Hetalia's Inferno

di Rico da Fe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Canto I ***
Capitolo 2: *** Canto II ***
Capitolo 3: *** Canto III ***



Capitolo 1
*** Canto I ***


Personaggi
 
Dante: Giappone
Virgilio: Germania
Beatrice: Italia
Le tre fiere: Hanatamago, Kumajirou e Mr. Puffin
 
 
 
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché l’indipendenza mia era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre nazion ch’i’ v’ ho scorte.

 
 
Giappone avanzò spaventato e tremante.
Quella foresta era davvero terribile! Persino lui, di solito così calmo e riflessivo, iniziava a scoraggiarsi: non avrebbe mai trovato l’uscita…
Continuò a camminare tra gli alberi, senza avere la minima idea di dove andare, finché finalmente non vide, al di sopra dei rami contorti, una verde collina illuminata dal sole.
Subito sentì rinascere la speranza; ma aveva appena incominciato a salire verso il colle, quando improvvisamente gli comparvero dinanzi, a sbarrargli la strada, tre orribili fiere: un orsetto polare (Kumajiro), un cane bianco (Hanatamago) e una pulcinella di mare (Mr. Puffin).
 
 
E la pulcinella di mare, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’indipendenza.

 
Giappone, con il cuore in gola, si volse da una parte e dall’altra: che fare? Dove andare? Ah, avesse avuto la sua fida katana…
Guardò con desiderio e dolore la collina, la sua salvezza, e fronteggiando le tre belve rientrò nella foresta.
Ah, era perduto!!!
Ma d’un tratto, accanto a sé, vide un bizzarro ed evanescente tizio biondo, muscoloso e con gli occhi azzurri.
"Tasukete di me", gridai a lui,
"qual che tu sii, od ombra o Stato certo!".

 
Rispuosemi: "Non Stato, Stato già fui,
e li parenti* miei furon germani,
prussiani per patrïa ambedui.

Nacqui sub Bismarck, ancor che fosse tardi,
e vissi a Berlino sotto ’l pazzo Hitler
nel tempo de li nazisti falsi e bugiardi.

Soldato fui, e lottai con quel giusto
figliuol di Roma che venne di Troia,

poi che ’l superbo Imper fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?".
 
 
Giappone all’istante lo riconobbe e, felice, lo salutò:
 
"Or se’ tu quel Germania e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?",
rispuos’io lui con vergognosa fronte.

"O de le altre potenze onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
la bella guerra che m’ ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso guerrier e saggio,

ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi".
 
Ma Germania scosse la testa, continuando a guardarlo con espressione ferma.
 
"A te convien tenere altro vïaggio",
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
"se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.”

 
Spiego’ Germania, indicando l’apparentemente innocua pulcinella di mare.
E soggiunse:
 
“Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi Stati dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate nazioni.

A le quai poi se tu vorrai salire,
nazione fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;

ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!".

 
Giappone lo guardò, e con calma assentì, certo che seguire Germania fosse la cosa più saggia da fare (almeno lo avrebbe salvato da Mr. Puffin!)
E si avviò dietro di lui.
Ma a un certo punto, quando ebbe realizzato cosa gli aveva chiesto la nazione, Giappone fu preso da un dubbio: perché proprio lui?
Perché doveva visitare lui l’Inferno, e non qualcun altro?
Cedendo infine all’emozione chiese:
 
“Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Sacro**, io non Prussia sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.

Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono".

 
Germania si voltò a guardarlo, e disse, con la sua solita voce autoritaria e militaresca:
 
"S’i’ ho ben la parola tua intesa",
rispuose del magnanimo quell’ombra,
"l’anima tua è da viltade offesa;

la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder guerra quand’ombra.

Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.

Io era tra color che son sospesi,
e nazione mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.

Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:

"Veh, o anima cortese germana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;

e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levato,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.

Or movi, e con lo tuo tedesco ornato
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolato.

I’ son Italia che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.

Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia’ io:

"O nazione di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ ha minor li cerchi sui,

tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.

Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi".

 
“E quindi?” domandò Giappone, incuriosito.
“Fammi finire…” ribatté Germania, e continuò:
 
"Veh, da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch’i’ non temo di venir qua entro.

Temer si dee di sole quelle cose
c' hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, ché non son paurose.
(ma siamo sicuri che sia Italia a parlare?!)
I’ son fatto da Dio***, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né arma d’esta crisi non m’assale.

Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov'io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.

Questa chiese Belgio in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.

Belgio, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Irlanda.

Disse: - Italia, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de l’orientale schiera?

Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la battaglia che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? -.

Al mondo non fur mai nazioni ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,

venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlar militaresco,
ch’onora te e quei ch’udito l’ hanno".

 
Quindi Italia aveva mandato Germania a salvarlo! Giappone provò una stretta al cuore: Italia era stato suo compagno d’armi nella Seconda guerra mondiale, e gli aveva voluto un gran bene.
Ah, quanto aveva sofferto una volta saputo che era morto a causa di una granata esplosagli in bocca!
Ma Germania gli aveva appena detto (indirettamente) che era in Paradiso, e sapendo ciò Giappone si sentì confortato e pieno di speranza e coraggio.
Senza più dubbi ne paura, esclamò:
 
"Oh pietoso colui che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!

Tu m’ hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto.

Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro".

 
E seguì Germania attraverso la selva.
 
NOTE DELL'AUTORE:
All'inizio avevo pensato di invertire i ruoli di Germania e Giappone (e quindi Virgilio sarebbe dovuto essere Giappone), in modo da far quadrare la relazione "amorosa" tra Italia/Beatrice e Germania/Dante, ma siccome è Giappone che in teoria ha scritto Hetalia, ho pensato fosse piu' normale mettere il nostro Kiku nei panni di Dante...
In seguito si scopre perché Germania é finito nel Limbo...
Scusate per le eccessive parti in poesia, ma vi prometto che nel prossimo "Canto" ce ne saranno di meno!!!
Al prossimo Canto: PORTA DELL'INFERNO E GIRONE DEGLI IGNAVI!!!
* I parenti sarebbero i genitori: il kaiser Guglielmo , primo sovrano della Germania unita, e Otto von Bismarck, il primo cancelliere.
** Sacro Romano Impero: lui e Prussia, in pratica, non muoiono, bensi' il primo é Germania da piccolo che scende negli inferi ritornando da adulto, il secondo scende negli inferi quando Germania diviene una vera e propria nazione, ritornando solo al momento della Cortina di ferro e della divisione della Germania.
*** Non si dice forse nell'inno italiano: "...e Dio la creo' "???


  
  
  
  
  
  

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Capitolo 2
*** Canto II ***


Personaggi:
 
Nazioni ignave (neutrali)
Caronte: Romano
Minosse:Russia
 
 
 
'Per me si va tra le nazion dolenti,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra le perdute menti.
 
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina Mesopotamia,
lo sommo Egitto e 'l suo rettore.
 
Dinanzi a me non fur nazioni create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate l’indipendenza, voi ch'intrate'.
 
Queste parole, scure e minacciose, campeggiavano sull’immenso portale di pietra dinanzi al quale Giappone e Germania si erano fermati.
Il sole era ormai basso sull’orizzonte, e tingeva di arancio le chiome sinistre degli alberi alle loro spalle.
Giappone indicò la scritta sulla porta che si ergeva maestosa e lugubre di fronte a loro.
 
«Maestro, il senso lor m'è duro».
 
Germania gli rispose, col solito tono autoritario e profondo:
 
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
 
Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le nazioni dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».
 
Poi, voltatosi, tese la mano verso i due monumentali battenti.
Con un fragore assordante, simile al rombo di un tuono, la porta di pietra si aprì lentamente, rivelando all’interno la più completa oscurità.
I due entrarono.
Così come si era aperta, la soglia rocciosa si chiuse, lasciandoli al buio.
La prima cosa che colpì la nazione furono le grida: gemiti, pianti, rantoli e strida riempivano l’intero ambiente, un vastissimo corridoio scuro e maleodorante, ampio quanto una cattedrale.
Man mano che si addentravano in quell’enorme e raccapricciante budello, i lamenti si facevano sempre più strazianti.
Non riuscendo più a trattenere la curiosità, Giappone chiese alla sua guida:
 
«Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent' è che par nel duol sì vinta?».
 
Germania, continuando a camminare spiegò:
 
«Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
 
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li Stati che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
 
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».
 
Giappone sgranò gli occhi: quindi quelle erano le nazioni ignave, cioè quelle nazioni che erano sempre rimaste neutrali senza mai schierarsi con nessuno in guerra!
 
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
 
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte.
 
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
 
E Giappone guardò e passò.
Fece appena in tempo a scorgere una lunga fila di nazioni che correvano dietro a un vessillo bianco e senza stemma, perennemente punti da vespe e mosconi; poi udì lo sciacquio di un corso d’acqua.
Si voltò, ormai dimentico delle nazioni neutrali, e intravide un fiume lordo e limaccioso scorrere pigramente davanti a loro.
Raggiunta la sponda, Giappone notò una grande folla ammassata davanti alle acque melmose.
Incuriosito, domandò a Germania:
 
«Maestro, or mi concedi
ch'i' sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com' i' discerno per lo fioco lume».
 
La nazione trapassata, con calma e pazienza, rispose:
 
«Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte».
 
Quindi quel fiume era l’Acheronte… ricordava quando Grecia gliene aveva parlato, dicendo che era un fiume dell’oltretomba sul quale un tizio traghettava le anime dal mondo dei vivi a quello dei morti.
Si riscosse dai suoi pensieri quando udì lo sciacquio di una barca che si avvicinava.
Osservò incuriosito la figura che la guidava: un tizio molto simile a Italia, ma più alto e robusto, con uno strano ricciolo sbarazzino al lato della fronte e lo sguardo bellicoso.
Gli occhi, simili a braci ardenti, saettavano qua e là tra i morti.
Avvicinatosi alla sponda, il traghettatore inveì:
 
«Bastarde voi, nazioni prave!
 
Non isperate mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.
 
E tu che se' costì, nazione viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
 
Aggiunse indicando Giappone, ma questi non si mosse.
Vedendolo lì imbambolato, lo strano tizio soggiunse:
 
«Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
 
Giappone, per tutta risposta, guardò Germania, che fece un passo avanti e apostrofò il traghettatore:
 
«Roman, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
 
Il nocchiere, che rispondeva al nome di Romano, divenne paonazzo per la rabbia, ma bisbigliando solo un mesto: “Stupido crucco mangia patate…” li fece salire sulla barca, che gemette sotto il peso di Giappone.
Inveendo contro di esse intimò alle altre nazioni morte, a colpi di remo, di salire a bordo.
La barca si staccò dalla riva e attraversò il fiume denso e livido, per poi approdare sull’altra riva, dove gli Stati trapassati poterono scendere.
Giappone, con le orecchie fumanti (Romano non aveva fatto altro che bestemmiare durante tutta la traversata contro Germania…), seguì il suo mentore, che ignorò il colorito saluto del traghettatore e si allontanò dall’Acheronte.
Giunsero cosi’ in una vasta e verdeggiante vallata, dove cespugli e prati punteggiati di fiori si alternavano davanti alle bianche mura di un castello.
“Alla faccia dell’Inferno…” pensò Giappone.
Tuttavia, nonostante quel luogo sembrasse molto sereno e felice, non si udivano altro che sospiri.
Germania, all’improvviso mogio e assorto, con gli occhi bassi disse a Giappone:
 
"L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.

Andiam, ché la via lunga ne sospigne".
 
Giappone non poté fare altro che seguirlo attraverso quella bella vallata.
Assorti, camminarono per un po’ in silenzio finché Germania esclamò:
 
"Tu non dimandi
che Stati son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;

e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.

Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio".
 
Giappone fu colto da un’improvvisa tristezza: quindi quello era il Limbo, dove erano raccolte tutte le nazioni che non avevano conosciuto Dio, o non lo avevano adorato nel modo giusto…
Guardo’ Germania con una stretta al cuore: lui era protestante, si era ribellato tempo addietro al Papa, e questo lo condannava a restare lì per sempre, senza poter gioire delle grazie del Paradiso.
Mentre camminavano, Germania si fermò a parlare con Turchia, con Antica Grecia, con Egitto, e infine, con gli occhi lucidi di ammirazione, con il grande Impero Romano.
Lasciatisi alle spalle il triste Limbo, giunsero in un vastissimo spiazzo, dove, in mezzo alle stalattiti, sedeva un immenso gigante sorridente con i capelli biondo platino e gli occhi viola.
Al collo portava una sciarpa bianca, mentre a coprirgli il resto del corpo solo un drappo bianco sui fianchi.
 
Stavvi Russia infantilmente, e ghigna:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
 
Dico che quando la nazion mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
 
vede qual loco d'inferno è da essa;
cignesi con la sciarpa tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
 
Giunti ai piedi dell’immensa figura, tra i quali si apriva un varco che conduceva oltre, Russia li fermò.
 
«Kol kol, tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Russia a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
«guarda com'entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».


Ma Germania, veemente, gli rispose:
«Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Rispondendo con un largo sorriso e un minaccioso “kol kol kol”, la colossale nazione li lasciò passare.
Ancora rabbrividendo per il pericolo scampato, Giappone tentò di aggrapparsi a Germania, ma, dimenticandosi che questi era bello che morto (e quindi impalpabile), rovinò sul terreno.
Fece pero’ in tempo a vedere un grande baratro, agitato da una furiosa tempesta che scuoteva e trascinava innumerevoli nazioni con sé, prima di perdere i sensi.
 
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
 
Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
 
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li Stati con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
 
 NOTE DELL'AUTORE:.

Per cercare di accontentare un po' tutti e sembrare meno palloso, ho ridotto il numero dei versi. Se pero' preferite averne di piu', allora il Canto III fa per voi: GIRONE DEI LUSSURIOSI E DEI GOLOSI!!! QUALI NAZIONI SARANNO PUNITE STAVOLTA???

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Capitolo 3
*** Canto III ***


Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
 
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
 
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li Stati con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
 
Quando Giappone si risvegliò, si trovo davanti a un enorme baratro.
Davanti a lui, un enorme vortice di vento potentissimo trascinava con se’ innumerevoli nazioni, rivoltandole, percuotendole, sbattendole e agitandole da una parte all’altra, senza mai tregua.
Germania gli si avvicinò, imperturbabile e rigido come sempre.
Gli indicò la tempesta, e gli spiegò chi fossero i dannati del primo vero girone dell’Inferno.
 
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati le nazion carnali,
che la ragion sommettono al talento.

E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li Paesi mali

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
 
Quindi quelle erano le nazioni che si erano lasciate travolgere dalla passione d’amore, e che si erano unificate senza badare alla diversità dei loro popoli…
Li osservo’ a lungo; sembravano quasi uccelli in balìa della tempesta.
Le loro grida e i loro lamenti, simili proprio alle strida degli uccelli, echeggiavano sulle pareti del baratro.
A Giappone parve di riconoscere qualcuno…
Curioso, chiese alla sua teutonica guida:
 
“Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?”.
 
“La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper”, mi disse quelli allotta,
“fu imperadrice di molte favelle.

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per torre il biasmo in che era condotta.

Ell’è Babilonia, di cui si legge
che succedette ad Assiria e fu sua sposa:
tenne la terra che Iraq corregge.

L’altro è colui che s’ancise amoroso,
e ruppe fede al cener d’Irlanda*;
poi è ‘l Congo lussurioso.

Scozia vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l gran Polonia**,
che con amore al fine combatteo…”
 
E seguitò ad elencargli nazioni su nazioni, indicandogliele con l’indice e mantenendo l’espressione imperscrutabile e autoritaria di sempre.
Quando ebbe finito, Giappone, che da parecchio tempo stava fissando dei soggetti in particolare, chiese a Germania:
 
Doitsu-san, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri”.
 
Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno”.

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: “O nazioni affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!”.
 
I due, cosi’ chiamati, si staccarono dalla schiera e si avvicinarono, simili a due colombe; erano due giovani abbracciati, lui castano con gli occhiali e un ricciolo sbarazzino, lei dal viso dolce e i capelli lunghi color nocciola.
Fu lei a parlare:
 
“O oriental grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra ove nata fui
su la valle dove ’l Danubio discende
per aver pace co’ seguaci sui.”
 
“E cioè?” domandò il giapponese.
“Budapest” rispose Ungheria, un po’ seccata.
E seguitò a raccontare:

“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella regione
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense***».
 
E tacque.
Il suo amato, che si rivelò essere quindi Austria, non disse una parola, continuando a piangere.
Germania chinò il capo: che provasse un po’ di compassione anche lui?
Giappone, sempre più curioso e dispiaciuto, chiese:
 
“Ungheria, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?”.

E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
 
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Romano e Belgio come amor li strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi baciò tutto tremante.
dannato fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
 
Povera Ungheria, povero Austria: Giappone ricordava benissimo la loro triste vicenda; entrambi erano stati colti in flagrante da Prussia mentre consumavano ciò che non dovevano consumare, e questi aveva passato i due sfortunati amanti a fil di spada…
Addolorati, i due lasciarono Austria e Ungheria alla loro triste condanna, e abbandonata la tempesta dei lussuriosi, passarono al terzo cerchio, dal quale provenivano rumori assai raccapriccianti.
 
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà pei due Stati,
che di trestizia tutto mi confuse,
 
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova
e ch'io mi volga, e come che io guati.
 
Nel terzo cerchio scendeva una pioggia tremenda, sporca e maleodorante, mista a grandine e nevischio; nel fango, martoriati dalla pioggia, si contorcevano come vermi altre nazioni, talmente insozzate da essere quasi irriconoscibili.
Ma non era solo la pioggia a tormentare i poveri malcapitati…
Quando Giappone vide in cosa consisteva la vera tortura, si aggrappò terrorizzato a Germania, che avanzava, sempre ritto e saldo come uno scoglio.
Un enorme panda a tre teste (il panda di Cina?) se ne stava appollaiato in mezzo alla palude…
 
Il panda, fiera crudele e diversa,
con una gola cinesemente latra
su le nazion che quivi è sommerse.
 
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li Stati ed iscoia ed isquatra.
 
Urlar li fa la pioggia come cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
volgonsi spesso le misere nazioni.
 
Era davvero terrificante. Giappone ripensò ancora con nostalgia alla sua fida katana, finita chissà dove nel suo ripostiglio.
“Stai tranquillo.” Lo rassicurò Germania continuando a camminare.
“Una parola… tanto tu sei già morto…” pensò il giapponese.
 
Quando ci scorse panda, il gran vermo,
la bocca aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
 
E l’alleato mio distese le spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne (di bambù?).
 
Qual è quel cane ch'abbaiando agogna,
e si racqueta poi che 'l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
 
cotai si fece quella faccia lorda
de lo demonico panda, che 'ntrona
l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.
 
Sollevato, ma ancora intimorito, Giappone continuo’ ad avanzare, tenendosi per precauzione ancora al braccio muscoloso di Germania.
Che tuttavia non sembrava neppure tanto infastidito.
Mentre arrancavano (o meglio, Giappone arrancava; Germania fluttuava) nella melma, talora calpestando le misere nazioni lì punite per aver ecceduto nel consumo di cibo e risorse, sprecandole, una voce con forte accento ispanico li chiamo’:
 
“O tu che se' per questo 'nferno tratto”,
mi disse, “riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto”.
 
Giappone si guardo’ intorno e scorse una figura sudicia che si ergeva dalla cintola in su; lui e il tedesco trapassato si avvicinarono.
 
E io a lui: “L'angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch'i' ti vedessi mai.
 
Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente
loco se' messo, e hai sì fatta pena,
che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente”.
 
Ed elli a me: “Lo continente, ch'è pieno
d'invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
 
Voi europei mi chiamaste Spagna:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
 
E io nazione trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa”. E più non fé parola.
 
Io li rispuosi: “Spagna, il tuo affanno
mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
 
Le nazion de l’Europa partita;
s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione
per che l'ha tanta discordia assalita”.
 
E quelli a me: “Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con molta offensione.
 
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
 
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l'altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n'aonti.****
 
Giuste son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi”.
 
Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: “Ancor vo' che mi 'nsegni
e che di più parlar mi facci dono.
 
Bulgaria e Romania, che fuor sì degni,
e Svizzera, Lituania e Monaco
e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,
 
dimmi ove sono e fa ch'io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca”.
 
E quelli: “Ei son tra le nazion più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.
 
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo”.
 
E detto ciò, Spagna si voltò e si lasciò ricadere nel fango della palude.
Giappone, dispiaciuto anche per quel povero ghiottone di pomodori, si rialzò e seguì Germania, che lo condusse via dal cerchio dei golosi verso il girone degli avari e dei prodighi.
Lungo la via, Germania gli spiegò:
 
E 'l duca disse a me: “Più non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
 
ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua terra e sua figura,
udirà quel ch'in etterno rimbomba”.
 
Sì trapassammo per sozza mistura
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
 
per ch'io dissi: “Doitsu-kun, esti tormenti
crescerann' ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?”.
 
Ed elli a me: “Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
 
Tutto che questi Stati maladetti
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta”.
 
Giappone sospirò. Quindi un giorno tutte quelle anime di nazioni avrebbero recuperato le loro terre e la loro sostanza, e avrebbero sofferto molto più di prima le pene cui erano sottoposte…
Senza accorgersene, avevano ormai raggiunto l’ingresso del quarto cerchio.
Davanti a loro comparve una strana figura…
 
 
NOTE DELL’AUTORE:
 
Eccoci giunti al termine di un nuovo Canto di ‘Hetalia’s Inferno’.
Chi mai sarà la nazione preposta a guardia del girone degli avari e dei prodighi?
A chi toccherà il ruolo di Pluto?
Attendo proposte!!!
 
* sarebbe Irlanda del Nord; per ‘amore’ si unì al Regno Unito, tradendo cosi’ la madrepatria Irlanda (finita tra l’altro in Paradiso).
** ricordate l’Unione Polacco-Lituana?
*** Prussia, avendo ucciso il fratello Austria, è finito nella Caina, girone preposto ai traditori e uccisori dei parenti.
**** qui Spagna profetizza un’eventuale Terza Guerra Mondiale, con un’Europa divisa tra Russia e America.
 
 
 
 
 
 

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