Liberaci dal Male

di Dicembre
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo + 01. La locanda della Volpe Reale ***
Capitolo 2: *** 02. Al castello Thurlow ***
Capitolo 3: *** 03. Appesa ad un filo ***
Capitolo 4: *** 04. L'alito di Dio ***
Capitolo 5: *** 05. Solitudine ***
Capitolo 6: *** 06. Mi dai sicurezza ***
Capitolo 7: *** 07. Tornare a casa ***
Capitolo 8: *** 08. Restare ***
Capitolo 9: *** 09. Ricordo lontano ***
Capitolo 10: *** 10. Il Prima e il Dopo ***
Capitolo 11: *** 11. Casa ***
Capitolo 12: *** 12. Dipendenza (parte prima) ***
Capitolo 13: *** 13. Dipendenza (parte seconda) ***
Capitolo 14: *** Interludio Primo + 14. I potenti ***
Capitolo 15: *** 15. Un segreto raccolto dal mare ***
Capitolo 16: *** 16. Non mi lascerai mai andare ***
Capitolo 17: *** 17. Pioggia ***
Capitolo 18: *** 18. William ***
Capitolo 19: *** 19. In un nome ***
Capitolo 20: *** 20. Di noi ***
Capitolo 21: *** 21. Mio ***
Capitolo 22: *** 22. Fotografia ***
Capitolo 23: *** 23. Familiarità ***
Capitolo 24: *** 24. Il libero arbitrio ***
Capitolo 25: *** 25. Nostalgia ***
Capitolo 26: *** Interludio + 26. Giles Arnett ***
Capitolo 27: *** 27. Realtà? ***
Capitolo 28: *** La cena ***
Capitolo 29: *** Un ricordo sbiadito ***
Capitolo 30: *** Interludio quinto + 30. Ritorno ***
Capitolo 31: *** 31. Lezioni di cavallo ***
Capitolo 32: *** 32. Vino ***
Capitolo 33: *** 33. Guarda me ***
Capitolo 34: *** 34. Chiaro ***
Capitolo 35: *** 35. Il casato dei Lannart (parte prima) ***
Capitolo 36: *** 36. Il casato dei Lannart (parte seconda) ***
Capitolo 37: *** Interludio quarto + 37. Spezzata ***
Capitolo 38: *** 38. Chiudere gli occhi ***
Capitolo 39: *** 39. Un libro ***
Capitolo 40: *** 40. Maria ***
Capitolo 41: *** 41. Il sole ***
Capitolo 42: *** 42. Lucifero ***
Capitolo 43: *** Interludio quinto + 43. Il tempo ***
Capitolo 44: *** 44. Il patto ***
Capitolo 45: *** 45. Rimetti a noi i nostri debiti ***
Capitolo 46: *** Amen ***



Capitolo 1
*** Prologo + 01. La locanda della Volpe Reale ***


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Prologo




Anno del Signore 1348



La luce che filtrava dalla finestra feriva i tuoi occhi, troppo intensa per la tua malattia, troppo accecante per vedere la realtà: non sarebbe tornato e lo sapevi.

Lo sapevi sin dalla notte di un mese fa quando, dopo aver messo da parte educazione, morale e religione, avevate consumato il vostro peccato, lasciando che l’alba pulisse le vostre anime. Te l’aveva detto e non gli avevi creduto.

Chissà perché…

Forse non gli avevi creduto perché avevi voluto leggere, nelle sue parole, qualcosa che non c’era, forse e più probabilmente, perché speravi che mentisse.

Ma lui non ha mai mentito, è stato sciocco pensare iniziasse a farlo quella notte.

E’ buffo perché ora che ti manca come e più di prima, ricordi quella notte e la maledici; disconosci tutto, quello che è stato e ciò che eri, piangendo e rinnegandolo, perché t’ha ingannato.

Ha tessuto la sua tela, ha imparato a prendersi gioco di ciò che eri e poi se n’è andato. Dannato essere d’infima estrazione, bellissimo, come ti hanno detto essere il diavolo.



C’è una voce, da qualche parte in te, che continua a ripeterti che ciò che avete condiviso deve, per forza di cose, avere una qualche valenza, non solo per te, ma anche per lui.

Ma non credi più alle favole. Se da piccolo eri un sognatore, hai imparato presto che niente è come ti raccontava la buona e vecchia Dalia. Niente è come vorresti, e lui neanche oggi, verrà.

Ormai sai che non ce la fai più, i medici bisbigliano, hai visto i volti terrei della servitù, ma tu già sapevi che per il tuo male non c’era cura perché il tuo corpo è troppo debole, e perché il tuo cuore ti ha già lasciato.



Ti chiedi se sia sbagliato amare così tanto un uomo che non si ricorda il tuo nome e che non viene al tuo capezzale ad esaudire il tuo ultimo e sciocco desiderio: vederlo. Vedere le linee del suo viso, armoniche e così perfette da sembrare dipinte, i suoi occhi neri che così tante volte hai incontrato e rifiutato. Ma non perché non lo volessi, no. Perché pensavi che tutto quello che eri e sapevi, avesse un senso, che peccare di fronte a dio e agli uomini, fosse qualcosa che tu non potessi fare.

Non tu, sempre cosparso di luce e inondato di gloria…

Sorridi, se solo gli altri sapessero quello che tu sai, del tuo dolore e della tua redenzione fra le sue braccia. Perché lui ti ha curato, ti ha perdonato e t’ha fatto rinascere. E ora ti lascia morire, solo, senza metafore, senza addii, ma nel più asettico dei modi: nel tuo letto, fra lenzuola gelate che ti affanni ad annusare nella speranza che ci sia ancora qualcosa di lui.

Perché non è lì con te?




Sono passati diversi giorni da quando hai inviato Cleto, il vostro falco. Non è possibile che il vostro compagno vi abbia tradito e non abbia consegnato il messaggio, non è credibile che abbia smarrito la strada. Il falco è testardo come il padrone - a questo pensiero non puoi che sorridere - avrebbe cercato il suo signore ovunque, l’avrebbe trovato e avrebbe fatto il suo dovere: gli avrebbe comunicato di tornare.

C’è quindi un’unica spiegazione alla sua assenza: deliberatamente ha deciso di ignorarti, come già aveva detto. Deliberatamente, s’è scrollato di dosso quella notte, le sue parole, e ti ha lasciato solo nel tuo letto di morte.

Maria ti era apparsa, in questa stessa stanza, bella come ti è impossibile descrivere, di una dolcezza che ti ha commosso, e ti aveva parlato. Ti ha tenuto le mani nelle sue e ti ha accudito, nelle notti d’inverno, anche se solamente una volta s’è mostrata a te.

Maria … che t’ha permesso d’amarlo più del suo Signore, più di te stesso e che ha capito che nulla tu toglievi a lei, a te o a Dio, perché ciò che avevi, volevi solo donarlo: questo è ciò che ti aveva insegnato il Padre, e così facevi.

Maria che forse avrà sentito i suoi baci, le tue promesse e che ora si sta apprestando a portarti nella sua dimora, lasciando qui chi non ti vuole e non arriva, chi ti ha avuto e t’ha lasciato.



Si appresta la sera, la luce che filtra dalle finestre è più tenue, ma ti ferisce gli occhi comunque, che stillano lacrime. Sarà per la malattia, pensi tu.

Ancora poche ore, e te ne andrai, ancora poche ore, ma sai che ormai lui non verrà. Lo vuoi vedere, lo vuoi maledire e ridirgli che non amerai mai niente e nessun altro come ami lui. Lo vuoi uccidere con le tue mani e pregarlo di abbracciarti. Lo vuoi anche solo accarezzare, con questi tuoi sensi che ti stanno abbandonando, ottusi dalla peste.

Lo vuoi con te, a proteggerti, dalla morte che ti fa paura e dalla solitudine alla quale non scapperai, né qui, né in Cielo, ma che, se lui non c’è, è la tua sola compagna.

Non sarà Cleto a riportartelo, non sarà il tuo pianto a commuoverlo, perché ti ha dimenticato e nell’ora della tua morte, lui è volontariamente lontano da te.

Non ti piangerà, non sentirà la nostalgia che ti ha invaso il cuore, insieme alla consapevolezza di non essere niente.

E di morire solo.

 

*

 

Capitolo Uno

 - La Locanda della Volpe Reale -






Anno del Signore 1347



L’acqua che scendeva dai cieli era intrisa di un intenso odore salmastro, nonostante quelle terre fossero piuttosto lontane dal mare. Nella vallata verde, che quasi sembrava essere una bacinella fra i pendii della Cornovaglia, un gruppo di uomini a cavallo avanzava faticosamente, coprendosi come potevano con i loro mantelli. Gli zoccoli faticavano ad alzarsi dal terreno dopo ogni passo. Il peso del cavallo e del suo cavaliere li faceva affondare nel terreno reso fangoso dall’acqua e ormai anche le bestie, per quanto devote, iniziavano a mostrare segni d’impazienza.

“Dobbiamo trovare riparo, manca poco al calar del sole” disse uno degli uomini in fondo al gruppo.

“Sei fortunato a vederlo il sole da queste parti Cencio” ne seguì una breve risata, ma i cavalli non si fermarono.

Allora dopo poco l’uomo che era stato chiamato Cencio riprese “Sole o non sole, giuro che alla prima baracca che vedo mi fermo e ci passo la notte, magari con una birra ed una bella donna”

Fu di nuovo l’uomo che prima aveva risposto a parlare “Certo, Cencio, e magari vicino ad una fontanella dove zampilla vino e dove l’oste ti copre d’oro al solo sentire il tuo nome”
”Del resto siamo famosi eroi…” La frase suscitò qualche risata nel gruppo
”Hai propria l’aria in testa, Cencio! Non siamo eroi, e di certo non siamo famosi”

“Parla per te, Luppo” disse Cencio stringendosi nelle spalle. Stava per continuare quando fu interrotto dall’uomo ammantato di nero che guidava il gruppo, anche lui col viso coperto dall’ombra del cappuccio. “Oltre quella collina” indicò con un brevissimo cenno della mano “c’è una locanda, ci passeremo la notte”

“Visto Cencio, sei stato accontentato, non dici niente?”

Cencio diede un comando al proprio cavallo che allungò il passo, raggiungendo il fianco del suo interlocutore “Riflettevo, Luppo” disse una volta arrivato vicino all’amico “certo che gli Inglesi hanno un bel coraggio a chiamare quel rilievo una collina, sembra la cunetta che separava casa mia da quella di mia nonna”

Luppolo scoppiò in una grossa risata, ma poi finse riserbo “Non ti fare sentire Cencio, potresti offendere l’orgoglio di un’intera nazione e sai che il capo è molto sensibile sull’argomento”
”Sarà anche molto sensibile, però quella cosa lì non è di certo una collina…”

“Sai come sono quest’isolani” scrollò le spalle Luppolo “tutti strani” aggiunse picchiettandosi la testa con un dito.



Nei pressi della locanda, il gruppo accelerò il passo, desideroso di trovare finalmente riparo. La casa dove arrivarono era molto grande, dalle finestre usciva un leggero fumo di condensa e si potevano udire, sin da fuori, le voci dei suoi occupanti.

Cencio scese di fretta del cavallo ed entrò. Il locale era pieno di gente, forestieri probabilmente, che come i cavalieri, cercavano riparo dalla pioggia scrosciante. Un buonissimo odore di stufato aleggiava per tutta la sala, Cencio non poteva chiedere di meglio.

Un ometto paffuto gli si avvicinò:

“Benvenuto, signore, alla locanda della Volpe Reale, posso esservi d’aiuto?”

“Avremmo bisogno di un buon pasto e di riparo per la notte. Io e i miei compagni siamo stremati dal lungo viaggio e dal tempo. Avremmo anche bisogno di un po’ di biada per i nostri animali”
”Certo certo” rispose solerte l’oste “vi mando subito il mio ragazzo a prendersi cura dei cavalli...”. E così dicendo fece un cenno della mano ad un ragazzetto rosso tutt’ossa che, rapido, si alzò dal posto in cui sedeva e s’avvicinò a Cencio. “Signore” disse inchinandosi “perdonate se forse vi sembro insolente, ma è un arco lungo quello che portate in spalla?”

Cencio che aveva dimenticato da tempo di portare legato alla schiena il suo arco lungo, fu sorpreso della domanda “oh sì “rispose dopo un attimo “è la mia seconda pelle e quasi dimenticavo di averla addosso!”

“Ma allora dovete essere di ritorno da Crécy!” a queste parole molti nella locanda si girarono a guardare il nuovo arrivato. Alcuni annuirono, altri bisbigliarono parole d’ammirazione.

“Siamo stati a Crécy, sì, ma ti potrò raccontare tutto quando mi sarò scaldato, e con me i miei compagni. Forza, occupati dei loro cavalli e poi, se ti fa piacere, vieni a sederti alla nostra tavola”

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Da quelle parti era così raro che succedesse qualcosa che non poteva credere di avere incontrato guerrieri di ritorno da Crécy.

“Ehi, Cencio” Luppolo richiamò l’attenzione del compagno “invitare il marmocchio al nostro tavolo non farà molto piacere agli altri”
”Oh beh, è giusto distrarsi un po’, gli altri dovrebbero imparare a vivere più sereni”

“Sereni…A me pare che vivano piuttosto sereni. Sei tu che sei esagitato! Ma ora andiamo a sederci, così lo stufato ti chiuderà quella bocca prima che dica cose troppo insensate”

“Tanto con lo stufato arriva la birra, ci penserà lei ad incoraggiare la parlantina del nostro giovane, non che questo sia necessario, sia chiaro.”. La persona che aveva parlato era appena entrata nella sala.

Dopo essersi tolto il cappuccio inzuppato, guardò tutt’intorno a sé con occhi vigili. Guardia era noto per non abbassare mai l’attenzione e da qui il soprannome. Ogni luogo che visitava, ogni posto in cui si trovava, veniva studiato, controllato e memorizzato da quegl’occhi azzurri e piccoli ai quali pareva non sfuggire mai un particolare. La sua attenzione per il pericolo lo avevano reso un membro insostituibile del gruppo che contava su questo in molte situazioni. Del resto l’istinto gli aveva più volte dato ragione e questa sua abitudine – o forse chiamarla attitudine le renderebbe più giustizia – ormai gli era diventata naturale.

Dopo essersi guardato tutt’intorno, Guardia andò a sedersi al tavolo “Se Guardia ci dà l’ok, allora mi siedo anch’io”
”Rimarrai secco prima o poi, se t’affidi ai sensi di un altro per scovare il pericolo” ma ormai Guardia era così abituato al suo ruolo che trovava piacevole la fiducia che gli altri avevano di lui.

Dopo che Guardia, Luppolo e Cencio si erano seduti al loro tavolo, entrarono nella locanda altri tre cavalieri che raggiunsero i compagni liberandosi dei mantelli zuppi.

“E il Nero dov’è?” chiese Cencio

“Dai cavalli ancora, vuole assicurarsi che stiano bene. Dopo il viaggio e carichi com’erano, non mi stupirei se fossero sfiancati.”.

“Si vede che Nero è il capo” sorrise Cencio “io sono corso al riparo dal freddo, lui si preoccupa anche dei suoi animali”

“Tu sei un marmocchio, Cencio, questa è la differenza, e lui è un grand’uomo” all’affermazione di Luppolo, gli altri annuirono.

“A chi vi state riferendo?” ad aver parlato era il ragazzetto che aveva mostrato la stalla ai cavalieri “A quello che parlava coi cavalli?”

“Parla di più ai cavalli che agli uomini, questo è certo, di sicuro non dice mai una parola di troppo” Disse Luppolo, enfatizzando le sue parole con un gesto “ Ma ogni cosa che dice ha sempre senso, è come se lui capisse subito la situazione e sapesse come muoversi… Non so come faccia, sembra sempre un passo avanti a tutti”

“Questo lo dici perché hai le gambe corte” ironizzò Cencio causando delle grasse risate da parte dei compagni.

“Ma se sono più alto di te di una spanna!” disse Luppolo che anche lui, a malapena, riusciva a trattenere le risa “Te la taglierò quella lingua, prima o poi, lo sai…”

“Comunque ragazzo” disse un altro dei cavalieri seduti al tavolo “quello che ha detto Luppo è vero, se da grande vorrai andare in guerra o unirti a dei mercenari, trova un capo come il Nero, che non fa mia scelte azzardate, che non rischia mai la vita dei suoi uomini più della sua. E che ti rispetti…” le parole di Forgia furono interrotte dall’oste che portò al tavolo le birre.

“Ecco a voi. Lo stufato arriverà tra poco…e tu, Jake, non dar troppo fastidio” il ragazzo annuì ma rimase fermo sulla sua sedia, desideroso di ascoltare le storie che quegli uomini avevano da raccontare.

Nero finalmente entrò nella locanda. Si scostò il cappuccio dal viso e ne apparve un uomo sulla trentina, con occhi neri incredibilmente profondi. Jake lo guardò a lungo, con la bocca leggermente aperta, lui era l’uomo di cui gli altri avevano parlato con così tanto trasporto. Questi si avvicinò al tavolo senza dire niente, sorridendo con dei perfetti denti bianchi.

“Voi dovete essere il Nero” disse Jake mettendosi sull’attenti ed inchinandosi.

“Così pare che gli altri mi chiamino, sì” disse lui, sedendosi alla tavola.

“Dovete di certo avere un nome proprio. Sono troppo impertinente nel chiedervelo?”

“Tutti abbiamo dei nomi propri, Jake. Noi però abbiamo lasciato il nostro molto tempo fa. Nessuno ormai lo usa più” gli spiegò Cencio. Jake fu tentato di chiederne il motivo, ma i suoi occhi non riuscivano a staccarsi dal volto di quell’uomo, per cui tacque. Oltre alla sua bellezza, quello che rapì Jake fu il carisma di un uomo che aveva solo mosso due passi all’interno di una locanda fumosa, ma che sembrava circondato da un’aura di sicurezza e forza.

Il Nero, però, non badò al ragazzino scrutatore, la sua attenzione era stata catturata da altro.

“Forgia, ti senti bene? Hai una pessima cera”

Forgia annuì e non rispose subito, trasse un grosso respiro prima “Sì, dev’essere stata la pioggia a stancarmi più del dovuto. Una notte di sonno al coperto e la pancia piena di sicuro mi rimetteranno in piedi”

“E la ferita sulla spalla come va?”

Forgia fece un gesto vago con la mano, come per scacciare i dubbi “Guarisce, meglio di ieri comunque”
Nero fece cadere la questione, nonostante i cerchi sotto gli occhi di Forgia e le labbra incredibilmente pallide lo preoccupassero.

“Eccovi signori, lo speciale stufato della casa” disse l’oste portando in tavola le ciotole e il pane.

Lo stufato si rivelò essere davvero delizioso, le cipolle all’interno erano croccanti e la carne ricca. Il pane raffermo, poi, inzuppato nel brodo, fu apprezzato particolarmente da Cencio che se ne fece portare una doppia razione.

Solo Forgia non mangiò molto

“Non hai appetito? Posso mangiarmi anche il tuo?” Chiese Cencio che senza aspettare risposta si sporse a prendere la ciotola del proprio compagno.

“Hai proprio l’aria nella testa” lo rimproverò Luppolo “mangia il tuo e lascia che gli altri mangino come vogliono. Anche se Forgia non ingurgita le pietanze come fai tu, non vuol dire che abbia meno fame di te”
Ripreso come un bambino, Cencio si strinse nelle le spalle e lasciò la ciotola all’amico

“Certo che dovrai smetterla di trattarmi come un bambino”
”La smetterò quando finirai di esserlo, Cencio.”.

Ma Forgia, nonostante le parole di Luppolo, non toccò più un boccone, Era diventato rosso in viso e sudava.

“Tu non stai bene”

“No, è che mi sento soffocare qua dentro” disse alzandosi “Esco e prendo un po’ d’aria”, ma appena in piedi, l’uomo cadde a terra, pesantemente. Aveva il respiro affannoso e la pelle ustionante.

“Ha la febbre altissima” disse Guardia toccandolo. Nero slacciò la casacca del compagno e gli scoprì la spalla.

“Gangrena!”. La ferita che Forgia aveva sulla spalla era nera e gonfia, tutt’intorno al taglio che non s’era rimarginato, c’era un pus verdastro misto a sangue.

“C’è un medico qui?” Chiese Nero all’oste che era accorso a vedere cosa fosse successo.

“No mi spiace, è un gruppo di poche case su di un crocevia, nessun medico nei paraggi”

“Maledizione, perché non ci ha avvertiti?” chiese Cencio

“Datemi un po’ d’acqua fresca” bisbigliò il malato a terra.

Jake corse a prenderla “Eccovela signore” disse porgendola a Nero che la diede da bere al compagno, mentre cercava una soluzione che sapeva non esserci.

“La malattia è già entrata nel sangue” disse l’oste “non c’è niente da fare”

A queste parole gli occhi di Nero diventarono, se possibile ancora più scuri e l’oste fece un passo indietro, intimorito.

“Mio marito ha ragione” comparve da dietro una donna grassa, probabilmente sulla cinquantina “ne conosco di ferite così, e non si guarisce. Ma se volete avere una speranza, potete andare al castello dei Thurlow”

Nero guardò la donna impaziente che continuasse “E’ a circa tre ore, forse due se il cavallo è al galoppo, da qui. Ci vivono il vecchio Lord e suo figlio, Aaron Thurlow. Si dice che lui abbia doti mediche fuori dl comune”

“Ragazzo, sellami il cavallo e procurami delle corde”
Jake rimase interdetto “corde?” ma lo sguardo del Nero non gli permise di fare ulteriori domande e si dileguò a fare il suo dovere.

Gli altri invece, non ebbero bisogno di fare alcuna domanda. Se questo castello distava 2 ore di galoppo, il cavallo del Nero per quanto possente, si sarebbe sfinito a portare due uomini sul dorso. Dopo gli ultimi giorni in cui il riposo era stato poco e la marcia lunga e dopo che era neanche da un’ora che stava riposando i muscoli, avrebbe rischiato di non portare il suo cavaliere a destinazione. Legando invece Forgia al suo cavallo, si sarebbe anche velocizzato il passo. Jake tornò subito con le corde, mentre Nero e Luppolo alzavano Forgia da terra.

“Grazie per la vostra ospitalità e per l’informazione". Disse Nero prima di uscire, lasciando due monete d’oro sul bancone.

L’oste non poteva credere ai propri occhi e inchinandosi più del dovuto, ricambiò i ringraziamenti.

“Andate tutti?” Chiese Jake stupito, quando vide che tutti stavano slegando i propri cavalli “ma non è necessario…”
”Non si lascia mai un compagno solo, ragazzo” gli insegnò Guardia “specialmente un fratello” e così dicendo passò la mano sull’elsa della sua spada “si è uniti nel pericolo della guerra, ma la notte può riservare uguali e spiacevoli eventi” Jake allargò gli occhi e annuì serio in volto.

“Indicatemi la strada!"

A rispondere fu la donna che aveva indicato il castello dei Thurlow come unica soluzione, che era uscita dalla locanda con una torcia in mano.

“E’ una torcia moresca, non si spegnerà con l’acqua. La tenga il primo del gruppo, eviterà agli altri di perdersi. Oggi è notte di luna nuova.” Nero prese le torcia in mano e fece un cenno di ringraziamento “Andate dritto per di qua” continuò la donna indicando la strada che costeggiava un fianco della locanda “Seguite la strada e non l’abbandonate. Attraversate il bosco ai margini della valle. Ai limiti dei bosco girate verso Nord. Il castello vi comparirà molto prima che lo raggiungiate perché è su di un’altura e da uno dei torrioni brilla sempre un fuoco. Sarete in grado di vederlo anche di notte”

“Che Dio vi benedica signora, a buon rendere” e così dicendo, Nero incitò il proprio cavallo e quello di Forgia a partire, e gli altri fecero lo stesso. Non aveva ancora smesso di piovere, e in quella notte senza luna, le gocce di pioggia sembravano più taglienti sul il volto dei cavalieri. Il lumicino portato dal Nero scomparve presto, in lontananza, e la moglie dell’oste rientrò nella sua locanda, chiedendosi se quel cavaliere ce l’avrebbe fatta.




 

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Capitolo 2
*** 02. Al castello Thurlow ***


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Ciao a tutti ^_^ Due parole veloci. Innanzitutto ringrazio tutti quelli che hanno iniziato a leggere Liberaci dal Male, è una storia a cui sono parecchio affezionata e a cui tengo. Non recentissima, perciò lievemente diversa da come la scriverei adesso. Ma le voglio così bene che fatico a rimetterci mano. Il bimbo è nato così, del resto XD E' una storia che aggiornerò spesso, per la complessità della trama. Perciò, chi ha paura di leggere un racconto che verrà interrotto per un periodo lungo, non temete. Non accadrà ^_^ Vi mando un bacio e lascio le ciance ai capitoli successivi. Un'ultima cosa, le risposte alle singole recensioni le lascio in fondo alla pagina ^_^/

 

Capitolo Due

- Al Castello Thurlow -






I cavalieri sarebbero stati immersi nelle tenebre più scure, se non fosse stato per la torcia moresca che la moglie dell’oste aveva dato a Nero: le nuvole coprivano il cielo e solo il rumore battente della pioggia li aveva accompagnati durante la loro cavalcata.

La preoccupazione per la strada si aggiungeva a quella nei riguardi di Forgia. L’uomo non aveva più dato segni di lucidità dalla locanda e solo qualche gemito sosteneva la speranza che ancora respirasse.

Il Nero conosceva poco quella parte d’Inghilterra, lontana dal luogo in cui era nato. Sentiva i suoi compagni dietro di lui e cercava in quella notte tetra il torrione illuminato che forse avrebbe dato speranza al suo compagno.



Cavalcavano ormai da diverso tempo, i cavalli iniziavano a mostrare profondi segni di stanchezza, il freddo e gli indumenti inzuppati sembravano non dare pace a nessuno

“Una luce!” gridò Cencio con foga.

Il Nero l’aveva già scorta e chiese un ultimo sforzo alla sua bestia. La moglie dell’oste aveva detto bene, dal torrione del castello brillava un fuoco alto, visibile anche da lontano. Nonostante sapessero che il vedere la luce non significava l’esserne in prossimità, avere finalmente una direzione sicura diede fiducia e forza ai cavalieri.

Ci volle un’altra ora per raggiungere il castello che, anche quando vicino, rimaneva coperto dalla notte. Tuttavia, fu subito chiaro che non c’erano mura intorno, e il ponte levatoio dell’entrata era già stato abbassato.

Nero si chiese come mai, trovò estremamente insolito quest’assenza di protezione, in una notte come quella. Sembrava quasi che i padroni del castello li stessero aspettando.

E difatti appena entrati, venne di corsa verso di loro un giovane

“Lasciate pure a me i cavalli” disse prendendo in mano le redini di Forgia “Il signore vi sta aspettando”. Dietro di lui comparvero altri due uomini che s’avvicinarono ai cavalieri.

“Come aspettando?” Chiese Guardia il cui senso di pericolo aveva percepito ci fosse qualcosa di troppo insolito in quel castello “C’è qualcosa che non va…” disse fra i denti, il che mise in allarme anche i rimanenti cavalieri che non scesero da cavallo

Il ragazzo che era venuto loro incontro li guardò interdetto e con una leggera impazienza, ansioso com’era di mettersi al riparo dalla pioggia cercò di persuaderli a permettergli di prendersi cura dei cavalli.

“Il vostro amico non ha altra possibilità di salvezza se non quella di essere curato dal mio padrone” Aveva ragione, pensò Nero. Per quanto strano, questo castello, era l’unica speranza per il male di Forgia

“Come sai della malattia del nostro compagno?”

Il ragazzo sorrise “Me l’ha detto il padrone”disse con un tono pieno d’ammirazione “Su, non siate così diffidenti che non c’è tempo da perdere!” Li incoraggiò, ancora una volta, tirando verso di sé il cavallo di Forgia e iniziando a disfare i nodi che lo tenevano legato alla sua groppa “Ma di che mi stupisco?” si chiese il ragazzo parlando fra sé e sé ma in tono sufficientemente alto perché anche gli altri sentissero “Anche questo m’aveva detto il padrone” aggiunse alzando le sopracciglia con l’aria di chi sta dicendo la cosa più ovvia di questo mondo

Ancora confuso dagli eventi, Nero decise di scendere da cavallo e prese lui stesso a sciogliere le corde di Forgia . Nonostante il raziocino s’opponesse all’idea che qualcuno potesse prevedere con tale precisione gli avvenimenti, il suo istinto gli diceva che, seppur strano, quell’ambiente non era ostile.

Vedendo il proprio capo scendere da cavallo, gli altri fecero lo stesso. Guardia si guardò tutt’intorno: per quanto buio, le torce facevano intravedere mura imponenti. Quando il ragazzo gli si avvicinò per prendere il suo cavallo, però, focalizzò nuovamente l’attenzione sul ragazzo e gli bloccò il braccio con una presa tale che il giovane si fece scappare un grido di dolore

“Levante, Chiaro, andate col lui alla stalla e assicuratevi che i cavalli di tutti siano trattati con riguardo”, Nero fece agli altri un cenno di seguirlo, mentre si caricava sulle spalle Forgia, ormai completamente incosciente

“Com’è possibile, capo, che sapessero che saremmo arrivati?” chiese Guardia “ nessun messaggero ci avrebbe potuto precedere, peraltro non penso che l’oste ne abbia inviato uno”

“Nessun messaggero via terra, è vero” disse una voce proveniente dalla loro sinistra “ma un falco di certo sì” I quattro si voltarono verso la voce che aveva parlato: che cosa poteva intendere con le sue parole?
”E questo” continuò l’uomo indicando uno stupendo rapace appollaiato sul suo braccio “ penso v’appartenga”

“Cleto!” disse Nero che iniziava a capire. Il falco dal braccio del primo volò sulla spalla del secondo che però non fece in tempo a chiedere ulteriori informazioni.

“A dopo i convenevoli, se le condizioni del vostro amico sono così gravi come il vostro falco m’ha detto, non possiamo perdere tempo”

Increduli, i cavalieri seguirono quell’uomo all’interno del castello. Sotto una luce migliore, Nero scrutò colui che affermava di saper parlare coi falchi.

Camminava appoggiato ad un bastone ma, nonostante fosse zoppo, la sua andatura era altera; usava il suo appoggio con estrema abilità, di sicuro quindi, doveva usarlo da molto tempo. Le dita appoggiate sul bastone, venivano spesso coperte dai lunghi capelli biondi, lasciati completamente sciolti, che sembravano addirittura più lucidi della veste che portava addosso. Vesti di fattura estremamente pregiata, ma di certo non una veste da giorno.



Svegliato in piena notte da un falco a lui sconosciuto, e nonostante fossero forestieri a chiedere aiuto, premurarsi di venire di persona ad accogliere un malato, pensò Nero che provò per l’uomo di fronte a lui un istintivo rispetto.



L’ospite li fece entrare in una stanza ampia, con un letto nel centro “Accomodatelo pure lì” disse indicandolo.

Forgia emise un gemito quando venne appoggiato sul letto. Aveva le guance paonazze e il respiro affannoso, i capelli che, bagnati, gli incorniciavano il volto erano incollati alla pelle e gli davano un’aria ancor più sofferente. L’uomo glieli scostò con delicatezza, quando tre servitrici comparvero sulla porta, inchinandosi

“Ci avete mandato a chiamare, signore?”

“Date a questi uomini vestiti asciutti e mostrate loro le stanze in cui potranno riposare”

Percependo la riluttanza del gruppo aggiunse “Non temete, mi prenderò cura del vostro amico e se con questo freddo non vi scaldate subito e non vi cambiate, domani avrò troppe persone stese su questo letto”

Poi si rivolse nuovamente alle donne “Fate anche in modo che non manchi loro niente. Altri due sono fuori con Liam a provvedere ai cavalli”

Le donne s’inchinarono e s’affrettarono a compiere il loro dovere

“Vogliate scusarmi signori se l’urgenza della situazione m’ha fatto dimenticare le buone maniere, perché io conosco di voi, ma voi non di me. Sono Aaron Thurlow, come già credo vi abbia detto Linda, la cuoca della Volpe Reale. Mio padre, il padrone del castello, purtroppo è vecchio e malato e ho pensato non fosse il caso di disturbarlo per una faccenda in cui non sarebbe stato di alcun aiuto.”
I cavalieri rimasero stupiti dai modi di Aaron che, sebbene educati, dimostravano un’insolita solerzia.

Di nuovo, Nero, provò un istintivo rispetto nei confronti di quest’uomo che sembrava mettere da parte l’etichetta più formale per risolvere di una situazione grave. Ci sarebbe stato modo, in seguito, di presentazioni migliori e più approfondite: ora Forgia era in bilico fra la vita e la morte e nessun nome altolocato, da solo, avrebbe salvato l’amico.

“Volevo ringraziarvi per la vostra estrema cortesia” si sentì in dovere di dire “Tuttavia preferirei rimanere qui accanto a Forgia durante le cure” Con un amico in quelle condizioni avrebbe comunque avuto difficoltà nell’addormentarsi

Aaron sorrise “D’accordo, probabilmente avrò bisogno di un aiuto. Andatevi però a cambiare d’abito e poi tornate pure qui. Sicuramente i vostri uomini si sentiranno più tranquilli sapendovi insieme al vostro compagno”

E, così dicendo, iniziò lui stesso a togliere le vesti di Forgia



“Capo, che cosa facciamo?” chiese Cencio una volta usciti dalla stanza

“Per ora non abbiamo molte possibilità se non fare quello che dice Lord Aaron e sperare che le sue arti possano davvero curare Forgia”

Luppolo scosse la testa pensieroso “Quella ferita non fa presupporre nulla di buono…E’ stato uno sciocco a non dire niente …”
”Morirà?”

“Mi auguro di no, Cencio, ma sperare è una cosa, quella ferita è un’altra. L’oste ha detto bene, la malattia è già nel sangue”

Cencio si girò preoccupato verso la porta ormai chiusa che separava il gruppo dal loro amico

Si unirono agli altri anche Levante e Chiaro, di ritorno dalle stalle, quando le serve di poco prima ritornarono

“Cambiatevi e cercate di riposare. Io rimarrò sveglio e se dovesse succedere qualcosa, v’avviserò”
Cencio sembrò voler dire qualcosa, ma prima che potesse parlare, Nero disse “Non fa piacere a nessuno di noi questa situazione. Ma solo Dio, per ora, ha il potere di cambiarla”
”Ma tu sarai stanco almeno quanto noi” aggiunse Chiaro. Nero scrollò le spalle come risposta e si rivolse alle donne che, quiete, erano rimaste in disparte e chiese di indicare loro dove fossero le stanze



Poco prima che il gruppo andasse in diverse direzioni, Guardia disse “L’ironia di questa notte sta anche nel fatto che ci stiamo fidando di un uomo che parla coi falchi”
”Il capo lo fa sempre”
”Vero” scrollò le spalle l’altro “Ma in modo diverso”
”E’ sbagliato fidarsi di lui?”

“No, non so perché ma mi sento tranquillo, non ho percepito nessuna ostilità…”
”Se lo dici tu, Guardia”

“Ti ho detto più volte che rimarrai secco a fidarti dell’istinto di altri”
e così dicendo si separarono, lasciando nell’aria le domande non poste e le risposte non ottenute.

Solo Nero aveva pensieri diversi da quelli dei compagni. Nessuno, tranne lui, aveva la facoltà di comunicare con gli animali e non gli era mai capitato di incontrare nessuno che fosse in grado di ascoltarli. Ma ancora più stupore suscitava in lui il fatto di aver visto Cleto tranquillamente appollaiato sul braccio di quell’uomo: lui così diffidente e solitario di solito, perfettamente a suo agio con un estraneo.

Avrebbe voluto capire cosa avesse mosso il rapace, ma sapeva che ora non aveva tempo e che aveva cose ben più importanti a cui pensare che quella di soddisfar la propria curiosità.



“Signori” disse una serva agli uomini che stava accompagnando delle stanze “il mio padrone s’è raccomandato di scusarsi per la scelta delle stanze, che forse non sono spaziose e di vostro gradimento. Tuttavia l’ala Est del castello, quella di solito adibita agli ospiti, ha subito dei danneggiamenti a causa del maltempo di questi giorni. Le riparazioni sono già cominciate, ma le stanze sono ancora troppo umide e fredde.”

Le stanze che presentò loro avevano già il fuoco acceso, erano piccole, ma non troppo, ben ammobiliate, con pesanti coperte sul letto

“Per qualunque esigenza, signori, sono a vostra disposizione” aggiunse la donna “in ogni camera troverete delle campanelle, che potrete suonare per chiamare me o altro personale”
Così dicendo, la donna si congedò dal gruppo

“Proprio carina, chissà se tutta la servitù è così”

Luppolo guardò Cencio ma non disse niente. Rimase a fissarlo per un attimo in più del solito e sospirò, cambiando discorso

“Se stamattina qualcuno m’avesse detto che sarei stato ospite di un Lord che parla coi falchi, gli avrei dato del pazzo”

“E con Cleto, per di più”
Gli altri annuirono

“Per ora abbiamo un tetto sopra la testa, un posto caldo dove riposare e un’insperata gentilezza del nostro ospite, il resto è nelle mani di Dio”
”Quando sapremo delle condizioni di Forgia, decideremo cosa fare, per ora è meglio coricarsi ed aspettare il mattino”

Andarono ognuno nella propria stanza, senza dire più una parola. Il loro animo era gravato dalla consapevolezza che, a meno di un miracolo, per l’amico non ci sarebbe stato nessun mattino.

Il gruppo era unito ed insieme da troppo tempo per vagliare l’idea di lasciare qualcuno indietro, ma se questa era la volontà di Dio, nessun Lord avrebbe potuto opporsi.



Cencio aveva deciso il suo soprannome Forgia quando questi s’era unito al gruppo che, ai tempi, non era ancora completo. L’aveva incontrato in una fonderia fiamminga, dove gli aveva rubato quella che, come dopo avrebbe imparato, era la spada della sua famiglia da generazioni. Se non fosse intervenuto Luppolo, come sempre, a salvarlo, Forgia probabilmente si sarebbe ripreso la spada e con questa la testa del ragazzo.



Chiuso nella sua stanza, sotto diversi strati di coperte, Cencio non riusciva a pensare ad altro



Dopo quell’incontro in veste di ladro, però, l’aveva rivisto in una taverna, il giorno dopo. Cencio non aveva subito riconosciuto l’uomo della fucina: imbarazzato com’era dal fatto che Nero avesse saputo della sua attività del giorno prima, non riusciva a staccare gli occhi dal suo boccale di birra. Era stato Forgia ad avvicinarsi al tavolo dei cavalieri e a rivolgersi a Nero

“Voi dovete essere il Nero e i suoi uomini, giusto?” aveva detto. Ad un cenno d’assenso del capo, lui aveva appoggiato sul tavolo un medaglione d’argento con un rubino incastonato nel centro e Nero l’aveva guardato e poi annuito.



Se lo ricordava come fosse successo pochi giorni prima, invece erano ormai passati anni.



Quest’uomo giovane, ma col viso segnato dal lavoro e dal fuoco del suo mestiere, aveva guardato i suoi compagni prima e Cencio poi, aveva estratto da sotto il mantello una spada e con un movimento rapido l’aveva infilzata nel tavolo, di fianco alla sua birra “Così” aveva aggiunto “starai lontano dalla mia di spada, figlio del Sud” poi s’era allontanato, nel fumo della taverna.

La spada che Forgia aveva donato a Cencio allora, era sottile e molto più leggera rispetto alle spade comuni, lunga ed affilata. Staccandola dal legno del tavolo, Cencio s’era messo ad osservarne l’elsa

“Sei proprio fortunato. Oltre alla testa, ci hai guadagnato una spada dei Forgia”

L’elsa era finemente lavorata e riportava lo stesso simbolo che era stato mostrato a Nero pochi istanti prima.

“E questo cosa significa?” aveva chiesto Cencio indicandolo “E che cosa sono i Forgia?”

“Non mi stupisco che al Sud non ne abbiate mai sentito parlare” aveva spiegato Chiaro a Cencio “i Forgia scesero dalla Finlandia sul continente secoli fa, ma rimasero principalmente nel Nord. Erano e sono un gruppo di guerrieri fedeli al loro capo più che al loro re, e che hanno affinato l’arte del metallo come nessun altro. Le loro armi non hanno eguali, e come puoi vedere tu stesso “aveva aggiunto indicando la spada di Cencio “non esagero.”

Il ragazzo non aveva potuto che annuire e continuare a guardare la sua arma con profonda ammirazione

“Almeno, anche se hai l’aria in testa, Cencio, hai buon gusto per i tuoi furti”

Nero poi aveva preso il medaglione che Forgia aveva lasciato sul tavolo e l’aveva sollevato, lasciando che il rubino brillasse, sotto i riflessi delle luci delle candele, di un rosso incredibilmente intenso

“E’ una richiesta, questa, che penso di accettare. Qualcuno è contrario?” ma nessuno aveva detto niente, consapevoli della forza e della lealtà dei guerrieri Forgia. E così il gruppo si era ritrovato in sei, il giorno dopo. Il motivo per cui Forgia aveva chiesto di unirsi al gruppo non sarebbe stato chiarito se non diverso tempo dopo, ma in tutto e per tutto s’era rivelato essere un guerriero degno della sua fama



Esasperato dall’agitazione, Cencio si spazientì sotto le coperte ed uscì dalla sua stanza andando nel luogo a lui più naturale

Bussò alla porta di Luppolo dubbioso se questi fosse ancora sveglio o meno “Entra Cencio” gli disse l’amico “Non riesci a dormire?”

Il ragazzo fece di no con la testa e si appoggiò pesantemente alla porta chiusa dietro di lui, accasciandosi poi per terra. Luppolo si alzò dal suo letto e andò verso il camino per ravvivarne il fuoco, poi si avvicinò al compagno e si sedette di fianco a lui

“Pensi che sia sciocco che, a quasi vent’anni, non riesca ad affrontare queste situazioni da solo?” Chiese con gli occhi umidi. Imbarazzato, poi, aggiunse “Ho proprio l’aria in testa eh?”

Luppolo non rispose e gli mise semplicemente un braccio intorno alle spalle, arruffandogli un po’ i capelli. Avrebbero aspettato insieme la mattina e le sue risposte.

 

***

Stateira: Ciao ^_^/ Grazie davvero per la tua recensione. Anch'io ho un debole per le strutture circolari e Liberaci dal Male si prestava bene ad essere una storia che cominciava quando finiva, ma in cui tutti i pezzi si incastravano piano piano. Sinceramente, ha richiesto una buona pianificazione alle spalle (dovresti vedere il mio quadernetto: pieno zeppo di scritte e appunti XD), però è stato molto divertente farla ^_^ A presto.

CrazyCat: Grazie mille ^*^ Come dicevo, non farò mai aspettare molto fra capitolo e capitolo (per non perdere il pathos della storia), perciò non preoccuparti, gli aggiornamenti saranno frequenti ^_^

Michan_Valentine: I numeri scritti in numeri ?_? O cielo, orrore °O° Cambio subito, grazie per avermelo fatto notare. Una caduta stilistica non indifferente (ah, l'inesperienza °_°). Lo stile scarno è essenziale per la storia. Una grossa matrice di tutto Liberaci dal Male sarà l'introspezione, non ci sarà troppa azione. Essendo però una storia abbastanza complessa e abbastanza lunga, un registro troppo pesante avrebbe rischiato di rendere pesantissimo il racconto (ho cercato di bilanciare bene l'introspezione ed uno stile armonico, spero di non aver fatto troppa cilecca XD): Per quanto riguarda le descrizioni fisiche, la scelta di non entrare nel dettaglio è voluta. Sia perchè non sono bravissima nell'inserire la descrizione fisica in un contesto narrativo (ora, che sono più abituata lo faccio molto meglio, ma sono sempre stata più brava nelle ambientazioni. Liberaci dal Male non è recentissimo), sia perchè la caratterizzazione sfumata, ma ricorrente aiuta in molti punti a dare una sensazione di oniricità e di tempo estremamente dilatato che voglio imprimere a LdM. Non mi dilungo troppo (altrimenti ti annoio) perchè è troppo presto, ma la parte immaginativa sarà, per alcuni versi, lasciata solo lettore ^_^ Un bacio grande, grazie mille per la recensione

Mello: Grazie davvero *_* Nero è un personaggio che a me piace tanto. Spero che continuerà a piacerti nel prosieguo di LdM. E' complesso (e poi è tanto carino ahahah. Ma quieto il mio ormone ;D). Un bacio.





 

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Capitolo 3
*** 03. Appesa ad un filo ***


Nuova pagina 1

Capitolo Tre

- Appesa ad un filo -






L’abito che trovò sul suo letto era morbido e caldo. Nero si spogliò e si rivestì in fretta, impaziente di tornare da Forgia. Avvolto, però, da abiti asciutti e nuovi fu pervaso da un senso di calore che lo fece sorridere per un attimo. Lasciò le armi in camera e con loro Cleto che s’era appoggiato sulla tastiera del letto e sembrava non dare segno di volersi muovere. Nero lo guardò un attimo, poi decise che il tempo per interrogare il suo amico pennuto sarebbe arrivato più tardi.

La stanza dove si trovavano Lord Thurlow e Forgia era diventata torrida, l’uomo biondo s’era spogliato della tunica ed era rimasto solo con indosso una veste leggera, lo stesso Nero appena entrato si liberò della sopraveste.

Forgia invece, tremava di freddo.

“Ho dovuto ravvivare il fuoco perché il vostro amico soffre molto di freddo, nonostante sia bollente. Ha la febbre altissima e ormai è privo di coscienza da diverso tempo”

Nero annuì e si avvicinò al letto dell’amico “Ditemi come posso esservi d’aiuto”
“Prendete quelli” disse Lord Aaron indicando una pila di stracci” sostituirteli a quelli con cui ho avvolto Forgia. Suda così tanto che quelli di poco tempo fa sono già zuppi” e così dicendo si diresse verso una parete piena di barattoli e boccette.

Nero fece come gli era stato detto e prese ad avvolgere l’amico di nuova stoffa “Non mi può sentire, non è vero?”

“Purtroppo no, ma dovremo cercare di riportarlo in sé. Quello che dovrà affrontare ora richiederà tutta la sua lucidità e la sua forza” Aaron prese un barattolo pieno di una polvere grigia e l’appoggiò sul tavolo vicino al letto.

“Lucidità?”

“Dovremo riaprire la ferita, incidendogliela. Sarà un dolore insopportabile, ma dovrà rimanere sveglio, altrimenti non capirò se sto seguendo il corso della ferita oppure gliene sto facendo una nuova”

Nero annuì “e poi lo medicherete con quella?” disse indicando la polvere che Aaron aveva appena preso

“Sì, è una mistura composta per la maggior parte, di funghi e lieviti, mischiata con acqua crea una pasta di odore sgradevole, ma di sicuro è l’unica sostanza che può salvare Forgia. Poi dovrà berla, in quantità…”spiegò mentre già stava preparando la mistura.

“Mi sto fidando di voi perché non ho nessun altra alternativa…”
”Non prometto la guarigione”
”E questo mi fa confidare sul fatto che non siate un ciarlatano. Farò quello che mi chiedete e tutto ciò che è necessario, ma rispondete prima ad una mia domanda.” Aaron annuì. “Come mai Cleto è venuto qui? Doveva conoscere questo posto precedentemente, ma non vedo come questo sia possibile. Cleto è da sempre vissuto ed andato dove sono vissuto ed andato io, e queste terre mi sono sconosciute. Non mentitemi, perché sapete che facilmente potrò sapere la verità”

Lord Aaron abbassò lo sguardo e sospirò, esitando un attimo. Poi si prese i capelli fra le mani e li sollevò, girandosi leggermente in maniera tale che il suo interlocutore potesse vedere una piccola macchiolina nascosta sulla nuca. Un osservatore disattento l’avrebbe potuta scambiare per un neo, ma il significato di quella macchia non sfuggì invece a Nero, che spalancò gli occhi sbalordito. Lord Aaron lasciò liberi i propri capelli che ricaddero pesantemente sulle sue spalle, distribuendosi come fili d’oro su tutta la schiena e coprendo quel che aveva appena mostrato. Guardò il Nero, per capire che cosa pensasse in quel momento e il cavaliere lo guardò in volto.

Per la prima volta i loro occhi s’incrociarono e per un attimo fu come se tutto, intorno a loro, si fermasse. Persi in uno sguardo, si ritrovarono avvolti in un mondo senza tempo. Rimasero fermi ad osservare ciò che mai avevano visto prima, incapaci di muoversi o parlare. Un gemito di Forgia interruppe questo dialogo muto, e con un sussulto, entrambi ripresero a respirare non sapendo dire da quanto stessero trattenendo il respiro.

“Forgia” disse Lord Aaron all’orecchio del malato “Mi puoi sentire? Devi svegliarti!” e così dicendo gli diede una piccola sberla in viso. L’uomo aprì gli occhi, ma non era cosciente “Forgia, mi devi ascoltare. Devi cercare di svegliarti, ho bisogno che ti svegli per curarti”

Non osava scuoterlo per le spalle, sapendo che questo gli avrebbe causato dolore. Visto che quindi, i metodi più semplici parevano essere completamente inefficaci, Lord Aaron prese una boccetta con del liquido bluastro al suo interno. Ne versò un po’ su uno straccio che poi mise sotto il naso di Forgia. Immediatamente, quasi fosse posseduto, il cavaliere spalancò gli occhi e cercò di mettersi a sedere. “Basta” disse sbiascicando.

“Di sicuro non è stato piacevole, e probabilmente un po’ drastico, ma non avevamo altra soluzione” si giustificò col Nero, poi si rivolse nuovamente a Forgia “Mi senti?”
Questi annuì debolmente, guardando l’uomo davanti ai suoi occhi confuso. Con la mente offuscata dalla febbre, Forgia cercò di muoversi, in preda all’agitazione, non capendo dove fosse o cosa quell’uomo volesse fargli. Sentiva un dolore acutissimo alle narici e alla spalla, ma non si ricordava come mai fosse lì, né tanto meno il perché del dolore.

“Forgia, devi calmarti” gli disse Nero, prendendogli il volto fra le mani e assicurandosi che Forgia lo vedesse “Siamo qui per curarti, devi fidarti”

Rassicurato dalla vista del suo capo, Forgia fece cenno di sì con la testa.

“Avete una ferita infetta che dobbiamo curare, e una gangrena che dobbiamo eliminare. Devo riaprire la ferita e medicarla. E dovremo anche curarci del vostro corpo, la malattia è già nel sangue” Gli spiegò Lord Aaron scandendo bene ogni parola. Forgia annuì, spaventato e di scatto si rigirò verso Nero quasi volesse chiedere conferma.

Aaron osservò il cavaliere annuire e dare coraggio al proprio compagno. C’era così tanta fiducia da parte di quest’ultimo nell’uomo di fronte a sé che Aaron ne fu quasi commosso. Un piccolo cenno e Forgia era disposto ad fidarsi completamente.

Preso un coltello con la lama molto affilata, e passatolo sul fuoco di una candela, il Lord cominciò ad incidere. Appena toccata la ferita, Forgia contrasse tutto il corpo e non riuscì a trattenere l’urlo che gli uscì dalle labbra.

Anche se mosso a pena, Aaron sapeva che non poteva fermarsi, per cui continuò a riaprire quella ferita putrida: il liquido giallo-verdastro misto a sangue che ne usciva era la riprova che non c’era tempo da perdere. La pelle intorno alla ferita era diventata nera e maleodorante, doveva fare presto.

Forgia aveva ripreso il controllo di sé, gemeva, ma cercava in tutti i modi di non fare uscire nessun urlo dalla sua bocca, s’era aggrappato al braccio di Nero e lo stringeva affannosamente

“E’ brutta, vero?” riuscì a dire preoccupato.

Pulendo la ferita con acqua, Aaron mentì “E’ molto meglio di quello che pensavo ad una prima occhiata, ora devo continuare a riaprire e devo togliere tutta la pelle annerita intorno, ma grazie al Cielo, non è molta”
”Aspetta!” disse in un filo di voce Forgia. Lord Aaron stava per obiettare quando vide, negli occhi del malato, non più solo dolore o febbre, ma anche una sottile disperazione che non riuscì a decifrare subito.

“Perderò l’uso del braccio?” Non erano necessarie ulteriori parole perché Nero capisse cosa in realtà avesse voluto dire Forgia. Era importante la vita, il dolore per ferita e tutto ciò che questi comportavano, ma nulla più avrebbe avuto senso se Forgia avesse perso l’unico mezzo che lui conosceva per vivere: il suo braccio destro, col quale impugnava la sua arma e col quale forgiava le sue spade. Il dubbio sotteso da quella domanda era se davvero aveva un senso vivere mutilato ed incapace di fare nulla, o se magari sarebbe stato meglio essere accolto nel Regno dei Cieli, come la volontà di Dio voleva. Nero si chiese, però, se un Lord, zoppo per di più, avrebbe capito e aspettò anche lui la risposta.

Aaron tamponò la ferita e gli sorrise dolcemente.

“Cercherò per quanto m’è possibile, di preservare la pelle e i muscoli. Non posso, purtroppo, fare promesse che non so se manterrò.”
A questa risposta Forgia sembrò rilassarsi un po’. L’uomo che aveva di fronte e a cui stava affidando la propria vita capiva, e tanto gli bastava.

Nero continuò ad osservare Aaron mentre puliva e tamponava la ferita, desideroso di capire meglio quell’uomo.

“Ora dovrò riaprire l’altra parte di ferita e iniziare a togliere tutta la gangrena. Non vi nascondo che sarà doloroso, ma dovrete cercare di rimanere sveglio, ho bisogno della vostra collaborazione”

Forgia annuì

Le mani di Aaron ripresero a compiere il loro dovere sotto la guida attenta dei suoi occhi turchesi, non si fece fermare dai gemiti del suo paziente, e taglio dopo taglio, iniziò a eliminare tutto quanto ci fosse in eccesso; aveva albeggiato da diverso tempo, per cui la luce all’interno della stanza era più intensa e migliore rispetto a quella notturna delle candele.

Per quanto coraggioso e quasi muto, Forgia aveva il volto inondato di lacrime e sudore. Guardava Nero con occhi terrei, ma lasciava che Aaron tagliasse lembo dopo lembo, cautamente.





Qualcuno bussò alla porta e dopo poco comparve nella stanza una serva con una brocca d’acqua fresca e un piatto con un po’ di frutta tagliata a pezzettini.

“Ti ringrazio, Josephine, appoggia pure tutto sul tavolo lì in fondo” disse Lord Thurlow per la prima volta staccando le mani dalla spalla del suo paziente. “Ci sono nuove su mio padre?”
”No, signore, è ancora chiuso nella sua stanza, ma so che ha lasciato entrare Natalie questa mattina che gli ha portato del cibo e ha arieggiato la stanza, che sa, non veniva aperta da molto. Poi però l’ha cacciata, ma s’è tenuto il vassoio… “
Gli occhi di Lord Aaron si riempirono di malinconia “Ha parlato?”
”No signore” rispose Josephine, enfatizzando le sue parole con la testa... Il lord sospirò e per un attimo non aggiunse niente, perso nei suoi pensieri.

“E i miei uomini?” Chiese quindi Nero

“Oh loro stanno bene signore” aggiunse in fretta la serva “Si sono svegliati tutti di buon ora ed è stato servita loro la colazione, come ha ordinato il padrone. Hanno sicuramente tutti un gran appetito, signore, specialmente il più giovane…”
”Cencio…” le disse Forgia con un filo di voce, sorridendo appena. Nero e Aaron si voltarono entrambi verso il malato stupiti e compiaciuti che, nonostante tutto, la mente di Forgia fosse ancora lucida

“Cencio sicuramente” diede conferma il Nero con un sorriso.

“Ora sono quasi tutti fuori, chi nelle stalle, chi invece è andato a vedere i lavori dell’ala Est. Se mi permette di aggiungere, Signore, ho sentito che qualcuno di loro s’è offerto d’aiutare nelle riparazioni …”
”Vogliono rendersi utili in qualche modo” le spiegò il Nero “A nessuno di loro piace essere ospiti di peso”
”Capisco Signore, ma siete qui da appena un giorno…ecco…” continuò confusa “è molto…bello” concluse, non trovando parola migliore. Aaron la scrutò per un attimo, consapevole del crescente imbarazzo che si stava impadronendo di Josephine e desideroso di sapere che cosa lo stesse causando. Le sue guance erano arrossate, il suo sguardo più chino del solito, ma di tanto in tanto, lo sollevava lanciando occhiate furtive a Nero. Il Lord alzò le sopracciglia sorpreso. Capito che cosa, o meglio chi, stesse mettendo in profondo imbarazzo la donna, cercò di nascondere il sorriso con le dita. Spostando lo sguardo da Josephine alla causa del suo imbarazzo, indugiò un attimo più del dovuto sul viso di quell’uomo, ma accantonò i suoi pensieri da una parte. Più tardi, da solo, li avrebbe ripresi in mano, c’erano cose più urgenti di cui occuparsi.

“Grazie Josephine, puoi andare” congedò così la donna e riprese in mano la sua lama.

“Questa piccola pausa m’ha ridato forza, ora posso affrontare un’altra notte così” cercò di scherzare Forgia che aveva l’aspetto tutt’altro che sereno.

“Volete un po’ di vino? Nelle nostre cantine conserviamo vino del Sud, Josephine me ne ha appena portato un po’”.

“Sarebbe meraviglioso” Il viso del malato si distese notevolmente dopo l’offerta.

“Bevete prima questo, che ha un sapore pessimo, ma vi aiuterà nella malattia. Poi potrete pulirvi la bocca col vino” e così dicendo, Lord Aaron prese fra le sue braccia Forgia e lo aiutò ad alzare il busto leggermente. Bevevo molto lentamente, Forgia, faticava a rimanere sveglio.

“Vorrei dormire…”
”Non è possibile ora, dovete cercare di rimanere sveglio, finchè non ho finito…”

E così Aaron riprese a tagliare, minuziosamente, lembo per lembo.

Dopo un tempo indefinito, rialzò gli occhi su Nero e sorrise.

“Ho finito” Prese l’impasto fatto con la polvere grigia, e lo spalmò abbondantemente sulla ferita che perdeva sangue e che era gonfia dove i punti erano stati applicati, ma che aveva perso quell’aspetto putrido e nero di prima.

“Ora dormite pure, farò cambiare le lenzuola e chiederò a Natalie di vegliare su di voi questa notte. Mi chiamerà lei per avvisarmi se ci saranno dei cambiamenti… “ disse con tono leggero a Forgia, mentre preparava dell’altra pasta per la notte.





Il sole era già praticamente calato, senza che né Nero né Aaron se ne fossero accorti.

Uscirono dalla stanza di Forgia e si diressero verso il salone, dove sapevano avrebbero trovato gli altri. La stanza era enorme, il camino principale copriva un’intera parete, mentre altri quattro erano ai lati, più modesti. Aaron e Nero trovarono i cavalieri seduti, alcuni con un boccale di birra in mano, altri che parlavano fra di loro ma la stanza era gravida d’agitazione. Difatti, appena i due uomini entrarono nella stanza, tutti si voltarono di scatto verso di loro in attesa di notizie.

“Purtroppo, signori, non ho nessun tipo di notizia da darvi, né buona né cattiva” spiegò subito loro Aaron. “Come presumo già sappiate, la ferita e la gangrena erano piuttosto estese. L’ho medicata e spero di essere arrivato in tempo…Tuttavia è troppo presto per dirlo”
”Ma il fatto che sia ancora vivo è un buon segno, no?”

“Lo è, certo” Aaron sorrise all’impeto di Cencio

“Ora, se volete scusarmi, sono molto stanco e non cenerò con voi. Egli “ disse indicando il Nero “è stato vicino a Forgia tutto il tempo, quindi di sicuro potrete chiedere a lui, se volete sapere qualcosa di più approfondito”.

Tutti quanti si alzarono e s’inchinarono verso il Lord.

“Vi ringrazio per il vostro tempo e le vostra pazienza, per quello che avete fatto per Forgia e la vostra ospitalità” disse Luppolo “e parlo a nome di tutti.” Aaron sorrise in risposta e s’inchinò a sua volta.



Nei pressi della porta, Aaron guardò Nero, appoggiato allo stipite con braccia conserte, ancora in silenzio. Sì, avrebbe spiegato lui quello che c’era da spiegare. Vi fu profonda intesa nello sguardo che si scambiarono, il cavaliere poi sorrise. Non ci fu bisogno di parole o gesti, Aaron percepì l’enorme gratitudine provenire da quell'uomo e dai suoi occhi color notte. Ancora e per un attimo, i due indugiarono l’uno sull’altro, avvolti in un istante d’intensa dolcezza che non capirono subito e questo li spaventò. Spezzata l’atmosfera, Aaron si sentì chiamare.

“Scusatemi se vi trattengo oltre, Lord Aaron, ma non riesco a placare la curiosità fino a domani.”. L’uomo percepì, nelle parole di Chiaro, un leggero tono di sospetto “E’ Cleto ad avervi avvisato del nostro arrivo, ma com’è possibile che Cleto vi conoscesse? E inoltre, vi fidate di un falco così tanto da permettere a sei uomini armati di entrare nel vostro castello senza nient’altro che i loro soprannomi?”

Lord Aaron guardò il suo interlocutore dritto in faccia con un’altezzosità che prima non aveva dimostrato.

“Avete ragione ad essere sospettoso, di certo tutto questo è insolito. E’ Cleto ad avermi avvisato, sì. Probabilmente sentendo le parole di Linda ha visto il castello, lontano ma non a sufficienza per non essere visto da un falco. Per quanto invece riguarda la mia fiducia, i falchi non mentono mai. Non ragionano come gli umani, e non raggirano i loro interlocutori. Rispondendo alla vostra seconda domanda, se davvero aveste voluto mettere in atto una tale farsa con un compagno malato, per saccheggiare il castello e se foste stati così ben organizzati da trovare una persona con una ferita come quella di Forgia, di sicuro avreste anche saputo che non ci sono tesori conservati nel castello.”.
”Ma voi non avete visto la ferita di Forgia l’altra notte”.
”No, ma ne ho sentito l’odore” tagliò corto Aaron “Per ultimo, non penso che un gruppo di briganti avrebbe riunito un italiano” disse guardando Cencio “uno spagnolo” disse guardando Guardia “un asiatico” si rivolse verso Levante “ e persino uno scozzese” aggiunse guardando Luppolo “intorno ad un capo inglese”
Chiaro fece ancora per prendere parola quando Lord Aaron lo zittì con un gesto della mano “avete parlato a sufficienza perché il vostro accento tradisca le vostre origini” e così dicendo impedì con gli occhi la replica a Chiaro. Sorrise agli altri, con gentilezza e si congedò

“Bella roba, Chiaro, neanch’io sarei riuscito ad essere più cafone” Cencio si lasciò cadere sulla poltrona scuotendo la testa.

Chiaro si schernì con un gesto della mano “Ero solo curioso”

“L’hai irritato senz’alcun motivo. Ha avuto la cortesia di non chiederti di andartene…” si spazientì leggermente Nero “Il tono che hai usato, lo sai, lasciava intendere ben altro rispetto a quello che hai detto. Ti conosco troppo bene per pensare che tu non l’abbia fatto apposta, e Lord Aaron è troppo intelligente per non averlo capito. Perché hai implicato che fosse sciocco, che fosse falso ed un bugiardo” Chiaro roteò gli occhi, ma poi li abbassò, sotto quelli di Nero, sentendosi colpevole.

Quando si comportava così, Chiaro sembrava molto più giovane di Nero, quando in realtà aveva solo pochi mesi meno. L’argomento cadde lì, i soldati volevano sapere cosa fosse successo in quella stanza e Nero raccontò loro tutto ciò che aveva visto. Non fece nessuna menzione, però, del piccolo neo sulla nuca di Aaron, conservò il segreto che tuttavia non abbandonò la sua mente per tutta la sera.
 

 

***

 

Mello: eh Cencio, il ragazzo ha carattere *_* Sono proprio contenta che anche il secondo capitolo ti sia piaciuto, ecco qui il terzo. L'iniziodi LdM, probabilmente, è abbastanza introduttivo, ma dà un'idea  dell'ambiente. Fammi sapere se Nero continuerà a piacerti (è un personaggio per il quale aver riguardo *_*): Un Bacio

BiGi: Ciao anche qui! Felice di rivederti. La costruzione circolare è un'arma a doppio taglio, ma abbi fede, non tutto è così "facile" come sempre XD

Michan_Valentine: Ciao, felicissima di risentirti *_* Aaron è molto angelico, del resto ci sono basi importanti per questo suo aspetto lievemente ultraterreno. Qualcosa si intuisce in questo capitolo, il resto verrà. Ma è proprio per questo che non posso addentrarmi molto nelle descrizioni fisiche, quel che Aaron ha sulla nuca è difficile da rendere con una semplice descrizione. Sono però contentissima che, nonostante la divergenza di stile, abbia voglia di continuare a leggere *_* *hug*. Nero è un personaggio molto complesso, che avrà uno svolgimento caratteriale ed un'evoluzione lungo tutto il racconto. Diciamo che appare (all'inizio) ben poco di quel che è in realtà. Spero che il risultato piaccia ^_^ E poi Cencio *_* Ah, il ragazzo m'è rimasto nel cuore dal momento in cui l'ho creato. E' tenero e cialtrone XD Baci


 

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Capitolo 4
*** 04. L'alito di Dio ***


Nuova pagina 1

Potrei dormire 8 giorni di fila. Sìsì, se davvero non mettessi più la sveglia, come minimo, dormirei fino a domani pomeriggio (tenuto conto che ora sono le 9 di sera...). Oddio, sto invecchiando, ormai ho sempre sonno. sigh. ;_; Non vedo l'ora che sia il weekend... Ma prima di lanciarmi nel letto (e addormentarmi in volo O_O), vi lascio un nuovo capitolo di LdM. Come sempre, lo sapete, ci tengo tantissimo a sapere che ne pensate ^_^

 

 

Capitolo Quattro

 - L'alito di Dio -


 





Chiusa la porta alle spalle, Nero vi si appoggiò e trasse un profondo respiro. Si massaggiò gli occhi con le dita e cercò di rimettere ordine fra i suoi pensieri. Cleto era ancora appollaiato nella stessa posizione nella quale Nero l’aveva lasciato, aveva solo girato lo sguardo verso il suo padrone.



“Hai ragione, sono stanco, ma dubito comunque di riuscire a dormire profondamente. Sono molto in ansia per Forgia…” Prese una bacinella d’acqua e l’appoggiò vicino al fuoco per farla scaldare, poi d’improvviso aggiunse: “Lord Aaron ha una piccola macchia, sulla nuca, a forma d’anello…di sicuro tu ne sai qualcosa”

Il falco sbatté le ali.

“Come immaginavo, l’hai percepito quando sei venuto qui… Una macchia a forma d’anello può voler dire tutto e niente, ma da come me l’ha mostrata, può solo significare che Lord Aaron ha respirato l’alito di Dio” Disse con tono pensieroso e poi aggiunse fra sé e sé “E io che pensavo fosse solo una leggenda…”

Nero scrollò le spalle e appoggiò la bacinella con l’acqua tiepida all’interno, sul tavolo “Evidentemente, mi sbagliavo. Ad ulteriore conferma di questo c’è il fatto che Lord Aaron abbia taciuto la sua macchia di fronte agli altri…Se fosse una cosa da poco, credo, l’avrebbe detta anche a loro. Invece non ne ha fatto menzione.” Nero immerse le mani nell’acqua “Il respiro di Dio…” disse a se stesso incredulo e si sciacquò il volto. Rimase poi fermo, a guardare la superficie dell’acqua che rifletteva il suo viso pallidamente.

Cleto sbatté di nuovo le ali.

“Non so esattamente quanto di vero ci sia in quello che si dice a riguardo, è una leggenda che c’è fra gli uomini. Si dice che esistano delle persone che per diversi motivi, per la loro devozione, per la loro empatia col prossimo, o per il loro acume, siano stati accolti fra i favoriti di Dio. Si dice che sia lui in persona, oppure uno dei suoi angeli più vicini, a prendersi poi cura di questi prescelti e che questi possano addirittura comunicare con loro, così come possono comunicare con gli animali e la natura …

In realtà, delle storie che si raccontano, penso che ben poco sia vero. Alcuni eroi del passato sono stati elencati fra prescelti, ma…” scrollò le spalle “…ha davvero senso parlare di favoriti da Dio? Non siamo forse tutti uguali ai suoi occhi?

Si dice inoltre, che chiunque respiri l’alito divino, mostri sulla propria pelle una piccola macchiolina ad anello, come segno di riconoscimento…Non ne avevo mai vista una, a dire il vero.”

Nero guardò Cleto “Però tu puoi rispondermi: davvero sei venuto qui perché hai capito che era un eletto, oppure per quale altro motivo?”

Cleto volò vicino al camino, dove il fuoco si stava abbassando.

“Ma guarda che falco viziato che mi ritrovo! Va bene, ravviverò il fuoco, tu però rispondi alla mia domanda”

Nero si chinò e appoggiò dei nuovi tronchetti di legno nel focolare, stando attento a non abbassare troppo la fiamma e sorrise “Lo immaginavo” disse a Cleto. “Io non posso percepirla chiaramente come mi dici di aver fatto tu, ma non mi stupisce sapere che quell’uomo ha un’aura particolare che lo circonda. Semplicemente il fatto che tu ti sia fidato completamente di lui, m’ha dato da pensare: non ti avevo mai visto farlo con nessuno.”.

Cleto, felice dell’alzarsi della temperatura nella stanza, ritornò sulla tastiera del letto.

“Lo so, anch’io parlo con te, non avrei dovuto stupirmi, quindi, che anche qualcun altro sia in grado di farlo. Però è come se ci fosse qualcosa di diverso…Come se…” Nero scosse la testa e si passò le mani sugli occhi affaticati.

“Sì, sono molto confuso, Cleto, non posso nascondertelo. E non è solo il fatto che Lord Aaron abbia quella macchia ad anello sulla nuca, ma anche gli avvenimenti della scorsa notte mi sono poco chiari…” E di nuovo sospirò cercando di trovare le parole.
Scrollando le spalle in segno di resa, iniziò a sbottonarsi i vestiti, per mettersi quelli da notte che gli erano stati piegati ed appoggiati sul letto.

“Vedi cosa intendo?” disse indicandoli “Ha accolto sette stranieri nella sua casa e se ne occupa come i più importanti fra gli ospiti… E’ premuroso.”. Nero sorrise “No, non credo che questo sia un male, amico mio. Ma c’è qualcosa di insolito in lui, sembra quasi che capisca prima del tempo le situazioni e le parole. Per esempio, durante la medicazione, Forgia era vigile e ha chiesto al Lord se avrebbe perso l’uso del braccio. E’ una domanda legittima, dirai tu, ma in quelle condizioni, fatta ad uno sconosciuto, non lo è. Mi sarei aspettato che Lord Aaron fraintendesse, interpretasse le parole di Forgia come ingratitudine nei suoi riguardi… Lui che è persino zoppo, come avrebbe potuto capire una persona che per tutta la vita non ha fatto altro che impugnare spade? Ed invece la sua risposta e il suo volto erano così pieni di comprensione ed umanità che ne sono rimasto sbalordito. Lo stesso Forgia, e sono certo di questo, non si aspettava una risposta così sincera, quasi… calorosa.

E’ buffo, non trovi?” Nero si passò la mano fra i capelli “No, c’è molto di più, troppo…” e sospirando si sedette sul letto appoggiando la schiena ai cuscini “Troppo di più…Sono confuso da questi avvenimenti che non riesco a capire”

Poi s’infilò sotto le coperte “E non capisco se è questo mio stato d’animo a trarre in errore il mio giudizio, ma ho come la sensazione che tutto questo abbia un effetto benefico su Forgia. Non so se sto impazzendo, a dire il vero, ma se davvero Lord Aaron ha respirato l’alito di Dio, può darsi che siamo davvero nell’unico posto d’Inghilterra dove Forgia ha speranze di sopravvivere.”
Chiuse infine gli occhi “Buona notte anche a te”.

 



All’alba della mattina seguente, Nero si svegliò di soprassalto, senza riuscire a ricordarsi perché.

“Ancora incubi...” Si vestì in tutta fretta e corse fuori dalla sua stanza, scendendo le scale verso la stanza dov’era Forgia. Aveva un presentimento, un’intensa sensazione che qualcosa non andasse.

Bussò alla porta impaziente, non sapendo chi fosse all’interno.

Una donna, che riconobbe essere quella che aveva portato il vino e la frutta l’altra sera, gli venne ad aprire “Buongiorno, Josephine” Nero salutò cortesemente la donna, mascherando completamente l’ansia nella voce e si diresse poi verso il letto di Forgia. Questo non gli permise di vedere le gote della ragazza infiammarsi. “Buongiorno a voi, signore…siete sveglio molto presto”

Nero stava osservando Forgia che non sembrava essere in uno stato diverso rispetto a quello in cui l’aveva lasciato la sera prima. Il respiro era leggermente accelerato, probabilmente la febbre era ancora alta, la ferita medicata era tumefatta e gonfia, ma Forgia dormiva tranquillo.

Nero notò che le bende erano tutte nuove.

“Avete badato voi a Forgia questa notte?”

“Oh no signore, io non mi occupo dei malati. Natalie è rimasta con lui finchè il padrone non è venuto”
”Lord Aaron è già stato qui?” chiese Nero stupito

“Oh sì, signore, prima dell’alba.” Annuì Josephine che faceva fatica a parlare.

“Ma se tu non ti occupi dei malati, come mai sei qui? “ Nero le sorrise, l’aver visto Forgia tranquillo e ancora vivo, l’aveva rassicurato.

“Oh” disse Josephine a fil di voce “Il vecchio Lord s’è sentito molto male e lui è dovuto correre nelle sue stanze” Nero aveva sentito Lord Aaron e la stessa Josephine parlare del vecchio Lord la sera prima e chiese “Cos’ha?”

“E’ molto vecchio in realtà. E non si lascia a curare a dovere, non mangia, beve molto vino, fa tanto preoccupare suo figlio che non sa più cosa fare per convincerlo a prendersi un po’ cura di se stesso. Ma lui non lo fa, è testardo e…” Josephine si fermò di colpo e si coprì la bocca con una mano, consapevole del fiume di parole che aveva appena detto “Perdonatemi…”

Nero scosse la testa “E’ testardo? Eppure suo figlio non lo sembra…”

“O no signore, Lord Aaron non assomiglia per nulla al padre, è gentile con tutti, sempre buono anche con la servitù. Lord Thrulow, non parla mai con nessuno, dà ordini e non si occupa di altro. L’ala Est del Castello ha avuto grossi problemi causati da queste piogge, e nei piani più bassi ci sono le stanze degli stallieri, John e Michael hanno la loro età, con l’umidità hanno male alle ossa, e Lord Thurlow non s’è preoccupato, mentre il padrone li ha invitati nella parte più calda del castello, nell’ala Ovest, nelle stanze sotto le vostre e…” di nuovo s’interruppe, guardando in basso e diventando così rossa che il nero fece fatica a trattenere il sorriso “Scusate, parlo troppo signore, è che quando mi prende… e poi se mi viene chiesto del padrone io…” incapace di concludere una frase e resasi conto che più andava avanti più aggravava la sua situazione di imbarazzo, Josephine decise che fosse meglio andarsene “Io vado, Signore, se avete bisogno chiamatemi, presto penso che ritornerà il padrone” e con un inchino frettoloso, uscì dalla stanza. Poco ci mancò che non si mise a correre.

Rimasto solo, Nero guardò di nuovo Forgia, gli toccò la fronte, per sentirne la temperatura. Era ancora alta.

Ripensò alla sera prima, a quella netta sensazione di sicurezza che aveva provato. Forse il suo giudizio lo stava davvero tradendo perché, purtroppo, la situazione di Forgia era così grave che gli sembrò sciocco farsi prendere da un inutile ottimismo. Eppure anche quella mattina, il presentimento che, forse, c’era speranza non lo abbandonava.

Qualcuno bussò alla porta e poco dopo comparve una donna anziana. Ricurva su se stessa, si sistemò lo scialle prima di presentarsi “Buongiorno signore” disse accennando un inchino impercettibile ma che costò evidentemente un grande sforzo alla sua schiena. Senza aggiungere altro, si diresse verso il camino, molto più velocemente di quanto Nero si sarebbe aspettato, dopo il faticoso inchino. La vecchia si sedette sulla sedia vicino al fuoco e tirò fuori dalle maniche un lavoro a maglia.

Sorpreso dalle donne del castello incontrate quella mattina, Nero rimase a fissare la vecchia senza dire nulla, finché la donna se ne accorse “Oh cielo, perdonatemi! Le buone maniere!” Disse alzandosi “Il mio nome è Margaret, e sono la moglie del capomastro che si sta occupando del tetto nell’ala Est. Lord Aaron Thurlow m’ha chiesto se potevo rimanere qui a fare a maglia, e a vegliare sul malato” spiegò la vecchia.

“Buongiorno, io sono…”

“Certo che so chi siete! Dei forestieri al castello con un comandante così bello! E’ una notizia che ha già fatto il giro di tutto il paese. E forse se ne parla già anche nei villaggi circostanti!” Nero la guardò incredulo e la vecchia continuò “Andate ora” continuò lei “andate a fare quello che dovete fare, se succede qualcosa qui ci penso io a chiamare Lord Aaron”.

Nero la salutò cortesemente e uscì dalla stanza, scuotendo la testa al pensiero di Josephine e Margaret. Di certo le donne del castello sembravano avere una verve tutta loro.

“Buongiorno” il cavaliere si girò verso la voce nota. Lord Aaron stava scendendo dalle scale “Buongiorno a voi, ho saputo di vostro padre e mi auguro che stia meglio…”
”Più invecchia e più diventa testardo” nonostante il sorriso, dalla voce di Lord Aaron trapelava un velo di preoccupazione “ Ora l’ho finalmente convinto a riposarsi. In cambio m’ha fatto promettere della birra” scosse la testa “Siamo alla fase che io chiamo ‘del baratto improprio’. Lui dorme e vuole della birra per questo. Come se dormendo, facesse un favore a me!”

“Il baratto improprio eh? “

I due risero e Lord Aaron scrollò le spalle.

“Buongiorno Lord Aaron”, comparsi dalla porta opposta alle scale, Cencio e Luppolo s’affrettarono a chiedere notizie del compagno.

“La febbre è ancora molto alta” spiegò Lord Aaron “tuttavia la ferita mi pare sia migliorata. Forse è troppo presto per qualunque affermazione ottimistica, ma mi sento più sereno”.

“Non so come ringraziarvi” disse Cencio quasi emozionato alla notizia. Due notti prima s’era sciolto in lacrime per la paura di perdere un compagno, in quel momento non trovava parole per ringraziare chi gli stava dando speranza in qualcosa di diverso.

“Volete unirvi a me per la colazione?” sorrise loro il padrone del castello.

“Volentieri”
”Avrai una fame incredibile…”

“C’è poco da ironizzare Luppo, sto morendo di fame!”

“Mi chiedo” lo canzonò il compagno “come potessi resistere a pane e acqua quando vivevi …”

“Non una parola di più” alzò il dito Cencio con aria petulante “quel signorotto sadico e volgare, tale Guido – e non uso titoli onorifici perché non se ne merita neanche uno – “ commentò “è parte del passato che non ho intenzione di ricordare. E poi dimentichi, caro il mio Luppo, che dalle mie parti esistono alberi da frutto che producono una tale quantità di delizie…”
”Ancora con questa storia” sbuffò Luppolo

“Non è colpa mia se in Italia c’è il sole” Cencio finse un tono offeso.

“Italia o Inghilterra, sole o non sole Cencio, quello che facevi tu è ovunque conosciuto come rubare!”

“E’ il destino che m’ha obbligato!”
”Ecco che interpreta il suo ruolo melodrammatico…” sospirò Luppolo fingendosi esasperato. La piccola diatriba fu interrotta dalle risate di Lord Aaron. All’udirle, negli occhi di Cencio comparve per un attimo del panico. S’era lasciato andare allo scherzo come faceva sempre con Luppolo, ma aveva appena ammesso di fronte ad un Lord Inglese d’essere un ladro.

Ma non c’era niente di accusatorio nella risata dell’ospite che lo rassicurò “Non ti preoccupare, non ho intenzione né di accusarti né tanto meno di inorridirmi, se è quello che pensi. Non è mia abitudine giudicare le persone per quello che sento dire o per un passato di cui non conosco le cause. Se poi è il destino che t’ha obbligato” canzonò il ragazzo enfatizzando più del dovuto la sua stessa frase “chi sono io per criticare?” concluse ridendo di nuovo. Le sue parole rasserenarono così tanto Cencio che anche lui scoppiò a ridere “Vedi, Luppo, lo dice anche Lord Aaron”.

Luppolo, anche lui stupito dell’atteggiamento dell’ospite, non poté che concludere come sempre “Tu hai l’aria in testa, ragazzo”.

Anche il Nero sorrise, dissipato il ricordo dell’incubo mattutino, rassicurato sulla situazione di Forgia, si sentiva sereno e persino allegro, in quella gelida mattina di Novembre.
 

***

 

BiGi: Felicissima ti piaccia Cencio *_* Il ragazzino ha il suo bel da dire e, non ti preoccupare, avrà anche la sua importanza ^_^

Stateira: Ciao, che bello risentirti ^_^ Il fatto che manchino i punti è... ehm... un recesso mostruoso si una mia scrittura a getto. Con il proseguire della storia, per fortuna, i punti compariranno. Spesso tornavo indietro e mettevo i punti che mancavano, ma probabilmente per inesperienza, i primi capitoli mancano di un sacco di punti (devono avermi fatto qualcosa di male in una vita precedente °_°). Non ero abituata a metterli (se noti, sono solo quando c'è un punto e a capo.). A volte, anche ora, rileggo il capitolo e ne aggiungo alcuni. Probabilmente, piano piano, aggiungerò tutti quelli dovuti.
Sono proprio contenta che le descrizioni non dettagliate ti piacciano e aiutino a fomentare l'aura di mistero. Del resto, quello era il fine. Dei personaggi si scoprirà a poco a poco, e di conseguenza anche della loro fisicità ^_^ E non ti preoccupare, anche gli altri avranno il loro ruolo. Cencio, poi, non potrebbe fare solo da comparsa (con quel carattere esuberante che ha, non lo accetterebbe mai XD). Un bacione
 

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Capitolo 5
*** 05. Solitudine ***


Nuova pagina 1

Ma quanto è santo il venerdì sera? Grazie al cielo esiste il venerdì (che perle di saggezza che lascio XD).

 

 

Capitolo Cinque

- Solitudine -
 





Si può morire di solitudine?
Se si scomparisse, se ci si potesse anche solo per un attimo dissolvere, chiudere gli occhi e non pensare a niente e non ricordare nulla, tutto questo potrebbe essere chiamato morte?
Aaron non lo sapeva. Guardava davanti a sé, dalla terrazza dell’ala Sud del castello, con i suoi occhi che si perdevano in un azzurro terso.
Il cielo, così calmo di mattina, pareva dipinto con qualche pennellata qua e là da un autore inesperto che macchia di bianco la tela. Le poche nuvole sembravano sciogliersi nella brezza, e lui non poteva fare altro che guardarle ed invidiarle.

Sospirò nel vano tentativo di sollevare dal cuore quel peso che ormai era così radicato che sapeva esserne parte integrante.

Passò un uccello solitario che lui salutò con un gesto.

Tutto finito, in un attimo il cielo era di nuovo splendidamente e solamente azzurro.

Si sedette su di una panchina in marmo e chiuse gli occhi, lasciando che i suoi capelli venissero accarezzati dal vento. In lontananza poteva udire delle voci, ma non riusciva a distinguere le parole. Sembravano un accavallarsi di suoni che, anche loro portati dall’aria, scomparivano appena generati.

Anche loro, come tutto, se ne andavano, ma non lui, che rimaneva sempre in una solitudine austera e assoluta.

Si può dunque morire di solitudine?





C’era un profondo senso di colpa in quella domanda, perché sapeva che offendeva chi non c’era più. Pensò a suo fratello, al suo sorriso e ai loro giochi, agli anni felici trascorsi insieme prima della loro malattia.

Nella sua memoria, Aaron divideva con meticolosa precisione la sua vita in due parti: prima della malattia e dopo. Fra questi due periodi, poi, c’erano dei giorni che non ricordava bene, che a volte pensava di aver scacciato e altre volte invece riteneva solo di avere dimenticato.





In quei giorni aveva piovuto, di questo era sicuro.

Lui e suo fratello William avevano preso i cavalli nonostante il divieto del padre e avevano galoppato a più non posso. Forse stavano gareggiando, Aaron non lo ricordava. Né si ricordava esattamente il motivo per cui avessero disobbedito agli ordini paterni, ma Aaron si ricordava però di aver detto qualcosa e di aver persuaso il fratello più piccolo di qualche ora, a prendere il cavallo e lanciarsi di corsa sui prati.

Come si era divertito, le goccioline d’acqua che gli picchiavano sui denti mentre lui rideva! E anche William aveva riso, forse…

Tornati a casa, sgridati castigati, i due fratelli avevano iniziato a non sentirsi bene. Un piccolo fastidio alla testa prima e la febbre poi…

Pioveva molto in quei giorni, Aaron era sicuro solo di questo.





Su quella panchina, quindici anni dopo, Aaron non riusciva ancora a ricordare nient’altro…Oppure a dimenticare, non gli importava. Voleva solo che questo sentimento di enorme colpa ed incredibile insicurezza gli fosse levato dall’animo che invece, per tutta risposta, gli chiedeva se fosse giusto morire e, finalmente arrendersi.



Le voci di quei giorni lontani erano confuse, la febbre gli aveva impedito di stare vicino a suo fratello che gli dicevano indebolirsi sempre di più…

Su quella panchina, quindici anni dopo, Aaron poteva ancora sentire lo scricchiolio della porta che s’apriva, la vecchia Dalia entrava con una candela in mano ed un’aria greve in viso. Il piccolo Aaron era semi incosciente sul letto, respirava affannosamente e non sentiva più le gambe.

“Cucciolo” gli aveva detto la balia “non riesci a muoverti neanche tu?” e con la mano callosa e dolce gli aveva scostato i capelli zuppi di sudore dalla fronte “come William, anche lui aveva smesso di muoversi”.

Quell’aveva era lì, chiaro ma incomprensibile. Aaron fece la più ingenua delle domande:

“E ora?”
Sapeva già la risposta, perché il volto di Dalia e le parole della nutrice gliel’avevano già data, ma aveva bisogno di sentirla “E’ morto poco fa”.

Questa frase segnò nel cuore di Aaron una fine: il suo animo di bambino di dieci anni scomparve.

Si dice spesso che fra due gemelli c’è una connessione speciale, una particolare empatia che solo loro possono capire. E Aaron non sentiva il fratello morto, avrebbe giurato fosse di là, steso sul suo letto, malato come lui.

“Ma non è…” vero, avrebbe voluto concludere, ma il volto di Dalia non lasciò invece spazio ad obiezioni.

La disperazione che provò fu però soppiantata quasi immediatamente da un altro sentimento. Nell’istante in cui Dalia gli asciugava il corpo dal sudore e gli faceva bere quell’infuso che non aveva salvato il fratello, Aaron si era rasserenato: anche lui presto sarebbe morto. Pensare di separarsi così bruscamente da una parte di sè è difficile e il piccolo Aaron riteneva impossibile, che lui e suo fratello vivessero separati. La servitù spesso confondeva l’uno per l’altro, loro padre non li distingueva, persino Aaron stesso non avrebbe saputo tracciare bene il confine fra se stesso e William, come poteva pensare che non sarebbe morto anche lui?

Si era quietato quindi e aveva chiuso gli occhi, sdraiato sul suo letto, forse aveva sorriso leggermente: era solo questione di tempo.

E così aveva aspettato. Non sentiva più male, né aveva più freddo. Placidamente si lasciava maneggiare dalle sapienti mani di Dalia e cullare dalle sue canzoni. Non doveva avere fretta, quella nostalgia sarebbe scomparsa di lì a poco.

Ma il tempo passava, giorni interi senza nessun cambiamento.

E poi era arrivata la notte che aveva segnato l’inizio del “dopo”.



Adulto e ormai consapevole di quello che era successo, Aaron tremò ancora al ricordo, sul balcone dell’ala Sud.



Quella notte era illuminata da un piccolo spicchio di luna che emanava luce azzurrina. Il cielo era terso, ma brillavano poche stelle. La vecchia Dalia, sfinita, s’era addormentata sulla sedia di fianco al letto di Aaron, il suo volto appariva ancora più vecchio e stanco del solito, appoggiato su una spalla e con la cuffietta dei capelli leggermente slacciata e pendente da un lato. Era spossata, la vecchia nutrice, dalle lacrime piante per un bambino e dalle cure date all’altro, nella speranza di non dover dire addio anche a lui.

Aaron, però stava bene, meglio dei giorni prima, e aveva tentato quindi di mettersi a sedere. Era riuscito, con enorme fatica, perché non sentiva più le gambe. Le aveva guardate, immobili, e aveva provato a muoverle, ma loro non avevano obbedito.

La finestra s’era aperta di colpo e una folata d’aria tiepida era entrata nella stanza, avvolgendola di un intenso odore di rosa. Aaron aveva guardato in direzione della finestra, non aveva visto niente se non un leggero bagliore. La brezza all’interno della stanza non si quietava, e ad un tratto aveva accarezzato il viso del bambino. I suoi capelli biondi si erano sparpagliati al vento, come se fossero mossi da una mano invisibile e poi aveva sentito un tocco dolcissimo sulla nuca, un bacio di una tenerezza mai provata prima. Era stato allora che Aaron aveva creduto di sentire la voce del fratello:

Ci rivedremo, ma non adesso, ora vivi, perché io vivrò con te.

E poi tutto d’improvviso era scomparso: il vento, la voce, il tocco del suo collo e la luce sulla finestra. Era svanito tutto e Aaron, preso dal terrore, si era coperto gli occhi con le lenzuola e si era rannicchiato il più possibile nel letto, per quanto le sue gambe rimanessero immobili.

Il bambino si era svegliato tre giorni dopo, sfebbrato e guarito. Tre giorni di cui Aaron non ricordava nulla, tanto che aveva pensato di essersi sognato tutto, anche la voce di William.

Aveva guardato la finestra da cui era entrata la brezza e la voce di suo fratello: era aperta, ma all’ esterno Aaron non sentiva nient’altro che il canto degli uccelli mattutini. Solo allora aveva compreso che niente era stato un sogno, perché gli era parso di sentire un “buongiorno” da uno di loro, un saluto inframmezzato al canto. D’istinto si era portato la mano sulla nuca e aveva sentito pulsare, laddove qualcuno l’aveva baciato. Si era sentito perso. Non felice, non spaventato, solo perso e di nuovo si era accasciato sul letto. Perché era stato risparmiato? Perché suo gemello, così identico a lui, era morto e lui no?

“Vivrò con te” aveva detto William, perché? Non sarebbe forse stato meglio andare via insieme?



Il piccolo Aaron voleva piangere, a dieci anni un’immensa solitudine aveva conquistato il suo animo.

In che cosa William era diverso? Eppure ora, tutt’intorno a lui era cambiato, il mondo in cui aveva vissuto e che aveva conosciuto era svanito.

Toccandosi la nuca, Aaron non aveva potuto fare altro che piangere.



Dalia non capendo perché il bambino fosse scoppiato in lacrime, s’era svegliata di soprassalto. Scambiando il pianto per semplice tristezza, gli aveva detto:

“Piccolo mio, non rattristarti, William sarà sempre qui con noi”

Aaron era rabbrividito, perché sapeva che suo fratello non era scomparso, lo sentiva ancora vivo. Scelto dal caso oppure da Dio, lui era stato abbandonato sulla terra con le poche parole di William, completamente solo in un mondo che ora gli parlava.



Perchè, si chiese quindi Aaron guardando ancora una volta il cielo terso di fronte a lui, augurarsi di morire? Da quel giorno la sua percezione del mondo era cambiata perchè sapeva che l’anima del fratello era viva. Forse quella brezza dall’odore di rosa era davvero l’alito di Dio, ma di questo Aaron per ora, non voleva occuparsi.

La solitudine di quel giorno quindici anni prima, era stata la sua più fedele compagna da allora.

Sarebbe stato tutto più semplice se avesse potuto morire anche lui, William forse avrebbe capito. Strinse i pugni e in un moto d’ira, colpì violentemente la gamba malata. Non provò dolore, però, solo una lieve sensazione. Dal giorno della sua malattia, la sua gamba era rimasta sopita. Dalia gli aveva detto che era stato fortunato, perché avrebbe potuto imparare a camminare anche da zoppo. Aaron aveva sempre pensato che quella sua gamba fosse così perché portava il peso del suo cuore e di quello di William, ma non aveva cercato di spiegarlo alla nutrice, che non avrebbe mai capito.



Si alzò a fatica dalla panchina gelida e raggiunse il parapetto in pietra. Prese a muovere i piccoli sassolini grigi che vi erano sopra, senza un fine preciso, solo per il piacere di sentirli fra le dita, e sospirò. Tutto quello che vedeva e oltre, quei prati, quei boschi, le terre dei villaggi, tutto gli apparteneva. La servitù lo riveriva e lo adorava, i paesani lo rispettavano e ammiravano. Tutto quello era suo, perché ormai il padre non aveva più le forze per possedere niente. Tuttavia questa opulenza non lo aveva mai reso felice. Sorrise e si sentì un viziato. Se avesse osato dire qualcosa del genere a chi faceva un solo pasto al giorno sarebbe stato accusato di arroganza e presunzione , lui però avrebbe ceduto tutto quello anche solo per qualche momento senza la sua perenne compagna: la solitudine . Per un’amicizia. Perché in fondo, quello che avrebbe potuto sollevarlo ed allietargli l’animo era semplicemente questo. Ma nessuno gli era veramente amico, delle mille persone intorno a lui, nessuno lo considerava tale. Era il padrone, il figlio, il medico o il proprietario, ma mai un eguale. La malattia di suo padre, poi, l’aveva obbligato a rimanere nelle sue terre e a spostarsi raramente, molto meno di quanto avrebbe voluto.

L’essere un figlio devoto non gli pesava particolarmente, Aaron amava il padre per quanto burbero e scontroso questo fosse. Però inevitabilmente, dopo la partenza della sorella, andata in sposa a Suffolk, lui era rimasto nelle terre dei Thurlow.



Sollevò le dita dal parapetto e le strofinò fra di loro per liberarsi dei granelli che si erano appiccicati alla pelle. Li guardò ricadere sulla pietra e saltare via, rotolare e allontanarsi. Gli sembrò un’immagine quanto mai adatta alla malinconia di quel giorno.



“Avete dei possedimenti meravigliosi” La voce fece trasalire Aaron che, perso nei suoi pensieri, non aveva sentito nessuno avvicinarsi.

“Mi dispiace, non volevo spaventarvi”

“Non vi preoccupate, ero solo soprappensiero” Sorrise a Nero non girando però lo sguardo, spaventato dall’eventualità che dal suo viso trasparisse tutta la fragilità di quel momento.

“Anche a detta dei muratori, la cura che avete per le vostre terre è rara. Questo ha portato grande prosperità.” Sorrise “ho sentito più elogi in poche ore oggi, di quanti sia solito sentirne in un anno”.

“Non date loro troppo peso, gli uomini spesso esagerano coi complimenti nei confronti di coloro che danno loro da mangiare”

“Al contrario, direi io” Nero si avvicinò anche lui alla balaustra guardando un punto non definito dell’orizzonte “E’ così facile per un padrone rovinare o rendere piacevole la vita di un servo o di un lavoratore, che è proprio l’opinione di questi che deve essere tenuta conto. Ho visto così tanti padroni sfruttare il loro rango e la loro ricchezza a discapito di altri… Di certo, nessuno aveva parole buone nei loro riguardi”. Nero fece una pausa, lasciando che il vento gli scompigliasse leggermente i capelli e spostando lo sguardo su Lord Aaron

“Inoltre, ho personalmente visto come vi siete presi cura di Forgia, quando per voi non era altri che uno sconosciuto…”

A queste parole, anche il Lord staccò gli occhi dal cielo e si strinse nelle spalle per schernirsi, imbarazzato.

“Non vi ringrazierò mai a sufficienza”
”Non è ancora guarito…”

“Lo so, ma senza le vostre cure sarebbe di sicuro già morto”.

Aaron annuì impercettibilmente “Gli siete molto legato, vero?”

“Lo sono, sì. Come a tutti i membri del mio gruppo, che ormai rappresentano la mia famiglia”.



La famiglia pensò Aaron mentre i suoi occhi si velavano di malinconia.

Di nuovo cercò rifugio nell’orizzonte per paura di essere un libro aperto e che la solitudine di quel giorno fosse troppo pesante per essere nascosta. Sentiva il cuore battere nel petto, lentamente come se tutto fosse calmo e naturale, un rumore ritmico e monotono. D’istinto vi mise una mano sopra, per accertarsi che quel suono fosse suo. Lo era, solo e lento come tutto il resto, batteva non ascoltato se non dal proprio padrone.

La famiglia era una parola vuota, parola che Aaron non poteva riempire con il suo passato. William se l’era portata con sé, la sorella l’aveva stemperata nell’apatia e suo padre non l’aveva mai voluta ascoltare. Forse prima dei suoi dieci anni quella parola aveva avuto un senso, un bel significato che a volte riscaldava l’animo di Aaron, ma che con sé portava anche l’aria gelida del ricordo dei giorni in cui tutto era finito. E il tempo trascorso dopo quei giorni, più lungo e più lento, sembrava nascondere e schiacciare i rimasugli di ricordi felici che anzi, in giornate come quella, non lo lasciavano stare, ritornavano e ritornavano ancora a ricordargli cosa non avrebbe mai più avuto.

“Non dovete cercare di nascondere il vostro stato d’animo” .
Aaron si girò di scatto verso il Nero. Che insolente! Come poteva un uomo sconosciuto pronunciare una frase di sufficienza come quella appena detta? Con che diritto un ospite si permetteva di essere così impertinente da schernirlo e soprattutto, da non passare sotto silenzio di cui non sapeva né conosceva nulla!

Il padrone del castello lo guardò irritato, ma di colpo fastidio e rabbia si dissolsero

Perché di solitudine si può morire.

Furono le parole che sentì subito dopo, intrise di malinconia. Non le aveva pronunciate Nero, ma Lord Aaron le sentì ugualmente e, sbalordito, spalancò gli occhi in cerca di un perché. Si guardarono, stupiti da un qualcosa mai detto ma che toccò entrambi così profondamente che passarono minuti, probabilmente, immobili e increduli. Una semplice frase non detta ma percepita aveva trapassato la superficie di quel dialogo per approdare nel profondo dell’animo.



Chi aveva pronunciato quella frase? O forse l’avevano pensata? O non era mai esistita? Non era insolenza, quella del Nero, né superficialità, tutt’altro, perchè anche lui sapeva che di solitudine si può morire.
 



***
 

Stateira: Che bellissimo! Sono felice che ti piaccia, davvero *_* /me offre una birra per ricompensa ^_^ Se Cleto davvero avesse parlato, sarebbe stato molto poco poetico, per me. Il falco comunica, ma pochi possono sentirlo. Per quanto riguarda le donne del capitolo... eh eh anche se non riesco a creare protagoniste avvincenti (perciò mi butto su uomini belli. Ma il mio è puro interesse scientifico, sia chiaro XD), sono felice che le comparse siano simpatiche. Un bacio

Michan_Valentine: Eh eh eh l'ombroso e il buono sono, in effetti, gli stereotipi da cui sono partita. E' il primo impatto che i protagonisti dovrebbero avere, e che poi vorrei cambiare (smontare, rifare, ricreare? Un po' tutto ''^_^ Dici che è troppo?). Per quanto riguarda Aaron, uno scorcetto lo si ha in questo capitolo, ma è un'infarinatura generale (la "torta" sarà chiara quando sarà finita...oh cielo, che sia un pasticcere invece che una che racconta-storie? °_°''' Cencio apprezzerebbe di certo XD). Mi piacciono tanto le tue recensioni (sempre così dettagliate *hug*). Contentissima di risentirti. Un baciotto (offro una birra anche a te? O te e biscotti?)

Sid1981: Ciao! Grazie per la recensione. Dici che è scritta in modo insolito per una fic? M'incuriosisci (del resto sono un'avida lettrice, ma da poco ho avuto il "coraggio" di pubblicare le mille ed una storie scritte da me...No, non tutte insieme, per carità, rischierei il ban dal sito XD). Un bacio

BiGI: HAHAHA Cencio. Il ragazzo miete vittime *_* Mi ha molto divertito scriverne la storia. Il nostro fanciullo imperverserà XD Bacibaci

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Capitolo 6
*** 06. Mi dai sicurezza ***


Nuova pagina 1

Capitolo Sei

- "Mi dai sicurezza" -
 

 



Aleggiava nell’aria, così, leggera e al contempo intensa: la consapevolezza di aver inteso l’altro senza che ci fosse la necessità di vestirsi di parole e adornare un qualcosa che non era possibile definire a voce. Gli occhi di Aaron, di un turchese al cui confronto il cielo di quel giorno era azzurro pallido, erano fissi e guardavano con stupore l’interlocutore che aveva labbra leggermente socchiuse, una linea perfetta da cui fuoriusciva del vapore sottile. Ma in quel momento non esisteva né il freddo, né le voci che giungevano da lontano, entrambi ancora assordati dalle loro stesse parole.

Poi Aaron sorrise, con un sorriso così sincero e aperto da essere quasi commovente. Sembrò, d’improvviso, molto più giovane, quasi un ragazzino con gli occhi che brillavano. Di fronte a quella tenera debolezza non riuscì a porre immediato rimedio, se non abbassando lo sguardo ed arrossendo, cercando inutilmente di smettere di sorridere. Il Nero lo guardò e sfiorando leggermente l’ampia manica della sua veste, gli fece cenno di sedersi sulla panchina di marmo.

Anche il cavaliere si sedette, sereno. Chiuse gli occhi per un istante, per godere ancora un attimo di quel momento e poi, finalmente, sorrise anche lui.



“Ho sentito che presto ci sarà un matrimonio”

“E’ vero” annuì Aaron “passando per le stalle e per l’ala Est, immagino non abbiate sentito parlare d’altro”.

“Sono tutti in attesa, ho sentito che i preparativi sono già cominciati…”

“Si terrà a breve, si sposa Rebecca, chiamata dal villaggio “La bella”. Vi lascio immaginare quanti cuori infranti…”
”Ecco perché se ne parla tanto, sentivo fra gli uomini un certa invidia” sorrise

“Sì, anche perché chi diventerà suo marito è il figlio del birraio del paese, l’ultima persona che ci si aspettava la prendesse in sposa”.

“ Perché?”

“Credo che sia l’uomo più timido ed impacciato che abbia mai incontrato” Spiegò Aaron “ E’ buono e sicuramente la tratterà bene, ma ci si chiede come abbia fatto a chiederne la mano al padre”.
Il Nero lo prese un po’ in giro “Vedo che siete molto informato sulle voci che girano in paese”.

“Vi sarete reso conto che dopo poche ore fra i muratori, non c’è vita che possa rimanere segreta! Inoltre, voi non conoscete Josephine…”
”Ho avuto modo di incontrarla però” lo corresse il Nero ricordando la serva di quella mattina “e devo dire di averla trovata… loquace”

Aaron rise all’eufemismo del Nero “Siete buono con lei e sicuramente molto generoso!”

Nero si strinse nelle spalle e con l’aria innocente alzò leggermente le mani come per allontanare da sé le parole di Aaron “Sono sincero” e Aaron rise, con una voce cristallina e finalmente priva di preoccupazioni. Il Nero guardò il suo interlocutore, felice di vederlo più sereno. Assaporò il suono di quella risata per un istante; riteneva ingiusto che quel suono fosse stato nascosto dalle ombre che prima avevano coperto il viso di Lord Aaron.

“Di sicuro” continuò l’ospite “in un paio di giorni Josephine vi avrà messo al corrente del vero e del quasi vero sulla maggior parte degli abitanti della zona. E di sicuro conoscerete i due sposi prima di vederli”

“Ho sentito che parteciperete anche voi al matrimonio”.

“Lo trovate insolito?”
”Molto, se devo essere sincero.”

Aaron fece un gesto per schernirsi “Mi hanno invitato…”
Il Nero sorrise e abbassò la testa. I capelli scuri gli caddero davanti agli occhi e non fece nulla per spostarli: guardò attraverso quei fili d’ebano il padrone del castello.

“Non è quello che intendevo…”
”Lo so, ma io penso sia sbagliato rinchiudermi fra i miei possedimenti e le mie mura. Forse perché sono cresciuto qui, lontano dalla vita di corte e dalla maggior parte degli altri nobili, ma mi sembra sciocco declinare un invito semplicemente perché vivo in un castello”

Il Nero mosse leggermente il viso, ma lasciò ancora i propri capelli dov’erano “Una persona lontana una volta disse qualcosa di simile, e mi ricordo che pensai che se mai qualcuno in Inghilterra avesse detto lo stesso, quest’isola sarebbe davvero potuta diventare un posto migliore”

“Pochi si comporterebbero come me perché sono pochi quelli che vivono a miglia di distanza da un loro eguale” Disse Aaron inspirando profondamente “Probabilmente se fossi costretto ad andare giorno dopo giorno a fare presenza nei salotti e nelle corti di altri nobili, sarei così stanco di festeggiamenti inutili che anch’io non andrei ad un matrimonio…” Poi aggiunse sottovoce, cambiando discorso d’improvviso “Dal rispetto che sento nella vostra voce, doveva essere un grand’uomo, la persona alla quale vi riferite”

Ma Nero non rispose subito, si limitò a girarsi e guardarlo “Lo fate spesso vero?”
”Fate cosa?” Chiese con un sorriso stupito Lord Aaron

“Io non penso che sareste diverso a Londra. L’attenzione che vi ho visto mettere nel prendervi cura di Forgia, quello che dite… Non sono dovute alla città di nascita, ma piuttosto alla vostra indole”

Fu di nuovo il vento a rispendere, con una folata scompigliò i capelli d’oro di Aaron che si girò verso il cielo. Cleto stava volando nell’azzurrò terso di fronte a loro. Lì a terra, fra quelle pietre dell’ala Sud, rimanevano domande non risposte e un insolito stato di quiete.

Aaron lottò contro un intimo istinto di fiducia nei confronti del suo interlocutore. Quell’uomo sconosciuto suscitava in lui un sentimento di pace a lungo dimenticato. La sera prima, senza neanche accorgersene, gli aveva mostrato il marchio sulla sua nuca, perché anche adesso sentiva che, qualunque cosa avesse detto, sarebbe stata al sicuro?
Si sentì protetto, senza una ragione. Guardò il Nero di fianco a lui che non premeva né per delle risposte, né per una conversazione che ormai, era chiaro ad entrambi, leniva la loro anima, e non solo con le parole. Il cavaliere aveva gli occhi grandi e scurissimi, leggermente allungati, le ciglia lunghe che li incorniciavano erano, se possibile, ancora più scure. Erano così intensi che Aaron non potè fare a meno di chiedersi che cosa avevano visto e vissuto. Si portò le ginocchia al petto e vi appoggiò la testa, ancora intento a guardarlo, e solo dopo un po’ il Nero si girò a sua volta, stupito di quell’osservazione protratta.

“Siete una persona che dà molta sicurezza, lo sapete?” si spiegò Aaron “e dai vostri occhi date anche l’impressione di essere molto attento e curioso…eppure non mi avete chiesto ancora nulla della mia macchia sulla nuca”
”Ugualmente voi non m’avete chiesto chi è l’uomo a cui mi sono riferito poco fa, anche se sono certo che siete stato tentato”.

Aaron stava per protestare, ma si rese subito conto che Nero aveva ragione. C’erano mille e più domande che voleva rivolgere al suo nuovo ospite, ma aveva preferito non farne nessuna.

“Avete ragione” ammise sconfitto “ci sono molte, moltissime domande che vorrei farvi e che non oso, forse ne avremo modo in futuro?” suggerì Aaron con un pizzico di speranza nella voce, perché, si rese conto, era affascinato ed incuriosito da quello straniero, e da tutto ciò che quegli occhi sembravano portare con sé.

“Mi farebbe piacere” mormorò il Nero quando le grida di Margaret coprirono la sua voce.

“Mio Signore, Lord Aaron, presto accorrete!”
Il biondo s’alzò di scatto dalla panchina, preoccupato per l’estrema urgenza nella voce della donna. Prese il suo bastone e si diresse verso chi lo chiamava

“Mio signore, il malato… sta delirando!”





I cavalieri rimasero ad aspettare in una delle sale vicine alla stanza in cui era tenuto Forgia. Cencio, che non riusciva a stare fermo per l’agitazione, camminava avanti e indietro, davanti alla sedia di Luppolo. Quest’ultimo avrebbe voluto protestare, dato che il ragazzo così facendo non faceva altro che aumentare la tensione del momento, ma non ne ebbe il cuore. Così astuto e freddo in battaglia, Cencio ora sembrava un ragazzino piccolo ed impaurito, coi suoi capelli castani scompigliati sulla fronte e la sua andatura leggermente dinoccolata.

“Cencio” gli disse poi in tono dolce, ma non riuscì a concludere la frase. Dire che sarebbe andato tutto bene non aveva senso, perché Luppolo sapeva sarebbe stata una menzogna. Il filo di speranza a cui tutti erano aggrappati in quel momento si stava spezzando.

Cencio si girò verso di lui e lo guardò con occhi immensi, con la speranza che Luppolo potesse dire qualcosa per risolvere la situazione. Lo scozzese lo prese per mano e lo attirò a sé, delicatamente gli sistemò i capelli dietro le orecchie e gli accarezzò il viso. Il gesto e il sorriso che ne seguì fu di tale tenerezza che Cencio si calmò leggermente. La paura che albergava nei suoi occhi pochi attimi prima, fu sostituita dalle lacrime. Non lasciando la sua mano, Luppolo fece cenno a Cencio di andarsi a sedere vicino a lui. Il ragazzo rimase immobile, come ancorato al terreno e, non riuscendo ad impartire nessun ordine alle sue gambe, si sedette lì dove si trovava, per terra davanti a Luppolo, esausto e sconsolato. Appoggiò la testa sulle ginocchia dell’amico e tirò su col naso. Questo rumore e l’ardere del fuoco erano gli unici suoni che potevano essere sentiti in quella stanza.

Il Nero era in disparte, appoggiato come suo solito con la schiena al muro e le braccia conserte.

Siete una persona che dà molta sicurezza. Nella sua mente riascoltò quella frase e la voce che l’aveva pronunciata. Di quella sicurezza ora, non ne trovava traccia in sé, non aveva parole né altro che poteva dire per rassicurarsi. Tuttavia il ricordo gli dava un insolito piacere.

Sospirò.



I pensieri di tutti, i singhiozzi di Cencio e persino lo scoppiettio del fuoco parvero dissolversi quando comparve alla porta Lord Aaron: tutti rimasero in attesa. L’ospite non disse una parola, fece solo un elegante cenno con la mano al Nero, chiedendogli di avvicinarsi.

Delicatamente, poi, gli si accostò e cominciò a bisbigliare qualcosa che gli altri non riuscivano a sentire. Nero prima spalancò gli occhi, sorpreso, poi, fra lo stupore generale, scoppiò a ridere.

Se non l’avessero visto, nessuno dei cavalieri ci avrebbe creduto: Nero sorrideva, tutt’al più la sua risata poteva essere contenuta, era da tempo invece che nessuno lo vedeva più ridere di gusto. Finito quel dialogo sommesso, Lord Aaron se ne andò come era venuto: in silenzio.

“Ha chiesto birra e carne e ha minacciato la povera Margaret strappandosi i vestiti di dosso ed inseguendola nudo per la stanza”

Il silenzio si fece ancora più intenso

“Cioè, mi stai dicendo che sta bene?”

“Bene no, perché ha ancora la febbre alta, “ disse il Nero aggiungendo, più per sé che per gli altri “il che giustificherebbe questo comportamento delirante”; riprese poi a parlare con gli altri “Però pare sia ormai fuori pericolo”.

Vi fu un’esplosione di gioia “Ma quando guarirà” chieste Guardia “Possiamo vederlo” chiese Levante, Cencio dal canto suo, nella totale irrazionalità, cominciò a saltare quasi preso lui stesso da un raptus delirante, finchè non gettò le braccia al collo di Luppolo che non resse all’impatto e cadde all’indietro sul divano

“E’ salvo!!” gli gridò in faccia

“Questo l’avevo capito anch’io senza che tu m’abbattessi”

“Sei un insensibile, come sempre! E’ salvo!!” gli occhi di Cencio brillavano così tanto che Luppolo non ebbe il cuore di continuare col suo solito sarcasmo “Sono davvero felice” gli sorrise, arruffandogli i capelli.

Un attimo dopo però, Cencio era già in piedi, a fianco di Nero “Allora, quando potremo vederlo, come sta? Cosa faremo? Perderà l’uso del braccio…”

“Cencio” lo interruppe il Nero con voce minacciosa “una sola domanda in più e stasera niente cena”

Cencio si zittì di colpo

“Hai trovato l’unico modo per far tacere il nostro amico” rise Luppolo, poi riprese in tono più serio “notizie più dettagliate?”

“A cena, Lord Aaron ci metterà al corrente della situazione. Sarà servita fra un’ora”.





Nero uscì sul balconcino della stanza. Voleva rimanere per un attimo da solo: la preoccupazione per le condizioni di Forgia, la notizia poi che le sue condizioni sarebbero migliorate, le parole di Aaron e la sua voce bisbigliata, la stessa voce che sorrideva cristallina poco prima sul balcone… Voleva avere modo di capire, di riordinare tutto nel suo animo, nella calma della sera.

Sul balcone l’aria era fredda, ma il vento era cessato. C’era un profondo silenzio, solo il fruscio degli alberi in lontananza lo inframmezzavano, il cielo era particolarmente limpido e si vedevano tantissime stelle. Sembravano voler disfare le maglie della notte con la loro luce, il manto buio che aveva avvolto il castello era intarsiato di diamanti. Alcuni brillavano di più, altri di meno, il silenzio che li circondava li rendeva ancora più misteriosi.



“C’è qualcosa che ti preoccupa?”

Nero si girò a vedere chi avesse parlato, perché, perso nei suoi pensieri, non aveva riconosciuto la voce.

“Anche tu vieni a guardare le stelle, Chiaro?”

“In realtà ero venuto a cercare te, oggi non ti ho visto per buona parte del giorno…”

Nero rise fra sé e sé “Sono stato rapito da dei muratori con una parlantina particolarmente vivace e da alcune donne che m’hanno aggiornato sugli eventi mondani di qui a poco…”
”Eventi mondani?”
”Un matrimonio, pare che una tale Rebecca si stia per sposare…”

Chiaro non parlò subito, ma guardò anche lui il cielo stellato “Quindi rimarremo qui per molto” disse infine in un sospiro, lasciando trasparire la voglia di andarsene.

Nero scosse le spalle “Non so bene ancora… Purtroppo, dal poco che Lord Aaron m’ha detto, Forgia sebbene fuori pericolo, non guarirà in fretta, inoltre avrà bisogno di molte cure per riprendere l’uso del braccio. E’ probabile quindi, che dovrà rimanere qui ancora molto”
Chiaro sembrò leggermente stizzito e sbuffò. Nero non riuscì a trattenere il sarcasmo “Ormai sei grande per sbuffare, mio buon amico. Ma non ti preoccupare, se davvero Forgia dovrà rimanere qui a lungo, starò io con lui e non vi obbligherò a rimanere. Ora che abbiamo compiuto quello che Re Edoardo ci ha chiesto, possiamo tornare alle nostre case per un po’, ci meritiamo un po’ di pace.”

“E tu? Non torneresti a casa con me?”

Nero guardò in faccia il suo interlocutore con un espressione a metà fra lo stupito e l’irritato

“Quella non è casa mia, Chiaro. Non ho motivo per tornarci”

“Ma non è vero…”
”Chiaro, basta così!” tagliò corto Nero “Ti ho già ripetuto che non voglio tornare più sull’argomento. Quella è casa tua, non è casa mia, e non ho intenzione, né motivo, di tornarci”
Chiaro fece per protestare di nuovo, ma gli occhi di Nero lo fermarono.

“Gli altri decideranno cosa fare, se andare o restare. Tu fa’ come ti pare. Dal canto mio non mi dispiace rimanere qui per un po’. E’ una parte molto quieta d’Inghilterra e Lord Aaron è stato così gentile da aprirci le porte di casa sua”

Chiaro sospirò sconfitto. Tornare a casa senza Nero, per lui, non aveva molto senso. Tornare e ritrovare suo padre e sua madre, sì, ma Nero era suo fratello e la persona per la quale aveva abbandonato tutto. Lo aveva inseguito prima in Oriente e poi in Europa, ma aveva la netta sensazione di non averlo ancora del tutto ritrovato.
 

***
 

Michan_Valentine: Ciao ^_^ Sì, le tue recensioni mi piacciono davvero, sei sempre molto attenta *_* Non so se questa storia abbia raggiunto "il massimo" ora, o se mai raggiungerà "il massimo", qualunque esso sia. Sono però contenta che tu me lo dica, che mi sproni e che comunque, lo annoti. E questa, credimi, non è semplice retorica. Esistono dei commenti e delle critiche oggettive (l'errore, il nonsense etc) ed esistono delle critiche soggettive che, anche se non sono insindacabili, a mio modo di veder sono forse più importanti. L'opinione soggettiva, quel che qualcuno pensa è fondamentale. Poi, magari, quello che viene detto non rispecchia quello che io penso oppure quello che io volevo trasmettere con racconto, ciononostante è materia di confronto e di riflessione. Altrimenti, non sarei qui a leggere e a scrivere. (e poi, detto fra me e te, io sono ben lunghi dal mio massimo, che mi ostino a cercare. Per ora è piuttosto lontano, ahimè :/). Per tornare alla storia nello specifico, oltre a non essere recentissima (neanche troppo vecchia, direi di un paio di anni) è  lunga. Di conseguenza l'ho strutturata in modo tale che alcuni personaggi e alcuni eventi prendano forma solo strada facendo. Altri evolvano fra le righe. Nero, poi, è il principe per questo tipo di costruzione XD (po'rello, mi ci sono dedicata ahahahah). Che dire, tirare le fila di più discorsi m'ha impiegato un pochino di capitoli... °_°(E poi mi si dice che sono logorroica, chissà perchè XD). Un bacione

BiGi: Aaron è un personaggio che ha fatto della solitudine la sua forza. Non mi dilungo, altrimenti rischio spoiler, ma sono felice che si sia percepito il suo malessere *_* Un bacio

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Capitolo 7
*** 07. Tornare a casa ***


Nuova pagina 1

Un capitolo un po' interlocutorio, ma che pone importanti basi ^_^v Devo dire che Liberaci dal Male è un racconto che si prende il suo tmepo, per conoscere bene i personaggi, ma credo che postando i capitoli velocemente, si riesca comunque a stare bene dietro al racconto  ^_^

Mi raccomando, ci tengo a sentire la vostra opinione. Non siate timidi e fatemi contenta: recensite ^_^

 

Capitolo Sette

- Tornare a casa -






“Allora rimaniamo qui?”

“Hai sentito anche tu Lord Aaron, Forgia non si rimetterà prima di Natale, poi avrà bisogno di cure per il suo braccio…”
”Quindi abbiamo deciso di fidarci e restare?”

“Non capisco perché tu sia così diffidente, Chiaro. Hai visto anche tu che ferita aveva Forgia: sarebbe morto, ed invece Lord Aaron l’ha salvato. Non abbiamo dunque ragione di pensare che ora farà diversamente”.

Chiaro non sembrava del tutto convinto, ma non trovò nulla da dire per replicare.

“Penso che non si possa dubitare delle intenzioni del nostro ospite che inoltre ci permetterebbe di rimanere qui, fin quando Forgia non sarà guarito…”

Nero si scostò dal muro al quale era appoggiato. Fece due passi verso il gruppo di cavalieri ma non parlò subito, si picchiettò le dita sulle labbra pensoso “…fino a Primavera” disse come concludendo il corso dei suoi pensieri ad alta voce.

“Fino a Primavera? Intendi che dovremmo rimanere qui fino a Primavera?” chiese Chiaro sgomento.

Nero focalizzò la sua attenzione sui suoi interlocutori:

“Chiaro” sospirò “ne abbiamo già parlato, non voglio ripetermi” lo fissò con uno sguardo così intenso che l’amico non potè fare altro se non abbassare gli occhi, tuttavia non si diede per vinto e picchiò il tallone per terra in segno di stizza “ma…”
Nero si spazientì “Una sola parola in più a riguardo, Chiaro” disse con una voce insolitamente profonda “e giuro qui davanti a tutti che ti chiuderò personalmente quella bocca”.

Poche erano le cose che spazientivano il cavaliere e Chiaro, a volte, riusciva ad evocarle tutte. A questa reazione, però, quest’ultimo sbiancò e arretrò di un passo, spaventato da suo fratello. Il labbro inferiore gli tremava leggermente, ma ebbe il buon senso di chiudere la questione.

“Probabilmente Forgia non sarà in grado di essere al meglio di sé fino a primavera, per cui io rimarrò qui con lui”. Pronunciò questa frase lentamente e scandendo ogni parola, dandole un tono inappellabile.

“Tu?”
”Sì, Cencio. Chi vuole restare può farlo, ma non sarà obbligato. Potete tornare alle vostre case, dalle vostre donne, ovunque vogliate. Ci riuniremo qui, all’equinozio di primavera”

“Quindi ci prendiamo una vacanza?”
Nero sorrise “Sì, Cencio, una vacanza…del resto, dici sempre che ce la meritiamo, no?”
”Puoi dirlo, capo!”

“Re Edoardo potrebbe ancora avere bisogno di noi”

“Per quanto eccelsi cavalieri” ironizzò Nero “sono sicuro che potrà fare a meno di noi per qualche mese”
”E poi, Cencio, sarà Natale anche per lui…”

“Già…” sospirò Cencio con aria sognante “Pensate a Londra, sarà vestita a festa, ci saranno banchetti e cibo in abbondanza…”
”Londra non è il paradiso, ragazzo” ma la dissuasione non ebbe alcun effetto sul più giovane del gruppo che con gli occhi sognanti era a miglia di distanza, fra maialini al latte e creme di pistacchio. Sospirò.

“Luppolo, promettimi che un giorno mi ci porterai…”
”E cosa sono, tua madre?”

“No, ma sei mio amico” rispose lui col broncio

“E questo non fa di me il tuo accompagnatore…”

“Troverò il modo di persuaderti!” Luppolo non rispose e si limitò a guardare Cencio e a sospirare. Non staccò subito gli occhi da lui, ma lo guardò ancora per un attimo “Dovrai essere molto convincente…” disse a bassa voce, più a se stesso che al suo interlocutore.

“Io comunque non rimango” disse d’improvviso Chiaro, indispettito ancora dal discorso precedente, abbandonato in modo troppo prematuro. “Torno a casa, mia madre e mio padre saranno contenti di rivedermi e sinceramente, ho voglia di passare un po’ di tempo nelle mie terre…”

“Penso di andare anch’io…” Levante non parlava molto, a dire il vero quasi mai. Aveva un pesante accento straniero e probabilmente un po’ per le sue difficoltà nell’eloquio e un po’ per la sua innata riservatezza, rimaneva spesso in silenzio. Ma con poche parole ebbe l’attenzione di tutti che, sbalorditi, si girarono verso di lui

“Torni nelle tue terre? Ci vorrà un mese intero solo per il viaggio!”

L’espressione sul viso di Levante fu elusiva e vaga. Non rispose, forse era meglio che gli altri credessero che tornasse a casa. Ma Nero non gliela fece passare.

“Abbi il coraggio di dire dove vai” lo incitò, trattenendo il sorriso.

“Davvero, non torni a casa? E allora dove vai?”

“A sud…” tentò di sviare il discorso ancora una volta, ma Nero, di nuovo, lo canzonò “Sì, al Sud dai grandi occhi verdi…”
Levante, ormai incastrato non potè che annuire, rosso in volto.

“Occhi verdi? Una donna?” Cencio, assolutamente incurante dell’imbarazzo del compagno, voleva sapere di più “Ma quando l’hai conosciuta? Dove? E perché noi non ne sappiamo niente”. Vista la reticenza di Levante, il ragazzo girò il suo sguardo verso il Nero che, come il più innocente degli uomini se ne lavò le mani: “Io ho dato il primo indizio…” disse “ …i miei sospetti ora sono realtà. Solo l’interessato vi dirà di più, se vorrà”il suo sguardo tradiva l’espressione di chi la sa lunga.

“Dicci la cosa più importante di tutte è: ha le tette grandi?” Guardia, pratico come sempre, non badava ai dettagli romantici, ma veniva al sodo.

“Ma dai, Guardia, ti sembrano domande da fare? Saranno fatti suoi!”
”Perché tu non sei curioso di saperlo?”
Cencio ci pensò un secondo, poi di girò di nuovo verso Levante “Allora, ha le tette grandi?”

Levante spazientito, imbarazzato e divertito alzò le mani al cielo “Basta, vi racconterò al mio ritorno…”
”Devi vedere come va? Beh, effettivamente …Ma dicci solo, di dov’è?”

“Italiana, figlia di un mercante” rispose Levante e questa donna sconosciuta si conquistò immediatamente la simpatia di Cencio: “Allora hai il mio completo appoggio. Sarà bella, e sarà una donna come si deve. Buon sangue non mente”
”Ovvio che tu sia completamente imparziale…”
”Sto solo dicendo la verità, Luppolo, è inutile fare della facile ironia”

“Voi avete già deciso cosa farete?” chiese Chiaro che non si sentiva partecipe del buonumore del gruppo.

“Oh beh” disse Cencio facendo spallucce “io non ho un posto dove tornare. Né una donna da andare a trovare, quindi rimango qui”

“Io torno in Spagna” disse Guardia.

“Anch’io rimango “ disse Luppolo.

“Ma come, non hai una casa che t’aspetta in Scozia?” chiese Chiaro. Anche il Nero si stupì della decisone di Luppolo. Aveva una casa a cui tornare e sicuramente una famiglia e parenti che sarebbero stati contenti di riaverlo fra loro.

“Sì, ma non s’aspettano che torni adesso. Preferisco rimanere qui…”. C’erano sicuramente altri motivi che spingevano Luppolo a rimanere, però non sembrava intenzionato a dirli, s’augurò che questa blanda giustificazione fosse sufficiente.

“Quindi rimaniamo in quattro. Mi aspetto torniate entro l’equinozio di Primavera. Se non vi farete vivi, manderò Cleto a cercarvi. M’aspetto, nel qual caso, anche di ricevere vostre notizie”.

Gli altri annuirono. Si congedarono dopo poco per andare a letto. Finalmente avrebbero dormito un sonno tranquillo, con la consapevolezza che Forgia si sarebbe rimesso.







La pioggia cadeva fitta dal cielo grigio. Il Nero era sdraiato sull’erba, in un piccolo giardino interno del castello e lasciava che l’acqua gli inzuppasse i vestiti. Non guardava niente di particolare, solo le nuvole che si rincorrevano e si trasformavano, ma sembravano fisse ed immutabili. La cupezza del cielo era la stessa che dimorava quella mattina nel suo cuore. Nero si sarebbe messo a ridere all’immagine di lui, fradicio sull’erba, ma non ne aveva la forza.

A volte capitava che la malinconia avesse il sopravvento e le parole di Chiaro del giorno prima non avevano fatto altro che riportare in superficie ricordi e sensazioni che avrebbe voluto dimenticare. Quella che Chiaro si ostinava a definire casa loro, Nero la considerava ciò che vi era di più lontano da casa sua. Tutto ciò che questa rappresentava, lei e i suoi abitanti, avevano segnato così tanto la sua infanzia che, arrivato al limite, se n’era andato. E da allora, da ben quindici anni, non aveva più rimesso piede in quelle terre. I genitori di Chiaro chiedevano spesso di lui, ma Nero non ne voleva sapere, tanto erano stati incapaci e gretti in passato.



Quello che desiderava in quel momento era sciogliersi nel vento e scomparire, per dare un po’ di pace alla sua anima. Ma l’unica cosa che riusciva a fare era rimanere immobile a terra, con la pioggia che gli bagnava i vestiti ed i capelli.



Che cosa voleva? Non lo sapeva con precisione, spesso se l’era chiesto ma non era riuscito a trovare una risposta….Tornare indietro ed affrontare quello che gli altri definivano casa sua non aveva senso. Del resto, le uniche due persone a cui era veramente legato, la cuoca Gillian e il suo maestro d’armi Anselm, erano morte già da un po’. L’unico suo vero rimpianto era quello di non esserci stato quando s’erano ammalati. Ma era sicuro che dal Paradiso lo guardassero e sapessero dell’affetto che portava per loro nel cuore. Pregava spesso per le loro anime, la preghiera in giorni come quello, sembrava l’unica fonte di serenità.



Aveva i sensi gelati ed intorpiditi, l’aria che respirava gli parve per un attimo densa.

Cercava una pace che non avrebbe ottenuto né lì sotto la pioggia né da nessun’altra parte, ma questo non gli impediva di continuare a cercare.



“Eccoti!"
Nero si mosse impercettibilmente e vide avvicinarsi Luppolo.

“Dopo Forgia vuoi essere il prossimo ad ammalarsi?”

Nero sorrise “ Una volta che la tua pelle raggiunge una certa temperatura, non senti più freddo”

“Tu sei il capo, di certo non mi metto ad argomentare con te” disse, ma poi arrivò subito al punto per il quale aveva lo cercato.

“Chiaro non ha preso bene il tuo ennesimo rifiuto di tornare a casa, vero?”
”Per niente, ma non ho intenzione di litigare con lui un’altra volta. A volte non so se è ottuso o solo insistente”.

Così dicendo, si sedette, pur non mettendosi al riparo dalla pioggia.

“Con quest’acqua non so quanto siano riusciti i muratori a mettere a posto la restante parte dell’ala Est”
”Ti trovi bene qui, vero?”

Nero annuì “E’ un posto che mi rilassa molto, a conti fatti, sono contento di potermi fermare per l’inverno. Chiaro non ha voglio di ascoltami quando gli parlo…”
”…è il problema di avere un fratello all’interno del tuo gruppo”

Il Nero annuì malinconicamente.

“Non mi fraintendere, sai che penso che lui sia il più capriccioso e fastidioso di tutti, ma l’ho sempre considerato un uomo d’onore e anche di grande compagnia, quando è di luna giusta”

“Il suo comportamento è dovuto ai suoi natali…”

“Penso che sia anche dovuto alla sua indole e all’attaccamento morboso che ha per te”

“Morboso non direi. Siamo cresciuti insieme e forse questo gli fa avere un atteggiamento diverso nei miei riguardi, perchè se ne sente in diritto” Nero cercò di sviare così la conversazione, anche se sapeva che il termine di Luppolo era tutt’altro che fuori luogo. Chiaro viveva nella luce riflessa da Nero, picchiava i piedi per terra ma non osava mai contraddirlo. Aveva il disperato bisogno di avere la sua attenzione e approvazione. E quando queste venivano a mancare, faceva di tutto per riottenerla, spesso in maniera petulante ed eccessiva.

“Forse non morboso” sospirò Luppolo “di certo dipende da te in modo assoluto”.

Ci fu una breve pausa fra i due e la pioggia che picchiettava nelle pozzanghere e che sgrondava dal tetto accompagnò quel silenzio.

“Perché non sei voluto tornare in Scozia?” chiese Nero a Luppolo senza guardarlo, continuando a fissare il rivolo d’acqua che scendeva da una colonnina lì di fronte

“Pensi sia davvero sbagliato che un uomo ami un altro uomo?”
Nero non spostò gli occhi dall’acqua, ma quella domanda lo stupì molto. Avrebbe probabilmente guardato in faccia il proprio interlocutore sgranando gli occhi, ma se l’aveva riferita a se stesso, probabilmente la domanda era costata una fatica enorme a Luppolo e di certo non voleva mortificarlo col suo stupore.

Nero non seppe dire se davvero Luppolo si stesse riferendo a se stesso o se stesse continuando il discorso fatto prima. Il sentimento che Chiaro aveva nei confronti di Nero, infatti, non era un amore consueto, ma di certo aveva molte caratteristiche in comune con esso.

“Davvero Dio giudicherà peccatori gli uomini che si amano?”
”Non lo so. Non so come Dio giudicherà i giusti dai peccatori. Posso dirti che cosa dicono le Sacre Scritture, e cosa penso io. Ma non lo so per certo”

”Quindi metti in dubbio la Bibbia? Intendo…pensi che potrebbero essere sbagliate?”

Nero infine guardò Luppolo negli occhi. Il cavaliere parve tenere molto a quella conversazione, i suoi occhi erano gravati da una tristezza profonda.

“Penso che Dio si prenda cura di noi e giudicherà caso per caso”.

Luppolo annuì, in silenzio.

“E’ meglio che tu vada ad asciugarti, l’acquazzone non sembra voler cessare”
Guardarono per un attimo la pioggia e poi Nero disse: “Dio ci giudicherà per il nostro operato. Ognuno ha un fardello con sé, ma io credo fermamente nella sua bontà”

Luppolo sorrise, nei suoi occhi era scomparsa parte della malinconia di poco prima. Guardò il Nero quasi volesse ringraziarlo e anche lui andò ad asciugarsi.



L’acqua calda rilassò molto i muscoli del Nero, stanchi e contratti senza un apparente motivo. Un spesso vapore riempiva la stanza e rendeva tutto opalescente. Nero si guardò intorno ed espirò come se avesse trattenuto il respiro fino a quel momento. Lasciò che gli aromi tingessero quella mattina grigia e ne inspirò l’odore, per poi immergersi completamente nell’acqua.

Con i rumori intorno a lui ovattati e le bollicine che gli facevano solletico sulla pelle, Nero si sentì sereno, ebbe la netta sensazione che l’acqua stesse lavando anche i suoi malumori mattutini, colorando una giornata che era iniziata in un monotono grigio. Era felice di essere arrivato al castello Thurlow, lì si trovava bene ed era incuriosito dal suo ospite, dai suoi occhi turchesi e dalla sua macchia di Dio.




***

BiGi: Eheheh chiaro è un personaggio inquietante, devo ammetterlo. E' comparso, all'inizio, ma niente di che. Ora, è giusto che abbia il suo spazio ^_^ Besos

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Capitolo 8
*** 08. Restare ***


Nuova pagina 1

In effetti avrei dovuto postare il capitolo molto prima. Giuro, ero davvero intenzionata a farlo. Ma poi i giorni mi sono letteralmente sfuggiti di mano ;_; Uno fa due cosine, si gira, si volta e sono già passati giorni, senza capire dove siano andati. Bah ^_^

Ovviamente amo tutti coloro che recensiscono. Quelli che hanno già recensito, poi, ancor di più. Grazie mille *_*

 

Capitolo Otto

 - Restare -
 





Si fermò alla finestra a guardarlo, stando attento a non essere scoperto a fissare così spudoratamente qualcuno. Fissare era maleducazione e lui lo sapeva, tuttavia non riusciva a fare a meno di guardare e studiare il suo nuovo ospite, dall’alto della sua camera. Aveva i capelli abbastanza corti, mossi sulla fronte e sulla nuca, il vento del pomeriggio glieli scompigliava di continuo, ma ogni volta sembravano tornare perfettamente a posto. Ciocca dopo ciocca, l’aria li disfaceva, fili d’ebano che fluttuavano leggeri, e poi si riassestavano, in compagnia degli altri, come se niente fosse.

Le linee del volto erano perfette, così regolari che sembravano scolpite nel marmo greco. Aaron sorrise, non c’era certo da stupirsi se la notizia di quel viso aveva già raggiunto tutte le case dei paesi circostanti e se tutte le donne, giovani o meno, non vedevano l’ora di partecipare al matrimonio di Rebecca per vedere finalmente l’oggetto di tanto parlare. Ma erano i suoi occhi che Aaron prediligeva più di ogni altra cosa: enormi e color della notte, leggermente allungati sui lati. Sembravano nascondere profondi segreti fra i quali c’era il rischio di perdersi. Le ciglia erano lunghe, fitte e li circondavano aggiungendo mistero a ciò che non poteva parlare, ma che in realtà, pareva essere più eloquente delle parole. Quegli occhi gli avevano trasmesso sicurezza sin dal primo giorno, quando i cavalieri fradici avevano varcato la soglia di casa sua. C’era una voce, forse un istinto, fondo alla sua mente, che non gli aveva mai detto il falso. Aaron non sapeva dire se quella voce gli proveniva dall’alito di Dio o semplicemente da un sesto senso particole sviluppato, ma aveva subito sentito che da quegli occhi non si sarebbe mai dovuto difendere.

Ad Aaron quegli occhi sembravano una notte d’estate, cupi e solitari, ma incredibilmente caldi e limpidi.

La linea della bocca, poi, morbida, pareva dipinta d’ambra, in contrasto con la pelle chiara.

La sua andatura, le spalle larghe e l’altezza, la sua figura nel complesso, emanavano un’autorità che era difficile non percepire. Lo stesso Aaron, che di rango era superiore, provava una certa soggezione di fronte all’ospite.

Natalie, Margaret e tutte le donne che aveva sentito parlare da qualche giorno a quella parte avevano ragione: era bellissimo.

Aaron si soffermò un attimo di troppo su questo pensiero, poi di scatto, si voltò e si allontanò dalla finestra, barcollando leggermente, preoccupatissimo per un pensiero così poco appropriato. Aveva il respiro accelerato e un’agitazione intensa, causata da un inconscio molto più sincero della sua mente.

Prese un piccolo sacchetto che aveva riposto nel cassetto vicino al suo letto e uscì velocemente dalla stanza, deciso ad occuparsi di faccende più serie e a dimenticare quanto appena accaduto.





Il giorno prima aveva piovuto ininterrottamente, ma fortunatamente di notte aveva smesso e i lavori nell’ala Est del castello erano ripresi a pieno ritmo. Aaron volle andare di persona a controllare che tutto stesse proseguendo tranquillamente. Il capomastro lo aggiornò sui problemi e sulle eventuali risoluzioni.

“Mi fido della vostra esperienza, tuttavia sapete che a breve questa casa ospiterà diversi membri di famiglia e…sarà presa d’assalto da alcuni in particolare”
Il capomastro spalancò gli occhi “I vostri nipoti?”
”Non solo, anche i miei cugini hanno mandato a dire che quest’anno passeranno il Natale qui, e con loro le loro spose e figli relativi”
”Oh cielo” esclamò Natalie raggiungendo i due “ Questo farà almeno dieci bambini!”
”Infatti, perciò avremmo proprio bisogno che quest’ala fosse in piedi e a posto nel giro di poco tempo.”
”Ma non potrebbero trovare sistemazione nell’ala Sud?”
”Se possibile, vorrei evitarlo. Questa parte del castello è di più facile gestione, per la servitù. Senza contare che la maggior parte dei cottage e della dependance esterne sono più facilmente raggiungibili da qui”
”Quindi mi state dicendo che volete tenere lontani i marmocchi dalle sale principali del castello?” Natalie non aveva peli sulla lingua, da anni a capo della servitù femminile del castello, era diretta e schietta.

Aaron sorrise, conosceva la domestica sin da quando era bambino ed era stata l’unica a riuscire a domare il temperamento astioso di suo padre, quindi il giovane vedeva di buon occhio quella lingua affilata che molti altri, invece, avrebbero visto come irriverente.

“Se vengono tutti quelli che hanno dato notizia, i bambini saranno quattordici, le famiglie quattro, e sicuramente porteranno qualche servitore. Avere l’ala Est da adibire per loro, con i cottage esterni, sarebbe più pratico. So inoltre che non tutti i cavalieri rimarranno qui…”

“Ah beh, loro non sono certo un problema, tranne uno che è un po’ spocchioso! Ma tanto lo faccio rigare dritto io” disse Natalie agitando il dito indice in alto “gli altri sono molto a modo.”.

“Penso che, a meno di altri acquazzoni, qui dovremmo finire per l’arrivo degli ospiti!”
”Bene, fatemi sapere se avete bisogno di qualcosa”
”La ringrazio signore” concluse il capomastro inchinandosi mentre Aaron se ne stava andando.
Il Lord vide Cencio e Luppolo insieme ad un gruppo di muratori più lontano, rimase ad osservali un istante. Distratto a guardare lontano, Aaron non si accorse che anche Chiaro e Nero erano nelle vicinanze, per cui quando la voce di quest’ultimo lo salutò, ebbe un leggero sussulto.

“Scusatemi, ma non vi avevo proprio visto”. Per un istante ripensò all’immagine osservata poco prima dalla finestra, ma di nuovo la cacciò con forza dalla mente.

Non capiva esattamente di che avesse paura e cosa lo infastidisse così tanto, forse i suoi pensieri sul Nero? Forse l’essersi fermati ad ammirarlo ed esserne affascinato? Non lo sapeva, ma abbassò gli occhi e non volle incrociare quelli del suo interlocutore, nel timore che questi potesse leggere in essi la sua profonda confusione.

“Ho sentito che i lavori nell’ala Est proseguono velocemente”
Aaron annuì cortesemente e guardò nella direzione dei muratori, non osando ancora incrociare il proprio sguardo con quello di Nero.

“Posso disturbarvi per un attimo? Avrei delle faccende di cui parlarvi”

“Certo”rispose Aaron di nuovo padrone di sé, potete venire con me a…” cercò le parole più adatte “dare aiuto ad un amico” disse infine non trovando migliore definizione. “Potremo parlare nel tragitto”.





S’incamminarono per un viottolo ben curato, fatto di ciottoli bianchi. La stradina percorreva il fianco del castello prima e dopo sembrava essere sola, in mezzo al prato, per poi scomparire in un fitto degli alberi.

“Dove porta?” Chiese Nero che guardava con curiosità quel viottolo.

“Porta esattamente dove sembra: in mezzo al bosco”

Nero aggrottò le sopracciglia “Una strada battuta e ricoperta di sasso che porta in mezzo al bosco?”
”Avrete notato che il castello è ben poco protetto dagli attacchi nemici, non ci sono mura intorno, solo il fossato che non è molto profondo…”

Il Nero annuì, sin dalla prima sera lì, aveva trovato strana quella scarsità di difese

“Le mura di questo lato sono composte dal bosco. Può sembrare strano, me ne rendo ben conto, ma con la mia capacità di comunicare con gli animali e capirli, m’è stato possibile stringere un patto con loro. Loro proteggono questo lato della mia abitazione; mi avvisano se ci sono dei cambiamenti repentini di clima, cosicché io possa tutelare i raccolti; mi dicono se degli sconosciuti cercano di attraversare il bosco, o mi avvisano se qualche malintenzionato lo visita senza che sia stato invitato”
Il Nero pareva esterrefatto “Ma se arrivasse un esercito? Contereste comunque su di loro?”
Aaron sorrise di gusto “Siete proprio un militare! “ lo prese in giro “Sì, conterei comunque su di loro perché in realtà sono alleati formidabili: veloci, estremamente esperti dei luoghi, imprevedibili e che non temono l’oscurità o la pioggia” Nero annuì, cominciava a capire.

“E questa stradina che porta all’interno del bosco...?”

“Gli animali sono miei amici e miei alleati, di certo non miei sudditi o servi, il nostro rapporto si basa sullo scambio equo di favori” Sorrise “Penso che questo faccia di me, in qualche modo, un mercante abbastanza innovativo” Ironizzò su se stesso, ma poi riprese a spiegare “Non ho modo di ricompensarli dei molti servigi che mi offrono, ma grazie alle mie conoscenze mediche ed umane, posso aiutarli nella malattia e riesco a tutelarli contro i cacciatori, che spesso si rivelano essere i loro peggiori nemici”
”Mi stupite” Ammise Nero “Devo essere sincero, io riesco a comunicare con gli animali, anche se credo non in modo approfondito come fate voi, ma non avrei mai pensato potesse esserci un’applicazione tanto pratica di questo dono…”
”Questo è perché voi siete un guerriero e potete avere una spada che vi difende ed un cavallo che vi porta in groppa, io no, purtroppo il mio bastone non incute molto timore” disse cercando di stemperare la situazione Aaron, ma il Nero percepì la malinconia e rimpianto nella voce, che subito però vennero nascosto. “Quindi ho cercato di usare al meglio le risorse che m’erano state date”
”Non sottovalutate il vostro animo, penso che pochi farebbero un così buon uso del vostro dono”

“Questo non lo so, è un dono che non ho chiesto, me l’hanno imposto e io l’ho accettato ma…” Aaron s’interruppe. Non voleva iniziare a parlare, né tanto meno pensare a quella notte, a William e al bacio sulla sua nuca. Non voleva viziare quella conversazione con rimpianti inutili di un passato che non poteva essere cambiato.

Nero s’accorse che il discorso era stato bruscamente interrotto a metà ma non disse niente. Rispettò la reticenza del suo interlocutore ma si chiese che cosa questa nascondesse.

“Volevo ringraziarvi della vostra ospitalità” cambiò quindi discorso “Ho parlato coi miei uomini ieri e alcuni di loro torneranno dalle loro famiglie e dalle loro donne, Cencio e Luppolo rimarranno qui”
“Sono molto contento che rimangano. Cencio ormai è sotto l’ala protettrice di Coriliss, la cuoca. Dice che da lui riceve particolari gratificazioni”.
Nero rise “Non faccio fatica a crederlo! Non ho mai visto nessuno mangiare con l’appetito di quel ragazzo”
”E voi, rimarrete?” il tono di Aaron lasciò trapelare una piccola speranza che in realtà nascondeva quella intensa che albergava in lui.

“Sì, e devo dire che sono molto contento del vostro invito. Il luogo è incantevole e l’idea di tornare a Londra non mi allettava di certo”
”Tornare a Londra? Non pensavo foste di quelle parti”

Il Nero sorrise “avete un orecchio molto fine per gli accenti noto. E’ vero, non sono di lì, ma quello è il luogo dove torno quando siamo in Inghilterra e siamo, per così dire, disoccupati”
Aaron rise “Considerate il vostro un lavoro?”
”Non potrei considerarlo altrimenti. Veniamo pagati per impugnare le armi, non facciamo nulla per la gloria”
”Eppure la vostra fama è giunta alle mie orecchie ben prima di voi. E dubito che servireste altri se non Re Edoardo”

Nero guardò Aaron meravigliato “Non guardatemi così e ditemi se mi sbaglio. Il mio istinto non è infallibile”

“No, avete perfettamente ragione” scosse la testa il Nero “mi chiedevo solamente se davvero fosse così palese”

“Lo dite come se fosse una cosa negativa”

“No, non lo penso. Tuttavia, il lavorare per Re Edoardo è, per me, l’unico modo per mantenere un qualche legame con l’Inghilterra…”

Aaron non capì e aggrottò le sopracciglia “Come l’unico. E la vostra casa? La vostra famiglia..?”

I lineamenti di Nero s’irrigidirono per un istante e non rispose immediatamente. I suoi occhi si persero un attimo nell’orizzonte e Aaron non capì esattamente cosa vi lottasse al loro interno. Malinconia, forse rabbia. E solitudine.

Il silenzio che s’era venuto a creare era carico di indecisione che Aaron interpretò anche come sconforto. Voleva dare una via di fuga a Nero, e tentò di cambiare completamente discorso, dispiaciuto di aver messo il suo ospite in un tale imbarazzo, ma Nero riprese a parlare interrompendolo sul nascere.

“Sono andato via di casa quindici anni fa e da allora non vi ho più fatto ritorno. E di certo non ho intenzione di cambiare la mia decisione” poi aggiunse fra se e se “Anche se Chiaro vorrebbe tutt’altro”
”Chiaro?”

“Lui è figlio dei nobili coi quali sono cresciuto. Mio fratello, in un certo senso, il mio fratellastro più probabilmente. Vorrebbe che tornassi, insiste ogni volta che ne ha l’occasione, ma io non ho intenzione di farlo…”

Fece una pausa, per permettere ad Aaron di parlare, magari nel tentativo di persuaderlo a tornare a casa oppure per chiedergli il perché.

Ma dalla bocca dell’altro non uscì una parola.

Poi pensò al loro dialogo sul balcone, qualche giorno prima e all’intensa solitudine che avevano condiviso, ebbe allora la sensazione che l’uomo che gli era davanti capiva. Cercò la conferma gli occhi dell’altro e una voce dentro di lui gli bisbigliò che non c’era condanna in quelle iridi turchesi. Il Nero non poté fare altro che sorridere e un ondata di calore gli pervase il corpo.

“Avevo quindici anni quando lasciai casa. Me ne andai, senza una parola e senza preavviso. Presi un cavallo, la mia spada e poco altro. L’unica persona che ebbi il coraggio di salutare fu il mio maestro d’arme che non cercò neanche di convincermi a rimanere. Non l’ho mai ringraziato per quel suo gesto, ma in realtà m’ha dato una fiducia in me stesso che porto ancora dentro…”
”E’ lui che v’ha insegnato l’arte della guerra?”
”Sì, devo tutto a lui. Le mie capacità si sono affinate molto, successivamente, e ho incontrato guerrieri e persone che hanno arricchito la mia tempra e le mie capacità. Ma mai nessuno è riuscito a trasmettermi così tanto”
”E’ stato un ottimo maestro”
Nero aggrottò la fronte e guardò Aaron. Come poteva saperlo?
Il biondo sorrise all’aria interrogativa del cavaliere. “Vi mostro una cosa” e così dicendo prese la mano di Nero fra e sue e dolcemente tracciò una linea sottile al lato del suo palmo “Vedete questa linea? Viene chiamato il callo di Marte e compare solo a chi impugna la spada in un determinato modo. Si dice sia il modo più efficace di impugnare qualunque arma bianca, se ne guadagna in forza e precisione”

“Il callo di Marte?”
”Sì, secondo il mito questo callo veniva a tutti i suoi discepoli e da allora ne ha preso il nome”
Nero guardò stupito la sua mano e quella linea di pelle indurita che gli percorreva il palmo. Poi passò gli occhi sulle braccia di Aaron, poi sulle spalle ed infine sul viso.

Rimasero così, nessuno dei due lasciò le mani dall’altro. Da quel contatto percepivano un calore intenso dal quale nessuno dei due voleva separarsi. Era un contatto così personale che persino il vento sembrò fermarsi, per non intromettersi.

Durò tutto un attimo, poi Aaron riprese il suo cammino e Nero fece di conseguenza.

Il biondo si accarezzò il palmo della mano col pollice, senza farsi notare, per ricordarsi bene quel tocco. Quel contatto, come le parole scambiate qualche giorno prima sul balcone dell’ala Sud, gli aveva lasciato una lieve sensazione di armonia che da tempo gli mancava e non voleva dimenticarlo, non voleva lasciare che svanisse insieme a quell’istante.



Sorrise, il sentiero era terminato e si fermò, battendo il suo bastone due volte sul terreno.

“Saranno molto diffidenti, all’inizio, ma metterò una buona parola” disse a Nero che intuiva cosa lo avrebbe aspettato e che si ritrovò ad essere impaziente.
 

***

Stateira: Sono felice che i personaggi di cosiddetto "contorno" ti piacciano. Dico cosiddetto perchè avranno comunque un ruolo importante (Liberaci dal Male non è un racconto corale, strettamente parlando, ma ha personaggi accessori che mi hanno preso molto, sia di pianificazione delle loro vite, sia affettivamente XD). L'opposizione Chiaro/Nero volevo che fosse evidente, del resto sarà un'opposizione destinata a protrarsi nel racconto. A questo punto ci tengo che mi dica se ti piacerà come evolve il rapporto, quel che c'è dietro ecc. E Luppolo, beh, non dico niente, però se ti accosti, te lo svelo nell' orecchio: potevo mai lasciarlo in balia del nostro italianuncolo da strapazzo? In balia mia mi sa che è messo ancora peggio ahahah Bacio

Michan_Valentine: Ciao ^_^/ sìsì, felicissima di risentirti. Nero è forse il personaggio che più di altri si rivela pian piano, ci sono stralci di personalità qua e là, ma non posso rivelare tutto e subito. Come vedi, anche solo il suo aspetto fisico, è spiegato più in dettaglio all'ottavo capitolo piuttosto che quando entra in scena. La personalità di Nero è parte del perno di Liberaci dal Male, va presa a piccole dosi (oddio, detta così sembra una minaccia XDD). Nero devo centellinarlo (non puoi immaginare i fogli buttati via nella pianificazione di personalità, storia, intrecci, reazioni, credenze.... di Nero. Frecce, , cancellature, ri-frecce. Sembravo una pazza XD). E sulla questione del macho...ehm. prometto che riprenderò la questione più avanti. Ora farei solo spoiler inutili (scusami se continuo a rimandare discorsi. Ma è la struttura del racconto a farmi essere cauta. Temo di rovinare e dare anticipazioni dilungandomi troppo. '^_^). Fai benissimo a cosigliarmi qualcosa riguardo le ambientazioni. Nonostante le adori, a volte sono un po' parca nei movimenti XD Sopratutto per metà Liberaci dal Male. Il castello è un luogo sicuro, ma intorno non c'è tanto... (In nuovi racconti sono e sarò più dinamica). Ti mando un bacione.

lili1741: AHHHHHHHHHHHHHHHHHH (<- sfogo di Dicembre. L'ora è tarda, chiedo venia °_°). La punteggiatura. Mi viene da piangere ;_; Quando ho scritto liberaci dal male (2/3 anni fa) non mettevo i punti in fondo ai dialoghi (per ragioni ignote) e mettevo le virgole *sempre* fra soggetto e verbo. Nel rileggere i vari capitoli (di volta in volta), cercavo di correggere questi scempi. Con l'andare della storia sono migliorata, ma all'inizio mi volevo prendere a badilate in testa. Credimi. In trans da "racconto", non badavo alla forma, per poi ritornarci su in un secondo momento. Con la benedetta virgola casuale ;_; (scusa lo sfogo, ma più passano i capitoli, più le virgole prendono i loro posti.XD). Per quanto riguarda Chiaro e Nero, sì, il loro rapporto sarà spiegato piano piano, lungo tutta la storia. Così come gli intrecci di amicizia, sentimentali e quant'altro.  La storia è una storia ad incastro, ecco perchè ho sviluppato tutto "lentamente". Baci

BiGi: Cavolo! Luppolo e Cencio hanno davvero successo *_* Sìsì, no worries, ad ognuno il suo spazio, non temere XD Grazie ancora tanto per le tue recensioni ^_^
 

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Capitolo 9
*** 09. Ricordo lontano ***


Nuova pagina 1

Questa volta sono stata brava, no? Almeno sono stata rapida °_° E' che Liberaci dal Male ha un andamento così "fluttuante" e da romanzo, più che fanfic, che voglio che non venga a perdersi il pathos che rischierei di disperdere con la mia solita puntualità -_- E' la fortuna di avere già il racconto bell'e finito XD Vi lascio alla lettura, un baciotto.

 

Capitolo Nove

- Ricordo lontano -






Aaron aveva ragione, le volpi che apparvero nel bosco erano estremamente diffidenti, guardarono Nero come un nemico ed esitarono prima di avvicinarsi.

Il cavaliere non riusciva a capire quello che dicevano, ma di sicuro percepiva un’aura di ostilità rivolta verso di lui. La sua capacità di comprendere gli animali era superficiale, empatica ma non approfondita, eppure era certo di non avere mai sentito una tale aggressività nei suoi confronti. Tuttavia, dopo un attimo, ne capì il motivo. La volpe che comparve dal bosco era ferita ad una zampa, zoppicava e portava in bocca un cucciolo apparentemente privo di sensi: una madre e suo figlio malato.

“Non temere, Fulva, è un amico, anche lui può capirti”.

La Volpe si girò di scatto verso Nero e lo guardò con occhi pieni di sospetto.

“E’ vero” disse il cavaliere accovacciandosi sulle gambe per essere più vicino alla volpe “Non devi avere paura” e così dicendo tese le sue mani verso Fulva, con i palmi rivolti verso l’alto. La volpe sembrò stupita da quel gesto e parve guardare il cavaliere con aria interrogativa ma più tranquilla

“Non conosco il tuo linguaggio” le spiegò Nero “e non conosco te a sufficienza, ma so che tutti voi vedete le mani degli uomini come la fonte dei vostri pericoli, sempre così pronte a brandire un’arma per sopraffarvi… E come vedi non ho portato armi con me”.

Fulva appoggiò il suo cucciolo per terra e si avvicinò cautamente al cavaliere, ma poi si fermò di nuovo aspettando qualcosa.

“Vuole…” iniziò Lord Aaron

“…sapere chi me l’ha detto” concluse il Nero

“La capite?”
”No, a dire il vero non sento nulla, mentre quando parlo con Cleto, oppure col mio cavallo mi pare di sentire la loro voce, però riesco a percepire la sua titubanza e le sue variazioni d’umore…”
Aaron sorrise guardando prima il Nero poi Fulva

“Hai visto, è un amico” ma la volpe aspettava ancora una risposta

“Me l’ha detto Cleto, il mio falco. All’inizio, quando ci siamo conosciuti, era molto diffidente, proprio come te. Diceva che gli umani sono falsi e m’ha chiesto di porgergli le mani. M’ha spiegato che si possono capire molte cose dalle mani di un uomo” disse guardando per un istante Aaron che, inconsapevolmente, serrò in un pugno la mano che prima aveva stretto quella di Nero. Entrambi, poi, riportarono la propria attenzione sulla volpe che questa volta, pareva avere un’aria infastidita, quasi stizzita, tanto che trotterellò incerta, sulla zampa malata, verso dove aveva lasciato il suo cucciolo e lo riprese in bocca.

Aaron scoppiò a ridere “Va bene, va bene, arrivo” disse, e poi spiegò il comportamento di Fulva “Non ne abbiate a male, c’è un conto aperto fra volpi e rapaci che alimenta da sempre una rivalità viscerale” Nero lo guardò con aria incredula “Non so bene da che cosa sia stata generata, né se sia risolvibile. So semplicemente che gli uni hanno sempre da ridire su cosa fanno gli altri e non vanno mai d’accordo”.

Nero sorrise”Assomigliano ai battibecchi degli umani”
”Sì, ho provato anch’io a dire loro di trovare una soluzione. Ma non ne vogliono sapere.”
Aaron prese il volpacchiotto dalla bocca della madre e lo accarezzò.

Si sedette ai piedi di un albero ed invitò la volpe a venirgli vicino sulle gambe

“Vediamo prima come va la tua zampa…” disse adagiando il piccolino sulle sue vesti morbide “Sai, anche questo cavaliere “le spiegò” è venuto al castello perché un suo compagno era ferito gravemente.”
La volpe guardò Nero “Sì, sta meglio ora” le spiegò, ma non è ancora guarito. Gli umani impiegano molto più tempo degli animali a rimettersi in forza, ci vorrà ancora un po’ prima che si rimetta del tutto.” Poi si concentrò sulla zampa della volpe: “Invece la tua ferita mi pare in via di guarigione. Immagino anche che ti faccia meno male di un paio di giorni fa”

Fulva annuì.

“E’ stata scoperta mentre cercava di rubare una gallina del fornaio” Spiegò il Lord a Nero “Le ho detto più volte che cacciare in città è pericoloso, ma lei non vuole ascoltarmi”
”Istinto da cacciatore?”

“Qualcosa del genere. Dice che i polli del fornaio sono di gran lunga più buoni della selvaggina che si trova quest’inverno nei boschi.”
Il Nero rise di gusto “Come darle torto? Immagino che saranno più pasciuti”

“Ma devo dire anche che penso ci sia della sana cocciutaggine femminile in tutto questo”

“Vi sentisse Gillian, si arrabbierebbe moltissimo. “ scherzò il cavaliere

“Gillian..? La vostra donna?” Aaron si pentì subito della domanda appena posta: suonava troppo morbosa. Non capiva bene neanche lui quale sentimento l’avesse spinto a dire una frase così poco riflessiva, forse la curiosità, ma di sicuro c’era anche un pizzico di fastidio.

Nero aveva una donna che l’aspettava da qualche parte?

Questo probabilmente voleva dire che avrebbe cercato di affrettare i tempi della permanenza al castello Thurlow, e sarebbe voluto tornare presto da lei…

Aaron cercò di accantonare dei pensieri così stupidi, del resto non era affar suo se il Nero avesse voluto tornare fra le braccia della sua donna. Tuttavia una voce gli ricordò che era stato lo stesso Nero a dire che sarebbe rimasto al castello fino a quando Forgia non sarebbe guarito.

Questa consapevolezza lo rasserenò, ma al contempo lo fece sentire incredibilmente sciocco.

Ormai non poteva ritirare la domanda, però, e quindi aspettò la risposta di Nero che scoppiò a ridere sotto gli occhi stupiti di Aaron che tutto si sarebbe aspettato, fuorché una risata così aperta

“Dio non voglia che mi trovi mai una donna come Gillian” e scosse le mani come per schermasi da un pericolo imminente “Non sono un santo! Probabilmente troverebbe un motivo per alzare le mani contro di me in quattro e quattr’otto. E temo che ne uscirei piuttosto malconcio”

Aaron non capiva e aspettò una spiegazione

“Era la cuoca del castello dove vivevo con Chiaro prima che me ne andassi” Aaron notò che Nero non lo chiamò casa “Una donna fantastica, con un carattere forte e risoluto, anche se spesso un po’ troppo violento. E aveva sempre da ridire sugli uomini, nessuno pareva mai fare qualcosa di giusto. Diceva sempre che erano le donne il senno di questa nazione”
Aaron sorrise “Quindi se m’avesse sentito fare un commento poco educato sul genere femminile, l’avrebbe presa come un fatto personale?”

“Sicuramente…”
”Da come ne parlate sembra vi manchi molto…” Aaron aveva notato un profondo affetto velato di malinconia nelle parole di Nero. Ormai che si era in argomento, quindi, aveva pensato che potesse arrischiarsi e fare al suo ospite una qualche domanda più personale.

“Moltissimo. Lei e il mio maestro d’arme sono le uniche persone di cui sento davvero la mancanza…Le uniche persone a cui ero legato…” lasciò morire la frase senza concluderla, come se fosse oppresso da un peso che non voleva esprimere

“E cosa avete fatto quando ve ne siete andato?” C’era un qualcosa che spingeva Aaron a voler sapere di più e di più ancora su quest’uomo. Non sapeva quasi niente, le sue gesta in battaglia gli erano giunte all’orecchio prima che questi arrivasse, Cleto gliene aveva parlato, ma c’era qualcosa che lo legava al Nero e che non comprendeva appieno. L’uomo di fianco a lui sembrava capire cose troppo difficili da spiegare a parole e che non venivano mai pronunciate, ma che aleggiavano sempre quando Aaron passava il suo tempo col lui. Questo lo rilassava e, soprattutto, lo rassicurava molto.

Il Nero non rispose subito a questa domanda e s’appoggiò al tronco dell’albero dietro di lui

“E’ stata una decisione presa dopo averci pensato a lungo: andare via. E’ buffo perché, col senno di poi, mi rendo conto di quanto fossi ingenuo e sprovveduto, ma allora il mio unico pensiero era che me ne dovessi andare”.

Aaron voleva sapere il perché, ma sapeva che non era ancora il momento di spingersi così in là. Sarebbe venuto, sparava, ma non sarebbe stato quel pomeriggio.

“Notti passate a pensare cosa fare, come partire, neanche un attimo speso a trovare un luogo dove passare la prima notte, ma ero fatto così… Non riuscivo a pensare al domani più di quando riuscissi a preoccuparmene. Quindi la notte in cui avevo deciso di partire, avevo portato con me nella stanza la mia spada, il mio pugnale, i rivestimenti di cuoio e un po’’argento che avevo raccolto i giorni prima dalle stanze della padrona. Non avevo vestiti di ricambio con me, né una mappa … Partii così, senza nulla” sorrise al ricordo “Ero davvero un ingenuo…”.

Il cavaliere non riprese subito a parlare, ripensò a quella baracca dove aveva passato la prima notte e, per un istante, gli parve che anche il cielo di quel pomeriggio s’oscurasse e diventasse nero, proprio come il cielo di quella notte lontana. E poi gli rivenne alla mente un’immagine di lui zuppo e infreddolito, rannicchiato vicino ad un covone di paglia. Si rivedeva con occhi esterni ma vicini al corpicino tremante e spaventato. Il bambino cercava di nascondere persino a se stesso di avere timore dei tuoni, ma a ad ogni boato non poteva fare a meno di tremare con più forza, scosso da una paura irrazionale.

Perché, si chiese Nero, stava osservando la scena, invece di riviverla. Come poteva lui vedere sé stesso con occhi non propri?

Dopo un tuono particolarmente intenso, quel ricordo sembrò zittirsi, nessun suono poteva essere udito, neanche il rumore della pioggia.

E fu in quel momento che il Nero capì che quello che lui stava rivivendo era davanti agli occhi di Aaron. Un attimo, un’immagine solamente, quel campo sterminato, la tettoia ed il covone abbagliati da un lampo seguito dal tuono… Il Lord aveva visto quell’istante, lì sotto un albero, quindici anni dopo.

Ma a discapito di quello che lui stesso s’aspettava, non ne fu irritato, neanche si sentì violato o imbarazzato. Una sensazione di calore gli pervase il petto ed ebbe la netta sensazione di un affetto paterno e celestiale che lo avvolgeva. Non capì da dove provenisse, non dal Lord di fianco a lui che, sgomento, non capiva che cosa stesse accadendo.

E poi tutto svanì, d’improvviso, esattamente come era venuto. Una semplice immagine negli occhi di Aaron,instanti di un passato lontano per Nero.

I due si guardarono, increduli per ciò che era appena accaduto; l’aria sembrava densa e difficile da respirare. Il Nero portò le dita sul volto di Aaron, le fece scivolare delicatamente sulla guancia e poi nei capelli. Aaron non reagì né si mosse, impietrito dal ciò che aveva visto e da quel tocco che sembrava volergli bruciare la pelle.

I capelli di Aaron erano morbidissimi fra le dita di Nero che le affondò ulteriormente, fino a raggiungere la nuca.

Il dolore che provò Aaron fu così intenso che lo fece gridare. Spostò la testa violentemente liberandosi da quel contatto e ritornò in sé

Anche Nero sembrò essersi appena svegliato da un sogno e sbattè gli occhi come se fosse leggermente stordito. Il dito che aveva solo sfiorato la macchia sulla nuca di Aaron gli pulsava e provò di nuovo provò l’affetto celestiale di poco prima.

“L’alito di Dio…” bisbigliò, ma poi di scatto si girò verso Aaron

“Mi dispiace, io non…volevo, non sapevo…”

Ma il Lord lo interruppe “Io per primo ho violato la vostra mente… Non so perché… Non ho nessun controllo… Ma io per primo vi ho arrecato dolore, e voi non potevate sapere che cosa stavate facendo…”

Non dissero più niente per un po’, troppo confusi per qualunque parola. Il Nero si guardò la mano e si chiese se quell’onda di calore fosse la presenza di Dio, si chiese se attraverso Aaron lui non avesse percepito l’alito di Suo Signore. Dunque era vero? I prescelti esistevano davvero, ma perché? E inoltre, che compito avevano sulla Terra? Nero non riusciva a trovare risposte.

“E’ meglio che vada” disse alzandosi e facendo qualche passo verso la strada che li aveva condotti lì.

“Aspettate!” disse con foga Aaron “Non…Non ve ne andate, ve ne prego”

Nero lo guardò per un attimo e Aaron abbassò lo sguardo

“Io non so spiegare quello che succede, non so dare risposte, né posso fare promesse su quello che accadrà in futuro, dicendo che mai più violerò la vostra mente. Perché…” e cercò delle parole che non trovava “perché tutto è indipendente dalla mia volontà”. Scosse la testa. Era preoccupato che Nero potesse andarsene, disprezzarlo per il suo gesto e sentirsi in pericolo “Non vedetemi come un nemico” Quasi lo implorò. Avrebbe voluto dire mille altre parole, di scusa, di spiegazione, la presenza del cavaliere gli dava sicurezza e lui in quel momento ne aveva bisogno. Ma non disse niente e rimase in silenzio.

Si guardarono e poi il Nero sorrise con quello che ad Aaron sembrò un sorriso bellissimo e rimase lì, con lui.





Aaron riprese ad occuparsi di Fulva e del suo piccolo che nel frattempo erano rimasti lì, sopiti. Sollevò il muso del volpacchiotto

“L’hai portato con te a caccia, vero?” Fulva annuì

“Deve aver mangiato del cibo avvelenato. Poco, perché vedo che è solo stanco, ma a sufficienza per farti preoccupare”. Poi si avvicinò di nuovo a Fulva indicandole la bocca del figlio “Vedi com’è scura? Fagli bere molta acqua e assicurati che per qualche giorno il cibo che mangia sia sano. Se dovesse mangiare anche solo un altro po’ di questo veleno, rischieremmo di dover fare fronte ad una situazione più grave.”

Fulva leccò il musino del cucciolo

“Sembra che le volpi, al pari degli uomini, facciano fatica a seguire i buoni consigli”
Il Nero sorrise. Non c’era più traccia di disagio, nessuno strascico della confusione provata pochi minuti prima. Lasciò che il frizzante vento autunnale portasse via qualunque cosa, lasciandogli solo una sensazione di armonia.

“Quella notte ho pensato di tornare indietro, è stata l’unica volta che ho davvero preso in considerazione l’idea …” disse ad un tratto Nero, di punto in bianco. “Dopo di allora, non me ne sono mai più pentito, e anche oggi, non ho dubbi: non tornerò mai più là, in quella che Chiaro si ostina a chiamare casa nostra, ma che per me era una prigione” parlava forse più a se stesso che ad Aaron, ma aveva un’intensa necessità di esprimere a parole quel groviglio di pensieri sul luogo dove aveva vissuto da piccolo, sulla sua fuga, sulla sua vita di mercenario.

Aaron lo capì e sorrise: gli andava bene. Ascoltare frammenti del passato di quest’uomo andava bene, raccogliere le schegge per completare il puzzle andava bene, non voleva intromettersi, né imporsi, i tempi e i modi di Nero sarebbero, anche loro, andati bene.

Appoggiò la testa alle ginocchia e si girò verso il suo interlocutore “E che cosa accadde dopo quella notte?”

“Non avevo idea di cosa fare, allora seguii l’istinto. Accantonato il pensiero di tornare a casa, decisi che la cosa migliore sarebbe stata quella di allontanarsi il più possibile da tutto quello che m’era noto. Volevo slegarmi dal mio passato e persino dalla mia terra, volevo ricominciare daccapo. E così presi la prima nave disponibile a Dover per il continente. Al capitano dissi che potevo fare il mozzo per pagarmi il tragitto, ma lui non credette che ne fossi capace, e mi richiese metà dell’argento che avevo con me. Erano tempi difficili, che avrebbero portato a questa guerra…La sua nave sbarcava a Calais, portare un clandestino Inglese in terra Francese costava per lo meno quella cifra, mi spiegò. Non avevo scelta e quindi gli diedi quello che chiedeva. Lasciai a Dover il cavallo, grazie al quale riuscii a racimolare un po’ d’oro, e portai con me solo la spada ed il pugnale…”Rise “alla fine il capitano mi fece lavorare come se non di più di un mozzo e ricordo che arrivai in Francia stremato, tanto che al porto, dormì per un giorno intero, per trovarmi la mattina seguente senza più un soldo e senza un’arma. E’ imbarazzante per me dirlo, ma fui derubato di tutto senza che me ne accorgessi!”

“Tutto? E come avete fatto?”
”S’impara dai propri errori” si schernì Nero, “non m’hanno più rubato niente da allora. Anche se devo essere sincero, Cencio c’è andato molto vicino”
”Un ladro professionista, allora!” scherzò Aaron

“Uno dei più scaltri che abbia mai visto”
Il loro discorso fu interrotto dal suono di un corno.

Aaron sospirò “Mio padre mi chiama, devo andare da lui però…”Esitò un istante “Mi farebbe piacere continuare ad ascoltarvi. Purtroppo ho avuto così poche possibilità di viaggiare che posso farlo solo attraverso occhi altrui”

Perché Nero aveva questa intima necessità di raccontare a quest’uomo, in fondo uno sconosciuto, la sua vita? I suoi viaggi? Ma trovare una risposta non era così importante, in quel momento, voleva e tanto gli bastava. “Vi racconterò quello che volete sapere”

“Posso quindi aspettarvi in biblioteca, dopo cena?”

“Certo” disse sorridendo e si chiese quanto mancasse al calar del sole.
 

 ***

lili1741 : E' che LdM è lento di suo. Ad un certo punto accelererà, ma all'inizio deve davvero prendersi il suo tempo. Quando l'ho scritto non riuscivo a staccarmi dai "momenti". C'era quello, quell'altro momento che volevo descrivere... Perciò è nato così. Riguardo alle visite, ho letto un libro che descriveva il quotidiano nel medioevo e diceva che, è vero, i parenti lontani raramente si recavano a trovare i propri cari (per via delle distanze, soprattutto), ma se lo facevano, di solito era durante una festività cristiana. Una volta nella vita, magari quindi a Natale. Devo essere sincera, la mia fonte è unica, non mi sono documentata di più, perciò può essere che ci sia un grosso errore di ambientazione. Vado a controllare più a fondo, allora, perchè se così fosse, dovrei cambiare il pezzo. Vero che LdM ha un'enorme dose di sovrannaturale che falsa il "racconto storico", ma mi dispiacerebbe fare errori grossolani :( [E soprattutto, potrei aspettarmi la mia prof. di storia del liceo prendermi a calci. Dio mi scampi XDD). Grazie davvero tantissimo per le tue recensioni. *hugs*

Bigi: Nero dev'essere bellissimo *_* Avremo... sì, un "ragazzetto", per così dire O_ò E' necessità di copione, non me ne volere XD

 

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Capitolo 10
*** 10. Il Prima e il Dopo ***


Nuova pagina 1

Dalla vostra affezionatissima Dicembre, in una giornata di pioggia: Rapida come un fulmine °_° Ecco qui il nuovo capitolo. Vorrei arrivare al quattordicesimo quanto prima. Sia perchè, secondo me, lì migliora lo stile, sia perchè, finalmente, lì il racconto prende una piega un po' più definita. Liberaci dal Male ha un che di etereo '^_^ Comunque sia, ovviamente ringrazio tutti quelli che vorranno lasciare un commento, una riga, una parola, un qualcosa, chi legge, chi m'ha messo fra i preferiti, chi rimane incuriosito, ma anche solo chi passa di qui. Mando un bacio.

 

Capitolo Dieci

- Il Prima e il Dopo -

 




“Quindi si sposa Rebecca…”

“L’hai sentito anche tu?”

“Me l’ha detto Corliss”

”E chi sarebbe Corliss?”

”La cuoca!”

“Oh Santo Cielo, Dio ci aiuti!”

“Ma perché devi essere sempre così negativo?”

”Non è questione di essere negativo Cencio, è questione che ora sappiamo cosa farai per metà del tuo tempo qui”

“Che cosa vuoi dire?”
”Voglio dire che passerai giorni interi chiuso in cucina con questa Corliss a mangiare, senza un minimo di ritegno”
”E qual è il problema?”
”Il problema è che sei ospite e fare la parte dell’ingordo non è né educato né cavalleresco!”
”Cavalleresco… Ma Luppolo” rispose il ragazzo stringendosi nelle spalle “tu dimentichi che io sono ingordo e poco cavalleresco. E poi, scusa, Corliss ha detto che avanza spesso del cibo e che non vuole buttarlo via. Che male c’è se lo mangio io?”
Luppolo sospirò sconsolato “Vediamo quando Lord Aaron ti caccerà da casa sua perché rischi di mandarlo in rovina, poi vediamo che male c’è”
”Sei sempre così negativo”
”E tu hai sempre l’aria in testa!”

“Se non vi conoscessi bene, vi scambierei per marito e moglie!” Nero entrò nella stanza dove c’era appena stato il battibecco fra Luppolo e Cencio. I due lo guardarono con l’aria di chi è appena stato scoperto a fare qualcosa che non avrebbe dovuto.

“E’ Luppolo che mi tarpa le ali”

Nero non trattenne il sorriso: “Di divoratore smodato?”

Cencio mise il broncio e cercò di replicare, ma Nero lo interruppe alzando le mani

“Per carità, lascio a Luppolo il compito di domarti… “ e Cencio non insistette, rispondendo solo con un sorriso sornione.

“Ho sentito anche” riprese Cencio cambiando discorso “che per l’Avvento verranno qui Dama Thurlow e suo marito, con i figli, così come i cugini di Lord Aaron”
”Sempre da Corliss?”

Cencio fece di sì con la testa, felice di portare notizie fresche “Si popolerà parecchio questo posto, dunque… Anche se tre dei nostri se ne andranno. Sono stupito però” continuò rivolto a Luppolo “Che tu non torni a casa. Pensavo non vedessi l’ora di tornare in Scozia”.

Luppolo sospirò e non rispose, scollando le spalle per lasciare cadere la questione.

“Non lo biasimo” lo giustificò Nero “Andare a Nord, questo inverno, non è saggio. Le strade sono impervie e ghiacchiate. Ho sentito dire che sarà uno degli inverni più rigidi degli ultimi anni”:

A Cencio, questa, sembrò una giustificazione sufficiente e scosse la testa alzando le sopracciglia, come se avesse sentito una cosa ovvia alla quale non aveva pensato.

“Vado da Corliss ora, m’ha detto che avrebbe preparato una torta di mirtilli e bacche solo per me, vi raggiungo per cena”

Luppolo annuì “Una torta di mirtilli” ironizzò “ è un ottimo spuntino prima della cena”.

Quando Cencio fu uscito dalla stanza, il cavaliere scozzese si girò verso Nero e lo scrutò.

L’inverno rigido era una buona scusa per Cencio, ma non per lui.

Si chiese perché, quindi, il capo avesse voluto darla: per far tacere il ragazzo, oppure per qualche altro motivo?

Si chiese se il loro discorso di qualche giorno prima, nel giardinetto interno, sotto la pioggia, centrasse qualcosa.

Si chiese se Nero avesse letto nelle sue parole quello che non osava ammettere nemmeno a se stesso. Ma, come ogni qual volta che ci pensava, scosse la testa e la liberò da qualunque riflessione che non voleva affrontare. Sapeva che la tentazione poteva essere superata e che avrebbe solo dovuto seguire la sua anima cristiana.

“E’ da qualche giorno che siamo qui e ancora non ci siamo mossi . Domani pensavo di andare in paese, e magari cavalcare verso Nord per vedere i dintorni”
Nero annuì “Sì, penso sia un’ottima idea. Ora che siamo sicuri che Forgia starà sempre meglio, è inutile che si trascorra tutto il tempo qui”

“Vorrei andare in chiesa” disse d’improvviso Luppolo sorprendendo quasi se stesso.

“So che nel castello c’è una cappella, ma di certo troverai qualcuno che t’indicherà la strada per la chiesa nel villaggio più vicino”
Luppolo annuì, voleva pregare e chiedere perdono per qualcosa che non aveva fatto, ma che comunque bussava alla sua anima e alla sua coscienza.

Luppolo voleva cambiare discorso

“Ti vedo più sereno” osservò

“Rispetto a quando?”
”Più sereno in generale. Non so bene, è una sensazione…”
”Dev’essere il luogo…” ipotizzò Nero

“Questo posto sembra permeato da un’aura di calma, hai ragione” Annuì Luppolo “Quando siamo arrivati qui, la prima sera, non me n’ero accorto. Ero troppo preoccupato per le condizioni di Forgia, però è come se ci fosse qualcosa di…” cercò le parole

“Celestiale?” suggerì Nero

“L’hai notato anche tu?”
”Sarebbe strano non notarlo” annuì Nero pensando a Lord Aaron. Si chiese se non fosse l’ Alito di Dio a permeare il castello. Anche l’aura che circondava il padrone era dolce, quieta e da tempo non si sentiva così in pace.

Scrollò la testa ad un pensiero così nuovo: “Sono contento di rimanere un po’ qui, dopo le Fiandre e la Francia, ero stanco di combattere …”
”Mi fa piacere sentirtelo dire” disse Luppolo “Gli ultimi due anni sono stati così intensi che non so quanto ancora avremmo potuto reggere…e avevi bisogno di una pausa…”
Nero lo guardò con aria interrogativa

“Ho sentito Chiaro, l’altra sera sul balconcino, il vostro dialogo… Sinceramente sono contento che se ne vada.” Resosi conto del tono che aveva avuto quella frase, Luppolo si spiegò meglio “Non mi fraintendere, a volte penso sia un Inglese aristocratico e spocchioso, ma non mi riferivo a questo. Solo penso sia meglio che se ne vada per un po’”
Nero lo guardò, aspettando che continuasse

“Sai quello che penso, trovo che abbia un’ossessione e sono contento possa essere, in qualche modo, arginata”
”Se è vero quel che dici, pensi che pochi mesi a casa possano portare a dei risultati?”
Luppolo scrollò le spalle “Devi ammettere sia strano che Chiaro abbia deciso di partire pur senza di te, mi sarei aspettato rimanesse attaccato alla tua gonnella”

Nero rise “Ora diventi offensivo” disse prendendolo in giro.

Luppolo gli sorrise e non aggiunse altro per un po’

“Vado da Forgia a vedere come sta” disse infine “a dopo”
Nero non rispose, annuì semplicemente.






Rimasto solo nella stanza, il cavaliere si appoggiò pesantemente allo schienale della poltrona e si perse nei suoi pensieri. Avrebbe mentito se avesse detto di non sentirsi più sereno sapendo che Chiaro sarebbe stato via per qualche mese. Era come un fratello per lui, ma ultimamente la sua presenza stava diventando ingombrante. L’armonia del gruppo, sia in battaglia che nel quotidiano, rischiava spesso di essere minata dai suoi continui capricci. Forse Luppolo aveva ragione a dire che quella di Chiaro era un’ossessione: Chiaro voleva con Nero un rapporto esclusivo. Eppure Nero non aveva mai trovato in lui una persona con la quale sentirsi in perfetta armonia. Gli era legato dall’affetto dovuto ad un’infanzia trascorsa insieme e una vita passata fianco a fianco, ma nel suo cuore non c’era mai stato un attaccamento pari a quello dimostrato dal fratellastro. L’inquietudine che sentiva dominare il suo animo non poteva né essere condivisa, né tanto meno sanata da Chiaro.

Sospirò, ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva di fronte a sé il suo passato e ogni volta che li riapriva era sempre più convinto che per lui non poteva esserci cura.

Voleva una casa, un approdo dove finalmente poter abbassare le palpebre e riposare, ma non c’era riposo per lui. Per quanto l’avesse cercato fin nell’Oriente più profondo, non l’aveva mai trovato.

A questo pensiero gli venne in mente la promessa fatta a Lord Aaron.

Veramente gli aveva promesso di raccontargli del suo viaggio nella terra di Levante? Si mise a ridere e scosse la testa incredulo. Un cantastorie, pensò prendendosi in giro. Ma nonostante l’assurdità della sua promessa, anche lì di fronte al fuoco, questa gli sembrava, come nel pomeriggio, una cosa naturale. Si stupì ad avere voglia di vedere il Lord e parlargli.

Ripensò agli occhi del padrone del castello quando questi gli aveva chiesto di poterlo ascoltare. Pur non essendo uomo di molte parole, Nero si rese conto che per quegl’occhi e per un qualche altro indefinito motivo, quella sera che avrebbe spese molte e volentieri. Rivangare il passato era spesso stato doloroso, un passato così frammentato e vissuto intensamente che il più volte aveva cercato di accantonare. Ma quella sera era diverso, lì seduto, di fronte al fuoco che emanava un tale calore che lo scaldava fin ne profondo, Nero si sentiva insolitamente impaziente di farlo e sorrise.





I corridoi del castello erano poco illuminati, tuttavia l’arazzo che si fermò ad osservare Nero era circondato da diversi candelabri. Rappresentava due ragazzini biondi intenti a lottare contro un drago. Sebbene la scena fosse intensa e i contendenti sembrassero all’apice della lotta, Nero non percepiva una situazione di pericolo, al contrario. Sembrava che quella lotta fosse un gioco, che il drago fosse quasi un amico e che i due bambini lo conoscessero bene.

“Vi piace?”
Nero non si girò, ma rispose continuando ad osservare l’arazzo “Molto. Mi sono fermato perché è insolitamente illuminato, a differenza del resto del corridoio. Ora invece sto cercando di capirlo…”
”Di capirlo?” chiese Aaron incuriosito

“Ho come l’impressione che rappresenti un gioco più che una lotta…”
Aaron lo guardò stupito “Perché lo pensate?”
”Forse per l’espressione dei due bambini, troppo gioiosa, o forse per il drago…”

Aaron scosse la testa incredulo e poi sorrise “Quel drago è mio padre.”
Nero aggrottò le sopracciglia “Vostro padre?”
Aaron annuì “E quei due bambini siamo io e mio fratello…”

Nero si girò verso il Lord, aspettando la spiegazione: “E’ stato fatto in sua memoria. Nei nostri giochi, quand’eravamo piccoli, lui immaginava sempre che nostro padre fosse un drago che dovevamo sconfiggere per poter sfuggire alle sue angherie - lezioni di scrittura, filosofia… Capitava spesso che lui ci scoprisse mentre tentavamo di escogitare qualche modo per uscire all’aria aperta e cavalcare”
Aaron allungò la mano e toccò l’arazzo, passò le dita affusolate sulla figura del bambino che si riparava col proprio scudo dal fuoco del drago. Sospirò, cercando di non lasciarsi prendere dallo sconforto, ma non riuscì a fare a meno di dire

“Mi manca molto”. Ma appena pronunciate, si pentì di quelle parole. Si coprì la bocca con le dita, quasi nel tentativo di fermare altre parole non volute.

“Era vostro gemello?” chiese Nero osservando l’incredibile somiglianza fra i due bambini ritratti

“Sì, di qualche ora più piccolo di me. William…” pronunciare ad alta voce quel nome provocò negli occhi di Aaron ondata di malinconia. Nero notò che nel turchese delle sue iridi, il cambiamento di umore, come qualunque altro stato d’animo del Lord, veniva testimoniato dallo smerigliarsi di quell’azzurro. Che fosse un velo opaco, un’ombra bagnata oppure un bagliore luminoso, quel colore sembrava trascrivere una storia, sembrava raccontare un segreto.

Gli piaceva guardare quel colore ed interpretarlo: quelle storie e quei segreti erano troppo intensi per rimanere inascoltati.

“E’ successo molto tempo fa?”

Aaron annuì e rispose con un tono leggermente più basso del normale “Quindici anni fa. Ci siamo ammalati entrambi: lui è morto, mentre io mi sono ritrovato solamente zoppo”
C’era un profondo senso di colpa in quelle parole, Nero si chiese il perché, anche se una parte di lui capiva. Aaron era stato risparmiato, e Nero si domandò se quello non fosse stato il momento in cui il Lord fu prescelto.

“Quindici anni fa…” bisbigliò Nero. Quindici anni fa lui era partito e s’era lasciato la sua casa alle spalle “Il prima e il dopo…”

Aaron sgranò gli occhi: il cavaliere sapeva?

Il Lord si chiese come fosse possibile che questi conoscesse l’artificio della sua mente che divideva il suo passato in prima e dopo.

“Forse pecco di presunzione se penso che voi dividiate il vostro passato fra un prima e un dopo? Forse solo ragiono come se il passato fosse mio… E’ più semplice dividere ciò che è stato, razionalizzarlo e chiuderlo da qualche parte, senza che questo crei ingombro e ritorni in superficie quando non deve. E’ una vecchia abitudine che mi porto dietro a quando sono piccolo…” sorrise quasi imbarazzato.

“Non penso sia presunzione, e di certo, se è una vostra abitudine, è anche mia” disse Aaron tornando a guardare l’arazzo e, di nuovo, passando le sue mani sulla figura del bambino con lo scudo “Ecco perché questa rappresentazione mi piace, ma non voglio mai guardarla troppo a lungo. Mio padre non è più un drago e noi non siamo più bambini…ed esistono sempre un prima e un dopo”



Ha senso separare, dividere l’esistenza in due semplici parti?

Probabilmente no, entrambi lo sapevano, ma sia per Nero che per Aaron, l’evento che aveva segnato la loro infanzia sembrava così forte e resistente, da non poter essere scalzato da nient’altro e soprattutto, da oscurare qualunque altro evento.

“Vi chiedete mai se riuscirete a dimenticare?”
”Non penso di poter dimenticare” Scosse la testa Nero, mentre lasciava che i suoi capelli gli coprissero leggermente gli occhi “E non sono sicuro di voler dimenticare. Mi chiedo solo se per caso non esisteranno mai un altro prima ed un altro dopo.” Fece una piccola pausa e poi riprese “Gillian, la cuoca, mi diceva sempre che niente è immutabile. Mi diceva che per lei esistevano due prima ed due dopo segnati dalla nascita dei suoi figli. La primogenita, perché l’aveva fatta diventare madre, il secondogenito perché aveva dato un maschio al marito…”
Aaron annuì. Due eventi, due prima e due dopo… Questo faceva perdere, in qualche modo, d’importanza ad uno di questi, perché non era più unico.

Era così facile capire Nero e così facile farsi capire. Non sapeva che cosa fosse successo né perché Nero aveva preferito una vita da nomade, senza casa o famiglia a quella che all’apparenza sembrava una vita agiata. Era importante saperlo, ma non lì, non in quel momento.. La curiosità di Aaron nel voler conoscere quest’uomo esisteva ed era forte, ma quello che gli riempiva la mente e gli sanava il cuore era il poter condividere quella sensazione di smarrimento e di paura che l’aveva accompagnato dalla morte del fratello ad allora.

Ancora una volta, ancora e come sempre, quel silenzio che s’era creato non gridava spavento, non supplicava parole: era invece dolce, quasi morbido. Aleggiava soffice ed aspettava, senza fretta, di lasciare spazio alla voce dei presenti.

“Venite” disse infine Aaron “ho un libro da mostrarvi” e così dicendo si allontanò da quell’arazzo, non voltandosi. Nero invece indugiò su quella rappresentazione un po’ più a lungo, guardando il bambino biondo che brandiva la spada e sembrava voler raggiungere il drago prima che questi colpisse l’altro bambino protetto dallo scudo. Ebbe l’istinto di toccarlo, ma all’ultimo momento desistette. Sentì un alito caldo sulla mano sollevata, ma pensò fosse il fuoco delle candele.

 

***

lili1741 - come sono felice, grasssie. E' esattamente quello il punto di questa prima parte (o cielo, sì, LdM si prende i suoi tempi in ogni senso, perciò ha "qualche" capitolo con sè XD). Ma ad essere onesta, è che mi piace che le storie abbiano i loro tempi e che non sia "tutto e subito". Un po', quindi, lo faccio per la storia, e un po' lo faccio per me XD Baciotto

BiGi - Ehm, diciamo "tra un po'. Nel senso che la struttura di LdM non è esattamente lineare, perciò... Mica vorrai che "spoileri" tutto, no? XD Comunque abbi fede. La mia anima shounen ai mi impone di accontentarla, e io mi sono piegata alla sua volontà (neanche troppo difficilmente ehehehe )




 

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Capitolo 11
*** 11. Casa ***


 

Capitolo Undici

- Casa -

 

 

La stanza in cui entrarono era ampia, a pianta circolare. Nero fu stupito da quella particolarità architettonica e si osservò bene intorno. L’atrio, perfettamente tondo, non aveva finestre, le pareti erano altissime e tappezzate di libri. Lontano, sulla destra, si apriva un corridoio così stretto che Nero si chiese se un uomo adulto potesse entrarci senza girarsi da un lato. Si diresse verso quella piccola fessura che notò, in realtà, essere molto più larga di quello che gli era apparsa all’inizio: era un corridoietto abbastanza corto che portava in una stanza speculare a quella prima. Anche sul perimetro di questa vi erano libri più o meno antichi e nessuno spazio per altro.

Nero notò che anche in questa stanza, come in quella precedente, non vi erano finestre alle pareti, né tavoli dove poter leggere. Si girò verso Lord Aaron per chiedergli spiegazioni, quando questi gli indicò un’altra piccola apertura sulla parete della seconda stanza, un secondo corridoietto nascosto dietro una pila disordinata di libri. La terza stanza, anch’essa a pianta circolare, era molto più ampia, con un tavolo appoggiato da un lato ed un divano dall’altro. Quest’ultimo era piuttosto basso, ricoperto da cuscini che sembravano cuciti d’oro. La stoffa era di un rosso acceso, lucido, Nero non potè fare a meno di toccarla: “Seta” bisbigliò stupito, osservando i ricami sopra i cuscini: l’argento e l’oro dei fili si amalgamavano in disegni esotici.

“Viene dall’India” spiegò Lord Aaron: “l’ho avuto da un mercante che m’aveva promesso Balsamo di Gelsomino, ma che m’ha portato questo…” sorrise

“Uno scambio sicuramente vantaggioso, ma non capisco, perché tenerlo qui?”
”Invece che nelle mie stanze intendete?”

Il Nero annuì.

“Qui vengo solo io, la porta è aperta ma ai servitori non interessano i libri, nessuno saprebbe leggerli. Mio padre non esce più dalle sue stanze ormai da qualche anno… Per quanto invece riguarda gli ospiti, ne abbiamo solo nelle feste comandate e di solito non è in biblioteca che passano il loro tempo…”
Nero annuì, continuando a guardarsi in giro, meravigliato dall’enorme quantità di libri.

“Dante…”
Aaron si stupì “Conoscete l’italiano?”

“Vivendo con Cencio, è praticamente impossibile non saperlo: parla di notte. Inoltre abbiamo trascorso diverso tempo a Sud, di ritorno dall’Oriente, al servizio di alcuni mercanti di Venezia. Ho avuto modo i impararlo lì”

“Dei mercanti…Avete viaggiato con loro?” dalla voce di Aaron trapelò entusiasmo, la curiosità di chi avrebbe voluto, ma non poteva mettersi in viaggio.

“No, anche se mi sarebbe piaciuto… Eravamo stati assoldati per proteggere una congrega di mercanti da saccheggiatori che si trovavano nella città. Ma non vi nascondo che mi sarebbe piaciuto andare con loro, in India, magari” disse passando la mano sul divano, ma di nuovo si girò verso la libreria

“Se vi piace, potete prenderlo”

Lord Aaron si diresse verso la parete dove si trovava la Divina Commedia e la sfilò dal suo posto

“Potete leggerlo, portarlo con voi in stanza o se preferite, venirlo a leggere qui quando più vi aggrada”

Nero fece per protestare, ma il padrone del castello gli sorrise con uno di quei sorrisi che Nero iniziava a trovare disarmanti: “Non sono così accecato dal mio entusiasmo per l’avventura da non riuscire a vedere quello degli altri”.

Nero prese il libro fra le mani, non trovò nient’altro da dire se non un semplice grazie.  Era stupito dalla sensibilità e dalla capacità d’osservazione del suo interlocutore: nonostante sapesse di non aver dato evidenti segni di  voler quel libro, era impaziente di leggerlo.

Raramente aveva modo o tempo di leggere libri, non avendo una dimora fissa non poteva portarli con sé, né conservarli in un luogo sicuro. 

“E credetemi quando vi dico” aggiunse lord Aaron che sembrava leggere i suoi pensieri uno ad uno “che potete venire qui quando volete, leggere quello che preferite. Per tutta la durata della vostra permanenza, vi prego siate mio ospite anche fra queste stanze”

Nero non sapeva, né capiva come fosse possibile che Aaron capisse così chiaramente il suo animo e lo facesse sentire così quieto e a proprio agio. Sorrise a se stesso, al pizzico di gioia che aveva provato in quell’istante. Si sentì uno sciocco, ma sorrise ugualmente coinvolto dal piacere di un gesto così banale quale quello appena fatto dall’altro; così banale, ma non per questo, di meno valore…Non c’era da nascondersi e non c’era da tacere, e questo lo rendeva felice.

“Non vedo finestre in queste stanze, però”

Aaron indicò il soffitto che Nero notò essere fatto, nella quasi totalità, in vetro

“E stata una trovata di mio nonno, ha studiato anni per poter costruire un tetto che non crollasse  sotto le intemperie di queste zone…” Aaron rise al ricordo “Quando fece erigere questa biblioteca seguì personalmente tutte le fasi di costruzione!”

“Devo ammettere che il risultato è splendido”

“Gli avrebbe fatto piacere sentirlo dire. Mi ricordo che, da piccolo, mi sembrava strana questa stanza, avevo sempre paura che il soffitto sarebbe precipitato, ma poi, quando ho capito che non sarebbe successo, ho iniziato a passarci del tempo anche solo per guardare il cielo”.

“Addormentarsi in un posto caldo guardando le stelle è un lusso di pochi”

“Date una lettura di questo posto molto romantica” disse prendendolo in giro, ma al contempo gli disse “Mi sono addormentato così tante volte su quel divano, guardando il cielo e immaginandomi chissà dove, che ormai ho perso il conto.”
”Avete veramente un grosso entusiasmo per i viaggi”

Aaron sospirò: ”E’ l’entusiasmo che il cieco ha per la luce, inutile e a volte, temo, fastidioso”

“Fastidioso non direi proprio, la curiosità per ciò che ci circonda non può creare fastidio, non credete?”
”Lo penso anch’io, ma temo spesso di eccedere, nel tentativo di supplire con le parole alla mia impossibilità di muovermi da questo posto”

“Vorreste andarvene?”

I due si guardarono, e Aaron indugiò un attimo sulle ciglia lunghe del suo interlocutore. Sapeva bene che la domanda non era così semplice come poteva apparire, portava con sé il fardello di una persona che se n’era davvero andato di casa per motivi a lui sconosciuti, ma che erano stati abbastanza forti da fargli prendere una decisione radicale.

“No” rispose scuotendo la testa “Vorrei visitare altri posti, non andarmene di casa”
Era una risposta sincera, diretta. La sua casa era lì, fra i mattoni algidi di quel castello e l’aria gelida della bruma mattutina. Poteva essere solitaria e quindi fredda, ma quella rimaneva pur sempre casa sua.

“E’ un sentimento che vi invidio molto, devo essere sincero, ma faccio fatica a comprendere…” sospirò il Nero.
Aaron non interruppe il corso di pensieri del cavaliere, si sedette sul divano indiano indicandogli di sedersi al suo fianco. Istintivamente, come faceva sempre quando si sedeva lì, solo nella stanza, si rannicchiò nell’angolo sprofondando la schiena nei cuscini e appoggiando la testa sulle ginocchia.

“Tempo fa, il mio Ataman mi disse la stessa cosa, mi disse che visitare altri posti è bello solo se si ha una casa dove tornare.”
”Il vostro Ataman?”

“E’ il capo dei cosacchi tartari, i Nagaybäk. Con loro ho vissuto per tre anni dopo aver lasciato l’Inghilterra”
”Nella Russia Orientale?” chiese stupito Aaron

“Sì, non mi chiedete come mai sia finito tre anni  fra i cosacchi tartari perché non sarei in grado di dirvelo”. Scosse la testa sorridendo “Ho dei ricordi piuttosto confusi del tragitto che da Calais mi portò in Oriente, eppure ci arrivai io, sul dorso di un cavallo. Possiamo dire che mi sono perso”

“Perso! In Russia. Mi pare un posto piuttosto lontano per perdersi…”
”Essere lì o da qualunque altra parte, per me non aveva importanza, quindi quando l’Ataman mi chiese di rimanere, accettai di buon grado. Ero affascinato dalle loro vite e dal loro modo di cavalcare, mi sembrò una ragione sufficiente per rimanere un po’”

“E vi adottarono?” Aaron suonò piuttosto confuso

“In realtà no, è contrario alle loro usanze adottare qualcuno. Dicono che adottando si obbliga qualcuno a rimanere fermo in un posto e loro pensano sia sbagliato”

“Ritengono sia sbagliato l’obbligo, o proprio avere una dimora?”

“Ritengono sia sbagliato che siano loro a sceglierla per te. I cosacchi sono nomadi, e fu proprio l’Ataman a convincermi che quello che avevo fatto, sebbene folle, non fosse sbagliato. Nessuno di loro ha una casa in pietra, o una residenza alla quale fare ritorno, tutti considerano la loro casa il luogo dove si trovano gli altri. A volte capitava che ci si fermasse in una particolare zona della regione per mesi. Ciononostante nessuno aveva dispiacere a lasciare le terre dove si era abitato per un po’ di tempo, dicevano che non è la terra che dona ad un uomo una dimora, ma sono i suoi compagni a farlo”.

“E’ l’opposto di quello che si pensa qui in Inghilterra, dove ora si fa guerra per rivendicare il diritto alla terra”
”E voi pensate sia giusto?”

“Sono stato educato in questa cultura e sono cresciuto in un posto che ora mi sento di chiamare mio. Non vorrei abbandonarlo, ma non saprei dirvi perché, se è per le mura che lo compongono, per le persone che ci vivono o per i ricordi che evoca… Non lo so davvero…” Aaron scosse la testa per enfatizzare le sue parole. “Perdonate la mia insolenza, però, non posso fare a meno di chiedermi che senso abbia per il vostro Ataman dire che visitare perde di senso se non si ha una casa dove tornare. Da quel che mi dite, lui la sua casa la portava con sé.”

Nero rise “Sì, e questo certo non sarebbe pratico con le case inglesi!”

Guardò i capelli di Aaron sparpagliati sul divano e non riprese subito a parlare, rimase incantato nel cercare di discernere quali fossero i ricami e quali invece appartenessero al suo interlocutore, poi riprese il discorso “Ed è per questo loro modo di vedere le cose che Levante è tornato con me in Europa. Lui, di contro, soffriva questa mancanza totale di radici. Quando decisi di tornare ad Ovest, venne con me… e a quanto ne so è ben intenzionato a metterle!” sorrise, ricordandosi dell’imbarazzo di Levante quando la sua destinazione era stata scoperta dai compagni

“Una donna?”
”Una veneziana, sì.”
”E l’Ataman l’ha lasciato andare?”
”Senza tentare di persuaderlo a rimanere, nonostante, sono sicuro, soffrisse di vederlo andare via”

“Da come ne parlate, provate un gran rispetto per quest’uomo”

“M’ha insegnato molto e senza di lui, non sarei arrivato a diciott’anni. Le tentazione di partire per mare e unirmi a qualche gruppo di avventurieri, a quell’età, era forte. Pochi ragazzini sapevano impugnare la spada come lo facevo io perché pochi ragazzini potevano vantarsi di avere avuto Anselm come maestro d’armi. E questo, ai tempi, mi riempiva di arroganza…”

“Un pirata..?” chiese Aaron spalancando gli occhi incredulo e divertito. “A vedervi ora sembrate tutto il contrario, con la vita dei vostri uomini fra le mani ed un atteggiamento assennato. Chi l’avrebbe mai detto! Ora potreste essere il terrore dei mari, con una benda nera sull’occhio, un cappello che vi adombra il viso e un uncino al posto delle dita” Aaron lo prese in giro, mimando la benda, il cappello e l’uncino con le mani sotto gli occhi meravigliati di Nero che, alla fine tentò di afferrare la mano del suo interlocutore per farlo smettere di prendersi gioco di lui. Aaron riuscì ad evitare la presa e scoppiò a ridere, cosa che fece subito dopo anche Nero.

“Sono contento di avervi conosciuto sotto altre spoglie però” disse Aaron ritornando serio e stringendosi nelle spalle “non sono sicuro che da pirata mi sarei sentito così sicuro vicino a voi”

Siete una persona che dà molta sicurezza, aveva detto e il sentirlo di nuovo commosse il Nero che non replicò subito, lasciò che quella sensazione gli accarezzasse le pelle. Temeva che le parole potessero  disperderla.

Guardò di nuovo capelli di Aaron sparpagliati sui cuscini insieme ai ricami dorati:

“Non sono mai stato in India. L’Ataman m’ha raccontato di cose meravigliose…” disse più fra sè e sè che al suo interlocutore.

“Se è vero come dite che loro hanno la loro casa laddove esistono i loro cari e non dove ci sono i mattoni che ne delimitano il perimetro, come possono staccarsi così facilmente gli uni dagli altri? Com’è possibile che l’Ataman non si sia dispiaciuto di vedere partire Levante o voi, dopo avervi preso sotto la sua ala protettiva per tre anni?”

“Non credo non fosse triste, o non preferisse rimanessimo. Tuttavia quando Levante gli chiese consiglio, fu lui il primo ad incitarlo…”

Aaron scosse la testa “Forse sono io ad essere possessivo, o forse egoista.”

“Penso che siate semplicemente molto legato a questo luogo per quello che rappresenta per voi. Sinceramente non penso che la sua interpretazione di casa fosse migliore o peggiore di quella inglese, ma non vi nego che m’ha dato speranza”

“Speranza?”

“Di trovare la mia”

Lord Aaron guardò il Nero che aveva gli occhi persi chissà in quale posto, chissà dietro quale ricordo… Trovare una casa…

Era un concetto astratto per lui, completamente nuovo. Pensò a sé e si rese conto che se non avesse avuto un luogo da poter chiamare casa, probabilmente, si sarebbe sentito perduto, in mezzo al niente

“Io non sono coraggioso come voi” bisbigliò “Ammiro molto questa vostra forza”

Il Nero scrollò le spalle e sorrise, non l’aveva mai considerata forza. A volte era disperazione, a volte solitudine, a volte addirittura, pura e inutile abitudine.

Era una strada che non prevedeva alternative, un giorno forse, Nero ne avrebbe trovato la fine, ma per ora non gli rimaneva che cercare.

Aaron non capì subito se la malinconia che percepiva sulla sua pelle fosse la sua reazione a quegli occhi neri così distanti oppure se non fosse propria, ma fosse emanata dal cavaliere di fronte a lui. E allora fece un gesto senza pensarci, un gesto che più volte avrebbe maledetto in futuro ma di cui non si sarebbe mai pentito. Un gesto semplice, in quell’atmosfera ovattata notturna, in cui il loro respiro e il crepitio del fuoco erano gli unici suoni udibili. Prese la mano di Nero e gli accarezzò i palmi, se la portò al volto prima e se l’appoggiò fra i capelli.

Il cavaliere lasciò che la sua mano fosse guidata senza opporre alcuna resistenza, quei capelli sembravano seta fra le sue dita: le intrecciò fra quei fili dorati e lasciò che la sua mano fosse condotta dall’altro.

Aaron la fece scorrere fra i capelli, accarezzando poi con la guancia il polso del cavaliere e permettendo alle dita di questo di sfiorargli la nuca.

Nero la sentì correre, prima lungo il braccio poi per tutto il corpo: una sensazione avvolgente, di intensa tranquillità; una sensazione di amore profondo, antico, che sembrava avere radici salde. S’irradiò e permeò la sua pelle e la sua persona.

Era dolce, era violenta, era intima, era esuberante. Era bellissima.

La sensazione fu così intensa che gli tolse il fiato per un attimo. Ma questo fu quanto il tutto durò.

Poco prima che Aaron gli sfilasse la mano da capelli, Nero percepì un leggero alito di solitudine.

“Scusatemi” disse alzandosi e allontanandosi dal divano “ avrei dovuto impedire che un sentimento così negativo trapelasse”.

Nero non riuscì a dire niente, l’onda che l’aveva percorso era ancora troppo viva in lui e troppo sconosciuta per non rimanerne affascinato: Lord Aaron aveva condiviso quello che per lui significava casa.

Non si accorse quindi che le guance di Aaron erano rosse e i suoi passi troppo veloci.

Rimase fermo, orfano di una sensazione nuova, e disorientato.

Aaron prese un libro dalla biblioteca “Questo era il libro che volevo leggeste” disse rapidamente, non osando neanche porgere il libro a Nero, ma preferendo appoggiarlo sul tavolo. Il cavaliere avrebbe notato che la sua mano stava tremando, e Aaron voleva evitarlo. Voleva prendere aria, perché stava soffocando.

“E’ uno dei pochi scritti in cui si parla dell’Alito di Dio, ho pensato potrebbe interessarvi. Purtroppo le mie ricerche non hanno dato molti risultati.

E’ meglio che vada ora, voi potete rimanere qui e tornare ogni volta che vorrete e… scusate ancora…”

L’aria era densa, doveva uscire di lì. Non trovando parole migliori, si scusò così, semplicemente e si allontanò, il più in fretta possibile.

Pensò di essere sciocco ed ingenuo. Pensò di essere uno stupido.

Tremava perché quel contatto l’aveva emozionato. Niente di più e niente di meno: il suo cuore era stato invaso da un’emozione così violenta che Aaron aveva avuto paura. Un’emozione che non avrebbe dovuto provare e che era incontrollabile… La solitudine era stata una buona scusa per interrompere quel contatto, ma la realtà era stata che Aaron non aveva avuto il controllo su quello che provava, e sfilare la mano dai suoi capelli era stata l’unica possibilità perché Nero non leggesse nel suo animo.



***


Stateira: Grasssie, sai che adoro i tuoi commenti e quanta considerazione ne abbia *_* Sì, in effetti questi capitoli vanno letti velocemente, il rapporto fra "i due" ci mette un po', ma sono felice che traspaia l'intesa e soprattutto, la condivisione di percorsi di vita così diversi ma allo stesso tempo simili *_* E Luppolo...Beh, dato che mi sono affezionata al nostro scozzese, ho ritagliato parte del racconto per lui. E' l'anima yaoi che ha reclamato vittime sacrificali HAHAHA

BiGi Lo faccio anch'io, ecco perchè l'ho scritto. Ci sono alcuni attimi della vita che inevitabilmente, ti segnano e ti cambiano... Un bacione, grazie per la recensione *_*

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Capitolo 12
*** 12. Dipendenza (parte prima) ***


Nuova pagina 1

Capitolo Dodici

- Dipendenza (parte prima) -






Aaron non uscì dalle proprie stanze per tutti i giorni che seguirono, fino alla celebrazione del matrimonio di Rebecca. Le rare volte che s’avventurò fuori dai suoi alloggi era di notte, quando aveva la certezza che non avrebbe incontrato nessuno sulla sua strada. Era andato a visitare Forgia,per assicurarsi che la sua guarigione proseguisse, era andato in visita al padre, ma nulla di più.

E per tutto il resto del tempo Aaron aveva pregato: s’era inginocchiato di fronte ad un piccolo altare consacrato a Maria, dove c’era una candela sempre accesa per rappresentare la sua infinita misericordia e dei fiori freschi che Aaron si premurava di cambiare ogni qual volta appassissero, e aveva chiesto perdono.

Sperava che Lei potesse aiutarlo.

Sin da quand’era piccolo, Aaron aveva avuto una qualche predilezione per i ragazzi e ben poca propensione per le avvenenti figure femminili. Tuttavia, a causa della sua educazione e della ferrea disciplina che s’era autoimposto, questa sua inclinazione era stata sempre ben controllata, tanto che lui stesso s’era spesso ingannato. Quand’era adolescente s’era ritrovato più volte a guardare con una certa ammirazioni i corpi maschili, aveva sempre ritenuto affascinanti le nervature delle braccia muscolose dei ragazzi che lavoravano al castello, le loro spalle ampie imperlate di sudore. Si era anche chiesto se quelle mani, che sembravano così forti, avrebbero potuto proteggerlo.

Tuttavia, era stato così bravo a mascherare i suoi desideri che s’era lui stesso convinto che fosse inclinazione verso la bellezza estetica a farlo fermare per guardare quei muscoli e quei corpi. Un episodio al quale si aggrappava con forza, rinfrancava questa bugia: a vent’anni era rimasto ammaliato dalla figlia di Coriliss, di qualche anno più grande di lui. L’aveva trovata incredibilmente bella, coi suoi capelli lunghi e neri, la sua bocca piena e rossa…

Nel suo cuore aveva accolto la notizia con così tanto entusiasmo da fargli dimenticare la differenza di rango che c’era fra lui e la ragazza, perciò aveva passato quei giorni a corteggiarla, inebriato da quella che sperava essere la salvezza per la sua anima. In realtà, Kate, questo era il suo nome, stava andando in sposa a qualcun altro e quando Aaron palesò a suo padre l’idea di chiederla per sé, il vecchio Lord andò su tutte le furie.

La ragazza se ne andò dal castello dopo il matrimonio. Nonostante casa sua fosse poco lontano, Aaron e Kate non si rividero più, fra le lacrime di lei: si erano scambiati un solo bacio. Aaron l’aveva trovato interessante, ma poco di più. Imputò l’intiepidirsi dei suoi sentimenti alla differenza di classe sociale: probabilmente il padre aveva ragione quando affermava che due come loro non avrebbero mai avuto nulla da condividere.

E così continuò ad ingannarsi, fino a quel giorno, in biblioteca, quando non c’erano state menzogne che l’avessero potuto proteggere.

L’aveva guardato e l’aveva trovato bellissimo, l’aveva ascoltato e non avrebbe mai voluto smettere.

Aaron pregò perché Sua Signora lo aiutasse ad allontanare la tentazione dalla sua mente.

Era peccato, era vietato e sbagliato.

Pregò, in ginocchio per tutti i giorni che seguirono, fino alla celebrazione del matrimonio di Rebecca.





La giornata era limpida, Cencio trovò Forgia sveglio e finalmente lucido, nel suo letto.

“Ce n’è voluto di tempo per rimetterti in sesto. Ti piaceva giocare al malato?

“Taci, che il rimanere fermo qui, sdraiato come l’ultimo dei moribondi mi pesa come non mai”
”La vita qui non è poi così male, devi vedere il capo com’è rilassato da quando è qui”

“Nero?”

“Non mi pare abbiamo un nuovo capo…”

Forgia scrollò leggermente le spalle, movimento che fu seguito da una smorfia di dolore.

“Devi stare tranquillo e a letto, senza muoverti”

“Mi piacerebbe venire in paese al matrimonio di questa Rebecca, non si parla d’altro… E’ una persona importante?”

“Non che io sappia” Cencio enfatizzò la sua frase con un gesto delle mani “ma pare che la gente del castello e del paese abbia preso la celebrazione a pretesto per una festa. So che i minatori delle vicine miniere di stagno hanno un giorno libero, tutti gli abitanti sono stati invitati…” poi strizzò gli occhi e fece quella sua tipica espressione di quando iniziava a sognare ad occhi aperti “ci saranno danze, cibo, musica…”

“Mi piacerebbe proprio poter venire, rivedere gli altri, alzarmi da questo letto…Non ne posso più”

“Guardia e Levante partiranno a breve, passeranno di qui certamente prima di andarsene. I giorni scorsi non siamo venuti a trovarti perché c’è stato sconsigliato”

“Da chi?”

“C’è stato detto da Josephine, una nuova spasimante del capo, ma penso che le parole fossero di Lord Aaron Thurlow, ha detto che avremmo facilmente potuto passarti delle malattie…dovevi vederti, Forgia, sembravi così debole!”
Forgia roteò gli occhi “Ora mi sento forte come e più di prima… se solo potessi alzarmi”

“E meglio che tu rimanga sdraiato” disse appena entrato Nero “ hai ancora la febbre, ed è da parecchio che mangi pochissimo…”

“Eravamo tutti preoccupati”
”Puoi dirlo, Cencio quasi scoppiava a piangere!” s’intromise Luppolo.
”Sei il solito insensibile, Luppo. Non è che piangevo, ero solo preoccupato! Ma Forgia ha la pelle dura!”
Era bello averli così vicini, Forgia stesso aveva temuto di non farcela. Aveva pochi ricordi di quello che era successo dalla locanda in avanti…

“Vorrei ringraziare Lord Aaron”

“Ho sentito che è molto occupato in questi giorni, pare che a breve arriveranno la sorella ed altri parenti…Non lo vedo da tempo”
”Non mi stupisce proprio, Cencio! Questi ultimi giorni hai passato più tempo in cucina con il muso dentro un piatto, che in giro…”
”E cosa vorresti insinuare?”
”Niente di più di quello che ho detto, mio caro”

Il ragazzo sbuffò e girò sdegnato le spalle all’amico che non gli dava tregua.

“E quindi non rimarremo tutti qui?”

Nero spiegò a situazione a Forgia: Guardia, Levante e Chiaro avevano deciso di partire, ma sarebbero stati di ritorno per primavera.

“E’ strano…da quant’è che siamo insieme, sei anni circa giusto? Eppure non è mai capitato che il gruppo si sciogliesse”

“Non è neanche mai capitato che uno di noi stesse per morire” disse Cencio con una freddezza che stupì gli altri “Ma non me ne preoccuperei. Tutti torneranno, nessuno saprà resistere al richiamo di Nero”
”Ma di che cosa stai parlando?”

Cencio per tutta risposta scrollò le spalle e rimase in silenzio.

“Ora è meglio che vada a sellare i cavalli, tra poco dovremo partire per andare in paese…”

Forgia gli sorrise “Grazie Figlio del Sud, conto di rivederti a breve”

Gli occhi di Cencio si riempirono di lacrime “E’ da tanto che non sentivo questo soprannome, Forgia rimettiti in piedi in fretta, mi raccomando”

“Ci puoi contare”
Forgia rimase a fissare per un attimo la porta dalla quale era uscito Cencio

“Sbaglio o il ragazzo è cambiato?”

“Sta crescendo…” commentò sotto voce Luppolo, fissando anche lui un punto indefinito di quel portone di legno.

Dopo poco anche gli altri se ne andarono, e Forgia rimase solo nella sua stanza.

Sapeva di essere debole, ma l’idea di non poter alzarsi e stare con gli altri lo frustrava. Gli mancavano, voleva tornare all’aria fresca e voleva smettersi di sentirsi un malato. Si guardò la spalla, c’era una grossa fasciatura che gli copriva la ferita, non riuscì quindi a capire quanto questa fosse estesa. Provò a muovere il braccio, ma era intorpidito e non aveva praticamente sensibilità nelle dita. Lo sforzo di parlare con gli amici e di muovere il braccio l’aveva stancato così tanto che ricadde quasi subito in un dormiveglia, dal quale non si svegliò se non molte ore dopo.





La città era vestita a festa, gli abitanti avevano preso come scusa il matrimonio della Bella per festeggiare l’inizio imminente dell’avvento, i minatori delle vicine cave di stagno avevano il giorno libero, tutto il paese godeva degli ultimi giorni di sole.

Rebecca era davvero bellissima, Cencio non potè fare altro che ammirarla, quel suo vestito bianco le donava, sembrava un angelo dai capelli rossi.

Il marito, invece, come ci si era aspettato, era impacciato anche il giorno del proprio matrimonio, rosso in viso tanto quanto i capelli della moglie. Tuttavia le teneva la mano in modo così tenero e la guardava con così tanto amore che nessuno si sentì in vena di prenderlo in giro, come avevano sempre fatto, per questa sua innata timidezza.

Finita la cerimonia, cominciarono le danze.

“Le mie congratulazione, e auguri”

“Lord Aaron, che grande onore che ci fate con la vostra presenza, grazie…grazie infinitamente” disse lo sposo inchinandosi in maniera un po’ goffa.

Aaron sorrise con benevolenza “Avete spostato la donna più ambita della contea, conto che la trattiate come si addice ad una principessa”

Lo sposo arrossì e di nuovo fece un inchino fin troppo profondo. Poi la musica iniziò a risuonare in piazza “Andate ora, a ballare con vostra moglie e portatele i miei auguri”

“Verrà lei di certo, signore, appena si sarà liberata da Josephine”
Il Lord rise “Allora le parlerò questa sera”.

Nel gazebo dove aveva preso posto Lord Aaron era molto ampio, costruito in legno per l’occasione, le colonnine erano state decorate con fiori secchi rossi e bianchi, intrecciati da mani esperte. La sedia su cui sedeva era foderata in velluto. Il nobile notò quanta cura era stata messa nella costruzione di quella, nella tettoia che sembrava ricamata e nei tavoli adibiti a lui e sorrise. Non s’aspettava niente di meno, sapeva bene che la sua presenza lì onorava e agitava un pochino le persone presenti, nonostante la musica e la birra stessero mettendo a loro agio tutti quanti. Tuttavia sapeva bene quanto lavoro era costato quella costruzione allo sposo e al falegname, aveva udito Josephine parlarne con Coriliss.

Fu felice di trovarsi lì, e all’arrivo dei cavalieri che erano stati invitati da lui nel suo gazebo, lo fu ancora di più.

“Ma siete venuto qui senza scorta?” chiese esterrefatto Cencio “Ad averlo saputo portavo il mio arco!”

“No, questo è un giorno di festa, non voglio mettere più soggezione di quanto già non faccia con la mia sola presenza. E poi, ho portato con me degli amici”

Non capendo, Cencio, si guardò intorno. Vide Cleto appollaiato su di un ramo molto vicino a dove loro erano seduti e si accorse di una volpe che sonnecchiava ai piedi del Lord.

“Se non guardate anche lì” Aggiunse Aaron indicando un lupo accovacciato nell’ombra “s’offenderà”

“Non capisco, una volpe e un lupo… E Cleto, qui fra tutti questi uomini…”
”Sono qui per me, mi fanno loro da scorta, in cambio potranno mangiarsi tutti i resti che vorranno”

Cencio guardò il proprietario di quelle terre con occhi dubbiosi “Scusatemi se sono scettico, ma non capisco davvero come possiate fidarvi così ciecamente di tre animali, così diversi fra loro…”

“Loro non sono nemici, e se avessi bisogno di aiuto, non esisterebbero a chiamarlo e prestarmi il loro”

Cencio non discusse oltre, l’aveva sempre stupito la capacità del capo di parlare con gli animale, ma Lord Aaron sembrava capace addirittura di maggior interazione.

Pensando quindi a Nero e vedendo che non era lì con loro, chiese dove fosse

“Penso sia ancora da Forgia, ma non so. Pensavo che ci avrebbe raggiunto dopo poco, ma effettivamente non l’ho visto” disse Luppolo cercando, fra la folla e i balli, il suo capo

“Dubito che lo troverai a ballare, è più probabile che sia da Forgia …Avrà insistito perché rimanesse un po’ di più”

“Perché lo pensi?”

E ancora, come quella mattina, Cencio scrollò le spalle e non rispose.

“Anche quand’eravamo nella stanza di Forgia hai evitato la domanda. Cos’è tutto questo mistero? E’ successo forse qualcosa che io non so?”

Di nuovo Cencio diede, come sola risposta, un lieve cenno del capo e uno scrollo di spalle e Luppolo sospirò sconfitto

“Pensi che Chiaro partirà?” disse d’improvviso Cencio

“Non lo so, penso di sì, così ha detto…”

“Lo dico sempre che sei un insensibile” sorrise Cencio “Chiaro non partirà”

“E come puoi dirlo?”

“Chiaro non partirà, Luppolo, così come Levante e Guardia torneranno all’equinozio come stabilito, così come Forgia voleva venire qui alla festa per stare in compagnia di Nero… “

L’attenzione di Lord Aaron, che se n’era stato in disparte, venne immediatamente catturata da questa frase e ascoltò il resto della conversazione con estrema attenzione.

“Spiegati meglio, Cencio, quando mi parli così e fai il misterioso, m’inquieti”

Cencio sorrise “Non faccio il misterioso, Luppo, dico solo quello che è evidente. Pensi davvero che Chiaro se ne andrà a casa, zitto, senza che Nero vada con lui? Ha puntato i piedi e come suo solito, ha fatto il capriccioso. Ma non muoverà un passo senza Nero.”

“Quindi pensi che abbia mentito?”
”Non penso che stesse mentendo, penso solo che sperasse di convincere il capo ad andare con lui. Nero e Chiaro, però, ragionano in modo completamente diverso, e poi soprattutto l’uno dipende completamente dall’altro, ma non si può certo dire del contrario”

“Che Chiaro sia così, già lo sapevamo…”
”Siamo tutti così, Luppo, chi in un modo, chi un altro… Guarda Guardia e Levante, che sembrano i più indipendenti del gruppo… Torneranno all’equinozio di primavera, come deciso”
”Perché sono uomini di parola…”
”Questo è certo, ma anche se avessero scelta tornerebbero perché Nero ha chiesto loro di tornare. Funziona così, Luppo, è l’aggregante del gruppo. Tutti noi facciamo e faremo sempre quello che il capo ci chiede, tutti dipendiamo da lui…completamente”

Cencio guardò Luppo e gli parve ancora un po’ dubbioso.

“Prendi noi, ti ricordi quando abbiamo incontrato il capo in Italia? Io ero un ladruncolo senza morale né principi, tu eri un autoesiliato senza una dimora fissa. Abbiamo esitato ad andare con lui? Neanche per un minuto, ci siamo uniti al suo gruppo con entusiasmo…e non sapevamo neanche chi fosse”
Luppolo cominciava a capire e annuì

“E’ il destino del Nero, non so bene cosa sia che lo circonda, se sia carisma o che… Ma tutti noi pendiamo dalle sue labbra, dipendiamo da lui qualunque cosa faccia”

“Era questo che intendevi oggi, in stanza di Forgia?”

“Hai visto come lo guardava? Sembrava che volesse mettersi in piedi solo per fare felice il capo” Cencio scosse la testa e sembrò sconsolato “Non so quando questo stato di cose possa fargli piacere, penso in realtà che questa nostra dipendenza per lui sia un peso ma..” di nuovo sospirò sconfitto “non credo ci sia niente che si possa fare. Dal canto mio, se lui non ci fosse, mi sentirei perduto…”

Luppolo non rispose e rimase, pensieroso, a guardare la piazza dove la gente ballava.

C’erano diversi tavoli pieni di frutta secca, pane e formaggio al centro, brocche di birra che continuavano ad essere riempite e calici che continuavano ad essere svuotai . La musica era allegra, coppie che ballavano e i bambini che si rincorrevano…Eppure c’era qualcosa di malinconico nello sguardo di Luppolo, le danze e i colori si susseguivano di fronte a lui, ma la sua mente era altrove

“Sai, Cencio, penso tu abbia ragione. Hai l’aria in testa, ma evidentemente qualche volta qualche pensiero buono si ferma e ti fa sembrare particolarmente sveglio.”

“Quello che mi chiedo è se tutto questo non gravi sull’animo del capo, se tutto questo non lo faccia sentire troppo solo”

“Solo?”
”Mentre noi ci aggrappiamo a lui e dipendiamo da lui, lui non può farlo con nessuno, non può avere mai una debolezza, o un’esitazione. Questo non ti renderebbe solo, Luppo?”

Non fu necessaria alcuna risposta da parte dell’amico.



E quella solitudine si trasformò in un senso di colpa nell’animo di Aaron, per non essere in grado di alleviarla e per non avere niente da offrire per sanarla.



Il sole stava calando sui tetti delle case, i fuochi delle torce venivano accesi, mentre la musica continuava vivace.


 

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Capitolo 13
*** 13. Dipendenza (parte seconda) ***


Nuova pagina 1

Da questo capitolo in poi, penso che lo stile della storia migliori parecchio. All'inizio ci sono tante, tante ingenuità stilistiche che dopo un po' sono riuscita a limare. Ovviamente, ben lungi dall'essere perfetta, ma se non altro, ci sono dei miglioramenti. E ci si muove, un pochettino, da questa staticità che ha caratterizzato i primi capitoli. Ma suvvia, dovevano conoscersi a fondo, i nostri eroi. Inoltre, in tempi come il XIV secolo, è impensabile che morale e religione (sopratuttto da personaggi che ci credevano fermamente) venissero accantonati troppo velocemente ^_^ Un bacio a chi legge, due a chi recensisce ^*^

 

 

Capitolo Tredici - Dipendenza (parte seconda)



 




I fuochi brillavano su tutta la piazza e proiettavano ombre lunghe sui muri che la delimitavano. Ormai il sole era quasi tramontato, tuttavia le danze continuavano. Nessuno si preoccupò dell’ora ma proseguirono tutti a godersi quel giorno di festa, anche se ormai s’era alle porte di dicembre e l’aria era piuttosto fredda. I bambini giocavano fra di loro, alcuni si rincorrevano, altri si credevano adulti e ballavano nel modo buffo - e al contempo tenero - che spesso caratterizza i piccoli. Solo una di loro rimaneva in disparte, tutta intenta ad intrecciare dei fiori secchi che lei stessa aveva dipinto e profumato quella mattina. Ne aveva di rossi e di blu, di gialli e di rosa, ma non riusciva a decidersi sul da farsi.

Aaron notò la bimba quando questa, per l’ennesima volta, mosse un passo verso di lui per poi ripensarci. Era piccola, cinque o sei anni al massimo, con i capelli leggermente arruffati. Sembrava che ogni passo verso il gazebo le creasse delle palpitazioni, difatti risoluta all’inizio, cambiava idea dopo pochissimo e ritornava indietro, guardando la sua corona di fiori e stringendola un po’ più del dovuto, tanto che qualche petalo cadeva ogni volta.





L’attenzione del Lord fu distolta dalla bambina quando si unirono al gruppo gli altri cavalieri: Guardia, Levante e Chiaro. Solo Nero e Forgia mancavano. E se Aaron sapeva che quest’ultimo era rimasto al castello - troppo debole per la festa - si chiese come mai l’altro non venisse. E si ritrovò ad essere impaziente di vederlo e, allo stesso tempo, a temerne l’arrivo.

“Pensavo foste partiti…” apostrofò Cencio
”Certo, senza salutare il nostro mocciosetto preferito?”

“Ma tu sentilo! Ma dico io” disse poi rivolto a Luppolo con aria irritata “devi smetterla di prendermi in giro”

Luppolo fu colto di sorpresa “Ma come, te la prendi con me anche quand’è Guardia a darti del moccioso?”
”E’ ovvio” rispose Cencio con la solita vocina petulante che aveva quando fingeva d’essere arrabbiato con l’amico “se tu la smettessi di chiamarmi moccioso, sono certo che Guardia non si sognerebbe mai di chiamarmi così”

“E’ qui che ti sbagli” incalzò l’amico che non voleva dargliela vinta “Guardia ti chiama moccioso perché è quello che sei”

Cencio mise il broncio e si girò verso Guardia per cercare un appoggio che sapeva non sarebbe arrivato. Difatti questi se ne lavò le mani.

“Non coinvolgete me nei vostri battibecchi!”

Poi, rivolto verso Cencio sussurrò: “Certo che se fai quel muso imbronciato, faciliti le cose a Luppolo”

Ci fu una risata collettiva, poi Guardia riprese in tono serio.

“Saremmo dovuti partire oggi, ma abbiamo sentito che questa notte pioverà. E’ meglio partire col bel tempo. Inoltre “si rivolse verso Lord Aaron “volevo personalmente ringraziarvi per tutto quello che avete fatto. So che il capo è il nostro portavoce, ma devo scusarmi per avervi giudicato male, il giorno in cui siamo arrivati al castello”.

E così dicendo s’inchinò.

“Anch’io vorrei scusarmi” disse d’improvviso Chiaro “Io più di tutti devo dire d’essere stato diffidente, ma mi sono sbagliato. E spero di avere modo, durante la mia permanenza qui, di farmi perdonare”

“Ma come Chiaro” chiese Luppolo stupito “Non hai detto che saresti partito anche tu?”

La risposta che ne sarebbe venuta, non fece che confermare quello che gli aveva detto Cencio poco prima:

“Ho cambiato idea. In fondo” cercò poi le parole più adatte al suo stato d’animo “è inutile che me ne vada” sospirò.

Apparve sconfitto. Vinto. Incapace di fare fronte all’evidenza che Nero non sarebbe mai tornato con lui.

Lord Aaron lo guardò, così come, per un attimo, fecero tutti gli altri, ma nessuno disse nulla.

Dipendente, completamente assuefatto alla presenza del proprio capo, non era in grado di una qualunque autonomia.

In quell’istante Chiaro sembrò più vecchio e sofferente, le poche rughe sul suo viso risaltarono, quasi fossero profonde, su l volto pallido.

Agli occhi di Aaron, parve stanco, i solchi profondi delineavano tutta la sua impotenza di fronte alla realtà della cose: Nero non aveva bisogno di lui quanto lui di Nero.

Cencio sorrise, un po’ tristemente, e guardò la gente che continuava a ballare e a bere, sotto un cielo che ormai s’era fatto scuro.

“Potete rimanere tutto il tempo che vorrete, la mia casa rimarrà aperta” il tono che aveva assunto era forse un po’ troppo secco e distaccato - non era questa l’intenzione iniziale - ma Aaron non era riuscito a modulare esattamente la voce come avrebbe voluto. Non che avesse appena detto il falso, tutt’altro. Ma il ricordo delle parole di Cencio di poco prima non gli avevano permesso di essere del tutto naturale: il ragazzo aveva ragione. Tutti coloro che avevano avuto a che fare col cavaliere sembravano creare con lui un rapporto di dipendenza che sicuramente non poteva far piacere a Nero. E lui non faceva eccezione. Lui che da ore lo cercava fra la gente di fronte a lui, cercava quegl’occhi neri che desiderava per sé e quella sensazione di gioia che provava quando gli era vicino; lui che non aspettava altro che quell’uomo venisse in piazza da loro; lui stesso che durante i giorni precedenti aveva trovato come unica soluzione al suo stato d’animo la completa assenza dalla vita del castello…

Lui uguale a tutti gli altri.

Si chiese se tutto questo davvero risultasse un fardello ingombrante per Nero. L’affetto e la devozione dei suoi uomini probabilmente no, la dipendenza sì.

Sorrise perché si rese conto che lo stesso peso che ora vedeva addossato su Nero, era quello che aveva sempre cercato di allontanare da sé: l’affetto, l’amore, l’ubbidienza di tutti. Mai nessuno lo trattava da eguale. Ed ora, sotto circostanze completamente diverse e con uomini completamente diversi, vide riproporre di fronte ai propri occhi la stessa scena che lui stesso viveva ogni giorno.

Però ancora una volta, passò i suoi occhi sulla folla prima e sulla strada maestra dopo, nella speranza di vederlo, ma Nero era troppo ben nascosto per essere visto da chiunque.

Non sapeva bene neanche lui perché rimaneva lì nell’ombra a guardare i suoi compagni, il Lord e le altre persone sedute loro vicine. Da dov’era, poteva sentire esattamente quello che i cavalieri dicevano, nonostante la musica alta e il vociare della gente. Era arrivato poco dopo gli altri, ma aveva preferito non farsi vedere, aveva preferito rimanere in disparte e posticipare ancora un po’ la sua partecipazione alla festa.

Osservava i suoi compagni, ma più di tutti osservava Lord Aaron. Il nobile rimaneva in disparte dal resto del gruppo, educato e premuroso, non si lasciava però coinvolgere. Sembrava che qualcosa lo turbasse anche se Nero non era vicino a sufficienza per capire se la sua sensazione fosse immotivata oppure fondata. Non l’aveva visto per diversi giorni, da quando gli aveva dato il libro sull’alito di Dio e da quando aveva condiviso con lui…

Nero non sapeva dire esattamente che cosa avesse condiviso, se un pensiero o una sensazione, se un inganno oppure una realtà. Ma la nostalgia di quel momento era quanto mai viva. Più ci pensava e più gli sembrava che quella sera in biblioteca non fosse mai esistita e che fosse solo frutto della sua mente; ma al contempo il ricordo era così assordante che ormai non riusciva più a separarsene.

Lo stringeva e lo voleva per sé, lo riviveva nella sua mente in continuazione e si chiese come avesse potuto prima, vivere senza.

E forse per questo era lì, nascosto dall’ombra di una casa, a guardare i suoi compagni ed amici senza unirsi a loro: per non dover accantonare quella sensazione, per avere modo di riviverla ancora una volta, nella sua mente.





Vide una bambina impacciata avvicinarsi ad Aaron e porgergli una corona di fiori secchi in modo un po’ brusco.

“Questa è per voi” disse diventando tutta rossa. Questo gesto catturò l’attenzione di tutti. Imbarazzata quindi indietreggiò un pochino e fu tentata di scappare via, se non che il Lord la fermò

“Non scappare! Dimmi come ti chiami e il perché di questo bellissimo dono”

“Io sono Emily, i fiori sono perché siete un angelo” Non si trattenne più e corse via, verso la folla.



Il Nero s’intenerì alla vista di questa scena, ingenua ma sincera.

I riflessi dei fuochi nei bracieri brillarono sui capelli dorati del Lord. Forse la bambina non s’era sbagliata.





L’attenzione di Nero venne riportata sul gruppo quando sentì Chiaro dire che non avrebbe lasciato Castello Thurlow. Gli venne da ridere: se lo aspettava. Come del resto s’aspettava che gliel’avrebbe rinfacciato, prima o poi. Ma lui non se ne curava, ormai aveva fatto l’abitudine ai suoi capricci.

Chiaro non lo avrebbe mai capito, né Nero aveva intenzione di spiegarsi più a fondo di quanto aveva già più volte fatto.

Notò benissimo che le parole di Chiaro provocarono un sorriso in Cencio e si chiese perché, ma fu subito distratto dalla risposta di Aaron e della sua voce, algida e molto più distaccata rispetto a quella a cui era abituato sentire durante i loro dialoghi. E fu proprio quella voce a fargli fare un passo avanti e farsi scorgere dagli altri. Voleva sentirla e risentirla ancora, non in quel tono formale di poco prima, ma con quello caldo a cui era abituato.

E fu proprio Aaron ad accorgersi dell’arrivo di Nero, immediatamente appena questo fece un passo dall’ombra.

Lo stava aspettando e il suo passo era inconfondibile, si girò nella sua direzione e lo guardò.

Ci furono solo loro, per un attimo, nessun compagno e nessuna festa, solo la musica delle danze, lontana, e il leggero vociare della gente che ballava.

Per quanto avesse pregato, per quanto avesse chiesto aiuto a Maria, il solo vederlo gli diede una gioia tale che dimenticò le sue preghiere e le sue domande.

Quei giorni passati senza vederlo gli erano parsi eterni, e vederlo lì, improvviso ma aspettato, lo fece sussultare:

“Ben arrivato” riuscì solamente a dire.



La sua voce…



“Era ora, capo, che ti facessi vivo, Forgia ha insistito molto perché rimanessi?”

“Ho dovuto istruire Cleto, deve andare nella capitale e portarmi notizie…”

“Ma non avevi detto che eravamo in vacanza?” rispose Cencio preoccupato che il capo avesse cambiato idea.

Nero rise “Lo siamo, non ti preoccupare. Non chiedevo informazioni militari di alcun genere…”
Vedendo che Nero non aveva intenzione di spiegare il perché avesse mandato Cleto alla capitale, Luppolo cambiò discorso

“La birra che viene servita è deliziosa, se fossi arrivato un po’ più tardi, sarebbe finita tutta”

“In pancia tua!”
”Taci ragazzo, è così raro trovarne di questo genere, malto perfettamente amalgamato…”
”E’ un po’ amara, però”

“Si vede da quel che dici che sei un moccioso”

“E questo ora cosa c’entra?”
”Certo che voi due” li interruppe Guardia “non passate un momento senza litigare. Ma non vi stancate mai?”

“Del resto” aggiunse Chiaro “non sei stato proprio tu, Cencio, a dare il nome a Luppolo in suo nome, mi sbaglio?”

“Quindi questo fa di me un po’ suo padre?” disse in un misto di entusiasmo e scherzo il ragazzo

“Non offendere così la memoria di mio padre” gli urlò dietro l’amico accompagnando le sue parole ad uno scappellotto sulla nuca.

“Sei un violento!” si lamentò Cencio e poi si rivolse a Chiaro “l’ho chiamato così perché la sua è un’ossessione, più che una passione. Questa novità del luppolo nella birra a me, vi dirò, non piace molto”
”Ma si conserva meglio” gli fece notare Chiaro

“Ed è molto più buona”

Nero rise, il clima di festa sembrava aver contagiato anche i suoi compagni.

Cencio, esasperato, cercò appoggio e qualcuno che parteggiasse per lui

“E voi signore, pensate anche voi che l’aggiunta di Luppolo alla birra la renda più buona?”
Aaron in realtà non aveva ascoltato il discorso perché la sua attenzione era stata richiamata da alcuni uomini vicino a lui che però se ne andarono quasi subito.

“Perdonatemi? Ero distratto”
”Ci sono dei problemi? Sembrate preoccupato”
”Ti ringrazio Cencio, ma non è nulla di grave. Ci sono delle miniere di stagno ad ovest, pare che ci sia del malcontento nei confronti di qualche minatore…”

“Possedete delle miniere?”

“Molte. Sembra ci siano dei disaccordi che richiedono la mia presenza. Se volete” aggiunse poi rivolgendosi a Luppolo “mi farebbe piacere m’accompagnaste. Lì vicino si trova un piccolo monastero che produce buona parte della birra che avete bevuto qui”
Gli occhi di Luppolo s’illuminarono “Volentieri signore”

“Questo vuol dire che date ragione a lui?” Cencio mise il broncio

“Mi piace la birra, sia con che senza luppolo, anche se preferisco il vino del Sud. Ma il monastero, devo ammettere, produce una delle migliori birre che abbia mai assaggiato”.

“Dio ci scampi” Cencio roteò gli occhi esasperato, ma poi continuò “Ecco, si vede che ve ne intendete! Il vino…” continuò con aria trasognata. “Potrei venire anch’io al monastero?”

“E per cosa? Per ubriacarti?”

“Guardia, non ti ci mettere anche tu…”
Cencio sembrava davvero abbattuto, mentre gli altri risero di gusto

“Altro che Cencio” disse Luppolo “ti avremmo dovuto chiamare moccioso”.

“Forse è una domanda che vi hanno posto in molti, ma la mia curiosità è eccessiva, qual è il significato dei vostri soprannomi?”

Nero si sedette vicino a lui, ma Aaron non osò guardarlo negli occhi. Un gesto così semplice aveva accelerato il suo cuore e il Lord temeva che questo fosse palese sul suo volto. Ebbe buon gioco perché fu Luppolo a parlare e a presentare la scusa per girarsi e guardare altrove… Ma sentiva la sua presenza, lì vicino. Era come se i suoi sensi fossero amplificati, nonostante cercasse in ogni modo di metterli a tacere.

“Io e Cencio abbiamo incontrato Nero, Levante e Chiaro in Italia, quando questi già non usavano più il loro nome. Era una cosa naturale per loro chiamarsi così, questa piacque subito a Cencio. Impressionabile com’era il ragazzo ai tempi, scambiò questa loro usanza per degli appellativi da eroe. Decise, quindi, il giorno stesso dell’incontro, di chiamarmi Luppolo perché sapeva di questa mia inclinazione per la birra del continente… disse che era un nome buffo, ma appropriato”
”Certo, questo perché io ho un animo gentile e nobile. Tu invece, m’hai dato un nome che non mi merito”

Luppolo rise “E’ vero, te l’ho dato io, ma non è vero che non te lo meriti. Se fosse così non sarebbe stato utilizzato anche dagli altri.”
”Ma tu mi hai imposto a loro quel nome”
”E da quando hai perso la lingua per difenderti?”

“Sei tu che non sei gentile per niente!”

Luppolo non rispose e lasciò correre, perché, per un attimo, una nota malinconica s’era impossessata di lui. La realtà era ben diversa, avrebbe chiamato quel ragazzo in tutt’altro modo e con tutt’altro tono, ma non poteva. Non poteva lì, non poteva anni prima in Italia e non avrebbe mai potuto in futuro. Vedendolo lì, col viso imbronciato e quegli occhi maliziosi ed irrequieti , ebbe voglia di stringerlo a sé e di promettergli un nome da re. Si limitò a guardarlo e a desiderarlo per un istante, per poi distogliere lo sguardo e scacciare il desiderio lontano.

Riprese quindi il discorso:

“La realtà è che quello che siamo e per la vita che conduciamo, i nostri nomi appartengono al passato. La coesistenza e la coesione di sette persone così diverse fra loro per provenienza e cultura è stata resa possibile dal fatto che in qualche modo abbiamo ricominciato da capo, quando ci siamo incontrati”



Aaron non chiese ulteriori dettagli, anche se fremeva per sapere altro. Questo forse sarebbe venuto, in seguito, intanto non potè fare a meno di chiedersi perché, Nero, avesse iniziato lasciando alle spalle il proprio nome, e che cosa significasse. Si chiese se Chiaro avesse preso il suo per puro spirito di contrapposizione, oppure di emulazione. Si chiese della storia di Cencio… E si chiese se mai avrebbe avuto il coraggio di chiedere loro di più, si chiese quale fosse il vero nome di Nero se se mai avrebbe avuto l’onore di pronunciarlo, anche solo per una volta.

 

***
 

 

BiGi: Ehehehe, Cencio, in effetti, è la persona che meglio di tutti capisce gli animi umani. Non a caso è italiano. Secondo me, ha un'innata capacità di vedere le sfumature di ognuno ^_^

Stateira: Aaron ha un modo molto diretto direlazionarsi con la religione. Del resto, essendo un prescelto, ha praticamente una via preferenziale XD Anche se, devo dire, non sempre gli è di gran conforto. Onestamente, durante la stesura di Liberaci dal Male, a volte ho avuto la tentazione di scuoterlo dal suo fermento religioso, ma avrei alterato troppo il personaggio XD Un bacione

lili1741: ciao *_* Sono proprio felice di risentirti. Sei stata in vacanza? Di flashbacks ce ne saranno abbastanza (e di flashforward, se così possiamo definirli XD), perchè a me piace troppo non dare una linea temporale continua alla storia. Ma devi capirmi, è una mia malattia ehehehe Un bacio grande
 

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Capitolo 14
*** Interludio Primo + 14. I potenti ***


Nuova pagina 1

Interludio Primo

 

Sono lontano, eppure vedo i tuoi gesti, le tue mani, le tue dita lunghe così eleganti da parere struggenti.

E’ una sera meravigliosa, le stelle in cielo brillano, la musica risuona e permea l’aria, ma tu non hai occhi che per lui. Nonostante non lo guardi, nonostante non stia parlando, tutto in te pare gridare il suo nome.

Te lo bisbiglierei, ma non posso. Così come non posso narrarti le favole che le nuvole raccontano e che lenirebbero il tuo dolore.

Ma soprattutto, vorrei darti speranza. Vorrei parlarti della Verità e della Giustizia, delle Leggi di Dio e del suo verbo, ma questo non mi è possibile: posso solo guardarti e raccogliere un amore che ancora tu neghi, ma di cui sono intriso.

Lo guardi, senza farti scorgere, giri leggermente il viso e lotti per negare che per un bacio, un solo tocco, baratteresti ciò che sei e cadresti, come il più bello degli angeli.

Vorresti che ti fosse permesso cosa invece è stato proibito dagli uomini.

Vorresti stringerti a lui e nascondere il tuo viso fra le sue braccia e tremando, gli chiederesti di stringerti, di proteggerti e di celarti per un attimo e per sempre.

 

Abbassi gli occhi e non ascolti più nulla.

Sospiri e cerchi di liberarti del peso che grava sul tuo animo, inutilmente.

Ti tremano leggermente le labbra: un movimento impercettibile, che le rende ancora più belle. S’insinua in te il dubbio, la paura e la consapevolezza che ciò che brama la tua pelle è ingiusto e blasfemo.

Grideresti, se ti fosse possibile, ma l’unica cosa che ti permetti è quella di portarti le mani alle tempie, nella speranza che tutto si zittisca, tutto si quieti e tu possa, di nuovo, respirare regolarmente.

Ciò che vuoi è bellissimo e disgustoso, e soprattutto è sbagliato.

 

Perché, ti chiedi, Dio ti sta mettendo alla prova?

E’ il Diavolo che ti chiama e piega la tua volontà?

O è il tuo cuore che, capriccioso, reclama ciò che non potrà mai avere?

 

Per risposta questo  sembra fermarsi per un attimo e perdere un battito.

 

Le ultime difese cadono e la verità più semplice ti diventa chiara: lo ami.

Ti alzi e ti allontani. Se il tuo animo si riversasse nei tuoi occhi, temi che qualcuno, se non lui, possa leggere e hai troppa paura per permetterglielo.

 

Meccanicamente cammini e dai le spalle agli invitati: lo sai che sono salde e non tremeranno.

Lo ami perché con lui sei in pace, lo ami per i suoi occhi, lo ami perché la foschia di una solitudine consolidata nel tempo si dissipa, sfuma e scompare ogni volta che lui ti è vicino. Al suo  posto compare il rumore del sangue che scorre troppo velocemente nelle tue vene e il piacere del suo profumo.

E poi non sai perché lo ami, per come qualche sera prima ha osservato i tuoi capelli forse, per la sua voce, per il suo passato, oppure anche per nulla.

 

Ai miei occhi brilli nella tua gloria e bruci nella tua purezza, m’inchinerei al tuo passare ma ora, questa sera, ti abbraccerei solamente e canterei per te una canzone che illuminasse le tue ombre.

 

Guardi la mano appoggiata sul tuo bastone e sorridi. Piangeresti, ma non puoi fare neanche quello e allora guardi per un attimo il cielo. Come ogni innamorato speri che qualcosa in te possa essere degno di lui, ma la tua mano ti ricorda di essere uno zoppo e la tua vergogna ti grida che sei un uomo.

Ma prima che tu possa porre rimedio e quietare i tuoi pensieri, lui ti è di fianco, così vicino che tutto scompare ed esiste solo lui

Chissà se vede, chissà se sa.

Ma lui è distratto a capire perché è venuto lì, al tuo fianco per leggere bene quegli occhi che gli piace così tanto guardare.

Il suo animo è fragile in un involucro ferreo, creato per proteggere ciò che è stato violato troppe volte. E non capisce che cosa l’ illumini ora , ma quando gli sorridi rimane abbagliato e sgrana gli occhi, guardando ogni tuo lineamento e bagnandosi nella tua luce.

 

Sono lontano, eppure vedo i tuoi gesti, le tue mani le tue dita lunghe così eleganti da parere struggenti.

E’ una sera meravigliosa, ma le stelle in cielo ti regalano la loro luce e la tua gloria avvolge le vostre due figure.

Vorrei darti speranza, vorrei parlarti della Verità e della Giustizia, delle Leggi di Dio e del suo verbo, ma questo non mi è possibile. Posso solo guardarti e raccogliere un amore che non puoi più negare ma che ti terrorizza e che rifuggi.

Come spettatore lontano, ti guardo, e mi pari un angelo che con le ali avvolgi chi, con le mani, non osi nemmeno toccare.

 

 *

Capitolo Quattordici - I potenti

 

 

Le nuvole in cielo erano cariche e l’aria intrisa d’acqua, ma non pioveva ancora. Nonostante fosse mattina, la luce era poca, i raggi obliqui del sole invernale non riuscivano a penetrare quella coltre spessa.

La carrozza per andare alle miniere di stagno e quindi al Monastero di St. George era pronta. Per partire, aspettava solo i propri passeggeri.

“Un tempo così uggioso non è certo l’ideale per mettersi in viaggio”.

“Come se da queste parti splendesse sempre un sole che spacca le pietre” commentò sbadigliando Cencio

“Guarda che se cominci con la tua solita ironia, ti lascio qui.”.

“Per poi perdermi la tua faccia quando saremo arrivati al monastero? Mai! Piuttosto vi seguo a cavallo”.

Leggermente in disparte dai due, Lord Aaron stava dando istruzioni ad un falco, che subito dopo spiccò il volo, emettendo un verso acuto e prolungato. Diversi cavalieri uscirono di lì a poco, in sella e pronti per partire.

L’idea che Nero non andasse con lui lo sollevava. La sera prima, infatti, quando Cencio aveva detto che avrebbe avuto piacere nell’accompagnare sia lui che Luppolo, aveva temuto potesse venire anche Nero. Era stato un attimo, perché Cencio, col suo solito fare entusiastico, aveva proposto a tutti di andare, ma Nero aveva declinato preferendo stare con Forgia.

Il padrone del castello aveva paura che un giorno intero passato in sua compagnia - senza la protezione del castello - avrebbe rivelato al cavaliere i suoi sentimenti. Non aveva trovato modo efficace per dissimularli: erano così nuovi ed intensi che bastava una parola o uno sguardo per emozionarlo.

E rallentare i battiti del proprio cuore risultava, per ora, impossibile.

Voleva, doveva imparare a controllarsi, voleva impedire che qualcosa trapelasse in superficie e voleva sopprimere ciò che sentiva nel profondo. Il trascorrere un po’ di tempo senza la compagnia di Nero l’avrebbe di sicuro aiutato, pensò.

Tuttavia, quella mattina carica di pioggia, Aaron si ritrovò a chiedersi dove fosse e che cosa stesse facendo. Si chiese se magari, dato il clima così poco ospitale, il Nero avesse preferito rimanere nel suo letto, godendo del tepore delle coperte un po’ più a lungo, oppure se s’era già alzato.

Ebbe l’istinto di rientrare nel castello e andare da lui, parlargli con una qualunque scusa, ma subito allontanò l’idea e scosse la testa. Sarebbe stato sciocco, lo sapeva.

Sospirò. Nonostante la sua ragione gli dicesse che tutto quello che provava e voleva fare fosse sbagliato, la nostalgia provata quella mattina, sotto quel cielo grigio e carico d’acqua sembrava impossibile da dimenticare.

 

Aaron non indugiò oltre, inutili i suoi dubbi o i suoi desideri, quella giornata avrebbe avuto altro a cui pensare. Sebbene non destassero in lui particolari preoccupazioni, i problemi alla miniera di stagno continuavano a ripetersi. Le voci che aveva sentito erano discordanti, ma in realtà sapeva quali fossero veritiere e quali no ed era tempo di intervenire, ne sarebbe andato del buon lavoro e della produzione di stagno, così importante per le sue terre.

Perso nei suoi pensieri, Aaron non si rese subito conto che anche i suoi due ospiti erano rimasti silenziosi. Soprattutto Cencio era stranamente quieto. Seduto tutto composto su di un lato, stretto nelle spalle, pareva quasi schiacciato contro la parete.

“Qualcosa ti turba?”

Ma neanche a domanda diretta Cencio rispose, fece un semplice no col capo.

Luppolo guardò l’amico e gli sorrise dolcemente “Sei a disagio?”

La domanda fece sussultare il ragazzo che si affrettò a rispondere “No…No perché?...” ma la sua negazione non sembrava troppo convincente e se ne rese conto lui stesso.

“E’ che… Tutto benissimo, ci mancherebbe, però…” disse cercando le parole e sistemandosi nervosamente i capelli dietro le orecchie “A dire il vero… se proprio devo essere sincero del tutto…ecco… Non sono mai salito su di una carrozza così e…”

Luppolo scoppiò a ridere “Non sai come comportarti?”

“Non prendermi in giro! Non è così…semplice”
Aaron gli sorrise. Il sorriso fu così dolce che Cencio si rilassò.

“Se posso parlare con tutta sincerità, non ero entusiasta quando siamo arrivati qui. Sapevo che Forgia aveva la precedenza sui miei umori e per questo non ho detto niente, ma vedete, signore, non ho un buon rapporto coi nobili” ammise arrossendo leggermente “Lo stesso Chiaro è quello che sento meno vicino, nonostante abbia abbandonato lo stemma del suo casato già da diverso tempo…”

Cencio non guardava negli occhi il proprio interlocutore, si osservava le mani che sembrava non sapere dove mettere. E così continuò “E devo ammettere, signore, di essermi completamente sbagliato… Voi non solo siete un ospite generoso, ma anche una persona per cui nutro un gran rispetto”

Nonostante fosse avvezzo ai complimenti, Lord Aaron fu così stupito dalle parole del ragazzo che non seppe immediatamente come rispondere, ma Cencio comunque non gliene avrebbe data la possibilità “Quando vivevo col signorotto di cui vi ho accennato tempo fa, lui era solito ripetermi che nel mondo c’è chi domina e chi soccombe e questo in ogni cosa. Nelle guerre, ma anche all’interno di una famiglia, in un villaggio oppure su di un mercantile… C’è sempre chi ordina e chi obbedisce. Sarei stato uno stupido, e lo sarei tutt’ora, se pensassi che questo non sia vero, tuttavia…” fece una pausa quasi volesse prendere coraggio “voi siete il primo ad avermi dimostrato che, sebbene ci sia chi è padrone e chi è servo, è possibile che la dignità di quest’ultimo venga  conservata e anzi, tenuta in gran conto da chi comanda… e per questo io vi sono grato”.

Luppolo era stupito tanto quanto il Lord da quella fiumana di parole causate da un motivo poco chiaro.

“Cencio, tanto senno da te non me la sarei mai aspettato”

Cencio si strinse nelle spalle “Lo sai come sono, se comincio a parlare, non mi fermo più e… pensavo fosse giusto fare sapere al nostro ospite come la pensavo”

Luppolo sorrise e gli arruffò i capelli “Sì, lo so come sei”. Indugiò la mano sulla sua testa per un attimo più del dovuto, ma poi la ritrasse.
”Ti ringrazio per le tue parole che mi lusingano. Non penso che la prevaricazione sia il modo per dimostrare il proprio potere. Se ho capito bene, e per quello che la mia esperienza m’ha insegnato “disse guardando all’esterno, dove si perdevano all’orizzonte campi verdissimi “sono spesso i deboli di spirito a usare la forza, perché non hanno altro modo d’imporsi”.

Cencio guardò Lord Aaron. L’aura che lo circondava sembrava in questo momento più carica.

Faticava a capirlo, ma questo non lo metteva a disagio. Se pensava alla sera prima, in cui avevano trascorso ore allo stesso tavolo scherzando, durante la festa del paese, l’avrebbe preso per uno di loro. Lì, in quella carrozza, ammantato di vesti pregiate, Lord Aaron sembrava irraggiungibile e distaccato.

Luppolo era stato in silenzio fino a quel momento, guardava Cencio come guardasse il più tenero fra i cuccioli.

“Avessi avuto l’occasione, l’avrei ucciso per te” Non disse a chi si riferiva, ma fu chiaro agli altri che Luppolo stava parlando del signorotto con cui Cencio aveva vissuto prima di unirsi ai cavalieri di Nero

“L’avrei fatto io stesso, ma la sua faccia quando ha capito che me ne sarei andato per sempre è stata una vendetta sufficiente”

“Ricordo anch’io la faccia di quell’uomo, una maschera d’orrore”
Cencio rise soddisfatto e poi si mise a spiegare “Non avrebbe mai pensato che lo lasciassi perchè sapeva che, senza di lui, io sarei stato carne da macello. Sono stato mandato in prigione a dieci anni e lui m’ha ripescato da lì, dandomi un tetto, un pasto al giorno e qualcosa da fare. Non propriamente un lavoro, ovviamente…Se capite cosa intendo” si strinse nelle spalle e alzò le sopracciglia quasi a giustificarsi “Se non avessi incontrato Luppolo e Nero sarei probabilmente ancora lì”

“M’era parso di capire che aveste incontrato Nero dopo aver incontrato Luppolo”
”Sì, è così, ma solo qualche settimana dopo” e così dicendo guardò il compagno quasi a chiedere conferma che i suoi ricordi fossero corretti e poi riprese “Ho conosciuto Luppolo nella peggiore taverna della città…” ma a questo punto il cavaliere si sentì in dovere di interrompere l’amico
”Ah, racconta bene come sono andate le cose!”

“Beh, aveva un bel mantello e io lo volevo per me…”
”Sì” disse sconsolato Luppolo “e Cencio ai tempi considerava tutto ciò che vedeva suo di diritto, così mi sono messo a rincorrerlo per tutta la città!”
”Ci potete credere? Io pensavo che al primo vicolo, sotto il sole cocente dell’estate italiana, uno così avrebbe desistito!”
”Che cosa intendi con ‘uno così”?” chiese Luppolo stizzito

“Ma sì, uno così chiaro di pelle, così… scozzese, Luppolo” disse rivolto all’amico “diciamocelo, ce l’hai scritto in faccia da dove vieni”

“E invece ti ha dato del filo da torcere?” Chiese Lord Aaron preso dalla curiosità di sapere come si fossero conosciuti Cencio, Luppolo e Nero

“Non m’ha dato tregua!”

“E poi cosa ne è stato di quel mantello?”

Gli occhi di Cencio s’incupirono leggermente “Il mio padrone lo volle per sé” sospirò il ragazzo “Non volevo darglielo, ma non avevo alternativa. Se non che è comparso Luppolo a reclamarlo!”

Aaron lo guardò stupito

“Dunque sapevate dove si trovava il ragazzo?”

“Sono stato un militare troppo a lungo per non riuscire a seguire delle tracce lasciate da un moccioso”

“Smettila di chiamarmi così!”

“Ma all’epoca avevi solo tredici anni Cencio…”

Il ragazzo sospirò “Già, se non fosse stato per te, Nero non avrebbe mai preso un marmocchio fastidioso”
Luppolo sorrise per incoraggiare l’amico “Avrebbe fatto un grosso errore, sei uno dei migliori arcieri che conosca!”

Sotto gli occhi stupiti di Aaron, Cencio non rispose, non fece una delle sue solite battute sarcastiche, ma arrossì, abbassando lo sguardo imbarazzato.

Poi per rompere quel silenzio che non faceva altro che accentuare il rossore delle sue guance, Cencio disse “Ecco perché non avevo fiducia in voi, all’inizio…”

“Mi dispiace sentirlo. E non perché mi senta offeso, non mi fraintendete. Mi dispiace che la vostra esperienza sia stata così negativa a causa di un uomo che non si meritava di avere il potere che aveva”

“Beh” Disse Cencio riprendendo il suo solito buon umore “In fin dei conti sono stato fortunato, ho incontrato Luppolo prima e Nero poi. E se mi chiedessero se vorrei rinunciare a questo incontro pur di cancellare i miei anni trascorsi al servizio di quel grassone, non vorrei. Senza dubbio né esitazione, rivivrei tutto quanto.” Poi si fermò a riflettere un attimo e aggiunse “forse non resisterei alla tentazione di  rubare un po’ di vettovaglie al mio vecchio padrone. Di certo ne avrei fatto un miglior utilizzo io!”

Gli altri risero. Aaron si stupì della forza d’animo di quel ragazzo. I capelli sempre un po’ spettinati, quell’andatura dinoccolata, l’aria furba e gli occhi enormi lo condannavano ad un aspetto infantile, ma in casi come questi il padrone del castello si rendeva conto come in realtà quell’apparenza fosse ingannevole.

“La persona da cui stiamo andando, alle miniere, è esattamente una persona così: arrogante e presuntuoso come m’avete descritto essere il vostro vecchio padrone” spiegò Lord Aaron “So bene quanto male possono portare persone così, con troppo potere fra le mani”
”Di chi state parlando?”

“Si chiama John Riverwood jr, Lord Thurlow aveva affidato a suo padre il controllo del lavoro nelle miniere. Ma invecchiando, poi, questi ha smesso di lavorare e ha affidato al figlio il compito: un inetto. Troppa gente ha sofferto per le sue angherie ed è tempo che queste smettano”. Poi aggiunse, indicando delle cave in lontananza “Ecco, siamo quasi arrivati”

I cavalieri guardarono le miniere avvicinarsi e nessuno disse più niente fino all’arrivo.
Aaron chiuse gli occhi, s’immaginò l’Italia e una spiaggia assolata. S’immaginò Cencio su questa spiaggia, completamente a suo agio nella sua terra, col la pelle bruciata dal sole e i capelli intrisi di salsedine, che rideva, giocando con l’acqua quasi fosse un bambino. Al suo fianco c’era Luppolo che lo guardava e si prendeva gioco di lui, schizzandogli l’acqua il viso e minacciandolo, nel caso il ragazzino avesse tentato qualunque ritorsione. E poi c’era Nero, seduto sulla sabbia che guardava i suoi nuovi compagni. Il suo viso sembrava più austero, ma altrettanto dolce. Nonostante il sorriso e l’aria allegra che aleggiava, i suoi occhi sembravano carichi di rabbia, una rabbia profonda e antica, di non facile estinzione.

Per quanto tentasse di allontanarlo, il pensiero di lui s’insinuava nella sua mente, sgattaiolava furtivo fra i suoi pensieri e prepotentemente emergeva in superficie. Ed immaginarselo seduto sulla sabbia, con l’aria di mare che gli accarezzava i capelli e il sole che ne modellava le ombre, provocò in Aaron un morso di nostalgia e di colpa, per il quale non trovò nessun altro rimedio se non quello di chiudere gli occhi e pregare nel suo pensiero.

Amava troppo Maria per abbandonasi ad una tentazione tanto sbagliata e disgustosa, eppure, una piccola parte di lui smaniava di essere abbracciata da quelle braccia e baciata da quelle labbra. Il suo cuore, dilaniato da due sentimenti troppo opposti per convivere, non poteva fare altro se non battere velocemente.

 

 

Lord Aaron Thurlow si avvicinò alle cave e al gruppo di uomini che lo stavano attendendo con maestosità. Appena appoggiò il piede per terra, seguito da Luppolo, Cencio e i soldati del suo seguito, la valle sembrò zittirsi e con lei, tutte le voci dei minatori. Le sue vesti azzurre coi loro ricami d’argento risplendevano nonostante le nuvole coprissero il sole

 “Ossequi, mio signore” disse un minatore inchinandosi “Vi prego di scusarmi se vi ho fatto chiamare e se avete dovuto affrontare un viaggio non previsto, ma…”

“Ma è uno che non sa farsi i fatti suoi!” lo interruppe un altro uomo, di stazza decisamente superiore al primo “Non era necessario veniste”

“Che sia necessario o meno, vi prego di lasciarlo giudicare a me” Rispose asciutto il Lord, mentre si guardava intorno. Le miniere erano numerosissime e l’estrazione di stagno continua. Solo alcuni dei minatori non stavano lavorando ed erano lì di fronte a lui.

I funzionari che s’erano avvicinati al tavolo  l’altra sera, durante il matrimonio di Rebecca, accorsero subito.

“Non vi aspettavamo così presto signore”

Poi Lord Aaron fece cenno ad uno di loro di avvicinarsi e questo iniziò a bisbigliare qualcosa.

Dopo un attimo, il padrone delle miniere sorrise. Aveva dovuto vedere coi propri occhi per avere la certezza di quello che gli era stato raccontato, ma ora non aveva più alcun dubbio sulle responsabilità delle persone che gli stavano di fronte. Fece cenno ai suoi sodati di occuparsi dell’omone che aveva insinuato non ci fosse bisogno del suo intervento

“Ritengo che sia inutile dirti che per i tuoi crimini verrai deportato a St Ives e giudicato là”
Questo sgranò gli occhi

“Ma signore, ci dev’essere un errore, io non ho fatto niente, sono innocente!”

“Neghi forse che Jeremy Caine, Tobias Longbridge, Julian Forsubry e Jon Irome siano morti quand’erano sotto la tua custodia?”
”No Signore, ma è stato a causa di un incidente…”

“E il fatto che due di questi corpi siano stati trovati carbonizzati vicino ai tuoi alloggi, che un terzo sia morto di fame devo considerarlo un incidente?”
L’uomo sussultò “Signore, erano solo dei ragazzini impertinenti e scansafatiche!”

“John Riverwood jr, sei bandito dalle mie terre e sarai condannato a St. Ives, sarai espropriato di ciò che possiedi. Questo verrà suddiviso fra le madri di quelli che tu hai appena definito ragazzini impertinenti. Adesso” disse rivolto alle sue guardie “portatelo via” .

E successe tutto in un attimo, prima che le guardie potessero legare John Riverwood, prima che Luppolo e Cencio potessero fare qualcosa. Quando la lama brillò, l’unica cosa che si udì fu lo stridore di un falco che, con gli artigli, calava inesorabile sulla sua vittima. Aaron fece appena in tempo a spostarsi, quando sentì un dolore intenso al petto. Vide la spada di Luppolo trafiggere John e sentì le mani di Cencio che lo circondavano per tentare di sorreggerlo.

Le sue vesti azzurre si tinsero di rosso, e poi non vide più nulla.

 

***

 

Grazie mille, sia a lili1741 sia a BiGi per le loro parole e il loro supporto *_* Mi fa sempre davvero piacere leggere i vostri commenti *_* E anche per il supporto a Chiaro, che è un personaggio complesso (complessato) e più tridimensionale di quello che appare all'inizio. E' stato un personaggio complicato da gestire, contenta che lasci il segno. Un bacione grande ad entrambe

 

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Capitolo 15
*** 15. Un segreto raccolto dal mare ***


Nuova pagina 1

Capitolo Quindici

 - Un segreto raccolto dal mare-

 

 

 

Nero e Forgia erano seduti di fronte al fuoco a conversare quando la porta della stanza si spalancò. Il vedere Forgia seduto su una sedia, piuttosto che sdraiato a letto, sorprese Cencio, che si bloccò sull’uscio per un attimo. Poi però corse verso la parete.

“Quarto scaffale, terza mensola… Ampolla …” Aveva il viso pallido e le labbra gli tremavano leggermente. Sorpreso da questo atteggiamento e dall’assenza di parole nei suoi riguardi, Forgia disse:

“Ma come Cencio, ti vuoi dare all’alchimia?”

Cencio non rispose immediatamente, continuando quella che sembrava una ricerca disperata.

“Forse è questa…ma forse è questa…"
Forgia cercò di alzarsi, ma era ancora troppo debole per farlo e Nero gli pose una mano sulla spalla per fermarlo.

“Aspetta” gli disse Nero, volgendo la sua attenzione verso Cencio che pareva agitatissimo, nell’affannosa ricerca della boccetta misteriosa.

“Che cosa cerchi?”

“Cedro bianco”

Nero l’aiutò a cercare e prese un’ampollina con del liquido lattiginoso all’interno “Eccolo, ma a cosa ti serve?”

Cencio afferrò la boccetta con foga e corse via.

“Dopo!” fu l’unica cosa che riuscì a dire, prima di scomparire oltre la porta, lasciando Nero e Forgia confusi e senza risposte.

Luppolo entrò poco dopo con un’aria greve in viso.

“Eccovi” disse semplicemente sedendosi anche lui vicino al fuoco “Volevo vedere come stavi”

Ma in realtà sembrava perso fra i suoi pensieri.

“Ma che cosa vi è preso a tutt’e due?” non poté fare a meno di chiedere Forgia che non riusciva a capire cosa stesse succedendo “Sarà che sono chiuso qua dentro da troppo tempo, ma non capisco…”
Luppolo si scosse dal suo apparente torpore “Non siete stati avvertiti?” chiese stupito.

“Di cosa?”

Luppolo sospirò: “Questa mattina, prima di andare al Monastero Saint George, siamo andati nei pressi delle miniere di stagno dove Lord Aaron aveva una questione aperta con tale John Riverwood jr, uno sfruttatore assassino… Non so i fatti nel dettaglio perché non abbiamo parlato a fondo dell’uomo che stavamo andando a prendere…” Luppolo sospirò “ Per farla breve, nonostante quest’uomo fosse quasi legato e circondato da cinque uomini, è riuscito a pugnalare Lord Aaron e…”  scrollò la testa incredulo “è stato troppo veloce persino per me o per Cencio”.

Quelle parole rimbombarono nelle orecchie di Nero quasi fossero gridate, un brivido così intenso da farlo tremare gli percorse il corpo e, se non fosse stato seduto, di sicuro le gambe gli avrebbero ceduto.

Sapeva e non capiva, ascoltava e non riusciva  a mettere ordine fra quelle parole appena sentite, perché un ordine non ce l’avevano.

Pugnalato era l’unica cosa che riusciva a ripetersi nella mente, attonito  e smarrito di fronte a quella parola che non aveva senso. Di fronte a quella parola che non capiva.

Poi nonostante il rifiuto, il significato di quel termine raggiunse la sua mente e lo paralizzò: fermò i  muscoli e il cuore. Il respiro che ne seguì assomigliava al sibilo che viene prodotto quando il petto viene schiacciato con forza.

Non disse niente, le mille domande che avrebbe voluto porre si scontrarono, prima di poter essere pronunciate e lui rimase lì, senza parole, con gli occhi sgranati e un grido in gola spento.

“E’ ferito gravemente?” Chiese Forgia al suo posto, ma prima che Luppolo potesse parlare, di nuovo Cencio entrò con irruenza nella stanza, col sorriso sulle labbra. Sorriso al quale Nero si aggrappò irrazionalmente, nella speranza che portasse belle notizie.

“E’ sveglio!” disse ridendo “quel Cedro Bianco è davvero miracoloso!”

“Ma cos’è successo esattamente?”
Nero fu grato che Forgia ponesse le domande che la confusione della sua mente gli impediva di fare.

“Una cosa mia vista prima!” rispose Cencio “Quest’uomo, questo John Riverwood jr, sembrava essere il tipico gradasso, da quel che ho capito, una delle persone che dirigeva i lavori in miniera” poi corrugò la fronte pensieroso “Non so bene cosa facesse, ma da quel che Lord Aaron ci ha detto prima, il padre era stato incaricato da Lord Thurlow di dirigere parte degli scavi e da lì, l’incarico era passato al figlio. M’era sembrato strano, all’inizio, che Lord Aaron dovesse andare di persona alle miniere e occuparsi di una cosa di cui si sarebbero potuti occupare altri funzionari…”

Il suo racconto fu interrotto da Guardia, Chiaro e Levante che entrarono insieme nella stanza di Forgia.

“Abbiamo sentito quel che è successo!” disse Guardia preoccupato.

“Stavo giusto raccontando l’accaduto” rispose Cencio entusiasta di poter raccontare qualcosa ed avere l’attenzione di tutti.

“Quando Lord Aaron ha detto che John sarebbe stato giudicato a St. Ives è come se un lampo di follia si fosse impossessato di quell’uomo” gesticolò enfatizzando le sue parole.

“E’ stato veloce, tanto che nessuno ha potuto reagire in tempo”.  Poi ridacchiò fra sé e sé “Nessuno tranne il falco di Lord Aaron” aggiunse meravigliato.

“Dovevate esserci, raccontarlo non dà l’idea: è calato su John prima ancora che lui avesse estratto il pugnale, un volo fantastico su di una preda ignara”

“Sembri particolarmente colpito…” lo prese in giro Chiaro.

“Ha ragione il ragazzo” venne in sua difesa Luppolo “Non avevo mai visto niente di simile. Sembrava che il falco avesse una volontà umana e una dedizione completa. La rapidità con cui ha afferrato il viso di Riverwood, con cui l’ha artigliato e ferito è stata… regale” disse senza trovare altri termini per descriverla.

Cencio annuì con forza “Sì, se non ci fosse stato lui Riverwood avrebbe di certo colpito in pieno Lord Aaron, invece l’ha solo ferito superficialmente”

“Ma ho sentito” obiettò Chiaro “Che l’avete portato qui incosciente, come mai?”
”C’era una sostanza, sulla lama del pugnale, una sorta di veleno m’è stato detto, che fa perdere coscienza immediatamente. Ma qui” ed indicò le numerosissimi ampolle presenti in quella stanza “c’è il rimedio per tutto”.

“Quindi niente birra, per oggi” rise Guardia che non voleva lasciarsi scappare l’occasione di punzecchiare Luppolo, il quale si strinse nelle spalle.

“Non scappa mica, l’assalto è solo rimandato”
Risero tutti, tranne Nero che non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione opprimente provata poco prima.

“Lasciate riposare Forgia adesso e tu” disse rivolto all’amico “ricordati che m’hai promesso che stasera cercherai di mangiare”.

E così dicendo si alzò dalla sedia su cui era seduto e se ne andò, bruscamente, senza dire altro.

Era l’unica cosa che poteva fare, l’unico modo che aveva trovato per non mettersi a gridare.

Era semplicemente scappato. Scappato da delle parole che non avevano senso e dall’ansia che gli aveva catturato il cuore appena sentito quel che era successo ad Aaron, scappato dal fluire del suo sangue che lo assordava e dal grido che a stento riusciva a trattenere.

Ma le parole, l’ansia, il sangue e le grida andarono con lui, lo seguirono fuori da quella stanza quando a stento riuscì a trattenersi dal correre; lo seguirono fuori da quel castello nelle stalle quando slegò il suo cavallo e gli montò sopra; lo seguirono nell’aria che gli urtava il viso e gli scompigliava i capelli.

Cavalcava da diverso tempo ormai, quando si fermò di fronte ad una vista stupenda: il mare. Era sera, le prime stelle si rispecchiavano nell’acqua e Nero, dalla cima della scogliera, cercava nei flutti che s’infrangevano lì vicino la ragione per cui era arrivato lì.

La trovò immediatamente  e l’impatto fu di tale violenza  che  lo fece gridare. Lì lontano da tutti poteva farlo, il mare avrebbe mantenuto il suo segreto.

Nonostante l’apparenza, nonostante la freddezza che dimostrava, Nero non era mai stato un uomo dai sentimenti moderati, non riusciva a modularli quando questi si trovavano al suo interno. Aveva imparato la pacatezza, il suo acume mentale gli aveva permesso  di avere il controllo della maggior parte delle situazioni in cui si era trovato, il suo carisma aveva fatto il resto. Ma a volte, subdolamente, emergeva dal suo subconscio quella forza che l’aveva spinto ad abbandonare casa, che l’aveva mandato in guerra e che ora l’aveva portato di fronte al mare, in una notte di dicembre.

Un istinto irrazionale che prepotentemente prendeva il sopravvento.

Bisbigliò al cavallo di non muoversi, e cominciò a camminare sulla scogliera, non staccando mai gli occhi dal riflesso luminoso della luna sul mare.

Aaron. Pensava a lui, tutto nel suo corpo lo sussurrava. Finalmente, lo aveva ammesso a se stesso, pensò, sorridendo sarcastico. L’angoscia provata quando aveva sentito che l’avevano pugnalato si liberò in quel sorriso e nelle lacrime che gli riempirono gli occhi: lo liberavano dalla tensione che aveva provato.

Avrebbe voluto vederlo ed assicurarsi personalmente che stesse bene, avrebbe voluto sentire ancora la voce che ormai era diventata indispensabile.

Si sedette sui sassi e lasciò che il vento gli accarezzasse la pelle e che sciogliesse la tensione. Qualche lacrima rigò di nuovo le sue guance. Non riusciva a liberarsi dell’idea che era stato possibile perderlo. Ripensò al suo viso, al continuò cambiare dei suoi occhi e di quel turchese inquieto e solo questo pensieri riuscirono a smaltire gli ultimi residui di paura che ancora provava. Era così spossato che si sdraiò del tutto a guardare il cielo. Rise di quelle lacrime che si stavano seccando e con una mano si asciugò gli occhi.

“Voi mi avete stregato l’anima” bisbigliò e il mare raccolse anche quel segreto e lo custodì fra le sue onde nascondendolo silenziosamente fra i flutti.

 

 

Quando tornò al castello era ormai notte fonda. Avrebbe voluto avere Cleto lì vicino a sé, ma l’amico era in viaggio per Londra e sarebbe tornato solo dopo qualche giorno. Alcuni uomini di guardia lo riconobbero e lo salutarono, lui rispose con un cenno distratto. La sua attenzione era stata catturata dal fuoco che brillava sul torrione. In quella notte stellata, le fiamme danzavano alte e ripensò al conforto che quello steso fuoco gli aveva dato la notte del suo arrivo. E lo stesso conforto lo percepiva ora, sotto un cielo limpido, bagnato da un’aura dorata di un uomo che non era neanche consapevole di possederla.

 

 

Ancora. Di nuovo un brivido violento. L’istinto di correre e andare cercarlo e vederlo, togliersi dalla mente quell’ultimo dubbio riguardante le sue condizioni fisiche, assecondare i suoi occhi che volevano giocare con quei capelli biondi.

E poi…

E poi non si poteva perché era notte, perché non si disturba il sonno di nessuno, soprattutto il suo, perché questa era la follia, la sua solita follia che lo conquistava a volte e non lo faceva ragionare.

E poi…

E poi ancora, una necessità irrazionale  di sentirlo e di lasciare che quella voce lo calmasse, lo avvolgesse e lo cullasse.

Di nuovo. Ancora la necessità di gridare per controllarsi, di trovarlo per quietare il suo animo e di sussurrare il suo nome:

“Aaron”

E Aaron era lì, di fronte alla porta delle sue camere, dove Nero era arrivato senza accorgersene. La luce era poca, la candela illuminava a malapena una parte del suo viso, ma era lì.

 

 

Nero sorrise, un sorriso liberatorio e fresco, quando lo vide.

L’aveva chiamato semplicemente col suo nome, in quella quiete ritrovata, ma non trovò scuse per giustificare il proprio atteggiamento, l’altro non ne chiese.

“Non m’aspettavo di trovarvi qui” disse Aaron con la voce che non era ferma come al solito.

“Ho sentito quello che è successo alle cave”

Aaron annuì “Me lo sarei dovuto aspettare da Riverwood, ma come vi avranno raccontato, sono stato protetto. Non ho ancora avuto modo di ringraziare Luppolo per quello che ha fatto”

Nero annuì: “Sono certo si dispiaccia per non aver fatto di più. Ma…”aggiunse, dopo aver notato una leggera smorfia di dolore sul viso dell’altro “vi sto trattenendo”
Aaron lo interruppe “No affatto, stavo andando a prendere una parte del medicamento che ho dimenticato, al piano inferiore. Venite con me?”

 

La stanza in cui entrarono non era quella dove riposava Forgia, era più piccola e polverosa.

“Non vengo spesso qui, ma tengo l’indispensabile per quando l’altra stanza è occupata” sorrise “Mi sono sempre ripromesso di spostare i medicinali da lì e riporli in un luogo usufruibile sempre, ma ho sempre rimandato!” si prese in giro. Nonostante fosse notte inoltrata, il parlare col Nero bisbigliando, per non fare troppo baccano, gli dava un senso d’intimità e una gioia tale che non c’era dolore alla ferita a distrarlo. Prese un barattolo da una delle mensole e fece per andarsene.

“Vi aiuto” disse Nero tendendo la mano per prendere l’unguento.

Esitò per un istante e guardò il suo interlocutore.

Il suo braccio decise prima della sua mente, però, e così appoggiò il barattolo sulla mano di Nero. Aaron sgranò gli occhi, stupito dal suo stesso gesto e rimase così con la mano appoggiata su quella di Nero. Tremava di paura, ma non lasciò la presa, nonostante sapesse di doverlo fare. Cercò qualcosa - una rassicurazione, una parola, una decisione - dall’altro, ma non arrivò nulla: non si può dare cosa non si ha e Nero non riuscì a fare altro se non tentare di controllare il suo respirò ed avvicinarsi.

L’aveva detto e voleva farlo davvero: aiutarlo e vedere quella ferita che pareva essere stata inflitta a lui stesso.

Fece un passo avanti e guardò la spalla di Aaron, cercando la stringa da tirare. La prese, con la mano libera e la sfilò, lentamente fino a che il nodo non si sciolse, con un rumore che in quel silenzio, rimbombò. Un lembo di tunica ricadde sulla spalla e mostrò un’altra stringa e un altro nodo da sciogliere.  Anche lui fu disfatto, ma emise un suono che sembrò più tenue. La tunica si aprì sulla spalla, con un fruscio leggero che rimase nell’aria per un istante ma sembrò spaventare i due uomini, che si guardarono.

D’istinto, entrambi strinsero leggermente la mano, quasi a comprova che tutto questo fosse reale, che non era importante sapere di chi fosse quel respiro accelerato, perché era di entrambi. Così come la mano calda, stretta intorno al barattolo o quell’indugiare su un momento infinito.

Nero guardò poi la ferita, ancora fresca e fu allora che cedette: l’ansia e la paura provati quel pomeriggio e la confusione di quella sera si liberarono e lo abbandonarono in un sospiro, svuotandolo.

Chiuse gli occhi e appoggiò la fronte su quella spalla nuda. Svuotò il petto dall’aria rimasta lì per troppo tempo, lasciando posto al profumo di quella pelle.

 

***

Devo ringraziare tantissimo Love_in_idleness, per la sua bellissima recensioni. So che leggere una long story a capitoli è sfibrante a volte, ma se questo può essere di qualche consolazione, Liberaci dal Male è conclusa, perciò verrà aggiornata velocemente. Contenta anche che i dettagli saltino all'occhio, per me sono davvero importanti. Un bacio. E poi vorrei anche ringraziare emerald_01. Sono proprio felice che tu "sia uscita dall'ombra" e abbia recensito. Leggere un feedback dà sempre una certa carica. Sapere poi che si riesce a caratterizzare bene dei personaggi, la dà ancora di più ^_^ E poi sì, Aaron è tanto tenero *_* Armelle, non immagini cos'abbiano provocato le tue parole XD Uno dei "fini" di liberaci dal male era la costruzione di una storia d'amore "credibile". Pur essendo una che scrive yaoi, non mi piacciono molte delle storie yaoi (e molte delle storie in generale), perchè narrano di innamoramenti poco credibile "Lui lo vide, gli sorrise e ne rimase abbagliato per la vita". Troppo semplicistici. Va bene il colpo di fulmine, ma credo sia importante dare delle basi solide. Aaron e Nero spero le abbiano ^_^ Stateira XDD *me porge i sali* Come capisco il giogo, l'incubo, la piaga che costituiscono "gli esami". °_° Non ti offro un bicchierino di rhum per le serate nefaste (altrimenti ti addormenti),  ma è come se l'avessi fatto. A fine sessione, si festeggia ^_^

Un bacio grande a tutti quelli che leggono.

 

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Capitolo 16
*** 16. Non mi lascerai mai andare ***


Nuova pagina 1

Ero in vacanza, ecco perchè l'aggiornamento ha impiegato così tanto ad essere pubblicato '^_^ Vacanza, poi recupero lavoro, poi altro, insomma, non siate arrabbiati con me. Liberaci dal male ritornerà ad essere frequente (ricordo che è già finito), perciò mi farò perdonare. Riprenderò il ritmo, del resto, Settembre richiama all'ordine. sigh... baci baci

 

 

Capitolo Sedici

- Non mi lascerai mai andare -

 

“Se vi posso dare un consiglio, prendete il carro”

“Ma non penso che ce ne sarà bisogno…”

“Se Lord Aaron consiglia il carro, ce ne sarà un motivo”
Il padrone del castello sorrise “I monaci sono molto generosi e dubito che vi lascino tornare senza diverse botti di birra”:
Gli occhi di Luppolo s’illuminarono.

“Mai notizia fu più gradita!”
”Chi lo sente più, adesso? Se davvero ci verrà donata della birra, vi devo avvertire, signore, avremo un ubriaco fra i piedi fintantoché la birra non sarà finita”.

“Guarda che mi so moderare, non come te di fronte a qualunque pietanza”.

“Io vi avviso” continuò Cencio rivolto a Lord Aaron “ve lo dico col cuore, se torniamo con della birra, chiudete quest’uomo nelle segrete del castello”.

Luppolo,per tutta risposta, diede uno scapaccione in testa al ragazzo.

“Taci e smettila di dare inutile aria alle trombe. Ne hai troppa in gola… e troppa in testa!”

Insieme a Luppolo e Cencio, ma diretti altrove, quella mattina partirono Guardia e Levante.

C’era un’atmosfera insolita: tutti erano pronti a partire ma nessuno sembrava veramente volerlo. Con la scusa di aspettare Nero, rimasero alle porte del castello a scambiarsi gli ultimi saluti.

“Eccoti! Iniziavamo a pensare volessi dormire in eterno!”

Nero sorrise e si avvicinò al gruppo. Nulla, nel suo portamento, né nelle sue parole, tradiva la notte insonne appena passata. Era rimasto nella sua stanza, seduto di fronte al fuoco a guardarne i colori, avrebbe preferito non pensare, ma ogni volta che cercava di farlo un profondo senso di colpa lo riportava alla realtà. La pace che Aaron generava in lui, che quelle mura gli avevano portato, veniva resa opaca dalla consapevolezza che Dio avrebbe condannato il suo comportamento.

Quando la pelle del suo viso aveva sfiorato quella della spalla di Aaron, aveva avuto la sensazione che quel calore fosse l’unica cosa che importasse e che quel silenzio potesse nutrirlo fino a renderlo sazio. Che sarebbe stato sufficiente così.

Ma si sbagliava.

Appena non ebbe più modo di ascoltare quel calore e toccare quel silenzio, sentì un frastuono gelido entrargli nel cuore perché quello che desiderava era lì. Ma Nero  aveva imparato l’autocontrollo e la disciplina, era abituato ormai a lottare con se stesso per fare la cosa giusta.

E la parola di Dio è legge.

E la parola di Dio è cosa giusta.

 

“Quindi avete deciso di andare ad ubriacarvi soli”

“Io ho cercato di avvertire Lord Aaron che non è prudente farci andare con un carro. Poi come lo riporto a casa Luppolo? Ma lui ha insistito” disse con aria impotente Cencio.

“In realtà quello che regge male la birra, che canta sui tetti quando ne beve sei tu!”

Nero rise: “Effettivamente, non ho mai visto Luppolo ubriaco”
Ma Cencio non demorse: “Questo perchè è scozzese”

“Che c’entra?”
”Eccome se c’entra. Si sa che al Sud la gente è più calda. Quella volta volevo solo rallegrare gli animi dei passanti. Tu invece, tutto riserbo, non ti diverti mai”.

Luppolo stava per replicare quando Guardia interruppe l’ennesimo battibecco.

“Non vi si può lasciare soli un attimo che subito ne approfittate per litigare,” disse ironico “ma adesso è ora di partire”.

S’inchinò ai piedi di Lord Aaron e così fece anche Levante

“Vi ringrazio per la vostra premura, per la vostra gentilezza e soprattutto per le cure prestate a Forgia”.
Aaron sorrise.

“Ci rivedremo in primavera, siate prudenti e buon viaggio”.

E così partirono, senza indugiare oltre.

“Mi rende triste questa separazione…”
”E’ solo momentanea”
”Lo so, è che….non sono abituato”
Luppolo annuì e cercò di sdrammatizzare “Vedrai che la birra ti farà dimenticare dolori e nostalgie”

Cencio annuì e s’affrettò a preparare il carro.

“A stasera” salutarono quando anche loro partirono.

Nero e Aaron guardarono per un po’ il carro allontanarsi. “Se conosco bene la generosità dei frati, torneranno con una quantità di birra sufficiente per l’intero inverno”

Nero rise: “Con Cencio e Luppolo nelle vicinanze, nessuna quantità di birra potrebbe durare tanto”

Si guardarono negli occhi, con mille cose da dire e nessuna sulla labbra, eccetto un sorriso. Era un’alba come mille altre, la foschia si stava abbassando, il sole bianco illuminava tutt’intorno. Loro ci si nascosero.

 

 

“Dicevi sul serio quando parlavi degli scozzesi?”
”Dicevo cosa?”
Luppolo roteò gli occhi esasperato: “Santo Cielo, Cencio, l’hai detto poco fa!”

“Che gli scozzesi siano riservati?”

Luppolo annuì, pensieroso: “Non penso sia una bella cosa”.

Cencio si strinse nelle spalle: “Io la trovo interessante”.
”Ma te ne lamenti sempre!”
”Me ne lamento perché non riesco mai a capire quello che pensi e a volte mi dispiace”.

La bruma mattutina ormai si stava completamente scogliendo nell’aria e Luppolo si perse per un attimo dietro di lei. Risultava a volte difficile non essere curioso nei confronti dei pensieri del ragazzo, quindi spesso li lasciava correre, terrorizzato di essere frainteso. O forse capito appieno.

“Ti dispiace?” poi disse d’improvviso

“Sì, mi dispiace…” poi trasse un profondo respiro, prima di riprendere: “Sin da quando ci siamo conosciuti, so che m’hai visto come un ragazzino. Un moccioso fastidioso che ha l’aria in testa”. Si prese in giro facendo un’espressione così tenera che Luppolo ebbe una fitta al petto: “Perciò mi chiedo quando e se mai mi considererai tuo pari”

“Sei uno sciocco se pensi questo” riuscì a bisbigliare Luppolo “Non ti ho mai considerato inferiore o…”
”Non inferiore” lo interruppe Cencio “solo troppo piccolo per essere considerato…” si fermò  e si mise le dita sulla fronte come a cercare lì la parola che non trovava “tuo compagno”

Ci fu un pesante velo di malinconica che passò davanti agli occhi di Luppolo, quegli occhi verdi e brillanti vennero appesantiti da un’ombra che lui non seppe subito nascondere. Cencio se ne accorse ma non la comprese e non chiese spiegazioni, temendo di sentire la risposta che non voleva: sei troppo piccolo. Risposta che a volte aveva sentito e l’aveva ferito più di quanto non avesse mai ammesso.

“Quando arrivai in Italia, tutto mi sarei aspettato, tranne che di incontrare un ladruncolo come te e continuare a vederlo anni dopo” Sorrise al ricordo.

“Quando m’hai rubato il mantello, il mio unico pensiero era quello di ucciderti: dovevo fartela pagare. Poi però ti ho visto e, nonostante mi apparissi piccolo, un vero e proprio moccioso, ho come avuto l’impressione che… che fossi troppo grande per la tua età”.

Cencio corrugò la fronte aspettandosi una spiegazione.

“Quel Guido non l’ho ammazzato, ma solo perché me l’hai chiesto tu. Avrei di sicuro provato un enorme piacere nel farlo…”
Si fermò, altrimenti la rabbia gli sarebbe salita di nuovo, fresca, come se il tutto fosse successo qualche giorno prima.

“Vederti ancora così preoccupato per me mi commuove… Dai, smettila, altrimenti divento serio e poi, se non metto io un po’ di allegria qui o al monastero, rischiamo di morire di noia”

Ironizzò, ma Cencio fu davvero commosso dall’atteggiamento dell’amico.

Lo guardò, mentre l’altro guardava la natura circostante: la strada aveva da un lato un bosco di conifere e dall’altro una distesa piatta e verde d’erba, l’acciottolato irregolare faceva sobbalzare di tanto in tanto i due uomini. Questo movimento, irregolare ma continuo, riportò alla mente di Luppolo un trascorso dove sia lui che il suo amico si erano trovati in una situazione molto simile. E sorrise.

“Stai anche tu pensandola sig. Cencio?”

 “Non ne ho potuto fare a meno”

Luppolo si mise a ridere e poi indossò l’aria più seria di cui era capace in quel momento. “Lei ragazzino, lei chi è?” chiese con una voce baritona che non gli era propria. “Ritengo che sia uno di quei bastardini scappati di casa” proseguì cantilenando un accento compunto e petulante, al che Cencio non si tirò indietro

“Ma no signore, cosa andate pensando?” rispose in falsetto “Io appartengo a lui!” disse indicando una persona immaginaria al suo fianco

“A lui?” proseguì Luppolo con la stessa voce piena di poco prima “e di grazia chi è costui?”

Allora Luppolo si schiarì la voce e si spostò leggermente sul sedile: “Sono l’incaricato del vescovo: porto i bambini a Londra per educarli e crescerli nel Nuovo Ordine richiesto espressamente dal papa per i giovani perduti”

Poi si fermò, trattenne una risatina e, ancora, si spostò per riprendere a parlare con voce bassa.

“Nuovo Ordine?” chiese lisciandosi una barba che non aveva “E quale ne è il nome?”

“Ma signore” disse Cencio sempre nella sua vocina alta e studiata “l’ordine del Cencio”

Luppolo non ce la fece più e rise apertamente “non potevo credere alle mie orecchie!” Ma poi riprese il tono serio:

“Ohhh” disse solamente e l’amico rispose

“Per mortificare la carne e per avvicinarsi a Dio, abbiamo bisogno sin da bambini di vivere come aveva vissuto il Cristo…”

“E ci ha lasciati andare! Incredibile!” scosse la testa Luppolo che ancora rideva di quel funzionario che s’era lasciato schernire così stupidamente.

“L’ordine del Cencio… Guardando con cosa ero vestito, è davvero la prima parola che m’è venuta in mente… meno male… meno male che c’eri tu”

Luppolo corrugò la fronte.

“Nessuno m’avrebbe retto il gioco,” spiegò Cencio “chiunque altro m’avrebbe lasciato andare”.

“Saresti passato dalle mani di un grassone italiano a quelle di un grassone inglese, e questo non mi sembrava saggio”

“Saggio?” fece il verso a Luppolo. “Però” disse d’improvviso quasi sussurrando “Però…” e sembrò desistere “Però promettimi una cosa Luppolo”

L’aria seria del ragazzo ebbe tutta l’attenzione dello scozzese che guardò quegli occhioni capaci di molte, troppe espressioni per non esserne travolto

“Dimmi” bisbigliò anche lui, quasi ci fosse un segreto da mantenere

Cencio prese una mano di Luppolo, imbarazzato, e giocherellò con le sue dita per un secondo. Poi appoggiò il suo palmo su quello dello scozzese constatando quanto fosse più esile e piccolo. Sorrise.

“Che non mi lascerai mai andare. Che qualunque cosa succeda, mi tratterai con queste mani e mi stringerai, se è necessario, mi strattonerai se devi, ma mi terrai sempre vicino…”

L’impatto di quelle parole su Luppolo fu così intenso da essere doloroso, la sua pelle gridò dal dolore.

“Io” continuò il ragazzo “non voglio ritrovarmi di nuovo solo”. Era imbarazzato e continuava a guardare quella mano che ora teneva solo per un dito, quasi fosse bollente.

Che fare? Che dire? Cadere ai suoi piedi? O solo guardarlo negli occhi nella speranza che capisse ciò che è nascosto sotto strati e strati  di negazione? Ma non riuscì a pensare, di fronte a quegli occhi, e allora lo abbracciò, semplicemente.

 

Era successo diverso tempo fa, ma Luppolo non riusciva a dimenticare la paura provata quando il funzionario del porto aveva afferrato con forza Cencio e l’aveva strattonato, prendendolo per uno di quei vagabondi, figli bastardi che infestavano le strade delle grandi città e che erano un pericolo per i nobili e per il buon nome dei quartieri.

I suoi sentimenti nei confronti del ragazzo erano cambiati da allora, Luppolo non avrebbe saputo dire né come né quando si era trovato alla mercé di quegli occhi sbarazzini e quel sorriso aperto tuttavia, sin dal loro primo incontro, Luppolo aveva sviluppato un senso di protezione nei confronti di Cencio che non aveva eguali. Non riusciva bene a spiegarsi neanche lui il perché.

Nonostante l’apparente infantilismo, Cencio era freddo e calcolatore in battaglia, la sua abilità nell’utilizzo dell’arco lungo era rara. Non aveva bisogno di alcuna protezione. Tuttavia l’aria spaurita di Cencio quando gli era stato presentato schiavo e sottomesso a Guido, il suo sguardo perso e disperato avevano svelato  qualcosa in Luppolo che lui stesso si stupì d’avere. Uno spirito protettivo, un sentimento così intenso da fargli prendere parte alla fuga del ragazzo che allora era ancora uno sconosciuto, fargli mentire al porto inglese sulle sue origini, aiutarlo a raffinare l’arte della spada e dell’arco… E da allora, da quel giorno al castello di Guido, Luppolo s’era preso cura di quel bambino che ormai era diventato un uomo.

Non mi lascerai mai andare.

Aveva detto…

Sciocco moccioso, stupido e splendido.

Non l’avrebbe mai fatto.

 

Il monastero comparve in lontananza, subito dietro ai boschi. Era una costruzione piccola, piuttosto bassa ma aveva un’aria solenne. La natura intorno sembrava rigogliosa, nonostante ormai l’inverno fosse alle porte. Luppolo guardò quella costruzione, tenendo ancora fra le braccia Cencio che s’era appoggiato al suo petto e rimaneva immobile e stretto, lasciandosi cullare dall’andatura del carro.

Uomini devoti a Dio. Quel monastero era abitato da uomini devoti a Dio. E lui? Poteva definirsi tale?

Non era importante, in quell’abbraccio così dolce, perché non avrebbe mai posto la domanda ad alta voce. La paura di essere rifiutato era più forte di qualunque altra, terrena o celeste.

E allora, pensò, era meglio non dire nulla e chiedere l’aiuto del tempo, nella speranza che diluisse quell’affetto non richiesto.

 

***
 

Armelle: Non me ne volere per l'interruzione, ero in luoghi dimenticati da tutti, dove internet è una leggenda, più che una quotidianità '^_^ L'innamoramento in LdM è davvero graduale, sono una a cui piace, in un certo senso, tirarla per le lunghe (Nero e Aaron non sono personaggi da uno sguardo e via, dopo tutto...). Baci

Emerald: Grazie!! Sono contenta che la "tensione" si percepisca. era proprio quello che volevo. Alla fine si sta costruendo anche un qualcosa di fisico *_* (è la mia vena shounen-ai/yaoi che deve essere saziata, in qualche modo XDD). Baci

Bigi: Emozionata, addirittura? Grazie!! Scusa per l'aggiornamento dopo un bel po' di tempo :/

Stateira: Ciao *hug* La tensione erotica fra i nostri baldi giovani a volte preme. In un mondo dominato dalla religione, sembra quasi uscire OOC in personaggi da me creati -_- Ma spero di essere riuscita a dosarla bene. Per quanto riguarda la svolta, c'è e sono felice che si noti, man mano che si procede sarà sempre più netta...Dopo tutto non potevo divertirmi troppo a lasciare i miei personaggi nel limbo dell'incompiuto. Hah, mi sarebbe piaciuto però XD Bacione

 

 

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Capitolo 17
*** 17. Pioggia ***


Nuova pagina 1

Capitolo Diciassette - Pioggia

 

 

La pioggia iniziò a scendere scrosciante a mezzogiorno. Sembrava annacquare il paesaggio al di là della finestra, era bello osservare le gocce che cadevano e s’infrangevano sul davanzale.

Tic Tic Tic… Monotone, languide e sfuggevoli.

Nero le guardava, incantato dal loro continuo cadere. Immobile.

Avrebbe voluto che la pioggia continuasse all’infinito, così da poter guardarla e non dover pensare ad altro, ad un tormento interiore a cui non voleva, né tentava, di dare un nome.

La sera prima, quella pelle sul suo viso aveva indicato strade che non avrebbe dovuto percorrere.

Anche l’istinto, suo più fedele alleato, lo ammoniva di non pensare.

La risposta sarebbe stata davvero a portata di mano, ma solo il pensiero veniva considerato peccato.

Un peccato che avrebbe attenuato anche quella splendida aura dorata che circondava la persona che cercava di allontanare dalla sua mente.

Temeva di dirne il nome, quasi questo fosse il logico passaggio alla consapevolezza.

La sua volontà di appannare la propria coscienza e d’impedire alla mente di capire era forte quanto l’ansia che stava provando. Un’insoddisfazione e una preoccupazione per cui non trovava rimedio.

In fondo, da qualche parte nel suo animo, sotto una coltre di morale, convinzione e rigore, percepiva un punta di felicità intensa. Uno sfolgorio.

Quel bagliore veniva alimentato dal ricordo della sua mano in quella di Aaron, dalle dita che non s’erano slacciate neanche quando lui aveva osato accarezzare con la guancia quella pelle così morbida…

Ma se si concentrava su quel pensiero e quella gioia, il senso di colpa si faceva troppo forte perché lui potesse domarlo.

E di nuovo l’angoscia prendeva il sopravvento.

Se avesse avuto modo di zittire la sua testa in quel momento, l’avrebbe fatto. La fatica che faceva nell’allontanare il pensiero di Aaron, con tutto quello che questo comportava, lo stava sfibrando. Avrebbe forse gridato, ma Nero non poteva gridare lì, dove sarebbe stato sentito. Si sedette e si massaggiò le tempie, nel tentativo di attutire il dolore.

Perché? Perché, si chiese, quel peso doveva gravare su di lui?

L’avrebbe definito un sentimento di colpa, ma in realtà era più forte, o forse un sentimento d’impotenza, ma era più profondo.

Di solito Nero era in grado di domare i suoi tormenti interiori e di custodirli, senza lasciare che prendessero il sopravvento, come invece facevano quella mattina.

Ma era a Dio che doveva rendere conto, lì davanti alla pioggia, e Dio è un giudice severo.

Il loro respiro, quella notte, era ciò che di più armonico Nero avesse mai sentito, ora gli era rimasto un affanno dissonante e solitario.

 

Nero sentì Chiaro chiamarlo, dall’altra parte della porta.

“Posso entrare?”

Conosceva troppo bene Chiaro per non sapere che questi sarebbe comunque entrato, indipendentemente dalla sua risposta.

Inspirò e cercò di calmarsi.

Vide la manopola della porta girare.

Fermò il leggero tremore delle sue mani.

La porta si aprì leggermente

Guardò verso la porta, con occhi immobili.

Chiaro entrò nella stanza

“Scusami, volevo parlarti”
Nero sorrise “Non iniziare una frase scusandoti. Dimmi pure, non ero particolarmente indaffarato”.

“Io…” iniziò Chiaro “penso davvero di avere esagerato in questi giorni.” si strinse nella spalle “E’ che faccio fatica. Faccio fatica a starti dietro, a rincorrerti…”
Nero fece per interromperlo, ma Chiaro alzò la mano per fermarlo: “ti prego,” gli disse con voce rotta “fammi finire…”

Riprese sospirando “Lo sai che io ho lasciato casa per venire con te. Sei scomparso e io non ho fatto altro che cercarti, chiedere di te, seguire le tue tracce per ritrovarti solo molto tempo dopo. E non volevo andarmene di casa” disse tristemente “ma non ho avuto scelta.”
Nero lo guardò, ma come Chiaro aveva chiesto, lo lasciò continuare

“Non avevo scelta. Rimanere o andare avrebbero comunque comportato un’enorme sofferenza per me. Purtroppo si trattava di perdere qualcosa in entrambi i casi…” lasciò scivolare la frase non riuscendo a trattenere un sospiro. Con quelle parole nell’aria si portò vicino alla finestra e, anche lui, prese a guardare fuori.

“Purtroppo tu avevi preso una decisione che non sarebbe mai stata adeguata rispetto al mio modo d’essere. Ho scelto. Ho scelto di venire con te, ma la parte che ho perso mi manca. E mi chiedo perché a te non manchi. A volte mi sembra di capire…” si girò di scatto a guardare Nero poco dietro di lui “ma altre volte mi chiedo perché tu sia così ostinato… Così… insofferente nei confronti di quello che, comunque, rimane il posto dove sei cresciuto.”

“Hai ragione, Chiaro, sono ostinato” bisbigliò Nero e Chiaro rise, senza provare nessuna gioia.

“Ostinato e non torni. E allora so che quel periodo, il più bello della mia vita, non tornerà mai. Non lo riavrò più. E quindi mi viene da domandarmi: perché mi sta facendo questo?”

Lo fissò negli occhi

“Perché mi stai facendo questo?” gli chiese direttamente

“Saresti uno sciocco se davvero pensassi lo faccia a te, Chiaro. E so che non sei uno sciocco.”
”Ma allora perché non vieni con me? Per un po’, per qualche settimana, per qualche giorno… Perché non torni?”

Nero scosse la testa “Che senso avrebbe tornare per poco tempo? Dimmelo Chiaro, perché io non ne vedo alcuno”

“Avrebbe senso per me!” sbottò, ma poi si pentì di quello scatto d’ira e si calmò “Avrebbe senso per me” ripeté con più calma “per rivivere qualche giorno come quelli passati quando eravamo bambini”
”E sperare che quei tempi torneranno?”

Chiaro annuì,  e con voce rotta aggiunse “Io ci spero tutt’ora”

“Questo perché t’illudi che si possa tornare indietro Chiaro, ma non si può. Si può solo andare avanti. E quelli che sono dei ricordi non potranno mai essere rivissuti”

Chiaro sapeva benissimo l’esito di quella discussione, e sentì le lacrime arrivare pericolosamente agli occhi. Se li coprì con due dita ed impedì che cadessero.

“Sei un egoista…” Sussurrò con voce rotta “Io ti chiedo solo di fare qualcosa per me. Io ho lasciato alle mie spalle cosa avevo di più prezioso per venire con te…”

Nero si morse le labbra. “Ma non l’hai fatto per me. Lo so io e lo sai tu Chiaro”. Così avrebbe ferito terribilmente il compagno, ma ormai sapeva anche che era inutile cercare di edulcorare l’evidenza. Sperava che Chiaro, prima o poi, avrebbe capito e che smettesse di vivere nel passato.

Un lacrima ribelle uscì comunque dagli occhi di Chiaro, nonostante il suo tentativo di fermarla.

“Io l’ho fatto anche per te… Non sai l’angoscia in cui m’hai gettato la mattina in cui ho visto che non eri più in camera tua e che il tuo cavallo non era più nella stalla!” di nuovo gridò, disperato, e di nuovo se ne pentì subito.

“Hai ragione, sono un viziato e un aristocratico”disse sconfitto “ma questo è quello che sono, Nero. Non posso cambiarmi. Posso fingere, ma non posso diventare un altro”.

Nero sgranò gli occhi e provò una fitta di dolore al pensiero di cosa quelle parole significavano per lui. Ma non ebbe tempo di rifletterci, perché Chiaro continuò “Io …” ma non riuscì a dare voce a quel sentimento di frustrazione che da troppo tempo albergavano nel suo animo. Non lì, non in quel momento.

“Io non so più che cosa fare” disse infine.

“Non c’è nulla da fare, Chiaro, non c’è soluzione. Mi dispiace, ma io non tornerò mai lì, a casa tua” Nero rispose gelido “E vorrei che tu capissi, vorrei che tu accettassi la situazione per quella che è… Vorrei tu la smettessi di angustiarti. Non è colpa tua Chiaro” cercò di addolcire i toni “non è colpa tua…”

Chiaro trattenne a stento un’altra lacrima ribelle: “Lo so” bisbigliò.

Nero ebbe l’istinto di mettergli una mano sulla spalla per consolarlo, ma si frenò. Chiaro avrebbe interpretato quel gesto in maniera sbagliata, l’avrebbe visto con speranza.

Qualcuno bussò alla porta.

Quando Lord Aaron entrò nella stanza, Chiaro ebbe un sussulto. Imbarazzato si asciugò le guance “Scusatemi, ma prendo congedo” disse frettolosamente “Mi sento poco bene…” e così fuggì dalla stanza senza guardare né Nero né Aaron che lo ascoltarono stupiti.

“Non fateci caso, qualche ora e si sentirà meglio”

“Vorrebbe che tornaste a casa vostra?”
Nero s’irrigidì, ma poi annuì “Purtroppo siamo troppo diversi…”

Scosse la testa leggermente: “Eravate venuto qui per dirmi qualcosa?”

“Sì” disse Aaron “Volevo solo comunicarvi che domani mia sorella e i miei cugini arriveranno al castello e…” esitò prima di proseguire, guardando Nero in quegli occhi troppo intensi per sostenerne lo sguardo. Essere lì, solo con lui gli faceva battere il cuore così forte da fargli perdere la sua capacità d’eloquio. La sua mente farfugliò e lui non fu in grado di proseguire. Arrossì.

Nero gli porse la mano e solo lo stupore per quel gesto diede il coraggio ad Aaron di sollevare il viso per capire cosa il suo cavaliere intendesse fare.

“Volevo vedervi anch’io” questi gli sussurrò

Aaron accarezzò il palmo del cavaliere delicatamente. Quasi avesse timore che l’altro lo ritraesse. Lambì i solchi del palmo e poi, d’improvviso, intrecciò le proprie dita con quelle di Nero. E le strinse.

Tenersi per mano non era peccato, vero?

Stringersi le dita e concedersi il conforto di quel contatto non era vietato, no?

Era così perfetto che non poteva esserlo. Rimasero in silenzio, stretti in quel doloroso contatto e lasciarono che il rumore della pioggia riempisse la stanza.

 

 

“Non ci posso credere Cencio, te ne sei andato a metà della visita e non sei più tornato!”

Gridò Luppolo spalancando la porta della propria stanza “Si può sapere dove diavolo sei stato?”

Ma il ragazzo non rispose, Luppolo lo vedeva con le spalle chine sulla scrivania e una candela accesa, ma immobile.

“Hai perso la lingua?”

Cencio farfugliò qualcosa. Spazientito Luppolo andò verso di lui e lo scosse. Quasi fosse privo di vita, Cencio si lasciò scuotere fino a che la testa non gli ricadde all’indietro e un sorriso ebete gli comparve sulle labbra

“Ti ho spaventato eh?” biascicò

“Sei ubriaco marcio”

Un pochino, sì

“Non parlare italiano, sai che faccio fatica a capirti! Se poi farfugli suoni a casaccio, non ho speranze”

“E’ buoniii..iiisima questa birra” sorrise di nuovo Cencio, che faticava a tenere la testa dritta sul collo

“Perché non sei tornato?”

“Mi sono perso” spiegò “Perso già” rise stolidamente “e sono venuto a cercarti, ma era tutto buuuio” e la sua testa ricadde all’indietro, e Luppolo gliel’afferrò

“Devi metterti a letto e dormire. Domani mattina ne riparliamo”
”Ma non torniamo a casa?”

“Piove troppo per viaggiare di notte”

“Ah ecco cos’era” borbottò confuso con un dito sollevato “La pioggia… E io che pensavo fossimo attaccati zac zac zac da mille frecce…” Tentò di alzarsi, ma la gamba non gli resse e cadde in avanti

“Cencio, ti metto a letto”
Lo trascinò fino al suo letto e lo appoggiò.
Cencio era così fiducioso che gli strinse le braccia con forza. Gli occhi confusi e liquidi guardavano il compagno in adorazione.

“Ehi Luppo…” bisbigliò Cencio “grazie” e cercò in qualche modo di sedersi sul letto. Poi scoppiò a ridere e Luppolo lo guardò stupito

“Mi sa che mi devi aiutare a togliere la casacca... C’è birra ovunque”
L’amico non capì subito, ma poi, toccando la maglia, si accorse che era zuppa.

“Ti sei versato la birra addosso? Sei davvero un moccioso!”

“Non chiamarmi così” fece finta di arrabbiarsi, ma poi rise di nuovo “Prova tu a bere dalla botte!” e così dicendo si lasciò cadere sul letto, completamente alla mercé di Luppolo

“Hai bevuto la botte intera?” Luppolo non poteva credere alle sue orecchie “saranno almeno due galloni!”

Cencio farfugliò sogghignando “Era così buona… Quel maialino arrosto che m’ha dato il cuoco, poi, m’ha fatto venire una sete…”

Luppolo roteò gli occhi e iniziò a slacciare la camicia di Cencio che sembrava continuare a cadere in uno stato di dormiveglia, per poi risvegliarsi di nuovo.

Sul petto aveva una lunga cicatrice, era stato colpito da un francese a Crècy. Luppolo gli aveva detto di essere prudente… Ma non era proprio nella natura di Cencio esserlo, e lo scozzese sorrise, accarezzando quel taglio e ricordandosi la paura che aveva provato quando l’aveva visto sanguinare copiosamente.

La pelle sotto le sue dita sembrava quella di un bambino, glabra e morbida.

Luppolo si morse le labbra e sfilò la casacca dell’amico.

“Ora dormi, vado a prenderti un po’ d’acqua, ti verrà sete”. Ma Cencio non lo fece allontanare.

Stai qui

“Non parlarmi in italiano” disse, fingendo di non aver capito. Aveva paura a rimanere lì, con quella pelle delicata sotto le dita e Cencio arreso alle sue mani.

“Rimani qui, c’è un temporale…”

“Non avrai certo paura di un po’ di pioggia, Cencio” ma la sua voce non risultò convincente.

Cenciò scoppiò a ridere di nuovo e faticosamente si ritirò su dal letto.

“Perché ti fai pregare?” farfugliò “Rimani qui, tanto il letto è grande e io …” ma poi ricadde a faccia in giù sul letto e Luppolo non capì come avesse concluso la frase.

“E tu cosa?”

Cencio girò la testa “Prometto che per un giorno intero farò quello che mi chiederai…davvero”.
”Certo, non dureresti cinque minuti”
”Davvero, credimi.” Ma rise di nuovo e non fu molto convincente. Poi cercò di mettersi a sedere mentre Luppolo cercò di fuggire. No, così davvero era troppo, in quella sera buia, con quell’odore di birra che riempiva la stanza e l’alito di Cencio, non poteva rimanergli a fianco.

Ma Cencio non è uno che ceda facilmente. Goffamente si trascinò sul letto e si buttò addosso a Luppolo.

“Preso” disse circondandogli la vita con le braccia.

Luppolo sbiancò e rimase immobile, incapace di fare un qualunque gesto. Anche Cencio rimase immobile per un po’, sembrò addormentato.

Luppolo cercò di liberarsi da quell’abbraccio, quando il ragazzo parlò di nuovo.

“Qualunque cosa, davvero” disse stringendosi di più.

Aveva i capelli scompigliati e sulle labbra il suo sorriso furbo di quando sa che sta facendo qualcosa che non dovrebbe. Ma gli occhi sono chiusi, appesantiti da troppo alcol e dalla confusione portata dalla birra.

Luppolo sospirò, passando le mani sulla schiena nuda del ragazzo prima e intrecciando le dita ai suoi capelli poi.

Quant’era bello!

Non poteva rimanere, doveva scappare, quella notte e i suoi suoni ovattati si stavano impadronendo della sua volontà, doveva scappare!

Ma la notte, si sa, cela gli uomini e ne svela i sogni. Neanche Luppolo riuscì ad opporsi alla sua legge.

“Allora baciami…” sussurrò d’improvviso, senza capire esattamente neanche lui che cosa avesse appena chiesto. Sentì la pelle del viso bruciare, ma ormai aveva compiuto il passo e non poteva più tornare indietro.

Cencio non sembrò reagire immediatamente, ma dopo un attimo si sollevò dalla sua posizione e guardò Luppolo con occhi confusi.

“Per favore, baciami” lui non riusciva a muoversi, non voleva altro che essere baciato. Ma Luppolo sapeva di aver chiesto troppo. In un istante si chiese se Cencio avesse capito, se il giorno dopo avrebbe ricordato, si chiese come fuggire, si chiese come zittire il suo respiro, si chiese come  rimangiarsi quello che aveva detto. Fu un istante però, perché subito dopo Cencio obbedì.

Luppolo fu colto di sorpresa: nonostante l’avesse chiesto, nonostante non volesse altro in quel momento, rimase immobile.

La prima cosa che riuscì a percepire fu il gusto amaro delle birra sulle sue labbra e il respiro caldo sulla sua pelle.

Ma rimase immobile.

Cencio gli prese le guance con le mani per attirarlo meglio a sé e per fargli inclinare leggermene la testa da un lato. Catturò di nuovo la bocca dell’amico succhiandogli il labbro superiore e poi passando la lingua  su quello inferiore con un movimento lento e seducente. Luppolo gemette: aveva le mani che gli tremavano e gli occhi ancora fissi  su quel bellissimo viso e i suoi capelli mossi.

E poi non rispose più di sé.

Afferrò Cencio alla nuca e premette le sue labbra di più, molto di più, e impose a Cencio di aprire la bocca. Approfondì il bacio e sentì Cencio gemere e stringersi a lui ancora di più.

Pensò di perdere il senno.

Lo strinse a sé, con le dita  piene dei suoi capelli e la mente piena di lui.

Non osava staccarsi,  quando tentava di baciargli il bordo delle labbra e la pelle della guancia, che era  – cielo! – così perfetta, qualcosa gli imponeva di tornare su quella bocca, in quella bocca e di non ascoltare altro che il respiro affannoso dell’altro.

E poi Cencio si fermò. Mollemente cadde su un lato, ancora fra le braccia di Luppolo, ed iniziò a russare.

Lo scozzese strinse le labbra, ancora affannato e guardò quella figura addormentata di fianco a lui. E forse l’amò ancora di più. Quello era tipico del suo Cencio: lasciarlo sconvolto ed ansimante, completamente in balia di una persona che, placidamente, russava e che non si sarebbe ricordata nulla il giorno dopo.

Non gli fece male quel bacio strappato e così barbaramente interrotto, ma Luppolo non seppe dire perché una lacrima, comunque, gli rigò il viso. Si sdraiò di fianco all’amico e lo strinse, ma prese sonno solo molte ore dopo, quando finalmente mise da parte i suoi pensieri e lasciò che quel respiro regolare vicino a lui lo facesse addormentare.

 

 

Stateira: Luppolo e Cencio si sono fatti letteralmente largo a gomitate! Quando stavo scrivendo Liberaci dal Male, si sono semplicemente imposti XD E alla fine ho ceduto, perchè anche a me piacciono molto. E dici bene, sono più concreti di Aaron e Nero che sono circondati da un'aura di intoccabilità e di estrema fragilità... E questo capitolo, in fondo, glielo dovevo proprio. Baci

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Capitolo 18
*** 18. William ***


Nuova pagina 1

Capitolo Diciotto

- William -

 

 

Cleto volava alto nel cielo finalmente terso.

Di ritorno da Londra il falco sembrava particolarmente contento di ritrovare il suo padrone. Ma le notizie che portava non erano delle più incoraggianti.

Nella capitale avevano cominciato a parlare della strana malattia che aveva colpito i porti dell’Europa meridionale. Alcuni dicevano che l’avevano portata i mercanti dall’oriente, altri vociferavano che fosse la punizione di Dio per il periodo dissoluto che si stava vivendo. Di certo le vittime erano numerosissime e si temeva che presto la morte nera sarebbe arrivata anche sulle sponde inglesi. Qualche mercante poi, preso dal panico, aveva rallentato se non addirittura interrotto le rotte col Sud.

Si raccontava portasse febbre e brividi e uno o più bubboni neri sul corpo. Era fatale, pochi ne erano sopravvissuti. Tuttavia, nonostante la preoccupazione serpeggiasse nella capitale, alcuni erano convinti che la malattia si sarebbe arginata prima di arrivare sull’isola.

Lo stesso giorno in cui Cleto ritornò, arrivarono a fare visita al castello Thurlow la sorella di Aaron, Lady Davida, suo marito e i figli.

Stanchi per il lungo viaggio e per il tempo, che non era stato clemente, rimandarono alla sera i racconti ascoltati a Suffolk e a Londra. Passarono invece il pomeriggio a sistemarsi nelle stanze e riposarsi, in attesa della cena.

Lady Davida ricordava Lord Aaron nella fisionomia del viso e in qualche espressione di cordialità, tuttavia Nero trovò la donna assai più sgraziata del fratello. Il tempo era stato decisamente impietoso con lei, sebbene non l’avesse resa grassa, la donna aveva perso quelle forme sinuose tipiche della gioventù; i sei figli che aveva partorito, poi, erano stati inclementi coi suoi fianchi, ora larghi e circolari. Il marito invece, un uomo sulla quarantina, era di fisico piuttosto asciutto e con un’aria naturalmente sofferente. Gli occhi incavati e la pelle diafana gli davano un aspetto poco in salute, nonostante in realtà stesse benissimo.

Ma fu il primo dei figli di Lord Hamill a colpire Nero: gli ricordava in tutto e per tutto Lord Aaron. Nonostante i lineamenti più infantili, l’ovale, la forma degli occhi e la linea delle labbra erano identiche a quelle dello zio. Portava i capelli nello stesso modo, se non che apparivano leggermente scompigliati dopo un viaggio del genere. Gli occhi invece erano sì azzurri, ma di una diversa tonalità: quelli del ragazzino erano più scuri e cupi. Ciononostante possedevano quel guizzo e quel bagliore che spesso Nero s’era fermato ad osservare in Aaron. Così, quando il ragazzino si avvicinò al cavaliere, questi lo osservò attentamente.

“Scusatemi, signore, siete voi il Nero, giusto?” gli chiese il ragazzino

“E tu sei…?”

“William David Edward Hamill, signore, sono il nipote di Lord Aaron” Affermò felice.

“Sembra che tu ne sia particolarmente orgoglioso”
”O sì signore, molto” poi aggiunse, esitando leggermente “E’ vero che anche voi parlate con gli animali?”
”Non come vostro zio… Diciamo che riesco a comunicare con alcuni di loro”

“ E come fate?”

Nero sorrise “Non ho idea, l’ho sempre fatto fin da quando ero piccolo”
”Ah.” Esclamò deluso il ragazzo. “Quindi non pensate che possa imparare?”

“Non saprei, davvero. Non hai mai provato a chiederlo a Lord Aaron?”

“Sì” sospirò il biondino “Però non è stato molto esauriente. Non so se non voglia farmi capire, oppure pensi che sia troppo piccolo per farlo”
Nero annuì

“Ma ho già undici anni!” continuò William con veemenza “e…se non ora, quando?”
”Mi sembri impaziente…”
”Lo sono per forza! Se voglio essere un degno cavaliere nelle terre dei Thurlow. E ho paura che non ne sarò mai all’altezza se non conosco le lingue dei boschi” disse indicando le selve che si vedevano in lontananza “Oppure quelle dei cieli”
”Ma ho sentito dire” obiettò Nero “Che sei andato ad addestrarti fra i cadetti di sua maestà”

William sospirò “Per volere dei miei genitori… Non certo mio”
”Non sei contento di diventare un soldato?”

“Anche voi lo siete, e non fate parte delle guardie del Re, mi sbaglio?”

L’acume del ragazzo e la prontezza nella risposta piacquero subito a Nero.

“E’ vero, tuttavia non è certo una brutta posizione quella in cui ti trovi ora”

“Se mi accontentassi, non lo sarebbe” esclamò con forza “Ma io…voglio vivere qui!”
Quest’affermazione così decisa stupì Nero “Perché?”
”Perché voglio vivere con mio zio” rispose William come se fosse una cosa naturale “è l’unico in famiglia col quale mi trovo bene…Purtroppo però”aggiunse con un sospiro “posso venire qui così poco che…” cercò le parole “Mi chiedo se mi voglia qui con lui”.
”Perché non dovrebbe volerti?”

William si strinse nelle spalle  “Il fatto che mi chiami William di certo non aiuta…”

Nero non capì. Sapeva che il nome era lo stesso del fratello di Aaron, ma ebbe come l’impressione che ci fosse ben altro che preoccupasse il bambino, e non solo la paura di ricordare, col proprio nome, il fratello defunto.

“Voi non sapete di William?” ma poi si pentì di quella domanda “Eh no, immagino di no” disse ritornando sui suoi passi. “Scusatemi se vi sono sembrato inopportuno. E’ che da come ho sentito parlare di voi da Josephine e le altre ragazze, ho pensato che foste qui da molto tempo…”
Il ragazzino era in grave imbarazzo, nel timore di avere detto qualcosa che non avrebbe dovuto dire. Nonostante la curiosità, Nero cercò di metterlo a proprio agio: “Penso sinceramente che Lord Aaron sia contento di averti qui con lui”
”Lo credete davvero?” chiese William con gli occhi pieni di speranza “Vedete, quando io ne parlo a casa mi dicono che sono inopportuno. Che è sbagliato sperare di venire a vivere in una casa non propria”
”E cosa ci sarebbe di strano?”.

“Beh, mia madre dice sempre che questo posto è troppo isolato” spiegò stringendosi nelle spalle “E che prima o poi lo zio avrà un figlio, quindi non vorrà avermi fra i piedi”
Nero sorrise: “Io penso semplicemente che siano le parole di una madre preoccupata. Anche a me spesso dicevano che ero troppo irrequieto”.
”E avevano ragione?”
”Credo proprio di sì. Anche se io non ero il primogenito, quindi avevo meno responsabilità…”
”Non siete il maggiore? Che strano!” Aggrottò le sopracciglia “Mi pare che Josephine m’avesse detto così”

Nero rise “Ma quanto t’ha raccontato Josephine?”
”Oh, credo tutto quello che è venuta a sapere” sorrise William.

“Non ti sei andato a riposare come i tuoi genitori e i tuoi fratelli, come mai?”

“Per dormire ho tempo la notte! Ora volevo rivedere lo zio e volevo conoscere i cavalieri che passeranno con lui l’inverno”.

“Non capisco come tu faccia ad avere così tante energie!” disse una voce proveniente da dietro di loro.

“Zio Aaron” quasi fosse ancora un bimbo, William iniziò a corrergli incontro e l’abbracciò con foga

“Sono così felice di vedervi”
”Hai fatto un buon viaggio?”

Il ragazzino annuì.

Visti vicini, i due sembravano assomigliarsi ancora di più. Rimasero stretti nell’abbraccio per un attimo, poi William parlò: “Zio…” esitò “pensi…pensi che potrei venire a vivere qui dopo aver finito l’addestramento dai cadetti?”

Lord Aaron si stupì di quella domanda “Perchè me lo chiedi?”

“Io …Preferirei vivere qui, piuttosto che a casa. Suffolk è... estranea”

“Non capisco…”

Ma il ragazzino alzò le sopracciglia sconfitto “Non so bene. Non so dire esattamente cosa non vada. So semplicemente che vivo meglio qui. E che considero questa casa mia”

Casa. Come poteva negargli un posto quando quella, davvero, era casa sua? William aveva ereditato il carattere ed il temperamento del lato materno della sua famiglia. Di sangue Hamill, nel fisico o nel carattere, non pareva esserci traccia.

E Aaron non poté fare a meno di pensare al fratello.

Quando Davida aveva scelto quel nome per il proprio figlio, Aaron s’era stupito, convinto com’era che la sorella si fosse dimenticata del fratello morto. O che comunque, avesse accantonato il ricordo per poi non riprenderlo più in mano.

Si ricordò quando William aveva sei anni e Davida l’aveva portato con sé. Vederlo lì, in piedi nel salone dove così spesso aveva visto suo fratello gli aveva fatto male: William lo ricordava tantissimo. Ma gli era stato sufficiente poco, qualche ora, per distinguere il nipote dal fratello. Il giorno dopo aveva persino pensato che fosse impossibile scambiare l’uno per l’altro.

Ora, del ragazzino di fronte, solo il nome gli ricordava il fratello.

 “Sarebbe molto bello” disse in tono leggermente più basso del solito “se potessi stare qui”.
”E al nonno andrebbe bene?”
”Sì, ne sono certo” sorrise Aaron “sai che è scorbutico, ma il suo è solo brontolare”

Il ragazzo annuì felice.

Qualcuno bisbigliò: “Finalmente non potrai più dirmi di essere il moccioso del gruppo”

“Ecco vedi” rispose Luppolo “sei sempre il solito cafone con l’aria in testa”

William non conosceva le due persone che si stavano avvicinando, né capiva se stessero litigando davvero oppure solo bonariamente.

“E voi quando siete arrivati?”

Un’espressione greve comparve sul viso di Luppolo.

“Il ragazzo qui davanti a te s’è scolato più di un gallone di birra da solo, ieri notte”

Tutti spalancarono gli occhi, mentre Cencio li abbassò colpevole

“Mi sono perso, avevo sete…E poi, diciamola tutta, io non mi ricordo di aver bevuto un gallone di birra. Magari Luppolo lo dice solo per prendersi gioco di me!”
”Certo che non te lo ricordi, arrivato a metà, già non capivi più nulla!”
”Ma non siamo maleducati!” disse Cencio cercando un modo per cambiare discorso “non ci siamo ancora presentati.” Si rivolse così al ragazzino “Io sono Cencio e questo è il mio compagno Luppolo”
”Io sono William David Edward Hamill, nipote di Lord Aaron. Onorato di fare la vostra conoscenza. Anche voi siete cavalieri?”

Luppolo annuì

“Anch’io presto lo sarò” continuò William “ma appena finisco di studiare nei cadetti reali, vengo qui”
”Studi a Londra?” chiese Cencio entusiasta

“Sì” rispose però il ragazzo con ben poca verve

“Sembra però che non ti piaccia”

“Non è che non mi piaccia… E’ che non voglio che gli altri decidano per me dove devo vivere”.

Nero guardò quel ragazzino e i suoi capelli biondi disordinati che gli ricadevano sulle spalle. Aveva un aspetto infantile, gli occhi grandi e quell’imbarazzo tipico dei più piccoli quando stanno coi più grandi. Ma, nonostante la differenza d’età, capì così bene quel ragazzino che non poté fare altro che sorridere. Si ritrovò a pensare quale fortuna avesse quel bambino che, scontento della propria casa, poteva già indicarne una nuova. E si ritrovò, per un istante, ad invidiarlo.

Ma l’invidia fece subito posto ad un senso di gratitudine verso quelle terre.

In un inverno rigido erano state un approdo pieno di calore. Forse non era così importante se il conforto di un luogo dove vivere si fosse trovato a undici o a trent’anni, l’importante era saperlo riconoscere.

Nero non si accorse di averlo già fatto.

 

Chiaro era seduto nel saloncino delle armature e guardava il fuoco ardere nel camino.

Quella stanza, più di altre, gli ricordava casa sua. Anche lì, i suoi genitori, così come i loro avi, conservavano le armature e le armi dei personaggi più importanti della loro famiglia. Ne avevano di diverse, alcune ben tenute, altre usurate dal tempo.

Ogni volta che entrava in una di quelle stanze, da piccolo, si chiedeva se, prima o poi, anche la sua spada non sarebbe stata esposta con orgoglio.

Ora sapeva che la risposta sarebbe stata negativa, probabilmente. I suoi genitori non avevano mai accettato la fuga di Nero, tanto meno il fatto che Chiaro l’avesse seguito. Non avevano mai condiviso le idee del primo né vedevano di buon occhio la subordinazione del secondo.

Ma lui che cosa poteva farci?
Aveva parlato più e più volte col fratello, ma non aveva mai ottenuto nulla se non un secco rifiuto. E purtroppo, Chiaro sapeva ormai che una vita senza Nero non avrebbe avuto più alcun senso.

Quand’era piccolo quel ragazzino impertinente era tutto per lui: un fratello, un compagno di giochi, l’unico amico. Ora era diventato l’unica luce guida che Chiaro era in grado di seguire.

Tutto ciò che diceva, tutto ciò che faceva, Chiaro lo ripeteva e non era importante se in realtà volesse dire o fare qualcosa di diverso.

Chiaro s’era annullato, nel tentativo di essere ciò che lui più ammirava.

Nonostante questo gli comportasse dolore e frustrazione continua perché non otteneva dalla controparte quello che richiedeva. Mai.

Sospirò.

Sapeva che fare troppe pressioni a Nero era sbagliato, lo sapeva bene.

Il giorno prima era persino andato a scusarsi per il suo comportamento, e capiva che la sua reazione era stata, anche in quell’occasione, sbagliata. Nero doveva essere libero perché quello che lo rendeva forte, ai suoi occhi, era proprio la sua assoluta libertà. Né lui né altri avrebbero mai dovuto intaccarla. Sebbene difficile, si ripromise per l’ennesima volta di non farlo.

Si alzò dalla sedia e guardò fuori dalla finestra, appoggiato alla parete nella stessa maniera in cui Nero era solito appoggiarsi.

Si chiese che cosa sarebbe successo se avesse richiamato i suoi cavalieri e avesse chiesto loro di partire.

Sorrise divertito, nessuno l’avrebbe seguito, lui non era certo Nero. Ma ugualmente ne mimò qualche movenza, per gioco.

Un gioco che ormai durava da anni, come il suo disperato tentativo di somigliargli.

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Capitolo 19
*** 19. In un nome ***


Nota dell'autrice Il disastro è cosmico perchè non ho più frontpage e io l'html non lo so usare ._. Avete idea di un qualche editor gratis scaricabile da internet? Altrimenti se vado avanti di questo passo, devo prendermi pomeriggi interi per editare un capitolo gia bello che finitio...sigh... Scusatemi se la formattazione, quindi, non è delle migliori. L'impegno cìè stato, giuro...Baci a tutti (chi legge e tanti a chi commenta XD)

Capitolo Diciannove - In un nome

 

 

Aveva dimenticato tutto. Il giorno dopo, come se nulla fosse, s’era alzato, s’era lamentato per il mal di testa e per l’incredibile sete che aveva. Nient’altro. Non aveva fatto alcuna menzione di quello che era successo la notte prima e Luppolo s’era ben guardato dal ricordagli qualcosa.

Lo scozzese era contento.

Ringraziava il cielo perché quel momento di debolezza non aveva portato effettive conseguenze. S’era pentito di aver ceduto e aveva dormito agitato tutta la notte nel terrore che Cencio si sarebbe ricordato qualcosa. Questo avrebbe per forza di cose incrinato quella sintonia stupenda che c’era fra di loro.

Ringraziava il cielo perché, se Cencio non si fosse addormentato, se la birra non avesse preso il sopravvento, forse Luppolo non si sarebbe più fermato. Che fortuna che quello sciocco aveva ingurgitato troppa birra da non poter ricordare, da non poter stare sveglio…

Già, che fortuna!

E non doveva forse anche ringraziare la fortuna per avergli concesso quel momento, unico e irripetibile, senza che ne dovesse subire alcuna conseguenza?

Sì, era stato davvero fortunato.

E per tutta questa fortuna, Luppolo piangeva nel suo letto.

Piangeva come non  faceva ormai più da anni. Anzi, ad averglielo chiesto, probabilmente non avrebbe saputo dire l’ultima volta che aveva pianto.

Eppure ora non riusciva ad interrompere i singhiozzi che soffocava sotto le coperte, imbarazzato da se stesso.

Era stato fortunato, lo sapeva. Che cosa sarebbe successo se Cencio si fosse davvero ricordato qualcosa?
Lo stupì il pensare che, più di ogni altra cosa, quello che lo terrorizzava era l’idea che lui potesse allontanarlo, disgustato perché Luppolo aveva approfittato del suo stato d’ubriaco.

E Luppolo sapeva che avrebbe avuto ragione.

Aveva lasciato la Scozia volontariamente. A volte pensava di essere fuggito. Probabilmente era così.

Aveva ucciso il suo maestro d’arme, l’aveva trapassato da parte a parte quando questi stava picchiando sua madre.

Era stato un codardo perché non l’aveva sfidato, non aveva tentato uno scontro alla pari. L’altro era lì, che si stava accanendo sul corpo di sua madre - già a terra e sanguinante -  lui aveva preso la spada e l’aveva trafitto. Senza onore. Ma in quel momento non aveva pensato né all’onore né al rispetto che avrebbe dovuto portare verso quell’uomo che gli aveva insegnato tutto sull’arte della guerra. Aveva sentito solo qualche gemito della madre che non riusciva più neanche a gridare, l’aveva vista per terra, rannicchiata su di un fianco che si riparava, inutilmente, dai calci di quell’uomo e quindi l’aveva ucciso. Niente di più.

Ma l’animo di un cavaliere non può essere cambiato dall’oggi al domani, per quanto sapesse che in fondo, stava proteggendo sua madre, sebbene sapesse che, in fondo, non era lui nel torto, l’idea di essere stato un vigliacco e di avere ucciso un uomo alle spalle non gli aveva più dato tregua.
L’idea poi di avere ucciso chi l’aveva cresciuto per tutti quegli anni, l’aveva obbligato a cercare un’espiazione di quella colpa altrove, da qualche parte a lui ignota. Un luogo che l’avrebbe finalmente redento.

Cencio era stata la sua redenzione.

Quando aveva incontrato quegli occhi monelli di tredici anni, gli erano sembrati come quelli di qualunque altro. Non avrebbe mai potuto immaginare che quella pelle scura, quel sorriso sbarazzino e quell’aria furba l’avrebbero assolto e perdonato.

Il ragazzino, ai tempi, era uno di quei bambini perduti, schiavi delle voglie passeggere di un potente, ladro e furfante. Ma rideva. Cencio, ai tempi, rideva sempre.

E non rideva per scherno, per far fronte alla sua vita o per sfuggire alla realtà. Rideva perché lui si divertiva. Non aveva altri se non se stesso, ma lui rideva spesso con se stesso.

E questo, Luppolo, l’aveva trovato prodigioso.

A volte pareva quasi che il sole delle sue terre fosse stato catturato da quel mocciosetto e che questi se lo portasse sempre dentro. Anche dopo molto tempo, in un’Inghilterra buia e spesso ostile, lui rideva sempre.

Luppolo pensò di nuovo a quando lui e Cencio s’erano presi gioco del funzionario del porto. Nessun altro avrebbe mentito con tale disinvoltura, nessun altro avrebbe nascosto la sua paura di tornare ancora sotto il giogo di un signorotto qualunque…

E allora, se davvero Luppolo era stato così fortunato, se davvero Luppolo era stato redento, se davvero Luppolo era stato perdonato, che cosa voleva, per piangere come un bambino chiuso in una stanza?

Voleva lui.

E la necessità quella notte era così travolgente che Luppolo non poteva evitare di piangere.

 

 

Era raro, in quel periodo dell’anno, che il cielo fosse così terso. Eppure quella notte, nonostante il freddo, nonostante nell’aria sembrasse esserci del nevischio, nel cielo non c’era una nuvola.

Aaron era seduto in un giardinetto interno al castello e lo guardava, avvolto in strati di pelliccia, in un tepore irreale, mentre ogni suo respiro produceva della condensa.

“Non fa troppo freddo per rimanere fuori?”

Aaron guardò Nero avvicinarsi e non rispose, tentando di prolungare quello sguardo quanto più a lungo possibile.

“Potrei farvi la stessa osservazione” sorrise poi.

“Vi stavo cercando, a dire il vero…”

Aaron lo osservò, per saperne il motivo. Nero gli si sedette di fianco e tremò leggermente “…anche se non dovrei farlo” bisbigliò quasi stesse seguendo il corso dei propri pensieri

“Non avreste dovuto, è vero” ammise Aaron “Quindi sarebbe sciocco se dicessi che sono contento che mi abbiate trovato…”
”Sarebbe sciocco sì. Forse sarebbe meglio se me ne andassi e smettessi di rovinare la vostra quiete e la vostra notte d’inverno”

“Forse sarebbe meglio…sì” disse Aaron.

Sorrisero.

Ma non dissero più nulla per un po’.

Perché tacere ciò che quel silenzio gridava?

Perché negare ostinatamente che lo stare l’uno di fianco all’altro fosse l’unico modo di avere senso, quella notte?
Perché, nonostante tutto, prevalse il senso di colpa.

E l’assurda convinzione che bastava non nominare qualcosa d’inopportuno per far sì che questo non esistesse.

Nero tremò leggermente, le sue vesti erano troppo leggere per quella notte di dicembre.

Il mantello di Aaron era sufficientemente largo per coprire entrambi, perciò il padrone del castello se lo slacciò e coprì quelle di tutt’e due.

Questo l’obbligò ad avvicinarsi all’altro.

Ma ancora nessuno disse una parola.

Nero prese il mantello, sorridendo, e se lo portò sulle proprie spalle, assicurandosi che non scivolasse da quelle dell’altro. Era morbidissimo e aveva il suo odore addosso. Tremò di nuovo, ma questa volta non aveva più freddo.

Strinse la pelliccia fra le dita e nella sua mente si sovrapposero mille domande e mille parole da dire in quel momento.

Sotto quel mantello una mano cercò l’altra. Fu così naturale che solo quando si scoprirono intrecciate, si accorsero di essersi trovate.

Nero guardò Aaron cercando disperatamente una via di fuga, una strada che non lo conducesse a ciò che voleva fare. Era così vicino a lui che non riusciva a trovarne, inebriato dal tepore del suo mantello sulle proprie spalle e delle sue dita nella propria mano.

Ma fu Aaron a trovare la forza di fare un passo in una qualunque direzione che non fosse quella più naturale e a salvare, davanti agli occhi di Dio, le loro due anime.

“Vi ha stupito scoprire che anche William nutre idee simili alle vostre in merito al posto dove trascorrere la propria vita?”

Nero sorrise, grato.

“Mi rincuora, se devo essere sincero”
”Rincuora?”
”Sì, e inoltre, devo ammettere, mi suscita un po’ d’invidia”
Aaron aspettò che Nero si spiegasse meglio.

“Lui sa quale sia casa sua… L’unico suo freno mi pare essere il nome che porta. Teme che il chiamarsi William non lo renda il benvenuto qui”
Aaron sorrise.

“La prima volta che lo vidi, ne sono stato terrorizzato. Ricorda così tanto mio fratello, che ho pensato, per un attimo, di rivederlo. Ma è bastato poco per rendermi conto che, nonostante il nome sia lo stesso e nonostante l’aspetto sia molto simile, sono davvero persone profondamente diverse”

Nero annuì: “Sarà felice, vivendo qua” ma non seppe dire se quelle parole si riferissero al bambino o a se stesso.

“E voi…sareste felice…tornando qui? Potreste tornare qui tutte le volte che vorrete, anche dopo la primavera…”

“E magari vi porterei del vero Balsamo di Tigre…”
”Già” sorrise Aaron “vi aspetterei ogni volta…” finì la frase in un sussurro.

“Io tornerei. Non ho mai desiderato tornare. Ma qui vorrei farlo”.

Aaron non osò guardarlo in volto, si concentrò su un sassolino per terra e non distolse lo sguardo da lì, nonostante sentisse la vicinanza dell’altro pregarlo di voltarsi. Ma anche Nero, sordo a quel richiamo, lo lasciò scorrere via.

“Vorrei tornare” ripetè.

Strinse le dita intorno a quelle di Aaron e aspettò un attimo prima di parlare di nuovo.

“E io” infine disse “che cosa posso fare per voi?”
Aaron sorrise, apertamente, con uno di quei sorrisi bellissimi che era solito fare con lui.

Che cosa poteva fare?

Nella mente di Aaron s’accavallarono così tanti pensieri che si dovette mordere il labbro per non dare voce ad ognuno.

Aveva le guance in fiamme e il cuore che gli batteva troppo forte, ma ciononostante riuscì a dire la cosa più innocua, ma al contempo una delle più importanti, che aveva desiderio di chiedere:

“Ditemi il vostro nome”

Non si pentì d’averlo chiesto, benché si accorse che Nero si era irrigidito. Notò un leggero tremore del viso e un velo opaco oscurare i suoi occhi, quasi Nero stesse lottando con se stesso per non gridare.

“Perché volete saperlo?”

“Per conoscere quello che c’era prima” disse onestamente “So bene che il sapere il vostro nome non significa niente, adesso. E neanche significa che io conosca ciò che è stato. Ma significherebbe fiducia…”

Nero scosse la testa, e Aaron ebbe la sensazione che gli stesse dando torto.

“Pensate che questo possa essere il posto giusto per William?” chiese, cambiando discorso.

Aaron trasalì, avrebbe preferito un no secco, piuttosto che essere ignorato. Ma non si sentì di condannare Nero. Forse davvero, aveva chiesto troppo.

“Non lo so” disse in un sussurro “Mi piacerebbe lo fosse…”
”Vi piacerebbe per voi stesso o per lui?” rispose freddo Nero e Aaron lasciò che le sue parole lo ferissero terribilmente.

“Che cosa intendete..?”
”Lo fareste per egoismo o per altruismo?”

Aaron cercò di nuovo di capire, rifiutando l’idea che Nero stesse volontariamente offendendolo.

“Mi chiedo se non stiate semplicemente cercando un sostituto”

Aaron sgranò gli occhi, che si seccarono, così come la sua bocca, colti da un’emozione violenta di rifiuto.

Non aveva posto protezione, non s’era preoccupato di difendersi, e quelle parole affondarono nel suo animo con facilità.

Venne scosso da un brivido.

Qualunque lato si lasci esposto, prima o poi verrà qualcuno a ferirlo. 

Tentò di alzarsi, voleva andarsene, avrebbe voluto gridare in faccia a quell’uomo tutto il nulla che con una frase era riuscito a creare nella sua mente. Perché? Voleva sapere.

Ma Nero non gli permise di alzarsi e con un dito non gli permise neanche di dire niente. Glielo appoggiò sulle labbra, premendolo leggermente.  Aaron non pose nessuna resistenza.

Lo guardava con occhi feriti e cercava di capire. Per aver chiesto ciò che avrebbe dovuto essere dimenticato? Per aver osato chiedere il suo nome, Nero aveva deciso di punirlo così?

Nero spostò il dito dalle labbra al viso, tracciando leggermente una linea immaginaria che percorreva le guance prima, il bordo del mento poi.

Dopo non fu più sufficiente un solo dito e con tutta la mano gli accarezzò di nuovo la guancia, sistemandogli i capelli dietro l’orecchio e lasciando che questi s’intrecciassero con le sue dita.

Che fare?

Aaron non lo sapeva, ma non oppose la minima resistenza a quel tocco così delicato che pareva portargli via l’amarezza di poco prima e lasciargli solo passione.

Nero gli era così vicino che fu colto dal panico. Afferrò con forza i capelli dietro la nuca dell’altro e li strinse. Li strinse forte, ma il cavaliere sembrò non accorgersene. Aaron aveva bisogno di avere un qualche controllo su quello che stava accadendo, ma nonostante la presa, sentì il viso di Nero avvicinarsi al suo, fino a percepire il suo respiro direttamente sulla pelle.

Aaron stava perdendo il senno e non capiva. Era così inebriato da quell’alito caldo che avrebbe perdonato qualunque cosa a colui che un attimo prima l’aveva offeso.

Ma lo stesso non capiva perché l’avesse fatto.

Nero riportò la mano sulle labbra del biondo e ne disegnò la linea morbida.

Appoggiò la fronte a quella dell’altro.

Cercò di dire qualcosa, ma la sua voce si spezzò prima  ed indugiò ancora sul quelle labbra.

Non poteva più salvarli Aaron, che con una mano fra i capelli del cavaliere e l’altra fra le sue dita non vedeva una via di fuga se non su quelle labbra che gli respiravano addosso.

“Io…” sussurrò Nero con voce rotta “mi fido di voi” e così dicendo fece scorrere le sue labbra sulla guancia di Aaron. Un semplice palliativo ad una necessità disarmante.

Questi trattenne il respiro. Non esisteva nient’altro se non quell’unico punto sfiorato dall’altro.

L’amarezza provata poco prima era stata disciolta dalle sue parole.

Nero accarezzò la guancia di Aaron con la bocca, sfiorandola semplicemente e poi nascose il viso nel collo dell’altro, fra quei capelli d’oro, salvo agli occhi di Dio ma ormai inevitabilmente naufrago.

“Nathaniel[1]" bisbigliò.

E per un istante ebbe paura di quel nome. Ma poi Aaron lo cinse con le braccia, stringendolo a sé e nascondendolo in quell’abbraccio.

Per un uomo così poteva barattare l’anima.

 

***

[1] Quand'è possibile cerco di evitare le note esplicative, tuttavia non penso che molti conoscano il significato dei vari nomi. Mi sono ripromessa di scrivere da qualche parte sul sito le etimologie, il perchè ho scelto un nome invece che un altro ecc... Per ora vi basti sapere che Aaron vuol dire "L'illuminato" e Nathaniel "dono di Dio". Mi sembrano entrambi abbastanza esplicativi ^_^ Dicembre

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Capitolo 20
*** 20. Di noi ***


In effetti Aaron e Nero sono un tantino esasperanti XD Ma dovete anche capirmi, era un po' più inesperta da una parte e - soprattutto - il mio intento era proprio quello di creare una trama  in cui i protagonisti non osano nemmeno sfiorarsi, perchè vivono in un mondo troppo fragile... Sì, ovviamente non sarà, per sempre, così. altrimenti mi meriterei la gogna XD

Capitolo Venti 

- Di noi -

 

 

Prima di uscire dalla propria stanza, Luppolo si guardò intorno, come se stesse vedendo quell’ambiente per la prima volta.

S’era spezzato qualcosa in lui, l’equilibrio che aveva trovato s’era rivelato troppo fragile ed era andato in frantumi. E questo non andava bene. Era imbarazzato e arrabbiato con se stesso per aver pianto per niente, come solo uno sciocco avrebbe fatto. Era irritato per non essere stato in grado di ricostruire la serenità che aveva prima di quel bacio.

Lo maledisse. S’augurò di non averlo mai dato e, sottovoce, imprecò anche contro Cencio, con un moto di stizza ingiustificato.

Era successo tutto troppo velocemente e Luppolo s’era trovato spiazzato.

Picchiò un pugno sul muro.

Quale follia l’aveva colto per chiedere a Cencio un bacio?

Ora, la stabilità di cui tanto andava fiero s’era dissolta, ma si ripromise di ricrearla e riottenerla subito.

Niente più sogni, niente più desideri, ma soprattutto niente più lacrime.

 

 

La tavola era imbandita, c’era frutta fresca nel centro, uva nera traboccava dalle fruttiere, noci e nocciole adornavano i vasi e ghirlande di fichi circondavano i candelabri fra le composizioni floreali.

C’erano maialini al latte ricoperti di crema, frittelle in pastella alla panna e mirtilli pestati, c’era vino del sud e la birra del convento di Saint George.

Cencio non poteva credere ai propri occhi.

“In tutta la mia vita, non avrei mai creduto di vedere così tanto cibo tutto insieme!”

“Cencio, ricordati che devono mangiare tutti…”
”Ce n’è così tanto!”
”Se non ti freno, so che potresti ingurgitare metà delle pietanze sulla tavola”
”Ohhh” continuò Cencio estasiato “guarda cosa arriva!”

Vennero portati altri vassoi.

“Zuppa di cardo con uova e polpettine, mele ripiene… Luppolo, sono morto e sono in paradiso?”

“Cencio, mi raccomando, non mi far fare figuracce!”

Tutti gli invitati si sedettero a tavola, per la cena della notte di Santa Lucia, ma neanche in quell’occasione Lord Thurlow uscì dalle proprie stanze.

“Padre non scenderà neanche stasera” disse Aaron a sua sorella, che scrollò le spalle

“Me l’aspettavo” rispose Lady Davida “ho cercato di andare nelle sue stanze a trovarlo, ma non m’ha lasciato entrare”

“Ormai non esce più, non vuole più vedere nessuno se non la sua cameriera personale…”
”Non so come tu possa sopportarlo. Io sono così grata alla sorte per avermi spinto lontano da qui!” aggiunse in tono melodrammatico allargando le braccia.

“Qualcuno dovrà pur prendersi cura di lui” ribatté Aaron senza troppa cattiveria. Conosceva bene la sorella e non s’aspettava che provasse compassione per un vecchio malato.

“Sarà…” rispose difatti lei “Ma trovo davvero insopportabile che sia così scortese da non ricevere né me né i suoi nipoti, dopo così tanto tempo che non ci vede.”

“Da poco ha ripreso a mangiare da solo, senza necessità che qualcuno insista tutto il giorno…”

“Non dovrebbe riguardarci se non mangia. Penso che sbagli a preoccupartene così tanto. Se davvero ha fame, mangerà. Così la smette di fare inutili capricci da bambino…”
Aaron sospirò e si sedette a quello che, una volta, era il posto del padre.

“In questi giorni ti esorto però a ritornare da lui. Sono sicuro che sarà felice di rivedere William…”

Gli ospiti presero posto, intorno alla tavola. Forgia ancora debole per la ferita, aveva però insistito per esserci anche lui.

Appariva pallido, ma si stava rimettendo in forze. Di fianco a lui aveva preso posto Nero: era preoccupato per l’amico, ma Forgia aveva così tanto insistito per partecipar anche lui alla cena, che aveva dovuto acconsentire. Cencio aveva fatto notare che Forgia aveva l’atteggiamento di un bambino coi genitori, ma Nero aveva preferito non dar troppo peso a questa sensazione che anche lui aveva provato.
L’italiano aveva ragione, questo continuo dipendere dall’opinione, dalla parola di Nero, doveva per forza di cose, pesare sull’animo del cavaliere. Cencio, però, s’era sempre stupito di come  il suo capo sembrasse non soffrirne più di tanto. Ma si chiese se ciò fosse realtà o semplice finzione. Lì, fra la tavola imbandita, fra gli sconosciuti, ebbe la netta sensazione che Nero fosse totalmente padrone della situazione, a suo agio nonostante Forgia fosse per lui un paziente da accudire.

Cencio passò gli occhi su Chiaro prima, e Luppolo dopo.

Il primo guardava con occhi interessati una delle cameriere che ancheggiavano inconsapevolmente vicino a lui, ciononostante continuava a girare lo sguardo verso Nero. Sembrava quasi volesse essere consapevole in ogni momento di quello che il Nero stava facendo. Chiaro era così, Cencio lo sapeva: ossessionato dal fratello che ai suoi occhi lo rifiutava, che agli occhi di tutti gli altri, invece, voleva semplicemente vivere la vita secondo le proprie regole.

Personalmente non aveva nulla contro Chiaro. Però non poteva negare che fosse l’unico che non si fosse ben amalgamato col gruppo, nonostante vi appartenesse da tanto…

Cencio si fermò su questo pensiero. Già, esisteva da tanto, ed era l’unica sua famiglia e la sua casa. Ovunque Nero fosse, lui si trovava bene. E poi c’era Luppolo, seduto lì di fianco a lui, coi sui capelli mossi biondo arancio che lo facevano sorridere ogni volta che voleva prenderlo in giro, quella pelle rosa così chiara…Avvicinò il suo braccio a quello dell’amico.

Luppolo si girò corrugando la fronte.

“Siamo proprio diversi eh?” disse riferendosi alla tonalità della loro pelle.

“Perché ci stai pensando ora?”

Cencio si strinse nelle spalle

“Pensavo che fosse bello stare qui, a tavola, con voi, con Lord Aaron, una sera d’inverno. E’ un peccato che Guardia e Levante siano lontani. Da quant’è che non sentivi questa sensazione di calore e d’intimità, Luppolo?”
”E questo cosa c’entra con la tonalità della tua pelle?”
”Siamo tutti così diversi, eppure guardaci…” disse osservandosi intorno. Tutti, anche Lord Hamill e sua moglie, insieme con William che era stato ammesso per la prima volta al tavolo degli adulti, sembravano perfettamente a loro agio.

Luppolo sorrise “Stai bene qui, vero?”
Cencio annuì convinto “Sto benissimo” e non sembra sia l’unico, avrebbe voluto aggiungere, ma preferì tacere di avere notato un lieve sorriso increspare le labbra di Nero, in direzione del Lord a capotavola. Cencio non capì cosa ci fosse in quel sorriso - non aveva gli elementi per intuire i significati, le parole omesse - ma non se lo lasciò sfuggire.

 

S’era ripromesso di non guardare nella sua direzione troppe volte, aveva il terrore che i suoi ospiti potessero intuire, con un solo sguardo, tutto l’amore che provava per quell’uomo, tuttavia Aaron continuava a cedere. Anche solo per un attimo. Sembrava che i suoi occhi non sottostessero al suo controllo e si girassero a guardarlo.

Quando i loro sguardi si incrociarono ed un sorriso fantasma apparve sulle labbra di Nero, fece fatica a non sorridere a sua volta ed arrossire.

Ma l’insistere della sorella sul comportamento del padre e il suo continuo lamentarsi per le parole che William cercava di scambiare con lei, lo distrassero a sufficienza.

“Non so come tu faccia a badare a tutto, la servitù, le miniere di stagno, le terre… Questo è un lavoro che dovresti fare con tua moglie!”

Di nuovo, Davida non perdeva mai occasione per rimarcare il fatto che Aaron avesse rifiutato troppe delle donne che avrebbero potuto diventare le signore di quel castello – tutte rigorosamente indicate da lei quando viveva al castello Thurlow, o comunque inviate da Suffolk, nonostante Aaron le avesse più volte detto che non aveva bisogno di un aiuto esterno per trovare moglie.

Evidentemente Davida non era dello stesso avviso.

“La figlia di Lord Murray, è una donna deliziosa, per esempio. Pensavo di portarla con me, ma poi ha preferito trascorrere…”

Ma Aaron la interruppe con un gesto della mano, e la zittì.

“Basta, te ne prego, non ho voglia di ascoltare di donne adatte, o presunte tali, ad assumere le responsabilità del castello. Non è affar tuo decidere come e chi vivrà in queste terre” disse freddamente il fratello e lei, indispettita, abbassò lo sguardo com’era suo dovere fare e si strinse le vesti fra i pugni, per quel rimprovero.

“Su, su” disse bonariamente Lord Hamill “sono certo che è solo perché è troppo pignolo, che Lord Aaron non ha ancora una bella moglie da ingravidare e non ha ancora riempito questi prati di bambini”

L’animo del Lord a capotavola era troppo raffinato per trovare dell’ironia nel commento dell’ospite, ma ugualmente educato per non farlo sentire a proprio agio. Sorrise, in direzione di Lord Hamill, sperando che questi non portasse aventi quel discorso.

Ad intrattenere gli ospiti erano anche stati chiamati dei musicanti che, a metà della cena, cominciarono a suonare e a cantare.

 

Cencio aveva ragione, era un’atmosfera così insolita per loro, cercò godersela, temendo di poterla sottovalutare e dimenticare presto.

“Luppolo, pensi che anche noi, un giorno, potremo vivere così”

“Vuoi lasciare tutto quanto ed accasarti?”
”Non adesso, no. Però mi chiedevo se, in futuro, potrà esserci qualcosa di simile anche per noi…”

Luppolo si strinse nelle spalle: “Non so quando tornerò in Scozia, ma sono sicuro che prima o poi lo farò. E lì, non so… vorrei riposarmi e vivere dei soldi che abbiamo ora, una vita tranquilla… Non avrò niente di così sfarzoso” disse indicando il salone “Ma andrà bene lo stesso.”
”E io? Io cosa farò?”
Luppolo sorrise.

“Ma come, a soli vent’anni già ti senti vecchio a sufficienza per parlare di cosa farai?”

Cencio aggrottò la fronte “Ci penso raramente, devo ammetterlo. Ho troppe cose da fare adesso per perdermi in malinconie inutili. Ma questa sera, quest’atmosfera, mi provoca una nostalgia di qualcosa che non ho mai avuto.” Si fermò un istante a guardare gli invitati e sorrise “Devi sempre prendere in considerazione che sono uno con l’aria in testa, non puoi aspettarti dei ragionamenti pieni di senno” sorrise, per stemperare quell’improvvisa tristezza che s’era impadronita di lui.

Luppolo strinse le labbra per  modulare perfettamente il suo tono. Non sopportava di vedere Cencio triste.

“Beh, non mi preoccuperei se fossi in te, comunque tu verrai con me” aggiunse semplicemente, col tono abile di chi sta dicendo una cosa importante, ma la vuole fare apparire come un pensiero appena sopraggiunto.

“Con te? Ma non ti lamenti sempre della mia presenza inopportuna?”
”Nutro speranze che, crescendo, imparerai a comportarti come s’addice ad un adulto. Altrimenti, se quando arriveremo in Scozia continuerai ad essere il moccioso di sempre, non ci saranno problemi…”
Cencio aggrottò la fronte non capendo e Luppolo continuò.

“Ti affogherò in uno dei laghi delle highlands.”

L’italiano scoppiò a ridere:“Allora verrò di certo!”

 

Luppolo sorrise, contento di riuscire a ricostruire l’armonia persa la notte prima.

 

Anche Chiaro si stava divertendo. Quella serata gli ricordava casa propria, quando da bambino era stato, finalmente, ammesso alla tavola degli adulti. Nero non c’era, ma non ricordò esattamente il perché. Il rapporto di parentela fra Nero e lui, così come quello fra Nero e i suoi genitori non era ben noto a Chiaro. Era suo fratellastro, e da quel che aveva sempre saputo condividevano lo stesso padre. Poi, una volta morta la madre di Nero questi se n’era preso cura come un figlio proprio, insegnandoli le lettere e le armi, senza lesinare né mezzi né tanto meno affetto. Aveva provato a chiedere una volta a Nero che cosa avesse generato tanto astio nei confronti di quella casa, ma il fratello non aveva risposto, lasciando cadere l’argomento e facendo intendere che non aveva intenzione di riprenderlo in mano.

A vederlo lì, ad ascoltare musica e a parlare con gli altri invitati, Nero gli parve ancora quello di un tempo, spensierato e allegro come solo lui poteva ricordarselo.
Non era stato per nulla felice quando s’era deciso di rimanere al castello Thurlow, tuttavia ora non poteva non ammettere che era stata la decisione più saggia da prendere. Forgia s’era ripreso, nonostante la ferita alla sua spalla facesse presagire il peggio, e Nero pareva finalmente più sereno, nonostante le loro discussioni non fossero diminuite.

“Voi dovete essere Chiaro”.

Il cavaliere si girò e, per un istante, ebbe l’impressione che a parlare fosse stato Lord Aaron, poi però riconobbe il piccolo William.

“Sì, sono io” gli sorrise

“Sono veramente onorato di fare la vostra conoscenza” disse con entusiasmo “Ho sentito dire che siete il fratello di Nero. Penso che abbiate scelto un bellissimo soprannome!”

“Cosa intendi?”

“Josephine m’ha spiegato che tutti voi ormai avete abbandonato i vostri nomi natali. Scegliere un soprannome in netta contrapposizione a quello del fratello mi sembra una scelta davvero bella.”
Chiaro si stupì.

“E chi ti ha detto che sono stato io a sceglierlo?”

William aggrottò la fronte.

“Non è forse vero? Da quello che m’ha detto Cencio m’era parso di capire così…”

Chiaro imprecò silenziosamente contro il compagno, ma rise al ragazzino.

“E’ così, ma devo ammettere che è stato casuale, più che voluto” Chiaro non voleva assolutamente spiegare a William il perché avesse scelto quel nome, quindi deviò il discorso per dissuadere il ragazzo dal curiosare ulteriormente, “E se fossi tu, quale nome sceglieresti?”
William ci pensò un pochino “Non saprei” disse “lo farei probabilmente scegliere a mio zio. Lui certamente ne troverebbe uno appropriato”.

Chiaro sentì un profondo dolore allo stomaco: la frase lo infastidì così tanto che fu incredibilmente grato a Lady Davida quando questa richiamò il figlio. Non riuscì a capire esattamente che cosa l’avesse irritato e non ammise potesse essere invidia. Persino Lord Aaron, un uomo senza qualità militari, storpio e fragile, aveva una persona che pendeva completamente dalle sue labbra. Perché un uomo così riusciva, dove lui falliva da sempre?
Sospirò, cercando di allontanare quella brutta sensazione e si lasciò coinvolgere dalla musica e dalle danzatrici.

 

Nero guardava i suoi compagni rilassarsi, finalmente a loro agio fra quelle mura estranee.

Sorrise.

Per lui non c’era nulla di estraneo, gli sembrava di vivere lì da sempre e mai come in quel momento stava bene.

Di nuovo, sorrise. Sapeva che sarebbe dovuto rimanere seduto lì, a fare conversazione, ma aveva tutt’altro in mente ed una frenesia che non riusciva a controllare. Posò gli occhi sull’unica persona con la quale voleva stare in quel momento: niente stanze affollate, niente danzatrici, solo lui. Aveva una veste arabescata blu notte su cui i capelli risplendevano, quasi fossero illuminati…

Qualcosa nella sua coscienza gli ricordò quanto in realtà fosse sbagliato anche solo desiderare, ma lui prepotentemente la scansò.

Doveva scegliere, era di fronte ad un bivio e ancora una volta, come mille nel suo passato, doveva scegliere che cosa fare.

Era così stanco di scegliere, così stanco di essere obbligato a rinunciare a qualcosa per qualcos’altro che si ritrovò esasperato, senza che in realtà avesse ancora scelto nulla. Ma il suo passato era lì, a bussare alla sua mente, ed era impossibile dimenticare le tante, le troppe volte in cui era stato obbligato a scegliere.

Ora aveva la possibilità di scegliere liberamente, però, senza costrizione: semplicemente scegliere quello che voleva fare.

Esitò, perché sapeva che, intrapresa una strada, non c’era la possibilità di tornare indietro, ma durò un attimo. Gli bastò riguardarlo per sapere esattamente cosa volesse e come ottenerlo.

Avrebbe scelto anche questa volta. Si chiese se Dio lo stesse mettendo alla prova o se semplicemente il destino si stesse burlando di lui.

Non era importante. La foga che l’aveva colto non gli permise nessuna esitazione. Sapeva che l’alzarsi da quella sedia sarebbe stato un gesto definitivo e assoluto.

L’avrebbe fatto per l’unico uomo a cui aveva mai rivelato il proprio nome.

 

Si alzò di scatto e s’avvicinò a Luppolo bisbigliandogli qualcosa. Lo scozzese annuì, Chiaro aspettò che Nero rivolgesse anche a lui la parola, per spiegare che cosa stesse succedendo, ma questi non lo fece e, semplicemente, salutò tutti gli invitati.

“Mi scuso, signori, ma devo prendere congedo” e così dicendo, indicò Cleto che era in stanza con loro. Il falco immediatamente spiccò il volo e ne uscì, mentre gli altri invitati annuirono fingendo di capire l’importanza di quel dialogo sordo fra Nero e Cleto.

“Conosco quello sguardo” disse con immodestia Lady Davida “mio fratello l’ha sul suo viso troppe volte quando parla con le sue bestie e racconta loro segreti a noi ignoti. Ho sentito che anche voi riuscire a comunicare con loro”.
Nero annuì “Sì, è un dono che ho sin da piccolo” s’inchinò “Scusatemi di nuovo, a domani mattina” e così dicendo seguì Cleto che lo stava ad aspettare fuori dal salone.

“Prometto che non mi lamenterò mai più di conoscere l’unico falco di tutt’Inghilterra che preferisce il tepore di una stanza al volare nei cieli notturni” disse prendendo in giro l’amico. Affrettò il passo, troppo impaziente per rimanere calmo.

 

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Capitolo 21
*** 21. Mio ***


Rieccoci qui. ^_^ Grazie mille per le bellissime recensioni, vi giuro che un pochino mi sono commossa *_*  Birra per tutti?

Dunque, per venire a noi. emerald, la struttura della storia è fatta per essere stressante. Figurati che quando la stavo scrivendo, ad un certo punto (esasperata io stessa), stavo lanciando baracca, burattini, aarone Nero fuori dalla finestra °_° A volte, quei due, ti tirano fuori gli insulti ._. Ti capisco benissimo
Cicoria (bellissimo nickname *_*) benvenuta! Sono felice che liberaci dal Male ti piaccia. 20 capitoli in una notte sono tantissimi °_° Ma come hai fatto? Ti ammiro per la perseveranza! L'atmosfera... L'atmosfera è ovattata, ma (piccolissimo spoiler) cambierà. Volevo dare la sensazione che "quel mondo" fosse in realtà lontano dallo spazio e dal tempo...Baci, spero di risentirti ^^
BiGi: Spero che questo capitolo ti piaccia, ci tengo proprio (anche se il mio preferito rimane il 19 XD)
Ayay: benvenuta(o?)! ah, l'intrigo della long-fic, ti capisco perchè anch'io le temo sempre. Le preferisco (le long-fic), ma poi ho paura che non finiscano/tardino ad uscire/mi prendano troppo tempo... Etc. Se può essere di consolazione, Liberaci dal male è sì una long fic, ma è già finita (l'ho scritta un paio di anni fa), perciò non c'è la possibilità che non finisca e gli aggiornamenti saranno (abbastanza) veloci. Dipende un po' dalla mia sorte che mi rema inevitabilmente contro (computer che si rompe, lavoro che mi chiama, il capo che impazzisce e cose varie °_°), ma ho tutti i capitoli con me. spero quindi di risentirti ^^
Stateira, cara *_* Che gioia risentirti. In quanto ad eresia, mi sa che andiamo a braccetto. del resto, nei capitoli successivi inizierò a sfogare le mie frustrazioni yoai-religio-sociali ahahaha un bacione

Capitolo Ventuno

- Mio -

 

 

Sapeva che era lì, ma non riusciva a scorgerlo. Ormai era così abituato a percepire la sua presenza, che non aveva dubbi sul fatto che fosse nella sua stessa stanza, però non lo vedeva.

Aveva lasciato i propri ospiti alla musica: l’aveva chiamato suo padre e lui era corso a vedere cosa fosse successo – suo padre che lo chiamava così poche volte…

Ma ora era in biblioteca, perché un falco gli aveva chiesto di andare… si sentiva un bambino agitato ad un appuntamento segreto. Aveva la bocca asciutta e percepiva il cuore nel petto, nonostante il battito non fosse accelerato.

Anche lui pareva in attesa.

 

“Siete fin troppo bravo a nascondervi per una persona come me che non sa cercare” sospirò poi arrendendosi all’evidenza che non l’avrebbe mai scovato guardandosi semplicemente intorno.

Nero sorrise. Sarebbe rimasto lì a guardarlo per ore, ma gli si avvicinò velocemente, prendendogli una mano:

“Dovevo farvi uscire di lì”

“E l’avete fatto piuttosto bene, mi pare…”

“Dispiaciuto?”
”Per niente” scosse i capelli biondi “per quanto mi piaccia ascoltare musica in compagnia, Davida ogni anno che la vedo diventa più invadente e fatico a non discutere con lei…”

“E dirvi cosa fare quando lei non è mai presente?”
”Già” sorrise Aaron “niente di nuovo, a quanto pare”.

Poi guardò la mano in quella di Nero: “Perché m’avete chiamato qui?” bisbigliò.

Tremò di paura al pensiero di quanto intenso fosse il suo desiderio di rimanere lì.

“Non sono certo un tipo coraggioso…” si schernì, imbarazzato

“Volevo ballare con voi”

Aaron aggrottò la fronte e Nero trattenne un sorriso misto fra l’imbarazzo e lo sfrontato. E quindi ripeté.

“Volevo ballare con voi. Da quando è iniziata la cena, non ho pensato ad altro”

 “Ballare…” a nessuno dei due sfuggiva quanto anche un semplice ballo volesse dire, in quella stanza. Si ballava con la propria compagna, si ballava con la propria moglie. Il ballo non poteva essere dedicato a nessun altro: aveva un significato preciso.

Aaron esitò, guardando la mano che sorreggeva il bastone, ma Nero non gli diede il tempo di pensare, perché la prese, sollevandola verso la sua spalla e lasciando che il bastone cadesse per terra.

“Sorreggetevi a me”.

Il rumore del bastone caduto non venne sentito.

Il respiro pesante di entrambi non venne sentito.

Solo la musica flebile attraverso le mura, attenuata dalla distanza, risuonava in quella stanza.

Per un attimo Aaron provò un enorme imbarazzo, per non essere in grado di reggersi saldamente in piedi da solo, ma poi Nero gli passò una braccio intorno alla vita , permettendogli di appoggiarsi meglio alla sua spalla e l’imbarazzo fu dimenticato. Era una posizione insolita per una danza, sebbene Aaron non ballasse quasi mai era stato educato, lui come Nero, a condurre. Ma quella posizione non permetteva a nessuno dei due di farlo.

Nero trovò irresistibile l’imbarazzo di Aaron che lo strinse ulteriormente, con un sorriso malizioso.

“Vi diverte molto il mio imbarazzo, vero?”
”Moltissimo, devo ammetterlo”
Ma nello sguardo di Nero, Aaron non vide scherno né derisione Lo guardava, invece, quasi fosse bellissimo, con quegli occhi scuri che, nella penombra, un po’ lo dominavano e un po’ gli chiedevano di non allontanarlo da sé.

E allora lasciò andare l’imbarazzo, la paura e pensò che l’unica cosa che voleva fare in quel momento era ballare fra le braccia di Nero che lo sorreggevano.

Accostò il viso alla sua spalla e chiuse gli occhi, permettendo a Nero di cominciare.

Non poteva guardarlo in faccia perché altrimenti sarebbe andato in confusione, si sarebbe fermato e gli avrebbe chiesto di stringerlo più forte, di non badare a ciò che sapeva essere giusto, ma di accettarlo per come era. Gli avrebbe chiesto di amarlo, così come lui lo amava, nonostante fosse un prescelto di Dio. Nonostante fosse un uomo.

Preferì quindi non guardarlo negli occhi e nascose il viso nella sua spalla, lasciando che i suoi capelli scorressero sopra di essa e l’accarezzassero.

Erano stretti l’uno all’altro, ma erano circondati da un mondo di cristallo che, appena qualcuno di loro si fosse mosso, si sarebbe inevitabilmente rotto. C’era solo un abbraccio, non poteva esserci di più.

Ma Nero non  poteva lasciar scorrere via il momento, era troppo importante per permettersi di guardarlo allontanarsi. E quella persona fra le sue braccia era così perfetta e così penetrata nel suo profondo, che ormai non aveva senso cercare di negarlo.

“Volete…” ma non riuscì a tenere la voce ferma come avrebbe voluto, e si corresse “Vuoi che non dica niente?”

Il tono così confidenziale e le voce sussurrata vicino all’orecchie  bruciavano sulla pelle di Aaron, il suo viso andò in fiamme, ma non si spostò dal suo nascondiglio sicuro.

“Che cosa vuoi dire?”

“Qualunque cosa. Vorrei chiederti e sapere…vorrei tacere e…”
Esitò.

“E?”

 “Ti vorrei per me” gli disse affondando le mani nei suoi capelli morbidissimi e lasciandoseli scorrere fra le dita.

“Ti vorrei mio. Ma …” e di nuovo esitò, giocando coi fili d’oro dell’altro e cercando lì le parole “…ma ho paura. E no…” sorrise anticipando la domanda di Aaron “non ho la tua stessa paura…” temeva che la voce lo abbandonasse, che perdesse completamente il controllo dei suoi sensi.

Era stato lui a volere Aaron lì, fra le sue braccia, e ora era terrorizzato che le sue mani fossero vetro opaco e che offuscassero la luce dell’altro.

“Se tu potessi vederti” gli sussurrò quasi esasperato “Se solo potessi vederti coi miei occhi, capiresti il vero perché del mio tentennare. La gloria in cui cammini è così luminosa che il solo pensiero di poterla intaccare mi fa esitare: la offuscherei.

Al contempo, però, vorrei impedire al mondo di vederla perché dev’essere solo mia.

Con le mie mani rischierei di privartene….eppure è così bella su di te! Forse è davvero la luce di Dio. Ciononostante, io ti voglio per me”

Aaron si strinse ancora di più e non rispose.

 Nero non s’aspettava nessun tipo di risposta, ma l’aver messo in parole il suo pensiero non aveva fatto altro che fomentare il suo desiderio. Voleva quel sorriso, voleva quell’odore, voleva quella voce, voleva quelle mani.

Voleva tutto, solo per sé.

Aaron sollevò il viso e guardò finalmente negli occhi Nero.

“Io ti proteggerei”
Nero sorrise “Io, tu, non cambierebbe nulla”
”Ma…” Aaron cercò di obiettare, ma Nero lo interruppe, dolcemente.

“Sarei perduto anch’io, ma non m’importa”.
Nero sorrise e scosse la testa. I suoi capelli ondeggiarono con lui, quasi ad enfatizzare il suo gesto e Aaron gli accarezzò il viso cercando di capire.

“Perché non esiste modo per sottrarmi a me stesso. Né adesso né in passato”

“In passato?”
Nero annuì: “Per oppormi a ciò che mi circondava, l’unica soluzione che allora trovai fu quella di andarmene.” Sospirò “Ma non voglio fare lo stesso con te. Un nome posso perderlo,”gli spiegò sistemandogli i capelli dietro l’orecchio “non posso perdere te”.

 “Tu hai un nome” Aaron gli sorrise dolcemente “è diventato tuo nel momento in cui ti è stato dato”.

“Vorrei che fosse così facile…Ma …Non riesco…” rispose Nero con voce strozzata.
Aaron gli accarezzò la guancia con un dito, percependo un leggero tremore. “Non importa, qualunque nome tu voglia, va bene. E se pensi che lasciarti alle spalle il tuo sia la cosa giusta da fare, allora lo è”

Quel tono era così rassicurante che Nero gli credette e, per la prima volta dopo anni, non provò astio per il suo nome.

 

La musica suonava ancora fra le pareti, e per un instante ritornò padrona di quelle mura.

“Ma perché Nero?” In quell’abbraccio avvolgente, Aaron si sentiva così bene da osare una domanda così.

Nero rise, prendendo una ciocca di capelli di Aaron fra le mani e portandosela al viso

“Sanno di acqua di sorgente” sussurrò

Aaron lo guardò incredulo “L’acqua di sorgente non ha un odore…” e rise, per l’ovvietà appena detta.

“Cielo, adoro farvi ridere” disse Nero con slancio, dopo che il corso dei suoi pensieri era stato interrotto da quel gesto fin troppo bello per non rimanerne incantato.

Aaron avvampò e si morse le labbra, per non sorridere ulteriormente per la felicità.

“ …e anche farvi arrossire”

Aaron cercò rifugio ancora fra la spalla e il collo di Nero, per nascondere  il suo volto che, ormai ne era certo, era in fiamme per l’imbarazzo. O forse per la gioia. O forse per quell’uomo che lo stava facendo impazzire ma che lo teneva stretto vicino a sé.

“Ho scelto Nero” spiegò il cavaliere “in realtà per un motivo piuttosto banale. La cuoca del castello di Chiaro era solita raccontarmi una leggenda, quand’ero piccolo. Mi raccontava che dalle sue parti, nel nord dell’Inghilterra, vicino a dove abitava quand’era piccola, c’era un bosco così fitto che mai nessun umano era riuscito ad attraversarlo. Si diceva che chiunque avesse tentato di camminare fra quegli alberi, sarebbe stato aggredito da un’ombra nera che divorava le anime e non le consegnava a Dio, quando il corpo moriva. Quand’ero piccolo ero un bambino molto impressionabile, e ho sempre avuto il terrore che quest’ombra nera potesse voler la mia anima…” Rise “Non importa quante volte mi sia stato detto che non poteva né raggiungermi, né trovarmi, io m’ero convinto che prima o poi me la sarei trovata di fronte.”

Aaron annuì “E’ una leggenda pagana del nord. Molti frati hanno tentato di estirpare le antiche credenze, ma alcune rimangono più a lungo”

“Questa poi “aggiunse Nero “Implicava che Dio non potesse prendere ciò che gli appartiene, dopo la morte…” scosse la testa, ricordando “Quando vennero a sapere che credevo davvero che l’ombra m’avrebbe mangiato l’anima, m’hanno rinchiuso nelle segrete del castello a pregare, senza né acqua e né cibo per quattro giorni. E con la sola compagnia di un frate che pregava con me e mangiava di fronte ai miei occhi”.

Aaron si scostò bruscamente “Rinchiuso a digiuno e senza acqua? “
Nero alzò le sopracciglia “Per purgare la mia anima”

“Quanti anni avevi?”

“Sei”

“E porti il nome di colui che ti ha chiuso lì” Il tono che Aaron utilizzò non era interrogativo, sapeva già che la risposta sarebbe stata affermativa.

Infatti Nero annuì.

“Così quando me ne sono andato ho pensato che Ombra Nera fosse un gran bel nome da bandito” rise imbarazzato dal proprio infantilismo “ma quando al porto m’hanno chiesto il nome, ho sinceramente provato impaccio per la mia idea. Nero semplicemente, m’è sembrato più appropriato”
Aaron rise di gusto.

“Non ti ho raccontato questa storia per prenderti gioco di me”disse Nero fingendo di arrabbiarsi col biondo che appariva sinceramente divertito.

“E’ un bel nome” cercò di schernirsi Aaron

Nero ebbe un sussulto che Aaron notò, ma non capì a cosa fosse dovuto

“Dillo” disse il cavaliere, d’improvviso, con voce distante.

Il biondo non capì subito, ma guardò negli occhi Nero per cercare di trovare il motivo di quel cambiamento d’umore improvviso.

“Di’ il mio nome” ripeté Nero scandendo perfettamente ogni parola.

“Nero?” bisbigliò Aaron confuso, ma il cavaliere scosse la testa.
”Dillo semplicemente”

Aaron obbedì, ripetendo quel nome sussurrato e nascosto “Nathaniel”.

E Nero sorrise come fosse il primo sorriso di una vita, con gli occhi commossi di chi, finalmente, è stato salvato.

“Tu doni armonia a ciò che non l’ha mai avuta…” E con naturalezza appoggiò le proprie labbra su quelle dell’altro “Sulle tue labbra io acquisto senso”

Aaron tentò di rispondere, ma le sue labbra tremarono, orfane.

Non era più importante cosa dovesse fare.

Non esisteva più nulla se non quel respiro su di sé.

Non esisteva più nulla se non quel tocco appena ricevuto.

Non esisteva più nulla.

Sussurrò di nuovo quel nome che si dissolse in un nuovo bacio.

Con le proprie labbra, persuase Nero ad osare di più, a richiedere quella bocca che era già sua.

I sensi di Nero furono investiti dal suo odore che conosceva così bene, forse davvero acqua di sorgente, ma solo suo. Furono investiti da quel sapore disciolto nella sua saliva, da quelle braccia intorno a lui. Investiti e persi in quel bacio infinito.

Si staccò solo un istante per riprendere fiato e per guardarlo negli occhi e per guardare quella pelle che gridava attenzione. Gli baciò la guancia e poi l’orecchio, accarezzandoglielo con la lingua e mordicchiandone il lobo.

Aaron gemette e quella voce gli impose di ritornare su quelle labbra e reclamarle di nuovo come proprie.

Solo quando Aaron lo spinse si accorse che si erano avvicinati al divano e che l’altro lo voleva sopra di sé.

Con una mano Nero spostò i capelli d Aaron baciandogli il mento e la linea immaginaria che scorre  sul collo ed arriva alla spalla.

Aaron pensò di perdere il senno, quelle labbra e quel peso sopra di sé lo stavano facendo impazzire. Quando sentì l’altro mordicchiargli la pelle, gemette ed istintivamente gli circondò la vita con una gamba per averlo il più possibile vicino.

Nero tremò a quella nuova pressione  e nascose ulteriormente il viso in quel collo, afferrando la nuca dell’altro per stringerlo a sé. Sentì una fitta alla mano a contatto con la macchia data da Dio.

“Se continuassi… Se …” Tremò e quasi gridò, per non assecondare il suo corpo.

Ma Aaron gli prese il viso e lo portò di fronte al suo, per guardare quegli occhi a cui avrebbe permesso tutto.

“Se continuassi, saresti perduto” aggiunse Nero con voce rotta. Il dolore alla mano ne era stata la prova.

Cielo, non voleva altro. Voleva quell’uomo, il suo corpo e la sua anima, ma sapeva che li avrebbe corrotti, che avrebbe affievolito quella luce che invece non avrebbe dovuto toccare. Non avrebbe potuto perdonarselo.

Aaron non disse niente: amava quell’uomo così tanto che avrebbe fatto persino qualcosa di così sbagliato. Ma sapeva che Nero avrebbe biasimato solo se stesso.

Guardò quegli occhi neri e poi lo baciò ancora, ma questa volta per suggellare una promessa di devozione.

La nostalgia di quel bacio si nascose in un abbracciò e permeò l’aria.

(continua...)

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Capitolo 22
*** 22. Fotografia ***


Capitolo Ventidue 

- Fotografia -

 

Anno del Signore 2006

 

 

Guardò per l’ultima volta nel cassetto nel quale aveva  nascosto quel foglio.

Era lì, bianchissimo, troppo candido per non suscitare timore.

Eppure era un semplice foglio che probabilmente l’avrebbe salvato.

Non c’era scritto niente sopra, però se posto in controluce, qualcosa fra le trame della carta sembrava brillare.

Alec aveva ricevuto questo foglio almeno un mese prima, non ricordava esattamente quando: era mattina presto, e stava tornando a casa dal pub dove lavorava.

Un uomo l’aveva fermato. All’inizio aveva pensato fosse qualcuno in cerca di un’avventura notturna, tuttavia dopo poche parole Alec s’era reso conto che quell’uomo lo conosceva benissimo e altrettanto bene conosceva i suoi disturbi psichici.

Tutti gli specialisti ai quali s’era rivolto non erano stato in grado di trovare una soluzione alle allucinazioni che sempre più spesso aveva, alle crisi epilettiche che a volte gli facevano perdere completamente il contatto con la realtà, o alle crisi depressive che d’improvviso gli esplodevano dentro e l’avevano portato, più volte, sull’orlo di un balcone o sulle rotaie di un treno in corsa.

S’era sempre opposto a questa realtà nella sua mente che sembrava controllarlo, ma nessuna medicina pareva d’aiuto e ora, nonostante avesse solo 25 anni, era arrivato al limite e non ce la faceva più.

Non sarebbe forse stato meglio morire, piuttosto che impazzire lentamente?

Così una sera s’era presentato quest’uomo e gli aveva parlato dei suoi sintomi, delle allucinazioni e delle crisi che aveva, con estrema precisione. Aveva detto di essere il padre di una congrega dove gli appartenenti avevano tutti i sintomi di Alec. Diceva che poteva alleviare e valorizzare quelli che lui definiva doni.

Alec non era tipo da lasciarsi convincere da un uomo che si presentava di notte, sotto la luce riflessa delle insegne dei negozi chiusi, tuttavia questa persona misteriosa gli aveva appoggiato una mano sulla fronte e aveva letteralmente proiettato al di fuori una delle visioni che più frequentemente affollavano la mente di Alec.

Il ragazzo aveva avuto l’istinto di scappare, ma c’era qualcosa di rassicurante nella voce dell’uomo, misterioso - o forse di persuasivo - per cui aveva scelto di ascoltarlo.

Lui aveva il potere di esternare ciò che intasava la mente di Alec e delle persone come lui – lo stesso ragazzo si stupì di sapere che molti altri erano afflitti dagli stessi disturbi - e in questo modo poteva alleviarne la sofferenza ed incanalarne la forza.

Queste erano state le esatte parole dell’uomo.

Alec non credeva a forze sovrannaturali o poteri mistici, ma indubbiamente l’uomo della notte aveva mostrato all’esterno ciò che solo lui poteva vedere.

Che dunque fosse veramente la persona che avrebbe potuto aiutarlo?

Quell’uomo s’era presentato come Jude Dorley, gli aveva dato il suo biglietto da visita, non aveva né fatto pressioni, né insistito. Aveva solo parlato. Tutto quello che aveva detto, però, era suonato così veritiero ed esatto alle orecchie di Alec che l’iniziale diffidenza s’era trasformata in curiosità.

L’avrebbe chiamato, questo era sicuro.

Eppure non l’aveva ancora fatto.

Spesso guardava il biglietto da visita che conservava appeso sulla lavagna in cucina; più volte aveva afferrato la cornetta deciso a chiamare il sig. Dorley. Ma tutte le volte, qualcosa l’aveva fatto desistere.

Cosa questo fosse, non era in grado di dirlo.

E poi c’era quel foglio bianco che Jude gli aveva dato… Quel foglio su cui avrebbe dovuto semplicemente apporre una firma, per entrare a fare parte anche lui della congrega ed essere finalmente liberato.

C’era qualcosa di ultraterreno in quel foglio, più Alec lo guardava e più era combattuto sul da farsi. Firmarlo? Strapparlo?

Firmare un foglio bianco era qualcosa di sciocco, Alec lo sapeva. Tuttavia Jude gli aveva detto che quel foglio era scritto, ma solo gli adepti della congrega potevano leggerlo. Aveva poi appoggiato leggermente le dita sul foglio ed effettivamente erano comparse delle parole, ma Alec non aveva fatto in tempo a leggerle.

C’era un sottile filo d’ansia che metteva Alec sull’attenti, era tutto così strano…

Un uomo, di notte, che s’era presentato come se lo conoscesse da sempre, che gli aveva mostrato ciò che nessuno mai aveva visto se non lui, che gli aveva dato la soluzione alla sua pazzia incalzante…

Era tutto così poco chiaro, che Alec aveva paura.

 

Quella mattina, però non era certo il momento di interrogarsi su di sé o sulla propria malattia: era il giorno zero dell’anno zero, così diceva lui.

Finalmente era riuscito a trovare un gallerista che avrebbe esposto le sue foto per una settimana. Era una piccola galleria ed era fuori mano, ma era già qualcosa. Il tutto grazie alla pubblicazione di una  sua foto su Freedom, un mensile per appassionati di viaggi e gite all’aperto.

Sorrise al pensiero di come, a volte,è strana la vita. Aveva mandato quella foto ad un amico di chat, qualche tempo prima, perché quella foto lo faceva piangere.

Lo faceva piangere senza un motivo: gli trasmetteva una malinconia così intensa, che ogni volta che la guardava, non poteva fare altro che piangere. Aveva imputato questo strano atteggiamento alla sua malattia, ma per confermare l’artificio della sua mente, aveva pensato di mandare quella foto a Lucky_Luci@no e vedere se anche quell’essere virtuale avrebbe avuto la sua stessa reazione.

La reazione, ovviamente, non c’era stata, ma sebbene non un sentimentale Lucky_Luci@no s’era rivelato essere il direttore grafico di Freedom. Tre mesi dopo la sua foto era sulle pagine del mensile.

 

Chiuse la porta del balcone e scese dalle scale antincendio del suo appartamento al quinto piano. Era una costruzione piuttosto modesta, nata come alloggio per i portuali e poi diventata semplicemente uno dei tanti palazzi nel quartiere dei Docks. Quelle strade erano considerate dai turisti e dalla gente “al di là del Tamigi” poco sicure, Alec le conosceva troppo bene - così come conosceva i loro abitanti - per averne paura. Guardò la palazzina prima di correre verso la metropolitana. Magari qualcosa sarebbe cambiato, magari le sue foto avrebbero avuto un po’ di successo e magari sarebbe riuscito a racimolare qualche soldo in più, per affittare un posto più dignitoso; magari Jude Dorley l’avrebbe guarito e magari sarebbe diventato una persona normale.

Forse.

Ora l’unica cosa che poteva fare era non arrivare tardi all’apertura della galleria.

 

 

Il vagone della metropolitana era semivuoto, la polvere sui rivestimenti, sembrava vagare da un posto all’altro nella vana ricerca di qualcuno a cui attaccarsi.

Alec si schiacciò contro lo schienale. Osservava le forme geometriche della moquette che scherzavano coi raggi di sole che filtravano dai finestrini. Sembravano vive. Alec si strinse nelle spalle e cercò di nascondersi in quel sedile solitario. Si augurò che il treno entrasse presto nelle gallerie metropolitane.

Il ritmo regolare del treno lo calmava, tuttavia l’aria densa e l’agitazione per la sua prima mostra gli facevano sudare le mani. Non aveva con sé nessuna delle pillole che erano solo un palliativo, ma avrebbe voluto prenderne un paio, nella speranza che, quella volte, la sua mente non giocasse brutti scherzi quando doveva rimanere attenta e vigile.

Ad una fermata entrò una signora con un cagnolino fra le braccia.

Povera bestia, pensò Alec, così infiocchettato non poteva di certo essere a proprio agio.

Il cane annuì, ma Alec non ci fece caso. Ormai sapeva che le voci che sentiva nella sua testa erano solo un brutto scherzo, niente di reale.

Nessun cane poteva parlare, di questo era stato convinto da piccolo, come del resto, era stato convinto che tutto fosse causato dalla sia malattia. Schizofrenia latente l’avevano chiamata, e prima che Jude Dorley le avesse trovato un nome più appropriato, Alec s’era sentito uno schizofrenico…

Riguardò il cane, che parve fissarlo e sottolineare nuovamente il suo disappunto.

Era tutto nella sua testa! Fra quei capelli biondi e lisci… era solo malato.

Alec s’alzò di scatto: era mattina troppo presto per cominciare a preoccuparsi, ad avere paura…ma non riuscì a trattenersi, appena il treno si fermò, uscì velocemente dalla metropolitana.

Via, doveva tornare all’aria aperta.

Le scale per portarlo in superficie erano tante, sembravano infinite.

Veloce, doveva essere veloce!

Tre, due uno, ecco la strada: una distesa verde, un prato infinito ed un bosco in lontananza. No! Di nuovo, nessun bosco, solo la buona e vecchia Londra coi suoi taxi e i suoi palazzi.

Sospirò. Era passata. Anche questa era passata.

Si guardò intorno per riconoscere la zona in cui si trovava: era sceso tre fermate prima del dovuto, quindi s’incamminò a piedi, terrorizzato dall’idea di ritornare in metropolitana.

Per oggi sarebbe stata meglio l’aria fresca.

 

Arrivò alla galleria quando questa era già aperta. Imprecò in silenzio: avrebbe preferito, oltre che dovuto, arrivare prima.

Nicole non perse tempo e glielo fece notare:

“Ci sono già delle persone dentro!”

“Hai ragione, ma…” spiegarle del cane sarebbe stato ridicolo, quindi optò per qualcosa di più semplice “mi sono addormentato tardissimo ieri, perché ero agitato, e stamattina non riuscivo ad alzarmi”

Lei annuì.

“Come stai oggi?”

”Benissimo” mentì lui

“Voci? Sogni premonitori? Ricordi?”

”No, tutto bene davvero” e sorrise per tranquillizzarla “Oggi è il mio gran giorno, non posso certo farmelo rovinare da questa” disse toccandosi la fronte con due dita.

Nicole sospirò melodrammaticamente: “Santo cielo, quelle dita sono proprio sprecate su di un uomo! Gay per di più”

Alec fece una smorfia di finto fastidio e stava per risponderle, quando Seth li interruppe:

”Non ci crederete mai!” strillò in falsetto “Dai entra! Muoviti!” disse afferrando per il polso Alec e trascinandolo all’interno della mostra “Non ci crederai mai!”

Seth Nolan era il nome reale di Lucky_Luci@no. Aveva preso così a cuore questa mostra che aveva voluto occuparsene personalmente insieme al gallerista Kenneth Locke, anche quest’ultimo legato a Freedom per qualche aspetto che sfuggiva ad Alec. Il ragazzo non aveva ben chiare le relazioni che intercorressero fra Seth, il gallerista e la direttrice di Freedom e s’era ripromesso di non fare mai luce sui suoi dubbi per non addentrarsi in quello che gli sembrava un terreno troppo pericoloso. Amanti? Menage a trois? Ex di qualcuno, partner dell’altro? No, meno sapeva e meglio era. Soprattutto perché, ora, il rapporto che voleva con queste persone era esclusivamente lavorativo.

“Tremila sterline! Ti rendi conto?”

”Tremila sterline cosa?” chiese Alec

“Hai venduto una tua foto per tremila sterline!”

“Ho venduto una foto?” Alec non aveva certo esposto le proprie foto per venderle, non s’aspettava che qualcuno le volesse acquistare – per una qualunque cifra –, ma di certo poi non avrebbe voluto che qualcuno si prendesse il diritto di venderle per lui.

“Hai venduto una mia foto?” chiese Alec irritato.

“Oh, non usare quel tono! Tremila sterline per un fotografo sconosciuto, che fatica ad arrivare a fine mese, non era certo un’offerta che potevo rifiutare”

Alec pensò che Seth avesse ragione, ma la sua era più una questione di principio.

“Ma non erano questi gli accordi! E poi tu che ne sai della mia paga mensile?”

”Ne so abbastanza per sapere che vivi in un bugigattolo sui Docks e che rischi la vita ogni notte tornando dal lavoro…”

Alec di nuovo stava per protestare: chi era Seth per fargli i conti in tasca? Chi era Seth per vendere una sua foto? Ma prima che riuscisse a formulare alcuna di queste domande, quella più importante gli si affacciò prepotentemente sulle labbra

“E quale foto hai venduto?”

”Quella di Freedom, mi pare ovvio”

La sua foto, quella per cui piangeva.

L’idea che la stessa foto fosse su di una rivista a tiratura nazionale non l’aveva infastidito così tanto, ma l’idea di non possedere più qualcosa di così personale lo sconvolse.

“Che cosa?” quasi gridò, ma Seth l’aveva già portato nella stanza dove la foto era esposta.

“Ecco, l’ho venduta all’uomo là da solo, di fronte alla foto”.

Alec s’azzittì per un istante: non voleva fare una scenata di fronte ad uno sconosciuto. Ma appena posò gli occhi su quella figura di fronte alla foto, il tempo perse di senso ed ebbe come la sensazione che lo spazio intorno sparisse.

Quell’uomo aveva le mani in tasca  e il viso leggermente all’insù per guardare quella foto enorme, appesa alla parete. Alec ebbe la sensazione che i capelli neri di quell’uomo si muovessero sotto la carezza inesistente del vento.

Gli girò la testa.

Spostò gli occhi a lato, dove c’era la sua foto che pareva essere viva. L’aveva scattata un pomeriggio di primavera, sdraiato sull’erba. Se gli fosse stato chiesto, Alec non sarebbe stato in grado di dire che cosa ci fosse di speciale in quell’immagine: riprendeva dal basso alcuni alberi che, sia a destra che a sinistra, sembravano incorniciare un cielo terso e azzurro, nel quale volava un falco. Alec aveva notato il falco solo quando aveva già puntato l’obiettivo, e lo stesso falco era diventato protagonista di un’immagine bellissima, ma di una solitudine insopportabile.

Solo gradazioni di verde e di azzurro. Ed un falco. Nient’altro.

Il biondo ebbe la netta sensazione di udire il falco chiamarlo, ma in realtà questi era immobile, imprigionato su di una pellicola fra l’azzurro e il verde, casualmente spettatore di due soli colori.

Sentì l’angoscia salirgli, arrampicarsi sul suo cuore e tentare di schiacciarlo.

Di nuovo, un filo d’aria inesistente gli sfiorò la pelle e vi nascose un gemito soffocato che sarebbe stato un grido, se Alec non fosse stato fin troppo abituato agli scherzi della sua mente.

Ma questa volta, la veridicità di quello che stava vedendo era così evidente che dubitò di trovarsi in uno dei suoi mondi e sperò che tutto fosse reale.

Quegli alberi, quel cielo e quel falco, in una distesa immensa di verde senza pareti a delimitare le stanze: non era tutto così vero?

Ma c’era quell’uomo, in più, nel suo sogno, un uomo fermo a fissare il cielo e quello stesso falco catturato da Alec.

L’uomo dai capelli neri si girò a guardarlo e Alec provò un dolore al petto così intenso che boccheggiò. Quegli occhi scurissimi e grandi erano - a volte - apparsi nella sua mente. Li ricercava in continuazione, ma allo stesso modo, li rinnegava.

E ora li aveva lì davanti e lo guardavano?

Erano davvero gli occhi dell’acquirente, oppure erano solo un’altra, un’ennesima allucinazione?

Ebbe la risposta quando si soffermò a guardarli per un istante di troppo: quegli occhi stavano piangendo.

Loro come lui erano stati schiacciati da quella fotografia sulla parete.

Alec svenne.

 

 

 

Sul cornicione di un palazzo, una donna vestita di bianco guardava la città sotto di lei. I lunghissimi capelli neri fluttuavano nel vento, cantando armonie dimenticate.

Sulle labbra rosse aveva dipinto un lieve sorriso.

“Doveva necessariamente esserci la tua mano” disse qualcuno duramente, ma lei non si scompose, né si mosse, continuando a guardare lo scorrere del traffico sotto di lei.

“Non potevi certo aspettarti che sarei semplicemente rimasta a guardare…” disse con voce melodiosa.

“No, non me l’aspettavo. Ma ci avrei sperato” le labbra che avevano pronunciato queste parole sorrisero, di fianco alla donna. Poi lentamente prese forma un viso intorno a loro ed in mezzo a questo, due occhi color della brace. Se occhio umano li avesse visti, avrebbe di certo giurato che ardessero davvero.

Era seduto di fianco alla donna, ora che il suo corpo era completamente visibile. Bellissimo. Anche lui intento a guardare quella città inconsapevole.

“Addirittura tu in persona, fra tutti!” disse lei dopo un po’, sorridendo come se la cosa più ovvia le fosse diventata evidente troppo tardi.

“Speravo di trovare te, fra tutti. E non mi sono sbagliato”. Rispose l’altro, lascivo.

“Non hai ancora rinunciato…”

Lucifero la guardò di traverso, con gli occhi in fiamme e, dipinto sulle labbra, un riso di sfida: “Potrei mai?” chiese retoricamente, accompagnando le parole con un gesto appena accennato delle sopracciglia.

Maria non rispose. Lasciò che il vento continuasse ad intonare una melodia coi suoi capelli e lui rimase lì ad ascoltarla.

 

***

Emerald: ora, con questo cambio drastico di prospettiva, forse, ho esagerato ''^_^ Basta non volere la mia pelle e avere fede, almeno, nel mondo moderno, le cose funzioneranno in modo diverso XD Mi raccomando, però, non perdere la speranza *_* hehehe baci


ayay: wow, quante recensioni, grazie ** felicissima che Liberaci dal male ti abbia così preso e, soprattutto, che ti piacciano i personaggi, anche quelli secondari. Io adoro creare racconti "corali", anche se l'ultimo che sto scrivendo lo è meno, mi manca questa parte e in Liberaci mi era molto piaciuto creare tutta una serie di personaggi che costellavano la storia. Spero di sentirti presto. baci baci

Cicoria: si amano *_* In fondo, dopo 21 capitoli, non potevo non farli baciare, si cercavano da troppo tempo! Felicissima che il bacio ti sia sembrato naturala e che il capitolo sia stato coinvolgente ** Si amano, sono felicissima anch'io (questo bacio l'ho sudato '°_°). Baci

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Capitolo 23
*** 23. Familiarità ***


Capitolo Ventitre 

- Familiarità -

 

 

Sentiva le tempie pulsare, come ogni volta che si svegliava da uno dei suoi incubi. Il suo non era propriamente dolore, era più una sensazione di enorme fastidio all’interno della testa. Si portò la mano sulla fronte e massaggiò lentamente, nella speranza di provare un qualche sollievo.

Non riconobbe immediatamente il luogo in cui si trovava, sembrava l’ufficio di qualcuno. Sugli scaffali c’erano diversi fogli accatastati - o forse libri? -. Strizzò gli occhi ancora appannati.

Il divano dove si trovava era soffice, sembrava ricoperto di seta e tutt’intorno a lui, sì, c’erano libri molto vecchi in apparenza. Guardò il soffitto e si stupì di trovare un’enorme volta di vetro, da cui si vedeva un bellissimo cielo stellato. Quale notte era tanto buia da permettere a tutte quelle stelle di risplendere? E quale stanza aveva un soffitto di vetro?

Di nuovo strizzò gli occhi.

Alec sorrise all’assurdità dei suoi pensieri. Nessun cielo stellato, solo un soffitto scuro con appese delle stelle fluorescenti che riverberavano la poca luce che filtrava dalla finestra. Niente libri antichi, solo fogli impolverati.

“Finalmente ti sei svegliato! Ero così preoccupata…” Nicole gli scostò i capelli biondi dal viso “Come stai?”

Alec tentò di alzarsi.

“No! Rimani sdraiato e non fare storie! Non vorrai mica svenire di nuovo!”

“Ma sto bene ora…” obiettò il biondo con voce impastata.

“Certo, stai bene…Come stavi bene questa mattina, se non che sei caduto come un sacco di patate sul pavimento”.

Alec si ricordò d’improvviso quello che era capitato.

“Dov’è?”
”Dov’è chi?”
”L’uomo che ha comprato la foto!”

“Se ne sarà andato” ipotizzò Nicole

“Come andato? No!” disse Alec quasi fosse preso dal panico “Devo parlargli”

E di nuovo cercò di alzarsi.

“Ma sono passate ore da quando ha comprato la foto, non credo proprio sia ancora qui” replicò Nicole cercando di non farlo alzare.

“Lasciami andare, devo per forza trovarlo…”disse, lasciando trapelare una sottile ansia. “Seth!” esclamò d’improvviso “Seth deve per forza sapere chi era, l’ha venduta lui la foto no?”
”Non penso che si sia fatto dare nome ed indirizzo”  scrollò le spalle Nicole “ma perch…”
Seth interruppe entrambi, entrando violentemente nella stanza.

“Finalmente! Pensavo non ti svegliassi più”

Alec alzò le spalle, quasi a discolparsi.

“Oh non importa, basta che ti sbrighi”
”Ma perché è da questa mattina che, ogni volta che ti vedo, hai fretta di trascinarmi di qua e di là?”

“E’ tutta colpa del tuo acquirente”
”Cosa?”

“Del tizio che ha comprato la tua foto per tremila sterline, Ma…”
”E’ ancora qui?”
”Certo che è qui, ti sta aspettando”
Alec si alzò di scatto dal divano

“Dove?”

“Fuori, ma aspetta, ti devo dire altro…”
Alec non gliene diede il tempo, e corse fuori dalla porta

“Come per esempio che hai venduto altre tre foto, che quell’uomo si chiama Matthias Cole, che…”
”Parli al vento” lo interruppe Nicole “è già scappato”
”Come sempre” si strinse nelle spalle Seth “da quando lo conosco ho imparato che cosa vuol dire sfuggevole
Lei annuì “Alec non è mai davvero in nessun posto… Anche se ti sembra davanti a te, in realtà è lontano…”
”Hai ragione “disse lui “forse è per la sua malattia…”
”O forse perché nessuno di noi riesce a capirlo davvero”
Seth aggrottò la fronte, aspettando che Nicole si spiegasse meglio.

“Io penso” iniziò quindi lei “ che noi semplicemente non siamo in grado di capire la sensibilità e l’animo di Alec.” Sospirò “C’è sempre qualcosa che mi sfugge in lui…che non riesco ad afferrare. E non perché è malato.”
”Perché allora?”
”Sono convinta che la sua non sia una vera malattia; che non abbia bisogno di cure o di medicine…”
”Ma…?” la incalzò Seth che non capiva quello che la donna tentava di dirgli.

Ma… non lo so. Io penso che se esistesse qualcuno che riuscisse ad entrare in quel mondo nel quale si barrica, che riuscisse a prenderlo per mano, qualcuno che lo proteggesse, potrebbe guarire immediatamente”

“Sei innamorata di lui?”

Nicole scoppiò a ridere.

“Possibile che per voi uomini tutto si riduca al bianco e nero?”
”Ma lo sei oppure no?”.
”No “ scosse la testa “No per fortuna. Ciononostante  non posso nasconderti che vorrei capirlo di più… Vorrei essere in grado di salvarlo.”

“Non sei uno psichiatra…”
”Te l’ho detto, credo che non ci sia bisogno di alcuno psichiatra…”

 

 

L’uomo della foto era seduto su una panchina fuori dalla mostra, leggeva il giornale e sorseggiava un caffè da un bicchiere di cartone. Alec si fermò a guardarlo per un istante, stando attendo a non farsi notare. C’era qualcosa di estremamente familiare in  quei capelli neri che il vento disfaceva ciocca per ciocca, ma che ritornavano ordinatamente al loro posto ogni volta che questo cessava. C’era qualcosa di familiare in quelle dita lunghe che lasciavano consumare la sigaretta senza mai portarla alla bocca.

Ma soprattutto c’era qualcosa di incredibilmente familiare in quegli occhi che in quel momento non riusciva a vedere bene, ma che aveva incrociato quella mattina, di fronte alla sua foto.

Voleva riosservarli.

Alec capì che era corso da quell’uomo per conoscere quegli occhi: voleva sapere se fossero veri o solo un’illusione della sua mente; voleva sapere perché gli fossero familiari e voleva sapere perché, loro come lui, avevano pianto di fronte alla sua fotografia.

Fece un passo in avanti e, in quel momento, l’uomo alzò lo sguardo e lo notò. Si guardarono, Alec fu di nuovo travolto. Questa volta però, non ci fu né paura né ansia, solo gioia. E fu così intensa che Alec sorrise, come non faceva ormai da tempo. Sorrise senza un motivo apparente ma col cuore libero di sentirsi finalmente bene.

“Alec Shimmer” si presentò continuando a sorridere.

“Matthias Cole” rispose lui alzandosi dalla panchina “La stavo aspettando, ho saputo che si è sentito poco bene…”
”Sì, ma non è nulla di grave” sdrammatizzò Alec “Mi dispiace solo mi abbia dovuto aspettare per così tanto tempo”

“Non si preoccupi. Ho avuto così modo di osservare le altre foto con calma”

Alec sorrise “Non le aveva viste prima?”

“No, sono venuto qui appositamente per la foto che ho acquistato”
”L’aveva vista su Freedom?”
”Sì, e da quando l’ho vista non ho davvero pensato ad altro. Ero anche risalito a chi fosse lei prima  di sapere che ci sarebbe stata una mostra con le sue foto.”
”L’ha colpita così tanto?” chiese Alec aggrottando la fronte.

“Più di quanto riesca a spiegare…” rispose l’altro lasciando scivolare le parole e accompagnandole con un leggero sospiro.

Era vero, Matthias non aveva idea del perché quell’immagine avesse avuto un impatto così feroce su di lui, eppure quella semplice fotografia sembrava avergli cambiato la vita.

“E’ come…” cercò di spiegare “come se avesse smosso qualcosa che pensavo dimenticato”

Sulla porta della mostra apparve Nicole.

“Alec” chiamò, cercando di farsi vedere sollevando un braccio. “Alec” chiamò di nuovo.

Solo al secondo richiamo, il biondo si voltò verso di lei e scosse la testa, ma lei insistette.

Devi venire subito!”

Alec non osava alzarsi dalla panchina sulla quale si trovava: Matthias se ne sarebbe andato e lui non l’avrebbe più rivisto…

E questo non poteva assolutamente permetterlo.

Fece per mandar via Nicole, ma prima parlo l’uomo di fianco a lui.

“Va’ pure” gli sorrise “Posso darti del tu, vero?”

Alec annuì.

“Posso rivederti stasera a cena?” la sua voce era un misto di sensualità e insicurezza, così ben amalgamati che Alec non seppe opporre nessuna resistenza né all’una né all’altra. Il fascino che proveniva da quegli occhi neri e da quella linea delle labbra perfetta avevano completamente disarmato il biondo. Il sentir, poi, quel fremito incerto, nella sua voce, dovuto all’incapacità di capire quello che gli stava accadendo, era persino seducente.

“Lo prendo come un invito?”

“Certamente” gli sorrise lui

“Alle 6.30 qui davanti?”

“Ti aspetto”

Alec esitò prima di alzarsi definitivamente dalla panchina e raggiungere Nicole. C’era qualcosa di così rassicurante ed intenso, fra lui e l’uomo lì di fronte che interromperlo gli provocò un dolore fisico. Ebbe la sensazione che Matthias gli sfiorasse le dita delle mani un istante prima che lui si alzasse. Si girò per confermare la sua sensazione, ma l’uomo moro era già in piedi, di fianco a lui, con le mani in tasca.

Alec fece un passo indietro, cercando di dirigersi verso l’entrata della mostra, ma esitando ancora su quegli occhi che sembravano scrutarlo nel profondo.

Fu Matthias ad interrompere quel dialogo muto.

“A dopo” sussurrò, prima di girarsi ed allontanarsi lui.

“A dopo” rispose Alec, pur sapendo che il moro non avrebbe potuto sentirlo.

Doveva convincersi di non trovarsi in un’altra delle sue allucinazione, doveva convincersi che Matthias era reale.

Sentire il suono della propria voce l’aiutò a sperare.

Non corse verso Nicole, che l’aspettava impaziente. Si concesse quei pochi passi per tentare di calmare il suo cuore che, s’accorse, batteva troppo velocemente.

 

“Quanto ci hai messo!” lo rimproverò lei “Cos’avevate da dirvi?”
”Non fare l’acida” le rispose Alec senza troppa convinzione “era… importante, tutto qui.” Scrollò le spalle evitando di dirle che avrebbe rivisto Matthias quella sera stessa.

“Non è che ci stavi provando?”
Alec la fulminò con gli occhi.

“Oh beh” alzò le mani e si mise sulla difensiva “è così bello che non ti avrei certo biasimato”

“Cos’avevi da dirmi di così importante?” tagliò corto lui.

“Un uomo ha chiamato Seth, ma voleva parlare con te - quando ti deciderai a prendere un cellulare sarà sempre troppo tardi! - pareva essere davvero urgente”
”Un uomo?” chiese Alec “Ha lasciato detto chi fosse?”

“Non saprei…” disse lei aprendo la porta dell’ufficio di Seth. Avevano preso il corridoio interno, dove non erano esposte fotografie, per evitare di incontrare persone che potessero fermare il fotografo.

Inaspettatamente la mostra stava avendo molto successo. Molti giovani continuavano a venire, attirati da alcune locandine che Seth aveva lasciato in metropolitana. Nonostante il budget relativamente basso, Seth era stato in grado di sfruttare al meglio le risorse e fare molta pubblicità sottobanco. La voce, poi, s’era sparsa e Londra era stata sempre molto attenta alle novità creative. Fu proprio questo che spiegò Seth ad Alec appena questi entrò nel suo ufficio.

“Ti stai dando delle arie?” chiese con aria finto-petulante Alec

“Guarda che è solo grazie a me che dormirai più ricco di parecchie migliaia di sterline stanotte!”
”Hai venduto altre foto?” chiese Alec in un misto di incredulità e disappunto.

“Oh non fare quella voce” lo rimproverò Seth “E’ vero, non era previsto vendessi le foto, ma vedrai che domani se ne parlerà nella pagina culturale di ogni giornale!”

“Davvero?”

“Nessuno riesce a starmi dietro” sghignazzò Seth incensandosi. “Immagino tu non abbia capito chi era Matthias Cole… E, se non fossi corso fuori come un pazzo, mi avresti sentito dire di aver venduto altre fotografie. Domani inoltre, ho la mattina prenotata da Giles Arnett e il suo staff!”

“Da Giles Arnett.?” Alec non poteva credere alle sue orecchie

“In persona” rispose Seth tronfio.
Giles Arnett era conosciuto in tutti i circoli artistici d’Europa, si diceva dipendesse da lui la fama o l’oblio di un artista.

“Non sapevo si occupasse di fotografia…”
”L’ha invitato Matthias Cole” il che riportò l’attenzione di Alec alla prima affermazione di Seth.

“E chi sarebbe questo Cole?”

“Non l’hai visto?”

“Certo. Intendo dire, perché il suo nome dovrebbe dirmi qualcosa?”

“Figlio diseredato di Matthias e Margaret Cole, padroni un tempo dell’impero delle telecomunicazioni Ma&Ma, ora caduti in disgrazia a causa dell’ascesa del loro primogenito…”
Alec non poteva credere alle sue orecchie: “Che sarebbe… quel Matthias?” Indicando la stanza nella quale era stata esposta la sua fotografia.
Seth annuì felice .

“Una fortuna così non la credevo possibile” commentò Nicole. Era esterrefatta: aveva ascoltato tutto il discorso. “Conosci Seth in una chat, Kenneth Locke e lo stesso Seth Nolan prendono a cuore le tue fotografie, il primo giorno arriva Matthias Cole che invita Giles Arnett… Hai tanto talento, questo è sicuro, ma  è altrettanto sicuro che qualcuno guarda giù per te.” Si strinse nelle spalle, sorridendo. In fondo era felice che, finalmente, la vita dell’amico stesse prendendo una piega positiva.

Alec dovette sedersi. Dopo l’ondata di informazioni e ancora tramortito dall’incontro con Matthias, aveva le ginocchia molli e il respiro affannoso: “Non ci posso credere” disse, sorridendo stupito.

“Ah” aggiunse Seth “Quasi dimenticavo. Ha chiamato anche un certo Jude Dorley…”

Per un attimo Alec non inquadrò di chi si stesse parlando, poi capì. Sentì un brivido gelido percorrergli la schiena, e tutta l’atmosfera positiva di poco prima gli si gelò intorno.

“Che cos’ha detto?” chiese con aria cupa.

“Solo che voleva parlarti. Forse passerà in questi giorni”
Alec non sapeva bene dire perché quel nome lo inquietasse, ma ne aveva paura, di questo era certo. Di contro, però, nutriva una profonda speranza che Jude potesse aiutarlo e finalmente liberarlo.

Perché un giorno come quello non poteva fargli dimenticare che lui stava lentamente impazzendo.

***

In effetti, questo "ritorno al futuro" è spiazzante, ma abbiate fede: tutto ha un senso. E soprattutto, tutto è concatenato. Solo mi piace frammentare la trama e l'intreccio ^_^

Ringrazio tantissimo e do la benvenuta a Tifawow, perchè sono proprio contenta di sentirti ^^ Mi incuriosisce il fatto che sia stato proprio questo capitolo che ti ha convinto a commentare. Quando l'ho scritto ero convinta che fosse un capitolo che facesse "staccare" il lettore, non che lo coinvolgesse. Era ultile ai fini della storia e a me piaceva molto, ma dopo un bacio atteso per 21 capitoli, ecco che arrivo e cambio tutto...Insomma, temevo che chi leggesse si potesse irritare '^_^ Invece pare di no. Perciò, quando ho letto il tuo commento ero proprio felice. Grazie. Spero di sentirti ancora.

Emerald, lo so, questo capitolo (un po' volutamente, devo ammetterlo XD) spiazza. Ma non frantendermi, non è che mi sono rifugiata nel futuro perchè nel passato aaron e nero non hanno speranza. Solo, la loro vita, è un po' complicata (dalla sottoscritta, anche. Un po' anche da loro stessi °_° XD)

BiGi: 2006. In effetti un bello sbalzo. Ma Aaron e Nero non possono lasciarsi andare l'un l'altro ;D

Ayay: come, hai saltato il capitolo 21? Meno male l'hai ripreso. Il loro bacio m'è costato gran fatica ! (fosse stato per me, sarebbe capitato al capitolo 5 XDD) Comunque tornerò indietro al medioevo, non ti preoccupare. Non posso mica lasciare i nostri eroi troppo soli ;D

Stateira cara, che bello risentirti *_* No, parteggia pure per Lucifero. Anche a me piace tanto e in fondo lo capisco. Poi, in effetti, meglio ingraziarselo sin da subito. Saremo future vicine di casa? Un bacio

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Capitolo 24
*** 24. Il libero arbitrio ***


So bene di essere mancata per tantissimo tempo da queste pagine e da questi lidi. me ne scuso immensamente con tutti coloro che seguono e seguivano la mia storia. Credetemi quando vi dico che ci sono state motivazioni davvero gravi alla base della mia dipartita, e davvero al di là della mia volontà. Perciò ora che posso riprendere, mi riprometto di ritornare ad aggiornare regolarmente come ho sempre fatto (anche perchè questa storia è conclusa) e a rispondere ai singoli che vorranno lasciarmi un commento (lo sapete quanto ci tengo) - grazie a stateira, ayay, tifa e smolly. Mi avete dato una carica incredibile *_*
.

Scusate l'assenza, spero che il nuovo capitolo un po' ripaghi dei mesi di silenzio.
Un bacione a tutti








IMPORTANTE
: In questo capitolo compariranno due nuovi personaggi: Esse e Ayel. Sono rispettivamente un demone ed un angelo. Di conseguenza non sono esseri umani con la distinzione sessuale maschile/femminile. Non esistendo (purtroppo) il genere neutro in italiano, mi riferirò a loro sempre al maschile (che sostituisce bene o male il neutro), anche se prenderanno sembianze diverse, nei vari capitoli (di uomo, ma anche di donna). Questi due personaggi sono nati altrove, non fra le pagine di Liberaci dal male, qualcosa di più dettagliato lo scriverò a fine capitolo. Ora è meglio leggere la prosecuzione della storia :) Buona lettura

 



 

Capitolo Ventiquattro - Il libero arbitrio

 

 

“Qualcuno guarda giù per te…”

Questo aveva appena detto Nicole, quando una figura sfumata apparve su un terrazzo in cima ad un palazzo.

“E non può neanche immaginare chi” sorrise ironicamente la sua voce, mentre lui fluttuava ancora senza prendere forma “Certo che la tua signora gli ha proprio spianato la strada…”

Un uomo seduto sulla balaustra si scostò dal viso i fluenti capelli bianchi, lambiti dal vento.

“Non è cortese non mostrasi al tuo interlocutore, Esse”
La figura prese forma concreta e, con un gesto teatrale, allargò le braccia, quasi fosse esasperato.

“Non mi si dà neanche il tempo di scegliere che cosa indossare!” esclamò con fare melodrammatico. Comparve con la forma di una donna bellissima, con la pelle scura e gli occhi verde chiaro, profondi e sibillini. Il trucco pesante li rendeva ancora più intensi. Aveva le labbra rosso sangue, rese lucide dal rossetto, che sarebbero parse volgari, se i suoi lineamenti non fossero stati perfetti.

“Che ne pensi?” chiese in modo seducente all’altro “Forse è un po’ esagerato, per gli umani” commentò, senza aspettare risposta. Ma a dispetto delle sue parole, il sorriso che gli comparve sul viso era lascivo e malizioso.

Si passò i polpastrelli della mano destra sul pollice avvicinando la mano alla bocca. Soffiò, attraverso le dita per emanare un profumo dolcissimo e poi voltò gli occhi ad osservare la reazione dell’altro. Reazione che non arrivò.

“Uff, sei così noioso, a volte” si lamentò Esse, avvicinandosi all’uomo coi capelli bianchi. Con le unghie perfettamente laccate di nero, tracciò una linea sulla guancia di quest’ultimo, ferendolo.

“Già, proprio noioso…” sussurrò, a pochissima distanza dal suo orecchio.
Dalla ferita non uscì sangue. Si rimarginò subito.

“Quando hai finito di giocare, puoi iniziare ad occuparti di ciò che ti spetta”.

Esse arricciò il naso contrariato: “Non che io abbia fretta…Tu poi” disse agitando leggermente il dito indice “non dovresti proprio averne, dato che sei qui solo per tenermi a bada.” Fece una brevissima pausa “Non è vero?” disse poi velocemente ampliando così tanto i suoi poteri da oscurare completamente il cielo per un istante.

“Smettila!” lo ammonì l’altro, reagendo a quel potere e arginandolo.

La donna alzò le spalle “Controllavo solo se mi ascoltavi” disse semplicemente, sporgendosi oltre la balaustra.

“Invece di perdere così tanto tempo, dovresti sbrigarti a fare il tuo dovere, così saresti libero”

“Vuoi che vinca io?”

L’uomo dai capelli bianchi sorrise “No, ovviamente. Ma che tu vinca o perda, il tuo Signore ti libererà dall’obbligo di Raccoglitore”
”Già” allargò gli occhi la donna “una vita d’Inferno!” scoppiò a ridere, divertito. Anche il bianco non riuscì a trattenere una lieve risata.

“L’ho fatto ridere” disse in modo seducente nella sua direzione, ma invece che continuare la frase, la interruppe bruscamente e si girò, a guardare la città sotto di loro:

“Sarai libero anche tu” disse asciutto.
”Non sono certo obbligato a stare qui”
”La volontà di Dio è la mia, bla bla…” cantilenò sarcasticamente Esse, sbeffeggiando chiunque avesse pronunciato quelle parole in passato.

Il bianco si limitò ad alzare le sopracciglia: “Sai che è così”

“Lo so fin troppo bene…” rispose sussurrando l’altro “Ma non mi hai ancora risposto.”

“Perché non mi hai ancora fatto nessuna domanda”
”Non sei felice ti tornare a ciò che eri solito fare?”

L’uomo scosse la testa “E’ stato un buon diversivo il… limitarti. Non è compito mio, di solito, occuparmi dei Raccoglitori, ma quando s’è saputo che Lucifero aveva condannato nient’altro che te ad esserlo, ho scelto io di farti da Angelo Custode”

La donna sorrise tristemente e non rispose.

L’uomo dai capelli bianchi lasciò che, per un attimo, fosse il vento a parlare, e poi disse, più a quest’ultimo che al suo vero interlocutore: “Chissà che cosa deve avere fatto un Sobillatore di così terribile per meritarsi questa punizione…”
”Chissà” rispose il demone, lasciando che il vento facesse scomparire la sua voce al più presto.

 

Due figure s’avvicinarono al demone e all’angelo, quest’ultimo s’inchinò.

“Saluti, Mia Signora” disse, salutandola.

“Saluti a te, mio bel Ayel” rispose Maria con un sorriso dolcissimo. Poi proseguì, rivolta al demone: “Non interferire con lo scorrere degli eventi”

“Anche se la tentazione è tanta, immagino” sorrise ambiguamente Lucifero “Esse, devi solo assicurarti che Jude porti a compimento il suo dovere”

“Ho semplicemente favorito la fragilità dell’umano” si giustificò il demone.

“Creando il deserto intorno a lui e facendolo impazzire lentamente…” puntualizzò l’angelo.

“Era nel Patto che aiutassi Cain – o Jude se preferisci il suo nuovo nome” Esse non riuscì a trattenere una risatina di fronte a quel nome “a raggiungere il suo scopo”.

“Del resto, questo incontro fra Alec e Matthias è stato, per così dire, agevolato” sorrise Lucifero “Ma non ci si può spingere più in là di così! Bisogna lasciare che sia” e mosse delicatamente la mano mimando la forma di un’onda.

Maria lo guardò alzando le sopracciglia: “La tua remissività non ci trae in inganno” disse includendo anche Ayel nella sua affermazione.

Il sovrano dell’Inferno divenne improvvisamente serio: “Avere l’anima di Aaron nel mio regno  vorrebbe dire possedere uno dei gioielli più preziosi del Regno dei Cieli, ma è pur sempre compito di un umano portarmela. Se riuscirà o meno, questo dipenderà solo da lui. Non da me, da Esse o da voi” indicò la Madonna e l’angelo “Noi possiamo favorire alcuni eventi ma non altro. Sai bene che non ho alcun interesse a ricominciare la Guerra contro Cielo. Sovvertire l’unica legge imposta da Dio su questo mondo vorrebbe di sicuro dire questo. Anche se lo facessi per una singola ed insignificante persona”.

“Negare il libero arbitrio…” disse Ayel

“Negare il libero arbitrio” confermò Lucifero.

 

 

 

Il bagno della mostra era più bello di quello di casa sua: le piastrelle color crema  e gli asciugamani in tinta davano al luogo un’atmosfera calda. Alec pensò che avrebbe potuto nascondersi lì per un po’.

Si guardò intorno, aprendo il rubinetto dell’acqua fredda. C’erano anche diversi fiori secchi rossi e marroni in piccole ceste decorative: tutti quei colori così caldi, però, non lo tranquillizzavano. Aveva appuntamento con Matthias dopo pochi minuti, ed era agitatissimo.

Mise la mani sotto l’acqua scrosciante, per cercare di farle smettere di sudare e poi si sciacquò la faccia. Non aveva neanche avuto il tempo di andare a casa a cambiarsi, sarebbe uscito con quell’uomo col suo discutibile abbigliamento di una mattina qualunque.

Non sapeva esattamente cosa lo agitasse tanto, forse il fatto di uscire con un Cole – non sarebbe lui apparso fin troppo ordinario?. Forse il fatto di averlo appena conosciuto – e se dopo poco gli argomenti comuni fossero finiti? Più probabilmente, però, ciò che l’agitava più di tutti era il desiderio di sapere perché Matthias Cole avesse cercato quella foto, perché avesse avuto una reazione così intensa – quando Alec pareva l’unico a trovare l’immagine quasi angosciante.

Il biondo aveva sicuramente scattato fotografie più belle e di sicuro l’impatto emotivo di altre sue opere era stato superiore. Per quanto bella, quella foto sembrava bidimensionale nei suoi due colori.

Eppure non era così per lui. Eppure non era così per Matthias.

Si guardò nello specchio, aveva le punte dei capelli che sgocciolavano e gli davano un’aria da eroe tragico. Alec sorrise.

Non voleva neanche prendere in considerazione l’ipotesi di avere una delle sue crisi quand’era fuori con Matthias, ma sapeva che poteva succedere. Cosa sarebbe capitato se, d’improvviso avesse sentito il mondo parlare intorno a lui con una voce che non c’era? Che cosa sarebbe successo se avesse iniziato a non riconoscere che cos’era reale e che cosa, invece, era solo un’allucinazione?

Non aveva con sé neanche le sue pillole… inutili, ma in qualche modo lo rassicuravano.

Sospirò e si fece coraggio. Era inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta.

Ora che forse aveva a portata di mano una soluzione per la sua malattia – Jude Dorley sembrava sicuro della sua cura - Alec si sentiva un po’ più sicuro.

 

Matthias lo stava già aspettando fuori dalla mostra, in piedi, con la schiena appoggiata ad un auto. Nonostante fosse vestito meno elegantemente di quanto non lo fosse stato la mattina, Alec trovò il suo abbigliamento così raffinato da farlo indugiare qualche istante di troppo sulla sua figura.

“Buonasera” gli disse il moro, quando lo notò avvicinarsi.

“Ciao”

Alec non riusciva a contenere il suo imbarazzo. Si sentiva un adolescente al suo primo appuntamento e più tentava di controllarsi, più peggiorava la situazione.

Entrati in macchina, il biondo si guardò in torno, cercando di abituarsi in fretta a quella situazione. Notò, vicino al cruscotto, un passpartout elettronico con il logo Cole inciso sopra e si fermò ad osservarlo.

“E’ solo un telecomando automatico per alcuni cancelli…” gli spiegò Matthias.

Alec, che per un istante s’era dimenticato di essere con qualcuno, sussultò.

“Scusami” si schermì.

“Sei a disagio?”
”Per niente” Alec non stava mentendo. Nonostante fosse agitato per un motivo poco chiaro, non si sentiva a disagio, anzi. L’odore all’interno di quella macchina e quella situazione gli piacevano.

Sorrise “Non sono a disagio, solo nervoso…anche se ti può sembrare una contraddizione”

Matthias rise “Spero che quel pass non aumenti il nervosismo…”
”No, no” si affrettò a dire Alec “è che…”
”…questa mattina non sapevi che fossi quel Cole?”
Alec si girò a guardare l’altro mentre guidava, per cercare di capire se ci fosse dell’astio o del vanto in quel nome. Non c’era nessuno dei due, sul viso dell’uomo.

“Già, non lo sapevo…”

“E…” Matthias lasciò scorrere la domanda, per vedere la reazione dell’altro e per capirla.

“Oh beh” si strinse nelle spalle Alec “ho solo pensato aiuto!”

Scoppiarono a ridere entrambi. Il tono buffo della voce di Alec sciolse qualcosa. Sembrò quasi che, un nodo fatto di preoccupazione ed incertezza si disfacesse lì, fra le risate e la sottile foschia sull’animo di Alec si sollevò.

“Sono così spaventoso?”

“Beh sì, un uomo sconosciuto che guida una grossa macchina nera e che mi sta portando in un luogo che non conosco… Direi che c’è da aver paura.”

 

Arrivarono al ristorante venti minuti dopo. Nel tragitto in macchina continuarono a chiacchierare di argomenti leggeri. Alec non osò chiedere perché Matthias avesse voluto così fortemente quella foto e avesse quindi pagato quella cifra esorbitante. E non fece domande personali, nonostante ci fosse qualcosa di noto in quell’uomo: la sua educazione prevalse sulla sua curiosità di farsi gli affari di quello che, in fin dei conti, era uno sconosciuto.

Lo era davvero?

Alec non sapeva rispondere, aveva paura ad interrogarsi troppo a fondo. Temeva che quella sensazione di familiarità non fosse altro che un fraintendimento della sua mente, un ennesimo gioco della sua malattia che gli faceva confondere il vero con l’irreale.

Ora era fuori a cena e non c’era altro posto dove avrebbe preferito stare. Era tutto quello che contava.

Solo dopo le ordinazioni, Alec osò chiedere il vero motivo dell’acquisto della foto.

“Perché ti sembra così strano?” chiese Matthias “E’ una gran bella foto”.

“E’ una bella foto, ma priva di qualunque intensità o colore. E’ la cattura, piatta, di un’immagine…”
“E non è forse questo il fine della fotografia? Il catturare un momento insignificante per renderlo unico?”

“E’ un bel modo di pensare, ma… Non riesco comunque a capire.”
”Del resto è proprio quella foto che è stata scelta per Freedom, mi sbaglio?”
”No, hai ragione. Però, in quel caso, quella era l’unica foto che ho inviato a Seth Nolan…E s’adattava perfettamente all’articolo che doveva andare in stampa di lì a breve. Per te, invece, dev’essere stato diverso. Sei venuto per quella foto e hai guardato solo quella foto. Hai comprato quella foto ad un prezzo che, detto sinceramente, è troppo alto.”
”Valeva quei soldi.”

“Ma avresti potuto comprare quella foto per molto meno…” Alec non riusciva a capire perché Matthias continuasse ad eludere la domanda. Non gli aveva forse detto che gli avrebbe spiegato tutto a cena?

“Le tue foto” disse il moro “non erano in vendita. Mi ero informato prima di venire a Londra e sapevo bene che quella era solo un’esposizione di un aspirante fotografo, ma non una vendita… Qualunque prezzo inferiore non avrebbe convinto Seth a darmela. Del resto immagino non fossi contento quando ti ha detto che aveva venduto quella foto…”

Alec corrugò la fronte “E tu come lo sai?”

“E’ stata l’espressione con la quale sei entrato nella stanza, la prima volta che ci siamo visti, ad essere come un libro aperto. Devi avere un legame particolare con quella foto, l’avevi scritto in faccia. Non avresti accettato così facilmente l’invito a cena con me, altrimenti…”

Alec guardò Matthias interdetto: quell’uomo sembrava in grado di dedurre e capire cose di lui con una facilità estrema.

“Sono così facile da capire?” chiese in un sospiro.

Il moro lo fissò per un istante e si morse le labbra, quasi fosse in cerca delle parole più adatte. Sospirò “Sì, per me lo sei” sorrise imbarazzato “perdonami per il clichè, ma è come se già ti conoscessi… Leggo la tua mimica facciale, il cambiamento del colore dei tuoi occhi come se ti avessi visto e parlato già prima di questa mattina…” Matthias lasciò in sospeso la frase, scuotendo leggermente la tesa.

Quel sentimento di estrema familiarità che Alec provava, allora, non era semplicemente i frutto della sua mente…

Gli istanti che passarono dopo parvero immoti, come se il tempo si fosse fermato, intrappolato in una rete che raccontava una trama ignota, quasi assurda, ma che sia Alec che Matthias sembravano percepire.

“Io…” disse sussurrando “ti capisco…”

Matthias sorrise, di quel sorriso bellissimo che Alec a volte aveva visto nei suoi sogni, ma che aveva scambiato per uno scherzo sciocco della sua mente.

 

***

Ciò che scrivo qui sotto è irrilevante ai fini della comprensione e della lettura di Liberaci dal Male. Se ci sarà tempo e modo, racconterò un'altra storia. Riporto qui sotto una breve nota per spiegare a chi è curioso - in breve- ci sono Ayel e Esse. Ma potete anche saltarla a piè pari.

Sugli angeli e sui demoni: L'universo di angeli e demoni che ha creato la vostra affezionatissima  è profondamente diverso da quello solito, a cui siamo abituati. Ayel e Esse (così come altri personaggi) sono stati creati prima di LdM, e insieme a loro una cosmogonia alternativa a quella, per così dire, classica. Sono così tanto affezionata a questo mondo che probabilmente scriverò qualcosa di completo a riguardo (quello che ho ora sono raccontini, stralci di idee, accozzaglia di cose illeggibili O_O), tuttavia per quanto riguarda Liberaci dal Male, bene o male tutto sarà spiegato all'interno del racconto stesso. Non mi piace mettere note esplicative (se non quelle strettamente necessarie). Dimenticatevi, quindi, i Serafini e i Cherubini, i duchi dell'Inferno e quant'altro, tutto è sovvertito e re-inventato (solo i grandi capi sono stati mantenuti nelle loro mansioni O_O). I demoni (per esempio), in questo mio mondo, non sono neanche più degni di portare il proprio nome. Quindi non possono essere nominati, a meno che siano demoni estremamente potenti. In questo caso conservano quindi o l'iniziale del proprio nome, oppure si chiamano con un numero... Inoltre ho sempre trovato bizzarro che i viaggi fossero unidirezionali. Perchè si può cadere e non risalire? Quindi anche questo è diverso... e così via. La smetto qui, il mondo in questione è complicato, fatto di gerarchie e storie e questo non è certo il luogo per raccontarle. A suo tempo e a suo modo, tutto troverà spazio (come anche spazio deve trovare su questo sito: una pagina con le curiosità e le note su Liberaci dal male...). Un bacio a tutti - ovvio, fatemi sapere se mi considerate un caso irrisolvibile di follia galoppante (C.I.F.G.) XD

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Capitolo 25
*** 25. Nostalgia ***


Grazie mille per le vostre parole di incoraggiamento, vi adoro *_* Sono proprio contenta che Esse e Ayel vi piacciano, io mi ci sono affezionata. Ho scritto anche una one shot su di loro, che posterò quissù, ma solo alla fine di liberaci dal male. Un'altra storia che ho scritto sui demoni è stata pubblicata su EFP diverso tempo fa (si chiama Ling) ed è una storia un po' visionaria, ma che - ad onor del vero - è in linea con il mio morbo di CIFG. Ma non persiamo altro tempo, vi lascio con in 25° capitolo. Le risposte ad ognuno, come sempre, sono in fondo alla pagina. Baci baci

Capitolo Venticinque - Nostalgia

 

 

 

“Perché le lacrime?” Alec interruppe la conversazione che s’era spostata su tutt’altro argomento.

“Cosa?”
”Perché piangevi stamattina, di fronte alla foto?”

Matthias sorrise, scuotendo la testa “Non stavo piangendo”

“No? Ma io ho vist…oh” si interruppe il biondo mettendosi due dita sulla labbra, quasi si fosse accorto di avere detto una stupidaggine “Certo, scusami, devono essere anche loro il frutto delle mie …visioni”
”Visioni?”
Alec esitò. Non aveva idea di chi fosse quell’uomo, perché dirgli, quindi della sua malattia?

Ma la domanda che sorse nella sua mente fu piuttosto quella contraria. Matthias Cole era uno sconosciuto, un uomo appena incontrato col quale Alec stava cenando, ma non era così che Alec lo vedeva. Sentiva di avere un legame così profondo con lui che il raccontargli della sua malattia sembrava la più naturale delle conseguenze a quella domanda.

Forse stava definitivamente impazzendo, forse le sue allucinazioni si stavano così perfettamente mischiando con la sua vita reale che ormai non era più in grado neanche di riconoscere se quello che provava fosse vero oppure illusorio…

Ma Matthias lo faceva sentire così protetto che decise che non era poi così importante sapere se quella sera era reale, se il sig. Cole si sarebbe alzato ridendo di quel ragazzo biondo dalla mente malata.

C’era qualcosa di troppo familiare in quei lineamenti e in quella voce per dubitare, qualcosa di lontano ma mai dimenticato. Così Alec affidò una parte di se stesso ad uno sconosciuto.

“Sono malato” disse tamburellandosi le dita sulla fronte. “Soffro di visioni, di allucinazioni… Faccio fatica a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è…”
”Da sempre?”
”Da sempre” annuì Alec “anche se ultimamente le cose stanno peggiorando. A volte…ma no, non voglio annoiarti con un discorso inutile”.

Matthias si protese leggermente verso di lui, guardò gli occhi azzurri del ragazzo.

Erano chiari, turchese intenso, leggermente adombrati dai capelli che gli cadevano sopra e che non volevano stare dietro all’orecchio. Si accorse di essersi proteso per toccare quei capelli solo quando sentì i fili dorati fra le dita. Erano setosi e morbidi, Matthias lasciò che scorressero fra i suoi polpastrelli per un attimo, prima di sistemarli dietro l’orecchio di Alec.

Riluttante, allontanò la mano.

“Continua…” fu l’unica cosa che Matthias riuscì a dire

Alec si passò una mano esattamente dove il moro l’aveva toccato, nel tentativo di prolungare la sensazione di quel contatto.

“A volte…” cercò di ricominciare a parlare. Aveva la bocca secca e deglutì, a vuoto. “a volte, poi, queste crisi sfociano in altre crisi, in paure…a volte in assenze …Quindi probabilmente, ho visto qualcosa che non c’era e ho pensato che invece fosse lì” Alec si strinse nelle spalle, imbarazzato per aver pensato che davvero qualcun altro, oltre a lui, potesse aver pianto di fronte alla sua foto.

“E non c’è niente che si possa fare?”
”Mi hanno visitato dottori e luminari di psichiatria, mi hanno prescritto mille farmaci, ho provato anche diverse cure omeopatiche …ma pare che non ci sia niente da fare. Sono, per così dire, una caso unico” sorrise un po’, allargando gli occhi “però forse, c’è qualcuno che può aiutarmi”.
Alec si riferiva a Jude Dorley.

“Un medico?”
”A dire il vero, non credo che questa persona sia un medico; il nostro incontro è stato, per così dire, piuttosto bizzarro. Nella mia mente ho preso a riferirmi a lui come lo ‘stregone’”.

Matthias corrugò le sopracciglia con aria scettica.

“Ha un nome?” Matthias si rese conto di non riuscire a controllare la necessità violenta di sapere di più, molto di più su quel ragazzo di fronte a lui. C’erano troppo cose che non capiva, la confusione di quei giorni non gli dava pace.

 

Furono interrotti dal cameriere.

 “Spero che la cena sia stata di vostro gradimento” disse “Desiderate altro?”

“Era tutto perfetto, grazie mille” gli disse Matthias, facendogli cenno di portargli il conto.

La voce del cameriere aveva riportato i due nel ristorante, dissipando quell’aura ovattata che s’era creata. Le chiacchiere delle altre persone ai tavoli, prima scomparse alle orecchie di Alec e Mathtias, riempirono la sala.

 

Il moro sorrise e scosse la testa.

“Quella fotografia ha fatto piangere anche me”.
”Che cosa?” le labbra di  Alec tremarono.

“Quella fotografia ha fatto piangere anche me. Non stavo piangendo, questa mattina quando ci siamo incontrati, ero troppo scioccato per poterlo fare. Ma la prima volta che ho visto quell’immagine su Freedom, non ho potuto fare a meno di piangere…”
”Anche…” la voce di Alec si udì appena.

“Sì” sospirò Mathtias “E hai ragione tu. E’ una bellissima foto, ma t’assicuro che ne hai scattate di migliori. Mentre t’aspettavo, oggi pomeriggio, ho attraversato le altre sale e ne ho viste di più belle, ma quella…” fece una pausa per spiegarsi meglio. “…è come se quella foto mi parlasse… Ho pianto quasi fossi ancora un bambino perché la solitudine che mi trasmetteva quell’immagine era così intensa che non sono riuscito a trattenere le lacrime. Ho pensato fossero i pochi colori, le sfumature del verde, e l’azzurro monocromo del cielo. Ho pensato fosse il falco, solo ed incapace di cambiare con la sua sola presenza, quell’immagine. Non so esattamente cos’ho pensato” disse scrollando le spalle “perché non riuscivo più neanche a pensare lucidamente”. Di nuovo si fermò, come a cercare di ricordare esattamente cos’era successo di fronte alla copia di Freedom. “ Ecco perché ho dovuto sapere chi aveva scattato quella fotografia”.

“Quasi la foto fosse accompagnata da un grido di dolore…” continuò la frase Alec

“Quasi la foto fosse accompagnata da un grido di dolore” annuì Matthias. Poi proseguì “Non è stato molto difficile scoprire chi eri e che cosa facevi, sono stato anche piuttosto fortunato perché Seth Nolan e Kenneth Locke avevano intenzione di occuparsi di una piccola mostra con le tue fotografie. Si trattava solo di venire a Londra, vedere la fotografia  e vedere chi l’avesse scattata. Speravo che così facendo avrei capito il perché della mia reazione eccessiva.”
”E è successo?”

“Per un istante ho pensato di sì, ma mi sbagliavo… come mi sbagliavo in realtà…” si passò una mano sugli occhi, aggrottando  la fronte per lo sforzo “Un senso di colpa incolmabile, causato da del rimorso e del rimpianto per qualcosa che non conosco…Sono stato schiacciato in quella stanza, stamattina - di fronte a quella fotografia - senza capire il motivo.”
Alec prese la mano di Matthias che stava leggermente tremando.

“Che cos’è quella foto? Che cosa sono quel rimorso e quel rimpianto?” chiese al biondo portandosi alle labbra prima e sulla guancia dopo quella mano, intrappolata nella sua: “E chi sei tu?”

Matthias non si aspettava una risposta, non era Alec che avrebbe potuto dargliela. La confusione che regnava nelle sue iridi turchesi era pari alla sua.

Non poté fare a meno di sorridere nel guardarle. Capiva ogni sfumatura. Ogni venatura pareva volergli raccontargli una storia che lui non riusciva a sentire. Non erano neanche passate ventiquattr’ore da quando aveva visto quel viso per la prima volta, eppure gli sembrava di guardarlo da sempre.

La mano dell’altro ancora nella sua imponeva al suo respiro di accelerare, ma la sua mente gli imponeva invece di formulare un pensiero razionale: non era forse assurdo il suo comportamento e il suo attaccamento a quella voce, a quei capelli e quegli stessi occhi?

In quella irragionevole e completa confusione, trapelò un sentimento netto e ben distinto fra gli altri: nostalgia.

 

Di nuovo il loro microcosmo fu interrotto dal cameriere che portò il conto.

Di nuovo, le voci del ristorante si riappropriarono della stanza intorno a loro.

“Andiamo” disse Matthias dopo aver pagato.

 

 

L’aria all’esterno era frizzante e Alec fu scosso da un brivido.

Londra era illuminata dai suoi lampioni sempre un po’ foschi e attraversata da automobili di persone che, di fretta, dovevano raggiungere qualcuno o qualcosa. Un vento leggero smuoveva gli alberi del vicino Regent's Park e ne portava il fruscio fino al marciapiede, dove i due camminavano in silenzio.

Chi era, gli aveva chiesto Matthias.

Nessuno, uno qualunque.

Una persona che amava la fotografia e che viveva di un sogno e della paga del pub in cui lavorava…

“Però una volta, ero un principe” disse fra sé e sé, prendendosi in giro.

“Che cosa?”

“Una volta, mio nonno m’ha raccontato che la mia famiglia era quella di un principe, ma sinceramente, non credo molto alle favole che mi raccontava…”

Matthias sorrise divertito: “Dev’essere stato bello ascoltarlo”.
”Molto e devo dire che mi manca, ormai ci vediamo molto poco”.

“Dove vive?”
”A St. Ives e non riesco a farlo venire a Londra neanche con le minacce. Dice che Londra ormai è troppo grande per un vecchietto come lui”
”E perchè non gli credi?”

“Un principe” Alec si strinse nelle spalle “sarebbe divertente, ma penso che mio nonno inventasse fiabe e storie per tranquillizzarmi, quand’ero bambino, e per evitarmi una crisi…” spiegò enfatizzando le sue parole con un gesto delle dita “se impazzivo, mia nonna dava sempre la colpa a lui” aggiunse con una smorfia preoccupata in viso.

“Doveva mettere molta paura”.
”Mio nonno era terrorizzato”.

Risero.

Possibile che potesse ridere così della sua malattia? Eppure Alec era sereno.

“E i tuoi nonni?”

“I miei nonni?”

“In fondo” si spiegò Alec alzando le sopracciglia “non so niente di te e siccome si sta parlando di nonni…”
”Io penso tu sappia molto me”
Alec aggrottò le sopracciglia.

“Non mi hai ancora mai chiamato per nome…”

Alec fece per rispondere, ma le parole gli morirono sulle labbra: era vero. Qualcosa dentro di lui sapeva che non doveva pronunciare il suo nome, che doveva essere dimenticato.

“Come posso fidarmi?”
Fu il turno di Matthias di non capire.

“E’ tutto così strano” disse Alec “così irreale che non posso non pensare che sia solo un sogno. Ora mi sveglierò, per terra da qualche parte, con qualcuno intorno a me e la faccia preoccupata di chi ha appena visto un morto…” la voce gli tremo, leggermente “Come faccio a sapere che non scomparirai? Che non sei uno di quei tanti sogni che …”
Matthias lo interruppe prendendogli la mano e attirandolo a sé.

“Non ho modo per convincerti… Io stesso dubito che ci sia del vero fra me e te” sorrise “Se dovessi veramente comportarmi in maniera razionale, me ne andrei, non avendo questo bisogno impellente di rivederti…o di toccarti” aggiunse lasciando che le proprie dita scorressero sulle braccia di Alec.

“Non scomparirai? Non svanirai come ogni cosa quando mi sveglierò?” il biondo non osava guardare Matthias negli occhi, non si fidava del suo sguardo – piangere l’avrebbe fatto sentire solo più sciocco. Non si fidava neanche della sua voce – che sentiva scappargli via senza controllo.

Si avvicinò ulteriormente al moro e gli appoggiò la testa sulla spalla, lasciandosi accarezzare il viso dai capelli neri e inalando un odore dimenticato.

“Ho nostalgia di te” sussurrò “Ho così tanta nostalgia di te che mi viene voglia di gridare o di piangere. E non riuscendo a fare nessuna delle due cose, mi sento perso e ho paura… Ho paura…” cercò le parole “di scomparire senza di te.”

Matthias lo strinse a sé, nascondendolo nel suo abbraccio.

Nostalgia, aveva detto bene: gravava su di loro e ne amalgamava i respiri.

 

Il vento cambiò, per un istante, il suo soffio.

“Dobbiamo andare” disse con urgenza Alec “Dobbiamo fare in fretta”.
Il biondo cominciò a camminare in direzione opposta rispetto a dove si trovava l’auto di Matthias

“Aspetta” cercò di fermarlo l’altro, che non capiva l’improvvisa agitazione di Alec.

“No, dobbiamo andare…ma, ci vediamo domani?” chiese con speranza. Sapeva che qualcosa stava succedendo, lo sentiva nell’aria e in quel cambiamento del vento innaturale che era avvenuto poco prima. Anche Matthias ebbe la sensazione di udire una voce, nel vento.

“Ti accompagno a casa”

“No, è meglio di no. I Docks non sono un posto sicuro, soprattutto per una macchina come la tua…”
Alec esitò, sapeva che doveva andarsene, ma non voleva. La sua pelle era gelida, così bruscamente separata da quella di Matthias.  Poi l’istinto prevalse e circondò di nuovo l’altro con le proprie braccia

“Vediamoci domani” gli bisbigliò nell’orecchio “Vediamoci domani per favore. Non dirmi di no…”
”Domani” rispose Matthias, baciandolo a fior di labbra “Ci vediamo domani”.

Il sorriso di Alec gli illuminò il volto: doveva essere tutto reale, per forza.

Corse via, evitando il pericolo che stava arrivando.

***

Smolly_sev: Grazie mille *_* Mi fa piacere sapere di non essere sola con questo morbo contagioso XD Esse e Ayel saranno due personaggi chiave del racconto, spero che continueranno ad affascinarti ^_^

TheFrozenColor: Come vedi, sto cercando di riprendere il ritmo, anche perchè mi spiace sempre quando si perde il filo del racconto perchè ci metto troppo ad aggiornare ^_^' E la matassa è bella ingarbugliata, quindi mi devo dare da fare XD Un bacio

Tifa: felicissima che questo capitolo ti sia piaciuto, così come i due che fatico a tenere fermi e a non farli saltare addosso l'un l'altro (ah, la tentazione!!). XD ^*^

Ayay, compagna di sventura, il CIFG colpisce quando meno te lo aspetti...passsiensa, ci dovremo convivere XD Un bacione

BiGi: ehehe penso di capire cosa intendi. Spero che anche il prosieguo della storia ti piaccia così tanto. Un saluto ^_^/

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Capitolo 26
*** Interludio + 26. Giles Arnett ***


Esco di casa, sono un po' di fretta ma volevo mettere il capitolo online perchè è troppo che non aggiorno. Ilprossimo lo metto tra pochissimo, tanto è già lì.

Vi ringrazio tantissimo per i vostri commenti, vi adoro e lo sapete *_* Scappo, mi stanno aspettando! (uno neanche in vacanza può rilassarsi XD). Baci

- - -

Cammini sul marciapiede di quella città, maledetto.

Le tue forme ingannano gli occhi dei mortali, ma non più i miei.

Le tue parole truffano chi ti è vicino, ma io sono troppo lontano.

I tuoi gesti illudono te stesso. Ma non traggono in errore me.

Ti pieghi, soccombi e gridi perché sei stato derubato di ciò che ti apparteneva, la tua superbia t’ha tradito, la tua anima ti ha illuso. E tu sei così, reduce in battaglia che non si dà per vinto: lo vuoi. Lo vuoi e basta, senza remore o compromessi.

Lo pretendi e lo esigi e per questo sei stato punito.

 

Percepisci anche tu il cambiamento del vento, e sorridi:

“Che noia” dici col tuo solito fare petulante “se ne sono andati” e guardi attraverso le tue ciglia nerissime e quegli occhi d’acqua il tuo interlocutore.

Sai che è stato lui ad avvisare i due mortali di fuggire, ma non ti interessa. Le vicende dei vivi t’infastidiscono: giochi con loro, ma hai solo voglia di schiacciarli.  Sei grato ad Ayel per averli mandati via, perché per qualche minuto - forse solo qualche istante - lui è lì di fianco a te, solo per te.

 

La tua natura ti condanna a non poter prendere iniziativa.

Non è la corruzione che sceglie la sua vittima, bensì l’anima che le dà libero accesso.

L’anima di Ayel è perfetta, limpida ed inaccessibile.

Sovvertire le regole del cielo non è qualcosa che ti fa paura, quindi gli getti le braccia al collo e col tuo fare mellifluo, cerchi un varco per baciarlo.

Ma l’anima di Ayel è incorruttibile, persino per te e il suo sorriso vince subito, ti domina.

“Non perdi mai la tua cattiva abitudine di cercare un varco nei cuori altrui?” ti chiede.

Posta così, la domanda ti permettere di fraintenderla a tuo piacimento e continuare a mentire.

“Voglio trovare un varco nel tuo” gli dici, così sinceramente che ti stupisci, ma lui continua a sorriderti, sicuro di aver già vinto.

La tristezza che quel sorriso genera esplode in te violentemente e si trasforma in follia. C’è un pensiero che già da tempo sta prendendo forma nella tua mente: risalire.

Ma come può, uno dei cinque Sobillatori, uno dei più potenti demoni dell’Inferno, abbandonare il suo posto?

Ora che il tuo Signore ti ha imposto la sua volontà, gli sei vincolato e sei obbligato ad obbedirgli. Ma quando il tuo compito sarà finito, quando finalmente potrai indossare nuovamente le tue vesti nobili, allora sì, finalmente potrai decidere.

Solo quando il tuo compito sarà finito. Il tuo, così come il suo.

“Che cosa farai quando tutto questo sarà finito?” gli chiedi, ma non senti la risposta. E’ la tua stessa domanda che t’infastidisce.

Perché dovrebbe scegliere cosa fare, quando sei solo tu che ha il diritto di possederlo?

Di lui stesso...

La gelosia che mostri nei confronti di lui stesso è malvagia.

E’ dolorosa.

 

 

Gli umani…

Ma gli umani ritornano prepotentemente fra di voi, e tu vorresti distruggerli e dissolverne il ricordo. Ma la voce di Ayel è sufficiente a calmarti.

Devi portare a termine il tuo compito, ha ragione. E’ stato firmato un contratto con un’anima e con una promessa come pegno.

Che questo patto e questa promessa vengano mantenute, non è compito tuo. Solo Cain – o Jude  se vogliamo usare il suo nome attuale, come ti diverte sempre precisare - …Solo Cain può fare e disfare ciò che lui stesso ha richiesto, solo Cain può subir le conseguenze delle sue azioni.

Tuttavia tu devi fare da garante, e Ayel deve proteggere il mondo dalla tua presenza.

 

Nessuno protegge te dalla sua.

Non c’è mai pianto, non c’è mai dolore.

Non c’è mai dissenso che tu faccia trasparire.

Non c’è mai verità che tu dica né a lui né a te stesso, incapace di capirti emozionato.

 

Vorresti che gli umani si estinguessero e morissero: esseri inutili, sotto le sue magnifiche ali bianche, protettrici.

Capitolo Ventisei - Giles Arnett

 

 

La mattina seguente Alec arrivò alla mostra per primo, un’ora prima dell’orario d’apertura.

Non voleva essere di nuovo in ritardo, come il giorno prima, inoltre aveva dormito molto male la notte precedente: alle quattro aveva rinunciato a trovare una posizione comoda e s’era preparato per uscire.

Prima però era stato un’ora sotto la doccia. Non aveva fatto niente di particolare, era rimasto fermo, immobile sotto l’acqua bollente che gli scorreva via. Non sapeva neanche esattamente a cosa aveva pensato. Sapeva però che l’oggetto dei suoi pensieri era stato Matthias.

Un nome che – come gli aveva fatto notare il moro la sera prima – non osava pronunciare in sua presenza. Chissà perché. Eppure sapeva che Matthias non voleva sentirlo…

L’avrebbe rivisto oggi.

Anche per questo, Alec era arrivato alla mostra così presto: nell’assurda convinzione che, arrivando in anticipo, l’avrebbe potuto vedere prima.
Ma lui, ovviamente, non era lì, né Alec s’aspettava di vederlo. Pensava solo che il tempo sarebbe trascorso più velocemente.

Prese un caffè ed entrò nella mostra. Seth gli aveva lasciato le chiavi. Trovò un biglietto di Nicole sulla scrivania.

 

Immagino sarai il primo ad arrivare

 

Alec si stupì di vedere come Nicole lo conoscesse bene.

 

ti ho lasciato un paio muffin fatti con le mie manine. Mangiali, altrimenti mi diventi troppo magro!

E poi non vorrai mica farmi credere che non ti piacciono, no?

Giles dovrebbe arrivare in mattinata, insieme al tuo uomo (certo che non è giusto che te lo sia accaparrato tu. E io?)

 

Alec non potè fare a meno di sorridere: Nicole lo rimproverava sempre di prendersi gli uomini che piacevano a lei.

Un istante dopo, però, fu colto dall’evidenza di quel pensiero. Suo, aveva scritto Nicole, e Alec aveva dato per scontato che Matthias lo fosse.

Alla prima lettura, non l’aveva sfiorato la portata di quell’affermazione.

Suo.

Pensò a come potessero essere quei capelli neri fra le sue dita, quella pelle sotto la sua bocca e quei fianchi fra le sue mani…

Ma si fermò immediatamente.
Sorrise, scuotendo la testa: non era davvero il caso di iniziare a fare sogni erotici su un cliente conosciuto il giorno prima. Nonostante tutto però, aveva le mani che gli tremavan
o per l’anticipazione.

 

Io arriverò più tardi. Un abbraccio.

 

Alec ripose il biglietto sul tavolo e prese uno dei muffin dalla scatola di cartone. Aveva una fame incredibile: era così di buon umore che non si rese neanche conto di prendere il secondo dolce e mangiarlo. Quando cominciò a sentire alcune voci in corridoio non ebbe paura. Quel giorno si sentiva bene, non c’erano fantasmi che avrebbero potuto turbarlo.

 

“C’è il panzone che s’è portato il codazzo dietro!”
”Smettila di parlare così! Se Arnett ti sente se ne va e addio pubblicità!”

La donna roteò gli occhi “Seth dovresti essere più rilassato, goditi la mattina come sta facendo il nostro amico”
Seth guardò Alec che se ne stava, poco distante, naso all’insù, a guardare una delle foto in bianco e nero che aveva scattato.

“Certo che è rilassato”  disse irritato Seth “è innamorato!”

Nicole rise “Parli del diavolo…” aggiunse poi, indicando Matthias, appena arrivato.

Alec gli andò incontro: era venuto davvero.

Riuscì però, a salutarlo a malapena, Giles Arnett lo sovrastò:

“Matthias, eccoti finalmente!” quasi gridò, con la sua voce possente “Non vedevo l’ora di vederti!”

“Perché non hai ancora acceso la tua prima sigaretta” lo prese in giro l’altro.

Giles si fece una grassa risata “Lo sai come va…”
Matthias si sporse verso Alec, sfiorandogli la mano in segno di saluto, ma non facendosi notare da Giles.

“E’ una nostra tradizione” poi gli spiegò “fumare sempre la prima sigaretta insieme, ogni volta che abbiamo un appuntamento. Non ti dico i drammi che mi fa Giles quando ci vediamo di sera”

L’uomo corpulento rise di nuovo “Certo, cazzo! Tutto il giorno senza una boccata rischio di morire!”

Alec guardò lo scambio di battute esterrefatto. Giles Arnett era l’esatto opposto di come se l’era immaginato: basso, molto robusto e con una pancia enorme – non poteva dare torto a Nicole, panzone era proprio un soprannome adatto. Aveva più o meno una sessantina d’anni, i capelli rossicci-grigi, arruffati quasi non se li pettinasse da anni. Sembrava poi aver messo i primi vestiti trovati nell’armadio, camicia a scacchi blu e gialli e pantaloni in velluto verdi, lisi sulle ginocchia. A completare il quadro c’erano due bretelle enormi a righe.

Un trionfo di colori messi a caso.

Alec era un esteta, proprio questa sua caratteristica l’aveva avvicinato alla fotografia, da piccolo, e i vestiti di Arnett gli risultarono un insulto al buon gusto.

Ma non era solo l’accozzaglia d’indumenti indossati da Giles che aveva stupito Alec, bensì il fatto che un uomo così fosse ritenuto il più grande critico d’arte d’Inghilterra, se non dell’Europa stessa; e che la gente facesse a gomitate per averlo alle sue mostre e nei suoi circoli.

Alec s’era aspettato una persona molto più fine. La voce profonda e i termini volgari, poi, completavano il quadro.

Nonostante questo, il biondo non poté fare a meno di trovarlo irresistibile, all’ennesimo scoppio di risata del rosso, nemmeno lui riuscì a trattenere le risate.

“Vedi” disse Arnett “contagio anche il ragazzo” Poi si lisciò i capelli, prima di riprendere a parlare con tono più serio. “Tornando a noi” iniziò “sono qui per lavorare! Matthias m’ha parlato molto di te…”
Alec sorrise, imbarazzato.

“…e di questa mostra” Continuò Arnett “E’ molto ben messa. Hai scelto tu la disposizione delle tue foto?”

Alec scosse la testa “No, io non ho avuto alcuna voce in capitolo” disse in un tono a metà fra l’ironico e l’imbarazzato. Probabilmente Arnett non avrebbe preso bene il fatto che Alec non avesse avuto parte nella decisione, l’avrebbe fatto apparire come un novellino - quale era, pensò..

"Mi piace! Mi piace questo ragazzo!"esclamò Giles dandogli una pacca sulla spalla "non è uno che racconta palle."

Alec cercò di trattenere la tosse che gli era stata causata dal colpo appena ricevuto.

"Vedi" iniziò Giles "i fighetti che fanno un paio di foto e si credono i nuovi Sander a me stanno in culo. Solo perché hanno una vaga idea di come e dove si punta un obiettivo... E sono quelli che io chiamo gli spandimerda, ovvero quelli che sanno parlare, ma hanno pochissima sostanza. La gente così, per me, è da eliminare subito dalla scena"

Giles si guardò intorno "Hai grande talento ragazzo, e questo t'è dovuto, ma se m'avessi detto che avevi avuto parte nell'organizzazione della mostra, che avevi deciso tu disposizioni e luci, t'avrei mandato a cagare per direttissima, sapendo che eri uno dei soliti spandimerda. Da quando faccio questo lavoro so che Kenneth Locke non dà la possibilità a nessuno - neanche al Padre Eterno - di decidere come gestire una sua galleria. Neanche se in cambio gli avessi promesso un pompino al giorno da qui all'eternità" di nuovo, accompagnò le sue parole con una grassa risata. "Del resto" continuò" il fatto che m'abbia chiamato Matthias doveva farmi venire il sospetto che tu non fossi uno dei soliti pivelli spacconi."

Alec era in imbarazzo e non sapeva esattamente come rispondere.

Fu Mathias a trarlo d'impaccio "Qualcosa che ti piaccia in particolare?"

Giles si guardò intorno "Ai miei ragazzi" disse indicando due uomini in fondo alla sala "piacciono sicuramente i visi di quei bambini.”Alle mie donne invece" indicò tre ragazze sedute in un'altra saletta con lo sguardo fisso all’insù "piacciono sicuramente quelle fotografie post-romantiche... Il cuore di una donna a volte è così facile da leggere…" aggiunse, scuotendo la testa “a volte impossibile”.

Alec rise "Post-romantiche mi pare eccessivo…"
"Non ti sottovalutare, giovane! Difficilmente, quando viene ritratto il mare, una donna non ne rimane affascinata. Ma le mie tre donzelle, t'assicuro, ne hanno viste d'immagini... Se sono col naso all'insù, vuol dire che siamo di sicuro di fronte ad un post-romantico. Per quanto invece riguarda me..." lasciò un attimo in sospeso la frase "penso che le migliori siano quelle due laggiù. Sono incisive, ma visionarie. Sono quelle foto che guardi e che ogni volta, hai l'impressione che sia la prima. "
Alec stava per dire qualcosa, ma Arnett non aveva finito "Ma..." disse puntando il dito in aria "c'è una fotografia che è speciale"
"La mia" continuò Matthias e Arnett annuì.

"Esatto, quella che hai comprato tu. Non è la foto più bella, questo è certo, ma c'è qualcosa, in quella fotografia che mi è inafferrabile. E' struggente. E' come se nascondesse un significato che non riesco a cogliere, ma che è lì che aspetta solo d'essere capito"
Alec spalancò gli occhi e guardò quell'ometto grassoccio davanti a sé.

Da critico d'arte temuto, quella mattina s'era trasformato in compagnone, ma d'improvviso era ritornato la persona degna della sua fama.

C'era qualcosa in quella foto, Alec lo sapeva bene, ma si stupì di sentire Giles Arnett commentare così quell’immagine. L’aveva percepito Matthias, ma lui sembrava coinvolto, in qualche modo, nella storia della foto. Arnett no, ne era completamente estraneo.

Alec sorrise, grato al critico che era riuscito a notare quel senso di attesa e solitudine che traspirava dalla foto.

 

 

“E’ di qua la stanza dove Seth tiene le sue carte, vero?” chiese Matthias camminando velocemente nel corridoio della mostra.

“Sì” rispose Alec “vuoi che lo chiami..?”

Matthias non rispose, trovò la stanza che cercava, vi entrò e diede un’occhiata intorno velocemente, per assicurarsi che non ci fosse nessuno.

C’era un’insolita urgenza nei modi di fare del moro.

Alec non fece in tempo a capire le sue intenzioni, perché questo lo portò con sé all’interno e chiuse dietro di loro la porta, girando velocemente il pomello per impedire ad altri di entrare.

Era riuscito a trattenersi mentre Arnett parlava, ma ora non ce la faceva più: da troppo tempo desiderava farlo.

Da sempre.

Baciò Alec con impeto, non ammettendo alcuna replica.

Si schiacciò contro il biondo che, colto fra le sue labbra e la porta, rimase per un attimo stordito e immobile.

Fu una sensazione così intensa che Alec tremò.

Matthias separò con la lingua le labbra immobili del biondo e ne assaggiò così il sapore.

Alec gemette, senza neanche accorgersene, ma in quell’istante la sua mente scomparve, si dissolse, e rimasero solamente la bocca di Matthias che reclamava la sua, e le mani dell’altro, che cercavano le sue.

Lo baciò, quasi la sua vita dipendesse da quel bacio.

C’erano una necessità ed un bisogno tali che Alec sentì la sua pelle sciogliersi e bruciare dove Matthias la toccava.

Non era abbastanza vicino. Non abbastanza vicino, nonostante Matthias lo stesse premendo contro la porta e la sua bocca fosse in quella dell’altro.

Lo attirò ulteriormente a sé, afferrando i capelli neri sulla nuca e passandogli un braccio intorno alla vita.

Matthias si staccò dalla sue labbra e continuò a baciarlo lungo la guancia e poi il collo, gemendo a quel distacco.

Il suo respiro nell’incavo del collo, le sue labbra morbide sulla spalla e i denti che gli mordicchiavano la spalla...

C’era troppo stoffa fra lui e quella pelle.

Voleva ogni centimetro, tutto. Suo. Solo per sé.

Gli morse la pelle e Alec gemette così sensualmente che Matthias dovette staccarsi e riprendere fiato per non perdere del tutto la ragione. Gli spostò i capelli dal viso con entrambe le mani, e appoggiò la propria fronte su quella del biondo.

Lo guardò negli occhi: le pupille dilatate facevano risaltare le iridi turchesi, umide e così belle che Matthias ebbe la certezza di essersi perso e di non poter più tornare indietro.

Gli passò la lingua sull’orecchio prima di staccarsi e permettere quindi che la maglia fosse sfilata.

Alec lo lasciò fare, e quando la bocca dell’altro arrivò sul suo petto soffocò a malapena un grido fra i capelli dell’altro.

Prese a slacciargli la camicia, mentre Matthias lo distraeva continuando a baciarlo sulla pelle nuda delle spalle e delle braccia.

Era l’odore che lo stava facendo impazzire, o forse il suo sapore…

Probabilmente entrambi.

Le sue mani ed i suoi baci.

Tolta la camicia, Matthias gli fu di nuovo addosso, di nuovo nella sua bocca.

 

Alec, d’improvviso, si fermò, raggelato.

“Accetto l’invito volentieri” si sentì una voce maschile provenire dall’esterno “e sono sicuro che anche Alec sarà felice di unirsi a noi a cena”

“Ti prego, vieni anche tu” sussurrò con urgenza Alec a Matthias.

Il moro aveva la voce troppo roca per rispondere e guardò il biondo cercando di capire.

“Jude Dorley” spiegò  allarmato Alec “Jude Dorley è qui. E’ appena stato invitato a cena da Giles Arnett e io con lui… Vieni anche tu, ti prego” Alec cercò di nascondere l’ansia che l’aveva colto.

Matthias la notò, ma preferì non indagare.

“Potresti chiedermi qualunque cosa, ora, sai?” gli disse invece, ansimante, ancora coi sensi in debito dell’uomo fra le sue braccia.

Alec passò una mano sul viso dell’altro “Lo prendo come un sì?”

“Però baciami”

Alec rise e obbedì.

“Stasera vengo, ma a due condizioni…” bisbigliò  Matthias posando piccoli baci sulla guancia di Alec.

“Due condizioni allora….” rispose Alec che intanto non riusciva a smettere di sorridere “…due condizioni però  valgono due richieste.”

“La prima è la cena di questa sera, e io ti dico di sì, solo se vieni come mio ospite…”

Così dicendo, intrecciò le dita fra i capelli biondi dell’altro. Poi proseguì.

“La mia seconda richiesta poi è di sapere chi è questo Jude Dorley e perché il suo nome ti provochi un brivido.”
”Geloso?” disse ammiccante Alec.

“Molto” rispose Matthias portandosi una ciocca di capelli d’oro sul viso.

Alec appoggiò la propria fronte contro quella dell’altro.

“Ti dirò chi è Jude prima di stasera, ora ci aspettano di là.”
Matthias sospirò, infastidito, ma annuì: “e la tua seconda condizione?”

Gli occhi di Alec furono attraversati da un lampo e le sue pupille si dilatarono. Appoggiò le labbra sull’orecchio dell’altro e bisbigliò così a bassa voce che Matthias quasi non riuscì a sentire.

Il fiato del biondo gli faceva il solletico e la sua voce sensuale gli rendeva difficoltosa la respirazione.

Quando poi sentì quello che Alec aveva da proporgli, ebbe un sussulto e poi scoppiò a ridere.

Averlo.

“Mi fai impazzire” gli disse rubandogli un ennesimo bacio.

 

 

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Capitolo 27
*** 27. Realtà? ***


Rieccoci qui ^_^/ Grazie mille a tutti quelli che hanno recensito, che hanno letto e che sono passati di qui. Per i curiosi, alla fine non mancato poi tanti capitoli ^_^ (e ribadisco, li ho già scritti tutti ^_^): Baci Baci

Capitolo Ventisette - Realtà?

 

 

 

La galleria aveva chiuso. Era tutto buio e non si sentiva un rumore.

Nel corridoio a lato, quello che portava nelle stanze non adibite alla mostra, da sotto una porta in fondo filtrava un po’ di luce.

“Sono andati tutti via…”
”Vedrai domani quanta gente verrà a vedere le tue foto”

“Seth m’ha detto che probabilmente non chiuderà la mostra prima di domenica”

“Non erano questi gli accordi?”

“No” scosse la testa Alec “A dire il vero l’idea iniziale erano due giorni…”

“Quindi la ragazza che m’ha risposto al telefono dicendomi che la galleria sarebbe rimasta aperta fino al weekend m’ha mentito?”

“Ti sei presentato?”

Matthias sorrise “Sì” e roteò gli occhi, in modo quasi infantile.

Alec scoppiò a ridere.

“Mi stai pendendo in giro?” Matthias chiese, fingendosi arrabbiato.

“Hai un modo di roteare gli occhi che non penseresti un Cole possa avere.”
”Dovrei essere un uomo serio e posato?” chiese Matthias alterando la propria voce e fingendo un’espressione compunta e snob.

Alec rise di nuovo: “Saresti forse più appropriato, ma non mi piaceresti”. Non capì cos’avesse detto finché non ascoltò la sua voce.

Piacere… Non era il termine corretto, ma si stupì ugualmente che, con semplicità, l’avesse ammesso all’altro.

Dopo il bacio di qualche ora prima si sentiva stupido di preoccuparsi di un solo termine, ma ancora non aveva ben chiaro cosa pensasse Matthias.

“C’è qualcosa che non va?” Gli chiese il moro, notando l’improvviso silenzio dell’altro.

“Che cosa pensi?” chiese Alec “Che cosa c’è qui?” chiese indicando lo spazio che lo separava da Matthias, ma non attese risposta. “Io ti conosco, ti ho visto nei miei sogni… M’illudo che possa esserci qualcosa di reale in tutto questo, ma da qualche parte nella mia testa so che non lo è, ma tu?”

Matthias aggrottò la fronte “Come puoi dire che non è reale?”
”Perché non ha senso” alzò le spalle il biondo “Questo” e di nuovo indicò lo spazio fra lui e l’altro “Non può esistere”

Matthias si avvicinò velocemente e afferrò il polso di Alec attirandolo a sé.

“Non deve esistere” riformulò la frase, fraintendendone volutamente il significato.

“Intendevo dire che questa…”cercò le parole adatte, ma non le trovò “… questa cosa fra noi non può essere reale…” spiegò Alec.

“So bene cosa intendevi dire” gli sussurrò Matthias “Ma come puoi farmi credere che questa voglia di toccarti, di parlarti e di baciarti di nuovo come e più di prima, non sia reale?”
Alec aprì la bocca per rispondere ma nessuna parola trovò un varco fra la totale confusione della sua mente.

Matthias gli sistemò i capelli dietro l’orecchio e gli sfiorò la guancia con la stessa mano.

Non lasciò andare il polso che aveva afferrato, ma intrecciò le proprie dita con quelle dell’altro.

Si sedette sul divano che c’era nella stanza e fece sedere Alec sulle proprie gambe, in modo che avesse il suo viso appoggiato nell’incavo del collo. Far scorrere quei capelli biondi fra le dita era troppo bello per non farlo una volta e poi di nuovo.

Per non farlo ancora.

“Io non so cosa penso” disse poi il moro “Se intendi chiedermi che cosa penso di me e di te, non so risponderti… Ma so per certo che qualunque cosa sia, sogno o realtà, adesso è mia. E’ mia e la voglio.” Continuò, stringendo Alec a sé.

Questi sorrise del desiderio di possesso del moro: “Rimarrei così, piuttosto che andare a cena stasera…”

“Tanto quel pazzo di Giles ci ha dato appuntamento alle 10 di sera. Dice che è un’abitudine da barbari quella di noi inglesi di cenare presto. Lui si dà arie da Europeo!”
Alec ridacchiò “Sono contento però di star qui per un po’, l’ufficio di Seth è un bel nascondiglio. Ma se preferisci uscire…”

Matthias lo strinse a sé: “Voglio stare in un posto silenzioso, con te, finché non è ora di andare… Ti avrei portato in albergo da me, ma non credo che t’avrei lasciato parlare molto lì” sorrise, ammiccante.

“Qui invece sono al sicuro?”

“No” Matthias scosse la testa “Non lo sei”  gli disse accarezzandogli in viso con un dito “ma voglio sapere troppe cose per lasciare al mio istinto carta bianc…” non riuscì a concludere la frase perché Alec gli aveva intrappolato il dito fra le labbra e con la lingua stava tracciando la sottile nervatura fra le nocche per poi raggiungere il palmo della mano e porvi un bacio leggero.

La bocca di Matthias si seccò in un istante, la sua mano tremò.

Non c’era nessuno alla mostra, nessuno in quella stanza: poteva amarlo lì. Voleva amarlo lì. Voleva fargli gridare il proprio nome e perdersi in quello di Alec e quasi mise da parte le sua mente, se non che sentì l’altro sorridere e stringergli la stessa mano che poco prima aveva baciato.

“Hai ragione, sono sciocco, scusami” disse Alec “E’ che…” il desiderio era così intenso che era difficile controllarsi, ma non lo disse. “…le condizioni erano che ti spiegassi chi è Jude Dorley, ed è giusto che lo faccia.”
”Così poi ci occuperemo dell’altra condizione” scherzò Matthias cercando di stemperare con uno scherzo la passione di poco prima.

“Questo è ovvio” Alec scrollò le spalle, come a sottolineare la cosa più evidente al mondo.

“Jude è un uomo che mi fa paura. E’ un uomo che mi fa paura, ma che allo stesso tempo mi dà speranza… Vivere come vivo io, nel continuo terrore che ciò che vedi in realtà non esiste, non è vivere. Il motivo per il quale ho iniziato a fotografare è proprio questo. Volevo fermare la realtà su un qualcosa di concreto, una pellicola o della carta, per non lasciarla sfuggire e confondersi fra i miei mille sogni…” Alec sospirò “Non esiste cura, nessuno pare essere in grado di dirmi perché mi succede tutto questo. Ho perso i miei genitori per questo” continuò toccandosi la fronte con un dito “Mia madre era convinta che fossi la punizione per non essere stata in grado di concepirmi con la mente in perfetta armonia col corpo. Penso sia ancora in India alla ricerca di un equilibrio interiore che mi accusa di averle rubato…”

Matthias gli accarezzò delicatamente i capelli. La sua esperienza personale lo aveva portato ad allontanarsi il più possibile dai suoi genitori, ma non voleva interrompere Alec con la propria storia personale che, oramai, non lo interessava né gli faceva più male.

“E pensi che questo Dorley potrebbe davvero avere la soluzione che cerchi?”
”La sera in cui ci siamo incontrati per la prima volta, lui …non so come spiegare” disse quasi spazientito con se stesso “è come se avesse mostrato alcune delle mie visioni più frequenti, all’esterno della mia mente…”
Matthias non capì.

“Come se potesse vedere e far vedere i miei pensieri…Non so” di nuovo Alec scrollò le spalle. “E m’ha detto che solo nel caso in cui mi unisca al suo gruppo lui potrà salvarmi…”
”E in che cosa consiste questo gruppo?”

“M’ha spiegato che esistono altre persone come me, che non è vero che sono solo… E che solo unendomi a loro, potrei farmi aiutare.”
Matthias era piuttosto scettico: “Non credo molto a queste cose sovrannaturali.”

“Non ci credo neanch’io, a dire il vero… E come ti ho detto, Jude mi mette un po’ di paura addosso, ma avresti meno dubbi se avessi visto quello che è stato in grado di fare quella sera.”

“Cosa dovresti fare per entrare nel suo gruppo?”

“Solo firmare un foglio che m’ha lasciato la sera del nostro incontro”
”Cosa c’è scritto?”

”Niente”

“Niente?!”

Alec scosse la testa “E’ un foglio bianco, dice che solo chi appartiene agli eletti può leggerne il contenuto”

“Ma non ha senso! Fogli bianchi, santoni che curano l’incurabile…”
Alec s’irrigidì.

“Non diresti così se sapessi cosa popola la mia mente!” disse stizzito “se ogni giorno della tua vita, ogni volta in cui esci di casa ti chiedi se e soprattutto come tornerai. Se di nuovo ti troveranno per terra, da qualche parte, in preda al panico per un niente…Non…”
Matthias lo abbracciò e Alec s’aggrappò a lui.

“Shhh” gli sussurrò “scusami, non volevo…Non intendevo  sminuire…”
”Non è colpa tua” lo interruppe Alec con voce flebile “E’ solo che voglio liberarmi di tutto questo. E Jude mi dà la possibilità di sperare che ci sia una soluzione. Se la medicina non ha funzionato, perchè non provare altre vie?”

Matthias non rispose, Jude Dorley non gli piaceva ma non era quello il momento per sottolinearlo ulteriormente.

A differenza di Alec, però, la sua non era paura. No sapeva esattamente catalogarla, ma il sentimento s’avvicinava decisamente più all’astio.

“Se mi dai qualche giorno, vedo che cosa posso scoprire di questo Jude Dorley…”
”Fai parte di un’agenzia investigativa?” scherzò Alec.

“Ho i miei contatti” rispose Matthias con un sorriso.

Alec sorrise. Il sorriso poi, si fece più intenso e si trasformò in vera e propria risata.

“Ti faccio così ridere?” chiese il moro, fingendo un’espressione irritata.

Alec scosse la testa “No non sei tu” disse, cercando di non continuare a ridere “ma tutta la situazione.” Poi deglutì e si spiegò “Io non so chi tu sia, non so neanche dove abiti e guardaci” disse allargando le braccia “Io ti parlo di Dorley e tu mi rispondi che prenderai informazioni su di lui… quando in realtà non so nemmeno chi sei!”

Appena pronunciata questa frase, Alec si rese conto di quanto, in realtà, si sbagliasse.

“Te ne andrai dopo la mostra?” chiese.

“Non se non vieni con me”
”E rimarresti qui a Londra a fare niente?”
”C’è sempre troppo da fare a Londra” sorrise Matthias.

“Ma…”
”Niente ma, Alec. Devo scoprire che cosa…” sospirò “…che cosa sta succedendo, e che cosa ci è successo. Voglio sapere perché…” sorrise “non riesco neanche a trovare le parole per spiegarmi. Ma non lo posso lasciare andare, né posso lasciare che tutto sfumi. E non voglio assolutamente allontanarmi da te.”

“Non pensi che sia semplicemente un artistucolo in cerca di un po’ di pubblicità, di qualche soldo e niente di più?” incalzò Alec “potrei davvero mirare…”
”Io ti ho cercato” lo interruppe dolcemente Matthias “Io ho comprato una tua foto, anche se non era in vendita…”

Alec si sollevò per guardare Matthias negli occhi: lui non aveva nulla da offrire a quell’uomo che lo teneva fra le braccia, né soldi, né l’occasione della propria vita, nulla.

Solo una foto, scattata un giorno come tanti e i suoi due colori malinconici.

Ma per qualche motivo a lui ignoto Matthias era lì con lui ed era dove voleva essere.

E questo pensiero lo faceva impazzire di gioia.

Gli accarezzò le ciglia incapace di fare altro.

“Sei bellissimo” bisbigliò prima di avvicinarsi e baciargli quelle stesse ciglia appena accarezzate.

Matthias sospirò, quasi gemette, a quel contatto.

Ma, prima che avesse il tempo di reagire, squillò il suo cellulare.

Alec si bloccò e cercò di spostarsi, ma Matthias lo fermò.

“Aspetta” gli disse a fior di pelle “Promettimi che mi porterai dove hai scattato quella foto…”
Alec non riuscì a rispondere, era troppo vicino a Matthias, ma il trillo del cellulare sembrava volerlo strappare da quel contatto.

“Dobbiamo andare” disse il moro “Giles non è uno che ama aspettare e non puoi farti scappare l’occasione che Arnett di dà.”
Alec stava per protestare, ma non disse nulla: Matthias aveva ragione, nonostante ogni fibra di sé fosse contraria al distacco, Alec si alzò e Matthias rispose al cellulare.

“Ci andiamo appena finita la mostra.”

Matthias non capì subito, ma poi annuì.

 

Prima di uscire dalla stanza il moro ebbe una fitta al petto. Un dolore intenso che per un attimo gli tolse il respiro.

Ebbe chiara e netta, la consapevolezza che Alec avrebbe sofferto per colpa sua.

Ebbe la chiara e netta sensazione che il luogo dove Alec l’avrebbe portato, non sarebbe stato un luogo di pace.

Cercò di scacciare il pensiero: non era possibile, l’uomo fra le sue dita era così parte di lui che ferirlo avrebbe voluto dire uccidere se stesso.

Ciononostante, Matthias, non riuscì ad accantonare l’idea che, per colpa sua, Alec potesse rimanere schiacciato.

Di nuovo cercò di accantonare questo pensiero nella sua mente: era un’idea confusa e troppo poco chiara per chiamarla presentimento.

Probabilmente, la sua sensazione era solo dettata dall’incertezza degli eventi.

 

***

Smolly: grazie, sei carinissima. Spero che anche questo ti piaccia. Ovviamente attendo tue nuove =) Baci Baci

Nirva: benvenuta!! grazie grazie davvero *_* Mi fai arrossire se dici così... a questo punto, aspetto le tue nuove recensioni *_* 

BiGi Esse ha il suo fascino, lo devo ammettere. E' un personaggio che "ti segna" molto...

 

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Capitolo 28
*** La cena ***


Capitolo Ventotto - La cena
 
 
Mi chiedo che cosa veda, sotto di noi, in questo mare di vita creata da Dio .Insignificante ma splendida probabilmente, attraverso i tuoi occhi.
Ti ho visto commuovere per cose inutili, ho visto le tue mani prendersi cura di persone sudice e malate e mai prendersi cura di me, che sudicio e malato non sono.
Non vorrei essere qui, vorrei essere da tutt’altra parte, ma sempre con te al mio fianco. Vorrei essere a casa mia, con te incatenato e piegato al mio volere.
Forse, sperando che anche tu voglia essere lì.
Eppure l’unico modo per cui io ti possa avere di fianco è questo, perciò compio il mio dovere, obbediente.
Faccio squillare il telefono cellulare di Matthias, e vedo un luccichio nei tuoi occhi appena lo faccio.
Se solo potessi baciarti…
Ti corromperei.
Ma il luccichio non ha segreti, semplicemente avvisi l’umano di stare attento. Se non stanno attenti, il mio signore avrà l’anima di Aaron e Nero sarà schiavo.
Alzo le sopracciglia e rido.
Niente di tutto questo m’interessa granché.
 
“Parli una lingua che non capisco”
“Lo so”  disse Esse stringendosi nelle spalle, con un’espressione impotente dipinta sul volto. “Se aveste accesso a tutto, non sarebbe neanche più divertente…”
”Cosa? Essere demone?”
Esse arricciò il naso e corresse Ayel: “Disobbedire” Sorrise.
L’angelo scosse la testa “Secondo te Alec firmerà il contratto?”
“Non lo so” disse sinceramente Esse “L’idea di Cain non m’era parsa molto furba, all’inizio, ma ora la capisco meglio.”
Ayel annuì “Alec è troppo fragile per non sperare che Jude possa veramente dargli quello che cerca.”
”In un certo senso, però, devi ammettere che glielo darà.”
Ayel sorrise, sarcasticamente “Certo, relegandolo in un angolo buio del vostro mondo.”
“Beh” Esse aggiunse mellifluo “un luogo vale l’altro, per gli umani, no? Fermo in Paradiso, o rinchiuso all’Inferno, che differenza vuoi che faccia per lui?”
Ayel sorrise “Sei troppo intelligente perché risponda a questa domanda.”
Esse roteò gli occhi “Ecco qual è il vostro problema, che vivete tutto come una missione. Come se tutto e tutti aspirassero ad un Paradiso azzurro ed incontaminato”
“Il vostro problema è che non date scelta.”
“Ma ci divertiamo di più” e rise.
Non dissero altro. Osservarono dall’alto mentre Arnett salutava Matthias e Alec.
“Ecco Jude” disse il critico vedendo arrivare Dorley “Rischiavi quasi di essere in ritardo!”
”Alec si sente così a disagio che scapperebbe se Matthias non fosse lì con lui” sogghignò Esse.
“I sensi del ragazzo sono troppo raffinati per non aver paura di Jude” replicò Ayel.
“E questo, probabilmente, non gioca  a favore del mio uomo…”
”Ma mette in guardia il ragazzo…”
Difatti Alec era tutt’altro che tranquillo. Salutò Arnett e Dorley, ma non si allontanò mai troppo da Matthias.
“Questo ristorante è uno spettacolo.”
“Anche Magdalene lo è, se non ricordo male…” lo prese in giro Matthias.
“E’ un bel pezzo di carne, devo ammetterlo. Piena, formosa…Mica come le mille sciacquette ossute senza niente da tenere in mano… ma che ne vuoi capire tu di donne” tagliò corto muovendo la mano “è inutile che parli di rotondità e morbidezza con te” scosse la testa Giles quasi incredulo.
“No hai ragione” sorrise Matthias “Tu mi sembri sufficientemente rotondo e morbido, eppure non sei proprio il mio tipo”.
Arnett scoppiò in una delle sue grasse risate e questo aiutò Alec a rilassarsi un po’.
“Allora Alec, entriamo?” gli chiese poi Jude.
Dall’alto di un palazzo vicino, Esse rise “Certo che se si pone subito così, lo farà scappare!”
”Magari spera che l’ansia e la paura di questa situazione lo aiutino. Può essere che non sia un pensiero sbagliato…”disse Ayel mentre i suoi capelli bianchi oscuravano la luce della luna.
“Penso che anch’io, un giorno di questi, userò quel colore” Esse accennò ai capelli dell’angelo.
“Sono così luminosi che mi starebbero d’incanto” aggiunse poi vanesio e frivolo.
“Mi piacciono i tuoi capelli neri, da che mi ricordo li hai sempre colorati così, sarebbe un peccato se ora cambiassi.”
Esse allargò gli occhi incredulo, ma la sua voce non ebbe esitazioni. “Quindi noti il colore dei miei capelli?”
“Noto molte cose” evitò di rispondere l’angelo, che già era ritornato a guardare gli umani e li indicò, per riportare anche l’attenzione di Esse sugli umani “Guarda  Jude…”
Si era avvicinato e aveva cominciato a parlare con Alec, ma non della sua malattia.
“Ho visto le tue foto, davvero notevoli!”
”Grazie… Non pensavo ti interessasse la fotografia”
“In realtà non sono un esperto. Nonostante Giles cerchi di raffinare il mio gusto, temo di avere un animo piuttosto grezzo.”
Esse rise “Sentilo, come cerca di darsi un tono altolocato…Quest’umano – devo ammetterlo – m’è quasi simpatico”
“E’ il bello delle tue foto” s’intromise Arnett “vanno dritto al punto, non importa chi tu sia…Penso che ci investirò molto. Era da troppo tempo che non mi trovavo di fronte ad un fotografo cazzuto”
Alec rise per l’aggettivo.
“Ma sbrighiamoci ad andare a mangiare che ho fame!”
 
Alec si sedette vicino a Matthias e gli strinse la mano velocemente, sotto il tavolo, prima di fare un sospiro profondo e cercare di allontanare i fantasmi dalla sua testa. Che senso aveva essere così scioccamente agitato?
Nessuno.
“Allora, siamo qui per affari e di affari voglio parlare. Dopo col vino e Magdalena, si sa, si parlerà solo di cazzate” Arnett aveva appena appoggiato il menù sul tavolo, leggendolo velocemente.
“Matthias non si scomoda per un pivello, neanche questa volta ha sbagliato. Ho parlato con Seth e Kenneth, e concordano anche loro con me: hai bisogno sicuramente di una mostra più grande a fine stagione. Dopo che il tuo nome è stato fatto filtrare… Per questo, l’ideale, è venire con me a Berlino, alla fine del mese prossimo.”
Alec spalancò gli occhi incredulo.
“Le foto che sembrano in sanguigna, cazzo, a Berlino saranno un successo” disse sicuro Giles “Non è vero Magdalene?” chiese retoricamente alla cameriera circondandole la vita, quando questa venne a prendere gli ordini.
“Le mie foto in rosso, però, non sono molte…” disse Alec.
“E’ vero, ma non è necessario che lo siano. E’ meglio centellinare all’inizio. E poi…” continuò, lasciando a malincuore andare Magdalene, nonostante non avesse ordinato “c’è la nuova pubblicità Tecn che avrebbe bisogno di un’immagine forte. E sarebbero soldi e sicuramente fama…”
”Della Tecn, non capisco..?”
”E’ della Cole”  spiegò  Arnett con la voce di chi sta rivelando un segreto.
“E’ tua?” Alec chiese incredulo a Matthias
“E’ un ramo della nostra azienda, sì”
”Ma se vuoi usare una delle mie fotografie, puoi prendere quella che preferisci senza…” ma Alec fu interrotto dalla risata piena di Giles.
”Oh cazzo, Matthias. È proprio innamorato!!”
Alec divenne rosso per l’imbarazzo e tacque.
Si sentiva sciocco nonostante pensasse veramente quello che aveva appena detto. Ma le parole di Arnett lo fecero sentire un ingenuo.
Il moro cercò la sua mano sotto il tavolo e l’afferrò forte: non doveva preoccuparsi, era lì per lui.
Alec la strinse e lasciò andare parte dell’imbarazzo che gli aveva bloccato la lingua. Lui era lì, e questo era sufficiente a farlo sentire sicuro.
“Questo ti fa onore ragazzo” gli spiegò poi Giles “sai cosa penso degli spandimerda, no? Stessa cosa vale per chi è schiavo del soldo!”
“Però tu non ti fai mancare niente” sottolineò Jude.
“Questo è perché ho tanti soldi, ma nessuno me li ha regalati.”
Jude annuì e Alec si rilassò completamente. Non riusciva a trovare antipatico Arnett, nonostante i suoi modi bruschi. Trovava rassicurante la sua spontaneità.
“E voi due come vi siete conosciuti?” domandò Matthias. Aveva aspettato volutamente un po’ prima di porre la domanda che lo stava assillando dal pomeriggio.
Quel Jude Dorley s’era stranamente infiltrato nella vita di Alec e, d’improvviso, era ovunque. Non l’aveva stupito più di tanto il fatto che Jude conoscesse Giles – del resto Giles conosceva metà Inghilterra. L’aveva messo in guardia però il fatto che Jude conoscesse prima la malattia di Alec, poi si fosse proposto come unica cura, poi ancora si fosse proposto al tavolo dove poteva decidersi il futuro artistico del biondo… Jude era presente nei punti cardini della vita di Alec e questo gli dava fastidio.
Era geloso, ma era anche preoccupato. Che cosa voleva Jude Dorley da Alec?
“Suo padre” spiegò Giles “era il mio allenatore di calcio”
“Giocavi a calcio?”
”Non dirlo con quel tono sai? Ero una grande promessa!”
“Non oso immaginare” aggiunse sarcasticamente Matthias, roteando gli occhi e Giles, come al solito, scoppiò a ridere.
“Beh, forse ora sono più grande” scherzò, gesticolando intorno alla sua pancia.
“E che cosa fai, ora?” chiese Matthias direttamente a Jude.
“Penso che Alec te l’abbia già detto,” sorrise Dorley “è anche per questo che ho insistito per venire stasera. So che c’è molta diffidenza nei miei riguardi e ci tengo a dimostrare che è malposta”
Matthias lo guardò negli occhi, nonostante le parole dolci ed educate il suo istinto gli diceva di non fidarsi.
“Io e te ci conosciamo?”
A Matthias sembrò d’intravedere una punta di panico nelle iridi del suo interlocutore, ma fu nascosta così rapidamente che il moro non fu in grado di confermare quest’impressione,
“Io conosco te di nome, ma non ci siamo mai incontrati personalmente. Mi auguro però che dopo questa cena ci sarà l’occasione di rivedersi.”
Matthias fissò di nuovo Jude, ma non rispose e la conversazione passò di nuovo alle fotografie di Alec.
Arnett pareva particolarmente entusiasta e spiegò nei dettagli come e cosa avrebbero fatto a Berlino. Inoltre, diede lui stesso qualche suggerimento per la campagna pubblicitaria della Tecn.
Per Alec, ascoltare Arnett era poesia. La passione che il panzone metteva nel suo lavoro era quasi commovente. Il biondo s’era sbagliato, aveva temuto di incontrare una persona spocchiosa, ora capiva bene perché Matthias gli era amico.
Sì, perché ormai – si rese conto – considerava la sua conoscenza di Matthias così profonda ed intensa da poterla usare anche come parametro con gli altri.
Cercò, sotto il tavolo, la gamba del moro e vi appoggiò sopra la mano, stringendola leggermente. Ancora non credeva che fosse lì.
Jude notò questo gesto e sorrise:
“Dopo” disse “vorrei parlarti, se possibile.”
“Dai retta a Jude” disse Arnett “è uno che sa il fatto suo.”
Jude si schermì con le mani “Cerco solo di rendermi utile…”
Alec non rispose alla richiesta di Jude e quando, a cena finita, si fermarono fuori dal ristorante per salutarsi, si augurò che questi non insistesse.
“Allora aspettati una mia chiamata fra una decina di giorni, così decidiamo le ultime cose, poi andiamo a Berlino. Ovviamente…” disse poi rivolto a Matthias “tu sei invitato se non mi distrai troppo il piccolo.”
“Sai che sono un uomo integerrimo” scherzò Matthias  “Se non lo trovi a casa, però, prova sul mio cellulare. Dopo la mostra, dobbiamo andare via per un po’.”
Arnett alzò le sopracciglia incuriosito e fece un sorriso sornione che pregustava la continuazione del discorso.
“No, ninfomane, niente a che vedere col film che ti sta girando in testa. Solo voglio andare a vedere il luogo dov’è stata scattata la mia foto, dopo la mostra.”
”Così lontano?” chiese turbato Jude.
“Come fai a sapere la foto cui mi riferisco?”
”E come fai a sapere che è lontano?” chiese Alec agitatissimo.
Nessuno sapeva, se non lui, dov’era stata scattata quella foto.
E nessuno aveva detto a Jude quale fosse la foto di Matthias.
 
Ed è così che lo sentì arrivare. Ormai era così consapevole di quello che stava succedendo che, con l’ultimo barlume di razionalità, ringraziò il cielo che Arnett se ne fosse appena andato, ma si chiese che cosa mai avrebbe potuto pensare Matthias.
Lo colse il panico.
Se prima l’ansia era in qualche modo sotto controllo, ora quest’angoscia era violenta. In un attimo cominciò a sudare e ad avere le vertigini: più Alec pensava che avrebbe dovuto calmarsi, più la situazione precipitava. Voleva tornare a casa. Voleva essere a casa sua.
Alec si mise una mano sullo stomaco e si piegò in avanti per il dolore acuto.
A volte, quando quel che più si teme s’avvera, il peso degli avvenimenti sembra gravare ancor di più per la consapevolezza che, forse, ciò che è successo si sarebbe potuto evitare.
Con questo carico Alec cercò di trascinarsi via di lì, ma qualcuno lo fermò e lo strinse. Non capì chi fosse, cercò di liberarsi da quella stretta, ma era troppo forte. Cadde a terra e respirò profondamente. Era madido di sudore freddo. Iniziò a tossire, tremando.
Si afferrò le tempie coi palmi delle mani e le schiacciò, quasi a volere fare uscire quel che c’è dentro, si raggomitolò in posizione fetale ad ascoltare il proprio respiro affannoso e le voci nella sua testa che, con un grido silenzioso, tentava di fare tacere.
 
“Quello sciocco! Rischiava di rovinare tutto con la sua sciocca lingua” sospirò esasperato Esse che aveva seguito con attenzione tutta la cena.
“Ora non potrà più indugiare: se vuole che Alec firmi il contratto, dovrà farglielo firmare ora.”
Esse annuì.
“Tuttavia Matthias, adesso, non lascerà mai Alec da solo…”
”Caro mio, dimentichi l’inganno…”
“E tu la memoria”
Esse sgranò gli occhi “Non puoi fargli ricordare…”
”…Non gli farò ricordare, no. Ma se necessario, gli darò un aiuto.”
Esse guardò Ayel, cercando di leggere sul suo viso di quale aiuto parlasse, ma dal viso dell’angelo non trapelò nulla.
Esse comunque, continuò a guardarlo.
 

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Capitolo 29
*** Un ricordo sbiadito ***


“Lo porto a casa io” disse Jude con urgenza, cercando di prendere Alec dalle braccia di Matthias.“E secondo te io torno a casa tranquillo?” rispose l’altro non permettendo a Jude di toccare Alec “Io vado con lui. Dobbiamo chiamare un medico.”
“Sarebbe inutile, non c’è niente che la medicina possa fare, se non peggiorare la situazione.”
”Mentre tu hai la soluzione, deduco” chiese Matthias scettico e Jude annuì.
Alec intanto era completamente privo di senno: tremava e s’aggrappava alla giacca di Matthias, ma il moro sapeva che si sarebbe aggrappato ovunque, d’istinto, per paura di essere lasciato solo. Aveva il respiro accelerato e, a volte, l’aria che usciva dai suoi polmoni, sibilava. Con gli occhi sgranati cercava di guardarsi intorno, senza trovare apparentemente quel che cercava. Piangeva, pur non singhiozzando e a Matthias si strinse il cuore, completamente impotente di fronte a quella crisi che non capiva.
“Portiamolo a casa sua” suggerì Jude “probabilmente in un ambiente più familiare gli sarà più facile rilassarsi…”
Matthias non voleva Jude con sé, né tanto meno vicino ad Alec, però, in quel momento, quel consiglio era il migliore da seguire. Alec gli aveva confermato che non c’erano medici in grado di curare il suo male, quindi non gli restò che fidarsi.
“Sai come si arriva a casa sua?”
“Non sei mai stato a casa sua?” chiese Jude con un tono fra il sorpreso e il soddisfatto che Matthias non riuscì a decifrare bene.
Scosse la testa “No, non … Non ci conosciamo da molto.”
Jude annuì “Prendiamo la tua macchina, faremo prima che coi mezzi pubblici”
“Ma poi starà bene? Basterà portarlo a casa che lui starà bene?”
“Dal tono della tua voce, sembra che tu sia molto legato ad Alec.”
Matthias non rispose, attirò a sé il biondo e lo prese in braccio, incamminandosi verso la propria auto.
“Per di qua.”
Nessuno disse niente durante il tragitto, solo le luci notturne che correvano via dai finestrini accompagnarono i tre verso casa di Alec. Erano luci fredde, alcune colorate, che comparivano quasi d’improvviso sulla strada e che correvano via, per la velocità della macchina.
Lasciavano scie luminose negli occhi di chi guardava, ma nulla di più. Solo un ricordo sbiadito.
“La tua memoria ti dice qualcosa, ma non riesci ancora a capire bene, vero?” chiese Jude interrompendo il silenzio, una volta arrivati a casa di Alec.
Matthias lo guardò, aggrottando la fronte.
“Che cosa intendi?”
“Che io so quello che affolla la tua mente , in questo momento. So perché vedo, che i tuoi ricordi vorrebbero portarti da qualche parte…Ma ti stai sbagliando.” Matthias stava per rispondere, quando Alec lo distrasse con un gemito.
Jude prese le chiavi di casa dalla tasca di Alec, come se avesse sempre saputo fossero lì ed entrò nel piccolo appartamento.
Matthias fu investito dall’odore di Alec, l’aria era pregna del suo profumo: per un istante ebbe la sensazione che qualcosa – o forse qualcuno – stesse cercando di dirgli qualcosa.
Barcollò.
“E’ meglio che mettiamo Alec a letto, così si calmerà sicuramente…”
Stordito dalla sensazione, Matthias non poté fare altro che annuire.
La camera da letto era piccolina. Il letto a lato nascondeva, sotto di sé, migliaia di fotografie sparpagliate, che erano state accatastate lì probabilmente molto tempo fa. La moquette color vinaccia, però, creava un’atmosfera calda e molto ospitale. Nonostante l‘apparente disordine, quei colori e l’aria intorno a loro fecero scorrere un brivido sulla pelle di Matthias: il tepore di una casa.
Alec ormai aveva smesso di rimanere avvinghiato alla sua giacca, sembrava versare in uno stato catatonico.
Gli occhi erano finalmente chiusi e non c’era più traccia delle lacrime di prima. Matthias lo adagiò sul letto delicatamente. Gli tolse le scarpe e le calze, baciandogli lievemente i piedi prima di metterglieli sotto le coperte.
Il viso di Alec sembrava provato da una stanchezza infinita e insopportabile.
Matthias gli scostò i capelli da davanti agli occhi e lo guardò sussultare per un istante, quasi avesse capito di trovarsi finalmente a casa.
“Sono qui” gli bisbigliò e dandogli un bacio sul lobo dell’orecchio “Non so se puoi sentirmi, ma non devi preoccuparti, perché rimango qui con te finché non  ti svegli…”
Alec non diede segno di aver capito, Matthias gli prese la mano nella sua e l’accarezzò, sedendosi sul bordo del letto, non lasciandola andare.
C’era un silenzio assoluto, solo il respiro dei due, perfettamente sincrono, faceva vibrare l’aria.
Matthias guardò per terra, osservando le foto sparpagliate sulla moquette e solo quando una di queste si sfocò, si accorse di avere gli occhi pieni di lacrime.
Le asciugò velocemente, girandosi verso Alec per assicurarsi che non le avesse viste.
Che sciocco, pensò fra sé e sé, Alec non poteva vederle.
Cosa l’avesse fatto piangere, Matthias non era in grado di dirlo. Quel tepore, forse, la mano di Alec nella sua, lo spavento di aver visto il ragazzo in quelle condizioni… e poi forse altro… forse la preoccupazione che si portava dietro dal giorno in cui aveva visto la fotografia, l’incapacità di decifrarla, quello che provava quando l’aveva di fronte…
Matthias sospirò.
“Pare essersi calmato.”
La voce di Jude infranse la calda atmosfera di quella stanza.
Matthias annuì.
“Tu sai che cos’ha, non è vero?”
”Sì, so che cos’ha” disse con voce neutra Jude “Lo so perché ho incontrato altre persone come lui e ho imparato a… non so come spiegare…stabilizzarle. Sì, stabilizzarle è il termine giusto”
“E perché non puoi aiutarlo?”
“Posso, ma non se lui non fa parte del nostro gruppo. Ti apparirà strano, ma non posso fare nulla finché non firma quel foglio.”
Matthias aggrottò la fronte. E Jude proseguì: “Devo creare una connessione, devo trovare un contatto. E non posso farlo con tutti, c’è una procedura e un metodo che devo seguire, ma devo assicurarmi che anche chi è dall’altra parte…che anche Alec sia con me, per tutto il percorso” Jude si strinse nelle spalle “Gli farei più male che bene, altrimenti.”
“Ma è un foglio bianco, è naturale che non voglia firmarlo.”
”E’ naturale, sì, ma il foglio non può essere altrimenti. Vedi” cercò di spiegare “quando crei una connessione, quando ti esponi così tanto, tutti i tuoi sensi si ampliano. Il foglio è scritto, è solo che Alec non è ancora in grado di leggerlo.”
“Lo sarà dopo averlo firmato” non era una domanda, quella posta da Matthias. Le parole di Jude parevano essere convincenti, ma ancora il suo istinto gli diceva di non fidarsi.
“Come facevi a sapere della fotografia?” chiese quindi , per cercare di capire meglio se fidarsi o meno.
Jude sorrise “Te l’ho detto, io so e percepisco le cose diversamente da come lo fanno gli altri. Io so, per esempio, che non è solo nostalgia quella che hai provato quando hai guardato la fotografia di Alec…”
Matthias aprì la bocca per replicare, ma non uscì alcuna parola.
“Era soprattutto colpa: rimorso e rimpianto per qualcosa che non sai ancora.”
“Tu sì?”
“Io sì.”
Matthias attese che Jude continuasse a parlare. Il silenzio che si venne a creare era completamente diverso da quello di poco prima, pareva lugubre e pericoloso.
Lasciarlo aleggiare nella stanza per troppo tempo sarebbe stato un errore, ma Matthias non voleva essere quello che l’avrebbe spezzato.
Jude rise, sommessamente: “Sei un uomo molto forte, e sei un uomo molto libero.”
I suoi occhi furono attraversati da un lampo di qualcosa che Matthias non fu in grado di decifrare.
“Libero?”
Di nuovo, Jude non fu in grado di mantenere una faccia impassibile.
“Molto libero sì. Ed è proprio per questo che hai provato quel sentimento di disfatta di fronte alla fotografia, ma l’hai mal interpretato.”
“Spiegati meglio.”
“L’hai mal interpretato perché hai attribuito quei sentimenti a qualcosa avvenuto nel passato, ed invece è qualcosa che deve ancora succedere…”
“Sei anche un veggente?” Matthias non riuscì a nascondere il tono di scherno nella sua voce, ma Jude parve non farci caso“Quello che succederà è che tu ingannerai Alec.”
“Non potrei mai farlo” protestò Matthias.
“Ora dici così e sono certo che lo pensi veramente. Ma è solo perché sei stato travolto da qualcosa più grande di te, perché sei entrato in sintonia con quello che Alec può far provare. Ecco perché io non posso aiutarlo, a meno che lui non firmi, perché mi troverei come te, travolto da qualcosa che non riesco ad interpretare. Intrappolato in una tela inestricabile…”
Matthias sospirò esasperato.
“Una volta che quest’ondata sarà passata, una volta che la marea si sarà quietata e tu non vedrai più in Alec la fonte di questo sentimento, cosa pensi che succederà?” Nonostante la domanda, Jude non lasciò il tempo a Matthias di rispondere “Succederà che te ne andrai, succederà che lo lascerai.”
Matthias sgranò gli occhi. No…
“Non sarà colpa tua, perché quando una passione finisce, non si può certo additare qualcuno e addossargli la colpa, ma Alec questo non potrà sopportarlo e tu lo sai benissimo, qualcosa in te ti sta avvertendo…”
Matthias si accorse di avere il respiro accelerato. Lui abbandonare Alec? No, non poteva essere.
Eppure… Eppure Jude aveva ragione, fra il groviglio di quei giorni, fra l’intensità di quel sentimento provata per uno sconosciuto, Matthias era sicuro ci fosse anche rimorso.
Aveva frainteso questo sentimento, non era riuscito a dargli una collocazione temporale.
Aveva quindi ragione Jude? Avrebbe davvero lasciato Alec?
”E perché quindi, questa sensazione di rimpianto?”
“Per quello che sarebbe potuto essere ma che non sarà mai” disse semplicemente Jude “Quella foto t’ha aperto, parzialmente, le porte della mente di Alec, ti ha permesso di capire e sapere cose che di solito, sono al di là della comprensione. E’ stato un attimo, ma t’ha folgorato… Ben presto capirai che non puoi vivere così. Che questo non è quello che vuoi. Che non è amore, quello che ti ostini a non chiamare, ma che pensi di provare…” Jude fece una pausa, per permettere alle parole di raggiungere meglio Matthias. Poi continuò: “E’ vero, non è amore. Sei troppo libero per una parola così.”
“Ancora…” Matthias cercò di dire, ma la voce gli si fermò in gola “Ancora dici che sono troppo libero…” e non concluse, perché aveva la mente completamente vuota.
Forse davvero Jude aveva ragione… ma smettere, lasciare Alec ora sarebbe stato come smettere di respirare e morire.
“Ti sbagli…” Jude doveva sbagliarsi. Per forza.
 
Matthias si girò a guardare Alec addormentato, gli accarezzò i capelli sparpagliati sul letto e poi la guancia arrossata dal tepore sotto le coperte.
Sospirò.
“Non ci pensare ora” lo consolò Jude “rifletti su quello che ti ho detto, la cosa più importante adesso è che Alec stia bene.”
Matthias annuì.
“Ho lasciato in macchina il mio zaino. Dentro c’è un infuso che volevo dare ad Alec stasera… “
“Ho lasciato le chiavi nel cappotto, te le prendo”
“Saresti così gentile da andare tu a prenderlo? Non ho un buon rapporto con gli allarmi delle auto, il tuo ho visto essere molto complicato” Jude sorrise, arrossendo un pochino imbarazzato.
Matthias esitò, non voleva lasciare Alec solo, ma del resto - pensò - si trattava solo di un attimo. E l’allarme della sua macchina era, effettivamente, difficile da disinserire.
 
L’aria fredde della sera lo fece tremare. Matthias si strinse nelle spalle appena uscito dal portone. C’era silenzio in strada se non per qualche voce lontana che proveniva da qualche appartamento. Lo sbattere rumoroso del portone alle sue spalle lo fece trasalire.
Continuava a pensare a quello che gli aveva detto Jude. Era successo tutto così velocemente e d’improvviso che Matthias non aveva avuto il tempo di porsi vere e proprie domande. Nella sua mente s’aggrovigliavano una serie di quesiti, frammisti ad emozioni incerte ma troppo intense per permettergli di essere razionale e capire.
Forse vedere dove Alec aveva scattato quella foto l’avrebbe aiutato. Ma forse il vedere quel luogo avrebbe - come Jude aveva detto – sciolto quel nodo che sentiva nel petto e…
Non riusciva nemmeno a pensarlo. Prese lo zaino di Jude e gli diede un’occhiata veloce. Sembrava vecchio, il disegno sulla tomaia era scolorito: una montagna innevata e qualche fiorellino. Davvero un gusto pessimo.
Si incamminò verso il portone, ma quel disegno appena visto gli riportò in mente un’altra frase detta da Jude:
Sei un uomo molto forte, e sei un uomo molto libero…
Chissà che cosa aveva inteso… Libero.
Sentì un dolore intenso allo stomaco, come se qualcuno gli avesse appena dato un pugno. L’aria gli venne risucchiata dai polmoni e Matthias fu costretto a piegarsi in avanti per cercare di lenire la fitta. Si sentì frastornato e si guardò le mani, che tremavano. Erano mani diverse dalle proprie, più ruvide, più dure e con un lungo e sottile callo lungo il palmo destro.
Il vetro smerigliato attraverso il quale aveva guardato la sua vita sino allora  si crepò, lasciando piccoli spiragli di luce intensa. Ma non ne fu accecato, tutt’altro.
La gloria di quella luce gli portò alla mente un nome.
Iniziò a correre. Il portone era chiuso. Suonò freneticamente il campanello.
Qualcuno risponda…
Nessuno gli aprì.
Citofonò ad altri, sperando che qualcuno rispondesse, ma ancora una volta, il  citofono rimase silenzioso.
No, Jude  stava ingannando tutti quanti. Non sapeva bene come o chi, ma ora era più che mai ne era sicuro.
Alec era da solo a casa con lui…
Stupido che l’aveva permesso! Era stato un pazzo a lasciarlo solo!
Un’immagine di un cavallo e di un castello in lontananza gli si aprì di fronte agli occhi. Ancora una volta, lui si stava allontanando.
Cercò un’entrata alternativa. Doveva andare da Alec. Non poteva permettere che gli succedesse niente. Doveva proteggerlo.
Vide le scale antincendio a lato del palazzo.
Due scalini per volta. Doveva fare in fretta. Doveva arrivare in tempo!
Col cuore in gola arrivò alla finestra di Alec.
Il ragazzo era lì, in piedi in sala con la penna appoggiata sul foglio bianco
Matthias gridò: “Aaron no!”
All’udire quel nome, Alec esitò.

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Capitolo 30
*** Interludio quinto + 30. Ritorno ***


No! Per favore fermalo! Per favore…No!
 
Se potessi gridare, se potessi …
 
Relegato al ruolo di spettatore, nonostante la promessa di starti sempre vicino, sono qui, lontano da te e dagli uomini, terrorizzato all’idea di perderti.
Se firmerai quel foglio, se cadrai nell’imbroglio di chi trama contro te, sarai perduto, incatenato fra le fiamme, ad illuminare con la tua luce luoghi dove la luce non può esistere.
E sarai lontano da me, che ti guardo da quando m’hanno strappato con violenza da te e m’hanno reso incapace di aiutarti.
Posso solo pregare per te.
Quindi ti prego: Aaron, non firmare quel foglio.
Ti voglio felice e ti voglio amato.
Ti voglio libero.
Perderai l’anima, e condannerai quella di chi ami ad una vita di schiavitù. Lontano da lui e lontano da me non sentirai il mio pianto, ma udirai il suo dolore di saperti inaccessibile.
Di sapersi defraudato e tradito.
E’ successo in un passato lontano ma mai dimenticato.
Riaffiora nella tua mente a volte, forse adesso il ricordo s’è fatto largo fra le maglie della sua.
Hanno tessuto una tela e hanno tramato. Un uomo incapace di sopravvivere da solo, s’è aggrappato con forza a ciò che riteneva suo.
Ha infranto le leggi di Dio e ha venduto se stesso e te.
Ha infranto le leggi di Dio per cancellarti dalla sua mente.
Se ora firmerai quel foglio, sarà completa la sua opera. Avrà vinto lui.
 
Ti vedo esitare, la penna è appoggiata, ma qualcosa in te ti ferma e, Cielo, quel nome giunge alle tue orecchie come unica salvezza.
Il tuo nome.
Non è stato veloce a sufficienza, o forse sì?
Jude non vuole te.
Jude non cerca la tua salvezza, vuole solo farti scomparire.
 
C’è del dolore in te che non riesci a capire. Quel nome e quella voce…sì, li hai già sentiti, ma tremi, perché sai che proprio per quel nome e da quella voce, sei stato abbandonato.
Questa non è la verità, è ciò che credi, perché la verità non ti è mai stata detta.
Sei stato abbandonato e lasciato solo, in quella stessa solitudine dove hai gridato ma nessuno è accorso.
Io per primo, che sono morto abbandonandoti, io per primo ti ho lasciato solo.
E poi lui che ha sbagliato, lui che voleva solo proteggerti, se n’è andato.
Ma tu questo, ancora, non lo sai.
Sai solo che lui se n’è andato, non amandoti, ti ha voltato le spalle.
Come puoi quindi, adesso – proprio adesso quando l’unica cosa che vuoi fare è salvarti – pensare che sia lui che potrà prendersi cura di te?
Ci hai creduto, una volta. Ma lui non è più tornato e la tua illusione è morta con te.

 
Se solo potessi udire la voce di tuo fratello, se solo fossi in grado di abbracciarti e sussurrarti la verità, allora capiresti e perdoneresti il passato.
Ma non posso.
E in questa mia totale inerzia, in questo candore da cui non posso allontanarmi, prego.
Prego sperando che tu sia salvato.
 
***
 
Capitolo Trenta - Ritorno
 
 
 
La carrozza si allontanò nella foschia. Lord Hamill e Lady Davida lasciarono Castel Thurlow una fredda mattina di fine Gennaio.
Aaron sospirò, sollevato.
Dall’arrivo  della sorella non aveva avuto un momento di quiete, nonostante quindi le fosse affezionato, era grato che finalmente si fosse rimessa in forze per partire. Lady Davida, sin da quando s’era trasferita a Suffolk, soffriva d’un male ignoto, che la indeboliva e le alzava la temperatura di tanto in tanto, senza causarle gravi danni, ma rendendole praticamente impossibile alzarsi dal letto. S’era ammalata un mese prima e da allora Aaron non aveva avuto tempo per nient’altro se non lei.
La donna non aveva un carattere facile, era spocchiosa e spesso irritante. Nonostante in fondo al cuore fosse buona, di certo non era una persona mite.
I primi sintomi l’avevano fatta gridare e disperare, sicura di essere stata contagiata dalla peste. Persuasa poi dalle parole del fratello e dall’evidenza che la sua febbre era semplicemente il riaffacciarsi del consueto male, era stata sdraiata a letto per tutto il tempo, creando non poco scompiglio fra la servitù che faticava a stare dietro ai suoi ordini, spesso contrastanti. Inoltre aveva chiesto la costante presenza di Aaron al proprio capezzale e lui aveva fatto tutto il possibile per lenire i sintomi della sorella.
 
Di nuovo guardò in direzione della carrozza che ormai sembrava una macchia sfocata nella bruma mattutina.
Era da quasi un mese che non vedeva Nero.
Si girò verso il proprio castello: voleva correre da lui, voleva … Anche stargli seduto accanto, in biblioteca, magari a leggere qualcosa insieme o a ad ascoltarlo raccontare dei suoi viaggi. S’erano visti così poco ultimamente... I loro incontri erano stati solo fortuiti o così brevi che non avevano potuto scambiare se non poche parole.
S’incamminò verso l’entrata e fece avvisare la servitù, gli stallieri e tutti coloro che erano stati coinvolti nella cura di Lord Hamill e la moglie, che i signori avevano lasciato il castello.
Solo William era rimasto. La Morte Nera era arrivata sul Tamigi e da qui era entrata a Londra, la devastazione e la pena che portava con sé non aveva precedenti. I medici e i farmacisti sconsigliavano, a chi poteva, di rimanere in città, ma di andare invece in campagna dove l’aria più salubre avrebbe ridotto il contagio.
I cadetti erano stati esonerati dal ritornare per i mesi successivi fino all’estate. Il ragazzo quindi, aveva insistito perché potesse rimanere lì con lo zio, invece che tornare a Suffolk coi genitori.
William era stato con Aaron a fianco della madre per tutto il tempo della sua malattia e l’aveva aiutato a provare meno nostalgia per un uomo che  viveva fra le mura del suo castello, ma che non poteva vedere.
Il pensiero che veramente non avrebbe più rivisto Nero di lì a poco - quando questi avesse deciso di lasciare Castel Thurlow e tornare  a Lontra – gli si affacciò furtivamente alla mente, ma lo ricacciò lontano, con forza. Non voleva, non poteva pensare … Non…
Si massaggiò le tempie, cercando di alleviare il mal di testa dovuto alla stanchezza.
Pensare che Nero se ne sarebbe andato lo drenava di qualunque forza, gli rendeva molli le gambe e lui si sarebbe accasciato lì, nel corridoio vicino alla biblioteca, senza neanche più la forza di piangere.
Non poteva pensare che Nero l’avrebbe lasciato. Voleva solo rivederlo. Forse più tardi ce ne sarebbe stata occasione.
Entrò in biblioteca. Il tepore che traspirava dalle pareti lo aiutava a rilassarsi, quell’odore così tipico di quel luogo e il cielo da osservare attraverso il vetro. Quel giorno era di un grigio tenue, ma il clima era troppo freddo perché piovesse.
“Sapevo che ti avrei trovato qui”
La voce inaspettata non lo spaventò. Aaron si girò per vedere la persona che aveva parlato.
“Sono felice che tua sorella si sia finalmente rimessa” Nero sorrise e guardò Aaron finalmente lì, davanti a lui. Senza doversi preoccupare di correre via, di non poter parlare.
Aaron lo guardò a sua volta, incapace di rispondere subito.
Annuì. “Le succede frequentemente, ma non è nulla di grave…”
“Più volte ho cercato di venire nell’ala est, con un qualunque pretesto, ma…” Nero scrollò le spalle “Non è stato semplice trovarlo e…” di nuovo esitò, guardandolo “…Dio, quanto mi sei mancato!”
Aaron non fece in tempo a sentire il suo stesso sangue che l’assordava, perché prima sentì le braccia dell’altro circondargli la vita e il suo alito caldo sfiorargli la pelle.
Aaron affondò il proprio viso nel suo collo, stringendolo forte a sé..
”Potevi venirmi a salvare”
“Mettendo a ferro e fuoco l’ala Est dove ti avevano intrappolato?”
“Effettivamente questo avrebbe creato grossi problemi con Margaret”
“Margaret?”
“La moglie del capomastro, devi averla incontrata quando sei attivato”
“Ah sì, la vecchietta che è stata con Forgia per un po’”
“E che dirigeva a suon di urla e minacce i muratori che hanno lavorato lì”
Nero alzò le sopracciglia e annuì pensieroso “Certo un’esperienza che preferirei evitare!”
Risero, non slacciando il loro abbraccio.
“Hai l’aria stanca”
“Ho dormito poco perché Davida voleva stessi con lei. Quando poi riuscivo ad andarmene, dovevo assicurarmi che mio padre mangiasse e non maltrattasse troppo Natalie o Josephine che se ne occupano”
“Ti prendi cura troppo degli altri e poco di te” non c’era rimprovero nel tono di Nero, solo preoccupazione per quegli occhi così stanchi che facevano fatica a rimanere aperti. Glieli accarezzò. “Sdraiati”
Lo portò con sé al divano e gli fece appoggiare la testa sul proprio petto.
“Posso davvero?” bisbigliò Aaron.
Non era una domanda posta a Nero, probabilmente non era affatto una domanda, ma Aaron la pose comunque, incredulo di poter rimaner lì e riposare fra quelle braccia.
Inspirò profondamente.
“E’ così calmo qui dentro che a volte mi chiedo se questo posto sia veramente sulla terra, oppure se faccia parte di un sogno” disse Nero intrecciando le dita fra i capelli di Aaron “io non ricordo nessun posto paragonabile a questo…” sorrise “E’ persino caldo, quando non ci sono né camini né bracieri che lo riscaldano”
“Quando mio nonno fece costruire la volta in vetro, si preoccupò anche di trovare una maniera di riscaldare la stanza senza che ci fossero camini o fuochi, per paura che un incendio bruciasse tutti i suoi libri…Il fuoco brucia all’esterno e riscalda le mura, così la stanza si scalda senza rischi per i libri”
Nero sorrise. “Doveva tenere in particolar modo a questa biblioteca”
Aaron annuì “Lo chiamava il suo luogo di pace. Diceva che tutto quello che aveva era qui dentro” Si strinse ulteriormente a Nero chiudendo gli occhi.
Il suo respiro e il suo calore lo cullavano, sciogliendo tutte le preoccupazioni che s’erano accumulate in quei giorni, disfacendo il mondo all’esterno di quella stanza.
Nero continuò a ad accarezzare i capelli di Aaron e l’osservò addormentarsi fra le sue braccia, osservò le labbra dischiuse e ascoltò il respiro ritmico e profondo dovuto al sonno.
“Diceva bene” sussurrò appoggiando le labbra sui capelli biondi.
Rimase lì, fermo, a guardare Aaron mentre dormiva e a guardare il cielo, dove le nuvole correvano veloci. Si chiese perché avrebbe dovuto, prima o poi, lasciare quel posto. Lì, fra le braccia dell’altro, non trovò una risposta.
 
“Sei sicuro di stare bene a sufficienza per provare a tirare con l’arco?”
“Ragazzo, incocca e tira. Se non faccio qualcosa, muoio d’inedia”
“Questo è un pericolo che il nostro ragazzo non potrebbe mai correre invece” commentò Luppolo senza alzare lo sguardo dal suo arco, mentre s’assicurava che i tendini fossero ben tesi.
“Il solito guastafeste!” si lamentò Cencio “Io e Forgia potevamo benissimo allenarci da soli”
“E secondo te avrei lasciato a voi tutto il divertimento? E poi, scusa, non mi dici sempre che devi sfidarmi?”
“Tanto sai che vinco io” rise il ragazzo.
”Prendi la spada e ti faccio cambiare idea…”
Cencio roteò gli occhi “Ora dobbiamo usare l’arco” aggiunse con tono infantile.
Forgia rise “Ragazzi, che bello assistere ad un altro dei vostri battibecchi! Stare sdraiato per settimane mi stava ammazzando più della ferita.”
Luppolo rise: “Sono contento anch’io di rivederti in piedi. Ad essere sincero, non ero sicuro che la tua ferita potesse guarire”
Forgia piegò l’arco, provandone l’elasticità: “Lo so. Invece adesso anche il mio braccio sembra completamente guarito!”
“Ecco perché pensa di potermi battere con l’arco”
“Non ho detto questo” precisò Forgia “Solo che volevo esercitarmi”
“Che ci vuoi fare” sospirò Luppolo “sai che il ragazzo ha l’aria in testa, non è colpa sua.”
“Sei noioso, Luppolo” Cencio non riuscì però a nascondere la sua espressione divertita.
Luppolo scosse la testa, ma questo gesto non trasse in inganno l’italiano. C’era qualcosa di diverso in Luppolo che Cencio non riusciva a capire. Era un po’ di tempo che, nonostante sembrasse tutto normale, lo scozzese sicuramente nascondeva qualcosa.
Lo guardò lì seduto, con l’arco montato finalmente in mano, gli occhi attenti che controllavano che tutto fosse a posto…Era lì, eppure era distante.
Sospirò e lasciò alle spalle quella brutta sensazione, deciso a capire se si trattasse solo di questo, oppure se davvero Luppolo avesse per la testa pensieri che ne appesantivano lo sguardo.
“Allora, siamo pronti? Iniziamo con l’arco e il bersaglio fisso a 200 iarde, poi passeremo a 300 e vediamo come va la spalla di Forgia. Se ce la fa passiamo alle 650 iarde col lungo…”
Gli altri annuirono.
“Per i bersagli vicino non credo che ci sarà alcun problema. E’ la forza che mi manca, e sono i tendini del lungo che me ne chiederanno di più”
Cencio si strinse nelle spalle “Ma Forgia, il fatto che vincerò io è scontato.”
“Zitto marmocchio e tira!”
Cominciarono  così il primo giro col primo bersaglio. La spalla di Forgia non gli permetteva di mantenere costante la forza, né tanto meno la posizione. Perciò continuarono coi bersagli a breve distanza per più tempo del voluto.
“Tornerà come prima” disse Cencio prima che Forgia potesse formulare la frase. Forgia lo guardò con aria interrogativa.
“Non ti preoccupare, vedrai che tornerà come prima” ridisse l’italiano. “Questo è il primo giorno che riprendi in mano un arco…”
“Sì, non è che mi preoccupi più di tanto…”
Cencio sorrise “Sei preoccupatissimo, Forgia. Ti si legge in volto e in ogni tuo movimento”
“E’ proprio vero che hai l’aria in testa, ragazzo!” Forgia sorrise, andando a riprendere le frecce sul  bersaglio.
“Secondo te si riprenderà veramente?” gli chiese Luppolo.
“Io penso di sì, del resto hai visto anche tu in che condizioni era… “
Luppolo sospirò, scuotendo la testa.
“Non devi essere sempre così pessimista, Luppolo. Si pensava Forgia morisse, e ora guardalo lì, a riprendere le frecce, dopo così poco tempo. Del resto la ferita non si è ancora rimarginata del tutto…”
“Forse hai ragione, forse sbaglio io. Ma a primavera ce ne andremo di qui, e torneremo a Londra. Mi chiedo se allora tutto sarà a posto…”
“Penso che mi dispiacerà molto lasciare questi luoghi”
Luppolo annuì “E’  da molto che non trascorrevamo del tempo in modo così tranquillo. E i benefici si vedono su tutti quanti”
“Ti riferisci al capo?”
“C’è qualcosa in lui di diverso”
Cencio si avvicinò d’improvviso a Luppolo, invadendo il suo spazio. Lo scozzese, d’istinto, indietreggiò, bruscamente.
“C’è qualcosa di diverso anche in te” Cencio guardò negli occhi di Luppolo. Quel verde chiaro, ma fosco apparivo lo stesso di sempre, ma forse era il modo di muoversi, o forse ancora l’atteggiamento meno spontaneo di prima, che turbava Cencio.
“Che cosa c’è? E’ successo qualcosa che non m’hai detto?”
”Hai le traveggole, ragazzo” disse un po’ troppo in fretta lo scozzese “Sto benissimo”
“Non ti ho chiesto se stavi male. Solo che cos’è successo”
Luppolo scrollò le spalle, guardando Cencio come se stesse dicendo parole senza senso.
L’italiano si girò a controllare dove fosse Forgia, poi si protese verso lo scozzese “Lo sai che non puoi mentirmi” gli bisbigliò vicino all’orecchio.
Il ragazzo era fin troppo sveglio, ma Luppolo non si mosse né disse altro, lasciando cadere l’argomento e rivolgendo la sua attenzione verso Forgia.
S’era ripromesso che tutto sarebbe dovuto tornare come prima. Tutto.
Avrebbe forse faticato, forse gli sarebbe servito un po’ di tempo, ma alla fine, le cose sarebbero tornate sicuramente come le voleva lui.
Del resto, non aveva scelta.
 
“A volte mi dimentico con chi ho a che fare” disse Forgia, tornando con le frecce in mano e lasciandole poi cadere sul terreno “Ridammi il mio stemma ragazzo”
Luppolo guardò prima il fiammingo e poi l’italiano, quasi li vedesse per la prima volta “Non ci posso credere, ancora?”
Cencio sbuffò “Come ancora? Finché non riesco a tenermelo io, continuerò a rubarlo”disse prendendo lo stemma dei Forgia dalla sua tasca. Lo puntò verso il cielo ed il rubino brillò “E’ proprio bello”
“E non è tuo, da’ qua!”
“Se non fossi stato così cocciuto e avessi detto che la ferita che ti eri procurata stava peggiorando, saremmo potuti arrivare dai tuoi cugini e lì mi sarei preso uno stemma tutto per me…”
“Non sono stato cocciuto, solo pensavo che sarebbe guarita… Ma poi scusa, perché vuoi uno stemma che non ti appartiene?”
“Perché è bello” disse Cencio come se stesse spiegando qualcosa ad uno sciocco “ e poi io non ho nessuno stemma, sarebbe bello possederne uno”
Forgia roteò gli occhi “Ragazzo, tu ragioni in modo strano”
“Pensi che in primavera si potrà lo stesso andare dai tuoi cugini?”
”Ne dubito. Quest’inverno ero sicuro che sarebbero stati fermi sul mare, ma sicuramente d’estate si muoveranno. Probabilmente potremo andare da loro l’inverno prossimo”
Cencio annuì felice “Così potremo anche tornare qui!”
Luppolo annuì “E’ un bel posto…”
“Più rimango, e più l’idea di tornare da Edoardo per poi andare in Francia non m’alletta”
“Certo che ragioni proprio da vecchio, Cencio. A vent’anni pensi già a rifoderare la spada e startene al calduccio di un focolare” lo beccò Luppolo.
“Non ho detto questo, Luppolo” rispose il ragazzo allargando le braccia “Solo che… C’è una pace in questi luoghi che mi dispiace abbandonare. Sono contento di sapere che non è l’ultima volta che li vedo…”
“Devo dare ragione al ragazzo, Luppolo. Tornare per andare dai Forgia sarà bello, e sapere di poter tornare qui renderà il viaggio migliore”
Luppolo sapeva che gli amici avevano ragione, sentiva anche lui la pace che permeava l’aria di quei boschi, eppure la temeva: aveva messo a nudo quello che ormai da tempo cercava di nascondere.
Non rispose, ma sollevò semplicemente le spalle.
“Ricominciamo” disse riprendendo in mano le frecce per terra.

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Capitolo 31
*** 31. Lezioni di cavallo ***


Quella giornata era incredibilmente limpida. A differenza dei giorni precedenti, il freddo acuto  aveva gelato tutta la nebbia che era caduta sugli alberi e sui prati, ricoprendoli di ghiaccio e brina. Sembrava quasi avesse nevicato. Le nuvole da tempo minacciavano neve, ma per ora rimanevano immobili e grigie, sopra tutta la Cornovaglia.
Al primo albeggiare, William era già nelle stalle, come s’era deciso la sera prima. Il suo cavallo non era lì, era rimasto a Suffolk e gli spiaceva di non potersi esercitare con lui. Tuttavia rimase meravigliato dalla bellezza di alcuni esemplari.
“Sei arrivato per primo, non ci posso credere. Avrei scommesso che avresti preferito dormire e stare sotto le coperte!”
La voce di Chiaro spaventò William, il quale era così intento a guardare uno dei cavalli che non l’aveva sentito arrivare.
“Non vedo l’ora di cominciare” gli rispose entusiasta il ragazzino “ Non potevo certo sprecare un’occasione del genere dormendo!”
Chiaro sorrise “Effettivamente no, ho chiesto io stesso a Nero d’insegnarmi qualche trucco del mestiere, ma s’è sempre rifiutato”
“Trucco del mestiere…” disse a sua volta Nero appena arrivato “Io ti  ho detto di chiedere a Levante. A lui certi movimenti vengono più naturali…”
“A proposito di Levante, non mi avete detto che s’è recato in Italia?”
Nero annuì “Sì, ho inviato Cleto a Venezia per vedere come sta e dirgli di tornare qui. Non è un ordine, ma non posso nascondervi di essere preoccupato”
“Da quello che si sente in città, la peste ormai dilaga in tutto il continente”
Nero annuì “E non tarderà ad arrivare anche qui. Già Londra non è più sicura…”
Sospirò, cercando di lasciar scorrere via quel filo di preoccupazione che ormai da tempo lo accompagnava. L’idea che Levante fosse nel mezzo dell’epidemia, l’idea di dover andare a Londra - una volta che Forgia si fosse rimesso del tutto - e portare i suoi uomini di fronte a un nemico che non potevano combattere, erano pensieri che non l’abbandonavano. Insieme a molti altri che, però, quella mattina di tardo gennaio, preferì accantonare. Si concesse solamente un sorriso, leggero, prima di prendere le redini del proprio cavallo.
“Stai pensando ad Anselm, non è vero?”
Non era il vecchio maestro d’armi ad aver generato quel sorriso, tuttavia Nero annuì. Quante volte s’era trovato lui, nella situazione di William, ansioso di cavalcare ed impugnare una spada, mentre il suo maestro slegava il proprio cavallo e si prendeva il suo tempo, senza correre.
Nero si girò a guardare William: la stessa passione ed entusiasmo di quando lui era piccolo.
“Sì” disse infine “mi divertivo sempre, ogni volta che Anselm decideva di portarmi fuori fra i boschi” Poi sapendo del rischio che correva, nel parlare di casa con Chiaro, interruppe il corso dei pensieri, sorridendo “E questi ruoli invertiti fanno di me uno che sta invecchiando”
“Capita a tutti, pare” commentò Chiaro. Nero lo guardò con sguardo di rimprovero, ma non riuscì a trattenere una piccola risata.
“Che strana sella…” disse William notando cosa Nero stava montando sulla schiena della propria bestia, se di sella si poteva parlare
“E’ una bardatura Nagaybäk, non è una vera e propria sella”
William apparve confuso.
“Ho vissuto parte delle mia adolescenza in Russia, insieme ad una tribù conosciuta col nome di Nagaybäk”
“E’ da lì che viene questo Levante, di cui parlate? Josephine m’ha accennato ad un vostro compagno coi tratti orientali”
“Esattamente. E loro cavalcano con questa” disse indicando la sella “Una volta imparato ad usarla, è molto più comoda”
”Certo” commentò sarcastico Chiaro “Se vuoi ritrovarti disarcionato ad ogni passo del cavallo, è sicuramente la sella migliore”
William scoppiò a ridere.
“E’ così terribile?”
“All’inizio sì, devo essere sincero” spiegò Nero “Ho rischiato più ossa rosse in quel periodo che in tutta la mia vita. Poi, quando ci si abitua, diventa molto meglio” e così dicendo portò il cavallo fuori dalla stalla.
“Ti permette di essere molto più libero…”
“Non credergli, ragazzo” disse Chiaro “te lo dice uno che ha provato diverse volte a salirci.”
William guardò bene il cavallo di fronte a sé, accompagnando il proprio al passo.
”Ma non c’è il sedile!” quasi gridò dalla sorpresa. Nero non riuscì a trattenere una risata
”In questo modo posso mettermi in piedi sul cavallo e sotto la sua pancia senza grossi problemi”
“In piedi?” Gli occhi di William divennero enormi “E cavalcate, quindi, a pelo?”
“In un certo senso, anche se la bardatura è meglio metterla sul cavallo”
”Fatemi provare!” disse quasi gridando il ragazzo “ Quando lo saprà lo zio Aaron…Gliel’avete mai detto?” chiese, inciampando sulle sue stesse parole, tanto sembrava emozionato. Non attese risposta “Dovete assolutamente dirglielo! Ne sarebbe entusiasta! Oh, a pelo, non ci posso credere!”
”Calma ragazzo, come mai questo fiume di parole?” Chiaro cercò di interromperlo, ma l’unica cosa che ottenne fu una lieve pausa da parte di William che deglutì e poi riprese.
“Lo zio adora cavalcare, lui adora i cavalli… Da piccolo lo faceva sempre…o comunque così mi ha detto mia madre… e poi s’è ammalato e ha dovuto smettere, e passava tantissimo tempo nelle stalle comunque, e so che ha cercato più volte di montare, nonostante il nonno non volesse, e poi gli è stato proibito di cavalcare e…” William si fermò d’improvviso, arrossendo prima e poi diventando scarlatto “mi sono lasciato andare…”
Nero scoppiò a ridere “ Non ti preoccupare, è bello incontrare un po’ d’entusiasmo” disse rivolto più a Chiaro che al ragazzo. William, difatti, aggrottò le sopracciglia, non capendo.
 “O, non ti preoccupare, è una questione aperta fra me e Chiaro. La sua anima aristocratica pare gli impedisca d’infervorarsi”
“La mia anima è la tua, Nero”
Nero non rispose, né guardò negli occhi il fratello.
“Perché dici che Lord Aaron sarebbe così contento di sapere della mia cavalcatura?”
William, che s’era perso per un istante, in uno scambio di battute che non aveva capito bene, riprese a sorridere, entusiasta.
“Perché ha imparato nuovamente a cavalcare nonostante le obiezioni del padre, ma ora cavalca esclusivamente a  pelo e, scherzando, dice spesso che nessuno è in grado di capire veramente cosa vuol dire cavalcare”
“Scusami l’impertinenza ma” lo interruppe Chiaro “Non è più difficile cavalcare a pelo, per uno zoppo?”
Nero si girò di scatto a guardare il fratello. Nonostante la premessa, il tono di Chiaro era volutamente impertinente e poco cortese. Se non fosse stato abituato all’autocontrollo, Nero non sarebbe stato in grado di sopprimere quell’istintiva voglia di prendere le parti di Aaron.
William tuttavia, parve non fare troppo caso al tono del cavaliere, perciò rispose leggermente:
”Lo pensavo anch’io, ma dimentichi che mio zio riesce a comunicare con gli animali. Cavalcare a pelo permette al cavallo di sentirlo meglio…”
“Quindi si fa aiutare dal cavallo…”
“Lo dici come fosse una cosa negativa. Perché, Chiaro?”
Il sorriso di Nero era infastidito, sapeva che Chiaro non avrebbe ammesso la vera motivazione che stava dietro al suo comportamento
“Perché lui è felice quando riesce a sminuire gli altri” disse Cencio unendosi anche lui al gruppo. Il tono era così gioviale, però, che non ne nacque nessuna discussione. Nero sorrise a Cencio, grato delle capacità del ragazzo di dire le cose, ma al contempo, di sdrammatizzarle.
“Vedi William” iniziò a spiegare l’italiano al ragazzo “Quella di Chiaro è tutta invidia perché ha provato più volte a salire su un cavallo che non era sellato, ed ogni volta è stato disarcionato senza convenevoli. Io invece” disse poi con aria tronfia “sono l’unico, se si esclude il capo e Levante, che riesce a stare in piedi sul proprio cavallo” e così dicendo salì sulla schiena del suo cavallo, senza che questo fosse ancora sellato e ci si mise in piedi.
William rimase a bocca aperta.
“Devo ammettere che non mantengo bene l’equilibrio quando il cavallo si muove, però, non sono bravo?” William stava per annuire quando Nero bisbigliò qualcosa al cavallo di Cencio.
Questi scrollò le spalle  facendo scivolare l’italiano che cadde goffamente, sul terreno morbido.
Nero si rivolse di nuovo al cavallo “Grazie”
“Ehi tu” gli gridò invece contro Cencio “Si può sapere da che parte stai? Possibile che fai quello che ti dice lui quando sei il mio di cavallo?”
William scoppiò a ridere e con lui lo fecero Chiaro e gli altri.
Cencio si rialzò “Potevo rompermi l’osso del collo, e voi siete qui a ridere!”
“Il Signore avrebbe fatto troppa grazia se, invece del collo, tu ti fossi ferito la lingua. Qualche giorno senza il tuo blaterare avrebbe di sicuro fatto bene alle nostre orecchie!” S’era unito al gruppo anche Luppolo che, appena arrivato, non aveva potuto fare a meno di prendere il giro l’amico.
“Ecco, ci mancava il solito che, se non dice qualche cattiveria su di me, non inizia bene la giornata!”
William era così felice quella mattina, che gli sembrava d’impazzire. Quand’era partito da Suffolk era entusiasta perché finalmente avrebbe potuto rivedere lo zio, adesso l’idea di rimanere a Castel Thurlow fino all’estate e in compagnia non solo dello zio, ma anche di questi cavalieri, lo elettrizzava.
“E’ meglio spostarsi più in là” disse Nero indicando in direzione del bosco “l’erba è spessa”.
Nero portò il suo cavallo vicino al bosco camminando davanti agli altri.
Pensava alle parole di William e al suo entusiasmo quando aveva scoperto il suo modo di cavalcare. E a quello che aveva detto riguardo ad Aaron.
Sorrise. Per tutta la permanenza lì, non aveva mia visto Aaron cavalcare e si stupì, accorgendosi di non essersi mai chiesto il perché. Forse aveva dato semplicemente per scontato il fatto che in realtà Aaron non cavalcasse. Ma ora, l’idea che potessero cavalcare insieme, l’idea che Aaron potesse mostrargli quelle terre a lui così poco note, fu sufficiente per renderlo felice Era un’idea semplice ma perfetta, quella di poter chiacchierare in riva al mare e poi tornare a casa, la sera, e star con lui fino alla mattina successiva.
Tornare a casa…
“Possibile che pensi sempre a Lord Aaron?”
Appena sentita la frase pronunciata da Chiaro, Nero si raggelò, non capendo immediatamente a chi fosse rivolta. Un istante, poi tutto fu di nuovo nascosto e il cavaliere fu in grado di voltarsi indietro e vedere che Chiaro stava parlando con William.
“Non è colpa mia se anche lo zio la pensa così” il ragazzo si difese da un accusa che Nero non aveva sentito.
“E poi scusa, mi sembra naturale ammirare una persona così. Io è esattamente così che voglio diventare, quando sarò grande…”
Chiaro lo prese in giro “Fortunatamente noi non saremo qui a testimoniare l’evento”
“Come no? Non avete intenzione di tornare mai più?”
Chiaro stava per rispondere, quando Cencio lo interruppe “Sicuramente torneremo, non ti preoccupare”
”E questo chi l’ha deciso?” chiese sorpreso Chiaro.
“Ne stavamo parlando con Forgia qualche giorno fa, abbiamo preso questa strada per andare verso suo cugino, ma ormai si sarà di sicuro spostato. Potremo ritornare in inverno. Addirittura il prossimo, se è possibile”
“Ma non ne vedo…”
“Torneremo sicuramente” tagliò corto Nero guardando William “ne ho parlato già con tuo zio, quindi appena ci sarà possibile, e il Re lo permetterà, passeremo di nuovo qui”
“Lo sapevo!” disse felice il ragazzo “una volta conosciute queste terre è così difficile allontanarsene”
Dei presenti, l’unico che non sembrava d’accordo con la decisione pareva Chiaro, ma, ancora una volta, la sua protesta fu interrotta sul nascere.
“Sì” ironizzò Luppolo “l’aria è un po’ troppo inglese per i miei gusti, ma devo dire che, in fin dei conti, non è poi così male”
Gli altri risero.
“Sei sempre il solito guastafeste. Ammetti una volta tanto che ho ragione e che farebbe piacere anche a te tornare qui”
“Ma cosa c’entri tu? Non sei tu che hai deciso di tornare…”
“Però ho detto io a Forgia che sarebbe stato bello…”
“Che l’abbia detto tu o no, le cose non cambiano”
“Che noioso che sei, sempre il solito guastafeste! Basta dire oh Cencio hai ragione, per accontentarmi”
“Io pensavo che bastasse darti da mangiare per farlo…”
Cencio si fermò un  attimo a pensare e poi sorrise: “A volte, Luppolo, incredibile a dirsi, sembri uno assennato”
Luppolo scoppiò a ridere “Hai troppa aria in quella testa!”
I suoi uomini continuarono a parlare per un po’, ma Nero si perse di nuovo e le voci dei compagni scomparvero.
Era così difficile…Così difficile rimanere lucido quando l’unica cosa che avrebbe voluto fare era restare. E pensare a lui.
Ma l’autodisciplina che il suo ruolo gli imponeva era così ferrea che il senso del dovere continuava a predominare; sapeva che non poteva lasciarsi vincere dal desiderio egoistico di fare ciò che fosse meglio per lui solo.
Doveva negare – perché dimenticare era impossibile – e doveva cercare di non soccombere alla nostalgia, che a volte scaturiva imperiosa dal nulla, per un uomo che era lì, a poca distanza da lui, ma che non poteva afferrare.

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Capitolo 32
*** 32. Vino ***


Capitolo Trentadue - Vino
 
 
 
Chiaro osservava il suo bicchiere di vino senza assaggiarlo. Il liquido amaranto, scosso dai lievi movimenti della mano del cavaliere, dondolava, per poi quietarsi subito, quando la mano di Chiaro si fermava.
“Sono qui da pochi minuti e avrai già sospirato cinque volte. Sei afflitto da pene d’amore?”
Chiaro sorrise a Cencio “No, solo da pensieri confusi”
“Ne vuoi parlare?”
Chiaro fissò il compagno che s’era già seduto vicino al camino, in attesa di risposta.
“Luppolo ha ragione quando dice che t’insinui dappertutto”
“Luppolo dice questo? E perché? Non è mica vero!” protestò Cencio, ma solo dopo si rese conto che probabilmente Chiaro non aveva voglia di parlare con lui.
“Scusa, me ne vado subito…”
“No! Resta. Per favore” sospirò “Ci sono delle cose che vorrei chiedere anche a te…”
Cencio, che s’era già alzato dalla sedia, si rimise a sedere: “Dimmi pure”
“Io…” cominciò, ma poi si fermò subito “Non so esattamente da dove cominciare…”
“Sei preoccupato per Nero?”
“E tu come lo sai?”
“Di solito, quando hai quest’aria accigliata e sei perso in mille pensieri, pensi a Nero”
“Io non lo capisco” Chiaro scrollò le spalle “Davvero, più passa il tempo e meno lo conosco. E non so che cosa fare”
“A cosa ti riferisci?”
“Per esempio a questa mattina. Non l’hai notato anche tu?”
”Notato cosa?”
“Ma no…niente, forse sono solo io” Chiaro ritornò a guardare il bicchiere di vino, sospirando di nuovo.
“Lo vedi distratto?”
“L’hai notato anche tu?” Chiaro si rivolse a Cencio con un sorriso speranzoso.
Il fuoco nel camino scoppiettò, sovrapponendo la sua voce a quella dei cavalieri. Poi tacque.
Cencio annuì “Mi sembra diverso…”
“Più oppresso” lo corresse  Chiaro, ma Cencio aggrottò la fronte, contraddicendolo.
“No, solo diverso”
Chiaro non insistette sul termine “Io penso che sia questo posto”
Cencio fece dondolare la testa: “E’ da un po’ di tempo che il capo ha qualcosa per la testa, però non penso che sia un luogo…”
“Ti dico questo” proseguì Chiaro quasi non avesse sentito l’amico “perché conosco Nero da sempre e per lui – per qualcuno che ha deciso di lasciare la propria casa da ragazzino, scappando – i luoghi hanno un’importanza diversa che per noi”
“Spiegati meglio…”
“Nero se n’è voluto andare perché non riusciva più a vivere a casa nostra, perché il suo istinto di libertà l’ha portato lontano, ad esplorare la Russia, l’Italia, la Francia… E’ sempre stato qualcuno che non trova quiete, perché alla continua ricerca di qualcosa. Ma Nero non potrà fermarsi da nessuna parte. Fermarsi per lui, equivale ad essere in trappola”
“Pensavo non sapessi che cosa avesse portato il capo ad andarsene da casa tua”
“Non lo so infatti” confermò Chiaro.
“Ma hai appena detto...”
“Posso intuirlo. Probabilmente esistono motivazioni che ignoro, ma senza quest’indole raminga, nessuno avrebbe lasciato una casa e una condizione agiata per…. questo!” Chiaro fece un ampio gesto con la mano indicando se stesso e Cencio.
“Tu certamente non hai la sua indole vagabonda, Chiaro, eppure eccoti qui”
“Ma è diverso…”
“Non così diverso, se ci pensi. Il motivo per cui voi avete lasciato casa tua può essere differente, ma alla fine, siete qui, insieme, ugualmente lontano da dove siete partiti”.
Di nuovo fu il fuoco del camino a prendere parola. Un tronchetto, spaccandosi, liberò mille scintille che s’acquietarono sul fondo.
Chiaro scosse la testa, protestando “E’ questo che è diverso. Nero non vuole tornare. Nessun posto per lui è casa. Io invece, tornerei subito…”
“Non capisco dove vuoi arrivare Chiaro, davvero. Non ti seguo”
“Perché qui vuole tornare?”
“Chiaro, non stai ragionando. Non è che vuole tornare qui. Tornerà anche in Francia, se re Edoardo glielo ordinerà, e in Italia, se insisto un pochino. Tornerà qui perché, devi ammettere, è un luogo che traspira pace e tranquillità…”
Chiaro sospirò “Forse hai ragione tu. Forse sono io che esagero e che non capisco più Nero”
“E’ che ti ostini a volerlo diverso da quel che è”
“E’ che mi ostino a considerarlo mio fratello…”
“Forse”  disse Cencio, adagio “ma non puoi decidere tu per lui”
“Lo so” sorrise tristemente Chiaro “Lo inseguo da una vita, ma non lo raggiungerò mai. Penso che nessuno possa fermarlo e trattenerlo…”
“E non è nostro compito tentare” puntualizzò Cencio, prendendo il bicchiere di vino dalle mani di Chiaro. “Questo non lo bevi?”
Chiaro sorrise, questa volta genuinamente “C’è la bottiglia intera che ci aspetta, piccolo ubriacone”
Cencio gongolò “Allora dobbiamo cominciare subito” disse bevendo tutto il contenuto del bicchiere con un solo sorso “Sarebbe maleducato farla attendere troppo”
Chiaro scoppiò a ridere e il fuoco si unì al buon umore ritrovato, ardendo rumorosamente.
 
Luppolo passò un bicchiere di vino a Nero. Nonostante si trovassero in uno dei giardini interni del castello e le alte pareti li proteggessero dal vento di quella sera, la temperatura era così bassa che neppure le spesse pellicce che indossavano sembravano poter riscaldare i due cavalieri.
“Sembriamo due ubriaconi” sorrise lo scozzese “Fuori in inverno, con una bottiglia in mano”
“Noi siamo due  ubriaconi, Luppolo” Nero sorrise, ma non riuscì a mascherare l’aria preoccupata.
“C’è qualcosa che non va, vero?”
“Ci sono molte cose che non vanno, ma questo penso tu lo sappia bene”
Luppolo si limitò ad annuire.
“Ed è sciocco fingere che sia tutto come prima…”
“Che cosa hai intenzione di fare?”
“Ancora non lo so bene, ma …” Nero non riuscì a trovare le parole. Si mise una mano fra i capelli, come a cercarle “So bene quello che devo fare, ad onor del vero, ma non penso di essere più in grado di farlo”
Luppolo guardò l’amico a lungo, poi annuì, senza di nuovo dire nulla, per un po’.
“Forse è l’atmosfera di questo luogo, che ti obbliga a non mentire più” disse poi.
“Tutto sembra possibile, ma io non sono in grado di… fare ciò che m’è richiesto”
“E’ la responsabilità che vivi nei confronti tuoi e del gruppo. Cencio lo dice sempre: la dipendenza degli altri grava troppo sulle tue spalle”
“Cencio esagera”
“Non troppo. E’ da quando il gruppo s’è formato che noi, ad uno ad uno, abbiamo poggiato questo fardello sulle tue spalle”
Nero scosse la testa “Alcuni l’hanno fatto, non tutti voi”
“Chiaro…”
“Chiaro lo fa da sempre, cerca di intrappolarmi in un’idea che non esiste più...Ma non è lui il vero problema. Niente era un problema finché non siamo arrivati qui”
“E non ti sei innamorato”
Nero sorrise non distogliendo gli occhi da davanti a sé.
Non aveva bisogno di guardare in faccia l’amico per saperne l’espressione.
“Solleva ogni fardello dal mio cuore…” Nero disse a bassa voce, quasi fra sé e sé “ Riesce a rendere semplice passato ciò che stato, disfacendo tutti gli intrecci che invece ancora mi legavano e da cui non riuscivo a sfuggire. Ho passato una vita intera ad andarmene, Luppolo. Ora voglio solo restare, questo è l’unico posto dove mi sento …”
“Libero” concluse per lui lo scozzese, e Nero annuì.
Luppolo alzò lo sguardo al cielo. C’erano così tante stelle che i suoi occhi si persero dietro le più brillanti, per un po’.
“Allora resta”
“Non è così semplice”
”Perché no?”
”Perché non ci sono solo io”
Luppolo stava per replicare, poi si fermò di colpo, annuendo. A volte aveva paura quando si rendeva conto di come Cencio avesse sempre ragione. Tutti dipendevano così tanto da Nero che no, non era per nulla semplice per lui rimanere.
“E allora che cos’hai intenzione di fare?”
“Sicuramente tornare a Londra in primavera. Abbiamo un patto con Re Edoardo che dobbiamo rispettare...”
E poi? Poi tornare qui, tornare a casa. Tornare da Aaron anche solo per vedere ogni giorni il suo sorriso. E se proprio, a volte, non riusciva a resistere, poteva giocare con i suoi capelli biondi e abbracciarlo. Gli sarebbe bastato: non avrebbe infranto le leggi di Dio e nemmeno oscurato la sua gloria. Gli sarebbe bastato così.
Tremò, controllando l’istinto di gridare per liberarsi. Luppolo gli versò del vino nel bicchiere.
“Non mi ero neanche accorto che fosse finito” sorrise Nero.
“Questo perché siamo degli ubriaconi” sorrise Luppolo.
“Lo sa qualcuno?”
Luppolo capì subito che la domanda non si riferiva al vino.
 “No” lo scozzese scosse la testa “Sono sicuro, nessuno”
Nero lo guardò, con aria interrogativa “Perché sei così sicuro?”
Luppolo si morse le labbra e non rispose, guardando altrove.
“Ah…” Annuì Nero.
Nero non ebbe bisogno di nient’altro per capire a cosa Luppolo si riferisse. Non una parola, non uno sguardo. Tempo prima, in quello stesso giardinetto sotto la pioggia, lo scozzese gli aveva chiesto se era davvero sbagliato che un uomo amasse un uomo, agli occhi di Dio.
Lui aveva dato una risposta incerta, non capendo esattamente che cosa Luppolo intendesse. Stupidamente poi, non s’era interrogato a fondo, preso com’era da quella sensazione di pace che l’aveva investito, una volta arrivato a Castel Thurlow.
Aveva lasciato che quella domanda scorresse via, insieme alla pioggia di quel giorno, per poi ritornare solo adesso, con un significato ben più chiaro ed intenso.
“Ho capito tardi… Mi dispiace”
“Non certo dopo di me. Negare l’evidenza è una dote di cui mi vanto da sempre” Luppolo cercò di sorridere, ma poi alzò le sopracciglia sospirando “Certo che se qualcuno ci vedesse qui, seduti al gelo d’inverno, a parlar d’amore ci rinchiuderebbe in una segreta buia, e ci batterebbe fino a che un po’ di senno non tornasse nelle nostre teste”
Nero rise “Io incolperei il vino, e te ovviamente”
“Un capo responsabile…” ironizzò “e perché me, sentiamo”
Nero si strinse nelle spalle “Si sa, è quasi sempre colpa degli infidi scozzesi”
Luppolo aprì la bocca per replicare, ma si fermò di colpo, scoppiando a ridere “Tu frequenti troppo un certo ladruncolo italiano. Hai iniziato a parlare come lui”
Nero sorrise “E devo dargli ragione quando dice che la tua espressione è impagabile, quando ti si pungola sulla Scozia”
Risero tutt’e due, alleggerendo l’atmosfera di quella sera.
“E’ meglio se rientriamo, ora, inizia a fare troppo freddo”
Nero annuì, ma non si alzò subito in piedi.
“Quando avrò deciso, e saprò cosa fare, te lo dirò”
Luppolo non si girò verso l’amico “Lo so. Tornare non è una cosa semplice, per te. So bene cosa significhi…Ed ecco perché ammiro la tua forza Nero”
Nero aggrottò a fronte.
“Io che non riesco mai a mettere in gioco niente di me, mi confronto ogni giorno con qualcuno che rischia tutto per ciò in cui crede. Io penso che tu sia già libero”
 
Luppolo entrò nella stanza convinto che fosse vuota. Quando invece vide Cencio di fronte al fuoco, sussultò.
“Sono così pauroso, stasera?”
“Non m’aspettavo di trovar qualcuno…”
A dire il vero, l’ultima delle persone che voleva incontrare, quella sera, era proprio Cencio. L’aver parlato con Nero, l’essere stato così chiaro con lui e con se stesso, lo metteva incredibilmente a disagio.
Voleva tempo per rasserenarsi, per rimettere tutto a posto, tutto com’era prima. E invece no, Cencio era già lì di fronte a lui, col rischio che capisse con quegli occhi inquisitori…
“E’ meglio che vada …”
“Aspetta un attimo!” Cencio saltò in piedi “Rimani qui per un po’…”
“No, preferisco ritirarmi. Devo aver bevuto troppo e mi gira la testa”
Cencio arrovesciò le mani sui fianchi con aria incredula “Ti fai fermare da qualche bicchiere di vino?”
“Tu no a quanto sembra” ma il tono di Luppolo era diverso da quello solito, meno scherzoso. Troppo stanco.
“C’è qualcosa che non va” Cencio disse, senza porre alcuna domanda.
Che ci fosse, era evidente, ma l’unico posto dove questa… cosa potesse essere nascosta e offuscata era la sua stanza. Luppolo indietreggiò. Si maledisse, appena capì di aver fatto quel passo indietro, ma ormai l’aveva fatto.
“Addirittura arretri”
“Lasciami in pace ragazzo, ho bisogno di dormire e non di ascoltarti blaterare” rispose con tono fin troppo duro, poi cercò di ammorbidirlo “Sono davvero stanco”
“Lo sai che non riesci a mentire, vero?”
Cencio guardò Luppolo negli occhi, per un attimo. Erano così pesanti e tristi che sarebbe stato impossibile non notarlo anche per qualcuno meno attento e sensibile dell’italiano.
Sospirò.
“Se devi andare va’. E che la notte ti sia di conforto”
Luppolo sapeva che Cencio non avrebbe permesso a quell’inizio di discussione di sopirsi con la notte, l’avrebbe ripresa in mano, sarebbe andato a fondo.
Sperò di essere più pronto, la volta successiva, ad affrontare quegl’insulsi, fastidiosi, splendidi occhi inquisitori.

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Capitolo 33
*** 33. Guarda me ***


Capitolo Trentatre - Guarda Me
 
 
 
Lo trovò a parlare con cinque uomini che non aveva mai visto al castello prima. Indossavano abiti da lavoro e due di loro avevano ai loro piedi enormi sacchi contenenti qualcosa che Nero non riuscì a vedere. Il discorso fra gli uomini era piuttosto animato, sembrava non riuscissero a mettersi d’accordo su qualcosa, mentre Lord Aaron li ascoltava seduto. Pareva infastidito, o forse preoccupato. Quando gli uomini si accorsero dell’entrata del cavaliere nella sala, si zittirono di colpo.
Lo guardarono per un istante, poi, notando le effigie del re sul suo braccio s’inchinarono bruscamente.
Nero alzò la mano.
“Vi prego signori, non sono qui per interrompervi” si rivolse poi verso Aaron, inchinandosi “Mi scuso, volevo avvisarvi che alcuni minatori sono giunti da Est, ma evidentemente alcuni di loro mi hanno preceduto”
I minatori tornarono a rivolgersi al signore del castello, ma Lord Aaron li interruppe subito: “Smettetela di parlare insieme!” disse severamente “Se ho accettato di ascoltarvi è perché ognuno di voi avrà diritto a dire la propria. Che sia il più anziano a parlare per primo, così finalmente potrò capire che cos’è successo di tanto grave”
Un uomo con quasi tutti i capelli bianchi in testa s’inchinò al suo signore e cominciò a parlare:
”Alcuni di noi pensano che il nostro filone si stia esaurendo…”
“Quelli che hanno troppo freddo per scavare più a fondo!”
Lord Aaron guardò l’uomo che aveva parlato con tale severità negli occhi che questi tremò, facendo istintivamente un passo indietro.
Il vecchio riprese a parlare
“Non so se scavando più a fondo, il filone si rinnova, ma il terreno è gelato e la roccia troppo dura”
“Ma non escludete che ci possa essere dello stagno in profondità” chiese Lord Aaron e il vecchio annuì.
“E voi altri” chiese il Signore del castello “Che ne pensate?”
Prese a parlare il secondo in ordine d’età: “Jeremy ha ragione” disse indicando l’uomo più anziano “forse in primavera potremo scavare più in profondità, ma per ora è impossibile…”
Lord Aaron indicò uno dei due ragazzi presenti in sala, deliberatamente saltando chi aveva interrotto il discorso di Jeremy poco prima
“Io non sono d’accordo, signore. Lo stagno è poco, ma aspettare di riprendere il filone rischia di farci perdere troppo tempo. I minatori che lavorano alla cava di Jeremy cosa farebbero fino a primavera?”
“Potrebbero suddividersi fra le altre cave”
“Ma di certo non mancano braccia che lavorano, Paul!”
Lord Aaron diede poi la parola all’uomo che s’era intromesso.
“Signore io la penso come il ragazzo ed è per questo che siamo venuti qui, non riuscendo a trovare una soluzione. Lo stagno c’è, è solo più in profondità di quanto non ci fossimo aspettati. La gelata ad inizio mese ha rallentato di molto i lavori, interromperli ora sarebbe sciocco”
“Ma hai insinuato che il vero problema sta nel fatto che i minatori non facciano il loro dovere a causa del freddo, perché?”
L’uomo abbassò la testa: “Lavoriamo tutti nelle stesse condizioni, signore, anche per me e per i miei uomini fa freddo. E quando per un giorno non riusciamo a estrarre lo stagno che avremmo dovuto, sappiamo che il giorno dopo dobbiamo lavorare il doppio. Eppure nessuno si lamenta mai…”
Jeremy fece per rispondere, ma Aaron alzò la mano per zittirlo e guardò Nero aspettando che parlasse.
“Penso che si debba andare a vedere di persona quale siano le condizioni delle miniere e del terreno, Mio Signore”
Lord Aaron annuì, accarezzandosi il mento con la mano, assorto:
“Sì, lo penso anch’io” Poi si rivolse verso gli uomini di fronte a lui.
“Verrò personalmente. Domani mattina partiremo all’alba e deciderò cos’è meglio fare”
“Grazie Signore” i minatori s’inchinarono.
“Liam e Nestor si occuperanno di voi fino a domani mattina, vi indicheranno dove passare la notte e dove mangiare stasera. Ci vedremo in prossimità dell’ala Nord del castello, domani mattina all’alba” Così dicendo, congedò i minatori e si alzò dal sedile sul quale era seduto. Indossava una veste amaranto, finemente ricamata in oro. Portava un coprispalle, drappeggiato con cura sulle braccia e sulla schiena.
Nero rimase a guardarlo per un attimo senza dire nulla.
Aaron che di solito portava i capelli sciolti, quella mattina li aveva finemente intrecciati insieme a fili dello stesso colore della veste.
Anche in abbigliamento formale, quei capelli, quelle labbra e quella pelle parvero bellissime a Nero, che non parlò per un po’, non fece niente se non guardarlo avvicinarsi ad un omino che era comparso sull’uscio della porta. Nero pensò si trattasse di Liam o di Nestor.
C’erano momenti - come quello - in cui nulla sfuggiva alla ferra logica terrena che quel castello, e quell’atmosfera, cercavano di tenere lontano ma che spesso s’infiltrava e diventava evidente agli occhi di Nero: non solo la persona di fronte a sé era un uomo, ma apparteneva ad un casato e ad una classe a cui Nero non avrebbe dovuto aspirare. Che Nero avrebbe dovuto guardare solo con estrema deferenza, senza desiderare poter essere un suo pari.
Aaron gli faceva dimenticare i suoi natali così diversi, ma in quei giorni, quando ricopriva la sua carica e vestiva la sua nobiltà, Nero non poteva fingere di non vederla.
Sorrise. Se Chiaro l’avesse sentito, l’avrebbe rimproverato, accusandolo di rinnegare per l’ennesima volta casa sua. Ma non era così, Nero lo sapeva bene. E altrettanto bene sapeva chi era.
Sospirò, rendendosi conto che era rimasto fermo immobile in una stanza in cui doveva giustificare la sua presenza.
Indugiò ancora sulla figura di Aaron, poi decise che sarebbe stato più saggio andarsene e rasserenare il proprio animo, in solitudine.
“Aspettate”
Nero si fermò, ma non si girò immediatamente.
“Aspetta…” sentì Aaron vicino a sé e solo allora si girò, non riuscendo a parlare.
Si fissarono senza dire niente, poi Aaron fece un gesto con la mano per indicare a Nero di seguirlo. Uscirono dal salone e il cavaliere seguì il padrone del castello a leggera distanza.
Perché ci stava pensando proprio in quel momento? Perché non prima, perché non mai?
Nero si ritrovò a non aver la risposta a nessuna delle domande che gli affollavano la testa. Salirono delle scale che gli sembrava di non aver mai salito e continuò a seguire Aaron in silenzio.
La sua veste amaranto si muoveva fluida, accarezzandogli lievemente il corpo. Nero non alzò lo sguardo per tutto il percorso, si limitò a osservare le pieghe della tunica, senza parlare.
Entrarono in una stanza, poi in un’altra ancora, fino a che non si fermarono in quella che appariva come una stanza di lettura. Nero non sapeva dirlo: da una parte la parete sembrava ricoperta di libri, dall’altra però c’erano solo fogli scritti, sparpagliati su due grandi tavoli.
“Dove siamo?”
Aaron sorrise “Sono i miei appartamenti. Questa è una delle stanze dove raccolgo i libri sulle erbe e scrivo” disse indicando i foglio sui tavoli “dei diversi infusi, per studiarne poi le diverse proprietà”
Nero aggrottò la fronte e Aaron scoppiò a ridere.
“No, non temere, non ti ho portato in questa stanza per una lezione su erbe prodigiose. In effetti non volevo proprio fermarmi qui, ma nella stanza accanto”
Nero sorrise, ma non si mosse.
“Chi stai guardando?” gli chiese d’improvviso il biondo e Nero si scosse, quasi fosse stato svegliato; Aaron ripeté quindi la domanda: ”Chi stai guardando? E’ da quando sei entrato nel salone che non guardi più me e non capisco chi osservi…”
“Non dite…”
Ma Aaron lo interruppe subito, avvicinandosi a lui. “Shhhh….” gli disse appoggiandogli le dita sulle labbra “non così”
Nero gli prese quella mano nella sua, premendosela ulteriormente sul viso. La baciò, prima il palmo, poi le dita ad uno ad uno, ma non rispose.
“Come fate?” poi chiese “Come fate ad essere quello che siete e…”
“Non così” gli ridisse Aaron appoggiandosi a lui e sfiorandogli il lobo con la voce “Non esiste voi, solo io”
Nero tremò. C’era qualcosa in quel giorno che gli gravava addosso, che non riusciva a sciogliere nonostante il calore di quella voce.
Con le dita ancora intrecciate a quelle di Nero, Aaron portò la mano del cavaliere sui propri capelli e sfilò uno dei tanti fili rossi che li intrecciavano.
Un gesto fluido e una ciocca fu sciolta, lasciando liberi i capelli che ricaddero frastagliandosi sulla spalla. Poi portò la mano del cavaliere su un’altra treccia e un altro filo e lasciò che fosse lui a tirare e a disfare la seconda treccia.
E così Nero fece, tirando un altro filo rosso che contrastava l’oro, per poi lasciarlo cadere per terra, dove già si trovava il primo. Non aspettò che Aaron gli portasse la mano sulla terza treccia, la prese lui, accarezzando con la mano un altro nastro rosso per liberarlo e lasciarlo andare. Filo dopo filo, c’era qualcosa in lui che veniva disfatto e veniva liberato. E veniva lasciato andare, per terra, insieme a tutto il resto che non aveva importanza. Il respiro era ritmico, seguiva il fruscio dei fili che abbandonavano i capelli e li lasciavano liberi, permettendogli finalmente di dimenticare tutto.
Quando Nero prese fra le mani l’ultima treccia, indugiò per un istante prima di sfilare l’ultimo filo, e quando lo fece l’osservò, fino a che questi non s’appoggiò insieme agli altri.
Ora fra le dita aveva solo i suoi capelli e c’era solo Aaron di fronte a lui.
“Come fai?” gli chiese con voce rotta.
“Guarda solo me, non chi ti hanno insegnato a guardare. Solo me…” alzò leggermente il viso per baciargli le palpebre degli occhi. E Nero lasciò andare anche l’ultima sciocca preoccupazione di quella giornata grigia, lasciandola cadere insieme alle altre e affondò le dita nei capelli di Aaron, finalmente liberi, e lo abbracciò.
“Non smettere mai di guardarmi”
Rimasero lì, incapaci di fare altro se non stare così, in una stanza di erbe.
Nero sorrise “Anche volendo, non potrei, con tutti questi intrugli” disse indicando i libri delle erbe “penso di essere spacciato e assoggettato dalle tue erbe magiche”.
Risero tutt’e due in quella complicità.
“Ti credevo un medico, non uno stregone”
“A volte il confine è veramente labile!” Poi Aaron prese per mano Nero e riprese a camminare “Ma vieni con me, ti ho portato qui per un motivo preciso”
“Ah, non era per gli intrugli?”
Aaron rise; una risata cristallina, che gli era penetrata così nel profondo che Nero non poteva più liberarsene.
 
La stanza in cui entrarono era probabilmente un guardaroba, o forse semplicemente una sala d’abbigliamento: era grande e molto ben illuminata, ricolma di stoffe, vestiti e con un viavai di gente di cui Nero si stupì, data la calma assoluta di prima.
“Questa è la stanza comune fra i miei appartamenti e la sartoria” spiegò il biondo, comprendendo la confusione del cavaliere “Mia madre ha voluto crearla così, è una sala aggiunta. Mio padre dice che era per un capriccio di donna, probabilmente era per la comodità di avere i propri sarti vicini. Quelle” disse indicando le stanze che avevano appena lasciato ”erano gli appartamenti di mia madre prima di diventare i miei”
“Vostro padre...”
“Ha occupato i suoi e ormai non ne esce più da anni… Non” poi si strinse nelle spalle, cercando le parole più adatte “ rimarrà lì per sempre, credo” la tristezza nelle sue parole venne subito scossa via.
 
In quella stanza e in quelle adiacenti c’era molto movimento, una donna dopo essersi profondamente inchinata a lui non fuggì come gli altri, ma si fermò.
“Signore, quello che avete chiesto è pronto, volete che ve lo porti qui, oppure…?”
“Datelo pure a me, vorrei  farlo provare al mio ospite”
La donna s’inchinò e se ne andò velocemente com’era venuta.
“Che …?” chiese Nero, ma Aaron lo interruppe.
“E’ un regalo per te, è poca cosa, ma ci tenevo lo avessi”
La donna ricomparve con un mantello blu notte, arabescato d’argento, salì su uno sgabello e, prima che Nero potesse dire qualcosa o protestare, glielo drappeggiò sulle spalle.
“Il signore” iniziò poi a dire “ ha chiesto esplicitamente che avesse la foggia tipica di queste terre. I lacci sono ai lati e nei giorni di freddo intenso” continuò lei, afferrando con mani abili un lembo del mantello e facendogli fare un doppio giro intorno alle spalle “dà la possibilità di coprirsi per bene.”
L’espressione di Nero era così stupita che Aaron non riuscì a non scoppiare a ridere lì, di fronte alla sarta. Il cavaliere lo guardò sconcertato.
“E’ di vostro gradimento, signore?” chiese la sarta una volta che il mantello era stato perfettamente indossato da Nero.
“E’ perfetto, avete fatto un ottimo lavoro”
”Grazie Signore” la donna s’inchinò e quando Aaron le fece cenno che poteva lasciare la stanza, scomparve dalla porta da cui era venuta.
“E’…” Nero non riuscì subito a palare, guardandosi le braccia, avvolte da quel tessuto così morbido e caldo”
“Ti piace?” chiese Aaron, ma Nero non riuscì a rispondere subito. Annuì semplicemente, con le labbra dischiuse.
“Perché?” chiese poi.
“Perché volevo farti un regalo” disse semplicemente il padrone del castello.
“Vieni in un’altra stanza”
Aaron non capì immediatamente, ma comunque riportò Nero nelle camere lontano dal viavai dei sarti e dei servi.
“Grazie” fu solo nel silenzio di quelle stanze che Nero riuscì a dire qualcosa, ma la voce rotta lo obbligò a fermarsi subito. “Io non…” Qualunque parola gli venisse in mente gli sembrava inadeguata “Grazie” Gli accarezzò il viso e i capelli sciolti da lui stesso. “Tu sei…”
Ma di nuovo si interruppe, questa volta perché Aaron gli aveva posato un dito sulle labbra.
“E’ un regalo per te. Volevo che avessi qualcosa di questi luoghi…”
“E’ blu, arabescato d’argento”
Aaron abbassò gli occhi, imbarazzato.
“E’ blu arabescato d’argento” ripeté sottovoce. La stessa fantasia di una notte, e del loro unico bacio.
Nero l’abbracciò, forse d’improvviso, ma come unica e possibile conseguenza della sua incapacità di parlare: “E’ bellissimo” gli disse baciandogli la pelle.
“Sei uno sciocco” bisbigliò Aaron “ sei uno sciocco perché pensi che io possa…” si fermò per riprendere fiato, in quell’abbraccio che glielo toglieva “Che mi possa importare di chi sei figlio. Non mentirò dicendoti che non voglio saperlo, perché lo voglio. Ma per conoscere ciò che eri e per…” la sua voce si spezzò, incapace di controllarla “L’hai detto tu una volta, ora non posso che ripeterlo. Io vorrei tutto di te, anche il tuo passato” Aaron lo strinse ulteriormente a sé, sentendo il silenzio di Nero respirargli sul collo “Ma non se tu non me lo vuoi dare. Perché a me va bene anche solo che tu mi stringa e che non mi guardi come un estraneo”.
Nero si scostò leggermente dall’abbraccio dell’altro, appoggiando la guancia sulla sua spalla. Con un dito accarezzò il bordo del mento e poi sorrise, un sorriso che Aaron non riuscì a vedere ma che udì.
Nero vide i suoi capelli mori mischiarsi con quelli biondi e chiuse gli occhi espirando. Sapeva di aver intrapreso tempo addietro una strada da cui non si poteva tornare e, quand’era così felice come in quel momento, si chiedeva perché mai prima avesse esitato.
 

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Capitolo 34
*** 34. Chiaro ***


Capitolo Trentaquattro - Chiaro
 
 
 “Non penso sia proprio necessario che tu vada!”
”La tua opinione, in questo caso, è ininfluente. Se vuoi venire anche tu, nessuno ti vieta di farlo. Ma non dirmi cosa devo o non devo fare, Chiaro”
“Non capisco! Vuoi andare alle miniere… almeno dimmi il perché”
“Dovrei chiederti perché tu sia così contrario!”
“Perché penso che sia inutile!”
Nero scosse la testa e sospirò.
“Chiaro, di’ ora quello che non va, dillo adesso perché più tardi, giuro, non ti ascolterò più.”
“Non c’è niente che…”
“Chiaro, non sto scherzando. Non ci sarà parentela che ti salvi, né indulgenza su cui potrai far leva, ma dovrai andartene. Io sono stanco e non ho nessuna intenzione di portare avanti questa farsa”.
Si erano incontrati vicino alle stalle. Nero era sceso per controllare il proprio cavallo e Chiaro s’era trovato lì, forse per caso, forse di proposito. Nero sospettava Chiaro lo stesse cercando, perché d’improvviso s’era scagliato verbalmente contro di lui non volendo che Nero andasse alle miniere la mattina successiva. Ma la cosa non era in discussione. Era avvolto dal mantello che gli aveva appena regalato Aaron, circondato dal suo profumo. In quello spazio ristretto fra lui e la stoffa c’era un tale tepore da farlo stare bene anche lì, al gelo di una notte d’inverno. E non sarebbe stato Chiaro a raggelare l’aria che lo copriva.
Il fratello appariva, quella sera, diverso dal solito. Nero si ritrovò a guardarlo, spazientito dal suo silenzio e ad osservarlo con occhi nuovi.
Forse solo più attenti, si disse.
Non aveva tratti somatici simili a lui, non gli rassomigliava in nulla. Eppure era suo fratello agli occhi di tutti e, probabilmente, anche a quelli dello stesso Chiaro.
Nero non aveva mai biasimato il fratello per non aver capito, ma solo per la sua incapacità di lasciar andare il passato.
Non avrebbe parlato, però. Non quella volta. Non quella sera.
Se Chiaro voleva davvero dirgli che cosa lo tormentava, quella era l’occasione. Era finito il tempo in cui poteva aspettare che il fratello trovasse le parole, trovasse il tempo o il coraggio. Ora Nero non avrebbe più aspettato.
”Perché vuoi tornare?”
“Che cosa?”
Ma Chiaro non si spiegò e proseguì “Ne ho parlato con Cencio e secondo lui è naturale voler tornare in questi luoghi, ma non lo è, non per te. Non ti ho mai sentito esprimere il desiderio di tornare…Eppure l’altra mattina, non hai avuto esitazioni”
“E’ questo il problema?”
“Anche. Oltre al fatto che non capisco quello che ho intorno… Non lo capisco più” Chiaro sospirò e si appoggiò al portone di legno della stalla incrociando le braccia. Questo scricchiolò. 
Lasciò che il rumore svanisse e poi riprese a parlare.
“C’è qualcosa che mi sfugge in te, fra queste terre. C’è qualcosa che mi sfugge in Cencio, in Luppolo, in Forgia… percepisco questa…” cercò le parole più adatte “questo cambiamento, ma non lo capisco.”
“E questo ti terrorizza” Chiaro annuì impercettibilmente, ma Nero lo vide ugualmente. Non disse nulla, non rispose. Era inutile, perché inutile era parlare a Chiaro di ciò che era passato e di ciò che non era più. Fu il più giovane a riprendere la parola.
“E ora mi dici che domani andrai alle miniere, ma non è solo quello, è la tua vita qui quella di cui ho paura”
“Perché è fatta di quotidiano?”
Di nuovo, Chiaro annuì solamente. Di nuovo lasciò scorrere del tempo prima di riprendere a parlare. Non era vestito per l’esterno, la casacca in lana pesante non era sufficiente a riscaldarlo. Ma non tremava, gli pareva quasi che il ghiaccio gli si fosse depositato sulla pelle e che la patina fredda non penetrasse in profondità. Solo il vapore che gli usciva dalla bocca gli ricordava la temperatura, per il resto, il suo corpo era totalmente insensibile.
“Non dovrei dirlo, non vorrei dirlo, ma è così. Tu sei fatto per opere grandiose: mi spaventa questa quotidianità. Tua e degli altri. E’ qualcosa di cui io non faccio parte”
“Questo è solo perché cerchi di rimanerne fuori”
“Perché questa non è casa mia” rispose Chiaro come fosse la risposta più ovvia.
“E’ questo che non capisci ed è qui che sbagli” Nero cominciò a camminare allontanandosi dalle stalle e fece cenno al fratello di seguirlo.
“Qualunque terra che si calpesti, qualunque luogo che si visiti, qualunque, sebbene non sia casa, può acquisire un valore importante. Prendi Cencio per esempio, da quando non torna in Italia?” Nero fece una breve pausa, poi riprese “Eppure ogni luogo che incontra gli penetra dentro e se lo porta con sé, per ritrovarlo poi altrove e per scoprire qualcos’altro, una volta che questo luogo viene lasciato alle spalle. Non è necessario che si sia vissuta l’infanzia in una terra, per legarla a sé”
“Proprio tu!” Chiaro quasi gridò, fermando il passo “Proprio tu mi dici questo? Tu che rinneghi la tua casa! Tu che l’hai lasciata, alla ricerca di una casa da chiamare tua... Proprio tu mi dici che non è necessaria l’infanzia per legare la propria terra alla propria anima? Proprio tu dici così, quando fino a ieri mi dicevi che non esiste una casa per te..?” Chiaro si coprì gli occhi con le mani, cercando di trattenete quel fiume di parole che sarebbe stato inevitabilmente accompagnato dalle sue lacrime di frustrazione.
Nero aspettò che il fratello si calmasse, poi riprese a parlare.
“C’è una grossa confusione in quello che dici Chiaro. La casa dei tuoi genitori non è la mia e io non voglio tornarci, questo è vero. Altrettanto vero è che porto ogni luogo  in cui ho vissuto dentro di me. Io…” poi fece una pausa per calibrare bene le parole “il tuo unico desiderio è il ritorno a casa Chiaro. Tu vivi nella speranza di farlo e solo per il giorno in cui questo avverrà”
“Ed è davvero così sbagliato?”
Nero scosse la testa “No, non lo è. Ma imporre i tuoi desideri agli altri e non capire che questi non sono universali, questo sì, lo è”
“Non...”
“Non negarlo, Chiaro. Non negare che per te Luppolo è un pazzo che scappa dal suo passato perché non riesce ad affrontarlo; non negare che di Cencio non ti fiderai mai completamente perché non puoi fidarti di chi non ha solide radici. E che dire di Levante? Lui che trova una donna così lontano da casa, e tu reputi il suo amore solo un capriccio passeggero.” Nero guardò il fratello negli occhi per un istante, ma per Chiaro fu sufficiente per abbassare il proprio sguardo e rimanere senza parole.
“Loro lo sanno” disse Nero riprendendo a camminare “Non sanno esattamente il motivo, ma sanno bene che nel tuo modo di guardarli c’è sufficienza. La imputano alle tue origini aristocratiche, forse, ma io ti conosco troppo bene per non sapere quale sia la realtà”
“Io cerco di …di capire. Cerco di cambiare il mio modo di vedere, ma…”
“Io non penso. Non saremmo qui, se veramente tu tentassi”
“Che cosa vuoi dire?”
“Che nonostante tu dica di cercare, l’unica cosa che hai saputo dire al mio accenno di andare alle miniere è stato quella di non andare” Nero sospirò, scandendo bene le sue parole “Ma non c’è parola, né voce che mi possa dire quello che devo fare”
“Questo lo so fin troppo bene, ma lo stesso, non capisco…”
Era un discorso sterile e questo Nero lo sapeva.
Lo era per una serie enorme di motivi, che si susseguivano, rincorrendosi, ogni qual volta Chiaro manifestasse il suo essere scontento.
 
Era sterile perché Chiaro non avrebbe capito. Non voleva. Un po’.
E un po’ probabilmente non gli interessava farlo. Nero guardò il fratello e si rese conto che non tutta la colpa di quest’incapacità gli doveva ricadere sulle spalle. S’era creata un’enorme spaccatura fra lui e Chiaro quando Nero aveva deciso di andarsene senza farne parola alcuna, con lui soprattutto. L’erosione e la solitudine che l’avevano portato a quella decisione avevano radici profonde, ma Chiaro in quello non c’entrava. Lui, della sua famiglia, era l’unico che veramente l’adorava. Nero se n’era andato senza dire niente nella speranza che il fratello non l’avrebbe seguito. Sapeva che Chiaro avrebbe voluto farlo. Nero pensava che, messo di fronte al fatto compiuto, Chiaro sarebbe rimasto a casa.
Invece il fratello s’era fatto violenza e l’aveva seguito, con la conseguenza di non riuscire ad accettare le conseguenze di un atto che non aveva mai davvero capito lui stesso. Forse nel suo animo sperava di poter persuadere Nero a tornare, ma Nero era convinto che il fratello sapesse che questo era impossibile.
 
Il discorso era sterile perché lui aveva imparato tempo fa ad accettare le conseguenze del suo operato.
Nessuno, se non il suo patrigno, sapeva quanto questa frase fosse marchiata a fuoco nell’animo di Nero e di come quella ferita continuasse a bruciare. Nessuno, tranne colui da cui aveva preso il nome, era la causa di quella stessa ferita.
 
Ed era un discorso sterile perché esisteva una casa a cui Nero si sarebbe inginocchiato e che significava tutto ciò che aveva sempre sperato, ma doveva rimanere celata.
Nonostante le sue mani tremassero per averla, non poteva offuscarne la luce.
 
 
“E’ andato, non posso crederci!”
”Che cos’hai da gridare, Chiaro?”
”E’ andato alle miniere di stagno, Forgia, ecco cosa c’è!”
Il fiammingo si portò una coppa di infuso di biancospino alle labbra, sorridendo per quanto fosse dolce “E con questo?”
“Passami il miele, Forgia!”
“Ma come, è già dolcissimo così”
“Macché, servono almeno 3 o quattro cucchiai di miele per bere il biancospino”
Forgia sospirò, allungando il miele all’amico, e guardandolo incredulo mentre si versava nella coppa molti e abbondanti cucchiai di miele.
“Voi non capite…” esclamò esasperato Chiaro.
“No, non capiamo, questo è vero. Il capo è andato alle miniere, e allora?”
“Proprio tu me lo chiedi, Cencio? Non abbiamo parlato qualche sera fare delle mie preoccupazioni?”
Cencio si mise a leccare il cucchiaio per ripulirlo “Certo, ma mi sembra che fossimo giunti ad una conclusione diversa da questo tuo gridare!”
“Non siamo giunti a nessuna conclusione…”
“Vedo!” si spazientì il ragazzo, scostando gli occhi per un attimo dalla coppa.
Forgia, dal canto suo, cercò di capire “Chiaro, parla”
“No! E’ inutile! Nessuno mi vuole ascoltare, è inutile che parli!”
“Bella frase!” sbottò Cencio “Fa’ la vittima, Chiaro, e sicuramente il capo farà quello che vuoi tu”
“Che ne vuoi sapere, tu!” Chiaro strinse i pugni spazientito “Che ne vuoi sapere di quello che voglio io, quando l’unica cosa che sembra renderti felice è ingozzarti come un tacchino di qualunque cosa ci sia in cucina!”
Cencio scattò in piedi, appoggiando la coppa sul tavolo.
“Come che ne voglio sapere, Chiaro? Non parli d’altro e non pensi ad altro. Pensi forse che sia sordo? O cieco?”
“Calma ragazzi” Forgia appoggiò una mano sulla spalla di Chiaro, che era più vicino a lui e allungò l’altra verso Cencio “E’ sciocco litigare su qualcosa che non possiamo  risolvere, né a parole, né con le azioni…”
Chiaro agitò le mani esasperato, portandosele poi fra i capelli “Se solo Nero capisse…”
Cencio fissò il compagno a lungo, poi si risedette, bevendo un altro sorso del suo biancospino.
“Il mondo, Chiaro, non fa’ quello che vorresti tu”
Per evitare che i due sbottassero di nuovo, Forgia prese la parola.
“Nero è andato alle miniere con Lord Aaron e i minatori, sarà di ritorno domani. Non vedo cosa ci sia di male, del resto, siamo qui per colpa mia. Sto guarendo, ma penso sia piuttosto noioso rimanere sempre fermi al castello, per tutto questo tempo…”
Chiaro annuì “Forse hai ragione”
“E poi Lord Aaron ha bisogno di qualcuno che vada con lui, non s’è portato una grossa scorta, dietro”
“Lui ha i suoi animali” rispose con scherno Chiaro “pare siano formidabili”.
Cencio non rispose, ma roteò gli occhi.
 
E difatti, il motivo per cui Nero era andato con Lord Aaron era, ufficialmente,  quello di provvedere alla sua sicurezza.
Ammantato del blu che gli era appena stato regalato, il cavaliere non riusciva a staccare gli occhi dal nobile che cavalcava di fronte a lui: Lord Aaron non usava selle, né bardature, non usava redini. Il cavallo di Aaron era completamente nudo.
C’era estrema eleganza nelle dita che si attorcigliavano alla criniera dell’animale, né per altro alcuna insicurezza nell’andatura. Nero non aveva mia visto cavalcare in quel modo e si rese conto del perché William fosse così entusiasta quando parlava del modo di cavalcare dello zio.
Lord Aaron spesso si chinava davanti, e bisbigliava qualcosa all’animale che rispondeva nitrendo. Nero non capiva cosa dicesse – doveva cavalcare dietro – ma cercava di intuirlo.
Non era stato preparato: conosceva l’abilità di Aaron nel parlare con gli animali e sapeva che cavalcava a pelo perché William gliel’aveva detto, ma vederlo cavalcare così era qualcosa a cui non era stato preparato.
Forse era stata l’eleganza, forse la sicurezza… Forse la capacità di dominare un animale nobile quale il cavallo; o forse ancora era lui – Nero – che dava fin troppa importanza a come un uomo cavalcava. Gli era stato insegnato da Anselm, quand’era piccolo: ogni uomo mostra parte di ciò che è, quando sale su un cavallo.
Gliel’avevano insegnato gli anni passati dai Nagaybak: cavalcare è un’arte. O più probabilmente questi insegnamenti si erano solo assommati alla sua indole che naturalmente ammirava la nobiltà che riuscivano ad avere alcuni cavalieri.
Diede l’ordine al proprio cavallo di allungare ilpasso e si portò a fianco del nobile.
“Avevate ragione voi” gli disse senza guardarlo.
“A che proposito?” rispose l’altro senza capire.
Nero non rispose subito.
“Penso che v’importi conoscere la mia origine”. Lì, davanti al Lord che andava alle proprie miniere, con gli occhi sulle terre che possedeva, sentiva i calli sulle mani e le cicatrici delle sue guerre bruciargli addosso.
“Penso anche sia giusto che voi lo sappiate”.
Non guardò Aaron, non aspettò risposta, solo rallentò il cavallo per riprendere la sua posizione. Doveva dirglielo e voleva farlo: se veramente quella era casa sua, non c’era motivo di nascondersi.
 

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Capitolo 35
*** 35. Il casato dei Lannart (parte prima) ***


Capitolo Trentacinque - Il casato dei Lannart (Parte Prima)
 
 
“Ho ricordi poco chiari della mia infanzia. Se ripenso ai primi anni della mia vita, l’unica cosa che mi viene in mente è un corridoio molto lungo e poco illuminato, dove scappavo, inseguito da una voce di donna mi chiedeva di fermarmi. Ricordo anche che finivo spesso nelle stanze di mio padre, per il quale non era difficile prendermi e riconsegnarmi a colei che consideravo la mia carceriera. Non ricordo nulla dei suoi lineamenti, non so se fosse giovane o vecchia, so solo che aveva le mani così ruvide e i modi così bruschi che ogni volta che mi si avvicinava, gridavo.
…Ero un bambino molto capriccioso” commentò sorridendo a se stesso.
“C’era qualcosa… Qualcosa che sin da piccolo non m’era chiara. Delle voci… La servitù che parlava pensando che io non capissi quello che dicevano… Il rapporto completamente diverso che mia madre – o forse dovrei semplicemente chiamarla Lady Lorelain – aveva con Chiaro... Lui, più di me, aveva un continuo bisogno di attenzione, e per questo lei spesso lo portava con sé nelle sue stanze o a cavallo. Lo faceva sedere sulle sue gambe quando ascoltavamo musica oppure gli permetteva di andarle vicino quando era lei a suonare l’arpa. Io potevo solo guardare.
Dal canto mio non posso dire di avere sofferto di questo suo atteggiamento perché era l’unico suo atteggiamento che conoscessi. C’era un’attenzione ferrea a non farmi uscire, a evitare che io e Chiaro stessimo con gli altri bambini della servitù, che alla fine rimanevamo sempre soli, presi fra i nostri giochi, le nostre lezioni e l’addestramento.
L’addestramento… Questo solo era il momento in cui riuscivo ad essere tranquillo. La sensazione d’intorpidimento che quel posto e i suoi abitanti m’imponeva, si dissipavano ogni volta che Anselm – il mio maestro d’armi – iniziava la lezione.
E più avevo i muscoli indolenziti e i calli sulle mani, più la sera riuscivo a dormire tranquillo.
Per Chiaro non era lo stesso, sebbene Anselm insegnasse a lui le stesse cose che insegnava a me, continuava ad averne paura. All’inizio, sciocco com’ero, pensavo si trattasse solo della sua eterna timidezza e della sua incapacità di affrontare un qualunque ostacolo da solo. Ero piccolo e per me era tutta una questione di orgoglio: non piegare mai la testa. Per lui era il contrario: era piccolo, poteva fare quel che voleva.
Ma Chiaro non era così debole, la sua non era solo paura. Lo capii un giorno, quando per l’ennesima volta, sotto i colpi di Anselm, Chiaro fece cadere la sua daga in legno e iniziò a tremare come mai l’avevo visto fare prima. Non erano stati colpi particolarmente duri, eppure si fermò, terrorizzato. Gli corsi vicino, e Anselm si fermò di colpo, ma solo dopo un po’ Chiaro riuscì a parlare.
La mamma… disse la mamma continua a dire che ci lascerai, dice che te ne andrai e porterai via papà…
Io non capii quello che voleva dirmi. Anselm cercò di farlo calmare, ma Chiaro non sembrò dargli ascolto.
La mamma dice che ci lascerai, dice che l’unico motivo per cui tu rimani qui è perché vuoi stare con me, ma dice che tu non vuoi bene a nessuno, è vero?
Mi chiese così tante volte se fosse vero che le sue parole mi risuonano ancora come una cantilena nell’orecchio, prive del loro significato.
E’ vero?
Non lo era, non ai tempi comunque, dove l’unica cosa che pensavo fosse lecita fare era seguire tutto ciò che mi veniva detto.
Ma Chiaro era terrorizzato.
La sera stessa, quando tornammo nelle nostre stanze, Chiaro volle dormire nel mio letto e continuò a chiedermi se davvero avessi intenzione di andarmene. Nostra madre ne era convinta, e Chiaro con lei.”
Nero esitò un istante, quasi cercasse le parole.
“Poco prima di addormentarmi Chiaro iniziò a parlare. Mi confessò che nostra madre gli aveva detto più volte che l’unico motivo per cui nostro padre rimaneva lì era per forgiare il mio carattere e trovare un degno erede del suo casato. Nostra madre era convinta che il suo forzare così la mano su di me m’avrebbe o schiacciato o fatto fuggire. 
Allora pensai che fosse un discorso senza senso: vedevo così poco nostro padre che mi pareva impossibile potesse farmi qualcosa. Si sarebbe concluso tutto lì, se Chiaro non avesse insistito cercando di strapparmi la promessa di rimanere lì per sempre.
Promettilo, continuava a ripetere promettimi che non te ne andrai maiPromettimelo così posso dire finalmente alla mamma che ho ragione io.
Glielo promisi” aggiunse Nero con un filo di voce “glielo promisi con la facilità di chi non ha capito niente. Questo quindi” continuò poi “fa di me uno spergiuro.
Pensandoci ora, forse quella notte è stato l’inizio di tutto.
Non so…
Quello di cui sono sicuro è che da quella notte ho iniziato a pensare in maniera diversa a quello che facevo e alla mia vita lì. Non incontravo nessuno, e a nessuno era permesso avvicinarsi né a me né a Chiaro, se non i pochi che si prendevano cura della nostra educazione. Perché?
Le voci dei servi, i loro discorsi, prima così confusi, iniziavano a prendere forma. Chiaro era così diverso da me, nell’aspetto e nel carattere. Assomigliava a sua madre, ma nel suo atteggiamento c’era qualcosa che ricordava suo padre. Io ero diverso da tutti loro, eppure dicevano fossi loro figlio. Una volta una bambina, la figlia di uno degli stallieri, mi chiamò bastardo. Ricordo che l’insulto non mi fece né arrabbiare, né mi ferì. Mi lasciò completamente indifferente.
Perché mi chiesi? Mi sarei dovuto arrabbiare con quella bambina, le avrei dovuto dire qualcosa, dire che si sbagliava. Ma non feci niente.  In quel momento ebbi la consapevolezza che non avevo legami di sangue in quelle terre. E andava bene così, perché io non volevo averne.
Ignoravo però il motivo per cui loro volessero farlo credere a tutti.
Quello che credo adesso è che il padre di Chiaro sapesse di essere pazzo. Nei suoi momenti di lucidità si rendeva conto che mettere alla guida delle sue terre il figlio nato dall’unione con sua cugina Lady Lorelain voleva probabilmente dire mandare le sue terre in rovina. E teneva troppo al suo nome per vederlo rovinato da se stesso e dal suo sangue. Ecco perché penso che abbia preso me, il figlio di qualcuno che probabilmente aveva messo a tacere, e detto a tutti che fossi figlio suo.
Per salvate le sue terre.”
Nero si strinse nelle spalle, perdendo il suo sguardo dietro un ricciolo del tappeto su cui era seduto.
“Si può condannare un uomo per questo? Posso davvero accusarlo di non essere stato un padre degno solo per questo?” Di nuovo Nero si strinse nelle spalle.
“Lontano da lui e dopo anni, il mio astio nei suoi confronti s’è affievolito - un po’ - lasciando il posto solo alla pena per un uomo che nei momenti di lucidità cercava di salvare ciò che era già perduto. Chiaro dal canto suo, non faceva pensare di aver preso niente di quella follia che stava consumando nostro padre. Tuttavia qualunque cosa facesse, la faceva o con me o con la madre. Non c’era gioco, parola, azione che Chiaro facesse da solo. Se rimaneva solo per un istante gridava con tutta l’aria che aveva in gola, lasciandosi cadere a terra, immobile, finché o io o sua madre non correvamo da lui. Ma dopo un po’ lady Lorelain iniziò ad andare meno frequentemente da lui, lasciando che fossi io, sempre più spesso, ad occuparmi delle grida di mio fratello. Finché non smise del tutto, chiudendosi nelle sue stanze. Non vidi più Lady Lorelain fino al  Natale successivo, quando fu costretta dal marito ad uscire. Ricordo che a stento la riconobbi, con tutta la pelle grinza, piena di rughe sotto gli occhi e sulle labbra e senza capelli. Un giorno, pensando che non stessi ascoltando, udii uno dei servi dire che se li era strappati tutti, ciocca dopo ciocca, e che appena li vedeva ricrescere, di nuovo, li strappava. Fino a che non avevano smesso di crescere del tutto.”
Nero si fermò a pensare, passandosi una mano fra i capelli e continuando ad osservare i fili dei tappeto sotto di lui. Voleva mettere ordine nelle sue parole, ma a malapena riusciva a metterlo fra i suoi pensieri.
Guardò Aaron, seduto lì di fianco a lui e sorrise, prendendogli la mano.
“Le tue mani invece sono così lisce…” Non come le mani della sua nutrice, di sua madre, ispide “così lisce…”
“Da allora non ricordo un momento in cui Chiaro non fosse con me. Cominciò  ad avere paura di sua madre, a volte mi chiedeva se fosse diventata una strega.
Fai qualcosa, diceva sempre, fai qualcosa…
E non sapevo cosa fare, perché anch’io avevo paura quando la vedevo. A stento mi riconosceva, e quando succedeva gridava il mio nome quasi ad insultarmi. Chiamava suo marito, forse, ma per me quello era il mio nome gridato a volte con odio e a volte con disperazione.
Iniziai a sentirlo di notte, quando tutti dormivano. Nathaniel… di continuo.
Lei lo gridava, dall’altra parte del castello, lo piangeva. E io non sentivo altro che non il mio nome ripetuto da qualcuno che mi faceva paura e che sapeva che me ne sarei andato.
Lady Loreilan era l’unica ad aver capito ben prima di tutti, ben prima di me, che non poteva esserci futuro, né per quella casa, né per noi…
E quindi s’era lasciata andare. Una vecchia nutrice mi raccontò che anche la madre di Lady Lorelain aveva smesso di uscire dalle sue stanze ed era morta lì, ritrovata fra le sue coperte, dopo giorni che non s’era fatta più sentire. E questo probabilmente era il destino che avrebbe atteso Lady Loreilain, ma lei continuava a ripetere il mio nome, tanto che ho cominciato a sperare che morisse davvero… che tacesse.
Che smettesse di chiamarmi.
Di notte, con Chiaro aggrappato a me che dormiva, sentivo solo il mio nome.
Lo stesso Chiaro iniziò a pronunciarlo con la stessa cantilena, con lo stesso modo in cui Lady Lorelain lo gridava di notte. Mi chiesi se anche lui non si stesse ammalando dello stesso male che aveva colpito la madre, ma fintantoché era con me, Chiaro sembrava stare benissimo.
Non mi permettevano di allontanarmi, non mi era permesso fare più nulla senza Chiaro vicino, ma a me andava bene così…” cercò di continuare, ma dovette smettere di parlare. Aggrottò la fronte, come se non capisse esattamente cos’avesse appena detto e alzò lo sguardo, guardandosi intorno come se vedesse quel luogo dove si trovava per la prima volta. Si portò la mano sulla bocca, per bloccare le parole che gli stavano uscendo quasi fossero un monologo mal scritto e accatastato in qualche anfratto della sua mente.
Perché parlare? Non c’era niente da dire.
Ma Aaron gli prese la mano sulle sue labbra e la spostò lasciando la bocca libera di dire quello che voleva.
“Se ad un bambino viene chiesto se preferisce cavalcare, in una giornata di primavera, oppure rimanere nella propria stanza, non è forse naturale che questo risponda che preferirebbe cavalcare? E’ sbagliato che il bambino dica, senza pensare, che vorrebbe cavalcare?”
Nero fece una smorfia dolorosa, e di nuovo pose la stessa domanda.
”E’ forse sbagliato?” sospirò. “Successe quando Lady Lorelain iniziò a rimanere chiusa nelle sua stanze. Non ricordo bene se fosse poco prima e se ancora m’era concesso di vederla, oppure se già s’era reclusa al mondo. Ricordo bene che Chiaro era sempre con me, che ormai non passava più tempo con sua madre, ma il resto… Il resto non lo ricordo.
Fu mio padre a chiedermi che cosa volessi fare. Se cavalcare con lui oppure rimanere in stanza, in compagnia del cagnolino che m’era stato regalato da Anselm. Il cucciolo era così piccolo che gli era ancora permesso rimanere all’interno del castello. Mi ricordo di aver pensato che avrei potuto cavalcare fino a sera e poi giocare con lui prima di andare a letto…
Quindi risposi subito. Voglio cavalcare! Devo averlo addirittura gridato…
Appena udita la mia risposta, quell’uomo prese il mio animale e lo uccise lì, davanti a me, senza che neanche potessi accorgermi di quando estraeva la daga. Capii quello che aveva fatto solo quando il mio cane fu gettato ai miei piedi.
E ora andiamo a cavalcare, disse dopo, come se l’animale non fosse mai esistito. Tremai e non riuscii a muovermi. Guardavo con occhi vitrei il cucciolo che m’era stato relegato dal maestro d’armi. Era lì per terra, zuppo del suo stesso sangue e privo di vita. Perché fare qualcosa così?
Perché, mi chiesi, mio padre l’aveva fatto?
Era nelle loro vene, in quelle di sua cugina Lady Lorelain e nelle sue, una follia che governava la maggior parte delle loro azioni, che lui aveva cercato di tamponare adottandomi, ma che in realtà si divertiva ad esercitare su di me.
Si tratta di scelte Nathaniel, mi disse, ora forse ti sembrerà ingiusto, ora forse non capirai, ma è solo una questione di scelta. Devi essere responsabile per ciò che fai. Devi essere responsabile per te e devi essere responsabile per gli altri, quando sarai a capo di queste terre.
Mi pare di poter sentire la sua voce tutt’ora.
Devi essere responsabile. Scegliere di cavalcare comporta una rinuncia…
Quello fu la prima volta, alla quale ne succedettero altre. All’inizio con così scarsa frequenza che quasi riuscivo a dimenticare le volte precedenti. Poi mio padre iniziò a farmi scegliere qualunque cosa, imponendo conseguenze devastanti a qualunque cosa scartassi…”
Nero sorrise, di uno di quei sorrisi che Aaron non riuscì più a dimenticare.
“Questo m’ha reso una persona immobile” aggiunse poi con un filo di voce. Si passò nuovamente la mano fra i capelli, nascondendo con quel gesto un lieve tremore. Poi con la stessa mano picchiò il tappeto e il pavimento con un pugno secco “e per questo io lo odio.”
“Non c’è giustificazione che possa darmi. A nulla servono le mille attenuanti che mi ripeto da anni, perché non riesco più a scrollarmi di dosso il terrore di intraprendere una strada invece che un’altra. Penso, rifletto, vaglio tutte le possibilità, quando sono davanti ad una scelta… Lo faccio così a lungo che il mio non è più temporeggiare, ma è rimanere immobile, incapace di affrontare le conseguenze di una scelta”
Aaron lo guardò, senza dire nulla. L’uomo che aveva di fronte era tutto ai suoi occhi, fuorché qualcuno incapace di intraprendere una strada e mantenerne la direzione. In lui vedeva un’abilità così sottile nel guidare e quindi scegliere una strada piuttosto che un’altra, che difficilmente avrebbe potuto condividere il pensiero di Nero. Tuttavia non disse niente: del dolore che tali scelte comportavano, della difficoltà di Nero d’incaricarsi delle vite degli altri – oltre che della sua – non poteva dire nulla.
Gli mise le mani fra i capelli, sollevandogli il viso, per poterlo guardare negli occhi. Il cavaliere lo lasciò fare:
“Odiarlo non è stata una scelta, invece. Odiarlo è stato naturale”.

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Capitolo 36
*** 36. Il casato dei Lannart (parte seconda) ***


Capitolo Trentacinque - Il casato dei Lannart (Parte Seconda)
 
 
 
“Col passare dei giorni prima, dei mesi dopo, mi sono accorto che non c’era più un passo che riuscissi a fare senza chiedermi se davvero fosse la direzione giusta. Che cosa avrebbe comportato  andare avanti e non indietro?  Che cosa avrebbe comportato fare qualcosa o invece non farla? Ed è così ancora oggi, nonostante l’uomo che m’ha cresciuto sia morto, non riesco a scrollarmi di dosso quello che m’ha insegnato”
 
“Morto?”
 
Nero sorrise e poi annuì.
 
“Prima di scappare ho pensato a quello che sarebbe successo se l’avessi fatto. Ero diventato così bravo che avevo preso in considerazione qualunque ipotesi, qualunque avvenimento. Volevo impedire a Chiaro di seguirmi, perché non volevo occuparmi di lui, ma sapevo che la mia fuga avrebbe avuto conseguenze terribili. Anche senza aver passato gli ultimi anni della mia vita a riflettere su ogni minima responsabilità del mio operato, l’avrei saputo. Nathaniel sr. Coldor Exton Lannart m’aveva adottato perché non voleva che il casato dei Lannart perisse fra le maglie della sua pazzia e di quella della sua famiglia.
 
Io avevo deciso di lasciare tutto e andarmene.
 
Iniziai a chiedermi che cosa sarebbe successo a lui, a Lady Lorelain… Che cosa ne sarebbe stato di Chiaro. C’era un leggero piacere ogni volta che pensavo che me ne sarei andato, quasi vedessi in questa fuga uno spiraglio di luce… Di contro però, sapevo che stavo scappando.
 
Non riuscendo più ad affrontare il quotidiano, volevo scappare.
 
E scappare non è certo un’azione eroica.
 
L’assurdità di tutto questo è che più pensavo a quello che sarebbe successo dopo la mia fuga, meno pensavo alla fuga stessa. L’idea di pianificarla, di studiare le mappe e sapere dove andare era sparita del tutto, perché nella mia mente c’erano solo possibili futuri di un casato destinato alla rovina.”
 
Sospirò.
 
“Non mi sbagliavo.
 
Una volta arrivato al porto di Dover, sentii dire che Lady Lorelain s’era uccisa. Fra le donne nelle taverne è molto frequente si passi la voce di qualche sventura di una famiglia nobile. Mandai Cleto a vedere se davvero quello che si vociferava fosse vero.
 
Lady Lorelain era morta impiccata  alla sua finestra” Nero di nuovo si mise a ridere “S’era buttata fuori dalla propria stanza legandosi il collo con una corda. L’hanno vista  dalle stalle…”
 
Nero scosse la testa e smise di parlare. Rimase in silenzio per un po’, guardandosi intorno.
 
Si mise una mano sulla bocca, stupito di un fiume di parole senza interruzioni, senza nulla, se non un torrente di pensieri sconnessi.
 
“Sc…”
 
Aaron gli mise una mano sul braccio, prendendo la mano del cavaliere nella sua.
 
“Non è successo niente e non succederà niente…”
 
“Ma…”
 
“Io ho voluto averti con me, io ho voluto ascoltare la tua storia. Tu hai fatto solo ciò che t’è stato richiesto”
 
Nero lo  guardò confuso, ma si accorse della lacrima che stava perdendo con un attimo di ritardo.
 
E lei corse via libera.
 
“Non pensare. Sei qui con me perché io voglio così”
 
Quella tenda, nel mezzo delle altre che erano state allestite vicino alle miniere, sul terreno ghiacciato, era così calda che Nero ebbe come la sensazione che tutto intorno a sé si sciogliesse. Le pelli e i tappeti su cui erano seduti avevano ascoltato immobili la sua storia: erano tiepidi e morbidi e sembrava raccogliessero tutte le sue forze. Nero strizzò gli occhi e solo in quel momento ebbe la completa consapevolezza di quello che aveva appena fatto. Solo in quel momento gli fu chiaro dove fosse, cosa avesse intorno a sé.
 
Aggrottò la fronte, per cercare di capire la sensazione che quella consapevolezza gli aveva dato.
 
Aveva cercato per un attimo il panico, ma non l’aveva trovato. Né, per altro, aveva trovato paura.
 
C’era solo lo scoppiettio del fuoco e il proprio respiro.
 
Guardò Aaron negli occhi, come per chiedergli che cosa fosse successo.
 
Il biondo gli si avvicinò ulteriormente, passandogli una mano fra i capelli e scuotendo la testa.
 
“E’ solo quello che voglio io”
 
Nero si rese conto che il desiderio di stringere il suo uomo fra le braccia e di baciarlo era nato molto prima della sensazione delle labbra di Aaron sulle sue.
 
Molto prima, mesi forse. Anni. Prima di lasciare Lannart, molto prima di conoscerlo. Era una ricerca di libertà e allo stesso tempo di costrizione.
 
Il luogo dove fermarsi perché si è arrivati a destinazione, non perché s’è smarrita la strada.
 
Non lasciò allontanare Aaron dopo il primo bacio, perché ne voleva un altro, più lungo. Più profondo. Perché voleva assicurarsi che veramente per qualcuno amato così tanto da Dio, come lo era Aaron, andasse bene essere amato anche da un uomo qual era lui.
 
Le sue labbra erano così morbide che avrebbe potuto continuare e continuare.
 
Lo strinse a sé, per poi guardarlo negli occhi.
 
“Mio…” fu l’unica cosa che riuscì a dire . Non era una domanda, e probabilmente non era neanche un’affermazione, ma solo l’espressione di un desiderio.
 
Ma Aaron ugualmente rispose e annuì.
 
 
 
Nero appoggiò la fronte nell’incavo del collo di Aaron, per riprendere fiato.
 
“Se tornassi ora, che senso avrebbe?”
 
“Vuoi tornare?”
 
“No. Non voglio assolutamente. Ma non posso non chiedermi se questa costrizione sia troppo per Chiaro.”
 
Nero non doveva scegliere per Chiaro, né era giusto pensare che dovesse farlo, tuttavia Aaron capiva, quella sera più di prima, come pesasse a Nero la consapevolezza che le proprie azioni ricadessero sulle spalle di altri.
 
“Non devi tornare…”
 
“Chiaro non sa che Lord Lannart e sua moglie sono morti.”
 
Aaron sgranò gli occhi.
 
“A meno che non gli sia arrivata notizia, non credo che l’abbia cercata. So per certo che ha lasciato Castel Lannart prima del mio arrivo a Dover. Poco dopo la mia partenza. E quindi Lady Lorelain, sebbene chiusa e ormai completamente folle, era ancora viva.
 
Lord Lannart morì un anno dopo. Ho sentito che è morto a caccia, nei boschi a nord delle sue terre. Ma non so se sia vero. E credo che ormai sia poco importante.” Nero si strinse nelle spalle.
 
“Chiaro non è la persona che vorrebbe sapere cos’è successo. Vive così ancorato alla nostra infanzia che avere notizie significherebbe – per lui – ammettere che il tempo è passato. E questo non può né vuole farlo… Per questo mi chiedo spesso se sia giusto trascinarlo con me.
 
Ma tornerebbe in una casa che non esiste più. Non so neanche di chi siano quelle terre, adesso…”
 
“Lui di sicuro potrebbe reclamarle…”
 
Nero annuì: “Potrebbe farlo, ma non voglio che lo faccia con me.
 
Non è forse anche questa una scelta?” si chiese quasi giustificandosi “Non è anche questa una scelta di cui mi devo assumere le conseguenze? Non tornare a casa e tenere Chiaro qui con me. Coi suoi malumori, coi suoi capricci…Attaccato a me quasi non sapesse fare un passo da solo.
 
Però… Però non posso neanche permettergli di rimanere solo.
 
Lui dice di essere quello che è oggi per colpa mia: non ha torto.
 
Avrei dovuto trovare un altro modo per staccarlo da me. Il legame che s’era creato era così profondo che ho sbagliato tentando di reciderlo così bruscamente. Avrei dovuto insegnargli a camminare da solo”
 
“Ma avevate la stessa età, tu come lui: eri un ragazzino” obiettò Aaron.
 
Nero si strinse nelle spalle e le scrollo “Ugualmente avrei dovuto trovare un’altra via. Per quanto ne so io, non sono sicuro che nostro padre non trattasse anche Chiaro così come trattava me. E lui non ha mai avuto l’appoggio di Anselm o l’idea di una vita altrove”
 
“E’ per questo che qualunque cosa faccia, tu lo perdoni?”
 
Nero sorrise amareggiato.
 
“Probabilmente sì. Chiaro non è ben voluto dagli altri: hanno imparato a conoscerlo e a sopportarlo, ma nulla di più. Io non posso girargli le spalle, non così, non di nuovo.
 
A volte mi rimprovero di essere troppo duro con lui, e mi chiedo se usando toni più pacati – forse – lui potrebbe capire. Ma poi quando discutiamo, fatico a non sentire il suo peso addosso e… cerco di allontanarlo da me bruscamente.”
 
Scosse la testa “Ormai è troppo grande per avere una balia, eppure a volte mi sembra ne abbia un incredibile bisogno”.
 
Nero prese una ciocca di Aaron fra le dita e cercò di sorridere serenamente: ”Poco dopo aver varcato la Manica, ho saputo che anche Anselm era morto”
 
La mano del cavaliere tremò leggermente e i capelli di Aaron ricaddero sulle sue spalle “Non sono stato in grado di scoprire come, ma da ciò che m’ha raccontato Cleto, penso sia stato ucciso. E credo sia stato ucciso da Lord Lannart.”
 
Nero fece un’altra pausa, cercando l’aria per respirare “Era colpa sua. Secondo Lord Lannart era colpa di Anselm se io ero scappato. Lui non era stato in grado di trattenermi e lui m’aveva dato i mezzi per poter scappare. La mia non era stata una fuga di qualche giorno. Ormai non tornavo da settimane, perciò era chiaro fosse definitiva. Anselm non serviva più. Sono convinto che…” Nero si interruppe bruscamente.
 
Perché mi sento così in colpa?” disse d’improvviso “Lo odio. Ho passato notti a sognare di poter essere io il suo assassino, di poter finalmente disfarmi della sua presenza e dei suoi insegnamenti. Lui ha ucciso l’unico vero padre che abbia mai avuto, eppure non riesco a scrollarmi di dosso il senso di colpa per odiare Lord Lannart così tanto.”
 
“Perché è il padre di Chiaro?”
 
Nero annuì “Forse proprio perché è il padre di Chiaro”
 
Nessuno disse niente per un po’, lasciando che il fuoco parlasse in vece loro.
 
“Ecco perché” disse poi Nero “Ecco perché, se tu me lo permetterai…”
 
Nero s’interruppe di nuovo, quasi non avesse più parole da dire. Si alzò e si allontanò da dov’era Aaron e ravvivò il fuoco mettendo ad ardere un po’ di legna.
 
Di fronte al fuoco sorrise prima, poi cercò di sopprimere una vera e propria risata che riuscì comunque a sfuggirgli: “Non propria una storia edificante, mi sbaglio? Non è quello che si vorrebbe sentire, o quello che si aspetta…”
 
“Perché parli così?”
 
Nero guardò Aaron, corrugando la fronte.
 
“Perché pensi voglia ascoltare qualcos’altro,  perché credi che io non sappia chi sei?” Aaron sospirò e si avvicinò a Nero, per guardarlo negli occhi: “Sei qualcuno che è venuto da me per curare un amico, che è un mercenario e non crede nella causa per cui combatte perché non vede nessuna causa, non riconosce il re come proprio ed è fedele a ciò che dice, ma dice poco.
 
Sei qualcuno che è amato dai suoi compagni, venerato da suo fratello, ma pensa che in fondo non sia giusto così, perché crede che l’idea che loro hanno di lui sia un’idea fuorviante, creata da ciò che rappresenta e non da ciò che è. Ma allo stesso tempo è un’idea dalla quale non si vuole allontanare, perché gli dà sicurezza e lo protegge.
 
Tu sei l’uomo che mi abbraccia nascondendomi e permettendomi di respirare la sua aria, stupito. Sei un uomo che ha paura di baciarmi, ma lo fa ugualmente, chiedendosi perché.
 
E sei un uomo che scappa. E che non vuole guardarsi indietro.” Aaron cercò negli occhi di Nero il coraggio per continuare “Ma sei un uomo che vuole restare…
 
 
 
E allora resta. Non c’è permesso da chiedere, né altro da dire. Il Cielo…” Aaron sorrise “Il Cielo solo sa quanto io voglia che tu rimanga con me, che questa” disse portandosi una mano al petto “possa davvero essere casa tua. Ma soprattutto che possa essere un luogo dove tu sia libero.”
 
 
 
Nero fece un passo indietro.
 
Nero fece un passo indietro, come non avrebbe mai fatto su un campo di battaglia. Come non avrebbe mai fatto alla luce del sole.
 
Nero fece un passo indietro come non avrebbe mai fatto.
 
Ma Aaron lo fermò.
 
Aaron lo fermò prima che ne potesse fare un altro. Prima che anche la seconda gamba si spostasse per raggiungere la prima.
 
Aaron lo fermò.
 
E con le braccia lo tirò a sé, obbligandolo a rifare in avanti lo stesso passo che Nero aveva appena fatto indietro. Obbligandolo ad andare verso di lui.
 
L’abbracciò.
 
“Ti amo, Nathaniel” gli disse bisbigliando “Ti amo proprio per questo. Amo il Nathaniel bambino e amo il Nathaniel adulto. Lasciamelo fare. Ma soprattutto lasciati amare. Per i tuoi occhi o per il tuo nome. Per la tua forza o la tua debolezza.  O per qualunque cosa, lasciamelo fare”.

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Capitolo 37
*** Interludio quarto + 37. Spezzata ***


Ma guarda, sono stato allertato...
 
Canticchia qualcuno lontano e io non capisco chi sia ma è  il tono della sua voce che mi cattura. E' dolce. E' melodiosa e cristallina.
E' malvagia.
La sento perché sono così concentrato su di te che qualunque cosa ti sfiori, io la percepisco.
Ma è una voce flebile e lontana, che ancora non mi preoccupa.
Nostra Signora ti protegge.
 
 
Dei Lannart non esiste più notizia. La terra pare aver cancellato il loro nome, gli uomini il loro ricordo.  Dopo la morte di Lady Lorelain, le voci su una maledizione hanno iniziato a circolare per tutto il territorio. Voci popolari, voci false, ma non per questo meno capaci di fare presa sugli animi degli abitanti che si sono allontanati sempre più dal folle casato.
E no,Lord Lannart non è morto per accidente, ma per allontanare ancora più la minaccia che la follia del suo casato colpisse anche gli innocenti che abitavano le sue terre.
E' stato un suo stesso servo ad ucciderlo, ma questo nessun'altro lo sa se non lui stesso.
Non era destino che Nathaniel  si prendesse cura di una terra ormai inaridita dai suoi stessi padroni, è destino che lui stia con te.
Come dono
E cosicché tu possa perdonare.
 
Ma il perdono è preceduto da una colpa. Di chi?
Di lui? Di Lei?
No Lei non sbaglia, Lei solo gioisce della gloria che ti circondi.
Tu che a differenza di me sei ammantato di luce, sei stato risparmiato.
E' stato un gioco del destino, un capriccio. Io e te così uguali, ma in realtà così diversi. Lontani.
Mi chiedo se quando scoprirai tutto questo mi amerai di meno.
A questa domanda sorrido: tutti agognano il tuo amore che non è mai sufficiente.
 
Quand'ero in vita non mi rendevo conto che io e te fossimo così diversi, così incredibilmente disuniti, nel nostro corpo che ci appariva identico. Non lo era la nostra anima, no.
Quella era troppo diversa: la mia era opaca.
Io sono stato fortunato.
Così fosti lasciato sulla terra, per illuminarla e io fui portato per mano lontano, obbligato ad aspettarti  e a guardarti. Obbligato ad avere nostalgia di mio fratello. Ma salvo nella terra del Signore.
 
Il dono di Dio... Com'è fraintesa quest'idea da chi ancora è mortale!
E com'è fuorviante quest'appellativo.
Il dono di Dio sei tu. Non ciò che hai ricevuto.
La tua luce è per chi ti sta intorno, la gloria che ti riveste pesa sulle tue spalle, ma copre e riscalda gli animi di chi ti guarda.
Mentre tu ti consumi.
Tutti agognano il tuo amore che non è mai sufficiente.
 
Di nuovo lo sento:
 
Ma guarda, sono stato allertato...
 
e di nuovo non ci bado perchè è una voce flebile e lontana.
E Nostra Signora ti protegge.

***



Capitolo Trentasette - Spezzata
 
 
 
 
 
Cencio guardava con attenzione il falegname del castello intagliare quella che presto sarebbe diventata una cassa.  Doveva finirne il coperchio per poi articolare tutte la parti insieme per concludere il lavoro.
 
Cencio era esterrefatto della velocità con cui i gigli prendevano forma, così come le orlature e gli intrecci in un legno che sembrava durissimo.
 
“Dove hai imparato?”
 
“Ad intagliare il legno? Oh…” rispose l’altro con voce profonda “Da mio padre. E lui dal suo.  Da che si sappia, non abbiamo mai fatto altro…”
 
Cencio annuì, continuando ad osservare le mano dell’uomo. I capelli grigi ormai superavano quelli rossi, tantissime rughe che gli solcavano la fronte, corrugata dall’impegno che metteva nel proprio lavoro. Eppure i suoi occhi sembravano quelli di un ragazzino alle prese con un giocattolo.
 
“Ti piace il tuo lavoro” disse Cencio a metà fra una domanda ed un’affermazione.
 
“Non potrei chiedere di meglio!” disse lui “il legno a me parla”
 
Cencio allargò gli occhi annuendo.
 
“Non c’è qualcosa che ti appassiona, ragazzo?”
 
“Beh, sì, molte cose…” rispose Cencio pensandoci su “ma non c’è niente in cui sia veramente bravo, a parte…” ma poi esitò
 
“A parte?”
 
“A parte rubare” arrossì Cencio “forse non dovrei dirlo, ma sono proprio bravo a farlo”
 
Il falegname scoppiò a ridere”Beh, che sincerità!”
 
Cencio abbassò lo sguardo “Diciamo che è da un po’ però che ho smesso”
 
“Bene, allora non la mia sacca degli attrezzi è al sicuro?”
 
“E cosa me ne farei della tua sacca degli attrezzi?”
 
“Non so che genere di ladro tu sia. C’è chi ruba quello che gli serve, c’è chi ruba tutto ciò che vede!”
 
Cencio scoppiò a ridere a sua volta: “Hai ragione. Luppolo probabilmente direbbe che io appartengo al secondo gruppo!”
 
“Luppolo? Lo scozzese?”
 
“Lo conosci?”
 
“Riuscirei ad individuare uno scozzese fra mille. Ci riconosciamo con una semplice sguardo!”
 
Cencio aggrottò le sopracciglia: “Sembra di sentire parlare quell’altro!”
”Dovete essere molto amici…”
 
“Se prometti di non dirglielo, ammetterò che sì, lo siamo. Nonostante la sua testa di scozzese sia dura come il sasso. Anche se” aggiunse poi con aria pensosa “lui dice sempre che nella mia c’è aria… Quindi mi sa che ci siamo proprio trovati!”
Scoppiarono entrambi a ridere fragorosamente.
 
“E cosa t’ha portato qui?”
”In Inghilterra?” chiese Cencio e il falegname annuì per conferma.
 
“Molte cose… Fra cui lo stesso Luppolo. Tu invece? Vedo pochi scozzesi da queste parti”
 
Il falegname annuì “Mia moglie!” disse poi infervorato “Quel diavolo di una donna m’ha convinto a venire qui. Devo ammettere che c’è più lavoro. E lavorare per Lord Thurlow è stata una fortuna come non me la sarei mai aspettata in vita mia”
 
“E’ un buon padrone?”
 
“Paga bene, ha buon gusto nel richiedere i lavori e non è un tiranno. Devo ammettere che la prima volta che lo vidi non mi fece una buona impressione…con quella sua aria altezzosa. Ora invece ringrazio mia moglie per avermi convinto a venire qui. Ma questo non riferirglielo!” risero di nuovo entrambi mentre il falegname riprese ad intagliare il legno.
 
“Ah” disse poi Cencio “un’altra cosa che adoro fare – e so fare anche molto bene – è mangiare! Vado nelle cucine a vedere se c’è qualche avanzo. Vuoi che ti porti qualcosa?”
 
Il falegname esitò.
 
“Lo faccio volentieri”
 
“Del sidro” disse convinto il falegname “Un uomo non può vivere di sola acqua per troppo tempo!”
 
Cencio annuì convinto e si allontanò dalla sala dove il falegname aveva già ripreso il proprio lavoro.
 
 
 
Il ragazzo trotterellò per i corridoi, incredibilmente di buon umore. Non capiva esattamente il perché, eppure quella mattina, nel silenzio di Castel Thurlow, sembrava andare tutto bene.
 
Il capo non c’era, era andato con Lord Aaron ad ovest, alle miniere di stagno.
 
Nonostante l’opposizione di Chiaro, Cencio era contento che Nero fosse andato, gli avrebbe fatto bene. Fare qualunque cosa senza dover pensare al gruppo non poteva che fargli bene.
 
Cencio era ben consapevole del peso che Nero doveva portare sulle spalle e della completa dipendenza che gli altri avevano. E questo di certo non poteva fargli piacere.
 
Il capo voleva fermarsi a Castel Thurlow: probabilmente era la scelta migliore e la più saggia. Pensandoci bene, lui stesso avrebbe voluto farlo. Magari anche lui, come il falegname, avrebbe potuto ringraziare la sorte per averlo obbligato, una notte di tempesta, a fermarsi lì e a trovare riparo.
 
Forgia ormai era fuori pericolo: era debole, ancora poco preciso con l’arco, ma fuori pericolo, questo però portava il giorno della partenza ad avvicinarsi. Che cosa avrebbe fatto il capo?
 
Sarebbe rimasto lì? E gli ordini di Re Edoardo? Li avrebbe ignorati? No, Nero non avrebbe potuto farlo: tutti loro avrebbero dovuto onorare gli impegni presi, avrebbero dovuto ritornare quindi in Francia…
 
Ma forse poi avrebbero potuto tornare.  Forse…E Lord Aaron avrebbe voluto anche lui lì? E degli altri che ne sarebbe stato?
 
Troppe domande e troppo pensieri, senza risposte chiare. Cencio fu contento che non toccasse a lui trovarle.
 
 
 
Il corso dei suoi pensieri fu interrotto da un rumore sordo, seguito da un infrangersi di vetro. Qualcuno gridò.
 
Era la voce di Luppolo, ne era certo. Corse verso quella voce. Che cosa stava succedendo?
 
Cercò l’origine del rumore che fu seguito da parole che Cencio non riuscì a capire.
 
Forse nel salone? Forse nella stanza delle armi? Forse in quella dei camini.
 
 
 
“Non mi scuserò per quello che ho detto! Come poteva essere una donna rispettabile tua madre se ha permesso ad un uomo di avvicinarla?”
 
“Che cosa ne vuoi sapere tu? Cosa diavolo vuoi capire, figlio di un pazzo!
 
Cencio entrò nella sala e vide Chiaro avvicinarsi pericolosamente a Luppolo. “Mio padre non era pazzo!”
 
“Ma che cosa state facendo?” Il ragazzo si ritrovò di fronte a due suoi compagni troppo vicini l’uno all’altro, infuriati e quasi alle mani.
 
Nessuno dei due sembrò accorgersi di lui…
 
Luppolo rispose a Chiaro con sufficienza: “La fama dei Lannart ha superato la corte inglese, la loro follia è ben nota in tutta l’isola!”
 
“E’ ridicolo quello che dici Luppolo, e meschino anche! Non far ricadere la colpa sui miei genitori, se tua madre era una p…”
 
Non fece in tempo a finire la frase che Luppolo lo colpì in pieno volto.
 
Chiaro dovette fare un passo indietro per non perdere l’equilibrio.
 
“Non osare…”
 
“Altrimenti? Altrimenti cosa farai? Dimmelo Chiaro! Andrai a piangere da...”
 
Fu il turno Luppolo di essere interrotto.
 
Cencio si mise tra i due:
 
“Che cosa state facendo?” gridò.
 
“Chiedilo al tuo caro amico, ragazzo e chiedigli anche che cosa continua ad insinuare!”
 
“Io non insinuo proprio niente. Sono fatti, quelli che dico, non insinuazioni!”
 
Chiaro tentò di ributtarsi su Luppolo, ma Cencio lo fermò prima.
 
“Siete impazziti? Basta!”
 
Chiaro scostò Cencio e non si mosse, guardando Luppolo con ira.
 
Lo stesso fece Luppolo, immobile davanti a lui, poi fece un passo verso la porta, per uscire.
 
Si girò, stringendo i pugni che gli tremavano di rabbia.
 
“Chiunque parla di cose che non conosce, Chiaro, è uno stupido. Ed è evidente che tu e tuo fratello, nonostante scorra in voi lo stesso sangue, siete fatti di una diversa matrice. Non fingerò che non sia accaduto niente, come in passato.” Luppolo scosse la testa “non lascerò perdere, perché quello che hai detto e fatto è troppo grave per essere dimenticato.. Non t’infilo una lama in corpo solo perché sei il fratello di Nero. Ma non continuerò né a condividere la tenda, né tanto meno il campo di battaglia con te”
 
Chiaro sorrise “E’ un problema tuo, non certo mio. Dillo a Nero quando torna …”
 
“Nero non è mio padre, né il tuo. Nonostante tu ti ostini a trattarlo come tale”
 
“Ma è lui che ha sempre preso le decisioni, o sbaglio?”
”Quello su cui sbagli, Chiaro, è pensare che lui sia l’artefice del tuo destino, così come del mio”
 
“Non vedo dove sia l’errore, dato che in Francia ci siamo andati perché è stato lui a dirlo”
 
“Ma anche perché …” Luppolo si sentì, d’improvviso, sfinito.
 
Sospirò.
 
“Chiaro ascoltami bene. Io non sono Nero. Non ho obblighi, né pazienza, né tanto meno legami di sangue con te. O stima di te. Non sfogare le tue frustrazioni su di me solo perché non riesci a farlo col capo. Ai miei occhi sei un aristocratico viziato che non vuole farsi svezzare. Non so cosa ci sia fra te e Nero e perché lui non possa mandarti al diavolo, cercando invece sempre di aiutarti. Ma io non sono lui, la prossima volta che anche solo pronuncerai il nome di mia madre, giuro qui, davanti a te e a Cencio, che ti farò tacere. A qualunque costo.”
 
Non lasciò replicare l’altro e se ne andò, prima di cambiare idea e voler chiudere subito la bocca del compagno.
 
Razionalmente Luppolo sapeva bene che Chiaro se la prendeva con lui certo perché era un aristocratico viziato, certo perché Nero non c’era, ma anche perché lo stesso Luppolo non gli perdonava la sua origine inglese e non gli lasciava passare nulla.
 
Con Nero era diverso, Nero non gli aveva mai dato l’impressione di essere figlio d’Inghilterra.
 
Chiaro gliel’aveva data fin troppa.
 
E la reazione di Chiaro era più che ovvia.
 
Il compagno non litigava spesso con gli altri, né con Guardia, né con Forgia. Né tanto meno con Cencio. Con Levante era praticamente impossibile litigare, mentre fra loro la questione s’era aperta il primo giorno di conoscenza e non s’era mai chiusa.
 
Ma non riusciva a sopportare quella spocchia da ragazzino perbene che aveva Chiaro, nonostante i segni sul volto rendessero evidente che Chiaro fosse un adulto.
 
Castel Thurlow aveva portato alla luce molte cose. Fra cui la certezza che lui e Chiaro, ormai, non avrebbero più potuto condividere nulla.
 
 
 
Cencio era rimasto attonito, nella sala, di fronte a Chiaro che s’era seduto di fronte al fuoco e non aveva detto una parola.
 
Non era la prima volta che vedeva i due litigare, tuttavia c’era qualcosa di diverso: una rottura che pareva definitiva. Era arrivato lì contento e ora, invece, era convinto di aver assistito alla fine di qualcosa.
 
La consapevolezza che qualcosa era finito e che tutto era cambiato lo colpì in maniera così intensa da togliergli il respiro.
 
“Chiaro..?” riuscì a chiedere “Ma cos’è successo?”
 
Ma Chiaro non rispose: osservava catatonico il fuoco, apparentemente lontano da quella stanza e dal mondo che lo circondava.
 
Cencio si agitò ancora di più e corse fuori dalla stanza, a cercare Luppolo.
 
Perché quella paura? Chiaro e Luppolo avevano litigato così tante volte…
 
Ma subito dopo, nella sua mente, si formulò un’altra domanda.
 
E lui?
 
Si sentì un egoista, ma non poté fare a meno di diventare lui stesso il centro dei propri pensieri. Che cosa avrebbe fatto lui se davvero le strade di Chiaro e di Luppolo si fossero divise?
 
Che cosa ne sarebbe stato di lui che non aveva fatto altro se non vivere coi suoi compagni, alla giornata?
 
Si sentì di colpo – e dopo anni – solo.
 
Incredibilmente solo. E con un senso di vuoto che mai gli era capitato di provare.
 
Luppolo e Chiaro erano due stupidi! Che senso aveva, che senso aveva litigare su argomenti così futili?
 
Ne avrebbe parlato con Luppolo, lui avrebbe capito. E l’avrebbe rassicurato, perché aveva promesso di non lasciarlo mai solo e di questo era sicuro. Forse era stato più freddo, ultimamente, forse c’era qualcosa che non andava ma quando si trattava di lui, Cencio era sicuro che tutto il resto sarebbe passato in secondo piano.
 
Ne avrebbe parlato con Luppolo e di sicuro quel senso di paura ed impotenza che adesso lo pervadeva sarebbe scomparso. Perché era un senso irrazionale ed ingiustificato.
 
Trovò l’amico nel corridoio esterno del torrione a Sud. Lo trovò mentre lo scozzese gli dava le spalle e guardava un punto imprecisato della notte.
 
“Luppolo…” Cencio ebbe quasi paura di parlare.
 
Il compagno non rispose.
 
“Ma cos’è successo? Perché tu e Chiaro..?”
 
“Va’ via Cencio”
 
A Cencio sembrò di aver appena preso un pungo nello stomaco
 
“Dai Luppolo, cosa può esserci di così grav...”
 
“Lasciami stare. Non ho voglia di parlare, né di vedere nessuno…”
 
Cencio fece un passo indietro e tremò. Lo spazio che lo separava da Luppolo sembrò incolmabile e la solitudine di poco prima si espanse così tanto che Cencio dovette trattenere un conato di vomito.
 
Luppolo lo voleva lontano.
 
Si obbligò a fare un passo avanti, ad insistere.
 
“Vattene via, Cencio” Luppolo non si girò nemmeno “Va’ via”
 
Il tono di Luppolo non permise a Cencio di fare altro se non andarsene.
 
Il falegname ed il suo sidro furono dimenticati.

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Capitolo 38
*** 38. Chiudere gli occhi ***


Capitolo Trentotto - Chiudere gli occhi

 

 

Non poteva guardare negli occhi Cencio. Sapeva perché il ragazzo era lì e lui, che cosa avrebbe potuto dirgli? Non c'era nulla da dire, se non vattene.

 

Eppure nonostante sapesse che fosse l'unica strada possibile, si sentiva malissimo. Aveva dovuto obbligare i piedi a rimanere immobili e lo sguardo a rimanere fisso. Non aveva potuto girarsi e rassicurare il suo amico che sì, tutto sarebbe andato a posto. E che loro non si sarebbero mai separati.

Gli avrebbe mentito. E Luppolo non era uomo da mentire così.

 

Il litigio con Chiaro era stato tanto inevitabile quanto aspettato.

Se non avessero litigato quella sera, sarebbe di sicuro successo la sera successiva, o quella dopo ancora. Il suo discorso con Nero, il litigio di quel giorno con Chiaro… era evidente che tutto stava portando verso un'unica destinazione: lo scioglimento del loro gruppo. Avrebbe magari potuto mantenere coi suoi compagni rapporti saldi, ma di sicuro quella vita era destinata ad una fine imminente.

 

E poi c'era Cencio. Ormai era diventato così incontrollabile, che proseguire fingendo che nulla fosse cambiato, che l'italiano altri non fosse che un semplice compagno di ventura, non aveva senso.

E non era più possibile.

Poteva mentire di fronte al ragazzo, poteva fingere di fronte agli altri, ma gli costava sempre più fatica e, sempre più, temeva di non essere stato in grado di mascherare del tutto se stesso.

Quindi l’unica soluzione possibile era quella di prendere un’altra strada. Nero avrebbe capito, senza neanche la necessità di doversi spiegare. Sapeva bene qual era la situazione e sapeva bene anche che la convivenza con Chiaro era ormai impossibile.

Lo scioglimento del loro gruppo era una cosa naturale: Levante sarebbe tornato in Inghilterra, ma presto avrebbe voluto sposare la sua donna italiana; Forgia chissà, probabilmente sarebbe ritornato coi suoi compagni che avrebbe dovuto incontrare lo scorso autunno, se non si fosse ferito. Guardia, poi… Di lui non sapeva molto, né per altro poteva dire che cosa avrebbe voluto fare. Ma con Nero che sarebbe tornato in queste terre, quella loro parentesi da raminghi era destinata a concludersi.

 

Le stelle brillavano, nel cielo terso. Luppolo continuava a guardarle, perdendosi fra l’una e l’altra: che cosa avrebbe dovuto fare?

Questa era la domanda per cui gli premeva trovare risposta. Cosa fare?

Non lo sapeva. Forse sarebbe dovuto tornare in Scozia. Non avrebbe faticato di certo a trovare un buon utilizzo della propria spada, anche se probabilmente molti non avrebbero capito perché era stato al soldo di un inglese. Il re, per di più.

Sarebbe potuto rimanere lì…

Scosse la testa, cercando di rimettere a fuoco le stelle che s’erano offuscate, nel suo sguardo fisso, e s’erano perse.

Cercò di scuotersi, forse la notte avrebbe portato consiglio.

Sentì un battere d’ali e un grido in cielo.

Cleto aveva spiccato il volo, probabilmente andava da Nero ad avvisarlo di quello che era appena successo. Incredibilmente il falco aveva notizia sempre di tutto, nonostante Luppolo sapesse che Cleto non era nella stanza quando lui e Chiaro avevano litigato.

Avrebbe avvisato Nero, che sarebbe tornato.

Questo rasserenò Luppolo. Sapere che l’indomani il capo sarebbe arrivato gli dava una sensazione di sicurezza. Avrebbe, se non altro, potuto parlare con lui della decisione presa: andarsene.

Avrebbe voluto anche parlarne con Cencio, ma quello, sospirò, era impossibile.

 

Luppolo camminò per i corridoi bui del castello non volendo procurarsi una torcia. La luce delle torce sui muri era sufficiente per i suoi occhi che si abituavano subito all’oscurità.

Entrato nella sua stanza, chiuse il pesante portone alle sue spalle.

Sospirò, ma non gli venne dato il tempo di fare altro perché qualcosa lo colpì violentemente al volto.

“Falso e bugiardo! Ecco cosa sei!”

La voce di Cencio, nell’oscurità, rimbombò.

Luppolo si portò la mano alla bocca, non riuscì a vedere il sangue che gli usciva dal piccolo taglio che il pugno gli aveva procurato, ma ne sentì il sapore.

Non disse nulla.

“Avevi promesso. E hai mentito!”

“Che cosa avevo promesso?”

Luppolo sentì Cencio stringere di nuovo i pugni.

“Hai intenzione di andartene, vero? Vuoi andartene perché non sopporti più Chiaro…E io? Che cosa dovrei fare io?”

Luppolo scrollò le spalle: “Per favore, Cencio”

“Per favore un corno e no, non me ne vado”

Luppolo fece qualche passo verso il camino, per accendere in fuoco nella stanza.

“Non te ne stare lì muto, pensando che io desista solo perché non dici niente. Avevi promesso che saremmo stati insieme, che ti saresti preso cura di me, Luppolo. Perché ora ti rimangi la parola data?”

“Non sono tue padre, Cencio”

“Oh basta con questo non sono tuo padre, lo dici ogni volta…”

Luppolo sospirò, spossato da quella notte che sembrava non avere fine

“Che cosa vuoi che ti dica? Che cosa vuoi sentirti dire, Cencio?”

“Voglio sentire quello che hai promesso. Che potrò venire con te, ovunque avrai intenzione di andare, che p…”

Le parole morirono sulle labbra di Cencio, quando sentì Luppolo scuotere la testa.

“Di’ qualcosa…” lo supplicò “ di’ qualunque cosa. Dimmi che mi sbaglio, dimmi che ho ragione. Di’ qualcosa”

Luppolo rimase in silenzio, scuotendo nuovamente la testa.

“Perché rimani in silenzio?” Cencio faticava a trovare le parole. “Perché… forse…” deglutì “E’ per quello che è successo al Monastero di St. George?”

Luppolo si raggelò e sgranò gli occhi.

Il Monastero di St. George…Cencio lo ricordava? Che cosa avrebbe dovuto dire? Quale giustificazione possibile avrebbe potuto trovare?
Cercò di mantenere il sangue freddo.

“Cosa intendi dire?”

Cencio esitò e Luppolo non seppe interpretare quell’esitazione: o una condanna o una salvezza. Aspettò quindi che l’amico parlasse.

“E’ successo qualcosa al Monastero, vero?”

Significava che non ricordava bene?

“Spiegati meglio non capisco.”

“Ho una strana sensazione addosso da quel giorno. Ma non ricordo niente di quello che è successo. Visto poi come sono stato male il giorno dopo, non fatico a pensare di aver ecceduto con la birra…”

“Ecceduto…” Luppolo si lasciò sfuggire un commento sarcastico prima di riuscire a fermarsi.

Si morse la lingua.

“Allora ti ricordi? E’ successo qualcosa, vero? Ho detto o fatto qualcosa che non dovevo?” Chiese Cencio con foga “Dev’essere così, perché da quel giorno…”

Quel ragazzino fastidioso lo capiva fin troppo bene, pensò Luppolo.

“Non è successo niente” tagliò corto lo scozzese.

Cencio non rispose e per un istante, vi fu solo silenzio.

“Va’ via…” disse infine Luppolo “Va’ via Cencio. Non stasera. Ne parliamo un’altra volta, ma per favore, non stasera…”

Quella di Luppolo era una supplica. Cencio non ricordava di aver mai sentito quel tono di voce e per un istante, pensò davvero di andarsene. Forse era giusto così, forse.

Ma riuscì ad imporsi di rimanere.

“No Luppolo” e l’abbracciò, stringendosi forte a lui sapendo che di lì a poco sarebbe stato obbligato ad abbandonare quell’abbraccio così naturale.

Luppolo lo afferrò per le spalle e lo scaraventò lontano da sé. Cencio urtò con la schiena il muro

“Sei impazzito?”

“Non mi dire di andare via, Luppolo. Mai” Nonostante la spinta fosse stata violenta,  Cencio non desistette. E si riavvicinò all’amico “Dimmi qualunque cosa, ma non di andare via. Io so c…”

“Tu non sai niente” Luppolo gridò, maledicendo il suo tono di voce, il tremore delle sue mani. Maledicendo Cencio che non voleva saperne di comportarsi in maniera assennata.

“So molto di più di quanto ti piace credere” il tono di Cencio era serissimo.

“No, ti sbagli” perché insisteva? Luppolo non aveva le forze. Era stanco di litigare, stanco di parlare, stanco di tutto. E Cencio era lì che insisteva.

Era lì, bastava allungare un braccio per averlo vicino… perché no? Non poteva essere quella sera uguale alla sera alla sera al monastero St. George? Una parentesi. Un breve inframmezzo in quella confusione così sfibrante.

Cencio si avvicinò di nuovo.

“Non mi sbaglio” Luppolo si accorse che quelle parole era state bisbigliate al suo orecchio e il suo autocontrollo venne meno.

“Cencio, perché?” chiese Luppolo con voce strozzata.

“Shhh” disse semplicemente il ragazzo, stringendosi ancora più forte

“Tu non sai…” cercò di dire lo scozzese “Io cosa voglio. Io ti…”

Cencio lo interruppe baciandolo a fior di labbra.

“Io so esattamente che cosa vuoi”

In un brevissimo momento di lucidità, Luppolo si chiese se per caso Cencio vedesse in lui il suo nuovo Guido. Un padrone le cui esigenze devono essere assecondate dallo schiavo.

“Cencio, tu...?”

E di nuovo fu interrotto dall’italiano che lo baciò, questa volta più profondamente. Tanto da togliergli il fiato.

Le parole non venivano, le mille domande s’erano seccate nella gola di Luppolo che non aveva più fiato, se non sulla bocca di Cencio.

Per mesi, per anni aveva temuto e voluto un istante così, ma che cosa doveva fare?

“Che cosa…” riuscì a dire con la bocca impastata “Che cosa devo fare?”

Cencio sorrise: “Spogliarmi”.

La mano di Luppolo fu molto più veloce della sua mente perché si aggrappò alla casacca di Cencio e tirò, strappandola, ma non lasciò la presa e Luppolo si ritrovò con le labbra a fior di quelle troppo belle del suo ladro e la mano stretta intorno a dei brandelli di stoffa.

Lo guardò negli occhi,  scosse la testa.

Non per dire no, né per dire sì. Scosse la testa con gli occhi sgranati di chi non è  più padrone di sé.

“Cencio io impazzisco di te. Sei la mia bellissima testa vuota. Sei…?”

“Tienimi con te” gli bisbigliò Cencio nell’orecchio, dopo averne baciato l’orlo “Tienimi con te. Stretto, finché avrai forza nelle braccia. Vicino a te.”

Gli slacciò la blusa molto più delicatamente di quanto non avesse fatto prima l’altro, disfacendone ogni nodo.

Una lentezza insopportabile.

Luppolo lo afferrò per le braccia e lo sollevò di peso portandolo sul suo letto e ricadendoci sopra.

Gli strati sottostanti alla blusa vennero tolti con la stessa veemenza con cui questa era stata tolta, la pelle sottostante doveva essere baciata e doveva essere morsa.

Luppolo era sicuro che la sua bocca stava lasciando segni rossi sull’addome di Cencio così come era sicuro che le unghie del ragazzo si fossero infilzate definitivamente nella sua nuca.

Ma che importanza aveva?

Cencio avrebbe potuto strappargli la pelle di dosso, in quel momento, Luppolo ne sarebbe stato contento.

Si fermò ansimando sul suo ombelico e cominciò a giocare con la pelle tutt’intorno, prima scaldandola con la bocca, poi raffreddandola col respiro.

Cencio gemette. E attorcigliò le gambe intorno a Luppolo.

In quell’abbraccio, Luppolo, si sentì finalmente felice. Non esitò più, non si chiese più niente. Cencio era lì, nelle sue braccia e tanto bastava. Ridisegnò la strada del ritorno alla bocca di Cencio con piccoli baci lungo il fianco del ragazzo e poi glielo disse.

Glielo disse all’orecchio perché non voleva che nessuno in quella stanza vuota lo sentisse dire che era innamorato pazzo di quel ragazzo, glielo disse nell’orecchio perché non aveva voce se non per gridare.

Cencio lo abbracciò, baciandolo di nuovo.

 

La mattina illuminò i due uomini, ancora avvinghiati l’uno all’altro. Il moro era rannicchiato, quasi completamente sotto le coperte. Solo il naso e qualche ciuffo di capelli s’intravedeva. La guancia appoggiata  nell’incavo della spalla del rosso che ancora non era riuscito a prender sonno. Non avrebbe potuto dormire, il suo cuore batteva ancora troppo forte per addormentarsi.

Luppolo temeva che dormendo tutto quello che era successo quella notte diventasse un sogno e che quando si fosse risvegliato, si sarebbe trovato da solo, nel letto.

Quel ragazzino era un diavolo anche a letto, Luppolo si ritrovò a sorridere al ricordo e a quanto Cencio fosse disinibito.

A quanto Cencio fosse bello nudo sopra di lui.

“Ancora non dormi?” la voce impastata di Cencio spaventò Luppolo.

“Ormai è già l’alba…”

Cencio non rispose e Luppolo pensò che il ragazzo si fosse riaddormentato, invece dopo un po’, riprese a parlare.

“Luppolo…”

“Dimmi” disse lui

“Se anche adesso l’idea di lasciarmi andare via ti sfiora quella stupida testa che ti ritrovi, giuro…” si rannicchiò ulteriormente nelle braccia dello scozzese “Giuro che ti ammazzo”.

“Hai troppa aria in testa, sciocco”

Luppolo chiuse gli occhi.

 

 

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Capitolo 39
*** 39. Un libro ***


Capitolo Trentanove - Un libro
 
 


 
 
 
Non aveva risolto nulla e per lui era davvero una cosa insolita.
 
Non era riuscito ad andare a fondo alla questione dei minatori, né era riuscito a pensare ad una soluzione. Aveva delegato Sir Christopher, che era andato con loro, ed era poi tornato al castello.
 
Cleto era arrivato al tramonto e aveva riportato quello che era successo fra Luppolo e Chiaro.
 
Aaron sapeva che quella era una definitiva rottura fra i due e che questo avrebbe inevitabilmente portato Nero ad andarsene.
 
Doveva andarsene. Forse sarebbe tornato sì, ma ora doveva andarsene.
 
E il solo pensiero gli toglieva il fiato.
 
 
 
 
 
Quella mattina il castello gli parve stranamente vuoto. Non incontrò Cencio, non incontrò Forgia. Luppolo sembrava essere scomparso. Persino la servitù e gli altri abitanti del castello che spesso si affrettavano fra i corridoi, indaffararati e di fretta, sembravano non esserci.
 
Chiaro cominciò quindi a girare senza una meta precisa fra le mura di quella che ormai considerava una prigione, da alcuni mesi a quella parte.
 
Mura imponenti e grigie, mura dalle quali presto si sarebbe separato.
 
C’era un’ala del castello per lui inesplorata, tappezzata di porte che conducevano ad altre porte. Chiaro decise di scoprire dove tutti questi passaggi portavano.
 
Si sentì un po’ un bambino alle prese con un gioco e sorrise.
 
Si fermò poi davanti ad un portone diverso dagli altri, più alto ed imponente.
 
Aprendolo, non credette ai propri occhi: una stanza circolare ricolma di libri.
 
Era una biblioteca.
 
Chiaro aveva dato per scontato il fatto che ce ne fosse una a Castel Thurlow, mai però avrebbe pensato fosse così ben fornita e dalla forma così bizzarra e circolare. Notò un piccolo corridoio e poi un altro ancora, che portava in quella che Chiaro ritenne essere la stanza principale. Rimase senza fiato: il soffitto era in vetro ed era così luminoso che dovette coprirsi gli occhi per i raggi del sole che filtravano attraverso.
 
Chiaro rimase a bocca aperta guardando la volta e l’incredibile quantità di libri che aveva di fronte agli occhi.
 
Si diresse casualmente verso uno scaffale ed iniziò a vedere quali fossero i titoli.
 
Probabilmente molto era lavoro dei monaci di St. George,. Si chiese se anche nel castello ci fossero degli amanuensi, ma poi scosse la testa: ne avrebbe di certo sentito parlare prima.
 
I libri erano divisi per argomento e per lingua. Chiaro si soffermò su uno in particolare, polveroso, schiacciato dai suoi due vicini che erano molto più grandi.
 
Sembrava quasi chiedergli di tirarlo fuori di lì.
 
La copertina era in pelle scura e non riportava scritte né sulla spina, né sopra.
 
Chiaro lo sfilò, per leggerne il contenuto.
 
 
 
 
 
“E’ stato proprio lasciato lì di proposito, ma tu guarda il caso…” bisbigliò una voce lontanissima.
 
“Hai deciso di prendere tu l’incarico?”
 
“Altrimenti tu non ti troveresti qui, mi sbaglio?” la figura si scostò i capelli carmini da davanti agli occhi “Potrebbe essere il mio ultimo incarico, questo. E finalmente potrei tornare libero”
 
L’uomo di fianco a lui con lunghissimi capelli bianchi sorrise: “Non sai neanche se verrai chiamato”
 
“Vero” rispose il rosso mettendo il broncio “Sarebbe brutto se tutte le mie speranze fossero vane”
 
“Potresti sempre occuparti di qualcun altro”
”Ayel ma che dici?” rispose Esse avvicinandosi all’angelo così tanto da intrecciare le sue dita ai capelli bianchi del suo interlocutore “Sono stato allertato, e se davvero verrò chiamato, almeno questo noiosissimo lavoro da Raccoglitore finirà in bellezza”
 
Ayel sorrise: “Non vedi l’ora di mettere le mani su Aaron”
”Fosse così semplice, l’avrei giù fatto. Ma sai come la pensa il tuo capo a riguardo, e poi il mio capo…” continuò cantilenando lasciando scorrere via le parole “Devo solo fare il bravo un’altra volta. Una sola e poi tornare nel luogo a me più congeniale”
 
“Nel cerchio dei Sobillatori”
Esse annuì divertito “Non potrò più vederti, e questo mi spiace…” sospirò, in tono beffardo, ma per un attimo il suo sguardo divenne serissimo “Se solo potessi corromperti” aggiunse poi sfiorando con le dita la bocca dell’angelo che flemmatico, non fece nulla, se non scostare delicatamente la mano di Esse dal proprio viso.
 
“Rinunciaci”
 
“Rinunciare? A te? Fossi matto!” Rise, vestendosi come uno dei giullari di palazzo – i folli – che in quegli anni affollavano le corti dei nobili della Terra.
 
“Certo che non mi dona molto questo vestito…” disse poi rivolto ad Ayel “Ma tu non ridi mai?” continuò sconsolato “Io mi vesto e mi svesto, ti punzecchio e ti parlo… Ma tu davvero non ti diverti mai?”
 
Ayel guardò il demone e non rispose. Gli occhi verdi di Esse scrutarono a lungo Ayel, ma il demone non disse più niente.
 
Riportò poi il suo sguardo alla biblioteca dove Chiaro s’era seduto sul divano in seta rossa e s’era messo a sfogliare quello strano libro nero.
 
 
 
 
 
Chiaro decise di portarselo in camera. Chi avrebbe notato la mancanza di un solo libro fra mille altri? Quel libro riportava formule segrete e disegni per comunicare con l’aldilà. O questo almeno era quello che appariva ad un primo sguardo.
 
Chiaro pensò fosse un libro che Lord Aaron aveva a causa di quella sua capacità di apparire avvolto da un’aura divina. Magari Lord Aaron traeva la propria forza proprio da scritti quali quelli riportati nel libro fra le mani di Chiaro.
 
Il cavaliere pensò che leggendo bene quello che c’era scritto, magari anche lui avrebbe potuto esercitare quel fascino che Lord Aaron sembrava in grado di esercitare su tutti e liberare finalmente Nero da quella trappola in cui era evidentemente caduto.
 
 
 
Stava ancora pensando a Nero quando se lo vide di fronte a sé, sulla porta della sua camera.
 
Fu grato di aver appena appoggiato su uno scaffale il libro rubato, cosicché apparisse appoggiato lì da sempre.
 
“Sei già di ritorno…”
 
“Cleto m’ha chiamato”
 
“E per dirti cosa?”
 
“Ho già incontrato Luppolo…”
 
Chiaro sbuffò : “E ovviamente ritieni che sia lui ad aver ragione”
 
Nero scosse la testa: “Chiaro, lo sai, è finita”
 
“Finita? Cosa vuoi dire?” chiese Chiaro preoccupato.
 
“Non importa quel che penso io. Ormai davvero, non importa più nulla. La convivenza fra te e Luppolo a questo punto è impossibile. Con gli altri è difficoltosa…”
 
“Quindi il gruppo si scioglierà?” lo interruppe Chiaro “Quindi non è colpa mia se succederà, ma di Luppolo!”
 
“Ti fa stare così bene sapere di chi è la colpa? Davvero pensi di non aver fatto niente perché questo accadesse?”
 
“E’ solo il corso naturale delle cose” alzò le spalle Chiaro “Né tu, né io avremmo potuto evitarlo”
 
“Questo è vero, ma ugualmente, sarebbe dovuto avvenire in maniera diversa”
 
“Quindi ho ragione, pensi che io sia nel torto”
 
Nero guardò il fratello a lungo, poi sospirò: “Di certo non hai fatto niente per evitare lo scontro!”
 
“Io non ho fatto niente? IO?” Chiaro si ritrovò a gridare “Ma se quello lì…” ma fu interrotto da un gesto di Nero.
 
“Non sono venuto qui per fare da paciere, né tanto meno per prendere le parti di qualcuno”
 
“Certo, le mie non le prendi mai” disse Chiaro imbronciato.
 
“Sei un bambino…” lo rimproverò Nero “Che cerca sempre qualcuno che gli dia ragione perché non è sicuro a sufficienza di averla”
 
Chiaro non rispose, ma guardò Nero con espressione spocchiosa.
 
“Non è affar mio se il gruppo si scioglie” disse poi “Che Luppolo se ne vada dove vuole e faccia quello che vuole. Sarò solo contento se non lo dovrò più rivedere”
 
“E gli altri? Non t’interessa rivedere Cencio, Guardia, Levante…”
 
Chiaro di nuovo scosse la testa, con aria indifferente “Vivrò bene anche senza di loro”
 
Nero sorrise amaro: “Ecco perché nessuno prenderà mai le tue parti…”
 
“Che cosa vuoi che m’interessi?” Chiaro alzò la voce “Che vuoi che m’interessi di chi prenderà le mie parti? Mi dovrebbe interessare l’opinione di un ladro? Di un cosacco? O dovrei persino interessarmi all’opinione di uno scozzese?”
 
“Basta così Chiaro!
 
“No, non basta così, perché voglio che tu capisca anche me! Io sono più felice così”
 
“E perché mai dovresti essere più felice, Chiaro? Che cosa farai dopo?”
 
Chiaro rispose la cosa che gli sembrava più ovvia: “Beh, io e te torneremo a casa, no?”
 
Nero sorrise prima, poi non riuscì a trattenere la leggere risata che ne seguì.
 
“Ora capisco tutto il tuo entusiasmo” disse poi serissimo.
 
Chiaro sorrise contento, ma Nero proseguì.
 
“Io non torno a casa tua, Chiaro. Cerca di fartelo entrare in testa, perché io non tornerò mai lì”
 
Il fratello divenne pallido: “Ma come… Non c’è altro da fare…Hai voluto…hai… e ora, non è tempo di tornare?”
 
“L’unico posto dove io tornerò sarà qui”
 
Chiaro tremò e tossì, a corto d’aria: “Perché qui?” Chiese in un sibilo. “Perché vuoi tornare qui? Non c’è niente qui! NON C’E’ NIENTE QUI”gridò  afferrando per la maglia Nero “Io… Io lo ammazzo. E’ un essere inutile, debole e zoppo eppure tutti sembrano pendere dalle sue labbra. Tu compreso Nero” la voce di Chiaro tremava d’ira “E io questo non posso sopportarlo. Vederti così schiacciato e prigioniero!” Lo guardò negli occhi lasciandosi prendere dalla foga“GIURO CHE LO AMMAZZO! LO UCCIDO! LO..”
 
Non riuscì a terminare la frase perché si ritrovò di colpo spalle al muro, sbattuto con violenza contro la parete.
 
Due vasi appoggiati al mobile lì vicino caddero, andando in mille pezzi.
 
“Torcigli un capello, Chiaro, e ti giuro davanti a Dio, fosse l’ultima cosa che faccio in vita mia, non solo mi vendicherò su di te, ma sulla casa che ami tanto. Su tutto ciò che è Lannart o appartiene ai Lannart.” Gli occhi di Nero erano così scuri che Chiaro tremò. Il fratello non gli era mai parso così minaccioso.
 
“Non dirò altro, perché non è necessario. Toccalo e ti prometto, Cain Edward Exton Lannart, che non ti darò più pace.”
 
Se ne andò lasciando Chiaro ancora a ridosso della parete, tremante.
 
Nero non lo chiamava più col suo nome da quando aveva lasciato casa loro. Risentirlo pronunciare il suo nome per esteso gli aveva raggelato il sangue. Ormai, Chiaro, non poteva fare più niente.
 
S’accasciò a terra, piangendo.
 
 
 
 
 
Nero sospirò, coprendosi con la mano gli occhi sperando di trovare un minimo di sollievo. Ma neppure lì, solo, sul torrione dove sempre bruciava alto il fuoco per i viandanti, il cavaliere riusciva a trovare pace.
 
Conosceva troppo bene Chiaro per fidarsi. Le sue minacce probabilmente l'avrebbero fermato per un po', ma Nero non era sicuro che l'avrebbero fermato per sempre. Preso dalla totale irrazionalità, Chiaro era capace anche di gesti di cui dopo si sarebbe pentito. Era l'eredità dei Lannart, quel leggero filo di follia che scorreva nel suo sangue. Non così marcato come nei suoi genitori, ma comunque presente.
 
Nero non poteva rischiare che accadesse qualcosa a Aaron. E per questo doveva andarsene.
 
Sentì una fitta di dolore a quel pensiero, ma sapeva che lasciare quel posto era l'unica soluzione razionale da prendere. E da prendere subito.
 
Sarebbero andati a Londra, da Re Edoardo, per poi con ogni probabilità tornare in Francia... Ma sarebbero andati tutti? Oppure davvero, ognuno avrebbe intrapreso strade diverse?
 
Nero non sapeva neanche quale sarebbe stata la sua.
 
Tornare.
 
Ma con Chiaro tornare non sembrava possibile. Il fratello non avrebbe mai accettato quelle terre di Cornovaglia come proprie.
 
Sarebbe quindi dovuto tornare da solo, Nero però non poteva scrollarsi di dosso la responsabilità di aver già abbandonato Chiaro una volta.
 
Poteva farlo una seconda?
 
Scrollò le spalle. Chiaro era il figlio di tutto ciò da cui Nero aveva voluto allontanarsi, ma non per questo poteva portare sulle sue spalle le colpe dei genitori. 
 
Era confuso e non riusciva a districarsi fra quei mille pensieri: c’era Aaron da cui voleva tornare, che voleva rivedere nelle fredde notti invernali; c’era Chiaro che lo spingeva lontano da quelle terre.
 
 
 
Il cavaliere fermò per un istante il corso dei suoi pensieri per rendersi conto che già dava la sua partenza come cosa fatta.
 
Era solo una questione di giorni, poi sarebbe andato lontano.
 
Colpì con violenza il cornicione: non c’era salvezza per lui.
 
Ciò che più voleva gli era sempre stato precluso.
 
Quella breve parentesi che era stato Castel Thurlow era lì a ricordarglielo.
 

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Capitolo 40
*** 40. Maria ***


Capitolo Quaranta - Maria
 
 
 
 
 
 
 
Nel suo letto, Aaron non riusciva a prender sonno. La sua mente era confusa, più cercava di non pensare, più mille pensieri si accavallavano sconnessi, minuto dopo minuto.
 
Non c'era nulla che lui potesse fare per trattenere Nero con sé. Niente.
 
Nero se ne sarebbe andato perché quello era il suo destino e perché era giusto facesse così, nonostante Aaron volesse opporsi.
 
La loro piccola parentesi doveva avere scritta la parola fine a fondo pagina.
 
Aaron si girò nel letto per l'ennesima volta. Non riusciva a rassegnarsi.
 
Si sentì cocciuto e irragionevole.
 
 
 
Esasperato dai suoi continui pensieri, decise di alzarsi e pregare. Forse le preghiere gli avrebbero messo un po' di senno in testa. Nelle sue stanze c'era una piccola edicola votata a Maria dove Aaron era solito pregare ai vespri. Si inginocchiò e chiese aiuto anche allora, nel mezzo della notte.
 
Congiunse le mani, cercando la pace necessaria per iniziare a pregare.
 
Qualcuno bussò alla sua porta.
 
Senza aspettare di avere risposta, il piccolo William l'aprì, comparendo sull'uscio.
 
Aaron lo guardò stranito: il nipote non era solito comportarsi in maniera così maleducata.
 
"William…" iniziò a dire, ma poi si fermò all'istante.
 
C'era qualcosa di insolito nello sguardo di William, osservò Aaron guardando con più attenzione.
 
Gli occhi del ragazzino era incredibilmente blu. Così intensi da apparire luminosi. La pelle fin troppo bianca …
 
"William…" disse in un sussurrò, ma poi fu avvolto nella luce.
 
 
 
Era un mondo bianco, apparentemente vuoto. C'era un tepore che sembrava avvolgere fin dentro l’anima.
 
"Lasciate che i bambini vengano a me, ha detto mio figlio…Non aver paura" disse una voce femminile.
 
Aaron scosse la testa: "Non ne ho"
 
Ci fu un sorriso cristallino: "Perché sai chi sono"
 
Maria apparve di fronte a lui e Aaron sentì una lacrima rigargli la guancia, ma rimase immobile,
 
la sua bellezza era indescrivibile.
 
"Mia Si…"
 
Ma Maria alzò una mano, delicatamente, e gliel'appoggiò sulla bocca: "No, non chiamarmi Signora, ma Madre"
 
Aaron annuì semplicemente, cercando di mettere a fuoco quella donna ammantata di luce.
 
"Perché siete qui?" chiese infine.
 
"Per farmi perdonare"
 
"Non capisco"
 
"E' colpa mia…Un vezzo sciocco per la tua anima che è così bella…"
 
Aaron aggrottò la fronte, ancora non capiva.
 
"Non è importante capire, non ora. Quello che è importante è che tu sia finalmente libero. E che tu sia finalmente felice"
 
Maria si avvicinò ad Aaron: "Non crede alle sciocche regole degli uomini, non credere a quello che dicono su Nostro Padre e Signore. Non credere a nulla, amalo"
 
"Io…"Aaron scosse la testa "Io davvero non capisco".
 
"Quando morì tuo fratello, non era scritto tu dovessi salvarti. Era destino entraste entrambi, subito, nel Regno dei Cieli. Ma ogni notte io ascoltavo le tue preghiere e ogni notte la tua anima brillava sempre di più" Gli occhi di Maria apparvero addolorati "Eri come un gioiello, così luminoso, che ho voluto tenerti per me" la sua voce tremò "Ho voluto che continuassi a vivere per poterti vedere brillare. Per capriccio. Potrai mai perdonarmi?" si chiese in un sospiro.
 
"Col mio folle gesto ti ho costretto ad una vita gravata dalla solitudine. Per un mio sciocco capriccio ora piangi… La tua gloria è eguale a quella degli angeli, eppure piangi." Maria accarezzò la guancia di Aaron, rigata ancora da lacrime che l'uomo non s'accorgeva di versare.
 
 
 
"E come può sentirsi una madre che sa che il proprio foglio piange per colpa sua?"
 
Per un istante, ci fu silenzio.
 
"Se non avessi voluto continuare a guardarti e ti avessi portato con me sin da subito, come ho fatto con William, saresti stato libero".
 
"William…"
 
Maria annuì: "Non ha mai smesso di guardarti. Veglia sempre su di te … Lui sa della mia colpa, eppure m'ha perdonata. Lo stesso spero possa fare tu."
 
"Ma io non ho nulla da perdonare…Io…"Aaron cercò di trovare le parole adatte "Ho potuto rimanere accanto a mio padre… Ho potuto incontrare Nathaniel…" poi si accorse di quello che aveva appena detto e sussultò di vergogna "Sono io che dovrei chiedere perdono."
 
"Le leggi degli uomini non sono le stesse di Dio. Dio è amore, come potrebbe non volere che si ami?"
 
Aaron ebbe l'istinto di contraddirla, ma si fermò prima di dire alcunché.
 
"Amalo. E' l'unica cosa che posso fare per te. Toglierti dalla colpa creata dagli uomini e permetterti di amarlo come meglio credi."
 
Aaron non riuscì a dire nulla. Quella donna bellissima, sua Madre, con la mano sulla sua, gli stava chiedendo di perdonarla e gli dava il permesso di amarlo.
 
Stava forse sognando?
 
Maria scosse la testa e sorrise così dolcemente che Aaron ebbe il coraggio di chiedere: "Partirà?"
 
Gli occhi della Madonna si velarono di tristezza.
 
"Questo io non lo so. C'è un equilibrio molto precario che rischia di alterarsi da un momento all'altro. Agiscono forze che fuoriescono dalla mia giurisdizione. Nessuno può mettere mano al destino perché Dio ha creato gli uomini liberi. Dipenderà da quello che sceglierà Nathaniel, da che cosa riterrà giusto fare" chinò la testa "Non so dire altro"
 
"No" le disse lui "Non chinate la testa, non voi. Non di fronte a me" Aaron le strinse le mani "Io sono grato della vita che m'è stata donata. Qualunque fosse il motivo, la vita che ho vissuto per me è stata importante. Nathaniel…"
 
"Ho deviato io la sua strada" lo interruppe Maria "Ho volutamente portato Nathaniel qui perché sapevo che solo tu potevi salvarlo. Ancora pensi che io non abbia colpe?"
 
Aaron corrugò la fronte e Maria gli lesse negli occhi la risposta senza che fosse necessario che lui la pronunciasse: c'era così tanto amore per quell'uomo che non poteva non essere grato a chiunque l'avesse condotto da lui.
 
Nero era il dono per lui, Aaron non riusciva a vedere come potesse essere l'opposto.
 
Maria l'abbracciò: "Uni degli angeli più puri, ecco cosa sei. Sei in Terra e sei mortale, ma la tua purezza è così bella che mi commuove. Lascia che ti abbracci e permettimi di fare l'unica cosa che posso fare per te. Il mio egoismo e la mia vanità nel mantenere in vita un'anima per la sua bellezza non sono degne del Regno dei Cieli. Ma Dio conosce il mio animo meglio di me stessa e mi abbraccia, ogni volta che inciampo, lasciandomi continuare a vivere al suo fianco. Lascia che faccia lo stesso con te. Lascia che io, come Madre ti abbracci. E lascia che dissipi le paure di recare torto a Dio amando un uomo."
 
Aaron si lasciò abbracciare e avvolgere completamente dal calore che emanava Maria.
 
Chiuse gli occhi ed ispirò, liberando la sua mente da tutto ciò che era superfluo.
 
Sua Madre l'avrebbe protetto.
 
Quella stessa madre che non aveva saputo assecondare il fato, ma aveva voluto tenere l’anima di Aaron viva solo per averne la bellezza, la stessa Madre che ora chiedeva perdono per i suoi peccati. La stessa Madre che era Regina ma che ora chinava la testa umilmente.
 
Sì, lei l’avrebbe protetto.
 
 
 
Aaron si svegliò nel suo letto quando il sole era già alto in cielo.
 
 
 
Nero stava legando la bardatura al proprio cavallo, quando Luppolo entrò nella stalla. Lo scozzese non disse nulla, limitandosi ad osservare l’amico.
 
“Ho parlato con Chiaro” gli spiegò Nero senza smettere di occuparsi della propria bestia “E m’ha spiegato quello che è successo l’altra sera”
 
Luppolo annuì. Sapeva bene che Nero non avrebbe preso né le parti del fratello né le sue, né per altro avrebbe dato più credito alle parole dell’uno o dell’altro. E questo, del suo capo, gli era sempre piaciuto.
 
“E’ finita, vero?” anche se posta come una domanda, Luppolo sapeva già la risposta.
 
Nero annuì “Del resto, me l’hai detto tu stesso che con Chiaro ormai la convivenza è impossibile”
 
Luppolo sorrise: “L’ho sempre saputo, non è una novità. Ma ultimamente qualcosa s’è spezzato…”
 
“E’ stato questo posto” rispose Nero, con voce neutra. “Ha messo in luce…” poi sospirò “ciò che prima era nascosto”
 
“Cosa faremo?”
 
Nero legò l’ultimo laccio al dorso del proprio cavallo e non rispose per un po’, poi si girò a guardare Luppolo.
 
“Dobbiamo andare a Londra, Re Edoardo si aspetta di vederci. E poi ci divideremo…”
 
“Tu cosa farai?”
 
Nero sorrise ed eluse la risposta: “In realtà, sono più curioso di sapere cosa farai tu”
 
Lo scozzese guardò l’amico.
 
“Non so…Forse tornerò in Scozia, anche se penso che Cencio vorrebbe tornare qui…” Poi si accorse di quello che aveva appena detto, e sorrise “Starò dove lui preferisce”
 
“Potresti convincerlo ad andare in Scozia…manchi da molto”
 
“Lo so, manco da molto…Tornerò, anche se non ho ancora deciso se rimanere” spiegò.
 
“Sono felice per…” Lo scozzese capì a cosa si riferiva l’amico e lo guardò negli occhi; vide una tale sincerità, ma una tale tristezza allo stesso tempo, che non poté tacere.
 
“Non è vero”
 
“Sai a cosa mi riferisco”
 
“Lo so. E ti ringrazio. Te ne vorrei parlare” sorrise quasi imbarazzato “te ne vorrei parlare, ma non dire di essere felice”
 
Nero capiva a cosa si riferisse l’amico.
 
“Non tornerò Luppolo” disse con un filo di voce.
 
“Perché?” ma lo scozzese temeva di sapere già la risposta.
 
“Perché non posso farlo. Non posso andarmene, non di nuovo…”
 
“Ma Nero, Chiaro si deve…” ma Nero alzò la mano per interrompere l’amico.
 
“Per favore” gli chiese con tono di leggera supplica “per favore…” ripeté a se stesso, lasciando che le parole scivolassero via. 
 
Salì sul dorso del cavallo, tornando a dare le spalle a Luppolo: voleva solo cavalcare, voleva correre, voleva solo silenzio nella sua mente che continuava a gridare.
 
“Partiremo fra due giorni. Dillo agli altri, io rimarrò fuori per un po’”
 
Luppolo guardò Nero chinarsi in avanti e dire qualcosa al suo animale. Non lo vedeva in faccia, ma le sue spalle sembravano così appesantite da apparire ricurve sotto un peso insostenibile.
 
Il cavallo di Nero uscì dalla stalle lasciando Luppolo solo.
 
 
 
Lo sapeva bene, Chiaro avrebbe dovuto… Avrebbe dovuto tante cose, ma la realtà dei fatti era ben diversa.
 
Aveva un fratello che dipendeva da lui e che già aveva abbandonato e amava una persona come non avrebbe dovuto.
 
Esisteva forse un’altra soluzione se non quella di andarsene e di non tornare?
 
Non esisteva.
 
Il vento gli tagliava la pelle del viso, ma non era importante. Non avrebbe più sentito quel vento di Cornovaglia di lì a poco, non avrebbe più sentito il dolore sulla pelle ferita, non avrebbe più sentito niente. Lontano da lì sarebbe semplicemente scomparso tutto.
 
L’aria era ancora troppo fredda per le sue mani scoperte che si ferirono a loro volta, ma Nero non se ne accorse.
 
Non era davvero importante. Nulla pareva esserlo. Bastava cavalcare e sperare che la notte non finisse, bastava cavalcare e andare, perché voleva dire che comunque sarebbe potuto, almeno quella sera, tornare. Si sarebbe potuto illudere che – se quella sera non fosse finita – avrebbe potuto cavalcare ancora un po’.
 
Forse l’indomani il sole avrebbe potuto sorgere un po’ più tardi.
 
 
 
Nero si dovette fermare, per cercare di controllare un conato di vomito.
 
Anche quello sarebbe passato…
 
Il dolore lo piegò e si ritrovò a terra, con una fitta incontrollabile.
 
E si ritrovò a piangere. Prima una lacrima sfuggita, poi una dopo l’altra, il pianto di chi sa che tutto sarebbe semplicemente scomparso.
 
C’erano troppe cose non dette in quelle lacrime, troppe cose non fatte… Ed il dolore annichiliva i sensi, perché non poteva avere scelta.
 
Si chiese se forse sarebbe stato meglio morire.
 
Abbandonare quelle terre e morire non sarebbe stato diverso, ma ugualmente doveva continuare a respirare. Ancora per un poco, fino a che i suoi compiti non fossero terminati. Fino a che il loro gruppo non si fosse definitivamente sciolto.
 
Sarebbe scomparso anche lui, come tutto. Non sarebbe esistito né colore, né musica, Nero sapeva che dopo che se ne fosse andato di lì e dopo che i suoi compagni avessero intrapreso la loro strada, lui sarebbe scomparso.
 
Si chiese se non fosse un atteggiamento da vigliacchi, se la sua non fosse una fuga.
 
Quale alternativa aveva? Mai avrebbe potuto desiderare la scomparsa di Chiaro: anche se così diversi, Nero voleva bene al fratello.
 
Non poteva fare niente.
 
E tutto doveva sparire.
 
Chiaro sarebbe rimasto di nuovo solo, ma si sarebbe trovato di fronte all’obbligo di camminare con le proprie gambe.
 
 
 
 
 
“Non dovevi lasciarlo andare…”
 
“Non avevo scelta”
 
“Non possiamo partire fra due giorni…”
 
Lo scozzese non rispose.
 
“E’ troppo presto, è troppo…”
 
“Partiremo fra due giorni e tu lo sai. Noi non possiamo fare niente”
 
“Ma il capo…”
 
“Vieni qui…” Luppolo lo prese fra le sue braccia e lo strinse a sé, nascondendo il viso nel collo di Cencio.
 
“Posso dirti che sono felice nonostante si stia per partire?”
 
“Stupido” Cencio sorrise e strinse Luppolo più forte.

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Capitolo 41
*** 41. Il sole ***


Posto questo capitolo in fretta perchè sto partendo. scusatemi, risponderò alle recensioni anche del capitolo precedente al mio ritorno (grazie davvero, a tutti ^.^)





Capitolo Quarantuno - Il sole
 


 
 
 
 
Il sole era luminoso e tingeva il cielo di un azzurro terso. Nero lo guardò, schermandosi gli occhi con le mani. Era sorto.
 
Non quel giorno, ma uno quanto mai vicino, Chiaro avrebbe minacciato la vita di Aaron. Lui stesso era una minaccia per la sua anima.
 
Andandosene l’avrebbe protetto, no?
 
Andandosene non avrebbe rifatto al fratello lo stesso torto di cui sopportava la colpa da quindici anni.
 
Il sole gli ferì gli occhi, ma Nero rimase a guardarlo incurante.
 
 
 
 
 
Aaron affrettò il passo per vedere dove fosse William.
 
Era stato un sogno? Oppure davvero aveva visto il volto di Maria e aveva parlato con lei?
 
Aaron sperava che, vedendo William, potesse fare più chiarezza fra i suoi pensieri.
 
Trovò il ragazzino indaffarato ad appuntire delle frecce. Questi appena vide lo zio, gli corse in contro:
 
"Buongiorno!"
 
"Buongiorno a te" rispose Aaron guardando il nipote negli occhi. Erano occhi riposati, di chi aveva passato la notte in un letto caldo "Come hai dormito?"
 
"Benissimo! Poi questa mattina ho incontrato Forgia e Cencio che si stavano allenando con l'arco, e ho scoperto che se le frecce vengono appuntite così…"
 
Ma Aaron, quella mattina, non era in grado di ascoltare niente e ripeté:
 
“Come hai dormito?"
 
William interruppe le sue parole e guardò lo zio sorpreso.
 
"Benissimo" ripetè
 
"Non ti sei alzato? Non ti sei svegliato?"
 
"No no" William enfatizzò le sue parole scuotendo la testa "Ma perché...?"
 
"Nulla, non ti preoccupare"
 
L'essere così freddo e sbrigativo col nipote spiacque ad Aaron, ma quella mattina non riusciva a mantenere la calma.
 
Era stato tutto un sogno?
 
La sensazione di candore che accompagnava la sua pelle sin dal risveglio sembrava rispondere di no, eppure come poteva credere che la Madonna gli fosse davvero comparsa in sogno?
 
"Zio, ti senti bene? Sei... pallido"
 
Aaron annuì, rimanendo comunque soprappensiero
 
"Benissimo…Ora scusami, ma devo andare" disse senza aspettare replica dal nipote.
 
Era troppo agitato.
 
Se da una parte non sapeva come interpretare il suo sogno – sempre che di sogno si trattasse – dall'altra c'era una sensazione di panico che gli stava montando sempre di più: Nero sarebbe partito.
 
Se neanche Maria aveva potuto dargli una risposta, se persino lei aveva detto che il corso degli eventi era incerto, quella sua sensazione sembrava invece dargli la certezza che il cavaliere avrebbe lasciato il castello di lì a poco. Del resto, non era mai stato un segreto che fosse lì solo temporaneamente. Perché quest’agitazione?
 
Dovette arrestare i suoi passi in corridoio per vincere la sensazione di panico.
 
Prima dell'incontro con Nathaniel, aveva imparato a convivere con la propria solitudine in un castello troppo grande per se stesso. Adesso si sentiva schiacciato.
 
Forse si sbagliava?
Forse sì... Perché subito pensare… Però…
 
Basta!
 
Aaron si mise una mano sulla fronte, per fermare il corso irrazionale dei suoi pensieri. Eppure, nonostante cercasse di rallentare il respiro, qualcosa in lui gli diceva che tutto era inutile: negare la realtà non avrebbe certo tenuto Nero lì con lui.
 
Una voce lo chiamò: Sir Christofer di ritorno dalle miniere. Doveva occuparsene, così come doveva occuparsi del padre, così come doveva occuparsi dell'ala Est.
 
Chiuse gli occhi e spinse le sue preoccupazioni lontano, nascondendole a se stesso: quella mattina doveva occuparsi d’altro.
 
 
 
Il sole percorreva brevi tratti di cielo ogni volta che Aaron lo guardava, in ansia, nella speranza che si fermasse e che gli desse più tempo. Intorno a lui le persone parlavano, lui rispondeva e ragionava. Prendeva decisioni e rifletteva su ciò che fosse giusto per le sue terre, ma guardava il sole correre e scappare dalla sua vista.
 
Fermati, gli avrebbe voluto dire, aspettami. Ma le parole scorrevano, così come l’astro in cielo percorreva la sua strada. Troppe parole e troppo poco tempo.
 
E lui correva. E non si fermava.
 
Era appoggiato sulle cime degli alberi quando Aaron si ritrovò di nuovo solo, e la sua luce era arancione e calda.
 
Una luce d'addio.
 
 
 
Aaron si diresse nelle sue stanze: doveva solo riporre un'ampolla di biancospino al suo posto e poi avrebbe potuto cercare Nero. Parlare con lui era l'unica soluzione per dissolvere il panico immotivato di quella mattina.
 
Arrivato nella stanza delle erbe si voltò a guardare la porta che l'avrebbe condotto in camera sua: lì era comparsa Maria, vicino all'edicola. Possibile?
 
Gli tremò la mano e l'ampolla che stava riponendo al suo posto gli scivolò di mano e cadde, spargendo il biancospino sul pavimento.
 
Qualcuno bussò alla porta.
 
Aaron diede il permesso di entrare a chiunque fosse
 
"Sto ben…" ma s'interruppe bruscamente, girandosi verso il nuovo entrato
 
"NO!" alzò la voce molto di più di quanto era solito fare "No…" disse scuotendo la testa.
 
Nero lo guardò negli occhi, aprendo leggermente la bocca ma non dicendo nulla.
 
"Non dire niente, non parlare" la sua voce si spezzò e Aaron fu costretto a mettersi una mano di fronte alla bocca per frenare un sussulto.
 
Scosse la testa.
 
"Non dirlo… non puoi dirlo"
 
Poi ebbe il coraggio di guardare davvero Nero, di guardare il suoi occhi e di avere la certezza di quello che stava accadendo.
 
"Perché..?"
 
Se avesse potuto vedere bene le labbra di Nero, avrebbe visto quanto fossero secche. Il cavaliere ci mise un po' a rispondere.
 
"Non posso…" Nero tremò leggermente, prima di osare "Non posso restare"
 
Aaron aprì la bocca, ma le parole uscirono lentamente ed in ritardo, quasi loro stesse volessero rallentare il tempo che continuava a scorrere
 
"Non tornerai" non lo chiese, perché ormai già sapeva la risposta. La mano che ancora aveva sulle labbra tremò e non riuscì a trattenere una lacrima
 
Nero si avvicinò a lui
 
"Non piangere" supplicò, ma sembrava parlare a se stesso.
 
Un'altra e poi un'altra ancora, le lacrime divennero troppe. Aaron se le asciugò col retro della mano. Per un po' rimasero in silenzio.
 
"Dimmelo allora… Lo voglio sentire direttamente da te…"
 
Nero gli accarezzò il viso e gli asciugò meglio la guancia.
 
"Cielo, non posso vederti piangere" si morse le labbra e guardò Aaron, sperando di non dover pronunciare alcuna frase. Sperando di poter fermare il tempo.
 
"Dimmelo…" sussurrò di nuovo Aaron, cercando d’impedirsi di piangere e piangere ancora, implorandolo in silenzio di non pronunciare quella frase.
 
Invece l'aveva richiesta lui stesso. Doveva sentirla, perché altrimenti non poteva crederci.
 
Come si può credere che tutto scompaia?
 
Nero aprì la bocca, ma la richiuse subito, incapace di parlare. Poi si obbligò.
 
"Non tornerò"
 
Aaron sentì il sangue scorrergli nelle orecchie per poi scomparire, evaporato chissà dove. Sentì le sue mani gelide e i suoi occhi vuoti.
 
Sentì le lacrime bruciargli le guance, ma in quel momento non aveva certo importanza.
 
E vide il dolore dell'altro, nell'aver pronunciato quella frase che venne però, inevitabilmente, subito oscurato dal suo.
 
Lo abbracciò.
 
Quanto poteva essere irrazionale e sciocco abbracciare un uomo che ti stava abbandonando?
 
Nero affondò le mani nei capelli e questo aiutò Aaron a non sentirsi solo, ancora più scioccamente.
 
"Torna" si sentì dire, ma si pentì subito dopo delle sue parole e per impedire qualunque risposta a Nero, gli mise le dita sulla bocca.
 
"No, non mi ascoltare. Non mi ascoltare… So bene che quando una decisione è presa, non si può tornare indietro. Non..." ma si dovette interrompere per deglutire "non ti chiederò neanche perché"
 
Nero lo guardò, asciugandogli di nuovo le lacrime, incapace di alleviare qualunque dolore.
 
"Hai le labbra secche" sorrise Aaron " e nonostante questo, sono così belle...e me ne privi" gli si spezzò la voce "Fammi illudere che il motivo per cui non tornerai da me... Fammi illudere che..." e di nuovo fu costretto ad interrompersi "Fammi illudere che tutto questo sia semplicemente inevitabile... Mi farebbe sentire importante" cercò di sorridere, ma ormai non riusciva più a trattenere le lacrime e i singhiozzi che minacciavano di interromperlo sempre più frequentemente.
 
Nero rimase in silenzio, non potendo disobbedirgli e non potendo reagire a quel pianto versato per lui.
 
 
 
L'ultimo raggio di sole che filtrava dalla finestra scomparve, lasciando il posto alla luce fioca del camino.
 
"Ti amo" sussurrò Aaron "Mi lasci, eppure ti amo..."
 
Nero lo baciò: doveva farlo tacere.
 
Non poteva fare altro perché non poteva parlare. Nessuna parola poteva uscire dalle sue labbra, se non quelle più vere: che lontano da lui avrebbe perso di senso.
 
Che solo lì, solo con lui riusciva a chiudere gli occhi ed essere felice.
 
Ma non gli disse niente di tutto questo, perché doveva andare via. E le sue parole l'avrebbero fatto rimanere.
 
Non poteva chiedere di più a se stesso se non di tacere e di baciarlo per un addio inevitabile.
 
Non era quello che voleva...Cielo! Farlo sentire importante, quando era stato Aaron stesso a salvarlo. Quando era tutto...
 
Ma non disse nulla, soffocò le sue parole in quel bacio che sapeva di sale, fra le lacrime dell'altro che sembravano volerlo uccidere.


 
 
 
"Portati via tutto" alle parole di Aaron, Nero s'irrigidì, non capendo.
 
"Se te ne devi andare... se mi devi lasciare, portati via tutto quanto" sarebbero apparse accusatorie, le sue parole, se non fosse per la sua voce interrotta dai singhiozzi.
 
Nero esitò.
 
"Perché...?" ma di nuovo Aaron s'interruppe, incapace di andare avanti e nascondendo il viso nella spalla di Nero.
 
Sapeva.
 
Sapeva che l'altro se ne sarebbe andato ben prima che questi glielo dicesse. Aveva capito che tutto era cambiato quando era tornato a casa. Del resto, aveva sempre saputo che Nero non sarebbe rimasto lì per sempre.
 
Sapeva, ma non capiva.
 
Non capiva perché dovesse lasciarlo. Perché non riuscisse a trattenerlo con sé. Perché non fosse sufficiente quanto lui desiderasse che Nero rimanesse lì.
 
Mise in dubbio se stesso: evidentemente davvero, lui non era poi così importante.
 
E ripeté: "Portati via tutto quanto"
 
Nero lo strinse a sé per farsi perdonare e per dirgli tutto quello che non poteva mettere a voce.
 
"Ti amo" si sentì rubare le parole che avrebbe voluto dire.
 
Lo baciò di nuovo, sulle labbra, sulle guance e sul collo, fino a che non era più sufficiente.
 
Lo baciò sulla spalle, slacciandogli le stringhe che intrecciavano il tessuto della sua veste.
 
Poi ritornò sul suo viso.
 
"Non piangere..." era una supplica per se stesso, ogni lacrima versata da Aaron sembrava riversarsi dentro lui. Doveva lasciare tutto quello perché? 
A chiederglielo ora, non avrebbe saputo dare una risposta.
 
Sollevò Aaron per portarlo sul suo letto: avrebbe capito - il biondo - quanto di se stesso gli avrebbe lasciato? Non avrebbe portato via nulla, andandosene. Nero avrebbe lasciato tutto lì.
 

 
 
Era forte Aaron... Nonostante fosse così esile, le sue braccia lo tiravano a sé con molta più forza rispetto a quella cui era abituato.
 
Nero sorrise, augurandosi che non smettesse mai.
 

 
 
Forse il sole, quella notte, avrebbe davvero aspettato un po' di più a risvegliarsi, stupito anche lui di quanto quelle braccia fossero forti.
 

 
 
Non capiva, sentì Aaron sfilargli la casacca e le sue mani sulla sua pelle nuda. Non capiva più nulla.
 
I suoi pensieri si erano dissolti in quell'odore ormai così familiare.
 
Cercò con la mano i calzari del biondo, ma d'improvviso, questi s'irrigidì ed esitò.
 
Nero lo guardò, a corto di fiato, fra i capelli scompigliati e il suo desiderio.
 
"E'...brutta..." gli disse Aaron mordendosi le labbra e tremando.
 
La sua gamba. Aaron si riferiva alla sua gamba definendola brutta, ma quanto poteva essere sciocco?
 
Se solo si fosse potuto vedere coi suoi occhi...
 
Nero lo baciò di nuovo, tanto da togliergli il fiato e fargli dimenticare della sua gamba. Gli sfilò il calzare.
 
Gli baciò poi il piede. Era sottile, così come la gamba, ma non era brutto. Non era brutto affatto.
 
Gli baciò le dita, una ad una, e poi il collo del piede, e poi la caviglia.
 
Aaron cercò di protestare, ma quelle labbra sulla sua gamba storpia interruppero qualunque protesta.
 
 
 
Forse quella notte poteva davvero durare un po' più a lungo.
 
La lingua sulla sua gamba e i denti sulle sue ginocchia dovevano tornare ancora.
 
E ancora.
 
Non poteva mai finire.

 
 
 
Nero senza vestiti era ancora più bello, sopra di lui poi lo faceva impazzire.
 
Quella notte non poteva finire, perché lui non se ne poteva andare. Che senso aveva? Che senso avrebbe avuto poi, quel pezzetto di pelle orfano delle sue mani? O le sue dita orfane della sua bocca? O le sue gambe orfane dei suoi fianchi?
 
O i suoi occhi orfani di quelli dell'altro.
 
Non ne avrebbero avuto. Per forza di cose, quindi, avrebbe aspettato. Il sole non avrebbe mai illuminato qualcosa di incompiuto.
 
Avrebbe aspettato.
 
Quella notte sarebbe stata testimone delle parole di Aaron, ripetute mille volte all'orecchio di Nero, ma non ancora sufficienti. E sarebbe stata testimone di quello che Nero poteva dire senza voce.
 

 
 
Il sole sorse quella mattina, come ogni altra mattina. Algido ed incurante, illuminò la notte.
 

 
 
I preparativi per la partenza furono rapidi e vissuti come lontani. Come se in realtà niente stesse davvero accadendo.
 
Non c'erano voci cui rispondere, gesti inconsueti da fare...
 
Aaron si comportò perfettamente, con assoluta grazia.
 
Nero stette coi suoi uomini.
 
E poi partì, allontanandosi al passo, a differenza di come era venuto, avvolto nel mantello blu arabescato d'argento che gli era stato regalato. Un tempo così caldo, ora così gelido.
 
E Aaron lo salutò, guardando i cavalieri andare via ed allontanarsi, immobile.
 
Il sole era alto in cielo e guardava assorto la scena.
 
Aaron rimase lì, fermo, a guardare il punto all'orizzonte dove i cavalieri erano da tempo scomparsi. Catatonico. Senza riuscire a fare nulla.
 
Finché il sole, stanco, se ne andò via lui per primo e si addormentò, mentre Aaron non si mosse.

 
***

 
Due parole: sulla conclusione di questo capitolo. All'inizio c'era quasi un capitolo dedicato al distacco e alla partenza. Era un capitolo davvero lento e particolarmente triste. Tuttavia m'era parso - sin dalla sua creazione - poco efficace. Col passare del tempo, il capitolo s'è accorciato sempre di più accorciando, fino a diventare le poche righe che avete appena letto. E secondo me, il pezzo è diventato estremamente efficace. E' vuoto, gelido e perentorio. Non dà grossa possibilità di replica. E' come se fosse svuotato di tutto (come si sentono i protagonisti...)Non so però se è un'impressione mia (a furia di scriverlo e rileggerlo, magari ho perso la percezione reale del pezzo), oppure è un'impressione giusta... Aspetto i vostri commenti per capire se ho avuto ragione nel tagliare l'addio così tanto. Baci baci, Dicembre

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Capitolo 42
*** 42. Lucifero ***


Capitolo Quarantadue - Lucifero
 
 
 
 
 
C'era silenzio e tutt'intorno l'aria sembrava muoversi lentamente, quasi fosse l'impasto denso e lattescente di qualcosa che non sta accadendo davvero, ma che viene semplicemente osservato. Non si ha il potere di cambiare una trama già scritta e non si può pensare d’intervenire ad interrompere un evento già accaduto.
 
Era così che Matthias si sentiva, di fronte a quell'immagine di Alec e Jude che rimaneva fissa di fronte a lui, ma che, in realtà, era troppo lontana da raggiungere.
 
Aveva pronunciato un nome, qualcuno gliel'aveva suggerito ma non capì chi.
 
Ma soprattutto non capì assolutamente che cosa volesse dire quel nome, perché l'avesse pronunciato e perché Alec si fosse fermato d'improvviso e l'avesse guardato… L'avesse guardato con astio.
 
Sì, perché s'affollavano mille luci in quegli occhi turchesi al di là del vetro, ma quella principale era ostilità.
 
Perché Alec lo guardava così?
 
Ciononostante, il biondo non aveva firmato il foglio, s'era fermato – esitando.
 
Per quanto lo guardasse con odio, Alec aveva esattamente fatto quello che lui voleva facesse.
 
Jude era una figura marginale che non comparve in quell'immagine statica e densa, se non quando disse:
 
"Firma!"
 
Il gioco di sguardi fra Alec e Matthias s'interruppe e il biondo si voltò verso l'uomo in casa sua:
 
"Lo devo fare entrare?" gli chiese indicando, con la penna che ancora teneva in mano, Matthias fuori dalla finestra.
 
"No, non è necessario…"
 
Alec sorrise, sollevato. Vedere i suoi lineamenti rilassarsi così tanto e sorridere, ferì Matthias più di quanto il moro avrebbe potuto credere.
 
Eppure qualcosa in lui gli stava dicendo che Alec aveva ragione a diffidare.
 
"Alec…" sentì le sue labbra pronunciare, toccando con la mano il vetro che lo separava dall'appartamento del biondo.
 
"Io non voglio che entri"
 
"Lui non deve entrare, interferirebbe con noi"
 
Alec aggrottò la fronte.
 
"Esiste un noi?"
 
"Certo" gli sorrise Jude, "siamo io e te e tutti quelli come noi"
 
"Anche tu…?"
 
"Firma e scoprirai tutto tu stesso"
 
Alec strinse la penna che aveva in mano e guardò Matthias.
 
"Perché mi fai questo?" gli chiese, senza capire lui stesso che cosa volesse dire con quelle parole. Scosse la testa "No… non posso certo lasciarlo lì fuori…"
 
"Firma!!"
 
Alec si fermò di colpo, lasciando cadere la penna. L'urto col pavimento fu attutito dalla moquette e sembrò così lontano che Alec guardò la penna per terra, per essere sicuro fosse davvero lì.
 
"No…C'è qualcosa che non va"
 
"E' tutto nella tua testa, Alec, sono tutti sogni"
 
"Questo è diverso. Questo è diverso! Questo non è un sogno….C'è qualcosa…Qualcosa che non capisco e che sta succedendo. Perché non voglio farlo entrare?" chiese a se stesso, smettendo d'improvviso di parlare con Jude.
 
Si avvicinò al vetro, appoggiando la mano dove l'aveva appoggiata Matthias, i loro palmi combaciavano:
 
"Perché non voglio farti entrare?"
 
Matthias non sapeva rispondere, e non cercò di persuadere il biondo ad aprire la porta. Non riuscì a dire niente.
 
"Perché…" gli bisbigliò Alec "Perché m'hai chiamato con quel nome?"
 
"Adesso basta!" Jude quasi gridò, spazientito. "Non capisci che è tutta colpa sua? Se lui avesse fatto quello che ci si aspettava facesse, non saremmo arrivati a questo punto! Se lui fosse stato diverso, se fidarsi di lui non fosse stato un errore…"
 
"Che cos..."
 
Ma Alec non riuscì a terminare la frase perché tutto intorno a lui prese fuoco e s'incendiò. D'improvviso fiamme alte e rosse s'accanirono contro le pareti, e per tutta la stanza. Il vetro che separava Matthias da Alec andò in frantumi.
 
Le fiamme che circondarono i tre uomini nella stanza non emettevano alcun calore. E non bruciavano niente.
 
"Sto impazzendo del tutto" disse Alec indietreggiando "Cosa…" inciampò nel tappeto, ma non cadde per terra: Matthias lo teneva ben saldo
 
"No…" gli disse "le vedo anch'io"
 
"No…" disse  Jude in un singulto, per il quale gli altri due lo guardavano attoniti. Stava piangendo?
 
"No, per…"
 
"Shhhh" rimbombò una voce "Non dire nulla"
 
Comparvero, fra le fiamme, due occhi di brace. Poi prese forma intorno a loro un viso incandescente prima, poi più definito. Bellissimo.
 
"Chi sei?"
 
"Non fare domande sciocche" rispose la figura appena uscita dal fuoco " Sai benissimo chi sono"
 
Jude indietreggiò.
 
Il fuoco di poco prima si spense velocemente com'era comparso, e fu sostituito da una luminescenza prima azzurrina, poi così intensa da accecare
 
"Mi hai seguito…" bisbigliò Lucifero a Maria, la quale annuì
 
"Come posso crederti? Rinuncerai davvero?"
 
Lucifero non disse nulla, ma i suoi occhi si spensero, per un istante, poi ripresero ad ardere.
 
Alec sapeva benissimo chi aveva di fronte, lui conosceva bene quella donna.
 
"Mia Sign…"
 
"No, Alec, Madre. Chiamami madre, come hai fatto tempo fa" Maria si avvicinò al biondo "Una madre che ha rischiato la vita di uno dei suoi figli più belli…" L'abbracciò, illuminandolo con le sue mani "Per questo io ti chiedo di perdonarmi"
 
"Strappalo" gli disse Lucifero "Strappa quel foglio"
 
Alec tremò.
 
"Ma…"
 
"Perché?" Jude si frappose fra i due "Perché dovrebbe strapparlo? Non erano questi i patti, non…"
 
"I patti?" fu Matthias questa volta a parlare. C'era qualcosa che gli stava bloccando la lingua da quando aveva pronunciato il nome di Aaron, ma quella parola, patti, aprì un altro spiraglio nella sua mente, che gli fece ricordare un altro pezzetto del suo passato.
 
"Patti…"
 
"Matthias si sta ricordando tutto, Jude, ormai non hai più tempo!"
 
"Perché…Perché sei qui?"
 
Ma Lucifero non rispose all'umano e lo guardò a lungo.
 
"Sai bene" gli disse dopo un lungo silenzio "Che se in questa stanza non ci fosse Beatitudine, saresti già morto per avere osato parlarmi così".
 
Jude tremò.
 
"Esatto" continuò Lucifero "Beatitudine è la Mia Signora"
 
Jude si voltò verso Maria terrorizzato da quanto appena sentito, atterrito dalla blasfemia di quelle parole.
 
"Non può essere…"
 
Lucifero sorrise di uno di quei sorrisi di cui solo lui era capace, che nessun umano avrebbe mai desiderato vedere.
 
"Trai conclusioni troppo affrettate, sciocco" Poi si girò verso Alec che stringeva fra le mani il suo foglio bianco ed era avvolto nella luce di Maria "Visto così, mi dispiace davvero lasciarti andare… E capisco fin troppo bene il desiderio di Maria di volerti tenere tutto per sé. La tua anima brilla come raramente m'è capitato di vedere in un umano. Ma ora strappalo…"
 
Vedendo gli occhi vitrei di Alec, ripeté a bassa voce "Strappalo"
 
Nessun umano è in grado di rifiutare un ordine provenuto direttamente dalle labbra di Lucifero: è impossibile per chiunque, fosse persino santo, non eseguire quanto dettogli.
 
Alec afferrò due lembi di quel foglio bianco che gli avrebbe salvato la vita, per strapparlo. Per recidere così l'unica speranza che gli era stata concessa in quegli anni di follia.
 
Vide Lucifero sorridere e Maria sgranare gli occhi. Ma prima che potesse dare forza alle mani, sentì qualcuno scagliarsi contro di lui.
 
"Non puoi, assolutamente. Non posso permetterti…" Jude aveva gli occhi iniettati di sangue, s'era gettato sul biondo cercando di strappargli il foglio dalle mani.
 
Matthias lo prese per la maglia e lo scaraventò lontano.
 
"Aaron"
 
"Tu ricordi?"
 
Matthias si portò una mano alla tempia "Sta' lontano da lui…"
 
"Tu non capisci…"
 
Ma le mani che afferrarono di nuovo Jude non erano le mani levigate del moro, non erano mani poco avvezze ai lavori manuali. Erano mani ruvide, con la pelle bruciata dal vento.
 
Jude rimase attonito a guardarle, a guardare i lacci di cuoio che gli circondavano i polsi, a guardare quel callo lineare e lungo che conosceva   più che bene.
 
"E' troppo tardi davvero, dunque?" la voce di Jude si sciolse nell'aria sopraffatta dal rumore di carta strappata.
 
Jude s'accasciò per terra, non rendendosi conto di piangere.
 
"E' dunque impossibile per me essere felice?"
 
Maria di nuovo abbracciò Alec, tremando. Le sue dita delicate accarezzarono i capelli del biondo che teneva ancora in mano due pezzi di carta, inutili oramai.
 
"Perché…?" Jude chiese "Perché proprio tu, che volevi l'anima di Aaron per te, proprio tu Lucifero..?"
 
"Un suo sorriso e una sua lacrima" spiegò Lucifero indicando Maria "valgono più che l'anima di un prescelto nel mio regno. Le è bastato chiedermelo. Maria mi ha chiesto di salvarlo, non doveva fare altro. E io ho esaudito il suo desiderio…"
 
"E il mio? Che ne è stato del mio?"
 
Lucifero sorrise "A me non interessa nulla né di te, né di nessuno di loro" disse indicando Alec e Matthias. "Avere l'anima di Aaron nel mio regno sarebbe stato un bello smacco per Dio ed estremamente divertente per me." disse sorridendo "Ecco perché ho permesso ad Esse di scendere a patti con te. Ma di te o di quello che ti succederà, davvero, non m'interessa. Verrai da me, probabilmente, quando morirai." Si strinse nelle spalle, fingendo un'aria d'impotenza che le sue parole contraddicevano "Ahimè" e poi rise.
 
Maria si girò verso di lui.
 
"Mi bastava chiederlo?"
 
Lucifero annuì.
 
"Come vedi, non ho mentito. Puoi vederla come una rivincita d'orgoglio, puoi vederla come l'ennesima prova di chi è il più forte fra l'Inferno e il Paradiso…Oppure puoi vederlo come un regalo mio per te. Puoi fare ciò che vuoi…"
 
Maria lo guardò, mentre di nuovo le fiamme riempivano la stanza.
 
"Aspetta"  disse la Madonna sporgendosi in avanti e protendendo la mano verso Lucifero
 
 
 
"Io non posso neanche toccare quella mano… Vieni nel vento, cosicché io possa riascoltarlo cantare fra i tuoi capelli. Sarà un ringraziamento sufficiente". E poi scomparve, lasciandosi alle spalle i mille quesiti che né Jude, né Matthias, né tantomeno Alec riuscirono a fargli: non avrebbe mai risposto.
 
Era stato un gioco o forse, come aveva detto lui stesso, un rivincita. Forse davvero aveva solo provato che, se avesse voluto, avrebbe potuto prendere con sé una delle anime più belle della terra…Ma che cosa gli interessava? Nulla. In un regno già stracolpo di mortali e già tempestato di ricchezze, forse la luce di Alec si sarebbe persa in mezzo alle altre. Il sorriso di Maria, quello no. Lui, che poteva vederlo così raramente, sapeva quanto invece lui stesso oscurasse tutto intorno a sé.
 
La Madonna teneva ancora fra le braccia Alec, stretto al suo petto.
 
“Sei libero”
 
“Sono libero mi dici…eppure non capisco. Chi sono io? E chi sono loro? Cosa sono questi sentimenti di paura? Di abbandono…”
 
Maria non gli rispose, limitandosi a sorridere.
 
“Io davvero… Non capisco”
 
Jude, fra le lacrime che non smettevano di scendere, chiese: “Perché mi hai abbandonato? Perché hai scelto lui a me?”
 
Maria si girò verso di lui.
 
“Tu stesso hai scelto, non io. Hai barattato te stesso, ma ti sei perduto…”
 
Alec fece per parlare di nuovo, ma la Madonna alzò la mano.
 
“Capirete vedendo ciò che è successo. Capirete ricordando. Ora è tempo che io vada, c’è chi mi aspetta, vi lascio in mani sicure…” sorrise “Ci rivedremo quando sarà il tempo” disse poi rivolta ad Alec “Continuerò a vegliare su di te.”
 
Baciò il biondo sulla fronte e poi scomparve, svanendo nell’aria.
 
Con la scomparsa di quella luce intensa, la stanza piombò in un buio profondo. Il silenzio che regnava fra quelle mura era irreale, non si udiva respiro, né le lacrime di Jude, nonostante questi continuasse a piangere.
 
Il foglio strappato iniziò ad ardere di una luce bianca, che illuminò un pochino la stanza.
 
Intorno alla fiammella una mano, poi prese forma la figura di un uomo dai capelli lunghi e bianchi. .
 
“Questo è il passato” disse Ayel “ora vi appartiene”.

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Capitolo 43
*** Interludio quinto + 43. Il tempo ***


Interludio Quinto
 
 
 
“Farai conoscere loro il passato…”
 
“Così m’è stato richiesto”
 
Non ti muovi dalla balaustra sulla quale sei seduto, aspetti qualche minuto, vedendo che Ayel non se ne va
 
“Perché rimani? Vattene. Va’ e fai ciò che t’è stato chiesto” ti sento dire, ma vuoi tutt’altro e l’angelo ti conosce troppo bene per lasciare che parole di un Sobillatore - così tristi - lo feriscano
 
“Il tuo compito s’è concluso, ora puoi tornare a casa”
 
“Tu cosa farai?” gli chiedi, perché lo vuoi con te.
 
Non c’è modo? Non c’è davvero modo perché voi possiate...
 
“Tornerò alla mia”
 
Sei consapevole che non c’è modo, lui è troppo luminoso perché possa essere offuscato e la sua volontà è troppo ben amalgamata con quella di Dio perché possa essere infiltrata dal nero della tua.
 
Ancora nessuno di voi due si muove, ancora nessuno di voi due osa guardarsi.
 
E il tempo passa, o forse no, perché non sai più che cosa fare. L’unica cosa che vuoi fare, ti è impossibile.
 
“Vorrei…” bisbigli “Vorrei corromperti” Non stai parlando direttamente ad Ayel perché sai che lui è ben consapevole di te e di tutto ciò che affolla i tuoi pensieri
 
“E’ impossibile…E’ impossibile per me redimerti. Ed è impossibile per te corrompermi”
 
Lasci che la frustrazione prenda il sopravvento, la tua aura si oscura e se non ci fosse Ayel vicino a te, sai che la città sarebbe andata in pezzi
 
Non sai che cosa devi fare e non ti accorgi che Ayel è vicino a te, molto vicino a te e che è lui a baciarti.
 
Non te lo aspetti, sei inerme di fronte a lui. E ti aggrappi alle sue spalle, ai suoi capelli per non lasciarlo andare.  C’è il suo sapore sulle tue labbra che ti disseta.
 
La luce e l’ombra non si amalgamano, nè s’infiltrano. S’intrecciano senza lasciare che l’una prevalga sull’altra.
 
Poi si disfano, perché è la natura delle vostre anime ad essere troppo diversa per permettere all’uno di portare via l’altro.
 
Fa un passo indietro, senza staccare gli occhi dai tuoi, poi si gira, definitivamente.
 
“Perché gli umani e non me?”
 
Bruciate! Ti sento gridare in silenzio, ma ugualmente aspetti la sua risposta, che non arriva.
 
Scuote la testa e i suoi capelli bianchi ondeggiano.
 
E’ finita perché se ne deve andare, perché sei un Sobilatore e i tempi in cui avevi accesso al Paradiso sono ormai terminati.
 
Non sei pentito, ma la nostalgia di lui è così intensa che te lo fa dire:
 
“Ti amo”
 
Ma lui non ti crede “Non è vero”
 
“Credimi!” ti aggrappi  al vestito sulle sue spalle
 
“Sei un Sobillatore, non posso crederti”
 
“Ma sono S…” cerchi fra le maglie della memoria il tuo nome. Sei sicuro che con quello lui ti crederebbe. Perché in Paradiso lui ti credeva. E in Paradiso tu avevi un nome che cadendo hai perso. Il tuo nome non esiste più e tu non puoi pronunciarlo. “Hai ragione… Sono solo Esse…”
 
Lui si volta a guardarti.
 
Non so se ti crede o meno, è un angelo troppo potente perché io, sciocca anima appartenuta ad un mortale, possa leggere il suo cuore. Ma si gira verso di te e ti guarda con occhi per cui spero che ti creda.
 
“Devo andare”
 
E poi scompare, lasciandoti solo e obbligandoti a tornare all’Inferno.
 
Perdo completamente le tue tracce quando entri l’Antro dei Dannati. Sento degli ululati provenire da laggiù, ma non so di chi siano e a che cosa siano dovuti.
 
Scompari alla mia vista e a quella di Ayel, che ti pensa, quando in realtà mostra il suo passato a mio fratello.
 
E’ una fiammella bianca che ricorderà alle loro menti offuscate quello che è successo e che racconterà perché Nathaniel non è tornato fra le braccia di chi amava.

 
***

 
43. Il tempo

 
 
 
 
La luce bianca nella stanza disperse parte del buio fitto che l’aveva invasa.
 
Intorno alla fiammella una mano, poi prese forma la figura di un uomo dai capelli lunghi e candidi .
 
“Questo è il passato” disse Ayel “ora vi appartiene”.
 
La loro coscienza parve disciogliersi in un mare conosciuto ma dimenticato. Matthias, Alec e Jude si ritrovarono ad essere osservatori e testimoni della loro stessa vita, anni prima.
 
 
 
Pioveva a dirotto, quel giorno, così come il giorno prima. Durante la notte aveva smesso, per un po’, ma il cielo non s’era schiarito e le nuvole non avevano dato accesso alla luna, che se n’era rimasta nascosta. Era una notte di luna piena, Aaron lo sapeva bene, senza la necessità di osservare le stelle.
 
Ed era una notte di luna nuova, l’ultima sera che Nero aveva trascorso con lui, la notte in cui tutto era finito.
 
Non era poi tanto tempo, eppure ad Aaron sembrava un’eternità. Il tempo era lento, i minuti, le ore, non passavano più. Bruscamente avevano rallentato il loro corso, camminando in avanti goffamente e fermandosi per riprendere fiato.
 
Il tempo non passava più.
 
La crescita della luna, il suo illuminarsi sempre un pochino di più sino al suo ultimo spicchio per dominare, piena, il cielo, era parsa infinita.
 
E invece erano passati così pochi giorni…
 
Aaron guardò fuori dalla finestra, avvolto in un mantello foderato. Aveva freddo.
 
Aaron sorrise. Sapeva benissimo il perché.
 
Il castello, il lavoro, le sue faccende… Ne aveva delegato sir Christopher, lui s’era ritirato nella sua biblioteca e nelle sue stanze e non aveva incontrato più nessuno, se non Natalie che, una volta al giorno, gli portava del cibo. La donna aveva cercato, all’inizio, di parlare col suo padrone, di persuaderlo a mangiare più di frequente, come faceva prima. Ma Aaron non le aveva risposto, l’aveva congedata con un gesto della mano. Natalie, dopo qualche giorno, aveva rinunciato, sapendo che non spettava a lei dire al proprio padrone che cosa fosse meglio fare.
 
Aaron non voleva fare nulla, persino leggere gli era diventato difficoltoso. Si limitava a guardare fuori dalla finestra la pioggia che cadeva. Si limitava ad aspettare che il tempo passasse.
 
Qualcuno bussò debolmente alla sua porta. Aaron aspettò che Natalie entrasse. Ma una volta aperta e, uditone il passo, si rese conto che la persona appena entrata nella stanza non era la serva.
 
Si girò di scatto.
 
“Padre!” sgranò gli occhi: ormai suo padre non usciva più dalle sue stanze da anni. Spesso s’era lui stesso chiesto se capisse quello che aveva intorno oppure se la vecchiaia non avesse completamente avuto la meglio sulla sua ragione.
 
Il vecchio fece qualche passo incerto, all’interno della stanza. Era ricurvo, appoggiato stancamente su un bastone. I pochi capelli bianchi che gli rimanevano in testa ricadevano disordinatamente, un po’ qua e un po’ là. La pelle sulle mani era violacea e a macchie. Avrebbe potuto passare per un moribondo. Ma, quando incrociò lo sguardo del figlio, i suoi occhi dicevano tutt’altro. C’era risolutezza e forza, forse nascosta dalla vecchiaia, ma non per questo dimenticata.
 
Aaron non capì perché il padre avesse deciso di alzarsi, ma si affrettò ad aiutarlo a chiudere la porta dietro di lui.
 
“Perché…?”
”Natalie m’ha detto che non esci più”
 
Aaron sorrise “Avessi saputo che questo ti avrebbe trascinato fuori dalle tue stanze, l’avrei sicuramente fatto prima”
 
“Non scherzare…” lo ammonì il vecchio “Sei troppo pallido per farlo”
 
“Non mi sento molto bene, ora mi passa…”
 
Il vecchio scosse la testa. “L’altro giorno sono venuti nelle nostre terre alcuni pescatori…”
 
“Lo so, li…”
 
“Li hai incontrati sì.”
 
Aaron aggrottò la fronte, come poteva il padre saperlo?
Il vecchio sorrise, triste.
 
“Venivano da un villaggio dove c’è la peste…”
 
Aaron annuì e lasciò che il padre continuasse, capendone benissimo le intenzioni.
 
“Due degli stallieri si sono ammalati”
 
“Allora dovresti lasciare la stanza”
 
Il vecchio sbatté sul pavimento il suo bastone, indispettito.
 
“Chi ti ha insegnato ad essere così irrispettoso?”
 
“Padre, io sono malato”
 
Il vecchio sospirò.
 
“Questo lo vedo. E vedo anche che non ti stai curando…”
 
Aaron alzò leggermente le spalle, sospirando. E’ vero, non aveva preso niente per quel senso di nausea e quel fastidio che provava da un paio di giorni…
 
“Perché?” gli chiese il vecchio.
 
“Me ne sono dimenticato” il biondo disse una mezza verità.
 
Il vecchio si sedette su una poltrona rivestita in velluto blu e ne accarezzò i bracciali prima di riprendere a parlare.
 
“Io so” disse poi semplicemente e senza rancore.
 
Aaron lo guardò con calma e poi chiese “E non mi dici niente? Non gridi?”
 
“Sono troppo vecchio per sgridarti. E tu sei troppo malato per sopportare un vecchio.” Esitò per un istante, insicuro su come il figlio avrebbe reagito “Stai morendo”
 
Ma Aaron non reagì, semplicemente, si appoggiò pesantemente con la spalla al muro, continuando a guardare la pioggia scrosciante.
 
“Se n’è andato…”
 
“E ti stai lasciando morire per questo?”
 
“Mi ha ingannato, padre. E io ho lasciato che lo facesse. S’è preso gioco di me e della tua casa. E io ho permesso che lo facesse. “
 
Fece una pausa, non voleva raccontare al padre di quanto amasse un uomo che, in realtà, aveva promesso di rimanere e poi se n’era andato subito - senza lasciargli il tempo di capire, né di persuadere. Senza lasciargli il tempo di parlare.
 
Non poteva dire a suo padre che sapeva che Nero non l’amava. Non solo non l’aveva mai detto, ma se solo l’avesse dimostrato un pochino, gli avrebbe lasciato una qualche speranza per il futuro.
 
Non poteva certo dire al padre che lo avrebbe perdonato se solo fosse tornato, se solo si fosse girato verso di lui una volta, prima di andare.
 
Se solo gliel’avesse chiesto.
 
Ma non l’aveva fatto, se n’era andato per continuare la sua vita altrove e per svuotare di significato tutte quelle parole che gli aveva detto, quei baci che gli aveva dato.
 
Non poteva certo credere a nessuno di loro. L’avesse fatto, l’avrebbe rincorso, si sarebbe aggrappato alla sua tunica e l’avrebbe implorato. Probabilmente sarebbe diventato un fardello, come Chiaro prima di lui.
 
Ma lui non era il fratello di Nero e non poteva esserne l’amante.
 
Il padre non disse niente e per un po’ nella stanza ritornò il silenzio.
 
“Sei pallido” disse il padre.
 
Aaron annuì, ma non rispose. Era ammalato e sapeva bene cos’era. Ma non era importante.
 
“Vieni qui” gli disse il padre, appoggiandosi la mano sopra le gambe.
 
Da piccoli, Aaron e William erano soliti sedersi sulle gambe del padre e ascoltarlo, mentre raccontava della sua gioventù e di tutte quelle storie che agli occhi dei bambini parevano fantastiche. Col passare degli anni, avevano smesso di sedersi sulle gambe, ma si sedevano ai piedi del padre, appoggiando la testa in grembo. All’inizio il vecchio non aveva voluto che i gemelli trattassero le sue gambe come quelle di una nutrice, poi s’era arreso alla caparbietà dei due.
 
Aaron guardò le gambe del padre, così sottili, anche sotto la pesante tunica e si sedette di fianco a lui, appoggiandovi sopra le testa.
 
“Lasciami per un po’ così…lascia…” strinse il tessuto fra le mani e non disse più niente.
 
La nostalgia che provava per Nero ritornò prepotentemente in superficie e Aaron lasciò i suoi occhi piangere, senza muoversi o fare rumore, mentre il padre rimaneva immobile.
 
In quella stanza silenziosa, il giovane ed il vecchio rimasero seduti. Non c’era nulla da fare, come da giorni ormai.
 
Il tempo trascorreva appannato e frastornato.
 
Aaron si chiese come aveva potuto essere così sciocco da lasciarsi ingannare e da permettere di innamorarsi.
 
Se lo chiese molte volte, ma lì con suo padre, come tutti i giorni precedenti, non trovò risposta alcuna.
 
 
 
 
 
Pioveva e il terreno, intriso d’acqua, emanava quell’odore di umido che gli era sempre piaciuto. Se si fosse voltato alla sua sinistra, avrebbe potuto vedere qualche casolare: le abitazioni alle porte di Londra. Nero e i suoi compagni, ormai, erano arrivati alla capitale. Ma Nero non osava voltarsi, non voleva vedere le mura, le case… Troppi i villaggi a ridosso della città, troppe le volte che s’era chiesto se davvero poteva andare avanti…
 
E ora si ritrovava lì, di fronte a Londra, lontano da tutto.
 
Aspettò che il sole calasse definitivamente prima di entrare nella locanda dove avrebbero passato la notte. Vide i suoi uomini fare baldoria a suon di musica, nello stanzone  dove avevano cenato, mentre lui si diresse verso le scale, per andare a dormire.
 
Sarebbe sorto un altro giorno: Nero sperava che dormendo, il tempo sarebbe trascorso più velocemente. Ma sapeva che neanche quella notte avrebbe dormito un sonno tranquillo, come ormai non faceva più di settimane. Non trovava tregua, rimaneva in un dormiveglia agitato per tutta notte, finché i primi raggi del sole non illuminavano il cielo.  E poi a cavallo, per lasciarsi portare verso la città, senza pensare o dire niente, perché non c’era niente né da pensare né da dire.
 
Lasciava semplicemente che il tempo scorresse.
 
“Nero, non ti unisci a noi?” Chiaro aveva notato Nero rientrare e gli era corso dietro quando aveva visto che suo fratello, anche quella sera, non avrebbe cenato.
 
Nero non rispose, scuotendo la testa.
 
“Ma non hai neanche mangiato un tozzo di pane…”
 
Nero guardò Chiaro come se non capisse il fine di quella conversazione.
 
“Non parli, non dici niente, non mangi neanche più! Sono preoccupato..:”
 
Nero gli voltò le spalle, riprendendo a salire le scale. “Non ho fame”, ma Chiaro non demorse
 
“Nero!”
”Non ho fame” tagliò corto l’altro.
 
“Che cos’hai? Sei pallido, non hai più appetito, cavalchi sempre lontano da noi e non parli… Sei malato?”
 
“Sto benissimo” rispose Nero monotono “Sono solo stanco”
 
Voltò le spalle a Chiaro definitivamente e si diresse verso la propria stanza, non dando la possibilità al fratello di dire un’altra parola.
 
Chiaro rimase fermo, sulle scale, perso nei suoi pensieri.
 
Era da quando erano partiti da Castel Thurlow che Nero non parlava, non rideva, non faceva nulla se non rispondere a monosillabi quando gli era indispensabile. Non passava le serate con loro, era completamente diverso.
 
Aveva chiesto a Cencio il perché, secondo lui, il fratello si stesse comportando così. Ma l’italiano era stato elusivo. Forse – probabilmente – neanche lui ne conosceva il motivo.
 
Che cosa c’era, nel castello in Cornovaglia, che Nero desiderava così tanto?
Chiaro era stato molto felice quando, finalmente, erano partiti.
 
 Il congedo era stato piuttosto frettoloso, ma perché indugiare? Aveva pensato che, finalmente, tutto sarebbe ritornato come prima. Non si faceva più grandi illusioni sul loro ritorno a casa, ma almeno, sul suo cavallo, Nero ritornava ad essere il fratello amato. Il fratello conosciuto.
 
Come s’era sbagliato!
 
Nero, partito da Castel Thurlow, era diventato l’ombra di sé stesso. Una sola volta Chiaro aveva provato ad accennargli che, forse, davvero era ora di tornare a casa. Nero l’aveva aggredito con tale veemenza, che Chiaro temette avrebbe iniziato a prenderlo a pugni. Era stata una reazione completamente nuova e inaspettata.
 
 
 
Chiaro si diresse verso la sua camera. Ormai il suo umore non gli permetteva di ritornare coi propri compagni.
 
Entrato nella sua stanza, Chiaro vide quel libercolo nero che aveva preso dalla libreria di Castel Thurlow e che non aveva restituito.
 
Già… Quel libro, forse, poteva aver la chiave per risolvere i suoi problemi, per quanto Chiaro fosse incredibilmente scettico a riguardo.
 
Lo prese in mano e lo guardò, quasi lo vedesse per la prima volta.
 
Che cosa avrebbe fatto Nero al suo posto?
Probabilmente si sarebbe messo a ridere e l’avrebbe gettato. Anzi, Nero probabilmente non l’avrebbe neanche rubato. Ma lì dentro sembrava esserci la chiave per far tornare Nero quello che era un tempo: il suo capo e suo fratello, Per convincerlo che non esiste altra casa se non la propria. E per far sì che lo amasse un po’ di più. Solo un po’. Così da essere sicuro che Nero non lo lasciasse mai indietro.
 
 
 
Persuaso dai suoi stessi pensieri, Chiaro aprì il libro alla pagina dove aveva lasciato il segno. E la rilesse nuovamente.


 

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Capitolo 44
*** 44. Il patto ***


44. Il patto

 
 
 
 
“Ma quanta polvere.. quanta fastidiosa polvere sulle mie povere mani”
 
Chiaro guardò la figura che aveva appena parlato, con occhi sgranati.
 
Era una donna giovane, dai capelli neri e lucidi, lunghi fino alla vita. I suoi vestiti erano a dir poco discinti, così aderenti alle sue forme perfette da non lasciar nulla alla fantasia. Il seno prosperoso sembrava quasi stare stretto in quel corsetto rosso  che lo imprigionava. Le gambe, nude, erano avvolte da un sottile velo trasparente, nero, che Chiaro non riuscì a non guardare. Ma fu quando il suo sguardo si posò sulle labbra piene e carnose della donna che si accorse di non riuscire a controllare il respiro e di provare innominabili pulsioni provenienti dal basso ventre.
 
“Mi vuoi, non è vero?” disse Esse avvicinandosi felino. “Mi puoi avere lo sai…” la sua voce era morbida e seducente e Chiaro non voleva altro. La donna prese la mano dell’uomo e se la posò sul seno, slacciandosi un gancino del corsetto. “Mi puoi avere…” ripeté, sedendosi a cavalcioni su Chiaro che  sentiva la mano bruciare, sotto l’incontrollabile impulso di possedere quella donna. Quanto sarebbe stata calda? Quanto avrebbe gridato, una volta…
 
La donna si fermò d’improvviso:
 
“Fra tutti, proprio te dovevano mandare?”
 
Chiaro sentì una voce rispondere.
 
“Se un Sobillatore è chiamato da un umano, non potevano certo lasciarti solo…”
 
La donna si strinse nelle spalle e si allontanò da Chiaro che ancora non capiva e guardava confuso quelle labbra turgide, che avrebbero dovuto essere sue, e un angolo della stanza, da dove aveva sentito provenire  la voce.
 
Proprio lì, prese forma la figura di un uomo, alto, ammantato di bianco. I suoi capelli, bianchi anch’essi, parevano lucenti. Nonostante Chiaro non avesse dubbi sul fatto che si trattasse di un uomo, quella figura gli apparve così aggraziata da chiedersi da dove mai potesse provenire.
 
“Non ti fare troppe domande, sciocco” gli disse la donna “viene da un luogo troppo lontano per te. E quindi” proseguì poi rivolta alla figura bianca “dimmi Ayel, come c’entri in tutto questo?”
 
Il tono della sua voce era molto infastidito.
 
“Il cerchio” disse l’altro con estrema calma, indicando il cerchio disegnato da Chiaro “ha falle da tutte le parti. Ma anche un cerchio ben disegnato non ti avrebbe certo contenuto”
 
La donna roteò gli occhi: “Che saputello…”
 
Ayel proseguì, rivolto all’umano che aveva cominciato a tremare: “Fai bene ad aver paura. Ma sarebbe stato meglio che la tua paura avesse fermato i tuoi gesti prima di invocare un demone come Esse”
 
“E chi sarebb...”
 
Ma la donna si voltò verso Chiaro leccandosi le labbra “Chi vuoi che sia?” Poi sospirò, quasi fosse sconfitto “Il povero umano non sapeva a che cosa andava incontro. Avrebbe dovuto invocare un normale Raccoglitore, che avrebbe fatto il suo dovere. Ascoltato il suo desiderio, barattato qualcosa in cambio. E basta. E invece” allargò le braccia melodrammaticamente “ Sono comparso io”
 
Ayel guardò la donna: “Devi aver fatto qualcosa di veramente terribile perché Lucifero ti affidasse un compito così umiliante, per uno come te”
 
Esse sospirò: “Sarà, ma questo è il mio ultimo compito, poi potrò finalmente tornare a casa, nel cerchio dei Sobillatori, che m’appartiene… E poi “proseguì “ non avrei avuto l’onore di lavorare con te”
 
Le due figure non parlarono per un pochino e Chiaro rimase fermo immobile a guardare, non capendo assolutamente quello che stava succedendo. Ayel se ne accorse.
 
“Hai invocato un demone per esprimere un desiderio, persuaso che questi possa risolvere la tua vita. Invece di un demone qualunque, è venuto Esse che, se non fossi qui io, t’avrebbe sicuramente già sbranato, infischiandosene del tuo cerchio disegnato male o dei tuoi desideri…” gli spiegò freddamente.
 
Chiaro sgranò gli occhi.
 
“Ma il libro…”
 
“Il libro dice stupidaggini. E’ scritto da un uomo, perciò estremamente limitato…”
 
“Ma ora tu sei qui…” aggiunse Chiaro con un filo di speranza, estremamente pentito di quello che aveva appena fatto.
 
“Ma non farò nulla…”
 
“Non farai nulla?”
 
“Vedo benissimo il tuo pentimento, ma non ne posso prendere atto…”
 
“Né tanto meno” lo interruppe Esse “gli interessa farlo. Sai, tutte queste dicerie sugli angeli buoni e altruisti… Tutte fandonie!” e rise, divertito.
 
“Un angelo?”
 
“Se abbiamo finito con le presentazioni “ disse Esse spazientito “possiamo passare al lavoro… Dimmi che cosa vuoi” Il demone guardò Chiaro attraverso le sue ciglia, lunghe e nere e quegli occhi verdissimi che Chiaro non riusciva a smettere di desiderare.
 
“Voglio… Voglio…” Chiaro  deglutì, nonostante avesse la bocca secca. “Voglio…Nero”
 
Esse scoppiò a ridere, fragorosamente “Lo sai che questa frase dà adito a tante interpretazioni…”
 
“No, no…Io voglio che Nero torni ad essere mio fratello…”
 
“Ma lui non è tuo fratello”
 
“Certo che è mio fratello!” protestò Chiaro.
 
“Che ingenuo… “ Esse si strinse nelle spalle “ma ti capisco , ti capisco…” e sorrise, schernendolo.
 
Chiaro deglutì di nuovo, schiacciandosi contro lo schienale della sedia su cui era seduto, intimorito e sedotto da quella donna di fronte a lui.
 
“Non sopporto più i suoi silenzi, le sue distrazioni…Io voglio che dimentichi Castel Thurlow, voglio che dimentichi la sua fuga, voglio che dimentichi…”
 
“Vuoi che dimentichi parte della sua vita?”
 
“Beh, sì…” Chiaro si strinse nelle spalle “Non che proprio dimentichi…”
 
“Ma lui non è mai stato bene a casa, questo lo sai, come puoi pensare che se dimenticasse parte della sua vita sarebbe felice di rimanere con te? Perché è questo che vuoi, che stia con te, che sia felice e che smetta di cercare..”
 
“Sì! SI” Chiaro quasi gridò “Che la smetta di cercare qualcosa che non esiste, che la smetta di avere quegli occhi tristi, quello sguardo perso! Che sia felice quando siamo insieme, che smetta di pensare che un posto insulso come Castel Thurlow possa davvero diventare la sua casa!! Che smetta di essere sereno solo quando parla con uno storpio...”
 
“Che la smetta di essere sereno?” Esse alzò il sopracciglio, volutamente fraintendendo le parole appena dette da Chiaro, ma Chiaro non capì l’inganno.
 
“Sì, che mi voglia bene…” disse in un soffio, quasi esausto di troppe parole, per le troppe volte che in cui s’era trovato a pensarle “Voglio che non sia così stanco quando mi parla, che …” si mise le mani nei capelli “Che…” senza rendersene conto, iniziò a piangere e la voce gli si spezzò.
 
“Esse” intervenne Ayel “sai benissimo cosa vuole”
 
“Vuole ce cambi l’animo di Nero che...”
 
“Voglio essere quello che, in poco tempo, è diventato Lord Thurow” disse  Chiaro.
 
Esse e Ayel lo guardarono per un istante, insolitamente stupiti, poi Esse scoppiò a ridere e, persino Ayel non riuscì a trattenere un sorriso.
 
“Tu non hai idea di quello che stai chiedendo… Tu non lo sai davvero”
 
Chiaro lo guardò con aria interrogativa ed Esse non poteva chiedere invito migliore. Si avvicinò seducente all’umano, accostando pericolosamente alla sua bocca alla propria.
 
“Vorresti davvero diventare l’amante di tuo fratello?” si morse le labbra umettandosele “Vorresti davvero che le sue labbra sfiorassero le tue e che la sua voce chiamasse il tuo nome quando lo tieni fra le tue braccia?”
 
Chiaro non riuscì a capire, non volle capire. La voce di Esse gli era addosso, il suo alito nell’orecchio. Che cosa poteva fare? Cercò di divincolarsi.
 
“Cosa stai dicendo? Che…”
 
“Sto esattamente dicendo quello!”
 
“Menti, demone, Nero non farebbe mai una cosa così orribile e disgustosa!”
”E invece…” Esse sorrise.
 
“E tu…” Chiaro era in preda al panico “TU!” indico Ayel “Non hai niente da dire? Rimani lì a guardare, ma non inorridisci di fronte a quello che è stato appena detto?”
 
Ayel lo guardò,  sospirando.
 
“Non c’è nulla per cui inorridire”
 
“Ma è vietato! E’ contro natura? Perché Nero?”
 
“Non è vietato dal cielo, questo è certo”
 
“E’ vietato di Dio!”
 
Al che Esse, di nuovo, scoppiò a ridere.
 
“Mai avrei pensato che questo umano potesse essere così divertente! Vietato da Dio…Che cosa ne vuoi sapere tu? “
 
Chiaro tremò.
 
“Non ne sai niente. Gli uomini l’hanno vietato, ma Dio vieta ben poche cose e di certo non vieta l’unione di due amanti”
 
Chiaro non trattenne un conato di vomito: il panico e l’agitazione che l’avevano pervaso sembravano incontrollabili. Ayel prese la parola.
 
“Gli uomini hanno frainteso, volutamente, la volontà di Dio. Il loro amore non  un peccato, agli occhi del mio Signore” Chiaro tremò.
 
“E quindi, caro il mio umano” Esse gli passò una mano fra i capelli “Ora che sai che ti è permesso farlo, vuoi Nero per te?”
 
“NO! No! Io non posso… Io voglio… Io…” le lacrime ripresero a scorrergli sul viso “Io voglio che dimentichi tutto, che dimentichi Lord Aaron, il suo castello, tutto. Voglio mio fratello, come quando giocavamo a casa nostra… io voglio…”
 
Esse lo zittì “Basta così, basta con questi io e con questi voglio. So fin troppo bene cosa vuoi. Ora parliamo di quello che hai tu da offrire in cambio”
 
Chiaro s’irrigidì.
 
“Suvvia, non hai certo creduto che esistesse qualcosa che io potessi fare per te senza un mio tornaconto personale, mi sbaglio?”
 
“Non è la mia anima che vuoi?”
 
“La tua anima è già mia. Che cosa pensi che me ne faccia, quando già l’Inferno è stracolmo di dannati?”
 
“E’ già tua?”
 
“Beh” disse Esse con estrema sufficienza, quasi stesse parlando ad uno stupido “ Il chiamarmi qui per voler completamente cambiare l’animo e la mente di Nero non è proprio un’azione da santi” poi sorrise “Proprio no”
 
“E allora, che cosa vuoi?”
 
“Voglio l’anima di Aaron”
 
“Che cosa?”
 
“Mi hai sentito, voglio l’anima di Aaron”
 
Chiaro esitò “Perché? Che differenza fa? Perché la sua?”
 
“Ma allora sei proprio cieco?” Esse sospirò “Non hai notato la grazia in cui cammina. Non hai notato la gloria che lo circonda? E’ un prescelto di Dio – come lo chiamate voi umani. La sua anima brilla come quella di nessun altro. Avere un tale gioiello e una tale luce nel nostro regno, renderebbe molto felice il mio signore.”
 
“E come posso darvi la sua anima?”
 
Esse sorrise poiché Chiaro, ormai, era alla sua mercé. Non c’era più salvezza, né perdono.
 
“Fagli firmare questo foglio.” Nelle sue mani si creò un foglio bianco, traslucido “Usa qualunque metodo, qualunque stratagemma tu preferisca. Se Aaron metterà la sua firma qui sopra, la sua anima sarà nostra e quella di Nero tua. Potrai servirtene a piacere”
 
Chiaro aggrottò la fronte “Basta che firmi, posso farlo sembrare qualunque cosa”
 
“Aaron dovrà sapere che sta firmando qualcosa che durerà per sempre, che non sarà temporaneo. Non puoi ingannarlo facendogli firmare un biglietto d’auguri…” Esse sorrise “ma puoi ingannarlo comunque. Confido nella tua astuzia”
 
Chiaro prese il foglio tremando “E Nero farà quel che voglio…”
 
“Purtroppo ora non hai più tempo”
 
“Che cosa vuoi dire?”
 
“Aaron sta morendo, la sua vita su questa terra sta per finire”
 
Chiaro fu preso dal panico.
 
“Non ti preoccupare, con quel foglio avrai la possibilità di riavere sulla terra Aaron, oltre a Nathaniel insieme a te, non subito, ma sono certo che saprai aspettare” Esse sorrise e poi si coprì la bocca, come se si fosse dimenticato di dire qualcosa di molto importante “Ricordati che se Nero tornerà da Aaron in questa vita e se parleranno, dissipando i loro dubbi, quel foglio non avrà più valore”
 
“Ma Nero non tornerà in Cornovaglia” si affrettò a dire Chiaro.
 
“Questo io non lo so” Esse sorrise, di uno di quei sorrisi melliflui di chi sa molto di più di ciò che dice ”Ora devo andare, ricordati il patto. Non potrai mai rescinderlo, non potrai mai cambiare idea. Solo Aaron potrà farlo, strappando personalmente il foglio. Ma tu cerca di non farglielo fare” Il demone rise, iniziando a scomparire.
 
“Aspetta, ma il patto di sangue..?”
”Il patto di sangue? Con te? Il patto è stato suggellato nel momento in cui m’hai chiamato. Del tuo sangue non me ne faccio proprio niente!”
 
Scomparve del tutto, lasciando il suo odore, così come scomparve Ayel, senza dire una parola.
 
La stanza rimase vuota e Chiaro dovette accovacciarsi per terra per non vomitare.
 
Guardò il foglio, a lungo, finché una strana sensazione non gli pervase prima l’animo, poi tutto il corpo. Chiaro cominciò a ridere: si sentiva estremamente potente.
 
Per la prima volta in vita sua aveva le armi necessarie per fare ciò che lui voleva, senza interferenze, senza che nessuno potesse giudicarlo.
 
Che cosa importava se Aaron non meritava l’Inferno? Lui forse s’era meritato quella vita passata ad inseguire un fratello che non s’era mai voltato ad aspettarlo?
 
Finalmente! Finalmente esisteva solo la sua volontà. Si trattava di far firmare un foglio ad Aaron, in un’altra vita. Avrebbe aspettato, così finalmente lui avrebbe vinto. E Nero avrebbe dimenticato quell’essere inutile e non si sarebbe macchiato più di un’azione tanto ignobile. In fondo – Chiaro ne era certo – Nero sarebbe stato grato al fratello perché lo stava salvando dalla perdizione.
 
L’uomo appoggiò il foglio sul letto e si alzò sollevando le braccia al cielo.
 
 
 
 
 
Ormai lontano, il vento soffiava.
 
“Hai mentito. Non è vero che se Aaron e Nathaniel si rivedranno, il patto perde di valore”
 
“E’ vero” sorrise Esse “ma quello sciocco m’ha creduto. Domani sarà una giornata molto divertente”
 
Ayel lo guardò e si chiese se veramente l’umano avrebbe fatto – il giorno dopo - quello che sia lui sia Esse si aspettavano facesse.

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Capitolo 45
*** 45. Rimetti a noi i nostri debiti ***


45. Rimetti a noi i nostri debiti


 
 
 
 
Non smetteva di piovere. La pioggia era scrosciante ed insistente, il vento ululava, ma nessun orecchio umano sembrava capire i suoi lamenti.
 
Nero stava sellando il cavallo, nel modo che tanta meraviglia aveva generato in William.
 
Si chiese come stesse il ragazzino. Pensare a lui equivaleva pensare ad Aaron e quell’uomo non lo lasciava mai solo.
 
L’addio era stato freddo e immobile, di pochissime parole. Si chiese perché avesse sbagliato così grandemente. Era scappato, non riuscendo a gestire se stesso, temendo di cadere ai suoi piedi incapace di fare qualcosa, Nero se n’era semplicemente andato. Il cavaliere poteva solo immaginare quanto questo avesse potuto ferire il suo amante. Conoscendolo, Aaron probabilmente aveva messo in dubbio i  sentimenti del moro. Non gli aveva mai detto di amarlo, del resto. Il biondo gliel’aveva detto mille volte.
 
Nero sorrise, sconfitto. Quelle parole gli risuonavano in testa come unica salvezza: Aaron non aveva neanche quelle.
 
Era stato un codardo, forse. O forse non era stato in grado di affrontare qualcosa che non conosceva ed era stato travolto.
 
Guardò verso Londra, ormai mancava così poco…
 
Poi si voltò, verso casa sua. Avrebbe impiegato una settimana al galoppo, per tornare. Forse doveva, forse gli altri avrebbero capito. Forse anche lui si sarebbe salvato.
 
 
 
“Noi siamo pronti, aspettiamo una tua parola”
 
Nero si voltò vero Luppolo, aprendo la bocca. Avrebbe voluto chiedergli che cosa fare, ma non disse nulla. Luppolo non avrebbe avuto nessuna risposta.
 
Annuì e guardò dietro le spalle del compagno, per vedere gli altri cosa stessero facendo.
 
C’era poco movimento in strada, qualche carrozza che affrettava il passo, ma per lo più uomini che  correvano da una parte all’altra della strada, cercando di coprirsi alla bell’e meglio.
 
Nero vide che un bambino si era fermato vicino ai suoi uomini. Lo squadrò, ma non gli parve di riconoscerlo: non era nessuno dei ragazzini che aveva incontrato, non era il figlio del mugnaio, né dell’oste…Perché s’era fermato lì sotto la pioggia battente?
 
“Ti ammalerai ragazzino” gli disse, avvicinandosi a lui.
 
“Notizie per un mezzo centesimo, signore. Porto notizie della peste”
 
“Che la peste sia a Londra non è più notizia!” gli fece notare Forgia
 
“Non solo a Londra, Signori” e poi tese la mano, in attesa del suo denaro
 
“E perché dovrebbe importarci dov’è arrivata la peste, se è a Londra che ci stiamo dirigendo?”
 
“Potrete sapere se i vostri cari sono minacciati, o se i vostri nemici sono finalmente sotto terra…” Il bambino continuava a tenere la mano tesa, che raccoglieva pioggia. Nero lo guardò, guardò i suoi vestiti dimessi e quegli occhini azzurri che lo fissavano, senza paura.
 
La peste, dov’era arrivata?
C’era un qualcosa, un presentimento in lui, che gli diceva di ascoltare quel ragazzino, di pagarlo per farlo parlare.
 
Estrasse una moneta dalla tasca e l’appoggiò sulla mano del bambino. L’acqua sul palmo schizzò e le  gocce dal cielo cedettero sul metallo. Nero ebbe la sensazione di vivere quella scena lentamente, goccia dopo goccia, quasi  suoi sensi volessero ritardare – ma allo stesso tempo volessero udire – le parole del ragazzino.
 
Goccia dopo goccia, Nero fu costretto ad alzare lo sguardo e guardare quel bambino che ora avrebbe dovuto parlare.
 
“Grazie signore. La peste è giunta a Suffolk, nell’East Anglia. I casi dubbi riportati sono una decina, ma ormai la popolazione è certa che la Morte Nera sia arrivata sin lassù. Anche l’Oxfordshire, il Warwickshire, il Northamptonshire, il Buckingamshire e Berkshire  sono ormai stati colpiti. Pare che a Nord, nello Yorkshire, non ci sia stato ancora nessun caso di peste, ma ormai sono tutti sicuri che prima o poi raggiungerà anche quella zona”
 
“E in Scozia? Sai qualcosa della Scozia, ragazzino?”
 
“Non ho notizie certe né da Edimburgo, né da Glasgow signore. Non ho sentito nulla a riguardo. Ma le notizie arrivano tardi quaggiù, e non saprei dire quindi cos’è successo nelle ultime settimane”
 
“E l’Ovest? Che ne è di St. Ives?”
 
Il ragazzino sorrise, sapeva bene la risposta questa volta. “Ci sono centinaia di casi riportati in tutta la Cornovaglia, signore. St. Ives, ormai è al centro della piaga”
 
Nero sgranò gli occhi: la peste aveva raggiunto la Cornovaglia…
 
“Stai mentendo, ragazzino” gli disse Cencio “Eravamo laggiù fino a poche settimane fa, e non si sentiva di nessun caso riportato!”
 
“Dicono che sia arrivata in un villaggio di pescatori e che da lì, si sia poi diffusa”
 
“E queste sono notizie certe?” Nero non aspettò che il ragazzino gli rispose, ma alzò gli occhi al cielo alla ricerca di Cleto. Doveva sentirlo da lui, avrebbe potuto credere solo al falco.
 
Perché se davvero St. Ives e la Cornovaglia intera erano sotto il morso della peste, questo significava sicuramente che Aaron si sarebbe preso personalmente cura dei malati. Aaron non avrebbe negato nessuna delle sue conoscenze a chiunque gliele avesse chieste.
 
E questo probabilmente voleva dire che Aaron stesso s’era ammalato.
 
Cleto sembrava introvabile.
 
 
 
 
 
Ormai la febbre era altissima, ma Aaron non aveva voglia di alzarsi e prendere le erbe che sapeva l’avrebbero abbassata. Non voleva fare più nulla, semplicemente aspettava di morire.
 
E piangeva, questo sì, perché aveva paura di essere così solo, aveva paura di soffrire e aveva paura che il suo cuore si fermasse prima che la malattia avesse il definitivo sopravvento su di lui. Aveva chiesto a Cleto di andare da Nero e domandargli, di implorarlo di tornare. Aveva fatto una cosa veramente sciocca, perché sapeva che il cavaliere si sarebbe trovato in una situazione difficile. Avrebbe dovuto abbandonare i suoi uomini e dare loro una spiegazione. Era stato molto egoistico da parte sua, ma stava morendo, non poteva forse permettersi un ultimo desiderio?
 
E l’unica cosa che voleva in quel momento era dire a Nero che lui non voleva: che lui non voleva che il cavaliere se ne andasse così, che non voleva riempirlo di parole e di baci, che non voleva ricordarlo, che non voleva…
 
Voleva solo vederlo. Un’ultima volta.
 
Si era stupito nel vedere Cleto fra le sue mura, pensava che il falco volasse esclusivamente con il suo padrone. Invece lo stesso Cleto sentiva nostalgia di quelle terre ed era tornato per rivederle. Non avrebbe saputo dire quando e se il suo padrone sarebbe tornato, quindi, prima di entrare a Londra, Cleto aveva preferito salutare il cielo che, sebbene per poco, era stato casa sua.
 
Aaron aveva ingenuamente sperato che, con Cleto, anche Nero fosse tornato. Ma la strada, via terra, non gli avrebbe mai permesso di essere così veloce. E così aveva mandato Cleto a chiedergli di tornare, anche solo per farlo felice una volta.
 
Erano passato due giorni, da quando il rapace aveva spiccato il volo da quella finestra e s’era diretto a Londra. Da allora non aveva avuto più notizie. Aaron sapeva che era presto per volerle, tuttavia non riusciva a non pensarci e sperare che il tempo, quel tempo maledetto che si prendeva gioco di lui, passasse ora più velocemente che mai. Che lo portasse a morte prima, se era necessario, ma che gli riportasse Nero.
 
E se il cavaliere non avesse più voluto tornare? Anche questo era possibile e, in fondo al proprio cuore, Aaron sapeva che era probabile. Era sciocco darsi un secondo addio, era inutile. E Nero era stato chiaro: non sarebbe tornato. Le parole di Aaron probabilmente non l’avrebbero persuaso.
 
Guardò fuori dalla finestra, il cielo si stava schiarendo e i raggi di sole illuminavano timidamente la stanza.
 
Quanta fatica sprecata…
 
 
 
Aspettare, che senso aveva?
Aspettare per poi credere ad un demone bello e seducente come Esse…
 
Chiaro si rese conto di non poter fare altro.
 
Voleva subito che il suo desiderio si avverasse e voleva che tutto quello che gli era stato raccontato sparisse.
 
Voleva che Aaron sparisse, perché era colpa di Aaron se suo fratello non capiva che ciò che faceva era sbagliato.
 
Voleva che Castel Thurlow sparisse dalla mente di tutti i suoi compagni e soprattutto dalla mente di Nero.
 
Voleva che ogni velleità di fuga, e di questa fantomatica libertà si sciogliesse sotto la luce dell’evidenza che quella non era né fuga né libertà, ma semplicemente la negazione dell’unica cosa vera che tutt’e due avessero mai avuto: una casa.
 
Ma tutto questo – così Esse aveva detto – era impossibile.
 
Poteva fidarsi? Chiaro capì subito che non poteva fare altrimenti.
 
Che cosa ne avrebbe perso? Nulla, se il demone avesse mentito. Non aveva barattato la sua anima, non aveva dato niente in cambio, se non la promessa dell’anima di Aaron. La sua anima, Esse aveva detto, era già di Lucifero. Ma a questo Chiaro non credeva – o forse non gli importava più di tanto. Sapeva che Dio perdona e che è misericordioso. Forse avrebbe perdonato anche lui per qualcosa che, in fondo, non era necessariamente malvagio. Non avrebbe ucciso nessuno, non avrebbe puntato una spada alla gola di Aaron per imporgli di firmare. Se Lord Thurlow fosse stato così sciocco da farlo, non era certo affar suo.
 
 I suoi pensieri vennero interrotti dal nitrito di un cavallo.
 
“Che cosa stai facendo?”
 
“Torno indietro”
 
Chiaro non udì bene le parole di Nero tanto il sangue gli premette rumorosamente contro i timpani. Tornare indietro? Che cosa significava?
”Che cosa vuoi dire?”
 
“Devo accertarmi che stia bene…”
 
“Non starai tornando da Lord Thurlow…”
 
Ma Chiaro sapeva già la risposta. Sentì il proprio cuore accelerare spinto dall’agitazione che si faceva strada nella sua mente: Nero non poteva tornare in Cornovaglia.
 
“Ma ormai siamo a Londra”
 
Nero scosse la testa e iniziò a camminare lungo la strada che portava fuori dal villaggio dove avevano passato la notte.
 
“Aspetta, fermati!”
 
Ma Nero non si fermò “Ho già parlato con Luppolo, andrete voi a Londra, io vi raggiungerò in seguito”
 
“E quando ci raggiungerai? Tu non tornerai più!”
”Se davvero non tornerò più non è affar tuo”
 
“Nero, cerca di essere ragionevole!”
Ma non c’era ragionevolezza negli occhi di Nero, Chiaro poteva vedere solo panico, una paura incontrollabile, ma così diversa dalla sua…
 
Gli corse dietro, Nero non accennava a fermarsi.
 
“Ci andiamo dopo aver parlato col re. Vieni a Londra con noi…”
 
“No, Chiaro, ho sbagliato ad andarmene. Non avrei dovuto. Sapevo che…”
 
Ma Chiaro perse le staffe e lo interruppe, gridando:
 
“Sapevi che cosa, Nero? Sono io che so che cosa hai fatto lì!”
Nero lo guardò interdetto, non capendo.
 
“Non fingere di non sapere, Nathaniel!” Quel nome, pronunciato con quella violenza, fece correre un brivido lungo tutta la schiena di Nero.
 
E questo fu la definitiva rottura. In quell’attimo, probabilmente, tutto si dissolse.
 
“Non pronunciare mai quel nome”
 
“Altrimenti? Altrimenti cosa succede? Dimmelo Nero” gli gridò contro Chiaro pur non osando ripetere il nome del fratello “Che mi lasci solo? Che finisce a pugni? Che cosa può succedere di peggio che il vederti in totale balia di uno storpio che nulla ha fatto, ma ti ha chiaramente adombrato la ragione!”
 
Nero afferrò Chiaro per la maglia, a pugni stretti.
 
“Devi smetterla, Chiaro. Il tuo mondo non può essere il mondo degli altri e io sono stanco di farti da balia. Trovati un’altra occupazione se non quella di piangere se le cose non vanno come vuoi tu”
 
Chiaro ebbe un conato di vomito: mai Nero gli aveva parlato così.
 
Ma l’ira prevalse e strattonò Nero perché questi lasciasse la presa, poi gli punto un dito in faccia: “Sei tu quello che ti sbagli, sei tu quello che non capisce e corre dietro alla sottana di un perfetto sconosciuto!”
 
Chiaro fu colpito in viso così violentemente  da vacillare e perdere l’equilibrio. Il sapore del suo sangue gli investì i sensi. Avrebbe gridato, ma era troppo arrabbiato per farlo. Avrebbe pianto, ma era fin troppo disperato. Non c’era davvero modo di mettere un po’ di ragione in quella testa?
 
“Nero per favore…” si sentì supplicare.
 
“Non c’è da dire per favore, Chiaro. Né da fare nulla. Tornerò indietro, perché ho sbagliato ad andarmene. Per paura di quello che avresti potuto fare, ho scelto di fare la cosa peggiore. Per paura che non avresti capito, ho dato ascolto ad una ragione che non ha senso di esistere.” Nero sembrava sfinito “Lasciami andare, Chiaro, ti prego.” Nelle sue parole non c’era più nulla della rabbia di poco prima “Lasciami andare. Tornerò, ma ora non posso andare dal re nello stato d’animo in cui mi trovo. Devo…” poi sospirò, cercando di ritrovare nella persona davanti a lui quel fratello che amava “Devo andare e chiedergli di perdonarmi. Devo assicurarmi che stia bene… Lasciami andare, Chiaro”
 
Non attese risposta, ma voltò le spalle al fratello, ricominciando a camminare per portare il cavallo sulla strada che l’avrebbe riportato a casa.
 
Non guardò più Chiaro, non lo salutò, semplicemente si voltò, per incamminarsi lungo la strada che lui aveva scelto per se stesso. Luppolo avrebbe fatto un buon lavoro e lui sarebbe tornato. Quello non era un addio, solo un arrivederci. Era troppo importante rivedere Aaron, parlargli, spiegargli e stringerlo.
 
Ma Chiaro non poteva lasciarlo andare. Esse gli aveva detto che se Nero avesse rivisto Aaron tutto sarebbe stato inutile e perso. I suoi desideri, le sue speranze… Tutto si sarebbe infranto e per lui non ci sarebbe stata alcuna possibilità.
 
Del resto, se lui l’avesse avuta vinta, se i suoi desideri si fossero avverati, Nero non ne avrebbe sofferto, no? Sarebbe stato felice, con una vita diversa. Forse, sarebbe stato più felice.
 
 
 
La spada di Chiaro trafisse il petto del fratello. Gli penetrò le spalle e raggiunse il cuore.
 

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Capitolo 46
*** Amen ***


Siamo arrivati alla fine di questo (lungo) racconto. Grazie a tutti per avermi seguito fin qui, per le vostre parole e i vostri commenti. Grazie di tutto, davvero. Scriverò personalmente a tutti (a Sandy, a _picci_, a Nelith...), ma ho preferito prima postare l'ultimo capitolo, poi rispondervi. 
Per non lasciarvi in dubbio, per vedere se anche la conclusione è degna delle vostre aspettative. 
Ultima piccola nota prima di concludere, Liberaci da Male ha un brevissimo (ed intenso) spin off su Ayel e Esse che posterò a breve. Come si dice "stay tuned".
BaciniBacini. A presto!



Amen
 
 
 
 
 
Si accascia per terra e grida. Lui, Caino.
 
Le grida di disperazione che giungono fin qui, tu non le sentirai. Né le sentirà Nathaniel, che ha smesso di ascoltare.
 
Si accascia e grida, lui  inutile e vile. Odioso, come non m’è permesso pensare  nella luce del Paradiso. Per cosa grida? Per aver ucciso il fratello?
Forse grida di pentimento. Ma io non credo. No. Le sue grida sono di disperazione, ma sono diverse.
 
Non è riuscito ad avere ciò che desiderava. Questa vita, la prossima… Ora non capisce perché è ancora mortale. Non può capire.
 
E grida perché è stato costretto da se stesso.
 
Assassino!
 
Pazzo e assassino.
 
Condanna anche te all’indifferenza e alla paura di rimanere solo. Perché ormai tu ne sei certo. Vorrei abbracciarti, quando la tua febbre è così alta che la vista è offuscata e la parola impedita. Vorrei prenderti per mano e sussurrarti di non preoccuparti, ma non posso farlo. E allora ti guardo, semplicemente e cerco di cantare, ma la voce muore prima che possa raggiungere le tue orecchie.
 
Stai morendo e io posso solo accarezzare, con mani invisibili, i tuoi capelli sparpagliati sul cuscino  e la tua guancia in fiamme.
 
La luce che filtra dalla finestra ti ferisce gli occhi, troppo intensa per la tua malattia, troppo  accecante per vedere la realtà: non sarebbe tornato e lo sapevi.
 
E le tue lacrime sono le sue.
 
 
 
 
 
 
 
Aveva la mente libera. Il dolore era scomparso quasi immediatamente e tutto intorno a lui aveva perso ogni sembianza.
 
C’era il cielo, un cielo così azzurro che mai prima di allora aveva scorto, e c’erano gli alberi che ondeggiavano leggermente, verde intenso, ad incorniciare il turchese.
 
Solo due colori, algidi. Ma Nathaniel pensò fosse un peccato che questi colori così intensi sarebbero prima o poi spariti, col suo chiudere gli occhi.
 
Aveva il respiro affannoso, questo lo sentiva e le labbra secche, ma cosa importava?
Lasciò l’ira a dopo. Capì che un dopo ci sarebbe stato anche quella volta, anche quando stava morendo. 
E macchiare con la rabbia quei due colori così belli sarebbe stato un peccato e sarebbe stato inutile.
 
Forse aveva sempre saputo che… Chi? Non ricordava bene neanche il nome del suo assassino. Non era importante.
 
Lo sarebbe stato dopo.
 
Ora voleva solo guardare il cielo  incorniciato dagli alberi. E voleva Aaron con sé, ma non l’avrebbe mai raggiunto. Sarebbe morto col rimorso di essersene andato e di averlo perduto per sempre.
 
La vista gli si offuscò, poi una lacrima cadde e di nuovo l’intensità del cielo lo colpì.
 
Udì un suono lontano, un richiamo. Poi vide fra le maglie dell’azzurro chi lo chiamava.
 
Vieni qui, Cleto, vieni da me, ché non ti posso raggiungere.
 
Il falco era testimone involontario di quei colori, lui solo sembrava poterli amalgamare, nella loro solitudine. Verde e azzurro. E poi nulla.
 
Cleto vide il suo padrone e volò da lui. Aveva poco tempo, il messaggio che doveva riportare andava riferito in fretta per poi volare da Aaron che…
 
“Non ho più il tempo di ascoltare” gli disse Nathaniel, bisbigliando. “Scusami Cleto, ma non ho più tempo. Ti chiedo però di portare un messaggio.” Nathaniel dovette interrompersi per riprendere il fiato che ormai andava esaurendosi “Digli che cos’è successo e digli perché non sono tornato. Digli che ho sbagliato e chiedigli  - imploralo - di perdonarmi, perché la mia anima chiederà perdono dal cielo. Digli che farei tutto diversamente, se mi fosse data la possibilità di ricominciare. E digli che lo amo” di nuovo si interruppe, ormai non aveva più voce “Digli che lo amo. Sciocco com’è probabilmente ne dubita, e non lo sa”
 
Sorrise, quando vide Cleto spiccare il volo, di nuovo nell’azzurro, scomparendo poi dietro agli alberi. Poi l’azzurro divenne blu, poi nero, cancellando tutto.
 
 
 
 
 
Cleto volò, in cielo, veloce. Se a proposito d’un falco si fosse potuto parlare di sentimenti, il suo volo sarebbe apparso disperato. Ubbidiente portava il messaggio del suo padrone, ubbidiente non aveva riportato il messaggio di Aaron: il suo padrone non avrebbe potuto ascoltarlo, né avrebbe potuto esaudire quel desiderio.
 
“Perché rovinare tutto quanto con un messaggio inutile?”
 
Esse deviò la strada di Cleto.
 
“Non sarebbe più così divertente, altrimenti, se il dubbio ed il rancore di Aaron fossero dissipati dalle parole di un morente…”
 
Lasciò che Cleto planasse fra le sue braccia, il falco non poté nulla contro il demone.
 
“Ed è meglio che tu dimentichi, mio caro rapace, tutto quello che hai visto e tutto quello che hai sentito. Non andare a Castel Thurlow, non andare da nessuna parte” gli accarezzò le piume “Vola libero in cielo e dimentica. Non c’è più nulla da riferire”
 
E così il falco volò via, verso nord, senza più parole da dire.
 
 
 
 
 
Tutto tornò buio. Non c’erano più fiammelle bianche, non c’erano più luce, né ombra. C’era solo il respiro di qualcuno, di uno dei tre uomini o forse di tutti quanti,  a frastagliare il buio così innaturale per quella sera londinese.
 
La luce dei lampioni per strada ci mise un po’ a rientrare in casa di Alec.
 
Matthias si accorse che le sue mani tremavano, e non vide nient’altro. Il dolore al petto era ancora troppo intenso e il sapore metallico del sangue in bocca sembrava nascondergli qualunque altra cosa. Che ci fosse ancora Ayel nella stanza non era importante: l’ira, il dolore, la rabbia e la delusione erano fin troppo tangibili perché la presenza di un angelo potesse significare qualcosa.
 
Fu istintivo e naturale colpire Jude con quanta più forza avesse, e non sentir dolore nell’impatto, anzi desiderarlo ancora, di nuovo, fino a che quella sensazione di totale impotenza se ne fosse andata.
 
Più che tutto il resto, voleva spogliarsi dell’evidenza di non poter far nulla.
 
Nell’impatto, Jude, urtò la parete e perse l’equilibrio, cadendo a terra. Ma non tentò di reagire, non fece niente se non portare la mano al labbro per tamponarsi il sangue.
 
Perché dire qualcosa, quando qualunque parola era sempre stata inutile?
 
Le dita tremarono.
 
Matthias sollevò Jude da terra, ormai i suoi occhi si erano abituati all’oscurità e potevano chiaramente distinguere i lineamenti del fratello, o di Jude. Le due persone, ora, gli parevano uguali.
 
Neanche questa volta il biondo fece nulla, né per ripararsi, né per proteggersi, solamente guardò Matthias aspettando il secondo colpo, che però non arrivò. La mano del moro premette sul petto del fratello, costringendolo fermo alla parete.
 
Jude sussultò, quasi fosse stato colpito più violentemente che la prima volta.
 
“Non…”
 
Ma Matthias scosse la testa, impedendogli di continuare la frase.
 
“Parlami…” lo implorò Jude “Di’ qualcosa…”
 
Matthias lo guardò negli occhi, rimanendo muto.
 
“Dimmi qualcosa, qualunque cosa!!” la voce di Jude si spezzò “Di’ qualunque cosa, per favore…”. Piangeva, aggrappato alla maglia di Matthias che stringeva fra i pugni “Non rimanere lì muto, insultami, odiami, ma di’ qualcosa…”
 
Avvicinò Matthias a sé, tanto da appoggiare la fronte sul suo petto.
 
L’altro lo lasciò fare, ascoltando i singhiozzi che interrompevano quel silenzio.
 
“Perché non parli?” gli chiese “Perché non mi dici quanto malvagio, quando terribile sia stato…” La sua voce fu di nuovo interrotta dal pianto, che ormai non riusciva più a controllare. Si avvicinò ulteriormente a Matthias, nascondendo il viso ancora di più e abbracciandolo, stringendolo a sé.
 
“Che cosa devo fare?” disse in un filo di voce “Adesso, che cosa devo fare…”
 
Matthias circondò il fratello con le proprie braccia, carezzandogli la testa.
 
Jude tremava, incapace di controllarsi e incapace di fare qualcosa, aggrappato al fratello.
 
Rimasero così, finché i singhiozzi di Jude non si quietarono e lui non osò alzare la testa.
 
“Mi perdonerai?” C’era un filo di speranza, nella sua voce. Sapeva che cosa aveva fatto, ma ugualmente sapeva che il fratello l’aveva sempre perdonato.
 
Ma Matthias scosse la testa e quella piccola illusione si disciolse nel silenzio.
 
Jude s’irrigidì.
 
“Non puoi perdonarmi nonostante tu abbia ciò che hai sempre voluto?”
 
Matthias aprì la bocca, ma non disse nulla. Sospirò, ricominciando.
 
“Ti sei preso tutto quanto…”
 
Jude avrebbe preferito gridasse, il tono monocorde di Matthias non gli diede il permesso di replicare “Hai preso tutto ciò che era mio. Non posso perdonarti”
 
“Ma lui è qui…” osò rispondere Jude.
 
“Non capisci, e questo oramai, non mi stupisce più. Hai rubato la mia vita, i miei amici… Hai cancellato dalla mia esistenza persone con le quali vivevo, le cose che facevo, tutto, in un istante”
 
“Ed è importante? E’ tutto così importante?”
 
“E’ tutto così importante, sì. Ma non mi aspetto che tu lo capisca. La persona che vuoi io diventi non esiste, e non è mai esistita. E non posso perdonarti di aver voluto sacrificare Aaron …”
 
Jude si strinse leggermente nelle spalle: “E’ così strano? Fra se stessi e l’altro, quando si è obbligati a fare una scelta, è davvero così strano scegliere se stessi?”
 
Matthias scosse la testa: “Immagino di no”.
 
Nessuno parlò per un po’.
 
Matthias si volse verso Ayel, che era ancora nella stanza, immobile, in un alone leggermente luminescente.
 
“Fa’ ciò che vuoi” gli disse quest’ultimo “Puoi fare qualunque cosa tu voglia”
 
Matthias allontanò Jude da sé, sistemandogli i vestiti, come un genitore fa con il figlio il primo giorno di scuola. Lo guardò in viso e gli asciugò le guance, e fece un passo indietro.
 
“Dimenticami”
 
“UCCIDIMI!” gridò l’altro, in preda al panico, ma Matthias scosse la testa.
 
“No, non posso farlo. Sei mio fratello. Nonostante tutto ciò che hai fatto, non riesco ad odiarti del tutto…”
 
“Chiedermi di dimenticare tutto è una punizione ben peggiore!”
 
“Dimenticami e vattene.”
 
Chiaro sgranò gli occhi e accennò un’ennesima protesta, ma fu preso per mano da Ayel e portato via, chissà dove. Scomparso, senza la possibilità di salutare, di replicare, né di salvarsi.
 
Senza la possibilità di fare nulla.
 
Nell’istante di una parola, Chiaro se ne andò, con gli occhi vitrei di chi implora ma non verrà ascoltato.
 
Matthias si sentì schiacciare all’analogia con la sua morte. Forse, davvero, ucciderlo sarebbe stato meno doloroso.
 
Non riuscì a rimanere in piedi sulle proprie gambe e dovette appoggiarsi con le spalle al muro.
 
Non c’era nulla intorno o dentro di lui.  Chiaro aveva portato via tutto, lasciandolo in quella stanza vivo, ma ucciso, di fronte ad Alec che lo guardava immobile. E lui aveva mandato via Chiaro, suo fratello, con cui aveva condiviso, da sempre, ogni cosa.
 
Tutto era stato allontanato.
 
Nessuno disse niente per un po’.
 
Poteva abbracciarlo? 
No. Il biondo probabilmente non l’avrebbe voluto. Venticinque anni di follia dispersi, non potevano essere cancellati in un istante.
 
Nonostante ora fosse guarito, chi gli avrebbe restituito il tempo trascorso? Nessuno, e questo Matthias lo sapeva bene.
 
Eppure voleva abbracciarlo, baciarlo, stringerlo a sé e dirgli che tutto era finito, che gli sarebbe rimasto accanto… Voleva chiedergli se lui, se persino lui se ne sarebbe andato, insieme agli altri.
 
Voleva sentire la sua voce, voleva piangere. E non voleva che anche lui scomparisse.
 
Non osò fare un passo, né Alec disse una parola. Lo guardava con quegli occhi enormi, resi blu dall’oscurità della stanza, che Matthias non riusciva a leggere.
 
Ora che l’aveva così vicino a sé, gli sembrava più lontano che mai.
 
Nessuno disse nulla.
 
Matthias ripensò a quella mattina in cui se n’era andato, ugualmente muti: non erano stati in grado di parlare per darsi speranza. Lui, soprattutto, era arretrato e scappato, non da Aaron, no, ma da ciò che non poteva avere.
 
Lui per primo, abituato ad impugnare la spada e a maneggiare l’arco, non aveva lottato.
 
E poi pensò alla strada per Londra, all’intorpidimento dei sensi e alle voci in sottofondo che non dicevano niente. Pensò al bambino sotto la pioggia, alla sua mano distesa che chiedeva qualche moneta e all’acqua che cadeva sopra di lui.
 
Pensò a Cleto che gli avrebbe chiesto di tornare e a lui che non era mai tornato. Pensò a quel cielo blu, ai quei rami verdi e al tentativo di dire un’ultima parola ad Aaron.
 
“Ti amo” senza messaggeri o reticenze.
 
Aveva aspettato troppo tempo, tempo in cui avrebbe sempre voluto avere il coraggio per quelle parole.
 
Cleto le aveva dimenticate, volando a nord, ma Aaron doveva sentirle, anche se era lontanissimo, lì di fronte a lui in una stanza.
 
Matthias sentì Alec sussultare e per un istante ancora, non si mosse.
 
“Posso chiamarti Nathaniel?”
 
“E’ il mio nome”
 
Alec sorrise, di uno di quei sorrisi senza ombre, limpidi che Nero ricordava nei propri sogni. Uno di quei sorrisi che l’avevano liberato prima e salvato poi.
 
E Aaron protese le braccia verso di lui, per riportarlo a casa, in un abbraccio.



...fine.

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