Foglie di basilico

di Lyoker
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Il piano, il basilico e Lui ***
Capitolo 2: *** 2. Come here ***
Capitolo 3: *** 3. La tempesta ***
Capitolo 4: *** 4. Cielo Grigio ***
Capitolo 5: *** 5. Ritorno a casa ***
Capitolo 6: *** 6. Lei, la luce ***
Capitolo 7: *** 7. Sherlock ***
Capitolo 8: *** 8. Campane al tramonto ***
Capitolo 9: *** 9. L'ultimo canto ***
Capitolo 10: *** 10. Foglie secche ***



Capitolo 1
*** 1. Il piano, il basilico e Lui ***


'Foglie di basilico' è una storia nata su EFP durante il mese di maggio-giugno-luglio.
Successivamente lo oscurai e mandai il manoscritto al Gruppo Albatros, che mi inviò un contratto di pubblicazione (che poi ho successivamente rifiutato).
Il protagonista, un ragazzo attaccato alla ripetitività del suo quotidiano, si ritroverà ad affrontare un viaggio, suo malgrado, che gli permetterà di staccarsi da queste sue radici, dolente o nolente. Un viaggio di avventure drammatiche, ricche di riflessioni e di domande rivolte a se stessi, e l'insaziabile ricerca della maturazione verso il mondo adulto, fatta di scelte, logica e volontà d'animo.
ATTENZIONE: 
- Non è una storia YAOI, c'è solo un accenno di Shonen'ai, ma non tratta di una storia d'amore omosessuale. Grazie.
- La maggior parte dei personaggi sono minorenni.
- Ogni riferimento a cosa o persone è da considerarsi puramente casuale.

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Mi fa strano. Sento caldo.

   È l’effetto serra, forse. O forse è solo metà giugno nella parte più a sud dell’Italia.
 E qui, stanco, spossato, passato, al centro del mio vecchio studio, ripenso ai momenti andati della mia giovinezza.  Fa abbastanza caldo, forse troppo per la mia età. Eppure sento ancora un altro calore sulla pelle. Un calore che non deriva né dal sole, né dalla mia vecchiaia.
Un calore che non provavo dall’età di quindici anni.
Fa strano pensare alla mia età, un vecchio come me, ripensare al primo amore. Malgrado ciò, più vado avanti con gli anni, più i miei capelli brillino di candore, ripenso alle gioie e ai dolori di un amore che mi ha segnato, sebbene fossi ancora un ragazzo.
Non avrei mai creduto di vivere così a lungo.
 
Era il 2008, ed io ero al mio … Uh, credo fosse il secondo anno di liceo. Sì, sicuramente era il mio secondo anno. Avevo quindici anni all’epoca, una bella età, dopotutto. Un’età in cui si è ancora legati al mondo dell’infanzia, se non vuoi crescere troppo in fretta come la maggior parte dei miei coetanei, e allo stesso tempo ti affacci verso la finestra del mondo, per ammirarne tutta la sua spaventosa vastità. Ricordo il profumo di basilico. Mia madre lo coltivava sempre, in ogni periodo dell’anno, in ampi vasi di terracotta che esponeva fiera sul davanzale della cucina. Quando apriva la finestra, il vento entrava sempre come se chiedesse il permesso. Ogni volta che l’ombra padroneggiava sul posto, mia madre ne prendeva qualche foglia per buttarle in pentola, per poi sciacquare le altre. Quando l’acqua accarezzava quelle piccole foglie, l’odore di basilico si espandeva dolcemente per tutta la cucina. Mi piaceva vedere mia madre cucinare.
Ero solo, avevo lei. Lei e l’odore di basilico. Ricordo anche la ragazza del piano di sopra, che si allenava al pianoforte. Se non sbaglio, doveva avere la mia età, qualche anno in più perché era fresca diplomata.
Una ragazza allegra, pura, sorridente, che impiegava la maggior parte del suo tempo a suonare. Le note, come l’odore del basilico, occupavano tutta la cucina, e parte della casa. Era piacevole, mi dava un senso di armonia e tranquillità dopo la mattinata burrascosa a scuola.
Non che fossi un genio, ma per arrivare a un voto sufficientemente soddisfacente dovevo farmi in quattro.
All’epoca, ero un ragazzo come tanti, amante dei videogiochi, dei fumetti, forse un po’ troppo timido e riservato, non molto aperto. Ma c’era una cosa che mi faceva sentire libero. Diventare qualcuno che non ero io. A quell’età scoprii qualcosa che mi cambiò la vita.
Quella cosa si chiamava teatro.
Non era una cosa molto in voga tra i maschi, ma stare sulla scena mi rendeva felice. E anche piuttosto popolare, poiché la maggior parte degli attori della compagnia era costituita da ragazze.
Tuttavia, non ne ero molto interessato. Preferivo chiacchierare con loro, scherzare, uscire qualche volta, ma alla fine, solitamente imbarazzato, declinavo ogni interesse per loro. Mi ripetevo in continuazione che forse non ero pronto per questo genere di cose, ero ancora troppo giovane.
I miei compagni di classe e di teatro, a mio dispetto invece, erano già “uomini”, come si definivano. Solo perché a dodici o a tredici anni si erano portati a letto qualche ragazzina. Mi disgustavano.
Forse perché avevo ricevuto un’educazione diversa.
 
Forse perché mi ricordava mio padre.
A dire il vero, ancora oggi non ricordo niente di lui, se non qualche amara reminiscenza quando ero bambino. Crescendo non chiesi molto di lui a mia madre. Lei si limitava a ripetermi che un giorno se ne era andato. Con il tempo, mi rifiutai di ripeterle sempre le stesse domande. Sapevo che, nonostante ogni volta fosse voltata di spalle, con gli occhi fissi sulla pentola che bolliva, piangeva, mentre gettava altro basilico nel sugo.
Fin da ragazzo, un solo e unico desiderio occupò la mia mente: non cercare di amare qualcuno se poi sai di spezzargli il cuore. Mio padre, per quanto potesse essere codardo, per quanto potesse essere crudele, indirettamente mi aveva dato un grande insegnamento. Ama solo se sei in grado di amare davvero.
 
Non mi ero mai innamorato. Non ne avevo mai trovato il motivo per farlo.
Io non mi amavo. Se non amavo me stesso, come avrei potuto amare qualcun altro?
Eppure amavo ogni mio personaggio. Sul palco, nelle prove o tra i riflettori, riuscivo ad imprimere ogni parte di me in ciò che stavo vivendo. Una volta ero un ricco mercante senza scrupoli, un’altra volta il servo di una nobile famiglia decaduta, un’altra ero una ragazza vittima degli abusi dei suoi tutori…
Esatto, una ragazza.
Per quanto il personaggio fosse lontano da me, io riuscivo a interpretarlo magnificamente, e ne andavo molto fiero. Tante volte, quando interpretavo una bambina, o una vecchietta, o un qualsiasi altro personaggio, il pubblico alla fine dello spettacolo si aspettava sempre che fossi così. Si sbagliava.
Non vedeva altro che un ragazzo appena adolescente con la pelle un po’ scura, lunghi capelli neri e gli occhi malinconici. Questo ero io. Il mio fisico rispondeva a qualsiasi vestito indossassi, con qualche aggiunta di sartoria qua e là, per obbedire esattamente ai miei desideri estetici. Potevo sembrare una bambina delle elementari, e subito dopo, con un cambio di abito e di trucco potevo apparire come un vecchio professore in pensione. Amavo tutte queste possibilità che mi facevano viaggiare da un carattere a un altro. Forse è anche per questo motivo che ancora oggi non ho una personalità definita. E accorgersene ora, dopo quasi un secolo di vita, decennio in più, decennio in meno, mi fa quasi ribrezzo.
 
I copioni divennero le mie parole, i miei personaggi divennero i miei sentimenti. Io non ero altro che la forma vivente di parole messe in riga da celebri autori.
 
Questa era la mia vita, una vita come tante altre, diversa, ma niente di speciale. Nessun talento speciale, se non quella misera vocazione verso un palco che non mi avrebbe protetto dalle avversità del mondo, troppo incline alla violenza e alla cupidigia. Non era il mio destino.

Ma un giorno il mio destino cambiò, e mi salvò la vita. Senza pretese, senza cortesie, cambiò e basta.
La dizione, accumulata nella mia esperienza teatrale, mi portava ad avere un ottimo controllo della lingua, che da sempre considerai il perno principale della mia esistenza. L’essenza stessa del discorso risiedeva alla base della vita di ogni persona, della mia principalmente.
Conoscevo eccellentemente la mia lingua in ogni forma, discorsiva, volgare e corrente. I dialetti mi affascinavano, ma non erano di mio vero interesse. Spostai il mio talento linguistico verso le lingue europee, l’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo, lo svedese. Già nel 2008 era possibile utilizzare il computer per accedere a numerosi corsi linguistici. In fondo, me la cavavo abbastanza con le tecnologie, sebbene oggi siano considerate ormai obsoleti e superati. D’altro canto, gli anni passano per tutti.

Così divennero le mie nuove giornate al ritorno da scuola, con la ragazza del piano di sopra che suonava dolci melodie, che ancora oggi mi sembra di sentire quando il vento muove le foglie dell’albero fuori la finestra del mio studio, il fuoco ai fornelli, la schiena di mia madre e l’odore di basilico. E poi, i miei amici.
Avevo amici in quasi ogni parte dell’Europa, tramite quelle funzioni che permettono di comunicare a distanza tra due connessioni in rete. Avevo conoscenze in Scozia, in Francia, in Norvegia, in Polonia, in Austria, in Ungheria e persino in Romania.
Ma un giorno, mi ritrovai a parlare con Lui.
All’epoca, non immaginavo neanche lontanamente chi fosse, ma oggi, con un sorriso amaro mi convinco ogni minuto di più che Lui era il mio destino.
Parlavamo spesso il pomeriggio, fuso orario permettendo. Battevo felice le mani sulla tastiera, formulando frasi sempre più complesse, mentre la ragazza che suonava mi dava ogni momento sempre più ispirazione.
Mi rendeva felice, tanto felice quanto stare sul palco. Era come se, per una volta, i miei personaggi non interferissero con i miei pensieri e le mie opinioni. Ciò che scrivevo erano mie parole.
Si chiamava Howaito, che nella sua lingua significava “bianco”. Sì, per la prima volta parlavo con qualcuno che non fosse europeo. Questo contatto arrivava dall’isola di Hokkaido, parte dell’arcipelago giapponese.
All’inizio nacque tutto un po’ per caso, ci conoscemmo su un forum americano per appassionati di un gioco di carte collezionabili. In una lunga discussione di dibattito, mi ritrovai tutta la comunità del server contro, tranne Lui. Era l’unico che la pensava come me. Ne fui felice, perché ero davvero convinto delle mie tesi, sebbene ormai non ricordo neanche più di cosa trattasse.
Mi chiese l’e-mail via messaggio privato ed io accettai. Cominciammo a discutere sull’argomento che trattammo nel server, per poi passare a cose più banali, spaziando sempre nell’ambito dei nostri interessi in giochi e intrattenimenti. Messaggio dopo messaggio, giorno dopo giorno, diventammo sempre più intimi. Iniziammo a parlare di noi stessi, ed io ne fui abbastanza felice. In seguito però, mi resi conto di quanto fossimo diversi.
Aveva la mia età, un paio di mesi più vecchio. Mi scriveva della sua vita e di quanto fosse complessa e allo stesso tempo privilegiata. Una famiglia benestante, genitori divorziati che si contendevano da anni la proprietà della celebre azienda di famiglia, due fratelli che giocavano in borsa e aspiravano alla presidenza dell’azienda. Nonostante la ricchezza sfrenata, manifestava un forte senso d’insicurezza e solitudine, sebbene cercasse di mostrare il contrario. Anzi, era abbastanza arrogante, nonostante le sue fossero solo parole scritte all’interno di messaggi di posta elettronica. Insomma, non avevo nessuna prova di quanto stesse dicendo fosse vero, mi sembrava più di far parte a qualche gioco di ruolo di pessimo gusto. A questo punto, potevo inventarmi qualche storiella fantastica su di me, come essere il figlio di qualche archeologo intrappolato in mani di briganti e seducenti streghe, ma non ero il genere di persona che mentiva. Io recitavo. E sì, ero davvero tentato a usare una storia di uno dei miei tanti personaggi… Ma non lo feci.
Finalmente riuscivo a parlare da me stesso, senza dare conto di un’esperienza che non mi apparteneva.
Per una volta potevo guardarmi allo specchio, e vedere la mia immagine riflessa. Non quella di qualcun altro. Potevo essere me stesso senza vergognarmene.
Più di una volta gli chiesi se le sue parole fossero verità, e più di una volta mi arrivò una risposta affermativa. Sinceramente, non m’importava più di chi fosse. Ormai riuscivo a sentirmi in pace con me stesso.
Gli raccontai della mia vita di ogni giorno, del teatro, di mia madre, delle melodie del piano e del basilico.
Perché per quanto fossero magri appigli, questi elementi erano parti culminanti della mia vita, principi fondamentali sui quali basavo il mio equilibrio. Ciò nonostante lui non ne sembrava annoiato, anzi, lo trovava estremamente interessante. Sembrava alla ricerca di una forma modesta di una vita normale come se fosse ossigeno. Non immaginavo davvero che qualcuno potesse considerare la mia vita così interessante al di fuori dello spazio teatrale.
 
Howaito prese sempre più spazio nella mia vita, diventando anche lui un elemento di fondamentale importanza, come le note del piano, come i copioni ammassati sulla mia scrivania, i raggi di sole che entravano dalla finestra della mia stanza e l’odore delle spezie mediterranee.
Il mio inglese con lui migliorava sempre di più, dal momento che era l’unica lingua che avevamo in comune.
Non m’importava più se quel ragazzo mi stesse mentendo o no della sua vita di ogni giorno, perché quel momento divenne il più importante di tutta la mia giornata. Spesso i suoi racconti erano tristi, deprimenti, buttati nel buio, altre volte avevano seguiti di dolce amarezza, malinconia, speranza in un futuro felice.
Sentivo che quel ragazzo provava le mie stesse emozioni di ogni giorno, per quanto diversi potevano apparire, almeno secondo le sue parole, i nostri mondi, ed io sentivo in me una forte sensazione di gratificazione al sentirlo dire dalle stesse lettere che mi scriveva.
 
Con il tempo, gli chiesi se voleva una mia foto, per dare un volto al suo compagno di discussione di ogni giorno, ma lui rifiutò. All’inizio non riuscivo a capire. Si limitò a dirmi che ormai per lui avevo un volto, e non voleva distruggere l’immagine che si era creato di me. Allora gli proposi qualche mia foto in costume teatrale, poiché ero completamente irriconoscibile quando mi trasformavo per uno spettacolo. Anche lì rifiutò.
Non riuscivo a capire, credevo di aver fatto qualcosa di sbagliato. Riversai colpa al mio essere italiano, sicuramente troppo invadente rispetto alle usanze orientali, come numerosi fumetti mi avevano insegnato sulla vita di tutti i giorni nel paese dove nasceva il Sole.
Cominciai allora a domandargli sempre di più alle sue tradizioni, cosa amava, cosa odiava, se gli piaceva qualcosa in particolare. Anche qui trovai un campo a dir poco miseramente vuoto. Non amava niente di specifico, né tantomeno odiava qualcosa su cui fosse focalizzato. Sembrava piuttosto vuoto d’interessi.
Aveva buon gusto nei videogiochi, su questo non c’erano dubbi. Evitava il troppo commerciale, preferiva i giochi di logica ai giochi dove devi massacrare il nemico con armi bianche o a fucile. Se non altro aveva metodo, anche se qualche titolo famoso gli era passato tra le mani con successo. Era molto inclinato per l’angst e quel pizzico di violenza demoniaca presente nella maggior parte dei videogiochi per tutte le console dell’epoca. Un po’ com’era nel suo stesso carattere insomma.
I mesi trascorrevano, io avevo ancora qualche problema con la scuola, ma a casa, sia con la neve, che con la pioggia o con il sole cocente, avevo sempre le delizie armoniche del piano e l’inebriante profumo di basilico fresco che appassiva ogni mio dolore e ogni mia preoccupazione. E poi c’era Lui.
Howaito ormai, per quanto la distanza non fosse neanche misurabile per me, era diventato l’altra parte di me che tenevo nascosta, che si era liberata come un’aquila ferita e tenuta in gabbia per tanto tempo, fino al momento della sua liberazione verso l’immensa vastità dei cieli azzurri.
Era il mio ossigeno, la mia boccata d’aria fresca, le mie lacrime mai perdute. Era la mia terra, il mio cielo, le mie ali, le mie gambe. Ero felice e non me ne pentivo. Non me ne sono mai pentito.
Eppure un giorno, tornando da scuola, riaprì la casella di posta elettronica e vidi una sua risposta a un vecchio messaggio. Quando lo lessi, rimasi interdetto, non sapevo come reagire.
Rilessi velocemente quella frase scritta in inglese, formata da due semplici parole. Ma non ne capivo il senso. Cioè il senso l’aveva ma, non capivo come potesse avere a che fare con me. Perché scrivere quelle due parole? Che cosa avevano a che fare con me? Come poteva sperare che io potessi realizzare una cosa simile?
Al centro della mail, in semplici caratteri neri, brillava sullo sfondo bianco una frase composta di due semplici parole, quasi impercepibili ma visibili.

 
<< Come here. >>

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Capitolo 2
*** 2. Come here ***


Come, mi auguro, i miei lettori sapranno, tradotto dall’inglese, la frase indica, grammaticalmente parlando, un ordine, un imperativo, se il comando non è seguito da “please” o forme che indichino cortesia a una domanda. Come avrete capito, la traduzione era semplice: “ Vieni qui. ”
Stranamente, non riuscivo a percepire quella frase come un decreto, piuttosto mi appariva come un invito, quasi sussurrato in modo tenero, come se stessi piangendo, e con un sorriso appena accennato me lo avesse proposto allargando le braccia e stringendomi a sé. Ma in quel momento, io non stavo piangendo. E per quanto quella persona potesse realmente soffrire, non mi sembrava per niente tale da poter compiere un simile gesto.
Ritornando a quel momento, ricordo soltanto subbuglio, ma nonostante ciò scossi la testa dandomi dell’idiota. Per un attimo credetti che Howaito fosse così depresso da richiedere la mia presenza dall’altra parte dell’oceano solo per potersi sentire meglio. Quel ragazzo mi appariva così contorto che spesso non riuscivo a credere a ciò che leggevo. Un arrogante rampolletto di ricca famiglia con numerose crisi interiori che il più delle volte lo portavano a pensare in maniera fin troppo negativa. Non riuscivo a capirlo, eppure sentivo che il legame che ci univa fosse proprio questo. Lui mancava di rapporti semplici, elementi basilari della vita quotidiana, esperienze comuni che non aveva mai vissuto. O almeno questo era ciò che riuscivo a trarre dalle sue parole. Sembrava un tipo calmo solo all’apparenza, fino all’esplosione dei pensieri nella sua mente. Mi resi conto che più io gli scrivevo, più mi sentivo attratto verso una morsa asfissiante.
Ricordo bene che tornai piuttosto scettico sulla situazione, aspettandomi chissà quale risposta a quell’affermazione. E una risposta la ebbi, chiara e concisa. Ricordo quelle parole scritte in stampatello sullo sfondo bianco della mail come se fossero tatuate nella mia memoria, nonostante tutti questi anni.
 

<< I wish you were here… >>

 
Non capivo. Non ci riuscivo. Per quanto mi sforzassi di analizzare la situazione, non riuscivo a capire cosa quel povero ragazzo in preda ad una crisi depressiva stesse cercando di comunicarmi. Il messaggio era piuttosto semplice da tradurre in italiano, ma il vero significato di quelle parole non riuscivo a coglierlo.

 

“ Vorrei che fossi qui… ”
 

E per quale ragione, se mi era consentito saperlo?
Perché cercava in me qualcosa che non avrebbe mai trovato?
Preso dallo sconforto, glielo domandai, aspettandomi in breve una risposta. Ma non la ebbi. Non quel giorno almeno. Certo, capitava spesso di dover aspettare una sua risposta per qualche ora, a volte per un giorno o due, dal momento che utilizzavamo semplice posta elettronica e non una chat o un social network come andava di moda ai tempi. Una chat non sarebbe stata al passo con la quantità di emozioni che volevo imprimere in una lettera, e lui fu dello stesso parere. D’altro canto, però, quella fu la prima volta in cui, per un motivo che appariva così urgente, sembrava esitare. O stava scrivendo una lettera molto lunga, o in quel momento si rifiutava di rispondermi. Ed io mi perdevo tra i dubbi.
 
Era piuttosto scontato da parte mia comportarmi in quel modo, poiché non avevo molti amici, la maggior parte dei quali risiedevano in paesi diversi. Howaito però era l’unico che era stato in grado di tirar fuori da dentro di me quella parte rimasta nascosta per tanti anni, quella vera essenza di me che si nascondeva dai raggi del sole per timore di essere scottato.
In quelle lunghissime ore, che quasi mi parvero infinite, persino le distensive note del piano della fanciulla non riuscirono a calmarmi. Al contrario, sentivo che in me la rabbia cresceva contro quell’ignara ragazza che dispendeva tutte le sue energie per riuscire ad ottenere la mia dolce melodia possibile. Ma in quello stesso istante, mi resi conto di quanto fossi sciocco. Che male poteva aver mai fatto per ricevere simili insulti dalla mia mente? Assolutamente nessuno. Ero io che come uno sciocco non sapevo come reagire a quell’insopportabile silenzio che mi penetrava nelle orecchie come l’ingente trambusto di mille trombe stonate. Mi sentivo perso. Mi sentivo un idiota.
Rimasi tutto il tempo a fissare la schermata della casella postale, incapace di fare altro.
Dovevo fare i compiti, dovevo studiare per la lezione di domani. Sapevo di dover affrontare un’interrogazione, ma in quel preciso istante non m’interessava, perché sentivo in me la necessità di dover leggere, anche se in poche righe, una sua risposta, il perché di quella razione così assurda.
Non ricordo esattamente quanto tempo aspettai. Alla fine, credo fosse notte fonda. Il computer mi segnalò con un trillo la nuova risposta. Se da me era notte inoltrata, dalla sua parte doveva essere già mattina, e la cosa mi stupì. Se poteva stare al pc a un simile orario, significava forse che non andava a scuola?
Le cose non tornavano. Probabilmente aveva tra le mani uno di quei telefoni che consentivano di inviare e-mail, pensai. La cosa non m’importò, siccome mi fiondai a leggere la sua risposta.
 
Oggi la mia mente vacilla, con tutti gli anni passati, non sarei mai in grado di ricordare ogni singola lettera da noi scritta o pronunciata. Ricordo solo che era trasparente un’insana agitazione che colava da ogni rigo di quella lettera. Si scusava, a quanto ricordo, di quel suo comportamento così malsano e insolito. Mi chiese quasi ripetitivamente di cancellare ogni idea che mi ero fatto. Rammento unicamente un forte senso di vuoto, come se improvvisamente la terra sotto di me avesse smesso di esserci, lasciando nel vuoto e in preda alla gravità. Mi sentii come un’anima ferita. Forse non ero abbastanza vicino a lui. D’altronde, era palese. Non ero altro che un ragazzino che gli scriveva delle mail dall’altra parte del mondo. Che parte potevo mai avere nella sua vita? Persino io stesso stentavo a credere alle sue parole.
Mi sovvenne l’insegnamento di mio padre. Ama qualcuno soltanto se ami te stesso. Ragionando in quel modo, di certo non potevo permettermi di provare quel sano senso di amicizia che lega due persone fino alla fine. Naturalmente, non potevo permettermelo. Era tutto ciò cui riuscivo a pensare.
 
Addirittura adesso riesco a sentire quella dolce ragazza suonare. Era incredibile, qualsiasi fosse il mio stato d’animo, lei riusciva indirettamente a dare vita al sottofondo giusto che riusciva ad accompagnare ogni momento della mia giornata spesa nella mia stanza. E quella notte, in piena notte, la ragazza prese a suonare. Così, senza un vero perché. Gli unici ancora svegli nel quartiere eravamo io e lei.
Stavolta suonava una melodia molto lenta, come se stesse piangendo. Anch’io, dentro di me, mi sentivo così. Anche la mia anima, in quell’attimo, stava piangendo.
Nonostante il tempo passato, non riesco a spiegare cosa effettivamente provai, ma non era piacevole.
 
Questa volta fui io a non rispondere. Mancavano poche ore a ciò che doveva essere la mia sveglia per andare a scuola. Volevo almeno recuperare qualche ora di sonno. Tutta illusione. L’indomani mi ritrovai estremamente stanco, tale da non pranzare al mio ritorno a casa. Mi buttai sul letto, stringendo il cuscino. Non volevo rispondergli.
La cosa che più amavo fare al mio ritorno da scuola, sembrava diventare il mio incubo.
Sopra la ragazza, suonava noiosamente la stessa melodia della notte inoltrata, così austera e allo stesso tempo così assurdamente malinconica. Neanche lei aveva tanta voglia di fare pratica.
Lasciai il mio corpo dormire sopra le lenzuola come morto, assopendomi subito. La musica mi accompagnò fin dentro il mio sub conscio, che come un’agonia mi trasportava in un mondo senza fine e senza inizio.
Le pareti della mia mente si coprirono di tenebre, lasciandomi vagare con un fantasma senza poter toccare terra. Non potevo toccare niente. Proprio come quando parlavo con lui.
Non potevo guardarlo negli occhi, non potevo toccare la sua pelle, le sue mani né avrei passato le mie dita tra i suoi capelli. Sentii di piangere. Ero dentro una bolla nera, con le note dietro che mi accompagnavano. Avevo tutto il diritto di piangere, lasciare che quel senso di vuoto e amarezza sii impadronisse di me.
Contro cosa combattevo? Non riuscivo a rendermene conto. Forse lottavo per ottenere quel misero spiraglio di luce che si era aperto in me, che mi consentiva di dare voce a quella parte tenuta segregata dentro di me contro la mia volontà. O forse, tutto questo non era altro che un’altra, assurda paranoia.
Avvertii alle mie spalle che il mondo nel quale ero stato catapultato mutava progressivamente, come se fosse in costante evoluzione, senza tener conto di ciò che provavo, di ciò che sentivo.
Gradualmente, la sostanza prese contro la mia gravità, lasciando impattare una prima forma di suolo sotto di me, nera come il petrolio, che a poco a poco sbiadiva, ungendosi di un colore promiscuo tra indaco e l’ocra, fino a prendere un colore vivace e smeraldino. Sopra di me, l’indaco prendeva a scolorare ancora, indebolendosi in una sfumatura celestina. Mi guardai le mani, con aria afflitta. Sembravano invecchiate, come se le avessi lasciate in acqua per chissà quanto tempo. Mi morsi il labbro inferiore, sentendo quel freddo desiderio di amarezza impadronirsi di me.
Il suolo smeraldino prese a muoversi, crescendo e sfilacciandosi in molteplici filacci, per poi prendere a ballare con il vento, e prendere la forma finale di un manto d’erba appena crespa, ma per la maggior parte brillante e appena un po’ umida. L’aria stessa prendeva ritmo secondo le note che rimbalzavano nella mia mente. Seguendo quelle scale veloci di note, il cielo sulla mia teste cominciò a mutare velocemente i suoi colori, scurendosi in un profondo blu, fino ad abbracciare un ventaglio albicocca, sfumando poi in un fascio purpureo. Al loro seguito, sfavillanti comete impazzivano come stelle cadenti senza meta da ogni angolo del cielo.
In un secondo tempo, un respiro di fumo bianco mi accarezzò e mi attraversò il costato, liberando la propria forma alle mie spalle, e prendere vita in leggeri rumori, come l’erba crespa quando viene calpestata.
Mi voltai, e una figura bianca prese corpo davanti a me.
La creatura, per quanto non avesse un volto, mi sorrise, e quando questo accadde, il mondo si arrestò con lei, lasciandomi perdere nei suoi propri raggi di luce che mi irradiavano incandescenti. E con questo sfolgorante velo bianco che mi svegliai.
 
Quasi come se mi fosse stato comandato dalla mia stessa mente ancora irradiata e intontita da così tanta luce, mi fiondai tentoni sul mio computer, per accorgermi di una nuova lettera. Howaito.
Non riuscivo a capire, eppure non gli avevo inviato nessuna risposta alla sua mail. Per quale ragione mi aveva mandato un altro messaggio?
Non aveva alcun senso. Forse era preoccupato perché non gli avevo risposto? No, non poteva essere. Era cosciente del fatto che ben sette ore di fuso orario ci distanziavano.
Eppure il messaggio era lì, chiaro e conciso. Una lettera di media lunghezza se non ricordo male.
Leggendole quasi con fretta irrimediabile, una stretta mi prese al cuore. Sentii il bisogno di piangere ancora, premendomi con forma la mano sulla bocca. Per me era un duro colpo, dopo tanti mesi di sua conoscenza, ricevere una così dettagliata notizia.
In allegato c’era un referto medico. Lo odiai. Lo odiai con tutta l’anima. Lo maledissi, e me ne pentii subito.
Era un ragazzo arrogante, ormai lo sapevo. Gli piaceva fare il sadico. Sapevo anche questo. Ma questo avrei preferito non saperlo.
Mi aveva riferito settimane prima che accusava dolori sempre più frequenti, ma nessuno aveva mai trovato niente di rilevante. E tutto questo per negligenza  da parte dei medici. Maledetto Howaito, ancora oggi questa notizia mi uccide il cuore. E so, che da lassù te la ridi ancora, soddisfatto di questa pugnalata che mi hai inferto. Lo so, sento la tua risata oltre il tempo e lo spazio assalirmi le orecchie. Le sento ancora.
E così capii chi ti stava portando via. Hemangiosarcoma, questo era il suo nome. No, non era una bella fanciulla dai capelli lucenti e i boccoli d’oro. No, non era la tua promessa sposa. No, non era il nome del tuo nuovo cucciolo. Tumore maligno dell’endotelio. Il tuo cuore stava cedendo senza che te ne accorgessi.
Una patologia tanto rara quanto la rugiada in pieno deserto. Persino nella tua morte volevi rimanere unico e arrogante, vero Howaito? Tu, e le tue solite, dozzinali manie di protagonismo.
Avrei voluto prenderti a schiaffi in quel momento. Avrei voluto abbracciarti. Averti voluto infliggerti il dolore più acuto in questo mondo. Avrei voluto stringerti per farti capire quanto io tenessi a te.

E in quell’attimo capii che mio padre rivive in me, e del suo codardo insegnamento: ama solo quando ami te stesso. Ed io, improvvisamente amai la mia vita in ogni suo secondo, e con lei amai anche te, perché sapevo che ti avrei perso per sempre, pur non avendoti mai avuto. Pur non avendoti mai visto.
Non avevo mai incrociato i tuoi occhi. Non avevo mai sfiorato i tuoi capelli tra le mie dita. Non ti avevo mai abbracciato, né ti avevo portato fuori a fare un giro, o visto un film insieme, o bevuto qualcosa, fianco a fianco. Non avevo mai fatto niente di tutte queste cose, in tutti quei mesi che ci univano ogni giorno dietro lo schermo di un computer, eppure sapevo dentro di me che ciò che ci legava spezzava ogni barriera che poteva frapporsi a noi. Forse perché questo sentimento funesto era nato e cresciuto già con un’enorme barriera dentro di sé, ed era per questo motivo che non temeva niente.
 
Howaito mi raccontò ogni cosa, per filo e per segno, ed io mi forzai a leggere, anche se dentro di me non volevo. Soffrivo per me, soffrivo per lui. Soffrendo per lui, soffrivo anch’io.
Mi raccontò di come prese la notizia, un impatto completamente diverso dai suoi genitori, ricchi magnanti assetati di denaro che nel divorzio si aspettavano le ricchezze dell’altro. Lui era tranquillo, aveva accettato che gli rimanessero pochi anni. Ma non loro. Lei insisteva per rinchiuderlo in qualche clinica, per farlo vivere qualche anno in più. Lui voleva che godesse quel poco tempo che gli era rimasto e godere delle gioie della vita finché gli fosse stato possibile. Dei suoi fratelli, neanche uno sguardo.
Nessuno gli aveva chiesto il suo parere. Aveva solo quindici anni, per loro non era in grado di decidere della propria vita, neanche al suo scadere. Eppure lui non sembrava spaventato.
Mi scrisse di voler essere una cicala. Che idiota, sapeva perfettamente che le cicale vivono solo per una settimana. Ma sapeva anche che passano tutta la loro breve esistenza a cantare e gioire, rompendo il suono del silenzio con la loro voce. E per un attimo lo invidiai.
Rifiutò di aspettare una mia risposta per mandarmi immediatamente dopo un'altra mail.
Pretendeva la mia presenza in quei pochi anni che gli restavano per rimanere accanto a lui fino alla fine.
Mi si strinse il cuore ancora una volta, bagnando le mie guance di lacrime. Lì capii il perché di quei messaggi. Non ero stato in grado di coglierne da subito il loro significato, ma come avrei potuto?
Non mi trattenni, lasciandomi andare al dolore che inverava dentro di me. Le mie urla, i miei gemiti e i miei singhiozzi arrivano alle orecchie di mia madre, vestita miseramente e con uno sporco grembiule da cucina. Le sue mani odoravano fortemente di cipolle e basilico.
Ricordo anche i suoi occhi, grandi ma socchiusi, commiserevoli, quasi persi in un eterno pianto. Ricordo la sua mano sulla mia spalla. Ricordo il suo abbraccio. Ricordo le sue lacrime contro di me.
Non piangeva per Howaito, naturalmente. Piangeva per tutto quel dolore accumulato in tutti questi anni di abbandono e di sofferenza. La vedova bianca non aveva più forze per andare avanti, se non quelle necessarie per fare affidamento su di me.
La feci sedere sul mio letto e le spiegai ciò che inevitabilmente mi era crollato davanti, di Howaito, dei mesi passati insieme a parlare ogni giorno, di cosa stava accadendo. Lei ascoltava silenziosamente, mentre io mi stupivo di me stesso a ogni mia parola. Ormai credevo a ogni parola di Howaito.
Ormai mi fidavo di lui.

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Capitolo 3
*** 3. La tempesta ***


Credevo di essere forte.
Credevo di poter reggere un simile dolore.
Credevo di poter combattere il mondo, pur rizzandomi sulle mie gambe magre e tremanti.
Credevo, e alla fine le mie fedi si sono rivoltate contro di me.
Cosa mai potevo aspettarmi?
Non ero che un ragazzo di quindici anni, nella sera inoltrata, con lo sguardo fisso davanti allo schermo del computer e il volto rigato di lacrime, come i vetri della finestra alla mia sinistra.
Pioveva. Lontani, i tuoni rombavano e ballavano sotto le note della ragazza, che si destreggiava tra i tasti bianchi e neri della sua tastiera dalla lunga coda.
 
Adesso sono qui, chino sulla mia scrivania di ciò che una volta era il mio studio. Ai lati della stanza, la mia finestra mi disegna un quadro melanconico di un cielo cupo e grigio, nuvole pietose e lacrime di empireo.
Così come allora, stretto alla mia sedia, con il viso illuminato dallo schermo del mio computer, i tuoni cantavano burrascosi insieme alla triste colonna sonora di un Mozart incompreso.
Sentivo il petto pesante, e spesso faticavo a respirare. Solo grandi, intensi sospiri riuscivano a riattivare i miei polmoni gonfi di angoscia.
 
Cosa mai potevo aspettarmi?
Cosa potevo fare, Howaito?
Avrei dovuto immaginarlo fin da subito, senza lasciarmi andare a una profonda e ingannevole speranza di poter correre da te e salvarti da te stesso e dal tuo destino infame.
Più guardavo mia madre, seduta sul mio letto con le mani incrociate tra loro e lo sguardo basso, più mi convincevo che quell’assurda pazzia non poteva esistere.
Le amarezze mi pervasero, consapevole di non poter fare niente per te. Forse avrei potuto pregare, ma quanto amore poteva riservare per te e per me l’Onnipotente?
La morsa che sento ancora mi penetra dentro, mi dilania e lascia che i miei resti vacillino tra di loro come cartapesta bagnata al vento.
 
Alzai la testa, osservando il soffitto e lasciando che la stanchezza mi scivolasse lungo il midollo osseo, sentendola scorrere lungo la schiena, le scapole e le costole. Tirai un altro profondo respiro, l’ultimo, prima di portare ancora una volta la mano alla bocca e inspirare ancora, quasi in un singhiozzo, seguendo inconsciamente il ritmo dei tuoni.
Howaito lo vedevo incredibilmente forte, dalla presenza temuta e fragorosa come quella di un tuono.
Ma i tuoni, si sa, non durano che qualche secondo, e solo successivi ad un baglio di luce.
Non potevo. Ero ancora un ragazzo, dopotutto. Un misero, squallido, impotente quindicenne senza una vera vita sociale, ed una serie di ricordi vuoti, fondati su elementi deboli e desolati. Con quale audacia avrei potuto intraprendere un viaggio dall’altra parte del mondo per raggiungere il suo cospetto e stringerlo a me, perdermi nel suo esasperante calore e nella liscezza pure della sua pelle?...
 
Quando pensai queste cose, cercai di riprendere coscienza da quell’idilliaca tortura mentale che mi stavo propinando. Credevo di essere impazzito.
All’inizio mi sembrava strano. Riuscivo a percepire la sua presenza, per quanto lontana, un principio a dir poco essenziale, per andare oltre il fondamentale. Ormai era trascorso la maggior parte del periodo scolastico, e lui era lì, ogni giorno, dall’altro capo di un computer, pronto a leggere ciò che mi era capitato durante la giornata, se l’interrogazione era andata male, se i miei compagni mi avevano preso in giro, se l’insegnante mi tiranneggiava… Lui leggeva, assorbiva ogni mia parola e riusciva ad imprimermi la forza necessaria per poter recuperare la giusta dose di determinazione che mi sarebbe servita per affrontare il giorno successivo. Definire straordinariamente incandescente la sua capacità di trasmettermi quest’energia mi sembra quasi un paragone troppo effimero.
Ormai per me non era un ragazzo straniero, dalla folle storia alle spalle.
Per me era… Howaito. L’ultima luce segnata sul mio cammino che mi aiutava a non disperdermi tra le tenebre delle mie afflizioni. Non aveva un’età, non aveva un genere, non aveva volto né consistenza. Ma era presente in ogni minuto della mia giornata, visibile come un fiato di fumo bianco. Eppure costante.
 
Cercai di riprendermi dalle mie considerazioni il più in fretta possibile. Dovevo cominciare a pensare in modo più razionale, abbandonare simili riflessioni. Forse era il caso di crescere. Non mi avrebbe fatto altro che comodo, d’altronde. Ciò nonostante sentivo in me che non ero ancora pronto per affrontare una svolta del genere. Il mio posto era lì, nel sud dell’Italia, al fianco di mia madre fin quando mi fosse stato possibile.
Mi sarei presto diplomato e avrei dimenticato quei giorni. Forse avrei cominciato anche l’università. Un master in qualcosa mi avrebbe incrociato ed io mi sarei trasferito per gli studi. Avrei dimenticato i luoghi della mia giovinezza, della tempesta tiepida quando fa caldo, delle note del piano della ragazza e dell’odore di basilico per la cucina. Avrei dimenticato anche Howaito.
Un giorno mi sarei sposato con una donna del sud, avrei avuto tre o quattro figli, e questi si sarebbero sposati, generando al seguito altri tre figli l’uno. Avrei trovato un posto statale e una pensione modesta, passando Natali e Capodanni con mia madre e la famiglia di mia moglie riunita. Era quello il futuro che mi aspettava. Un futuro normale, degno di un uomo coerente e onesto. Un futuro che non volevo.
 
Guardai ancora una volta mia madre, afflitta dal suo eterno dolore prima di lasciarmi da solo nella stanza.
Mi alzai dalla sedia, mentre una smania travolgente germogliava dentro di me. Sentii la mia pulsazione sanguigna farsi sempre più rapida e incontrollata, il mio sguardo annebbiato, il mio respiro accorciato.
Presi la sedia e la scaraventai contro la parete alle mie spalle. Usai tutta la mia forza, e mi stupii di quanto essa risultò elevata, fuori dagli standard che mi ero mentalmente prefissato in pochissimi secondi prima dell’impatto. Crollai sulle mie ginocchia, urlando con tutte le mie energie e tutto il fiato che risiedeva nascosto nei miei polmoni. Strillai a tal punto da far andare via la mia voce in qualche minuto, per poi ritrovarmi con la gola secca e agonizzante.
Mi portai rapidamente le mani al collo, come per strozzarmelo, pur di far lenire il dolore, ma questo non cessava. Provai a chiamare mia madre, ma la voce era volata via come foglie al vento autunnale. Oltretutto, non avrebbe potuto aiutarmi. Sicuramente aveva sentito il mio grido, e conoscendola si era rifugiata in camera o dietro i fornelli, facendo finta di nulla, silente come l’aria che mi mancava.
Rantolai confuso sul pavimento, cercando la parente in qualche maniera, dove appoggiare la mia schiena, in attesa di un miracolo divino che potesse tirarmi fuori dal problema che mi ero creato praticamente da solo.
E così rimasi per non so quanto tempo, provando a controllare il respiro che decideva il ritmo da sé, osservando il soffitto e commiserandomi della mia stessa inadeguatezza.
 
In quegli attimi di pausa da me stesso, la mia mente vacillò, permettendole di disegnare su uno schermo bianco davanti ai miei occhi una figura umana. Un ragazzo, dalla pelle pallida e gli occhi a mandorla, le labbra sottili e umide, i capelli nerissimi, lisci, come un manto di piume di corvo perfettamente assestate tra loro, e lo sguardo viscido, arrogante ma penetrante come solo Howaito poteva guardarmi. Uno sguardo in grado di penetrarmi nelle viscere, sbranare le mie interiora e, con grazia suprema, torturare i miei intelletti.
Certamente quegli attimi idilliaci non mi portavano a niente di buono, se non aumentare uno stato d’animo già fin troppo provato.
 
Respirai a fondo, così a fondo che il mio petto, riempendosi d’aria cominciò a farmi male. Trattenni il respiro il più a lungo possibile, fin quando non lo liberai del tutto come uno sfogo.
Quel respiro mi aveva permesso di recuperare la quantità tale di adrenalina da farmi rialzare con il minimo sforzo e rimettermi al computer. Scrollai le spalle, sciogliendo tutti i dolori che si erano accumulati sulle scapole. Feci la stessa operazione al collo e alle mandibole. Scricchiolai le dita.
 
Mi preparai mentalmente per scrivergli una degna risposta di ciò che stava accadendo, di come avevo preso la notizia, di cosa avevo intenzione di fare. Fui franco, anche perché non potevo tollerare altrimenti un minuto di più il peso che mi si stava gonfiando in petto.
Organizzai le idee in testa, prima parlando schiettamente con me stesso. Ero un ragazzo. Un giorno sarei diventato un uomo. Dovevo diventare un uomo onorevole, a dispetto del marcio che mi circondava. E vivevo a stento da solo con mia madre. Non potevamo permetterci lussi.
Mia madre viaggiava in un costante esaurimento depressivo che non le permetteva di lavorare. Oltre alla magra pensioncina che riceveva per questo status di handicap, la scomparsa di mio padre causò, fortunatamente, un altro, piccolo incentivo statale, che ci permetteva di pagare la casa dove abitavamo. Tutti i miei libri di scuola ero riuscito ad ottenerli di seconda mano, come i miei vestiti, il mio computer piuttosto antiquato anche per l’epoca e tutto ciò che mi circondava. La connessione in rete riuscivo ad ottenerla grazie al vicino, il quale aveva acconsentito di agganciarmi al suo per permettermi di studiare.
Dovevo smetterla di pensare a cose simili, desideri proibiti su di un riflesso tanto vero quanto un ologramma. Non era onorevole. Un ragazzo della mia età doveva pensare a studiare e divertirsi, uscire con qualche ragazzina della mia età e magari darle un bacio. Di certo non rompere tutto ciò che lo circondava in camera, perché una persona lontana mezzo pianeta che allignava di lusso non avrebbe vissuto abbastanza da goderne pienamente.
 

O forse sì.

 
Glielo scrissi. Rivelai ogni cosa.
Non ero solito manifestare ciò che rimuginavo in maniera così sciolta, tuttavia lui riusciva a travolgermi di un’innata sensazione, ladra di ogni mia parola, emozione, sensazione.
Con lui ero libero, per quanto le barriere tra noi fossero morse d’acciaio.
 
Ma fui codardo.
Forse mio padre mi aveva trasmesso i geni della vigliaccheria, perché come inviai quella mail, rinunciai a leggerne la risposta. Non volevo sapere.
Chiusi velocemente la connessione dopo che mi fui accertato del corretto invio del messaggio, fino a spegnere definitivamente il PC.
Battei svogliatamente le mani sulla tastiera, prima di portarle sulle mie cosce e alzarmi.
Fuori la finestra, alla mia sinistra, batteva ancora la pioggia, prima lentamente e a ritmo estremamente lento, come se il cielo stesse piangendo. Ma man mano che portavo il mio sguardo triste riflesso al vetro, accompagnai quel triste impulso con la mia mano, portata alla lastra trasparente, fredda sotto la mia pelle come ghiaccio secco. Vi appoggiai quasi tutto il mio peso, per poi far calare il mio viso e guardare la placca marmorea che reggeva la base degli infissi, che ormai prendevano a bagnarsi sempre di più. I tuoni apparivano come versi rauchi e animaleschi in lontananza.
Quando ero ancora più giovane, e mio padre era ancora con noi, mia madre era sempre felice e sorridente. Ricordo che anche con i temporali più rombanti, il suo sorriso appariva come un luminoso raggio di sole tra le nubi violacee, e mentre mi stringevo a lei, cercando in ogni modo il suo calore protettivo, mi accarezzava i capelli e mi raccontava favole di ogni genere su quei meravigliosi tuoni. Una volta erano due enormi draghi che combattevano tra loro, sopra le nuvole, vicino alla luna.
Altre volte erano un angelo e un diavolo che ballavano insieme, scatenando l’ira dei propri Signori, o un concerto d’incantatrici che cantavano alle stelle canzoni sempre tristi, e queste prese dal dolore piangevano e gridavano.
Sorrisi amaramente, portando lo sguardo oltre le nuvole grigie. Sentii che qualcosa doveva cambiare.
Mi strinsi nelle spalle, abbandonando il mio sguardo e andando a letto, buttandomi sulle morbide trapunte e stringendo il cuscino, così che, ancora prima di potermi svegliare, viaggiavo già verso l’ignoto dei sogni.

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Capitolo 4
*** 4. Cielo Grigio ***


Non ho molto ricordi di mio padre. Ricordo appena qualche scena, spesso piacevole, nel disperato tentativo di ridurre al minimo tutta la forza necessaria per mantenere nella mia mente anche i brutti flashback.
Mio padre era un uomo burbero, e non faceva niente per nasconderlo. Di certo, era molto alto, rispetto alla mia statura di poco più di un poppante bipede, e sembrava sempre piuttosto sicuro di sé, qualsiasi cosa facesse. Tuttavia, non ero mai in grado di leggergli negli occhi: non ero mai in grado di decifrare cosa pensasse. Si limitava a lavorare, e al suo ritorno, nel più assoluto silenzio, si rintanava nella sua poltrona preferita, arrivando a leggere e rileggere lo stesso giornale per tutto il pomeriggio, come se il suo fosse solo un disperato tentativo di costruire una barriera invisibile tra lui stesso e noi, un noi costituito esclusivamente da me e mia madre.
Mio padre non mi ha mai portato alle giostre.
Mio padre non mi ha mai accompagnato a scuola.
Mio padre non mi ha mai raccontato una storia prima di andare a dormire.
Mio padre non mi ha mai degnato di uno sguardo.
Si conteneva in poche parole verso mia madre, del tipo: “Miriam”, perché Miriam è il nome di mia madre, “tuo figlio sta sporcando il tappeto”, oppure “Miriam, tuo figlio sta stracciando i giornali”, o anche “Miriam, tuo figlio sta per far cadere la lampada”.
Sebbene fossi un bambino così piccolo, ricordo perfettamente questo genere di frasi, il suo tono profondo e monotono. Tuo figlio. Io ero il figlio di mia madre, ma non sembrava fossi anche suo figlio.
Eppure ne ero certo. Semplicemente non mi aveva mai accettato, credo.
Mia madre però era felice, e sorrideva sempre. Spesso mi sembrava che la casa brillasse solo perché mia madre sorrideva in continuazione, di un sorriso sincero, ricco di sentimento, amore e innocente passione per le persone che amava. Mia madre era una donna onesta e forte, accettava ogni cosa e combatteva per il benessere di tutti.
Mio padre era indifferente. Non riuscivo a capire per quale ragione mia madre si sia ritrovata sposata con quell’uomo. Forse era rimasta affascinata dal suo lato tenebroso, o quegli occhi freddi e vacui che lo caratterizzavano. Non riuscivo a darmi altra spiegazione. Sentivo dentro di me che qualcosa non andava.
 
Credo, invece, di aver ereditato troppo da quell’uomo, più di quanto in realtà desiderassi.
Ancora oggi mi riguardo a fondo nello specchio, scrutando ogni minimo dettaglio del mio viso, per quanto la mia vista, affaticata con gli anni, me lo possa ancora permettere. I suoi occhi erano dentro di me.
Quegli occhi vacui e privi di ogni emotività brillano ancora oggi sotto le mie palpebre come due gocce di petrolio. Persino la mia pelle mi giocava un brutto scherzo.
La maggior parte degli italiani del sud ha la mia stessa pelle, scura, come se fosse appena abbronzata per tutto l’anno, tipica magari della Sicilia o della Calabria. Come lui. Imperioso uomo del sud dell’Italia più calda. Non come mia madre, con la pelle nivea degna di una bellezza nordica.
Mio padre la conobbe a Verona, a ovest del Veneto, città di Romeo e Giulietta. E mia madre, appena maggiorenne, figlia di commercianti, era meravigliosamente orgogliosa delle sue origini e del dramma che Shakespeare aveva scritto sulla sua città. Quando ero piccolo mi mostrava sempre le foto di quando era signorina, appena un po’ ingiallite, raccontandomi in continuazione la volta del loro incontro.
Ricordo le fattezze di una giovane ragazza, bionda, snella e con due occhi enormi, colorati di un marroncino chiarissimo e appena venati da un brillante filaccio verde smeraldo.
Mi parlava di mio padre come se fosse, il suo straordinario Romeo, e sebbene il protagonista del dramma inglese fosse in realtà ben più dettato dal sentimento, mio padre era come mi appariva. Freddo, distante.
Mi chiesi se mio padre avesse mai provato qualcosa per mia madre. Mi chiesi di come fosse quando erano fidanzati, o quando le propose il matrimonio. Eppure Lei era felice.
 
E poi un giorno, se ne andò. Così, all’improvviso, portò tutto via con sé, e di lui perdemmo ogni traccia.
Per me fu quasi completamente indifferente. Mia madre morì quel giorno stesso.
Lei viveva, agiva e pensava, lavorava e si occupava della casa, come ogni giorno. Fino al crollo.
 
Una cosa però mi rimane vivida nella mente: mio padre non mi aveva mai parlato, e per questo non mi aveva mai neanche sfiorato con un dito. La prima volta che fui picchiato, fu quando mi svegliai in quella mattinata a quindici anni, andando in cucina per fare colazione, quando mia madre mi si scagliò addosso in tutta la sua ferocia, facendomi cadere a terra e cominciando a graffiarmi la faccia.
Mi dimenai, ma nonostante tutto ero solo un ragazzino di quindici anni contro una donna di quasi quarant’anni nel pieno di un’improvvisa crisi isterica. Non sapevo il perché di quella sfuriata, la quale, non appena cessò, fui travolto dai miei stessi rivoli di sangue che scendevano lungo le membra ferite del viso e il corpo di mia madre che mi stringeva tra le lacrime.
Lo scoprii pochi giorni dopo, da una chiamata che feci al 118. So bene che il 118 va chiamato solo nei casi di estrema urgenza, solitamente quando si è per strada e si assiste a un incidente nel quale sono coinvolte delle vittime e, nella maggior parte dei casi, ferite o incoscienti.
Non aveva assistito a nessun incidente. Anzi, sembrava un giorno qualsiasi, quella volta, quando tornai da scuola e tutto riapparve come nulla fosse accaduto. Mia madre di schiena che cuoceva la pasta, la ragazza del piano di sopra che si allenava a un nuovo testo messo in atto dai tasti del pianoforte, e l’intenso profumo di basilico fresco che aleggiava per tutta la stanza. Mia madre quel giorno appariva discretamente serena, aggiungendo al sughetto anche un pizzico di menta, il cui odore subito frizzò nell’aria della stanza, arieggiata gentilmente da un venticello appena un po’ caldo, che gonfiava dolcemente la lunga tenda rossa che separava la finestra dal piano cottura. Non so perché lo feci. Sentivo in me il richiamo al dovere.
Ero solo, e ne ero cosciente. Mi allontanai dal tavolo e presi il telefono, componendo i tre numeri e avviando la chiamata. Dissi di aver bisogno di qualche infermiere robusto, in grado di trasportare una persona non mentalmente stabile. La mia voce era gelida e ferma, come…
Come quella di mio padre. Bassa, decisa, imperiosa, calcolatrice.
La centralinista si mise a ridere, credette in uno scherzo da adolescenti, ma ben presto, ascoltando il mio silenzio, capì che non scherzavo per niente. Mi diede un avviso di attesa di dieci minuti, mentre io tornai tranquillamente in cucina. Improvvisamente smisi di sentire le prodigiose note del pianoforte della ragazza, sostituendoli con una serie di rumori assordanti come un concerto di badili lungo una discesa rocciosa.
Sorrisi malignamente, stendendo le mani sul mio viso e imprigionandolo, osservando i movimenti materni solo attraverso le spaziature tra le dita.
 
La centralinista fu di parola. Dieci minuti, e un’ambulanza si piazzò davanti casa nostra, ed io, piuttosto allegramente, aprii la porta fischiettando, facendo strada ai signori che si erano presentati.
Costrinsero mia madre a una visita psicologica quando diede addosso ai quei quattro volontari venuti in ambulanza. Mia madre aveva avuto un crollo nervoso da chissà quanto tempo, ed io non me ne ero mai accorto.
In pieno periodo di fine anno scolastico, tappa più importante per uno studente, mia madre era stata trasferita in un centro psichiatrico ed io fui catapultato tra le mani di assistenti sociali.
-
Era passata quasi una settimana e mazza dalla mia ultima connessione al PC.
Non mi piaceva quel posto. Puzzava di disinfettante e di gente commiserevole.
Mi avevano impedito di vedere mia madre. Mi avevano impedito di ritornare a casa. Ero solo.
Odiavo quella situazione. Gli assistenti sociali si sforzavano di sfoggiarmi i loro migliori sorrisi fasulli, mostrando però solo occhi commiserevoli e pietosi. Ho sempre disprezzato la pietà nei miei confronti.
Scoprii che mio padre era scomparso del tutto quando arrivò in ufficio la pratica della ricerca dei miei familiari più vicini. E per scomparso, intendo dire che aveva tirato le cuoia da un bel po’ di tempo.
Tra i documenti faceva capolino un mandato di scomparsa della Polizia, seguito da un altro documento di un’autopsia conseguita qualche anno dopo su un corpo trovato morto in un torrente vicino Perugia, al centro dell’Umbria. E la cosa più strana era il livello di ustioni presenti in tutto il corpo.
Mio padre si chiamava Sandro Casanova, ed io non avevo il suo cognome. Per questo motivo si rivolgeva a mia madre in quel modo, affibbiandole la mia nascita senza la sua presenza.
Mio padre non era mio padre legalmente. Mio padre non mi aveva mai riconosciuto come suo legittimo figlio, e mia madre era sempre felice, nonostante tutto. Nessuno riuscì a capire come e perché un uomo già morto ustionato, se non addirittura carbonizzato, si trovasse a mollo nel fiume Paglia, uno dei maggiori affluenti del fiume Tevere che attraversava Perugia, diretto nel suo viaggio verso Roma. Alcuni pensarono a un regolamento di conti, altri a un incidente, nel quale l’individuo, in preda alle fiamme, aveva cercato salvezza nel corso d'acqua, trovandoci invece la morte. Ovviamente, non ci si poteva aspettare molto dalla Magistratura italiana dell’epoca.
 
Gli assistenti cercarono tra le radici della mia famiglia da parte di entrambi i miei genitori, ma poiché, destino vuole, che sia loro, che i loro genitori nacquero e crebbero da figli unici, si dovette ricorrere a ricerche più approfondite tra documenti di polverosi archivi e catene di testimonianze rinchiuse in fitti segreti. Nulla di eccezionale. Non mi sorprese un trasferimento in una specie di bettola chiamata, con molto coraggio, orfanotrofio statale. Era più un collegio per minorenni di passaggio, con genitori impossibilitati alla loro tutela, in attesa di una casa-famiglia o Dio chissà cos’altro. La bettola in questione si chiamava “Il Cielo Grigio”, questo certamente non giovava alle mie speranze. Ero ancora convinto di aver fatto qualcosa di buono, qualcosa nato come una specie di vendetta a ciò che quella povera donna mi aveva inferto sul viso, e in seguito diventato un dono d’amore che un figlio potesse fare alla propria genitrice. Salvarla da se stessa. E le cicatrici mi bruciavano ancora.
Ogni notte, strofinando il viso contro il cuscino del letto che mi mettevano a disposizione, i tagli inferti dalle unghie di mia madre mi ustionavano il viso come carboni ardenti. Una volta entrato a far parte della bettola, mi resi conto non troppo presto che ormai avevo assunto tutti gli atteggiamenti di mio padre. I miei occhi erano già da principio freddi e glaciali, nonostante dentro fossi un ragazzo normale ogni giorno. Fino al giorno in cui misi piedi nel Cielo Grigio, perché anche quel ragazzo felice e sereno, un po’ scostante con gli altri e appassionato di videogiochi, era andato via, lasciando il posto al riflesso che avevo ereditato da mio padre. Un’anima gelida, una voce profonda e imperativa, atteggiamenti meschini ed egoistici, mirati al solo scopo di una pura sopravvivenza nel migliore dei modi. E attorno avevo solo sguardi commiserevoli.
 
Ero chiaramente solo, e non avevo nessuna intenzione di perdere la mia mente in stupidi pensieri che alla fine, persino loro, mi avrebbero rivolto un tono di pietà, come se fossi un cagnolino abbandonato in autostrada sotto la pioggia. Mi mancava qualcosa, ed io sapevo perfettamente cosa.
Avevo raggiunto le due settimane senza internet. Non che la cosa mi avesse causato un danno effettivo alla mia dipendenza dalla rete telematica, ma non avevo notizie di Howaito, il che, lentamente, mi trascinava verso il mio Inferno privato tra le pareti della mia testa.
Perfino un ragazzo che non avevo mai incontrato, che non avevo mai visto neanche in foto, di cui non avevo sentito la voce neanche una volta, e che risiedeva dall’altra parte del mondo, senza avere neanche una singola possibilità di contattarmi se non attraverso un messaggio di posta elettronica, nel pieno silenzio di circa quattordici giorni, riusciva a darmi la forza di aprire gli occhi la mattina, e prendere a morsi la vita.
Io dovevo reagire, fosse stata l’ultima cosa che avessi fatto nel pieno delle mie facoltà mentali. Io dovevo prendere una posizione esatta nella mia vita. Ero io il protagonista della mia storia, e nessun altro.
Ne parlai a un assistente, uno di quelli che si preoccupano spesso senza neanche chiedere, e ti chiedono in continuazione se hai bisogno di qualcosa, mandandoti in poco tempo fuori di testa. Non era un ragazzo malvagio, ma lo ricordo a malapena. Non troppo alto quanto magro, occhialuto e rossiccio, con il viso pieno di brufoli, fresco diplomato. Un bravo ragazzo, di cui non ricordo il nome, ma ricordo invece tutti i croissant che mi metteva a disposizione tutte le mattine, con una tazza di latte caldo e miele. Una specie di Madre Teresa fatto ex-liceale brufoloso. Mi permise di usare il suo portatile, ed io ebbi accesso alla mia casella postale. La connessione era incredibilmente lenta, ma riuscii comunque a leggere tutte le mail che Howaito mi aveva mandato in questi giorni. Con mia sorpresa, quell’arrogante teppistello mi aveva occupato metà della mia casella dei messaggi in arrivo. La maggior parte delle lettere era rivolta alla mia mancanza di risposta, all’inizio distanziate da un giorno o due, poi sempre più frequenti, arrivando a toccare le tre lettere elettroniche al giorno. Sorrisi, in un certo senso.
Tra le nuvole nere del Cielo Grigio della mia vita, mi sentivo, in una certa maniera, desiderato. Sentivo che qualcuno aveva bisogno di me, come io avevo bisogno di qualcuno. E quel qualcuno era l’unico in grado di tirar fuori da me ciò che io nascondevo agli occhi del mondo.
Cominciai a scrivere una lettera di risposta, una sola risposta a tutte quelle assurde domande, ricolme di odio verso se stesso, preoccupazione, arroganza, abbandono, insicurezza nascosta dietro altisonanti parole. Comincia a descrivergli le mie giornate, di cosa era accaduto a mia madre, di dove ero capitato, di Cielo Grigio e di Madre Teresa con gli occhiali, dei croissant e di mio padre, del letto che cambiavo ogni sera, dell’odore di vomito e disinfettante che aleggiava per i corridoi e del mio essere che si accomunava sempre di più con mio padre. Una lettera che sembrava non finire mai. Non so esattamente quante ore impiegai, so soltanto che Madre Teresa mi guardava sorpreso di un inusuale sorriso sul mio volto. Era la prima volta che mi vedeva così vicino alla serenità.
Quando inviai il messaggio e gli resi il portatile, lui mi sorrise, aggiustandosi gli occhiali sul naso, promettendomi almeno un’ora al giorno al suo portatile. Il primo atto di gentilezza che ricetti dalla mia entrata a Cielo Grigio. Mi sentii sollevato.
 
Mi alzai con fiducia dal tavolo, percorrendo la strada verso il mio dormitorio.
Tutto era piuttosto scialbo e vuoto. La camerata rassomigliava in modo particolare a quelle dei militari, che si vedono solitamente nei film di guerra. Pareti bianche, appena un po’ scalcinate, qualche lampadina dal filo penzolante attaccato al soffitto, due file di letti ai lati delle mura, una per ogni parete, e ogni fila aveva cinque o sei letti. Un bagno in comune, tre gabinetti, un solo lavandino con tre rubinetti e due docce, di cui una rotta, lercia come se fosse ricoperta di fango e puzzava di urina in modo allucinante. Lo Stato non passava granché con i finanziamenti, e si campava per lo più di donazioni, la maggior parte dei quali arrivava dagli stessi ragazzi ospitati che andavano in giro a rubacchiare qualcosa. Era piuttosto deprimente, considerando che erano tutti minorenni, e tutti facevano finta di non guardare.
Scrivere quella lettera, tuttavia, mi aveva reso di buon umore, e mi permise di coricarmi senza troppi pensieri.

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Capitolo 5
*** 5. Ritorno a casa ***


Sette maggio 2008.
Fui svegliato da un debole raggio di sole, riflesso dalla finestra che avevo alle spalle della mia branda, accarezzato da una soffice e liscia carezza di una mano gentile.
Erano passate circa due settimane dalla mia residenza a Cielo Grigio, e per essere uno spostamento temporaneo, sembrava andare per le lunghe.
Mi arresi alla dolcezza di quel gesto materno, nel tentativo di svegliarmi, sorrisi, lambendo la mano che mi stava toccando la guancia. Con un po’ di fatica, riuscii a percepire la figura che mi osservava e mi chiamava, come un eco lontano, seduta accanto a me sopra la mia branda, ricoperta miseramente da un lenzuolo per bambini e una coperta di sacco, entrambe scolorite e macchiate a causa del tempo, e dei tanti ospiti che le avevano usate. Quella figura, dalla sagoma così sottile e sfocata, mi ricordava mia madre, tanti anni prima, quando era ancora felice. Mi rimboccava le coperte prima di andare a dormire, e ancora mi svegliava con delicatezza ogni mattina. Da bambino credevo rimanesse sveglia tutta la notte, con me, per proteggermi dagli incubi. Sarebbe stato bello risvegliarsi in uno di quei ricordi ancora una volta, ma dovevo affrontare il mondo reale, come ogni giorno, per quanto la visione potesse farsi sempre più ardua o distorta.
Sorrisi amaramente, mettendo a fuoco la figura, scoprendo le sembianze di Madre Teresa, occhialuto e brufoloso come ogni giorno, ma nonostante questo caparbio nella sua ostinata cortesia nei miei confronti. Fra tutti, mi sarebbe piaciuto davvero ricordare il suo nome. Me lo disse una sola volta, ma non fui mai in grado di assegnargli altro nome che Madre Teresa.
Il raggio di sole mi trasmise una sorta di accumulo di adrenalina, incitandomi ad alzarmi con uno scatto, rimanendo così in piedi davanti all’assistente del centro che mi fissava dietro i suoi paralizzanti fondi di bottiglia, serenamente, quasi paternamente. Stesi tutti i muscoli, sgranchendomi le ossa con qualche movimento delle spalle e delle cosce, fino a raggiungere il giusto equilibrio per l’eccitazione muscolare.
Mi guardai intorno, sorridendo compiaciuto. Il raggio di sole, debole di nascita, si stava spandendo lungo tutta la camerata come una chiazza d’olio sulla superficie di un laghetto cristallino, illuminando le pareti, un tempo bianche ed illuminando tutta la stanza. Era un evento piuttosto rilassante, considerando che ancora oggi questi piccoli dettagli riescano a influire sul mio umore più di qualsiasi altro evento.
Madre Teresa mi porse alcuni vestiti puliti, dandomi forse il più importante tra gli avvisi che potessero capitarmi in quel periodo: tornavo a casa. Non ero definitivamente “libero”, anzi.
Alcuni assistenti, seguiti da Madre Teresa stesso, mi avrebbero accompagnato a casa, stavolta per un ultimo viaggio. Di prima mattina non capii, ma lungo il viaggio in macchina tutto mi fu spiegato.
Le ricerche non avevano portato da nessuna parte. Non avevano trovato parenti fino alla quinta generazione, né da parte di mia madre, né da parte di mio padre, sebbene le ricerche di quest’ultimo siano state le più frettolose, dal momento che il vecchio bastardo non mi aveva riconosciuto davanti la Legge.
 
Il mio quartiere mi apparve improvvisamente come un pezzo di Paradiso, accorgendomi solo in quell’attimo di quanto in realtà fosse bello. Ampie stradine perimetrate da curati marciapiedi di pietra levigata, erbette e palazzetti di mattoni ridipinti con giardini e cortiletti di erba verde e brillante, vialetti di pietre grezze composte e un paio di cani dei vicini che correvano. Ogni palazzetto aveva all’incirca tre o quattro piani al massimo, con bellissime vetrate e balconcini fioriti di ogni genere, dalle piante grasse ai fiori più comuni e colorati. In più di un palazzetto crescevano edere ricche d’acqua e altre planimetrie rampicanti senza nome, che si stendevano e si aggrappavano alle pareti esterne, appena un po’ scalcinate a causa della pioggia.
 
                                                                                Mamma, non te ne andare.              
 
Guardai distrattamente un angolo della stradina, appena un po’ più sconnesso degli altri.
Da lontano si sentiva la ragazza del basilico che riempiva leggiadramente il silenzio dettato dal vento fresco lungo tutta la zona, ma non ci badai troppo, né mi voltai alla ricerca del suono. I miei occhi erano fissi su quel punto. Mamma, non te ne andare.
Avevo cinque anni. Mia madre non riusciva a reggere le spese di casa, non so il perché. Forse mio padre non lavorava, forse le spese per un bambino sono più esigenti del previsto, non lo so. Sinceramente non me lo sono mai chiesto. Ricordo solo quell’angolino del cortiletto sotto casa, quando ogni giorno vedevo mia madre andare a lavoro. Un lavoro misero da quello che ricordo, ritrovandosi a fare la sguattera in qualche locale del quartiere, la cameriera, la badante. Quello che c’era da fare, mia madre lo faceva, con il sorriso sulle labbra e gli occhi stanchi. Ed io piangevo, perché non volevo rimanere a casa. A casa c’era mio padre, seduto sulla poltrona, che leggeva il giornale e fingeva ogni giorno la mia inesistenza. Non ho mai avuto il coraggio di chiamarlo papà. Non ho mai avuto il coraggio di chiamarlo e basta.
Mamma, non te ne andare. Mamma, non lasciarmi da solo. Mamma, ho paura, non andare via da me.
Lei sorrideva, con gli occhi che apparivano come specchi dell’anima: commiserevoli e stanchi. Quando tornava però, io le correvo incontro, dritto sulle cosce, stringendomi a lei come se da lei dipendesse la mai vita. Con i muscoli a pezzi, mi abbracciava e mi sollevava, poggiandomi sul suo petto. Anch’io le mancavo.
 
Madre Teresa mi portò alla realtà, lasciando solo l’immagine trasparente di quel bimbo che ero nell’angolo scalcinato della stradina, fino a scomparire. Lo guardai, e lui rispose allo sguardo con aria interrogativa ma serena, come appena accennata di curiosità. Abbassai la testa e mi diressi verso il portone, salendo quattro piani di scale nel giro di un paio di minuti, e dopo avermi raggiunto, sebbene con un po’ di fiatone, Madre Teresa mi diede la chiave di casa tra le mani. Fredda.
Aprii la porta con estrema lentezza, gustandomi per l’ultima volta lo scricchiolante suono prodotto tra le rotelle dei ferri della serratura girare e tintinnare scricchiolanti tra di loro. Con fermezza, feci scivolare la mano sulla porta, spingendola. Tutto era rimasto meravigliosamente intatto. Il corridoio davanti a me brillava di pulito, coperto dallo stesso marmo scuro che copriva l’intera casa. Liscio.
Alla mia sinistra, la cucina. Abbastanza ampia, vecchi mobili in ciliegio e due finestre rimboccate da un paio di lunghissime tende rosse. Tutto era accarezzato dalla penetrabile voce soave del pianoforte, giusto sulle nostre teste. Il tavolo al centro, le sedie in torno, e i fornelli al lato. Mi venne da piangere.
Riuscivo a vedere ancora la vecchia schiena di mia madre lavorare alle pentole, o lavare qualche piatto, con il capo chino e obbediente a un padrone che non c’era più. Sentivo altri assistenti che fregavano nella mia stanza, arraffando la maggior parte dei miei vestiti e mettendoli nei loro borsoni. Scrollai le spalle, mentre Madre Teresa seguiva ogni mio passo con gli occhi. Uscii dalla cucina, ritornando in corridoio. Alla stessa altezza della cucina, si apriva la porta vetrata del salotto. Ci entrai, con fare lento, osservando tutto ciò che mi circondava, mentre la ragazza mi offriva dal piano di sopra un lentissimo lavoro di note acute, di quei tasti che si trovano alla fine della tastiera, come se suonasse uno xilofono, poi ancora tre o quattro note basse, dall’altro capo della tastiera, regalandomi un sottofondo cupo e soffocante. Tutto in quella stanza mi opprimeva. A sinistra, un lungo divano rosso scuro, a destra una poverissima parete attrezzata di qualità scadente e qualche libro. Tutti miei libri. Davanti a me, tutto era coperto da un’unica tenda rossa, decisamente con tonalità più scure, che coprivano le sue finestre e un asse da stiro. Davanti alla tenda, sempre davanti ai miei occhi, una poltrona, vecchia ma incredibilmente curata, di tessuto fine e costoso, un po’ pacchiano, come se fosse in vendita in qualche negozio di antiquariato. Un cuscino. Al suo fianco, un raccoglitore di ferro battuto che si apriva a ventaglio, pieno di giornali vecchi di anni, mai toccati da qualcuno che non fosse quell’uomo.
Rimasi con il fiato sospeso, e con il mio respiro la musica della fanciulla si fece sempre più lento, fino a scomparire del tutto, per poi riprendere con un tono sempre abbattuto, ma presente.
Al centro del salotto, un basso tavolinetto in mogano padroneggiava la stanza. Ma i miei occhi non riuscivano a scollarsi da quella poltrona. Rimasi immobile a fissarla per qualche minuto, con astio, fin quando Madre Teresa non pronunciò il mio nome. Mi voltai appena. Sapeva ciò che stessi facendo.
Mi voltai del tutto e gli camminai lentamente incontro, per poi sorpassarlo e ritornare nel corridoio. Questo non era molto lungo, ma abbastanza stretto, il giusto necessario da poter passare comodamente uno per volta, ed era piuttosto spoglio. A parte qualche luce sul soffitto, non c’erano quadri, né fotografie, né tappeti. Escludendo la cucina e il salotto, davanti a me si presentava un’imperfetta croce latina. A sinistra avrei ritrovato il bagno, ma non c’era nulla di così interessante da rivedere, a parte il mio spazzolino. Davanti a me, la porta della mia cameretta, occupata dagli assistenti che facevano man bassa delle mie cose. Già sapevo che me ne avrebbero stipato solo una parte. Il resto lo avrebbero donato a Cielo Grigio. Madre Teresa mi aveva avvertito. Avrebbero preso il mio computer, lo avrebbero resettato e messo in qualche ufficio. I sacrifici di mia madre per comprarmelo durarono un anno intero. E così per le mie lenzuola, i miei giocattoli di quando erano bambino, i miei libri, i miei dizionari, i miei videogiochi. Sarebbe stato tutto donato agli orfanotrofi affiliati. Madre Teresa non mi aveva ancora avvertito di cosa mi sarebbe successo, mi aveva solo detto che non c’era la possibilità di trasferirmi nella casa di qualche lontano parente, perché non erano stati trovati. Scelsi di andare a destra, nella stanza da letto di mia madre.
Era piuttosto spoglia, un solo letto matrimoniale da un lato, e un ampio armadio dal muro opposto. Dal lato della porta un comò piuttosto vecchio e uno specchio di media grandezza, ai lati superiori del letto, accanto alla testata, due comodini, di cui solo uno disponeva di una lampada. Su un solo muro, qualche fotografia sopravviveva. Ma non c’era nessuna in cui apparissi anche io.
Erano anni che non entravo nella stanza da letto dei miei genitori. E sapevo il perché. In ogni fotografia appariva quell’uomo. Ogni singolo ricordo non includeva me, ma solo quella persona. Lo maledissi con tutta la mia forza. In quell’attimo pregai con tutto me stesso che potesse accadergli qualcosa di brutto, ricordandomi poi dei documenti dell’autopsia del cadavere riconosciuto come mia padre, e mi diedi dell’idiota. Sospirando, abbattuto a quell’idea, guardai tristemente la patetica scena che si presentava sulla parete, per poi scrollare le spalle, rassegnato. Anzi, quasi sorrisi all’ironia della sorte. Madre Teresa se ne accorse, chiedendomi se volessi entrare un’ultima volta nella mia stanza prima di andare via. Lo guardai con sufficienza, chiedendogli a cosa sarebbe servito. Mi diede la possibilità di prendere una cosa a me molto cara, qualsiasi cosa si trattasse non me l’avrebbero portata via, purché fossi in grado di portarmela dietro tra le mani. Sorrisi, e con il suo stupore mi lasciai alle spalle la mia camera, per dirigermi direttamente in cucina. Con un tono di felicità dentro di me, accarezzai le pareti di quel posto tanto amato, il lavandino, i mobili e la tenda rossa che affacciava giusto verso i fornelli. La scostai e aprii la finestra, gustandomi per un’ultima, conclusiva volta, la brezza fresca e i raggi del sole, il profumo del bucato delle lenzuola stese dalla signora del piano di sopra e il respiro di quando ero bambino. Presi tra le mani la piccola pianta di basilico e la tolsi dal ripiano a metà tra gli infissi e il mondo esterno.
Era molto leggera, con un vaso di plastica marroncina e le lussureggianti foglie carnose, appena un po’ bruciate dal sole e dalla calura per non aver bevuto in quelle due settimane di trasferimento a Cielo Grigio.
Mi voltai verso Madre Teresa e gli sorrisi. Lui mi guardò confuso, ma rispose a quel mio sprizzo di malinconica allegria, sapendo che di punto in bianco sarei scoppiato a piangere, contro la mia volontà.
Un paio di assistenti, già fuori la porta, gli fecero cenno di andare e lui tornò a fissarmi.
 “Vuoi salutare qualcuno, prima di andare via?”
Gli annuii. Uscì da quella che era stata casa mia, la mia cuccia, il magazzino della mia infanzia, deposito dei miei ricordi. Mi lasciai tutto alle spalle. La finestra della cucina aperta, la mia stanza senza ultimo saluto, le fotografie sulla parete, la poltrona della bestia nel salotto e il corridoio spoglio.
Gli porsi la mia pianta e salii le scale verso il piano di sopra, fino ad arrivare al pianerottolo e suonare alla porta della casa esattamente sopra la mia. La musica che proveniva da dentro si arrestò, e qualche passo si udì fino a raggiungermi. La porta si aprì e la ragazza dal piacevole senso armonico mi vide.
Io le sorrisi, ma tutto in me traspariva ciò che era accaduto. Non feci in tempo a darle il buongiorno che mi abbracciò, così forte che quasi sentii il fiato mancarmi come un fiume in piena in un cunicolo troppo stretto.
Lei lo sapeva. L’intero condominio lo sapeva. Anzi, forse tutto il quartiere ne era venuto a conoscenza.
La strinsi, abbracciandola a me. Era così magra che avrei potuto contarle le ossa una a una, alta al punto da piegarsi e sfregava contro di me il suo seno secco. Non aveva neanche vent’anni, eppure ne dimostrava almeno mezzo secolo in più. Mi baciò velocemente la fronte e mi fece entrare.
 “Non posso rimanere a lungo” – dissi – “Sono venuto solo a prendermi qualche vestito…”.
Lei mi sorrise, andando poi nella stanza che corrispondeva alla mia cucina. La sua, invece, era una sala di musica, dove, al posto del mio tavolo, si erigeva un meraviglioso pianoforte a coda, interamente in legno massello, intarsiato direttamente dai migliori artigiani spagnoli. O almeno, questo è ciò che mi raccontava mia madre prima del collo, quando andava a prendere il tè con la madre della ragazza, che in quel momento doveva essere fuori.
 “Tua madre mi disse che amavi la mia musica”.
La sua voce sembrava un sussurro di opera lirica. La osservai attonito, portando tra le braccia un gran numero di spartiti legati. Il suo sorriso era davvero meraviglioso, anche oltre i grossi occhiali che portava sul naso, in parte coperti da una lunga frangia perfettamente ordinata.
 “Sapevo che saresti tornato. Li ho ricopiati per te, nota per nota”.
Rimasi sconvolto a tal punto che ricordo ancora non solo ogni sua singola parola, ma anche la sua voce aggraziata e il tono con cui me lo disse. Era incantevole, rivestita da un compatto strato di timidezza.
Sulle mie spalle portavo uno zainetto, omaggio di Cielo Grigio, di qualità piuttosto scadente, dove dentro portavo una bottiglia piccola di acqua naturale e un pacchetto di fazzoletti. Le mie chiavi di casa e il mio cellulare erano stati confiscati per motivi di sicurezza, perché minorenne. Un trattamento che nel 2008 mi appariva a dir poco mostruoso. Lei aprì la cerniera, spostò la bottiglietta verso la parte più esterna dello zaino, e sul fondo fece accomodare gli spartiti.
 “Mi auguro con tutto il cuore che un giorno tu possa imparare a suonare e rallegrarti dei miei testi”.
Me lo augurai anch’io, abbracciando ancora una volta il corpo magro della ragazza, per poi lasciarmi anche lei alle spalle. Il suo profumo. Il suo sorriso. La sua musica. Il mio dolore.
Scesi le scale ma davanti alla porta di casa non trovai nessuno. Scesi ancora, fino a ritrovarmi Madre Teresa davanti al portone del palazzo. Probabilmente, se avessi accennato agli spartiti, me li avrebbero portati via, in quanto solo un unico oggetto mi era permesso di portare via con me. Gli presi la pianta dalle mani e mi avviai verso la grande Audi nera parcheggiata alla fine del vialetto.
Sotto i miei passi, le armonie della ragazza mi cantavano un tono stranamente allegro, come una marcia di ringraziamento da parata. Mi voltai. Quella musica era completamente nuova, mai udita, trasmetteva felicità e allegria da ogni poro. Capii al volo cosa mi stesse comunicando.
Osservai il palazzetto nella sua interezza, per poi voltarmi verso il mio futuro, incerto, ma non per questo spaventoso come mi ero designato. Avrei affrontato fortune e disgrazie, orrori e delizie, gioie e dolori.
Avevo solo cominciato a vivere la mia vita. Diversa dalle altre, ma con un’immensa gratificazione dentro di me. Dovevo solo mettere un passo dietro l’altro, e guardare verso il mio futuro negli occhi.

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Capitolo 6
*** 6. Lei, la luce ***


Addio Cielo Grigio.
Non mi ero reso ancora conto di quanto temporaneo fosse il mio trasferimento lì. Inizialmente credetti di rimanerci fino alla maggiore età, dal momento che né da parte di mia madre, né da parte di mio padre erano stati trovati tutori di alcun genere. Non in Italia, almeno, ma nessuno degli assistenti voleva spedirmi fuori dal Paese, il che, però, non mi sarebbe affatto dispiaciuto.
 
Osservai con calma modesta la mia unica valigia. Somigliava ad una di quelle valige che si vedono nelle vecchie fotografie di emigranti italiani partiti per il Belgio o l’America nel secondo dopoguerra: perfettamente rettangolare, con un paio di cinte sul dorso, colorata di un marroncino piuttosto chiaro e dall’aspetto robusto. All’interno, qualche camicia che ero riuscito a salvare dalle mani degli assistenti e un paio di pantaloni, salvo qualche effetto personale. Valigia nella mano destra, vaso del basilico avvinghiato dal braccio sinistro. Perfetto. Ero pronto per lasciare il centro temporaneo per l’accoglienza ai minorenni.
Di quel posto così simile alle accademia militari, rimpiango solo una cosa. Madre Teresa.
Ricordo i suoi occhi, dietro quelle spesse lenti che lo contraddistinguevano così tanto. Fermo, davanti al portone del centro, mi sorrideva e mi salutava. Mi promisi di incontrarlo, una volta diventato adulto, ma non lo rividi mai più. Fu un grande alleato e fonte dissipatrice di ogni mio affanno.
Come tutte le cose che si susseguono nel mondo, era tempo di andare, muovermi, crescere e lasciare alle spalle tutto ciò che non poteva più essermi utile, e così fu. Mi voltai ed entrai un’ultima volta nella macchina nera degli assistenti, dopo che questi ritornarono dagli uffici con i documenti del mio caso.
Il finestrino della portiera era sporco di polvere e di umidità, e da lì riuscì appena ad intravedere le sagome di Madre Teresa e le mura di Cielo Grigio. Diamine, che razza di nome per un centro di rifugio per minorenni senza tutore legale, ma mai più di quel nome fu azzeccato per quelle quattro pareti scalcinate.
 
Rimasi spiazzato, alla fine di quello che sembrava un tragitto intramontabile, nel costatare che il mondo potesse cambiare così dettagliatamente da un momento all’altro.
Scesi dalla macchina con il vaso sotto il braccio, mentre uno degli assistenti vestiti di nero mi porgeva la valigia. Davanti a me si erigeva ciò che una volta doveva essere una villa, appartenuta ad un qualche nobiluomo decaduto. Ampi palazzi si accantonavano l’uno all’altro, fino ad arrivare ad un unico fulcro centrale che superava in altezza ogni edificio del posto, malamente imbiancato e con i tetti spioventi, segno di arte e architettura certamente non italica, sebbene riuscissi a scorgere evidenti segni di barocco tra le grandi vetrate e sugli architravi. Sul davanti si apriva un parco verdeggiante, e in ogni spazio accarezzato dal sole si intravedevano bambini di ogni età giocare tra loro, rincorrendosi e lanciandosi dietro qualche pallone di ogni forma e colore. Alberi dal fusto magro e alto erano piazzati disordinatamente lungo tutta l’area, concedendo piazzali di ombra e freschezza a giovanissimi esausti per le troppe corse.
Intorno alla zona, un’alta cancellata in ferro battuto circondava tutto l’incantevole eden nel quale ero stato catapultato, lasciando risplendere sulla cancellata il nome del centro di accoglienza, inserito di recente.

<< Istituto comprensivo per l’accoglienza ai minori “Rubra Vulpes” >>

Volpe Rossa. Ero nella tana di una volpe rossa.
Sperai con tutto il mio cuore che fosse una volpe materna, osservando le milizie di ragazzini che si accalcavano via via lungo il cancello, studiando le divise nere degli assistenti che mi accompagnavano.
Il portone si aprì, e ci fu permesso di entrare. Tremando, strinsi a me il vaso di basilico nel braccio sinistro e la valigia nella mano destra. Mi sentii un animale trasportato al guinzaglio, con qualche ridicolo vestitino indosso, incapace di ribellarsi agli sguardi analizzatori del pubblico che lo mirava.
Ogni mio passo veniva ammorbidito e compattato dal sentiero di terriccio asciutto che divideva le due metà del parco come un torrente, un lungo tappeto di sabbia e humus che mi scortava fino ai primi gradini dell’edificio a cui mi avvicinavo sempre di più. Avevo paura, non ricordo precisamente di cosa, ma sentii dentro di me la voce che a poco a poco indugiava sempre più atterrita, percependo un sibillino senso di agonia e di angoscia, emarginazione, timore, brivido. Avevo il cuore in gola, e mi vergognai di ammetterlo.
Cercai in ogni modo di padroneggiare dentro di me i miei stessi impulsi, che si facevano spazio tra loro con violenza e grettezza, avidi di arrivare in cima alla vetta dei miei controlli emozionali.
 
Le porte si aprirono ancora e ancora, prima trascinandomi in un ricco salone centrale, il cui soffitto sembrava un pezzo di Paradiso, tali che furono le luminosità dettate dal candore delle mura e i lucernai sparsi ovunque, e in ogni dove posassi il mio sguardo potevo ammirare le rifiniture rinascimentali delle arcate e delle scale in granito, che si incontravano tra loro sulla base del pavimento, e poi crescere in alto, abbracciandosi e creando un piano superiore interno, senza così creare un ostacolo tra la sala e le vetrate poste sulla volta. Meravigliato da quella scena, mi chiesi come fosse possibile una simile costruzione proprio in Italia, da sempre marchiata per gli scempi architettonici che decadevano per un soffio d’aria.
Non fui in grado di darmi una risposta in tempo, quando una donna di mezz’età mi si presentò davanti.
Snella, molto alta, vestita con un abito classico, gonna lunga fino alle ginocchia, una camicia bianca e una giacchetta nera sufficientemente aderente. Infine, un paio di scarpe femminili vellutate di nero accennavano un minimo di tacco. Il suo viso, per quanto mostrasse la sua età, era privo di qualsiasi imperfezione. Occhi grandi, azzurri come il cielo di primavera e i capelli rossicci, lisci, lunghi, come tante foglie autunnali.
Mi scrutò a lungo, squadrandomi da capo a piedi, per poi soffermarsi sulla mia pianta, che a quel punto strinsi al braccio con tutte le mie forze. Lei mi sorrise e prese i documenti dalle mani degli assistenti, senza neanche chiedere. Mi piacque. Lo sfogliò sregolatamente, per poi infilare la cartellina sotto il braccio e porgermi la mano. Abbassandosi verso di me, lessi il cartellino che indossava sulla giacca. Francine.
Mi sentii stupido, nel pieno dei miei quindici anni, nel dare la mano ad una donna che non conoscevo. Poggiai in terra la valigia e gliela strinsi. Aveva una presa forte e ben salda. Questa mi sorrise di nuovo, salutandomi piuttosto informalmente, presentandosi allo stesso modo. Io feci altrettanto, ma con più garbo. Nonostante gli atteggiamenti, sembrava una donna di classe e sicuramente colta. Ciò nonostante, prese senza indugi la mia valigia, facendomi segno di seguirla.
Mi lasciai alle spalle i miei accompagnatori in nero, ammirando lungo il tragitto pezzi di affreschi lungo le pareti bianchissime, e ogni arcata finemente lavorata. Il corridoio mi parve un incantevole viaggio tra le nuvole, e la cosa mi spaventò. Non riuscivo a credere ad un simile sbalzo di qualità e lusso, tutta quella fascinosa bellezza aveva un retrogusto vagamento aspro.
Pienamente convinto dei miei sospetti, mi fece accomodare nel suo studio, e prima ancora che potesse aprir bocca le feci la mia più che legittima domanda:
“Per quale ragione questo posto è così ricco?”
Lei rimase allibita da questo mio improvviso stato di allerta, ma riprese a sorridere.
“Un donatore anonimo piuttosto ricco ci sovvenziona mensilmente.”
“Impossibile” – replicai – “Una cosa del genere non può esistere. Non in Italia, almeno.”
Lei mi guardò dritto negli occhi.
“Sei sveglio.” – si limitò a dirmi, dopodiché prese a consultare i documenti degli assistenti sociali, e ricopiare parte delle informazioni su alcuni moduli e schedari.
“Hai quindici anni. Mio figlio ha la tua stessa età.”
Quella donna non smetteva di sorridere, ma a quella frase il suo volto si increspò di una velata tristezza.
La penna si muoveva freneticamente tra le sue dita, scrivendo rapidamente foglio su foglio.
“Liceo linguistico. Secondo anno. Hai un bel curriculum, vedo che ti piace fare teatro. Abbiamo una compagnia all’interno dell’istituto, vedrai, ti troverai bene.”
“Che ne sarà di me?”
Le mie domande erano precise e ben mirate, come frecce di un degno arciere uscito da qualche libro fantasy dell’epoca. Lei mi guardò, e i suoi occhi, dapprima brillanti e cristallini, si appassirono dal vivace azzurrino al tetro grigio verdognolo.
“Non hai una casa” – mi disse – “Non hai più una madre, tuo padre non ricordi neanche com’è fatto. Non hai nessuno che si occupa di te, e di questi tempi il governo in carica non finanzia le adozioni, né velocizza le pratiche. Questo non è un orfanotrofio, ragazzo mio. È un centro di accoglienza temporaneo. Se pur trovassi una coppia disposta ad aiutarti, le pratiche risulterebbero così lunghe che al loro scadere, sarai già maggiorenne da un pezzo. Per di più, ho anni di esperienza sulle mie spalle, e posso sinceramente dirti che le coppie preferiscono di gran lunga adottare qualche marmocchietto di massimo un paio d’anni, che un ragazzo quindicenne già bello che sviluppato.”
Oh, dolore. Era ciò che mi aspettassi di provare, ma non accadde. Non m’importava più di niente, ormai.
La mia vita, costruita su gesti semplici e ripetuti, era crollata, ed ero corso incontro alla possibilità di venire irradiato da un raggio di Sole grande quanto un oceano. Eppure, alla vista di una così sublime e celestiale fetta di Elisio, non riuscivo a convincermi.
“Dov’è il trucco?”
La donna sembrò annoiarsi alle mie domande.
“Non ci sono trucchi.”
Non mi fidavo di lei. Sentivo che ciò che stava accadendo non mi apparteneva.
Prese a copiare velocemente il resto delle informazioni, per poi contattare quella che sembrava una sua assistente per portarmi nella mia nuova stanza. La signorina entrò nella stanza, sistemandosi un grosso paio di occhiali sul naso. Sembrava piuttosto giovane, vestita di una gonna a pieghe e una camicetta bianca a mezze maniche. I polpacci erano rivestiti da due lunghe calze nere e calzava un modello di scarpe laccate nere piuttosto vecchio. Mi ricordava Madre Teresa che avevo lasciato a Cielo Grigio.
Prendendo la valigia, mi voltai verso la donna ancora seduta alla scrivania. Portava una mano alla bocca, il cui gomito si appoggiava allo scrittoio. Nell’altra mano reggeva una cornice di piccolo taglio, di quelle che si usano per le fotografie, reggendola a mezz’aria. La osservava con aria triste, afflitta, quasi sul punto di piangere. Decisamente non era una giornata particolarmente piacevole.
Lungo il tragitto per la mia stanza, la ragazza mi fece da guida, mostrandomi e indicandomi le strade e i corridoi, le varie classi per le elementari, le medie e le superiori, ma non prestai molta attenzione. Focalizzai il mio sguardo sulla targhetta che indossava su una tasca superiore della camicetta.
“Renata.” – lessi ad alta voce.
Lei si voltò e mi sorrise. Aveva davvero un bel sorriso, aggraziato e appena un po’ infantile. Era appena un po’ più alta di me, con un taglio di capelli vicino al caschetto, ma disordinato. Capelli castani, pelle chiara e liscia, contrariamente alla mia già più scura carnagione, e occhi straordinariamente verdi, come le foglie del mio basilico, di quelle appena nate, già carnose e profumate. Su un nasino infantilmente piccolo si reggevano due grosse lenti, non troppo spesse, ma abbastanza grandi da coprire parte del suo viso.
Mi indicò la mia camera, che si rivelò essere una singola. Ringraziai il cielo per avermi benedetto in quel modo, nonostante non mi fidassi ancora di quel posto.
Prima che Renata potesse andare via, le strinsi il polso con la mano che lasciai immediatamente libera dalla valigia. Questa, spaventata dal tonfo del bagaglio, mi guardò di scatto. La guardai intensamente negli occhi.
“Ti prego, non andare via…”
Mi sentivo debole, fiacco e stremato da quel continuo cambiare. Avevo bisogno di un punto fermo su cui posarmi, Renata era l’unica che mi aveva sorriso sinceramente in quel posto brulicante di luce abbagliante.
Ero spaventato, e con rapidità le chiesi per quale ragione, nel Sud Italia, potesse esistere una simile struttura così ben curata ed efficiente. Lei mi sorrise amaramente, sedendosi su quello che sarebbe stato il mio letto. Mi fece segno di accomodarmi al suo fianco, ma rifiutai, rimanendo impalato di fronte a lei, con lo sguardo fisso e il respiro basso.
Mi disse che la villa apparteneva ad una casata decaduta, la cui discendente era la stessa proprietaria dell’istituto. Questa all’inizio non era che una catapecchia che cadeva a pezzi ad ogni intemperia. Tuttavia, la proprietaria veniva spesso a visitare la villa con i suoi due figli. Quando le chiesi del marito, il suo volto si incupì, e la frangia coprì parte dei grossi occhiali. Mi rispose sussurrando, come se non volesse farsi sentire, o sentire lei stessa le sue stesse parole. Il marito la ripudiò, scappando via con un'altra donna e lasciando Francine con una serie di debiti di gioco da pagare. Sola, con due figli a carico e un lavoro sottopagato, chiese aiuto al governo ma non ebbe risposta. Cominciò a lavorare di giorno e di notte pur di abbinare un paio di piatti caldi ai figli, permettersi la casa e pagare ogni singolo debito che il marito aveva contratto tra una corsa ai cavalli e una partita di calcio, fino al giorno del crollo. Le autorità non le consentirono la tutela dei figli, in quanto ancora bambini, togliendole la potestà di entrambi.
Rimasi impietrito, immaginando quella donna all’apparenza così forte con un passato così atroce.
Renata continuò la storia, raccontandomi degli sforzi di Francine per salire in vetta e riacquisire i suoi figli, ma ogni suo tentativo sembrava vano. Senza un lavoro stabile, né una casa su cui fare affidamento, si rifugiò nella villa decadente, sperando di poter dare una svolta alla sua vita. I figli, nel frattempo, erano stati inseriti in un centro di accoglienza minorile, esattamente come stava accadendo a me. Tuttavia, le condizioni dei centri finanziati dallo Stato non erano in grado di supportare un numero elevato di bambini e al contempo occuparsi della loro perfetta salute o delle condizioni della struttura.
Quando mi raccontò questo particolare, non riuscivo a capire cosa intendesse, ma presto mi fu svelato. Accadde esattamente ciò che un genitore non vorrebbe mai che succedesse: seppellire un figlio.
 
In un primo impatto la guardai confuso, ma il suo racconto non terminò.
Mi disse che il suo figlio minore era stato coinvolto in un incedente nell’istituto dove era stato ammesso. Una sera, un violento temporale colpì la struttura già di per sé malconcia. La forza del nubifragio fu tale da rimuovere le costruzioni di sicurezza, e le pareti si piegarono al volere del vento. Pareti distrutte, travi e tralicci pericolosamente spostati, e parte del soffitto crollato su almeno una decina di ragazzini. Tra cui il figlio di Francine.
Inavvertitamente portai la mano libera alla bocca, nel pieno del mio shock, ma ciò non fermò la ragazza, che continuò lo straziante racconto, sebbene mi fu raccontata la conclusione piuttosto brevemente. Mi disse semplicemente che, dalla perdita del figlio, riuscì ad ottenere un finanziamento e avviare la costruzione del centro minorile in dedica al figlio. Ci vollero mesi, petizioni, donazioni chieste porta a porta, suppliche e autorizzazioni di ogni genere. A poco a poco, il centro prendeva forma, crescendo. Lo Stato cominciò a inviarle permessi, concessioni e licenze, spesso dei pagamenti di sostenimento per l’attività, purché non a scopo di lucro. La sua alacrità fu tale da ristrutturare la vecchia villa, ospitare bambini e volontari, per poi ingrandire la struttura fino a quel punto.
Detto questo, Renata si alzò dal letto e puntò alla finestra. Nel punto da lei indicato si poteva scorgere una specie di piccolo monumento. Lì aveva portato il figlio, che quel giorno corrente avrebbe dovuto avere la mia età. Rimasi sconcertato.
“Che fine ha fatto l’altro figlio?” – chiesi.
Lei si voltò e mi guardò atona, prima di scrollare le spalle e andare via.
Cercai di fermarla, ma lei si limitò a voltarsi appena e sorridermi. Uscì dalla porta, chiedendole se avessi avuto la possibilità di utilizzare un computer o qualsiasi altro mezzo che mi potesse far collegare alla rete.
Mi disse di scendere nella hall, e chiedere alla reception, ma non mi furono date altre indicazioni. 

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Capitolo 7
*** 7. Sherlock ***


Inizialmente, mi ritrovai spaesato e appena un po’ spaventato, ma cercai di non darci troppo peso. Semplicemente non riuscivo a capire per quale ragione, in un momento così critico della mia vita, che fossi stato io a scatenarne le origini, tutto mi appariva così limpido e semplice. Persino in una fase del genere, mi ritrovavo circondato da un lusso che mi parve a dir poco nauseante.
  La mia stanza sembrava piuttosto spoglia, nonostante tutto. Non era molto grande e ai lati avevo giusto un mobiletto di cassetti, un armadio, un letto costituito solo dalle reti e dal materasso e una piccola scrivania, con un lumino. Ricordo però della presenza di una grande finestra al limite della stanza. Che si affacciava su una parte dell’immenso giardino che circondava l’intero edificio. Accanto all’armadio, una porta semplice si apriva verso un bagnetto non molto grande, dalle piastrelle azzurrine. Sembrava molto comodo.
Perso nelle mie riflessioni, mi accorsi in ritardo che qualcuno bussava alla mia porta. Quando andai ad aprire, mi ritrovai una ragazza poco più grande di me, con i capelli neri raccolti a cipolla, un vestito scuro con le attaccature a tre quarti di busto, come se cingesse un uniforme, e tra le braccia portava una serie di lenzuola e canovacci. Mi sorrise, chiedendomi il permesso di prepararmi la stanza, ed io, visibilmente in imbarazzo, le annuii nervosamente, per poi uscire dalla stanza. Trascurando il suo aspetto affaticato, possa essere il lavoro, il caldo che inaugurava di farsi sempre più incombente in quel tormentoso maggio del 2008, il suo meraviglioso sorriso luminoso come una stella nel cielo nel cuore della notte, rimasi incantato dalla sua grazia e dallo splendore che si trascinava dietro, senza tener conto di compiere atti così umili.
  Mi allontanai dalla camera, lasciandole fare il proprio lavoro, tra un lenzuolo ondeggiante sullo strapunto e un asciugamano posto del bagno, e percorsi tutto il piano delle camere; questo, in un primo momento, mi sorse con una sequenza di androni piuttosto affine a quelli degli alberghi, ma questi avevano sugli spiazzi più larghi le scale, che collegavano il piano superiore a quello inferiore, sagomando un enorme foro. Presi la via delle scale, per poi dirigermi dapprima nella sala d’ingresso e, in seguito aprii le porte d’ingresso, larga all’incirca quanto tre grosse porte messe insieme, ma che si aprivano semplicemente come un affaccio al mondo esterno. Erano limpide vetrate attraverso cui tutto poteva presentarsi sempre più insidioso in ogni corsia, via o calle che serrasse la zona.
  Evitai immediatamente il giardino senza fine pur di non imbattermi in tutti quegli occhi infantili che mi avevano seviziato trasversalmente ai loro sguardi al mio arrivo, puntando direttamente al cortile che spuntava dalla finestra della mia stanza, un angolo poco luminoso e assediato da fusti di ogni tipo, destinando al patio una copertura dal bagliore del sole, come un’eterna sera.
  Al mio avvento, il monumento mi si presentò davanti senza troppe prefazioni, apparendo degnamente nella sua semplicità come un piccolo altare circolare dalle scale basse e un recinto di altezza media che arricchiva l’intera circonferenza, e su di esso delle sottili colonne piuttosto spoglie e semplici reggevano la volta, maestosa come una larga campana. La circonferenza del recinto marmoreo era interrotta da piccoli spazi di circa mezzo metro l’uno, permettendo a chiunque di ammirare la stele che si erigeva al centro, come una targa commemorativa. Quando mi avvicinai e la lessi mi si strinse il cuore, comprendendo a eleganti righe ciò che la lastra di marmo recava scritto, parole che ricordo ancora oggi.
 

“Alla creatura che ho messo al mondo e abbandonato. Alla creatura che lasciandomi, mi ha rimesso al mondo. Alla mia creatura offro il resto della mia vita, conducendola a suo nome fino al mio  ultimo respiro.”

 
  Probabilmente, mia madre non avrebbe mai fatto nulla del genere per me. Si sarebbe limitata a piangere per l’unica cosa che quel bastardo che l’aveva ingravidata gli aveva lasciato, prima di scappare via.
  Accarezzai la lastra, cedendo ancora una volta all’inesauribile fascino delle mie riflessioni.
  Fu allora che mi resi conto di tutte quelle piccole cose che transitano e si rinfrescano davanti ai nostri occhi, percependo la loro debolezza, e nella loro fragilità ritrovai una forza sconfinata, in grado di reggere il mondo sulle proprie spalle e lanciarlo lontano, come se fosse di cartapesta.
  Cercai di focalizzare quell’energia in qualcosa di percepibile anche fisicamente, ma non ne ottenni nulla.        
  Tranne una mezza figura che si componeva lentamente, pezzo dopo pezzo, nella mia immaginazione imbestialita come un cavallo selvaggio stretto tra le corde più laceranti, consapevole del fatto che, per quanti calci potesse dare tra il fango e la polvere, rimaneva ineluttabilmente impigliato nella grande rete di canapi e funi. Seguendo il filo dei miei pensieri, aprii gli occhi nella mia mente e mi affacciai sul caos che s’imbrigliava al suolo di questa, rimanendo sordo e cieco nei confronti del mondo reale. In questo mio viaggio riflessivo, istintivamente il mio subconscio suggerì al mio corpo di inginocchiarsi davanti alla lapide marmorea, e di accarezzare solo con qualche polpastrello la sua liscezza e la sua freddezza. Perfettamente levigata. In seguito, le mie dita si fermarono a quella che credetti fosse una piccola crepa.
  Sciolsi le mie meditazioni e mi concentrai su quella che a tatto sembrava una vera e propria screpolatura, ma che in realtà non era che una scritta, indubbiamente non tracciata da un professionista, giacché appariva piuttosto elementare e maldestra, come se fosse stata segnata da una chiave o dalla punta di una grossa forbice da giardino. Più che una dedica, sembrava uno sfregio. Quando misi a fuoco le parole, sebbene con molta fatica, riuscii finalmente a decifrare il messaggio che avevano inferto sulla placca.
 

“Take my heart”

 
  Rimasi interdetto e allibito, ciò nonostante cercai di fare chiarezza.
  Molto probabilmente, prima che l’incidente gli spezzasse la vita, aveva condiviso la gioia di un amore nascente.  In un secondo tempo, però, mi ricordai delle parole di Renata: il ragazzo in questione era morto per un incidente in un altro istituto, prima ancora che Rubra Vulpes potesse vantarsi di avere persino una struttura architettonica stabile.
  C’era una persona che amava, e quella persona era passata per Rubra Vulpes, se non che fosse ancora in quel posto nel mio stesso periodo di permanenza. Una persona che amava. E rimbombando nella mia testa quella unica, sola espressione composta di quattro parole, schiacciai i polpastrelli sul marmo e piansi.
  La commemorazione dei miei peccati risorse di fiammante energia dal fondo della mia ragione, sprigionando fasci di luce scarlatta e sfolgorante, per poi dispendersi in larghi fasci cristallini negli angoli più tormentati della mia utopia, liberandosi poi in una ripugnante giravolta di trasformazioni dai fasci di luce alla materializzazione liquida in acqua salata che lasciai scendere sulle mie membra, permettendo loro di bagnare le mie labbra secche e di scivolare verso terra. Io e i miei concetti sulla brevità della vita.
  La mia mano libera dalla lastra ospitò il mio viso divorato dalle lacrime, lasciando che queste mi bagnassero tutto il viso. Mi sentii pesante, come se un diluvio sceso direttamente dalle mani dell’Onnipotente mi cascasse sulla fronte volta verso il cielo, e boccheggiando, lentamente singhiozzare con la pioggia.
  Ma non c’era nessuna pioggia o scroscio o piovasco su di me. Solo un nome. Takeda Howaito.
  Mi chiesi come sarebbe stata la sua vita, una volta che fosse volato via da questo mondo.
  Mi chiesi come sarebbe stato passare le mie giornate, a chi rivolgere le mie preghiere, a chi ricordare, una volta che tutto sarebbe finito nello stesso modo in cui tutto era iniziato.
  Mi sentii il cuore a pezzi, rincorrendo risposte vuote alle mie domande senza capo né coda. E in quell’esatto momento, desiderai di poter morire prima ancora che lui potesse lasciare questo mondo.   
  Perché lo amavo.
  Può un ragazzo appena adolescente innamorarsi di una creatura senza volto e senza voce? Per me sì.
  Fui colto dalla rivelazione di un amore straziante, che mi aveva rapito ogni minima essenza che componeva ogni minima parte di me, carnale, spirituale, fisica, psicologica. Amavo un ragazzo senza conoscerlo.
  Forse questo ai miei lettori potrà sembrare sgradevole, per alcuni senza dubbio stomachevole, ma è mio dovere riferire di ciascuna delle particelle che concepivano questo smisurato sentimento nato in me.
  Se il mio lettore si ritiene, a questo punto, sensibile, non sarò io a incitarlo a continuare in questa lettura.
  Il nostro mondo, per quanto ostaggio di spassionate censure, rimane pur sempre un mondo libero.
  Io continuerò per la mia strada.
 
  Narrerò ora di come questo mio impulso possa aver contrastato ogni mio pensiero, contro ogni mia logica.
  Ma la verità è che, nonostante tutto questo tempo in cui la mia mente, le mie ossa e il mio cuore sono invecchiati, non riesco ancora a spiegarmi. Ero solo un ragazzo, non avevo neanche affrontato quella che si potrebbe definire “la fase per diventare uomini”. Stringevo ancora in me quelle abitudini fanciullesche e infantili di cui non mi sentivo pronto a lasciarmi alle spalle. Ma la mia natura maschile non era congelata nel tempo, e persino io subivo il fascino di molte ragazze dal sorriso gentile. Ma non si trattava di visi dolci e sorrisi gentili, niente del genere.
  Non avevo occhi in cui perdermi, né capelli da accarezzare, né pelle, né mani. Solo la pura entità basata da qualche lettera straniera che costituiva parte della mia vita di ogni giorno. Un amore che i miti decanterebbero come idealistico, spirituale, nobile, puro, elevato, illusorio, utopistico. Platonico.
  Non ebbi mai nessuna attrazione sessuale verso Howaito. O magari, chissà, magari nella mia gioventù la tenni per poi lasciarla nella sabbia del tempo. La mia memoria vacilla ogni giorno di più.
 
  Istintivamente contrassi ogni muscolo nei miei avambracci, e una grossa dose di adrenalina mi entrò in circolo, accelerando il battito cardiaco, nonostante fossi provato dalla giornata parecchio stancante. Decisi di prendere in mano quella situazione che mi era stata catapultata davanti, promettendomi di difenderla.
  Non ero un ragazzo che pretendeva molto, ma dopo aver perso ogni mattone della parete che mi ero costruito nella mia ordinarietà, mi convinsi del tutto di proteggere almeno ciò che mi fosse caduto davanti agli occhi. Avevo ancora a disposizione del tempo con Howaito, e la cosa mi bastava. Non m’importò più del mio avvenire, e con una promessa indiretta mi affidai senza un vero pensiero alle istituzioni che si stavano prendendo cura di me. Volevo sfruttare ogni minimo bagliore di felicità che mi rimaneva, e se quelle scintille fossero state tutte unicamente elevate dalla stessa fonte, sarei corso fino a quella sorgente per berne ogni singola goccia. Con questa immagine, lasciai ossequiosamente la lapide che, silente come il tempo, mi fissava impotente, onorando il ragazzo morto con un desiderio di libertà nel cuore.
 
  Lasciai velocemente la conca di alberi, dirigendomi verso l’istituto. Questa volta mi lasciai alle spalle ogni singolo commento che le giovani bocche vomitavano sussurrando alle mie spalle. Non m’interessava.
  Raggiunsi di corsa la grande hall di ricevimento e mi agganciai a una receptionist. Aveva il viso snello e gli occhi grandi appena truccati. Mi mostrò una grande sala appena adiacente alla hall, alla quale si accedeva tramite due grosse porte automatiche. L’atrio si presentava spazioso e vasto, ma con apparecchiature e muri sottili alti un metro e mezzo circa. A dire il vero, in un primo impatto credetti di essere entrato in un ufficio editoriale, considerato che richiamava tutti quei caratteri di arredamento e disposizione immobiliare della sede di un giornale o di un editore. Ne rimasi affascinato, e mi sentii perfettamente a mio agio.
  La receptionist m’indicò uno dei computer in mezzo alla sala, alla quale io mi accomodai e avviai. Fu piuttosto semplice per me accedere, una volta che la donna dagli occhi grandi mi fornì una particolare scheda che inserii nel database della macchina. Questa scheda conteneva in memoria un certo numero limitato di ore mensili, come una specie di scheda telefonica che negli anni Novanta si usavano per i telefoni pubblici.
  Quando riuscii a collegarmi dall’area pc dell’istituto, feci accesso alla mia posta elettronica personale, per poi stilare una lunga lettera destinata a Howaito. Fui particolarmente dettagliato su ogni fase del mio piccolo viaggio, del trasferimento, della villa, di Francine e di Renata. Avvalendomi di alcuni dépliant in giro per le scrivanie della sala, gli inviai anche qualche immagine della sede e tutte le notizie riguardanti quel posto. Mi dilungai molto sulle preoccupazioni che crescevo per lui, senza però fargli nota della mia improvvisa convinzione affettiva. Tra l’altro sarebbe stato abbastanza imbarazzante per entrambi, e avrei corso il rischio di spaventarlo. Non che avessi qualcosa da nascondere, ma non volevo che il mio più caro amico avesse potuto fraintendere le mie parole. Perderlo sarebbe stata un’umiliazione e una sconfitta.
  Quando terminai di compilare la lettera, mi lasciai andare sullo schienale della mia sedia, respirando a fondo per la prima volta dopo tanto tempo, e questo riuscì a distendermi i nervi, almeno per qualche minuto, prima di venire ancora una volta perseguitato dalla distruzione della mia ordinaria vita, come la mia mente suggeriva con una serie d’immagini. Per un attimo m’illusi di essere tornato a casa, con il tavolo della cucina davanti, la schiena di mia madre davanti ai fornelli, le tende gonfie di vento che trasparivano l’intenso odore di basilico, e l’incantevole armonia sussurrata dalle note della ragazza del piano di sopra.
  Note piuttosto realistiche, giacché, una volta rinvenuto dai miei ricordi, riuscivo chiaramente a sentirle con distinzione.
  Sopraffatto da quell’improvvisa rivelazione, chiusi l’apparecchio e mi diressi all’uscita della sala. A ogni mio passo, la musica allietava l’aria intorno a me, man mano che il suo volume aumentava come tintinnanti campanelle. Ogni passo, una campanella, fin quando non raggiunsi l’euritmia completa delle note.
  La mia visione fu incantata da ciò che vidi: la melodia divina si concentrava in un vecchio pianoforte a coda, non bene accordato, ma che esplodeva di pura energia e al contempo di aggraziata superiorità. E tra tutte le stelle visibili dai miei occhi nel firmamento, mi accorsi che la più luminosa destreggiava con arte le musiche della volta celeste, in maniera così inverosimilmente sublime da accecare ogni mio pensiero.
  Preso da quella meravigliosa melodia,  non esitai a infrangere la distanza che mi sperava dallo strumento e da chi lo controllava magistralmente. I miei passi volarono verso quella fonte di armonia vibrante di lucida forza. Fu così per me istintivo immaginare quella cordiale fanciulla che risiedeva sopra il mio vecchio appartamento, dietro i tasti bianchi e neri, ma fu per me ancor più prodigioso riconoscere le fattezze della mia nuova conoscenza, il mio Virgilio in un apparente cammino tra le bolge. Mai avrei potuto immaginare che dietro quel fascio di abbagliante talento, avrei potuto scorgere le membra gentili di Renata, coperta appena da una lunga frangia castana e dai grossi occhialoni che le occultavano parte del viso. Quando i miei occhi si posarono sui suoi, questa si voltò e mi ricambiò penetrante lo sguardo. I suoi occhi erano bellissimi.
Inizialmente, credetti di darle imbarazzo con la mia presenza, ma così, fortunatamente, non fu. Mi sorrise, e con mosse leggere, riprese a battere le note sulla tastiera del vecchio piano, tra un diesis e un bemolle.    
   Adorai quel suo modo di fare.
  Approfittai del suo silenzioso consenso per guardarmi intorno. Mi resi ben presto conto di ritrovarmi in un vecchio magazzino dell’istituto, stupendomi di come, trascinato dal lieto canto del vecchio strumento, tutto intorno a me era cambiato senza che io me ne accorgessi. Mi compiacqui, tuttavia, di quel senso di emarginazione che imperversava intorno a quel posto. Le mura e gli angoli bui del deposito suggerivano una sfumatura di ombre come appena uscita dalla descrizione di un libro, mentre i vecchi legni, dispersi ovunque, accompagnati da gasdotti distrutti e remoti quadri privi di valore e colore, s’inchinavano al cospetto del protagonista del palco, laccato malamente e disposto tra il centro della stanza e il fondo di questa. Assaporando ogni centimetro di quella visione, mi sentii tormentare dentro, commemorando frammenti delle mie esperienze teatrali, e ripensai a lungo ai personaggi che avevano, nel frattempo, preso possesso di me sin dall’inizio del mio inusuale e cupo viaggio: l’impavida freddezza e il desiderio di vendetta di Desmon Dantés agirono deliziati al rapimento di mia madre, portata via da onesti infermieri; come Robin Hood ho rubato i miei ricordi più preziosi, e, come nella Cantatrice Calva, fui preso dalla prosaica domestica Mary, diviso tra gli eventi del destino e il desiderio di affermare la mia personalità, accettando così la conseguenza delle mie azioni; mai fu più simbolica la Bisbetica Domata di fronte al volere del più forte, e come la bella e scontrosa Katherina ho cercato di oppormi agli avvenimenti già dettati dalla sorte, rimanendone poi sottomesso, e, infine, ho lasciato che in me facesse il suo ingresso una ricerca della verità, questa mia sposa, spavaldo come un moderno Renzo con la sua Lucia rapita. Eppur qual fosse ogni mio pensiero, rimasi attonito nel notare di come le mie logiche si erano fermate a suon di musica, tan che il suo silenzio rimbombava tra le pareti fosche. Renata mi ammirò raccolta, offrendomi, come prima, il suo sorriso.
  Fui io, allora, a mostrare imbarazzo, quando il suo sguardo si fece strada in me, spogliandomi dalla mente ogni mio pensiero leggibile.
  “Sapevo che saresti riuscito a trovarmi” esordì lei, guardandomi in tralice.
  Mi chiesi come fosse possibile, e le rivolsi la stessa domanda. La sua risposta, tuttavia, non esitò ad arrivare, cogliendomi impreparato.
  “Quando entri in qualsiasi stanza, trascini con te un intenso profumo di basilico fresco”.
  Mi strinsi nelle spalle, assumendo un’espressione approssimativamente imbarazzata e debole, ma sorrisi e mi voltai verso di lei. Non ci pensai a lungo nel togliermi le bretelle dello zainetto che trasportavo ancora sulle mie spalle e poggiarlo a terra, aprendolo e frugandoci all’interno. Lei rimase a stento confusa nel vedere il mio atteggiamento, e incuriosita da ciò, si sporse dal palchetto rabberciato con lo scopo di ispezionare i miei movimenti.
  Il suo talento era eccezionalmente straordinario, sebbene fosse un po’ grezzo e il pianoforte indiscutibilmente molto vecchio. Quasi certamente doveva essere di proprietà della villa prima della ristrutturazione e della trasformazione in istituto, così come ogni cosa in quel magazzino dovevano essere le spoglie di quello che un tempo aveva glorificato la costruzione nel suo antico splendore, almeno un paio di secoli prima. Convinto delle mie tesi, estrassi dal mio zaino il cumulo di spartiti legati, dono della ragazza del piano di sopra prima di lasciare per sempre casa mia, e glieli porsi alla mia Virgilio. Questa mi guardò avida, togliendomi dalle mani i fogli con impazienza e sfogliandoli freneticamente. Potevo scorgere lampi e guizzi di luce dagli occhi, sotto quei grossi occhiali.
  Personalmente, ne avrei ricavato poco o niente da quei fogli, poiché, sebbene fossi perdutamente innamorato della travolgente musica della ragazza, ero totalmente incapace di suonare un qualsiasi strumento. Le mie sole arti risiedevano nelle abilità teatrali e qualche videogioco, violento o meno che fosse.
  Lei se li sfogliò per bene, senza dire una parola, per poi poggiarli sul leggio, concentrandosi nella lettura bramosamente. Dopo qualche minuto di silenzio, pressò il primo tasto. Un LA. Poi un altro, e un altro ancora, finché il piccolo esperimento non si espresse in un unico fiato melodico, dapprima lavorato in toni bassi, poi aggiunti volumi più avvincenti, come se in un fascio di notte, mille comete tracciavano confuse tragitti senza meta. Riconobbi quella musica. Ed era pura essenza di aria nuova. Respirai a fondo, tossendo appena per le polveri che circondavano il posto, ma fui grato di poter ascoltare ancora quelle note dolci.
  Quando la musica terminò, Renata mi guardò ed io annuii. Avevo inteso lei poteva averli.
  “Prometto di suonare per te. Lo farò ogni giorno, e tu mi ascolterai.”
  La intesi come una promessa. Una promessa senza dove, né come, né quando. Ma le ancelle divine avevano altro in serbo per me, per quel giorno, e in quelli avvenire. Avrei potuto adagiarmi sulle note dolci ancora una volta, cullato dalla lenta agonia di strazianti melodie morenti ma acute come campanelli.
  Non fu di quel parere la figura dalle grandi spalle che, d’improvviso, mi ritrovai dietro di me. Lo intravidi dagli occhi di Renata, che guardavano spaventati l’entrata del magazzino. A quella sua espressione, che andava così in contrasto con quelle assunte fino a quel momento, mi voltai anch’io, per poi incontrare il penetrante sguardo di un uomo alto quanto un orso americano rizzato su due zampe. Non riuscivo a scorgergli tutto il viso, perché portava un grande cappello fasciato, sul marroncino chiaro, dello stesso colore di un insano impermeabile piuttosto maltrattato che gli arrivava circa fino alle caviglie. Alle labbra portava una sigaretta, una di quelle fatte a mano che limitano l’uso del tabacco. La giacca era aperta e riuscivo a vere le sue vesti appena malandate, una camicia azzurra e una cravatta nera consumata. Terminava con pantaloni piuttosto larghi e inconsuete scarpe da tennis.
  Lo strano personaggio alzò lo sguardo, ed io riuscì finalmente a incontrare i suoi occhi sottili, penetranti e vissuti. Mi studiava a qualche metro di distanza da me, sbuffando fumo di tanto in tanto.
   “Dalla puzza di basilico, deduco che lei sia il signorino Costantini.”
  Non sapevo chi fosse quella specie energumeno, ma lui mi conosceva. Non riuscivo a capire chi fosse, né quale fosse esattamente la sua funzione in quel momento, in quel determinato luogo. Non riuscivo a fare altro che ripetermi mentalmente sempre la stessa domanda.
 

<< Chi diamine è così idiota da indossare un impermeabile a maggio? >>

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Capitolo 8
*** 8. Campane al tramonto ***


Sinceramente, non riuscivo a immaginarmi nei panni del nuovo personaggio. Era chiaramente molto singolare, questo certamente, ma rimasi stordito dal suo disinteresse nel vestire una giacca simile, e onestamente non lo invidiai. Sembrava piuttosto accaldato, e la Fedora che portava sulla testa non sembrava un cappello propriamente estivo.
  Non che m’interessasse particolarmente ma, almeno dal suo aspetto, aveva un che di sospetto che non riuscivo ad abbandonare. Avrei preferito trovarmi in un altro posto. Ciò nonostante, mi chiesi il motivo della sua ricerca nei miei confronti.
  “Sono io…” risposi molto semplicemente “con chi ho il piacere di parlare, esattamente?”
Lui ispirò a lungo la sua sigaretta, prima di toglierla dalle labbra e sbadigliarmi in faccia, man mano che mi raggiungeva.
  “Mi chiamo Morgan Essenzio, e sono stato mandato qui dai Servizi Sociali per parlare, signor Costantini.”
  “Lei non mi sembra un assistente sociale” affermai senza troppi complimenti.
Il tipo strano mi guardò e sorrise, portando entrambe le mani nelle tasche della lunga giacca marroncina.
  “Sono un investigatore privato, Costantini.”
  “Da quando gli investigatori privati si occupano i marmocchi?”
Non mi andava molto a genio quella situazione, e sperai di ribaltarla velocemente per mettere il tipo alle strette. Mi sentivo messo in un angolo senza alcuna difesa, ma rifiutai di accettarlo, lasciando entrare in me le parole di un altro mio personaggio, degno di arguta favella: Bertram, conte di Rossiglione e protagonista indiscusso di “Tutto è bene quel che finisce bene”. Avevo un debole per le opere shakespeariane.
Tuttavia, il mio interlocutore aveva un’ombra socratica che lo rendeva un perfetto sfidante ma vestito come Lavatch, clown della Contessa e madre di Bertram. Certamente un tipo diverso.
  “Non mi occupo di marmocchi qualsiasi” soffiò lui, guardandomi male ma sadicamente divertito.
  “Sono speciale?” chiesi io, superbo delle mie risposte.
  “Solo se si comporta in modo tale da poter essere considerato come tale, Costantini.”
  “La smetta di ripetere il mio nome. O forse devo intendere di piacerle?”
Si morse il labbro inferiore, guardandomi divertito.
  “Non ho tempo per questi giochetti, devo riferirle alcuni messaggi”.
  “Vuole forse dirmi che si ritrova così malpagato da fare anche il postino come secondo lavoro?”
  “Non sono un postino, sono un detective.”
  “Uno stereotipo ben azzeccato con il suo eccellente modo di vestire, devo ammetterlo. Ha davvero coraggio a sfidare il calore di maggio con un simile impermeabile, sa?”.
  “Credo invece che la mia notizia la farà azzittire per un po’, Contini.”
  “La prego, sono rimasto ammutolito già da quando vidi il suo cappello.”
Scatenai una risata soffocata da parte della mia compagna di discussione, che ancora sedeva al pianoforte dietro di me. Mi sentii particolarmente soddisfatto per quel piccolo duello di battute.
Poi, lui mi distrusse in un colpo solo.
  “Sua madre è scappata dall’istituto dov’era ricoverata.”
E la mia scintillante armatura crollò, ed io con lei.
 
Dopo aver conseguito ciò che mi aveva detto, mi precipitai con le ginocchia verso il pavimento polveroso, battendo con i palmi delle mani a terra, sostenendo così il resto del mio corpo. Guardai le fessure del legno rovinato in cerca di una risposta, ma né le tarme, né il calcinaccio potevano rispondermi. Rimasi meramente carponi, con un ragguardevole fischio nelle orecchie, incapace di sentire la voce e le mani di Renata che mi scuotevano. Ero sprofondato nel caos. Alzai lo sguardo verso l’ispettore che mi esaminò giudiziosamente, rivelando dai suoi occhi stanchezza e vecchiaia. Sorrisi in maniera nevrotica.
  “Andiamo paparino, stai scherzando. Come può una donna scappare da un centro di igiene mentale?”
Lui non mi rispose per qualche minuto, durante il tempo in cui protraevo a fissarlo insistentemente, alla maniera di forzarlo di rispondermi. Ero furioso. Collerico, stanco e indebolito, in preda alla confusione e all’abbandono. Da quando avevo cominciato il mio viaggio, pochi o nessuno di chi di dovere si era mai degnato di venirmi incontro, di chiedermi se stessi bene, se avessi avuto bisogno di qualcosa, se stavo male, se volevo parlare, se volevo andare a casa, se volevo piangere. Loro sbrigavano solo il loro lavoro, spostandomi da una parte all’altra come un pacco postale, circondato da persone mute e senza occhi, ladre di ricordi e di vestiti. Ebbi la fortuna di incontrare Madre Teresa, messo lì per solo volere divino, ero stato mandato alla Volpe Rossa per puro caso, e lì avevo incontrato Renata, mia unica, giovane complice, in un percorso senza meta né riposo. Ringhiai dentro di me, raccogliendo la polvere tra le mie dita, come graffiando il pavimento. Poi, il detective parlò.
  “Sono qui per farle delle domande su sua madre, in maniera tale che si possa dedurre il suo luogo di fuga.”
Provai ad alzarmi, aiutato da Renata che mi reggeva dalla spalla, e lo fissai con odio.
  “Probabilmente non avrei dovuto chiamare quegli infermieri” gli sbuffai contro.
Lui mi guardò stranito, alzando un sopracciglio con aria interrogativa.
  “Amavo la mia vita” risposi ancora “amavo ogni singolo momento della mia vita. Andavo a scuola ogni giorno, e al mio ritorno ero accolto da una deliziosa visione di dolcezza e tranquillità. Ogni giorno al mio rientro, mia madre cucinava sempre qualcosa di buono, e dalla finestra entrava continuamente il sole. Le tende rosse si muovevano di continuo con il vento debole che entrava in casa, e la cucina profumava costantemente di spezie e di basilico. Per tutta la giornata riuscivo a sentire la ragazza del piano di sopra che si allenava con il pianoforte, e quella musica quotidiana era entrata a far parte di me come una continua colonna sonora, di cui non riuscivo a privarmi. Quando andavo in camera mia, giocavo ogni giorno con il mio computer, e parlavo con ragazzi della mia età sparsi in tutto il mondo. Uno di loro è riuscito, in qualche modo, a farmi sentire felice di essere me stesso, qualsiasi cosa io potessi dire o pensare. Mi manca il mio teatro, mi manca il pubblico che adorava la mie esibizioni, mi manca ogni cosa che faceva parte del mio quotidiano. Non avrei dovuto buttarlo al vento. Avevo capito che qualcosa in mia madre non andava, ma non avrei immaginato che fosse andata fuori di testa. Adesso mi ritrovo qui, in un posto che non mi appartiene, sotto un cielo che non è mio, mentre a chilometri di distanza da me, la persona che ora amo di più sta morendo giorno dopo giorno, e l’unica persona che mi ha allevato è dispersa per il mondo completamente senza ragione!”
Guardai con odio improvviso gli occhi del detective, non perché lo odiassi, ma perché non c’era nessun altro con cui potessi mostrare quella mia ignobile forma dalle logiche franate.
  “E ora lei, ‘detective’, mi risponda: per quale assurda ragione, io dovrei risponderle?
Cosa ne ricava lei, alla fine?
Una misera ricompensa da istituti che a stento riescono ad andare avanti perché lo Stato non li finanzia?
Che cosa ne ricava, detective?
Cosa vuole dimostrare?”
Lui mi guardò senza proferir parola, limitandosi a sbuffare fumo di tanto in tanto, senza però lasciare la sigaretta dalle labbra. Se le leccò con la punta della lingua, mordendosi poi una piccola parte del labbro inferiore. Notai allora una piccola cicatrice proprio in quel punto, che raggiungeva la fine del mento.
  “Io faccio il mio lavoro. E lei, Costantini?”
Tramortii il mio respiro, spezzandolo a metà, osservandolo stancamente. 
  “Io provo ad andare avanti…”
L’investigatore scrollò le spalle, respirando a lungo. Dopodiché si voltò, portando un cellulare dalla tasca all’orecchio. Riuscii a dedurre che stava chiamando il suo quartier generale, e feci segno a Renata di voler uscire da lì. Ne avevo già abbastanza di quel magazzino polveroso.
Lei annuì e raccolse rapidamente gli spartiti dallo strumento, per poi raggiungermi all’uscita. Il detective ci vide, e lentamente ci pedinò con discreta calma, fintanto che noi arrivammo in mensa.
Questa non era che un’enorme stanzone diviso in più parti, ognuno dei quali ospitava dai quattro ai sei tavoli, tutti di varia altezza e dimensione, chi rotondi, chi rettangolari, tutti coloranti dal bianco all’azzurro intenso, dagli spigoli arrotondati e spesso cesellati da fili d’acciaio arricciati in più parti. Renata mi fece accomodare a un tavolo rotondo posto in un angolo, dove dal soffitto fino al pavimento, tutta la parete era occupata da un angolo composto di sole vetrate che davano verso un ampio spiazzo del giardino. La sera si era distesa lungo la volta celeste, e in vari punti del parco si accendevano grandi luci bianche.
Dalle porte collocate per le pareti della mensa, entrarono flotte di ragazzini di ogni età, e a gruppi ben precisi, si sistemarono in determinati tavoli, gridando. Guardandomi intorno, capii subito che quel tavolo era speciale, dal momento che nessuno di essi era lavorato in modo così particolare. Mi voltai verso Renata che, sorridendo, sembrò intendere la mia domanda ancora senza parole.
  “Sono la figlia del capo” mi disse molto genuinamente “per questo posso mangiare a un tavolo riservato”.
 
La figlia della direttrice.
In un certo senso l’avevo intuito sin da quando, nella mia stanza, mi aveva raccontato della famiglia della principale. Ricordavo un abbondante discorso sul figlio deceduto, ma non mi disse niente a riguardo dell’altra figlia. Mi strinsi nelle spalle, guardando il tavolo con rammarico.
  “Mi dispiace per tuo fratello…” fu tutto ciò che riuscii a sputare fuori.
Lei abbassò lo sguardo, respirando lentamente. Ricordo ancora la sua frangia che le copriva i grandi occhiali e le lentiggini che si trapelavano sul naso e sulle guance.
  “Qui tutti hanno una propria storia. Anche tu. Tutti abbiamo perso qualcuno d’importante. Nessuno è speciale. Nessuno è come gli altri.”
Rimasi particolarmente colpito da quell’affermazione così spontanea, e al tempo stesso, così tragicamente vera. Intorno a me vedevo solo bambini e ragazzi strillanti, che certamente apparivano ben curati ma soli.
Guardai con aria amareggiata la mia nuova compagna di viaggio, che invece respirava serena, con il mento appoggiato sui dorsi delle mani, incontrati tra loro. Non era di molto più grande di me, e già si mostrava come una donna carica di esperienze vissute.
  “Perché sono qui, Renata?” le chiesi “Per quale ragione non sono finito in un normalissimo istituto statale?
Che cosa ho di speciale da venir trasferito in una specie di albergo di gran lusso?
Per quale scopo mi ritrovo in un posto così sfarzoso, quando il resto dell’Italia va a rotoli?”
Renata mi guardò sinceramente, lasciando in me un pensiero che mi trascino ancora oggi.
  “Non tutte le persone in questo mondo nascono cattive” proferì lei con tranquillità “l’istituto è privato, ma il suo riconoscimento è statale. C’è sempre un modo per fare soldi, qualsiasi esso sia…”
Dopo questa sua affermazione, il suo sguardo divenne cupo, addolorato.
  “…Una persona può commettere pazzie pur di alleviare i fardelli dei sensi di colpa. E se, per espiare un tale peso, l’unica soluzione è salvare chi di stesso destino sta crollando, allora le pazzie non sono più tali.”
La sua dichiarazione mi spaventò, e da lì a quel momento, mi rifiutai categoricamente di chiederle altro. Qualcosa in quel posto non sembrava sicuramente in regola, ma tacqui. Fu lei a interrompere ancora una volta il mio silenzio.
  “Non credere di essere diverso dagli altri. L’istituto cerca di farsi mandare più minori possibili dagli assistenti sociali. In questo modo, aumentano le sovvenzioni e le donazioni. In altre parole, se tu sei stato inviato qui è per un solo motivo…”
Deglutii a fatica, rimanendo in attesa di qualche singolare risposta, per me e per tutto il resto.
  “… Sei stato scelto dal Destino.”
Battei le ciglia ripetutamente, nell’accorgermi che Renata non aveva aperto bocca. Le parole che ascoltai provenivano dal detective Essenzio alle mie spalle. Mi strinsi alla sedia dov’ero collocato, girandomi lentamente all’indietro. L’inquirente mi fissava con le braccia incrociate, aria truce e sigaretta tra le labbra.
  “Ma che cattivone” gli risposi spaventato, ma sarcastico, cercando di prendere la situazione in mano “ci  sono dei bambini qui, non si vergogna a fumare in pubblico?
Proprio lei che è un agente investigativo, ritratto dell’onestà e della giustizia.”
Mi guardò male, mordendo la cicca tra i denti.
  “La giustizia me la faccio da solo, Costantini.”
Guardai piuttosto disorientato Renata, confusa quanto me, e osservandolo nel prendere una sedia dal tavolo vicino per accomodarsi al nostro, mi trattenni dal dire ad alta voce di quanto potesse apparire come il cattivo di qualche libro o film di serie B. Non sembrava affatto il poliziotto cattivo che voleva sembrare ad ogni costo.
  “Signor Costantini” continuò lui “lei non sembra affatto preoccupato del fatto che sua madre sia scomparsa improvvisamente, o mi sbaglio?
Eppure fino a qualche minuto fa ha dimostrato una bella sceneggiata sul palco, travolto dal dolore e dai sentimenti. Se avessi avuto la possibilità le avrei consegnato un premio Oscar per la recitazione.”
Sorrisi ironicamente, ringraziandolo.
  “Sono un ottimo attore, questo senza alcun dubbio” risposi io “ma la notizia mi ha davvero flagellato, e ammetto di aver perso la testa. Ma l’investigatore siete voi, io non ho possibilità di aiutarvi. E poi…
Sinceramente, per quanto amore possa riserbare nei confronti di mia madre, d’ora in avanti non voglio sapere altro di lei. È per colpa sua se ora non ho una vita normale, come tutti gli altri ragazzi.”
Renata e il detective rimasero in silenzio, interrotto in seguito da quest’ultimo.
  “Mi rendo conto dello shock che ha subìto per una notizia del genere, ma se potesse rispondere a qualche domanda, forse riusciremmo a capire le intenzioni di sua madre e trovarla rapidamente. Dopo di ché non sentirà più parlare di lei…”
  “Ha ragione” mi disse Renata, dall’altro lato del tavolo “l’istituto potrà darti da mangiare, da vestire e un’istruzione adeguata. Non sarai solo. Se questo dolore per te è così forte…”
Mi resi conto di essere circondato, con le spalle in un angolo. Guardai la tovaglia del tavolo pur di sfuggire ai loro sguardi, e alla fine risposi.
  “Lì dove nasce il basilico…”
Intesi subito del loro disorientamento dai loro occhi. Sorrisi amaramente e mi affrettai a spiegare.
  “Mia madre, quando ero ancora piccolo, mi diceva sempre che un giorno mi avrebbe portato nel punto in cui incontrò mio padre. All’ombra di una grande farnia nelle campagne di Minervino, in cima a un brevissimo colle, dove tutto intorno non c’era altro che frutici e viluppi di basilico. Immagino si trovi lì.”
A questa mia risposta, il detective scattò in piedi e raggiunse l’esterno, con il telefono già all’orecchio, impartendo ordini a caso su possibili squadre di ricerca nelle campagne minervinesi. Renata, malgrado ciò, mi analizzò alquanto turbata, come se non fosse del tutto certa della mia uscita.
  “Tu credi davvero che sia potuta scappare proprio in un posto simile?”
  “No” risposi io, secco “ma conosco mia madre, e potrei aspettarmelo da parte sua.”
Sconfortato, mi alzai dal tavolo, facendo cenno a Renata di voler restare da solo, e di non aver nessun desiderio di cenare. Lei mi lasciò andare, ancora angosciata, ma a stento sorridente, compassionevole.
Mi dileguai dalla mensa, raggiungendo l’atrio centrale, imbattendomi, mio malgrado, con la direttrice stessa, proprio alla fine delle scale che portavano al piano superiore. Questa mi guardò, con aria tormentata ma indulgente. Gli stessi occhi di Renata.
Cominciai a sentirmi stanco di tutta quella pietà nei loro sguardi. Per quanto mi sentii pronto ad affrontare le sue prossime domande sulla mia sistemazione, questa rimase in silenzio, avvicinandosi a me a lenti passi, e, con mia modesta sorpresa, accarezzandomi maternamente la guancia. La sua mano era tiepida.
Mi abbandonò lì, raggiungendo la refezione in silenzio, fintanto che nell’atrio si coglievano esclusivamente i passi ritmati dei suoi tacchi. Mi voltai per guardarla, e fui io a guardarla con pietà. Che donna sola era.
Mi dileguai in fretta dall’androne, non salendo le scale, ma avvicinandomi all’area dei PC, accendendone uno piuttosto in fretta e inserendo dopo la mia scheda di ore gratuite.
A dire il vero, ero molto preoccupato. Non sapevo di chi fidarmi, e quel collegio era ancora un posto completamente nuovo per me.
Trovai un’e-mail di risposta. Howaito. Tre parole.

<< Wait me there >>

Controllai i dettagli della lettera elettronica, costatando il suo orario d’arrivo, riguardo qualche ora prima dell’accensione del PC, subito dopo aver spedito il mio precedente messaggio. Gli inviai per risposta una richiesta di spiegazioni, ma conoscevo il carattere di Howaito. Non ne era possibile prevedere le mosse.
Ero stanco, stanco correre da una parte all’altra, conoscere e poi abbandonare. Stanco di quella storia.
Mi ritirai nella mia stanza, sebbene fosse ancora presto per andare a dormire mi sentivo spossato e senza energie. Dovevo confessare però che la mia stanza era davvero confortevole e adeguata, dall’arredamento semplice, ma non povero. Dalla mia entrata, m’innamorai dello spettacolo che mi si mostrava davanti, racchiuso nel quadrato dell’unico infisso dall’altro lato della camera rettangolare. La grande finestra che dava sul giardino si apriva verso uno sconfinato empireo rastremato, ospitando la vista verso galassie sconosciute e firmamenti dalle forme brillanti e piacevoli. Mamma lo avrebbe adorato.
E con quell’immenso pensiero e un acuto effluvio di basilico, piansi in silenzio. La pianta posta sul davanzale della finestra appariva carnosa e salubre, fiera della propria fragranza. Era l’unico ricordo rimasto. L’ultimo.
Alzai lo sguardo umido verso le costellazioni, pregando per qualche dio nascosto da quei bagliori. Pregai. Pregai per me, e la mia discesa del Fato. Pregai per mia madre, dispersa nel mondo. Pregai per mio padre, perdonandogli ogni dolore che mi aveva riversato. Pregai per Renata, e la sua solitudine. Pregai per la direttrice, e il suo vuoto incolmabile. Pregai per il detective Morgan, e il suo futuro. Pregai per Howaito.
Mi coricai a letto, avvolgendomi nelle lenzuola, stretto nel mio dolore, nelle mie ansie. Nelle mie paure.
Non voglio perdere ancora chi amo. Non voglio rimanere solo.
 
Al mio risveglio, mi resi conto che era già ora di pranzo, non dai lamenti che emetteva il mio stomaco, ma dall’abbagliante calura della luce che entrava nella stanza. Mi vestii alla meno peggio, con gli abiti spiegazzati che avevo indosso ieri. Nessuno si era ancora degnato di consegnarmi qualche vestito pulito, dal momento che gli assistenti sociali avevano fatto man basso di tutti i miei abiti nella mia vecchia casa.
Raggiunsi a fatica la mensa, e facendo mente locale con lo sguardo, riuscii a localizzare Renata, seduta allo stesso tavolo all’angolo della vetrata, esattamente con il giorno prima. Questa mi riconobbe e mi fece segno con il braccio. Mi feci spazio tra i ragazzini, e mi accomodai al suo fianco.
  “Sapevo che avresti dormito fino a tardi” esordì lei.
Io non le risposi, volevo soltanto mangiare e continuare a dormire. Ero riuscito finalmente a riposare.
Non ricordo bene cosa ci fu servito, ricordo solo che esattamente quando finii di mangiare, spostai il piatto e crollai sul tavolo, dormendo in mensa senza poter reagire. Passarono parecchie ore prima di un mio nuovo risveglio, stavolta nell’infermeria della scuola. Fu un’infermiera ad accogliermi quando mi destai.
Mi disse che mi avevano portato lì perché tutti credevano in un mio svenimento, quando ero in realtà crollato per il caldo e la mancanza di energie. Il digiuno della sera prima e il mio risveglio tardivo avevano colpito il mio organismo, trascinandomi in una continua ricerca di energie fino allo sfinimento.
Guardai l’orario. Il tempo era passato rapidamente, un giorno di luce buttato via. Era il tramonto, ormai.
Chiesi perdono all’infermiera e lasciai l’infermeria, non prima, però, di aver ricevuto una buona dose liquida di un integratore, giusto per recuperare un po’ le forze e dormire bene la notte. Come se quel giorno non avessi dormito già abbastanza. Mi massaggiai le spalle, avevo la schiena dolorante. Ero curioso di conoscere la risposta di Howaito, e scelsi la strada più breve per arrivare all’area PC. Improvvisamente mi fermai.
Intorno a me, vedevo ragazzini urlanti che si spostavano di corsa in massa verso l’esterno, strillando qualcosa che non riuscivo a comprendere. Certamente ci doveva essere qualche evento di cui ero all’oscuro. Rinunciai quindi di visitare la stanza telematica per seguire il branco rumoroso dei bambini.
Mi accorsi anche della presenza di Renata e il detective Morgan, che dall’esterno guardavo il cielo piuttosto atterriti. Renata fu la prima ad accorgersi di me e mi corse incontro, afferrandomi il braccio e portandomi al centro del giardino, di fianco all’investigatore. Ero scosso e stranito, mi ero da poco svegliato dopo un calo di energie e non mi sentivo pronto per affrontar un simile trambusto. Provai a chiedere spiegazioni, ma una volata di vento m’impose il silenzio. Fu allora che mi voltai in direzione del sole, e intravidi una figura meccanica a una decina di metri di distanza da noi. Un elicottero.
Sentii Renata aggrapparsi al mio braccio, spaventata, fintanto che la direttrice e la maggior parte degli impiegati dell’istituto si catapultarono fuori dalla struttura. Nessuno aveva idea di cosa stesse accadendo.
L’elicottero atterrò esattamente al centro del parco, a qualche metro di distanza da me, rilucente della radiazione luminosa che si specchiava lungo la parte metallica riflessa dal tramonto, che, ormai, colorava di giallo e arancione tutta la volta celeste, pennellata appena da qualche nuvola grigiastra.
Lo stupore dei bambini emanò chiara spensieratezza, innocenti per la novità di quell’evento, al contrario delle preoccupazioni degli adulti. Il mio stupore, ciò nonostante, fu tale da riuscire a sentire persino una squillante ma tonante cantica di campane, realizzando a poco a poco che quella figura scesa dal velivolo e che mi fissava dritto negli occhi, mi stava divorando avidamente l’anima. Howaito.

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Capitolo 9
*** 9. L'ultimo canto ***


Non ero certo di chi fosse quella persona che mi stava entrando così ferocemente dentro, attraverso, per altro, una semplice occhiata. Il mio primo pensiero andò spontaneamente allo stesso ragazzo che mi aveva ossessionato lungo tutti quei mesi, tramite lo schermo di un PC. Le apparenze corrispondevano a quello di un adolescente asiatico, senza dubbio della mia età, capelli neri, lisci come vesti di seta e lunghi appena sotto le scapole. E gli occhi, sottili, esotici, pungenti come due sciabole, grigi come il fumo della Londra settecentesca. Come ogni giovane della sua età, il suo fisico era asciutto, forse un po’ magro, ma certamente più alto di me. Forse ero semplicemente io più basso degli altri. Ricordo ancora com’era vestito, appena sceso dall’elicottero. Con i raggi del sole alle spalle, mi parve un angelo sceso sulla Terra solo per me.
Rimasi in dubbio. I videogiochi editi dalle terre del Levante mi avevano insegnato usi e costumi locali, dimostrando con semplicità i personaggi vestiti all’occidentale, spesso con magliette e pantaloni di jeans. “Wafuku”, mi sembra di ricordare. Vestiva con un wafuku nero, che a primo impatto richiamava il tipico abbigliamento adottato dai samurai nella Tokio medievale. A coprirgli il busto, una camicia scura stretta dalle grandi ali e legabili tra loro dietro la schiena. Le gambe e il cavallo erano avvolti, invece, da un hakama bianco a righe e pieghe, un pantalone di stoffa piuttosto largo nella zona delle caviglie, interrotte da ben poco tradizionali stivali di pelle, alti fino al ginocchio, e rigonfiando la fine delle braghe alla stessa altezza. Non avevo idea del perché di un simile contrasto.
Quando scese dal velivolo, un uomo di mezza età, vestito di nero e con gli occhiali da sole sul naso, gli porse la tradizionale giacca dell’abito, lunga fino a metà coscia. Questo lo rifiutò, senza smettere di guardarmi negli occhi. Non mi aveva mai visto prima, ma sapeva, in qualche maniera, chi fossi.
Trovai il coraggio e, controvento, sillabai un nome.
 

Ho wai to

 
Il ragazzo straniero mi guardò in modo diverso, indulgente, per poi sorridermi compassionevolmente. Era lui.
Sentì i miei organi in rivolta, nelle orecchie puro rumore, come se stessi presenziando ad un concerto di musica alternativa, l’adrenalina che pompava al mio cuore come impazzita. Provai a sorridere anch’io, ma i miei muscoli facciali erano impietriti. Non riuscivo a respirare.
Avrei voluto urlare, sprigionare tutta la mia energia accumulata, corrergli incontro, stringerlo forte a me, sentire il suo profumo, e in una sola stretta, affondargli le dita tra i fluenti capelli. Invece rimasi immobile, di fronte a quel giovane che si era materializzato davanti ai miei occhi come a una richiesta di soccorso. Il suo sorriso, umano e indulgente, sparì ben presto con il vento, lasciando spazio a una sola, unica aria impassibile e spoglia di ogni emozione. Avevo il timore di dare spettacolo alle centinaia di occhi indiscreti dei bambini affamati di novità che circondavano quel piccolo palcoscenico improvvisato, ma fu lui, prima stella del palco, ad interrompere quel silenzio irreale avvicinandosi al mio cospetto, come un granduca dinnanzi ad una madamigella di corte, e con le stesse movenze, s’inchinò. Con mia sorpresa, quel finto galateo si rivelò più inaspettato del previsto, quando avvertii la sua mano accarezzarmi il viso, facendosi spazio tra i miei capelli, molto più chiari dei suoi, ma di eguale lunghezza.
  “Ho viaggiato tutta la notte e tutto il giorno che la precedeva per raggiungerti” mi bisbigliò, in inglese.
Divenni di ghiaccio. Fu solo la voce della direttrice a scongelarmi.
Quando Francine cercò di richiamare l’attenzione, Howaito spostò lo sguardo verso di lei, e con esso lasciò scivolare già la mano dal mio viso, che ricadde immediatamente dopo con lo sguardo verso terra.
Nel suo inglese che rasentava la perfezione, Howaito si presentò ai suoi spettatori e alla regina del pubblico, come Howaito Takeda, sedici anni, nativo di Hokkaido e con regolare permesso di soggiorno per un periodo in Italia. Ed io non riuscivo a crederci. Sembrava davvero gonfio di soldi come mi aveva sempre detto, solo che io non gli avevo mai concesso la possibilità di avere fiducia nelle sue parole. A quanto pare, tra i due genitori litiganti, aveva vinto la madre. Godersi quel poco che gli rimaneva scoprendo le bellezze del mondo.
Forse era stata la scelta migliore, o forse no.
Durante il tempo in cui il cielo si colorava d’arancio, insolite rondini presero a volare tra le nuvole ingiallite. Uno strano evento, considerando il periodo di maggio. Nelle mie orecchie riuscivo ancora a distinguere le campane che vibravano esclusivamente nella mia mente.
L’elicottero si librò in cielo, di ritorno all’aeroporto dov’era venuto, non prima però di aver fatto scendere un bagaglio modesto portato in spalla dalla stessa persona vestita di nero con la giacca di manifattura orientale, ancora sul braccio. Lo sguardo di Francis mi parve improvvisamente diverso, avido e smanioso. Non era stupida e aveva inteso con chi stava avendo a che fare.
Mi chiesi quanto di meno Howaito avrebbe offerto a un albergo di gran lusso che all’istituto. Certo, la struttura aveva bisogno di fondi, e da come mi era stato raccontato, non che importasse molto la loro provenienza. La regina ordinò ai piccoli seguaci di sgombrare la zona, e con un sorriso ammaliante invitò Howaito nel suo studio. Questo si voltò verso di me, congedandosi con un mezzo inchino, per poi seguire la maestosa quanto avida imperatrice. Non potevo certo biasimarla, l’istituto aveva bisogno di fondi per reggere il ritmo quasi lussuoso che si era presentato, e Howaito era una manna caduta dal cielo.
Quand’anche il suo servitore dalle vesti scure entrò nella struttura, mi resi conto di essere solo, in mezzo al giardino. Solo due spettatori erano rimasti freddi, in piedi, impegnati nelle loro osservazioni.
Mi voltai verso di loro, e così come li avevo lasciati, Renata e il detective Essenzio erano rimasti nella loro posizione originaria. Lei abbracciata a lui, spaventata dall’avvento del veicolo, lui dall’aria spavalda e lo sguardo penetrante.
  “Un vecchio amico” mi affrettai a rispondere ai loro sguardi “non immaginavo venisse sul serio…”
Loro rimasero in un primo tempo ammutoliti, ma fu Renata la prima a sciogliere il rinnovato silenzio.
  “È venuto in elicottero…” constatò lei “… E ha intenzione di rimanere qui? Non credo sia legale…”
  “Lo è” rispose il detective “è minorenne e accompagnato da un tutore. Questo è un centro di accoglienza minorile. Quel ragazzino dagli occhi a mandorla sta pieno di soldi, e i soldi in questo mondo possono decidere il tuo destino.”
Non aveva tutti i torti, considerando che il mio stato in quel momento era molto vicino allo shock.
Il ragazzo con cui avevo parlato per così tanti mesi durante la mia abitudinaria vita che rinchiudeva ogni essenza di me, che era riuscito a tirar fuori ogni singola cellula del mio vero Io, di cui non conoscevo neanche il volto se non ciò che mi raccontava per lettere di posta elettronica, spesso sfidando i limiti dell’assurdo, si era presentato da me, in Italia, nella mia situazione e davanti ai miei occhi. Lo stesso ragazzo di cui mi ero idealmente innamorato per ciò che era riuscito a fare per me.
Non sono mai stato attratto dalle persone del mio stesso sesso in maniera carnale, e ciò non fu neanche con Howaito, credo. E se anche lo fosse stato, giuro di non averci mai creduto fino in fondo. Eppure, ancora oggi, il solo pensare a lui scatena in me una forza tale da far battere come un pazzo quello che rimane del mio vecchio cuore, troppo affaticato per pompare ancora sangue e ossigeno.
Mi avviai sulla strada principale verso l’ingresso della struttura, accompagnato dall’investigatore e da Renata, e con insperata attesa mi ritrovai di nuovo faccia a faccia con Howaito, appena uscito dallo studio della direttrice, che, a giudicare dal suo volto, non si era fatta scrupoli con un ragazzo di una simile età, e che certamente aveva appena concluso un lucroso affare.
Ricordo ancora il mio respiro fermarsi quando le nostre pupille s’intrecciarono. Un atrio così vasto non era in grado di contenere tutta l’aria che cominciava a mancarmi, soffio dopo soffio. Lo ricordo ancora davanti a me, smodatamente più alto e fiero come una vecchia tigre asiatica. Mi si avvicinò all’orecchio e prese a sussurrarmi.
  “Sono stanco… Dormi bene.”
Naturalmente, non riuscii affatto a dormire. Al contrario, fui gradualmente perseguitato da strani pensieri, tra i più irrazionali e improbabili, visioni, idee incoerenti e irreali. Sotto le mie palpebre venivano a formarmi sfolgoranti sfondi cremisi dalle repentine sfumature dalle sfavillanti colorazioni in perpetuo movimento, come onde di un mare rosso, come serpenti dalla bocca grande, come bestie affamate in continuo nutrimento delle carni di sogni abbattuti o dimenticati. Non mi ero reso conto che in quel brevissimo tempo, illuminato dal chiarore del tramonto, era trascorso il mio primo giorno con Howaito.
 
Dichiaro e ripeto primo, perché so esattamente cosa voglio intendere, e chiunque non riuscirà a intuire le mie parole, consiglio di prestarci attenzione, poiché saranno brevi, fredde, spesso taglienti ma vere, di verità scomode del mio passato da ragazzo, confuso e senza meta.
 
L’alba manifestò il secondo giorno con prepotenza, violentando il mio sonno dal quale non riuscivo a fuggire. Vestendomi in tutta fretta, raggiunsi l’unico barlume che rendeva la mia stanza speciale. Con un velo di amarezza, versai parte della mia acqua in bottiglia nel vaso che padroneggiava dalla finestra ogni angolo di quel posto. Il basilico estendeva il suo profumo in ogni parte, volteggiando come leggiadre danzatrici di vento, e le sue foglie carnose accoglievano i primi raggi solari con desiderio.
Lasciai alle mie spalle il prodigioso lavoro di fotosintesi e la porta della mia stanza, ritrovando con mia sorpresa Howaito fuori la porta della sua camera, così vicino alla mia, pronto ad aspettarmi. I suoi abiti non erano occidentali neanche questa volta, ma non così formali come il giorno precedente. Quella volta e per le volte a venire avrebbe indossato semplicemente un hakama nero piuttosto largo, ma senza troppe pieghe, e un semplice copri spalle scuro. Se i miei lettori ancora non hanno capito cosa io intenda per hakama, mi riferisco a un tipo tradizionale di brache che spesso appaiono indosso ad antichi samurai, come ogni buon dipinto giapponese esportato nelle nostre terre, di cui sono avvolti da numerose e abbondanti pieghe dall’alto verso il basso. Come la prima volta, gli insoliti anfibi dal collo alto contrastavano l’intera armonia asiatica venutasi a creare con il resto degli abiti.
Quel giorno ero particolarmente felice, sebbene fossi già inverosimilmente stanco per la lunga nottata che mi si era parata davanti. Lo portai al mio fianco verso la mensa scolastica, al tavolo già in parte occupato da Renata e dal detective, che, instancabilmente proseguiva le sue ricerche su mia madre senza neanche accennare a un eventuale spostamento dall’istituto. Investigava e impartiva ordini tramite telefono, il che mi apparve inizialmente bizzarro.
I primi minuti al tavolo si rivelarono imbarazzanti per tutti, tranne che per Howaito. Il suo sguardo appariva così freddo e distaccato da regalargli una strana atmosfera di lunga riflessione. Renata invece, non riusciva a smettere di fissarlo con astio, mangiando con impeto la sua colazione. Di tutt’altro canto appariva il detective che esaminava ogni singolo movimento del nuovo ospite, come una cavia da laboratorio. Io, invece, non riuscivo neanche a respirare. Il solo poterlo avere così vicino a me rendeva tutto più sfocato e asfissiante, ma per qualche strana ragione, incredibilmente bello.
Mi permisi di prendere quella mattina libera, portando con me Howaito per le varie aree dell’istituto e spiegandogli quel poco che ero riuscito ad apprendere di quel posto. Ero così emozionato da non accorgermi di tutto l’ardore che sprigionavo da ogni poro, fintanto che, a mia differenza, Howaito rimaneva calmo, pronto a seguirmi in qualsiasi idiozia esibissi, con il respiro basso e il viso pallido, gli occhi vuoti e la lingua ferma. Mi piace pensarlo sorridente, di un sorriso appena ostentato, ma sincero, velato da un’inconsulta malinconia e preoccupazione.
Gli presentai l’area PC e gli raccontai di ogni mio minuto trascorso in quel luogo, ripercorrendo lungo la strada dell’uscita tutti i giorni passati tra quelle mura così finemente lavorate da sembrare qualche opera rinascimentale. Gli parlai delle correnti artistiche più celebri che si potevano trarre da quelle magnifiche lavorazioni e manifatture che ci guardavano dall’alto della loro bellezza. Sì, ero e sono ancora uno di quei pochi italiani perdutamente innamorati della propria terra, per quanto essa con le modernità sia stata sbattuta tra sofisti di ogni razza, e solo ora, nella mia vecchiaia, riassaporo la gioia dell’orgoglio e dell’unità nazionale, a quasi duecento anni dall’impresa garibaldina. Era mio desiderio che anche Howaito provasse quel meraviglioso sentimento che, pur con un po’ di quella vergogna che si provava nei primi anni del secondo millennio, mi travolgeva di passione per le bellezze che avevano arricchito di purezza e grandiosità quello che era il mio bellissimo Paese.
Preso dalle mie idee, non mi resi conto che il cammino ci aveva portato alle radici del monumento del ragazzo deceduto. Vagamente incuriosito da quell’inusuale postazione di rocce lavorate e dalla lapide centrale, il mio nuovo compagno di viaggio volle conoscere la storia che aleggiava sul significato di quel luogo. Con un profondo respiro, abbassai lo sguardo e raccontai ogni cosa sapessi. Quando terminai, ricordo il suo sorriso amaro e la sua carezza alla lapide.
Ricordo il vento e la luce che filtravano quasi accecanti tra le foglie degli alberi, che, curvati, lasciavano dimenare i loro rami sotto la brezza della corrente. In controluce, la sagoma di Howaito si fece scura, fino a non riuscire più a distinguere più le sue forme. Ricordo i suoi capelli al vento, così lisci e lunghi da non sembrarmi neanche veri, ricordo il suono del venticello che si tranciava contro le lame di ogni superficie aguzza, dalle fronde alle rocce, ai pali che reggevano il piccolo altare. Ogni folata produceva un suono così bello che in un solo, grande soffio di vento riusciva a coordinare un’orchestra armonica degna di Madre Natura.
  “Quanto è breve la vita di un uomo…” mi sorprese lui “…Se questo si affida al tempo come proprio maestro e medico di ferite. Lo stesso tempo maestro che uccide ogni suo allievo.”
Gli chiesi il perché di una simile sentenza. Lui si limitò a guardarmi.
Non riuscivo a intravedere i suoi occhi, ma sapevo benissimo cosa intendesse dire. Howaito era una clessidra rotta, e la sabbia del suo tempo scorreva molto più velocemente degli altri. Alla fine avrebbe incontrato anche il ragazzo caduto, il cui corpo riposava sotto i nostri piedi.
Lasciammo quasi immediatamente quel posto, e senza che me ne potessi rendere conto, quel raggiante quanto straziante secondo giorno era terminato. Non prima però che la regina del castello, la direttrice del centro di accoglienza mi prese in contropiede. Quella mattina avevo dedicato il mio tempo a Howaito, quando invece avrei dovuto riprendere i miei studi, frequentando con Renata la classe diurna. Avrei passato meno tempo con lui, ma il solo sapere di averlo con me ogni singolo giorno mi rallegrava, e scioglieva dalle mie spalle ogni peso e problema che mi si poneva. E con pensieri lieti, il mio secondo giorno era trascorso.
 
Il terzo giorno, ritrovai Howaito alla fine delle scale, fuori dai dormitori del piano di sopra. Mi stava aspettando, ma con lo sguardo fisso verso il portone d’ingresso. Lo raggiunsi senza troppe storie, andando a fare colazione insieme. Renata non parlò lungo tutto periodo, e del detective neanche l’ombra. Probabilmente era alle prese con il caso. La mattinata appariva tranquilla, e ricordo ancora bene della quantità di burro che spalmavo allegramente su fette di pane bianco dolce, accompagnato da freschi bicchieri di latte.
Rammentando tuttavia gli ordini della Regina, lasciai Howaito al termine della colazione per dirigermi con Renata nella nuova classe che mi attendeva. A differenza del resto dell’istituto, la mia classe non era nulla di eccezionale, una semplice stanza che contrastava abbondantemente con lo sfarzo di cui era concepito il resto dell’istituto. Per tutto il tempo della lezione, aspettai con ansia il termine degli insegnamenti per correre di nuovo da Howaito. Lo ritrovai esattamente dove lo avevo lasciato, nel tavolo all’angolo della mensa, stavolta per l’ora di pranzo. Notai un libro piuttosto pregiato tra le sue mani, letto dai suoi occhi insaziabili. Mi sedetti al suo fianco, seguito da Renata che non aveva ancora aperto bocca fin dal suo ingresso. Fui divorato da quel silenzio che nessuno sembrava volesse interrompere, e straziato da quell’atmosfera, decisi di prendermi personalmente l’incarico, rivolgendomi sulle prime a Renata.
  “Una lezione piuttosto noiosa, vero?”
Non ebbi neanche il piacere di una risposta. Renata si limitò a guardare nel suo piatto e comunicarmi un verso di assenso. Non fui più fortunato con Howaito.
  “Allora, quanto tempo ti fermerai da noi?” gli rivolsi.
Lui si fermò, guardando il tavolo con occhi vuoti.
  “…Fino al tempo necessario..”
Riflettei su ciò che stesse cercando di dirmi, ma non ci riuscii. Avevo però capito le intenzioni di chi lo aveva mandato qui. Doveva esserci la madre dietro questo progetto.
Se Howaito doveva vedere le bellezze del mondo prima di lasciarlo, allora le avrebbe viste.
Decisi allora di portare con me Renata e Howaito al vecchio magazzino, dove ancora dimorava il pianoforte appena scordato. Pregai la mia compagna di viaggio di interpretare le note di cui le avevo fatto dono, ed inaspettatamente questa si rianimò, lasciando che il suo viso si accendesse di luce propria.
Invitai Howaito ad accomodarsi su una vecchia cassa al mio fianco, per goderci quella che a mio parere poteva essere un evento cui non si poteva rinunciare di assistere. E, infatti, così fu. Le note armoniose del pianoforte presero a eseguirsi in un puro crescendo, fino a raggiungere gli apici di una delicata sequenza di suoni dolci, spesso travagliati dalla durezza di note profonde, e spesso da squillanti concatenazioni di note accese e vibranti. Non nascondo di aver provato qualcosa nel vedere i suoi occhi così grandi e così vicini a me. Era pienamente dentro la musica che si estendeva gentilmente per tutto il magazzino.
Sino al tramonto, trascorremmo tutti e tre insieme il nostro tempo tra le lente note del piano. Alla fine vedevo Renata sorridere apertamente, così come vedevo Howaito rilassarsi.
Di ritorno ai nostri dormitori, con la nostra pianista in testa alla fila e le energie al massimo, mi accodai vicino al mio compagno asiatico, godendomi quell’incantevole serata che accennava a entrare in scena. Le cicale intonarono per noi le gioie del tramonto, cantando in coro.
  “Cicale…”
Howaito interruppe quel leggero concerto, e il mio sguardo si focalizzò su di lui.
  “… Già.” Risposi io “Sono belle. Cantano per tutta la vita.”
  “Alcune vivono fino a diciassette anni!” Fu di risposta Renata, voltandosi verso di noi.
Che idiozia. Quelle cicale così durature vivono solo in posti specifici del mondo. Non per le cicale comuni. Dopo il loro periodo di crescita, le cicale comuni divenute adulte vivono solo una settimana. Solo una settimana.
 
Il quarto giorno, alla mia discesa dal dormitorio, trovai Howaito con la spalla appoggiata all’uscio del portone dell’ingresso, inspiegabilmente aperto, e con lo sguardo rivolto verso i primi raggi del sole. Ricordo le sue braccia, forti come antichi arbusti, incrociate tra di loro su un tessuto così leggero da lasciar trasparire ogni singola fascia muscolare contratta.
Cercai di non lasciarmi distrarre e lo richiamai alla colazione. Quella mattina si respirava un’arietta diversa, appena un po’ umidiccia ma piacevole. Il pane sembrava più dolce del solito, il latte più mielato, e Renata di buon umore. Anche Howaito sembrava molto più rilassato, segno che la giornata precedente gli era stata propizia. Tutto ciò mi metteva letizia, un velo di spensieratezza che a quindici anni è quasi un obbligo avere. Persino la lezione mi sembrava così leggera da non sembrare effettivamente faticosa. Solo un piccolo segno destò la mia preoccupazione. Un tuono.
Un tuono improvviso mi svegliò da quell’immacolata visione di serenità. Dalle grandi vetrate della classe si poteva chiaramente vedere un immenso cielo grigio e la pioggia in arrivo. Quell’evento mi mise stranamente in allerta, sentivo sulla mia pelle che qualcosa stava per accadere. Anche Renata avvertì questo mio malessere e mi rivolse il suo sguardo preoccupato.
Non appena la campana suonò al termine della lezione, fuggii in mensa per accorgermi dell’assenza di Howaito. Lo sapevo. Lo sentivo fin dentro le vene.
Cominciai a perlustrare ogni angolo del piano terra, fino all’area PC. Non trovando nessuno, corsi nei dormitori al piano superiore, ma di Howaito non trovavo tracce. Mi misi allora a bussare e a urlare come un pazzo alla porta della sua stanza, mi avessero portato via di lì di peso, mi avessero cacciato via non m’importava. Sentivo che qualcosa non andava. Renata mi seguiva turbatissima, anche se a malapena immaginava il mio stato d’animo in quel momento. Fu allora che mi precipitai al piano inferiore.
Howaito quella mattina guardava intensamente l’esterno, e diedi allora per scontato che era anche il luogo dove in quel momento si trovava. Unica nota: fuori diluviava. Non era una semplice pioggia, era un vero e proprio acquazzone in piena regola. Renata mi prese alle spalle, stringendomi il petto con le mani. La sua voce era in preda al panico per quel mio improvviso cambiamento, e sentivo persino le sue lacrime bagnarmi la schiena. Era pericoloso, lo sapevo, affrontare un simile diluvio non è una cosa semplice da affrontare, ma confesso che il quel momento divenni un perfetto incosciente, liberandomi dalle mani della mia compagna e filandomela sotto l’acqua, alla ricerca di Howaito.
Perlustrai ogni zona del giardino, tranne una. Corsi allora verso il monumento, e fu lì che lo trovai.
Era semplicemente in piedi, al centro del palchetto rialzato, accanto alla lapide. Lui si voltò e mi guardò. Sentii dentro di me qualcosa che cresceva, un sussulto che a fatica riesco a descrivere. Una vicinanza immensa, forte e insperata. Ricordo la sua sagoma farsi avanti verso di me, sotto la pioggia scrosciante. Ricordo il suo respiro serrato contro il mio affanno dovuto alla corsa. Ricordo le sue mani bagnate che stringevano le mie braccia e i suoi occhi nascosti dai lunghi capelli neri. Erano sottili, scoloriti da un incantevole grigio fumo. La pioggia batteva sopra di noi come tante lamine aguzze. Ogni parte di lui era stata lavata dal diluvio scrosciante, le sue vesti pregiate, la sua pelle pallida, le labbra socchiuse.
Avrei voluto fermare ogni cosa. Non riuscivo a reggermi sulle mie gambe tremanti, né a respirare decentemente. Sentivo solo le gocce cadere tra i miei capelli, il suo petto contro il mio e il suo respiro.
 
Ma non riuscivo ad accettarlo.
Poggiai la mia mano sul suo petto, facendo pressione sul palmo e scostandolo di poco. Non era quello che volevo. Non sentivo quel momento come appartenente a me. Mi sentivo in colpa, e non sapevo neanche per quale regione. Non avevo nessuno cui dare conto della mia vita, né di quello che facevo, ma in ogni caso non lo reputavo giusto, né per me, né per lui.
Howaito respirò a fondo, senza smettere di guardarmi, stavolta con le labbra serrate. Inizialmente non sembrava molto deciso a lasciarmi andare, ma si rassegnò ben presto, accarezzandomi il viso.
La sua mano era così morbida che ancora la sento sulla pelle. Era bagnata, ma non m’importava. Sentivo dentro di me qualcosa che non andava.
Nel frattempo, fui solo fortunato a non beccarmi il raffreddore.
 
Il quinto giorno non ero tranquillo. Non riuscivo a togliermi dalla testa ciò che era accaduto il giorno prima, ma non volevo pensarci. Disteso nel mio letto, mi ritrassi nel mio lenzuolo, osservando di traverso l’imperiosità della mia solenne pianta di basilico, geloso delle sue belle foglie grandi e carnose, così vivide e brillanti al cospetto dei raggi del sole. Lo invidiai con tutte le mie forze, preso da non so quale desiderio di rabbia. Mi alzai con sdegno, di fronte a quella commemorazione di bellezza naturale. Naturale, mi venne così spontaneo pensarlo e attribuirlo a quella pianta. Perché io non mi sentivo naturale.
Credevo con tutto me stesso che i miei sentimenti verso Howaito sarebbero rimasti dietro lo schermo di un PC, vivendo un breve periodo psicologico come quei ragazzi che s’innamorano di cantanti, attori, o perché no, persino di personaggi inventati e disegnati in qualche serie televisiva animata.
Mi sentii un mostro, e non riuscivo ad ammetterlo. Il giorno primo, sotto la bufera, mi sentii attratto dal mio più caro amico, un ragazzo esattamente come me. Mi chiesi cosa ci fosse di così sbagliato in me da andare contro natura, eppure non mi sentivo traumatizzato da ciò che il mio passato si era divertito a vandalizzare la mia vita. Semplicemente non m’importava.
Io non mi sentivo parte della natura, il mio basilico invece sì. Era arrabbiato con me stesso, contro il mio corpo che reagiva contro la mia volontà e contro la natura stessa.
In pigiama, a piedi scalzi, mi avvicinai verso la pianta. La analizzai meglio che potei, osservandola in ogni sua cellula vegetale visibile ai miei occhi. Era bella, bella come solo le più fedeli compagne di vita possono essere, unica testimone della quotidiana ripetitività che inseguiva una vita che non mi apparteneva più. Però, lei era naturale. Io no. Io ero contro natura.
Strinsi i denti come un cane rabbioso e afferrai con tutta la mia forza il tenero cespuglio verde posto sul davanzale. Lo restrinsi tra le dita della mano fino a sentire il fresco liquido vegetale bagnarmi la pelle. E in un colpo solo, sbattei la pianta verso il centro del pavimento della mia stanza.
Il piccolo vaso di plastica non fece molto rumore, ma potevo sentire chiaramente l’urlo straziante della pianta rimbombare della mia mente. Quale infame destino le era venuto incontro, dopo una fedeltà così costante. I miei occhi invece erano vuoti. Guardai il palmo della mia mano assassina, sporca di liquido e di terriccio. Il sangue della mia devota fautrice fluiva come veleno sulla mia pelle.
Non provai nessuna emozione. Sentivo il mio cuore farsi sempre più silente, come smettesse a poco a poco di battere. Non volevo provare più alcuna emozione. Vuoto e senza sentimento, come un personaggio grigio e senza copione. Il palco mi appariva deserto, il pubblico assente, e il corpo come un burattino senza burattinaio, appeso ai fili come il Messia in croce.
Rivolsi il mio sguardo verso la finestra aperta, notato il cielo grigio e nuvoloso che copriva ogni singolo spiraglio di azzurro, segno che il diluvio del giorno precedente si era concesso solo una singola e breve tregua. Poi, i miei occhi scesero in basso, riconoscendo la sagoma di Howaito in mezzo all’erba del parco, da solo, diretto lentamente verso le frasche oscure che segnalavano l’ingresso del monumento. Non so che voce misteriosa gli suggerì i movimenti, ma fu così che all’improvviso Howaito si fermò il mezzo al giardino, oscurato dalle grosse nuvole distese sulle nostre teste, e con le larghe vesti mosse dal vento caldo che si stava avvicinando. Il suo viso si voltò, come seguendo le lentissime note del vecchio pianoforte. Deboli, rapide tra loro, in gruppi di tre o quattro note, distaccate da eloquenti silenzi ripetuti. Ma precise. E in quel canto di conclusione, incrociò il mio sguardo dall’alto delle finestre. I suoi occhi grigi sembravano pezzi di quello stesso cielo che ci osservava dall’alto. Mi sorrise. Un sorriso sincero ma triste, consapevole del destino cui andava incontro. Il sogno di una farfalla andato in pezzi, priva di godersi di quell’unico giorno di vita che la Natura mette a disposizione, finita tra le mani del destino come un bambino senza pietà.
Sorrideva, e intanto piangeva lentamente, portandosi una mano al cuore. I miei occhi, invece, erano vuoti. Su di noi, un breve tuono fece il suo ingresso, annunciando che la tregua era terminata.
Howaito non smise di guardarmi, sorridente. Fece un mezzo inchino, e con un velo di pioggia come mantello, mi voltò le spalle e si addentrò tra le frasche.
Non avevo nessuna voglia di andare in classe, quella mattina. Non avevo voglia di fare colazione, o di vestirmi con la mia nuova uniforme, o di fare chissà cos’altro. Ma mi vestii ugualmente, indossando l’uniforme estiva che mi avevano consegnato. Forse era stata quella ragazza con il sorriso tanto carino a portarmelo in stanza, la giovane domestica che si occupava dell’ala del dormitorio del primo piano dove io alloggiavo. Probabilmente era stata lei.
Lo indossai senza troppa voglia, ancora con lo sguardo spento rivolto verso la pianta morente. Al momento le sue foglie non sembravano più tanto verdi e carnose. Le vedevo secche, appassite e annerite. Spostai il mio sguardo verso lo specchio all’angolo e mi vidi in uniforme: una semplice camicia bianca di lino a mezze maniche, con il logo del centro di accoglienza stampata sul taschino, un pantalone blu scuro molto semplice e una cinta di cuoio nera. Le mie scarpe, per fortuna, si erano asciugate durante la notte, vittime come me del precedente acquazzone.
Le prime gocce di pioggia scesero delicate, ed io le osservai con un moto di tristezza. Vedevo tutto buio, e non volevo fare nulla per cambiare le cose. Mi ero reso conto di ciò che ero diventato.
Uscii dalla mia stanza, lasciandomi il piccolo cadavere arboreo alle mie spalle e raggiungendo un’altra scala, che non mi portava nell’atrio principale, bensì ai dormitori del secondo piano, per poi proseguire con un altro piano e un altro ancora, dove l’amministrazione alloggiava. L’ultima scala mi portava verso il terrazzo, la cui porta, per mia fortuna, non era chiusa. Lo avevo inteso il giorno prima, guardando Howaito sullo stipite del portone spalancato, e notai che dalla scala da cui era sceso, proveniva fin troppa corrente d’aria, segno che il portone del terrazzo era aperto.
Nonostante il diluvio precedente, il terrazzo era letteralmente coperto da lenzuola grigie e umide stese su lunghissimi stendini di fili di plastica. Scossi la testa per disapprovazione. Per quanto la struttura fosse in sé ben curato, era chiaro che le domestiche non erano in numero sufficiente per occuparsi dell’intero istituto.
Il cielo grigio non smetteva di coprire Rubra Vulpes, e piccoli rombi si facevano strada nel silenzio interrotto solo dal passare del vento. Avevo ancora i capelli umidi, ma la cosa non m’importava più.
Solo, tra le lenzuola ancora bagnate di pioggia e con il cuore a pezzi. Volevo solo essere onesto con me stesso, e forse avrebbe dovuto esserlo anche Howaito. Mi resi conto solo allora di quanto quella situazione fosse stupida. Mi ero innamorato di un ragazzo che conoscevo solo tramite lettere di posta elettronica, malato in fase terminale, che aveva lasciato la sua terra per venire da me, che nel frattempo ero stato sballottato da un evento ad un altro, mentre la mia vita si faceva a pezzi giorno dopo giorno, e senza troppi giri di parole, avverto che questo ragazzo venuto da così lontano per me ha provato a rendermi suo, una sola volta, senza riuscirci. Perché io non gli appartenevo.
Dentro di me continuavo a ripetermi quanto ciò fosse sbagliato, e non riuscivo a capire perché quella voce dentro di me volesse farmi soffrire così. Volevo piangere senza vergogna, sperando con tutto il cuore che la pioggia scendesse presto per lavare via ogni mia lacrima del viso, ma così non fu. Fui solo accolto da un improvviso stridio di uno stormo di corvi, che sfrecciò tra le lenzuola come fossero impazziti. I miei occhi vuoti si riempirono improvvisamente di paura quando fui accolto da un assordante tuono che si precipitò al centro del terrazzo.
Con il braccio sulla fronte, corsi via verso la tromba delle scale, raggiungendo il piano terra con il respiro fermo. Quando ripresi a respirare, mi sentii come se non avessi mai corso in vita mia, ma quando cominciai appena a riprendermi, mi ritrovai Renata tra le braccia. Ero pallido come un morto e avevo sicuramente un aspetto sconvolto. Dovevo averla spaventata.
  “Perché non sei in mensa?” le chiesi io a corto di fiato.
  “Perché il tempo della colazione è finito da un pezzo e dovremmo già essere in classe. Allora sono venuta a cercarti in stanza ma tu non c’eri e ho visto il basilico a terra, perché la porta non era stata chiusa… Allora mi sono preoccupata e mi sono messa a cercarti, ma non ti ho trovato…”
Dalla sua voce sembrava davvero terrorizzata, quasi con le lacrime agli occhi. Era ovvio che il mio comportamento influisse molto sul suo, ma non riuscivo a spiegarmi il perché.
  “Non riesco a trovare neanche Howaito…” ammise lei con occhi bassi.
  “L’ho visto addentrarsi verso la strada del monumento.”
Renata mi guardò impallidita e con occhi sgranati.
  “Bisogna andare a cercarlo! Non hai visto il diluvio che si sta avvicinando?”
Lo avevo visto eccome, a un palmo da me. E avevo visto anche la Morte al suo fianco, con la sua mano secca nella speranza di prendermi, ma non potevo dirglielo. Renata, allora, mi afferrò per mano, trascinandomi fuori dal portone principale e verso il giardino.
Sulle nostre teste, lo stormo di corvi sembrava seguirmi come impazzito, mentre fummo accolti da un assordante gorgheggio di cicale man mano che correvamo.
Il mio cuore non riusciva a smettere di pomparmi delle orecchie, bloccando la gola e parte del respiro. Sentivo qualcosa che non andava, ancora una volta. I tuoni presero a inseguirci freneticamente, i lampi spaventavano il nostro cammino sempre più veloce, fino a un unico, assordante frastuono che divise in due la volta ricoperta di nubi. Una saetta bianca. Howaito a terra.
 
Il mio grido fu spezzato dal vento che mi venne bruscamente incontro, ma questo non mi fermò. Sentii nascere in me una forza prepotente e orgogliosa che stracciò come carta la raffica che mi dava addosso. Raggiunsi il monumento dalla base in pietra circolare e dalla lapide centrale, che lasciava rassomigliare la struttura a un’antica meridiana. La pioggia che accennava a fare il suo ingresso, le urla di Renata, Howaito disteso su un fianco lungo un semicerchio marmoreo.
Lo scossi con tutte le mie forze, ma non diede alcun segno di reazione. Mi misi in ginocchio e accolsi il suo corpo inerme tra le mie braccia sottili, che non rendevano giustizia al suo peso.
Le nubi si ruppero ancora, e il cielo prese a piangere su di noi. Sulla Pietà di Michelangelo di fronte alla lapide di un ragazzo morto troppo presto per il volere del Destino.
In quel momento mi chiesi a chi fosse davvero rivolta quella lapide. Le cicale intorno a me continuavano a singhiozzare versi ritmati, ma l’unica cicala cui tenessi non aveva fatto in tempo a gioire del suo ultimo canto.

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Capitolo 10
*** 10. Foglie secche ***


Ero diventato sordo. Forse l’ultimo tuono, più assordante degli altri, mi aveva portato via la capacità di udire. Solo quella di udire, perché riuscivo ancora adascoltare. Mentre la pioggia scendeva su di noi, ascoltavo con ritrosa attenzione il terrore di Renata che fuggiva via, il pianto delle cicale che ci circondavano, il dolore del cielo cupo e l’arrogante risata meschina di Howaito che rimbombava nella mia mente, nello stesso tempo in cui il mio sguardo esaminava la pelle bianca del suo viso, abbandonato sul mio braccio.
  “Bugiardo…” gli sussurrai con le gocce di pioggia grondanti dalle mie labbra.
  “… Mi avevi detto che avresti vissuto da cicala… Le cicale cantano le gioie della vita per una settimana prima di lasciare questo mondo, e non è ancora passato il quinto giorno… Tu forse non sei pronto a morire, ma sono io che non sono pronto a perderti!”
Ero confuso e disorientato. I referti che mi aveva allegato via posta elettronica evidenziavano chiaramente il pericolo massimo dell’Angiosarcoma per i successivi due o tre anni. Possibile che Howaito sentisse così vicino l’arrivo della Morte?
Per quale ragione doveva spingersi in un viaggio oltreoceano, per poi morire al mio fianco?
Non conoscevo risposte alle mie domande, né riuscivo a ricordare una singola emozione da poter esprimere in quel momento. La marionetta senza burattinaio, che destino pietoso per un eccellente attore teatrale come me.
Statico, nella mia interpretazione della Pietà, fui via via circondato dalle vesti di remoti ricordi della mia vecchia vita e rimirai me stesso nelle folate di pioggia, prima ancora che cominciassi il mio viaggio senza destinazione: un ragazzo di quindici anni senza padre, attaccato al ripetersi della propria quotidianità e senza alcuna esperienza al di fuori del teatro e dei videogiochi, il tutto ornato da un forte odore di basilico. Nauseante basilico.
Le sagome dei miei ricordi presero forma in quelle di Renata, del detective Morgan, della direttrice Francine, della domestica con il sorriso carino, dell’infermiera, dei funzionari e di tutti i giovani ospiti di Rubra Vulpes, che, circondandomi, si stringevano nel mio dolore, sotto il pianto incessante delle nuvole nere.
Nonostante questo, Howaito mi aveva dato un rilevante indizio. Sentendo la fine farsi avanti, mi aveva dato il suo addio con il sorriso, per poi andare a morire da chi di stesso destino era rimasto vittima. Una magnifica uscita di scena, degna di una prima stella teatrale. Ma non era Howaito il protagonista della mia storia, della mia vita e del mio universo. Con gli abiti ormai fradici, lasciai il corpo di Howaito sulla lastra marmorea, per lasciarmelo poi alle spalle, come ogni evento che mi aveva attraverso in quei giorni. I miei occhi s’incrociarono con quelli del detective Morgan. Per una volta il suo impermeabile gli era servito a qualcosa.
  “Prepari la sua macchina, detective. Partiamo.”
L’investigatore mi parve inizialmente confuso, ma un guizzo improvviso nelle sue pupille mi fece intendere di aver compreso le mie finalità, e prendendo alla mano il cellulare, ordinò a una scorta di seguirci.
Mi voltai verso Renata, e la vidi stretta a Francine: la mia compagna mi guardava con dolore e tormento; la Regina, invece, con aria funesta. Non potevo biasimarla, la tomba del figlio era stata gettata in pasto agli occhi del mondo per la seconda volta. Lasciai anche loro alle mie spalle, dirigendomi verso la strada principale dell’istituto, accompagnato dall’investigatore che mi teneva per la spalla, quando fui interrotto da quello strano maggiordomo vestito di nero che aveva accompagnato Howaito con l’elicottero. Aveva l’aria affannata ed era completamente fradicio. Per di più indossava ancora gli occhiali da sole, pur con la pioggia e il cielo coperto. Mi porse una lettera sigillata in busta chiusa. Evidentemente anche lui era a conoscenza della vicinissima morta che stava divorando il suo padrone.
Una volta consegnatami, la riportai sotto la mia camicia per non farla bagnare di pioggia, intanto che il maggiordomo in nero si allontanava da noi con il cellulare all’orecchio.
In quell’attimo mi fermai e socchiusi gli occhi, lasciandomi cullare dalle gocce di pioggia e portando indietro la testa, facendo scorrere l’acqua salata per le radici dei miei capelli. Uno sbuffo a bocca aperta riuscì a spostare quel grosso peso che portavo sul cuore, assaporando le lacrime di cielo come un dono divino. Ero pronto.
Ripercorsi la strada verso l’istituto, grondante e non curante delle chiazze di fango che lasciavo sull’impeccabile quanto sacro pavimento bianco dell’atrio, fino ad arrivare alla mia stanza. Sebbene avessi l’uniforme zuppa di pioggia, non avevo alcuna intenzione di cambiarmi e indossare qualcosa di asciutto, ma dovevo farlo se volevo evitarmi una polmonite, in particolar modo dopo lo stesso caso che mi era capitato il giorno prima. Radunai a me ogni idea pur di coprire l’immagine del volto esanime di Howaito che appariva incessantemente davanti ai miei occhi.
Un rumore secco mi portò alla realtà: avevo pestato quello che era rimasto del vaso di plastica, che giaceva semi distrutto al centro della mia stanza.
Credevo di aver distrutto completamente quel piccolo cespuglio verde, portatore di amarezze e unico legame di quello che era il vecchio me. Mi flessi sulle ginocchia per osservare meglio e notai, tra il cumulo di terriccio e i pezzi di plastica, che ogni frutice, in principio brillante e fiorente, era diventato secco e scuro, come se avessero inaspettatamente smesso di avere vita. Ogni ramoscello della pianta si era annerito, neanche una singola foglia si era salvata.
Avrei voluto ascoltare ancora una volta le malinconiche note di pianoforte di quella ragazza che abitava sopra il mio appartamento, ma non c’era più musica dentro di me.
 
Una volta cambiati i miei abiti, lasciai la porta della mia stanza ben aperta e il cadavere della mia amica arborea in vista, l’unica cosa su cui potevo ancora disporre il mio potere arbitrario di possessore.
Niente più mi apparteneva a ciò che ancora una volta lasciavo alla mia schiena, persino il suono che le suole delle mie scarpe producevano sulle scale verso l’atrio mi sembrava pian piano sempre più astio e sconosciuto. All’ingresso principale, Morgan mi aspettava con un grande ombrello in mano, permettendo alla fedora di coprirgli gli occhi.  Era davvero un uomo tutto di un pezzo, anche se alle volte dava una strana impressione. Mi scortò verso una grossa macchina nera, mentre intorno a noi appena un paio di automobili dei carabinieri si faceva strada nel lussureggiante giardino di Rubra Vulpes. Mi vietai di guardare in direzione della stradina conducente al monumento. Non avrei potuto reggere ancora la visione di Howaito senza vita, e quel suo sorriso disegnato sul volto pallido, né gli occhi distrutti di Renata e dell’imperiosa Regina che mi ospitava a corte.
Sedili di pelle, odore di muffa. Quando Morgan entrò in macchina, la avviò senza troppi problemi, innestando la retromarcia. Io, invece, coricato nel sedile posteriore, appoggiai di peso la testa sul mio schienale, donando il mio addio ai cancelli che mi avevano accolto per così poco tempo.
Addio Volpe Rossa. Addio Regina. Addio Renata, compagna mia.
 
Addio Howaito.
 
Il mondo esterno accolse la macchina nera con un boato di tuoni e folate di pioggia, spazi infiniti che i miei occhi vuoti osservavano freddamente. La lunga, lenta, estenuante sequenza d’immagini mi si presentava davanti in maniera a dir poco idilliaca, scontando la bufera che infervorava febbricitante sulle terre ormai bagnate. Mi piaceva vedere così da vicino i campi arati, le sterpaglie frastagliate nei vivai lasciati incolti, e qualche casetta rurale abbandonata tra il grano biondo e gli ulivi minervini.
  “Fammi strada, ragazzo”
Morgan aveva davvero un modo deciso nel fare le cose. Sapeva cosa voleva, e conosceva il modo per ottenerla. Ma io non ero da meno.
  “Sessantatreesimo binario dalla stazione di Minervino Murge, percorso ferroviario regionale Barletta–Spinazzola.”
Alla mia frase, l’auto sbandò di colpo e si arrestò. Il detective mi guardò attraverso lo specchietto retrovisore con gli occhi sgranati. Sì, ero a conoscenza di quelle informazioni che nessuno si era preso la briga di celarmi quando fui catapultato in centrale. Sessantatreesimo binario, esattamente dove mio padre fu tranciato dal regionale per Barletta centrale. Il detective, in fondo, seguiva un’ottima pista per ritrovare mia madre, come da me suggerito: entrambi credevamo di ritrovare i frammenti di una follia alla fonte da cui era scaturita, ma la fonte non era affatto la nascita dell’oggetto della follia stessa, bensì la fine di ciò, e la conseguente origine della paranoia.
La macchina riprese il suo cammino, e le altre due gazzelle ci seguirono senza fare storie, fino al punto chiave. Il centro della campagna minervina, tra gli ulivi e spighe di grano troppo giovani per diventare dorate. Mia madre era lì, in ginocchio, a osservare la sessantatreesima rotaia, che partiva dal Primo e unico Binario della stazione.
Prima di uscire dalla macchina, mi accertai di portare con me l’ombrello che Morgan mi aveva offerto e lo aprii. Era davvero molto grande, e bastava quasi per tre persone, ma il colore era lo stesso marroncino chiaro del suo impermeabile e della sua fedora.
I carabinieri uscirono dalle loro auto meccanicamente, ma nessuno si fece avanti. Solo io mi avvicinai alla mia generatrice, e m’inginocchiai al suo cospetto, così come lei si arrendeva al cospetto della rotaia. Mi sporsi, e la mia fronte, si appoggiò alla sua. I suoi occhi, così freddi, vacui, vitrei, si rispecchiavano nei miei, che contenevano altrettanto vuoto. Solo allora capii, perché nell’attimo in cui perdi chi ami, la tua anima si svuota. È vero quando dicono che gli occhi sono lo specchio dell’anima, perché io mi sentivo davvero uno specchio caduto in frantumi.
 
Come ogni tappa del mio sfiancante viaggio, mi rialzai, lasciando il manico dell’ombrello tra le mani di ciò che rimaneva di mia madre, una donna sola, distrutta, in grado solo di respirare e di guardare il vuoto con altrettanta vacuità, mi immersi di nuovo tra le spoglie di un diluvio prossimo alla sua conclusione, verso Morgan che mi attendeva allo  sportello aperto della grande macchina nera.
I suoi occhi erano compassionevoli e amareggiati, ma non ci diedi troppo peso. Mi gettai di nuovo sul sedile posteriore in pelle che puzzava di muffa, mentre la portiera mi veniva chiusa violentemente.
Mia madre attraverso il finestrino bagnato della macchina appariva distorta, come un mostro senza anima e senza pace. Miriam, si chiamava. Miriam, da Maria, madre del Messia. Entrambe portatrici di dolore, per una perdita straziante e senza pentimenti.
Fissai il cielo, fintanto che l’auto prese i primi movimenti. Non mi chiesi dov’ero diretto, non m’importava più. Potevo sentire i miei capelli umidi bagnare la pelle nera dietro la nuca. Sentivo freddo.
Passai la mano sotto la camicia un po’ umidiccia, ripescando la busta sigillata che mi era stata consegnata da quello strano maggiordomo vestito sempre di nero. Una busta bianca con un sigillo in cera laccata rossa, degna solo a baroni e principi di un certo tempo. La aprii con delicatezza, per non rovinare la lacca, e ne estrassi un foglio. Non era una lettera, perché non aveva né mittente, né destinatario. Non aveva data, o oggetto. Riportava solo una lunga frase scritta a mano giusto al centro, e che ancora oggi conservo gelosamente tra i miei archivi.
 

“Ti amato per tanto tempo. Avrei voluto che lo sapessi. Avrei voluto avere il coraggio di potertelo dire, prima che mi venissi portato via.”

 
Lo avevo immaginato, e non potei fare a meno di sorridere. Prima che io fossi portato via da lui.

Avrei potuto dire lo stesso.

Mi chiamo Aristide Spadaccini, e oggi compio novantasei anni.
Ho avuto un’adolescenza diversa dalle altre. Ho amato, ho odiato, ho perdonato.
Ho capito cosa volevo fare, cambiare la mia visione della vita, così ossessivamente attaccata alla ripetitività del proprio quotidiano. Ho voluto esaltare le mie capacità, e con mio grande rammarico senza riuscire a prendere posizioni. Una serie di eventi mi ha condotto a fare esperienza del mio talento teatrale, e sono stato in grado di decidere come muovermi tra le scelte del destino.
Ma sono andato avanti, diretto su quella grande macchina nera verso un futuro che mi si doveva ancora presentare, e guidato da quella persona che in futuro avrei chiamato Padre.
Mi sono sposato, ho avuto dei figli, e i miei figli hanno avuto dei figli a loro volta, e questi hanno fatto lo stesso. Ho visto mia moglie lasciare questo mondo con il sorriso sulle labbra. Aveva lo stesso sorriso di chi avevo imparato ad amare per la prima volta. Una cicala che non era capace di cantare tutte le gioie della vita, perché ne aveva conosciute troppo poche.

Una cicala che non smetterò mai di amare.
 
 
Andria, 30 luglio 2089
Spadaccini Aristide

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