Dànse Macàbre

di EvilGrin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Pro Filiis De Sanguine ***
Capitolo 2: *** L'ospite ***
Capitolo 3: *** Il Risveglio dell'Hunter ***
Capitolo 4: *** Una Nuova Casa ***
Capitolo 5: *** Il Giglio ***



Capitolo 1
*** Prologo - Pro Filiis De Sanguine ***


Premettendo che, se si mette la canzone citata nel brano e la si ascolta nel mentre, la scena rende molto meglio (http://www.youtube.com/watch?v=tOc1O1OYO0U) , l’intera storia, a partire dal prologo, prende ispirazione al famoso manga/anime unicamente per alcuni dati tecnici, non vi sono quindi personaggi della trama medesima et similari, è perfettamente a sé stante.

Grazie per l’attenzione, vi auguro buona lettura.

 

*§*EvilGrin*§*

 

Pro Filiis De Sanguine - Prologo

 

Una coltre di nebbia ricopre con il suo candore statico, putrescente il suolo di quella terra bagnata, violata dai corpi morti di chi vi giace in pace. Le palpebre calate, le labbra piegate in un’espressione serena, la pelle tesa, a tratti rigonfia, le dita intrecciate in una posa eterna, impossibile da sciogliere, come se quell’animo avesse trovato la propria fine in se stesso. Nato tra le lacrime e morto con un sorriso dipinto sulle labbra, dipinto come fosse stato tracciato dal tratto morbido ed accompagnato di un autentico pittore, scolpito per i secoli a venire, perché non possa mai abbandonare quel volto figlio del marmo. Un involucro vuoto, vestito come il principe di una festa, della sua festa, una festa volta a farlo apparire come il migliore degli angeli anche se il suo passato si fosse macchiato più e più volte di acceso vermiglio. La fine, quando arriva la fine non c’è nessuno che, a modo suo, non abbia avuto modo di essere stato un santo in vita, se ne raccontano le vicende, gli atti, le azioni, ritti su un piccolo banchetto in legno, con gli occhi celati da una patina lucida che ne offusca la vista, non solo quella che osserva i presenti, ma anche quella che ha guardato quello stesso corpo camminare e compiere atti meschini; quella patina lucida li cancella, li nasconde per un giorno, donando anche a chi non ne è degno, il suo giorno di gloria. Quel foglio poggiato su un banchetto, spiegazzato, bagnato da quelle sottili gocce di pioggia che cadono verso il basso, macchiando di piccoli aloni gli abiti lunghi e sfarzosi delle dame, rigando la chiara pelle dei volti dei loro mariti e figli. Gli occhi cerchiati da occhiaie di un rosso opaco, le labbra che tremano nel pronunciare quelle parole. Mentre Lui, Lui, sdraiato in quel letto di legno, il capo ed il corpo che affonda nella seta più morbida, i petali bianchi delle rose che denunciano un candore mai posseduto; Lui sembra sbeffeggiare tutte quelle anime perse, incupite dai loro abiti neri, sembra prenderli in giro con quel suo sorriso pacifico in volto, lui che deve star meglio lì dentro, che in loro compagnia.

 

Quella coltre di nebbia pallida che ristagna ai piedi di quei figuri slanciati, fasciati di nero, con veli che scendono di fronte al viso, oscurandolo e coprendo i volti avviliti e quelli soddisfatti. Tra di loro vi è forse anche il suo assassino, la sua pelle chiara saluta i pochi raggi di Luna che penetrano tra le nubi più dense. La sua pelle li attira, li cattura, li trattiene a sé, mostrandosi, figlio di Giuda, nel più sfarzoso suo aspetto. Il suo sorriso è pacifico e candido al pari di quello di chi giace inerte nella più ricca delle bare. Le lacrime di pioggia cadono sul suo velo, rimanendo intrappolate in una malinconica ragnatela, quegli occhi scuri riflettono la posa statica di colui che è stato amante e vittima di quel predatore. Le sue mani, congiunte e poggiate con la più aggraziata dell’eleganza sulla stoffa nera e soffice della seta che ne fascia il corpo morbido e stretto in un corsetto che delinea una vita sottile, perfetta. Le labbra rosee sembrano quasi biasimare quel figlio disperato che sibila parole al vento su quel suo padre morto, ucciso dal peggiore dei veleni: la triste vecchiaia. Dietro di lui, in piedi come piccole statue di un presepe, si ergono giovani voci bianche, che attendono solo il loro momento. Quel momento in cui quel figlio devoto pronuncia le sue ultime parole, quel momento in cui china il capo in avanti, quel momento in cui le dita mascoline si stringono nella più pura ed innocente delle disperazioni attorno a quel foglio, piegandolo, accartocciandolo. Quel momento in cui le lacrime non sono dettate solo dalle gocce di pioggia che scivolano lungo il viso, solcando profondamente guance che non avevano mai saggiato il loro sapore salato. Quel momento in cui le gambe tremano e non reggono più l’effimero peso di un corpo quindicenne. Quel momento in cui una delle ginocchia si piega ed incontra in un attimo il legno umido di quello stesso banchetto su cui prima stava ritto. Quel momento in cui il suo respiro viene rotto da un pianto non più discreto, non più sommesso, che si sente, che viene portato via dal vento, portato alle orecchie di chi partecipa a quella cerimonia con il corpo e chi con la consistenza eterea di quel che rimane della propria anima. Gli ospiti di quel luogo non possono non accogliere quel nuovo uomo, quella nuova ombra, quella storia che avrà da raccontare quando qualcuno la cercherà.

 

La nebbia soffice avvolge ed attutisce ogni cosa. Ella chiude la festa in una bolla dove non v’è limite di spazio, dove il tempo rimane fermo in un lungo attimo. Un attimo speciale, vacuo, con le labbra di quelle stesse anime, bianche pari ad angeli, che iniziano a sussurrare poche parole, sibili taglienti che sferzano l’aria fredda di fine autunno, lasciando scivolare quei versi nel vento, cullati, accompagnati, nel loro essere penetranti, risultano come lievi e soffici sussurri, che si accavallano l’un l’altro. La pioggia che sembra le stia quasi udendo, fiato dopo fiato, a mano a mano che quelle gocce si fanno sempre più corpose, sempre più presenti e sempre di più appesantiscono i veli, bagnano le carni, costringono ad aprire pesanti e grandi ombrelli del medesimo colore dei loro abiti. È come vivere un sogno, è come guardare dall’alto una docile danza, è come sentire sulla pelle i loro lamenti inespressi, i pianti sommessi e strozzati delle donne, gli occhi rossi degli uomini, che non osano versar lacrime, in onore del loro ruolo. È come osservare dall’alto, come Dio, quei corpi ammantati di nero rabbrividire, la loro pelle accapponarsi, non per il freddo, non per il dolore, ma per quei sospiri cullati dal vento che divengono voci, quel canto sottile che prende forma e spinge ad ascoltare quella pioggia che cade, la quale invita a godere del suono dei tuoni e della luce dei lampi, come fossero sacri.

 

« Listen to each Drop of Rain, whispering Secrets in Rain…»

 

Ogni goccia, ogni pianto di angeli invisibili al cieco occhio umano, ogni pensiero, ogni segreto cade, impregnando quella terra sacra di un misticismo mai avuto prima. Solcando quelle terre si saggiano le urla, i lamenti, le risa, la gioia, la rabbia, la frustrazione e l’insofferenza di quegli stessi sospiri, caduti a terra, che rimarranno sigillati sin quando qualcuno non sarà in grado di poterli udire, di poterli ascoltare con l’attenzione di un bambino, che dischiude le labbra nel sentire la più magica delle storie. Sgrana gli occhi, si siede sotto l’ombra di un ciliegio in fiore, raccoglie le gambe al petto, ed ammutolito, annichilito ed estasiato allo stesso tempo, ascolterà con pura gioia di fanciullo nel cuore le storie di vita passata di quell’anima che mostra la propria essenza ai chiari raggi di luna, che ne disegnano il volto afflitto, costretto a camminare su quelle tristi terre ancora per molto.

 

« Frantically searching for Someone to hear that Story be more than it Hides. Please, don’t let go. Can’t we stay for a while? It’s just too hard to say Goodbye. Listen to the Rain»

 

Ogni anima peccatrice che giace in quel luogo ha bisogno di un animo puro che sappia ascoltare quello che ha da narrare senza che scappi, traviato dalle leggende, dalle storie che macchiano la reputazione di quegli esseri traslucidi, veri solo a metà, solo nella voce, poiché privi di quel corpo che giace nella terra, violato e dilaniato dai vermi e dal tempo che passa, dall’acqua che penetra il terreno  e gonfia il legno, sino a passarvi attraverso, rovinando quello che di sacro c’è lì dentro. Sottraggono prima la vista, portandone via gli occhi, si impossessano del gusto e di ogni loro sensazione, perché non possano più percepire nulla di ciò che hanno intorno, perché non possano udire, saggiare, vedere, toccare o essere toccati. Sono esseri ciechi che cantano le loro disperazioni al vento, sperando che vi sia colui che non fuggirà, al quale non dovranno dire “addio” per l’ennesima volta, attraverso il quale potranno tornare a vedere, toccare e percepire, per un solo secondo, ma sarà la gioia di un momento a donar loro la salvezza eterna. La pioggia decanta i loro peccati, li elenca uno ad uno, ma non li biasima, ricorda ai passanti che ognuno di loro versa ancora lacrime dagli occhi bui, per quanto ha compiuto, esattamente come quella pioggia limpida attraversa con estenuante lentezza i volti dei vivi. Quella pioggia che vuol essere ascoltata e che, per farlo, si riversa su di loro con la violenza di un uragano. Ma loro la rifuggono, non comprendono ed aprono gli ombrelli, danzando come Demoni nella notte più scura.

 

«I stand Alone in the Storm, suddenly sweet Words take hold…»

 

Le parole dolci che corrono via dalle labbra di quella figura dalla pelle candida almeno quanto i raggi lunari che si riflettono in essa, invidiandola, alle volte. Parole che si perdono in quel canto, mentr’ella compie pochi e leggeri passi verso quel letto di mogano e seta, china il capo, mentre le mani coperte di nero pizzo afferrano i lembi più esterni di quell’abito sontuoso e scuro, tirandolo verso l’esterno, tendendo i merletti delle rifiniture sino a stenderli quasi completamente. Il busto che si piega di poco in avanti, il capo chino, le palpebre socchiuse, in quella lenta riverenza, attenta ad ogni singolo movimento. Ogni suo gesto, ogni suo movimento è scandito e disegnato da una leggerezza angelica, come se il suo camminare o spostarsi fosse paragonabile al gesto fluido del battito d’ali di una nera farfalla, che, lieve, si poggia sul terreno su cui cammina. Le labbra carnose che si muovono lente a proferir parole ai più incomprensibili, che vengono coperte dal canto e dal sibilo del vento, mentre quelle luci bianche continuano a dare una voce a quel luogo.

 

«Pater Noster qui es in cælis:

sanctificétur Nomen Tuum;

advéniat Regnum Tuum;

fiat volúntas Tua,

sicut in cælo, et in terra.»

 

 

Queste le parole, quei sussurri appena accennati che si accavallano a quei canti che, invece, regnano sovrani in quel luogo, pur non deturpandolo nella sua sacralità.

 

« Hurry They stay for you haven't much Time, open your Eyes to the Love around you…»

 

Quella stessa figura, avanti agli altri, tra tutti la più vicina a quella salma, alza ora il capo, apre le palpebre che, sino a poco prima, stavano celando quegli occhi grandi, quasi da bambina, con le loro scure sfumature amaranto, che osservano quell’uomo. Le mani rilasciano la stoffa della gonna ampia. Solleva la mano destra, avvicinandosi al cappello nero che copre i crini castani, opportunamente acconciati. La stoffa nera della manica del vestito scivola lungo il braccio, liberando il polso e lasciando intravedere quella pelle pallida pari al marmo. Le dita si muovono abili e veloci a sfilare una delle rose finte che sono infilate come spilli su quel copricapo. Si sposta di lato a quella stessa bara, con le dita sapienti che sfiorano il bordo della bara, con una leggerezza ed un’eleganza che avrebbero fatto invidia a chiunque.

 

«Pro Filiis De Sanguine.»

 

Lo sibila, un sibilo che si ode meglio di quel padre nostro pronunciato poco prima, ora che poggia quella rosa nera sul petto di colui che Morfeo ha portato via per sempre, lo ha portato in dono ad una dea che non conosce perdono, una dea che ha per nome quello della morte, ma se qualcuno conoscesse davvero quella parola, non vi sarebbe scampo per la sua salvezza. Lo sguardo rimane fisso su quell’uomo che giace sereno, giunto al termine della sua vita.

 

«You may feel you’re Alone, but I’m here still with You. You can do what you Dream, just remember to Listen to the Rain.»

 

Le ultime parole cantate da quegli angeli mortali, poco prima di un lieve coro, continuo, al quale le labbra rosee di quella figura si piegano in un sorriso sereno. Da le spalle agli altri, ma non impiega troppo tempo a voltarsi verso di loro. Le braccia che si allargano verso l’esterno, nemmeno invocasse un’eterna preghiera, ma l’unica cosa che viene fuori da quella serenità è una voce più melodiosa di quelle che sono alle sue spalle, adesso, è più armoniosa, ammaliatrice e demoniaca nel suo apparire tremendamente angelica.

 

« Listen to each Drop of Rain, whispering Secrets in Rain…»

 

Ripete, mentre alle sue spalle tornano a sovrapporsi uno con l’altro i sospiri di quelle che non hanno più niente delle voci che erano, sono solo aliti di vento che cercano uno spazio in quel silenzio angosciante. Ma qualcos’altro disturba quella quiete e trasforma la placida ombra in una rete, filamenti sottili almeno quanto quelli della tela di un ragno si diffondono per la zona, di loro altro non si vede che il chiaro riflesso del chiaro di luna riverso su loro medesimi, a mano a mano che inquinano quella zona con la loro blasfemia, a mano a mano che avvolgono le braccia ed i colli di ognuno dei presenti, strozzando quei sospiri, spegnendo quelle luci e quelle voci, che riempivano quella bolla di attutito silenzio di una gioia nuova. Per ogni cosa che muore, ve n’è una che nasce, nuova, più forte dell’altra. Le labbra della donna si chiudono per un momento, le palpebre cadono inesorabili e l’udito si nutre di quei dolci lamenti, le urla di chi non sa come cacciare quella sensazione opprimente, quel sangue che cola dalle loro gole, che vengono tagliate ogni secondo di più, dilaniate e lacerate da quelle fila scure, sino a diffondere nell’aria un forte e dolce odore di sangue. Lo sente, il suo cuore non batte nessun rintocco, scandisce il tempo infinito di quel momento, quello in cui ognuno dei presenti passa sotto la crudeltà di una donna sola, di un Demone con l’aspetto di un Angelo. Le grida vengono meno a mano a mano che quelle forze li abbandonano, uno dietro l’altro, i bambini per primi, poi le donne ed i loro rigogliosi petti macchiati del loro stesso sangue ed infine gli uomini, che con dolore osservano le donne ed i figli spirare quell’ultimo alito di vita. Il dolore, mai emerso così prepotentemente. I loro corpi che si agitano, in preda al più profondo istinto di sopravvivenza, le loro mani cercano salvezza, i loro polmoni cercano aria, che è lì…la possono sentire addosso, ma non arriverà mai a soddisfarli, a placare quella Bestia che stavolta si dibatte nei loro petti vivi.

 

«I stand Alone in the Storm…»

 

Quella voce tremendamente soave quanto acuta e tagliente spezza quel momento in cui è più il sangue versato che le parole spese per farlo. Quando tutto tace e la sete di sangue di quell’essere viene placato inesorabilmente da quel forte odore, allora la sua stessa figura sembra esser in pace con se stessa, come se avesse compiuto ciò che doveva e niente di più. Quei sottili filamenti che scivolano via dai corpi come se fossero serpi velenose, che hanno appena carpito l’ultimo alito vitale di tutte quelle persone, dame, messeri, i loro figli, senza provare pietà nemmeno per i volti disperati dei piccoli. Quella medesima figura che abbassa solo adesso le braccia, piano, nel pieno della sua soddisfazione, così come riapre gli occhi scuri, perché possano godere dello spettacolo che le sue stesse forze hanno messo in piedi ed hanno risolto. Nel silenzio si può sentire la pioggia cadere incessante, un tuono rimbombare nell’aria, la luce di un lampo illuminare in maniera quasi spettrale quel macabro spettacolo. Passi leggeri la conducono sino al fianco di una donna riversa a terra, la trachea recisa, dolci fiotti di sangue che sgorgano in maniera irregolare da quel collo; l’espressione orribilmente deturpata da quella di paura di lei: gli occhi spalancati, le labbra dischiuse e la pelle contratta nella più dolorosa delle smorfie. Sorride beffarda quella dea, mentre si china a chiuder le dita sottili ed immortali attorno al manico dell’ombrello che le giace accanto, ancora aperto. Lo solleva, lo sguardo scuro della donna torna sul volto del corpo defunto, le dita gelide che si avvicinano a quel volto sconvolto e passano sulle palpebre, chiudendole con la delicatezza con cui, poco prima, ha posato quella rosa nera sul petto di quell’uomo vestito a festa. Lui, che fissa con sorriso beffardo e presuntuoso i corpi dei suoi familiari. Lui, il più soddisfatto tra tutti, li guarda e non piange come avrebbero fatto loro per lui. Si rialza la donna, tornando a guardare quell’uomo, che adesso nessuno chiama più eroe, egli si mostra anzi per la sua natura meschina e traditrice, come doveva essere sin dall’inizio.

 

Nel silenzio di quel luogo, con quell’ombrello che ricopre un cappello ed un abito oramai zuppi, quella vedova cammina a passi lenti sulla ghiaia bianca per abbandonar quel luogo e lasciar finalmente riposare le sue anime, pronta ad ascoltare quelle lacrime malinconiche una volta ancora, in futuro, pianger per loro e lucidare le loro lapidi, se ve ne fosse bisogno...

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Capitolo 2
*** L'ospite ***


Capitolo 1 – L’ospite

 

[Data: 15th November 1042 – 22.34

Luogo: Monastero Hemsworth

Temperatura Esterna:  7 °C

Temperatura Interna:  15 °C]

 

Fuori paese, in cima ad una montagna, si erge, sul picco di un precipizio, una struttura in mattoni incassati tra di loro e tenuti fermi da uno spartano collante. Esso si mostra, sontuoso, là dove la boscaglia è più rada e non vi è traccia alcuna di quella bassa e costante nebbia che invade altrimenti il tortuoso sentiero per arrivare sin lassù. I monaci che lo abitavano un tempo, prima che fosse rilevato da una famiglia aristocratica, raccontavano come la nebbia servisse ad offuscare gli occhi dei peccatori, perché perdessero la strada per invadere quei luoghi sacri; raccontavano come i lupi ne fossero i guardiani e che, se solo uno di loro fosse riuscito ad arrivare sin lassù, non avrebbe trovato scampo o salvezza alcuna dalla furia dell’Altissimo, il quale non avrebbe atteso il giudizio universale per porre fine alle loro vite, il quale avrebbe protetto quella struttura. Nella realtà quasi nessuno, a parte qualche viaggiatore esperto, è riuscito ad arrivare sino in cima non tanto per la nebbia, che pure rappresentava un vero e proprio problema, ma soprattutto per la lunghezza di quella strada e l’inclinazione di essa, che quasi la fa apparire come uno strapiombo, quando la si intraprende per poter scendere. Essi dovevano servirsi dell’aiuto degli alberi, aggrappandosi e scivolando lungo la facciata di quella montagna, sebbene vi fosse il rischio perenne di scivolare, specie verso la cima, poiché il terreno diveniva più scosceso e composto di roccia friabile, più che di terra compatta, cosa che favoriva quel rischio, rendendolo pericoloso per chi non fosse un esperto. Questo impedì al monastero di essere attaccato nel corso della storia, esso venne scelto, per la sua posizione favorevole, come tomba e custodia delle più preziose tra le opere e gli scritti cristiani, di fatto vi sono più e più volumi riguardanti la nascita della chiesa, della religione ed accoglie anche l’insieme delle regole che sottolineano la cultura e la credenza cristiana. L’unico attacco che arrivò sino alla cima della montagna, ma non ottenne successo alcuno per motivi ai più sconosciuti, è celato in una bolla di mistero, nessuno ne ha mai saputo qualcosa, a parte la nozione più banale, la quale parla di antichi esseri dagli occhi intrisi di una luce insolita, sembianze antropomorfe, ma capacità che superavano la naturale concezione del potere umano. Si racconta che furono capaci di risalire quella montagna nel tempo di un sospiro ma che, attaccando, rimasero uccisi dalla maledizione che accompagna quel luogo. Vennero giustiziati dal Signore e trovarono la loro morte nelle fredde fiamme del purgatorio, che ardevano possenti per volere dell’Arcangelo Uriele, custode e protettore di quel luogo e di ciò che era riposto in esso. Dalla base della montagna c’è chi raccontava di averlo potuto vedere, dicono che avesse enormi ali, pallide, lunghi capelli corvini, una veste bianca ed una spada con la quale esprimeva il volere divino e dilaniava le carni di chi, colpito dalla sua stessa maledizione, osava mettere piede in quel posto. Altri raccontano solo di una luce, di nessun Arcangelo, solo una fortissima luce e delle fiamme.

 

Anni dopo, quell’antico monastero, abbandonato dai monaci in circostanze misteriose, fu acquistato dalla famiglia Fasslander, la quale pagò una fortuna per poter avere solo un sesto delle opere racchiuse in quel luogo. L’epoca di massimo splendore di quel posto morì con l’acquisto. I monaci abbandonarono in quella struttura più della metà delle opere contenute in essa, mentre si presume che si ritrovarono costretti a lasciare le altre nelle segrete di quel posto. Chi vendette il monastero si impossessò di quei beni in maniera del tutto meschina ed illegale, ma fu il volere del monarca e non si potette discutere. Si dice anche che chi è attualmente in possesso di quegli scritti sia un discendente della famiglia reale, si arrivò dunque a parlare di manovra politica, poiché quelle stesse arrivarono alla famiglia reale attraverso un matrimonio combinato. 

 

Craig Fasslander, il primo beneficiario nonché venditore autorizzato dal re, sposò la figlia dello stesso monarca, dalla quale ebbe due gemelli, Cedric e Nicholas Fasslander. Dopo la nascita dei figli Craig venne avvelenato, fu accusato del suo omicidio il figlio Cedric, mentre venne scagionato Nicholas perché la madre testimoniò a suo favore. Cedric venne giustiziato in pubblica piazza, sotto gli occhi di tutti, che urlavano al tradimento ed al disonore che aveva gettato sulla sua stessa famiglia. Fu tra le lacrime ed i disperati tentativi  di discolparsi di quell’accusa, dichiarandosi innocente, che il boia alzò le braccia al cielo e calò con inesorabile forza verso il basso; solo pochi secondi dopo la testa di Cedric Fasslander venne alzata dallo stesso fratello, Nicholas, annunciando che disonori come quello non si sarebbero mai più ripetuti nella sua famiglia, che ora che lui aveva ereditato il potere decisionale sulla propria famiglia avrebbe messo al sicuro quelle opere tra le mura del castello reale, là dove nessuno si sarebbe permesso, mai, di compiere atti del genere solo per poter avere potere e titolo. Le opere, come deciso da Nicholas, vennero riposte tra le mura del castello e la famiglia reale ne divenne la diretta posseditrice, mentre il popolo non dava loro dei ladri, bensì dei Giusti e dei Buoni, che bramavano solo la sicurezza del loro popolo e delle loro opere.

 

La famiglia Fasslander non mise mai piede in quel monastero e, una volta decaduta la stessa, esso venne occupato da Vincent Hemsworth, facente parte di un ceto medio, ricevette come eredità da un lontano parente i fondi necessari all’acquisto del monastero e ne fece la sua casa. Nel corso degli anni quello stesso monastero iniziò a brulicare di giovani vogliosi di poter imparare l’arte della scrittura, della meditazione e del combattimento. Si diede al monastero il nome di Monastero Hemsworth. Ancora oggi giovani uomini da tutto il paese convergono in quel luogo per apprendere a proteggere e difendere. Vincent, all’età di 49 anni, ha oramai espresso il forte desiderio di poter riunire in quelle mura tutti gli scritti che un tempo ne facevano parte e donare nuova luce e splendore a quel luogo, ma che, per poterlo fare, ha bisogno di un erede che possa eccellere in ogni disciplina e che abbia le giuste capacità per poter superare le difficoltà e le pericolose insidie della corte.

 

Da un mese a questa parte i giovani che si presentano alla porta del celebre Vincent sono centinaia, ma altrettanti vengono rimandati indietro come se nulla fosse. L’uomo ne guarda gli occhi, fa loro delle domande, non gli chiede nemmeno se vogliono mostrargli quello di cui sono capaci, rispondono a quelle domande ed egli decide se sono o meno adatti a quello scopo. Sono uomini, non c’è posto, a quel tempo, per le donne, specie nelle arti più nobili: il combattimento e la cultura. Tra chi parla di ingiustizia e chi definisce, come la volpe che da dell’acerba all’uva nel momento in cui comprende che non può saggiarla, quell’uomo come un vecchio ciarlatano che non sa far altro che arricciarsi i baffi, quando sino a poco prima bramava esserne l’allievo.

 

Ora quel posto giace in silenzio, alta nel cielo vi è la luna piena, coperta a tratti da delle nubi scure, presagio di pioggia pesante o avviso della medesima in qualche paese non troppo lontano da quella stessa montagna, momentaneamente salva dalle copiose piogge autunnali. Una mano d’uomo solleva il pesante anello dell’enorme portone del monastero, bussando due volte sul legno scuro e pesante. Interminabili minuti passano, minuti in cui quell’uomo, coperto da un lungo mantello nero sosta di fronte a quel portone, il cappuccio morbido calato sul capo ed in braccio pare abbia un bambino, avrà al massimo dieci anni, i capelli corti, marroni, le palpebre chiuse ed una coperta pesante a coprire le membra scarne dal freddo che altrimenti gli porterebbe sicuramente un malanno. Le braccia di quell’uomo lo tengono al sicuro, stretto in un abbraccio, perché non possa scivolare o il freddo possa lambirlo, nemmeno fosse una perla preziosa. Quella cura e quelle accortezze che hanno un sapore gentile, cozzano con l’aspetto duro e mascolino del volto e delle mani, grandi, se ne mettesse una di fronte alla faccia del bambino, la coprirebbe tutta sicuramente.

 

Solo al termine di quei minuti, ne saranno passati quasi cinque da quando il primo colpo è stato battuto al freddo e rigonfio legno, pochi meno dal secondo, come due lenti rintocchi hanno avvisato della presenza di un custode di quel posto, tornato dal suo viaggio solo adesso, che porta un bambino in braccio. Solo al termine di quei minuti la porta si muove, spostata lentamente a causa del suo ingente peso, dietro di essa compare la figura di un ragazzetto, le braghe marroni ne fasciano le gambe, strette alla vita da una corda spartana, perché non cadano, il petto glabro ed adolescenziale nudo ed i piedi scalzi toccato terra. I capelli biondi e gli occhi verdi osservano la figura che si trovava dietro quella porta, la figura che aveva bussato. Solo un secondo di smarrimento, prima che faccia immediatamente un passo indietro, frettolosamente per altro, portando le braccia rigide lungo i fianchi, in una posa ferma, e pieghi il busto in avanti.

 

«Mi aveva detto che saresti…sareste tornato solamente domani, non ero pronto ad aprire la porta e credo che il Padrone stia dormendo.»

 

Le parole farfugliate di quel tredicenne mentre se ne rimane timidamente chiuso nei suoi pensieri, nella sua brama di divenire esattamente come quell’uomo un giorno, poter avere il suo aspetto austero, senza quelle lentiggini sul viso, che ben poco gli si addicono, senza quel corpo molle ed affatto pronto ad uno scontro, per questo si allena ogni giorno e per questo prova a superarsi così spesso da essere ferito lo stesso numero delle volte, che sia incoscienza o voglia di Riconoscenza non è dato sapersi, ad occhi inesperti potrebbe persino sembrare solo un ragazzino che altro non cerca che auto ledersi in qualche modo, nel suo curiosare in giro in onore della più giovane delle sensazioni: la curiosità stessa, quella di voler riscoprire la vita ed il mondo che la accoglie.

 

Quell’uomo non rivolge al ragazzino nient’altro che uno sguardo fugace prima di entrare ed indicare la porta aperta con un cenno del capo. A quello stesso cenno il ragazzino si fionda sulla porta stessa, spingendola con forza, sino ad udire il suo tonfo pieno nel richiudersi, le mani, tra cui la destra coperta da una benda bianca, leggermente più rosata sul palmo, spingono un’asse di ferro, spessa almeno cinque centimetri ed alta circa quaranta, la lascia scorrere entro delle sporgenze in ferro, serve a tenere chiuso il portone ed impedire a chi prova ad entrare senza il permesso della casa di entrare. L’uomo incappucciato si dirige verso la stanza ad est, passando per un arco in pietra. Non vi è una sola torcia o candela accesa, è tutto tremendamente buio e spento, ma lui si muove bene, senza andare a sbattere da nessuna parte, arriva sino ad un ampio divano, là dove posa il piccolo corpo del bambino che tiene in mano. Una voce scura, maschile e matura si rivolge al tredicenne biondo.

 

«Avvisa Vincent che sono arrivato e che ho trovato un ragazzino per strada.»

 

Quello che dice, prima che il tredicenne, senza far nessuna domanda, annuisce e corra via, silenzioso unicamente per la mole indubbiamente ridotta a delle ossa attaccate tra di loro. Corre via, salendo le scale che portano al piano superiore e le stanze di esso. L’uomo, dal canto suo, porta la destra al cappuccio del mantello, tirandolo indietro, i capelli neri e lunghi sono legati in un codino basso, da un nastro blu. I crini lisci arrivano sino al mezzo delle scapole; gli occhi azzurri e della barba non troppo lunga sul viso. Scioglie il nodo che lega il mantello al petto, in modo da poterlo sfilare ed appoggiare sopra il tavolo basso che risiede al centro di quel cumulo di poltrone. Lo sguardo rimane fisso per un momento su quel bambino, qualche secondo, prima d’avviarsi fuori di lì andando a sfilare una delle candele del candelabro acceso, presente nell’atrio di quello stesso ex monastero. Tornando nella stanza accenderà le candele e le torce, una ad una, in modo che vi sia luce lì dentro. Una luce fioca e tremolante, per la precisione, ma pur sempre luce. Essa si muove sulle mura, disegnando piccole serpi scure che sgusciano via tanto rapidamente quanto sono comparse, si mostrano come ombre sconnesse sulla pelle chiara, pallida, di quel bambino dal volto scarno e piccolo, che riposa sul quel divano in un sonno profondo, dal quale nemmeno le sferzate d’aria gelida lo hanno svegliato poco prima.

 

Posa la candela l’uomo, per poi tornare in quel salone, i passi lenti, a tratti pesanti, delle scarpe simili ad anfibi ai piedi, un paio di braghe nere, una camicia bianca con svariati merletti sui polsi e sul collo ed un gilet nero, pesante, con diverse tasche. Alla cintola ha attaccati dei pugnali ed una lunga spada da un lato, una semplicissima spada dritta. Infila le mani in tasca e torna a porsi davanti a quel divano, davanti a quel bambino. Lo fissa e non dice una parola, nel più perfetto dei silenzi. Perfetto sin quando una terza voce non lo interrompe.

 

«Kurt, quale piacere, non pensavo di rivederti così presto, pensavo che l’ultimo compito ti avesse preso più tempo di quanto ne hai impiegato invece.»

 

Una figura alta, dai capelli marroni, corti, una leggera barba giace anche sul suo volto, una camicia bianca e dei semplicissimi pantaloni neri, si avvicina alle altre due. L’uomo, Kurt, non rivolge nemmeno lo sguardo all’altro, gli rivolge unicamente la parola.

 

«Non ce n’è stato bisogno»

 

«Che intendi con il fatto che non ce n’è stato bisogno? Gli ordini erano preciso, andava eliminata l’infante e sventato il pericolo, Quel seme è sin troppo pericoloso per noi. Sino ad ora il sigillo posto sul monastero ha funzionato e nessuna di quelle creature ha fatto un solo passo entro il nostro territorio, ma le mie forze iniziano ad indebolirsi ed i giovani che si presentano qui continuano a dimostrarsi come dei fanat..»

 

«Non ce n’è stato bisogno perché qualcuno aveva già fatto il lavoro al posto nostro, era stato già tutto fatto, non ti sono arrivate le notizie della vendetta?»

 

«Vendetta?»

 

Un sospiro pesante dalla parte di Kurt, mentre sul volto di Vincent altro non vi è che la perplessità a fare da padrona alle sue espressioni. Kurt, dal canto suo, si avvicina ad una delle poltrone di quel salone, sino a sedersi su una di esse e congiungere le dita, intrecciandole in una posa rilassata.

 

«Immagino che quassù le notizie arrivino con qualche giorno di ritardo. È stato William Collins, lui ha fatto il lavoro e la madre, per ricambiare il simpatico favore di averle ucciso una figlia, ha ammazzato lui, ha aspettato i funerali per avere i suoi parenti a portata di mano, tutti assieme, ed ha sterminato un’intera famiglia. È stata astuta, per quanto loro possano essere cacciatori, sono una famiglia ed il funerale ha portato l’abbassamento automatico delle difese. Quindi non abbiamo più nemmeno l’appoggio dei Collins.»

 

«Fantastico… non ho mai amato le famiglie indipendenti di cacciatori, rischiano di eccedere in spavalderia, come dimostrato e pretendono che in un nome vi sia racchiuso un potere, ancora non hanno ben compreso che le cose sono diverse, la guerra in atto è grande e non ci si possono permettere mosse del genere, sono da stolti.»

 

Vincent porta una mano dietro la nuca, lo sguardo verso il soffitto alto del salone, qualche secondo di silenzio cade nella stanza, lasciando calare una pallida cupola di silenzio, nel quale non permea niente. Reclina il capo di lato, abbassando lo sguardo sulla figura del bambino poggiato su quel divano, che ancora vive i propri sogni e dorme sonni più o meno tranquilli. Il cacciatore par accorgersi di lui solo adesso, adesso che non sposta lo sguardo da quel fagotto per più di pochi semplici secondi, sembra quasi che lo stia studiando e che si stia accertando delle sue condizioni fisiche.

 

«E lui? Dove lo hai trovato?»

 

«Sono comunque andato a cercare la figlia della donna, ma non ho trovato nient’altro che un cumulo di cenere e quello, steso a terra, chiuso nella stessa coperta che vedi adesso. Forse era un suo amico o conoscente, non ne ho la più pallida idea, ma te l’ho portato prima che divenisse un ulteriore problema, fanne quello che preferisci.»

 

«Capisco… vedrò se è buono a qualcosa, altrimenti dovrò trovare per lui una famiglia.»

 

La mano scivola via da dietro la nuca, egli si avvicina al bambino chiuso in quella coperta, chinandosi su di lui con la delicatezza e la dolcezza che utilizzerebbe un padre attento, lo solleva portandogli un braccio dietro la schiena ed uno dietro le ginocchia, in modo da evitare di svegliarlo subito.

 

«Sai almeno come si chiama?»

 

«No, non si è svegliato per tutto il viaggio, chiediglielo quando si sveglia. Io vado a ripulirmi e prendo qualcosa da mettere sotto i denti, il viaggio è stato lungo e quella montagna è sempre più faticosa da praticare, ogni anno che passa.»

 

Un sorriso divertito si dipinge sulle labbra di Vincent nel preciso istante in cui Kurt poggia le mani sui braccioli della poltrona, sollevandosi con la fatica con cui lo farebbe un anziano.

 

«Riposati, sembra che tra me e te il vecchio sia tu.»

 

Le ultime parole di Vincent, prima che volti le spalle all’altro ed accenni ad andarsene, lasciando Kurt solo in quel salone, senza più nemmeno la compagnia di quel bambino addormentato. Uno sguardo severo sul suo volto, non se ne va nemmeno adesso che è solo, come se si sentisse perennemente in dovere di rappresentare in tutto e per tutto la figura dell’uomo duro, che non si lascia condizionare da niente e nessuno. Si avvicina al divano, là dove aveva poggiato il proprio mantello, recuperandolo ed avviandosi poco dopo nella propria stanza, per poter riposare in un lungo sonno dopo il viaggio faticoso.

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Capitolo 3
*** Il Risveglio dell'Hunter ***


Capitolo 2 – Il Risveglio dell’Hunter

 

[Data: 16th November 1042 – 19.57

Luogo: Monastero Hamsworth

Temperatura Esterna: 9 °C

Temperatura Interna: 18 °C]

 

La luce tremolante del fuoco di un caminetto illumina quella stanza dopo il precoce tramonto del Sole. Contribuisce al buio della stanza anche un pesante tendaggio in velluto blu scuro, che copre le due, altrimenti luminose, finestre della stanza. La spessa muratura da una buona motivazione al perché l’escursione termica da fuori a dentro quel posto lo renda tremendamente caldo ed accogliente d’inverno e fresco e piacevole invece anche nell’estate più torrida. Ma c’è un motivo diverso del perché quelle tende non sono state spostate da lì per tutto il giorno, un motivo che ancora sonnecchia dormiente sull’ampio divano di quella stanza. Ammantato in una coperta pesante e lacera in più punti vi è il corpo del piccolo ragazzino, che la sera prima era stato portato all’ex-monastero da Kurt, un caro amico di Vincent, colui che possiede attualmente quella struttura, carica di una storia che è stata trafugata con il tempo e con la vita che si sposta e si manifesta sottoforma di ragazzi vogliosi di imparare, imparare a difendere le proprie famiglie da ciò cui altrimenti sarebbe impossibile fare altro che essere umiliati nel più misero ed orrendo dei modi, da quelle creature che sono i Demoni dei sogni di tutti, in epoche come la corrente, dove storia e misticismo si mescolano, dove la religione è un pretesto. Il credere in Dio viaggia su un sottile filo, sotto il quale scorre l’avito fiume del fanatismo. Se il credente si trasforma in fanatico, esso passa automaticamente da neutro, tendente al buono, al pericoloso, senza nemmeno rendersene conto, senza sapere quale malattia gli ha appena inquinato le vene.

 

Una poltrona orrenda di fronte al camino, in stoffa la sua imbottitura, di un marrone orrendo il colore della sua trama, divisa in rombi, i quali finiscono con l’avere tutti, inevitabilmente, sfumature del medesimo marrone. “Un crimine alla società, andrebbe messa al rogo” quello che continua a ripetere Kurt a Vincent ogni qualvolta entra nella sua stanza per potergli riferire una qualsiasi informazione reperita al di fuori della struttura. Ha gli angoli consumati dal tempo, quella stessa stoffa, in quegli angoli, risulta sfilacciata, sottili i fili che pendono e sfiorano il pavimento, raccogliendo lanugine e polvere ogni volta che la stessa viene spostata per qualche motivo.

 

Su di essa riposa Vincent Hemsworth, indossa un paio di braghe di un marrone scuro ed una camicia panna, che ha oramai preso la forma della poltrona, nel suo stropicciarsi in più pieghe, i volant del collo, che scendono verso il petto, sino ad esaurirsi quando la camicia arriva a coprire all’altezza del diaframma, rimangono morbidi ed appiattiti verso il basso, hanno perso, con l’indossarla più volte, la loro morbidezza e la loro apparente leggerezza, di quando prima se ne rimanevano ritti e fieri a rendere quella camicia un qualcosa di prezioso. Non è nemmeno escluso che, prima di divenire panna, quella stessa fosse di un più lucente bianco, vivo, in confronto al colore più spento che adesso si accosta alla pelle del petto appena villoso di Vincent. La testa di lui pende vero il basso, le palpebre sono calate, mentre la luce movimentata delle fiamme che ardono in quel camino, proprio di fronte a lui, posano scure ombre sul volto del cacciatore, ombra che si intervalla a luce in un movimento frenetico che sottolinea le piccole escrescenze della pelle, laddove essa si piega in sottili rughe, dettate dal tempo e dal fatto che ogni singolo muscolo di lui è momentaneamente rilassato.

 

La gamba sinistra accavallata alla destra: la caviglia della prima poggia sul ginocchio della seconda, creando pieghe, sulla stoffa scura, che creano, anch’esse, particolari giochi di luce quando quella calda delle fiamme arriva sino a lambire quelle pieghe. La posa morbida ed abbandonata delle mani sulle gambe tiene con dubita forza e blanda pressione un volume di non troppe pagine aperto sulla sessantesima. Una scrittura elegante, longilinea in quella sua inchiostratura scura che ha sporcato i fogli ingialliti dal tempo con piccole macchie scure, evidente disattenzione di chi ha scritto con un pennino sin troppo intinto nel suo inchiostro corvino. Il libro è quasi chiuso, solo i pollici del cacciatore tengono il segno tra quelle pagine, lasciando che gli angoli estremi si sfiorino. Sulla copertina bordeaux in pelle non si riesce a leggere il titolo, sbiadito nel corso degli anni, doveva essere stato impresso con un sottile strato d’argento, data la colorazione grigiastra, seppur luminosa, di quel che resta di un nome oramai incomprensibile.

 

Dietro quella poltrona, sul resto della stanza, si può ammirare la seconda più grande biblioteca di tutto il monastero, libri su libri accatastati su una scaffalatura in legno squadrata e scura, dà l’idea di essere pesante, non longilinea, che tende all’orizzontale invece che al futuro verticale. Ogni mensola è la culla di almeno tre antologie complete, ci sono libri singoli e ce ne sono di facenti parte di una serie, di una collezione o molto altro ancora, tutti scritti a mano, tutti tremendamente costosi e preziosi, tutti reperiti durante i viaggi che la famiglia Hemsworth ha compiuto nel corso delle sue generazioni. Un po’ come i suoi avi, lo scopo di Vincent era quello di poter rimettere insieme tutta la storia dei manoscritti che erano stati lasciati in precedenza a quello stesso monastero, quando ancora era in auge. Tra due scaffalature si trova una piccola porta in mogano, al momento è chiusa e non una singola luce fa capolino da sotto lo spiraglio della porta stessa, indici che o lì dietro non c’è nessuno oppure qualcuno al momento dormiente.

 

Un tavolo in legno pesante e spesso, posto al termine della stanza, posto nel mezzo delle due finestre, dietro di esso una grande sedia del medesimo materiale e fattezza. Un cuscino morbido è poggiato sulla base. Sul ripiano del tavolino sono posti due candelabri, dei calamai, qualche piuma sporca d’inchiostro, un timbro, della ceralacca e qualche foglio sporco da degli aloni neri, probabilmente sempre il medesimo inchiostro. Uno dei cassetti è socchiuso, dentro di esso luccica una pietra preziosa, ma non riesce a scorgere nient’altro che quella da quel piccolo spiraglio che viene lasciato alla vista dei più che passano lì dietro. Un grosso tappeto di una colorazione ambrata è posto a terra, nella sua forma rettangolare prende sia parte della scrivania che del divano ove giace quel piccolo corpo riposa, chiuso nella sua coperta, mentre nell’aria si spande il suono regolare del respiro pesante di Vincent.

 

Solo dopo un po’ un fruscio leggero rompe la staticità di quella scena, mossa unicamente dalla luce tremolante, il fruscio di quel piccolo corpo ammantato che, finalmente, si smuove dal suo continuo sonno, sino ad aprire piano le palpebre da bambino, rosee e sottili, rivelando un paio di iridi nere almeno quanto la pece, che scorrevano perplesse lungo le pareti di quel luogo. Non scatta, non sembra spaventato, non sembra nemmeno sulle difensive, muove solo piano le labbra, una mimica appena accennata e dettata da un aprire e chiudere di pochissimo le labbra, come in un boccheggiare, che poi quel gesto volesse dire “mamma” probabilmente lo sa solo ed esclusivamente lui. Si porta a sedere, stringendosi quella coperta addosso con le mani piccole, coperte, percependo d’essere nudo al di sotto, privato di ogni cosa, persino della sua stessa casa, non ha più niente con sé, niente che possa dargli l’idea di sicurezza. Le labbra si piegano un poco all’indietro, stringendosi tra di loro abbastanza forte da sbiancare. Le sopracciglia si piegano in un’espressione quasi sofferente mentre scivola giù dal divano, poggiando i piedini nudi sul grande tappeto che copre gran parte della pavimentazione della stanza.

 

A piccoli ed incerti passi si dirige verso la poltrona, che al momento gli da le spalle. Si blocca sul limitare del tappeto, mormorando un “signore” che nessuno ode, a parte le mura di quella stanza che, pure, non sveglieranno il cacciatore dal suo sonno. Solo dopo un altro paio di tentativi decide di andar avanti, poggiando con una smorfia contrariata la pianta del piccolo piede sulla pavimentazione in pietra gelida. Un brivido gli corre lungo la schiena, sin quando non arriva al fianco di quella poltrona e, di nuovo, il mormorio bassissimo, che non denota neppure un vero e proprio tono di voce, è solo un sussurro, uguale a quello di chiunque altro. L’unico problema è che con i sussurri non si svegliano le persone, con i sussurri si violano i patti, si sussurra perché si ha paura, perché si è consapevoli di star dicendo qualcosa che non andrebbe altrimenti detto, che esso sia una cattiveria, che sia un segreto svelato, che sia una confidenza troppo mal architettata. Eppure lui non ha nulla da nascondere, a parte il proprio corpo. Sussurra e continua a sussurrare, senza mai dare un timbro alla propria voce, che sia più o meno mascolino, lui non lo da. Allunga piuttosto un braccio, lasciandolo passare tra i due lembi della stoffa, sino ad andare a scuotere piano la spalla dell’uomo, un tocco leggero, incapace persino di stringere. Scrolla quella spalla e basta.

 

Essa si sposta, le palpebre dell’uomo si spalancano di colpo, facendo sussultare il corpo tutto del fanciullo, il quale non fa in tempo a prendere un respiro più profondo che già sente la pressante presenza di una mano sul proprio collo, la mano robusta di quel cacciatore che, abituato alla solitudine, risponde in maniera aggressiva ai risvegli da parte di altri, specie se non vocali. La coperta scivola un po’ sulla pelle del bambino, scoprendone il candore, liberando unicamente la parte superiore delle spalle, mentr’egli si dimena un poco e stringe le dita, come appiglio per la propria vita, su quella stoffa, evitando che cada ulteriormente. Solo dopo una manciata di secondi Vincent allenta la presa, con un grugnito di disappunto. E nello stesso momento in cui il bambino è libero, questo indietreggia, passo dopo passo, sempre più rapidamente, sino ad incappare contro il bracciolo del divano e fermandosi contro di esso. Trema, trema come una foglia in autunno, che sa di essere in bilico. Lui non conosce nulla, né il posto, né chi lo abita, né come è fatto e come vi si può muovere all’interno, mentre la pancia brontola per la fame di non aver mangiato niente per quasi due giorni.

 

Si alza dalla propria postazione il cacciatore, raccogliendo il libro caduto a terra per via dello scatto, un piccolo tonfo che non è stato udito da nessuno dei due, troppo impegnati in quell’improvviso climax di eventi. Sistema qualche pagina piegatasi, sfila un pezzo di foglio utilizzato come segnalibro e, per qualche secondo, cerca il punto preciso ove ha interrotto la lettura per cadere addormentato, ripone lì quel segno molle, richiudendo il tutto e, senza dir nulla, avviarsi verso la libreria e riporlo in un punto preciso. Prima scaffalatura, sesta mensola, cinque libri dopo l’inizio. Solo poi prende a parlare, la voce ancora un po’ impastata dal vicino risveglio.

 

«Finalmente, è più di un giorno che non apri occhio, avrai anche fame.»

 

Il bambino di per sé non dice assolutamente nulla, annuisce, annuisce e basta, chinando appena il capo, intimorito dalla reazione dell’hunter nel preciso istante in cui lui ha provato a svegliarlo. Ha ancora i segni rossastri sulla pelle chiara. Gli occhi neri non lo lasciano un minuto, seguendolo in tutto il suo percorso per la stanza ed obbligato a voltarsi per poter cogliere la risposta del ragazzino.

 

«Un mio amico, lui si chiama Kurt Way, ti ha portato qui, ti ha trovato chiuso in quella stessa coperta, steso a terra. Stando a quanto dice eri in compagnia di una giovane vampira, non ti scandalizzerai, quindi, se te ne parlo…»

 

Per un momento, nel sentire quella parola, “vampira”, il giovane sussulta, spalancando ulteriormente le palpebre e dischiudendo le labbra come se volesse dire qualcosa, sembra quasi il gesto repentino di chi cerca di scusarsi di qualcosa con un farfugliare non meglio identificato. Ma poi le richiude, con la conclusione di aver unicamente preso solo un po’ più d’aria del solito. Lo fissa, rimane in silenzio, quel suo silenzio, quel suo non essere troppo sorpreso della natura dell’altra, fanno sorridere Vincent, che lo fissa. Lo osserva mentre se ne rimane chiuso in quella coperta, stretto, che trema un poco di più da quando ha accennato alla storia dei vampiri.

 

«Devi sapere…ahm, com’è che ti chiami?»

 

Solo dopo un po’ di incertezza, una piccola pausa da quella domanda, il bambino sussurra, senza mai osare, nemmeno per sbaglio, portare quel sussurro ad un tono di voce decente. «Sam» quello è il suo nome.

 

«Bene.» afferma Vincent, andando a sedersi sul divano e battendo la mano sulla seduta, invitandolo ad avvicinarsi «Vieni qui, Sam, non ti faccio niente di male, ti chiedo anzi scusa per prima, non sono abituato ad essere svegliato a quel modo.»

 

Il bambino esita per un momento, non eccessivamente rincuorato, per qualche motivo, dalle parole del cacciatore, probabile che, se era presente alla scena della morte della giovane vampira, egli abbia assistito ed il fatto che lo stesso uomo che l’ha uccisa ha portato lui lì, non deve metterlo di buon umore, né fargli avere a cuore il cacciatore. Solo dopo un po’ si discosta dal bracciolo del divano, raggiungendo Vincent, sino a sedersi accanto a lui. Quello lo afferra per la vita, nonostante la breve e vana resistenza del piccolo, mettendoselo a sedere sulle ginocchia.

 

«Dicevo… Devi sapere, Sam, che quella che forse tu chiamavi amica, mentre ci giocavi dalla morte del Sole, sino forse al limitare dell’alba, altro non era che un pericolo per gli umani come me e te, un pericolo poiché per loro noi non siamo niente di più che cibo, bestie da soma che utilizzano per il loro svago, chiudendoci nelle loro corti ed utilizzandoci come miseri domestici o pezze da piedi. Quando sono afflitti, annoiati o frustrati, le prime persone sulle quali vanno a riversare la loro frustrazione siamo noi.»

 

Sam di per sé pare piuttosto inquieto nel sentire quelle parole, possibile che abbia effettivamente visto scene di quel genere, seppur magari a lui non sia mai stato fatto nulla. Non può sfuggire in alcun modo che è quello l’atteggiamento che i vampiri hanno nei confronti degli umani, non esiste, dopotutto, vampiro che non sappia essere borioso e saccente, se non addirittura presuntuoso nel suo modo di essere e di comportarsi, pare esser insito nella loro natura ed intrinseco nella loro mente il concetto di “superiorità”. Vincent, dal canto suo, sistema meglio la coperta attorno al corpo del bambino, chiudendocelo meglio e ricoprendo quelle spalle che poco prima erano state scoperte da quel gesto più brusco.

 

«Mi dispiace per la tua amica.» l’espressione non sembra semplicemente superficiale, sembra quasi che gli dispiaccia davvero nel suo parlare dell’amica «Non uccidiamo Tutti i vampiri, di solito ci limitiamo a quelli che creano problemi o minacciano il quieto vivere dei paesani. Lei, è vero, non aveva fatto nulla, ma sarebbe divenuta particolarmente potente per via di una discendenza sanguigna molto particolare. Permettere il suo sviluppo sarebbe stato come dare in mano ad i vampiri l’ultimo appiglio che noi Hunter abbiamo per evitare che essi facciano strage da un giorno all’altro della maggior parte degli umani.» spiega, in qualche modo, prova a dare una visione sommaria del perché hanno fatto quello che hanno fatto e del perché hanno dovuto. «Un giorno ti racconterò la storia di Nehemia, ma ora credo che tu abbia bisogno di un bagno caldo»

 

Si solleva, tirando su anche quel piccolo esserino, che non ha spiccicato nemmeno mezza parola, se non il proprio nome, dall’inizio della serata sino ad ora, non una, si è limitato ad ascoltare e rimanere inquieto, poiché pare, per l’appunto, che egli non abbia particolare intenzione di tranquillizzarsi. Il cacciatore si avvicina, con Sam in braccio, alla porta in legno scuro, posando la mano sul pomello che ne fa da maniglia e ruotandolo, per aprir la porta e lasciar spazio per gli occhi ad una camera da letto. Un grande baldacchino, molto spartano in realtà, ed affatto pieno e borioso come quello che si potrebbe trovare in un castello od in una nobile villa. La pavimentazione è la medesima, ma stavolta non vi è nessun tappeto a coprire in alcun modo il freddo della nuda pietra. Solo un comodino, o quello che può sembrar tale ed un armadio con un’anta socchiusa. In fondo alla stanza, vicino alla finestra, anch’essa coperta da un tendaggio di velluto blu scuro, vi è un paravento, dietro il quale giace un catino ed una vasca, pratica, niente di eccezionale o particolarmente lavorato. Un piccolo sgabello è posizionato lì vicino.

 

L’Hunter si avvicina allo sgabello, spostando parte del paravento bianco, ed accenna a far mettere lì sopra, in piedi, il bambino, in modo da potergli sfilare la coperta e detergerlo, almeno sin quando non darà indicazione di portare dell’acqua calda. Le manine del ragazzino fanno un pelo di resistenza, mentre le labbra si stringono tra di loro e le palpebre si socchiudono. Il cacciatore sorride bonario alla cosa.

 

«Ora capisco.» mormora Vincent, osservando Sam come un padre osserva il figlio, orgoglioso di lui, per qualcosa, eppure il bambino sembra più perplesso, non comprendendo ciò che intende Vincent, il quale socchiude di nuovo le palpebre per un momento, con il solito sorriso di chi par avere appena capito tutto «Capisco perché Kurt ti ha portato qui e non ti ha lasciato steso a terra. Tu hai i suoi stessi occhi, hai gli occhi di sua figlia: Karen. È morta qualche mese fa in seguito all’attacco di alcuni vampiri alla sua casa, al di fuori di questo monastero.» spiega molto velocemente.

 

Nonostante tutto, nonostante il fatto che la spiegazione della cosa fosse molto blanda, veloce e sbrigativa, la presa delle dita di Sam sulla coperta si allenta, lasciando al cacciatore la possibilità di poter togliere quel pezzo di stoffa. Lo lascia scivolare contro la pelle, sino a portarlo via del tutto, sino a scoprire quella pelle tremendamente pallida, ma rosea laddove il sangue scorre meglio, comprese le morbide gote, al momento. Il sorriso di Vincent rimane sulle sue labbra, senza abbandonarlo quando afferra una pezza e la bagna nell’acqua oramai non più calda, andando a detergere di seguito la pelle del ragazzo.

 

«Nei giorni a seguire noterai sicuramente che nel monastero vi sono solo uomini, qui addestriamo dei ragazzi promettenti a divenire Hunter, perché possano difendere le loro famiglie dai quei vampiri che attaccano senza pietà alcuna. Viene utilizzato questo posto poiché un sigillo posto dal primo cacciatore lo protegge, permettendo alle fredde fiamme del purgatorio di avanzare come difesa sui non-morti. Quelle fiamme non bruciano, non sono dolorose, quelle fiamme purificano, ma il peccato insito nei loro animi è abbastanza da ridurli in cenere. Vedremo se anche te sei buono come cacciatore…»

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Capitolo 4
*** Una Nuova Casa ***


Capitolo 3 – Una Nuova Casa

 

[Data: 17th November 1042 – 06.14

Luogo: Monastero Hemsworth

Temperatura Esterna: 7 °C

Temperatura Interna: 16 °C]

 

Piove, quel ticchettio fine, delicato ed estenuante che accompagna quasi tutta la stagione autunnale, risuona come colonna sonora anche di quella mattinata, in cui il Sole sembra indeciso se mostrarsi tra quelle nubi scure o se restare sopito dietro di loro, senza mostrare la sua magnificenza a quei poveri e miseri mortali che ne bramano la luce per la loro carne inumidita, per le ossa che dolgono ogni giorno sempre di più. Quella pioggia che ticchetta contro le vetrate spartane di quel monastero, non sono chiare, millimetri di polvere hanno coperto oramai da tempo il loro candore e la loro preziosa trasparenza e nessuno sembra intenzionato a ripulirle, probabilmente nessuno s’è mai soffermato ad osservare come queste siano sporche. Ma lui sì, seduto sul baldacchino nel quale Vincent lo aveva fatto coricare, fissa quella finestra scura, sporca, e non vede oltre, non vede nient’altro oltre le gocce trasparenti che scivolano verso il basso, portandosi via solo parte di quella polvere e lasciando sul vetro un disegno omogeneo nella sua discontinuità. La fissa con il pensiero fisso di voler uscire di lì, non è quello il suo posto, ha una casa ed è fuori da quelle quattro mura. Il giorno precedente non aveva nemmeno avuto il coraggio di chiederlo al cacciatore, se ha il permesso di poter tornare a casa sua o meno, se può andarsene di lì o se deve rimanerci in eterno. C’è angoscia nei suoi occhi scuri, dietro quell’abisso si nasconde tutta l’ansia di un momento, l’ansia che può avere un bambino nel trovarsi a passare una notte fuori da casa e con la consapevolezza che una cara amica lo ha lasciato per sempre, uccisa dalle stesse persone che ora lo stanno lavando, sfamando, accogliendo, come se fosse tutta un’enorme presa in giro, uno scherzo ben poco simpatico al quale non ha eccessiva voglia di prender parte. L’unica pecca è che non pare toccare a lui la scelta…

 

Le gambe sottili penzolano dal materasso, le iridi corvine si spostano dal vetro sudicio della finestra ai propri piedi, li dondola un po’, forse per passare un po’ di tempo prima che qualcuno lo venga a chiamare. Indossa unicamente un paio di pantaloni chiari, morbida la stoffa, le pieghe segnano una struttura longilinea, ma allo stesso tempo sin troppo sottile. Il busto è esile, una benda bianca ne fascia stretto il torace e la spalla destra, sino all’altezza del gomito, Vincent, nel lavarlo, pareva essersi accorto di un difetto della cartilagine e dell’ossatura, che impediscono alla spalla di rimanere in asse e di compiere, di conseguenza dei movimenti che implicassero un minimo si forza. In parole spicciole aveva voluto dirgli che quella spalla era semi-lussata, ancora sana e salva dalla lussatura completa, ma gli aveva impedito di rischiare oltre fermandogli l’osso e tenendolo al sicuro sotto quella fasciatura stretta. “Se solo la tua spalla dovesse divenire inutilizzabile nel corso del tempo, non potrei più inserirti nella squadra dei cacciatori, e sarebbe un peccato, in fin dei conti dai l’idea di essere un giovane forte ed atletico” aveva detto, che Sam avrebbe tranquillamente concordato con l’atletico, ma ancora non riusciva a capire dove accidenti lo vedeva forte, anzi, lo chiamavano  “cavalletta” o “grillo” in alternativa, che indica unicamente che è magro, ma non avrebbe la forza necessaria a sostenere un lavoro pesante, come avrebbe invece preferito il padre.

 

Il viso è leggermente scavato sulle guance, sotto gli occhi risiedono due vaghi solchi scuri che rendono nota ai più la nottata passata in bianco, con quell’inquietudine che lo logora da dentro, con una forza quasi impressionante. Essa solca la carne attimo dopo attimo, divorando ogni organo, ogni senso e lasciando dietro di sé solo il vuoto ed un forte mal di stomaco, che mal s’accosta ad un buon riposo, no, quell’ansia glielo impedisce, distruggendolo.

Su di una sedia sono piegati dei pantaloni di un marrone scuro, poco lontana vi è la cinta che dovrebbe stringere sulla vita, impedendo a quelli di cadere. Vincent non ne aveva un paio della sua taglia, troppo magro e troppo basso, ancora, per poter indossare quelli degli altri ragazzi, ha dovuto dunque tagliare le gambe ad un vecchio paio di quelli che aveva lui, ovviando al problema della vita con quella cinta, che li avrebbe tenuti su. Sullo schienale della medesima sedia è poggiata una camicia relativamente bianca. Relativamente perché probabilmente quello era il suo colore iniziale ma, con il passare del tempo e dei lavaggi, quel colore è stato perso sempre più, sino a divenire un bianco sporco, anche vagamente sbiadito in alcuni punti. Probabilmente mancano anche un paio di bottoni, la cosa buona è che questo non interesserà poi troppo il ragazzino, al quale va bene sia così che immacolata, basta che qualcosa lo ricopra dal freddo di quelle notti.

 

Scivola giù dal letto solo dopo un po’. Non fa, tuttavia, in tempo a fare nemmeno un paio di passi che qualcuno apre la porta in legno di quella stanza ben poco arredata. Spunta il volto di Vincent da lì dietro, lieto, sorridente per altro, che non chiede permesso alcuno per entrare in quella stessa camera e richiudere la porta dietro di sé, con un suono leggero ed appena udibile la porta di chiude, uno scatto della serratura, non chiusa a chiave, nessun chiavistello la serra, è stata solamente chiusa.

 

«Non pensavo di trovarti già sveglio, ti ho poggiato i vestiti sulla sedia, ma vedo che non ne hai ancora usufruito..ti serve una mano?» domanda, avvicinandosi per altro alla sedia che ospita quegli stessi indumenti, con la chiara intenzione di aiutarlo a vestirsi, più che altro perché gli spifferi freddi d’aria gelida non dovrebbero essere particolarmente salutari per uno scricciolo come Sam, che non sopporterebbe nemmeno una pioggerella senza tornare a casa con la tosse e la febbre, e non è cosa buona e giusta, non nell’epoca corrente quantomeno. Il ragazzino serra le palpebre e le labbra tra di loro, cercando forse di trovare il coraggio di dire all’amico dell’assassino della vampira che non ha nessuna intenzione di stare lì, di sostare in quel monastero per più di un altro giorno ancora, giusto il tempo di radunare qualcosa di utile e quindi avrebbe ridisceso la facciata della montagna, non saprebbe ancora dire come, ma lo avrebbe fatto in qualche modo, uno qualsiasi, pur di essere libero da quella sottospecie di spiacevole prigionia.

 

«Portami a casa» se il tono voleva essere deciso e determinato, deve aver sbagliato, poiché dalle sue labbra non esce niente di più del solito sussurro appena accennato, che necessita della massima attenzione per poter essere udito. Ma pare che il Cacciatore abbia portato su Sam i giusti interesse e concentrazione per non lasciarsi sfuggire nemmeno un alito di troppo, niente.

 

«Non è possibile, temo che dovrei abituarti a stare qui, anche se la cosa non ti convince poi troppo, anche non ci troverai alcun senso, credimi, non c’è altra soluzione per la quale tu possa essere libero e contento con la tua famiglia.»

 

Ha ragione il cacciatore, quelle parole all’udito del bambino non hanno senso alcuno, come se avesse detto la prima cosa che gli è venuta in mente, una stupidissima accozzaglia di parole non meglio identificate, che da sole possono anche avere un significato, ma, messe nella stessa frase, non trovano un senso vero e proprio. Le palpebre del ragazzino si spalancano per un momento, le labbra dischiuse, incredulo, si era aspettato, nonostante tutto, una risposta affermativa, non trovando una spiegazione plausibile per quella che invece gli è arrivata alle orecchie. Apre e chiude le labbra almeno un paio di volte, senza sapere di preciso cosa dire, mentre Vince sfila la camicia dallo schienale della sedia. Osserva il fatto che manchino due bottoni e storce le labbra, ma non pare dire niente in merito, ce li farà riattaccare in seguito. Gli si avvicina, si avvicina a quel piccolo corpo tremolante e sconvolto con la lucidità di chi ha appena detto qualcosa di perfettamente normale. Sente quel ticchettio lieve rimbombargli nella mente, come un susseguirsi di tanti piccoli frastuoni, ci si perde, mentre osserva la figura del cacciatore avvicinarsi e cercare di fargli infilare la camicia.

 

Ma no, lui si scansa, rifugge quel gesto e quella che, tutto sommato, era un’accortezza che quasi gli era dovuta, un’accortezza che alla fine dei giochi non era nemmeno malvagia, anzi. Lui lo scansa, indietreggiando in un piccolo scatto e rischiando per un momento di cadere. Scongiurata, la caduta a terra, dall’aggrapparsi al lenzuolo che copre il materasso di quel baldacchino non propriamente nuovo. I lineamenti di Vincent, agli occhi corvini di Sam, per un momento assumono quelli di un aguzzino, un ricattatore, una qualsivoglia figura meschina che altro non vuole che minare la sua libertà e la sua volontà, nient’altro, non vede oltre quello, non vede l’aiuto che vorrebbe portargli, non vede il bene che gli è stato fatto, non vede quel lato, da fondo solo ed unicamente a quello che lo ha minato, riducendolo ad essere nient’altro che un ragazzino alle prese con se stesso, la consapevolezza di una morte anche troppo recente ed il non poter nemmeno tornare indietro. Per colpa sua? No, è tutta colpa di Vincent e del suo amico Kurt, se lui è bloccato sulla cima di quella montagna, all’interno di quella magione. Serra di nuovo le palpebre, un piccolo scatto, mentre raccatta tutta la voce ed il coraggio che può avere un ragazzino di poco più di dieci anni.

 

«Io non ci voglio stare qui! Rivoglio la mia mamma! Rivoglio papà! Voglio tornare a casa!» lo urla con tutte le poche forze che ha in corpo, non osando aprire gli occhi sulle prime, trema un poco, le dita sottili e pallide si stringono ulteriormente su quella stoffa bianca. Quando li riapre osserva il cacciatore da dietro una patina lucida e con una supplica disperata in fondo a quello sguardo nero. La pelle all’altezza delle gote si è arrossata un po’, così come anche sul collo e sul petto, per l’agitazione di non poter fare quel che preferisce, quella sorta di crisi nervosa che prende quando ci si fanno determinate idee e poi, alla fine, non si riesce ad ottenere nulla, nonostante non si abbia fatto niente di male, il dover per forza rimanere passivi ad un’azione ben poco piacevole. Gli occhi si gonfiano di lucide lacrime, che straboccano in poco, solcano le guance ed interrompendosi solo per un momento sul filo della mascella, ferendo quella carne di un dolore che non avrebbe mai pensato di poter provare. Vincent finisce con il sospirare in maniera appena percettibile, posando la camicia sul letto ed avvicinandosi a Sam, allunga la destra, cercando di portare via le lacrime del suo viso, con gesti delicati.

 

«Ascoltami, tu sai cos’è successo, giusto? E sai anche che a rigor di logica a quest’ora dovresti essere morto, ci sono cacciatori come Kurt che non provano pietà per nessuno, a cui non piace che si sappia in giro né che vi sono dei vampiri, né che qualcuno possa sapere della nostra o della loro esistenza, è bene che rimangano un segreto, che restino seppelliti nelle leggende. E l’unico» si interrompe per un attimo, tornando a passare il pollice sotto l’occhio destro di Sam «Smettila di piangere, non si addice ad un cacciatore grande e forte» lo dice sorridendo per altro, mentre montala rabbia nella mente del fanciullo nel sentire quelle parole «E l’unico modo che hai per evitare di creare problemi alla tua stessa famiglia, mettendola in pericolo ed evitare di mettere in pericolo anche te stesso, è quello di divenire ciò che siamo anche noi. Così facendo nessuno dei presenti avrà l’obbligo ed il dovere di eliminare quello che sai e quello che sei, giusto?»

 

Un lungo momento di silenzio nell’istante in cui gli occhi lucidi del ragazzino non si scollano dal volto di Vincent, implorandolo, probabilmente di cambiare idea, di trovare una soluzione o aiutare lui a farlo, per far sì che possa tornare a casa sua, nel suo di letto, con i suoi vestiti, che gli stanno meglio di quelli che ha qui, sotto le cure dei suoi genitori. Non sente il bisogno di una nuova casa, non la vuole, vuole quella sua vecchia, dove poter stare in pace e continuare a vivere nella tranquillità di quell’ambiente, come se nulla fosse. Sospira di nuovo l’Hunter, andando a sedersi sul materasso, il quale, sotto il suo peso, cigola un minimo.

 

«Ascoltami, Sam, non c’è un’alternativa, ok? Questa è la migliore a disposizione, tornare a casa significherebbe preparare alcuni dei cacciatori a dare la caccia a te ed i tuoi genitori con l’accusa di essere delle falle, e non possiamo permetterci di avere anche la più piccola delle falle in mezzo ad una società come questa. Il rendersi conto dei paesani che le loro strade sono infestate da creature quali i vampiri non porterebbe niente di buono, se non un allarmismo generale che li farebbe uscire di casa con le torce accese ed i forconi in mano. Noi..evitiamo il caos, noi cerchiamo piuttosto di rendere questa caccia il più discreta possibile e, per poterlo fare, abbiamo bisogno dell’ignoranza della gente, capisci?» domanda, osservandolo, speranzoso che abbia colto il punto della situazione e quello che è la sua condizione, che non vi sono poi così tante altre possibilità da mettere in ballo, non soluzioni o alternative, niente. «Senti qua, prima che tu cerchi di rifiutare di nuovo la cosa.» accenna, lasciando trasparire, stavolta, un sorriso bonario dalle labbra «Qui si addestrano dei ragazzi a divenire cacciatori, perché un giorno possano proteggere le loro famiglie ed i loro paesi dai vampiri senza aver bisogno dell’aiuto di un Hunter più anziano. Come qui c’è il monastero a vegliare sulla sicurezza del paese, in un altro ve ne sarà uno differente e così via discorrendo. Un giorno, alla fine di tutto questo, potrai tornare a casa, vegliare sui tuoi genitori, proteggerli ed amarli quanto più preferisci.»

 

Tira su con il naso Sam, rimuginando su quello che gli è appena stato detto, porta il dorso della destra al rispettivo occhio, stropicciando senza pietà quella povera palpebra. Si avvicina al letto, finendo con il salirci con un piccolo saltello. Solo adesso che quel nervosismo inizia a scemare, accontentato forse dalla possibilità di poter tornare a casa un giorno, la pelle prima accaldata inizia a sentire il freddo di quegli spifferi d’aria che passano dal vetro della finestra, accapponandosi. Fissa il pavimento, puntandosi su quell’angolo che si trova tra una mattonella e l’altra, non lasciandolo mai, segue il percorso di quella formica che fa avanti ed indietro, trovando la propria strada sbarrata dall’orlo rialzato di un tappeto che arriva sino allato del letto, facendogli da scendiletto, alla fine.

 

«E quanto tempo ci vuole perché possa tornare a casa?» non v’è più nessuna traccia di rabbia, è piuttosto tornato a vigere da padrone quel sussurrare appena accennato, che costringe Vince a rimare attento a quando le labbra giovani del ragazzino si muovono per poter proferir parola. Sorride il Primo Cacciatore.

 

«In media sei, sette anni massimo, sembrano molti adesso, ti sembrerà che non passino mai, ma ti accorgerai solo alla fine di quanto in realtà siano stati pochi.» accenna, rialzandosi da quel materasso, si porta di fronte a Sam, serrando le mani attorno ai fianchi del ragazzino «Ora vestiti, o finirai con l’ammalarti» afferma, tirandolo in piedi sopra a quel pezzo di mobilia morbido e confortevole. Non dice nulla Sam, allunga solo le mani perché l’altro possa aiutarlo ad infilarsi la camicia e di seguito le braghe, sebbene la cinta la stringa da sé. Solo al termine torna ad aprire bocca e parlare.

 

«Non sono bravo a combattere, i vampiri poi sono forti…» come a domandare come avrebbe mai potuto, uno come lui, sconfiggere o addirittura uccidere uno di quegli esseri, non si tratta, dopotutto, di bruscolini, ma vampiri, reali, quegli esseri dall’umana forma, posseduta unicamente per ingannare, il loro vero aspetto rasenta l’orrendo, rispecchiando in tutto e per tutto la loro anima lercia, sudicia, macchiata da quei crimini dei quali ridono quando si soffermano a fare salottino tra di loro. Quell’anima logorata dal tempo, quell’anima che non posseggono nemmeno più, votata non al Demonio ma al piacere, il loro demone è il piacere in ogni sua forma. Ogni singolo peccato capitale trova in loro il giusto mezzo per potersi diffondere a macchia d’olio, avvelenare gli animi, renderli impuri, votarli all’eterno oziare ed ammazzare la noia con quel meschino servirsi di chi hanno intorno. La gola, quando le loro labbra purpuree si sporcano di quel rosso vermiglio, macchiando quella perfezione di un peccato anche troppo grande, ma che trova il giusto appoggio quando scivola lento e lascivo nelle loro bocche, saziando quelle gole lussuriose. Quelle lingue di esseri immortali, che passano a raccogliere lo stesso sangue sulla pelle del compagno, passando leggere ed impudiche, oscene sulle linee, sulle forme dei seni delle donne, sui ventri degli uomini, con il sorriso mellifluo figlio della falsità.

 

Hanno delle maschere, sono pallide all’inizio, loro si preoccupano di lucidarle con delle buone azioni, le dipingono con le parole che le persone che hanno intorno vorrebbero sentirsi dire e le indossano, infine, con le gesta che le persone medesime accosterebbero al più magnanimo dei reali, così che un giorno loro abbiano crediti da poter riscuotere nelle case degli animi ingenui dei mortali, i quali non conoscono nemmeno un decimo di quel loro essere meschini e sfruttatori. Insidiano gli animi con la lentezza di una serpe, li avvelenano con i loro aspetti angelici, li abbindolano con le voci soffici, che sfiorano l’aria, lasciando che ognuna di quelle parole venga cullata dal vento. La loro pelle bianca somiglia a quella delle bambole e come bambole di porcellana sorridono impostati, demolendoti l’anima, perché possa servire ai loro piedi e lucidare le loro scarpe quando esse si sporcheranno, perché possano stendere petali sui quali quegli Dei blasfemi potranno avere la possibilità di camminare.

 

Passano dei minuti prima che Sam sia proto a scendere, segue anche in qualche passo Vincent, che non si è curato di rispondere nell’immediato alla sua domanda, no, lo fa unicamente quando apre la porta.

 

«Non preoccuparti di ciò, non è la forza fisica che conta in primo luogo, loro per primi difficilmente la utilizzano, di solito non ne hanno bisogno, devi però avere l’ingegno di poter arrivare tu alle loro gole prima che lo facciano loro. Per il resto..ti insegnerà Kurt a combattere, lui è il migliore, io oramai ho un sacco di anni sulle spalle e non me lo posso più permettere come prima. Se la cosa può esserti in qualche modo d’aiuto, ora come ora i tuoi compiti rientreranno nelle faccende domestiche, apparecchiare, sparecchiare, rifare i letti..assieme a Bryan, vedrai, andrete sicuramente d’accordo.»

 

Spiega in breve, mentre Sam tentenna a seguirlo, non gli piace poi troppo l’idea di dover fare da domestica in quella casa, avrebbe forse preferito iniziare subito a provare quel che gli è stato descritto a grandi linee, quel combattere, quell’astuzia di cui si necessita, tutto quell’impegno..capire dove andarlo a prendere e come sfruttarlo, dove trovare la determinazione necessaria a non perire nell’immediato. Socchiude gli occhi e sospira per la prima volta, accettando quella cosa, e seguendo il Cacciatore, per scendere per la colazione, aiutare ad apparecchiare e quindi sparecchiare.

 

«Per quanto riguarda le stalle, quello non è compito vostro, vi è proibito uscire di qui, non è sicuro, non di recente. La morte di un purosangue porta sempre scalpore ed alcuni vampiri della loro Corte potrebbero tranquillamente trovarsi appostati qui fuori.» l’ultima frase di Vincent, prima di lasciare la stanza in compagnia di Sam e scendere con lui al pian terreno, per mettere anche qualcosa sotto i denti.

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Capitolo 5
*** Il Giglio ***


Capitolo 4 – Il Giglio

 

[Data: 21th November 1042 – 22.27

Luogo: Monastero Hemsworth

Temperatura Esterna: 6°C

Temperatura Interna: 15 °C]

 

Le candele dei lampadari della magione ardono ancora, per i corridoi passa il ragazzino dei pochi presenti che si occupa di spegnerle, incappandone la fiamma con una piccola cupoletta in ferro posta in cima ad un lungo bastone, del medesimo materiale. Quelle fiamme mobili, che traballano pericolose, bruciando uno stoppino annerito e dolorante, esso si piega sconfitto al lieto scorrere degli eventi quando non trova aria per poter respirare, soffocata al termine della serata. I sospiri degli amanti pregano perché s’estingua da sé, i sussurri del compagno la uccidono per errore. Ne rimane solo una triste e sottile scia biancastra, che sale inesorabilmente verso l’alto, segnando il termine di quella momentanea vita. È come guardare un campo di battaglia, come osservare il tetto di una casa ormai arsa, come prendere consapevolezza di una fine non voluta. Sventola bandiera bianca al fine e prega per un domani migliore. Si riflette sulle iridi corvine di Sam quella scia pallida, traslucida, che canta dei fantasmi di un passato anche troppo breve. Si percepiscono unicamente i profili delle persone che giacciono in quella stanza, in comune, ci sono circa sette letti, uno è vuoto, quattro sono occupati da anime dormienti e due, uno vicino all’altro, da due ragazzetti seduti sul bordo, uno di fronte all’altro, il cui bisbigliare è stato momentaneamente interrotto da quel soffio di troppo, forse una bassa risata, forse stupore. Bryan, il ragazzetto biondo e ben poco piazzato, ha un sorriso dipinto sulle labbra, il sorriso furbo di qualcuno che ha intenzione di combinarne una delle sue, come al solito. Sam, seduto lì di fronte, lo osserva con aria seria, quasi corrucciata, un cipiglio naturale il suo, mentre par attendere il resto. Un “resto” che non tarda troppo ad arrivare, la voce di Bryan, in quel suo sussurrare, torna a riempire l’aere dei suoi pensieri.

 

«Allora? Ci stai?» chiede, entusiasta, quella voce maschile, seppur non lo si possa identificare con nulla più di un ragazzo. Stringe le labbra tra di loro Sam, il busto coperto unicamente dalla fasciatura di sempre, un paio di pantaloni chiari e dalla stoffa morbida ne fasciano le gambe, i capelli scuri sono scompigliati e gli occhi fissano quelle poche ombre sul volto dell’altro, disegnate dal pallore della luce lunare, che penetra dalle finestre. Solo dopo un po’ i sussurri di Sam si mescolano all’entusiasmo dell’altro.

 

«Vincent ha detto che non possiamo uscire, dice che dopo la morte della figlia di una vampira ci cercano e potrebbero attaccare da un momento all’altro.» mai un filo di voce macchia e sporca quei bassi sussurri, quasi perfetti nel loro essere appena udibili ad un umano orecchio. Non così basso lo sbuffare dal sapore spazientito di Bryan, che finisce con l’alzarsi da quel letto, scivolando a terra, i piedi che posano sulla pietra fredda e levigata che fa da pavimento a quel luogo. La voce dell’altro che non si limita più a sussurrare, anzi, qualcuno dei ragazzini dormienti si gira anche.

 

«Mai visto nessuno tanto noioso in vita mia, giuro.» volta le spalle a Sam, alzando il cuscino posto sul proprio letto, affonda là sotto la mano e ne tira fuori una maglia pesante, possibile che fosse per la notte. Un paio di pantaloni scuri coprono le gambe esili del ragazzo e ben presto infila i piedi nudi in un paio di scarpe pesanti. «Se tu non vieni, vado da me, non mi va di certo di stare qui dentro in eterno e poi non possono dirci che fare e quando farlo, è già tanto se sto qui a fare i loro comodi» le ultime parole sono dette a tono basso, titubante, un po’ come se temesse che qualcuno potesse davvero udirlo e lui, nonostante possa apparire momentaneamente fermo nelle sue idee, non è poi così coraggioso come lascia ad intendere e porta sin troppo rispetto a Vincent e Kurt per pronunciare le medesime parole di fronte a loro.

 

Sam non si muove inizialmente, Bryan finisce con l’avanzare sino alla porta in legno, un pelo rigonfio e storto dall’umidità, sebbene la cosa non sia eccessiva, dato che la porta di per sé ancora si chiude senza incepparsi da nessuna parte. I passi ovattati delle scarpe del ragazzo dai capelli biondi si odono facilmente, mescolandosi solo di tanto in tanto ai respiri pesanti degli altri presenti, che oramai hanno chiuso le palpebre, cedendo al dolce invito di Morfeo e della sua mano dolce, che piano ha scivolato sui loro occhi e sulle loro coscienze. Si ferma sull’uscio, si volta per un momento in direzione di Sam e l’osserva, ma le labbra rimangono mute, non c’è invito in lui, se non nello sguardo, forse più una speranza che il ragazzo cambi in qualche modo idea e lo segua, non saprebbe dirlo con precisione nemmeno lui. Qualche attimo ed alla fine, forse rassegnato, socchiude di poco le palpebre, compiendo quei pochi passi che lo portano fuori dalla stanza, chiudendo definitivamente quella porta e dividendolo dalla presenza degli altri.

 

L’altro non si è mosso, le dita sottili e pallide hanno stretto per un momento le lenzuola sopra le quali giace, seduto, con le gambe che penzolano in avanti. Gli occhi neri si fissano per un attimo sullo stoppino scuro della candela, non c’è più quella sottile scia di fumo, non c’è più niente. Immobile nella sua indecisione, scivola verso il basso, toccando terra con i piedi solo dopo, fredda la pietra, come sempre, ma non se ne preoccupa più oramai, pare averci fatto l’abitudine in non troppo tempo. Si piega sulle ginocchia, alzando il lenzuolo che sfiora il pavimento e lasciandolo piegato su se stesso, appeso al bordo del letto. Le mani si spingono sotto il letto medesimo, sino ad agganciare le maniglie di quella che sembra essere una cosa molto simile ad una valigia. Il legno di quel piccolo baule oblungo striscia contro la pietra, producendo un rumore ben poco piacevole, vi sono vestiti ripiegati, biancheria pulita, giacche e tutto quello che può servire per non andare in giro nudi ed infreddoliti per il monastero, deve avergli procurato tutto Vincent. Mira alle giacche, prendendo quella più pesante che riesce a scorgere. Ribalta qualche altro capo piegato con cura, rovinando quell’incastro altrimenti perfetto. Posa la giacca sul letto e torna a spingere all’indietro la cassa, questo era, tornando a farla scomparire al di sotto del letto. Si drizza di seguito, afferrando il lembo del lenzuolo e lasciando ricadere anche quello verso il basso. Tira su anche la giacca, infilandola e chiudendone i bottoni sul davanti; è di un blu scuro, con dei bottoni in legno tenuti fermi da delle asole esterne. Un po’ grande per lui, gli arriva sin sotto il sedere e le maniche eccedono in lunghezza di cinque centimetri, più o meno, coprendo gran parte delle mani e delle dita.

 

Si avvicina al muro, infilando a sua volta i piedi nudi in un paio di scarpe e terminando con l’avviarsi, seppur non troppo convinto, verso la porta di quella stanza, che tanto sembra una sorta di dormitorio per giovani cacciatori, o simil cosa. Con la medesima poca convinzione posa la mano sulla maniglia della porta invecchiata, portandola indietro ed uscendo di lì: si cura di richiudere il tutto con una cura quasi maniacale, cercando di evitare di lasciare traccia alcuna di quella piccola effrazione alle regole, ben sicuro che Vincent non l’avrebbe di certo presa bene.

 

Il corridoio vuoto, al termine del quale scendono verso il basso le scale che portano all’uscita sul lato est della magione, quella più discreta. Sam di per sé è abbastanza sicuro che Bryan sia sceso da quella parte, voleva uscire per andare a vedere cosa succede poco lontano di lì, dicono che sono stati avvistati degli animali particolari, fondamentalmente bonari, ma anche molto schivi. E si sa, dopotutto, che la curiosità dei bambini è la loro più grande peculiarità, sebbene vi sia chi riesce a resistervi e chi, come Bryan, non può fare a meno di cedere a quell’invitante desiderio d’avventura e scoperta, tutto è nuovo, tutto è messo lì apposta per essere riscoperto, non riesce a sopportare l’idea di lasciarlo morire a se stesso, deve esserci qualcuno audace abbastanza da scrutarlo come non farebbe nessun altro. I passi del giovane risuonano a malapena, si muove quanto più silenziosamente possibile, nel tentativo di sbrigarsi abbastanza per non rimanere troppo indietro e perdersi definitivamente Bryan, non va molto lontano senza il senso dell’orientamento dell’altro e la possibilità che ci rimanga bloccato, per il pendio, è elevata.

 

Scende le scale di fretta, lasciando scivolare la mano sulla pietra che costeggia quella scala a chiocciola, arrotolata su se stessa sino ad arrivare alla fine, in un piccolo atrio, un corridoio lungo che dà da una parte sulla sala da pranzo, le cucine e dei piccoli salottini di ritrovo e ristoro; dalla parte opposta vi è ovviamente la porta che dà sull’esterno. E’ ancora socchiusa, la cosa lo fa sorridere, significa che non è troppo in ritardo e che Bryan non ha avuto l’accortezza di lasciare tutto come stava. Deve almeno tenerlo d’occhio, non si perdonerebbe più di tanto se dovesse succedergli qualcosa durante la sua assenza, è più piccolo, ma ha comunque quella coscienza che premerebbe sulla sua umanità con un pressante “non ero lì con lui” se solo qualcosa colpisse in qualche modo Bryan.

 

Si volta, richiude la porta piano, lasciandola aperta per uno spiraglio tanto piccolo e sottile da poter risultare perfettamente invisibile. È fuori adesso, possono colpirlo ora, possono trovarlo, ucciderlo e molto altro ancora. Prende un respiro profondo all’idea e finisce con l’avanzare, piano, nel tentativo di drizzare le orecchie e cogliere un qualsivoglia rumore che possa dargli degli indizi sulla posizione corrente del compagno. L’aria è umida, sembra voglia piovere da un momento all’altro e non è detto che inizi, il tempo, lassù, non è mai niente di che, sempre troppo scuro e pesante, sempre carico d’acqua in qualche modo. Le foglie degli alberi ed i filamenti d’erba quasi riflettono quella stessa umidità, dimostrando definitivamente quando possa esser elevata la presenza d’acqua.

 

Un fruscio poco avanti a lui, il lieve spostamento di alcune foglie, che gli lasciano intendere che, probabilmente, Bryan non è molto lontano o che, male che vada, avrà occasione di scrutare uno di quegli animali di cui tanto si parla. Il terreno, proseguendo, diviene a mano a mano più scosceso, una piccola discesa inizialmente, che acquista sempre più pendenza, costringendo Sam ad aggrapparsi agli alberi per non pestare qualche sasso e finire a ruzzolare per tutto il fianco della montagna. Il respiro solo poco irregolare, non è affatto abituato a sforzare i muscoli, in nessun caso, e quel tipo di terreno lo mette non poco in difficoltà. Un piede dopo l’altro, una sottile risata, la riconosce, è sicuramente di Bryan, pare rasserenato dalla cosa, dischiude le labbra, un alito un pelo più forte, mai macchiato di quella voce che quasi pare mancargli o che comunque non sembra amare far sentire agli altri, come fosse una cosa strettamente personale, sua e di nessun altro, ed in quanto tale sua deve rimanere.

 

«Bryan.» lo richiama, quella sottile risata s’interrompe. Sam si ferma, rimanendo con una mano poggiata contro la corteggia arzigogolata dell’albero che ora come ora gli funge da appoggio ed appiglio, quella cosa che lo salva e che gli fa abbassare la guardia dal punto di vista dell’equilibrio, donando lui anche la possibilità di potersi guardare meglio intorno, nel distinguere le varie ombre che la luce della pallida luna va formando, disegnando così i profili degli oggetti e di quel paesaggio fermo. Per lunghi istanti non arriva nessuna risposta dall’altro, minuti che passano e che lasciano crescere inevitabile l’ansia nel giovane ed inesperto animo del bambino dai capelli scuri. Il battito cardiaco aumenta inesorabilmente, ma è quando sente arrivare un mugolio ben poco rassicurante che quel cuore perde uno, forse due battiti. Le palpebre che nascondono le iridi nere di Sam si spalancano, la sinistra, che non poggia contro l’albero, viene repentinamente portata allo stomaco, come in un forte moto di nausea, si piega di poco in avanti. L’espressione del volto è contratta in qualcosa di ben poco piacevole, ha lo stomaco che si stringe in spasmi continui, uno dietro l’altro. Un gemito di dolore viene sputato fuori da quelle labbra tirate sino all’inverosimile. Piega le ginocchia, incontrando il terreno in breve tempo. Le dita premono con ben poca forza contro addome e corteccia. C’è qualcosa che non va, c’è qualcosa che gli impedisce di muoversi, qualcosa che gli da fastidio sin nel profondo.

 

Non passano molti istanti prima che lo colga alla sprovvista l’urlo lanciato da Bryan, squarcia il silenzio di quel posto, la sua staticità, crolla tutto in poco tempo ed oltre a quel malessere fisico, Sam, riesce a percepire tangibile dentro di sé, salire inesorabilmente un malessere ben diverso, quello che ti fa tendere i muscoli, che ti spinge ad attaccare quando sei spalle al muro e scappare quando hai anche solo una vaga via di fuga: la paura. La paura che Bryan possa aver incontrato un vampiro, la paura che possa averci lasciato le penne, la paura che possa arrivare anche da lui, ucciderlo, la paura di quello che succederà con Vince dopo, ogni singola paura emerge, sovrastando quella più piccola, in un effetto domino considerevole. La stessa paura che, tuttavia, gli permette ora come ora di fare forza sulle gambe e ritirarsi in piedi, di ignorare, con quella forte scarica adrenalinica, di poter ignorare il dolore ed il fastidio allo stomaco, con tutta l’intenzione di raggiungere Bryan, di cercare di fare qualcosa, fosse anche solo distrarre qualunque cosa gli stia facendo male.

 

I passi vengono messi uno avanti all’altro con quanta più velocità possibile, si intrecciano di tanto in tanto, rischiando di farlo finire a terra, il pendio rende difficile lo spostamento, ma sente quel mugolare sempre più vicino e non sembra avere particolare cura di quel dolore addominale, che aumenta per un attimo, che diviene più acuto, un segnale dall’arme, forse, non saprebbe dirlo, un malessere che non aveva notato prima, non saprebbe dirlo. Aumenta, acuendosi, sin quando qualcosa non lo rimpiazza di colpo; sin quando qualcosa non gli fa strabuzzare gli occhi e dischiudere le labbra. Un gemito strozzato gli muore in gola, laddove è nato. Il petto si inarca in avanti, inesorabilmente, per il forte colpo ricevuto in mezzo alle spalle, all’altezza della bocca dello stomaco. Annaspa per più di un solo momento. Le ginocchia tornano a piegarsi, ma non impatta su di loro stavolta. La pendenza del fianco della montagna ha la meglio e Sam finisce con il cadere di lato, atterrando su un fianco, in un tonfo per niente rassicurante e relativo scivolare. La terra rovina la stoffa della giacca che ha indossato, lacera i pantaloni bianchi, graffia e lacera la pelle del volo, qualche sasso finisce con il lenire la pelle strappandola.

 

Senza respiro non ha nemmeno tempo e forze per urlare, quel forte istinto di sopravvivenza pare piuttosto accendere, negli occhi neri del ragazzino, una luce insolita, pare dar vita ad una sfumatura prima d’ora sopita, uno scalpitare di una natura auto conservatrice, sino all’ossessione, la prima cosa da fare quando si è in pericolo di vita è salvare la propria, non quella degli altri. Secondo quell’istintivo criterio dalla mente di Sam scompare definitivamente la figura di Bryan, il cuore pompa sangue più velocemente, la mascella si serra e le dita cercano di afferrare qualsiasi cosa trovino durante quella discesa pericolosa. Per qualche metro l’unica cosa che riescono ad acciuffare è terra, ma non salda, anzi, friabile, che viene via e non fornisce un valido appiglio al corpo del ragazzino. Solo quando incontra un albero riesce ad appuntarsi ad una delle radici, terminando solo a quel punto la sua discesa.

 

La pelle è rovinata, ferita, sia sulle mani che sulla parte destra del volto, meno sulle gambe e le ginocchia, ma i pantaloni sono lordi, stracciati, in special modo all’altezza delle ginocchia e sul lato destro. Il sangue cola sul viso disegnando improbabili rivoli, che scendono solcando la muta pelle con crudeltà, la macchiano di un colore peccatore, togliendo da quel viso, per una volta, il carattere innocente che ha sempre avuto prima di quel giorno. Tutto tace adesso, non vi sono più spostamenti, non un solo fruscio, non un verso od un mugolio da parte di Bryan, dando solo due possibilità alla cosa: si è allontanato troppo, lo hanno ucciso. Serra le labbra, dando inconsapevolmente per buona la seconda risposta.

 

Fa forza sulle braccia, tirando verso l’alto ed issandosi, sino a puntare i piedi dapprima contro la corteccia dell’albero, poco dopo sulla radice alla quale s’era aggrappato con la mano. Si issa, sino a potersi tenere puntato con i piedi e starsene sdraiato a terra, per poter evitare di sforzare ulteriormente un corpo già tremendamente indolenzito di suo. Si issa, sino a porsi supino, le gambe che circondano il tronco di quell’albero tutto sommato piccolo, abbastanza da non risultare scomodo. Contrae l’espressione per un momento. Il dolore lo pervade. Non ha un fisico robusto, piuttosto è l’esatto contrario, per questo sente i muscoli delle braccia tirare e la pelle bruciare, laddove è stata ferita.

 

Piega il capo di lato, non sente più nessun rumore. L’unica cosa positiva di quanto successo è che il dolore allo stomaco è sparito, piacevolmente sparito, per la precisione. Socchiude le palpebre, Sam, più preoccupato, adesso, per quello che avrebbe detto Vincent e, soprattutto, intenzionato a tornare alla magione unicamente nel giorno successivo, nella speranza di poter recuperare, durante la notte, quel briciolo di forze in più che gli avrebbero permesso di tornare sino in cima. Socchiude le palpebre. Allunga la destra lungo la terra, sino a lambire lo stelo di un piccolo fiore, un semplice giglio, eppure quella cosa lo attira in qualche modo, ne cattura la totale attenzione. Esso gli ricorda di uno identico, era uscito addirittura da casa per poterlo andare a cercare e quello che ne aveva ricavato era solo una prigione che si spacciava per casa. Nient’altro.

 

Le palpebre cadono definitivamente, mentre il vento freddo impatta contro la pelle ferita, sente male, sì, ma non osa nemmeno per un momento aprir bocca per lamentarsi, no, pare piuttosto imporsi di starsene in silenzio e rannicchiato, in attesa di prender sonno, cosa che sarebbe avvenuta solo pochi minuti dopo, sovrastato, il fisico, anche dal bisogno di annullare per qualche istante almeno tutto il dolore accumulato ed il freddo che ora e solo ora si riversa sulla sua carne, messa a nudo dalla discesa poco piacevole, affrontata solo poco prima. Una lacrima degna d’un bambino e non d’un uomo corre lungo la guancia a far bruciare ancor di più quelle ferite riportate. La paura che a poco a poco torna ad assalirlo, scomparsa solo in un momento e tornata ora a tormentarne i sonni.

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