The Album, o Citazioni di PattyOnTheRollercoaster (/viewuser.php?uid=63689)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ring Ring, o Inizia da un funerale ***
Capitolo 2: *** Lollipop, o La danzatrice ***
Capitolo 3: *** Rain, o Frappuccino medico ***
Capitolo 4: *** By the time, o Nuovi maniaci ***
Capitolo 5: *** Blue eyes, o Fotografie ***
Capitolo 6: *** We are golden, o Una litigata ***
Capitolo 7: *** Billy Brown, o Salto nel passato # 1 - I Parte ***
Capitolo 8: *** Toy boy, o Salto nel passato # 1 - II parte ***
Capitolo 9: *** Dr. John, o Frammenti di una rivoluzione ***
Capitolo 10: *** Over my shoulder, o Un caso umano ***
Capitolo 11: *** Stuck in the middle, o L'appuntamento perfetto ***
Capitolo 12: *** I see you, o Tempo di attesa ***
Capitolo 13: *** Pick up off the floor, o Nasalis larvatus ***
Capitolo 14: *** Lover boy, o Musica ***
Capitolo 15: *** Big girl [You are beautiful], o Salto nel passato # 2 ***
Capitolo 16: *** My interpretation, o Reggere il confronto ***
Capitolo 17: *** One foot boy, o La famiglia Brady ***
Capitolo 18: *** Blame it on the girls, o Di malumore ***
Capitolo 19: *** Grace Kelly, o Tentati suicidi ***
Capitolo 20: *** Touches you, o Arruolato nell'esercito ***
Capitolo 21: *** Good gone girl, o Prima classe ***
Capitolo 22: *** Love today, o Chiens dans l'amour ***
Capitolo 23: *** Any other world, o Quel che rende felici ***
Capitolo 24: *** Happy Ending, o «Sì, lo voglio.» ***
Capitolo 25: *** Relax [take it easy], o Live ***
Capitolo 1 *** Ring Ring, o Inizia da un funerale ***
The
Album
o
Citazioni
Capitolo
uno
Ring Ring
o Inizia da un funerale
Il mio nome
è Michel Holbrook Penniman Jr. Sembra un nome molto
importante da portare sulle spalle, e le mie spalle, sebbene credo
siano abbastanza forti, non hanno molta voglia di essere sempre
così pesanti. Per questo motivo ho scelto un altro nome, un
nome meno complicato, uno che tutti possano ricordare per quanto
è corto. Un nome semplice, simpatico, colorato: Mika.
Nonostante questo non si possono comandare certe
vecchie abitudini, soprattutto se della propria madre, e lei, come
tutta la mia famiglia e i conoscenti più stretti, mi
chiamano ancora Michel. E tutti lo sanno, che ancora vengo chiamato
Michael dalla mamma, soprattutto quando si mette a strillare:
«Michael!»
Dio,
no, non sono neanche le sette di mattina.
«Michael!»
Alzo la testa e getto un’occhiata alla
sveglia. Be’, in realtà sono le dieci passate.
«Michael!»
Mugugno. Perché? Perché non
posso dormire fin quando voglio? In fondo sono già un uomo
bello che fatto, ho quasi trent’anni. Ah, le madri non
smettono mai di essere madri, anche se il loro pargolo è un
cinquantenne brizzolato. Ma comunque, cos’è tutta
‘sta fretta? Sono tornato a casa da appena un giorno dopo il
tour negli Stati Uniti, ed è già tanto che io non
sia andato a riposarmi a casa mia e invece sia passato a salutare i
miei. Adesso mi ricordo del perché non ci vengo mai quando
sono stanco. Per di più il mio appartamento non è
neanche così lontano da casa loro, insomma perché
cavolo ci sono venuto?!
«Michael!»
Mi tiro su e quasi cado dal letto. «Che
c’è?», strillo contrariato.
«Al telefono, è per
te!»
Sbuffo e riaffondo nelle coperte. Mi chiama per
quisquilie del genere? «Non possono richiamare?!»
La testa di mia madre sbuca in quella che era la
mia vecchia stanza. «Dovresti rispondere, è
importante.»
E va bene. Maledetti, svegliare una persona
all’alba delle dieci… Mi alzo e ciabatto fino alla
porta, dove mamma mi porge il cordless. «Pronto?»
Una voce di donna mi avvisa di qualcosa che non mi sarei mai
aspettato. «Buongiorno, qui è il Royal College of
Music, parlo con Michel Holbrook Penniman Jr?»
«Sì, sono io.»
«Volevamo informarla che uno dei suoi
professori, Walter Pagnin, è venuto a mancare la settimana
scorsa. Stiamo contattando molti dei suoi ex studenti perché
partecipino al funerale. Lei è disponibile signor
Penniman?»
La notizia mi colpisce come uno schiaffo. Non mi
aspettavo nulla del genere quando ho detto quel sonnolento
“Pronto?”. A saperlo prima, mi sarei dato un
contegno. Mi ricordo il professor Pagnin, insegnava solfeggio ed era
uno dei miei professori preferiti. Era un uomo alto e grosso, indossava
sempre giacca e cravatta e aveva quel modo di parlare che ti faceva
sentire subito a tuo agio.
«Signore?»
«Sì, sì ci sono.
Al funerale, intendo. Ci sono.»
«Può darmi il suo attuale
indirizzo per spedirle l’invito?»
Il funerale di Walter Pagnin si terrà
fra una settimana. Non sono del tutto sicuro di volerci andare;
immagino che tutti quanti saranno addolorati e tristi mentre io, per
quanto il professor Pagnin sia stato uno dei miei preferiti, non riesco
a sentire più di un dispiacere blando, controllato. Ho un
po’ paura di sentirmi fuori posto. Nonostante questo il
funerale è arrivato, e tutto è andato bene fino a
cerimonia ultimata.
Le panche della chiesa sono tutte piene fino a
metà, dove gli invitati iniziavano a farsi più
radi. A fine cerimonia parlo con qualche persona che ho riconosciuto,
qualche vecchio compagno di scuola, poi mi dirigo, sollevato eppure in
qualche modo un po’ meno allegro, all’uscita della
chiesa. Seduta sull’ultima panca c’è una
ragazza minuta che ha indosso una felpa leggera e il cappuccio calato
sulla testa. Non ci avrei mai fatto caso a lei se quella,
all’improvviso, non si fosse alzata precipitosamente per
uscire e non mi fosse finita addosso.
«Oh scusami, non guardavo dove
andavo», fa lei chinandosi a raccogliere il cellulare e una
piccola agenda che le erano caduti.
«Niente, non importa.» Tento
di raccogliere il tutto prima di lei, ma non ci riesco, però
quando entrambi siamo in piedi posso vederla in viso.
È molto più bassa di me, ha i capelli
di un biondo cupo, lunghi fino alle spalle, gli occhi verdi e labbra
grandi. Sembra stanca, ma io la riconosco lo stesso.
«Andrea?»
Lei alza gli occhi fumosi, occhiaie profonde le
solcano il viso. «Chi sei?»
Ho un attimo di smarrimento. O ho sbagliato
persona, oppure la mia faccia non rimane proprio impressa alla gente.
Eppure io e Andrea siamo stati compagni per quasi due anni prima che
lasciassi la Royal per incidere “Life in Cartoon
Motion”. «Sono Michael, non ti ricordi? Michael
Penniman.»
Andrea apre la bocca stupefatta, in una smorfia di
comprensione, e quella sua bocca carnosa disegna una
‘o’ perfetta. «Ma sì scusami.
Scusa, non ti avevo neanche guardato bene, ero distratta.»
Usciamo dalla chiesa insieme e cominciamo a
camminare l’uno affianco all’altro, verso il centro
della città, anche se non sappiamo bene dove stiamo andando;
non ci facciamo caso.
Ricordo bene Andrea, era una ragazza timida che se
ne stava sempre sulle sue. Era piuttosto cicciottella quando andavamo a
scuola, anche se all’ultimo anno aveva cominciato a perdere
peso. Ci siamo parlati spesso ma non avevamo un’amicizia
molto profonda, anche perché appena ho lasciato il college
ci siamo persi di vista. Assieme ci trovavamo bene, tutto qui.
«Quindi hanno chiamato anche te per il
funerale di Pagnin?»
«Sì, anche se veramente
l’avevo letto prima su un necrologio per strada. In
realtà non so neanche perché sono venuta, forse
solo perché sono nostalgica.»
«Ti offro un caffè, ti
va?» Mi fermo in mezzo al marciapiede e la guardo sorridendo,
incoraggiante. In fondo, forse anche io sono nostalgico, una parte di
me spera di poter ricordare con Andrea molte delle cose successe a
scuola.
«Sì,
d’accordo.»
Entriamo nel primo bar che troviamo, ci sediamo ad un
tavolino rotondo e ordiniamo due caffè e una fetta di torta
per me. Mi sistemo sulla sedia e mi rivolgo ad Andrea, puntellandomi
sui gomiti con un sorriso che mi va da parte a parte sulla faccia. Non
si direbbe che sono appena uscito da un funerale. «Allora?
Che mi racconti?»
Alza un sopracciglio e si stringe nelle spalle.
«Veramente, niente di interessante. Tu, piuttosto, ho sentito
che hai fatto un altro album. Com'è che si chiama?»
«The
Origin of Love, l’ho rilasciato l'anno
scorso.»
«Hai fatto un sacco di cose da quando te ne sei
andato dalla Royal, eh?» Per la prima volta
l’accenno di un sorriso compare sul volto di Andrea. Tiene il
cappuccio anche dentro il locale, ma leva la felpa poco dopo
perché comincia a fare caldo, siamo a metà
Maggio. In realtà il tempo qui a Londra è
orribile, come una ragazza con la sindrome premestruale: un giorno
è tutta amorevole, il giorno dopo una piantagrane.
«Sì è vero, ma
tutte queste cose le puoi trovare su internet.
Piuttosto…»
«Hai girato molti paesi?» Non
faccio neanche in tempo a chiederle che fa lei che mi interrompe.
«Sì, sono andato in un sacco di posti,
sia per i tour che per incidere i pezzi. Ma ad essere sincero non ho
mai tanto tempo per guardarmi intorno come si deve.»
«Oh Dio, dev’essere bello lo
stesso però. Mi piacerebbe tanto andare in
America.»
«Ci sono stato fino a una settimana fa,
ero in tour. Adesso mi fermo per un po’,
ricomincerò a fine Agosto.»
Gli occhi di Andrea scattano alla porta, alle mie spalle, e
lei si agita nervosa sulla sedia. «Mi dispiace che Pagnin sia
morto, era uno dei miei insegnanti preferiti», dice
all’improvviso. «Però, be’,
era vecchio. Di cosa è morto?»
«Gli è venuto un ictus, molto
forte. Il direttore della Royal mi ha detto che è rimasto
paralizzato per sei settimane prima di…», lascio
la frase in sospeso. Non è bello neanche da dire.
«Ah, ti prego parliamo di cose più
allegre!»
Andrea sorride e finisce il suo caffè.
«Hai ragione. Senti, perché non mi dai il tuo
numero? Io sono libera praticamente tutti i giorni fino alle dieci di
sera, e la mattina dormo almeno fino a mezzogiorno. Credo che sia
meglio che ti chiami io, se hai voglia.»
«Lavori di notte?»
«Sì, in un locale.»
Non dice altro, e io non indago. Le scrivo il mio
numero su un foglietto di carta e glielo lascio. Non appena Andrea me
lo strappa dalle mani si alza e scompare dal bar quasi di corsa,
salutandomi velocemente. Un uomo di mezza età si volta
mentre lei passa e fa un fischio che mi fa sbuffare di impazienza.
Cristo, che vecchio maiale! Spero di non diventare così.
Sono passati tre giorni da quando ho incontrato
Andrea al funerale. Non mi ha sconvolto la vita, intendiamoci, ma se ci
ripenso non posso fare a meno di ricordarmi quanto fosse strana in quel
momento. Mi ricordavo di lei come una cosetta bionda che sedeva sempre
dietro a qualcun altro, che parlava a voce bassa, e indossava abiti
troppo larghi anche per lei, come se volesse nascondervisi dentro.
Aveva delle amiche con cui passava la maggior parte del tempo e suo
padre la portava a scuola e andava a riprenderla ogni giorno in
macchina. Tutta questa timidezza non si addice a qualcuno che vuole
sfondare nel mondo assolutamente competitivo della musica, eppure
quando cantava capivi come mai era stata ammessa alla Royal Academy of
Music: la sua voce è qualcosa di spettacolare, sono convinto
che ce l’abbia ancora tutta in fondo alla gola, anche se
Andrea non ha accennato a nessuna carriera di cantante o simili. Mi
sembrava incredibile che una voce così potente potesse
uscire da una persona schiva come quella. Ammetto di essere curioso di
sentirla di nuovo cantare. Mi piaceva ascoltare gli altri compagni che
cantavano, e attendevo ogni volta l’esibizione di Andrea con
una certa impazienza. Non mi aveva mai deluso.
Eppure c’è un problema: lei
non chiama.
Non pensavo
che Andrea mi sarebbe mai mancata, non era mai stata parte
della mia vita in maniera tanto importante. Se ci penso,
però, in questi pochi giorni dopo il nostro incontro, mi
dispiace che non mi richiami. Probabilmente è una di quelle
persone che parlano tanto di amicizia ma alla fine non mantengono i
contatti. Insomma, tanto fumo e niente arrosto.
Rimango molto stupito quindi, una settimana dopo
circa, quando mi squilla il telefono alle quattro del pomeriggio.
Ring,
ring.
«Pronto?»
«Pronto Michael? Sono Andrea.»
Rimango zitto qualche istante perché
un’immagine stupida su internet ha catturato la mia
attenzione. Devo smetterla di guardare il pc quando sto al telefono!
«Pronto?»
«Eccomi. Ciao, come va?»
«Tutto bene grazie, e tu?»
Alzo le spalle, anche se lei non può
vedermi. «Al solito. Non sto facendo niente, sono
praticamente in vacanza.»
«Beato te. Senti, pensavo che magari ti andava di
fare un giro un giorno di questi. Io sono libera tutti i pomeriggi.
Pensavo che magari potevamo andare… che ne so, al cinema, o
a fare solo un giro in centro.»
«Sì, perché no? Anche
domani, se ti va.» Sorrido, incapace di trattenermi.
Perché mai, poi? Se mi fa stare così bene dovrei
organizzare un incontro di classe.
Oh, che ottima idea!
Ordunque... l'idea della fanfiction è piuttosto semplice,
sono io che non so spiegarla. In pratica ho fatto un capitolo per ogni
canzone dei primi due album, e in ogni capitolo ci sarà una
citazione dalla canzone (magari non proprio alla lettera,
però mi ci avvicinerò il più
possibile). Se mi è possibile farò anche
c'entrare il tema del capitolo con il tema della canzone, ma non vi
assicuro nulla!
Per cui preparatevi alla bellezza di venticinque capitoli (la
fanfiction più lunga che io abbia mai scritto, credo!) in
cui il nostro Mika ne passerà di tutti i colori: ci saranno
flashback del suo passato, gite al mare, cappelli a forma di pollo e
ovviamente l'intera famiglia Penniman, che non può mancare.
Se volete uno spoiler sul prossimo capitolo/canzone/citazione vi
segnalo il mio blog, e più precisamente se cliccate qui
avrete un piccolo anticipo sul capitolo di Domenica prossima.
Spero di avervi incuriosite! ^^
A Domenica prossima,
Patrizia
|
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Capitolo 2 *** Lollipop, o La danzatrice ***
Capitolo
due
Lollipop
o La danzatrice
Sposarsi è come
fare la dieta. Prima di cominciare credi di doverti togliere dei vezzi
a cui non potrai più accedere. Per questo motivo sono nati
gli addii al celibato. Sarà divertente, se non altro per
prendere un po’ in giro Richard, il fidanzato di Zuleika. Si
sposano fra qualche giorno, con una bella cerimonia in riva al mare. Il
fatto che Zuleika si sposi è come minimo assurdo, per me.
Insomma, dopo che le ho anche scritto Lollipop lei si va a sposare! Non
sarà mica incinta? Oh mio Dio, devo ammazzare Richard! Non
era in programma un omicidio per la serata…
Okay, basta farneticare! Dobbiamo portare lo sposo
alla sua festa privata, in un bel locale che si chiama Jewel
(“Perché qui non troverete ragazze, ma veri
gioielli!”, recitava così la pubblicità
e mi era sembrata tanto convincente), giusto per ricordargli che
dovrà dire addio alle tette delle altre ragazze e se solo
pensa a fare del male a Zuleika lo ucci… No, è
un’occasione per festeggiare, niente minacce, niente di
niente, anche se in fondo è di mia sorella che stiamo
parlando! Hm, grande dilemma.
Il Jewel è un locale ampio e scuro,
tappezzato di tendaggi rossi e pieno di tavoli dai quali partono alti
pali metallici che arrivano fino al soffitto. Quando io e gli altri
invitati arriviamo ci fanno accomodare nella stanza che
c’è apposta per le comitive, dove una ventina di
ragazze sono già pronte ad entrare e ballare sul piccolo
palco apposta per tutti noi. In realtà non sono
così impaziente di vedere le ballerine quanto di vedere le
reazioni degli altri, soprattutto quella di mio fratello
Fortuné, che sorride come un deficiente già da un
paio di giorni. Non che le ragazze non mi piacciano, ma non mi piace
particolarmente questo tipo di intrattenimento. Non so, mi mette
vagamente a disagio.
Dopo la prima ora ho già bevuto un paio
di drink e devo correre in bagno. Una ragazza con addosso solo un tanga
argentato si è presa la briga di ballarmi di fronte tutta la
canzone precedente, e io come uno scemo mi sono trattenuto anche se mi
scappava perché pensavo che sarebbe stato da maleducati
andarmene via così. Risultato? Corsa in bagno non appena la
canzone è finita.
Quando esco dal bagno, finalmente soddisfatto, mi
accorgo che una canzone che conosco benissimo sta suonando a tutto
volume. È Lollipop, è appena iniziata. Torno al
tavolo balzellando allegro e mi avvicino a Fortuné, che mi
guarda ridendo. «Devi ammettere che in un certo strano senso
è la canzone più adatta!», grida per
farsi sentire nella musica alta. In effetti…
Rivolgo lo sguardo alla ragazza sul palco: ha i
capelli biondi legati in due codini alti che, in teoria, dovrebbero
darle un’aria più naif, ma con il suo corpo in
movimento i pensieri non possono essere di natura casta, non proprio.
Mi avvicino al palco assieme agli altri invitati, sorridendo come un
deficiente, e mi appoggiò con i gomiti sul palco per
osservare il balletto, canticchiando la mia canzone. Forse in
me c’è qualcosa di strano: tutti guardano il
balletto, io canto la canzone.
Ad un tratto la ragazza cammina sicura verso di
me, un sorriso mieloso stampato in viso. Non mi sta guardando, forse
neanche mi vede con tutte le luci che ha puntate addosso mentre il
pubblico è nell’oscurità, ma io la
riconosco, ancora una volta.
«Andrea?» Questa volta non lo
dico con piacere e stupore, ma con la gola secca e gli occhi
spalancati. Lei non da l’impressione di avermi visto e
continua a ballare tirando fuori dal reggicalze un chupa chupa, che
scarta sul palco di fronte ad un amico di Richard e mette in bocca
mentre la canzone continua. Mi allontano dal palco a passi veloci, le
mani in tasca e la testa bassa, e mi incastro in un angolo della sala
senza perdere di vista Andrea che si agita sul palco come una
forsennata.
Dio, “Succhia
forte il tuo lecca-lecca”, ma come mi
è venuto in mente?! Guardo Andrea cucciare quel lecca-lecca
con addosso solo un tanga e delle calze nere, e penso di aver creato un
mostro. In compenso, la piccola folla sta letteralmente impazzendo, e
lanciano sul palco banconote che Andrea si china a raccogliere fin
troppo lentamente, mostrando loro tutta la sua gratitudine e molto
altro ancora. Devono avere una fantasia malata: Andrea è
(era, ora non lo è più) vestita praticamente come
una scolaretta della medie!
Ringrazio tutti gli Dei quando la canzone finisce,
e mi chiedo come mai ho deciso di ripetere il ritornello
così tante volte inutilmente. Almeno adesso so dove lavora
tutte le notti Andrea. Il giorno in cui siamo andati al cinema mi ha
abilmente fatto parlare di me tutto il tempo.
Andrea è una spogliarellista.
Quindi?
Che fare?
Be’, ma perché sono tanto sconvolto? In
fondo non è la mia vita, non è neanche la vita di
qualcuno a cui tengo moltissimo. È la vita di una
conoscente, che si fa quando si scopre che una conoscente fa la
spogliarellista? Niente, ecco. Perfetto, non devo fare niente. Ma
quant’è comoda la vita? No, non sono sconvolto,
è solo che non me lo aspettavo, tutto qui. Insomma,
è un po’ imbarazzante, siccome è una
persona che conosco, ma a parte questo…
Bene… quindi non devo fare nulla.
Perfetto.
Dovrei salutarla forse? Non so, forse la cosa la
farà sentire in imbarazzo. Ma comunque, che cacchio ci fa
qui a ballare in un locale di streap tease con la voce che si ritrova?!
Hm, vediamo un po’ dove va adesso, immagino che
avrà da fare, non è neanche l’una del
mattino. Forse non è opportuno disturbarla ora. Con un
po’ di fortuna non la rivedrò più.
Almeno, non seminuda.
Per qualche mia deformazione del cervello mi dirigo verso il
palco, da dove Andrea è fuggita non appena si è
resa conto di essere senza reggiseno davanti ad una trentina di
persone. Dietro ad alcune tende rosse c’è una
piccola scaletta, di appena quattro o cinque gradini, il che vi fa
capire quanto quel palco sia basso, apposta per allungare le mani e
sventolare biglietti da venti sterline. Dietro altre tende
c’è il palco, vedo un’altra ragazza
muoversi al ritmo di non so quale canzone, ma sulla mia sinistra
c’è una porta con su scritto
“Privato”. Dio, mi sento come un ladro. Forse
dovrei solo aspettare che Andrea esca per un’altra canzone e
salutarla nel modo più naturale possibile; il punto
è che non mi va di vederla di nuovo che si spoglia! Mamma,
voglio andare a casa…
Ficco la testa dentro alla porta e trovo un
corridoio con una porta per il bagno e un’altra a cui mi
avvicino. Busso, non risponde nessuno, solo un brusio di voci
concitate. Spingo piano la porta e, nel momento in cui compaio sulla
soglia, una ventina di ragazze strette in vestitini succinti si girano
verso di me, interrompendo qualsiasi cosa stessero facendo prima del
mio arrivo.
«Salve…», mormoro
con un sorriso nervoso.
Una di loro, mettendosi una forcina fra i capelli,
mi guarda rabbiosa e dice: «Chi cazzo sei? Non è
permesso entrare qui.»
«Scusate, scusate, non lo
sapevo!» Cerco di fuggire, ma mi hanno attorniato, mi
proteggo cercando di scomparire dietro la porta. Ucciso da un branco di
spogliarelliste! Che fine ingiusta, non mi sono neanche divertito a
guardarle ballare.
«Ah, non l’hai letto il
cartello che dice “Vietato entrare”?!»
«Sono dislessico, non so
leggere!» Be’, non è del tutto una
bugia, sono davvero dislessico. Però so leggere, ci tengo a
precisarlo.
«Che cosa succede?»
Finalmente! Una voce amica.
«Andrea!» Questa volta lo dico
con sollievo.
Lei, con un costume diverso, mi guarda allibita e vagamente
divertita. Una delle ragazze le chiede se mi conosce e lei per fortuna
mi salva. «Tranquille, è un mio amico. Adesso lo
mando via.» Sorridendo mi spinge fuori dalla stanza ed esce
con me, chiudendosi la porta alle spalle. «Che cosa ci fai
qui?», domanda poi mettendosi le mani sui fianchi.
«Non lo so, ti ho vista e pensavo di
vanire a salutarti. Non mi aspettavo di vederti!»
«Oh, grazie. Mi spiace ma di solito rimango qui
almeno fino alle cinque del mattino.» Indossa un bustino
nero, un cappellino a cilindro incollato ad un cerchietto, niente
calze, solo alti stivali pieni di borchie e catenelle. «Hai
sentito? Ho ballato la tua canzone. Ho scaricato tutti i tuoi album
qualche giorno fa, Lollipop è diventata una delle mie
preferite.»
Non sembra affatto imbarazzata di essere stata colta in
flagranza di reato. Immagino che se lo vedi come un lavoro come gli
altri non ti preoccupa più di tanto. Be’, se lei
non è imbarazzata non c’è motivo per
cui debba esserlo io. In fondo è la sua vita, deve averlo
scelto lei questo lavoro. Affari suoi, insomma. Certo, se una delle mie
sorelle anche solo mostrasse interesse per qualcosa del genere la
rinchiuderei in camera e piantonerei la porta come un bodyguard, senza
farla uscire fino a quando non avrà raggiunto i
quarant’anni… ma questo è un altro
discorso.
«Hai scaricato i cd?», domando
incredulo. «Bastava che me li chiedessi, io te li potevo
anche regalare.»
«No, no, non volevo chiederteli, non ci
si mette niente a scaricarli. Comunque, che ci fai qui?»
«È un addio al celibato.
Credo che diventerò molto popolare là fuori
quando dirò di conoscere una delle ballerine»,
commento pensoso.
Andrea ride e si sistema meglio il bustino. Ha un
seno grande, che le rimane tutto schiacciato sul petto. Sembra una
delle mie big girls, con la differenza che lei adesso è
magra come un chiodo. Ho sempre trovato simpatiche le big girls, credo
che siano ragazze che non hanno paura di mettersi in gioco. So che un
sacco di persone sovrappeso si trovano a disagio soltanto ad uscire di
casa. Be’ cazzo, le mie big girls si mettono a ballare di
fronte ad una folla con i vestiti più sexy che ho mai visto!
Sono fighe.
«Ti stai per sposare?»
«Chi? Io? No, no, mia sorella. Questa
è la festa per il suo fidanzato.»
«Ah, e qual è? Fammelo vedere. Dico
alle ragazze che è il festeggiato.» Andrea si
precipita di corsa verso il corridoio e scende i gradini per vedere la
piccola folla di ragazzi accumulata di fronte al palco.
Fortuné, approfittando della mia assenza, si è
avvicinato per guardare da vicino. Adesso vado a prenderlo in giro.
«Eccolo, è quello
lì», le dico indicando Richard, che esibisce il
suo sorriso più imbarazzato e cerca di voltare la testa da
tutte le parti tranne che sul palco. Ma sì, in fondo
è un tipo a posto. Mia sorella è sempre stata
fortunata con i ragazzi, tutti quelli bravi li trovava lei…
poi li mollava, e in un certo senso la cosa mi ha sempre dato un
piacere viscerale. Richard è stato il primo e unico che
è sopravvissuto per più di quattro mesi,
dev’essere amore.
«Non sembra che si stia
divertendo», commenta Andrea ridacchiando. «Non
importa, meglio per tua sorella. Mi dispiacerebbe se fosse il
contrario. Anche se non sono affari miei. Allora ci vediamo dopo,
d’accordo? Devo tornare il scena fra… una canzone
e mezza.» Sorride e fa per andarsene, ma io la fermo.
«Andrea», lei si volta,
«Perché non mi hai detto che lavori qui?»
Lei fa una smorfia e si stringe nelle spalle.
«Non so mai che reazione ha la gente quando dico che lavoro
in uno strip club, così non lo dico e basta.»
«Oh… sensato.» Lei
sorride e fa per andarsene di nuovo, ma io le chiedo quando ci vedremo
una prossima volta.
«Domani devo correre un po’ dappertutto,
praticamente tutti gli uffici comunali della città e di
fuori. Qualcuno mi ha lasciato in eredità una casa. Ci
credi? Una casa intera! Spero solo che non si scopra alla fine che
è tutto un errore.»
Ci mettiamo d’accordo per
Lunedì prossimo.
La pizzeria che ho scelto si trova in centro e ha
l’aria di un locale rustico dove impastano ancora a mano. A
giudicare dalle braccia del pizzaiolo è proprio
così, comunque come posto è davvero bello.
«Uno per due.» Il cameriere
è un ragazzo che avrà sì e no
vent’anni, alto, forse coreano o giù di
lì. Molto professionale, ci porta al tavolo e prende le
ordinazioni sorridendo tutto il tempo.
«Come va con la tua casa in
eredità?»
«Bene! Ho scoperto che è
mia.» Andrea sorride e disfa la scultura fatta con il
tovagliolo. Io non voglio disfare la mia, è così
bella. «In pratica apparteneva a uno zio di mio
padre.»
«Ma va? Aspetta… uno zio di
tuo padre, quindi il fratello di uno dei tuoi nonni.»
«Della nonna paterna. A quanto pare non
aveva figli, né aveva più fratelli, e gli
rimanevano solo i nipoti.»
«Ah, capito. E
dov’è questa casa?»
«È in campagna, fuori Hastings. Non
appena ho un minuto andrò a vederla. Mi hanno fatto vedere
delle foto, sembra una baracca vista da fuori.»
«Ah sì? Che sfiga.»
«Insomma, probabilmente non è
così male: è grande, ha tante stanze a quanto mi
dicono, e l’impianto elettrico è stato rifatto
cinque o sei anni fa. Dicono che è da
ristrutturare.»
«Ah, perfetto allora.»
Andrea assume un’aria rassegnata.
«Non posso permettermi di ristrutturare una casa intera. Ho
il mio mutuo da pagare, e la macchina e tutto quanto. Forse
però posso vendere la casa e guadagnarci
qualcosa.» Rinfrancata da quell’idea Andrea sorride
e dice grazie quando gli mettono la pizza di fronte.
«Quand’è che fai
vacanza in quel posto dove lavori? Scusa se te lo chiedo»,
disco poi, anticipando la prossima domanda, «ma è
legale quello che fai?»
Lei ride con ancora in bocca la pizza, tenendosi
una mano davanti alle labbra. È davvero fine, non lo diresti
di una spogliarellista, solo per degli stupidi pregiudizi.
«Sì, è legale. O almeno, io non mi sono
mai spinta più in là del mio lavoro. Ci sono
ragazze che lo fanno, di certo porta più soldi, ma
è meno sicuro: possono arrestarti se ti scoprono, o possono
prendersi certe libertà.»
«Cioè?» Mio
malgrado sono interessato. È uno di quegli interessi morbosi
su cui ti concentri anche se a una parte di te fanno schifo.
«Voglio dire che non ci si
può togliere tutto quanto, devi rimanere almeno con gli
slip, per quanto piccoli siano. Alcune ragazze si spogliano del tutto,
e si fanno pagare di più.»
«E com’è possibile
che ti scoprano?»
«I poliziotti in borghese», risponde lei
come se niente fosse dando un’alzata di spalle. «A
volte vengono, ma si riconoscono subito se sei abituata. Poi, se non
è un poliziotto, capita che il tizio in questione
s’immagina che vuoi andare a letto con lui e che sei tipo una
prostituta o qualcosa del genere.»
«Oh…» Deglutisco e
bevo un sorso di birra. Parlare di queste cose mi mette leggermente in
imbarazzo. «Come mai lavori lì?»
Andrea abbassa gli occhi e sembra molto, molto
concentrata sulla sua pizza e su come tagliarla in maniera ergonomica.
«È capitato.» Per un po’ sta
in silenzio, poi si riprende tutta ed esclama: «Ah! Mi avevi
chiesto se faccio le ferie. Certo che le faccio. Il locale è
chiuso ogni Domenica e Lunedì, e poi quando voglio prendere
delle vacanze basta che lo chiedo e io e qualche altra ragazza ci
mettiamo d’accordo, perché devono esserci un
numero minimo di ragazze in sala, almeno una per ogni tavolo.»
Una giornata non male, tutto sommato. Abbiamo
mangiato, abbiamo fatto un giro per il centro e poi siamo tornati a
casa. Andrea è veramente cambiata, ha perso quella timidezza
che la caratterizzava quando eravamo a scuola, è diventata
vivace e solare.
Ebbene sì... Andrea è una spogliarellista! u_u Ho
letto un libro divertentissimo che parla di spogliarelliste: "Candy
Girl - Memorie di una ragazzaccia per bene", di Diablo Cody, ed
è da quello che vengono le mie conoscenze in materia. Ve lo
consiglio, perché fa ridere un sacco!
A parte questo mi sono divertita a scrivere il capitolo, soprattutto le
farneticazioni di Mika riguardo agli spogliarelli e
Fortuné-maniaco. Ah, non credo proprio che Zuleika sia
sposata, però mi sono presa una licenza poetica, diciamo
così, e l'ho fatta sposare in giovine età solo
perché faceva un paradosso con Lollipop (quanto darebbe
fastidio a Mika, muahah!).
Vi lascio allo spoiler
del prossimo capitolo, voi potete lasciare una recensione,
ah! xD
Auguri a tutte le mamme che leggono o alle mamme di coloro che leggono
=)
A Domenica prossima,
Patrizia
|
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Capitolo 3 *** Rain, o Frappuccino medico ***
Capitolo tre
Rain
o Frappucino medico
Siamo a Maggio, eppure
è da tre giorni che c’è nuvolo.
Dov’è finito il sole? Maledetto, e io che volevo
andare al mare un giorno, magari lo dicevo ad Andrea e andavamo
assieme. Ma a guardare il meteo c’è nuvolo anche
sulla costa. Mi sto abituando alla presenza di Andrea, a sentirla quasi
tutti i giorni. Non uso i messaggi così spesso, non mi
piace. Per qualche motivo preferisco internet e le mail, anche dal
telefono. Comunque, una volta scoperto che Andrea ha una casella mail
ci mandiamo messaggi praticamente tutti i giorni. Non per forza
messaggi lunghi, a volte solo per metterci d’accordo per
uscire, o per chiedere “Come va?” e dopo tre ore
vedersi rispondere un laconico “Tutto ok”.
La settimana scorsa Zuleika e Richard si sono
sposati. Il matrimonio è stato bellissimo, c’era
tutta la famiglia, gli amici più stretti, e siamo rimasti in
piedi a festeggiare fino a tardi, mentre mia sorella e Richard si
godevano la loro prima notte di nozze. Hanno preso le ferie in
concomitanza ma partiranno solo fra una settimana. Cavolo, almeno loro
a Rio troveranno il sole.
È Domenica quando mi sveglio nel mio
appartamento e, dopo essermi fatto una doccia e la colazione, passo
finalmente in salotto e tiro su le serrande. Piove. Non ci posso
credere, siamo a Maggio e piove. Pioggia vera! Intendo dire che non
sono quattro gocce, è un cazzo di torrente che viene
giù dal cielo, come se qualcuno avesse piazzato una cascata
del Niagara di fronte alla mia finestra.
Oggi non avevo in programma di fare un gran che,
comunque.
Accendo il telefono e trovo una chiamata persa. Andrea. Ha chiamato
ieri notte quasi all’una… Io sarò anche
un pigro, però se posso all’una dormo.
Sarà la spasmodica ricerca di un orario normale quando non
lavoro come un folle. La richiamo e mi risponde la sua voce assonnata.
Guardo l’ora e mi accorgo che sono le dieci del mattino,
probabilmente a quest’ora dorme.
«Pronto?»
«Ciao Andy sono io. Cioè,
Michael.» Cavolo, non so mai riconoscere quando si
è abbastanza in confidenza da dire “sono
io” e sperare che l’altro non la prenda come una
minaccia da parte del maniaco di Scream.
«Lo so chi sei Michael, sei
l’unico Michael sulla mia rubrica. Ma lo sai che ore
sono?»
«Scusa, mi sono dimenticato. Volevo
sapere se ti andava di prendere qualcosa da bere stasera assieme prima
di andare al lavoro.»
«Oggi ho pausa, non vado a lavorare. Ho
fatto a cambio con una ragazza: mi è venuta un po’
d’influenza. A Maggio, ti rendi conto? È colpa di
questo tempo di merda. Nessuno vuole vedere una ballerina con il naso
pieno di caccole che tossisce come un camionista.»
«Ah, mi dispiace. Vuoi qualcosa? Voglio
dire… sei da sola in casa?»
«Sì.»
«Vuoi che venga a farti compagnia o
preferisci riposarti?»
Attimo di pausa dall’altra parte del
telefono. Forse si è addormentata.
«D’accordo. Vieni dopo pranzo okay?»
«Dove abiti?»
Mi dà l’indirizzo e ci
salutiamo.
Mi rendo conto ancora una volta di non sapere
nulla di lei. So solo il suo indirizzo, la sua mail, so che fa la
spogliarellista e che ha una casa in eredità. Poi basta. Il
fatto è che lei ha un dono: quello di parlare di qualunque
cosa per ore e ore. Potrebbe scrivere una tesi perfino sui marciapiedi
di Londra. In pratica, però, non so che ne è
della sua famiglia, non so come sono i suoi amici, non so se
ha un fidanzato, non so neanche qual è il suo colore
preferito.
A questo problema devo porre rimedio.
«Qual è il tuo colore
preferito?»
«Ciao.»
«Hai un aspetto orribile, fai davvero
schifo.»
«Grazie.»
«Allora, questo colore?»
«Verde, perché è quello con
più sfumature. Il blu è noioso, il giallo troppo
intenso, il rosso è scontato.» Andrea allunga un
braccio per prendere il mio ombrello e lo ficca nel portaombrelli,
oscurato in un angolo dietro la porta. «Metti la giacca
lì.» Mi indica uno sgabuzzino.
«Ho una cosa per te. Per noi»,
rettifico poi indicando il sacchetto di plastica che ho in mano.
«È contro la tua influenza.»
«Grazie.»
La casa di Andrea è grande ma in
pratica ha solo due stanze. Un ampio salotto diviso dalla cucina solo
da un arco gigante che occupa quasi tutta la parete, il che fa sembrare
cucina e sala un’unica grande camera, poi
c’è una camera da letto, molto grande anche
quella, e il bagno.
Fuori piove sempre più forte, sui vetri
le gocce si spiaccicano con quel suono sordo che fa sembrare la casa
bombardata da mille proiettili. Noi comunque siamo al sicuro, siamo
seduti attorno al tavolo circolare e ci gustiamo un frappuccino al
cioccolato. Un rimedio ottimo contro tutti i mali, dal raffreddore
all’ansia.
«Quindi oggi e domani sei in vacanza.
Che fai?»
«Guarisco. Se Martedì non
torno perdo una serata intera.»
«Paga molto quel locale?»
«Abbastanza. Loro pagano poco al mese,
ma si guadagnano un sacco di soldi con le mance.»
«Davvero? Da quanto lavori
lì?»
«Due anni. Praticamente sono una veterana. Sono
una di quelle che dura di più in quel posto, la maggior
parte delle ragazze che lo fanno rimangono lì qualche mese,
un anno al massimo, e poi se ne vanno. Di solito sono ragazze con un
sacco di problemi. Chi ha figli che non riesce a mantenere, chi viaggia
di qua e di là, chi non trova un altro lavoro. Il fatto
è che per molti versi è un lavoro logorante, se
lo prendi per il verso sbagliato.»
Andrea sorseggia il suo frappuccino e non mi guarda negli
occhi. Io rimescolo un po’ il mio prima di dire:
«Parli di loro come se fossero qualcosa a parte. Tu come mai
lavori lì?»
«È un modo facile per
guadagnare tanti soldi.»
D’accordo, non lo aveva detto, ma si
capiva: Andrea aveva bisogno di soldi. Perché? Dio, sono un
maledetto ficcanaso! Adoro spettegolare! «Tu… hai
bisogno di soldi?», domando cauto.
«E chi non ne ha?» Sorride, ma
è nervosa. Una pessima bugiarda, ma bravissima a dire mezze
verità.
«Già.» Abbozzo un sorriso e
guardo fuori dalla finestra. Piove ancora. «Ah, odio i giorni come questo.
Andare in giro con la pioggia è scomodo.»
«Sono d’accordo.»
Rimaniamo in silenzio per un po’,
leggermente in tensione per il discorso di prima.
«Comunque, sto cercando un altro
lavoro.»
«Come mai?», chiedo con
genuina curiosità.
Andrea sorride un poco. «Ho quasi
trent’anni, non potrò fare la ballerina per
sempre. Un giorno mi cadranno le tette e nessuno vorrà
più guardarle. Prima di allora, preferisco ritirarmi
dignitosamente e trovare qualcos’altro da fare.»
Un’idea folle mi balena in testa,
un’idea veramente pessima e brillante assieme.
«Andrea, vorresti lavorare con me?»
Le parole rimangono sospese nell’aria e
nello stesso istante in cui finisco di dirle mi rendo conto di aver
detto qualcosa di sbagliato. Andrea si alza e getta il suo frappuccino
nel cestino, la testa bassa e gli occhi amareggiati, ma fa finta di
niente. Torna a sedersi e dice: «Per fare cosa? Ti serve
qualcuno che ti organizzi le giornate?»
«No, mi serve una corista.»
Lei mi guarda con espressione indecifrabile.
Rimaniamo così a guardarci per non so quanto.
«Non… credo di essere la persona adatta.»
«Come no?!», esclamo voltando la testa e
seguendola con gli occhi mentre si allontana dal tavolo e mette a posto
un po’ la cucina. Quella ragazza è davvero
trasparente: si impegna in qualcosa per non dover parlare con me.
«Andiamo, perché no? Sei bravissima!»
«Non è un lavoro sicuro, quando finisci
di registrare l’album e di fare un tour io rimango senza
lavoro. Nessuno ti impedisce di rimanere in pausa per i prossimi dieci
anni e darti all’ippica.»
«Veramente il mio manager me lo
impedirebbe di sicuro, ma a parte questo…»
«Senti Michael, mi fa piacere la
proposta, ma è da tanto che non canto più. Non
credo di essere la persona adatta.»
«Vuol dire che vuoi fare la segretaria,
o la spazzina, o che so io?» Mi alzo e getto il mio
frappuccino ormai vuoto. «Tu hai una voce magnifica, hai
studiato perché diventasse ancora migliore, dovresti
usarla.» Mi avvicino a lei, che si è girata e mi
guarda con una mano appoggiata al piano della cucina e tamburella le
dita in segno d’impazienza.
«Io non credo che sia una buona idea. Ho
bisogno di un posto fisso. Sai quanto costa questa baracca a due
camere?», domanda facendo un gesto esasperato a indicare la
casa.
«Scommetto che solo con
l’incisione dell’album saresti in grado di pagare i
prossimi sei mesi. E il tour ancora non è finito,
c’è tutto Settembre, Ottobre e Novembre ancora, il
tour Europeo. Andremo a Parigi, a Milano, a Roma, a… che ne
so, in Australia.»
«Ma l’Australia non
è in Europa.»
«Lo so ma era per dire. Non ti va di vedere tutti
questi posti? A volte – poche volte, vabbè
– ci fermiamo un pomeriggio in più prima di
ripartire. Ce n’è di tempo per visitare un
po’ la città.»
«No, grazie.» Andrea sorride e
si dondola sui piedi. «Non posso proprio muovermi dalla
città, tanto meno per lunghi periodi.» Sembra
quasi soddisfatta di aver trovato una scusa plausibile, di avere un
motivo valido per non farlo.
«Come mai?»
«Impegni di famiglia, devo essere sempre
reperibile e poter raggiungere… tutta la città,
in tempo.» Borbotta qualcosa e poi dice di aspettarla un
attimo mentre va in bagno. Un vero peccato. Soprattutto adesso che Imma
è impegnatissima con il suo album. Non può
dividersi i due, poveretta, e io non potrei mai chiederle di rinunciare
alla sua carriera da solista per fare il coro a me. Per cui cerchiamo
una cantante diversa, però io non posso costringere nessuno.
Quando torna le dico che comunque fa bene a trovarsi un altro lavoro,
lei sorride e dice: «Non sarai mica preoccupato per la mia
incolumità?»
«Più o meno. È
come dici tu, non è un lavoro che puoi fare fino a che non
vai in pensione.»
«Cristo, t’immagini? A
ottant’anni ancora sui tacchi, credo che morirei
prima… di vergogna probabilmente.» Assume
un’aria seria e poi dice: «Comunque… le
tue coriste sono le stesse per il tour e per la registrazione del
cd?»
«Non tutte. Di solito per il cd ce ne
sono di più, a volte chiamiamo dei cori interi, delle
orchestre intere, per i live ne bastano anche due o al massimo
tre.»
Andrea ci pensa e nel frattempo si soffia il naso.
«Capisco. Comunque non c’è fretta, hai
appena fatto uscire l’ultimo cd.»
«Ci stai pensando per caso?»
«Non mi dispiacerebbe, se si tratta di
rimanere a Londra.»
Batto un palmo sul tavolo, trionfante.
«Bene, perfetto! Intanto puoi aiutarmi con un paio di canzoni
che mi sono venute in mente poco fa. Di solito ci lavoro da solo
all’inizio, e se serve il coro me lo immagino, o comunque
viene inserito dopo assieme a tutti gli altri. Ma se ti va di perdere
un po’ di tempo possiamo fare qualcosa assieme, solo con la
base a pianoforte. Solo per provare. Così ricominci a
cantare, non canti più da tanto dici?»
«No, fra una cosa e l’altra da
fare ho smesso. Comunque sono stufa di ballare al Jewel, non
è proprio il massimo, se lo prendi per il verso sbagliato
può essere orribile.»
«E tu lo prendi
così?», domando corrugando le sopracciglia. Sono
stranito, se ha resistito per due anni significa che non era proprio
distrutta, oppure che era disperata.
«Diciamo che, ultimamente, ci sto
pensando tanto. Vedo quel che sei riuscito a fare tu, poi è
morto Pagnin, e mi vengono in mente tutti gli anni scorsi. Ho sprecato
tante occasioni. Ma fare la spogliarellista non è il sogno
di una vita, diciamocelo, e credo
di essere pronta per fare qualcosa di più di questo.»
Sorrido un poco mentre la guardo. Poi starnutisco.
Oh no.
Ha finalmente smesso di piovere, sono passate due
settimane da quando ho proposto ad Andrea di aiutarmi a mettere a posto
un paio di nuove canzoni. Le ho chiesto se vuole venire a casa mia una
mattina, e lei ha detto sì. In casa ho una stanza che
è pensata apposta per suonare. Ho fatto insonorizzare i
muri, dentro c’è il piano, un tavolino, un divano,
anche un mini frigorifero per metterci l’acqua. Io suono solo
il piano, per cui qui dentro c’è solo il piano e i
microfoni. Ma vivo in una villetta a schiera, e non voglio che qualcuno
venga a lagnarsi del casino. A volte sono capace di cantare ore intere,
anche di notte quando non riesco a dormire. A parte questo,
è una stanza multiuso per la musica,
c’è un armadio gigante con dentro solo dischi in
vinile e cd, uno stereo e i documenti della casa discografica. Posso
essere ordinato quando voglio!
«Ciao, ti ho portato la
colazione.» Andrea sorride mostrandomi il sacchetto di carta
di Starbucks. «Per il frappuccino dell’altro
giorno, dovevo ripagarti.»
«Ah, grazie. Entra.» La porto
in cucina e ci sediamo al tavolo per mangiare.
Ha comprato una colazione che andrebbe bene per
sei persone: due cappuccini, due brioche con gusti diversi, un muffin
con mirtilli e una fetta di torta alle mele. Al mio sguardo si stringe
nelle spalle e dice: «Non so cosa ti piace,
quindi…» Io attacco la torta.
Una volta che finiamo di mangiare le faccio
sentire le due canzoni e le mostro il testo. Lei dice che sono belle,
che le piacciono, e le chiedo di impararle se le va di cantarle
assieme. I duetti mi divertono sempre molto. Andrea accenna qualche
nota incerta, come se si vergognasse, e i suoi occhi scattano sempre su
di me. Be’, che vuole? Non sbaglia una nota, ha solo
parecchie incertezze.
Dopo un paio d’ore la smettiamo, mi
volto verso di lei dallo sgabello del piano, sorrido. «Sei
molto brava.»
«Grazie.»
«Considerando che non canti da
anni…»
«Oh, non è vero che non
canto. Canto quando mi capita, canto in casa mia in maniera abbastanza
seria, ma nessuno mi sente, e soprattutto nessuno mi dice cosa
sbaglio.» Andrea si siede sul divanetto, prende un
po’ d’acqua e beve. «Ho bevuto come un
cavallo, adesso devo fare pipì. Dove…?»
Le indico la porta giusta e me ne torno nella stanza della musica.
Quasi subito un vibrare sordo mi fa distrarre. Il cellulare di Andrea
è posato sul divano, con il display che s’illumina
a intermittenza. Lo prendo in mano e leggo: John.
Uno squillo. Due squilli. Tre squilli.
Che faccio?
Quattro, cinque.
Pigio il pulsante e dico:
«Pronto?»
«Andrea?» Una voce profonda,
di uomo, sta dall’altra parte del telefono.
«Sono un suo amico, se vuole le dico di
richiamare, sarà qui fra cinque minuti.»
«D’accordo, le dica di
chiamare il mio studio e di fissare un appuntamento il più
presto possibile.»
«Lo studio di chi?»
«Lo studio del suo dottore.»
«Ah… D’accordo. Nel
caso, le dico comunque di richiamarla.»
«Grazie mille, scusi per il
disturbo.»
«Si figuri.»
Metto giù il telefono, e spero di non aver fatto
una cosa maleducata a rispondere. Sembra roba privata. Tutte quelle
cose lì, gli ospedali, o anche gli strip club, sembrano roba
privata, sembrano roba che se ci ficchi il naso sei uno che non sa
farsi gli affari suoi. E io sono un gran ficcanaso, in effetti. Andrea
torna e io le porgo il telefono. Scelgo una frase neutra per dirglielo:
«Ha chiamato uno. Uno- John, dice di richiamare.»
Andrea spalanca gli occhi e mi guarda con qualcosa
simile al disgusto in viso. Evidentemente la mia frase neutra non era
affatto neutra. «Che cosa ha detto?»
«Niente. Gli ho detto che eri in bagno e
lui ha detto di fissare un appuntamento con lui.»
«Perché hai risposto al mio
telefono?»
«Perché…», alzo le
braccia e le faccio ricadere, «Uff, non lo so. Non so mai
cosa fare quando squilla un telefono. Se era urgente ti saresti persa
la chiamata, se non lo era almeno lo sapevi. Che ne so io?»
Andrea mette il telefono in tasca e mi guarda per
un attimo incerta su cosa fare. Alla fine esce dalla stanza dicendo:
«Ci sentiamo, okay? Devo andare, grazie di tutto.»
Buonsalve! Qui il tempo è orribile, spero che tu, lettore,
te la stia passando meglio di me.
Vorrei subito fugare un dubbio importante riguardo al capitolo,
così nessuno me lo chiede nelle recensioni: Andrea non ha una malattia
incurabile! La storia del dottore è qualcosa di
diverso (muahahah! Non ve lo dico cos'è, altrimenti poi mi
accusate di sadismo u_u) che si svelerà più
avanti.
Qui inizia ufficialmente il mistero della fanfiction, e nei prossimi
capitoli Mika e Andrea passeranno un po' di tempo assieme per
affezionarsi, perché l'ho pensata bene, e poi
perché dovevo sfruttare venticinque maledette canzoni, che
sono veramente tante. Il punto è : romantici di tutto il
mondo, unitevi!
Passando ad altre piccole cose spero che avrete, prima o poi,
l'occasione di prendere un frappuccino da Starbucks, perché
è qualcosa di magnifico! Io l'ho preso in gita a Parigi e me
ne sono culinariamente innamorata (per quattro dei sei giorni in cui
siamo stati a Parigi io ho mangiato frappuccino).
Devo ammetterlo, non so nulla di come si registra un album per cui
tutto ciò che ho sparato su coriste e prove e sale adibite
alla musica sono azzardi. Se qualcuno pensa che siano ridicoli me lo
può dire e provvederò a vergognarmi come un cane
e informarmi un po' di più.
Per sapere quale sarà la prossima canzone/capitolo ecco
qui lo spoiler.
Augurio per una buona prossima settimana!
Patrizia
|
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Capitolo 4 *** By the time, o Nuovi maniaci ***
Capitolo
quattro
By the time
o Nuovi maniaci
Primo giorno di
Giugno, sto dormendo. Il campanello squilla.
Oh,
no, non svegliatemi, non voglio svegliarmi, non posso svegliarmi.
Il campanello ignora le mie proteste silenziose e
dopo un po’ squilla una seconda volta.
Maledizione!
«Chi è?»
«Sono Andrea», fa la voce
gracchiante al citofono. Le apro la porta e cerco qualcosa da mettere.
Non dormo nudo, ma non è bello presentarsi in mutande,
così almeno indosso dei pantaloncini. Fa caldo, ma una delle
cose belle di essere uomo è che posso stare a torso nudo, e
nessuno mi guarderà le tette, perché non le ho!
«Ho visto che ti piacciono le torte, te
ne ho fatta una. Cioccolato e amaretti.» Andrea compare di
fronte alla mia porta con in mano un grosso piatto coperto da una forma
per torte.
«Ma dai, grazie.» La faccio
entrare e lei posa la torta in cucina.
«Ascolta», comincia a testa
bassa, «mi dispiace per come ho reagito l’altro
giorno, è che è una cosa delicata. Niente di
preoccupante, solo una storia un po’ pallosa che non mi va di
raccontare.» Sorride per tentare di dissipare una coltre di
pesantezza che sta stagnando nella mia cucina.
«Quindi… mi chiedevo se ti andava di
accompagnarmi, dopo il week end, a Hastings, per vedere quella famosa
casa.»
«Quando?»
«Partiamo Lunedì pomeriggio e
torniamo per Martedì sera. Che ne dici?»
«Sì,
d’accordo», dico scrollando le spalle.
«Stavo pensando che potevamo fare una
cosa bella: andiamo lì, dormiamo lì tipo
campeggio, andiamo al mare e poi torniamo a casa. Io volevo fare delle
foto, vedere un po’ com’era conciata, e poi
contattare qualcuno eventualmente per poterla vendere o vedo poi che
fare. L’importante…!»
«È andare a
vederla», completai.
«No! È andare al
mare», fa Andrea solennemente.
Il mare, nel sud del paese, non è fra i
miei preferiti. Principalmente perché ci sono tanti altri
mari che ho visto che sono molto più belli di quello, ma
quando ti invitano ad un’avventurosa scampagnata è
meglio non essere schizzinosi.
Arriviamo in città e ci mettiamo quasi
un’ora a trovare la casa. È sperduta appena fuori
Hastings, in una piccola via sterrata lontana dal paese più
vicino un miglio e mezzo. A vederla da fuori è veramente
vecchia: a due piani, con uno di quei tetti a punta in tegole rosse
spioventi. Sembra uscita da un film dell’orrore.
«Mi hanno dato le chiavi un paio di
giorni fa», dice Andrea spegnando l’auto e
osservando la facciata. Poi tira fuori dalla borsa un mazzo di chiavi
che ne conterrà almeno una decina. «E adesso credo
che ci metteremo un po’.» Ma siamo fortunati:
peschiamo quasi subito la chiave giusta al quarto tentativo. La porta
è una bella porta antica in legno, con il pomello in ottone.
«Cavolo…», sussurro
entrando guardandomi attorno. La casa è enorme, si entra in
un corridoio e di fronte ci sono le scale. Ci sono tre stanze sulla
destra e due sulla sinistra. Tutto è ancora arredato con
mobili vecchi e c’è odore di stantio e chiuso.
«Apriamo le finestre», propongo, dirigendomi verso
la prima stanza e spalancando porta e finestre. Per fortuna che il sole
tramonta un po’ più tardi, perché
quando provo l’interruttore della luce quella non si accende.
«Mi sembra di stare in un film dei
Piccoli Brividi», dice Andrea lasciando la borsa su un divano
di pelle marrone.
«Infatti… Andiamo a vedere
su?»
Dopo due ore di peregrinazione scopriamo che la casa ha un
grosso salotto, una sala da pranzo, una cucina, due bagni (uno per ogni
piano), uno studio, tre camere da letto e un ripostiglio.
C’è anche la cantina, la soffitta e una specie di
capanno degli attrezzi. I mobili sono pieni di cose, come se la casa
fosse ancora abitata, montagne di camicie infeltrite, scatolame in
cucina, soprammobili brutti e vecchi. Questo zio non aveva affatto il
senso dell’estetica.
«Ho trovato delle candele!»,
annuncia Andrea entrando in salotto. «Ci saranno utili,
stanotte, se vorremmo andare in bagno.»
«Per fortuna che
c’è l’acqua.»
«C’è
l’acqua, c’è il gas. Manca solo la
luce.» Soppesa le candele, pensosa. «Ce
l’hai un accendino?»
«No, però possiamo andare a
comprarlo.»
«D’accordo. Pensavo di andare
a mangiare fuori, va bene?»
Apro un armadietto della cucina. «Di
sicuro qui non c’è nulla di
commestibile», dico chiudendolo di scatto. Credo di aver
visto una scatola di fagioli arrugginita, chiusa. Se ci sono dei
fagioli lì dentro, credo che saranno loro a mangiare me.
«Non è niente male comunque», dico ad
Andrea guardandomi attorno. «A parte tutte le cose da buttare
i muri sono buoni, niente macchie di umido né muffa. Gli
infissi sono vecchi, è vero, ma non sono da cambiare, solo
un po’ brutti da vedere. Magari li puoi
riverniciare.»
Lei si volta verso di me, sorridendo.
«Te ne intendi.»
«No, sto sparando a caso frasi che
suonano fighe.»
Andiamo fuori a mangiare, troviamo una trattoria piccola
piena di gente. Ordino una bistecca che è grande come un
bambino di dodici anni, infatti non riesco a finirla. Quando torniamo a
casa è buio, accendiamo le fedeli candele e riusciamo ad
arrangiare due letti singoli che stanno in una delle stanze. Andrea
è molto previdente: aveva portato delle coperte con
sé, per cambiare quelle vecchie. Ora capisco
perché ha riempito un intero trolley e un borsone da
ginnastica, che mi erano sembrati esagerati per una gitarella di due
giorni.
La mattina dopo mi sveglio perché il
sole filtra dalle finestre. Lancio un’occhiata ad Andrea, che
è stesa a pancia in sotto sul letto di fianco al mio. Mi
alzo, vado in bagno, mi guardo un po’ in giro. Certo che come
casa è veramente enorme. Torno in camera e mi appoggio allo
stipite, le braccia incrociate.
Non sono stupido, so che sta succedendo qualcosa.
E purtroppo succede a tutti e due. A lei succede che
c’è qualcosa che non mi dice, e potevo capirlo
all’inizio quando ci eravamo incontrati da poco, ma adesso
parliamo praticamente tutti i giorni da un mese, è come se
il processo di conoscimento fosse stato accelerato, siamo in simbiosi.
A me, invece, succede che Andrea comincia a piacermi. Non è
una cosa molto forte, insomma ci conosciamo da poco ma io sono uno di
quei tipi che si fissa con gli altri in fretta. Se una persona mi
piace, mi piace da subito. Sarò anche ingenuo, ma sono
così. E, cavolo, Andrea mi piace. Penso che sia una ragazza
carina, anche se a volte dice a tutti cose che potrebbe tenersi per
sé (tipo che deve fare pipì) e anche se nasconde
qualcosa. Anzi, forse questo ha contribuito a farla ancora
più interessante ai miei occhi.
Mi avvicino silenzioso e prendo i miei vestiti
dalla borsa che mi sono portato. Mio malgrado, mi fermo ancora a
guardarla. Lei si muove nel letto a una piazza e mi accorgo che
è sveglia, si gira verso di me con gli occhi cisposi, se li
strofina e poi biascica: «Cavolo Michael. Io sto sognando e tu ti avvicini
tutto furtivo mentre dormo, che cosa dovrei pensare di
te?»
«Che sono un maniaco?»,
domando sorridendo. Raccatto i miei vestiti e penso che forse, in
fondo, maniaco lo sto diventando.
Mi è sempre piaciuto il mare, quando
ero bambino ci andavamo sempre io e la mia famiglia e ho dei ricordi
bellissimi. Per questo una delle vacanze perfette, per me, deve avere a
che fare con il mare. Andare al mare con Andrea prometteva di essere
un’occasione d’oro, ma sinceramente adesso che sono
qui sulla spiaggia e mi sto abbrustolendo sotto il sole non penso
più a lei così tanto. Anche se, certo, poteva
evitare quel mini costume che si è messa. Fa vedere
praticamente tutto, soprattutto la parte sotto, ma anche quella sopra!
No anzi… ma lasciamo perdere va’.
«Vuoi un po’ di
crema?», domanda Andrea passandomi la sua.
«Sì grazie. Non ho pensato
proprio a niente, non ho neanche un altro asciugamano.»
«Ti presto il mio se vuoi.»
«No, non importa. Mi asciugo sotto il sole, non mi
dispiace.» E dire che dovrei essere abituato a viaggiare.
Dovrei aver capito quali sono le cose importanti che devi sempre avere
dietro. «Me la passi sulla schiena?», domando
sedendomi a gambe incrociate e girandomi dandole le spalle.
«Eccomi.» Lei si alza e mi
spalma come un body builder a Mr. Olimpia.
«Certo che sei preparata a tutte le
eventualità.»
«Mi viene naturale. In famiglia pensavo a un sacco
di cose anche per la mia sorellina minore, è una specie di
istinto materno fra sorelle.» Andrea sorride e poi si alza e
si para di fronte a me. «Allora? Andiamo a fare il
bagno?»
«Certo.»
Come al solito, entrare in acqua è una
specie di scandalo pubblico. Tutti ti guardano e vedono come affronti
le maligne onde alte sei centimetri. C’è stato un
periodo in cui saltavo per cercare di evitarle, poi però
cadevo sempre in acqua fino al collo e quindi i miei salti erano vani.
Adesso la mia tattica è una lenta e calma camminata, durante
la quale mi bagno la pancia, le braccia, la schiena, e quando mi
immergo sono convinto di essere fisicamente e psicologicamente pronto,
anche se non è così. Tanto, poi ci si abitua
subito. Il fatto è che farla così drammatica
è nella mia natura.
Io e Andrea siamo immersi fino alle ginocchia, quando
un’onda innaturalmente grande (arriverà almeno
all’ombelico, la bastarda!) ci arriva addosso. Io strillo,
lei strilla, tutti strilliamo!, e cado in acqua. Ovviamente. Mi rialzo
sputacchiando. Adesso posso starmene tranquillo a guardarla soffrire. E
infierisco. «Dai, buttati.»
«Ma che scherzi?»
«Ah, due secondi dopo sei già
lì che nuoti.»
«Senti, sono anni che non vado al mare,
va bene? Non lo ricordavo così traumatizzante.»
«Esagerata!», esclamo
cominciando a spruzzarle piccole goccioline addosso. Il bianco della
crema che ha sul petto e sulle spalle luccica sotto il sole.
«D’accordo!», esclama lei
prima di immergersi tappandosi il naso. Fa un paio di bracciate verso
il fondo, poi si rialza. L’acqua le arriva già
sopra l’ombelico. «Sai nuotare?»
«Sì.»
«Anch’io. Senti…
lì dev’esserci una secca», dice
indicando un punto più profondo dove sembra che la gente
cammini sull’acqua, «andiamo?»
«Okay.» Faccio qualche
bracciata, supero Andrea, mi volto e rido. Avanza goffa e lenta.
«Oh, menomale che sai nuotare!»
«Non sono più abituata!
Antipatico», borbotta guardandomi storto mentre mi supera a
fatica. «E comunque guarda che da piccola ho fatto un corso
di nuoto.»
«Ah, sì? E quanti anni sono
passati?»
«Solo una quindicina, più o
meno.»
«Aspetta, tu non hai la mia
età.» Ad un tratto un piede tocca il fondo
sabbioso e io comincio a camminare lentamente. Poco più
avanti anche Andrea tocca.
«Tu eri un anno avanti a me alla Royal,
no? Faccio ventinove anni a Settembre.»
«Io li compio ad Agosto. Sei
ufficiosamente invitata alla mia festa.» Cavolo io ne compio
trenta, mi sento vecchio.
«Perché
ufficiosamente?»
«Perché ancora non ho
organizzato una festa, mancano due mesi.»
«Giusto…»
L’acqua ci arriva ormai alle cosce ma la
spiaggia è lontana. Le nostre postazioni con sdraio e
ombrello sono irriconoscibili in mezzo a tutte le altre uguali.
«Pensavo che potremmo fissare dei giorni
per le nostre prove di canto, che ne dici?», domanda Andrea
inginocchiandosi e sedendosi sulla sabbia, in acqua. Io la raggiungo.
«Mi sembra una buona idea. Io sono
abituato a lavorare, quando incido un album, tutto il giorno tutti i
giorni. Alla fine finisci per odiare tutti quelli che lavorano con te e
dare a loro la colpa della fame nel mondo, ma con un caffè
poi tutto passa. Comunque non dobbiamo farlo tutti i giorni, immagino
che tu abbia altri impegni, e poi queste sono solo due canzoni che mi
sono venute in mente così. Quindi pensavo: tre volte alla
settimana, eh?»
«Sì, mi va bene.
Lunedì, Mercoledì, Venerdì.
Eh?»
«Perfetto. Quindi… Oh Cristo!»
Mi alzo dall’acqua e scivolo via a fatica verso la spiaggia.
Dei pesci grossi come rinoceronti nuotano in branco e si avvicinano a
noi.
Andrea li vede e sorride, poi si alza e mi segue.
«Che fai? Hai paura?»
«Mi fanno schifo, è una cosa
diversa. Se fossero cucinati e serviti mi starebbero molto
più simpatici.» Arranco verso la riva.
«Sono grossi come un cucchiaino da
caffè.»
«Ma stai scherzando? Sembrano dei
fottuti delfini!»
Andrea ride e mi segue sulla spiaggia. Quindici
minuti dopo ha ancora voglia di prendermi in giro per la mia fobia dei
pesci. Mi chiedo come la gente non se ne renda conto, sono orribili,
viscidi e ti strisciano in fondo ai piedi, di modo che non te ne
accorgi! Sono geni del male.
Eccomi di ritorno con il quarto capitolo.
Allora, mi pare che Mika abbia veramente paura dei pesci, se non erro
xD Credo di averlo letto da qualche parte, tipo le curiosità
di Wikipedia o cose del genere. Non potevo non sfruttare questa
informazione!
Poi, bah, non c'è nulla da dire su questo capitolo, solo che
potreste lasciare una recensione piccina picciò per dirmi
che ne pensate di questo Mika che si sta innamorando (o quasi)!
Il prossimo capitolo sarà pieno di suspance! ...hm, okay
forse no, però spero che metta un po' di
curiosità. Per di più ci sarà anche
una guest star:
Fortuné Penniman! xD Per le amanti di Fortuné,
preparatevi psicologicamente u_u Intanto vi lascio lo
spoiler. Voi per compensare potete lasciare una recensione!
(Vi ho convinto? No eh...)
Buona Domenica
Patrizia
|
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Capitolo 5 *** Blue eyes, o Fotografie ***
Capitolo
cinque
Blue eyes
o Fotografie
Andrea vuole essere a casa in
tempo per farsi una doccia e andare al lavoro con calma. Tenendo conto
che da qui a Londra ci vuole più o meno un’ora di
macchina partiremo verso le sei. Quindi abbiamo ancora due ore buche in
cui esplorare la casa dei fantasmi. In cantina trovo una scala e
decidiamo di aprire la botola della soffitta, che si trova in mezzo al
corridoio al piano di sopra. Quando la apro si alza una nuvola di
polvere che mi fa tossire. «Vuoi salire?»
«Sì.»
La soffitta è enorme, tutta impolverata,
è grande come tutta la pianta della casa. In fondo ha una
finestra tonda, ai lati delle altre finestre quadrate e piccole. In
mezzo riesco a camminarci in piedi, ma appena mi sposto verso i lati il
tetto scende e mi devo abbassare. Tutto è illuminato dalla
luce del sole che filtra anche dalle assi un po’ spaccate.
«C’è da rifare il tetto»,
osserva Andrea.
Ci sono parecchie scatole in giro, chiedo il
permesso di aprirle e Andrea mi dice che non c’è
problema. Trovo subito una grossa scatola che contiene tante foto,
anche molto vecchie. Foto moderne e foto in bianco e nero.
«Vieni a vedere. È possibile che in una di queste
foto ci sia anche tu? Se è un tuo prozio deve avere qualche
tua foto.» Evidentemente il mio senso di famiglia unita non
è così forte anche negli altri. Io ho tantissimi
parenti che ci invadono la casa ad ogni santa festa, ma mi rendo conto
che non tutte le famiglie sono uguali. Ad esempio, Andrea ha questo zio
che non ha mai visto.
«Non credo che ci siano mie foto, non lo conoscevo
neanche.» Si siede al mio fianco a gambe incrociate. Le prime
foto sono rovinate dall’acqua. «Forse conviene
portare giù della roba, sembra che qui dentro si allaghi
tutto quando piove.» Mentre lei scatta delle foto io porto
giù un paio di scatoloni. Li apriamo tutti, per vedere se ne
vale la pena di salvarli. Alla fine ne portiamo di sotto solo un paio,
quello con le foto, uno con delle collane e bracciali e cose del
genere. Portiamo via anche un frullatore nuovo di zecca che non
può avere più di tre anni (incredibile che
l’unica cosa sana della casa sia stata messa in soffitta).
Personalmente adoro guardare le vecchie foto, per cui mi
metto comodo ad osservarle. Anche se non so chi siano quelle persone,
le foto vecchie hanno sempre fascino, mi piace pensare a che fine hanno
fatto quelle persone. Insomma, l’ennesima cosa inutile che
faccio, come la mia mania ossessivo compulsiva di comprare sempre tre
cose di ogni prodotto e poi nasconderle per casa, perché
«così almeno se ne perdo uno ho
l’altro!»
Andrea si avvicina e comincia a guardare le foto.
«Riconosci qualcuno?»
«Qualcuno…», dice
lei vaga. Il suo telefono squilla, lei risponde. «Pronto?
Ciao mamma.» Sorride un poco e si alza.
«Sì, sono qui. Sì, le ho fatte le foto.
No, sono con un mio amico.» Andrea assume un’aria
annoiata. «No, non è un agente
immobiliare.» Pausa. «No, neanche un
architetto.» Pausa. «No.» Pausa.
«No.» Pausa. «No mamma, è un
vecchio compagno della Royal, fa il cantante.» Stacca il
telefono dall’orecchio e mi dice: «Mi ha chiesto in
sequenza se sei un muratore, un elettricista o un idraulico.»
«Che donna pratica!»
Andrea continua a parlare, ma si sposta in
corridoio. Dopo quasi cinque minuti non la sento più e la
conversazione si sta facendo lunga. Mi alzo per vedere dove sia finita,
non sia mai che è stata mangiata da un ratto gigante che ha
proliferato grazie alla muffa della casa. Sento la sua voce proveniente
dalla sala da pranzo e mi avvicino alla porta socchiusa. Lei
è seduta al tavolo, mi dà le spalle, tiene un
gomito sul piano e si massaggia la fronte, la testa inclinata.
«Lo so, ma è inutile», sta dicendo con
voce angosciata. «Susy, non ci riesco, va bene? Tu non dirlo
a mamma e papà, d’accordo? Muoiono se vengono a
saperlo.» Oh, origliare è una cosa brutta, ma
questa non volevo sentirla tutta, davvero. Ho appena fatto in tempo a
udire un’altra frase prima di allontanarmi. «Mi
sono fatta prescrivere degli antidepressivi da John il mese scorso, e
quel lavoro mi aiuta, non mi fa pensare a niente. Comunque, ho preso le pillole che mi ha
dato, magari mi aggiustavano un po’, ma quando
l’effetto se ne va sei ancora lì che ti chiedi
come mai sei ancora triste. Non funziona niente,
è inutile. Sono passati quasi quattro anni.»
Me ne vado. Cavolo, non avrei dovuto ascoltare. Me ne torno
in salotto e ricomincio a guardare le foto distrattamente. Dopo due
minuti Andrea torna e sorride come se niente fosse, come se due secondi
fa non stesse parlando di antidepressivi.
«Hai trovato dei reperti storici
lì dentro?»
«Veramente niente di niente. E sono
davvero troppe per continuare a guardarle.»
«Sì, infatti. Mettiamole
via.» Comincia a prendere le fotografie e rimetterle tutte
dentro la scatola, facendo combaciare bene i bordi come si fa con le
carte da gioco. Ad un tratto quando ne solleva un mucchio
particolarmente grosso quello le cade di mano e si sparpaglia lungo
tutto il pavimento. Lei fa un gesto di frustrazione e si accovaccia per
cominciare a raccoglierli, io l’aiuto. Ne tiro sul tavolo a
manciate e ad un tratto mi accorgo che Andrea si è fermata
sulla foto di due bambini: una è una ragazzina magra che
tiene in braccio un bambino più piccolo, che
potrà avere quattro o cinque anni al massimo, dà
la schiena a chi scatta la foto ma il viso è voltato e
imbronciato. Ha capelli corti e biondi tagliati a caschetto, grandi
occhi azzurri, limpidi, molto belli anche con quel cipiglio rabbioso.
Andrea guarda la foto attenta, le sopracciglia corrugate, gli occhi
indagatori, passa un dito sopra il viso del bambino. Poggia la foto sul
tavolo lontano dalle altre. Finiamo di raccoglierle e per ultima lei
sistema quella sulle altre, con una sorta di cura reverenziale.
«Me le porterò a casa, credo», dice
sorridendo e sollevando lo scatolone per metterlo vicino alla porta.
Sono passati un po’ di giorni da quando
siamo tornati dal viaggio nella casa degli orrori. Ho sentito Andrea
tutti i giorni ma non ci siamo visti. Il punto è che ho
voglia di rivederla, quindi la chiamo una sera, prima che esca per
andare al Jewel, e le impongo la mia presenza a casa sua per il giorno
dopo. Lei dice di sì. Ovviamente il giorno dopo arrivo
con largo anticipo e Andrea sta per mettersi sotto la doccia,
tanto che mi apre la porta con addosso l’accappatoio.
«Sei ben in anticipo. Non ho neanche mangiato. Fai quello che
vuoi, io ci metto poco», mi dice ciabattando dentro le
infradito.
«D’accordo.» Le
lancio un’occhiata sbilenca mentre si allontana nel suo
accappatoio informe.
Mi siedo in salotto e faccio qualcosa che non
faccio da un po’: accendo la tele. Non la guardo quasi mai.
Di mattina l’accendo per avere un sottofondo di qualcosa e
così mi ascolto anche il telegiornale, ma a parte quello
può benissimo rimanere spenta per settimane intere. Non sono
un tv-dipendente. Mi accomodo sul divano e noto che ci sono diverse
fotografie sul tavolino di vetro, tutte impilate con ordine. La prima
ritrae lo stesso bambino con gli occhi azzurri della foto che Andrea ha
trovato nella casa degli orrori. Forse un parente, anche se in
realtà non si assomigliano affatto. Prendo le foto e
comincio a scorrerle.
Mi si gela il sangue nelle vene quando capisco che
cos’ha fatto Andrea. Sembra una cosa veramente da pazzi,
soprattutto se non ne conosci le motivazioni.
In pratica, lei ha guardato tutta quella
gigantesca scatola di fotografie e ha scelto tutte quelle in cui
c’era questo bambino biondo. Ci sono foto sue da piccolo,
foto di quando era ragazzino, foto di quando era già
cresciuto. Chi cavolo è?
Sento la porta del bagno aprirsi e rimetto le foto
al suo posto. «Finito?», domando quando Andrea
torna in sala, vestita con abiti leggeri. «Che
facciamo?»
«Dobbiamo per forza fare qualcosa
assieme?»
Perché l’ha detto? Non si
rende conto che muoio se penso che lei non voglia stare con me?
…e va bene, forse non muoio, ma ci rimango un po’
male.
«Ah, a proposito, sai che forse ho
trovato un lavoro?»
«Davvero? Dove?»
«Per una ditta di sicurezza. Allarmi;
cose del genere.»
«Fantastico, e quando ti
assumono?»
«Veramente devo ancora fare il
colloquio.» Andrea si siede affianco a me. «Ti va
di vedere un film?»
«Sì, che film ti
piacciono?»
«I film… strani. Oddio, tutti
mi dicono che ho gusti strani, ecco.» Sorride e sparisce in
camera, poi torna con un pc portatile e mi fa vedere dei film che ha
scaricato. Dio, seduti così vicini su questo divano sento
benissimo il profumo dei suoi capelli umidi. «Ho scaricato un
film di Hayao Miyazaki, ti va di vederlo? Io non l’ho mai
visto.»
«Ah sì, conosco Miyazaki. Mia
sorella Paloma lo adora. Che film è?»
«La
città incantata.»
«Perfetto, è l’unico che non
ho mai visto. Che lei non mi hai mai costretto a vedere. Lo scorso
Natale abbiamo fatto quasi una maratona di Miyazaki mentre aspettavamo
che fosse pronto il pranzo.»
«Lo metto sulla chiavetta. Ci facciamo
dei pop corn?»
«Sono
d’accordissimo.» Dici minuti dopo siamo in cucina a
fare pop corn.
«Ci vuoi il burro o li mangi
così?»
«No di solito li mangio
normali.» Cospargo la ciotola di sale, mescolo e mi getto sul
divano.
Il film è bello, ma in questo caso devo
dire di amare alla follia Miyazaki. Verso una delle ultime scene,
quando ormai il lieto fine si avvicina e i pop corn sono ormai un
ricordo lontano, Andrea fa un versetto di commozione e piega la testa
di lato. Qualcosa come “Aohw,
che carini”. In quella frazione di secondo mi appoggia la
testa alla spalla e io le lancio un’occhiata di sbieco.
È ovvio che non dà al gesto la stessa importanza
che ci do io, perché io sono rigido come un mattone e lei
invece si accuccia e continua a guardare il film come se fossi un
cuscino dalla forma particolare. Abilmente, alzo un braccio e lo passo
sulle sue spalle. Per non destare sospetti dico anche:
«Già.» Credo che funzioni, lei non nota
subito il mio braccio sulle spalle e la mia mano che la stringe un
poco. La magia termina in fretta però, perché non
appena finisce il film lei si alza e porta via il recipiente vuoto di
pop corn.
«Molto bello, mi è piaciuto
tantissimo.»
Mi alzo e la seguo. Ho intenzione di chiederle di
uscire. «Senti, un giorno che non lavori ti va di uscire a
cena noi due?» Carpe diem, andiamo! Nei film funziona sempre.
Andrea mi guarda stringendo gli occhi.
«Hm, qualcosa come… Noi due,
cioè… Che significa?»
«Significa che io passo a prenderti,
andiamo in un ristorante e ti offro la cena. Non ti va?»
Lei s’illumina come se le fosse appena
venuta in mente una cosa. «Sai che c’è
un posto dove paghi quindici sterline e mangi tutto quello che vuoi,
quanto ne vuoi? E ti servi da solo tipo buffet.»
«Davvero?», domando curioso.
«Dovrei portarci i miei, si lamentano sempre delle portate
troppo grandi o troppo piccole. Se sono grandi è uno spreco,
se sono piccole hanno fame, bla, bla, bla.»
«E allora dovremmo andare a
provarlo», dice Andrea sorridendo incoraggiante.
«Va bene, Lunedì prossimo è
okay.»
A ripensarci qualche giorno dopo mi rendo conto che Andrea
ha trasformato la mia idea di cena romantica in cena informale fra
amici. Insomma, una banalissima cena. Una cena! Il giorno prima della
fantomatica e maledettissima cena vado a mangiare a casa dei miei.
Fortuné è finalmente
all’ultimo anno di college e studia tutti i giorni come un
pazzo. Sono molto fiero di mio fratello: è un cervellone,
uno di quelli che studia cose incomprensibili ai più. Vado a
trovarlo in camera sua e lo trovo immerso in un caos di fotocopie e
libri, mentre scribacchia un riassunto pieno di formule strane.
«Ciao.»
«Ciao, non ti ho sentito
arrivare.» Si gira sulla sedia girevole e mi guarda, io siedo
sul suo letto.
La stanza di Fortuné non è mai
cambiata da quando aveva più o meno quattordici anni.
È sempre stato un tipo serio, composto, un po’ il
contrario di me. Credo che nella mia famiglia tutti abbiano seguito
quello che era il loro sogno. È qualcosa di incoraggiante,
no?
«Che studi?»
«Fisica. Ho l’esame fra
quattro giorni.»
«E come va?»
«Bene, bene. E tu?»
Scuoto le spalle, non dico niente. Per chi mi conosce questi
sono segni rivelatori. In genere racconto spesso le mie paturnie alla
famiglia, siamo molto uniti, è difficile avere un segreto
solo per sé. Se è una cosa troppo imbarazzante da
raccontare ai miei genitori allora ho le mie sorelle, se è
una cosa che mi sembra da ragazzi lo posso dire a Fortuné.
Non sono abituato a tenermi molte cose dentro, e le uniche cose che
nascondo sono certi segreti di quando ero adolescente che mi
imbarazzano moltissimo. In genere però sputo fuori tutto
dopo un po’ di tensione.
E lui lo sa.
«Hai qualcosa?», chiede
Fortuné corrugando le sopracciglia.
«Ho… incontrato una vecchia
amica qualche tempo fa, una ragazza che veniva con me alla
Royal.»
«E?»
«E allora ha qualcosa che non va.
È come se non volesse uscire con me!», gli rivelo
in preda alla frustrazione.
Fortuné ride e mi guarda ilare.
«Mica è detto che tutti debbano voler uscire con
te.»
«Eh…», faccio di
sì con la testa, «Okay, detta così
sembra strano. No, voglio dire che lei nasconde qualcosa.
Cioè, non sono impazzito, te lo giuro.»
«Uhm, come quella volta che pensavi che
ci fosse qualcuno che ti seguiva in macchina, invece poi era
papà con la macchina nuova?»
«Senti, intanto mi seguiva!»
«Ma era papà! Come hai fatto a non
capirlo?» Apro la bocca per ribattere, ma lui mi anticipa:
«Vabbè, okay, non dirmelo. Lasciamo stare. Come
mai pensi che la gente ti nasconda qualcosa?»
Racconto a Fortuné tutta quanta la
storia, tutta la faccenda con tanto di particolari. Alla fine lui
è rimasto a bocca aperta, ma la prima cosa che dice quando
parla è: «Lei è quella
spogliarellista?»
«Mmm!», faccio rabbioso.
«Cioè, scusa, e ti stupisci
che non voglia uscire con te? Avrà ai piedi mille uomini
dove lavora che le regalano diamanti!»
Una possibilità che non avevo mai considerato.
«Tu dici?», domando terrorizzato. In fondo
anch’io posso comprare diamanti. Posso permettermelo, no?
«Ah non lo so, è
un’ipotesi.»
«Be’ questo non spiega le
fotografie, e quella cosa degli antidepressivi.»
«Ma, senti, voi siete amici no?
Chiediglielo e basta.»
«Ma è che in certe cose
è molto chiusa. Ci sono cose che non mi vuole raccontare,
perché dovrei spingerla?»
«Con qualcuno si dovrà pur
sfogare, o no? Tu arrivi lì come un inviato speciale del
Telefono Amico e lei ti dice tutto quello che vorrai sapere. Prova,
vedrai.» A volte Fortuné se ne esce con queste
perle di saggezza che ti fanno vedere la cosa da tutta
un’altra prospettiva.
«Tu dici?», ripeto pensoso
grattugiandomi il mento con le unghie.
«Certo. E se non vuole allora dille che
ti piace, si scioglierà come una sardina.»
Ci penso qualche attimo e tento di immaginare una
sardina sciolta. Forse Fortuné non sa
cos’è una sardina. Comunque non è una
cattiva idea. «Sì hai ragione. Lo farò.
Com’è che ancora non hai una ragazza
Fortuné? Con queste intuizioni dovresti essere molto
popolare fra di loro.»
Lui ridacchia e si gira verso i suoi studi.
«Scherzi? Sono come un Dio in facoltà.»
«E fuori dalla
facoltà?»
«Come un nerd.»
«Ah, ecco.»
Buonsalve!
Allora, mi pare di aver capito che Fortuné studi
architettura, non quelle cose matematiche che gli ho appioppato io
(povero!), però facciamo che mi sono presa una licenza
poetica. Insomma, la morale è: la fanfiction è
mia e decido io, mhuahahah! Okay, la smetto con le manie di
onnipotenza, scusate u_u
Non c'è nemmeno da dirlo, ma io adoro Fortuné,
soprattutto questo Fortuné, perché è
nerd è un po' sfigatello, però in modo simpatico.
A vederlo in foto a me sembra proprio così! xD Chi adora
Fortuné assieme a me? ^^
Cooomunque, non c'è molto da dire su questo capitolo, tranne
che il mistero si infittisce. La cosa comincia a diventare seria!
Magari avrete notato che ho messo che questa storia è sia
"commedia" che "drammatico": non sono pazza, ma diciamo che ci sono
momenti divertenti e momenti tristi. Sta arrivando il momento triste. E
nel prossimo capitolo... hmmm, posso solo mostrarvi lo
spoiler.
Quindi, per il momento vi saluto gente. Buona settimana a voi!
Patrizia
|
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Capitolo 6 *** We are golden, o Una litigata ***
Capitolo
sei
We are golden
o Una litigata
Sono al Jewel.
È pieno di ragazze con le tette in
mostra e uomini di tutte le età.
Con me, a darmi manforte, c’è
Yasmine.
«Dov’è questa
Andrea? Lo sai che non hai mai parlato di lei neanche una volta quando
eri a scuola?»
«Non eravamo così
amici», dico io distratto cercandola lungo il locale. Dio, se
sta ballando per qualcuno giuro che mi alzo e la pago il doppio solo
per farla sedere qui con addosso un passamontagna e una tuta da sub.
«Allora, posso indovinare?»,
domanda Yasmine bevendo il suo drink e guardando una ragazza che
passeggia di fianco al nostro tavolo. Si sta divertendo fin troppo per
i miei gusti, sono abbastanza sicuro che se tutto andrà per
il meglio sarà pronta a denunciare me e il mio locale di
strap tease con mamma e papà. Mi consolo, pensando che se
invece mando tutto a puttane fra me e Andrea lei mi
consolerà, con uno di quei discorsi positivi che fa lei e
una delle sue torte al cioccolato.
«Non ce la fai. Ce ne sono
troppe.»
«Quella.» Lei se ne frega del
mio consiglio e indica una ragazza formosa che balla sul tavolo di un
uomo ricco e grasso.
«No, ti ho detto che è
bionda.»
«D’accordo. Quella!»
«No.»
«Quella lì?»
«Quale?»
«Quella
nell’angolo.» Osservo bene dove mi sta indicando e
ci manca poco che mi alzi e vada da quel tizio a picchiarlo. Non ho mai
fatto a botte in realtà, per lo meno intenzionalmente.
Quando ero ragazzino mi hanno picchiato certe volte, alcune volte ce la
facevano, altre invece fuggivo. Ero diventato un velocista, se non
fossi riuscito a diventare musicista forse sarei diventato un atleta.
Comunque sia, Andrea è lì, in un angolo in piedi
accanto a un ragazzo che dev’essere più giovane di
noi. Lui ha i capelli cortissimi e indossa abiti larghi, sembra che
Andrea gli stia elencando qualcosa. Sono molto in confidenza.
«Chi è quello?»,
mormoro corrucciato.
«Magari un suo amico»,
suggerisce Yasmine.
«Mhhh.» Li osservo ancora un
po’ e sembrano passare ad una conversazione più
rilassata. Alla fine si salutano e Andrea comincia ad aggirarsi per il
locale. Io guardo lui, e mi sento veramente idiota quando mi rendo
conto che è il dj. «Cavolo, sono
paranoico», dico a mia sorella.
Per tutta risposta lei ridacchia e beve. Una
ragazza che avrà al massimo diciotto anni ci si avvicina
sorridendo, con un top nero addosso e una gonna cortissima.
«Vuoi una lap?», mi domanda mordicchiandosi un
labbro come se mi desiderasse intensamente; forse pensa che sia molto
sexy.
«Ascolta, fammi un favore, la vedi
quella ragazza?», indico Andrea, che in quel momento si
aggira in un’altra ala del locale.
«Pepper?»
«Pepper?»
«Sì, è il nome con
cui si fa chiamare qui al Jewel. Io mi chiamo Jucy.» Sorride
e tende la mano.
«Piacere, Michael. Allora, se la
incroci, le puoi dire di venire qui?»
«Come vuoi.» Jucy si
allontana, con il suo nome molto evocativo, un po’
imbronciata.
Yasmine si agita sulla sedia. «Sei
sicuro che vuoi che rimanga?» Io la guardo interrogativo.
«Voglio dire, vuoi davvero che io rimanga a sentire tutto
quello che vuoi dirle?»
In effetti no. Lei intuisce il mio pensiero.
«D’accordo, senti… io vado.
Chiamo qualcuno e mi faccio venire a prendere, o comunque…
boh, adesso vedo. Quando finisci chiamami, okay?»
«Va bene.» Passivo, la guardo
andare via sgusciando in mezzo a due ballerine.
Bevo, meglio bere quando non si sa cosa fare o si sa che si
sta per fare qualcosa di stupido. Per lo meno, lo farò con
leggerezza e ripenserò molto dopo al casino che ho combinato.
Dopo un po’ una figura familiare si avvicina con
passo sinuoso, ma appena mi riconosce si ferma e poi sorride.
«Michael», mi saluta Andrea appoggiandosi al
tavolino con entrambi i palmi. «Che fai qui?»
«Volevo vedere che facevi di
bello.» Una mezza verità. La verità
vera sarebbe: volevo vederti e basta.
Lei alza le spalle. «Il solito. Adesso credo che
punterò quello là.» Mi indica un tipo
sulla trentina in giacca e cravatta, piuttosto bizzarro in effetti, che
osserva il palco dove sgambetta una ragazza. Lancio
un’occhiata terrorizzata ad Andrea. Indossa un reggiseno
pieno di frange e un mini pantaloncino entrambi dorati pieni di
brillantini.
«Sei sicura che vuoi quello?»,
domando guardandolo con odio.
«Sì, perché
no?»
«No, non lo so. Magari preferivi i
vecchietti pieni di soldi.»
«Nah, quelli sono i peggiori. Cercano sempre di
allungare le mani. Con quello si va sul sicuro, sarà un tipo
terrorizzato dalle relazioni con un feticismo per i piedi, o cose del
genere.» Mi sorride, saluta e va via, prima che io abbia il
tempo di dire qualsiasi cosa.
La guardo mentre si avvicina al tipo. Parlano per
un po’ e alla fine lui si alza e scompaiono dietro una tenda.
Allarmato, faccio per alzarmi, poi mi rendo conto che Andrea non
è così stupida da mettersi in situazioni
pericolose, così fermo la cameriera più vicina.
«Scusa, cosa c’è dietro quella
tenda?»
«Ci sono le stanze singole, ci può
portare una ragazza per tutto il tempo che vuole, per quanti balli
desidera. Però costa di più. Sono trenta sterline
per il locale, e il doppio per la ragazza ad ogni canzone.»
«D’accordo, grazie.»
Fisso la tenda con insistenza per i seguenti quindici
minuti. Ad ogni movimento che fa sussulto, ma non esce mai Andrea con
il suo cliente. Dopo un quarto d’ora sono letteralmente
distrutto dal fissare quella tenda e mi vengono in mente le cose
più pazzesche che possono succedere lì dentro.
Per attutire l’ansia ordino il secondo drink, questa volta
bello forte. Quando ho finito di berlo una piacevole pesantezza mi si
mescola davanti agli occhi, e mi sembra di rivedere Andrea in sala. Le
faccio segno di venire da me. Lei è un po’
scocciata.
«Che hai? Non puoi chiamarmi sempre,
perdo tempo.»
«Andiamo in uno di quei camerini
privati.»
«Devi sborsare trenta
sterline», protesta lei. «È successo
qualcosa?», chiede poi preoccupata.
«Ti devo parlare.» Mi alzo e la prendo
per un gomito, spingendola verso la tenda del mistero. Oltre, in
realtà, non c’è un granché,
delle anguste scale a chiocciola che vanno verso il basso. Le scendiamo
appiccicati, praticamente la guido tenendole due mani sulle spalle.
«Michael mi fai preoccupare. Significa
che è davvero successo qualcosa?»
«Non proprio.»
Arriviamo in fondo e un uomo grande e grosso mi fa
pagare trenta sterline. Dietro di lui c’è un
corridoio sul quale danno una miriade di porte, alcune chiuse, altre
aperte. Andrea si dirige sulla prima che c’è
aperta e mi fa segno di entrare. Dentro, la stanza è
piccola, c’è un divanetto a forma di mezzaluna in
pelle rossa e davanti un tavolino tondo con un palo metallico che
arriva fino al soffitto. Andrea si siede e leva le scarpe con il tacco,
anche quelle sono tutte d’oro e brillanti. «Allora?
Che cosa è successo? Oddio, questi tacchi mi uccidono,
domani avrò i piedi di Big Foot.»
Io cammino un po’ qua e là
lungo la stanzetta poi mi siedo anche io. Non è facile dire
queste cose senza sembrare un maniaco paranoico. «Tu mi stai
nascondendo qualcosa.» Lei infatti – prevedibile
– fa una faccia a metà fra il divertito e
l’incerto. «Aspetta, non dire niente. Allora, mi
piacerebbe che tu parlassi con me dei tuoi problemi, ma è
evidente che non lo vuoi fare. Però credo che parlarne con
qualcuno ti aiuterebbe, davvero. A parte questo non so
cos’hai, anche se è logico che hai qualcosa. Il
punto è… perché non me lo dici?
Cioè, è da quasi due mesi che non facciamo altro
che vederci e parlare. Siamo andati al mare per due giorni a vedere
quella casa spaventosa! Insomma, credevo che fossimo amici.»
A questo punto la faccia di Andrea ha perso ogni traccia di
divertimento, è quasi disgustata. Non sapevo di fare questo
effetto alle persone.
Per qualche secondo sembra voler cercare le parole adatte,
arriccia la bocca come a voler parlare e all’ultimo momento
rinuncia. Alla fine, scoppia: «Che cazzo stai
dicendo?»
La guardo allibito. Che cosa dovrei rispondere? Cosa sto dicendo?
«Io-io non lo so…»
«Non lo sai! E vieni qui a farmi perdere
tempo al lavoro?!»
«Ecco! Ad esempio, perché ti
tieni questo lavoro? Hai così bisogno di soldi, come
mai?»
«Non credi che se non ti racconto tutti i
particolari della mia vita privata è perché
voglio tenermeli per me?», domanda rabbiosa. Domanda
retorica, ovvio. «Tu non passi la giornata a raccontarmi ogni
tuo singolo segreto, o no?»
«La mia vita non è
così interessante da doverla raccontare a tutti!»
«Ma se vivi per raccontare a tutti delle
tue cose, con le tue canzoni!»
«E tu?», la attacco,
«E tu per cosa vivi, sentiamo? Per vestirti con cose da
togliere subito dopo? Per mettere quelle scarpe d’oro
brillanti che ti fanno male?»
«Sì!», strilla lei testarda.
«Sì,
io vivo per brillare, va bene? Non certo per te, non…
per stare a raccontarti ogni singolo secondo della mia
giornata.»
«Lo vedi che hai qualcosa?»,
insisto indicandola con un gesto della mano. «Non appena si
parla di te cambi discorso, come si fa a conoscerti se tu non lasci
entrare le persone? Che hai da nascondere?!»
Andrea tiene le braccia conserte e le labbra
strette, e continua a scuotere la testa come se niente di quel che dico
avesse senso. Alla fine fa un gesto di frustrazione e si rimette le
scarpe. «Ascolta, io ho da fare adesso va bene?» Si
alza e se ne va, troppo veloce perché io possa raggiungerla.
Per lo meno avrò una torta al
cioccolato.
«Dov’è la mia
torta?», chiedo funereo aprendo la porta del mio appartamento.
Yasmine entra con aria addolorata, niente torta fra le sue
braccia, solo un sacchetto di Starbucks. «Ho finito le uova e
anche il cacao, mi dispiace tantissimo», fa abbracciandomi.
«Però ti ho portato qualcosa che ti piace:
frappuccino al cioccolato, lo vuoi?» Sorride e mi porge una
confezione grande di frappuccino. Io mi rabbuio.
«No.»
Yasmine lascia tutto in cucina e io la seguo
depresso. Lei mette la cannuccia nel suo bicchiere e comincia a bere.
Oh, Frappuccino, mi riporti alla mente troppi ricordi. Però,
l’odore del cioccolato…
«Okay, ho cambiato idea.» In
fondo, dicono che il cioccolato liberi le endorfine e faccia sentire
felici. Forse funzionerà anche con me.
«Quindi non è andata molto
bene ieri.»
«È stato uno
schifo.»
«Mi dispiace.» Mia sorella
siede al tavolo e poi domanda: «Scusa se te lo chiedo, ma che
cosa vi siete detti?»
Sbuffo e mi ficco una mano nei capelli, sedendomi
al suo fianco. «Ma che ne so, le ho detto che lei aveva
qualcosa da dire, ma non lo diceva a nessuno, e che noi eravamo amici e
che a me poteva dirlo. Lei si è arrabbiata, e abbiamo
cominciato a litigare e dirci cose stupide.» Bevo dalla
cannuccia a grandi sorsi.
«Ma… Lei è una
persona molto riservata, quindi.»
«Per favore, puoi stare dalla mia parte una
volta?», domando acido. «Puoi dire che Andrea
è una pazza, sclerata, asociale, e che io sono la vittima
della sua follia?»
«Andrea è una pazza sclerata,
un’asociale. Tu, tesoro, sei solo un ficcanaso senza tatto
vittima della sua follia.»
Alzo gli occhi al cielo, esasperato. Yasmine fa
sempre l’avvocato del diavolo!
«Okay, non sto dicendo che è
tutta colpa tua. Ma parlare in quel modo a qualcuno che non vuole
parlare dei suoi problemi con gli altri non è proprio la
tattica giusta. Non dovevi prenderla di petto forse, dovevi essere un
po’ più diplomatico. E poi scusa non eri
lì per dirle che ti piace?»
«Ho... perso la voglia a metà
strada. Dirglielo lì non era bello, così ho
ripiegato sul secondo argomento di conversazione.»
«Oh», Yasmine beve il suo
frappuccino. «Dovresti dirglielo però.»
«E come? Scommetto che non mi vuole
neanche più sentir nominare.»
«Davvero, Michael, ti scoraggi
così in fretta? Non sei così mollaccione di
solito.»
Ha ragione.
Quando Yasmine se ne va rimango in cucina, a
pensare furiosamente. Lasciato
qui per conto mio mi faccio solo del male a pensare certe cose, di me e
di Andrea, e penso anche che forse impazzirò. Ancora mi
chiedo come cavolo ho fatto a lasciare che tutta questa situazione mi
dissanguasse così.
Toc, toc, toc.
«Andrea!»
Toc, toc, toc.
«Andrea!»
Toc, toc, toc.
«Andrea!»
La porta si apre e lei compare dietro, furiosa.
«Che cosa stai facendo?»
«Scusa, è da quando
l’ho visto in tv che voglio farlo.» Mi dondolo un
po’ sulle gambe. «Posso entrare?»
«Sì», sospira
stancamente facendomi spazio per lasciarmi passare.
«Ascolta», mentre si chiude la
porta alle spalle cerco le parole adatte, «mi dispiace per
come mi sono comportato l’altra sera. Non volevo darti
fastidio, volevo dirti delle cose, e non le ho dette nel modo e nel
momento giusto.»
Andrea mi guarda incerta, ma non mi interrompe.
«In realtà, quello che voglio
che tu sappia… Io non sono bravo a parlare di queste cose
serie», abbozzo un sorrisino di scuse. «Tu mi piaci
Andrea, mi piaci tanto, da… qualche settimana. Per questo ti
ho detto quelle cose l’altro giorno, vorrei che tu parlassi
con me di tutto quello che ti fa star male, così puoi stare
meglio credo.» Mi sono avvicinato a lei e le ho posato le
mani sulle spalle. Lei non dice nulla sulla mia rivelazione, solo mi
guarda con espressione indecifrabile e non riesco a capire che cosa
pensa. L’abbraccio e me la stringo contro come se fosse
l’ultima cosa che posso fare. Poi il mio istinto agisce per
conto proprio.
Mi allontano repentino e le poso un bacio umido
sulla guancia. Sento che s’irrigidisce fra le mie braccia, ma
non si sposta. Faccio continuare la scia di baci fino ad arrivare
all’angolo delle sue labbra, che tocco con una piccola parte
delle mie. Quel minuscolo contatto, durato una frazione di secondo, mi
piace da matti. Le sue labbra sono morbide. Baciarle tutte quante
intere dev’essere una cosa pazzesca. Faccio scivolare le mie
mani fino al suo collo e le mascelle. Sono combattuto: rischio e la
bacio, oppure vado sul sicuro e la lascio andare? E magari fuggo,
già che ci sono, dall’imbarazzo o da una sua
eventuale mazza da baseball. Un sacco di persone tengono una mazza da
baseball in casa, anche se può sembrare assurdo in un primo
momento.
Un telefono squilla e noi ci allontaniamo
repentini. Andrea risponde e rimane in ascolto per un istante. Poi il
telefono le scivola dalle mani, cade a terra, e io guardo il suo viso.
Esprime solo terrore.
Salve a tutti!
Cominciamo con lo spiegare un paio di cose:
Se non erro Yasmine abita all'estero ma io ho fatto che abita a Londra,
o per lo meno vicino, perché mi andava così.
Poi, un'altra cosa, molto più scema xD La parte finale del
"Toc, toc, toc, Andrea!" è ripresa da Big Bang Theory, una
sit com, per cui anche il fatto che Mika l'ha visto in tv e vuole
imitarlo potrebbe essere vero! Se qualcuno guarda Big Bang Theory sa
cosa ho citato. In caso contrario potete vedere un pratico video
esplicativo qui
xD
Se volete leggere lo spoiler cliccate qui,
se volete ammorbarvi con le mie opinioni personali sulla nuova canzone
che ha fatto uscire Mika, Make
You Happy, potete invece cliccare qui.
Ciao ciao a tutti! Lasciate una recensione, mi raccomando u_u Alla
settimana prossima =)
Patrizia
|
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Capitolo 7 *** Billy Brown, o Salto nel passato # 1 - I Parte ***
Capitolo sette
Billy Brown
o Salto nel passato # 1
– I parte
Ma come ho fatto a cacciare me stesso in una situazione del
genere? Veramente, come ho potuto? Di solito sono così bravo
a cacciare in brutte situazioni gli altri, come quando da piccolo ho
dato la colpa a Paloma di aver distrutto il divano a forza di saltarci
su, e invece eravamo stati io, Zuleika e Fortuné. O come
quando ho dipinto Fortuné con l’evidenziatore e ho
detto che era stato lui – mi hanno creduto solo
perché Fortuné aveva tre anni e ancora non sapeva
difendersi verbalmente.
In
fondo, comunque, sono ancora in tempo per girare i tacchi e andarmene,
non mi ha visto nessuno. Sì, potrei farlo…
Ma
mi è ci è voluto così tanto per
arrivare fin qui! Ho preso tutto il coraggio che ho e persino due
autobus diversi!
Alzo il braccio e suono alla porta. Dlin dlon! Okay, è fatta.
Una signora
piccola e grassoccia, con lunghi capelli biondi, mi apre la porta poco
dopo. Sono abituato a pensare alle donne un po’ pienotte come
affettuose e dolci, come mia madre ad esempio, ma questa qui fa
veramente paura. È arcigna, sembra uno di quegli orribili
nani da giardino che a volte si vedono davanti alle case.
«Buongiorno», mormoro abbozzando un sorriso.
«Sono Michael, c’è Theodore?»
La
signora si scosta dalla porta e mi fa passare. «È
in camera sua.» Mi indica la strada e scompare in
un’altra stanza. Mi affretto verso la camera di Theo, la
spalle strette per passare in quel corridoio piccolo dove qualcuno ha
anche avuto la brillante idea di mettere un mobile.
«Theo?» Apro la porta e metto la testa
nella stanza.
Lui
è lì. Sta seduto alla scrivania e quando entro si
volta. Theodore Scott è più basso di me, ha i
capelli biondi e lisci, che gli stanno sempre appiccicati sulla fronte,
e quando facciamo ginnastica e suda è una cosa paurosa da
guardare. Ma a parte quando facciamo ginnastica, è il
ragazzo più bello che io abbia mai visto. La cosa mi
destabilizza alquanto, perché anche se sono sempre stato un
tipo abbastanza aperto non mi è mai successa una cosa del
genere, di considerare un ragazzo carino.
Se
vedo un ragazzo per strada che è obbiettivamente bello non
ho problemi a riconoscerlo: se uno è bello è
bello, maschio, femmina o animale che sia. Questa però
è la prima volta che mi piace un ragazzo. Di solito mi erano
sempre piaciute solo ragazze. Gesù, pensarlo in maniera
così diretta – anche solo pensarlo! – lo
fa sembrare più reale.
Io
e Theodore siamo in classe insieme dalla terza liceo, e prima anche se
eravamo amici non me ne fregava un’emerita mazza di lui,
almeno, non in quel senso. Eravamo amici, appunto. Non so quando ho
cominciato a notare che lo seguivo con lo sguardo senza rendermene
conto, che ogni mattina in classe speravo che si sedesse accanto a me,
che tutte le volte che parlava con qualcuno volevo andare lì
per tirare due ceffoni all’interlocutore e strillargli di
andare via, lontano da lui. Siamo all’ultimo anno adesso, e
manca poco meno di un mese alla fine della scuola.
È almeno da Marzo che va avanti questa storia. Tre
mesi. Tre mesi di agonia, a chiedermi che cazzo ho che non va!
Non
ho detto a nessuno di questa cosa, né alla mia famiglia,
né ai miei amici. Non lo sa nessuno. Mi sono chiesto
più di una volta se per caso non sono gay. La risposta non
è così scontata come potrebbe sembrare. Non tutti
i ragazzi che vedo per strada mi sembrano attraenti, e alcune ragazze
invece le trovo molto carine. Ma il problema è che mi piace
Theodore, il mio amico Theodore, un ragazzo! E finché lui mi
piace non riesco a capire se sono diventato completamente omosessuale o
sono scemo solo a edizione limitata.
In
fondo non ho mai fatto nulla di male per meritarmi questo, no? Ho avuto una vita ordinaria:
quattro fratelli, un cane, due genitori che mi ammonivano sempre. E
quando tutto stava andando secondo i piani, m’innamoro di un
altro ragazzo! O forse è proprio per questo a
ben pensarci: in giro per il mondo da quando avevo un anno, quattro
fratelli completamente scemi, un povero cane che ci ha sopportati per
tutto questo tempo, e dei genitori… pazzi.
Questo spiega molte cose.
«Ciao», dico chiudendo la porta.
«Ho
cominciato a fare un paio di esercizi, ma non ci capisco
tanto.» Si rivolge di nuovo al quaderno e si gratta la testa.
Maledetto! Qualsiasi cosa faccia sembra dolce e sexy allo stesso tempo.
O forse sono io che ho gli occhi che non funzionano bene e tanta
fantasia repressa che in qualche modo deve pur sfogarsi.
Mi
accascio sulla sedia accanto alla sua e tiro fuori matematica. Abbiamo
l’ultimo test fra tre giorni, e non siamo proprio due geni.
Con noi doveva esserci anche Donna, una nostra amica, che invece
è capace a fare queste cose, ma non è potuta
venire.
Inutile dire che sono molto soddisfatto di poter rimanere da
solo con Theo per un pomeriggio intero, ma la cosa mi terrorizza anche.
«Quale stai facendo?» Allungo il collo e guardo che
scrive. Lui mi indica un numero sulla pagina del libro e io inizio a
copiarlo. Passiamo almeno due ore tentando di risolvere un problema
dopo l’altro, anche se ci blocchiamo alla prima
difficoltà e i nostri risultati sono quasi sempre diversi.
Dopo un po’ decidiamo di fare una pausa.
Theodore si siede sul letto dopo essere andato a prendere dei
biscotti. «Non ce la farò mai. Devo prendere un
bel voto però, altrimenti ho il corso estivo. Non posso
avere un corso estivo all’ultimo anno, è
terribile.»
Prendo un biscotto. «Seh…
Però assieme ce la facciamo dopo un po’. Vuol dire
che non siamo tanto male alla fine, i risultati sono giusti.»
«Sì, peccato che il compito non possiamo
farlo assieme.»
«Potremmo fondere i cervelli.»
Theo ride con la bocca piena. «Siamo messi
malissimo! Due cervelli per un solo compito! Facciamo la fusione, come
in Dragon Ball.»
Poco dopo i biscotti sono finiti – siamo dei
maiali, sì, un pacchetto intero! – e chiedo se
posso levarmi le scarpe. Mi siedo sul letto di Theodore e la nostra
pausa si allunga un po’ troppo. Ma tanto se non
c’è Donna non ha senso continuare, no?
«Che fai quest’estate?»
Alzo le spalle. «Boh… Forse i miei
vogliono andare in vacanza in Italia.»
«Ma va? Bello.» Io sbuffo. «Non
è bello?», chiede allora Theo.
«Non mi piace dove andiamo. Ci siamo andati un sacco di
volte. È una città che si chiama Bordighera, in
Liguria. Il mare è bello,
però…» Lascio la frase in sospeso.
«Ma cosa ti lamenti? Ci portassero me in
Italia.»
«Ma
noi ci andavamo quando stavamo in Francia, perché non
è lontano. Ci andavamo in macchina. Adesso magari siccome
Paloma e Yasmine non vengono riusciamo ad andarci io, i miei, Zuleika e
Fortuné. Due in meno costa di meno.»
«Capito.»
«E tu?»
«Niente. Veramente volevo sapere se ti andava di
fare una vacanza assieme: io, te e Donna. Ma se vai via con i
tuoi…»
Non
lo faccio neanche finire di parlare. «Veramente?»,
domando. Saltare l’odiata Bordighera per andare in vacanza
assieme a Theodore? Cosa crede? Che voglia rifiutare?!
«Dove?»
Abbozza un sorriso. «Mare o montagna?»
«In
un posto per dove bastano i miei risparmi… che non sono
tanti.» Ecco, questo dei soldi è l’unico
ostacolo probabilmente. Forse mamma e papà mi possono
aiutare un po’ per il viaggio, ma deve comunque essere una
vacanza economica. «Andiamo al mare?»
«Se è mare non preoccuparti dei soldi,
magari riesco a convincere i miei zii a ospitare qualcuno. Abitano a
Hastings. Di solito andavamo a trovarli tutte le estati una o due
settimane, ma da quando papà è stato male non
siamo andati da nessuna parte.»
Circa due
anni fa il padre di Theodore ha scoperto di avere un tumore, che per
fortuna è stato rimosso, ma è uscito molto stanco
dalla malattia e non lavora da allora. Per Theo è stato un
periodo difficile, però tutti cercavamo di tirarlo su di
morale come potevamo, perlopiù cercando di distrarlo.
«Sì, mi piacerebbe comunque. Non siamo
mai andati in vacanza assieme.»
In
quel momento la mamma di Theodore entra e gli passa il cordless. Prima
di andare via mi guarda come se fossi una lumaca gigante che sta
sbavando sul suo copriletto. Ma cosa ho fatto di male per non
piacerle?! Theo nel frattempo prende il telefono e quando risponde
serra la mascella e diventa nervoso. Lo guardo e mimo con le labbra:
“Chi è?”.
«Un momento.» Mette una mano sulla
cornetta e l’allontana. «È
Libby.»
Libby
è l’ex di Theodore. Sono stati assieme per sette
mesi e poi lui ha mollato lei, per motivi a me ancora ignoti. Libby ci
è rimasta malissimo e la madre di Theo lo ha perseguitato
per una settimana per sapere come mai si erano lasciati,
“perché Libby è tanto una cara
ragazza!”
Io, quando si
erano mollati, ero all’inizio della mia fase Theo, ed ero
abbastanza contento che avessero rotto, anche se all’epoca
non avevo capito il perché. Quando ho realizzato la
verità ci sono rimasto malissimo e mi sono isolato nella mia
stanza per due giorni. Poi mamma ha fatto le lasagne e io sono uscito
dal mio auto-esilio per mangiarle.
Dopo qualche minuto e una conversazione veramente triste,
Theo attacca e fa un grosso sospiro.
«È successo qualcosa?»,
domando.
«No, è solo che vorrei che la smettesse
di telefonare. Sono passati quasi tre mesi da quando ci siamo mollati.
Adesso mi vuole invitare alla festa del suo compleanno.»
«Oh…», lo studio da sotto le
sopracciglia, «E ci vai?»
«No, ma va’.»
Rimaniamo in silenzio per un po’. «Cosa
dice tua mamma?», domando più che altro per
rompere l’atmosfera pesante.
Theo alza le spalle. «Come al solito.
“Perché l’hai lasciata? Era
così carina!”»
«E perché l’hai
lasciata?», chiedo fissandolo con gli occhi spalancati.
«Non me l’hai mai detto. È»,
mi agito sul materasso, «qualcosa di privato? Tipo qualcosa
di sessuale che preferirei non sapere? In questo caso puoi non
dirmelo.»
Theodore ride ma smette quasi subito. «No,
è solo che non mi piaceva più.»
Biascica come se avesse ancora la bocca piena di biscotti.
Questo significa solo una cosa, una cosa terribile: a
Theodore piace qualcun’altra. Maledizione! Un’altra
ragazza super-carina, e di certo più attraente di me per
molti versi. Voglio dire, io non ho mica le tette, e nemmeno quella
forma un po’ a pera che hanno le ragazze. Cioè,
non a pera, però più sinuose di me di sicuro.
Tento di non
dare a vedere quanto la notizia mi ha sconvolto e per sdrammatizzare e
nel contempo sapere dico con leggerezza: «Oh, capito. Quindi
ti piace un’altra.» Theodore non parla, gli sono
diventate le orecchie rosse. A lui diventano sempre le orecchie rosse
quando è imbarazzato. In effetti fa un po’ ridere,
io non mi trattengo e ululo una risata. «Scusa! Scusami non
sto ridendo di te!»
«Ah no?!», grida lui mentre il rossore
gli si propaga anche sulle guance.
«No, hai ragione. Rido di te», ammetto.
Quando mi riprendo sorrido e gli chiedo: «Chi è?
La conosco? È a scuola con noi?»
«Sì, più o
meno…», mormora lui senza guardarmi.
«O sì, o no. Deciditi.
Cos’è, un alieno? Si sdoppia in due?»
Muoio dalla voglia di sapere. Potrei anche andare a casa di
questa ragazza e infilarle una lettera minatoria sotto la porta. La
scriverò con i ritagli di giornale, così nessuno
saprà che sono stato io. Le dirò di stare lontana
di Theodore, altrimenti verrà stesa da un misterioso eroe
mascherato vestito da Astroboy. Ho ancora a casa il costume di
Astroboy, anche se dubito che mi stia ancora bene dato che
l’ho indossato quando avevo otto anni.
Theodore non mi guarda in faccia, invece deglutisce e io
rimango ipnotizzato a guardare il suo pomo d’Adamo che va su
e giù, su e giù, come una montagna russa.
«Senti», comincia incerto, «tu davvero
pensi quelle cose che dici sempre? Sui gay e così?»
Questa non me l’aspettavo.
«Sì», rispondo di getto. A costo di
essere preso in giro ho sempre detto, se l’argomento usciva
fuori e non mi trattenevo da aprire questa mia boccaccia, che io contro
gli omosessuali non ho proprio niente, che per me possono fare quello
che vogliono. Credo che sia una cosa importante non avere pregiudizi, e
poi, obbiettivamente, nessuno muore se due uomini si sposano! La cosa
mi ha reso molto impopolare, ovvio, e parecchie persone hanno
cominciato a dire in giro che sono gay.
«Quindi… a te piacciono i
ragazzi?»
La
conversazione sta diventando più importante del previsto.
Non sono bravo a mentire. Che cosa dovrei rispondere ora?
«Io… io non lo so.» Be’, sono
sincero ma criptico almeno.
«Ma ci hai mai pensato?», insiste
Theodore.
Mamma di Theo! Entra da quella porta e interrompi questa
orribile conversazione! «Ehm…», mi
guardo attorno in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa che possa far
divergere questo discorso in qualche altra direzione. Forse se me ne
uscissi con un “Oh Theo, non mi hai detto che ti piacevano i
modellini di aerei! Ma quanti ne hai? Fammi vedere un po’,
dai”, allora forse lui si distrarrebbe. Ottimo piano. Adesso
lo uso. «Ma quanti mod-»
Prima che riesca a finire la frase vengo sopraffatto da
Theodore, che si lancia in avanti sul letto, mi raggiunge e mi bacia
sulla bocca.
Oh.
Anche questo spiega molte cose.
Rimaniamo a
fissarci a zero distanza, io con gli occhi di fuori per lo shock, lui
invece sembra a metà fra il pentito e il preoccupato. Quando
si allontana è serissimo, come se invece di un bacio mi
avesse dato un cazzotto.
«Oh, porca...» Theodore si alza di scatto
dal letto e si ficca le mani nei capelli. Comincia a girare per la
stanza a lunghi passi e blatera qualcosa a proposito di essere scemo,
del fatto che non devo pensare male e di dimenticarmi tutto.
Io
sorrido come un ebete e fisso il pavimento. A quelle parole
però alzo la testa verso di lui. «Eh?»
Theo è interdetto. «Mi
ascolti?» Fa un sospiro sconsolato e sembra farsi
più piccolo dalla vergogna e dal disagio.
«Scusami, non so cosa mi è preso. Non dirlo a
nessuno.»
«No?», domando inebetito.
«Aspetta», dico poi quando arriva
l’illuminazione, «ti piacciono i ragazzi?»
«No!» Sembra in preda a un doloroso
conflitto interiore. Si mordicchia le labbra ed è tutto
agitato. «Solo… solo tu per il momento»,
dice alla fine debolmente, e mette su un cipiglio triste, come se fosse
una cosa brutta.
Il
cuore comincia a battermi forte. «Veramente?» Mi
alzo dal letto e Theo indietreggia, forse crede che lo voglia pestare o
qualcos’altro, ma poi si ferma quando vede che sorrido. Metto
su una voce strana, che non riconosco neanche come mia, quando gli
confesso con un mezzo sorriso emozionato: «Anche tu mi
piaci.»
Eccomi a voi, donne! (E uomini?)
Allora, avete seriamente rischiato di rimanere senza capitolo oggi,
perché internet mi sta facendo un po' di storie. Ma ora
è tornato, quindi sottomettevi e recensite! Muahahah! xD No,
allora, seriamente...
Ho un po' di cose da dire sul capitolo, preparatevi alla pappardella.
(Se la vedete troppo lunga, potete anche saltarla, non è
così importante ai fini della storia! xD)
In primis, questo e il seguente capitolo, oltre a farvi salire l'ansia
per la faccenda di Andrea, sono messi lì perché
si è discusso così tanto sulla
sessualità di Mika, sui giornali, che non ho potuto
resistere, e ho detto la mia. La mia è che non dovrebbe
fregare niente a nessuno della sua sessualità,
perché quella non c'entra niente con il suo talento. La
sessualità in generale c'entra con le sue canzoni - almeno
alcune - ma di sicuro il fatto che sia gay, non gay, bisex non ha la
minima importanza. Questo è il motivo per cui ho scritto
questi due capitoli.
Poi, le pippe mentali sul fatto "Oddio,
sarà mica gay?" le ho inserite anche se volevo
che il fatto fosse il più naturale possibile, solo
perché qui il mio Mika-personaggio è un
adolescente, e da adolescenti tutti si fanno le pippe! ...mentali, non
pensate male xD Ho cercato di buttare la faccenda
sull'identità, nel senso che Mika si chiede di essere
omosessuale solo perché vuole sapere che tipo di persona
è, non perché pensa che essere gay lo renda
diverso, o che verrà preso in giro.
Pappardella finish!
Scusate, ma fare certe precisazioni è più forte
di me u_u
Torniamo alle cose interessanti: ecco qui lo spoiler,
nel quale c'è una sorpresa (piccola, non vi sognate troppe
cose! xD).
Lasciate una recensione, mi raccomando! Soprattutto adesso che Il Sommo Mika si
è finalmente deciso ad alzare le sue regali chiappette dalla
sedia, muovere i seducenti riccioli riccioluti, e rilasciare qualche
canzone nell'etere.
A settimana prossima! Bevete tanto, che arriva l'estate, e Celebrate with Mika!
Patrizia
|
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Capitolo 8 *** Toy boy, o Salto nel passato # 1 - II parte ***
Capitolo
otto
Toy Boy
o Salto nel passato # 1
– II parte
Rientro in casa il
più silenziosamente possibile, in punta di piedi. Oltrepasso
il salotto, la cucina e sto guadagnando trionfalmente le scale quando
una luce al piano di sopra si accende. Mi nascondo in sala, aspettando
che si spenga di nuovo: non ho voglia di vedere mamma o
papà. Purtroppo non si spegne. Dei passi felpati lungo le
scale mi avvisano che qualcuno sta venendo giù. Questo
qualcuno entra in cucina e io faccio in tempo a scorgere i capelli di
Yasmine. Esco dal mio nascondiglio abbastanza rumorosamente
perché lei mi senta, infatti si volta.
«Bentornato», mi dice, poi guarda
l’orologio e alza un sopracciglio. «Sono le due del
mattino.»
«Ho fatto un po’
più tardi del previsto.»
Yasmine si serve un bicchiere d’acqua e
lo scola tutto d’un fiato. «Come sta
Theo?»
«Bene, come al solito.
Studia… tanto.»
Pure troppo per i miei gusti: è da tutta
l’estate che non fa altro che studiare. Vuole entrare a
Cambridge per fare lettere e perciò studia tutto il giorno
tutti i giorni. Fra un po’ ci saranno gli esami di ammissione.
Io invece ho il mio bel da fare per entrare al Royal College
of Music, ci saranno le audizioni a inizio Ottobre. In pratica, io e
Theodore avremo gli esami nello stesso periodo.
Stiamo assieme da tre mesi, più o meno:
l’estate più bella che io abbia mai passato.
Non l’ho ancora detto ai miei. Non tanto
perché si potrebbero arrabbiare, o mi sbattono fuori di
casa, o fanno quei discorsi tipo che i gay sono contro natura, ma
perché non voglio dovergli spiegare tutta la faccenda,
sarebbe imbarazzante. Scommetto che salterebbero fuori discorsi sulla
sessualità e su di me. E parlare della mia
sessualità con i miei genitori non è esattamente
il mio sogno. La prima e unica volta che mia madre l’ha fatto
mi sono ingozzato con la coca cola e stavo per morire. In fondo il
discorso sui bambini qui non serve, quindi non parliamo e facciamo
prima. Un giorno glielo dirò. Scommetto che salterebbero
fuori domande su me e lui, su cos’abbiamo fatto.
Be’, nessuno di noi era mai stato prima con un altro ragazzo,
ma non siamo nemmeno alla nostra prima esperienza. A pensarci bene sono
stati momenti piuttosto goffi, ma divertenti da ricordare. E anche
dolci, in fondo.
Sbadiglio e seguo mia sorella al piano di sopra.
«’Notte Yasmine», dico entrando nella
stanza che divido con Fortuné.
«Buonanotte», fa lei entrando
in camera sua.
Entro pian piano e mi spoglio, poi mi ficco nel
letto e mi addormento subito.
«Buongiorno.» Sorrido, e la
mamma di Theo come al solito grugnisce. Non so perché mi odi
così profondamente, non le ho fatto niente, sono sempre
stato gentile come mi hanno insegnato.
«Theo, c’è
Michael!», strilla verso la cucina con aria contrariata. Non
cerca nemmeno di nasconderlo! Che antipatica…
Theo esce e mi sembra leggermente corrucciato, ma
quando mi vede fa un sorrisino e acchiappa le chiavi di casa.
«Andiamo?»
«Ah, andiamo? Credevo rimanessimo
qui.» Lo seguo, mentre lui fugge.
«No, no, andiamo a fare un giro. Ciao
mamma.»
«Arrivederci», dico io con un
mezzo sorriso. Scendo quasi di corsa i gradini di fronte alla casa di
Theodore e lo raggiungo: «Dove stai andando?
Aspettami», mi lagno.
«Non lo so, andiamo a fare un giro. Ti
va?»
«Come vuoi», dico io
accostando il passo con il suo. Prendiamo l’autobus e
facciamo un giro senza fare troppa attenzione alle vetrine. In
realtà io ci faccio attenzione, mi comporto come al solito,
ma non passa nemmeno mezz’ora prima che mi renda conto che
Theo è distratto, su un altro pianeta proprio.
«Come va per gli esami d’ammissione?»,
gli domando. Magari è per quello.
«Bene», dice subito lui, quasi
con sollievo, come se si appigliasse alla prima scusa per parlare.
«E tu?»
«Anch’io bene.»
Ripiomba il silenzio. È qualcosa di
sgradevole, non lo sopporto. Mi ritrovo a sperare che quel pomeriggio
finisca il più in fretta possibile.
Theo è strano, non parla molto, è
assente. Non l’ho mai visto così. Alla fine
torniamo a casa sua e ci rinchiudiamo nella sua camera con una
bottiglia di tè alla pesca. Con il mio fantasmagorico sex
appeal cerco anche di convincerlo a stenderci a letto e magari dare un
senso alla giornata che, fino a questo momento, è stata un
disastro completo, anche se non capisco il perché. Lui non
cede ai miei tentativi e dopo un po’ porta via il
tè e i bicchieri.
La cosa brutta del tè alla pesca è che
ti fa andare in bagno dopo nemmeno un’ora. Infatti dopo che
Theo se n’è andato esco anch’io. Quando
torno in camera lui ancora non c’è,
così vado a cercarlo. Mi fermo accanto alla cucina,
perché sento due voci che litigano. Sono Theodore e sua
madre.
«Mamma, smettila», dice lui
con voce seccata.
«No Theodore, questa storia non
può continuare così, lo sai bene. Se lo venisse a
sapere tuo padre…»
«Non sei tu che devi dirglielo, devo
dirglielo io. E glielo dirò.»
Sento la mamma di Theo sospirare di sconforto.
«Quel ragazzo non mi piaceva già da prima, lo sai
bene. È così… strano.»
«Non credo che debba importarti quanto
strani sono i miei amici.»
«Non prendermi per stupida
sai?», sbotta lei con rabbia. «Credi che non lo
sappia? Tu e quel ragazzo state insieme! Come- come due-»
«Come due? Come due cosa?!»
«Come se fosse normale!»
Sento un rumore sordo, come di qualcosa che
picchia contro il legno del tavolo. Poco dopo la voce di Theodore,
bassa e quasi dolorosa nel tono, dice: «Non vedo come la cosa
ti riguardi.»
«Ma certo che mi riguarda, mi riguarda
eccome: io sono tua madre! Non
vorrai… dormire con quel ragazzo per molto ancora?
È una cosa seria in questo mondo, Theodore. Forse.. forse
staresti meglio con una ragazza. Libby, ad esempio, era un
ragazza così…»
«La puoi smettere di parlare di Libby? E poi non
sono affari tuoi con chi sto meglio», sbotta Theo irato. Non
l’ho mai sentito così arrabbiato in tutti questi
anni che ci conosciamo.
«Tesoro, sei ancora così
giovane. Non sai cosa vuoi, è naturale. Sei confuso. Ma non
puoi rinunciare ad avere dei figli, un famiglia vera, sana, come
dovrebbe essere. Io e tuo padre siamo molto preoccupati. Lui non lo sa,
ma ha intuito che c’è qualcosa. Se lo scoprisse
sarebbe un tale dolore per lui.»
«E quindi cosa devo fare? Smettere di
essere come sono? Così? Tu credi che sia un capriccio?
Mamma, io sono così», sillaba l’ultima
frase mettendo un’enfasi particolare in ogni lettera.
Io mi volto e me ne torno nella stanza di Theo. Mi
stendo sul letto e rimango a fissare il soffitto.
E io che mi preoccupavo dei miei genitori, che mi avrebbero
fatto discorsi imbarazzanti, che magari si sarebbero schiantati dal
ridere e mi avrebbero in giro. Poi vengo qui e scopro che i genitori di
Theo sono veramente contrari, con tutta quella faccenda della famiglia
tradizionale e balle varie. Sua madre… un mostro, lo sapevo
già. Lei
è la strega più cattiva che
c’è mai stata. Ne ha proprio
l’aspetto.
In quel momento Theo rientra, ancora scuro in
volto. Gli sorrido come se non avessi udito nulla. In fondo, se
c’è un problema potrebbe anche dirmelo, no? Anzi,
dovrebbe dirmelo, dato che stiamo insieme. Perché non me lo
dice? Perché se ne sta lì muto come un pesce? Io
sono qui apposta per condividere con tutto quello che lo rende felice e
anche quello che lo rende infelice. Perché non condivide
niente?!
Per il resto del pomeriggio tento di introdurre
allusioni per farlo parlare, ma lui dice nulla. Alla fine mi atterra
con un bacio e io sono abbastanza soddisfatto, ma sospetto che sia solo
per farmi stare zitto.
«Michael!»
«Che c’è?»
«È Theo!»
La parola magica. Scendo le scale di corsa, sorridendo.
Yasmine se ne va e io e Theodore andiamo nella mia stanza. A
metà strada incontriamo Fortuné che scende le
scale. Evvai, se ne va! La stanza è tutta per noi. Theodore
ha l’aria tirata, un po’ sbattuta, così
gli chiedo: «Cos’è successo?»
Lui non mi guarda, sembra nervoso e continua a
muoversi, agitato. «Mi è arrivata la lettera da
Cambridge.»
Allargo gli occhi in un moto di comprensione. Evidentemente
non è stato accettato. Se così fosse starebbe
saltando, non avrebbe quelle faccia da koala picchiato. Mi avvicino e
lo abbraccio forte. «Mi dispiace.»
Theo si scosta e mi fissa stranito. «E
di cosa? Sono stato ammesso.»
Sbatto le palpebre un po’ prima di
capire. «Come?»
«Mi hanno ammesso. Vado a Cambridge,
Jesus College.»
Lo guardo con la bocca spalancata, poi gli tiro uno
spintone. «E fai quella faccia?!» Sorrido e lo
abbraccio più forte di prima. «Bravissimo,
complimenti! Lo sapevo che ce la facevi.» Gli stampo un bacio
sulle labbra e finalmente anche lui sembra un po’
più allegro.
«Grazie», dice piano. Si schiarisce la voce.
«Ascolta, devo dirti una cosa importante.»
«Ah, ma guarda che ero preparato
all’evenienza. Cioè, Cambridge non è
lontana da Londra, alla fine, possiamo fare che un fine settimana vengo
io e l’altro torni tu. E poi ci sono un sacco di vacanze:
Natale, Pasqua…»
«No, non dico quello.»
Theodore si siede sul letto e tiene la testa fra le mani.
«Ieri», comincia esitante, «quando
è arrivata la lettera, ho pensato che fosse il momento buono
per dire a papà che io e te stavamo assieme.»
«Stava…»
«Aspetta, fammi finire.» Theodore prende
un grosso respiro. «Lui l’ha presa molto male. Ha
detto che… che non lo vuole un figlio come me. E ha detto
che se non la smetto con queste idiozie non mi ci manda al
college.»
Butto fuori tutta l’aria che stavo
tenendo in gola. Trattenevo il fiato senza neanche rendermene conto.
Voglio dire qualcosa. Devo dire qualcosa! «E
quindi…» Sto per chiedergli che cosa ha intenzione
di fare, ma all’improvviso una consapevolezza certa mi
colpisce come un pugno nello stomaco. Conoscendolo, Theodore non
lotterà mai contro i suoi genitori, non lo ha mai fatto. E
nemmeno rinuncerà mai a Cambridge. Chi mai sarebbe
così pazzo da farlo? Quindi sono io l’opzione da
gettare via.
«Mi dispiace Michael, mi dispiace
tantissimo», comincia lui con espressione addolorata.
«Ma sai, forse è meglio così, no?
Voglio dire, forse è solo una cosa passeggera. E poi mica
dobbiamo sposarci, non abbiamo trent’anni.»
Ancora non riesco ad emettere un fiato. Non voglio
certo competere con Cambridge, è una battaglia impari, ma
speravo che almeno avrebbe protesto un po’ di più!
Potrebbe anche uscirsene con il piano geniale, che a me è
subito venuto in mente, di fare tutto di nascosto. Evidentemente non
sono abbastanza importante per lui. Mi sento come un giocattolo
brutalmente usato e poi gettato via in una scatola quando ne hai
abbastanza. Forse per lui è stato tutto una specie di prova,
un gioco.
«Comunque sia, credo che sia meglio se noi non ci
vedessimo più. Per il resto
dell’estate», conclude Theodore poggiando le mani
sui fianchi. Si guarda un po’ attorno, si passa la lingua
sulle labbra, evita i miei occhi. Fugge via borbottando:
«Buona fortuna per tutto.»
L’orologio sulla parete ticchetta con
insistenza. Passano almeno cinque minuti prima che mi renda conto di
quel che è successo.
Mi alzo dal letto e mi avvio verso la stanza di
Yasmine e Paloma, facendo il meno rumore possibile. Sento che se
facessi rumore rovinerei qualcosa; forse l’incantesimo che mi
fa rimanere così calmo, quando invece una parte di me
vorrebbe urlare.
Apro la porta e ficco la testa dentro la camera.
«Paloma?» Lei in quel momento sta disegnando un
modello di carta per un vestito seduta alla scrivania. Yasmine non
c’è. «Posso entrare?»,
domando, ma mi chiudo già la porta alle spalle prima che lei
dica di sì.
Salve a tutti!
Il mio pc sta cominciando a dare i numeri, adesso non vuole rimuovere
neanche il corsivo, quindi scrivo in corsivo u_u
Allora, che dire di questo capitolo? Mah, non ho niente di importante
da dire. La storia fra Theo e Mika era destinata a terminare, nella mia
testa, già quando era appena iniziata. Più che
altro perché volevo che il flashback avesse un inizio e una
fine precisi, un fine preso insomma, e la prima storia di Mika con un
ragazzo mi è sembrata adatta allo scopo: perciò
ho scritto come inizia la storia d'amour e come finisce.
Che altro? Bah, nulla d'importante a parte che oggi è il 24
di Giugno e manca esattamente un mese al concerto di Mika a Vigevano!
Aaahhh! *o* Inizio il conto alla rovescia oggi, ufficialmente!
Per lo spoiler sul prossimo capitolo, nel quale finalmente si
verrà a scoprire la verità su Andrea,
cliccate qui.
Ci vediamo la settimana prossima, miei prodi lettori, e saremo sempre
più vicini alla data fatidica! Mhuahahah!
Patrizia
|
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Capitolo 9 *** Dr. John, o Frammenti di una rivoluzione ***
Capitolo
nove
Dr. John
o Frammenti di una rivoluzione
Andrea guida
all’impazzata con tutto il traffico che
c’è.
A causa di una serie di sfortunatissimi eventi ci
siamo ritrovati ad usare la mia macchina, per cui anche io devo
esserci. Se sapevo che avrebbe guidato così me ne sarei
rimasto nel suo appartamento ad aspettarla tornare. Stiamo andando ad
un ospedale privato a quanto ho capito. Sento che fra poco la mia
curiosità verrà soddisfatta.
Andrea si ferma sgommando e io penso che per lo
meno la mia macchina ha conosciuto un po’ di adrenalina: ha
un’accelerata pazzesca, ma io la uso come un vecchietto;
sempre in giro nei parchi e rispetto il limite di velocità.
«Tieni, chiudi tu», mi fa
Andrea lanciandomi le chiavi, che ovviamente mi cadono e finiscono a
terra. Le raccolgo, chiudo l’auto e la seguo di corsa. Sta
passando lungo i corridoi facendo lo slalom fra infermiere, pazienti e
dottori e avanza con la sicurezza di chi conosce quel luogo come le sue
tasche. Si ferma davanti all’ascensore e comincia a chiamarlo
pigiando ripetutamente il pulsante, ma l’ascensore
è al nono piano in quel momento.
«Merda», dice Andrea ringhiando. Si volta e
comincia a salire le scale.
Dobbiamo arrivare fino al sesto piano e io muoio
già al terzo. Tengo duro fino al quarto, invece Andrea
sembra sospinta in alto come se la trascinassero. Al sesto piano sono
abbastanza sconvolto dalla situazione da pensare cose inutili
come lanciare un paziente giù dal suo lettino per
stendermi al posto suo.
«Andrea», la chiamo, ma non
ottengo risposta. «Andrea, dove stiamo andando?»
Lei si volta di scatto e mi guarda con occhi
disperati. «Scusami tanto Michael, scusami tantissimo per
averti trascinato fin qui. Ti prometto che ti racconterò
tutto, aspetta solo ancora un po’
d’accordo?» Mi toglie le parole di bocca e i
pensieri dalla testa, e faccio solo segno di sì con il capo.
Lei si lancia di nuovo nel corridoio ed entra nel reparto di
lungodegenza. Ferma un’infermiera e chiede: «Sto
cercando il signor Ewan Dallin.»
«In questo momento è in sala
operatoria, l’hanno portato lì
d’emergenza un paio d’ore fa.»
«Il dottor John è
lì con lui?»
«Sì, se vuole aspettarlo le
indico il suo ufficio. Lei è una parente?»
«Sono Andrea Dallin, sua
moglie.»
Quaranta minuti dopo siamo ancora seduti sulle
scomode sedie di plastica verdi dell’ospedale, davanti alla
porta di un ufficio chiusa.
Né io né Andrea abbiamo
spiccicato parola. Sono un po’ sconvolto in realtà.
E io che mi chiedevo se lei avesse un fidanzato!
È sposata, cazzo! Ho commesso qualcosa come un peccato
mortale! Non era in uno dei comandamenti “Non desiderare la
donna d’altri”? Non che io sia così
religioso, ma capitemi, sono sconvolto, penso a cose del tutto
irrilevanti!
Questi quaranta minuti passano come secondi tanto
sono immerso nei miei pensieri. Ad un tratto Andrea si alza e corre
incontro ad un medico.
«John!», esclama con voce angosciata.
Il Dr. John non ha l’aria di portare
buone notizie. «Andrea…», si avvicina e
l’abbraccia, come confermando che c’è
qualcosa che non va.
Lei è agitatissima e lo allontana.
«Che cos’è successo? Come sta
Ewan?», domanda con le lacrime che cominciano ad affacciarsi.
«Vieni», dice lui conducendola
nel suo ufficio.
Andrea mi cerca con lo sguardo e mi fa segno di
andare con loro. Ha l’aria terrorizzata. Dio, non voglio
andare lì dentro. È una cosa orribile, non so
neanche di cosa parleranno. Andrea si arpiona al mio braccio e lo
stringe come se fosse una fune che la tiene sospesa sopra una gabbia
piena di leoni. Una volta dentro l’ufficio il dottore si
presenta.
«Sono il dottor Timothy John, molto
piacere.»
«Michael Penniman, sono un amico di
Andrea», dico io stringendo la sua mano.
Ho di fronte un tizio che si chiama John e fa il
dottore… voglio dire, è un po’ assurdo.
«Andrea, qualche ora fa
l’apparato nervoso di Ewan ha ceduto, abbiamo dovuto portarlo
in rianimazione e poi in sala operatoria. Purtroppo, a causa del forte
stress traumatico è entrato in coma.»
Al mio fianco Andrea fa un singulto e la sua mano
trema sul mio avambraccio. Deglutisco, e poso la mia mano sulla sua,
attento alle parole del medico.
«Che cosa significa? Qual è
la differenza da prima ad ora?»
«Lo stato vegetativo in cui Ewan era
prima di oggi è molto diverso. In quello stato un paziente
è più autonomo. Ewan infatti respirava da solo,
negli ultimi mesi era riuscito persino a mangiare qualcosa senza la
flebo, aveva un regolare ciclo sonno-veglia. Questo coma lo ha portato
in uno stato di incoscienza molto più profondo.»
«Ma…» Andrea non
riesce a parlare, le labbra le tremano, la mano anche, e tutto il suo
corpo piccolo è scosso come da un terremoto. «Noi
abbiamo fatto tutto il possibile, lui stava migliorando, lo hai detto
tu in Gennaio, hai detto che stava mostrando segni di miglioramento,
che poteva guarire. Non capisco, che
cos’abbiamo fatto di sbagliato? Perché abbiamo
continuato a provare, allora significa che qualcosa non è
andato bene…»
«Andrea non si tratta di giusto o
sbagliato. Non si possono prevedere miglioramenti o peggioramenti con
sicurezza. Noi possiamo aiutare e stimolare il processo di guarigione,
ma non c’è alcun tipo di garanzia che il nostro
intervento funzioni.»
«Posso vederlo?»
«Non ancora, le infermiere lo stanno
sistemando in una nuova stanza.» Il dottore esita qualche
attimo, poi dice: «Abbiamo dovuto attaccare il respiratore.
Senza quello non può rimanere in vita.»
Sono le nove di sera quando torniamo finalmente a
casa. Andrea ha telefonato al lavoro per chiedere un giorno di riposo.
L’accompagno a casa sua e la guardo mentre si getta nel letto
e comincia a piangere silenziosamente. Non voglio lasciarla
così, triste e sola a casa. Mando un messaggio a mia mamma
per dirle di andare a prendere Melachi a casa mia e tenerla per un paio
di giorni, poi mi stendo al fianco di Andrea e comincio ad accarezzarle
i capelli.
Che cos’abbiamo fatto quando Paloma ha
avuto l’incidente? Come ci siamo consolati? Devo dire che era
una cosa totalmente diversa, perché dieci ore dopo (che sono
sembrate un’eternità, è vero, ma sono
comunque passate) ci hanno assicurato che tutto sarebbe andato bene. Ci
hanno detto che potevamo vederla, che lei era viva, che non era
paralizzata, e che tutte quelle cose terribili che ci sono passate per
la testa in quelle dieci ore non sarebbero mai successe. Cosa fare,
invece, quanto tutto va sempre peggio? Quando la speranza te
l’hanno strappata via dalle mani e dal petto? Cosa fare
quando le dieci ore minacciano di trasformarsi in dieci anni?
Io faccio l’unica cosa che so fare.
Comincio a intonare una canzone, senza parole, solo
scandendo il ritmo lento a labbra serrate. Non è una canzone
vera, non è neanche qualcosa che conosco, è
un’invenzione. Continuo a carezzare la testa di Andrea, e
sento che le lacrime le scendono ancora copiose. Non si fermano
finché non si addormenta, e io neanche me ne accorgo che lei
dorme. Continuo a cantare, a carezzarle i capelli, e forse
così la raggiungerò anche in sogno.
Il mattino dopo quando mi sveglio ho la bava alla
bocca e fatico a ricordare come mai mi sento tanto abbattuto.
All’improvviso tutto ciò che volevo sapere diventa
fin troppo interessante per reggerlo. Avrei preferito non sapere, se
avessi potuto prevedere che sarebbe stato un tale casino? Il ragazzo che sapeva troppo,
ora so esattamente che cosa significa. Aveva proprio ragione quello che
ha detto “beata ignoranza”.
Mi alzo, attento a non svegliare Andrea. Cercando
bene in cucina faccio il caffè per entrambi. Quando
è pronto sto per andare a chiamarla ma lei arriva da sola
con quel naso ancora rosso dal pianto, gli occhi gonfi e i capelli
arruffati. Non è come vedere una persona che si sveglia al
mattino, tutta stropicciata ma comunque normale. Invece i suoi occhi,
quelli non sono affatto normali.
Ci sediamo in silenzio. Ad un tratto mi sento in colpa per
averla spinta a raccontare tutte quelle cose. Mi schiarisco la voce ma
mi esce comunque gracchiante quando parlo. «Non mi devi
raccontare niente, se non vuoi. E io posso dimenticare
tutto.» Bugiardo. Non posso dimenticare un bel niente, ma se
serve fare finta di non saperlo, posso sforzarmi.
Lei fa segno di no con la testa. Si alza e mi
porta un album di foto. Comincia a sfogliarlo seduta al mio fianco e
racconta ogni cosa.
«Io e Ewan ci siamo conosciuti prima che
finissi la Royal e ci siamo fidanzati. Lui ha cinque anni
più di me. Faceva lo psicologo. Qui è quando
siamo andati a pattinare all’arena.» Mi indica una
foto dove lei e un ragazzo alto, biondo con i capelli corti e gli occhi
azzurri molto belli, sorridono con in mano dei pattini. Seguono delle
foto di loro due pattinano. «Dopo un anno siamo venuti qui a
vivere insieme e ci siamo sposati con una cerimonia velocissima
all’insaputa di tutti. Siamo partiti per la Nuova Zelanda per
tre settimane come viaggio di nozze. Ecco, qui siamo a
Wellington… era una città bellissima, non so se
ci sei mai stato.» Quella foto fa male al cuore, davvero: ci
sono loro due seduti davanti ad una statua, lui tiene in braccio Andrea
e sorridono. «Tre anni fa, mentre andava al lavoro,
c’è stato un incidente. Due macchine davanti a
Ewan si erano scontrate, lui ha cercato di aggirarle, era appena dietro
di loro, ma ha perso il controllo della macchina ed è finito
addosso ad un camion che andava dalla parte opposta.» Andrea
parla come se stesse leggendo la lista della spesa. È come
se tutto il dolore lo avesse spremuto fuori ieri notte con tutte le
lacrime che ha versato. Tieni gli occhi bassi, puntate sulle
fotografie, e le suo ciglia sembrano volerle nascondere gli occhi.
«Per il primo anno Ewan è rimasto in
un’altra clinica, non una clinica privata. Poi è
arrivato un suo vecchio amico che ha conosciuto al college, Timothy
John. Io lo avevo incontrato solo una volta, comunque mi ha detto che
lui lavorava per quell’ospedale privato, così ho
provato a farlo trasferire lì. Le spese sono aumentate
tantissimo, e all’aggiunta alle lezioni di musica che tenevo
in una scuola ho cominciato anche a dare lezioni di canto individuali,
ma non funzionava. Così mi sono trovata quel lavoro al
Jewel, che era molto meglio in fatto di soldi.»
«Mi dispiace.» Queste parole
sono abusate; le usiamo talmente spesso che ora, in questo momento in
cui servono davvero, mi sembra che non esprimano abbastanza bene il
concetto. Ma io sono dispiaciuto sul serio, io non voglio che lei debba
soffrire così tanto. Forse non voglio che debba soffrire in
generale. Ed è una sensazione orribile perché non
posso fare nulla per migliorare le cose, sono impotente!
Andrea prosegue come se non mi avesse sentito.
«Quella casa che siamo andati a vedere non è la
mia eredità, è quella di Ewan. Era lì
che abitavano i suoi nonni, lui viveva con loro. Non… non
siamo andati a trovarli assieme più di una volta, prima
di…» La sua voce si spezza, un suono strozzato le
risale in gola. Io mi affretto a chinarmi e abbracciarla nuovamente.
«Ehi, ehi, ehi», le dico
mentre la stringo e la riscaldo con le braccia. Anche se è
estate, dev’essere congelata dentro.
«Mi dispiace di non avertelo detto
prima.» Andrea singhiozza e lei non cerca nemmeno di arginare
le lacrime. «Io non lo sapevo di piacerti. Non volevo farti
stare male.»
«Oh, mi hai solo spezzato il cuore.
Niente che non possa guarire con un frappuccino.»
Andrea singhiozza una risata. «Mi
dispiace di non avertelo detto subito. Non avevo mai il coraggio di
parlartene…»
«Come mai?»
«Be’, avevo raccontato un sacco di
bugie. Un po’ l’avevo anche notato di piacerti,
forse. Avevo paura che, se ti avessi raccontato di Ewan, non avresti
avuto più alcun motivo di stare con me, soprattutto se solo
per amicizia. Allontanarti da qualcuno che ti piaceva ma non potevi
avere sarebbe stato più facile, ma io non voglio che tu te
ne vada.»
Certo che sarebbe più facile. Ma
sarebbe anche maledettamente impossibile. Come si fa a mollare
così all’improvviso una persona con cui sei stato
in simbiosi per due mesi? «Sarai pure una gran rubacuori, ma
non mi hai mai ferito. Non è ovvio?» La guardo e
sorrido.
«Credevo che fosse ovvio il
contrario», dice lei confusa.
«No», dico alzando le spalle,
«Io e te ci divertiamo assieme, no? Anche solo come amici,
non è vero? Tu non l’hai fatto apposta.»
«No ma…»
«E allora non c’è
nessun ma. Mi passerà», mormoro più a
me stesso a che a lei.
«Pronto?»
«Michael dove sei? Perché
Melachi è qui da noi?»
«Sono a casa di Andrea, ho passato la
notte qui.»
«Ah, ho capito. Hai avuto
successo.» Dall’altra parte della cornetta,
Fortuné non ha capito una mazza. Vorrei raccontargli tutto,
ma non credo di essere dell’umore.
«No, ascolta, non è come
pensi. In realtà è un casino pazzesco, poi ti
dico. È praticamente da ieri sera che mi sono trasferito qui
in pianta stabile, ma non so per quanto ci rimango.»
«È successo
qualcosa?», domanda lui preoccupato.
«È successo di tutto,
cazzo.»
«Ma tu stai bene?»
«Sì, sì, io non ho
niente.» A parte la speranza sotto i tacchi.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«No niente. Ci sentiamo, ti chiamo non
appena torno a casa.» Immagino che sarà presto
dato che non ho neanche un paio di boxer di riserva.
«Cazzo!»
«Cosa
c’è?» Mi alzo dal divano e corro in
camera, dove Andrea si è appena defilata, saltando su dal
divano come se un cactus l’avesse punta.
«Il colloquio! Ho dimenticato il
colloquio!»
«È oggi?»
«È fra quaranta
minuti!» Manda all’aria tutto l’armadio e
comincia a cambiarsi, nascondendosi dietro le anti. Io mi volto.
«Non ci arriverò mai in tempo. Porca di una
troia!» Aww, che fulgido esempio di bene educata donzella!
«Non puoi rimandare?»
«Figurati! Quelli non mi richiamano
più se rimando. Che vadano al diavolo!» Un ragazza
così dolce…
«Quanto ci metti in macchina?»
«Solo venti minuti se non
c’è traffico.»
«Sì ma siamo
all’ora di punta», le faccio notare.
«Lo so! Siamo sempre all’ora di punta in
questa città!» Andrea sgambetta in bagno e ci si
chiude dentro, mentre io penso. Mi accosto alla porta.
«Non ce l’hai una
bici?»
Silenzio. Poco dopo: «Sì, ma
ha una ruota sgonfia.»
«Te la gonfio io,
dov’è?»
«Nella cantina. Nello sgabuzzino
c’è anche la roba per gonfiarla.»
«D’accordo. Non ti
preoccupare, faccio io. Tu intanto… approntati.»
«Approntomi,
d’accordo», dice lei da dentro.
Dieci minuti dopo la ruota è gonfia, la borsa di
Andrea è nel cestino davanti, Andrea è sulla
bici. Parte, in piedi sopra i pedali, come i ciclisti sulle salite, e
prima di sparire mi grida: «C’è un
duplicato delle chiavi accanto al mio comodino!»
Perfetto. Adesso esco e mi compro delle mutande.
Silenzio solenne...
Abbiamo scoperto il segreto di Andrea u_u Pom pom pom!
Allora, sono in arrivo tante precisazioni.
Prima di tutto il capitolo si intitola "Frammenti di una rivoluzione"
perché, come avrete notato, è spezzettato in
parecchi paragrafi; mi è uscito così,
chissà perché. Da qui i "frammenti". La
"rivoluzione", invece, perché succedono un bel po' di cose
ai due personaggi: Michael scopre il segreto di Andrea e lei finalmente
si confida con qualcuno, inoltre non ha nemmeno il tempo di starci a
pensare, perché deve correre al colloquio di lavoro, che per
lei è molto importante e non può perdere.
Ho fatto delle ricerche sullo stato vegetativo e sul coma, e ho
scoperto le leggere differenze che ho illustrato. Spero di non essermi
sbagliata, nel caso potete ovviamente dirmelo (anzi, è
vostro dovere morale! u_u).
Spero di non avervi messo troppa tristezza addosso, perché
questi argomenti sono pesantucci. Spero di aver reso, alla fine per lo
meno, il capitolo un po' meno pesante. Insomma, l'ultima scena avrebbe
potuto essere del tutto distaccata dalle altre. Per non rammaricarvi
troppo vi dico che i capitoli tristi finiranno piuttosto presto (due o
tre capitoli se non erro), però ho cercato di renderli il
meno pesanti possibile.
Comunque, ditemi voi che ne pensate.
Che dire? Vi lascio allo
spoiler e al prossimo capitolo :)
Patrizia
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Capitolo 10 *** Over my shoulder, o Un caso umano ***
Capitolo
dieci
Over my shoulder
o Un caso umano
Sono rimasto a casa
di Andrea per un totale di cinque giorni. In pratica, ho fatto davvero
bene ad andare a comprare delle mutande. A pensarci meglio avrei potuto
andare a casa a farmi una doccia e prendere un cambio di abiti, ma
comprarli è stato più immediato, la prima cosa
che mi è venuto in mente di fare. Ne ho anche trovate un
paio con dei cagnolini carinissimi sopra! …anche se questo
rovinerà la mia reputazione di macho.
Quei cinque giorni sono passati come in una bolla
di sapone.
Andrea ha ottenuto il lavoro e ha dato le
dimissioni dal Jewel. Comincia il suo lavoro a fine Giugno, quindi fra
due settimane.
L’ultimo giorno della mia innaturale permanenza,
che sarebbe durata fino a che lei non si fosse ripresa un minimo, mi ha
chiesto di andare a trovare assieme suo marito. Inutile dire che
è stato orribile.
Ho visto quell’uomo solo in fotografia,
è vero, ma quello che stava steso sul letto, attaccato al
respiratore, non ci si avvicinava neanche con tanta immaginazione. Era
un fantasma di sé stesso: ossuto, i capelli biondi tagliati
cortissimi quasi non si vedevano, gli occhi, anche se io so che erano
azzurri, rimanevano chiusi. Se avessi mangiato qualcosa sarei andato a
vomitare, quella vista mi ha impressionato.
Ora sono a casa dei miei. Sono venuto qui a
riprendere Melachi e ne ho approfittato per rimanere a dormire. Non ho
voglia di rimanere solo in casa, così sono nella mia vecchia
camera con la luce spenta e le cuffie nelle orecchie. Sono quasi le due
di notte e io non riesco a dormire. Mi alzo, annoiato, e vado in
cucina. Apro il frigo e prendo uno yogurt.
«Michael! Ciao.» Mio padre
spunta sulla soglia e si avvicina ai fornelli. «Non riesci a
dormire?»
«No.»
«Neanche io. Pensavo di farmi un
panino.»
«E sei sicuro che funziona?»
«Ma certo. Come dopo pranzo, quando il
cibo ti fa venire sonnolenza.» Apre il frigo e tira fuori
formaggio, lattuga, pomodori e pancetta. «Ne vuoi uno anche
tu?»
«No, grazie.» Mi avvicino e
mentre lui taglia il pane metto la pancetta sul fuoco.
«Come mai non dormi?»
«Ho un po’ di cose per la
testa.»
Papà mi scocca uno sguardo obliquo. Con lui non
c’è mai bisogno di dire tante parole
perché capisca. «È per quella ragazza?
Come si chiama?»
«Andrea.»
«Sì, Fortuné ci ha
raccontato tutto.» Mi sfugge un sorrisino saputo. Me lo
aspettavo. Mio fratello non sa tenere un segreto neanche se gli scocci
la bocca. Non ce l’ho con lui, prima o poi tutti sarebbero
venuti a saperlo tramite me o qualcun altro. «Hai ultime
notizie?», chiede papà.
Gli racconto di tutto quello che è
successo negli ultimi giorni. Dell’ospedale, del dottor John,
di Ewan Dallin e di sua moglie Andrea Dallin. Gli racconto del fatto
che le ho canticchiato una canzone, che ho gonfiato le ruote della sua
bicicletta, che ha pianto tante lacrime. Gli racconto che ho visto Ewan
Dallin da bambino, che l’ho visto da adulto, e che ho visto
qualcosa che potrebbe essere benissimo un cadavere in quel letto
infeltrito. Quando finisco di raccontare mi rendo conto di avere un
nodo doloroso in gola e far fatica a parlare.
Papà non è mai stato
vistosamente affettuoso. Da bambini ci abbracciava in continuazione, ci
prendeva per i piedi quando eravamo stesi sul divano e ci rivoltava
facendoci volare per aria. Era molto divertente, il mondo si
capovolgeva e non capivi niente per un attimo, fino a che i cuscini del
divano non ti finivano tutti di nuovo sulla faccia. Poi, quando abbiamo
cominciato a lamentarci perché mamma ci teneva sempre mano
quando andavamo in giro, o quando ci chiudevamo nella nostra stanza a
fare chissà cosa, ha cominciato ad essere più
distaccato. Non è che ci vuole meno bene, lui è
fatto così.
Papà mi passa una mano sulla spalla e comincia a
massaggiarmi forte la schiena, con le sue mani ruvide e grosse.
«Non è come perdere qualcuno che ami»,
dice, «se lo vedi tutti i giorni, con la speranza che possa
tornare. Tu sei una persona forte Michael, puoi essere forte anche per
gli altri, quando ne hanno bisogno. La tua amica ha bisogno di te, e io
credo che tu possa benissimo starle vicino in questo dolore, anche se
ti colpisce in prima persona.»
«Non mi dispiace starle accanto e
consolarla, perché sono felice se è meno triste
di prima. Ma… io alla fine non posso fare nulla: lei non
vuole me. E non mi vorrà mai finché lui
è lì.» Questa è una delle
cose più crudeli e deprimenti che io abbia mai detto in vita
mia. «Anche se è… quell’uomo
è un morto vivente papà, era… rigido,
e immobile. E stava attaccato a una macchina per respirare.»
«Mi dispiace che tu lo abbia visto,
Michael.»
Me ne torno a letto e dormo come un bambino.
Quella traditrice di Zuleika è andata con Richard
al cinema, quindi siamo solo io, Paloma e Yasmine. Siamo a casa di
Yasmine, abbiamo comprato una bottiglia di vino e ho anche scovato dei
biscotti in cucina. Seduti in salotto davanti alla tv commentiamo un
programma orribile dove fanno vedere una donna che si è
sottoposta a un sacco di chirurgia estetica. Dovrebbe essere come mia
nonna e invece sembra la mia cuginetta minore, però
stranamente deforme.
«Che schifo», dico spegnando
la tv. «Mettiamo un cd?»
«Sono d’accordo. Ce
l’hai ancora quello di Aretha Franklin che ti ho
regalato?», chiede Paloma.
«Certo che ce l’ho! Che
faccio, lo butto?» Yasmine si alza e si mette a cercare nel
mobile del salotto.
«Magari l’hai perso. Perdi un
sacco di roba.»
«Io non perdo un sacco di
roba.»
E infatti venti minuti dopo stiamo ascoltando un
live di Bob Dylan, perché Yasmine non ha perso il cd di
Aretha, nooo.
Il vino nel frattempo è sceso lungo le nostre
gole, e il fatto che abbia mangiato solamente dei cracker alle quattro
del pomeriggio e ora dei biscotti non aiuta. Il mio stomaco
è vuoto, e adesso è anche ubriaco. Ah, il mio
fegatino!
«Non vi ho ancora raccontato del tipo
che ho conosciuto l’altro giorno al lavoro!»,
esclama Paloma in un eccesso di risatine.
Io reagisco come se fossi papà e lei
avesse ancora quindici anni. «Chi? Chi è? Quando
l’hai incontrato? Perché non ce lo hai
detto?» Il tutto è ovviamente amplificato
dall’effetto del vino, anche se devo ammettere di essere
parecchio protettivo nei confronti delle mie sorelle. Quando ho
conosciuto Richard gli ho chiesto un riassunto dettagliato della sua
vita privata, fra un po’ mi mettevo a prendere appunti.
«E piantala di fare il
rompi!», mi sgrida Yasmine.
«Io non…!»
«Allora, sì, ero in ufficio,
una volta tanto, e stavo telefonando, e passa questo tipo tutto
incravattato, vestito elegante, curato, e va dritto verso
l’ufficio di Melissa. Io non ci faccio caso più di
tanto, ma avete presente che Melissa ha quell’ufficio con le
porte scorrevoli in vetro, che non si vedono mai, soprattutto
d’estate, e questo tizio va sicuro e tutto fiero tirato a
lucido e sbatte contro le porte e cade. Credo di averlo visto solo io,
e sono scoppiata a ridere.»
Paloma gesticola un sacco quando parla,
immaginatevela che sobbalza sul divano con un sorriso largo sulla
faccia, è esattamente così. In un certo senso fa
bene a gesticolare, significa che mette in moto i muscoli. Ogni giorno,
dall’incidente che ha avuto, fa una seduta di fisioterapia, e
la sta aiutando moltissimo. Cammina ancora con le stampelle quando deve
fare lunghi tratti di strada, perché le fa male la gamba e
indossa una specie di pancera per tenere i fianchi e la schiena dritti
a volte, ma sta migliorando molto. Da un paio di mesi ha persino
ricominciato ad andare a lavorare, qualche volta. Certo, le ci vorranno
parecchi anni per guarire del tutto, semmai guarisse del tutto.
«Oh, poverino! Ridi del suo
dolore!», esclama Yasmine.
«Scusa ma l’avresti fatto
anche tu, è stato epico.»
«E poi?»
«E allora ho mollato la telefonata e sono andata
ad aiutarlo. Gli sanguinava il naso, povero, così
l’ho portato in bagno, gli ho chiesto scusa perché
ridevo e poi l’ho portato da Melissa. Quando è
uscito dal suo ufficio mi ha detto che l’incontro era andato
a rotoli, che Melissa continuava a citare la macchia di sangue che si
stava seccando sul suo vetro, però mi lasciava lo stesso il
suo biglietto da visita nel caso mi servisse un uomo che perde sangue
dal naso. Mercoledì usciamo.» Paloma conclude con
un sorrisino compiaciuto.
«Davvero? Com’è?
Hai una sua foto?»
«No, ma è davvero bello. Ha i
capelli neri…», mia sorella si lancia in una
spiegazione che sembra senza fine.
La serata continua ancora un po’ e, con tutte le
finestre aperte, comincio a sentire freddo. Ho freddo, e sono ubriaco.
Una serata intensa insomma.
«Hai più rivisto
Andrea?» Yasmine si siede al mio fianco e Paloma
dall’altro lato. Sono le mie due guardie del corpo. E
dell’anima.
«No, è da un po’
che non la vedo. È impegnatissima con il suo nuovo lavoro.
Ci sentiamo per mail.»
«Ah, e… come va?»
Perché lo deve chiedere? Non
è evidente che sto bevendo per dimenticare?! «Mah,
niente di nuovo.»
«Perché non la inviti a cena
da noi un giorno? Sarebbe bello conoscerla», domanda Yasmine.
«Scommetto che a mamma farebbe piacere, lei adora i casi
umani.»
«Lei non è un caso
umano.»
«Scusa, non intendevo quello.»
Paloma fa una smorfia. «Sì
che intendevi quello!»
«Ma non nel senso cattivo, in senso
buono.»
«Perché,
c’è un modo bello di essere un caso
umano?», domando.
«Ce l’avete con me oggi?
Stavamo parlando di Michael però.»
«Sono l’essere più
patetico del creato in questo momento, okay?», dico.
«Se volete un caso umano ci sono io.»
Yasmine sta per ribattere qualcosa –
sicuramente qualcosa sui casi umani – ma Paloma mi abbraccia
affettuosa e dice: «Mi dispiace che sei in questa situazione,
Mikey».
La cosa è grave. Nessuno mi chiama
più Mikey da quando avevo otto anni. Devo essere proprio un
caso umano.
«Sono un vero stronzo», dico servendomi
dell’altro vino. «Non dico che voglio che
quell’uomo muoia, anche se potrebbe essere una liberazione da
un lato, almeno credo, ma… immagino che se lui non ci fosse
Andrea non sarebbe così attaccata a qualcuno che
l’ha già lasciata da tempo. Insomma, è
una situazione complicata: lei è innamorata di lui, e non
può disinnamorarsi se tutti i suoi giorni sono in funzione
del marito come quando vivevano assieme.»
«Sei sicuro che lo ami ancora?»
«Ma certo, altrimenti dove starebbe il
problema?»
«Voglio dire che non sta più
con lui da anni ormai, è come una relazione a distanza. A
molta distanza. A troppa distanza.»
«Non è detto che le relazioni
a distanza non funzionino. Guarda mamma e papà.»
«Ehr!»,
mia sorella fa un suono con la gola come quando a un quiz dai la
risposta errata. «Sbagliato. Le relazioni a distanza non
funzionano, e sai perché? Perché quando si sta
separati e non ci si confronta allora ci si dimentica di molte cose
belle dell’altra persona. Può darsi che sia la
donna o l’uomo della tua vita, ma se non ci passi del tempo
assieme allora non lo saprai mai veramente. E poi, nelle relazioni a
distanza, succede anche che conosci gente nuova, e può
succedere che t’innamori di qualcun altro che vedi spesso,
cosa che non accadrebbe se il tuo ragazzo o ragazza fosse lì
con te. Ed è esattamente quello che potrebbe succedere a te
e Andrea.
«E poi mamma e papà non
contano come esempio, si sono sempre visti abbastanza spesso.
Più spesso di Andrea e coso, comunque.»
Io ascolto questa interessantissima teoria e mi
riempio di speranza come un palloncino all’elio, potrei
volare via da un momento all’altro.
«Aspetta.»
Puff.
Il palloncino è scoppiato.
Paloma ha avuto tutto il tempo questa espressione
di disapprovazione sulla faccia, e sono sicuro che sta per dire
qualcosa di orribile. «Michael, tutto quello che ha detto
Yasmine è giusto, succede. Però io ti consiglio
di non farti troppe speranze, solo perché… ecco,
potrebbero infrangersi molto facilmente in una situazione delicata come
questa.»
Crunk!
Il palloncino è stato tirato dentro il tritarifiuti.
«Ma perché dici queste cose?
Lui può ancora tentare. Quella ragazza è sola da
tre anni. Michael arriva lì come il principe azzurro, come-
come un vibratore omaggio!»
«Non si tratta di sesso!»,
dico io, ma loro mi ignorano.
«Sì, e poi verrà
usato proprio come quello, senza nessuna considerazione sul piano
sentimentale.»
«Era solo una battuta. Ma se loro si
avvicinano…»
«Se lo fanno è già
un miracolo.»
«Guarda che se non prova
nemmeno…»
«L’ultima volta che ci ha
provato è andata male.»
«E allora
sentiamo…!»
Mi alzo dal divano e mi metto le mani nei capelli,
gli occhi chiusi. «Basta!», urlo, e loro si
zittiscono come per magia. «Non fate altro… che
confondermi!» Me ne vado in bagno sbattendo la porta,
perché quello è l’unico luogo dove
poter pensare in pace.
Dovete sapere una cosa di mia madre: la cucina
è il suo regno. Lì è lei il capo,
nessuno la può contrastare, e non è conveniente
disturbarla. Quando cucina di solito canta, le canzoni libanesi sono
uno dei primi ricordi che ho della mia infanzia. Non ha mai smesso di
cantare, quindi saranno un ricordo pressoché di tutta la mia
vita immagino. A volte mi stupisco a canticchiare anche io quelle
canzoni, come se le conoscessi, ma la verità è
che alcune non le ho mai sentite per davvero.
Oggi mia madre sta cucinando un pranzo colossale.
Capita più di rado, adesso, che ci sia tutta la famiglia
presente, ma oggi i Penniman si riuniscono come qualche anno fa, quando
nessuno aveva inciso nessun disco, quando nessuno aveva avuto un
incidente, quando ancora disegnare vestiti era un hobby e il college un
traguardo lontano. Oh, e con noi c’è anche il
nuovo membro della famiglia: Richard. Lui è
l’unico che viene accettato di buon grado dalla mamma in
cucina, perché è aiuto chef in un ristorante.
«Mamma?»
«Dimmi tutto, ma aspetta che tolgo le
patate dal forno.» Lei si sta occupando del secondo, mentre
Richard sta finendo il primo e con un po’ di fortuna lo
servirà prima che cali la sera. «Eccomi Michael,
dimmi.»
«Volevo sapere se è pronto.
Abbiamo apparecchiato di là, abbiamo fame.»
«Sto per portare di là il primo, adesso
vado.» Richard prende una grossa pentola ed esce diretto in
sala da pranzo. Io mi scosto per farlo passare, poi mi avvicino al
frigo e lo apro. Lì dentro, come il re del frigorifero, sta
il dolce più grosso che abbia mai visto. Cioccolata, panna e
pan di spagna articolati con maestria, decorato con gli zuccherini.
Allungo una mano per prendere una ditata – solo una piccola!
– di panna.
«Non ci provare neanche.»
Mamma chiude il frigo con un colpo secco.
«Ma mamma! Siamo praticamente dei morti
di fame di là!»
«E Richard è andato a servire
adesso, no? Vai a mangiare che arrivo.»
«Ti aspetto.» Mi siedo al tavolo della
cucina e comincio a giocherellare con le presine mentre lei finisce il
sugo per la carne. «Vuoi una mano?»
«No, e tu?»
Rimango interdetto per un attimo.
«No?»
«Non mi sembri sicuro. Mi dicono che stai
impazzendo nelle ultime settimane.» Mamma sorride leggermente
ilare. «Sei andato a vedere di nuovo quell’uomo
malato?», domanda poi tornando seria.
«No.» Cerco di non guardarla. Lei
è come un alieno, se la guardi negli occhi sarai rapito dal
suo sguardo e lei capirà esattamente che cosa pensi.
Capirà che sono rimasto veramente sconvolto da tutto quello
che mi ha raccontato Andrea. «Io e Andrea non ci sentiamo da
qualche giorno.»
«Come mai?»
Alzo le spalle. «Non lo so. Forse non ha
voglia di sentirmi. Avrà tante altre cose da fare.»
«E tu lasci perdere quindi.» Ha un tono
severo. Ha ragione, lei non mi ha insegnato a lasciar perdere. Vedere i
suoi insegnamenti gettati al vento così dev’essere
brutto. «Perché? Pensi di non piacerle?»
«Penso solo che dovrà
rendersi conto che suo marito non tornerà più. Ho
controllato su Google, sai? Se passano più di due anni le
possibilità di risvegliarsi da un coma sono
bassissime.»
«Lo so…» Mamma
sciacqua le mani e ficca un paio di padelle nel lavandino. Dalla sala
da pranzo un “È in tavola!” mi fa
alzare. Richard torna in cucina, posa la pentola, poi se ne esce di
nuovo. «Forse dovresti farglielo notare, se lei ti piace
tanto. Non è un crimine rifarsi una vita se il marito
è in quelle condizioni; cerca di capire che cosa ne pensa.
Come mai non dovrebbe interessarsi a un ragazzo bello come
te?» Mamma sorride e mi accarezza una guancia. Sorrido
anch’io, giusto per accontentarla.
In realtà non so cosa fare, a parte
piagnucolare sulle spalle dei miei parenti.
Sono
perduto.
Sono
sfinito.
Eccomi di ritorno.
Allora, svelato il "mistero Andrea" non resta molto da fare se non
risolverlo, ma prima Mika dovrà passare attraverso qualche
piccola sofferenza, altrimenti che storia drammatico/romantica
è? E poi, in qualche modo dovevo usare venticinque canzoni!
No, dai, non è vero, questo capitolo ha un fine: volevo
mostrare il rapporto di Mika con la sua famiglia. C'erano state diverse
speculazioni sul fatto che Mika avesse un rapporto un po' burrascoso
con suo padre, ma qui non me ne sono curata più di tanto e
ho fatto quella piccola scenetta notturna. Fortuné non
c'è perché ne avevo già parlato negli
scorsi capitoli, poi se lo inserivo troppo nella storia si montava la
testa e pensava di essere il protagonista xD
In realtà non so come sta Paloma adesso (e soprattutto come
starà l'anno prossimo, dato che la fanfiction è
ambientata nell'estate 2013!). Ho sparato quella storia della
fisioterapia, delle stampelle eccetera perché mi sembrava
veritiera, in realtà non so come sia messa. Diciamo che
nella mia fanfiction sta piuttosto bene... è una sorta di
augurio. Paloma get
well soon! ^^
Che altro? Basta, direi che termino qui per oggi. Vi lascio
allo spoiler,
così avrete una piccola anticipazione del prossimo
capitolo/canzone.
Ci vediamo Domenica prossima, nel frattempo vi auguro una buona
settimana :)
Patrizia
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Capitolo 11 *** Stuck in the middle, o L'appuntamento perfetto ***
Capitolo
undici
Stuck in the middle
o L’appuntamento
perfetto
Suono il campanello e
aspetto che Andrea si decida ad aprire. «Ciao», le
dico entrando e sistemandomi come se fossi a casa mia. In effetti la
conosco piuttosto bene. So dove sono gli attrezzi in cucina, e che la
doccia del bagno ha una temperatura ottimale se la metti più
sul freddo, forse perché il rubinetto è un
po’ vecchio. «Come va?»
«Al solito. Non mi dispiace questo nuovo
lavoro.» Andrea si siede sul divano e continua a mangiare i
biscotti, quelli per bambini con tanto calcio e ferro.
«Vuoi?», mi domanda. Io ne assaggio uno, e certo
che è buono. Per forza dev’esserlo, altrimenti i
bambini non lo mangerebbero. «Vuoi un
caffè?»
«Se ti va di farlo…»
«Non c’è
problema.»
Di fronte al caffè caldo e ai biscotti
per bambini le chiedo: «Perché non hai cercato un
lavoro che avesse a che fare con il canto? Hai un titolo che vale
quanto una laurea.»
Lei scuote la testa. «Sono troppo fuori
allenamento. Per riprendere dovrei mettermici d’impegno
almeno per un anno.»
«E perché non lo fai? Ti do
una mano.»
Lei sorride. «Non ho un anno di tempo
per rimparare tutto. E comunque ho l’impressione che saresti
un maestro orribile.»
«Perché?», chiedo
indignato. «Non è vero, io sarei un maestro
fantastico invece. E poi tu non sei mica male come allieva. Quando
abbiamo cantato assieme non eri poi così
arrugginita.»
«Ma non sono a livelli
d’insegnamento. Forse potrei dare lezioni ai principianti, ma
ad un certo punto dovrei fermarmi.»
«Non ne vale la pena, continuare? Tu ami
cantare», insisto io.
Andrea sembra un po’ incerta, titubante.
«È vero, ma non pagano mai abbastanza.
L’ospedale di Ewan è molto costoso.» Ah,
ecco. «E poi…» Poi? Poi cosa?
C’è un’altra ragione che non so?
Qualcos’altro di scabroso, tanto per cambiare?
«Poi?», domando, mio malgrado.
Andrea alza le spalle. «Non mi sembra
giusto, ecco. Forse può sembrare stupido ma… non
credo che sia giusto che io me stia a cantare tutta contenta mentre
Ewan… no. Insomma, ho già fatto tante cose che
non avrei dovuto.»
In che mondo sono finito? Adesso la gente non si
vuole più divertire perché non lo fa il marito in
coma. Certo, detta così suona orribile, ma provate a
leggerne il senso intrinseco, che al momento io non posso illustrare,
perché sono troppo impegnato a indignarmi. «Ma
questo che significa?!», strillo, arrabbiato. «Che
cos’è che non dovresti fare? Eh?! Non dovresti
fare le cose che ti piacciono perché tuo marito non
può? Io non lo conosco, ma sono certo che lui vorrebbe che
tu fossi felice. Essere felici è diventata una colpa adesso?
E cos’è che avresti fatto di tanto
terribile?»
«A parte ballare nuda davanti alle
persone? A parte uscire a divertirmi e dormire
con…!» Andrea si blocca, la bocca le si cuce come
se qualcuno avesse tirato su una zip. Io impallidisco e mi faccio
serio. Io la guardo. Lei
mi guarda. Ci mordiamo a vicenda con quello lo sguardo.
Per caso è colpa mia? Adesso
è diventata colpa mia? Perché? Io non sapevo
neanche dell’esistenza di un marito fino alla settimana
scorsa. Non immaginavo neanche dei sensi di colpa che si portava sulle
spalle solo per aver dormito nella stessa stanza. Sta per caso dicendo
che sono io che glieli ho fatti venire? Solo perché
l’ho fatta ridere un paio di volte, perché siamo
stati bene insieme.
Il cervello umano è qualcosa che
è inutile tentare di capire. È talmente complesso
e così… stupido.
«Che cosa vuoi dire?», chiedo.
Andrea si massaggia la fronte e tiene gli occhi
bene chiusi. «Voglio dire che non mi sembra giusto che mio
marito Ewan sia costretto a letto e io passo una notte intera con un
altro uomo.»
«Ma non abbiamo fatto niente!»
«Sì ma è il
concetto che sta alla base che è sbagliato. Quando sei stato
fidanzato sei mai andato a dormire con una persona dell’altro
sesso?»
«Non m’interessano i sessi.
Non lo so, non credo, ma…»
«Appunto, perché non si fanno
queste cose quando sei fidanzato. E io sono sposata!»
«Be’, ma questa è
una situazione particolare.»
Andrea strabuzza gli occhi come se mi fossi messo
a saltare sul tavolo cantando la sigla dei Puffi. «Che
intendi dire?»
Io scuoto la testa. «Lo sai benissimo che cosa
intendo, non farmelo dire ad alta voce.» Lei mi guarda
smarrita, e allora ho come la netta sensazione che, per lei, sia
normale routine considerare suo marito come una persona che ancora le
sta affianco, quasi come se si fosse solo preso una vacanza. Deglutisco
e sento il pomo d’Adamo andare su e giù lungo
tutta la gola. Ora la situazione intera sembra assurda: in questi tre
anni Andrea si è dissanguata per pagare l’ospedale
privato di suo marito, e si comporta ancora come se lui dovesse tornare
da un momento all’altro, come se vivessero assieme, come se
fosse questione solo di un attimo prima che rientri. «Io
credo che dovresti pensare molto bene alla situazione in cui ti trovi,
Andrea», dico serio guardandola negli occhi. «Che
cosa dice il dottor John di Ewan? Che possibilità ci sono
che si riprenda completamente?»
Lei distoglie lo sguardo e comincia a mettere a
posto la tavola. «Non è possibile avere dati certi
in queste cose. Quel che è certo è che lui
è ancora vivo e che potrebbe succedere qualsiasi cosa. Un
miracolo, o che so io.» Fa cadere tutte le stoviglie nel
lavandino, che fanno tanto fracasso, e si appoggia al piano con i
palmi. Poi parla a voce molto bassa, dandomi le spalle. «Io
prego tutte le notti prima di dormire, perché questo accada.
Prometto in cambio questo e quello, di pensare agli altri, di fare
beneficenza, di andare sempre in chiesa. Ma fin ora non mi ha dato
retta nessuno.»
Mi alzo e l’abbraccio, posando la guancia sul suo
capo. Lei si irrigidisce. «Lo so che questa ti sembra una di
quelle famose situazioni compromettenti, ma non lo faccio per secondi
fini e neanche tu. Quindi non c’è nulla di
male», dico in fretta. La sento rabbrividire per un attimo
fra le mie braccia. «Io credo che dovremmo uscire uno di
questi giorni. Dovresti dedicare una giornata solo a te stessa, che ne
dici? Una giornata in cui non pensi a nulla. Eh?» La guardo
con un sorriso incoraggiante. «Quand’è
il tuo prossimo giorno libero?»
«Tutte le Domeniche e un Sabato
sì e uno no.»
«Ah, un weekend, è perfetto!
Settimana questa o l’altra?»
«La prossima.» Andrea mi
sembra già contenta del programma, per lo meno sorride e
sembra ansiosa di decidere cosa fare.
«Sabato prossimo voglio che ti svegli presto e che
ti prendi un giorno solo per tè stessa. Fai quello che vuoi.
Vai dal parrucchiere, vai a comprarti un bel vestito nuovo, che ne so,
quello che ti pare. E Domenica, voglio che ti prepari e che mi aspetti
verso le nove di mattina.»
«Dove andiamo?»
«Non te lo dico.»
Lei sorride e s’illumina per qualche
attimo. Ecco, è esattamente così che dovrebbe
essere: sorridente, fra le mie braccia.
Yasmine tira fuori un opuscolo e me lo sventola
davanti alla faccia. «Volete fare qualcosa di divertente?
Ecco qui, guarda: una mostra di Lygia Pape.»
«Di chi?», domando prendendo
il volantino e guardandolo.
«Lygia Pape era un’artista
brasiliana, hanno inaugurato una sua mostra proprio l’altro
giorno.»
«Ma sei sicura che ci piace?»
Yasmine alza le spalle.
«Perché no?»
Dubbioso, metto da parte il volantino.
«Vedremo.» Siamo tutti a casa di Zuleika e Richard,
e ovviamente io sono l’argomento centrale di conversazione,
perché non sia mai che la famiglia non metta il naso negli
affari degli altri!
«Io so che c’è il
circo in città, c’era uno che distribuiva i
biglietti con entrata ridotta oggi in centro. Aspetta, devo averli
nella borsa, ce ne hanno appioppati quattro quando ero in giro con
mamma ieri sera.» Paloma abbandona la caffettiera e torna
indietro con una borsa che potrebbe contenerlo dentro il circo, e si
mette a cercare. «Non li trovo…», rimane
pensosa, «Non appena li vedo te li metto da parte.»
«Aspetta e spera», commenta
Zuleika. «Piuttosto, andate a fare qualcosa di romantico. Non
so, uno spettacolo a teatro, poi fuori a cena in un bel ristorante, sul
Tamigi. E alla fine a vedere i fuochi d’artificio»,
dice sognante.
«Sì, e dove li trova dei
fuochi d’artificio? Li fanno per lui?», interviene
Fortuné con tono di biasimo.
«L’importante è che non andate al
ristorante cinese, l’ultima volta che ci siamo andati hai
mangiato come un cavallo e ti sei addormentato in macchina appena
usciti. Sai che romantico con lui le sbava sulla spalla
russando?»
Yasmine ridacchia e affonda il viso nel suo
tè. Ultimamente si è fissata con il tè
e beve quello perché dice che la rilassa… Io le
do ancora massimo due settimane prima di sclerare e tornare a bere
ettolitri di caffeina liquida.
«Non è una cattiva idea.
Però non deve sembrare come un appuntamento», dico
io.
«Ehi, venite alla mia
università», dice mio fratello dandomi una pacca
sulla spalla e facendomi voltare. «C’è
la presentazione di Fredinand Gobrin: è un matematico, ha
fatto ricerche sull’apprendimento scientifico delle
scimmie.»
«Ah, così sì che
non sembra un appuntamento», dice Paloma prima di scoppiare a
ridere.
Tutti ridiamo e Fortuné incrocia le
braccia e ci guarda male. «Se avete un’idea
migliore…», dice con tono acido.
«Ehi, la mia idea era
magnifica!», fa Zuleika dopo essersi ripresa. «Se
riempi il pomeriggio di cose divertenti la sera diventa più
leggera, e non sembrerà una cosa romantica, no? Tu fai
così, portala di mattina a vedere la mostra, mangiate
qualcosa di veloce, fate un giro in centro, poi il pomeriggio al circo
e dopo a cena. Poi i fuochi d’artificio ed è
fatta, praticamente sverrà ai tuoi piedi.»
«Io non voglio che svenga ai
miei…»
«Ma te sei fissata con ‘sti
fuochi d’artificio», mi interrompe
Fortuné con una smorfia.
Zuleika si agita tutta e fa di sì con la testa in
maniera teatrale, come a dire “è ovvio”.
«Come alla fine dei film d’amore! I protagonisti si
baciano e sullo sfondo… i fuochi.» Ah, Zuleika,
che inguaribile romantica!
«Questa non mi sembra affatto
male», dico. «C’è il circo,
c’è la mostra, c’è la
cena…»
«E perché non ci sono le mie
scimmie?»
Ci giriamo tutti verso Fortuné. Mi
rigiro verso le altre: «Nessuno ha niente da aggiungere
vedo». Loro cominciano a ridere e lo zucchero a velo che
stava sulla fetta di torta di Zuleika viene soffiato via dalla sua
risata. Ridiamo più forte.
La mostra non era così male come
pensavo: per lo meno era arte contemporanea che, anche se ti fa
scervellare, non ti sbatte di fronte cristi morti e madonne col
bambino, che personalmente trovo orripilanti la maggior parte delle
volte. In definitiva, la mostra non mi è dispiaciuta neanche
un po’, e nemmeno ad Andrea immagino, dato che ad ogni nuovo
allestimento faceva “ohhh” e sgranava gli occhi.
«E ora?», domanda lei quando
usciamo dal museo. «Che facciamo adesso?»
«Ora andiamo a mangiare, sto morendo di
fame.»
«Sono molto d’accordo con
te.»
Entriamo in un bar e ordiniamo. Dopo che arrivano
le bevande Andrea si rigira fra le mani la bottiglietta di coca cola e
mi guarda sorridendo.
«Cosa c’è? Sei
allegra.»
Lei si stringe nelle spalle. «Mi sto
divertendo.» E menomale, con tutta la fatica che ho fatto. Ho
anche dovuto stare a sentire Fortuné che parlava di scimmie
che imparavano la matematica!
«Bene. E cosa vorresti fare
adesso?»
«Non lo so.» Andrea sorride
furba e mi guarda come se covasse un segreto. «Dimmi la
verità, hai organizzato tutto, vero?»
«Chi? Io?»
«No, il mio pinguino domestico! E dai,
dimmelo. Mi fa piacere se l’hai fatto.»
Sono sinceramente sorpreso.
«Davvero?»
«Sì!»
«E come mai?»
«A chi non farebbe piacere avere una
persona che si preoccupa così tanto per te?» I
nostri panini arrivano e comincio a mangiare subito per non dover
rispondere. «Sono contenta che siamo usciti. Avevi ragione
sai? Mi serviva una giornata come questa.»
«E anche come ieri, a quanto vedo. Stai
bene.»
Probabilmente ieri Andrea ha fatto il giro di tutti i negozi
del centro. Indossa solo vestiti nuovi che non avevo mai visto (le ho
fatto togliere l’etichetta che si era scordata sulla gonna),
si è truccata e si è riempita di bracciali.
È molto colorata, molto bella. Maledetta! Uno ci prova a
dimenticarle, le ragazze, ma loro sono scaltre e ti ronzano attorno
più di prima. Un’altra cosa che ha fatto Andrea,
comunque, è andare a tagliare i capelli, e adesso i suoi
capelli biondi arrivano appena sotto le orecchie e sono sparati un
po’ in tutte le direzioni.
«Grazie. Quindi?»
Ridacchio un po’. «Quindi
sì, avevo in programma una giornata davvero figa, sei
contenta adesso che hai rovinato la suspance?»
«Anche se si rovina dimmelo lo
stesso.»
«Posso dirti che intanto andiamo a fare
un giro, così, normale, soddisfatta?»
«Questo è il tuo grande
piano? La giornata sensazionale?»
«Sono solo le… è
l’una», dico controllando l’ora.
«Ci sono ancora quasi dodici ore di fronte a noi, sai quanto
tempo ho per stupirti? Intanto lo so che la mostra ti è
piaciuta.»
Lei balzella sulla sedia, allegra. «Hai
ragione, era molto bella. Adesso che faremo?»
«Stai cercando di estorcermi la
verità?»
«Ma certo.»
«Non te lo dico.»
Rimaniamo in giro fino alle tre del pomeriggio, poi
cominciamo a camminare lentamente verso la mia macchina, fermandoci qua
e là ogni tanto. Arriviamo in vista del tendone del circo e
comincio a cercare parcheggio. Ad Andrea non passa neanche per la testa
che possiamo andare lì, forse non l’ha neanche
visto.
«Lo sai che non ci sono quasi mai venuta
in questa parte della città? C’è solo
il grande magazzino d’interessante, per il resto non
è che sia un posto proprio bellissimo. Comunque, che ci
siamo venuti a fare?»
«Senti, siamo arrivati, non posso mica
dirtelo ora.»
Scendiamo dalla macchina e ci muoviamo fino alle
strisce, ma c’è il rosso per i pedoni.
«No!» Andrea mi guarda e
sorride. «Stiamo andando lì?», e indica
il tendone rosso e blu. «Davvero?» Non posso fare a
meno di sorridere al suo entusiasmo. Andrea saltella sul posto.
«Oddio, andiamo!» Il semaforo diventa verde e lei
si lancia sulle strisce. La supero facilmente camminando veloce e le
intimo “Andiamo! Andiamo!” «Senti, solo
perché hai le gambe lunghe…!» E
comincia a correre, e io comincio a correre, alla fine le prendo la
mano e la trascino correndo verso il tendone.
Impossibile resistere, ma sono incastrato nel mezzo
fra “mi piace” ed “è
sposata”. E lei è incastrata nel mezzo
di Michael e Ewan.
Eccomi qui!
Allora, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e vi abbia fatto
almeno un po' ridere. "Stuck in the Middle" è una canzone
allegra, e anche se non c'entra niente il tema della canzone con questo
capitolo non importa. Ve l'ho detto che non tutte le canzoni saranno
completamente compatibili con il tema del capitolo. Comunque volevo che
fosse allegro perché la melodia di "Stuck in the middle"
è veloce e allegra.
Vi lascio lo
spoiler e ci vediamo nel prossimo capitolo, dopo il quale vi
ammorberò con il riassunto del concerto di Mika
Martedì prossimo. Ragazzi, sto sclerando, non vedo l'ora!
A Domenica prossima, buona settimana :)
Patrizia
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Capitolo 12 *** I see you, o Tempo di attesa ***
Capitolo
dodici
I see you
o Tempo di attesa
Il tempo del
divertimento sembra anni addietro. Anzi, sembra non essere mai
esistito. La cosa non potrebbe essere più scontata di
così: Ewan è morto. Ha avuto un attacco cardiaco
e i medici non hanno potuto fare molto nelle sue condizioni. Erano le
tre di notte quando Andrea mi ha chiamato e mi ha chiesto di farle
compagnia. Ha detto che non poteva chiamare sua sorella
perché era in viaggio per lavoro e che i suoi genitori erano
in vacanza da alcuni parenti in Scozia. Non c’era nessuno con
lei, al pronto soccorso dell’ospedale. Mi sono cambiato e
sono andato.
Il pronto soccorso non è qualcosa che auguro di
vedere a nessuno. Spero che nessuno abbia bisogno di andarci mai, anche
se è un vero sollievo sapere che c’è.
Se non ci fosse stato il pronto soccorso aereo adesso forse Paloma non
sarebbe più con noi, e per l’efficienza di quei
ragazzi ringrazio Dio o chi per lui tutti i giorni.
Quando sono arrivato, comunque, Andrea era seduta in una
delle tante sedie che c’erano nella grande sala
d’attesa. Aveva un’espressione terrorizzata in
volto. L’ho abbracciata e mi sono seduto al suo fianco. Mi ha
detto che l’avevano chiamata un’oretta fa ma che
ancora non aveva notizie.
Abbiamo aspettato fino alle cinque del mattino,
poi il dottor John è venuto fuori e l’ha detto.
Non è passata neanche una giornata e io
ho portato Andrea a casa mia a dormire. Ho telefonato al suo lavoro, ho
spiegato la situazione e loro le hanno dato tre settimane di
aspettativa.
Adesso dorme e io sono in cucina a masticare
ossessivamente gomme. Continuo a ficcarmene in bocca di nuove e alla
fine sputo tutto quanto nella spazzatura anche se il sapore si sente lo
stesso. A volte mi chiedo come mai faccio queste scemenze, ma il
più delle volte le faccio e basta, perché sono
scemo. E non so cosa fare in una situazione come questa a parte
masticare gomme e accarezzare il mio cane Melachi, che ha capito che
c’è qualcosa che non va e mi guarda con occhi
indagatori.
Vado a controllare Andrea e la trovo sdraiata sul
letto, sopra tutte le coperte, con addosso ancora il pigiama, che era
quello che indossava anche in ospedale, con le gambe e le braccia
aperte. Sembra l’uomo vitruviano. A quanto pare non mi vede
neanche, fissa il soffitto e non fa una piega quando mi siedo sul bordo
del letto. «La vuoi sapere una cosa?», mi fa dopo
qualche attimo con tono piatto.
«Sì.»
«Non sono del tutto triste. Sono anche
un po’ sollevata e un po’ contenta. È
proprio una cosa da stronzi, no?»
«Dipende dal perché sei un
po’ contenta», osservo io con immensa saggezza che
mi esce improvvisa.
«Erano passati tre anni… La
verità è che c’era una
possibilità su mille che si risvegliasse. E anche se
è comunque una speranza, dopo un po’ smetti di
crederci per davvero. Per questo sono sollevata, almeno è
finita, anche se non nel modo che speravo.»
Si interrompe e sospira. «Non poter
comunicare è frustrante», dice poi.
«Penso che forse faceva una vita d’inferno, e che
adesso almeno non la fa più. Non posso non essere felice del
fatto che non soffra più, in fondo, anche se avrei preferito
mille volte che non fosse successo niente di tutto questo. Ma
c’è un’altra cosa…»
Gira la testa verso di me e mi prende una mano. «Ti ringrazio
per tutto quello che hai fatto, anche se ti faceva male.»
«È stato un
piacere», sussurro con voce rotta. Deglutisco a vuoto.
«È per questo che mi sento in
colpa, nei confronti di tutti e due.» Andrea toglie
velocemente la sua mano dalla mia, come se si fosse scottata. Non mi
guarda più, parla con una voce che è simile a un
sussurro, tanto che devo stare attento per capire cosa dice.
«In questi mesi sono stata così bene con te... mi
sembra di essere uscita da una stanza buia in cui non era successo
niente per tanto tempo. Come se tutta la mia vita di prima fosse stata
vissuta anni e anni fa e ci fosse… un buco di nulla in
mezzo, fra prima e dopo che ti ho incontrato. Mi hai»,
spalanca gli occhi per un secondo e fa un vago sorriso, «mi
hai dato una scossa, anche senza fare niente di particolare. O
sbaglio?» Si gira di nuovo verso di me e sorride ancora un
poco.
«Veramente mi sono impegnato moltissimo
per essere il più simpatico e interessante
possibile», dico con un mezzo sorrisino. Non capisco dove
voglia andare a parare.
«Mi sentivo – mi sento ancora
– molto in colpa per come ti ho trattenuto vicino, anche se
sapevo che ti dava fastidio il fatto che fossi sposata.
Cioè, magari non fastidio, ma non è bello stare
assieme ad una persona che ti piace e pensare di non avere alcuna
chance con lei. Immagino che non sia stato facile.» Fa un
sorriso debole come per scusarsi. «Ma volevo farti sapere
che, nonostante tutto, non ti ho tenuto vicino solo perché
sono pazza, o egoista e sadica. Mi trovo molto bene con te
Michael… io penso che tu mi piaccia. Non mi era mai piaciuto
nessuno dopo essermi innamorata di Ewan, neanche in tutti questi anni
in cui lui non c’era. Non te l’ho mai detto
perché… chissà cos’avresti
pensato di me. Soprattutto dopo aver saputo di Ewan. Tu ancora non mi conosci del
tutto e per paura di quel che avresti potuto fare non dicevo nulla.»
Mi si riempie la bocca di saliva. Ho paura di parlare
perché potrei sbavare tanto le mie ghiandole salivari stanno
funzionando. Sembro un adolescente alla sua prima cotta, maledizione!
Andrea non si rende conto del mio stato, e
continua a parlare. «Se tu vuoi ancora, insomma, se io, se
noi-»
Recupero la calma in un attimo, che nervi saldi
che ho! Mi complimento con me stesso. «Tranquilla»,
dico ad Andrea. Mi sdraio al suo fianco e fisso il soffitto con lei.
«Ho bisogno solo di un po’ di
tempo, ti chiedo di pazientare per un po’», dice
lei.
«Io sono paziente. Non sono paziente?
Sono come Buddha e Ghandi messi assieme. Insomma…
all’ennesima potenza», dico precipitoso.
Rimaniamo in silenzio per un po’. Andrea
mi ha vomitato addosso tutta la sua sincerità e io me ne
zitto a guardare il soffitto sopra al mio letto a baldacchino come uno
scemo. Sono molto più bravo quando si tratta di programmare
testi, canzoni, frasi ad effetto, che si possono cambiare, rivedere,
confrontare. Ma quando la situazione implica la velocità
sono un vero disastro. Non sono un tipo che riesce ad essere profondo
nella vita di tutti i giorni, non sono capace di esprimere a parole
quel che sento fin da subito, devo rimuginarci un po’ prima
di giungere ad una conclusione sensata, che tutti possano capire. Per
questo ora non dico nulla. Il che non toglie che mi senta benissimo,
sorpreso, praticamente galleggio. Come ho fatto a crogiolarmi in questo
casino per così tanto tempo senza capire che, in un qualche
angolo del suo petto, anche Andrea sentiva qualcosa per me? Certo, poi
è saltata fuori la storia di Ewan, che ancora non
è neanche lontanamente finita, e tutti i miei sogni per il
futuro si sono sgretolati con ancor più convinzione, ma a
parte questo, prima, come cavolo ho fatto a non accorgermene?
Adesso tutto si è ribaltato con due
paroline.
«Non penso che sei strana, al
contrario», dico all’improvviso. Andrea fa silenzio
e io continuo: «Credo che sia normale che, dopo un
po’ di questa situazione, tu possa aver considerato di far
entrare altri uomini nella tua vita, anche se ovviamente ami ancora tuo
marito». Al pensiero deglutisco, cercando di cacciare in
fondo alla gola persino la passata esistenza di Ewan. «Hai
tutto il tempo che vuoi. Con molte probabilità io
aspetterò fino a novant’anni.»
Il silenzio regna per un po’, poi Andrea
si porta una mano al viso e comincia a ridere piano, una risata
dapprima trattenuta, ma che poi scoppia, sincera.
«Che hai da ridere?»
«No, niente, scusa! Pensavo a quando
avrai novant’anni. Sul palco, a cantare con un bastone da
passeggio.»
Quest’immagine mi tormenta per il resto
della giornata.
Come situazione devo ammettere che fa schifo,
vista da un esterno, ma io non posso che essere felice. Alla mia
famiglia si sono rizzati i peli della nuca al sentire che
cos’era successo. Erano combattuti fra il cordoglio per
Andrea e la felicità per me. È un dualismo
orribile, lo so, ma io non riesco ad essere triste. Mi sveglio pimpante
come se avessi già bevuto il mio caffè mattutino,
con un leggero sorriso sulle labbra. Me ne sono accorto ieri mattina,
quando ero in bagno. Mi sono guardato allo specchio e ho visto che
sorridevo, senza neanche rendermene conto. “Dio”,
mi sono detto, “sei davvero sfigato.”
Non sono andato al funerale di Ewan, ho detto ad
Andrea che avevo un impegno di lavoro. Mi sono inventato un balla sul
fatto che dovevo fare un’intervista per la radio, anche se
non è vero. La verità era che non avevo voglia di
andarci: in qualche modo mi sento in torto verso quell’uomo,
anche se so che è una cosa davvero stupida da pensare.
Però mi sento così, per ora, e non posso farci
nulla.
Fa caldissimo fuori, siamo a metà
Giugno e al telegiornale cominciano a fare i servizi sul caldo, sui
turisti e sulle spiagge affollate. Avevo in programma di fare un
piccolo viaggio con Fortuné, solo io e lui; un regalo per
quando si sarà laureato. Manca poco, ha già
scritto la tesi e la discuterà fra un paio di settimane. La
famiglia intera (e con ciò intendo tante, tante persone) si
sta muovendo per festeggiare l’evento. In pratica avremo la
casa invasa da visitatori per una giornata intera, per mettere a posto
dopo ci vorranno secoli. La mia vacanza regalo gli piacerà
un sacco, due settimane in Spagna, a Barcellona. Ci è stato
solo una volta, ma gli è piaciuta tantissimo. Credo che
glielo dirò prima, solo perché non riesco a
trattenermi per altre due settimane.
«Ciao ma’.» Entro in
cucina e saluto mia madre. «Che fate?»
«Tuo padre è in sala,
legge.» Perplesso, guardo mamma seduta al tavolo della
cucina, con in mano un pennello, di fronte a quello che sembra un
cassetto del mobile in legno grezzo che sta lì da anni e che
nessuno ha mai toccato.
«E tu?», domando entrando a
grandi passi. Lei non alza gli occhi neanche a pregarla, non lo farebbe
nemmeno se mi mettessi a ballare la Macarena. Madre ingrata; e io che
ballerei persino la macarena per lei.
«Faccio decoupage.»
«Da quando fai decoupage?»
«Da ieri.»
«Oh…» La osservo per un altro
po’, poi con un’alzata di sopracciglia me ne vado
di sopra dicendo: «Vado da Fortuné.»
Mamma dice qualcosa ma io non la sento e non ci faccio troppo caso.
Evidentemente non è importante se me lo dice mentre fa
decoupage. Arrivo fino alla stanza di Fortuné ed entro.
«Oh, piantala di studiare e lodami, guarda che
cos’ho qui per-» Alla scrivania Fortuné
non c’è, non c’è da nessuna
parte in quella stanza. C’è solo una ragazza di
fronte allo specchio che si allaccia il reggiseno e quando mi vede si
copre e quasi cade a terra. Chiudo la porta di scatto, e la faccio
anche sbattere, senza dire una parola e con gli occhi a palla fuori
dalle orbite.
Una voce dal corridoio strilla:
«Michael? Non entrare!»
Mi volto verso mio fratello, che è appena uscito
dal bagno e saltella chiudendosi i pantaloni. Certo che anche lui, non
dà proprio per niente nell’occhio, no!
«Mi dispiace, troppo tardi»,
dico ghignando. «Cioè, non si fa così,
non si lascia la porta aperta mentre uno si riveste.
Pensateci!»
«Senti, è stato imprevisto va
bene? Di solito non invito Hilda a venire qui.»
«Hilda? Voi…?»
Fortuné arrossisce come un pomodoro e io rido come una iena
cretina. «Da quanto vi conoscete? Aspetta, tu hai la ragazza
e non l’hai detto a nessuno?»
Si stringe nelle spalle. «È
che non ero sicuro che fosse proprio la mia ragazza, fino a un
po’ di tempo fa. In realtà ci conosciamo da un
annetto, siamo amici, ma non pensavo che sarebbe diventata la mia
ragazza. Poi invece lo è diventata.»
«Oddio la devo conoscere»,
dico posando una mano sulla maniglia.
«No!»
Fortuné si lancia su di me e mi
acchiappa all’ultimo secondo, sta artigliato alla mia schiena
e mi trascina lontano dalla porta, mentre io scoppio a ridere di nuovo,
incontrollabile.
«Dai, perché no?»
«Perché sei pazzo! Cosa vuoi dirle? E
poi tu non ci entri lì con lei che magari non ha addosso
niente», sibila rabbioso, mentre io ancora mi divincolo e lui
ancora mi trattiene.
«No, no, a quest’ora si
sarà già rivestita, era a buon punto quando sono
entrato.»
Fortuné si ferma un attimo e mi guarda
con gli occhi stretti. «Che cos’hai
visto?», domanda lentamente.
Alzo le mani in segno di innocenza, ma non mi
riesce bene dato che ho Fortuné aggrappato addosso come un
koala al ramo. «Niente. Non ho visto niente te lo giuro. Solo
un reggiseno e una gonna blu e basta. Dai ora presentamela,
dovrò pur scusarmi, no? Ah, ho anche un regalo da darti, se
vuoi puoi anche usarlo con lei, ma guarda che non sono
preservativi.»
«Cretino!»
La porta si apre ed esce una ragazza bassa, dai capelli neri
e lisci e la carnagione scura. Fa un sorrisino imbarazzato e io e
Fortuné ci sciogliamo in fretta dalla nostra litigata e
tentiamo di darci un contegno.
Mi lancio in avanti. «Piacere sono
Michael, il fratello di Fortuné.»
«Hilda, molto piacere.»
«Sì, è tutto
bellissimo. Adesso torniamo dentro, eh…»
Fortuné la prende per le spalle e la pilota verso la stanza.
«Fortuné», lo chiamo prima
che scompaia dentro, «tieni, è il mio regalo per
la tua laurea.» Gli porgo la busta con i biglietti arei e la
prenotazione dell’hotel. «Buon
proseguimento», ghigno e me ne vado.
Il mio viaggio con Fortuné è
finito prima ancora di iniziare. Lui non ci ha pensato due volte e ha
invitato Hilda, quel traditore. Alla fine abbiamo scoperto che lui e
Hilda si conoscono da un sacco e si sono messi ufficialmente insieme
solo un paio di settimane fa. Lo sapeva solo Paloma e non
l’ha detto a nessuno. Eppure io racconto sempre a tutti i
fatti degli altri, ma sono giustificato perché prima avviso:
“Non dirlo a nessuno però, eh.” Comunque
Hilda viene dal Sud America e ha ottenuto una borsa di studio per
studiare design qui a Londra. A sentire Fortuné è
un genio, e non è che non ci creda, ma ho come
l’impressione che il cuore parli al posto del cervello.
Ho voglia di trovarmi un'altra vacanza.
Possibilmente ci andrei in famiglia, ma sono tutti impegnati. Zuleika e
Richard sono già andati per le nozze, Paloma preferisce
rimanere a casa a riposare il più possibile (da quando si
è ripresa dopo l’incidente va in ufficio veramente
poco, lavora più che altro da casa e molto saltuariamente,
ma non la posso biasimare se vuole prendersi una pausa da tutto e
rimanere a casa a riposarsi), e mamma e papà le faranno
compagnia. Rimane solo Yasmine, ma è molto impegnata nella
collaborazione con una rivista che le ha chiesto dei lavori.
Ho tutto Luglio e Agosto per pensarci, forse
qualcuno si libererà.
Andrea non ha voluto usufruire delle due settimane di
aspettativa. Ha organizzato il funerale di Ewan al più
presto possibile ed è tornata al lavoro cinque giorni dopo.
Credo che stia disperatamente tentando di impegnare le sue giornate. La
capisco: quando siamo costretti a pensare a qualcosa il dolore sembra
più lontano, o sembra che possa sparire più in
fretta, per un secondo lo dimentichiamo. E anche fosse un secondo solo,
è il primo di molti altri che verranno; secondi indolori.
Comunque oggi è Sabato e dovrebbe
essere già tornata a casa.
«Pronto? Ciao Andrea, sono io.»
«Ciao, che fai?»
«Niente, cazzeggiavo. Sono molto bravo a
cazzeggiare.»
«Tutti siamo bravi a cazzeggiare. Si
comincia da adolescenti e non si smette più fino che non
andiamo in pensione. Solo i bambini e i vecchi fanno sempre cose
sensate.»
«Interessante teoria, un giorno me la
spieghi. Piuttosto, che fai domani?»
«Uhm, niente di che. Pensavo di rimanere
a casa. A cazzeggiare.»
«Ti va invece di andare a fare un giro?
Guarda, c’è un duo jazz in un locale. Sono bravi,
ti va di andare a dare un’occhiata?»
«A che ora?»
«Iniziano alle nove e mezza. Vuoi che
passo a prenderti una mezz’ora prima?»
«Ti va di venire a cena da me? Ceniamo e
poi andiamo.»
Oh, un invito inaspettato. Nell’immaginario
collettivo cenare a casa di qualcuno con cui hai una relazione o
comunque qualche inghippo significa fare sesso. A me non è
mai successo così, tutte le volte che si è
arrivati al sesso ero mentalmente impreparato.
«D’accordo, a che ora?»
Buonsalve a tutti!
Allora, questo capitolo è uno di quelli più
importanti perché, fondamentalmente, succedono due cose.
La prima, ovviamente, è che Ewan muore. Ho preferito
così per due motivi: uno, per far continuare la storia di
Andrea e Mika senza troppi drammi (insomma, ho fatto finire il dramma
qui), e due perché non volevo entrare nel discorso eutanasia e roba
varia, perché poi mi perdevo e la fanfiction non vuole
parlare di questo, quindi è stata una morte naturale.
Consoliamoci pensando che, in fondo, Ewan non esiste; coraggio! (Anche
se devo ammettere che mi dispiace di averlo fatto morire
così T^T)
La seconda cosa che succede è semplicemente il fatto,
appunto, del tempo: Andrea, lentamente, con i suoi metodi (ossia
impegnandosi in altro), cerca di dimenticare la morte del marito, e
Mika ha un ruolo fondamentale in questo, perché anche lui,
con la sua sola presenza e la compagnia che le fa, la aiuta a superare
questo momento.
Vi lascio lo
spoiler del prossimo capitolo, e con alte
probabilità la prossima volta che aggiornerò vi
tedierò con il racconto dettagliato del concerto di Mika a
Vigevano. Per chi viene: ci vediamo lì!
Buona Domenica e buone vacanze a tutti, dato che, ora che ci penso,
siamo in estate e ancora non l'ho detto nemmeno una volta u_u
Patrizia
|
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Capitolo 13 *** Pick up off the floor, o Nasalis larvatus ***
Capitolo
tredici
Pick up off the floor
o Nasalis larvatus
Alla fine la cena non ha
portato al sesso, come mi aspettavo. In un certo senso sono sollevato,
non avrei voluto che tutto diventasse così scontato,
così da film rosa. Abbiamo mangiato, siamo andati al
concerto, l’ho riaccompagnata a casa e ho portato a spasso il
mio cane. Fine della mia entusiasmante giornata.
La festa di laurea di Fortuné
è divisa in due parti fondamentali: la prima, nel
pomeriggio, è un pranzo con tutti i parenti; la sera ha
organizzato una festa con i suoi amici
dell’università in un locale. Ci sarà
Hilda e ci saremo anche noi, i suoi amabili fratelli. Come faremmo,
altrimenti, a metterlo in imbarazzo? Progettavo di raccontare a Hilda
di quando Fortuné, da piccolo, era convinto che se avesse
imparato a camminare sui muri sarebbe diventato come l’uomo
ragno. Era stato molto divertente, Zuleika e io lo avevamo aiutato
mettendogli un sacco di scotch sulle mani e sui piedi. Mia madre
sgridò tutti quanti.
A parte questo, siccome non ho voglia di andare da
solo alla festa, credo che inviterò Andrea. Insomma, tutti
quelli che conosco ci verranno accompagnati, e se non sono accompagnati
cercheranno un accompagnatore. Io non lo cercherei perché
c’è Andrea che mi piace, quindi è
meglio chiamarla direttamente e dirle di venire. Le scriverò
una mail.
Donna,
sei
libera Martedì sera? Mio fratello Fortuné
festeggia la laurea e c’è una festa. Se ci sei
passo a prenderti alle dieci meno un quarto e andiamo. Ti va?
Non aspetto la risposta perché devo
andare a fare un’intervista e poi mi vedo con il regista del
mio nuovo video, per sentire un po’ cos’ha in
mente. Torno a casa che è quasi mezzanotte. Controllo la
posta, perché è una cosa che faccio sempre prima
di andare a dormire, e mentre il pc si accende mi faccio un panino. Non
ho cenato e muoio di fame. Mi metto in pigiama (no, okay, mi metto in
mutande. Ma che volete? Fa caldo) e comincio a mangiare il mio panino
di fronte al pc. Dio, sono un maiale: mi sbriciolo tutto sulla pancia.
C’è una mail del mio manager, una catena di
Sant’Antonio da parte di un amico che non fa che mandare foto
di cani teneri e pulciosi, e la risposta di Andrea.
Uomo,
per
me va bene. Per caso è una festa elegante da neolaureati che
se la tirano? Insomma, come mi devo vestire?
Rispondo con un messaggio veloce, le dico che la
festa elegante sarà quella in famiglia, mentre quella a cui
è invitata lei è una festa piena di ragazzi che
sembreranno scimmie urlatrici. Lei è contenta, dice che
è da tanto che non va a una festa scimmiesca.
Mio fratello discute la sua tesi che fa paura.
Inutile dire che non ci capisco niente, ma da come si complimentano con
lui alla fine mi sembra che sia andata bene. Adesso, come minimo, mi
aspetto che Fortuné diventi uno scienziato della NASA.
Mai un pranzo era durato così tanto:
rimaniamo al ristorante fino alle cinque del pomeriggio e, quando ci
decidiamo ad uscire, rimaniamo fuori a parlare per un’altra
ora. Quando infine ci decidiamo a muovere le chiappe arrivo a casa che
sono già le sette di sera. Faccio in tempo a cambiarmi e poi
uscire per andare a prendere Andrea. Ho la pancia ancora piena di quel
pranzo gigantesco, sono in overdose da cibo. Suono al campanello e
Andrea mi apre. Indossa un vestitino che le arriva sopra le ginocchia,
con sul bordo un disegno di due omini che vanno in bici.
«Arrivo, prendo la borsa», mi dice allegra.
Arriviamo nel locale che Fortuné ha
prenotato, e già i segni di una festa di laurea in piena
regola sono lampanti. Tanto per cominciare la musica si sente smorzata
anche da fuori, poi i baristi stanno in fermento dietro al bancone a
preparare enormi quantità di cibo, drink e azionare la
macchina della birra alla spina.
Cerco con gli occhi Fortuné e lo trovo
seduto a capotavola in un tavolo lunghissimo, assieme ad Hilda e alcuni
amici. Mi avvicino e gli chiedo dove sono le nostre sorelle, urlando
per farmi sentire. «Sono di là!», mi
indica una saletta dove vedo Zuleika e Richard, e ad un altro tavolo
Yasmine e Paloma, assieme a un ragazzo che non conosco e al convivente
di Yasmine, Walter, stanno bevendo un drink.
«Piacere, sono Fortuné, il
fratello di Michael.»
«Andrea, sono una sua amica.»
Lei sorride e gli stringe la mano.
«Mi fa piacere che sei venuta, non
vedevamo l’ora di conoscerti. Michael non fa che parlare di
te, è una vera palla, davvero. Dovevi sentirlo
l’altro giorno mentr-»
Mi fiondo su Fortuné e gli chiudo la
bocca, girandomi verso Andrea e sorridendo come se tutto andasse bene.
«Ah, ah! Mio fratello adora scherzare, andiamo?» La
prendo per un gomito e la trascino via, mentre sento Fortuné
ululare una risata come un folle. Be’ in fondo me lo merito,
è la sua vendetta per la brutta figura che gli ho fatto fare
con Hilda.
«Carino tuo fratello. E le tue sorelle?
Quante sono?»
«Tre.»
Mio Dio, come ho fatto a sopravvivere a tre
sorelle, ora che ci penso?
Presento Andy a tutti quanti e ci sediamo al
tavolo assieme.
Dopo un paio di bicchieri Paloma è già
decisa a ingaggiare Andrea come modella per i suoi abiti.
«Dico davvero, tutte quelle modelle scheletriche che
continuano a propinarmi! Tu saresti molto meglio. Le donne vere sono
quelle che voglio vestire, e quelle modelle non sono vere. Le donne
vere hanno le cosce, hanno le tette! Come te», conclude
indicandola soddisfatta.
Io affogo nel mio bicchiere e tento di non
accertarmi dell’esistenza delle tette di Andrea. Lo so che ci
sono, non è educato fissarle.
«Grazie», dice lei compiaciuta.
«Per questo complimento ti offrirò
qualcosa.» Si gira verso un cameriere e gli fa segno di
portarle il menù. Quando arriva lo tende a Paloma.
«Scegli quello che vuoi. Scegliete tutti, fin ora mi hai
offerto tutto tu», dice dandomi una gomitata dolorosa alle
costole.
«E che bel ringraziamento»,
osservo, massaggiandomi lo stomaco tumefatto. Ordiniamo una bottiglia
di vino per tutti e dei nachos grandi, concessi gentilmente da Andrea.
Alla fine della serata (che termina quasi in
mattinata, in effetti) Andrea si è messa a saltellare sulla
pista da ballo, facendo mosse sinuose in ricordo del suo lavoro al
Jewel. Si sta proprio dando da fare alla grande, le guance arrossate
dall’alcol. Io sto prendendo una pausa dal mio saltare
frenetico seduto al bar. Non sono bravo a ballare, sono proprio uno
schifo ad essere sinceri, ma lo faccio lo stesso perché mi
piace. In pratica l’unica cosa che faccio è
collezionare figuracce, ma non importa.
Cerco Andrea tra la folla e vedo che si volta a
guardare un tipo che le si è avvicinato da dietro e le cinge
la vita. Giuro che adesso vado lì e lo strozzo. Ma Andrea
è ancora abbastanza lucida per fargli un sorrisino di scuse
e sgusciare via agilmente fra la folla. Il tipo non demorde e la segue
come in una grottesca caccia al topo. Andrea trova momentaneamente
rifugio da Hilda e Fortuné, ma poi loro si allontanano e il
tipo torna alla carica. Noto che il viso di Andrea ormai è
seccato, così mi alzo e la raggiungo a fatica, sgomitando
per arrivare fino in mezzo alla pista.
«Hai bisogno di una mano?»,
grido al suo orecchio.
«Magari! C’è un
pazzo che mi segue e non mi lascia stare!», strilla lei
guardandosi alle spalle.
La prendo per mano e la trascino lontano. Quando
siamo al sicuro la faccio girare e inizio uno dei miei balli inutili e
goffi, orripilanti. Con mia sorpresa, Andrea si diverte moltissimo e
comincia a fare i passi più stupidi che abbia mai visto fare
in una pista da ballo. Forse non si possono nemmeno definire passi!
Quando la folla diminuisce e stanno tutti andando
via, verso le quattro del mattino, io purtroppo sono colpevole di aver
perso Andrea nel caos. Ero io che dovevo accompagnarla a casa, ma non
avevo idea di quando voleva andarsene, né se avesse sonno, o
fosse impegnata il giorno dopo. Festeggiare Fortuné
è stato più laborioso di quanto pensassi. Per
fortuna scopro che nell’ultima ora Andrea è stata
con Paloma, e poi si è addormentata sul pavimento vicino a
un divanetto. Non sul divanetto, vicino! Assurdo no?
Non appena c’è un
po’ di calma Paloma si alza e mi viene incontro.
«Ehi, raccogli
il tuo amore da terra, che è svenuta.»
In fin dei conti è stata una bella
serata.
«Sei stato veramente gentile, ma
davvero, non era cecesshario.»
«Seh, d’accordo», dico
sconsolato trascinando Andrea su per i gradini di casa mia. Fra un
po’ la prendo in braccio e varco la porta come se fossimo
sposini novelli, con l’unica differenza che non indosso
l’abito adatto, e che la sposa è ubriaca. Non
credo che le spose siano ubriache… o almeno lo spero.
«Ti cedo il mio letto intanto, e ti do uno dei miei
spazzolini di riserva», le dico entrando. Ne ho tre
pacchetti, uno dei quali nascosto in cucina affianco alla marmellata.
Sì, faccio queste cose strane. Lei getta la borsa sul divano
e poi si getta sulla borsa.
«Qual è il tuo animale
preferito?», biascica ad occhi chiusi.
«L’oca, non hanno problemi
economici e viaggiano in giro per il mondo. E il tuo?» Mi
avvicino e tolgo la borsa da sotto il suo stomaco.
«Il mio… la nasica.»
«Che cosa cavolo è una
nasica?»
«Una scimmia. Ha il naso, sai?»
«Credevo che tutti i viventi lo
avessero, in un modo o nell’altro», dico andando in
camera e prendendo una coperta.
«Ma il loro è un naso
vero», biascica lei rivoltandosi nel divano a occhi chiusi.
Io la copro e le tolgo le scarpe. «È perfino
più grande del tuo.»
«Che vorresti dire? Che ho il naso
grande?»
Inutile chiederglielo, lei già dorme.
Il giorno dopo mi sveglio a mezzogiorno. Vado in salotto e
Andrea è ancora lì sul divano, rannicchiata in
modo tale da sembrare un uovo. Metto su il caffè,
giocherello con il mio cane Melachi, nel frattempo accendo il pc per
vedere se ho delle mail. Non ne ho, così apro una pagina di
Google a caso. Rimango lì un secondo…
perché l’ho aperta? Ora la chiudo. Ma prima di
chiuderla mi viene in mente di cercare una cosa: vado a vedere come
sono le nasiche.
…Cristo, fanno schifo.
Come ha potuto Andrea paragonarmi a questi mostri?
Il caffè è pronto,
così sveglio Andrea e non appena lei apre gli occhi le dico:
«Sei una vera stronza.»
«Perché? Oh, ho sbavato sul
cuscino», dice sconsolata pulendosi una guancia.
«Per questo?»
«Mi hai paragonato a una nasica ieri.
Sono andato a vedere come sono fatte, e sono orribili.»
«Davvero? Ti ho detto che sei una
nasica?»
«Sì, è la cosa
più offensiva che mi abbiano mai detto dopo “sei
un E.T.”»
Andrea si alza e prende la tazza di
caffè che le porgo. «Qualcuno ti ha detto che sei
un E.T.?»
«Non proprio, ma quasi. E anche E.T.
è orribile.»
«Sì ma non ti piace proprio
niente, però.»
«No, non è vero. Mi piacciono
un sacco di cose, ma le scimmie col nasone no. Guarda, mi hai sconvolto
te lo giuro. Ho guardato le foto per dieci minuti.»
«Se le hai guardate per dieci minuti
vuol dire che non ti facevano poi così schifo.»
«Sì invece! Era come quando
vedi qualcosa di brutto ma non riesci a smettere di guardarlo, hai
presente?»
«Ah…» Andrea
finisce il caffè e poi si alza e va verso il bagno.
«Peccato sai? Io adoro le nasiche.»
La guardo uscire dalla stanza. Questo ribalta
completamente il mio punto di vista! Tutto pur di piacerle! Va bene,
posso far parte di quella pelosa specie. In fondo, ci somiglio
più io, a una nasica, di qualunque altra scimmia. Voglio
dire, io un naso ce l’ho.
Buondì! ^^
Allora, prima di tutto (perché questa di seguito
è la cosa importante xD) vi rimando alla pagina del
blog dove
ho parlato del concerto di Mika di Martedì. Non
che io sia riuscita a dire cose così profonde, intendiamoci,
ma... non so, se vi va leggetevelo!
Passiamo alle cose veramente serie (seh, per modo di dire! xD): spero
che questo capitolo non vi abbia annoiato. Capisco che è un
po' un "capitolo tampone", diciamo, messo lì apposta per far
passare un po' di tempo fra un capitolo e l'altro, solo
perché io
ho deciso che del tempo deve passare, e quindi così fu!
u_u Siccome così fu e ormai è fatta,
spero di non avervi annoiate troppo.
Per consolarvi posso darvi in compenso informazioni interessantissime e
necessarie per la sopravvivenza umana, come ad esempio che "Nasalis
Larvatus" è il nome scentifico delle nasiche e, se volete
veramente rimanere sconvolti, una nasica è fatta così.
Personalmente mi fanno impressione, però mi sono ricordata
di loro, e nei discorsi folli di Andrea ubriaca ho pensato che ci
stessero bene xD
Credo che da qualche parte Mika abbia detto che gli piacciono le oche
sul serio, ma non ricordo benissimo. Forse erano le anatre, non so.
Vabbè, un certo tipo di pennuto volante comunque.
Vi lascio allo
spoiler e vi dico solo una cosa, riguardo al prossimo
capitolo: non vedo l'ora di postarlo! Già questo dovrebbe
dirvi qualcosa, uhuh! Sarà molto interessante! (Almeno
spero... insomma, dovrebbe essere interessante O.o Speriamo...)
A Domenica prossima e grazie a chi legge la storia e a chi la commenta
^^
Ciao,
Patrizia
|
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Capitolo 14 *** Lover boy, o Musica ***
Capitolo
quattordici
Lover boy
o Musica
«Senti, ti
va di fare qualcosa oggi?», urlo ad Andrea aprendo lo
sportello dell’armadio dove tengo gli ombrelli. Adoro gli
ombrelli, ne ho circa una cinquantina, mi sono costati una fortuna!
Però ne vale la pena ogni volta che li guardo tutti quanti
lì allineati.
«Tipo?», domanda lei uscendo
dal bagno. «Grazie per lo spazzolino. Ah, e scusa per
ieri.»
Ridacchio e vado in cucina. «Fa niente.
Eri spassosa però, davvero.»
«Ah sì? Anche quando ti ho
detto che eri una nasica?»
«No, quello no.»
Andrea siede sul divano a gambe incrociate.
«Allora? Che vuoi fare?»
«Voglio mangiare una torta.»
«Facciamo una torta. Ti piace il
cioccolato no?» Andiamo a vedere cosa
c’è in cucina ma è desolatamente vuota.
«Senti facciamo così», dico,
«facciamo la spesa, e facciamo la torta e la pizza per
stasera.»
«Non ho mai fatto la pizza in casa! Ma
aspetta, prima passiamo un attimo a casa mia?», chiede Andrea
con una smorfia. «Mi cambio almeno, non posso cucinare con
questi vestiti.»
«Hai ragione. Domani è
Domenica, sei a casa vero?» Vado in camera e socchiudo la
porta per cambiarmi, nel frattempo io e Andrea parliamo ancora
attraverso la porta.
«Sì.»
«Perché non rimani a dormire
qui? Torni a casa domani. Domani sera. Oggi facciamo la pizza e ci
guardiamo un film, ti va?» Apro l’armadio e scopro
di dover fare urgentemente una lavatrice. Prendo una maglietta a caso e
dei pantaloni che arrivano al ginocchio.
«Ho un’idea
bellissima!», esclama Andrea da dietro la porta.
«Domani andiamo a fare un pic nic?»
«Sì, bella idea. Porto anche
Melachi. Vuoi venire Mel?», dico rivolto al cane. Lei
scodinzola e io lo prendo come un sì. Anche se devo dire che
lei scodinzola anche a caso, delle volte.
«Ce l’hai una borsa per il
cibo? E per tenere fresche le cose da bere?», chiede Andrea.
Metto le scarpe da ginnastica e sono pronto.
«Sì», dico uscendo dalla porta e
guardandola. «Andiamo? Siamo pronti?»
«Sì, sì. Lo sai
che l’ultima volta che ho fatto un pic nic sarà
stato a quindici anni?»
Usciamo di casa e prendo la macchina. Passiamo da
casa di Andrea e, mentre lei si cambia, io compro due brioches, dato
che sono le due del pomeriggio e non abbiamo ancora mangiato nulla.
Quando torna in macchina io la sto aspettando con le brioche e due
cappuccini piccoli.
«Ah, grazie!», esclama
sorridendo. Quando sorride è molto bella. Le vengono le
fossette nelle guance, e le sue labbra sono ancor più
invitanti.
Quando torniamo a casa con tutto il necessario
sono le quattro del pomeriggio e, tempo che Andrea si ricorda la
ricetta della torta che voleva fare, passa mezz’ora. Su
internet, intanto, cerco la ricetta della pizza. Ci dividiamo i compiti
e forse per l’ora di cena mangeremo qualcosa. Alle sei e
mezza di sera la pasta della pizza sta lievitando e la torta
è appena stata tolta dal forno. Se non fosse a duecento
gradi la ficcherei in bocca tutta intera.
«Cioccolato!», grido quando
Andrea posa la torta sui fornelli.
«Non la toccare, si mangia fredda. O
tiepida. Comunque non si mangia appena uscita dal forno, ti stacchi la
lingua.»
Continuo a muovere le mani come il signor Burns dei Simpson
e fisso la torta. Muoio di fame, il dolce si deve raffreddare e la
pizza deve lievitare ancora mezz’ora prima di poterla
stendere, condire e mettere in forno. «Ho fame», mi
lagno sedendomi al tavolo e osservando ancora il dolce.
«Hai detto che hai mangiato come un
maiale ieri», obbietta Andrea sedendosi al mio fianco.
«Sì ma sono passate
ventiquattr’ore!» Il mio urlo è
isterico, peggio di Fortuné quando aveva gli esami, e badate
che lui può diventare molto isterico.
«Calmati, possiamo assaggiare la torta
anche così. Ne taglio due fette.»
«No, è più buona
alla fine, dopo la pizza, come se fosse un dolce alla fine della cena.
A proposito, sono un pizzaiolo provetto, ti giuro che l’ho
fatta a regola d’arte. La ricetta dice che deve raddoppiare
di volume dopo la lievitazione, poi possiamo stenderla. Ho fatto il
sugo, tagliato la mozzarella… Sono un cuoco, porca
miseria!»
Andrea scoppia a ridere e mi indica la maglietta.
«Immagino che sia per quello che ti sei sbrodolato
metà sugo addosso.»
«I cuochi lo fanno», dico con
sussiego, però vado a cambiarmi.
«Mio padre fa il cuoco e non lo fa mai.
Cioè… magari si sporca il grembiule, ma
perché ci si pulisce.»
«Tuo
padre, tu hai
un padre», osservo quando sono di ritorno dalla mia stanza,
alzando le sopracciglia. «Non parli mai della tua famiglia,
credevo che fossi nata sotto un fungo. Mi stupisci ogni giorno di
più, sei piena di sorprese davvero.»
Andrea mi guarda con espressione di ammonimento.
«Ma quanto fai ridere.»
«Grazie. Quindi…»,
mi getto sul divano «parlami della tua famiglia. Ricordo che
hai una sorella, e a quanto pare anche un padre.»
«E una madre. Una madre molto
terrificante e invadente.»
«Tutte le madri lo sono, altrimenti non
è una mamma vera.»
«Probabilmente hai ragione. Tutti i
familiari sono invadenti: io ho assistito a tutti i fidanzati di mia
sorella e continuavo a darle consigli anche se io il ragazzo non ce
l’avevo.»
«Ma non era la tua sorella
minore?»
«Sì ma io ero tardona e lei
era precoce. Ci siamo invertite i ruoli in quel frangente.»
Andrea si siede sul divano al mio fianco. Ci
accucciamo uno di fronte all’altro. Lei tiene le gambe
strette al petto, io allungo le mie e comincio a muoverle i piedi
addosso. «Mia sorella è bellissima, è
quel genere di ragazza che tutti si voltano a guardare. Da ragazze
volevo essere come lei.»
Corrugo le sopracciglia e le chiedo: «Come mai?»
«Perché lei era quella che
tutti consideravano carina. Lei era magra e io no, lei aveva i capelli
del colore giusto e io no, lei era alta e io no.»
«Era? No perché, guarda,
potresti battere un bassotto ma non vai oltre.»
Andrea fa una smorfia e mi dà un debole
calcio sugli stinchi. «Smettila di offendere la mia statura,
altrimenti mi mangio tutta la torta», sbotta con un sorriso.
«No okay, sto zitto. Comunque… vai
avanti, questa storia di te e tua sorella mi piace un sacco. Ah, e fra
parentesi sappi che alla Royal conoscevo più di un ragazzo a
cui piacevi un sacco.»
«Oh, e me lo dici ora?»
«Perché,
t’interessa?», domando piccato.
Andrea si stringe nelle spalle.
«Così… Comunque, lei mi raccontava
tutte le paturnie che aveva e io facevo finta di essere saggia e le
dicevo un sacco di stronzate come “Pensi di essere innamorata Suzie
ma, tesoro, lascia che ti mostri dov’è il tuo cuore”,
e le facevo vedere le foto di attori o roba simile. La cosa migliore
è che, essendo io la maggiore, lei credeva ciecamente in
quel che le dicevo!»
Io rido come un demente e quando mi riprendo dico:
«È bruttissimo quando ti chiedono consigli
riguardo alle relazioni. Io già faccio schifo con le mie, i
miei amici lo sanno. Perché mi chiedono consiglio allora?
Non lo vedono che sono impedito?»
«Parla per te. Io adoro quando ho
l’occasione di parlare a vanvera. Non si dice mai niente di
intelligente in quei casi, ma le persone pendono dalle tue labbra
perché sono nei casini. Alla fine vengono fuori quei
discorsi filosofici sull’amore, l’amicizia e la
vita, e tutte quelle cose lì.» Andrea sorride e
alza gli occhi al cielo.
«Tutti credono che io abbia una
vastissima esperienza, ma non è così»,
mi esce detto all’improvviso.
«Ma se lo credono significa che tu hai
fatto qualcosa per farglielo pensare.»
Io non faccio mai niente, sono l’essere più timido
del pianeta. O forse no. Forse sono solo lunatico: certi giorni mi
sento come se fossi il più figo di questo mondo, altri
invece fatico a parlare con le persone. Un esempio lampante della mia
pazzia è il fatto che, sul palco, gli occhi tutti sono
puntati su di me e non può fregarmene di meno,
però se sono a una festa e devo attraversare la stanza ho
bisogno di caricarmi con almeno due drink.
«Be’», comincio a
dire lentamente, «solo perché di relazioni ne ho
avute un po’, credo. Ma no, sono nella norma»,
ritratto poi.
«Ah, e allora vedi che sei un
esperto?»
«Non sono relazioni importanti. Voglio dire,
alcune sì, sono durate anni, ma la verità
è che credo di non essere un tipo molto facile»,
dico facendo una smorfia.
Andrea sorride e mi guarda interessata.
«Come mai?»
«Niente, solo perché sono un
po’ lunatico, credo. E faccio un sacco di cose strane. E mi
comporto in modo strano.»
«Non mi sembri così strano.
Ne ho visti di peggiori. Cos’è che fai di
strano?»
«Ad esempio tutti rimangono sconvolti quando
scoprono che colleziono odori. E anche sull’aereo quando
ordino tutte le mie cose con precisione millimetrica sul tavolino.
Oppure, più in generale, faccio schifo quando lavoro,
perché non mi faccio sentire per settimane, mi rinchiudo in
casa e non mi lavo. Mando all’aria tutto. Gente che prima
sentivo tutti i giorni mi richiama dopo un mese e giustamente mi chiede
dove sono finito.»
«Ho visto la tua mensolina piena di
vasetti di odori», fa Andrea pensosa, poi si stringe nelle
spalle. «Non so te ma io non conosco nessuno di normale.
Normale è solo una parola.»
Fin ora me lo avevano detto solo i familiari,
questa giornata è epica. «Ah, e comunque la cosa
che mi dà più fastidio è che mi
chiedono consigli proprio quando non sto con nessuno! Il che dovrebbe
dimostrare che sono un completo disastro. In più quando non
stai con nessuno pensi che tutti i tuoi amici dovrebbero fare lo
stesso.» Andrea ride delle mie parole. «Voglio
dire», ricomincio sorridendo, «ho solamente voglia
di dirgli: ma non
è abbastanza sentirsi solo… selvaggi e liberi?
Non siete stanchi di rompere con le persone?»
«Ma sei crudele!», grida
Andrea senza smettere di ridere. «Non puoi consigliare questo
alla gente, se in un disgraziato caso ti dessero retta la specie umana
si estinguerebbe.»
«Perché no? Se chiedono il
mio parere significa che gl’importa. O che sono
disperati.»
«Io propendo per la seconda.»
«Oh!», esclamo indignato dandole un
leggero spintone. Un po’ troppo forte però: con la
mia forza bruta le faccio perdere l’equilibrio e quasi cade
dal divano. Ma la riacchiappo e ridiamo forte, perché quando
rischi un trauma cranico da caduta dal divano ridere è
l’unica cosa che puoi fare. Finiamo seduti stretti, e quando
mi riprendo dalla risata continuo a sorridere, stringendomi ad Andrea.
«Che ore sono?»
«Manca ancora un quarto d’ora
per la pizza», dico lanciando un’occhiata
all’orologio.
«Okay.» Andrea si volta e mi
sorride, a un palmo dal mio naso. È talmente vicina che vedo
solo i suoi occhi, e sento il profumo della sua pelle. Non è
un odore che posso paragonare a nessun’altro. E purtroppo non
posso neanche prendere Andrea e ficcarla dentro una boccetta per
annusarla quando mi va. Se mi avvicinassi solo un
po’…
Sono abbastanza sicuro che sta aspettando solo che la baci.
Non ci si avvicina ad una persona in questo modo per nessun altro
motivo al mondo.
Cristo! Con tutto questo ragionare sto rovinando
il momento topico. E sto anche sudando freddo, il che rende la cosa
molto meno carina.
Respira, Michael…
Chiudo gli occhi e mi avvicino lentamente, incontrando le
labbra di Andrea che sanno di fresco e sono morbide. Se non avessi
bisogno di respirare rimarrei lì per sempre. Quando mi
allontano lei sorride e le sue guance sono rosse e accese. Non posso
fare altro che sorridere anch’io, mi sale
l’adrenalina con la stessa forza improvvisa della bomba
atomica. Mi avvicino e la bacio di nuovo, toccandole i capelli, il
collo, le guance calde, la schiena che si ricopre di brividi sotto le
mie dita. Continuo a baciarla come se l’aria fosse tutta
nella sua bocca e io fossi a corto di fiato, mi stendo su di lei e
sento le sue cosce morbide, il suo seno forse troppo grande per un
corpicino come il suo, e la forma di lei sotto di me.
È un tipo di musica che non si suona da soli, e
che io non sono mai riuscito a riprodurre bene neanche in compagnia di
qualcuno. Andrea, però, è lo strumento perfetto.
Sono le sette e mezza di sera e il mio stomaco non
brontola più per la fame solo perché ha avuto
altro a cui pensare, così come tutto il resto del corpo,
d’altronde. Non sono affatto romantico, per cui invece di
abbracciare Andrea e tenermela stretta stretta fra le braccia siamo
stesi sul letto girati su un fianco, uno di fronte all’altro.
Però sono felice, sorrido come un bambino a cui hanno appena
fatto dei regali anche se non è il suo compleanno.
«Posso farti una domanda
stupida?», chiede Andrea giocherellando con il copriletto.
«Ma certo, puoi fare tutto quello che
vuoi finché siamo su questo letto. È magico, vedi
che ha il baldacchino?» Indico la struttura in legno con un
gesto del dito.
«Adesso noi… voglio
dire… stiamo assieme?»
Mi si cuce la bocca.
Io lo davo già per scontato; fra un
po’ lo davo per scontato anche prima. Però questa
è una domanda trabocchetto! Non potevo pensarci io in
anticipo e chiederlo prima di lei? «Credevo di
sì.»
«Credevi?»
«Credevo finché non me lo hai
chiesto. Cioè, se lo chiedi vuol dire che non sei sicura. E
perché non dovresti essere sicura? Voglio dire, se non sei
sicura è perché non vuoi o pensi che io non
voglia.»
«Ma io voglio.»
«Anch’io voglio. Non si vede
che voglio? Pensavo di essere stato esplicito.»
«Sì sei stato molto esplicito
quando hai voluto qualcosa prima», dice Andrea mettendosi a
ridere. Io sbuffo, poi mi ricordo di una cosa e la mia pancia brontola
e mi viene in viso un’espressione di terrore. «Che
c’è?»
«La pasta per la pizza!»,
esclamo saltando giù dal letto e correndo in cucina. Nudo,
sì, ma spero che nessuno si prenda la briga di guardare
fuori dalla sua
finestra dentro la mia
finestra proprio oggi,
a quest’ora, in questo istante! Apro il forno
dove avevamo messo la pasta a lievitare, intanto sento Andrea ululare
una risata dall’altra stanza. Tiro fuori la pentola e
controllo. «È diventata un gigante! Mi fa paura!
Ahhh!»
In quel momento Andrea entra in cucina
trascinandosi dietro il lenzuolo con cui si copre. «Fa
vedere», dice avvicinandosi. Guarda dentro la pentola.
«Be’ ma non è meglio? Non ne viene di
più?»
«Sì forse hai
ragione.» Rimetto la pasta nel forno e mi volto a guardarla.
«Comunque, come ti sta bene la coperta.»
«Ne vuoi un po’?»
«Sì grazie, non si sa mai che la vicina
di fronte mi sta spiando perché sono troppo
bello.» Vengo inglobato nella coperta e fra le braccia di
Andrea. Sotto la stoffa sottile la prendo in braccio e mi dirigo di
nuovo in camera, solo che continuo a calpestare i lembi del lenzuolo.
«Lo puoi tirare un po’ su?», le chiedo.
«Ci sto provando.» Il lenzuolo
le cade dalle mani proprio quando passiamo di fronte ad una finestra.
«Ops.»
«Che vuoi che sia? Ormai hanno
fotografato tutto di me, delle chiappe non faranno la
differenza», sospiro rassegnato.
Buonsalve siore e siori u_u
Oggi mi sento aulica, quindi se dico qualche parola strana non
preoccupatevi.
Oggi mi sento anche contenta, giusto perché ho postato
questo capitolo, che non è male :) A costo di sembrare
egocentrica dirò che mi piace com'è venuto!
Allora, dai, vincete tutti la timidezza e ditemi che cosa ne pensate! A
parte i miei già fedeli recensori, che spero di aver
soddisfatto con questo capitolo (soprattutto dopo tutta la
pubblicità che gli ho fatto), vorrei sapere più
pareri possibile.
Il fatto è che ho sempre un po' di timore, nelle scene
romantiche, di esagerare, sia in un senso che nell'altro: non mi
piacciono le cose troppo sdolcinate e cerco di non renderle tali, ma ho
sempre paura di essere fin troppo "poco sdolcinata", e di apparire
fredda. Mi affido quindi a voi! ^^
Vi lascio lo
spoiler del prossimo aggiornamento, in cui faremo solo per
un attimo una pausa da Mika/Andrea, per digerire bene questo fatto
importante di loro due che si mettono assieme :D (Quanto mi esalta 'sta
cosa! Ma è normale? Ho paura di no xD)
Buona Domenica a tutti, buona prossima settimana a tutti, buon tutto a
tutti, che oggi sono di ottimo umore! ^^
Patrizia
|
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Capitolo 15 *** Big girl [You are beautiful], o Salto nel passato # 2 ***
Capitolo quindici
Big girl [You are beautiful]
o Salto nel passato #2
Sono terrorizzato, continuo a spostare il peso da un piede
all’altro così spesso che sembra che debba fare
pipì. Indosso una nuova invenzione di mia madre,
particolarmente colorata e molto stramba. A me piace, ma credo che alla
maggior parte delle persone faccia vomitare. Ho smesso di preoccuparmi
di cosa pensano le persone dei miei vestiti. È da quando
avevo quattro anni che sono i più assurdi che ho mai visto e
tutti mi hanno sempre preso in giro. Alla fine ci si fa il callo e
smetti di ascoltare i commenti della gente.
Comunque, è la quinta volta che sono in
quest’aula e devo cantare per il professor Canepa.
Quell’uomo mi terrorizza. Tutto di lui mi mette in
soggezione: l’espressione illeggibile che fa quando ascolta
gli alunni cantare, il modo in cui parla, con quell’accento
italiano fortissimo. Ho scelto ancora Già il sole dal Gange,
di Alessandro Scarlatti, sperando che questa volta vada meglio. In
realtà è la quarta volta che gli canto la stessa
maledetta canzone e credo che Canepa cominci a odiarmi. Forse un
po’ ha ragione, in effetti.
Ecco, tocca a me.
«Signor Penniman, eccoti qua. Cosa mi canti
oggi?» Canepa è seduto proprio in mezzo
all’aula, troppo vicino a dove mi devo mettere io.
«Il solito», pigolo io terrorizzato.
«Già il sole del Gange», si
passa una mano sulla fronte, stancamente, «come
vuoi.» Fa un gesto con la mano e io comincio.
Devo ammettere che è orribile, veramente. Ho
ventidue anni e sembro un sessantenne con il mal di gola.
Perché cavolo insisto con questa canzone? Perché
non la cambio? A parte il mio incaponirmi per dimostrare al professor
Canepa che so cantare, cos’è che me lo ha fatto
fare? Dio, devo mettere da parte l’orgoglio per il prossimo
esame!
Finisco la canzone con un esitante stridio, come di un
uccello che muore fra atroci sofferenze, e guardo Canepa. Lui scuote il
capo. «Non ci siamo signor Penniman.»
Lo
sapevo. Sospiro affranto. «Cosa posso…»
Mi interrompo, in quel momento entra il professor Pagnin.
«Walter», lo saluta Canepa, quasi
sollevato dal non dovermi parlare.
«Marco scusa, disturbo?», dice il
professor Pagnin lanciandomi un’occhiata.
«No, figurati, stavo facendo un esame con Il Muto,
qui.» Si alza e si avvicina a Pagnin, mentre io lo guardo
allucinato. Mi viene da piangere per l’umiliazione.
Sapevo che mi
aveva soprannominato Il Muto, lo sapevano anche i miei compagni di
corso, ma non c’era bisogno di dirlo anche agli altri
insegnanti!
Boccheggio
per un po’ in cerca d’aria. Ho paura che
farò qualcosa di molto stupido, come strillargli
istericamente addosso qualcosa di volgare, o qualcosa di molto
umiliante, come mettermi in posizione fetale e dondolarmi sul posto.
Prendo un respiro profondo e mi impongo di non fare nessuna delle due
cose. Prendo la borsa e fuggo, corrucciato, senza guardare nessuno.
Canepa non dice nulla, anche se doveva dirmi per l’ennesima
volta cosa c’è che non va nelle mie corde vocali e
in come le uso. Mi rifugio nel bagno della ragazze e mi chiudo dentro
una cabina.
Ho
voglia di prendere a pugni qualcosa, qualsiasi cosa! Magari la faccia
di Canepa, ma ora che ci penso lui mi batterebbe facilmente. Meglio
usare un cuscino e immaginare che sia la sua faccia! Ti faccio
diventare viola, stronzo! (Nota per Michael: usare solo cuscini viola
per fare finta di picchiare qualcuno.)
La
porta del bagno si apre ed entrano due ragazze. Una di loro va in bagno
e l’altra rimane fuori. Dalle voci capisco che sono due mie
compagne, Larleen e Paula. «Sabato ci sei? Volevo andare al
cinema.»
«No mi spiace, esco con Gabriel.»
«Vi siete messi insieme?»
«No, non ancora. Però forse sì fra
poco, è lui che mi ha chiesto di uscire.» Piccola
pausa, poi Paula riprende: «Lo sai che è successo
l’altro giorno?»
«No.» Sento la voce di Larleen farsi
più acuta, come pregustando un pettegolezzo.
«Eravamo a Lirica Contemporanea e mi volevo sedere vicino a
lui, invece si è seduta Andrea. Ti giuro che secondo me ci
stava provando.»
«Chi? Gabriel con Andrea?», chiede
Larleen colpita.
«No, lei con lui!» Paula esce dal bagno e
va a lavarsi le mani.
«Davvero?», domanda Larleen ancora
più stupefatta. «Non credo, è
così timida.»
«Timida un corno, ci provava eccome. Senza offesa
eh, ma sembra una balenottera azzurra. Poi si mette quei vestiti
orrendi che sembra un tendone da circo.» Le due escono e
subito dopo la porta affianco alla mia si apre.
Per
un po’ non sento niente, ma la porta del bagno non si
è certo aperta per far uscire un fantasma. Penso che
dovrò restarmene chiuso in questo buco per sempre, oppure
uscire con il rischio che qualcuno mi veda nel bagno delle femmine. Poi
sento qualcuno, là fuori, che tira su col naso e fa un paio
di singhiozzi. Be’, per lo meno non sono
l’unico che va in bagno quando è frustrato, penso. Altro singhiozzo, altra
nasata. Non credo ci sia pericolo a uscire dal mio cubicolo, credo che
questa persona comunque non mi aggredirà: è
troppo occupata a piangere.
Esco cauto e
di fronte allo specchio di uno dei lavandini c’è
Andrea, meglio conosciuta come “Balenottera
azzurra”. Quando mi vede sussulta e si asciuga le lacrime in
fretta, tentando di non farsi vedere.
«Ehi», mi fa con un sorriso troppo grande
e gli occhi rossi.
«Ehi», rispondo smunto.
«Che fai?», mi chiede nervosa torturandosi la
maglietta. Non sembra rendersi conto che sono nel bagno delle ragazze.
Più che altro, sembra che lo abbia chiesto per perdere tempo.
«Ho appena dato l’esame di lirica
italiana con Canepa», rispondo atono.
«E com’è andata?»
«Male.»
«Ah.»
Silenzio.
Due
anime in pena nello stesso bagno. Non so dire se la cosa sia solo
triste o addirittura patetica.
«Senti», comincio, tanto per dire,
«davvero ti piace Gabriel?» Lei impallidisce e le
tremola la bocca. Non è mai bello quando qualcun altro vede
che ti stanno prendendo in giro. È di gran lunga preferibile
che tutto rimanga nel privato tuo e del tuo aggressore. Un
po’ come me e Canepa con quella storia del Muto.
«No perché, sai, è un vero
coglione», continuo. «Voglio dire, un rompipalle.
Non fa altro che andare in giro a tirarsela come se fosse
l’unico fenomeno qua dentro.»
Andrea fa un
mezzo sorriso sconsolato e si rimette di fronte allo specchio.
«No, non mi piace. È insopportabile, è
come se dovesse far vedere a tutti che tipo figo che
è.» Si rassetta un po’, poi si volta
verso di me. «Cos’hai portato da Canepa?»
«Già il sole del Gange. È
stato uno schifo, veramente.»
«Perché non cambi canzone? Magari non fa
per te. Scegline una che ti piace.»
«Non lo so… Voglio fargli vedere che
sono capace. Ma non sono capace.» Sembra il discorso di un
folle. Forse lo è.
Rimaniamo in silenzio ancora un po’ e Andrea tira
fuori un fazzoletto e si soffia il naso. Forse è il caso di
consolarla. «Mi… mi dispiace per quello che hanno
detto di te… prima.» Lei guarda in alto, e sono
abbastanza sicuro che piangerebbe ancora se non ci fossi qui io a
fissarla. Forse dovrei andarmene, e lasciarla piangere in pace. Troppi,
troppi “forse” in un solo giorno. «Tu non
le ascoltare. Sei una
ragazza grande ma sei bella.» Forse la
tirerà un po’ su di morale sentirselo dire. Senza
contare che non è che stia dicendo una bugia: non
è una brutta ragazza secondo me. Non guardo davvero
all’espetto esteriore, io. Potrei innamorarmi di chiunque,
basta che sia una persona che mi affascina.
Andrea fa un sorrisino di ringraziamento e si asciuga di
nuovo gli occhi. Sospira e si appoggia con i palmi al lavabo.
«Dire a una persona che è grassa è il
modo più efficace per farla stare male. Quando entro nelle stanze mi
sento come un enorme… pallone! Come se tutti mi
stessero guardando, il che probabilmente non è
vero.»
«Le ragazze grasse non sono brutte», mi
esce detto così all’improvviso. Più che
altro per un ragionamento mio. «Non capisco perché
grasso sia sinonimo di brutto, non è assolutamente vero. Ne ho viste di peggiori.»
Andrea fa un sorrisino e
prende la borsa che aveva lasciato nel bagno. «Forse
è meglio che esci dal bagno delle ragazze, prima che arrivi
qualcuno che ti denuncia.» Allora se n’era
accorta…
Lei
sbricia fuori mentre io aspetto diligente che mi dia il via libera.
Alla fine mi fa uscire e ci salutiamo con un po’
più di calore e di imbarazzo del solito. Non è
che siamo così intimi, siamo solo compagni di corso.
Rientro a casa frustrato e mi getto sul letto. La mia buona
azione con Andrea non ha fatto sì che il mondo mi
sorridesse. Dal piano di sotto sento Yasmine che mi urla che il pranzo
è pronto. «Arrivo!», grido in risposta,
poi mi sdraio di nuovo. Non arriverò mai, però,
perché qualche minuto dopo mi addormento.
A
svegliarmi è il cellulare che mi suona direttamente nelle
orecchie. Alzo la testa e mi pulisco la bava che mi è caduta
sulla guancia. Ma perché cavolo dormo con la bocca aperta?
«Pronto?», dico con la voce di uno che si
è appena svegliato.
«Parlo con Michael Holbrook Penniman?
Mika?» È la voce di un uomo.
«Sì, sono io. Chi parla?» Mi
metto seduto e cerco di riportare la mente sulla terra,
perché sembra una telefonata importante.
«Chiamo dalla Casblanca Records, lei ha inviato
delle tracce e volevamo fissare un appuntamento, per discutere la
possibilità di incidere qualcosa.»
In
fondo, bastano due parole per svegliarsi. Spero di essere sveglio.
«Sì? Sì!»
«Che ne dice di dopodomani alle tre del pomeriggio?
Passi ai nostri uffici.»
«D’accordo», esalo senza fiato.
«Arrivederci signor Penniman, buona
giornata.»
«Grazie… Anche a lei.»
La
chiamata si chiude, io rimango con il telefono attaccato
all’orecchio. Pian piano capisco cosa sta succedendo e un
largo sorriso mi si forma sul volto. «Mamma!» Salto
su dal letto e corro giù per le scale, facendo un casino che
nemmeno se vedevo la Madonna. «Mamma!» Entro in
cucina ma lei non c’è. Vado in salotto.
«Michael? Che gridi?» Zuleika sta
guardando la tv. Al suo fianco Fortuné sottolinea il libro
di fisica e non mi degna di uno sguardo.
«Dov’è mamma?»
«È andata a fare la doccia. Ha detto di dirti che
ti ha lasciato il pollo nel frigo, che non ti voleva svegliare
perché dormivi così bene.» Mia sorella
parla ma io non capisco cosa dice, continuo a sorridere come
un’idiota. «Cosa è successo?»
«Mi hanno chiamato, la Casablanca
Records», dico sedendomi al suo fianco sul divano.
Fortuné alza gli occhi dal libro.
Zuleika spalanca gli occhi e sorride.
«Veramente?»
«Sì, sì! Mi hanno chiamato e hanno
detto che devo andare lì dopodomani, che dobbiamo discutere
riguardo la possibilità di incidere qualcosa»,
dico tutto d’un fiato. Salto seduto sul divano e Zuleika fa
uno strillo e grida qualcosa di incomprensibile. Tutto è
incomprensibile ora. Niente ha senso.
«Che cosa state facendo?» Mamma entra in salotto e
io le corro incontro e l’abbraccio fortissimo, urlando frasi
sconnesse assieme a Zuleika e Fortuné, che le gridano la
stessa cosa che dico io, ma non si capisce niente. «Se urlate
come scimmie non capisco! Chi ti ha chiamato? Cosa? Dove devi
andare?»
«L’ha chiamato una casa
discografica», spiattella Fortuné prima di me.
«E gli hanno fatto un appuntamento per dopodomani per
incidere qualcosa.»
Mamma solleva le sopracciglia e mi guarda con la bocca
aperta, sorridente. «Davvero?»
«Sì, davvero!» Inizio a saltare come un
folle in salotto e io e Zuleika improvvisiamo un balletto.
«Devo chiamare papà. E Yasmine, e Paloma. Dove
sono tutti?»
«Ah grazie, e noi tre chi siamo?», dice
Fortuné.
Ho
un’adrenalina in corpo che devo sfogare. Nemmeno se bevevo
dieci redbull mi conciavo così. Prendo il cappotto, il
portafoglio e le chiavi di casa. «Non ditelo a
papà. Glielo dico io. Non ditelo nemmeno a Paloma e Yasmine.
Non ditelo alla zia! Non ditelo ai nonni! Non ditelo a
nessuno!»
«Dove vai?», domanda mamma seguendomi
all’ingresso.
«Non lo so, devo andare! Torno presto!» Esco di
corsa e mi dirigo automaticamente a casa di Tommy, un mio amico. A
metà strada cambio idea e prendo l’autobus che mi
lascerà di fronte al Royal College of Music.
Non
so nemmeno con che coraggio o faccia tosta vado lì ed entro
facendo più rumore di un carrarmato. Nessuno fa mai troppo
rumore al Royal, è come un luogo sacro. Mi dirigo a passo
svelto nei corridoi che ormai conosco a memoria, verso
l’ufficio del professor Canepa. Busso una volta, ma non mi
risponde nessuno. Aspetto ancora un po’, busso di nuovo. Una
voce mi dice di entrare e in quello stesso istante comincio a pensare
che non è stata una buona idea. Cosa dovrei dirgli? Ma come
faccio a non sapere che dirgli? Sono io che sono venuto fin qui!
Canepa è seduto alla scrivania e sta chiudendo una
telefonata proprio in questo istante. «Permesso?»,
chiedo entrando. Lui mi lancia un’occhiata e mi fa segno di
sedermi. Io eseguo. Ora che sono qui di fronte a lui sono di nuovo
terrorizzato da quest’uomo, e mi chiedo perché non
sono andato da Tommy a dirgli di quella benedetta telefonata e magari
farmi anche fare i toast al formaggio da sua sorella, che li fa davvero
buoni.
Canepa, seduto alla scrivania, si appoggia allo schienale e
congiunge le mani sulla pancia. Tiene un sopracciglio sollevato in
maniera magistrale: ti fa sentire sotto esame e già
condannato allo stesso tempo. Si stringe nelle spalle.
«Allora?» Mi si secca la bocca.
«Cos’era quella fuga? Non hai nemmeno aspettato che
finissi di parlare con Pagnin.» Deglutisco a vuoto.
«Comunque, come pensi di essere andato oggi?»
«Non bene.»
«No. Non è “Non
bene”: è proprio male. Non hai studiato, si
sentiva.»
Serro la
mascella. Che cosa ne sa lui se ho studiato sì o no? La
verità è che ho passato ore a spaccare i timpani
al mondo intero per imparare quella maledetta canzone! E
un’altra verità è che lui è
un vero bastardo pignolo!
Tengo gli occhi fissi sulle ginocchia, come se fossi
colpevole. Se non dico nulla penserà che è vero,
che non ho studiato niente, che sono uno scansafatiche. Ma non
è così, io mi sono impegnato tanto! E qualcuno se
n’è accorto, no? Se sono accorti quelli della
Casablanca Records, e se ne accorge la mia famiglia, sempre.
Questo pensiero mi rincuora. Il ricordo della telefonata mi
fa pensare ad un futuro come me lo sono sognato tante volte. Solo che
adesso sembra più vicino. Alzo gli occhi, mi alzo dalla
sedia.
«Professor Canepa, sa che un giorno lei mi
vedrà a Milano?» Lui strabuzza gli occhi ma prima
che possa dire qualcosa lo anticipo: «Ma non alla Scala,
perché è troppo piccola.»
Canepa corruga le sopracciglia. «Signor Penniman
è impazzito?»
Io
confermo le sue teorie, stirando le labbra in un largo sorriso.
Buonsalve a tutti!
Allora, questo capitolo mi piace, soprattutto perché alla
fine Mika inizierà a registrare il suo primo album ^^
Ovviamente non so se è andata proprio così,
però ci sono alcuni elementi reali: il professor Canepa e il
Royal College of Music sono stati citati più volte da Mika e
la Casblanca Records è veramente la prima che gli ha fatto
un contratto discografico. Ho cercato di infilarci tutto ciò
che sapevo di Mika quando andava al college, perché volevo
che il capitolo sembrasse il più vero possibile. Ditemi che
cosa ne pensate ^^
Intanto ecco lo spoiler
del prossimo capitolo e... bah, basta così per il momento,
oggi non sono in vena per scrivere luuunghe pappardelle. Quindi: alla
prossima settimana!
Patrizia
|
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Capitolo 16 *** My interpretation, o Reggere il confronto ***
Capitolo
sedici
My interpretation
o Reggere il confronto
La macchina
è carica di me e Andrea, di Melachi, del cestino del pic nic
e di una coperta. Non ci serve altro. O almeno, così
credevo. «Oh, no!», grida Andrea quando siamo a
metà strada.
«Cosa
c’è?»
«Credo di aver scordato i
coltelli.»
«Per che cosa servono dei coltelli?
Voglio dire… sono panini.»
«E la torta come la vuoi tagliare, con
la forza del pensiero?»
Faccio un sorrisino saputo, perché ora
so di essere un genio. «Ma non c’è
bisogno di tagliare un bel niente, dato che io, l’uomo
previdente, ho già tagliato le fette.» Annuisco
con vigore. «Non te lo aspettavi, eh?»
«In effetti no.»
«Ah, grazie.»
Parcheggio vicino ad un parco, prendiamo le borse
e ci inoltriamo nella natura selvaggia.
«Perché non cammini sul
sentiero?», domanda ad un tratto Andrea.
«Per avere l’atmosfera di
un’escursione nella jungla.» Poco dopo mi rendo
conto che c’è una cavalletta grossa quanto un
carro armato che mi guarda male perché sto invadendo il suo
territorio. «Ma credo che basti così per
ora», dico affiancando Andrea sul sentiero.
Arriviamo in un punto del parco dove ci sono diversi tavoli
in legno e per fortuna ne troviamo uno che non è occupato.
Cominciamo a mangiare parlando di nulla d’importante, e
quando finiamo prendiamo la coperta e ci stendiamo sull’erba
dove c’è il sole.
«Tu ci credi nella
religione?», domanda Andrea ad un tratto.
«No, io credo negli alieni, e anche che il mondo
un giorno finirà. Spero solo che quando accada noi saremmo
già abbastanza avanti con la tecnologia da poter salire
sulle nostre navicelle spaziali e andarcene dal pianeta.»
Andrea sorride e si sdraia a pancia in giù, io continuo il
mio discorso: «Ma pensavo un’altra cosa: ti va di
venire a cena a casa mia?»
«Cosa c’entra con la
religione? E comunque pensavo di essere stata già a cena a
casa tua. Non è casa tua quella casetta tanto bella dalla
quale veniamo?»
«Hai ragione. Io dicevo l’ex
casa mia: quella dei miei genitori. Probabilmente lì
troverai anche Paloma e Fortuné. Invece Zuleika è
sposata e Yasmine convive. Comunque, ti va di conoscere i miei? Sono
simpatici, soprattutto con gli estranei. Mia mamma ci mette persino
più impegno a cucinare se non sei della famiglia.»
«Non sapevo che fossimo già
arrivati alle presentazioni ufficiali alla famiglia.»
«Oh, loro non sono ufficiali. Sono tutto
fuorché ufficiali. Non c’è cosa meno
ufficiale di loro, tranquilla.»
Andrea stringe gli occhi. «Gli
dirò che hai detto così, poi vedremo come la
prenderanno. La mia famiglia invece è molto ufficiale, non
so se ti piacerebbe.»
Io abbozzo un sorriso. «Sono abituato
alle cerimonie ufficiali, ho partecipato un sacco di volte ad eventi
che richiedevano giacca e cravatta.»
«Ah, allora potresti
sopravvivere.»
«Non ci giurerei sai?» Una voce di donna
ci interrompe e ci voltiamo a vedere chi ha parlato. Una ragazza che
può essere più giovane di Andrea ci guarda
sorridendo, intascando un iPod. Indossa vestiti leggeri e comodi, ed
è sudata, segno che probabilmente stava correndo. Ha gli
stessi capelli biondi di Andrea e in qualche tratto del viso le
somiglia, ma è più alta e piuttosto atletica.
«Suzie!» Andrea salta su e le scocca un
bacio sulla guancia. Le fa segno di sedersi con noi e me la presenta:
«Michael, questa è Suzie, mia sorella. Suzie,
questo è Michael, Michael Penniman.» E
perché non ha detto Michael,
il mio ragazzo? Poteva anche dire il mio fidanzato, o il
mio compagno, o il mio Michael. Poteva anche dire che ero
“Michael, il suo facchino personale”, bastava che
dicesse che appartengo a lei in qualche modo!
Suzie fa un’espressione di comprensione,
le sue labbra disegnano una ‘o’ perfetta, come fa
Andrea. «Oh, tu sei il famoso Michael Penniman.» Ma
l’ha detto per la mia musica o cosa? «Andrea non fa
che parlare di te, lo sai? Mi ammorba.» Gongolo soddisfatto.
Quindi non sono l’unico ad ammorbare i propri fratelli.
«Stavo giusto per invitare Michael a
cena da mamma e papà, dato che lui mi ha fatto conoscere la
famiglia, più o meno tutta.»
«Davvero? Da quanto state
insieme?»
«Da… ieri, sono circa una
ventina di ore.»
«Ah, e pensate già a
conoscere i genitori. Sei incinta Andrea?», chiede.
«No», biascica lei.
«Oh be’, non si mai, meglio
chiedere.»
«Aspetta, se ci sei anche tu credo di
potere resistere alla serata da mamma e papà»,
dice Andrea ad un tratto.
«Oh, andiamo!», esclamo.
«Non ci credo che sono così terribili.»
Interviene Suzie mettendomi una mano sulla spalla:
«No, papà no. Ma credimi, mia madre è
qualcosa di mostruoso. Per tutta la vita ha cercato di farci mettere
assieme a dei ragazzi amici di famiglia, i più orribili
ragazzi che puoi mai immaginare, sembrava che gli scegliesse su un
catalogo di bruttezza. Quando le ho presentato il mio compagno, Peter,
lei gli ha fatto il terzo grado e lo ha chiamato fricchettone. Se la
donna, qui», e indica Andrea, «le dice anche che
sei un cantante pop non voglio immaginare che cosa
dirà.»
«Ma infatti io non ho intenzione di
dirglielo», fa Andrea con un sorriso saputo. «E
comunque c’è ancora tempo. Ma non
c’è una fontanella qui vicino? Sto morendo
disidratata.» Si guarda intorno e ne vede una. Acchiappa una
bottiglietta d’acqua vuota e si dirige grandi passi
dall’altra parte del sentiero.
Suzie la guarda con un leggero sorriso sul volto.
«Grazie mille Michael», dice poi voltandosi verso
di me.
«Ah… prego.»
Rimango un attimo zitto, poi: «Scusa, perché mi
dici grazie?»
«Perché…», si
stringe nelle spalle, «non lo so, perché sei
riuscito a tirarla fuori dalla depressione. Da quando
c’è stato l’incidente di Ewan era a
pezzi. Io ho sempre temuto che Ewan sarebbe morto, e non osavo pensare
a come avrebbe reagito lei. Sono contenta che quando è
successo tu le sei stato vicino.» Mi sorride fiduciosa.
«Che tipo era?», domando
giocherellando con la coperta. «Lui, dico.»
«Ewan? Era un tipo veramente a posto. A
volte sembra che le persone che se ne vanno sono le migliori.»
«Se lo dovessi descrivere in pochi
concetti?» Non so perché mi torturo
così, non so perché sono così
maledettamente masochista! Tanto vale che torni a casa, metta le
repliche di “Settimo Cielo” e mi rimpinzi di gelato
al cioccolato, come farebbe Briget Jones. Insomma, perché
voglio sapere queste cose? Ho davvero così paura del
confronto? Il confronto con un ex ragazzo non è
così male da sostenere, in fondo. Sai che la persona con cui
stai si è lasciata la storia alle spalle, magari con i vari
piagnistei del caso, ma l’ha superata. In questo caso mi
sento come la scelta fatta per dimenticare. Forse sono solo paranoico.
«Non lo so… era parecchio biondo e
perdeva sempre tutto. Appassionato di tutti gli sport, in particolare
del calcio, aveva una memoria inumana per quanto riguarda le cose
sportive.» Suzie fa una risata strana. «Ma quando
si trattava di ricordare le altre cose faceva veramente schifo. Era
capace di scordarsi persino il suo compleanno. Donava il sangue, odiava
i dolci, amava i gatti e… uff, non so. Aveva gli occhi
blu.»
«Lo so.»
«Era una brava persona.»
«Donava il sangue eh?»
«Sì.»
In fondo che sarà mai?
Anch’io ho donato il sangue un paio di volte. Poi mi sono
scordato di rifarlo, ma posso ricominciare quando voglio!
Andrea fa ritorno con la bottiglietta
d’acqua piena. «Vuoi?», mi chiede. Io
scuoto la testa. «Tu?»
«Io sì grazie.»
Susanne beve, si alza e srotola le cuffie. «Allora veramente
andiamo a trovare mamma e papà con i ragazzi?»
Andrea si stringe nelle spalle. «Prima
o poi ci tocca.»
«Facciamo fra un po’
però, okay? Peter è in viaggio con la compagnia,
torna Giovedì prossimo.»
«Okay.» Le due si salutano,
Suzie mi rivolge un sorriso, poi ricomincia a correre e sparisce
velocemente dalla vista.
«E dai tuoi?»
«Stasera li chiamo e glielo dico. Quando
ti va bene?»
«Tutte le sere, quando vuoi. Quando
possono loro.» Andrea rimane pensierosa un attimo.
«I tuoi genitori… sono come te?»
Aggrotto le sopracciglia. Sto per dirle che detta
così sembra brutta come cosa, poi realizzo che è
la verità. Non che è una cosa brutta, ma che sono
come me. O forse sono io ad essere come loro. «Sì,
poveretti», rispondo. In fondo è solo colpa loro
se sono così strano. Alcune persone giurerebbero davanti a
un tribunale che sono da ricovero. I genitori sono un’arma a
doppio taglio.
Andre ride e si copre la bocca.
«Perché poveretti?»
«Perché… perché
sì! Insomma sono strani, siamo tutti incasinati. Quando
c’è una festa tipo Natale a casa nostra sei
fortunato se mangi alle cinque del pomeriggio, quando qualcuno rovescia
un bicchiere non si arrabbia nessuno, parte il coro di ovazioni fra un
po’. E, sì, mi piacciono, perché sono
più rilassati di molti altri genitori che conosco. Quando
ero bambino i genitori dei miei amici mi sembravano così
strani: si preoccupavano di avere una casa impeccabile, di spronare i
figli a dare il meglio con incentivi come punizioni o regali costosi.
Erano molto… rigidi. A casa mia no, a casa mia è
sempre stato un caos e un dirsi “bravo” anche
quando non raggiungevi lo scopo ma ci avevi provato», ammetto
ridendo.
«Detta così non sembra per
niente brutta», dice Andrea sorridendo.
«Però da come li descrivi sembrano degli
irresponsabili.»
«No, non sono irresponsabili. Sono solo rilassati.
Per alcune cose si comportano esattamente come i genitori devono fare:
“ti vieto di uscire fino ad una certa ora perché
sei troppo piccolo”, “guarda che è
meglio se i tuoi voti a scuola migliorano”, cose
così. Solo che lo fanno con un atteggiamento
diverso.»
Andrea stringe gli occhi. «Ti stai
contraddicendo.»
Io sbuffo e alzo gli occhi. «Senti,
è la mia famiglia, non si può essere precisi con
le proprie famiglie. E
poi questa è la mia interpretazione. Non ha senso!»
Buona Domenica a tutti!
Non sono molto sicura di questo capitolo, mi sembra inutile e anche un
po' noioso. Il prossimo sarà un po' più
divertente, ve lo giuro, soprattutto perché ci
sarà Fortuné! xD Povero ragazzo, nella mia
fanfiction è una barzelletta vivente (ma, Fortuné
caro, sappi che lo faccio con affetto u_u).
Per lo spoiler cliccate qui,
e per oggi basta, non ho molto da dire ^^
Ciao a tutti! :)
Patrizia
|
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Capitolo 17 *** One foot boy, o La famiglia Brady ***
Capitolo
diciassette
One foot boy
o La famiglia Brady
«Pronto
Fortuné, ciao.»
«Ciao, che vuoi?»
«Quand’è che
parti?»
«Fra una settimana.» Mi sembra di
sentirlo sorridere anche attraverso il telefono. «Lo sai che
mamma e papà mi hanno dato un sacco di soldi?»
«Per farci cosa?», domando
sconcertato.
«Per il viaggio.»
«Che culo! E Hilda? Come va la sua
laurea?»
«Abbastanza bene, ma a lei manca ancora
minimo metà anno. Forse si laurea a Febbraio
dell’anno prossimo. Ma come mai hai chiamato?»
«Come sta Paloma?»
«Bene, oggi. Come al solito. Comunque,
si può sapere che vuoi?»
«Ma perché continui a
chiedermi che voglio? Non posso chiamare per salutare?»,
domando piccato.
«No, tu hai sempre secondi
fini.»
«Non è vero!» Sento
Fortuné ridacchiare. «Vabbé, comunque
prima che tu parta devi rimanere a casa per una cena. Passami mamma, o
papà.»
«Okay. Che cena? Mamma?!»
Pausa, nel frattempo io non ho intenzione di dirgli che sarà
una cena semi-formale per presentare Andrea a mamma e papà.
«Eccola, arriva, che cena?»
«L’ultima cena.
Passamela.» Sento qualche rumorino e poi mia madre mi saluta.
«Ciao mamma, ascolta: quand’è che siete
a casa tu e papà? Una sera per cena, dico.»
«Ah, vediamo… direi oggi,
domani e dopodomani no, il giorno dopo ancora però
sì. Perché?»
«Il giorno dopo ancora
è», faccio un breve calcolo,
«Mercoledì. Vi va se io e Andrea veniamo a cena da
voi?»
«Sì, perché no? Non vedo
l’ora di conoscerla, Paloma mi ha detto che è una
ragazza molto simpatica.» Per forza, quando Paloma
l’ha conosciuta erano tutte e due ubriache! «Venite
per le sette.»
«D’accordo. Allora ci vediamo
Mercoledì. Ciao mamma, salutami papà e gli
altri.»
Andrea è tornata a casa alle quattro e
mezza del pomeriggio, ha fatto una doccia, poi sono arrivato io a
prenderla ma lei sta in mutande e reggiseno di fronte
all’armadio da più di mezz’ora. Il che
significa che fra quindici minuti dobbiamo uscire e lei non
è ancora pronta.
La ascolto blaterare frasi senza senso, steso sul
letto, lo sguardo rivolto allo specchio affianco all’armadio,
da dove ho una visuale perfetta di lei.
«Ma forse se mi vesto troppo scollata pensano
male», si lagna prendendo un vestito e posandoselo addosso.
Lo getta via. «Però non voglio sembrare
seriosa.» Indossa una camicetta. La getta via.
«Solo che non ho molti vestiti casual.» Indossa una
gonna verde e rimane a guardarsi allo specchio dell’anta
dell’armadio.
«Ti sta bene», dico io
sedendomi di scatto sul bordo del letto, sperando che decida di tenersi
addosso almeno quella.
«Sì?», domanda lei girando su
sé stessa. Mette una camicia chiara senza maniche, io nel
frattempo guardo il soffitto. «Ah, si vede il tutto il
reggiseno sotto… Ne metto uno chiaro.» Un
reggiseno nero di pizzo mi arriva sulla faccia.
Me lo levo di dosso e mi alzo di scatto. Mi
appallottolo meglio sul letto per guardare Andrea che si cambia il
reggiseno. «Se non fosse che ci metteresti un’altra
ora a prepararti, lo sai cosa ti farei?», le domando
sorridendo soddisfatto e beandomi della vista. Lei fa un sorrisino e si
allaccia infine la camicia.
«Già, purtroppo hai ragione:
ci metterei un’altra ora; arriveremmo in ritardo. Poi chi
glielo dice ai tuoi? “Scusatemi tanto signori Penniman per il
ritardo, è che stavo fornicando con il vostro
figliolo.”»
Scoppio a ridere e batto le mani. «Se ti
presenti così ti pago.»
«Se mi presento così dovremmo
arrivare in ritardo, e se c’è la clausola del
ritardo allora significa che mi devi fare qualcosa.»
Maledizione! Perché fa così? Le donne
sono molto avvantaggiate nel sesso, veramente! «Se dici certe
cose svegli le parti più maschie e animalesche di
me.»
«Chi? Il soldatino?», domanda
lei ghignando.
«Ino?»,
domando io contrariato.
Andrea ridacchia mentre si trucca gli occhi.
«È che la parola soldatino suona meglio di
soldato, non ho detto che sia “ino”. Ho offeso la
tua virilità?»
«Ti meriti uno sciopero di tutto il mio
lussureggiante corpo per questo commento maligno.»
Andrea sbuffa. «Non riusciresti mai a metterti in
sciopero con me.» Prende la borsa e sorride. Vedendola con
quella gonnellina che mi passeggia davanti devo proprio ammettere che
ha ragione, non riuscirei mai a fare sciopero!
«E va bene, andiamo», borbotto.
Nonostante i tempi da era glaciale di Andrea
arriviamo puntuali – lei ci teneva molto – e con
una bottiglia di vino rosso come regalo ai miei da parte sua.
Dopo le presentazioni mia mamma mette sul tavolino
del salotto un vassoio con uno spuntino. Seduti assieme a noi ci sono
papà e Paloma. «Vuoi qualcosa da bere? Apriamo
questo bel vino», dice leggendo l’etichetta. Esce
dal salotto ma, lungo la strada sala-cucina, la sentiamo distintamente
strillare verso le scale: «Fortuné! Vuoi
scendere?! Ti ho chiamato mezz’ora fa!»
«Ti ho detto che sto arrivando! E poi
che mezz’ora?! Saranno stati cinque minuti!»
Ecco, questa è la mia famiglia. Carini,
no?
Poco dopo mamma torna con il vino e dei calici,
aiutata da Fortuné. Con mio immenso stupore sono appena le
sette e mezza quando iniziamo a mangiare. Di solito siamo tutti
piuttosto in ritardo per cose come mangiare alle riunioni di famiglia,
ma ora che ci penso avrei dovuto aspettarmelo: mamma si impegna di
più se ci sono degli estranei.
«Allora Andrea, che lavoro
fai?», domanda papà quando siamo tutti seduti
attorno al tavolo.
«Lavoro per una ditta privata, gestisco
il personale.»
«E come vi siete conosciuti tu e
Michael?», domanda mamma.
Fortuné s’ingozza con un bicchiere di
vino. Lui e Yasmine sono gli unici a sapere di come io e Andrea abbiamo
ripreso i contatti dopo il funerale di Pagnin, parecchio aiutati anche
dal suo ex lavoro di spogliarellista. Be’ probabilmente a
quest’ora lo sanno anche Paloma e Zuleika. Insomma,
probabilmente lo sanno tutti tranne mamma e papà.
«Scusate», dice mio fratello
tossicchiando.
«Veramente ci conoscevamo dai tempi
della scuola, ho frequentato il Royal College of Music. Poi ci siamo
rivisti al funerale di Pagnin, vero?» Andrea sorride e fa
quella faccia adorabile, mi ricorda un po’ il Gatto con gli
Stivali in Shrek – inclusa la mania di diventare feroce ad un
tratto.
Annuisco con aria compunta. Sì è vero,
è successo proprio così. Non ci siamo poi rivisti
per caso da nessun’altra parte, posso confermare! «Già»,
dico solennemente.
La cena passa senza troppi scossoni. Io non mi
sono mai vergognato della mia famiglia, come molti altri adolescenti,
ma dentro di me facendo il confronto con le famiglie di altri amici ho
sempre pensato che noi eravamo piuttosto casinisti, appariscenti e
fuori dagli schemi. Ovviamente a me piacciono anche per questo e Andrea
comunque pare pensarla come me, perché durante una pausa in
cui rimaniamo soli si accosta al mio orecchio e dice: «Sono
simpatici i tuoi genitori.»
«Sì, lo dicono tutti quando
li conoscono. Ma solo di fronte ai loro figli mostrano la loro vera
natura maligna e genitoresca.»
«Ma certo, è sempre
così. Sennò che genitori sono?»
Stiamo per metterci comodi per riposare la pancia prima del
dolce, quando qualcuno bussa alla porta. «Vado io!»
Papà si alza di scatto e rimango quindi seduto.
All’ingresso sento delle voci e dei saluti. Ad un tratto mia
zia, la sorella di mio padre, entra nella stanza con tutta la sua mole
e l’esuberanza che la contraddistinguono.
«Michael! Ciao tesoro vieni
qui!» Si avvicina, mi bacia, mi stritola e poi sembra
soddisfatta. «Ah ciao», dice poi quando scorge
Andrea, che si è educatamente alzata, «io sono
Alicia, la zia di Michael.»
«Andrea», si presenta lei
stringendole la mano.
Con una punta di vergogna perché in
fondo sono timido e tutto il resto di orgoglio perché Andrea
è bellissima aggiungo: «È la mia
fidanzata.»
«Ah, davvero?» In quel momento
entrano mamma e papà, Paloma e Fortuné, mentre la
zia comincia a comportarsi come se fosse a casa sua: posa la borsa,
leva lo scialle si siede ad una delle poltrone. «Da quanto
state insieme?»
«Non da tanto,
sarà… quanto? Una settimana, più o
meno.»
«Ma ci conosciamo da anni»,
aggiungo mentre tutti gli altri prendono posto. «Abbiamo
fatto assieme il College.»
«Oh, ma questa è la famosa ragazza che
lavorava in quel bar di spogliarelliste?» La zia si volta
verso Fortuné e lo guarda incoraggiante.
L’atmosfera nella sala si congela e comincia un gioco di
sguardi.
Mamma e papà si guardano attoniti.
Andrea li guarda atterrita.
La zia guarda Paloma come a chiederle che sta
dicendo.
Io fulmino Fortuné.
Lui mi guarda, si stringe nelle spalle, e fa:
«Mi è scappato, d’accordo?»
Cosa
faccio? Non mi resta che pregare…
«Ascolta, non avevo idea che l’avrebbe
detto a qualcuno», bisbiglio per la decima volta ad Andrea.
«Insomma, è mio fratello. A lui potevo
dirlo.»
In quel momento arriva Fortuné, con in viso
l’espressione più contrita che gli ho mai visto.
«Mi dispiace», sibila, «mi dispiace un
sacco, davvero. È che un giorno la zia ha telefonato, in
casa non c’era nessuno, e così siamo rimasti a
parlare e, vabbè, mi ha chiesto se c’erano
novità e io gliele ho raccontate.»
Andrea respira profondamente. «Non
è colpa tua», afferma decisa.
«Vuoi dire che è colpa
mia?», domando preoccupato.
«No, non è colpa di nessuno,
è la verità e basta.» Andrea si morde
le labbra e sbircia in salotto dato che l’ho trascinata via
di corsa nel corridoio. «Oh, chissà che cosa
staranno dicendo. Scommetto che adesso mi odiano, credono che sia una
poco di buono.»
«No dai, di buono hai
qualcosa», dice Fortuné indicandola vagamente con
una mano. Io non riesco a trattenermi e gli mollo un ceffone sulla
nuca. «Ahia! Era per sdrammatizzare!»
Mi concentro un attimo, ma ovviamente il mio
stupido fratello deve parlare ancora.
«Potremmo dire loro che è
tutto uno scherzo.»
Io lo guardo male. «Credo che sparerò a
qualcuno. E per qualcuno intendo
Fortuné.»
«Ho capito, me ne vado!»
Così dicendo ci lascia soli e io raggiungo finalmente la
verità universale.
«Faremo così: diremo a mamma
che il Jewel ha ospitato una festa per delle spogliarelliste una volta,
ma che Fortuné ha capito male e pensava che era uno
spogliarello, perché lui è un vero porco e pensa
solo alle donne nude. Poi diremo loro che dobbiamo assolutamente andare
via perché abbiamo una lezione di ballo
liscio…»
«No.»
E io che pensavo fosse un’idea magnifica!
«No, torniamo di là e gli
diciamo che è così, che è vero, che io
facevo la spogliarellista.»
La guardo incerto.
«D’accordo», dico infine. In fondo, la
soluzione più onesta è anche la più
semplice.
Ce ne torniamo in salotto e davanti agli occhi mi
si prospetta una scena che non avrei mai pensato di vedere: la zia e
mamma se ne stanno nel centro del salotto a fare strane mossette, in
quella che ha tutta l’aria di essere una danza sexy, almeno
dal loro punto di vista. «Che cosa sta
succedendo?», domando sconcertato. Non che non abbia mai
visto mia madre ballare in una parvenza di sexytudine, ma la
situazione mi sembra come minimo inadatta. Che cosa fanno? Mi prendono
in giro? Prendono in giro Andrea?!
«Stavo raccontando a tua madre di una
volta quando da giovani io e tuo papà siamo andati in un
locale», dice zia Alicia ridendo. «E ci stavamo
ricordando di come si ballava a quei tempi.»
Sul divano, Paloma e Fortuné si
schiantano dalle risate.
«Anche io ballavo così quando
uscivo con le mie amiche», dice mamma scuotendo il sedere.
«Che?!», domanda
papà.
«Ma sì! Tanto tempo fa
purtroppo.»
«Quando? Con chi?»
Papà continua a insistere per sapere
con chi mia madre ballasse in quel modo, mamma si difende dicendo che
era un gioco e che ballava con le sue amiche in mezzo alle persone. Il
discorso spogliarelli si perde durante la serata, e anche se adesso
tutti lo sappiamo e a volte parte qualche battuta divertita (anche da
parte della stessa Andrea) nessuno si scandalizza più di
tanto.
Non so se i miei ci sono passati sopra vista la
storia di Andrea e hanno immaginato da soli il perché
è andata a lavorare al Jewel, o se proprio non gli
interessa. Suppongo però la prima ipotesi, e mi sento
fortunato ad avere dei genitori come loro.
Buona Domenica a tutti! :)
Allora, sono contenta di questo capitolo, anche se i capitoli
interessanti saranno quelli che verranno dopo questo qui, quindi stay tuned! Per
incuriosirvi vi lascio lo
spoiler del capitolo diciotto, e poi ditemi voi se non
sarà il caso di preoccuparsi per quello che Mika potrebbe
combinare in seguito u_u
Cooomunque, volevo dire grazie alle persone che recensiscono sempre (o
quasi, o una volta sola, che va comunque benissimo!) questa storia. I
vostri complimenti mi fanno sempre molto piacere, la vostre battute mi
fanno ridere e, in generale, leggere una vostra recensione migliora il
mio umore, per cui grazie di cuore. Ci tenevo a dirvelo
perché ancora non ho accennato nulla del genere, ma in
realtà le vostre letture e recensioni sono importantissime!
Per chi pensa che la fine della fanfiction stia arrivando e si dispera
(o forse gioisce, non saprei xD) vi ricordo che, in realtà,
ci sono 25 capitoli, e che quindi abbiamo ancora un po' di tempo per
far disperare Mika come si deve, mhuahahah! *sadico mode: ON*
E per oggi ho finito, alla prossima settimana e ancora buone vacanze!
(A proposito, ho letto sul Twitter di Mika che è in vacanza
in Italia, magari qualche fortunata lo becca al mare. Io non lo
beccherò di sicuro perché sono nella calda, afosa
Milano, e non muoverò le chiappe da qui per un bel po' mi
sa. Dubito che Mika stia facendo le vacanze a Milano dove ci sono
40° all'ombra quando può andarsene in spiaggia a
prendere il sole. Oh!, che invidia!)
Un saluto a tutti,
Patrizia
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Capitolo 18 *** Blame it on the girls, o Di malumore ***
Capitolo
diciotto
Blame it on the girls
o Di malumore
Londra ha sempre
avuto un tempo orribile. In inverno fa troppo freddo, piove spesso,
l’ombrello diventa il compagno di tutti i giorni. Poi ad un
certo punto, tipo ad Aprile, si alternano giorni di sole brillanti e
acquazzoni. Adesso, a Luglio, fa più caldo che in Sud Africa
e poco ci manca che quando esco di casa mi metta la crema solare anche
solo per prendere la posta.
A Ottobre comincerò il tour europeo,
per cui adesso ci stiamo preparando per le prossime date con un nuovo
show. Sono a casa con Yasmine per una seduta di brainstorming, nella
quale cerchiamo di decidere quale sarà la prossima storia da
portare in scena.
«Mi piacerebbe qualcosa di completamente
diverso», dico io.
«Lo dici tutte le volte.»
«Be’ magari è come
una formula che fa venire le idee. Non mi pare che ci siano state
troppe ripetizioni fin ora.»
«Okay, allora: sei andato nello spazio,
abbiamo festeggiato El
dìa de los muertos, ti sei vestito da Napoleone
– che uomo vanitoso che sei, davvero –, cosa vuoi
fare ancora?»
Ci penso intensamente ma non mi viene in mente
nulla. «Forse, siccome sono morto, posso nascere»,
dico senza esserne tanto sicuro.
Nemmeno Yasmine è sicura. Fa una
smorfia che lo prova.
«Ehm, okay, allora posso…
possiamo essere angeli e demoni. Una parte del palco è
inferno, un’altra parte è paradiso, e io sto nel
mezzo un po’ di uno e un po’ dell’altro.
Eh?»
«Fattibile», Yasmine annuisce,
«ma non è un po’ scontato?»
«Sì,
forse…»
Passiamo gran parte del pomeriggio a discutere
così, ma niente. La sera, esausto dopo tanto lavoro di
cervello, crollo a letto e telefono Andrea.
«Ciao», dico depresso.
«Ciao, che succede? Hai una voce
terribile, è successo qualcosa?»
«No, non è successo proprio
niente», dico sincero. Ed è così:
niente, niente di niente, vuoto totale, è come se il
cervello mi si fosse ibernato. «Non mi viene in mente niente
per il nuovo show, e mancano solo due mesi! Dobbiamo pensare a tutto: i
costumi, la scenografia. Poi devo iniziare le prove col gruppo,
anche.»
«Oh, mi dispiace. Vuoi una
mano?»
«Se ti va…»
«Vuoi fare una seduta di
brainstorming?»
Al diavolo il brainstorming!
«No.»
«Allora perché non andiamo a
teatro? Lo sai che stanno facendo Billy Elliot? Ho sempre voluto andare
a vederlo.»
«E cosa c’entra Billy Elliot
con il mio show?»
«Non lo so, magari ti ispira.»
Sospiro rumorosamente. Sospetto che Andrea voglia solo
andare a teatro invece che aiutarmi con lo spettacolo.
«D’accordo, quando lo fanno?»
«Non lo so, devo guardare. Che fai
domani?»
«Penso.»
«Vuoi venire a pensare a casa
mia?»
Mi alzo dal letto e decido che mi farò
un panino. «No, vieni tu qui. Ora che ci penso mi devi
aiutare con delle canzoni.»
«Come vuoi. Passo da te tornando
dall’ufficio, alle quattro, va bene? Però poi devo
andare a casa di Suzie per cena.»
«Sì, okay.»
Ci salutiamo senza nemmeno un “tanti
bacini” e spero che il mio panino mi porti consiglio.
Purtroppo non è così: mi fa solo dormire sonni
agitati. Ma dovevo aspettarmelo, no? Insomma, non è salutare
mangiare un panino alle undici di sera, per di più con tutta
quella maionese...
Il giorno dopo Andrea arriva ed è tutta
contenta. Il contrario di me, per intenderci.
La gente pensa che io sia sempre felice, forse
perché le mie canzoni sono allegre anche se parlano di temi
tristi, ma si sbagliano di grosso. Da come mi dipingono i giornali
sembro un folle uomo sempre allegro, in realtà penso di
essere piuttosto cupo. O forse è il periodo. Se non riesco a
lavorare mi dò fastidio da solo! Me la prendo con tutti
quanti, ma in realtà l’unico con cui dovrei
arrabbiarmi sono io, perché è solo colpa mia se
non ho idee. In genere me ne accorgo quando faccio così
l’antipatico, perché tutti fanno in modo di starmi
il più lontano possibile, come se puzzassi.
Andrea e io ci sediamo sul letto a gambe
incrociate, come se stessimo facendo una strana seduta spiritica. Lei
batte le mani e fa: «Allora, raccontami le tue pene
creative.»
Io mi ingobbisco. «Hai mai visto uno dei
miei show?»
«Sì certo.»
«Ecco, hai visto quante cose ci sono in
ballo ogni volta?» Lei annuisce. «Ecco, adesso non
mi viene in mente niente. Niente!»
«Oh…» Ci pensa un
po’. «Con cosa sei fissato in questo
momento?»
Con
Andrea. «Con niente…»
Sarebbe troppo patetico dirle la verità. Non dubito che, se
potessi, metterei una sua gigantografia sul palco, ma non credo che il
pubblico apprezzerebbe.
«Okay, allora che ne dici se facciamo un
giro e ci guardiamo un po’ attorno?»
Questa sembra una buona idea.
«Sì, mi piace. Sembra sensato.» Mi vesto
e usciamo.
Andiamo in giro tenendoci per mano, una cosa che ho sempre
fatto piuttosto di rado con le persone con cui stavo. Lo faccio spesso
con Zuleika però. Stiamo passeggiando nel west end quando ad
un tratto qualcuno ci ferma. Un tizio alza gli occhiali da sole e
guarda Andrea. «Ehi, Andrea!»
Lei si volta e gli sorride. «Christian!
Ciao.» Lo saluta con due baci sulla guancia e poi me lo
presenta. «Questo è Christian, un mio collega di
lavoro. Lui è Michael, il mio ragazzo.»
«Ah, tu sei il ragazzo di Andrea. Sei
una specie di celebrità in ufficio, questa qua non fa altro
che rifiutare inviti a uscire perché deve stare con te.
Lasciacela almeno per le cene di lavoro.» Christian, questo
tipo dalla dubbia morale, è alto e ha capelli biondi e
lisci, lasciati un poco lunghi. La barba leggermente incolta gli
dà un’aria sexy, dannazione! Andrea lavora con un
individuo del genere? Sta a stretto contatto con lui?! Credo sia da
dichiarare illegale una situazione del genere.
Lui continua a parlare:
«L’altro giorno stavamo controllando chi di noi
conoscesse più canzoni, e lei mi ha battuto
perché consce a memoria tutto il tuo repertorio.»
Sorride ad Andrea e le poggia una mano sulla spalla, con fare piuttosto
confidenziale. «Se solo Amy Winehouse fosse ancora viva anche
io avrei potuto elencarti tutte le sue nuove canzoni.»
Faccio un sorrisino ma la verità
è che non sono dell’umore. E poi che significa che
Andrea deve rifiutare inviti ad uscire? Uscire con chi? Con lui? Ma chi
lo vuole quello? Io sono più alto. Okay, devo calmarmi, mi
sto comportando come Paloma quando ha le sue cose. Però,
cavolo, ha quello
sguardo che i libri ci mettono pagine a descrivere, ha un viso che ti
fa cadere in ginocchio. Sembra anche in confidenza con
Andrea.
Quei due rimangono a parlare per altri dieci
minuti, in cui mi estraneo bellamente dalla conversazione. Poi
riprendiamo la nostra passeggiata e ci compriamo un gelato.
«Che fa quello nel tuo ufficio?»
«Contabilità. Anche lui
è stato assunto da poco. Cioè, sempre prima di me
comunque, ma da poco.»
Quando torniamo a casa mi rendo conto che questa
è proprio una giornata no. Ogni singolo secondo vedevo
qualcosa o qualcuno che mi dava fastidio, e purtroppo nemmeno Andrea e
il suo collega sono riusciti ad esimersi dalle mie maledizioni mentali.
Diciamo che la giornata diventa un pochino migliore quando
Andrea, a quanto pare al colmo dell’esasperazione, mi si
lancia addosso e comincia a baciarmi e trascinarmi in camera. Io
sorrido sulle sue labbra. «Come mai tutta ‘sta
passione?»
«Magari così sei meno musone
dopo. Mi dispiace che ti manchi l’ispirazione»,
dice lei.
Cacchio, devo farmi passare
l’ispirazione più spesso!
La mia intenzione è spogliarla lentamente, ma
prima che riesca anche solo a levarle la gonna qualcuno suona alla
porta. Mi volto di scatto verso l’entrata e poi guardo
Andrea, incerto. «E se facciamo finta che non
c’è nessuno?»
Lei sospira. «Vai, che non si sa
mai.»
Io, cercando di nascondere l’amico che
si è svegliato nei boxer tirando giù la maglietta
il più possibile, vado ad aprire la porta.
«Ciao!», Zuleika entra in casa
mia reggendo quattro borse enormi e cominciando a parlare a raffica.
«Ti disturbo? Scusa un attimo. Non è che potrei
lasciare questi qua? Me li hanno appioppati al lavoro, sono prove
d’abito che domani dovrei portare in un altro ufficio qua
vicino, ma sono pesantissimi. Ti dispiace se domattina verso le sette
passo a riprendermeli? Se provo a portarli fino a casa mi si staccano
le braccia. Oh, ciao Andrea!»
Andrea, sbucata dalla camera, sorride e saluta,
poi scompare di nuovo.
«Ma non potevi aspettare un
po’?», chiedo a Zuleika mettendo il muso.
«Ma se ci tieni metti un segno sulla
porta con scritto “Non disturbare, sesso in corso”.
Comunque, posso?», alza le borse.
Sbuffo e le indico un angolo del salotto.
«Mettile lì.»
«Okay, devo andare. A domani!»
Mi dà un bacio sulla guancia e se ne va.
Io torno da Andrea. «Scusa
l’interruzione. Prometto che se qualche altro familiare
bisognoso si presenterà alla porta lo caccerò a
calci.» Purtroppo vedo che Andrea ha preso la sua borsa e sta
andando via. «Dove vai?»
Lei mi guarda un attimo allucinata, poi fa:
«Te l’ho detto ieri, devo andare da mia
sorella.»
«No non l’hai detto.»
«Sì che l’ho
detto.»
«No.»
«Sì.»
«Okay, smettiamola… Comunque
non l’hai detto.» La guardo mentre si mette le
scarpe e si rassetta un po’. «Ma ti devi preparare
così per andare da tua sorella?»
«Mica sono in abito elegante.»
«Ma non è che devi vedere
qualcuno? Tipo quel Christian che a quanto pare ti invita
ovunque.»
Lei si gira a guardarmi con un leggero sorriso.
«Sei geloso?»
«Io? Ma va…»
Gironzolo qua e là senza meta. «E
quindi?»
«Quindi cosa?»
«Esci con lui?»
Andrea mi guarda come se fossi scemo.
«Sei serio?» Non so cosa dire. Perché?
Ho detto qualcosa di stupido? «Tu credi che io esca con un
mio collega? Che, tipo, ti tradisca o qualcosa del genere?»
«Be’», sbotto con
rabbia, «non sarebbe la prima volta.»
«E quand’è che ti avrei
tradito, di grazia?», domanda lei tagliente. Le sue
sopracciglia sottili sono corrugate in un’espressione di
rabbia assoluta. Ma sono io che dovrei essere arrabbiato con lei! Sono
io che ho il diritto di arrabbiarmi! È colpa delle ragazze,
è sempre colpa delle ragazze! E la cosa più
giusta che posso fare adesso è dare la colpa alle ragazze,
tutte quante! A mia sorella, ad Andrea, a Madre Teresa! Tutte! Senza
fare distinzioni!
«Non sto parlando di me», dico
con stizza stringendomi nelle spalle senza guardarla. «Sto
parlando di… di lui.»
Nel momento stesso in cui finisco di dire la frase, preso
dall’ira, dal fastidio e da un milione di altre cose che
comunque dovrei tenermi per me o per lo meno saper dosare, capisco di
aver fatto una stronzata. Perché lui è
ancora argomento taboo, perché se lui fosse ancora qui io e
Andrea non staremmo assieme e probabilmente la mia vita sarebbe molto
più normale e monotona di così. Ma sono io che ho
tirato in ballo lui,
il fantasma di un amore perfetto, di una vita perfetta, che forse
Andrea avrebbe addirittura preferito ad un macello come me. Che cosa
sarebbe successo se Ewan fosse ancora vivo? E comunque, come cavolo mi
è passato per la testa di insinuare che lei abbia tradito
Ewan con me? Non era un tradimento, era una situazione strana, ma
comunque non abbiamo mai fatto niente!
«A- aspetta, non
intendevo…»
Mi avvicino ad Andrea ma lei caccia la mia mano
con un movimento del braccio. Gli occhi le si sono riempiti di lacrime
e anche se cerca di trattenersi quando parla la sua voce trema.
«Io devo andare», dice solo avviandosi alla porta.
Mi passa affianco e fa per uscire, io la raggiungo e quando
è già fuori le sfioro appena la spalla.
«Non mi toccare.»
Lo dice con voce talmente arrabbiata che non oso
nemmeno muovermi, e lei sbatte la porta.
Buona Domenica belle donne (e bei uomini, se ci sono, non escludo nulla
io u_u).
Questo, come avrete capito, è un capitolo importante: Mika e
Andrea imparano a conoscersi a vicenda, nel bene e nel male (in questo
caso soprattutto nel male), perché è
così che si costruisce una solida relazione! Okay, direi che
non sono nella posizione di dare consigli di questo tipo, e poi non
siamo mica al bar a parlare dei fatti nostri. Credo però che
una litigata, fra i due, ci stava. Altrimenti dov'è il bello
di scrivere fanfiction se tutto va bene? xD Voi che ne pensate? Troppo
tragica?
Comunque, vi lascio allo spoiler
del prossimo capitolo e vi saluto, augurandovi una buona
settimana :)
Patrizia
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Capitolo 19 *** Grace Kelly, o Tentati suicidi ***
Capitolo
diciannove
Grace Kelly
o Tentati suicidi
«Diciamo
che non è stato carino», dice Zuleika.
«Sì, diciamo che potevi
essere più diplomatico», fa Paloma.
«Diciamo che eri un po’
arrabbiato», interviene Yasmine.
«Ma diciamo pure che sei uno
stronzo», dice Fortuné riflettendo il pensiero di
tutti.
Io guardo la mia tazza di caffè. Se potessi mi ci affogherei.
«Ero in una giornata no.»
«Non è una giustificazione. Poteva
esserlo se l’avessi mandata a quel paese. O magari se le
avessi detto che stava male con un vestito e sembrava un ippopotamo
verde, ma quello no!»
«Da quando sei così esperto
in relazioni sentimentali?», chiedo infastidito.
«Non è questione di
relazione», dice Paloma, «anche un amico se la
sarebbe presa per una cosa del genere.»
È passata quasi una settimana da quando ho fatto
quella scenata inutile ad Andrea e il periodo no è anche
passato. Io e Yasmine abbiamo organizzato, almeno teoricamente, lo
spettacolo, e stiamo cominciando a crearlo anche praticamente. Lavorare
mi fa bene, perché quando non lavoro mi sento
l’ultima merda cagata dal mondo e spedita per caso
– o forse apposta per dare fastidio – nella vita di
Andrea. Non mi chiama da quando le ho detto quelle cose. E,
sinceramente, come biasimarla? L’ho chiamata un sacco di
volte ma scatta sempre la segreteria. Le ho anche lasciato quei
messaggi patetici del tipo “Mi dispiace tantissimo per quel
che ho fatto, perdonami. E richiamami!” Insomma, non mi
potevo umiliare più di così, ma l’ho
fatto, perché so di essere stato un vero stronzo. Quello di
Ewan era un colpo basso, e io lo sapevo, ma l’ho detto lo
stesso. Ero davvero in una giornata no, e purtroppo quando sono
così si deve sapermi prendere. I miei amici più
intimi e la mia famiglia sa come fare, ma Andrea ancora no.
Mi guardo le scarpe, perché non ho il
coraggio di guardare in faccia i miei fratelli; le loro espressioni
severe riflettono la mia stupidità. Ora che le guardo bene,
le mie scarpe, vedo che i lacci sono alquanto resistenti, forse potrei impiccarmici.
«Non mi risponde al cellulare e neanche
a casa. Che faccio?», chiedo con tono lamentoso, come un
bambino di sette anni.
«Vai a casa sua.»
Scuoto la testa. «L’unica
volta che ci sono andato la vicina mi ha detto che non c’era
e che ha lasciato detto se passava un tizio alto e riccio di dirgli che
non ci sarebbe stata per un po’.»
«Aspetta e dalle il suo tempo allora.
Anche se sei stato un cretino, se ti vuole bene ti
perdonerà», dice Paloma.
I miei familiari mi guardano come se fossi un mostro, per
cui decido di uscire da casa di Yasmine per togliermi dalle loro
grinfie. Decido di chiamare Cherisse e Jimmy, per uscire un
po’ e distrarmi. Loro sapranno tirarmi su di morale.
Decidiamo di incontrarci in un locale del centro.
Cherisse arriva tutta allegra, come al solito, e rimaniamo ad attendere
Jimmy. Cherisse è la persona più frizzante e allo
stesso tempo timida che io conosca. E ovviamente è un mostro
alla batteria, è una delle batteriste più
talentuose che ci sono, non scherzo.
«Ho saputo della tua disfatta
amorosa», mi dice subito non appena ci vediamo.
Io mi rabbuio. Le voci sulla mia vita privata
viaggiano troppo velocemente per i miei gusti. «Preferirei
non parlarne. Vi ho chiamati apposta per bere e dimenticare.»
«D’accordo, ma poi chi mi
riporta a casa? Ho la macchina dal meccanico.»
Jimmy arriva in quel momento. «Ci pensa
lui», dico battendogli una mano sulla spalla.
«Cosa?»
«Sei appena diventato l’amico
sobrio che riporta tutti a casa.»
«Chi? Io? No, facciamo che lo fa
Mika.»
«No, lui non può: deve bere
per dimenticare una pena d’amore!», dice Cherisse
con enfasi.
«Davvero?», chiede Jimmy tutto
interessato. «Che pena? Ti offro una birra, tu
però racconta.»
Alzo gli occhi al cielo. «Ma cosa non
capisci della parola “dimenticare”?»
«Tranquillo», dice Jimmy
entrando nel locale, «fra un paio di bicchieri non riusciremo
a farti stare zitto.»
Mi gira la testa. Il pavimento si muove. Il
soffitto si muove. Provo ad alzarmi. Ricado seduto di chiappe sulla
sedia. Mi metto a ridere, perché non si può non
ridere ad una cosa così! Cioè, sono caduto di
chiappe sulla sedia, capito?!
«Il quarto bicchiere non glielo dovevi
lasciare ordinare», dice Charisse tamburellando con i palmi
sul tavolo. Fa un rumore incredibile. In effetti tutto il bar fa un
rumore incredibile, è come stare dentro una stalla gigante
dove tutti gli animali strillano nello stesso istante. Ma in questo
caso, anche io sarei un animale!
«Oh, non fare tutto quel
casino», dico a Cherisse portandomi una mano alla tempia.
«Mi fa male qui!» Mi spingo l’indice in
mezzo alla fronte.
«Sì, forse hai
ragione», dice Jimmy. Guarda l’orologio.
«Sono le dodici passate, lo riportiamo a casa?»
«E se vomita mentre dorme e si
affoga?»
«No, non è messo così male.
Non ti ricordi quando al compleanno di Imma lei gli ha fatto quel
cocktail strano? Lì sì che era morto. Si
è sentito male tutto il giorno dopo. Ora in confronto
potrebbe camminare su un filo da equilibrista.»
«Ma… ma se noi prendessimo una mucca e
la dipingessimo di viola, come quella della Milka, allora lei farebbe
il latte al cioccolato!», dico trionfante.
Cherisse mi guarda sconsolata. «Secondo
me non cammina nemmeno se lo teniamo su.»
«State parlando di me?» Mi
sollevo di nuovo, questa volta con successo. «So fare da
solo, grazie», dico io con tutta la dignità che
riesco a trovare. «Vado a prendere un po’
d’aria.» Aspetto qualche secondo che smetta di
girarmi la testa e poi vado.
«Non ti perdere», mi grida
dietro Jimmy ridacchiando.
Esco e prendo grossi respiri. La testa mi gira
ancora e ad un tratto tutte le persone che si muovono attorno a
me… mi rendo conto che non contano nulla. Nella mia
genialità all’alcool so cosa devo fare: chiamo un
taxi e gli do l’indirizzo di Andrea.
Sono sul taxi da dieci minuti quando il telefono
squilla. «Pronto?»
«Mika! Dove sei?!»
È Cherisse.
«Sono su un taxi.»
«Oh mio Dio. Lo hanno rapito! Jimmy, lo
hanno rapito! Come nel video del Red Hot Chili Peppers!»
«No! Non mi hanno rapito! Sto andando a
casa di Andrea.»
«Di chi?»
«Della mia ragazza. O forse ex ragazza,
non lo so bene ancora.»
«Ehm… sei sicuro di stare
bene? Sei sicuro che ci arrivi?»
«Sì, sì, sono
già qui.» Lancio dei soldi al tassista e gli dico
di tenere il resto. Oh cacchio, credo di avergli dato per sbaglio una
banconota da cinquanta sterline! Il viaggio sarà costato a
dir tanto dieci. «Ascolta, sto bene. Sono un po’
ubriaco, sì, ma capisco dove sono, anche se non
dò alla cosa l’importanza giusta!»
«Stai urlando Mika, come quando si
è ubriachi e non si riesce a controllare la voce.»
Abbasso il tono. «Okay, va meglio
così? Scusa ma devo andare.»
«Jimmy, tu ce l’hai il numero
di casa della mamma di Mika…?»
Metto giù e comincio a suonare il
campanello. «Apri, apri», borbotto nel frattempo,
«è notte, devi essere in casa.»
Dopo dieci minuti sento una voce soffocata da
dentro. «Chi cazzo sei a quest’ora di notte?! Se
non sei come minimo il Principe William con la sua regale consorte ti
consiglio di andartene perché ti prendo a calci in
culo!» Ah, la solita donna piena di charme.
«Sono Michael.» La porta si apre
lentamente e dietro compare Andrea, con il pigiama e le occhiaie e i
capelli arruffati. È bellissima. «Non sono il
principe William ma… Posso entrare?»
Lei si scosta piano e i suoi piedi nudi fanno un
curioso ciap-ciap sulle piastrelle. La prima cosa che faccio quando
chiude la porta è abbracciarla forte e quasi mi viene da
piangere cazzo!, perché sono un vero coglione, e
l’ho fatta star male, e io non voglio che lei stia male, e mi
fa ancora male la testa!
«Scusa per quelle cose che ho detto. Ero
arrabbiato, non con te, ero solo arrabbiato per il lavoro e mi sono
comportato male. Mi dispiace di aver detto quelle cose, non te le
dovevo dire. Scusami.»
Le accarezzo i capelli arruffati e il mio naso ci
affonda dentro, e comincio a baciarla sul viso, su tutto il viso, tutte
le parti che mi capitano a tiro. Anche Andrea mi abbraccia e si
aggrappa alle mie spalle e io sono così contento di sentire
tutto il suo corpo addosso al mio.
Ma devo fare i conti con il quarto bicchiere, che
mi dona un’insopportabile parlantina e il pericoloso dono
della sincerità. Mi scosto e la prendo per le spalle.
«Ascolta, lo so che non sono il massimo okay? Io faccio
schifo in un sacco di modi, non è facile stare con me, me lo
hanno detto. Ma io voglio stare con te, voglio stare con te da pazzi, e
ti prometto che farò di tutto per farlo
funzionare», le prendo il viso fra le mani e la guardo dritto
negli occhi nella penombra della luce della cucina, «Dimmi
solo cosa ci posso fare.
Cosa ci posso fare per migliorare quel che pensi di me? Io posso essere
buono, posso essere schifoso, posso essere tutto quello che ti piace.
Io… io… io posso anche essere lui, se me lo
chiedi.»
Andrea sgrana gli occhi e mi guarda in un modo
che, se non fossi ubriaco, forse mi colpirebbe di più. Mi
bacia sulle labbra, più e più volte, e intanto
dice: «Io voglio che tu sia tu. Io voglio Michael Holbrook
Penniman Jr. Anche se è un nome veramente lungo. E
assomiglia a Pennywise.» Accenna una risata sulle mie labbra
e in punta di piedi allunga le braccia e mi carezza il viso.
«Io non voglio che tu sia lui. Io amo te.»
Non ho mai sentito il cuore battere
così forte. «E come mai allora ti sei reclusa per
una settimana?»
Andrea si scurisce in viso. «Dovevo
pensare bene. Tu hai detto tutte quelle cose
orribili…»
«Scusa.»
«…però io ero
triste soprattutto perché pensavo che fossi arrabbiato con
me, e non sapevo cos’avevo fatto né cosa fare.
Insomma, forse era stata colpa mia in qualcosa, perché eri
arrabbiato. Sì, parlare sarebbe stato meglio, è
stata anche colpa mia», ammise a occhi bassi.
«Però…»
La bacio prima che finisca la frase e quando ci
stacchiamo la guardo e sono felice. «Anche io ti
amo.»
Il telefono squilla e noi sobbalziamo. «Ma chi
cavolo è a quest’ora?», brontola Andrea
andando a rispondere. «Pronto?» Fa silenzio qualche
attimo. «Sì. Sì. No, non credo. Okay,
arrivederci, buonanotte. No prego, si figuri.» Si gira.
«Era tua mamma, voleva sapere se eri qui, se stavi bene e se
avevi fatto qualcosa di stupido che ti avrebbe mandato in galera, e io
le ho detto di no.»
«Oh, okay.»
«Anche se tu hai bevuto, si vede. Non
è che hai fatto qualcosa di strano prima di venire
qui?»
«No, non credo.»
«Allora come lo spieghi quel cappello a
forma di gallina che cova che hai addosso?»
Mi tocco la testa e mi levo un cappello giallo con
la visiera, modellato come se fosse una gallina che cova le uova. Adesso lo ingoio e mi ci soffoco.
Non è possibile che abbia detto tutte quelle cose ad Andrea
con addosso un cappello-gallina!
OMG!
Scusate tantissimo per il ritardo!
Ieri non ho avuto la minima possibilità di toccare il pc, e
quindi il capitolo è saltato. Ma guardate il lato positivo:
1) Mika e Andrea sono riconciliati in questo romanticherrimo
capitolo (spero che siate soddisfatti); 2) Dovrete attendere un giorno
in meno per il prossimo aggiornamento xD
Passiamo a delle curiosità sul capitolo (inutili, me ne
rendo conto benissimo, ma non ci posso fare nulla, voglio farvi notare
i più infimi particolari). I "tentati suicidi" di Mika sono
tutti corsivati, e mi sembravano divertenti da mettere xD Poi
c'è la citazione da Stephen King, ossia il riferimento al
pagliaccio IT, il cui nome è Pennywise. Non so voi, ma
Penniman (il cognome di Mika) mi ha sempre ricordato Pennywise (se non
l'avete mai visto e non sapete chi sia, cliccare qui
per un primo piano di Pennywise, e tranquilli, è solo un
libro/film xD).
Che altro? Be' basta, credo, a parte che Domenica prossima
(sarò puntuale, ve lo giuro) sarò in
fibrillazione perché esce il nuovo album di Mika il giorno
dopo. Fuck yeah!
A voi lo spoiler,
e buona settimana. Per tutti quelli che ricominciano la scuola,
l'università, il lavoro e chi più ne ha
più ne metta, buon inizio!
Patrizia
|
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Capitolo 20 *** Touches you, o Arruolato nell'esercito ***
Capitolo
venti
Touches you
o Arruolato
nell’esercito
La casa dei genitori
di Andrea incute un certo timore. È praticamente perfetta,
sia da fuori che da dentro. È una villetta di quelle grandi,
sembra uscita da un sogno: a due piani con lo steccato bianco fuori e
un giardino così verde e perfetto che pare finto. Dentro,
già dall’ingresso, si capisce che è una
di quelle case senza una briciola di polvere, dove tutto è
sempre al suo posto (dove tutto ha un posto, che è
già tanto). Anche i genitori di Andrea sembra che abbiano un
loro posto: sua madre appena dietro la porta, suo padre seduto ad un
divanetto imbottito che strategicamente punta verso la porta,
così quando entriamo sorride e si alza.
«Salve, Harry Warren.» Ah,
sì, era così che mi ricordavo il cognome di
Andrea da ragazza!
«Molto piacere, Molly», si presenta sua
madre con una stretta di mano piuttosto secca, che arriva inaspettata
da una donna così sottile. Tuttavia è ancora in
forma, e quanti anni deve avere? Almeno una cinquantina.
«Michael Penniman», dico io
stringendo le mani ad entrambi.
Entriamo e porgo alla mamma di Andrea una bottiglia di vino
che ho comprato per l’occasione. Lei mi guarda per un secondo
alzando un sopracciglio in maniera magistrale. «Mi dica, lei
sceglie sempre articoli così costosi, signor Penniman? Per
caso è uno scialacquatore incallito? Oppure beve di
frequente?»
Inutile dire che rimango sconcertato dalla
domanda. «Mi chiami pure Michael», riesco solo a
dire, con tono stentoreo. Andrea chiude gli occhi e invoca pazienza
dietro alle spalle della madre.
La donna sorride e fa: «E tu chiamami
Molly.»
Credo che si sia appena creata una di quelle
tragiche situazioni in cui tutti fanno finta di essere cortesi ma in
realtà è in atto un gioco di potere.
Merda…
«Sono già arrivati Suzie e
Peter?»
«Dovrebbero essere qui da
un…» Harry viene interrotto dallo scampanellio
della porta. Entrano Susanne, seguita da un ragazzo alto e pallido. Lui
sì che somiglia vagamente al principe Harry, ma quando era
ragazzino.
«Ciao a tutti, scusate il ritardo. Oggi pomeriggio
hanno trattenuto Pete al lavoro ed è tornato tardissimo.
Quando siamo usciti eravamo già destinati a fare tardi.
Ah!», riprende fiato e mi sorride, «Ciao Michael.
Questo è Peter.»
Mi presenta il suo ragazzo e lui, quando siamo
tutti diretti in sala da pranzo, mi fa: «Non hai mai visto
Molly, prima, vero?»
«No.»
«Andrea mi ha detto che fai il
cantante.» Mi osserva un attimo. «Sì, mi
ricordo di te… ti chiami Mika vero?» Io annuisco.
«Buona fortuna.»
Non so se è il caso, ma io rido lo
stesso. «Come mai?»
«Te ne servirà.»
Questo di certo è un brutto segno.
Siamo seduti al tavolo da nemmeno cinque minuti
che Molly comincia a servire gli antipasti. Fatico persino a rendermene
conto: un antipasto. A casa mia gli antipasti nelle cene di famiglia
sono le cose che riusciamo a rubare dalle grinfie di mia madre. E poi
scordiamoci che si inizia non appena gli ospiti arrivano, devono
passare almeno quaranta minuti di agonia e brontolii di stomaco. Per
questo facciamo missioni suicide per rubare un po’ di cibo,
ci lascia morire di fame!
«Spero che tu non sia allergico a
qualcosa Michael», fa Molly con l’aria di una che
invece vorrebbe ingozzarmi col cianuro.
«No, niente. E mangio tutto, mi piace
assaggiare cose nuove.»
«La curiosità spesso porta
problemi», canticchia lei con un vago sorriso sulle labbra.
Tutti si guardano attorno al tavolo.
«Questo è un film», dice Suzie.
«No, no, dev’essere un
libro», dice Peter.
Io li guardo come se fossero scemi. Andrea si
china su di me con un sorrisino. «Tranquillo, è un
gioco: se ti viene in mente una citazione la dici e gli altri devono
indovinare da dove l’hai presa. Mamma lo faceva sempre per
farci ricordare le cose da piccole, diceva che era un ottimo esercizio
per la memoria. Adesso ogni tanto se le viene in mente lo fa
ancora.»
«Dev’essere un film vecchio»,
sta dicendo Harry tutto concitato. Quando la moglie torna e gli si
siede affianco lui la guarda intensamente, come se cercasse di leggerle
nel pensiero. «Puoi ripetere per favore?»
«La
curiosità spesso porta problemi.»
«La so!», esclamo, preso da
un’illuminazione. «Alice nel Pese delle Meraviglie,
il cartone animato però, non il libro.»
Tutti gli sguardi vanno da me a Molly. Alla fine
lei fa un versetto come di compiacimento e dice:
«Esatto.» Il tavolo esulta.
«Come è possibile che te lo
ricordi?», domanda Andrea, «Io ho visto Alice nel
Paese delle Meraviglie quando avevo, cosa?, otto anni?»
«No, è che l’ho
visto di recente. La mia cuginetta voleva vederlo e io l’ho
guardato assieme a lei.»
«Per qualche motivo non fatico a
immaginarti esiliato nella stanza dei bambini a guardare un cartone
animato.»
«Grazie, è un
complimento?»
«Dipende dal punto di vista.»
La cena passa senza altre strane faccende fino al dolce. Ah,
ma il dolce porta sempre qualche problema con sé! E questo
dolce, cheesecake alla frutta, oltre ad essere buonissimo e
pesantissimo dev’essere anche maledettissimo.
«Allora, che impegni hai al momento
Michael?», domanda Harry, che è piuttosto affabile
in realtà.
«Per il momento nulla. Sto organizzando
il mio nuovo show con mia sorella, e ricomincerò il tour
solo a Ottobre.»
«Un tour dove?»
«In Europa. La prima data è fissata a
Oslo, poi ci spostiamo verso sud. Passeremo anche a Mosca, poi due date
in Francia, a Madrid, poi in Italia e in Svizzera e… poi non
mi ricordo più.»
«Che tipo di musica fai?»,
domanda Molly. «Andrea ci ha detto solo che sei un musicista,
ma non è andata oltre. In effetti ricordo il tuo viso, ma
non so dove l’ho visto. In tv magari.»
«Magari», dico io.
«Ho fatto parecchie interviste, ho partecipato a un sacco di
programmi da quando ho iniziato… Sono già sette
anni», dico poi fra me e me, come stupendomi di questo fatto.
«Suoni anche il pianoforte.»
«Sì, è
vero.»
«Forse un giorno potremmo venire a
sentirti suonare.» Molly fa una risatina. «Certo,
basta che non si tratti di uno di quei concerti folli in cui i ragazzi
gridano e succedono cose assurde.»
Mi blocco per un secondo. “Assurdo”
è l’aggettivo che userei per i miei show.
«Ehm… è musica pop», dico
evitando di guardarla, concentrandomi sulla mia fetta di torta,
«diciamo che è…»
«Non credo che ti piaccia
mamma», interviene Andrea. «Non è il
genere di musica che ascolti di solito, fidati.»
«Ma se volesse venire mi farebbe
veramente piacere!», esclamo io. Sotto al tavolo tiro un
calcetto ad Andrea. Mi sto guadagnando le simpatie di sua madre, il che
sembra già essere un’impresa da queste parti, come
osa ostacolarmi?
«Infatti Andrea, non fare la
guastafeste. E poi, che ne sai del tipo di musica che ascolto
io?»
«Le marce della guerriglia ad
esempio», mormora lei fra i denti.
«Che musica ascolta di
solito?», chiedo io precipitoso coprendo le parole di Andrea.
«Oh, quando ero giovane andavano tanto
di moda i Rolling Stones, una volta sono anche andata a vederli con
Harry. Ti ricordi tesoro? Aveva comprato due biglietti e io ero
riuscita a uscire senza farmi vedere da nessuno.»
Mi si apre un sorriso sulle labbra. Non
c’è niente da fare: tutti da giovani fanno cose
contro le regole, persino gente ora integerrima.
«Abbiamo passato una serata stupenda, ma quando
siamo usciti dal concerto e Harry mi stava riaccompagnando, vedo il
Capitano del mio reggimento assieme ad alcuni amici.»
Come
scusi?
«Siamo corsi via, anche se credo che lui
mi avesse vista in realtà, ma non ha mai detto nulla in
proposito. Harry mi ha lasciata di fronte alla caserma e io sono
rientrata di nascosto.» Molly ride di gusto portandosi il
tovagliolo alle labbra.
La mia espressione dev’essere quella di
Cristoforo Colombo quando ha realizzato che la terra è
tonda. «Eri un militare?», domando incredulo.
«Colonnello del quinto battaglione delle
Forze Armate», dice Molly tenendo la schiena dritta. In
questo momento emana una sorta di potere su tutti noi.
«Wow…», faccio io, incapace
di andare avanti con il mio dolce. «Non ho mai incontrato un
militare.» Dio, a volte dico queste cose che sembro un
bambino di otto anni! Tuttavia Molly sembra compiaciuta, anche se il
suo volto quasi non mostra emozioni. …dev’essere
l’allenamento militare che l’ha resa
così!
Ad un tratto siamo tutti seduti in salotto con la
radio accesa, e proprio in quell’istante parte un vecchio
cavallo di battaglia: Rain.
Andrea salta sulla sedia tutta contenta e fa:
«Ecco mamma! Ascolta questa canzone!» Molly per un
attimo rimane in silenzio, io cerco di non sembrare troppo compiaciuto.
«Sembra qualcuno a cui stanno amputando
i testicoli.»
Il mio sorrisino si scioglie.
«Oh…» Andrea mi
rivolge uno sguardo, allarmata.
Susy e Peter a quanto pare conoscono la canzone.
Harry, anche se non sa che la canzone è mia, ha capito
cos’è successo. L’unica a non aver
afferrato la situazione è Molly. Suo marito si china
leggermente verso di lei. «Credo che tu abbia appena
insinuato che Michael non abbia i testicoli.»
Molly non sembra per niente imbarazzata dalla
gaffe gigante che ha appena fatto. Si sistema un po’ sulla
sedia e mi guarda altera. «Immagino che dopotutto
potrò venire a trovarti dopo il concerto, basta che tu mi
dica a che ore finisce.»
«Be’ non è andata
male, in fondo», dice Andrea allacciando la cintura.
«…»
«Insomma, poteva andare peggio.
Conoscendola, poteva dire cose molto peggiori. Poteva continuare a
infierire. Anzi, sai una cosa? Credo che tu le stia
simpatico.»
«…»
Andrea mia guarda preoccupata. «Se
vuoi… se vuoi le dico che ti ha dato fastidio. Si
scuserà se glielo dico, ci tiene a essere
corretta.»
Metto in moto. «…»
«Michael! Dì qualcosa! Mi
dispiace!»
Io la guardo prima di partire. Sono sconvolto.
«No, dai, sono stati
simpatici», esalo. «La prossima volta che ti
verrà voglia di fare una cena in famiglia, però,
ricordati che ci sono io. Sono un grande attore, posso interpretare
contemporaneamente tutta la tua famiglia. Voglio essere tua sorella e
voglio essere anche tua madre. Voglio essere tuo fratello e tuo padre.
Okay?»
«Ma io non ho fratelli.»
«Non importa, basta che tua madre la
faccio io.»
Nonostante sia stata una serata terrificante, per
certi versi, credo di essermi guadagnato un posto tra le file
dell’esercito. Il cui capitano è Molly.
Yo hooo!
Eccomi!
Alla fine ce l'ho fatta: ho postato entro Domenica! Ufff... spero che
le altre domeniche non siano estenuanti come questa. E spero di non
fare mai più ritardo con la pubblicazione, non mi piace.
Che dire di questo capitolo? Nulla, in effetti, è un
capitolo tappa/buchi.
Penso che sia fondamentalmente inutile, però siccome abbiamo
conosciuto i genitori di Mika mi sembrava giusto conoscere anche quelli
di Andrea. E poi c'era 'sta canzone che non sapevo dove piazzare! Non
fila come ragionamento? xD
Be', scusatemi tanto, so che non è un capitolo
entusiasmante, però se vorrete dirmi che ne pensate mi
farà come sempre moltissimo piacere ^^
Vi lascio lo
spoiler del prossimo capitolo e vi auguro una buona settimana
:)
Settembre può essere traumatico, ma in compenso con tutto
quel che c'è da fare passa veloce che è
una meraviglia! Inoltre ricordo al gentile pubblico che le uscite di
questa fanfiction sono in alto a destr- no, la smetto di dire cavolate
xD Ricordo solo che in questo Settembre 2012 esce The Origin Of Love! :)
Patrizia
|
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Capitolo 21 *** Good gone girl, o Prima classe ***
Capitolo
ventuno
Good Gone Girl
o Prima Classe
Gli aeroporti sono
diventati, negli ultimi anni, il luogo in cui passo la metà
delle mie giornate. Devo ammettere che è una vita folle,
passo più tempo fuori da casa mia che dentro. Quando
l’ho comprata sei anni fa ci ho passato tre settimane, poi
sono dovuto andare via per mesi. Lei è rimasta lì
completamente vuota per un sacco di tempo, praticamente nuova di zecca,
non ci avevo lasciato un minimo segno della mia presenza. Ma ora almeno
ho un buon motivo per andarmene: vado in vacanza. Due settimane a
Parigi solo io, Andrea e Melachi. Sì, anche il cane, me lo
porto quasi sempre ovunque, non voglio lasciarlo da
qualcun’altro. Lei si diverte. Comunque sia, solo due
settimane perché poi ricominciano i preparativi per il tour.
Siamo in volo da circa quindici minuti.
«Sono stata a Parigi una
volta», comincia Andrea mangiucchiando le noccioline
dell’aeroporto.
Io finisco di mettere a posto tutte le mie cose sul
tavolinetto che ho fatto scendere dal sedile anteriore. Tutto
è in ordine come solo a un maniaco come me piace: ho il mio
snack, il mio iPod, il mio libro da leggere (“Come un
romanzo”, Daniel Pennac), il portafoglio, il cellulare anche
se è spento, tutto allineato secondo una logica precisa.
Ossia da pazzi. Perché solo un pazzo si mette a sistemare le
sue cose così sul tavolinetto dell’aereo. La
hostess mi sta già guardando male. Quando finalmente sono
soddisfatto della mia opera alzo gli occhi.
«E me lo dici ora?»
«Era con la scuola, al liceo»,
si giustifica lei. «Non pensavo contasse.»
«Conta eccome.» Conta, se
contiamo che ho proposto Parigi praticamente per farle da cicerone e
fare una bella figura. Passeremo anche il mio compleanno a Parigi.
Abbiamo prenotato un hotel in centro e credo che da lì
sarà molto comodo visitare tutta la città.
«Non può contare
così tanto, soprattutto se pensi che abbiamo visitato quasi
esclusivamente musei.»
«Non mi fanno impazzire i musei. Cioè,
sì mi piacciono, ma non solo quelli. Mi piace anche andare
in giro per la città, anzi mi piace soprattutto
quello.»
«Menomale, perché avevo
intenzione di fare così.»
«Allora perfetto, siamo
d’accordo.» Penso un attimo a Melachi e a come se
la cava ovunque sia in questo momento, assieme agli altri cani. Magari
ha trovato un fidanzato. Ma speriamo di no, altrimenti a chi li do i
cuccioli? Ah Melachi, che vita solitaria…
Dopo una mezz’oretta Andrea si
addormenta e io rimango tutto solo soletto. Penso di mettermi ad
ascoltare un po’ di musica, poi mi rendo conto che non ho
voglia. Mi guardo un po’ attorno. Andrea dorme di brutto, con
la testa rivolta al finestrino. Uffa: lo volevo il posto vicino al
finestrino! Vabbè, sono dalla parte del corridoio e alla mia
destra ci sono altre due file di sedili, a coppie. Comincio a guardare
il film che stanno mandando sul minischermo attaccato al sedile davanti
al mio, ma arrivo tardi: quando decido di guardarlo sta per finire.
Sbuffo, e a quanto pare qualcuno mi sente. Il tizio seduto di fianco a
me, dopo lo stretto corridoio per il quale passano le hostess, mi
guarda e fa: «Lo hai mancato amico, mi spiace.»
Oddio, io sono sempre nervoso quando uno
sconosciuto mi parla. Dev’essere una di quelle reminiscenze
dell’infanzia di quando tutti dicevano “Non parlare
con gli sconosciuti!” «Ehm…»
«Peccato, perché non era
male», continua quello come se io gli avessi dato corda.
«Di cosa parlava?»
«Lui ama lei, lei ama lui, solo che
qualcuno si mette in mezzo e il film dura novanta minuti.»
«Oh. Detta così non sembra
entusiasmante.»
«Forse sono io che non sono bravo a
riassumere.» L’ometto si stringe nelle spalle e
giocherella con la sua cravatta. In realtà ha riassunto
benissimo, però è riuscito a succhiare via tutta
la parte bella. Sospetto che farebbe sembrare banale persino
“Il signore degli anelli”.
«No, no, è stato
bravo.»
«Grazie. Fra un po’ lo faranno
ricominciare. In realtà non è un film molto
originale. Però, riesci
a crederci? La solita vecchia storia non mi annoia mai, anche se
l’ho già sentita prima.
Sarà che sono un romantico, me lo dicono sempre.»
Mi sfugge un sorriso. «Donna fortunata
la sua.»
«Oh no, sono sposato: quando ci si sposa
il romanticismo diventa solo un fatto di circostanza.»
Mi acciglio e lo osservo meglio. Potrà
avere sì e no una cinquantina d’anni, forse un
po’ di più. Che uomo contraddittorio,
però. Uno si aspetta che più invecchi
più diventi ferrato sui tuoi argomenti, ma giudicare da
questo qui è vero il contrario.
«Lo terrò a mente quando mi
sposerò.»
Lui ridacchia e fa un cenno di saluto, poi torna a
guardare di fronte a sé e a studiare il piccolo teleschermo.
Darò retta alla mamma d’ora in poi: non
parlerò mai più con gli sconosciuti.
Poco dopo è ora di scendere,
così sveglio Andrea e ci prepariamo ad andare. Ci mettiamo
un paio d’ore a recuperare Melachi e poi le valigie, poi ci
mettiamo altrettanto tempo a raggiungere il nostro hotel e sistemarci.
Non è proprio una camera vera, o meglio, è
più che una camera: ha anche un angolo cottura e un piccolo
spazio che potrebbe essere un salotto in miniatura. Era
l’unico hotel che ho trovato che accettasse i cani, e nel
caso potevi lasciarli a qualcuno che si prendeva cura di loro, se
andavi in un posto dove non potevi portartelo. Il fatto che fosse
formato da delle sottospecie di mini appartamenti non mi dispiaceva
nemmeno un po’.
«Dove andiamo?», chiede Andrea
una volta sistemati, sorridendo. «Voglio vedere la Tour
Eiffel, ma quella di notte. Chissà quanto ci vuole per
salire? Ah, e poi voglio passeggiare per gli Champs Elysees, quello di
giorno mi sa che è meglio. Poi voglio andare a Montmarte.
Oh, lo sai che il bar dove hanno girato “Il favoloso mondo di
Amelie” esiste sul serio? Perché non ci andiamo? E
poi…»
Non si ferma più. Per stopparle questo torrente
di parole gonfio le guance e le faccio una pernacchia. «Va
bene ho capito, visiteremo tutta Parigi in due settimane,
fidati.»
Lei fa un sorrisino di scuse e si preme le mani
sulla bocca. Dio, quanto è bella.
Mi avvicino e la bacio, cominciando ad avvicinarmi al letto
e trascinandomela dietro. «Sono stanco, devo
stendermi», le dico sorridendo sulle sue labbra.
«Non è giusto.»
«Mi vuoi negare il riposo? Sei
crudele.» La faccio sdraiare sul letto con le lenzuola
perfettamente tirate e mi stendo su di lei.
«No, dicevo il fatto che sei
stanco.»
«Conservo ancora un po’ di
energia di riserva.»
Menomale che Melachi è da qualche parte
a esplorare la stanza gigante, mi fa impressione se
c’è lei che guarda…
Fa caldo per essere le dieci di mattina. Per
forza, siamo in Agosto. Sono disteso sul prato di fianco alle scale che
portano alla Basilica del Sacré Coeur, di fianco a me
c’è Andrea, che ascolta musica guardando le altre
persone distese affianco a noi, un sorriso sul volto, e Melachi, che
scodinzola e quando passa una farfalla salta per cercare di
acchiapparla.
Siamo piuttosto in basso, vicini alle gradinate, e vedo che
c’è un tipo che si sta preparando per una piccola
performance. Già così attira qualche sguardo.
Attacca un microfono, imbraccia la chitarra acustica, sistema una
scatola con dei cd al suo fianco e poi saluta tutti. La gente lo guarda
con un espressione di cortese attesa sul volto. Lui comincia a cantare
e dopo una, due, tre canzoni, io e Andrea stiamo seduti
sull’erba ad ascoltarlo, con Melachi stesa al nostro fianco,
e una piccola folla che si è riunita sulle gradinate del
Sacré Coeur. Il tipo ha una bella voce, canta cover di
canzoni famose e coinvolge la gente nel suo spettacolo. Parla un
po’ in francese, in italiano, due parole di tedesco con un
gruppo di turisti da Berlino, ma soprattutto inglese e tutti quanti
riescono almeno a intuire cosa dice. Il suo cd di cover e un paio di
canzoni sue costa dieci euro. Andrea si alza e va a prenderlo,
lasciando i soldi dentro la scatola, e lui le rivolge un cenno di
ringraziamento.
Dopo un’ora buona saluta tutti e se ne va, mentre
noi moriamo di caldo. «Voglio entrare a vederla»,
dice Andrea guardando da fuori la basilica.
«Vai tu, io rimango qui con Melachi.» E va bene, ci
sono anche lati negativi a portarsi il cane in giro in vacanza,
perché in alcuni posti non può entrare, ma come
si fa a stare lontani da lei? Melachi, la tua pelosità
è pari solo alla tua simpatia.
Dopo un quarto d’ora Andrea esce, scatta
un paio di fotografie della chiesa, scatta una foto a Melachi davanti
alla chiesa, perché lei è un cane di mondo, e poi
ci avviamo lungo la fiancata dell’edificio, lungo le vie
affollate di turisti a Montmartre, per cercare un posto dove mangiare.
Ci sediamo in alcuni tavolini fuori da un locale,
sotto un grosso gazebo bianco. Ho messo il collare al cane e
l’ho assicurato al tavolino, così adesso sta
sdraiata comoda all’ombra. Ordiniamo due crèpe
salate, acqua, e se ce l’hanno una ciotolina per far bere
anche Melachi, poi rimaniamo in attesa dei nostri piatti.
«Non ci posso credere che hai vissuto
qui per quasi dieci anni, che fortuna che hai», dice Andrea
guardandosi attorno sorridendo.
«Sì be’, neanche tu
sei messa male. Non è che Londra sia poi così
pidocchiosa. Lo sai che c’è gente che farebbe di
tutto per andarci?»
Andrea fa una faccia sofferente. «Non sanno quel che dicono.
Perdonali, Parigi, perché hanno peccato», dice con
fare teatrale. «Comunque, mi fai vedere dove
vivevi?»
«Possiamo fare tappa anche
lì, comunque è un po’ fuori. Non
è la Parigi bene», dico ricordando
l’appartamento dove ci eravamo stipati per parecchio tempo.
Vicino c’è anche la scuola elementare che ho
frequentato.
Quel pomeriggio torniamo in hotel e lasciamo
lì Melachi, che ha tanto di passaggio formato cane per
andare sul balcone. Poi prendiamo la metro e ci dirigiamo verso il
distretto diciassette, dove abitavamo con la mia famiglia. Il
diciassette è uno di quei distretti che i turisti non
visitano spesso, una di quelle aree della città quasi del
tutto normali. Forse l’unica cosa interessante che
c’è da vedere sono i paesaggi che dipingevano gli
impressionisti, perché nel quartiere di Batignolles ci
andavano spesso. Per il resto, non ci ho mai trovato niente
d’interessate, ed è anche vero che riconoscere
oggi i paesaggi di metà ottocento è
un’impresa. Io e la mia famiglia vivevamo proprio in quel
quartiere, Batignolles. Forse non uno dei più belli, ma non
eravamo lì per divertirci. Eravamo fuggiaschi, cacchio!
Fuggiti dalla guerra civile in Libano! In realtà la storia
è molto più interessante e avventurosa quando la
racconti, la verità è facilmente riassumibile in
viaggi e lunghe file per i documenti.
«Questa è la mia scuola»,
annuncio ad un tratto fermandomi davanti all’alto edificio
grigiastro. Tutto in quel quartiere è grigiastro, o al
limite marrone.
«Cavolo… come fai a
ricordartela?»
«Mi ricordo dove sta. Credo che sia
memoria corporale, o come si chiama: mia madre portava me e i miei
fratelli qui tutti i giorni a piedi, si vede che non appena sono sulla
via i piedi mi partono in automatico.»
«E ti ricordi qualcosa di questa
scuola?» Andrea si siede sul muretto del cancello, la schiena
pigiata sulle sbarre di ferro, e io mi schiaccio al suo fianco.
«Mica tanto. Mi ricordo che ad un
tratto, tipo a nove anni, avevo una fidanzatina.»
«Sul serio?»
Rido e mi stringo nelle spalle.
«Sì. Se non ricordo male il suo nome era Giorgia, ed era
magnifica. Mi dava sempre le caramelle che si portava da
casa, ci copiavamo i compiti a vicenda, e quando c’era da
fare un lavoretto a coppie io e lei stavamo sempre assieme. Venivano
dei bei lavoretti, mia madre deve averli ancora da qualche
parte.»
«Guarda che mi ingelosisco»,
dice Andrea sorridendo.
«Poi mi ricordo che c’era una
bambina terribile invece.» Ci penso per un po’, poi
mi torna in mente ogni cosa. «Era inglese, se non mi sbaglio,
o al limite americana. Si
chiamava April, ed era odiosa. Rubava i pennarelli,
spingeva, e quelle cose lì che fanno i bambini. Io e Giorgia
la odiavamo, cercavamo sempre di architettare un piano per farle fare
brutta figura.»
Andrea ridacchia e si alza, massaggiandosi il
sedere, perché stare seduti su questo muretto è
piuttosto doloroso. «L’ultimo giorno che stiamo qui
è il tuo compleanno. Che vuoi fare?»
«Non lo so. Ma quando torniamo a casa ci
sarà tipo una festa a sorpresa a casa dei miei.»
«Se è a sorpresa come fai a
saperlo?»
«Fortuné», dico
soltanto.
«Ah, capito. Vabbè
però il diciotto lo passiamo qui. Che vuoi fare?»
Mi alzo anch’io (con
l’impressione di aver lasciato le chiappe sul muretto) cingo
le spalle di Andrea e ci avviamo verso chissà dove.
«Non lo so. Quello che vuoi tu.»
...scusate.
Non mi viene in mente nient'altro da dire per il ritardo.
Avevo spiegato in
questo post che ci sarà un periodo un po'
incasinato, ve lo linko perché lo so che il mio blog non se
lo fila nessuno se non è per gli spoiler! xD Se non avete
voglia di leggerlo, riassumendo è qualcosa tipo: fino alla
fine di Settembre non posso garantire aggiornamenti stabili
perché fra il lavoro e, ehm, la vita, è un
periodo impegnato.
Ma parliamo di cose più liete (non che la vita non sia
lieta, anzi, è lietissima ^^)!
Mi è piaciuto tantissimo introdurre Melachi in questo
capitolo, anche nel prossimo verrà citata e avrà
delle parti rilevanti! In realtà, è lei la
protagonista di questa storia! ...okay, la smetto di dire scemenze xD
Il tizio che canta davanti alla basilica del Sacre Coeur non me lo sono
inventata, esiste davvero. L'ho visto quando sono andata in gita a
Parigi due anni fa: era simpaticissimo, aveva una bella voce, e gli ho
anche comprato il cd perché era stato figo stare
lì seduti sugli scalini a guardarlo, ed è una
delle cose più belle che ricordo di quella gita, che
è stata credo la migliore in vita mia (ora sogno di tornare
a Parigi un giorno o l'altro). Se siete curiose di immaginare Mika e
Andrea a guardare questo tizio cantare, eccovi
un video abbastanza recente dove suona "Someone like you" di
Adele (fra parentesi: adoro quella canzone).
Le informazoni sull'infanzia di Mika a Parigi invece, con relativa fuga
dalla gerra civile libanese e il quartiere in cui erano andati a
vivere, me le sono inventate di sana pianta.
Comunque, vi lascio allo spoiler
dle prosismo capitolo, sperando di riuscire ad aggiornare
puntuale la prossima volta.
Grazie a tutti coloro che leggono e che recensiscono, mi fa sempre
piacere leggere i vostri commenti ^^ Siete tutti gentilissimi e ogni
volta che leggo una delle vostre recensioni mi fate sorridere!
Grazie mille,
Patrizia
|
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Capitolo 22 *** Love today, o Chiens dans l'amour ***
Capitolo
ventidue
Love Today,
o Chiens dans
l’amour
Qualcosa di veramente
fastidioso disturba il mio sonno perfetto. Qualcosa di umido. E di
peloso.
«Melachi!», esclamo quando
apro gli occhi, trovandomi il cane ad altezza occhi che scodinzola come
una pazza e ha quell’espressione che, non so se sia tipica
della sua razza, però sembra sorridente. Mi rigiro nel letto
e affondo la testa nel cuscino, mentre con la mano accarezzo Mel.
In quel momento mi accorgo che il letto, al mio
fianco, è vuoto. Mi metto seduto e mi guardo attorno;
c’è un vago odore dolce e caramellato
nell’aria. I miei occhi si posano su Melachi, che
è ancora seduta di fianco al letto e mi graffia pure il
braccio a chiedere più carezze. Ma la cosa che noto
è che ha una specie di pacco postale legato sul dorso. Non
posso fare a meno di mettermi a ridere.
Libero Melachi dal suo fardello e
l’accarezzo ancora un po’, poi apro il pacco.
Dentro c’è una felpa che avevo visto in un negozio
assieme ad Andrea e che mi piaceva, ma quel giorno non avevo abbastanza
soldi per comprarla, poi ci sono un paio di boxer totalmente neri se
non fosse per la scritta gialla “WARNING – Explict
Content”. Rido di nuovo e metto da parte anche quelli.
L’ultima cosa che trovo è un collana che ha come
ciondolo la faccia di un pupazzo che guardata da un lato sorride, al
contrario invece è triste. Un po’ bizzarra, lo
ammetto, ma dopo il Piccolo Uomo Nudo, ciondolo che ho inossato per
mesi, credo di non poter rimproverare nessuno per le collane che mi
regalano.
In quel momento Andrea esce dal piccolo cucinotto,
sorridente, con in mano un vassoio colmo di roba da mangiare e da bere.
Faccio per alzarmi ma lei mi guarda truce: «Non ti alzare.
Ormai è una questione di principio: io porterò
questo vassoio senza fare cadere nulla», annuncia. Si muove
più lenta di una lumaca, ma alla fine riesce ad appoggiare
il vassoio sul comodino senza versare neanche una goccia di
caffè, ed è allora che si volta verso di me, si
getta con un tuffo ad angelo sul letto e mi fa gli auguri.
«Sì! È il mio
compleanno!», dico come in una cantilena, «e devi
fare tutto quello che voglio io! Gnè gnè
gnè!»
«Hitler a confronto tuo era un
agnellino. Ti piacciono i regali?»
«Sì! Credo che il mio
preferito sia la collana. Però, no, anche la felpa mi piace
un casino», dico, ripensandoci. «Però,
aspetta, questi boxer sono fantastici, dove li hai trovati?»
Andrea sorride, appallottola la carta da regalo e
la getta da un lato. «Lo sai che ci ho messo
un’eternità a legare il pacco attorno a
Melachi?»
«Veramente?»
«Sì, continuava a muoversi. E la prima
volta che l’ho messo poi è caduto, allora
l’ho dovuto incastrare di nuovo e poi l’ho lanciata
verso il letto. E lei stava per andarsene sul balcone, allora
l’ho indirizzata verso di te e poi ha capito.»
«Sei intelligente Melachi! Hai
capito!», esclamo accarezzandola ancora un po’.
Sembra che Andrea non sia d’accordo, ma non dice nulla.
«Lo sai che la colazione a letto non la faccio da quando ero
piccolo? Però era un’occasione particolare, in
realtà ero malato e ho bevuto il latte a letto e ho preso la
tachipirina. Sì insomma, una colazione schifosa.»
Prendo il vassoio e me lo poso sulle ginocchia.
C’è l’immancabile caffè
(credo di esserne dipendente), ci sono dei muffin colorati, uno dei
quali con anche una candelina sopra.
«Oh, questo è da
accendere!» Andrea salta su e corre a prendere un accendino,
poi quando la candelina è illuminata mi dice:
«Devi esprimere un desiderio.»
«Okay.» Ci penso un attimo.
«Non so cosa esprimere.»
«Pensaci bene. Non si può
sprecare un desiderio così, solo perché non ti
viene in mente nulla.»
«Okay.» Chiudo gli occhi con
il muffin in mano, desiderando ardentemente che la giornata di oggi sia
perfetta. Apro gli occhi e soffio.
«Evviva!»
Dopo la colazione andiamo a fare un giro nel
grande parco di fronte al Louvre, assieme a Melachi ovviamente, e
abbiamo mangiato talmente tanto a colazione (alle undici del mattino)
che preferiamo saltare il pranzo. Siamo stesi sull’erba con
affianco Mel, che sonnecchia, quando mi squilla il telefono.
«Pronto?»
«Auguri!» Una folla
dall’altra parte del telefono, probabilmente in vivavoce, mi
canta “Tanti auguri”. Riconosco la voce di mamma,
di Fortuné e poi gli altri sono troppo incasinati per
sentirli.
«Hai trent’anni, sei
vecchio!», mi grida Fortuné nelle orecchie.
«Quando sei vecchio sei più
affascinante per le donne», replico, «non
è vero?», chiedo poi ad Andrea.
«Come no», dice lei ghignando.
«Resta il fatto che io sono ancora una giovin ventenne, tu
invece non più.»
«Ha detto che se mi vengono i capelli
bianchi sarò più sexy», dico al
telefono a mio fratello.
«Guarda che le chiedo se l’ha
detto davvero, quando tornate.»
Interviene mamma: «Ecco, a proposito di
tornare: a che ora atterra il vostro volo?»
«Lì saranno le dieci di
sera.»
«Viene a prenderti papà,
okay? Vi va di rimanere a dormire qui a casa?»
Ricordandomi solo in quel momento della
festa-non-così-a-sorpresa rispondo che va bene, che
rimarremo lì a dormire, e che probabilmente saremo stanchi
morti e ci aspettiamo solo di dormire. Credevo che così
dicendo li avrei emozionati tutti, che avrebbero pensato qualcosa come
“Oh! Oh! E invece quando arrivano gli facciamo una
sorpresona!”, ma si vede che sono un pessimo attore,
perché dall’altra parte cade il silenzio. Per un
po’ nessuno dice niente.
«Pronto?»
«Fortuné! Gli hai detto della
festa!»
«No! Io no!»
Scoppio a ridere e difendo mio fratello, dicendo
che l’avevo immaginato e che si capiva da come si
comportavano. In fondo è mio fratello, il mio fratello che
parla troppo. Non ne ho altri, devo tenermelo stretto.
Saluto tutti, anche da parte di Andrea, e non
faccio nemmeno in tempo a mettere via il cellullare che quello squilla
di nuovo. «Non dirmi che…»
«Magari si sono scordati di dirti
qualcosa.»
«Ah no, è John.»
«Chi?»
«Il mio manager. Pronto!»
«Ciao Michael, auguri. Ascolta, ti ho
chiamato per dirti una cosa.»
«Non per dirmi buon
compleanno?»
«No. Be’, ti ho detto auguri
no? Comunque, abbiamo un problema. Nadine ha firmato un contratto con
non so che casa discografica, e quindi ci ha mollati.»
«Come?»
«Abbiamo bisogno di una corista. Ora.
Stavo addirittura pensando se non fosse il caso di chiamare Imma, anche
solo per il momento.»
«No, inizia il tour quando lo iniziamo
noi.» Mi mordicchio le labbra e si vede che ho
l’aria proprio preoccupata, perché Andrea mi
chiede con gli occhi che sta succedendo. Le faccio cenno di aspettare.
«Non hai in mente niente? Nessuna soluzione geniale? Alla
John?»
«No, niente per il momento. Pensaci
anche tu, un po’.»
«Lo sto già
facendo!», esclamo indignato.
«Abbiamo bisogno di una corista al
più presto, e deve mettersi sotto in una maniera allucinante
per poter fare il tour: inizia fra due mesi.»
Mi mordicchio le labbra, incapace persino di
pensare. Mi passo due dita sugli occhi e cerco di farmi venire
un’idea geniale. «Okay, ci penso e ti
chiamo.»
«Ho già inserito un annuncio
e chiamato tutti quelli che conosciamo. C’è un
sacco di risposta, ma cominciamo le audizioni Lunedì
prossimo, così ci sei anche tu.»
«D’accordo,
perfetto.» Perfetto un corno, siamo nella merda.
«Ti farò sapere.
Ciao.»
«Ciao.» Chiudo la chiamata e
comincio a sudare freddo.
Ecco come rovinare un compleanno! John lo sa fare
benissimo!
«Che cos’è
successo?»
«Abbiamo bisogno di una
corista.»
«Perché? Che fine ha fatto la
solita?»
«Nadine è andata via.
Traditrice», biascico fra i denti. Mi rendo conto solo adesso
dell’enormità di questo fatto. Della
gravità di tutto. Oh mio Dio…
Nadine sta con noi da quando Joy se n’è
andata. Le hanno offerto un contratto per fare la solista di un coro, e
praticamente tutti quanti l’abbiamo spinta ad accettare,
anche se questo significava che doveva lasciare la band. Ma se lo
meritava, davvero. Ha una voce bellissima e s’impegna sempre
al massimo per ogni show.
Ma a parte questo, siamo nella merda.
«Hai un sacco di fan. Ce ne
sarà almeno uno che fa il cantante di professione, o
quasi.» La guardo sbattendo le palpebre più volte.
Sono instupidito. «Scommetto che se mandi un messaggino
verranno a frotte solo per farti vedere quanto sono bravi, e non devi
nemmeno insegnargli le canzoni.»
«E se invece perdo solo tempo e vengono
tutti quelli più scemi che cantano come Duffy
Duck?», domando io irrequieto.
«No, la gente non può essere
tanto stupida. Se non sai cantare lo sai, non vai a ridicolizzarti
davanti al tuo cantante preferito.»
«Tu dici? Guarda tutti quelli che
provano ad andare a quei programmi come X Factor, tutti quelli che
vengono scartati.»
«Vabbè, ma quelli non sono
tuoi fan.»
«Cosa c’entra?»
«Non lo so. Mi sto confondendo.» Devo
avere una faccia tristissima, perché Andrea si mette in
ginocchio e mi prende il viso fra le mani, spappolandomi le guance.
«Okay, ascoltami: non devi pensarci adesso. Oggi è
il tuo compleanno, rilassati che ci penserai dopo. Sei qui e non puoi
fare nulla, quindi goditi il tuo compleanno.»
«Ma c’è internet per
risolvere questi problemi di distanza», obbietto io con la
bocca deformata dalle sue mani. Anche la voce mi esce come schiacciata.
«Se mi connetto dal telefono-»
«Se cominci a twittare te lo faccio
ingoiare quel telefono», mi ammonisce lei con inquietante
calma.
«O-kay», dico con voce strana
e le guance sempre più schiacciate.
Andrea sembra contenta della mia risposta. Sorride e mi
molla la faccia. Per non farmi pensare attua un piano malefico che solo
una mente crudele come la sua poteva elaborare: mi atterra
sull’erba e comincia a strusciarmisi addosso e a baciare
tutti i centimetri del mio collo che non sono coperti dalla maglietta.
«Credo che questo sia un
reato», protesto ridendo. «Non lo puoi fare! Non
puoi!», dico cercando ora seriamente di togliermela di dosso
prima che la cosa diventi imbarazzante. Per me ovviamente, non
è lei che deve andare in giro con qualcuno che reclama
più attenzioni nelle parti basse.
«Solo se lo fai in luogo pubblico è
reato», dice Andrea sorridendo.
La fisso un secondo.
«Melachi! Vieni qui bella, si torna in
hotel», dico brandendo il collare come una frusta. Mi alzo in
piedi mezzo saltellando, ma Melachi fraintende. Mi osserva due secondi,
scatta con le zampe in avanti e il sedere per aria, scodinzolando, poi
si volta e corre via. Spalanco gli occhi.
«Melachi!» Comincio a inseguirla, mentre Andrea
raccoglie la mia e la sua borsa e la sento correre dietro di me.
Inseguo Mel fra le panchine, fra gli alberi, lungo i sentieri, e ancora
Andrea mi segue, e la gente si volta a guardarci. Oh sì, di
sicuro siamo un quadretto divertente: io inseguo il cane, Andrea
insegue me, e tutti e due urliamo “Melachi!” come
pazzi.
Sto per perdere la pazienza e il fiato quando, spuntato
oltre gli alberi, non vedo più nessun cane peloso. Mi guardo
attorno, preoccupato. «Melachi!» In quel momento
Andrea mi raggiunge; anche lei ha il fiatone. «Non la vedo
più», dico guardandomi attorno.
Cominciamo a guardarci intorno e chiedo a due
ragazzi se hanno un visto un golden retriver correre più
veloce di un peto verso il Louvre, ma loro dicono di no. Sto iniziando
ad angosciarmi seriamente quando sento due cani abbaiare.
«Eccola», dice Andrea puntando un prato.
Raggiungiamo di corsa un signore che se ne sta sull’erba con
un cane di taglia piccola, forse un volpino, che scodinzola e salta
attorno a Melachi e abbaia.
«Mi scusi», dico in francese.
«Mi è scappata.» Mi chino e aggancio il
collare.
«Fa niente, non stavano litigando. Come
si chiama?»
«Melachi. È una
femmina.», preciso. Osservo i due cani che sembra stiano
facendo amicizia. «E lei?»
«Lui,
lui, è un maschio. Si chiama Jack.»
Andrea, che non capisce una parola di francese ma
ha intuito che succede, dice: «Melachi, hai trovato un
fidanzato! Guarda che poi Michael è geloso.»
«No, io sono contento per te
Mel», dico come se lei mi capisse.
«Everybody’s
gonna love today», dice l’uomo con uno
stentato accento inglese e un mezzo sorriso. «Lo dice una
canzone che mia figlia adora», fa riprendendo a parlare la
sua lingua.
Io guardo i cani che si annusano a vicenda,
scodinzolando, poi ricordo che ritorneremo in albergo e lancio
un’occhiata divertita ad Andrea. Annuisco, «Oui, vous avez raison*.»
*Sì, ha ragione.
Buonsalve!
Allora, ho due cose da dire su questo capitolo.
Primo, non so una cippa di francese, quindi le due frasi che ho sparato
in francese (il titolo e quell'ultima di cui ho messo la traduzione)
sono state tradotte con con Google Translater xD Se qualcuno che sa il
francese vede che sono sbagliate me lo dica assolutamente! In teoria il
titolo vorrebbe dire "Cani innamorati".
La seconda cosa da dire, sempre sui cani (sì, questo
capitolo è piuttosto canino)
è riguardo all'altro cane che fa da comparsa. Nella mia
mente è il mio cane, che appunto si chiama Jack, che
è morto a Maggio di quest'anno. Quindi questo capitolo
è dedicato a lui, il mio amico peloso a cui penso ancora
ogni tanto, che mi faceva compagnia ed era capace di mettermi il
buonumore anche nei momenti peggiori, che era sempre pronto a giocare e
saltellare qua e là. Adesso però basta pensarci,
altrimenti mi escono le lacrimuccie...
A presto a tutti quanti, e grazie per le belle recensioni (ragazzi,
cinquanta recensioni, ma siete magnifici!). Ecco qui
lo spoiler, saluti!
Patrizia
|
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Capitolo 23 *** Any other world, o Quel che rende felici ***
Capitolo
ventitré
Any other world,
o Quel che rende felici
Vado avanti e
indietro per la stanza, intanto rimugino.
Avanti.
Indietro.
«Io credo che l’ultima non sia
stata molto male», osserva Ida con voce piccola. La fulmino
con gli occhi. Cerco di fulminare lei più di tutti gli
altri, anche se in questo momento mi danno sui nervi tutti quanti, ma
lei di più! Perché se fosse veramente una mia
amica, come ha proclamato di essere, allora verrebbe in tour con me,
mollando tutto e concedendosi anima e corpo alla mia causa. Invece non
lo fa, per il trascurabilissimo particolare che farà parte
del cast per Les Misérables. Cioè, che vuoi che
sia Les Misérables in confronto a me?! Io sono
più bello di Victor Hugo, scommetto!
Andrea me lo ha detto di stare calmo, che sto
cominciando a dire cose assurde.
«Okay, sto zitta», pigola Ida
alzando le mani in segno di resa.
Di
nuovo avanti. Di nuovo indietro.
C’è anche Andrea qui in studio, dove
abbiamo appena ascoltato cinque delle coriste che John ha scelto in
fretta e furia negli ultimi quattro giorni. Sono brave, su questo non
c’è dubbio, ma non riesco a cantare decentemente
con nessuna di loro. Forse è un problema mio, forse sono
diventato scemo tutto d’un tratto, solo che nessuno me lo
dice perché sono troppo gentili.
Avanti.
Indietro.
«Ci sono un sacco di persone che sono
interessate», dice John con gli occhi fissi sullo schermo del
pc. «Potremmo fare altre audizioni.»
Mi cade lo sguardo su Nick, che è arrivato
proprio stamattina a Londra solo per fare una vacanza e si è
ritrovato incastrato qui in studio, a guardare me che vado avanti e
indietro. Credo che nelle piastrelle si scaverà una fossa,
come succede nei cartoni animati. Nick sbadiglia e io guardo
l’orologio appeso alla parete. Segna le undici e quaranta. Di
sera. Siamo qui dall’una e mezza del pomeriggio
più o meno. Mi passo una mano sul viso, sconsolato.
«Ci pensiamo domani magari», dico.
In meno di cinque minuti tutti prendono armi e bagagli e si
defilano, sollevati. Rimango da solo con Andrea, che mi accompagna a
casa in macchina, mi dà un bacio e mi saluta con un
“non preoccuparti, vedrai che troverai una
soluzione”. Ormai è mezzanotte passata quando giro
le chiavi nella toppa e accendo la luce dell’ingresso. Sono
sconsolato come non mai, non vedo proprio come potrò trovare
una soluzione.
Per la prima volta mi ritrovo a pensare a che cosa
succederebbe se non avessi nemmeno una corista con me in tour.
I live farebbero schifo. E se succede questo
dovrei cancellarne alcuni. E se ne cancello alcuni devo cancellare il
tour. E se non suono live perdo fans. E se li perdo non vendo
l’album. E se non vendo la casa discografica mi molla! E se
mi molla la casa discografica la mia carriera è finita! E
potrei andare a vendere la mia immagine ormai rovinata in uno di quegli
show televisivi di serie B! Potrei diventare povero e anche morire!
Morire di fame e di stenti!
«Andrea, sto per morire!»
«…»
«Mi hai sentito?! Morirò!
Morirò di fame e di stenti! Forse domani me lo
dirà anche l’oroscopo, ma io l’ho
già capito!»
«Calmati.»
«Come faccio a calmarmi?! Manca un mese
all’inizio del tour e non abbiamo una corista, ti rendi conto
della gravità della situazione? No, ma come mai dovresti?!
In fondo non è mica tutto il tuo lavoro che verrà
messo in discussione perché a una maledettissima ragazzina
hanno fatto un contratto che le sembrava più figo!»
Mi fermo, quasi ansimante, e mi getto sul divano.
«Hai finito?»
«Forse no», dico acidamente.
«Vedi di finire, che ho un idea da
proporti.»
Sospiro e mi tolgo le scarpe. «Che
idea?», domando con tono stanco. Andrea non dice nulla, ma
sento che è dall’altra parte del telefono.
«Che idea?», ripeto, questa volta incuriosito.
«Io pensavo… pensavo che
forse potevo provare anch’io a cantare con te.»
John annuisce. Nick annuisce. Ida annuisce. Io
annuisco.
Zuleika fa segno di no con la testa.
«Che cosa
c’è?», domanda Andrea nervosamente
guardando mia sorella. Anch’io la guardo interrogativo.
Lei continua a fare di no torturandosi le labbra
con un dito e guardando Andrea assorta. «Non hai affatto la
corporatura di Nadine, dovremmo rifare tutti i vestiti», dice
seccamente girando attorno ad Andrea.
«Significa che va bene?»
«Certo che va bene», dico io sorridendo.
Mi alzo e le do un bacio veloce sulle labbra. «Adesso
dobbiamo solo provare, provare, provare.» Risistemo le
chiappe sulla seggiola davanti al piano e dico: «Rifacciamo
Blame It On The Girls, ti va?»
«Okay.»
Dopo una mattinata intera a cantare canzoni a casa mia,
accompagnati dal pianoforte, siamo andati in studio per sentire
l’opinione degli altri. Dopo un pomeriggio intero a cantare
di fronte ad una piccola folla Andrea sembra un po’
più sicura di sé, ma ancora cerca il mio sguardo
e la mia approvazione, a volte, soprattutto nelle parti delle canzoni
in cui il coro è fondamentale. Tuttavia non posso fare a
meno di notare, cosa che sicuramente Andrea non avrà notato
dato che è tesa come una corda di violino, che la maggior
parte dello staff è rimasto piuttosto contento di sentirla.
Credo che sia una sorta di feeling naturale: quando ti trovi bene con
una persona cantare con lei è più facile.
Ammetto, infatti, che all’inizio la nuova band che avevo
messo insieme l’anno scorso è stata difficile da
gestire anche per me, ma era necessario, e sono fortunato ad aver
conosciuto tutti loro: man mano che ci conoscevamo meglio il nostro
legame si faceva più forte, e suonare assieme era
più bello. Con Andrea sta succedendo esattamente la stessa
cosa.
A questo punto i giorni paiono scorrere
più in fretta di quel che devono: l’estate sta
lasciando il posto all’autunno, le giornate diventano
più corte, ogni tanto tiro fuori un maglioncino
perché fa fresco fuori, soprattutto la sera. Tutti i giorni,
o quasi, facciamo le prove.
Il primo concerto di Andrea è uno show
privato: ci hanno contattati per un matrimonio, uno di quelli fastosi
con trecento invitati che io non farei mai, per intenderci, e quando me
lo dicono penso subito che sia la cosa più giusta da fare
portarci Andrea.
È stato montato un piccolo palco
all’interno della sala del ricevimento, sono pronte tutte le
luci, gli strumenti, e siamo vestiti nei nostri costumi di scena
– che essendo un matrimonio piuttosto elegante, non sono
troppo esagerati. Appena pochi minuti prima di salire sul palco vado da
Andrea, che sta in un angolo buio della sala e guarda gli invitati con
espressione angosciata. Si torce le mani e sposta il peso da un piede
all’altro in continuazione. Quando mi vede arrivare sembra
sull’orlo di una crisi di nervi: mi si avvicina con fare
furtivo e mormora guardando le persone: «Non posso farlo
Michael, non ce la faccio.»
«Come?»
Lei scuote la testa. «Non ci riesco,
sono in troppi. Non salgo su un palco da almeno sei anni, forse di
più. Oh, è vero, sono otto! Otto anni! Otto anni,
otto anni che non salgo su un palco…»
«Calmati.» Le poso le mani
sulle spalle ma lei guarda ancora gli invitati e ha in viso
un’espressione terrorizzata. Le sciolgo le mani, altrimenti
finisce che se le stacca, e le volto il viso verso di me di modo che
veda e senta soltanto me. «Ascoltami, devi calmarti okay? Tu
sei bravissima, hai cantato benissimo fin ora durante le prove, eri
perfetta.»
«Ma le prove sono una cosa
diversa», dice lei agitandosi, saltellando sul posto
istericamente. «Le prove sono prove, qui
c’è gente vera.»
Cerco di pensare se alle prove c’era
gente finta, e sto per dirglielo, ma poi ci ripenso perché
probabilmente nello stato in cui è non coglierebbe la
battuta. «Se ti agiti starai peggio. Andiamo, non ti ricordi
com’era alla Royal? Quando salivi sul palco era tutto
perfetto, io me lo ricordo, eri bellissima.»
«Non siamo alla Royal qui, quello che
stiamo facendo è totalmente diverso.»
«Hai ragione, è meno
importante della Royal: è solo un matrimonio.»
«No, intendo dire… O
mamma...» Andrea prende un grosso respiro e mi trascina dove
c’è meno gente. «Intendo dire che
lavorare con te è una cosa completamente diversa: tu fai
musica pop.»
«Lo so», dico annuendo. Non so
perché lo dico, forse solo per dire qualcosa e darle
l’impressione che ho capito cosa sta dicendo, invece non so
ancora dove vuole andare a parare.
«L’ambiente della Royal,
ammettiamolo, è importante, sì, ma non raggiunge
tutte le persone che invece raggiungi tu con la tua musica. Quello
è un genere diverso con un pubblico diverso: meno vasto e
con già le idee chiare in testa su cosa sia veramente la
musica.»
Faccio un mezzo sorriso. «Insomma, stai
dicendo che hanno la puzza sotto il naso.»
«Sì. No! Cioè,
voglio dire che la tua musica fa cose stupende: tu riesci ad arrivare
dritto nel cuore della gente con melodie bellissime, non per forza
importanti o difficili da suonare, o che so io. Le tue canzoni sono
veramente oneste, ed è per questo che la gente riesce a
identificarcisi. Sono pensate e scritte con il cuore, io lo so, vedo
come sei quando scrivi una canzone.»
Rimango realmente sorpreso dal sapere che questo
è quello che Andrea pensa della mia musica. Va al di
là di qualsiasi cosa mi abbiano mai detto. È un
complimento meraviglioso, e il fatto che lo pensi proprio lei mi rende
solo più orgoglioso e felice. Per cercare di smorzare un
po’ il tono serio della discussione sorrido, leggermente
imbarazzato, e dico: «Guarda che io ci mangio con i miei
cd.»
Lei mi dà una spintarella.
«Lo so, ma hai capito cosa voglio dire.»
«Sì, ho capito. Ma non ho
capito cosa volevi dire prima. Qual è il problema? Come mai
sei così nervosa?»
«Perché cantare queste
canzoni, mandare questi messaggi alle persone… è
più di quel che riuscivo ad immaginarmi, quando ti ho
proposto di lavorare insieme. La tua musica è veramente
importante per i tuoi fan. Tu sei importante per loro. È
veramente un grosso impegno, e devo essere sincera: non lo immaginavo
quando ho pensato che potevo essere la tua corista. Pensavo fosse solo
qualcosa di divertente da fare, ma non è
così.» Andrea guarda la sala e indica una persona
fra la folla, un ragazzo che avrà al massimo diciassette
anni seduto in prima fila che guarda il palco ancora mezzo vuoto e
molleggia il piede a terra, impaziente. «Ho parlato con il
fratello della sposa. È lui che ha proposto di contattare te
per il matrimonio, e sua sorella ha accettato perché gli
piaci, ma anche per fare un piacere a lui: è tuo fan da
quando era bambino.» Andrea mi guarda e sorride:
«Sembra un bravo ragazzo, e tu e la tua musica significate
davvero, davvero molto per lui. Mi ha detto che grazie alle tue canzoni
è riuscito ad uscire da un periodo di depressione molto
brutto, un paio di anni fa, e che ti è molto grato per
questo.
«Vedi che cosa fai per le persone,
Michael? Cantare We Are Golden, o Make You Happy, o qualsiasi altra
cosa, fa veramente
la differenza.»
La guardo serio, gli occhi fissi nel suo volto, e
capisco che crede in quel che sta dicendo. «La differenza di
cosa?», chiedo in un sussurro.
«Fa la differenza per tutte le persone che hanno
trovato qualcosa di importante nelle tue storie, nei mondi che crei. Ma
sai una cosa? In questo
mondo, in qualsiasi altro mondo, puoi distinguere la differenza
fra quel che ti fa soffrire e quel che ti rende felice. Invece nel tuo
mondo no.» Andrea sorride. «Nel tuo mondo tutto
è mischiato, non c’è modo di staccare
felicità e tristezza, ma l’unica cosa che sentono,
quando pensano alla tua musica, è la felicità.
Anche se esiste sempre il lato oscuro nelle tue canzoni, si percepisce
solo l’allegria.»
«Mi stai dicendo che non te la senti? Di
cantare assieme?», chiedo con un po’ di rammarico.
«No, ti sto solo dicendo che
è qualcosa di molto importante, e che mi
impegnerò al massimo delle mie forze.» Sorride e
getta un’occhiata alla sala. Sbuffa con
un’espressione a metà fra l’esasperato e
il terrorizzato. «Certo che sono proprio tanti
però.»
Rido e la prendo per mano, avviandomi verso il
palco. «Tranquilla, ti sembreranno una bazzecola quando
vedrai il Parc des Prices di Parigi.»
Quella notte, solo nel mio letto, ripenso alle
parole di Andrea.
Sono uno dei pochi fortunati che possono vantare una
carriera che è anche la loro passione. Quando ho iniziato
è stato tutto così veloce che non mi sono mai
veramente reso conto dell’impatto che la mia musica ha sulle
persone. O meglio, lo sapevo, ma non ho mai creduto che fosse qualcosa
di tanto profondo anche per il pubblico.
Secondo Andrea la mia musica rende felici le
persone. È una cosa piuttosto incoraggiante da sentirsi
dire. Se è per questo, la mia musica rende felice anche me,
ma non devo dimenticare cos’è che mi permette di
creare queste canzoni: i miei amici, la mia famiglia, le persone che
amo e a volte persino quelle che odio. Sono come un ladro, rubo le
storie della gente che mi sta attorno, le elaboro nella mia testa e
gliele ributto indietro sotto forma di registrazione.
Andrea dice che tutta questa faccenda del cantante
è davvero impegnativa, e non solo per gli impegni che in
effetti mi ritrovo, spesso, a dover gestire tutti assieme, ma dal punto
di vista umano. Ha ragione, ma questo mi fa pensare a
qualcos’altro: oltre a tutto ciò che ho
già elencato, cos’è che mi rende
felice? C’è qualcosa, lo so, qualcosa che ho ma
che allo stesso tempo mi manca.
Mi rigiro di nuovo fra le lenzuola, questa volta provando a
pancia in giù. So che devo dormire, che anche domani ho le
prove e che dovrò alzarmi presto, ma non riesco a prendere
sonno. Mi impongo almeno di chiudere gli occhi e smettere di fissare la
scrivania, e quando mi rigiro per l’ennesima volta nel letto,
troppo grande e troppo vuoto, sento la mancanza di Andrea.
Vorrei che lei fosse qui, così potrei
abbracciarla con un braccio solo, pigiare il mio petto contro la sua
schiena, e tutti e due potremmo sentire i piedi freddi
dell’altro, e scaldarceli.
Buonsalve a tutti! ^^
Allora, questo capitolo dice quello che penso io della musica di Mika.
Forse molti non ci pensano in maniera così filosofica, ma io
sono fatta così e mi piace filosofare su certe cose. Morale
della favola? Non lo so, so solo che Mika dovrebbe essere per lo meno
soddisfatto dell'alta idea che ho di lui e della sua musica u_u
Comunque spero di non avervi annoiato troppo con questo capitolo
filosofeggiante.
Che altro dire? Nulla di che, immagino. Vi lascio allo spoiler
(uhuh, secondo me il prossimo capitolo potrebbe piacere a molte
persone! Però vi dico che non dovete farvi ingannare dal
titolo. Sono sadica a mettervi questa curiosità addosso, lo
so!) e ci vediamo la prossima settimana :)
Patrizia
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Capitolo 24 *** Happy Ending, o «Sì, lo voglio.» ***
Capitolo
ventiquattro
Happy Ending,
o «Sì,
lo voglio.»
Fortuné legge con le
sopracciglia aggrottate, lentamente, e mi chiedo quanto cavolo ci vuole
mettere a leggere: in fondo è una specie di messaggino, non
è mica un’ode! Alla fine lui alza gli occhi e mi
guarda attraverso le spesse lenti, le sopracciglia sollevate.
«Questa è una proposta. Una proposta vera, seria.
Una proposta di…»
«Sì, è una
proposta!», lo interrompo strillando come un invasato. Lo
guardo ansioso. «Che te ne pare?»
Fortuné fa un grosso sospiro e sembra incerto.
«Non lo so, non mi è mai capitato di fare una
proposta così a una ragazza. Insomma, veramente vuoi
fargliela leggere?»
«No, glielo chiederò a voce,
ma questo è una specie di discorso che mi sono
preparato.»
«Pensavo che i discorsi fossero molto
più lunghi.»
Mi spazientisco. «E dai, hai capito che
voglio dire: fila, come discorso? Insomma, è convincente
almeno?»
«Ma non è questione di essere
convincenti. Cioè, non tu devi convincerla, è una
proposta e lei ci deve pensare e poi darti la risposta. Insomma, non si
tratta di convincerla con la retorica, se lei vuole lo farà,
punto e stop.»
Fortuné certe volte ha questa
insopportabile mania di diventare
intelligente. Peccato che lo faccia sempre nel momento
più sbagliato.
Siamo a casa di mamma e papà, manca solo una
settimana per la prima data del tour europeo, che quest’anno
inizia dalla Spagna, e io voglio solo un consiglio spassionato. Invece
mio fratello proprio oggi se ne esce con le sue considerazioni umane e
geniali. Maledetto!
Grugnisco e dico: «Non è che se vuole
lo farà: sarà talmente estasiata dalla mia
romanticissima proposta che le brilleranno gli occhi e
l’unica cosa che dovrà fare sarà dire
“Sì, lo voglio”.»
Fortuné rotea gli occhi sul soffitto.
«Okay, come vuoi. Ma perché mi chiedi la mia
opinione se poi non la tieni neanche in considerazione?»,
domanda acidamente incrociando le braccia.
Mi riprendo la mia lettera. «Era solo
per sapere se c’erano errori di grammatica.»
«Babbeo.»
«Quattrocchi.»
«Nasica.»
«Ah! Colpo basso!»
In quel momento mamma entra in cucina e io mi
affretto a nascondere la mia lettera/proposta in tasca.
«Michael rimani a mangiare?», chiede.
«No, mi vedo con Andrea.»
«Ah, salutamela.» Mamma
sorride benevola; le piace Andrea.
Io esco e, in macchina, mi controllo i capelli,
poi la faccia, poi l’alito: devo essere bello per fare ad
Andrea la mia proposta! Fa piuttosto freddo ma ho abbassato la cappotta
della macchina perché ieri c’era
l’ultimo residuo di sole, però adesso che
è scomparso c’è vento, e ancora non ho
chiuso il tettuccio perché sono troppo pigro. Mi fermo ad un
semaforo lungo la strada per il ristorante nel quale ci dobbiamo
incontrare. Tiro fuori il mio foglietto spiegazzato e lo rileggo per
l’ennesima volta.
Ma perché l’ho scritto?
Adesso ci sono troppo attaccato: se mi dimentico una parola non so
più come andare avanti!
Ad un tratto una macchina mi passa di fianco e dà
gas, accelera e tira su una folata d’aria non indifferente.
Il foglietto mi scivola dalle mani, vola via e, prima che io possa
anche solo imprecare (un bel, sano, «Cazzarola!»)
finisce prima in mezzo ad una pozzanghera e poi viene spappolato dalle
ruote di una bici. Rimango con gli occhi fissi sulla carta spiaccicata
ad almeno cinque metri di distanza da me, ridotta in pappa di fronte ai
miei occhi. Il verde scatta e io non lo vedo. Mi riscuoto quando un
clacson suona forte. Faccio un cenno di scuse con la mano alla macchina
dietro alla mia e parto.
…che razza di idiota sfigato che sono.
Arrivo al ristorante e vedo Andrea che mi aspetta
di fronte all’entrata. Indossa un vestito grigio e verde,
semplice, di seta, che le cade addosso con leggerezza. I capelli le
sono cresciuti dall’ultima volta che li ha tagliati e adesso
le arrivano di nuovo alle spalle, come quando l’ho incontrata
nella chiesa al funerale di Pagnin. Però è
diversa, riesco a vederlo: sembra più serena, forse
più bella. Ogni giorno diventa sempre più bella
ai miei occhi, quindi è inutile che sto a raccontarmela con
il “forse”: è bella punto e stop.
La raggiungo e le do un bacio. «Come
va?», domando.
«Come al solito. Che hai fatto
oggi?» Entriamo nel ristorante e prendono i nostri cappotti.
«Niente di che. Sono stato dai miei, ti
saluta mia mamma.»
Quando entriamo c’è
un’intera tavolata da un lato che, a quanto ho capito,
festeggia i cinquant’anni di matrimonio di una coppia. Mi
siedo e li occhieggio, poi decido di tastare il terreno con Andrea:
«Dev’essere bello festeggiare i
cinquant’anni di matrimonio», butto lì
con noncuranza. «Ripensi a come è iniziata no?
Andare a vivere assieme, scegliere assieme le tende, cose
così.»
Lei alza le spalle. «Troppo presto per
pensarci. Pensa a passare il primo anno, poi il secondo e poi il
decimo, poi forse possiamo parlare del cinquantesimo.»
Rido e le passo una mano sul viso con delicatezza.
«Ma sarai bella anche tutta rugosa come una
tartaruga.»
Andrea si mette a ridere e apre il
menù. «Grazie. Anche tu lo sarai, ne sono
certa.»
Mangiamo tranquillamente e parliamo di quel che
capita, applaudiamo assieme al resto della sala quando la tavolata dei
vecchi amanti fa loro il brindisi, e poi riporto a casa Andrea e mi
fermo di fronte alla sua porta, spegnando le luci e il motore. Ecco,
forse è il momento giusto per chiederglielo: con la pancia
piena uno è sempre più bendisposto.
«Ci sentiamo domani allora»,
dice lei sorridendo e facendo per scendere dalla macchina.
«Aspetta, volevo dirti una
cosa.»
Andrea chiude la portiera e mi guarda, in attesa. Io in
testa ho un blackout: il mio discorso perfetto è andato
perduto, ho la gola secca, mi ricordo solo le prime quattro parole, e
le dico subito prima di perdere il coraggio:
«Andrea, io ti amo.»
Lei sorride, si sporge e mi bacia. Rimane accanto
al mio viso e dice: «Anch’io ti amo.»
Okay, ormai è inutile provare a pensare.
«Devo chiederti una cosa importante, stasera.
Prima che partiamo per il tour, perché mancano solo due
settimane», comincio. «Adesso tu magari esci dalla
macchina e vai a casa tua, e io vado a casa mia, e mi mancheresti
terribilmente. Me ne sono accorto l’altra notte, dopo il
primo concerto assieme: erano
le due in punto del mattino, mi passavano un sacco di cose per la
testa. Non riuscivo a riposare, continuavo a camminare in giro per casa.
Poi ho avuto un’illuminazione: voglio stare con te
sempre», le dico guardandola negli occhi.
«Vuoi…», lei allarga gli occhi e mi
guarda allucinata, «vuoi venire a vivere a casa
mia?»
Me ne sto con le braccia conserte e il muso, lo
sguardo fisso sul cruscotto. Al mio fianco, Andrea si sganascia dalle
risate talmente tanto che fra un po’ le vengono le lacrime
agli occhi.
«Ti odio», dico senza
guardarla.
«Ma non mi amavi?», domanda
lei ilare.
«Questo era prima che ti
mettessi a ridere della mia proposta.»
Andrea ansima ancora un po’ e rimane con un largo
sorriso sul volto. «Scusa, è che l’hai
fatta talmente seria che credevo che stessi per chiedermi di sposarti.
Poi invece te ne esci con “Vuoi venire a vivere a casa
mia?”.» Mi scimmiotta anche la voce, non ci posso
credere!
«Be’ scusa se per me era
importante», dico stizzito. «La prossima volta che
ti chiedo qualcosa d’importante te lo scriverò su
Twitter.»
Lei capisce che me la sono presa e si preme una
mano sulla bocca. «Scusa. Scusa, mi dispiace di essermi messa
a ridere così. Non lo faccio più,
giuro.» Mi dà un bacino sulla guancia e mi guarda
dispiaciuta.
«E se ti avessi chiesto di sposarmi sul
serio ti saresti messa ridere?»
«Non credo», dice lei, questa
volta seria.
«E avresti detto di
sì?»
«Non ti pare una domanda un
po’ troppo in “se”? Non voglio parlare
della possibilità di sposarci usando il
congiuntivo.»
Rimaniamo in silenzio per un po’.
«Però posso dirti una
cosa», dice poi Andrea senza guardarmi. Osservo il suo
profilo illuminato solo dalla luce gialla del lampione. Lei si volta e
sorride: «Sì, lo voglio.»
«Rispiegami perché non puoi
vendere la casa», dico per l’ennesima volta.
«Non voglio venderla, è la
mia casa. Mi ci sono affezionata, okay?», dice Andrea
cocciuta mettendo lo scotch ad una scatola.
«Ma adesso ne hai una nuova»,
mi lagno io. «E poi scusa, la lasci qui tutta vuota e la vuoi
pure pagare?»
«Posso portare via tutto quello che mi
interessa e darla in affitto. Si pagherà da sola. E poi, ho
già quell’altra casa al mare da vendere, a meno
che tu non voglia trasformarla nella nostra casa delle
vacanze.»
Al ricordo della casa ad Hastings, polverosa e
piena di fantasmi e ricordi, quasi rabbrividisco. La casa di Ewan.
«No, è tua: devi decidere tu», dico
piano ad occhi bassi.
«Allora la venderò. Non la voglio.
Questa però la teniamo.» Mi piace come parla di
noi al plurale. «Metti che un giorno avremo dei figli: quando
saranno grandi potremmo lasciargli questa casa», continua con
tono pratico. Oh, mi piace ancora di più questa prospettiva
di un lungo futuro assieme. E mi piace come ne parla in maniera
così naturale!
«Mi sembra una buona idea»,
dico senza potermi impedire un sorriso.
Impacchettiamo tutto quel che Andrea vuole portarsi via
dalla casa per il momento: vestiti, libri e altre cose come il pc, ma
cominciamo a chiederci che farcene di tutto il resto, le cose come i
mobili, la lavatrice e la tv. Decidiamo di rimandare le decisioni per
dopo il tour, quando avremo più tempo e ci saremo resi conto
che cosa Andrea deve assolutamente portarsi via da questa casa.
Ci mettiamo solo due giorni a trasferire tutti gli
averi di Andrea in casa mia, però ci mettiamo due giornate
intere anche a trovare un posto per tutta la sua roba in mezzo alle mie
cose. Comincio a non considerare più nulla di mia legittima
proprietà: se io e Andrea vivremo assieme allora le mie cose
diventeranno anche sue, in un certo senso. Le userà anche
lei, ecco. Non sarebbe giusto invitarla a vivere assieme a me e poi
considerare tutto ciò che non si è portata dietro
come mio e solo mio, no? La verità è che non sono
mai andato a convivere con nessuno, non so cosa aspettarmi e nemmeno
cosa devo fare.
«Come mai c’è uno spazzolino
dentro la credenza?», domanda Andrea dalla cucina mentre io
sto sistemando le scatole dei suoi vestiti estivi vicino ai miei.
«Non preoccuparti, lascialo
lì!», grido io di rimando.
«Okay!»
Mi fa piacere che non si batta per cambiargli il
posto, anche se è assurdo tenere uno spazzolino nella
credenza, me ne rendo conto. Significa che gli va bene così,
che io gli
vado bene così. Magari sembra una cosa stupida, ma il fatto
che non le dia fastidio mi rincuora.
«Ti piace il blu come colore per un
divano?»
«Veramente non ci ho mai
pensato.» Ci penso. «Non mi fa impazzire,
veramente.»
«Quindi niente cuscini blu? Ho comprato
le fodere la settimana scorsa, guardale, ci sono disegnati degli orsi
sopra.»
«Potrei pensarci.»
Immagino che vivere assieme sia anche un
compromesso. Anche per cose stupide come il colore dei cuscini.
«No, non fa niente!», dice
Andrea dall’altra stanza.
La raggiungo in salotto, dove sta mettendo via
quelle che hanno tutta l’aria di essere fodere blu con
disegnati tanti orsacchiotti. Sembrano un pigiama per bambini. Mi
inginocchio al suo fianco e le tiro fuori. «No, sono carine
dai.»
«Se non ti
piacciono…»
«Mi piacciono», dico convinto.
Andrea sorride e cominciamo a cambiare le fodere
(certo, saranno un pugno in un occhio vicino ai cuscini gialli) e
qualcuno suona alla porta. Vado ad aprire e trovo Yasmine, che
è passata a salutarci e chiedere come va il trasloco.
«È un trasloco solo per
metà», dice Andrea dirigendosi in cucina.
«Vuoi qualcosa?»
«Ti sei già ambientata
vedo», dice mia sorella sedendosi e rigirandosi fra le mani
un cuscino blu, perplessa. «Lo sai che a volte Michael non si
lava per tre giorni di fila?»
«Ma sta zitta.» Le strappo il
cuscino dalle mani e glielo calo leggero sulla testa. Lei ride e cerca
di scostarsi.
Sentiamo Andrea dalla cucina che ride.
«Sì, lo so.»
«Ma non è vero!»,
dico io.
Andrea torna in salotto e ci porge due tazzine di
caffè. Se ne va per prendere anche la sua e Yasmine mi
guarda sorridendo, un po’ con l’aria di prendermi
in giro. «Oh, che bel lieto fine.»
«Non
c’è un lieto fine», dico io.
Perché non è una fine.
Buonsalve!
Allora, spero che questo capitolo vi sia piaciuto ^^ Avevo una mezza
idea di far sposare Mika e Andrea, ma poi non mi convinceva
così tanto. Era troppo presto per loro, e mi sembrava troppo
"e vissero felici e contenti", quindi alla fine ho deciso di farli
andare a convivere e bona.
Forse il capitolo poteva essere più lungo, e raccontare
meglio di come loro vivono assieme, ma alla fine è uscito
così. Non mi andava di farlo troppo lungo.
Insomma, ci sono dei capitoli in mezzo alla storia che sembrano stare
lì per errore e non raccontano niente, poi alla fine mi
vengono a mancare capitoli! xD Vaaabè...
Preparatevi psicologicamente, perché il prossimo chiude la
fanfiction. Caspita, mi sembra strano persino dirlo. Ho iniziato a
pubblicarla il 6 Maggio, e adesso siamo ad Ottobre. In questi cinque
mesi scarsi per me sono anche cambiate un sacco di cose (magari anche
per voi, che ne so io u.u) e se ripenso a quando ho deciso di postare
la storia mi sembrano passati anni, non mesi! xD
Meglio lasciare le considerazioni sentimentali alla prossima volta, che
è effettivamente la fine, quindi lo sbrodolo puccioso alla
fine del capitolo ci sta. Posterò Domenica (se ne ho le
forze) o Lunedì c: Intanto ecco qui il
link del prossimo capitolo, e passate una buona settimana!
Patrizia
|
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Capitolo 25 *** Relax [take it easy], o Live ***
Capitolo
venticinque
Relax [take it easy],
o Live
Primo di Dicembre. Il
tour prosegue a gonfie vele e non ci fermeremo fino al sedici, quando
faremo l’ultima data a Oslo, Norvegia. Per il momento siamo
ancora a livelli di freddo umanamente sopportabili perché
siamo in Italia. Milano, al Forum di Assago, tutto esaurito.
Sono fomentato. C’è davvero
bisogno di dirlo?
Credo che ci siano persone ai cancelli più o meno
dalle sette di questa mattina. Ho mandato dei ragazzi a chiedere ai fan
da parte mia se avevano bisogno di qualcosa: pensarli lì nel
gelido inverno ad aspettare solo me mi fa commuovere. Sono magnifici!
Alla fine ho chiesto di andare a comprare quante più
focaccine e pizzette possibili nel primo negozio che trovavano aperto,
e ho dato ordine per cui venissero distribuite alla folla. I miei
ordini sono stati eseguiti, e un vago odore di pizza è
aleggiato per qualche tempo nell’aria.
Adesso manca meno di un ora al concerto: i
cancelli sono stati aperti e si sente il brusio della folla al di
là del palco. Tutto è pronto per iniziare. I
costumi sono al loro posto, gli strumenti sono perfetti appoggiati
lì in bella vista, e io inizio ad andare fuori di testa.
Ovviamente è inutile ripetermi che, una volta sul
palco, starò benissimo e mi sentirò calmo e a mio
agio. Tanto quando ancora dobbiamo iniziare sono sempre, e dico sempre,
nervoso.
«Che ore sono?»
«Le otto e quarantadue.»
«Okay.» Faccio due passi nel camerino,
apro la porta e metto la testa fuori. C’è gente
indaffarata che fa il proprio lavoro. Rientro nel camerino, dove mamma
sta sistemando alcuni dettagli sul vestito di Andrea. «Che
ore sono?»
«Le otto e
quarantatré.»
«Okay.» Giro attorno ad Andrea
mentre lei si rimira allo specchio. Guardo il telefono per vedere che
ore sono. Ah già, l’avevo già visto!
Passa qualche secondo. «Posso
chiederti…?»
«Se mi chiedi di nuovo che ore sono ti
ficco un gomito nella pancia.»
«Volevo solo sapere come
stavi», dico io guardando altrove. Che bugiardo che sono!
Volevo chiederle l’ora!
Mamma mi dà un bacio e dice uscendo:
«Vado a controllare gli altri. Tu rilassati»,
mi dice con sguardo eloquente.
«Okay.»
Oh Dio, posso smetterla di dire
“okay” a tutti?!
Mi siedo sul divanetto e guardo Andrea, che passeggia sulle
scarpe nuove che ha fatto Christian apposta per lei, dietro mia
richiesta. «Mi piacciono un sacco le Louboutin, lo
sai?», dice raggiante guardando il riflesso delle scarpe allo
specchio. «Mi sono sempre piaciute. Non ci credo che ne ho un
paio. E hanno sopra il mio nome, cioè sono proprio
mie!» Mi guarda sorridendo, ma vedendomi il sorriso le si
scoglie. «Che cosa c’è?» Si
siede al mio fianco e comincia ad accarezzarmi una coscia.
«Scusa, sono più nervoso del
solito.»
«Come mai? Non è che hai
bevuto un po’ troppo caffè?»
Mi scappa un sorriso. «No, non
è quello. Se devo essere sincero, questo non è
mai un pubblico facile.»
«Non ti piace
l’Italia?»
«No, mi piace. Ma qui sono piuttosto esigenti,
troppo, per i miei gusti. Dev’essere l’effetto che
mi ha lasciato Canepa», mormoro più a me stesso
che a lei.
«Canepa?», domanda Andrea
confusa.
«Sì, devo aver sviluppato una specie di
fobia per gli italiani. E anche da piccolo non mi piacevano,
dev’essere per questo che mi sembrano sempre più
famelici.»
«Michael, stai cominciando a dire cose
senza senso.»
«Anche se devo ammettere che, in
compenso, quando sono entusiasti sono sempre meravigliosi.»
Continuo a parlare senza sentire una parola di quello che dice lei.
«Però oggi mi sembrano più famelici che
altro. E se fosse in atto una specie di virus-zombie e non me ne sono
accorto? Forse è così, forse vogliono solo
uccidermi.»
«Ehi!» Andrea mi toglie le
mani dalla faccia e mi guarda con espressione decisa.
«Piantala di dire cose senza senso, quando cominci diventi
pericoloso. E ti agiti di più.»
Qualcuno bussa e poi vedo Yasmine che ficca la
testa dentro il camerino. «Cinque minuti. Gli altri sono
già là.»
«Okay, andiamo.» Andrea si
alza e si avvia decisa, tenendomi saldamente per una mano e
trascinandomi con sé.
Facciamo tutto il corridoio e poi saliamo le scale,
oltrepassiamo una porta e sbuchiamo appena dietro le quinte. In tutto
questo sono stato letteralmente portato per mano da Andrea, che mi ha
posizionato in una quinta e fa per andarsene.
La tradizione vuole che prima esca la band, che cominci a
suonare la prima canzone (Relax, questa volta, è una specie
di invito alla folla perché si lasci andare per un paio
d’ore) e che poi entri io già pronto per iniziare
la canzone appena in tempo. Questa volta però sono agitato,
ho bisogno di sostegno morale. Lo so che non dovrei modificare le cose
all’ultimo minuto, e di solito sono sempre io quello che
rompe le scatole appena c’è qualcosa che va
storto, ma oggi non riesco a ragionare.
«Aspetta!» Riprendo la mano di
Andrea e la riporto vicino a me, mentre gli altri prendono posizione e
sentiamo la folla che inizia a urlare. Lei mi guarda allarmata e cerca
di liberarsi dalla mia presa.
«Devo andare! Gli altri sono entrati
ora!»
«Entriamo assieme», dico io bloccandola
per la vita e impedendole di andare via. La bracco mentre al di
là delle quinte la folla si calma leggermente, ma solo per
poco.
La bacio senza chiudere gli occhi, sento il suo
profumo e il suo sapore. Le prime note di Relax iniziano e di nuovo il
pubblico comincia a urlare. Andrea mi accarezza una guancia, e il mio
cuore batte più forte. Quando ci separiamo sorride e mi
guarda. «Ormai mi
sa che ci siamo dentro insieme», dice rivolgendo
lo sguardo al palco.
Lancio un’occhiata oltre le quinte e
annuisco, sorridendo, poi entriamo sul palco di corsa tenendoci per
mano.
Fine
Mika non è a
conoscenza di questa fanfiction, che è stata scritta per
puro divertimento e non a scopo di lucro. Qualunque somiglianza con
fatti realmente accaduti è puramente casuale. Persone e
luoghi reali sono stati citati per dare verosimiglianza alla storia.
c:
Ragazzi, non so che dire.
Cerco di farvi capire il mio punto di vista anche se sono un po'
triste, un po' contenta e un po', appunto, senza parole: ho iniziato a
scrivere questa fanfiction in Gennaio, ho iniziato a postarla a Maggio
e adesso la sto finendo che siamo a Ottobre.
Ho iniziato ad ascoltare Mika per puro caso, sempre a Gennaio di
quest'anno, veleggiando su you tube. Ho trovato il video di Big Girl... A
questo punto una come me (ossia una pazza che ha sempre avuto complessi
con la sua pancia panciosa) come poteva non innamorarsene? :3 Scoprendo
pian piano le altre canzoni di Mika ho realizzato che è un
artista di grande talento, e che oggi è raro trovarne uno
così, soprattutto nel panorama della musica pop, dove i
cantanti vanno e vengono con la velocità di una folata di
vento.
Credo che nessuna delle sue canzoni sia scritta senza una motivazione.
Tutte fanno riferimento ad una storia personale, ad una persona che ha
conosciuto, ad un ragionamento che ha fatto, e questa fanfiction voleva
solo riunirle tutte quante con un unico filo conduttore. Spero di
essere riuscita a farlo, ma soprattutto spero che chi ha letto la
storia abbia semplicemente staccato la spina per un po' da
tutto ciò che lo preoccupava. Volevo che la mia fanfiction
facesse un po' l'effetto delle canzoni di Mika che, come spiegato nel
capitolo 23, anche se hanno un lato un po' oscuro, sono sempre allegre.
Credo che si tratti semplicemente di un modo di prendere la vita;
è ovvio che ci saranno momenti difficili, ma dobbiamo andare
avanti pensando che le cose si aggiusteranno, tenendoci strette le
persone che amiamo e continuando a sorridere per i piccoli piaceri di
tutti i giorni. Nulla dura in eterno, men che meno i momenti difficili!
Penso che la musica di Mika abbia più o meno questa
filosofia.
Mi sono persa di nuovo nel filosofeggiare, spero che mi perdonerete!
Ultimo, ma non meno importante, voglio ringraziare moltissimo le
persone che mi hanno recensito, soprattutto MileyVero
(allapulla
per sempre!), ItsJulyPenniman
e Life
In Cartoon Motion, che hanno recensito costantemente,
sfidando i loro impegni quotidiani e pc che non volevano collaborare!
Grazie mille anche a chi ha solo letto, e a chi ha messo la storia fra
le seguite/preferite/ricordate, sappiate che mi ha fatto molto piacere
vedere il numero di adepti che ogni tanto aumentava!
Bene, dopo avervi tediati con questa pappardella finale vi lascio
andare, ma ricordate che we
are golden!
Patrizia
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