Dànse Macàbre di EvilGrin (/viewuser.php?uid=198736)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Pro Filiis De Sanguine ***
Capitolo 2: *** L'ospite ***
Capitolo 3: *** Il Risveglio dell'Hunter ***
Capitolo 4: *** Una Nuova Casa ***
Capitolo 5: *** Il Giglio ***
Capitolo 1 *** Prologo - Pro Filiis De Sanguine ***
Premettendo
che, se si mette la canzone citata nel
brano e la si ascolta nel mentre, la scena rende molto meglio
(http://www.youtube.com/watch?v=tOc1O1OYO0U) , l’intera storia, a
partire dal
prologo, prende ispirazione al famoso manga/anime unicamente per alcuni
dati
tecnici, non vi sono quindi personaggi della trama medesima et
similari, è
perfettamente a sé stante.
Grazie
per l’attenzione, vi auguro buona lettura.
Pro Filiis
De Sanguine - Prologo
Una coltre
di nebbia ricopre con il suo candore statico, putrescente il suolo di
quella
terra bagnata, violata dai corpi morti di chi vi giace in pace. Le
palpebre
calate, le labbra piegate in un’espressione serena, la pelle tesa, a
tratti
rigonfia, le dita intrecciate in una posa eterna, impossibile da
sciogliere,
come se quell’animo avesse trovato la propria fine in se stesso. Nato
tra le
lacrime e morto con un sorriso dipinto sulle labbra, dipinto come fosse
stato
tracciato dal tratto morbido ed accompagnato di un autentico pittore,
scolpito
per i secoli a venire, perché non possa mai abbandonare quel volto
figlio del
marmo. Un involucro vuoto, vestito come il principe di una festa, della
sua
festa, una festa volta a farlo apparire come il migliore degli angeli
anche se
il suo passato si fosse macchiato più e più volte di acceso vermiglio.
La fine,
quando arriva la fine non c’è nessuno che, a modo suo, non abbia avuto
modo di
essere stato un santo in vita, se ne raccontano le vicende, gli atti,
le azioni,
ritti su un piccolo banchetto in legno, con gli occhi celati da una
patina
lucida che ne offusca la vista, non solo quella che osserva i presenti,
ma
anche quella che ha guardato quello stesso corpo camminare e compiere
atti
meschini; quella patina lucida li cancella, li nasconde per un giorno,
donando
anche a chi non ne è degno, il suo giorno di gloria. Quel foglio
poggiato su un
banchetto, spiegazzato, bagnato da quelle sottili gocce di pioggia che
cadono
verso il basso, macchiando di piccoli aloni gli abiti lunghi e sfarzosi
delle
dame, rigando la chiara pelle dei volti dei loro mariti e figli. Gli
occhi
cerchiati da occhiaie di un rosso opaco, le labbra che tremano nel
pronunciare
quelle parole. Mentre Lui, Lui, sdraiato in quel letto di legno, il
capo ed il
corpo che affonda nella seta più morbida, i petali bianchi delle rose
che
denunciano un candore mai posseduto; Lui sembra sbeffeggiare tutte
quelle anime
perse, incupite dai loro abiti neri, sembra prenderli in giro con quel
suo
sorriso pacifico in volto, lui che deve star meglio lì dentro, che in
loro
compagnia.
Quella
coltre di nebbia pallida che ristagna ai piedi di quei figuri
slanciati,
fasciati di nero, con veli che scendono di fronte al viso, oscurandolo
e
coprendo i volti avviliti e quelli soddisfatti. Tra di loro vi è forse
anche il
suo assassino, la sua pelle chiara saluta i pochi raggi di Luna che
penetrano
tra le nubi più dense. La sua pelle li attira, li cattura, li trattiene
a sé,
mostrandosi, figlio di Giuda, nel più sfarzoso suo aspetto. Il suo
sorriso è
pacifico e candido al pari di quello di chi giace inerte nella più
ricca delle
bare. Le lacrime di pioggia cadono sul suo velo, rimanendo intrappolate
in una
malinconica ragnatela, quegli occhi scuri riflettono la posa statica di
colui
che è stato amante e vittima di quel predatore. Le sue mani, congiunte
e
poggiate con la più aggraziata dell’eleganza sulla stoffa nera e
soffice della
seta che ne fascia il corpo morbido e stretto in un corsetto che
delinea una
vita sottile, perfetta. Le labbra rosee sembrano quasi biasimare quel
figlio
disperato che sibila parole al vento su quel suo padre morto, ucciso
dal
peggiore dei veleni: la triste vecchiaia. Dietro di lui, in piedi come
piccole
statue di un presepe, si ergono giovani voci bianche, che attendono
solo il
loro momento. Quel momento in cui quel figlio devoto pronuncia le sue
ultime
parole, quel momento in cui china il capo in avanti, quel momento in
cui le
dita mascoline si stringono nella più pura ed innocente delle
disperazioni attorno
a quel foglio, piegandolo, accartocciandolo. Quel momento in cui le
lacrime non
sono dettate solo dalle gocce di pioggia che scivolano lungo il viso,
solcando
profondamente guance che non avevano mai saggiato il loro sapore
salato. Quel
momento in cui le gambe tremano e non reggono più l’effimero peso di un
corpo
quindicenne. Quel momento in cui una delle ginocchia si piega ed
incontra in un
attimo il legno umido di quello stesso banchetto su cui prima stava
ritto. Quel
momento in cui il suo respiro viene rotto da un pianto non più
discreto, non
più sommesso, che si sente, che viene portato via dal vento, portato
alle
orecchie di chi partecipa a quella cerimonia con il corpo e chi con la
consistenza eterea di quel che rimane della propria anima. Gli ospiti
di quel
luogo non possono non accogliere quel nuovo uomo, quella nuova ombra,
quella
storia che avrà da raccontare quando qualcuno la cercherà.
La nebbia
soffice avvolge ed attutisce ogni cosa. Ella chiude la festa in una
bolla dove
non v’è limite di spazio, dove il tempo rimane fermo in un lungo
attimo. Un
attimo speciale, vacuo, con le labbra di quelle stesse anime, bianche
pari ad
angeli, che iniziano a sussurrare poche parole, sibili taglienti che
sferzano
l’aria fredda di fine autunno, lasciando scivolare quei versi nel
vento,
cullati, accompagnati, nel loro essere penetranti, risultano come lievi
e
soffici sussurri, che si accavallano l’un l’altro. La pioggia che
sembra le
stia quasi udendo, fiato dopo fiato, a mano a mano che quelle gocce si
fanno
sempre più corpose, sempre più presenti e sempre di più appesantiscono
i veli,
bagnano le carni, costringono ad aprire pesanti e grandi ombrelli del
medesimo
colore dei loro abiti. È come vivere un sogno, è come guardare
dall’alto una
docile danza, è come sentire sulla pelle i loro lamenti inespressi, i
pianti
sommessi e strozzati delle donne, gli occhi rossi degli uomini, che non
osano
versar lacrime, in onore del loro ruolo. È come osservare dall’alto,
come Dio,
quei corpi ammantati di nero rabbrividire, la loro pelle accapponarsi,
non per
il freddo, non per il dolore, ma per quei sospiri cullati dal vento che
divengono voci, quel canto sottile che prende forma e spinge ad
ascoltare
quella pioggia che cade, la quale invita a godere del suono dei tuoni e
della
luce dei lampi, come fossero sacri.
«
Listen to each Drop of Rain, whispering Secrets in
Rain…»
Ogni
goccia, ogni pianto di angeli invisibili al cieco occhio umano, ogni
pensiero,
ogni segreto cade, impregnando quella terra sacra di un misticismo mai
avuto
prima. Solcando quelle terre si saggiano le urla, i lamenti, le risa,
la gioia,
la rabbia, la frustrazione e l’insofferenza di quegli stessi sospiri,
caduti a
terra, che rimarranno sigillati sin quando qualcuno non sarà in grado
di
poterli udire, di poterli ascoltare con l’attenzione di un bambino, che
dischiude le labbra nel sentire la più magica delle storie. Sgrana gli
occhi,
si siede sotto l’ombra di un ciliegio in fiore, raccoglie le gambe al
petto, ed
ammutolito, annichilito ed estasiato allo stesso tempo, ascolterà con
pura
gioia di fanciullo nel cuore le storie di vita passata di quell’anima
che
mostra la propria essenza ai chiari raggi di luna, che ne disegnano il
volto
afflitto, costretto a camminare su quelle tristi terre ancora per
molto.
«
Frantically searching for Someone to hear that Story
be more than it Hides. Please, don’t let go. Can’t we stay for a while?
It’s
just too hard to say Goodbye. Listen to the Rain»
Ogni anima
peccatrice che giace in quel luogo ha bisogno di un animo puro che
sappia
ascoltare quello che ha da narrare senza che scappi, traviato dalle
leggende,
dalle storie che macchiano la reputazione di quegli esseri traslucidi,
veri
solo a metà, solo nella voce, poiché privi di quel corpo che giace
nella terra,
violato e dilaniato dai vermi e dal tempo che passa, dall’acqua che
penetra il
terreno e gonfia il
legno, sino a
passarvi attraverso, rovinando quello che di sacro c’è lì dentro.
Sottraggono
prima la vista, portandone via gli occhi, si impossessano del gusto e
di ogni
loro sensazione, perché non possano più percepire nulla di ciò che
hanno
intorno, perché non possano udire, saggiare, vedere, toccare o essere
toccati.
Sono esseri ciechi che cantano le loro disperazioni al vento, sperando
che vi
sia colui che non fuggirà, al quale non dovranno dire “addio” per
l’ennesima
volta, attraverso il quale potranno tornare a vedere, toccare e
percepire, per
un solo secondo, ma sarà la gioia di un momento a donar loro la
salvezza
eterna. La pioggia decanta i loro peccati, li elenca uno ad uno, ma non
li
biasima, ricorda ai passanti che ognuno di loro versa ancora lacrime
dagli
occhi bui, per quanto ha compiuto, esattamente come quella pioggia
limpida
attraversa con estenuante lentezza i volti dei vivi. Quella pioggia che
vuol
essere ascoltata e che, per farlo, si riversa su di loro con la
violenza di un
uragano. Ma loro la rifuggono, non comprendono ed aprono gli ombrelli,
danzando
come Demoni nella notte più scura.
«I
stand Alone in the Storm, suddenly sweet Words take
hold…»
Le parole
dolci che corrono via dalle labbra di quella figura dalla pelle candida
almeno
quanto i raggi lunari che si riflettono in essa, invidiandola, alle
volte.
Parole che si perdono in quel canto, mentr’ella compie pochi e leggeri
passi
verso quel letto di mogano e seta, china il capo, mentre le mani
coperte di
nero pizzo afferrano i lembi più esterni di quell’abito sontuoso e
scuro,
tirandolo verso l’esterno, tendendo i merletti delle rifiniture sino a
stenderli quasi completamente. Il busto che si piega di poco in avanti,
il capo
chino, le palpebre socchiuse, in quella lenta riverenza, attenta ad
ogni
singolo movimento. Ogni suo gesto, ogni suo movimento è scandito e
disegnato da
una leggerezza angelica, come se il suo camminare o spostarsi fosse
paragonabile
al gesto fluido del battito d’ali di una nera farfalla, che, lieve, si
poggia
sul terreno su cui cammina. Le labbra carnose che si muovono lente a
proferir
parole ai più incomprensibili, che vengono coperte dal canto e dal
sibilo del
vento, mentre quelle luci bianche continuano a dare una voce a quel
luogo.
«Pater Noster
qui es in cælis:
sanctificétur
Nomen Tuum;
advéniat
Regnum Tuum;
fiat volúntas
Tua,
sicut in cælo,
et in terra.»
Queste le
parole, quei sussurri appena accennati che si accavallano a quei canti
che,
invece, regnano sovrani in quel luogo, pur non deturpandolo nella sua
sacralità.
«
Hurry They stay for you haven't much Time, open your
Eyes to the Love around you…»
Quella
stessa figura, avanti agli altri, tra tutti la più vicina a quella
salma, alza
ora il capo, apre le palpebre che, sino a poco prima, stavano celando
quegli
occhi grandi, quasi da bambina, con le loro scure sfumature amaranto,
che
osservano quell’uomo. Le mani rilasciano la stoffa della gonna ampia.
Solleva la
mano destra, avvicinandosi al cappello nero che copre i crini castani,
opportunamente acconciati. La stoffa nera della manica del vestito
scivola
lungo il braccio, liberando il polso e lasciando intravedere quella
pelle pallida
pari al marmo. Le dita si muovono abili e veloci a sfilare una delle
rose finte
che sono infilate come spilli su quel copricapo. Si sposta di lato a
quella
stessa bara, con le dita sapienti che sfiorano il bordo della bara, con
una
leggerezza ed un’eleganza che avrebbero fatto invidia a chiunque.
«Pro Filiis
De Sanguine.»
Lo sibila,
un sibilo che si ode meglio di quel padre nostro pronunciato poco
prima, ora
che poggia quella rosa nera sul petto di colui che Morfeo ha portato
via per
sempre, lo ha portato in dono ad una dea che non conosce perdono, una
dea che
ha per nome quello della morte, ma se qualcuno conoscesse davvero
quella
parola, non vi sarebbe scampo per la sua salvezza. Lo sguardo rimane
fisso su
quell’uomo che giace sereno, giunto al termine della sua vita.
«You
may feel you’re Alone, but I’m here still with
You. You can do what you Dream, just remember to Listen to the Rain.»
Le ultime
parole cantate da quegli angeli mortali, poco prima di un lieve coro,
continuo,
al quale le labbra rosee di quella figura si piegano in un sorriso
sereno. Da
le spalle agli altri, ma non impiega troppo tempo a voltarsi verso di
loro. Le
braccia che si allargano verso l’esterno, nemmeno invocasse un’eterna
preghiera, ma l’unica cosa che viene fuori da quella serenità è una
voce più
melodiosa di quelle che sono alle sue spalle, adesso, è più armoniosa,
ammaliatrice e demoniaca nel suo apparire tremendamente angelica.
«
Listen to each Drop of Rain, whispering Secrets in
Rain…»
Ripete,
mentre alle sue spalle tornano a sovrapporsi uno con l’altro i sospiri
di
quelle che non hanno più niente delle voci che erano, sono solo aliti
di vento
che cercano uno spazio in quel silenzio angosciante. Ma qualcos’altro
disturba
quella quiete e trasforma la placida ombra in una rete, filamenti
sottili
almeno quanto quelli della tela di un ragno si diffondono per la zona,
di loro
altro non si vede che il chiaro riflesso del chiaro di luna riverso su
loro
medesimi, a mano a mano che inquinano quella zona con la loro
blasfemia, a mano
a mano che avvolgono le braccia ed i colli di ognuno dei presenti,
strozzando
quei sospiri, spegnendo quelle luci e quelle voci, che riempivano
quella bolla
di attutito silenzio di una gioia nuova. Per ogni cosa che muore, ve
n’è una
che nasce, nuova, più forte dell’altra. Le labbra della donna si
chiudono per
un momento, le palpebre cadono inesorabili e l’udito si nutre di quei
dolci
lamenti, le urla di chi non sa come cacciare quella sensazione
opprimente, quel
sangue che cola dalle loro gole, che vengono tagliate ogni secondo di
più,
dilaniate e lacerate da quelle fila scure, sino a diffondere nell’aria
un forte
e dolce odore di sangue. Lo sente, il suo cuore non batte nessun
rintocco,
scandisce il tempo infinito di quel momento, quello in cui ognuno dei
presenti
passa sotto la crudeltà di una donna sola, di un Demone con l’aspetto
di un
Angelo. Le grida vengono meno a mano a mano che quelle forze li
abbandonano,
uno dietro l’altro, i bambini per primi, poi le donne ed i loro
rigogliosi
petti macchiati del loro stesso sangue ed infine gli uomini, che con
dolore
osservano le donne ed i figli spirare quell’ultimo alito di vita. Il
dolore,
mai emerso così prepotentemente. I loro corpi che si agitano, in preda
al più
profondo istinto di sopravvivenza, le loro mani cercano salvezza, i
loro
polmoni cercano aria, che è lì…la possono sentire addosso, ma non
arriverà mai
a soddisfarli, a placare quella Bestia che stavolta si dibatte nei loro
petti
vivi.
«I
stand Alone in the Storm…»
Quella voce
tremendamente soave quanto acuta e tagliente spezza quel momento in cui
è più
il sangue versato che le parole spese per farlo. Quando tutto tace e la
sete di
sangue di quell’essere viene placato inesorabilmente da quel forte
odore,
allora la sua stessa figura sembra esser in pace con se stessa, come se
avesse
compiuto ciò che doveva e niente di più. Quei sottili filamenti che
scivolano
via dai corpi come se fossero serpi velenose, che hanno appena carpito
l’ultimo
alito vitale di tutte quelle persone, dame, messeri, i loro figli,
senza provare
pietà nemmeno per i volti disperati dei piccoli. Quella medesima figura
che
abbassa solo adesso le braccia, piano, nel pieno della sua
soddisfazione, così
come riapre gli occhi scuri, perché possano godere dello spettacolo che
le sue
stesse forze hanno messo in piedi ed hanno risolto. Nel silenzio si può
sentire
la pioggia cadere incessante, un tuono rimbombare nell’aria, la luce di
un
lampo illuminare in maniera quasi spettrale quel macabro spettacolo.
Passi
leggeri la conducono sino al fianco di una donna riversa a terra, la
trachea
recisa, dolci fiotti di sangue che sgorgano in maniera irregolare da
quel
collo; l’espressione orribilmente deturpata da quella di paura di lei:
gli
occhi spalancati, le labbra dischiuse e la pelle contratta nella più
dolorosa delle
smorfie. Sorride beffarda quella dea, mentre si china a chiuder le dita
sottili
ed immortali attorno al manico dell’ombrello che le giace accanto,
ancora
aperto. Lo solleva, lo sguardo scuro della donna torna sul volto del
corpo
defunto, le dita gelide che si avvicinano a quel volto sconvolto e
passano
sulle palpebre, chiudendole con la delicatezza con cui, poco prima, ha
posato
quella rosa nera sul petto di quell’uomo vestito a festa. Lui, che
fissa con
sorriso beffardo e presuntuoso i corpi dei suoi familiari. Lui, il più
soddisfatto tra tutti, li guarda e non piange come avrebbero fatto loro
per
lui. Si rialza la donna, tornando a guardare quell’uomo, che adesso
nessuno
chiama più eroe, egli si mostra anzi per la sua natura meschina e
traditrice, come
doveva essere sin dall’inizio.
Nel
silenzio di quel luogo, con quell’ombrello che ricopre un cappello ed
un abito
oramai zuppi, quella vedova cammina a passi lenti sulla ghiaia bianca
per
abbandonar quel luogo e lasciar finalmente riposare le sue anime,
pronta ad
ascoltare quelle lacrime malinconiche una volta ancora, in futuro,
pianger per
loro e lucidare le loro lapidi, se ve ne fosse bisogno...
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Capitolo 2 *** L'ospite ***
Capitolo 1 – L’ospite
[Data: 15th November
1042 – 22.34
Luogo: Monastero Hemsworth
Temperatura Esterna:
7 °C
Temperatura Interna:
15 °C]
Fuori paese, in cima ad una montagna,
si erge, sul picco di
un precipizio, una struttura in mattoni incassati tra di loro e tenuti
fermi da
uno spartano collante. Esso si mostra, sontuoso, là dove la boscaglia è
più
rada e non vi è traccia alcuna di quella bassa e costante nebbia che
invade
altrimenti il tortuoso sentiero per arrivare sin lassù. I monaci che lo
abitavano un tempo, prima che fosse rilevato da una famiglia
aristocratica,
raccontavano come la nebbia servisse ad offuscare gli occhi dei
peccatori,
perché perdessero la strada per invadere quei luoghi sacri;
raccontavano come i
lupi ne fossero i guardiani e che, se solo uno di loro fosse riuscito
ad
arrivare sin lassù, non avrebbe trovato scampo o salvezza alcuna dalla
furia
dell’Altissimo, il quale non avrebbe atteso il giudizio universale per
porre
fine alle loro vite, il quale avrebbe protetto quella struttura. Nella
realtà
quasi nessuno, a parte qualche viaggiatore esperto, è riuscito ad
arrivare sino
in cima non tanto per la nebbia, che pure rappresentava un vero e
proprio
problema, ma soprattutto per la lunghezza di quella strada e
l’inclinazione di
essa, che quasi la fa apparire come uno strapiombo, quando la si
intraprende
per poter scendere. Essi dovevano servirsi dell’aiuto degli alberi,
aggrappandosi
e scivolando lungo la facciata di quella montagna, sebbene vi fosse il
rischio
perenne di scivolare, specie verso la cima, poiché il terreno diveniva
più
scosceso e composto di roccia friabile, più che di terra compatta, cosa
che
favoriva quel rischio, rendendolo pericoloso per chi non fosse un
esperto.
Questo impedì al monastero di essere attaccato nel corso della storia,
esso
venne scelto, per la sua posizione favorevole, come tomba e custodia
delle più
preziose tra le opere e gli scritti cristiani, di fatto vi sono più e
più
volumi riguardanti la nascita della chiesa, della religione ed accoglie
anche
l’insieme delle regole che sottolineano la cultura e la credenza
cristiana.
L’unico attacco che arrivò sino alla cima della montagna, ma non
ottenne
successo alcuno per motivi ai più sconosciuti, è celato in una bolla di
mistero, nessuno ne ha mai saputo qualcosa, a parte la nozione più
banale, la
quale parla di antichi esseri dagli occhi intrisi di una luce insolita,
sembianze antropomorfe, ma capacità che superavano la naturale
concezione del
potere umano. Si racconta che furono capaci di risalire quella montagna
nel
tempo di un sospiro ma che, attaccando, rimasero uccisi dalla
maledizione che
accompagna quel luogo. Vennero giustiziati dal Signore e trovarono la
loro
morte nelle fredde fiamme del purgatorio, che ardevano possenti per
volere
dell’Arcangelo Uriele, custode e protettore di quel luogo e di ciò che
era
riposto in esso. Dalla base della montagna c’è chi raccontava di averlo
potuto
vedere, dicono che avesse enormi ali, pallide, lunghi capelli corvini,
una
veste bianca ed una spada con la quale esprimeva il volere divino e
dilaniava
le carni di chi, colpito dalla sua stessa maledizione, osava mettere
piede in
quel posto. Altri raccontano solo di una luce, di nessun Arcangelo,
solo una
fortissima luce e delle fiamme.
Anni dopo, quell’antico monastero,
abbandonato dai monaci in
circostanze misteriose, fu acquistato dalla famiglia Fasslander, la
quale pagò
una fortuna per poter avere solo un sesto delle opere racchiuse in quel
luogo.
L’epoca di massimo splendore di quel posto morì con l’acquisto. I
monaci
abbandonarono in quella struttura più della metà delle opere contenute
in essa,
mentre si presume che si ritrovarono costretti a lasciare le altre
nelle
segrete di quel posto. Chi vendette il monastero si impossessò di quei
beni in
maniera del tutto meschina ed illegale, ma fu il volere del monarca e
non si
potette discutere. Si dice anche che chi è attualmente in possesso di
quegli
scritti sia un discendente della famiglia reale, si arrivò dunque a
parlare di
manovra politica, poiché quelle stesse arrivarono alla famiglia reale
attraverso un matrimonio combinato.
Craig Fasslander, il primo
beneficiario nonché venditore
autorizzato dal re, sposò la figlia dello stesso monarca, dalla quale
ebbe due
gemelli, Cedric e Nicholas Fasslander. Dopo la nascita dei figli Craig
venne
avvelenato, fu accusato del suo omicidio il figlio Cedric, mentre venne
scagionato Nicholas perché la madre testimoniò a suo favore. Cedric
venne
giustiziato in pubblica piazza, sotto gli occhi di tutti, che urlavano
al
tradimento ed al disonore che aveva gettato sulla sua stessa famiglia.
Fu tra
le lacrime ed i disperati tentativi
di
discolparsi di quell’accusa, dichiarandosi innocente, che il boia alzò
le
braccia al cielo e calò con inesorabile forza verso il basso; solo
pochi
secondi dopo la testa di Cedric Fasslander venne alzata dallo stesso
fratello,
Nicholas, annunciando che disonori come quello non si sarebbero mai più
ripetuti nella sua famiglia, che ora che lui aveva ereditato il potere
decisionale sulla propria famiglia avrebbe messo al sicuro quelle opere
tra le
mura del castello reale, là dove nessuno si sarebbe permesso, mai, di
compiere
atti del genere solo per poter avere potere e titolo. Le opere, come
deciso da
Nicholas, vennero riposte tra le mura del castello e la famiglia reale
ne
divenne la diretta posseditrice, mentre il popolo non dava loro dei
ladri,
bensì dei Giusti e dei Buoni, che bramavano solo la sicurezza del loro
popolo e
delle loro opere.
La famiglia Fasslander non mise mai
piede in quel monastero
e, una volta decaduta la stessa, esso venne occupato da Vincent
Hemsworth,
facente parte di un ceto medio, ricevette come eredità da un lontano
parente i
fondi necessari all’acquisto del monastero e ne fece la sua casa. Nel
corso
degli anni quello stesso monastero iniziò a brulicare di giovani
vogliosi di
poter imparare l’arte della scrittura, della meditazione e del
combattimento.
Si diede al monastero il nome di Monastero Hemsworth. Ancora oggi
giovani
uomini da tutto il paese convergono in quel luogo per apprendere a
proteggere e
difendere. Vincent, all’età di 49 anni, ha oramai espresso il forte
desiderio
di poter riunire in quelle mura tutti gli scritti che un tempo ne
facevano
parte e donare nuova luce e splendore a quel luogo, ma che, per poterlo
fare,
ha bisogno di un erede che possa eccellere in ogni disciplina e che
abbia le
giuste capacità per poter superare le difficoltà e le pericolose
insidie della
corte.
Da un mese a questa parte i giovani
che si presentano alla
porta del celebre Vincent sono centinaia, ma altrettanti vengono
rimandati
indietro come se nulla fosse. L’uomo ne guarda gli occhi, fa loro delle
domande, non gli chiede nemmeno se vogliono mostrargli quello di cui
sono
capaci, rispondono a quelle domande ed egli decide se sono o meno
adatti a
quello scopo. Sono uomini, non c’è posto, a quel tempo, per le donne,
specie
nelle arti più nobili: il combattimento e la cultura. Tra chi parla di
ingiustizia e chi definisce, come la volpe che da dell’acerba all’uva
nel
momento in cui comprende che non può saggiarla, quell’uomo come un
vecchio
ciarlatano che non sa far altro che arricciarsi i baffi, quando sino a
poco
prima bramava esserne l’allievo.
Ora quel posto giace in silenzio,
alta nel cielo vi è la
luna piena, coperta a tratti da delle nubi scure, presagio di pioggia
pesante o
avviso della medesima in qualche paese non troppo lontano da quella
stessa
montagna, momentaneamente salva dalle copiose piogge autunnali. Una
mano d’uomo
solleva il pesante anello dell’enorme portone del monastero, bussando
due volte
sul legno scuro e pesante. Interminabili minuti passano, minuti in cui
quell’uomo, coperto da un lungo mantello nero sosta di fronte a quel
portone,
il cappuccio morbido calato sul capo ed in braccio pare abbia un
bambino, avrà
al massimo dieci anni, i capelli corti, marroni, le palpebre chiuse ed
una
coperta pesante a coprire le membra scarne dal freddo che altrimenti
gli porterebbe
sicuramente un malanno. Le braccia di quell’uomo lo tengono al sicuro,
stretto
in un abbraccio, perché non possa scivolare o il freddo possa lambirlo,
nemmeno
fosse una perla preziosa. Quella cura e quelle accortezze che hanno un
sapore
gentile, cozzano con l’aspetto duro e mascolino del volto e delle mani,
grandi,
se ne mettesse una di fronte alla faccia del bambino, la coprirebbe
tutta
sicuramente.
Solo al termine di quei minuti, ne
saranno passati quasi
cinque da quando il primo colpo è stato battuto al freddo e rigonfio
legno,
pochi meno dal secondo, come due lenti rintocchi hanno avvisato della
presenza
di un custode di quel posto, tornato dal suo viaggio solo adesso, che
porta un
bambino in braccio. Solo al termine di quei minuti la porta si muove,
spostata
lentamente a causa del suo ingente peso, dietro di essa compare la
figura di un
ragazzetto, le braghe marroni ne fasciano le gambe, strette alla vita
da una
corda spartana, perché non cadano, il petto glabro ed adolescenziale
nudo ed i
piedi scalzi toccato terra. I capelli biondi e gli occhi verdi
osservano la
figura che si trovava dietro quella porta, la figura che aveva bussato.
Solo un
secondo di smarrimento, prima che faccia immediatamente un passo
indietro,
frettolosamente per altro, portando le braccia rigide lungo i fianchi,
in una
posa ferma, e pieghi il busto in avanti.
«Mi aveva detto che saresti…sareste
tornato solamente
domani, non ero pronto ad aprire la porta e credo che il Padrone stia
dormendo.»
Le parole farfugliate di quel
tredicenne mentre se ne rimane
timidamente chiuso nei suoi pensieri, nella sua brama di divenire
esattamente
come quell’uomo un giorno, poter avere il suo aspetto austero, senza
quelle
lentiggini sul viso, che ben poco gli si addicono, senza quel corpo
molle ed
affatto pronto ad uno scontro, per questo si allena ogni giorno e per
questo
prova a superarsi così spesso da essere ferito lo stesso numero delle
volte,
che sia incoscienza o voglia di Riconoscenza non è dato sapersi, ad
occhi
inesperti potrebbe persino sembrare solo un ragazzino che altro non
cerca che
auto ledersi in qualche modo, nel suo curiosare in giro in onore della
più
giovane delle sensazioni: la curiosità stessa, quella di voler
riscoprire la
vita ed il mondo che la accoglie.
Quell’uomo non rivolge al ragazzino
nient’altro che uno
sguardo fugace prima di entrare ed indicare la porta aperta con un
cenno del
capo. A quello stesso cenno il ragazzino si fionda sulla porta stessa,
spingendola con forza, sino ad udire il suo tonfo pieno nel
richiudersi, le
mani, tra cui la destra coperta da una benda bianca, leggermente più
rosata sul
palmo, spingono un’asse di ferro, spessa almeno cinque centimetri ed
alta circa
quaranta, la lascia scorrere entro delle sporgenze in ferro, serve a
tenere
chiuso il portone ed impedire a chi prova ad entrare senza il permesso
della
casa di entrare. L’uomo incappucciato si dirige verso la stanza ad est,
passando per un arco in pietra. Non vi è una sola torcia o candela
accesa, è
tutto tremendamente buio e spento, ma lui si muove bene, senza andare a
sbattere da nessuna parte, arriva sino ad un ampio divano, là dove posa
il
piccolo corpo del bambino che tiene in mano. Una voce scura, maschile e
matura
si rivolge al tredicenne biondo.
«Avvisa Vincent che sono arrivato e
che ho trovato un
ragazzino per strada.»
Quello che dice, prima che il
tredicenne, senza far nessuna
domanda, annuisce e corra via, silenzioso unicamente per la mole
indubbiamente
ridotta a delle ossa attaccate tra di loro. Corre via, salendo le scale
che
portano al piano superiore e le stanze di esso. L’uomo, dal canto suo,
porta la
destra al cappuccio del mantello, tirandolo indietro, i capelli neri e
lunghi
sono legati in un codino basso, da un nastro blu. I crini lisci
arrivano sino
al mezzo delle scapole; gli occhi azzurri e della barba non troppo
lunga sul
viso. Scioglie il nodo che lega il mantello al petto, in modo da
poterlo
sfilare ed appoggiare sopra il tavolo basso che risiede al centro di
quel
cumulo di poltrone. Lo sguardo rimane fisso per un momento su quel
bambino,
qualche secondo, prima d’avviarsi fuori di lì andando a sfilare una
delle
candele del candelabro acceso, presente nell’atrio di quello stesso ex
monastero. Tornando nella stanza accenderà le candele e le torce, una
ad una,
in modo che vi sia luce lì dentro. Una luce fioca e tremolante, per la
precisione, ma pur sempre luce. Essa si muove sulle mura, disegnando
piccole
serpi scure che sgusciano via tanto rapidamente quanto sono comparse,
si
mostrano come ombre sconnesse sulla pelle chiara, pallida, di quel
bambino dal
volto scarno e piccolo, che riposa sul quel divano in un sonno
profondo, dal
quale nemmeno le sferzate d’aria gelida lo hanno svegliato poco prima.
Posa la candela l’uomo, per poi
tornare in quel salone, i
passi lenti, a tratti pesanti, delle scarpe simili ad anfibi ai piedi,
un paio
di braghe nere, una camicia bianca con svariati merletti sui polsi e
sul collo
ed un gilet nero, pesante, con diverse tasche. Alla cintola ha
attaccati dei pugnali
ed una lunga spada da un lato, una semplicissima spada dritta. Infila
le mani
in tasca e torna a porsi davanti a quel divano, davanti a quel bambino.
Lo
fissa e non dice una parola, nel più perfetto dei silenzi. Perfetto sin
quando
una terza voce non lo interrompe.
«Kurt, quale piacere, non pensavo di
rivederti così presto,
pensavo che l’ultimo compito ti avesse preso più tempo di quanto ne hai
impiegato invece.»
Una figura alta, dai capelli marroni,
corti, una leggera
barba giace anche sul suo volto, una camicia bianca e dei semplicissimi
pantaloni neri, si avvicina alle altre due. L’uomo, Kurt, non rivolge
nemmeno
lo sguardo all’altro, gli rivolge unicamente la parola.
«Non ce n’è stato bisogno»
«Che intendi con il fatto che non ce
n’è stato bisogno? Gli
ordini erano preciso, andava eliminata l’infante e sventato il
pericolo, Quel
seme è sin troppo pericoloso per noi. Sino ad ora il sigillo posto sul
monastero ha funzionato e nessuna di quelle creature ha fatto un solo
passo
entro il nostro territorio, ma le mie forze iniziano ad indebolirsi ed
i
giovani che si presentano qui continuano a dimostrarsi come dei fanat..»
«Non ce n’è stato bisogno perché
qualcuno aveva già fatto il
lavoro al posto nostro, era stato già tutto fatto, non ti sono arrivate
le
notizie della vendetta?»
«Vendetta?»
Un sospiro pesante dalla parte di
Kurt, mentre sul volto di
Vincent altro non vi è che la perplessità a fare da padrona alle sue
espressioni. Kurt, dal canto suo, si avvicina ad una delle poltrone di
quel
salone, sino a sedersi su una di esse e congiungere le dita,
intrecciandole in
una posa rilassata.
«Immagino che quassù le notizie
arrivino con qualche giorno
di ritardo. È stato William Collins, lui ha fatto il lavoro e la madre,
per
ricambiare il simpatico favore di averle ucciso una figlia, ha
ammazzato lui,
ha aspettato i funerali per avere i suoi parenti a portata di mano,
tutti
assieme, ed ha sterminato un’intera famiglia. È stata astuta, per
quanto loro
possano essere cacciatori, sono una famiglia ed il funerale ha portato
l’abbassamento automatico delle difese. Quindi non abbiamo più nemmeno
l’appoggio dei Collins.»
«Fantastico… non ho mai amato le
famiglie indipendenti di
cacciatori, rischiano di eccedere in spavalderia, come dimostrato e
pretendono
che in un nome vi sia racchiuso un potere, ancora non hanno ben
compreso che le
cose sono diverse, la guerra in atto è grande e non ci si possono
permettere
mosse del genere, sono da stolti.»
Vincent porta una mano dietro la
nuca, lo sguardo verso il
soffitto alto del salone, qualche secondo di silenzio cade nella
stanza,
lasciando calare una pallida cupola di silenzio, nel quale non permea
niente.
Reclina il capo di lato, abbassando lo sguardo sulla figura del bambino
poggiato su quel divano, che ancora vive i propri sogni e dorme sonni
più o
meno tranquilli. Il cacciatore par accorgersi di lui solo adesso,
adesso che
non sposta lo sguardo da quel fagotto per più di pochi semplici
secondi, sembra
quasi che lo stia studiando e che si stia accertando delle sue
condizioni
fisiche.
«E lui? Dove lo hai trovato?»
«Sono comunque andato a cercare la
figlia della donna, ma
non ho trovato nient’altro che un cumulo di cenere e quello, steso a
terra,
chiuso nella stessa coperta che vedi adesso. Forse era un suo amico o
conoscente,
non ne ho la più pallida idea, ma te l’ho portato prima che divenisse
un
ulteriore problema, fanne quello che preferisci.»
«Capisco… vedrò se è buono a
qualcosa, altrimenti dovrò
trovare per lui una famiglia.»
La mano scivola via da dietro la
nuca, egli si avvicina al
bambino chiuso in quella coperta, chinandosi su di lui con la
delicatezza e la
dolcezza che utilizzerebbe un padre attento, lo solleva portandogli un
braccio
dietro la schiena ed uno dietro le ginocchia, in modo da evitare di
svegliarlo
subito.
«Sai almeno come si chiama?»
«No, non si è svegliato per tutto il
viaggio, chiediglielo
quando si sveglia. Io vado a ripulirmi e prendo qualcosa da mettere
sotto i
denti, il viaggio è stato lungo e quella montagna è sempre più faticosa
da
praticare, ogni anno che passa.»
Un sorriso divertito si dipinge sulle
labbra di Vincent nel
preciso istante in cui Kurt poggia le mani sui braccioli della
poltrona,
sollevandosi con la fatica con cui lo farebbe un anziano.
«Riposati, sembra che tra me e te il
vecchio sia tu.»
Le ultime parole di Vincent, prima
che volti le spalle
all’altro ed accenni ad andarsene, lasciando Kurt solo in quel salone,
senza
più nemmeno la compagnia di quel bambino addormentato. Uno sguardo
severo sul
suo volto, non se ne va nemmeno adesso che è solo, come se si sentisse
perennemente in dovere di rappresentare in tutto e per tutto la figura
dell’uomo duro, che non si lascia condizionare da niente e nessuno. Si
avvicina
al divano, là dove aveva poggiato il proprio mantello, recuperandolo ed
avviandosi poco dopo nella propria stanza, per poter riposare in un
lungo sonno
dopo il viaggio faticoso.
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Capitolo 3 *** Il Risveglio dell'Hunter ***
Capitolo 2 – Il Risveglio dell’Hunter
[Data: 16th November
1042 – 19.57
Luogo: Monastero Hamsworth
Temperatura Esterna: 9 °C
Temperatura Interna: 18 °C]
La luce tremolante del fuoco di un
caminetto illumina quella
stanza dopo il precoce tramonto del Sole. Contribuisce al buio della
stanza
anche un pesante tendaggio in velluto blu scuro, che copre le due,
altrimenti
luminose, finestre della stanza. La spessa muratura da una buona
motivazione al
perché l’escursione termica da fuori a dentro quel posto lo renda
tremendamente
caldo ed accogliente d’inverno e fresco e piacevole invece anche
nell’estate
più torrida. Ma c’è un motivo diverso del perché quelle tende non sono
state
spostate da lì per tutto il giorno, un motivo che ancora sonnecchia
dormiente
sull’ampio divano di quella stanza. Ammantato in una coperta pesante e
lacera
in più punti vi è il corpo del piccolo ragazzino, che la sera prima era
stato
portato all’ex-monastero da Kurt, un caro amico di Vincent, colui che
possiede
attualmente quella struttura, carica di una storia che è stata
trafugata con il
tempo e con la vita che si sposta e si manifesta sottoforma di ragazzi
vogliosi
di imparare, imparare a difendere le proprie famiglie da ciò cui
altrimenti
sarebbe impossibile fare altro che essere umiliati nel più misero ed
orrendo
dei modi, da quelle creature che sono i Demoni dei sogni di tutti, in
epoche
come la corrente, dove storia e misticismo si mescolano, dove la
religione è un
pretesto. Il credere in Dio viaggia su un sottile filo, sotto il quale
scorre l’avito
fiume del fanatismo. Se il credente si trasforma in fanatico, esso
passa
automaticamente da neutro, tendente al buono, al pericoloso, senza
nemmeno
rendersene conto, senza sapere quale malattia gli ha appena inquinato
le vene.
Una poltrona orrenda di fronte al
camino, in stoffa la sua
imbottitura, di un marrone orrendo il colore della sua trama, divisa in
rombi,
i quali finiscono con l’avere tutti, inevitabilmente, sfumature del
medesimo
marrone. “Un crimine alla società, andrebbe messa al rogo” quello che
continua
a ripetere Kurt a Vincent ogni qualvolta entra nella sua stanza per
potergli
riferire una qualsiasi informazione reperita al di fuori della
struttura. Ha
gli angoli consumati dal tempo, quella stessa stoffa, in quegli angoli,
risulta
sfilacciata, sottili i fili che pendono e sfiorano il pavimento,
raccogliendo lanugine
e polvere ogni volta che la stessa viene spostata per qualche motivo.
Su di essa riposa Vincent Hemsworth,
indossa un paio di
braghe di un marrone scuro ed una camicia panna, che ha oramai preso la
forma
della poltrona, nel suo stropicciarsi in più pieghe, i volant del
collo, che
scendono verso il petto, sino ad esaurirsi quando la camicia arriva a
coprire
all’altezza del diaframma, rimangono morbidi ed appiattiti verso il
basso,
hanno perso, con l’indossarla più volte, la loro morbidezza e la loro
apparente
leggerezza, di quando prima se ne rimanevano ritti e fieri a rendere
quella
camicia un qualcosa di prezioso. Non è nemmeno escluso che, prima di
divenire
panna, quella stessa fosse di un più lucente bianco, vivo, in confronto
al
colore più spento che adesso si accosta alla pelle del petto appena
villoso di
Vincent. La testa di lui pende vero il basso, le palpebre sono calate,
mentre
la luce movimentata delle fiamme che ardono in quel camino, proprio di
fronte a
lui, posano scure ombre sul volto del cacciatore, ombra che si
intervalla a
luce in un movimento frenetico che sottolinea le piccole escrescenze
della
pelle, laddove essa si piega in sottili rughe, dettate dal tempo e dal
fatto
che ogni singolo muscolo di lui è momentaneamente rilassato.
La gamba sinistra accavallata alla
destra: la caviglia della
prima poggia sul ginocchio della seconda, creando pieghe, sulla stoffa
scura,
che creano, anch’esse, particolari giochi di luce quando quella calda
delle
fiamme arriva sino a lambire quelle pieghe. La posa morbida ed
abbandonata
delle mani sulle gambe tiene con dubita forza e blanda pressione un
volume di
non troppe pagine aperto sulla sessantesima. Una scrittura elegante,
longilinea
in quella sua inchiostratura scura che ha sporcato i fogli ingialliti
dal tempo
con piccole macchie scure, evidente disattenzione di chi ha scritto con
un
pennino sin troppo intinto nel suo inchiostro corvino. Il libro è quasi
chiuso,
solo i pollici del cacciatore tengono il segno tra quelle pagine,
lasciando che
gli angoli estremi si sfiorino. Sulla copertina bordeaux in pelle non
si riesce
a leggere il titolo, sbiadito nel corso degli anni, doveva essere stato
impresso con un sottile strato d’argento, data la colorazione
grigiastra,
seppur luminosa, di quel che resta di un nome oramai incomprensibile.
Dietro quella poltrona, sul resto
della stanza, si può
ammirare la seconda più grande biblioteca di tutto il monastero, libri
su libri
accatastati su una scaffalatura in legno squadrata e scura, dà l’idea
di essere
pesante, non longilinea, che tende all’orizzontale invece che al futuro
verticale. Ogni mensola è la culla di almeno tre antologie complete, ci
sono
libri singoli e ce ne sono di facenti parte di una serie, di una
collezione o
molto altro ancora, tutti scritti a mano, tutti tremendamente costosi e
preziosi, tutti reperiti durante i viaggi che la famiglia Hemsworth ha
compiuto
nel corso delle sue generazioni. Un po’ come i suoi avi, lo scopo di
Vincent
era quello di poter rimettere insieme tutta la storia dei manoscritti
che erano
stati lasciati in precedenza a quello stesso monastero, quando ancora
era in
auge. Tra due scaffalature si trova una piccola porta in mogano, al
momento è
chiusa e non una singola luce fa capolino da sotto lo spiraglio della
porta
stessa, indici che o lì dietro non c’è nessuno oppure qualcuno al
momento
dormiente.
Un tavolo in legno pesante e spesso,
posto al termine della
stanza, posto nel mezzo delle due finestre, dietro di esso una grande
sedia del
medesimo materiale e fattezza. Un cuscino morbido è poggiato sulla
base. Sul
ripiano del tavolino sono posti due candelabri, dei calamai, qualche
piuma
sporca d’inchiostro, un timbro, della ceralacca e qualche foglio sporco
da
degli aloni neri, probabilmente sempre il medesimo inchiostro. Uno dei
cassetti
è socchiuso, dentro di esso luccica una pietra preziosa, ma non riesce
a
scorgere nient’altro che quella da quel piccolo spiraglio che viene
lasciato
alla vista dei più che passano lì dietro. Un grosso tappeto di una
colorazione
ambrata è posto a terra, nella sua forma rettangolare prende sia parte
della
scrivania che del divano ove giace quel piccolo corpo riposa, chiuso
nella sua
coperta, mentre nell’aria si spande il suono regolare del respiro
pesante di
Vincent.
Solo dopo un po’ un fruscio leggero
rompe la staticità di
quella scena, mossa unicamente dalla luce tremolante, il fruscio di
quel
piccolo corpo ammantato che, finalmente, si smuove dal suo continuo
sonno, sino
ad aprire piano le palpebre da bambino, rosee e sottili, rivelando un
paio di
iridi nere almeno quanto la pece, che scorrevano perplesse lungo le
pareti di
quel luogo. Non scatta, non sembra spaventato, non sembra nemmeno sulle
difensive, muove solo piano le labbra, una mimica appena accennata e
dettata da
un aprire e chiudere di pochissimo le labbra, come in un boccheggiare,
che poi
quel gesto volesse dire “mamma” probabilmente lo sa solo ed
esclusivamente lui.
Si porta a sedere, stringendosi quella coperta addosso con le mani
piccole,
coperte, percependo d’essere nudo al di sotto, privato di ogni cosa,
persino
della sua stessa casa, non ha più niente con sé, niente che possa
dargli l’idea
di sicurezza. Le labbra si piegano un poco all’indietro, stringendosi
tra di
loro abbastanza forte da sbiancare. Le sopracciglia si piegano in
un’espressione
quasi sofferente mentre scivola giù dal divano, poggiando i piedini
nudi sul
grande tappeto che copre gran parte della pavimentazione della stanza.
A piccoli ed incerti passi si dirige
verso la poltrona, che
al momento gli da le spalle. Si blocca sul limitare del tappeto,
mormorando un “signore”
che nessuno ode, a parte le mura di quella stanza che, pure, non
sveglieranno
il cacciatore dal suo sonno. Solo dopo un altro paio di tentativi
decide di
andar avanti, poggiando con una smorfia contrariata la pianta del
piccolo piede
sulla pavimentazione in pietra gelida. Un brivido gli corre lungo la
schiena,
sin quando non arriva al fianco di quella poltrona e, di nuovo, il
mormorio
bassissimo, che non denota neppure un vero e proprio tono di voce, è
solo un
sussurro, uguale a quello di chiunque altro. L’unico problema è che con
i
sussurri non si svegliano le persone, con i sussurri si violano i
patti, si
sussurra perché si ha paura, perché si è consapevoli di star dicendo
qualcosa
che non andrebbe altrimenti detto, che esso sia una cattiveria, che sia
un
segreto svelato, che sia una confidenza troppo mal architettata. Eppure
lui non
ha nulla da nascondere, a parte il proprio corpo. Sussurra e continua a
sussurrare, senza mai dare un timbro alla propria voce, che sia più o
meno
mascolino, lui non lo da. Allunga piuttosto un braccio, lasciandolo
passare tra
i due lembi della stoffa, sino ad andare a scuotere piano la spalla
dell’uomo,
un tocco leggero, incapace persino di stringere. Scrolla quella spalla
e basta.
Essa si sposta, le palpebre dell’uomo
si spalancano di
colpo, facendo sussultare il corpo tutto del fanciullo, il quale non fa
in
tempo a prendere un respiro più profondo che già sente la pressante
presenza di
una mano sul proprio collo, la mano robusta di quel cacciatore che,
abituato
alla solitudine, risponde in maniera aggressiva ai risvegli da parte di
altri,
specie se non vocali. La coperta scivola un po’ sulla pelle del
bambino, scoprendone
il candore, liberando unicamente la parte superiore delle spalle,
mentr’egli si
dimena un poco e stringe le dita, come appiglio per la propria vita, su
quella
stoffa, evitando che cada ulteriormente. Solo dopo una manciata di
secondi
Vincent allenta la presa, con un grugnito di disappunto. E nello stesso
momento
in cui il bambino è libero, questo indietreggia, passo dopo passo,
sempre più
rapidamente, sino ad incappare contro il bracciolo del divano e
fermandosi
contro di esso. Trema, trema come una foglia in autunno, che sa di
essere in
bilico. Lui non conosce nulla, né il posto, né chi lo abita, né come è
fatto e
come vi si può muovere all’interno, mentre la pancia brontola per la
fame di
non aver mangiato niente per quasi due giorni.
Si alza dalla propria postazione il
cacciatore, raccogliendo
il libro caduto a terra per via dello scatto, un piccolo tonfo che non
è stato
udito da nessuno dei due, troppo impegnati in quell’improvviso climax
di
eventi. Sistema qualche pagina piegatasi, sfila un pezzo di foglio
utilizzato
come segnalibro e, per qualche secondo, cerca il punto preciso ove ha
interrotto la lettura per cadere addormentato, ripone lì quel segno
molle,
richiudendo il tutto e, senza dir nulla, avviarsi verso la libreria e
riporlo
in un punto preciso. Prima scaffalatura, sesta mensola, cinque libri
dopo l’inizio.
Solo poi prende a parlare, la voce ancora un po’ impastata dal vicino
risveglio.
«Finalmente, è più di un giorno che
non apri occhio, avrai
anche fame.»
Il bambino di per sé non dice
assolutamente nulla, annuisce,
annuisce e basta, chinando appena il capo, intimorito dalla reazione
dell’hunter
nel preciso istante in cui lui ha provato a svegliarlo. Ha ancora i
segni
rossastri sulla pelle chiara. Gli occhi neri non lo lasciano un minuto,
seguendolo in tutto il suo percorso per la stanza ed obbligato a
voltarsi per
poter cogliere la risposta del ragazzino.
«Un mio amico, lui si chiama Kurt
Way, ti ha portato qui, ti
ha trovato chiuso in quella stessa coperta, steso a terra. Stando a
quanto dice
eri in compagnia di una giovane vampira, non ti scandalizzerai, quindi,
se te
ne parlo…»
Per un momento, nel sentire quella
parola, “vampira”, il
giovane sussulta, spalancando ulteriormente le palpebre e dischiudendo
le
labbra come se volesse dire qualcosa, sembra quasi il gesto repentino
di chi
cerca di scusarsi di qualcosa con un farfugliare non meglio
identificato. Ma
poi le richiude, con la conclusione di aver unicamente preso solo un
po’ più d’aria
del solito. Lo fissa, rimane in silenzio, quel suo silenzio, quel suo
non
essere troppo sorpreso della natura dell’altra, fanno sorridere
Vincent, che lo
fissa. Lo osserva mentre se ne rimane chiuso in quella coperta,
stretto, che
trema un poco di più da quando ha accennato alla storia dei vampiri.
«Devi sapere…ahm, com’è che ti
chiami?»
Solo dopo un po’ di incertezza, una
piccola pausa da quella
domanda, il bambino sussurra, senza mai osare, nemmeno per sbaglio,
portare
quel sussurro ad un tono di voce decente. «Sam» quello è il suo nome.
«Bene.» afferma Vincent, andando a
sedersi sul divano e
battendo la mano sulla seduta, invitandolo ad avvicinarsi «Vieni qui,
Sam, non
ti faccio niente di male, ti chiedo anzi scusa per prima, non sono
abituato ad
essere svegliato a quel modo.»
Il bambino esita per un momento, non
eccessivamente
rincuorato, per qualche motivo, dalle parole del cacciatore, probabile
che, se
era presente alla scena della morte della giovane vampira, egli abbia
assistito
ed il fatto che lo stesso uomo che l’ha uccisa ha portato lui lì, non
deve
metterlo di buon umore, né fargli avere a cuore il cacciatore. Solo
dopo un po’
si discosta dal bracciolo del divano, raggiungendo Vincent, sino a
sedersi
accanto a lui. Quello lo afferra per la vita, nonostante la breve e
vana
resistenza del piccolo, mettendoselo a sedere sulle ginocchia.
«Dicevo… Devi sapere, Sam, che quella
che forse tu chiamavi
amica, mentre ci giocavi dalla morte del Sole, sino forse al limitare
dell’alba,
altro non era che un pericolo per gli umani come me e te, un pericolo
poiché
per loro noi non siamo niente di più che cibo, bestie da soma che
utilizzano
per il loro svago, chiudendoci nelle loro corti ed utilizzandoci come
miseri
domestici o pezze da piedi. Quando sono afflitti, annoiati o frustrati,
le
prime persone sulle quali vanno a riversare la loro frustrazione siamo
noi.»
Sam di per sé pare piuttosto inquieto
nel sentire quelle
parole, possibile che abbia effettivamente visto scene di quel genere,
seppur
magari a lui non sia mai stato fatto nulla. Non può sfuggire in alcun
modo che
è quello l’atteggiamento che i vampiri hanno nei confronti degli umani,
non
esiste, dopotutto, vampiro che non sappia essere borioso e saccente, se
non
addirittura presuntuoso nel suo modo di essere e di comportarsi, pare
esser
insito nella loro natura ed intrinseco nella loro mente il concetto di
“superiorità”.
Vincent, dal canto suo, sistema meglio la coperta attorno al corpo del
bambino,
chiudendocelo meglio e ricoprendo quelle spalle che poco prima erano
state
scoperte da quel gesto più brusco.
«Mi dispiace per la tua amica.»
l’espressione non sembra
semplicemente superficiale, sembra quasi che gli dispiaccia davvero nel
suo
parlare dell’amica «Non uccidiamo Tutti i vampiri, di solito ci
limitiamo a
quelli che creano problemi o minacciano il quieto vivere dei paesani.
Lei, è
vero, non aveva fatto nulla, ma sarebbe divenuta particolarmente
potente per
via di una discendenza sanguigna molto particolare. Permettere il suo
sviluppo
sarebbe stato come dare in mano ad i vampiri l’ultimo appiglio che noi
Hunter
abbiamo per evitare che essi facciano strage da un giorno all’altro
della
maggior parte degli umani.» spiega, in qualche modo, prova a dare una
visione
sommaria del perché hanno fatto quello che hanno fatto e del perché
hanno
dovuto. «Un giorno ti racconterò la storia di Nehemia, ma ora credo che
tu
abbia bisogno di un bagno caldo»
Si solleva, tirando su anche quel
piccolo esserino, che non
ha spiccicato nemmeno mezza parola, se non il proprio nome, dall’inizio
della
serata sino ad ora, non una, si è limitato ad ascoltare e rimanere
inquieto,
poiché pare, per l’appunto, che egli non abbia particolare intenzione
di
tranquillizzarsi. Il cacciatore si avvicina, con Sam in braccio, alla
porta in
legno scuro, posando la mano sul pomello che ne fa da maniglia e
ruotandolo,
per aprir la porta e lasciar spazio per gli occhi ad una camera da
letto. Un
grande baldacchino, molto spartano in realtà, ed affatto pieno e
borioso come
quello che si potrebbe trovare in un castello od in una nobile villa.
La
pavimentazione è la medesima, ma stavolta non vi è nessun tappeto a
coprire in
alcun modo il freddo della nuda pietra. Solo un comodino, o quello che
può
sembrar tale ed un armadio con un’anta socchiusa. In fondo alla stanza,
vicino
alla finestra, anch’essa coperta da un tendaggio di velluto blu scuro,
vi è un
paravento, dietro il quale giace un catino ed una vasca, pratica,
niente di
eccezionale o particolarmente lavorato. Un piccolo sgabello è
posizionato lì
vicino.
L’Hunter si avvicina allo sgabello,
spostando parte del
paravento bianco, ed accenna a far mettere lì sopra, in piedi, il
bambino, in
modo da potergli sfilare la coperta e detergerlo, almeno sin quando non
darà
indicazione di portare dell’acqua calda. Le manine del ragazzino fanno
un pelo
di resistenza, mentre le labbra si stringono tra di loro e le palpebre
si
socchiudono. Il cacciatore sorride bonario alla cosa.
«Ora capisco.» mormora Vincent,
osservando Sam come un padre
osserva il figlio, orgoglioso di lui, per qualcosa, eppure il bambino
sembra
più perplesso, non comprendendo ciò che intende Vincent, il quale
socchiude di
nuovo le palpebre per un momento, con il solito sorriso di chi par
avere appena
capito tutto «Capisco perché Kurt ti ha portato qui e non ti ha
lasciato steso
a terra. Tu hai i suoi stessi occhi, hai gli occhi di sua figlia:
Karen. È morta
qualche mese fa in seguito all’attacco di alcuni vampiri alla sua casa,
al di
fuori di questo monastero.» spiega molto velocemente.
Nonostante tutto, nonostante il fatto
che la spiegazione
della cosa fosse molto blanda, veloce e sbrigativa, la presa delle dita
di Sam
sulla coperta si allenta, lasciando al cacciatore la possibilità di
poter
togliere quel pezzo di stoffa. Lo lascia scivolare contro la pelle,
sino a
portarlo via del tutto, sino a scoprire quella pelle tremendamente
pallida, ma
rosea laddove il sangue scorre meglio, comprese le morbide gote, al
momento. Il
sorriso di Vincent rimane sulle sue labbra, senza abbandonarlo quando
afferra
una pezza e la bagna nell’acqua oramai non più calda, andando a
detergere di
seguito la pelle del ragazzo.
«Nei giorni a seguire noterai
sicuramente che nel monastero
vi sono solo uomini, qui addestriamo dei ragazzi promettenti a divenire
Hunter,
perché possano difendere le loro famiglie dai quei vampiri che
attaccano senza
pietà alcuna. Viene utilizzato questo posto poiché un sigillo posto dal
primo
cacciatore lo protegge, permettendo alle fredde fiamme del purgatorio
di
avanzare come difesa sui non-morti. Quelle fiamme non bruciano, non
sono
dolorose, quelle fiamme purificano, ma il peccato insito nei loro animi
è abbastanza
da ridurli in cenere. Vedremo se anche te sei buono come cacciatore…»
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Capitolo 4 *** Una Nuova Casa ***
Capitolo 3
– Una Nuova Casa
[Data: 17th
November 1042 – 06.14
Luogo:
Monastero Hemsworth
Temperatura
Esterna: 7 °C
Temperatura
Interna: 16 °C]
Piove, quel
ticchettio fine, delicato ed estenuante che accompagna quasi tutta la
stagione
autunnale, risuona come colonna sonora anche di quella mattinata, in
cui il
Sole sembra indeciso se mostrarsi tra quelle nubi scure o se restare
sopito
dietro di loro, senza mostrare la sua magnificenza a quei poveri e
miseri
mortali che ne bramano la luce per la loro carne inumidita, per le ossa
che
dolgono ogni giorno sempre di più. Quella pioggia che ticchetta contro
le
vetrate spartane di quel monastero, non sono chiare, millimetri di
polvere
hanno coperto oramai da tempo il loro candore e la loro preziosa
trasparenza e
nessuno sembra intenzionato a ripulirle, probabilmente nessuno s’è mai
soffermato ad osservare come queste siano sporche. Ma lui sì, seduto
sul baldacchino
nel quale Vincent lo aveva fatto coricare, fissa quella finestra scura,
sporca,
e non vede oltre, non vede nient’altro oltre le gocce trasparenti che
scivolano
verso il basso, portandosi via solo parte di quella polvere e lasciando
sul
vetro un disegno omogeneo nella sua discontinuità. La fissa con il
pensiero
fisso di voler uscire di lì, non è quello il suo posto, ha una casa ed
è fuori
da quelle quattro mura. Il giorno precedente non aveva nemmeno avuto il
coraggio di chiederlo al cacciatore, se ha il permesso di poter tornare
a casa
sua o meno, se può andarsene di lì o se deve rimanerci in eterno. C’è
angoscia
nei suoi occhi scuri, dietro quell’abisso si nasconde tutta l’ansia di
un
momento, l’ansia che può avere un bambino nel trovarsi a passare una
notte
fuori da casa e con la consapevolezza che una cara amica lo ha lasciato
per
sempre, uccisa dalle stesse persone che ora lo stanno lavando,
sfamando,
accogliendo, come se fosse tutta un’enorme presa in giro, uno scherzo
ben poco
simpatico al quale non ha eccessiva voglia di prender parte. L’unica
pecca è
che non pare toccare a lui la scelta…
Le gambe
sottili penzolano dal materasso, le iridi corvine si spostano dal vetro
sudicio
della finestra ai propri piedi, li dondola un po’, forse per passare un
po’ di
tempo prima che qualcuno lo venga a chiamare. Indossa unicamente un
paio di
pantaloni chiari, morbida la stoffa, le pieghe segnano una struttura
longilinea, ma allo stesso tempo sin troppo sottile. Il busto è esile,
una
benda bianca ne fascia stretto il torace e la spalla destra, sino
all’altezza
del gomito, Vincent, nel lavarlo, pareva essersi accorto di un difetto
della
cartilagine e dell’ossatura, che impediscono alla spalla di rimanere in
asse e
di compiere, di conseguenza dei movimenti che implicassero un minimo si
forza.
In parole spicciole aveva voluto dirgli che quella spalla era
semi-lussata,
ancora sana e salva dalla lussatura completa, ma gli aveva impedito di
rischiare oltre fermandogli l’osso e tenendolo al sicuro sotto quella
fasciatura
stretta. “Se solo la tua spalla dovesse divenire inutilizzabile nel
corso del
tempo, non potrei più inserirti nella squadra dei cacciatori, e sarebbe
un
peccato, in fin dei conti dai l’idea di essere un giovane forte ed
atletico”
aveva detto, che Sam avrebbe tranquillamente concordato con l’atletico,
ma
ancora non riusciva a capire dove accidenti lo vedeva forte, anzi, lo
chiamavano “cavalletta”
o “grillo” in
alternativa, che indica unicamente che è magro, ma non avrebbe la forza
necessaria a sostenere un lavoro pesante, come avrebbe invece preferito
il
padre.
Il viso è
leggermente scavato sulle guance, sotto gli occhi risiedono due vaghi
solchi
scuri che rendono nota ai più la nottata passata in bianco, con
quell’inquietudine che lo logora da dentro, con una forza quasi
impressionante.
Essa solca la carne attimo dopo attimo, divorando ogni organo, ogni
senso e
lasciando dietro di sé solo il vuoto ed un forte mal di stomaco, che
mal
s’accosta ad un buon riposo, no, quell’ansia glielo impedisce,
distruggendolo.
Su di una
sedia sono piegati dei pantaloni di un marrone scuro, poco lontana vi è
la
cinta che dovrebbe stringere sulla vita, impedendo a quelli di cadere.
Vincent
non ne aveva un paio della sua taglia, troppo magro e troppo basso,
ancora, per
poter indossare quelli degli altri ragazzi, ha dovuto dunque tagliare
le gambe
ad un vecchio paio di quelli che aveva lui, ovviando al problema della
vita con
quella cinta, che li avrebbe tenuti su. Sullo schienale della medesima
sedia è
poggiata una camicia relativamente bianca. Relativamente perché
probabilmente
quello era il suo colore iniziale ma, con il passare del tempo e dei
lavaggi,
quel colore è stato perso sempre più, sino a divenire un bianco sporco,
anche
vagamente sbiadito in alcuni punti. Probabilmente mancano anche un paio
di
bottoni, la cosa buona è che questo non interesserà poi troppo il
ragazzino, al
quale va bene sia così che immacolata, basta che qualcosa lo ricopra
dal freddo
di quelle notti.
Scivola giù
dal letto solo dopo un po’. Non fa, tuttavia, in tempo a fare nemmeno
un paio
di passi che qualcuno apre la porta in legno di quella stanza ben poco
arredata. Spunta il volto di Vincent da lì dietro, lieto, sorridente
per altro,
che non chiede permesso alcuno per entrare in quella stessa camera e
richiudere
la porta dietro di sé, con un suono leggero ed appena udibile la porta
di
chiude, uno scatto della serratura, non chiusa a chiave, nessun
chiavistello la
serra, è stata solamente chiusa.
«Non
pensavo di trovarti già sveglio, ti ho poggiato i vestiti sulla sedia,
ma vedo
che non ne hai ancora usufruito..ti serve una mano?» domanda,
avvicinandosi per
altro alla sedia che ospita quegli stessi indumenti, con la chiara
intenzione
di aiutarlo a vestirsi, più che altro perché gli spifferi freddi d’aria
gelida
non dovrebbero essere particolarmente salutari per uno scricciolo come
Sam, che
non sopporterebbe nemmeno una pioggerella senza tornare a casa con la
tosse e
la febbre, e non è cosa buona e giusta, non nell’epoca corrente
quantomeno. Il ragazzino
serra le palpebre e le labbra tra di loro, cercando forse di trovare il
coraggio di dire all’amico dell’assassino della vampira che non ha
nessuna
intenzione di stare lì, di sostare in quel monastero per più di un
altro giorno
ancora, giusto il tempo di radunare qualcosa di utile e quindi avrebbe
ridisceso la facciata della montagna, non saprebbe ancora dire come, ma
lo
avrebbe fatto in qualche modo, uno qualsiasi, pur di essere libero da
quella
sottospecie di spiacevole prigionia.
«Portami a
casa» se il tono voleva essere deciso e determinato, deve aver
sbagliato,
poiché dalle sue labbra non esce niente di più del solito sussurro
appena
accennato, che necessita della massima attenzione per poter essere
udito. Ma
pare che il Cacciatore abbia portato su Sam i giusti interesse e
concentrazione
per non lasciarsi sfuggire nemmeno un alito di troppo, niente.
«Non è
possibile, temo che dovrei abituarti a stare qui, anche se la cosa non
ti
convince poi troppo, anche non ci troverai alcun senso, credimi, non
c’è altra
soluzione per la quale tu possa essere libero e contento con la tua
famiglia.»
Ha ragione
il cacciatore, quelle parole all’udito del bambino non hanno senso
alcuno, come
se avesse detto la prima cosa che gli è venuta in mente, una
stupidissima
accozzaglia di parole non meglio identificate, che da sole possono
anche avere
un significato, ma, messe nella stessa frase, non trovano un senso vero
e
proprio. Le palpebre del ragazzino si spalancano per un momento, le
labbra
dischiuse, incredulo, si era aspettato, nonostante tutto, una risposta
affermativa, non trovando una spiegazione plausibile per quella che
invece gli
è arrivata alle orecchie. Apre e chiude le labbra almeno un paio di
volte,
senza sapere di preciso cosa dire, mentre Vince sfila la camicia dallo
schienale della sedia. Osserva il fatto che manchino due bottoni e
storce le
labbra, ma non pare dire niente in merito, ce li farà riattaccare in
seguito.
Gli si avvicina, si avvicina a quel piccolo corpo tremolante e
sconvolto con la
lucidità di chi ha appena detto qualcosa di perfettamente normale.
Sente quel
ticchettio lieve rimbombargli nella mente, come un susseguirsi di tanti
piccoli
frastuoni, ci si perde, mentre osserva la figura del cacciatore
avvicinarsi e
cercare di fargli infilare la camicia.
Ma no, lui
si scansa, rifugge quel gesto e quella che, tutto sommato, era
un’accortezza
che quasi gli era dovuta, un’accortezza che alla fine dei giochi non
era
nemmeno malvagia, anzi. Lui lo scansa, indietreggiando in un piccolo
scatto e
rischiando per un momento di cadere. Scongiurata, la caduta a terra,
dall’aggrapparsi al lenzuolo che copre il materasso di quel baldacchino
non
propriamente nuovo. I lineamenti di Vincent, agli occhi corvini di Sam,
per un
momento assumono quelli di un aguzzino, un ricattatore, una
qualsivoglia figura
meschina che altro non vuole che minare la sua libertà e la sua
volontà,
nient’altro, non vede oltre quello, non vede l’aiuto che vorrebbe
portargli,
non vede il bene che gli è stato fatto, non vede quel lato, da fondo
solo ed
unicamente a quello che lo ha minato, riducendolo ad essere nient’altro
che un
ragazzino alle prese con se stesso, la consapevolezza di una morte
anche troppo
recente ed il non poter nemmeno tornare indietro. Per colpa sua? No, è
tutta
colpa di Vincent e del suo amico Kurt, se lui è bloccato sulla cima di
quella
montagna, all’interno di quella magione. Serra di nuovo le palpebre, un
piccolo
scatto, mentre raccatta tutta la voce ed il coraggio che può avere un
ragazzino
di poco più di dieci anni.
«Io non ci
voglio stare qui! Rivoglio la mia mamma! Rivoglio papà! Voglio tornare
a casa!»
lo urla con tutte le poche forze che ha in corpo, non osando aprire gli
occhi
sulle prime, trema un poco, le dita sottili e pallide si stringono
ulteriormente su quella stoffa bianca. Quando li riapre osserva il
cacciatore
da dietro una patina lucida e con una supplica disperata in fondo a
quello
sguardo nero. La pelle all’altezza delle gote si è arrossata un po’,
così come
anche sul collo e sul petto, per l’agitazione di non poter fare quel
che
preferisce, quella sorta di crisi nervosa che prende quando ci si fanno
determinate idee e poi, alla fine, non si riesce ad ottenere nulla,
nonostante
non si abbia fatto niente di male, il dover per forza rimanere passivi
ad
un’azione ben poco piacevole. Gli occhi si gonfiano di lucide lacrime,
che
straboccano in poco, solcano le guance ed interrompendosi solo per un
momento
sul filo della mascella, ferendo quella carne di un dolore che non
avrebbe mai
pensato di poter provare. Vincent finisce con il sospirare in maniera
appena
percettibile, posando la camicia sul letto ed avvicinandosi a Sam,
allunga la
destra, cercando di portare via le lacrime del suo viso, con gesti
delicati.
«Ascoltami,
tu sai cos’è successo, giusto? E sai anche che a rigor di logica a
quest’ora
dovresti essere morto, ci sono cacciatori come Kurt che non provano
pietà per
nessuno, a cui non piace che si sappia in giro né che vi sono dei
vampiri, né
che qualcuno possa sapere della nostra o della loro esistenza, è bene
che
rimangano un segreto, che restino seppelliti nelle leggende. E l’unico»
si
interrompe per un attimo, tornando a passare il pollice sotto l’occhio
destro
di Sam «Smettila di piangere, non si addice ad un cacciatore grande e
forte» lo
dice sorridendo per altro, mentre montala rabbia nella mente del
fanciullo nel
sentire quelle parole «E l’unico modo che hai per evitare di creare
problemi
alla tua stessa famiglia, mettendola in pericolo ed evitare di mettere
in
pericolo anche te stesso, è quello di divenire ciò che siamo anche noi.
Così
facendo nessuno dei presenti avrà l’obbligo ed il dovere di eliminare
quello
che sai e quello che sei, giusto?»
Un lungo
momento di silenzio nell’istante in cui gli occhi lucidi del ragazzino
non si
scollano dal volto di Vincent, implorandolo, probabilmente di cambiare
idea, di
trovare una soluzione o aiutare lui a farlo, per far sì che possa
tornare a
casa sua, nel suo di letto, con i suoi vestiti, che gli stanno meglio
di quelli
che ha qui, sotto le cure dei suoi genitori. Non sente il bisogno di
una nuova
casa, non la vuole, vuole quella sua vecchia, dove poter stare in pace
e
continuare a vivere nella tranquillità di quell’ambiente, come se nulla
fosse.
Sospira di nuovo l’Hunter, andando a sedersi sul materasso, il quale,
sotto il
suo peso, cigola un minimo.
«Ascoltami,
Sam, non c’è un’alternativa, ok? Questa è la migliore a disposizione,
tornare a
casa significherebbe preparare alcuni dei cacciatori a dare la caccia a
te ed i
tuoi genitori con l’accusa di essere delle falle, e non possiamo
permetterci di
avere anche la più piccola delle falle in mezzo ad una società come
questa. Il
rendersi conto dei paesani che le loro strade sono infestate da
creature quali
i vampiri non porterebbe niente di buono, se non un allarmismo generale
che li
farebbe uscire di casa con le torce accese ed i forconi in mano.
Noi..evitiamo
il caos, noi cerchiamo piuttosto di rendere questa caccia il più
discreta
possibile e, per poterlo fare, abbiamo bisogno dell’ignoranza della
gente,
capisci?» domanda, osservandolo, speranzoso che abbia colto il punto
della
situazione e quello che è la sua condizione, che non vi sono poi così
tante
altre possibilità da mettere in ballo, non soluzioni o alternative,
niente.
«Senti qua, prima che tu cerchi di rifiutare di nuovo la cosa.»
accenna,
lasciando trasparire, stavolta, un sorriso bonario dalle labbra «Qui si
addestrano dei ragazzi a divenire cacciatori, perché un giorno possano
proteggere le loro famiglie ed i loro paesi dai vampiri senza aver
bisogno
dell’aiuto di un Hunter più anziano. Come qui c’è il monastero a
vegliare sulla
sicurezza del paese, in un altro ve ne sarà uno differente e così via
discorrendo. Un giorno, alla fine di tutto questo, potrai tornare a
casa,
vegliare sui tuoi genitori, proteggerli ed amarli quanto più
preferisci.»
Tira su con
il naso Sam, rimuginando su quello che gli è appena stato detto, porta
il dorso
della destra al rispettivo occhio, stropicciando senza pietà quella
povera
palpebra. Si avvicina al letto, finendo con il salirci con un piccolo
saltello.
Solo adesso che quel nervosismo inizia a scemare, accontentato forse
dalla
possibilità di poter tornare a casa un giorno, la pelle prima accaldata
inizia
a sentire il freddo di quegli spifferi d’aria che passano dal vetro
della
finestra, accapponandosi. Fissa il pavimento, puntandosi su
quell’angolo che si
trova tra una mattonella e l’altra, non lasciandolo mai, segue il
percorso di
quella formica che fa avanti ed indietro, trovando la propria strada
sbarrata
dall’orlo rialzato di un tappeto che arriva sino allato del letto,
facendogli
da scendiletto, alla fine.
«E quanto
tempo ci vuole perché possa tornare a casa?» non v’è più nessuna
traccia di
rabbia, è piuttosto tornato a vigere da padrone quel sussurrare appena
accennato, che costringe Vince a rimare attento a quando le labbra
giovani del
ragazzino si muovono per poter proferir parola. Sorride il Primo
Cacciatore.
«In media
sei, sette anni massimo, sembrano molti adesso, ti sembrerà che non
passino
mai, ma ti accorgerai solo alla fine di quanto in realtà siano stati
pochi.»
accenna, rialzandosi da quel materasso, si porta di fronte a Sam,
serrando le
mani attorno ai fianchi del ragazzino «Ora vestiti, o finirai con
l’ammalarti»
afferma, tirandolo in piedi sopra a quel pezzo di mobilia morbido e
confortevole. Non dice nulla Sam, allunga solo le mani perché l’altro
possa
aiutarlo ad infilarsi la camicia e di seguito le braghe, sebbene la
cinta la
stringa da sé. Solo al termine torna ad aprire bocca e parlare.
«Non sono
bravo a combattere, i vampiri poi sono forti…» come a domandare come
avrebbe
mai potuto, uno come lui, sconfiggere o addirittura uccidere uno di
quegli
esseri, non si tratta, dopotutto, di bruscolini, ma vampiri, reali,
quegli
esseri dall’umana forma, posseduta unicamente per ingannare, il loro
vero
aspetto rasenta l’orrendo, rispecchiando in tutto e per tutto la loro
anima
lercia, sudicia, macchiata da quei crimini dei quali ridono quando si
soffermano a fare salottino tra di loro. Quell’anima logorata dal
tempo,
quell’anima che non posseggono nemmeno più, votata non al Demonio ma al
piacere, il loro demone è il piacere in ogni sua forma. Ogni singolo
peccato
capitale trova in loro il giusto mezzo per potersi diffondere a macchia
d’olio,
avvelenare gli animi, renderli impuri, votarli all’eterno oziare ed
ammazzare
la noia con quel meschino servirsi di chi hanno intorno. La gola,
quando le
loro labbra purpuree si sporcano di quel rosso vermiglio, macchiando
quella
perfezione di un peccato anche troppo grande, ma che trova il giusto
appoggio
quando scivola lento e lascivo nelle loro bocche, saziando quelle gole
lussuriose. Quelle lingue di esseri immortali, che passano a
raccogliere lo
stesso sangue sulla pelle del compagno, passando leggere ed impudiche,
oscene
sulle linee, sulle forme dei seni delle donne, sui ventri degli uomini,
con il
sorriso mellifluo figlio della falsità.
Hanno delle
maschere, sono pallide all’inizio, loro si preoccupano di lucidarle con
delle
buone azioni, le dipingono con le parole che le persone che hanno
intorno
vorrebbero sentirsi dire e le indossano, infine, con le gesta che le
persone
medesime accosterebbero al più magnanimo dei reali, così che un giorno
loro
abbiano crediti da poter riscuotere nelle case degli animi ingenui dei
mortali,
i quali non conoscono nemmeno un decimo di quel loro essere meschini e
sfruttatori. Insidiano gli animi con la lentezza di una serpe, li
avvelenano
con i loro aspetti angelici, li abbindolano con le voci soffici, che
sfiorano
l’aria, lasciando che ognuna di quelle parole venga cullata dal vento.
La loro
pelle bianca somiglia a quella delle bambole e come bambole di
porcellana
sorridono impostati, demolendoti l’anima, perché possa servire ai loro
piedi e
lucidare le loro scarpe quando esse si sporcheranno, perché possano
stendere
petali sui quali quegli Dei blasfemi potranno avere la possibilità di
camminare.
Passano dei
minuti prima che Sam sia proto a scendere, segue anche in qualche passo
Vincent, che non si è curato di rispondere nell’immediato alla sua
domanda, no,
lo fa unicamente quando apre la porta.
«Non
preoccuparti di ciò, non è la forza fisica che conta in primo luogo,
loro per
primi difficilmente la utilizzano, di solito non ne hanno bisogno, devi
però
avere l’ingegno di poter arrivare tu alle loro gole prima che lo
facciano loro.
Per il resto..ti insegnerà Kurt a combattere, lui è il migliore, io
oramai ho
un sacco di anni sulle spalle e non me lo posso più permettere come
prima. Se
la cosa può esserti in qualche modo d’aiuto, ora come ora i tuoi
compiti
rientreranno nelle faccende domestiche, apparecchiare, sparecchiare,
rifare i
letti..assieme a Bryan, vedrai, andrete sicuramente d’accordo.»
Spiega in
breve, mentre Sam tentenna a seguirlo, non gli piace poi troppo l’idea
di dover
fare da domestica in quella casa, avrebbe forse preferito iniziare
subito a
provare quel che gli è stato descritto a grandi linee, quel combattere,
quell’astuzia di cui si necessita, tutto quell’impegno..capire dove
andarlo a
prendere e come sfruttarlo, dove trovare la determinazione necessaria a
non
perire nell’immediato. Socchiude gli occhi e sospira per la prima
volta,
accettando quella cosa, e seguendo il Cacciatore, per scendere per la
colazione, aiutare ad apparecchiare e quindi sparecchiare.
«Per quanto
riguarda le stalle, quello non è compito vostro, vi è proibito
uscire di
qui, non è sicuro, non di recente. La morte di un purosangue porta
sempre
scalpore ed alcuni vampiri della loro Corte potrebbero tranquillamente
trovarsi
appostati qui fuori.» l’ultima frase di Vincent, prima di lasciare la
stanza in
compagnia di Sam e scendere con lui al pian terreno, per mettere anche
qualcosa
sotto i denti.
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Capitolo 5 *** Il Giglio ***
Capitolo 4
– Il Giglio
[Data: 21th
November 1042 – 22.27
Luogo:
Monastero Hemsworth
Temperatura
Esterna: 6°C
Temperatura
Interna: 15 °C]
Le candele
dei lampadari della magione ardono ancora, per i corridoi passa il
ragazzino
dei pochi presenti che si occupa di spegnerle, incappandone la fiamma
con una
piccola cupoletta in ferro posta in cima ad un lungo bastone, del
medesimo materiale.
Quelle fiamme mobili, che traballano pericolose, bruciando uno stoppino
annerito e dolorante, esso si piega sconfitto al lieto scorrere degli
eventi
quando non trova aria per poter respirare, soffocata al termine della
serata. I
sospiri degli amanti pregano perché s’estingua da sé, i sussurri del
compagno
la uccidono per errore. Ne rimane solo una triste e sottile scia
biancastra,
che sale inesorabilmente verso l’alto, segnando il termine di quella
momentanea
vita. È come guardare un campo di battaglia, come osservare il tetto di
una
casa ormai arsa, come prendere consapevolezza di una fine non voluta.
Sventola
bandiera bianca al fine e prega per un domani migliore. Si riflette
sulle iridi
corvine di Sam quella scia pallida, traslucida, che canta dei fantasmi
di un
passato anche troppo breve. Si percepiscono unicamente i profili delle
persone
che giacciono in quella stanza, in comune, ci sono circa sette letti,
uno è
vuoto, quattro sono occupati da anime dormienti e due, uno vicino
all’altro, da
due ragazzetti seduti sul bordo, uno di fronte all’altro, il cui
bisbigliare è
stato momentaneamente interrotto da quel soffio di troppo, forse una
bassa
risata, forse stupore. Bryan, il ragazzetto biondo e ben poco piazzato,
ha un
sorriso dipinto sulle labbra, il sorriso furbo di qualcuno che ha
intenzione di
combinarne una delle sue, come al solito. Sam, seduto lì di fronte, lo
osserva
con aria seria, quasi corrucciata, un cipiglio naturale il suo, mentre
par
attendere il resto. Un “resto” che non tarda troppo ad arrivare, la
voce di
Bryan, in quel suo sussurrare, torna a riempire l’aere dei suoi
pensieri.
«Allora? Ci
stai?» chiede, entusiasta, quella voce maschile, seppur non lo si possa
identificare con nulla più di un ragazzo. Stringe le labbra tra di loro
Sam, il
busto coperto unicamente dalla fasciatura di sempre, un paio di
pantaloni
chiari e dalla stoffa morbida ne fasciano le gambe, i capelli scuri
sono scompigliati
e gli occhi fissano quelle poche ombre sul volto dell’altro, disegnate
dal
pallore della luce lunare, che penetra dalle finestre. Solo dopo un po’
i
sussurri di Sam si mescolano all’entusiasmo dell’altro.
«Vincent ha
detto che non possiamo uscire, dice che dopo la morte della figlia di
una
vampira ci cercano e potrebbero attaccare da un momento all’altro.» mai
un filo
di voce macchia e sporca quei bassi sussurri, quasi perfetti nel loro
essere
appena udibili ad un umano orecchio. Non così basso lo sbuffare dal
sapore
spazientito di Bryan, che finisce con l’alzarsi da quel letto,
scivolando a
terra, i piedi che posano sulla pietra fredda e levigata che fa da
pavimento a
quel luogo. La voce dell’altro che non si limita più a sussurrare,
anzi,
qualcuno dei ragazzini dormienti si gira anche.
«Mai visto
nessuno tanto noioso in vita mia, giuro.» volta le spalle a Sam,
alzando il
cuscino posto sul proprio letto, affonda là sotto la mano e ne tira
fuori una
maglia pesante, possibile che fosse per la notte. Un paio di pantaloni
scuri
coprono le gambe esili del ragazzo e ben presto infila i piedi nudi in
un paio
di scarpe pesanti. «Se tu non vieni, vado da me, non mi va di certo di
stare
qui dentro in eterno e poi non possono dirci che fare e quando farlo, è
già
tanto se sto qui a fare i loro comodi» le ultime parole sono dette a
tono
basso, titubante, un po’ come se temesse che qualcuno potesse davvero
udirlo e
lui, nonostante possa apparire momentaneamente fermo nelle sue idee,
non è poi
così coraggioso come lascia ad intendere e porta sin troppo rispetto a
Vincent
e Kurt per pronunciare le medesime parole di fronte a loro.
Sam non si
muove inizialmente, Bryan finisce con l’avanzare sino alla porta in
legno, un
pelo rigonfio e storto dall’umidità, sebbene la cosa non sia eccessiva,
dato
che la porta di per sé ancora si chiude senza incepparsi da nessuna
parte. I passi
ovattati delle scarpe del ragazzo dai capelli biondi si odono
facilmente,
mescolandosi solo di tanto in tanto ai respiri pesanti degli altri
presenti,
che oramai hanno chiuso le palpebre, cedendo al dolce invito di Morfeo
e della
sua mano dolce, che piano ha scivolato sui loro occhi e sulle loro
coscienze. Si
ferma sull’uscio, si volta per un momento in direzione di Sam e
l’osserva, ma
le labbra rimangono mute, non c’è invito in lui, se non nello sguardo,
forse
più una speranza che il ragazzo cambi in qualche modo idea e lo segua,
non
saprebbe dirlo con precisione nemmeno lui. Qualche attimo ed alla fine,
forse
rassegnato, socchiude di poco le palpebre, compiendo quei pochi passi
che lo
portano fuori dalla stanza, chiudendo definitivamente quella porta e
dividendolo dalla presenza degli altri.
L’altro non
si è mosso, le dita sottili e pallide hanno stretto per un momento le
lenzuola
sopra le quali giace, seduto, con le gambe che penzolano in avanti. Gli
occhi
neri si fissano per un attimo sullo stoppino scuro della candela, non
c’è più
quella sottile scia di fumo, non c’è più niente. Immobile nella sua
indecisione, scivola verso il basso, toccando terra con i piedi solo
dopo,
fredda la pietra, come sempre, ma non se ne preoccupa più oramai, pare
averci
fatto l’abitudine in non troppo tempo. Si piega sulle ginocchia,
alzando il
lenzuolo che sfiora il pavimento e lasciandolo piegato su se stesso,
appeso al
bordo del letto. Le mani si spingono sotto il letto medesimo, sino ad
agganciare le maniglie di quella che sembra essere una cosa molto
simile ad una
valigia. Il legno di quel piccolo baule oblungo striscia contro la
pietra,
producendo un rumore ben poco piacevole, vi sono vestiti ripiegati,
biancheria
pulita, giacche e tutto quello che può servire per non andare in giro
nudi ed
infreddoliti per il monastero, deve avergli procurato tutto Vincent.
Mira alle
giacche, prendendo quella più pesante che riesce a scorgere. Ribalta
qualche
altro capo piegato con cura, rovinando quell’incastro altrimenti
perfetto. Posa
la giacca sul letto e torna a spingere all’indietro la cassa, questo
era,
tornando a farla scomparire al di sotto del letto. Si drizza di
seguito,
afferrando il lembo del lenzuolo e lasciando ricadere anche quello
verso il
basso. Tira su anche la giacca, infilandola e chiudendone i bottoni sul
davanti; è di un blu scuro, con dei bottoni in legno tenuti fermi da
delle asole
esterne. Un po’ grande per lui, gli arriva sin sotto il sedere e le
maniche
eccedono in lunghezza di cinque centimetri, più o meno, coprendo gran
parte
delle mani e delle dita.
Si avvicina
al muro, infilando a sua volta i piedi nudi in un paio di scarpe e
terminando
con l’avviarsi, seppur non troppo convinto, verso la porta di quella
stanza,
che tanto sembra una sorta di dormitorio per giovani cacciatori, o
simil cosa.
Con la medesima poca convinzione posa la mano sulla maniglia della
porta
invecchiata, portandola indietro ed uscendo di lì: si cura di
richiudere il
tutto con una cura quasi maniacale, cercando di evitare di lasciare
traccia
alcuna di quella piccola effrazione alle regole, ben sicuro che Vincent
non l’avrebbe
di certo presa bene.
Il
corridoio vuoto, al termine del quale scendono verso il basso le scale
che
portano all’uscita sul lato est della magione, quella più discreta. Sam
di per
sé è abbastanza sicuro che Bryan sia sceso da quella parte, voleva
uscire per
andare a vedere cosa succede poco lontano di lì, dicono che sono stati
avvistati degli animali particolari, fondamentalmente bonari, ma anche
molto
schivi. E si sa, dopotutto, che la curiosità dei bambini è la loro più
grande
peculiarità, sebbene vi sia chi riesce a resistervi e chi, come Bryan,
non può
fare a meno di cedere a quell’invitante desiderio d’avventura e
scoperta, tutto
è nuovo, tutto è messo lì apposta per essere riscoperto, non riesce a
sopportare l’idea di lasciarlo morire a se stesso, deve esserci
qualcuno audace
abbastanza da scrutarlo come non farebbe nessun altro. I passi del
giovane
risuonano a malapena, si muove quanto più silenziosamente possibile,
nel
tentativo di sbrigarsi abbastanza per non rimanere troppo indietro e
perdersi
definitivamente Bryan, non va molto lontano senza il senso
dell’orientamento
dell’altro e la possibilità che ci rimanga bloccato, per il pendio, è
elevata.
Scende le
scale di fretta, lasciando scivolare la mano sulla pietra che costeggia
quella
scala a chiocciola, arrotolata su se stessa sino ad arrivare alla fine,
in un
piccolo atrio, un corridoio lungo che dà da una parte sulla sala da
pranzo, le
cucine e dei piccoli salottini di ritrovo e ristoro; dalla parte
opposta vi è
ovviamente la porta che dà sull’esterno. E’ ancora socchiusa, la cosa
lo fa
sorridere, significa che non è troppo in ritardo e che Bryan non ha
avuto l’accortezza
di lasciare tutto come stava. Deve almeno tenerlo d’occhio, non si
perdonerebbe
più di tanto se dovesse succedergli qualcosa durante la sua assenza, è
più piccolo,
ma ha comunque quella coscienza che premerebbe sulla sua umanità con un
pressante “non ero lì con lui” se solo qualcosa colpisse in qualche
modo Bryan.
Si volta,
richiude la porta piano, lasciandola aperta per uno spiraglio tanto
piccolo e
sottile da poter risultare perfettamente invisibile. È fuori adesso,
possono
colpirlo ora, possono trovarlo, ucciderlo e molto altro ancora. Prende
un
respiro profondo all’idea e finisce con l’avanzare, piano, nel
tentativo di
drizzare le orecchie e cogliere un qualsivoglia rumore che possa dargli
degli
indizi sulla posizione corrente del compagno. L’aria è umida, sembra
voglia
piovere da un momento all’altro e non è detto che inizi, il tempo,
lassù, non è
mai niente di che, sempre troppo scuro e pesante, sempre carico d’acqua
in
qualche modo. Le foglie degli alberi ed i filamenti d’erba quasi
riflettono
quella stessa umidità, dimostrando definitivamente quando possa esser
elevata
la presenza d’acqua.
Un fruscio
poco avanti a lui, il lieve spostamento di alcune foglie, che gli
lasciano
intendere che, probabilmente, Bryan non è molto lontano o che, male che
vada,
avrà occasione di scrutare uno di quegli animali di cui tanto si parla.
Il
terreno, proseguendo, diviene a mano a mano più scosceso, una piccola
discesa inizialmente,
che acquista sempre più pendenza, costringendo Sam ad aggrapparsi agli
alberi
per non pestare qualche sasso e finire a ruzzolare per tutto il fianco
della
montagna. Il respiro solo poco irregolare, non è affatto abituato a
sforzare i
muscoli, in nessun caso, e quel tipo di terreno lo mette non poco in
difficoltà. Un piede dopo l’altro, una sottile risata, la riconosce, è
sicuramente di Bryan, pare rasserenato dalla cosa, dischiude le labbra,
un
alito un pelo più forte, mai macchiato di quella voce che quasi pare
mancargli
o che comunque non sembra amare far sentire agli altri, come fosse una
cosa
strettamente personale, sua e di nessun altro, ed in quanto tale sua
deve
rimanere.
«Bryan.» lo
richiama, quella sottile risata s’interrompe. Sam si ferma, rimanendo
con una
mano poggiata contro la corteggia arzigogolata dell’albero che ora come
ora gli
funge da appoggio ed appiglio, quella cosa che lo salva e che gli fa
abbassare
la guardia dal punto di vista dell’equilibrio, donando lui anche la
possibilità
di potersi guardare meglio intorno, nel distinguere le varie ombre che
la luce
della pallida luna va formando, disegnando così i profili degli oggetti
e di
quel paesaggio fermo. Per lunghi istanti non arriva nessuna risposta
dall’altro,
minuti che passano e che lasciano crescere inevitabile l’ansia nel
giovane ed
inesperto animo del bambino dai capelli scuri. Il battito cardiaco
aumenta
inesorabilmente, ma è quando sente arrivare un mugolio ben poco
rassicurante
che quel cuore perde uno, forse due battiti. Le palpebre che nascondono
le
iridi nere di Sam si spalancano, la sinistra, che non poggia contro
l’albero,
viene repentinamente portata allo stomaco, come in un forte moto di
nausea, si
piega di poco in avanti. L’espressione del volto è contratta in
qualcosa di ben
poco piacevole, ha lo stomaco che si stringe in spasmi continui, uno
dietro l’altro.
Un gemito di dolore viene sputato fuori da quelle labbra tirate sino
all’inverosimile.
Piega le ginocchia, incontrando il terreno in breve tempo. Le dita
premono con
ben poca forza contro addome e corteccia. C’è qualcosa che non va, c’è
qualcosa
che gli impedisce di muoversi, qualcosa che gli da fastidio sin nel
profondo.
Non passano
molti istanti prima che lo colga alla sprovvista l’urlo lanciato da
Bryan,
squarcia il silenzio di quel posto, la sua staticità, crolla tutto in
poco
tempo ed oltre a quel malessere fisico, Sam, riesce a percepire
tangibile
dentro di sé, salire inesorabilmente un malessere ben diverso, quello
che ti fa
tendere i muscoli, che ti spinge ad attaccare quando sei spalle al muro
e
scappare quando hai anche solo una vaga via di fuga: la paura. La paura
che
Bryan possa aver incontrato un vampiro, la paura che possa averci
lasciato le
penne, la paura che possa arrivare anche da lui, ucciderlo, la paura di
quello
che succederà con Vince dopo, ogni singola paura emerge, sovrastando
quella più
piccola, in un effetto domino considerevole. La stessa paura che,
tuttavia, gli
permette ora come ora di fare forza sulle gambe e ritirarsi in piedi,
di
ignorare, con quella forte scarica adrenalinica, di poter ignorare il
dolore ed
il fastidio allo stomaco, con tutta l’intenzione di raggiungere Bryan,
di
cercare di fare qualcosa, fosse anche solo distrarre qualunque cosa gli
stia
facendo male.
I passi
vengono messi uno avanti all’altro con quanta più velocità possibile,
si
intrecciano di tanto in tanto, rischiando di farlo finire a terra, il
pendio
rende difficile lo spostamento, ma sente quel mugolare sempre più
vicino e non
sembra avere particolare cura di quel dolore addominale, che aumenta
per un
attimo, che diviene più acuto, un segnale dall’arme, forse, non
saprebbe dirlo,
un malessere che non aveva notato prima, non saprebbe dirlo. Aumenta,
acuendosi, sin quando qualcosa non lo rimpiazza di colpo; sin quando
qualcosa
non gli fa strabuzzare gli occhi e dischiudere le labbra. Un gemito
strozzato
gli muore in gola, laddove è nato. Il petto si inarca in avanti,
inesorabilmente, per il forte colpo ricevuto in mezzo alle spalle,
all’altezza
della bocca dello stomaco. Annaspa per più di un solo momento. Le
ginocchia
tornano a piegarsi, ma non impatta su di loro stavolta. La pendenza del
fianco
della montagna ha la meglio e Sam finisce con il cadere di lato,
atterrando su
un fianco, in un tonfo per niente rassicurante e relativo scivolare. La
terra
rovina la stoffa della giacca che ha indossato, lacera i pantaloni
bianchi,
graffia e lacera la pelle del volo, qualche sasso finisce con il lenire
la
pelle strappandola.
Senza
respiro non ha nemmeno tempo e forze per urlare, quel forte istinto di
sopravvivenza pare piuttosto accendere, negli occhi neri del ragazzino,
una
luce insolita, pare dar vita ad una sfumatura prima d’ora sopita, uno
scalpitare di una natura auto conservatrice, sino all’ossessione, la
prima cosa
da fare quando si è in pericolo di vita è salvare la propria, non
quella degli
altri. Secondo quell’istintivo criterio dalla mente di Sam scompare
definitivamente la figura di Bryan, il cuore pompa sangue più
velocemente, la
mascella si serra e le dita cercano di afferrare qualsiasi cosa trovino
durante
quella discesa pericolosa. Per qualche metro l’unica cosa che riescono
ad
acciuffare è terra, ma non salda, anzi, friabile, che viene via e non
fornisce
un valido appiglio al corpo del ragazzino. Solo quando incontra un
albero
riesce ad appuntarsi ad una delle radici, terminando solo a quel punto
la sua
discesa.
La pelle è
rovinata, ferita, sia sulle mani che sulla parte destra del volto, meno
sulle
gambe e le ginocchia, ma i pantaloni sono lordi, stracciati, in special
modo
all’altezza delle ginocchia e sul lato destro. Il sangue cola sul viso
disegnando improbabili rivoli, che scendono solcando la muta pelle con
crudeltà,
la macchiano di un colore peccatore, togliendo da quel viso, per una
volta, il
carattere innocente che ha sempre avuto prima di quel giorno. Tutto
tace
adesso, non vi sono più spostamenti, non un solo fruscio, non un verso
od un
mugolio da parte di Bryan, dando solo due possibilità alla cosa: si è
allontanato troppo, lo hanno ucciso. Serra le labbra, dando
inconsapevolmente
per buona la seconda risposta.
Fa forza
sulle braccia, tirando verso l’alto ed issandosi, sino a puntare i
piedi
dapprima contro la corteccia dell’albero, poco dopo sulla radice alla
quale s’era
aggrappato con la mano. Si issa, sino a potersi tenere puntato con i
piedi e
starsene sdraiato a terra, per poter evitare di sforzare ulteriormente
un corpo
già tremendamente indolenzito di suo. Si issa, sino a porsi supino, le
gambe
che circondano il tronco di quell’albero tutto sommato piccolo,
abbastanza da
non risultare scomodo. Contrae l’espressione per un momento. Il dolore
lo
pervade. Non ha un fisico robusto, piuttosto è l’esatto contrario, per
questo
sente i muscoli delle braccia tirare e la pelle bruciare, laddove è
stata
ferita.
Piega il
capo di lato, non sente più nessun rumore. L’unica cosa positiva di
quanto
successo è che il dolore allo stomaco è sparito, piacevolmente sparito,
per la
precisione. Socchiude le palpebre, Sam, più preoccupato, adesso, per
quello che
avrebbe detto Vincent e, soprattutto, intenzionato a tornare alla
magione
unicamente nel giorno successivo, nella speranza di poter recuperare,
durante
la notte, quel briciolo di forze in più che gli avrebbero permesso di
tornare
sino in cima. Socchiude le palpebre. Allunga la destra lungo la terra,
sino a
lambire lo stelo di un piccolo fiore, un semplice giglio, eppure quella
cosa lo
attira in qualche modo, ne cattura la totale attenzione. Esso gli
ricorda di
uno identico, era uscito addirittura da casa per poterlo andare a
cercare e
quello che ne aveva ricavato era solo una prigione che si spacciava per
casa. Nient’altro.
Le palpebre
cadono definitivamente, mentre il vento freddo impatta contro la pelle
ferita,
sente male, sì, ma non osa nemmeno per un momento aprir bocca per
lamentarsi,
no, pare piuttosto imporsi di starsene in silenzio e rannicchiato, in
attesa di
prender sonno, cosa che sarebbe avvenuta solo pochi minuti dopo,
sovrastato, il
fisico, anche dal bisogno di annullare per qualche istante almeno tutto
il
dolore accumulato ed il freddo che ora e solo ora si riversa sulla sua
carne,
messa a nudo dalla discesa poco piacevole, affrontata solo poco prima.
Una lacrima
degna d’un bambino e non d’un uomo corre lungo la guancia a far
bruciare ancor
di più quelle ferite riportate. La paura che a poco a poco torna ad
assalirlo,
scomparsa solo in un momento e tornata ora a tormentarne i sonni.
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