Ultimo rintocco di mezzanotte.

di ericapenelope
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Tempesta d'autunno ***
Capitolo 2: *** Appartenenze ***
Capitolo 3: *** Coalizione ***
Capitolo 4: *** Fantasmi ***
Capitolo 5: *** Lotta contro il tempo ***
Capitolo 6: *** Destini Incrociati ***
Capitolo 7: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** I - Tempesta d'autunno ***


I

Tempesta d'autunno

 

 

La pioggia cade sulla pelle di Lilian Sole. Non c'è maledizione che tenga all'interno dell'Arena. Il sussurro della pioggia espande il rumore come piccole note di canzoni stonate. Sta andando tutto storto, Lilian lo sa bene. I settantaduesimi Hunger Games si stanno svolgendo e concludendo, arrivati praticamente agli sgoccioli. Gocce di sangue. 

“Lilian Sole, pensi ancora di essere migliore di me?” la voce di Axel Von Frish interrompe la musica dissonante. 

Lilian si volta, freddandolo con lo sguardo glaciale. Le ciocche ramate le si appiccicano sulla fronte e sul collo, prima di poter rispondere.

“Sono migliore di te senza doverlo pensare, Axel”. La freddezza di Lilian Sole è devastante, ma il ragazzo non si demoralizza. Conoscono entrambi la ragione di tutto quel distacco, da alleati a nemici, da nemici ad amici, da amici ad avversari. 

Lilian alza la testa verso l'alto, incontrando fronde di alberi gocciolanti di torbida e fredda acqua. La pioggia sembra schiacciare la sua magrezza, sembra persino colpirla e schiaffeggiarla. La tortura procede per secondi, minuti, forse ore. La interrompe solo Axel, una volta che si è alzato faticosamente in piedi e l'ha raggiunta, distendendosi nuovamente davanti a lei.

“Perché mi fai questo, Lilian Sole?” dice lui, mentre protende la mano destra verso la guancia della ragazza, non sfiorandola per poco. Lilian scosta la nuca in direzione del nulla, prima di allontanarsi quanto basta per avere la protezione che le serve. Axel la guarda, nuovamente sconfitto, accasciando la schiena sul tronco dell'albero dietro di sé. Sospira, mentre una smorfia di dolore gli compare sul volto. La ferita al fianco sinistro continua a pulsargli in modo compulsivo da quando un ibrido li ha attaccati, due notti fa.

Lilian non demorde. Non lo impietosisce, non la convincerà. Lei dovrà ucciderlo. E' per questo che non vuole nessun coinvolgimento emotivo. Non può assolutamente averlo. Axel deve stare al suo posto, come lei sta al suo. Lei è sempre stata al suo.

“E' per il mocciosetto vero?” enfatizza Axel, prima che Lilian si alzi e se ne vada da un'altra parte. Lei si blocca, fermandolo con lo sguardo contro il tronco.

“Non osare nemmeno nominarlo. Non ne hai il diritto”.

“E me lo dai tu, il diritto, Lilian Sole?” silenzio. La pioggia si ripresenta come protagonista tra i due. La musica disarmonica subentra tra i loro sguardi come ostacolo indissolubile. Lilian decide di avanzare, lentamente, prima di inginocchiarsi davanti a lui e avvicinare i suoi occhi a quelli di Axel. Non lo sfiora con un dito, ma respira in modo pesante. Axel comprende che Lilian ce la sta mettendo tutta pur di non ammazzarlo in questo preciso momento.

“Sei sempre stato arrogante. Mi volevi ammazzare. Hai fatto di tutto per restare in vita e salvarmi da qualsiasi pericolo che abbiamo incontrato fino ad adesso. Vuoi uccidermi con le tue mani, ma prima vuoi farmi innamorare di te, non è vero?” Lilian gli soffia addosso le sue supposizioni, continuando a restare in ginocchio davanti a lui. “Sei furbo, Axel. Ma io me ne lavo le mani. Da oggi in poi, veditela da solo”. Lilian Sole St. James si alza, lasciando che il fango sgoccioli dalle sue ginocchia. Resta in piedi davanti a lui per una manciata di secondi, prima di fare dietro front e andarsene. Un passo. Due passi. Tre passi. Ogni movimento sembra pesante, un macigno di pietra. Axel non pronuncia nulla, non la richiama a sé. La guarda allontanarsi, mesto, prima di socchiudere le palpebre e comprendere definitivamente la propria fine. Morirà. E' così che deve andare. Fin dall'inizio. Non era lui destinato a vincere. Axel avrebbe dovuto sbarazzarsi di lei il prima possibile, evitandole la sofferenza. Ma quella ragazzina gli si è ficcata fin sotto la pelle. Il pensiero degli occhi vitrei di Lilian Sole fa prudere i pugni ad Axel in modo minaccioso. 

“Lilian!” la sua voce è un urlo ghiacciato, roco. 

La ragazza si ferma di colpo, voltandosi nuovamente verso Axel con sguardo indifferente. Non pronuncia nulla. Gli occhi celesti parlano per lei.

“Lilian” il sussurro di Axel anticipa il suo ghigno. Un ghigno consapevole. Lilian non si sofferma un minuto di più; l'ultima immagine che nota di Axel Von Frish è quella di un ragazzo ferito, a stento in piedi che lascia quel nome protagonista del vento. Poi si volta e se ne va.

 

***

 

“Sei solo un idiota, Watson”. Ambrosia Julia Adams sta canzonando il ragazzo poco più piccolo che ha davanti a sé. Adams è una ragazza disturbata, soffre di una patologia che prende il nome di “disturbo narcisistico di personalità”, diagnosticata all'età di undici anni. L'età perfetta per lasciarla attuare nella propria testa. La sua storia è complicata: da una madre e uno zio favorito che le hanno insegnato qualsiasi segreto delle armi, ad un padre che la rinnega dalla nascita. Lei è una vittima del sistema dittatore di Capitol City, ma ancora non lo sa. 

Ambrosia affonda la spada in direzione di Thomas Watson, un prossimo Favorito scelto. La bellezza del ragazzo è indiscutibile, quanto lo è la sua bravura con le spade. Lei l'ha sfidato a duello, considerandosi migliore in qualsiasi cosa. E' la più bella. E' la più brava. E' la più intelligente. E' anche la più telecomandata di tutta Capitol City, ma questo non trova spazio nella sua consapevolezza. E' patologicamente malata e il suo disturbo viene sfruttato da sempre. 

Questa mattina, invece di guardare gli Hunger Games dalla sua abitazione austera, ha preferito passare il suo tempo in palestra, allenandosi per i prossimi Giochi. Per la strada è inciampata su Watson. Inciampa su Watson da diverse settimane, ormai. Ad Ambrosia non piace parlare molto, soprattutto con persone inutili, ma lei odia il ragazzo. Thomas Watson riesce a farle saltare i nervi con una sola parola. Odia il fatto che è nipote di uno dei più celebri vincitori e spadaccini di tutto il Distretto 2. Bartholomeus. Watson ha il fondoschiena parato. E non può, Ambrosia Adams, tacere. Lei lo fa per un solo motivo: la lontana possibilità di allenarsi con Barth. Questo per Ambrosia significherebbe assaporare la vittoria con la propria bocca. 

Il lunedì mattina sembra ormai un appuntamento prefissato. S'incontrano, si sfidano e rimandano la rivincita ad una volta successiva. Accade tutto nel giro di poche ore, quasi sempre combattendo; nient'altro. 

Adams è suscettibile quando Watson la insulta, la deride o la infastidisce con commenti sul suo aspetto; mentre Thomas s'innervosisce quando Ambrosia nomina la sua amata nell'Arena. Pronta a morire. Come oggi.

“Non sei geloso, Watson? La tua bambolina ha trovato il fidanzato”.

Watson reagisce d'istinto. Evita un affondo e inchioda la figura della Adams al muro. E' alle strette.

“Sei alquanto infelice”. L'unico commento del ragazzo, prima di lasciare andare Ambrosia e allontanarsi da lei. 

C'è odore di carne sudata e sangue. Quando combattono non scherzano. Devono allenarsi a resistere a ben altro che a qualche graffio da spade affilate. Il labbro di Ambrosia è gonfio, mentre Thomas presenta varie lesioni sulla parte destra del corpo. Ambrosia è mancina ed è solita attaccare diagonalmente. Le piace infastidire Thomas. Non per gelosia, per invidia o per vendetta. Le piace infastidirlo per il semplice gusto di farlo. Per il semplice gusto di guardarlo sofferente, pensieroso, debole. Sa perfettamente che potrebbe essere un punto a suo favore, se un domani dovessero scontrarsi. E sa anche che ciò sarà molto probabile. Thomas non viene in palestra tutti i giorni solo per hobby. Il suo fine è ben altro. Lui è un Favorito, proprio come lei.

A Thomas, comunque, Ambrosia non piace. Non gli è mai piaciuta. Non potrà mai piacerle. Non è questione di bellezza esteriore. Ma è una donna viscida. E' una donna senza cuore. Preferirebbe essere accarezzato dalla morte, probabilmente sarebbe meno atroce. Tutti conoscono la storia della “ragazza disturbata”, ma nessuno ne fa mai cenno. La cattiva sorte è capitata alla Adams, ma probabilmente lei non la considera tale. Malata o no, a Thomas non andrà mai a genio. I suoi commenti li trova inutili, tristi, alquanto privi di umanità. Non che lui sia particolarmente buono, ma sa riconoscere la cattiveria dalla semplice paura di fallire. Lui è vittima di quest'ultima. Sa bene cosa Ambrosia prova nei suoi riguardi, sa perfettamente dove vuole arrivare. Ma non se la sente di rinunciare a quelle poche ore di combattimento solo perché sa bene che potrebbe batterlo o addirittura usarlo. Malata, perfida o viscida, deve ammettere che è sensazionale con le armi. E la cosa buffa è vederla eccezionale al culmine del suo disturbo, quando questo s'impossessa di lei in maniera tale da farle scomparire la poca traccia di anima che si nota nelle pupille scure. 

Thomas si volta verso Ambrosia fissando attentamente gli abiti sudici con indifferenza: “Me ne vado”.

Si stupisce delle sue parole, perché è la prima volta che annuncia di aver concluso l'allenamento. Le altre volte non si mai curato di avvisarla: posa l'arma e indirizza il suo passo verso i bagni maschili. Spetta sempre ad Ambrosia capire quando il gioco è finito. Ma oggi Thomas esce di scena sorridendo, nostalgico al pensiero di Lilian Sole St. James alle prese con la morte.

 

 

“Watson, lo sai che sei irritante? Dovresti smetterla di ridere in quel modo” Lilian mi sta fissando in maniera così innaturale. I suoi occhi sono due pietre focaie, anche se hanno piccole sfumature di azzurro cielo disperse nell'oceano blu. Ma ardono. Come tutto in lei. Questa ragazzina che mi sta fissando con fronte aggrottata e labbra schiuse è piombata così inaspettatamente nella mia vita. E' quasi strano pensare che tra poche ore ci sarà la Mietitura e lei potrebbe essere scelta. Sento quasi un rimorso. Forse il rimorso di non essere nato femmina e potermi offrire al suo posto, se venisse pescata. Vorrei dirle tante cose, ma non credo di essere in grado di sopportarne le conseguenze. I miei sentimenti non devono interferire in questa via. Siamo solo amici per un breve tempo, ma tutti prima o poi sono destinati a scontrarsi. Ho accettato la mia natura da Favorito ai tempi della pubertà. Ormai sono considerato un uomo. Un uomo pronto al macello. 

“St. James, dovresti sapere che la natura della mia irritazione nasce proprio da te. Non è cosa nuova”. Sogghigno, intravedendo il suo solito sopracciglio destro inarcarsi, dimostrandosi scettica. La mia mano sfiora il suo avambraccio, prima di protendersi verso la spalla. Gliela stringo, continuando a guardarla negli occhi. Non voglio farle nulla, ho solo bisogno di toccarla, di sfiorarla con le mie dita. E di assaporare il momento del silenzio, prima di separarci nelle nostre abitazioni. Ogni volta è la stessa storia. Ci prendiamo in giro, ci avviciniamo e poi ci allontaniamo per giorni senza parlarci. Credo che entrambi vogliamo qualcosa di più da tutto questo. Credo che entrambi sappiamo anche che non sarà mai possibile. Ed è per questo che ci arrendiamo ogni volta che ci avviciniamo. Non possiamo. Farlo, sarebbe un atroce errore. Il sentimento è debolezza. Non possiamo permetterci di seguire l'istinto. Nessuno di noi due lo perdonerebbe all'altro. 

La lascio andare lentamente mentre le sorrido. Mi piace quando la colgo di sorpresa e lei mi fissa, come al solito, con quell'aria persa. Non sa mai come comportarsi e si irrita per questo. Mi piace quando Lilian Sole si irrita. Mi fa sentire a casa. Mi fa sentire umano. Mi fa sentire bene. E' uno dei tanti motivi del perché non voglio che le succeda nulla di male. Non succederà. Lo sento. Il suo nome non uscirà dalla boccia di cristallo. Il suo nome rimarrà perso tra le mille tessere all'interno, al sicuro, ancora per un'edizione. Dovrà andare così. Sarà così.

 

 

***

 

Lilian passeggia tra i cespugli, cercando di captare qualcosa. La pioggia ha smesso di cadere da un pezzo, poco dopo che ha lasciato Axel al suo destino. Le ha stancato. Pensava che con lui tutto sarebbe stato più semplice, ma non è andata così. Con lui, si è concluso tutto in modo inaspettato. Non avrebbe pensato che sarebbe stato così falso fino all'ultimo momento. Sapevano entrambi che sarebbero morti, l'uno o l'altra, ma sperava che non sarebbe stato per mano sua. Lilian non può ucciderlo. Vorrebbe, ma non ci riesce. La sua natura non è questa. Non è un'assassina, o perlomeno, non lo era. Dovrebbe essere più forte e stare al gioco di Capitol City. Vorrebbe essere tante cose, ma quello che riesce a fare è scappare. Sempre.

Le foglie che scricchiolano sotto i piedi le fanno intuire che qualcosa non va. Com'è possibile che siano secche, quando ha piovuto per giorni? Dovrebbero essere mollicce e zuppe. Si piega a raccoglierne una manciata, confermando i suoi dubbi. Con le dite accarezza le nervature di ogni foglia, cercando in qualche modo di capire. Ad un certo punto le viene naturale: alza la testa e li vede. Dozzine di volatili che la fissano con occhi gialli. Orribili occhi gialli. Lilian Sole s'immobilizza. Lilian Sole lascia cadere le foglie sul terriccio morbido, prima di sgranare gli occhi e venire attaccata da quel branco di uccelli assassini.

Il suo grido disperato rimbomba nella boscaglia, iniziando un nuovo motivo dissonante.

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Capitolo 2
*** Appartenenze ***


2.

Appartenenze


Sto guardando il cadere delle foglie. E' così rincuorante sapere che c'è qualcosa che scivola via con la semplice forza del vento. Scivola via come me quando ascolto Thomas e mi perdo nelle sue parole. Ne pronuncia così poche, a volte. Ne pronuncia di così belle, a volte. Ci sono pomeriggi come questo, in pieno autunno, dove mi siedo contro il tronco di un albero e mi metto ad odorare il profumo delle foglie. Il vento fresco mi attanaglia le membra e il sapore di miele mi suscita un desiderio irrealizzabile. Thomas mi ha dato, forse regalato, non ho ben colto l'allusione, un libro. Parla di un razzo, di un amico devoto, di un usignolo e una rosa, parla di un gigante egoista. Ma la storia che più mi affascina s'intitola Il principe felice. Sono tratti dalla raccolta di storie più celebre di Oscar Wilde, scrittore e poeta inglese. Continuo a sfogliare le pagine, percependo i fogli ruvidi e vissuti del libro. L'ho già letto tutto più volte, ma rimugino spesso su alcune frasi, come: "Quando ero vivo e avevo un cuore umano, non sapevo che cosa fossero le lagrime”. Parla la statua del Principe Felice, perché si sa, una volta era davvero un principe, ma non felice. La cosa interessante è che ha dovuto diventare una statua in pietra e sassi, per scoprire come piangere. E poi piangere, piangere davvero. Mi piace, ma in realtà non so perché Thomas me l'abbia regalato. Mi piace, ma non so perché quando lo leggo mi viene una tristezza infinita al livello del cuore.

«Watson... »
«Sì, St. James?» Alle volte spunta fuori come un coniglio. Me lo ritrovo davanti che mi fissa, con quello sguardo caldo ma chiaro, e la solita mano all'interno della tasca dei pantaloni. Alzo lo sguardo verso l'alto, cercando di resistere alla tentazione di scrutarlo nei minimi particolari. Sbatto le ciglia e mi limito ad alzare le spalle, concentrando la mia attenzione di nuovo sulle pagine del libro.
«Ti stavo salutando» rispondo, con nonchalance.
«A me sembrava più un disperato richiamo malinconico», risponde di rimando lui. E senza chiedere il permesso o semplicemente dire qualcos'altro, si sistema di fianco a me, contro il tronco dell'albero a gambe distese.
Le mie, di gambe, rimangono incrociate. Gli stivaletti sfiorano i polpacci nudi e i pantaloncini corti riescono a fasciarmi le gambe in modo morbido, accarezzandomi i fianchi senza stringerli. Odio gli indumenti troppo aderenti.
«Come vuoi tu, Watson».
In effetti la mia voce è piuttosto nostalgica, ma cerco di non dargli troppo peso. Piuttosto, continuo a sfogliare le pagine del libro, con la differenza che se prima le stavo leggiucchiando, ora il mio interesse è completamente svanito. Non riesco a trattenere lo sguardo su una frase completa e a ricordarmela quando passo ad un'altra. E' Thomas che mi fa questo effetto, dannazione?
Rimaniamo in silenzio senza interromperci. Preferiamo così. Probabilmente nessuno dei due è intenzionato o si sente in obbligo a dire qualcosa. Basta solo il suo respiro per me e il mio respiro per lui, per rendere il pomeriggio diverso. Più umano. Anche se non lo stiamo dimostrando affatto. Non lo dimostriamo mai.
«St. James, ti devo dire una cosa».
Ad un tratto il tono di Thomas cambia, si fa serio. Scosto le iridi chiare dal libro, per posarle sul viso contratto di lui. Lo guardo, in attesa, ma lui fissa il vuoto senza dare segno di vita. Ha la fronte aggrottata, quasi preoccupata, quasi dispiaciuta.
E prima che io possa dire qualsiasi cosa, lui scaglia la prima pietra: «Ho baciato Victoria».
Il mio cuore esplode totalmente. Il mio stomaco subisce una rimozione parziale e il mio respiro si spezza. Tutto questo accade in mezzo secondo, il tempo che gli è bastato per sussurrare quelle tre parole. Il tempo che gli è bastato per sussurrare quelle tre parole e ammutolirmi del tutto. Il tempo che gli è bastato per trafiggermi fino al fondo del mio spirito.

 

 

****


Lilian Sole apre gli occhi quando il sole è già calato da un pezzo. Non sa dire se sia notte fonda o le tenebre più scure prima dell'alba. Non sa nemmeno se abbia dormito ore o giorni. L'unica cosa di cui è certa è che non è morta; ma viva e vegeta. Rimane distesa lungo la schiena, cercando di captare qualche segno che le faccia fare mente locale. Ricorda quegli orribili occhi gialli e poi nient'altro. Non ricorda di essere svenuta. Non ricorda di avere camminato o essersi distesa. L'unica cosa che ricorda sono quegli orribili occhi gialli. Orribili occhi gialli che non scorderà più.
«Chi non muore si rivede», la voce di Axel le risuona nelle orecchie come la più assurda e la più sconosciuta che abbia mai sentito. Questo le rammenta di non essersi nemmeno accorta della sua presenza. In realtà, non crede di averlo nemmeno più pensato da quando l'ha lasciato in balìa del suo destino. Tutto quello che ricorda sono, appunto, gli orribili occhi gialli.
Fa per mettersi seduta, ma un dolore lancinante al basso ventre la destabilizza e le fa girare la testa. Vede miliardi di puntini bianchi, prima di rendersi conto di essere fasciata dall'altezza dello stomaco in giù, fino alla vita. Si accorge anche di non indossare i pantaloni, ma una mastodontica foglia rinfrescante che sembra farle da fascia. Il suo sguardo, confuso, cerca quello di Axel. Il ragazzo comprende subito, prima di sederle accanto e spiegarle cos'è successo nelle ultime ventiquattr'ore.
Lilian Sole è stata attaccata da quelle che chiamano Meduse Incallite Volanti. Una specialità di Capitol City. Hanno becchi appuntiti e denti aguzzi come quelli di un felino. Sono ibridi che non si facevano vedere da una decina di edizioni. Axel li ha riconosciuti subito ed è riuscito a trarla in salvo dando loro fuoco. E' stato un rischio, perché se il fumo fosse stato tanto visibile, avrebbe potuto segnalare con facilità la loro posizione. Ma il rimbombo degli urli di Lilian è stato tanto forte da far credere agli altri Tributi, pensa Axel, di essere ormai spacciata. Così facendo il ragazzo è riuscito a portarla lontano dallo stormo impazzito e a spegnere il fuoco, prima che gli altri Tributi capissero che non ci sarebbe stato nessun sparo di cannone a segnalare la morte di Lilian Sole St. James. Con enorme fatica ha trovato una grotta e per un giorno e mezzo sono rimasti nascosti lì dentro. Il Mentore di Lilian è riuscito a mandarle un brodo caldo, alcune leccornie e un antidolorifico. Niente intrugli per guarire lo squarcio che ha subìto nel basso ventre. Il dolore, comunque, le sta ritornando.
«Dammi quella cosa», sussurra Lilian a denti stretti. Axel la guarda, poi nota l'indice allungato verso la poltiglia che puzza di marcio. «Per favore, Axel. Fa male».
Per il Tributo questa è una novità. Lilian Sole St. James che chiede per favore. Allunga entrambe le braccia verso la noce di qualche frutto esotico che fa da scodella. Al suo interno vi è la puzzolente poltiglia color rame. Sembra davvero disgustosa, ma per fortuna non si deve ingerire. La schiena dolorante di Axel fa ancora capricci, ma prima di fare qualsiasi altra cosa, si sistema meglio per non creare fastidio a Lilian.
«E' un antidolorifico, quindi ci metterà un po' per assorbirsi», le spiega in modo paziente. Lilian fissa gli occhi scuri di lui, evidenziando non poco stupore in quello chiaro di lei. Forse il dolore le sta facendo venire le allucinazioni. Forse il dolore le sta facendo venire le allucinazioni tanto da farle percepire un Axel premuroso e... gentile.
I suoi occhi celesti si socchiudono all'istante, quando il ragazzo bagna la ferita profonda e cucita in malo modo sulla pancia, provando dapprima una sorta di fastidio e pizzico e, successivamente, una totale beatitudine. Il sollievo la riscalda completamente, sbloccandola da quella sensazione di tensione e riuscendo finalmente a respirare. Ha le labbra secche, la bocca impastata e la gola arida. Ha sete. Terribilmente sete.
«Acqua», sussurra di nuovo, in direzione di Axel. Non le interessa più mostrarsi forte. Non le interessa più dimostrargli che lui è solo un ragazzino viziato, anche se di viziato ha ben poco. Non le interessa più cercare di avere ragione su quell'antipatico e sbruffone ragazzo. Non le interessa più. Vuole solo acqua e la chiede con tanto desiderio da alzare persino l'intero braccio destro, ignorando il muscolo indolenzito. Axel continua a risponderle in modo meccanico, dimostrandosi in un certo senso preoccupato, ma vigile. La sta accudendo in maniera impeccabile, senza scandire una parola. Le piace questo attacco-distacco. Non le chiede niente, ma fa solo ciò che ritiene giusto per Lilian. Le piace questo comportamento. Perché non può essere sempre così?
«Sai, Lilian Sole, non ci dovremmo abituare a questo», interviene lui, distogliendo Lilian da pensieri vari. Lei non apre bocca, se non per bere. «Dico sul serio». Questa volta Axel interrompe quello che sta facendo per guardarla in fondo all'anima. Lilian si sente stordita. Non sa se è l'effetto dell'antidolorifico che l'ha drogata o è Thomas che la sta guardando da casa o è proprio Axel a renderla così. Eppure non avrebbe pensato di rivederlo più. Aveva ribadito a se stessa che non avrebbe potuto ucciderlo; non avrebbe potuto sfiorarlo con un dito se non alla fine della fine. E neanche in quel caso sarebbe stata certa di riuscire a fare quel passo. Uccidere Axel Von Frish significava uccidere una parte di sé. Uccidere Axel Von Frish significava uccidere una parte di sé e trasformarsi totalmente in quel orribile mostro che si era ripetuta di non diventare. Uccidere Axel Von Frish significava condannarsi a vita nell'oscurità più temuta e profonda, senza insidie o tormenti. Solo buio. Ed era la strada peggiore che un essere umano potesse imboccare.
Lilian continua con il suo silenzio. Lilian continua con il suo sguardo. Lilian continua a non capire.
«Spiegati», dice lei. Trova la forza per formulare un semplice verbo. Spiegati, dice. Il buio della notte sembra farsi più mite e più grigio. Il livello di ossigeno comincia a salire e gli alberi si fanno accoglienti e quasi pacifici. Sta forse morendo? Non riesce nemmeno a provare terrore, paura o sollievo. E' attaccata ad un filo che percorre con sensazioni contrapposte e confuse, fino a quando non si ritrova il volto di Axel ad un centimetro dal naso. Aggrotta a mala pena un sopracciglio, prima di capire. Lilian continua con il suo silenzio. Lilian continua con il suo sguardo. Lilian finalmente riesce a capire. Le sue pupille mandano segnali d'allerta e Axel perfino al buio coglie il suo terrore. O perlomeno, quello, si può definire terrore? Axel è così vicino che Lilian sente il suo respiro. Sente il suo odore. Sente i battiti del suo cuore. Al buio, Lilian incontra le iridi scure, profonde, dolci, familiari. Incontra il suo ultimo desiderio. Incontra la sua confusione. Incontra la sua volontà. Incontra se stessa, nello sguardo scuro di lui. E si stupisce di notare una Lilian quasi calma e pacata. Una Lilian ferma e zitta. Una Lilian rilassata e quasi in pace con se stessa. Forse è l'ultimo desiderio anche per lei, quello di ricevere una dimostrazione d'affetto. Forse è l'ultimo desiderio anche per lei, quello di aggrapparsi a qualcuno, di morire con qualcuno, di vivere con qualcuno. O perlomeno sognare di vivere con qualcuno. Ed è anche il suo stesso desiderio quello di avvicinare le labbra secche a quelle più morbide e idratate del compagno. E' anche il suo stesso desiderio pieno di disperazione, quello di assaggiare il sapore di un bacio rubato. E' anche il suo stesso desiderio quello di provare un'ultima, imparagonabile, emozione d'addio. E le labbra s'incontrano. Le labbra di Axel si posano lievi su quelle di Lilian, in modo leggero, in modo casto, in modo che tutto il resto torna ad essere confuso. Lilian risponde a quel bacio casto. Lilian non rimane impassibile. Lilian si scopre desiderosa di quelle labbra.
Non c'è lingua. Non c'è saliva. Non c'è niente di passionale. Sono solo labbra. Sono solo rispetto, gentilezza e disperazione. Sono solo calma, appetito ed emozione. Non vi è la voglia di avere fretta. Non c'è la paura di essere spiati. Entrambi dimenticano di essere ripresi, probabilmente di essere anche l'attrazione più seguita del momento.
Lilian non ha mai chiuso le palpebre. Ha continuato a guardare Axel che la baciava in modo consapevole.
Lilian ha capito di avere fatto la cosa giusta, una cosa che voleva. Ha capito di avere fatto la cosa giusta, una cosa che voleva, con una persona sbagliata.
Per questo Axel si stacca da lei, sorridendo di traverso, forse deluso?
«Lilian Sole, forse ho rubato qualcosa che apparteneva a qualcun altro», espone lui.
Lilian comprende benissimo, ma rimane impassibile. Sbatte le palpebre.
«Sì, apparteneva a qualcun altro che non avrei più rivisto», risponde lei di rimando. Sono tranquilli. In apparenza, sono tranquilli e pacati.
«Apparteneva a Watson». Non è una domanda.
«Apparteneva a Watson». Non è una risposta.
 

 

 

 

 


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Capitolo 3
*** Coalizione ***


3
Coalizione

 

Quando Thomas Watson si sveglia, si accorge di essere ancora illuminato dall'abat-jour posta sul comodino. Non è mattina. E' ancora notte. Probabilmente notte fonda, a giudicare dal buio che viene riflesso solo da stelle e da quella grande palla che è la luna. Ha la fronte imperlata di sudore, la maglietta completamente bagnata e i capelli disposti in modo disordinati. Fa per alzarsi dal letto, lasciando cadere le gambe sul parquet. Thomas Watson ha appena fatto un incubo, ma non si ricorda assolutamente su cosa era incentrato. Si dev'essere addormentato all'improvviso, perché non ricorda nemmeno il suo ultimo pensiero. Logico, forse. Si passa una mano sul viso, asciugandosi con il palmo quel poco che basta per ricominciare a respirare. Si morde un labbro coi denti, accorgendosi solo ora di avere una sete pazzesca. Porta il suo corpo semi nudo al bagno, sciacquandosi la faccia e guardandosi allo specchio. Quando incontra la sua immagine, cerca di studiare ogni suo piccolo difetto. Studia la curvatura delle labbra, le occhiaie sotto occhi azzurri e stanchi, la fronte aggrottata, gli zigomi alti e le guance più scavate del solito. Thomas è stanco, se ne accorge solo adesso, guardandosi allo specchio. Thomas è stanco, se ne accorge solo ora, con lo sguardo piantato su quell'immagine che riconosce a stento. Caccia via l'evidenza levandosi la t-shirt, buttandola per terra e tornando in camera da letto. La finestra è ancora aperta; avverte un vento fresco che lo attanaglia al petto. Decide di infischiarsene, lasciando spuntare la testa al di fuori. Il cielo è tanto sereno quanto lui è sudato. Molto.
Quando guarda le stelle si ricorda una frase, citata da Oscar Wilde: La maggior parte di noi vive sguazzando nelle fogne, solo che alcuni lo fanno guardando le stelle. E quando si ricorda questa frase, si ricorda l'unica persona con cui ha condiviso davvero qualcosa di personale. Lilian Sole St. James è perennemente presente nella sua mente; la vede ogni istante che passa da solo. La vede ridere. La vede imbestialirsi con quel suo faccino arrogante per qualsiasi cosa. La vede puntargli gli occhi addosso. La vede. Vede solo lei.
Il pensiero lo fa distogliere dalla visione di miliardi di stelle. Costellazioni del Cigno, Leone, Lira, Aquila... niente lo riporta ad una lezione di astronomia. Tutto riporta a lei.
Decide di scendere al piano di sotto, perché tanto non riesce a riprendere sonno e ha troppi pensieri per la testa. Raggiunge la cucina a piedi nudi, punzecchiato dalle piastrelle fredde e dalla debole luce di una lampada. Afferra un bicchiere e lo riempie con acqua di rubinetto. Nel mentre, accende la TV. Quella TV che Capitol City ha disposto per ogni famiglia. Quella TV che gli ha fatto seguire la sua Lilian in queste settimane. Un Grande Fratello di Panem.
Beve a lunghe sorsate, riempiendosi il bicchiere più volte di acqua di rubinetto. Al terzo bicchiere, però, la gola sembra volerlo strozzare. I muscoli, l'esofago, lo stomaco sembrano accartocciarsi su se stessi, diventando una pallottola di cemento, pesante e massiccia conficcata all'altezza del petto. La maggior parte di noi vive sguazzando nelle fogne, solo che alcuni lo fanno guardando le stelle. Gli occhi si sbarrano, vitrei. Gli occhi si sbarrano, vitrei e ghiacciati. Gli occhi si sbarrano, vitrei, ghiacciati e accecati. Vede solo lei. Vede Lilian. Vede Axel. Vede entrambi vicini, troppo vicini. Vede Lilian. Vede Axel. Non vede più solo lei. Vede le sue labbra che si avvicinano a quelle del compagno. Vede lo sfiorarsi con fare innocente. Vede quel contatto che pensava suo. Aveva sempre pensato come suo. Suo, suo, suo. Ed ora lo vede appartenente ad un altro uomo. Ora lo vede non più suo. Ora lo vede distante. Troppo distante per essere recuperato.
«Lilian Sole, forse ho rubato qualcosa che apparteneva a qualcun altro» Vede lei che lo fissa. Vede lui che sorride. Li vede entrambi, tranquilli e pacati, prima di spegnere la televisione e rimanere di nuovo con la bocca secca.
Watson, lo sai che sei irritante? Dovresti smetterla di ridere in quel modo.
Lui vorrebbe davvero ridere, adesso. Posa in silenzio il bicchiere sul bancone di marmo che ha davanti. Posa entrambe le mani, sorreggendo il peso asciutto ma troppo massiccio per quel greve pugno di cemento che sente ancora parte di sé, dentro di sé. Gli si conficca nel petto in modo più violento, mano a mano che rivede l'immagine nella sua testa. Lei con lui. Lei per lui. Lei e lui. Loro. Non vuole nemmeno crederci. Forse è solo una messa in scena per farsi amare dal pubblico. Lui li conosce bene i trucchetti che Capitol City sfrutta. E conosce bene soprattutto quelli architettati da vari Tributi. Ma forse non conosce bene Lilian Sole. D'altronde, il loro rapporto è sempre stato di poche parole e molti silenzi. Pochi fatti e molti sguardi. Pochi tocchi e molti riguardi. Forse non ha mai capito davvero un bel niente di quello che si era illuso di poter avere. E' tutto una questione di forse, se, ma, però, perciò, chissà. Non c'è mai stato niente di concreto. Non c'è mai stato niente che avesse potuto renderla effettivamente sua, nemmeno quando Allison Martins lo aveva minacciato di stare bene attento a ciò che le sue mani avrebbero toccato, e in cuor suo sapeva benissimo che non bisognava contraddire la Martins, soprattutto quando l'argomento era la sua migliore amica. Così ora si ritrovava stupito, confuso, adirato, negando perfino di percepire il leggero, anzi no, terribile e profondo, fastidio che aveva sentito all'altezza della bocca dello stomaco verso quel bacio casto, che avrebbe voluto dare lui. Verso quel bacio casto, che sarebbe dovuto appartenere a lui. Quel bacio casto, che non avrebbe più potuto dare a lei, come dimostrazione dell'affetto che provava, sentiva e avrebbe sentito sempre.
Lo sapeva che sarebbe stato così, ma non aveva mai fatto nulla per ottenere il suo consenso. Non aveva mai osato sfiorarla nemmeno con un dito, sebbene lo desiderasse più di qualsiasi altra cosa.
Siamo solo amici per un breve tempo, ma tutti prima o poi sono destinati a scontrarsi.
Ma non c'era niente di così falso, a risentire la voce dei suoi pensieri. Lo avevano dimostrato Axel e Lilian, baciandosi davanti l'intera Panem. Qualcos'altro, oltre lo scontro, c'era stato. E lui, come gli altri cittadini, era stato solo un inerte spettatore a guardarsi la scena. Lo spettatore che aveva scelto lui stesso di diventare.
Vorrei dirle tante cose, ma non credo di essere in grado di sopportarne le conseguenze.
Le conseguenze le sta sopportando comunque e nel modo che non avrebbe pensato di vivere.
Gli occhi guizzano da una parte all'altra della stanza, rendendosi conto di essere più sudato di prima, ma di non avere più sete. Questa volta procede il passo verso il retro di casa sua, appiattendosi contro la parete in pietra e cercando di ascoltare i suoni della notte. Non c'è niente di più sbagliato in quello che ha visto, ma d'altronde il cervello non gli ha mai suggerito qualcosa di giusto. Forse perché in questo genere di cose, sono solo i sentimenti a prevalere e ad avere una voce in capitolo. Forse perché in questo genere di cose, non è abituato a far prevalere il cuore al cervello. Forse perché in questo genere di cose non è mai stato capace di sopraffare le sue vere volontà. E dire che l'ha sempre voluta, Lilian Sole. Da quando le aveva mostrato quegli occhi celesti. Da quando si sono incontrati. Da quando niente è diventato così ovvio. Ed è solo ora che pensa di essere stato tradito, di essersi auto-punito ma di non avere mai meritato una punizione del genere. Lui non le aveva mentito mai, aveva solo ovviato la verità. Ma lei? Lei aveva mentito più di tutti. Si era lasciata trapelare quell'atto di gelosia quando Thomas aveva baciato Victoria. Si era lasciata soffocare un gemito di tristezza, quando lui l'aveva presa tra le braccia e le aveva confidato che era meglio così. Si era lasciata sfuggire una promessa che ora non avrebbe potuto mantenere più. Lilian Sole St. James aveva tradito le parole di Thomas e se stessa. Lilian Sole St. James aveva dimenticato quello che gli aveva promesso, lasciandolo tristemente a guardare la scena. Lilian Sole St. James era la donna che aveva lasciato andare ancor prima di poterla toccare, ma questo era solo colpa sua.
Thomas non può incolpare Lilian di quell'atto. E se anche lei gli ha mentito, lui deve riconoscere che l'ha fatto per proteggerlo da quello che sarebbe stato un dolore lancinante.
Aveva architettato tutto alla grande, Lilian. Aveva architettato tutto con i migliori mezzi disponibili. Sapeva che se Thomas avesse visto quel bacio, sarebbe stato più facile dimenticarla. Sarebbe stato più facile sopportare la sua morte.
Non è forse così?
La verità è che lei si sarebbe lasciata morire, senza combattere. Perché adesso, affrontare Thomas sarebbe stato più atroce che affrontare una dozzina di ibridi inferociti ed affamati. La verità è che lui non riesce a capirci più niente, ha bisogno di pensare e di restare solo. Ha bisogno di riflettere sulle mille congetture che gli balenano il cervello. Ha bisogno di capire perché ha scelto Axel, piuttosto che la solitudine.
Non è poi così difficile accettarlo, quanto capirlo. E lui di queste cose capisce ben poco, solo... perché lui?
Di queste cose lui capisce ben poco, tanto da spegnere la TV, sbarazzandosi di quell'immagine, sapendo benissimo, invece, che quell'immagine non avrebbe potuto lasciarlo mai.

 

 

******

 

Ambrosia non è solita uscire di casa dopo le ventuno di un venerdì sera. E' una schizzata pazza - quantomeno è considerata tale – ma odia la marmaglia di gente e giovani che si raduna in piazza per festeggiare, chissà cosa poi, la fine della settimana. Ama invece starsene seduta davanti al suo ampio specchio e riflettersi assiduamente, con meravigliosa foga. I suoi meravigliosi boccoli hanno un meraviglioso colore e via dicendo. Tutto in lei suscita quel tocco di bellezza che, sebbene molte abbiano, lasciano trapelare in spocchiose ed irriverenti frasi. Lei non si è mai vantata di ciò, non con evidente consapevolezza. La sua dispotica mania ossessivo-compulsiva la fa tacere la maggior parte nel tempo. Trova la possibilità di parlare solo in brevi situazioni, come il lunedì mattina con Watson. Chissà perché, ma quel ragazzetto sembra più spocchioso di alcune bamboline di porcellana. Ha la voce irritante e riesce a scongelarla in quell'imperterrita situazione di silenzio glaciale. Ma sebbene sia una situazione solita a trasformarsi in un passionale e motivato rapporto, Ambrosia non è minimamente interessata a circuirlo per arrivare a catturarlo. Non in quella maniera. Ad Ambrosia non è mai minimamente interessato fingersi innamorata o innamorarsi. Non ha mai capito la differenza, in realtà. Come potrebbe innamorarsi di un'altra persona al di fuori di se stessa? Non potrebbe, non ci riuscirebbe, vorrebbe dire guarire. La sua malattia la soggioga totalmente e ne è consapevole. Se non ne fosse consapevole, non sa se le piacerebbe davvero essere come tutti quegli sciocchi molluschi che si ritrova ad ascoltare ogni santo giorno. Non sa se riuscirebbe a sopportare determinati sguardi, determinati tocchi, determinati sguardi con tocchi. Non lo sa. E non se lo chiede nemmeno. Come potrebbe mai davvero pensare di poter amare se non sa nemmeno provare? A parte odio, invidia e sicuramente superbia, Ambrosia non conosce la realtà di tutto quel mondo fatto di cose normali che condivide il resto dell'esistenza, normale agli occhi degli altri, insensato ai suoi. La sua più che normale malattia la classifica come un soggetto con handicap di personalità. Ma per lei, tutto questo, è assolutamente normale. Sarebbe insensato se non fosse così. E' come se vivesse in un mondo parallelo, dove chi è normale viene considerato un pazzo insensato e viceversa. Un bel mondo dove rifugiarsi, quando ci si sente incompresi.
Ma lei il venerdì sera non è solita uscire di casa, ed è per questo che se ne sta rinchiusa in camera sua a fissare la sua immagine riflessa in quel grande specchio dinanzi a sé. Si tasta il viso, lievemente piegato, addentra le dita tra i boccoli annodati, lisciandoli. Si tasta gli zigomi, le labbra, la punta del naso e l'inarcatura delle sopracciglia. Si tasta il collo, le clavicole sporgenti e le spalle ampie. Si tasta il seno, prendendoselo in mano, accarezzandolo come accarezzerebbe una lama gemella. Si tasta le costole, l'addome e l'ombelico, non sorridendo mai. Nemmeno quando piega la schiena per tastarsi perfino le anche e le ginocchia. I polpacci tesi e mai rilassati e la pianta del piede, arrivando a rimanere seduta davanti lo specchio. Nuda. Con gli occhi torna a fissare lo sguardo riflesso, circuendo con le iridi quel neo appena sotto l'occhio sinistro e lo sguardo, riflesso e reale, più miele che mai. E' in pure adorazione verso il suo corpo, verso se stessa. Si tratta di vanesia, si tratta di lussuria, si tratta di amarsi e perdersi completamente nella sua figura. Si tratta di volersi e di lasciarsi. Si tratta di pazzia e di comprensione.
Amarsi e perdersi.

 

 

***

 

«Vattene».
Ambrosia lo sta dicendo in maniera ancora calma.
«Ti ho detto di andartene!»
Anche se poi basta poco per farla infuriare.
«Mamma, ti ho detto di sparire dalla mia vista!»
Fino a farle scaraventare un vaso in porcellana contro un muro, frantumandolo in mille cocci. Che poi, cosa ci fa un vaso in porcellana all'interno della sua palestra, è cosa da chiedersi.
Mai fare arrabbiare Ambrosia Julia Adams. Ma nemmeno sua madre, Gloria, è mai riuscita a capirlo. Le orecchie di tutti sembrano ovattate da cotone invisibile. Nessuno comprende. Nessuno capisce. Ma soprattutto nessuno sente. Perché non ci andrebbe molto, se solo qualcuno la considerasse diversamente da quello che effettivamente è. E non potrà essere considerata diversamente, soprattutto quando si ritrova nella sua personale palestra ad allenarsi fino a notte fonda. Perdendo la concezione del tempo, delle persone, perdendo la concezione persino di se stessa. Soprattutto di se stessa. Ma è stata creata per questo: per essere una macchina da guerra, per essere instancabile, per essere tutto, tranne che umana. Perché lei non lo è. Non è, infondo, umana.
«Lasciami in pace. Allenarsi. Volevi questo, giusto? E allora andate tutti al diavolo. Mi sto allenando. Devo sconfiggerlo», proferisce senza smettere di sventolare per aria quelle due lame che ormai le sono diventate migliori amiche.
«Ambrosia, va bene allenarsi. Ti abbiamo spinto noi a farlo, ma se non dormi almeno un paio d'ore, sarai più stanca di prima. Sarà facile batterti. Ascoltami», è lo zio a interferire questa volta. E per quanto odia ammetterlo, è anche uno degli unici due uomini al mondo che rispetta.
«Bones, pure tu. Vai al diavolo. Sai meglio di me che non c'è niente che potrebbe fermarmi ora», risponde lei di rimando.
«Proprio per questo, ti stiamo chiedendo di ascoltarci. Perché lo so meglio di te che non sarebbe molto produttivo se continui di questo passo». E dovette credergli.
Ambrosia smette con la rotazione da ninja stile Kill Bill e si volta di rimando verso Bones. In realtà non è proprio suo zio, ma da quando era una poppante l'ha sempre considerato tale. Forse uno zio troppo giovane. Forse uno zio troppo audace. Forse uno zio che sa troppe cose di lei. Bones non è certamente l'ultimo arrivato in famiglia, ma Ambrosia non si è chiesta mai il vero motivo della sua presenza. Probabilmente è un vecchio amico di famiglia. Probabilmente è uno zimbello che sua madre porta alle sue grazie quando suo padre non c'è. Possibile, ma alquanto improbabile. Bones in passato non aveva mai mostrato quell'interesse verso Gloria, ma nemmeno l'aveva del tutto ignorata. Semplicemente si scambiarono e si scambiano tutt'ora parole, come due colleghi di lavoro. Forse è questo che effettivamente sono: due vecchi colleghi di lavoro.
«D'accordo», sospira infine. «Ma basta con questi avvertimenti da finto interessato. Andate via». E fu di nuovo sola.
E' frustrata, forse perché sono due giorni che non esce dalla sua personale palestra multi-uso. Forse perché è lunedì e questa mattina non ha visto Thomas. Forse perché aveva bisogno di vedere Thomas. Di sfogarsi e di prenderlo in giro con quella novità che aveva spopolato negli ultimi giorni.
La sua bella Lilian Sole l'ha tradito. E sebbene il resto del popolo ignori totalmente la relazione che c'é – o forse c'era - tra i due, la Adams sa meglio di lui, meglio di loro, che qualcosa svolazzava nell'aria già da un po'. E quel nome pronunciato dopo che si sono baciati ha provato tutto quello che Ambrosia già sapeva. Già intuiva. Già sognava. Già sperava. Non l'ha visto direttamente, ma sua madre, oltre che a prepararle il pranzo, la informa nel dettaglio di chi vive, chi muore, chi sopravvive ad un attacco, cosa sfruttano per combattere e qual è il loro ingegno quotidiano nelle vicissitudini dell'Arena. E come ogni donna, vecchia e pettegola, le informa anche dei più recenti dettagli inutili. Come il bacio tra la piccola Lilian e il giovane Axel. Ambrosia non ha fatto altro che sorridere, tutto il tempo. E sorniona, questo lunedì mattina, si aspettava d'incontrare un Thomas affranto o arrabbiato, deluso o angosciato, triste o sollevato. Invece non ha trovato nessuno. Nemmeno Keener, il suo istruttore. Si è infuriata parecchio, ricapitolando in palestra tanto da riversarla da capo a piedi, distruggendone la maggior parte. Naturalmente non ne è uscita illesa, portando sulle sue spalle una multa di parecchi quattrini da sborsare entro la fine della settimana. E le è andata ancora bene.
Fa per uscire, ha bisogno di una boccata d'aria che il loco sotterraneo proprio non riesce a darle, finendo con l'inciampare sui suoi passi. Si ferma poco dopo aver sorpassato il proprio giardino, superando la cancellata in ferro battuto e individuando raggi caldi e bassi.
«Watson», il suo è puro stupore. Il ragazzo le si presenta dinanzi con le solite mani dentro i tasconi dei pantaloni, con il solito sguardo indecifrabile, con il solito occhio indagatore e sbruffone a caratterizzargli il viso. E' pulito, di tutto punto e sembra stare bene. Anzi, sembra stare benissimo. Nessuna pietra sembra avergli scalfito il cuore. Nessun masso sempre essergli pesato addosso. Non come pochi giorni fa, almeno. Oggi Thomas Watson si presenta lindo e rilassato, come uno che ha dormito nove ore di fila e ha fatto tre pasti caldi e completi.
«Adams», risponde lui a una domanda che Ambrosia non ha mai fatto. Lei è solo sorpresa di vederselo davanti casa. E' sorpresa persino di comprendere che lui conosce il suo indirizzo. Insomma, non è poi così grande il Distretto numero 2, ma nemmeno troppo piccolo. Ci si può anche perdere nei meandri del Villaggio.
«Pensavo stessi progettando un suicidio degno di te».
«Io invece pensavo che profumassi di rose, ma evidentemente entrambi siamo rimasti delusi».
I due si guardano, si scrutano e continuano a lanciarsi battutine di questo calibro. Le palpebre sono due fessure, l'espressione è cagnesca, ma non sanno perché vi è tutta questa tensione, nell'aria. O forse lo sanno meglio di tutti.
«Cosa vuoi?», chiede lei.
«Parlare», risponde lui.
Ambrosia inarca un sopracciglio, scettica. «Preferisco combattere, Watson. Dovresti saperlo».
«Questa volta io non ho bisogno di combattere».
«Ed io me ne fotto altamente di quello di cui tu hai bisogno».
Avanzano, l'uno verso l'altro, in circolo. Ambrosia è sudata, sporca e sente l'adrenalina in corpo più di prima. Watson vuole parlare. Watson è venuto a cercarla per parlarle. Cos'è? Il suo nuovo strizzacervelli? Non spettava forse a Keener, alla bella Martins o a chiunque altro per parlare? Oppure... oh.
«Ti manca», si ferma. Ambrosia ha scoperto l'acqua calda e, parole come quella, non le escono molto spesso dalla bocca. Sgrana le palpebre, arrivando ad un'unica e sola conclusione. «Non posso parlare con te, Watson», pronuncia piccata. «E tu non puoi parlare con me», continua, ma si corregge: «Non vuoi parlare con me».
D'altronde è tutta una questione di volere, dovere e potere. Non vuoi. Non puoi. Non devi. E' tutta una questione di forse, se, ma, però, perciò, chissà.
«No». Lui avanza deciso, senza toccarla, ma diminuendo le distanze. La fissa, senza malizia, senza provocazione. C'è solo Thomas Watson davanti a lei. «Io ho bisogno di parlare con te, Adams». Le ultime parole che sente, sembrano accarezzarle l'orecchio in modo invitante. «Devo raggiungere l'Arena», incomincia così, senza smettere di fissarla. «Devo raggiungere Lilian», continua a biascicare, senza interrompere il contatto visivo. «Mi devi aiutare, Adams».
Ambrosia lo ascolta, senza batter ciglio. E Watson parla, senza battere ciglio. Senza accorgersene, lui le ha stretto il braccio destro. Senza accorgersene, lei ha abbassato lo sguardo. Senza accorgersene lei parla, esprimendo solo una parola. Sette lettere. Una convinzione.
«Andiamo».

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Capitolo 4
*** Fantasmi ***


4
Fantasmi

 

Boom.
Il rumore sordo, ovattato, sembra interrompere qualcosa.
Boom.
Non si capisce se fa parte di un sogno, di un pensiero, o se si tratta di un suono reale.
Boom.
E' sempre lo stesso rumore, ripetuto più volte. Ma sembra fermarsi. Tre volte. Viene ripetuto tre volte. Questo vuol dire che per tre volte, qualcuno è morto. Vuol dire che tre persone, tre Tributi, sono stati uccisi, sbranati. Tre Tributi in meno. Erano rimasti in sette. Ora sono rimasti in quattro.
Lilian apre le palpebre al terzo colpo di cannone, mostrando lo sguardo al buio quasi totale, se non fosse per la debole luce che entra dalla piccola fessura creata da Axel, tra l'ingresso della grotta e l'esterno. Davvero ingegnoso. E' sola. La ferita al basso ventre sta migliorando, ma continua a pizzicarle. Di camminare proprio non ne può – e non ne vuole – sapere. Ad ogni modo lo sguardo è confuso e disorientato. Perché è sola?
«Axel?» domanda a vuoto. «Ci sei?» le trema la voce. Deglutisce, cercando di mettersi seduta. Afferra un piccolo coltellino da caccia, cercando di rimanere calma. Sta sudando e non sa se è per la febbre che sta tornando o per la paura che la sta invadendo da capo a piedi.
Percepisce alcuni passi al di fuori della grotta, alcuni fruscii e, nell'attimo stesso che trattiene il respiro, Axel Von Frish fa il suo ritorno con un paio di conigli. Il suo sguardo guizza dal volto impaurito di Lilian alla mano destra, dove tiene saldamente il coltello.
«Vuoi uccidermi con quello?» inarca un sopracciglio, ridacchiando di lei. Axel sta decisamente meglio. La ferita al fianco sinistro sembra essere guarita, o quantomeno non sembra toccarlo più di tanto. Sono passati circa sei giorni da quando lei è stata attaccata da quelle creature volatili. Da quegli orribili occhi gialli. Quattro giorni da quando l'ha baciata, l'ha baciato.
«Sto morendo di fame», la risposta di lei, sgranando gli occhi colmi di desiderio verso quel pranzo – o colazione? - che si ritrova davanti.
«Li pulisco e li braso, ma dovremmo aspettare la notte, per essere più prudenti».
Axel si comporta davvero premurosamente e Lilian non sa se lo fa per compiacerla, o se è per compiacere se stesso. Non sa se lo fa per suo masochismo o se davvero è così ingenuo da pensare che Lilian non morirà per mano sua.
«Chi?», chiede Lilian mentre Axel incomincia a svuotare il primo coniglio delle sue interiora.
«Non ne sono sicuro. Dovremmo aspettare questa notte per vedere i volti», risponde lui.
«Axel, lo sai che prima o poi... io e te... dovremmo».
«Lo so», la interrompe lui. «Lo so», ripete. Il Tributo maschio guarda la compagna di Distretto, lasciandosi sfuggire uno sguardo di troppo. Un'occhiata di troppo. Una sensazione di troppo.
La sera Axel arrostisce la carne, all'interno di un'intersezione della grotta. Un'altra azione geniale di Axel è stata quella di creare una galleria che sbuca dalla parte opposta della loro posizione, attraverso gli alberi. Larga quanto basta per farci passare le loro teste messe assieme. Non più grandi, né più piccole. Creata appositamente per incanalare il fumo. Sarebbe rischioso accenderne uno di giorno, all'aria aperta, ma di notte non lo sarebbe di meno. Potrebbero essere nei paraggi, gli ultimi Tributi. Potrebbero essere proprio sopra di loro, gli ultimi Tributi. E se vedessero del fuoco, della luce, sarebbero morti in un batter d'occhio. Per questo Axel ha pensato a tutto. Per questo entrambi sanno che il loro rifugio, fin troppo perfetto, non durerà ancora per molto. Alla gente di Capitol City serve spettacolo, non due promessi sposini intenti alla costruzione della loro abitazione.
«Mangia e poi mettiti a dormire», suggerisce lui. «Non prima di cambiare la fasciatura, però».
«Te lo scordi», risponde piccata lei. «Me la faccio da sola».
«Non ho mai detto che l'avrei fatta io, Lilian Sole», sorride sornione lui. «Ma questo mi fa pensare che ci hai fatto un pensierino».
«Chiudi il becco».
Deve ammetterlo. Certe volte gli ricorda Thomas. Le risposte che manda, i sorridi che piegano quelle labbra. Quelle labbra.
Ma non è Thomas. Watson non manda quelle risposte, Watson non ha sorrisi che piegano quelle labbra.
Le sue labbra mai sfiorate. Apparteneva a Watson. Watson. Thomas.
«Tieni», suggerisce lui, interrompendo il flusso dei pensieri della ragazza. Le posa accanto la solita ciotola con quella poltiglia color rame e, voltandosi dall'altra parte, lascia a Lilian la possibilità di aprirsi la tuta e guardare la pelle martoriata da punti fissati alla ben e meglio. Uno sguardo contrariato e arricciato le si dipinge il volto, promettendo a se stessa di non fare troppe storie.
Ma lei non sa mantenere molto bene le promesse.
Un grugnito – o un mugugno – le esce dalle labbra. Arriccia il naso e aggrotta la fronte, tastandosi la ferita non più infettata, ma ancora fresca di sutura. Deve muoversi il meno possibile, oppure si aprirà di nuovo. Ed è già successo.
«Da' qua», ed eccolo il salvatore ambulante. Le arriva di fianco in un lampo, non aprendo bocca per la pelle nuda della giovane. Lilian dapprincipio lo respinge, ma poi non riesce a fare a meno di rilassarsi e di lasciare quel lavoro troppo doloroso a lui.
Riesce solo ad impegnare la mente a non gridare di dolore, figuriamoci di guarirsi da sola.
Le mani di Axel le passano quella poltiglia in modo leggero. Sente quasi subito il pizzico di fastidio e poi di nuovo la freschezza. Pioggia gelata che spegne fuoco ardente.
«Meglio?», chiede lui, incontrando occhi blu spaesati e stanchi.
Per Lilian la situazione è troppo familiare. E lo è ancora di più quando si accorge dello sguardo che sta lanciando ad Axel. Nessuna malizia. Solo terrore, senso di colpa, tradimento.
«Tranquilla Lilian Sole». Il sorriso di Axel non è più sornione, ma consapevole. «Ho capito l'antifona, non c'è bisogno che mi guardi terrorizzata come se dovessi sbranarti ogni volta. Non ti torcerò un capello». Non prima di essere rimasti soli. Perché andrà così. Se ce la faranno, rimarranno in due. Ma solo uno di loro dovrà sopravvivere. Solo uno di loro potrà vincere. Solo uno di loro dovrà morire. Entrambi dovranno condividere morte e vita. Entrambi sanno di essere in un vicolo cieco, senza vie di fuga.
Axel le riposiziona la fasciatura in maniera impeccabile, stretta al punto giusto e legata con un laccio creato con rametti morbidi e un po' di ambrosia.
«Non ti facevo guaritore», replica Lilian. «Non ti facevo niente, in realtà».
«Lo prendo come un complimento, Lilian Sole». Axel sorride, sciacquandosi le dite impasticciate di poltiglia color rame.
«Oh, piantala di chiamarmi Lilian Sole!»
«Perché?», chiede lui. «Non è il tuo nome?», le sorride sornione, prima di distanziarsi quanto basta per appoggiare la schiena contro una parete, umida.
«Sì, è il mio nome, ma...»
«Allora non ci sono problemi, suppongo. Lilian Sole, d'altra parte, è un nome che mi piace», fa che mettere entrambe le braccia dietro la nuca, a mo' di cuscino. «Quindi credo che continuerò a chiamarti così: Lilian Sole».
Lilian non parla più. Rimane a fissarlo con quello sguardo apatico e incompreso, lasciandosi sfuggire un mugugno di dolore, prima di riaddormentarsi al freddo. E' stanca di essere così impossibilitata a muoversi. Non vede l'ora di potersi alzare in piedi, camminare, andare via da questa grotta. E' continuamente sotto pressione. L'ansia che qualcuno scopra il loro nascondiglio è estenuante. Per di più, non sa ancora per quanto gli Strateghi, uomini che controllano e giostrano a loro piacimento l'Arena, abbiano la pazienza di lasciarli in pace. Sa solo che deve contare i minuti, i secondi e i nanosecondi per non illudersi di essere stata lasciata vittima di se stessa. Non crede nella Fortuna o nel Caso, quindi non può permettersi di sperare.

 

 

***

 

«Lilian?»
Non è possibile chiudere gli occhi nemmeno due minuti, dovrebbe saperlo.
«Lilian?!»
Ma qualcuno la sta chiamando. Deve aprire gli occhi o continuare a sognare Watson?
«Lilian Sole, dannazione!?»
La voce di Axel le fa spalancare le palpebre. Al primo impatto la vista le pare offuscata. Al secondo impatto il volto di Axel è a due centimetri dal proprio naso. Al terzo impatto inizia a tossire.
«Axel, ma dove siamo?» proprio non se lo ricorda.
«Ci hanno trovati Lilian. Dobbiamo andarcene subito da qui». La voce di Axel sembra offuscare di più la vista della compagna, tanto da farle girare la testa.
«Ma che stai dicendo?»
Non lo dice direttamente. Crede di farlo, ma forse sta solo sognando. Quando lo schiaffo di Axel le arriva in pieno volto, però, si rende conto di non star più solo immaginando.
La guancia sinistra le esplode. La sente pulsare, bollente. Forse ha perso persino sensibilità. La cosa importante, però, è che la vista le ritorna normale e, sebbene continui a sentirsi soffocare, non accenna a tossire. Quello che mette a fuoco, ora, è la quantità abnorme di fumo che sente fin dentro ai polmoni. Vede nero, grigio, e niente le sembra più così limpido e trasparente. Le pareti sono imbrattate di fuliggine, lo può sentire sui polpastrelli. Si sente sporca, più sporca di quanto non si sia sentita in queste settimane. Non esiste via di fuga.
«Cosa possiamo fare? Chi ci ha trovato? Axel?» lo perde di vista, lo trova, lo riperde e lo ritrova. Lilian prova a mettersi seduta e, vuoi per l'adrenalina, vuoi per la forza di volontà, ci riesce. Si tasta il basso ventre, cercando di mantenerlo saldo, come se potesse caderle da un momento all'altro. Axel l'afferra per le spalle, aiutandola a mettersi in piedi. Lei è debole. Lei è molto debole. Appena tenta di restare in equilibrio, sente la testa girarle. Vede due, tre, quattro Axel che cercano di trattenerla in piedi. Due, tre, quattro Axel che le parlano e le dicono qualcosa. Qualcosa che non sente, non capisce, non può vedere.
Vede un volto, vede un ragazzo, vede l'inferno.
Axel la ripara. Axel sta davanti a lei. Axel le fa da scudo. Perché tutto quello che sente, vede, prova e capisce, è una lacerazione di pelle. Oltre al fumo, odore di sangue. Oltre al fumo, odore di carne. Oltre al fumo, sapore di morte. Axel le blocca le spalle contro il muro, non sfiorandola con nient'altro. Incontra il suo sguardo, spaesato, appiattito, quasi perso. Incontra la sua paura, il suo destino, finalmente il sollievo.
«Devi stringere la fasciatura, Lilian Sole», proferisce lui. «La tieni sempre troppo larga».
Lilian abbassa lo sguardo. Lo abbassa al suo petto. Lo abbassa a quella punta di metallo che gli esce dal pettorale sinistro. Un po' più in là dal cuore.
Gli occhi di Lilian restano impietriti, senza lacrime. Gli occhi di Lilian diventano di ghiaccio, senza espressione. Gli occhi di Lilian muoiono come muore il sorriso di Axel. Gli occhi di Lilian si accendono, mentre il corpo di Axel scivola tra le sue braccia, spegnendosi.

 

 

******

 

 

«Sai cosa? Non ti ci vedo vincitore». E' sempre la solita storia. Francis non è capace ad ammettere la sua inferiorità. Non è capace ad ammettere la sua diversità. Non è capace ad ammettere che io posso farcela. L'ho già battuto, a tiro con l'arco, a scherma, a lotta libera, ma gli rode che io possa vincere. Che io possa essere più forte di lui. Che possa sfigurare il volto di una bella fanciulla, quando toccherà a me. Perché so che toccherà a me. Mi alleno da una vita per quel momento.
«Andiamo, Axel. Il tuo destino non è questo. Sarai anche più forte e più atletico, ma ti manca il cervello». Mi chiedo cos'abbia di sbagliato. Mio padre sicuramente non gli ha insegnato ad essere così... contrario alla sua famiglia. Deve essere stato influenzato da qualcuno. Frequenta sempre le persone sbagliate. Altro che cervello; non sa nemmeno dove sbattere la testa senza il mio aiuto, a volte.
Ad ogni modo subisco quel che c'è da subire, ignorando la maggior parte delle brutte parole che mi vengono sputate addosso. Forse avrò troppa pazienza, ma preferisco lasciarmi scivolare addosso le provocazioni; non ho tempo per queste idiozie.
«Bravo, Francis. Hai colto nel segno», dico. Continuo a sollevare pesi, senza distogliere le palpebre dalla figura femminile che mi si presenta davanti.
La osservo, mentre si prepara al combattimento. La osservo, mentre sferra un pugno in direzione di Watson. La osservo, mentre gli occhi miele scalfiscono quelli oceano di lui, prima di finire con il culo a terra.
Ambrosia si attacca come una lucertola alle sue prede e non lascia nemmeno il tempo di proferir parola. Non mi dispiacerebbe un combattimento all'ultimo sangue con lei. Forse, potrebbe essere la volta buona, tra qualche giorno, di sfidarci l'uno contro l'altra. E' allettante, anche se è una pazza totale. Forse è proprio perché mi dà i brividi che mi eccita da morire.
Mi eccita, sì. Ma non ci andrei mai a letto. Non riuscirei nemmeno a guardarla sotto quell'aspetto. Mi eccita il suo modo di combattere, mi rende quasi più vivo di adesso, ma non mi fa accapponare la pelle come l'altra mora. Credo si chiami Lilian Qualcosa. Mi pare che Watson, quel maledetto bamboccio, la chiami James. Qualcosa del genere. Lei è un fiore all'occhiello. Sarebbe interessante vederla sul “ring”, quanto interessante sarebbe vederla morta stecchita. Non credo, però, sarebbe per mano mia. Avevo mantenuto un'idea fissa, in passato. Cioè quella di non farmi influenzare da simili stupidaggini, ma lei... accidenti se non è una stupidaggine, lei. La seguo da giorni, senza eccedere naturalmente. La osservo a scuola, la osservo in palestra e la osservo quando parla con il bamboccio. Dannazione se è bella. Dannazione se mi fa accapponare la pelle. Dannazione se vorrei ucciderla. Vorrei. Vorrei davvero troppo ucciderla, così la smetterei di pensare alle sue labbra carnose che accarezzano le mie, accarezzano il mio collo, accarezzano la mia pelle. Dovrei smetterla di pensarla così intensamente, anche perché frequenta quel ragazzino. Frequenta quel moccioso.
«La finisci?» poi mi parla, senza che io le abbia detto qualcosa.
«Scusa?»
«Mi stai fissando e mi dai fastidio».
Sinceramente non pensavo fosse così sfrontata. Sinceramente non pensavo che si presentasse in modo così odioso. Odio quanto mi piaccia.
«Lo so e devo dirti che non me ne frega niente che ti dia fastidio, bambolina».
«Lilian».
«Scusami?»
«Mi chiamo Lilian Sole St. James, non bambolina».
Mi fissa con quegli occhi algidi, prima di essere richiamata di nuovo dal bamboccio. Francis sta ancora parlando, da solo credo. Ripete le stesse frasi, senza accorgersi di essere totalmente ignorato. Mi chiedo se sia normale. Forse starebbe bene con la Adams, però forse lei non sarebbe così paziente come me. Forse lo ammazzerebbe ancor prima che pronunci un solidale saluto.
«Interessante», le sorrido sornione. So di star sfoderando il mio lato peggiore, quello ruffiano.
«Cos'è interessante?», mi chiede poi.
«Il fatto che io non abbia detto niente, ma che sia bastato per farti avere la mia attenzione».
Mi guarda come si guardano i nemici. Mi guarda come si guardano insetti schifosi. Mi guarda come se dovesse saltarmi addosso ora, per strozzarmi. Poi alza i tacchi e se ne ritorna in postazione, assieme al suo amichetto da quattro soldi. La mia fronte si corruccia, pensando a loro due insieme. Odio quella visione e forse la Adams si dev'essere accorta di qualcosa, perché mi ha preso di mira. Mi ha preso di mira con il pensiero.
Ritorno a sollevare pesi, basta Lilian Sole Qualcosa.
St. James.
St. James, ora so il suo cognome.

 

**

 

 

«Von Frish, piantala. Non è mio, ridammelo!», sono passati diverse settimane da quell'incontro in palestra.
I nostri “accidentali” scontri, letteralmente parlando, si sono mostrati più assidui di quel che pensavo. Stiamo legando, io e Sole. Siamo legando a nostro modo. Per esempio, oggi ho deciso di prendere in prestito – e non rubare – un dannato libro che legge continuamente.
«Stai calma, Lilian Sole. Stai calma, voglio solo prenderlo in prestito», proferisco io, prima che mi salti addosso. Non che la cosa mi dispiaccia, ma preferirei mi saltasse addosso in circostante diverse, quantomeno, più desiderabili.
Il libro in questione è stato scritto da Oscar Wilde. La mia modesta madre mi ha già letto qualcosa di suo, ma la letteratura non fa per me. Preferisco le cose ingegnose, piene di numeri e calcoli. Mi piacciono le cose complesse, come Lilian Sole St. James. Quella ragazzina è una tempesta continua.
«Non è mio, Von Frish. E non chiamarmi così!» Sì, è decisamente una tempesta continua. Di sabbia. Di pioggia. Di calore. Perché è un fuoco che arde, Lilian Sole, sebbene i suoi occhi siano di un glaciale avviso.
Fisso le rilegature del libro con attenzione, mentre mi porto ad una distanza maggiore da quella di Lilian. Mi piace prenderla in giro, in un certo senso mi diverto a farla arrabbiare. Che poi è lei l'esagerata; scatta per un niente. E' proprio una donna.
Lo apro a pagina 1. Leggo la dedica e quella dannata “W” a fine omaggio. Il sorriso mi svanisce e mollo un po' la presa, tanto che Lilian Sole mi riprende, anzi no, mi strappa il libro dalle mani.
La osservo mentre se lo tiene ben stretto, lo accarezza come se potesse prendere vita da un momento all'altro e se lo ricaccia nella borsa senza proferir parola. E poi mi guarda.
«Sei un idiota», dice lei.
«Lo so, ma ad ognuno i propri crucci», rispondo io.
Non so perché lo faccio, ma mi incammino nella sua direzione e la sorpasso, non guardandola nemmeno. Sorpassandola, ascolto il battito del suo cuore, agitato, perché è agitato, e sento il suo profumo inabissarmi le narici. Dannata Lilian Sole. Dopo una ventina di metri mi volto, lei è lì che mi fissa. Ed io la guardo.
«Appartiene a Watson, vero?» è una domanda.
«Appartiene a Watson», è una risposta.

 

 

******


 

«Ma guarda un po'. Ho fatto centro». Dopo una decina di secondi, il colpo di cannone rimbomba al di fuori delle mura.
Lilian percepisce la voce metallica di qualcun altro, in quella grotta. Lilian ascolta il rimbombo di una voce maschile, ma sottile, in quella grotta. Lilian si desta da pensieri torbidi e confusi, lasciando cadere il corpo inerme di Axel, nella grotta. Mette a fuoco la sagoma incolore all'ingresso del loro provvisorio nascondiglio, intravedendo un ragazzino. Distretto sei. Si chiama Leon Fènder. Lo guarda, distinguendo i dettagli con maggior precisione, ora. E' sporco, ma non quanto lei. Ha uno sguardo perso, molto più di lei. Ha una balestra in mano, mentre lei non ha che un coltellino da caccia intrappolata nella fibbia dei pantaloni. Non osa fare un passo falso. E' sotto tiro e non ha più nessuno scudo, davanti a sé. Lilian deglutisce, mentre Fènder si passa la lingua sopra i denti. Crede stia assaporando la vittoria. Crede che tra poco lascerà scoccare l'altra freccia.
«Sarò buono».
Leon Fènder non è mai buono.
«Sarà indolore».
Leon Fènder non è mai indolore.
«E morirai».
Leon Fènder non dice mai bugie.
Tranne questa volta.
Un'altra figura intercede il passo verso di loro, comparendo da dietro il ragazzo che la tiene sotto mira. L'altro Tributo che ancora vive: Ophelia Ryder. Sono alleati. O perlomeno, Lilian pensa così. Aveva visto la loro alleanza nascere e crescere in quelle settimane. Erano sempre stati i più temuti e, adesso, ne capisce fin sotto la pelle il vero motivo.
Dopo tutto, non riesce a trovare il coraggio di dire niente. Non riesce a trovare il coraggio di piangere. Non riesce a trovare il coraggio per vendicare, in qualche modo, la morte di Axel.
Le fa male persino pensare a quella frase: la morte di Axel. Perché Axel è morto. Le ha fatto da scudo. Le ha salvato la vita.
Tranquilla Lilian Sole. Ho capito l'antifona, non c'è bisogno che mi guardi terrorizzata come se dovessi sbranarti ogni volta. Non ti torcerò un capello.
No, non le aveva toccato nemmeno un capello, aveva fatto qualcosa di molto più ingiusto. Le aveva strappato la possibilità di scegliere. Ed ora Lilian riesce persino ad incolparlo. Sì, gli dà la colpa di essere morto al posto suo. Perché non sarebbe dovuta andare in questo modo. Lei è stata ferita gravemente. Lei doveva morire. Lei era già morta.
Ophelia giocherella con un coltello da macellaio. Eccessivamente affilato. Eccessivamente mortale. Le sorride, prima di distendere il braccio attorno al collo di Leon, sgozzandolo come se nulla fosse.
«Bravo, bravo», afferma. Ophelia passa il coltello solo una volta sul collo di Leon. Ascolta i suoi mugugni, percepisce le forze che poco a poco lo abbandonano. Sente l'odore del sangue imbrattargli i vestiti. La balestra gli cade dalle mani, mentre si schianta al suolo con un rumore sordo. Gli occhi vitrei, spenti, esanime. No, sicuramente non erano più alleati. O se lo erano, Ophelia è stata più svelta e crudele di lui.
«Siamo rimaste in due», afferma.
Ophelia avanza inesorabile verso di lei.
«Ma c'è sempre un Tributo di troppo, non trovi?»
Il colpo di cannone segna la fine di Leon Fènder.
«Sei morta St. James».
E sembra anche molto convincente.
«Mia».
Lilian resta paralizzata alla vista del coltello imbrattato di sangue che viene sollevato. Viene, con forza, spinto verso di sé. Finisce, maledicendosi, di fianco la sua testa.
Lilian respira ancora, ora forse troppo convulsamente. Ambedue le mani vanno istintivamente sul ventre.
Lo sguardo è fisso oltre ad Ophelia, oltre l'ingresso della grotta.
«Veramente, puttana, lei non è di nessuno. Figuriamoci. Tua».
Lilian spalanca lo sguardo, le iridi sono un turbine di emozioni, prima che riesca a connettersi sul pianeta Terra. Ciò che vede sono due sagome. Una di fianco all'altra. Quello che riesce a calcolare, è che la sagoma di destra, una ragazza, ha lanciato una lama in direzione del coltello di Ophelia, deviando il suo percorso.
Quello che sente, però, non è la voce di una ragazza. Non è la voce di Ambrosia Julia Adams.
Ophelia la guarda, confusa, stordita, panicata. Poi le parla, cambiando completamente enfasi:
«Quella voce...», non finisce la frase. Non finisce la domanda.
«Appartiene a Watson», la finisce Lilian però, riacquistando la tonalità di un tempo. «Appartiene a Thomas».

 

 

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Capitolo 5
*** Lotta contro il tempo ***


5
Lotta Contro il Tempo




- martedì, ore 3.45 am. Casa Adams.

Ambrosia doveva convincere un paio di persone, prima di raggiungere Capitol City. Il suo piano non sarebbe andato in porto, se non avesse messo prima le mani su una questione che riguardava un certo zio acquisito Bones. Conosceva solo lui, in quel settore. Solo lui e un certo Bartholomeus Watson, ma a quest'ultimo non avrebbe osato chiedere. Non era così in confidenza con lui. Non era niente al suo cospetto, in realtà.
Il loro piano era spoglio, privo di qualsiasi elemento. Prima di partire, avrebbero dovuto lavorarci sopra. Non c'era tempo, Watson continuava a ricordarglielo, ma la Adams sembrava indifferente alle sue lamentele.
«Watson, smettila di frignare. Altrimenti lascio la tua dolce metà morire come un cane», disse. «E non mi dispiacerebbe affatto». Era vero. Ad Ambrosia non dispiaceva la morte di qualcuno. Che fossero conoscenti o estranei, l'unica cosa di cui le importava era seguire attentamente il loro tragico decesso via telematica. Studiava attentamente ogni particolare. Voleva condividere solo con se stessa quella rilevante battaglia all'ultimo sangue, dove sicuramente vi era la possibilità di osservare sangue, omicidio, decapitazione, massacro, violenza, eccidio, ecatombe, sterminio, ossa rotte, cervelli divorati e annientati. Dove era possibile osservare la vittoria di uno e la fine dell'altro.
Allora perché stava aiutando quel bamboccio? Perché voleva raggiungere l'Arena? Perché stava rovistando tra le scartoffie di Bones, nel suo ufficio, segretamente chiuso a chiave, ma non così segretamente come pensava lui? Perché aveva rotto l'osso del collo alle guardie di casa propria, perché aveva insonorizzato l'intera stanza con un dispositivo a raggi infrarossi, di cui non sapeva nemmeno come potesse essere a conoscenza della password? Anzi no, si ricordava bene come era riuscita a fregarla allo zio.
Ambrosia sta sempre zitta. Ambrosia si allena sempre. Ambrosia non parla mai. Di conseguenza Ambrosia non sente, non osserva, non perlustra la casa.
Ambrosia non faceva altro che allenarsi, durante il giorno. E in quelle poche ore notturne, quando seguitavano le lamentele di Gloria per il sonno poco goduto dalla figlia, Ambrosia passeggiava. Amava passeggiare. E amava osservare, guardare, studiare, vedere. Amava toccare, sfiorare, annusare, infischiarsi delle cose private. Ecco com'era riuscita ad ottenere sia chiave che password: sbirciando lo zio, mentre richiudeva la porta dell'ufficio e sistemare la chiave attraverso un pannello nella parete. Sbirciando il codice su una tastiera programmata ad ologramma. Sbirciando e memorizzando quelle nozioni che non se ne sarebbero andate via mai, poiché la testa di Ambrosia era tutto un numero e un codice. Poiché era tutta una questione di memoria fotografica.
Ed ora si trovavano entrambi in piedi, davanti la scrivania dello zio, a studiare mappe e sotterfugi per arrivare al nascondiglio dell'Arena. Era quella la parte più difficile e complessa. Nessuno, prima di loro, era riuscito a scovare l'Arena. Nessuno, prima di loro, ci aveva mai pensato. Nessuno, prima di loro, era arrivato a credere una cosa simile. Il Grande Fratello di Panem aveva messo alle strette tutti i Distretti, probabilmente stavano ascoltando le loro conversazioni, poiché Thomas era un amico – se amico si poteva definire qualcuno che si amava – della dolce Lilian Sole St. James.
Ambrosia si stava macchiando di una colpa che avrebbe fatto volentieri a meno di avere, ma d'altronde lei era nata per combattere e vincere e morire. Era nata per il pericolo, il rischio, il potere e la violenza. Era nata per mettersi alla prova, perché lei era la migliore. Era la più bella, la più brava, la più.
«Dovremmo metterci in contatto con tuo nonno, Watson», proferì Ambrosia, guardando attentamente la mappa più recente di Capitol City.
«Mio nonno non ne vorrà sapere, Adams. Mio nonno mi farà fuori se gli dico quello che vogliamo fare».
«Che vuoi fare. Io ti sto solo dando una mano per entrare. Non m'interessa mettere piede in un'Arena già vuota».
«Cambierai idea», continuò lui.
«Non cambio mai idea», finì lei.
Ma neanche il quel caso, poteva sapere che l'avrebbe cambiata eccome l'idea. Neanche in quel caso, s'immaginava un coinvolgimento che andava ben oltre la sua malattia, il suo disturbo psicotico. Neanche in quel caso, Ambrosia, poteva davvero conoscere l'amore per la caccia e per l'assassinio. Non lo faceva per Thomas. Non lo faceva per Lilian. Lo stava facendo esclusivamente per se stessa. Voleva mettersi al centro dell'attenzione, ma ancora non lo sapeva.
«Adams, sapevi che tuo zio era uno Stratega?»
Ambrosia rimase impassibile. Scaraventò lo sguardo dorato verso il compagno, prima di strappargli dalle mani quello che lui aveva trovato. Lesse attentamente l'intero plico, mettendoci circa una quindicina di minuti, senza interrompere il contatto visivo con le parole scritte. Solo dopo aver riposto i fogli sulla scrivania, alzò lo sguardo verso Thomas.
«Ora lo so», disse lei. «E ho anche un piano».

 

- martedì, ore 5.55 am. Stazione, Distretto 2.

Ambrosia poteva sentire la puzza di zolfo che usciva dal vagone bagagli. Lei e Thomas erano incastrati, l'uno contro l'altra, per il poco spazio che vi era. Nessuno dei due era in imbarazzo per il contatto fisico, troppo fisico, forse perché erano abituati a maneggiare il corpo dell'altro come se fosse il proprio. Ambrosia conosceva tutti i muscoli, più forti e più deboli, del ragazzo. Conosceva le nervature delle vene, i tendini. Conosceva il respiro affannoso e quello più mite. Conosceva il suo sguardo. Sapeva tutto di Thomas Watson. E così Thomas sapeva quasi tutto di Ambrosia Julia Adams. L'unica cosa che forse ignorava, era quel fantomatico cervello che qualcuno le aveva donato. Se fosse un dono o una maledizione, questo, non poteva capirlo e non l'avrebbe mai saputo.
Ambrosia era riuscita a truccarsi e a sistemarsi addosso un vestito sgargiante, per evitare di essere confusa per una povera civile di un qualsiasi Distretto. Thomas aveva un'uniforme d'autista addosso. Un comune servo dei più ricchi.
Erano uno contro l'altra, i loro occhi andavano nelle direzioni opposte. Non s'incontravano mai e nessuno osava proferir parola. Sentivano una strana sensazione addosso; probabilmente qualcuno li stava già cercando. Probabilmente qualcuno era già sullo loro tracce.


 

***


 

Ambrosia aveva avuto un colpo di genio. Si era infilata nell'auto lussuosa dello zio e, conoscendo gli ingranaggi e gli aggeggi tecnologici che li avrebbero spediti in stazione, avrebbe saputo proporre a Thomas qualcosa di rischioso, ma troppo eccitante per due ragazzini. L'auto possedeva una mappa virtuale che segnava i chilometri percorsi, la distanza da percorrere e molto altro. Thomas si era messo al posto di guida, mentre la mora ebbe la brutta consapevolezza di dover rimanere nel portabagagli. Una volta addormentato l'autista, Thomas non ebbe difficoltà con l'accensione dell'autovettura. Fu fortunato: era fornita dei confort che molte auto non avevano ancora. Il ragazzo aveva imparato a guidare tempo addietro, un po' grazie a suo nonno, un po' grazie a Keener. Un Tributo che si rispetti doveva saper guidare un'autovettura, un elicottero e un motoscafo. Era una cosa fondamentale, soprattutto per i Favoriti.
Così si erano ritrovati a viaggiare alle sei del mattino, uno al posto di guida e l'altra nascosta tra i bagagli di Mr. Bones. Si erano riforniti di armi, ma in modo intelligente. Nessun'arma pesante, ma coltelli leggeri e affilati. Possibilmente facili da nascondere, ma altrettanto facili da essere trovati.
Lo zio non si era accorto di nulla, almeno, così pensavano i due ragazzi. D'altra parte Bones non aveva dato segno di alcun sospetto, nemmeno quando Thomas posteggiò la vettura dinanzi la stazione. Nemmeno quando aprì prima il portabagagli per far fuoriuscire Ambrosia e le rispettive valigie o quando aprì la portiera al suddetto. Gli diede persino una mancia per la guida veloce, ma pacata.
Come faceva una guida ad essere veloce, ma pacata?
Non si sapeva, ma dopotutto si ritrovarono in incognito alla stazione del Distretto 2. Questo bastava.


 

***

 

Prima di dire qualunque cosa, Thomas sfiorò il volto di Ambrosia con il naso. Erano stretti, troppo vicini. Si sentiva quasi in colpa per Lilian, sebbene i suoi pensieri non erano maliziosi. Non era omosessuale: i suoi viaggi mentali sul corpo che ora gli stava appiccicato, li aveva fatti. Eccome se li aveva fatti. Ma non erano compatibili con la persona che Ambrosia era. Non erano compatibili per una mente malsana come la sua.
La ragazza si accorse dello sguardo troppo insistente per i suoi gusti, alzò un sopracciglio e si mise a sorridere. Anzi no, a ghignare di gusto.
«Mi dispiace Watson. Agli occhi degli altri sarò una pazza squilibrata, una lesbica sadica o una vanesia del cazzo. Tutto quello che dite io lo ascolto, sai? Ma non sono una puttana. Quel bacio che stai pensando di darmi con quelle viscide labbra, risparmiatelo per la tua bella. Non vendicarti senza sapere il vero motivo del suo tradimento», disse.
Thomas rimase di stucco. Non stava affatto pensando a darle un bacio, ma probabilmente Ambrosia aveva pensato diversamente, forse per lo sguardo troppo intenso verso le carnose labbra della fanciulla, o forse per il continuo strusciarsi di pelle e tessuto. In realtà si stava immaginando quelle labbra su un volto diverso, sul volto di Lilian, ma non le disse nulla. Il suo ragionamento, dopo tutto, gli era piaciuto.
«Hai ragione, Adams. Non sei affatto una puttana», enunciò lui. Lo pensava davvero. Fin da quando la conosceva, non aveva mai mostrato segno di esserlo. Non aveva mai mostrato niente di niente, se non una bramosia particolare per il combattimento. Non c'era niente di sexy o di provocante nei suoi atteggiamenti; almeno così lei pensava di muoversi. Era bellissima e lei lo sapeva bene, ma il suo inconscio era particolare, privo di egocentrismo. Non nelle situazioni da lei non volute e fissate. E Ambrosia sapeva bene come studiare il tempo di protagonismo.

 

 

***

 

 

I due ragazzi si ritrovarono da soli in una stazione troppo grande.
«Non sapevo che al Distretto ci fosse una stazione così grande», enunciò Thomas.
D'altronde il Distretto Due era grande, ma non immenso come lo era il Distretto Uno. Non poteva immaginare di aver trascurato un dettaglio così essenziale, soprattutto perché a Geografia l'insegnante non aveva mai parlato di una stazione che portava direttamente a Capitol City. In effetti, l'enorme struttura spiegava un sacco di cose. Ecco come i Tributi di ogni Edizione arrivavano a Capitol City. Ecco come gli Strateghi e i Pacificatori arrivavano, quando non usavano i dirigibili. Ecco come i rifornimenti di cibo e di materiale veniva trasportato nei vari Distretti. Ed ecco perché la quantità della merce diminuiva a mano a mano che il treno viaggiava attraverso tutti e Dodici. Il primo Distretto era quello più ricco, più lussuoso, a cui spettava più materiale, più cibo, più denaro. A seguire vi era il Distretto Due, quello di Ambrosia e Thomas, il re delle cave e delle pietre preziose. Il numero Tre e Quarto, padroni della Tecnologia e della Pesca. Il Cinque, il Sei e il Sette, dominatori di Elettricità, Medicina e Legname. L'Ottavo, il Nono, il Decimo e l'Undicesimo, i cui simboli spiccavano per Industrie Tessili, Grano, Bestiame e Agricoltura erano quelli più popolati. Infine vi era il Distretto Dodici, il più piccolo e il più povero, re delle miniere, laddove il pericolo era una questione quotidiana. Un tempo ci fu persino un Distretto Tredici, padrone dell'Energia Nucleare, ricco di produzione di armi nucleari. Fu bombardato e soppresso dalla Capitale in seguito ad un tentativo rivoluzionario.
Ora si capivano tante cose.
Ambrosia prese il braccio di Thomas, trascinandolo dietro ad un cassonetto dell'immondizia. C'era gente che andava e veniva. Persone di Capitol City, con assurdi vestiti, li sorpassavano senza vederli. Li sfioravano senza farci caso. Thomas doveva dire grazie al suo travestimento d'autista, mentre Ambrosia al suo travestimento colorato ed estroso.
«Adesso che siamo qui, ascoltami bene», incominciò Ambrosia. «Non abbiamo il denaro a sufficienza per comprare due biglietti fino a Capitol City e sicuramente ci chiederanno d'identificarci», continuò. «Ma Bones mi raccontava sempre di un vagone particolare, usato esclusivamente per il trasporto di vetture e di bagagli. Dev'essere infondo al treno, oppure al primo piano», perché quei treni ad alta velocità potevano essere di più settori, persino di più piani. «Ad ogni modo dobbiamo arrivarci senza dare nell'occhio. Potrebbero vederci, ma se tutto va secondo i miei piani, non si accorgeranno di niente».
Ambrosia guardava attentamente Thomas, interrompendo il contatto visivo in precisi momenti. In quei brevi periodi, fissava un orologio appeso all'arcata che dava all'entrata della stazione, cercando di rimanere lucida e ricordarsi l'orario di partenza. C'era solo una partenza al giorno per Capitol City, per cui dovevano sbrigarsi.
Ambrosia spiegò il piano a Thomas e quando fu il momento, lo misero in atto.


 

***


 

«Ci metteremo circa metà giornata a raggiungere la stazione di Capitol City, dopodiché dobbiamo stare attenti a non perdere di vista Bones. E' lui la nostra chiave d'accesso», spiegò Ambrosia.
«Tuo zio ci farà arrestare se scopre quello che abbiamo fatto», proferì demoralizzato Thomas.
«Lo so», rispose lei. «Ma dobbiamo rischiare. Bones mi ha allenata duramente per uno scopo e, sebbene sia un Favorito Vincitore, è vecchio e non si allena tutti i giorni. Almeno non più di quanto mi alleno io. Se avrà da ridire, non avrò problemi a sistemarlo».
Thomas seguiva attentamente il discorso di Ambrosia e dovette ammettere che non faceva una piega con la morale del suo carattere. Ambrosia si era sempre fidata ciecamente del proprio istinto, non aveva mai permesso a nessuno di interferire con le sue scelte. Erano lì grazie a lei, non per qualcun altro. Ancora stentava a credere che potesse essere frutto della sua testa e, Thomas dal canto suo, cercava di non farla innervosire troppo. Il ragazzo era a conoscenza, ormai, dell'indole aggressiva e permalosa di Ambrosia, per questo cercava di non scatenare il suo lato assassino. Avrebbe potuto risentirne più lui di chiunque altro a quella breve distanza.
«Senti Adams...»
«Mh?», domandò di rimando lei.
«Semmai usciremo vivi da qui, ricordami di ringraziarti».
Thomas sorrise, quasi imbarazzato. Sapeva bene che le probabilità della riuscita del piano erano più uniche che rare, ma non riuscì a trattenersi. Infondo era buono, Thomas. Un po' come quei lecca-lecca alla fragola, duri fuori e morbidi dentro.
«Odio i ringraziamenti. E non lo faccio né per te né per la tua bella. Volevo solo un po' di movimento. Mi annoiavo». Invece per Ambrosia non c'era nessun lecca-lecca alla fragola, nessun succo al suo interno, buono, morbido e saporito. Era tutto un misto di ghiaccio e acciaio. Era tutto un misto di peccato e di reale isolamento.
Thomas rimase in silenzio, prima di constatare la puzza di zolfo che stava aumentando a mano a mano che il treno prendeva velocità. Ambrosia, invece, se ne stava con lo sguardo fisso verso un qualcosa di ignoto, respirando senza quasi sollevare il petto e digrignando i denti. Thomas poteva notarlo dalla mandibola che si muoveva a ritmi irregolari. Lei era nervosa, ma probabilmente non l'avrebbe mai ammesso.
Ambrosia si voltò di scatto, beccando Thomas a fissarla con quegli occhi azzurri e buoni. Sogghignò, prima di sollevarsi da quella posizione.
«Watson, Watson...», dovette strisciare quasi addosso al ragazzo, cercando di rimanere in equilibrio in quel piccolo e basso spazio. «I tuoi occhietti non ti porteranno da nessuna parte. Devi cercare di essere più cattivo».
«Io sono cattivo».
«Tu sei un ragazzo innamorato che sta cercando di salvare la sua bella», disse Ambrosia. «Più che cattivo, sembri un'idiota pazzo d'amore».
Thomas si sentì preso in giro. D'un tratto il sangue gli ribollì dentro, il cuore incominciò a battere selvaggiamente contro il petto e la fronte si corrugò.
«Cosa ne sai tu dell'amore, Adams? Non fai altro che ammirare la tua figura davanti a qualsiasi specchio. Tu non conosci l'amore. Non sai cosa si prova. Non sai quanto potresti essere cattivo, quando ami».
Thomas fece il suo stesso movimento: si sollevò, strusciandosi contro di lei. Naso contro naso. Occhi contro occhi. Oro contro ghiaccio. Petto contro petto. Cuore contro cuore.
Ambrosia rimase in silenzio, immobile e grave in volto. Si passò la lingua sul labbro superiore, prima di sfiorare il petto di lui con l'indice destro. Poi inclinò la bocca in un ghigno meschino. Quel genere di ghigni che si sognano la notte, lasciando l'amaro in bocca una volta svegli.
«E' di questo che parlavo».
Dopodiché il treno si fermò all'improvviso. Entrambi i ragazzi si domandarono perché. Entrambi i ragazzi si guardarono scettici, negli occhi, per poi constatare una cosa sola. Erano stati scoperti.

 

 

***

 


In realtà le armi di una donna sono molteplici. Una di queste è quella di ancheggiare animatamente. Questo genere di armi le possiedono anche a Capitol City. Soprattutto, a Capitol City.
Ambrosia non aveva mai dimostrato di essere seducente in quel senso, ma Thomas constatò che la ragazza non se la cavava affatto male. Anzi, sembrava addirittura perfetta per quell'ambito. E gli uomini, decisamente, le stavano dietro. All'inizio non pensava che Ambrosia sarebbe ricorsa a un piano così infimo e normale, ma dopotutto non si stupì affatto quando si mise a rifletterci meglio.
Ambrosia Julia Adams non era famosa solo per la sua malattia. Certo, si parlava di lei soprattutto per quel carattere affine alla violenza, di quella famiglia animata solo dal successo e dal potere, ma non erano poche le volte che molti ragazzi, uomini e compagni di banco facevano battutine sulla figura femminea che ora ancheggiava animatamente nell'amplesso della Stazione.
«Per rimanere invisibili, dobbiamo fare la cosa opposta», aveva detto Ambrosia.
«E cioè renderci visibili?»
«Il più possibile».
Per questo la Adams aveva scelto di sfruttare quel corpo scolpito da duri allenamenti e creato da madre natura. Aveva deciso di sacrificarsi e rendersi visibile a chiunque. Nessuno l'avrebbe riconosciuta con la parrucca multicolor e i tacchi vertiginosi. Non sapeva come, ma ancheggiare facilitava il passo troppo elevato e veloce.
«Salve signorina», pronunciò l'addetto alla rivendita di biglietti. «Come posso esserle utile?»
Ambrosia cercò di pensare a come presentare quell'immagine fasulla e provvisoria che aveva creato. Non era mai stata brava ad improvvisare, non al di fuori della lotta. Come si comportavano le altre donne nella vita comune? Come si esprimevano, come guardavano?
Pensò a sua madre, quella donna intrattabile ma frivola. Soprattutto frivola. Gloria l'aveva sempre cresciuta tra palestre e banchi di scuola. Tra tattiche di combattimento e carabine pronte all'uso. Tuttavia Ambrosia non conosceva sua madre solo per la sua minuziosa volontà di renderla una macchina da guerra. Gloria era soprattutto una donna e in quanto tale amava esibire i suoi abiti firmati, le sue sfarzose acconciature e i gioielli che suo padre gli portava direttamente dall'orefice. In un nano secondo riuscì a ricordare l'atteggiamento civettuolo delle conversazioni con le amiche del tè delle cinque, quando Ambrosia passava da un corridoio all'altro. In un nano secondo riuscì a ricordare il portamento delle mani, della schiena e delle gambe, quando arrivava a portarle gli asciugamani puliti. In un nano secondo riuscì a carpire quel timbro di voce che risultava quasi fastidioso, tra urli e intonazioni strettamente acute.
In un nano secondo, Ambrosia divenne Gloria.
«Salve», disse Ambrosia sorridendo beata. «Sto cercando il binario per Capitol City. Me lo potrebbe indicare?» Le persone a lei vicino potevano sentire i suoi piccoli sussulti ogni sillaba pronunciata.
«Certo» rispose alquanto scettico il funzionario addetto, controllando su un monitor davanti a sé. «E' il terzo. Comunque se solleva la testa, c'è un tabellone telematico che suggerisce tutte le informazioni che le servono», spiegò il funzionario indicando con la mancina lo schermo troppo gigante per non essere visto dietro la ragazza.
«Oh», disse Ambrosia. «Che sbadata!»
Di rimando sollevò la nuca, senza voltarsi, mostrando il seno prosperoso schiacciato dal vestito troppo attillato. Casuale o causale.
Il funzionario di nome Henry fece cadere l'occhio su quel ben di Dio, prima di far passare la lingua sul labbro inferiore.
Stava andando tutto secondo i piani. Ed ora sarebbe dovuto toccare a Thomas.
Dieci secondi dopo, il ragazzo arrivò. Stava camminando velocemente, come se avesse fretta. Come se stesse per perdere il treno.
«Charlotte, insomma!», sbottò Thomas verso Ambrosia.
«Oh, no. Cosa ci fai qui Viktor?», replicò Ambrosia guardandolo da sotto gli occhiali scuri.
«Cosa ci faccio qui?! Sono venuto a riportarti a casa, ecco cosa ci faccio qui!».
Ambrosia sollevò il sopracciglio sinistro, indispettita e per niente appariscente al vecchio funzionario Henry. Un segno morsi. Thomas capì il segnale e fece per afferrare il polso di Ambrosia con una stretta decisa, tanto da farle male sul serio.
«Lasciami Viktor! Lasciami! Lei, faccia qualcosa avanti. Me lo levi di dosso!», supplicò Ambrosia verso Henry, il quale stava guardando la scena allibito. Riteneva tutto quello spettacolo senza senso, ma il povero vecchio non avrebbe potuto mai lasciare una donna succube del marito, amante o chicchesia. Così Henry scese dalla sua postazione, spalancò la porta della cabina e si protese verso Thomas, cercando prima gentilmente e solo più tardi animatamente, di staccarlo da Ambrosia – o Charlotte.
«La smetta, signore o dovrò chiamare i rinforzi!»
Henry cercò di afferrare i polsi di Thomas, evitando la presa ferma verso Ambrosia. Quest'ultima, onde evitare sguardi indiscreti, si diresse più vicino alla cabina. Sbirciò all'interno, cercando il macchinario giusto. Vi erano due grossi scatoloni in metallo: uno era composto da uno schermo scuro, l'altro da una fuoriuscita con alcuni fogli di carta. Probabilmente era quello che si occupava della stampa. Sbirciò ancora una volta Thomas e il funzionario litigare. Sperò con tutta se stessa che il ragazzo riuscisse a trattenerlo ancora per un po', inventandosi qualsiasi cosa. Con lo sguardo intravide finalmente quello che stava cercando, infilò la mano destra coperta da un guanto di velluto all'interno della cabina e premette più forte che poté.
Ad un tratto il segnale di intrusione e di emergenza, incominciò a rimbombare dagli auto-parlanti della stazione. Thomas guardò Ambrosia e in un nano secondo, il caos s'impadronì del luogo.

 

 

***

 

- martedì, 09.54 am, Capitol City.

«Credi che ci abbiano scoperto?» chiese Thomas respirando a fatica.
«Non lo so. Stai zitto». Quello di Ambrosia era un ordine e avrebbe fatto in modo di farlo rispettare. Il treno si era fermato, ma non avevano idea del perché. Erano già arrivati? Li avevano scoperti?
Certo, d'altronde era stato troppo strano ed avvincente il fatto di non essere stati scoperti alla stazione del Distretto 2. Dopo che avevano inscenato quella ridicola storiella, si erano dileguati al binario tre. Erano saliti sul vagone più vicino e si erano nascosti nella carrozza bagagli. Fino ad allora, erano passate solo tre ore e mezza. Avevano aspettato con calma che il caos si dileguasse. Le guardie ci misero poco e niente a scoprire che era tutto un falso allarme, punendo Herny per la sua ardua negligenza. Dopodiché il treno era partito, lasciando Thomas ed Ambrosia appiccicati l'uno contro l'altra per due ore e poco più. Avevano un bisogno di fare pipì e una fame da lupi, ma l'adrenalina tratteneva tutto questo.
Ambrosia cercò disperatamente di arrivare allo spioncino della porta. Dovette muoversi come un serpente per raggiungerlo, fino a quando non incontrò una luce accecante. Digrignò i denti e aggrottò le sopracciglia.
«Cosa vedi?» chiese Thomas.
«Non ne sono sicura», rispose Ambrosia. «C'è un bagliore fastidioso». Ambrosia si sollevò di nuovo, strofinandosi le palpebre come a scacciare l'enorme fastidio.
Una volta ripresa la vista guardò Thomas. Ormai non poteva più nascondere la preoccupazione. Gliela si leggeva in viso. Thomas le posò la mancina sul braccio opposto, come a rincuorarla di qualcosa. Probabilmente era il minimo che potesse fare, sebbene Ambrosia non fosse la persona più incline ad accettare affetto da qualcun altro.
Lui decise di fare il primo passo. Abbassò il maniglione della porta e la spalancò, mostrando ai loro occhi la grande e maestosa stazione di Capitol City.
Vi era fumo ovunque. La puzza di zolfo era mescolata a qualsiasi aroma esistente della Terra. Non vi era nient'altro che la stazione. La gente. I colori. Tutti erano di fretta, tutti stavano scendendo dai rispettivi vagoni e chiunque si stava chiedendo che ora fosse.
Ambrosia e Thomas scesero dal vagone bagagli, uno dopo l'altro e non fecero in tempo a sgranchirsi i muscoli che presero a correre il più veloce possibile.
Forse gli abitanti di Capitol City fecero caso a due individui che presero a correre all'impazzata. Forse fecero caso alle parrucche che venivano strappate dalle loro nuche con fervore e alle scarpe lasciate distrutte a pochi passi, ma quello che non seppero mai è che si trattava di due persone disposte a tutto pur di raggiungere il loro scopo.

 

- martedì, ore 12.45 pm. Arena.

Come erano riusciti a raggiungere l'Arena, ancora non lo sapevano. Avevano fatto scattare diversi allarmi e si erano imbattuti in diversi Pacificatori. Non sapevano nemmeno come erano riusciti ad ucciderli, uno dopo l'altro, senza provare rimorso o pentimento, senza fermarsi un secondo a riflettere. Erano stati degli assassini senza cuore, dimostrando quello per cui avevano lavorato tanto. Erano dei Favoriti e le loro uccisioni erano state il frutto di tanti sacrifici. Ambrosia si sentiva riempita e soddisfatta, Thomas stupefatto e incredulo.
Avevano raggiunto la stazione degli Strateghi sorpassando le guardie e l'intera Capitol City. Due ragazzini contro il governo. Avevano fatto scattare la bomba più grande che vi era mai stata. La guerra contro due ragazzini era iniziata. Avevano le ore contate e presto sarebbero morti. Morti e distrutti come il resto dei Tributi di quell'edizione, di quelle passate e di quelle future. Sarebbero morti, questo era poco ma sicuro.
Thomas ed Ambrosia avevano percorso la base operativa degli Strateghi, uccidendo o mettendo fuori gioco quelli che ne governavano l'Arena. Ambrosia si era messa a studiare in meno di due minuti l'accesso a quell'area proibita. Thomas aveva preso i caricatori delle armi che avevano rubato ai Pacificatori morti.
Avevano corso fino ai tubi che li avrebbero condotti all'interno dell'Arena. Avevano schiacciato il pulsante e si erano ritrovati catapultati in un'area deserta e colma di vegetazione. Avevano avuto due minuti per capire in che parte dell'Arena si trovassero, avevano contato i secondi con la paura che ogni minuto passato fosse l'ultimo delle loro vite. Avevano incominciato a correre verso Est, ricordandosi della mappa tracciata sullo schermo e dei volti di Lilian e Axel e Ophelia e Leon ancora in vita. Thomas non aveva reagito nel guardare Lilian. Non aveva mostrato debolezze o cedimenti ed Ambrosia sperava non crollasse da un momento all'altro. Avevano corso per non si sa quante miglia, fino a riconoscere le figure di Leon e Ophelia, una più aggressiva dell'altra. Una più spietata dell'altra. Li avevano seguiti in modo silenzioso fino alla grotta di Lilian ed Axel.
I minuti passavano, presto avrebbero inviato l'allarme di intrusione e avrebbero mandato qualcuno ad uccidere gli estranei. Era questione di momenti.
Avevano guardato Leon morire, ucciso da Ophelia e Thomas spianò la fronte in modo confuso quando intravide il corpo di Axel steso in terra.
«Siamo rimaste in due».
Era Ophelia a parlare, Thomas la sentiva.
«Sei morta St. James»
Ad ogni frase Thomas lo sapeva eccome. Ambrosia si mosse, lui la seguì.
«Mia».
Non fece in tempo a dirlo che Ambrosia scaraventò un pugnale in sua direzione. La mancò, ma forse era proprio questo il suo intento. Faccia a faccia. La stava avvertendo.
E poi Thomas entrò in scena, avanzò di qualche passo e cercò di mostrarsi calmo, quando invece dentro stava scoppiando.
«Veramente, puttana, lei non è di nessuno. Figuriamoci. Tua», disse Thomas.
Ascoltò la bionda biascicare qualcosa. Ascoltò la voce di Lilian pronunciare il suo cognome. Il suo nome.

 

 

- presente: martedì, ore 14.37 pm. Arena.


Incontra il suo sguardo e, finalmente, riesce a guardarla negli occhi e solo negli occhi dirle quanto amore prova per lei.
«Sono venuto a riprenderti, St. James», proferisce. Poi si corregge: «Lilian».
In un istante un suono acuto ed assordante invade l'intera grotta. Il terreno incomincia a tremare sotto i piedi.
Thomas guarda Lilian. Lilian guarda Thomas. Ma è Ophelia quella che si scaraventa sul ragazzo afferrando il coltello lanciato da Ambrosia. Colpisce carne e tessuto. Carne e tessuto appartenente ad Ambrosia Julia Adams.

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Capitolo 6
*** Destini Incrociati ***


6
Destini Incrociati

 

Thomas aveva avuto ragione. Ambrosia aveva cambiato idea. Riguardo l'Arena, riguardo loro, riguardo tutti. Ed ora si ritrova con una lama d'acciaio conficcata nell'avambraccio destro. Tutto per difendere i due rompipalle. Perché un po' lo sono, rompipalle.
«Guarda che diamine hai fatto al mio braccio, stupida bionda platino».
Ambrosia interagisce con Ophelia, mentre il suono acuto ed agghiacciante le fa scoppiare i timpani. Thomas e Lilian si tappano le orecchie piegandosi verso il basso, chiudendo gli occhi e cercando di far entrare il suono il meno possibile.
«Vai al diavolo! Non so chi voi siate e come siate riusciti ad arrivare qui, ma devo eliminare la rossa. E' mio compito. Devo vincere! Levati di mezzo!» Ophelia è rabbiosa. Sembra che il suono acuto non la scalfisca, riuscendo a urlare sopra di esso. Le iridi dorate di Ambrosia rimangono impassibili, cercando di captare da dove proviene il segnale d'allarme. E' ovvio che Capitol City sia rimasta a bocca asciutta. Due comuni cittadini di chissà dove sono riusciti ad intrufolarsi all'interno dell'Arena. Nessuno prima di allora ci era mai riuscito, semplicemente perché nessuno prima di loro aveva pensato di farlo.
Lampi di rabbia, fiamme ardenti e pioggia acida sarebbero cadute dal cielo molto presto. Ambrosia aveva fatto saltare i corti circuiti delle loro stregonerie prima di capire da dove entrare, ma non era stupida. Sapeva benissimo che anche se gli Strateghi idonei al compito erano stati fatti fuori, presto ne sarebbero arrivati altri per sostituirli. Capitol City non si sarebbe fatta imbrogliare tanto facilmente.
Ed infatti, una voce risuona tra le nuvole di quella tersa giornata.
«Stranieri, arrendetevi o si scatenerà la fine del mondo su di voi. Avete infranto le leggi della Capitale, riconoscete i vostri sbagli e costituitevi alla nostra – e vostra – autorità. Gli ultimi due Tributi devono confrontarsi. Devono lottare fino alla morte. E' compito nostro fermarvi. Sarete giustiziati, ma perdonati dal Sommo Sindaco. Avete il mondo contro, Stranieri. Arrendetevi subito o morirete. Tutti». L'interfono rimbomba ancora per una decina di secondi, dopodiché il silenzio riprende nuovamente la preminenza.
Ophelia ascolta con attenzione, così, come gli altri tre rimasti. Lilian e Thomas adocchiano Ambrosia; vorrebbero dirle di decidere. Il ragazzo strapperebbe il collo a morsi a quella lurida bionda, Ambrosia lo sa bene. Le iridi dorate si rivolgono al cielo, le labbra s'increspano in un sorriso e il braccio sinistro, quello sano, si eleva verso l'alto. Mostra il dito medio.
«Prego». Solo questa sembra essere la sua dimostrazione di acconsentimento verso la Capitale.
Ophelia scatta in avanti verso Ambrosia, ma non è il suo vero obiettivo. In realtà lei vuole Lilian, lo sanno tutti. La rossa resta a guardare la lotta e la resistenza della mora, prima di venire strattonata da Thomas.
«Lilian muoviti, dobbiamo andarcene prima che gli Strateghi ci uccidano!»
«Cosa? No! Io non posso andarmene Thomas. Cosa diamine avete fatto? Come? E' compito mio quello di uccidere o essere uccisa. Non farmi scegliere, Thomas. Devo restare. Tu e Ambrosia dovete andarvene via subito. Questo ha portato la vostra morte certa.Thomas!»
Gli occhi le bruciano come non mai. Si arrossano non appena Thomas la sfiora con la mano destra, stringendo la tuta semi distrutta di Lilian. Si chiede un miliardo di cose. Troppe domande, troppa confusione le pervadono da dentro. Se prima aveva avuto un barlume di stupore, speranza e gioia nel vederli, ora tutto è diverso. Tutto, in un frangente di minuti, è cambiato. Thomas ed Ambrosia non dovrebbero essere qui. E' sbagliato. Tutto questo è sbagliato.
«Non ti sto chiedendo di scegliere Lilian. Ti sto obbligando a salvarti la vita. Devi muoverti. Devi venire via con me, dannazione».
Ambrosia viene colpita al petto.
«Perché? Voi non dovevate essere qui. Non siete stati scelti! Dovete andarvene subito, Thomas. Perché?»
Ophelia viene atterrata.
«Non discutere, diamine. Non essere testarda come tuo solito. Non lo capisci che abbiamo fatto tutto questo per te? Non lo capisci che sono venuto qui per te? Non lo capisci che sei l'unica speranza che ho in questa fottuta vita e che se tu muori, io muoio con te». Per un impercettibile istante i loro sguardi rimangono sospesi tra la comprensione e l'incertezza. Per un istante Thomas e Lilian restano fuori da tutto quel mondo.
Mentre Ambrosia viene atterrata ed Ophelia ferita, il ragazzo non ha altri indugi: solleva di peso Lilian e incomincia ad allontanarsi dalla scena. Non si guarda indietro. Non osserva le due ragazze dimenarsi. Non cerca di aiutare Ambrosia. Non lascia andare Lilian e, per non lasciarla andare, non si guarda indietro. Non si ferma per Ambrosia né per Ophelia. Vorrebbe distruggerla. Vorrebbe ucciderla con le sue mani, ma Ambrosia era stata chiara fin dall'inizio. Il suo desiderio era più vivido del suo.
 

 

- martedì, ore 12.15. Botola, Arena.

«Siamo stati chiari? Tu la prendi e scappi. Io distruggo la bionda. Ormai ci sto prendendo gusto con queste», Ambrosia indicò le due lame seghettate. Erano appena sotto la botola, in meno di dieci secondi avrebbero raggiunto l'Arena a forma di labirinto. Non ce l'avevano semplicemente fatta, avevano ingannato Capitol City. Avevano distrutto le loro difese. E si stavano chiedendo come mai due soli ragazzini, erano riusciti così facilmente nel loro intento.
«Non posso lasciarti combattere da sola. Quella ha vissuto settimane tra la paura di essere uccisa e il sapore del sangue ad alimentarle la voglia di uccidere. Ti rendi conto che è mossa da più motivazioni? Ti rendi conto che mi stai chiedendo di lasciarti morire?»
«Quanta poca fiducia che hai in me, Watson. Ricordati che non sai un bel niente delle mie motivazioni. E come atterro te, atterrerò lei».
«Ma è diverso! In palestra facevamo finta, Adams. Qui è reale, non te ne rendi conto».
«Aspetta», lo interruppe Ambrosia. «Chi ha mai detto che in palestra io facevo finta?»
Thomas ed Ambrosia si guardarono per un istante. Le loro labbra non dissero più nulla. Gli occhi di Thomas parlarono per lui, come le lame riposte nella cintura dei pantaloni, parlarono per lei. Si erano dati l'okay e avevano riposto totale fiducia l'uno verso l'altra. Ambrosia non stava più solo entrando nell'Arena andando contro Capitol City – la sua venerata Capitol City – ma questa cosa l'aveva travolta. Era diventata più grande di lei e non era più riuscita a controllarla. Per la prima volta, Ambrosia sapeva quello che voleva davvero. E non era allenare il suo corpo o imparare nuove tattiche di combattimento. Non era nemmeno più convinta di voler essere un Favorito. Si era ritrovata i Pacificatori contro, Bones – come la sua famiglia - sicuramente era già a conoscenza di tutto quanto. Non aveva più niente se non se stessa e le sue abilità. Non aveva più niente se non continuare a combattere contro Capitol City. E non si sarebbe arresa. L'avrebbe distrutta, così come avrebbe distrutto la bionda platino. Se era sicura di una cosa era quella di essere nata per uccidere. Quando si nasce, il destino ti si appiccica alla pelle e non se ne va più via. Il suo destino era quello. Il suo destino l'aveva scelta come assassina e non c'era niente per far cambiare le cose. Lei uccideva esclusivamente per il suo fine. Qualunque esso fosse era quella, la vera essenza di Ambrosia Julia Adams. Anche se doveva aiutare due esseri umani. Anche se doveva salvare una ragazzina per un ragazzo di cui nemmeno le importava. Era semplicemente così che dovevano andare le cose. Era già stato scritto e avrebbe messo il punto all'ultima frase di questo dannatissimo capitolo della sua vita. Era pronta a combattere e morire, proprio come Thomas era sempre stato pronto a combattere per la sua Lilian. Ambrosia avrebbe combattuto per se stessa. E avrebbe vinto.

 

- presente: martedì, ore 01.27 pm.

Lilian non sta capendo assolutamente nulla. Thomas l'ha sollevata senza rendersi conto della ferita che riporta al basso ventre. Se sta ferma e non si dimena, allora è possibile che i punti non si aprano. Ma ovviamente Lilian non è la classica donnicciola che si lascia trasportare così. Non le va bene tutto questo. Solleva la gamba destra e cerca di conficcarla sullo sterno di Thomas, ma lui la blocca con il braccio sinistro come nulla fosse. E' diventato più forte. Lo sente. Anche lei sarebbe diventata più forte, se non fosse stata ferita. Axel aveva avuto la gentilezza di prendersi cura di lei. Ed ora che la sua morte era stata incoronata dalle cannonate, quella ferita sarebbe morta con lei ricordando il giovane compagno deceduto per salvarla.
Non le piace che tutti cercano di salvarla. Non è uno di quei personaggi delle fiabe che portano con sé un fardello che solo grazie alle loro mani, potranno sviluppare e mostrare al mondo. Non è una di quelle principesse descritte nei libri, le quali devono essere salvate perché altamente preziose. Lei non è quel genere di persona. Lei è solo uno dei tanti Tributi che sono stati scelti per l'Edizione di quest'anno. Non è niente di speciale. Né più né meno.
«Thomas, ti prego, mettimi giù».
Lei non è nemmeno quel genere di persona che ti supplica, ma il fatto è che se non le prova tutte, non riuscirà a salvarli. Sempre che Ambrosia sia ancora viva.
«Thomas, dico sul serio: mettimi giù! Ho male, mettimi giù!»
Ma il ragazzo non è stupido. Non cade nella sua trappola. Non la lascia scegliere. Continua a portarla via. Continua a camminare a passo svelto, cercando di sviare le trappole e le buche che Capitol City sta posizionando appositamente per loro.
«Sei cambiato».
E Thomas si ferma. Lilian quasi non ci sperava più. Resta fermo per qualche secondo, ascoltando il proprio respiro, prima di far scendere la ragazza dalle proprie spalle. Cerca di non farle male e Lilian fa lo stesso, digrignando i denti quando poggia i piedi sulle foglie secche, a contatto con il terreno. Sente il basso ventre lamentarsi e lo trattiene con entrambe le mani.
«Stai bene?» chiede Thomas.
Lilian solleva lo sguardo, incontrando quello glaciale di Thomas.
«L'unica cosa che volevo davvero era quella di saperti al sicuro e via da qui, Watson. Nemmeno l'unica cosa che volevo davvero con tutto il cuore sei riuscito a realizzare». Lilian parla fermamente, continuando a tenersi la ferita che probabilmente si è riaperta. Sbatte le palpebre, trattenendo le lacrime. E' vulnerabile, sente il sangue ribollire da dentro e i brividi invadere la pelle.
«E mi odi per questo?» la domanda di Thomas le giunge come una provocazione. Lui le si avvicina, lieve, prima che lei gli molli un ceffone in pieno volto. Lo sguardo di lei brucia di disperazione e d'incertezza. Le lacrime invadono le gote rosse in modo silenzioso, prima di corrucciare la fronte e increspare le labbra.
«Come puoi dire questo? Come puoi anche solo minimamente pensare che io ti odi, Thomas?»
Le iridi chiare di Lilian sono due fari nell'oscurità. Deglutisce e si asciuga le lacrime con la manica strappata della tuta. Le labbra tremano e il proprio corpo sta per cedere. Le gira la testa, ma non vuole arrendersi per uno smidollato che sta rischiando tutto per niente.
Thomas scosta il volto nuovamente verso di lei, senza massaggiarsi la guancia pulsante di dolore. Probabilmente Lilian ha canalizzato le sue ultime forze ed energie in quel misero colpo; colpo che però gli ha lasciato il segno. Sta per dire qualcosa, quando poco più in là un rimbombo fa scuotere i cespugli e gli alberi e loro. Entrambi cadono, si graffiano e cercano di capire da dove provenga il terremoto. Il terreno scricchiola sotto di loro e il mondo sembra cadergli addosso. Thomas alza la testa sopra di sé, riuscendo solo a captare qualche uccello – probabilmente ibrido – che migra verso ovest. Cerca di urlare, ma quello che sente è solo il tuono imperterrito della fine del mondo. Cerca Lilian con gli occhi e una volta che incontrano i suoi, Thomas le afferra saldamente un braccio e cerca di trovare l'equilibrio per alzarsi e farla alzare assieme a lui. Dopodiché, incominciano a correre, perché è l'unica cosa che riescono a pensare di fare. Insieme. Mano nella mano. Sapendo che non vi sarà mai una vera via di fuga.

 

 

******


 

Ophelia sferra un colpo in direzione di Ambrosia, cercando di non pensare né al fianco martoriato, né alla tempia pulsante di dolore. E Ambrosia schiva l'intento di ucciderla ancora una volta, cadendo su di lei e arrabbiandosi come non mai. Gli occhi sono iniettati di sangue, come le proprie vesti scure sono imbrattate di liquido viscoso. Suo o di Ophelia non ha importanza, non saprebbe nemmeno distinguerlo più. Gli Strateghi hanno smesso di parlare e hanno incominciato a incanalare le loro giustizie nell'Arena. E' per questo che percepisce rumori insoliti, spostamenti del terreno e talvolta pioggia acida che cade dal cielo. La faccia le brucia, ma l'adrenalina è sempre più forte. La fa scalciare come un animale impazzito, pronto al macello. Perché lei ha scelto il macello, proprio come Watson. Le viene piantata la lama del coltello nella coscia, in profondità e sente un dolore allucinante. Cerca lo sguardo di Ophelia e lo trova, non ancora sazia dello spettacolo che sta vivendo. E pensare che non doveva nemmeno essere lei, la carne del macello. E pensare che non doveva trovarsi qui, sbagliando. Eppure non potrebbe trovarsi da nessun'altra parte. Respinge il corpo forte e stanco di Ophelia, liberandosi la coscia di quel corpo estraneo, lasciandolo luccicare del suo sangue vivo e cremisi alla luce del primo pomeriggio.
«Credi di riuscire ad uccidermi con un simile coltellino, bionda?» Ambrosia glielo mostra, dondolandolo davanti ai suoi occhi. «Dovrai impegnarti di più se vuoi raggiungere la rossa».
«Perché la stai difendendo? E' la tua migliore amica per caso? Tua sorella? Chi diamine è quella insulsa ragazzina che tutti cercate di salvare? E' solo un Tributo come un altro. Dovresti capirlo. Da come combatti non sembri essere una persona normale. Tu... tu sei un favorito». Ophelia rimane scossa dalla propria rivelazione. Sgrana gli occhi chiari e inarca entrambe le sopracciglia. Osserva Ambrosia con pena e disgusto, senza lasciare la propria postazione da combattimento.
«Oh, sì. Io sono un favorito. Ma per chi vorrò lavorare sarà solo una mia scelta. Chi favorirò lo scelgo ancora io. Hai mai sentito parlare di libero arbitrio?» chiede Ambrosia sussurrando saccente. E il silenzio della bionda le dà solo una conferma in più. «Come immaginavo. Beh, esiste e voglio essere io a scegliere per chi vivere».
Ambrosia percorre i pochi metri che la dividono da Ophelia correndo, saltando e puntando il pugnale all'altezza del suo cuore. Ma Ophelia è forte, forse più forte di quanto potesse aspettarsi. Due favoriti che combattono per la loro convinzione di essere migliori. Due favoriti che sanno quello che vogliono. Il piccolo particolare è che Ambrosia è mossa dalla propria coscienza ora, e questa, quando si presenta in modo inaspettato, può essere più pericolosa che l'incoscienza di una malattia psicologica congenita.
«Sei solo spinta dal bene e dal fare del buono. Ti hanno arrovellato il cervello quei due. Ritorna a credere quello a cui credevi prima. Chi combatte così non è stato mosso a combattere per la giustizia. Tu combatti per qualcos'altro, dillo!»
Ophelia scansa i colpi di Ambrosia e parla. Le parole rimbombano sopra i rumori che l'Arena riproduce. Ambrosia si chiede se quello che dice sia vero. Ma non accenna a rallentare la brutalità dei colpi che vanno a vuoto o la corsa che cerca di fare per raggiungere il Tributo troppo veloce. Cosa la spinge, davvero, a cadere e rialzarsi? Digrigna i denti, sputando sangue e lasciando che le ferite continuino a sanguinare. Piegarsi sulla coscia ferita significherebbe dare modo ad Ophelia di colpirla, di strapparle il cuore dal petto e di ammazzarla come vuole. Non può permettersi di lasciarsi finire così. Lei è la migliore, è spinta dalla rabbia e dalla volontà di essere un'assassina. Non sta combattendo per Thomas, per Lilian. Lo sta facendo esclusivamente per lei e per il suo libero arbitrio. Lei ha scelto di essere quello che è. Ha scelto di aiutare due ragazzi che non avranno un lieto fine. Ha scelto di dare la possibilità a Watson di non avere rimpianti o rimorsi. Ha scelto lui, perché è sempre stato qualcuno di così simile e dissimile allo stesso tempo. Non l'ha scelto per amore, per amicizia o per vendetta. L'ha scelto perché è come lei. L'ha scelto perché è migliore di lei. Ed essere come e diverso da lei è un vantaggio o il peggior svantaggio che possa capitare a qualcuno.
«Hai ragione», Ambrosia si ferma a riprendere fiato. Il silenzio non è più protagonista di quello scontro. «Non sono buona e mai vorrei esserlo. Combatto perché ho scelto di farlo. Combatto perché è l'unica cosa che mi rimane di scegliere, prima di portarti della tomba assieme a me».
E poi il vero inferno cala sulle tenebre dagli occhi dorati. Il miele scompare e il cremisi del sangue è l'unico colore che i suoi occhi vedono nascere e morire allo stesso tempo.

 

 

******


 

Gli scontri che Thomas e Lilian hanno dovuto e dovranno affrontare sono e saranno sempre più grandi di loro. Dopo essere scappati per chissà dove, si sono imbattuti in ibridi, in palle di fuoco, zombie dall'aria malvagia, fulmini e tempeste di ghiaccio. Sono passate ore e non è si mai sentito un cannone sparare il colpo che segnasse la morte di Ophelia. Quindi è questione di minuti prima che si venga a sapere se stanno ancora combattendo o Ambrosia ha fatto la fine degli altri Tributi, pur non essendo uno di loro. E' inutile che proseguano o si nascondano, in realtà Thomas voleva raggiungere la botola dalla quale erano arrivati lui e Ambrosia, ma Lilian ha smontato le sue speranze dicendogli che una volta arrivati qui, è impossibile andarsene senza l'aiuto degli Strateghi. Ed è così che Thomas capisce di essere stato uno stupido, incosciente e poco più di un ragazzino spinto dai propri desideri egoisti. Ora si ritrova una Lilian più che ferita accanto a sé e una gamba martoriata e sanguinante. Si sente debole e privo di forze, il solo sentimento non lo avrebbe reso più forte ed invincibile, avrebbe dovuto pensarci prima.
«Thomas». Lilian lo richiama a sé con inquietudine. Thomas si trascina, letteralmente, accanto a lei, ancora più vicino di quanto già non fosse prima. Sono entrambi sporchi di fango e sangue, di sudore e di lacrime prosciugate dalla consapevolezza. Sono rimasti soli in mezzo alla foresta e non sanno ancora perché Capitol City li stia guardando e li stia tenendo in vita. Basta qualcuno che prema uno stupido pulsante e i loro corpi verrebbero bruciati all'istante, vivi. Basta qualcuno che faccia comparire esseri spregevoli e senza umanità e lasciare che essi si nutriscano dei loro cadaveri. Basta qualcuno che faccia qualcosa e loro potrebbero spegnersi da un momento all'altro, senza potersi dire davvero quello che vogliono.
Thomas s'immerge profondamente in quello sguardo chiaro e timoroso. Lilian fa altrettanto, provando a sollevare il braccio rotto verso il volto sfregiato di Thomas. Ma non ci riesce. Le ossa sono maciullate all'interno della pelle. Le si dipinge sul volto l'espressione di dolore che l'ha accompagnata in queste lunghe e desolate ore. Thomas la trattiene, poggiando la mano destra sul braccio rotto di Lilian. Il freddo li sta congelando lentamente e il loro respiro è sempre più evidente e accelerato.
«Sono qui», non riesce a dire nient'altro. Thomas la vede illuminarsi quando un raggio fulgente di un pallido sole – o di un'altra stella – cala su di loro, basso e prossimo allo spegnersi. E' il tramonto. Un ultimo tramonto da passare insieme.
«Come sta Allie?» domanda lei.
«Bene, bei capelli sta bene». Thomas le lascia ancora il tempo di respirare, notando che la ferita al basso ventre continua a sanguinare, logorandola da dentro. E' il dolore a muovere quelle parole, lui lo sa, lo percepisce. E non vorrebbe farle provare questo. Non riesce a guardarla negli occhi, senza lasciarsi sfuggire la verità. E non vuole crederci. Le posa il palmo della mano sulla guancia, accarezzandola come aveva immaginato di fare, tastandola come aveva sempre sognato di fare. Riesce a percepisce la sua pelle candida e morbida sotto quel grumo di sangue e melma, pulendo quella carne rosa che avrebbe voluto mordicchiare e baciare fino a non avere più saliva. Passa il pollice sul labbro inferiore di lei, cercando le parole giuste o di fare quello che entrambi si aspettano. Lilian lo guarda, trattenendo il fiato e sollevando il braccio sano per trarlo a sé.
«Dannazione Watson, baciami».
E le labbra s'incontrano. Prima impacciatamente, scostandosi subito dopo. Ma le pupille guizzano vogliose e voluttuose, lasciando che le teste si tocchino e che i capelli si aggroviglino insieme. Le lingue intrecciate e le dita sfiorate, fino a sentire il gusto recondito di una passione cercata e sognata. I dolori degli arti feriti, gli ultimi respiri inalati e il pallore dei visi sono altra storia. In quel bacio ci sono tutte le speranze e le cose che non si sono mai detti. In quel bacio vi sono solo Lilian e Thomas. In quel bacio c'è l'intera vita che avrebbero voluto passare assieme, le mille passeggiate al tramonto e i mille fiori raccolti per lei. In quel bacio vi sono i volti di due ragazzini perduti e ritrovati, la loro ribellione e l'ingiustizia di chi ha fatto loro questo. In quel bacio vi è il grazie che un giorno Thomas darà ad Ambrosia e un sinonimo di preghiera che Lilian dirà a voce alta ad Axel. Il quel bacio c'è il mondo e il niente, imbrattandosi di quell'odore e di quel sapore che non dimenticheranno tanto facilmente. Nemmeno se dovessero impazzire, morire o rinunciare ad entrambi. In quel bacio vi sono solo Lilian e Thomas.
«Lo volevo fare da sempre», sussurra Thomas. «Da tutta la vita».
Lilian lo sfiora con la punta del naso, socchiudendo le palpebre.
«E' sempre appartenuto a te, Thomas. Tutto, di me, ha sempre avuto un senso con te».
Le iridi cristalline di entrambi sono umide, lo sentono e lo vedono, anche se il sole è già calato. Anche se sono rimasti seduti e sdraiati, aspettando chissà cosa, per ore. 
«La nostra storia non ha mai avuto un granché successo. Allie mi ucciderà quando lo saprà».
«Lo sa già. Bei capelli lo sa già». Thomas continua a sfiorarle la punta del naso con la sua. Deglutisce più volte e continua a sfiorarle le labbra con la punta della lingua. Continuano a baciarsi e a volersi per ore, senza che questo compimento giunga al termine. Sono coscienti che il loro tempo stia per finire e proprio per questo non accennano a staccarsi da quella posizione. Anche se è scomoda e scorretta per il loro sangue che defluisce in maniera sbagliata. Anche se fa male a Lilian e dà fastidio a Thomas. Ad ogni modo sono entrambi consapevoli di non poter più scappare e di aver avuto quel momento, il momento, che avrebbero dovuto farsi bastare. Ma quel momento non basterà mai e loro lo sanno.
«Mi dispiace Thomas. Mi dispiace di aver baciato Axel, di averti ingannato. Pensavo che se fossi riuscito ad odiarmi, mi avresti dimenticato più in fretta. Pensavo che baciando Axel, sarei stata capace di lasciarti andare con più facilità».
«Ma ti sbagliavi», la interrompe Thomas.
«Ma mi sbagliavo».
Il pallore di Lilian scende inesorabile sui suoi occhi, lasciando che Thomas prenda le redini e si metta contro il tronco di un albero, accarezzandole i capelli e la nuca sulle sue ginocchia. Non gli interessa di provar dolore per la gamba agonizzante. Probabilmente gliela taglieranno, ma non gli importa. Thomas rimane così, a fissare il volto stanco e afflitto della sua Lilian, liberando le lacrime dal muro di ghiaccio e pulendosi da tutta la tristezza che ha sempre portato sulle spalle.
Rimangono così per ore, fino ad addormentarsi, fino a non sapere più chi e cosa sono. Fino a rimanere in pace, isolati dal mondo circostante e continuamente osservati, ma in pace. Loro due. Insieme.

 

 

*******


 

Quando Thomas apre gli occhi, il corpo di Lilian è ancora lì dove l'aveva lasciato prima. Il suo respiro è debole, ma si accerta che sia ancora viva. E' notte fonda e non ha la minima idea di quanto possa essere passato. Forse ore, forse notti intere. Ma le ferite che riportano non hanno il bell'aspetto di durare per giorni. Ma sono ancora vivi e non si spiega il perché. Desta Lilian dal suo dormiveglia, le sfiora la fronte constatando che scotta. Le sussurra di non preoccuparsi e la mette a sedere, accanto a sé. Cerca di alzarsi, perché vuole andare a cercare dell'acqua, senza pensare che probabilmente gli Strateghi abbiano prosciugato il terreno con le loro stregonerie. Senza riflettere un momento. Spinto solo dal desiderio di fare qualcosa per la sua Lilian, per salvarla da quella situazione. Ma Lilian lo trattiene a sé, respirando a fatica e strappandogli la leggera tuta in lino che Thomas ha sgraffignato prima di venire lì da lei. Lilian lo guarda, pallida in volto e consapevole di quello che succederà.
«Resta», gli sussurra. «Resta con me, Thomas». Probabilmente è l'unico desiderio che Thomas potrebbe rispettare e potrebbe esaudire. Forse è l'unico atto di gentilezza che riuscirebbe a renderla felice, a renderla serena, in una qualche forma di idealismo. Si mette a sedere, ancora una volta, accanto a lei. Rimangono in silenzio a contemplarsi nel buio, fino a portare lo sguardo ad abituarsi all'oscurità. Si vive insieme, si muore soli. Ma per lui era successo il contrario: aveva vissuto quella vita da mero idiota, isolato dal mondo e solo con la condizione di mostrarsi a suo nonno come un perfetto Watson. Aveva vissuto da solo, ma da solo non se ne sarebbe andato. Probabilmente quello era il suo destino. Si era imbattuto in quello di Lilian ed ora si ritrovano insieme, a morire e a vivere quella vita che non avrebbero vissuto mai. Ed è felice. E' davvero felice di essere insieme a lei, un'unica e perfetta volta. E' consapevole che sarebbero morti entrambi, ma l'egoismo gli suggerisce che almeno non avrebbe lasciato questo mondo da solo. Il suo egoismo lo ha trasformato in un fottuto codardo, ma ora è troppo tardi per tornare indietro. Ha incrociato la vita di Lilian e per una disgrazia era con lei che avrebbe concluso la propria. Cosa c'è di così sbagliato e di così egoista, infondo? Tutti vorrebbero morire abbracciati alla persona che si ama. Tutti vorrebbero spegnersi con la consapevolezza – o illusione - di non essere soli.
«Watson!»
Ad urlare il suo cognome non è stata Lilian. E' una voce lontana, troppo lontana per riflettere e capire a chi appartiene.
«Watson!»
E continua a farsi sentire, senza incertezza, ma con convinzione. Quella voce trema di paura, ma non accenna a fermarsi.
«Watson, diamine, dove cazzo sei?»
La riconosce. Appartiene alla Adams, ma non riesce a figurarla. Il buio oscura persino le proprie mani. E' troppo lontana, troppo invisibile, troppo viva per volerla ascoltare davvero.
«E' la Adams, Thomas», sussurra Lilian. «E' viva. Forse ha ucciso Ophelia». Il volto di Thomas si accende in un istante. Se così fosse, la loro speranza potrebbe tramutarsi vera o perlomeno reale. Non sarebbe solo più un sogno distante anni luce, ma potrebbe prendere vita e forma come nei suoi pensieri.
Si scosta dalla sua posizione, apre le palpebre e cerca di focalizzare la figura di Ambrosia. Non notandola, urla la sua posizione, senza pensare di essere scoperto. Vuole solo capire dove diamine si è andata a cacciare e perché non la vede.
Mette a fuoco davanti a sé, intravedendo la figura di una donna che avanza con indugio ed incertezza. Barcolla su se stessa e quasi cade, se non fosse per l'equilibrio che sembra riprendere non appena si rende conto di star per crollare. Ma quella figura non rappresenta minimamente Ambrosia. E' bionda, alta e insanguinata dalla testa ai piedi. Tiene in mano un'accetta imbrattata di sangue, e l'altro braccio sembra essere morbido sul suo fianco. Anzi, no. L'altro braccio sembra essere stato tranciato a metà. Ora lo riesce a vedere bene. Ophelia è davanti a loro, debole e zuppa di sangue suo e non suo. Ophelia è un pezzo di carne macinata che cammina come uno zombie, vivo e insano, governato solo dalla voglia di farla finita una volta per tutte.
«Lilian». Thomas richiama la compagna senza guardarla negli occhi, ma per avvisarla. «Chiudi gli occhi, Lilian», le sussurra. Dopodiché cerca di mettersi in piedi, strusciandosi contro il tronco dell'albero. Ma senza riuscirci. Quella gamba è troppo mal ridotta. Un solo breve sforzo gli costa un lancinante dolore e non ha nessun'arma a sua disposizione. Nè per difendersi, né per difendere Lilian.
«Non voglio chiudere gli occhi, Thomas». Lilian è sveglia, sebbene quel volto lambito da stanchezza e pallore sia continuamente presente. Gli tasta il braccio sinistro, cercando di trascinarsi verso di lui.
«Watson!»
Quella voce. Quella voce non appartiene ad Ophelia. E non è lei che lo richiamava poco prima. Appartiene ad Ambrosia, lui lo sa. Ma non riesce a vederla. Non riesce a raffigurarla.
«Watson! Va' via di lì, dannazione. Sta arrivando!»
La intravede correre, anzi no, zoppicare in direzione del passo lento di Ophelia. Lei non si discosta, è come se non la sentisse. Il suo unico obiettivo, lui lo sa, è Lilian. E' sempre stata Lilian. Deve vincere e per farlo deve ucciderla e meritarsi regolarmente la vittoria di Tributo Favorito.
L'unico movimento che vede è quell'accetta che tiene tra le mani prendere il volo verso di loro. Thomas sgrana gli occhi, conta i secondi, forse vede l'immagine sfocata della morte, ma sa benissimo che non ci si vede attraversare l'intera vita davanti. Quelle sono scene da film e lui non sta vivendo un film. Thomas in quel frangente di secondo percepisce ogni dettaglio che quell'accetta possiede, dritta verso la propria nuca. Prima bisogna uccidere gli inetti e solo dopo si sarebbe preoccupata di far saltare le cervella alla rossa.
Thomas osserva le macchie di sangue che già imbrattano la lama lucente e il manico, quel manico in legno tastato più volte e seghettato ancora di più. Ophelia lo vuole colpire per primo, ma non sa perché. O forse lo sa meglio di chiunque altro. Alla bionda non interessa torturare l'amata davanti agli occhi di lui, non le importa un bel niente di tutti quei giochetti. Lei vuole solo vincere, come ogni favorito che si rispetti. Come ogni favorito che Capitol City ha creato, fino ad oggi.
Ma quell'accetta non va ad incastrarsi nel petto giusto. Lilian scherma Thomas con il proprio corpo, con la propria schiena, in un'ultima vera azione che compie. Si è sollevata di scatto e lui non se n'è nemmeno accorto. Non si accorto che Lilian si era agganciata al suo braccio e si era sollevata urlando di dolore, perché troppo occupato a rimanere immobile, immobile a lasciarsi morire. E Lilian rimane folgorata da quella lama già insanguinata, che gli si piazza tra le scapole. Lo sguardo di Lilian rimane sbarrato, un rivolo di sangue le esce dalla bocca e si accascia inesorabile su di Thomas.
«No! Lilian! No, no no! Lilian dannazione. Apri gli occhi».
Ambrosia si scaraventa su Ophelia e le taglia la testa come un macellaio farebbe ad un maiale.
«Lilian, no. Lilian guardami, ti prego, guardami».
Ambrosia la uccide troppo tardi, perché la bionda ha già scagliato l'ultima arma in suo possesso verso la coppia metri più in là. Ambrosia schiaccia quel corpo con vigore e con rabbia, senza mostrarsi compassionevole.
«Lilian, ti prego. Guardami. Ehi... Hai vinto. Hai vinto i settantaduesimi Hunger Games, Lilian. Lilian resta con me», Thomas la richiama così, mentre il petto di lei si alza e si riabbassa per poche volte. Le iridi cristalline si accendono, il rivolo di sangue che le esce dalla bocca le macchia quel collo già sporco.
«Appartiene a te, Watson», gli risponde lei. «Io appartengo a te, Thomas». Le labbra le tremano. Le labbra sussurrano solo un'altra parola: «Sempre». Poi si spegne e quelle iridi accese rimangono a fissare il vuoto per un istante, per giorni, per anni. Quelle iridi vengono spente come un sipario che viene calato su un bellissimo spettacolo. Così le lacrime di Thomas le tempestano il volto, come fiori profumati e colorati a ringraziare la compagnia di quell'esibizione per avergli donato una bellissima visione. Una bellissima emozione. Il rintocco della mezzanotte segna il suono della fine delle due ultime sopravvissute. Il rintocco di mezzanotte segna la buonanotte eterna per il suo unico e vero amore. L'ultimo rintocco di mezzanotte segna la ghiacciante guerra di Capitol City, perché è sempre stato qualcosa più grande di lui, di loro. E' sempre stata una guerra iniziata anni fa e, per Lilian, sarebbe finita presto.

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Capitolo 7
*** Epilogo ***


Epilogo

 

Le foglie d'autunno caddero silenziose sulle verdi distese d'erba che governavano quelle colline. La gamba d'acciaio cigolava ad ogni passo, ma ormai Thomas si era abituato a quel suono metallico che gli sfiorava l'udito. Ci aveva convissuto gli ultimi trent'anni della sua vita, non lo scalfiva nemmeno più. Ed erano passati trent'anni, quattro mesi e trenta giorni dalla morte di una vecchia conoscenza, in un contesto completamente diverso. Capitol City era capitolata – e scusate il gioco di parole – verso la fine. Due anni dopo quei fatidici Hunger Games, dopo essere vissuti dentro a gabbie, torturati e massacrati di botte, la Ribellione aveva preso possesso di sé e aveva creato uno schermo contro la Capitale, scuotendola e sfidandola. Katniss e Peeta erano stati i vincitori dei 74esimi giochi, ma avevano preso atto del pericolo che Capitol City suggeriva ad ogni Edizione. Alla fine, dopo morti e soprusi, ce l'avevano fatta. I ribelli avevano vinto ed era tornata la pace. Una pace che durava venticinque anni. Una pace che Thomas aveva vissuto in solitudine e distante da ogni forma intelligente – o quanto meno, umana.
Ma ogni anno, ogni mese e ogni settimana le sue visite a quella tomba continuavano ad essere un rituale troppo prezioso. Raccontava sempre a quell'epitaffio tutta la noia e l'oziosità che succedeva al Distretto Due. O meglio, alla loro vecchia casa, perché ormai i Distretti non esistevano più. Raccontava a Lilian dei suoi ultimi animali e di Oscar, il suo golden retriever che gli faceva compagnia.
Ogni volta che le faceva visita, raccoglieva o comperava un giglio e lo posizionava adiacente alla lapide. Ne accarezzava i petali e incominciava a parlare, sempre con lo stesso tono sommesso e un po' felice. Perché alla fine Thomas Watson non poteva essere meno felice. Non si era sposato e non aveva avuto figli, ma aveva vissuto una vita piena e senza tristezza. Vivere in solitudine era stata una sua scelta, ma la vita gli aveva portato cose belle e cose buone. Veri amici, come la gentile Allison Martins e incredibili sensazioni di amore. Perché Thomas si era innamorato di nuovo, più volte, ma nessuna era stata in grado di uguagliare la profondità che aveva condiviso con lei, il suo fiore più bello. Aveva amato donne e disperato assieme a loro, ma alla fine aveva deciso di lasciar perdere quel genere di sentimento, perché quel genere di sentimento lo si vive una sola volta e per sempre e mai come la prima. Questo era riuscito a capirlo e così si era messo il cuore in pace.
Durante quella guerra durata mesi, aveva partecipato ai combattimenti solo alla fine. Lui e Ambrosia erano stati rinchiusi all'interno di una struttura, torturati per due anni e massacrati visibilmente in modo psicologico. Di Ambrosia non aveva mai più avuto notizia, non fino a qualche anno fa. Aveva saputo da fonti anonime che era diventata una Agente dei Servizi Segreti e che frequentava spedizioni sempre accese e sempre segretissime. Non era mai più ritornata al vecchio Distretto e non aveva mai più conciliato con la sua famiglia. Non aveva mai più saputo nemmeno se la sua infermità mentale fosse continuata o se, davvero, lo scontro con la giovane e bella Ophelia Tanis Ryder l'aveva guarita.
Ora si ritrovava semplicemente a fissare la lapide, a pensare a se stesso e ad aggiornare alla sua vecchia fiamma le avventure ordinarie di un comune uomo invecchiato troppo velocemente.
«Sapevo d'incontrarti qui, Watson». La voce roca ed adulta di Ambrosia gli riscaldarono il cuore. Thomas si voltò da seduto, lasciando la gamba in acciaio ferma ed immobile. Il volto di Ambrosia gli sembrò invecchiato, più adulto e non più giovane come una volta. Una lunga cicatrice le incideva la carne, passandole sopra l'occhio sinistro, lasciando questo privo di visibilità. I capelli erano sempre lunghi, ma lo notava da uno chignon che tratteneva stretto, sopra la nuca. Era più alta e visibilmente più in forma di lui, ma l'unico occhio sano le mostrava la stanchezza degli anni passati. Non aveva ancora rispettose ciocche bianche, ma il volto dimostrava più anni di quelli che davvero aveva. Ambrosia Julia Adams aveva perso quella bellezza di cui andava tanto fiera, ma probabilmente aveva appreso qualcosa di migliore.
Si mosse in sue direzione, scostando lo sguardo miele dalla figura dell'uomo dalla gamba in acciaio alla lapide consunta dagli anni. Thomas le sembrò sfinito e stanco, ma felice. Non aveva messo su nemmeno un chilo, ma i muscoli si erano afflosciati. Ciocche grigie gli coloravano le tempie e la barba folta gli cimentava il volto. Tutto sommato, quelle due perle oceano rimanevano al loro posto. Due fessure azzurre che fissavano Ambrosia senza timore, ma solo con sollievo.
«Mi chiedevo che fine avessi fatto, Adams. Hai mancato l'allenamento del lunedì», scherzò Thomas.
Per la prima volta, entrambi risero allegri. E la cosa più bella è che non si stupirono affatto di questo. Ambrosia si sedette accanto a lui, posò il giglio che teneva tra le mani accanto a quello raccolto dall'uomo e tornò a fissarlo. Non gli sembrava sconvolto di vederla, né tantomeno felice. Era semplicemente consapevole del fatto che un giorno si sarebbero rivisti.
«Allora, cosa ci fai qui?»
Ambrosia gli spiegò che la sua carriera era giunta all'apice. Era indecisa se proseguire o tornarsene a casa, ad oziare come tante vecchiette presto avrebbero fatto.
«Tu non sei vecchia e sicuramente non sei in grado di oziare. Si sa come sei fatta».
«Ah, si sa?»
Un sorriso lieve le si dipinse sul volto. Era decisamente maturata. Non sapeva per certo se fosse guarita, ma il cambiamento era evidente, anche perché non lo aveva ancora minacciato di morte. Era cresciuta. Ormai era una donna più che adulta.
«Potremmo, che so, berci un bicchiere di whisky qualche volta», appurò lei.
«Sì, potremmo, qualche volta», affermò lui.
Rimasero in silenzio per un periodo che sembrava essere infinito, si distesero entrambi sul prato e guardarono il cielo autunnale, sfumato di tutti quei colori che dava il tramonto.
«Grazie», disse Thomas. «Mi ero ripromesso di dirtelo un giorno, quindi grazie».
Ambrosia non sapeva perché la stesse ringraziando: all'epoca Thomas era solo un ragazzino e non era riuscita a salvare la sua Lilian. Allora perché?
Si voltò in sua direzione, a fissarlo con quell'unico occhio sano che le era rimasto. La guerra le aveva portato via tante cose, ma non lo sguardo indagatore di un tempo. Riusciva a farlo comunque, anche con un occhio solo.
«Per cosa?»
«Per avermi dato un'occasione», rispose Thomas. «Tutti dovrebbero averne una e tu mi hai aiutato ad averla».
Ambrosia non replicò. Rimasero a contemplare il cielo che mano a mano si oscurava e diventava stellato. La gamba di Thomas cigolò ancora e la palpebra di Ambrosia rimase ferma e fissa in quella posizione, come lo era da troppi anni ormai.
Lei sorrise, lui fece lo stesso. I loro sguardi non s'incontrarono mai quella notte, ma le loro dita si sfiorarono di nuovo, come tanto tempo fa.
«Mi dispiace che tu non sia riuscito a dirle che l'amavi, Watson». Le labbra di Ambrosia sfidarono quelle parole come il vento in estate. Thomas non disse nulla, la lasciò parlare.
«Mi dispiace di non essere riuscita a salvarla per te».
«Non è mai stato compito tuo. Non volevi nemmeno entrarci in tutto quello».
«Ma ci sono entrata».
«Ma ci sei entrata e non so davvero ancora come ringraziarti. Mi hai dato Lilian. L'ho persa e non sono stato in grado di proteggerla, ma io so, davvero lo so, che le cose non sarebbero potuto andare diversamente». Il volto di Thomas si voltò verso quello di Ambrosia e i due si guardarono come se già sapessero da tempo.
«I nostri destini erano già segnati da tempo. Lei lo sapeva. Ed era così furiosa con me, Ambrosia, quel giorno. Dovevi vedere la sua faccia, mi avrebbe trafitto una lancia nel cuore per la mia incoscienza se ne avesse avuto l'occasione» e sorrise a quel ricordo vivido ancora e sempre.
«Non sarebbe la sola. Io per prima l'avrei fatto».
«Ma?»
«Ma arriva un momento nel quale ti ritrovi a scegliere cosa sia giusto per te. Il destino è solo relativo Thomas. Il destino non c'entra. Quello che è successo sarebbe potuto andare diversamente, per questo mi dispiace». Ambrosia parlava con fermezza e Thomas ascoltava con risolutezza. Rinvangare il passato stava permettendo a loro di chiudere una questione ferma da troppo tempo. Ma non avevano più lacrime da sfogare. Avevano solo tante, tantissime parole da raccontare.
Thomas la vedeva diversamente da Ambrosia, ma rimase silenzioso a guardare l'ombra scura che stava giungendo sopra le loro teste. Poteva già distinguere diverse stelle, ma senza davvero saperne le costellazioni.
«Una volta ho detto a Lilian che avevo baciato una ragazza, non mi ricordo nemmeno il suo nome», esordì poi Thomas, dopo una manciata di minuti.
«Quindi?»
«Beh, non era vero. Le avevo detto una bugia per farla ingelosire. Non ho mai pensato di baciare nessun'altra al di fuori di lei. Stupido, non è vero?»
Ambrosia catturò lo sguardo di Thomas e gli sorrise.
«E' incredibilmente stupido, vomitevole e romantico. Degno di te, devo ammettere». Ambrosia si mise a sedere, disfacendo lo chignon composto e mostrando ciocche lunghe e boccolose.
«In cuor suo lo sapeva. Sapeva anche di amarti alla follia, e blablabla». Ambrosia fece per alzarsi, ma Thomas la trattenne.
«E tu? Hai mai amato qualcuno e blablabla?»
Ambrosia lo fissò negli occhi, sorridendogli adulta. «Se c'è una cosa che non cambierà mai, Watson, è l'amore – o odio, vedilo come vuoi - verso me stessa». Dopodiché Thomas la lasciò andare e lei si alzò.
«Ora andiamo a berci quel whisky di cui ti parlavo prima. Ho bisogno di mettere qualcosa nello stomaco».
«E per “qualcosa” intendi alcolici?»
«E ubriacarmi fino a star male, sì».
«Non sei cambiata di una virgola, Adams».
«Nel profondo, non si cambia mai davvero, Watson».
Attese Thomas alzarsi con discrezione, ascoltando il cigolio della sua finta gamba. Non gli chiese se voleva aiuto né lui osò farlo. Entrambi diedero un ultimo sguardo alla lapide di Lilian e ai due gigli. Entrambi seppero che quella lapide sarebbe stata sempre lì, come il cuore di Thomas e la mente di Ambrosia.
Entrambi sapevano che il loro destino si era compiuto tempo addietro e le cose, come disse Ambrosia, non sarebbero mai cambiate davvero.

 

 

 

 

 

 

Grazie,

A Lilian alias Rossella che mi ha commosso tantissimo e mi ha fatto venire l'ispirazione per questa modesta e breve storia a cui sono stata particolarmente affezionata.

A Thomas alias Sara che mi ha fatto muovere il suo personaggio, perché senza Thomas tutto questo non sarebbe potuto accadere.

A tutti i player a cui ho “preso in prestito” e mosso i loro pg perché è stato davvero bello realizzare tutto questo.

A Susanne Collins che ha scritto questa saga che mi ha dato l'ispirazione per completare ciò che Sara e Rossella hanno iniziato.

Al forum di gdr che seguo, dove sono vivi – o meno – alcuni dei personaggi che ho descritto “http://hungergamesitalia.forumcommunity.net”.

A mio padre che per la prima volta è riuscito a leggere qualcosa di mio.

Al mio ragazzo e a quei pochi amici che mi seguono.
A Mirya perché il suo stile è bellissimo.

A quelle persone che mi seguono e a chi mi seguirà in futuro.

A chi ancora non mi segue.

E per ultimo ma non ultimo, grazie a me, perché finalmente sono riuscita a concludere qualcosa. E questo qualcosa lo porterò sempre nel mio cuore.

Quindi grazie, grazie davvero perché è stato semplicemente splendido poter realizzare qualcosa di concreto.

 

 

 

Capitolo 5: i verbi sono al passato per una scelta strettamente stilistica e personale.

Capitolo 6: “si vive insieme, si muore soli” è una frase presa dal telefilm Lost.

Tutto il resto è opera esclusivamente mia e dei player che hanno contribuito semplicemente realizzando i loro personaggi.

 

Grazie ancora.

 

 

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