Journey. di S o p h i e (/viewuser.php?uid=118698)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La prima stella del mattino ***
Capitolo 2: *** Dean's Pub ***
Capitolo 1 *** La prima stella del mattino ***
La prim stella del mattino
Prima
di lasciarvi leggere la storia, vorrei dire solo due cosucce:
1. La prima stella del mattino fa parte della mia personale collezione
di racconti dedicati tutti alla Route 66. Avevo in mente di scrivere
questa storia già da un pò, ma il concorso
indetto da _BitterSweet_ sul forum di Efp, mi ha illuminato
completamente. Quindi volevo ringraziare la GiudiciA
anche qui.
2. Era la prima volta che partecipavo ad un concorso, e non avrei mai
pensato di poter arrivare sul podio, aggiundicandomi il secondo posto
(medaglia d'argento, quale onore), e vincere addirittura un premio
speciale, ossia quello Miglior Notte *_* Troppo per il mio piccolo
cuoricino.
Ora dopo avervi annoiato adeguatamente vi lascio alla lettura della
storia ù.ù
Sophie -che ultimamente aveva perso un pò la fiducia nelle
cose belle, ricredendosi.
La prima stella del mattino
Era
l’estate del 1955 quando Ruth Ellis, accusata di aver ucciso
l’amante, venne
giustiziata a Londra. La sua fama oltrepassò i confini
nazionali, così com’era
accaduto solo due anni prima, in America, per i coniugi Rosenberg,
condannati
per spionaggio alla sedia elettrica.
Fu
un’estate strana quella del 1955, mentre Ruth veniva
impiccata in una stanza di
una vecchia prigione dalle pareti antracite, Ian percorreva la Turner
Tumpike
fra Oklahoma City e Tulsa.
Io
e Ian c’incontrammo per la prima volta in una stazione di
servizio lungo la Strada
Madre, così come Steinbeck preferiva chiamarla. Avevo appena
abbandonato un’allegra
comitiva di vecchi contabili, su un pullman verde foresta sgangherato,
loro
diretti verso San Andrea, io ovunque ci sarebbe stata vita.
Quando
lo vidi, Ian intendo, indossava un vecchio giubbotto di pelle nero e i
suoi
occhi chiari brillavano sotto l’insegna al neon della
stazione, ma non furono
quelli o il modo poco garbato che aveva avuto nel gettare per terra
ciò che
rimaneva della sua sigaretta ad attirare su di lui la mia attenzione
quella
notte.
Notti
come quelle andrebbero conservate dentro barattoli di vetro,
nasconderle
infondo al più alto pensile della cucina e lasciarle
impolverare fin quando non
si ha voglia di sognare ad occhi aperti, e respirare le persone che
sono
rimaste imprigionate nei barattoli, per conservarsi.
Mi
venne spontaneo avvicinarmi a lui con disinvoltura quando lo vidi
alzare gli
occhi verso le nuvole, ammassi di particelle d’acqua
compresse in un unico
corpo, e sorridere. Così, come se Ruth non fosse mai morta,
come chi crede in
una valle incantata dove abitano unicorni.
«Hai
un posto vuoto in macchina?» gli domandai sollevando gli
occhi sul cielo che
piano si stava imbrunendo, lasciando intravedere le prime stelle.
Il
suo corpo si mosse lentamente, intorpidito dal lungo viaggio,
«dipende».
Mi
voltai e per fissarlo negli occhi dovetti sollevare nuovamente la
testa. Era
alto il doppio di me, e se non fossi nata con la camicia forse quella
sera
invece di incontrare Ian il buono avrei incontrato Ian il pazzo e
chissà che
fine mi avrebbe fatto fare.
«Da
cosa esattamente?» chiesi inarcando un sopracciglio.
C’è
da dire che prima d’incontrare Ian, io ero una persona
normalissima, forse un
po’ svampita e con la testa troppo tra le nuvole, ma
abbastanza ragionevole, fu
dopo il nostro incontro che capii di non essere più la
stessa.
Un
sorriso sghembo si disegnò sulle sue labbra sottili,
«bè prima di tutto, non so
quanto sia sicuro far salire sulla Spyder una sconosciuta incontrata in
un
parcheggio quasi deserto di una stazione di servizio, chi mi assicura
che non
sei un male intenzionato?» Mi domandò canzoniere,
accendendosi una seconda
sigaretta.
Feci
finta di riflettere prima di rispondergli, regalandogli così
il beneficio del
dubbio, «ehi James Dean, ho per caso la faccia di una
pericolosa?» Gli domandai
con disinvoltura.
Lui
rimase immobile a fissarmi, e fu come se una tempesta tropicale mi si
abbattesse contro, avrei dovuto immaginarlo a cosa stavo andando
incontro.
«Sai
dov’è possibile ammirare la prima stella del
mattino in tranquillità?» Mi
chiese sorprendendomi.
«A
Est, verso le grandi pianure» risposi avvicinandomi. Lui
sorrise e facendomi
cenno di seguirlo, mi permise di salire a bordo della sua Spyder nera,
scura
come la notte che stava calando sul palcoscenico arido di quelle terre
desolate.
«Come
hai detto di chiamarti?»
Lo
fissai truce, «non l’ho detto».
Annuì,
«mi sembra doveroso presentarsi signorina temeraria, e se
fossi un maniaco?» si
voltò a fissarmi inarcando il sopracciglio destro.
«E
se fossi io la maniaca?» Ribattei imitandolo.
Ian
arricciò le labbra, «non hai una faccia
pericolosa» rispose ripetendo le mie
stesse parole.
«Io
sono Dee» Sbuffai sprofondando dentro il sedile di pelle,
freddo e ruvido.
«Io
sono Ian, dov’è che scendi?»
Gli
sorrisi divertita, «tu dov’è che
vai?»
«A
Est baby, l’hai detto tu». Rise, di una risata
allegra e spensierata, di chi
per tutto il giorno non ha fatto altro che sparare cazzate.
Ora,
una brava ragazza non ci dovrebbe salire in macchina con uno
sconosciuto. Una
brava ragazza non indosserebbe calze sbagliate o magliette troppo corte
solo
perché “sono divertenti”. Una brava
ragazza non sarebbe mai andata via di casa
senza lasciare neppure un biglietto, ma soprattutto, una brava ragazza
non
sarebbe mai stata felice di trovarsi su una Spyder e di non voler
più scendere.
«Cos’è questa storia della prima stella
del mattino?» Domandò chi sarebbe
dovuta essere una brava ragazza.
«Una
storia come tante altre, un giorno te la
racconterò».
«Non
ho mica detto che ti avrei seguito fino ai confini», era
meglio precisare.
A
lui sembrò piacere la mia risposta, «e fino a dove
vorresti arrivare?»
«Proprio
non saprei, tu intanto metti in moto, che qualcosa mi verrà
in mente».
E
la strada che scivolava sotto le ruote chissà cosa aveva da
dire, chissà quante
volte era stata calpestata, chissà se qualcuno le aveva mai
chiesto scusa:
“Perdonami,
ti ho fatto male?”
“Figurati
ci sono abituata”
“Ti
chiedo scusa ugualmente che non si sa mai, l’Highway non
vorrei mai averla
sulla coscienza”.
La
ghiaia agli angoli, la vegetazione fitta e selvaggia, il sole
all’orizzonte che
non sorgeva mai, e poi la notte- la notte. Il buio fuori
dall’Oklahoma sempre
più in alto verso il Missouri, le stelle che ti guardavano
amorevolmente, come
mamme cantanti alla ricerca della ninna nanna perfetta, quella che ti
faceva
fare sogni tranquilli, quella che ti cullava e poi ti amava, senza
metterti
fretta.
Ian
aveva sintonizzato la radio su una sola frequenza, su una trasmissione,
dove
non c’erano radiofonici, ma solo canzoni, una di quelle che
t’invoglia a premere
il piede sull’acceleratore e correre- verso
l’infinito e oltre.
Elvis
Presley faceva tremare il mondo sotto i suoi passi, erano i primi anni
musicali
di quello che Alan Freed denominò
Rock’n’Roll. Quella notte i Platters
intonavano Only you mentre Ian chiedeva scusa all’asfalto.
E
al diavolo le stazioni che dividevano i bianchi dalla gente di colore,
quella
doveva essere una stazione pirata.
«Dee,
me la spieghi una cosa?»
Rimasi
a fissare il panorama che scorreva dal finestrino,
«spara».
«Levami
un po’ una curiosità, quanti anni hai?»
«Abbastanza».
Mi
lanciò un’occhiataccia, «non si direbbe
tesoro, comunque sia, esattamente da
chi è che stai scappando?»
«Ma
io non sto scappando mica».
«E
allora cos’è che stai facendo?»
«Tu
cos’è che stai facendo?» Sorrisi.
«Io
sto guidando»
«Io
sto guardando fuori dal finestrino, a proposito, ti conviene uscire
dalla 66».
«E
perché mai?»
«C’è
solo deserto».
Ian
sbuffò, «c’è storia bambina,
dici di stare guardando fuori dal finestrino ma
non stai osservando. Come fai a non vedere quella macchina ferma
infondo alla
valle, quella con i fari accesi? Ci
sono
due vecchi innamorati. L’uomo sta cercando di capire che
direzione prendere,
mentre la moglie gli urla in faccia tutto il suo disappunto.
“John te l’avevo
detto, queste sono cose pericolose, torniamocene a
casa”».
Mi
voltai incuriosita, rimanendo delusa quando non vidi nessuno.
«Non c’è nessuna
macchina, Ian».
«E
quell’enorme bisonte alla tua sinistra? Sta cercando
disperatamente di prendere
sonno, ma non ci riesce, il frinio delle cicale gli impedisce di
dormire».
Scoppiò a ridere, alzando il volume, «quanto amo
questa canzone, My baby she’s gone,
I’m in misery, Dee
guarda che notte».
Scoppiai
a ridere, era matto, quell’uomo era tutto matto.
«Dee
guarda che sono serio, come fai a non vedere?» Si
voltò a guardarmi, sollevando
gli angoli delle labbra, «hai degli occhi meravigliosi, non
dovresti avere
problemi».
Lo
fissai inclinando leggermente la testa, Sadie avrebbe detto Sexy, ma
forse era
troppo presto. «Non ce l’hai una
famiglia?»
«Certo
che ce l’ho, è che mi piace viaggiare
leggero», rise abbassando nuovamente il
volume quando B.B.King terminò la canzone.
«E
tu bambolina?» Mi domandò di rimando lanciandomi
una fugace occhiata senza
malizia.
Annuii,
«solo che non mi va proprio di parlarne questa notte, capisci
quello che voglio
dire?»
«Sei
uno spirito libero, proprio come me, è per questo che ti ho
fatto salire a
bordo». Sorrise agitando la testa, «hai
fretta?»
«Di
fare cosa?»
Sorrise
di nuovo, questa volta con gli occhi, «hai fretta questa
notte?»
«Sono
in macchina con uno sconosciuto e a guidare non sono io, non ho
libertà di
parola, giusto?».
«Ti
va di fidarti di un completo sconosciuto?»
Continuò come se non avessi aperto
bocca.
«Non
l’ho già fatto?»
«Dee,
bambina, stanotte sarà la notte più bella della
nostra vita, te lo prometto».
E
lo fu davvero, la notte più bella della mia vita.
Corremmo
per quello che sembrarono miglia e miglia, quintali di strada mai
coltivata
fino a una stazione di servizio, più popolata rispetto alla
prima.
Scendemmo
dalla Spyder con la gola in fiamma per tutte le canzoni che avevamo
cantato. Entrammo
nel locale verso l’una di notte, con ancora la musica nelle
orecchie. Ian
comprò due birre ghiacciate, allungandomene una come se
fossimo due vecchi
amici.
«Dee,
guarda lì».
«Dove?»
Mi voltai, seguendo la direzione del suo indice.
Avevo
capito cosa lo faceva andare fuori di testa: la musica.
«Un
Jukebox?» Domandai
voltandomi nuovamente
verso di lui. La cameriera che ci aveva servito le birre si
avvicinò al nostro
tavolo, puntando i suoi occhioni scuri su Ian.
«Bel
maschione ti va di ballare?» Gli domandò con voce
sensuale avvicinando le
labbra rosse all’orecchio del mio compagno di viaggio. Ian mi
lanciò un’occhiata
prima di mettersi in piedi, mi sorrise persino mentre cingeva con il
braccio i
fianchi della donna e, come se volassero, si avvicinarono al centro del
locale,
muovendosi insieme con altre tre coppie, a ritmo di musica folk.
Non
c’era molto da fare in quel momento, potevo rimanere a
fissare il corpo
femminile e formoso della cameriera strusciarsi su quello muscoloso di
Ian,
come una gatta in calore, oppure potevo alzarmi dalla sedia e iniziare
a
ballare come se non avessi fatto altro in vita mia. I primi passi non
te
l’insegnano mica mamma e papà, tutte bugie. Sei tu
che un bel giorno, stanco di
strisciare il culo sulle mattonelle decidi di mettere in moto le
ginocchia. Non
l’hanno ancora capito i genitori? E tutti quanti, che, quando
ci si mette in piedi
per la prima volta, non lo si fa per camminare, ma per esigenza vitale,
il
sangue ti fluisce dritto dritto nei piedi e tu sei costretto ad
alzarti. I
bambini non camminano, i bambini ballano.
Mi
misi in piedi raggiungendo il centro della pista con la birra che mi
scorreva
nelle vene e allungandomi verso uno sconosciuto, lo costrinsi a ballare
con me.
Fu
una sfida quella che intrapresi in quel locale, ma non verso Ian e la
sua
cameriera. Era una sfida contro la vita e le sue regole, contro la
famiglia che
ti voleva accasare, contro le riforme. Contro chi non capiva che le
bionde, si
forse erano stupide, ma il senso del dolore lo conoscevano. Ero,
invece, con
tutti quelli che quella notte avevano deciso di essere se stessi. E si,
forse
il mattino dopo qualcuno mi avrebbe riportato a casa, ma nel frattempo,
quella
notte, quel preciso istante, sarebbe rimasto mio per sempre.
Sentii
le braccia dello sconosciuto sostituirsi con quelle di Ian, e il
sorriso
imbarazzato dell’uomo che avevo ingiustamente sottratto dal
bancone, con il suo
sorriso strafottente.
«Piccola
ti muovi che è una favola», rise facendomi
contorcere sotto i suoi occhi
chiari.
Ballammo
per quello che sembrò un’ora intera, prima che il
proprietario della stazione
di servizio ci cacciasse fuori a calci, sgridandoci per il troppo
baccano.
Ci
avvicinammo alla macchina l’uno accanto all’altro,
mentre ancora ridevamo e
ballavamo in un modo tutto nostro.
«Allora,
me lo vuoi dire da cos’è che stai
scappando?» Mi domandò a un certo punto Ian,
cingendomi le spalle con un braccio, attirandomi sul suo petto.
Scossi
la testa, liberandomi dal suo abbraccio e con il sorriso sulle labbra
mi misi a
correre verso la macchina, cercando di non farmi acciuffare. Ero
però troppo
lenta, al contrario di Ian, che non impiegò molto tempo
prima di raggiungermi.
Forse ero ubriaca, forse ero solo felice, fatto sta che quando sentii
la sua
pelle nuovamente vicina alla mia mi voltai a baciarlo.
Non
fu per nulla un bacio appassionato, tutt’altro, forse neppure
le sfiorai le mie
labbra con le sue. Ricordo solo che quello fu il nostro primo contatto
e che fu
un pezzo di vita che mi scivolò via dal corpo, un pezzo di
me che stavo cedendo
a un completo sconosciuto.
«Ian,
guarda lì, ci sono due uomini fermi sul ciglio della strada,
sai cosa stanno
facendo? Stanno aspettando, come Beckett, ci pensi, tutti aspettano
qualcosa,
tu cos’è che aspetti?» Gli domandai,
abbassando il finestrino per far entrare
un po’ d’aria fresca.
«Aspetto
la prima stella».
Mi
voltai sorridente, «ancora? Cos’è questa
storia?»
Ian
scosse la testa, divertito, «te la racconterò solo
se tu mi dirai da cos’è che
stai scappando?»
«Allora
non la voglio sapere», dissi stringendomi le braccia sotto il
seno.
«Abbiamo
tutta la notte, puoi sempre cambiare idea». Sorrise sghembo,
rimettendo in moto
la sua Spyder.
Alla
fine uscimmo davvero dalla Route 66, non perché stanchi di
tutto quel deserto, ma
perché per raggiungere Springfield bisognava abbandonare la
Strada Madre e
percorrerne una secondaria, più sottile, meno conosciuta. Il
cambio di panorama
alla fine non fu un granché, abbandonammo semplicemente i
granuli sabbiosi per
raggiungere interi viali circondati da alberi e cespugli- cercate forse
una
volpe? Per di qui, prego.
Lentamente
il sapore amaro della birra era scivolato via dalla mia bocca e
ciò che
rimaneva era solo il ricordo di un ballo con uno sconosciuto, tanti con
Ian e
un quasi bacio, che sembrò non interessargli minimamente.
Non parlammo molto
dopo esserci messi in macchina, diverse volte chiusi gli occhi,
riaprendoli in
luoghi diversi. E utilizzando quel bizzarro metodo mi ritrovai vigile
una volta
usciti dall’Oklahoma.
Ian guidava silenzioso nella
notte, la stazione
pirata trasmetteva musica di sottofondo, forse un blues. Se chiudevi
gli occhi,
riuscivi quasi a vederla quella coppia dietro la tenda della finestra,
in uno
di quei vecchi quartieri nel New Orleans. Le note accompagnavano i
movimenti
lenti delle dita, mentre facevano scivolare via la sottoveste dal corpo
della
donna, così silenziosamente, senza fare rumore, come un
fluire di sogni che scivolavano
via, cadendo a peso morto sul pavimento di legno.
«Bella
canzone», sussurrai osservando i movimenti aggraziati e
veloci di Ian mentre
cambiava le marce.
Lui
annuì, «il meglio deve ancora venire.
Arriverà un giorno in cui non esisterà
più distinzione, sarà tutto solo una questione di
musica, capisci?» disse
voltandosi verso di me, «bianchi e neri si uniranno, faranno
persino l’amore,
già me l’immagino».
Scossi
la testa, «Ian tu sei tutto matto».
«No
bambina, ti stai sbagliando, in quello che dico ci credo davvero.
Succederà che
un giorno ci sveglieremo e tutto sarà diverso. La donna di
colore che prima ti
faceva le pulizie, adesso è diventata tua moglie, madre dei
tuoi figli». Lo
disse con naturalezza, come chi ci credeva sul serio in quello che
diceva. «Si
chiama fede, e non nella religione, che quella è buona solo
ad ingozzarci tutti
di letture mistiche e di miracoli al limite dello scientifico. No, tu
devi
credere agli occhi della gente, quelli non mentono mai».
Sorrise guardandomi.
«Io ti guardo negli occhi e sai cosa vedo?» Mi
domandò alternando lo sguardo
dai miei occhi alla strada.
«Cosa
vedi?» Gli chiesi dolcemente.
«Vedo
una ventenne paralizzata che cerca di uscire da questa paralisi. Dee tu
sei uno
spettacolo, dove ti eri nascosta per tutto questo tempo, cosa stavi
aspettando?»
«Non
puoi parlarmi in questo modo. Noi neppure ci conosciamo».
Offesa ecco come mi
sentivo, era entrato senza chiedermi il permesso, senza che me ne
potessi
accorgere.
«Tu
sei venuta da me, non ti ho cercato io, ricordi?»
«Io
avevo solo bisogno di un passaggio».
«Tu
hai solo bisogno di divertirti. Ti ho visto sai? Mentre ballavi, con
che occhi
guardavi il mondo. Come se ti avessero tenuta prigioniera per tutta la
vita,
come chi guarda la luce per la prima volta».
Inumidii
le labbra secche, bagnandole con la punta della lingua prima di
parlare, «ero
solo felice Ian, niente di più e niente di meno.»
Non
mi credette, «quante altre volte sei stata felice nella tua
vita?»
«Abbastanza»
risposi lapidaria.
«Abbastanza
non è un numero» Mi fece notare con gentilezza.
«Perché
tu le hai contante, tutte le volte che lo sei stato?»
Domandai sprezzante.
Tornai
con lo sguardo fuori dal finestrino, tenendomi alla larga dai suoi
occhi,
troppo ipnotici, troppo sicuri. Come se lui avesse capito tutto, come
se
conoscesse le risposte a tutti i perché.
«Otto».
Mi
voltai, inarcando un sopracciglio
insospettita,«otto?»
«Le
volte in cui sono stato realmente felice» precisò
guardando dritto davanti a
sé.
«Non
ti credo». Era impossibile ricordare tutti i momenti felici,
alcuni si vivevano
persino senza rendersene conto.
Ian
non sembrò d’accordo, «le ricordo
tutte».
«Dimmele»,
lo sfidai.
Sorrise
sghembo, «eh eh troppo comodo così, non lo sai che
quando si racconta a una
persona i suoi momenti felici automaticamente si diventa importanti per
quella
persona?»
«Non
correrò il rischio di innamorarmi di te» lo
rassicurai, sorridendo leggermente.
La
luna di alabastro ci accarezzava dolcemente, accompagnandoci lungo il
nostro
viaggio.
«Ma
se mi hai baciato», mi canzonò guardandomi
divertito.
Arrossii
involontariamente alle sue parole, speravo che non se ne fosse accorto,
«quello
non era un bacio, e comunque ero brilla, non conta».
Borbottai voltandomi
dall’altra parte, sentendolo ridacchiare.
Lungo
i confini del Missouri, a qualche kilometro di distanza da Springfield,
Ian
parcheggiò la sua Spyder in un campo di grano e di
pannocchie.
«Che
ore sono?» Gli domandai, una volta spento il motore.
«Quasi
le quattro», rispose stiracchiandosi sul sedile.
«E’
ancora presto per l’alba».
«Vorrà
dire che aspetteremo. Hai fretta di raggiungere la
città?»
Scossi
la testa, «no. E’ la stessa cosa».
«E’
Springfield la tua meta?»
«A
dire la verità non ho una vera destinazione»,
confessai a bassa voce.
Si
voltò incuriosito,«vaghi così? Di
questi tempi non è il massimo spostarsi senza
qualcuno accanto»
«Tranquillo
non permetterò che ti violentino» Gli dissi
sorridendogli.
Ian
sollevò gli occhi al cielo, rimanendo in silenzio.
«Che
ne dici di scendere?» Suggerii, «il cielo si
vedrà molto meglio lì fuori».
Ridacchiai indicando fuori dal finestrino.
Sogghignò,
condividendo però la mia considerazione.
Scendemmo
dalla Spyder lasciando il tepore artificiale dei sedili, per buttarci
nel caldo
afoso della notte nei campi. Le coltivazioni di granturco superavano il
metro,
mentre le rivestiture naturali delle pannocchie si aprivano alla luna,
mostrando i loro tesori gialli.
Raggiungemmo
con non poca difficoltà la fine della coltivazione, trovando
uno spazio
pianeggiante sulla cima di una piccola collinetta, dalla quale era
possibile
osservare le luci della città.
«Adesso
me li puoi anche dire, i tuoi otto momenti felici», sorrisi
sdraiandomi con la
schiena sull’erba umida.
Il
cielo quella notte era un ammasso di corpi gassosi che lentamente si
lasciavano
assorbire dall’oscurità di quelle terre. Il buio
silenziosamente portava via le
stelle, facendole scivolare sotto il suo manto. Mentre i primi lampi
chiari di
luce sorgevano lentamente all’orizzonte.
«Te
ne dirò solo tre», disse Ian, usando il suo
giubbotto di pelle come cuscino.
Con un sorriso mi permise di sdraiarmi accanto a lui, puntando i nostri
occhi
al cielo.
«Sono
tutta orecchie», lo schernii facendo sfiorare
involontariamente le nostre
teste.
Ridacchiò,
«il primo è stato diversi anni fa, quando vivevo
ancora a casa dei miei
genitori. Ricordo di essermi svegliato una mattina con una nuova
consapevolezza, come se sentissi di essere diverso, non mi sentivo
più lo stesso
ragazzo della sera prima. E tutto questo scalpore era stato causato da
degli
stupidissimi peli che mi crescevano sul viso»,
sghignazzò scuotendo la testa.
«Era
barba Ian», gli feci notare con un sorriso.
«Lo
so, signorina so-tutto-io. La mia felicità nacque quando
quella mattina mio
padre, tutto orgoglioso, mi mise un braccio intorno alle spalle e
m’insegnò a
radermi, solo io e lui, come due veri uomini».
Mi
strinsi le braccia al petto, «che cosa carina».
«Vedi
Dee, mio padre era malato. Troppi anni sotto il sole furono fatali per
la sua
salute, morì pochi mesi dopo a causa di un tumore alla
pelle». Mi confessò.
Sgranai
gli occhi sorpresa, nel tentativo di mettermi seduta costrinsi anche
lui a
sollevarsi da terra.
«Io
lo sapevo che non sarebbe vissuto a lungo, per questo mi sono sentito
davvero
felice quel giorno, ero diventato uomo sotto i suoi occhi»,
disse con un
sorriso a trentadue denti.
Rimasi
sconvolta da quella rivelazione.
«Cosa
c’è?»mi domandò fissandomi.
Scossi
la testa, «e che non so bene cosa dire».
«Chiedimi
un altro mio momento felice», sorrise dolcemente, sdraiandosi
di nuovo
sull’erba.
Annuii stendendomi un'altra
volta accanto a
lui. «Prima volevo dirti che mi dispiace tanto, magari non
servirà a nulla,
però ci tenevo a dirtelo», borbottai impacciata.
Sentì Ian
voltarsi per guardarmi, ma se mi
fossi girata, avrei avuto i suoi occhi troppo vicini ai miei.
«Allora,
raccontami il tuo secondo momento felice»,
l’incitai a continuare cercando di
smorzare la tensione che si era venuta a creare.
Lo
sentii sospirare, «quando ho preso la patente.
Perché mi sono sentito realmente
libero, quello stesso anno ho abbandonato gli studi per seguire il mio
più
grande sogno: le automobili», disse tutto orgoglioso.
«Bè
direi che ci sei riuscito, hai una macchina fantastica. Devi averla
pagata un
casino, e per essere uno che non ha neppure terminato gli studi, sei
arrivato
davvero in alto. Cos’è che fai? Lavori come
progettista?» Domandai incuriosita.
Ian
scoppiò in una fragorosa risata, e dovette mettersi seduto
per poter riprendere
a respirare regolarmente.
«Cosa
c’è di tanto ridicolo?» Chiesi
leggermente offesa.
«Dee
davvero tu credi che io sia ricco?» mi domandò
sorpreso.
Annuii
titubante, «non tutti si possono permettere una
Spyder».
«Tesoro
guarda che quella macchina non è mica mia».
«Che
cosa?» domandai sconvolta, «se non è tua
allora di chi è? Non dirmi che l’hai
rubata?»
Il
sorriso di Ian svanì dalle sue belle labbra,
«certo che no bambolina, non sono
un ladro. Lavoro come aiuto meccanico in un’officina
dell’Oklahoma e ogni tanto
mi ritrovo a fare consegne a domicilio, chiamiamole così. Il
proprietario della
Spyder vive a Springfield e devo consegnargli la macchina domani
mattina».
«Ed
io che ti credevo un milionario», dissi sospirando.
«Di
certo non mi dispiacerebbe esserlo» Ridacchiò
sdraiandosi per la terza volta.
Sospirai
fingendomi sconvolta, «non so, mi ero già fatta
un’idea della tua vita e ora
scopro che sei tutt’altra persona».
Rise,
«bè capita. In realtà provengo da una
famiglia di coltivatori, ho vissuto per
ben sedici anni in una fattoria. Dopo la morte di mio padre mi sono
trasferito
a Lawton ed è lì che ho iniziato a lavorare, da
prima come cameriere in un
vecchio pub, poi come assistente meccanico. Diciamo che non
è stato tutto rosa
e fiori, però la mia vita mi piace. Presto aprirò
un’officina tutta mia nella
capitale», mi spiegò giocherellando con le ciocche
dei mie capelli.
Ian
aveva dei sogni, e per realizzarli non avrebbe mai avuto bisogno di
stelle
cadenti.
«E
il resto della tua famiglia?» chiesi trovando il coraggio per
voltarmi e
guardarlo negli occhi.
Sorrise,
«li vado a trovare ogni mese. Mia madre ha impiegato dieci
anni per riuscire a
innamorarsi nuovamente, ora vive con il nuovo marito, un
brav’uomo del
Colorado, a Tulsa. Mio fratello si è sposato tre anni fa e
vive nella nostra
vecchia casa con sua moglie e due fantastici bambini».
«Sembra
essere un bel lieto fine», dissi fissando il cielo.
«Siamo
sempre stati una famiglia unita, anche se viviamo lontani sappiamo di
poter
contare in ogni momento l’uno sull’altro».
Era
una cosa bella, e l’invidiavo per quello.
«E
tu, invece, non hai alcuna intenzione di sposarti e avere dei
bambini?» gli
chiesi accarezzando dei ciuffi d’erba.
«Sono
nato con uno spirito libero, anticonformista, non credo di essere
portato per
queste cose. E qui arriva il mio terzo momento felice», disse
stiracchiandosi.
Mi
voltai incuriosita, «quale?»
«Assistere
al sorgere del sole con la ragazza più bella del
mondo». Canzonò divertito.
Gli
diedi uno schiaffo leggero sulla spalla, facendolo ridere.
«Sbruffone»,
biascicai, finendo poi per unirmi alla sua allegra e contagiosa risata.
«Magari
un giorno ti dirò gli altri cinque», sorrise
tornando a fissare il cielo, non
più nero.
La
consapevolezza di trovarmi sdraiata su un prato forse privato, sopra
una
collinetta lontana kilometri dalle luci della mia camera da letto, mi
fece
sorridere di cuore. Forse non avrei mai più provato un senso
di libertà così
forte in tutta la mia vita. Decisi così di viverlo a pieno,
respirando a pieni
polmoni l’aria acre del mattino.
«Sono
scappata da casa», dissi senza pensare, continuando a fissare
il cielo.
Sentii
Ian ridacchiare, «l’avevo immaginato».
«E
come?» chiesi, voltandomi per osservare le sue labbra tremare
leggermente
mentre respirava.
«Profumi
di buono». Rispose come se non ci fosse bisogno di
un’ulteriore spiegazione.
Ma
un perché ci doveva essere, non poteva non esistere una
risposta comune.
«Profumo
di buono?»
«Si».
Continuò, rispondendo questa volta a monosillabi.
«Non
capisco, cosa c’entra?»
Ian
voltò il capo per guardarmi dritto negli occhi, continuando
a sfiorare alcune
ciocche dei miei capelli. «Piccola, i tuoi capelli sanno di
fragole, sono
talmente morbidi da poter essere benissimo scambiati per fili di seta.
La tua
pelle emana una luminosità diversa quando illuminata dalla
luna, sei pallida,
ma le tue guancie s’imporporano facilmente donando colore al
tuo viso. Provieni
da una famiglia ricca, non è così?»
Chiese, conoscendo già la risposta.
Poteva
essere tutto così semplice, per una sera sarei potuta essere
chiunque avessi
voluto, magari una donna fragile e sperduta come Marilyn nel film La tua bocca brucia. Forse avrei dovuto
studiare meglio la mia parte, ma non avendo alcun copione dovetti
improvvisare,
cosa non facile con due occhi così che ti fissavano in quel
modo. Ian era un
mistero e forse, chissà, quella sera lo ero
anch’io, e sdraiata con lui su
dell’erba umida lasciai che i pantaloni si sporcassero. «L’hai
capito semplicemente
guardando la mia pelle?»
«Guardando
te, che è diverso. Io ti ho visto tutta. Ti ho osservato per
tutto il tempo, anche
quando ancora non eri venuta da me per chiedermi un passaggio, io ti
avevo già
notato. Cosa ci facevi con tutti quei vecchi su quel pullman?»
Non
so come faceva la gente a respirare dopo parole così, sul
serio, non l’avrei mai
capito. «Ho chiesto loro un passaggio». Risposi
semplicemente.
«Persone
gentili?» Sorrise.
Annuii,«molto
educate».
Non
c’era più niente nel cielo, solo colori. La notte
stava giungendo al termine.
«Perché
sei scappata da casa?» Domandò incuriosito
incrociando le braccia sotto la
testa.
«Per
vivere un’avventura».
Chissà
perché decisi di raccontargli la verità. Forse
l’avrebbe capito meglio di
chiunque altro.
«Perché,
i ricchi non vivono mai avventure? Potevi farti comprare un pony di
solito vi
eccita parecchio», non lo disse con cattiveria, solo con
ironia, come se avesse
visto così tanto e sentito fin troppo per sorprendersi
ancora.
«Ma
io non sono mica una ragazzina normale sai? Io volevo vivere una vera
avventura, fatta di emozioni, di brividi che scivolano sulla pelle.
Fatta
d’incontri, di risate, di balli proibiti, di baci rubati.
Tutte quelle cose che
a chi è come me non sono permesse di vivere
perché non è opportuno, capisci?»
Sospirai, chiudendo gli occhi, «io invidio quelli che possono
essere liberi».
«Tutti
hanno il diritto di essere liberi».
«Non
per i miei genitori», ridacchiai.
«E
così sei scappata da casa per fargli un dispetto?»
Voleva
capire perché gli interessava sul serio o la sua era
semplice curiosità?
«No
di loro non mi preoccupo. Hanno sempre avuto una figlia un
po’ pazza, diversa
da tutte le altre ragazze dell’alta società. Sono
quella che dalle mie parti si
definirebbe un cavallo mezzosangue. Non vado bene per le corse, quindi
cercano
di vendermi al miglior offerente».
«Matrimonio
combinato?»
Sorrisi
senza sorprendermi della sua perspicacia.«Non
sposerò mai un uomo che non amo».
Di
buono c’era che forse avrebbe capito, forse no. Era uno
sconosciuto dopo tutto,
e non era forse vero che la gente si apriva realmente solo con chi non
conosceva?
«Quando
sei andata via?»
«Ieri
pomeriggio, dopo pranzo».
Fischiò
divertito, «decisione improvvisa o piano ben
architettato?» Chiese mettendosi
seduto, l’imitai per sgranchire un po’ le ossa,
stiracchiandomi.
«Tutto
improvvisato», risposi schietta. La conversazione avvenuta
durante il pranzo
era solo un pretesto, da mesi mi bazzicava in testa l’idea di
scappare. Tutti i
figli, almeno una volta nella loro vita, tentavano la fuga, lo disse
anche
James Barrie. Non che io avessi intenzione di rimanere eternamente una
ventenne, solo che andava fatto. Le migliori storie avevano sempre un
inizio
complicato. Si sarebbe trattata solo di un’avventura, un
universo parallelo
della mia vita: come sarebbe stato, non essere stata questa Dee ma
un’altra,
senza pensieri, magari con delle ali sulla schiena per poter volare
libera.
«Tornerai
a casa domani?»
«Tu
mi riporterai a casa?» Gli domandai dolcemente.
«C’è
una qualche ricompensa per il tuo ritrovamento?» Sorrise
sghembo.
«Potrebbe
esserci se assicuri ai miei genitori la mia completa
integrità». Ridemmo,
scambiandoci una lunga occhiata.
«E
cosa succederebbe se ti portassi a casa con qualcosa in
meno?» Chiese quasi
sussurrando, avvicinandosi impercettibilmente.
«Ti
costringerebbero a sposarmi» risposi sghignazzando.
«E
se a casa non ti ci portassi?» Sollevò gli angoli
delle labbra.
«Sarebbe
un bel problema».
«Che
figlia sconsiderata» sussurrò divertito. Poi mi
spinse delicatamente sul prato,
facendomi sdraiare supina, coricandosi accanto a me.
Continuò a guardarmi per
diversi minuti senza dire nulla, forse alla ricerca di qualcosa, e
quando si
voltò, tornando con gli occhi sul cielo non più
nero ma di un temperato
celeste, sorrise soddisfatto.
«Eccola
lì, la prima stella del mattino», disse tutto
eccitato, indicando il cielo.
Inarcai
un sopracciglio, osservando il punto indicato, «lo sai vero,
che quella non è
una stella, ma il pianeta Venere?», controbattei confusa.
Ian
continuò ad ammirare quel pianeta come se non ci fosse cosa
più bella al mondo,
«certo che lo so. Ma non te l’hanno mai detto che
le cose migliori sono quelle
che si sanno nascondere bene?» Chiese con un sorriso radioso
disegnato sulle
labbra. Poi avvicinò la sua mano alla mia, facendo
intrecciare le nostre dita.
FINE
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Capitolo 2 *** Dean's Pub ***
Dean’s Pub
Gabe
si alzava tutte le mattine alle cinque e trentasette, non usava sveglie
e
neppure galli. Si sollevava dal materasso tossendo tre volte, poi si
voltava
verso il corpo non più giovane della moglie, ma ugualmente
meraviglioso, e le
accarezzava la guancia accaldata con le dita. Il giorno in cui in
America venne
trasmessa per la prima volta la serie televisiva Happy Days, Gabe e
Ruth si
stavano sposando in una piccola chiesetta nella contea di Cherokee
nell’Oklahoma, iniziando a vivere anche loro giorni felici.
Ed
era così da trentotto anni che Gabe si svegliava oramai,
prima di lasciare il
letto sfiorava la guancia di Ruth ripetendosi che nessun uomo sulla
terra era più
fortunato di lui.
Nella
cittadina Tahlequah, Gabe gestiva il Dean’s pub da tutta una
vita, non aveva
fratelli e neppure sorelle, chi lo conosceva sapeva che la sua famiglia
era
solo Ruth, che vivevano in simbiosi e che lei rideva sempre, in un modo
tutto suo,
pericolosamente contagiosa. Non avevano figli, non per loro
volontà purtroppo,
così avevano deciso di adottare tutti coloro che avrebbero
messo piede nel loro
bar.
«Jack
l’ultima volta che ho ordinato da te i liquori, mi sono state
consegnate
tredici casse di Coca Cola. Ora io non ho capito bene se quello che
è accaduto,
è stato un banalissimo scambio di consegne, e in questo caso
vorrei sapere a
chi diamine hai portato i miei Gin, oppure ti sei talmente
rincoglionito da non
sapere più la differenza tra liquori e medicine».
Ruth
osservava suo marito con un ghigno disegnato sulle labbra, con le mani
asciugava i bicchieri di vetro prima di riporli sullo scaffale
più basso. I
suoi occhi seguivano la figura robusta di Gabe mentre parlava al
telefono con
il suo rifornitore.
Quando
Hailee arrivò in città, una mattina di fine
Aprile, il Dean’s era aperto già da
diverse ore. La fermata del pullman si trovava a due isolati di
distanza. Il
sindaco Jason Nichols, un uomo per certi versi troppo futurista in una
città
tradizionalista, aveva reso pubblici i mezzi di trasporto, in modo da
creare
collegamenti diretti con le contee vicine. Il suo progetto era quello
di
rendere Tahlequah quanto più simile alle grandi
città della nazione. Nulla da
dire a questo grandioso progetto, solo che da quanto i servizi erano
diventati
pubblici, e la fermata principale non era più la stazione
ferroviaria ma quella
dei pullman, Gabe si era visto trasformare il suo pub in un centro di
ricovero
per viaggiatori esausti. Non si sarebbe mai aspettato di aver avuto un
giorno
tutti quei figli.
Hailee
camminava tenendo la testa bassa e gli occhi fissi sulle sue converse
rosse.
Indossava un pantaloncino di jeans che lasciava nude le sue gambe
abbronzate,
una maglietta più grande di lei di almeno due taglie le
copriva i fianchi
sottili. Era stanca, il viaggio in pullman l’aveva affaticata
più di quanto si
era immaginata. Si promise che la prossima volta avrebbe preso il
treno, i
vagoni erano sicuramente più comodi di un sedile. Hailee era
una di quelle
ragazze che quando passavano ti costringevano a voltarti. Non era per
la sua
bellezza che la gente l’osservava- anche se nessuno le
avrebbe mai potuto dire
di non essere, oggettivamente parlando, uno splendore- la gente la
guardava e
chissà cosa ci vedeva in quegli occhi scuri come la notte.
Durante il suo
vagabondare la ragazza più volte era stata costretta a
cambiare marciapiede e a
volte anche strada, per le occhiate insistenti dei passanti. Una volta
le
dissero che i suoi occhi erano pericolosi, che chi si specchiava dentro
di essi
veniva risucchiato, erano come un buco nero, persino i raggi del sole
li
temevano. Valli a capire i buchi neri, ti
risucchiano e poi? Dov’è che si va a finire?
Le
strade erano quasi deserte, chi come lei era sceso dal pullman, era
sparito nel
giro di pochi minuti con destinazioni sicuramente più certe
delle sue. Non
conosceva la città, non sapeva neppure che potesse esistere
un posto così
particolare situato ai piedi delle montagne. Le Ozarks, le dita
dell’Oklahoma
sfioravano il cielo, proteggevano Tahlequah,
da esse sfociavano fiumi che percorrevano i lati della
città. Vi erano
dei parchi naturali percorribili a piedi, seguendo i percorsi
artificiali
creati dall’uomo per ammirare quello splendore, ma nessuno
chissà per quale
assurdo motivo, li percorreva mai. Hailee non conosceva
l’esistenza di quella
cittadina, il suo nome non era presente neppure sulle mappe, solo
quelle dello
stato o della contea la segnalavano, ma quando il pullman
arrancò dall’Highway
percorrendo una strada secondaria, che raggiungeva la città
biforcandola alla
stazione, Hailee si era sentita improvvisamente chiamata a scendere.
Forse
erano state le montagne, forse i sedili troppo scomodi, o chi lo sa,
magari il
destino semplicemente le aveva mandato un segnale,dopo tutto la caccia
al
tesoro era il suo gioco preferito.
E
poi lei non era affatto d’accordo con Groucho Marx, la
fortuna qualcosa la
faceva sempre, non stava ferma a guardare, tutt’altro,
altrimenti come ci
andava la gente incontro al proprio destino?
Agli
occhi di Hailee, era stata difatti la fortuna a portarla lì,
non un vecchio
brontolone che aveva girato in lungo e in largo tutta la route 66,
ancora prima
che diventasse storia, trasportando turisti e lavoratori dentro un
vecchio
pullman color cobalto.
Stanca
si sedette sul bordo del marciapiede, in attesa di un segnale,
“e adesso?” si
domandò, guardandosi intorno. Non che ci fosse poi molto da
fare, quando si
aspettava lo si faceva in maniera quasi invisibile, non si voleva
essere
disturbati. E che una volta era tutto più semplice, anche
l’attesa aveva un
sapore diverso e con le labbra si cercavano solo altre labbra, mica
parole,
solo risposte fatte di baci. Hailee in fin dei conti pensava che tutto
quel
gran trambusto l’avrebbe potuto placare solo un sorriso, o
forse un bacio, e
poi chissà cosa sarebbe accaduto sotto i piedi
dell’Ozarks. Era davvero bello
fare all’amore quando si era in attesa.
In
lontananza vide l’insegna di un locale, forse lì
qualcuno le avrebbe saputo
dire che direzione avrebbe dovuto prendere per raggiungere la sua meta,
o anche
solo, dirle semplicemente quale fosse la sua destinazione,
così da evitarle
tutte quelle ore di viaggio, le ossa iniziavano a pruderle e la sua
pelle
richiamava altra pelle. Era però pazienza Hailee, e
testarda, questo chiunque
l’avrebbe detto se solo tutti gli abitanti del mondo
l’avessero incontrata,
almeno una volta nella vita.
Gabe
e Ruth si voltarono contemporaneamente quando la porta del
Dean’s venne aperta.
Gabe aveva da poco terminato la sua movimentata telefonata, Ruth i
bicchieri li
aveva asciugati quasi tutti, e avrebbe pure completato il suo lavoro se
solo
due grandi occhi neri non avessero catturato la sua attenzione.
Hailee
si chiuse la porta dietro le spalle, lasciò cadere lo zaino
per terra e
guardandosi intorno cercò colui che avrebbe saputo
rispondere alle sue domande.
I
lunghi capelli neri scivolavano disordinatamente lungo il collo,
qualche ciuffo
le era scivolato davanti agli occhi e infastidita l’avevo
richiamato
all’ordine, nascondendolo insieme agli altri capelli dietro
l’orecchio.
Hailee
camminava con passo sicuro, le sue gambe attirarono
l’attenzione di qualche
cliente giunto fino a lì per godersi una sacrosanta
colazione senza la voce
stridula della moglie in testa.
Ruth
pensò che una figlia così l’avrebbe
voluta, e che sarebbe stata perfetta una
sua fotografia sul comodino nella camera da letto o sul tavolino nel
soggiorno.
Si sarebbe vantata di una figlia così bella, per lei avrebbe
cucito gli abiti
migliori e convinto
suo marito a
lasciarla sposare, anche se geloso del futuro genero.
E
Gabe lo capì. Tutto quello che pensò in
quell’istante la sua Ruth, lui lo capì,
e con un nodo in gola si voltò a guardarla,
perché era bella quando con gli
occhi spalancati sognava, più bella di quanto rideva,
più bella persino di
quanto lo era il giorno del loro matrimonio.
«Buongiorno»,
Hailee sorrise avvicinandosi al bancone, proprio di fronte a Ruth,
«avrei
bisogno di un’informazione».
L’anziana
donna lanciò un’occhiata al marito reclamando la
sua presenza, non riuscendo da
sola a sostenere gli occhi di quella straniera.
«Chieda
pure, signorina» fu Gabe a risponderle.
«Forse
ho sbagliato posto, non so, mi sento un po’
confusa».
«Ti
sente poco bene tesoro, vuoi un bicchiere d’acqua?».
E no Ruth, amore, non
parlarle così. Il mio vecchio cuore non può mica
sopportare di vederti così
triste. La prossima volta ti prometto amore che controllerò
prima che tu alzi
gli occhi, chi entra qui dentro, te lo giuro, non permetterò
a nessuno di farti
del male, però tu Ruth, adesso mi devi promettere che
distogli lo sguardo, e
sposti le mani che hai posato sul ventre, me lo devi promettere. Alza
le mani,
amore, portale sul petto, vicino al cuore, qualcosa lì
invece batte, non è
così? Ruth c’è il nostro amore dentro,
basterà, ti prometto che basterà.
Hailee
scosse la testa, si sedette sullo sgabello senza fare rumore, e continuò a
pensare alle parole da usare.
Le
venne offerto un bicchiere d’acqua, che lei comunque non
rifiutò, mandandolo
giù in un solo sorso.
«Grazie,
davvero un posto carino questo locale, è nuovo?»
«E’
stato inaugurato il giorno dell’assassinio del presidente
McKinley dal mio
bisnonno, direi che tanto nuovo non è»,
ridacchiò Gabe.
Sorrise
la giovane donna, felice che qualcuno fosse riuscito ad andare oltre
una
semplice risposta, e capì, si, si rese conto che, entrare in
quel pub era stata
la scelta giusta.
Ruth
la guardò negli occhi-un attimo, solo quello
bastò per capire- e non servirono
altre parole. Non c’era bisogno di nessun cromosoma in comune
per capire che
poteva ancora essere felice.
«Ti
riportano a casa», sussurrò percorsa da un
fremito, «i buchi neri ti riportano
a casa».
Tu
non l’immagineresti mai una cosa così.
Tu che la Route 66 quel giorno sorrise,da
Chicago a Santa Monica, non lo crederesti mai.
Ohi bhò-non so cosa sia ma mi piace troppo- sono tornata,
l'avevate notato vero?
Che ci faccio qui? Ma che bella domanda, proprio intelligente e acuta.
Dovrei studiare, si lo so cosa state pensando- e che ci volete fare,
avrei due esami da preparare e una voglia pari a quella di un bradipo
nel rincorrere un pallone. Così ho pensato-cosa
pericolosissima-di vedere un pò che cosa potevo ripulire
tra le cartelle del computer(pulizie di primavera anticipate, evvai!) e
mi sono ritrovata davanti questa cosa scritta un pò di tempo
fa. Non se se vi ricordate-sarebbe un miracolo se lo facesse, non il
contrario- che una volta vi dissi di avere scritto dei racconti tutti
riguardanti la Route 66, e che un
giorno chissà quando, come, dove e perché, ve ne
avrei fatta leggere qualcun'altra. Ebbene gente, il giorno tanto temuto
è arrivato-state tremando vero?- questa è la mia
seconda storia(storiella senza una vera fine) tutta per voi.
Che ci volete fare se sono matta proprio da legare?
Sophie-che ultimamente è andata in fissa con il Giappone e
sta cercando d'imparare qualche parola, con scarsi risultati.
Konnichi wa, per l'appunto.
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