Una storia in Bianco e Nero

di LawrenceTwosomeTime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Versione Bianca ***
Capitolo 2: *** Versione Nera ***



Capitolo 1
*** Versione Bianca ***


La signora Zambon rientrò a casa prima del solito, quella domenica.
Era stata a fare acquisti, come d’abitudine. Comprava in larga misura le primizie di pasticceria, soprannome da lei concepito per indicare bomboloni alla crema, cannoli, crostatine e tutto quanto fosse dolce, raffinato e discretamente costoso.

Il mercato era una calca di corpi sudati che gridavano e si sbracciavano, niente di nuovo. La signora Zambon detestava quei bifolchi, e quando non disponeva del controllo emotivo necessario, optava per una scorciatoia attraverso la rete dei vicoli più stretti e meglio nascosti del centro.
Vista dall’alto che ciabattava sui tacchi, il tailleur bianco panna svolazzante nel vento, sembrava un piccolo topo di laboratorio che corre in un labirinto.

Dieci minuti dopo era a casa.
“Ehi, sono tornata!”
Nessuna risposta.
“Giorgio? Ragazzi?”
Non si sentiva alcun rumore.
Si saranno chiusi in camera a giocare con la Playstation, immaginò.

Eppure quel silenzio aveva una qualità particolare, era molto più denso di un silenzio normale.
La signora Zambon soffriva di una leggera mania di persecuzione, si era sottoposta a delle sedute per liberarsene ma una parte di lei sosteneva che quella costante paura fosse un meccanismo di difesa infallibile.
Si diresse in cucina in punta di piedi, allungò il collo e vide una scena che le gelò il sangue.

Giorgio – o meglio, il suo corpo – giaceva accasciato sul tavolo di marmo, il viso incrostato di sangue. Mario e Giulio, gli amici dell’infanzia, erano stesi per terra. Non sembravano aver subito percosse, ma la loro immobilità lo lasciava presumere. Specialmente di fronte al fatto che sulla soglia, inginocchiato e tremante, sostava un uomo di colore vestito con una felpa blu.
Le dava le spalle, ed era troppo impegnato a contemplare la scena per accorgersi di lei.

La signora Zambon pensò in fretta, e con una lucidità sorprendente. Il negro era riuscito a entrare in casa in qualche modo, aveva trovato Giorgio e gli altri e loro avevano opposto resistenza. C’era stata una colluttazione. L’intruso aveva vinto, e lo shock per la violenza improvvisa doveva averlo mandato nel panico. In fondo anche lui era un essere umano, si disse. Per quanto animalesco, sporco e incivile.
Doveva approfittare di quel momento.
Aveva nascosto un mattarello nella scarpiera. Manie di persecuzione, vi sono grata.
Lo prelevò con la massima cautela, né troppo rapidamente né con flemma. Era di legno massiccio, frastagliato in più punti. Un souvenir dell’Africa.
Armi da negri per abbattere i negri, pensò la signora.

Ritornò in cucina brandendo il corpo contundente. L’intruso era ancora inginocchiato.
Poi la signora mise piede su un’asse che scricchiolò con fragore inverosimile, e lui girò la testa e si tirò in piedi… E lei gli abbatté il mattarello sul cranio.
Lui ricadde a terra poggiando le mani sulle piastrelle. Lei vibrò un altro colpo.
L’intruso si accasciò e cercò di strisciare via.
Lei gli diede un ultimo assaggio della sua indignazione, esultando piano come si fa quando si schiacciano le zanzare.

Venti minuti dopo era tutto finito.
Due agenti portarono via l’aggressore in manette, che non sembrava essersi ripreso del tutto e faceva qualche sforzo per parlare, e per opporsi, senza risultati.
Gli infermieri avevano riscontrato un impressionante numero di contusioni sul corpo di Giorgio, un po’ meno sugli amici, ma in definitiva non era niente di grave. I ragazzi erano rinvenuti e parevano abbastanza presenti. Si sarebbe risolto tutto.

“È stata davvero coraggiosa, signora”, disse il capo della polizia alla Zambon.
“Niente di che, davvero. Ero preparata. Sapevo che prima o poi sarebbe successo”
“Mia mamma è la migliore di tutti!”, esclamò Giorgio abbracciandola.

Il brutto episodio venne dichiarato chiuso all’unanimità pochi giorni dopo, con una cauta risata e un brindisi.
“Ai mattarelli e alle mamme!”

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Capitolo 2
*** Versione Nera ***


Amir aveva fame. Tanta fame.
L’inverno non era ancora arrivato, ma in quei giorni la temperatura si era abbassata bruscamente.

Quello che non aveva, invece, erano degli amici. O una famiglia. La sua era rimasta nell’altro continente.
Stare da solo non gli pesava: in fondo era quasi libero, e quasi giovane, e quasi grasso. Poteva sopravvivere un altro po’.

Il vero problema era il lavoro. Non ce n’era per i bianchi, figuriamoci per lui. La gente cominciava a riconoscerlo, giù in città, i soldi erano sempre meno.

Quando hai fame non ragioni più. Diventi una belva. Vale per tutti gli esseri umani, nessuno escluso.
Il piano di Amir era di rubare i soldi a qualcuno, qualcuno che sembrasse abbastanza indifeso. Un ragazzo, magari. Un giovane ragazzo.

Individuò la sua preda che passeggiava nei pressi dei giardini e cercò di approcciarlo con un’aria innocente.

“Scusa, bello…”
“Si? Che c’è?”
“Io, senti… io voglio…”
“Vuoi i miei soldi, giusto?”
Amir si zittì.
“Purtroppo non ho niente qui con me, ma posso offrirti da mangiare, se per te è lo stesso. Ci avanza un po’ di minestrone da ieri sera, te lo scaldo e stappiamo una birra, che ne dici?”
Amir non riusciva a crederci. Un bianco che lo invitava a casa sua. Doveva essere il suo giorno fortunato.
Per oggi non dovrò rapinare nessuno, si disse.

E così, Amir e Giorgio fecero insieme la strada che conduceva alla calda, pulita e confortevole abitazione di quest’ultimo.

“Mario? Giulio? Dove siete?”
“Stiamo giocando alla play!”
“Mollate quel controller e venite a vedere chi vi ho portato”
Gli amici uscirono dalla camera borbottando maledizioni e poi ammutolirono.
“Da paura”, disse Giulio.
“Porco cane”, confermò Mario.
“Allora dicevi sul serio”
Amir si guardò intorno, in soggezione per tutto quel lusso.
“Hai una tanto bella casa”
“Mah, si…”, rispose Giorgio, “ma mia madre non mi da mai un cazzo”
Amir meditò che forse poteva sgraffignare qualcosa. Ma no, si disse, mi scoprirebbero. E poi non riuscirei neanche a mangiare.

Sedettero in cucina e si guardarono per un momento.
“Allora, Amir… Amir, giusto?”, esordì Giulio. Amir annuì.
“Che vita fai?”
“Io… vita dura”, disse Amir e ridacchiò.
“Che hai da ridere?”, chiese Mario.
“Io vita dura, ma c’è chi ha più dura di me”
“Voi neri siete sempre così ottimisti, vi invidio, sai?”, disse Giorgio.
Amir annuì di nuovo, cercando di sorridere. Lo stomaco gli brontolava. Aveva fame. Quand’è che si decidevano a dargli il maledetto minestrone?

“Io credo… che tutto quell’ottimismo”, riprese Giorgio, “fareste bene a conservarlo per il vostro Paese. Perché quaggiù portate anche altre cose… tipo le malattie, la violenza, gente che ruba i posti di lavoro”
“Io no mai violento”, disse Amir. Aveva smesso di sorridere.
Mario si alzò, e Giulio lo imitò. Amir tentò di seguirli con la coda dell’occhio mentre fissava Giorgio.
“Che ne dici se ti diamo una dimostrazione di ospitalità italiana, qui, adesso? Così, quando torni in Africa, dici a tutti quanto siamo buoni”

Amir si alzò e Mario lo immobilizzò con le braccia. Giorgio gli tirò un calcio nello stomaco.
Amir ebbe un singulto, poi tirò una gomitata nella pancia di Mario e si liberò; assestò un pugno al volto di Giorgio, un pugno reso più forte dalla paura, e quello cadde di peso sul tavolo.
Una gomitata alla nuca lo fece vacillare. Giulio ghignava. Amir si voltò per rispondere, e Mario lo colpì sull’orecchio.
Accecato dal dolore, Amir menò colpi alla rinfusa, come una bestia in cattività, senza dare loro il tempo di rispondere.
Prese Giulio per il collo e lo sbatté contro il muro una, due, tre volte; lo lasciò andare e si volse verso Mario, che alzava i palmi in gesto di resa. Gli diede un calcio nelle palle e poi un pugno sulla glottide. Mario si accasciò.
Allora Amir tornò a rivolgersi a Giorgio, che si stava rialzando tenendosi la schiena.
“Tu… passerai dei guai, per questo… sporco negro… di merda…”

Amir lo colpì al volto, ancora e ancora, finché il naso non divenne una polpetta e le sue nocche furono lorde di sangue.
Poi, vedendo che il ragazzo non si muoveva, smise di colpirlo.

Vacillò fino all’ingresso della cucina, e si voltò a guardare che cosa aveva combinato. Cadde in ginocchio.
Cosa ho fatto, cosa ho fatto, cosa ho fatto.

Pregò che qualcuno giungesse in suo soccorso, che qualcuno mettesse a posto le cose. Invocò l’oblio.
E l’oblio arrivò. La prima volta lo stordì, la seconda lo annichilì e la terza, finalmente, lo mandò altrove.

In un caos di colori e di luci, sorretto, anzi trascinato, da due paia di forti braccia, provò a dire che gli dispiaceva, provò a puntare i piedi per trovare la forza di parlare, ma in realtà era felice. Ora qualcuno si sarebbe preso cura di lui. Tutto sarebbe andato per il meglio.

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