ai miei fianchi, mentre mi faceva strada verso i miei genitori come se mi avesse voluto proteggere dalla calca di gente che mi avrebbe circondata non appena li avessi raggiunti. Prima che mi lasciasse tra le braccia di mia madre, però, Enrico si chinò leggermente verso di me, in modo da sussurrarmi qualcosa all’orecchio.

“Vengo più tardi a casa di tua nonna, Giulia.” Mormorò, dolcemente. “Non mi va di lasciarti sola.”

Non ebbi l’opportunità di ribattere perché lui si era già dileguato tra la folla, e a me non rimase che sospirare e sforzarmi di non pensarci. Cosa che, comunque, si stava rivelando ogni giorno più difficile.

 

 

***

 

 

Da qualche giorno, ormai, avevo ripreso ad uscire con Enrico. Si può dire che fosse inevitabile. A mia discolpa, comunque, posso dire solo che fu mia madre a spronarmi per farmi accettare i suoi inviti – gentili ma sempre più insistenti – dato che lei voleva che almeno io riuscissi a distrarmi in qualche modo. E perché non approfittare della disponibiltà di quel dolce ragazzo, che non mi aveva lasciata sola un istante durante tutto quel periodo?

Spiegarle l’intera situazione avrebbe significato farla arrabbiare e preoccupare inutilmente, senza contare il fatto che avesse ben altri – e più importanti – problemi per la testa. Rivelarle tutta la verità poteva essere solo una cattiveria da parte mia, e perciò tacqui anche per quella volta. Iniziavo a perdere il conto di tutte le bugie che le stavo raccontanto, proprio io che mi ero sempre vantata di avere un ottimo rapporto con mia madre e di non averle mai nascosto nulla. Presumo che ci sarà un momento anche per i rimorsi, ad ogni modo, ma non è questo.

Per spezzare una lancia a favore di Enrico, comunque, bisogna dire che nei giorni successivi al funerale fu l’immagine stessa del fidanzato perfetto o, ad ogni modo, del migliore amico. Per carità, non che lo considerassi il mio ragazzo, ma se non altro avrei potuto iniziare a vederlo come un amico: era già un notevole passo avanti per la situazione, se si voleva dimenticare il tentativo che aveva fatto all’inizio di baciarmi – ma già, in quel momento ero coperta solo da un misero asciugamano e mi trovavo prigioniera a casa sua. Le cose cambiano, a quanto pare.

Non vedevo la mia migliore amica da più di una settimana, ormai, presa com’ero dallo studio per la patente e dalle uscite con Enrico – sembrava che, adesso che mi aveva visto più ‘disponibile’ ad assecondarlo, non volesse lasciarsi sfuggire un singolo attimo, facendolo approfittare di ogni mio momento libero. Possibile che non avesse nessun tipo di impegno, invece che uscire o vedersi con me? Io comunque non osavo fargli una simile domanda, per timore che mi rivelasse qualcosa riguardante la sua – come definirla? – attività criminale, di cui, per il momento, fingevo di ignorare l’esistenza. Non avrei potuto fare altro, comunque. Solo rassegnarmi all’idea.

Anche quella sera Enrico era venuto a prendermi a casa di mia nonna, visto che era lì che ultimamente stavo trascorrendo le mie giornate. Dopo essere entrato cinque minuti e aver scambiato qualche convenevolo con i miei genitori – mentre io, in un angolo, pregavo che ci dessero un taglio – finalmente uscimmo e salimmo in macchina. Non mi importava dove mi avrebbe portato, comunque, l’importante era respirare un po’ d’aria pulita fuori casa.

“Mio Dio, odio quando fanno così.” Mi scappò sottovoce, alludendo al comportamento dei miei genitori di qualche minuto prima.

Enrico mi sentì, abbassando il volume della radio. “Di chi parli?” Domandò, gentilmente. In quel periodo sembrava l’immagine stessa della pazienza e della galanteria.

“Dei miei genitori…” Mormorai, decidendo che tanto non aveva senso mettere il muso e tacere. “Dio, si comportano come se tu fossi il mio ragazzo! È assurdo, eppure gliel’ho detto in tutti i modi che tra me e te non c’è niente del genere…”

Parlai più per sfogarmi che altro, quindi in realtà non mi aspettavo una sua risposta. E invece questa giunse, come avrei dovuto prevedere – dopotutto, stavo pur sempre parlando con la causa dei miei problemi.

“Ammetterai però che, visti dall’esterno, potremmo sembrare una coppia normale di fidanzati…” Ebbe il coraggio di dire, con un tono volutamente malizioso.

“Non credo proprio,” sbottai incrociando le braccia, cercando di avere l’ultima parola almeno in una semplice diatriba verbale. “Da dove potrebbero dedurre una cosa simile?”

“Beh,” esordì, con un’espressione fintamente pensierosa. “Usciamo spesso insieme, io e te da soli… Di sicuro questo è già di per sé un segnale.”

Aggrottai le sopracciglia, guardandolo. “Un segnale?”

Lui annuì, lanciandomi uno sguardo mezzo divertito e mezzo serio. “Un segnale per gli altri ragazzi, il cui messaggio è state lontani da lei.” Sussurrò piano, studiando la mia reazione.

Per tutta risposta io mi infuriai di più. “Quindi è esclusivamente colpa tua se le persone fraintendono! Mio Dio, ti comporti da fidanzato geloso e possessivo quando non ne hai nessun diritto! Che bisogno c’è di fare così? Non ti basta che io sia qui, invece che da qualche altra parte?” Proruppi, allargando la cintura di sicurezza per potermi voltare a guardarlo.

Eravamo fermi ad uno stop, dunque potè voltarsi anche lui verso di me. “Che ne è stato della tregua, Giulia?” Chiese, ignorando il mio scatto.

“Finisce adesso,” sibilai, voltandomi di nuovo verso la strada.

Lo sentii sospirare, mentre ripartiva. “Ho l’impressione che ad ogni passo in avanti che faccio con te ne corrispondano quattro indietro…” Mormorò, a voce abbastanza alta perché potessi sentirlo.

Strinsi gli occhi, cercando di distrarmi con il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. “Sì, beh, non certo per colpa mia. Io ho messo le cose in chiaro sin da subito.”

Dopo quella mia ultima affermazione scese un gelido silenzio, rotto soltanto dal brusio del motore e da quello della radio che, a basso volume, continuava a trasmettere stupide canzoni d’amore senza minimamente prestare attenzione al nostro stato d’animo. Purtroppo non potevo farmi riportare a casa, non dopo neanche dieci minuti: i miei genitori si sarebbero insospettiti, e avrebbero iniziato a fare domande, e a intromettersi… Ed era una cosa che volevo continuare ad evitare. D’altra parte, però, trascorrere tutta la serata con quel clima non era una bella prospettiva – oh, se solo avessi potuto chiamare Alessandra e chiederle di unirsi a noi insieme a Riccardo… Ma ci sarebbe stato il rischio di scatenare una rissa, visti i loro precedenti. Presi comunque il cellulare dalla borsa e le mandai un messaggio, giusto per sentire un po’ come andava e cosa stava facendo: speravo di non interrompere il suo divertimento, se anche lei era uscita con il suo ragazzo.

Avevo appena inviato il messaggio quando la voce di Enrico mi fece sobbalzare, giungendo improvvisa.

“Con chi messaggi?” Indagò, con un tono che non mi piacque per niente.

Infatti accese la mia acidità. “Non vedo come questo dovrebbe interessarti,” sbottai, infilando il telefono nella tasca dei pantaloni.

Se l’avessi guardato avrei visto le sue mani stringersi intorno al volante, come se non avesse gradito la mia risposta. “Invece mi interessa, visto che adesso sei con me e non capisco il motivo di isolarti con il tuo cellulare.” Ringhiò quasi: sembrava davvero irritato. “Allora, chi è? Quel tizio… Matteo?”

Matteo? Inarcai un sopracciglio, sorpresa di sentire quel nome dopo tanto tempo che non lo vedevo né sentivo più. Alessandra mi aveva aggiornato da poco che il nostro vecchio amico aveva iniziato a lavorare insieme al fratello alla Favola, e che continuava ad essere single anche se non disdegnava le avventure. Non che la cosa mi importasse, comunque.

Però ammetto che fu divertente, in quel momento, vedere la reazione di Enrico.

“Matteo è ancora offeso e arrabbiato con me, perciò non lo sento più.” Dissi, senza una particolare inflessione nella voce; ripeto, la cosa non mi faceva né caldo né freddo.

Enrico sembrò sollevato, malgrado tutto, di quella nostra piccola conversazione, così decise di battere il ferro finchè era caldo. “Perché dovrebbe essere arrabbiato con te? Sono io che l’ho picchiato,” replicò, con un ghigho ironico.

Decisi di lasciar perdere quel suo atteggiamento e continuai. “Ci aveva provato con me, io ho ferito il suo orgoglio rifiutandolo e lui non mi ha più rivolto la parola.” Sintetizzai, cercando di concludere il discorso alla svelta. Non mi piaceva affrontare simili argomenti con Enrico, certe cose devono rimanere nell’ambito segreti tra migliori amiche.

Ma a quanto pareva Enrico non era della stessa idea. “Evidentemente non era davvero interessato, altrimenti non avrebbe di certo rinunciato così presto,” decretò, con leggero disprezzo. “Buon per lui, comunque.”

Malgrado non provassi alcun tipo di interesse nei confronti di Matteo, mi sembrava poco carino rinunciare a difenderlo almeno un po’. Soprattutto se, così facendo, avrei irritato Enrico: erano quelle piccole soddisfazioni personali che ogni tanto chiunque si deve prendere. “In realtà ha provato a riparlarmi, ma io non ho voluto. Poi le cose sono peggiorate e non abbiamo più avuto modo di chiarirci.” Precisai, scrollando le spalle.

“Sono peggiorate?” Ripetè, spingendomi a dire di più.

Sospirai, rassegnata. “Credo mi ritenesse responsabile del suo… pestaggio. Forse è convinto che sia stata io a chiederti di picchiarlo, visto quello che era successo… Mio Dio, che infantile.”

“Ma cosa ti ha spinto a non rivolgergli più la parola?” Indagò ancora, curioso. Evidentemente non mi avrebbe lasciato in pace fino a quando non gli avessi spiegato l’intera faccenda per filo e per segno.

“Mi ha baciata all’improvviso! Contento?” Esclamai scocciata, sperando che la finisse con le domande.

Dopo quell’affermazione Enrico mi lanciò un’occhiata di traverso, tremendamente serio, poi si voltò nuovamente e fissò lo sguardo sulla strada, cambiando marcia e accelerando. Non parlò, e non sapevo come interpretare questo suo nuovo silenzio – insomma, gli aveva dato fastidio sapere del bacio di Matteo? Ma cosa pretendeva, era stato lui a volerlo sapere ad ogni costo! Cosa potevo farci io?

Però ammetto che quella reazione mi stava preoccupando. Lo osservai in silenzio per un po’, cercando nella postura del suo corpo qualche segno che mi facesse intuire che c’era qualcosa che non andava, e infatti ne trovai nelle sue mani irrigidite sul volante e nella linea dritta e severa della mascella: sembrava che si stesse sforzando di non guardarmi e, soprattutto, di non parlarmi.

Alla fine non ce la feci più. “Cosa c’è che non va, Enrico?”

Non si degnò di rispondermi, fingendosi impegnato in una manovra di parcheggio. Eravamo arrivati in spiaggia, una poco frequentata ma non per questo meno bella, e, com’era intuibile, non c’era nessun altro oltre a noi. Sospirò, volgendo lo sguardo dovunque tranne che dalla mia parte, e con le braccia distese sopra il volante come se non avesse voluto staccarsi da esso.

“Allora?” Incalzai, leggermente infastidita.

Finalmente si voltò verso di me, lasciandomi per un istante senza fiato alla vista del suo sguardo liquido e penetrante come mai mi era capitato di vederne. Sembravano gli occhi di un malato o di un pazzo, eppure potevo vedere con chiarezza la lucidità nel loro abisso quasi che fosse un lucicchio in quel mare di verde.

Malgrado tutto non gli avevo mai visto quello sguardo.

E anche la sua voce, quando parlò, aveva una sfumatura sconosciuta ed estranea a quella che mi ero abituata a sentire e riconoscere.

“Mi stavo solo chiedendo…” Iniziò, in un vibrante sussurro. “Ti saresti comportata così anche se fossi stato io, a baciarti?”

Subito scosse la testa, passandosi una mano tra i folti capelli neri; lo osservai sbuffare innervosito e poi scendere dalla macchina, sbattendo la portiera dietro di sé e raggiungendo da solo la spiaggia.

Ero senza parole.






















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AA - Angolo Autrice:
Dunque... Da dove posso iniziare a chiedervi perdono??
Mio Dio, che ritardo stratosferico! Erano secoli, secoli che non aggiornavo! =O Quanto mi era mancato Enrico, mannaggia ç__ç Beh, adesso che ho ripreso le fila del racconto cercherò di non perderle più e di mantenere un ritmo più normale... Voglio comunque mettere le mani avanti e specificare che da questo momento sarò un pò impegnata con l'università - un pò molto! - e quindi proverò a fare del mio meglio. Spero che non siano solo vane promesse di una povera scrittrice ç__ç
Non mi tratterrò a lungo, scappo prima che iniziate a lanciare i pomodori xD Voglio solo sprecare un attimo per ringraziare le 190 anime pie che hanno aggiunto la mia storia alle seguite, le 119 che l'hanno inserita tra le preferite e anche le 21 che l'hanno messa tra le ricordate! Grazie mille ragazze, malgrado la mia terribile lentezza siete rimaste insieme a me ç__ç Sono commossa :')
Inoltre un abbraccio a prettyvitto, Eky_87, Alebluerose91, Ali in Wonderland, SenzaFiato, savy85, irene862 e nicoletta93 per avere recensito lo scorso capitolo ^^

Ah, un avviso importante: ho deciso di tradurre il titolo della storia e lasciarlo in italiano, dietro consiglio della mia geme. Perciò da ora in avanti questa storia si intitolerà "L'uomo Sbagliato", ma manterrà il precedente titolo come sottotitolo così nessuno si troverà impreparato :)
E con questo vi saluto! Un bacio e un abbraccio, a presto - mi auguro!
Vostra,
GiulyRedRose

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII. ***


Capitolo XXII



















 

 

 

 

Attesi per un po’ in macchina, al buio, sperando che Enrico si calmasse e tornasse da me. Tuttavia, visto che erano già trascorsi cinque minuti e io stavo iniziando a preoccuparmi, abbassai la maniglia dello sportello e lo aprii, scendendo dall’auto e guardandomi intorno. A parte la luce di due lampioni che illuminavano debolmente il parcheggio e una piccola falce di luna che brillava solitaria nel cielo, la spiaggia era immersa nella più completa oscurità.

Sospirai, rassegnata; mi tolsi i sandali e, tenendoli in mano, cercai di seguire le orme lasciate da lui. La sabbia a quell’ora era piacevolmente fresca, e se fosse stata un’altra sera mi sarei fermata per godermi quella deliziosa sensazione. Ma visto che avevo altro a cui pensare accelerai, affondando ogni tanto in qualche punto più profondo della spiaggia.

Non fu difficile trovarlo, grazie alla leggera ma sufficiente penombra offerta dalla luna e dai lampioni ormai lontani. Enrico era seduto sulla sabbia, vicino al bagnasciuga, la testa presa tra le mani e le gambe piegate a reggere i gomiti.

Forse fu quella la prima volta che riconobbi a me stessa quanto fosse bello.

Mi piacque il modo in cui la luna lo accarezzava, e come i suoi capelli ondeggiassero al vento – e le dita, oh, le sue lunghe dita da pianista immerse in quella chioma corvina, mi sarebbe piaciuto stringerle… Non sopportai di vederlo in quel modo, sofferente, benché non comprendessi fino in fondo ciò che provava e soprattutto perché. Come poteva soffrire così se davvero mi vedeva solo come l’ultima conquista da portare a letto e poi dimenticare?

Scossi la testa, decidendo che non era quello il momento in cui pensarci. Non sapevo nemmeno perché avevo iniziato a rimuginarci su – che sciocca!

Lentamente mi avvicinai, senza fare alcun genere di rumore: dopotutto sarebbe stato impossibile persino volendolo, con tutta quella sabbia. Perciò lo raggiunsi senza che se ne accorgesse, ma rimasi per un attimo imbambolata a pochi passi da lui prima di trovare il coraggio di dire qualcosa.

“Stai bene?” Chiesi, a bassa voce. Subito dopo mi diedi della stupida: che razza di domanda era?

Da parte sua non provenne che un piccolo gesto con le spalle, silenzioso, così mi avvicinai del tutto e mi inginocchiai al suo fianco, osando allungare una mano per sfiorargli la spalla.

“Cos’è successo?” Insistei, decidendo che avrei ottenuto una risposta una volta per tutte.

Per tutta risposta mi rivolse uno sguardo fiammeggiante, nel quale compresi la sua rabbia e la sua delusione. “Hai il coraggio di chiedermi come sto?” Ringhiò, minaccioso. “Come puoi essere così sciocca e cieca? Davvero non capisci?”

Mi afferrò il polso con la mano, stringendolo e strappandomi un gemito di dolore. Ero riuscita a portarlo al limite della sopportazione, a quanto pareva, ma non capivo perché continuasse a mostrarsi così furioso: dopotutto io gli avevo detto sin dall’inizio come stavano le cose… Se poi aveva frainteso tutto, non era di certo colpa mia, come già gli avevo ripetuto.

“Sei tu quello che non capisce, Enrico?” Esclamai con il suo stesso tono, cercando di sciogliermi, inutilmente, dalla sua stretta. “Volevi un bacio? Bene! Baciami e lasciami andare, dimenticami! Ma tu non vuoi, non ti basta! Vuoi sempre di più! E adesso fai l’offeso perché sai benissimo che mi sarei comportata allo stesso modo con te, se tu avessi fatto come Matteo! Sono stufa di questo tuo atteggiamento!”

Fu un attimo: prima che potessi anche solo intuire la sua mossa mi ritrovai con la schiena sulla sabbia, sdraiata per terra, con Enrico che torreggiava pericolosamente sopra di me, gli occhi che sembravano mandare lampi. Mi aveva portato le braccia sopra la testa e teneva stretti insieme i miei polsi con una mano, e per un lungo, terribile istante, pensai che avesse davvero intenzione di fare qualcosa di mostruoso.

Sicuramente il mio sguardo dovette lasciar trapelare ciò che stavo provando, perché Enrico ringhiò ancora, al limite.

“Non ho intenzione di violentarti, cazzo!” Sibilò, accentuando la stretta. “Possibile che dopo tutto questo tempo continui a credermi capace di una cosa simile?”

Non risposi, spaventata, limitandomi a deglutire in silenzio. Lo vidi scuotere la testa, ma la rabbia non l’aveva ancora abbandonato del tutto. “Non sopporto la tua indifferenza nei miei confronti, Giulia, sembra che tu non sia capace di provare un briciolo di affetto per me… Perché? Che cosa ti ho fatto? Hai cercato persino di difendere Matteo, prima, e dire che lui non ti ha mostrato la metà del rispetto che ho io per te. Maledizione! Cos’altro vuoi che faccia?”

Lo fissai intimorita, sperando che si calmasse. Quando sembrò aver riacquistato un po’ di controllo, osai prendere la parola. “Per favore, Enrico… Spostati. Mi fai male…” Sussurrai supplichevole, senza distogliere lo sguardo da lui.

Mi riservò l’ennesima occhiata scettica, ma poi si spostò, tornando ad inginocchiarsi sulla spiaggia e aiutando me a sollevarmi: lentamente mi misi seduta, togliendo i granelli di sabbia dai miei capelli sciolti e dalla maglietta. Mi sembrava di sentire il mio stesso cuore battere furiosamente.

“Mi costringi ad essere ciò che non sono.” Disse con freddezza, mettendo una nuova distanza tra me e lui. “Sono stanco di questa situazione, Giulia. Sono stato gentile con te, paziente, non ti ho mai dato modo di avere paura delle mie intenzioni… Ma la mia pazienza ha un limite, e voglio che tu sappia che uno di questi giorni potrei afferrarti e baciarti senza aspettare la tua approvazione.”

Sgranai gli occhi, ritraendomi istintivamente da lui e mettendomi in piedi. Enrico non si mosse, limitandosi a sollevare il viso e seguire i miei movimenti con lo sguardo – sembrava volermi mangiare. Non mi ero mai sentita così a disagio, prima di quel momento… Avrei voluto scomparire da lì e riapparire, al sicuro, nella mia stanza. Ma purtroppo non era possibile, e per tornare a casa potevo contare soltanto su di lui.

“Mi stai spaventando…” Mormorai, stringendomi nelle braccia. Perché aveva cambiato atteggiamento così all’improvviso?

Esplose in una risata amara e priva di gioia, dopodiché si passò una mano tra i capelli e mi fissò con uno sguardo risoluto. “Credimi, se avessi voluto spaventarti l’avrei già fatto da molto tempo. Ma è proprio per evitare questo che ti ho voluta avvisare su quello che potrebbe accadere, se continuiamo così.” Disse, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.

Mio Dio, sembrava essere diventato un’altra persona…

Deglutii, mordendomi le labbra. “Sembra quasi che ti abbia chiesto io di trascinarmi in questa situazione…” Iniziai, cercando di fargli capire il mio punto di vista. Ma dannazione, con lui sembrava di parlare al vento! “Ti sei intromesso nella mia vita senza neppure chiedermi se mi andava bene, hai voluto l’esclusiva su… Su tutto quanto! Sai da quanto tempo non vedo i miei amici? Anch’io ho perso il conto! E adesso parli come se fosse colpa mia! Non credo di averti mai imposto la mia presenza, e sono convinta di essere stata abbastanza chiara al riguardo. Ti ringrazio per la gentilezza e la pazienza, se è questo che vuoi sentirti dire, ma ora non puoi venire da me e pretendere che io ricambi il tuo interessamento!”

Tacqui un istante, come per raccogliere i pensieri, poi conclusi. “E adesso, salta fuori questa cosa del bacio…” Dissi piano, senza guardarlo. Poi, improvvisamente, senza riflettere su quello che stavo facendo, mi avvicinai di nuovo a lui e mi inginocchiai, in modo da essere alla sua stessa altezza. Mi aggrappai alla sua camicia e non ebbi neppure il tempo di riflettere su quanto i nostri visi fossero vicini, perché le mie stesse parole mi stupirono.

“Te l’ho già detto una volta, Enrico. È un bacio che vuoi? Perfetto, eccolo…” Sussurrai, fissando le sue labbra in modo che gli fossero ben chiare le mie intenzioni.

Sentii le sue mani stringersi intorno alle mie spalle, e il suo sguardo si fece indeciso, esitante, come se non si aspettasse di certo quella reazione – non dopo tutto quel discorso. Tuttavia non mi allontanò, segno che era davvero quello ciò che desiderava. Non potei fare a meno di odiarlo, in quell’istante – maledizione, dopo tutte le sue belle parole, alla fine si rivelava ciò che era veramente, un maschio interessato soltanto ad una cosa! Ma perché ostinarsi con me, quando poteva averne centinaia a disposizione?

Decisi di non pensarci e iniziai ad avvicinarmi lentamente alla sua bocca, vedendola dischiudersi e sentendo il suo respiro caldo e invitante? Oh, mio Dio… Chiusi gli occhi e presi mentalmente un profondo respiro, ormai prossima alla mia meta. Ma, due secondi prima che le nostre labbra si toccassero, Enrico si ritrasse, scuotendo la testa. Aprii gli occhi e lo fissai stupita, soprattutto quando nascose il viso contro l’incavo del mio collo.

“No, no, Giulia…” Lo sentii mormorare, con la voce rotta. “Non è questo che voglio…”

“E che cosa vuoi, allora?” Replicai, leggermente irrigidita nel sentirlo a così stretto contatto con il mio corpo. Tuttavia non feci nulla per allontanarlo – non volevo sfidare troppo la sorte.

Lui si allontanò ma mantenne la presa sulle mie spalle, che divenne però più delicata, meno minacciosa. Mi fissò a lungo negli occhi, poi sospirò, scuotendo la testa. “Vorrei che tu provassi il desiderio di baciarmi, non che lo faccia perché obbligata o, peggio, perché minacciata…” Sussurrò, angosciato.

Aggrottai le sopracciglia, turbata. Come ribattere a certe cose? “Io… Non lo so, Enrico…” Mormorai, cercando di sembrare il più condiscendente possibile. “Ti conosco da così poco tempo, e io ho bisogno di fidarmi delle persone, prima di… prima di…”

Tacqui, scuotendo la testa e abbassando lo sguardo. “Tu non ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo…” Sussurrai. “Non si tratta di te, Enrico, non è per quello… Non solo, almeno… Non capisci? Non voglio essere obbligata a frequentare qualcuno, è una cosa che non sta né in cielo né in terra! Io avrei voluto sceglierla la persona di cui innamorarmi, ma poi sei arrivato tu e… Dio, non sono più sicura di niente…”

Le sue mani si abbassarono lentamente, andando ad intrecciarsi con le mie che tenevo posate sul grembo; le sue dita si infilarono tra le mie, sfiorandole dapprima timide e poi stringendole con una maggiore sicurezza quando si rese conto che non avevo intenzione di allontanarlo ancora. Tenni gli occhi chini sulle nostre mani pur di non sollevarli e incrociare il verde del suo sguardo, ma alla fine una sua mano si sollevò e si posò sotto il mio mento, alzandolo gentilmente in modo da guardarlo dritta in viso. Avevo l’impressione che il cuore volesse uscirmi dal petto tant’erano forti i suoi battiti, e la pelle delle mie braccia si era ricoperta di brividi nel constatare la sua improvvisa vicinanza. Il suo profumo – un pungente e fresco dopobarba – si mischiava al mio, e le sue labbra erano socchiuse come se avesse voluto dire qualcosa ma non osasse farlo per timore di spezzare quella strana ed elettrica atmosfera.

“Accidenti…” Sussurrò infine, spostando la mano che aveva sollevato il mio viso verso il suo e portandola a sfiorarmi la guancia fredda – avvertii chiaramente il contrasto tra la mia pelle fredda e la sua, bollente – prima di perdersi tra i miei capelli, che aveva gentilmente ritirato dietro l’orecchio senza che io facessi nulla per oppormi. “Ho sempre immaginato come sarebbe stato toccarti così…”

Non potei fare a meno di rabbrividire, mentre il senso di quelle parole fendeva la nebbia dei miei pensieri ormai confusi e vaghi. In quell’istante avrei voluto davvero che le cose tra noi fossero state diverse, che tutto non fosse iniziato con minacce e provocazioni. Mi sarebbe piaciuto se prima fossimo diventati amici, e poi magari – forse, chissà – l’amicizia si sarebbe anche potuta evolvere in qualcosa di più… Dopotutto io mi ero affezionata a lui, ormai era impossibile ignorare quello che era un semplice dato di fatto. Ma Enrico voleva saltare tutto questo, e andare direttamente allo stadio finale; e io non ero abituata a quel genere di sentimenti, né ero convinta di essere pronta per affrontarli.

E allora perché mi sentivo così male nel vederlo soffrire a causa mia?

Deglutii socchiudendo gli occhi, mentre mi rilassavo al tocco delle sue mani tra i miei capelli. Poi chinai il volto verso di lui, posando la fronte sulla sua e – sicuramente – sorprendendolo per l’ennesima volta nell’arco di dieci minuti. Forse era l’atmosfera di intimità che si era creata, forse era il buio, la mia paura, la luna, oppure i suoi occhi… Tutto questo, credo, mi fece perdere definitivamente il senno.

“Adesso sono io che vorrei un bacio…” Sussurrai, a voce talmente flebile che non immaginai potesse sentirla sul serio. Da dove avevo preso il coraggio per dire una cosa simile?

Vidi i suoi occhi spalancarsi leggermente e gli angoli delle sue labbra sollevarsi in un tenero sorriso, un’espressione che non gli avevo mai visto prima. Era incredulo, eppure allo stesso tempo sembrava essere rimasto incantato dalle parole che erano uscite inaspettatamente dalla mia bocca. Abbandonando le carezze ai miei capelli, mi prese il volto tra le mani, stringendolo dolcemente come fossi fatta di cristallo; i suoi occhi sembravano volersi imprimere nella memoria quella scena in modo da non dimenticarla, poi, all’improvviso, il suo sorriso scomparve per dare spazio ad un atteggiamento più serio, quasi… solenne.

Rabbrividii, conscia ormai di aver capitolato – per quella sera, almeno. In fondo, non mi era forse capitato spesso di domandarmi che sapore avessero le sue labbra? Bene, adesso l’avrei scoperto – a tutto il resto ci avrei pensato dopo.

Mi ancorai saldamente alle sue spalle – forse per timore di crollare da un momento all’altro –  mentre il suo viso si chinava sul mio; probabilmente le sue mani mi tenevano stretta perché lui stesso aveva paura che potessi cambiare idea ed allontanarmi definitivamente, rovinando tutto il fascino di quel momento. Ma io non mossi un muscolo, attendendo con leggera impazienza che le sue labbra si posassero sulle mie, e facendomi sfuggire un gemito di piacere quando ciò accadde. Non avevo mai immaginato che la sua bocca potesse essere così calda e morbida, così dischiusi le labbra per poter meglio assaporare quel gusto che non mi aspettavo davvero di poter assaggiare, un giorno. Dopotutto si stava pur sempre parlando di Enrico.

Tutto ciò aveva il sapore del proibito, dell’assurdo: io, proprio io stavo lasciando che lui mi baciasse? Che fine avevano fatto tutti i miei principi, tutte le decisioni che avevo preso al riguardo, tutte le promesse che mi ero fatta di non cedergli mai? Sembravano essere svanite nell’attimo di un battito di ciglia.

Chiusi gli occhi con forza, come se non volessi vedere i suoi occhi mentre mi lasciavo andare; eppure, quando le sue mani tornarono ad immergersi nei miei capelli, mentre la sua bocca esplorava la mia tra gemiti, sussurri e sospiri, non potei fare a meno di rabbrividire, stavolta dall’estremo piacere. Il ricordo del bacio rubato di Matteo mi attraversò per un istante la mente per poi sparire del tutto, dandomi il tempo di ammettere che non vi era alcun paragone tra lui ed Enrico.

Malgrado non l’avessi mai ritenuto possibile, il bacio del mio aguzzino era un qualcosa di dolce e sensuale insieme – le sue labbra scivolavano sulle mie come se fosse davvero quello il loro posto, e nessun altro. Sentivo il suo profumo su di me e mi beai scioccamente di questo – che cosa mi aveva fatto?

Compresi si essere completamente impazzita quando decisi di ricambiare il bacio, infilando le dita tra i suoi capelli e aderendo al suo petto con slancio, forse troppo: eravamo infatti entrambi inginocchiati sulla sabbia in precario equilibrio, e bastò un piccolo spostamento d’aria per far perdere ad Enrico la sua stabilità. Lo feci cadere all’indietro, finendo poi sopra di lui: mi staccai immediatamente mettendomi seduta, guardandolo con sorpresa e al colmo dell’imbarazzo, ma lui non mi permise di spostarmi. Le sue mani mi afferrarono i polsi e mi tirarono nuovamente giù, su di lui, prima di ribaltare le posizioni e far finire me con la schiena sulla sabbia.

Eravamo tornati alla posizione iniziale – Enrico torreggiava di nuovo sopra di me, ma stavolta non era la rabbia e la minaccia che vidi nei suoi occhi, quanto piuttosto una cupa bramosia.

Arrossii deglutendo, cercando di non fissarlo troppo a lungo: avevo paura che fraintendesse, e per il momento credevo di aver esaurito le mie riserve di audacia ed energia.

Si abbassò un’ultima volta su di me, strappandomi un altro bacio e sfregando il naso contro il mio collo. Si sdraiò poi accanto a me, alzandosi su un fianco e guardandomi con gli occhi che brillavano: sembrava un bambino la mattina di Natale, non l’avevo mai visto tanto felice e soddisfatto. Persino il suo sorriso era qualcosa di completamente nuovo, per me.

Mi coprii il viso con le mani, sospirando con lentezza e cercando di ignorare l’eco sordo dei battiti del mio cuore: mio Dio, che cosa diavolo avevo fatto? Questo doveva essere quel famoso ‘darsi la zappa sui piedi’…

Non feci in tempo a pensare ad altro che una sua mano si sovrappose alle mie, abbassandole gentilmente in modo da potermi scoprire il viso. Spostai lo sguardo su di lui, imbarazzata e allo stesso tempo incuriosita, sorpresa di trovare tutta quella dolcezza nella sua espressione. Sembrava che non stesse aspettando altro, come se in quei due mesi non avesse fatto che attendere quel momento – davvero incredibile.

“Che c’è?” Sussurrai, guardandolo dal basso. Non avevo ancora ritrovato del tutto la mia voce, ed era piuttosto comprensibile – insomma, avevo appena baciato il ragazzo che quella stessa mattina ero convinta di odiare con tutta me stessa, ero ancora un po’ sconvolta.

Enrico intrecciò la sua mano nella mia e osservò per un po’ le sue dita che colmavano gli spazi vuoti tra le mie, quasi che il loro posto fosse proprio quello; se la portò poi all’altezza del viso e la sfiorò poi con una leggera carezza delle labbra, prima di lasciarsi sfuggire un piccolo sospiro.

“Vorrei essere certo che questo sia l’inizio di qualcosa, Giulia…” Mormorò, talmente piano che dovetti sforzarmi per capire le sue parole.

Anch’io sospirai, sperando però che la preoccupazione non trapelasse dalla mia voce. “Non sono in grado di farti promesse che non so se potrò mantenere, Enrico,” replicai, con un tono fin troppo piatto. Non volevo che si facesse subito strane idee, per quanto io stessa, ormai, non sapessi più da che parte girarmi.

“Ma se mi hai baciato ci sarà una ragione, no?” Insisté, chinandosi leggermente su di me.

Socchiusi gli occhi, distogliendoli da lui. “Attrazione, esasperazione… Forse è stata la luna, o il mare, o qualcosa di tipicamente fisico che non si può spiegare scientificamente,” ribattei, aggrottando le sopracciglia.

“Se stai cercando un modo per sottrarti alle tue responsabilità, sappi che non te lo permetterò.” Dichiarò deciso, tornando per un attimo serio. “Tu non sei una che cede facilmente agli istinti del corpo, perciò penso di poter dire con sicurezza che, se mi hai baciato, ci dev’essere un motivo.”

Sbuffai, liberandomi dalla sua stretta e mettendomi a sedere. “E tu invece stai cercando ad ogni costo di farmi promettere qualcosa di cui non sono del tutto certa, e questo inizia a darmi fastidio.”

“Che tu lo ammetta o no, Giulia, io so perfettamente che cosa è appena successo,” disse, chinandosi a sussurrare sulla mia spalla. “E mi hai appena dato una nuova speranza a cui aggrapparmi.”

“Fai come vuoi, la speranza non si nega a nessuno,” replicai a bassa voce, cercando di mascherare l’insicurezza che mi aveva invaso tutta d’un colpo.

Malgrado l’acidità e la freddezza delle mie risposte, il suo umore non sembrò venirne minimamente scalfito. Continuò a sorridere con quell’atteggiamento malizioso e indisponente che poco tolleravo, mentre si alzava a sua volta e mi porgeva la mano per aiutarmi a sollevarmi, come se non gli avessi appena detto che, tanto, tutto ciò non cambiava niente.

Chissà, forse sapeva qualcosa di cui io non ero a conoscenza.

“Potrei anche riportarti a casa, ora, visto che sono sicuro che questa non sarà l’ultima volta che vorrai vedermi,” bisbigliò al mio orecchio, passando un braccio intorno alla mia vita.

Gli rivolsi un’occhiataccia, dimenticando immediatamente l’imbarazzo di poco prima. “Sorvolo sulla scelta del verbo volere,” sibilai, cercando con scarsi risultati di allontanarmi da lui.

Enrico ridacchiò – come poteva essere mutato il suo atteggiamento così all’improvviso? “Mi stai dicendo che non hai mai desiderato vedermi?” Insinuò, inarcando un sopracciglio.

“Io non ti sto dicendo niente, hai fatto tutto da solo. Devi proprio abbracciarmi?” Proruppi all’improvviso. Che cos’era tutta quella confidenza?

“Dio, non ti facevo così ipocrita!” Esclamò, a metà tra il serio e il faceto. “Prima mi baci e poi non vuoi nemmeno che ti abbracci?”

Non potei fare a meno di arrossire. “Potresti evitare di parlarne come se fosse una cosa normale?”

Come se non bastasse, mi sfiorò la fronte con un ennesimo bacio. “Ma è una cosa normale!”

Grazie al Cielo riuscii a staccarlo dal mio corpo con una spinta decisa, allontanandomi da lui e storcendo il naso. Non sapevo scegliere tra l’essere imbarazzata e l’essere furiosa – anche se, visto quello che era appena accaduto, presumo che non fossi più autorizzata ad esserlo.

Mi osservava con le braccia aperte – le braccia che prima mi avevano stretto – e con quell’odiosa espressione vittoriosa e soddisfatta che non avevo ancora deciso se trovare attraente o insopportabile.

“E togliti quel sorriso dalla faccia!” Sbottai, dandogli le spalle e iniziando ad incamminarmi di nuovo verso la macchina. Lo sentii ridere dietro di me ma non mi voltai, consapevole che, se l’avessi fatto, chissà che cos’altro sarebbe potuto accadere – sicuramente qualcosa di cui mi sarei pentita, visto il modo in cui stavo continuando a pensare al sapore che avevano le sue labbra.

Quando mi ebbe raggiunto in auto si prese un’altra manciata di secondi per potermi studiare, poi, con una strana tenerezza, sorrise per l’ennesima volta – senza alcuna traccia di strafottenza.

“Sono più contento ora che abbiamo fatto pace,” rispose semplicemente, facendomi l’occhiolino.

Arrossii per l’ennesima volta, maledicendomi per questo e distogliendo lo sguardo dal suo. “Sì, beh, non farci l’abitudine…” Replicai, incrociando le braccia.

“Ho paura che sia troppo tardi,” ribatté, girando le chiavi nel quadro e mettendo in moto.

Ero certa che, con quella frase, intendesse più di quanto fosse lecito.





























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AA - Angolo Autrice:
Oh, God. Finalmente ho trovato cinque minuti liberi per poter concludere questo benedetto capitolo, ma sappiate che non ne sono per niente convinta. Tanto per cominciare, in teoria non avrebbero dovuto baciarsi a questo punto della storia, ma ormai il danno è stato fatto... >__< E poi ho notato che questa storia sta andando troppo per le lunghe (Finalmente se n'è accorta! - aehm) ed è il caso di giungere al tanto sospirato epilogo. Dunque, conto di concluderla entro una trentina di capitoli, quindi manca veramente poco se ci pensate... Ad ogni modo è già tutto progettato e deciso, salvo ultime correzioni dell'ultimo secondo. Perciò il mio messaggio è: non disperate! Così come ha avuto un prologo, questa storia avrà un epilogo :D Presto o tardi lo vedremo su questi schermi :D
Ringrazio comunque tutti coloro che hanno continuato a leggere e commentare questa storia malgrado la pubblicazione dei capitoli fatta col contagocce, e grazie a chi l'ha aggiunta tra le preferite e le seguite. Davvero, siete adorabili! <3 Sono così orgogliosa di Enrico e Giulia per essere riusciti a tenervi incollati allo schermo per tutto questo tempo :.)
Sperando di rivederci molto presto con il prossimo capitolo, vi saluto! :*
Un bacio e un abbraccio, vostra
Giuly.

P.S. Se volete, potete trovarmi anche su Facebook donde, se siete interessate, posterò anche alcuni spoilerini ù__ù

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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII. ***


Capitolo XXIII

 

 

 


















 

Odiavo il mio cellulare che suonava all’ora di pranzo, soprattutto quando ero seduta a tavola circondata dai miei parenti – genitori, nonna e zii compresi. Insomma, la discrezione non era di certo il loro forte, specialmente quando si trattava di interessarsi della vita sentimentale della loro giovane figlia-barra-nipote che sembrava aver trovato, alla fin fine, un fidanzato. Un fidanzato vero, poi!

Contemplai l’idea di non rispondere, fingendo di non sentire la suoneria mentre masticavo indifferente un boccone di carne. Ma d’altra parte il telefono continuava a squillare – avevo senza dubbio scelto il giorno sbagliato per togliere la modalità silenziosa – e, dopo aver smesso, aveva ripreso due istanti dopo quasi con maggior insistenza.

“Giuly, non rispondi?” Fece mia zia, del tutto innocentemente. Potevo sentire gli sguardi degli altri prudermi addosso, così mi sgranchii la voce e mi alzai.

“Scusatemi un momento…” Mormorai imbarazzata, afferrando il telefono colpevole e uscendo dalla sala da pranzo. Andai invece nell’altro salone, quello dove avevo trovato rifugio anche il giorno del funerale, e finalmente premetti il tasto per accettare la chiamata. Non avevo bisogno di leggere il nome sul display per sapere chi fosse.

“Pronto?” Dissi, chiudendomi la porta alle spalle.

Dall’altra parte della cornetta provenne un sospiro di sollievo. “Oh, finalmente! Stavo iniziando a preoccuparmi”, esclamò la voce quasi esasperata di Enrico. Già, chi altri?

Contai mentalmente fino a dieci, per evitare rispostacce acide. “Stavo pranzando, Enrico, non potevo rispondere”, replicai sedendomi sul divano. Accidenti, mi stavo davvero giustificando con lui? Che diavolo, questa era proprio una di quelle cose che avrei voluto evitare, da fidanzata.

No, aspetta un momento. La mia mente aveva davvero formulato quella parola?

Le mie labbra si mossero da sole in una smorfia di disgusto, mentre ascoltavo la risposta di Enrico. Evidentemente era bastato un bacio al chiaro di luna per trasformarmi da vecchia zitella acida a giovane fidanzatina. Accidenti, di nuovo.

“Ma sono le tre del pomeriggio”, replicò sorpreso.

Sospirai per l’ennesima volta, cercando di ignorare il formicolio all’altezza dello stomaco che mi provocava il suono della sua voce. “Sì, beh, è uno di quei pranzi con i parenti nei quali si sa a che ora ti siedi a tavola ma non quando la tortura finirà”, risposi ironica, roteando gli occhi. “E comunque, adesso per colpa tua mi faranno il terzo grado. Non potevi mandarmi un messaggio?”

“Te l’ho mandato, tesoro, ma non mi hai risposto”.

Certo, a domanda scema…

No, un attimo. Come mi aveva chiamato?

Tesoro?” Ripetei, perplessa. “E quando ti avrei dato questa confidenza?”

Lo sentii ridere dolcemente, una di quelle risate tipicamente mascoline che sottintendono centinaia di significati imbarazzanti. “Credevo che, dopo ieri notte, fossi autorizzato a chiamarti come voglio…”

“Uhm.” Non sapevo davvero come replicare. Accidenti, ci avevo pensato tutta la notte e non ero sbarcata a nessuna conclusione… Il modo poco ortodosso che avevamo trovato per fare pace – o meglio, che avevo trovato io per scusarmi con lui, per una volta che avevo riconosciuto di avere sbagliato – aveva automaticamente innalzato il nostro rapporto di qualche gradino, e non ero certa che questo mi dispiacesse più di tanto. Insomma, se arrossivo e sentivo le guance andarmi in fiamme ogni volta che ripensavo a quel bacio, doveva pur esserci un motivo, no? Non credevo che la colpa fosse soltanto dei miei ormoni in subbuglio, quanto piuttosto di qualche ragione trascendentale che mi aveva portato tra le sue braccia senza che ancora io avessi deciso lucidamente. Potevamo considerarci insieme, adesso? Beh, probabilmente questo era quello che voleva lui sin dall’inizio o quasi, e se a me in fondo non dispiaceva… Chissà, magari una minuscola possibilità gliel’avrei anche potuta dare.

“Giulia? Giulia, ci sei ancora?” Il tono insistente con cui mi stava chiamando mi fece capire che era da un po’ che stava cercando di attirare la mia attenzione, ma io ero troppo assorta nei miei pensieri per farci caso. Arrossii, e ringraziai il Cielo che lui non potesse vedermi.

“Scusa, ero soprapensiero,” mormorai imbarazzata.

Avrei giurato che stesse sorridendo. “E a che cosa stavi pensando così intensamente?” Domandò, con voce incredibilmente dolce. Non avrei mai smesso di stupirmi dei cambiamenti improvvisi del suo tono, che da minaccioso poteva passare a sensuale e rassicurante nell’attimo di un battito di ciglia.

Dovevo rispondergli davvero?

Mi schiarii la voce, cercando di tergiversare. “Uhm, stavo solo cercando di capire se potevi esserti guadagnato davvero il diritto di chiamarmi tesoro…”

Rise ancora e io rabbrividii per l’ennesima volta, sentendo la pelle d’oca sulle braccia malgrado fossimo ancora alla fine di Agosto e la temperatura non fosse esattamente fredda. Di certo non potevo ignorare per sempre un ragazzo che mi procurava tali sensazioni, no? Non capivo perché il mio corpo continuasse a rispondere in quel modo alla sua voce e ai suoi sguardi, quasi che fossimo due atomi impegnati in una reazione chimica dalla quale era impossibile scindersi. Sì, credo che questa sia una metafora piuttosto azzeccata: Enrico l’avrei visto bene nella parte del mercurio, in effetti, visto l’effetto tossico che aveva su di me.

Dovetti sbattere più volte le palpebre per cercare di recuperare la lucidità necessaria a concentrarmi sulla sua voce e sulle sue parole. Era imbarazzante, non ero mai stata così distratta: ed era tutta colpa sua. Sua e del suo bacio, accidenti!

“Avanti, Giulia, seriamente,” esordì poi, cercando di sembrare ragionevole malgrado l’intonazione maliziosa che aveva assunto la sua voce. “Mi stai dicendo che in questo momento non mi vorresti lì, accanto a te, per approfondire quello che ieri abbiamo lasciato a metà?”

Arrossii inevitabilmente, e tardai a rispondere quel tanto necessario perché il mio silenzio desse ragione a lui. “Ecco, visto?” Sussurrò, dolcemente. “Penso proprio che ti chiamerò in tutti i modi che riterrò necessari, e non credo neppure che ti dispiacerà più di tanto…”

Fui costretta a deglutire più volte, visto che iniziavo a sentirmi la bocca incredibilmente secca. A quanto pareva avevo proprio passato il punto di non ritorno…

“Senti, Enrico… Devo tornare a pranzo. Puoi dirmi perché mi hai chiamato?” Mormorai a mia volta, per far sì che non avvertisse il tremito della mia voce.

Sospirò, arrendendosi alla mia testardaggine. “Va bene. Sei libera stasera?”

“Uhm, credo di sì… Perché?” Chiesi, vagamente sospettosa. Okay, togliete pure il vagamente.

“Volevo invitarti a cena, così possiamo stare un po’… da soli.”

Avevo sentito il rumore della trappola che scattava o era solo una mia impressione?

“Da soli…?” Ripetei scioccamente, giocherellando con un cuscino. “Perché?”

Lo sentii sbuffare, a metà tra il divertito e l’irritato. “Oh, dai, Giulia! Farò il bravo! È soltanto una cenetta”, dichiarò, sperando che io abboccassi. Sì, come no.

Con te non è mai soltanto una cenetta, pensai, ma senza esprimere il concetto ad alta voce. Oh, basta, non ne avevo voglia. Tanto il ‘peggio’ era già successo, no? Cos’altro poteva capitare?

Così mi arresi, immaginando di sventolare una bandiera bianca. “Okay, va bene. Però devi riportarmi a casa entro un orario lecito, non posso sempre fingere di stare a dormire dalla mia amica…” In realtà era da molto che non usavo quella scusa per uscire con lui, visto che i miei genitori sembravano appoggiare quella specie di rapporto; genitori sconsiderati, a mio parere, anche se parecchie ragazze avrebbero pagato per avere una madre che spronava ad uscire con dei bei ragazzi. Beh, in quel caso a me sarebbe piaciuto avere una madre che mi chiudesse in camera mia e buttasse anche la chiave – mi sarei sentita indubbiamente al sicuro da lui. Ma non si può scappare per sempre, perciò…

“Okay, prometto che sarai a casa prima che si spezzi l’incantesimo”, replicò con una risatina. La sua voce poi si addolcì per l’ennesima volta, senza darmi il tempo di metabolizzare il cambiamento. “Adesso vai, su, ti ho tenuto a telefono fin troppo e i tuoi saranno preoccupati. Ci sentiamo più tardi, va bene? Ti mando un messaggio”.

Annuii, prima di ricordarmi che lui non poteva vedermi. “Okay, a più tardi”, risposi, esitando un momento di troppo. Come avrei dovuto salutarlo? “Ehm, allora… Ciao?” Conclusi, facendo sembrare il saluto più una domanda che un’affermazione. Dio, che idiota.

“Ciao”, ripeté anche lui, facendolo suonare più una carezza leggera.

Chiusi la chiamata e presi dei profondi respiri, in modo da non tornare in sala da pranzo con il cuore in gola e un’espressione che mi avrebbe tradito, benché tutti si stessero immaginando più o meno chi era lo sconosciuto che aveva interrotto il mio pranzo con tanta insistenza. Beh, di certo io non avrei confermato i loro sospetti.

Infilando il telefono in tasca aprii la porta, odiando sinceramente l’agitazione che quella semplice chiamata mi aveva messo in corpo. Dio santo. Una cenetta, l’aveva chiamata.

Da soli, aveva aggiunto.

Non c’era mai fine al peggio.

Ma stranamente, non ne fui dispiaciuta quanto temevo.

 

 

***

 

 

Iniziai a temere che in me ci fosse qualcosa che non andava quando aprii l’anta dell’armadio per prepararmi con tre ore d’anticipo. Non sapevo cosa mettere, d’accordo? Ecco, ed era proprio questo il problema. Quando mai me n’ero preoccupata?

Ad ogni modo, i vestitini erano esclusi per principio; stessa cosa dicasi di magliette con scollature succinte e gonne che sfioravano l’oscenità: non che ci fosse roba del genere nel mio guardaroba, comunque. Era solo per fare il punto della situazione. L’unico problema era che eravamo ancora in estate, dunque caldo e umido andavano a braccetto: non avrei potuto mettere le felpe a dolcevita che mi avrebbero protetta da sguardi indiscreti, né tantomeno canottiere che esibivano la merce come un banco del pesce. Dio, quanto odiavo dover decidere cosa mettermi.

Sospirai e, dopo il quarto paio di pantaloni presi e gettati sul letto, decisi di mettere i primi che avrei visto non appena avessi aperto gli occhi. Fui abbastanza fortunata: un paio di jeans chiari, stretti, con la vita non troppo bassa né troppo alta. Abbinare una maglietta non fu tanto difficile: dovendo escludere quelle con le scollature esagerate – che abbondavano, vista la stagione – ne infilai una nera che si legava dietro al collo e che, pertanto, copriva per bene il davanti. Beh, avevo la schiena scoperta, ma di quello non mi curai più di tanto perché indossai una giacca leggera sopra. Un paio di sandali dal tacco modesto e potei dire conclusa anche quell’ardua parte – e senza che me ne rendessi conto era già arrivata l’ora dell’appuntamento.

Apro una piccola parentesi. I miei genitori – beh, solo mia madre, in realtà, non aveva fatto una piega quando le avevo detto che Enrico mi aveva invitato ad uscire; mio padre era stato più scettico ma alla fine aveva fatto finta di niente, purché rientrassi ad un orario ragionevole – ossia prima delle tre del mattino. Quanto a Enrico, ci eravamo scambiati messaggi per tutto il pomeriggio parlando del più e del meno – con questo intendo che lui faceva domande e io mi limitavo a rispondere, per paura di sbilanciarmi troppo – e probabilmente questa fu una sorta di strategia per impedirmi di cambiare idea all’ultimo momento e rimandare, o annullare del tutto, l’appuntamento. Ma a quel punto rimandare l’inevitabile non sarebbe servito a niente.

E così, Enrico era venuto a casa mia a prendermi. Avevo chiesto a mia madre di fingere di non esserci, perché non volevo assistere a quelle imbarazzanti scene che si vedono nei film dove il fidanzatino della protagonista si presenta ai suoi genitori e chiede al padre, con una buona dose di coraggio, se può uscire con la sua bambina. Dio, che cose odiose. E comunque lui non era il mio fidanzato.

Con un sospiro, diedi un’occhiata veloce al mio riflesso allo specchio e afferrai la borsa, lasciando a casa, non senza remore, lo spray al peperoncino: avevo più paura di quello che sarebbe potuto accadere adesso che ci eravamo già baciati che non prima, però mi sembrava ridicolo equipaggiarmi come se stessi andando in guerra. In fondo il suo bacio non mi era dispiaciuto più di tanto… L’unica cosa che temevo era che potesse farsi un’idea sbagliata dell’evoluzione del nostro rapporto, sempre se così di poteva definire. Cercando disperatamente di convincermi che un misero bacio non avrebbe cambiato la situazione, raggiunsi Enrico in macchina, ringraziando il buio della notte che proteggeva il mio volto dal suo sguardo indiscreto. Se mi avesse visto arrossire non appena avevo aperto lo sportello si sarebbe già sentito con la vittoria in pugno. Non sapevo proprio come comportarmi, accidenti.

“Ciao, Giulia”, salutò dolcemente, non appena fui seduta accanto a lui. Non si sporse verso di me per cercare di baciarmi, come se avesse voluto rispettare i miei tempi: e di questo gliene fui sinceramente grata. Mi sentivo ancora parecchio a disagio, a volerla dire tutta.

“Ciao”, mormorai in risposta, mentre metteva in moto l’auto. Poi mi sentii in dovere di non far morire così la conversazione, anche perché magari la conversazione mi avrebbe tranquillizzato. “Tutto bene?”

Lo vidi sorridere nella penombra del veicolo, ma non distolse lo sguardo dalla strada. “Sì, grazie. Tu? Cos’hai combinato tutta la sera?”

Come se non lo sapesse, pensai, improvvisamente divertita. “A parte messaggiare con te, dici?”

“Uhm, touché.” Mi rivolse un’occhiata veloce con un mezzo sorriso, prima di dedicare nuovamente la sua attenzione alla guida. “Okay, sì, a parte messaggiare con me. Stai già studiando per il rientro a scuola?”

“Oddio, no. Non ne ho voglia! L’estate non è fatta per studiare”, replicai, inarcando le sopracciglia. Subito dopo mi accorsi di quanto fosse strana quella situazione: stavo parlando con Enrico di argomenti così banali e comuni? Insomma, era alquanto bizzarro; punto primo, non pensavo che potesse davvero interessarsi a cose simili, e punto secondo, non lo facevo il tipo da conversazioni convenzionali. Mi voltai per osservarlo, mordendomi le labbra al ricordo di come quelle labbra si erano mosse sulle mie… Dio! Ma perché dovevo mettermi nei guai da sola?

Mi schiarii la voce, sperando che non si accorgesse del mio imbarazzo. “Tu, invece? Cos’hai fatto di interessante?”

Non mi guardò mentre rispondeva, a bassa voce. “La cosa più interessante che ho fatto è stata sentire te”.

Arrossire fu inevitabile. “Enrico…” Lo ammonii, piano.

Lui finse di non comprendere il tono della mia voce. “Sì, che c’è?” Chiese, con finta indifferenza.

“C’è che non puoi dirmi cose del genere, ecco cosa c’è”, lo rimproverai debolmente, trovando persino giusto il mio ragionamento.

“Ma è la verità”, ribatté, voltandosi e osando guardarmi con un’espressione quasi innocente.

Emisi un suono a metà tra uno sbuffo e un sospiro. “Senti, non voglio litigare…”, iniziai.

Tuttavia Enrico mi interruppe, impedendomi di portare a termine il discorso. “Ti dirò, se poi facciamo pace come ieri allora non mi dispiace neppure litigare un po’”, disse con un sorriso malizioso.

Roteai gli occhi, spazientita. “La serata è appena iniziata e tu stai già partendo male”, sbottai, incrociando le braccia – cosa alquanto difficile con la cintura di sicurezza in mezzo.

“Okay, come ho già detto farò il bravo”, ripeté, lanciandomi un’occhiata divertita. “Però tu dovresti cercare di rilassarti e divertirti, altrimenti non potrò parlare per paura di dire qualcosa che potrebbe essere facilmente fraintesa”.

Evitai di specificare che era colpa delle sue frasi ambigue se io fraintendevo, e quello fu già un grande passo avanti. Annuii, tornando a guardare la strada che scorreva fuori dal finestrino, e accorgendomi così che stavamo facendo un tragitto che non mi ricordavo. “Dove stiamo andando?” Domandai, cercando di non far trapelare l’agitazione dalla mia voce.

“A casa mia. Non ti ricordi? Ci sei già venuta…” Ed eccolo di nuovo, il tono provocante che non sapevo ancora se considerare irritante o sensuale. Forse era a metà strada tra i due.

Certo che mi ricordavo. E come dimenticarlo? Quella volta mi aveva costretta a rimanere a dormire da lui, dopo avermi praticamente rapita. Mi sembravano trascorsi secoli da allora, e invece era successo poco più di un mese prima. Quante cose erano successe, nel frattempo…

Non gli risposi – dopotutto, non sapevo neppure cosa dire. Ad essere sincera non ero tanto spaventata da Enrico, quanto piuttosto dal faccia a faccia che avrei dovuto sopportare di lì a poco: avrebbe voluto senza dubbio approfondire ciò che era successo la notte prima, perché se il bacio aveva lasciato confusa e senza parole me, sicuramente doveva aver riempito di speranze lui.

“Oggi sei più silenziosa del solito…”

La sua voce mi fece sobbalzare – di nuovo. Dio, odiavo avere i nervi così a fior di pelle. Gli lanciai un’occhiata veloce per controllare l’espressione del suo viso, e, vedendola stranamente seria, mi preoccupai che potesse prendersela davvero come il giorno prima. Così sospirai e scossi la testa, ritornando a fissare la strada. “No, no, è solo che…” Mi bloccai, incerta: cos’avrei dovuto dirgli? “È strano, ecco.”

Brava, Giulia. Complimenti. Strano. Hai vinto l’oscar per la Migliore Parafrasi.

“Cosa è strano?” Domandò lui infatti, con un tono volutamente neutro e vacuo. Sembrava che si stesse sforzando di comprendere il mio modo astruso di vedere le cose, il che non richiedeva certo poca fatica; oh, andiamo – adesso mi critico da sola? E che cosa avrei dovuto rispondergli? Che trovavo strano il fatto che non mi avesse assalito non appena ero entrata in macchina, limitandosi a parlarmi del più e del meno come un perfetto gentiluomo? Insomma, dovevo ammettere di essere delusa perché non si era comportato come i miei canoni avevano previsto? Iniziavo ad odiarmi da sola.

Comunque, di fatto non potevo dirgli nulla di tutto questo.

Grazie al Cielo fu lui a venirmi in aiuto – o a peggiorare il mio imbarazzo, a seconda dei punti di vista – impedendomi di rispondere e tirando da solo le fila del discorso.

“È strano che non ti abbia ancora baciato?” Chiese infatti, con il tono leggero di uno che parla delle previsioni meteorologiche. La sua voce ebbe però una leggera incrinatura quando aggiunse, lentamente: “Credimi, sto usando ogni goccia di autocontrollo per non fermare la macchina e salutarti come si deve…”

Mi voltai sorpresa verso di lui, sforzandomi di ignorare il rossore alle guance e ringraziando Dio e tutti i santi per l’oscurità della macchina che celavano tale afflusso indesiderato di sangue. “Io non… Non intendevo questo…” Mormorai, sperando che non fermasse davvero l’auto.

“Ah, no?” I suoi occhi mi fissarono per un attimo, poi ripresero il controllo della strada. “Mi stai dicendo che non te lo stai chiedendo da quando siamo partiti? Che, dopo ieri, l’hai trovato normale?”

Chinai il capo, giocherellando nervosamente con le cinghie della mia borsa. “Ieri è stata colpa mia, lo ammetto…” Confessai alla fine, trovando un coraggio che non credevo di avere davvero. Dopotutto chi era stato a saltare addosso all’altro, luna o non luna?

Enrico tuttavia sbuffò, leggermente innervosito. “Devi smetterla con questa storia delle colpe. Non è stata proprio colpa di nessuno. Lo volevamo entrambi, ed è successo… Finalmente, oserei aggiungere”. Si accorse che avrei voluto ribattere qualcosa, ma non me lo permise. “No, fammi finire. Non ha senso che continui a fingere di trovarmi indifferente, perché ormai non funziona più… Hai capito di provare qualcosa per me, ed è già un passo avanti”.

Ecco, appunto – a proposito di false speranze. Solo che adesso il dubbio era più forte di quanto non fosse mai stato in precedenza… Quanto le potevo definire false, le sue aspettative? Il mio desiderio di mettere le mani avanti e lasciarmi libera una ‘via di fuga’ era molto tenace, così mi preparai ad obiettare.

“C’è differenza tra attrazione e sentimento, credo”, replicai, cercando di suonare ragionevole.

Sfortunatamente neppure lui sembrava carente di ostinazione. “E io credo che l’uno non possa esistere senza l’altro. No?” Ribatté sicuro, guardandomi.

“Okay, e con ciò? Dove vuoi arrivare?” Sbottai, infastidita per essere stata sconfitta con la mia stessa moneta. Lui non rispose subito.

Ormai la macchina si era fermata, visto che eravamo praticamente arrivati. Spense il motore, facendoci precipitare nell’oscurità più completa non fosse stato per un’unica luce proveniente da sotto al portico della sua casa di campagna, che a malapena illuminava l’uscio. Ciò nonostante vidi i suoi movimenti – la mano che slacciava la cintura di sicurezza, il torace che si volgeva verso di me, il braccio destro che si posava sul poggiatesta del mio sedile – ed ebbi il modo di studiarli con precisione come se la scena si stesse svolgendo al rallentatore. Lo vidi chinarsi su di me, con l’altro braccio che, chissà come, era arrivato a posarsi accanto alla mia gamba dalla parte dello sportello, intrappolandomi senza alcuna via di scampo.

E maledetta la cintura che mi impediva qualsiasi movimento.

Non nego che, forse, avrei potuto anche trovare un modo per impedirglielo. Potevo voltare il viso dall’altra parte, o intimargli di allontanarsi, o offenderlo con qualche frecciatina crudele che l’avrebbe spinto a lasciar perdere – come in genere succedeva. Ma purtroppo, mentre il suo volto si avvicinava implacabile al mio, l’unica cosa che la mia mente riusciva a focalizzare era il ricordo del suo bacio, e il fatto che adesso stavo per riassaggiare la dolce morbidezza delle sue labbra. Dio, sarebbe potuto essere il diavolo in persona, ma nulla mi avrebbe tolto dalla testa la convinzione che la sua fosse la bocca più buona che avevo avuto l’opportunità di assaggiare.

Così mi limitai a socchiudere gli occhi e sospirare, tremante, nell’attimo che ci separava dal baciarci una seconda volta. Sentii il suo respiro all’angolo della mia bocca, mentre annullava ogni distanza rimasta e faceva combaciare le nostre labbra come pezzi di un puzzle, strappandomi un gemito involontario che non sarei stata capace di trattenere neanche sotto tortura. Sembrava sempre essere eccezionalmente allenato nel baciare in quel modo, come se avesse alle spalle una lunga pratica, e il pensiero mi fece aggrottare le sopracciglia nel rendermi conto di quanto l’idea potesse infastidirmi; mi avrebbe di certo dato molto fastidio scoprire che avrebbe baciato qualcun'altra dopo di me, e non ero neanche del tutto certa che avrei potuto lasciar correre tanto facilmente. Decisi comunque di non pensarci, non era il caso; così, istintivamente, portai una mano libera a sfiorargli la guancia, prima di farla scivolare più in basso a posarla sulla sua spalla, alla quale mi aggrappai quasi ferocemente.

Purtroppo baciare era come mangiare ciliegie: una volta iniziato, non si sarebbe più voluto smettere. Ma era anche vero che tra una ciliegia e l’altra si prendeva un profondo respiro, e  così dovemmo fare anche noi tra un bacio e l’altro, seppure trovassi l’idea molto meno allettante – anche perché avrei dovuto affrontarlo nuovamente, e non ero mai stata particolarmente brava ad accettare e ammettere la sconfitta. Perciò, quando si allontanò dalle mie labbra leggermente indolenzite per la furia che ci aveva messo, il suo sorriso mi fece perdere qualche battito, facendomi sentire improvvisamente caldo – e no, di questo non potevo incolpare la stagione. Le sue dita mi accarezzarono i capelli e poi la guancia, con un tocco estremamente delicato e tenero, che trovai addirittura più intimo del bacio stesso: poi le sue labbra si posarono un’ultima volta sulle mie, come una sorta di ciliegina sulla torta, e quando parlò lo fece con una voce appena roca che mi fece rabbrividire.

“Era a questo che volevo arrivare”, sussurrò.

E compresi che la serata era appena all’inizio.

 

 


























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AA - Angolo Autrice:
Oh! *sospiro di sollievo* Ce l'ho fatta entro questa settimana, come promesso :D Non è un granchè, lo so, ma è un piccolo passo per l'uomo e un grande passo per l'umanità... nel senso che fra un po' questo strazio sarà finito, state tranquille xD Ancora un po' di pazienza e potrete farmi ciao ciao con la manina. Dunque! Passo subito a ringraziare coloro che hanno recensito (un bacione grande grande a Eky_87, samantha, savy85, lalalaXD94, Liandra Thundery, nicoletta93, Aly in Wonderland, Miyu, Alebluerose91 e Carocimi), che hanno aggiunto la storia alle Preferite (130! *stappa lo spumante*), alle Seguite (215) e alle Ricordate (15). Insomma, gente, vi adoro <3
Grazie alle nuove "reclute", grazie alle "vecchie" che mi seguono dall'inizio, grazie a tutte... Davvero, senza il vostro sostegno non so se sarei arrivata fin qui :*
Uhm oggi sono particolarmente emotiva, perciò passo e chiudo prima di farmi scendere la lacrimuccia commossa ;D
Vi lascio ricordandovi che potete trovarmi anche su Facebook! ^^
Un bacio e un abbraccio, al prossimo capitolo :*
Vostra,
Giuly.

 

 

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIV. ***


Capitolo XXIV

 

 















 

 

 

 

 

Scesi lentamente dalla macchina, cercando di recuperare un paio di minuti per riprendere il controllo e per capire che genere di comportamento avrei dovuto sfoggiare una volta sola con lui a cena. C’era una fastidiosa vocina, nella mia mente, che mi stava spingendo a mettere da parte ogni traccia di lucidità per poter saltare addosso ad Enrico senza alcuna remora, ma grazie al Cielo il mio autocontrollo poteva reggere ancora abbastanza a lungo per evitarmi una così misera figura. Dio, il suo bacio mi aveva destabilizzato sin troppo.

Approfittai del fatto che mi stava dando le spalle per armeggiare con la chiave nella serratura della porta d’ingresso per farmi scivolare discretamente la lingua sulle labbra alla ricerca del suo sapore, e mi coprii la bocca con la mano, sconvolta, quando compresi ciò che stavo davvero facendo. Mio Dio. Bastava così poco per farmi capitolare? Mi ero venduta per un bacio? E – maledizione – che cosa stavo pensando? Mi aveva baciato, mi era piaciuto: punto. Non aveva senso rimuginarci ancora, in fondo un bacio non sanciva proprio niente, e il fatto che mi fosse piaciuto il sapore della sua lingua, della sua bocca, non voleva significare che mi sarebbe piaciuto baciarlo in eterno, fino a perdere la sensibilità delle mie labbra, fino a gemere e…

“Giulia? Non vuoi entrare?”

La sua voce gentile e vagamente maliziosa mi riscosse da quell’odioso torpore nel quale sembravo cadere ogni volta che Enrico mi era troppo vicino. Ritornai bruscamente alla realtà, fissandolo come se gli fosse spuntata improvvisamente una seconda testa e arrossendo violentemente nell’associarlo ai pensieri poco ortodossi che stavo avendo su di lui. Dannazione a me e ai miei maledetti ormoni impazziti!

“Ah, ehm, sì, certo”, balbettai confusa, raggiungendolo e sforzandomi di non guardarlo direttamente negli occhi. Lo superai ed entrai in casa, facendo qualche passo in avanti al buio per non sentire il suo bel profumo troppo intorno a me. Non stavo bene, no, non stavo per niente bene, e la prospettiva di dover trascorrere l’intera serata, da sola, con lui, non contribuiva minimamente a rendere stabile la mia già precaria sanità mentale. Chissà, forse aveva ragione Alessandra: se ci fossi andata a letto da subito, togliendomi il pensiero, non mi avrebbe fatto tutto quell’effetto il rimanere con lui – sarebbe stato come togliere un dente troppo fastidioso, no?… Oh diavolo, Giulia, ritorna in te!

“C’è qualcosa che non va?” Chiese Enrico con aria preoccupata, raggiungendomi e passandomi un braccio intorno alle spalle. “Ti vedo strana…”

Troppo vicino, troppo vicino, era decisamente troppo vicino…

Cercando di non sembrare maleducata mi costrinsi a sorridere condiscendente, sgusciando via con eleganza dalla sua stretta improvvisa. “No, tranquillo”, riuscii a rispondere, sembrando normale ma senza riuscire a celare l’imbarazzo. “Ecco, non vorrei che… Stessimo correndo un po’ troppo, sai…”

“Uhm”. Si portò pensieroso un dito sul mento, tamburellandolo con finta perplessità senza mai smettere di fissarmi. “Hai paura di desiderarmi troppo, forse?”

Se non ero arrossita prima, ora ero certa di aver assunto il colore di un bel pomodoro maturo – volendo tralasciare la spiacevole sensazione di essere finita con le proverbiali spalle al muro. Comunque, non potevo di certo dirgli “No, sai, ho solo paura di frequentare una specie di mafioso, cosa vuoi che sia!”, sarebbe stato poco carino da parte mia e a dir poco fuori luogo. Senza contare che io non ero certa che Enrico fosse a conoscenza di tutto quello che io sapevo di lui – Cielo, è piuttosto complicato – voglio dire, non credevo che sapesse che la sua vita privata e criminale non mi era per niente estranea, e di conseguenza avevo abbastanza paura di espormi troppo. Potevo anche affezionarmi al ragazzo, certo, ma chi diceva che potevo anche accettare l’Occhi Belli?

“Sarebbe meglio se adesso ci occupassimo solo della cena”, mormorai, senza rispondere alla sua domanda e distogliendo lo sguardo da lui, troppo pensierosa e preoccupata per poter stare al passo con le sue allusioni maliziose.

Lo sentii sospirare e poi annuì, accendendo finalmente le luci del corridoio e facendomi strada verso la cucina: benché ci fossi già stata non mi ricordavo minimamente dell’interno della casa, forse perché l’ultima volta ero troppo impegnata a far sì che Riccardo ed Enrico non si uccidessero con me e la mia migliore amica presenti. Ad ogni modo ora che potevo osservarla meglio mi accorsi che doveva essere piuttosto vecchia come casa, sia a giudicare dagli arredamenti che dal modo in cui erano disposte le varie stanze: beh certo, non potevo davvero credere che fosse proprio casa sua, sicuramente apparteneva ai genitori o ai nonni e lui la sfruttava durante l’estate con i suoi amici o quando voleva stare da solo. O, per stare al racconto di Riccardo, per quando organizzava i suoi ‘incontri d’affari’…

Cercai di seppellire quegli spiacevoli pensieri in un angolino della mia mente, perché non contribuivano minimamente a mettermi a mio agio e, al contrario, non facevano che farmi venire ansia. Okay, non credevo davvero che Enrico mi avesse portato fin lì per violentarmi e poi uccidermi, però il fatto di essere a conoscenza di determinati fatti non mi tranquillizzava per niente. Gli avrei dovuto chiedere di farmi vedere la pistola, forse?

Finalmente Enrico si fermò davanti ad una porta e la aprì, accendendo le luci prima di farmi cenno di entrare per prima, da vero gentiluomo. Accennai un sorriso e varcai la soglia, riconoscendo subito la cucina dove avevamo fatto colazione la mattina dopo il mio ‘famoso’ rapimento: il fatto di trovare familiare quella stanza mi fece riprendere a respirare normalmente, e ostentando una calma che non avevo posai la borsa sulla sedia e mi guardai intorno come per abituarmi all’ambiente.

“Sei silenziosa”, ripeté Enrico, per la seconda volta nella stessa sera. Mi voltai per vedere che si stava avvicinando ai fornelli per preparare la cena – non credevo che l’avesse fatto davvero, chissà perché mi ero convinta che avesse uno stuolo di cuochi e camerieri – e mi morsi leggermente il labbro, imbarazzata.

“Mi dispiace”, ribattei sinceramente, avvicinandomi e sedendomi su uno degli sgabelli che circondavano la penisola di quella che era una cucina estremamente moderna. “È solo che non so come comportarmi…” Mormorai subito dopo, decidendo di essere onesta fino in fondo.

Lo vidi voltarsi e inarcare perplesso un sopracciglio, come se non avesse capito a cosa mi stavo riferendo – e, se davvero credeva che io fossi all’oscuro dei suoi traffici criminali, allora non potevo biasimarlo: forse pensava che io non volessi frequentarlo solo per sentito dire, perché il nome della sua famiglia aveva una certa fama, e non che dietro la mia ostinazione ci fosse il racconto dettagliato di Riccardo. Così decisi una volta per tutte di smetterla di fingere che fosse un ragazzo normale e di rivelargli davvero ciò che temevo, convinta così di riuscire a spiegargli le mie reticenze.

“Cosa vuol dire che non sai come comportarti?” Domandò, senza smettere di trafficare con alcune pentole che stava tirando fuori da uno sportello. “È solo una cena, Giulia, non mi sembra di averti chiesto chissà che cosa…”

Con un sospiro trattenuto a stento mi alzai e lo raggiunsi, prendendogli una pentola dalle mani e, probabilmente, sorprendendolo per la mia spontanea decisione di avvicinarmi a lui; in realtà era un modo come un altro per prendere tempo e riflettere su quello che avrei dovuto dirgli senza rischiare di farlo arrabbiare. “Dobbiamo fare la pasta?” Chiesi, senza guardarlo.

“Sì”, disse soltanto, aspettando sicuramente che io dicessi qualcosa di più interessante. Mi avvicinai al lavandino e riempii la pentola con l’acqua del rubinetto, dopodiché la misi sul fornello e accesi il gas, il tutto senza dire una sola parola ma continuando a sentire il suo sguardo bruciante sulla schiena. Non sapevo da dove iniziare, ma ero certa che avrei parlato di più senza osare guardarlo in faccia. Così, continuando a fissare la pentola come se il mio sguardo avesse potuto accelerare il processo di ebollizione dell’acqua, lo dissi.

“So di che cosa ti occupi, Enrico”, mormorai, stringendo le mani al bordo di marmo della cucina. “Ed è per questo che non ho la più pallida idea di come comportarmi. È per questo che ho paura”.

Bene, il danno era fatto – o, per essere più poetici, il dado è stato tratto. Adesso che quelle parole erano riuscite a prendere il volo – adesso che sembravano gravitare, pesanti come macigni, nell’aria intorno a noi – mi sentivo improvvisamente meglio, più leggera, come se da quel momento in poi sarebbe stato tutto più facile. Dovevo soltanto aspettare che la bomba esplodesse – oh, pardon, che Enrico dicesse qualcosa. Perché si presumeva che qualcosa la dovesse dire, no? Non poteva rimanere in silenzio, vero?

Il punto era che neppure io sapevo che cosa volevo o non volevo sentirmi dire.

“Da quanto tempo lo sai?” Eccole le prime parole dopo il lancio del missile, venute fuori con un tono all’apparenza piatto e neutro. Mi stava tendendo qualche trappola?

“Non avrei dovuto saperlo?” Replicai invece con un’altra domanda, cercando di mantenere un tono pacato.

“Rispondi, Giulia. Da quanto tempo lo sai?” E quella fu probabilmente l’inflessione che non avrei mai voluto sentire da lui, perlomeno non rivolta a me; un brivido mi corse lungo la schiena – ansia? paura? – e socchiusi gli occhi, cercando di ignorare quello che sembrava soltanto un’intimazione velata dalla rabbia.

Sospirai, continuando a dargli le spalle. “Da quando Riccardo è venuto a prendermi qui, il giorno dopo che mi hai fatto… beh, rapire.” Era strano dirlo ad alta voce, sembrava quasi di parlare di un sogno talmente vecchio e strano da non poter far parte in nessun modo della vita reale.

Enrico comunque non rispose subito, come se stesse soppesando la mia ammissione. Avevo detto qualcosa di sbagliato? Adesso sarebbe risalito a Riccardo, avrebbe scoperto che è stato lui a raccontare ogni cosa a me e ad Alessandra, avrebbe cercato di fargliela pagare? O forse era solo la mia fantasia che galoppava più in fretta di quanto fosse possibile starle al passo? Quasi non mi accorsi che le dita delle mie mani erano diventate bianche e insensibili a furia di stringere il bordo di marmo.

Quando riprese la parola, la sua voce mi fece sobbalzare dalla sorpresa, per quanto il suo cambiamento fu drastico e improvviso. “Quindi sapevi ogni cosa ieri sera, quando ci siamo baciati per la prima volta”, decretò con un tono basso e suo malgrado sensuale, facendomi arrossire. Possibile che si finisse sempre a parlare della stessa cosa? Non gli importava che io fossi a conoscenza di tutti i suoi affari illegali?

Mi voltai per fronteggiarlo, decidendo che, se aveva tirato fuori quell’argomento, allora non avevo poi molto da temere. “Che cosa significa questo, adesso?” Sbottai, incrociando le braccia. Preferivo volgere l’imbarazzo in irritazione, era senza dubbio una reazione migliore.

Mi sorprese ancora di più il fatto di vederlo sorridere in un modo quasi compiaciuto e soddisfatto, come se avesse appena realizzato di avermi in pugno e ne fosse assolutamente contento. Non si avvicinò, rimanendo nel suo lato della cucina, ma questa mi sembrò improvvisamente troppo piccola.

“Significa che, se mi hai baciato malgrado conoscessi questi… retroscena… Vuol dire che ho ancora qualche speranza, e che probabilmente ti piaccio almeno un po’”, dichiarò con quella voce provocante, incatenandomi con il suo sguardo intenso.

Mi ritrovai a schiarirmi la voce e a scuotere il capo, cercando di scacciare  quell’odioso senso di imbarazzo – che diavolo, perché il mio corpo non mi dava retta e si comportava in modo più maturo? “È questa l’unica cosa importante, per te?” Sbottai, muovendo stizzita una mano per aria. “Il fatto che ti abbia baciato – no, aspetta, che tu mi abbia baciato? Non ti importa che io sia a conoscenza dei tuoi loschi traffici?”

Scrollò le spalle in un modo che poteva significare tutto o niente, sempre senza smettere di fissarmi. “Certo che mi importa, ma avevo già fatto i conti al riguardo. Avrei voluto essere io a dirtelo, in modo da poterti tranquillizzare, ma visto che già lo sai possiamo direttamente passare oltre e non perdere troppo tempo a rimuginarci su…”

Forse stavamo parlando di due cose diverse, mi ritrovai a pensare, allibita. Come faceva a stare così tranquillo? Si trattava di cose che facevano parte della sua quotidianità al punto da non ritenerle neppure abbastanza importanti da parlarne con me? Non so perché la cosa mi stava dando tutto quel fastidio – forse perché ritenevo di dover come minimo essere informata di quello che faceva, visto che voleva anche me nella sua vita – la cosa certa, comunque, era che volevo saperne di più in modo da poter dormire sonni tranquilli. Non mi sembrava di chiedere molto in fondo, no?

“Non ci stiamo capendo, Enrico”, replicai infatti, aggrottando le sopracciglia. “Okay, ci siamo baciati, ma questo non vuol dire che io non sia terrorizzata da quello che fai tu quando sei da solo o con i tuoi amici. Anzi. Ieri sera è stato inevitabile e sono d’accordo, anche io lo volevo, ma… Accidenti, non puoi davvero pensare che un misero bacio mi possa far dimenticare con chi ho a che fare! In qualsiasi modo si evolverà questa storia, sappi che io non posso stare insieme ad un delinquente”, dissi infine, riuscendo a chiamarlo con l’aggettivo che gli competeva.

Il sorriso era finalmente scomparso dal suo volto, e adesso mi guardava con serietà e senza più molta voglia di scherzare. Per un attimo temetti di aver detto troppo, ma alla fine mi sentivo meglio per essere riuscita a sfogarmi e dirgli ciò che pensavo, quindi qualunque fosse la sua reazione non avrei avuto nessun rammarico, se non altro. Magra consolazione.

“Quello che faccio non ha niente a che vedere con noi”, replicò con calma a voce bassa, come se stesse tentando di convincermi.

“Oh sì, invece!” Ribattei, interrompendolo. “Rischi costantemente la vita, credi che non lo sappia? Come potrei frequentarti sapendo che domani potresti essere in prigione o in cimitero?”

Forse la stavo facendo troppo drastica, ma se lui non capiva la gravità della situazione allora gliel’avrei mostrata io. Doveva esserci dentro da molto – forse da più tempo di quanto aveva detto Riccardo – se per lui tutto ciò non rappresentava quel grosso problema.

Lo vidi inarcare un sopracciglio e per un attimo le sue labbra si piegarono nell’accenno di un sorriso. “Sei preoccupata per me?” Chiese, sicuramente con l’intento di provocarmi.

Per tutta risposta roteai gli occhi, spazientita. “Mi sembra evidente!” Replicai, sorprendendolo. Beh, era ovvio che mi preoccupassi, in quegli ultimi due mesi avevo trascorso più tempo con lui che con la mia amica, e anche se il nostro rapporto non fosse mai andato più oltre di così – cosa di cui ero fermamente convinta – io mi ero affezionata, perlomeno come amico.

Scosse leggermente il capo e sospirò, come se non sapesse bene che cosa dire. “Senti, non hai nessun motivo di preoccuparti: è la mia vita, ci sono abituato, e so come gestire determinate situazioni”, esordì, parlando con un tono pacato e tranquillo. “Non devi temere per la mia vita, né tantomeno per la tua: ti terrò fuori da quello che di pericoloso c’è nei miei… affari, come li hai definiti, e noi potremo continuare a frequentarci come due persone normali. Davvero, non c’è niente di cui aver paura.”

“Questo lo dici tu”, ribattei a bassa voce, per niente convinta. Poi sospirai, decidendo che era meglio se per il momento cambiavamo argomento. “Dov’è la pasta?”

Sembrò preso alla sprovvista, ma durò solo un attimo. “Nello sportello in alto a destra”, disse, indicando un punto della cucina al mio fianco. Mi voltai e lo aprii, iniziando a frugare: se mi dedicavo a piccole azioni normali come cucinare, forse sarei riuscita a gestire meglio l’intera serata. Dovevo incrociare le dita.

Presi un pacco di spaghetti e richiusi lo sportello, mettendo il sale nell’acqua che ormai bolliva e attendendo un altro minuto prima di gettare la pasta; dietro di me sentivo il rumore di un coltello che tamburellava sul tagliere, e osai voltarmi leggermente per vedere che cosa stesse facendo. Sembrava strano vederlo tagliare l’insalata, ma alla fine dovetti ricordare che, malgrado tutto, era pur sempre un essere umano come tutti gli altri poveri mortali, e non aveva senso metterlo in chissà quale piedistallo solo perché io ne ero spaventata e attratta allo stesso tempo in modo piuttosto folle.

Potevo accettare di desiderarlo fisicamente, era una cosa alquanto normale visto che sembrava emanare sensualità come una lampadina emanava luce; ma perché la mia parte razionale non prendeva a schiaffi l’istinto, rimandandolo nella tana da dove era uscito? Enrico era pericoloso, questo era un dato di fatto: e non perché avrebbe potuto farmi del male – a quel punto questa era un’eventualità che non prendevo neanche in considerazione – ma perché se mi ci fossi legata troppo, così come avrebbe voluto lui, avrei rischiato di soffrire immensamente. Non sarebbe stato un rapporto sano, ecco, e non ero certa di volerlo.

“Parlami, Giulia, non chiuderti nei tuoi pensieri.” La sua voce mi giunse da un punto indefinito accanto al mio collo, facendomi sobbalzare, e quando mi voltai mi accorsi che mi era alle spalle, decisamente troppo vicino.

Ed era anche decisamente troppo bello. Anzi, era decisamente troppo tutto, e io continuavo a non capire perché si fosse fissato così tanto su di me; ma quello, a quanto pareva, era destinato a rimanere un mistero, e visto che risolverlo non avrebbe cambiato la situazione attuale, decisi di sorvolare.

“Dovresti avvisare prima di spuntarmi all’improvviso da dietro le spalle”, replicai senza rispondergli, sgusciando via da quella posizione e raggiungendo il frigorifero. “Dov’è il sugo?” Chiesi, controllando tra gli scaffali del frigo: c’era davvero parecchia roba, sicuramente lui e i suoi amici ci trascorrevano più tempo di quanto avessi immaginato in quella casa… Ah, già, dimenticavo: doveva essere il loro quartier generale.

“Non cambiare discorso”, ribatté lui, incrociando le braccia e poggiandosi alla credenza.

Scrollai le spalle con disinteresse. “Credevo che il discorso fosse finito”, risposi, prendendo il vasetto del ragù e richiudendo il frigorifero.

“Il discorso sarà finito quando non ci sarà più nulla da dire, e non mi sembra sia questo il caso”, replicò deciso, seguendo i miei movimenti con lo sguardo senza distrarsi nemmeno per un istante.

Sospirai, aprendo un altro sportello a caso e trovando un recipiente per la pasta. Iniziai a preparare il condimento senza rispondergli – visto che comunque non sapevo cos’altro dirgli – ma dato che lui sembrava non voler cedere alla fine decisi di accontentarlo. “Senti, non roviniamo la serata, va bene? Facciamo finta di niente, non abbiamo detto nulla, tutto come prima. Okay?” Provai, continuando a non guardarlo malgrado la sua presenza accanto a me non fosse per niente facile da ignorare.

“Voglio solo sapere che cosa stai pensando.”

Oh, mio caro, mettiti in fila. Lo voglio sapere io per prima…

“Non sto pensando niente”, replicai decisa, sperando che quel discorso finisse lì. “Apparecchiamo?”

In silenzio, tirò fuori da un cassetto una tovaglia e me la porse, continuando a fissarmi con quegli occhi verdi e terribilmente penetranti. Gliela presi dalle mani e andai verso il tavolo, sistemandola per bene e cercando di perdere del tempo per sistemarla con precisione negli angoli e ai bordi: lui continuava a guardarmi senza dire una parola, e non sapevo se questo era un buon segno o no.

“I piatti?” Chiesi, raggiungendolo nuovamente.

“Lascia, faccio io”, disse con un tono leggermente rassegnato, voltandosi e prendendoli dallo sportello sopra al lavandino. Forse ero riuscita a scamparla.

“Però non finisce qui.”

Forse no.

“Cosa vuoi dire? Non c’è nient’altro da aggiungere…” Replicai, avvicinandomi e prendendo i piatti dalle sue mani ostentando indifferenza. Li sistemai sulla tavola e mi voltai per prendere i bicchieri, ritrovandomi invece Enrico ad un passo da me che me li porgeva con uno strano sguardo sul viso. “Cosa ti ho detto sull’apparire così all’improvviso?” Borbottai, incrociando le braccia.

“Hai un talento magistrale nel riuscire a cambiare discorso, ma con me non attacca.” Ribatté prontamente, avanzando e costringendo me ad indietreggiare fino a farmi incontrare il bordo del tavolo e bloccarmi contro di esso. Le sue mani si allungarono per posare i bicchieri sul tavolo alle mie spalle e le lasciò poi ai lati del mio corpo, intrappolandomi e aderendo troppo con le sue gambe alle mie.

“Devo… Devo scolare la pasta”, tentai, cercando di non guardarlo troppo a lungo.

Emise uno sbuffo tra l’esasperato e il divertito che mi fece alzare gli occhi su di lui, perplessa. “Può aspettare, l’hai messa solo cinque minuti fa”, disse, chinando il capo verso di me e sussurrando a pochi centimetri dal mio viso. Oh, santo Cielo.

“Beh, però devo finire di apparecchiare”, continuai imperterrita, vedendolo roteare impaziente gli occhi.

“Non ammetterai mai di provare qualcosa per me, vero? Neanche se lo vedessi per iscritto.”

Stranamente riuscii ad emettere una risata abbastanza sarcastica, scuotendo la testa. “Questo perché non provo niente, per te”, mentii spudoratamente, puntandogli un dito sul petto e allontanandolo da me.

“Certo”, sorrise lui, seguendo il mio dito e indietreggiando. “E che mi dici del tuo bacio?”

Mi sforzai di non arrossire ma, senza uno specchio davanti, non potevo dire di esserci riuscita. “Punto primo, sei stato tu a baciarmi, e punto secondo… Di questi tempi un bacio non ha grandi significati.”

“Perché non ci credo?” Chiese retorico, permettendomi di muovermi. Scrollai le spalle e lo superai, raggiungendo nuovamente i fornelli e controllando la pasta.

“Non è un mio problema”, decretai decisa. Che cosa voleva, che ammettessi di essere attratta da lui? Ma neanche morta!

Lo sentii ridere e fu solo con un enorme sforzo di volontà che non mi voltai per guardarlo. “Oh, questo è davvero tutto da vedere!” Esclamò, e a giudicare dal rumore dei suoi passi doveva essersi avvicinato. Come al solito sobbalzai nel sentire il suo respiro sul collo, ma mi sforzai di ignorarlo.

“Uhm, che buon profumo…” Sussurrò a un centimetro dalla mia pelle.

“Non l’ho fatto io il sugo, non è merito mio”, risposi, mescolando la pasta.

La sua debole risatina mi fece venire i brividi. “Ma io non parlavo del sugo…”

Il mestolo cadde sui fornelli accanto alla pentola e nella furia di riprenderlo mi scottai con il metallo di quest’ultima. “Accidenti!” Sibilai, maledicendo lui, il mestolo e di nuovo lui. Si allontanò da me proprio quando mi voltai con l’intenzione di incenerirlo con lo sguardo, malgrado il rossore che doveva imporporarmi le guance non fosse proprio quel che si dice spaventoso. “Stammi lontano mentre cucino!”

Continuando a ridere sotto i baffi Enrico sollevò le mani in segno di resa, prima di finire di apparecchiare con quel sorrisetto idiota e beffardo sulle labbra. Dio, quelle labbra. Sbuffai, aggiungendo anche me stessa alla lista di cose da maledire.

Non avrei mai e poi mai dovuto accettare di venire a casa sua per cena.

 

 





























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AA - Angolo Autrice:
Ed eccomi ritornata per pubblicare l'ultimo capitolo del 2010! Spero che apprezziate il gesto, è il mio modo per concludere quest'anno in bellezza, per augurarvi in ritardo Buon Natale e in anticipo un Felice Anno Nuovo - insomma, per catturare parecchi piccioni con una fava xD
Ringrazio come sempre tutte coloro che mi seguono, sia silenziosamente, sia su facebook, sia recensendo pazientemente i vari capitoli! Siete dei tesori ragazze mie, non c'è che dire :) Dal prossimo capitolo (cioè, da questo) voglio inaugurare la nuova 'applicazione' di Efp che permette di rispondere direttamente alle recensioni, così vi ringrazierò in tempo reale *__*
Di nuovo, un bacio, un abbraccio e un Felice Anno Nuovo dalla vostra Giulia! :D Divertitevi e bevete responsabilmente, mi raccomando ;)
Ci sentiamo alla prossima! :* Vostra,
GiulyRedRose.

 

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Capitolo 25
*** Capitolo XXV. ***


Capitolo XXV

 

 


















 

Cenammo in un’atmosfera che aveva davvero del surreale.

Da parte mia non capivo in che modo riuscisse a emanare sensualità anche mentre mangiava, alternando ad ogni boccone una lunga occhiata nella mia direzione. Aveva inoltre acceso lo stereo per stemperare un po’ i vuoti silenziosi, dal quale si erano sparse delle note delicate che ci accompagnarono durante la cena. Tutto sommato, dopo i primi minuti imbarazzati riuscii a intavolare una conversazione che non fosse troppo intima e pericolosa, e che Enrico seguì volentieri. Stranamente riuscimmo a non parlare più di assassini, droga, mafia o chissà cos’altro, ma sapevo benissimo che il discorso non era stato chiuso – attendeva in un angolo, come un leone acquattato in attesa del momento giusto per balzare fuori e colpire la sua preda.

Non finisce qui, aveva detto anche lui. Non potevo che dargli ragione…

Dopo cena lo aiutai a sparecchiare ignorando le sue proteste – in quanto ospite, secondo lui, sarei dovuta restare seduta senza alzare un dito – ma non volle sentire ragioni per quanto riguardava il caffè, e non me lo lasciò preparare. Con un sospiro, mi sedetti ad uno degli sgabelli della penisola della cucina, poggiando il mento sul palmo della mia mano e osservandolo mentre combatteva con la macchinetta del caffè.

Il vero problema di Enrico era che, vita da delinquente a parte, lui poteva essere benissimo l’uomo perfetto, il principe azzurro, il fidanzato che ogni ragazza sogna di avere, un giorno. No, rettifico: quello era il mio vero problema, dato che avevo ancora parecchie riserve su di lui. Va bene, non negavo di esserne attratta: e neppure che mi piacesse, un filino. E mi sarebbe piaciuto poter credere di riuscire a redimerlo, portarlo via da quel genere di vita – insomma, comportarmi come una delle eroine di quei romanzi harmony che adoravo leggere nel tempo libero. Ma purtroppo, a diciotto anni suonati, sapevo che c’era molta, forse anche troppa differenza tra la vita immaginaria, fittizia di quelle protagoniste innamorate e quella vera, dove io, volente o nolente, mi ritrovavo a vivere. Chi non sogna una vita da commedia americana, con lieto fine annesso?

Comunque, per il momento non volevo pensarci. In fondo avrei anche potuto farmi bastare l’attrazione che provavo nei suoi confronti per cedere e mettermi insieme a lui, no? Almeno per i primi tempi sarebbe bastato quello. Dopotutto le persone non si fidanzano perché sono ciecamente innamorate, ma perché trovano bella e interessante l’altra persona, abbastanza per giustificare questa scelta; non credevo particolarmente nel colpo di fulmine, quella era roba da film e romanzi rosa. L’affetto o l’amore, nella realtà, viene col tempo, se la situazione regge e sembra durare più del previsto. Dunque, perché io non avrei dovuto fare lo stesso?

Ve lo dico io, il perché. Perché non era quello che volevo per me, perché non era così che me lo immaginavo e perché, malgrado tutte le mie belle parole ciniche e realiste, io aspettavo davvero il vero amore, o perlomeno qualcosa che ci andasse vicino. E mi sarebbe piaciuto fidanzarmi con qualcuno di cui sarei stata davvero innamorata, qualcuno che mi avrebbe fatto battere il cuore semplicemente standomi accanto e che, magari, non mi avrebbe imposto la sua presenza ma avrebbe aspettato pazientemente che io mi abituassi e che la desiderassi davvero. E invece eccomi lì, intrappolata in quella situazione con Enrico senza alcuna apparente via di scampo. Che cosa diavolo ci si aspettava che facessi?

“Ecco il tuo caffè”, disse il protagonista dei miei cupi pensieri, posando davanti a me una tazzina di caffè nero e bollente. “Quanto zucchero?”

Mi riscossi rapidamente, sollevando gli occhi su di lui e sbattendo le palpebre per tornare alla realtà. Svegliati Giulia che la guerra è finita! “Ah, sì, due cucchiaini”, risposi, raddrizzandomi e schiarendomi la voce.

Le sue labbra si stesero in un sorriso, mentre versava lo zucchero nel mio caffè. “Oh, ti piace molto dolce, eh? Chissà perché l’avevo immaginato…” Aggiunse con voce suadente, sedendosi sullo sgabello di fronte a me. Osservai quanto zucchero ci metteva lui, e storsi appena il naso nel vedere che ne versava appena mezzo cucchiaino, giusto un assaggio.

“A te invece piace molto amaro, vedo. Anch’io l’avevo immaginato”, ribattei, decisa a non voler perdere più nessuna piccola battaglia verbale. Se mi provocava, avrei iniziato volentieri a comportami allo stesso modo.

Gli sfuggì una risatina, prima che arricciasse le labbra – santo cielo! – e mi guardasse piegando la testa di lato, come se avesse voluto studiarmi con attenzione. “Ma io non sono amaro”, obiettò, con l’aria di un bambino appena rimproverato dalla madre.

Borbottai qualcosa di incomprensibile con un tono piuttosto scettico, mentre giravo il cucchiaino nella tazza e osservavo il nero e fumante caffè come se fossi ipnotizzata dal movimento circolare che faceva la bevanda. Bisognava sempre vedere tutti i punti di vista, d'altronde a me piaceva il cioccolato fondente che era piuttosto amaro, no?, quindi non credevo che fosse un male che lo fosse anche lui. Questa riflessione, comunque, vidi bene di tenerla per me.

Sorseggiai il caffè cercando di non incrociare lo sguardo di Enrico, comportandomi davvero in modo infantile. Posai nuovamente la tazzina sul piattino e passai leggermente la lingua sulle labbra per portar via il sapore del caffè, osservando un punto imprecisato sul tavolo sovrappensiero. Avevo così tanti pensieri per la mente che non mi sembra il caso di ripeterli nuovamente, erano sempre gli stessi espressi con altre parole. Mi sfuggì un sospiro che non riuscii a soffocare.

“Vorrei baciarti.”

I miei occhi saettarono su di lui e contemporaneamente mi sentii le guance in fiamme. “Cosa?” Balbettai imbarazzata; non poteva dire cose del genere all’improvviso e con quel tono, santo cielo!

Vidi le sue labbra arcuarsi in un sorriso malizioso, mentre posava il mento sul palmo della mano e mi osservava quasi bramoso. “Ho detto che vorrei baciarti”, ripeté senza alcun riserbo. Perché lui sembrava sempre così tranquillo e a suo agio, anche quando il mio cuore voleva saltare fuori dalla mia gabbia toracica e darsela a gambe?

Cercai di riprendermi e trovare una risposta abbastanza pungente da metterlo a tacere, ma non era facile con lui che mi guardava in quel modo. “Sì, beh, anche io vorrei una collana di diamanti ma non è detto che la possa avere…” Replicai poco convinta, aggrottando le sopracciglia.

Enrico non si lasciò intimidire e il suo sorriso si accentuò ancora; si sollevò sullo sgabello, posando le mani sul ripiano della penisola per mantenersi in equilibrio e si chinò veloce verso di me, avvicinandosi pericolosamente alle mie labbra. “Potrei regalartela per Natale, chi lo sa”, mormorò suadente, prima di coprire la mia bocca con la sua.

Mi ritrovai a chiudere gli occhi e socchiudere le labbra come se non stessi aspettando altro, sporgendomi verso di lui e facendo aderire meglio le nostre bocche. Gemetti appena quando la punta della sua lingua accarezzò maliziosa il mio labbro inferiore prima che iniziasse a mordicchiarlo piano, con insolita prudenza, come se temesse di esagerare e allontanarmi di nuovo da lui. Maledissi per un istante il mio corpo che contraddiceva le mie convinzioni ragionate e inattaccabili, ma fu una protesta troppo effimera che evaporò del tutto quando la sua lingua si insinuò tra le mie labbra, andando alla ricerca della mia.

Le mie mani cercarono alla cieca le sue, per poi giocherellare con le sue dita fino a intrecciarle alle mie, cercando di trattenermi dall’immergergliele tra i capelli. Sollevai il viso per andargli incontro e approfondire meglio il bacio, chiudendo gli occhi – forse per fingere che non fosse lui a baciarmi, ma malgrado tutto mi resi conto di non aver nessun altro in mente con cui avrei voluto sostituirlo. Cercai di ignorare i feroci battiti del mio cuore – speravo che lui non potesse sentirli – e mi rilassai solo quando la sua bocca mi diede un po’ di tregua, allontanandosi da me quel tanto che bastava per lasciarmi respirare.

“Sai di caffè”, disse piano, con una strana vena intenerita nel tono. Lo vidi leccarsi impercettibilmente le labbra, ma eravamo troppo vicini perché io non notassi quel gesto; così, arrossii per l’ennesima volta. Stava iniziando a diventare un’abitudine.

 

 

“Parlami di tua madre.”

Dopo il famoso caffè ci eravamo spostati sul divano, pur senza metterci eccessivamente comodi; eravamo seduti ai lati opposti del sofà che comunque era piccolo, ma non mi sembrava il caso di abbracciarlo o sdraiarmi contro di lui o altre posizioni simili. Insomma, eravamo abbastanza vicini da giustificare quanto appena successo ma abbastanza lontani da non implicare eccessivi risvolti amorosi. Ormai non sapevo più come comportarmi – mi sentivo pericolosamente vicina allo scacco matto, e il re in pericolo non era di certo il suo – ma rimanevo comunque dell’idea che avrei dovuto andarci con i piedi di piombo, in qualsiasi modo si sarebbe evoluta l’intera situazione. Avevo pensato che chiedergli qualcosa di lui, qualcosa che non riguardasse la sua attività, sarebbe potuto essere un buon modo per fare conversazione e conoscerlo un po’ di più, e visto che quella domanda mi perseguitava dal momento stesso in cui me ne aveva parlato, mi sembrò normale affrontare il discorso.

Probabilmente fu il tono quasi dolce con cui glielo avevo chiesto a farlo sorridere in quel modo, ma fu un sorriso debole che non aveva la carica maliziosa di quelli che ero abituata a vedere e che svanì fin troppo rapidamente. Compresi che forse avevo esagerato con quella domanda, non volevo metterlo in difficoltà e quello doveva essere un tasto dolente, per cui malgrado l’imbarazzo cercai di porvi rimedio.

“Scusa, Enrico, forse non è il caso… Lasciamo perdere,” aggiunsi esitante, indecisa se allungare una mano verso di lui o meno.

Lui scosse la testa e decise al posto mio, sporgendosi verso di me e prendendo la mia mano per stringerla, massaggiandone il dorso con il pollice e accennando l’ennesimo sorriso. “No, puoi chiedermi tutto quello che vuoi”, ribatté con un tono di voce pacato, senza guardarmi. “È che non parlo molto spesso di lei; con mio padre è fuori questione affrontare certi discorsi, e con Betta non oso neanche perché non voglio che fraintenda le mie parole. E per quanto riguarda i ragazzi, beh, non posso di certo farmi vedere debole.”

Stavo già per ribattere a quell’ultima affermazione, quando la sua espressione mi fece chiaramente capire che stava scherzando; così scossi appena la testa e cercai di ricambiare il suo sorriso, avvicinandomi di più a lui fin quando le nostre gambe non si toccarono – a quel punto non potei che ringraziare silenziosamente il cielo per avermi fatto indossare i pantaloni. Erano se non altro una garanzia.

“Se ne vuoi parlare, io ti ascolto”, gli proposi gentilmente, scambiando i ruoli delle nostre mani e ritrovandomi ad essere io ad accarezzare la sua. Lui la strinse e io mi misi comoda, permettendogli di aggrapparsi alle mie dita come avrebbe fatto un naufrago perso in mezzo alla tempesta; probabilmente anche lui era perso, in balia di quei ricordi che l’avevo costretto a rispolverare. Il minimo che potessi fare era offrirgli metaforicamente la mia spalla, nello stesso modo in cui mi aveva consolato lui quando era morto mio nonno. Solo, mi chiedevo se sarei stata così disponibile e comprensiva nei suoi confronti anche se non ci fossimo mai baciati; chi poteva saperlo?

Enrico annuì appena, come se stesse raccogliendo i pensieri.

“Mia madre è morta a causa di un tumore; un cancro al fegato”, esordì di punto in bianco, con un cambio di tono così repentino da farmi sobbalzare sul divano. Dopodiché iniziò a raccontare senza quasi riprendere più fiato, come un fiume in piena – come se avesse atteso anni e anni prima di parlare di questa cosa e adesso non gli sembrava vero di potersi confidare con qualcun altro. Come aveva fatto a tenersi dentro quel dolore per tutto quel tempo?

“Aveva un cancro al fegato impossibile da operare, così l’unica soluzione proposta dai medici era stata la chemioterapia; le aveva dato tutti gli effetti collaterali possibili, ma tutto sommato era sembrato funzionare. Neanche cinque mesi dopo, però, gli ultimi esami del sangue che mia madre faceva periodicamente risultarono essere di nuovo compromessi; eravamo sotto Natale, per cui mamma preferì rimandare l’inizio della nuova terapia a dopo le feste. In quel periodo si indebolì parecchio, così al primo ciclo di chemio si sentì molto male e rimase ricoverata in ospedale per oltre due settimane. Andai a farle visita poche volte, ero piccolo e mio padre non voleva che la vedessi in quelle condizioni; non so cosa pensare di questo, so solo che adesso rimpiango di non aver potuto trascorrere anche quei giorni al suo fianco. Andò avanti così per oltre un anno; mia madre faceva in continuazione la spola da casa all’ospedale, era sempre più debole, e a volte i dottori erano costretti a posticipare la terapia per permetterle di riprendersi tra un ciclo e l’altro, anche se poi a quello successivo i problemi si ripresentavano.

“Sai, il brutto delle malattie che colpiscono il fegato è che influiscono anche sull’umore; puoi immaginare quindi che cosa potesse fare un cancro simile. Era sempre arrabbiata, scattava per un nonnulla, si offendeva e non riusciva ad essere dolce neanche con me; purtroppo non ho conservato molti bei ricordi di mia madre, proprio a causa di questo periodo – credevo che avesse smesso addirittura di volermi bene”, aggiunse abbassando ancora di più la voce, con una punta di rammarico. La sua mano strinse la mia con forza ma non mi lamentai, ormai del tutto immersa nel suo racconto e nel suo dolore; non riuscivo neppure a concepire una cosa simile, immaginare mia madre in quella situazione… Mi faceva male solo il pensiero.

“È morta senza che io riuscissi a dirle una volta sola quanto… Quanto fosse importante, per me”, continuò in un mormorio che mi straziò il cuore. Sollevò la mano libera a massaggiarsi e stringersi le tempie, con un gemito misto ad un sospiro che mi spinse ad avvicinarmi di più a lui.

Non sapevo che cosa dire; d’altronde, che parole potevano esserci per cercare di consolare una simile sofferenza? Adesso capivo perché Enrico non mi aveva mai raccontato nulla di tutto questo; primo, non avevamo ancora un rapporto tale che giustificasse una simile intimità, e secondo, probabilmente aveva ragione lui quando mi aveva spiegato che avrei potuto cambiare il modo di vederlo e di rapportarmi a lui, se l’avessi saputo. Non voleva che iniziassi ad uscire con lui per pietà, e come dargli torto? Malgrado tutto, adesso mi accorgevo che mi sarebbe dispiaciuto da morire se non gli avessi dato neppure quella piccola possibilità.

In quel momento, per la prima volta, mi sentii sola – fu come un’improvvisa e inattesa presa di coscienza di ciò che mi circondava.

Non era il tipo di solitudine triste e devastante di chi non ha nessuno, ma piuttosto quella pacata, rilassante, quasi confortevole di chi è in pace con se stesso e non ha paura di esserlo. Fino a quel momento avevo sempre contato molto su Alessandra e i miei amici, sui miei genitori, sulla mia famiglia, ma ora mi rendevo conto di essere completa, di non aver bisogno dell’approvazione di chicchessia o di chiedere il permesso alla mia migliore amica per frequentare qualcuno – cosa che, di fatto, era accaduta fino a quel momento. E in tutta quella completezza, in questo nuovo stadio delle cose, potevo essere abbastanza forte da gestire tutta la faccenda-Enrico – da gestirla da sola.

Anche se continuavo ad essere dell’idea che fosse improbabile che riuscissi ad amarlo quanto, invece, sembrava amarmi lui, niente mi impediva di continuare a frequentarlo. In fondo poteva diventare un capitolo interessante della mia vita, qualcosa che, negli anni a venire, avrei ricordato con un certo divertito piacere.

 

 

 

Mi riaccompagnò a casa molto più tardi – erano quasi le due e mezzo del mattino.

Dopo quella breve parentesi sul suo dolore, avevo cercato di tirargli su il morale e a quanto pare ci ero riuscita, così ci siamo trovati a bere vodka alla fragola nella biblioteca mentre giocavamo a carte e parlavamo del più e del meno. Non avevo mai riso tanto in sua compagnia – ma non voglio essere così ipocrita da attribuire la colpa della mia allegria all’alcool, anche perché lo reggo piuttosto bene – e anche se sia Ale che il resto della cricca potevano pensare che non era possibile trascorrere quasi sette ore a casa di un ragazzo, di notte, senza andarci a letto, quello era esattamente ciò che era successo.

Sul fatto che Enrico fosse un gentiluomo, da quel punto di vista, non si discuteva.

Per quanto di tanto in tanto l’avessi scorto ad osservarmi in un modo non del tutto amichevole, non aveva cercato di provarci neppure quando lo avevo abbracciato, dopo che si era confidato con me. Rispettava le mie convinzioni – anche se non le condivideva – e sembrava essersi rassegnato al fatto che io, per il momento, potessi concedergli solo baci e carezze. Cosa che invece non aveva fatto Matteo, il cui maldestro tentativo di approccio nei miei confronti si era rivelato essere un fallimento su tutti i fronti e aveva, oltretutto, rovinato sia la nostra amicizia che il clima del nostro bel gruppo.

Avevamo appena finito di ridere dopo il mio ennesimo aneddoto riguardo le avventure di quando ero piccola; ormai le avevo inventate tutte pur di risollevargli l’umore, e in fondo non trovavo ci fosse qualcosa di imbarazzante nelle bambinate che avevo combinato negli anni precedenti e subito successivi alla nascita di mia sorella – e Enrico d’altra parte sembrava trovare fin troppo divertente l’idea del terremoto che ero stata un tempo per non approfittare dell’occasione di rivederlo sorridere. L’atmosfera tetra che c’era stata a casa sa si era quindi diradata, permettendoci di concludere la nostra uscita in bellezza.

Parcheggiò dietro l’auto di mia madre e spense il motore, mentre l’eco delle risate si spegneva nell’abitacolo che veniva lentamente invaso dall’oscurità; solo il lampioncino crepuscolare che mio padre aveva installato nel parcheggio ci permetteva di vedere ancora parte dei nostri volti.

“Allora… Grazie della bella serata”, disse alla fine Enrico, incerto – suppongo – su come salutarmi.

Decisi di levargli l’impiccio di dover anche pensare a qualcosa che non mi ‘offendesse’ eccessivamente, visto che non mi sembrava il caso di continuare con quella specie di messinscena. “Grazie a te della cena, era tutto ottimo”, replicai con un sorrisetto rilassato mentre cercavo di sganciare la cintura difettosa.

Lo vidi inarcare un sopracciglio nella penombra della macchina. “Ma se in pratica hai cucinato tutto tu!” Ribatté fingendosi contrariato.

“Lo so, appunto”, ribadii ostentando un tono di falsa modestia.

La sua ennesima risatina mi lasciò talmente compiaciuta che mi ritrovai a sbattere le palpebre, perplessa per quella piega che aveva preso l’intera faccenda e che un tempo avrei catalogato senza pensarci due volte come indesiderata. Si trattava di una piega decisamente troppo intima e disinvolta, che ero certa mi avrebbe fatto rimuginare come un’anima in pena per il resto della nottata. E del giorno dopo. E di quello successivo…

“Bacio della buonanotte?” Chiese, imbronciando le labbra e atteggiando gli occhi in quello che comunemente si definirebbe uno sguardo da cucciolo bastonato.

Fu il mio turno di ridacchiare, scuotendo appena la testa. “Con tutti i baci della buonanotte che ti sei fatto dare stasera, potresti andare a dormire tranquillo per i prossimi due mesi”, risposi, mostrandomi tutta impegnata nell’infilare la giacca per nascondergli un sorrisetto.

“E dai, non essere antipatica. Ho messo un tetto sulla tua testa, ti ho nutrita…” Iniziò, elencando i suoi gesti di buon Samaritano sulla punta delle dita e inarcando le sopracciglia con fare compito.

“Mi hai fatto quasi ubriacare…” Aggiunsi sul suo stesso tono, prendendolo in giro.

A quella risposta si mostrò indignato. “Non è colpa mia se ti piacciono gli ammazzacaffè!”

Risi ancora, voltandomi completamente contro di lui e poggiando comodamente la spalla contro lo schienale del sedile. “Dimmi che non stiamo facendo tutto questa storia solo per un bacio”, scherzai, storcendo il naso.

“No, non per un bacio. Almeno per cinque”, precisò serio.

“Da quando in qua sono diventati cinque?”

“È l’inflazione, tesoro. Dai, dammi un bacio…” Insisté, sporgendo tutto il busto in avanti con un sorrisetto sensuale al quale era impossibile resistere anche volendo – e io avevo già resistito abbastanza. Non mi ero accorta che anche lui si fosse tolto la cintura, la qual cosa lo rendeva più libero e fluido nei movimenti. Arricciai le labbra come una bambina e sfiorai le sue labbra con le mie con un bacetto casto e schiocco enfatizzato, che tuttavia non lo soddisfò come speravo. Dischiuse solo un occhio per ammonirmi e sollevò una mano insinuandola tra i miei capelli, approfittando di quella presa delicata per avvicinarmi a sé e prendere definitivamente il controllo della mia bocca. La sua lingua ne seguì il contorno con studiata lentezza, cosa che mi fece socchiudere le labbra per assaporarlo meglio e permettergli inconsciamente di approfondire il contatto – cosa che non si fece ripetere. Ad ogni affondo nella mia bocca si staccava appena per sospirare, a mezza voce, un numero: come promesso al cinque si ritrasse, proprio quando io invece avevo iniziato a prenderci gusto.

“Non c’è cinque senza sei”, borbottai senza senso, afferrando il bavero della sua camicia e strattonandolo per tirarlo di nuovo contro di me. Mi fermai soltanto quando sentii le sue dita insinuarsi dentro la giacca e al di sotto della maglietta, a contatto con il fianco nudo: il contatto della sua pelle gelida contro la mia, bollente, mi fece rabbrividire e mi riportò con i piedi per terra, facendomi staccare quasi con la forza da lui e strappandogli di conseguenza un brontolio contrariato.

“Okay. Vado. Buonanotte”, balbettai, indietreggiando verso lo sportello e afferrando alla cieca la levetta che l’avrebbe aperto. Una volta fuori dalla macchina mi ritrovai a barcollare appena sui tacchi, disabituata quasi a stare in equilibrio sulle mie gambe, e mi allontanai verso la veranda di casa mia mentre sentivo Enrico accendere il motore e fare manovra per uscire dal vialetto di casa. Rimasi a guardarlo appoggiata ad un pilastro fin quando non vidi i fari posteriori dell’auto sparire dietro l’angolo, e quando ciò accadde sentii uno strano fremito lungo la schiena e nel basso ventre, nonché un senso di vuoto all’altezza del petto.

Poteva essere un gentiluomo e tutto il resto, ma non dovevo dimenticare che era pur sempre un uomo giovane con i suoi bisogni e i suoi desideri: fino a quando avrei potuto tirare la corda, con lui? Non mi sentivo ancora pronta per quel passo, volevo essere sicura, volevo esserne certa, volevo avere la sicurezza che non me ne sarei pentita dopo… Oh, diavolo.

La verità era che io non la volevo una relazione seria con un delinquente, e se ci fossi andata a letto questo era proprio ciò che avrei ottenuto. Ma la parte peggiore di tutto questo – che io non sopportavo – riguardava senza dubbio il fatto che Enrico mi stesse facendo cambiare idea al riguardo!
































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AA - Angolo Autrice:
Pubblico questo capitolo praticamente senza rileggerlo, perchè se lo facessi non lo pubblicherei più visto che non ne sono soddisfatta, dunque non ho controllato se ci sono incongruenze o grossi errori grammaticali; abbiate pietà.
Arrivo ad aggiornare con un ritardo talmente terribile che, se scrivessi per lavoro, sicuramente sarei già licenziata già da tempo e questa non sarebbe una cosa da scrivere tra le mie credenzialità. Vi chiedo immensamente scusa, ma sappiate che non mi sono "grattata" in tutto questo tempo, ma ho avuto i miei buoni motivi per assentarmi dagli schermi - anche se avrei preferito di gran lunga non averli. Comunque non è qualcosa su cui vi voglio tediare, perciò amici come prima e facciamo finta di niente! ;D

Passando alla storia. Probabilmente visto l'attesa che avete dovuto sopportare vi sareste aspettate un capitolo lungo chilometri, pieno zeppo di colpi di scena (o perlomeno di tanto sesso) e mi rincresce davvero avervi dovuto deludere anche stavolta. Non so se per il sesso siamo lontani o vicini, e non ve lo so dire neppure per i colpi di scena, ma posso assicuravi che cercherò di non far mancare nè l'uno nè gli altri! xD Al momento godetevi questo ennesimo capitolo di passaggio (dove, spero, la nostra protagonista sia riuscita ad aprire un po' di più gli occhi e il cuore ad Enrico - alle gambe penseremo poi - oggi sono in fase zozza, scusatemi!) in attesa dell'altro che, devo ammettere, non ho ancora iniziato a scriverlo e pertanto non posso promettervi che ci sarà presto. Comunque cercherò di fare il possibile per muovermi!
Adesso vi saluto, scappo dalla folla inferocita che credo si sia formata al di là dello schermo, vi saluto con un bacio per ammansirvi e - spero - ci sentiamo presto!

PS: Per qualche astruso motivo a me ignoto, la casella di posta di EFP non mi funziona molto bene, per cui ricevo in ritardo mail e risposte e finisco per sembrare maleducata. Proprio ieri ho ricevuto una mail risalente a settembre, per cui... Se volete scrivermi, chiedermi qualcosa, o semplicemente per incitarmi ad accelerare nel pubblicare i miei aggiornamenti (xD) potete contattarmi tranquillamente su Faccialibro!

Di nuovo con affetto, vostra
Niglia.

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Capitolo 26
*** Capitolo XXVI. ***


Capitolo XXVI

 











 

 

 

 

 

Se qualcosa può andar male, lo farà.

[Primo Assioma della Legge di Murphy]

 

Mi faceva piacere che la relazione di Alessandra con il suo Riccardo stesse procedendo a gonfie vele. In uno dei pochi momenti liberi che avevamo entrambe, e che eravamo riuscite a far coincidere, la mia amica mi aveva raccontato con una buona dose di imbarazzo, felicità ed esultanza di aver risolto già da qualche settimana il “problema-prima-volta”, ma d’altronde lei il suo ragazzo lo amava, quindi io continuavo a non riuscire ad applicare quella soluzione alle mie attuali circostanze.

Per cui adesso rimanevo solo io quella con un’attività sessuale pari allo zero virgola zero. Non che per me fosse un grande problema; anzi, a dir la verità non occupava neppure uno dei primi dieci punti nella lista delle mie priorità – credo piuttosto che si trovasse tra il terzultimo e il penultimo. Adesso, trovavo più urgente il dovermi preoccupare dell’imminente rientro a scuola e dell’imminente esame di teoria della patente.

Nel riprendere in mano i miei libri, avevo avuto una strana sensazione di estraneità che in un primo momento mi aveva lasciata piuttosto disorientata; pensare di dover studiare normalmente come una qualsiasi diciottenne che si appresta a frequentare il suo ultimo anno del liceo stonava terribilmente con tutto quello che avevo affrontato fino a quel momento, e cioè, rispettivamente: un rapimento, un ostinato “corteggiatore” che per hobby spacciava, minacciava e – per quel poco che ne sapevo io – possedeva una pistola, la morte di mio nonno… Tutte le mie disavventure estive mi avevano destabilizzato non poco, dunque non si poteva certo pretendere che avessi la mente abbastanza libera e serena per poterla dedicare a un banalissimo studio.

Ad ogni modo, questo fu invece esattamente ciò che accadde.

Mia madre sembrò aver compreso alla perfezione il mio furioso dibattito interiore, forse perché negli ormai pochi momenti che trascorrevo a casa nell’illusione di non avere problemi, mi ritrovavo a gironzolare su e giù come un’anima in pena, senza, come diceva lei, “trovare un posto dove fare l’uovo”, dato che il mio nervosismo crescente mi impediva di rimanere ferma per più di cinque minuti nello stesso punto. Una mattina mi prese quindi da una parte e mi fece uno di quei discorsetti che si suppone le madri facciano alle loro figlie fidanzate ma con ancora l’impegno dello studio.

Non ripeterò parola per parola tutto quello che mi disse, perché quando mia madre iniziava una delle sue arringhe potevano trascorrere delle ore. Il succo dell’intero discorso, comunque, riguardava il fatto che lei non voleva in nessun modo che il mio “fidanzatino” – Dio, sì, furono proprio queste le sue parole – mi distraesse da cose più importanti come la scuola; insomma, era stata giovane anche lei, capiva che cosa succedeva quando la mente e gli occhi vedevano cuori dappertutto – sinceramente non avevo saputo come ribattere al riguardo, anche perché più che cuori io iniziavo a vedere dei teschi con le tibie incrociate sotto – e non mi rimproverava per questo. Tuttavia, non dovevo dimenticare che quest’anno avrei avuto l’esame di maturità, e per questo non potevo permettermi in alcun modo di distrarmi e dimenticare le mie priorità – giusto per tornare a quanto detto poco sopra; continuò asserendo che le sarebbe dispiaciuto se anche io avessi fatto il suo stesso errore, vale a dire perdere un anno di scuola e venire bocciata perché era stata troppo presa da mio padre.

Concluse il tutto dicendo che non metteva in dubbio la mia intelligenza, e che sapeva benissimo che io ero una ragazza con la testa sulle spalle – ciò nonostante, non poté trattenersi dal minacciarmi velatamente di impedirmi di vedere Enrico qualora i miei rendimenti scolastici iniziassero a scarseggiare. Ammetto che vidi in questo avvertimento un modo per fuggire impunemente dal mio Problema Numero Uno, ma così facendo avrei dovuto andare male a scuola eccetera pregiudicandomi gli esiti finali del Problema Numero Due.

Odiavo dover essere obbligata a scegliere tra i due mali minori.

Comunque il discorso con mia madre mi aveva aperto gli occhi e riportata con i piedi ben saldi per terra; avrei dovuto essere capace – o perlomeno avrei dovuto provarci – di far coesistere entrambi i Problemi nella mia vita senza che l’uno compromettesse l’altro. Detta così poteva anche sembrare fattibile, ma restava da vedere se la pratica fosse davvero semplice quanto la teoria lasciava intendere.

Avevo preso, dunque, l’importante decisione di mettermi con il sedere sulla sedia e riprendere a studiare, quando naturalmente dovette accadere qualcos’altro che mi facesse passare la voglia di farlo.

Di solito, o perlomeno da quando il nostro rapporto si era stretto ulteriormente, io e Enrico ci sentivamo parecchio; se non ci scambiavamo messaggi ventiquattrore su ventiquattro ci andavamo comunque molto vicini, e almeno un sms ogni sessanta minuti avvisava l’altro che tutto andava bene. In effetti messa così suonava un po’ paranoica e, beh, lo era, ma se non gli rispondevo correvo il rischio che lui andasse di matto – a meno che, ovviamente, non gli dicessi che avevo roba da fare – cose da studiare, ad esempio – e allora mi lasciava tranquilla. Salvo poi farsi risentire più tardi.

Ecco, il giorno non si fece proprio sentire. Era una domenica mattina come tante altre, per cui, anche se non mi aveva mandato il “messaggio del buongiorno”, non ci feci molto caso – magari stava ancora dormendo, la notte precedente era uscito con i suoi amici e per quanto ne potevo sapere io aveva fatto le ore piccole insieme a loro. Tuttavia, non si svegliò neppure a mezzogiorno, né nel primo pomeriggio, e neppure la sera; arrivata all’ora di cena, devo ammettere di essere stata parecchio preoccupata e anche in leggera agitazione. E non perché volessi tenerlo sotto controllo, santo Cielo, non mi chiamavo Enrico, ma molto semplicemente perché un simile silenzio, considerando che non ci vedevamo da due giorni – da venerdì – non era da lui.

Così, invece di studiare come mi ero proposta di fare, trascorsi l’intera giornata di lunedì a pensare e ripensare a cosa potesse essergli successo, tormentandomi all’idea che c’entrasse la sua seconda vita, senza tuttavia avere il coraggio di mandargli un messaggio per prima. Chiedere consiglio ad Alessandra era fuori discussione; mi sembrava già di vedere la sua espressione scioccata mentre mi chiedeva, gentilmente, se fossi per caso impazzita. Da quando mi preoccupavo per il mio stalker personale? Da quando eravamo diventati ancora più intimi, all’incirca una settimana prima, quando aveva abbassato tutte le sue difese per parlarmi della madre. Non so se era dovuto all’istinto da infermiera che possiedono quasi tutte le donne, e che consiste nel sentirsi stringere il cuore per gli uomini che hanno bisogno di noi; quale che fosse la ragione, ero preoccupata e il mio orgoglio poteva benissimo andare a farsi benedire.

Non fu facile giungere a quella conclusione, lo ammetto, ma visto che neppure nella giornata di lunedì Enrico si era fatto sentire decisi di farmi accompagnare a casa sua per vedere di persona come stava o, eventualmente, chiedere ai suoi genitori. Una cosa da fidanzati, insomma. Oh, Dio!

Personalmente non avevo idea di dove abitasse, ma mio padre per fortuna sì. L’avevo visto aggrottare appena le sopracciglia quando aveva capito che volessi essere accompagnata a casa degli Occhi Belli – ormai si era informato sulle prime tre generazioni dei D’Angelo, conosceva perfettamente la loro reputazione, tanto per essere chiari, ma era dell’idea che i figli non dovessero essere pregiudicati dalle azioni dei parenti che li avevano preceduti; era chiaro che non fosse a conoscenza degli “hobby” di Enrico, ed io, da parte mia, non avevo nessuna intenzione di illuminarlo al riguardo.

Per chissà quale grazia della buona sorte, almeno lui si astenne dal farmi la paternale durante il breve viaggio in macchina; e solo quando parcheggiò sotto quella che, come mi disse, era casa Occhi Belli, mi fece notare che mi stavo presentando a casa del mio ragazzo – non feci nulla per smentirlo – a mani vuote. A dir la verità non mi era neppure passato per la mente che potessi come minimo portare dei pasticcini per la sua matrigna o suo padre, dato che il mio unico pensiero era quello di accertarmi che Enrico stesse abbastanza bene da poter sopportare la mia strigliata.

“Ero troppo preoccupata per pensare ai cioccolatini, pà”, fu quello che gli dissi, riuscendo per una volta a sfruttare quella situazione e volgerla a mio vantaggio. “Magari glieli porto domani.”

Tamburellando sul volante al ritmo della musica proveniente dalla radio, mio padre annuì. “Okay. Chiama quando vuoi andare via, non farti invitare a cena già il primo giorno che vai a casa sua”, ritenne necessario precisare. Di certo era il mio ultimo pensiero quello di sedermi a tavola con i suoi genitori come se fossimo stati un’allegra famiglia felice… Mi venivano i brividi semplicemente nell’immaginarla, una simile visione alla Mulino Bianco.

“Tranquillo, ti chiamo fra un paio d’ore. Ciao”, lo salutai, sporgendomi verso di lui e lasciandogli un bacio schioccante sulla guancia. Scivolai giù dall’auto e richiusi lo sportello alle mie spalle, attraversando la strada e raggiungendo il portico di casa D’Angelo. Presi un profondo respiro e premetti il dito sul citofono, continuando tuttavia a sentire il rombo del motore dell’auto di mio padre dietro di me. Se lo conoscevo bene, avrebbe aspettato che qualcuno mi aprisse la porta per potersene andare, dunque non potevo neanche cambiare idea all’ultimo minuto e fuggire via… E fu mentre ero preda di queste considerazioni che la porta si aprì, facendo apparire sull’uscio proprio Betta, la matrigna di Enrico.

“Giulia! Cara, che bella sorpresa”, esclamò sinceramente – sinceramente sorpresa, intendo. “Quello è tuo padre? Salve!” Esclamò poi, sollevando una mano e agitandola in direzione di mio padre. Mi voltai anch’io per salutarlo e fargli silenziosamente cenno di andar via, così dopo aver salutato entrambe con uno strombettio del clacson lo vidi sparire dietro l’angolo. E adesso avevo perso anche il mio unico alleato!

“Su, su, non restiamo qui fuori. Vieni, accomodati”, continuò gentile, facendomi cenno di entrare per poi chiudere la porta e farmi apprezzare la frescura che si respirava dentro casa.

“Mi scusi per il disturbo, Betta, avrei dovuto telefonare ma non conoscevo il vostro numero…” Mi giustificai, stringendo i manici della mia borsa per mantenere le mani occupate.

“Ma figurati, non dirlo neanche per scherzo! Vieni in cucina, ti offro qualcosa. Cosa preferisci, un tè, un caffè, qualcosa di più forte?” Aggiunse con un sorrisetto malizioso, facendomi strada. Il corridoio era molto ordinato ed elegante, c’erano quadri che rappresentavano paesaggi o signore di epoche passate, foto in bianco e nero, mobili con specchi e vasi di fiori, soprammobili e ninnoli d’argento come si potevano trovare dovunque; insomma, una casa normalissima, con mobili normalissimi… Che cosa mi aspettavo di trovare? Un’esposizione di armi da fuoco e teste di cervi appese alle pareti?

Dandomi silenziosamente della stupida, seguii Betta fino alla cucina che era senza dubbio molto bella, elegante ma moderna allo stesso tempo. Mi fece cenno di accomodarmi su uno degli sgabelli della penisola che divideva l’angolo cottura dalla zona pranzo, e senza quasi aspettare una mia risposta prese ad armeggiare con caffettiere, zucchero e bicchieri.

“Allora, cosa gradisci?” Mi chiese nuovamente, voltandosi con un gran sorriso come se avesse appena realizzato che non le avevo ancora risposto.

“Il caffè andrà benissimo, grazie.” Replicai, ricambiando il sorriso un tantino intimidita.

“Perfetto, lo prendo anche io. Ti va bene se non è decaffeinato? Perché non credo che ci sia quello, in dispensa…” Fece poi, aggrottando la fronte preoccupata.

“Oh, certo, certo, non lo prendo mai decaffeinato”, mi affrettai a rispondere, sorridendo con un po’ meno di agitazione. Ecco, stava andando bene, no? Fra pochi minuti avrei potuto prendere l’argomento che mi premeva di più. Forse, se avessi trovato il coraggio…

“Perfetto.” Ripeté con l’ennesimo sorriso, dandomi le spalle e preparando la caffettiera. Fece il tutto canticchiando a mezza voce, così io ebbi tutto il tempo per studiare l’ambiente e osservare meglio la donna che aveva sposato il padre di Enrico. Lui ne parlava sempre come una seconda mamma amorevole e gentile, e non mettevo in dubbio che questo fosse vero – si vedeva che era una persona splendida – ma sinceramente io non sapevo se sarei stata capace di accettare così ciecamente che qualcuno prendesse il posto di mia madre… Forse parlavo così perché non sapevo cosa si provava, o perché avevo una mentalità già più adulta e con le idee più chiare di quelle che poteva avere un bambino di otto anni.

“Allora!” La sua voce mi fece tornare con i piedi per terra, obbligandomi a prestarle attenzione. “Visto che a lui certe cose non posso chiederle, mi permetto di indagare con te… Si sta comportando bene Enrico? Guarda, mi basta una tua parola e te lo rimetto in riga!”

Rimasi leggermente sconcertata per quell’improvviso salto al nocciolo della questione, ma poi non potei fare a meno di ridacchiare nell’afferrare il senso delle sue parole. “No no, ci mancherebbe altro… Va tutto bene”, fu l’unica cosa che potei rispondere. Di certo non potevo parlare con sua madre di tutte le mie fisime mentali!

“Mi fa piacere”, sorrise di nuovo lei, improvvisamente addolcita. “Non dirgli che te l’ho detto, per carità, ma ho capito che lo stai facendo penare e fai bene! Una ragazza deve farsi desiderare, e l’uomo deve capire chi è che ha il comando del gioco”, proseguì, abbassando la voce con fare cospiratorio.

Era appurato: Betta mi piaceva.

Arrossii un po’ imbarazzata e sollevai le spalle, senza ben sapere cosa dire. Per fortuna, il rumore del caffè che saliva e della caffettiera che sbuffava mi levò dall’impiccio di rispondere. Betta preparò le tazzine, le mise su un vassoietto di legno insieme alla zuccheriera e ai cucchiaini e portò il tutto davanti a me, prima di prendere posto sullo sgabello frontale al mio.

Dopo i convenevoli di rito – quanto zucchero, eccetera – e aver assaggiato due sorsi di caffè, posai la mia tazza sul piattino e presi un profondo respiro. “A proposito di Enrico…” Esordii con cautela, senza sollevare lo sguardo per non incrociare quello della donna. “Sono venuta per sapere come sta. Non si è fatto sentire da un po’, e non è da lui, e ho pensato che potesse essere… ecco, non so, malato?” Conclusi miseramente, sentendomi sempre più imbarazzata ad ogni parola che mi usciva di bocca.

Betta si era fatta stranamente silenziosa e il rumore del suo cucchiaino che ruotava nella tazzina per sciogliere lo zucchero rallentò notevolmente, graffiando il fondo. “Pensavo che te l’avesse già raccontato lui, e che fossi venuta apposta per vederlo”, replicò lei dopo un po’, usando se possibile più prudenza di quanta ne avessi usata io.

Allora sollevai gli occhi su di lei, improvvisamente allarmata. “Perché? Cosa… Cos’è successo?”

La vidi chiaramente mordicchiarsi il labbro inferiore, palesemente in lotta contro sé stessa, dopodiché abbandonò caffè e cucchiaino e si alzò in piedi, accennando un sorriso che era solo l’ombra di quelli che l’avevano preceduto. “Vado a controllare se si è svegliato, così lo vedrai di persona e smetterai di preoccuparti”, cercò di rincuorarmi, benché il tentativo fosse, lo ammetto, inutile. “Finisci il caffè, cara, faccio in un attimo.”

Inutile dire che la voglia di bere caffè mi era improvvisamente passata.

Mi alzai dallo sgabello, perché stare seduta non avrebbe giovato al mio attuale stato d’animo; iniziai a gironzolare avanti e indietro per la cucina, mordicchiandomi le unghie e cercando di capire per quale motivo Betta avesse fatto quella faccia quando le avevo chiesto di Enrico. Che cosa diavolo gli era successo? Se avesse avuto un semplice incidente me l’avrebbe detto, no? Ma, visto che non l’aveva fatto, non potevo che prendere in considerazione l’idea che c’entrassero davvero i suoi loschi traffici… Accidenti a me, perché mi ero fatta trascinare in tutta quella storia? Che avevo fatto di male nella mia vita precedente?

Con un sospiro mi avvicinai alla porta-finestra, affacciandomi verso l’esterno e scoprendo un cortile interno sul quale si affacciavano altre abitazioni – stranamente, tutte con serrande abbassate e finestre chiuse, come se non ci abitasse nessuno: magari i proprietari erano tutti in vacanza, d’altra parte eravamo appena ai primi di settembre. Ero perfettamente consapevole di fare quelle considerazioni per tenere la mente occupata e non pensare ad Enrico, ma mentre osservavo il porticato che percorreva il perimetro del cortile, come gli antichi chiostri dei monasteri, mi colpì il pensiero che forse, molto semplicemente, Enrico non voleva più vedermi, si era già stancato di me! Ma certo, come avevo fatto a non pensarci subito? E io, che idiota, mi ero anche preoccupata e avevo subito pensato al peggio… Adesso Betta sarebbe tornata in cucina e mi avrebbe detto che lui stava ancora dormendo e che sarebbe stato meglio, per me, tornare un’altra volta… ma in realtà io avrei saputo benissimo che Enrico le aveva detto di non volermi vedere e di inventarsi una scusa per mandarmi via! Sì, sì, doveva essere per forza così!

Finalmente era tutto finito, e io sarei potuta tornare alla mia vita di sempre, ai miei amici, anche al mio studio, senza avere ulteriori problemi da gestire. Ah, da quanto tempo stavo aspettando quel momento? Avrei voluto sospirare di sollievo, ma stranamente non ci riuscii: il sospiro venne naturale, certo, ma non ero sicura che si trattasse di un sospiro di liberazione, dato che invece di alleggerirmi da quel peso che avevo sul petto sembrò accentuarlo. Che strano… Davvero molto, molto strano. Aggrottai le sopracciglia, sempre fissando un punto indefinito del cortile, cercando di capire perché quella scoperta non sembrava rilassarmi come invece avevo immaginato che facesse, ma prima di potermi inoltrare anche in quei ragionamenti sentii i passi di qualcuno scendere le scale e dirigersi verso la cucina, e poi la voce di Betta far breccia nel mio silenzio.

“Vieni, Giulia, Enrico si è svegliato! Scusa se ti ho fatto aspettare”, aggiunse con un mezzo sorriso, palesemente più tranquilla e serena di com’era stata poco prima.

Beh, non mi aspettavo neppure quello – perché non mi aveva fatto mandare via? Accennando un sorriso per non far preoccupare Betta, annuii e la seguii docilmente attraverso un altro piccolo corridoio e poi fino alle scale, che tuttavia mi lasciò percorrere da sola.

“Ultima porta a sinistra del corridoio, accanto allo specchio a muro”, mi spiegò, sorridendo e facendo anche un occhiolino malizioso.

“Grazie…” Risposi, cercando di non arrossire. Iniziai a fare le scale e a contare silenziosamente i gradini, una cosa che facevo sempre, sin da quando avevo memoria, in tutte le scale che mi ritrovavo a percorrere, e dopo aver appurato che ci vollero venticinque gradini per arrivare al primo piano, mi guardai intorno e poi girai a sinistra.

Anche qui, il corridoio non aveva nulla di preoccupante; c’erano appendiabiti con giacche e giubbotti maschili, mobili in legno con altre foto ma in minore quantità rispetto al piano di sotto, una piccola vetrinetta con oggettini d’argento, cristallo e cose varie, e quadri con foto color seppia di spiagge, scogliere e panorami che io riconobbi come scorci del nostro paese. Chissà chi le aveva scattate? Non credevo che Enrico avesse anche l’hobby della fotografia. Comunque non avevo tempo di inventarmi altri sciocchi argomenti, ne avevo già abbastanza nel mio ordine del giorno di roba di cui parlare. Giunta davanti alla porta di Enrico sollevai una mano ma rimasi per cinque minuti buoni in quella posizione, immobile, senza osar palesare la mia presenza. Mi rendevo conto che mi ero messa da sola in quella situazione? Che ero finita di mia volontà nella tana dei serpenti? Certo, non ero stupida, me ne accorgevo perfettamente. Però tra il riconoscere una cosa e trovare il coraggio di portarla fino in fondo ce ne passava di mare, in mezzo…

Non avevo problemi ad ammettere di essere una codarda, insomma, che male c’era? Per cui abbassai la mano e indietreggiai di un passo, già pronta ad inventarmi una scusa e andare via… Ma così sarebbe stato troppo facile, vero?

“Entra, Giulia, lo so che sei lì fuori…” Fece la voce profonda di Enrico, attraversando il legno della porta e pietrificandomi in mezzo al corridoio. Merda!

A quel punto non potevo più posticipare il momento critico, quindi abbassai la maniglia ed entrai quasi in un unico movimento, con lo stesso gesto secco e deciso che fanno i dentisti per togliervi un dente.

“Però, che udito”, ironizzai non appena misi piede nella sua stanza, rimanendo tuttavia a distanza di sicurezza contro la porta.

“Beh, ti ho sentita salire le scale e fare tutto il corridoio, dubitavo che ti fossi volatilizzata proprio davanti alla mia stanza”, ribatté con un sorrisetto.

Mentre mi rispondeva, registrai che la sua camera da letto era almeno il doppio, per non dire il triplo, della mia. Un armadio, di quelli con le ante a scrigno, occupava tutta una parete, e possedeva uno specchio alto e stretto che divideva a metà il mobile; la scrivania era sulla parete opposta, e sopra c’era solo un computer con lo schermo ultrapiatto che le dava un aspetto ordinato ed elegante, mentre nelle mensole al di sopra di essa c’erano DVD a profusione, libri e una macchina fotografica professionale – il che quindi mi confermava l’altro hobby, quello umano, di Enrico. Due porte si trovavano ai lati della scrivania, che supposi essere una quella del bagno e l’altra quella di una cabina armadio o semplicemente di un ripostiglio. Infine, il letto matrimoniale era posto proprio al centro della stanza, con la testiera contro il muro e sotto una finestra larga e bassa, e sopra il letto, ovviamente, c’era lui, seduto in mezzo ai cuscini. Ah, e di fronte al letto c’era un’altra parete-libreria con al centro un’enorme televisore al plasma. Già, perché privarsene?

Tornando ad Enrico, vidi chiaramente che non era in ottima forma. A parte il pallore del viso e le occhiaie scure, che comunque non gli avevo mai visto, sembrava avere il braccio sinistro un po’ troppo rigido, come se gli facesse male o fosse bendato strettamente; purtroppo, dato che indossava una maglietta a maniche corte, non potevo vedere se la spalla era fasciata o cose del genere.

“Stavo sperando che ti fossi riaddormentato”, inventai per rispondere alla sua provocazione, anche se la cosa aveva un fondo di verità.

Mi aspettavo che ridacchiasse o che replicasse con qualche altra battuta maliziosa, e invece si limitò a sorridere e a farmi cenno di raggiungerlo, battendo la mano destra sul materasso per incitarmi a sedermi lì. Beh, se stava male non poteva di certo approfittarne, no?

Presi posto sul bordo del letto, mantenendo comunque una certa distanza di sicurezza, e intrecciai le mani in grembo, studiando Enrico da vicino e ignorando il sorrisetto con il quale stava ricambiando il mio studio silenzioso. “Allora, cosa ti è successo?” Sbottai, forse un po’ più duramente di quanto volessi. “Tua madre… Betta… Mi ha fatto capire che credeva che tu mi avessi già raccontato ogni cosa e che fosse per questo che sono venuta, ma tu non mi hai detto niente, e non credi che sia il caso di farlo?”

Enrico sembrò piuttosto sorpreso per la mia mezza sgridata. “Accidenti… Eri preoccupata per me? Davvero?” Fu la cosa più intelligente che riuscì a dire, riprendendo l’espressione a metà tra l’arroganza e la provocazione.

“Perché questo tono sorpreso?” Lo aggredii quasi, alzandomi per evitare di scrollarlo come le mie mani mi stavano implorando di fare. “Dici che vuoi frequentarmi, che ti piacerebbe se fossimo una coppia normale, e poi quando succedono i casini non mi dici niente e pretendi anche che io non mi preoccupi? Cazzo, Enrico, stare insieme non è solo andare a cena fuori e baciarsi! Se è così che hai intenzione di farla continuare, questa cosa, allora è meglio se la finiamo qui!”

Il mio sfogo mi aveva preso talmente alla sprovvista che non mi accorsi subito di ciò che mi era uscito di bocca, né tantomeno del significato che avevano quelle parole. Mio Dio, gli avevo davvero fatto capire che io ci consideravo una coppia? A giudicare dall’espressione sbalordita – e anche un po’ compiaciuta, dannazione a lui! – di Enrico, , era esattamente quello che avevo appena fatto. Anche se non sapevo cosa fosse peggio, tra quello e la scenata da fidanzatina apprensiva.

Mi passai nervosamente una mano tra i capelli e mi allontanai dal letto, avvicinandomi alla scrivania e continuando a dare le spalle a Enrico per evitare di ritrovarmi a fissarlo. Adesso mi avrebbe torturato all’infinito ricordandomi quella scenata, ne ero certa! Se anche era esistita una via di scampo a quella storia malsana che stava uscendo fuori tra me e lui, non c’erano dubbi che l’avessi appena persa. Non era stata una grande idea quella di andare a trovarlo, dopotutto.

Fu lui il primo a riprendere la parola dopo quello sfogo. “Mi dispiace, Giulia. Avrei dovuto avvisarti”, disse con un tono sorprendentemente gentile, che non mi aspettavo. “Ma ho perso il cellulare e non sapevo come rintracciarti, inoltre… Pensavo ti avrebbe fatto piacere passare qualche giorno in tranquillità, senza avermi tra i piedi.”

Il modo quasi prudente con cui pronunciò quell’ultima frase mi strappò un mezzo sorriso sarcastico che, grazie al Cielo, lui non poté vedere. “Come faccio a stare tranquilla se so che ogni volta che tu e i tuoi amici vi incontrate non è per guardare insieme una partita?” Ribattei in un sussurro, aggrappandomi al bordo di legno della scrivania e abbassando leggermente le spalle.

Il suo silenzio confermò i miei timori, e a quella consapevolezza fece eco un brivido che mi corse lungo la spina dorsale. Sarebbe stato ogni volta così, se quello strambo rapporto si fosse… evoluto? Avrei dovuto vivere per sempre nel terrore di non vederlo ritornare a casa, un giorno, dopo una di quelle serate?

“Per favore, vieni qui. Giulia… Torna a sederti, mi fa troppo male la gamba per alzarmi”, disse dopo un po’ con incredibile dolcezza, spingendomi mio malgrado a voltarmi e a raggiungerlo seppur con non poca incertezza. Qualcosa nella mia espressione dovette colpirlo, perché per quanto possibile cercò di raddrizzarsi spingendo la schiena contro i cuscini e si avvicinò di più al bordo del letto, dove io mi ero appena riseduta.

“Ascolta, non è successo niente, va bene? Guarda, sono tutto intero, un po’ dolorante forse, ma niente di grave”, proseguì ostinato, passandomi un braccio intorno alla vita ma senza riuscire a farmi sollevare gli occhi su di lui. Stavo cercando di non sfogare lo stress e lo shock di quelle nuove scoperte e di non scoppiare a piangere, ecco qual era la verità, non volevo di certo che lui mi vedesse in quelle condizioni! “Giulia, guardami almeno. Cosa ti costa?” Insisté.

Sospirai seccata ma gli obbedii, anche se così facendo mi accorsi che eravamo troppo vicini per poter instaurare una vera e propria discussione. “Insomma, si può sapere cosa cavolo è successo? Pensi di dirmelo entro oggi?” Lo incalzai a mia volta, scoprendo che il mio livello di pazienza doveva essersi abbassato notevolmente, negli ultimi tempi.

“E tu sei sicura di volerlo sapere?” Replicò, pronto. “Perché un conto è venirle a sapere dagli altri, certe cose, e un altro è conoscerle nude e crude dal diretto interessato; e io non voglio in nessun modo che quello che faccio ostacoli o pregiudichi la nostra relazione.”

Oddio, aveva letto le parole magiche – aveva detto nostra e relazione tutte attaccate e nella stessa frase, per di più, e io non ero neppure nella presenza di spirito di dirgli qualcosa per contraddirlo! Comunque decisi per il momento di lasciar perdere quella faccenda e di dedicarmi all’altra, assai più urgente. Mi districai dal suo abbraccio e scivolai a sedermi più giù, all’altezza delle sue ginocchia, tanto per intenderci, a una distanza sufficientemente sicura da permettermi di guardarlo in faccia e contemporaneamente di scampare alle sue mani polipose. Non era una cosa carina da pensare, me ne rendo conto, ma al momento desideravo ridurre al minimo sindacale i contatti fisici. Non si può litigare con qualcuno che ti sta abbracciando!

“La nostra relazione, come la chiami tu, è stata pregiudicata da questo sin da quando è iniziata”, esordii, riuscendo persino a suonare piuttosto decisa. “Se tu non fossi stato… così… Non mi avresti mai rapita e costretta a frequentarti, tanto per dirne una, quindi ritengo che i tuoi rimorsi arrivino un po’ in ritardo. Ora, se vuoi parlare benissimo, ti ascolto! Ma se non mi vuoi spiegare per quale motivo sei in queste condizioni, come se ti fossero passati sopra con un’auto, allora non vedo perché dovrei restare a fingere che vada tutto bene. Non va tutto bene, Enrico, mettitelo in testa.”

Sembrava proprio che il mio breve discorsetto avesse fatto breccia nel suo muro di cemento, e non potei che sentirmi intimamente orgogliosa al riguardo. Il suo viso si era fatto una maschera di cera, pareva essersi immunizzato da qualunque espressione, ma mi sembrava quasi di poter scorgere nei suoi profondi occhi verdi una qualche lotta interiore che stava assorbendo i rimasugli delle sue forze. Bene, era ora che mettesse un minimo in discussione le sue azioni!

“A quanto pare sono indifendibile”, ammise alla fine, senza alcuna traccia di sarcasmo o presa in giro nel tono di voce. Mi fissò dritto negli occhi e da quello compresi che aveva intenzione di svuotare il sacco, per cui mi feci tutta orecchi. “Va bene, ti racconterò tutto: tanto non c’è molto da dire. Sabato sera io e i ragazzi siamo usciti per i nostri affari… Probabilmente Riccardo ti ha già spiegato ogni cosa, comunque voglio rinfrescarti la memoria: vendiamo droga. La vendiamo perché quello degli stupefacenti è un mercato che diventa più redditizio ogni anno che passa, se si è abbastanza abili da non abbassarsi ai livelli di chi li compra. Nessuno dei miei ne ha mai assaggiato un solo grammo, credimi, da quel punto di vista siamo perfettamente puliti. Dunque, tornando a sabato… Siamo andati al solito posto e ci siamo divisi: io ero con Stefano e Alberto, gli altri erano sparsi per il locale. All’inizio la serata sembrava tranquilla, per quanto possa esserlo un posto dove si spaccia e dove i bagni sono il punto di ritrovo di quella gente…           Ma poi, dal nulla, sono sbucati fuori un paio di tizi che non avevo mai visto prima e che ci hanno intimato di uscire nel parcheggio, minacciando, in caso contrario, di sputtanarci con i proprietari del locale. A quel punto dubitavo che sapessero che ero praticamente io il proprietario, comunque per non mettere in pericolo le persone che stava cercando di divertirsi abbiamo preferito uscire e assecondarli; noi eravamo in tre, loro solo in due, quindi non mi è sembrato necessario chiamare anche Lorenzo e gli altri.

“Ovviamente, avrei dovuto immaginare che dei tipi così non avrebbero affrontato me e i miei ragazzi a mani vuote e senza prima essersi organizzati, ma a mia discolpa posso dire che credevo fossero leali anche in una cosa come quella. Invece no. Non appena ci siamo allontanati il tanto necessario da essere fuori portata dai buttafuori, siamo stati raggiunti dai loro complici, altri cinque poveracci che avevano voglia di passare un sabato sera diverso. Abbiamo cercato di essere civili e parlare, ma quelli hanno tirato fuori i coltelli e sono passati alle maniere forti. Capisci che non potevamo fare altro che contraccambiare…

“Comunque, non è morto nessuno. Noi non avevamo coltelli e, pur di non ricorrere ad altro, ci siamo limitati a schivarli e stenderli con calci e pugni, ma mi hanno preso di striscio al braccio”, si toccò leggermente la spalla sinistra, socchiudendo gli occhi come se il ricordo gli facesse ancora male. “Appena hanno visto la mia camicia macchiarsi di sangue sono fuggiti. Probabilmente volevano solo menare un po’ le mani e non volevano uccidere nessuno, e credo che non torneranno più a darci fastidio. Hanno voluto fare un’uscita in grande stile, però, e mentre scappavano in macchina ci sono venuti addosso e mi hanno spinto per terra, per questo ho sbattuto la gamba e non riesco a muoverla bene, ci sono finito sopra con tutto il peso. Il cellulare devo averlo perso quando sono caduto.”

Lo fissai a dir poco inorridita. Non sapevo che cosa si aspettasse che dicessi o facessi, ma sicuramente doveva aver messo in conto che mi sarei scostata non appena avesse cercato di toccarmi.

“Giulia…” Mi ammonì a mezza voce, con l’aria di chi stava pensando: ‘Visto? Sei tu che hai voluto sapere, adesso non fare la vittima delle circostanze’.

Sollevai una mano per zittire qualsiasi cosa volesse aggiungere. “Per favore. Lasciami cinque minuti per assorbire il tutto”, borbottai, alzandomi in piedi e facendo un sospiro così profondo che mi sentii svuotare i polmoni per una manciata di secondi. Mi poggiai sul davanzale della finestra e mi afferrai la testa tra le mani, chiudendo gli occhi: avevo l’impressione di essermi appena destata da un incubo lungo e sanguinoso, ma la sensazione di nausea l’aveva provocata la consapevolezza che fosse tutto vero.

“E hai anche avuto il coraggio di dirmi di non preoccuparmi?” Aggiunsi amaramente dopo un lungo intervallo di silenzio, senza tuttavia voltarmi verso di lui ma continuando a fissare il nero delle mie palpebre chiuse. Non mi accorsi subito di stare tremando come una foglia.

Mi parve di udire un gemito soffocato, un leggero tonfo e uno spostamento d’aria quando Enrico mi raggiunse alla finestra, fermandosi alle mie spalle; quel letto doveva avere le doghe in legno, visto che non avevo sentito lo scricchiolio tipico della rete in metallo quando si era alzato.

“Giulia.” Ripeté, stavolta con un’intonazione più gentile. Ma io scossi la testa, senza rispondere né tantomeno girarmi, desiderando solo di essere miglia e miglia lontana da lui e da tutti i casini in cui, volente o nolente, mi stava trascinando. Buon Dio, mi aveva appena raccontato di quella specie di regolamento di conti con la stessa nonchalance con cui io gli avrei raccontato della scuola! Non era normale, cazzo, non era normale per niente!

Allora, senza dar segno di aver compreso i miei desideri, si avvicinò e premente contro la mia schiena facendola aderire al suo petto, mi circondò la vita con il braccio che non gli faceva male e mi strinse contro di sé, seppellendo il viso tra i miei capelli. Lo sentii respirare piano nella zona delicata tra l’orecchio e la pelle del collo, e le sue labbra che si muovevano contro quel punto mi fecero il solletico.

“Va tutto bene, tesoro, tutto bene”, stava sussurrando, dolce come non l’avevo mai sentito. “Ti chiedo scusa per non averti detto niente, ma ora capisci il motivo per cui non l’ho fatto?... Non voglio che questo ci separi, Giulia, so anche che non posso chiederti di accettarlo, o capirlo, ma solo di prenderla così com’è, come una parte di me che non puoi cambiare, come il mio naso o la mia bocca…” Il flebile tentativo di scherzare morì ancora prima di poter essere recepito. “So soltanto che ti voglio al mio fianco. So che è una cosa egoista, ma voglio che ti preoccupi per me come hai fatto oggi, voglio che sia sempre così… Ormai non riesco più ad immaginarmi senza di te. Capisci quello che ti sto dicendo? …non importa, lo capirai. Giulia, Giulia… Puoi piangere, se vuoi. Basta che lo fai contro di me, così… Ecco.”

Solo in quel momento mi accorsi che le lacrime avevano effettivamente preso il largo, e allora non riuscii più a frenarle né a trattenermi, dato che avevano già atteso abbastanza per poter uscire. La triste realtà era che quel pianto era stato causato da Enrico, ma purtroppo qualcosa mi diceva che lui era anche l’unico che poteva capirle e asciugarle. Rimasi a piangere in quella posizione per non so quanto tempo, senza muovermi né voltarmi, continuando a nascondere il viso tra le mani e trattenendo almeno i singhiozzi più violenti, con Enrico piegato contro la mia schiena e le sue braccia, entrambe, avvolte attorno a me. Come un guscio protettivo.

Enrico… Protettivo?

Stavolta ero davvero in guai seri.

 























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Angolo Autrice.
Ebbene, non ho scusanti per il terribile ritardo con cui mi presento nuovamente.
Molti di voi si saranno comprensibilmente dimenticati di me, di questa storia, di Enrico e di Giulia, ma a coloro che sono eroicamente sopravvissuti all'attesa dico: questo capitolo è la mia Chiave di Volta, per finire non manca molto, forse quattro o cinque capitoli, e - spero - non li pubblicherò a distanza di otto mesi l'uno dall'altro. Ma, conoscendomi, non si può mai sapere....
Grazie ai gentilissimi che hanno recensito lo scorso capitolo, grazie a chi continua ad aggiungere la mia storia alle Seguite o alle Preferite, il piacere che mi fate anche a distanza di tutto questo tempo è talmente grande che non sono capace di descriverlo!
Con la speranza di risentirci il prima possibile, vi lascio anche stavolta con un bacio e un abbraccio. Sempre vostra,
Niglia.

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVII. ***


Capitolo XXVII.

 

 

 

 












 

 

 

Che cos’è l’amore?

Io non ero mai stata innamorata, dunque non lo sapevo. Non ne avevo proprio la più pallida idea! Voglio dire, al liceo avevo avuto modo di studiare diverse poesie e componimenti vari che trattavano l’argomento, ma, tanto per cominciare, erano tutti scritti da uomini: e di conseguenza non avevo mai esaminato la visione femminile di tale sentimento. C’era chi paragonava l’amore a un dolore che strazia l’anima, chi a semplice affetto o a qualcosa di platonico, incorporeo, chi a uno struggimento che portava a desiderare l’altra persona in qualsiasi momento e ora del giorno, a desiderare una sua carezza, un suo abbraccio, persino la sua risata o il suo sorriso, o anche solo uno sguardo. La mia migliore amica, nel periodo di nero cinismo che aveva attraversato dopo che il suo ultimo ragazzo l’aveva trattata come uno straccetto da prendere e buttare a seconda del momento, e che, per inciso, era durato fino a quando non aveva incontrato Riccardo, aveva definito l’amore come l’alibi che utilizzano gli esseri umani per giustificare e mascherare il bisogno di sesso.

Non mi era mai piaciuta particolarmente quella definizione, ma in mancanza di esperienze personali dovevo farmi bastare le opinioni delle mie amiche, dato che andare da mia madre, a diciotto anni suonati, e porle una domanda simile avrebbe richiesto una dose di coraggio e faccia tosta che io non credevo di possedere.

In parole povere, avevo bisogno di circoscrivere i miei sentimenti all’interno di una categoria specifica, di dar loro un nome, una forma, uno scopo; se avessi saputo di essere innamorata, o comunque di esserci vicina, molte cose sarebbero cambiate. Tuttavia, chi e che cosa mi assicurava che la mia non era una semplice cotta? Poteva anche essere. E, se così fosse stato, io non avevo nessunissima intenzione di bruciare i migliori anni della mia vita per stare appresso a qualcuno che aveva una vita tanto incasinata da non essere secondo a nessuno, in nome di una misera ed effimera cotta. Una cotta avrebbe dovuto permettermi di vivere un’esperienza allegra, tranquilla, spensierata! Tutto l’esatto contrario di quello che, invece, la cosa con Enrico stava facendo passare a me.

Mentre per un amore vero, di quelli con la A maiuscola di cui film e libri si sprecano tanto a parlare, beh, per qualcosa del genere avrei anche potuto fare uno o due sacrifici. Ma questo mi riportava al quesito iniziale: che cos’era l’amore? Come avrei fatto a riconoscerlo come tale, accidenti?

Io avevo paura, sì, una paura marcia – non avevo la forza necessaria di chiudere gli occhi e buttarmi in una storia seria, in una storia di quel tipo in particolare; primo, perché ero ancora troppo giovane e a dirla tutta avevo programmato di imbarcarmi in una storia importante eventualmente solo dopo l’università, e secondo perché Enrico non era esattamente il tipo di ragazzo che io mi ero aspettata di avere al mio fianco, un giorno. Per carità, era bello, gentile, ricco – per quanto la sua fortuna derivasse da dei “mercati” di dubbia moralità – però era un criminale, porca miseria, era un mafioso, come l’aveva più volte chiamato Alessandra!

Dubitavo che qualche poeta o scrittore del passato avesse affrontato un tema del genere. O forse sì? Oddio – l’improvvisa immagine di Enrico nei panni di un moderno Don Rodrigo mi balzò in mente come se stesse aspettando il momento più opportuno per saltare fuori, strappandomi una risatina isterica che dovetti seppellire nel cuscino per evitare di svegliare i miei genitori addormentati dall’altra parte del corridoio. In effetti gli elementi c’erano tutti, aveva persino i bravi al suo comando! Era proprio vero che la realtà superava la fantasia, personalmente non mi sarebbe nemmeno venuta in mente una storia del genere, a volerla inventare.

Tirando via le coperte dal letto, scivolai per terra e mi diressi, scalza, al piano di sotto. Visto che dormire si stava rivelando impossibile, almeno avrei ingannato l’attesa mangiando qualcosa che non fossero le mie povere unghie ormai martoriate. Provai, quindi, a passare in rassegna per l’ennesima volta i miei sentimenti, mentre spalmavo una buona dose di nutella su una fetta di pane – non c’era niente di meglio che del buon cioccolato per rinfrancare lo spirito.

Desideravo Enrico? Questa era una domanda piuttosto imbarazzante, e mentre rimproveravo a mezza voce me stessa per essermela posta, realizzai che forse i miei problemi non erano tutti legati a lui. Con un sospiro, mi portai un dito sporco di nutella alle labbra e riflettei attentamente sulla risposta, confidando che il sapore del cioccolato mettesse in moto gli ingranaggi del mio cervello.

Se per desiderare si intendeva un desiderio puramente fisico, va bene, non avevo grossi problemi ad ammetterlo: Enrico era un bel ragazzo, molto più che bello, a dirla tutta, e soltanto un cieco o qualcuno con gusti differenti non l’avrebbe trovato seducente e desiderabile. Persino Alessandra aveva dovuto convenire sul fatto che il mio stalker personale fosse un esemplare della razza maschile di tutto rispetto! Per cui, va bene, mi piaceva e mi sentivo attratta da lui, altrimenti non avrei saputo spiegare il brivido che mi provocavano i suoi baci e le sue lievi carezze, quando le sue mani indugiavano a sfiorarmi i capelli… A quel ricordo mi sentii le guance in fiamme e tossicchiai, riuscendo a farmi andare di traverso anche la fetta di pane. Persino Enrico pareva aver afferrato il succo del problema, quando mi aveva chiesto se, per caso, non avessi paura di desiderarlo troppo. Allora non gli avevo risposto, ma in effetti aveva ragione, che diamine!

Comunque almeno questa cosa l’avevo appurata e, in un certo qual modo, anche accettata.

Un’altra questione di non scarsa importanza era: lo trovavo simpatico? Già qui la faccenda si faceva un poco più difficile. Potevo davvero dire di provare simpatia per qualcuno che avrei volentieri preso a schiaffi un momento sì e quello dopo pure, a causa della sua irritante arroganza e dei suoi modi di fare da “Padrino” della situazione? Va bene, sì, lo ammetto – avevo trascorso delle serate piacevoli insieme a lui, mi aveva fatto ridere, aveva una conversazione sciolta e brillante e con lui si poteva affrontare qualsiasi argomento: se questo me lo rendeva simpatico, che male c’era? Certo, poi c’erano gli atteggiamenti da fidanzato ossessivo e geloso che avrebbero fatto girare le scatole anche a un santo – insomma, mi faceva seguire dai suoi amici per tenermi d’occhio! – ma queste cose, eventualmente, si potevano modificare… no?

Ma non era certo finita così. La domanda più importante in assoluto era questa: che cosa diavolo provavo per lui? Purtroppo, qui nessuno mi avrebbe potuto aiutare.

 

 

 

***

 

 

 

Dato che quella notte, alla fine, non ero riuscita a dormire, finendo con il trascorrere le rimanenti ore di buio a fare zapping alla televisione, decisi che l’unica che poteva davvero darmi una mano era la mia geme; sapevo perfettamente quello che pensava di Enrico – non si era mai lasciata sfuggire un’occasione per rimarcarlo più e più volte – ma allo stesso tempo era anche la sola a conoscermi abbastanza bene da poter cogliere certi segni con indiscutibile accuratezza.

Le mandai un messaggio non appena sorse il sole, e dovetti attendere giusto un paio d’ore prima che mi rispondesse. Se aveva fatto così in fretta la spiegazione poteva essere solo una: era rimasta a dormire da Riccardo, e io le avevo rovinato il risveglio romantico. Che tempismo! Ma, ehi, se voleva continuare a percepire lo stipendio da migliore amica avrebbe dovuto fare questo e altro.

Ad ogni modo, tenni la mia cattiveria-da-notte-insonne per me e mi limitai a ringraziarla per la sollecitudine con cui si era subito offerta di venire a trovarmi con la sua agenda dei buoni consigli. Ormai credo avesse intuito che la stragrande dei miei problemi derivavano da Enrico, e non perdeva neppure più tempo a dire “Te l’avevo detto” o “Te la sei cercata”: agiva e basta. La nostra amicizia si era notevolmente evoluta in seguito a quella faccenda, il che era un bene, dato che se fossimo state un po’ meno legate avremmo smesso di vederci non appena lei e Riccardo si erano messi insieme, dato che il suo ragazzo e il “delinquente” con cui uscivo avevano lo stesso rapporto amorevole che hanno due galli nello stesso pollaio.

Dunque, Alessandra arrivò da me in tarda mattinata, e come sempre accadeva in quelle occasioni, rimase a pranzo da noi; dovetti rimandare la nostra chiacchierata al primo pomeriggio, tuttavia, ma se non altro l’attesa mi aveva dato modo di mettere un po’ d’ordine ai miei pensieri e di studiare un modo per aprire la conversazione senza risultare né troppo brusca, né troppo terrorizzata e né troppo volgare.

Infatti, ecco come andarono le cose.

“Cazzo, geme, sono nella merda fino al collo.” Sibilai, chiudendo la porta della camera alle mie spalle e poggiandomici sopra alla ricerca di un sostegno.

La mia esclamazione le strappò un mezzo sorriso, che tuttavia sparì non appena si rese conto che io non avevo per niente voglia di scherzare. “Finirai con il mandarmi in terapia, lo sai, vero? Dovrò pagare uno psicologo per i prossimi trent’anni per un trauma che non mi appartiene neanche”, ribatté con tono sostenuto, incrociando le braccia.

Decisi di ignorarla. “Sono andata a casa di Enrico, ieri”, le rivelai tutto d’un fiato.

“Oddio! L’avete fatto?!” Sbottò sorpresa, indecisa se emozionarsi per me o se inorridire.

No! Geme, come ti vengono… cacchio, no!” Ripetei a mezza voce – l’ultima cosa che volevo era che mia madre potesse afferrare frasi a caso dai miei discorsi e intuire chissà cosa. “Dio, non pensi ad altro?”

“Io? Sei tu quella che si lamenta sempre di avere la vita sessuale di un pesce rosso!” Fece lei, incurante delle mie tempeste interne. “Da come l’hai detto sembrava… Anche se non so se dovrei farti le congratulazioni, visto di chi stiamo parlando. Ma grazie a Dio hai detto di no… Hai detto di no, vero?”

Non potei trattenermi dal roteare gli occhi, spazientita. “No, no, certo che no, non abbiamo fatto niente, nada, nisba, rien”, specificai, ormai neanche più imbarazzata.

“Okay, va bene, sei ancora illibata, mi fa piacere”, sospirò sollevata. La mia occhiataccia dovette essere piuttosto eloquente, dato che si affrettò a rettificare. “Cioè, non mi fa piacere in quel senso, voglio dire, mi avrebbe fatto più piacere sapere che ti sei data da fare, cioè no, aspetta, sarebbe carino se anche tu avessi fatto esperienza così avremmo potuto parlarne, no? Insomma, sono contenta che tu non sia incinta di Enrico, ecco, volevo dire questo!”

La fissai come se le fosse appena spuntata un’altra testa sulle spalle, e per giunta verde, brufolosa e vomitante fuoco e fiamme. “Mi sono persa qualcosa? Come siamo arrivate all’essere incinta?” Chiesi, intuendo che da un momento all’altro la testa mi sarebbe scoppiata. Insomma, non avevo neppure dormito quella notte, diamine, e non certo per il motivo che pensava Alessandra!

Lei si concesse il lusso di ridacchiare, mezzo imbarazzata e mezzo divertita, poi cercò di darsi un contegno accarezzandosi la frangetta liscia e ordinata. “Va bene… Possiamo ripetere daccapo, per favore?” Chiese, sorridendo in segno di scusa.

Annuii mordicchiandomi l’interno della guancia e presi posto alla sedia della scrivania, sedendomi di fronte a lei che, invece, mi fissava dal bordo del letto, in paziente – più o meno – attesa. “Okay, lasciami raccontare e poi potrai dire quello che vuoi alla fine”, esordii rassegnata, torturandomi le dita con feroce passione.

Le raccontai per filo e per segno ogni cosa, senza tralasciare nulla, a proposito dell’incidente di Enrico, dei suoi traffici – che sì, conosceva, ma solo sotto forma di racconti distanti e freddi fatti dal suo ragazzo, e come a me aveva fatto un certo effetto sentire la versione del diretto interessato supposi che anche lei avrebbe dovuto percepirla diversamente, raccontata da me – e delle sue pseudo rassicurazioni. Le parlai delle mie paura, delle mie sensazioni, dei miei dubbi, e durante tutto il mio sfogo la vidi impallidire sempre di più, mentre annuiva piano in silenzio, e un paio di volte fu sul punto di interrompermi ma si trattenne, memore di quanto le avevo detto prima di iniziare. Le confessai anche certi altri episodi accaduti tempo prima che, per un motivo o per l’altro, mi ero dimenticata di dirle o semplicemente le avevo voluto celare, come quella volta in cui avevo trovato il coraggio di aprire il cruscotto dell’auto di Enrico e ci avevo trovato una scatola di velluto, grossa quanto un dizionario di latino e larga più o meno lo stesso tanto, che conteneva la famigerata pistola. Più volte finii sull’orlo delle lacrime, sfogando finalmente tutto lo stress che avevo accumulato, ma mi sforzai almeno di non piangere, o, ne ero certa, Ale stessa sarebbe andata a dire tutto alla polizia. E io, malgrado tutto, non volevo vedere Enrico in prigione… Ipocrita e contradditorio, forse, ma cosa potevo farci?

Alla fine, tirando su col naso e imputando il gesto ad un raffreddore inesistente, tacqui, aspettando una qualsiasi reazione. Alessandra mi fissò con un’espressione da ‘bocca aperta’ che in altre situazioni avrei potuto trovare divertente, ma che in quella non fece che preoccuparmi ancora di più; poi, con una breve scrollata di spalle e un sospiro, parve riprendersi.

“Forse, dopotutto, in terapia ci finiremo tutte e due”, fu la sua intelligente risposta.

Mi passai una mano tra i capelli, accendendo il condizionatore per l’improvviso calore che mi stava impedendo di respirare. “È tutto quello che hai da dire?” Gemetti, guardandola di sottecchi.

“Che cosa ti posso dire, geme?” Ribatté lei, ancora un po’ scossa. “       Non riesco a capire perché ti ostini a voler sopportare questa situazione. Non avevi detto che sarebbe stato solo il capriccio di una o due settimane, fin quando lui non si fosse stancato? E se lui non si stanca tu cosa hai intenzione di fare, mh? Di vivere con questa angoscia vita natural durante? Di sopportare in silenzio perché hai paura che possa fare qualcosa di terribile a te o a chi vuoi bene? Ti si prospetta una vita esasperante, Giuli, se le tue intenzioni sono queste. Non ti fa bene vivere così”, concluse con maggior gentilezza, piegandosi leggermente in avanti e cercando di sorridere con fare confortante.

A quel punto non potevo più nascondere gli occhi lucidi e le lacrime che premevano per uscire. Mi strofinai le palpebre socchiuse e presi un profondo respiro, senza sapere cosa dire.  Alla fine mi alzai, trovando impossibile rimanere ancora a lungo ferma e seduta composta, e mi affacciai alla finestra, posando la fronte sul vetro freddo e appannando quest’ultimo con il mio respiro agitato. “È solo che… oddio, geme, e se me ne stessi innamorando?” Mormorai pianissimo, chiudendo gli occhi e aggrappandomi nervosamente al davanzale di marmo.

Alessandra non rispose subito, ma mi parve quasi di sentirla trattenere il fiato. Poi, quando la sua voce ruppe il silenzio, lo fece per esclamare: “Oh, cazzo.”

L’ansia mi fece scoppiare a ridere, ma fu una risatina tremula, che di divertimento aveva ben poco. “Hai afferrato il punto”, risposi, senza voltarmi a guardarla.

Non so che cosa mi stesse per rispondere – forse qualche ennesima lavata di capo a proposito del fatto che avrei dovuto smettere di vedere Enrico e dimenticarmelo prima che la situazione si aggravasse ulteriormente – comunque non lo seppi mai, dato che in quel momento lo squillo del mio cellulare rovinò l’atmosfera da confessionale che si era creata e mi riportò con i piedi per terra. Mi staccai dalla finestra, sempre con lo sguardo della mia migliore amica addosso, e presi il telefono, constatando così che il famoso proverbio “Si parla del diavolo e ti spuntano le corna” era eccessivamente veritiero.

“Un messaggio di Enrico”, dissi a mezza voce, tanto per aggiornare Alessandra. Lei non disse nulla, ma io lo lessi prima in silenzio e poi ad alta voce.

Ciao, dolcezza… Ho recuperato il mio cellulare! Che ne dici di venire a casa mia per festeggiare? Mando uno dei miei ragazzi a prenderti, visto che sono ancora un po’ indolenzito per prendere la macchina.

Inarcai un sopracciglio, perplessa. Enrico non mi aveva mai chiamato “dolcezza”, e per quanto potesse sembrare un appunto inutile, in quel momento, trovai la cosa stranamente fastidiosa, anche se non avrei saputo spiegare il motivo di quella sensazione.

“Come al solito, pare che abbia deciso al posto tuo”, ribatté la mia amica, incrociando le braccia sotto il seno e assumendo un cipiglio severo.

“Credimi, geme, il suo atteggiamento dispotico e possessivo è davvero l’ultimo dei problemi”, risposi con una scrollata di spalle, mentre inviavo il messaggio di conferma ad Enrico. Forse vederlo poteva essere una buona idea – magari, alla luce di quanto avevo scoperto, potevo ottenere più materiale su cui riflettere a proposito della mia supposta infatuazione per lui.

“Ascolta, io non credo che tu ne sia davvero innamorata”, disse Ale dopo una pausa silenziosa, cercando di essere prudente e sensibile. “Proviamo a esaminare la situazione. Enrico è il primo ragazzo con cui sei uscita seriamente, giusto? L’hai frequentato sin da subito come se foste già fidanzati, perché questo era quello che voleva lui, e questo potrebbe averti un po’ incasinato le idee. Lui è stato gentile, non lo nego, ricordo come si è comportato quando tuo nonno è venuto a mancare… È stato irreprensibile, davvero! E tutti questi comportamenti potrebbero averti confusa. Non eri tu quella che diceva, all’inizio, che con lui non sarebbe durata più di una o due settimane, che non provavi niente, che lo ritenevi uno stronzo egoista e manipolatore? È come la sindrome di Stoccolma, geme! Era inevitabile che finissi per provare dei sentimenti per lui, visto che sei stata obbligata a frequentarlo praticamente per tutta l’estate. Ma questo non è detto che sia amore”, insisté, accennando persino un sorriso gentile.

Mi limitai a guardarla, avvilita. “E che cos’è, allora?” Mormorai. “Tu che cosa provi per Riccardo?”

Alessandra arrossì leggermente, poi alzò le spalle. “Ho sempre voglia di vederlo”, esordì. “Quando non c’è mi manca, e se è libero messaggiamo. Mi piace ogni cosa di lui, il suo profumo, la fossetta che gli si forma all’angolo della bocca quando sorride, persino le sue mani!” Ridacchiò, con un’aria imbarazzata. “Non so, non saprei come spiegarlo. Ho sempre voglia di toccarlo, e non immaginare cose zozze!, è una cosa che mi da conforto, e quando mi bacia…Oddio, è come se il resto del mondo svanisse.”

Non risposi subito – volevo dare a lei il tempo di riprendersi da quell’espressione sognante e a me l’occasione di riflettere sulle sue parole – ma quando lo feci sorrisi e cercai di sdrammatizzare. “Uao, geme, credo che mi sia appena venuta una carie.”

“Che stronza che sei! La prossima volta che mi chiedi un parere ricordarmi di non dartelo”, sbottò tirandomi un cuscino, ma senza riuscire a trattenersi dal ridere.

Alessandra poteva anche essersi fatta prendere la mano nel descrivere quelle sensazioni, ma aveva fatto del suo meglio e io credetti di aver afferrato il nocciolo del discorso. Ammettere a me stessa di essermi innamorata di Enrico era qualcosa che non avrei mai e poi mai voluto fare, ma forse… Forse era il caso che guardassi in faccia la realtà e ne accettassi le terribili conseguenze. Magari io non mi ero mai soffermata ad osservare le mani di Enrico o le varie fossette che poteva avere quando sorrideva, però dovevo riconoscere di aver avvertito anche io quell’impellente desiderio di toccarlo o di infilargli le dita tra i capelli ogni volta che gli ero abbastanza vicina. Avevo creduto che volerlo disperatamente baciare fosse solo un qualcosa di puramente fisico, senza altre accezioni, e se adesso dovevo ricredermi tutto cambiava prospettiva. Merda.

Mando Lorenzo a prenderti tra mezz’ora, fatti trovare pronta. Baci dolcezza.

Forse il momento della verità era più vicino di quanto pensassi.

 

 

 

*

 

 

 

Una mezz’ora dopo, puntuale come la morte, una Chevrolet blu scura si parcheggiò sotto casa mia ma non ne discese nessuno, segno che l’autista non aveva intenzione di perdere tempo. Alessandra si era fatta venire a prendere venti minuti prima da Riccardo, così raggiunsi da sola l’auto e mi accomodai nel sedile davanti, provando subito un’istintiva apprensione nel ritrovarmi così vicina a Lorenzo. Forse avrei dovuto dire ad Enrico che quel tipo non mi ispirava una grandissima fiducia – mi ricordavo del modo viscido con cui mi aveva toccato, la notte in cui ero stata per così dire rapita, e di come lo stesso Stefano, l’unico di quella strana cricca che non mi intimoriva, lo avesse rimproverato – ma alla fin fine avevo ben altre cose di cui discutere con lui senza che vi aggiungessi anche l’analisi psicologica dei suoi amici.

Lorenzo mi salutò appena e non parve neppure intenzionato ad intavolare una qualsiasi conversazione, cosa che a me stava più che bene; sistemai la cintura, strinsi la borsa in grembo e tenni il cellulare a portata di mano, tanto per sentirmi sicura. Visto che non dovevo fingermi interessata all’inesistente chiacchierata digitai un veloce SMS a Enrico per dirgli che ero con il suo tirapiedi – ovviamente non usai proprio questo termine – e che stavo per arrivare; dopo cinque secondi udii il rumore di una vibrazione che mi fece sobbalzare, e con la coda dell’occhio osservai il ragazzo al volante. Con una ruga in mezzo agli occhi Lorenzo afferrò il suo telefono dalla tasca dei jeans e lanciò un’occhiata distratta allo schermo, per poi metterlo nuovamente via come se non fosse stato niente. Si mise addirittura a fischiettare e sollevò il volume della radio, dove in quel momento stava passando uno degli ultimi successi dell’estate.

Ma tutto questo passava in secondo piano alla luce del fatto che il cellulare che Lorenzo aveva preso in mano somigliava in modo piuttosto inquietante a quello di Enrico. Certo, potevo sempre essermi sbagliata, ma avrei giurato che era lo stesso – anche se questo non provava un bel niente: anche io e Alessandra per un periodo avevamo avuto lo stesso Nokia, un po’ perché andava di moda e un po’ perché avevamo scoperto che era comodo da usare. Per cui, quei due avevano lo stesso telefono – okay, cosa c’era di male? Nulla. Ma allora perché quella brutta sensazione? Perché ero rabbrividita? E perché Enrico non mi aveva ancora risposto?

Fingendo di guardare fuori dal finestrino, alla cieca cercai il numero di Enrico nella mia rubrica e feci partire la chiamata; dopo due secondi, la musica della radio venne coperta dalla suoneria del cellulare di Lorenzo – no, di Enrico! Quella era la sua suoneria – quante altre coincidenze volevo aspettare? Nel giro di pochi secondi, mentre il telefono continuava a squillare e io, inebetita, non trovavo neppure la forza di spegnere la chiamata, mi turbinarono in mente tutti i piccoli dettagli che avevo finto di non notare.

Sabato sera Lorenzo non era con loro.

La macchina aveva cercato di investirlo…

Enrico aveva perso il cellulare e non poteva muoversi, era bloccato a letto – allora come poteva recuperarlo?

“Porca puttana”, sibilai terrorizzata, chiudendo la chiamata. Mi voltai verso Lorenzo, che aveva a sua volta il telefono in mano nel cui schermo appariva, terribile, l’avviso: Una chiamata persa – Giulia. Lo teneva rivolto verso di me per farmelo vedere, e un sorriso viscido gli aleggiava sulle labbra, con la stessa aria sorniona e soddisfatta che doveva avere il gatto dopo aver ingoiato il topo.

“Bene bene, a quanto pare mi hai già smascherato”, disse, parlando praticamente per la prima volta da quando ero salita in macchina. Notai distrattamente che il contachilometri segnava una velocità impossibile – dunque anche la mia folle idea di aprire lo sportello e gettarmi sul bordo strada era fuori discussione. Davvero, avrei dovuto smetterla di guardare tutti quei polizieschi.

“Che cosa vuoi, Lorenzo? I soldi di Enrico?” Mormorai sforzandomi di non sembrare troppo aggressiva, mentre nello stesso tempo cercavo di appiattirmi contro la portiera.

Mi lanciò un’occhiata infastidita. “Ma per favore. Ne ho in abbondanza di soldi, senza aver bisogno di quelli di Enrico”, ribatté, rallentando leggermente per non prendere una curva in quinta.

“E allora? Cos’è, vuoi fargli uno scherzo?” Ribattei sarcastica, senza riuscire a tenere la bocca chiusa. Dio mio, che cosa voleva da me? Che cosa c’entravo io con lui? Ci eravamo a malapena scambiati due parole da quando ho iniziato a frequentare Enrico!

Per tutta risposta lui ridacchiò, sembrando quasi normale. “In un certo senso, sì. E tu mi darai una mano, se non ti dispiace”, rispose, sempre con quell’odioso tono mellifluo. “Carino quel vestito, a proposito…” Aggiunse lanciandomi un’occhiata di orribile apprezzamento – perché diavolo non mi ero cambiata prima di uscire di casa? Fu con un crescente orrore, poi, che vidi la sua mano spostarsi dal pomello del cambio per poi posarsi leggera sul mio ginocchio, e da lì cercare di risalire, spostando il lembo dell’abito.

“Ma che cazzo fai!” Gridai quasi, allontanandomi il più possibile e fissandolo sgomenta.

Come unica reazione ottenni di farlo ridere ancora di più, anche se la sua mano tornò a stringere il volante. “Quante storie, dolcezza… Vedrai, ti piacerà quello che ho in mente per te”, mormorò, con un finto tono suadente.

Non sapevo che cosa replicare, ero letteralmente pietrificata dal terrore. Se questo era uno scherzo, Dio mio, quanto mi sarei incazzata con Enrico per averlo permesso… Eppure, il fatto di essere da sola con Lorenzo, il suo sguardo, il suo tocco, cavolo!, non mi lasciavano presagire nulla di buono. Stavo tremando. Mi guardai intorno nervosamente, cercando qualcosa che – non so – mi sarebbe potuta servire per tirargliela in testa, gettarlo fuori dall’auto e tornare in paese da sola – non avevo ancora la patente, ma mio padre mi aveva già fatto guidare in un paio di occasioni, e poi che cazzo, stavo scappando da un potenziale stupratore, ero sicura che non mi avrebbero arrestato!

Era come se avessi momentaneamente staccato l’interruttore dalla realtà, così non mi accorsi subito che la strada presa da Lorenzo era quella che conduceva alla casa in campagna di Enrico. A quel punto, osai quasi sperare che fosse tutta una messinscena – ma quando il bastardo parcheggiò davanti alla veranda vidi che non c’erano altre macchine, che tutte le finestre erano chiuse e che, in poche parole, non c’era nessuno. Con un’incredibile nonchalance Lorenzo spense il motore e scese dall’auto, e io decisi tutto in una manciata di secondi: avevo già slacciato la cintura, per cui spalancai lo sportello e mi precipitai fuori, cercando di correre il più velocemente possibile. Purtroppo il modesto tacco delle mie scarpe non tollerò la corsa sopra la ghiaia scivolosa, e non avevo fatto che pochi metri quando mi storsi una caviglia e crollai per terra.

“Cazzo”, singhiozzai, cercando di rimettermi in piedi. Uno sforzo che si rivelò inutile: Lorenzo mi aveva raggiunta e mi agguantò senza troppa delicatezza per le braccia, tirandomi su e afferrandomi poi i capelli con furia. Li strattonò facendomi strillare e mi piegò la testa all’indietro, in modo da costringermi a guardarlo in faccia.

“Dove pensavi di andare, eh, puttanella?” Sibilò, la sua bocca troppo vicina alla mia. “Non farmi passare la voglia di essere gentile, ti avverto!”

Ormai non riuscivo più a pensare lucidamente. Cercai di divincolarmi, ma con una mano continuava a tirarmi i capelli e con l’altra stringeva insieme i miei polsi, immobilizzandomi; in più ero in precario equilibrio su una gamba sola, dato che l’altra non riuscivo neppure a poggiarla per terra visto che la caviglia continuava a pulsare, dolorosa. “Lasciami!” Gridai, scuotendo il capo ma peggiorando la situazione – sentii il rumore di alcune ciocche che venivano strappate, così ci rinunciai, lacrimando. “Lasciami, per favore, lasciami, lasciami, lasciami…” Continuai, ansimante, con la voce che andava via via abbassandosi.

Forse credette di avermi in pugno o comunque confidò che nel mio stato emotivo non avrei più mosso un muscolo, fatto sta che per un attimo mollò la presa sui miei polsi, e io ne approfittai. Lo schiaffeggiai con tutta la forza di cui potevo disporre in quel momento – non troppa, purtroppo, dato che non ero proprio un’esperta di autodifesa – e nell’aria risuonò forte lo schiocco che fece la mia mano sulla sua guancia. Com’era prevedibile, ottenni solo di farlo incazzare di più.

“Puttana!” Ringhiò, ricambiando la cortesia e schiaffeggiandomi a sua volta. Lorenzo doveva essere di sicuro più esperto perché il colpo mi fece ronzare le orecchie, e fu così doloroso e inaspettato – solo io potevo avere la stupida convinzione, in quel momento, che lui non avrebbe alzato le mani su una ragazza – da lasciarmi stordita e barcollante. Sarei certamente crollata a terra se non fosse stato per lui, che mi teneva in piedi benché le mie ginocchia avessero ceduto improvvisamente.

La sua mano si chiuse violenta sulla mia mascella, stringendola e facendomi gemere, ancora. “Sarà meglio che impari le buone maniere se vuoi andare d’accordo con me, hai capito? Hai capito?” Mugghiò feroce, scrollandomi rabbiosamente.

Ero ancora parecchio stordita, ma riuscii a fissarlo attraverso la patina di lacrime che mi ricopriva gli occhi, e forse anche a fulminarlo con lo sguardo – o perlomeno provarci. “Vaf…fanculo”, mormorai a fatica, affannata dallo sforzo di non piangere e dalla sofferenza che, più passava il tempo, più diventava acuta.

Il secondo schiaffo giunse gratuitamente, e avrei anche dovuto aspettarmelo. Tuttavia ciò non lo rese meno doloroso, e dopo aver tossito e sputato un grumo di sangue persi conoscenza.

 

 

 

 

 

 





















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Angolo Autrice.
Devo scusarmi di nuovo per il ritardo!
Ero indecisa su come sviluppare questo capitolo, in realtà, e quello che ne è venuto fuori non mi soddisfa particolarmente... comunque, spero di avervi sorpreso ;D E spero anche di non avervi infastidito con l'improvviso risvolto "crudo" della storia, e con le parolacce che qui abbondano :P Anyway. Se non vi ricordate di Lorenzo - cosa altamente probabile - fa un'apparizione nel capitolo 6 (oddio... secoli fa!) Eeee... che cosa accadrà adesso? Ta-ta-ta-taaaa! Non vi svelo nulla, sennò dove sta il bello?, spero di riuscire ad aggiornare in tempi decenti non appena mi levo gli ultimi esami della stagione. Da qui in avanti, la storia dovrebbe procedere più velocemente perché nella mia testolina è tutto in ordine (sparso, ma in ordine) e attende solo di prendere forma sulla pagina bianca!
E adesso che vi ho confuso con le mie chiacchiere, passiamo ai ringraziamenti :)
Grazie mille a savy85, SenzaFiato, jede, Ellyra, M_CarpeDiem, Oasis, gikki__, Beadeisentieri, Ibelieveinniley, rodney, Eleanor_Rigby, mockingjay182 e Mery55 per aver recensito lo scorso capitolo - siete state gentilissime, mi fa un immenso piacere vedere che c'è ancora qualcuno che segue quest'odissea e che soffre e gioisce insieme ai miei personaggi! :) :) E poi un grazie infinito anche a tutti coloro che continuano ad aggiungere la storia alle Preferite, alle Seguite e alle Ricordate - grazie, grazie, grazie!
Con questo passo e chiudo, ho fatto il mio dovere di buona samaritana anche oggi :D Un bacio e un abbraccio a tutti, sempre vostra
Niglia.



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Capitolo 28
*** Capitolo XXVIII. ***


@ Attenzione: questo capitolo contiene un linguaggio forte e tratta di argomenti che potrebbero turbare alcuni lettori.




Capitolo XXVIII.

 

 

 

 

 

 

 

 

Non so quanto tempo dopo ripresi conoscenza. So solo che mi svegliai in una brutta, bruttissima posizione, una che ricordava in modo perverso l’uomo vitruviano, con le mani e i piedi legati alla struttura in ferro battuto di un letto che non conoscevo, la bocca tappata da un bavaglio – no, un momento… sembrava più una cravatta – la faccia dolorante e rovente e la caviglia che, in quella posizione, faceva ancora più male di quando l’avevo storta. Se non altro, il dolore significava che ero ancora tutta intera – anche se non sapevo bene per quanto lo sarei rimasta. Per di più, come se il fatto di essere legata come un salame non fosse abbastanza, perché le disgrazie non vengono mai da sole, non indossavo altro se non la biancheria intima: il mio vestito era ordinatamente piegato e poggiato su una sedia – così si sgualcisce, maledizione! – e le mie scarpe erano lì accanto, poggiate vicine con cura. Sì, la cura del maniaco psicopatico!

Okay, dovevo cercare di inghiottire le lacrime e restare lucida. In fondo qualcun altro avrebbe potuto trovarla una situazione eccitante, no? Ecco; dunque dovevo calmarmi, e sforzarmi di non pensare a quello stronzo di Lorenzo che si trovava chissà dove e a fare chissà che in giro per la casa. Mi guardai intorno: nella stanza non c’era neppure una sveglia, quindi non sapevo che ore fossero e quanto tempo poteva essere passato da quando Lorenzo era passato a prendermi a casa mia. Facendo mente locale, riflettei che le uniche persone che mi avevano visto andar via con lui erano Alessandra e mia madre, ma quest’ultima non poteva di certo sospettare che potesse esserci qualcosa di male nell'amico della figlia che l’aveva salutata con un sorriso gentile e un’espressione da bravo ragazzo, dunque dubitavo che potesse in qualche modo avvisare Enrico che io ero sparita insieme a lui. D’altra parte, neppure la mia amica avrebbe potuto sospettare qualcosa, dato che lei non conosceva Lorenzo e non sapeva quanto fosse viscido – io per prima non glielo avevo mai raccontato, presa com’ero stata dal veloce susseguirsi degli eventi – e anche se così fosse stato che cosa mi aspettavo? Che lei, essendo fidanzata con Riccardo, chiamasse Enrico per aggiornarlo? Ma poi lei Enrico lo odiava, o comunque non era nella sua lista degli uomini dell'anno, di certo non l’avrebbe chiamato neppure in un caso eccezionale come questo!

Ammetto che quel ragionamento non mi stava per niente tranquillizzando. Insomma, ero nei guai, e a quanto pare non lo sapeva nessuno; quel coglione di Lorenzo avrebbe potuto stuprarmi da un momento all’altro, o persino uccidermi per quanto ne sapevo io, e chissà quando avrebbero trovato il mio corpo! Sempre se non avesse già messo in programma di seppellirmi da qualche parte in piena campagna… Oddio mio, non era nei miei programmi morire giovane! Mi resi vagamente conto di non essere poi molto spaventata: sì, stavo tremando, ma il mio cervello doveva aver attivato una sorta di programma di autoconservazione che mi permetteva di riflettere freddamente con un pizzico di macabro umorismo. Chissà, forse mi avrebbe salvata la mia ironia? Piuttosto discutibile.

Con un grido esasperato soffocato dal bavaglio cercai di dibattermi e muovermi, ma senza ottenere alcun risultato. Porca puttana. Porca. Puttana! Dove diavolo è la cavalleria quando si ha bisogno di lei? Strattonai ancora la corda che mi teneva legata alla spalliera del letto, stupita che avesse trovato quelle maledette funi in casa di Enrico; non osavo neanche immaginare il motivo per cui lui le avesse, avevo già abbastanza problemi di cui occuparmi per affrontare anche quell’inquietante questione.

Lorenzo tornò in camera proprio mentre tiravo con la mano destra, distruggendomi il polso ormai arrossato per il continuo sfregare della corda sulla pelle. Una sua sola occhiata bastò a farmi capire che il vedermi in quelle condizioni – legata e dolorante – lo eccitava parecchio, la qual cosa non andava affatto bene. Mi immobilizzai e gemetti, disperata.

“Guarda un po’ cosa mi hai combinato, stai sanguinando”, biascicò con la sua disgustosa voce melliflua, fingendosi preoccupato mentre si sedeva sul bordo del letto e si sporgeva verso di me per sfiorarmi il polso con una languida carezza.

Cercai di borbottare un ‘vaffanculo’ attraverso la stoffa, e malgrado fossi riuscita a fargli intendere solo alcune vocali, a giudicare dal suo ghigno dovette aver afferrato il senso generale del mio invito.

“Se continui con queste parole dolci potrei anche innamorarmi di te come ha fatto Enrico”, ribatté ridacchiando, passandomi una mano sulla fronte per tirarmi indietro i capelli che mi erano finiti sugli occhi. Si chinò poi sul mio collo e lo sentii inspirare profondamente, prima che rilasciasse il suo alito caldo sulla mia pelle e vi posasse le labbra; rabbrividii, disgustata.

“Ah, sì… Il tuo profumo mi era piaciuto da subito, ricordi?” Mormorò con un sospiro estatico, facendo scivolare le sue dita tremanti dalla mia gola, nel solco tra i seni, lungo lo sterno fino al mio ventre nudo, per poi giocherellare a disegnare figure disordinate intorno all’ombelico. Per quanto cercassi di abbassarmi il più possibile contro il materasso e sfuggire al suo tocco, era materialmente impossibile farlo, per cui dovevo solo trattenere la nausea. I suoi occhi si spostarono nei miei, e mi parve che il mio cuore saltasse qualche battito quando si accorse della terribile promessa che aleggiava in essi.

“Voglio mordere quelle labbra fino a far passare ad Enrico la voglia di baciarti…Ma se ti levo il fazzoletto tu ti metteresti ad urlare, non è così?” Sussurrò, accarezzandomi la bocca dal di sopra della stoffa. Allargai impercettibilmente gli occhi e inspirai, tremante – aveva l’aria di essere davvero serio, porca miseria! Certo, avrei dovuto capirlo dallo schiaffo che mi aveva dato prima che perdessi conoscenza e dal modo in cui mi aveva legato, eppure una parte di me – sicuramente quella più ingenua e scioccata – si ostinava a convincermi che Lorenzo mi stesse solo prendendo in giro, e che da un momento all’altro mi avrebbe lasciato andare. Era una sensazione strana, come se mi fossi estraniata dal mio corpo e osservassi l’intera scena dall’esterno, allo stesso modo in cui i curiosi si fermano a fissare le macerie di un incidente automobilistico, con lo stesso irritante, morboso e perverso interesse.

Se fossi stata in grado di parlare probabilmente avrei cercato di convincerlo con le buone a non fare cazzate, o comunque avrei potuto provare a distrarlo con chiacchiere inutili fino all’arrivo dei soccorsi… Già, ma quali soccorsi, accidenti? Come avevo già appurato nessuno sapeva che ero lì, e se anche Enrico fosse riuscito a scoprire qualcosa con i suoi discutibilissimi mezzi, beh, da qui al suo arrivo sarebbe stato sicuramente troppo tardi. Cazzo!

Ripresi ad agitarmi, riuscendo a metterci tanta di quella forza da far tremare la spalliera del letto e farla sbattere contro la parete. Per nulla colpito, Lorenzo si limitò a scoppiare a ridere, divertito.

“Non aver fretta, tesoro, fra un po’ iniziamo!” Mi prese in giro, toccandomi una guancia umida con due dita. Volsi la testa dall’altra parte, serrando forte gli occhi con fare disgustato, ma ottenendo solo il l’effetto di farlo ridere di più.

“Cos’è, fai la timida adesso?” Continuò, avvicinandosi. Stavolta però accantonò le ‘buone maniere’ e mi afferrò il mento con forza, obbligandomi a guardarlo e piantandomi le dita nelle guance, a fondo – quello fece male, diamine! “Credi che non lo sappia che sei solo una puttanella che la da al primo che passa, solo perché ha una bella macchina o un bel visino? Puoi aver fregato Enrico con i tuoi occhi dolci, dolcezza, ma con me non attacca… Comunque sarà un enorme piacere vendicarmi di lui tramite te. Vedrai, gli farà schifo anche solo l’idea di toccarti dopo che avrò finito con te!”

Mio Dio, ma che cosa stava dicendo? Mugugnai qualcosa di incomprensibile, gli occhi sgranati dalla paura e il respiro affannato, e un’ombra strana passò nello sguardo di Lorenzo. Le sue labbra si arricciarono in un sogghigno viscido, e una sua mano tornò a posarsi sul mio ventre, con le dita aperte e distanziate le une dalle altre.

“Però è noioso non poter sentire la tua voce. Si perde parte del divertimento, non credi?” Sussurrò, sfiorando la pelle appena sotto il mio seno con la punta del naso. Mi sfuggì un singhiozzo, e lui ridacchiò. “Sì, sarebbe più stimolante sentirti, in effetti. Va bene, adesso ti levo la cravatta… però tu devi fare la brava e non gridare, okay? Sennò potrei diventare cattivo, e tu non vuoi che io diventi cattivo, mh?”

Non risposi, limitandomi a fissarlo e a trattenere il respiro. Forse quel silenzio venne intercettato come una risposta positiva, perché si sporse verso di me allungando le mani dietro la mia nuca e sciogliendo il nodo della cravatta, strofinando nello stesso momento le labbra contro il lobo del mio orecchio. Quando il bavaglio venne rimosso rimasi zitta, perché in fondo mi sembrava da stupidi strillare così, dal nulla, e Lorenzo si allontanò con aria compiaciuta e soddisfatta.

“Brava bambina…” Disse, posando la cravatta sul comodino di fianco al letto. Poi, con un’ipocrita finta cortesia, proseguì. “E adesso, dimmi: vuoi qualcosa da bere? Un bicchiere d’acqua? Non voglio che mi consideri un maleducato che non si preoccupa della sua ospite!”

Brutto bastardo, aveva anche intenzione di prendermi in giro?

“Non ho sete, però potresti liberarmi e farmi andare via. Ti giuro che non dirò niente a nessuno, tanto meno ad Enrico… Sei ancora in tempo per salvarti il culo.”

A giudicare dalla sua espressione, non parve gradire granché il mio intervento. “Dovresti pensare di più al tuo, di culo, dolcezza. Non sono io quello legato come un salame… Anzi, mi sorprende che la cosa non ti faccia effetto. Una ragazza normale sarebbe entrata nel panico nel risvegliarsi mezza nuda in un letto non suo. Com’è che tu non strilli neppure?”

“Non è la prima volta che mi capita”, sibilai, stringendo gli occhi. Già, in effetti Enrico mi aveva già riservato un trattamento simile all’inizio del nostro ‘rapporto’ – una cosa che in altre circostanze avrei anche potuto trovare divertente – ma di certo adesso la situazione era un tantino diversa!

Alla mia risposta Lorenzo inarcò un sopracciglio, metà sorpreso e metà divertito. “Uao, a quanto pare hai una vita sociale interessante. Ma non siamo qui per discutere di questo”, ribatté, alzandosi. “Anzi, non siamo qui per discutere di niente. Non so quanto tempo ci è rimasto… Hai dormito per un’ora e mezzo, lo sai, dolcezza? Credo sia il caso di darci da fare prima che arrivi qualcuno a disturbarci.”

Deglutii, di nuovo all’erta. “Ho… ho cambiato idea. Vorrei un bicchiere d’acqua!”

“Mi dispiace, Giulietta mia, adesso il bar è chiuso”, ribatté lui, agitando un dito verso di me. “Avresti dovuto pensarci prima.”

Senza aggiungere una sola parola, si levò la maglietta facendola passare dalla testa e gettandola per terra, rimanendo a torso nudo. Dopodiché iniziò ad armeggiare con i bottoni dei jeans. Merda, faceva sul serio!

Ripresi a scuotere le mani, tirando fino a quando la corda non penetrò nella carne lasciandomi dolorante e con i polsi arrossati. “Smettila, Lorenzo, non fare cazzate! Non ti ho fatto niente, porca miseria!” Gemetti, odiandomi per la mia voce tremolante.

“Lo so che non mi hai fatto niente, dolcezza”, rispose, con un sorriso gentile falso come le monete d’oro che si regalano per la Befana, quelle di cioccolato. “Non ce l’ho con te, infatti. Purtroppo, però, sei legata ad Enrico… E questo ti mette in una posizione scomoda, se mi scusi il gioco di parole.”

Sapevo io dove poteva ficcarsi il suo gioco di parole, ma saggiamente stavolta decisi di tenere la bocca chiusa. Distrarlo, dovevo distrarlo… Dio mio… Ma come?

“Hai… hai detto che ti vuoi vendicare di Enrico, prima…” Mormorai, cercando un coraggio che non avevo. “Si può sapere perché? Cos’è successo tra voi due? Credevo… credevo che foste un gruppo affiatato.” Per quanto possa esserlo un gruppo di ragazzi che spacciavano e andavano in giro armati. Ma chi ero io per giudicare? Quello che mi importava davvero era che Lorenzo abboccasse e si mettesse a parlare. Si liberò dei jeans e rimase con addosso soltanto i boxer, così distolsi lo sguardo, mio malgrado imbarazzata; accidenti, era anche un bel ragazzo… Peccato che fosse così coglione!

Con un’invidiabile noncuranza venne a sedersi sul letto, allungando una mano verso di me e riprendendo ad accarezzarmi il ventre, ma stando comunque lontano dalle zone critiche – pube e seno. Chissà perché, poi? Indugiò a lungo in quelle carezze – non so grazie a quale santo del Paradiso riuscii a non strillare dal disgusto – e poi, all’improvviso, si portò ai piedi del letto e iniziò a slegare la corda intorno alla mia caviglia sinistra, quella che avevo slogato.

“Enrico è un pezzo di merda”, esordì con cattiveria, senza guardarmi. Era troppo occupato a sciogliere il nodo che aveva fatto poco prima. “Pensa di poter comandare tutti come un boss solo perché è un Occhi Belli, l’ultimo erede della famiglia… Sembra un cazzo di padrino! E gli altri, tutti ai suoi piedi, a leccargli il culo, perché hanno paura di lui, hanno paura di essere messi da parte e di perdere i soldi che Enrico gli fa entrare in tasca. Mi sono rotto le palle di obbedirgli come un cagnolino! Non sono il cagnolino di nessuno, io! Dì, Giulia, ti sembro un cane? Eh?”

Scossi la testa, sorpresa da quello sfogo e timorosa che potesse diventare violento, ma tanto lui non vide la mia risposta perché era passato ad occuparsi dell’altro piede. Perché mi stava slegando? La risposta giunse quasi contemporaneamente alla domanda, con la stessa violenza di un treno in corsa: per riuscire a spogliarmi.

“Stefano è il suo braccio destro, giustifica tutte le cazzate di Enrico. Credo che siano cugini… Ma non è solo per questo che mi sono rotto. Sono nel suo gruppo da quando avevo sedici anni, cazzo, non gli ho mai dato motivo di dubitare di me, e lui che fa? Mi tratta come l’ultimo arrivato, come un insetto che non vale la pena di degnare di un’occhiata. Non si è mai fidato di me, non mi ha mai mandato dai suoi fornitori da solo, tanto per dirne una… E sai perché? Perché una volta mi aveva beccato mentre mi facevo! Ma era solo una dose, Giulia, capisci, una misera dose da tre grammi! Mi ha minacciato di mandarmi via, il coglione, mi ha persino picchiato, abbiamo fatto a botte! Ne sono uscito pesto e sanguinante, ma lui mi ha perdonato, ah, il grande filantropo, perché capiva che la tentazione potesse essere forte per uno come me. Cosa cazzo significa uno come me, brutto pezzo di merda? …Da allora ha iniziato a trattarmi diversamente, mi faceva tenere d’occhio dagli altri ragazzi, e non mi faceva andare da solo da nessuna parte. Un incubo! Ovviamente, quando volevo le mie dosi me le facevo lo stesso. Non sono un cazzo di ragazzino da tenere al guinzaglio, se voglio una cosa me la prendo… E sai cosa voglio adesso, dolcezza? Adesso, come hai brillantemente intuito tu, voglio vendicarmi di Enrico, perché ha fatto sparire dalla circolazione il tizio che mi riforniva, e sai come farò? Eh, lo sai? Mi scoperò la sua ragazza!”

La sua voce si sollevò di diverse ottave sul finire di quel folle discorso, e in quel momento mi accorsi vagamente di avere le gambe libere; purtroppo però ero troppo scioccata per pensare di fare qualcosa, e d’altra parte lui sembrava davvero forte a giudicare da come mi stava tenendo bloccata stringendo semplicemente le mani intorno alle mie caviglie. Singhiozzai – non mi ero accorta di aver iniziato a piangere, merda! – e provai scalciare, ma pareva tutto inutile: ridacchiando come un ragazzino Lorenzo salì a quattro zampe sul letto e si mise sopra le mie cosce, a cavalcioni, immobilizzandomi col suo peso e… porca miseria, era eccitato! Lo sentivo contro di me, duro, e prima di rendermene conto iniziai a strillare.

“Vattene-vattene-vattene! Lasciami, cazzo, lasciami!” Continuai a gridare e dibattermi, ma lui era pesante e, a questo punto, dopo quel racconto, temetti che potesse anche essere fatto.

Non potei prevedere lo schiaffo, perché avevo gli occhi chiusi per non vedere quella sua faccia di merda sospesa a pochi centimetri dal mio volto; il colpo mi fece tacere di botto, lasciandomi intontita e dolorante e senza fiato. Quando socchiusi le palpebre, ansimando per ritrovare il respiro, vidi la sua espressione furiosa e i suoi occhi opachi che mi fissavano con una freddezza che non avevo mai visto prima in nessun altro.

“Ti avevo detto di fare da brava e non urlare, o mi sbaglio, piccola puttana?” Sibilò, avvicinando la bocca al mio mento. Vi posò le labbra, poi le dischiuse e sentii i suoi denti duri contro la pelle, mordicchiandola, e poi giunse la sua lingua a farmi gemere dallo schifo e singhiozzare. Scossi con forza la testa, cercando di allontanarlo, e continuai nello stesso tempo a biascicare tra un singulto e l’altro frasi sconnesse e tremanti.

“Lasciami, no, no, no… No, smettila, per favore, smettila…”

“Oh, tesoro, abbiamo appena iniziato…” Mormorò una volta raggiunto il mio orecchio. Prese a mordicchiare e leccarne il lobo, e io strillai ancora, agitando braccia e gambe e facendo scricchiolare il letto. Ma tutto questo non serviva, dato che continuavo a rimanere irrimediabilmente legata. Quando sentii una sua mano chiudersi a coppa sul mio seno piansi e strillai ancora più forte, e realizzai che ormai non c’era più nulla da fare – nessuno sarebbe venuto a salvarmi, e Lorenzo l’avrebbe avuta vinta!

Ma come al solito mi sbagliavo.

All’improvviso, prima che le sue dita schifose si infilassero al di sotto della stoffa del mio reggiseno, la porta della camera si spalancò con così tanta forza da andare a sbattere contro il muro, facendo sobbalzare Lorenzo che si voltò di scatto per controllare cosa diavolo stesse succedendo. Aprii gli occhi anche io, ansimante, ma dovetti sbattere più volte le palpebre prima che le lacrime si diradassero e mi permettessero di vedere il recente sviluppo della situazione. Fu così che mi ritrovai a fissare Enrico – buon Dio, sì, era proprio lui, e io non ero mai stata più felice di vederlo come in quell’istante! – e la pistola minacciosa che stava puntando con mano ferma e decisa contro il mio rapitore.

In un altro momento mi sarei messa a ridere: un tempo era stato lui il mio rapitore, e io l’avevo anche accusato di volermi violentare visto come si era comportato con me… Assurdo come la situazione si fosse drasticamente capovolta rispetto ad allora.

La presenza di Enrico mi aveva sorprendentemente calmato; benché avessi ancora Lorenzo spalmato sopra che mi schiacciava contro il materasso e le sue sudice mani addosso, smisi di dibattermi e mi rilassai, chiudendo di nuovo gli occhi e abbandonandomi a un pianto silenzioso di sollievo. Avevo l’impressione di galleggiare in una comoda bolla di incoscienza, che tuttavia scoppiò quando la voce di Enrico esplose nella stanza, a dir poco furibonda. Trasalii e lo fissai, spaventata e preoccupata.

“Allontanati da lei, cazzo!” Ruggì, continuando a tenerlo sotto tiro. “Non farmelo ripetere o sparo, Lorenzo, ti giuro che sparo!”

Senza staccare gli occhi da lui, Lorenzo si tirò su con calma, le braccia apparentemente rilassate lungo i fianchi: non mi toccò più mentre scendeva dal letto, sforzandosi di rimanere prudentemente fuori dalla linea di tiro. Quasi rimpiansi che Lorenzo se ne fosse andato, visto che adesso entrambi potevano vedermi in quelle condizioni: mi imbarazzava che Enrico mi vedesse legata e mezza nuda, ma comunque non era quello il momento di pensarci. Spostavo lo sguardo dall’uno all’altro, piegando le gambe un po’ per la vergogna e un po’ per cercare di mettermi a sedere, ma senza poter contare sull’aiuto delle braccia era impossibile.

“Sai sempre come rovinare una festa, Enrico”, sibilò Lorenzo senza più sorridere, fissandolo come se avesse desiderato ucciderlo. Peccato che anche il mio salvatore avesse lo stesso sguardo, e che fosse lui quello armato. “Io e la signorina ci stavamo solo divertendo.”

“Brutto stronzo…” Mi sfuggì, prima di venire interrotta da Enrico.

“Figlio di puttana!” Ringhiò, abbassando la pistola e gettandosi contro Lorenzo con una furia che non gli avevo mai visto. Lo colpì prima sotto lo sterno facendolo piegare in due, e poi alla mascella con un pugno che aveva l’aria di essere parecchio forte; Lorenzo cadde per terra tenendosi la pancia con le braccia, gemendo e sanguinando dal naso e dalla bocca. Non hai più voglia di fare il gradasso adesso, eh?

Enrico lo fissò con disgusto, poi parve ricordarsi di me e si voltò, raggiungendomi e poggiando la pistola sul comodino mentre si sporgeva per sciogliere le corde che mi tenevano ancora legata. Stavo tremando, eppure trovai ancora la voglia di fare del sarcasmo.  “Ma tu non eri bloccato a letto?” Gli chiesi a mezza voce, mentre liberavo con un sospiro di sollievo la mano destra.

Per tutta risposta mi dedicò un brevissimo sorriso. “Niente che un po’ d’azione non potesse curare, a quanto sembra”, replicò, liberandomi anche l’altra mano. Subito mi massaggiai i polsi indolenziti, gemendo. “Stai bene?” Mormorò subito, di nuovo serio e allarmato.

Annuii. “Tutto sommato sì… Enrico, attento!

Il mio grido lo distrasse da me e il rumore di uno sparo sovrastò la mia voce: purtroppo venne colto talmente alla sprovvista che non ebbe la prontezza di riflessi di spostarsi, così il proiettile lo colpì chissà dove e chissà quanto gravemente. Senza pensarci due volte afferrò di nuovo la sua pistola – quella che teneva nel cruscotto, suppongo – ma prima che si alzasse in piedi Lorenzo sparò un’altra volta, colpendolo alla spalla. Trattenni bruscamente il fiato, portandomi le mani a tapparmi la bocca per non mettermi a gridare come il mio terrore mi stava costringendo a fare.

Poi tutto avvenne come al rallentatore.

Enrico mi diede le spalle, sollevò il braccio destro – l’altro pendeva stranamente inerte lungo un fianco – e, senza che la mano gli tremasse minimamente, prese la mira. Forse Lorenzo non si aspettava che il suo ex amico facesse sul serio, perché rimase ad ansimare senza neanche accennare a muoversi, con la mano che teneva l’arma abbassata e l’altra, quella libera, a tergersi il sangue che gli sgorgava dal labbro spaccato, il tutto mentre continuava a fissare con aria folle e sadica prima me e poi lui.

Inaspettatamente scoppiò a ridere. “Non mi fai paura, Enrico! Non ce le hai le palle per ammazzarmi. Sai solo pestare e minacciare, e questo forse potrà tenere buoni i tuoi cagnolini per un po’, ma prima o poi… Prima o poi si stancheranno, e allora, se non l’avrò già scopata io, la tua ragazza, lo farà qualcun altro!”

Non gli diede neppure il tempo di risollevare la pistola. Fece fuoco.

Tre colpi precisi, freddi, spietati. Petto. Petto. Fronte.

E poi un silenzio assordante, nel quale rimbombavano ancora gli echi di quegli spari.

In quel momento gridai, gli occhi pieni della visione di Lorenzo che crollava in terra come un pupazzo inanimato, con il sangue che colava dai due buchi sul petto nudo e la faccia una maschera di sangue e gli occhi vitrei, sbarrati, e la bocca ancora vagamente sorridente che pareva essersi modellata in una strana 'O' di sorpresa. Mi vennero i conati, e avrei sicuramente vomitato se avessi avuto qualcosa nello stomaco, ma fortunatamente era trascorso parecchio tempo da pranzo e quel giorno non avevo neppure mangiato tanto. Enrico allora si voltò di nuovo verso di me, l’espressione feroce di poco prima tramutata in una preoccupata e dispiaciuta – forse non era stata sua intenzione mostrarmi quel lato di sé? – ed ebbe appena il tempo di fare due passi verso il letto e vedere me che mi allontanavo da lui, ancora sotto shock, prima che la consapevolezza di essere stato a sua volta ferito si facesse largo nella sua mente. Lo vidi abbassare gli occhi sulla propria spalla sinistra e notare solo ora la macchia di sangue che si allargava sulla stoffa chiara della camicia, allargandosi sempre di più, lungo il braccio e verso il petto. Lo vidi impallidire e lasciar cadere a terra la pistola ormai inutile, per poi reggersi il braccio ferito con quello sano. Si lasciò cadere sul letto, serrando forte gli occhi con una smorfia sofferente, ma io continuavo a rimanere a distanza, troppo spaventata per osare avvicinarmi a lui.

“Giulia, per favore…” Mormorò, intuendo sicuramente ciò che mi passava per la testa. Ma l’avevo appena visto ammazzare a sangue freddo uno dei suoi amici, cazzo, non potevo passarci così, come se niente fosse!

All’improvviso sentii dei rumori provenire dall’esterno della stanza, come di chi fa le scale correndo come se stesse fuggendo dal diavolo in persona. Io non riuscivo a staccare gli occhi da Enrico, mio malgrado, ma mi costrinsi a farlo quando vidi, con la coda dell’occhio, qualcuno affacciarsi sulla soglia.

“Porca puttana”, sibilò il nuovo arrivato, attirandosi l’attenzione della sottoscritta. I nostri sguardi si incrociarono nello stesso istante, furioso e turbato il suo, sbarrato e sconvolto il mio, e lo riconobbi. Era Stefano, l’unico degli amici di Enrico con cui non mi sentivo a disagio. Le lacrime iniziarono a scorrermi sulle guance prima che potessi fare qualsiasi cosa per bloccarle.

Prima di entrare si voltò verso il corridoio e prese immediatamente il controllo della situazione. “No, ragazzi, è meglio se non entrate. Francesco, chiama l’ambulanza. Porca puttana, bisogna chiamare anche la polizia… Albi, occupatene tu.” Poi tornò a dedicarsi a noi e avanzò all’interno della stanza, lanciando solo uno sguardo freddo e disinteressato al corpo di Lorenzo che si stava raffreddando in un angolo, completamente immerso in una pozza di sangue. Distolsi immediatamente lo sguardo, gemendo.

“Sté, non la polizia, cazzo…” Mormorò a mezza voce Enrico, a fatica, aprendo un solo occhio e fissando con sguardo confuso l’amico.

“Non possiamo ripulire questo casino, Enrico, non siamo soli, c’è anche Giulia”, ribatté Stefano, pragmatico ed efficiente. Non sembrò utilizzare la mia presenza come un’accusa nei miei confronti, quanto piuttosto come una specie di doccia gelata per far rinsavire il suo ‘capo’. “E poi non pensarci, sistemeremo tutto come sempre. Cosa ti è successo, mh? Il bastardo ti ha colpito?”

Enrico annuì con un grosso sforzo. “Al braccio. Credo… credo ci sia ancora il proiettile.”

“Cazzo. Beh, poteva andarti peggio”, replicò sdrammatizzando, reggendo l’amico con un braccio dietro la sua schiena per evitare che si accasciasse e rischiasse di spedire più a fondo nella carne il proiettile. Poi si rivolse a me, ma stavolta ebbe il buonsenso di mostrarsi più cauto e anche leggermente imbarazzato. “E tu, Giuli… Come stai? Ti ha… beh…”

Scossi la testa come in trance, non volendo neppure sentire ad alta voce ciò che stava pensando. “No”, mormorai, spenta. “Voglio tornare a casa.”

Stefano mi fissò attentamente, come se avesse voluto trapassarmi con il suo sguardo. Non avevo mai fatto caso al colore dei suoi occhi – erano grigi, un grigio scuro, cupo. Enrico li aveva scelti apposta tutti belli, i suoi compari?, mi ritrovai a pensare aspramente.

“Sta per arrivare l’ambulanza, Giulia, stai tranquilla. Tra un po’ potrai tornare a casa”, mi spiegò, con lo stesso tono gentile e pacato che si usa in genere con gli animali selvaggi da addomesticare.

Mentre aspettavamo iniziai ad avere freddo, freddo fin dentro le ossa, ma non era un gelo che poteva passare rivestendomi o coprendomi con qualcosa, era ghiaccio polare che serpeggiava sotto la superficie della mia pelle lasciandomi tremante e intontita, pallida e con una tremenda emicrania che iniziò a farmi pulsare le tempie. Mi mancò il respiro, ansimai e mi portai una mano alla gola, che ardeva dalla sete, sentendomi la pelle imperlata da minuscole goccioline di sudore; come potevo sudare ed avere freddo nello stesso momento? E poi, improvvisamente, mi sentivo stanca, tanto stanca, con solo la voglia di dormire…

Prima di crollare e svenire udii soltanto Enrico e Stefano imprecare, e poi il buio. Mi stava succedendo decisamente troppo spesso, negli ultimi tempi.

 






















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Angolo Autrice.
Okay, mh... Non so che dire. Spero di non aver scioccato nessuno con questo brusco risvolto della situazione... Tra l'altro, ho cercato di rendere la scena il più possibile realistica - basandomi su film o libri che ho letto e visto in passato - ma, come per tutte le cose che non si vivono in prima persona (in questo caso, per fortuna!), non credo di aver fatto un bel lavoro. Ho cercato di fare del mio meglio con quel poco che sapevo, spero che apprezzerete la buona volontà. :)
Ora, si accettano scommesse su cosa accadrà adesso! :3 E comunque, è con grande piacere che vi informo che manca davvero pochissimo per giungere alla fine di questa storia - diciamo tre o quattro capitoli? - quindi non dovrete sopportarmi per molto altro tempo: fra un po' potrete liberarvi di me :D
Ringrazio ancora una volta tutti coloro che sono giunti fin qui, nonché Ellyra, jede, Eleanor_Rigby, gikki__ e alexy95 per aver recensito lo scorso capitolo - le vostre recensioni mi fanno davvero sempre tanto, tanto, tanto piacere, è bello leggere che cosa pensate della trama, dei personaggi eccetera, e poi i vostri consigli e i vostri commenti mi aiutano a - spero - migliorare di volta in volta. :)
Detto ciò, scappo prima che inizino a volare i primi pomodori marci! :D Ci leggiamo al prossimo capitolo, cercherò di pubblicare in tempi brevi - anche se confido che comprenderete l'alibi delle vacanze per perdonarmi eventuali ritardi ù_ù Un abbraccio forte a tutti quanti, rimango sempre la vostra affezionatissima
Niglia.


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Capitolo 29
*** Capitolo XXIX. ***


Capitolo XXIX

 

 










 

 

 

 

 

 

 

Stavolta, quando ripresi conoscenza, mi ritrovai in ambulanza, con la testa in grembo a Stefano e le gambe distese lungo una specie di sedile doppio che si trovava nel lato opposto alla barella. Mentre un’infermiera o quel che diavolo era si occupava di Enrico, sdraiato apparentemente privo di sensi sulla lettiga e con la camicia zuppa di sangue aperta sul petto, io cercai di alzarmi per mettermi a sedere, ma una mano di Stefano sulla spalla mi fece gentilmente cambiare idea.

“Cos’è successo?” Mormorai, strofinandomi gli occhi. Mi sentivo tutto il corpo intorpidito, senza contare il terribile mal di testa che mi faceva pulsare le tempie, ma non osai lamentarmi visto che Enrico era ancora più pallido e insanguinato di prima – Dio mio, doveva avere delle brutte ferite.

“Hai avuto uno shock, niente di eccessivamente grave”, spiegò a mezza voce Stefano, chinandosi appena verso di me. “Adesso stiamo andando in ospedale. Ho trovato il tuo cellulare e ho chiamato i tuoi genitori, dieci minuti fa.”

Quella non era una grande notizia. Che cosa diavolo avrei raccontato ai miei genitori? Che uno degli amici del mio ‘ragazzo’ aveva cercato di violentarmi e che lui l’aveva ucciso? Dio mio, sarei stata fortunata se mi avessero rinchiuso in casa per il resto dei miei giorni! E dire che avevo promesso a mia madre che tutta la faccenda di Enrico non mi avrebbe distratta dai miei obiettivi scolastici…

“Non pensarci, adesso”, aggiunse, come intuendo l’ingarbugliato flusso dei miei pensieri. “Vedrai, andrà tutto bene.”

Istintivamente lanciai un’occhiata ad Enrico, e a voler essere sincera pensare che tutto sarebbe andato bene era l’unica cosa che non credevo di poter fare. Mi sfuggì un singhiozzo e chiusi gli occhi, mentre Stefano si spostava leggermente per rendere la posizione il più comoda possibile. Non mi addormentai, non credo, almeno, ma rimasi sdraiata così fin quando l’ambulanza non raggiunse l’ospedale e quel rumore fastidiosissimo che solo dopo compresi essere la sirena si spense.

 

 

In ospedale venimmo raggiunti dalla polizia, pochi minuti dopo che Enrico era sparito all’interno del reparto – io e Stefano eravamo rimasti fuori, nella sala d’attesa, e lui mi aveva spiegato brevemente che il primario era un conoscente della famiglia D’Angelo. Ma che casualità…

Lasciai che fosse lui a rispondere alle domande degli agenti, perché io ero ancora troppo sotto shock per riuscire a formulare un pensiero coerente – figuriamoci per sostenere un interrogatorio, seppur così informale. Grazie a Dio non molto tempo dopo arrivarono anche i miei genitori, e visto che in quanto a conoscenze neppure mio padre era da meno, riuscì a convincerli a lasciarmi in pace il tempo di riprendermi. Inutile dire che, stretta tra le braccia di mia madre e con mio padre seduto dall’altro lato, con un’espressione severa e vagamente minacciosa in viso – come se stesse scoraggiando chiunque dall’avvicinarsi – mi sentii subito meglio. Balbettando e mormorando a fatica, raccontai a grandi linee a mia madre quello che era accaduto, e anche se non potevo vederlo sentii mio padre irrigidirsi dietro di me; riuscii persino a piangere, seppellendo i singhiozzi e i tremiti contro di lei.

Parlai senza pensare alle conseguenze – in fondo ero stata testimone di un omicidio, pur con tutte le attenuanti di questo mondo, e non avevo idea che quello sarebbe stato solo l’inizio dell’ulteriore girone di stress e inquietudine nel quale stavo per addentrarmi. I poliziotti raccolsero la deposizione di Stefano ma non se ne andarono, restando fuori dalla sala d’attesa e continuando a mettermi agitazione con la loro semplice presenza fisica: distrattamente, infatti, li udivo discutere a mezza voce e accettare telefonate in continuazione – probabilmente erano in contatto con i loro colleghi rimasti alla villa di Enrico, a studiare il “luogo del delitto”. L’intera situazione era talmente tanto assurda e al di fuori della portata del mio radar abituale che avevo in un certo senso staccato la spina con quella realtà, smettendo di piangere e di pensare, iniziando a convincermi che tutto quello che mi era appena successo era soltanto un incubo, o un’allucinazione, o qualsiasi altra diavoleria possibile – Cristo santo, non potevo semplicemente rassegnarmi all’idea di aver appena vissuto una cosa del genere!

Dopo aver ottenuto il permesso dei poliziotti, Stefano telefonò anche alla sua famiglia e, suppongo, contattò gli altri ragazzi rimasti alla villa per informarsi sulla situazione. Non ebbi più modo di parlare con lui, lo osservai dall’abbraccio di mia madre con aria distratta, quasi svagata, mentre faceva su e giù con la maglietta macchiata di sangue – di chi? – nella saletta, il telefono all’orecchio e la voce talmente tanto bassa da dare l’impressione che invece di parlare muovesse solo le labbra.

Ogni tanto usciva un’infermiera, ignorava gli sguardi intimidatori dei poliziotti e si avvicinava a me per controllare il mio stato. Mi sfiorava fronte e guance, controllava il battito del cuore dal polso, gli occhi arrossati e poi suggeriva di farmi ingurgitare qualcosa di dolce, ma il mio stomaco era più annodato dei nodi del Capitan Findus, quindi tutto ciò che riuscivo a mandar giù era un bicchiere di acqua e zucchero.

Quando arrivarono i genitori di Enrico, i tre agenti impedirono loro di entrare in reparto. Li trattennero fuori, tempestandoli di domande e di chissà cos’altro, ma si vedeva lontano un miglio che il padre fosse incazzato e preoccupato insieme e che Betta stesse tremando di apprensione. Appena mi vide trasalì e, se possibile, impallidì ancora di più – qualcuno doveva averle raccontato la versione riassunta di quanto era successo – e non riuscì a trattenersi dall’avvicinarsi a me. Mi accorsi vagamente come i miei genitori si fossero mossi quasi in contemporanea per proteggermi anche da lei, ma io mugugnai contrariata e mi spostai da mia madre per venire abbracciata da quella di Enrico. Mi strinse e singhiozzò contro di me, mi baciò sulla fronte pallida e gelida, poi si voltò verso mia madre e le prese una mano, limitandosi a guardarla. Credo che tra madri si compresero più di quanto potessi immaginare, perché vidi la mia accennare un sorriso tra le lacrime e Betta fare altrettanto: mi fece piacere che i miei non accusassero lei per tutto quel casino – non era certo colpa di quella donna se Enrico conduceva quella vita e se io ci ero finita dentro, quanto piuttosto del marito, e se c’era qualcuno da biasimare in quella storia non era neppure Enrico, era Raffaele.

Poi non so di preciso cosa accadde – forse la scarica di adrenalina che mi aveva tenuto in piedi in tutto quel frattempo si era infine esaurita e mi aveva fatta crollare, esausta e addormentata.

Quello che so è che quando mi ripresi ero di nuovo a casa mia, nel tepore confortante del mio letto, stretta ad un cuscino bagnato che dovevo aver inzuppato con una sorta di pianto inconscio.

 

 

 

Non uscii di casa per tutta la settimana seguente.

Sussultavo al minimo rumore brusco che spezzava la quiete della mia stanza, tremavo se udivo un ramo spezzarsi al di sotto della mia finestra, dormivo con le finestre chiuse e con la lampada del comodino sempre accesa, proprio io che non avevo mai avuto problemi ad addormentarmi al buio. Il dottore mi aveva prescritto delle pastiglie per farmi dormire in ogni caso, e non mi vergogno di dire che ne feci largo uso, soprattutto i primi giorni. Almeno, quando dormivo, non sognavo le mani viscide di Lorenzo addosso a me.

Il mio cellulare rimase spento, così non sapevo se Enrico aveva provato a contattarmi o se lo aveva fatto Stefano, o qualcuno dei miei amici. So che Alessandra venne diverse volte a casa mia per trovarmi, ma io non volevo vedere nessuno, tantomeno lei, quindi tutto ciò che mi restava di queste brevi e timide visite era la voce preoccupata di mia madre che mi riportava gli auguri di pronta guarigione della mia migliore amica.

Le uniche persone che volevo vedere erano mia madre, mio padre, mia sorella e mia nonna – tutti gli altri, zii e amici vari, erano tenuti severamente fuori dalla mia stanza. Non avevo idea di ciò che stava succedendo al di fuori di quelle quattro pareti – solo tempo dopo venni a sapere che in tutto quel mentre ero stata protetta anche dai giornalisti, come se la mia tragedia in sé non bastasse.

Eppure, grazie alla lingua lunga di mia sorella, scoprii che mia madre si sentiva più o meno ogni giorno con Betta. Come diavolo era possibile? Perché si teneva in contatto con quella famiglia? Non ero stata forse abbastanza chiara, al riguardo? Non le avevo forse detto che non avrei più voluto averci nulla a che fare? Perché era ovvio che quelle due non si sentissero per scambiarsi ricette e chiacchiere di cose futili, visto che la figlia di una aveva rischiato lo stupro e il figlio dell’altra, a quanto ne sapevo io, era ancora in ospedale a riprendersi dalla sparatoria. Non so se in tutto questo c’entrasse in qualche modo Enrico – sinceramente non ne dubitavo, conoscendolo: probabilmente aveva chiesto lui a Betta se poteva scoprire che cosa mi era successo, dato che ero scomparsa nel nulla; ma, anche se così non fosse stato, non mi piaceva l’idea che le nostre due madri facessero combriccola rendendo poi inevitabile un nostro futuro incontro.

Incontro che, come avrei dovuto immaginare, non avvenne a distanza di molto tempo. Anzi; appena sette giorni dopo l’accaduto, quando i miei genitori mi accompagnarono in ospedale per delle visite di routine – il dottore voleva assicurarsi che non fosse più necessario prescrivermi i vari sonniferi o qualunque altra cosa mi avesse somministrato in quel frattempo – fu inevitabile incontrare, nella hall dell’edificio, la madre di Enrico che si era allontanata per cinque minuti dal capezzale del figlio per prendersi un caffè al bar.

Il mio primo pensiero fu quello di nascondermi ed evitarla: la variante Betta portava immediatamente alla variante Enrico, e dopo una settimana non avrei potuto incontrare una senza incappare nell’altro; tuttavia, mia madre le aveva già fatto un cenno da lontano e, mentre mio padre si dirigeva allo sportello dei ticket, io venni trascinata in un abbraccio lacrimevole e sinceramente commosso dalla matrigna del mio Grosso Problema Numero Uno. O “ex”, come l’aveva recentemente ribattezzato mio padre.

“Enrico sarebbe felice di vederti, tesoro”, mormorò, dopo un’educata serie di convenevoli. “Adesso mi sono allontanata per farlo riposare un po’, ma credo che non gli darebbe fastidio se andassi tu a trovarlo. Cosa ne dici? Te la senti?”

In un’occasione normale la mia risposta sarebbe stata no, assolutamente no, nel modo più assoluto, scordatelo, strappami la milza piuttosto, ma quella non era un’occasione normale e io avevo mia madre dietro che mi punzecchiava e mi lanciava occhiate penetranti che mi intimavano in silenzio di essere gentile con Betta e che andare a scambiare due parole con Enrico non mi avrebbe di certo uccisa. Per cui, sentendo già l’agitazione scorrere in ogni singola vena del mio corpo, annuii poco convinta e mi lasciai spiegare la strada per raggiungere il suo reparto e la stanza: le due donne non sarebbero venute con me, a quanto pare quella era una cosa che avrei dovuto fare non accompagnata. Perfetto, davvero.

Per cui, visto che comunque avrei dovuto aspettare prima che arrivasse il mio turno per entrare dal dottore, mi diressi senza troppo entusiasmo verso il quarto piano.

 

Le infermiere, per fortuna o per sfortuna, mi riconobbero e mi fecero passare senza fare storie.

Quando entrai nella stanza di Enrico, questa era immersa in una confortevole penombra e da un fastidioso silenzio, rotto solo dal leggero gocciolio che faceva la sostanza nella flebo man mano che il liquido scivolava nel tubicino trasparente. Malgrado la tristezza dell’ambiente in sé, quella camera non era male: tanto per cominciare era per una sola persona, c’era la televisione, un armadio e un tavolo per mangiare, poi sul comodino c’era un vasetto di una qualità di fiori che non conoscevo ma che faceva un buon profumo, portato sicuramente da Betta, e che rallegrava la stanza. Chiusi la porta alle mie spalle con delicatezza, in modo da non far svegliare subito Enrico, e con un brivido di nervosismo lungo la spina dorsale mi guardai intorno, torcendomi le mani. Dio mio, che cosa ci facevo lì? Perché mi ero lasciata convincere?

Accanto al letto c’era una sedia, o meglio, una specie di poltroncina, e visto che era l’unico posto nel quale potevo sedermi fu lì che mi diressi, camminando praticamente in punta di piedi. Tolsi il libro che vi aveva lasciato la madre – Mille splendidi soli, a quanto pare io e Betta avevamo letture in comune – e mi sedetti, spostando leggermente la sedia in modo da non essere troppo attaccata al letto. E adesso non sapevo che cosa fare. Svegliarlo era fuori discussione: non volevo anticipare il momento della verità, soprattutto dato che non avevo alcuna idea di come affrontarlo; d’altra parte, non è che potevo rimanere in eterno lì ad attendere che il bell’addormentato abbandonasse il mondo dei sogni – Betta poteva fare di tutto per trattenere i miei genitori giù al bar, ma probabilmente si sarebbero stufati in fretta di aspettare. Soprattutto mio padre, che non mi era sembrato molto propenso a lasciarmi andare da sola a parlare con Enrico. E come biasimarlo?

Comunque, non ero arrivata che da cinque minuti, più o meno, quando il ragazzo che dormiva beato nel letto d’ospedale iniziò a muoversi. Vidi il suo respiro cambiare ritmo, le palpebre serrarsi con forza come a voler trattenere un sogno, e le labbra socchiudersi per rilasciare un ansito quasi doloroso: evidentemente neanche per lui il sonno indotto dai farmaci era troppo pacifico. Poi gli occhi si schiusero, le sopracciglia si aggrottarono, e la testa si mosse debolmente come per cercare la madre; e invece fu me che trovò.

In un primo momento non parlammo: ci limitammo a fissarci a vicenda, Enrico probabilmente troppo sorpreso dalla mia presenza per dire qualcosa, e io troppo scioccata dal fatto di essere davvero lì, con lui, malgrado quanto mi fossi ripromessa di fare.

Sostenere il suo sguardo mi fu impossibile. “Non sarei dovuta venire qui”, mormorai, alzandomi di scatto e barcollando lievemente per la fretta con la quale mi ero mossa. Tuttavia lui fu ancora più veloce di me, perché malgrado le sue condizioni riuscì ad avere abbastanza riflessi da afferrarmi il polso con la mano collegata alla flebo, e con essa trattenermi con una forza sorprendente accanto al lui.

“No, per favore”, furono le sue prime parole, roche e sussurrate. “Giulia, dobbiamo… parlare.”

Distolsi lo sguardo da lui, contai fino a cinque, presi un profondo respiro e poi tornai a guardarlo. “Hai ucciso un uomo, Enrico. Non c’è molto di cui parlare”, mormorai, dicendo per la prima volta ad alta voce le parole che mi avevano torturato in quell’orrenda settimana.

“Ti prego, siediti. Voglio che ascolti quello che ho da dire”, ripeté supplicante, guardandomi con quegli occhi verdi annebbiati dagli antidolorifici e chissà cos’altro. Non l’avevo mai visto in quelle condizioni, e non parlo della flebo e tutto il resto, per cui probabilmente fu quel maledetto istinto da madri barra infermiere che posseggono in linea di massima tutte le donne a riportare il mio sedere su quella sedia e a mettermi in predisposizione d’animo di ascoltarlo. Era strano come il mio cervello tendesse a scindere lui dalla faccenda di Lorenzo, come se le due cose, in realtà, non fossero collegate; guardando in faccia Enrico, infatti, mi risultava sempre più difficile riaggrapparmi all’immagine di lui che sparava all’amico, quasi che questa seconda figura non esistesse che all’interno della mia mente. Oh mio Dio, stavo già impazzendo? Alessandra aveva avuto ragione, quando aveva detto che avrei avuto bisogno di una terapia.

“Cazzo, mi fa male vederti così, e sapere che per la maggior parte è colpa mia…” Gli scappò a mezza voce, mentre continuava a tenere la mia mano stretta nella sua. “Ascoltami, non posso scusarmi per quello che è successo. Era inevitabile, Giulia. Non potevo fare altrimenti… era me o lui! E comunque credo che l’avrei fatto lo stesso per il modo in cui ti ha trattato.”

A quel punto feci per staccarmi dalla sua presa – toccarlo mentre diceva quelle cose era intollerabile, per quanto in fondo mi dispiacesse, mi ispirava solo disgusto – ma tendo sempre a dimenticare che Enrico ha una forza particolare, e non fu difficile continuare a trattenermi. “No, ascolta!” Riprese con maggior vigore, notando il mio tentativo di fuga. “Ascolta. Non avrei mai voluto che assistessi a una cosa del genere, e mi dispiace, davvero. So di non poterti chiedere di perdonarmi, non adesso almeno… Però mi dispiace. Io spero solo che… beh, mi auguro che tu possa riuscire a guardarmi di nuovo come facevi prima, non con questi occhi terrorizzati, come se io fossi il mostro che spaventa i bambini. Non ho mai voluto spaventarti, Giulia, lo sai…”

“Dio mio, ti rendi conto di quello che stai dicendo?” Lo interruppi, riuscendo finalmente a far sì che mi lasciasse la mano e stringendomela in grembo, sentendola improvvisamente fredda dopo il lungo contatto con lui. “Credi che tutto possa tornare come prima? Con la situazione che c’era? Sarebbe tutto molto diverso se io provassi qualcosa per te, Enrico, ma ora come ora mi stai chiedendo l’impossibile. Sono venuta solo perché mia madre e tua madre mi hanno convinta, ma era per dirti addio, non certo per fare pace o chissà cos’altro. Per cui non cercare di giustificare le tue azioni o cose del genere, tanto non serve a niente.”

Come se non capisse le mie parole, o meglio, come se non volesse farlo, Enrico aggrottò le sopracciglia e all’improvviso la sua espressione divenne furiosa. “Menti sapendo di mentire”, sibilò, incapace di trattenere la rabbia. “Sei davvero convinta di non provare niente, per me? E allora, tutte le tue premure, le nostre serate, i nostri baci non significano niente? Ci conosciamo da più di due mesi, ormai, non riuscirai a farmi credere davvero che io non conto nulla per te!”

“Non ho detto questo”, ribattei, senza guardarlo direttamente negli occhi. Non ce la facevo. “Ho detto solo che qualsiasi cosa ci sia tra noi, o meglio, ci sia stata, non è sufficiente a farmi superare questa… tutto quello che è successo. E tu non puoi chiedermi di farlo, cavolo, neanche tu puoi essere così egoista”, aggiunsi abbassando la voce. Mi massaggiai le tempie, che già iniziavano a pulsare per un imminente mal di testa; tutta quella discussione non mi aiutava di certo a stare meglio.

“Ma cazzo, Giulia!” Ringhiò a mezza voce, sforzandosi di mettersi a sedere con notevole sforzo. Non feci nulla per aiutarlo, limitandomi ad osservarlo con uno sguardo tristemente neutro. “Mi vuoi punire per aver cercato di proteggerti, di difenderti? Di che cosa mi avresti accusato se invece non fossi venuto in tuo soccorso? Avresti cercato una scusa per mollarmi in ogni caso, non credere che non lo sappia!”

“Oh, smettila di fare queste scene, Enrico. Troverai centinaia di ragazze dopo di me pronte a caderti tra le braccia, ragazze che non sapranno mai cosa sei in grado di fare, ed è meglio così. Cerca di guarire da questa ridicola ossessione che hai per me”, sbottai aspramente, alzandomi e allontanandomi dal letto. Incrociai le braccia, sentendomi peraltro incredibilmente stronza, ma cercando allo stesso tempo di tenere duro e continuare su quella scia: non potevo permettermi di cedere, o non me ne sarei liberata mai più.

Ossessione? Porca puttana, Giulia, io ti amo!”

Per un’abbondante manciata di secondi cessai di respirare. Boccheggiai, senza sapere cosa dire, senza neppure sapere se da me ci si aspettasse una qualsiasi risposta dopo una simile affermazione. Non poteva averlo detto davvero, accidenti a lui… Non poteva aver osato tanto!

Tornai a fissarlo, incredula, e dovetti deglutire più volte prima di riuscire a parlare. “Mi dispiace, ma questo è un tuo problema”, mormorai, mantenendomi ben lontana dalle sue grinfie.

Enrico non parve credere alle mie parole, e uno sbuffo che voleva essere divertito gli scappò dalle labbra screpolate. “E questo che cosa vorrebbe dire?” Fece, senza smettere un solo istante di guardarmi. Dio mio, soltanto i suoi occhi erano capaci di mettermi così tanto a disagio! La sua voce, poi, era terribilmente pacata, come se in realtà stesse covando molta più rabbia di quanto non dimostrasse. Faceva paura.

“Significa che non posso dimenticare che hai ucciso un’altra persona a sangue freddo, e che qualsiasi cosa tu possa provare nei miei confronti non cambia niente. Io te l’ho detto molte volte, Enrico, che la vita di merda che fai avrebbe compromesso qualsiasi cosa ci fosse tra noi, ma tu non mi hai mai creduto… E ora assumitene le conseguenze”, risposi, ancora stordita per quell’inattesa confessione.

Aveva detto che mi amava… Era una bugia? Lo aveva detto solo per legarmi ancora di più lui? Beh, in ogni caso, qualunque cosa fosse, aggravava soltanto la situazione.

Ma io non potevo farci niente! Non potevo stare con un assassino, che diamine!

“Quindi avevo ragione, mi stai lasciando”, affermò la sua voce gelida, facendomi rabbrividire.

“I fidanzati si lasciano, Enrico. Io voglio solo smettere di frequentarti”, replicai.

Sostenne a lungo il mio sguardo, senza sembrare intenzionato a cedere, e poi riprese la parola. “Quindi, mi stai dicendo che è finita? Che è finita perché ti ho salvato da uno stupro e perché ho ucciso uno dei miei ragazzi per te?”

“Non ti ho chiesto io di ammazzare Lorenzo!” Sbottai con una vena isterica nel tono di voce, rendendomi conto di essere prossima alle lacrime. “Non osare mettermi addosso una simile responsabilità, cavolo, non te lo permetto!”

Vagamente mi ricordai di trovarmi pur sempre in ospedale, e che anche se avevamo la porta chiusa qualche infermiera che ci passava davanti avrebbe potuto sentire i nostri discorsi, perciò mi assicurai di abbassare la voce di diverse ottave. “Anche se alla polizia ho detto che si è trattato di legittima difesa, Enrico, potrebbero non affidarsi completamente alla versione di una ragazza sotto shock e decidere di fare altre indagini; per cui ti consiglio di non mostrarti così soddisfatto dell’esito di quella giornata, e soprattutto di non sbandierare ai quattro venti la cazzata che l’hai fatto per me”, sibilai, avvicinandomi di un passo solo per accertarmi che non gli sfuggisse una sola parola del mio discorso. “Anche perché entrambi sappiamo che non era necessario che tu gli sparassi, visto che Lorenzo non ti stava più puntando la pistola addosso.”

“E questa cos’è, una minaccia? Vorresti farmi credere che testimonieresti contro di me, in tribunale?” Ribatté, sorpreso e in un certo senso anche offeso.

“No, non mi hai capito”, lo contraddissi ancora, incrociando le braccia sotto al seno come se quel semplice gesto potesse proteggermi da lui. “Voglio dire che io c’ero, so cos’è successo, e se puoi sperare di convincere gli altri della giustizia della tua versione dei fatti non puoi fare lo stesso con me. Mio Dio, ho visto la tua faccia quando hai premuto il grilletto, Enrico! Ci hai goduto, porca miseria…”

Quando tacqui lui non aprì bocca per smentirmi, e ciò fu di per sé una risposta più che chiara. Scossi il capo, sfinita, e mi passai una mano tra i capelli. “Comunque, non ha più importanza. Voglio solo… dimenticare, e posso farlo solo se non ti avrò più davanti agli occhi a ricordarmi quella scena. Mi dispiace, Enrico, davvero. Per certi versi, sei stato un amico.”

A quel punto sembrò riscuotersi dal suo silenzio – anzi, no, sembrò proprio rendersi conto che facevo sul serio. Già, il mio non era un bluff. “No, Giulia, aspetta, per favore…” Mormorò, allungando una mano verso di me per invitarmi – inutilmente – ad avvicinarmi.

Feci ancora un cenno di diniego con la testa e raggiunsi la porta, aggrappandomi alla maniglia. Ero stata fin troppo gentile con lui, alla fine, e non avrebbe neppure mai scoperto quanto quella calma apparente mi fosse costata, dato che tutto quello che volevo adesso era scoppiare in lacrime sulla spalla di mia madre.

“Sono io che te lo chiedo per favore, Enrico, davvero. Per favore, non cercarmi più”, dissi ancora, ormai dandogli le spalle. Spalancai la porta quasi di scatto e sussultai nel trovarmi di fronte un’infermiera, la cui presenza se non altro metteva a tacere le suppliche di Enrico e dava a me un ulteriore motivo per non abbandonarmi al pianto, non ancora. Abbassai lo sguardo per non mostrarle gli occhi arrossati, borbottai un saluto e fuggii via, letteralmente, attraversando il corridoio nel modo più veloce che consentivano le regole dell’ospedale.

Alla fine ero riuscita a liberarmi di Enrico, avevo fatto quello che avrei dovuto fare molto tempo prima; sarei dovuta essere al settimo cielo, avrei dovuto provare un senso di leggerezza pari solo a quello delle aquile che volano in cielo… Ma allora perché, porca miseria, avevo questo disperato bisogno di piangere?

Io ti amo’, aveva detto. Assurdo come quelle tre misere paroline sembrassero avermi incatenato a lui come nient’altro avrebbe mai potuto fare.



















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Angolo Autrice.
Deo gratias
, un altro capitolo... Che travaglio!
Ormai sarete abituate alle mie scuse e ai miei ritardi, per cui non sprecherò altro spazio a genuflettermi e chiedere perdono. xD Mi limiterò a ringraziare tutti coloro che sono giunti fin qui a dispetto di tutti gli ostacoli, e vi tranquillizzo dicendo che: tra due, massimo tre capitoli questa storia conoscerà la parola Fine! Ommioddio non ci posso credere, se ci penso non so se esserne felice, triste, o chissà cos'altro. Felice perché dopo tre anni mi sembra il minimo concluderla, volente o nolente, ma triste perché comunque mi ci sono affezionata, e non credo di amare i personaggi delle mie altre storie così come amo questi... Va bon, conserverò le lacrime per l'ultimo capitolo, promesso. :P
Detto ciò, voglio ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo, vale a dire le meravigliose Sylphs, just_love_me, alexy95, Eleanor Rigby, jede e Dayan18 ;) Nonché tutte coloro che leggono in silenzio, laggiù dal fondo della platea e anche voi lassù, in galleria, vi adoro!, e che continuano ad aggiungere questa storia alle Preferite e alle Seguite :)
Tornando velocissimamente alla storia, si accettano scommesse :D Secondo voi che cosa succederà ora? Non c'è più speranza per i nostri eroi? Siete più propensi ad un lieto fine o ad un finale triste? Non basatevi sui vostri desideri, so che voi volete le conigliate e i "vissero per sempre felici e contenti", più che altro vorrei sapere se, con una trama del genere, voi, da scrittori/scrittrici, optereste per un finale lieto o uno strappalacrime; così, tanto per scambiare opinioni tra autori ;)
Bon, detto questo, credo proprio che vi lascerò al momento tanto atteso, ossia "lapidiamo la scrittrice"! xD Prima di auto-esiliarmi sappiate che non finirò mai di ringraziarvi per l'assiduità con cui mi avete seguito. :) Un abbraccio a tutti, ci si legge al prossimo capitolo! Buona serata, dalla vostra
Niglia.

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Capitolo 30
*** Capitolo XXX. ***


Capitolo XXX

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Trascorsero i giorni, le settimane, i mesi.

La scuola era iniziata a pieno ritmo: anche io mi ero rimboccata le maniche come tutti, buttandomi a capofitto nello studio per cercare di dimenticare. Cosa che comunque si rivelava essere più difficile del previsto, dato che della mia ‘disavventura’ ne parlava praticamente tutto il paese; persino i professori mi guardavano in modo strado, per non parlare delle mie compagne di classe, che mi fissavano come se fossi stata una specie di creatura aliena con tre teste e una pelle verdognola. Era una fortuna che Alessandra fosse nella mia stessa classe e mi facesse da scudo, perlomeno nei primi tempi: averla dalla mia parte mi aveva permesso di ignorare le altre compagne pettegole e di provare a fingere che tutto fosse normale. Man mano che il tempo passava, grazie a Dio, la vicenda della quale ero stata vittima e testimone andava via via diradandosi nella mente di tutti, soppiantata da pettegolezzi più nuovi e succulenti, e io potei riprendere ad uscire più o meno tranquillamente.

Per Natale, solo io e la mia famiglia ricordavamo l’accaduto.

Non sentii più Enrico né Betta, ma sapevo – tramite voci indiscrete – che era stato messo in un certo senso agli arresti domiciliari, che ogni giorno gli agenti di polizia andavano a casa sua per fargli firmare una sorta di foglio delle presenze e per controllare che tutto fosse a posto. Tecnicamente non era ancora stato accusato in versione definitiva, ma durante la prima parte del processo – alla quale io non avevo voluto partecipare – il giudice sembrava aver ritenuto più sicura la soluzione della misura cautelare, in attesa del giudizio conclusivo. Sapevo che la seduta finale dell’udienza si sarebbe tenuta in primavera, tra una cosa e l’altra, in data ancora da destinarsi; tuttavia mi era arrivata una lettera dal tribunale nella quale venivo invitata a presentarmi come parte lesa, testimone e non so cos’altro… Fu mio padre a spiegarmelo, e anche senza capire il linguaggio giuridico-burocratico avevo afferrato il senso generale, e cioè che stavolta non avrei potuto evitare di andarci. Nascondere la testa sotto la sabbia non sarebbe servito a nulla, dopotutto, e magari affrontare anche quell’ultimo ostacolo mi avrebbe potuto aiutare a concludere quel capitolo della mia vita senza bisogno di ricorrere davvero a uno psicologo – di cui peraltro continuavo a credere di non aver bisogno. L’unica cosa che mi preoccupava, in realtà, era ritrovarmi nella stessa stanza insieme ad Enrico.

Mi era capitato di pensare spesso a lui, in quegli ultimi tempi, specialmente quando mi trovavo da sola a letto, nel buio, prima di addormentarmi. Ripensavo a tutto quello che era successo durante l’estate e alle situazioni che, volente o nolente, mi avevano legata a lui e fatta persino affezionare – non ho un pezzo di ghiaccio al posto del cuore, alla fin fine – per non parlare delle ultime parole che mi aveva detto quel giorno in ospedale, quando gli avevo annunciato di non voler più avere nulla a che fare con lui… Ti amo, ti amo, ti amo, aveva detto, proprio così, e più ci ripensavo, sforzandomi di trovare nell’intonazione con cui quelle parole erano state pronunciate qualcosa che mi tranquillizzasse sul fatto che fosse l’ennesima bugia, l’ennesimo tentativo di coercizione, insomma, uno dei suoi trucchi.

Non potevo tollerare che fossero sincere, non dopo tutto quello che era successo.

Una settimana dopo Capodanno mi capitò di incontrare Stefano, per caso. Alessandra aveva organizzato una cena in pizzeria per il suo compleanno, e si può dire che quella fosse la mia prima vera e propria uscita spensierata dopo mesi in cui facevo la spola dall’ospedale alla polizia, che di tanto in tanto mi convocava per qualche dettaglio mancante o poco chiaro del mio fascicolo; erano mesi che non vedevo Enrico e che non avevo sue notizie – neppure da mia madre, che mi aveva detto di non aver più sentito Betta dal giorno in ospedale in cui avevo parlato con il figliastro.

Lo incontrai alla toilette – ci scontrammo sulla soglia, per la verità, mentre io cercavo di uscire e lui di entrare. Mi bloccai a metà di un movimento e sentii l’aria defluire dai polmoni, improvvisamente spaventata all’idea di poter trovare anche qualcun altro insieme a lui; tuttavia le buone maniere ebbero la meglio, e riuscii a salutarlo e persino ad accennare un breve sorriso. “Ciao, Stefano…” Mormorai, lanciando un’occhiata verso il corridoio dal quale era arrivato.

Lui dovette comprendere al volo la situazione perché mi rassicurò subito. “Lui non c’è, stai tranquilla”, disse piano dopo aver ricambiato il saluto. Mi chiesi quanto sapesse di quello che era successo in ospedale, quanto Enrico gli avesse raccontato, e se, in qualche modo, mi disprezzasse per come avevo troncato ogni rapporto con il suo migliore amico. Per quanto ritenessi di essere dalla parte della ragione, infatti, non potevo fare a meno di provare un certo imbarazzo, quasi come se l’avessi tradito io.

“Come stai?” Mi chiese, gentilmente. Sembrava non esserci nessun fine, ma chi mi diceva che non sarebbe andato a riferire quello che gli dicevo ad Enrico?

Scrollai le spalle, quasi indifferente. “Bene, bene… Tu?” Avrei voluto chiedergli se avesse avuto problemi con la polizia anche lui, ma come si fa ad essere delicati nel chiedere a qualcuno se era indagato in un caso di omicidio?

“Anche io, grazie”; sorrise, e fu spontaneo. Come se trovasse del tutto normale chiacchierare con me, quando invece l’unica occasione in cui avevamo scambiato qualcosa di più dei semplici saluti di circostanza era stata esattamente quella del terribile fattaccio. Sul suo viso passò qualcosa, un’ombra o una ruga tra le sopracciglia chiare, e poi con un sospiro, come se in realtà non volesse, aggiunse: “Non posso dire lo stesso di Enrico, però.”

Solo sentir pronunciare il suo nome ad alta voce mi formò un groppo in gola. “Stefano, non ne voglio parlare”, replicai a mezza voce, cercando di superarlo e andarmene. Tuttavia lui mi posò una mano sulla spalla per trattenermi – doveva essere una prerogativa di Enrico e dei suoi amici quella, evidentemente.

“No, ascoltami, sarò breve. Per favore”, mi supplicò quasi. E allora ricordai che Enrico era suo cugino, che oltre ad essere amici erano anche parenti, e che probabilmente malgrado ciò in cui erano invischiati fino alla punta dei capelli gli voleva davvero bene, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Forse persino mettere una buona parola con me? Ah! Poteva provarci, ma era fiato sprecato.

Mi voltai senza rispondergli, facendogli capire che malgrado tutto l’avrei ascoltato.

“Puoi anche non crederci, ma non mi ha mandato lui”, esordì, avanzando di un passo verso di me. Ebbi modo di rendermi conto solo in quel momento quanto gli somigliasse, anche fisicamente, non fosse stato per il fatto che Stefano aveva una carnagione meno olivastra e i capelli di un castano chiaro – che un tempo forse erano stati biondi. Niente a che vedere con la folta chioma corvina di suo cugino che io, fatico ad ammetterlo, adoravo. “So che non è un ragazzo facile da gestire, lo conosco da una vita, ma ti posso assicurare che non ti ha mai preso in giro sui suoi sentimenti per te. In genere è sempre stato molto chiuso, è orgoglioso e testardo, e quando mi ha raccontato quanto si fosse lasciato andare con te non ci ho neppure voluto credere… Capisco che quello che è successo non sia facile da digerire, ma sei davvero convinta che non valga nemmeno la pena di provarci?”

Lo guardavo senza sapere che cosa ribattere, tenendo le braccia ostinatamente incrociate sul petto e continuando a mordicchiarmi il labbro inferiore dall’agitazione. Non mi aspettavo di dover affrontare una predica persino da parte di Stefano, prima o poi – la prossima volta avrei cercato di non allontanarmi dai miei amici da sola – e inoltre trovavo anche un filino assurdo che avesse la faccia tosta di chiedermi di provare a dimenticare quello che era successo. Non stavamo parlando di un furto di caramelle, che diamine, ma di un ragazzo di venticinque anni che aveva ammazzato a sangue freddo uno dei suoi amici, e che per di più non sembrava neppure provarne rimorso!

“Senti, Stefano, non so che cosa pensi di ottenere con questo discorso…” Tentai alla fine, dopo aver lasciato passare una lunga manciata di secondi in silenzio. “Mi dispiace che Enrico stia male, davvero, non sono un’insensibile, ma non posso farci niente. Tra me e lui non può funzionare, siamo troppo diversi, le nostre vite sono troppo diverse, e io questo gliel’ho già detto. ”

Mi fa paura anche solo l’idea di trovarmi vicino a lui, aggiunsi silenziosamente, senza trovare il coraggio di dirglielo ad alta voce. Forse tacqui perché sapevo che Stefano avrebbe fedelmente riferito quella conversazione a suo cugino, e malgrado tutto una frase del genere sembrava troppo crudele estrapolata dal contesto – oh, Dio, ero così confusa! Doveva preoccuparmi la mia attuale incapacità di ferire anche solo indirettamente Enrico, la causa principale dei miei problemi?

Forse avrei dovuto prendere sul serio l’invito di Alessandra e andare in terapia.

Stefano si avvicinò di un altro passo, e quando parlò la sua voce era di qualche ottava più bassa. Nel bagno c’eravamo solo noi, da chi aveva paura di farsi sentire? “Giulia, Enrico non è una persona che va in giro a sparare alla gente senza motivo”, sussurrò, con un’espressione terribilmente seria e, potrei giurare, anche un po’ arrabbiata. No, dico, scherziamo? Che motivo aveva di arrabbiarsi con me? “È stato un incidente, e lui adesso è a pezzi – e non lo dico per farti sentire in colpa o per far leva sulla tua pietà, ma perché vi ho visto insieme, e so cosa c’era tra di voi anche se tu sei così codarda da voler continuare ad ignorarlo.”

Boccheggiai, incredula. “Come ti permetti? Tu non sai niente…”

“No, ascoltami, io so più di quanto pensi, non sono un idiota”, mi interruppe, avvicinandosi ancora e costringendo me a premermi contro il muro per allontanarmi da lui. “Ma non vedi che state soffrendo tutti e due? In questo momento Enrico ha la tua stessa espressione, perché stare lontano da te lo sta uccidendo più di quanto non stiano facendo gli arresti domiciliari. E io non voglio vedere mio cugino in queste condizioni per colpa tua, lo capisci? Per non parlare del fatto che non si tratta solo di una semplice questione sentimentale, ma anche giuridica – sta rischiando la galera solo perché ha fatto tutto il possibile per impedire a Lorenzo di violentarti, voglio che questo ti sia chiaro!”

Adesso mi stavo arrabbiando sul serio, basta essere gentili.

“Oh, ma insomma, Stefano, che cosa vuoi? So benissimo quello che è successo e so che cosa ho visto, e ho già detto che mi dispiace per quello che sta passando Enrico, l’ho detto a suo tempo anche a lui! Ma non sono una santa né tantomeno una martire, e dopo tutto quello che io ho passato quest’estate direi che ho il sacrosanto diritto di infischiarmene del prossimo e pensare per un po’ solo ed esclusivamente a me stessa! Capisco il tuo punto di vista, stai difendendo tuo cugino e mi sta bene, mi sta bene anche che tu mi consideri una stronza. Non me ne frega niente! Non è sgridandomi né tantomeno minacciandomi che otterrai qualcosa da me, anche perché è lo stesso metodo che ha utilizzato il tuo adorato cugino per costringermi a frequentarlo e hai visto in che modo di merda è finita questa storia. Per cui, se era tutto qui quello che sei venuto a dirmi, allora puoi anche andartene prima che io inizi a diventare volgare.”

Speravo di essere riuscita ad esprimermi in modo piuttosto conciso.

Lui mi fissò per un po’ in silenzio, mordendosi l’interno del labbro inferiore come se si stesse sforzando di non dire qualche altra cattiveria; scosse lentamente la testa, senza smettere di guardarmi, poi indietreggiò restituendomi il mio spazio personale e permettendomi di tornare a respirare normalmente. La sua somiglianza con Enrico non sarebbe stata una buona cosa qualora la discussione si fosse accalorata un tantino di più. “Stai facendo un errore, Giulia”, disse alla fine, con un tono più pacato di prima e forse anche rassegnato. “Lui ti ama davvero.”

Sobbalzai, non aspettandomi una conclusione del genere. Lui ti ama.

Porca puttana, Giulia, io ti amo!

Con un gemito sofferente mi massaggiai le tempie, come a voler dimenticare una volta per tutte quelle parole. Tentativo inutile! Ma che diavolo avevo combinato nella mia vita precedente per meritarmi una tale quantità di disgrazie in questa?

“Può anche essere, Stefano, ma questo non basta”, ribattei, abbassando lo sguardo. “Non mi basta.”

Il suo sospiro mi arrivò con lo stesso furioso rimbombo che avrebbe fatto un grido. “Enrico mi aveva detto che eri testarda, ma io non ci avevo voluto credere.”

Non roteai gli occhi solamente perché avevo serrato con forza le palpebre. “Non è questione di essere testarda, Stefano, possibile che nemmeno tu lo capisca? È questione di avere dei principi, di seguire delle regole, di avere dei paletti! Paletti che, come abbiamo visto, Enrico non si fa scrupoli a ignorare. È un cane sciolto, una… una mina vagante! Non sai mai che cosa puoi aspettarti, da lui. Dio, ma ti sembra normale uno che ti fa rapire per essere sicuro che tu accetti il suo invito a uscire? Che ti fa seguire dai suoi amici? O che gira con una pistola carica in macchina, e che non esita a usarla? Dimmi, è testardaggine, questa? Io credo che il mio sia solo un feroce istinto di autoconservazione.”

Conclusi la mia tirata fissando un punto indefinito del pavimento, e anche se così non potevo vederlo in faccia era palese che non si fosse perso nessuna parola del mio discorso. Enrico poteva amarmi e – okay, sì, potevo provare qualcosa anche io – ma non poteva essere sufficiente! Non si può vivere di solo amore, e chi dice il contrario è soltanto un folle romantico innamorato più dell’idea dell’amore che non dell’amore stesso.

Io volevo una vita tranquilla, porca miseria. Non era una richiesta così impossibile, la mia!

Benché fossi quasi convinta che quella discussione fosse appena entrata nel vivo, Stefano mi sorprese scrollando le spalle con aria definitiva. “Beh, io ho fatto la mia parte. Mi dispiace di non essere riuscito a farti ragionare”, disse, improvvisando un debole sorriso che non raggiunse gli occhi.

Veramente ero convinta di essere l’unica ad aver mantenuto quella rara capacità di riflettere, ma a quanto pare lui non era dello stesso avviso: evidentemente per quelli come loro ragionare significava finire per accettare ed essere d’accordo su qualsiasi cosa dicessero. In tal caso avrei dovuto dargli ragione, non sarebbe mai riuscito a farmi “ragionare”.

“Allora divertiti con i tuoi amici. Ci vediamo in giro”, mi salutò alla fine, aggirandomi e uscendo dal bagno. Solo quando il tonfo della porta che si chiudeva dietro di lui rimbombò nella stanza mi permisi di sospirare, sentendomi intimamente stanca per quel confronto imprevisto che, peraltro, mi aveva lasciata con una marea di dubbi e persino di sensi di colpa in più di cui ad essere sincera avrei fatto volentieri a meno. Imprecai due o tre volte, ma non servì a scaricare la tensione.

“Non è colpa tua”, dissi decisa al mio riflesso. Il suono della mia voce parve terribilmente patetico nell’ovattato silenzio della toilette, e prima che iniziassi a intavolare una discussione anche con lo specchio aprii il rubinetto dell’acqua e mi sciacquai il viso, sperando che il freddo mi aiutasse a tornare in me.

Una volta tornata al tavolo, feci del mio meglio per fingere che quella conversazione non fosse mai avvenuta. Per fortuna Alessandra era distratta da Riccardo e dagli altri amici, dunque quando ripresi posto accanto a lei e allungai una mano tremante verso il mio bicchiere di acqua fresca si limitò ad osservarmi con un sopracciglio inarcato e ad esclamare: “Dov’eri finita, geme? Ti avevamo data per dispersa!”

E a mia volta mi limitai a sorriderle e a bere la mia acqua, che tuttavia non servì per niente a rilassarmi. “C’era un po’ di fila in bagno, e poi ne ho approfittato per sistemarmi il trucco”, risposi, complimentandomi tra me e me per essere riuscita a non far tremare anche la voce.

Non volevo rovinarle il compleanno con i miei problemi; Stefano aveva guastato la mia serata, ma io non avrei fatto lo stesso con la mia amica – quella situazione aveva messo indirettamente in pericolo anche lei, in fondo. Non mi ero dimenticata di quando Enrico aveva minacciato di far del male ai miei amici se io non avessi accettato di uscire con lui – Dio, quanto suonava ridicola l’intera faccenda! E poi, mi fa male ammetterlo, ormai avevo iniziato a confidarmi sempre meno con Alessandra per timore di intaccare la sua felice storia d’amore con Riccardo – anche se suppongo che un altro timore non meno grave fosse il mio essere certa che lei non avrebbe mai capito se un giorno le avessi rivelato quali erano davvero i miei sentimenti.

Avrei voluto che Stefano avesse ragione, in quel caso, davvero, ma purtroppo ciò che provavo non era abbastanza. Mi chiesi se potesse mai esserlo, in futuro.

 

 

 

 

 

*

 

 

Cinque mesi dopo.

 

Il processo si tenne in un’assolata e calda giornata di giugno, esattamente a un anno dall’inizio di tutta quella storia.

Era stato mio padre a prendere accordi con il legale di Enrico, tale avvocato Martis, per cui sapevamo di doverci trovare davanti al tribunale almeno un’ora prima di entrare in aula – anche in modo che lui potesse rivedere insieme a me le domande che mi avrebbe fatto durante la mia testimonianza. L’ultima volta che ci eravamo incontrati nel suo ufficio, alla presenza dei miei genitori, mi aveva avvertito che anche il Pubblico Ministero avrebbe potuto intervenire e pormi qualche domanda, e in tal caso io non mi sarei dovuta lasciar prendere dal panico ma dimostrare sicurezza e rispondere in tutta sincerità. Più facile a dirsi che a farsi! Non avevo mai assistito in prima persona ad un processo – se si escludono quelli dei film – e l’idea di dover parlare a un’aula di tribunale piena di gente, compreso Enrico, la mia famiglia e chissà chi altri, non era un pensiero che mi riempiva di tranquillità. Comunque avevamo fatto le prove, e quando mia madre mi aveva suggerito con un mezzo sorriso di prenderla come un’esercitazione in vista dell’orale dell’esame di maturità qualche interruttore dentro di me si attivò e mi permise di concludere l’appuntamento con l’avvocato più facilmente di quanto avessi immaginato.

Inutile dire che, trovandomi di fronte alla facciata in stile greco del tribunale – nel cui centro un altissimo pronao retto da pilastri e colonne era completato da una grande scritta recante la parola latina IVSTITIA – tutti i buoni propositi erano spariti e l’ansia e l’agitazione erano tornate più forti di prima.

Mentre mio padre si era allontanato per andare a caccia di parcheggio, io, mia madre e mia sorella iniziammo ad entrare nell’edificio per cercare un po’ di frescura – e perché loro due avevano bisogno di trovare un bagno, mentre io, immersa nel mio subbuglio interiore, non riuscivo a provare nessuna urgenza fisica – né sete, né fame, né nient’altro, come se le mie viscere si fossero attorcigliate tutte su loro stesse bloccando qualsiasi voglia. Per cui ero rimasta da sola nell’ampio ingresso – sola in senso figurato, visto il via vai continuo di persone che affollavano il palazzo di giustizia. Con un gesto nervoso sistemai le bretelline sottili del mio vestito al di sotto della giacchetta color panna che indossavo per non entrare in aula con una scollatura inadeguata alla situazione; mi passai una mano tra i capelli, mi feci aria con la mano, sfiorai prima gli orecchini e poi il girocollo, in un’apparente sequenza senza fine di gesti inequivocabili di trepidazione e disagio. Non sapevo se ero più terrorizzata dall’idea di rivedere Enrico dopo quelli che sembravano secoli o dall’idea di testimoniare a suo favore davanti a una marea di gente – probabilmente era un giusto miscuglio di entrambi. Che stupida, perché non avevo pensato di farmi prescrivere dei tranquillanti dal mio medico? Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che sentire il mio cuore battere con una tale ferocia all’interno della mia cassa toracica da farmi sudare freddo e da rimbombarmi nelle orecchie come un tamburo.

Oddio, non mi era mai capitato di persona ma speravo di non essere prossima ad uno svenimento. Per sentito dire sapevo che non sarebbe stata una bella esperienza.

“Giulia?”

Al suono di quella voce rabbrividii e trattenni il respiro, pietrificata. Eccolo, il momento della verità! Lo sapevo che sarebbe successo, insomma, ero praticamente lì per lui, però... Oh, Dio, non sono ancora pronta per questo confronto. Non sono pronta. Non sono pronta!

Deglutii, presi un profondo respiro e mi voltai, stringendo la borsa con entrambe le mani per evitare di torcermele come una bambina nervosa. E a quel punto fu inevitabile posare i miei occhi su di lui.

Il primo pensiero che mi venne in mente fu piuttosto sciocco: all’improvviso Enrico mi sembrava più alto e quasi imponente. Era vestito in modo impeccabile – se avessero dovuto giudicarlo per lo stile lo avrebbero assolto da qualsiasi colpa e peccato – indossava un elegante completo di un blu tanto scuro da sembrare nero, e la giacca sbottonata sul petto lasciava intravedere una camicia bianca e una cravatta altrettanto scura. Al suo fianco c’era l’avvocato Martis, con un’aria terribilmente professionale e una valigetta ventiquattr’ore in mano, tutto impegnato a concludere una telefonata. Comunque non dedicai all’uomo troppa attenzione, occupata com’ero a ri-familiarizzare con la persona di Enrico. Insomma, maledizione, era bello. Troppo bello. Più di quanto mi ricordassi!

Ecco perché nei mesi scorsi avevo fatto il possibile e l’impossibile per tenermi alla larga da lui: sapevo l’effetto che aveva su di me, e se avessi anche solo accettato di vederlo una volta per parlare a mente fredda, come mi aveva più volte chiesto tramite messaggi in segreteria a cui non avevo mai risposto, mi avrebbe attirato nella sua ragnatela con una facilità impressionante. Cosa che, se avessi continuato ad osservarlo ancora un po’, sarebbe indubbiamente successa.

Per cui mi schiarii la voce e cercai di accennare un sorriso – tentativo inutile, dato che i miei muscoli facciali sembravano essersi paralizzati. “Ciao”, dissi soltanto. Dio mio, che situazione imbarazzante... E adesso, come mi sarei dovuta comportare? L’ultima volta che ci eravamo parlati era stato quando… Beh, meglio non pensarci: negli ultimi mesi mi ero sforzata con tutta me stessa di dimenticare quella conversazione, nonché la dichiarazione che ne era derivata. Grazie al cielo, fu proprio l’avvocato a togliermi da ogni impiccio.

“Buongiorno, signorina Ordiano. Pronta per l’interrogatorio?” Cercò di sdrammatizzare, sporgendosi verso di me per stringermi la mano in un educato saluto.

“Ho fatto i compiti a casa”, mi limitai a rispondergli, ricambiando la stretta. Malgrado la presenza del legale, continuavo a sentirmi i perforanti occhi chiari di Enrico puntati addosso che mi facevano prudere la pelle, per cui non sapevo bene dove girarmi per evitarlo. Alla fine decisi di rivolgermi di nuovo all’uomo. “E… A che ora inizia l’udienza, di preciso?”

L’avvocato diede un’occhiata all’orologio che portava al polso sinistro, e una ruga si formò in mezzo ai suoi occhi. “Tra quarantacinque minuti dovremmo essere seduti tutti dentro”, rispose gentilmente, tornando a guardarmi. A giudicare dall’incipiente grigiore ai lati delle tempie doveva avere più di quarant’anni, eppure quando Enrico si voltò verso di lui per intimargli di lasciarci un po’ da soli lo vidi annuire e sparire in mezzo alla folla adducendo una scusa qualsiasi come un comune lacchè.

Beh, io non volevo rimanere da sola con lui, per cui feci per dargli le spalle e andare alla ricerca della mia famiglia che sarebbe già dovuta essere uscita dalla toilette, accidenti a loro – ma ormai avrei dovuto conoscere Enrico abbastanza bene da immaginare che non mi avrebbe lasciata sparire senza fare niente. Infatti, prevedibile come la trama di Beautiful, sentii la sua mano stringersi intorno al mio polso e prima che potessi iniziare a protestare venni trascinata via, dietro una grossa colonna in un angolo appartato. Sarà difficile che i miei mi trovino qua dietro, pensai irritata, lanciando un’occhiata infastidita al mio sequestratore.

“A cosa devo il piacere di questa sceneggiata?” Sibilai non appena mi liberò la mano, per poi incrociare le braccia sul petto e indietreggiare lontano da lui. “Non sono venuta per scambiare quattro chiacchiere con te, Enrico. Ci siamo detti già tutto.”

“Non è quello che penso io”, ribatté lui, per nulla intenzionato a cedere. Malgrado avessi i tacchi, in quel momento mi sembrò davvero più alto – sembrava torreggiare su di me. Forse era solo la mia agitazione che mi stava procurando le allucinazioni?

Malgrado tutta la buona volontà non riuscii a trattenermi dal roteare gli occhi, esasperata. Non lo avevo già assecondato abbastanza in passato? “Va bene, come vuoi. Starò al gioco. Che cosa pensi tu?” Aggiunsi, parafrasandolo. A giudicare dall’ombra che gli attraversò lo sguardo stavo già riuscendo nell’intento di innervosirlo: bene, evidentemente certe capacità non si perdono col tempo.

“Penso che tu debba a stare a sentire quello che non mi hai lasciato spiegare quel giorno in ospedale”, esordì a mezza voce, chinandosi verso di me. “Ho avuto modo di riflettere in tutto questo frattempo, Giulia, credimi, e ho accettato che tu possa avere tutti i diritti di questo mondo di essere arrabbiata e di avere paura di me e di quello che faccio… Ma che sia dannato se ti permetterò di essere ancora così codarda da rifiutare di vedere quello che c’è tra noi!”

“Non posso credere che tu stia tirando fuori questi discorsi mezz’ora prima del processo!” Ribattei con il suo stesso tono di voce, sinceramente allibita; decisi di ignorare che era già la seconda volta che venivo tacciata di codardia, anche se avrei voluto sapere da che razza di pulpito stava venendo tale accusa. “Non hai una testimonianza da ripassare invece di fare la predica a me?”

“Ho avuto praticamente sette mesi per imparare a memoria la mia deposizione”, mi mise a tacere subito, eliminando la questione con un gesto della mano. “E ho anche avuto lo stesso lasso di tempo per pensare a tutte le cose che voglio dirti. Giulia, io ho bisogno di dirtele e tu hai bisogno di sentirle, per cui adesso starai buona e zitta e mi lascerai parlare!”

Accidenti, non me lo ricordavo così insistente e prepotente; non credevo che il suo carattere sarebbe mai potuto peggiorare, e invece… Diamine, era successo proprio l’impensabile! Comunque il fatto di trovarci in un luogo pubblico che pullulava di poliziotti e guardie armate mi confortò sul mio destino e mi fece accondiscendere al suo attuale capriccio; non poteva venirne nulla di peggio, no?

“Bene!” Sbottai quindi, sempre più innervosita. “Parla. Sono qui, ti ascolto.”

Lui non parve molto convinto del mio cedimento, e mi fissò per un po’ dal di sotto delle lunghe ciglia scure – ma poi sembrò ricordarsi di avere i minuti contati, così si riscosse e ritrovò il filo dei suoi pensieri. “Sarò rapido”, chiarì, avvicinandosi. Dio, era passato parecchio tempo dall’ultima volta in cui ci eravamo trovati così vicini – non ero più abituata a sentire il suo profumo, e mi ritrovai ad annusarlo con più delizia di quanto fosse lecito. Mi domandai, per insultarmi mentalmente subito dopo per averlo fatto, se avesse notato che avevo schiarito i capelli o che avevo indossato un vestito, dato che lui aveva avuto modo di vedermi indossare solo jeans e derivati nei miei vani tentativi di apparire assolutamente il meno provocante possibile quando uscivo con lui… Focalizza, Giulia!

“Non ce la faccio più a starti lontano”, disse piano, costringendomi a sostenere il suo sguardo. Sembrava lottare ferocemente contro l’istinto di toccarmi. “Non ci vediamo né sentiamo da settembre… Mio Dio, non una parola da parte tua, neppure un messaggio! Cosa ti costava rispondere a uno solo di quelli che ti ho mandato?”

Avrei voluto ribattere chiedendogli quale parte di non ti voglio più vedere e non cercarmi più detta in ospedale non gli fosse stata sufficientemente chiara, ma c’era qualcosa nel suo atteggiamento che mi dissuase dal stuzzicarlo in modo così spudorato. Insomma, stava solo parlando – non c’era niente di male in quello; e poi lo sapevo che prima o poi il karma avrebbe fatto in modo che anche lui avesse la sua occasione di illustrarmi il suo punto di vista, dato che l’ultima volta che ci eravamo visti ero praticamente fuggita impedendogli di farlo. Per cui, in poche parole, mi morsi la lingua e lo lasciai proseguire.

“Dovevo venire a sapere di te tramite i miei amici che ti vedevano di sfuggita all’uscita da scuola, o dal mio avvocato che ti convocava una volta ogni tanto. Non hai idea di quello che ho passato in questi mesi, soprattutto visto il modo in cui ci siamo… lasciati”, aggiunse, avvelenando la propria voce su quell’ultima parola. “Sembra che quello che ti ho detto non abbia avuto davvero nessun effetto su di te… Però voglio che tu sappia che anche se è passato del tempo io ribadisco e confermo ogni singola parola che ti ho detto quel giorno. Ogni singola parola. E tu sai di cosa parlo, vero? Non sono perfetto, non ho mai avuto l’arroganza di pensarlo né l’ambizione di esserlo, e so – credimi, Giulia, lo so – di non avere una vita facile. Ma sono anche terribilmente egoista, e non sono capace di starti lontano per il tuo bene – continuerò a volere te in questa vita incasinata, fino alla fine.”

Solo quando smise di parlare mi accorsi di aver trattenuto il fiato fino all’ultimo. Deglutii a fatica e ripresi a respirare, sentendomi un fastidioso groppo in gola, e abbassai gli occhi perché, contrariamente a ogni buonsenso, mi sentivo prossima al pianto – e non sapevo quanto potesse giovare entrare nell’aula del processo con gli occhi gonfi e arrossati. Con la coda dell’occhio vidi il movimento della sua mano che si sollevava e andava ad accarezzarmi i capelli, e ciò mi rese di nuovo padrona delle mie capacità motorie. Mi scansai, trovando una via di fuga laterale e allontanandomi il tanto necessario per riguadagnare il controllo di me stessa e ricacciare indietro le lacrime.

“No, Enrico”, mormorai. Dovevo ignorare i suoi maledetti occhi che mi fissavano come se fossi stata un tesoro prezioso, maledizione! Mi schiarii la voce e mi asciugai l’angolo di un occhio umido, poi con un estremo sforzo continuai. “Mi dispiace, ma no. non posso. E prima verrai a patti con questa cosa meglio sarà per tutti”, aggiunsi, sforzandomi di sembrare risoluta.

A quel punto il suo sguardo perse l’espressione appassionata e timorosa e si fece feroce. “Porca puttana, non puoi liquidarmi così un’altra volta…”

Probabilmente aveva ancora parecchie cose da dire a sua discolpa, e avrebbe di sicuro continuato quell’assurdo dibattito se non fossero venuti a cercarci.

“Signor D’Angelo! L’abbiamo cercata dappertutto. Venga, è ora di entrare”, disse il signor Martis, con un’aria trafelata. I suoi occhi scivolarono dal suo cliente a me e una delle sue sopracciglia si inarcò con educata perplessità nel notare le nostre espressioni: mi chiesi se era stato illuminato sui nostri trascorsi, anche se a giudicare dall’inconsapevolezza che sembrava ondeggiare dietro i suoi occhiali non doveva essere stato messo al corrente di tutti gli altarini. “I suoi genitori stavano cercando anche lei, signorina Ordiano”, mi informò gentilmente. Annuii e mi diressi verso di loro – li avevo individuati che parlavano con i genitori di Enrico in modo più civile di quanto avessimo fatto invece noi, e grazie al cielo stavolta lui non fece nulla per fermarmi.

Tuttavia si sentì in dovere di aggiungere ancora qualcosa. “Ne riparleremo ancora, Giulia. Dopo il processo”, fece, alzando di qualche sfumatura il tono di voce in modo da accertarsi che io udissi anche quell’ultima promessa – o era una minaccia?

Di sicuro mi aveva fornito materiale più che sufficiente con cui occupare la mente durante l’udienza; avevo la terribile impressione che tutto il tempo trascorso dall’ultima volta che ci eravamo visti non aveva fatto altro che acuire il desiderio di un sentimento che avevo cercato con tutte le mie forze di non far neanche nascere. Insomma, secondo ogni logica la lontananza avrebbe dovuto farmi passare qualsiasi cosa avessi iniziato a provare per Enrico – perché a questo punto avevo rinunciato da tempo a raccontarmi l’idiozia di non essere minimamente coinvolta in senso emotivo, per quanto continuassi con caparbia ostinazione a non pronunciare né tantomeno pensare una determinata parola – e invece era bastato rivederlo e parlarci un’altra volta per farmi riprecipitare a caduta libera giù per la maledetta tana del bianconiglio.

Prima di entrare nell’aula presi un profondo respiro e strinsi la mano di mia madre, che mi guardava con l’aria di chi, purtroppo per me, aveva compreso ogni cosa e sin da subito, per di più. Mi diede un bacio sulla guancia e mi guidò verso la nostra postazione, nella terza fila dietro il banco di Enrico.

Forza e coraggio, Giulia.

 

 

 

 

 

 















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Angolo Autrice.

Bla bla bla bla... ritardo... Bla bla... insoddisfatta... bla bla... mesi e mesi... bla bla... scuse... bla... perdono... Bla bla bla... Bla!
Conoscete la tiritera, dunque ho mandato avanti la registrazione. xD Mi limiterò a ringraziare le splendide fanciulle che hanno recensito lo scorso capitolo, per l'esattezza chicchetta, Sylphs, Eleanor_Rigby, GreenRose93, luck_Y, Ibelieveinniley e Little Redbird - non so davvero cosa dire per ringraziarvi per le vostre splendide parole, siete così gentili e soprattutto pazienti, una dote estemamente indispensabile per poter seguire le mie storie! xD
E poi ovviamente un ringraziamento a chi mi incoraggia tramite FacciaLibro, che in momenti come questi adoro ♥ Speaking of, se vi capita di passare da quelle parti e avete 5 minuti del vostro pomeriggio da buttare - o se vi serve una scusa per poter usufruire di una ultra meritata pausa studio ù_ù - mi piacerebbe che deste un'occhiata a un umilissimo (ci tengo a precisarlo) video riguardante questa storia, che era nato per essere una specie di Trailer e che invece è finito per diventare una sorta di riassunto di questa trentina di capitoli :D Ma è breve, davvero, nemmeno 5 minuti!, e sarei contenta se mi deste un vostro parere. :)
QUI il video [si trova solo su Feisbuk perché davvero, non credo che meriti di starsene su Youtube x'D]
A questo punto sappiate che l'Epilogo è già scritto - dunque la qui presente autrice sa finalmente come concludere questa storia - e suppongo che manchi solo uno, o al massimo (ma DIO MIO spero di no) due capitoli prima di postare l'ultimo. I pianti li conserverò per allora. :'(
Una domanda spassionata e piena di curiosità: se doveste scegliere una canzone per questa storia, quale sarebbe? Ne volevo una da mettere nell'Epilogo (o in un prossimo video, muahahahaha) e concludere in bellezza, ma la mia cultura musicale non è così vasta, sicché... mi metto nelle vostre mani, se vi va di darmi un aiutino. :)
Orbene, suppongo di avere detto tutto per stavolta!
Ci leggiamo tutte al prossimo capitolo - o su Feisbuk per qualche spoilerino ;D
Baci e abbracci a tutte quante, e... Auf Wiedersehen!
La vostra,
Niglia.

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Capitolo 31
*** Capitolo XXXI. ***


Capitolo XXXI

















Where there is desire
There is gonna be a flame
Where there is a flame
Someone’s bound to get burned
But just because it burns
Doesn’t mean you’re gonna die
You’ve gotta get up and try try try…


I raggi del sole entravano di sbieco dalle ampie finestre alte e strette dell’aula del tribunale, scivolando sul marmo lucido del pavimento e creando una strana atmosfera di solennità e rigore che neppure i più bravi registi americani sarebbero riusciti a riprodurre in qualcuna delle loro pellicole. Se ci fosse stato appena un po’ più di silenzio mi sarebbe sembrato di essere in una cattedrale. Ogni cosa era di legno, dalle panche che ospitavano il pubblico al banco dei testimoni, dalla postazione della giuria alle assi che rivestivano le pareti. Era un legno scuro e opaco che sembrava assorbire la luce proveniente dall’esterno per intrappolarla nelle sue venature; l’unica cosa che scintillava erano le lettere dorate che capeggiavano sotto la pedana del giudice formando la frase più famosa e allo stesso tempo più falsa che il mondo avesse mai conosciuto: La legge è uguale per tutti.
Dalla mia postazione, seduta tra mio padre e mia madre, avevo una visuale perfetta su ciò che accadeva nell’aula: davanti a me, appena più verso destra, si trovavano Enrico e il suo avvocato, mentre dall’altra parte, sotto le vetrate, c’era il banco della giuria posto perpendicolarmente a quello del pubblico ministero. Guardandomi intorno mi resi conto che c’erano tutti, a partire dai genitori di Enrico ad Alessandra e Riccardo, per finire con Stefano e gli altri membri della loro combriccola; gli unici che mancavano all’appello erano i genitori di Lorenzo, che a quanto pare nessuno era riuscito a rintracciare. Non volevo pensare che ci fosse lo zampino degli Occhi Belli, ma a buon intenditor… Ormai sapevo abbastanza di quella famiglia da non stupirmi più per così poco.
Per quanto mi sforzassi, nonostante ciò, di seguire con attenzione tutto lo svolgimento dell’udienza, riuscirci era impossibile; le arringhe degli avvocati erano per me chiacchiere soporifere e senza senso che facevano da sottofondo ai miei pensieri, ed ero così distratta – tutto merito della breve discussione avuta con Enrico prima di entrare in aula – che se non fosse stato per mia madre non avrei neppure udito l’avvocato Martis chiamarmi in causa.
Quella fu la parte peggiore – attraversare la sala per avvicinarmi al banco dei testimoni; sentivo gli occhi di tutti i presenti scavarmi la schiena, e non era una bella sensazione. Il mio intervento in sé fu piuttosto breve, e dubito anche che fosse così incisivo come mi avevano voluto far credere: fondamentalmente si trattava della testimonianza di una ragazzina che al momento del “crimine” era sotto shock – provate un po’ a indovinare come mai – e che dunque poteva avere dei dubbi riguardo quanto accaduto in quella camera da letto. Senza contare che, come ritenne opportuno precisare l’accusa, i miei precedenti sentimentali con l’imputato avrebbero potuto offuscare il mio giudizio. Ah, se solo avessero saputo!
Enrico non mi aveva staccato lo sguardo di dosso nemmeno per un istante mentre cercavo di rispondere con quanta più calma possibile alle domande dell’avvocato Martis e del pubblico ministero. Aveva un’espressione mortalmente seria, era persino leggermente pallido e in più mi accorsi che, mentre stavo raccontando di come Lorenzo mi aveva rapita e aggredita, tutto il suo corpo pareva essersi irrigidito nello sforzo di non alzarsi dalla postazione per venire da me. In effetti, ripensandoci, quella doveva essere la prima volta che mi sentiva parlare dell’accaduto – e con tutta quella dovizia di particolari, poi – e non potei evitare di chiedermi se sarebbe stato capace di “sistemare” Lorenzo anche a sangue freddo, qualora non lo avesse, diciamo accidentalmente, ucciso il giorno stesso.
Sapevo benissimo che rimuginare sulla predisposizione di Enrico alla violenza non serviva a niente e a nessuno – forse era uno strano istinto masochistico quello che mi spingeva sempre più a fondo nella spirale del compatimento e dell’autocommiserazione. Non bisognava dimenticare però che, se lui non fosse intervenuto, probabilmente in quel momento mi sarei trovata in terapia per cercare di dimenticare uno stupro – sempre se Lorenzo non avesse avuto intenzione di farmi fuori, dopo. Forse era un tantino disturbante la noncuranza con cui pensavo alla mia morte, ma il tempo che era trascorso dal fattaccio era servito a farmi metabolizzare e digerire l'intera situazione - motivo per il quale adesso sembravo terribilmente cinica. Comunque, da qualsiasi parte la guardassi non vedevo un lieto fine in quella faccenda; nell’attimo in cui Lorenzo aveva deciso di portare a termine quella sua discutibile vendetta nei confronti di Enrico, di cui tuttora mi sfuggivano i particolari, era sparita ogni opportunità di risolvere la cosa tra persone civili e senza spargimenti di sangue. In poche parole qualcuno si sarebbe fatto male qualsiasi cosa fosse successa e, a quel punto, devo ammettere di aver tirato un sospiro di sollievo nel constatare che quel qualcuno non ero io né tantomeno Enrico.
Quando l’avvocato mi congedò, dandomi il permesso di tornare a sedermi accanto alla mia famiglia, mi accorsi di avere le mani che tremavano come foglie: cercai di celarle sistemandomi le pieghe del vestito e affrettando il passo verso le panche, ma Enrico aveva seguito ogni attimo del mio passaggio attraverso l’aula e potrei mettere la mano sul fuoco sul fatto che se ne fosse accorto. Dio mio, c’era mai qualcosa che gli sfuggiva? Mi risedetti con aria indifferente vicino a mia madre e mi passai una mano tra i capelli, riprendendo a respirare circondata com’ero da persone fidate; solo allora mi decisi a spostare lo sguardo su Enrico, e come mi ero immaginata lui era lì, voltato di due quarti sulla sua sedia in modo da potermi vedere. La sua espressione era così preoccupata che fu un gesto istintivo, da parte mia, accennare un sorriso che lo tranquillizzasse.
Sicuramente stupito ma indubbiamente rassicurato da quell’inaspettato accenno di intimità, Enrico fece un movimento affermativo col capo e anche sulle sue labbra si distese una debole ombra di sorriso, prima che il suo avvocato lo richiamasse sottovoce all’attenzione costringendolo a darmi le spalle e a seguire il proseguirsi del processo.
Alla mia sinistra, mia madre mi prese la mano e la strinse con fare affettuoso: evidentemente non si era persa quel breve scambio di occhiate tra me e lui, confermandosi così l’unica capace di capirmi in tutto e per tutto. Sospirai e ricambiai la stretta. Non vedevo l’ora di tornare a casa…
E invece la giornata sembrava non voler finire ancora.
Dopo la mia testimonianza e una breve discussione tra gli avvocati, il giudice ritenne opportuno aggiornare la seduta e accordare quaranta minuti di pausa, in modo che i membri della giuria potessero riunirsi e tirare le somme di quello che era stato il processo fino ad ora; una volta che l’uomo fu uscito l’aula si svuotò abbastanza rapidamente, e mentre mi avvicinavo alla porta insieme ai miei genitori – quasi invidiavo mia madre che poteva tenere a bada l’ansia con le sue sigarette – notai Stefano e gli altri ragazzi raggiungere Enrico per, supposi, tirargli su il morale.
In quel momento, un pensiero inatteso mi colpì con forza.
Ci sarei dovuta essere io, lì.
In qualche modo, sembrava la cosa più giusta che avrei dovuto fare: d’altra parte, come mi aveva detto Stefano qualche tempo prima, era Enrico quello che rischiava la galera – la propria libertà – per un crimine commesso al solo scopo di proteggere me.
Eppure i miei piedi non si mossero in quella direzione, e presto fui fuori dall’aula, al sicuro tra la mia famiglia, insieme ad Alessandra e Riccardo, lontana da lui. Forse Enrico avrebbe voluto scambiare due parole con me durante quella pausa, ma le circostanze non glielo permisero; avrebbe dovuto affrontare la seconda parte del processo come già aveva affrontato la prima, ossia con un sacco di faccende in sospeso con la ragazza per la quale aveva rischiato tutto.
Questo pensiero mi fece sentire incomprensibilmente a disagio.





*





Ma, come si dice in casi simili, tutto è bene quel che finisce bene: più o meno. Alla fine il giudice aveva pronunciato la sentenza definitiva, e come ci aspettavamo e speravamo che accadesse, Enrico venne scagionato dall’accusa di omicidio, giustificato come legittima difesa come peraltro era giusto che fosse, per chi non era stato presente al momento del fatto, e tutti noi fummo liberi di andarcene.
Era finita.
Aspettavo quel momento da mesi, ormai, e quando finalmente sentii quelle parole rimbombare chiare e limpide nella maestosa aula di tribunale, fu come se l’enorme peso che gravava sulle mie spalle si fosse volatilizzato. D’un tratto mi sentii leggera, come se fossi stata io quella ad essere assolta. Non avrei più dovuto avere niente a che fare con quel mondo, il suo mondo, niente più messaggi, né chiamate, né incontri con l’avvocato – forse avrei potuto smettere di prendere anche quelle pillole che mi aiutavano a dormire! Sarebbe tornato tutto come prima. Ero libera
No, non era del tutto vero. Avevo ancora una questione da sistemare: dovevo chiudere tutti i conti in sospeso che erano rimasti tra me e Enrico. Dovevo farlo. Glielo dovevo, tutto sommato, ma soprattutto lo dovevo a me stessa; non sarei più riuscita a prendere sonno, altrimenti, se quella porta fosse rimasta aperta.
In ogni caso, che cosa avrei dovuto dirgli? Forse è vero, forse anch’io ricambio i tuoi sentimenti, ma non possiamo stare insieme, dimenticami? L’esperienza dimostrava che un passo del genere sarebbe stato inutile, oltre che autodistruttivo: Enrico tendeva a fare sempre il contrario di ciò che gli si diceva di fare. E poi, no, no, non potevo rischiare di dargli neanche un briciolo di speranza se volevo che sparisse una volta per tutte dalla mia vita.
Ma era davvero questo che volevo?
La voce di mia madre si insinuò tra i miei pensieri e fu come se rispondesse ad essi, riportandomi alla realtà. “Che cosa vuoi fare, tesoro?” Mi chiese infatti a bassa voce, passandomi un braccio intorno alla vita. Mi voltai verso di lei, guardandola con un’espressione sicuramente smarrita, perché lei sorrise dolcemente e aggiunse, comprensiva: “Se gli vuoi parlare, noi ti aspettiamo fuori.”
Che cosa potevo fare? Esitai solo un attimo, prima di annuire lentamente. Anche mia madre sapeva che avevo bisogno di parlare con Enrico, di parlarci davvero – non con due frasi per liquidarlo, ma con una cauta ed attenta scelta di parole – e se lei stessa mi spingeva a farlo, beh… Non c’era via di scampo.
Così lasciai che la mia ultima occasione di fuggire mi scivolasse via dalle mani come acqua, osservando distrattamente i miei genitori lasciarmi sola ad affrontare i miei demoni. E se pensate che io sia troppo melodrammatica allora avete perso qualche passaggio durante il corso degli eventi!
Lo ammetto, ero a disagio. Enrico era circondato dai suoi amici – gli stessi che mi avevano rapita all’inizio di quella storia, e che mi avevano spiato e seguito in diverse occasioni per ordine di Enrico, e che avevano chiamato la polizia e l’ambulanza quando, beh, era morto Lorenzo, ma con i quali io non avevo praticamente mai scambiato una sola parola, se si escludeva Stefano; e adesso erano tutti palesemente felici, ridevano e scherzavano, lo abbracciavano, tiravano sospiri di sollievo nel rendersi conto di averla scampata per l’ennesima volta. Rimasi per un attimo in disparte, raccogliendo il coraggio, salutando con un mezzo sorriso Betta e il signor D’Angelo che si avviavano verso l’uscita dell’aula insieme al resto delle persone che avevano assistito al processo; e solo alla fine, quando nella stanza rimanemmo solo io e i ragazzi, presi un profondo respiro e mi avvicinai a loro.
Il rumore dei miei tacchi sul parquet parve passare inosservato, così non feci nulla per dar prova della mia presenza fino all’ultimo momento; ma quando, inevitabilmente, si accorsero di me, tacquero pressoché nello stesso istante e mi guardarono, in attesa – suppongo. Furono i cinque secondi più imbarazzanti della mia vita.
Mi schiarii la voce, torturando i manici della mia borsa, senza ben sapere come esordire. Avrei dovuto fargli le congratulazioni? Gli auguri? Non sarebbe stato troppo ridicolo?
“Sono felice che ti abbiano assolto”, dissi alla fine optando per una frase un po’ più neutra per attaccare bottone, focalizzandomi solo su Enrico e cercando – a fatica – di ignorare gli altri.
Enrico non sembrò dare cenno di voler rispondere, così Stefano prese in mano la situazione e strinse affettuosamente la spalla del cugino, accennando un sorriso. “Ti aspettiamo fuori. Quando hai finito ci trovi al bar.” L’altro annuì, senza distogliere lo sguardo da me, e i ragazzi se ne andarono velocemente, fingendo di non riconoscesse l’eccezionalità dell’intera situazione – io che mi avvicinavo di mia spontanea volontà ad Enrico, quando invece sarei potuta fuggire con i miei genitori subito dopo che la seduta era stata tolta, tanto per essere chiari. Lo trovavo assurdo io stessa, immaginavo come dovesse sembrare ai loro occhi.
A quel punto, rimasti soli, Enrico smise di guardarmi e d’improvviso parve estremamente occupato a mettere in ordine alcuni fogli ancora sparsi sul tavolo, riuscendo a non far trapelare nulla dalla sua espressione. “Dici davvero? Credevo che avresti preferito vedermi in prigione, in modo da poter vivere la tua vita in tutta tranquillità senza di me”, fece gelidamente, chiudendo la cartella con un elastico.
Malgrado il tono, non riuscivo a capire se stesse scherzando o meno; nel dubbio decisi di prenderlo sul serio. “Anche se puoi pensare il contrario, non sono così stronza”, ribattei a mezza voce. Ero andata da lui con la mezza intenzione di salutarlo e andarmene, ma avrei dovuto sapere che non sarei stata in grado di cavarmela così a buon mercato. O forse… forse, semplicemente, non volevo farlo. Anzi, mi resi conto che mia madre aveva visto giusto, e che io avevo ancora alcune cose da dirgli.
Cosa che feci dopo aver preso un bel respiro profondo.
“Senti. Quello che è successo è terribilmente sbagliato, e scioccante, e discutibile, ed è probabile che continuerò a farci gli incubi, ma… Da un lato, e ascoltami bene perché non mi sentirai ripeterlo più, hai cercato di fare qualcosa che in quel momento ti è sembrata la cosa giusta. Non so se tra te e Lorenzo c’erano davvero dei precedenti, o se lui era solo un sociopatico, ma sono convinta che se non ci fossi andata di mezzo io tu non saresti mai arrivato a tanto – e se mi sbaglio, per favore, non correggermi. Lasciami l’illusione che tutto sia andato come è andato perché hai cercato di proteggermi, o di vendicarmi, fai tu – e non parliamo più di questa storia. Okay?”
Per un attimo non parlò: forse non si aspettava quella valanga di parole da parte mia. Poi sollevò una mano a massaggiarsi le tempie, sospirò e scosse appena la testa. “Per quanto apprezzi il tuo discorso, Giulia, e dico sul serio, non sistema neanche la metà delle questioni in sospeso che ci sono tra noi.”
Aggrottai la fronte, ma non ero sorpresa: in fondo mi aspettavo che non si sarebbe arreso così in fretta, benché una parte di me ci avesse, ingenuamente, un po’ sperato. “Enrico, ne abbiamo già parlato. Non rovinare---”
“Ancora? Io non sto rovinando un bel niente. Ti ho detto prima dell’udienza che avremmo ripreso il discorso, o ti sei già dimenticata? Perché io non sono riuscito a smettere di pensarci, e sapere che eri seduta qualche fila dietro di me, durante il processo, non mi ha aiutato a tenermi concentrato neppure su una cosa dalla quale dipendeva la mia vita.”
Non riuscii a trattenermi dal roteare gli occhi, esasperata da quella sua tendenza al melodrammatico, stanca di sentire sempre le solite storie, i soliti discorsi triti e ritriti. “Qui stiamo andando di nuovo fuori tema…”
Inutile sottolineare che il mio pallido tentativo di fare dell’ironia non aveva attecchito.
“Il tema è sempre lo stesso. Tu ti ostini a non voler vedere quello che hai davanti, solo perché hai paura di… di annegare in un sentimento che non vuoi, che ritieni sbagliato! Sei sempre stata tanto paziente con me, Giulia, mi hai tollerato, lo ammetto, quando probabilmente volevi soltanto picchiarmi, hai sopportato la mia presenza per così tanto tempo che alla fine non puoi biasimarmi se mi sono convinto che anche tu provi qualcosa! Insomma, dai, non puoi negare che stessimo iniziando ad avere qualcosa di più, che stessimo andando oltre l’iniziale rapporto del ‘esci con me o me la prenderò con i tuoi amici’… Mi sbaglio? E adesso, tutto quello che voglio, tutto quello che ti chiedo è di non rinunciare a quel qualcosa che si è creato tra di noi e che potrebbe essere davvero bello, soltanto a causa di un mio gesto più avventato di altri.”
Lo osservavo in silenzio, assorbendo le sue parole, cercando di accantonare i miei pregiudizi e sforzandomi, davvero, sforzandomi di comprendere il suo punto di vista. Lo so, lo so, su una cosa aveva ragione: prima che succedesse tutta quella faccenda di Lorenzo, qualcosa nel nostro rapporto era cambiato, evolvendosi in… beh, non lo so bene neppure io in che cosa si stava evolvendo. Al di là dei baci e degli abbracci, per un momento c’era stato qualcosa di più, qualcosa che mi teneva sveglia la notte e che aveva iniziato a farmi mettere in dubbio i miei sentimenti, arrivando al punto da confidarli alla mia migliore amica, che peraltro aveva cercato di farmi cambiare idea. Quel qualcosa era anche la causa del mio essere lì, adesso, di fronte a lui, invece che da tutt’altra parte a cercare di dimenticarlo. Per cui sì, Enrico aveva ragione: volendo fare un paragone romantico, mi sentivo come la volpe che era stata addestrata dal Piccolo Principe. Adesso che conoscevo Enrico, che lui mi aveva mio malgrado addomesticato, non sarei più stata capace di guardare il mondo e non vedere lui riflesso in ogni cosa: il verde cupo del mare mi avrebbe fatto pensare ai suoi occhi, il nero ai suoi capelli, la fresca fragranza del dopobarba al profumo che sentivo ogni volta che ero vicina a lui e che lo abbracciavo, per non parlare di quando, andando a portare un fiore a mio nonno, avrei ripensato a come mi aveva consolato il giorno del funerale… Enrico sarebbe stato dappertutto, non me lo sarei levato dalla testa neppure se l’avessi evitato come la peste fino alla fine dei miei giorni – come peraltro dimostrava l’anno appena trascorso.
E questo, sinceramente, mi terrorizzava a morte.
Compresi di avere gli occhi lucidi quando lui sollevò una mano a sfiorarmi la guancia, con una certa titubanza che poteva essere interpretata come cautela.
“Ascolta, non ti sto chiedendo di sposarmi”, mormorò, muovendo gentilmente il pollice appena al di sotto del mio zigomo. “Vorrei solo che mi dessi un’altra possibilità, un’altra occasione di conoscermi, di conquistarti. Nessuna minaccia stavolta, te lo giuro, partiamo alla pari – e te lo sto chiedendo per favore, come te lo chiederebbe chiunque altro. Poi, vedremo come andrà… Magari sarà un fiasco completo e ci lasceremo da buoni amici, chi lo sa? Non potremo mai toglierci questo dubbio se non ci proveremo. Comunque io so che non sarà così. So quello che provo, e perdonami l’arroganza ma credo di sapere anche cosa provi tu. Non saresti qui, in questo momento, se io ti fossi del tutto indifferente!”
Come contraddire tanta sicurezza? Mi sedetti, spezzando il contatto della sua mano sul mio viso – reggermi in piedi stava iniziando a diventare difficile – e iniziai a tamburellare le dita sulla superficie liscia del tavolo per scaricare il nervosismo.
“No, infatti. Non sarei qui”, ripetei piano, senza guardarlo. Avvertii un movimento davanti a me, uno spostamento d’aria, e poi lui apparve all’interno del mio capo visivo accucciato per terra, le mani ai lati della mia sedia e un’espressione gentile e paziente sul volto. Mi limitai ad osservarlo per un po’ – compresi che lui stava solo aspettando che io facessi ordine tra i miei pensieri prima di esprimermi ad alta voce – ma in realtà non sapevo più che cosa dirgli senza sbilanciarmi troppo. Non ero mai stata molto brava con le parole, e con i discorsi facevo addirittura schifo, per cui non avevo idea di cos’altro potessi aggiungere a ciò che già era stato ampiamente detto e ridetto.
Tuttavia io sapevo la verità, solo che era troppo spaventosa per ammetterla. Eppure se non l’avessi fatto me ne sarei pentita per tutta la vita, me ne rendevo conto, senza contare poi che lui meritava di sentirla e che io avevo bisogno di condividerla per alleggerirmi l’animo; insomma, era una confessione che avevo necessità di fare per poter continuare a vivere senza rimorsi. E poi non era forse quello lo scopo di tutta questa messinscena? Non ero forse rimasta per la resa dei conti?
Avrei potuto dire un sacco di cose, fare infiniti giri di parole per prolungare la sofferenza e rimandare il momento della verità: ma a cosa sarebbe servito? Non avevo intenzione di dirgli che credevo di aver iniziato ad innamorarmi di lui perché innanzitutto avevo ancora un orgoglio e una reputazione da difendere; e, in secondo luogo, dopo tutto quello che era successo, una frase del genere avrebbe accelerato troppo le cose e io ancora non me la sentivo – però su un altro punto potevo essere sincera.
Abbozzai un sorriso, poi le parole vennero fuori con una facilità impressionante. “Lo sai, mi sei mancato in tutti questi mesi.” Quella sudata ammissione fu la cosa più difficile che avessi fatto fino a quel momento – ancora più difficile di testimoniare a suo favore – ma se non altro mi liberò da un grosso peso sul petto. Mi sembrò addirittura che respirare fosse più facile.
Lo sguardo che Enrico mi dedicò in risposta alla mia affermazione mi dimostrò che ne era valsa la pena.
“Visto? Non era poi così difficile", replicò, con un tono che parve davvero tenero. Si era trattenuto dal fare una delle sue solite battute - soprattutto si era trattenuto dal dirmi una qualche frase odiosa come te lo avevo detto - e di questo gliene fui grata. "E per il momento potrebbe anche bastarmi", aggiunse poi, sorridendo palesemente compiaciuto. "Adesso possiamo andare a festeggiare, no? Su, alzati - ah, ma prima devo avvisare i tuoi genitori che per il resto della giornata ho intenzione di rapirti… Ah, aspetta!” Si fermò all’improvviso dopo avermi trascinato in piedi, senza riuscire a togliersi quell’espressione soddisfatta e felice dalla faccia che non avevo ancora deciso se mi piaceva o mi faceva paura. Sembrava essersi appena ricordato di una cosa molto importante. “Posso baciarti?” Chiese infatti, volutamente malizioso.
Questa poi mi fece scoppiare a ridere, forse un po' istericamente. “Ah, adesso hai bisogno di chiederlo?”
Evidentemente non aspettava altro: in un attimo la sua bocca fu sulla mia. Fu davvero rapido – forse aveva paura che io cambiassi idea all’ultimo minuto – e all’inizio si limitò a un contatto casto e tenero, più una leggera carezza di labbra che si sfioravano che un vero bacio, e che peraltro interruppe quasi subito. Si fermò per osservarmi con aria quasi sbalordita, come se in fondo si stesse ancora aspettando una qualche ribellione da parte mia o che dessi di matto come mio solito, smorzandogli l’entusiasmo e rovinando l’atmosfera con una battutina, ma con mia e sua sorpresa non feci nulla di tutto questo. Rimasi lì, vicina a lui, gli occhi socchiusi e un sorriso un po’ meno accennato.
All’improvviso ebbi voglia di abbracciarlo, di rifugiarmi tra le sue braccia e inspirare il suo profumo – e, sorpresa!, lo feci e basta, senza pensare a come avrebbe potuto fraintendere quel gesto o chissà cos’altro. Insomma, a quel punto c’era davvero poco da fraintendere: Enrico mi era mancato, io l’avevo ammesso sia a me stessa che a lui, dunque adesso la strada sarebbe dovuta essere tutta in discesa. Più o meno.
Fu lui dopo un po' ad allontanarmi gentilmente, ma solo per prendermi il viso tra le mani e guardare le lacrime in bilico tra le ciglia che stavo cercando disperatamente di trattenere. Era assurdo, ma sentivo il cuore battere talmente tanto forte in petto da farmi quasi male – sperai piuttosto scioccamente che lui non lo sentisse. Se erano questi i sintomi, allora mi ero cacciata davvero in un bel guaio…
Ma prima che la mia mente potesse riprendere freneticamente a pensare rovinando il momento, Enrico mi passò una mano tra i capelli, facendo scorrere le dita tra le ciocche, e poi, dimostrando di saper davvero cogliere l’attimo, abbassò il viso su di me e mi baciò di nuovo. E il secondo non fu un bacio casto.
Stavolta, mentre lo baciavo, ebbi l’impressione di aver spento ogni interruttore. Sentivo solo silenzio. Non era un silenzio morto, freddo o triste, al contrario... Era un silenzio fatto dei miei sospiri, dei suoi, di deboli gemiti che nessun altro al di fuori di noi due avrebbe potuto sentire, dei battiti accelerati del mio cuore e del suo respiro leggermente affannato... Era il bacio che avrei voluto dargli quando era venuto a salvarmi da Lorenzo, e anche quando ero andata a trovarlo in ospedale e mi aveva detto che mi amava, e che per tutta una serie di ovvi motivi avevo dovuto rimandare.
Quando iniziò a mordicchiarmi il labbro inferiore per spingermi ad abbassare anche l’ultima difesa credetti che sarei potuta morire. Non mi ero aspettata tutto quell’entusiasmo tutto in una volta, anche se forse dovevo immaginare che una volta datogli il permesso Enrico si sarebbe rifatto di tutte le volte in cui, in passato, gli avevo impedito di prendersi “troppe libertà”. Ebbi appena il tempo di dischiudere leggermente le labbra per far entrare un po’ d’aria, prima che lui si tuffasse nuovamente su di esse, baciando, mordendo e succhiando, come se da quel bacio dipendesse la sua stessa vita, come se non avesse potuto più respirare senza. Con entrambe le mani tra i miei capelli mi tenne dolcemente imprigionata, e riuscì ad approfittarne per avvicinare ancora di più il mio viso al suo – come se fosse stato possibile.
Fu imbarazzante venire interrotti da qualcuno che si schiariva vigorosamente la voce. Mi staccai da Enrico come se fossi appena stata sorpresa a rubare, le guance in fiamme e uno sguardo colpevole, mentre invece lo stoico Occhi Belli si limitava a passarmi un braccio intorno alle spalle e a ricambiare l’occhiata della guardia giurata che ci fissava con cipiglio severo.
“Dovete lasciare l’aula adesso, signori”, disse semplicemente, con un tono che tuttavia non ammetteva repliche. Rimase a guardarci fino a quando non raggiungemmo la porta della stanza – le mie scuse farfugliate non ebbero alcun effetto su di lui, a quanto pare – e a quel punto la chiuse senza troppe cerimonie alle nostre spalle.
L’entusiasmo di Enrico non sembrava essere stato minimamente scalfito dalla brusca interruzione. Sempre con il sorriso sulle labbra – uao, bastava davvero poco per farlo felice – si voltò verso di me e allungò una mano per riprendere a giocherellare con i miei capelli; non riusciva proprio a trattenersi dal toccarmi, sembrava quasi che avesse paura che gli potessi sparire da davanti non appena avesse abbassato un poco la guardia…
“Allora, torni a casa con me? Abbiamo ancora tanto di cui parlare”, mi chiese gentile, sperando in una risposta affermativa ma, per la prima volta, senza pretenderla.
Scrollai le spalle, guardandomi istintivamente intorno alla ricerca dei miei genitori che, però, non si vedevano da nessuna parte. “Non so, vuoi andare adesso?” Riportai la mia attenzione su di lui. “Dovrei chiedere ai miei, prima, e poi tu non devi festeggiare con i tuoi amici? Sono venuti per te, non puoi mollarli per sparire insieme a me.”
“Che stupidata, certo che posso. Loro li vedo tutti i giorni, io e te non ci parliamo da mesi…”
Appunto. E non è per niente carino che tu ora vada via con la stessa ragazza che ti ha evitato in tutto questo tempo, potrebbero rimanerci male.” Non era ancora convinto, lo dimostrava il modo in cui mi guardava, ma ormai credevo di sapere come prenderlo. Per cui sorrisi, avvicinandomi e tenendo impegnate le mani nel ravvivargli la camicia e la giacca un po’ sgualcite. “Non è una scusa per non rimanere sola con te, te lo assicuro. Abbiamo un’altra intera estate per recuperare il tempo perso, no? E poi, andiamoci piano. Piccoli passi, con calma e senza fretta, a partire da adesso. Che ne dici? Tu ora vai dai tuoi amici che ti aspettano al bar, dici a Stefano da parte mia che aveva ragione e festeggi insieme a loro com’è giusto che sia. Il mio numero ce l’hai ancora, suppongo… Anch’io ho il tuo. Quando vuoi mandami un messaggio, prometto di risponderti. Okay?”
Sì, l’avevo convinto. Lo salutai con un rapido abbraccio e un bacio sulla guancia – eravamo pur sempre in un salone pieno di gente – e sparii in mezzo alla folla prima che Enrico trovasse il modo di trattenermi. Alla fine avevo preso la mia decisione, e sorprendentemente mi sentivo bene. Benissimo! Quella era di sicuro la cosa più giusta che avessi fatto nell’ultimo anno.
Speravo solo di non dovermene pentire.









***





31 dicembre, sei mesi dopo.


Le note di vecchie canzoni natalizie provenivano ininterrottamente dallo stereo del soggiorno, anche se Natale ormai era già passato. L’albero che avevamo addobbato io ed Enrico era ancora in un angolo, accanto al camino nel quale scoppiettava un allegro fuocherello, e sotto c’era ancora qualche regalo impacchettato da consegnare ai nostri amici. Beh, quelli di Enrico, in realtà; io e Alessandra ci eravamo viste una settimana prima di Natale e avevamo festeggiato in anticipo a casa mia, scambiandoci i nostri pensierini e facendo ben attenzione a fingere di non essere fidanzate con due ragazzi che si odiavano reciprocamente. Quello era stato il primo compromesso che avevamo dovuto fare in nome della nostra amicizia: Riccardo non sopportava Enrico, e anzi lo disprezzava, mentre Enrico da parte sua credo che semplicemente non volesse più averci nulla a che fare, pur senza provare chissà quale odio nei suoi confronti. Per cui, né io né Alessandra eravamo libere di parlare delle nostre rispettive relazioni le une con le altre, io perché sapevo che lei malgrado tutto non mi appoggiava – benché più volte avesse ribadito il contrario – e lei per pura solidarietà.
Il secondo compromesso riguardava il modo in cui avremmo dovuto trascorrere le festività: quello sarebbe stato il primo capodanno che avrei festeggiato senza la mia migliore amica, e di conseguenza anche senza Laura, Federico e Matteo.
Sì, nell’insieme era una cosa parecchio triste, ma per alleviare un poco l’amarezza di quella situazione si poteva anche dare la colpa al fatto che tutti noi frequentassimo università diverse. Alessandra era iscritta in tossicologia come aveva sempre desiderato, Laura in scienze della comunicazione, Federico e Matteo in economia e io in lingue: oggettivamente anche in una situazione normale sarebbe stato molto difficile, anche se non impossibile, continuare a vederci come prima. Certo, la realtà era ben diversa; ma ehi, chi voleva rovinarsi le feste pensando a quelle cose? Io no di sicuro; e sinceramente non volevo neppure guastare il mio primo capodanno trascorso insieme ad Enrico, considerando che da qualche tempo a questa parte aveva iniziato a definirsi ufficialmente – più o meno – il mio ragazzo. Le prime volte lo avevo incenerito con lo sguardo, ma alla fine avevo terminato le munizioni. E tutto sommato chi ero io per impedirgli di chiamarsi come voleva, dopo tutto quello che avevamo passato?

Stavo preparando le ultime cose per il cenone di capodanno. Avevo iniziato a sistemare la tavola ed ero passata a preparare i primi antipasti, quando Enrico fece il suo ingresso nella sala da pranzo della sua villa di campagna carico di buste e vassoi e in evidente difficoltà – era andato a casa mia a prendere quello che mia madre aveva insistito per preparare per il nostro cenone, dato che loro sarebbero andati a cena da mia nonna insieme agli zii e a mia sorella e aveva l’intero pomeriggio libero. Mi pulii le mani sul grembiule e lo raggiunsi, aiutandolo a poggiare il suo carico sulla penisola della cucina.
Lui gemette, sgranchendosi le braccia. “Tua madre ci ha dato roba per un esercito. Lo sa che siamo solo in quattro, vero?”
Ridacchiai, iniziando a tirar fuori i recipienti dalle buste di carta per capire che cosa ci fosse nei vari involucri. “Non lamentarti, e ringraziami piuttosto. Anche mia nonna stava per metterci del suo...”
“Averlo saputo prima, avrei fatto venire anche gli altri.”
“Ecco, perché non li chiami? Siamo ancora in tempo, sono solo le otto, e più siamo meglio è, no?
Sul suo viso passò un’ombra strana. “Lo sai, non volevo importi la loro presenza. E poi non mi sembrava giusto… visto che i tuoi, di amici, non sono voluti venire.”
“Sì, beh, è una cosa con cui sono già venuta a patti. Sapevo che sarebbe stato difficile, e hanno solo confermato le mie supposizioni. Pazienza… Si perderanno le lasagne e le melanzane alla parmigiana di mia madre.”
Enrico rimase in silenzio, osservandomi mentre cercavo di tenermi impegnata per non lasciarmi andare alla tristezza. “Mi dispiace, Giuli. Davvero”, disse a bassa voce dopo un po’. Sapevo che era sincero, ma questo non cambiava le cose.
Accennai un sorriso e scrollai le spalle, come a liquidare una volta per tutte quell’argomento. “Dai, non pensiamoci. Non voglio rovinare il nostro capodanno.” E anch’io ero stata onesta, dato che non ero per niente pentita della mia scelta.
Per quanto fosse palesemente poco convinto, ricambiò il sorriso. “Il nostro capodanno. Mi piace come suona… nostro…”
Roteai gli occhi, sbuffando. “Oddio, no, per favore. Non ti sopporto quando fai il vecchio sentimentale.”
“Sto cercando di essere romantico!”
“E ti riesce anche piuttosto male”, lo scoraggiai subito, dandogli le spalle e iniziando a infilare le teglie in forno per riscaldarle prima che arrivassero gli altri.  In realtà quando si metteva d'impegno gli riusciva piuttosto bene, ma provocarlo era tuttora così divertente...
Come al solito era troppo cocciuto per farsi abbattere con così poco e mi venne appresso come un’ombra, fischiettando a ritmo di un Jingle bells che suonava dalla radio. Mi passò le braccia intorno ai fianchi e si strinse contro la mia schiena, poggiando il mento sui miei capelli. “Forse avrei dovuto mettere un rametto di vischio da qualche parte, magari ti saresti addolcita”, scherzò, tamburellandomi il ventre con le dita.
“Grazie a Dio è una pianta che qui non cresce.”
“Grazie a Dio non ho bisogno di una pianta per baciarti”, mi fece il verso, chinandosi per seppellire il viso nell’incavo scoperto tra il mio collo e la spalla e dispensando piccoli baci umidi.
Il solletico che quel trattamento – per quanto piacevole – mi causava mi fece ridacchiare come una quindicenne. Cercai di spingerlo via con il gomito, ma sarebbe stato più facile cercare di staccare a mani nude una patella dalla roccia. “Dai, smettila! Che poi dobbiamo lasciare le cose a metà e sappiamo entrambi quanto diventi insofferente, in quel caso”, lo ammonii, sforzandomi di non ridere.
“Mmh, e chi lo dice che dobbiamo lasciare le cose a metà?”
“Sta per arrivare Stefano! Con la fidanzata!”
“Appunto, credo che sarebbero più che comprensivi…”
“Enrico, stai rischiando. Vai a finire di apparecchiare, devi preparare i piatti con gli antipasti”, lo istruii cercando di suonare quanto più severa possibile. Magari se si fosse tenuto impegnato avrebbe smesso di pensare a palpeggiarmi, almeno per un po’.
Alla fine, ero riuscita a convincerlo a chiamare il resto dei suoi amici in modo che ci raggiungessero per cena; arrivarono tutti insieme poco dopo Stefano e la ragazza, Cecilia, che mi aveva raggiunto in cucina mentre gli uomini facevano comunella in sala da pranzo. Ci eravamo già viste prima di allora e andavamo piuttosto d’accordo: l’unica differenza tra me e lei risiedeva nel fatto che lei non fosse a conoscenza della, per così dire, seconda vita di Stefano, e visto che si stavano frequentando da poco potevo ben capire la riluttanza di lui nel parlarle di certe cose. Comunque la presenza di una “esterna” come Cecilia avrebbe aiutato a mantenere il livello della serata il più normale possibile, e di questo le ero davvero grata; a volte mi sentivo ancora fuori luogo in mezzo a Enrico e ai suoi amici, perché sapevo che quello che condividevano era un qualcosa che non mi sarebbe mai piaciuto ma che purtroppo non potevo cambiare.
Eppure, quando scoccò la mezzanotte e nel vociare degli auguri Enrico stappò la bottiglia di spumante, voltandosi immediatamente verso di me in modo che fossi io la prima ad avere il bicchiere pieno, realizzai che per il momento non mi importava, ed ero sincera. Quello che davvero contava eravamo io e lui, i nostri bicchieri che tintinnavano l’uno contro l’altro nel brindisi e il rapporto che stavamo costruendo pazientemente giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, raccogliendo con cura quelli che cadevano di tanto in tanto e rimettendoli a posto in modo che l’intera struttura non crollasse. E finora dovevo ammettere di essere parecchio soddisfatta della forma che la nostra relazione stava prendendo.
“Felice anno nuovo, Giuli”, mi sussurrò all’orecchio, prima di baciarmi.










Funny how the heart can be deceiving
More than just a couple times
Why do we fall in love so easy
Even when it’s not right…
















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La canzone che apre e chiude il capitolo è Try, di Pink. Non so, pensavo ci stesse bene.
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Angolo Autrice.

Dite la verità, da quanto tempo stavate aspettando? Ah? Lo so, lo so, come al solito sono imperdonabile - ma ehi, guardate il lato positivo! Questa è ufficialmente la prima storia che ho scritto e che sono riuscita a concludere (sorvolate sul fatto che mi ci sono voluti quattro anni per farlo, neanche fosse stata la saga di Harry Potter), e tutto ciò mi riempie di soddisfazione *_* Non riesco ancora a essere commossa perché questo è sì l'ultimo capitolo, però dopo ci sarà un epilogo, com'è giusto che sia, e quindi... E quindi niente, ci si rilegge lì :D Rimandiamo a dopo la lettura dell'epilogo eventuali lanci di mele marce e riserviamoci la facoltà di esprimere un giudizio "universale" sulla storia per allora... Perché sono quasi del tutto convinta che questo trentunesimo capitolo sia stato parecchio deludente, per molti di voi. Beh, pazienza... This was my design, tanto per citare Will Graham (se cogliete il riferimento vi sposo), e non c'è niente che possiate fare. xD
Dopotutto, se George R. R. Martin è ancora vivo dopo tutto quello che fa succedere nei suoi libri... io posso ancora dormire sonni tranquilli. 8D
Colgo l'occasione per ringraziare nuovamente tutti coloro che hanno dato un'occasione a questa storia, che hanno seguito le loro vicende dall'inizio o che si sono aggiunti in seguito, che l'hanno letta in silenzio o che di tanto in tanto mi facevano sapere che cosa ne pensavano, e che soprattutto sono qui, oggi, a un passo dalla fine, e potranno dire ai posteri "Io c'ero!" ç_ç
..... Nah, mi sono lasciata trasportare. Comunque il succo è: grazie, grazie, grazie mille, grazie infinite, grazie di tutto :***
Entrando nei particolari, grazie a _Malvine_, Utena, _Elisewin_, Ibelieveinniley, luck_Y, GreenRose93, Charity, Sylphs, _Artemide_, rodney, cate394rina, Mrs_Hran, MinguzXD, Sary01 e Brigida per aver recensito lo scorso capitolo, nonché a tutte le fantastiche persone che hanno aggiunto la storia alle Preferite e alle Seguite e, ripeto, a tutti voi che avete letto :)
Orbene, vi saluto! Ci diamo l'ultimo appuntamento all'Epilogo, lasciamo le lacrime (anche no) ad allora!
Vi bacio e vi abbraccio tutte, la vostra estremamente grata
Niglia.

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Capitolo 32
*** Epilogo. ***


Epilogo


























Qualcuno avrebbe detto che era una bella giornata per un funerale. Per me rimaneva soltanto un comune pomeriggio di fine novembre, con il cielo grigio gravido di pioggia e l’aria ghiacciata che penetra attraverso il cappotto e raggiunge le ossa, e ti gela le lacrime sulle ciglia impedendo loro di scivolarti sulle guance.
Gli ultimi due giorni sembravano essere stati i più gelidi, fino a quel momento.
In teoria non doveva esserci molta gente alla funzione – era stata una decisione della giovane vedova, che non voleva che una folla di curiosi assistesse al dolore suo e della sua famiglia: malgrado non fossero stati messi i manifesti, tuttavia, il paese era piccolo e la voce si era sparsa e in chiesa c’era comunque più gente di quanto avesse desiderato. A messa conclusa, il prete si era fatto avanti per impedire ai presenti di accalcarsi intorno alla famiglia, rendendo il momento più penoso di quanto già non fosse.
Le ero rimasto vicino dal momento in cui il feretro venne portato fuori dalla chiesa e caricato sull’auto, offrendomi di aiutarla con i bambini ma accettando di buona grazia il suo rifiuto di separarsi da loro. Aveva tenuto la piccola Elisa in braccio in tutto il tragitto a piedi verso il cimitero, mentre Nicola camminava al suo fianco come un piccolo ometto, terribilmente serio e pallido malgrado i suoi sette anni. Nessuno di loro tre aveva pianto, non in pubblico almeno, e solo il leggero tremito delle mani della madre rivelava quanto stesse soffrendo dietro il riparo degli occhiali da sole.
Mentre le camminavo accanto, quasi a volerla proteggere dagli sguardi di pena, compassione o persino disprezzo che vedevo nei passanti che si fermavano sul marciapiede e voltavano il capo verso di noi per saziare la loro curiosità, mi tornarono in mente uno dietro l’altro tutti i momenti che avevamo trascorso insieme negli ultimi dodici anni, un tempo sufficiente a far sì che il nostro legame si solidificasse come non sarebbe mai sembrato possibile, all’inizio.

“Le ho chiesto di sposarmi, Sté.”
“E lei…?”
“Ha detto di sì! Cioè, ha detto, sì ma non subito, prima si vuole laureare… Ma non ha detto di no!”
“L’avevo capito, sì. Beh, cugino, sono felice per te! Congratulazioni!”
“Sì, grazie, Sté, davvero. Ehi, senti, voglio chiederti una cosa…”
“Qualsiasi cosa, cugino.”
“Mi faresti da testimone?”

Al matrimonio era bellissima. Forse lo dico perché sono palesemente di parte, ma lei era bella, davvero. I capelli raccolti in una semplice acconciatura che lasciava scoperto il collo e metteva in risalto il girocollo di perle grigie, prestato dalla madre, l’abito color avorio dalle forme morbide e sinuose, il bouquet di rose rosse e fiorellini bianchi stretti in una mano mentre l’altra era stretta al braccio del padre – sembrava una visione. Forse fu quello il momento in cui iniziai ad innamorarmi di lei, mentre avanzava lungo la navata della chiesa, le guance arrossate dall’imbarazzo e un luccichio commosso negli occhi, fissi sull’uomo al mio fianco.

“Posso ballare con la sposa?”
“Certo, cugino, sei il testimone! Ma non stancarmela troppo, per cortesia.”
Enrico indietreggia di qualche passo e va a cercare il neo-suocero, non prima però di aver baciato la moglie su una guancia, semplicemente, ma con un certo qualcosa che la fa arrossire appena.
Non sono stato così vicino a Giulia dalla volta in cui ho tenuto il suo capo sulle mie ginocchia in quella maledettissima ambulanza.
Lei è incredibilmente a suo agio con le mie mani intorno alla sua vita, e sorride, sorride, perché nulla potrebbe turbare il suo giorno.
Come aveva fatto…

…a cambiare idea così drasticamente su Enrico? Solo io sembravo ricordare i tempi in cui lei lo frequentava perché lui l’aveva obbligata, solo cinque anni prima?, e di certo all’epoca niente avrebbe fatto presagire un finale di questo genere. Sposata con Enrico, chi lo avrebbe mai detto. Non avrei mai creduto che sarebbe arrivato il momento in cui mi sarei pentito di averla praticamente spinta tra le sue braccia, spinta a dargli un’altra possibilità, a cercare di vedere il buono che c’era in lui. Avevo difeso mio cugino a spada tratta davanti alla donna di cui poi mi sarei innamorato – uno strano scherzo del destino, che mi ha portato talvolta a odiare quello che per me era stato come un fratello.
Inutile dire che Cecilia, la ragazza che frequentavo all’epoca, divenne una ex subito dopo il matrimonio.

“Stefano, cazzo, dimmi dov’è! Non mi risponde al telefono da questo pomeriggio!”
“Non so cosa dirti, Giuli, davvero. Ascolta, non preoccuparti, lui sa quello che fa…”
“Non preoccuparti? Non preoccuparti! Come fai a dirmi di non preoccuparmi, mi aveva detto che sarebbe tornato prima di cena e invece non è ancora rientrato!”
“Senti, posso andare a cercarlo se ti fa stare più tranquilla.”
“Vengo con te.”
“No, no, Giulia, rimani a casa. Se Enrico torna e non ti trova potrebbe preoccuparsi lui, e sono le due del mattino. Ok?”
Silenzio dall’altro capo del filo. Poi un sospiro rassegnato. “Ok. Ma rimango sveglia, quindi chiamami o mandami un messaggio qualsiasi cosa sia successa.”
“Ti tengo aggiornata, te lo prometto.”

Non era stato un matrimonio facile, il loro, ma Giulia doveva amarlo davvero tanto per resistere giorno dopo giorno in quella situazione. Ogni volta che Enrico non rientrava, ogni volta che faceva tardi, persino ogni volta che litigavano, lei chiamava me. Mi chiamava e mi gridava contro, o piangeva, o rimaneva in silenzio, perché non aveva nessun altro con cui parlare. Aveva deciso che i suoi genitori sarebbero dovuti rimanere fuori da quella storia, quindi loro non avevano idea dell’inferno da cui la loro figlia andava e veniva puntualmente per amore di suo marito, e come se ciò non fosse bastato con la sua unica migliore amica era tutto finito nel momento in cui aveva deciso di stare definitivamente insieme ad Enrico, dato che Riccardo, il fidanzato di Alessandra, non aveva voluto avere più nulla a che fare con tutti noi.
Ero diventato il suo migliore amico – non avrei potuto chiedere di meglio.

Sospira, cercando di prendere chissà quale argomento, e alla fine poggia la tazzina del caffè sul tavolino e solleva lo sguardo su di me, trattenendo un sorrisino.
“Io ed Enrico ne abbiamo già parlato, e… Ci piacerebbe che fossi tu il padrino di Nicola.”
La notizia mi sorprende davvero, dato che non mi sarei mai aspettato di essere così importante per lei. Lo sguardo mi cade inevitabilmente sul suo ventre che da qualche mese ha iniziato a curvarsi dolcemente, e che lei accarezza con aria distratta.
“Dici sul serio? Non preferiresti una tua amica, o tua sorella, o… o qualcun altro?”
“Mia sorella sarà comunque la zia, e tu sei un mio amico, Stefano. E, a meno che la tua risposta non sia negativa, non vedo perché dovrei volere qualcun altro.” Il suo sorriso è tutto ciò di cui ho bisogno.
“Cavolo, certo che la mia risposta è positiva! Voglio dire, sì, sarò il padrino di Nicola, non ti immagini quanto mi faccia piacere che abbiate pensato a me.”
“Non c’era nessun altro che volessimo, credimi”, sorride lei, alzandosi e venendo ad abbracciarmi.

Forse era quello il massimo che potevo raggiungere.

“Se c’è qualcosa che devi dirmi fallo e basta, Stefano.”
Non mi sta guardando. I suoi occhi sono fissi sul marito che insegna al piccolo Nicola, di tre anni, a nuotare in piscina. E’ seduta su un lettino, i capelli raccolti in una treccia e gli occhiali da sole sollevati sulla nuca, in una normalissima domenica di luglio.
“Dobbiamo stare via per un paio di giorni, tutto qua. Credevo che Enrico te l’avesse detto.”
“No, non mi ha ancora detto niente. Suppongo stesse aspettando il momento adatto, o forse non ha ancora escogitato una bugia abbastanza decente da rifilarmi.”
“Giulia…”
“Saltiamo la parte in cui cerchi di giustificarlo, ok? So a cosa andavo incontro quando ho accettato di stare con lui, ma in tutta onestà credevo che le cose sarebbero cambiate. Se non subito, almeno con la nascita di Nicola… E invece mi sembra solo che siano peggiorate.”
Le risate e gli schiamazzi che provengono dalla piscina stonano con l’argomento della nostra conversazione. Non ho il tempo di trovare una risposta, perché Giulia si alza, si toglie gli occhiali e il pareo e rimane in bikini, pronta a raggiungere i suoi uomini in acqua.
Prima di andare mi rivolge una supplica sussurrata.
“Tornate tutti interi e basta, ok?”

Enrico non era geloso del rapporto che avevo con sua moglie. Forse perché anche lui, come me, era consapevole che Giulia malgrado tutto era innamorata persa di lui, e che se anche a volte litigavano tanto furiosamente da far temere che potessero arrivare alle mani – e invece, per quello che ne sapevo io, a casa loro non era mai neanche volato un piatto – poi alla fine si perdonavano tutto e continuavano ad andare avanti, come se uno fosse il sostegno dell’altro e viceversa. Suppongo che fosse il minimo avere un rapporto del genere, dopo tutto quello che avevano superato insieme.
L’unico geloso ero io. Più di una volta mi sono ritrovato a desiderare che Giulia guardasse me in quel modo, ma mai, neanche per un istante, per quanto potessero essere tragiche le cose tra di loro, mi aveva rivolto quel particolare tipo di attenzioni.
La sua fedeltà era quasi commovente. E mi faceva diventare matto.

“Oh mio Dio, Enrico, che cos’è successo?”
“Niente, tesoro… Un incidente di percorso.” Un sibilo dolorante segue quelle parole quando Giulia preme il sacchetto del ghiaccio sullo zigomo del marito. Lei sussulta, ma la sua mano è ferma: non è la prima volta che Enrico torna a casa in condizioni simili.
“Domani c’è la festa di compleanno di Nicola, e tu avrai un occhio nero! Sei uno stupido”, ribatte lei. “Che cosa penseranno gli altri genitori? E ai miei, che cosa dovrei dire? Che ti picchio perché non sai caricare la lavatrice?” Parlano e malgrado tutto scherzano sussurrando per non svegliare il bambino, e io distolgo lo sguardo premendo a mia volta una bistecca congelata sul labbro. C’è troppa dolcezza nel modo che ha lei di sfiorarlo, di guardarlo, persino di sgridarlo, e io non riesco più a sopportare tutto questo.
Poi però lei solleva gli occhi e per un istante la sua preoccupazione è tutta per me. “Anche il tuo labbro non è messo per niente bene. Fai vedere…” Allunga una mano e sfiora la mia bocca spaccata, facendomi sussultare. Lei crede che sia dolore, e si ritrae.
“Nulla che non si possa sistemare con un po’ di fondotinta, per domani”, mormora, e riesce quasi a strapparmi un sorriso.

Il cimitero era vuoto quando arrivammo – a parte gli uomini delle pompe funebri. Il padre di Giulia aveva preso in consegna la nipotina, che adesso si stringeva al collo del nonno anche se il suo sguardo non lasciò la madre per nessuna ragione, mentre la nonna prese per mano Nicola e lo avvicinò a sé. Lei quasi non se ne accorse – tutta la sua attenzione era per il feretro che veniva portato fuori dall’auto e avvicinato ad una buca precedentemente scavata nel terreno.
Il sacerdote disse altre preghiere che si persero nel vento, benedisse un’ultima volta la bara e poi diede l’autorizzazione a calarla lentamente nella fossa. Qualcuno, non vidi bene chi, porse una rosa a Giulia e lei la posò delicatamente sul feretro che si abbassava, accarezzandone la superficie di legno lucido come se in quel modo avesse accarezzato un’ultima volta in viso di suo marito. Le sfuggì un singhiozzo, e poi divenne impossibile trattenere ancora il pianto.

Passi veloci nel corridoio dell’ospedale.
“Dovrei esserci io qui, maledizione, non lui”, mormora a mezza voce, tenendo una mano sul pancione. “Se la bambina nasce e lui non può assistere, giuro che mi incazzo.”
“Il dottore ha detto che deve rimanere solo altri due giorni. Ha una gamba ingessata, non un trauma cranico.”
“E come fa a rimanere in piedi al mio fianco con una gamba ingessata?” Sibila, irritata. Si blocca all’improvviso in mezzo all’andito con un gemito, e io mi preparo al peggio.
“Oddio. Ti si sono rotte le acque?”
Questo la fa ridere. “No, è la bambina che ha fatto una giravolta. Penso che sia arrabbiata anche lei all’idea che il padre potrebbe non assistere alla sua venuta al mondo.”
“Non lo invidio proprio mio cugino, deve combattere con due donne furiose e una di loro non è ancora nata!”
Arriviamo ridacchiando nella sua stanza e già Giulia ha dimenticato la sua rabbia mentre si precipita accanto a lui. “Devo partorire io e ti fai ricoverare tu?” La sento che dice, cercando di sgridarlo.
Lascio loro un po’ di intimità e ritorno in corridoio. Sospiro. In realtà ho detto una bugia…
Anche se ha una gamba rotta, non posso fare a meno di invidiarlo.

Mi inchinai su di lei e l’aiutai ad alzarsi, allontanandola con discrezione dalla fossa. Stava singhiozzando da spezzare il cuore, come una bambina, e nel vedere la loro madre in quelle condizioni anche i figli sembravano aver rotto la diga. I nonni li cullarono e cercarono di calmarli, portandoli via in un angolo più appartato, e anche io cercai di fare lo stesso con Giulia, ma inutilmente. Sembrava decisa a rimanere lì, vicino alla fossa, fin quando non fosse stata ricoperta dalla terra; si aggrappò al mio braccio e io la lasciai fare, sentendola tremare contro di me e odiandomi per non essere capace di esserle più d’aiuto. Le accarezzavo la schiena con la mano libera e l’abbracciai, in silenzio, pregando che tutto finisse il prima possibile.
Purtroppo sapevo benissimo che il suo dolore sarebbe continuato ancora a lungo.
“Ci sono io, adesso, Giulia.” Le sussurrai, le labbra seppellite contro i suoi capelli e le braccia intorno alle spalle. La strinsi a me impedendo a chiunque altro di vedere le sue lacrime, forse geloso che altri a mio parere più immeritevoli di me la avvicinassero e cercassero di consolarla o di stringerla, consapevole di essere il suo attuale unico porto sicuro nella tempesta – o forse sperandolo e basta. “Non preoccuparti. Andrà tutto bene. Sei con me, ora.”




*


Lo squillo di un telefono nelle prime ore del mattino. Una mano che esce da sotto le lenzuola e si affanna alla cieca per afferrarlo. Fuori è ancora buio.
“Pronto? Chi è?”
“Giulia, sono Stefano. Scendi, sono qua fuori.”
Qualcosa nel suo tono di voce la mette in allarme, e tremando scende dal letto e corre giù per le scale, scarmigliata, mezza nuda, quasi inciampando nei propri passi. Raggiunge la porta di ingresso, la spalanca e i suoi occhi si posano sul viso pallido e l’espressione devastata del suo migliore amico.
“Giulia”, mormora piano, alla ricerca delle parole. “Giulia, mi dispiace. È…”
“No!” Grida lei, indietreggiando. Si porta le mani tra i capelli, gli occhi si inondano di lacrime e la bocca continua ad aprirsi e chiudersi ripetendo in continuazione la stessa parola. “No, no, no, no, no…”
Lui allunga le braccia, cerca di avvicinarsi, di inventarsi qualcosa per farla smettere di urlare e rischiare così di svegliare i bambini, ma lei si scansa, indietreggia ancora, inizia a singhiozzare, poi gli da le spalle e corre a cercare un punto per sedersi prima che le gambe tremanti le cedano e la facciano crollare. Si accascia sulla poltrona accanto al camino, incurante di indossare solo un paio di slip e una canottiera, e si lascia andare al pianto nascondendosi la faccia tra le mani.
Stefano la raggiunge e si inginocchia davanti a lei, ma lei non da segno di accorgersi della sua presenza. Piange da far sanguinare il cuore. Non grida più. Mormora solo, all’infinito, come un mantra, un semplice “no”. Non vuole crederci, eppure dentro di sé sa di avere aspettato quel giorno dal momento in cui lui le aveva messo l’anello al dito. La sua vita era stata costantemente minacciata da quella terribile spada di Damocle, e adesso che ciò che più temeva era successo, lei si sentiva… Si sente, orribilmente, privata di un peso. Quasi – è orribile anche solo pensarlo – sollevata.
Il pensiero la fa solo piangere di più.
E sono le braccia di Stefano, adesso, che le appaiono calde e confortanti.






























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Angolo Autrice.
Mi volete uccidere, lo so. E stavolta credo che non sia a causa del ritardo - dato che miracolosamente non è passato un mese dall'ultimo aggiornamento, yai! - ma proprio per la conclusione... Ma questa storia non poteva avere proprio un happy ending, capite... mi spiace se vi ho illuso, con il precedente capitolo - era la quiete prima della tempesta, se vogliamo. :D
Qualcuna di voi pensava che l'Epilogo sarebbe stato scritto dal punto di vista di Enrico - non credo di averlo mai detto, comunque mi dispiace se si sono create false aspettative! Volevo tentarmela con un piccolo "colpo di scena", ecco. Avevo in mente Stefano da tanto, benché abbia avuto pochissimo spazio questo personaggio si è ostinato a venire a bussare alla porta del mio ufficio per pretendere un ruolo un po' più di rilievo, e così... Eccoci qui :D
Bene, non credo di avere molto da dichiarare. Sono riuscita a portare a compimento questa storia - e se da una parte la soddisfazione è tanta, dall'altra la tristezza e la nostalgia che avrò di questi personaggi sarà incalcolabile :( Ecco cosa succede quando ci si trascina una storia così a lungo e soprattutto quando ci si affeziona così tanto ai propri personaggi!
Se l'ispirazione non muore nel frattempo, potrei - e sottolineo il potrei, perché per ora è solo un'idea molto vaga e nebulosa - tornare con Enrico e Giulia in una breve raccolta di Missing Moment scritti dal punto di vista di Enrico, ma non voglio darvi false speranze! Se li scriverò, sarete i primi a saperlo: pubblico gli aggiornamenti su Faccialibro, tanto :)
Per qualsiasi cosa - domanda, commento, curiosità, o semplicemente per mantenere i contatti, potete trovarmi su Ask e su Twitter :) Per quanto riguarda le recensioni, ora che mi sono liberata del grosso degli esami posso rispondere anche singolarmente alle recensioni, e ne approfitto ora per chiedere perdono per non averlo fatto prima! Il tempo scarseggia @_@
Nel frattempo, per aver recensito lo scorso capitolo ringrazio immensamente: Charity, Misfit, la mia carissima Sylphs, luck_y, ciuciu, Utena e Brigida, sono davvero tanto, tanto, tanto onorata che siate arrivate fino alla fine con tanta pazienza e buona volontà! :** Grazie anche a tutte coloro che hanno aggiunto "L'uomo Sbagliato" tra i Preferiti e le Seguite, e che seguono in silenzio ma con assiduità sin dall'inizio <3
Inoltre, ultima ma non ultima, devo ringraziare la mia, di geme, che è stata testimone della nascita di questa storia e che mi ha seguito passo passo per tutta l'avventura, che conosce tutti i retroscena e sa quanto questa storia abbia significato per me :)
Ma ora basta, sto diventando una sentimentalona! :D Vi lascio e vi auguro tante belle cose, speriamo di ritrovarci per qualche altra storia su queste pagine :) Tanti baci e abbracci forti a tutte! *lancia coriandoli e stelle filanti*
La vostra, immensamente grata, 
Niglia.

PS: Mi sono appena resa conto che concludo questa storia appena un pelino prima del mio compleanno, mi sento soddisfatta! Potrò dire di averla terminata a 21 anni e non a 22, LOL.

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