L'uomo Sbagliato di Niglia (/viewuser.php?uid=29469)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I. ***
Capitolo 2: *** Capitolo II. ***
Capitolo 3: *** Capitolo III. ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV. ***
Capitolo 5: *** Capitolo V. ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI. ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII. ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII. ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX. ***
Capitolo 10: *** Capitolo X. ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI. ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII. ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII. ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV. ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV. ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI. ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII. ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII. ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX. ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX. ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI. ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII. ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII. ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIV. ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXV. ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXVI. ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVII. ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVIII. ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXIX. ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXX. ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXXI. ***
Capitolo 32: *** Epilogo. ***
Capitolo 1 *** Capitolo I. ***
Capitolo
I.
“Non so che
destino
avremo, ma io non ho mai mancato un appuntamento in vita mia.
Se vuoi
fuggire,
vai. Non ti fermerò. Ma come si dice: non voltarti,
perché io sarò lì, a
guardarti.
Ti voglio. Comunque
vada.”
Imprecai in silenzio, stritolando
la cinghia della borsa che
tenevo sotto il braccio. Non era la prima volta che mi trovavo in
quella
situazione, giusto? Né sarebbe stata l’ultima. Ma
tutte le volte era qualcosa di tragico,
perché non si poteva mai sapere quale
sarebbe stato il risultato. Fino
all’ultimo, c’era la cosiddetta
“sorpresina”. Sospirai, rallentando
l’andatura.
L’idea di andare a
controllare gli esiti non mi entusiasmava
granché. Anzi, non mi era mai piaciuta, sin dalle scuole
elementari. Eppure,
come ogni anno, la mia migliore amica Alessandra mi aveva costretto ad
andarci
con lei.
Ero passata a prenderla a casa
sua, rigorosamente a piedi –
per colpa mia: non avevo mai voluto la moto, per quanto mia madre mi
avesse
pregato di prenderla. Abitando fuori paese, sarei stata molto
più autonoma di
quanto non fossi, ma io non ne avevo voluto sentire: avevo troppa
paura. Ed ora
aspettavo con ansia di compiere diciotto anni per poter prendere la
patente per
la macchina.
Cosa che sarebbe successa
esattamente tra un mese.
E questo spiegava parte della mia
esitazione nel voler vedere
gli esiti: non che mi aspettassi di venire bocciata, oh no, grazie al
cielo no.
Più che altro temevo di essere rimandata a settembre in
qualche materia nella
quale ero piuttosto debole, come, senza fare tante storie, matematica.
E non
volevo proprio trascorrere l’intera estate dei miei diciotto
anni a studiare
come una disperata per non perdere l’anno!
Anche Alessandra, comunque,
temeva per matematica. Non era decisamente
il nostro punto forte, ma per fortuna nelle altre materie ce la
cavavamo
abbastanza.
Mi voltai verso di lei,
osservandola attraverso le lenti
scure dei miei occhiali. Sembrava l’immagine della
tranquillità: un’espressione
sorniona sul volto, i capelli ricci e rossicci raccolti in una coda di
cavallo
e un paio di occhiali da sole come i miei sugli occhi. Sembrava
tranquilla,
già: ma osservando il modo in cui giocava nervosamente con
il ciondolo del suo
cellulare decisi che era preoccupata esattamente quanto a me. Ah-ha.
“Nervosa,
geme?” Le chiesi, sorridendo maliziosa. Oh già,
forse vi starete chiedendo perché quel soprannome. Beh,
nulla di top secret: è
il diminutivo di “gemellina”, ci chiamiamo
così a causa dell’assurda identicità
dei nostri caratteri. A qualcuno potrà sembrare
imbarazzante, ma in realtà è
divertente urlare “geme!”
quando usciamo o ci incontriamo in giro e vedere le
altre persone che ci fissano stranite!
Ad ogni modo, lei finse di non
cogliere la mia provocazione.
“Nervosa, io?” replicò, senza guardarmi.
“Io ho studiato tutto l’anno, geme, e
non ho proprio nulla da temere.”
“Ah si? E allora
perché stai tormentando in quel modo quel
povero ciondolo?”
Per tutta risposta mi fece la
lingua. “Lo sai che la
matematica ed io non siamo grandi amiche!”
Risi, scuotendo la testa. Non si
smentiva mai.
Una volta arrivate al liceo ci
scambiammo un’occhiata
nervosa. Dopo esserci strette la mano per infonderci coraggio a
vicenda,
prendemmo un profondo respiro e varcammo la soglia.
Nell’atrio c’era fresco, si
stava molto meglio rispetto all’esterno: era la prima volta
che mi faceva
piacere essere a scuola, pensai con un sorriso.
“Devono averli appesi
di là.” Annunciò Alessandra, indicando
il corridoio alla nostra destra. Io annuii, seguendola mentre faceva
strada.
C’era silenzio, e i nostri passi rimbombavano rumorosi per
tutto il corridoio.
“Infatti,
eccoli.” Dissi, quando arrivammo di fronte ad una
parete tappezzata di fogli bianchi. Non c’era
nessun’altro oltre a noi, così ci
avvicinammo alla bacheca con tutta tranquillità e ci
mettemmo alla ricerca
della nostra classe.
Finalmente la trovammo:
IV° D.
“Sei pronta?”
mormorai, evitando fino all’ultimo di scorrere
con lo sguardo l’elenco dei nomi.
Lei annuì.
“Vai.” Mi disse, come se mi stesse dando il via
per una battaglia.
Presi un profondo respiro e poi
posai il dito sul foglio,
facendolo scorrere lentamente in verticale alla ricerca del mio nome:
quelli
delle mie compagne di classe si susseguivano velocemente davanti ai
miei occhi
ma io non li vedevo, troppo in ansia nell’attesa del
mio… E poi… Eccolo.
O. Giulia.
Deglutii, dopodiché
feci scorrere il dito in orizzontale,
alla ricerca della lapidaria parola che avrebbe segnato il destino
della mia
estate, ignorando momentaneamente i voti scritti… Poi, di
nuovo, trattenni il
fiato. Promossa.
Chiusi gli occhi, lasciando
andare tutto d’un colpo il fiato
che avevo trattenuto fino a quel momento.
“Promossa!” Esclamai poi, mettendone
a parte anche la mia amica.
Lei stava saltellando sul posto,
innervosita ed impaziente.
“Dai, dai, ora cerca il mio!”
“Si si, un
attimo!” Ricominciai a far scorrere il dito sulla
pagina, fino a quando trovai quello della mia gemellina.
“Eccoti qui, S.
Alessandra…”
Lessi il risultato, e subito dopo
mi lasciai sfuggire un
gemito dispiaciuto. “Oh, Ale…
Cavolo…”
“Cosa?
Cosa?!” Esclamò, cercando di sbirciare da dietro
le
mie spalle.
Ma io non glielo feci leggere.
“Mi dispiace…” Aggiunsi,
triste.
“CHE COSA?!”
Urlò quasi, spingendomi come una furia da una
parte e catapultandosi sopra il foglio degli esiti, cercando
freneticamente il
suo nome. Lo trovò, lo lesse, e rimase in silenzio per
alcuni secondi buoni.
Poi esclamò.
“Brutta disgraziata, mi hai fatto prendere un
colpo!”
Accanto al suo nome spiccava,
teneramente, la parola Promossa.
*
“Beh, andiamo a
festeggiare?” Chiesi, dopo essermi asciugata
le lacrime delle risate.
Lei mi imitò, con un
sorriso che le attraversava il volto da
una parte all’altra. “Ci prendiamo un bel gelato
con un bicchiere di spumante!”
Sollevai un sopracciglio.
“Spumante? Alle dieci del mattino?”
Lei annuì con la
testa, ostentando un’aria di superiorità che
aveva sempre l’effetto di farmi ridere come una scema.
“È sempre l’ora dello
spumante.”
Risi di nuovo, prendendola
sottobraccio e guidandola verso
l’uscita. “Guarda che quelli sono i
pavesini!”
“È la stessa
cosa.” Disse, scrollando con noncuranza le
spalle.
Continuammo a chiacchierare
parlando di scemenze e cose senza
senso fino a quando non arrivammo in piazza, e ci mettemmo alla ricerca
di un
bar o una gelateria. Ci sentivamo finalmente più leggere e
più tranquille, come
se ci fossimo tolte un peso enorme dallo stomaco. Scendemmo nel Corso,
un lungo
viale alberato le cui fronde ci avrebbero protette dal calore
asfissiante di
giugno.
“Andiamo da
Agnese?” Chiesi, guardando l’orario. Agnese era
la proprietaria del Bar Centrale, ma il nome del locale era quasi
sconosciuto:
la gente lo conosceva con il nome della donna, che lo gestiva insieme a
uno
stuolo di giovani camerieri che facevano letteralmente
impazzire le ragazzine dalle medie in su,
come poteva testimoniare anche Alessandra. Lei era infatti perdutamente
cotta
di Riccardo, un cameriere assurdamente bello, con i capelli lunghi e
biondi e
un paio di occhi che ricordavano l’ambra. E, cosa
più importante di tutte, non
era fidanzato.
Perciò, la mia
gemellina non replicò quando le proposi quel
locale. Anzi, i suoi occhi iniziarono a brillare a metà tra
il posseduto e
l’entusiasta, dedicandomi uno sguardo che avrebbe fatto
impallidire il leone
più feroce ed affamato.
“Si, geme, andiamo da
Agnese.” Disse, con aria da
cospiratrice.
Quando entrammo nel locale
venimmo investite dall’aria gelida
del condizionatore, che per un attimo ci fece rabbrividire. Salutammo
la
proprietaria che, come sempre, si trovava dietro al bancone, e ci
cercammo un
tavolino libero, sedendoci poi nelle poltroncine rotonde intorno ad
esso.
Alessandra si diede una rapida controllata allo specchio che occupava
tutta la
parete, sistemandosi i capelli e passandosi una mano leggera sulla
faccia. Io
alzai gli occhi al cielo.
“Neanche stesse
arrivando Brad Pitt…” mormorai, scuotendo la
testa.
Lei si voltò e mi fece
la lingua. “Ti ho sentito, sai! E
comunque, lui è più bello di Brad Pitt.”
Sgranai gli occhi, stupita, ma mi
limitai a scrollare le
spalle. “I gusti sono gusti…”
Prima che Ale potesse ribattere,
un cameriere si avvicinò al
nostro tavolino: con grande piacere della mia amica, si trattava
proprio del suo
Riccardo.
“Ciao, ragazze. Che
cosa vi porto?” Esordì, sorridendoci
cordiale.
Io presi una coppa di gelato al
gusto di cioccolato e
tiramisù, mentre Alessandra ne prese uno al gusto di
vaniglia e pesca. Riccardo
ci fece un altro sorriso e tornò dietro il bancone,
preparandoci le nostre
ordinazioni.
In quel momento, nel locale fece
irruzione un rumoroso gruppo
di ragazzi, tutti ben vestiti, con pantaloni blu scuro o neri e camice
chiare,
come se avessero avuto una divisa. Ridevano e parlavano ad alta voce,
ma si
capiva che ruotavano tutti intorno ad una ragazzo in particolare, che
indossava
un paio di pantaloni neri e una camicia bianca a maniche corte e che
camminava
con un’aria indisponente di superiorità, come se
fosse stato il padrone del
mondo. Si sedettero nel tavolo vicino alla porta, separati da noi da un
altro
tavolino vuoto, ed io mi ritrovai a fissarlo a lungo un po’
perché mi dava
fastidio il suo atteggiamento, e un po’ perché era
incredibilmente bello. Altro
che Riccardo! Il giovane cameriere, per quanto fosse di tutto rispetto,
non
poteva competere.
Il nuovo arrivato aveva morbidi
capelli neri, folti ma non
troppo lunghi, che teneva costantemente in sensuale disordine
passandovi ogni
tanto una mano in mezzo, con noncuranza. Gli occhi erano chiari, a
quella
distanza non riuscivo a vederli bene ma avrei potuto scommettere che
fossero
verdi, circondati da una cornice di ciglia lunghe e nere. Le spalle
erano
larghe, e quando era ancora in piedi avevo notato che aveva un fisico
asciutto
e muscoloso, come se facesse palestra. Il volto aveva dei lineamenti
decisi e
marcati, che lo rendeva bello in modo selvaggio.
Peccato che non mi piacesse
l’aura da bastardo che emanava.
Ero così presa ad
osservarlo che non mi accorsi del ritorno
di Riccardo.
“Non fissateli troppo,
ragazze.” Sussurrò dando le spalle al
gruppo, mentre ci distribuiva le due coppe di gelato.
“Perché? Chi
sono?” Chiesi, rispettando la sua scelta di
parlare a bassa voce.
Lui aggrottò
leggermente le sopracciglia. “Vedi quello più
alto? Con i capelli neri?” Disse, senza voltarsi. Io annuii:
era quello che
avevo osservato fino a due minuti prima. “È un
Occhi Belli, il più giovane
della famiglia… E quelli che sono con lui sono i suoi amici.
Non
guardateli troppo, ragazze, ignorateli.”
Alessandra annuì,
accogliendo come oro colato le parole del ragazzo,
mentre io lanciai nuovamente uno sguardo al loro tavolo, incuriosita.
Un Occhi
Belli, eh? Sapevo di chi si trattava. “Occhi Belli”
era il soprannome di una
delle famiglie del paese, anzi: era quella più conosciuta
nonché benestante, se
così si può dire. Il nome derivava dal nonno
dell’attuale capo della famiglia,
che, presupposi, doveva essere il padre di quel ragazzo; il nonno aveva
gli
occhi strabici, ed era stato soprannominato scherzosamente in quel
modo. Il
nome era rimasto, ed ora ogni volta che si pronunciava quel nome tutti
sapevano
che era meglio parlare a bassa voce o cambiare direttamente discorso.
Perché?
Perché erano una famiglia di delinquenti. Non solo
gestivano un traffico di droga pesante in tutta la provincia, ma
giravano anche
delle voci a proposito di un traffico di armi illegale. Da poco mi era
capitato
di sentire addirittura che la morte di un noto ex assessore –
ufficialmente un
infarto – era causa loro. Solo voci? Non si sapeva, ma
nell’incertezza era
comunque meglio tacere.
Purtroppo, però,
ignorarli si rivelò essere estremamente
difficile.
“Ehi, Riccardo!
Perché non vieni a servirci?” Esclamò
il
figlio degli Occhi Belli, sollevando un braccio in direzione del
cameriere e
fissandolo con quell’insopportabile aria di arrogante
superiorità. Le risate
dei suoi compari accompagnarono la sua scortese esclamazione, mentre
Riccardo
si sforzò di non alzare gli occhi al cielo e si diresse
tranquillamente verso
di loro.
Con la coda dell’occhio
notai che Agnese, da dietro la sua
postazione abituale, stava osservando la scena piuttosto preoccupata.
Anche
Alessandra lo era, e neppure io riuscii ad astenermi
dall’osservarli. In quel
momento il ragazzo coi capelli neri si accorse del mio sguardo e mi
fece
l’occhiolino, complice. Ma complice di che cosa?!
Purtroppo arrossii,
com’era mio solito, e abbassai lo sguardo
sul mio gelato. “Che razza di
presuntuoso…” bisbigliai, certa che Ale mi
avrebbe sentito.
Lei scosse piano la testa, prima
di iniziare a mangiare il
gelato ignorando volutamente tutto quello che succedeva a pochi passi
da noi.
Io la imitai, ma purtroppo non riuscimmo ad evitare di sentire quello
che
stavano dicendo.
“E così,
Riccardo, adesso lavori qui.” Era sempre lui, quel
ragazzo. Parlava come se avesse voluto deriderlo per il suo lavoro, ma
il
nostro cameriere non si lasciò intimidire.
“Esatto,
Enrico.” Rispose, solo. E così era quello il suo
nome? “Allora, che cosa vuoi ordinare?”
Tuttavia il ragazzo non rispose,
continuando il suo discorso.
“Quando eri dei nostri non avresti mai osato fare un simile
lavoro. Servire ai
tavoli come uno schiavo… Se fossi ancora nel gruppo non ti
avrei mai permesso
di scendere così in basso.”
A quella frase Riccardo non
resistette più, e batté con forza
il pugno sul tavolo, facendo tremare i bicchieri e zittendo
all’istante le
risate degli altri ragazzi. Io e Alessandra alzammo stupite la testa,
decise a
seguire attentamente quello che sarebbe accaduto dopo.
Gli amici di Enrico si erano
fatti improvvisamente seri,
messi in una posizione che indicava che erano pronti a scattare e
mettergli le
mani addosso, ma il loro capo fece un cenno con la mano che li
riportò
“all’ordine”, mentre Riccardo rispondeva.
“Non ti permetto di
parlarmi così!” Ringhiò furioso,
ignorando il resto del gruppo che lo fissava con astio. “Non
ti devo più
niente, Enrico, ho chiuso con te e con la vita che fai! E non hai
nessun
diritto di venire a criticarmi per quello che ho deciso di
fare.”
L’altro strinse gli
occhi, minaccioso. “Questo non è certo il
posto migliore per parlare del tuo passato, vero, Riccardo? Dimentichi
che non
siamo soli.” Sibilò, senza scomporsi.
“Sappi che non rispondo alla tua
provocazione solo in ricordo della nostra vecchia amicizia, ma la
prossima
volta non sarò così generoso. E
adesso…” Aggiunse poi, sorridendo con un ghigno
sarcastico. “Portaci da bere.”
Riccardo gli diede le spalle,
dirigendosi furente verso il
bancone, mentre io e Ale ci scambiammo una rapida occhiata stupita e
sconvolta.
Ma cosa stava succedendo? Grazie al cielo avevamo già finito
il nostro gelato,
così potevamo andarcene subito prima che
l’atmosfera diventasse troppo tesa.
“Vieni, geme,
andiamocene.” Mormorai, prendendo la borsa alla
ricerca del borsellino.
In quel momento sentii nuovamente
la voce di Enrico. “Ehi,
Riccardo, pago io per le signorine!”
Io aggrottai le sopracciglia,
sollevando di scatto la testa
per cercare lo sguardo di Alessandra e capire se si trattava o meno di
uno
scherzo. Ma lei era arrossita completamente, e questo mi fece capire
che,
sfortunatamente, non lo era.
“Cosa facciamo,
Giuly?” Mormorò, guardandomi.
Io mi alzai, decisa, voltandomi
verso il ragazzo e ostentando
un sorriso forzato. “Grazie, ma siamo capaci benissimo di
pagare da sole il
nostro conto.”
Raggiunsi il bancone ignorando i
fischi che provenivano da
quel tavolo maledetto, deponendo i soldi accanto alla cassa.
“Grazie, Riccardo,
a presto.”
Poi mi voltai verso Alessandra.
“Geme, andiamo?”
Riuscimmo ad uscire a testa alta
dal locale, senza più
degnare di uno sguardo quei ragazzi. Ma fu solo dopo essere uscite e
aver
camminato a passo sostenuto per una trentina di metri che riprendemmo a
respirare normalmente.
© Disclaimers.
I personaggi e la trama di questa storia sono di mia
proprietà, dunque sarebbe gradito evitare di copiare o
trarre ispirazione da essi. Ogni fatto e/o riferimento a eventi o
persone realmente esistenti è da considerarsi puramente
casuale.
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Capitolo 2 *** Capitolo II. ***
Eccomi
al 2 capitolo!
Innanzitutto
un bacio enorme alle mie prime fan, ladyramione, Charlie_me, SweetCherry, Merry NIcEssus e
Telli!
Grazie per avermi letto e recensito! Non credevo che questa storia
avrebbe riscosso tutto questo successo (anche se tecnicamente
è un pò presto per parlarne!), perciò
è grazie a voi se esiste questo capitolo!
Buona
lettura, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!
Smack
:*
Capitolo II
“Allora, per stasera
è deciso? Andiamo alla Favola?”
Annuii, prima di ricordarmi che
Alessandra non poteva vedermi
dall’altro capo del telefono. “Si,
certo.” Dissi ad alta voce. “Dobbiamo pur
festeggiare, no?”
La sentii ridere, felice.
“Certo! L’unica cosa che mi
dispiace è che non potremo incontrare Riccardo,
perché stasera lavora…”
Non riuscii a trattenere un
sospiro, spostando il telefono da
un orecchio all’altro. Cavolo, era proprio cotta: come diceva
sempre lei, aveva
superato da tempo la fase “bava alla bocca”, ed ora
si trattava di vero e
proprio innamoramento… L’unica cosa che mi
interessava davvero era che anche
lui nutrisse un minimo di interesse nei suoi confronti. In caso
contrario,
temetti che mi sarebbe spettato nuovamente il ruolo
di Cupido.
Mamma mia.
“Dai, geme,
l’abbiamo
incontrato stamattina! Non ti basta?” Replicai, gettandomi
sul letto a pancia
in su e trattenendo uno sbadiglio. Ma come ci sarei arrivata in
discoteca? Ero
stanchissima, anche quella mattina mi ero svegliata presto per andare
al liceo…
Magari se avessi bevuto qualcosa mi sarei svegliata. O almeno me lo
augurai.
“Bastarmi?? Geme, tu
non hai capito che lo sto sognando di
notte!” Esclamò; me la immaginai mentre sgranava
gli occhi, sconvolta, e
scuoteva la testa con fare rassegnato. “E ci tengo a
sottolineare che non sono
sempre sogni innocenti…”
Questa volta toccò a
me ridere. “Credo che tu abbia un
irrefrenabile bisogno di sfogare i tuoi ormoni…!”
Sospirò.
“Puoi dirlo forte.”
Lanciai lo sguardo
all’orologio, controllando l’orario. Si
stava facendo tardi. “Beh geme, ora entro in doccia e poi mi
preparo… Passo a
prenderti a casa con Matteo, okay? Ha detto che ci accompagna lui alla
Favola.”
Matteo era il ragazzo che stavo
frequentando da circa un
mese. Oh beh, “frequentando” è una
parola grossa, troppo impegnativa: diciamo
che andavamo insieme in discoteca, ma comunque c’era sempre
Ale con noi, oltre
ad altri due amici, Laura e Federico, che stavano insieme. Quindi,
dubito che
si potesse definire “frequentare”. Ma a me stava
bene così: non avevo bisogno
di un ragazzo, in quel momento, né tantomeno di un rapporto
serio. Amavo la mia
libertà, e perderla non faceva parte delle mie ambizioni
future.
Alessandra, comunque, non era
della stessa opinione. “Oh-ho,
con Matteo, eh?” Riecco il tono da cospiratrice: era un
peccato che non potessi
vedere i suoi occhi che luccicavano maliziosi.
“Ci sono anche Laura e
Fede!” Volli sottolineare, arrossendo
leggermente. Ora, voglio specificare che Matteo non era brutto, anzi,
piaceva a
molte ragazze, ma purtroppo – o per fortuna – io
non facevo parte di quelle. Lo
trovavo… Un ragazzo superficiale, ecco, troppo attaccato a
cose che io non
riuscivo a comprendere… Forse sarò anche stata
esagerata e troppo pretenziosa
nei suoi confronti e mi dispiaceva non poter ricambiare
l’interesse che lui
nutriva per me, ma certe cose proprio non riuscivo a tollerarle nei
ragazzi
della sua età. E poi, sono dell’opinione che un
rapporto di questo genere non
debba mai essere forzato… Altrimenti rischia di avvelenare
il sangue e produrre
esattamente l’effetto opposto.
“Si si,
certo…” Mi accontentò lei, per il
momento. Non mi
diede il tempo di replicare, che già mi aveva salutato.
“A dopo, geme, mi
raccomando puntuale!”
E attaccò. Gettai il
cellulare sul letto, dove atterrò in
mezzo ai cuscini, e dove rimase fino a quando non fui pronta.
Decisi di non mettermi dei
vestitini troppo eleganti, anche
perché era solo venerdì sera. Così,
quando spalancai le ante dell’armadio,
afferrai un semplice vestito color porpora, con le bretelline, lungo
fino a
sopra il ginocchio dove terminava con una delicata sfasatura. I sandali
erano
invece neri, alti circa 9 centimetri, con dei lacci che si legavano
intorno
alla caviglia: erano i miei preferiti, e li abbinai ad una borsetta
dello
stesso colore, regalo di Alessandra.
Dopo aver dato una spazzolata ai
capelli, ed averli lasciati
sciolti solo con due forcine laterali, afferrai di nuovo il cellulare
per
mandare un messaggio a Matteo: mi aveva detto di avvisarlo appena fossi
pronta,
e così feci. Mi rimasero una decina di minuti per dedicarmi
al trucco, ma come
al solito mi limitai a mettere il mascara sulle ciglia bionde
– che odiavo
profondamente! – e un leggero filo di lucidalabbra. Giusto
per dire di aver
usato quei dieci minuti!
In quel momento suonò
il citofono.
“Mamma,
apri!” Esclamai, affacciandomi alla ringhiera.
“Dev’essere Matteo!”
Presi un coprispalle nero e mi
precipitai giù dalle scale, in
modo da non far perdere tempo ai miei amici. Passai per la cucina per
salutare
mia madre, schioccandole un bacio sulla guancia.
“Avete intenzione di
fare tardi?” Chiese, osservando il mio
abbigliamento.
Scrollai le spalle.
“Non lo so, mammi. Ora andiamo in
pizzeria, la Favola apre verso le undici… Vabbè,
tanto ho le chiavi, non c’è
bisogno di aspettarmi alzati.”
Lei sorrise. “Stai
tranquilla che quando torni starò già
dormendo. Divertitevi, e salutami Ale!”
Si erano fatte già le
undici e mezza quando arrivammo alla
Favola. Matteo era il fratello del barista, ed era grazie a lui se
potevamo
entrare gratuitamente tutte le volte che volevamo. Perciò,
non appena fummo
dentro ci dirigemmo per prima cosa al bancone, per salutarlo e prendere
qualcosa da bere.
“Geme, cavolo, sei
pallida!” Esclamò Alessandra, non appena
ci sedemmo sugli sgabelli rotondi e imbottiti. “Che
cos’ hai? Stai male?”
Scossi la testa, sforzandomi di
sorridere. “No, tranquilla.
Ho solo un po’ di sonno. Ora bevo qualcosa e mi
passa…”
Al sonno si era aggiunto un
improvviso mal di testa, e la
musica assordante e ripetitiva della discoteca non faceva che
peggiorare la mia
situazione. Avrei dovuto prendere l’aspirina, ma ormai era
troppo tardi.
Dovetti solo sperare che mi passasse al più presto.
“Buonasera, ragazze!
Che cosa prendete?”
Ci voltammo entrambe verso
Giorgio, il barista: la
somiglianza con il fratello era incredibile, se non fosse stato per i
vari
piercing che gli ricoprivano la faccia. Ne aveva uno al sopracciglio,
uno al
labbro, sulla lingua e nella narice… Ogni volta che lo
guardavo mi faceva male.
Contento lui!
Sorrisi, indicando il
menù appeso alle sue spalle. “Lo sai
che amo il Red Heart!”
Rise, annuendo. “Certo,
Giuli! E tu, Ale?”
Sorrise anche lei, contagiata dal
buonumore di Giorgio. “Un Pink
Sweet, grazie.”
“Arrivano!”
Mi guardai un po’
intorno, vedendo che la pista era già
gremita di ragazze e ragazzi che si agitavano come pazzi scatenati. Le
luci
stroboscopiche erano terribili, se le fissavi troppo a lungo rischiavi
di
vedere solo delle macchie lampeggianti e confuse. Comunque, bastava
rimanere
voltati verso il bancone per evitare di rimanere abbagliati, anche se
così si
perdeva la maggior parte del “divertimento”. Tra la
folla intravidi Laura e
Federico che ballavano seguendo un ritmo tutto loro, che non aveva
nulla a che
vedere con quello della musica che invadeva il locale. Sembravano
essere da soli
in mezzo a tutta la gente, come se fossero sospesi in una bolla che li
separava
dal resto del mondo… Per un attimo mi ritrovai a provare una
fitta di invidia
nei loro confronti: sarebbe stato bello poter godere di un simile
rapporto.
“Comunque, geme,
secondo me stai male.”
Mi voltai stupita verso la mia
amica, sollevando un
sopracciglio. “Ma se ti ho detto che sto bene!”
Alessandra fece una strana
smorfia. “Non so, hai uno sguardo
strano.” Mi studiò a lungo con un serio cipiglio,
prima di aggiungere. “Si,
sembri triste… Non vuoi dirmi cos’ hai?”
Scrollai le spalle, sinceramene
sorpresa. “Non so cosa dirti…
Sono solo stanca. Spiegami perché dovrei essere
triste!”
A quel punto Ale
incrociò le braccia, seria. “Senti, geme:
avevi lo stesso sguardo che ho io quando guardo Riccardo, la stessa
espressione
di nostalgia o desiderio… E stavi guardando Laura e
Federico. Conosco quello
sguardo e conosco quelle sensazioni, perché ci sono passata
migliaia di volte…
Ed ora non venirmi a dire che non è così. Siamo
amiche, cavolo, ma se mi
impedisci di consolarti o capire cos’ hai allora non ti stai
comportando come
tale.”
Sgranai gli occhi, stupita. Se
quelli erano discorsi da
discoteca…
Fortunatamente in quel momento
tornò Giorgio con i nostri
aperitivi, il che mi diede un po’ di tempo per pensare ad una
risposta. Cosa
potevo dirle? Mi ero appena autoconvinta del fatto di non aver bisogno
di un
ragazzo perché amavo troppo la mia libertà, e poi
invece mi ritrovavo a fissare
con invidia i miei due amici fidanzati… Non era normale, e
non sapevo
spiegarmelo!
Quando rimanemmo nuovamente da
sole, sospirai. “Geme,
sinceramente non so cosa dirti… Ci sono delle volte in cui
desidero
ardentemente avere un ragazzo da abbracciare e che mi stringa forte a
sé,
mentre altre volte… Amo così tanto la mia
indipendenza che quasi compatisco le
ragazze come Laura che non vivono che per il proprio
fidanzato…!” Tacqui,
bevendo un sorso del mio Red Heart: il sapore del
succo d’arancio misto
a bitter e martini rosso mi invase la bocca, scivolando in gola come un
nettare
rinfrescante. “Temo che oggi sia invece una di quelle volte
in cui vorrei avere
un ragazzo…” Terminai con un sussurro.
Alessandra rimase in silenzio,
senza sapere cosa rispondere.
Fu una fortuna che tornasse Matteo a quel punto, scotendoci dal nostro
cupo
torpore.
“Giuli, vieni a
ballare?” Chiese, poggiando un bicchiere da
birra sul bancone.
Ballare? Quell’oscura
parola proprio non faceva parte del mio
vocabolario! Scossi la testa, alleggerendo il mio rifiuto con un
sorriso.
“Matte, forse non hai visto le scarpe che mi ritrovo! Vai con
geme, che oggi ha
i tacchi bassi.”
Matteo aggrottò le
sopracciglia, scuotendo la testa. “Non
capirò mai la passione di voi ragazze per i tacchi
alti!” Esclamò, rassegnato.
Si passò una mano tra i corti capelli castani, prima di
voltarsi verso Ale.
“Vieni a ballare almeno tu? Non lasciatemi solo!”
Ridemmo entrambe, mentre Ale
scendeva dallo sgabello e gli
batteva una mano sulla spalla, comprensiva. “Povero Matte,
solo soletto!”
Rimasi da sola, mentre i miei
amici raggiungevano la pista e
iniziavano a ballare – o meglio, a dimenarsi –
arrivando accanto a Laura e
Federico con la chiara intenzione di interrompere il loro romantico
chiacchierare. Diedi nuovamente le spalle a quella scena, voltandomi
verso il bancone
e prendendo un altro sorso del mio aperitivo.
Tra un mese avrei compiuto 18
anni. Ed eccomi qui, una
vecchia diciassettenne che non è capace di divertirsi
nemmeno in discoteca, con
i suoi amici… Ma perché dovevo sempre rovinarmi
da sola le serate? Che bisogno
c’era di fare determinate riflessioni nei momenti
più insoliti e impensati?
Amavo farmi del male, a quanto pareva…
Chiusi gli occhi, portandomi una
mano alla testa e
massaggiandomi le tempie. Riecco il mal di testa: si, direi proprio che
è stata
una magnifica serata!
“Ciao.”
Aprii di nuovo gli occhi,
stupita. Chi era quello che mi
aveva salutato? Non conoscevo la voce, non apparteneva sicuramente a
nessuno
dei miei amici, così fui costretta a voltare la testa verso
destra per
controllare. Per poco non caddi dallo sgabello.
Era il ragazzo di quella mattina.
Enrico Occhi Belli.
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Capitolo 3 *** Capitolo III. ***
Ringraziamenti!!!
Ed
eccomi arrivata al 3 capitolo!
Beh,
non credo che l'avrei mai scritto senza di voi, perciò
GRAZIE!
Grazie
di avermi seguito e di avermi commentato, e soprattutto grazie per
avermi messa tra le preferite... sono davvero commossa :.)
Un
grazie a Alebluerose91
(la mia geme!!), bella95, checcaaaa_ , Cherasade, fallsofarc, Irza93,
ladydramione, Merry NIcEssus, nisha_7, SweetCherry, Veronica91, nimi_chan
e chany41!
Spero
di non deludervi con questo capitolo, fatemi sapere!
Buona
lettura!
Bacioooo
:*
Capitolo III
“Ciao.”
Aprii di nuovo gli occhi,
stupita. Chi era quello che mi
aveva salutato? Non conoscevo la voce, non apparteneva sicuramente a
nessuno
dei miei amici, così fui costretta a voltare la testa verso
destra per
controllare. Per poco non caddi dallo sgabello.
Era il ragazzo di quella mattina.
Enrico Occhi Belli.
Beh, in effetti i suoi occhi
erano davvero splendidi, verdi
come il mare più profondo e cristallino: ma che cosa ci
faceva lì? E perché mi
aveva rivolto la parola?
Oh, cavolo… Forse
avevo fatto male a rispondergli, al bar…
“Ciao…”
Risposi, titubante. Perché era solo? Che fine avevano
fatto i suoi compari? Mi sembrava proprio strano che un individuo come
lui
gironzolasse da solo. A meno che, non fosse un lupo
solitario… In effetti, in
quel momento aveva proprio l’aria del predatore.
“Come mai sei da sola?
Non c’è la tua amica?” Chiese
malizioso, come se fosse stato contento di trovarmi senza i miei amici.
Mi ritrovai a fissarlo come se
fossi stata incantata.
Indossava una camicia nera a maniche lunghe, strette ai polsi, il cui
soffice
tessuto ricordava molto la seta, e un paio di jeans dello stesso
colore. Il
colletto della camicia era aperto, mettendo in mostra la sua pelle
abbronzata e
senza alcuna imperfezione: al collo portava una collanina dal filo nero
dal
quale pendeva una piccola croce di oro bianco. Non avevo mai visto un
ragazzo
che portasse un girocollo simile.
Si sedette sullo sgabello che era
stato di Alessandra,
poggiando un gomito sul ripiano in marmo del bancone e fissandomi come
se
avesse voluto perforarmi. Distolsi lo sguardo da lui, puntandolo sulle
file
allineate di bicchieri che riempivano la parete del bar di fronte a me.
Ma cosa
accidenti voleva?
“Non credo che ti
riguardi.” Replicai, cercando di mantenere
un tono calmo e disinvolto mentre bevevo un altro sorso
dell’aperitivo. Avevo
bisogno di tenermi impegnata.
Decise di cambiare discorso
– o forse tattica – visto che
dovette accorgersi del fatto che mi stavo innervosendo. Prima di
rivolgermi
nuovamente la parola, però, si fece portare lo stesso
aperitivo che avevo
ordinato io, un Red Heart. Cosa credeva di fare?
Giorgio si avvicinò
quasi subito e glielo porse, lanciandogli
un’occhiataccia che avrebbe intimidito chiunque. Chiunque
tranne lui,
evidentemente; ad ogni modo mi sentii più tranquilla. La
presenza di Giorgio,
per quanto lontana, era abbastanza rassicurante.
“Mi permetterai di
offrirti da bere almeno stasera?” Domandò,
cercando di essere gentile.
Come se lo avesse sentito, il
barista tornò con una scusa
accanto a noi. “Per la signorina offre la casa!”
Esclamò, facendomi
l’occhiolino e porgendomi un nuovo bicchiere di Red
Heart, visto che dal
nervoso avevo bevuto il mio tutto d’un fiato.
Riuscii a sorridergli, mimando un
Grazie con le
labbra. Eppure, malgrado stessi facendo tutto quello che era in mio
potere per
ignorarlo, Enrico sembrava non volersi arrendere.
“Ti do fastidio,
eh?”
A quel punto non riuscii a
impedirmi di sbuffare, e mi voltai
verso di lui, irritata. “Esatto!” esclamai.
“Ma non hai niente di meglio da
fare che rimanere qui?”
Il suo sorriso mi
abbagliò per un istante, facendomi battere
un paio di volte le palpebre: anche se vedevo che si stava chiaramente
divertendo non potei fare a meno di notare quanto fosse bello. Aveva la
stessa
aria presuntuosa che avevo visto in alcune statue greche, come se fosse
consapevole della sua bellezza e del suo potere da rendere arrogante
ogni
minimo gesto che faceva. Come quando prese il bicchiere
dell’aperitivo per
portarselo alle labbra, bevendo senza mai staccare gli occhi da me. Era
davvero
imbarazzante.
“Credo che tu sia la
sola cosa interessante, stanotte.”
Mormorò, passandosi la punta della lingua sulle labbra umide
di drink.
Ovviamente arrossii come una
bambina colta con le mani nella
marmellata, riuscendo a fare concorrenza anche al mio vestito. Fu in
quel
momento che mi ricordai della scollatura assai poco castigata che
rivelava
invece parecchio delle mie forme: le mie guance ormai ardevano, ma se
non altro
riuscii ad incrociare con disinvoltura le braccia sul petto
scambiandolo per un
gesto di irritazione.
“Forse non hai visto le
ragazze che ballano sulla pista.”
Replicai, lanciando uno sguardo in mezzo al locale. Stavo osservando
con
malcelata disperazione la folla alla ricerca dei miei amici, o almeno
di
Alessandra, ma con quelle luci e con tutto quel dimenarsi furioso di
corpi era
praticamente impossibile.
“Oh, si che le ho
viste.” Rispose; mi accorsi in ritardo che,
approfittando della mia distrazione, si era avvicinato un po’
troppo a me. “Ma
a me interessi solo tu.”
Adesso si che era riuscito a
sorprendermi! Guardandolo in
viso temetti quasi che stesse parlando sul serio, ma nel dubbio era
meglio non
lasciare spazio a fraintendimenti. Bevvi un sorso dal mio bicchiere,
poi mi
schiarii la voce. “Credo proprio che tu abbia sbagliato
ragazza, sai.”
Replicai, senza celare il disgusto che quel ragazzo mi ispirava ogni
momento di
più. “E, anche se questo non ti riguarda, sappi
che sono già impegnata.”
Lo vidi sgranare
impercettibilmente gli occhi, mentre
un’ombra strana gli attraversò come un fulmine
minaccioso lo sguardo. “Ma
davvero?” Disse; sembrava arrabbiato, ma con quale diritto!
“Davvero.”
Ripetei. Mentalmente continuavo a pregare che
Matteo o qualcun altro apparisse all’improvviso per salvarmi
e portarmi via, ma
più scrutavo la folla e meno vedevo qualche volto familiare.
Accidenti, se solo
fossi andata a ballare…!
“Uhm.”
Mi voltai di nuovo verso di lui,
ormai sull’orlo
dell’esasperazione. Calma Giulia, pensavo
nel frattempo, non alzare
le mani, respira… Ormai stavo stritolando la mia
borsetta, cercando di
resistere alla tentazione di mollargli uno schiaffo. Sapevo che
tecnicamente
non mi stava facendo niente, ma era bello ed era stronzo, e queste, a
mio
avviso, sono due delle caratteristiche che giustificano il gesto
più estremo!
“Perché ho
l’impressione che tu non ci creda?” Chiesi,
mostrandogli un sorriso irrisorio: volevo che capisse che
anch’io ero in grado
di prendermi gioco di lui, se solo volevo.
Tuttavia lui doveva essere
più pratico di me in quel gioco,
perché il sorriso che mi rivolse mi fece saettare un brivido
lungo la schiena,
facendomi deglutire nervosamente. Odiavo il fatto di sentirmi
così in disagio,
non riuscivo a tenergli testa.
“Semplicemente, dubito
che se tu fossi davvero impegnata
rimarresti qui, da sola, al bar. Il tuo ragazzo non può
essere tanto stupido da
lasciare una bella ragazza come te del tutto incustodita.”
Rimasi semplicemente a bocca
aperta: okay, qui stavamo
davvero sforando tutti i paletti della normalità. Senza che
lui mi vedesse mi
diedi un pizzicotto, strizzandomi la pelle del dorso della mano;
sfortunatamente il dolore mi confermò che non si trattava di
un sogno, ma della
pura e triste realtà. Anche perché, voglio dire,
in quale sogno avrei mai
potuto sognare uno come lui?
Grazie al cielo, qualcuno dovette
aver ascoltato alla fine le
mie preghiere silenziose, perché dalla folla arrivarono
all’improvviso Matteo e
Alessandra, accaldati ed euforici. Il loro entusiasmo però
svanì non appena
videro il ragazzo che mi teneva compagnia, come se avessero premuto un
interruttore. Ale mi rivolse uno sguardo preoccupato, mentre vidi che
Matteo si
stava arrabbiando.
“Beh, Giulia, mi sembra
che tu abbia trovato compagnia.”
Esordì il mio amico, non appena ebbe raggiunto il bancone.
Perché la sua voce
era così… gelida?
Non seppi cosa rispondere, e
dopotutto non ne ebbi nemmeno
l’opportunità, perché fu Enrico a
rispondere per me. “Allora era vero.” Disse,
rivolgendomi un fugace sorriso. Poi si rivolse verso Matteo, ma questa
volta
anche la sua voce era fredda e dura. “Fossi in te, serberei
con gelosia una
ragazza come lei, e starei molto attento a non lasciarla da
sola… Visto che non
vuoi che qualcun altro le si avvicini. Ma poi, se questo avviene, non
prendertela con lei.”
Matteo gli si
avvicinò, minaccioso, con uno sguardo che non
gli avevo mai visto: okay, eravamo amici, ma mi sembrava che la sua
reazione
fosse esagerata! Certo, tutti conoscevamo Enrico e la sua famiglia
almeno di
fama, e quasi tutti avevamo le stesse opinioni su di loro…
Ma da qui ad
arrabbiarsi se mi trovava mentre parlavo con un altro ragazzo
– che per puro
caso era Enrico – ce ne passava…!
“Razza di bastardo, non
osare dirmi come mi devo comportare!”
Sgranai gli occhi
all’esclamazione furente di Matteo. Okay:
avevo appurato che il suo comportamento era esagerato. Ma non mi
sembrava il
caso di farglielo presente davanti al “nemico”,
anche perché mi serviva che
Enrico credesse che io fossi già fidanzata. Da quel punto di
vista il mio amico
mi stava dando una mano, e io stavo cercando di convincermi di
quello… Ma
dall’altra mi stava decisamente facendo innervosire, e fu
solo perché
Alessandra mi stava stringendo comprensiva una spalla che non diedi un
bello
schiaffo ad entrambi. Ma chi si credevano di essere? Parlavano di me
come se
non fossi presente!
Avrei dovuto chiarire le cose con
Matteo al più presto.
Tuttavia, al momento avevo altro
di cui preoccuparmi.
All’insulto del mio
amico, il volto di Enrico aveva assunto
un’espressione tale che, malgrado non fossi più da
sola con lui, mi fece
rabbrividire. Era spaventoso, avrei potuto giurare che in quel momento
avrebbe
voluto colpire o uccidere Matteo… I suoi occhi ardevano,
tremendi.
Scivolò con grazia
giù dallo sgabello, in modo da trovarsi di
fronte a Matteo: era più alto di lui almeno di una decina di
centimetri, e la
sua terribile imponenza fece scemare leggermente la furia
ingiustificata
dell’altro ragazzo. Senza neppure sollevare un dito
l’aveva fatto
indietreggiare di un paio di passi.
“Ringrazia che non
siamo da soli.” Sibilò soltanto,
stringendo gli occhi a due fessure. “Ma la prossima volta che
ci incontreremo
fai in modo di non essere tu da solo, e forse non ti farò
troppo male.”
Vidi Matteo deglutire, ed io
trattenni involontariamente il
fiato. Poi Enrico si voltò verso di me, e la sua espressione
sembrò essersi
trasformata.
“Piacere di averti
conosciuto, Giulia.” Disse, dolcemente. Ma
come poteva essere così dolce la sua voce, dopo la minaccia
che aveva appena
fatto? “Ci vediamo presto.”
Ci diede le spalle e, in pochi
secondi, sparì in mezzo alla
folla senza lasciare nessuna traccia dietro di sé. Certo, a
parte l’espressione
sconvolta di Matteo e quella senza parole di Alessandra.
Quanto a me…
Non lo conoscevo, e non avevo
nessunissima intenzione di
farlo. Se mai ci fosse stato un altro incontro, avrei finto di non
conoscerlo e
avrei girato la testa da un’altra parte.
Non volevo avere nulla a che fare
con i delinquenti come lui.
Ma dopotutto, se l’avessi ignorato lui avrebbe presto
lasciato perdere…
In quel momento,
inaspettatamente, mi tornò in mente un
documentario che avevo visto tempo prima alla televisione; parlava del
comportamento di animali come i leoni, che cacciavano le loro prede
senza mai
arrendersi, fino a sfiancarle e poi colpirle. Alla fine, i loro sforzi
venivano
sempre premiati. Sarei stata io la preda di Enrico?
Mio Dio, mi augurai proprio di no.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo IV. ***
Ringraziamenti!
Ciao ragazze! Perdonatemi il ritardo nello postare questo capitolo, ma
sono stata occupata e non ho potuto dedicarmi come volevo al
proseguimento di questa storia. Spero come sempre di non deludervi!
Tengo molto a ringraziare nimi_chan,
ladyramione,
la mia geme xD, silvietta_in
love 4ever, SweetCherry,
Merry NIcEssus
e tutte coloro che mi hanno aggiunta tra le preferite e le seguite, vi
ringrazio tantissimo di dedicarmi il vostro tempo, non so come farei
senza di voi!
Beh, ho scoperto che vi siete quasi tutte innamorate di Enrico! xD
tecnicamente doveva essere il "cattivo" della situazione, ma vedo che
per ora ha riscosso parecchi consensi! Non nascondo che anch'io ho un
debole per lui u.u Chissà che cosa ne penserete di questo
capitolo, spero comunque che me lo farete sapere :)
Bene, mi sembra di essermi dilungata anche troppo!
Buona lettura e a presto!
Baciooo :*
Capitolo IV
Ero al mare con Alessandra e
Laura quando mi squillò
all’improvviso il cellulare.
In genere non mi cercava mai
nessuno quando ero con loro – a
parte mia madre – ma visto che eravamo da sole per una
giornata interamente
femminile, senza i ragazzi tra i piedi, per intenderci, poteva essere
uno di
loro che sentiva la nostra mancanza. Forse Federico, visto che il
telefono
della sua ragazza era scarico.
Invece era un messaggio di Matteo.
Stupita mi misi a
sedere, schermandomi gli occhi con la mano e iniziando a leggerlo.
“Ciao,
Giulia…Sono Matte. Volevo scusarmi per quello che
è
successo l’altra sera. Non dovevo comportarmi in quel
modo… Ammetto di aver
esagerato.”
Sollevai un sopracciglio: ma
pensa, il grande eroe era
pentito. Mi prudevano ancora le mani per quello che era successo quando
mi
aveva riaccompagnata a casa, dopo la serata in discoteca,
perché si era
comportato in un modo che davvero non mi sarei mai aspettata.
Baciata. Mi aveva baciata.
E con prepotenza, anche. Era
successo prima che scendessi
dalla sua auto, eravamo da soli e mi aveva afferrato il polso con
forza,
attirandomi verso di lui. Le sue labbra erano calate sulle mie senza
che
potessi fare nulla per impedirlo, e mi era rimasto attaccato come se
fossi
stata l’unica fonte di ossigeno presente in quel momento. Ero
rimasta talmente
sconvolta dal suo gesto da restare immobile come una statua, chiudendo
gli
occhi non per il piacere, ma nell’attesa che si stancasse e
mi lasciasse
andare.
Quando poi lo fece,
l’avevo guardato con un’espressione
talmente disgustata che era arrossito, imbarazzato e colpevole, e aveva
cercato
di parlare per giustificarsi.
“Cosa ti
prende?” Avevo sibilato, furiosa. Non so che cosa mi
aveva trattenuto dal colpirlo.
Lui si era passato una mano tra i
capelli, distogliendo lo
sguardo da me. “Non ho sopportato il modo in cui ti
guardava…” Aveva mormorato,
riferendosi chiaramente ad Enrico.
“E allora hai pensato
di baciarmi?!” La mia rabbia stava
davvero crescendo.
Matteo sollevò di
nuovo lo sguardo su di me, allungando le
mani per sfiorarmi ma ritraendole subito nel vedere la mia espressione
poco
amichevole. “Giulia, credevo che tu conoscessi i miei
sentimenti… Insomma… Tu…
Tu mi piaci…”
Aggrottai le sopracciglia,
afferrando la maniglia dello
sportello. “Proprio un pessimo modo di
dimostrarlo.” Poi lo spalancai e uscii
fuori prima che potesse fermarmi, correndo dentro casa.
Da allora non gli avevo
più rivolto la parola.
Ma evidentemente non aveva
resistito troppo, perché questo
era successo solo tre giorni prima e lui mi aveva già
mandato un messaggio. Un
tempismo davvero perfetto, pensai.
Non sapevo che cosa fare. Che
cosa avrei dovuto rispondergli?
Che avevo già dimenticato, che non portavo rancore, amici
come prima? Non era
quello che pensavo, il ricordo di quel bacio bruciava ancora troppo ed
era
difficile da dimenticare. Non che mi fosse piaciuto: semplicemente, non
potevo
scordare il modo in cui si era imposto, baciandomi con forza e
obbligandomi ad
assecondarlo.
E poi… C’era
un’altra cosa che mi faceva disperare…
Ogni volta che ripensavo al bacio
di Matteo e alle sue
complicazioni – perché questo avrebbe senza dubbio
rovinato il rapporto tra noi
e all’interno del gruppo – il ricordo nitido del
suo viso si sostituiva a
quello di un altro ragazzo.
Perché Enrico si
insinuava in quel modo nella mia mente? Era
perché mi avevano scioccata le sue parole? Si trattava di
una scusa debole e
patetica, ma non riuscivo a giustificarlo con altro. Quando Matteo mi
aveva
baciato non avevo provato niente di niente, nessun brivido, nessun
calore, se
non lo stupore e il ribrezzo che il suo gesto mi aveva provocato: nulla
a che
vedere con quello di cui era capace Enrico con un solo sguardo.
Beh, Enrico è davvero
molto bello… Cercai di obiettare,
giustificandomi. Matteo non può
competere, ed è ovvio che non è suo pari neanche
in esperienza.
Tuttavia, già il fatto
che stessi mettendo a confronto il mio
amico, che conoscevo ormai da un paio di mesi, con un completo
sconosciuto,
avrebbe dovuto farmi riflettere. Okay, che leggessi troppi libri era
risaputo:
ma da qui a inventarsi storie strane sulla mia, di vita!
Con un sospiro chiusi il telefono
senza rispondere,
ritirandolo nuovamente in borsa. Volevo parlarne con Alessandra, prima,
per
vedere che cosa poteva consigliarmi… Avevo raccontato solo a
lei quello che era
successo l’altra sera, ed era superfluo dire che si era
arrabbiata almeno
quanto me. Mi aveva detto di lasciarlo sbollire per un po’, e
la mia intenzione
era proprio quella, ma non pensavo che lui prendesse
l’iniziativa e mi cercasse
di nuovo.
Mi alzai, sciogliendomi i capelli
ed entrando in acqua: era
l’unico modo per andare a parlare subito con la mia amica,
visto che io ero
l’unica ad essere rimasta a crogiolarmi al sole sugli scogli.
Purtroppo l’acqua
era gelida e mi sfuggì una poco gentile imprecazione,
così avanzai in punta di
piedi nell’acqua che mi arrivava a metà gamba e
che diventava man mano più
profonda, ma io mi ostinavo a non tuffarmi. Grazie al cielo non si
erano spinte
molto lontano, e le raggiunsi prima che l’acqua diventasse
troppo alta.
“Geme!
Laura!” Le chiamai, agitando un braccio mezzo
intirizzito dal freddo.
Loro si voltarono quasi
contemporaneamente, e quando videro
che ero abbastanza restia a bagnarmi si scambiarono uno sguardo
complice che
non mi piacque per niente, prima di tuffarsi e raggiungermi
sott’acqua.
Se provano a schizzarmi le picchio, fu l’unica cosa che
pensai mentre le osservavo preoccupata.
Ad ogni modo la loro intenzione
era proprio quella. Sempre
senza emergere nuotarono fino ad arrivare vicino alle mie gambe, e
prima che
potessi spostarmi saltarono fuori dall’acqua e iniziarono a
gettarmi addosso
tutta quella che potevano. Lanciai un grido di spavento –
malgrado tutto non me
l’aspettavo! – e mi immersi tutta d’un
colpo per sottrarmi alla loro tortura.
Quando tornai in superficie le
sentii ridere, e
inevitabilmente mi unii a loro.
“La prossima volta
state attente perché vi ricambierò il
favore!” Esclamai, cercando di sembrare minacciosa. Ma loro
risero ancora di
più.
Ripensai fugacemente al messaggio
di Matteo, ma decisi subito
di lasciar perdere. Ne avrei parlato con Alessandra in un altro
momento, quando
saremmo state da sole e quando avevo voglia di farmi del male: per ora
ne avevo
abbastanza, e volevo solo divertirmi.
Trascorsero solo altri due giorni
prima che avessi nuovamente
notizie di Matteo.
Era mattina, e mi ero appena
svegliata quando Alessandra mi
aveva telefonato: già dal suo tono di voce preoccupato avevo
intuito che c’era
qualcosa che non andava.
“Cos’è
successo?” Chiesi, iniziando seriamente a preoccuparmi
anch’io.
La sentii deglutire.
“È per Matteo… Mi ha appena mandato un
messaggio Laura…”
“Allora?” La
esortai.
“Lo hanno
picchiato.”
Rimasi per un attimo in silenzio,
stupita, lasciando che
quella notizia si impossessasse di me. Lo avevano picchiato?
Perché? Matteo non
era un ragazzo che andava in cerca di rogne: era un po’
montato, e forse
qualche volta aveva esagerato nel fare dei
“complimenti” poco carini, ma non
credevo che questo bastasse per venire picchiati!
“Ma…
Perché? E quando è successo?”
Continuai, preoccupata.
Okay, avevo intenzione di non rivolgergli più la parola, ma
davanti a
determinati avvenimenti chiunque si deve ricredere, e lui era comunque
un mio
amico.
“Non lo so,
geme…!” Replicò Alessandra, ansiosa.
“Ti ho
chiamato perché volevo chiederti di venire con me a casa
sua, per vedere come
sta… Devono andare anche Laura e
Federico…”
Annuii, prima di ricordarmi che
lei non poteva vedermi.
“Certo, è naturale. Mi faccio accompagnare a casa
tua e ci andiamo! Aspettami.”
Circa mezz’ora dopo
eravamo tutti e quattro seduti nel
soggiorno della casa del nostro amico, aspettando che la madre tornasse
per
farci salire da lui. Io ero rimasta in piedi: ero troppo agitata per
stare
tranquillamente seduta, malgrado le richieste dei miei amici.
“Matteo si è
vestito, potete salire.” Ci annunciò la madre
con voce triste, ricomparendo all’improvviso dalla ringhiera
delle scale e
facendoci sobbalzare. Io fui la prima ad arrivare in camera sua, e
quando lo
vidi in quelle condizioni dimenticai immediatamente il motivo per il
quale
avevo intenzione di tenergli il broncio.
Era disteso sopra il materasso,
con un braccio piegato dietro
la testa e una mano che reggeva una borsa per il giaccio che teneva
premuta sul
lato destro del viso. Indossava una tuta da ginnastica che si era messo
probabilmente in fretta e furia per accoglierci, e
l’espressione del suo volto
era davvero sofferente. Era ovvio che doveva essergli successo qualcosa
di
brutto.
Eppure, quando si accorse di me
girò la faccia da un’altra
parte, come per evitare di guardarmi negli occhi. Non compresi il suo
gesto.
“Matte!”
Esclamai, raggiungendolo accanto al letto e
ignorando il fatto che lui si fosse messo seduto per non rimanere
sdraiato
accanto a me. “Che cosa ti è successo?”
Fece una smorfia strana prima di
rispondermi freddamente.
“Beh, non lo vedi? Me le hanno date di santa
ragione.”
“Ma chi?
Perché?” Insistei, ben decisa a non lasciarmi
intimidire dal suo tono. Capivo che stava male e soffriva, ma non
sopportavo
che se la prendesse con me. Non ero io quella che l’aveva
picchiato, accidenti,
anche se l’avrebbe meritato anche da parte mia!
Ad ogni modo continuò
a non rispondermi, almeno fino a quando
non ci raggiunsero anche gli altri. A quel punto mi sedetti da una
parte, nella
sedia della scrivania, incrociando le braccia e attendendo che
svuotasse il
sacco con i suoi veri amici. Che bello, mi stavo
innervosendo…!
Federico si sedette sul letto, e
gli fece la mia identica
domanda. “Allora, Matte? Che cosa ti è
successo?”
L’altro si tolse la
borsa del ghiaccio dalla faccia,
strappando un gemito alle mie amiche e non riuscendo a nascondere un
mezzo
sorrisetto compiaciuto. Ma guardalo, evidentemente gli faceva piacere
essere al
centro dell’attenzione, circondato da ragazze che si
occupavano di lui! Aveva
messo in mostra un occhio completamente nero, che stava iniziando a
diventare
violaceo nei bordi, mentre il resto del volto era tumefatto come un
frutto
maturo caduto dall’albero e pestato con forza. Chiunque fosse
stato a fargli
quello non doveva averlo molto in simpatia.
“È successo
ieri notte, prima che andassi alla Favola a
prendere Giorgio.” Esordì, socchiudendo gli occhi.
“Stavo andando a recuperare
la macchina, e nel parcheggio della vecchia stazione era quasi tutto
buio,
c’erano solo pochi lampioni… Ero solo, e loro
mi hanno circondato. Quei
bastardi si sono messi a ridere, dopo avermi tagliato ogni via
d’uscita, e a
quel punto il capo si è fatto avanti venendo verso di me,
con le braccia
incrociate…”
Dio mio, pensai, non riuscendo
a trattenermi dall’alzare gli occhi al cielo. Dacci
un taglio, Matte.
Raccontare la storia in questo modo non ti farà passare per
un eroe.
Tuttavia sembrava che lui non
volesse perdersi quel momento
di gloria. “Si è messo a ridere anche lui, mentre
gli altri alle sue spalle
chiudevano il cerchio. ‘Ci incontriamo di nuovo,
Matteo.’ Ha mormorato, con una
voce incredibilmente cattiva. ‘Ti sei già
dimenticato che cosa ti avevo detto?
Beh, io ti avevo messo in guardia…’ Poi ha fatto
un gesto con la mano a due dei
suoi amici, che sono scattati in avanti e mi hanno afferrato alle
braccia, in
modo da tenermi fermo. Si è avvicinato ancora, e in quel
momento l’ho visto…
‘Spero che questo ti serva di lezione per la prossima
volta.’ Ha aggiunto.”
Sospirò,
massaggiandosi la testa con le mani. “Beh, il resto
potete immaginarlo… Non mi ricordo come sono riuscito ad
entrare in macchina e
a tornare a casa… Però grazie al cielo ce
l’ho fatta.”
Federico imprecò ad
alta voce, furioso. “Ma chi cazzo erano
questi?” Esclamò, guardando in faccia
l’amico.
Matteo chiuse un secondo gli
occhi, prima di rispondere, e
quando aprì la bocca mi sporsi leggermente in avanti,
perché temevo di aver
capito chi fosse stato, malgrado la mia parte razionale cercasse di
trovare
un’altra risposta.
Che però non era
quella che speravo.
“Era il tipo che
abbiamo incontrato qualche giorno fa in
discoteca.” Disse, lanciandomi un’occhiata di
sottecchi. “Occhi Belli.”
Non riuscii nemmeno io a
trattenere un’imprecazione.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo V. ***
Aggiornamento rapido! xD
Vi ringrazio
tantissimo per le recensioni, nonchè per la lista delle
preferite e delle seguite che diventa ogni giorno più
lunga... Purtroppo adesso il tempo mi sfugge per ringrarvi una per una,
ma prometto che recupererò con il prossimo aggiornamento!
Spero che anche questo nuovo capitolo - scritto piuttosto di getto -
sia di vostro gradimento, e spero anche che me lo facciate sapere :)
Un bacio enorme a voi che mi seguite, non so cosa farei senza il vostro
appoggio!
Buona lettura!
Ciao ciaoooo :*
______________________________________________________________________________________________
Capitolo V
“Non riesco a credere
che l’abbia fatto davvero.”
Alessandra scrollò le
spalle, mentre io incrociavo le braccia
e mi sedevo sulla prima panchina libera. Quella mattina ero rimasta
seriamente
sconvolta nel venire a conoscenza del nome di colui che aveva ridotto
in quello
stato uno dei miei amici.
Non credevo che Enrico sarebbe
stato capace di attuare la
minaccia che gli aveva fatto in discoteca, anche perché non
era nata da nulla
di serio. O almeno questo era quello che credevo.
Stranamente mi sentivo un
po’ in colpa per quello che era successo
a Matteo, anche se non sapevo bene perché avrei dovuto. Non
l’avevo certo
picchiato io, eppure avevo la sensazione che se non avessi parlato con
Enrico,
quella sera alla Favola, questo non sarebbe successo. Ad ogni modo non
volevo
avere più nulla a che fare con quella storia, e non credevo
di dovermi
intromettere più di tanto. Matteo era mio amico, ma
evidentemente non aveva più
intenzione di rivolgermi la parola, e in quel caso non
l’avrei fatto neppure
io. Avevo già troppi problemi.
“Tutto il paese sa che
gli Occhi Belli non sono degli
individui proprio… raccomandabili,
ecco.” Replicò Alessandra, con
cautela. Beh, aveva ragione.
“Lo so, ma
perché picchiare Matteo?” Continuai, facendole
cenno di sedersi vicino a me. “È
un’idiozia se l’ha fatto solo per ‘tener
fede’
alla sua minaccia.”
Sollevò un
sopracciglio, guardandomi incuriosita. “Credi che
ci sia dell’altro?”
“Non lo credo, ne sono
decisamente convinta!” Ribattei. “Solo
che non so che cosa possa essere questo altro…
Tu non hai nessuna idea?”
“Beh…”
Iniziò lei, leggermente titubante.
Tacque, e io sbuffai.
“Geme, parla chiaro.”
Sospirò, guardandomi
in modo piuttosto strano. “Non pensi
che… ecco… In mezzo ci sia tu?”
Aggrottai le sopracciglia,
confusa. “Cioè?”
“E se… Se
Occhi Belli fosse in qualche modo geloso di
Matteo?”
Sgranai gli occhi, a bocca
aperta. “Ma stai scherzando?
Perché dovrebbe essere geloso?”
Ale incrociò a sua
volta le braccia, sporgendosi verso di me.
“Hai visto come ti guardava in discoteca? Sembrava che ti
volesse mangiare! E
poi è arrivato Matteo a fare il ragazzo geloso e lo ha
insultato… Non credi che
questo sia abbastanza normale?” Concluse,
mimando le virgolette sulle
ultime due parole.
Non sapevo che cosa dirle:
crederle era impossibile! “Io e
Matteo non stiamo insieme!”
“Lo so, ma forse Occhi
Belli ha capito il contrario.” Mi
guardò interrogativa, poi, visto che io mi ostinavo a non
rispondere, aggiunse.
“Oppure sei tu che glielo hai fatto
capire…”
Inevitabilmente arrossii,
distogliendo lo sguardo da lei.
“Okay, va bene, gli ho detto di essere già
fidanzata, e quando è arrivato
Matteo non l’ho contraddetto… Ma geme, mi serviva
che lui lo credesse, perché
non mi piaceva come mi si stava rivolgendo! E comunque, è
stato uno stronzo ad
averlo picchiato per questo.”
Mi alzai dalla panchina, subito
imitata dalla mia amica.
“Dai, facciamoci un giro…”
Continuammo a discutere a lungo
di quello, anche se avremmo
avuto tutta la notte per farlo. L’idea era infatti di
mangiarci una pizza e
raggiungere poi Laura e Federico a casa di quest’ultimo, per
vederci un film
tutti insieme. Poi Ale mi aveva invitato ad andare a dormire a casa
sua, quindi
sarei stata tranquilla anche per l’orario di rientro.
Dopo essere andate via dalla
pizzeria, ci incamminammo verso
casa di Federico, prendendo delle stradine poco trafficate per fare
prima.
Tuttavia non si dimostrò essere una buona idea.
“Geme, ho
l’impressione che qualcuno ci stia seguendo.”
Mormorò Alessandra, tirandomi la manica della felpa.
“Non girarti, ma secondo
me sono un paio di ragazzi.”
Deglutii. “Facciamo
finta di niente e non accelerare…
Vediamo un po’ se ce l’hanno proprio con
noi.”
Sempre senza voltarci seguitammo
a camminare, ma i passi di
quelli che ci seguivano si stavano facendo sempre più
vicini, e alla fine,
spaventate, non resistemmo più e ci mettemmo a correre. Fu
la cosa peggiore da
fare: gli sconosciuti ci imitarono e corsero così in fretta
da riuscire quasi a
raggiungerci, sennonché noi riuscimmo ad arrivare
all’angolo della strada per
poi voltare a destra e sparire in un’altra viuzza laterale.
“Li abbiamo
seminati?” Ansimò Alessandra, poggiandosi al muro
e cercando di riprendere fiato dopo la corsa.
Scrollai le spalle.
“Non lo so.” Mormorai.
In quel momento dal buio della
via sbucarono i due ragazzi di
prima, che ci raggiunsero in due rapide falcate e ci imprigionarono
contro il
muro per impedirci di fuggire. Da un’altra parte ne apparvero
altri due, ed io
ebbi la tremenda visione di quello che avevano fatto a Matteo, e
iniziai a
tremare temendo che anche noi saremmo potute finire così, se
non addirittura…
peggio.
E urlare non sarebbe servito.
“Calme, ragazze, se vi
comportate bene nessuna di voi si farà
male…” Disse uno di loro, facendosi avanti e
permettendoci di vederlo in faccia
alla luce della luna.
Trattenni a stento
un’imprecazione, quando lo riconobbi: era
uno dei compari di Enrico, uno di quelli che erano al bar con lui
quando
l’avevo visto per la prima volta!
Provai a divincolarmi, ma
sfortunatamente quello che mi
stringeva i polsi era il doppio di me e non riuscii nemmeno ad
allontanarmi dal
suo petto di pochi centimetri. Lanciando uno sguardo ad Alessandra mi
accorsi
che lei non se la stava cavando meglio di me, ma se non altro entrambe
stavamo
riuscendo perfettamente a mantenere la calma e non piangere.
“Cosa accidenti volete
da noi?” Esclamò a quel punto
Alessandra, stupendomi. Dove aveva trovato il coraggio di aprire bocca
e
parlare? Le rivolsi un sorriso grato di sincera ammirazione che fui
certa che
lei vide.
“Da te niente,
tesoro.” Rispose il tipo che aveva già parlato
prima, sorridendole malizioso. “Non è te che siamo
venuti a prendere, ma la tua
amica. E tu,” aggiunse, voltandosi verso di me. “Ci
seguirai senza fare tante
storie.”
Sgranai gli occhi, sentendomi le
guance andare in fiamme
dalla rabbia. “Non credo proprio! Non sono così
stupida da venire con voi solo
perché è quello che volete! Lasciateci
andare!”
Gli altri ragazzi erano immersi
nel silenzio più totale, e
quella era una cosa che mi terrorizzava molto più della
prospettiva di dover
essere trascinata chissà dove. Sembrava che stessero
tramando qualcosa, e
proprio non mi piaceva… Deglutii quando poi sentii sul collo
il respiro caldo
del tipo che mi teneva stretta a sé per non farmi scappare.
Che cosa avevano
intenzione di fare? Mio Dio!
Come se si fosse accorto di quel
gesto, però, il ragazzo che
stava parlando si avvicinò a me per dare uno spintone a
quello che avevo alle
spalle, staccandomi da lui ma prendendo lui stesso il possesso dei miei
polsi.
Bene…
“Cosa stai facendo,
idiota?” Esclamò, arrabbiato. “Non devi
toccarla! Dobbiamo solo prenderla e portarla dal capo, niente di
più!”
“Non rompere, Stefano,
non le ho fatto niente!” Replicò
quell’altro, incrociando nervoso e irritato le braccia.
“È solo che ha un
bell’odore…”
Il modo in cui mormorò
quell’ultima frase mi fece
rabbrividire, disgustata, ringraziando mentalmente il Cielo di essermi
allontanata da lui. Scoccai una rapida occhiata alla mia amica e vidi
che anche
lei, come me, non aveva per niente apprezzato l’uscita di
quel tipo.
“Non voglio sentirti
dire altre cazzate, Lorenzo.” Lo ammonì,
minaccioso, il ragazzo chiamato Stefano. “Non penso che al
capo farebbe piacere
sapere quello che hai detto della ragazza…”
“Non provare a
minacciarmi! Non sei tu il capo!” Replicò
ancora l’altro, stringendo le mani a pugno ed avanzando verso
di noi. Stefano
mi spostò dietro la sua schiena, in modo da togliermi dalla
visuale dell’amico
che stava iniziando ad agitarsi un po’ troppo.
“No, è
vero.” Rispose, con voce pacata. “Però
mi sembra che
Enrico vi abbia detto di darmi ascolto e fare quello che vi dico in
questa
occasione, e se non sbaglio tu non stai obbedendo.”
Sgranai nuovamente gli occhi,
cercando Alessandra con lo
sguardo. Ero convinta che quel nome ci avesse fatto rabbrividire
entrambe. Mio
Dio, ancora lui! Ma allora era una persecuzione! Prima picchiava
Matteo, e poi
mandava i suoi amici a perseguitare me e la mia amica… Che
cosa dovevamo fare?
O, meglio, che cosa noi avevamo fatto a lui?
Davvero non riuscivo
a capire perché si stesse accanendo contro di noi.
Lorenzo imprecò a
bassa voce, incrociando nuovamente le
braccia. “Fai quello che vuoi! Non me ne frega niente,
purché finiamo in
fretta. Avrei fame, sai.”
“La macchina sta
arrivando.” Annunciò uno dei ragazzi alle
spalle di Stefano, subito dopo aver concluso una breve telefonata.
Lui annuì, sollevato.
“Bene. Francesco, accompagna la ragazza
il più vicino possibile alla piazzetta, ma fai in modo che
non ti veda
nessuno…” Il ragazzo che teneva Alessandra
annuì, ma prima che se ne andasse
con la mia amica Stefano richiamò la sua attenzione.
“Quanto a te, tesoro, ti
conviene non parlare con nessuno di quello che è successo
stasera. Fosse per me
ti porterei con noi, per restare più tranquilli, ma Enrico
ha detto
esplicitamente di prendere solo Giulia. Perciò stai attenta
a quello che dici.”
Alessandra era spaventata e mi
guardò ancora una volta, prima
di venire portata via da Francesco. Quando i nostri sguardi si
incrociarono,
riuscii a mimarle con le labbra una parola che lei doveva
per forza
comprendere, altrimenti non avrei avuto nessuna speranza di uscire da
quel
pasticcio.
Ringraziai il Cielo quando la
vidi illuminarsi, nello
comprendere quello che stavo chiedendo. Poi il ragazzo la
voltò, trascinandola
via, e in breve sparì dalla mia vista, lasciandomi
completamente da sola in
mezzo a tutti quei ragazzi. Non ebbi neppure il tempo di spaventarmi,
perché
Stefano mi fece voltare dalla parte opposta della strada, seppur con
gentilezza, invitandomi a precederlo per tenermi sotto controllo.
Quando raggiungemmo la fine di
quella via poco illuminata
trovammo ad aspettarci una Picasso nuova, di un colore nero
metallizzato,
parcheggiata con i fari spenti come per passare inosservata. Infatti,
esclusa
la luce che proveniva dall’interno, sarebbe stato uguale
anche se non ci fosse
stata.
Il ragazzo che aveva fatto la
telefonata salì davanti,
accanto al guidatore, mentre Stefano mi fece salire dietro, ed io mi
trovai
circondata da lui e da Lorenzo, stretta nei sedili posteriori.
“Andiamo.”
Disse Stefano al ragazzo che stava al volante,
controllando fuori dal finestrino che non ci fosse nessuno. Ma chi ci
poteva
mai essere? Eravamo in una zona pressoché disabitata, e
leggermente malfamata…
Chi poteva mai accorgersi del mio rapimento e
venire a riportarmi a
casa? L’unico ragazzo per il quale contavo qualcosa aveva
deciso di non
parlarmi più, e la mia amica probabilmente era ancora in
compagnia di quel
tipo… Nessuno sarebbe arrivato in tempo.
Deglutii, lasciando alla fine che
le lacrime scorressero
sulle mie guance, implacabili.
Temevo di essere davvero finita
nella tana del leone.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo VI. ***
Et
voilà, eccomi qua!
Nuovo
aggiornamento :) Ragazze, vi ringrazio immensamente per i vostri
complimenti, mi fate arrossire e non sto scherzando! Mi fa piacere che
la storia vi piaccia, e mi fa ancora più piacere che vi
piaccia la mia scrittura!! Wao :.)
Bene,
ringrazio coloro che hanno messo la mia storia tra le preferite
(un baciooo!!), tra le seguite (smack :*), e ovviamente ringrazio SweetCherry, Merry
NIcEssus, silvietta_in
love 4ever,
nimi_chan,
ladydramione
che mi hanno recensito!! Vi abbraccio tantissimo, ragazze :)
Adesso
vi lascio con il nuovo capitolo! Buona lettura!
Baciiiii
:*
________________________________________________________________________________________
Capitolo VI
Erano
trascorsi più o meno una decina di minuti da quando
quei ragazzi mi avevano rapita. La macchina stava viaggiando a 90
all’ora, e
con quella velocità eravamo già usciti dal paese
e ci stavamo dirigendo verso
la campagna. Entrai nel panico quando mi accorsi che la stradina
sterrata che
stavamo percorrendo attraversava un boschetto che non avevo mai visto
prima,
come se ci stessimo dirigendo in una zona impossibile da trovare
persino su una
mappa. Fantastico.
Le
uniche luci che illuminavano il sentiero erano quelle dei
fari dell’auto, che tuttavia non erano sufficienti a
permettermi di capire in
che posto mi stessero portando. Tuttavia loro non sembravano
preoccuparsene: o
conoscevano benissimo quella zona perché l’avevano
percorsa un sacco di volte,
oppure avevano solo intenzione di scaricarmi nel primo posto isolato
che
avessero trovato. La mia mente si rifiutò categoricamente di
approfondire in
che condizioni sarei stata a quel punto.
Deglutii,
sollevando una mano ad asciugarmi le lacrime che
non avevano ancora smesso di scorrere. A quel gesto notai che Stefano,
il
ragazzo alla mia destra, aveva armeggiato con le tasche dei suoi
pantaloni, per
poi avvicinarsi a me e porgermi un fazzoletto di stoffa bianca. Sbattei
più
volte le palpebre per accertarmi di non stare sognando: ma lui fece un
pallido
sorriso che mi incoraggiò, e questo bastò per
convincermi a prendere il suo
fazzoletto.
Mentre
mi asciugavo gli occhi, sentii che Lorenzo, a
sinistra, sbuffava scocciato per poi chinarsi su di me: istintivamente
mi
scostai, ma ciò non bastò ad allontanarlo.
“Sei
spaventata?” Chiese, beffardo. La sua mano giunse a
sfiorarmi il collo, ritirandomi poi i capelli e seppellendo il suo
volto
nell’incavo tra la spalla e la clavicola. “Eppure
non mi sembravi così
impaurita l’altro giorno, al bar…”
Mi
divincolai e riuscii a guardarlo in cagnesco, malgrado il
buio della vettura non lo permettesse granché.
“Stammi lontano.” Sibilai, non
riuscendo però ad impedire che le nostre gambe si
sfiorassero. Ho sempre
detestato sedermi nel sedile posteriore centrale, soprattutto se dovevo
dividerlo con altre persone. E ora sapete perché.
A
quel punto per fortuna intervenne Stefano. “Stuzzicala di
nuovo e ti faccio proseguire a piedi, Lorenzo.” Lo
minacciò, con voce dura. “Mi
hai proprio rotto con le tue stronzate.”
L’altro
ragazzo sollevò le mani in segno di resa, ma non ci
cascai: la sua espressione era tutto fuorché arrendevole.
“Come vuoi, capo.”
Rispose ironico, mettendo tutto il sarcasmo di cui disponeva su
quell’unica
parola. Stefano fu abbastanza saggio da non raccogliere la sua
provocazione,
altrimenti quella battaglia verbale si sarebbe protratta per tutta la
notte.
Per un attimo fui sinceramente curiosa di sapere come si sarebbe
comportato
Lorenzo di fronte ad Enrico, giusto per vedere se si sarebbe sgonfiato
un
pochettino.
Più
tempo trascorrevo in compagnia di quel ragazzo più mi si
rompevano le scatole. Sperai se non altro che quel ‘piacevole
viaggetto’ fosse
quasi giunto al termine.
Come
se avesse capito ciò che stavo pensando, il ragazzo che
sedeva accanto alla guida annunciò, ad alta voce:
“Siamo quasi arrivati.”
Perfetto.
Stavo per incontrare il mio carceriere.
Quando
vidi la villa rimasi letteralmente senza parole, tanto
che dovetti affacciarmi tra i due sedili anteriori per poterla ammirare
meglio.
L’edificio
era stato costruito sopra una piccola collinetta,
e sembrava sorgere dal nulla in mezzo al verde, quasi completamente
nascosto
dalla vegetazione e dalle alte querce se non fosse stato per le luci
che ne
illuminavano la facciata. Man mano che la macchina si avvicinava
riuscivo a
scorgere sempre più particolari. Per esempio, mi accorsi che
era composta da
tre piani, e che ricalcava perfettamente la struttura di una di quelle
splendide ville toscane che avevo più volte visto nelle
riviste o nei
documentari. Era impossibile definire il colore del muro,
perché una fitta
edera rampicante lo ricopriva pressoché tutto, lasciando
visibili solo le
finestre e il portone d’ingresso, pesante e massiccio.
Ma
dove ero finita? Che cosa ci potevo fare io in quel
posto?
Una
parte di me avrebbe tanto voluto scappare, per diversi e
logici motivi: punto primo, ero stata rapita da quattro ragazzi che non
conoscevo, tra cui ne spuntava uno che, da come si comportava, non
sembrava
aver voglia di rimanere a chiacchierare con me amabilmente; punto
secondo, non
avevo idea di quali fossero le loro intenzioni, ma per quello che ne
sapevo io
– una ragazza deve sempre tenersi informata, e io guardavo
abbastanza
telegiornali da esserlo – potevano anche voler abusare di me
e poi gettare il
mio corpo senza vita nel primo fosso disponibile… Troppo
drammatica? Okay, ma
il punto terzo sottolineava che mi avevano portata in una villa che
avrei detto
abbandonata, in un luogo dimenticato da Dio e sicuramente sconosciuto
alle
persone che sarebbero potute accorrere in mio aiuto: cosa che comunque
non
avrebbero potuto fare, visto che durante il tragitto Stefano si era
premunito
di portarmi via il cellulare che, ad ogni modo, in quel posto non
prendeva!
Malgrado
questa simpatica ed idilliaca visione, tuttavia,
c’era un’altra parte di me che moriva dalla voglia
di sapere chi si nascondeva
all’interno di quella ricca e fastosa villa di inizio
Novecento, e soprattutto
che cosa poteva mai volere da me – escluso quello che
affermava il già citato
secondo punto.
Comunque
c’era qualcosa, come una delicata vocina dentro la
mia testa, che mi diceva che non avrei tardato a scoprirlo.
Finalmente
infatti la macchina parcheggiò, fermandosi quasi
di fronte all’enorme portone di legno istoriato. Stefano e
Lorenzo aprirono lo
sportello e scesero dall’auto quasi simultaneamente, ma non
fu difficile per me
scegliere di scendere dalla parte di Stefano. La prudenza non
è mai troppa,
come si dice.
“Non
preoccuparti, andrà tutto bene.”
Sussurrò quest’ultimo
al mio orecchio, stringendomi una spalla incoraggiante.
“Nessuno ti farà del
male.”
Quanto
avrei desiderato potergli credere!
Ci
dirigemmo tutti verso l’entrata della casa, circondati
dall’intimo silenzio della notte. C’era un
po’ di venticello che mi
scompigliava i capelli, e il profumo del bosco mi rammentò
che quello in cui mi
trovavo era tutto tranne che un sogno. Magari un incubo.
Il
ragazzo che aveva guidato e di cui ancora non conoscevo il
nome si avvicinò al portone e afferrò uno dei
battenti, sbattendolo con
decisione e facendo rimbombare il rumore in tutta la casa. Non dovemmo
aspettare molto prima che qualcuno arrivasse ad aprirci: tuttavia non
fu nessun
maggiordomo in stile Dracula o famiglia Addams, e già questo
fu, per me, un
sospiro di sollievo non indifferente. Almeno mi trovavo ancora sulla
Terra.
Chi
aprì la porta fu invece un altro ragazzo, più o
meno
della stessa età dei miei ‘rapitori’, o
forse più giovane: era vestito come
loro, jeans scuri e camicia bianca a maniche corte, ma il suo
abbigliamento
faceva a pugni con il colore rossiccio dei suoi corti boccoli e le
leggere
efelidi spruzzate sulle guance. A primo acchito mi sembrò
subito simpatico.
“Finalmente
siete arrivati.” Disse evidentemente sollevato,
facendosi da parte per permetterci di entrare. Anche la sua voce
sembrava
quella di un ragazzino: se aveva compiuto diciassette anni era troppo.
“Il capo
stava già iniziando ad innervosirsi.”
Stefano
abbozzò un sorriso, invitandomi a precederlo dentro
casa. “Non preoccuparti, Enrico abbaia ma non morde. Non con
i suoi amici,
almeno.”
Il
ragazzino sgranò leggermente gli occhi, scuotendo poi la
testa nel chiudere la porta dietro di noi. “Venite,
è in biblioteca.”
Quella
frase mi suonò stranamente estranea e al contempo
familiare: avevo l’impressione di essere catapultata in una
dimensione
parallela alla mia! Quella villa aveva una vera
biblioteca? Come quella
dei libri? Wao, forse non era del tutto la mia giornata sfortunata.
Il
nostro era un vero e proprio corteo: davanti c’era il
ragazzino che ci aveva aperto la porta, subito dopo seguito da me e
Stefano,
mentre gli altri chiudevano le fila. Il disagio che avevo provato
mentre ero in
macchina tornò come a colpirmi con forza, facendomi
rabbrividire. Mio Dio.
Adesso
avrei scoperto che cosa ci facevo lì, ma la domanda
era un’altra… Avrei davvero voluto scoprirlo?
Perché non potevo essere insieme
ad Alessandra, come sempre? Avevo una voglia incontrollata di piangere,
ma non
avevo nessuna intenzione di farmi vedere in lacrime anche da Enrico, se
era
davvero da lui che stavamo andando.
Quando
raggiungemmo la fine del lungo corridorio si fermarono
tutti, e il ragazzo dai capelli rossi bussò deciso alla
porta della biblioteca.
Da dentro provenne la voce che non avrei mai creduto di risentire in
una
situazione simile. “Avanti.” Disse, solo.
Stefano
mi spinse gentilmente in avanti, avvicinandomi alla
porta. “Devi entrare da sola, Giulia.”
Mormorò piano, vicino al mio orecchio.
“Enrico non ama che noi invadiamo la sua
biblioteca.”
Mi
voltai verso di lui, inarcando un sopracciglio. “E allora
perché mai dovrei entrarci io?” Replicai, forse
con più amarezza del
necessario.
Il
ragazzo fece uno strano sorriso e poi scrollò le spalle.
“Beh, è abbastanza chiaro, in
realtà.”
“Per
me non lo è.”
Sospirò,
e mi sembrò sinceramente preoccupato. “Non ti
farà
niente. Vuole solo parlare, ma noi non possiamo entrare nella sua
biblioteca.
Comunque staremo qui fuori, se può farti sentire
più tranquilla.”
Scossi
la testa e aprii la bocca per ribattere, ma lui me lo
impedì. “No, senti: non è con me che
devi arrabbiarti o discutere. Parla con
lui, anche perché forse avrà più
risposte di quante potrei dartene io. Okay?
Tranquilla.”
Aprì
la porta, spingendomi piano verso di essa e riuscendo a
farmi entrare nella stanza. Gli lanciai un’occhiataccia,
perché se non mi fossi
mostrata arrabbiata avrei sicuramente finito per piangere, ma lui mi
sorrise
dolcemente e mi salutò con la mano.
La
porta si richiuse, ed io rimasi ad osservarla, stupita e
spaventata, nella sciocca attesa che si riaprisse. Visto che questo non
accadeva afferrai con entrambe le mani la maniglia, abbassandola e
cercando di
sforzarla per aprirla, ma evidentemente era stata chiusa a chiave,
oppure da
fuori la stavano tenendo. Imprecai a bassa voce, prima di abbandonare
il mio
debole tentativo di fuga.
Mi
poggiai con la schiena alla porta, chinando la testa e
nascondendo il viso tra le mani. Avevo paura. Mio Dio, non credevo di
essere
mai stata così spaventata come in quel momento. Stefano
aveva detto che nessuno
mi avrebbe fatto del male, si, certo! Come si potevano aspettare che io
credessi a quelle storie?
Poi,
improvvisamente, mi accorsi di non essere più sola. Il
mio corpo all’erta aveva
avvertito la
presenza di un estraneo, e subito raddrizzai la testa, pronta a
scattare, o
comunque a cercare di nascondermi o fuggire…
Lui
era lì. “Benvenuta.” Disse, con un
sorriso.
Adesso
sì che mi sentivo
davvero in trappola.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo VII. ***
Ringraziamenti!
Wao ragazze, l'ultimo capitolo ha avuto proprio successo :..) non avete
idea di quanto mi faccia piacere trovare tutte queste recensioni per la
mia "opera"!! Se esiste un capitolo 7 è solo merito vostro!!
Mi limito a ringraziare coloro che mi hanno recensito: morbidina,
Merry
NIcEssus, lara27,
nimi_chan,
Bastard87,
Charlie_me, Silvietta
(:p), Vale728,
SweetCherry
e ChasingTheSun,
poi un grazie e un abbraccio grande grande a coloro che mi hanno
aggiunta tra le preferite e tra le seguite!! GRAZIE!!!
Ora vi lascio al capitolo. Buona lettura!!
Smack :*
Capitolo
VII
“Benvenuta.”
Sgranai gli occhi, guardandolo.
Stava scherzando? Benvenuta?
Se aveva intenzione di prendersi ancora gioco di me non glielo avrei
permesso!
Incrociai le braccia, rimanendo
con le spalle contro la porta
in modo da tenere d’occhio ogni suo minimo movimento e
controllare che si
tenesse ad una degna distanza da me. Lui sembrava del tutto a suo
agio… Beh
certo, non era mica lui quello che era stato appena rapito.
Odio doverlo ammettere, ma era
ancora più bello di come lo
ricordassi. Indossava una camicia bianca a maniche corte allacciata
dentro un
paio di jeans neri lunghi e stretti, e malgrado il semplice
abbigliamento aveva
uno strano qualcosa che lo faceva somigliare ad un modello…
Forse erano i
capelli neri o gli occhi verdi, che sembravano risplendere, allegri e
compiaciuti.
Che faccia da schiaffi! Pensai,
aggrottando la fronte. Enrico rimase immobile al centro della stanza,
continuando a sorridere nell’inutile tentativo di mettermi a
mio agio, presumo,
e solo allora notai che aveva un bicchiere pieno tra le mani. Forse era
un
aperitivo, a giudicare dal colore.
“Non vuoi
sederti?” Chiese, indicandomi il divano posto
accanto al camino di pietra spento.
Io sollevai un sopracciglio.
“Che cosa ci faccio qui?”
Replicai invece, dando finalmente voce ad una domanda che mi martellava
la
testa da quando ero salita in macchina, prima.
“Volevo
rivederti.” Rispose, semplicemente.
Sgranai gli occhi, scuotendo la
testa. “Cosa vuol dire che
volevi rivedermi?” Esclamai, facendo qualche passo avanti ma
stando ben attenta
a non avvicinarmi troppo a lui. “Stai scherzando? Mi hai
fatta rapire per
questo?”
Mi tremava la voce da quanto ero
arrabbiata, e l’espressione
che assunse lui di tenerezza non fece che farmi infuriare ulteriormente.
“Non
arrabbiarti.” Sussurrò. “Vieni, siediti
e parliamone con
calma.”
“Non ho nessuna
intenzione di sedermi!” Ribattei, tornando
verso la porta. “Voglio tornare subito a casa mia, hai
capito? Subito!”
Lui sospirò,
incrociando le braccia e guardandomi con
tristezza. “Credevo che Stefano te lo avesse
detto…”
Scossi la testa.
“Stefano ha detto che avrei dovuto
discuterne con te. Che cosa avrebbe dovuto dirmi?”
“Stanotte dormirai qui.
E forse anche le notti dopo.”
Sbattei più volte le
palpebre, come per assimilare meglio
quella notizia. Era… Era uno scherzo, vero? “Non
puoi credere davvero che io
rimarrò a dormire qui!” Esclamai, più
stupita che furiosa.
Enrico sorrise debolmente, come
se fosse incredibilmente
stanco. Beh, non mi importava. Avevo abbastanza problemi miei senza che
mi
mettessi a preoccuparmi anche di quelli del mio rapitore. Figuriamoci!
“Vieni a
sederti,” ripetè, gentilmente. “Poi
vediamo. Può
darsi che io cambi idea.”
Lentamente, come se temessi che
da un momento all’altro
potesse aggredirmi con un qualche coltello nascosto, mi avvicinai a
lui,
raggiungendo il divano e sedendomi su di esso. Enrico invece si sedette
sul
bracciolo della poltrona che mi stava di fronte. Accavallai le gambe e
incrociai le braccia, in modo che il messaggio corporeo non fosse
frainteso;
sembravo urlare in silenzio: Non ti avvicinare o peggio per te!
“Come sta il tuo
fidanzato?” Esordì, con tono nuovamente
malizioso.
Mi ci vollero alcuni secondi per
capire che stava parlando di
Matteo. “Beh, come vuoi che stia? Ha metà della
faccia completamente viola, e
quasi non riesce ad alzarsi dal letto!” Esclamai, forse con
troppa animosità:
non ero arrabbiata perché aveva picchiato Matteo, ma
perchè era il principio
che mi faceva infuriare. “Era necessario pestarlo a quel
modo?”
Gli occhi di Enrico si ridussero
a due fessure, e per un
attimo vidi lo stesso sguardo minaccioso che aveva rivolto al mio amico
quella
notte, in discoteca. “Lo avevo avvisato, è stato
stupido da parte sua uscire da
solo.” La sua voce tremenda mi fece rabbrividire.
“E credi che questo sia
normale?” Sbottai, senza pensarci.
“Dì un po’, picchi tutti quelli che
minacci, così, per il semplice gusto di
farlo?”
Lui però non mi
rispose. Mi stava fissando con uno strano
sorriso stampato sul volto, come se si fosse appena reso conto di
qualcosa che
lo rendeva incredibilmente felice. “Lui non è il
tuo ragazzo.” Disse: non era
una domanda. “Non sei preoccupata per lui, ti da
semplicemente fastidio che io
l’abbia picchiato. Non è
così?”
Non seppi cosa rispondere: era
assurdo, come l’aveva capito?
“E se anche fosse?” Replicai, decidendo che era
meglio reagire che farsi vedere
spaventata.
Scrollò le spalle,
disinvolto, rivolgendomi poi un sorriso
che fu senza dubbio il più sincero che avessi mai visto sul
suo viso. “Mi fa
piacere che tu non sia fidanzata.”
Quella frase sussurrata mi fece
mio malgrado arrossire.
Distolsi lo sguardo da lui, portandomi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio
in un gesto che, ne ero sicura, mi faceva sembrare una ragazzina timida
e
imbarazzata: il che non si allontanava molto dalla verità,
ma era un gesto che
facevo in continuazione quando ero agitata o mi sentivo a disagio. Oh
mamma.
“Questo non fa nessuna
differenza.” Replicai, sforzandomi di
ignorare il tono in cui aveva pronunciato le ultime otto parole.
“O almeno, non
la fa per te. Prima o poi si accorgeranno che non sono rientrata a
casa, e
quando verranno a prendermi andrò subito dai carabinieri a
raccontare che razza
di delinquente tu sia!”
Purtroppo, la mia
‘velata’ minaccia non sortì alcun tipo
di
effetto. Anzi: Enrico si mise a ridere come se avessi raccontato la
barzelletta
più divertente del mondo, e fu costretto a posare il
bicchiere sul tavolino che
separava la sua poltrona dal divano nel quale ero seduta per non
rovesciarsene
il contenuto addosso. Sicuramente il mio sguardo fu talmente furioso e
offeso
dalla sua reazione che si costrinse a ricomporsi, tornando serio ed
impeccabile
e mantenendo solo uno sguardo allegro. Ero l’unica ad essere
arrabbiata? Molto
sicuramente, si.
“Perdonami, non avevo
intenzione di mancarti di rispetto.” A
quella frase sussurrata sgranai impercettibilmente gli occhi, stupita
da quelle
parole. Per essere un delinquente parlava in modo piuttosto forbito.
“Ma non
crederai davvero di andare a denunciarmi, vero? So che non lo
farai.”
Questa volta spettò a
me ridere, anche se lo feci con molta
più amarezza. “Ne sei davvero sicuro?”
Ribattei. “Fossi in te non ci conterei
troppo.”
A quel punto si alzò
dalla poltrona e venne a sedersi accanto
a me, incurante del fatto che mi fossi allontanata da lui il
più possibile. Mi
imprigionò con le braccia contro lo schienale del divano,
nell’angolo del
bracciolo, in modo da impedirmi di alzarmi o anche solo di spostarmi di
qualche
centimetro. Era vicino, accidenti. Troppo vicino.
Deglutii.
“I tuoi amici non sanno
dove sei, però loro sono al sicuro.”
Mormorò, avvicinando le labbra al mio orecchio e facendomi
rabbrividire con il
suo caldo respiro. “Cerca di fare in modo che rimangano
tali… Se mi disobbedisci
in qualsiasi modo, farò loro del male, e ti assicuro che
sembrerà un
incidente.”
Parlava come farebbe un amante
nell’intimità di una camera da
letto, con la stessa voce calda e rassicurante, leggermente roca:
eppure le sue
parole erano tutto fuorché rassicuranti. La sua era una
minaccia bella e buona;
non era ricorso a metafore complicate per farmi capire che, qualsiasi
cosa io
avessi fatto di sbagliato e che lo avesse innervosito o fatto
arrabbiare, lui
non avrebbe esitato a far del male ai miei amici. Prima di allora avevo
sempre
creduto che tutte le storie che si raccontavano sulla famiglia Occhi
Belli
fossero delle semplici leggende metropolitane dettate
dall’invidia che la
maggior parte delle persone del paese nutriva nei loro confronti, e
perciò, in
quanto tali non bisognava prenderle troppo sul serio.
Ma forse mi sbagliavo. In fondo,
Enrico non si era messo
troppi scrupoli a picchiare un mio amico per il semplice fatto che
aveva osato
rispondergli. Che razza di creatura senza cuore poteva mai essere?
Avevo l’impressione che
il cuore volesse uscirmi dal petto,
da quanto stava battendo furioso. Mi limitai ad annuire, senza
guardarlo, senza
osare perdermi in quei bellissimi occhi verdi come il mare in tempesta
e
altrettanto pericolosi… Eppure non riuscii ad impedire ai
miei di trattenere le
lacrime. Ero davvero troppo, troppo spaventata. Anzi, a dire il vero le
sue
ultime parole mi avevano letteralmente terrorizzata.
Cosa di cui lui si accorse.
Mi portò due dita
sotto il mento, sollevandomi il volto in
modo che lo guardassi. Non volevo che mi vedesse piangere, ma non potei
fare
nulla per oppormi. La sua minaccia bruciava ancora.
“Non piangere,
tesoro.” Quello che mi stupì fu che non
c’era
traccia di scherno nella sua voce, ma solo una sincera e dolce
preoccupazione.
“Se ti comporterai bene non ci sarà nessun bisogno
di essere cattivo. Devi solo
fare da brava, e voglio che tu mi prometta che non proverai a scappare
in
nessun modo. La campagna che c’è qui intorno
può essere molto più pericolosa di
me, te lo assicuro.”
Rinunciai ad asciugarmi le
lacrime e lo guardai con
decisione, cercando di non far tremare la mia voce. “Cosa
vuol dire che devo
fare da brava? Hai intenzione di violentarmi e pensi che io te lo
lascerò fare
senza neppure provare a difendermi? Sei davvero uno stupido se lo
credi!”
A quelle parole si
allontanò da me come se lo avessi colpito
con uno schiaffo, osservandomi con un’espressione
sinceramente ferita e
confusa. “Violentarti?” Ripeté a bassa
voce, come se non credesse a quello che
avevo appena detto e stesse cercando una conferma da me. Io
però tacqui,
limitandomi ad osservarlo disgustata.
“Non ho nessuna
intenzione di abusare di te! Come puoi
credermi capace di fare una cosa simile?” Esclamò
poi, mettendo nuovamente una
bella distanza tra me e lui.
“Io non ti conosco, non
so chi sei.” Replicai, senza staccare
gli occhi da lui. “E se non è per questo, allora
si può sapere perché accidenti
mi hai fatta rapire e portare in questo posto sperduto?”
“Te l’ho
detto,” mormorò, tornando a sedersi sul bracciolo
della poltrona. “Volevo rivederti, e volevo anche…
uscire… con te.”
Quell’ultima frase mi
fece davvero restare a bocca
aperta. “Non… Non potevi semplicemente…
chiedermelo?” Chiesi, raddrizzandomi ed
eliminando le ultime stille salate dalle mie guance. Non riuscivo a
credere che
la conversazione avesse preso quella piega.
Enrico scosse la testa.
“Non sapevo come trovarti, e inoltre…
Volevo essere certo che non mi avresti dato una risposta
negativa.”
Oh, ma certo, adesso
sì che si spiegava tutto! Come avevo
fatto a non capirlo subito? L’ultimo discendente della
famiglia più potente e
temuta di tutta la regione mi aveva fatta rapire e portare in una
vecchia villa
abbandonata da Dio perché aveva paura che, se mi avesse
chiesto di uscire in circostanze
normali, avrei potuto rispondergli di no! Mio Dio,
in che razza di
situazione ero finita!
Credo di essere rimasta per una
manciata di interminabili
secondi in silenzio, seduta, senza quasi respirare. Ma poi scossi la
testa, mi
alzai e sollevai il capo per affrontarlo.
“Okay, basta. Credo di
averne avuto abbastanza, per
stanotte.”
“Vuoi andare a
letto?” Chiese, con assoluta ingenuità.
Io sospirai, ormai completamente
esasperata. “Mio Dio, no!
Voglio che mi riporti subito a casa! Ti lascerò il mio
numero di telefono, se
proprio ci tieni, ma non ho nessuna intenzione di passare la notte qui,
né ora
né mai! Perciò, per favore,
prendi la macchina e portami a casa. O, se
tu non ne hai voglia, fammi uscire da qui e chiederò a
Stefano di
accompagnarmi.”
La sua espressione non mi piacque
per niente. Temetti che
stesse per mettersi ad urlare, furioso, o che chiamasse i suoi amici
per
legarmi e portarmi di peso in un qualche sotterraneo con celle
segrete…
Insomma, in quei pochi secondi pensai ad infinite e possibili sue
reazioni. Ma
neanche una si avvicinò a quello che fece lui.
Chiuse un secondo gli occhi,
prese un bel respiro e poi,
quando il suo sguardo si posò nuovamente su di me, mi
sorrise. Io tremai.
“Non
c’è nessun bisogno di chiedere a Stefano, ti posso
accompagnare io.” Si avvicinò ad un tavolino di
legno sul quale facevano bella
mostra di sé delle bottiglie di vino e degli aperitivi, e
con molta naturalezza
versò in due bicchieri di vetro un po’ di questi
ultimi, creando un liquido
rosso che già conoscevo.
“È un Red
Heart, ti ricordi?” Sorrise, porgendomelo.
“Facciamo un piccolo brindisi a questo nostro incontro e poi
ti accompagno a
casa. Va bene?”
Non ne ero molto sicura, ma in
fondo un piccolo sorso del mio
aperitivo preferito non avrebbe certo fatto cascare il mondo. Presi il
bicchiere dalla sua mano, e poi me lo portai alle labbra. Non era
molto, così
con due sorsi lo terminai.
Enrico ora mi stava guardando con
una strana malinconia nello
sguardo. “Non volevo arrivare a questo, Giulia. Mi
dispiace.” Mormorò,
prendendomi il bicchiere ancora freddo dalle mani per poi posarlo sul
tavolino.
Non compresi le sue parole, ma
dopotutto non ebbi il tempo di
dire o fare qualsiasi cosa. Sentii un feroce mal di testa, che giudicai
colpevole anche della strana sensazione di pesantezza delle
palpebre… Che cosa
mi stava succedendo? Avevo sonno… Tanto sonno…
La vista mi si annebbiava, e
persino le gambe divennero più
deboli, fino a quando non cedettero.
Prima che il buio e
l'oscurità mi inghiottissero, credetti di
sentire un paio di braccia forti e muscolose afferrarmi prontamente in
modo da
non farmi cadere per terra, ma era come il ricordo di un sogno,
perciò non ne
fui molto sicura…
Sentii il calore del suo corpo
contro il mio, e poi tutto
diventò nero.
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Capitolo 8 *** Capitolo VIII. ***
Ringraziamenti!!
Ecco il nuovo capitolo! La storia sta diventando sempre più
torbida +____+ muahahaha xD In realtà, Enrico sarebbe dovuto
essere il "bastardo" per eccellenza, ma si sta forgiando in modo troppo
dolce >___< prima o poi dovrò rimediare u.u
Comunque!! Voglio ringraziare ChasingTheSun,
Silvietta,
Vale728,
claudina cullen,
valespx78,
nimi_chan,
SweetCherry,
Bastard87,
morbidina
e Merry NIcEssus
che hanno commentato il capitolo precedente, e poi di nuovo chi mi ha
aggiunta tra le preferite e le seguite :.) vi adoro!!
Spero di non deludervi con questo capitolo, perdonatemi se è
troppo corto é.è fatemi sapere!
Buona lettura!
Smack :*
Capitolo VIII
Il giorno dopo mi svegliai con un
incredibile mal di testa.
Mi avvolsi nelle lenzuola,
mugugnando infastidita, cercando
di tornare al confortante torpore del sonno senza tuttavia riuscirci.
Allora
aprii lentamente gli occhi, portandomi però una mano a
coprirli quasi subito a
causa della luce che entrava dalla porta finestra di fianco al letto, e
che mi
aveva quasi accecato. Mi sembrava di essere reduce da una sbronza
colossale,
eppure non ricordavo di aver mai esagerato con le bibite…!
Feci capolino da sotto le
coperte, per dare un’occhiata in
giro e controllare chi era stato ad aprirmi le tende. Tuttavia, non
appena misi
il naso fuori dal letto mi accorsi che c’era qualcosa che non
andava, e che non
coincideva assolutamente con gli ultimi ricordi che serbavo della mia
stanza.
Tanto per cominciare, il mio
letto non aveva la testata in
ferro battuto!
Quando mi accorsi finalmente che
il letto in cui avevo
dormito non era il mio, balzai subito a sedere, avvolgendomi il
lenzuolo
attorno al corpo e guardandomi intorno piuttosto spaesata. Una poco
gentile
imprecazione mi sfuggì dalle labbra nel capire che,
sfortunatamente, quello che
mi era accaduto la notte prima non era stato il frutto di un sogno
troppo movimentato.
Mio Dio, mi trovavo ancora
prigioniera di Enrico?
Il mio sguardo saettò
immediatamente lungo il mio corpo,
facendomi accorgere con un misto di ira e imbarazzo del fatto che stavo
indossando solo la biancheria intima.
Lo uccido, giuro che lo uccido, pensai, fumante di rabbia.
Con cautela scesi dal letto, che
era anche piuttosto alto, e
mi avvolsi bene nel lenzuolo per evitare di essere sorpresa in quelle
condizioni. Non appena mi misi in piedi, però, un violento
capogiro mi fece
piombare nuovamente sul materasso, costringendomi ad aspettare una
manciata di
minuti che passasse. Accidenti a lui, chissà che cosa mi
aveva fatto bere
insieme a quell’aperitivo; era sicuramente per quello se
avevo quel terribile
mal di testa.
Alla fine mi alzai con un
grugnito, massaggiandomi le tempie
e poggiando una mano alla parete per evitare di barcollare e cadere.
Accanto
all’armadio c’era una porta, ed escludendo che
fosse quella di ingresso alla
camera, visto che questa si trovava dalla parte opposta della stanza,
supposi
che si trattasse di quella del bagno. La raggiunsi e, con sollievo,
scoprii di
non essermi sbagliata.
Il bagno era molto grande, con le
pareti piastrellate di
bianco e arancione e dotata di un divisorio in muratura che separava la
doccia
e la vasca. Con un sospiro chiusi a chiave la porta alle mie spalle e
mi
preparai l’occorrente per farmi una bella doccia
rinfrescante. Avevo bisogno di
essere lucida per poter nuovamente affrontare il mio carceriere alla
luce del
sole.
Quando ormai decisi di aver
finito, avevo i polpastrelli
delle dita completamente ammorbiditi. Mi avvolsi in un corto
asciugamano bianco
e mi frizionai i capelli con un altro, ricordandomi solo allora di aver
dimenticato i miei vestiti nell’altra stanza. Quando mi ero
svegliata ero troppo
nervosa e non li avevo visti, ma ero sicura di trovarli poggiati da
qualche
parte.
Aprii la porta del bagno e tornai
in camera da letto.
Mi sfuggì un grido.
Sul letto, morbidamente sdraiato
sopra le lenzuola che erano
rimaste, c’era Enrico. Con le braccia incrociate dietro la
testa e le gambe
accavallate sembrava l’immagine stessa
dell’innocenza e della tranquillità, ed
era proprio questa l’espressione che aveva quando si
voltò pigramente ad
osservarmi. Sorrise, ed io non potei fare a meno di arrossire.
“Che cosa ci fai
qui?” Sbottai, senza osare avvicinarmi al
letto. Tuttavia se volevo andare alla ricerca dei miei vestiti sarei
dovuta
passargli proprio davanti, ma non ne avevo nessuna intenzione, visto e
considerato che al momento stavo indossando solo un asciugamano che mi
copriva
a malapena fino a metà coscia.
Il suo sorriso si
allargò ulteriormente mentre mi rispondeva.
“Sono venuto a svegliarti, visto che sono già le
nove e mezza e tu non sei
ancora scesa a fare colazione. Mi stavo preoccupando.” Poi il
tono della sua
voce cambiò, diventando improvvisamente serio.
“Temevo di aver esagerato con
quel sonnifero, ieri…”
“Ah, allora non me lo
sono sognato! Mi hai davvero drogata!”
Esclamai, mentre la rabbia che si era in parte dissolta sotto la doccia
riaffiorava,
più decisa di prima.
“Mi hai costretto tu a
farlo.” Mormorò cauto, raddrizzandosi
e rimanendo seduto in modo più composto sul letto.
Io incrociai le braccia sul
petto, un po’ perché se non
l’avessi fatto sarebbe prevalsa in me la tentazione di
prenderlo a schiaffi e
un po’ perché altrimenti l’asciugamano
avrebbe rischiato di scivolare per
terra. E rimanere nuda davanti a lui era proprio una di quelle cose che
volevo
evitare, se possibile!
“Certo, che stupida
sono stata a chiederti di riportarmi a
casa!” Replicai, per nulla intimidita. “E dimmi un
po’, spogliare una ragazza
indifesa e priva di sensi fa parte dei tuoi hobby preferiti?”
Vidi che gli angoli della sua
bocca si piegarono lievemente
all’insù, ma poi mi rispose senza nessuna traccia
di divertimento nel tono.
“Credo che dormire vestiti sia piuttosto scomodo, soprattutto
per una ragazza.”
Rispose, gentilmente. “Mi dispiace di non averti messo un
pigiama, ma purtroppo
non ne avevo. Ad ogni modo, sono stato attento a non indugiare troppo a
lungo
nello spogliarti, per quanto fosse un’attività
alquanto piacevole, lo ammetto…
Ma ho fatto tutto al buio. Magari questo ti fa stare un po’
meglio.”
Mio Dio. A domanda
scema…
Ormai avevo perso il conto delle
volte che ero rimasta senza
parole davanti a lui, e questo era comunque abbastanza grave, visto che
quella
era solo la terza volta che gli rivolgevo la parola. Non seppi cosa
replicare:
dopotutto, che cosa si risponde ad un ragazzo che confessa con tutta
tranquillità di aver trovato piacevole toglierti i vestiti
di dosso? Credevo di
essere talmente rossa in viso da poter fare concorrenza ad un pomodoro;
mi
sentivo le guance in fiamme.
“Non… Non
preoccuparti per il pigiama.” Balbettai alla fine,
incapace di dire qualcos’altro di più sensato.
“Non lo uso mai.”
Rimase in silenzio per un attimo,
poi rise, piano. “Credo che
tu sia l’unica ragazza che dorme senza il pigiama!”
Esclamò, guardandomi con
gli occhi che brillavano, divertiti.
Arrossii ancora di
più. “Si, me l’hanno già
detto.” Mormorai.
Distolsi lo sguardo da lui ma mi
accorsi con la coda
dell’occhio che si era alzato dal letto per dirigersi verso
una poltroncina che
prima non avevo notato.
“Ti ho portato dei
vestiti per cambiarti.” Dichiarò,
prendendo della roba accuratamente piegata tra le mani e tornando verso
di me
per porgermela.
Non so come riuscii
nell’acrobazia di prenderla dalle sue
mani, aprirla per guardarla e contemporaneamente riuscire a non
sciogliere il
nodo dell’asciugamano. Comunque, il pericolo aguzza
l’ingegno, e immagino che
fosse per questo che ci riuscii tranquillamente.
“Dovrei indossare questa
cosettina?” Esclamai stupita,
osservando un vestitino appena più lungo
dell’asciugamano che stavo indossando,
di uno sgargiante blu elettrico e a dir poco scollato. Era uno di quei
vestitini
che si potrebbero indossare per andare al mare, non certo per
gironzolare nella
casa del proprio rapitore, circondata da maschi di tutte le specie e le
età!
“Purtroppo è
l’unica cosa che ho.” Disse scrollando le
spalle, per nulla dispiaciuto. “Almeno è
più comodo di quei pantaloni che
indossavi ieri notte, no?”
“Si,
ma…”
“Allora non vedo quale
sia il problema.” Sorrise, poi fece un
altro paio di passi nella mia direzione fino a trovarsi ad una distanza
per
niente rispettabile da me. Fui costretta ad indietreggiare, ma
incontrai il
muro e lui mi imprigionò molto facilmente contro di esso.
“Hai paura?”
Sussurrò contro la mia pelle, sorridendo in un
modo che mi ricordò parecchio l’espressione
compiaciuta di un leone che ha
appena catturato la sua preda e si appresta ad assaggiarla. Non mi
sarei
stupita se avessi visto delle zanne spuntargli da quel bel sorriso.
Il mio respiro si fece
più accelerato ed irregolare, e
sicuramente lui se ne accorse, visto che quello stupido asciugamano
rivelava
più che coprire. “Dovrei averne?”
Mormorai.
Lui posò le labbra
appena sotto il mio orecchio, accarezzando
la pelle ancora umida e facendomi venire la pelle d’oca lungo
tutto il corpo.
Potevo sentire chiaramente il suo odore, era un profumo dolce e al
contempo
frizzante, di dopobarba… Mi odiai profondamente per quello
che pensai in quel
momento, ma quel profumo mi piaceva…
“No…”
Sussurrò ancora, la voce improvvisamente roca. Le sue
mani premevano forte contro il muro, come se si stesse sforzando di
tenerle
pressate contro la parete per non farle scivolare a sfiorare altro.
“Non voglio
farti del male…”
Depositò sul mio collo
una scia di baci lenti e casti come se
mi volesse realmente assaggiare, e io rimasi immobile, senza neppure
cercare di
allontanarlo, perché in verità non avrei mai
voluto che si fermasse. Dalle mie
labbra sfuggì invece un inconfondibile gemito di piacere e
chiusi gli occhi,
imbarazzata per non essere riuscita a mordermi le labbra piuttosto che
fargli
capire quello che stavo provando. Quando si allontanò da me
quel tanto che
bastava per potermi osservare in viso, sorrise, compiaciuto, e mi
rivolse uno
sguardo reso torbido dal desiderio. Deglutii: questa volta ero davvero
spaventata.
“Hai un dolcissimo
profumo…” Mormorò, abbassando lo
sguardo
per posarlo sulle mie labbra.
Ma io avevo ritrovato abbastanza
lucidità per potermi
maledire in silenzio, e con la stessa determinazione posai le mani sul
suo
petto e lo costrinsi ad allontanarsi, cosa che, grazie al Cielo, fece
senza
opporsi.
“Vattene.”
Dissi, non senza tentennare. “Mi devo vestire.”
Lui annuì, prendendo
un profondo respiro come per richiamare
a sé il suo autocontrollo. “È
un’ottima idea.” Ammise. La sua voce sembrava
essere tornata normale. “Non credo di riuscire a trattenermi
ancora, se rimani
così…”
Prima che potessi replicare
ulteriormente mi sfiorò la fronte
con un piccolo bacio, poi sorrise e raggiunse la porta. “Ti
aspetto in sala da
pranzo, non dovrebbe essere difficile da trovare.” Disse,
voltandosi ancora
verso di me. “Fai in fretta.” Aggiunse, con un
altro sorriso. Poi uscì.
Una volta rimasta sola potei
riprendere a respirare
normalmente, sentendo il forte peso della tensione sulle mie spalle che
scivolava lentamente via. Mi gettai sul letto, notando che le mie mani
stavano
ancora tremando, e con cautela ne sollevai una per sfiorare il punto
dove mi
aveva baciata.
Dio, in che razza di incubo ero
finita? La notte prima Enrico
aveva sottolineato con forza di non avere nessuna intenzione di abusare
di me
in qualsiasi modo, eppure non volevo credere che quello fosse il suo
normale
modo di augurare il buongiorno ai suoi ‘ospiti’.
Avevo il cuore che batteva
ancora all’impazzata, nervoso, ma temetti che non fosse solo
per la paura: era
normale desiderare, seppur in minima parte, il ragazzo da cui si era
stati
rapiti?
Certo che no!, pensai con forza,
nascondendomi il volto tra le mani. Non sapevo che cosa fare,
accidenti, sapevo
che avrei dovuto odiarlo, e forse l’avrei anche preso a
schiaffi, se… Oh, se che
cosa? Aveva già minacciato di far del male ai miei
amici se avessi provato
a contraddirlo in un qualche modo. Non potevo fare molto, da
sola… Solo
aspettare. Se Alessandra aveva capito il mio messaggio, allora non
avrei dovuto
attendere molto prima della mia liberazione. E poi c’erano i
miei genitori,
sicuramente a quel punto si sarebbero dovuti accorgere della mia
sparizione,
anche se in teoria avrei dovuto dormire dalla mia amica!
Insomma, c’erano tutta
una serie di prospettive che mi faceva
sperare in positivo. Inoltre, se io non avessi fatto nulla per
liberarmi, se
non attendere l’arrivo della
‘cavalleria’, Enrico non avrebbe nemmeno potuto
attuare la sua minaccia. O, almeno, questo era quello di cui stavo
cercando
disperatamente di convincermi.
Con un sospiro mi alzai dal
letto, togliendomi l’asciugamano
e rivestendomi con quel quadratino di stoffa che mi aveva portato lui.
Non era
molto corto, in effetti, però era troppo scollato. Va beh,
pazienza, tanto non
avrei dovuto indossarlo ancora per molto, se le mie speranze si fossero
rivelate esatte.
Mi asciugai i capelli e, quando
pensai di essere finalmente
presentabile, uscii alla ricerca della sala da pranzo. Speravo solo che
i
bollenti spiriti di Enrico si fossero già placati.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo IX. ***
Ciao a
tutte!!
Perdonatemi
per il ritardo nello postare questo capitolo, ma ho avuto
un brutto calo di ispirazione che spero non si ripeta più..!
:(
Ad ogni
modo, ora non mi dilungherò troppo e vi
lascerò alla lettura, spero che sia di vostro gradimento
anche se ci ho messo un pò troppo a scriverlo e non ne sia
molto convinta.... è un capitolo di transizione, ma ci
stiamo avvicinando al punto clou..! :) Fatemi sapere!!
Vi
ringrazio tantissimo, un abbraccio!!
Smack :*
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Capitolo
IX
Entrai in sala da pranzo convinta
di trovarci tutta l'allegra combriccola di Enrico riunita intorno al
tavolo. Beh, mi sbagliavo.
La stanza non era molto grande,
ma possedeva un’immensa
vetrata nella parete frontale alla porta e le tende color panna tirate
per far
entrare la luce calda del sole. Di fronte alla vetrata c’era
il tavolo, in
pesante mogano scuro, con due sottopiatti arancioni e un vaso di vetro
con dei
fiori colorati. A destra, separata dalla zona pranzo con un basso
muretto in
pietra, c’era la cucina, una moderna cucina ultra
accessoriata.
Qui, rivolto verso i fornelli,
c’era Enrico.
Degli altri ragazzi non
c’era neanche l’ombra.
Quando richiusi la porta con un
leggero tonfo, Enrico si
voltò verso di me, sorridendomi. Mio Dio, aveva davvero il
più bel sorriso che
avessi mai visto.
Cercando di ignorare il leggero
brivido che avevo provato nel
vedere quel sorriso, avanzai e mi avvicinai alla cucina, poggiando i
gomiti sul
ripiano in legno del muretto. Osservai curiosa quello che stava
cucinando il
mio ‘carceriere’: chissà
perché ero convinta che avesse delle governanti che si
occupavano dei pasti
e delle pulizia, ed
ero piuttosto sorpresa nel constatare che invece era lui a cucinare.
Okay, non
che fosse particolarmente difficile mettere a bollire il latte!
“Quel vestito ti sta
proprio bene.” Affermò ad un certo
punto, dando le spalle ai fornelli e poggiandosi sul ripiano della
cucina,
incrociando le braccia come a volermi studiare attentamente.
Io sostenni il suo sguardo,
cercando di ignorare il modo
insistente in cui mi stava fissando. L’importante era che non
gli tornasse la
tentazione di alzare le mani, come era successo prima, in
camera… A quel
ricordo avvampai, ma sperai sinceramente che lui non se ne fosse
accorto.
“Credevo che a
colazione ci fossero anche i tuoi amici.”
Dissi invece, decidendo fosse più saggio cambiare
l’argomento.
Lui sorrise nuovamente.
“Sono le dieci passate, loro hanno
già fatto colazione da un pezzo. E poi se ne sono
andati.” Rispose, scrollando
quasi indifferente le spalle.
A quell’informazione,
istintivamente, mi irrigidii. “Vuoi
dire che ci siamo solo tu ed io?”
Enrico
annuì, guardandomi come se avesse voluto trapassarmi da
parte a parte con i suoi magnetici occhi verdi. Ricordavano lo
smeraldo, ora che ci pensavo. "Si, solo tu ed io." Ripeté:
non mi piacque per niente il tono roco e profondo che assunse la sua
voce. "Ti da fastidio?"
Se avessi detto di si sarebbe
forse cambiato qualcosa? “No,”
risposi pertanto. “Purché tu tenga le mani a
posto.” Specificai subito dopo, in
modo che non si facesse strane idee.
Stranamente, lui rise, ma la cosa
ormai non mi infastidì più
di tanto. Difficile da credere, eppure stavo iniziando ad abituarmi al
suo
strano modo di fare.
“Come vuoi.”
Concesse, senza smettere di sorridere
compiaciuto. “Eppure non mi è sembrato che il mio
tocco ti fosse sgradito,
prima…” Aggiunse in un sussurro, facendomi
sgranare gli occhi e arrossire come
una bambina.
Grazie al Cielo mi ripresi
abbastanza in fretta. “Vuol dire
che la prossima volta ti darò uno schiaffo, se rifai una
cosa del genere.”
Replicai fredda, incrociando a mia volta le braccia.
Lui sollevò le mani in
segno di resa. “Hai ragione, scusami.
È stato poco delicato dirlo.”
Si era scusato? Wao! Questa si
che valeva la pena scriverla
sul calendario! Il grande leone che chiede scusa alla sua preda,
proprio
carina.
Il mio sguardo tuttavia dovette
lasciar trapelare la mia
diffidenza, perché lui si sentì in dovere di
aggiungere qualcosa a sua difesa.
“Parlo sul serio. Non ti toccherò più,
a meno che non sia tu a volerlo… È una
promessa.”
Lo fissai per un attimo in
silenzio, poi sospirai ed annuii.
“Grazie…” Tanto sapevo benissimo che non
avrei mai osato chiedere una cosa del
genere! Dunque potevo dormire sonni tranquilli.
Quando mi diede le spalle per
tornare ad armeggiare con
l’occorrente per la colazione mi voltai anch’io,
andando a sedermi a tavola. Se
fosse stato un altro l’avrei aiutato senza pensarci due
volte, ma voglio dire,
perché facilitare il compito al proprio carceriere? Volevo
che si stancasse il
prima possibile di me, in modo da farmi tornare a casa senza
più nessuna
intenzione di cercarmi.
Sarebbe stato troppo bello.
“Ecco qua.”
Disse, raggiungendomi a tavola con un vassoio
pieno di dolci di vario tipo. “Ora ti porto il latte e il
caffè.”
Un pensiero simile a quello che
avevo avuto poco prima mi
balenò in mente: accidenti, se fosse stato un altro
l’avrei sposato senza
pensarci due volta! Dove l’avrei ritrovato un altro ragazzo
che mi preparasse
una colazione così splendida? Okay, forse era la fame a
parlare per me.
Quando tornò mi
accorsi che anche lui doveva ancora mangiare:
infatti aveva portato due tazze da caffelatte che posò
rispettivamente prima
sul mio e poi sul suo sottopiatto, ma prima di servirsi si
occupò di me. Versò
gentilmente il latte e il caffè caldo nella mia tazza,
porgendomi poi lo
zucchero, e solo allora si sedette per prepararsi la sua.
Mangiammo in silenzio, io avevo
troppi pensieri per la testa
e non ero in grado di sostenere una conversazione con chicchessia.
Tuttavia non
potevo continuare a ignorare una domanda che mi bruciava in gola sin da
quando
avevo aperto gli occhi, quella mattina, così, dopo un breve
sorso di
cappuccino, sollevai gli occhi su di lui e parlai.
Anche lui dovette avere
un’idea simile, perché parlammo
contemporaneamente.
“Hai dormito
bene?” Lui.
“Quando hai intenzione
di riportarmi a casa?” Io.
Tacqui, incerta se ridere o
innervosirmi, ma il suo sorriso
decise per entrambi.
“Vuoi che ti riporti a
casa?” Chiese leggermente divertito,
allungando la mano a prendere dei biscotti e guardandomi con la coda
dell’occhio. “Il letto era così
duro?”
“No, no, il letto era
perfetto.” Fui costretta ad ammettere,
seppur a malincuore. Non avevo intenzione di discutere della morbidezza
del mio
letto con lui, ma sembrava che la cosa non gli facesse effetto; o forse
era
solo molto bravo a nascondere le sue emozioni. Va beh. “Ma
ciò non toglie che
voglio tornare a casa mia. Ieri alla fine si è fatto come
hai deciso tu, ho
dormito qui, ma non voglio che questa cosa si ripeta. Tra
l’altro non ti ho
disobbedito, anche se non per mia volontà, e quindi non
dovrai neppure
prendertela con i miei amici. Poi i miei genitori si preoccuperanno, e
se non
torno a casa sono anche capaci di andare dai carabinieri! E siccome tu
questo
non lo vuoi, penso che ti convenga riportarmi a casa prima di
pranzo.”
Ecco, avevo detto quello che
dovevo. Mi sentivo quasi più
leggera nell’avergli fatto quel piccolo discorsetto, e ora
non restava che
attendere la sua risposta… Anche se sembrava un
po’ restio a darmela. Mentre parlavo
mi aveva osservato con uno sguardo apparentemente tranquillo, i gomiti
poggiati
sul tavolo e il mento posato su una mano. E quando tacqui rimase ad
osservarmi
ancora a lungo, prima di sospirare, socchiudere gli occhi e prendere un
profondo respiro.
Poi rispose. “Il punto
è che io non voglio che tu te ne
vada…” Mormorò, guardandomi dal di
sotto delle lunghe e folte ciglia nere. Io
non parlai, e lui continuò. “Se te ne vai, non
vorrai più rivedermi, e questo è
abbastanza comprensibile… Ma io non penso di riuscire ad
accettarlo. Anzi, so
già che non lo farò. E…”
Distolse per un attimo gli occhi da me, lasciandoli
vagare per la stanza, prima di farli ritornare decisi sul mio volto.
“…non
voglio ricorrere alle maniere forti con te. Perciò non
obbligarmi a farlo.”
Sgranai leggermente gli occhi,
allontanandomi dal tavolo e
scuotendo la testa. Ero abbastanza colpita dalle sue parole, ma la
piega che
aveva preso il suo discorso non mi convinceva per niente.
“Non riesco a capire il
tuo discorso!” Replicai, infatti.
“Prima dici che non vuoi usare le maniere forti per
trattenermi qui, poi però
ti contraddici dicendo che non esiterai ad usarle se me ne vado! Ma che
cosa
vuoi da me!?”
Mi alzai dalla sedia, spinta da
un’improvvisa ondata di
rabbia impossibile da trattenere oltre. Avrei voluto piangere dal
nervoso, ma
non avrei risolto nulla: non avevo nessuna intenzione di dargli ancora
corda,
credevo di essere stata fin troppo accondiscendente con lui, e adesso
era tempo
che i giochi finissero!
Preoccupato, Enrico
aggrottò le sopracciglia, alzandosi
lentamente a sua volta e tendendo una mano per prendere una delle mie;
cosa che
io non gli permisi, ritraendomi. Sospirò. “Ti ho
già detto ieri notte che cosa
voglio…” Disse, parlando con calma.
Io strinsi i pugni.
“Si, me l’hai detto, e allora?” Replicai,
con tutta la dura freddezza che riuscii a mettere nelle mie parole.
“Che cosa
vuoi fare? Hai intenzione di tenermi qui fino a quando non mi
stancherò e verrò
a letto con te? Così ti sarai stancato e mi lascerai tornare
a casa, forse.”
Lo vidi esitare e trattenere il
respiro, come se non si
aspettasse la mia risposta e non sapesse che cosa ribattere a sua
discolpa. Poi
chiuse gli occhi, scuotendo la testa, e quando mi rivolse nuovamente lo
sguardo
vidi che sembrava sinceramente dispiaciuto. Dovevo ammettere che era un
grande
attore. “Credi ancora che ti voglia portare a
letto.” Mormorò, con una strana
incrinatura triste nella voce. Emise una breve e secca risata,
strofinandosi
gli occhi con la mano, poi tornò a guardarmi.
“È vero, non voglio nasconderti
che lo desidero più di qualunque altra cosa.”
Io rabbrividii, ma lui
sembrò non accorgersene, o forse
decise di ignorare la mia reazione, perché
continuò imperterrito il suo
discorso. “Ma non voglio costringerti. Quello che voglio da
te è che
tu mi permetta di frequentarti, in modo
del tutto normale, ovviamente, come farebbero due
amici…” Il suo tono
all’improvviso cambiò d’umore,
diventando dolce e promettente. “Vorrei andare
al mare o guardare un film insieme a te, portarti a ballare in
discoteca,
invitarti a
cena… Mi ritieni davvero
così bastardo da impedirmi di cercare di… di
conquistarti?”
Sussurrò
l’ultima
parola, ma io la compresi benissimo. Ero arrossita? Senza alcun dubbio.
Dunque era questo che voleva, conquistarmi?
Stavo
sognando o mi stava succedendo davvero?
Distolsi lo sguardo, imbarazzata,
senza sapere che cosa dire.
Tornai a sedermi, e con la coda dell’occhio mi accorsi che
lui faceva
altrettanto. Enrico voleva cercare di conquistarmi. Era per questo che
mi aveva
fatta rapire, era per questo… che mi aveva baciata, quella
mattina.
Immaginavo che se lo avessi
assecondato per un po’ ,
uscendoci qualche volta, forse si sarebbe sentito soddisfatto e presto
si
sarebbe stancato di me… Dopotutto, credevo di non essere poi
quella gran
bellezza da giustificare un comportamento del genere. Magari era solo
un
ragazzino viziato abituato ad avere tutto ciò che gli
passava per la testa, e
non gli sarebbe andato giù che lo rifiutassi: per questo
aveva minacciato di
far del male ai miei amici se non gli avessi obbedito.
E in fondo, che cosa mi costava?
Scossi la testa, troppo stupita
per fare o dire qualunque
cosa. Sapevo che lui era in attesa di una mia risposta, ma io cosa
potevo
dirgli? Dovevo pensarci. Avevo bisogno di riflettere, maledizione!
Tuttavia, per fortuna o per
sfortuna, la nostra conversazione
venne interrotta.
Dal corridoio sentii provenire
dei passi veloci e decisi,
sicuramente maschili, seguiti da qualcuno che correva in modo piuttosto
nervoso. Anche Enrico dovette accorgersene perché
saltò subito in piedi,
fissando la porta con uno strano sguardo minaccioso a deturpargli il
viso
bellissimo. Forse aveva ordinato di non essere disturbato, e
evidentemente
qualcuno stava contravvenendo ai suoi ordini diretti. Mio Dio, il solo
pensarlo
mi fece accorgere dell’assurdità di tutta la cosa!
Nello stesso momento la porta
della sala da pranzo si aprì, e
l’intruso si fece avanti, entrando con decisione furiosa. Non
appena lo vidi
non mi trattenni dall’emettere un sospiro di sollievo e mi
alzai a mia volta,
sorridendo, pronta a raggiungerlo. Grazie al Cielo Alessandra mi aveva
capito!
Tuttavia Enrico mi
afferrò per il polso, trattenendomi e
attirandomi verso di lui, fissando con espressione cattiva Riccardo,
che
sembrava pronto a dare inizio ad una rissa.
“Tu non vai da nessuna
parte, Giulia.” Mormorò al mio
orecchio, in modo abbastanza alto da poter essere sentito
dall’altro ragazzo.
“Questo è
tutto da vedere, Enrico!” Replicò lui, avanzando
verso il centro della stanza. A quel gesto potei vedere, in piedi sulla
soglia
della porta, la mia amica che osservava la scena piuttosto preoccupata.
“Ale!” La
chiamai, sollevata e allo stesso tempo preoccupata
che si trovasse lì. Perché Riccardo
l’aveva portata con sé? Poteva essere pericoloso!
E se gli altri ragazzi non se ne fossero andati, ma stessero aspettando
un
cenno di Enrico per poter partecipare alla rissa? Riccardo sarebbe
finito
peggio di Matteo…!
“Che cosa ci fai qui,
Riccardo?” Domandò con calma il mio
carceriere, senza la minima intenzione di mollare la presa e lasciarmi
andare.
“Credevo ti disgustasse entrare in casa mia.”
“Lascia andare la
ragazza, Enrico.” Sibilò l’altro,
fissandolo con odio crescente.
Inaspettatamente Occhi Belli
scoppiò a ridere, stringendomi
maggiormente contro il suo petto e passandomi le braccia intorno alla
vita.
“Perché dovrei farlo? Di sicuro non
perché sei stato tu a dirmelo.”
Oh, bene. Se Riccardo non fosse
venuto, lui mi avrebbe
lasciata tornare a casa? Fantastico, davvero, soprattutto visto che
ora, per
una stupida questione di orgoglio, non l’avrebbe mai fatto.
Deglutii, lanciando uno sguardo
disperato alla mia amica.
Come diavolo ne saremmo usciti
adesso?
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Capitolo 10 *** Capitolo X. ***
Eccomi!!
Perdonatemi
il ritardo nello postare questo capitolo, ma man mano che la storia
prosegue diventa sempre più arduo dividere i capitoli e
decidere cosa scrivere in questo, cosa nell'altro.. >___<
Comunque,
forse dovrei esserci riuscita! Questo è un capitolo di
transizione - l'ennesimo, temo, vogliate perdonarmi! - e la
parte più interessante arriverà solo nell'11,
dove scopriremo qualcosa in più del nostro "cattivo" e del
suo ex compare... Basta, non dico nient'altro altrimenti vi rovino il
gusto della lettura!! =p
Ringrazio
ancora tutte coloro che mi recensiscono e che hanno la
pazienza di leggere i miei scarabocchi!! Un abbraccio a tutte!!
A
presto - mi auguro - con il prossimo capitolo, e adesso godetevi
questo!!
SmAcK!!!
=*
_____________________________________________________________________
Capitolo
X
Il mio sguardo si spostava a salti da Riccardo ad Alessandra, e da lei
ad Enrico.
Temevo davvero che Riccardo ed Enrico si sarebbero picchiati,
soprattutto visto che stavano per venire alle mani anche al bar,
l’ultima volta che li avevo visti insieme. Ma
perché? Perché sembravano odiarsi così
tanto? E adesso il mio rapimento era solo uno sciocco pretesto per dare
inizio alla lotta! E pensare che, se non fossero arrivati, forse avrei
potuto risolvere io stesso la situazione con Enrico, raggiungendo un
accordo… Accidenti!
All’improvviso, decisi tutto in un attimo: non ero disposta a
lasciarmi trattare come la fanciulla indifesa di un libro di qualche
secolo fa. Se Riccardo era pronto a battersi, bene, lo sarei stata
anch’io!
Con una mossa decisa del braccio riuscii ad allentare la presa di
Enrico, sgusciando via dalla sua stretta e allontanandomi da lui di
qualche passo. Mi avvicinai di più ai miei amici, ma per non
irritare troppo il mio rapitore rimasi al centro della stanza, a
metà strada tra i due.
“Non è davvero il caso di prenderla in questo
modo!” Esclamai, rivolgendomi questa volta a Riccardo.
“Non c’è nessun bisogno che vi
picchiate. Non è successo nulla di grave,
perciò…”
“Nulla di grave?!” Esclamò Alessandra,
avanzando verso di me. “Ma stai scherzando?
Geme…”
“Non è successo nulla di grave,”
ripetei, implorandola con lo sguardo di assecondarmi. “Adesso
noi ce ne andiamo, e nessuno picchierà nessuno!
Okay?”
Questa volta guardai dritta negli occhi Enrico, certa che lui avrebbe
cercato di raggiungere la faccia di Riccardo in un modo o
nell’altro.
Tuttavia la sua reazione mi sorprese. Dopo il fastidio iniziale causato
dalla brusca interruzione e dal mio
‘allontanamento’, sembrava essersi quasi
rassegnato. Annuì serio, poi sollevò le mani in
segno di resa. L’aveva già fatto, e sembrava
sincero.
“Come vuoi tu, Giulia.” Ammise, con calma. Era solo
una mia impressione, o la sua voce era davvero diventata più
morbida e dolce? “Immagino che possiate andarvene tutti,
visto che sono in netta minoranza.”
Sui nostri volti era già apparsa un’espressione di
sollievo e incredulità, ma purtroppo lui non
tardò a dettare le sue condizioni, anche se lo fece in modo
che solo io potessi capirle.
“Tu sai cosa voglio, Giulia.” Sussurrò
nella mia direzione, in modo che potessi sentirlo. “E non mi
arrenderò fino a quando non l’avrò
ottenuto. Ora potete anche andare, ma la cosa non finisce qui. So dove
posso trovarti, e so come fare per arrivare al mio scopo.”
Sorrise, e in quel momento mi sembrò realmente una belva
feroce. “Non puoi sfuggirmi.”
Non riuscii a rispondere niente, primo perché le sue parole
mi avevano davvero spaventata, e secondo perché non volevo
che i miei amici capissero a che cosa si stesse riferendo. Deglutii
senza riuscire a staccare gli occhi da lui, indietreggiando piano verso
la ‘cavalleria’. Quando raggiunsi la mia amica, lei
mi afferrò il braccio e mi attirò a
sé, guardando Enrico a sua volta spaventata.
“Ti conviene non cercare più di avvicinarla,
Enrico.” Sputò Riccardo con disprezzo,
raggiungendoci. “Altrimenti la prossima volta non
verrò da solo.”
Enrico rise, ma lo sguardo che lanciò al suo vecchio amico
fu di odio puro. Non avrei mai voluto essere la destinataria di un tale
sguardo… “Non sarà certo un traditore
come te ad impedirmelo!”
Successe all’improvviso, in pochi secondi: ebbi solo la vaga
sensazione di un movimento d’aria accanto a me e il rimbombo
di due corpi che si scontravano. Era stato così veloce e
così risoluto da spingermi da una parte e farmi cadere per
terra, e quando sbattei le palpebre per capire quello che era successo,
vidi Riccardo addosso ad Enrico, e quest’ultimo bloccare i
tentativi di colpirlo con le sole mani. Accidenti. Doveva allenarsi
molto per riuscire ad immobilizzare in quel modo un ragazzo
più o meno della sua stessa stazza.
Alessandra si precipitò accanto a me, dandomi una mano per
rialzarmi. Quando fui nuovamente in piedi, notai che Enrico aveva un
brutto taglio al labbro superiore, e quindi Riccardo doveva essere
riuscito a colpirlo! Non pensavo che un Occhi Belli glielo avrebbe mai
permesso.
Infatti, poi, non tardò a vendicarsi.
Lo vidi tendere tutti i muscoli delle braccia in modo da concentrare la
sua forza su di esse, e dopo una breve resistenza da parte del nostro
amico, riuscì a spingerlo e farlo barcollare. A quel punto
approfittò del fatto che Riccardo era distratto, per
raggiungerlo in due passi e colpirlo con un pugno all’angolo
della bocca, in modo da procurargli il suo stesso identico taglio.
Tuttavia mi accorsi che Enrico si era abbastanza trattenuto nel
colpirlo, perché ero più che certa che, se avesse
usato tutta la sua forza, Riccardo non sarebbe rimasto in piedi
così a lungo.
Ma quando lo vedemmo portarsi dolorante una mano alle labbra, io e
Alessandra non riuscimmo a trattenere un gemito, e subito lo
raggiungemmo per interrompere quell’assurda lotta.
Alessandra afferrò Riccardo per un braccio, riuscendo a
trascinarlo lontano dal suo antagonista e condurlo verso la
porta. Io invece rimasi immobile, fissando Enrico dritto negli occhi.
Ad essere sincera non mi dispiaceva per nulla che l’avesse
colpito, ma io rimanevo dell’idea che se Riccardo non fosse
intervenuto, io avrei potuto tranquillamente raggiungere un accordo con
lui, e nessuno si sarebbe fatto male.
Eppure, quando lo vidi passarsi la lingua sopra il taglio, leccandosi
il sangue senza distogliere lo sguardo da me, non riuscii a trattenere
un brivido di paura, e pensai che, in fondo, l’entrata eroica
dei miei due amici non era stata del tutto inopportuna.
Gli diedi le spalle, raggiungendo gli altri sulla porta, e prima che ad
Enrico potesse venire in mente di bloccarci un’altra volta,
la richiusi alle mie spalle senza neppure voltarmi indietro.
Per il momento l’avevo scampata, ma chi poteva dire fino a
quando?
Riccardo sembrava furioso.
Stringeva con forza il volante della sua auto, lo sguardo fisso sulla
strada e un lieve tremito che gli percorreva le mani contratte. Mi
voltai leggermente verso Alessandra, seduta nel sedile posteriore, per
scambiare con lei uno sguardo stupito e insieme preoccupato per la
reazione del ragazzo: speravo che lei avesse saputo spiegarmi qualcosa
di più, ma evidentemente ne sapeva quanto me.
“Stai bene, Riccardo?” Chiese lei dopo un
po’, mettendo in quelle poche parole tutta la calma di cui
disponeva.
Ma lui non aveva nessuna intenzione di calmarsi. “Posso
sapere perchè diavolo appena hai saputo che eri sola in casa
con Enrico non hai cercato qualcosa per spaccargli la testa?”
Ringhiò invece, voltandosi appena verso di me.
“Saresti potuta fuggire, e avremmo evitato questa ridicola
messinscena!”
“Stavamo parlando!” Ribattei, contrariata.
“Volevo risolvere questa storia una volta per tutte, e
fuggendo avrei solo rimandato il momento della verità! Come
è successo grazie alla tua brillante idea di
picchiarlo.”
Sentii Alessandra trattenere il fiato, stupita per il mio tono. Forse
ero stata troppo acida, lo ammetto, ma in quel momento ero troppo
arrabbiata per tenere sotto controllo le parole.
“Ah, si?” Replicò lui, accelerando
ulteriormente. “E credi che con lui sarebbero bastate le
parole? Non lo conosci, Giulia, non sai di cosa è
capace!” Scosse la testa, prendendo un bel respiro.
“E comunque è meglio che tu non lo
sappia…”
Mi voltai completamente verso di lui, sganciando la cintura di
sicurezza per non essere impedita nei movimenti. “Adesso
basta! Basta!” Esclamai, dando libero sfogo a tutto quello
che avevo trattenuto la notte precedente. “Cosa accidenti
sono tutti questi segreti? Non sono una bambina! Se hai qualcosa da
dire, allora fallo! Non me ne frega niente se hai avuto problemi con
lui in passato, voglio solo sapere in che razza di situazione sono
finita! E se non hai nessuna intenzione di dirmelo, benissimo: ma non
venire da me a predicare saggezze e a pretendere di controllare la mia
vita.”
A quel punto frenò quasi bruscamente, facendomi rimpiangere
di aver slacciato la cintura. Per fortuna eravamo ancora in una
stradina di campagna, e l’unica macchina in circolazione era
la nostra.
Spense il motore con un gesto furioso della mano, e si voltò
verso di me. I suoi occhi furiosi mandavano lampi, quasi nel vero senso
del termine. “Sbaglio o sei stata tu a dire ad Ale di venire
a cercarmi?” Sibilò. La sua rabbia era
palpabile. “Se non volevi che mi intromettessi, bastava
dirlo!”
“È stato prima di sapere che non voleva
violentarmi!” Esclamai, raggiungendo il suo stesso tono di
voce.
“E chi ti dice che non l’avrebbe fatto,
eh?” Ribatté Riccardo, sbattendo il pugno chiuso
contro il volante. “Eravate da soli, e... Dio! Guarda come ti
ha fatto vestire! Dov’è la tua roba?”
Malgrado fossi furiosa non potei impedirmi di arrossire violentemente,
tirando il lembo del vestitino in modo che mi coprisse un po’
di più. Impresa inutile. Accidenti, avevo lasciato i miei
vestiti a casa di Enrico! “Devo averli dimenticati a casa
sua.” Risposi seccamente.
“Ecco!” Esclamò ancora lui, voltandosi
nuovamente verso la strada ed incrociando le braccia.
Lo vidi scuotere piano la testa, come se stesse riflettendo su qualcosa
di terribilmente importante, e allora mi voltai verso la mia amica,
cercando da parte sua un minimo di sostegno. Come prima,
però, si limitò a scrollare le spalle. Al che
sospirai, abbassando lo sguardo. Non sapevo che cosa dire, e a quel
punto le parole non sarebbero servite a nulla.
Fu Riccardo a rompere nuovamente il silenzio.
“Che cosa hai intenzione di fare, Giulia?” Chiese,
usando un tono più pacato rispetto a prima, voltandosi verso
di me. “Pensi di frequentarlo?”
Quella volta spettò a me scrollare le spalle, senza avere la
minima idea di come rispondere. “Sinceramente, non lo
so...” mormorai, senza osare incrociare i loro sguardi.
“Potrei farlo, se questo servisse a farlo stare tranquillo
fino a quando non gli sarà passata... In fondo, Enrico non
mi sembra così cattivo come vuole far credere...”
Riccardo fece una strana e breve risatina. “Enrico
è molto abile a nascondere il suo lato peggiore, credimi...
Evidentemente, ti ha mostrato solo ciò che voleva che tu
vedessi.”
Mi trattenni a stento dallo sbuffare, innervosita. La mia pazienza si
stava già esaurendo, ero più che convinta di
averne usata troppa in soli due giorni. “Ascolta, Riccardo.
Se mi vuoi dire quello che sai a proposito di Enrico, ti invito a
farlo... Voglio sapere in che situazione mi andrei a cacciare, nel caso
decidessi di dargli corda. Ma se invece vuoi tenerti i tuoi piccoli
segreti, allora faresti prima a stare zitto, e vedrò di
trovare da sola una soluzione.”
Avevo parlato piano, a bassa voce, ma con tutta la freddezza di cui ero
capace, perciò ero sicura del fatto che le mie parole
avessero convinto almeno uno di loro. E in effetti era proprio
così. Il mio ‘salvatore’ mi osservava
con un’espressione forse troppo seria per il suo bel viso
– oh, niente a che vedere con Enrico, ma potevo ammettere
che, quella volta, la mia amica aveva visto giusto – anche se
d’altra parte sembrava non vedermi. Fissava il vuoto, forse
riflettendo su quanto avevo appena detto. Alla fine dischiuse le
labbra, e parlò.
“Okay, Giulia, hai ragione tu. Hai tutto il diritto di sapere
quello che il nostro Occhi Belli ha ben pensato di tenerti
nascosto.” Mise in moto la macchina, cambiando marcia e
tornando in strada. Io e Alessandra ci scambiammo un rapido sguardo
incuriosito prima di tornare a sederci normalmente nei rispettivi
sedili, in attesa di qualche altra spiegazione da parte sua.
Tuttavia Riccardo aveva evidentemente deciso di tenerci sulle spine,
perché rimase in silenzio fino a quando non arrivammo a casa
sua. Non seppi mai quello che gli passava per la testa durante quel
lungo tragitto, perché non lo disse né a me
né ad Ale. Ma sicuramente non doveva essere qualcosa di
allegro o di cui andare fieri, perché il suo sguardo
oscurato rimase perennemente fisso sulla strada, e la sua presa sul
volante talmente forte che le nocche erano diventate bianche.
Più tardi, quello stesso giorno, credetti di capire quello a
cui aveva pensato.
Aveva cercato a lungo di dimenticare quella parte della sua vita, del
suo passato, e noi invece gliel’avremmo fatta rivivere tutta.
Dopotutto, tutti e tre avemmo di che pentirci per quella scelta.
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Capitolo 11 *** Capitolo XI. ***
Eccomi di nuovo! Questa
volta ho fatto più in fretta :p
Non mi trattengo molto, vorrei solo ringraziare tutte coloro che
hanno trovato il tempo di recensirmi e di leggere il mio nuovo
capitolo, non credevo che lo steste aspettando così tanto!
Comunque, ecco a voi il nuovo capitolo :) Buona lettura!
Un bacio, a presto! smack
=*
Capitolo XI
Ultimamente ero stata nella casa di
troppi ragazzi.
Okay, nel primo caso si trattava di un
amico e non potevo farne a
meno, e nel secondo ero stata rapita e neppure quella volta era dipesa
molto
dalla mia volontà... Ma forse la terza avrei potuto
evitarla. Non tanto per il
fatto che fosse un ragazzo, quanto per quello che avrebbe significato.
Riccardo
aveva deciso di raccontarci tutto, o meglio, avrebbe voluto raccontarlo
solo a
me: voleva tenere Alessandra fuori da questa storia, e io non potevo
certo
dargli torto. Ma d’altra parte, io per prima sarei corsa a
raccontarle tutto,
quindi tanto valeva che lo parlasse direttamente di fronte a tutte e
due. Avevo
la sensazione che il nostro amico provasse un certo interesse nei
confronti
della mia amica, e malgrado la situazione piuttosto confusa nella quale
mi trovavo,
non potevo che essere felice per lei.
Ma torniamo a Riccardo.
Anche se la mia gemellina gli correva
dietro da tempo
immemorabile, non sapevamo quasi nulla di lui, di quello che faceva al
di là
del suo lavoro da Agnese. Era sempre stato molto riservato e restio a
chiacchierare con le altre persone per quanto riguardava la sua vita
privata,
perciò anche lui era un bel mistero, quasi quanto Enrico.
Perciò, quando
arrivammo a casa sua – nel frattempo, io avevo già
provveduto ad avvisare mia
madre del fatto che non sarei rientrata a pranzo a casa, ovviamente
dovetti
usare il telefono di Alessandra perché il mio era rimasto a
casa di Enrico, e
fui un po’ delusa per il fatto che nessuno si fosse
preoccupato per me;
comunque, meglio così – quando arrivammo a casa
sua sia io che la mia amica
fummo piuttosto sorprese di trovare due bambine piccole corrergli
incontro, ed
abbracciarlo tanto da soffocarlo.
“Ale, Giulia... Vi presento
le mie sorelline,” ci spiegò poi, con
un sorriso tanto affettuoso che fece arrossire la mia amica. Non capii
il
perché, ma lasciai stare.
“Piacere,” dissi
io, cercando di stemperare quella strana
atmosfera. Mancavo un giorno e già crollava il mondo?
Cavoli!
La più piccola, una bambina
di circa sei o sette anni con i
boccoli biondi e gli occhi castani, si avvicinò a me e mi
diede la mano,
stringendo la mia e annunciando: “Io sono
Francesca!”
La più grande, forse aveva
dieci o undici anni, aveva i capelli
neri e gli occhi chiari, sul grigio, e non somigliava per niente
né al fratello
né alla sorella. Strinse la mano alla mia amica e si
presentò con un educato:
“Piacere, io sono Anastasia.”
Non avevamo nessuna idea che Riccardo
si occupasse di due
sorelline piccole, anzi, a dire la verità eravamo convinte
che fosse figlio
unico. Ma forse ci avrebbe spiegato anche quello, prima o poi. Con un
altro
sorriso mandò le bambine in camera loro, perché
‘i grandi’ dovevano parlare;
loro obbedirono senza protestare, ci salutarono sorridendo e si
eclissarono
nella loro cameretta. Che invidia, pensai: mia sorella non mi avrebbe mai
obbedito in quel modo.
Ad ogni modo, Riccardo fece gli onori
di casa: ci fece accomodare
in cucina, visto che il salotto era invaso dai giocattoli delle sue
sorelline,
e dopo averci chiesto se volevamo bere o mangiare qualcosa –
deformazione
professionale, immagino! – si sedette di fronte a me e
incrociò le braccia sul
tavolo.
“Allora... Vediamo da dove
posso iniziare.”
Mi portai il bicchiere di the alla
pesca alle labbra, bevendone un
sorso giusto per fare qualcosa in attesa che iniziasse a raccontare.
Poi,
quando lo fece, mi dimenticai di qualsiasi altra cosa che non fosse
quello che
sgorgava, a fiotti, dalle sue labbra.
“Ho conosciuto Enrico quando
entrambi avevamo diciassette anni. Mi
ero appena trasferito, prima abitavo in un’altra
città, e quando arrivai qui
ero completamente da solo. Anastasia aveva solo quattro anni e mia
madre era
incinta di Francesca, e avevamo deciso di traslocare subito dopo il
divorzio.
Ero praticamente io l’uomo di casa, e il dover occuparmi di
mia madre e mia
sorella mi impedì per un bel po’ di rifarmi una
vita, o almeno di conoscere
gente. Questo fu così fino a quando non mi iscrissi a
scuola, per finire la
quinta. Nei primi tempi ero piuttosto indifferente per quanto
riguardava i miei
compagni di classe, e per i primi due mesi di scuola non legai con
nessuno in
particolare. Poi però, un giorno questa situazione
cambiò.
“Il mio atteggiamento
riservato non era per niente piaciuto ad un
gruppetto di ragazzi delle professionali, che mi conoscevano per
sentito dire
visto che una mia compagna di classe era l’ex di uno di loro,
e a quanto pare
si stava interessando a me. Questo ovviamente non fece una buona
impressione su
di loro: potete immaginarvi, un ragazzo nuovo che viene da fuori e
già crede di
poter rubare la donna ai ragazzi del paese! Naturalmente, non aveva
nessuna
importanza che io non fossi interessato a lei, visto che avevo troppe
cose per
la testa per poter anche solo pensare di iniziare una storia con
qualcuno:
anche questo non piacque. Chi mi credevo di essere per rifiutare le
attenzioni
di una loro ex ragazza? Credo che abbiate già sentito
parlare di queste
stronzate dell’onore e cose così. Beh, alla fine
trovarono un pretesto per
‘farmela pagare’.
“Mi avevano aspettato al
rientro da scuola, un pomeriggio, vicino
a casa mia. Erano una decina, con i cappellini calati sugli occhi e le
mani in
tasca, cercando di mantenere un aspetto disinvolto anche se si capiva
lontano
un miglio il perché di quell’appostamento. Erano
poggiati ad entrambi i muri della
strada: avete visto com’è fatta questa via,
è abbastanza stretta da non
lasciare scampo a nessuno. Così, per tornare a casa avrei
dovuto passare
proprio in mezzo a loro. Cambiare strada era fuori discussione, primo
perché
ero ancora nuovo del posto e non conoscevo tutte le varie scorciatoie,
e
secondo perché ormai loro mi avevano visto.
Perciò, mentre imboccavo la strada,
a piedi – se allora avessi avuto la macchina forse sarebbe
stato diverso, e
certe cose non sarebbero successe... Ma ora è inutile
pensarci – iniziai a
prepararmi per la difesa.
“Avevo già
individuato i meno pericolosi, che avevo deciso di
lasciare per ultimi. Purtroppo, l’unico vantaggio che avevo
dalla mia parte era
l’altezza e la prontezza di riflessi, visto che quando
abitavo nell’altra città
avevo seguito per sei anni dei corsi di arti marziali. Ovviamente,
questo era
quello di cui cercavo di autoconvicermi, visto che ero solo un bambino
quando
seguivo quei corsi, ed era da un bel pezzo che avevo smesso di
praticarlo:
inoltre, se in quel momento avessi ammesso a me stesso di non poter
competere
con quella specie di branco di scimmioni, avrei fatto prima a rimanere
immobile
in attesa che finissero di ‘sistemarmi’. Mi avevano
circondato. Non voglio né
annoiarvi e né impressionarvi con in dettagli di quel
combattimento, basta che
sappiate che, quando tornai zoppicante a casa, mia madre
stentò quasi a
riconoscermi.
“Rimasi a casa solo un paio
di giorni, e tornai a scuola benché
non fossi del tutto guarito. Ero in quinta e per giunta in una scuola
nuova,
quindi non potevo permettermi di perdere molte lezioni.
L’occhio nero, però,
non riuscii a nasconderlo, e nemmeno il passo leggermente claudicante.
Fu per
questo che, alla ricreazione, mi si avvicinò proprio
l’ultima persona da cui
potevo aspettarmi un minimo segno di interesse. Enrico.
“Come ho già
detto, ero nuovo, e ancora non sapevo chi era meglio
frequentare e chi evitare per poter vivere tranquilli. Enrico in fondo
era come
me: studiava, era tra i primi della classe, ed era uno di quelli che
facevano
impazzire le ragazze. Ovviamente, il fatto che nessuna di loro gli si
avvicinasse, preferendo girargli alla larga, e lo strano rispetto che
gli
mostravano i professori non mi aveva dato da pensare,
all’inizio; ripeto, a me
bastavano i miei, di problemi.
“Comunque, quel giorno mi si
avvicinò, alla ricreazione,
poggiandosi con le spalle contro la finestra e le braccia incrociate,
voltandosi poi verso di me e studiandomi seriamente.
“’Presumo... Tu
sia caduto dalle scale.’ Disse, solo. Non era una
domanda, ma sapevo benissimo che cosa mi stava chiedendo.
L’unica cosa che non
capivo era il perché lo stesse facendo.
“Scrollai le spalle,
evitando di guardarlo. ‘Avrei dovuto stare
attento.’ Replicai.
“Mi accorsi che annuiva,
lentamente. In quel momento mi era
sembrato molto più adulto dei suoi diciassette anni, ma non
ci feci caso.
Rimasi ancora più sorpreso da quello che mi disse dopo.
“’Mi piaci,
Riccardo. Si,’ annuì ancora, mentre sollevavo lo
sguardo per fissarlo. ‘Mi piaci.’
Dopodiché tacque, rimanendo
in silenzio fino alla fine
dell’intervallo. Durante le lezioni successive lo osservai
attentamente,
cercando di non perdermi neppure un suo gesto; notai che aveva
un’espressione
assorta, distratta, sicuramente si trovava altrove, in quel momento,
come
dimostrò il suo sussultare, stupito, al suono della campana.
Non ebbi il tempo
di avvicinarmi a lui prima che se ne andasse, perché
sparì in mezzo alla folla
di studenti prima che me ne accorgessi. Non sapevo che, dal momento in
cui
aveva parlato con me, aveva già iniziato a programmare un
piano per dare una
lezione a coloro che mi avevano fatto ‘cadere dalle
scale’: quello, lo scoprii
solo in seguito.
“Ricordo che il giorno dopo,
appena entrato in classe, la prima
cosa che feci fu controllare se Enrico fosse presente: lui
c’era, naturalmente,
non mancava quasi mai. Ma ciò che attirò la mia
attenzione furono i lividi che
aveva sulle mani e i vari graffi sulle nocche, per non parlare di un
brutto
taglio al labbro superiore che sembrava incredibilmente recente. Mi
avvicinai a
lui, raggiungendolo con fare circospetto accanto alla finestra. Lo
imitai e mi
affacciai, osservando fuori.
“’Anche tu caduto
dalle scale?’ Non riuscii a trattenermi dal
chiederglielo.
“Lo sentii ridere piano, a
bassa voce. ‘Si,’ rispose, passandosi
una mano sul viso. Poi si voltò verso di me. ‘E
puoi stare tranquillo che tu
non ci cadrai più.’
“Istintivamente gli porsi la
mano, intuendo subito quello che
doveva essere successo. Lui mi fissò per un po’,
come se fosse indeciso sul da
farsi, ma alla fine sorrise e mi afferrò la mano,
stringendola a sua volta.
“’Stasera devo
uscire con i miei amici. Hai voglia di venire?’ Mi
chiese, senza lasciare la presa sulla mia mano. Io non ci vidi nulla di
male ed
annuii, sorridendo. ‘Okay,’ continuò
lui, ricambiandomi il sorriso. ‘Perfetto.’
“Fu allora che tutto, come
si suol dire, ebbe inizio.
“Quella notte fu la prima
volta che uscimmo insieme: Enrico aveva
una S 1000 RR, a quanto aveva detto lui era un regalo di compleanno, e
con
quella venne a prendermi a casa per andare a farci un giro al mare. Mi
aveva
detto che gli altri suoi amici lo aspettavano lì. Quando
arrivammo a
Maladroxia, però, Enrico non proseguì verso la
spiaggia, fermandosi invece
davanti ad una delle villette costruite vicino al ristorante.
Entrò come se
fosse a casa sua – benché prima mi avesse detto
che la casa apparteneva ad un
suo amico, Stefano – e, sceso dalla moto, mi fece strada fino
all’ingresso.
Entrare in quella casa fu il primo passo della mia iniziazione.
“I suoi amici ci stavano
aspettando in soggiorno. Enrico conosceva
quella casa come se fosse stata sua, anzi, si comportava come se ne
fosse stato
il padrone. Allora comunque la cosa non mi stupì
più di tanto: eravamo dei
ragazzini, comportarci così faceva parte della
normalità. Questo, però, lo
pensai solo fino a quando non conobbi gli altri.
“Nel soggiorno, discutendo
animatamente tra di loro, c’erano
cinque ragazzi: un paio mi sembrava di averli già visti, al
liceo, mentre gli
altri erano completamente sconosciuti. Enrico fece le presentazioni:
strinsi la
mano di Stefano, Lorenzo, Francesco, Alberto e Davide.
“’Lui è
Riccardo,’ mi presentò. ‘È il
nostro settimo uomo.’
“Gli altri annuirono
seriamente, come se avesse detto chissà che
cosa. Decisi di non dare a quelle parole più peso di
ciò che erano, così mi
sedetti con Enrico nell’unico divano vuoto. Il mio nuovo
amico prese un paio
delle birre che giacevano sul tavolo, porgendone una anche a me e
invitandomi
ad un brindisi silenzioso. Dopodiché iniziò a
parlare.
“’Adesso,
finalmente, siamo al completo. Voi conoscete le mie
regole,’ disse, rivolgendosi agli altri cinque ragazzi,
‘ed è ora che le sappia
anche Riccardo.’ Bevve un altro sorso di birra, poi si
rivolse completamente a
me.
“’Noi ci occupiamo
del commercio di droghe. Non interrompermi!’
Alzò bruscamente la voce quando feci per ribattere, stupito
e piuttosto
contrariato. Tacqui e lasciai che proseguisse, benché non
fossi del tutto
contento della piega che aveva assunto la conversazione. ‘Ci
limitiamo a
venderle, né più e né meno di un
qualsiasi commerciante: ed è qui che entrano
le prime regole. Non devi farne uso per nessuna ragione, non me ne
frega un
cazzo se la tua ragazza ti ha lasciato o se hai voglia di passare una
serata
diversa: se scopro che ne fai uso ti assicuro che quello che ti hanno
fatto
quel gruppetto di ragazzini ti sembrerà niente al confronto.
Noi facciamo
affari con i drogati, ma non siamo come loro. Non voglio
tossicodipendenti nel
mio gruppo, ho bisogno di gente sveglia che rimanga lucida mentre
trattiamo gli
affari. Perché è solo di questo che si tratta,
bada bene: affari. Non c’è
niente di personale, non lo facciamo per noia o per dispetto, ma solo
per affari.
Neanche te lo immagini quanto riusciamo a guadagnare in una sola
settimana, ma
sinceramente spero che non tarderai a scoprirlo da solo.
“’C’è
un’altra cosa: generalmente partecipo anch’io alle
vendite,
ma adesso che ci sei anche tu, Riccardo, non c’è
più ragione che lo faccia. Vi
dividerete in tre zone, mentre io mi occuperò di contrattare
con quelli che ci
passano la roba: ovviamente non sarò da solo, mio padre mi
presta alcuni dei
suoi uomini per guardarmi le spalle, quando non posso contare su di voi.
“’Ah, e
naturalmente bisogna occuparsi di coprire Riccardo.
Alberto, prendi la valigia.’ Disse, in modo forse troppo
autoritario,
riferendosi al ragazzo che fumava una sigaretta mollemente sdraiato
sulla
poltrona. Ormai non riuscivo a formulare neppure un pensiero coerente:
ero
troppo sconvolto da quello che aveva detto Enrico, ed inoltre non
riconoscevo
più il ragazzo che vedevo tutti i giorni a scuola.
Accidenti, il nuovo Enrico
mi faceva paura, eppure rimasi e lo ascoltai fino alla fine!
“Quando Alberto
tornò in soggiorno con la valigia, la porse ad
Enrico e tornò a sedersi sulla sua poltrona, accendendosi
con un’invidiabile
disinvoltura un’altra sigaretta. Non appena sentii il click
della valigetta
scattai, voltandomi nuovamente verso Enrico ed osservando tra
l’inorridito e
l’affascinato il suo contenuto. Nella fodera nera della
valigia faceva bella
mostra di sé una pistola, con tanto di fondina ascellare e
di munizioni.
“’Questa
è una Browning Hi-Power, una semiautomatica calibro 9
millimetri: è piuttosto leggera e si adatta perfettamente al
nostro lavoro,
visto che ha una gittata massima di cinquanta metri e in canna ha
tredici
colpi.’ Iniziò ad illustrare le
funzionalità dell’arma con una sicurezza
spaventosa, il che indicava che se ne intendesse parecchio. Io riuscivo
solo ad
ascoltare, affascinato. ‘Per l’uso che ne facciamo
noi è perfetta, visto che
serve solo per le situazioni di estremo pericolo. Giusto per non farti
strane
idee, noi non andiamo in giro a sparare la gente. Questo è
lavoro che spetta ad
altri.’ Lorenzo e Alberto risero piano come per una battuta
che a me sfuggiva, ma
bastò un’occhiata di Enrico per farli tacere di
colpo.
“Poi si voltò
nuovamente verso di me. ‘Sai sparare, Riccardo?’
Chiese, senza traccia di scherno nella voce. Voleva semplicemente una
risposta
sincera.
“Perciò scossi la
testa. ‘No,’ dissi. ‘Non so neppure
impugnarla,
se è per questo.’ Aggiunsi, indicando la pistola.
Non so come mai ero diventato
così calmo.
“Enrico annuì,
serio. ’Lo immaginavo. Bene, non preoccuparti:
avrai modo di imparare. Ma sappi che non ti permetterò di
andare in giro
disarmato. È un lusso che nessuno di noi può
più permettersi.’”
Riccardo interruppe bruscamente il
racconto, prendendosi la testa
tra le mani e trattenendo a stento il tremito di rabbia a lungo
repressa che
gli percorreva tutta la superficie del corpo. Era chiaro che quei
ricordi
avevano la capacità di distruggere tutto il suo
autocontrollo, e mi dispiacque
davvero di essere in parte io la causa del suo malessere. Ma avevo
bisogno che
continuasse a raccontare, io dovevo sapere, volevo
sapere! Volevo sapere
che razza di individuo fosse Enrico, dovevo sapere la verità
su di lui, in modo
da potermi comportare di conseguenza! Non mi sarei più
potuta accontentare di
ciò che si andava raccontando di lui e della sua famiglia in
paese: Riccardo
conosceva cose di cui nessun’altro avrebbe mai potuto
sospettare l’esistenza,
perciò volevo che terminasse il suo racconto.
“Riccardo, per
favore.” Mormorai, cercando di attirare la sua
attenzione. “Non interromperti proprio adesso... Ho bisogno
di sapere anche il
resto.”
Lui sollevò la testa,
osservandomi a lungo seppur senza vedermi:
sembrava che il suo sguardo fosse perso lontano, in un passato che
aveva
cercato di dimenticare ma che adesso, per colpa mia, era costretto a
riportare
alla luce.
“Ti prego.”
Insistei, guardandolo supplicante.
Finalmente sembrò tornare
nel presente, sbatté più volte le
palpebre e si passò una mano tra i capelli con un gesto
incredibile di
insofferenza. Annuì, alzandosi per andare a prendere una
bottiglia di birra
fredda dal frigorifero, dopodiché tornò a sedersi
a tavola: sembrava aver
recuperato la forza di volontà necessaria per continuare la
sua storia. Bevve
un lungo sorso di birra, dopodiché posò la
bottiglia sul tavolo e mi guardò
attentamente.
“Molto bene.”
Mormorò a sua volta, annuendo gravemente. “Dove
eravamo rimasti?”
_____________________________________________________________________________
Note dell'Autrice:
Primo spazio riservato
alle mie note ^^ Allora, premesso che io non mi
intendo molto di armi e motori, non credo di essere riuscita a
descrivere bene nè la pistola di Riccardo e nè la
moto di Enrico... Limitandomi a dirne il nome! Comunque, per
facilitarvi la comprensione, ecco qui:
S 1000 RR
Browning
HI-Power
Spero che il
concetto sia
arrivato!! :) Un bacio al prossimo capitolo!!
|
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Capitolo 12 *** Capitolo XII. ***
Note
a fine capitolo. Buona
lettura! =)
Capitolo XII
“Quella sera non
accadde nient’altro di così importante.
L’argomento
che più mi premeva approfondire sembrava essere stato
chiuso, e per il resto
della serata ci comportammo come dei normalissimi ragazzi del liceo.
Dovevo
aver fatto una buona impressione ai compari di Enrico, o almeno quasi a
tutti,
visto che fecero subito in modo di farmi sentire parte del gruppo.
Sembrava che
la pistola che giaceva nella valigetta non avesse per loro lo stesso
valore che
le avevo da subito attribuito io. Ma, come compresi presto, avrei fatto
meglio
a farci l’abitudine.
“Quando Enrico mi
riaccompagnò a casa, mi consegnò
definitivamente la valigia con la pistola, raccomandandomi di tenerla
al sicuro
e di non nasconderla troppo bene, dato che presto ne avrei dovuto fare
uso. Non
compresi il significato di quelle parole, ma non ebbi il tempo di
chiedergli
spiegazioni, dato che già era andato via. Così,
non mi rimase che rientrare in
casa e affrettarmi a raggiungere la mia stanza prima che mia madre
potesse
vedermi armato. Per fortuna lei e Anastasia stavano già
dormendo, così potei
dedicarmi alla ricerca di un posto dove nascondere la pistola.
“Dopo averci pensato a
lungo, decisi che avrei fatto meglio a
nascondere la valigia sotto il letto, vuota naturalmente, e nascosi
invece la
Browning in un cassetto dell’armadio, sotto strati e strati
di felpe e
biancheria, dove mia madre raramente metteva mano. Per un po’
quel nascondiglio
avrebbe funzionato, in seguito avrei pensato a qualcosa di
più definitivo e
sicuro: per il momento volevo solo gettarmi a letto e dormire.
“Il mattino dopo andai
a scuola, come tutti i giorni. Come
sempre, non appena entrai in classe cercai con lo sguardo Enrico, che
era già
seduto al suo posto e che si voltò solo per salutarmi con un
cenno del capo.
Stranamente non mi rivolse la parola per tutto il giorno, neppure alla
ricreazione, tanto che durante tutte le lezioni non potei fare a meno
di
pensare che si era già pentito di farmi entrare nella sua
‘compagnia’. Col
senno di poi, posso dire che sarebbe stato cento volte meglio se fosse
andata
così, ma allora... Oh, non potevo saperlo.
“Tuttavia, alla fine
delle lezioni mi si avvicinò, portandomi
un braccio dietro le spalle in un modo del tutto innocuo e
insospettabile.
“Alle sei vengo a prenderti,” sussurrò.
“Prendi tutta la roba che ti ho dato,
non dimenticarti nulla.”
“Lo fissai, cercando di
chiedergli a che cosa potesse
servirmi la pistola quella sera, ma lui mi fece un chiaro cenno di
tacere.
“Stasera.” Ribadì, con decisione.
Dopodiché sparì in mezzo agli altri ragazzi.
“Quella sera attesi con
impazienza il suo arrivo: alle cinque
e mezza ero già pronto, seduto sul bordo del divano in
attesa dello squillo del
campanello che mi avrebbe annunciato la sua presenza. Nello zaino che
tenevo
tra le gambe avevo infilato tutto quello che mi aveva detto, la
Browning
insieme ai caricatori e la fondina: la valigia l’avevo
lasciata sotto il letto.
Ritenevo che, qualsiasi cosa avesse avuto intenzione di farmi fare,
sarebbe
stata assai difficile cercare di farla passare inosservata.
“Finalmente, il
citofono squillò. Salutai mia madre e corsi
giù per le scale prima che lei potesse affacciarsi a vedere
con chi stavo
uscendo, cosa che volevo, per il momento, evitare. Come avevo
immaginato,
Enrico era accanto alla sua moto, a braccia incrociate, aspettando che
lo
raggiungessi. Mi venne incontro con un mezzo sorriso, stringendomi la
mano e
porgendomi un casco.
“’Dove
andiamo?’ Chiesi, salendo sulla moto dietro di lui.
“Tuttavia lui non
rispose. ‘Lo vedrai.’ Si limitò a dire,
enigmatico.
“Come c’era
da immaginarsi, Enrico mi portò nella sua casa di
campagna, quella dove ha portato anche te, Giulia, dove avremmo potuto
esercitarci con le armi senza essere disturbati. Chi avesse sentito
l’eco degli
spari avrebbe sicuramente pensato ai cacciatori, e di certo non a due
ragazzi
che lo facevano per... beh... chiamiamolo hobby. Per la prima volta in
vita mia
mi ritrovai ad impugnare una pistola. Purtroppo non fu anche
l’ultima.
“Trascorsero solo una
decina di giorni, durante i quali
Enrico mi portò instancabilmente ad esercitarmi con
l’ormai mia Browning nel
suo terreno, senza la presenza degli altri suoi amici che, a quanto
diceva,
potevano distrarmi e rallentare il processo di apprendimento. Per
essere solo
un ragazzo di diciassette anni la prendeva tremendamente sul serio, ma
capivo
da solo che uno come lui doveva essere stato abituato quasi sin da
piccolo a
mostrarsi duro e pronto a tutto.
“Non fraintendetemi,
non lo sto giustificando... Ma allora mi
sembrava un ragazzo da ammirare e da prendere come punto di
riferimento, per
quanto le sue ‘attività
extrascolastiche’ fossero alquanto discutibili.
“E questo ci porta alla
mia prima notte da complice dei suoi
traffici.”
Riccardo tacque momentaneamente
di raccontare, portandosi la
bottiglia di birra alle labbra e bevendone un lungo sorso, come se
questo
avesse potuto aiutarlo a raccogliere meglio i ricordi di quei non certo
piacevoli eventi. L’espressione che aveva sul volto esprimeva
un dolore tale
che non avevo mai visto sul viso di nessuno, e durante tutta quella
serata
odiai Enrico come non l’avevo mai fatto. Se qualcuno era
capace di far soffrire
in quel modo un ragazzo grande e grosso come Riccardo, la sua
crudeltà doveva
essere davvero inimmaginabile...
Alessandra sembrava soffrire con
lui, ma c’era qualcosa nei
suoi occhi che mi fece capire che vi era ben altro oltre la semplice e
amichevole preoccupazione, e non si trattava solo della cotta di cui mi
faceva
una testa tanto ogni giorno: no, conoscevo quello sguardo, e sapevo che
c’era
dell’altro... Beh, se davvero era così, in fondo
ero contenta per loro:
Riccardo aveva bisogno di non essere più solo, e la mia
amica aveva bisogno di
qualcuno da amare. E quanto a me... Io avevo solo bisogno di sapere
come
continuava il racconto di Riccardo.
“Quella notte guidava
Alberto, era un sabato come tanti altri
anche se noi non eravamo proprio dei ragazzi comuni. Come Enrico mi
aveva
spiegato più volte, non saremmo andati alla Favola, visto
che quella discoteca
entrava nel raggio del suo territorio e lui non voleva nel modo
più assoluto
che i suoi clienti fossero anche i suoi stessi concittadini. Credo che
in
realtà temesse che qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo, ma
non lo ammise mai.
Non davanti a me, comunque.
“Perciò,
ricordo che ci impiegammo almeno un’oretta buona
prima di arrivare alla discoteca che invece Enrico aveva designato come
centro
principale dei suoi traffici, o almeno quello di cui si occupava
personalmente.
Il buttafuori lo fece passare con un mezzo sorriso, senza battere
ciglio: era
incredibile quanti contatti avesse quel ragazzo, all’epoca
non ero ancora del
tutto consapevole di quanto grande fosse la sua influenza e quella
della sua
famiglia. Una volta dentro, Enrico si diresse automaticamente verso una
saletta
divisa da un separé orientale dal resto della sala, nella
quale prese posto come
se si trovasse a casa sua. Mi fece cenno di sedermi accanto a lui, poi
mi porse
uno dei menù e sorrise.
“’Funziona
così, Riccardo.’ Esordì, parlando a
bassa voce.
‘Ancora non ti ho spiegato il perché della mia squadra... Molte ragazze, a quanto pare,
ci trovano parecchio
attraenti: bene, spero che tu sappia sfruttare questa tua
caratteristica,
perché il tuo lavoro consiste nell’avvicinare le
ragazze che vedi sedute,
ovviamente sole, ai tavoli... Loro faranno finta di non sapere
perché sei lì,
ma in realtà sanno perfettamente cosa nascondi nelle tasche
e sotto la giacca.’
“Ammiccò in
direzione di Alberto, prima di continuare. ‘La
mia spiegazione non ti servirà a niente... Ora guarda cosa
fa Alberto, e cerca
di memorizzare ogni suo gesto.’
“Come se non avesse
aspettato altro, il nostro compagno si
alzò con disinvoltura dal tavolo, prendendo un bicchiere di
qualche alcolico
sconosciuto dal vassoio di un cameriere che passava accanto a noi.
Sempre
sorseggiandolo attraversò la sala, finché non
raggiunse un tavolo occupato da
tre ragazze che ridevano maliziose tra di loro alla vista del ragazzo
che
prendeva posto di fronte a loro. Dubitavo che quelle tre potessero
avere più di
quindici anni: il trucco pesante e i vestiti scollati e provocanti
denotavano,
al contrario, una furiosa voglia di crescere che le ragazze
più grandi e mature
avevano abbandonato da tempo. Ad ogni modo,
non era quello che mi interessava. Il mio sguardo si
puntò solo su
Alberto, e cercai di non perderlo di vista per un solo momento.
“Notai che si
comportava come se le conoscesse da sempre:
aveva iniziato a chiacchierare con un dolce sorriso dipinto sul volto
per far
diminuire l’involontario disagio delle sue clienti, malgrado
tutto troppo
giovani per comportarsi con la spudoratezza che sarebbe stata
più appropriata
alla situazione. Eppure, solo pochi minuti dopo, una di loro lo
seguì
docilmente alla toilette.
“Sapevo cosa sarebbe
successo, e potete benissimo immaginarlo
anche voi. Lui l’avrebbe presa, e dopo le avrebbe consegnato
la merce per lei e
le sue amiche; e solo in seguito l’avrebbe riaccompagnata al
suo tavolo e
sarebbe poi tornato da noi. Era tutto molto semplice.
“Beh, io non
approfittai mai di questa occasione per
comportarmi come loro: portarle in un posto appartato era
d’obbligo, in modo
che nessuno avrebbe potuto sospettare di niente, ma non feci mai nulla
che
andasse oltre l’aspetto professionale. Grazie a Dio, non ebbi
mai neppure
l’occasione di usare la pistola, se è per
quello.”
A quel punto, Alessandra non
riuscì a trattenere oltre la sua
curiosità. Posò il bicchiere sul tavolo e,
sporgendosi verso di lui, chiese: “Ma
che cosa ti ha spinto a lasciare Enrico? Voglio dire... Malgrado tutto,
sembra che le cose tra di voi
stessero andando bene...”
In effetti me lo stavo chiedendo
anch’io. Era da quando avevo
sentito Enrico chiamare Riccardo ‘traditore’ che
volevo saperne il perché. Dopotutto,
nella storia che ci aveva raccontato il nostro amico non sembrava
esserci
traccia di nessun tipo di rancore da parte di entrambi, anzi, Enrico si
comportava da amico nei suoi confronti, lo aveva addirittura vendicato
in
quella faccenda dei ragazzi delle professionali.
Perciò, il motivo del
loro odio reciproco continuava a
rimanere un mistero.
Ma, grazie alla domanda di
Alessandra, Riccardo saltò subito
alla parte conclusiva della storia.
“In realtà
è più semplice di quanto possiate
immaginare,”
disse, con un sospiro.
“Una notte, decisi che
ne avevo abbastanza. Erano trascorsi
parecchi mesi da quel primo giorno in discoteca, la scuola era finita e
io
stavo dando l’ultima ripassata generale prima degli esami. Ma
quella sera
ricevetti una telefonata da parte di Enrico. Quella volta aveva voglia
di
puntare in alto, di colpire grosso. Ed io purtroppo non riuscii a
dirgli di no.
“Come compresi solo
più tardi, non si trattava di una
‘normale’ serata di affari. A quanto pareva, alcuni
clienti del padre erano
stati poco fiscali e puntuali nei pagamenti, anzi, a quanto ci disse
Enrico,
avevano proprio dimenticato di versare alcuni conti corrente,
confidando forse
nel fatto di vivere lontani dal territorio centrale degli Occhi Belli.
Tuttavia, purtroppo per loro, non così lontani.
“Sempre stando alla
versione di Enrico, suo padre gli aveva
ordinato di stare fuori da quella faccenda e soprattutto lontano da
quegli
individui, visto che erano pesci troppo grossi per potersene occupare
lui. Ma
il nostro amico decise al contrario che quella sarebbe stata
l’occasione buona
per dimostrare alla sua famiglia quanto valeva, in modo che il padre
iniziasse
ad affidargli incarichi ben più importanti che lo elevassero
agli occhi di
tutti. Perciò, prendemmo la macchina e andammo alla ricerca
di questi fantomatici
clienti.
“Beh, non furono
difficili da trovare. Ci sono delle persone
che preferiscono non cambiare spesso luogo d’incontro, anche
se così facendo c’è
il rischio di attirare troppo l’attenzione della giustizia;
per quanto questa
sia, spesso e volentieri, loro alleata. Ad ogni modo, li trovammo in un
albergo
che frequentavano abitualmente, e la ragazza che c’era alla
reception non fece
storie quando Enrico le chiese il loro numero di stanza; dopotutto, non
si può
negare che sappia usare il suo fascino e bell’aspetto.
“Scoprimmo presto che
quello che aveva detto il vecchio Occhi
Belli non era un’esagerazione: si trattava davvero di gente
di un certo...
calibro, e solo guardandoli si coglieva l’antifona di
‘stargli lontano’.
Sembravano catapultati in un film de Il
Padrino, e la cosa terribile era che quei tipi non avevano
per niente l’aria
di voler scherzare o perdere tempo con dei ragazzini.
“Parlare si
rivelò inutile in partenza; non appena Enrico si
fu presentato, i due scimmioni che facevano da guardaspalle al capo
tirarono
fuori le pistole, e prima che ce ne rendessimo quasi conto era iniziata
la
sparatoria. Più per la paura che per il vero obiettivo di
colpire qualcuno, mi
ritrovai a sparare a tutti e a nessuno, stando solo attento a non
colpire i
miei compagni. La stanza si trasformò in un vero inferno,
non credo di aver mai
visto tanto sangue in vita mia, e i colpi sparati a pochi centimetri
dalle mie
orecchie mi assordavano, perciò persi la poca cognizione
della realtà che mi
era rimasta. Alla fine si scaricò il caricatore della mia
Browning, e solo in
quell’istante realizzai che cosa era successo, di cosa ero stato complice. Gettai la
pistola per terra e mi guardai
intorno, ma non c’era nessun silenzio, nessun attimo di
riflessione, niente. Fuori
dalla porta sentivamo urla e colpi sulle pareti, e prima che qualcuno
riuscisse
ad entrare ci dirigemmo tutti e sette verso la finestra. Io e Enrico
rimanemmo
per ultimi.
“Si voltò
verso di me, il volto trasfigurato dalla rabbia. ‘Prendi
la pistola, cazzo! Ci sono le tue impronte!’
“Mi voltai con una
lentezza che lo disarmò, tanto che mi
diede una spinta per esortarmi. Gli altri si erano già
calati giù dal balcone –
per fortuna eravamo solo al secondo piano – e quando tornai
dentro la camera
l’unica cosa che c’era erano i cadaveri di tre
persone sul pavimento. La mia
pistola era accanto alla mano aperta di uno di questi, e dovetti
reprimere un
conato improvviso per riuscire ad avvicinarmi, afferrarla e correre
nuovamente
verso la porta a vetri dove Enrico mi stava ancora aspettando.
“Mentre scavalcavo il
davanzale, sentii la porta
dell’appartamento cedere sotto i colpi insistenti di coloro
che erano accorsi
già dai primi spari, e le urla dei primi che videro i
cadaveri. Poi mi lanciai
nel vuoto, e poi... Più niente.
“Mi risvegliai in
macchina, madido di sudore e coperto di
sangue, circondato dagli altri ragazzi. Erano tutti parecchio scossi,
ma credo
che nessuno lo fosse più di me. Di che cosa ci eravamo fatti
complici? Ma
l’unico pensiero coerente che la mia mente riusciva a
produrre era questo: se continuo a stare con
loro, a
frequentarli, a quante altre occasioni simili dovrò
assistere?
“Fortunatamente, dal
giorno dopo in poi, per quasi un mese,
ebbi la scusa degli esami che mi tenne occupato per tutto il tempo:
studiavo
come un forsennato mattina e sera per cercare di non pensare a quella
notte, a
quei corpi, e riuscii a strappare un novanta alla maturità.
Ma nel mentre avevo
anche pensato a lungo a cosa fare. Non sarei più rimasto con
Enrico e i suoi.
Basta. Non volevo più averci nulla a che fare, avevo deciso.
Rimaneva solo una
cosa da fare, e cioè dirlo ad Enrico.
“Come potete
immaginare, lui non la prese molto bene. Dire
che era incazzato è solo un gentile eufemismo. Tuttavia mi
lasciò andare,
facendomi però giurare di non dire mai a nessuno le cose che
avevo visto e
sentito. O meglio, minacciandomi che, se mai qualcuno ne fosse venuto a
conoscenza, se la sarebbe presa con la mia famiglia. Mia madre era
incinta, e
Anastasia era piccola, e lui lo sapeva. La posta in gioco era troppo
alta,
perciò non dissi mai niente.
“Voi siete le prime a
cui lo racconto, dopo sei anni.”
E con questo, si concluse il
racconto di Riccardo.
Non ci fu nessun applauso, nessun
pianto, nessuna obiezione,
come spesso accade nei film.
Solo silenzio.
E paura, tanta.
La mia.
_____________________________________________________________________________________
Note
dell'Autrice:
E
così, eccomi tornata. Dopo quasi tre mesi di assenza - di
cui vi chiedo umilmente perdono, davvero, ma purtroppo, tra impegni
vari e poca ispirazione, non ho potuto fare altrimenti - la mia mente -
a questo punto potete tranquillamente dire "malata"! - ha partorito il
12 capitolo.
E che parto, oserei
dire. L'ultima parte è stata scritta
d'un fiato, la pubblico senza nemmeno osare rileggerla
perchè ho paura di cancellarla del tutto, ma mi ci
è voluto molto per trovare una "degna" conclusione al
racconto di Riccardo, volevo qualcosa che colpisse i lettori e che
colpisse la mia protagonista, ovviamente. La sua storia, come
già forse si era intuito, non è una storia
facile, ma a me del resto le storie che filano lisce come l'olio
non sono mai piaciute. L'unica cosa che temo è di
aver calcato un pò la mano, di avere esagerato, insomma. Ma
questo potrete dirmelo solo voi! =)
Spero di aver reso
l'idea, comunque. Enrico non stava uscendo molto
bene nei precedenti capitoli, spero invece di essere riuscita a
trasmettergli un pò dell'oscurità e della...
mmh... magari malvagità è una parola troppo
forte, però ecco, io me l'ero immaginato con l'animo molto
più nero di come invece l'ho dipinto finora!
Bene, con questo
concludo. Mi farà piacere trovare nuove
recensioni, mi spingono ad andare avanti e mi dimostrano che, forse,
questa storia non è un completo disastro. Inizio a scusarmi
sin da ora se gli aggiornamenti non saranno molto puntuali (quest'anno
ho la maturità e ho poco tempo a disposizione...)
Un bacio a tutte quante,
non mi stancherò mai di ringraziare
chi recensisce, chi legge senza recensire, chi mi ha aggiunta tra le
preferite e le seguite... Insomma, Grazie Mille! =)
Al prossimo capitolo =*
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Capitolo 13 *** Capitolo XIII. ***
Riassunto
delle puntate precedenti.
Giulia
è una ragazza di diciassette anni come tante, con un solo
problema: è diventata la nuova preda di Enrico Occhi Belli,
il giovane figlio del boss locale che gestisce i vari
traffici di armi e droghe dei dintorni, incutendo timore in chiunque
senta anche solo il suo nome. Giulia è appena venuta a
conoscenza dei trascorsi del ragazzo dall'ex compare di quest'ultimo,
Riccardo, nuova fiamma della migliore amica della nostra protagonista.
Enrico ha detto chiaro e tondo che se Giulia non accetterà
di uscire con lui, lui non esiterà a far del male ai suoi
amici... Come si evolverà la situazione?
Fine
del riassunto.
Buona
Lettura ^^
Capitolo
XIII
“Giulia,
stiamo uscendo! Ti serve
qualcosa?”
“No,
mamma!”
“Allora
a più tardi, tieni la porta aperta così se
squilla il
telefono è la volta che forse lo senti!”
“Okay,
ciao!”
Tornai
con calma in camera mia, massaggiandomi la gola
indolenzita. Non capivo perché ogni
volta
che dovevano uscire avevano il bisogno di urlarmi raccomandazioni dal
piano di
sotto... Ad ogni modo, attesi di sentire la macchina di mio padre
accendersi e
scendere nel vialetto di casa, e solo dopo essermi accertata che
fossero usciti
mi rimisi le cuffie del mio fidato Ipod.
Canzoni
tristi e angoscianti, ovviamente, visto che ero
solita ascoltare la musica a seconda del mio stato d’animo: e
non si poteva
certo dire che in quel momento fossi serena e tranquilla. E
d’altra parte, come
avrei potuto esserlo? Solo due giorni prima Riccardo mi aveva
raccontato delle
cose inenarrabili, che in passato non avrei nemmeno lontanamente
immaginato, e
che invece per lui erano state all’ordine del giorno.
Che
Enrico fosse in un brutto giro si sapeva, come si è certi
del sorgere e del tramontare del sole. Ma che la situazione fosse così grave, mio Dio... Si
parlava di
armi, omicidi... No, anche il solo pensarci mi metteva i brividi;
sarebbe stato
indubbiamente più semplice fingere che la storia di Riccardo
fosse stata
inventata di sana pianta in modo da spaventarci e spingerci a stare
lontano da
lui, eppure c’erano cose, troppe cose che coincidevano...
Avevo fatto alcuni
calcoli, e il giorno seguente alle rivelazioni di Riccardo mi ero
rimboccata le
maniche per documentarmi meglio sulla faccenda. Avevo cercato in
Internet tutte
le notizie e gli articoli di giornale che risalivano a sei anni prima,
e quello
che avevo trovato mi aveva fatto letteralmente rizzare i capelli.
L’ennesima
tragedia si è consumata, ieri notte, nel lussuoso Hotel ***,
dove uno dei
clienti più abbienti e affezionati è rimasto
ucciso in uno scontro a fuoco
insieme a due delle sue guardie del corpo...
Seguiva
una lunga e accurata descrizione della scena del
crimine, e il commento del giornalista che ammetteva che non erano
state
trovate impronte digitali per risalire agli assassini, di cui si
pensava che
potessero essere un gruppo di ragazzi non meglio identificati dalla
receptionist. E poi, ancora, mentre scorrevo i vari articoli, le
notizie si
susseguivano in un crescendo di dati, nomi, cifre e foto...
...Uno
dei
cadaveri è stato riconosciuto come il Russo, un noto
trafficante di armi e
droga di San Pietroburgo che da qualche tempo aveva spostato il suo
giro di
affari nei nostri territori... un pareggiamento di conti?... Il Russo,
così
come anche i suoi due uomini trovati morti con lui, era sempre riuscito
a
scampare alla giustizia, malgrado gravasse sulla sua testa una pesante
condanna
di quattro ergastoli, trent’anni per evasione fiscale e venti
per violenza
sessuale...
Ad
un certo punto avevo dovuto smettere di leggere, perché
più cose scoprivo di quel fatto meno voglia mi veniva di
uscire di casa con il
pericolo di incontrare Enrico. Che cosa ne sapevo io, infatti, se anche
su di
lui gravavano di condanne come quelle? Anche se non aveva alzato un
dito su di
me, chi mi assicurava che non l’avrebbe fatto la prossima
volta, se mai ce ne
fosse stata una? Certo, l’idea di trascorrere tutta
l’estate chiusa in casa non
era molto allettante, ma di sicuro era preferibile alla prospettiva di
venire
nuovamente rapita.
Tuttavia,
non ero sicura di voler paragonare Enrico ad un
individuo come il Russo, mi
sembrava
un confronto azzardato e senza fondamenta. Forse Occhi Belli padre ne
sarebbe
stato anche all’altezza, ma il figlio... No, non potevo
capacitarmi del fatto
che un ragazzo appena più grande di me potesse essere capace
di simili cose. Okay,
aveva ventiquattro anni, ma sinceramente non riuscivo ad immaginarmelo
mentre
impugnava una pistola e faceva fuoco, checché ne dicesse
Riccardo. E, se è per
questo, non riuscivo a immaginarmi nessuno dei due in una simile
situazione.
Ma
dopotutto, io ancora non li conoscevo...
Sbuffando
mi gettai sopra il letto, nascondendo il viso nel
cuscino. Come sarebbe stato bello premere un pulsante per riavvolgere
le ultime
settimane della mia vita e cancellarle definitivamente! Mi avrebbe
fatto
davvero molto comodo... E invece, niente. Dovevo arrendermi
all’idea che adesso
mi trovavo letteralmente nei casini fino al collo, e sarei anche
affogata senza
che nessuno potesse fare qualcosa. Parlarne con mia madre era fuori
questione,
no... Anzi, dovevo fare in modo che i miei genitori non venissero mai a
saperlo. E se avessero davvero coinvolto i carabinieri, la polizia?
Enrico
poteva prendersela con chiunque di loro...
No,
no, dovevo smetterla di pensarci. E soprattutto di vedere
certi film. A furia di guardare quei thriller da cardiopalma tipici dei
miei
genitori stavo diventando paranoica e ansiosa. Anche se, accidenti, con
quello
che stavo passando...
Con
un gesto arrabbiato mi strappai le cuffie dell’Ipod dalle
orecchie, gettandolo dall’altra parte del letto:
un’altra canzone del genere e
mi sarei buttata dalla finestra! Avevo bisogno di riposare... Mi
strinsi il
cuscino al petto e chiusi gli occhi, aspettando che giungesse un bel
sonno
ristoratore e pregando che non portasse con sé altri incubi.
Non
sono sicura di essermi effettivamente addormentata, quel
pomeriggio, ma probabilmente non ne ebbi il tempo materiale. Dopo
neanche una
decina di minuti che ero a letto, sentii dei rumori provenire dal piano
di
sotto, leggermente attutiti a causa della porta chiusa. Ovviamente non
mi
preoccupai, o almeno non subito, dato che è da quando ero
bambina che sento
tutti i rumori e gli scricchiolii di casa mia quando rimango sola a
casa: certe
cose non si perdono con l’età. Comunque, quella
volta ero certa che non si
trattasse né del mio cane, né tantomeno dei
gatti... E dubitavo fortemente che
si potesse trattare anche dei miei genitori, visto che non avevo
sentito la
macchina.
Perciò,
iniziai a preoccuparmi seriamente.
Mi
alzai cauta dal letto, decidendo che, se davvero si trattava
di un ladro, avrei dovuto fare molta attenzione: non potevo sapere se
era
armato, infatti. Sfortunatamente l’unica arma di difesa
presente in camera mia
era un ombrello, ma lo afferrai lo stesso, brandendolo come se fosse
stata una
mazza da baseball. Avrei riso davvero tanto se avessi scoperto che il
rumore
era causato solo dai miei gatti che giocavano in cortile, ma nel
frattempo era
meglio essere cauti. Aprii lentamente la porta della mia stanza,
rimanendo
seminascosta dietro la parete, e solo dopo aver preso dei profondi
respiri
decisi di affacciarmi fuori.
A
quel punto non potei davvero trattenere un urlo spaventato.
Cercai di richiudere velocemente la porta per blindarmi al suo interno
e
telefonare ai miei genitori, ma l’intruso riuscì a
bloccarla facendo
semplicemente forza con le braccia, come se non fosse pesante da tenere
con una
sola mano. Alla fine lasciai andare la maniglia e indietreggiai fino
all’interno della camera, continuando a brandire
l’ombrello.
La
sua risata mi fece venire voglia di ucciderlo.
“Andiamo,
Giulia... È così che si accolgono gli
ospiti?”
“Non
fare un altro passo, Enrico!” Replicai, cercando di non
perdere di vista il suo più minimo movimento.
“Cosa diavolo ci fai in casa mia?
Come accidenti hai fatto ad entrare?!”
Lui
sorrise, divertito. “Se mi fai accomodare gentilmente,
magari posso anche risponderti.” Disse, incrociando le
braccia.
Sbuffai.
“Non sono per niente in vena di scherzare con te,
Enrico. Non è il momento. Parla e smettila di sparare tutte
queste stronzate.”
Il
suo sorriso si allargò, mentre sollevava le mani in segno
di resa e mi osservava gentile. “Va bene, come vuoi. Ammetto
che hai ragione.
Come sono entrato?” Sospirò, come se la cosa fosse
del tutto scontata. “Ho
aspettato che i tuoi genitori uscissero di casa e poi sono passato dal
cancello
prima che si richiudesse... Nulla di così difficile.
Inoltre, la porta era
aperta.”
Avrei
voluto prenderlo a schiaffi. Ma come si permetteva? Non
bastava tormentarmi in discoteca e rapirmi, adesso veniva anche a casa
mia?
Credeva di poter fare quello che voleva solo perché era un
Occhi Belli?
“A
proposito... Sai che tua sorella è proprio una bella
bambina?”
Non
ci vidi più; lasciai cadere a terra l’ombrello e
mi
precipitai verso di lui, sollevando una mano con l’intenzione
di
schiaffeggiarlo. Sfortunatamente lui comprese le mie intenzioni
perché mi
bloccò il braccio a mezz’aria, con
un’aria non più tanto divertita. Meno male,
mi ero stancata del suo sorrisetto arrogante.
“Che
ti prende?” Sibilò, leggermente arrabbiato.
Al
contrario, io ero del tutto furiosa. “Lascia stare mia
sorella!” Esclamai, tremante. “Lascia la mia
famiglia fuori da questa storia,
non provare ad avvicinarti a loro nemmeno per sbaglio!”
“Credi
che se avessi voluto far loro del male non l’avrei
già
fatto?” Ribattè, stringendo la presa sui miei
polsi e strappandomi un gemito di
dolore. “Mi sembra di averti dimostrato di rispettarti
più di una volta.”
Non
potei trattenermi dallo sbuffare. “Certo, come no!
Perché
magari l’essere entrato di nascosto, come un ladro, in casa
mia è un segno del
tuo rispetto, vero? E anche rapirmi è sempre segno di
rispetto? Abbiamo proprio
delle concezioni diverse su questi termini, Enrico.”
Improvvisamente
mi lasciò andare, facendomi barcollare e
indietreggiare prudentemente.
“Sono
solo venuto a portarti la roba che hai dimenticato a
casa mia.” Disse con voce neutra, gettando una borsa sul mio
letto. “C’è anche
il tuo cellulare, pensavo ti servisse.”
Non
potei impedirmi di usare un tono grondante sarcasmo. “Oh,
davvero molto gentile da parte tua. Dovrei anche fare qualcosa per
ringraziarti?”
Questo
mi fece guadagnare un’occhiataccia da parte sua, che
però si trasformò in uno sguardo malizioso che
non mi piacque per niente. Ed
ero di nuovo sola con lui…
“Faresti
bene a non tentarmi con simili proposte, Giulia, perché
potrei anche approfittarne…” Mormorò,
avanzando di qualche passo.
“Ti
ho già detto di starmi lontano,” ripetei, non
troppo
convinta. Il ricordo delle sue labbra bollenti sul mio collo era ancora
troppo
vivido e recente, e decisamente non volevo che ricapitasse una cosa
simile. Più
manteneva le distanze meglio era.
Come
se avesse intuito lo scorrere dei miei pensieri,
sorrise. “Non ti ho mai costretto a fare qualcosa contro la
tua volontà,
Giulia…” Sussurrò facendosi
più vicino, riuscendo a farmi indietreggiare fino
alla parete. Oh no, merda, non di nuovo…
“Beh, sei venuto a
riportarmi le mie cose, giusto? Ora te ne puoi anche
andare…” Dissi,
sforzandomi di sembrare tranquilla come se avessi avuto tutto sotto
controllo. Si,
come no…
Ridacchiò
piano, come se fosse stato contento di avermi
intrappolata un’altra volta. “Andiamo, Giulia, mi
mandi via così? Senza neppure
ringraziarmi? Non è molto corretto da parte
tua…”
Deglutii,
chiudendo gli occhi per dimenticare la sua terribile
vicinanza. “Accidenti, Enrico, cosa diavolo vuoi da
me?”
Sentii
il suo respiro sul collo mentre mi rispondeva,
parlando a bassa voce. “Mi sembra di avertelo
detto… Permettimi di invitarti ad
uscire, qualche volta… Ti prometto che mi
comporterò bene…”
Mentalmente
gli diedi del pazzo. “Spiegami perché dovrei
fidarmi di te! Dimmi perché dovrei dirigermi di mia
spontanea volontà tra le
fauci del leone!” Esclamai, osando finalmente aprendo gli
occhi per guardarlo.
Lui
aveva di nuovo quell’irritante sorriso. “Mi piace
come
immagine, sai?” Poi dovette accorgersi della mia espressione
nervosa e
arrabbiata perché si affrettò ad aggiungere,
sempre con il medesimo sorriso:
“Ma ti assicuro che le mie intenzioni sono più che
onorevoli. Ti puoi fidare di
me, dico sul serio.”
Sospirai,
distogliendo lo sguardo da lui. Avevo altre
alternative, dopotutto? Anzi, magari se avessi accettato di uscire con
lui per
un po’ lo avrebbe fatto felice, e quando si sarebbe stancato
di me io sarei
sparita dalla sua vista come se non fossi mai esistita, e tutto sarebbe
tornato
normale sia per me che per lui, per quanto mi potesse interessare.
E
di sicuro io non avrei fatto menzione di quello che sapevo
grazie alle rivelazioni di Riccardo, perché ancora non ero
tanto stupida da
tirarmi la zappa sui piedi per il semplice gusto di farlo. Avrei
cercato di
trattarlo come un comune ragazzo al pari di Federico o Matteo, senza
pensare al
fatto che possedeva una pistola – sperando che non ne avesse
altre – e che
probabilmente la usava spesso. Ma al di là di questo, cosa
c’era che poteva
impedirmi di accontentarlo per un po’? D’altronde
non stavo firmando nessun
patto col diavolo. O almeno questo era quello di cui stavo cercando di
convincermi.
“Va
bene, facciamo come vuoi tu, allora.” Mormorai alla fine,
senza volergli dare la soddisfazione di dirlo ad alta voce.
“Oh,
perfetto! Era questo che volevo sentire.” Esclamò
con un
sorriso se possibile ancora più largo, puntando le mani
contro il muro e
avvicinando pericolosamente il volto al mio. “Sei davvero una
ragazza
giudiziosa, Giulia.”
Deglutii,
distogliendo lo sguardo da lui e facendolo scorrere
sul resto della stanza che intravedevo da dietro le sue spalle; era
incredibilmente alto, tremai al pensiero di quello che avrebbe potuto
fare se…
Oh Dio, perché devo terrorizzarmi da sola? Io e le mie manie
di protagonismo…
“Okay,
hai ottenuto quello che volevi, Enrico. Perché adesso
non te ne vai? Avrei da studiare.”
Che
scusa patetica! Era ovvio che a luglio non avessi nessun
genere di compiti da fare, ma questo di certo non volevo che lui lo
sapesse. E
cacciarlo in malo modo dopo essere uscita palesemente sconfitta da
quella
battaglia, beh… Non mi sembrava né molto
onorevole né tantomeno intelligente.
Mi
sembrava già di vedere i titoli del giornale del giorno
dopo… Ragazza trovata priva di
vita nella
sua camera da letto, con brutali segni di violenza sul corpo. La
polizia
brancola nel buio…
Si
beh… Magari stavo un po’ esagerando, e forse il
fatto di
non aver ancora visto ‘la vita passarmi davanti agli
occhi’ avrebbe dovuto
tranquillizzarmi, ma… Ero con le spalle al muro, da sola in casa, con la sola – e
poco confortevole – figura di Enrico
a tenermi compagnia! Davvero una bella mossa.
Tornai
sulla terra quando lo sentii ridacchiare, scuotendo la
testa. I miei occhi tornarono inevitabilmente su di lui, dato che era
sempre
meglio tenerlo sotto controllo.
“Proprio
non riesci a sopportare la mia presenza, eh?”
Mormorò, sfiorandomi una guancia con la punta delle dita.
Perché prima non mi
ero resa conto di quanto fosse delicato il suo tocco?
Sospirai,
sentendo i brividi che quella breve carezza mi
aveva procurato. “Diciamo che quello che è
successo l’altro giorno mi ha un po’
spaventata…”
Mezza
bugia: se stavo tremando era per la maggior parte a
causa delle rivelazioni di Riccardo, e non tanto per il rapimento, che
avevo
ormai archiviato sotto il nome di ‘Esperienza
vissuta’. Piuttosto mi era
difficile accettare che le stesse mani che mi stavano accarezzando in
quel modo
fossero in realtà sporche di sangue… Ed io ero a
conoscenza solo di una
millesima parte della sua vita, dato che Riccardo se ne è
allontanato prima che
fosse davvero troppo tardi.
Si,
avevo paura. Non mi dava fastidio ammetterlo, ma mi
irritava che lui lo capisse.
“Oh,
non preoccuparti. D’ora in avanti, non ci sarà
bisogno
di ricorrere a simili mezzi per stare insieme…”
Sussurrò, dolce come il miele e
pericoloso come un’ape.
Avrei
voluto ribattere con un ‘Sei davvero convinto che io voglia stare con te?’ Ma per
fortuna
stavo diventando abbastanza saggia da capire che quello era il momento
per
mordermi la lingua.
Coraggio,
Giulia,
stringi i denti e resisti. Tanto, quanto potrà mai durare il
suo interesse nei
tuoi confronti? La settimana prossima si sarà già
dimenticato di te,
pensai, con un invidiabile ottimismo.
Oh…
Non
mi ero mai sbagliata tanto in vita mia.
______________________________________________________________________________________
Note dell'Autrice:
Accidenti, quanto tempo...
L'ultimo capitolo l'avevo pubblicato a novembre... Novembre! Sono
passati secoli =O Perdonatemi per l'attesa - ho visto che alcuni dei
miei lettori assidui ci hanno rinunciato e mi hanno dato per dispersa -
ma avete ragione. E' stato - ed è ancora! - un periodo
piuttosto incasinato a scuola, ormai scrivo proprio pochissimo...
Diciamo che l'unica cosa che scrivo sono gli appunti in classe... =( Ma
mi dispiacerebbe davvero tanto non riuscire a terminare e portare
avanti questa storia, mi ci sono affezionata!
Cercherò di
aggiornare in tempi meno apocalittici, promesso ^^ Magari ogni due
settimane... Studio permettendo!
Intanto ringrazio tutti voi che
continuate a seguirmi: Grazie, Thank you, Danke schön, Merci
beaucoup, Muchas Gracias!! XD
Alla prossima puntata (a
proposito: il riassunto iniziale era d'obbligo, dato che dopo quasi 4
mesi senza storia anch'io mi ero quasi dimenticata ciò che
stava succedendo ^_^; ) Un bacione!
Auf wiedersehen =*
|
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Capitolo 14 *** Capitolo XIV. ***
Capitolo
XIV
Se
ne andò quasi subito dopo.
Lo
accompagnai al cancello – più per assicurarmi che
uscisse
che per semplice cortesia, in realtà – e ritornai
di corsa dentro casa, con
l’unico desiderio di mangiare qualcosa con un alto contenuto
calorico. Avevo
avuto un pericoloso calo di zuccheri, e dovevo rimediare il prima
possibile.
Una
volta rimasta sola con i miei pensieri, mi decisi ad
aprire la borsa che Enrico aveva usato come scusa per entrare in casa
mia.
Effettivamente, dentro c’erano i miei vestiti e, cosa
più importante, il mio
cellulare: era spento, anche se ero più che sicura di averlo
lasciato acceso…
Quindi, o si era scaricato nel frattempo, oppure Enrico si era messo a
frugarlo; beh, avrei dovuto aspettarmelo. Con un sospiro mi sedetti a
gambe
incrociate nel letto e lo accesi, digitando automaticamente la
password. Chissà
se aveva letto i miei messaggi? Arrossii lievemente al pensiero dei
messaggi di
Matteo che poteva aver trovato, ma alla fine decisi che non mi
importava: non
era mica il mio ragazzo! Anzi, nessuno dei due lo era, quindi
perché avrei
dovuto sentirmi imbarazzata?
Scorsi
velocemente la rubrica, e poi trovai quello che stavo
cercando. Enrico. Ma certo, aveva
memorizzato il suo numero nel mio telefondo, Dio che
arroganza… Come se sapesse
anche prima di venire da me come si sarebbe conclusa la sua
‘visita’! Fissai a
lungo quel nome, assorta e indecisa sul da farsi. Gli avrei dovuto
mandare un
messaggio? Del tipo Domani, davanti alla
banca a mezzogiorno in punto o sarebbe stato troppo western?
Mi
passai la mano tra i capelli in un gesto innervosito,
sbuffando. Stavo diventando matta…
Poi
un pensiero mi fulminò, facendomi sgranare gli occhi.
Alessandra! Dovevo dirlo a lei, dovevo metterla al corrente del fatto
che avevo
deciso di uscire con il leone! Cercai il suo numero e feci per avviare
la
chiamata, ma subito dopo mi bloccai, il dito sospeso sopra il tasto.
Mi
avrebbe dato della pazza se l’avesse saputo…
Inoltre lei
era chiaramente dalla parte di Riccardo, mi avrebbero chiuso a chiave
in casa
mia senza permettermi di vedere Enrico – non che mi
importasse, ma il fatto era
che lui avrebbe fatto del male a loro
se io non avessi rispettato la promessa fatta…
Avevo
vissuto diciotto anni in una specie di campana di
vetro, in tutta tranquillità… E ora le avventure
e i casini dovevano arrivare
tutti insieme? Ma che cavolo!
Gettai
il telefono sul letto, decidendo di non chiamare la
mia migliore amica. Non ora, almeno,
specificai tra me; era ovvio che prima o poi glielo avrei detto, anche
perché
se l’avesse scoperto da altri sarebbe stato
peggio… Dovevo solo trovare il
momento giusto per dirglielo. Che poi, adesso che ci pensavo, avevo
bisogno che
Ale mi coprisse le future uscite con Enrico! Non potevo vederlo di
nascosto dai
miei genitori e dalla mia amica contemporaneamente, prima o poi sarebbe
saltata
tutta la copertura. No, dovevo
dirlo
ad Alessandra. Perciò, con un sospiro rassegnato, presi di
nuovo il cellulare e
digitai rapidamente un messaggio, inviandolo prima che potessi cambiare
idea.
Geme,
ti devo parlare.
Ci vediamo più tardi?
Se
la conoscevo, avrebbe capito già da quel semplice
messaggio che c’era qualcosa che non andava, e mi avrebbe
risposto subito. Bene,
almeno si sarebbe preparata psicologicamente… Non
tardò molto, infatti, a
rispondere.
Certamente,
geme. Vieni
a casa mia? E’ tutto okay?
Un
altro sospiro. Si
si, non preoccuparti… Dai, appena tornano i miei mi faccio
accompagnare da te.
Mi raccomando, preparami qualcosa di estremamente fritto e che grondi
cioccolato…
Riuscii
a sorridere debolmente mentre le inviavo quel
messaggio: il fatto che riuscissi ancora a sdrammatizzare era un buon
segno o
semplicemente era sinonimo della mia estrema stupidità?
Lo
squillo soffocato del telefono mi avvisò della risposta
della mia amica. Ahia, è grave se
vuoi
strafogarti di cibo… Va bene comunque, la cucina lasciala a
me. E portati il
pigiama che stasera dormi a casa mia!
Almeno
sarei stata al sicuro da Enrico, almeno per quella
notte. Perciò annuii, rispondendo affermativamente al suo
invito e aspettando
il rientro dei miei genitori. Nell’attesa, mi gettai sul
letto e ripresi l’Ipod
e le sue tristi colonne sonore; si, stavo proprio male.
“Cosa
diavolo hai fatto?!”
Osservai
senza rispondere Alessandra che sgranava gli occhi,
sconvolta, mentre scattava in piedi e faceva su e giù per
tutta la larghezza
della sua piccola cameretta. Si portava le mani tra i capelli nel mio
stesso
gesto nervoso – era lei che l’aveva preso da me o
il contrario? – e gemeva tra
sé. Alla fine si fermò di fronte a me, scuotendo
la testa e alzando le braccia
al cielo. “Sei del tutto pazza!”
Sospirai,
scrollando le spalle; sapevo con
una certezza quasi matematica che quelle sarebbero state
le sue prime parole.
“Geme,
non potevo fare nient’altro…” Provai a
dire a mia
discolpa, giocherellando con uno dei pupazzi che aveva sopra il letto.
“Non
potevi?” Replicò invece, sedendosi
nell’altro letto, di
fronte a me. “Oh, si invece! Avresti dovuto dirgli chiaro e tondo che non eri interessata a
lui, e farlo scendere dal
suo piedistallo! Che razza di stronzo presuntuoso ed
arrogante!”
Non
potei fare a meno di sorridere debolmente, ma tornai
seria più in fretta del solito. “Senti geme, te
l’ho già spiegato… Ha
minacciato di farvi del male! Avrei dovuto dirgli di no dopo che era
entrato di
nascosto in casa mia con me dentro,
e
da sola? Chissà cosa
cavolo sarebbe
potuto succedere!”
Le
avevo detto tutto quanto, perciò non c’era proprio
niente
che dovessi tenerle nascosto; sapeva per filo e per segno quello che
era
successo, aveva addirittura voluto vedere il numero che lui aveva
memorizzato
nel mio telefono, dopodichè mi aveva fatto ripetere la
storia un’altra volta. E
adesso eravamo al punto di partenza, senza nessun odore di soluzione.
“Okay,
anche tu hai ragione…” Sbuffò.
“Accidenti, sembra
senza via d’uscita! Che si fa?”
Scrollai
per l’ennesima volta le spalle, lo sguardo perso nel
vuoto. “Non lo so…”
Alessandra
rimase in silenzio per un po’, intrecciandosi una
ciocca di capelli intorno al dito. “Ci vuoi uscire,
vero…?” Mormorò alla fine,
guardandomi.
Sospirai
per l’ennesima volta. “Non è che voglio… Il punto è
che devo… Dovrei
inimicarmi gli Occhi Belli,
secondo te? Ti sei già dimenticata quello che ci ha
raccontato Riccardo?”
“È
proprio perché non me ne sono dimenticata che te lo sto
dicendo!” Replicò, incrociando le braccia.
Questa
volta toccò a me sbuffare. “Senti geme, non mi
stai
rendendo per niente le cose più facili. Lo so che mi sono
infilata in un casino
più grande di me, ma non è colpa mia! Enrico
è un ragazzino viziato, e quando
io ci sarò uscita due volte, massimo tre, si
stancherà e mi lascerà perdere.
Quanto scommetti che la settimana prossima starà
già uscendo con
qualcun’altra?” Scossi la testa, abbassando la
voce. “È solo una situazione
temporanea, Ale, fino a quando non ne avrà avuto abbastanza.
Stai tranquilla.”
Il
problema, a quel punto, era che ero io
a non essere per niente tranquilla.
Mi
raggiunse, sedendosi accanto a me, e dopo l’ennesimo
sospiro si decise a parlare. “Okay, va bene. Allora dimmi,
geme… Cosa vuoi che
faccia? Sputa il rospo.”
Accennai
un debole sorriso, annuendo colpevole. “Era proprio
questo che ti volevo dire… Dovresti farmi
l’immenso favore di coprire le mie
uscite con Enrico. Non posso certo dire ai miei che esco con lui, mi
farebbero
il terzo grado e non è proprio il caso… Quindi,
quando dovrò uscire con Occhi
Belli, dovresti assicurarti che i miei non lo vengano a
sapere.”
Ale
trattenne per un attimo il fiato, preoccupata. “Si,
ma… E
se ti dovesse succedere qualcosa, mentre sei con lui? Che si
fa?”
Scossi
la testa, stranamente tranquilla. “Non credo che abbia
intenzione di farmi fuori al primo appuntamento!” Dissi,
cercando di buttarla
sul ridere.
La
mia amica però non sembrava molto disposta a stare al
gioco. “C’è poco da
scherzare…” Disse infatti, aggrottando le
sopracciglia.
“Oh
dai, geme, ora non esagerare!” Replicai, leggermente
scocciata. “E comunque, se proprio vogliamo stare sicure,
posso portare quel
coltellino a serramanico in borsetta, nel caso la situazione diventi
ingestibile. Sei più tranquilla?”
La
vidi chiudere gli occhi per una manciata di secondi, prima
che scuotesse la testa per l’ennesima volta. “No,
non ti ci vedo proprio ad aggredire
un ragazzo che è il doppio di te…”
Sospirò, poi mi attirò in un abbraccio.
“Comunque si, sono più tranquilla. Però
tieniti sempre il telefono acceso,
okay? Così mi mandi un messaggio ogni tanto per farmi sapere
che sei ancora
viva.”
“Geme,
non sto andando in guerra!” Ribattei, ricambiando
l’abbraccio.
“Eh,
oddio…”
Purtroppo
non potevo fare niente per tranquillizzarla, dato
che non lo ero del tutto nemmeno io. Speravo solo che quella storia
finisse il
prima possibile, in modo da non doverci più pensare. Un
po’ come quando si va
dal dentista per togliere un dente… Prima si toglie, prima
cessa il dolore.
Davvero
una bella metafora; avrei voluto che fosse così anche
per me, ma… Oh beh, quanto mi sbagliavo…
Non
sapevo proprio che cosa accidenti avrei dovuto indossare.
Se
avessi messo un semplice paio di jeans con una maglietta a
maniche corte – cosa che avevo puntato da subito –
si sarebbe sicuramente
arrabbiato, dato che nel messaggio aveva precisato di vestirmi in modo
elegante. Ma se pensava che avrei messo un vestitino o una gonna solo
per far
piacere a lui, beh, aveva proprio sbagliato persona!
Okay,
sapevo che non era il caso farlo innervosire al primo
appuntamento, non sapendo ancora di che cosa fosse realmente capace;
così,
finii per indossare un paio di pantaloni bianchi e lunghi, a sigaretta,
abbinati ad una leggera camicia rossa in lino, con le francesine dello
stesso
colore. Non troppo elegante ma neanche troppo casual: insomma, era una mise che avrei potuto mettere anche per
uscire con Alessandra e che, soprattutto, non avrebbe fatto
insospettire i miei
genitori. Comunque la giacchina nera avrebbe mascherato un
po’ quel completino,
per fortuna.
Adesso
non mi restava che farmi accompagnare a casa di Ale.
Se avessi avuto la patente sarebbe stato tutto più facile,
ma avrei compiuto
diciotto anni solo tra una ventina di giorni, e di conseguenza non
avevo ancora
neppure iniziato il corso. Pazienza: avrei dovuto semplicemente dire
qualche
bugia in più, nulla di che rispetto a quello che avevo
intenzione di tenere
loro nascosto… Comunque, avevo avvisato la mia amica che mio
padre mi avrebbe
accompagnato da lei alle otto e mezza, e che l’appuntamento
con Enrico – oddio,
mi faceva un po’ specie dirlo così, ma bisognava
chiamare le cose per quello
che erano – sarebbe stato solo una mezz’ora dopo.
Fin qui tutto okay, non
sarebbe successo nulla di grave. Inoltre gli accordi erano che avrei
dovuto
dormire da Alessandra, quindi alla fine sarei tornata da lei. Non
sapevo che
cosa avesse raccontato ai suoi genitori a proposito di quella
situazione, ma
speravo davvero che, qualsiasi cosa fosse, non avrebbe aggravato la mia
già
debole posizione.
Perciò,
quando arrivai da Ale, non mi rimase che aspettare
con lei, sedute sulle poltroncine nella veranda di casa sua, che
arrivasse
Enrico. Era stata la mezz’ora più lunga della mia
vita: quasi non ci scambiammo
una sola parola, limitandoci a lanciarci sguardi ansiosi, guardare
l’orologio
ogni minuto e sussultare ad ogni rumore di macchina che sentivamo in
strada.
Mio Dio, non credevo che sarebbe stato così terribile
aspettare quel ragazzo.
Alle
nove in punto poi, puntuale come un orologio, sentimmo
una macchina frenare di fronte al cancello della casa della mia
migliore amica,
e io compresi ancora prima di vederlo che si trattava di lui.
Presi un bel respiro, alzandomi dalla sedia, e abbracciando
Alessandra con un leggero tremito del braccio.
“Vuoi
che ti accompagni alla porta?” Domandò,
preoccupata.
Ma
io scossi la testa. “No, no. Non voglio che pensi che ho
così tanta paura di lui da andare con la scorta. Ci sentiamo
più tardi, okay?
Ti mando un messaggio non appena ci sono novità.”
Lei
annuì, tremendamente seria. “In bocca al lupo,
geme.”
Sorrisi,
raggiungendo il cancelletto. “Crepi. Ciao, a dopo!”
Una
volta in strada, osai sollevare lo sguardo sulla macchina
nera decappottabile parcheggiata dal lato opposto al mio.
Enrico
era lì, come avevo immaginato. Era sceso dall’auto
ed
ora era in piedi, poggiato sul cofano della sua cabriolet Focus nuova
di zecca,
e con un’espressione assurdamente arrogante stampata in
volto. E io sarei
dovuta uscire con quell’essere? Oh mamma…
Comunque,
detesto ammetterlo ma non potevo non pensare che
malgrado tutto faceva la sua bella figura. Insomma, era un bel ragazzo,
e
questo era un semplice dato di fatto. Indossava un paio di morbidi
pantaloni
neri, una camicia bianca che portava con nonchalance al di fuori di
essi, una
cravatta a righe allentata intorno al collo e una giacca altrettanto
nera che
sembrava essersi appena buttato sulle spalle. Le mani erano posate sul
cofano,
all’indietro, così che la camicia si tendeva
sull’addome sottolineandone i
muscoli scolpiti.
Non
potei impedirmi di arrossire, mentre cercavo di rivolgere
lo sguardo da tutt’altra parte. Accidenti, se quello era
l’inizio non volevo
immaginarmi il seguito… Sarebbe stata una lunga serata.
“Ciao,
Giulia.” Mi salutò, con un tono di voce
incredibilmente carezzevole e sensuale. Mio Dio, aveva già
intenzione di
provarci? Beh, gli avrei fatto cambiare idea subito.
Lo
raggiunsi cercando di sembrare minacciosa, ma ammetto che
l’effetto sarebbe stato migliore se avessi avuto delle scarpe
più comode: fare
la dura con i tacchi alti otto centimetri non era il massimo.
“Voglio
mettere in chiaro subito un paio di cose, Enrico.”
Sbottai, non appena gli arrivai di fronte. “Non ho intenzione
di assecondare
ogni tuo capriccio, sono qui solo perché mi hai gentilmente
minacciato, e
pertanto sei pregato di limitare le chiacchiere maliziose a zero.
Okay?”
Come
avrei dovuto aspettarmi il suo volto si aprì in un
sorriso, come se fosse maledettamente divertito da quello che gli avevo
appena
detto. “E sentiamo, di cosa dovremmo parlare?”
Chiese, cercando di non ridermi
in faccia. Apprezzai lo sforzo.
“Di
calcio, se vuoi, o di qualche altro argomento che non
sfiori il personale. Vorrei fare in modo che questo non
sembri un appuntamento.” Replicai, rendendomi conto, non
appena
chiusi la bocca, di quanto stupide dovevano sembrargli le mie parole.
Oh beh,
per quello che mi importava…
A
quel punto non riuscì più a trattenersi e
ridacchiò, piano,
facendosi da parte e aprendomi lo sportello della macchina.
“Mi dispiace,
Giulia, ma questo non rientra negli accordi. Questo è
un appuntamento, e farò anche in modo che sia
indimenticabile.”
La sua voce era tornata ad essere un dolce sussurro, malgrado io lo
stessi
guardando come se fosse stato un alligatore che stava aspettando solo
il momento
buono per saltarmi addosso. “Prego.” Aggiunse,
facendomi cenno di salire in
macchina.
Mi
limitai a sbuffare, salendo in macchina e biascicando un
“Grazie” innervosito che tuttavia non
sembrò sfiorarlo minimamente. Accidenti,
era davvero una testa dura!
Fece
il giro dell’auto e poi vi salì con una calma
invidiabile, mentre io cercavo di ignorarlo combattendo con la cintura
di
sicurezza. Vedendomi in difficoltà – non riuscivo
a farla scorrere da dietro! –
si chinò su di me, afferrandola e facendola scattare nella
serratura. Trattenni
istintivamente il fiato nel vederlo e nel sentirlo così
vicino, e il suo
sorrisetto mi confermò che anche lui era palemesemente
conscio di quella
vicinanza. Ad ogni modo non fece nulla di riprovevole, limitandosi ad
allacciarmi la cintura.
“Ammetto
che è un po’ dura da togliere.” Disse,
tornando al
suo posto.
“Già…”
Balbettai, guardando dritta davanti a me.
Avevo
le guance in fiamme, e non ero con lui che da pochi
minuti. Perfetto, davvero perfetto.
Alessandra
avrebbe raccolto il mio cadavere alla fine di
quella serata.
_________________________________________________________________________
Accidenti... Sono di nuovo in
ritardo -.-'' Sto scrivendo e studiando talmente tanto, ultimamente,
che faccio fatica a concentrarmi su una cosa alla volta! Comunque siamo
arrivate al 14 capitolo, alleluja XD Spero che vi piaccia, ma saprete
del loro primo appuntamento solo nel prossimo (prego di riuscire a
postarlo prima di Natale, oddio ^^'') Scherzi a parte, voglio
ringraziare ChasingTheSun,
renesme &
jacob, XXX_Ice_Princess_XXX,
rodney e Merry NIcEssus
per aver recensito, le 66 fantastiche persone che l'hanno inserita tra
le preferite e le 88 tra le seguite! Sono davvero, davvero tanto
commossa :')
Bene, questo è il
mio regalino di Buona Pasqua! *-* Inoltre, vorrei mostrarvi Enrico come
io me l'immagino in questo capitolo...
Enrico
Occhi Belli
E questa è la sua
macchina!
Cabriolet
Ford Focus
Bene, spero vi piacciano
entrambi +____+ E con questo vi saluto! Un bacione, al prossimo
capitolo!
Ciao ciao ^^
|
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Capitolo 15 *** Capitolo XV. ***
Capitolo
XV
Well, it's a marvelous night for a moondance
With the stars up above in your eyes
A fantabulous night to make romance…
Eravamo
in macchina da circa cinque minuti; io cercavo di
ignorare l’alta velocità tenuta dal mio
accompagnatore guardando il paesaggio
fuori dal finestrino, eppure non avevo ancora capito il
perché del nostro
abbigliamento semi-elegante.
Presumo
che parte della colpa fosse mia: non avevo nessuna
intenzione di scambiare con Enrico più parole dello stretto
indispensabile, e
da parte sua lui sembrava aver accettato quella mia battaglia
silenziosa. Già,
perché potevo mostrarmi arrabbiata e nervosa quanto volevo,
ma questo non
avrebbe cancellato il fatto che, intanto, ero nella sua auto. Il
ragionamento
non faceva una piega.
Così,
Enrico si era limitato ad accendere lo stereo e mettere
un cd di musica che avrebbe risparmiato ad entrambi di affrontare
inutili
discorsi per spezzare il silenzio. A me stava benissimo
così. Tuttavia, quando
mi accorsi che non eravamo più in paese da un pezzo, mi
decisi a rivolgergli la
parola.
“Dove
stiamo andando?” Chiesi, diretta e concisa. Okay, forse
anche un po’ brusca.
Lui
distolse lo sguardo dalla strada per una frazione di
secondo, rivolgendomi un sorrisetto che non avevo ancora deciso se
considerare
attraente o indisponente. “Oh, mi sà che hai perso
il gioco.” Rispose invece,
con una risatina.
Inarcai
un sopracciglio, interdetta. “Che cos’è
che avrei
perso?”
Senza
guardarmi annuì, continuando a sorridere. “Sei
stata la
prima a rompere il silenzio. Dunque, hai perso. Mentre guido
penserò ad una
penitenza, non preoccuparti.”
Scossi
la testa, stupita. “Come vuoi.” Dissi, decidendo di
non dargliela vinta. “Ora però mi puoi dire dove
stiamo andando?”
“Oh,
in un posto che ti piacerà sicuramente, credimi.”
Rispose, misterioso. Evidentemente neppure lui voleva cedere, e
compresi che
non mi avrebbe detto altro fino a quando non fossimo arrivati a
destinazione.
Perfetto; mi accomodai meglio sul sedile e mi trincerai di nuovo nel
mio
silenzio, dubitando altamente che mi sarebbe potuto mai piacere
qualunque posto
avesse in mente.
Ovviamente,
così come mi stava accadendo molto spesso in
quell’ultimo periodo, mi sbagliavo.
Arrivammo
una mezz’ora dopo al ristorante più ricercato
dell’isola:
Le Fleur-de-Lys. Si trovava su di
una
piccola altura che sovrastava una scogliera, e che io avevo avuto modo
di
vedere solo dalla spiaggia sottostante. Aveva le dimensioni di una
villa,
completamente circondata da alberi, aiuole fiorite e fontane come se
fosse
uscita da un film, e le macchine parcheggiate lungo il vialetto erano
tutte di
un certo… stile.
Davvero, non osavo neanche
immaginare come potesse, un ragazzo di ventiquattro anni, permettersi
un posto
del genere, e non appena scesi dalla macchina provai un insano istinto
di
girare i tacchi e correre via, letteralmente.
Tuttavia,
come se avesse in qualche modo intuito lo scorrere
dei miei pensieri, Enrico mi raggiunse, portandomi un braccio intorno
al fianco
e attirandomi pericolosamente verso di sé.
“Cosa
stai…?” Provai a ribattere, cercando di
districarmi
dalla sua stretta.
Per
tutta risposta lui accentuò la presa, chinando il capo e
avvicinando la sua bocca al mio orecchio. “Non essere
antipatica, sto solo
cercando di comportarmi da gentiluomo.” Replicò
con un sorrisetto, facendomi
innervosire ancora di più.
“Certo,
come no…” Borbottai, decidendo di ignorarlo per
rivolgere
la mia attenzione al bellissimo – detesto ammetterlo
– posto dove mi aveva
portato. Mi aveva promesso che sarebbe stato indimenticabile, oh
beh… E chi se
lo sarebbe scordato?
Percorremmo
il vialetto in ghiaia verso il ristorante, e dopo
qualche passo traballante dovetti ringraziare silenziosamente Enrico
per avermi
fatta aggrappare a lui: quei maledetti tacchi scivolavano sulle
pietruzze della
strada, e sicuramente sarei già finita col sedere per terra
se Occhi Belli non
mi avesse retto.
Odiavo
farmi vedere così in difficoltà, ma dopotutto non
c’era altra scelta.
Finalmente
arrivammo alla villa, che vista da vicino
ricordava le vecchie abitazioni americane delle piantagioni di cotone,
con le
edere che si arrampicavano sulla balaustra della veranda e i
lampioncini che
proiettavano la luce dal prato verso la facciata. Davvero molto
suggestivo e
romantico, se solo avessi avuto un diverso accompagnatore…
Dovette
tuttavia accorgersi della mia espressione sorpresa ed
incantata, perché il suo sorriso si allargò
ancora di più – possibile che fosse
lo stesso ragazzo che solo la settimana prima aveva quasi spaccato il
labbro di
Riccardo? – e si chinò su di me, facendomi agitare
per quella continua
vicinanza.
“Te
l’avevo detto che ti sarebbe piaciuto…”
Mi
voltai verso di lui, decidendo per il momento di issare la
bandiera bianca. Basta, per quella serata mi sarei arresa.
Perciò mi limitai ad
annuire, senza nessun accenno del sorriso che forse si aspettava, e
sospirai. “Già…”
Incredibilmente,
quel monosillabo sembrò bastargli.
Salimmo
i gradini in pietra della veranda e, non appena
mettemmo piede sulla soglia del ristorante, venimmo affiancati da un
cameriere,
forse sui quarant’anni o qualcosa di più, a
giudicare dalle striature grige dei
suoi capelli, vestito con dei pantaloni blu scuro, una semplice camicia
bianca
e un fiordaliso azzurro appuntato sul petto. Ci sorrise in modo
piuttosto
professionale ma non potè fare a meno di studiare il mio
abbigliamento: okay,
stavo iniziando a pentirmi di non aver indossato il vestitino, e allora?
Tuttavia
il suo sguardo si spostò su Enrico con molta
rapidità, salutandolo con un cenno del capo e un sorriso che
mi fece capire che
non era la prima volta che frequentava quel posto. Accidenti, doveva
essere più
ricco di quanto immaginassi…
“Buonasera,
signor D’Angelo. Ha prenotato un tavolo, se non
sbaglio?”
Enrico
salutò ed annuì, accentuando lievemente la presa
sul
mio fianco. Mio Dio, ma allora era un vizio! Realizzai in ritardo che
quella
era la prima volta che sentivo il suo vero cognome: per un attimo avevo
creduto
che si chiamasse Occhi Belli sul serio. Non si finisce mai di imparare.
“Prego
allora, da questa parte.” Aggiunse il cameriere,
facendoci strada attraverso l’ampio salone pieno di tavoli
occupati da persone
vestite come alla prima de La Scala. Che esagerazione… In un
angolo, sopra una
piccola pedana, si trovava addirittura un’orchestra che
suonava dal vivo, come
nei migliori film. Ma dove caspita ero finita? Forse se avessi guardato
bene
avrei trovato delle telecamere, magari un film lo stavano girando sul
serio. Se
l’avessi raccontato ad Alessandra non mi avrebbe mai creduto.
Il
cameriere ci portò al secondo piano, che era un
po’ più
vuoto rispetto al salone; forse era solo una mia impressione, ma
lì anche le
luci sembravano soffuse. Ci condusse in un angolino appartato, reso
ancora più
intimo da un elegante paravento nero con dei disegni orientali che
separava il
nostro tavolo dal resto della sala, rendendoci praticamente invisibili
agli
altri. Avrei voluto ribattere in qualche modo – non mi
ispirava molto l’idea di
restare completamente sola con lui
–
ma poi realizzai che in quel modo avrei finito solo col fare la figura
della
ragazzina stupida. Così, con un sospiro, mi sedetti.
Non
appena sollevai lo sguardo per dare un’occhiata in giro, mi
si mozzò il respiro nel notare l’immensa vetrata
che troneggiava di fronte al
nostro tavolo, e dalla quale si vedeva la spiaggia e il mare
dall’alto della
scogliera. Non avevo realizzato che ci trovavamo così
in alto…
“Volete
già ordinare?” Domandò il cameriere,
cortese.
Enrico
mi rivolse un’occhiata interrogativa, io annuii
lievemente e lui prese il menù, sfogliandolo. “Si,
dunque…”
Iniziò
ad ordinare con nonchalance tanti di quei piatti che
mi venne voglia di interromperlo e ricordargli che eravamo solo in due,
ma
dopotutto se lui c’era già stato doveva sapere che
cosa stava facendo. Perciò
lo lasciai fare, permettendogli di ordinare anche per me:
d’altra parte io non
avrei saputo cosa prendere.
“Per
finire, potrebbe portarci un Chateau Clinet del 2005?”
Concluse, parlando molto probabilmente di un vino; doveva intendersene,
per
conoscere anche l’annata.
Il
cameriere fece un sorriso di compiacimento. “Posso
complimentarmi per l’ottima scelta?” Disse,
ritirando i due menù. “La cena sarà
pronta nel minor tempo possibile. Vi faccio portare subito il vino e
qualche
antipasto.”
Non
appena rimanemmo soli, non potei fare a meno che chinarmi
verso di lui e chiedergli, piuttosto preoccupata. “Ma cosa
tutto hai ordinato?
Siamo solo in due, non in venticinque!”
Come
avrei dovuto aspettarmi, lo feci sogghignare.
“Tranquilla, il trucco è assaggiare un
po’ di tutto.” Rispose, togliendosi la
giacca.
Oh,
mossa sbagliata… Prima di potermene accorgere mi ritrovai
a fissare poco finemente i muscoli che guizzavano al di sotto della
camicia, e
quando distolsi lo sguardo, pregando che lui non se ne fosse accorto,
mi sentii
le guance in fiamme. Non potevo continuare così tutta la
sera…
All’improvviso
si alzò, raggiungendomi e porgendomi una mano.
“Vieni, voglio farti vedere una cosa.” Disse,
aspettando che accettassi il suo
invito.
Malgrado
non rientrasse nei miei desideri toccarlo così
spontaneamente, la presi lo stesso per non essere maleducata: in fondo
non
stava facendo nulla di male, no? Deglutii quando la sua mano si
richiuse sulla
mia ma cercai di ignorarlo, alzandomi e seguendolo docilmente. Ricorda, bandiera bianca, continuavo a
ripetere in silenzio tra me.
Come
se fosse stato a casa sua Enrico aprì la grande vetrata
con noncuranza, portandomi nella terrazza all’aperto,
abbellita da vasi di
fiori profumati. Una volta fuori la richiuse, ma io non me ne accorsi:
raggiunsi invece la balaustra, poggiandomici sopra e guardando lo
splendido
paesaggio che si ammirava da lassù. Soffiava una leggera
brezza che mi scompigliava
i capelli e chiusi gli occhi, inspirando il fresco odore del mare che
saliva
dalla spiaggia. Non ricordavo che quella notte ci sarebbe stata la luna
piena, e
quando la vidi risplendere come se fosse stata sollevata pochi metri
dalla
superficie del mare nero, rischiarato dal suo riflesso, non potei
trattenere un
sospiro. Era tutto così bello… Perché
un simile spettacolo doveva essere
rovinato dalla minaccia di Enrico
che
incombeva su di me?
“Bello,
vero?” Mormorò alle mie spalle, come se non
volesse
rovinare quella strana magia.
Annuii,
senza voltarmi. “Si…”
Improvvisamente
avvertii la sua presenza proprio dietro di
me, così vicino che avrebbe potuto toccarmi solo con un
respiro più profondo.
Rimasi immobile, con tutti i sensi all’erta, tanto che mi
sarei accorta anche
del battito del suo cuore se fossimo rimasti in silenzio. Il venticello
mi
portò al naso il profumo frizzante e sensuale del suo
dopobarba, e mi ritrovai
a cullarmi in quella fragranza come se potesse avvolgermi.
“Sei
ancora pentita di essere venuta?” Domandò in un
sussurro, chinandosi sulla mia spalla.
Presi
un profondo respiro, prima di voltarmi per
fronteggiarlo. “Adesso lo sono anche più di
prima.” Replicai, incrociando le
braccia.
Inarcò
un sopracciglio, sorpreso dalla mia brusca risposta.
“Come mai? Credevo ti piacesse qui…”
“Non
è questo il punto.” Dissi, distogliendo lo
sguardo. Non
riuscivo a guardarlo per più di pochi secondi senza
arrossire o balbettare,
perciò tanto valeva ammirare il cielo stellato.
“Non aveva senso portarmi qui,
Enrico… Come posso spiegartelo? Tra qualche giorno ti sarai
già stufato di me, il
che è anche normale, dato che avrai altre decine di ragazze
disposte a scaldare
il tuo letto, e a me non resterà che decidere se esserne
contenta o triste, e
sarà un qualcosa che mi tormenterà per
sempre.”
L’avevo
fatta tragica? Si, lo ammetto, ma dato che non
sembrava capire il discorso semplice del tu-non-mi-piaci
e stammi-lontano, allora dovevo
inventarmi qualcos’altro. L’unico problema era che
quel discorso mi era uscito
più realistico di quanto avessi previsto… Dovevo
iniziare a preoccuparmi?
Comunque
non credevo di essere riuscita a scalfirlo, come
dimostrò la sua risposta.
Mi
dedicò un sorriso terribilmente malizioso. “Mio
Dio,
Giulia… È il primo appuntamento e sei
già così gelosa?”
Sgranai
gli occhi e fu con un immenso sforzo che non
spalancai la bocca, allibita. Ma allora parlare con lui era come
parlare al
muro! “Ma cosa diavolo dici?!” Ribattei,
indietreggiando e sentendo il viso
andarmi in fiamme. Maledetto imbarazzo! “Non sono
gelosa!”
Rise,
avvicinandosi alla balaustra e poggiandosi ad essa con
un movimento sinuoso ed elegante. “Lo so, stavo solo
scherzando… Ma volevo
vedere la tua reazione.” Scrollò le spalle, con un
sospiro. “Ad ogni modo…
Giulia, tu sei ancora convinta che io ti voglia solo portare a letto,
per poi
dimenticarmi di te il mattino dopo… Mettiti bene in testa
che una cosa del
genere non accadrà mai.
Cos’altro
devo fare per fartelo capire? Io…”
Si
portò una mano a sfregarsi il volto, indeciso su cosa
aggiungere, e, potrei giurare, anche leggermente imbarazzato. Poi
abbassò la
mano e mi fissò a lungo negli occhi, facendomi desiderare
ardentemente di
trovarmi ad una distanza di sicurezza da lui.
“Mi
piaci, Giulia.” Sussurrò, semplicemente.
“E non farei mai
nulla che possa farti star male, perciò… Inoltre
cosa ti fa pensare che tra
qualche giorno mi sarò stancato di te? Non ti
capisco!”
Mi
aveva messa con le classiche spalle al muro, dato che
quella mezza dichiarazione mi aveva lasciata senza parole: non sapevo
nemmeno
più cosa pensare. È
davvero un bravo
attore… Pensai, prima di fare l’errore
di ricambiare lo sguardo e perdermi
in quegli occhi assurdamente verdi. La parte razionale del mio cervello
sembrò
aver chiuso i battenti, per dare libero sfogo a quella inconscia che
avrebbe
desiderato solo poter credere a quelle parole. Ma perché
avevo simili pensieri?
Avevo l’impressione che dentro di me si stesse svolgendo una
di quelle
battaglie epiche impossibili da ignorare, ma all’esterno
questa si manifestava
solo con il solito rossore sulle guance e con un improvviso accelerare
della
corsa del sangue nelle vene.
Continuai
ad osservarlo senza rispondere, e quando mi si
avvicinò rimasi immobile, lasciandolo fare. Si
chinò lentamente sul mio collo
in modo da lasciarmi la libertà di ritrarmi, se avessi
voluto, ma la cosa
assurda fu che non lo feci: notai appena il suo debole sorriso prima
che le sue
labbra si avvicinassero al mio orecchio, sussurrando una strana melodia
che
avevo l’impressione di conoscere.
«Well, it's a marvelous night for a moondance,
with the stars up above in your eyes… A
fantabulous night to make romance…»
Portò una mano
a sfiorarmi i capelli, portandomeli dietro l’orecchio
così da potersi chinare
sul collo ormai nudo per concludere quella dolce nenia, cantata con un
sussurro
roco che mi fece venire dei pericolosi brividi lungo la schiena.
Sentii
le sue labbra bollenti sfiorarmi la pelle delicata
dell’incavo della spalla e tremai, temendo e allo stesso
tempo aspettando con
una sorta di morbosa curiosità quello che sarebbe avvenuto
dopo. Ma non ebbi
mai l’occasione di saperlo.
La
vetrata si aprì e un cameriere si affacciò sul
terrazzo,
attirando la nostra attenzione con dei colpetti discreti di tosse.
«Signori, la
cena è servita.»
Senza
allontanarsi particolarmente da me, sentii Enrico
rispondere. «Grazie, arriviamo subito.»
Il
cameriere tornò dentro il ristorante, richiudendo la porta.
Ma
ormai l’incantesimo che aleggiava su di noi fino a qualche
attimo prima si era
spezzato, per fotuna – o per sfortuna?
Indietreggiai
fino ad essere ad una distanza di sicurezza, prendendo
un bel respiro e accorgendomi solo in quel momento di aver trattenuto
il fiato
per tutta quella breve eternità. «Penso sia meglio
andare.» Mormorai, ben
consapevole del tremito della mia voce.
Lui
annuì, ma non riuscì a cancellare del tutto
l’ombra scura che
gli aveva invaso lo sguardo. Oh mio Dio… «Si, hai
ragione… La cena dovrebbe
riuscire a calmarmi.»
Cercai
di ignorare il significato volutamente malizioso di
quell’ultima affermazione e gli diedi le spalle, correndo
quasi verso la
vetrata che in quel momento, per me, rappresentava la salvezza o
qualcosa del
genere. La aprii ed entrai senza controllare che lui mi stesse
seguendo,
precipitandomi al tavolo ormai colmo di pietanze di ogni genere.
Aspettai che
si sedesse di fronte a me prima di mangiare, ma la fame mi era ormai
passata
del tutto: avevo l’impressione di avere un macigno sullo
stomaco, e non ne
capivo il perché. Se mi avesse fatto quell’effetto
tutte le volte non sapevo se
sarei riuscita a continuare a vederlo…
Osai
sollevare gli occhi con l’intenzione di spiarlo di nascosto,
ma ovviamente non fu possibile, dato che anche lui mi stava osservando,
invece
di mangiare: aveva il mento posato sulla mano e con l’altra
tamburellava sul
tavolo, al ritmo, forse, della stessa canzone che aveva canticchiato
poco prima.
Mi sorrise quando si accorse del mio sguardo, ed io lo distolsi
nuovamente, in
modo piuttosto codardo. Non vedevo l’ora che quella serata
terminasse…
Anche
se ero quasi certa che, una volta al sicuro in casa mia, ne
avrei sentito stranamente la mancanza.
Stupida,
io? Oh, si… Immensamente.
__________________________________________________________________________
Wao,
dicesi aggiornamento lampo xD Non fateci troppo l'abitudine,
però u.u
Comunque consideratelo un regalo per le belle recensioni e
l'incredibile aumento di preferiti e seguiti... Sono davvero commossa e
contenta! Non me l'aspettavo *-*
Allora, QUI
trovate la musica e la canzone presente in questo capitolo, trovo che
sia splendida (poi, se a cantarla è Jonathan Rhys
Meyers, ancora di più ;D )
Bene, e ora passo ai ringraziamenti!
_Aleidita_:
Eccoti accontentata! Aggiornamento rapido ^^ grazie mille per i tuoi
complimenti, continua a seguirmi <3
lara27:
Eeeh, purtroppo non sono autorizzata a divulgare simili spoiler u.u Non
vi resta che continuare a leggere! =P comunque, ancora grazie per i
complimenti ^^
Ada Wong:
Mia cara, ti ho già risposto ma rinnovo i miei grazie ^^
L'utilizzo dei nomi italiani piace molto anche a me, inoltre era un
modo come un altro per rendere la storia il più realistica
possibile - anche se mi accorgo che, purtroppo (o per fortuna!!) cose
del genere non accadono nella vita reale... Inoltre la scrittura in
prima persona rende questa immedesimazione più possibile, mi
auguro ;) Lieta anche di sentire che ti piacciono tutti i personaggi!
Povero Stefano, per ora ha fatto solo una breve apparizione, ma ti
assicuro che è felice di avere una fan xD al prossimo
capitolo! ^^
prettyvitto:
Aggiornato,
come promesso ^^
Maka27:
Wao, l'hai letta tutta in due giorni?? Vabbè, non
è certo quel gran mattone, però ti ringrazio ^^
Sono proprio tanto contenta :') Piaciuto il luogo dell'appuntamento?
Spero proprio di si, avercene ragazzi che ci portano in questi posti! ;D
luis:
Tranquilla cara, ti sei spiegata benissimo e io ho capito al volo
quello che intendevi ^^ Anch'io concordo con te sul fatto che Enrico
emani sensualità pura, ma purtroppo quello che fa non
è proprio un punto a suo vantaggio, ecco... D'altra parte,
io non amo neppure le storie d'amore facili u.u E hai ragione quando
dici che ne è attratto in modo ossessivo! Sto cercando di
rendere proprio questo aspetto, ma siamo ancora agli inizi ;) Per
quanto riguarda il suo punto di vista, al momento non te lo so dire!
Chissà, magari riesco a dedicare un qualche capitolo solo a
lui in modo da lasciarlo parlare, o forse potrei rifarne un altro con
il suo POV... vedremo ^^ Nel frattempo, continua a seguirmi =*
Sfosfy4ever:
Ciao nuova fan! ;D grazie mille per i complimenti ^^ Mi è
piaciuto quello che hai detto a proposito di Enrico, sul fatto della
"doppia personalità"... Sai che non ci avevo proprio
pensato? Mi è uscito così, dal cuore! Benedetto
inconscio mio =D L'appuntamento comunque non è ancora
finito, ce n'è un piccolo pezzo anche nel prossimo capitolo
u.u Mi farai sapere che te ne pare di questo, comunque ;)
rodney:
Eh, anch'io adoro tantissimo Damon *-* Mi spiace per Stefan,
sarà pure lui il buono della situazione.... Ma io voto per
Damon +__+ Viva i cattivi! XD Hai ragione a dire che la vedi dura,
cavoli, come si fa a restistere?? Eppure si deve u.u Un bacione, al
prossimo capitolo ^^
E con questo ho finito! ^^ Grazie mille per aver letto, per aver
recensito, per avermi aggiunta tra le preferite (71) e tra le seguite
(108)!
Grazie, grazie, grazie! Continuate sempre così ;)
Un bacione, al prossimo capitolo!
Smack =*
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Capitolo 16 *** Capitolo XVI. ***
Capitolo XVI
Alla fine la serata terminò.
Enrico mi aveva riaccompagnato a casa
di Alessandra, senza dire o
fare nulla che mi avrebbe potuto far ricredere sull’idea
sbocciata fresca
fresca nella mia mente, e cioè che, dopotutto, un minimo di
fiducia valeva la
pena concedergli. Oh, non fraintendetemi: intendo dire che mi ero
dovuta
ricredere sul fatto che mi avrebbe violentata o cose del genere, come
invece
aveva predetto la mia amica. Ma dopotutto lei era la solita tragica.
Parcheggiò la macchina
esattamente di fronte al cancelletto in
ferro battuto della casa di Ale, spegnendo il motore e venendo ad
aprirmi lo
sportello come il più educato dei gentiluomini. Ammetto che
avevo lottato
durante tutto il viaggio in auto per non aprire il cruscotto e
controllare se
ci fosse la pistola, come nei vari film che avevo avuto modo di vedere,
ma ero
riuscita a spedire in un lontano angolino del mio cervello questa
malsana idea.
A parte che mi avevano sempre insegnato che non è educazione
frugare tra le
cose degli altri, ma poi, anche se avessi aperto e trovato l’arma, che cosa avrei
risolto? Non potevo certo puntargliela contro,
no?
Malgrado tutto quello che mi ero
ripromessa di fare, mi conoscevo
troppo bene per poter anche solo credere di essere capace di fare una
cosa del
genere. Semplicemente, non era da me. Grazie al Cielo!
Ad ogni modo mi accompagnò
fino alla porta, con le mani in tasca
che gli davano una strana aria da bello e
impossibile, con gli occhi neri e quelle labbra disegnate…
Okay, il
concetto è arrivato. Insomma, anche se si trattava di lui
potevo certo permettermi
di ammirarlo senza che lo capisse, no? Un po’ come si fa con
le statue
dell’antica Grecia, che si osservano con adorazione mentre si
cerca in tutti i
modi di ignorare la loro nudità: in questo caso, la sua
nudità era
rappresentata dalla sua fedina penale, in un certo senso.
Comunque non erano questi i pensieri
che mi affollavano la mente,
mentre cercavo le chiavi che la mia migliore amica aveva lasciato nella
veranda
– sotto un vaso, per la precisione – per
permettermi di rientrare in silenzio
senza svegliarla. Come se non mi stesse aspettando alzata per farsi
raccontare
tutto!
Dopo averle trovate e aver armeggiato
con la serratura della porta
fino ad aprirla, il tutto con la presenza leggermente opprimente di
Enrico alle
mie spalle, mi voltai per salutarlo. Dopotutto, non avevo ancora perso
le mie
buone maniere.
Ma quello che mi disse mi sorprese per
l’ennesima volta.
“Ti ricordi della
penitenza?”
Osservai piuttosto stupita il sorriso
che gli aveva nuovamente
illuminato il volto, mentre incrociava le braccia e si posava sullo
stipite
della porta, incurante della sensualità che sembrava
emanare. Si, decisi, era
sicuramente colpa di quel dannato Chateau Clinet che mi aveva fatto
bere. Non
ero più in me!
“Quale penitenza?”
Domandai incerta, cercando di temporeggiare. In
realtà sapevo perfettamente di cosa stava parlando, ma non
volevo di certo
dargliela vinta. Sciocco da parte mia, ma volevo prendermi almeno una
piccola,
piccolissima rivincita. Che illusa.
Infatti il suo sorriso si
allargò ulteriormente, mentre si
avvicinava pericolosamente a me. “Hai perso un gioco, e ora
ti spetta una penitenza.
Non hai mai fatto queste cose, da piccola?”
Mormorò, malizioso.
Cercai di indietreggiare, ma
sfortunatamente incontrai la sedia a
sdraio sulla quale sbattei l’incavo delle ginocchia, il che
mi fece cadere
all’indietro su di essa. Enrico rise piano, come se sapesse
che la mia amica e
i suoi genitori stavano dormendo e non volesse svegliarli, e prima di
potermi rialzare
mi si inginocchiò davanti, posando le mani sui braccioli di
legno della sdraio e
chinandosi verso di me.
“Com’è
che si dice in questi casi?” Sussurrò, fingendosi
pensieroso. “Ah, si… Sei in trappola.”
Sentii il cuore battere talmente forte
che temetti per un attimo
che volesse uscirmi dal petto, per abbandonarmi insieme
all’ultima goccia di
lucidità che credevo mi fosse rimasta. Deglutii, mentre
cercavo inutilmente di
appiattirmi contro lo schienale della sedia per sparire al suo interno.
“Cosa… Cosa
vuoi…?” Balbettai, senza staccare lo sguardo da
lui
per cercare di prevenire le sue mosse.
Il suo sorriso, come sempre, non mi
piacque per niente. “Prova ad
indovinare…”
Lo vidi venirmi lentamente sempre
più vicino, le sue mani che
avevano bloccato le mie sopra i braccioli per impedirmi ogni genere di
movimento: sembrava che volesse gustarsi ogni singolo secondo di
quell’attimo.
A quel punto iniziai a sconnettere e a pensare a cose senza senso.
Com’è che
diceva Bergson, in proposito? Ah si, qualcosa del tipo ‘la durata di un evento dipende
dall’intensità con cui lo si è vissuto’…
Dove l’avevo già studiato? In arte, in filosofia?
O forse era francese, con
Proust?
E
perché diavolo stavo
pensando a quello?!
Sbattei più volte le
palpebre e ritornai con i piedi per terra,
anche se la mia realtà non mi piaceva particolarmente.
Enrico era ormai a pochi
centimetri dalle mie labbra – come aveva fatto ad avvicinarsi
tanto? – e
all’ultimo momento, quando socchiuse gli occhi e fece per
annullare ogni
distanza rimasta, io voltai di scatto la testa, deviando il suo bacio
che andò
a posarsi sulla mia guancia.
Si allontanò, sorpreso e
divertito, mentre io gli rivolgevo
un’occhiata furiosa. “Si può sapere cosa
ti è preso?” Sibilai, del tutto
impotente. Ero ancora bloccata sotto la sua stretta, dopotutto.
Scrollò le spalle con
eleganza e nonchalance, continuando a
sorridere. “Era la tua penitenza.” Rispose,
guardandomi di sotto in su
attraverso le sue lunghe ciglia nere.
Dio, perché dovevo trovare
attraente proprio l’unica creatura con
cui non volevo avere nulla a che fare?
“Non credo
proprio.” Sibilai, cercando di incenerirlo con lo
sguardo.
La sua risata era terribilmente
irritante, inoltre vederlo così
prossimo al mio viso mi metteva fin troppo a disagio; okay, mi aveva
già vista
mezzo nuda e certo, purtroppo aveva anche avuto modo di baciarmi, in un
certo
senso, ma non poteva di sicuro aspettarsi che io avrei continuato a
lasciarglielo fare con tutta quella nonchalance che lui amava mostrare.
“È solo un
bacio.” Sussurrò insistente, imbronciando le sue
labbra
carnose e invitanti…
No!
Accidenti, Giulia,
riprenditi!
“È meglio se
adesso te ne vai, Enrico.” Mormorai con la voce
leggermente tremante, distogliendo lo sguardo da lui e rivolgendolo
altrove.
Lo sentii sospirare, rassegnato, e
alla fine si alzò in piedi
liberando i miei polsi dalla sua stretta. “Va bene,
è ora.” Acconsentì,
palesemente di malavoglia.
Con un sospiro sollevato mi alzai
anch’io, dirigedomi verso la
porta cercando di continuare a tenerlo sotto controllo; tuttavia
sembrava aver
terminato con le cattive intenzioni, almeno per quella notte, e allora
feci per
entrare in casa prima che potesse cambiare idea. Ciò
nonostante la mia
maledetta buona educazione mi costrinse a voltarmi nuovamente verso di
lui per
salutarlo, e alla fine accadde.
Mi ritrovai le sue labbra posate sulla
mia guancia talmente
all’improvviso che rimasi imbambolata davanti a lui, senza
fare assolutamente
nulla per staccarlo da me; il profumo del suo dopobarba mi
investì più di prima
ed io mi scoprii ad annusarlo con gli occhi socchiusi, rendendomi conto
solo
dopo della stupidità del mio gesto. Ma ormai…
Si allontanò lentamente dal
mio viso con un sorriso che non aveva
nulla di malizioso ma che era provocante nella sua assurda dolcezza, e
infine
dischiuse le labbra per parlare. “Per stanotte mi
accontenterò di questo…
Buonanotte, Giulia.” Mormorò, con voce roca.
Detto questo indietreggiò
di qualche passo, continuando a
sorridermi, e solo all’ultimo mi diede le spalle ed
uscì dal cancelletto,
lasciandomi sola. Rimasi ad osservarlo fino a quando il rumore della
sua
macchina non sparì dietro l’angolo, e a quel punto
ripresi a respirare
normalmente; ero più scioccata per il fatto che il suo bacio
era stato così
tenero e gentile o per il fatto di sentire il cuore esplodermi nel
petto…?
Stupida!
Ma che vai a
pensare!
No, decisamente non poteva essere per
quello. Semplicemente mi
aveva stupita il suo gesto, tutto qui: non mi aspettavo si comportasse
in quel
modo – al limite avrei creduto che mi avrebbe obbligata a
baciarlo, ma non era
successo… Allora Enrico era sincero quando aveva detto,
qualche giorno prima,
che nei miei confronti nutriva un autentico rispetto?
Scossi piano la testa, sollevando una
mano a sfiorarmi la guancia
ed entrando in casa senza allontanare le dita dal punto in cui le sue
labbra
avevano incontrato la mia pelle. Avevo l’impressione che il
suo profumo
aleggiasse ancora intorno a me, come una scia, a dispetto del mio
profondo desiderio
di cancellare quegli ultimi minuti della serata che erano giunti tanto
inattesi
quanto indesiderati. Accidenti, adesso avrebbe creduto
chissà cosa a giudicare
dalla mia reazione!
Quando, la mattina dopo, aprii gli
occhi, per poco non mi sfuggì
un grido di spavento.
Mi ritrovai il volto della mia
migliore amica sospeso pochi
centimetri sopra il mio, con uno sguardo talmente penetrante e
indagatore da
riuscire a farmi arrossire. Comunque, quando si accorse che mi ero
svegliata,
si allontanò quel tanto che bastava per farmi sollevare.
“’Giorno,
geme…” Biascicai, passandomi una mano tra i
capelli per
renderli un po’ meno sconvolti.
Com’era da aspettarsi, lei
non si degnò neppure di rispondere.
“Allora?! Non hai nulla da raccontarmi?”
Esclamò, incrociando le braccia.
Per tutta risposta sbuffai, tuffandomi
nuovamente tra le lenzuola
e nascondendo la testa sotto il morbido cuscino. “Ho sonno,
geme…”
“Ah no, ora ti
svegli!” Sentii il lenzuolo scoprirmi e la mia
migliore amica, che in quel momento detestai con tutta me stessa,
saltò sul
letto per farmi il solletico e costringermi con le buone o le cattive a
svegliarmi del tutto.
“Ti odio!”
Grugnii, guardandola di sbieco.
Lei imbronciò le labbra,
per nulla disposta a lasciar perdere. “Voglio
sapere che cosa è successo ieri notte! Accidenti, hai fatto
tardi! Io mi sono
addormentata intorno alle due e tu non eri ancora arrivata!”
Cavolo, avevamo fatto così
tardi? Non me n’ero accorta, forse ero
ancora troppo sconvolta per guardare anche solo l’orologio.
Del fatto che fosse
già coricata, in effetti, mi ero sorpresa anch’io,
ma avevo preferito non
svegliarla proprio per evitare una scenata come quella che, invece, mi
stava facendo
adesso.
Sospirai, mettendomi a sedere e
rinunciando all’idea di scampare
all’interrogatorio. “Prima che ti faccia strane
idee, lasciami premettere che
non è successo nulla di imbarazzante, contrariamente alle
tue oscene
aspettative.”
Alessandra ebbe il buonsenso di
arrossire, ma non per questo
rinunciò al suo obiettivo. “Beh, meglio
così. Però non credere di cavartela con
questo! Voglio i dettagli! Det-ta-gli!” Esclamò,
scandendo ben bene le parole.
Mi affrettai a portare un dito alle
labbra, facendole cenno di
abbassare la voce. “Zitta! Sei scema? Vuoi che tua madre lo
venga a sapere?!”
“No, lo voglio sapere io!”
Esclamò ancora, lanciandomi un cuscino che – vista
la mia scarsa prontezza di
riflessi mattutina – mi prese in piena faccia.
Sbuffai, ricambiandole la cortesia e
tirandoglielo nuovamente
addosso. “Okay, va bene!”
Sibilai,
incrociando le gambe e cercando una posizione più comoda.
Qualcosa mi diceva
che sarebbe stato un lungo interrogatorio… Forse era il
luccicchio assassino
nei suoi occhi?
“Mi ha portato a cena al Fleur-de-Lys,
sai, quel ristorante sulla scogliera…” Esordii,
non riuscendo ad impedirmi di
provare una punta di orgoglio nel poter dire di essere stata in un
simile
locale. Saltai senza pensarci due volte la parte del terrazzo
– non mi sembrava
davvero il caso di dirlo a qualcun altro – e le raccontai
della cena nei minimi
dettagli, dato che era questo quello che voleva.
“Ho mangiato cose di cui non
conoscevo neppure il nome!” Le
confidai, con una smorfia.
Tuttavia, la strana espressione con
cui mi stava osservando la mia
amica mi fece intuire che non era esattamente quello ciò che
voleva sentire. Perciò
mi interruppi e, con un sospiro, chiesi. “Cosa
c’è?”
“Stai tergiversando,
geme!” Esclamò, alzando le braccia al
soffitto in un gesto spazientito.
Roteai gli occhi, decidendo di
arrendermi. “Okay, saltiamo direttamente
al punto clou, visto che ti stai annoiando… Ha cercato di
baciarmi.”
“CHE COSA?!”
Gridò, quasi.
Mi lasciai sfuggire
un’imprecazione assai poco gentile. “Ma
cavolo, geme, vuoi davvero vedermi morta? Non urlare!” La
supplicai, lanciando
uno sguardo preoccupato verso la porta chiusa. Le nostre due madri
erano molto
amiche, avevano un buon rapporto, e se sua
madre avesse anche solo sospettato qualcosa sulle mie uscite,
di
conseguenza l’avrebbe saputo anche mia
madre… Per carità, mi sarebbe servita solo quella
scusa per non dover più
uscire con Enrico, ma ormai avevo fatto una promessa!
Alesssandra annuì,
tappandosi la bocca con le mani. Prese un bel
respiro, poi tornò all’attacco. “Ha
cercato di baciarti?” Ripetè, questa volta
sussurrando. “E lo dici con questa leggerezza?”
Alzai le spalle, indifferente.
“Ho detto che ha cercato
di baciarmi, non che ci è
riuscito!” Spiegai. “L’ho mandato via
prima che lo facesse. Grazie al cielo
eravamo già arrivati a casa…”
“No, aspetta un
attimo.” Mi interruppe ancora, stupita. “Mi stai
dicendo che lui ti ha quasi baciata
nella veranda di casa mia? E io
stavo
dormendo?!”
“Perché ho
l’impressione che avresti voluto assistere?”
Domandai
retorica, con una smorfia.
Per tutta risposta la sentii sbuffare.
“Dai, hai capito benissimo
cosa volevo dire!” Insomma… “Beh, e alla
fine? Com’è finita la serata? Ha cercato
di baciarti, tu l’hai mandato in bianco,
e…?”
Il suo tono era davvero parecchio
insinuante, che mente perversa. “E niente, mi ha dato la
buonanotte e se ne è
andato.” Conclusi, mascherando uno sbadiglio con il dorso
della mano.
Rimanemmo in silenzio per un
po’, poi fu Alessandra a riprendere
la parola. “Non è andata così
male…” Mormorò, osservandomi di
sottecchi.
Come prima mi limitai a scrollare in
modo noncurante le spalle,
come a dire che in fondo, in qualunque modo sarebbe potuta andare, non
me ne
sarebbe importato lo stesso. In realtà, mi aveva sorpreso
quando mi aveva detto
di avere un debole per me – okay, in realtà aveva
proprio detto “Mi piaci”, ma
quanta parte di verità poteva mai esserci? –
tuttavia non mi sembrava il caso
di metterla a parte anche di quello. Certo, era la mia migliore amica,
e un
giorno sicuramente l’avrebbe saputo, ma… Non
adesso.
Mi sentivo un po’ in colpa
nel tacerle parte della verità, ma per
il momento non potevo fare altro. Inoltre aveva ammesso lei stessa che
la
serata non era stata un completo disastro – anche se
probabilmente non avrebbe
detto così, se avesse saputo del terrazzo – e in
questo modo avrebbe anche
potuto dire a Riccardo di stare tranquillo e di non comportarsi da
guardia del
corpo nei miei confronti. Anche perché in tal caso Enrico si
sarebbe potuto
arrabbiare, e vederlo nuovamente infuriato non rientrava nei miei piani
futuri;
non avevo forse accettato di assecondarlo proprio per evitare questo?
“Spero che presto si stufi
di me.” Dissi schiettamente, senza
guardare la mia amica negli occhi. “Non voglio essere il
giocattolo di nessuno…”
Ale si alzò dal suo letto e
venne a sedersi al mio fianco,
passandomi un braccio intorno alle spalle in un gesto che voleva essere
confortante e che, stranamente, vi riuscì. Almeno in parte.
“Dai geme, non
pensarci.” Disse, dispiaciuta. “Senti, ne hai
voglia di uscire con Fede e Laura, stasera? Ieri mi hanno chiesto se
andavamo
con loro a fare un giro.”
Una domanda mi sorse spontanea.
“Ci sarà anche Matteo?”
Ma lei scosse la testa, aggrottando la
fronte. “No, siamo solo
noi. Sembra che Matteo si sia preso un periodo di pausa dal
gruppo… Bah, è uno
stupido.”
Il suo tono e le sue parole mi
strapparono un sorriso. “Si,
concordo!”
Il mio cellulare era rimasto spento
dalla notte prima, e non lo
accesi per controllare se vi fosse qualche messaggio importante. Ero
con la mia
migliore amica, quindi se lei avesse dovuto dirmi qualcosa
l’avrebbe fatto a
voce, e mia madre non aveva motivo di cercarmi…
Ma suppongo che avrei dovuto
controllare lo stesso. In fondo,
Enrico conosceva il mio numero…
Oh, che stupida. Dovevo smetterla di
pensare a lui.
_____________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Oggi
è serata di aggiornamenti xD
Comunque... Da quanto tempo! Vi chiedo umilmente scusa per il ritardo,
ma come avrò di certo già detto, quest'anno ho la
maturità... E' molto probabile che questo sia l'ultimo
capitolo che pubblicherò prima dell'esame, ma non per questo
preoccupatevi, perchè la storia continua! Anzi, the show must go on! xD
Dunque, che dire... Le vostre recensioni sono splendide, come sempre!
Purtroppo non posso rispondere singolarmente, ma voglio citare voi
anime pie che commentate i miei capitoli spassionati ^^
Perciò, un grazie
infinito a:
- _Aleidita_
- renesme e jacob
- Sfosfy4ever
- Ada Wong
- prettyvitto
- freyja
- lara27
- luis
- Alebluerose91
- xmas
Un
altro ringraziamento va alle fantastiche 78 persone che hanno aggiunto
la mia storia alle Preferite e alle 119 che l'hanno messa tra le
Seguite! Vi voglio bene =*
Sperando
che questo capitolo non sia così
deludente - purtroppo non può esserci un colpo di scena in
ogni capitolo, visto che sono anche piuttosto brevi! - vi lascio con un
forte abbraccio =) Sono davvero commossa nel vedere tutte queste
recensioni e nel notare che questa storia, malgrado gli aggiornamenti
centellinati e la trama non così profonda, stia piacendo! ^^
Un bacione a tutti coloro che leggeranno, commenteranno, eccetera ^^
A
presto! Smack =*
GiulyRedRose
|
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Capitolo 17 *** Capitolo XVII. ***
Capitolo XVII
Ormai avevo capito che i calcoli che
avevo fatto si stavano
rivelando sempre più sbagliati.
Dopo quella prima sera, Enrico mi
chiese di uscire praticamente
tutti i giorni, portandomi sempre in posti diversi, e comportandosi
– questo
punto andava a suo favore, lo ammetto – sempre da gentiluomo.
Per intenderci:
non aveva più cercato di baciarmi seriamente,
limitandosi ad un innocente bacio sulla guancia che mi
sembrava perfido far
seguire ogni volta da uno schiaffo. Era l’unica cosa che
concedevo, comunque,
dato che avevo sempre baciato sulle guance sia Matteo che Federico, e
non mi
era mai sembrata una cosa così malvagia o maliziosa: tutto
stava nel non
permettere che diventasse tale.
Alla fine, comunque, dopo una
settimana che andavo a dormire a
casa di Alessandra, mia madre si spazientì per questo mio
comportamento e mi
fece un bel terzo grado – lei avrebbe voluto che, per
ricambiare il favore alla
mia amica, anche lei venisse a dormire da me una notte, ma di certo
questo
avrebbe compromesso le mie uscite forzate con Enrico.
Così, fui costretta
– molto a malincuore – a confessarle che stavo
frequentando un ragazzo. Malgrado quello che mi aspettavo da parte sua,
non mi
fece nessuna scenata: mi chiese semplicemente per quale motivo non
glielo
avessi detto subito e, ovviamente, aveva voluto sapere vita, morte e
miracoli
del giovane in questione. Rimasi piuttosto vaga – non
specificai che si
trattava di un Occhi Belli, tanto per essere chiari – e mi
limitai a dire che
mi era stato presentato da Federico – bugiarda!
– e che ci stavo uscendo più per gioco che per
altro. Le dissi che, per quanto
mi riguardava, avrebbe anche potuto dirlo a mio padre, dato che non
avevo
nessuna intenzione di far si che quella storia diventasse troppo seria.
“Aspetta prima di dire una
cosa simile, nella vita non si può mai
sapere…” Mi disse, con un’aria da saggia
veggente che mi terrorizzò. Stava
scherzando, vero? Se avesse saputo chi era davvero Enrico mi avrebbe
chiuso a
chiave in camera mia per il resto della mia esistenza…
Come se non fosse bastato, inoltre, il
mio improvviso rossore di
spavento era stato scambiato per un imbarazzo da cotta. Si, come no!
Comunque, i miei piani stavano andando
a rotoli. Adesso che anche
mia madre sapeva di Enrico e che mi incoraggiava inconsciamente in
qualcosa di
assurdo, come avrei fatto? Il discorso che avevamo avuto su quella
famosa
terrazza, a proposito del fatto che, se mi fossi affezionata a lui, poi
avrei
finito solo per soffrire quando si sarebbe stufato di me, ora si era
amplificato: averlo rivelato a mia madre suonava come una
ufficializzazione non
desiderata…
Ma quello che davvero stava iniziando
a darmi fastidio – ed era
grave, dato che ci stavo uscendo solo da poco più di un paio
di settimane – era
che non riuscivo più a vedere né Alessandra,
né i miei amici. Enrico mi aveva
praticamente monopolizzato, pretendendo la mia presenza quasi ad ogni
ora del
giorno. Aveva iniziato a tempestarmi di messaggi inutili e superflui, a
volte
semplicemente per chiedermi cosa stessi facendo, e se tardavo a
rispondergli mi
telefonava direttamente. Personalmente stavo sfiorando l’orlo
di una crisi di
nervi precoce: non avevo mai tollerato un simile comportamento da parte
di nessuno, e più volte
mi ero ripromessa
che non avrei permesso a nessun ragazzo di comportarsi in quel modo con
me, e
invece adesso mi ritrovavo invischiata in una situazione che odiavo da
tutti i
punti di vista!
E poi c’era stato
l’episodio delle rose. Era un mercoledì mattina,
mio padre era al lavoro – grazie al Cielo! – ed ero
sola con mia madre in casa:
ad un certo punto squillò il citofono e mia madre fu
più veloce di me a
rispondere. La vidi sgranare impercettibilmente gli occhi
nell’ascoltare quello
che doveva essere il postino, e dopo aver premuto il pulsante per farlo
salire
si voltò verso di me, stupita.
“Cos’è
successo?” Avevo chiesto, iniziando a preoccuparmi.
Lei aveva scosso la testa.
“Adesso lo vedi…”
Quando il postino bussò
alla porta andammo insieme ad aprirgli, e
a quel punto avevo visto l’uomo seminascosto da un enorme
mazzo di rose bianche
e rosse che annunciava, in tono interrogatorio: “Una consegna
per la signorina
Giulia…?”
Avevo annuito, allungando le braccia
per privarlo di
quell’ingombro. “Si, sono io…”
Come al solito mia madre fu molto
più rapida di me, così chiese,
sollecitamente: “Chi le manda?”
Il postino frugò nella sua
borsa in pelle fino a tirarne fuori
un’agendina, che aprì all’ultima pagina
scorrendone i vari nomi segnati, prima
di rispondere. “Un certo… D’Angelo
Enrico…”
Ecco, quella da parte sua proprio non
me l’aspettavo; passassero
pure i messaggi e le chiamate, per quanto poco le tollerassi, ma che mi
spedisse fiori a casa mia, senza
sapere se ero sola o con i miei genitori – tremavo alla sola
idea di mio padre
che accoglieva il postino con un simile pacco! – era qualcosa
che andava contro
ogni logica! Accidenti, non eravamo mica fidanzati! Chi si credeva di
essere?
Mia madre invece prese la cosa con
molta più filosofia. Sembrava
parecchio emozionata, mi aveva dato un vaso per permettermi di tenere
quei bellissimi fiori in camera
mia, anche se
al momento avevo solo il desiderio si prenderli e buttarli nella
spazzatura –
cosa che non le dissi, per non farla insospettire. Si supponeva che in
fondo mi
facesse piacere un simile gesto, no? Anche perché lei sapeva
che, quando non
ero interessata ad una persona, non mi facevo tanti scrupoli a dirlo o
a farlo
capire: perciò, dato che queste uscite con Enrico stavano
andando per le
lunghe, lei si era fatta l’idea che forse
qualcosa per lui la provavo…
Certo, ora provavo il bisogno fisico
di picchiarlo!
Così quel mazzo di fiori
sulla mia scrivania rimase a fissarmi per
tutta la sera come una costante minaccia. Anche se mia madre trovava
tutto
l’insieme parecchio romantico, a me sembrava solo
inquietante: mi sembrava solo
un modo come un altro che Enrico aveva utilizzato per farmi capire che
io, in
fondo, non potevo fare nulla per scappare da lui – sapeva
dove abitavo, chi
frequentavo, quando e come uscivo… Insomma, anche volendo
fuggire sarebbe stato
impossibile.
Inoltre mi ero accorta che, quando non
ero con Enrico, avevo
sempre e costantemente alle calcagna i suoi
‘uomini’: Stefano, Lorenzo,
Francesco, Alberto e Davide, erano diventati la mia ombra. Sembrava si
dessero
il cambio per tenermi sotto controllo, e lo facevano sempre a due a
due: potevo
stare tranquilla solo rimanendo a casa, così fu inevitabile
iniziare ad uscire
sempre meno ed essere costretta a vedere Alessandra solo invitandola a
pranzo
da me.
“Non capisco come fai a
sopportare questa situazione.”
La mia migliore amica mi osservava
seriamente, poggiata contro la
finestra e sotto il condizionatore, con le braccia incrociate sul petto
e un
tono terribilmente severo. Ormai la maggior parte delle nostre poche
conversazioni ruotava intorno al medesimo argomento, tanto che avevo
l’impressione di vedere Enrico anche quando lui non
c’era. Incubi, stavo
iniziando ad avere gli incubi.
Scrollai le spalle, lanciando uno
sguardo alla porta chiusa: non
volevo che mia madre entrasse all’improvviso e ci scoprisse a
parlare di cose
simili. “Non lo capisco nemmeno io, geme. Eppure lo faccio,
ma non chiedermi il
perché.” Mormorai con un filo di voce.
La sentii sospirare, combattuta.
“Cavolo… È tutto troppo
assurdo!”
Esclamò, prima di abbassare strategicamente la voce.
“Voglio dire… Se non fosse
lui sarebbe anche divertente, no? Le
rose, le uscite… Ma accidenti, è come se ti
stesse tenendo sotto chiave! Ti
rendi conto che non puoi fare nulla
senza avere lui o i suoi compari alle costole? Sono cose che non si
vedono più
neppure nei film!”
Ormai non sapevo neanche
più che cosa risponderle, perché capivo
che aveva cento volte ragione. La cosa che più mi dava
fastidio, ora, era che
Enrico non si era ancora stufato di me. Insomma, davvero, che cosa mai
poteva
volere? Di sicuro non stava con me per il mio corpo, dato che non ci
ero mai
andata a letto – e ci sarebbe anche mancato altro. Non
l’avevo mai neppure
baciato, se si escludevano quei casti baci sulla guancia che aveva
preso l’abitudine
di darmi come ‘buonanotte’ tutte le sere, ma che
comunque accettavo in modo
piuttosto passivo. Insomma, che cosa diavolo
voleva da me? Più mi ripetevo questa domanda meno
trovavo una risposta,
come se, in fondo, una risposta non ci fosse.
Era un capriccio, punto. Lui mi
voleva, ed eccomi qui!, al suo
completo servizio. E se provavo a ribellarmi, beh, sapevo cosa sarebbe
accaduto… Se la sarebbe presa con i miei amici,
così com’era accaduto con
Matteo – e per quanto avessi smesso da tempo di preoccuparmi
di lui, di certo
non potevo ignorare di aver messo in pericolo Alessandra, Laura e
Federico. Per
non parlare della mia famiglia!
Che situazione schifosa.
“Lo sai cosa ti
dico?” Sbottò all’improvviso la mia
amica,
facendomi sussultare.
La guardai, sorpresa dal suo tono
rabbioso. “Cosa?”
“Se tu non fossi vergine,
saresti potuta andare a letto con lui da
subito e togliertelo di torno. E adesso non avremmo tutti questi
problemi!”
Mi rendevo conto di avere la bocca
aperta – scioccata da
quell’esclamazione – ma non riuscii a mantenere un
certo contegno neppure dopo.
Scossi la testa, completamente rossa in viso. Accidenti, mi sentivo
bollente!
“Geme, ma cosa stai
dicendo?!” Esclamai, sorpresa e leggermente
arrabbiata. Va bene che ci dicevamo sempre tutto, però ogni
cosa ha un limite. “Che
razza di cose da dire sono queste? Adesso sembra quasi che la colpa sia
mia! E
poi non sarei andata a letto con lui neppure se non fossi stata
vergine, tanto
per chiarire le cose.”
Alessandra sospirò, pentita
della sua affermazione. “Scusami,
geme, ho esagerato. Non volevo dire che… Oh senti, hai
capito benissimo cosa
intendevo!” Sbuffò, incrociando le braccia.
Certo, io capivo
benissimo,
ma certe uscite poteva risparmiarsele.
“Okay, senti, non importa.
Non voglio litigare con te, lo so che
non l’hai detto con cattiveria.” Scossi la testa,
innervosita. “È che ho un po’
i nervi a fior di pelle, in questo periodo, e sapere che…
Beh, in fondo anche
tu hai ragione, se fossi stata un altro tipo di
ragazza…” Lasciai il discorso a
metà, certa che anche lei avrebbe compreso alla perfezione
ciò che volevo dire.
Subito mi strinse in un abbraccio,
cercando di confortarmi come
poteva. “Dai, questi sono discorsi inutili.”
Decise. “Senti, perché non provi a
sentire qualche altro ragazzo? Potrei chiedere a Riccardo se ha qualche
amico…
Così, quando Enrico si sarà stufato, tu non
soffrirai più del necessario.”
“Si certo…
Così Enrico vi farà fuori tutti
quanti!” Sbottai,
alzandomi e poggiandomi al muro. “Non è per niente
una buona idea… Tanto non mi
interessa avere un ragazzo, adesso, la parentesi con Enrico
è solo questo, un
intermezzo nella noia della mia vita quotidiana. Quando
finirà, come dici tu,
sta pur certa che non ne soffrirà nessuno.”
“Se lo dici
tu…” Sospirò, per nulla convinta.
Dopo una manciata di minuti in
silenzio, durate i quali entrambe
avevamo preso a frugare i nostri cellulari, ripresi la parola.
“Mi ha appena chiesto
se stasera posso uscire con lui…” Rivelai
scuotendo la testa, rassegnata. “Il
bello è che riesce a non farle passare per
minacce… Senti cosa dice: Ciao,
Giulia. Allora, hai voglia di fare un
giro con me, dopo cena, o sei impegnata? Che faccia
tosta…”
“Se non conoscessi la
situazione, direi che ti sta davvero dando
la possibilità di scegliere se accettare l’invito
o mandarlo a quel paese.” Concordò
la mia amica, con aria grave.
Sbuffai, passandomi una mano tra i
capelli. “Accidenti, non ho
nessuna voglia di uscire con lui, stanotte. Mi sento anche poco
bene…”
“Perché non provi
a dirglielo?”
La fissai, inarcando un sopracciglio,
ma in realtà stavo
ponderando davvero l’idea. Dopotutto non gli avevo ancora
dato ‘buca’ ad un
appuntamento, non sapevo quale sarebbe stata la sua
reazione… Avrei potuto
provare, no? Perciò annuii, lentamente, mentre le dita
scorrevano veloci sulla
tastiera del telefono.
“Si, hai ragione. Voglio
proprio vedere…” Non conclusi la frase,
scrivendo il messaggio e inviandolo prima di poter cambiare idea. Un
sospiro
fece capire ad Alessandra che gliel’avevo mandato.
“Cos’hai
scritto?” Domandò, curiosa. Mi limitai a porgerle
il
cellulare e lei lo prese, scorrendo la lista dei messaggi inviati fino
a
trovare quello incriminato.
“Scusa,
Enrico, ma oggi non ho
molta voglia di uscire. Ti spiace se facciamo un’altra
volta?” Disse,
leggendo ad alta voce. Poi alzò lo sguardo su di me,
divertita. “Cavoli, sei
stata anche fredda al punto giusto! Sembri quasi pentita!”
Ridacchiai, incrociando le braccia.
Ero curiosa di sapere cos’avrebbe
risposto…
“Oh, un messaggio.
Sarà lui?”
Ecco qua.
“Passamelo, vediamo un
po’.”
Mi porse di nuovo il telefono e io
aprii il messaggio, notando che
– com’era prevedibile – era proprio da
parte di Enrico. “Tutte le volte che
vuoi. Ma come mai non vuoi uscire oggi? Mi devo
preoccupare?”
Alessandra soffiò,
spostandosi i ciuffi dalla fronte. “Ma dico,
farsi gli affari suoi no? Perché ho l’impressione
che suoni come una minaccia?”
Più che minaccia, mi
sembrava stranamente comprensivo… Forse anche
troppo. Senza rispondere alla mia amica digitai il messaggio di
risposta,
sforzandomi di essere gentile anche se, in effetti, avevo una voglia
matta di
dirgli che non erano fatti suoi.
No, mi
sento solo un po’ male.
Sai, cose da donne… Non preoccuparti. Ci sentiamo
un’altra volta, ciao.
Inviai e lo feci leggere alla mia
Coscienza, che per tutta
risposta sbuffò per l’ennesima volta.
“Troppo dolce e troppo gentile, geme. Non
dovresti mostrarti così docile con lui.”
Alzai gli occhi al cielo con una breve
scrollata di spalle. “Tanto,
ormai…”
“Geme, ha già
risposto.” Mi avvisò, restituendomi il telefono
senza che glielo chiedessi.
Appena lessi il suo messaggio
ridacchiai, innervosita. “Avevi
ragione… Senti cos’ha scritto: Ci
sentiamo più tardi, Giulia, ora non
voglio disturbarti perché sarai con
la tua amica. Se non posso vederti, voglio almeno sentirti…
Va bene? Divertiti
e prendi qualche aspirina. Ciao.”
Alessandra scosse la testa, stupita.
“’Se non posso vederti,
voglio almeno sentirti’? Mio Dio, ma che razza di pretese
sono queste?”
Gettai il telefono sul letto,
decidendo che se l’avessi gettato
per terra – come invece avrei voluto fare – avrei
dovuto aspettare fino a
Natale prima di vederne uno nuovo. “Non ho nessuna intenzione
di rispondergli,
mi ha proprio scocciato.”
“Brava geme! Così
mi piaci!” Esultò la mia amica, saltando sul
letto. Poi si fermò, giungendo le mani e guardandomi con gli
occhi che
brillavano. “E adesso che hai sistemato il tuo carceriere,
che ne dici se
stasera vieni da me a cena e poi ci incontriamo con Fede e Laura per
vederci un
film? Tanto per cambiare!”
L’idea era molto, molto allettante.
Stavo per accettare – oh, l’avrei voluto fare
così tanto, una serata con i miei
amici! – ma in quel momento mia madre bussò alla
porta della mia camera,
affacciandosi e mostrando un viso leggermente preoccupato.
“Cos’è
successo?” Le chiesi, contagiata da quello sguardo turbato.
“Hanno ricoverato nonno,
dobbiamo andare in ospedale. Vieni anche
tu, vero?” Disse, terribilmente seria.
Io annuii, staccandomi dal muro.
“Certo, mi preparo. A che ora
dobbiamo andare?”
“Adesso, Giuli. Vestiti e
andiamo.” Poi si voltò verso Alessandra,
sorridendole a mò di scusa. “Mi spiace
interrompere la vostra serata, ragazze. Ti
riaccompagniamo noi a casa, okay Ale?”
La mia migliore amica
annuì, e quando fummo rimaste di nuovo sole
sospirò. “Cavolo geme, spero non sia nulla di
grave… Non preoccuparti se
stasera non puoi venire, okay? Lo dirò io a Laura.”
“Grazie mille, geme. Dai,
inizio a prepararmi…” Mormorai, aprendo
le ante dell’armadio. Fantastico, ci mancava anche
quell’ennesima
preoccupazione alla mia già incasinata esistenza. Non
aspettavo altro…
Quando, verso l’ora di cena,
rientrammo dall’ospedale, andammo a
cenare a casa di mia nonna per non lasciarla sola, dato che il nonno
era ancora
ricoverato. Mi ero del tutto dimenticata di Enrico e del fatto che
avrei dovuto
sentirmi con lui, perciò lasciai il cellulare nella borsa
per tutta la sera,
preferendo godermi una delle poche serate in famiglia nelle quali erano
presenti anche i miei zii che vivevano in altre città.
Non potevo di certo immaginare che
Enrico avrebbe interpretato
questo mio ‘silenzio’ improvviso come una sorta di
ribellione al suo desiderio
di sentirmi, così come non avevo immaginato che sarebbe
ricorso ai suoi uomini
per tenermi sotto controllo. Così, quando verso mezzanotte
andammo via da casa
di nonna per tornare a casa nostra, fu con non poco spavento che vidi
la
macchina di Stefano seguire a distanza quella di mio padre, scortandoci
fino a
casa.
Dunque mi faceva pedinare anche quando
ero con i miei genitori? Questo
era davvero troppo, non aveva nessun diritto di intromettersi fino a
quel punto
nella mia vita! E io non ero di certo tenuta a rendergli conto di ogni
cosa che
facevo, che diavolo.
Dio, come lo odiavo!
Non appena l’avessi rivisto,
gli avrei detto chiaro e tondo che
non volevo più avere nulla a che fare con lui, e che per
quanto mi riguardava
poteva attuare tutte le minacce che voleva. Io con lui avevo chiuso.
Mi hai
sentito, Enrico? Ho chiuso!
__________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Eccomi qui, dopo
secoli di silenzio stampa, ad aggiornare questa storia! Wao, l'ho
iniziata un anno fa... Non sembra vero... Mi viene da piangere :'(
Okay, questa è la serata della commozione. Non voglio
sprecare il mio angolino per fare un discorso da Oscar (per la serie:
ringrazio i miei genitori, la mia famiglia, il mio gatto e la mia
tartaruga per essermi stati vicini) perchè non è
il caso - ehi, dopotutto non è nemmeno l'ultimo capitolo!
Anzi, a ben vedere siamo un pò lontani dal traguardo...
Chissà se, di questo passo, riuscirò a finirla
prima di Natale? Ci sono così tante cose che vorrei
scrivere, ma se non altro la FINE è già ben
delineata nella mia mente *-* Anzi, ad essere sincera stavo
già pensando ad un seguito xD
Ma non voglio stancarvi oltre con queste mie baggianate - passo ai
ringraziamenti!
Dunque, un grazie alle 90
persone che hanno aggiunto questa storia alle Preferite e un altro
grazio alle 129
che l'hanno aggiunta alle seguite! ^^ Vi adoro =*
Poi, un grazie immenso a Alebluerose91,
Alida Dreamer,
Valentina 78,
xmas, daykiria e Rosella per
aver recensito lo scorso capitolo - grazie, grazie, grazie, mi fa
sempre un grande piacere leggere le vostre recensioni e sapere che cosa
pensate dei miei scarabocchi ^^
Okay, questo era ufficiamente
l'ultimo capitolo che posterò prima dell'Esame di
Maturità, perciò ci sentiamo direttamente a
Luglio ^^
Un abbraccio e un bacione a tutte, grazie per stare appresso a questa
storia da più di un anno!
Ci sentiamo al prossimo capitolo =)
GiulyRedRose
|
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Capitolo 18 *** Capitolo XVIII. ***
Capitolo XVIII
Avevo smesso di rispondere ai suoi
messaggi.
Il giorno dopo Enrico aveva iniziato a
tempestarmi di SMS dalla mattina alla sera, ma io li
ignorai tutti e non spensi il
telefono solo perché avrebbe potuto chiamarmi Alessandra.
Non avevo nessuna
idea di cosa volesse da me – forse si era pentito di avermi
trattata come la
prigioniera di un carcere di massima sicurezza? – e
sinceramente non mi
interessava. Che facesse pure quello che voleva, l’importante
era che smettesse
di stressarmi. Non avrei più voluto vedere la sua faccia, di
questo ero del
tutto certa.
Sfortunatamente, qualche giorno dopo
iniziai il corso di scuola
guida. In realtà, si trattava solo di seguire le lezioni di
teoria – dato che
avrei compiuto diciotto anni solo dopo tre settimane – ma
l’insegnante mi aveva
detto che non sarebbe stata una cattiva idea iniziare a portarsi avanti
con lo
studio. L’unico problema era che avrei dovuto andarci a
piedi, e da sola.
Questo aumentava notevolmente le
possibilità che avrei avuto di
trovarmi faccia a faccia con Enrico, dato che, a giudicare dagli ultimi
messaggi, non sembrava ancora essersi rassegnato.
Anzi, in alcuni sembrava quasi
minaccioso…
Beh, non avevo più tempo da
dedicare a lui e ai suoi capricci:
avevo già abbastanza problemi per conto mio. Da quando mio
nonno era stato
ricoverato io avevo iniziato a dormire a casa di mia nonna per farle
compagnia,
così le mie uscite notturne si erano ridotte notevolmente
– per non dire
direttamente che si erano annullate. Mia nonna non sopportava
l’idea di andare
a dormire sapendomi in giro, da sola
– il fatto di essere in compagnia dei miei amici non contava,
per lei – e così
anche i miei genitori mi avevano chiesto di fare uno sforzo e resistere
per un
po’. Okay, potevo anche adeguarmi.
Di mattina andavo al mare con
Alessandra, in pullman o
accompagnata dai suoi genitori, e di sera andavo con i miei in
ospedale, in una
routine che presto divenne abituale. Non avrei potuto vedere Enrico
nemmeno se
l’avessi voluto, perciò…
Oh, che diavolo, ma perché
continuavo a pensarci?
Forse perché alternava i
suoi SMS a mazzi di fiori che mi faceva
arrivare a casa e che riceveva in
gran parte mia madre, tanto che più volte mi
telefonò per chiedermi,
sinceramente preoccupata, se avessimo per
caso litigato. Ma se non stavamo neppure insieme! Ovviamente,
aggiornarla
su una simile notizia era fuori discussione, dato che in tal caso
avrebbe avuto
parecchio da ridire sulle numerose uscite che avevo fatto con lui.
Accidenti,
avevo le mani davvero legate: non potevo sfogarmi con nessuno,
perché ognuno
conosceva una versione diversa della storia! Che nervoso.
Ma, per tornare alle lezioni di scuola
guida, fu esclusivamente
colpa loro se non riuscii a levarmi Enrico dai piedi una volta per
tutte.
Accadde alcuni giorni dopo la prima
lezione. Non avevo idea di
come fosse entrato a conoscenza di quel mio nuovo impegno –
anche se era
altamente probabile che mi avesse messo qualcuno dei suoi amici alle costole, come sempre
– fatto sta che, non appena uscii
dall’autoscuola, notai subito la sua
macchina parcheggiata di fronte, dal lato opposto della strada. Sgranai
gli occhi,
stupida, e imprecai silenziosamente: dovevo tornare a piedi, quindi non
avrei
potuto evitare di passare di fronte a lui…
Feci finta di non averlo visto e
accelerai il passo, andando per
la mia strada con lo sguardo fisso davanti a me: inutile dire che
nemmeno pochi
secondi dopo venni affiancata dalla sua macchina, e iniziò a
seguirmi a passo
d’uomo. Aveva i finestrini abbassati – era sempre
la sua decapottabile, solo
che ora aveva il tettuccio sollevato – e in quel modo potei sfortunatamente sentire la sua voce.
“Ciao, Giulia. Ti va di
salire?” Domandò, con una strana voce
gentile.
Sempre senza guardarlo scossi la
testa, alzando gli occhi al
cielo. “No, grazie. Anzi,
sei pregato
di lasciarmi in pace.” Sbottai, sottolineando velenosamente
il finto ringraziamento.
Naturalmente mi sarei dovuta immaginare la sua risposta.
“Non era una domanda. Sali.”
Replicò: ed eccolo tornare al tono minaccioso.
A quel punto mi fermai e mi voltai
verso di lui, innervosita.
“Smettila, Enrico, io non ti devo niente! Smetti di seguirmi,
smetti di
mandarmi messaggi e stupidi regalini, smettila di fare tutto quello che
fai! Ti
ho assecondato anche per troppo tempo, mi sembra il caso di finirla
qui.”
Avevo alzato leggermente la voce,
cercando comunque di contenermi
e non urlare per evitare di far sapere tutta la storia agli abitanti
delle case
lì intorno. Mi sentivo incredibilmente orgogliosa dopo quel
piccolo sfogo, e
visto che Enrico sembrava non avere nessuna risposta pronta gli diedi
di nuovo
le spalle e feci per andarmene, camminando a passo sostenuto.
Quando però sentii il
motore della sua macchina spegnersi e il
rumore della portiera che si apriva e si richiudeva, compresi che non
sarei
riuscita a liquidare l’intera faccenda con così
poco. Infatti mi raggiunse
subito, afferrandomi al polso e facendomi voltare verso di lui. Aveva
un’espressione terribilmente seria e arrabbiata in viso,
tanto che fu capace di
terrorizzarmi benchè ci trovassimo in mezzo ad una strada,
con il sole alto e
circondato da case abitate – insomma, volendo avrei potuto
urlare e qualcuno
sarebbe anche venuto a salvarmi, ecco.
“Dimmi, ho fatto qualcosa di
sbagliato?” Sibilò, chinandosi
pericolosamente verso di me. “Perché
tutt’ad un tratto hai smesso di rispondere
ai miei messaggi? Ti ho offeso? Oppure non ti piacciono le rose?
Strano, perché
credevo fossero i tuoi fiori preferiti…”
Con uno strattone riuscii a liberarmi,
indietreggiando poi di
qualche passo e guardandolo furiosa. “Tutta questa storia
è sbagliata,
Enrico!” Proruppi, stringendo
gli occhi. “Non essere così stupido da pensare che
l’errore sia nei fiori,
Dio!, ti facevo più intelligente!” Scossi la
testa, ignorando il suo sguardo
furibondo e pericoloso. “Credi che mi faccia piacere uscire
di casa e avere
l’ansia di essere spiata da te o dai tuoi amici, solo
perché hai questa mania
di volermi tenere sotto controllo? Ma stai scherzando? Non sono la tua
ragazza,
come ti permetti di comportarti in questo modo! Fatti un esame di
coscienza e
dimmi se mi sto sbagliando! Cercati qualcun’altra vittima da
tempestare con le
tue attenzioni e i tuoi capricci,
perché io ne ho abbastanza! E se continuerai, Enrico, non
esiterò ad andare a
denunciarti, non sto scherzando. Non so perché ti sei
impuntato con me ma voglio che tu
la smetta, e soprattutto
dimenticati dove abito perché non voglio più
ricevere neppure uno spillo da
parte tua. Ti è chiaro il concetto?”
Tacqui, riprendendo il respiro, e mi
allontanai ancora di più da
lui. “Adesso me ne vado, e se provi a seguirmi mi
metterò ad urlare. Questa
situazione è durata sin troppo.”
Poi, prima che potesse in qualche modo
ribattere e costringermi ad
andare con lui, gli diedi le spalle e corsi via, ignorando il caldo e
desiderando raggiungere la casa di mia nonna nel minor tempo possibile.
Speravo
che Enrico avesse afferrato il concetto, perché non volevo davvero arrivare a denunciarlo. Ma,
ovviamente, l’avrei fatto se mi
ci avesse costretta.
Fu solo quando fui al sicuro dietro la
porta di casa che riflettei
su quanto erano state avventate le mie parole: oddio, avevo aggredito
in quel
modo un tizio con la pistola nascosta probabilmente in
macchina… Che cosa mi
era saltato in mente?
Crollai a terra, paralizzata dalla
paura, e nascosi il viso tra le
gambe per soffocare i singhiozzi di ansia respressa.
Dal giorno trascorsero quasi due
settimane. Non accadde nulla di
particolare, ma Enrico non si era arreso proprio per niente: aveva
continuato a
mandarmi messaggi su messaggi, ma in genere si limitava a quelli della
buonanotte alternati, ogni tanto, con brevi SMS di scuse. Non avevo mai risposto a
nessuno di questi.
Alla fine mia madre mi aveva chiesto
se avevamo fatto pace, ma
avevo deviato l’argomento e non le avevo risposto, visto che
avevamo tutti
altre cose a cui pensare. Per esempio, il fatto che le condizioni di
mio nonno
avevano iniziato drasticamente a peggiorare.
Ormai le nostre giornate ruotavano
intorno all’orario delle visite
dell’ospedale, visto che eravamo lì sia di mattina
che di sera, e in quel modo
avevo anche una scusa più che ragionevole per non pensare ai
miei problemi con
Enrico – come se non bastasse, mi innervosiva il modo in cui
avevo iniziato a
pensare a lui, quasi come se fossi in debito con lui o come se gli dovessi qualcosa: semplicemente
ridicolo.
Alessandra ormai faceva coppia fissa
con Riccardo, e le poche
volte che era capitato di trovarci tutti e tre insieme si erano
mostrati molto
sollevati per il fatto che avevo deciso di mettere la parola fine a
quella
situazione, orgogliosi come dei genitori di fronte alla prima parola
pronunciata dal loro bambino. Inoltre non avevo più notato
nessuna macchina
sospetta – segno che anche gli amici di Enrico avevano smesso
di spiarmi.
Eppure, quando lessi uno dei suoi ultimi messaggi nel quale mi chiedeva
come
stesse mio nonno, non potei che ricredermi sul fatto delle
‘spie’: insomma, chi
diavolo poteva averglielo detto? Naturalmente, non risposi neppure a
quel
messaggio. Non aveva nessun diritto di intromettersi anche in quella
parte
della mia vita, aveva già visto abbastanza di me.
Ben presto, però, le cose
cambiarono radicalmente – per l’ennesima
volta.
***
Era il sedici agosto.
Da due settimane non parlavo
più con Enrico, ormai, benchè avessi
continuato ad avere sue notizie tramite i messaggi che dimostravano che
non si
era mai arreso di fronte all’evidenza. Il tempo era passato
così in fretta da
lasciarmi piuttosto interdetta – nel frattempo avevo compiuto
diciotto anni e la
mia migliore amica aveva ‘festeggiato’ anche il suo
primo mese insieme a
Riccardo – eppure la piccola parentesi delle uscite con
Enrico mi sembrava
sempre recentissima.
Negli ultimi giorni, comunque, le
condizioni di mio nonno erano
sembrate migliorare, tanto che i medici furono del parere di
trasferirlo
nuovamente dal reparto di rianimazioni a quello, più
‘sereno’, di cardiologia.
Com’era prevedibile tutti noi avevamo iniziato a contare i
giorni che mancavano
dalle sue dimissioni, tanto che il quindici avevamo festeggiato
Ferragosto con
assoluta tranquillità.
Il mattino dopo, invece, le cose
precipitarono improvvisamente
come un castello di carte.
Stavo facendo colazione –
erano all’incirca le 8 – quando i miei
genitori erano arrivati a casa di mia nonna con una strana agitazione,
dicendomi di sbrigarmi perché sarei dovuta tornare a casa
per far compagnia a
mia sorella mentre loro andavano in ospedale, dove a quanto pare le
condizioni
di nonno erano peggiorate. Fu mio padre a riaccompagnarmi a casa prima
di
tornare a prendere mia madre e mia nonna per andare in ospedale,
lasciando me e
mia sorella da sole a casa con la promessa che mi avrebbero fatto
sapere il
prima possibile.
Attesi fino alle 10, impaziente,
andando su e giù per tutta la
casa cercando di distrarmi con qualsiasi cosa, ma alla fine non
resistessi.
Afferrai il cordless e digitai freneticamente il numero del cellulare
di mio padre,
ascoltandolo però squillare a vuoto. Leggermente in ansia
chiamai invece al
telefono di mia madre, chiamandola un paio di volte perché
sembrava non sentire
la suoneria: la terza volta, invece, rispose.
“Mamma?” Chiesi,
preoccupata. “Va tutto bene?”
Dall’altra parte del
telefono sentivo il suo respiro pesante, come
se stesse prendendo dei profondi respiri.
“Giulia…” Mormorò, con la
voce che
tremava.
Il mio cuore prese a battere
all’impazzata: improvvisamente non
ero più tanto certa di voler avere una risposta, ma la mia
bocca si aprì per
conto suo. “Cos’è successo?”
Balbettai.
Altri respiri, un
singhiozzo… E lì compresi ancora prima che
rispondesse. “Nonno…”
Sussurrò. “Il nonno… Non ce
l’ha fatta…”
Sgranai gli occhi, sentendo le lacrime
iniziare a inondarli
immediatamente. Scossi la testa, più volte, come a voler
scacciare
quell’orrenda verità.
“No…” Mormorai. “No,
no…”
“Tesoro…”
Mormorò anche lei, tra le lacrime. “Tesoro, vorrei
essere lì… Non volevo dirtelo
così…”
Ma io non l’ascoltavo
già più. Piangevo in modo incontrollato,
cercando di non farmi sentire da mia sorella che si trovava in camera
sua:
uscii in veranda, richiudendo la porta dietro di me e continuando a
mormorare
“No, no, no…” come se questo fosse
potuto servire.
Dopo aver cercato di consolarmi
– cosa pressochè inutile, a
telefono – e avermi raccomandato di non farmi vedere da mia
sorella in quelle
condizioni, perché voleva esserci almeno per dirlo a Clara,
mi salutò e
richiuse la chiamata, dato che doveva aiutare gli altri a
‘sistemare’ tutto
quanto. Rimasi a piangere, fuori, per non so quanto tempo, ignorando il
mio
cellulare che aveva iniziato a squillare imperterrito. Era Enrico: ma
cosa
diavolo voleva?
Spensi il telefono, resistendo alla
voglia di gettarlo per terra,
e piansi ancora, versando tutte le mie lacrime. Non volevo crederci
– non potevo farlo.
Sentivo un dolore
lancinante al petto come se avessero strappato un pezzo del mio
braccio, tanto
quella notizia mi aveva scioccata. Di certo Enrico era
l’ultimo dei miei
pensieri, anzi, in quel momento non meritava neppure di farne parte.
Quello stesso pomeriggio, dopo pranzo,
tornammo tutti in ospedale.
Non credo che mi capiterà
ancora un’esperienza così tragica, o
almeno lo spero. Com’era ovvio, poiché il nonno
era morto in ospedale, era lì
che sarebbe dovuto rimanere fino al funerale: nessuno di noi era molto
a
proprio agio con quest’idea – mia nonna, poi,
desiderava disperatamente poterlo
vegliare tutta la notte, così come si usava – ma
invece ci saremmo dovuti
accontentare di andare da lui solo per l’orario delle visite
stabilito
dall’ospedale.
La differenza tra l’afa
terribile che aleggiava fuori e il freddo
dell’obitorio, dentro, era notevole. Arrivammo quando ancora
non c’era nessuno
– solo estranei venuti per i propri cari – e fummo
costretti ad entrare a turno
nella piccola camera mortuaria dove, tra l’altro, si
trovavano anche altre
salme. I miei genitori non avevano voluto portare mia sorella proprio
per quel
motivo.
Non appena vidi mio nonno,
però, le altre salme scomparvero, come
se nell’obitorio ci fossimo stati solo noi; mi portai accanto
a lui, non
riuscendo a credere di vederlo in quello stato, e tutte le lacrime che
credevo
di aver esaurito quella mattina si affacciarono nuovamente dai miei
occhi,
colando copiose sulle guance. Da quel momento, non so per quanto tempo
rimasi
in quella stanza.
Vidi parenti su parenti susseguirsi in
continuazione per dare il
cambio a questo o a quell’altro, mentre la mano elegante di
mia nonna non
cessava un momento di accarezzare la pelle gelida del volto del marito,
come se
quelle carezze potessero in qualche modo riscaldarlo e confortarlo
nella muta
immobilità della morte. Sarei rimasta ancora –
chissà quante ore erano passate,
a me sembravano un’eternità – ma ad un
certo punto mia madre mi si avvicinò e
mi strinse in un abbraccio, riscaldandomi con il suo corpo. Non mi ero
quasi
accorta, infatti, del freddo che c’era in quella camera.
“Giulia, sei
gelida.” Mormorò, con la voce leggermente roca.
“Esci
un po’ fuori, prendi aria e riscaldati, altrimenti ti
ammali.”
Annuii, come in trance, ed uscii
all’obitorio attraversando la
piccola sala d’attesa e raggiungendo direttamente gli altri
nel cortile, sotto
il caldo sole pomeridiano. Starnutii a causa del brusco cambio di
temperatura
e, non appena vidi mio padre, mi diressi lentamente verso di lui per
poi
poggiarmi al suo petto e nasconderci il viso troppo pallido. Rimasi
immobile
mentre mi accarezzava i capelli, socchiudendo gli occhi e cercando di
estraniarmi da quel dolore che non voleva saperne di abbandonarmi.
“Giulia…”
Mi chiamò ad un certo punto, facendomi sollevare la
testa. “C’è un tuo amico.”
Un mio amico? Chi mai poteva essere,
visto che non avevo ancora
detto a nessuno quanto era successo, neppure alla mia migliore amica?
Lentamente mi voltai, sentendo le braccia di mio padre che mi
stringevano
abbassarsi e liberandomi dal suo abbraccio; fu uno shock ritrovarmi a
fissare
il volto serio e duro di Enrico.
“Che cosa ci fai
qui?” Mormorai, non riuscendo ad impedire alla
mia voce di tremare.
La sua mascella fece un guizzo,
irrigidendosi. “Ho saputo… di tuo
nonno…”
Sentii i miei occhi riempirsi
nuovamente di lacrime, e mi maledii
per questo: l’ultima cosa che volevo era piangere di fronte a
lui, come se in
quel modo potessero crollare tutte le mie difese. Non risposi, ma
sfortunatamente fu mio padre a farlo al posto mio.
“Enrico, giusto?”
Chiese, mentre il mio incubo personale annuiva. “Ti
posso chiedere un favore?”
Lui annuì ancora,
mostrandosi incredibilmente cortese. “Certo,
signore.”
“Per piacere, portala al
bar. È rimasta dentro dalle 2 e mezza, le
farebbe bene cambiare un po’ d’aria.”
Sollevai lo sguardo verso mio padre,
piuttosto sconvolta dalle sue
parole. Mi stava mandando a fare un giro con Enrico?
In che razza di dimensione parallela ero finita? Okay, mio
padre non lo conosceva e non sapeva cosa tutto c’era dietro,
ma chiedergli di
tenermi compagnia, io e lui da soli, non mi sembrava il
caso… A meno che,
certo, mia madre non avesse un po’ gonfiato la storia
raccontandogli che
stavamo insieme. Ma cavoli, non era di certo il momento più
adatto per
accettarlo come mio ragazzo, ad ogni modo!
L’altra cosa che mi faceva
innervosire era che mio padre non
volesse farmi restare in ospedale… Se potevano rimanere
loro, perché io me ne
sarei dovuta andare?
“Ma papà, voglio
restare qui…” Provai a replicare, con scarsi
–
diciamo pure nulli – risultati.
Infatti lui scosse la testa, risoluto.
“No, Giulia, vai. Se rimani
qui ancora per molto finirai per sentirti male, e non voglio. Vai con
il tuo
amico.”
Probabilmente solo a me era suonata
male la parola amico riguardo ad
Enrico, dato che né lui
né mio padre si erano scomposti più di tanto.
“Vieni,
Giulia…” Disse Enrico con dolcezza, prendomi la
mano.
Con un’espressione piuttosto
contrariata e storcendo il naso fissai
mio padre, ma poi mi limitai a seguire docilmente l’unica
persona che avrei
voluto evitare. Tutti gli sforzi che avevo fatto in quei giorni per
cercare di
non incontrarlo erano svaniti nel nulla, e visto che ci stavo
riflettendo, mi
accorsi di non avere neanche il cellulare con me qualora avessi dovuto
chiamare
rinforzi. Davvero fantastico.
Augurandomi che non avesse intenzioni
strane, almeno per quella
volta, salii nella sua macchina – che per
l’occasione aveva il tettuccio
rialzato come se in qualche modo si fosse voluto adattare al mio cupo
stato d’animo.
Bah, sciocchezze.
Ascoltai il ruggire
dell’auto che ripartiva, guardando fuori dal
finestrino mentre l’aria condizionata iniziava a circolare
nell’abitacolo. Non avevo
nessuna intenzione di litigare quel giorno, così decisi di
issare
momentaneamente la bandiera bianca.
Avrei avuto di certo altre
opportunità per gridargli ancora quanto
lo odiavo.
______________________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Ed
eccomi tornata con un - alquanto sudato - aggiornamento! Temevate che
non fossi sopravvissuta all'esame, vero? Tranquille, la vostra
GiulyRedRose rimarrà connessa su questi schermi fino a
storia finita, anche se dovessero volerci secoli! ù.ù
(In realtà, spero di impiegarci meno tempo :p)
Scherzi a parte,
non ho molto da commentare su questo capitolo. La relazione tra Giulia
ed Enrico è parecchio tesa, chi sa come si
evolverà? Questo tragico avvenimento li
avvicinerà oppure no? Sbizzarritevi pure con le ipotesi,
sarà divertente sapere che cosa si immaginano le mie
lettrici ^^
Perdonatemi per il
capitolo tristissimo - temo che anche il prossimo sarà
più o meno su questa linea - ma poi le cose dovrebbero
tornare "spensierate" come prima. Almeno lo spero!
Voglio ringraziare
con tutto il cuore le 100 fantastiche persone che
hanno aggiunto questa storia tra le preferite e le altrettante 149 meravigliose che
l'hanno aggiunta alle seguite... Grazie grazie grazie, grazie infinite,
non so che farei senza di voi =*
Inoltre ringrazio Rosella, Valentina78 e savy85 per aver recensito lo
scorso capitolo ^^
Il capitolo 19
è stato scritto già per metà, quindi
non dovrete attendere un altro mese per leggerlo... E poi ora che ho
finito con la scuola e lo studio avrò più tempo a
disposizione ^^
Continuate a
seguirmi, vi adoro! <3
Un abbraccio, al
prossimo capitolo =*
GiulyRedRose
|
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Capitolo 19 *** Capitolo XIX. ***
Capitolo XIX
Il pesante silenzio che si era creato
in macchina fu spezzato
proprio da lui. D’altra parte io non avevo nulla da dirgli
– a parte
l’impellente bisogno di inveirgli contro e al limite
supplicarlo di non
intromettersi ancora nella mia vita.
Purtroppo avevo capito che tanto erano
sforzi inutili.
“Hai letto i miei
messaggi?” Esordì a bassa voce, cercando di
essere gentile.
Io scossi la testa, decidendo che
trincerarmi in un mutismo
ostinato non avrebbe giovato a nessuno, tantomeno a me. “No,
ho il cellulare
spento da ieri notte.” Mormorai, odiandomi per la mia voce
roca a causa del
lungo pianto.
Dalle sue labbra sfuggì una
sorta di sospiro sollevato. “Bene, non
farlo allora.”
Non potei impedirmi di essere curiosa,
così mi voltai inarcando un
sopracciglio e osservandolo con fare interrogativo. “Che
significa?”
Vidi la sua mano stringersi sopra il
cambio, facendo guizzare gli
agili muscoli delle braccia, lasciate scoperte dalla T-shirt blu a
maniche
corte. Com’è che non avevo mai fatto veramente
caso a quanto fosse muscoloso?
Sbattei più volte le palpebre, stupita da quel mio stesso
pensiero, e mi
sforzai di ascoltare la sua risposta titubante. “Continuavi a
non rispondermi
dall’ultima volta che ci siamo visti, e anche se avrei potuto
capirlo, non
sopportavo il tuo silenzio. Sapevo che stavi bene, ma quando ho saputo
di tuo
nonno, beh… Non ho potuto tollerare che mi tenessi fuori
anche in questa… occasione.
Ero preoccupato e arrabbiato,
e mi sono lasciato un po’ prendere la mano nei messaggi. Ti
chiedo scusa.”
Probabilmente il vero evento fu il
fatto che si fosse appena
scusato, ma non ci feci poi molto caso. Non mi degnai neppure di
guardarlo e
così tornai ad osservare la strada, innervosita ma troppo
stanca per
dimostrarlo. “Questa è la mia vita, Enrico, non
hai nessun diritto di farne
parte. Soprattutto in questa
occasione.” Specificai, giocherellando con le cinghie della
mia borsa. “Credevo
che dopo il nostro ultimo incontro avessi deciso di lasciarmi
stare.”
“Invece ti
sbagliavi.” Sussurrò, senza approfondire oltre
l’argomento. Io feci finta di niente e non risposi, in parte
perché non ne
avevo voglia e in parte perché effettivamente non sapevo
cos’altro replicare.
Era talmente cocciuto da far perdere la pazienza ai santi.
Senza più dire una parola,
alla fine, raggiungemmo il bar. Enrico
parcheggiò all’ombra, sotto un pino, e mi
accompagnò dentro precedendomi, come
se si fidasse che l’avrei seguito senza cercare di andarmene.
Cosa che comunque
non avevo intenzione di fare, visto che mio padre sapeva che ero in sua
compagnia e lui non poteva né rapirmi né farmi
del male. Aprì la bocca solo per
chiedermi che cosa volessi.
“Credo che un thè
freddo possa bastare.” Risposi, guardandomi
pigramente intorno.
Lui annuì. “Okay.
Vai a sederti, allora, arrivo subito.”
Con la coda dell’occhio lo
vidi dirigersi al bancone, mentre io
andai a cercare un tavolino appartato, in un angolo, in modo da non
essere
disturbata. Purtroppo la parete del locale era ricoperta da specchi,
così mi
trovai ad osservare di malavoglia il mio riflesso: beh, non avevo di
certo un
bell’aspetto. Malgrado l’abbronzatura, il mio viso
era estremamente pallido, e
gli occhi erano arrossati dal pianto e leggermente violacei. Mi
strofinai il
viso con i palmi delle mani e mi pizzicai le guance per farvi tornare
un po’ di
colorito, in modo che la gente non pensasse che fossi una drogata o una
moribonda, e per un po’ l’effetto sembrò
funzionare. Ma per quello che
m’importava…
Enrico non si fece attendere molto e,
quando tornò, aveva un
bicchiere di gelido thè alla pesca in una mano e un
croissant al cioccolato
nell’altra. Posò entrambe davanti a me,
costringendomi a sollevare sconcertata
un sopracciglio. “Non ho chiesto un
croissant…”
Lui abbozzò un sorriso,
annuendo. “Lo so, te l’ho preso io. Credo
che tu abbia bisogno di zuccheri, fuori c’è troppo
caldo e tu sei troppo
pallida.”
Non trovai niente di meglio da dire
che: “Tu non ti arrendi mai,
vero?”
Il suo sorriso si allargò
impercettibilmente, mentre incrociava le
braccia e le posava sul tavolino. “No, decisamente
no.” Rispose, con un tono
sin troppo dolce per i miei gusti.
Mi limitai a sospirare, rassegnata.
“Va bene, come vuoi. Quanto ti
devo per…?”
“Non dirlo neanche per
scherzo, mi sembra evidente che qui offro
io.” Mi interruppe, risoluto.
Lo guardai a lungo, indecisa su cosa
dire. “Enrico, senti, voglio
chiarire che…”
Ma neanche questa volta mi diede
l’opportunità di parlare.
“Questo non è
né il luogo né il momento adatto per parlare di
certe cose, Giulia. Adesso non preoccuparti e mangia, ne hai
bisogno… Va bene?”
Mi limitai a scrollare le spalle,
senza alcuna voglia di
discutere. “Okay.” Mormorai, portandomi alle labbra
la bevanda ghiacciata –
che, effettivamente, mi fece parecchio bene.
Rimanemmo in silenzio, grazie al Cielo
avevo la scusa di dover
tenere la bocca occupata nel mangiare, altrimenti la mia stupida
educazione mi
avrebbe costretto a trovare per forza qualcosa da dire. Per quanto il
silenzio
non fosse eccessivamente imbarazzato, anzi: ma il solo fatto di essere
per
l’ennesima volta da sola, in sua compagnia – in
quello che somigliava terribilmente
a uno dei nostri vecchi appuntamenti – beh, diciamo che era
qualcosa di cui
avrei fatto volentieri a meno.
Quando, finalmente, ebbi terminato sia
il thè che il croissant, ci
alzammo entrambi e, senza dire una sola parola, come se ci fossimo
letti nel
pensiero a vicenda, ci dirigemmo verso l’uscita. Una volta
fuori notai una
panchina libera sotto un albero, nel piccolo giardinetto del bar, e la
raggiunsi per cercare un po’ di riparo al calore terribile
del sole. Mi
sedetti, ma non invitai lui a fare lo stesso.
“Vuoi che ti riporti subito
in ospedale?”
Sollevai lo sguardo per incrociarlo
lentamente con il suo, notando
che i suoi profondi occhi verdi erano colmi di preoccupazione. Per me?
Stentavo
a crederlo. Poi scossi la testa. “No, non subito. Fra un
po’.” Mormorai.
Lui annuì, poggiandosi al
tronco dell’albero e facendo per
estrarre il pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni. Distolsi
lo
sguardo mentre stava per accenderne una: se avessi anche solo sentito
l’odore
acre del fumo mi sarei sentita male.
Enrico d’altra parte
sembrò capirlo perché ritirò
nuovamente il
pacchetto, che sparì all’improvviso
così com’era apparso. “Scusa,”
disse. “Ti
prometto che oggi non fumerò.”
Scrollai le spalle, ostentando
indifferenza. “Fai come vuoi…”
Lo sentii sospirare paziente, mentre
veniva a sedersi accanto a
me. “Giulia,” esordì a bassa voce,
cercando di sfruttare tutta la calma e la
dolcezza di cui era capace. “Sono venuto da te non appena
l’ho saputo. Voglio
solo starti vicino e consolarti. Ma tu… Tu non me lo
permetti. Perché? Mi odi
così tanto? So che non è il momento
più adatto per affrontare un simile
discorso, ma a questo punto voglio saperlo. Non riesco a pensare ad
altro, solo
a te… Tu credi che sia solo l’ennesimo capriccio
di un ragazzino viziato, ma ti
posso assicurare che non è così. Io tengo molto a
te, davvero… Cosa dovrei fare
per dimostrartelo? Neppure i miei regali sono valsi a
qualcosa…”
A quel punto scossi la testa,
voltandomi finalmente per
fronteggiarlo. “I tuoi regali non servono a niente, Enrico, e
sai perché?
Perché non puoi comprarmi con soldi e fiori profumati, io
non sono quel tipo di
ragazza! E mi sembra di avertene dato prova in più di
occasione. E sai cosa ti
dico? Sì, è vero, credo che il tuo sia solo un
capriccio, perché se tenessi
davvero a me non mi obbligheresti a frequentarti e non ti arrabbieresti
se non
rispondessi ad uno dei tuoi cento messaggi giornalieri!
Anch’io ho una vita, lo
sai questo? Non ho sempre il cellulare in mano, e se non ti rispondo
c’è una
ragione! Uscivo con te ogni santo giorno, ho trascurato i miei amici e
la mia
famiglia per te, Dio! Ma questo non ti è bastato,
perché sei l’essere più
egoista del mondo, e allora hai pensato di farmi tenere sotto controllo
anche
le poche volte che non ero insieme a te. Ti sembra un comportamento da
persona
matura? No, non direi proprio. Quindi, se davvero tieni a me
– cosa di cui,
lasciami dire, ma dubito – vedi di cambiare atteggiamento,
perché io non sono una cosa tua.”
Lui mi fissava improvvisamente
rabbuiato, ma non mi importava: era
ora finalmente che capisse a che cosa mi aveva portato il suo stupido
orgoglio
e il suo egoismo. E se ero riuscita a farlo arrabbiare, tanto meglio:
forse era
la volta buona che si stufava e mi lasciava stare una volta per tutte.
Distolsi
nuovamente lo sguardo da lui, fissando un punto imprecisato davanti a
me.
Speravo con tutta me stessa che se ne andasse e mi lasciasse in pace,
ma avevo
sottovalutato – per l’ennesima volta – la
sua testardaggine.
“Non
c’è proprio niente che io possa fare per farti
cambiare
idea?” Mormorò tristemente.
Oh no,
caro, pensai.
Non usare quel tono
da cucciolo bastonato con me!
Mi presi la testa tra le mani,
poggiando i gomiti sulle ginocchia
e lasciando che i capelli sciolti mi piovessero sul viso per
nascondermi al suo
sguardo. Sospirai profondamente prima di rispondergli.
“Potresti sempre
lasciarmi in pace. Rinuncia e ritirati con onore.” Citai,
senza guardarlo.
Dalle sue labbra fuoriuscì
una strana risata, a metà tra l’amaro e
il divertito: forse perché il mio tono era risultato
talmente tanto stanco – e
con una linea sarcastica di troppo – che preferì
non prendermi sul serio.
“Mi dispiace, ma questo non
rientra nei miei piani.” Mormorò,
suadente.
Beh, valeva la pena tentare. Scrollai
le spalle, rimettendomi a sedere
normalmente. Non parlai per un po’, e lui rispettò
il mio silenzio. Dopo quelli
che mi parvero i minuti più lunghi di tutta la mia vita mi
alzai, sempre senza
guardarlo: temevo che i suoi occhi avrebbero potuto incantarmi
un’altra volta.
“Mi puoi riportare in
ospedale?”
Lui annuì.
***
Se c’era qualcosa che avrei
dovuto riconoscergli, in quella
occasione, era che non mi aveva lasciata sola per un attimo durante
tutta la
sera. Persino quando l’orario delle visite fu terminato e
dovemmo tornare a
casa, Enrico ci seguì in macchina – senza forzarmi
ad andare con lui, cosa di
cui gli fui grata – e rimase a farmi compagnia, mentre la
casa di mia nonna
veniva invasa da un via vai di parenti che sembrava non voler cessare.
Dopo averne visti talmente tanti da
non ricordarne neppure il
nome, però, ne ebbi abbastanza. Andai a rifugiarmi nel
salone che la nonna non
usava più – e che serviva soltanto per conservarvi
libri, foto, vasi e
soprammobili di vario genere. Era la stanza più fresca di
tutta la casa,
probabilmente, e senza alcun bisogno del condizionatore:
perciò mi chiusi
dentro e mi accoccolai sul divano, stringendo con forza il cuscino.
Ormai non
avevo nemmeno lacrime da versare.
Tuttavia non rimasi sola molto a
lungo. Anzi, forse non passarono
nemmeno cinque minuti. Dopo un po’ infatti la porta si
aprì e sentii il rumore
attutito di passi sopra il tappeto: temevo di sapere a chi
appartenessero, e
infatti non mi sbagliavo.
“Ah, sei qui.” Un
tenero sussurro che sembrava però un urlo,
nell’avvolgente
silenzio della sala. Sollevai una mano in modo che capisse che mi
trovavo dall’altra
parte del divano, nascosta dietro lo schienale, e subito i passi
vennero nella
mia direzione.
Fece il giro del divano fino a
trovarsi di fronte a me, e qui si
inginocchiò sul tappeto, poggiando le braccia incrociate sul
divano. “Mi sono
spaventato, sei sparita all’improvviso…”
Non potei trattenermi dallo sbuffare,
infastidita. “Sono a casa
mia, Enrico, dove diavolo sarei potuta andare?”
Il suo sguardo – ferito?
– mi fece capire di aver frainteso le sue parole, come del
resto si affrettò a
spiegare lui stesso.
“Sai bene che non intendevo
quello.” Ribattè infatti, aggrottando
le sopracciglia. “Credevo fossimo arrivati ad una tregua, noi
due.”
Lo fissai ancora un po’ poi
sospirai, arrendendomi. “Sì, lo so. Hai
ragione. Scusa.” Ammisi, senza guardarlo negli occhi.
“Sono solo un po’ nervosa…”
“Posso capirlo
benissimo…” Replicò, con rinnovata
tenerezza. “Sai,
quando… Quando è morta mia madre…
Credevo che il mondo mi fosse crollato
addosso. È stato come essere privato
dell’ossigeno…”
Quell’improvvisa quando
inaspettata confessione mi colse del tutto
impreparata. Sgranai gli occhi, stupita e malgrado tutto addolorata, e
non potei
fare a meno di provare pena per lui e di sentirmi male al solo
pensiero. “Tua
madre… Enrico, non lo sapevo… Mi dispiace
così tanto…” Balbettai, incerta se
sfiorarlo o meno.
Ma lui scosse la testa, con un amaro
sorriso sulle labbra. “Ero
più che un bambino, avevo otto anni. Non ricordo molto di
lei.” Mormorò,
abbassando lo sguardo. Le folte ciglia scure gli sfiorarono la pelle
sotto gli
occhi, tremando impercettibilmente.
A quel punto non potei fare a meno di
allungare una mano e posarla
sulla sua spalla, cercando di confortarlo con un misero tocco
– non sapevo in
che altro modo fargli sentire la mia presenza. “Non me ne hai
mai parlato…”
Sussurrai poi, come ripensandoci.
A quel punto alzò lo
sguardo, immobilizzandomi con quei maledetti
occhi ora incredibilmente cupi. “Non volevo fare la parte del
povero orfanello,
Giulia. Magari questo avrebbe influito sull’idea che tu avevi
di me e forse mi
avresti visto diversamente, ma… Ad essere sincero, preferivo
che tu odiassi il
vero me piuttosto che farti provare un affetto derivante dalla
compassione.”
La fermezza con cui aveva pronunciato
quelle parole – vere, d’altronde
– mi diede l’opportunità di riflettere
brevemente e farmi un ennesimo quadro
generale della situazione. Come aveva detto lui, in effetti mi sarei
aspettata
di più che usasse quella tragedia per toccare quella
maledetta sensibilità
femminile che sembra appartenere ad ogni essere privo del cromosoma Y
– se mi
avesse detto una cosa simile, dovevo ammetterlo, ma l’avrei
guardato con occhi
diversi. Probabilmente anche giustificando le azioni che invece, nella
mia
beata ignoranza, mi facevano innervosire.
Ma quello che mi aveva davvero colpito
era stata la sua ultima
frase. Preferivo che tu odiassi il vero
me piuttosto che farti provare un affetto derivante dalla compassione.
Che cosa
voleva dire con questo? Perché queste sue parole non
coincidevano minimamente
con l’idea di ragazzo egoista e arrogante che mi ero fatta di
lui? Credevo che
uno della sua risma potesse arrivare a tutto pur di raggiungere il
proprio
scopo, e se davvero il suo scopo ero io, allora, perché non
usare anche quella
triste verità?
Possibile che fosse sul
serio… Poteva essere…?
Che diavolo, certo che no!
Scossi la testa, sentendomi la bocca
improvvisamente arida. “Non
so… Non so cosa dire, Enrico.” Mormorai infine,
scrollando lievemente le
spalle. Ero dispiaciuta, certo, e mi odiavo per provare
l’irritante impulso di
abbracciarlo, ma quelle parole mi avevano confuso e scioccato
più del lecito.
Il mesto sorriso che apparve sulle sue
labbra non fece che
terminare di mandare al diavolo tutto il mio severo autocontrollo.
“Non c’è
nulla da dire, Giulia. Volevo solo dirti che capisco come ti
senti.”
Oh bene, perfetto. Io mi riferivo alla
seconda parte del discorso
mentre sembrava che lui avesse deciso di ignorarla, come se si fosse
pentito
delle parole che gli erano sfuggite di bocca in un momento di
appartente
intimità… Che fare con un ragazzo così?
Sospirai, scostandomi per fargli
spazio sul divano. “Vieni, su. Devi
essere scomodo lì per terra.” Dopotutto avevamo
firmato una tregua, no?
Un angolo delle sue labbra si
curvò verso l’alto, mentre Enrico
prendeva posto di fianco a me e si posava un cuscino sulle gambe. Poi
fece
qualcosa che – senza ombra di dubbio – non mi sarei
mai aspettata. Picchiettò leggermente
sul cuscino e mi sorrise, dolcemente, indicandomi di avvicinarmi.
“Metti la
testa qui e sdraiati, forza. So che hai bisogno di
riposarti.” Mi invitò, senza
nessuna ombra di maliziosità o doppi sensi.
Il mio sguardo dovette esprimere tutto
il mio scetticismo perché il
suo sorriso si fece leggermente più ampio.
“Davvero, Giulia, sono serio. Non voglio
fare nulla di male, soltanto… Permettimi di essere il tuo
conforto adesso,
senza nulla in cambio. Non ti chiedo altro.”
Con parecchia esitazione mi avvicinai
a lui, senza mai distogliere
lo sguardo per paura che potesse fare qualcosa di cui mi sarei
sicuramente
pentita. Tuttavia si comportò proprio da bravo ragazzo e non
fece nulla di
tutto quello che mi ero invece immaginata io, lasciando che posassi la
testa
sul suo cuscino e rannicchiassi le gambe lungo il divano, in lungo.
Rimanemmo immobili per un tempo che mi
parve infinito, prima che
le sue mani, capricciose, raggiungessero i miei capelli e lì
si fermarono, intrufolandosi
tra i ciuffi e accarezzandomi con una strana dolcezza che preferii non
considerare tale, perché in caso contrario sarei stata
costretta a cambiare
completamente il parere che avevo di lui.
Il rumore del suo respiro e le carezze
tra i miei capelli mi
cullarono, trascinandomi in un lieve sonno senza sogni. Ero troppo
stanca per
combattere anche quella battaglia, ed Enrico di certo non ne avrebbe
approfittato. Speravo solo che non si facesse strane idee,
perché io non avevo
nessuna intenzione di cambiare o di rivedere la mia posizione al
riguardo.
Enrico era cattivo, egoista, arrogante
e presuntuoso. Ed io dovevo
stargli alla larga.
O forse no?
_____________________________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Acciderbola, che
parto! Chiedo scusa per il ritardo - okay, tutti i miei aggiornamenti
contengono delle scuse, che bello -.-'' ormai mi conoscete! :D
Dunque! Siccome è tardi e sono stanca, non mi
dilungherò nelle note come mio solito... Ma corro a
ringraziare i miei fedeli discepoli che, bene o male, seguono tutti i
miei aggiornamenti ^^
Un enorme grazie a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, ossia
Rosella, Alebluerose91,
Ada Wong e lara27;
grazie infinite alle 108
fantastiche persone che l'hanno aggiunta alle preferite e alle 162 che l'hanno
messa tra le seguite! Grazie, grazie, grazie! =*
Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate dei nuovi capitoli e di
come si sta evolvendo la storia di Giulia ed Enrico, sono ansiosa di
sapere che ne pensate e - soprattutto - che idea vi siete fatta! Si
metteranno insieme o no? Giulia è troppo cinica? Enrico
troppo stronzo? Mistero! :O
Lo scoprirete alla prossima puntata... Forse xD
Un bacio e un abbraccio a tutte! Vostra,
GiulyRedRose
|
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Capitolo 20 *** Capitolo XX. ***
Capitolo XX
Non avrei mai immaginato che un giorno
avrei potuto pensare una
cosa simile, ma dopo che Enrico se ne fu andato, quella notte
– era rimasto
fino alla fine a farmi compagnia, limitandosi ad accarezzarmi i capelli
in
perfetto silenzio – mi sentii improvvisamente sola. Proprio
come se ne sentissi
la mancanza.
Mia madre, ben lungi anche solo
dall’immaginare quello che in
realtà c’era tra me e lui, sembrava felice del
nostro riavvicinamento, e mi
aveva confidato che sperava che la sua presenza mi aiutasse ad
alleviare il
dolore della perdita di mio nonno, che era stato per me un secondo
padre. Non
avevo replicato, trovando come scusa il dover apparecchiare per
mangiucchiare
qualcosa per cena – anche se nessuno di noi aveva voglia di
cucinare, tanto che
mio padre fu costretto ad andare a comprare una pizza.
Rimasi per tutto il resto della
serata, fin quando non mi arresi e
andai a dormire, a pensare e riflettere sul comportamento di Enrico e
su quello
che avrebbe potuto significare la sua presenza in
quell’occasione. Non avevo
mai avuto un fidanzato serio, in
genere mi sentivo saltuariamente con qualcuno ma senza nessuno scopo
particolare, e di conseguenza non era mai capitato di doverne
presentare uno ai
miei genitori. Questa volta, invece, non solo i miei lo avevano
conosciuto, ma
era stato al mio fianco in una circostanza nella quale quel suo
comportamento
poteva essere benissimo frainteso: inoltre, mia madre ne sembrava
stranamente
entusiasta, e mio padre, col suo silenzio, aveva dato una sorta di
beneplacito
alla situazione. Come se io avessi richiesto una cosa simile! Enrico
non era il
mio ragazzo, che diavolo, non lo sarebbe mai stato! Ma come spiegare
l’intera faccenda ai miei
genitori senza
provocare uno scandalo nazionale? Senza contare poi che quello non era
di certo
il momento adatto.
Insomma, fatto sta che quella notte,
tra una cosa e l’altra,
dormii pochissimo e dormii male.
Il mattino dopo, appena svegliata, il
primo messaggio che
ricevetti fu da parte di Enrico.
Buongiorno,
Giulia. Hai
dormito bene? Spero davvero di si. Vuoi che venga
all’ospedale a tenerti
compagnia, questo pomeriggio? Fammi sapere – io sono sempre
disponibile, lo
sai.
Rilessi a lungo e più volte
quel piccolo SMS, come se da un momento
all’altro si fosse potuto trasformare in
una minaccia delle sue o in una bomba ad orologeria: non sapevo cosa
rispondergli – ma sapevo che, in ogni caso, qualcosa
avrei dovuto dirgliela. Dopotutto era stato molto gentile con me,
malgrado…
Beh, malgrado tutto quello che era successo.
Comunque, quel messaggio non sembrava
una minaccia. Anzi, mi aveva
chiesto se volevo che venisse a
farmi
compagnia, così, semplicemente, come avrebbe potuto
chiedermelo Alessandra.
Ecco! Magari, se avessi potuto vedere il rapporto con Enrico
così come vedevo
quello con Ale, cioè come un bel ma semplice legame di
amicizia, non sarebbe
stato così difficile accettare le sue attenzioni e
gentilezze… Benchè sapessi
chiaramente, tuttavia, che non era l’amicizia quello che
voleva da me.
Sospirai, iniziando a digitare una risposta che non sembrasse
né troppo gelida
ma neanche troppo amichevole. Che cavolo, non ero brava con le mezze
misure!
Una cosa poteva essere o bianca o nera, non grigia… Ma in
questo caso evidentemente
la mia filosofia non poteva essere applicata.
Buongiorno
Enrico. Diciamo
che avrei potuto dormire meglio… Ad ogni modo, decidi tu.
Non voglio esserti di
disturbo, hai già fatto… molto… per
me. Davvero, se sei impegnato non sei
obbligato.
Pigiai il tasto di invio prima di
poterci ripensare – anche se ciò
fu inevitabile. Dandomi mentalmente della sciocca, digitai un nuovo
messaggio e
glielo spedii frettolosamente. Grazie per
ieri, comunque. Fu tutto quello che scrissi.
Non dovetti aspettare molto la sua
risposta – chissà perché,
sembrava che quando si trattava di me aveva sempre il cellulare a
portata di
mano.
A me non
disturbi affatto,
Giulia, altrimenti non te l’avrei chiesto. Sai già
qual è la mia posizione, al
riguardo… E comunque, non devi ringraziarmi per ieri.
L’ho fatto con piacere…
Oh no, ecco che riprendeva con il
tono… dolce! Scossi
piano la testa, il dito sospeso a mezz’aria sopra la
tastiera nel vano tentativo di pensare una risposta. Che diavolo, era
sempre
così difficile mandargli un messaggio, perché lui
avrebbe potuto fraintenderlo
come niente!
Alla fine, piuttosto innervosita,
scrissi la risposta. Senti, fai come vuoi. A
me non cambia nulla.
E lo spedii prima di cambiare idea. Non avevo tempo e non avevo voglia
di
essere diplomatica in quel momento, che mi prendesse per quello che
ero.
Naturalmente, neanche due minuti dopo mi arrivò il suo
messaggio: proprio a
tempo di record.
Allora va
bene, verrò. Una faccina che sorrideva. A
più tardi, Giulia. Un bacio.
Un bacio. Un bacio? Aveva davvero
voglia di irritarmi? Abbandonai
il telefono sopra la cassettiera e scesi a fare colazione, senza
neppure
rispondergli. Avevo già fatto abbastanza danni in quei pochi
minuti. Eppure,
stranamente, il fatto che sarebbe venuto a farmi compagnia mi aveva in
un certo
senso… rincuorata.
Quella mattina, verso le dieci,
Alessandra mi raggiunse a casa di
mia nonna. Le avevo mandato un messaggio di notte, prima di andare a
letto, per
darle la notizia, e mi aveva promesso che sarebbe passata.
Così mi sarei potuta
sfogare e le avrei anche raccontato di quello che stava succedendo con
Enrico –
avevo davvero bisogno di dirlo a qualcuno. Naturalmente ci appartammo
nel
salone in cui avevo trascorso tutta la serata del giorno prima, in modo
da
essere al sicuro dalle orecchie indiscrete degli ospiti e dei parenti
della
nonna che non avevano cessato un solo momento di fare avanti e indietro.
Così, tra un sorso di
thè alla pesca e qualche biscotto, le
raccontai gli ultimi aggiornamenti della Questione Enrico. Lei mi
ascoltò in
silenzio senza mai intervenire, come se volesse entrare a conoscenza di
tutto quanto prima di esprimere
qualsiasi genere di giudizio. Alla fine poi, con un sospiro,
parlò.
“Sarò breve e
concisa, Giulia: sai benissimo che a me, Enrico, non
piace.” Esordì guardandomi negli occhi, senza
tanti giri di parole.
Io annuii, certa che avrebbe detto
qualcosa del genere. “Neanche a
me, se è per questo.” Replicai, sorseggiando il
thè. “È solo che il suo recente
comportamento mi ha lasciato piuttosto confusa…”
“Beh, non ti
nasconderò che potrei anche pensare che si tratti di
una misera mossa per legarti di più a sé, o per
intenerirti, o chissà
cos’altro…”
“Hai sentito cosa ti ho
detto a proposito di sua madre, vero?”
Lei fece un cenno con la mano.
“Sì, sì, infatti ho detto potrei.” Ribattè.
“Comunque, mi chiedo:
perché tirare fuori questa apparente dolcezza solo ora?
Voglio dire, avrebbe
potuto intuire che se avesse cercato di conquistarti così
sin dall’inizio,
forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma devo rinfrescarti la
memoria?
Ti ha rapito, ha picchiato Matteo, ha minacciato di farci del male, e
tutto
perché tu – in chissà quale remota
realtà – avresti potuto non accettare le sue
attenzioni. Cosa che, ad ogni modo, mi sembra che tu stia facendo. O
no?”
Scrollai le spalle, senza guardarla.
“Sì, beh, ci stavo provando,
ma poi ha tirato fuori questa storia della tregua
e…”
“Lo so, e tu sei troppo
presa da quello che è successo per poter
riflettere lucidamente sul significato dei suoi gesti.”
Ammise, con un tono di
voce decisamente più dolce. “Senti, geme, io non
posso fare a meno di credere
che tutte le sue azioni nascondano un doppio significato. Ed era quello
che
credevi anche tu, cavolo! Perché adesso sei così
titubante? Gli è bastato farti
gli occhioni dolci per ammaliarti? Sei troppo tenera col prossimo,
lasciatelo
dire…”
Accennai un sorriso, mentre annuivo
lentamente. “Potrebbe essere…”
Mormorai.
Lei continuò imperterrita
col suo discorso. “Senza contare, poi,
che stiamo pur sempre parlando di un… Come vogliamo
chiamarlo? ‘Assassino’ mi
sembra troppo forte, ma credo che ‘mafioso’ possa
andare.”
“Geme!”
“Lasciami
finire!”, mi pregò. “Sì,
dicevo, è comunque un
delinquente. Anche se adesso può sembrare il ragazzo
più dolce della terra, che
cosa ti assicura che una volta finito tutto questo non
tornerà ad essere
l’egoista viziato che conoscevi? Ammesso e non concesso che
tu lo conosca
davvero, comunque.”
Questa volta spettò a me
sospirare – ero costretta a darle
ragione. “Dai voce alle mie stesse preoccupazioni, geme, e
questo non mi aiuta…
Speravo di trovare un parere più netto e deciso.”
La sua mano si posò
gentilmente sulla mia spalla, facendomi
sollevare lo sguardo per incontrare il suo, scuro come la cioccolata.
“Cosa
vuoi che ti dica? Di lasciarlo perdere di nuovo? Abbiamo già
appurato che
questo non funziona. Ma non puoi aspettarti che io ti faccia gettare
tra le sue
braccia, non dopo tutto quello che ha fatto. Mi dispiace di non poterti
essere
realmente d’aiuto, ma questo purtroppo è tutto
ciò che posso fare.”
Scrollai le spalle con insofferenza,
senza sapere che pesci
pigliare. Sembrava davvero quella che si diceva impasse…
una situazione senza uscita, eh? E io che mi lamentavo di
non avere una vita emozionante. Dopo aver fatto sparire
l’ennesimo biscotto –
se ogni volta che ero così stressata mi veniva da mangiare
in quantità
industriale, nel giro di poche settimane avrei raggiunto il girovita di
una
balena – mi rivolsi nuovamente ad Alessandra, questa volta
cambiando
prudentemente discorso. Ne avevo fin sopra i capelli di quella storia
di
Enrico.
“E tu, invece, cosa mi
racconti? Va tutto bene con Riccardo?”
Chiesi, riuscendo a distrarci entrambi. I suoi occhi infatti si
illuminarono, e
un dolce sorriso apparve sulle sue labbra: ah, quanto la
invidiavo… Riccardo
almeno non andava in giro a spaventare la gente.
“A gonfie vele, direi! Non
avrei mai immaginato che potesse essere
così tenero…” Iniziò,
partendo subito in quarta con descrizioni dettagliate su
quello che facevano e che le diceva – sempre rimanendo nei
limiti della
decenza, naturalmente: non volevo che mi colpisse una carie improvvisa,
e la
mia migliore amica tendeva ad essere particolarmente smielata quando si
trattava di situazioni di cuore. O perlomeno lo era con le sue. Ad ogni
modo,
le fui immensamente grata per essere riuscita a strapparmi delle serene
risate
– per la prima volta dopo troppo tempo, purtroppo;
così, almeno per qualche ora
riuscii a godermi la vicinanza della mia geme senza pensare quasi per
niente ad
Enrico.
A lui, invece, fui costretta a
pensarci quando, quel pomeriggio,
tornammo per la veglia in ospedale. Lui era lì – o
meglio, ci raggiunse poco
dopo per non sembrare troppo invadente – e rimase accanto a
me per tutta la
sera, come aveva già fatto il giorno prima. Non fece nulla
di riprovevole, a
meno che non fosse considerato una trasgressione l’avermi
tenuto compagnia come
un buon amico.
Ed ecco l’altro problema
– spuntavano come funghi, ultimamente!
Come diavolo dovevo considerarlo, soprattutto di fronte alla mia
famiglia? Ricordo
che alcuni dei nostri parenti l’osservarono con occhio
critico e sospettoso,
evidentemente conoscendo di fama la sua famiglia, ma il fatto che fosse
abbigliato decentemente e avesse un atteggiamento elegante ed garbato
– oltre a
quello che lo presentai come un mio amico – servì
a soffocare eventuali domande
e commenti imbarazzanti.
In effetti, sembrava essersi voluto
dare apposta un aspetto meno
inquietante. Indossava lunghi jeans chiari, scarpe da tennis e una
camicia nera
con le maniche lunghe arrotolate fin sotto i gomiti; non aveva tatuaggi
né
piercing strani, insomma, aveva proprio le sembianze del bravo ragazzo
o del principe azzurro. Ah, non il mio, chiaramente.
Comunque, visto che a dispetto di
tutti i più famosi adagi,
l’abito faceva il monaco,
nessuno
avrebbe mai potuto dubitare che sotto quell’apparenza di
perfetto ‘fidanzato’
si celasse quella di un altrettando perfetto criminale. E ancora non
sapevo se
considerarlo come un bene o un male per la mia causa.
Poi, il giorno dopo ci fu il funerale.
Probabilmente non era il massimo
seguire una funzione di quel
genere alle tre del pomeriggio, con il caldo che penetrava fin sotto la
pelle e
che mi fece rimpiangere sinceramente di aver indossato tutto quel nero
e di
aver lasciato i capelli sciolti. Il ventaglio purtroppo serviva
relativamente.
Malgrado per tutta la messa fossi
rimasta accanto alla mia
famiglia, seduta tra mia madre e mia sorella, mi accorsi che Enrico non
mi
aveva lasciata moralmente sola
neppure per un istante. Lui era seduto a qualche bancata di distanza,
abbastanza
lontano da concedermi un po’ di intimità con i
miei ma abbastanza vicino da
farmi accorgere della sua presenza. C’era anche Alessandra,
certo, eppure
rammento che fu Enrico quello di cui mi ricordo di più in
quell’occasione –
forse perché era tutto talmente assurdo…
Una volta che la messa fu terminata,
mia nonna con mia madre e gli
altri zii si misero vicino per ricevere le condoglianze di rito
– perfetti
sconosciuti che si mischiavano agli amici più stretti, e che
pretendevano di
poter condividere il dolore della nostra perdita e di quella,
più grave, di mia
nonna. Dopo una vita trascorsa insieme al marito, dubitavo che
sarebbero
bastate quelle gelide condoglianze a tirarle su il morale. Io cercai di
rimanere da una parte insieme a mia sorella, come se avessi voluto
proteggerla
da quella folla a mio avviso indesiderata, ma qualcuno ci raggiunse lo
stesso e
ci abbracciò, e come se non bastasse noi dovemmo anche
sforzare un sorriso di
circostanza tra le lacrime, per far vedere che eravamo grate di quella
partecipazione.
Ma, grazie a Dio, anche quello strazio
terminò presto. Il feretro
venne accompagnato all’esterno della chiesa, e dietro la
macchina funebre ci
accodammo tutti noi – questa volta non avevo voluto lasciare
sola mia nonna e
mi misi accanto a lei, davanti, insieme a mia madre e ai suoi fratelli.
Il
caldo era sempre più terribile, e noi eravamo ancora ben
lontani dal
camposanto.
E potevo chiaramente avvertire la
presenza di Enrico a pochi passi
dietro di me, così vicino che avrei potuto toccarlo se solo
avessi allungato
una mano. Ma cercare il suo contatto non era qualcosa che potevo
desiderare
razionalmente – un conto era stato permettergli di
accarezzarmi, la sera prima,
in un momento in cui non sarei stata capace di fare
nient’altro, ma un altro
conto era cercarlo di mia spontanea volontà: il sole non
aveva ancora smesso di
sorgere, dopotutto, no?
Ripresi coscienza del luogo in cui mi
trovavo solo dopo aver
raggiunto il camposanto, quando il prete iniziò a recitare
le ultime preghiere
e a benedire il feretro prima che esso venisse tumulato. Ormai non
avevo più
lacrime da versare, i miei occhi erano completamente asciutti, e non
riuscii a
piangere neppure quando la bara venne calata nella buca nel terreno,
precedentemente scavata. In mezzo a tutti i miei parenti che
continuavano a
piangere mi sentii a disagio e, imbarazzata seppur senza alcuna reale
ragione,
mi spostai da una parte, cercando di allontanarmi da quella calca di
gente. Andai
a ripararmi sotto un albero, una quercia forse, e da lì
rimasi ad osservare la
scena da lontano.
Tuttavia, non rimasi sola molto a
lungo; qualcuno si accorse della
mia sparizione e venne a cercarmi, e quel qualcuno era proprio Enrico
– ancora non
avevo capito se desideravo vederlo o meno.
Mi raggiunse con passo rapido, come se
non avesse fatto altro che
aspettare quel momento tutto il tempo, e quando mi fu di fronte lo
sentii
chiaramente ansimare, seppur leggermente. Decisi tuttavia che doveva
essere
infastidito da altro, non potevo accettare – questa era la
mia ragione che
parlava – che fosse sul serio in pena per me. Maledizione,
era più forte di me!
Eppure, quando me lo trovai davanti, e
i miei occhi incrociarono i
suoi, le lacrime che avevo creduto di aver terminato sgorgarono
un’ultima
volta, facendomi benedire il momento in cui avevo deciso di non
truccarmi. Spalancò
le braccia, e malgrado l’avessi fissato incredula –
i miei occhi stentavano a
credere a quel suo gesto – lui non demorse, e dopo aver fatto
un altro passo
verso di me mi attirò nel suo abbraccio, stringendomi contro
il suo petto. Non mi
lamentai per il caldo terribile che quella stretta non faceva che
acuire, e non
cercai neppure di sgridarlo per aver approfittato della mia debolezza
in modo
così sfacciato. Non lo feci semplicemente perché
non lo pensavo. In quel
momento ero certa che Enrico volesse solo ed esclusivamente
confortarmi, come
confermò la sua mano tra i miei capelli e i sussurri con i
quali cercava di
tranquillizzarmi. Ma io continuavo a piangere, e i singhiozzi mi
facevano
sussultare come una bambina di cinque anni che non riesce a mantenere
il
controllo di sé: mi accorsi vagamente di aver accentuato io la stretta, sprofondando sempre di
più nel suo abbraccio e
aderendo con tutto il corpo al suo.
Non c’era
nient’altro da fare, se non rimanere ancora e ancora
stretta tra le sue braccia. La sua vicinanza non mi era mai parsa
più serena e
confortante come in quel momento.
Enrico non cercò di
allontanarmi da lui nemmeno quando il caldo si
fece intollerante: sembrava che l’unico suo scopo fosse
diventato quello di
tenermi aggrappata a lui, all’ombra di quella quercia, e di
questo non potei
che essergliene grata. Alla fine, quando il mio pianto
sembrò essersi
acquietato e la mia voce sembrò essere tornata, seppur
debolmente, non potei
fare a meno di mormorare, indistintamente, queste precise parole.
“Grazie…
Enrico.”
Ma quella che mi sorprese di
più fu la sua breve risposta.
Potrei giurare che abbia sorriso, nel
sussurrarmi all’orecchio. “Dovere,”
mormorò, teneramente.
Grazie al Cielo non riuscì
a vedermi arrossire.
________________________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Buonasera!
^^ Da quanto tempo... Praticamente un mese senza aggiornamenti! Mai che
riesca a rispettare le scadenze, porca paletta! -.-''
Ma bando alle ciance!
O, come dice una mia amica, ciando
alle bande!
:D Sbaglio o qui abbiamo un piccolo cambiamento della situazione??
Sì, per la vostra gioia Giulia sta cambiando idea
sul nostro bello - ma stronzo - Enrico! Anzi, forse l'ha già
cambiata, dai, voglio farvi felici ù.ù Che ne
pensate? E comunque siamo un pò lontani dal lieto fine,
anche se adesso l'atmosfera tra loro sarà più
tranquilla non rilassatevi troppo, perchè devono ancora
succederne delle belle. Ma qui taccio perchè non voglio mica
svelarvi troppi retroscena, nè ù.ù
And
now... Ringraziamenti!
*__*
Grazie infinite alle
mie preziose Discepole (ormai vi chiamerò così
fino alla fine :D) che continuano a seguirmi malgrado gli aggiornamenti
centellinati goccia a goccia! In particolare un grazie speciale a
coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, e cioè prettyvitto,
Aly in Wonderland, roxb, Eky_87, irene862, Rosella,
Alebluerose91, SenzaFiato, Valentina78, Elly4ever e Ada Wong - vi ringrazio tantissimo per
le splendide recensioni e per i complimenti che costantemente fate alla
mia storia e a me, sono sempre molto felice ed emozionata quando li
leggo, davvero, continuate così! ^^ Inoltre voglio dare il
benvenuto a tutte le nuove arrivate, spero che questa storia continui a
piacervi fino alla fine e che riusciate ad affezionarvi ai personaggi
almeno quasi quanto li amo io! *__*
Grazie ancora alle 115 che hanno raggiunto la storia
alle Preferite, e grazie alle 181 che l'hanno inserita tra le
Seguite: oh, come farei senza di voi? ;)
Ora vi saluto, fatemi
sapere cosa ne pensate di quest'altro capitolo! ^^
Un bacione, ci
sentiamo al prossimo chapter - in tempi, se non proprio brevi, almeno accettabili... Spero
ç__ç (a tal proposito vi invito a non demordere,
il 15 ho il test d'ingresso per l'università e dovrei anche
studiare, perciò se tardo sapete il motivo :p) Bye bye, a
presto!
Ancora grazie mille e
tanti baci! =*
La vostra
GiulyRedRose
|
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Capitolo 21 *** Capitolo XXI. ***
Capitolo XXI
Quello stesso giorno conobbi i
genitori di Enrico – suo padre e la
sua matrigna, ad essere precisi.
Io e lui eravamo ancora sotto la
quercia, il mio volto ancora
seminascosto sul suo petto e una sua mano tra i miei capelli; mi
sarebbe
piaciuto rimanere a lungo tra le sue braccia, se soltanto non si fosse
trattato
di lui. Ma ormai neppure questo
aveva
importanza: anzi, sembrava quasi che senza Enrico non fossi destinata a
potermi
sentire protetta, al sicuro. Questo era un bel paradosso: come potevo
non
sentirmi indifesa tra le braccia di un assassino?
Eppure era proprio così. In quel momento non sarei voluta
essere da
nessun’altra parte.
I signori D’Angelo, ad ogni
modo, ci raggiunsero una manciata di
minuti dopo. Riflettendoci col senno di poi, presumo che non volessero
sbandierare la loro presenza a quel funerale ai quattro venti,
dopotutto erano
di quelle persone che venivano precedute dalla loro fama.
Chissà cos’avrebbero
pensato tutti, se mi avessero vista circondata dagli Occhi Belli?
Fu Enrico ad avvertirmi della loro
presenza.
“Giulia…
C’è qualcuno che vorrebbe conoscerti.”
Mormorò, facendomi
sollevare lo sguardo.
Mi voltai, cercando di asciugarmi le
lacrime con scarso risultato,
e mi ritrovai a fissare un uomo sulla cinquantina d’anni
accompagnato da una
donna che ne dimostrava circa quaranta: il sorriso comprensivo e
materno che
apparve sul suo volto mi strappò l’ennesimo
singhiozzo, soprattutto quando
rammentai ciò che mi aveva raccontato Enrico e realizzai che
quella doveva
essere la seconda moglie del padre. L’espressione di
quest’ultimo era
altrettanto malinconica, anche se i suoi occhi cupi, neri, non mi
avrebbero
fatta sentire tranquilla in nessun’altra situazione: il suo
sguardo avrebbe
fatto scappare chiunque, o almeno questa fu l’impressione che
mi diede.
Grazie al Cielo, Enrico intervenne per
spezzare quel silenzio.
“Giulia, ti presento i miei
genitori. Papà, mamma,
lei è la ragazza di cui vi ho parlato.” Disse con
voce pacata,
dolce?, prima che la mia mano si
stendesse istintivamente verso di loro per stringergliela.
“Piacere di
conoscervi,” mormorai, odiando la mia voce roca.
“Sappiamo bene che non
è il momento più adatto, tesoro, ma sono
molto felice di incontrarti,” replicò lei
– il sorriso della madre adottiva di
Enrico avrebbe fatto sciogliere il cuore più gelido: era
davvero molto
affettuoso. “Mi chiamo Elisabetta, ma chiamami pure
Betta.”
Non potei impedirmi di ricambiare
debolmente quel sorriso, prima
che la voce profonda e rauca del padre di Enrico non catturasse la mia
attenzione.
“Io sono
Raffaele,” replicò, stringendomi a sua volta la
mano.
“Conoscevo tuo nonno: mi dispiace molto per quello che
è successo.”
Annuii, prendendo un profondo respiro;
ad essere sincera ero
sorpresa che l’avesse conosciuto, ma non mi sembrava il caso
di dirlo ad alta
voce. Il braccio intorno alla mia vita mi attirò leggermente
più verso di sé,
forse perché si era accorto che stavo per riniziare a
piangere, e non voleva
che mi sentissi sola.
“Papà, ci vediamo
a casa. Io resto con lei, va bene?” Disse, più
per educazione che per chiedergliene il permesso.
L’uomo infatti
annuì, mentre la madre non resistette e si
avvicinò
per abbracciarmi e darmi due baci sulle guance. “Spero che ci
rincontreremo in
un’altra occasione, cara.” Sussurrò al
mio orecchio, gentile.
“Mi farebbe
piacere,” mormorai, accennando un sorriso. Non potevo
di certo ricambiare la sua gentilezza con una risposta seccata o
irritata –
anche perché quelle le riservavo ad Enrico.
“Bene. A presto,
allora,” disse, salutandoci con la mano e
passando da un altro viale poco affollato per uscire dal camposanto. Il
padre –
Raffaele – le aveva passato un braccio intorno alle spalle e
la stringeva a sé,
incurante del caldo: forse era un’abitudine di famiglia.
All’improvviso sentii Enrico
sospirare.
“Scusami, Giulia. Hanno
insistito loro per conoscerti.” Confessò,
guardandomi.
Feci un cenno di diniego col capo, per
nulla turbata. “Figurati,
non è un problema.” Una domanda, però,
esitava sulla punta della lingua.
“Betta, lei… è
tua…?”
Gli scappò un sorriso nel
vedermi in difficoltà. “La mia matrigna.
Stai tranquilla, non è mica una parolaccia.” Mi
portò un ciuffo dietro
l’orecchio, lo sguardo assorto tutto d’un colpo.
“Mio padre l’ha sposata tre
anni dopo che è morta mia madre. È sempre stata
molto gentile con me, forse
perché non ha mai potuto avere figli… Non
è stata come la matrigna delle
favole, per fortuna.”
Scossi la testa, incapace di credere
che potesse sembrare così
indifferente a quell’argomento. “Mi è
sembrata molto dolce,” aggiunsi,
studiando la sua espressione.
Lui si limitò ad annuire.
“Sì, lo è. Le voglio bene come se fosse
mia madre.” Sussurrò.
Vederlo così impensierito,
con lo sguardo perso verso un passato
che non conoscevo e in cui aveva sofferto la perdita più
grande che un bambino
potesse avere, ebbe uno strano effetto su di me. Dovetti reprimere
l’impulso di
abbracciarlo e accarezzargli i capelli in un tentativo di confortarlo,
perché
sarebbe stato fuori luogo visto tutto ciò che gli avevo
detto. Sì, mi
dispiaceva immensamente per lui, ma questo non avrebbe mai potuto
cambiare ciò
che pensavo.
Preferii anche trascurare il fatto di
essermi persa ad osservare
la sua lingua che gli percorreva le labbra per umettarle – il
calore era
troppo, mi stava dando alla testa. Era l’unica spiegazione
sensata che potevo
darmi.
Sospirai, chiudendo gli occhi un
attimo e premendo le dita sulle
tempie. Avevo un terribile mal di testa, la gola secca e gli occhi mi
dolevano
terribilmente a furia di piangere: non potevo continuare
così, stavo per
sentirmi male sul serio. Perciò, gettando uno sguardo verso
i miei genitori –
circondati da una folla di persone accorse per far loro le condoglianze
–
sussurrai: “Dovrei andare da loro, Enrico. Ti
dispiace?”
Per tutta risposta scosse la testa,
non resistendo all’impulso di
sfiorarmi ancora i capelli in un gesto che voleva essere confortante.
“Certo
che no, Giulia. Vuoi che ti accompagni?”
“Sì, certo.
Grazie.” Improvvisamente, l’idea che avrebbe anche
potuto andarsene senza quell’ulteriore favore mi
sembrò estranea, quasi inconcepibile.
Stavo iniziando a contare
troppo su di lui, forse?
No, maledizione, non potevo. Non volevo rischiare di provare qualcosa per
lui, per uno che aveva una
simile vita! Che bisogno c’era di complicarsi
l’esistenza per un misero
sentimento di tenerezza? Alessandra
aveva ragione, da quel punto di vista: Enrico aveva cambiato
atteggiamento
all’improvviso, cogliendomi impreparata, e in tutta quella
situazione non avevo
potuto fare a meno di abbassare la guardia.
Basta, quello non era il momento
adatto per quel genere di
ragionamenti – anche se, iniziavo a rendermi conto, sembrava
che nessun momento
fosse giusto per riflettere su quelle decisioni. Accidenti, odiavo non
riuscire
ad avere il controllo sulla mia vita. Ma in quella circostanza potevo
accettare
il calore del braccio di Enrico stretto intorno ai miei fianchi, mentre
mi
faceva strada verso i miei genitori come se mi avesse voluto proteggere dalla calca di gente che mi
avrebbe circondata non appena li avessi raggiunti. Prima che mi
lasciasse tra
le braccia di mia madre, però, Enrico si chinò
leggermente verso di me, in modo
da sussurrarmi qualcosa all’orecchio.
“Vengo più tardi
a casa di tua nonna, Giulia.” Mormorò,
dolcemente. “Non mi va di lasciarti sola.”
Non ebbi
l’opportunità di ribattere perché lui
si era già
dileguato tra la folla, e a me non rimase che sospirare e sforzarmi di
non
pensarci. Cosa che, comunque, si stava rivelando ogni giorno
più difficile.
***
Da qualche giorno, ormai, avevo
ripreso ad uscire con Enrico. Si
può dire che fosse inevitabile. A mia discolpa, comunque,
posso dire solo che
fu mia madre a spronarmi per farmi accettare i suoi inviti –
gentili ma sempre
più insistenti – dato che lei voleva che almeno io
riuscissi a distrarmi in
qualche modo. E perché non approfittare della
disponibiltà di quel dolce
ragazzo, che non mi aveva lasciata
sola un istante durante tutto quel periodo?
Spiegarle l’intera
situazione avrebbe significato farla arrabbiare
e preoccupare inutilmente, senza contare il fatto che avesse ben altri
– e più
importanti – problemi per la testa. Rivelarle tutta la
verità poteva essere
solo una cattiveria da parte mia, e perciò tacqui anche per
quella volta.
Iniziavo a perdere il conto di tutte le bugie che le stavo raccontanto,
proprio
io che mi ero sempre vantata di avere un ottimo rapporto con mia madre
e di non
averle mai nascosto nulla. Presumo che ci sarà un momento
anche per i rimorsi,
ad ogni modo, ma non è questo.
Per spezzare una lancia a favore di
Enrico, comunque, bisogna dire
che nei giorni successivi al funerale fu l’immagine stessa
del fidanzato
perfetto o, ad ogni modo, del migliore amico. Per carità,
non che lo
considerassi il mio ragazzo, ma se non altro avrei potuto iniziare a
vederlo
come un amico: era già un notevole passo avanti per la
situazione, se si voleva
dimenticare il tentativo che aveva fatto all’inizio di
baciarmi – ma già, in
quel momento ero coperta solo da un misero asciugamano e mi trovavo
prigioniera
a casa sua. Le cose cambiano, a quanto pare.
Non vedevo la mia migliore amica da
più di una settimana, ormai,
presa com’ero dallo studio per la patente e dalle uscite con
Enrico – sembrava
che, adesso che mi aveva visto più
‘disponibile’ ad assecondarlo, non volesse
lasciarsi sfuggire un singolo attimo, facendolo approfittare di ogni
mio
momento libero. Possibile che non avesse nessun tipo di impegno, invece
che
uscire o vedersi con me? Io comunque non osavo fargli una simile
domanda, per
timore che mi rivelasse qualcosa riguardante la sua – come
definirla? – attività
criminale, di cui, per il
momento, fingevo di ignorare l’esistenza. Non avrei potuto
fare altro,
comunque. Solo rassegnarmi all’idea.
Anche quella sera Enrico era venuto a
prendermi a casa di mia
nonna, visto che era lì che ultimamente stavo trascorrendo
le mie giornate.
Dopo essere entrato cinque minuti e aver scambiato qualche convenevolo
con i
miei genitori – mentre io, in un angolo, pregavo che ci
dessero un taglio –
finalmente uscimmo e salimmo in macchina. Non mi importava dove mi
avrebbe
portato, comunque, l’importante era respirare un
po’ d’aria pulita fuori casa.
“Mio Dio, odio quando fanno
così.” Mi scappò sottovoce, alludendo
al comportamento dei miei genitori di qualche minuto prima.
Enrico mi sentì, abbassando
il volume della radio. “Di chi parli?”
Domandò, gentilmente. In quel periodo sembrava
l’immagine stessa della pazienza
e della galanteria.
“Dei miei
genitori…” Mormorai, decidendo che tanto non aveva
senso
mettere il muso e tacere. “Dio, si comportano come se tu
fossi il mio ragazzo!
È assurdo, eppure gliel’ho detto in tutti i modi
che tra me e te non c’è niente
del genere…”
Parlai più per sfogarmi che
altro, quindi in realtà non mi
aspettavo una sua risposta. E invece questa giunse, come avrei dovuto
prevedere
– dopotutto, stavo pur sempre parlando con la causa dei miei
problemi.
“Ammetterai però
che, visti dall’esterno, potremmo sembrare una
coppia normale di fidanzati…” Ebbe il coraggio di
dire, con un tono volutamente
malizioso.
“Non credo
proprio,” sbottai incrociando le braccia, cercando di
avere l’ultima parola almeno in una semplice diatriba
verbale. “Da dove
potrebbero dedurre una cosa simile?”
“Beh,”
esordì, con un’espressione fintamente pensierosa.
“Usciamo
spesso insieme, io e te da soli… Di sicuro questo
è già di per sé un segnale.”
Aggrottai le sopracciglia,
guardandolo. “Un segnale?”
Lui annuì, lanciandomi uno
sguardo mezzo divertito e mezzo serio.
“Un segnale per gli altri ragazzi, il cui messaggio
è state lontani da lei.”
Sussurrò piano, studiando la mia reazione.
Per tutta risposta io mi infuriai di
più. “Quindi è esclusivamente
colpa tua se le persone fraintendono! Mio Dio, ti comporti da fidanzato
geloso
e possessivo quando non ne hai nessun diritto! Che bisogno
c’è di fare così?
Non ti basta che io sia qui, invece che da qualche altra
parte?” Proruppi,
allargando la cintura di sicurezza per potermi voltare a guardarlo.
Eravamo fermi ad uno stop, dunque
potè voltarsi anche lui verso di
me. “Che ne è stato della tregua,
Giulia?” Chiese, ignorando il mio scatto.
“Finisce adesso,”
sibilai, voltandomi di nuovo verso la strada.
Lo sentii sospirare, mentre ripartiva.
“Ho l’impressione che ad
ogni passo in avanti che faccio con te ne corrispondano quattro
indietro…”
Mormorò, a voce abbastanza alta perché potessi
sentirlo.
Strinsi gli occhi, cercando di
distrarmi con il paesaggio che
scorreva fuori dal finestrino. “Sì, beh, non certo
per colpa mia. Io ho messo
le cose in chiaro sin da subito.”
Dopo quella mia ultima affermazione
scese un gelido silenzio,
rotto soltanto dal brusio del motore e da quello della radio che, a
basso
volume, continuava a trasmettere stupide canzoni d’amore
senza minimamente
prestare attenzione al nostro stato d’animo. Purtroppo non
potevo farmi
riportare a casa, non dopo neanche dieci minuti: i miei genitori si
sarebbero
insospettiti, e avrebbero iniziato a fare domande, e a
intromettersi… Ed era
una cosa che volevo continuare ad evitare. D’altra parte,
però, trascorrere
tutta la serata con quel clima non era una bella prospettiva
– oh, se solo
avessi potuto chiamare Alessandra e chiederle di unirsi a noi insieme a
Riccardo… Ma ci sarebbe stato il rischio di scatenare una
rissa, visti i loro
precedenti. Presi comunque il cellulare dalla borsa e le mandai un
messaggio,
giusto per sentire un po’ come andava e cosa stava facendo:
speravo di non
interrompere il suo divertimento, se anche lei era uscita con il suo
ragazzo.
Avevo appena inviato il messaggio
quando la voce di Enrico mi fece
sobbalzare, giungendo improvvisa.
“Con chi
messaggi?” Indagò, con un tono che non mi piacque
per
niente.
Infatti accese la mia
acidità. “Non vedo come questo dovrebbe
interessarti,” sbottai, infilando il telefono nella tasca dei
pantaloni.
Se l’avessi guardato avrei
visto le sue mani stringersi intorno al
volante, come se non avesse gradito la mia risposta. “Invece
mi interessa,
visto che adesso sei con me e non
capisco
il motivo di isolarti con il tuo cellulare.”
Ringhiò quasi: sembrava davvero
irritato. “Allora, chi è? Quel tizio…
Matteo?”
Matteo? Inarcai un sopracciglio,
sorpresa di sentire quel nome
dopo tanto tempo che non lo vedevo né sentivo
più. Alessandra mi aveva
aggiornato da poco che il nostro vecchio amico aveva iniziato a
lavorare
insieme al fratello alla Favola, e che continuava ad essere single
anche se non
disdegnava le avventure. Non che la cosa mi importasse, comunque.
Però ammetto che fu
divertente, in quel momento, vedere la
reazione di Enrico.
“Matteo è ancora
offeso e arrabbiato con me, perciò non lo sento
più.” Dissi, senza una particolare inflessione
nella voce; ripeto, la cosa non
mi faceva né caldo né freddo.
Enrico sembrò sollevato,
malgrado tutto, di quella nostra piccola conversazione,
così decise di battere il ferro finchè era caldo.
“Perché dovrebbe essere
arrabbiato con te? Sono io che l’ho picchiato,”
replicò, con un ghigho ironico.
Decisi di lasciar perdere quel suo
atteggiamento e continuai. “Ci
aveva provato con me, io ho ferito il suo orgoglio rifiutandolo e lui
non mi ha
più rivolto la parola.” Sintetizzai, cercando di
concludere il discorso alla
svelta. Non mi piaceva affrontare simili argomenti con Enrico, certe
cose
devono rimanere nell’ambito segreti
tra migliori
amiche.
Ma a quanto pareva Enrico non era
della stessa idea. “Evidentemente
non era davvero interessato, altrimenti non avrebbe di certo rinunciato
così
presto,” decretò, con leggero disprezzo.
“Buon per lui, comunque.”
Malgrado non provassi alcun tipo di
interesse nei confronti di
Matteo, mi sembrava poco carino rinunciare a difenderlo almeno un
po’.
Soprattutto se, così facendo, avrei irritato Enrico: erano
quelle piccole
soddisfazioni personali che ogni tanto chiunque si deve prendere.
“In realtà ha
provato a riparlarmi, ma io non ho voluto. Poi le cose sono peggiorate
e non
abbiamo più avuto modo di chiarirci.” Precisai,
scrollando le spalle.
“Sono peggiorate?”
Ripetè, spingendomi a dire di più.
Sospirai, rassegnata. “Credo
mi ritenesse responsabile del suo… pestaggio.
Forse è convinto che sia
stata io a chiederti di picchiarlo, visto quello che era
successo… Mio Dio, che
infantile.”
“Ma cosa ti ha spinto a non
rivolgergli più la parola?” Indagò
ancora, curioso. Evidentemente non mi avrebbe lasciato in pace fino a
quando non
gli avessi spiegato l’intera faccenda per filo e per segno.
“Mi ha baciata
all’improvviso! Contento?” Esclamai scocciata,
sperando che la finisse con le domande.
Dopo quell’affermazione
Enrico mi lanciò un’occhiata di traverso,
tremendamente serio, poi si voltò nuovamente e
fissò lo sguardo sulla strada, cambiando
marcia e accelerando. Non parlò, e non sapevo come
interpretare questo suo nuovo
silenzio – insomma, gli aveva dato fastidio sapere del bacio
di Matteo? Ma cosa
pretendeva, era stato lui a volerlo sapere ad ogni costo! Cosa potevo
farci io?
Però ammetto che quella
reazione mi stava preoccupando. Lo osservai
in silenzio per un po’, cercando nella postura del suo corpo
qualche segno che
mi facesse intuire che c’era qualcosa che non andava, e
infatti ne trovai nelle
sue mani irrigidite sul volante e nella linea dritta e severa della
mascella:
sembrava che si stesse sforzando di non guardarmi e, soprattutto, di
non
parlarmi.
Alla fine non ce la feci
più. “Cosa c’è che non va,
Enrico?”
Non si degnò di
rispondermi, fingendosi impegnato in una manovra
di parcheggio. Eravamo arrivati in spiaggia, una poco frequentata ma
non per
questo meno bella, e, com’era intuibile, non c’era
nessun altro oltre a noi. Sospirò,
volgendo lo sguardo dovunque tranne che dalla mia parte, e con le
braccia
distese sopra il volante come se non avesse voluto staccarsi da esso.
“Allora?”
Incalzai, leggermente infastidita.
Finalmente si voltò verso
di me, lasciandomi per un istante senza
fiato alla vista del suo sguardo liquido e penetrante come mai mi era
capitato
di vederne. Sembravano gli occhi di un malato o di un pazzo, eppure
potevo
vedere con chiarezza la lucidità nel loro abisso quasi che
fosse un lucicchio
in quel mare di verde.
Malgrado tutto non gli avevo mai visto
quello sguardo.
E anche la sua voce, quando
parlò, aveva una sfumatura sconosciuta
ed estranea a quella che mi ero abituata a sentire e riconoscere.
“Mi stavo solo
chiedendo…” Iniziò, in un vibrante
sussurro. “Ti
saresti comportata così anche se fossi stato io, a
baciarti?”
Subito scosse la testa, passandosi una
mano tra i folti capelli
neri; lo osservai sbuffare innervosito e poi scendere dalla macchina,
sbattendo
la portiera dietro di sé e raggiungendo da solo la spiaggia.
Ero senza parole.
______________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Dunque...
Da dove posso iniziare a chiedervi perdono??
Mio Dio, che ritardo
stratosferico! Erano secoli, secoli che non aggiornavo! =O Quanto
mi era mancato Enrico, mannaggia ç__ç Beh, adesso
che ho ripreso le fila del racconto cercherò di non perderle
più e di mantenere un ritmo più normale... Voglio
comunque mettere le mani avanti e specificare che da questo momento
sarò un pò impegnata con l'università
- un pò molto! - e quindi proverò
a fare del mio meglio. Spero che non siano solo vane promesse di una
povera scrittrice ç__ç
Non mi
tratterrò a lungo, scappo prima che iniziate a lanciare i
pomodori xD Voglio solo sprecare un attimo per ringraziare le 190 anime pie che hanno aggiunto
la mia storia alle seguite, le 119 che l'hanno inserita tra le
preferite e anche le 21 che l'hanno messa tra le
ricordate! Grazie mille ragazze, malgrado la mia terribile lentezza
siete rimaste insieme a me ç__ç Sono commossa :')
Inoltre un abbraccio a
prettyvitto, Eky_87, Alebluerose91,
Ali in Wonderland, SenzaFiato, savy85, irene862 e nicoletta93 per avere recensito lo scorso
capitolo ^^
Ah, un avviso
importante:
ho deciso di tradurre il titolo della storia e lasciarlo in italiano,
dietro consiglio della mia geme. Perciò da ora in avanti
questa storia si intitolerà "L'uomo Sbagliato", ma manterrà il
precedente titolo come sottotitolo così nessuno si
troverà impreparato :)
E con questo vi
saluto! Un bacio e un abbraccio, a presto - mi auguro!
Vostra,
GiulyRedRose
|
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Capitolo 22 *** Capitolo XXII. ***
Capitolo XXII
Attesi per un po’ in
macchina, al buio, sperando che Enrico si
calmasse e tornasse da me. Tuttavia, visto che erano già
trascorsi cinque
minuti e io stavo iniziando a preoccuparmi, abbassai la maniglia dello
sportello e lo aprii, scendendo dall’auto e guardandomi
intorno. A parte la
luce di due lampioni che illuminavano debolmente il parcheggio e una
piccola
falce di luna che brillava solitaria nel cielo, la spiaggia era immersa
nella
più completa oscurità.
Sospirai, rassegnata; mi tolsi i
sandali e, tenendoli in mano,
cercai di seguire le orme lasciate da lui. La sabbia a
quell’ora era
piacevolmente fresca, e se fosse stata un’altra sera mi sarei
fermata per
godermi quella deliziosa sensazione. Ma visto che avevo altro a cui
pensare
accelerai, affondando ogni tanto in qualche punto più
profondo della spiaggia.
Non fu difficile trovarlo, grazie alla
leggera ma sufficiente
penombra offerta dalla luna e dai lampioni ormai lontani. Enrico era
seduto
sulla sabbia, vicino al bagnasciuga, la testa presa tra le mani e le
gambe piegate
a reggere i gomiti.
Forse fu quella la prima volta che
riconobbi a me stessa quanto
fosse bello.
Mi piacque il modo in cui la luna lo
accarezzava, e come i suoi
capelli ondeggiassero al vento – e le dita, oh, le sue lunghe
dita da pianista
immerse in quella chioma corvina, mi sarebbe piaciuto
stringerle… Non sopportai
di vederlo in quel modo, sofferente, benché non comprendessi
fino in fondo ciò
che provava e soprattutto perché.
Come poteva soffrire così se davvero mi vedeva solo come
l’ultima conquista da
portare a letto e poi dimenticare?
Scossi la testa, decidendo che non era
quello il momento in cui
pensarci. Non sapevo nemmeno perché avevo iniziato a
rimuginarci su – che
sciocca!
Lentamente mi avvicinai, senza fare
alcun genere di rumore:
dopotutto sarebbe stato impossibile persino volendolo, con tutta quella
sabbia.
Perciò lo raggiunsi senza che se ne accorgesse, ma rimasi
per un attimo
imbambolata a pochi passi da lui prima di trovare il coraggio di dire
qualcosa.
“Stai bene?”
Chiesi, a bassa voce. Subito dopo mi diedi della
stupida: che razza di domanda era?
Da parte sua non provenne che un
piccolo gesto con le spalle, silenzioso,
così mi avvicinai del tutto e mi inginocchiai al suo fianco,
osando allungare
una mano per sfiorargli la spalla.
“Cos’è
successo?” Insistei, decidendo che avrei ottenuto una
risposta una volta per tutte.
Per tutta risposta mi rivolse uno
sguardo fiammeggiante, nel quale
compresi la sua rabbia e la sua delusione. “Hai il coraggio
di chiedermi come
sto?” Ringhiò, minaccioso. “Come puoi
essere così sciocca e cieca? Davvero non
capisci?”
Mi afferrò il polso con la
mano, stringendolo e strappandomi un
gemito di dolore. Ero riuscita a portarlo al limite della
sopportazione, a
quanto pareva, ma non capivo perché continuasse a mostrarsi
così furioso:
dopotutto io gli avevo detto sin dall’inizio come stavano le
cose… Se poi aveva
frainteso tutto, non era di certo colpa mia, come già gli
avevo ripetuto.
“Sei tu quello che non
capisce, Enrico?” Esclamai con il suo
stesso tono, cercando di sciogliermi, inutilmente, dalla sua stretta.
“Volevi
un bacio? Bene! Baciami e lasciami andare, dimenticami! Ma tu non vuoi,
non ti
basta! Vuoi sempre di più! E adesso fai l’offeso
perché sai benissimo che mi
sarei comportata allo stesso modo con te, se tu avessi fatto come
Matteo! Sono
stufa di questo tuo atteggiamento!”
Fu un attimo: prima che potessi anche
solo intuire la sua mossa mi
ritrovai con la schiena sulla sabbia, sdraiata per terra, con Enrico
che
torreggiava pericolosamente sopra di me, gli occhi che sembravano
mandare
lampi. Mi aveva portato le braccia sopra la testa e teneva stretti
insieme i
miei polsi con una mano, e per un lungo, terribile istante, pensai che
avesse
davvero intenzione di fare qualcosa di mostruoso.
Sicuramente il mio sguardo dovette
lasciar trapelare ciò che stavo
provando, perché Enrico ringhiò ancora, al limite.
“Non ho intenzione di
violentarti, cazzo!” Sibilò, accentuando la
stretta. “Possibile che dopo tutto questo tempo continui a
credermi capace di
una cosa simile?”
Non risposi, spaventata, limitandomi a
deglutire in silenzio. Lo
vidi scuotere la testa, ma la rabbia non l’aveva ancora
abbandonato del tutto.
“Non sopporto la tua indifferenza nei miei confronti, Giulia,
sembra che tu non
sia capace di provare un briciolo di affetto per me…
Perché? Che cosa ti ho
fatto? Hai cercato persino di difendere Matteo, prima, e dire che lui
non ti ha
mostrato la metà del rispetto che ho io per te. Maledizione!
Cos’altro vuoi che
faccia?”
Lo fissai intimorita, sperando che si
calmasse. Quando sembrò aver
riacquistato un po’ di controllo, osai prendere la parola.
“Per favore, Enrico…
Spostati. Mi fai male…” Sussurrai supplichevole,
senza distogliere lo sguardo
da lui.
Mi riservò
l’ennesima occhiata scettica, ma poi si spostò,
tornando
ad inginocchiarsi sulla spiaggia e aiutando me a sollevarmi: lentamente
mi misi
seduta, togliendo i granelli di sabbia dai miei capelli sciolti e dalla
maglietta. Mi sembrava di sentire il mio stesso cuore battere
furiosamente.
“Mi costringi ad essere
ciò che non sono.” Disse con freddezza,
mettendo una nuova distanza tra me e lui. “Sono stanco di
questa situazione,
Giulia. Sono stato gentile con te, paziente, non ti ho mai dato modo di
avere
paura delle mie intenzioni… Ma la mia pazienza ha un limite,
e voglio che tu
sappia che uno di questi giorni potrei afferrarti e baciarti senza
aspettare la
tua approvazione.”
Sgranai gli occhi, ritraendomi
istintivamente da lui e mettendomi
in piedi. Enrico non si mosse, limitandosi a sollevare il viso e
seguire i miei
movimenti con lo sguardo – sembrava volermi mangiare.
Non mi ero mai sentita così a disagio, prima di quel
momento… Avrei voluto
scomparire da lì e riapparire, al sicuro, nella mia stanza.
Ma purtroppo non
era possibile, e per tornare a casa potevo contare soltanto su di lui.
“Mi stai
spaventando…” Mormorai, stringendomi nelle
braccia.
Perché aveva cambiato atteggiamento così
all’improvviso?
Esplose in una risata amara e priva di
gioia, dopodiché si passò
una mano tra i capelli e mi fissò con uno sguardo risoluto.
“Credimi, se avessi
voluto spaventarti l’avrei già fatto da molto
tempo. Ma è proprio per evitare questo
che ti ho voluta avvisare su quello che potrebbe accadere, se
continuiamo così.”
Disse, come se fosse stata la cosa più normale del mondo.
Mio Dio, sembrava essere diventato
un’altra persona…
Deglutii, mordendomi le labbra.
“Sembra quasi che ti abbia chiesto
io di trascinarmi in questa situazione…” Iniziai,
cercando di fargli capire il
mio punto di vista. Ma dannazione, con lui sembrava di parlare al
vento! “Ti
sei intromesso nella mia vita senza neppure chiedermi se mi andava
bene, hai
voluto l’esclusiva su… Su tutto quanto! Sai da
quanto tempo non vedo i miei
amici? Anch’io ho perso il conto! E adesso parli come se
fosse colpa mia! Non credo
di averti mai imposto la mia presenza, e sono convinta di essere stata
abbastanza chiara al riguardo. Ti ringrazio per la gentilezza e la
pazienza, se
è questo che vuoi sentirti dire, ma ora non puoi venire da
me e pretendere che
io ricambi il tuo interessamento!”
Tacqui un istante, come per
raccogliere i pensieri, poi conclusi.
“E adesso, salta fuori questa cosa del
bacio…” Dissi piano, senza guardarlo. Poi,
improvvisamente, senza riflettere su quello che stavo facendo, mi
avvicinai di
nuovo a lui e mi inginocchiai, in modo da essere alla sua stessa
altezza. Mi
aggrappai alla sua camicia e non ebbi neppure il tempo di riflettere su
quanto
i nostri visi fossero vicini, perché le mie stesse parole mi
stupirono.
“Te l’ho
già detto una volta, Enrico. È un bacio che vuoi?
Perfetto, eccolo…” Sussurrai, fissando le sue
labbra in modo che gli fossero ben
chiare le mie intenzioni.
Sentii le sue mani stringersi intorno
alle mie spalle, e il suo
sguardo si fece indeciso, esitante, come se non si aspettasse di certo
quella reazione
– non dopo tutto quel discorso. Tuttavia non mi
allontanò, segno che era
davvero quello ciò che desiderava. Non potei fare a meno di
odiarlo, in
quell’istante – maledizione, dopo tutte le sue
belle parole, alla fine si
rivelava ciò che era veramente, un maschio interessato
soltanto ad una cosa! Ma
perché ostinarsi con me, quando poteva averne centinaia a
disposizione?
Decisi di non pensarci e iniziai ad
avvicinarmi lentamente alla
sua bocca, vedendola dischiudersi e sentendo il suo respiro caldo e invitante? Oh, mio Dio… Chiusi
gli occhi
e presi mentalmente un profondo respiro, ormai prossima alla mia meta. Ma, due secondi prima che le
nostre labbra si toccassero, Enrico si ritrasse, scuotendo la testa.
Aprii gli
occhi e lo fissai stupita, soprattutto quando nascose il viso contro
l’incavo
del mio collo.
“No, no,
Giulia…” Lo sentii mormorare, con la voce rotta.
“Non è
questo che voglio…”
“E che cosa vuoi,
allora?” Replicai, leggermente irrigidita nel
sentirlo a così stretto contatto con il mio corpo. Tuttavia
non feci nulla per
allontanarlo – non volevo sfidare troppo la sorte.
Lui si allontanò ma
mantenne la presa sulle mie spalle, che
divenne però più delicata, meno minacciosa. Mi
fissò a lungo negli occhi, poi
sospirò, scuotendo la testa. “Vorrei che tu
provassi il desiderio di baciarmi,
non che lo faccia perché obbligata o,
peggio, perché minacciata…”
Sussurrò, angosciato.
Aggrottai le sopracciglia, turbata.
Come ribattere a certe cose? “Io…
Non lo so, Enrico…” Mormorai, cercando di sembrare
il più condiscendente
possibile. “Ti conosco da così poco tempo, e io ho
bisogno di fidarmi delle
persone, prima di… prima di…”
Tacqui, scuotendo la testa e
abbassando lo sguardo. “Tu non ti
rendi conto di quello che mi stai chiedendo…”
Sussurrai. “Non si tratta di te,
Enrico, non è per quello… Non solo,
almeno… Non capisci? Non voglio essere
obbligata a frequentare qualcuno, è una cosa che non sta
né in cielo né in
terra! Io avrei voluto sceglierla la persona di cui innamorarmi, ma poi
sei
arrivato tu e… Dio, non sono più sicura di
niente…”
Le sue mani si abbassarono lentamente,
andando ad intrecciarsi con
le mie che tenevo posate sul grembo; le sue dita si infilarono tra le
mie,
sfiorandole dapprima timide e poi stringendole con una maggiore
sicurezza
quando si rese conto che non avevo intenzione di allontanarlo ancora.
Tenni gli
occhi chini sulle nostre mani pur di non sollevarli e incrociare il
verde del
suo sguardo, ma alla fine una sua mano si sollevò e si
posò sotto il mio mento,
alzandolo gentilmente in modo da guardarlo dritta in viso. Avevo
l’impressione
che il cuore volesse uscirmi dal petto tant’erano forti i
suoi battiti, e la
pelle delle mie braccia si era ricoperta di brividi nel constatare la
sua
improvvisa vicinanza. Il suo profumo – un pungente e fresco
dopobarba – si
mischiava al mio, e le sue labbra erano socchiuse come se avesse voluto
dire
qualcosa ma non osasse farlo per timore di spezzare quella strana ed
elettrica atmosfera.
“Accidenti…”
Sussurrò infine, spostando la mano che aveva
sollevato il mio viso verso il suo e portandola a sfiorarmi la guancia
fredda –
avvertii chiaramente il contrasto tra la mia pelle fredda e la sua,
bollente –
prima di perdersi tra i miei capelli, che aveva gentilmente ritirato
dietro
l’orecchio senza che io facessi nulla per oppormi.
“Ho sempre immaginato come
sarebbe stato toccarti così…”
Non potei fare a meno di rabbrividire,
mentre il senso di quelle
parole fendeva la nebbia dei miei pensieri ormai confusi e vaghi. In
quell’istante avrei voluto davvero che le cose tra noi
fossero state diverse,
che tutto non fosse iniziato con minacce e provocazioni. Mi sarebbe
piaciuto se
prima fossimo diventati amici, e poi magari – forse,
chissà – l’amicizia si sarebbe anche
potuta evolvere in
qualcosa di più… Dopotutto io mi ero affezionata
a lui, ormai era impossibile
ignorare quello che era un semplice dato di fatto. Ma Enrico voleva
saltare
tutto questo, e andare direttamente allo stadio finale; e io non ero
abituata a
quel genere di sentimenti, né ero convinta di essere pronta
per affrontarli.
E allora perché mi sentivo
così male nel vederlo soffrire a causa
mia?
Deglutii socchiudendo gli occhi,
mentre mi rilassavo al tocco
delle sue mani tra i miei capelli. Poi chinai il volto verso di lui,
posando la
fronte sulla sua e – sicuramente – sorprendendolo
per l’ennesima volta
nell’arco di dieci minuti. Forse era l’atmosfera di
intimità che si era creata,
forse era il buio, la mia paura, la luna, oppure i suoi
occhi… Tutto questo,
credo, mi fece perdere definitivamente il senno.
“Adesso sono io che vorrei
un bacio…” Sussurrai, a voce talmente
flebile che non immaginai potesse sentirla sul serio. Da dove avevo
preso il
coraggio per dire una cosa simile?
Vidi i suoi occhi spalancarsi
leggermente e gli angoli delle sue
labbra sollevarsi in un tenero sorriso, un’espressione che
non gli avevo mai
visto prima. Era incredulo, eppure allo stesso tempo sembrava essere
rimasto
incantato dalle parole che erano uscite inaspettatamente dalla mia
bocca.
Abbandonando le carezze ai miei capelli, mi prese il volto tra le mani,
stringendolo dolcemente come fossi fatta di cristallo; i suoi occhi
sembravano
volersi imprimere nella memoria quella scena in modo da non
dimenticarla, poi,
all’improvviso, il suo sorriso scomparve per dare spazio ad
un atteggiamento
più serio, quasi… solenne.
Rabbrividii, conscia ormai di aver
capitolato – per quella sera,
almeno. In fondo, non mi era forse capitato spesso di domandarmi che
sapore
avessero le sue labbra? Bene, adesso l’avrei scoperto
– a tutto il resto ci
avrei pensato dopo.
Mi ancorai saldamente alle sue spalle
– forse per timore di
crollare da un momento all’altro –
mentre il suo viso si chinava sul mio; probabilmente le
sue mani mi
tenevano stretta perché lui stesso aveva paura che potessi
cambiare idea ed allontanarmi
definitivamente, rovinando tutto il fascino di quel momento. Ma io non
mossi un
muscolo, attendendo con leggera impazienza che le sue labbra si
posassero sulle
mie, e facendomi sfuggire un gemito di piacere quando ciò
accadde. Non avevo
mai immaginato che la sua bocca potesse essere così calda e
morbida, così
dischiusi le labbra per poter meglio assaporare quel gusto che non mi
aspettavo
davvero di poter assaggiare, un giorno. Dopotutto si stava pur sempre
parlando
di Enrico.
Tutto ciò aveva il sapore
del proibito, dell’assurdo: io, proprio
io stavo lasciando che lui mi
baciasse? Che fine avevano fatto tutti i miei principi, tutte le
decisioni che
avevo preso al riguardo, tutte le promesse che mi ero fatta di non
cedergli
mai? Sembravano essere svanite nell’attimo di un battito di
ciglia.
Chiusi gli occhi con forza, come se
non volessi vedere i suoi
occhi mentre mi lasciavo andare; eppure, quando le sue mani tornarono
ad
immergersi nei miei capelli, mentre la sua bocca esplorava la mia tra
gemiti,
sussurri e sospiri, non potei fare a meno di rabbrividire, stavolta
dall’estremo piacere. Il ricordo del bacio rubato di Matteo
mi attraversò per
un istante la mente per poi sparire del tutto, dandomi il tempo di
ammettere
che non vi era alcun paragone tra lui ed Enrico.
Malgrado non l’avessi mai
ritenuto possibile, il bacio del mio
aguzzino era un qualcosa di dolce e sensuale insieme – le sue
labbra
scivolavano sulle mie come se fosse davvero quello il loro posto, e
nessun
altro. Sentivo il suo profumo su di me e mi beai scioccamente di questo
– che
cosa mi aveva fatto?
Compresi si essere completamente
impazzita quando decisi di
ricambiare il bacio, infilando le dita tra i suoi capelli e aderendo al
suo
petto con slancio, forse troppo: eravamo infatti entrambi inginocchiati
sulla
sabbia in precario equilibrio, e bastò un piccolo
spostamento d’aria per far
perdere ad Enrico la sua stabilità. Lo feci cadere
all’indietro, finendo poi
sopra di lui: mi staccai immediatamente mettendomi seduta, guardandolo
con sorpresa
e al colmo dell’imbarazzo, ma lui non mi permise di
spostarmi. Le sue mani mi
afferrarono i polsi e mi tirarono nuovamente giù, su di lui,
prima di ribaltare
le posizioni e far finire me con la schiena sulla sabbia.
Eravamo tornati alla posizione
iniziale – Enrico torreggiava di
nuovo sopra di me, ma stavolta non era la rabbia e la minaccia che vidi
nei
suoi occhi, quanto piuttosto una cupa bramosia.
Arrossii deglutendo, cercando di non
fissarlo troppo a lungo:
avevo paura che fraintendesse, e per il momento credevo di aver
esaurito le mie
riserve di audacia ed energia.
Si abbassò
un’ultima volta su di me, strappandomi un altro bacio e
sfregando il naso contro il mio collo. Si sdraiò poi accanto
a me, alzandosi su
un fianco e guardandomi con gli occhi che brillavano: sembrava un
bambino la
mattina di Natale, non l’avevo mai visto tanto felice e
soddisfatto. Persino il
suo sorriso era qualcosa di completamente nuovo, per me.
Mi coprii il viso con le mani,
sospirando con lentezza e cercando
di ignorare l’eco sordo dei battiti del mio cuore: mio Dio, che cosa diavolo avevo fatto?
Questo doveva essere quel
famoso ‘darsi la zappa sui piedi’…
Non feci in tempo a pensare ad altro
che una sua mano si
sovrappose alle mie, abbassandole gentilmente in modo da potermi
scoprire il
viso. Spostai lo sguardo su di lui, imbarazzata e allo stesso tempo
incuriosita,
sorpresa di trovare tutta quella dolcezza nella sua espressione.
Sembrava che
non stesse aspettando altro, come se in quei due mesi non avesse fatto
che
attendere quel momento – davvero incredibile.
“Che
c’è?” Sussurrai, guardandolo dal basso.
Non avevo ancora
ritrovato del tutto la mia voce, ed era piuttosto comprensibile
– insomma,
avevo appena baciato il ragazzo che quella stessa mattina ero convinta
di
odiare con tutta me stessa, ero ancora un po’ sconvolta.
Enrico intrecciò la sua
mano nella mia e osservò per un po’ le sue
dita che colmavano gli spazi vuoti tra le mie, quasi che il loro posto
fosse
proprio quello; se la portò poi all’altezza del
viso e la sfiorò poi con una
leggera carezza delle labbra, prima di lasciarsi sfuggire un piccolo
sospiro.
“Vorrei essere certo che
questo sia l’inizio di qualcosa,
Giulia…”
Mormorò, talmente piano che dovetti sforzarmi per capire le
sue parole.
Anch’io sospirai, sperando
però che la preoccupazione non
trapelasse dalla mia voce. “Non sono in grado di farti
promesse che non so se potrò
mantenere, Enrico,” replicai, con un tono fin troppo piatto.
Non volevo che si
facesse subito strane idee, per quanto io stessa, ormai, non sapessi
più da che
parte girarmi.
“Ma se mi hai baciato ci
sarà una ragione, no?” Insisté,
chinandosi leggermente su di me.
Socchiusi gli occhi, distogliendoli da
lui. “Attrazione,
esasperazione… Forse è stata la luna, o il mare,
o qualcosa di tipicamente
fisico che non si può spiegare scientificamente,”
ribattei, aggrottando le
sopracciglia.
“Se stai cercando un modo
per sottrarti alle tue responsabilità,
sappi che non te lo permetterò.”
Dichiarò deciso, tornando per un attimo serio.
“Tu non sei una che cede facilmente agli istinti del corpo,
perciò penso di
poter dire con sicurezza che, se mi hai baciato, ci
dev’essere un motivo.”
Sbuffai, liberandomi dalla sua stretta
e mettendomi a sedere. “E
tu invece stai cercando ad ogni costo di farmi promettere qualcosa di
cui non
sono del tutto certa, e questo inizia a darmi fastidio.”
“Che tu lo ammetta o no,
Giulia, io so perfettamente che cosa è
appena successo,” disse, chinandosi a sussurrare sulla mia
spalla. “E mi hai
appena dato una nuova speranza a cui aggrapparmi.”
“Fai come vuoi, la speranza
non si nega a nessuno,” replicai a
bassa voce, cercando di mascherare l’insicurezza che mi aveva
invaso tutta d’un
colpo.
Malgrado
l’acidità e la freddezza delle mie risposte, il
suo umore
non sembrò venirne minimamente scalfito. Continuò
a sorridere con quell’atteggiamento
malizioso e indisponente che poco tolleravo, mentre si alzava a sua
volta e mi
porgeva la mano per aiutarmi a sollevarmi, come se non gli avessi
appena detto
che, tanto, tutto ciò non cambiava niente.
Chissà,
forse sapeva
qualcosa di cui io non ero a conoscenza.
“Potrei anche riportarti a
casa, ora, visto che sono sicuro che
questa non sarà l’ultima volta che vorrai
vedermi,” bisbigliò al mio orecchio,
passando un braccio intorno alla mia vita.
Gli rivolsi un’occhiataccia,
dimenticando immediatamente l’imbarazzo
di poco prima. “Sorvolo sulla scelta del verbo volere,”
sibilai, cercando con scarsi risultati di allontanarmi da
lui.
Enrico ridacchiò
– come poteva essere mutato il suo atteggiamento
così all’improvviso? “Mi stai dicendo
che non hai mai desiderato vedermi?”
Insinuò, inarcando un sopracciglio.
“Io non ti sto dicendo
niente, hai fatto tutto da solo. Devi proprio
abbracciarmi?” Proruppi
all’improvviso.
Che cos’era tutta quella confidenza?
“Dio, non ti facevo
così ipocrita!” Esclamò, a
metà tra il serio e
il faceto. “Prima mi baci e poi non vuoi nemmeno che ti
abbracci?”
Non potei fare a meno di arrossire.
“Potresti evitare di parlarne come
se fosse una cosa normale?”
Come se non bastasse, mi
sfiorò la fronte con un ennesimo bacio. “Ma
è una cosa
normale!”
Grazie al Cielo riuscii a staccarlo
dal mio corpo con una spinta
decisa, allontanandomi da lui e storcendo il naso. Non sapevo scegliere
tra l’essere
imbarazzata e l’essere furiosa – anche se, visto
quello che era appena
accaduto, presumo che non fossi più autorizzata ad esserlo.
Mi osservava con le braccia aperte
– le braccia che prima mi avevano
stretto – e con quell’odiosa
espressione vittoriosa e soddisfatta che non avevo ancora deciso se
trovare attraente
o insopportabile.
“E togliti quel sorriso
dalla faccia!” Sbottai, dandogli le spalle
e iniziando ad incamminarmi di nuovo verso la macchina. Lo sentii
ridere dietro
di me ma non mi voltai, consapevole che, se l’avessi fatto,
chissà che cos’altro
sarebbe potuto accadere – sicuramente qualcosa di cui mi
sarei pentita, visto
il modo in cui stavo continuando a pensare al sapore che avevano le sue
labbra.
Quando mi ebbe raggiunto in auto si
prese un’altra manciata di
secondi per potermi studiare, poi, con una strana tenerezza, sorrise
per l’ennesima
volta – senza alcuna traccia di strafottenza.
“Sono più
contento ora che abbiamo fatto pace,” rispose
semplicemente, facendomi l’occhiolino.
Arrossii per l’ennesima
volta, maledicendomi per questo e
distogliendo lo sguardo dal suo. “Sì, beh, non
farci l’abitudine…” Replicai,
incrociando le braccia.
“Ho paura che sia troppo
tardi,” ribatté, girando le chiavi nel
quadro e mettendo in moto.
Ero certa che, con quella frase,
intendesse più di quanto fosse
lecito.
_______________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Oh, God. Finalmente ho trovato cinque
minuti liberi per poter concludere questo benedetto capitolo, ma
sappiate che non ne sono per niente convinta. Tanto per cominciare, in
teoria non avrebbero dovuto baciarsi a questo punto della storia, ma
ormai il danno è stato fatto... >__< E poi ho
notato che questa storia sta andando troppo per le lunghe (Finalmente
se n'è accorta! - aehm) ed è il
caso di giungere al tanto sospirato epilogo. Dunque, conto di
concluderla entro una trentina di capitoli, quindi manca veramente poco
se ci pensate... Ad ogni modo è già tutto
progettato e deciso, salvo ultime correzioni dell'ultimo secondo.
Perciò il mio messaggio è: non
disperate!
Così come ha avuto un prologo, questa storia avrà
un epilogo :D Presto o tardi lo vedremo su questi schermi :D
Ringrazio comunque
tutti coloro che hanno continuato a leggere e commentare questa storia
malgrado la pubblicazione dei capitoli fatta col contagocce, e grazie a
chi l'ha aggiunta tra le preferite e le seguite. Davvero, siete
adorabili! <3 Sono così orgogliosa di Enrico e Giulia
per essere riusciti a tenervi incollati allo schermo per tutto questo
tempo :.)
Sperando di rivederci molto
presto con
il prossimo capitolo, vi saluto! :*
Un bacio e un
abbraccio, vostra
Giuly.
P.S. Se volete, potete
trovarmi anche su Facebook donde, se siete interessate,
posterò anche alcuni spoilerini ù__ù
|
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Capitolo 23 *** Capitolo XXIII. ***
Capitolo XXIII
Odiavo il mio cellulare che suonava
all’ora di pranzo, soprattutto
quando ero seduta a tavola circondata dai miei parenti –
genitori, nonna e zii
compresi. Insomma, la discrezione non era di certo il loro forte,
specialmente
quando si trattava di interessarsi della vita sentimentale della loro
giovane
figlia-barra-nipote che sembrava aver trovato, alla fin fine, un
fidanzato. Un fidanzato vero, poi!
Contemplai l’idea di non
rispondere, fingendo di non sentire la
suoneria mentre masticavo indifferente un boccone di carne. Ma
d’altra parte il
telefono continuava a squillare – avevo
senza dubbio scelto il giorno sbagliato per togliere la
modalità silenziosa
– e, dopo aver smesso, aveva ripreso due istanti dopo quasi
con maggior insistenza.
“Giuly, non
rispondi?” Fece mia zia, del tutto innocentemente.
Potevo sentire gli sguardi degli altri prudermi addosso,
così mi sgranchii la
voce e mi alzai.
“Scusatemi un
momento…” Mormorai imbarazzata, afferrando il
telefono colpevole e uscendo dalla sala da pranzo. Andai invece
nell’altro
salone, quello dove avevo trovato rifugio anche il giorno del funerale,
e
finalmente premetti il tasto per accettare la chiamata. Non avevo
bisogno di
leggere il nome sul display per sapere chi fosse.
“Pronto?” Dissi,
chiudendomi la porta alle spalle.
Dall’altra parte della
cornetta provenne un sospiro di sollievo.
“Oh, finalmente! Stavo iniziando a preoccuparmi”,
esclamò la voce quasi
esasperata di Enrico. Già, chi
altri?
Contai mentalmente fino a dieci, per
evitare rispostacce acide.
“Stavo pranzando, Enrico, non potevo rispondere”,
replicai sedendomi sul
divano. Accidenti, mi stavo davvero giustificando con lui? Che diavolo,
questa
era proprio una di quelle cose che avrei voluto evitare, da fidanzata.
No,
aspetta un momento. La mia mente aveva davvero formulato
quella parola?
Le mie labbra si mossero da sole in
una smorfia di disgusto,
mentre ascoltavo la risposta di Enrico. Evidentemente era bastato un
bacio al
chiaro di luna per trasformarmi da vecchia
zitella acida a giovane fidanzatina.
Accidenti, di nuovo.
“Ma sono le tre del
pomeriggio”, replicò sorpreso.
Sospirai per l’ennesima
volta, cercando di ignorare il formicolio
all’altezza dello stomaco che mi provocava il suono della sua
voce. “Sì, beh, è
uno di quei pranzi con i parenti nei quali si sa a che ora ti siedi a
tavola ma
non quando la tortura finirà”, risposi ironica,
roteando gli occhi. “E
comunque, adesso per colpa tua mi faranno il terzo grado. Non potevi
mandarmi
un messaggio?”
“Te l’ho mandato, tesoro,
ma non mi hai risposto”.
Certo, a
domanda scema…
No, un attimo. Come mi aveva chiamato?
“Tesoro?”
Ripetei,
perplessa. “E quando ti avrei dato questa
confidenza?”
Lo sentii ridere dolcemente, una di
quelle risate tipicamente
mascoline che sottintendono centinaia di significati imbarazzanti.
“Credevo
che, dopo ieri notte, fossi autorizzato a chiamarti come
voglio…”
“Uhm.” Non sapevo
davvero come replicare. Accidenti, ci avevo
pensato tutta la notte e non ero sbarcata a nessuna
conclusione… Il modo poco
ortodosso che avevamo trovato per fare pace – o meglio, che
avevo trovato io per scusarmi con
lui, per una volta
che avevo riconosciuto di avere sbagliato – aveva
automaticamente innalzato il
nostro rapporto di qualche gradino, e non ero certa che questo mi
dispiacesse
più di tanto. Insomma, se arrossivo e sentivo le guance
andarmi in fiamme ogni
volta che ripensavo a quel bacio, doveva pur esserci un motivo, no? Non
credevo
che la colpa fosse soltanto dei miei ormoni in subbuglio, quanto
piuttosto di qualche
ragione trascendentale che mi aveva portato tra le sue braccia senza
che ancora
io avessi deciso lucidamente. Potevamo considerarci insieme,
adesso? Beh, probabilmente questo era quello che voleva
lui sin dall’inizio o quasi, e se a me in fondo non
dispiaceva… Chissà, magari
una minuscola possibilità
gliel’avrei
anche potuta dare.
“Giulia? Giulia, ci sei
ancora?” Il tono insistente con cui mi
stava chiamando mi fece capire che era da un po’ che stava
cercando di attirare
la mia attenzione, ma io ero troppo assorta nei miei pensieri per farci
caso.
Arrossii, e ringraziai il Cielo che lui non potesse vedermi.
“Scusa, ero
soprapensiero,” mormorai imbarazzata.
Avrei giurato che stesse sorridendo.
“E a che cosa stavi pensando
così intensamente?” Domandò, con voce
incredibilmente dolce. Non avrei mai
smesso di stupirmi dei cambiamenti improvvisi del suo tono, che da
minaccioso
poteva passare a sensuale e rassicurante nell’attimo di un
battito di ciglia.
Dovevo rispondergli davvero?
Mi schiarii la voce, cercando di
tergiversare. “Uhm, stavo solo
cercando di capire se potevi esserti guadagnato davvero il diritto di
chiamarmi
tesoro…”
Rise ancora e io rabbrividii per
l’ennesima volta, sentendo la
pelle d’oca sulle braccia malgrado fossimo ancora alla fine
di Agosto e la
temperatura non fosse esattamente fredda. Di certo non potevo ignorare
per
sempre un ragazzo che mi procurava tali sensazioni, no? Non capivo
perché il
mio corpo continuasse a rispondere in quel modo alla sua voce e ai suoi
sguardi, quasi che fossimo due atomi impegnati in una reazione chimica
dalla
quale era impossibile scindersi. Sì, credo che questa sia
una metafora
piuttosto azzeccata: Enrico l’avrei visto bene nella parte
del mercurio, in
effetti, visto l’effetto tossico che aveva su di me.
Dovetti sbattere più volte
le palpebre per cercare di recuperare
la lucidità necessaria a concentrarmi sulla sua voce e sulle
sue parole. Era
imbarazzante, non ero mai stata così distratta: ed era tutta colpa sua. Sua e del suo bacio,
accidenti!
“Avanti, Giulia,
seriamente,” esordì poi, cercando di sembrare
ragionevole malgrado l’intonazione maliziosa che aveva
assunto la sua voce. “Mi
stai dicendo che in questo momento non mi vorresti lì,
accanto a te, per
approfondire quello che ieri abbiamo lasciato a
metà?”
Arrossii inevitabilmente, e tardai a
rispondere quel tanto
necessario perché il mio silenzio desse ragione a lui.
“Ecco, visto?” Sussurrò,
dolcemente. “Penso proprio che ti chiamerò in
tutti i modi che riterrò
necessari, e non credo neppure che ti dispiacerà
più di tanto…”
Fui costretta a deglutire
più volte, visto che iniziavo a sentirmi
la bocca incredibilmente secca. A quanto pareva avevo proprio passato
il punto
di non ritorno…
“Senti, Enrico…
Devo tornare a pranzo. Puoi dirmi perché mi hai
chiamato?” Mormorai a mia volta, per far sì che
non avvertisse il tremito della
mia voce.
Sospirò, arrendendosi alla
mia testardaggine. “Va bene. Sei libera
stasera?”
“Uhm, credo di
sì… Perché?” Chiesi,
vagamente sospettosa. Okay,
togliete pure il vagamente.
“Volevo invitarti a cena,
così possiamo stare un po’… da
soli.”
Avevo
sentito il rumore
della trappola che scattava o era solo una mia impressione?
“Da
soli…?” Ripetei scioccamente, giocherellando con
un cuscino. “Perché?”
Lo sentii sbuffare, a metà
tra il divertito e l’irritato. “Oh,
dai, Giulia! Farò il bravo! È soltanto una
cenetta”, dichiarò, sperando che io
abboccassi. Sì, come no.
Con te non
è mai soltanto
una cenetta,
pensai, ma senza esprimere il concetto ad alta voce. Oh, basta, non ne
avevo
voglia. Tanto il ‘peggio’ era già
successo, no? Cos’altro poteva capitare?
Così mi arresi, immaginando
di sventolare una bandiera bianca.
“Okay, va bene. Però devi riportarmi a casa entro
un orario lecito, non posso
sempre fingere di stare a dormire dalla mia
amica…” In realtà era da molto che
non usavo quella scusa per uscire con lui, visto che i miei genitori
sembravano
appoggiare quella specie di rapporto; genitori
sconsiderati, a mio parere, anche se parecchie ragazze
avrebbero pagato per
avere una madre che spronava ad uscire con dei bei ragazzi. Beh, in
quel caso a
me sarebbe piaciuto avere una madre che mi chiudesse in camera mia e
buttasse
anche la chiave – mi sarei sentita indubbiamente al sicuro da
lui. Ma non si può
scappare per sempre,
perciò…
“Okay, prometto che sarai a
casa prima che si spezzi
l’incantesimo”, replicò con una
risatina. La sua voce poi si addolcì per
l’ennesima volta, senza darmi il tempo di metabolizzare il
cambiamento. “Adesso
vai, su, ti ho tenuto a telefono fin troppo e i tuoi saranno
preoccupati. Ci
sentiamo più tardi, va bene? Ti mando un
messaggio”.
Annuii, prima di ricordarmi che lui
non poteva vedermi. “Okay, a
più tardi”, risposi, esitando un momento di
troppo. Come avrei dovuto
salutarlo? “Ehm, allora… Ciao?”
Conclusi, facendo sembrare il saluto più una
domanda che un’affermazione. Dio, che idiota.
“Ciao”,
ripeté anche lui, facendolo suonare più una
carezza
leggera.
Chiusi la chiamata e presi dei
profondi respiri, in modo da non
tornare in sala da pranzo con il cuore in gola e
un’espressione che mi avrebbe
tradito, benché tutti si stessero immaginando più
o meno chi era lo sconosciuto
che aveva interrotto il mio pranzo con tanta insistenza. Beh, di certo
io non
avrei confermato i loro sospetti.
Infilando il telefono in tasca aprii
la porta, odiando
sinceramente l’agitazione che quella semplice chiamata mi
aveva messo in corpo.
Dio santo. Una cenetta, l’aveva
chiamata.
Da soli,
aveva aggiunto.
Non
c’era mai fine al
peggio.
Ma stranamente, non ne fui dispiaciuta
quanto temevo.
***
Iniziai a temere che in me ci fosse
qualcosa che non andava quando
aprii l’anta dell’armadio per prepararmi con tre
ore d’anticipo. Non sapevo cosa
mettere, d’accordo?
Ecco, ed era proprio questo il problema. Quando mai me n’ero
preoccupata?
Ad ogni modo, i vestitini erano
esclusi per principio; stessa cosa
dicasi di magliette con scollature succinte e gonne che sfioravano
l’oscenità:
non che ci fosse roba del genere nel mio guardaroba, comunque. Era solo
per
fare il punto della situazione. L’unico problema era che
eravamo ancora in
estate, dunque caldo e umido andavano a braccetto: non avrei potuto
mettere le
felpe a dolcevita che mi avrebbero protetta da sguardi indiscreti,
né tantomeno
canottiere che esibivano la merce
come un banco del pesce. Dio, quanto odiavo dover decidere
cosa mettermi.
Sospirai e, dopo il quarto paio di
pantaloni presi e gettati sul
letto, decisi di mettere i primi che avrei visto non appena avessi
aperto gli
occhi. Fui abbastanza fortunata: un paio di jeans chiari, stretti, con
la vita
non troppo bassa né troppo alta. Abbinare una maglietta non
fu tanto difficile:
dovendo escludere quelle con le scollature esagerate – che
abbondavano, vista
la stagione – ne infilai una nera che si legava dietro al
collo e che,
pertanto, copriva per bene il davanti. Beh, avevo la schiena scoperta,
ma di
quello non mi curai più di tanto perché indossai
una giacca leggera sopra. Un
paio di sandali dal tacco modesto e potei dire conclusa anche
quell’ardua parte
– e senza che me ne rendessi conto era già
arrivata l’ora dell’appuntamento.
Apro una piccola parentesi. I miei
genitori – beh, solo mia madre,
in realtà, non aveva fatto una piega quando le avevo detto
che Enrico mi aveva
invitato ad uscire; mio padre era stato più scettico ma alla
fine aveva fatto
finta di niente, purché rientrassi ad un orario ragionevole
– ossia prima delle
tre del mattino. Quanto a Enrico, ci eravamo scambiati messaggi per
tutto il
pomeriggio parlando del più e del meno – con
questo intendo che lui faceva
domande e io mi limitavo a rispondere, per paura di sbilanciarmi troppo
– e
probabilmente questa fu una sorta di strategia per impedirmi di
cambiare idea
all’ultimo momento e rimandare, o annullare del tutto,
l’appuntamento. Ma a
quel punto rimandare l’inevitabile non sarebbe servito a
niente.
E così, Enrico era venuto a
casa mia a prendermi. Avevo chiesto a
mia madre di fingere di non esserci, perché non volevo
assistere a quelle
imbarazzanti scene che si vedono nei film dove il fidanzatino della
protagonista si presenta ai suoi genitori e chiede al padre, con una
buona dose
di coraggio, se può uscire con la
sua
bambina. Dio, che cose odiose. E
comunque lui non era il mio fidanzato.
Con un sospiro, diedi
un’occhiata veloce al mio riflesso allo
specchio e afferrai la borsa, lasciando a casa, non senza remore, lo
spray al
peperoncino: avevo più paura di quello che sarebbe potuto
accadere adesso che
ci eravamo già baciati che non prima, però mi
sembrava ridicolo equipaggiarmi
come se stessi andando in guerra. In
fondo il suo bacio non mi era dispiaciuto più di
tanto… L’unica cosa che
temevo era che potesse farsi un’idea sbagliata
dell’evoluzione del nostro
rapporto, sempre se così di poteva definire. Cercando
disperatamente di
convincermi che un misero bacio non avrebbe cambiato la situazione,
raggiunsi
Enrico in macchina, ringraziando il buio della notte che proteggeva il
mio
volto dal suo sguardo indiscreto. Se mi avesse visto arrossire non
appena avevo
aperto lo sportello si sarebbe già sentito con la vittoria
in pugno. Non sapevo
proprio come comportarmi, accidenti.
“Ciao, Giulia”,
salutò dolcemente, non appena fui seduta accanto a
lui. Non si sporse verso di me per cercare di baciarmi, come se avesse
voluto
rispettare i miei tempi: e di questo gliene fui sinceramente grata. Mi
sentivo
ancora parecchio a disagio, a volerla dire tutta.
“Ciao”, mormorai
in risposta, mentre metteva in moto l’auto. Poi
mi sentii in dovere di non far morire così la conversazione,
anche perché
magari la conversazione mi avrebbe tranquillizzato. “Tutto
bene?”
Lo vidi sorridere nella penombra del
veicolo, ma non distolse lo
sguardo dalla strada. “Sì, grazie. Tu?
Cos’hai combinato tutta la sera?”
Come se
non lo sapesse,
pensai, improvvisamente divertita. “A parte messaggiare con
te,
dici?”
“Uhm, touché.”
Mi
rivolse un’occhiata veloce con un mezzo sorriso, prima di
dedicare nuovamente
la sua attenzione alla guida. “Okay, sì, a parte
messaggiare con me. Stai già
studiando per il rientro a scuola?”
“Oddio, no. Non ne ho
voglia! L’estate non è fatta per
studiare”,
replicai, inarcando le sopracciglia. Subito dopo mi accorsi di quanto
fosse
strana quella situazione: stavo parlando con
Enrico di argomenti così banali e comuni? Insomma,
era alquanto bizzarro;
punto primo, non pensavo che potesse davvero interessarsi a cose
simili, e
punto secondo, non lo facevo il tipo da conversazioni convenzionali. Mi
voltai
per osservarlo, mordendomi le labbra al ricordo di come quelle labbra
si erano
mosse sulle mie… Dio! Ma
perché
dovevo mettermi nei guai da sola?
Mi schiarii la voce, sperando che non
si accorgesse del mio
imbarazzo. “Tu, invece? Cos’hai fatto di
interessante?”
Non mi guardò mentre
rispondeva, a bassa voce. “La cosa più
interessante che ho fatto è stata sentire te”.
Arrossire fu inevitabile.
“Enrico…” Lo ammonii, piano.
Lui finse di non comprendere il tono
della mia voce. “Sì, che
c’è?” Chiese, con finta indifferenza.
“C’è
che non puoi dirmi cose del genere, ecco cosa
c’è”, lo
rimproverai debolmente, trovando persino giusto il mio ragionamento.
“Ma è la
verità”, ribatté, voltandosi e osando
guardarmi con
un’espressione quasi innocente.
Emisi un suono a metà tra
uno sbuffo e un sospiro. “Senti, non
voglio litigare…”, iniziai.
Tuttavia Enrico mi interruppe,
impedendomi di portare a termine il
discorso. “Ti dirò, se poi facciamo pace come ieri
allora non mi dispiace
neppure litigare un po’”, disse con un sorriso
malizioso.
Roteai gli occhi, spazientita.
“La serata è appena iniziata e tu
stai già partendo male”, sbottai, incrociando le
braccia – cosa alquanto
difficile con la cintura di sicurezza in mezzo.
“Okay, come ho
già detto farò il bravo”,
ripeté, lanciandomi
un’occhiata divertita. “Però tu dovresti
cercare di rilassarti e divertirti,
altrimenti non potrò parlare per paura di dire qualcosa che
potrebbe essere
facilmente fraintesa”.
Evitai di specificare che era colpa
delle sue frasi ambigue se io
fraintendevo, e quello fu già un grande passo avanti.
Annuii, tornando a
guardare la strada che scorreva fuori dal finestrino, e accorgendomi
così che
stavamo facendo un tragitto che non mi ricordavo. “Dove
stiamo andando?”
Domandai, cercando di non far trapelare l’agitazione dalla
mia voce.
“A casa mia. Non ti ricordi?
Ci sei già venuta…” Ed eccolo di
nuovo, il tono provocante che non sapevo ancora se considerare
irritante o
sensuale. Forse era a metà strada tra i due.
Certo che
mi ricordavo.
E come dimenticarlo? Quella volta mi aveva costretta a rimanere a
dormire da lui, dopo avermi praticamente rapita. Mi sembravano
trascorsi secoli
da allora, e invece era successo poco più di un mese prima.
Quante cose erano
successe, nel frattempo…
Non gli risposi – dopotutto,
non sapevo neppure cosa dire. Ad
essere sincera non ero tanto spaventata da Enrico, quanto piuttosto dal
faccia
a faccia che avrei dovuto sopportare di lì a poco: avrebbe
voluto senza dubbio
approfondire ciò che era successo la notte prima,
perché se il bacio aveva
lasciato confusa e senza parole me,
sicuramente doveva aver riempito di speranze lui.
“Oggi sei più
silenziosa del solito…”
La sua voce mi fece sobbalzare
– di nuovo. Dio, odiavo
avere i nervi così a fior di pelle. Gli lanciai
un’occhiata veloce per controllare l’espressione
del suo viso, e, vedendola
stranamente seria, mi preoccupai che potesse prendersela davvero come
il giorno
prima. Così sospirai e scossi la testa, ritornando a fissare
la strada. “No,
no, è solo che…” Mi bloccai, incerta:
cos’avrei dovuto dirgli? “È strano,
ecco.”
Brava,
Giulia. Complimenti. Strano. Hai
vinto l’oscar
per la Migliore Parafrasi.
“Cosa è
strano?” Domandò lui infatti, con un tono
volutamente
neutro e vacuo. Sembrava che si stesse sforzando di comprendere il mio
modo
astruso di vedere le cose, il che non richiedeva certo poca fatica; oh,
andiamo
– adesso mi critico da sola? E che cosa avrei dovuto
rispondergli? Che trovavo
strano il fatto che non mi avesse assalito non appena ero entrata in
macchina,
limitandosi a parlarmi del più e del meno come un perfetto
gentiluomo? Insomma,
dovevo ammettere di essere delusa perché
non si era comportato come i miei canoni avevano previsto? Iniziavo ad
odiarmi
da sola.
Comunque, di fatto non potevo dirgli
nulla di tutto questo.
Grazie al Cielo fu lui a venirmi in
aiuto – o a peggiorare il mio
imbarazzo, a seconda dei punti di vista – impedendomi di
rispondere e tirando
da solo le fila del discorso.
“È strano che non
ti abbia ancora baciato?” Chiese infatti, con il
tono leggero di uno che parla delle previsioni meteorologiche. La sua
voce ebbe
però una leggera incrinatura quando aggiunse, lentamente:
“Credimi, sto usando
ogni goccia di autocontrollo per non fermare la macchina e salutarti
come si
deve…”
Mi voltai sorpresa verso di lui,
sforzandomi di ignorare il
rossore alle guance e ringraziando Dio e tutti i santi per
l’oscurità della
macchina che celavano tale afflusso indesiderato di sangue.
“Io non… Non
intendevo questo…” Mormorai, sperando che non
fermasse davvero l’auto.
“Ah, no?” I suoi
occhi mi fissarono per un attimo, poi ripresero
il controllo della strada. “Mi stai dicendo che non te lo
stai chiedendo da
quando siamo partiti? Che, dopo ieri, l’hai trovato
normale?”
Chinai il capo, giocherellando
nervosamente con le cinghie della
mia borsa. “Ieri è stata colpa mia, lo
ammetto…” Confessai alla fine, trovando
un coraggio che non credevo di avere davvero. Dopotutto chi era stato a
saltare
addosso all’altro, luna o non luna?
Enrico tuttavia sbuffò,
leggermente innervosito. “Devi smetterla
con questa storia delle colpe. Non
è
stata proprio colpa di nessuno. Lo volevamo entrambi, ed è
successo… Finalmente,
oserei aggiungere”. Si
accorse che avrei voluto ribattere qualcosa, ma non me lo permise.
“No, fammi
finire. Non ha senso che continui a fingere di trovarmi indifferente,
perché ormai
non funziona più… Hai capito di provare qualcosa
per me, ed è già un passo
avanti”.
Ecco, appunto – a proposito
di false speranze. Solo che adesso il
dubbio era più forte di quanto non fosse mai stato in
precedenza… Quanto le
potevo definire false, le sue
aspettative? Il mio desiderio di mettere le mani avanti e lasciarmi
libera una ‘via
di fuga’ era molto tenace, così mi preparai ad
obiettare.
“C’è
differenza tra attrazione e sentimento, credo”, replicai,
cercando di suonare ragionevole.
Sfortunatamente neppure lui sembrava
carente di ostinazione. “E io
credo che l’uno non possa esistere senza l’altro.
No?” Ribatté sicuro,
guardandomi.
“Okay, e con ciò?
Dove vuoi arrivare?” Sbottai, infastidita per
essere stata sconfitta con la mia stessa moneta. Lui non rispose subito.
Ormai la macchina si era fermata,
visto che eravamo praticamente
arrivati. Spense il motore, facendoci precipitare
nell’oscurità più completa
non fosse stato per un’unica luce proveniente da sotto al
portico della sua
casa di campagna, che a malapena illuminava l’uscio.
Ciò nonostante vidi i suoi
movimenti – la mano che slacciava la cintura di sicurezza, il
torace che si
volgeva verso di me, il braccio destro che si posava sul poggiatesta
del mio sedile
– ed ebbi il modo di studiarli con precisione come se la
scena si stesse
svolgendo al rallentatore. Lo vidi chinarsi su di me, con
l’altro braccio che,
chissà come, era arrivato a posarsi accanto alla mia gamba
dalla parte dello
sportello, intrappolandomi senza alcuna via di scampo.
E
maledetta la cintura che
mi impediva qualsiasi movimento.
Non nego che, forse, avrei potuto
anche trovare un modo per
impedirglielo. Potevo voltare il viso dall’altra parte, o
intimargli di
allontanarsi, o offenderlo con qualche frecciatina crudele che
l’avrebbe spinto
a lasciar perdere – come in genere succedeva. Ma purtroppo,
mentre il suo volto
si avvicinava implacabile al mio, l’unica cosa che la mia
mente riusciva a
focalizzare era il ricordo del suo bacio, e il fatto che adesso stavo
per
riassaggiare la dolce morbidezza delle sue labbra. Dio, sarebbe potuto
essere
il diavolo in persona, ma nulla mi avrebbe tolto dalla testa la
convinzione che
la sua fosse la bocca più buona
che
avevo avuto l’opportunità di assaggiare.
Così mi limitai a
socchiudere gli occhi e sospirare, tremante,
nell’attimo che ci separava dal baciarci una seconda volta.
Sentii il suo
respiro all’angolo della mia bocca, mentre annullava ogni
distanza rimasta e
faceva combaciare le nostre labbra come pezzi di un puzzle,
strappandomi un
gemito involontario che non sarei stata capace di trattenere neanche
sotto
tortura. Sembrava sempre essere eccezionalmente allenato nel baciare in
quel
modo, come se avesse alle spalle una lunga pratica, e il pensiero mi
fece
aggrottare le sopracciglia nel rendermi conto di quanto
l’idea potesse
infastidirmi; mi avrebbe di certo dato molto fastidio scoprire che
avrebbe
baciato qualcun'altra dopo di me, e
non ero neanche del tutto certa che avrei potuto lasciar correre tanto
facilmente. Decisi comunque di non pensarci, non era il caso;
così, istintivamente,
portai una mano libera a sfiorargli la guancia, prima di farla
scivolare più in
basso a posarla sulla sua spalla, alla quale mi aggrappai quasi
ferocemente.
Purtroppo baciare era come mangiare
ciliegie: una volta iniziato,
non si sarebbe più voluto smettere. Ma era anche vero che
tra una ciliegia e l’altra
si prendeva un profondo respiro, e
così
dovemmo fare anche noi tra un bacio e l’altro, seppure
trovassi l’idea molto
meno allettante – anche perché avrei dovuto
affrontarlo nuovamente, e non ero
mai stata particolarmente brava ad accettare e ammettere la sconfitta.
Perciò,
quando si allontanò dalle mie labbra leggermente indolenzite
per la furia che
ci aveva messo, il suo sorriso mi fece perdere qualche battito,
facendomi
sentire improvvisamente caldo – e no, di questo non potevo
incolpare la
stagione. Le sue dita mi accarezzarono i capelli e poi la guancia, con
un tocco
estremamente delicato e tenero, che trovai addirittura più
intimo del bacio
stesso: poi le sue labbra si posarono un’ultima volta sulle
mie, come una sorta
di ciliegina sulla torta, e quando
parlò
lo fece con una voce appena roca che mi fece rabbrividire.
“Era a questo che volevo
arrivare”, sussurrò.
E compresi che la serata era appena
all’inizio.
_____________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Oh!
*sospiro di sollievo* Ce l'ho fatta entro questa settimana, come
promesso :D Non è un granchè, lo so, ma
è un piccolo passo per l'uomo e un grande passo per
l'umanità... nel senso che fra un po' questo strazio
sarà finito, state tranquille xD Ancora un po' di pazienza e
potrete farmi ciao ciao con la manina. Dunque! Passo
subito a ringraziare coloro che hanno recensito (un bacione grande
grande a Eky_87,
samantha, savy85, lalalaXD94, Liandra Thundery, nicoletta93, Aly in
Wonderland, Miyu, Alebluerose91 e Carocimi), che hanno aggiunto la
storia alle Preferite (130! *stappa lo spumante*), alle
Seguite (215) e alle Ricordate (15). Insomma, gente, vi adoro
<3
Grazie alle nuove
"reclute", grazie alle "vecchie" che mi seguono dall'inizio, grazie a
tutte... Davvero, senza il vostro sostegno non so se sarei arrivata fin
qui :*
Uhm oggi sono
particolarmente emotiva, perciò passo e chiudo prima di
farmi scendere la lacrimuccia commossa ;D
Vi lascio ricordandovi
che potete trovarmi anche su Facebook! ^^
Un bacio e un
abbraccio, al prossimo capitolo :*
Vostra,
Giuly.
|
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Capitolo 24 *** Capitolo XXIV. ***
Capitolo XXIV
Scesi lentamente dalla macchina,
cercando di recuperare un paio di
minuti per riprendere il controllo e per capire che genere di
comportamento
avrei dovuto sfoggiare una volta sola con lui a cena. C’era
una fastidiosa
vocina, nella mia mente, che mi stava spingendo a mettere da parte ogni
traccia
di lucidità per poter saltare addosso ad Enrico senza alcuna
remora, ma grazie
al Cielo il mio autocontrollo poteva reggere ancora abbastanza a lungo
per
evitarmi una così misera figura. Dio,
il
suo bacio mi aveva destabilizzato sin troppo.
Approfittai del fatto che mi stava
dando le spalle per armeggiare
con la chiave nella serratura della porta d’ingresso per
farmi scivolare
discretamente la lingua sulle labbra alla ricerca del suo sapore, e mi
coprii
la bocca con la mano, sconvolta, quando compresi ciò che
stavo davvero facendo.
Mio Dio. Bastava così
poco per farmi
capitolare? Mi ero venduta per un bacio?
E – maledizione
– che cosa stavo
pensando? Mi aveva baciato, mi era piaciuto: punto. Non aveva senso
rimuginarci
ancora, in fondo un bacio non sanciva proprio niente, e il fatto che mi
fosse
piaciuto il sapore della sua lingua, della sua bocca, non voleva
significare
che mi sarebbe piaciuto baciarlo in eterno, fino a perdere la
sensibilità delle
mie labbra, fino a gemere e…
“Giulia? Non vuoi
entrare?”
La sua voce gentile e vagamente
maliziosa mi riscosse da
quell’odioso torpore nel quale sembravo cadere ogni volta che
Enrico mi era
troppo vicino. Ritornai bruscamente alla realtà, fissandolo
come se gli fosse
spuntata improvvisamente una seconda testa e arrossendo violentemente
nell’associarlo ai pensieri poco ortodossi che stavo avendo
su di lui. Dannazione a me e ai miei
maledetti ormoni
impazziti!
“Ah, ehm, sì,
certo”, balbettai confusa, raggiungendolo e
sforzandomi di non guardarlo direttamente negli occhi. Lo superai ed
entrai in
casa, facendo qualche passo in avanti al buio per non sentire il suo
bel
profumo troppo intorno a me. Non stavo bene, no, non stavo per niente
bene, e
la prospettiva di dover trascorrere l’intera serata, da sola,
con lui, non contribuiva minimamente
a
rendere stabile la mia già precaria sanità
mentale. Chissà, forse aveva ragione
Alessandra: se ci fossi andata a letto da subito, togliendomi il
pensiero, non
mi avrebbe fatto tutto quell’effetto il rimanere con lui
– sarebbe stato come
togliere un dente troppo fastidioso, no?… Oh diavolo,
Giulia, ritorna in te!
“C’è
qualcosa che non va?” Chiese Enrico con aria preoccupata,
raggiungendomi e passandomi un braccio intorno alle spalle.
“Ti vedo strana…”
Troppo
vicino, troppo
vicino, era decisamente troppo vicino…
Cercando di non sembrare maleducata mi
costrinsi a sorridere
condiscendente, sgusciando via con eleganza dalla sua stretta
improvvisa. “No,
tranquillo”, riuscii a rispondere, sembrando normale ma senza
riuscire a celare
l’imbarazzo. “Ecco, non vorrei che…
Stessimo correndo un po’ troppo, sai…”
“Uhm”. Si
portò pensieroso un dito sul mento, tamburellandolo con
finta perplessità senza mai smettere di fissarmi.
“Hai paura di desiderarmi
troppo, forse?”
Se non ero arrossita prima, ora ero
certa di aver assunto il
colore di un bel pomodoro maturo – volendo tralasciare la
spiacevole sensazione
di essere finita con le proverbiali spalle al muro. Comunque, non
potevo di
certo dirgli “No, sai, ho solo paura
di
frequentare una specie di mafioso, cosa vuoi che sia!”,
sarebbe stato poco
carino da parte mia e a dir poco fuori luogo. Senza contare che io non
ero
certa che Enrico fosse a conoscenza di tutto quello che io sapevo di
lui – Cielo, è piuttosto
complicato – voglio
dire, non credevo che sapesse che la sua vita privata e criminale non
mi era
per niente estranea, e di conseguenza avevo abbastanza paura di espormi
troppo.
Potevo anche affezionarmi al ragazzo, certo, ma chi diceva che potevo
anche
accettare l’Occhi Belli?
“Sarebbe meglio se adesso ci
occupassimo solo della cena”,
mormorai, senza rispondere alla sua domanda e distogliendo lo sguardo
da lui,
troppo pensierosa e preoccupata per poter stare al passo con le sue
allusioni
maliziose.
Lo sentii sospirare e poi
annuì, accendendo finalmente le luci del
corridoio e facendomi strada verso la cucina: benché ci
fossi già stata non mi
ricordavo minimamente dell’interno della casa, forse
perché l’ultima volta ero
troppo impegnata a far sì che Riccardo ed Enrico non si
uccidessero con me e la
mia migliore amica presenti. Ad ogni modo ora che potevo osservarla
meglio mi
accorsi che doveva essere piuttosto vecchia come casa, sia a giudicare
dagli
arredamenti che dal modo in cui erano disposte le varie stanze: beh
certo, non
potevo davvero credere che fosse proprio casa sua, sicuramente
apparteneva ai
genitori o ai nonni e lui la sfruttava durante l’estate con i
suoi amici o
quando voleva stare da solo. O, per stare
al racconto di Riccardo, per quando organizzava i suoi
‘incontri d’affari’…
Cercai di seppellire quegli spiacevoli
pensieri in un angolino
della mia mente, perché non contribuivano minimamente a
mettermi a mio agio e,
al contrario, non facevano che farmi venire ansia. Okay, non credevo
davvero
che Enrico mi avesse portato fin lì per violentarmi e poi
uccidermi, però il
fatto di essere a conoscenza di determinati fatti non mi
tranquillizzava per
niente. Gli avrei dovuto chiedere di
farmi vedere la pistola, forse?
Finalmente Enrico si fermò
davanti ad una porta e la aprì, accendendo
le luci prima di farmi cenno di entrare per prima, da vero gentiluomo.
Accennai
un sorriso e varcai la soglia, riconoscendo subito la cucina dove
avevamo fatto
colazione la mattina dopo il mio ‘famoso’
rapimento: il fatto di trovare
familiare quella stanza mi fece riprendere a respirare normalmente, e
ostentando una calma che non avevo posai la borsa sulla sedia e mi
guardai
intorno come per abituarmi all’ambiente.
“Sei silenziosa”,
ripeté Enrico, per la seconda volta nella stessa
sera. Mi voltai per vedere che si stava avvicinando ai fornelli per
preparare
la cena – non credevo che l’avesse fatto davvero,
chissà perché mi ero convinta
che avesse uno stuolo di cuochi e camerieri – e mi morsi
leggermente il labbro,
imbarazzata.
“Mi dispiace”,
ribattei sinceramente, avvicinandomi e sedendomi su
uno degli sgabelli che circondavano la penisola di quella che era una
cucina
estremamente moderna. “È solo che non so come
comportarmi…” Mormorai subito
dopo, decidendo di essere onesta fino in fondo.
Lo vidi voltarsi e inarcare perplesso
un sopracciglio, come se non
avesse capito a cosa mi stavo riferendo – e, se davvero
credeva che io fossi
all’oscuro dei suoi traffici criminali, allora non potevo
biasimarlo: forse
pensava che io non volessi frequentarlo solo per sentito dire,
perché il nome
della sua famiglia aveva una certa fama, e non che dietro la mia
ostinazione ci
fosse il racconto dettagliato di Riccardo. Così decisi una
volta per tutte di
smetterla di fingere che fosse un ragazzo normale
e di rivelargli davvero ciò che temevo, convinta
così di riuscire a spiegargli
le mie reticenze.
“Cosa vuol dire che non sai
come comportarti?” Domandò, senza
smettere di trafficare con alcune pentole che stava tirando fuori da
uno
sportello. “È solo una cena, Giulia, non mi sembra
di averti chiesto chissà che
cosa…”
Con un sospiro trattenuto a stento mi
alzai e lo raggiunsi,
prendendogli una pentola dalle mani e, probabilmente, sorprendendolo
per la mia
spontanea decisione di avvicinarmi a lui; in realtà era un
modo come un altro
per prendere tempo e riflettere su quello che avrei dovuto dirgli senza
rischiare di farlo arrabbiare. “Dobbiamo fare la
pasta?” Chiesi, senza
guardarlo.
“Sì”,
disse soltanto, aspettando sicuramente che io dicessi
qualcosa di più interessante. Mi avvicinai al lavandino e
riempii la pentola
con l’acqua del rubinetto, dopodiché la misi sul
fornello e accesi il gas, il
tutto senza dire una sola parola ma continuando a sentire il suo
sguardo
bruciante sulla schiena. Non sapevo da dove iniziare, ma ero certa che
avrei
parlato di più senza osare guardarlo in faccia.
Così, continuando a fissare la
pentola come se il mio sguardo avesse potuto accelerare il processo di
ebollizione dell’acqua, lo dissi.
“So di che cosa ti occupi,
Enrico”, mormorai, stringendo le mani
al bordo di marmo della cucina. “Ed è per questo
che non ho la più pallida idea
di come comportarmi. È per questo che ho paura”.
Bene, il danno era fatto –
o, per essere più poetici, il dado
è stato tratto. Adesso che
quelle parole erano riuscite a prendere il volo – adesso che
sembravano
gravitare, pesanti come macigni, nell’aria intorno a noi
– mi sentivo
improvvisamente meglio, più leggera, come se da quel momento
in poi sarebbe
stato tutto più facile. Dovevo soltanto aspettare che la
bomba esplodesse – oh,
pardon, che Enrico dicesse qualcosa. Perché si presumeva che
qualcosa la
dovesse dire, no? Non poteva rimanere in silenzio, vero?
Il punto era che neppure io sapevo che
cosa volevo o non volevo
sentirmi dire.
“Da quanto tempo lo
sai?” Eccole le prime parole dopo il lancio
del missile, venute fuori con un tono all’apparenza piatto e
neutro. Mi stava
tendendo qualche trappola?
“Non avrei dovuto
saperlo?” Replicai invece con un’altra domanda,
cercando di mantenere un tono pacato.
“Rispondi, Giulia. Da quanto
tempo lo sai?” E quella fu
probabilmente l’inflessione che non avrei mai voluto sentire
da lui, perlomeno
non rivolta a me; un brivido mi corse lungo la schiena –
ansia? paura? – e
socchiusi gli occhi, cercando di ignorare quello che sembrava soltanto
un’intimazione velata dalla rabbia.
Sospirai, continuando a dargli le
spalle. “Da quando Riccardo è
venuto a prendermi qui, il giorno dopo che mi hai fatto…
beh, rapire.” Era
strano dirlo ad alta voce, sembrava quasi di parlare di un sogno
talmente
vecchio e strano da non poter far parte in nessun modo della vita reale.
Enrico comunque non rispose subito,
come se stesse soppesando la
mia ammissione. Avevo detto qualcosa di sbagliato? Adesso sarebbe
risalito a
Riccardo, avrebbe scoperto che è stato lui a raccontare ogni
cosa a me e ad
Alessandra, avrebbe cercato di fargliela pagare? O forse era solo la
mia
fantasia che galoppava più in fretta di quanto fosse
possibile starle al passo?
Quasi non mi accorsi che le dita delle mie mani erano diventate bianche
e
insensibili a furia di stringere il bordo di marmo.
Quando riprese la parola, la sua voce
mi fece sobbalzare dalla
sorpresa, per quanto il suo cambiamento fu drastico e improvviso.
“Quindi
sapevi ogni cosa ieri sera, quando ci siamo baciati per la prima
volta”,
decretò con un tono basso e suo malgrado sensuale, facendomi
arrossire.
Possibile che si finisse sempre a parlare della stessa cosa? Non gli
importava
che io fossi a conoscenza di tutti i suoi affari illegali?
Mi voltai per fronteggiarlo, decidendo
che, se aveva tirato fuori
quell’argomento, allora non avevo poi molto da temere.
“Che cosa significa
questo, adesso?” Sbottai, incrociando le braccia. Preferivo
volgere l’imbarazzo
in irritazione, era senza dubbio una reazione migliore.
Mi sorprese ancora di più
il fatto di vederlo sorridere in un modo
quasi compiaciuto e soddisfatto, come se avesse appena realizzato di
avermi in
pugno e ne fosse assolutamente contento. Non si avvicinò,
rimanendo nel suo
lato della cucina, ma questa mi sembrò improvvisamente troppo piccola.
“Significa che, se mi hai
baciato malgrado conoscessi questi… retroscena…
Vuol dire che ho ancora
qualche speranza, e che probabilmente ti piaccio almeno un
po’”, dichiarò con
quella voce provocante, incatenandomi con il suo sguardo intenso.
Mi ritrovai a schiarirmi la voce e a
scuotere il capo, cercando di
scacciare quell’odioso
senso di
imbarazzo – che diavolo, perché il mio corpo non
mi dava retta e si comportava
in modo più maturo? “È questa
l’unica cosa importante, per te?” Sbottai,
muovendo stizzita una mano per aria. “Il fatto che ti abbia
baciato – no,
aspetta, che tu mi abbia baciato?
Non
ti importa che io sia a conoscenza dei tuoi loschi traffici?”
Scrollò le spalle in un
modo che poteva significare tutto o
niente, sempre senza smettere di fissarmi. “Certo che mi
importa, ma avevo già
fatto i conti al riguardo. Avrei voluto essere io a dirtelo, in modo da
poterti
tranquillizzare, ma visto che già lo sai possiamo
direttamente passare oltre e
non perdere troppo tempo a rimuginarci su…”
Forse
stavamo parlando di
due cose diverse,
mi ritrovai a pensare, allibita. Come
faceva a stare così tranquillo? Si trattava di cose che
facevano parte della
sua quotidianità al punto da non ritenerle neppure
abbastanza importanti da
parlarne con me? Non so perché la cosa mi stava dando tutto
quel fastidio –
forse perché ritenevo di dover come minimo essere informata
di quello che
faceva, visto che voleva anche me nella sua vita – la cosa
certa, comunque, era
che volevo saperne di più in modo da poter dormire sonni
tranquilli. Non mi
sembrava di chiedere molto in fondo, no?
“Non ci stiamo capendo,
Enrico”, replicai infatti, aggrottando le
sopracciglia. “Okay, ci siamo baciati, ma questo non vuol
dire che io non sia
terrorizzata da quello che fai tu quando sei da solo o con i tuoi amici. Anzi. Ieri sera è stato
inevitabile e sono d’accordo, anche io lo volevo,
ma… Accidenti, non puoi
davvero pensare che un misero bacio mi possa far dimenticare con chi ho
a che
fare! In qualsiasi modo si evolverà questa storia, sappi che
io non posso stare
insieme ad un delinquente”, dissi infine, riuscendo a
chiamarlo con l’aggettivo
che gli competeva.
Il sorriso era finalmente scomparso
dal suo volto, e adesso mi
guardava con serietà e senza più molta voglia di
scherzare. Per un attimo
temetti di aver detto troppo, ma alla fine mi sentivo meglio per essere
riuscita a sfogarmi e dirgli ciò che pensavo, quindi
qualunque fosse la sua
reazione non avrei avuto nessun rammarico, se non altro. Magra
consolazione.
“Quello che faccio non ha
niente a che vedere con noi”, replicò
con calma a voce bassa, come se stesse tentando di convincermi.
“Oh sì,
invece!” Ribattei, interrompendolo. “Rischi
costantemente
la vita, credi che non lo sappia? Come potrei frequentarti sapendo che
domani
potresti essere in prigione o in cimitero?”
Forse la
stavo facendo
troppo drastica, ma se lui non capiva la gravità della
situazione allora
gliel’avrei mostrata io. Doveva esserci dentro da
molto – forse da più tempo di quanto aveva detto
Riccardo – se per lui tutto
ciò non rappresentava quel grosso problema.
Lo vidi inarcare un sopracciglio e per
un attimo le sue labbra si
piegarono nell’accenno di un sorriso. “Sei
preoccupata per me?” Chiese,
sicuramente con l’intento di provocarmi.
Per tutta risposta roteai gli occhi,
spazientita. “Mi sembra
evidente!” Replicai, sorprendendolo. Beh, era ovvio che mi
preoccupassi, in
quegli ultimi due mesi avevo trascorso più tempo con lui che
con la mia amica,
e anche se il nostro rapporto non fosse mai andato più oltre
di così – cosa di
cui ero fermamente convinta – io mi ero affezionata,
perlomeno come amico.
Scosse leggermente il capo e
sospirò, come se non sapesse bene che
cosa dire. “Senti, non hai nessun motivo di preoccuparti:
è la mia vita, ci
sono abituato, e so come gestire determinate situazioni”,
esordì, parlando con
un tono pacato e tranquillo. “Non devi temere per la mia
vita, né tantomeno per
la tua: ti terrò fuori da quello che di pericoloso
c’è nei miei… affari,
come li hai definiti, e noi
potremo continuare a frequentarci come due persone normali. Davvero,
non c’è
niente di cui aver paura.”
“Questo lo dici
tu”, ribattei a bassa voce, per niente convinta.
Poi sospirai, decidendo che era meglio se per il momento cambiavamo
argomento.
“Dov’è la pasta?”
Sembrò preso alla
sprovvista, ma durò solo un attimo. “Nello
sportello in alto a destra”, disse, indicando un punto della
cucina al mio
fianco. Mi voltai e lo aprii, iniziando a frugare: se mi dedicavo a
piccole
azioni normali come cucinare, forse sarei riuscita a gestire meglio
l’intera
serata. Dovevo incrociare le dita.
Presi un pacco di spaghetti e richiusi
lo sportello, mettendo il
sale nell’acqua che ormai bolliva e attendendo un altro
minuto prima di gettare
la pasta; dietro di me sentivo il rumore di un coltello che
tamburellava sul
tagliere, e osai voltarmi leggermente per vedere che cosa stesse
facendo.
Sembrava strano vederlo tagliare l’insalata, ma alla fine
dovetti ricordare
che, malgrado tutto, era pur sempre un essere umano come tutti gli
altri poveri
mortali, e non aveva senso metterlo in chissà quale
piedistallo solo perché io
ne ero spaventata e attratta allo stesso tempo in modo piuttosto folle.
Potevo accettare di desiderarlo
fisicamente, era una cosa alquanto
normale visto che sembrava emanare sensualità come una
lampadina emanava luce; ma
perché la mia parte razionale non prendeva a schiaffi
l’istinto, rimandandolo
nella tana da dove era uscito? Enrico era pericoloso, questo era un
dato di
fatto: e non perché avrebbe potuto farmi del male
– a quel punto questa era
un’eventualità che non prendevo neanche in
considerazione – ma perché se mi ci
fossi legata troppo, così come avrebbe voluto lui, avrei
rischiato di soffrire
immensamente. Non sarebbe stato un rapporto sano, ecco, e non ero certa
di
volerlo.
“Parlami, Giulia, non
chiuderti nei tuoi pensieri.” La sua voce mi
giunse da un punto indefinito accanto al mio collo, facendomi
sobbalzare, e
quando mi voltai mi accorsi che mi era alle spalle, decisamente
troppo vicino.
Ed era anche decisamente
troppo bello. Anzi, era decisamente
troppo tutto, e io continuavo a non capire perché
si fosse fissato così
tanto su di me; ma quello, a quanto pareva, era destinato a rimanere un
mistero, e visto che risolverlo non avrebbe cambiato la situazione
attuale,
decisi di sorvolare.
“Dovresti avvisare prima di
spuntarmi all’improvviso da dietro le
spalle”, replicai senza rispondergli, sgusciando via da
quella posizione e
raggiungendo il frigorifero. “Dov’è il
sugo?” Chiesi, controllando tra gli
scaffali del frigo: c’era davvero parecchia roba, sicuramente
lui e i suoi
amici ci trascorrevano più tempo di quanto avessi immaginato
in quella casa…
Ah, già, dimenticavo: doveva essere il loro quartier
generale.
“Non cambiare
discorso”, ribatté lui, incrociando le braccia e
poggiandosi alla credenza.
Scrollai le spalle con disinteresse.
“Credevo che il discorso
fosse finito”, risposi, prendendo il vasetto del
ragù e richiudendo il
frigorifero.
“Il discorso sarà
finito quando non ci sarà più nulla da dire, e
non mi sembra sia questo il caso”, replicò deciso,
seguendo i miei movimenti
con lo sguardo senza distrarsi nemmeno per un istante.
Sospirai, aprendo un altro sportello a
caso e trovando un
recipiente per la pasta. Iniziai a preparare il condimento senza
rispondergli –
visto che comunque non sapevo cos’altro dirgli – ma
dato che lui sembrava non
voler cedere alla fine decisi di accontentarlo. “Senti, non
roviniamo la
serata, va bene? Facciamo finta di niente, non abbiamo detto nulla,
tutto come
prima. Okay?” Provai, continuando a non guardarlo malgrado la
sua presenza
accanto a me non fosse per niente facile da ignorare.
“Voglio solo sapere che cosa
stai pensando.”
Oh, mio
caro, mettiti in
fila. Lo voglio sapere io per prima…
“Non sto pensando
niente”, replicai decisa, sperando che quel
discorso finisse lì. “Apparecchiamo?”
In silenzio, tirò fuori da
un cassetto una tovaglia e me la porse,
continuando a fissarmi con quegli occhi verdi e terribilmente
penetranti.
Gliela presi dalle mani e andai verso il tavolo, sistemandola per bene
e
cercando di perdere del tempo per sistemarla con precisione negli
angoli e ai
bordi: lui continuava a guardarmi senza dire una parola, e non sapevo
se questo
era un buon segno o no.
“I piatti?”
Chiesi, raggiungendolo nuovamente.
“Lascia, faccio
io”, disse con un tono leggermente rassegnato,
voltandosi e prendendoli dallo sportello sopra al lavandino. Forse ero riuscita a scamparla.
“Però non finisce
qui.”
Forse no.
“Cosa vuoi dire? Non
c’è nient’altro da
aggiungere…” Replicai,
avvicinandomi e prendendo i piatti dalle sue mani ostentando
indifferenza. Li sistemai
sulla tavola e mi voltai per prendere i bicchieri, ritrovandomi invece
Enrico
ad un passo da me che me li porgeva con uno strano sguardo sul viso.
“Cosa ti
ho detto sull’apparire così
all’improvviso?” Borbottai, incrociando le braccia.
“Hai un talento magistrale
nel riuscire a cambiare discorso, ma
con me non attacca.” Ribatté prontamente,
avanzando e costringendo me ad
indietreggiare fino a farmi incontrare il bordo del tavolo e bloccarmi
contro
di esso. Le sue mani si allungarono per posare i bicchieri sul tavolo
alle mie
spalle e le lasciò poi ai lati del mio corpo,
intrappolandomi e aderendo troppo
con le sue gambe alle mie.
“Devo… Devo
scolare la pasta”, tentai, cercando di non guardarlo
troppo a lungo.
Emise uno sbuffo tra
l’esasperato e il divertito che mi fece
alzare gli occhi su di lui, perplessa. “Può
aspettare, l’hai messa solo cinque
minuti fa”, disse, chinando il capo verso di me e sussurrando
a pochi
centimetri dal mio viso. Oh, santo Cielo.
“Beh, però devo
finire di apparecchiare”, continuai imperterrita,
vedendolo roteare impaziente gli occhi.
“Non ammetterai mai di
provare qualcosa per me, vero? Neanche se lo
vedessi per iscritto.”
Stranamente riuscii ad emettere una
risata abbastanza sarcastica,
scuotendo la testa. “Questo perché non provo niente, per te”, mentii
spudoratamente, puntandogli un dito sul
petto e allontanandolo da me.
“Certo”, sorrise
lui, seguendo il mio dito e indietreggiando. “E
che mi dici del tuo bacio?”
Mi sforzai di non arrossire ma, senza
uno specchio davanti, non
potevo dire di esserci riuscita. “Punto primo, sei stato tu a
baciarmi, e punto
secondo… Di questi tempi un bacio non ha grandi
significati.”
“Perché non ci
credo?” Chiese retorico, permettendomi di muovermi.
Scrollai le spalle e lo superai, raggiungendo nuovamente i fornelli e
controllando la pasta.
“Non è un mio
problema”, decretai decisa. Che
cosa voleva, che ammettessi di essere attratta da lui? Ma neanche
morta!
Lo sentii ridere e fu solo con un
enorme sforzo di volontà che non
mi voltai per guardarlo. “Oh, questo è davvero
tutto da vedere!” Esclamò, e a
giudicare dal rumore dei suoi passi doveva essersi avvicinato. Come al
solito
sobbalzai nel sentire il suo respiro sul collo, ma mi sforzai di
ignorarlo.
“Uhm, che buon
profumo…” Sussurrò a un centimetro
dalla mia pelle.
“Non l’ho fatto io
il sugo, non è merito mio”, risposi, mescolando
la pasta.
La sua debole risatina mi fece venire
i brividi. “Ma io non
parlavo del sugo…”
Il mestolo cadde sui fornelli accanto
alla pentola e nella furia
di riprenderlo mi scottai con il metallo di quest’ultima.
“Accidenti!” Sibilai,
maledicendo lui, il mestolo e di nuovo lui. Si allontanò da
me proprio quando
mi voltai con l’intenzione di incenerirlo con lo sguardo,
malgrado il rossore
che doveva imporporarmi le guance non fosse proprio quel che si dice
spaventoso.
“Stammi lontano mentre cucino!”
Continuando a ridere sotto i baffi
Enrico sollevò le mani in segno
di resa, prima di finire di apparecchiare con quel sorrisetto idiota e
beffardo
sulle labbra. Dio, quelle labbra.
Sbuffai,
aggiungendo anche me stessa alla lista di cose da maledire.
Non avrei mai e poi mai dovuto
accettare di venire a casa sua per
cena.
_______________________________________________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Ed
eccomi ritornata per pubblicare l'ultimo capitolo del 2010! Spero che
apprezziate il gesto, è il mio modo per concludere
quest'anno in bellezza, per augurarvi in ritardo Buon Natale e in
anticipo un Felice Anno Nuovo - insomma, per catturare parecchi
piccioni con una fava xD
Ringrazio come sempre
tutte coloro che mi seguono, sia silenziosamente, sia su facebook, sia recensendo pazientemente
i vari capitoli! Siete dei tesori ragazze mie, non c'è che
dire :) Dal prossimo capitolo (cioè, da questo) voglio
inaugurare la nuova 'applicazione' di Efp che permette di rispondere
direttamente alle recensioni, così vi ringrazierò
in tempo reale *__*
Di nuovo, un bacio, un
abbraccio e un Felice Anno Nuovo dalla vostra Giulia! :D Divertitevi e
bevete responsabilmente, mi raccomando ;)
Ci sentiamo alla
prossima! :* Vostra,
GiulyRedRose.
|
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Capitolo 25 *** Capitolo XXV. ***
Capitolo XXV
Cenammo in un’atmosfera che
aveva davvero del surreale.
Da parte mia non capivo in che modo
riuscisse a emanare sensualità
anche mentre mangiava, alternando ad ogni boccone una lunga occhiata
nella mia
direzione. Aveva inoltre acceso lo stereo per stemperare un
po’ i vuoti silenziosi,
dal quale si erano sparse delle note delicate che ci accompagnarono
durante la
cena. Tutto sommato, dopo i primi minuti imbarazzati riuscii a
intavolare una
conversazione che non fosse troppo intima e pericolosa, e che Enrico
seguì
volentieri. Stranamente riuscimmo a non parlare più di
assassini, droga, mafia
o chissà cos’altro, ma sapevo benissimo che il
discorso non era stato chiuso –
attendeva in un angolo, come un leone acquattato in attesa del momento
giusto
per balzare fuori e colpire la sua preda.
Non
finisce qui,
aveva detto anche lui. Non potevo che dargli ragione…
Dopo cena lo aiutai a sparecchiare
ignorando le sue proteste – in
quanto ospite, secondo lui, sarei dovuta restare seduta senza alzare un
dito –
ma non volle sentire ragioni per quanto riguardava il caffè,
e non me lo lasciò
preparare. Con un sospiro, mi sedetti ad uno degli sgabelli della
penisola
della cucina, poggiando il mento sul palmo della mia mano e
osservandolo mentre
combatteva con la macchinetta del caffè.
Il vero problema di Enrico era che,
vita da delinquente a parte,
lui poteva essere benissimo l’uomo perfetto, il principe
azzurro, il fidanzato
che ogni ragazza sogna di avere, un giorno. No, rettifico: quello era
il mio vero problema, dato che
avevo ancora
parecchie riserve su di lui. Va bene, non negavo di esserne attratta: e
neppure
che mi piacesse, un filino. E mi sarebbe piaciuto poter credere di
riuscire a redimerlo, portarlo via
da quel genere
di vita – insomma, comportarmi come una delle eroine di quei
romanzi harmony
che adoravo leggere nel tempo libero. Ma purtroppo, a diciotto anni
suonati,
sapevo che c’era molta, forse anche troppa differenza tra la
vita immaginaria,
fittizia di quelle protagoniste innamorate e quella vera, dove io,
volente o
nolente, mi ritrovavo a vivere. Chi non sogna una vita da commedia
americana,
con lieto fine annesso?
Comunque, per il momento non volevo
pensarci. In fondo avrei anche
potuto farmi bastare l’attrazione che provavo nei suoi
confronti per cedere e
mettermi insieme a lui, no? Almeno per i primi tempi sarebbe bastato
quello.
Dopotutto le persone non si fidanzano perché sono ciecamente
innamorate, ma
perché trovano bella e interessante l’altra
persona, abbastanza per
giustificare questa scelta; non credevo particolarmente nel colpo di
fulmine,
quella era roba da film e romanzi rosa. L’affetto o
l’amore, nella realtà,
viene col tempo, se la situazione regge e sembra durare più
del previsto.
Dunque, perché io non avrei dovuto fare lo stesso?
Ve lo dico io, il perché.
Perché non era quello che volevo per me,
perché non era così che me lo immaginavo e
perché, malgrado tutte le mie belle
parole ciniche e realiste, io aspettavo davvero il vero amore, o
perlomeno
qualcosa che ci andasse vicino. E mi sarebbe piaciuto fidanzarmi con
qualcuno
di cui sarei stata davvero
innamorata, qualcuno che mi avrebbe fatto battere il cuore
semplicemente
standomi accanto e che, magari, non mi avrebbe imposto la sua presenza
ma
avrebbe aspettato pazientemente che io mi abituassi e che la
desiderassi
davvero. E invece eccomi lì, intrappolata in quella
situazione con Enrico senza
alcuna apparente via di scampo. Che cosa diavolo ci si aspettava che
facessi?
“Ecco il tuo
caffè”, disse il protagonista dei miei cupi
pensieri,
posando davanti a me una tazzina di caffè nero e bollente.
“Quanto zucchero?”
Mi riscossi rapidamente, sollevando
gli occhi su di lui e
sbattendo le palpebre per tornare alla realtà. Svegliati Giulia che la guerra è finita!
“Ah, sì, due cucchiaini”,
risposi, raddrizzandomi e schiarendomi la voce.
Le sue labbra si stesero in un
sorriso, mentre versava lo zucchero
nel mio caffè. “Oh, ti piace molto dolce, eh?
Chissà perché l’avevo
immaginato…” Aggiunse con voce suadente, sedendosi
sullo sgabello di fronte a
me. Osservai quanto zucchero ci metteva lui, e storsi appena il naso
nel vedere
che ne versava appena mezzo cucchiaino, giusto un assaggio.
“A te invece piace molto
amaro, vedo. Anch’io l’avevo immaginato”,
ribattei, decisa a non voler perdere più nessuna piccola
battaglia verbale. Se
mi provocava, avrei iniziato volentieri a comportami allo stesso modo.
Gli sfuggì una risatina,
prima che arricciasse le labbra – santo
cielo! – e mi guardasse piegando
la testa di lato, come se avesse voluto studiarmi con attenzione.
“Ma io non
sono amaro”, obiettò, con l’aria di un
bambino appena rimproverato dalla madre.
Borbottai qualcosa di incomprensibile
con un tono piuttosto
scettico, mentre giravo il cucchiaino nella tazza e osservavo il nero e
fumante
caffè come se fossi ipnotizzata dal movimento circolare che
faceva la bevanda.
Bisognava sempre vedere tutti i punti di vista, d'altronde a me piaceva
il
cioccolato fondente che era piuttosto amaro, no?, quindi non credevo
che fosse
un male che lo fosse anche lui. Questa riflessione, comunque, vidi bene
di tenerla
per me.
Sorseggiai il caffè
cercando di non incrociare lo sguardo di
Enrico, comportandomi davvero in modo infantile. Posai nuovamente la
tazzina
sul piattino e passai leggermente la lingua sulle labbra per portar via
il
sapore del caffè, osservando un punto imprecisato sul tavolo
sovrappensiero.
Avevo così tanti pensieri per la mente che non mi sembra il
caso di ripeterli
nuovamente, erano sempre gli stessi espressi con altre parole. Mi
sfuggì un
sospiro che non riuscii a soffocare.
“Vorrei baciarti.”
I miei occhi saettarono su di lui e
contemporaneamente mi sentii
le guance in fiamme. “Cosa?” Balbettai imbarazzata;
non poteva dire cose del
genere all’improvviso e con quel
tono, santo cielo!
Vidi le sue labbra arcuarsi in un
sorriso malizioso, mentre posava
il mento sul palmo della mano e mi osservava quasi bramoso.
“Ho detto che
vorrei baciarti”, ripeté senza alcun riserbo.
Perché lui sembrava sempre così
tranquillo e a suo agio, anche quando il mio cuore voleva saltare fuori
dalla
mia gabbia toracica e darsela a gambe?
Cercai di riprendermi e trovare una
risposta abbastanza pungente
da metterlo a tacere, ma non era facile con lui che mi guardava in quel
modo. “Sì,
beh, anche io vorrei una collana di diamanti ma non è detto
che la possa
avere…” Replicai poco convinta, aggrottando le
sopracciglia.
Enrico non si lasciò
intimidire e il suo sorriso si accentuò
ancora; si sollevò sullo sgabello, posando le mani sul
ripiano della penisola
per mantenersi in equilibrio e si chinò veloce verso di me,
avvicinandosi
pericolosamente alle mie labbra. “Potrei regalartela per
Natale, chi lo sa”,
mormorò suadente, prima di coprire la mia bocca con la sua.
Mi ritrovai a chiudere gli occhi e
socchiudere le labbra come se
non stessi aspettando altro, sporgendomi verso di lui e facendo aderire
meglio
le nostre bocche. Gemetti appena quando la punta della sua lingua
accarezzò
maliziosa il mio labbro inferiore prima che iniziasse a mordicchiarlo
piano, con
insolita prudenza, come se temesse di esagerare e allontanarmi di nuovo
da lui.
Maledissi per un istante il mio corpo che contraddiceva le mie
convinzioni
ragionate e inattaccabili, ma fu una protesta troppo effimera che
evaporò del
tutto quando la sua lingua si insinuò tra le mie labbra,
andando alla ricerca
della mia.
Le mie mani cercarono alla cieca le
sue, per poi giocherellare con
le sue dita fino a intrecciarle alle mie, cercando di trattenermi
dall’immergergliele tra i capelli. Sollevai il viso per
andargli incontro e
approfondire meglio il bacio, chiudendo gli occhi – forse per
fingere che non
fosse lui a baciarmi, ma malgrado tutto mi resi conto di non aver
nessun altro
in mente con cui avrei voluto sostituirlo. Cercai di ignorare i feroci
battiti
del mio cuore – speravo che lui non potesse sentirli
– e mi rilassai solo quando
la sua bocca mi diede un po’ di tregua, allontanandosi da me
quel tanto che
bastava per lasciarmi respirare.
“Sai di
caffè”, disse piano, con una strana vena
intenerita nel
tono. Lo vidi leccarsi impercettibilmente le labbra, ma eravamo troppo
vicini
perché io non notassi quel gesto; così, arrossii
per l’ennesima volta. Stava
iniziando a diventare un’abitudine.
“Parlami di tua
madre.”
Dopo il famoso caffè ci
eravamo spostati sul divano, pur senza
metterci eccessivamente comodi; eravamo seduti ai lati opposti del
sofà che
comunque era piccolo, ma non mi sembrava il caso di abbracciarlo o
sdraiarmi
contro di lui o altre posizioni simili. Insomma, eravamo abbastanza
vicini da
giustificare quanto appena successo ma abbastanza lontani da non
implicare eccessivi
risvolti amorosi. Ormai non sapevo
più come comportarmi – mi sentivo pericolosamente
vicina allo scacco matto, e
il re in pericolo non era di certo il suo – ma rimanevo
comunque dell’idea che
avrei dovuto andarci con i piedi di piombo, in qualsiasi modo si
sarebbe
evoluta l’intera situazione. Avevo pensato che chiedergli
qualcosa di lui,
qualcosa che non riguardasse la sua attività,
sarebbe potuto essere un buon modo per fare conversazione e conoscerlo
un po’
di più, e visto che quella domanda mi perseguitava dal
momento stesso in cui me
ne aveva parlato, mi sembrò normale affrontare il discorso.
Probabilmente fu il tono quasi dolce
con cui glielo avevo chiesto
a farlo sorridere in quel modo, ma fu un sorriso debole che non aveva
la carica
maliziosa di quelli che ero abituata a vedere e che svanì
fin troppo
rapidamente. Compresi che forse avevo esagerato con quella domanda, non volevo metterlo in difficoltà e
quello
doveva essere un tasto dolente, per cui malgrado
l’imbarazzo cercai di
porvi rimedio.
“Scusa, Enrico, forse non
è il caso… Lasciamo perdere,” aggiunsi
esitante, indecisa se allungare una mano verso di lui o meno.
Lui scosse la testa e decise al posto
mio, sporgendosi verso di me
e prendendo la mia mano per stringerla, massaggiandone il dorso con il
pollice
e accennando l’ennesimo sorriso. “No, puoi
chiedermi tutto quello che vuoi”,
ribatté con un tono di voce pacato, senza guardarmi.
“È che non parlo molto
spesso di lei; con mio padre è fuori questione affrontare
certi discorsi, e con
Betta non oso neanche perché non voglio che fraintenda le
mie parole. E per
quanto riguarda i ragazzi, beh, non posso di certo farmi vedere
debole.”
Stavo già per ribattere a
quell’ultima affermazione, quando la sua
espressione mi fece chiaramente capire che stava scherzando;
così scossi appena
la testa e cercai di ricambiare il suo sorriso, avvicinandomi di
più a lui fin
quando le nostre gambe non si toccarono – a quel punto non
potei che
ringraziare silenziosamente il cielo per avermi fatto indossare i
pantaloni.
Erano se non altro una garanzia.
“Se ne vuoi parlare, io ti
ascolto”, gli proposi gentilmente,
scambiando i ruoli delle nostre mani e ritrovandomi ad essere io ad
accarezzare
la sua. Lui la strinse e io mi misi comoda, permettendogli di
aggrapparsi alle
mie dita come avrebbe fatto un naufrago perso in mezzo alla tempesta;
probabilmente anche lui era perso, in balia di quei ricordi che
l’avevo
costretto a rispolverare. Il minimo che potessi fare era offrirgli
metaforicamente la mia spalla, nello stesso modo in cui mi aveva
consolato lui
quando era morto mio nonno. Solo, mi chiedevo se sarei stata
così disponibile e
comprensiva nei suoi confronti anche se non ci fossimo mai baciati; chi
poteva
saperlo?
Enrico annuì appena, come
se stesse raccogliendo i pensieri.
“Mia madre è
morta a causa di un tumore; un cancro al fegato”,
esordì di punto in bianco, con un cambio di tono
così repentino da farmi
sobbalzare sul divano. Dopodiché iniziò a
raccontare senza quasi riprendere più
fiato, come un fiume in piena – come se avesse atteso anni e
anni prima di
parlare di questa cosa e adesso non gli sembrava vero di potersi
confidare con
qualcun altro. Come aveva fatto a tenersi dentro quel dolore per tutto
quel
tempo?
“Aveva un cancro al fegato
impossibile da operare, così l’unica
soluzione proposta dai medici era stata la chemioterapia; le aveva dato
tutti
gli effetti collaterali possibili, ma tutto sommato era sembrato
funzionare.
Neanche cinque mesi dopo, però, gli ultimi esami del sangue
che mia madre
faceva periodicamente risultarono essere di nuovo compromessi; eravamo
sotto
Natale, per cui mamma preferì rimandare l’inizio
della nuova terapia a dopo le
feste. In quel periodo si indebolì parecchio,
così al primo ciclo di chemio si
sentì molto male e rimase ricoverata in ospedale per oltre
due settimane. Andai
a farle visita poche volte, ero piccolo e mio padre non voleva che la
vedessi
in quelle condizioni; non so cosa pensare di questo, so solo che adesso
rimpiango di non aver potuto trascorrere anche quei giorni al suo
fianco. Andò
avanti così per oltre un anno; mia madre faceva in
continuazione la spola da
casa all’ospedale, era sempre più debole, e a
volte i dottori erano costretti a
posticipare la terapia per permetterle di riprendersi tra un ciclo e
l’altro,
anche se poi a quello successivo i problemi si ripresentavano.
“Sai, il brutto delle
malattie che colpiscono il fegato è che
influiscono anche sull’umore; puoi immaginare quindi che cosa
potesse fare un
cancro simile. Era sempre arrabbiata, scattava per un nonnulla, si
offendeva e
non riusciva ad essere dolce neanche con me; purtroppo non ho
conservato molti
bei ricordi di mia madre, proprio a causa di questo periodo –
credevo che
avesse smesso addirittura di volermi bene”, aggiunse
abbassando ancora di più la
voce, con una punta di rammarico. La sua mano strinse la mia con forza
ma non
mi lamentai, ormai del tutto immersa nel suo racconto e nel suo dolore;
non
riuscivo neppure a concepire una cosa simile, immaginare mia madre in
quella
situazione… Mi faceva male solo il pensiero.
“È morta senza
che io riuscissi a dirle una volta sola quanto…
Quanto fosse importante, per me”, continuò in un
mormorio che mi straziò il
cuore. Sollevò la mano libera a massaggiarsi e stringersi le
tempie, con un
gemito misto ad un sospiro che mi spinse ad avvicinarmi di
più a lui.
Non sapevo che cosa dire;
d’altronde, che parole potevano esserci
per cercare di consolare una simile sofferenza? Adesso capivo
perché Enrico non
mi aveva mai raccontato nulla di tutto questo; primo, non avevamo
ancora un
rapporto tale che giustificasse una simile intimità, e
secondo, probabilmente
aveva ragione lui quando mi aveva spiegato che avrei potuto cambiare il
modo di
vederlo e di rapportarmi a lui, se l’avessi saputo. Non
voleva che iniziassi ad
uscire con lui per pietà, e come dargli torto? Malgrado
tutto, adesso mi
accorgevo che mi sarebbe dispiaciuto da morire se non gli avessi dato
neppure
quella piccola possibilità.
In quel momento, per la prima volta,
mi sentii sola – fu come
un’improvvisa e inattesa presa di coscienza di ciò
che mi circondava.
Non era il tipo di solitudine triste e
devastante di chi non ha
nessuno, ma piuttosto quella pacata, rilassante, quasi confortevole di
chi è in
pace con se stesso e non ha paura di esserlo. Fino a quel momento avevo
sempre
contato molto su Alessandra e i miei amici, sui miei genitori, sulla
mia
famiglia, ma ora mi rendevo conto di essere completa, di non aver
bisogno
dell’approvazione di chicchessia o di chiedere il permesso
alla mia migliore
amica per frequentare qualcuno – cosa che, di fatto, era
accaduta fino a quel
momento. E in tutta quella completezza, in questo nuovo stadio delle
cose,
potevo essere abbastanza forte da gestire tutta la faccenda-Enrico
– da
gestirla da sola.
Anche se continuavo ad essere
dell’idea che fosse improbabile che riuscissi
ad amarlo quanto, invece, sembrava amarmi lui, niente mi impediva di
continuare
a frequentarlo. In fondo poteva diventare un capitolo interessante
della mia
vita, qualcosa che, negli anni a venire, avrei ricordato con un certo
divertito
piacere.
Mi riaccompagnò a casa
molto più tardi – erano quasi le due e
mezzo del mattino.
Dopo quella breve parentesi sul suo
dolore, avevo cercato di
tirargli su il morale e a quanto pare ci ero riuscita, così
ci siamo trovati a
bere vodka alla fragola nella biblioteca mentre giocavamo a carte e
parlavamo
del più e del meno. Non avevo mai riso tanto in sua
compagnia – ma non voglio
essere così ipocrita da attribuire la colpa della mia
allegria all’alcool,
anche perché lo reggo piuttosto bene – e anche se
sia Ale che il resto della
cricca potevano pensare che non era possibile trascorrere quasi sette
ore a
casa di un ragazzo, di notte, senza andarci a letto, quello era
esattamente ciò
che era successo.
Sul fatto che Enrico fosse un
gentiluomo, da quel punto di vista,
non si discuteva.
Per quanto di tanto in tanto
l’avessi scorto ad osservarmi in un
modo non del tutto amichevole, non
aveva cercato di provarci neppure quando lo avevo abbracciato, dopo che
si era
confidato con me. Rispettava le mie convinzioni – anche se
non le condivideva –
e sembrava essersi rassegnato al fatto che io, per il momento, potessi
concedergli solo baci e carezze. Cosa che invece non aveva fatto
Matteo, il cui
maldestro tentativo di approccio nei miei confronti si era rivelato
essere un
fallimento su tutti i fronti e aveva, oltretutto, rovinato sia la
nostra
amicizia che il clima del nostro bel gruppo.
Avevamo appena finito di ridere dopo
il mio ennesimo aneddoto riguardo
le avventure di quando ero piccola; ormai le avevo inventate tutte pur
di
risollevargli l’umore, e in fondo non trovavo ci fosse
qualcosa di imbarazzante
nelle bambinate che avevo combinato negli anni precedenti e subito
successivi
alla nascita di mia sorella – e Enrico d’altra
parte sembrava trovare fin
troppo divertente l’idea del terremoto che ero stata un tempo
per non
approfittare dell’occasione di rivederlo sorridere.
L’atmosfera tetra che c’era
stata a casa sa si era quindi diradata, permettendoci di concludere la
nostra
uscita in bellezza.
Parcheggiò dietro
l’auto di mia madre e spense il motore, mentre
l’eco
delle risate si spegneva nell’abitacolo che veniva lentamente
invaso dall’oscurità;
solo il lampioncino crepuscolare che mio padre aveva installato nel
parcheggio
ci permetteva di vedere ancora parte dei nostri volti.
“Allora… Grazie
della bella serata”, disse alla fine Enrico,
incerto – suppongo – su come salutarmi.
Decisi di levargli
l’impiccio di dover anche pensare a qualcosa
che non mi ‘offendesse’ eccessivamente, visto che
non mi sembrava il caso di
continuare con quella specie di messinscena. “Grazie a te
della cena, era tutto
ottimo”, replicai con un sorrisetto rilassato mentre cercavo
di sganciare la
cintura difettosa.
Lo vidi inarcare un sopracciglio nella
penombra della macchina.
“Ma se in pratica hai cucinato tutto tu!”
Ribatté fingendosi contrariato.
“Lo so, appunto”,
ribadii ostentando un tono di falsa modestia.
La sua ennesima risatina mi
lasciò talmente compiaciuta che mi
ritrovai a sbattere le palpebre, perplessa per quella piega che aveva
preso
l’intera faccenda e che un tempo avrei catalogato senza
pensarci due volte come
indesiderata. Si trattava di una
piega decisamente troppo intima e disinvolta, che ero certa mi avrebbe
fatto
rimuginare come un’anima in pena per il resto della nottata.
E del giorno dopo.
E di quello successivo…
“Bacio della
buonanotte?” Chiese, imbronciando le labbra e
atteggiando gli occhi in quello che comunemente si definirebbe uno sguardo da cucciolo bastonato.
Fu il mio turno di ridacchiare,
scuotendo appena la testa. “Con
tutti i baci della buonanotte che ti sei fatto dare stasera, potresti
andare a
dormire tranquillo per i prossimi due mesi”, risposi,
mostrandomi tutta
impegnata nell’infilare la giacca per nascondergli un
sorrisetto.
“E dai, non essere
antipatica. Ho messo un tetto sulla tua testa,
ti ho nutrita…” Iniziò, elencando i
suoi gesti di buon Samaritano sulla punta
delle dita e inarcando le sopracciglia con fare compito.
“Mi hai fatto quasi
ubriacare…” Aggiunsi sul suo stesso tono,
prendendolo in giro.
A quella risposta si mostrò
indignato. “Non è colpa mia se ti piacciono
gli ammazzacaffè!”
Risi ancora, voltandomi completamente
contro di lui e poggiando
comodamente la spalla contro lo schienale del sedile. “Dimmi
che non stiamo
facendo tutto questa storia solo per un bacio”, scherzai,
storcendo il naso.
“No, non per un bacio.
Almeno per cinque”, precisò serio.
“Da quando in qua sono
diventati cinque?”
“È
l’inflazione, tesoro. Dai, dammi un
bacio…” Insisté, sporgendo
tutto il busto in avanti con un sorrisetto sensuale al quale era
impossibile
resistere anche volendo – e io avevo già resistito
abbastanza. Non mi ero accorta
che anche lui si fosse tolto la cintura, la qual cosa lo rendeva
più libero e
fluido nei movimenti. Arricciai le labbra come una bambina e sfiorai le
sue
labbra con le mie con un bacetto casto e schiocco enfatizzato, che
tuttavia non
lo soddisfò come speravo. Dischiuse solo un occhio per
ammonirmi e sollevò una
mano insinuandola tra i miei capelli, approfittando di quella presa
delicata
per avvicinarmi a sé e prendere definitivamente il controllo
della mia bocca. La
sua lingua ne seguì il contorno con studiata lentezza, cosa
che mi fece socchiudere
le labbra per assaporarlo meglio e permettergli inconsciamente di
approfondire
il contatto – cosa che non si fece ripetere. Ad ogni affondo
nella mia bocca si
staccava appena per sospirare, a mezza voce, un numero: come promesso
al cinque
si ritrasse, proprio quando io invece avevo iniziato a prenderci gusto.
“Non
c’è cinque senza sei”, borbottai senza
senso, afferrando il
bavero della sua camicia e strattonandolo per tirarlo di nuovo contro
di me. Mi
fermai soltanto quando sentii le sue dita insinuarsi dentro la giacca e
al di
sotto della maglietta, a contatto con il fianco nudo: il contatto della
sua
pelle gelida contro la mia, bollente, mi fece rabbrividire e mi
riportò con i
piedi per terra, facendomi staccare quasi con la forza da lui e
strappandogli
di conseguenza un brontolio contrariato.
“Okay. Vado.
Buonanotte”, balbettai, indietreggiando verso lo
sportello e afferrando alla cieca la levetta che l’avrebbe
aperto. Una volta
fuori dalla macchina mi ritrovai a barcollare appena sui tacchi,
disabituata quasi
a stare in equilibrio sulle mie gambe, e mi allontanai verso la veranda
di casa
mia mentre sentivo Enrico accendere il motore e fare manovra per uscire
dal
vialetto di casa. Rimasi a guardarlo appoggiata ad un pilastro fin
quando non
vidi i fari posteriori dell’auto sparire dietro
l’angolo, e quando ciò accadde
sentii uno strano fremito lungo la schiena e nel basso ventre,
nonché un senso
di vuoto all’altezza del petto.
Poteva essere un gentiluomo e tutto il
resto, ma non dovevo
dimenticare che era pur sempre un uomo giovane con i suoi bisogni e i
suoi desideri:
fino a quando avrei potuto tirare la corda, con lui? Non mi sentivo
ancora
pronta per quel passo, volevo
essere
sicura, volevo esserne certa, volevo avere la sicurezza che non me ne
sarei
pentita dopo… Oh, diavolo.
La verità
era che io non la volevo una relazione seria con un
delinquente, e se ci fossi andata a letto questo era proprio
ciò che avrei
ottenuto. Ma la parte peggiore di tutto questo – che io non
sopportavo –
riguardava senza dubbio il fatto che Enrico mi stesse facendo cambiare
idea al
riguardo!
____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Pubblico questo capitolo
praticamente senza rileggerlo, perchè se lo facessi non lo
pubblicherei più visto che non ne sono soddisfatta, dunque
non ho controllato se ci sono incongruenze o grossi errori
grammaticali; abbiate pietà.
Arrivo ad aggiornare con un ritardo talmente terribile che, se
scrivessi per lavoro, sicuramente sarei già licenziata
già da tempo e questa non sarebbe una cosa da scrivere tra
le mie credenzialità. Vi chiedo immensamente scusa, ma
sappiate che non mi sono "grattata" in tutto questo tempo, ma ho avuto
i miei buoni motivi per assentarmi dagli schermi - anche se avrei
preferito di gran lunga non averli. Comunque non è qualcosa
su cui vi voglio tediare, perciò amici come prima e facciamo
finta di niente! ;D
Passando alla storia.
Probabilmente visto l'attesa che avete dovuto sopportare vi sareste
aspettate un capitolo lungo chilometri, pieno zeppo di colpi di scena
(o perlomeno di tanto sesso) e mi rincresce davvero avervi dovuto
deludere anche stavolta. Non so se per il sesso siamo lontani o vicini,
e non ve lo so dire neppure per i colpi di scena, ma posso assicuravi
che cercherò di non far mancare nè l'uno
nè gli altri! xD Al momento godetevi questo ennesimo
capitolo di passaggio (dove, spero, la nostra protagonista sia riuscita
ad aprire un po' di più gli occhi e il cuore ad Enrico -
alle gambe penseremo poi - oggi sono
in fase zozza, scusatemi!) in attesa dell'altro che,
devo ammettere, non ho ancora iniziato a scriverlo e pertanto non posso
promettervi che ci sarà presto. Comunque cercherò
di fare il possibile per muovermi!
Adesso vi saluto,
scappo dalla folla inferocita che credo si sia formata al di
là dello schermo, vi saluto con un bacio per ammansirvi e -
spero - ci sentiamo presto!
PS: Per qualche
astruso motivo a me ignoto, la casella di posta di EFP non mi funziona
molto bene, per cui ricevo in ritardo mail e risposte e finisco per
sembrare maleducata. Proprio ieri ho ricevuto una mail risalente a
settembre, per cui... Se volete scrivermi, chiedermi qualcosa, o
semplicemente per incitarmi ad accelerare nel pubblicare i miei
aggiornamenti (xD) potete contattarmi tranquillamente su Faccialibro!
Di nuovo con affetto,
vostra
Niglia.
|
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Capitolo 26 *** Capitolo XXVI. ***
Capitolo XXVI
Se qualcosa può andar male,
lo farà.
[Primo Assioma della Legge di Murphy]
Mi faceva piacere che la relazione di
Alessandra con il suo
Riccardo stesse procedendo a gonfie vele. In uno dei pochi momenti
liberi che
avevamo entrambe, e che eravamo riuscite a far coincidere, la mia amica
mi
aveva raccontato con una buona dose di imbarazzo, felicità
ed esultanza di aver
risolto già da qualche settimana il
“problema-prima-volta”, ma d’altronde lei
il suo ragazzo lo amava, quindi io continuavo a non riuscire ad
applicare
quella soluzione alle mie attuali circostanze.
Per cui adesso rimanevo solo io quella
con un’attività sessuale
pari allo zero virgola zero. Non che per me fosse un grande problema;
anzi, a
dir la verità non occupava neppure uno dei primi dieci punti
nella lista delle
mie priorità – credo piuttosto che si trovasse tra
il terzultimo e il
penultimo. Adesso, trovavo più urgente il dovermi
preoccupare dell’imminente
rientro a scuola e dell’imminente esame di teoria della
patente.
Nel riprendere in mano i miei libri,
avevo avuto una strana
sensazione di estraneità che in un primo momento mi aveva
lasciata piuttosto
disorientata; pensare di dover studiare normalmente come una qualsiasi
diciottenne che si appresta a frequentare il suo ultimo anno del liceo
stonava
terribilmente con tutto quello che avevo affrontato fino a quel
momento, e
cioè, rispettivamente: un rapimento, un ostinato
“corteggiatore” che per hobby
spacciava, minacciava e – per quel poco che ne sapevo io
– possedeva una
pistola, la morte di mio nonno… Tutte le mie disavventure
estive mi avevano destabilizzato non poco, dunque non
si poteva certo pretendere che avessi la mente abbastanza libera e
serena per
poterla dedicare a un banalissimo studio.
Ad ogni modo, questo fu invece
esattamente ciò che accadde.
Mia madre sembrò aver
compreso alla perfezione il mio furioso
dibattito interiore, forse perché negli ormai pochi momenti
che trascorrevo a
casa nell’illusione di non avere problemi, mi ritrovavo a
gironzolare su e giù
come un’anima in pena, senza, come diceva lei, “trovare un posto dove fare l’uovo”,
dato che il mio nervosismo
crescente mi impediva di rimanere ferma per più di cinque
minuti nello stesso
punto. Una mattina mi prese quindi da una parte e mi fece uno di quei
discorsetti che si suppone le madri facciano alle loro figlie fidanzate
ma con
ancora l’impegno dello studio.
Non ripeterò parola per
parola tutto quello che mi disse, perché
quando mia madre iniziava una delle sue arringhe potevano trascorrere
delle
ore. Il succo dell’intero discorso, comunque, riguardava il
fatto che lei non
voleva in nessun modo che il mio “fidanzatino”
– Dio, sì, furono proprio queste
le sue parole – mi distraesse da cose più
importanti come la scuola; insomma,
era stata giovane anche lei, capiva che cosa succedeva quando la mente
e gli
occhi vedevano cuori dappertutto – sinceramente non avevo
saputo come ribattere
al riguardo, anche perché più che cuori io
iniziavo a vedere dei teschi con le
tibie incrociate sotto – e non mi rimproverava per questo.
Tuttavia, non dovevo
dimenticare che quest’anno avrei avuto l’esame di
maturità, e per questo non
potevo permettermi in alcun modo di distrarmi e dimenticare le mie
priorità –
giusto per tornare a quanto detto poco sopra; continuò
asserendo che le sarebbe
dispiaciuto se anche io avessi fatto il suo stesso errore, vale a dire
perdere
un anno di scuola e venire bocciata perché era stata troppo
presa da mio padre.
Concluse il tutto dicendo che non
metteva in dubbio la mia
intelligenza, e che sapeva benissimo che io ero una ragazza con la
testa sulle
spalle – ciò nonostante, non poté
trattenersi dal minacciarmi velatamente di
impedirmi di vedere Enrico qualora i miei rendimenti scolastici
iniziassero a
scarseggiare. Ammetto che vidi in questo avvertimento un modo per
fuggire
impunemente dal mio Problema Numero Uno, ma così facendo
avrei dovuto andare
male a scuola eccetera pregiudicandomi gli esiti finali del Problema
Numero
Due.
Odiavo dover essere obbligata a
scegliere tra i due mali minori.
Comunque il discorso con mia madre mi
aveva aperto gli occhi e
riportata con i piedi ben saldi per terra; avrei dovuto essere capace
– o
perlomeno avrei dovuto provarci – di far coesistere entrambi
i Problemi nella
mia vita senza che l’uno compromettesse l’altro.
Detta così poteva anche
sembrare fattibile, ma restava da vedere se la pratica fosse davvero
semplice
quanto la teoria lasciava intendere.
Avevo preso, dunque,
l’importante decisione di mettermi con il
sedere sulla sedia e riprendere a studiare, quando naturalmente dovette
accadere qualcos’altro che mi facesse passare la voglia di
farlo.
Di solito, o perlomeno da quando il
nostro rapporto si era stretto
ulteriormente, io e Enrico ci sentivamo parecchio; se non ci
scambiavamo
messaggi ventiquattrore su ventiquattro ci andavamo comunque molto
vicini, e
almeno un sms ogni sessanta minuti avvisava l’altro che tutto
andava bene. In
effetti messa così suonava un po’ paranoica e,
beh, lo era, ma se non gli
rispondevo correvo il rischio che lui andasse di matto – a
meno che,
ovviamente, non gli dicessi che avevo roba da fare – cose da studiare, ad esempio –
e allora mi lasciava tranquilla.
Salvo poi farsi risentire più tardi.
Ecco, il giorno non si fece proprio
sentire. Era una domenica
mattina come tante altre, per cui, anche se non mi aveva mandato il
“messaggio
del buongiorno”, non ci feci molto caso – magari
stava ancora dormendo, la
notte precedente era uscito con i suoi amici e per quanto ne potevo
sapere io
aveva fatto le ore piccole insieme a loro. Tuttavia, non si
svegliò neppure a
mezzogiorno, né nel primo pomeriggio, e neppure la sera;
arrivata all’ora di
cena, devo ammettere di essere stata parecchio preoccupata e anche in
leggera
agitazione. E non perché volessi tenerlo sotto controllo,
santo Cielo, non mi
chiamavo Enrico, ma molto semplicemente perché un simile
silenzio, considerando
che non ci vedevamo da due giorni – da venerdì
– non era da lui.
Così, invece di studiare
come mi ero proposta di fare, trascorsi
l’intera giornata di lunedì a pensare e ripensare
a cosa potesse essergli
successo, tormentandomi all’idea che c’entrasse la
sua seconda vita, senza tuttavia
avere il coraggio di mandargli un
messaggio per prima. Chiedere consiglio ad Alessandra era fuori
discussione; mi
sembrava già di vedere la sua espressione scioccata mentre
mi chiedeva,
gentilmente, se fossi per caso impazzita. Da quando mi preoccupavo per
il mio
stalker personale? Da quando eravamo diventati ancora più
intimi, all’incirca
una settimana prima, quando aveva abbassato tutte le sue difese per
parlarmi
della madre. Non so se era dovuto all’istinto da infermiera
che possiedono
quasi tutte le donne, e che consiste nel sentirsi stringere il cuore
per gli
uomini che hanno bisogno di noi; quale che fosse la ragione, ero
preoccupata e
il mio orgoglio poteva benissimo andare a farsi benedire.
Non fu facile giungere a quella
conclusione, lo ammetto, ma visto
che neppure nella giornata di lunedì Enrico si era fatto
sentire decisi di
farmi accompagnare a casa sua per vedere di persona come stava o,
eventualmente, chiedere ai suoi genitori. Una cosa da fidanzati,
insomma. Oh,
Dio!
Personalmente non avevo idea di dove
abitasse, ma mio padre per
fortuna sì. L’avevo visto aggrottare appena le
sopracciglia quando aveva capito
che volessi essere accompagnata a casa degli Occhi Belli –
ormai si era
informato sulle prime tre generazioni dei D’Angelo, conosceva
perfettamente la
loro reputazione, tanto per essere chiari, ma era dell’idea
che i figli non
dovessero essere pregiudicati dalle azioni dei parenti che li avevano
preceduti; era chiaro che non fosse a conoscenza degli
“hobby” di Enrico, ed
io, da parte mia, non avevo nessuna intenzione di illuminarlo al
riguardo.
Per chissà quale grazia
della buona sorte, almeno lui si astenne
dal farmi la paternale durante il breve viaggio in macchina; e solo
quando
parcheggiò sotto quella che, come mi disse, era casa Occhi
Belli, mi fece
notare che mi stavo presentando a casa del mio ragazzo
– non feci nulla per smentirlo – a mani vuote. A
dir la
verità non mi era neppure passato per la mente che potessi
come minimo portare
dei pasticcini per la sua matrigna o suo padre, dato che il mio unico
pensiero
era quello di accertarmi che Enrico stesse abbastanza bene da poter
sopportare
la mia strigliata.
“Ero troppo preoccupata per
pensare ai cioccolatini, pà”, fu
quello che gli dissi, riuscendo per una volta a sfruttare quella
situazione e
volgerla a mio vantaggio. “Magari glieli porto
domani.”
Tamburellando sul volante al ritmo
della musica proveniente dalla radio,
mio padre annuì. “Okay. Chiama quando vuoi andare
via, non farti invitare a
cena già il primo giorno che vai a casa sua”,
ritenne necessario precisare. Di
certo era il mio ultimo pensiero quello di sedermi a tavola con i suoi
genitori
come se fossimo stati un’allegra famiglia felice…
Mi venivano i brividi
semplicemente nell’immaginarla, una simile visione alla
Mulino Bianco.
“Tranquillo, ti chiamo fra
un paio d’ore. Ciao”, lo salutai,
sporgendomi verso di lui e lasciandogli un bacio schioccante sulla
guancia.
Scivolai giù dall’auto e richiusi lo sportello
alle mie spalle, attraversando
la strada e raggiungendo il portico di casa D’Angelo. Presi
un profondo respiro
e premetti il dito sul citofono, continuando tuttavia a sentire il
rombo del
motore dell’auto di mio padre dietro di me. Se lo conoscevo
bene, avrebbe
aspettato che qualcuno mi aprisse la porta per potersene andare, dunque
non
potevo neanche cambiare idea all’ultimo minuto e fuggire
via… E fu mentre ero
preda di queste considerazioni che la porta si aprì, facendo
apparire
sull’uscio proprio Betta, la matrigna di Enrico.
“Giulia! Cara, che bella
sorpresa”, esclamò sinceramente –
sinceramente sorpresa, intendo. “Quello è tuo
padre? Salve!” Esclamò poi,
sollevando una mano e agitandola in direzione di mio padre. Mi voltai
anch’io
per salutarlo e fargli silenziosamente cenno di andar via,
così dopo aver
salutato entrambe con uno strombettio del clacson lo vidi sparire
dietro
l’angolo. E adesso avevo perso anche il mio unico alleato!
“Su, su, non restiamo qui
fuori. Vieni, accomodati”, continuò
gentile, facendomi cenno di entrare per poi chiudere la porta e farmi
apprezzare la frescura che si respirava dentro casa.
“Mi scusi per il disturbo,
Betta, avrei dovuto telefonare ma non
conoscevo il vostro numero…” Mi giustificai,
stringendo i manici della mia
borsa per mantenere le mani occupate.
“Ma figurati, non dirlo
neanche per scherzo! Vieni in cucina, ti
offro qualcosa. Cosa preferisci, un tè, un caffè,
qualcosa di più forte?”
Aggiunse con un sorrisetto malizioso, facendomi strada. Il corridoio
era molto
ordinato ed elegante, c’erano quadri che rappresentavano
paesaggi o signore di
epoche passate, foto in bianco e nero, mobili con specchi e vasi di
fiori,
soprammobili e ninnoli d’argento come si potevano trovare
dovunque; insomma,
una casa normalissima, con mobili normalissimi… Che cosa mi
aspettavo di
trovare? Un’esposizione di armi da fuoco e teste di cervi
appese alle pareti?
Dandomi silenziosamente della stupida,
seguii Betta fino alla
cucina che era senza dubbio molto bella, elegante ma moderna allo
stesso tempo.
Mi fece cenno di accomodarmi su uno degli sgabelli della penisola che
divideva
l’angolo cottura dalla zona pranzo, e senza quasi aspettare
una mia risposta
prese ad armeggiare con caffettiere, zucchero e bicchieri.
“Allora, cosa
gradisci?” Mi chiese nuovamente, voltandosi con un
gran sorriso come se avesse appena realizzato che non le avevo ancora
risposto.
“Il caffè
andrà benissimo, grazie.” Replicai, ricambiando il
sorriso un tantino intimidita.
“Perfetto, lo prendo anche
io. Ti va bene se non è decaffeinato? Perché
non credo che ci sia quello, in dispensa…” Fece
poi, aggrottando la fronte
preoccupata.
“Oh, certo, certo, non lo
prendo mai decaffeinato”, mi affrettai a
rispondere, sorridendo con un po’ meno di agitazione. Ecco,
stava andando bene,
no? Fra pochi minuti avrei potuto prendere l’argomento che mi
premeva di più.
Forse, se avessi trovato il coraggio…
“Perfetto.”
Ripeté con l’ennesimo sorriso, dandomi le spalle e
preparando la caffettiera. Fece il tutto canticchiando a mezza voce,
così io
ebbi tutto il tempo per studiare l’ambiente e osservare
meglio la donna che
aveva sposato il padre di Enrico. Lui ne parlava sempre come una
seconda mamma
amorevole e gentile, e non mettevo in dubbio che questo fosse vero
– si vedeva
che era una persona splendida – ma sinceramente io non sapevo
se sarei stata
capace di accettare così ciecamente che qualcuno prendesse
il posto di mia
madre… Forse parlavo così perché non
sapevo cosa si provava, o perché avevo una
mentalità già più adulta e con le idee
più chiare di quelle che poteva avere un
bambino di otto anni.
“Allora!” La sua
voce mi fece tornare con i piedi per terra,
obbligandomi a prestarle attenzione. “Visto che a lui certe
cose non posso
chiederle, mi permetto di indagare con te… Si sta
comportando bene Enrico?
Guarda, mi basta una tua parola e te lo rimetto in riga!”
Rimasi leggermente sconcertata per
quell’improvviso salto al
nocciolo della questione, ma poi non potei fare a meno di ridacchiare
nell’afferrare il senso delle sue parole. “No no,
ci mancherebbe altro… Va
tutto bene”, fu l’unica cosa che potei rispondere.
Di certo non potevo parlare
con sua madre di tutte le mie fisime mentali!
“Mi fa piacere”,
sorrise di nuovo lei, improvvisamente addolcita. “Non
dirgli che te l’ho detto, per carità, ma ho capito
che lo stai facendo penare e
fai bene! Una ragazza deve farsi desiderare, e l’uomo deve
capire chi è che ha
il comando del gioco”, proseguì, abbassando la
voce con fare cospiratorio.
Era appurato: Betta mi piaceva.
Arrossii un po’ imbarazzata
e sollevai le spalle, senza ben sapere
cosa dire. Per fortuna, il rumore del caffè che saliva e
della caffettiera che
sbuffava mi levò dall’impiccio di rispondere.
Betta preparò le tazzine, le mise
su un vassoietto di legno insieme alla zuccheriera e ai cucchiaini e
portò il
tutto davanti a me, prima di prendere posto sullo sgabello frontale al
mio.
Dopo i convenevoli di rito –
quanto zucchero, eccetera – e aver
assaggiato due sorsi di caffè, posai la mia tazza sul
piattino e presi un
profondo respiro. “A proposito di
Enrico…” Esordii con cautela, senza sollevare
lo sguardo per non incrociare quello della donna. “Sono
venuta per sapere come
sta. Non si è fatto sentire da un po’, e non
è da lui, e ho pensato che potesse
essere… ecco, non so, malato?” Conclusi
miseramente, sentendomi sempre più
imbarazzata ad ogni parola che mi usciva di bocca.
Betta si era fatta stranamente
silenziosa e il rumore del suo
cucchiaino che ruotava nella tazzina per sciogliere lo zucchero
rallentò
notevolmente, graffiando il fondo. “Pensavo che te
l’avesse già raccontato lui,
e che fossi venuta apposta per vederlo”, replicò
lei dopo un po’, usando se
possibile più prudenza di quanta ne avessi usata io.
Allora sollevai gli occhi su di lei,
improvvisamente allarmata.
“Perché? Cosa…
Cos’è successo?”
La vidi chiaramente mordicchiarsi il
labbro inferiore, palesemente
in lotta contro sé stessa, dopodiché
abbandonò caffè e cucchiaino e si alzò
in
piedi, accennando un sorriso che era solo l’ombra di quelli
che l’avevano
preceduto. “Vado a controllare se si è svegliato,
così lo vedrai di persona e
smetterai di preoccuparti”, cercò di rincuorarmi,
benché il tentativo fosse, lo
ammetto, inutile. “Finisci il caffè, cara, faccio
in un attimo.”
Inutile dire che la voglia di bere
caffè mi era improvvisamente
passata.
Mi alzai dallo sgabello,
perché stare seduta non avrebbe giovato
al mio attuale stato d’animo; iniziai a gironzolare avanti e
indietro per la
cucina, mordicchiandomi le unghie e cercando di capire per quale motivo
Betta
avesse fatto quella faccia quando le avevo chiesto di Enrico. Che cosa
diavolo
gli era successo? Se avesse avuto un semplice incidente me
l’avrebbe detto, no?
Ma, visto che non l’aveva fatto, non potevo che prendere in
considerazione
l’idea che c’entrassero davvero i suoi loschi
traffici… Accidenti a me, perché
mi ero fatta trascinare in tutta quella storia? Che avevo fatto di male
nella
mia vita precedente?
Con un sospiro mi avvicinai alla
porta-finestra, affacciandomi
verso l’esterno e scoprendo un cortile interno sul quale si
affacciavano altre
abitazioni – stranamente, tutte con serrande abbassate e
finestre chiuse, come
se non ci abitasse nessuno: magari i proprietari erano tutti in
vacanza,
d’altra parte eravamo appena ai primi di settembre. Ero
perfettamente
consapevole di fare quelle considerazioni per tenere la mente occupata
e non
pensare ad Enrico, ma mentre osservavo il porticato che percorreva il
perimetro
del cortile, come gli antichi chiostri dei monasteri, mi
colpì il pensiero che
forse, molto semplicemente, Enrico non voleva più vedermi,
si era già stancato
di me! Ma certo, come avevo fatto a non pensarci subito? E io, che
idiota, mi
ero anche preoccupata e avevo subito pensato al peggio…
Adesso Betta sarebbe
tornata in cucina e mi avrebbe detto che lui stava ancora dormendo e
che
sarebbe stato meglio, per me, tornare un’altra
volta… ma in realtà io avrei
saputo benissimo che Enrico le aveva detto di non volermi vedere e di
inventarsi una scusa per mandarmi via! Sì, sì,
doveva essere per forza così!
Finalmente era tutto finito, e io
sarei potuta tornare alla mia
vita di sempre, ai miei amici, anche al mio studio, senza avere
ulteriori
problemi da gestire. Ah, da quanto tempo stavo aspettando quel momento?
Avrei
voluto sospirare di sollievo, ma stranamente non ci riuscii: il sospiro
venne
naturale, certo, ma non ero sicura che si trattasse di un sospiro di
liberazione, dato che invece di alleggerirmi da quel peso che avevo sul
petto
sembrò accentuarlo. Che strano… Davvero molto,
molto strano. Aggrottai le
sopracciglia, sempre fissando un punto indefinito del cortile, cercando
di
capire perché quella scoperta non sembrava rilassarmi come
invece avevo
immaginato che facesse, ma prima di potermi inoltrare anche in quei
ragionamenti sentii i passi di qualcuno scendere le scale e dirigersi
verso la
cucina, e poi la voce di Betta far breccia nel mio silenzio.
“Vieni, Giulia, Enrico si
è svegliato! Scusa se ti ho fatto
aspettare”, aggiunse con un mezzo sorriso, palesemente
più tranquilla e serena
di com’era stata poco prima.
Beh, non mi aspettavo neppure quello
– perché non mi aveva fatto
mandare via? Accennando un sorriso per non far preoccupare Betta,
annuii e la
seguii docilmente attraverso un altro piccolo corridoio e poi fino alle
scale,
che tuttavia mi lasciò percorrere da sola.
“Ultima porta a sinistra del
corridoio, accanto allo specchio a
muro”, mi spiegò, sorridendo e facendo anche un
occhiolino malizioso.
“Grazie…”
Risposi, cercando di non arrossire. Iniziai a fare le
scale e a contare silenziosamente i gradini, una cosa che facevo
sempre, sin da
quando avevo memoria, in tutte le scale che mi ritrovavo a percorrere,
e dopo
aver appurato che ci vollero venticinque gradini per arrivare al primo
piano,
mi guardai intorno e poi girai a sinistra.
Anche qui, il corridoio non aveva
nulla di preoccupante; c’erano
appendiabiti con giacche e giubbotti maschili, mobili in legno con
altre foto
ma in minore quantità rispetto al piano di sotto, una
piccola vetrinetta con
oggettini d’argento, cristallo e cose varie, e quadri con
foto color seppia di
spiagge, scogliere e panorami che io riconobbi come scorci del nostro
paese.
Chissà chi le aveva scattate? Non credevo che Enrico avesse
anche l’hobby della
fotografia. Comunque non avevo tempo di inventarmi altri sciocchi
argomenti, ne
avevo già abbastanza nel mio ordine del giorno di roba di
cui parlare. Giunta
davanti alla porta di Enrico sollevai una mano ma rimasi per cinque
minuti
buoni in quella posizione, immobile, senza osar palesare la mia
presenza. Mi
rendevo conto che mi ero messa da sola in quella situazione? Che ero
finita di
mia volontà nella tana dei serpenti? Certo, non ero stupida,
me ne accorgevo
perfettamente. Però tra il riconoscere una cosa e trovare il
coraggio di
portarla fino in fondo ce ne passava di mare, in mezzo…
Non avevo problemi ad ammettere di
essere una codarda, insomma,
che male c’era? Per cui abbassai la mano e indietreggiai di
un passo, già
pronta ad inventarmi una scusa e andare via… Ma
così sarebbe stato troppo
facile, vero?
“Entra, Giulia, lo so che
sei lì fuori…” Fece la voce profonda di
Enrico, attraversando il legno della porta e pietrificandomi in mezzo
al
corridoio. Merda!
A quel punto non potevo più
posticipare il momento critico, quindi
abbassai la maniglia ed entrai quasi in un unico movimento, con lo
stesso gesto
secco e deciso che fanno i dentisti per togliervi un dente.
“Però, che
udito”, ironizzai non appena misi piede nella sua
stanza, rimanendo tuttavia a distanza di sicurezza contro la porta.
“Beh, ti ho sentita salire
le scale e fare tutto il corridoio,
dubitavo che ti fossi volatilizzata proprio davanti alla mia
stanza”, ribatté
con un sorrisetto.
Mentre mi rispondeva, registrai che la
sua camera da letto era
almeno il doppio, per non dire il triplo, della mia. Un armadio, di
quelli con
le ante a scrigno, occupava tutta una parete, e possedeva uno specchio
alto e
stretto che divideva a metà il mobile; la scrivania era
sulla parete opposta, e
sopra c’era solo un computer con lo schermo ultrapiatto che
le dava un aspetto
ordinato ed elegante, mentre nelle mensole al di sopra di essa
c’erano DVD a profusione, libri e una macchina
fotografica professionale – il
che quindi mi confermava l’altro hobby, quello umano,
di Enrico. Due porte si trovavano ai lati della scrivania,
che supposi essere una quella del bagno e l’altra quella di
una cabina armadio
o semplicemente di un ripostiglio. Infine, il letto matrimoniale era
posto
proprio al centro della stanza, con la testiera contro il muro e sotto
una
finestra larga e bassa, e sopra il letto, ovviamente, c’era
lui, seduto in
mezzo ai cuscini. Ah, e di fronte al letto c’era
un’altra parete-libreria con
al centro un’enorme televisore al plasma. Già,
perché privarsene?
Tornando ad Enrico, vidi chiaramente
che non era in ottima forma.
A parte il pallore del viso e le occhiaie scure, che comunque non gli
avevo mai
visto, sembrava avere il braccio sinistro un po’ troppo
rigido, come se gli
facesse male o fosse bendato strettamente; purtroppo, dato che
indossava una
maglietta a maniche corte, non potevo vedere se la spalla era fasciata
o cose
del genere.
“Stavo sperando che ti fossi
riaddormentato”, inventai per
rispondere alla sua provocazione, anche se la cosa aveva un fondo di
verità.
Mi aspettavo che ridacchiasse o che
replicasse con qualche altra
battuta maliziosa, e invece si limitò a sorridere e a farmi
cenno di
raggiungerlo, battendo la mano destra sul materasso per incitarmi a
sedermi lì.
Beh, se stava male non poteva di certo approfittarne, no?
Presi posto sul bordo del letto,
mantenendo comunque una certa
distanza di sicurezza, e intrecciai le mani in grembo, studiando Enrico
da
vicino e ignorando il sorrisetto con il quale stava ricambiando il mio
studio
silenzioso. “Allora, cosa ti è
successo?” Sbottai, forse un po’ più
duramente
di quanto volessi. “Tua madre… Betta…
Mi ha fatto capire che credeva che tu mi
avessi già raccontato ogni cosa e che fosse per questo che
sono venuta, ma tu
non mi hai detto niente, e non credi che sia il caso di
farlo?”
Enrico sembrò piuttosto
sorpreso per la mia mezza sgridata.
“Accidenti… Eri preoccupata per me?
Davvero?” Fu la cosa più intelligente che
riuscì a dire, riprendendo l’espressione a
metà tra l’arroganza e la
provocazione.
“Perché questo
tono sorpreso?” Lo aggredii quasi, alzandomi per
evitare di scrollarlo come le mie mani mi stavano implorando di fare.
“Dici che
vuoi frequentarmi, che ti piacerebbe se fossimo una coppia normale, e
poi
quando succedono i casini non mi dici niente e pretendi anche che io
non mi
preoccupi? Cazzo, Enrico, stare insieme non è solo andare a
cena fuori e
baciarsi! Se è così che hai intenzione di farla
continuare, questa cosa, allora
è meglio se la finiamo qui!”
Il mio sfogo mi aveva preso talmente
alla sprovvista che non mi accorsi
subito di ciò che mi era uscito di bocca, né
tantomeno del significato che
avevano quelle parole. Mio Dio, gli avevo davvero fatto capire che io
ci
consideravo una coppia? A giudicare dall’espressione
sbalordita – e anche un
po’ compiaciuta, dannazione a lui! – di Enrico, sì, era esattamente quello che
avevo appena fatto. Anche se non
sapevo cosa fosse peggio, tra quello e la scenata da fidanzatina
apprensiva.
Mi passai nervosamente una mano tra i
capelli e mi allontanai dal
letto, avvicinandomi alla scrivania e continuando a dare le spalle a
Enrico per
evitare di ritrovarmi a fissarlo. Adesso mi avrebbe torturato
all’infinito
ricordandomi quella scenata, ne ero certa! Se anche era esistita una
via di
scampo a quella storia malsana che stava uscendo fuori tra me e lui,
non
c’erano dubbi che l’avessi appena persa. Non era
stata una grande idea quella
di andare a trovarlo, dopotutto.
Fu lui il primo a riprendere la parola
dopo quello sfogo. “Mi
dispiace, Giulia. Avrei dovuto avvisarti”, disse con un tono
sorprendentemente
gentile, che non mi aspettavo. “Ma ho perso il cellulare e
non sapevo come
rintracciarti, inoltre… Pensavo ti avrebbe fatto piacere
passare qualche giorno
in tranquillità, senza avermi tra i piedi.”
Il modo quasi prudente con cui
pronunciò quell’ultima frase mi
strappò un mezzo sorriso sarcastico che, grazie al Cielo,
lui non poté vedere. “Come
faccio a stare tranquilla se so che ogni volta che tu e i tuoi amici vi
incontrate non è per guardare insieme una
partita?” Ribattei in un sussurro,
aggrappandomi al bordo di legno della scrivania e abbassando
leggermente le
spalle.
Il suo silenzio confermò i
miei timori, e a quella consapevolezza
fece eco un brivido che mi corse lungo la spina dorsale. Sarebbe
stato ogni volta così, se quello strambo rapporto si
fosse…
evoluto? Avrei dovuto vivere per sempre nel terrore di non
vederlo
ritornare a casa, un giorno, dopo una di quelle
serate?
“Per favore, vieni qui.
Giulia… Torna a sederti, mi fa troppo male
la gamba per alzarmi”, disse dopo un po’ con
incredibile dolcezza, spingendomi
mio malgrado a voltarmi e a raggiungerlo seppur con non poca
incertezza.
Qualcosa nella mia espressione dovette colpirlo, perché per
quanto possibile
cercò di raddrizzarsi spingendo la schiena contro i cuscini
e si avvicinò di
più al bordo del letto, dove io mi ero appena riseduta.
“Ascolta, non è
successo niente, va bene? Guarda, sono tutto
intero, un po’ dolorante forse, ma niente di
grave”, proseguì ostinato,
passandomi un braccio intorno alla vita ma senza riuscire a farmi
sollevare gli
occhi su di lui. Stavo cercando di non sfogare lo stress e lo shock di
quelle
nuove scoperte e di non scoppiare a piangere, ecco qual era la
verità, non
volevo di certo che lui mi vedesse in quelle condizioni!
“Giulia, guardami
almeno. Cosa ti costa?” Insisté.
Sospirai seccata ma gli obbedii, anche
se così facendo mi accorsi
che eravamo troppo vicini per poter instaurare una vera e propria
discussione.
“Insomma, si può sapere cosa cavolo è
successo? Pensi di dirmelo entro oggi?”
Lo incalzai a mia volta, scoprendo che il mio livello di pazienza
doveva
essersi abbassato notevolmente, negli ultimi tempi.
“E tu sei sicura di volerlo
sapere?” Replicò, pronto.
“Perché un
conto è venirle a sapere dagli altri, certe cose, e un altro
è conoscerle nude
e crude dal diretto interessato; e io non voglio in nessun modo che
quello che
faccio ostacoli o pregiudichi la nostra relazione.”
Oddio, aveva letto le parole magiche
– aveva detto nostra e relazione tutte attaccate e nella stessa
frase, per di più, e io
non ero neppure nella presenza di spirito di dirgli qualcosa per
contraddirlo!
Comunque decisi per il momento di lasciar perdere quella faccenda e di
dedicarmi all’altra, assai più urgente. Mi
districai dal suo abbraccio e
scivolai a sedermi più giù, all’altezza
delle sue ginocchia, tanto per
intenderci, a una distanza sufficientemente sicura da permettermi di
guardarlo
in faccia e contemporaneamente di scampare alle sue mani polipose. Non
era una
cosa carina da pensare, me ne rendo conto, ma al momento desideravo
ridurre al
minimo sindacale i contatti fisici. Non si può litigare con
qualcuno che ti sta
abbracciando!
“La nostra relazione, come
la chiami tu, è stata pregiudicata da
questo sin da quando è iniziata”, esordii,
riuscendo persino a suonare piuttosto
decisa. “Se tu non fossi stato… così…
Non mi avresti mai rapita e costretta a frequentarti, tanto per dirne
una,
quindi ritengo che i tuoi rimorsi arrivino un po’ in ritardo.
Ora, se vuoi
parlare benissimo, ti ascolto! Ma se non mi vuoi spiegare per quale
motivo sei
in queste condizioni, come se ti fossero passati sopra con
un’auto, allora non
vedo perché dovrei restare a fingere che vada tutto bene. Non va tutto bene, Enrico, mettitelo in
testa.”
Sembrava proprio che il mio breve
discorsetto avesse fatto breccia
nel suo muro di cemento, e non potei che sentirmi intimamente
orgogliosa al
riguardo. Il suo viso si era fatto una maschera di cera, pareva essersi
immunizzato da qualunque espressione, ma mi sembrava quasi di poter
scorgere
nei suoi profondi occhi verdi una qualche lotta interiore che stava
assorbendo
i rimasugli delle sue forze. Bene, era ora che mettesse un minimo in
discussione le sue azioni!
“A quanto pare sono
indifendibile”, ammise alla fine, senza alcuna
traccia di sarcasmo o presa in giro nel tono di voce. Mi
fissò dritto negli
occhi e da quello compresi che aveva intenzione di svuotare il sacco,
per cui
mi feci tutta orecchi. “Va bene, ti racconterò
tutto: tanto non c’è molto da
dire. Sabato sera io e i ragazzi siamo usciti per i nostri
affari…
Probabilmente Riccardo ti ha già spiegato ogni cosa,
comunque voglio
rinfrescarti la memoria: vendiamo droga. La vendiamo perché
quello degli
stupefacenti è un mercato che diventa più
redditizio ogni anno che passa, se si
è abbastanza abili da non abbassarsi ai livelli di chi li
compra. Nessuno dei
miei ne ha mai assaggiato un solo grammo, credimi, da quel punto di
vista siamo
perfettamente puliti. Dunque, tornando a sabato… Siamo
andati al solito posto e
ci siamo divisi: io ero con Stefano e Alberto, gli altri erano sparsi
per il
locale. All’inizio la serata sembrava tranquilla, per quanto
possa esserlo un
posto dove si spaccia e dove i bagni sono il punto di ritrovo di quella
gente…
Ma poi, dal nulla, sono sbucati fuori
un paio di tizi che non avevo mai visto prima e che ci hanno intimato
di uscire
nel parcheggio, minacciando, in caso contrario, di sputtanarci con i
proprietari del locale. A quel punto dubitavo che sapessero che ero
praticamente io il proprietario, comunque per non mettere in pericolo
le
persone che stava cercando di divertirsi abbiamo preferito uscire e
assecondarli; noi eravamo in tre, loro solo in due, quindi non mi
è sembrato
necessario chiamare anche Lorenzo e gli altri.
“Ovviamente, avrei dovuto
immaginare che dei tipi così non
avrebbero affrontato me e i miei ragazzi a mani vuote e senza prima
essersi
organizzati, ma a mia discolpa posso dire che credevo fossero leali
anche in
una cosa come quella. Invece no. Non appena ci siamo allontanati il
tanto
necessario da essere fuori portata dai buttafuori, siamo stati
raggiunti dai
loro complici, altri cinque poveracci che avevano voglia di passare un
sabato
sera diverso. Abbiamo cercato di essere civili e parlare, ma quelli
hanno
tirato fuori i coltelli e sono passati alle maniere forti. Capisci che
non
potevamo fare altro che contraccambiare…
“Comunque, non è
morto nessuno. Noi non avevamo coltelli e, pur di
non ricorrere ad altro, ci siamo limitati a schivarli e stenderli con
calci e
pugni, ma mi hanno preso di striscio al braccio”, si
toccò leggermente la
spalla sinistra, socchiudendo gli occhi come se il ricordo gli facesse
ancora
male. “Appena hanno visto la mia camicia macchiarsi di sangue
sono fuggiti.
Probabilmente volevano solo menare un po’ le mani e non
volevano uccidere
nessuno, e credo che non torneranno più a darci fastidio.
Hanno voluto fare
un’uscita in grande stile, però, e mentre
scappavano in macchina ci sono venuti
addosso e mi hanno spinto per terra, per questo ho sbattuto la gamba e
non
riesco a muoverla bene, ci sono finito sopra con tutto il peso. Il
cellulare
devo averlo perso quando sono caduto.”
Lo fissai a dir poco inorridita. Non
sapevo che cosa si aspettasse
che dicessi o facessi, ma sicuramente doveva aver messo in conto che mi
sarei
scostata non appena avesse cercato di toccarmi.
“Giulia…”
Mi ammonì a mezza voce, con l’aria di chi stava
pensando: ‘Visto? Sei tu che hai
voluto
sapere, adesso non fare la vittima delle circostanze’.
Sollevai una mano per zittire
qualsiasi cosa volesse aggiungere.
“Per favore. Lasciami cinque minuti per assorbire il
tutto”, borbottai,
alzandomi in piedi e facendo un sospiro così profondo che mi
sentii svuotare i
polmoni per una manciata di secondi. Mi poggiai sul davanzale della
finestra e
mi afferrai la testa tra le mani, chiudendo gli occhi: avevo
l’impressione di
essermi appena destata da un incubo lungo e sanguinoso, ma la
sensazione di
nausea l’aveva provocata la consapevolezza che fosse tutto
vero.
“E hai anche avuto il
coraggio di dirmi di non preoccuparmi?”
Aggiunsi amaramente dopo un lungo intervallo di silenzio, senza
tuttavia
voltarmi verso di lui ma continuando a fissare il nero delle mie
palpebre
chiuse. Non mi accorsi subito di stare tremando come una foglia.
Mi parve di udire un gemito soffocato,
un leggero tonfo e uno
spostamento d’aria quando Enrico mi raggiunse alla finestra,
fermandosi alle
mie spalle; quel letto doveva avere le doghe in legno, visto che non
avevo
sentito lo scricchiolio tipico della rete in metallo quando si era
alzato.
“Giulia.”
Ripeté, stavolta con un’intonazione più
gentile. Ma io
scossi la testa, senza rispondere né tantomeno girarmi,
desiderando solo di
essere miglia e miglia lontana da lui e da tutti i casini in cui,
volente o
nolente, mi stava trascinando. Buon Dio, mi aveva appena raccontato di
quella
specie di regolamento di conti con la stessa nonchalance con cui io gli
avrei
raccontato della scuola! Non era normale, cazzo, non era normale per
niente!
Allora, senza dar segno di aver
compreso i miei desideri, si
avvicinò e premente contro la mia schiena facendola aderire
al suo petto, mi
circondò la vita con il braccio che non gli faceva male e mi
strinse contro di
sé, seppellendo il viso tra i miei capelli. Lo sentii
respirare piano nella
zona delicata tra l’orecchio e la pelle del collo, e le sue
labbra che si
muovevano contro quel punto mi fecero il solletico.
“Va tutto bene, tesoro,
tutto bene”, stava sussurrando, dolce come non
l’avevo mai sentito. “Ti chiedo
scusa per non averti detto niente, ma ora capisci il motivo per cui non
l’ho
fatto?... Non voglio che questo ci separi, Giulia, so anche che non
posso
chiederti di accettarlo, o capirlo, ma solo di prenderla
così com’è, come una
parte di me che non puoi cambiare, come il mio naso o la mia
bocca…” Il flebile
tentativo di scherzare morì ancora prima di poter essere
recepito. “So soltanto
che ti voglio al mio fianco. So che è una cosa egoista, ma
voglio che ti
preoccupi per me come hai fatto oggi, voglio che sia sempre
così… Ormai non
riesco più ad immaginarmi senza di te. Capisci quello che ti
sto dicendo? …non
importa, lo capirai. Giulia, Giulia… Puoi piangere, se vuoi.
Basta che lo fai
contro di me, così… Ecco.”
Solo in quel momento mi accorsi che le
lacrime avevano
effettivamente preso il largo, e allora non riuscii più a
frenarle né a
trattenermi, dato che avevano già atteso abbastanza per
poter uscire. La triste
realtà era che quel pianto era stato causato da Enrico, ma
purtroppo qualcosa
mi diceva che lui era anche l’unico che poteva capirle e
asciugarle. Rimasi a
piangere in quella posizione per non so quanto tempo, senza muovermi
né voltarmi,
continuando a nascondere il viso tra le mani e trattenendo almeno i
singhiozzi
più violenti, con Enrico piegato contro la mia schiena e le
sue braccia,
entrambe, avvolte attorno a me. Come un guscio protettivo.
Enrico… Protettivo?
Stavolta ero davvero in guai seri.
____________________________________________________________________________________________________________
Angolo
Autrice.
Ebbene, non ho scusanti per il terribile ritardo con cui mi presento
nuovamente.
Molti di voi si saranno comprensibilmente dimenticati di me, di questa
storia, di Enrico e di Giulia, ma a coloro che sono eroicamente
sopravvissuti all'attesa dico: questo capitolo è la mia
Chiave di Volta, per finire non manca molto, forse quattro o cinque
capitoli, e - spero - non li pubblicherò a distanza di otto
mesi l'uno dall'altro. Ma, conoscendomi, non si può mai
sapere....
Grazie ai gentilissimi che hanno recensito lo scorso capitolo, grazie a
chi continua ad aggiungere la mia storia alle Seguite o alle Preferite,
il piacere che mi fate anche a distanza di tutto questo tempo
è talmente grande che non sono capace di descriverlo!
Con la speranza di risentirci il prima possibile, vi lascio anche
stavolta con un bacio e un abbraccio. Sempre vostra,
Niglia.
|
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Capitolo 27 *** Capitolo XXVII. ***
Capitolo XXVII.
Che cos’è
l’amore?
Io non ero mai stata innamorata,
dunque non lo sapevo. Non ne
avevo proprio la più pallida idea! Voglio dire, al liceo
avevo avuto modo di
studiare diverse poesie e componimenti vari che trattavano
l’argomento, ma,
tanto per cominciare, erano tutti scritti da uomini: e di conseguenza
non avevo
mai esaminato la visione femminile di tale sentimento. C’era
chi paragonava l’amore
a un dolore che strazia l’anima, chi a semplice affetto o a
qualcosa di
platonico, incorporeo, chi a uno struggimento che portava a desiderare
l’altra
persona in qualsiasi momento e ora del giorno, a desiderare una sua
carezza, un
suo abbraccio, persino la sua risata o il suo sorriso, o anche solo uno
sguardo.
La mia migliore amica, nel periodo di nero cinismo che aveva
attraversato dopo
che il suo ultimo ragazzo l’aveva trattata come uno
straccetto da prendere e
buttare a seconda del momento, e che, per inciso, era durato fino a
quando non
aveva incontrato Riccardo, aveva definito l’amore come
l’alibi che utilizzano
gli esseri umani per giustificare e mascherare il bisogno di sesso.
Non mi era mai piaciuta
particolarmente quella definizione, ma in
mancanza di esperienze personali dovevo farmi bastare le opinioni delle
mie
amiche, dato che andare da mia madre, a diciotto anni suonati, e porle
una
domanda simile avrebbe richiesto una dose di coraggio e faccia tosta
che io non
credevo di possedere.
In parole povere, avevo bisogno di
circoscrivere i miei sentimenti
all’interno di una categoria specifica, di dar loro un nome,
una forma, uno
scopo; se avessi saputo di essere innamorata, o comunque di esserci
vicina,
molte cose sarebbero cambiate. Tuttavia, chi e che cosa mi assicurava
che la
mia non era una semplice cotta? Poteva anche essere. E, se
così fosse stato, io
non avevo nessunissima intenzione di bruciare i migliori anni della mia
vita
per stare appresso a qualcuno che aveva una vita tanto incasinata da
non essere
secondo a nessuno, in nome di una misera ed effimera cotta.
Una cotta avrebbe dovuto permettermi di vivere un’esperienza
allegra, tranquilla, spensierata! Tutto l’esatto contrario di
quello che,
invece, la cosa con Enrico stava
facendo passare a me.
Mentre per un amore vero, di quelli
con la A maiuscola di cui film
e libri si sprecano tanto a parlare, beh, per qualcosa del genere avrei
anche
potuto fare uno o due sacrifici. Ma questo mi riportava al quesito
iniziale:
che cos’era l’amore? Come avrei fatto a
riconoscerlo come tale, accidenti?
Io avevo paura, sì, una
paura marcia – non avevo la forza
necessaria di chiudere gli occhi e buttarmi in una storia seria, in una
storia
di quel tipo in particolare; primo, perché ero ancora troppo
giovane e a dirla
tutta avevo programmato di imbarcarmi in una storia importante
eventualmente
solo dopo l’università, e secondo
perché Enrico non era esattamente il tipo di
ragazzo che io mi ero aspettata di avere al mio fianco, un giorno. Per
carità,
era bello, gentile, ricco – per quanto la sua fortuna
derivasse da dei
“mercati” di dubbia moralità –
però era un criminale, porca miseria, era un
mafioso, come l’aveva più volte chiamato
Alessandra!
Dubitavo che qualche poeta o scrittore
del passato avesse
affrontato un tema del genere. O forse sì? Oddio –
l’improvvisa immagine di
Enrico nei panni di un moderno Don Rodrigo mi balzò in mente
come se stesse
aspettando il momento più opportuno per saltare fuori,
strappandomi una
risatina isterica che dovetti seppellire nel cuscino per evitare di
svegliare i
miei genitori addormentati dall’altra parte del corridoio. In
effetti gli
elementi c’erano tutti, aveva persino i bravi al suo comando!
Era proprio vero
che la realtà superava la fantasia, personalmente non mi
sarebbe nemmeno venuta
in mente una storia del genere, a volerla inventare.
Tirando via le coperte dal letto,
scivolai per terra e mi diressi,
scalza, al piano di sotto. Visto che dormire si stava rivelando
impossibile,
almeno avrei ingannato l’attesa mangiando qualcosa che non
fossero le mie
povere unghie ormai martoriate. Provai, quindi, a passare in rassegna
per
l’ennesima volta i miei sentimenti, mentre spalmavo una buona
dose di nutella
su una fetta di pane – non c’era niente di meglio
che del buon cioccolato per
rinfrancare lo spirito.
Desideravo
Enrico?
Questa era una domanda piuttosto imbarazzante, e mentre
rimproveravo a mezza voce me stessa per essermela posta, realizzai che
forse i
miei problemi non erano tutti legati a lui. Con un sospiro, mi portai
un dito
sporco di nutella alle labbra e riflettei attentamente sulla risposta,
confidando che il sapore del cioccolato mettesse in moto gli ingranaggi
del mio
cervello.
Se per desiderare si intendeva un
desiderio puramente fisico, va
bene, non avevo grossi problemi ad ammetterlo: Enrico era un bel
ragazzo, molto
più che bello, a dirla tutta, e soltanto un cieco o qualcuno
con gusti
differenti non l’avrebbe trovato seducente e desiderabile.
Persino Alessandra
aveva dovuto convenire sul fatto che il mio stalker personale fosse un
esemplare della razza maschile di tutto rispetto! Per cui, va bene, mi
piaceva
e mi sentivo attratta da lui, altrimenti non avrei saputo spiegare il
brivido
che mi provocavano i suoi baci e le sue lievi carezze, quando le sue
mani
indugiavano a sfiorarmi i capelli… A quel ricordo mi sentii
le guance in fiamme
e tossicchiai, riuscendo a farmi andare di traverso anche la fetta di
pane.
Persino Enrico pareva aver afferrato il succo del problema, quando mi
aveva chiesto
se, per caso, non avessi paura di desiderarlo
troppo. Allora non gli avevo risposto, ma in effetti aveva
ragione, che
diamine!
Comunque almeno questa cosa
l’avevo appurata e, in un certo qual
modo, anche accettata.
Un’altra questione di non
scarsa importanza era: lo trovavo simpatico?
Già qui la
faccenda si faceva un poco più difficile. Potevo davvero
dire di provare
simpatia per qualcuno che avrei volentieri preso a schiaffi un momento
sì e
quello dopo pure, a causa della sua irritante arroganza e dei suoi modi
di fare
da “Padrino” della situazione? Va bene,
sì, lo
ammetto – avevo trascorso delle serate piacevoli
insieme a lui, mi aveva
fatto ridere, aveva una conversazione sciolta e brillante e con lui si
poteva
affrontare qualsiasi argomento: se questo me lo rendeva simpatico, che
male
c’era? Certo, poi c’erano gli atteggiamenti da
fidanzato ossessivo e geloso che
avrebbero fatto girare le scatole anche a un santo – insomma,
mi faceva seguire
dai suoi amici per tenermi d’occhio! – ma queste
cose, eventualmente, si potevano
modificare… no?
Ma non era certo finita
così. La domanda più importante in
assoluto era questa: che cosa diavolo
provavo per lui? Purtroppo, qui nessuno mi avrebbe potuto
aiutare.
***
Dato che quella notte, alla fine, non
ero riuscita a dormire,
finendo con il trascorrere le rimanenti ore di buio a fare zapping alla
televisione, decisi che l’unica che poteva davvero darmi una
mano era la mia
geme; sapevo perfettamente quello che pensava di Enrico – non
si era mai
lasciata sfuggire un’occasione per rimarcarlo più
e più volte – ma allo stesso
tempo era anche la sola a conoscermi abbastanza bene da poter cogliere
certi
segni con indiscutibile accuratezza.
Le mandai un messaggio non appena
sorse il sole, e dovetti
attendere giusto un paio d’ore prima che mi rispondesse. Se
aveva fatto così in
fretta la spiegazione poteva essere solo una: era rimasta a dormire da
Riccardo, e io le avevo rovinato il risveglio romantico. Che tempismo!
Ma, ehi,
se voleva continuare a percepire lo stipendio da migliore amica avrebbe
dovuto
fare questo e altro.
Ad ogni modo, tenni la mia
cattiveria-da-notte-insonne per me e mi
limitai a ringraziarla per la sollecitudine con cui si era subito
offerta di
venire a trovarmi con la sua agenda dei buoni consigli. Ormai credo
avesse
intuito che la stragrande dei miei problemi derivavano da Enrico, e non
perdeva
neppure più tempo a dire “Te l’avevo
detto” o “Te la sei cercata”: agiva e
basta. La nostra amicizia si era notevolmente evoluta in seguito a
quella
faccenda, il che era un bene, dato che se fossimo state un
po’ meno legate
avremmo smesso di vederci non appena lei e Riccardo si erano messi
insieme,
dato che il suo ragazzo e il “delinquente” con cui
uscivo avevano lo stesso
rapporto amorevole che hanno due galli nello stesso pollaio.
Dunque, Alessandra arrivò
da me in tarda mattinata, e come sempre
accadeva in quelle occasioni, rimase a pranzo da noi; dovetti rimandare
la
nostra chiacchierata al primo pomeriggio, tuttavia, ma se non altro
l’attesa mi
aveva dato modo di mettere un po’ d’ordine ai miei
pensieri e di studiare un
modo per aprire la conversazione senza risultare né troppo
brusca, né troppo
terrorizzata e né troppo volgare.
Infatti, ecco come andarono le cose.
“Cazzo, geme, sono nella
merda fino al collo.” Sibilai, chiudendo
la porta della camera alle mie spalle e poggiandomici sopra alla
ricerca di un
sostegno.
La mia esclamazione le
strappò un mezzo sorriso, che tuttavia
sparì non appena si rese conto che io non avevo per niente
voglia di scherzare.
“Finirai con il mandarmi in terapia, lo sai, vero?
Dovrò pagare uno psicologo
per i prossimi trent’anni per un trauma che non mi appartiene
neanche”, ribatté
con tono sostenuto, incrociando le braccia.
Decisi di ignorarla. “Sono
andata a casa di Enrico, ieri”, le
rivelai tutto d’un fiato.
“Oddio! L’avete
fatto?!” Sbottò sorpresa, indecisa se emozionarsi
per me o se inorridire.
“No!
Geme, come ti
vengono… cacchio,
no!” Ripetei a
mezza voce – l’ultima cosa che volevo era che mia
madre potesse afferrare frasi
a caso dai miei discorsi e intuire chissà cosa.
“Dio, non pensi ad altro?”
“Io? Sei tu quella che si
lamenta sempre di avere la vita sessuale
di un pesce rosso!” Fece lei, incurante delle mie tempeste
interne. “Da come
l’hai detto sembrava… Anche se non so se dovrei
farti le congratulazioni, visto
di chi stiamo parlando. Ma grazie a Dio hai detto di no… Hai
detto di no, vero?”
Non potei trattenermi dal roteare gli
occhi, spazientita. “No, no,
certo che no, non abbiamo fatto niente, nada,
nisba, rien”, specificai,
ormai
neanche più imbarazzata.
“Okay, va bene, sei ancora
illibata, mi fa piacere”, sospirò
sollevata. La mia occhiataccia dovette essere piuttosto eloquente, dato
che si
affrettò a rettificare. “Cioè, non mi
fa piacere in quel senso, voglio dire, mi
avrebbe fatto più piacere sapere che ti sei data da fare, cioè no, aspetta, sarebbe
carino se anche tu avessi fatto
esperienza così avremmo potuto parlarne, no? Insomma, sono
contenta che tu non
sia incinta di Enrico, ecco, volevo dire questo!”
La fissai come se le fosse appena
spuntata un’altra testa sulle
spalle, e per giunta verde, brufolosa e vomitante fuoco e fiamme.
“Mi sono
persa qualcosa? Come siamo arrivate all’essere
incinta?” Chiesi, intuendo che
da un momento all’altro la testa mi sarebbe scoppiata.
Insomma, non avevo
neppure dormito quella notte, diamine, e non certo per il motivo che
pensava
Alessandra!
Lei si concesse il lusso di
ridacchiare, mezzo imbarazzata e mezzo
divertita, poi cercò di darsi un contegno accarezzandosi la
frangetta liscia e
ordinata. “Va bene… Possiamo ripetere daccapo, per
favore?” Chiese, sorridendo
in segno di scusa.
Annuii mordicchiandomi
l’interno della guancia e presi posto alla
sedia della scrivania, sedendomi di fronte a lei che, invece, mi
fissava dal
bordo del letto, in paziente – più o meno
– attesa. “Okay, lasciami raccontare
e poi potrai dire quello che vuoi alla fine”, esordii
rassegnata, torturandomi
le dita con feroce passione.
Le raccontai per filo e per segno ogni
cosa, senza tralasciare
nulla, a proposito dell’incidente
di
Enrico, dei suoi traffici – che sì, conosceva, ma
solo sotto forma di racconti
distanti e freddi fatti dal suo ragazzo, e come a me aveva fatto un
certo
effetto sentire la versione del diretto interessato supposi che anche
lei
avrebbe dovuto percepirla diversamente, raccontata da me – e
delle sue pseudo
rassicurazioni. Le parlai delle mie paura, delle mie sensazioni, dei
miei
dubbi, e durante tutto il mio sfogo la vidi impallidire sempre di
più, mentre
annuiva piano in silenzio, e un paio di volte fu sul punto di
interrompermi ma
si trattenne, memore di quanto le avevo detto prima di iniziare. Le
confessai
anche certi altri episodi accaduti tempo prima che, per un motivo o per
l’altro, mi ero dimenticata di dirle o semplicemente le avevo
voluto celare,
come quella volta in cui avevo trovato il coraggio di aprire il
cruscotto
dell’auto di Enrico e ci avevo trovato una scatola di
velluto, grossa quanto un
dizionario di latino e larga più o meno lo stesso tanto, che
conteneva la
famigerata pistola. Più volte finii sull’orlo
delle lacrime, sfogando
finalmente tutto lo stress che avevo accumulato, ma mi sforzai almeno
di non
piangere, o, ne ero certa, Ale stessa sarebbe andata a dire tutto alla
polizia.
E io, malgrado tutto, non volevo vedere Enrico in prigione…
Ipocrita e
contradditorio, forse, ma cosa potevo farci?
Alla fine, tirando su col naso e
imputando il gesto ad un
raffreddore inesistente, tacqui, aspettando una qualsiasi reazione.
Alessandra
mi fissò con un’espressione da ‘bocca
aperta’ che in altre situazioni avrei
potuto trovare divertente, ma che in quella non fece che preoccuparmi
ancora di
più; poi, con una breve scrollata di spalle e un sospiro,
parve riprendersi.
“Forse, dopotutto, in
terapia ci finiremo tutte e due”, fu la sua
intelligente risposta.
Mi passai una mano tra i capelli,
accendendo il condizionatore per
l’improvviso calore che mi stava impedendo di respirare.
“È tutto quello che
hai da dire?” Gemetti, guardandola di sottecchi.
“Che cosa ti posso dire,
geme?” Ribatté lei, ancora un po’
scossa.
“
Non riesco a capire perché ti
ostini a voler sopportare questa situazione. Non avevi detto che
sarebbe stato
solo il capriccio di una o due settimane, fin quando lui non si fosse
stancato?
E se lui non si stanca tu cosa hai intenzione di fare, mh? Di vivere
con questa
angoscia vita natural durante? Di sopportare in silenzio
perché hai paura che
possa fare qualcosa di terribile a te o a chi vuoi bene? Ti si
prospetta una
vita esasperante, Giuli, se le tue intenzioni sono queste. Non ti fa
bene
vivere così”, concluse con maggior gentilezza,
piegandosi leggermente in avanti
e cercando di sorridere con fare confortante.
A quel punto non potevo più
nascondere gli occhi lucidi e le
lacrime che premevano per uscire. Mi strofinai le palpebre socchiuse e
presi un
profondo respiro, senza sapere cosa dire.
Alla fine mi alzai, trovando impossibile rimanere ancora a
lungo ferma e
seduta composta, e mi affacciai alla finestra, posando la fronte sul
vetro freddo
e appannando quest’ultimo con il mio respiro agitato.
“È solo che… oddio, geme,
e se me ne stessi innamorando?” Mormorai pianissimo,
chiudendo gli occhi e
aggrappandomi nervosamente al davanzale di marmo.
Alessandra non rispose subito, ma mi
parve quasi di sentirla
trattenere il fiato. Poi, quando la sua voce ruppe il silenzio, lo fece
per
esclamare: “Oh, cazzo.”
L’ansia mi fece scoppiare a
ridere, ma fu una risatina tremula,
che di divertimento aveva ben poco. “Hai afferrato il
punto”, risposi, senza
voltarmi a guardarla.
Non so che cosa mi stesse per
rispondere – forse qualche ennesima
lavata di capo a proposito del fatto che avrei dovuto smettere di
vedere Enrico
e dimenticarmelo prima che la situazione si aggravasse ulteriormente
– comunque
non lo seppi mai, dato che in quel momento lo squillo del mio cellulare
rovinò
l’atmosfera da confessionale che si era creata e mi
riportò con i piedi per
terra. Mi staccai dalla finestra, sempre con lo sguardo della mia
migliore
amica addosso, e presi il telefono, constatando così che il
famoso proverbio “Si parla del
diavolo e ti spuntano le corna”
era eccessivamente veritiero.
“Un messaggio di
Enrico”, dissi a mezza voce, tanto per aggiornare
Alessandra. Lei non disse nulla, ma io lo lessi prima in silenzio e poi
ad alta
voce.
Ciao,
dolcezza… Ho recuperato
il mio cellulare! Che ne dici di venire a casa mia per festeggiare?
Mando uno
dei miei ragazzi a prenderti, visto che sono ancora un po’
indolenzito per
prendere la macchina.
Inarcai un sopracciglio, perplessa.
Enrico non mi aveva mai
chiamato “dolcezza”, e per quanto potesse sembrare
un appunto inutile, in quel
momento, trovai la cosa stranamente fastidiosa, anche se non avrei
saputo
spiegare il motivo di quella sensazione.
“Come al solito, pare che
abbia deciso al posto tuo”, ribatté la
mia amica, incrociando le braccia sotto il seno e assumendo un cipiglio
severo.
“Credimi, geme, il suo
atteggiamento dispotico e possessivo è
davvero l’ultimo dei problemi”, risposi con una
scrollata di spalle, mentre
inviavo il messaggio di conferma ad Enrico. Forse vederlo poteva essere
una
buona idea – magari, alla luce di quanto avevo scoperto,
potevo ottenere più
materiale su cui riflettere a proposito della mia supposta infatuazione
per
lui.
“Ascolta, io non credo che
tu ne sia davvero innamorata”, disse
Ale dopo una pausa silenziosa, cercando di essere prudente e sensibile.
“Proviamo a esaminare la situazione. Enrico è il
primo ragazzo con cui sei
uscita seriamente, giusto? L’hai frequentato sin da subito
come se foste già
fidanzati, perché questo era quello che voleva lui, e questo
potrebbe averti un
po’ incasinato le idee. Lui è stato gentile, non
lo nego, ricordo come si è
comportato quando tuo nonno è venuto a mancare…
È stato irreprensibile,
davvero! E tutti questi comportamenti potrebbero averti confusa. Non
eri tu
quella che diceva, all’inizio, che con lui non sarebbe durata
più di una o due
settimane, che non provavi niente, che lo ritenevi uno stronzo egoista
e
manipolatore? È come la sindrome di Stoccolma, geme! Era
inevitabile che
finissi per provare dei sentimenti per lui, visto che sei stata
obbligata a
frequentarlo praticamente per tutta l’estate. Ma questo non
è detto che sia
amore”, insisté, accennando persino un sorriso
gentile.
Mi limitai a guardarla, avvilita.
“E che cos’è, allora?”
Mormorai.
“Tu che cosa provi per Riccardo?”
Alessandra arrossì
leggermente, poi alzò le spalle. “Ho sempre
voglia di vederlo”, esordì. “Quando non
c’è mi manca, e se è libero
messaggiamo. Mi piace ogni cosa di lui, il suo profumo, la fossetta che
gli si
forma all’angolo della bocca quando sorride, persino le sue
mani!” Ridacchiò,
con un’aria imbarazzata. “Non so, non saprei come
spiegarlo. Ho sempre voglia
di toccarlo, e non immaginare cose zozze!,
è una cosa che mi da conforto, e quando mi
bacia…Oddio, è come se il resto del
mondo svanisse.”
Non risposi subito – volevo
dare a lei il tempo di riprendersi da
quell’espressione sognante e a me l’occasione di
riflettere sulle sue parole –
ma quando lo feci sorrisi e cercai di sdrammatizzare. “Uao,
geme, credo che mi
sia appena venuta una carie.”
“Che stronza che sei! La
prossima volta che mi chiedi un parere
ricordarmi di non dartelo”, sbottò tirandomi un
cuscino, ma senza riuscire a
trattenersi dal ridere.
Alessandra poteva anche essersi fatta
prendere la mano nel descrivere
quelle sensazioni, ma aveva fatto del suo meglio e io credetti di aver
afferrato il nocciolo del discorso. Ammettere a me stessa di essermi
innamorata
di Enrico era qualcosa che non avrei mai e poi mai voluto fare, ma
forse… Forse
era il caso che guardassi in faccia la realtà e ne
accettassi le terribili
conseguenze. Magari io non mi ero mai soffermata ad osservare le mani
di Enrico
o le varie fossette che poteva avere quando sorrideva, però
dovevo riconoscere
di aver avvertito anche io quell’impellente desiderio di
toccarlo o di
infilargli le dita tra i capelli ogni volta che gli ero abbastanza
vicina.
Avevo creduto che volerlo disperatamente baciare fosse solo un qualcosa
di
puramente fisico, senza altre accezioni, e se adesso dovevo ricredermi
tutto cambiava
prospettiva. Merda.
Mando
Lorenzo a prenderti
tra mezz’ora, fatti trovare pronta. Baci dolcezza.
Forse il momento della
verità era più vicino di quanto pensassi.
*
Una mezz’ora dopo, puntuale
come la morte, una Chevrolet blu scura
si parcheggiò sotto casa mia ma non ne discese nessuno,
segno che l’autista non
aveva intenzione di perdere tempo. Alessandra si era fatta venire a
prendere
venti minuti prima da Riccardo, così raggiunsi da sola
l’auto e mi accomodai
nel sedile davanti, provando subito un’istintiva apprensione
nel ritrovarmi
così vicina a Lorenzo. Forse avrei dovuto dire ad Enrico che
quel tipo non mi
ispirava una grandissima fiducia – mi ricordavo del modo
viscido con cui mi
aveva toccato, la notte in cui ero stata per così dire
rapita, e di come lo
stesso Stefano, l’unico di quella strana cricca che non mi
intimoriva, lo
avesse rimproverato – ma alla fin fine avevo ben altre cose
di cui discutere
con lui senza che vi aggiungessi anche l’analisi psicologica
dei suoi amici.
Lorenzo mi salutò appena e
non parve neppure intenzionato ad
intavolare una qualsiasi conversazione, cosa che a me stava
più che bene;
sistemai la cintura, strinsi la borsa in grembo e tenni il cellulare a
portata
di mano, tanto per sentirmi sicura. Visto che non dovevo fingermi
interessata
all’inesistente chiacchierata digitai un veloce SMS a Enrico per dirgli che ero con il
suo tirapiedi – ovviamente non
usai proprio questo termine – e che stavo per arrivare; dopo
cinque secondi
udii il rumore di una vibrazione che mi fece sobbalzare, e con la coda
dell’occhio osservai il ragazzo al volante. Con una ruga in
mezzo agli occhi
Lorenzo afferrò il suo telefono dalla tasca dei jeans e
lanciò un’occhiata
distratta allo schermo, per poi metterlo nuovamente via come se non
fosse stato
niente. Si mise addirittura a fischiettare e sollevò il
volume della radio,
dove in quel momento stava passando uno degli ultimi successi
dell’estate.
Ma tutto questo passava in secondo
piano alla luce del fatto che
il cellulare che Lorenzo aveva preso in mano somigliava in modo
piuttosto
inquietante a quello di Enrico. Certo, potevo sempre essermi sbagliata,
ma
avrei giurato che era lo stesso
–
anche se questo non provava un bel niente: anche io e Alessandra per un
periodo
avevamo avuto lo stesso Nokia, un po’ perché
andava di moda e un po’ perché
avevamo scoperto che era comodo da usare. Per cui, quei due avevano lo
stesso
telefono – okay, cosa c’era di male? Nulla. Ma
allora perché quella brutta
sensazione? Perché ero rabbrividita? E
perché Enrico non mi aveva ancora risposto?
Fingendo di guardare fuori dal
finestrino, alla cieca cercai il
numero di Enrico nella mia rubrica e feci partire la chiamata; dopo due
secondi, la musica della radio venne coperta dalla suoneria del
cellulare di
Lorenzo – no, di Enrico! Quella era la sua suoneria
– quante altre coincidenze
volevo aspettare? Nel giro di pochi secondi, mentre il telefono
continuava a
squillare e io, inebetita, non trovavo neppure la forza di spegnere la
chiamata, mi turbinarono in mente tutti i piccoli dettagli che avevo
finto di
non notare.
Sabato
sera Lorenzo non era
con loro.
La
macchina aveva cercato di
investirlo…
Enrico
aveva perso il
cellulare e non poteva muoversi, era bloccato a letto –
allora come poteva
recuperarlo?
“Porca puttana”,
sibilai terrorizzata, chiudendo la chiamata. Mi
voltai verso Lorenzo, che aveva a sua volta il telefono in mano nel cui
schermo
appariva, terribile, l’avviso: Una
chiamata persa – Giulia. Lo teneva rivolto verso di
me per farmelo vedere,
e un sorriso viscido gli aleggiava sulle labbra, con la stessa aria
sorniona e
soddisfatta che doveva avere il gatto dopo aver ingoiato il topo.
“Bene bene, a quanto pare mi
hai già smascherato”, disse, parlando
praticamente per la prima volta da quando ero salita in macchina. Notai
distrattamente che il contachilometri segnava una velocità
impossibile – dunque
anche la mia folle idea di aprire lo sportello e gettarmi sul bordo
strada era
fuori discussione. Davvero, avrei dovuto smetterla di guardare tutti
quei
polizieschi.
“Che cosa vuoi, Lorenzo? I
soldi di Enrico?” Mormorai sforzandomi
di non sembrare troppo aggressiva, mentre nello stesso tempo cercavo di
appiattirmi
contro la portiera.
Mi lanciò
un’occhiata infastidita. “Ma per favore. Ne ho in
abbondanza di soldi, senza aver bisogno di quelli di Enrico”,
ribatté,
rallentando leggermente per non prendere una curva in quinta.
“E allora?
Cos’è, vuoi fargli uno scherzo?”
Ribattei sarcastica,
senza riuscire a tenere la bocca chiusa. Dio mio, che cosa voleva da
me? Che
cosa c’entravo io con lui? Ci eravamo a malapena scambiati
due parole da quando
ho iniziato a frequentare Enrico!
Per tutta risposta lui
ridacchiò, sembrando quasi normale. “In un
certo senso, sì. E tu mi darai una mano, se non ti
dispiace”, rispose, sempre
con quell’odioso tono mellifluo. “Carino quel
vestito, a proposito…” Aggiunse
lanciandomi un’occhiata di orribile apprezzamento –
perché diavolo non mi ero
cambiata prima di uscire di casa? Fu con un crescente orrore, poi, che
vidi la
sua mano spostarsi dal pomello del cambio per poi posarsi leggera sul
mio
ginocchio, e da lì cercare di risalire, spostando il lembo
dell’abito.
“Ma che cazzo
fai!” Gridai quasi, allontanandomi il più
possibile
e fissandolo sgomenta.
Come unica reazione ottenni di farlo
ridere ancora di più, anche se
la sua mano tornò a stringere il volante. “Quante
storie, dolcezza…
Vedrai, ti piacerà quello che ho in mente per te”,
mormorò, con un finto tono suadente.
Non sapevo che cosa replicare, ero
letteralmente pietrificata dal
terrore. Se questo era uno scherzo, Dio mio, quanto mi sarei incazzata
con
Enrico per averlo permesso… Eppure, il fatto di essere da
sola con Lorenzo, il
suo sguardo, il suo tocco, cavolo!,
non mi lasciavano presagire nulla di buono. Stavo tremando. Mi guardai
intorno nervosamente,
cercando qualcosa che – non so – mi sarebbe potuta
servire per tirargliela in
testa, gettarlo fuori dall’auto e tornare in paese da sola
– non avevo ancora
la patente, ma mio padre mi aveva già fatto guidare in un
paio di occasioni, e
poi che cazzo, stavo scappando da un potenziale stupratore, ero sicura
che non
mi avrebbero arrestato!
Era come se avessi momentaneamente
staccato l’interruttore dalla
realtà, così non mi accorsi subito che la strada
presa da Lorenzo era quella
che conduceva alla casa in campagna di Enrico. A quel punto, osai quasi
sperare
che fosse tutta una messinscena – ma quando il bastardo
parcheggiò davanti alla
veranda vidi che non c’erano altre macchine, che tutte le
finestre erano chiuse
e che, in poche parole, non c’era nessuno. Con
un’incredibile nonchalance
Lorenzo spense il motore e scese dall’auto, e io decisi tutto
in una manciata
di secondi: avevo già slacciato la cintura, per cui
spalancai lo sportello e mi
precipitai fuori, cercando di correre il più velocemente
possibile. Purtroppo
il modesto tacco delle mie scarpe non tollerò la corsa sopra
la ghiaia
scivolosa, e non avevo fatto che pochi metri quando mi storsi una
caviglia e
crollai per terra.
“Cazzo”,
singhiozzai, cercando di rimettermi in piedi. Uno sforzo
che si rivelò inutile: Lorenzo mi aveva raggiunta e mi
agguantò senza troppa
delicatezza per le braccia, tirandomi su e afferrandomi poi i capelli
con
furia. Li strattonò facendomi strillare e mi
piegò la testa all’indietro, in
modo da costringermi a guardarlo in faccia.
“Dove pensavi di andare, eh,
puttanella?” Sibilò, la sua bocca
troppo vicina alla mia. “Non farmi passare la voglia di
essere gentile, ti
avverto!”
Ormai non riuscivo più a
pensare lucidamente. Cercai di
divincolarmi, ma con una mano continuava a tirarmi i capelli e con
l’altra
stringeva insieme i miei polsi, immobilizzandomi; in più ero
in precario
equilibrio su una gamba sola, dato che l’altra non riuscivo
neppure a poggiarla
per terra visto che la caviglia continuava a pulsare, dolorosa.
“Lasciami!”
Gridai, scuotendo il capo ma peggiorando la situazione –
sentii il rumore di
alcune ciocche che venivano strappate, così ci rinunciai,
lacrimando.
“Lasciami, per favore, lasciami, lasciami,
lasciami…” Continuai, ansimante, con
la voce che andava via via abbassandosi.
Forse credette di avermi in pugno o
comunque confidò che nel mio
stato emotivo non avrei più mosso un muscolo, fatto sta che
per un attimo mollò
la presa sui miei polsi, e io ne approfittai. Lo schiaffeggiai con
tutta la
forza di cui potevo disporre in quel momento – non troppa,
purtroppo, dato che
non ero proprio un’esperta di autodifesa – e
nell’aria risuonò forte lo
schiocco che fece la mia mano sulla sua guancia. Com’era
prevedibile, ottenni
solo di farlo incazzare di più.
“Puttana!”
Ringhiò, ricambiando la cortesia e schiaffeggiandomi a
sua volta. Lorenzo doveva essere di sicuro più esperto
perché il colpo mi fece
ronzare le orecchie, e fu così doloroso e inaspettato
– solo io potevo avere la
stupida convinzione, in quel momento, che lui non avrebbe alzato le
mani su una
ragazza – da lasciarmi stordita e barcollante. Sarei
certamente crollata a
terra se non fosse stato per lui, che mi teneva in piedi
benché le mie
ginocchia avessero ceduto improvvisamente.
La sua mano si chiuse violenta sulla
mia mascella, stringendola e
facendomi gemere, ancora. “Sarà meglio che impari
le buone maniere se vuoi
andare d’accordo con me, hai capito? Hai
capito?” Mugghiò feroce, scrollandomi
rabbiosamente.
Ero ancora parecchio stordita, ma
riuscii a fissarlo attraverso la
patina di lacrime che mi ricopriva gli occhi, e forse anche a
fulminarlo con lo
sguardo – o perlomeno provarci.
“Vaf…fanculo”, mormorai a fatica,
affannata
dallo sforzo di non piangere e dalla sofferenza che, più
passava il tempo, più
diventava acuta.
Il secondo schiaffo giunse
gratuitamente, e avrei anche dovuto
aspettarmelo. Tuttavia ciò non lo rese meno doloroso, e dopo
aver tossito e
sputato un grumo di sangue persi conoscenza.
_________________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Devo scusarmi di
nuovo per il ritardo!
Ero indecisa su come sviluppare questo capitolo, in realtà,
e quello che ne è venuto fuori non mi soddisfa
particolarmente... comunque, spero di avervi sorpreso ;D E spero anche
di non avervi infastidito con l'improvviso risvolto "crudo" della
storia, e con le parolacce che qui abbondano :P Anyway. Se non vi
ricordate di Lorenzo - cosa altamente probabile - fa un'apparizione nel
capitolo 6
(oddio... secoli fa!) Eeee... che cosa accadrà adesso?
Ta-ta-ta-taaaa! Non vi svelo nulla, sennò dove sta il
bello?, spero di riuscire ad aggiornare in tempi decenti non appena mi
levo gli ultimi esami della stagione. Da qui in avanti, la storia
dovrebbe procedere più velocemente perché nella
mia testolina è tutto in ordine (sparso, ma in ordine) e
attende solo di prendere forma sulla pagina bianca!
E adesso che vi ho confuso con le mie chiacchiere, passiamo ai
ringraziamenti :)
Grazie mille a savy85,
SenzaFiato, jede, Ellyra, M_CarpeDiem, Oasis, gikki__, Beadeisentieri, Ibelieveinniley,
rodney, Eleanor_Rigby, mockingjay182 e Mery55 per aver
recensito lo scorso capitolo - siete state gentilissime, mi fa un
immenso piacere vedere che c'è ancora qualcuno che segue
quest'odissea e che soffre e gioisce insieme ai miei personaggi! :) :)
E poi un grazie infinito anche a tutti coloro che continuano ad
aggiungere la storia alle Preferite, alle Seguite e alle Ricordate -
grazie, grazie, grazie!
Con questo passo e chiudo, ho fatto il mio dovere di buona samaritana
anche oggi :D Un bacio e un abbraccio a tutti, sempre vostra
Niglia.
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Capitolo 28 *** Capitolo XXVIII. ***
@
Attenzione: questo capitolo contiene un linguaggio forte e
tratta di argomenti che potrebbero turbare alcuni lettori.
Capitolo XXVIII.
Non so quanto tempo dopo ripresi
conoscenza. So solo che mi
svegliai in una brutta, bruttissima posizione, una che ricordava in
modo
perverso l’uomo vitruviano, con le mani e i piedi legati alla
struttura in
ferro battuto di un letto che non conoscevo, la bocca tappata da un
bavaglio –
no, un momento… sembrava più una cravatta
– la faccia dolorante e rovente e la caviglia che, in quella
posizione, faceva
ancora più male di quando l’avevo storta. Se non
altro, il dolore
significava che ero ancora tutta intera – anche se non sapevo
bene per quanto
lo sarei rimasta. Per di più, come se il fatto di essere
legata come un salame
non fosse abbastanza, perché
le disgrazie non vengono mai da sole, non indossavo altro
se non la biancheria intima: il mio
vestito era ordinatamente piegato e poggiato su una sedia – così si sgualcisce, maledizione!
– e le
mie scarpe erano lì accanto, poggiate vicine con cura.
Sì, la cura del maniaco
psicopatico!
Okay, dovevo cercare di inghiottire le
lacrime e restare lucida.
In fondo qualcun altro avrebbe potuto trovarla una situazione
eccitante, no?
Ecco; dunque dovevo calmarmi, e sforzarmi di non pensare a quello
stronzo di
Lorenzo che si trovava chissà dove e a fare
chissà che in giro per la casa. Mi
guardai intorno: nella stanza non c’era neppure una sveglia,
quindi non sapevo
che ore fossero e quanto tempo poteva essere passato da quando Lorenzo
era
passato a prendermi a casa mia. Facendo mente locale, riflettei che le
uniche
persone che mi avevano visto andar via con lui erano Alessandra e mia
madre, ma
quest’ultima non poteva di certo sospettare che potesse
esserci qualcosa di
male nell'amico della
figlia che l’aveva salutata con un sorriso
gentile e
un’espressione da bravo ragazzo, dunque dubitavo che potesse
in qualche modo
avvisare Enrico che io ero sparita insieme a lui. D’altra
parte, neppure la mia
amica avrebbe potuto sospettare qualcosa, dato che lei non conosceva
Lorenzo e
non sapeva quanto fosse viscido – io per prima non glielo
avevo mai raccontato,
presa com’ero stata dal veloce susseguirsi degli eventi
– e anche se così fosse
stato che cosa mi aspettavo? Che lei, essendo fidanzata con Riccardo,
chiamasse
Enrico per aggiornarlo? Ma poi lei Enrico lo odiava, o comunque non era
nella sua lista degli uomini dell'anno, di certo non
l’avrebbe chiamato
neppure in un caso eccezionale come questo!
Ammetto che quel ragionamento non mi
stava per niente
tranquillizzando. Insomma, ero nei guai, e a quanto pare non lo sapeva
nessuno;
quel coglione di Lorenzo avrebbe potuto stuprarmi da un momento
all’altro, o
persino uccidermi per quanto ne sapevo io, e chissà quando
avrebbero trovato
il mio corpo! Sempre se non avesse già messo in programma di
seppellirmi da
qualche parte in piena campagna… Oddio mio, non era nei miei
programmi morire
giovane! Mi resi vagamente conto di non essere poi molto spaventata:
sì, stavo
tremando, ma il mio cervello doveva aver attivato una sorta di
programma di
autoconservazione che mi permetteva di riflettere freddamente con un
pizzico di
macabro umorismo. Chissà, forse mi avrebbe salvata la mia
ironia? Piuttosto
discutibile.
Con un grido esasperato soffocato dal
bavaglio cercai di dibattermi e muovermi, ma senza ottenere alcun
risultato. Porca puttana. Porca. Puttana! Dove
diavolo è la cavalleria quando
si ha bisogno di lei? Strattonai ancora la corda che mi teneva legata
alla
spalliera del letto, stupita che avesse trovato quelle maledette funi
in casa
di Enrico; non osavo neanche immaginare il motivo per cui lui le
avesse, avevo
già abbastanza problemi di cui occuparmi per affrontare
anche quell’inquietante
questione.
Lorenzo tornò in camera
proprio mentre tiravo con la mano destra,
distruggendomi il polso ormai arrossato per il continuo sfregare della
corda
sulla pelle. Una sua sola occhiata bastò a farmi capire che
il vedermi in
quelle condizioni – legata e dolorante – lo
eccitava parecchio, la qual cosa non
andava affatto bene. Mi immobilizzai e gemetti, disperata.
“Guarda un po’
cosa mi hai combinato, stai sanguinando”, biascicò
con la sua disgustosa voce melliflua, fingendosi preoccupato mentre si
sedeva
sul bordo del letto e si sporgeva verso di me per sfiorarmi il polso
con una
languida carezza.
Cercai di borbottare un
‘vaffanculo’ attraverso la stoffa, e
malgrado fossi riuscita a fargli intendere solo alcune vocali, a
giudicare dal
suo ghigno dovette aver afferrato il senso generale del mio invito.
“Se continui con queste
parole dolci potrei anche innamorarmi di
te come ha fatto Enrico”, ribatté ridacchiando,
passandomi una mano sulla
fronte per tirarmi indietro i capelli che mi erano finiti sugli occhi.
Si chinò
poi sul mio collo e lo sentii inspirare profondamente, prima che
rilasciasse il
suo alito caldo sulla mia pelle e vi posasse le labbra; rabbrividii,
disgustata.
“Ah,
sì… Il tuo profumo mi era piaciuto da subito,
ricordi?”
Mormorò con un sospiro estatico, facendo scivolare le sue
dita tremanti dalla
mia gola, nel solco tra i seni, lungo lo sterno fino al mio ventre
nudo, per
poi giocherellare a disegnare figure disordinate intorno
all’ombelico. Per
quanto cercassi di abbassarmi il più possibile contro il
materasso e sfuggire
al suo tocco, era materialmente impossibile farlo, per cui dovevo solo
trattenere la nausea. I suoi occhi si spostarono nei miei, e mi parve
che il
mio cuore saltasse qualche battito quando si accorse della terribile
promessa
che aleggiava in essi.
“Voglio mordere quelle
labbra fino a far passare ad Enrico la
voglia di baciarti…Ma se ti levo il fazzoletto tu ti
metteresti ad urlare, non
è così?” Sussurrò,
accarezzandomi la bocca dal di sopra della stoffa. Allargai
impercettibilmente gli occhi e inspirai, tremante – aveva
l’aria di essere davvero
serio, porca miseria! Certo, avrei dovuto capirlo dallo schiaffo che mi
aveva
dato prima che perdessi conoscenza e dal modo in cui mi aveva legato,
eppure
una parte di me – sicuramente quella più ingenua e
scioccata – si ostinava a
convincermi che Lorenzo mi stesse solo prendendo in giro, e che da un
momento
all’altro mi avrebbe lasciato andare. Era una sensazione
strana, come se mi
fossi estraniata dal mio corpo e osservassi l’intera scena
dall’esterno, allo
stesso modo in cui i curiosi si fermano a fissare le macerie di un
incidente
automobilistico, con lo stesso irritante, morboso e perverso interesse.
Se fossi stata in grado di parlare
probabilmente avrei cercato di
convincerlo con le buone a non fare cazzate, o comunque avrei potuto
provare a
distrarlo con chiacchiere inutili fino all’arrivo dei
soccorsi… Già, ma quali
soccorsi, accidenti? Come avevo già appurato nessuno sapeva
che ero lì, e se
anche Enrico fosse riuscito a scoprire qualcosa con i suoi
discutibilissimi
mezzi, beh, da qui al suo arrivo sarebbe stato sicuramente troppo
tardi. Cazzo!
Ripresi ad agitarmi, riuscendo a
metterci tanta di quella forza da
far tremare la spalliera del letto e farla sbattere contro la parete.
Per nulla
colpito, Lorenzo si limitò a scoppiare a ridere, divertito.
“Non aver fretta, tesoro,
fra un po’ iniziamo!” Mi prese in giro,
toccandomi una guancia umida con due dita. Volsi la testa
dall’altra parte,
serrando forte gli occhi con fare disgustato, ma ottenendo solo il
l’effetto di
farlo ridere di più.
“Cos’è,
fai la timida adesso?” Continuò, avvicinandosi.
Stavolta
però accantonò le ‘buone
maniere’ e mi afferrò il mento con forza,
obbligandomi
a guardarlo e piantandomi le dita nelle guance, a fondo –
quello fece male,
diamine! “Credi che non lo sappia che sei solo una puttanella
che la da al
primo che passa, solo perché ha una bella macchina o un bel
visino? Puoi aver
fregato Enrico con i tuoi occhi dolci, dolcezza, ma con me non
attacca… Comunque
sarà un enorme piacere
vendicarmi di
lui tramite te. Vedrai, gli farà schifo anche solo
l’idea di toccarti dopo che
avrò finito con te!”
Mio Dio, ma che cosa stava dicendo?
Mugugnai qualcosa di
incomprensibile, gli occhi sgranati dalla paura e il respiro affannato,
e
un’ombra strana passò nello sguardo di Lorenzo. Le
sue labbra si arricciarono
in un sogghigno viscido, e una sua mano tornò a posarsi sul
mio ventre, con le
dita aperte e distanziate le une dalle altre.
“Però
è noioso non poter sentire la tua voce. Si perde parte del
divertimento, non credi?” Sussurrò, sfiorando la
pelle appena sotto il mio seno
con la punta del naso. Mi sfuggì un singhiozzo, e lui
ridacchiò. “Sì, sarebbe
più stimolante sentirti, in effetti. Va bene, adesso ti levo
la cravatta… però
tu devi fare la brava e non gridare, okay? Sennò potrei
diventare cattivo, e tu
non vuoi che io diventi cattivo, mh?”
Non risposi, limitandomi a fissarlo e
a trattenere il respiro.
Forse quel silenzio venne intercettato come una risposta positiva,
perché si
sporse verso di me allungando le mani dietro la mia nuca e sciogliendo
il nodo
della cravatta, strofinando nello stesso momento le labbra contro il
lobo del
mio orecchio. Quando il bavaglio venne rimosso rimasi zitta,
perché in fondo mi
sembrava da stupidi strillare così, dal nulla, e Lorenzo si
allontanò con aria
compiaciuta e soddisfatta.
“Brava
bambina…” Disse, posando la cravatta sul comodino
di fianco
al letto. Poi, con un’ipocrita finta cortesia,
proseguì. “E adesso, dimmi: vuoi
qualcosa da bere? Un bicchiere d’acqua? Non voglio che mi
consideri un
maleducato che non si preoccupa della sua ospite!”
Brutto
bastardo, aveva anche
intenzione di prendermi in giro?
“Non ho sete,
però potresti liberarmi e farmi andare via. Ti giuro
che non dirò niente a nessuno, tanto meno ad
Enrico… Sei ancora in tempo per
salvarti il culo.”
A giudicare dalla sua espressione, non
parve gradire granché il
mio intervento. “Dovresti pensare di più al tuo,
di culo, dolcezza. Non sono io
quello legato come un salame… Anzi, mi sorprende che la cosa
non ti faccia
effetto. Una ragazza normale sarebbe entrata nel panico nel
risvegliarsi mezza
nuda in un letto non suo. Com’è che tu non strilli
neppure?”
“Non è la prima
volta che mi capita”, sibilai, stringendo gli
occhi. Già, in effetti Enrico mi aveva già
riservato un trattamento simile
all’inizio del nostro ‘rapporto’
– una cosa che in altre circostanze avrei
anche potuto trovare divertente – ma di certo adesso la
situazione era un
tantino diversa!
Alla mia risposta Lorenzo
inarcò un sopracciglio, metà sorpreso e
metà divertito. “Uao, a quanto pare hai una vita
sociale interessante. Ma non
siamo qui per discutere di questo”, ribatté,
alzandosi. “Anzi, non siamo qui
per discutere di niente. Non so quanto tempo ci è
rimasto… Hai dormito per
un’ora e mezzo, lo sai, dolcezza? Credo sia il caso di darci
da fare prima che
arrivi qualcuno a disturbarci.”
Deglutii, di nuovo all’erta.
“Ho… ho cambiato idea. Vorrei un
bicchiere d’acqua!”
“Mi dispiace, Giulietta mia,
adesso il bar è chiuso”, ribatté lui,
agitando un dito verso di me. “Avresti dovuto pensarci
prima.”
Senza aggiungere una sola parola, si
levò la maglietta facendola
passare dalla testa e gettandola per terra, rimanendo a torso nudo.
Dopodiché
iniziò ad armeggiare con i bottoni dei jeans. Merda,
faceva sul serio!
Ripresi a scuotere le mani, tirando
fino a quando la corda non
penetrò nella carne lasciandomi dolorante e con i polsi
arrossati. “Smettila,
Lorenzo, non fare cazzate! Non ti ho fatto niente, porca
miseria!” Gemetti,
odiandomi per la mia voce tremolante.
“Lo so che non mi hai fatto
niente, dolcezza”, rispose, con un
sorriso gentile falso come le monete d’oro che si regalano
per la Befana,
quelle di cioccolato. “Non ce l’ho con te, infatti.
Purtroppo, però, sei legata
ad Enrico… E questo ti mette in una posizione
scomoda, se mi scusi il gioco di parole.”
Sapevo io dove poteva ficcarsi il suo
gioco di parole, ma
saggiamente stavolta decisi di tenere la bocca chiusa. Distrarlo,
dovevo distrarlo… Dio mio… Ma come?
“Hai… hai detto
che ti vuoi vendicare di Enrico, prima…” Mormorai,
cercando un coraggio che non avevo. “Si può sapere
perché? Cos’è successo tra
voi due? Credevo… credevo che foste un gruppo
affiatato.” Per quanto possa
esserlo un gruppo di ragazzi che spacciavano e andavano in giro armati.
Ma chi
ero io per giudicare? Quello che mi importava davvero era che Lorenzo
abboccasse e si mettesse a parlare. Si liberò dei jeans e
rimase con addosso
soltanto i boxer, così distolsi lo sguardo, mio malgrado
imbarazzata;
accidenti, era anche un bel ragazzo… Peccato che fosse
così coglione!
Con un’invidiabile
noncuranza venne a sedersi sul letto,
allungando una mano verso di me e riprendendo ad accarezzarmi il
ventre, ma
stando comunque lontano dalle zone critiche – pube e seno.
Chissà perché, poi?
Indugiò a lungo in quelle carezze – non so grazie
a quale santo del Paradiso
riuscii a non strillare dal disgusto – e poi,
all’improvviso, si portò ai piedi
del letto e iniziò a slegare la corda intorno alla mia
caviglia sinistra,
quella che avevo slogato.
“Enrico è un
pezzo di merda”, esordì con cattiveria, senza
guardarmi. Era troppo occupato a sciogliere il nodo che aveva fatto
poco prima.
“Pensa di poter comandare tutti come un boss solo
perché è un Occhi Belli,
l’ultimo erede della famiglia… Sembra un cazzo di
padrino! E gli altri, tutti
ai suoi piedi, a leccargli il culo, perché hanno paura di
lui, hanno paura di
essere messi da parte e di perdere i soldi che Enrico gli fa entrare in
tasca.
Mi sono rotto le palle di obbedirgli come un cagnolino! Non sono il
cagnolino
di nessuno, io! Dì, Giulia, ti sembro un cane? Eh?”
Scossi la testa, sorpresa da quello
sfogo e timorosa che potesse
diventare violento, ma tanto lui non vide la mia risposta
perché era passato ad
occuparsi dell’altro piede. Perché mi stava
slegando? La risposta giunse quasi contemporaneamente alla domanda, con
la stessa violenza di un treno in corsa: per riuscire a spogliarmi.
“Stefano è il suo
braccio destro, giustifica tutte le cazzate di
Enrico. Credo che siano cugini… Ma non è solo per
questo che mi sono rotto.
Sono nel suo gruppo da quando avevo sedici anni, cazzo, non gli ho mai
dato
motivo di dubitare di me, e lui che fa? Mi tratta come
l’ultimo arrivato, come
un insetto che non vale la pena di degnare di un’occhiata.
Non si è mai fidato
di me, non mi ha mai mandato dai suoi fornitori da solo, tanto per
dirne una… E
sai perché? Perché una volta mi aveva beccato
mentre mi facevo! Ma era solo una
dose, Giulia, capisci, una misera dose da tre grammi! Mi ha minacciato
di
mandarmi via, il coglione, mi ha persino picchiato, abbiamo fatto a
botte! Ne
sono uscito pesto e sanguinante, ma lui mi ha perdonato, ah, il grande
filantropo, perché capiva che la tentazione potesse essere
forte per uno come me. Cosa cazzo
significa uno come me, brutto pezzo
di merda? …Da
allora ha iniziato a trattarmi diversamente, mi faceva tenere
d’occhio dagli
altri ragazzi, e non mi faceva andare da solo da nessuna parte. Un
incubo!
Ovviamente, quando volevo le mie dosi me le facevo lo stesso. Non sono
un cazzo
di ragazzino da tenere al guinzaglio, se voglio una cosa me la
prendo… E sai
cosa voglio adesso, dolcezza? Adesso, come hai brillantemente intuito
tu,
voglio vendicarmi di Enrico, perché ha fatto sparire dalla
circolazione il
tizio che mi riforniva, e sai come farò? Eh, lo sai? Mi
scoperò la sua
ragazza!”
La sua voce si sollevò di
diverse ottave sul finire di quel folle
discorso, e in quel momento mi accorsi vagamente di avere le gambe
libere; purtroppo
però ero troppo scioccata per pensare di fare qualcosa, e
d’altra parte lui
sembrava davvero forte a giudicare da come mi stava tenendo bloccata
stringendo
semplicemente le mani intorno alle mie caviglie. Singhiozzai
– non mi ero
accorta di aver iniziato a piangere, merda! – e provai
scalciare, ma pareva
tutto inutile: ridacchiando come un ragazzino Lorenzo salì a
quattro zampe sul
letto e si mise sopra le mie cosce, a cavalcioni, immobilizzandomi col
suo peso
e… porca miseria, era eccitato!
Lo
sentivo contro di me, duro, e prima di rendermene conto iniziai a
strillare.
“Vattene-vattene-vattene!
Lasciami, cazzo, lasciami!” Continuai a
gridare e dibattermi, ma lui era pesante e, a questo punto, dopo quel
racconto, temetti che potesse anche essere fatto.
Non potei prevedere lo schiaffo,
perché avevo gli occhi chiusi per
non vedere quella sua faccia di merda sospesa a pochi centimetri dal
mio volto;
il colpo mi fece tacere di botto, lasciandomi intontita e dolorante e
senza
fiato. Quando socchiusi le palpebre, ansimando per ritrovare il
respiro, vidi
la sua espressione furiosa e i suoi occhi opachi che mi fissavano con
una
freddezza che non avevo mai visto prima in nessun altro.
“Ti avevo detto di fare da
brava e non urlare, o mi sbaglio,
piccola puttana?” Sibilò, avvicinando la bocca al
mio mento. Vi posò le labbra,
poi le dischiuse e sentii i suoi denti duri contro la pelle,
mordicchiandola, e poi giunse la
sua lingua a farmi gemere dallo schifo e singhiozzare. Scossi con forza
la testa, cercando
di allontanarlo, e continuai nello stesso tempo a biascicare tra un
singulto e
l’altro frasi sconnesse e tremanti.
“Lasciami, no, no,
no… No,
smettila, per favore, smettila…”
“Oh, tesoro, abbiamo appena
iniziato…” Mormorò una volta raggiunto
il mio orecchio. Prese a mordicchiare e leccarne il lobo, e io strillai
ancora, agitando
braccia e gambe e facendo scricchiolare il letto. Ma tutto questo non
serviva,
dato che continuavo a rimanere irrimediabilmente legata. Quando sentii
una sua
mano chiudersi a coppa sul mio seno piansi e strillai ancora
più forte, e
realizzai che ormai non c’era più nulla da fare
– nessuno sarebbe venuto a
salvarmi, e Lorenzo l’avrebbe avuta vinta!
Ma come al solito mi sbagliavo.
All’improvviso, prima che le
sue dita schifose si infilassero al
di sotto della stoffa del mio reggiseno, la porta della camera si
spalancò con
così tanta forza da andare a sbattere contro il muro,
facendo sobbalzare
Lorenzo che si voltò di scatto per controllare cosa diavolo
stesse succedendo.
Aprii gli occhi anche io, ansimante, ma dovetti sbattere più
volte le palpebre
prima che le lacrime si diradassero e mi permettessero di vedere il
recente
sviluppo della situazione. Fu così che mi ritrovai a fissare
Enrico – buon Dio, sì,
era proprio lui, e io non ero
mai stata più felice di vederlo come in
quell’istante! – e la pistola
minacciosa che stava puntando con mano ferma e decisa contro il mio
rapitore.
In un altro momento mi sarei messa a
ridere: un tempo era stato lui il
mio rapitore, e io l’avevo anche
accusato di volermi violentare visto come si era comportato con
me… Assurdo come la situazione si fosse
drasticamente capovolta rispetto ad allora.
La presenza di Enrico mi aveva
sorprendentemente calmato; benché
avessi ancora Lorenzo spalmato sopra che mi schiacciava contro il
materasso e
le sue sudice mani addosso, smisi di dibattermi e mi rilassai,
chiudendo di nuovo gli
occhi e abbandonandomi a un pianto silenzioso di sollievo. Avevo
l’impressione
di galleggiare in una comoda bolla di incoscienza, che tuttavia
scoppiò quando
la voce di Enrico esplose nella stanza, a dir poco furibonda. Trasalii
e lo
fissai, spaventata e preoccupata.
“Allontanati da lei,
cazzo!” Ruggì, continuando a tenerlo sotto
tiro. “Non farmelo ripetere o sparo, Lorenzo, ti giuro che
sparo!”
Senza staccare gli occhi da lui,
Lorenzo si tirò su con calma, le
braccia apparentemente rilassate lungo i fianchi: non mi
toccò più mentre
scendeva dal letto, sforzandosi di rimanere prudentemente fuori dalla
linea di
tiro. Quasi rimpiansi che Lorenzo se ne fosse andato, visto che adesso
entrambi
potevano vedermi in quelle condizioni: mi imbarazzava che Enrico mi
vedesse
legata e mezza nuda, ma comunque non era quello il momento di pensarci.
Spostavo lo sguardo dall’uno all’altro, piegando le
gambe un po’ per la
vergogna e un po’ per cercare di mettermi a sedere, ma senza
poter contare
sull’aiuto delle braccia era impossibile.
“Sai sempre come rovinare
una festa, Enrico”, sibilò Lorenzo senza
più sorridere, fissandolo come se avesse desiderato
ucciderlo. Peccato che
anche il mio salvatore avesse lo stesso sguardo, e che fosse lui quello
armato.
“Io e la signorina ci stavamo solo divertendo.”
“Brutto
stronzo…” Mi sfuggì, prima di venire
interrotta da Enrico.
“Figlio di
puttana!” Ringhiò, abbassando la pistola e
gettandosi
contro Lorenzo con una furia che non gli avevo mai visto. Lo
colpì prima sotto
lo sterno facendolo piegare in due, e poi alla mascella con un pugno
che aveva
l’aria di essere parecchio forte; Lorenzo cadde per terra
tenendosi la pancia
con le braccia, gemendo e sanguinando dal naso e dalla bocca. Non hai più voglia di fare il gradasso
adesso, eh?
Enrico lo fissò con
disgusto, poi parve ricordarsi di me e si
voltò, raggiungendomi e poggiando la pistola sul comodino
mentre si sporgeva
per sciogliere le corde che mi tenevano ancora legata. Stavo tremando,
eppure trovai ancora la voglia di fare del sarcasmo. “Ma
tu non eri bloccato a letto?” Gli chiesi a mezza voce, mentre
liberavo con un sospiro di sollievo la mano destra.
Per tutta risposta mi
dedicò un brevissimo sorriso. “Niente che un
po’ d’azione non potesse curare, a quanto
sembra”, replicò, liberandomi anche
l’altra mano. Subito mi massaggiai i polsi indolenziti,
gemendo. “Stai bene?”
Mormorò subito, di nuovo serio e allarmato.
Annuii. “Tutto sommato
sì… Enrico,
attento!”
Il mio grido lo distrasse da me e il
rumore di uno sparo sovrastò
la mia voce: purtroppo venne colto talmente alla sprovvista che non
ebbe la
prontezza di riflessi di spostarsi, così il proiettile lo
colpì chissà dove e
chissà quanto gravemente. Senza pensarci due volte
afferrò di nuovo la sua
pistola – quella che teneva nel
cruscotto, suppongo – ma prima che si alzasse in
piedi Lorenzo sparò
un’altra volta, colpendolo alla spalla. Trattenni bruscamente
il fiato,
portandomi le mani a tapparmi la bocca per non mettermi a gridare come
il mio
terrore mi stava costringendo a fare.
Poi tutto avvenne come al rallentatore.
Enrico mi diede le spalle,
sollevò il braccio destro – l’altro
pendeva stranamente inerte lungo un fianco – e, senza che la
mano gli tremasse minimamente,
prese la mira. Forse Lorenzo non si aspettava che il suo ex amico
facesse sul
serio, perché rimase ad ansimare senza neanche accennare a
muoversi, con la
mano che teneva l’arma abbassata e l’altra, quella
libera, a tergersi il sangue
che gli sgorgava dal labbro spaccato, il tutto mentre continuava a
fissare con
aria folle e sadica prima me e poi lui.
Inaspettatamente scoppiò a
ridere. “Non mi fai paura, Enrico! Non
ce le hai le palle per ammazzarmi. Sai solo pestare e minacciare, e
questo
forse potrà tenere buoni i tuoi cagnolini per un
po’, ma prima o poi… Prima o
poi si stancheranno, e allora, se non l’avrò
già scopata io, la tua ragazza, lo
farà qualcun altro!”
Non gli diede neppure il tempo di
risollevare la pistola. Fece
fuoco.
Tre colpi precisi, freddi, spietati.
Petto. Petto. Fronte.
E poi un silenzio assordante, nel
quale rimbombavano ancora gli
echi di quegli spari.
In quel momento gridai, gli occhi
pieni della visione di Lorenzo
che crollava in terra come un pupazzo inanimato, con il sangue che
colava dai
due buchi sul petto nudo e la faccia una maschera di sangue e gli occhi
vitrei,
sbarrati, e la bocca ancora vagamente sorridente che pareva essersi
modellata
in una strana 'O' di sorpresa. Mi vennero i conati, e avrei sicuramente
vomitato
se avessi avuto qualcosa nello stomaco, ma fortunatamente era trascorso
parecchio tempo da pranzo e quel giorno non avevo neppure mangiato
tanto.
Enrico allora si voltò di nuovo verso di me,
l’espressione feroce di poco prima
tramutata in una preoccupata e dispiaciuta – forse non era
stata sua intenzione
mostrarmi quel lato di sé? – ed ebbe appena il
tempo di fare due passi verso il
letto e vedere me che mi allontanavo da lui, ancora sotto shock, prima
che la
consapevolezza di essere stato a sua volta ferito si facesse largo
nella sua
mente. Lo vidi abbassare gli occhi sulla propria spalla sinistra e
notare solo
ora la macchia di sangue che si allargava sulla stoffa chiara della
camicia,
allargandosi sempre di più, lungo il braccio e verso il
petto. Lo vidi
impallidire e lasciar cadere a terra la pistola ormai inutile, per poi
reggersi
il braccio ferito con quello sano. Si lasciò cadere sul
letto, serrando forte
gli occhi con una smorfia sofferente, ma io continuavo a rimanere a
distanza,
troppo spaventata per osare avvicinarmi a lui.
“Giulia, per
favore…” Mormorò, intuendo sicuramente
ciò che mi
passava per la testa. Ma l’avevo appena visto ammazzare a
sangue freddo uno dei
suoi amici, cazzo, non potevo passarci così, come se niente
fosse!
All’improvviso sentii dei
rumori provenire dall’esterno della
stanza, come di chi fa le scale correndo come se stesse fuggendo dal
diavolo in
persona. Io non riuscivo a staccare gli occhi da Enrico, mio malgrado,
ma mi
costrinsi a farlo quando vidi, con la coda dell’occhio,
qualcuno affacciarsi
sulla soglia.
“Porca puttana”,
sibilò il nuovo arrivato, attirandosi
l’attenzione della sottoscritta. I nostri sguardi si
incrociarono nello stesso
istante, furioso e turbato il suo, sbarrato e sconvolto il mio, e lo
riconobbi.
Era Stefano, l’unico degli amici di Enrico con cui non mi
sentivo a disagio. Le
lacrime iniziarono a scorrermi sulle guance prima che potessi fare
qualsiasi
cosa per bloccarle.
Prima di entrare si voltò
verso il corridoio e prese
immediatamente il controllo della situazione. “No, ragazzi,
è meglio se non
entrate. Francesco, chiama l’ambulanza. Porca puttana,
bisogna chiamare anche
la polizia… Albi, occupatene tu.” Poi
tornò a dedicarsi a noi e avanzò
all’interno
della stanza, lanciando solo uno sguardo freddo e disinteressato al
corpo di
Lorenzo che si stava raffreddando in un angolo, completamente immerso
in una
pozza di sangue. Distolsi immediatamente lo sguardo, gemendo.
“Sté, non la
polizia, cazzo…” Mormorò a mezza voce
Enrico, a
fatica, aprendo un solo occhio e fissando con sguardo confuso
l’amico.
“Non possiamo ripulire
questo casino, Enrico, non siamo soli, c’è
anche Giulia”, ribatté Stefano, pragmatico ed
efficiente. Non sembrò utilizzare
la mia presenza come un’accusa nei miei confronti, quanto
piuttosto come una
specie di doccia gelata per far rinsavire il suo
‘capo’. “E poi non pensarci, sistemeremo
tutto come sempre. Cosa ti è successo, mh? Il bastardo ti ha
colpito?”
Enrico annuì con un grosso
sforzo. “Al braccio. Credo… credo ci
sia ancora il proiettile.”
“Cazzo. Beh, poteva andarti
peggio”, replicò sdrammatizzando,
reggendo l’amico con un braccio dietro la sua schiena per
evitare che si
accasciasse e rischiasse di spedire più a fondo nella carne
il proiettile. Poi si
rivolse a me, ma stavolta ebbe il buonsenso di mostrarsi più
cauto e anche
leggermente imbarazzato. “E tu, Giuli… Come stai?
Ti ha… beh…”
Scossi la testa come in trance, non
volendo neppure sentire ad
alta voce ciò che stava pensando. “No”,
mormorai, spenta. “Voglio tornare a
casa.”
Stefano mi fissò
attentamente, come se avesse voluto trapassarmi
con il suo sguardo. Non avevo mai fatto caso al colore dei suoi occhi
– erano grigi,
un grigio scuro, cupo. Enrico li aveva
scelti apposta tutti belli, i suoi compari?, mi ritrovai a
pensare aspramente.
“Sta per arrivare
l’ambulanza, Giulia, stai tranquilla. Tra un po’
potrai tornare a casa”, mi spiegò, con lo stesso
tono gentile e pacato che si
usa in genere con gli animali selvaggi da addomesticare.
Mentre aspettavamo iniziai ad avere
freddo, freddo fin dentro le
ossa, ma non era un gelo che poteva passare rivestendomi o coprendomi
con
qualcosa, era ghiaccio polare che serpeggiava sotto la superficie della
mia
pelle lasciandomi tremante e intontita, pallida e con una tremenda
emicrania
che iniziò a farmi pulsare le tempie. Mi mancò il
respiro, ansimai e mi portai
una mano alla gola, che ardeva dalla sete, sentendomi la pelle
imperlata da
minuscole goccioline di sudore; come potevo sudare ed avere freddo
nello stesso
momento? E poi, improvvisamente, mi sentivo stanca, tanto stanca, con
solo la
voglia di dormire…
Prima di crollare e svenire udii
soltanto Enrico e
Stefano imprecare, e poi il buio. Mi stava succedendo decisamente
troppo spesso, negli ultimi tempi.
_______________________________________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Okay, mh... Non so che dire. Spero di non aver scioccato nessuno con
questo brusco risvolto della situazione... Tra l'altro, ho cercato di
rendere la scena il più possibile realistica - basandomi su
film o libri che ho letto e visto in passato - ma, come per tutte le
cose che non si vivono in prima persona (in questo caso, per fortuna!),
non credo di aver fatto un bel lavoro. Ho cercato di fare del mio
meglio con quel poco che sapevo, spero che apprezzerete la buona
volontà. :)
Ora, si accettano scommesse su cosa accadrà adesso! :3 E
comunque, è con grande piacere che vi informo che manca
davvero pochissimo per giungere alla fine di questa storia - diciamo
tre o quattro capitoli? - quindi non dovrete sopportarmi per molto
altro tempo: fra un po' potrete liberarvi di me :D
Ringrazio ancora una volta tutti coloro che sono giunti fin qui,
nonché Ellyra,
jede, Eleanor_Rigby, gikki__ e alexy95 per aver
recensito lo scorso capitolo - le vostre recensioni mi fanno davvero
sempre tanto, tanto, tanto piacere, è bello leggere che cosa
pensate della trama, dei personaggi eccetera, e poi i vostri consigli e
i vostri commenti mi aiutano a - spero - migliorare di volta in volta.
:)
Detto ciò, scappo prima che inizino a volare i primi
pomodori marci! :D Ci leggiamo al prossimo capitolo,
cercherò di pubblicare in tempi brevi - anche se confido che
comprenderete l'alibi delle vacanze per perdonarmi eventuali ritardi
ù_ù Un abbraccio forte a tutti quanti, rimango
sempre la vostra affezionatissima
Niglia.
|
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Capitolo 29 *** Capitolo XXIX. ***
Capitolo XXIX
Stavolta, quando ripresi conoscenza,
mi ritrovai in ambulanza, con
la testa in grembo a Stefano e le gambe distese lungo una specie di
sedile
doppio che si trovava nel lato opposto alla barella. Mentre
un’infermiera o
quel che diavolo era si occupava di Enrico, sdraiato apparentemente
privo di sensi
sulla lettiga e con la camicia zuppa di sangue aperta sul petto, io
cercai di
alzarmi per mettermi a sedere, ma una mano di Stefano sulla spalla mi
fece
gentilmente cambiare idea.
“Cos’è
successo?” Mormorai, strofinandomi gli occhi. Mi sentivo
tutto il corpo intorpidito, senza contare il terribile mal di testa che
mi
faceva pulsare le tempie, ma non osai lamentarmi visto che Enrico era
ancora
più pallido e insanguinato di prima – Dio mio,
doveva avere delle brutte
ferite.
“Hai avuto uno shock, niente
di eccessivamente grave”, spiegò a
mezza voce Stefano, chinandosi appena verso di me. “Adesso
stiamo andando in
ospedale. Ho trovato il tuo cellulare e ho chiamato i tuoi genitori,
dieci
minuti fa.”
Quella non era una grande notizia. Che
cosa diavolo avrei
raccontato ai miei genitori? Che uno degli amici del mio
‘ragazzo’ aveva
cercato di violentarmi e che lui l’aveva ucciso? Dio mio,
sarei stata fortunata
se mi avessero rinchiuso in casa per il resto dei miei giorni! E dire
che avevo
promesso a mia madre che tutta la faccenda di Enrico non mi avrebbe
distratta dai
miei obiettivi scolastici…
“Non pensarci,
adesso”, aggiunse, come intuendo l’ingarbugliato
flusso dei miei pensieri. “Vedrai, andrà tutto
bene.”
Istintivamente lanciai
un’occhiata ad Enrico, e a voler essere
sincera pensare che tutto sarebbe andato bene era l’unica
cosa che non credevo
di poter fare. Mi sfuggì un singhiozzo e chiusi gli occhi,
mentre Stefano si
spostava leggermente per rendere la posizione il più comoda
possibile. Non mi
addormentai, non credo, almeno, ma rimasi sdraiata così fin
quando l’ambulanza
non raggiunse l’ospedale e quel rumore fastidiosissimo che
solo dopo compresi
essere la sirena si spense.
In ospedale venimmo raggiunti dalla
polizia, pochi minuti dopo che
Enrico era sparito all’interno del reparto – io e
Stefano eravamo rimasti
fuori, nella sala d’attesa, e lui mi aveva spiegato
brevemente che il primario
era un conoscente della famiglia D’Angelo. Ma che
casualità…
Lasciai che fosse lui a rispondere
alle domande degli agenti,
perché io ero ancora troppo sotto shock per riuscire a
formulare un pensiero
coerente – figuriamoci per sostenere un interrogatorio,
seppur così informale.
Grazie a Dio non molto tempo dopo arrivarono anche i miei genitori, e
visto che
in quanto a conoscenze neppure mio padre era da meno, riuscì
a convincerli a
lasciarmi in pace il tempo di riprendermi. Inutile dire che, stretta
tra le
braccia di mia madre e con mio padre seduto dall’altro lato,
con un’espressione
severa e vagamente minacciosa in viso – come se stesse
scoraggiando chiunque dall’avvicinarsi
– mi sentii subito meglio. Balbettando e mormorando a fatica,
raccontai a
grandi linee a mia madre quello che era accaduto, e anche se non potevo
vederlo
sentii mio padre irrigidirsi dietro di me; riuscii persino a piangere,
seppellendo i singhiozzi e i tremiti contro di lei.
Parlai senza pensare alle conseguenze
– in fondo ero stata
testimone di un omicidio, pur con tutte le attenuanti di questo mondo,
e non
avevo idea che quello sarebbe stato solo l’inizio
dell’ulteriore girone di
stress e inquietudine nel quale stavo per addentrarmi. I poliziotti
raccolsero
la deposizione di Stefano ma non se ne andarono, restando fuori dalla
sala
d’attesa e continuando a mettermi agitazione con la loro
semplice presenza
fisica: distrattamente, infatti, li udivo discutere a mezza voce e
accettare
telefonate in continuazione – probabilmente erano in contatto
con i loro
colleghi rimasti alla villa di Enrico, a studiare il “luogo
del delitto”.
L’intera situazione era talmente tanto assurda e al di fuori
della portata del
mio radar abituale che avevo in un certo senso staccato la spina con
quella
realtà, smettendo di piangere e di pensare, iniziando a
convincermi che tutto
quello che mi era appena successo era soltanto un incubo, o
un’allucinazione, o
qualsiasi altra diavoleria possibile – Cristo santo, non
potevo semplicemente
rassegnarmi all’idea di aver appena vissuto una cosa del genere!
Dopo aver ottenuto il permesso dei
poliziotti, Stefano telefonò
anche alla sua famiglia e, suppongo, contattò gli altri
ragazzi rimasti alla
villa per informarsi sulla situazione. Non ebbi più modo di
parlare con lui, lo
osservai dall’abbraccio di mia madre con aria distratta,
quasi svagata, mentre
faceva su e giù con la maglietta macchiata di sangue
– di chi? –
nella saletta, il telefono all’orecchio e la voce
talmente tanto bassa da dare l’impressione che invece di
parlare muovesse solo
le labbra.
Ogni tanto usciva
un’infermiera, ignorava gli sguardi intimidatori
dei poliziotti e si avvicinava a me per controllare il mio stato. Mi
sfiorava
fronte e guance, controllava il battito del cuore dal polso, gli occhi
arrossati e poi suggeriva di farmi ingurgitare qualcosa di dolce, ma il
mio
stomaco era più annodato dei nodi del Capitan Findus, quindi
tutto ciò che
riuscivo a mandar giù era un bicchiere di acqua e zucchero.
Quando arrivarono i genitori di
Enrico, i tre agenti impedirono
loro di entrare in reparto. Li trattennero fuori, tempestandoli di
domande e di
chissà cos’altro, ma si vedeva lontano un miglio
che il padre fosse incazzato e
preoccupato insieme e che Betta stesse tremando di apprensione. Appena
mi vide
trasalì e, se possibile, impallidì ancora di
più – qualcuno doveva averle
raccontato la versione riassunta di quanto era successo – e
non riuscì a
trattenersi dall’avvicinarsi a me. Mi accorsi vagamente come
i miei genitori si
fossero mossi quasi in contemporanea per proteggermi anche da lei, ma
io
mugugnai contrariata e mi spostai da mia madre per venire abbracciata
da quella
di Enrico. Mi strinse e singhiozzò contro di me, mi
baciò sulla fronte pallida
e gelida, poi si voltò verso mia madre e le prese una mano,
limitandosi a
guardarla. Credo che tra madri si compresero più di quanto
potessi immaginare,
perché vidi la mia accennare un sorriso tra le lacrime e
Betta fare
altrettanto: mi fece piacere che i miei non accusassero lei per tutto
quel
casino – non era certo colpa di quella donna se Enrico
conduceva quella vita e
se io ci ero finita dentro, quanto piuttosto del marito, e se
c’era qualcuno da
biasimare in quella storia non era neppure Enrico, era Raffaele.
Poi non so di preciso cosa accadde
– forse la scarica di
adrenalina che mi aveva tenuto in piedi in tutto quel frattempo si era
infine
esaurita e mi aveva fatta crollare, esausta e addormentata.
Quello che so è che quando
mi ripresi ero di nuovo a casa mia, nel
tepore confortante del mio letto, stretta ad un cuscino bagnato che
dovevo aver
inzuppato con una sorta di pianto inconscio.
Non uscii di casa per tutta la
settimana seguente.
Sussultavo al minimo rumore brusco che
spezzava la quiete della
mia stanza, tremavo se udivo un ramo spezzarsi al di sotto della mia
finestra,
dormivo con le finestre chiuse e con la lampada del comodino sempre
accesa,
proprio io che non avevo mai avuto problemi ad addormentarmi al buio.
Il
dottore mi aveva prescritto delle pastiglie per farmi dormire in ogni
caso, e
non mi vergogno di dire che ne feci largo uso, soprattutto i primi
giorni.
Almeno, quando dormivo, non sognavo le mani viscide di Lorenzo addosso
a me.
Il mio cellulare rimase spento,
così non sapevo se Enrico aveva
provato a contattarmi o se lo aveva fatto Stefano, o qualcuno dei miei
amici.
So che Alessandra venne diverse volte a casa mia per trovarmi, ma io
non volevo
vedere nessuno, tantomeno lei, quindi tutto ciò che mi
restava di queste brevi
e timide visite era la voce preoccupata di mia madre che mi riportava
gli
auguri di pronta guarigione della mia migliore amica.
Le uniche persone che volevo vedere
erano mia madre, mio padre,
mia sorella e mia nonna – tutti gli altri, zii e amici vari,
erano tenuti
severamente fuori dalla mia stanza. Non avevo idea di ciò
che stava succedendo
al di fuori di quelle quattro pareti – solo tempo dopo venni
a sapere che in
tutto quel mentre ero stata protetta anche dai giornalisti, come se la
mia
tragedia in sé non bastasse.
Eppure, grazie alla lingua lunga di
mia sorella, scoprii che mia
madre si sentiva più o meno ogni giorno con Betta. Come
diavolo era possibile?
Perché si teneva in contatto con quella famiglia? Non ero
stata forse
abbastanza chiara, al riguardo? Non le avevo forse detto che non avrei
più
voluto averci nulla a che fare? Perché era ovvio che quelle
due non si
sentissero per scambiarsi ricette e chiacchiere di cose futili, visto
che la
figlia di una aveva rischiato lo stupro e il figlio
dell’altra, a quanto ne
sapevo io, era ancora in ospedale a riprendersi dalla sparatoria. Non
so se in
tutto questo c’entrasse in qualche modo Enrico –
sinceramente non ne dubitavo,
conoscendolo: probabilmente aveva chiesto lui a Betta se poteva
scoprire che
cosa mi era successo, dato che ero scomparsa nel nulla; ma, anche se
così non
fosse stato, non mi piaceva l’idea che le nostre due madri
facessero
combriccola rendendo poi inevitabile un nostro futuro incontro.
Incontro che, come avrei dovuto
immaginare, non avvenne a distanza
di molto tempo. Anzi; appena sette giorni dopo l’accaduto,
quando i miei genitori
mi accompagnarono in ospedale per delle visite di routine –
il dottore voleva
assicurarsi che non fosse più necessario prescrivermi i vari
sonniferi o
qualunque altra cosa mi avesse somministrato in quel frattempo
– fu inevitabile
incontrare, nella hall dell’edificio, la madre di Enrico che
si era allontanata
per cinque minuti dal capezzale del figlio per prendersi un
caffè al bar.
Il mio primo pensiero fu quello di
nascondermi ed evitarla: la
variante Betta portava immediatamente alla variante Enrico, e dopo una
settimana non avrei potuto incontrare una senza incappare
nell’altro; tuttavia,
mia madre le aveva già fatto un cenno da lontano e, mentre
mio padre si
dirigeva allo sportello dei ticket, io venni trascinata in un abbraccio
lacrimevole e sinceramente commosso dalla matrigna del mio Grosso
Problema
Numero Uno. O “ex”, come l’aveva
recentemente ribattezzato mio padre.
“Enrico sarebbe felice di
vederti, tesoro”, mormorò, dopo
un’educata serie di convenevoli. “Adesso mi sono
allontanata per farlo riposare
un po’, ma credo che non gli darebbe fastidio se andassi tu a
trovarlo. Cosa ne
dici? Te la senti?”
In un’occasione normale la
mia risposta sarebbe stata no, assolutamente
no, nel modo più assoluto,
scordatelo, strappami la milza piuttosto, ma quella non era
un’occasione
normale e io avevo mia madre dietro che mi punzecchiava e mi lanciava
occhiate
penetranti che mi intimavano in silenzio di essere gentile con Betta e
che
andare a scambiare due parole con Enrico non mi avrebbe di certo
uccisa. Per cui,
sentendo già l’agitazione scorrere in ogni singola
vena del mio corpo, annuii
poco convinta e mi lasciai spiegare la strada per raggiungere il suo
reparto e
la stanza: le due donne non sarebbero venute con me, a quanto pare
quella era
una cosa che avrei dovuto fare non accompagnata. Perfetto, davvero.
Per cui, visto che comunque avrei
dovuto aspettare prima che
arrivasse il mio turno per entrare dal dottore, mi diressi senza troppo
entusiasmo verso il quarto piano.
Le infermiere, per fortuna o per
sfortuna, mi riconobbero e mi fecero
passare senza fare storie.
Quando entrai nella stanza di Enrico,
questa era immersa in una
confortevole penombra e da un fastidioso silenzio, rotto solo dal
leggero
gocciolio che faceva la sostanza nella flebo man mano che il liquido
scivolava
nel tubicino trasparente. Malgrado la tristezza dell’ambiente
in sé, quella
camera non era male: tanto per cominciare era per una sola persona,
c’era la
televisione, un armadio e un tavolo per mangiare, poi sul comodino
c’era un
vasetto di una qualità di fiori che non conoscevo ma che
faceva un buon
profumo, portato sicuramente da Betta, e che rallegrava la stanza.
Chiusi la
porta alle mie spalle con delicatezza, in modo da non far svegliare
subito Enrico,
e con un brivido di nervosismo lungo la spina dorsale mi guardai
intorno,
torcendomi le mani. Dio mio, che cosa ci
facevo lì? Perché mi ero lasciata convincere?
Accanto al letto c’era una
sedia, o meglio, una specie di
poltroncina, e visto che era l’unico posto nel quale potevo
sedermi fu lì che
mi diressi, camminando praticamente in punta di piedi. Tolsi il libro
che vi
aveva lasciato la madre – Mille
splendidi
soli, a quanto pare io e Betta avevamo letture in comune
– e mi sedetti,
spostando leggermente la sedia in modo da non essere troppo attaccata
al letto.
E adesso non sapevo che cosa fare. Svegliarlo era fuori discussione:
non volevo
anticipare il momento della verità, soprattutto dato che non
avevo alcuna idea di
come affrontarlo; d’altra parte, non è che potevo
rimanere in eterno lì ad
attendere che il bell’addormentato abbandonasse il mondo dei
sogni – Betta
poteva fare di tutto per trattenere i miei genitori giù al
bar, ma
probabilmente si sarebbero stufati in fretta di aspettare. Soprattutto
mio
padre, che non mi era sembrato molto propenso a lasciarmi andare da
sola a
parlare con Enrico. E come biasimarlo?
Comunque, non ero arrivata che da
cinque minuti, più o meno,
quando il ragazzo che dormiva beato nel letto d’ospedale
iniziò a muoversi.
Vidi il suo respiro cambiare ritmo, le palpebre serrarsi con forza come
a voler
trattenere un sogno, e le labbra socchiudersi per rilasciare un ansito
quasi
doloroso: evidentemente neanche per lui il sonno indotto dai farmaci
era troppo
pacifico. Poi gli occhi si schiusero, le sopracciglia si aggrottarono,
e la
testa si mosse debolmente come per cercare la madre; e invece fu me che
trovò.
In un primo momento non parlammo: ci
limitammo a fissarci a
vicenda, Enrico probabilmente troppo sorpreso dalla mia presenza per
dire
qualcosa, e io troppo scioccata dal fatto di essere davvero
lì, con lui,
malgrado quanto mi fossi ripromessa di fare.
Sostenere il suo sguardo mi fu
impossibile. “Non sarei dovuta
venire qui”, mormorai, alzandomi di scatto e barcollando
lievemente per la
fretta con la quale mi ero mossa. Tuttavia lui fu ancora più
veloce di me,
perché malgrado le sue condizioni riuscì ad avere
abbastanza riflessi da
afferrarmi il polso con la mano collegata alla flebo, e con essa
trattenermi
con una forza sorprendente accanto al lui.
“No, per favore”,
furono le sue prime parole, roche e sussurrate.
“Giulia, dobbiamo… parlare.”
Distolsi lo sguardo da lui, contai
fino a cinque, presi un
profondo respiro e poi tornai a guardarlo. “Hai ucciso un
uomo, Enrico. Non c’è
molto di cui parlare”, mormorai, dicendo per la prima volta
ad alta voce le
parole che mi avevano torturato in quell’orrenda settimana.
“Ti prego, siediti. Voglio
che ascolti quello che ho da dire”,
ripeté supplicante, guardandomi con quegli occhi verdi
annebbiati dagli
antidolorifici e chissà cos’altro. Non
l’avevo mai visto in quelle condizioni,
e non parlo della flebo e tutto il resto, per cui probabilmente fu quel
maledetto
istinto da madri barra infermiere che posseggono in linea di massima
tutte le
donne a riportare il mio sedere su quella sedia e a mettermi in
predisposizione
d’animo di ascoltarlo. Era strano come il mio cervello
tendesse a scindere lui
dalla faccenda di Lorenzo, come se le due cose, in realtà,
non fossero
collegate; guardando in faccia Enrico, infatti, mi risultava sempre
più
difficile riaggrapparmi all’immagine di lui che sparava
all’amico, quasi che
questa seconda figura non esistesse che all’interno della mia
mente. Oh mio
Dio, stavo già impazzendo? Alessandra aveva avuto ragione,
quando aveva detto
che avrei avuto bisogno di una terapia.
“Cazzo, mi fa male vederti
così, e sapere che per la maggior parte
è colpa mia…” Gli scappò a
mezza voce, mentre continuava a tenere la mia mano
stretta nella sua. “Ascoltami, non posso scusarmi per quello
che è successo.
Era inevitabile, Giulia. Non potevo fare altrimenti… era me
o lui! E comunque
credo che l’avrei fatto lo stesso per il modo in cui ti ha
trattato.”
A quel punto feci per staccarmi dalla
sua presa – toccarlo mentre
diceva quelle cose era intollerabile, per quanto in fondo mi
dispiacesse, mi
ispirava solo disgusto – ma tendo sempre a dimenticare che
Enrico ha una forza
particolare, e non fu difficile continuare a trattenermi. “No, ascolta!” Riprese con
maggior vigore, notando il mio tentativo
di fuga. “Ascolta. Non
avrei mai
voluto che assistessi a una cosa del genere, e mi dispiace, davvero. So
di non
poterti chiedere di perdonarmi, non adesso almeno…
Però mi dispiace. Io spero
solo che… beh, mi auguro che tu possa riuscire a guardarmi
di nuovo come facevi
prima, non con questi occhi terrorizzati, come se io fossi il mostro
che
spaventa i bambini. Non ho mai voluto spaventarti, Giulia, lo
sai…”
“Dio mio, ti rendi conto di
quello che stai dicendo?” Lo
interruppi, riuscendo finalmente a far sì che mi lasciasse
la mano e
stringendomela in grembo, sentendola improvvisamente fredda dopo il
lungo
contatto con lui. “Credi che tutto possa tornare come prima?
Con la situazione
che c’era? Sarebbe tutto molto diverso se io provassi
qualcosa per te, Enrico,
ma ora come ora mi stai chiedendo l’impossibile. Sono venuta
solo perché mia
madre e tua madre mi hanno convinta, ma era per dirti addio, non certo
per fare
pace o chissà cos’altro. Per cui non cercare di
giustificare le tue azioni o
cose del genere, tanto non serve a niente.”
Come se non capisse le mie parole, o
meglio, come se non volesse farlo,
Enrico aggrottò le
sopracciglia e all’improvviso la sua espressione divenne
furiosa. “Menti
sapendo di mentire”, sibilò, incapace di
trattenere la rabbia. “Sei davvero
convinta di non provare niente, per me? E allora, tutte le tue premure,
le
nostre serate, i nostri baci non
significano niente? Ci conosciamo da più di due mesi, ormai,
non riuscirai a
farmi credere davvero che io non conto nulla per te!”
“Non ho detto
questo”, ribattei, senza guardarlo direttamente
negli occhi. Non ce la facevo. “Ho detto solo che qualsiasi
cosa ci sia tra
noi, o meglio, ci sia stata, non
è
sufficiente a farmi superare questa… tutto quello che
è successo. E tu non puoi
chiedermi di farlo, cavolo, neanche tu puoi essere così
egoista”, aggiunsi
abbassando la voce. Mi massaggiai le tempie, che già
iniziavano a pulsare per
un imminente mal di testa; tutta quella discussione non mi aiutava di
certo a
stare meglio.
“Ma cazzo,
Giulia!” Ringhiò a mezza voce, sforzandosi di
mettersi
a sedere con notevole sforzo. Non feci nulla per aiutarlo, limitandomi
ad
osservarlo con uno sguardo tristemente neutro. “Mi vuoi
punire per aver cercato
di proteggerti, di difenderti? Di che cosa mi avresti accusato se
invece non
fossi venuto in tuo soccorso? Avresti cercato una scusa per mollarmi in
ogni
caso, non credere che non lo sappia!”
“Oh, smettila di fare queste
scene, Enrico. Troverai centinaia di
ragazze dopo di me pronte a caderti tra le braccia, ragazze che non
sapranno
mai cosa sei in grado di fare, ed è meglio così.
Cerca di guarire da questa
ridicola ossessione che hai per me”, sbottai aspramente,
alzandomi e
allontanandomi dal letto. Incrociai le braccia, sentendomi peraltro
incredibilmente
stronza, ma cercando allo stesso tempo di tenere duro e continuare su
quella
scia: non potevo permettermi di cedere, o non me ne sarei liberata mai
più.
“Ossessione?
Porca
puttana, Giulia, io ti amo!”
Per un’abbondante manciata
di secondi cessai di respirare.
Boccheggiai, senza sapere cosa dire, senza neppure sapere se da me ci
si
aspettasse una qualsiasi risposta dopo una simile affermazione. Non
poteva
averlo detto davvero, accidenti a lui… Non poteva aver osato
tanto!
Tornai a fissarlo, incredula, e
dovetti deglutire più volte prima
di riuscire a parlare. “Mi dispiace, ma questo è
un tuo problema”, mormorai, mantenendomi
ben lontana dalle sue grinfie.
Enrico non parve credere alle mie
parole, e uno sbuffo che voleva
essere divertito gli scappò dalle labbra screpolate.
“E questo che cosa
vorrebbe dire?” Fece, senza smettere un solo istante di
guardarmi. Dio mio,
soltanto i suoi occhi erano capaci di mettermi così tanto a
disagio! La sua
voce, poi, era terribilmente pacata, come se in realtà
stesse covando molta più
rabbia di quanto non dimostrasse. Faceva paura.
“Significa che non posso
dimenticare che hai ucciso un’altra
persona a sangue freddo, e che qualsiasi cosa tu possa provare nei miei
confronti non cambia niente. Io te l’ho detto molte volte,
Enrico, che la vita
di merda che fai avrebbe compromesso qualsiasi cosa ci fosse tra noi,
ma tu non
mi hai mai creduto… E ora assumitene le
conseguenze”, risposi, ancora stordita
per quell’inattesa confessione.
Aveva detto che mi amava…
Era una bugia? Lo aveva detto solo per
legarmi ancora di più lui? Beh, in ogni caso, qualunque cosa
fosse, aggravava
soltanto la situazione.
Ma io non potevo farci niente! Non
potevo stare con un assassino,
che diamine!
“Quindi avevo ragione, mi
stai lasciando”, affermò la sua voce
gelida, facendomi rabbrividire.
“I fidanzati si lasciano,
Enrico. Io voglio solo smettere di
frequentarti”, replicai.
Sostenne a lungo il mio sguardo, senza
sembrare intenzionato a
cedere, e poi riprese la parola. “Quindi, mi stai dicendo che
è finita? Che è
finita perché ti ho salvato da uno stupro e
perché ho ucciso uno dei miei
ragazzi per te?”
“Non ti ho chiesto io di
ammazzare Lorenzo!” Sbottai con una vena
isterica nel tono di voce, rendendomi conto di essere prossima alle
lacrime.
“Non osare mettermi addosso una simile
responsabilità, cavolo, non te lo permetto!”
Vagamente mi ricordai di trovarmi pur
sempre in ospedale, e che
anche se avevamo la porta chiusa qualche infermiera che ci passava
davanti
avrebbe potuto sentire i nostri discorsi, perciò mi
assicurai di abbassare la
voce di diverse ottave. “Anche se alla polizia ho detto che
si è trattato di
legittima difesa, Enrico, potrebbero non affidarsi completamente alla
versione
di una ragazza sotto shock e decidere di fare altre indagini; per cui
ti
consiglio di non mostrarti così soddisfatto
dell’esito di quella giornata, e
soprattutto di non sbandierare ai quattro venti la cazzata che
l’hai fatto per
me”, sibilai, avvicinandomi di un passo solo per accertarmi
che non gli
sfuggisse una sola parola del mio discorso. “Anche
perché entrambi sappiamo che
non era necessario che tu gli sparassi, visto che Lorenzo non ti stava
più
puntando la pistola addosso.”
“E questa
cos’è, una minaccia? Vorresti farmi credere che
testimonieresti contro di me, in tribunale?”
Ribatté, sorpreso e in un certo
senso anche offeso.
“No, non mi hai
capito”, lo contraddissi ancora, incrociando le
braccia sotto al seno come se quel semplice gesto potesse proteggermi
da lui. “Voglio
dire che io c’ero, so cos’è successo, e
se puoi sperare di convincere gli altri
della giustizia della tua versione dei fatti non puoi fare lo stesso
con me. Mio
Dio, ho visto la tua faccia quando hai premuto il grilletto, Enrico! Ci
hai goduto, porca
miseria…”
Quando tacqui lui non aprì
bocca per smentirmi, e ciò fu di per sé
una risposta più che chiara. Scossi il capo, sfinita, e mi
passai una mano tra
i capelli. “Comunque, non ha più importanza.
Voglio solo… dimenticare,
e posso farlo solo se non ti avrò più davanti
agli
occhi a ricordarmi quella scena. Mi dispiace, Enrico, davvero. Per
certi versi,
sei stato un amico.”
A quel punto sembrò
riscuotersi dal suo silenzio – anzi, no,
sembrò proprio rendersi conto che facevo sul serio.
Già, il mio non era un
bluff. “No, Giulia, aspetta, per
favore…” Mormorò, allungando una mano
verso di
me per invitarmi – inutilmente – ad avvicinarmi.
Feci ancora un cenno di diniego con la
testa e raggiunsi la porta,
aggrappandomi alla maniglia. Ero stata fin troppo gentile con lui, alla
fine, e
non avrebbe neppure mai scoperto quanto quella calma apparente mi fosse
costata, dato che tutto quello che volevo adesso era scoppiare in
lacrime sulla
spalla di mia madre.
“Sono io che te lo chiedo
per favore, Enrico, davvero. Per favore,
non cercarmi più”, dissi
ancora, ormai dandogli le spalle. Spalancai la porta quasi di scatto e
sussultai nel trovarmi di fronte un’infermiera, la cui
presenza se non altro
metteva a tacere le suppliche di Enrico e dava a me un ulteriore motivo
per non
abbandonarmi al pianto, non ancora. Abbassai lo sguardo per non
mostrarle gli
occhi arrossati, borbottai un saluto e fuggii via, letteralmente,
attraversando
il corridoio nel modo più veloce che consentivano le regole
dell’ospedale.
Alla fine ero riuscita a liberarmi di
Enrico, avevo fatto quello
che avrei dovuto fare molto tempo prima; sarei dovuta essere al settimo
cielo,
avrei dovuto provare un senso di leggerezza pari solo a quello delle
aquile che
volano in cielo… Ma allora perché, porca miseria,
avevo questo disperato
bisogno di piangere?
‘Io
ti amo’, aveva
detto. Assurdo come quelle tre misere paroline sembrassero avermi
incatenato a
lui come nient’altro avrebbe mai potuto fare.
_____________________________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Deo gratias, un altro capitolo... Che
travaglio!
Ormai sarete abituate alle mie scuse e ai miei ritardi, per cui non
sprecherò altro spazio a genuflettermi e chiedere perdono.
xD Mi limiterò a ringraziare tutti coloro che sono giunti
fin qui a dispetto di tutti gli ostacoli, e vi tranquillizzo dicendo
che: tra due, massimo tre
capitoli questa storia conoscerà la parola Fine! Ommioddio
non ci posso credere, se ci penso non so se esserne felice, triste, o
chissà cos'altro. Felice perché dopo tre anni mi
sembra il minimo concluderla, volente o nolente, ma triste
perché comunque mi ci sono affezionata, e non credo di amare
i personaggi delle mie altre storie così come amo questi...
Va bon, conserverò le lacrime per l'ultimo capitolo,
promesso. :P
Detto ciò, voglio ringraziare chi ha recensito lo scorso
capitolo, vale a dire le meravigliose Sylphs, just_love_me, alexy95, Eleanor Rigby, jede e Dayan18 ;)
Nonché tutte coloro che leggono in silenzio,
laggiù dal fondo della platea e anche voi lassù,
in galleria, vi adoro!, e che continuano ad aggiungere questa storia
alle Preferite e alle Seguite :)
Tornando velocissimamente alla storia, si accettano scommesse :D
Secondo voi che cosa succederà ora? Non c'è
più speranza per i nostri eroi? Siete più
propensi ad un lieto fine o ad un finale triste? Non basatevi sui
vostri desideri, so che voi volete le conigliate e i "vissero per
sempre felici e contenti", più che altro vorrei sapere se,
con una trama del genere, voi, da scrittori/scrittrici, optereste per
un finale lieto o uno strappalacrime; così, tanto per
scambiare opinioni tra autori ;)
Bon, detto questo, credo proprio che vi lascerò al momento
tanto atteso, ossia "lapidiamo la scrittrice"! xD Prima di
auto-esiliarmi sappiate che non finirò mai di ringraziarvi
per l'assiduità con cui mi avete seguito. :) Un abbraccio a
tutti, ci si legge al prossimo capitolo! Buona serata, dalla vostra
Niglia.
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Capitolo 30 *** Capitolo XXX. ***
Capitolo XXX
Trascorsero i giorni, le settimane, i
mesi.
La scuola era iniziata a pieno ritmo:
anche io mi ero rimboccata
le maniche come tutti, buttandomi a capofitto nello studio per cercare
di
dimenticare. Cosa che comunque si rivelava essere più
difficile del previsto,
dato che della mia ‘disavventura’ ne parlava
praticamente tutto il paese;
persino i professori mi guardavano in modo strado, per non parlare
delle mie
compagne di classe, che mi fissavano come se fossi stata una specie di
creatura
aliena con tre teste e una pelle verdognola. Era una fortuna che
Alessandra
fosse nella mia stessa classe e mi facesse da scudo, perlomeno nei
primi tempi:
averla dalla mia parte mi aveva permesso di ignorare le altre compagne
pettegole e di provare a fingere che tutto fosse normale. Man mano che
il tempo
passava, grazie a Dio, la vicenda della quale ero stata vittima e
testimone
andava via via diradandosi nella mente di tutti, soppiantata da
pettegolezzi
più nuovi e succulenti, e io potei riprendere ad uscire
più o meno
tranquillamente.
Per Natale, solo io e la mia famiglia
ricordavamo l’accaduto.
Non sentii più Enrico
né Betta, ma sapevo – tramite voci
indiscrete – che era stato messo in un certo senso agli
arresti domiciliari,
che ogni giorno gli agenti di polizia andavano a casa sua per fargli
firmare
una sorta di foglio delle presenze e per controllare che tutto fosse a
posto.
Tecnicamente non era ancora stato accusato in versione definitiva, ma
durante
la prima parte del processo – alla quale io non avevo voluto
partecipare – il
giudice sembrava aver ritenuto più sicura la soluzione della
misura cautelare,
in attesa del giudizio conclusivo. Sapevo che la seduta finale
dell’udienza si
sarebbe tenuta in primavera, tra una cosa e l’altra, in data
ancora da
destinarsi; tuttavia mi era arrivata una lettera dal tribunale nella
quale
venivo invitata a presentarmi come parte lesa, testimone e non so
cos’altro… Fu
mio padre a spiegarmelo, e anche senza capire il linguaggio
giuridico-burocratico avevo afferrato il senso generale, e
cioè che stavolta
non avrei potuto evitare di andarci. Nascondere la testa sotto la
sabbia non
sarebbe servito a nulla, dopotutto, e magari affrontare anche
quell’ultimo
ostacolo mi avrebbe potuto aiutare a concludere quel capitolo della mia
vita
senza bisogno di ricorrere davvero a uno psicologo – di cui
peraltro continuavo
a credere di non aver bisogno. L’unica cosa che mi
preoccupava, in realtà, era
ritrovarmi nella stessa stanza insieme ad Enrico.
Mi era capitato di pensare spesso a
lui, in quegli ultimi tempi,
specialmente quando mi trovavo da sola a letto, nel buio, prima di
addormentarmi. Ripensavo a tutto quello che era successo durante
l’estate e
alle situazioni che, volente o nolente, mi avevano legata a lui e fatta
persino
affezionare – non ho un pezzo di ghiaccio al posto del cuore,
alla fin fine – per
non parlare delle ultime parole che mi aveva detto quel giorno in
ospedale,
quando gli avevo annunciato di non voler più avere nulla a
che fare con lui… Ti amo, ti amo,
ti amo, aveva detto,
proprio così, e più ci ripensavo, sforzandomi di
trovare nell’intonazione con
cui quelle parole erano state pronunciate qualcosa che mi
tranquillizzasse sul
fatto che fosse l’ennesima bugia, l’ennesimo
tentativo di coercizione, insomma,
uno dei suoi trucchi.
Non potevo tollerare che fossero
sincere, non dopo tutto quello
che era successo.
Una settimana dopo Capodanno mi
capitò di incontrare Stefano, per
caso. Alessandra aveva organizzato una cena in pizzeria per il suo
compleanno, e
si può dire che quella fosse la mia prima vera e propria
uscita spensierata
dopo mesi in cui facevo la spola dall’ospedale alla polizia,
che di tanto in
tanto mi convocava per qualche dettaglio mancante o poco chiaro del mio
fascicolo; erano mesi che non vedevo Enrico e che non avevo sue notizie
–
neppure da mia madre, che mi aveva detto di non aver più
sentito Betta dal
giorno in ospedale in cui avevo parlato con il figliastro.
Lo incontrai alla toilette –
ci scontrammo sulla soglia, per la
verità, mentre io cercavo di uscire e lui di entrare. Mi
bloccai a metà di un
movimento e sentii l’aria defluire dai polmoni,
improvvisamente spaventata
all’idea di poter trovare anche qualcun
altro insieme a lui; tuttavia le buone maniere ebbero la
meglio, e riuscii
a salutarlo e persino ad accennare un breve sorriso. “Ciao,
Stefano…” Mormorai,
lanciando un’occhiata verso il corridoio dal quale era
arrivato.
Lui dovette comprendere al volo la
situazione perché mi rassicurò
subito. “Lui non
c’è, stai
tranquilla”, disse piano dopo aver ricambiato il saluto. Mi
chiesi quanto
sapesse di quello che era successo in ospedale, quanto Enrico gli
avesse
raccontato, e se, in qualche modo, mi disprezzasse per come avevo
troncato ogni
rapporto con il suo migliore amico. Per quanto ritenessi di essere
dalla parte
della ragione, infatti, non potevo fare a meno di provare un certo
imbarazzo,
quasi come se l’avessi tradito io.
“Come stai?” Mi
chiese, gentilmente. Sembrava non esserci nessun
fine, ma chi mi diceva che non sarebbe andato a riferire quello che gli
dicevo
ad Enrico?
Scrollai le spalle, quasi
indifferente. “Bene, bene… Tu?” Avrei
voluto chiedergli se avesse avuto problemi con la polizia anche lui, ma
come si
fa ad essere delicati nel chiedere a qualcuno se era indagato in un
caso di
omicidio?
“Anche io,
grazie”; sorrise, e fu spontaneo. Come se trovasse del
tutto normale chiacchierare con me, quando invece l’unica
occasione in cui
avevamo scambiato qualcosa di più dei semplici saluti di
circostanza era stata
esattamente quella del terribile fattaccio.
Sul suo viso passò qualcosa, un’ombra o una ruga
tra le sopracciglia chiare, e
poi con un sospiro, come se in realtà non volesse, aggiunse:
“Non posso dire lo
stesso di Enrico, però.”
Solo sentir pronunciare il suo nome ad
alta voce mi formò un
groppo in gola. “Stefano, non ne voglio parlare”,
replicai a mezza voce,
cercando di superarlo e andarmene. Tuttavia lui mi posò una
mano sulla spalla
per trattenermi – doveva essere una prerogativa di Enrico e
dei suoi amici
quella, evidentemente.
“No, ascoltami,
sarò breve. Per favore”, mi supplicò
quasi. E
allora ricordai che Enrico era suo cugino, che oltre ad essere amici
erano
anche parenti, e che probabilmente malgrado ciò in cui erano
invischiati fino
alla punta dei capelli gli voleva davvero bene, e avrebbe fatto
qualsiasi cosa
per lui. Forse persino mettere una buona parola con me? Ah! Poteva
provarci, ma
era fiato sprecato.
Mi voltai senza rispondergli,
facendogli capire che malgrado tutto
l’avrei ascoltato.
“Puoi anche non crederci, ma
non mi ha mandato lui”, esordì,
avanzando di un passo verso di me. Ebbi modo di rendermi conto solo in
quel
momento quanto gli somigliasse, anche fisicamente, non fosse stato per
il fatto
che Stefano aveva una carnagione meno olivastra e i capelli di un
castano
chiaro – che un tempo forse erano stati biondi. Niente a che
vedere con la folta
chioma corvina di suo cugino che io, fatico ad ammetterlo, adoravo.
“So che non
è un ragazzo facile da gestire, lo conosco da una vita, ma
ti posso assicurare
che non ti ha mai preso in giro sui suoi sentimenti per te. In genere
è sempre
stato molto chiuso, è orgoglioso e testardo, e quando mi ha
raccontato quanto
si fosse lasciato andare con te non ci ho neppure voluto
credere… Capisco che
quello che è successo non sia facile da digerire, ma sei
davvero convinta che
non valga nemmeno la pena di provarci?”
Lo guardavo senza sapere che cosa
ribattere, tenendo le braccia
ostinatamente incrociate sul petto e continuando a mordicchiarmi il
labbro
inferiore dall’agitazione. Non mi aspettavo di dover
affrontare una predica
persino da parte di Stefano, prima o poi – la prossima volta
avrei cercato di
non allontanarmi dai miei amici da sola – e inoltre trovavo
anche un filino
assurdo che avesse la faccia tosta di chiedermi di provare a
dimenticare quello
che era successo. Non stavamo parlando di un furto di caramelle, che
diamine,
ma di un ragazzo di venticinque anni che aveva ammazzato a sangue
freddo uno
dei suoi amici, e che per di più non sembrava neppure
provarne rimorso!
“Senti, Stefano, non so che
cosa pensi di ottenere con questo
discorso…” Tentai alla fine, dopo aver lasciato
passare una lunga manciata di
secondi in silenzio. “Mi dispiace che Enrico stia male,
davvero, non sono
un’insensibile, ma non posso farci niente. Tra me e lui non
può funzionare,
siamo troppo diversi, le nostre vite sono troppo diverse, e io questo
gliel’ho
già detto. ”
Mi fa
paura anche solo
l’idea di trovarmi vicino a lui, aggiunsi silenziosamente,
senza trovare il coraggio di dirglielo ad alta voce. Forse tacqui
perché sapevo
che Stefano avrebbe fedelmente riferito quella conversazione a suo
cugino, e
malgrado tutto una frase del genere sembrava troppo crudele estrapolata
dal
contesto – oh, Dio, ero così confusa! Doveva
preoccuparmi la mia attuale
incapacità di ferire anche solo indirettamente Enrico, la
causa principale dei
miei problemi?
Forse avrei dovuto prendere sul serio
l’invito di Alessandra e
andare in terapia.
Stefano si avvicinò di un
altro passo, e quando parlò la sua voce
era di qualche ottava più bassa. Nel bagno
c’eravamo solo noi, da chi aveva
paura di farsi sentire? “Giulia, Enrico non è una
persona che va in giro a
sparare alla gente senza motivo”, sussurrò, con
un’espressione terribilmente
seria e, potrei giurare, anche un po’ arrabbiata. No, dico,
scherziamo? Che
motivo aveva di arrabbiarsi con me? “È stato un
incidente, e lui adesso è a
pezzi – e non lo dico per farti sentire in colpa o per far
leva sulla tua
pietà, ma perché vi ho visto insieme, e so cosa
c’era tra di voi anche se tu
sei così codarda da voler continuare ad ignorarlo.”
Boccheggiai, incredula.
“Come ti permetti? Tu non sai niente…”
“No, ascoltami, io so
più di quanto pensi, non sono un idiota”, mi
interruppe, avvicinandosi ancora e costringendo me a premermi contro il
muro
per allontanarmi da lui. “Ma non vedi che state soffrendo
tutti e due? In
questo momento Enrico ha la tua stessa espressione, perché
stare lontano da te
lo sta uccidendo più di quanto non stiano facendo gli
arresti domiciliari. E io
non voglio vedere mio cugino in queste condizioni per colpa tua, lo
capisci? Per
non parlare del fatto che non si tratta solo di una semplice questione
sentimentale, ma anche giuridica – sta rischiando la galera
solo perché ha
fatto tutto il possibile per impedire a Lorenzo di violentarti, voglio
che
questo ti sia chiaro!”
Adesso mi stavo arrabbiando sul serio,
basta essere gentili.
“Oh, ma insomma, Stefano,
che cosa vuoi? So benissimo quello che è
successo e so che cosa ho visto, e ho già detto che mi
dispiace per quello che
sta passando Enrico, l’ho detto a suo tempo anche a lui! Ma
non sono una santa
né tantomeno una martire, e dopo tutto quello che io ho passato quest’estate
direi che ho il sacrosanto diritto di infischiarmene
del prossimo e pensare per un po’ solo ed esclusivamente a me
stessa! Capisco il
tuo punto di vista, stai difendendo tuo cugino e mi sta bene, mi sta
bene anche
che tu mi consideri una stronza. Non me ne frega niente! Non
è sgridandomi né
tantomeno minacciandomi che otterrai qualcosa da me, anche
perché è lo stesso
metodo che ha utilizzato il tuo adorato cugino per costringermi a
frequentarlo
e hai visto in che modo di merda è finita questa storia. Per
cui, se era tutto
qui quello che sei venuto a dirmi, allora puoi anche andartene prima
che io
inizi a diventare volgare.”
Speravo di essere riuscita ad
esprimermi in modo piuttosto conciso.
Lui mi fissò per un
po’ in silenzio, mordendosi l’interno del
labbro inferiore come se si stesse sforzando di non dire qualche altra
cattiveria; scosse lentamente la testa, senza smettere di guardarmi,
poi
indietreggiò restituendomi il mio spazio personale e
permettendomi di tornare a
respirare normalmente. La sua somiglianza con Enrico non sarebbe stata
una
buona cosa qualora la discussione si fosse accalorata un tantino di
più. “Stai
facendo un errore, Giulia”, disse alla fine, con un tono
più pacato di prima e
forse anche rassegnato. “Lui ti ama davvero.”
Sobbalzai, non aspettandomi una
conclusione del genere. Lui ti ama.
Porca
puttana, Giulia, io ti
amo!
Con un gemito sofferente mi massaggiai
le tempie, come a voler
dimenticare una volta per tutte quelle parole. Tentativo inutile! Ma
che
diavolo avevo combinato nella mia vita precedente per meritarmi una
tale
quantità di disgrazie in questa?
“Può anche
essere, Stefano, ma questo non basta”, ribattei,
abbassando lo sguardo. “Non mi
basta.”
Il suo sospiro mi arrivò
con lo stesso furioso rimbombo che
avrebbe fatto un grido. “Enrico mi aveva detto che eri
testarda, ma io non ci
avevo voluto credere.”
Non roteai gli occhi solamente
perché avevo serrato con forza le
palpebre. “Non è questione di essere testarda,
Stefano, possibile che nemmeno
tu lo capisca? È questione di avere dei principi, di seguire
delle regole, di
avere dei paletti! Paletti che, come abbiamo visto, Enrico non si fa
scrupoli a
ignorare. È un cane sciolto, una… una mina
vagante! Non sai mai che cosa puoi
aspettarti, da lui. Dio, ma ti sembra normale uno che ti fa rapire per
essere
sicuro che tu accetti il suo invito a uscire? Che ti fa seguire dai
suoi amici?
O che gira con una pistola carica in macchina, e che non esita a
usarla? Dimmi,
è testardaggine, questa? Io credo che il mio sia solo un
feroce istinto di
autoconservazione.”
Conclusi la mia tirata fissando un
punto indefinito del pavimento,
e anche se così non potevo vederlo in faccia era palese che
non si fosse perso
nessuna parola del mio discorso. Enrico poteva amarmi e –
okay, sì, potevo
provare qualcosa anche io – ma non poteva essere sufficiente!
Non si può vivere
di solo amore, e chi dice il contrario è soltanto un folle
romantico innamorato
più dell’idea dell’amore che non
dell’amore stesso.
Io volevo una vita tranquilla, porca
miseria. Non era una
richiesta così impossibile, la mia!
Benché fossi quasi convinta
che quella discussione fosse appena
entrata nel vivo, Stefano mi sorprese scrollando le spalle con aria
definitiva.
“Beh, io ho fatto la mia parte. Mi dispiace di non essere
riuscito a farti
ragionare”, disse, improvvisando un debole sorriso che non
raggiunse gli occhi.
Veramente ero convinta di essere
l’unica ad aver mantenuto quella
rara capacità di riflettere, ma a quanto pare lui non era
dello stesso avviso:
evidentemente per quelli come loro ragionare
significava finire per accettare ed essere d’accordo su
qualsiasi cosa
dicessero. In tal caso avrei dovuto dargli ragione, non sarebbe mai
riuscito a
farmi “ragionare”.
“Allora divertiti con i tuoi
amici. Ci vediamo in giro”, mi salutò
alla fine, aggirandomi e uscendo dal bagno. Solo quando il tonfo della
porta
che si chiudeva dietro di lui rimbombò nella stanza mi
permisi di sospirare,
sentendomi intimamente stanca per quel confronto imprevisto che,
peraltro, mi
aveva lasciata con una marea di dubbi e persino di sensi di colpa in
più di cui
ad essere sincera avrei fatto volentieri a meno. Imprecai due o tre
volte, ma
non servì a scaricare la tensione.
“Non è colpa
tua”, dissi decisa al mio riflesso. Il suono della
mia voce parve terribilmente patetico nell’ovattato silenzio
della toilette, e
prima che iniziassi a intavolare una discussione anche con lo specchio
aprii il
rubinetto dell’acqua e mi sciacquai il viso, sperando che il
freddo mi aiutasse
a tornare in me.
Una volta tornata al tavolo, feci del
mio meglio per fingere che
quella conversazione non fosse mai avvenuta. Per fortuna Alessandra era
distratta da Riccardo e dagli altri amici, dunque quando ripresi posto
accanto
a lei e allungai una mano tremante verso il mio bicchiere di acqua
fresca si
limitò ad osservarmi con un sopracciglio inarcato e ad
esclamare: “Dov’eri
finita, geme? Ti avevamo data per dispersa!”
E a mia volta mi limitai a sorriderle
e a bere la mia acqua, che
tuttavia non servì per niente a rilassarmi.
“C’era un po’ di fila in bagno, e
poi ne ho approfittato per sistemarmi il trucco”, risposi,
complimentandomi tra
me e me per essere riuscita a non far tremare anche la voce.
Non volevo rovinarle il compleanno con
i miei problemi; Stefano aveva
guastato la mia serata, ma io non avrei fatto lo stesso con la mia
amica –
quella situazione aveva messo indirettamente in pericolo anche lei, in
fondo. Non
mi ero dimenticata di quando Enrico aveva minacciato di far del male ai
miei
amici se io non avessi accettato di uscire con lui – Dio,
quanto suonava
ridicola l’intera faccenda! E poi, mi fa male ammetterlo,
ormai avevo iniziato
a confidarmi sempre meno con Alessandra per timore di intaccare la sua
felice
storia d’amore con Riccardo – anche se suppongo che
un altro timore non meno grave
fosse il mio essere certa che lei non avrebbe mai capito se un giorno
le avessi
rivelato quali erano davvero i miei sentimenti.
Avrei voluto che Stefano avesse
ragione, in quel caso, davvero, ma
purtroppo ciò che provavo non era abbastanza. Mi chiesi se
potesse mai esserlo,
in futuro.
*
Cinque mesi dopo.
Il processo si tenne in
un’assolata e calda giornata di giugno,
esattamente a un anno dall’inizio di tutta quella storia.
Era stato mio padre a prendere accordi
con il legale di Enrico,
tale avvocato Martis, per cui sapevamo di doverci trovare davanti al
tribunale
almeno un’ora prima di entrare in aula – anche in
modo che lui potesse rivedere
insieme a me le domande che mi avrebbe fatto durante la mia
testimonianza.
L’ultima volta che ci eravamo incontrati nel suo ufficio,
alla presenza dei
miei genitori, mi aveva avvertito che anche il Pubblico Ministero
avrebbe
potuto intervenire e pormi qualche domanda, e in tal caso io non mi
sarei
dovuta lasciar prendere dal panico ma dimostrare sicurezza e rispondere
in
tutta sincerità. Più facile a dirsi che a farsi!
Non avevo mai assistito in
prima persona ad un processo – se si escludono quelli dei
film – e l’idea di
dover parlare a un’aula di tribunale piena di gente, compreso
Enrico, la mia
famiglia e chissà chi altri, non era un pensiero che mi
riempiva di
tranquillità. Comunque avevamo fatto le prove, e quando mia
madre mi aveva suggerito
con un mezzo sorriso di prenderla come un’esercitazione in
vista dell’orale
dell’esame di maturità qualche interruttore dentro
di me si attivò e mi permise
di concludere l’appuntamento con l’avvocato
più facilmente di quanto avessi
immaginato.
Inutile dire che, trovandomi di fronte
alla facciata in stile greco
del tribunale – nel cui centro un altissimo pronao retto da
pilastri e colonne era
completato da una grande scritta recante la parola latina IVSTITIA – tutti i buoni
propositi erano spariti e l’ansia e
l’agitazione erano tornate più forti di prima.
Mentre mio padre si era allontanato
per andare a caccia di
parcheggio, io, mia madre e mia sorella iniziammo ad entrare
nell’edificio per
cercare un po’ di frescura – e perché
loro due avevano bisogno di trovare un
bagno, mentre io, immersa nel mio subbuglio interiore, non riuscivo a
provare
nessuna urgenza fisica – né sete, né
fame, né nient’altro, come se le mie
viscere si fossero attorcigliate tutte su loro stesse bloccando
qualsiasi
voglia. Per cui ero rimasta da sola nell’ampio ingresso
– sola in senso
figurato, visto il via vai continuo di persone che affollavano il
palazzo di
giustizia. Con un gesto nervoso sistemai le bretelline sottili del mio
vestito
al di sotto della giacchetta color panna che indossavo per non entrare
in aula
con una scollatura inadeguata alla situazione; mi passai una mano tra i
capelli, mi feci aria con la mano, sfiorai prima gli orecchini e poi il
girocollo, in un’apparente sequenza senza fine di gesti
inequivocabili di
trepidazione e disagio. Non sapevo se ero più terrorizzata
dall’idea di
rivedere Enrico dopo quelli che sembravano secoli o dall’idea
di testimoniare a
suo favore davanti a una marea di gente – probabilmente era
un giusto miscuglio
di entrambi. Che stupida, perché non avevo pensato di farmi
prescrivere dei
tranquillanti dal mio medico? Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che
sentire
il mio cuore battere con una tale ferocia all’interno della
mia cassa toracica
da farmi sudare freddo e da rimbombarmi nelle orecchie come un tamburo.
Oddio, non mi era mai capitato di
persona ma speravo di non essere
prossima ad uno svenimento. Per sentito dire sapevo che non sarebbe
stata una
bella esperienza.
“Giulia?”
Al suono di quella voce rabbrividii e
trattenni il respiro,
pietrificata. Eccolo, il momento della verità! Lo sapevo che
sarebbe successo,
insomma, ero praticamente lì per lui, però... Oh, Dio, non sono ancora pronta per questo
confronto. Non sono pronta.
Non sono pronta!
Deglutii, presi un profondo respiro e
mi voltai, stringendo la
borsa con entrambe le mani per evitare di torcermele come una bambina
nervosa.
E a quel punto fu inevitabile posare i miei occhi su di lui.
Il primo pensiero che mi venne in
mente fu piuttosto sciocco:
all’improvviso Enrico mi sembrava più alto e quasi
imponente. Era vestito in
modo impeccabile – se avessero dovuto giudicarlo per lo stile
lo avrebbero
assolto da qualsiasi colpa e peccato – indossava un elegante
completo di un blu
tanto scuro da sembrare nero, e la giacca sbottonata sul petto lasciava
intravedere una camicia bianca e una cravatta altrettanto scura. Al suo
fianco
c’era l’avvocato Martis, con un’aria
terribilmente professionale e una
valigetta ventiquattr’ore in mano, tutto impegnato a
concludere una telefonata.
Comunque non dedicai all’uomo troppa attenzione, occupata
com’ero a
ri-familiarizzare con la persona di Enrico. Insomma, maledizione, era
bello.
Troppo bello. Più di quanto mi ricordassi!
Ecco perché nei mesi scorsi
avevo fatto il possibile e
l’impossibile per tenermi alla larga da lui: sapevo
l’effetto che aveva su di
me, e se avessi anche solo accettato di vederlo una volta per parlare a
mente
fredda, come mi aveva più volte chiesto tramite messaggi in
segreteria a cui
non avevo mai risposto, mi avrebbe attirato nella sua ragnatela con una
facilità impressionante. Cosa che, se avessi continuato ad
osservarlo ancora un
po’, sarebbe indubbiamente successa.
Per cui mi schiarii la voce e cercai
di accennare un sorriso –
tentativo inutile, dato che i miei muscoli facciali sembravano essersi
paralizzati. “Ciao”, dissi soltanto. Dio mio, che
situazione imbarazzante... E
adesso, come mi sarei dovuta comportare? L’ultima volta che
ci eravamo parlati
era stato quando… Beh, meglio non pensarci: negli ultimi
mesi mi ero sforzata
con tutta me stessa di dimenticare quella conversazione,
nonché la
dichiarazione che ne era derivata. Grazie al cielo, fu proprio
l’avvocato a
togliermi da ogni impiccio.
“Buongiorno, signorina
Ordiano. Pronta per l’interrogatorio?”
Cercò di sdrammatizzare, sporgendosi verso di me per
stringermi la mano in un
educato saluto.
“Ho fatto i compiti a
casa”, mi limitai a rispondergli,
ricambiando la stretta. Malgrado la presenza del legale, continuavo a
sentirmi
i perforanti occhi chiari di Enrico puntati addosso che mi facevano
prudere la
pelle, per cui non sapevo bene dove girarmi per evitarlo. Alla fine
decisi di
rivolgermi di nuovo all’uomo. “E… A che
ora inizia l’udienza, di preciso?”
L’avvocato diede
un’occhiata all’orologio che portava al polso
sinistro, e una ruga si formò in mezzo ai suoi occhi.
“Tra quarantacinque
minuti dovremmo essere seduti tutti dentro”, rispose
gentilmente, tornando a
guardarmi. A giudicare dall’incipiente grigiore ai lati delle
tempie doveva
avere più di quarant’anni, eppure quando Enrico si
voltò verso di lui per
intimargli di lasciarci un po’ da soli lo vidi annuire e
sparire in mezzo alla
folla adducendo una scusa qualsiasi come un comune lacchè.
Beh, io non volevo rimanere da sola
con lui, per cui feci per
dargli le spalle e andare alla ricerca della mia famiglia che sarebbe
già
dovuta essere uscita dalla toilette, accidenti a loro – ma
ormai avrei dovuto conoscere
Enrico abbastanza bene da immaginare che non mi avrebbe lasciata
sparire senza
fare niente. Infatti, prevedibile come la trama di Beautiful, sentii la
sua
mano stringersi intorno al mio polso e prima che potessi iniziare a
protestare
venni trascinata via, dietro una grossa colonna in un angolo appartato.
Sarà difficile che i miei mi
trovino qua
dietro, pensai irritata, lanciando un’occhiata
infastidita al mio
sequestratore.
“A cosa devo il piacere di
questa sceneggiata?” Sibilai non appena
mi liberò la mano, per poi incrociare le braccia sul petto e
indietreggiare
lontano da lui. “Non sono venuta per scambiare quattro
chiacchiere con te,
Enrico. Ci siamo detti già tutto.”
“Non è quello che
penso io”, ribatté lui, per nulla intenzionato a
cedere. Malgrado avessi i tacchi, in quel momento mi sembrò
davvero più alto –
sembrava torreggiare su di me. Forse era solo la mia agitazione che mi
stava
procurando le allucinazioni?
Malgrado tutta la buona
volontà non riuscii a trattenermi dal roteare
gli occhi, esasperata. Non lo avevo già assecondato
abbastanza in passato? “Va
bene, come vuoi. Starò al gioco. Che cosa pensi tu?” Aggiunsi, parafrasandolo.
A giudicare dall’ombra che gli
attraversò lo sguardo stavo già riuscendo
nell’intento di innervosirlo: bene,
evidentemente certe capacità non si perdono col tempo.
“Penso che tu debba a stare
a sentire quello che non mi hai
lasciato spiegare quel giorno in ospedale”, esordì
a mezza voce, chinandosi
verso di me. “Ho avuto modo di riflettere in tutto questo
frattempo, Giulia,
credimi, e ho accettato che tu possa avere tutti i diritti di questo
mondo di
essere arrabbiata e di avere paura di me e di quello che
faccio… Ma che sia
dannato se ti permetterò di essere ancora così
codarda da rifiutare di vedere
quello che c’è tra noi!”
“Non posso credere che tu
stia tirando fuori questi discorsi
mezz’ora prima del processo!” Ribattei con il suo
stesso tono di voce,
sinceramente allibita; decisi di ignorare che era già la
seconda volta che venivo
tacciata di codardia, anche se avrei voluto sapere da che razza di
pulpito
stava venendo tale accusa. “Non hai una testimonianza da
ripassare invece di
fare la predica a me?”
“Ho avuto praticamente sette
mesi per imparare a memoria la mia
deposizione”, mi mise a tacere subito, eliminando la
questione con un gesto
della mano. “E ho anche avuto lo stesso lasso di tempo per
pensare a tutte le
cose che voglio dirti. Giulia, io ho bisogno di dirtele e tu hai
bisogno di
sentirle, per cui adesso starai buona e zitta e mi lascerai
parlare!”
Accidenti, non me lo ricordavo
così insistente e prepotente; non
credevo che il suo carattere sarebbe mai potuto peggiorare, e
invece… Diamine,
era successo proprio l’impensabile! Comunque il fatto di
trovarci in un luogo
pubblico che pullulava di poliziotti e guardie armate mi
confortò sul mio
destino e mi fece accondiscendere al suo attuale capriccio; non poteva
venirne
nulla di peggio, no?
“Bene!” Sbottai
quindi, sempre più innervosita. “Parla. Sono qui,
ti ascolto.”
Lui non parve molto convinto del mio
cedimento, e mi fissò per un
po’ dal di sotto delle lunghe ciglia scure – ma poi
sembrò ricordarsi di avere
i minuti contati, così si riscosse e ritrovò il
filo dei suoi pensieri. “Sarò
rapido”, chiarì, avvicinandosi. Dio, era passato
parecchio tempo dall’ultima
volta in cui ci eravamo trovati così vicini – non
ero più abituata a sentire il
suo profumo, e mi ritrovai ad annusarlo con più delizia di
quanto fosse lecito.
Mi domandai, per insultarmi mentalmente subito dopo per averlo fatto,
se avesse
notato che avevo schiarito i capelli o che avevo indossato un vestito,
dato che
lui aveva avuto modo di vedermi indossare solo jeans e derivati nei
miei vani
tentativi di apparire assolutamente il meno provocante possibile quando
uscivo
con lui… Focalizza, Giulia!
“Non ce la faccio
più a starti lontano”, disse piano,
costringendomi a sostenere il suo sguardo. Sembrava lottare ferocemente
contro
l’istinto di toccarmi. “Non ci vediamo
né sentiamo da settembre… Mio Dio, non
una parola da parte tua, neppure un messaggio! Cosa ti costava
rispondere a uno
solo di quelli che ti ho mandato?”
Avrei voluto ribattere chiedendogli
quale parte di non ti voglio più
vedere e non cercarmi
più detta in ospedale non
gli fosse stata sufficientemente chiara, ma c’era qualcosa
nel suo
atteggiamento che mi dissuase dal stuzzicarlo in modo così
spudorato. Insomma,
stava solo parlando – non c’era niente di male in
quello; e poi lo sapevo che
prima o poi il karma avrebbe fatto in modo che anche lui avesse la sua
occasione di illustrarmi il suo punto di vista, dato che
l’ultima volta che ci
eravamo visti ero praticamente fuggita impedendogli di farlo. Per cui,
in poche
parole, mi morsi la lingua e lo lasciai proseguire.
“Dovevo venire a sapere di
te tramite i miei amici che ti vedevano
di sfuggita all’uscita da scuola, o dal mio avvocato che ti
convocava una volta
ogni tanto. Non hai idea di quello che ho
passato in questi mesi, soprattutto visto il modo in cui ci
siamo…
lasciati”, aggiunse, avvelenando la propria voce su
quell’ultima parola. “Sembra
che quello che ti ho detto non abbia avuto davvero nessun effetto su di
te… Però
voglio che tu sappia che anche se è passato del tempo io
ribadisco e confermo
ogni singola parola che ti ho detto quel giorno. Ogni singola parola. E
tu sai
di cosa parlo, vero? Non sono perfetto, non ho mai avuto
l’arroganza di
pensarlo né l’ambizione di esserlo, e so
– credimi, Giulia, lo so
– di non
avere una vita facile. Ma sono anche terribilmente egoista, e non sono
capace
di starti lontano per il tuo bene – continuerò a
volere te in questa vita
incasinata, fino alla fine.”
Solo quando smise di parlare mi
accorsi di aver trattenuto il
fiato fino all’ultimo. Deglutii a fatica e ripresi a
respirare, sentendomi un
fastidioso groppo in gola, e abbassai gli occhi perché,
contrariamente a ogni
buonsenso, mi sentivo prossima al pianto – e non sapevo
quanto potesse giovare
entrare nell’aula del processo con gli occhi gonfi e
arrossati. Con la coda
dell’occhio vidi il movimento della sua mano che si sollevava
e andava ad
accarezzarmi i capelli, e ciò mi rese di nuovo padrona delle
mie capacità
motorie. Mi scansai, trovando una via di fuga laterale e allontanandomi
il
tanto necessario per riguadagnare il controllo di me stessa e
ricacciare
indietro le lacrime.
“No, Enrico”,
mormorai. Dovevo ignorare i suoi maledetti occhi che
mi fissavano come se fossi stata un tesoro prezioso, maledizione! Mi
schiarii
la voce e mi asciugai l’angolo di un occhio umido, poi con un
estremo sforzo continuai.
“Mi dispiace, ma no. non posso. E prima verrai a patti con
questa cosa meglio
sarà per tutti”, aggiunsi, sforzandomi di sembrare
risoluta.
A quel punto il suo sguardo perse
l’espressione appassionata e
timorosa e si fece feroce. “Porca puttana, non puoi
liquidarmi così un’altra
volta…”
Probabilmente aveva ancora parecchie
cose da dire a sua discolpa,
e avrebbe di sicuro continuato quell’assurdo dibattito se non
fossero venuti a
cercarci.
“Signor D’Angelo!
L’abbiamo cercata dappertutto. Venga, è ora di
entrare”, disse il signor Martis, con un’aria
trafelata. I suoi occhi
scivolarono dal suo cliente a me e una delle sue sopracciglia si
inarcò con
educata perplessità nel notare le nostre espressioni: mi
chiesi se era stato illuminato
sui nostri trascorsi, anche se a giudicare
dall’inconsapevolezza che sembrava
ondeggiare dietro i suoi occhiali non doveva essere stato messo al
corrente di
tutti gli altarini. “I suoi genitori stavano cercando anche
lei, signorina
Ordiano”, mi informò gentilmente. Annuii e mi
diressi verso di loro – li avevo
individuati che parlavano con i genitori di Enrico in modo
più civile di quanto
avessimo fatto invece noi, e grazie al cielo stavolta lui non fece
nulla per fermarmi.
Tuttavia si sentì in dovere
di aggiungere ancora qualcosa. “Ne
riparleremo ancora, Giulia. Dopo il processo”, fece, alzando
di qualche sfumatura
il tono di voce in modo da accertarsi che io udissi anche
quell’ultima promessa
– o era una minaccia?
Di sicuro mi aveva fornito materiale
più che sufficiente con cui
occupare la mente durante l’udienza; avevo la terribile
impressione che tutto
il tempo trascorso dall’ultima volta che ci eravamo visti non
aveva fatto altro
che acuire il desiderio di un sentimento che avevo cercato con tutte le
mie
forze di non far neanche nascere. Insomma, secondo ogni logica la
lontananza
avrebbe dovuto farmi passare qualsiasi cosa avessi iniziato a provare
per
Enrico – perché a questo punto avevo rinunciato da
tempo a raccontarmi l’idiozia
di non essere minimamente coinvolta in senso emotivo, per quanto
continuassi
con caparbia ostinazione a non pronunciare né tantomeno
pensare una determinata
parola – e invece era
bastato
rivederlo e parlarci un’altra volta per farmi riprecipitare a
caduta libera giù
per la maledetta tana del bianconiglio.
Prima di entrare nell’aula
presi un profondo respiro e strinsi la
mano di mia madre, che mi guardava con l’aria di chi,
purtroppo per me, aveva
compreso ogni cosa e sin da subito, per di più. Mi diede un
bacio sulla guancia
e mi guidò verso la nostra postazione, nella terza fila
dietro il banco di
Enrico.
Forza e coraggio, Giulia.
______________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Bla bla bla bla... ritardo... Bla
bla... insoddisfatta...
bla bla... mesi e mesi...
bla bla... scuse...
bla... perdono...
Bla bla bla... Bla!
Conoscete la tiritera, dunque ho mandato avanti la registrazione. xD Mi
limiterò a ringraziare le splendide fanciulle che hanno
recensito lo scorso capitolo, per l'esattezza chicchetta, Sylphs, Eleanor_Rigby, GreenRose93, luck_Y, Ibelieveinniley e Little Redbird - non
so davvero cosa dire per ringraziarvi per le vostre splendide parole,
siete così gentili e soprattutto pazienti, una dote
estemamente indispensabile per poter seguire le mie storie! xD
E poi ovviamente un ringraziamento a chi mi incoraggia tramite
FacciaLibro, che in momenti come questi adoro ♥ Speaking of, se vi
capita di passare da quelle parti e avete 5 minuti del vostro
pomeriggio da buttare - o se vi serve una scusa per poter usufruire di
una ultra meritata pausa studio ù_ù - mi
piacerebbe che deste un'occhiata a un umilissimo (ci tengo a
precisarlo) video riguardante questa storia, che era nato per essere
una specie di Trailer e che invece è finito per diventare
una sorta di riassunto di questa trentina di capitoli :D Ma
è breve, davvero, nemmeno 5 minuti!, e sarei contenta se mi
deste un vostro parere. :)
QUI
il video [si trova solo su Feisbuk perché davvero,
non credo che meriti di starsene su Youtube x'D]
A questo punto sappiate che l'Epilogo è già
scritto - dunque la qui presente autrice sa finalmente come concludere
questa storia - e suppongo che manchi solo uno, o al massimo (ma DIO
MIO spero di no) due capitoli prima di postare l'ultimo. I pianti li
conserverò per allora. :'(
Una domanda spassionata e piena di curiosità: se doveste
scegliere una canzone per questa storia, quale sarebbe? Ne volevo una
da mettere nell'Epilogo (o in un prossimo video, muahahahaha) e
concludere in bellezza, ma la mia cultura musicale non è
così vasta, sicché... mi metto nelle vostre mani,
se vi va di darmi un aiutino. :)
Orbene, suppongo di avere detto tutto per stavolta!
Ci leggiamo tutte al prossimo capitolo - o su Feisbuk per qualche
spoilerino ;D
Baci e abbracci a tutte quante, e... Auf Wiedersehen!
La vostra,
Niglia.
|
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Capitolo 31 *** Capitolo XXXI. ***
Capitolo XXXI
Where there is desire
There is gonna be a flame
Where there is a flame
Someone’s bound to get burned
But just because it burns
Doesn’t mean you’re gonna die
You’ve gotta get up and try try try…
I raggi del sole entravano di sbieco dalle ampie finestre alte e
strette dell’aula del tribunale, scivolando sul marmo lucido
del pavimento e creando
una strana atmosfera di solennità e rigore che neppure i
più bravi registi
americani sarebbero riusciti a riprodurre in qualcuna delle
loro pellicole.
Se ci fosse stato appena un po’ più di silenzio mi
sarebbe sembrato di essere
in una cattedrale. Ogni cosa era di legno, dalle panche che ospitavano
il
pubblico al banco dei testimoni, dalla postazione della giuria alle
assi che
rivestivano le pareti. Era un legno scuro e opaco che sembrava
assorbire la
luce proveniente dall’esterno per intrappolarla nelle sue
venature; l’unica
cosa che scintillava erano le lettere dorate che capeggiavano sotto la
pedana
del giudice formando la frase più famosa e allo stesso tempo
più falsa che il
mondo avesse mai conosciuto: La legge è
uguale per tutti.
Dalla mia postazione, seduta tra mio padre e mia madre, avevo una
visuale perfetta su ciò che accadeva nell’aula:
davanti a me, appena più verso
destra, si trovavano Enrico e il suo avvocato, mentre
dall’altra parte, sotto
le vetrate, c’era il banco della giuria posto
perpendicolarmente a quello del
pubblico ministero. Guardandomi intorno mi resi conto che
c’erano tutti, a
partire dai genitori di Enrico ad Alessandra e Riccardo, per finire con
Stefano
e gli altri membri della loro combriccola; gli unici che mancavano
all’appello erano
i genitori di Lorenzo, che a quanto pare nessuno era riuscito a
rintracciare.
Non volevo pensare che ci fosse lo zampino degli Occhi Belli, ma a buon
intenditor… Ormai sapevo abbastanza di quella famiglia da
non stupirmi più per
così poco.
Per quanto mi sforzassi, nonostante ciò, di seguire con
attenzione
tutto lo svolgimento dell’udienza, riuscirci era impossibile;
le arringhe degli
avvocati erano per me chiacchiere soporifere e senza senso che facevano
da sottofondo ai
miei pensieri, ed ero così distratta – tutto
merito della breve discussione
avuta con Enrico prima di entrare in aula – che se non fosse
stato per mia
madre non avrei neppure udito l’avvocato Martis chiamarmi in
causa.
Quella fu la parte peggiore – attraversare la sala per
avvicinarmi
al banco dei testimoni; sentivo gli occhi di tutti i presenti scavarmi
la
schiena, e non era una bella sensazione. Il mio intervento in
sé fu piuttosto
breve, e dubito anche che fosse così incisivo come mi
avevano voluto far credere:
fondamentalmente si trattava della testimonianza di una ragazzina che
al
momento del “crimine” era sotto shock –
provate un po’ a indovinare come mai –
e che dunque poteva avere dei dubbi riguardo quanto accaduto in quella
camera
da letto. Senza contare che, come ritenne opportuno precisare
l’accusa, i miei
precedenti sentimentali con l’imputato avrebbero potuto
offuscare il mio
giudizio. Ah, se solo avessero saputo!
Enrico non mi aveva staccato lo sguardo di dosso nemmeno per un
istante mentre cercavo di rispondere con quanta più calma
possibile alle domande
dell’avvocato Martis e del pubblico ministero. Aveva
un’espressione mortalmente
seria, era persino leggermente pallido e in più mi accorsi
che, mentre stavo
raccontando di come Lorenzo mi aveva rapita e aggredita, tutto il suo
corpo pareva
essersi irrigidito nello sforzo di non alzarsi dalla postazione per
venire
da me. In effetti, ripensandoci, quella doveva essere la prima volta
che mi
sentiva parlare dell’accaduto – e con tutta quella
dovizia di particolari, poi
– e non potei evitare di chiedermi se sarebbe stato capace di
“sistemare”
Lorenzo anche a sangue freddo, qualora non lo avesse,
diciamo accidentalmente, ucciso
il giorno stesso.
Sapevo benissimo che rimuginare sulla predisposizione di Enrico
alla violenza non serviva a niente e a nessuno – forse era
uno strano istinto
masochistico quello che mi spingeva sempre più a fondo nella
spirale del
compatimento e dell’autocommiserazione. Non bisognava
dimenticare però che, se
lui non fosse intervenuto, probabilmente in quel momento mi sarei
trovata in
terapia per cercare di dimenticare uno stupro – sempre se
Lorenzo non avesse
avuto intenzione di farmi fuori, dopo. Forse era un tantino disturbante
la noncuranza con cui pensavo alla mia morte, ma il tempo che era
trascorso dal fattaccio era servito a farmi metabolizzare e digerire
l'intera situazione - motivo per il quale adesso sembravo terribilmente
cinica. Comunque, da qualsiasi parte la guardassi
non vedevo un lieto fine in quella faccenda; nell’attimo in
cui Lorenzo aveva
deciso di portare a termine quella sua discutibile vendetta nei
confronti di
Enrico, di cui tuttora mi sfuggivano i particolari, era sparita ogni
opportunità di risolvere la cosa tra persone civili e
senza spargimenti di sangue. In poche parole qualcuno si sarebbe fatto
male
qualsiasi cosa fosse successa e, a quel punto, devo ammettere di aver
tirato un
sospiro di sollievo nel constatare che quel qualcuno non ero io
né tantomeno
Enrico.
Quando l’avvocato mi congedò, dandomi il permesso
di tornare a
sedermi accanto alla mia famiglia, mi accorsi di avere le mani che
tremavano
come foglie: cercai di celarle sistemandomi le pieghe del vestito e
affrettando il passo verso le panche, ma Enrico aveva seguito ogni
attimo del
mio passaggio attraverso l’aula e potrei mettere la mano sul
fuoco sul fatto
che se ne fosse accorto. Dio mio, c’era mai qualcosa che gli
sfuggiva? Mi risedetti con aria indifferente vicino a mia madre e mi
passai una
mano tra i capelli, riprendendo a respirare circondata
com’ero da persone
fidate; solo allora mi decisi a spostare lo sguardo su Enrico, e come
mi ero
immaginata lui era lì, voltato di due quarti sulla sua sedia
in modo da potermi
vedere. La sua espressione era così preoccupata che fu un
gesto istintivo, da
parte mia, accennare un sorriso che lo tranquillizzasse.
Sicuramente stupito ma indubbiamente rassicurato da
quell’inaspettato accenno di intimità, Enrico fece
un movimento affermativo col
capo e anche sulle sue labbra si distese una debole ombra di sorriso,
prima che
il suo avvocato lo richiamasse sottovoce all’attenzione
costringendolo a darmi
le spalle e a seguire il proseguirsi del processo.
Alla mia sinistra, mia madre mi prese la mano e la strinse con
fare affettuoso: evidentemente non si era persa quel breve scambio di
occhiate
tra me e lui, confermandosi così l’unica capace di
capirmi in tutto e per
tutto. Sospirai e ricambiai la stretta. Non vedevo l’ora di
tornare a casa…
E invece la giornata sembrava non voler finire ancora.
Dopo la mia testimonianza e una breve discussione tra gli avvocati,
il giudice ritenne opportuno aggiornare la seduta e accordare quaranta
minuti
di pausa, in modo che i membri della giuria potessero riunirsi e tirare
le
somme di quello che era stato il processo fino ad ora; una volta che
l’uomo fu uscito
l’aula si svuotò abbastanza rapidamente, e mentre
mi avvicinavo alla porta
insieme ai miei genitori – quasi invidiavo mia madre che
poteva tenere a bada l’ansia
con le sue sigarette – notai Stefano e gli altri ragazzi
raggiungere Enrico
per, supposi, tirargli su il morale.
In quel momento, un pensiero inatteso mi colpì con forza.
Ci sarei dovuta essere io,
lì.
In qualche modo, sembrava la cosa più giusta che avrei
dovuto
fare: d’altra parte, come mi aveva detto Stefano qualche
tempo prima, era
Enrico quello che rischiava la galera – la
propria libertà – per un crimine
commesso al solo scopo di proteggere me.
Eppure i miei piedi non si mossero in quella direzione, e presto
fui fuori dall’aula, al sicuro tra la mia famiglia, insieme
ad Alessandra e
Riccardo, lontana da lui. Forse Enrico avrebbe voluto scambiare due
parole con
me durante quella pausa, ma le circostanze non glielo permisero;
avrebbe dovuto
affrontare la seconda parte del processo come già aveva
affrontato la prima,
ossia con un sacco di faccende in sospeso con la ragazza per la quale
aveva
rischiato tutto.
Questo pensiero mi fece sentire incomprensibilmente a disagio.
*
Ma, come si dice in casi simili, tutto è bene quel che
finisce bene: più o meno. Alla fine il giudice aveva
pronunciato la sentenza definitiva, e come ci
aspettavamo e speravamo che accadesse, Enrico venne scagionato
dall’accusa di
omicidio, giustificato come legittima difesa come peraltro era giusto
che
fosse, per chi non era stato presente al momento del fatto, e tutti noi
fummo
liberi di andarcene.
Era finita.
Aspettavo quel momento da mesi, ormai, e quando finalmente sentii
quelle parole rimbombare chiare e limpide nella maestosa aula di
tribunale, fu
come se l’enorme peso che gravava sulle mie spalle si fosse
volatilizzato. D’un
tratto mi sentii leggera, come se fossi stata io quella ad essere
assolta. Non
avrei più dovuto avere niente a che fare con quel
mondo, il suo
mondo, niente più messaggi, né chiamate,
né incontri con l’avvocato – forse avrei
potuto smettere di prendere anche quelle
pillole che mi aiutavano a dormire! Sarebbe tornato tutto come prima.
Ero libera…
No, non era del tutto vero. Avevo ancora una questione da
sistemare: dovevo chiudere tutti i conti in sospeso che erano rimasti
tra me e
Enrico. Dovevo farlo. Glielo dovevo, tutto sommato, ma soprattutto lo
dovevo a
me stessa; non sarei più riuscita a prendere sonno,
altrimenti, se quella porta
fosse rimasta aperta.
In ogni caso, che cosa avrei dovuto dirgli? Forse
è vero, forse anch’io ricambio i tuoi sentimenti,
ma non possiamo
stare insieme, dimenticami? L’esperienza dimostrava
che un passo del genere
sarebbe stato inutile, oltre che autodistruttivo: Enrico tendeva a fare
sempre
il contrario di ciò che gli si diceva di fare. E poi, no, no,
non potevo rischiare di dargli neanche un briciolo di speranza
se volevo che sparisse una volta per tutte dalla mia vita.
Ma era davvero questo che volevo?
La voce di mia madre si insinuò tra i miei pensieri e fu
come se
rispondesse ad essi, riportandomi alla realtà.
“Che cosa vuoi fare, tesoro?” Mi
chiese infatti a bassa voce, passandomi un braccio intorno alla vita.
Mi voltai
verso di lei, guardandola con un’espressione sicuramente
smarrita, perché lei
sorrise dolcemente e aggiunse, comprensiva: “Se gli vuoi
parlare, noi ti
aspettiamo fuori.”
Che cosa potevo fare? Esitai solo un attimo, prima di annuire
lentamente. Anche mia madre sapeva che avevo bisogno di parlare con
Enrico, di
parlarci davvero – non con due frasi per liquidarlo, ma con
una cauta ed
attenta scelta di parole – e se lei stessa mi spingeva a
farlo, beh… Non c’era
via di scampo.
Così lasciai che la mia ultima occasione di fuggire mi
scivolasse
via dalle mani come acqua, osservando distrattamente i miei genitori
lasciarmi sola
ad affrontare i miei demoni. E se pensate che io sia troppo
melodrammatica
allora avete perso qualche passaggio durante il corso degli eventi!
Lo ammetto, ero a disagio. Enrico era circondato dai suoi amici
–
gli stessi che mi avevano rapita all’inizio di quella storia,
e che mi avevano
spiato e seguito in diverse occasioni per ordine di Enrico, e che
avevano
chiamato la polizia e l’ambulanza quando, beh, era morto
Lorenzo, ma con i
quali io non avevo praticamente mai scambiato una sola parola, se si
escludeva
Stefano; e adesso erano tutti palesemente felici, ridevano e
scherzavano, lo
abbracciavano, tiravano sospiri di sollievo nel rendersi conto di
averla
scampata per l’ennesima volta. Rimasi per un attimo in
disparte, raccogliendo
il coraggio, salutando con un mezzo sorriso Betta e il signor
D’Angelo che si
avviavano verso l’uscita dell’aula insieme al resto
delle persone che avevano
assistito al processo; e solo alla fine, quando nella stanza rimanemmo
solo io
e i ragazzi, presi un profondo respiro e mi avvicinai a loro.
Il rumore dei miei tacchi sul parquet parve passare inosservato,
così non feci nulla per dar prova della mia presenza fino
all’ultimo momento;
ma quando, inevitabilmente, si accorsero di me, tacquero
pressoché nello stesso
istante e mi guardarono, in attesa – suppongo. Furono i
cinque secondi più
imbarazzanti della mia vita.
Mi schiarii la voce, torturando i manici della mia borsa, senza
ben sapere come esordire. Avrei dovuto fargli le congratulazioni? Gli
auguri?
Non sarebbe stato troppo ridicolo?
“Sono felice che ti abbiano assolto”, dissi alla
fine optando per
una frase un po’ più neutra per attaccare bottone,
focalizzandomi solo su
Enrico e cercando – a fatica – di ignorare gli
altri.
Enrico non sembrò dare cenno di voler rispondere,
così Stefano
prese in mano la situazione e strinse affettuosamente la spalla del
cugino, accennando
un sorriso. “Ti aspettiamo fuori. Quando hai finito ci trovi
al bar.” L’altro
annuì, senza distogliere lo sguardo da me, e i ragazzi se ne
andarono
velocemente, fingendo di non riconoscesse
l’eccezionalità dell’intera
situazione – io che mi avvicinavo di mia spontanea
volontà ad Enrico, quando
invece sarei potuta fuggire con i miei genitori subito dopo che la
seduta era
stata tolta, tanto per essere chiari. Lo trovavo assurdo io stessa,
immaginavo
come dovesse sembrare ai loro occhi.
A quel punto, rimasti soli, Enrico smise di guardarmi e
d’improvviso parve estremamente occupato a mettere in ordine
alcuni fogli
ancora sparsi sul tavolo, riuscendo a non far trapelare nulla dalla sua
espressione. “Dici davvero? Credevo che avresti preferito
vedermi in prigione,
in modo da poter vivere la tua vita in tutta tranquillità
senza di me”, fece
gelidamente, chiudendo la cartella con un elastico.
Malgrado il tono, non riuscivo a capire se stesse scherzando o
meno; nel dubbio decisi di prenderlo sul serio. “Anche se
puoi pensare il
contrario, non sono così stronza”, ribattei a
mezza voce. Ero andata da lui con
la mezza intenzione di salutarlo e andarmene, ma avrei dovuto sapere
che non
sarei stata in grado di cavarmela così a buon mercato. O
forse… forse,
semplicemente, non volevo farlo.
Anzi, mi resi conto che mia madre aveva visto giusto, e che io avevo
ancora
alcune cose da dirgli.
Cosa che feci dopo aver preso un bel respiro profondo.
“Senti. Quello che è successo è
terribilmente sbagliato, e
scioccante, e discutibile, ed è probabile che
continuerò a farci gli incubi,
ma… Da un lato, e ascoltami bene perché non
mi sentirai ripeterlo più, hai
cercato di fare qualcosa che in quel momento ti è sembrata
la cosa giusta. Non
so se tra te e Lorenzo c’erano davvero dei precedenti, o se
lui era solo un
sociopatico, ma sono convinta che se non ci fossi andata di mezzo io tu
non
saresti mai arrivato a tanto – e se mi sbaglio, per favore,
non correggermi.
Lasciami l’illusione che tutto sia andato come è
andato perché hai cercato di
proteggermi, o di vendicarmi, fai tu – e non parliamo
più di questa storia.
Okay?”
Per un attimo non parlò: forse non si aspettava quella
valanga di
parole da parte mia. Poi sollevò una mano a massaggiarsi le
tempie, sospirò e
scosse appena la testa. “Per quanto apprezzi il tuo discorso,
Giulia, e dico
sul serio, non sistema neanche la metà delle questioni in
sospeso che ci sono
tra noi.”
Aggrottai la fronte, ma non ero sorpresa: in fondo mi aspettavo
che non si sarebbe arreso così in fretta, benché
una parte di me ci avesse,
ingenuamente, un po’ sperato. “Enrico, ne abbiamo
già parlato. Non rovinare---”
“Ancora? Io non sto rovinando un bel niente. Ti ho detto
prima
dell’udienza che avremmo ripreso il discorso, o ti sei
già dimenticata? Perché
io non sono riuscito a smettere di pensarci, e sapere che eri seduta
qualche
fila dietro di me, durante il processo, non mi ha aiutato a tenermi
concentrato
neppure su una cosa dalla quale dipendeva la mia vita.”
Non riuscii a trattenermi dal roteare gli occhi, esasperata da
quella sua tendenza al melodrammatico, stanca di sentire sempre le
solite
storie, i soliti discorsi triti e ritriti. “Qui stiamo
andando di nuovo fuori
tema…”
Inutile sottolineare che il mio pallido tentativo di fare
dell’ironia non aveva attecchito.
“Il tema è sempre lo stesso. Tu ti ostini a non
voler vedere
quello che hai davanti, solo perché hai paura di…
di annegare in un sentimento
che non vuoi, che ritieni sbagliato! Sei sempre stata tanto paziente
con me,
Giulia, mi hai tollerato, lo ammetto, quando probabilmente volevi
soltanto
picchiarmi, hai sopportato la mia presenza per così tanto
tempo che alla fine
non puoi biasimarmi se mi sono convinto che anche tu provi qualcosa!
Insomma,
dai, non puoi negare che stessimo iniziando ad avere qualcosa di
più, che
stessimo andando oltre l’iniziale rapporto del
‘esci con me o me la prenderò
con i tuoi amici’… Mi sbaglio? E adesso, tutto
quello che voglio, tutto quello
che ti chiedo è di non rinunciare a quel qualcosa che si
è creato tra di noi e
che potrebbe essere davvero bello, soltanto a causa di un mio gesto
più
avventato di altri.”
Lo osservavo in silenzio, assorbendo le sue parole, cercando di
accantonare i miei pregiudizi e sforzandomi, davvero, sforzandomi di
comprendere il suo punto di vista. Lo so, lo so, su una cosa aveva
ragione:
prima che succedesse tutta quella faccenda di Lorenzo, qualcosa nel
nostro
rapporto era cambiato, evolvendosi in… beh, non lo so bene
neppure io in che
cosa si stava evolvendo. Al di là dei baci e degli abbracci,
per un momento c’era
stato qualcosa di più, qualcosa che mi teneva sveglia la
notte e che aveva
iniziato a farmi mettere in dubbio i miei sentimenti, arrivando al
punto da
confidarli alla mia migliore amica, che peraltro aveva cercato di farmi
cambiare idea. Quel qualcosa era anche la causa del mio essere
lì, adesso, di
fronte a lui, invece che da tutt’altra parte a cercare di
dimenticarlo. Per cui
sì, Enrico aveva ragione: volendo fare un paragone
romantico, mi sentivo come
la volpe che era stata addestrata dal Piccolo Principe. Adesso che
conoscevo
Enrico, che lui mi aveva mio malgrado addomesticato,
non sarei più stata capace di guardare il mondo e non vedere
lui riflesso in
ogni cosa: il verde cupo del mare mi avrebbe fatto pensare ai suoi
occhi, il
nero ai suoi capelli, la fresca fragranza del dopobarba al profumo che
sentivo
ogni volta che ero vicina a lui e che lo abbracciavo, per non parlare
di
quando, andando a portare un fiore a mio nonno, avrei ripensato a come
mi aveva
consolato il giorno del funerale… Enrico sarebbe stato
dappertutto, non me lo
sarei levato dalla testa neppure se l’avessi evitato come la
peste fino alla
fine dei miei giorni – come peraltro dimostrava
l’anno appena trascorso.
E questo, sinceramente, mi terrorizzava a morte.
Compresi di avere gli occhi lucidi quando lui sollevò una
mano a
sfiorarmi la guancia, con una certa titubanza che poteva essere
interpretata
come cautela.
“Ascolta, non ti sto chiedendo di sposarmi”,
mormorò, muovendo
gentilmente il pollice appena al di sotto del mio zigomo.
“Vorrei solo che mi
dessi un’altra possibilità, un’altra
occasione di conoscermi, di conquistarti.
Nessuna minaccia stavolta, te lo giuro, partiamo alla pari –
e te lo sto
chiedendo per favore, come te lo chiederebbe chiunque altro. Poi,
vedremo come
andrà… Magari sarà un fiasco completo
e ci lasceremo da buoni amici, chi lo sa?
Non potremo mai toglierci questo dubbio se non ci proveremo. Comunque
io so che
non sarà così. So quello che provo, e perdonami
l’arroganza ma credo di sapere
anche cosa provi tu. Non saresti qui, in questo momento, se io ti fossi
del
tutto indifferente!”
Come contraddire tanta sicurezza? Mi sedetti, spezzando il
contatto della sua mano sul mio viso – reggermi in piedi
stava iniziando a
diventare difficile – e iniziai a tamburellare le dita sulla
superficie liscia
del tavolo per scaricare il nervosismo.
“No, infatti. Non sarei qui”, ripetei piano, senza
guardarlo. Avvertii
un movimento davanti a me, uno spostamento d’aria, e poi lui
apparve all’interno
del mio capo visivo accucciato per terra, le mani ai lati della mia
sedia e un’espressione
gentile e paziente sul volto. Mi limitai ad osservarlo per un
po’ – compresi che
lui stava solo aspettando che io facessi ordine tra i miei pensieri
prima di
esprimermi ad alta voce – ma in realtà non sapevo
più che cosa dirgli senza
sbilanciarmi troppo. Non ero mai stata molto brava con le parole, e con
i discorsi
facevo addirittura schifo, per cui non avevo idea di
cos’altro potessi
aggiungere a ciò che già era stato ampiamente
detto e ridetto.
Tuttavia io sapevo la verità, solo che era troppo spaventosa
per
ammetterla. Eppure se non l’avessi fatto me ne sarei pentita
per tutta la vita,
me ne rendevo conto, senza contare poi che lui meritava di sentirla e
che io avevo
bisogno di condividerla per alleggerirmi l’animo; insomma,
era una confessione
che avevo necessità di fare per poter continuare a vivere
senza rimorsi. E poi
non era forse quello lo scopo di tutta questa messinscena? Non ero
forse
rimasta per la resa dei conti?
Avrei potuto dire un sacco di cose, fare infiniti giri di parole
per prolungare la sofferenza e rimandare il momento della
verità: ma a cosa
sarebbe servito? Non avevo intenzione di dirgli che credevo di aver
iniziato ad
innamorarmi di lui perché innanzitutto avevo ancora un
orgoglio e una
reputazione da difendere; e, in secondo luogo, dopo tutto quello che
era
successo, una frase del genere avrebbe accelerato troppo le cose e io
ancora non me la sentivo – però
su un altro punto potevo essere sincera.
Abbozzai un sorriso, poi le parole vennero fuori con una
facilità
impressionante. “Lo sai, mi sei mancato in tutti questi
mesi.” Quella sudata
ammissione fu la cosa più difficile che avessi fatto fino a
quel momento –
ancora più difficile di testimoniare a suo favore
– ma se non altro mi liberò da
un grosso peso sul petto. Mi sembrò addirittura che
respirare fosse più facile.
Lo sguardo che Enrico mi dedicò in risposta alla mia
affermazione mi dimostrò che ne era valsa
la pena.
“Visto? Non era poi così difficile",
replicò, con un tono che parve davvero tenero. Si era
trattenuto dal fare una delle sue solite battute - soprattutto si era
trattenuto dal dirmi una qualche frase odiosa come te lo avevo detto
- e di questo gliene fui grata. "E per il momento potrebbe
anche bastarmi", aggiunse poi, sorridendo palesemente compiaciuto.
"Adesso possiamo andare a festeggiare, no? Su, alzati - ah, ma prima
devo avvisare i tuoi genitori che per il resto della
giornata ho intenzione di rapirti… Ah, aspetta!”
Si fermò all’improvviso dopo
avermi trascinato in piedi, senza riuscire a togliersi
quell’espressione soddisfatta
e felice dalla faccia che non avevo ancora deciso se mi piaceva o mi
faceva
paura. Sembrava essersi appena ricordato di una cosa molto importante.
“Posso
baciarti?” Chiese infatti, volutamente malizioso.
Questa poi mi fece scoppiare a ridere, forse un po' istericamente.
“Ah, adesso hai bisogno di chiederlo?”
Evidentemente non aspettava altro: in un attimo la sua bocca fu sulla
mia. Fu davvero rapido – forse aveva
paura che io cambiassi idea all’ultimo minuto – e
all’inizio si limitò a un
contatto casto e tenero, più una leggera carezza di labbra
che si sfioravano
che un vero bacio, e che peraltro interruppe quasi subito. Si
fermò per osservarmi con
aria quasi sbalordita, come se in fondo si stesse ancora aspettando una
qualche ribellione da parte mia o che dessi
di matto come mio solito, smorzandogli l’entusiasmo e
rovinando l’atmosfera con una battutina, ma con mia e sua
sorpresa non feci nulla di tutto questo. Rimasi
lì, vicina a lui, gli occhi socchiusi e un sorriso un
po’ meno accennato.
All’improvviso ebbi voglia di abbracciarlo, di rifugiarmi tra
le sue braccia e inspirare il suo profumo – e, sorpresa!, lo
feci
e basta, senza pensare a come avrebbe potuto fraintendere quel gesto o
chissà
cos’altro. Insomma, a quel punto c’era davvero poco
da fraintendere: Enrico mi
era mancato, io l’avevo ammesso sia a me stessa che a lui,
dunque adesso la
strada sarebbe dovuta essere tutta in discesa. Più o meno.
Fu lui dopo un po' ad allontanarmi gentilmente, ma solo per prendermi
il viso
tra le mani e guardare le lacrime in bilico tra le ciglia che stavo
cercando
disperatamente di trattenere. Era assurdo, ma sentivo il cuore battere
talmente
tanto forte in petto da farmi quasi male – sperai piuttosto
scioccamente che
lui non lo sentisse. Se erano questi i sintomi, allora mi ero cacciata
davvero
in un bel guaio…
Ma prima che la mia mente potesse riprendere freneticamente a
pensare rovinando il momento, Enrico mi passò una mano tra i
capelli, facendo
scorrere le dita tra le ciocche, e poi, dimostrando di saper davvero
cogliere l’attimo,
abbassò il viso su di me e mi baciò di nuovo. E
il secondo non fu un bacio
casto.
Stavolta, mentre lo baciavo, ebbi l’impressione di aver
spento ogni
interruttore. Sentivo solo silenzio. Non era un silenzio morto, freddo
o
triste, al contrario... Era un silenzio fatto dei miei sospiri, dei
suoi, di
deboli gemiti che nessun altro al di fuori di noi due avrebbe potuto
sentire,
dei battiti accelerati del mio cuore e del suo respiro leggermente
affannato...
Era il bacio che avrei voluto dargli quando era venuto a salvarmi da
Lorenzo, e
anche quando ero andata a trovarlo in ospedale e mi aveva detto che mi
amava, e
che per tutta una serie di ovvi motivi avevo dovuto rimandare.
Quando iniziò a mordicchiarmi il labbro inferiore per
spingermi ad
abbassare anche l’ultima difesa credetti che sarei potuta
morire. Non mi ero
aspettata tutto quell’entusiasmo tutto in una volta, anche se
forse dovevo
immaginare che una volta datogli il permesso Enrico si sarebbe rifatto
di tutte
le volte in cui, in passato, gli avevo impedito di prendersi
“troppe libertà”. Ebbi
appena il tempo di dischiudere leggermente le labbra per far entrare un
po’
d’aria, prima che lui si tuffasse nuovamente su di esse,
baciando, mordendo e
succhiando, come se da quel bacio dipendesse la sua stessa vita, come
se non
avesse potuto più respirare senza. Con entrambe le mani tra
i miei capelli mi tenne
dolcemente imprigionata, e riuscì ad approfittarne per
avvicinare ancora di più
il mio viso al suo – come se fosse stato possibile.
Fu imbarazzante venire interrotti da qualcuno che si schiariva
vigorosamente la voce. Mi staccai da Enrico come se fossi appena stata
sorpresa
a rubare, le guance in fiamme e uno sguardo colpevole, mentre invece lo
stoico
Occhi Belli si limitava a passarmi un braccio intorno alle spalle e a
ricambiare l’occhiata della guardia giurata che ci fissava
con cipiglio severo.
“Dovete lasciare l’aula adesso, signori”,
disse semplicemente, con
un tono che tuttavia non ammetteva repliche. Rimase a guardarci fino a
quando
non raggiungemmo la porta della stanza – le mie scuse
farfugliate non ebbero
alcun effetto su di lui, a quanto pare – e a quel punto la
chiuse senza troppe
cerimonie alle nostre spalle.
L’entusiasmo di Enrico non sembrava essere stato minimamente
scalfito dalla brusca interruzione. Sempre con il sorriso sulle labbra
– uao,
bastava davvero poco per farlo felice – si voltò
verso di me e allungò una mano
per riprendere a giocherellare con i miei capelli; non riusciva proprio
a
trattenersi dal toccarmi, sembrava quasi che avesse paura che gli
potessi
sparire da davanti non appena avesse abbassato un poco la
guardia…
“Allora, torni a casa con me? Abbiamo ancora tanto di cui
parlare”,
mi chiese gentile, sperando in una risposta affermativa ma, per la
prima volta,
senza pretenderla.
Scrollai le spalle, guardandomi istintivamente intorno alla
ricerca dei miei genitori che, però, non si vedevano da
nessuna parte. “Non so,
vuoi andare adesso?” Riportai la mia attenzione su di lui.
“Dovrei chiedere ai
miei, prima, e poi tu non devi festeggiare con i tuoi amici? Sono
venuti per
te, non puoi mollarli per sparire insieme a me.”
“Che stupidata, certo che posso. Loro li vedo tutti i giorni,
io e
te non ci parliamo da mesi…”
“Appunto. E non è per
niente carino che tu ora vada via con la stessa ragazza che ti ha
evitato in
tutto questo tempo, potrebbero rimanerci male.” Non era
ancora convinto, lo
dimostrava il modo in cui mi guardava, ma ormai credevo di sapere come
prenderlo. Per cui sorrisi, avvicinandomi e tenendo impegnate le mani
nel
ravvivargli la camicia e la giacca un po’ sgualcite.
“Non è una scusa per non
rimanere sola con te, te lo assicuro. Abbiamo un’altra intera
estate per
recuperare il tempo perso, no? E poi, andiamoci piano. Piccoli passi,
con calma
e senza fretta, a partire da adesso. Che ne dici? Tu ora vai dai tuoi
amici che
ti aspettano al bar, dici a Stefano da parte mia che aveva ragione e
festeggi
insieme a loro com’è giusto che sia. Il mio numero
ce l’hai ancora, suppongo…
Anch’io ho il tuo. Quando vuoi mandami un messaggio, prometto
di risponderti. Okay?”
Sì, l’avevo convinto. Lo salutai con un rapido
abbraccio e un
bacio sulla guancia – eravamo pur sempre in un salone pieno
di gente – e sparii
in mezzo alla folla prima che Enrico trovasse il modo di trattenermi.
Alla fine
avevo preso la mia decisione, e sorprendentemente mi sentivo bene.
Benissimo! Quella
era di sicuro la cosa più giusta che avessi fatto
nell’ultimo anno.
Speravo solo di non dovermene pentire.
***
31 dicembre, sei mesi dopo.
Le note di vecchie canzoni natalizie provenivano ininterrottamente
dallo stereo del soggiorno, anche se Natale ormai era già
passato. L’albero che
avevamo addobbato io ed Enrico era ancora in un angolo, accanto al
camino nel
quale scoppiettava un allegro fuocherello, e sotto c’era
ancora qualche regalo
impacchettato da consegnare ai nostri amici. Beh, quelli di Enrico, in
realtà;
io e Alessandra ci eravamo viste una settimana prima di Natale e
avevamo
festeggiato in anticipo a casa mia, scambiandoci i nostri pensierini e
facendo
ben attenzione a fingere di non essere fidanzate con due ragazzi che si
odiavano reciprocamente. Quello era stato il primo compromesso che
avevamo dovuto
fare in nome della nostra amicizia: Riccardo non sopportava Enrico, e
anzi lo disprezzava,
mentre Enrico da parte sua credo che semplicemente non volesse
più averci nulla
a che fare, pur senza provare chissà quale odio nei suoi
confronti. Per cui, né
io né Alessandra eravamo libere di parlare delle nostre
rispettive relazioni le
une con le altre, io perché sapevo che lei malgrado tutto
non mi appoggiava –
benché più volte avesse ribadito il contrario
– e lei per pura solidarietà.
Il secondo compromesso riguardava il modo in cui avremmo dovuto
trascorrere le festività: quello sarebbe stato il primo
capodanno che avrei festeggiato
senza la mia migliore amica, e di conseguenza anche senza Laura,
Federico e
Matteo.
Sì, nell’insieme era una cosa parecchio triste, ma
per alleviare
un poco l’amarezza di quella situazione si poteva anche dare
la colpa al fatto
che tutti noi frequentassimo università diverse. Alessandra
era iscritta in tossicologia
come aveva sempre desiderato, Laura in scienze della comunicazione,
Federico e
Matteo in economia e io in lingue: oggettivamente anche in una
situazione
normale sarebbe stato molto difficile, anche se non impossibile,
continuare a vederci come prima. Certo, la realtà era ben
diversa; ma ehi, chi voleva rovinarsi le
feste pensando a quelle cose? Io no di sicuro; e sinceramente non
volevo
neppure guastare il mio primo capodanno trascorso insieme ad Enrico,
considerando che da qualche tempo a questa parte aveva iniziato a
definirsi
ufficialmente – più o meno – il mio
ragazzo. Le prime volte lo avevo incenerito
con lo sguardo, ma alla fine avevo terminato le munizioni. E tutto
sommato chi
ero io per impedirgli di chiamarsi come voleva, dopo tutto quello che
avevamo
passato?
Stavo preparando le ultime cose per il cenone di capodanno. Avevo
iniziato
a sistemare la tavola ed ero passata a preparare i primi antipasti,
quando
Enrico fece il suo ingresso nella sala da pranzo della sua villa di
campagna
carico di buste e vassoi e in evidente difficoltà
– era andato a casa mia a
prendere quello che mia madre aveva insistito per preparare per il
nostro
cenone, dato che loro sarebbero andati a cena da mia nonna insieme agli
zii e a
mia sorella e aveva l’intero pomeriggio libero. Mi pulii le
mani sul grembiule
e lo raggiunsi, aiutandolo a poggiare il suo carico sulla penisola
della
cucina.
Lui gemette, sgranchendosi le braccia. “Tua madre ci ha dato
roba
per un esercito. Lo sa che siamo solo in quattro, vero?”
Ridacchiai, iniziando a tirar fuori i recipienti dalle buste di
carta per capire che cosa ci fosse nei vari involucri. “Non
lamentarti, e
ringraziami piuttosto. Anche mia nonna stava per metterci del
suo...”
“Averlo saputo prima, avrei fatto venire anche gli
altri.”
“Ecco, perché non li chiami? Siamo ancora in
tempo, sono solo le
otto, e più siamo meglio è, no?
Sul suo viso passò un’ombra strana. “Lo
sai, non volevo importi la
loro presenza. E poi non mi sembrava giusto… visto che i
tuoi, di amici, non
sono voluti venire.”
“Sì, beh, è una cosa con cui sono
già venuta a patti. Sapevo che
sarebbe stato difficile, e hanno solo confermato le mie supposizioni.
Pazienza…
Si perderanno le lasagne e le melanzane alla parmigiana di mia
madre.”
Enrico rimase in silenzio, osservandomi mentre cercavo di tenermi
impegnata per non lasciarmi andare alla tristezza. “Mi
dispiace, Giuli. Davvero”, disse
a bassa voce dopo un po’. Sapevo che era sincero, ma questo
non cambiava le
cose.
Accennai un sorriso e scrollai le spalle, come a liquidare una
volta per tutte quell’argomento. “Dai, non
pensiamoci. Non voglio rovinare il
nostro capodanno.” E anch’io ero stata onesta, dato
che non ero per niente pentita
della mia scelta.
Per quanto fosse palesemente poco convinto, ricambiò il
sorriso. “Il nostro capodanno. Mi piace come
suona… nostro…”
Roteai gli occhi, sbuffando. “Oddio, no, per favore. Non ti
sopporto quando fai il vecchio sentimentale.”
“Sto cercando di essere romantico!”
“E ti riesce anche piuttosto male”, lo scoraggiai
subito, dandogli
le spalle e iniziando a infilare le teglie in forno per riscaldarle
prima che
arrivassero gli altri. In realtà quando si metteva
d'impegno gli riusciva piuttosto bene, ma provocarlo era tuttora
così divertente...
Come al solito era troppo cocciuto per farsi abbattere con
così
poco e mi venne appresso come un’ombra, fischiettando a ritmo
di un Jingle bells che suonava dalla radio. Mi
passò le braccia intorno ai fianchi e si strinse contro la
mia schiena, poggiando
il mento sui miei capelli. “Forse avrei dovuto mettere un
rametto di vischio da
qualche parte, magari ti saresti addolcita”,
scherzò, tamburellandomi il ventre
con le dita.
“Grazie a Dio è una pianta che qui non
cresce.”
“Grazie a Dio non ho bisogno di una pianta per
baciarti”, mi fece
il verso, chinandosi per seppellire il viso nell’incavo
scoperto tra il mio
collo e la spalla e dispensando piccoli baci umidi.
Il solletico che quel trattamento – per quanto piacevole
– mi
causava mi fece ridacchiare come una quindicenne. Cercai di spingerlo
via con
il gomito, ma sarebbe stato più facile cercare di staccare a
mani nude una
patella dalla roccia. “Dai, smettila! Che poi dobbiamo
lasciare le cose a metà
e sappiamo entrambi quanto diventi insofferente, in quel
caso”, lo ammonii,
sforzandomi di non ridere.
“Mmh, e chi lo dice che dobbiamo lasciare le cose a
metà?”
“Sta per arrivare Stefano! Con la fidanzata!”
“Appunto, credo che sarebbero più che
comprensivi…”
“Enrico, stai rischiando. Vai a finire di apparecchiare, devi
preparare i piatti con gli antipasti”, lo istruii cercando di
suonare quanto
più severa possibile. Magari se si fosse tenuto impegnato
avrebbe smesso di
pensare a palpeggiarmi, almeno per un po’.
Alla fine, ero riuscita a convincerlo a chiamare il resto dei suoi
amici in modo che ci raggiungessero per cena; arrivarono tutti insieme
poco
dopo Stefano e la ragazza, Cecilia, che mi aveva raggiunto in cucina
mentre gli
uomini facevano comunella in sala da pranzo. Ci eravamo già
viste prima di allora e
andavamo piuttosto d’accordo: l’unica differenza
tra me e lei risiedeva nel
fatto che lei non fosse a conoscenza della, per così dire, seconda
vita di Stefano, e visto che si stavano frequentando da
poco potevo ben capire la riluttanza di lui nel parlarle di certe cose.
Comunque
la presenza di una “esterna” come Cecilia avrebbe
aiutato a mantenere il
livello della serata il più normale possibile, e di questo
le ero davvero
grata; a volte mi sentivo ancora fuori luogo in mezzo a Enrico e ai
suoi amici,
perché sapevo che quello che condividevano era un qualcosa
che non mi sarebbe
mai piaciuto ma che purtroppo non potevo cambiare.
Eppure, quando scoccò la mezzanotte e nel vociare degli
auguri
Enrico stappò la bottiglia di spumante, voltandosi
immediatamente verso di me
in modo che fossi io la prima ad avere il bicchiere pieno, realizzai
che per il
momento non mi importava, ed ero sincera. Quello che davvero contava
eravamo io
e lui, i nostri bicchieri che tintinnavano l’uno contro
l’altro nel brindisi e
il rapporto che stavamo costruendo pazientemente giorno dopo giorno,
mattone
dopo mattone, raccogliendo con cura quelli che cadevano di tanto in
tanto e rimettendoli
a posto in modo che l’intera struttura non crollasse. E
finora dovevo ammettere
di essere parecchio soddisfatta della forma che la nostra relazione
stava
prendendo.
“Felice anno nuovo, Giuli”, mi sussurrò
all’orecchio, prima di
baciarmi.
Funny how the heart can be
deceiving
More than just a couple
times
Why do we fall in love so easy
Even when it’s not right…
_____________________________________________________________________________________________________________________
La canzone che apre e
chiude il capitolo è Try, di Pink. Non so, pensavo ci
stesse bene.
_____________________________________________________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Dite la
verità, da quanto tempo stavate aspettando? Ah? Lo so, lo
so, come al solito sono imperdonabile - ma ehi, guardate il lato
positivo! Questa è ufficialmente la prima storia che ho
scritto e che sono riuscita a concludere (sorvolate sul fatto che mi ci
sono voluti quattro anni per farlo, neanche fosse stata la saga di
Harry Potter), e tutto ciò mi riempie di soddisfazione *_*
Non riesco ancora a essere commossa perché questo
è sì l'ultimo capitolo, però dopo ci
sarà un epilogo, com'è giusto che sia, e
quindi... E quindi niente, ci si rilegge lì :D Rimandiamo a
dopo la lettura dell'epilogo eventuali lanci di mele marce e
riserviamoci la facoltà di esprimere un giudizio
"universale" sulla storia per allora... Perché sono quasi
del tutto convinta che questo trentunesimo capitolo sia stato parecchio
deludente, per molti di voi. Beh, pazienza... This was
my design,
tanto per citare Will Graham (se cogliete il riferimento vi sposo), e
non c'è niente che possiate fare. xD
Dopotutto, se George
R. R. Martin è ancora vivo dopo tutto quello che fa
succedere nei suoi libri... io posso ancora dormire sonni tranquilli. 8D
Colgo l'occasione per
ringraziare nuovamente tutti coloro che hanno dato un'occasione a
questa storia, che hanno seguito le loro vicende dall'inizio o che si
sono aggiunti in seguito, che l'hanno letta in silenzio o che di tanto
in tanto mi facevano sapere che cosa ne pensavano, e che soprattutto
sono qui, oggi, a un passo dalla fine, e potranno dire ai posteri "Io c'ero!" ç_ç
..... Nah, mi sono
lasciata trasportare. Comunque il succo è: grazie, grazie,
grazie mille, grazie infinite, grazie di tutto :***
Entrando nei
particolari, grazie a _Malvine_, Utena, _Elisewin_, Ibelieveinniley, luck_Y, GreenRose93, Charity, Sylphs, _Artemide_, rodney, cate394rina, Mrs_Hran, MinguzXD, Sary01 e Brigida per aver recensito lo scorso
capitolo, nonché a tutte le fantastiche persone che hanno
aggiunto la storia alle Preferite e alle Seguite e, ripeto, a tutti voi
che avete letto :)
Orbene, vi saluto! Ci
diamo l'ultimo appuntamento all'Epilogo, lasciamo le lacrime (anche no)
ad allora!
Vi bacio e vi
abbraccio tutte, la vostra estremamente grata
Niglia.
|
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Capitolo 32 *** Epilogo. ***
Epilogo
Qualcuno
avrebbe detto che era una bella giornata per un funerale. Per me rimaneva
soltanto un comune pomeriggio di fine novembre, con il cielo grigio gravido di
pioggia e l’aria ghiacciata che penetra attraverso il cappotto e raggiunge le
ossa, e ti gela le lacrime sulle ciglia impedendo loro di scivolarti sulle
guance.
Gli
ultimi due giorni sembravano essere stati i più gelidi, fino a quel momento.
In
teoria non doveva esserci molta gente alla funzione – era stata una decisione
della giovane vedova, che non voleva che una folla di curiosi assistesse al
dolore suo e della sua famiglia: malgrado non fossero stati messi i manifesti,
tuttavia, il paese era piccolo e la voce si era sparsa e in chiesa c’era
comunque più gente di quanto avesse desiderato. A messa conclusa, il prete si
era fatto avanti per impedire ai presenti di accalcarsi intorno alla famiglia,
rendendo il momento più penoso di quanto già non fosse.
Le
ero rimasto vicino dal momento in cui il feretro venne portato fuori dalla
chiesa e caricato sull’auto, offrendomi di aiutarla con i bambini ma accettando
di buona grazia il suo rifiuto di separarsi da loro. Aveva tenuto la piccola
Elisa in braccio in tutto il tragitto a piedi verso il cimitero, mentre Nicola
camminava al suo fianco come un piccolo ometto, terribilmente serio e pallido
malgrado i suoi sette anni. Nessuno di loro tre aveva pianto, non in pubblico
almeno, e solo il leggero tremito delle mani della madre rivelava quanto stesse
soffrendo dietro il riparo degli occhiali da sole.
Mentre
le camminavo accanto, quasi a volerla proteggere dagli sguardi di pena,
compassione o persino disprezzo che vedevo nei passanti che si fermavano sul
marciapiede e voltavano il capo verso di noi per saziare la loro curiosità, mi
tornarono in mente uno dietro l’altro tutti i momenti che avevamo trascorso
insieme negli ultimi dodici anni, un tempo sufficiente a far sì che il nostro
legame si solidificasse come non sarebbe mai sembrato possibile, all’inizio.
“Le ho chiesto di
sposarmi, Sté.”
“E lei…?”
“Ha detto di sì!
Cioè, ha detto, sì ma non subito, prima si vuole laureare… Ma non ha detto di
no!”
“L’avevo capito,
sì. Beh, cugino, sono felice per te! Congratulazioni!”
“Sì, grazie, Sté, davvero.
Ehi, senti, voglio chiederti una cosa…”
“Qualsiasi cosa,
cugino.”
“Mi faresti da
testimone?”
Al
matrimonio era bellissima. Forse lo dico perché sono palesemente di parte, ma
lei era bella, davvero. I capelli raccolti in una semplice acconciatura che
lasciava scoperto il collo e metteva in risalto il girocollo di perle grigie,
prestato dalla madre, l’abito color avorio dalle forme morbide e sinuose, il
bouquet di rose rosse e fiorellini bianchi stretti in una mano mentre l’altra
era stretta al braccio del padre – sembrava una visione. Forse fu quello il
momento in cui iniziai ad innamorarmi di lei, mentre avanzava lungo la navata
della chiesa, le guance arrossate dall’imbarazzo e un luccichio commosso negli
occhi, fissi sull’uomo al mio fianco.
“Posso ballare con
la sposa?”
“Certo, cugino, sei
il testimone! Ma non stancarmela troppo, per cortesia.”
Enrico indietreggia
di qualche passo e va a cercare il neo-suocero, non prima però di aver baciato
la moglie su una guancia, semplicemente, ma con un certo qualcosa che la fa
arrossire appena.
Non sono stato così
vicino a Giulia dalla volta in cui ho tenuto il suo capo sulle mie ginocchia in
quella maledettissima ambulanza.
Lei è
incredibilmente a suo agio con le mie mani intorno alla sua vita, e sorride,
sorride, perché nulla potrebbe turbare il suo giorno.
Come aveva fatto…
…a
cambiare idea così drasticamente su Enrico? Solo io sembravo ricordare i tempi
in cui lei lo frequentava perché lui l’aveva obbligata, solo cinque anni prima?,
e di certo all’epoca niente avrebbe fatto presagire un finale di questo genere.
Sposata con Enrico, chi lo avrebbe mai detto. Non avrei mai creduto che sarebbe
arrivato il momento in cui mi sarei pentito di averla praticamente spinta tra
le sue braccia, spinta a dargli un’altra possibilità, a cercare di vedere il
buono che c’era in lui. Avevo difeso mio cugino a spada tratta davanti alla
donna di cui poi mi sarei innamorato – uno strano scherzo del destino, che mi
ha portato talvolta a odiare quello che per me era stato come un fratello.
Inutile
dire che Cecilia, la ragazza che frequentavo all’epoca, divenne una ex subito
dopo il matrimonio.
“Stefano, cazzo,
dimmi dov’è! Non mi risponde al telefono da questo pomeriggio!”
“Non so cosa dirti,
Giuli, davvero. Ascolta, non preoccuparti, lui sa quello che fa…”
“Non preoccuparti?
Non preoccuparti! Come fai a dirmi di non preoccuparmi, mi aveva detto che
sarebbe tornato prima di cena e invece non è ancora rientrato!”
“Senti, posso
andare a cercarlo se ti fa stare più tranquilla.”
“Vengo con te.”
“No, no, Giulia,
rimani a casa. Se Enrico torna e non ti trova potrebbe preoccuparsi lui, e sono
le due del mattino. Ok?”
Silenzio dall’altro
capo del filo. Poi un sospiro rassegnato. “Ok. Ma rimango sveglia, quindi
chiamami o mandami un messaggio qualsiasi cosa sia successa.”
“Ti tengo
aggiornata, te lo prometto.”
Non
era stato un matrimonio facile, il loro, ma Giulia doveva amarlo davvero tanto
per resistere giorno dopo giorno in quella situazione. Ogni volta che Enrico
non rientrava, ogni volta che faceva tardi, persino ogni volta che litigavano,
lei chiamava me. Mi chiamava e mi gridava contro, o piangeva, o rimaneva in
silenzio, perché non aveva nessun altro con cui parlare. Aveva deciso che i
suoi genitori sarebbero dovuti rimanere fuori da quella storia, quindi loro non
avevano idea dell’inferno da cui la loro figlia andava e veniva puntualmente
per amore di suo marito, e come se ciò non fosse bastato con la sua unica
migliore amica era tutto finito nel momento in cui aveva deciso di stare
definitivamente insieme ad Enrico, dato che Riccardo, il fidanzato di
Alessandra, non aveva voluto avere più nulla a che fare con tutti noi.
Ero
diventato il suo migliore amico – non avrei potuto chiedere di meglio.
Sospira, cercando
di prendere chissà quale argomento, e alla fine poggia la tazzina del caffè sul
tavolino e solleva lo sguardo su di me, trattenendo un sorrisino.
“Io ed Enrico ne
abbiamo già parlato, e… Ci piacerebbe che fossi tu il padrino di Nicola.”
La notizia mi
sorprende davvero, dato che non mi sarei mai aspettato di essere così
importante per lei. Lo sguardo mi cade inevitabilmente sul suo ventre che da
qualche mese ha iniziato a curvarsi dolcemente, e che lei accarezza con aria
distratta.
“Dici sul serio?
Non preferiresti una tua amica, o tua sorella, o… o qualcun altro?”
“Mia sorella sarà
comunque la zia, e tu sei un mio amico, Stefano. E, a meno che la tua
risposta non sia negativa, non vedo perché dovrei volere qualcun altro.” Il suo
sorriso è tutto ciò di cui ho bisogno.
“Cavolo, certo che
la mia risposta è positiva! Voglio dire, sì, sarò il padrino di Nicola, non ti
immagini quanto mi faccia piacere che abbiate pensato a me.”
“Non c’era nessun
altro che volessimo, credimi”, sorride lei, alzandosi e venendo ad
abbracciarmi.
Forse
era quello il massimo che potevo raggiungere.
“Se c’è qualcosa
che devi dirmi fallo e basta, Stefano.”
Non mi sta
guardando. I suoi occhi sono fissi sul marito che insegna al piccolo Nicola, di
tre anni, a nuotare in piscina. E’ seduta su un lettino, i capelli raccolti in
una treccia e gli occhiali da sole sollevati sulla nuca, in una normalissima
domenica di luglio.
“Dobbiamo stare via
per un paio di giorni, tutto qua. Credevo che Enrico te l’avesse detto.”
“No, non mi ha
ancora detto niente. Suppongo stesse aspettando il momento adatto, o forse non
ha ancora escogitato una bugia abbastanza decente da rifilarmi.”
“Giulia…”
“Saltiamo la parte
in cui cerchi di giustificarlo, ok? So a cosa andavo incontro quando ho
accettato di stare con lui, ma in tutta onestà credevo che le cose sarebbero
cambiate. Se non subito, almeno con la nascita di Nicola… E invece mi sembra
solo che siano peggiorate.”
Le risate e gli
schiamazzi che provengono dalla piscina stonano con l’argomento della nostra
conversazione. Non ho il tempo di trovare una risposta, perché Giulia si alza,
si toglie gli occhiali e il pareo e rimane in bikini, pronta a raggiungere i
suoi uomini in acqua.
Prima di andare mi
rivolge una supplica sussurrata.
“Tornate tutti
interi e basta, ok?”
Enrico
non era geloso del rapporto che avevo con sua moglie. Forse perché anche lui,
come me, era consapevole che Giulia malgrado tutto era innamorata persa di lui,
e che se anche a volte litigavano tanto furiosamente da far temere che
potessero arrivare alle mani – e invece, per quello che ne sapevo io, a casa
loro non era mai neanche volato un piatto – poi alla fine si perdonavano tutto
e continuavano ad andare avanti, come se uno fosse il sostegno dell’altro e
viceversa. Suppongo che fosse il minimo avere un rapporto del genere, dopo
tutto quello che avevano superato insieme.
L’unico
geloso ero io. Più di una volta mi sono ritrovato a desiderare che Giulia
guardasse me in quel modo, ma mai, neanche per un istante, per quanto potessero
essere tragiche le cose tra di loro, mi aveva rivolto quel particolare tipo di
attenzioni.
La
sua fedeltà era quasi commovente. E mi faceva diventare matto.
“Oh mio Dio,
Enrico, che cos’è successo?”
“Niente, tesoro… Un
incidente di percorso.” Un sibilo dolorante segue quelle parole quando Giulia
preme il sacchetto del ghiaccio sullo zigomo del marito. Lei sussulta, ma la
sua mano è ferma: non è la prima volta che Enrico torna a casa in condizioni
simili.
“Domani c’è la
festa di compleanno di Nicola, e tu avrai un occhio nero! Sei uno stupido”,
ribatte lei. “Che cosa penseranno gli altri genitori? E ai miei, che cosa
dovrei dire? Che ti picchio perché non sai caricare la lavatrice?” Parlano e
malgrado tutto scherzano sussurrando per non svegliare il bambino, e io
distolgo lo sguardo premendo a mia volta una bistecca congelata sul labbro. C’è
troppa dolcezza nel modo che ha lei di sfiorarlo, di guardarlo, persino di sgridarlo,
e io non riesco più a sopportare tutto questo.
Poi però lei
solleva gli occhi e per un istante la sua preoccupazione è tutta per me. “Anche
il tuo labbro non è messo per niente bene. Fai vedere…” Allunga una mano e
sfiora la mia bocca spaccata, facendomi sussultare. Lei crede che sia dolore, e
si ritrae.
“Nulla che non si
possa sistemare con un po’ di fondotinta, per domani”, mormora, e riesce quasi
a strapparmi un sorriso.
Il
cimitero era vuoto quando arrivammo – a parte gli uomini delle pompe funebri.
Il padre di Giulia aveva preso in consegna la nipotina, che adesso si stringeva
al collo del nonno anche se il suo sguardo non lasciò la madre per nessuna
ragione, mentre la nonna prese per mano Nicola e lo avvicinò a sé. Lei quasi
non se ne accorse – tutta la sua attenzione era per il feretro che veniva
portato fuori dall’auto e avvicinato ad una buca precedentemente scavata nel
terreno.
Il
sacerdote disse altre preghiere che si persero nel vento, benedisse un’ultima
volta la bara e poi diede l’autorizzazione a calarla lentamente nella fossa. Qualcuno,
non vidi bene chi, porse una rosa a Giulia e lei la posò delicatamente sul
feretro che si abbassava, accarezzandone la superficie di legno lucido come se
in quel modo avesse accarezzato un’ultima volta in viso di suo marito. Le
sfuggì un singhiozzo, e poi divenne impossibile trattenere ancora il pianto.
Passi veloci nel
corridoio dell’ospedale.
“Dovrei esserci io qui,
maledizione, non lui”, mormora a mezza voce, tenendo una mano sul pancione. “Se
la bambina nasce e lui non può assistere, giuro che mi incazzo.”
“Il dottore ha
detto che deve rimanere solo altri due giorni. Ha una gamba ingessata, non un
trauma cranico.”
“E come fa a
rimanere in piedi al mio fianco con una gamba ingessata?” Sibila, irritata. Si
blocca all’improvviso in mezzo all’andito con un gemito, e io mi preparo al
peggio.
“Oddio. Ti si sono
rotte le acque?”
Questo la fa
ridere. “No, è la bambina che ha fatto una giravolta. Penso che sia arrabbiata
anche lei all’idea che il padre potrebbe non assistere alla sua venuta al
mondo.”
“Non lo invidio
proprio mio cugino, deve combattere con due donne furiose e una di loro non è
ancora nata!”
Arriviamo
ridacchiando nella sua stanza e già Giulia ha dimenticato la sua rabbia mentre
si precipita accanto a lui. “Devo partorire io e ti fai ricoverare tu?” La
sento che dice, cercando di sgridarlo.
Lascio loro un po’
di intimità e ritorno in corridoio. Sospiro. In realtà ho detto una bugia…
Anche se ha una
gamba rotta, non posso fare a meno di invidiarlo.
Mi
inchinai su di lei e l’aiutai ad alzarsi, allontanandola con discrezione dalla
fossa. Stava singhiozzando da spezzare il cuore, come una bambina, e nel vedere
la loro madre in quelle condizioni anche i figli sembravano aver rotto la diga.
I nonni li cullarono e cercarono di calmarli, portandoli via in un angolo più
appartato, e anche io cercai di fare lo stesso con Giulia, ma inutilmente. Sembrava
decisa a rimanere lì, vicino alla fossa, fin quando non fosse stata ricoperta
dalla terra; si aggrappò al mio braccio e io la lasciai fare, sentendola
tremare contro di me e odiandomi per non essere capace di esserle più d’aiuto. Le
accarezzavo la schiena con la mano libera e l’abbracciai, in silenzio, pregando
che tutto finisse il prima possibile.
Purtroppo
sapevo benissimo che il suo dolore sarebbe continuato ancora a lungo.
“Ci
sono io, adesso, Giulia.” Le sussurrai, le labbra seppellite contro i suoi
capelli e le braccia intorno alle spalle. La strinsi a me impedendo a chiunque
altro di vedere le sue lacrime, forse geloso che altri a mio parere più
immeritevoli di me la avvicinassero e cercassero di consolarla o di stringerla,
consapevole di essere il suo attuale unico porto sicuro nella tempesta – o
forse sperandolo e basta. “Non preoccuparti. Andrà tutto bene. Sei con me,
ora.”
*
Lo squillo di un
telefono nelle prime ore del mattino. Una mano che esce da sotto le lenzuola e
si affanna alla cieca per afferrarlo. Fuori è ancora buio.
“Pronto? Chi è?”
“Giulia, sono
Stefano. Scendi, sono qua fuori.”
Qualcosa nel suo
tono di voce la mette in allarme, e tremando scende dal letto e corre giù per
le scale, scarmigliata, mezza nuda, quasi inciampando nei propri passi.
Raggiunge la porta di ingresso, la spalanca e i suoi occhi si posano sul viso
pallido e l’espressione devastata del suo migliore amico.
“Giulia”, mormora
piano, alla ricerca delle parole. “Giulia, mi dispiace. È…”
“No!” Grida lei,
indietreggiando. Si porta le mani tra i capelli, gli occhi si inondano di
lacrime e la bocca continua ad aprirsi e chiudersi ripetendo in continuazione
la stessa parola. “No, no, no, no, no…”
Lui allunga le
braccia, cerca di avvicinarsi, di inventarsi qualcosa per farla smettere di
urlare e rischiare così di svegliare i bambini, ma lei si scansa, indietreggia
ancora, inizia a singhiozzare, poi gli da le spalle e corre a cercare un punto
per sedersi prima che le gambe tremanti le cedano e la facciano crollare. Si
accascia sulla poltrona accanto al camino, incurante di indossare solo un paio
di slip e una canottiera, e si lascia andare al pianto nascondendosi la faccia
tra le mani.
Stefano la
raggiunge e si inginocchia davanti a lei, ma lei non da segno di accorgersi
della sua presenza. Piange da far sanguinare il cuore. Non grida più. Mormora
solo, all’infinito, come un mantra, un semplice “no”. Non vuole crederci,
eppure dentro di sé sa di avere aspettato quel giorno dal momento in cui lui le
aveva messo l’anello al dito. La sua vita era stata costantemente minacciata da
quella terribile spada di Damocle, e adesso che ciò che più temeva era
successo, lei si sentiva… Si sente, orribilmente, privata di un peso. Quasi – è
orribile anche solo pensarlo – sollevata.
Il pensiero la fa
solo piangere di più.
E sono le braccia
di Stefano, adesso, che le appaiono calde e confortanti.
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Angolo Autrice.
Mi volete uccidere, lo so. E stavolta credo che non sia a causa del ritardo - dato che miracolosamente non è passato un mese dall'ultimo aggiornamento, yai! - ma proprio per la conclusione... Ma questa storia non poteva avere proprio un happy ending, capite... mi spiace se vi ho illuso, con il precedente capitolo - era la quiete prima della tempesta, se vogliamo. :D
Qualcuna di voi pensava che l'Epilogo sarebbe stato scritto dal punto di vista di Enrico - non credo di averlo mai detto, comunque mi dispiace se si sono create false aspettative! Volevo tentarmela con un piccolo "colpo di scena", ecco. Avevo in mente Stefano da tanto, benché abbia avuto pochissimo spazio questo personaggio si è ostinato a venire a bussare alla porta del mio ufficio per pretendere un ruolo un po' più di rilievo, e così... Eccoci qui :D
Bene, non credo di avere molto da dichiarare. Sono riuscita a portare a compimento questa storia - e se da una parte la soddisfazione è tanta, dall'altra la tristezza e la nostalgia che avrò di questi personaggi sarà incalcolabile :( Ecco cosa succede quando ci si trascina una storia così a lungo e soprattutto quando ci si affeziona così tanto ai propri personaggi!
Se l'ispirazione non muore nel frattempo, potrei - e sottolineo il potrei, perché per ora è solo un'idea molto vaga e nebulosa - tornare con Enrico e Giulia in una breve raccolta di Missing Moment scritti dal punto di vista di Enrico, ma non voglio darvi false speranze! Se li scriverò, sarete i primi a saperlo: pubblico gli aggiornamenti su Faccialibro, tanto :)
Per qualsiasi cosa - domanda, commento, curiosità, o semplicemente per mantenere i contatti, potete trovarmi su Ask e su Twitter :) Per quanto riguarda le recensioni, ora che mi sono liberata del grosso degli esami posso rispondere anche singolarmente alle recensioni, e ne approfitto ora per chiedere perdono per non averlo fatto prima! Il tempo scarseggia @_@
Nel frattempo, per aver recensito lo scorso capitolo ringrazio immensamente: Charity, Misfit, la mia carissima Sylphs, luck_y, ciuciu, Utena e Brigida, sono davvero tanto, tanto, tanto onorata che siate arrivate fino alla fine con tanta pazienza e buona volontà! :** Grazie anche a tutte coloro che hanno aggiunto "L'uomo Sbagliato" tra i Preferiti e le Seguite, e che seguono in silenzio ma con assiduità sin dall'inizio <3
Inoltre, ultima ma non ultima, devo ringraziare la mia, di geme, che è stata testimone della nascita di questa storia e che mi ha seguito passo passo per tutta l'avventura, che conosce tutti i retroscena e sa quanto questa storia abbia significato per me :)
Ma ora basta, sto diventando una sentimentalona! :D Vi lascio e vi auguro tante belle cose, speriamo di ritrovarci per qualche altra storia su queste pagine :) Tanti baci e abbracci forti a tutte! *lancia coriandoli e stelle filanti*
La vostra, immensamente grata,
Niglia.
PS: Mi sono appena resa conto che concludo questa storia appena un pelino prima del mio compleanno, mi sento soddisfatta! Potrò dire di averla terminata a 21 anni e non a 22, LOL.
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