Il suono dei binari

di Mrs C
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


IL SUONO DEI BINARI
Il suono dei binari
I







Alla fine dei conti non si smette mai di essere un soldato.
Qualcuno riesce ad avere una parvenza di vita normale. Qualcuno non abbandona mai la vita militare. Qualcuno semplicemente non ce la fa. La verità è che quando decidi di abbandonare tutto quello che hai costruito - famiglia, amici, casa, futuro - per imbracciare un fucile sai già che la tua esistenza sarà diversa da tutte le altre.
Non importa il motivo per cui lo fai né il momento in cui per la prima volta indossi una divisa. E' il tuo primo omicidio che cambia le cose. Quando pianti una pallottola nel cranio di un altro essere umano e senti la sua vita sfuggire via dalle tue dita. E i suoi occhi. Amico, preparati: i suoi occhi non li dimenticherai mai più.
Castani, azzurri, verdi... saranno il tuo colore della morte e te li troverai sempre davanti. La prima volta che ho messo piede in Afghanistan avevo vent'anni.
Ero un ragazzino che si era arruolato scappando dai mille problemi, in una famiglia un po' chiusa di pensiero e una sorella che era l'antitesi della tranquillità.
Volevo fare del bene, a modo mio, cercando di scacciare il senso di colpa di non essere riuscito a proteggere Harry da... beh, da tutto quello che l'aveva travolta. Non distogliere lo sguardo dalla morte. Guarda avanti. La gente che uccidi guardala in faccia. E non scordartela, non devi: anche loro non si scorderanno mai di te [1].
Col senno di poi, avrei detto che il comandante Burrows aveva ragione [2], quando fece a noi reclute il nostro primo discorso da soldati. Ventiquattro ore dopo erano solo feriti da ricucire e colpi di mortaio nelle orecchie. Ho passato due anni sui campi di battaglia, cercando di trovare il lato positivo nella morte, nell'uccidere per sopravvivere, nel bere per dimenticare. Sono tornato a casa con una spalla distrutta e l'anima a pezzi, trovando mia sorella alcolizzata, con un matrimonio ormai naufragato e mio padre in un letto d'ospedale.
Prenditi cura di te
, mi disse. [3]  
E per mantenere fede alla promessa, semplicemente non potevo più restare.
Prima di trasferirmi, ero stato nel Sussex solo una volta e avevo dieci anni. Nonno John abitava lì da quando era nato, e anche una volta rimasto vedovo non ci fu verso di convincerlo a venire ad abitare con noi a Londra. Diceva sempre che se ti abitui a vivere da animale selvatico, non puoi chiuderti di tua spontanea volontà in una gabbia. Quando gli chiedevo spiegazioni sorrideva, di quel sorriso malinconico che l'avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni. Che cosa voleva dire, l'avrei scoperto una volta tornato dalla guerra, ma a quel tempo ancora non lo sapevo.
Il Nonno aveva una piccola casa a Polegate, proprio al centro di Milton Street. Nessun vicino troppo vicino da disturbare la sua solitudine, ed era esattamente quello che mi serviva. In compenso, si estendevano chilometri e chilometri di manto verde bagnato solo dalla luce del sole che faceva capolino oltre le colline.
Disabitata da anni, quando arrivai la villetta era di un grigio lugubre e triste. L'altalena che papà aveva costruito per Nonna Harriett non si muoveva e del giardino rigoglioso e coperto di fiori arcobaleno ormai non esisteva più niente. Tutto era spento e io avevo una gran voglia di scappare via ancora una volta perché forse in guerra avrei avuto più opportunità di cavarmela che in una vita considerata normale. Ma nella mia, di vita, non c'era neanche un briciolo di quella che poteva essere la normalità.

Polegate distava poco meno di dieci chilometri da Eastbourne, una tranquilla cittadina di mare in cui il Nonno soleva andare quasi ogni giorno quando Nonna Harriett era ancora in salute. Gli piaceva pescare, per quanto non fosse poi così bravo, e per quell'unica estate in cui andai a trovarlo, m'insegnò qualche trucchetto da buon cacciatore. Con la macchina, era un quarto d'ora fra un punto e l'altro, e potevo permettermi di procedere con calma. Polegate era davvero stupenda, e l'aria che si respirava faceva bene ai miei polmoni provati dalla polvere e dal deserto dell'Afghanistan. Non ricordo assolutamente niente di quello che ho visto e, oggi, questo un po' mi spaventa perché ero lo spettro della persona che sono adesso. Un corpo vuoto, senza voglia di vivere e senza motivi per farlo. Probabilmente non riuscivo a vedere un futuro per me, oltre quello di assoluta tristezza che avevo nel cuore. Avevo lasciato Londra, mia sorella e la mamma solo perché eravamo in decadenza tutti e tre in maniera differente. E io non potevo sopportare il peso di un dolore che non fosse il mio.
- Attento alla strada, idiota!
Il mio primo incontro con la gente di Eastbourne fu proprio così: io che inchiodavo davanti a un semaforo rosso, totalmente perso nei miei pensieri, e con la testa quasi fuori dal parabrezza.
Il ragazzo nell'altra corsia – un giovane dai capelli scuri e gli occhi chiari – mi squadrò, in sella al suo MBK Booster. Era colpa mia, ovviamente, e non volevo risultare il solito coglione che non sa riconoscere i propri sbagli ma la mia bocca si aprì prima che io potessi fermarla.
- Siete tutti così simpatici o solo tu hai un senso dello humor particolarmente sviluppato?
- Potrei arrestarti seduta stante per almeno tre imputazioni diverse. Chi diavolo sei?
Perfetto. La prima persona che avevo incrociato e con cui litigavo era un poliziotto. Quanto potevo essere stupido?
- Mi chiamo John. John Watson.
Il ragazzo – doveva avere solo qualche anno più di me – mi guardò socchiudendo le palpebre.
- Sei parente del John Watson di Polegate? Milton Street?
- Era mio nonno.
Il ragazzo fissò il semaforo per qualche secondo, il tempo di passare dal rosso-giallo [4] al verde. Mi fece un cenno della mano e urlò un seguimi! che per un secondo fui quasi tentato di ignorare. Ma non sapevo dove andare né avevo intenzione di tornare in una casa senza vita che mi somigliava fin nelle fondamenta. E, d'altra parte, che cos'avevo da perdere? Così, lo seguii: lui, un perfetto sconosciuto che poteva essere un Serial Killer, uno stupratore, un ladro o un fuggitivo alla Clint Eastwood [5]. E io lo stavo seguendo. Ripensandoci adesso, fu la scelta che mi cambiò la vita, ma all'ora mi sembrava solo un modo per mettere a tacere la voce della mia psicologa che continuava a ripetere ha ancora problemi di fiducia [6] e che non avevo più intenzione di ascoltare.
Il ragazzo proseguì dritto verso il centro per circa dieci minuti. Non c'era molto traffico e, un po' per quel motivo e un po' per paura che potessi perderlo di vista, non prese strade secondarie. Si fermò in South Street, proprio davanti a un locale dall'aria accogliente e curata, e io lo imitai.
- Se vuoi vivere qui la prima cosa da fare è conoscere Mrs Hudson, la proprietaria del miglior bar  della città [7] e probabilmente dell'intera Nazione. Se vuoi rilassarti dopo una giornata di lavoro, questo è il posto giusto.
Sorrise apertamente, e tutta la rabbia di poco prima sembrava non essere mai esistita. Mi fece strada all'interno del locale, e un leggero tepore avvolse il mio corpo non appena chiusi la porta alle mie spalle. Il pub era silenzioso, diviso in scompartimenti isolati e con una luce soffusa rilassante. Nessun tavolo al centro della stanza, ognuno aveva la sua solitudine e non necessariamente avrebbe dovuto preoccuparsi di quella degli altri. Sulla parete di destra, troneggiava una libreria immensa che attirò la mia più totale attenzione, poiché molti dei tomi presenti sembravano di fattura quantomeno decennale. Senza rendermene conto, quando il mio nuovo amico scomparve dietro una porta blu dall'altra parte della stanza, io ficcai il naso in mezzo alle pagine.
Mounsier Lecoq
, in una copertina rigida che portava almeno trent'anni sulle spalle, attirò la mia attenzione e miei ricordi. Ne sfogliai le pagine, ripensando a quando mio padre me ne aveva regalato una copia per i miei tredici anni, e sorrisi un po' alla stretta di nostalgia che iniziò a farsi largo nel mio cuore. Quello che non mi aspettavo, era di trovare dei post-it in mezzo alle pagine. Rimasi perplesso per un po', non soffermandomi a leggere che cosa ci fosse scritto quanto l'esistenza stessa di quei consigli che mi lasciarono, se non perplesso, certamente confuso.
Questo romanzo potrebbe servire come libro di testo agli investigatori perché imparino ciò che devono evitare. - SH [8]
SH. Non sapevo chi fosse né con quale diritto si permettesse di lasciare foglietti di carta in mezzo ai libri di Mrs Hudson ma non dissi né feci niente, decidendo semplicemente di ignorare la cosa e riponendo Mounsier Lecoq nello scaffale, non senza uno scatto nervoso. Tuttavia, più proseguivo a sfogliare i volumi presenti nella libreria più trovavo almeno una traccia del passaggio di questo misterioso SH che tanto stava attirando la mia attenzione e urtando i miei nervi.
- Non sapevo che cosa preferissi, così ho optato per la specialità della casa: thé nero con una spruzzata di cacao [9].
Il ragazzo borbottò qualcos'altro, e io finalmente mi staccai dai miei pensieri riguardanti l'uomo misterioso, seguendolo in una saletta appartata. Se ci penso ora non ho la minima idea del perché avessi già catalogato SH come maschio. Poteva essere una ragazzina, un anziano o una donna adulta, per quanto ne sapessi, eppure no: nella mia mente SH, chiunque fosse, era un maschio.
E se qualcuno mi avesse chiesto l'età, probabilmente avrei detto sui trenta.
- La torta è un omaggio per il nuovo arrivato.
Mrs Hudson si presentò al nostro tavolo con un sorriso smagliante, segnato dalle rughe ma non per questo meno dolce e comprensivo.
- Ti ha preso in simpatia, - commentò il mio nuovo amico, sorseggiando la sua birra - quella donna è un angelo. Prende sotto la sua ala molti sbandati delle nostre zone e li rimette in sesto a sue spese, trovandogli appartamenti in cui stare e lavori da fare. Per quanto mi riguarda, un maiale che non vola è solo un maiale. [10] Se capisci cosa intendo.
Rimasi in silenzio per qualche secondo, osservando il cacao sciogliersi all'interno della tazza di thé.
- Credi che io sia uno di loro?
Il ragazzo fece spallucce, con un ghigno strafottente sulle labbra.
- L'hai detto tu, non io.
- Come conoscevi mio nonno?
- L'ho arrestato.
Il thé mi andò di traverso e lui rise un po'.
- Era un brav'uomo. Si prese la colpa di aver spaccato le vetrate dell'Antiquariato del vecchio Aomori [11], al posto di un ragazzino spaventato che stava solo cercando di scacciare via qualche scippatore a suon di pietre. Quando gli ho chiesto il perché l'avesse fatto ha risposto ho settant'anni, cosa vuoi che facciano a un povero vecchio come me?
Tipico di Nonno John.
- Si fece tre giorni di galera. In cambio, tutta Eastbourne l'ha visto come una specie di eroe. Al suo funerale c'era praticamente tutto il paese.
Sorseggiai la bevanda in silenzio, ignorando il retrogusto amaro che aveva assunto. Una fitta di senso di colpa mi colpì allo sterno ma la ignorai. Quella, come anche il tremolio alla mano. Rifiutare di andare al suo funerale fu una scelta difficile per me, e ancora oggi la bestia che ho dentro graffia un po' le pareti ricordandomi che non l'ho salutato un'ultima volta e che ci siamo separati come due perfetti estranei, ognuno lottando con i propri fantasmi. Io con quello della mia famiglia, lui con quello della nonna.
Con la differenza che io sono scappato in Afghanistan e lui è rimasto, e ha lottato un po' di più.
- Sì. Era un brav'uomo.
Non pioveva da un po', a Londra e dintorni. Quel giorno cadde una pioggerellina leggera che investì Eastbourne, macchiandola di una superficie grigiastra che la rese quasi magica. Il pub di Mrs Hudson era caldo e accogliente, e nessuno di noi due sembrava avesse fretta di andar via. Io non avevo un posto in cui tornare, e forse il mio nuovo amico l'aveva percepito. D'altra parte, ero uno sbandato.
- Non mi hai nemmeno chiesto come mi chiamo.
Già. Non gli avevo chiesto assolutamente nulla che lo riguardasse, né eravamo scivolati in un piano che fosse più personale di una tazza di thé bevuta al tavolo di un bar di periferia.
- Come ti chiami?
Lui rise e, forse d'istinto, anche io.
- Gregory. Mi chiamo Gregory Lestrade. Puoi chiamarmi Greg, John.
- Bene Greg. Posso farti un'altra domanda?
Lui annuì piano, inclinando un poco la testa.
- Chi diavolo è SH?
Gregory rimase fermo e zitto per un paio di secondi. Sbattè le palpebre talmente veloce che pensai di essermelo immaginato. Poi scoppiò a ridere, attirando l'attenzione dei pochi clienti presenti nel locale e facendo invece affiorare a galla la mia curiosità sopita.
- Sei qui da neanche un'ora e già lo conosci. Quel ragazzo non smetterà mai di stupirmi.
Avevo ragione. E' un uomo.
- Non so di preciso che cosa faccia, sai? L'ho incontrato qualche volta alla centrale. Viene per rompere le scatole al vecchio Gregson e passare le ore su qualche caso in archivio. Con la scusa che suo fratello è il Mayor Of London [12] si sente in diritto di poter ficcare il naso dove gli pare.
Fece una smorfia, mugolando di disappunto nell'accorgersi che il boccale di birra era ormai finito.
- Si chiama Sherlock Holmes, e ha una dannata colonia di api che mi infestano le fragole nel mese di agosto. Gran parte dei libri qui, sono suoi.  
Ecco spiegati i post-it.
- Sembra molto... particolare.
Greg ridacchiò.
- Particolare è la parola giusta, amico. Anderson dice che ha provato ad avvicinarlo qualche volta, pensando che fosse una persona interessante, dopodiché è scappato: era una persona spaventosa. [13] Ma Anderson è anche un perfetto idiota che si scopa la moglie di suo fratello credendo che nessuno lo sappia, per cui...
Non sapevo chi fosse questo Anderson, e non mi ci soffermai poiché lui non me lo disse e io non glielo chiesi. Si sporse un poco, facendomi cenno di fare lo stesso poi mise una mano davanti alla bocca, come se mi stesse rivelando un segreto di massima importanza.
Curioso come non mai, e con una voglia matta di sapere qualcosa in più su questo ragazzo dal nome bizzarro, mi sporsi anche io verso di lui pronto ad ascoltare qualunque confidenza mi stesse per fare.
- Ti dirò una cosa, John. Gli Holmes sono creature speciali e vanno trattate come tali. Ma se mai lo incontrerai, una meravigliosa fortuna verrà da te. [14] E su questo posso darti la mia parola d'onore.
Si allontanò bruscamente da me, infilandosi il cappotto con un sorriso enigmatico e una velocità quasi sospetta.
Mi disse ora devo andare, il lavoro chiama e mi lasciò il suo numero su un fazzoletto di carta neanche mi stesse abbordando in una discoteca di quarta categoria. Io rimasi al pub di Mrs Hudson anche dopo che Greg andò via, incapace di alzarmi in piedi o di tornare alla casa del Nonno. Non avevo voglia di fare nessuna delle due cose e forse la proprietaria era davvero un angelo, perché mi offrì un altro pezzo di torta e questo mi concesse del tempo in più per non sembrare tanto disperato come invece apparivo a me stesso.
Anche la seconda fetta di dolce era buona.
Ma il retrogusto amaro che avevo sentito con l'ultima sorsata di thé, non accennava ad andare via neanche dopo le parole di Greg e la mia gola bruciava. Decisi di andare via, dopo una buona mezz'ora, pensando che forse una passeggiata sotto la pioggia avrebbe dato sollievo al mio corpo e alla mia testa, anche se non alla mia salute. Pagai il conto, ringraziai la padrona che mi strappò la promessa di un ritorno, e uscì dal locale inspirando l'aria satura di pioggia e trovandola lenitiva per i miei nervi scossi.
Iniziai a camminare piano, con il naso per aria e le gocce d'acqua che si schiantavano sul mio viso senza farmi male. Forse per la prima volta da quando ero arrivato, sentivo che c'era qualcosa di positivo nell'aver mollato tutto per trasferirmi lì, ma era una sensazione passeggera e non sperai che potesse durare più di un battito di ciglia.
Ciò che realmente mi premeva in quel momento, era dare una risposta alle domande che affollavano la mia testa, rendendola un guazzabuglio di cianfrusaglie disordinate.
Prima fra tutte: perché un cane mi stava seguendo?
Il bulldog non si nascose quando mi fermai in mezzo alla strada, voltandomi a fissarlo inquieto. Continuò a guardarmi per un bel pezzo, e io a lui, finché non sospirai rumorosamente e lui abbaiò per richiamare la mia attenzione. Sbavava come un San Bernardo e aveva il pelo corto e chiaro, da cui spuntava senza difficoltà il collare di un improbabile e allucinante giallo canarino. E scodinzolava. Non so, forse si aspettava che io facessi lo stesso. Sbavare o scodinzolare, intendo, non sono sicuro.
Quando si accorse che effettivamente era riuscito a farsi guardare, mi diede le spalle e inizio a ondeggiare per il marciapiede nella direzione opposta alla mia. Fece così tre volte, due delle quali fu costretto a fermarsi e ad abbaiarmi contro, prima di riprendere a zampettare verso la sua meta.
Voleva che lo seguissi, era palese. Insomma, era un cane come tanti altri, neanche particolarmente bello, se proprio devo dirlo.
Probabilmente ero completamente impazzito. Non avevo niente, né da perdere né da trovare e quel cane mi interessava e incuriosiva come non succedeva da un po'. In un lampo di stupidità mi chiesi se non potesse essere lui Sherlock Holmes, al posto del ragazzo alto e magro dagli occhi di ghiaccio che la mia mente aveva iniziato a disegnare. Ma non sapevo né sospettavo neanche lontanamente quanto potessi aver ragione in realtà, con quella semplice frase.
Per cui, se volete un inizio come si deve, sappiate che non c'è. Questa è la realtà di com'è cominciata: con un ex soldato dell'esercito in congedo e un cucciolo di bulldog dal collare improponibile.






Ps. I'm a Serial Addicted

Eh già. Non sto stare lontana da voi - anche se, nell'ordine: la raccolta da finire e il Crossover di CM da continuare. Picchiatemi. - neanche per una settimana. Che brava, eh? *Viene fustigata* Anyway, questo è il primo capitolo di un nuovo ed ennesimo Crossover. Questa volta, ci troviamo davanti a un'accozzaglia di citazioni ma specialmente, questa storia sarà basata su un particolare lavoro del maestro Miyazaki, I sospiri del mio cuore che io ho visto e amato come poche cose al mondo. Il titolo è una cosa personale, riguarda uno scritto che ho buttato giù un po' di tempo fa... lo spiegherò verso la fine, credo. Btw, passiamo alle spiegazioni (Maria, 14 note... e che è @_@):

[1] Citazione di Kimblee, di Fullmetal Alchemist. Bastardo
[2] Burrows è stato davvero il comandante dell'esercito britannico quando il John del canone teoricamente era in servizio.
[3] Citazione e omaggio a "Pochi", Storia breve di Miho Obana che ho amato alla follia.
[4] Non sono io rincoglionita, in Inghilterra c'è il rosso-giallo prima del verde XD
[5] Mi riferisco al film "Fuga da Alcatraz".
[6] Citazione della 1x01 (o anche del pilot, veramente). Ella, Ella, mai sottovalutare un soldato u_u
[7] L'Hudsons, sì, esiste sul serio, a Eastbourne. Sì, è una figata.
[8] Citazione di Uno Studio in Rosso, pescata direttamente dal libro X°D
[9] Non c'entra una tegola, ma la spruzzata di cacao è personale: la mia barista prediletta me lo mette sempre sul cappuccino fin da quando sono andata al suo locale la prima volta e mi sono fissata u.u no, non proverò com'è bere un thé nero con una spruzzata di cacao, sappiatelo.
[10] Citazione di il "Porco Rosso" altra opera di Miyazaki.
[11] Doppia citazione di un volume di Shaman King in quanto, nell'albo in cui Yoh e Anna s'incontrano la prima volta ad Aomori (prima citazione), i poteri di Itako di quest'ultima si scatenano richiamando un Oni, Oni che viene distrutto da Anna stessa ma non prima che Yoh combatta contro di lui distruggendo i vetri di un negozio di souvenir (seconda citazione).
[12] Il Mayor of London governa l'area più estesa della Grande Londra, da non confondere con il Lord Mayor of the city of London, che è il Sindaco di Londra proprio città. Hanno delle cariche differenti, per approfondire potete leggere di più qui che io mi spiego un po' alla cacchio. Comunque sì, volevo dare a Myc una carica importante, in cui potesse intrallazzare un po' come voleva ghgh come in effetti fa. O farà.
[13] Citazione di un altro lavoro di Miyazaki, "Il castello errante di Howl". Se non l'avete visto vedetelo, è stupendo. E leggete anche il libro.
[14] Citazione della filastrocca di "Il mio vicino Totoro", altro lavoro del Maestro.

Okay, finite le note. Spero. Una volta letta la trama (o se avete visto il film a cui mi sto ispirando) troverete tantissimi riferimenti (tipo John che fantastica su Sherlock leggendo il nome di quest'ultimo nei libri, o il fatto che segua un animale strano come fa la protagonista X°D) e questo è solo l'inizio. Volevo dire che questo lavoro in cui mi sto impegnando tantissimo - e che spero uscirà quantomeno una cosa carina - la dedico totalmente a Glass Heart, persona e amica meravigliosa e scrittrice di talento che sono fiera e felice di aver conosciuto. Grazie per la pazienza e spero che ti piaccia almeno un po' <3 see you later, darlings!

ps. Sì, è ambientato nel Sussex. Riferimento al Canone. Sì, ho messo anche un riferimento alle api (sempre per il Canone) che sicuramente non assaltano le fragole ma mi faceva troppo morire la scena XDDD


Jess

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Capitolo 2
*** II ***


Cross II
II










Mi piacciono i cani.

È sempre stato così, e non credo che cambierà da un giorno all’altro.
Ne avevo uno, da bambino. Lo consideravo il mio migliore amico e passai sei mesi davvero splendidi in sua compagnia. Finché mio padre non lo investì facendo retromarcia e giurai a me stesso di non prenderne un secondo.
Troppo dolore da sopportare per un bambino così piccolo - e in un certo senso, quello fu l’inizio di tutto ciò che sarebbe avvenuto in seguito, ma a quel tempo ancora non lo sapevo.
Si chiamava Sylvia [1] - mia sorella non si era accorta che era un maschio, quando lo prese da canile - ed era un cucciolo di beagle dal pelo chiaro e fulvo, rispetto alla sua razza.
Mi piaceva Sylvia, e non perdonai mai mio padre per averlo ucciso - nonostante tutti cercassero di spiegarmi che era stato un incidente: a me non interessava -.
Ripensadoci adesso, col senno di poi, posso dire che quello fu l’inizio del punto di rottura con tutta la mia famiglia.
Comunque, dico questo per far capire che io non ho alcun tipo di pregiudizio verso animali di sorta.
Eppure - fradicio da capo a piedi, con un accenno di febbre e l’influenza che non aspettava altro che un mio passo falso per farsi avanti - continuavo a ripetermi quanto fossi stupido nel seguire un cane qualunque, diretto chissà dove, in una città che non conoscevo, e senza nessun motivo apparente.
Prima di rendermene conto, percorsi quasi un chilometro e ciò costrinse sia me che il cane a una sosta di cinque minuti sotto l’acqua battente.
Faceva freddo, e la pioggia si era un po’ affievolita, ma tutto quel tempo sotto la tempesta non aveva giovato di certo al mio sistema immunitario.
Mi sentivo stupido, senza speranza e incredibilmente solo. Polegate era una cittadina di mare, ma era pur sempre non troppo lontana da Londra per cui, in un periodo dove la pesca non è florida e gli hotel sono semi deserti, ci sono davvero poche anime a sostare lungo le vie. Ero solo, anche in quel frangente ed era la consapevolezza che mi colpiva al petto e che faceva più male. Molto più della situazione in cui mi trovava.
Camminavo, camminavo, poi uno stop, e il pensiero tormentato; ero ancora in tempo per fare marcia indietro, prendere la macchina e ritornare a Londra, poi però il cane si fermava insieme a me, invece di proseguire per la sua strada, lanciandomi’occhiata di traverso e un abbaiare fastidio e continuo.
Beh? N’altra volta, ti sei fermato? Non ho tutto il giorno, seguimi senza fare storie.
Avevo accettato, ormai, di avere qualche tipo di disturbo psicofisico a causa dello stress post-traumatico della guerra, ma in quel momento - con lo sguardo del cane puntato addosso, e la sua possibile voce spuntata da chissà dove - mi sentivo in gabbia come un animale.
Sbuffai, riprendendo a camminare, perché alla fine non avevo alcuna alternativa e di tornare a casa non se ne parlava nemmeno.
Il cane parve soddisfatto di questa scelta - più felice del fatto che potesse riprendere la camminata, rispetto al fatto che avessi messo a tacere il mio buon senso - e continuò a trotterellare felice.
Le nubi si diradarono pian piano, mentre iniziavo la mia lenta salita verso l’ignoto. La parte alta della città non contava che poche case, abitazioni per lo più vecchie, sull'orlo della distruzione, e mi stupii non poco nel constatare che effettivamente, poche macchine trafficavano quella zona, come avevo già intuito poco prima.
La vista da lassù, tuttavia, era spettacolare. Zona d’ombra e colore si univano, formando anelli e giochi di luce particolari. L’arancione sfumava in un giallo soffocato oltre il mare, cristallino e immobile, in attesa di un vento che scuotesse le onde, portando la brezza marina oltre i confini della spiaggia e del porto, ma dentro le case in mezzo alle persone.
Mi fermai per un po’. Inspirai, espirai. Sembrava di essere in tutt'altro pianeta, e questo mi convinse, almeno in parte, che il mio viaggio di ricerca a cui mi ero sottoposto volontariamente non era stato del tutto inutile.
In questo tempo di riflessione che reclamai per me, il cane parve quasi comprenderlo e non abbaiò. Io ripresi a camminare di mia volontà con il cuore un po’ più leggero, e rinvigorito di una nuova energia inaspetata.

Non feci molta strada, comunque. Sylvia - perché in attesa di sapere il suo vero nome, non potevo continuare a chiamarlo cane - si era fermato davanti a un piccolo negozio. La porta in legno intarsiato era di un verde particolare e fosforescente, attorniata da fiori e erbe di un po’ ogni genere. Era vecchiotta, ma l’intero edificio lo era. Niente ristrutturazione, almeno all’esterno.
Mi chiesi chi fosse il proprietario, da quanto tempo abitasse lì... se aveva conosciuto Nonno John.
Mi riscoprii curioso come quando, quello stesso pomeriggio nel pub di Mrs Hudson, avevo conosciuto Sherlock Holmes.

Il cane rimase fermo davanti all’ingresso fuori dal cancello, per qualche minuto, finché si rese conto che nessuno sarebbe venuto ad aprire - come evidentemente facevano di solito -, decise di fare da sé.
Grattò la porta con le unghiette corte e affilate, convinto quantomeno di trovarla socchiusa. Anche quel tentativo non ebbe successo, così decise di ricorrere a misure drastiche: spostò il tappeto blu dell’ingresso con un colpo di naso, rivelando la chiave di riserva proprio lì sotto.

Poi mi guardò. E io lo guardai.
- Te lo puoi scordare. È inutile che mi guardi così, non c’è un solo motivo al mondo per cui io dovrei rischiare un arresto per violazione della proprietà privata solo per permettere a te di entrare in casa.
Sylvia mi guardò, abbassando le orecchie.
- Ho detto di no. C’è un parapetto qui, sarai riparato. Il tuo padrone tornerà presto.
Spinse la chiave vicino ai miei piedi, e si accucciò a terra, nascondendo la coda sotto le zampe.
Ero un ex soldato, uno con le palle. Avevo rischiato la vita per portare via i miei commilitoni feriti dai campi di battaglia. Non potevo farmi incantare dagli occhi di un cane. Era fuori discussione.
Assolutamente.
Non lo avrei fatto.
- Ti apro la porta e poi la richiudo, capito? La apro e basta.


Il negozio era un antiquariato; per lo più orologi, specchi e mobili. Il camino crepitava allegro, e il calore delle fiamme rinvigorì piano le mie ossa stanche e doloranti. Avevo promesso a me stesso che sarei uscito non appena il cane si fosse deciso ad entrare, ed ero più che convinto a seguire questa via: se me ne fossi andato subito, nessuno mi avrebbe visto e non ci sarebbero stati problemi. Era questa, la mia idea.
Poi, però, il mio sguardo era caduto su una strana targhetta appesa al muro di fronte all’ingresso e la mia curiosità aveva prevalso su tutto. Sul buon senso, in modo particolare.

Anche l’anima ha il suo peso [2], diceva.
Era intagliata a mano, e mi ricordava tanto quando anche Nonno John faceva lavoretti casalinghi che poi sfoggiava - contento e orgoglioso - per mesi e mesi, con i parenti e gli amici; persino per telefono, vantandosi di quanto avesse imparato da solo perché, ai suoi tempi, non c'era nessuno che t'insegnava come fare e dovevi arrangiarti.
- Pensavo che il cartello all’ingresso dicesse chiuso e fosse piuttosto esplicito.
Una voce cristallina e vagamente divertita mi solleticò il collo. Trattenni il fiato tanto da farmi venire la tosse e inciampai nei miei stessi piedi cercando di allontanarmi dalla presenza alle mie spalle, avendo come risultato solo lo sbattere contro la parete di fronte.
Il ragazzo dietro di me si lasciò scappare uno sbuffo. Un mezzo sorriso o una risata, non saprei proprio dirlo.
- Gesù Cristo! M-mi dispiace, mi dispiace tanto, io, non volevo entrare, è Sylvia, cioè... è il cane che mi ha detto di aprire.
Era in penombra, e mentre cercavo di riprendere il controllo sulle mie gambe, non riuscii a scorgere che un ciuffo di capelli del suo viso, prima che mi voltasse le spalle per aprire le imposte e far filtrare un po’ di luce in più.
Rise piano, mentre il tipiedo tramonto illuminava i suoi tratti spigolosi e particolari. Aveva gli occhi dell’azzurro più chiaro del cielo in tempesta. Parevano quasi grigi, con scaglie di colore strappate direttamente dal cielo.
- Il cane ti ha detto di aprire la porta del negozio? Teoria interessante. Suppongo che molti studiosi venderebbero la propria madre per poter fare esperimenti su Baron. [3]
- Il cane... Baron?
Il ragazzo mi fissò per un secondo di troppo. Adesso che questa storia riesco a raccontarla senza coinvolgimento emotivo - beh... non come all’inizio, comunque - mi rendo conto che quello fu l’esatto momento in cui lui iniziò a studiarmi. I suoi occhi, fin dal principio, avevano la capacità di inchiodarmi sul posto, senza paura, senza timore di risultare inopportuno.
Scandagliava ogni centimetro del mio corpo, ogni ruga e ogni espressione delle mie labbra.
Ricordo ancora, nonostante gli anni, i brividi che mi percorrevano il corpo quando s’incantava a fissarmi, magari davanti a una tazza di thé e io continuavo a parlare perché non mi accorgevo di niente.
- In realtà si chiama Gladstone. Mio Nonno non ha mai avuto buon gusto per i nomi, a partire da quelli dei suoi figli. Ho scoperto che uno degli antenati di questo sacco di pulci è morto annegato durante l’incidente della Baron Gautsch nel 1914. [4] Così...
- Particolare.
Lui annuì; sembrava soddisfatto della mia risposta. Preparò il thé senza chiedermi niente, nemmeno il mio nome, senza cacciarmi dalla sua proprietà minacciandomi di denuncia, nonostante mi fossi introdotto illegalmente e con una scusa idiota come il cane mi ha detto di aprire. Che idiota.
Era un tipo eccentrico e m’incuriosiva come aveva fatto anche Baron, nemmeno un’ora prima. Mi permise di sedermi sulla poltrona davanti al fuoco, mentre lui continuava a gironzolare per la stanza, spostando cose, toccandone altre e aspettando con impazienta che l’acqua arrivasse alla temperatura giusta.
Sembrava non riuscisse a stare fermo, e i suoi boccoli scuri ballavano sul suo viso una danza senza tregua.
Affascinante.
Non sono gay, non mi piacciono gli uomini. Ma al ricordo dei suoi occhi, così chiari e splendidi sotto la luce della sera, non mi viene in mente altra parola per descriverlo.
Affascinante. Una di quelle bellezze rare, che ti capita d’incontrare rare volte nella vita.
In quel momento non ci badai troppo - e non me ne accorsi subito - ma questi pensieri accompagnarono gran parte del mio tempo, per molte settimane a venire portandomi dove sono ora.
- Mrs Hudson avrebbe dovuto darti un ombrello. Nel retrobottega ne custisce a decine perché i suoi clienti non si distinguono per intelligenza e li dimenticano. Senza offesa.
La tazza quasi mi cadde dalle mani. Lui sembrava non essersi accorto del mio sgomento, e io non sapevo come farglielo capire. Deglutii, cacciando indietro il cuore al suo posto con una lunga sorsata di thé bollente, articolando nella mente ciò che avrei voluto dirgli senza incappare nell’ennesima gaffe.
- Come fai a sapere che ero al pub? Sono appena arrivato.
- Il colletto della camicia. Ci sono delle briciole di torta, sono recenti e se fossi stato più tempo sotto la pioggia sarebbero già state spazzate via. Le scarpe sono bagnate sotto e sopra, ma non nei lati: hai camminato poco e senza fretta. E poi... Baron non si allontana mai troppo dal locale di Mrs Hudson perché gli da i dolcetti avanzati dalla giornata prima.
Non so per quanto tempo rimasi a guardarlo. Probabilmente pochi secondi, ma in quei pochi secondi capii con certezza, ciò che avevo già intuito: speciale. Era una persona non comune, una di quelle che incontri per strada e che stuzzicano il tuo io interiore alla ricerca di parole e fatti che prima non avresti mai considerato.
- Strabiliante. Tu sei... strabiliante, dico sul serio!
Lui mi guardò, forse considerando la possibilità che lo stessi denigrando ma, che Dio mi sia testimone, la mia era pura meraviglia. Ammirazione. Non so cosa trasparisse dal mio volto, ma ricordo bene il mio stesso cuore graffiare con forza contro lo sterno, e i suoi occhi di diamante puntati dritti nei miei, alla ricerca di una bugia di cui non c’era la minima traccia.
- È troppa fatica dire “sì” o almeno “grazie”? [5]
Ridacchiò piano. La tensione svanì com’era arrivata.
- Non sono abituato a certe... espressioni di apprezzamento.
Fece una pausa, sorseggiando la sua bevanda. Dall’odore doveva essere davvero molto zuccherata - avrei scoperto in seguito che ne metteva sempre quattro cucchiaini - ma non mi diede fastidio, piuttosto contribuì a stimolare la mia curiosità verso quel ragazzo eccentrico e, dal mio punto di vista, spettacolare.
- Non ho una personalità semplice ma nessuno ha mai il coraggio di dire ciò che pensa, direttamente alla mia persona. Sai come si dice... quando bisogna uccidere un dio, è meglio che lo faccia qualcun altro. [6]
- Hai molta fiducia in te stesso.
- Ho molta fiducia nella mia intelligenza.
Mi piaceva parlare con quel ragazzo, mi sentivo in pace come non lo ero da tempo, e non mi accorsi così che il buio era calato fuori dalla finestra e che il fuoco aveva ormai finito di emanare calore: era tempo per me di congedarmi, per quanto non ne avessi alcuna voglia.
Il cane mugolò quando gli diedi una grattatina dietro le orecchie perché, anche se in maniera del tutto casuale, mi aveva fatto conoscere una persona tanto accattivante quanto incredibile.
Il freddo pungente dell’inverno m’investii come un calcio in pieno stomaco, e rimasi impalato all’ingresso per abiturmi al cambio di temperatura. Il padrone di casa non mi invitò ad uscire né mi mise alcun tipo di fretta.
Volevo rivederlo. Era inutile negarlo. L’unica persona riuscita a farmi dimenticare il dolore, l’abbandono, ogni problema che pendeva sulla mia testa come una Spada di Damocle dalla punta acuminata.
Non potevo permettere che mi sfuggisse via dalle dita, e non m’importava se poteva suonare equivoco. Non importava se era un uomo. Se era lui, andava bene.
- Posso tornare?
Il ragazzo mi guardò, come aveva fatto per tutto il tempo passato assieme. Ricordo ancora adesso il brivido freddo che mi percorse la schiena e che non aveva niente a che fare con la temperatura esterna.
Ghignò; un sorriso sghembo che mi tagliò il fiato in gola.
- Se vuoi...
- È una promessa?
Rise piano, rientrando in casa a passo verso e mi permisi di sorridere a mia volta, come non mi succedeva da fin troppo tempo senza mentire.
- I demoni non fanno promesse, John. [7]
Prima che potessi chiedergli spiegazioni, chiuse la porta e le imposte, e io rimasi solo fuori casa, osservando una lieve candela tremolante allontanarsi verso l’interno.
Volevo tornare. Sarei tornato per rivederlo.
E non gli avevo nemmeno chiesto il suo nome, anche se lui sapeva il mio.








Ps. I’m a Serial Addicted


Forza. Dai. Lo so che volete linciarmi - e ne avete tutti i motivi -, mi merito ogni colpo e schiaffo che mi vorrete tirare. Purtroppo, come ho già detto in altra sede, ho scritto in questo periodo ciò che mi sentivo di scrivere. Non posso forzarmi a fare ciò che non voglio, per cui abbiate pietà e perdonatemi, se potete. Oggi ero ispirata, ed è uscito esattamente così come doveva uscire. Spero solo che sia valsa l’attesa.

[1] Non riesco a togliermi dalla testa che il nome di battesimo di Anderson è Sylvia... perdonatemi.
[2] Citazione di Il castello errante di Howl.
[3] Baron è la statuetta del gatto presente nel negozio di antiquariato in I sospiri del mio cuore. Diciamo che non ho resistito e dovevo per forza mettercelo, come nome, è troppo figo quel gatto X°D
[4] Mi riferisco a questo.
[5] Citazione di La città incantata.
[6] Citazione di Principessa Mononoke.
[7] Di nuovo una citazione di Il castello errante di Howl.

Eh insomma, ecco qua il nuovo capitolo. In tutta onestà, spero che non vi faccia del tutto schifo. Io mi sono divertita da matti a scriverlo, e penso che alla fine l'importante sia questo u_u *viene picchiata* vi mando come sempre tanto amore <3



Jess

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