13 Reasons Why

di Noth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cassetta A Lato 1. ***
Capitolo 2: *** Cassetta A Lato 2. ***
Capitolo 3: *** Cassetta B Lato 3. ***
Capitolo 4: *** Cassetta B Lato 4. ***
Capitolo 5: *** Cassetta C Lato 5. ***
Capitolo 6: *** Cassetta C Lato 6. ***
Capitolo 7: *** Cassetta D Lato 7. ***
Capitolo 8: *** Cassetta D lato 8. ***
Capitolo 9: *** Cassetta E Lato 9 ***
Capitolo 10: *** Cassetta E Lato 10 ***



Capitolo 1
*** Cassetta A Lato 1. ***


13 Reasons Why
-Chapter 1-
(storia liberamente ispirata dal libro "13")




 





Una scatola marrone da scarpe, consumata e della quale non si vedeva la marca, stava proprio sopra al mio letto. Era avvolta in uno spesso strato di scotch che sembrava essere stato messo e levato più volte, dando l'idea di qualcuno che aveva cambiato idea ripetutamente sul contenuto da mettere all'interno. O forse era solo passata per molte mani. Il mio nome era scribacchiato sul tappo della scatola in una calligrafia aguzza e poco piacevole, ma la cosa che più mi affascinava era il fatto che non vi fosse un mittente e non mi capitava spesso di ricevere posta anonima. Certo, a meno che non fossero insulti gratuiti da parte di qualche omofobo che ancora non aveva messo una pietra sopra alla storia della mia omosessualità e preferiva, educatamente, mettere la pietra sopra di me. Chissà, magari dentro quella scatola ci sarebbe stato un dito mozzato, o dei libri di psicologia per guarire, o magari qualche strano giocattolino sessuale che la gente aveva preso a pensare mi piacesse utilizzare, essendo gay.

Superai la valanga di pensieri e congiure che mi stava seppellendo e mi sedetti sul letto. Le molle scricchiolarono ed il copriletto frusciò. Con le unghie, e molta pazienza, strappai lo scotch dai bordi di cartone della scatola usurata e sollevai il coperchio, con le mani che tremavano in un misto di emozione, ansia e paura.
Okay, non conteneva affatto ciò che mi aspettavo.

All' interno della scatola vi erano delle audiocassette di vari colori. Blu, bianche, nere, rosse... Tutte contrassegnate da un numero scritto con quello che sembrava essere un pennarello indelebile argentato, ed il numero stava in ogni lato delle cassette, dall'uno al tredici. L'ultima cassetta era contrassegnata solo da un lato, e mi domandai perché. La cosa si faceva curiosa ma, allo stesso tempo, decisamente inquietante. Fortunatamente ero un amante di canzoni datate, di conseguenza mio padre aveva acconsentito, anni prima, a comprarmi un mangiacassette. Avevo letteralmente consumato tutte quelle che mi erano state regalate, ed avevo una vera passione per una che mi era stata donata da mia madre, prima che morisse, di Barbra Straisand.

Felice di avere l'occasione di trafficare con quel macchinario ancora una volta, infilai la cassetta con il numero “1”, scarabocchiato al centro, dentro lo spazio apposito e schiacciai play, assolutamente impaziente di sapere cosa sarebbe venuto fuori dalle casse.
Seriamente, avrebbe potuto essere uno scherzo di cattivo gusto, magari l'audio di un porno, ma ero a casa da solo e, se davvero si fosse trattato solo di una presa in giro, ipotesi più probabile, avrei semplicemente spento e buttato tutto nella pattumiera.

Un fruscio scomposto.

Era una registrazione.

Poi dalle casse inizio ad uscire una voce, e quasi gridai.

Non poteva essere.

Salve a tutti, sono Blaine Anderson, se non mi riconoscete.gracchiò il nastro, e fu come se mi avessero risucchiato tutta l'aria dai polmoni. Mi salì la nausea tutta d'un colpo ed ebbi voglia di vomitare. Perchè Blaine Anderson si era suicidato qualche settimana prima. Aveva ingoiato una manciata e mezza di varie pillole ed aveva lasciato questo mondo, senza un perchè, senza che nessuno avesse il tempo di accorgessi che stava soffrendo così tanto.

Queste cassette raccontano la mia vita, o meglio, le tredici ragioni per le quali è finita, e se avete ricevuto la scatola significa che voi siete una di queste. Non vi allarmate ora, sono sicuro che quasi nessuno di voi ha fatto ciò che ha fatto con l'intenzione di portare a questo ma, sapete, a ogni azione corrisponde una reazione uguale o contraria, o una cosa del genere. Forse avreste dovuto pensarci. Forse. Oh, e ci sono delle regole, ovviamente. Non potrete venire a lamentarvi da me perché sarò già morto quando le riceverete, quindi state al gioco e non create problemi, vi va?

Pause.

Dovetti fermare la registrazione perché la cosa sembrava assurda sotto molti aspetti. Primo, io non potevo essere una delle ragioni per le quali Blaine Anderson si era ucciso. Non avevo fatto nulla, ci rimuginavo alla velocità della luce e non riuscivo a trovare nessuna motivazione. Blaine era bellissimo, solitario, ed aveva una voce profonda che, ricordavo, mi aveva sempre fatto venire i brividi. Non potevo aver fatto qualcosa per ferirlo, mi rifiutavo di crederlo. Secondo, stava giocando con i suoi potenziali assassini? Coloro che lo avevano spinto al suicidio? Tutto ad un tratto essere su una di quelle cassette mi faceva paura. Se mi era arrivata significava che qualcun altro aveva ascoltato quei nastri e scoperto la verità. Qualcun altro sapeva che c'ero anche io in quelle registrazioni. Forse avrei dovuto buttarle, forse non c'entravo nulla e la scatola mi era stata mandata solo come scherzo di cattivo gusto, visti i commenti che avevo suscitato quelle volte che ero stato visto parlare con Blaine. Sì, forse era così, ero innocente.
Ma e se…

Play.

Regola numero uno: ascoltate, non vi ruberà troppo tempo, ve lo garantisco. E poi conosco ognuno di voi, so benissimo che sarete curiosi ora. Non sapreste stare lontani da una cosa del genere in ogni caso. Regola numero due: una volta finito l'ascolto di tutti i nastri, riavvolgeteli e rimettete tutto nella scatola, poi speditela alla persona nella cassetta successiva alla vostra. Se non lo farete, posso garantirvi che ho fatto delle copie dei nastri e verranno resi pubblici. Tutti i vostri peggiori incubi sarebbero di dominio pubblico, non credo che lo vogliate. La tredicesima persona si potrà anche portare tutte le cassette all'inferno, così magari avrà l’opportunità di restituirmele. Oh, dimenticavo!" esclamó, condendo il tutto con una risata distratta che mi fece rabbrividire per quanto paresse di averlo accanto. "Nella scatola dovrebbe esserci anche una mappa. Ad ogni cassetta corrisponde un luogo che vi consiglio - ma non obbligo - di visitare. Potreste trovarlo interessante. Forse. Ma bando alle ciance, vi va di cominciare?

Deglutii.

'No' avrei voluto rispondere.

Ciao Santana Lopez, è un piacere non rivederti.

Sembrava tutto così surreale che pareva impossibile. Insomma, Blaine Anderson, un mio compagno di scuola suicidatosi qualche settimana prima, aveva lasciato delle cassette con delle motivazioni alla sua morte. E 13 persone, me compreso, sembravano esserne responsabili. Ed era il nostro turno di stare a sentire, visto che sembrava non l'avessimo fatto abbastanza.

Ma volevo stare a sentire?

Non avevo poi molta scelta.

Play.

Un brusio di sottofondo, come sempre.

Ah, Santana, non serve che fai quella faccia corrucciata. So che non capirai cosa ci fai nella mia preziosissima lista e che starai storcendo il naso, ma no! Non spegnere! Devi ascoltare. Perché tutto è partito da te, tu sei la prima ragione, San. Una pausa ed un sospiro. Mi sentii come se stessi violando un'atmosfera molto intima e mi mossi a disagio sul letto dove mi ero tornato a sedere.Ti ricordi quando da bambini pensavamo ancora di essere eterosessuali? Ah, a proposito, per chi ancora non lo sapesse, Santana Lopez è tanto lesbica quanto io sono gay. Cioè tanto, insomma. Pensavamo di essere eterosessuali perché tutti sembravano interessati al sesso opposto e anche noi due pensavamo che avremmo dovuto fare come gli altri e chiedere ad un individuo dell'altro sesso di uscire. Così lo facemmo, ti ricordi?
C'ero passato anche io, ma era stata una fase relativamente breve della mia vita, poiché il mio amore per la moda ed i musical e, soprattutto, la cotta di proporzioni assurde che avevo per Patrick Swayze dopo aver visto Dirty Dancing, gridavano gay da tutti i pori, e non mi ci volle troppo tempo a rendermi conto di non essere per nulla interessato a nessuno degli argomenti giornalieri dei miei coetanei. Blaine, invece, aveva probabilmente dovuto scoprirlo nel peggiore dei modi: frequentando una ragazza e rendendosi conto che non c'era assolutamente nulla che lo attraesse in lei.

Triste, lo sapevo.

Non so come ci trovammo, sta di fatto che essere amico di Sam Evans mi portò ad uscire con il gruppo di quarterback e cheerleader tra le quali c'eri pure tu. Lo ammetto, so riconoscere la bellezza, e tu eri molto bella. Lo eri eccome, anzi, tu lo seiancora, quello morto sono io. Chiesi a Sam se avevi un ragazzo, e lui negò facendomi l'occhiolino, ricordo ancora il suo tono allusivo caduto nel vuoto. Allora mi procurò il tuo numero e, quella sera, mi spinse a starti accanto mentre tu, con la tua aria da dura, mi fissavi con un'espressione confusa e spaventata. La curiosità ebbe il sopravvento per entrambi, temo. Ci scambiammo i numeri, anche se Sam mi aveva appena dato il tuo, e ci promettemmo di scriverci, da bravi ragazzini alle prime armi. Chissà perché, ma tu non davi per niente l'idea di essere una alle prime armi. In ogni caso cominciammo a scambiarci messaggi che passarono dalla placida conoscenza al flirt spietato. Mi dispiace dirti che al posto tuo avevo sempre immaginato di scrivere a Zac Efron. Sì, Zac Efron, problemi? Ho avuto una gigantesca cotta per lui ai tempi di High School Musical. Siate sinceri, chi non ce l'aveva? Alla fine credevo di essere cotto dell'immagine che mi ero fatto di un rapporto a due. Mi piaceva lo scambiarsi messaggi, gli sguardi di sottecchi, lo stare svegli fino a tardi a parlare, solo... Non eri tu ció che avevo bisogno.

Pause.

Mi presi qualche secondo per metabolizzare l'idea di un ragazzino alle prese con un primo rapporto con una persona dalla quale non è realmente attratto. Credo che chiunque sarebbe andato fuori di testa, ma forse Blaine non se ne rendeva conto. Di quello che faceva a se stesso, dico. Inoltre, era stato l'inizio della fine, da quello che aveva detto, quindi desiderai con tutto me stesso aver potuto essere lì ed aiutarlo. Essere io la persona con cui avrebbe potuto provare queste prime esperienze, in modo da poter mettere pace in quell'animo confusionario che continuava a venire fuori anche nella sua parlata veloce e dal tono saliscendi. Magari avremmo potuto conoscerci, in un’altra vita, da piccoli ed uscire, giocare, innamorarci...
Ma non era andata così, Blaine era morto e viaggiare con la fantasia non faceva bene né a me né a lui. Per quanto fosse orribile, dovevo terminare di ascoltare quelle cassette e scoprire cosa avevo fatto. Forse poi non sarei più riuscito a guardarmi in faccia. Se fossi andato avanti a fare play-pause ogni dieci minuti, però, ci avrei messo un mese a terminare tutto, e non credevo di poterlo sopportare.

Ora che ci pensavo come poteva una storia di così tanti anni prima bruciargli ancora al punto da essere una delle 13 ragioni del suo suicidio? Era poi così importante quel suo conflitto di interessi?
Premere quel maledetto pulsante mi avrebbe dato la risposta.

Play.

Vorrei, ora, se possibile, che prendiate la mappa e andiate nella mia vecchia casa. Abitavo al 234 di Sunday Street, prima di trasferirmi in un’altra zona della città. Come vi ho detto prima all’interno della scatola troverete la mappa, sperando che nessuno di voi la abbia persa, ma dubito, e basterà che seguiate le mie indicazioni per arrivare nei vari luoghi. Sempre se avrete la possibilità di muovervi.

Certo che ce l’avevo, il mio bisogno di ascoltare l’audiocassetta di Barbra Straisand era stato così impellente che mio padre aveva dovuto prendermi un lettore portatile di quelli così vecchi che pareva quasi impossibile li vendessero ancora. Ma era mio, e così potevo riuscire a seguire le tracce di quelle storie. Volevo toccare con mano, volevo capire, perché la sensazione che ci fosse ben più di quanto non fosse stato detto da Blaine finora era troppo forte per lasciar perdere. Sapevo di c’entrare in qualche modo, e volevo capire perché, ma saltare direttamente alla mia cassetta non sarebbe stato giusto nei suoi confronti. Se gli avevo fatto così tanto male, assieme agli altri ovviamente, almeno glielo dovevo.

Usate la cartina come fosse un campo di battaglia navale, dovete semplicemente andare nel quadratino D-3. Ci si arriva comodamente con l’autobus 27, se avete l’opportunità di prenderlo, oppure basterà una camminata. È una bella zona, o lo era, non so che tempo verbale sia più giusto usare in questo caso.

Pause.

Dando un’occhiata alla mappa riuscii a trovare la zona D-3 e mi resi conto che era fin troppo vicina alla mia abitazione. Non avevo mai saputo che avesse abitato così vicino a casa mia. In realtà probabilmente non sapevo proprio niente di Blaine, ma non avevo mai pensato che, forse, avrei dovuto. Si trattava di girare a sinistra dopo aver superato il mio vialetto e tirare dritto. Potevo farcela.
Presi tutte le cassettine e riuscii a farle entrare nelle svariate tasche sparse per il mio cappotto, estraendo quella che stava nel registratore di casa e ficcandola dentro il portatile. Recuperai un paio di cuffie dal mio MP3 e le infilai al loro posto, misi il walkman in tasca e presi i guanti a mezze dita ed il cappello dal comodino. Gettai un’occhiata nervosa alla stanza. Dov’era la mia sciarpa? Uscire senza era praticamente impossibile, l’era glaciale imperversava sulla città a causa di una perturbazione proveniente dall’atlantico.
Non potevo crederci, mi stavo perdendo a pensare al tempo quando avevo in tasca il peso di tredici ragioni della morte di un ragazzo. Mi calcai il berretto sugli occhi e mi precipitai al pieno inferiore, scorgendo la lana blu che andavo cercando e la afferrai assieme alle chiavi correndo fuori dalla porta ed avvolgendomi la calda stoffa attorno al collo. Il mio fiato tremolante ed ansioso si condensava in nuvolette di vapore che infrangevo camminando.

Stavo seguendo la mappa di un suicida. Stavo inseguendo 13 potenziali storie e potenziali colpevoli.

E non avevo mai avuto rapporti stretti con Santana Lopez.

Play.

… Non l’avrei mai detto che avrebbe potuto succederti, Sam.

Pause.

Lato sbagliato della cassetta, fantastico. La girai e ripremetti il tasto d’avvio.

Play.

… sia più giusto usare in questo caso. Ricordo quando sei venuta a casa mia, vestita da cheerleader, dopo scuola, e ti guardavi attorno a disagio. O imbarazzata. Non lo so. So solo che i miei genitori non erano a casa, come al solito, troppo presi dal lavoro al nuovo negozio che avevano appena aperto. Ma non soffrivo di solitudine, non all’epoca almeno.

Beato te, pensai, perché quando mio padre restava chiuso tutto il giorno in officina io soffrivo eccome.

Ci sedemmo sul divano a guardare le repliche di Tutto in Famiglia senza prestarci davvero troppa attenzione. Ah, io ero troppo occupato a pensare dove avrei dovuto mettere le mani, se avrei dovuto fingere di stiracchiarmi ed abbracciarti, o magari tenerti la mano. La cosa orribile di tutto quello era che… non avevo alcuna voglia di fare nulla di tutto ciò che ho appena detto. Non con te. E non sapevo come spiegarmi questa cosa, sembrava che ai miei compagni non interessasse altro. Sam poi, io ci avevo quasi creduto a lui. Ma di questo parlerò più avanti.

Quante storie aveva da raccontare? Quante ragioni per levarsi la vita? Continuavo a camminare con l’espressione di un martire. La cosa mi incuriosiva, ma mi faceva venire la pelle d’oca allo stesso tempo per quanto fosse incredibilmente triste ed inquietante. Era la voce di un morto. Un ragazzo morto. Certo, anche quando guardavo un concerto di Michael Jackson lui era morto, ma la sensazione era incredibilmente diversa ora. Blaine lo conoscevo. Io e Blaine…

Ricordo che mantenesti quell’espressione sostenuta anche quando decidesti di sederti a cavalcioni sopra di me. Il mio primo bacio, in effetti, sei stata tu. Ti sei chinata su di me con l’aria di chi non sa esattamente perché sta facendo ciò che sta facendo, e quando le tue labbra si sono appoggiate sulle mie la sensazione fu piacevole ma, alla base dello stomaco, pesava il sentore di qualcosa di sbagliato. Dovevi andare via. E questo è quello che è successo, ovviamente, ti ho semplicemente scansato con gentilezza e detto che non stavo bene e che sarebbe stato meglio se fossi tornata a casa. Pensai di averti ferito, ma la tua espressione era la copia sputata della mia, solo che non potevi ammetterlo. Così il giorno dopo, a scuola, mentre io ancora cercavo di metabolizzare perché non avevo provato il forte desiderio di baciarti o toccarti come avevo creduto, tu avevi già raccontato una bizzarra versione dei fatti. Un pettegolezzo che in una mattinata si fece il giro di un’intera scuola e che sarebbe stato l’inizio della montagna di terra destinata a soffocarmi.

Probabilmente Blaine non se lo ricordava, ma avevo fatto le scuole medie con lui e sapevo benissimo di cosa stava parlando. Il rumor era arrivato anche a me, tramite foglietti, o chiacchiere nei corridoi, non ricordavo bene, sapevo solo di averlo sentito.
Ormai dovevo soltanto voltare a destra, ero arrivato a Sunday Street.

Andai da Sam, l’unico che consideravo amico in quella città dove mi ero appena trasferito, per chiedergli perché tutti mi fissassero come se avessi un cartello con una strana scritta addosso. Lui rispose con un’alzata di spalle e si guardò attorno. Poi ricordo che mi prese per le spalle e mi trascinò in uno degli sgabuzzini dove i bidelli stipavano le scope.
“Amico, è stata una pessima mossa quella con Santana, davvero”, mi disse, la fronte corrugata.
Non ero sicuro di capire cosa intendesse, ma immaginai che San gli avesse raccontato tutto. O almeno la versione veradei fatti.
“Lo so, non avrei dovuto mandarla via così, ma…”
Sam scosse la testa, con aria di rimprovero.
“Andiamo, baciarla e addirittura palparla, le sue prime volte, per poi dirle che sei frocio? È la palla peggiore dell’universo, amico, se non ti piaceva potevi semplicemente dirlo. È distrutta.” Spiegò.
Gay, pensai io, frocio? Non ci avevo pensato nemmeno io, come poteva averlo capito lei? Certo, per il semplice fatto che aveva provato lo stesso. La stessa sensazione di sbagliato. Ma non la avevo baciata io, né tantomeno palpata, non ne avevo neanche provato il desiderio, era quello il problema!
“Sam io non l’ho baciata, né palpata. Non sono quel genere di ragazzo.” Tentai di replicare, ma lui scacciò la cosa con un gesto della mano.
“Il punto è che lo hai fatto per poi liquidarla con una scusa! Andiamo!” sibilò, tenendo la voce più bassa possibile.
“Scusa?” gli chiesi, confuso. Iniziavo a capire quale fosse il problema, San, ed è cominciato tutto per colpa tua. Ma cosa ti avevo fatto? Davvero, non lo capisco.
“La palla dell’essere gay. La hai usata e basta, amico.”
Storsi il naso.
“E se non fosse una palla?” risposi. Magari con il mio unico amico potevo confidarmi. O almeno lo credevo.
“Cosa intendi?” domandò, il viso una maschera confusa.
“Io… non sono attratto da Santana.” Dissi, ripetendo quello che mi frullava per la testa da settimane.
“Capita che non piaccia una ragazza.” Rispose lui con un’alzata di spalle. “Ma non significa che…”
“Senti, dico solo quello che è successo. Non devi credermi per forza, sto cercando di dirti una cosa… importante. Credo di essere gay, Sam, perché questo è un problema?” domandai, ingenuo ed ignorante sull’effetto che la parola gaypotesse avere sul mondo.
“Per quelli fuori da questa stanza sì, Blaine. Davvero. E ti chiedo scusa, davvero, scusami…” mormorò abbassando lo sguardo sulla sua mano. Seguii la linea dei suoi occhi e vidi che con il palmo premeva un pulsante che stava sopra la scrivania: il vecchio interfono che usavano i bidelli per le comunicazioni di servizio. Era divenuto obsoleto e ne era stato installato uno nuovo, ma quello precedente era ancora funzionante, e questo significava che l’intera scuola aveva sentito ciò che avevo detto. Non importava se fossero stati in bagno, nel cortile, in classe o a fumare. Tutti sapevano.
E tutto è partito da te, Santana, e so che non era ciò che volevi, ma è ciò che è successo, ed è stato l’inizio di tutto.

Mi fermai davanti al numero 234 e guardai la casa, pulita e linda come non ci avesse mai abitato nessuno. Come se quello non fosse stato l’antro della peggiore delle consapevolezze, scoperta da sola, in modo sbagliato e sparpagliata per tutto l’istituto. Non avevo capito se Sam l’avesse fatto volontariamente o per errore, ma sapevo che era successo, perché anche io avevo sentito quella conversazione. La conoscevo, ero a biologia quando era risuonata in tutta la scuola.
E da quel momento Blaine era stato più isolato del solito. Etichettato come frocio, puttana, gay, sgualdrina. Falso. Sentivo tutti quei nomi nei corridoi, ma ero stato troppo preoccupato a proteggere me stesso perché m’importasse, e solo ora capivo quanto fosse stato egoista.

« Mi dispiace. » mormorai alla casa vuota. Il nastro della cassetta era andato avanti nel silenzio, poi un sussurro.

L’inizio della terra che ha lentamente ricoperto della mia tomba.
Sam Evans, non pensare che ti abbia lasciato da parte, sei il prossimo.
Fine della parte uno.

Mi domandai, di nuovo, cosa c’entrassi io in tutto quello.



















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Spazio Autrice:
Ebbene ho superato il blocco dello scrittore. Ce l'ho fatta. Questa sera pubbliherò il capitolo di DYKAS e spero questa vi intrighi. 
Vi assicuro che è KLAINE, ma ci vorrà del tempo per capire dove voglio andare a parare. 
La storia è tratta dal libro con lo stesso titolo della fanfiction, è meraviglioso.

Dopi un blocco delle recensioni sono davvero necessarie per capire se va tutto bene, un parere mi farebbe immensamente piacere!
Un bacio,
Noth.

 

Dedicata a Nali, perchè mi sostiene inspiegabilmente.

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Capitolo 2
*** Cassetta A Lato 2. ***


13 Reasons Why
-Chapter 2-









Faceva freddo, eppure non era semplice trovare il coraggio di staccare gli occhi da quella casa. Era un po' come quando ormai hai guardato il cadavere, e non puoi tornare a fingere di non averlo visto. Sarà sempre là, alla fine degli occhi, appena oltre la soglia visiva, stampata nella memoria come inchiostro di fuoco. Quella casa, è iniziato tutto lì, Blaine. La tua fine, la valanga, la terra, come la chiami tu. Come vorrei aver intuito ogni cosa come nei film, e aver fermato tutto questo prima che fosse troppo tardi. Ma non l’ho fatto, anche se avrei potuto.

Riavvolsi velocemente il nastro dell'audio cassetta con le dita intirizzite dal freddo, poi la estrassi con le mani tremanti e la voltai, inserendola dal lato con scritto il numero 2. Avrebbe parlato di Sam Evans, il biondo muscoloso e alto che nascondeva la sua goffaggine in un'armatura da giocatore di football.
La cosa era sempre stata tanto triste quanto patetica, ma sembrava sempre fossi l'unico ad essermene accorto.

 Il resto del mondo lo adorava.

Chissà cosa aveva fatto a Blaine, oltre ad aver premuto quel pulsante, ovviamente.

Bè, immaginai di stare per scoprirlo.

Play.

Si sta rivelando più divertente di quanto pensassi. Spiegarvi tutti, dico. Avrei potuto non farlo, avrei potuto andarmene e basta, ma non è così che funziona. Mi spiace. Dov’ero rimasto?

Fece una pausa, e sentii il rumore di un foglio accartocciato mentre si tenta di distenderlo. Un mormorio pensieroso di sottofondo.

Ah, trovato! Sam Evans. Chiedo scusa, ma siete davvero tanti e finisco per dimenticarmi le cose. Bè, immagino che tra un po’ non sarà più un problema.
Sam, torniamo a te. Questo lato della cassetta è tutto tuo. O quasi.
Dopo l’episodio dell’interfono non ti parlai per settimane, nonostante tu cercassi di sistemare le cose. Mi lasciavi biglietti nell’armadietto, mi mandavi messaggi, ma mai una volta che tu ti sia presentato di persona. Parlare con me ormai portava giù nel ghetto nel quale ero stato relegato, dunque perché preoccuparsi eccessivamente? Meglio godersi la popolarità. Sì, avevi ragione. Ma la gente non sapeva di te. Oh, so benissimo che ora sai di che cosa sto parlando. Certo, avevi paura che l’avrei tirato fuori, vero? Lo so, anche io non volevo che quella conversazione facesse il giro della scuola, eppure… Ma questa cassetta non è per vendetta, Sam, davvero, non ti porto rancore, lo giuro.

Rise malinconicamente tra sé, ma non era affatto divertente. Ero curioso ma, allo stesso tempo, detestavo l’idea di non essermi accorto di nulla. Razza di imbecille.

Prima di continuare vorrei che andaste al Lima Bean, immagino che tutti ci siate già stati almeno una volta, è praticamente come la chiesa del paese per i vecchi. Ci vanno tutti. In caso abbiate un vuoto di memoria è  la zona F-1 e ci si arriva con qualsiasi autobus, visto che si trova vicino alla stazione.

Lima Bean? Voleva che ascoltassi la sua voce a un tavolo, sorseggiando caffè e guardando le facce degli altri che mi fissavano non capendo perché avessi quello sguardo da morto? Oh, no, scusa Blaine, non volevo pensare quella parola. Non voglio pensare che quello morto sei tu.
Feci dietrofront e mi misi a camminare verso la fermata dell’autobus che avevo notato all’entrata di Sunday Street. L’aria era veramente gelida e, essendo ormai tarda sera, la gente era già tornata da lavoro e si era rintanata nelle case, non dando peso al fatto che fuori dalle loro abitazioni io stavo ascoltando l’epitaffio personale di un ragazzo che sembrava a tutti stranissimo, ed invece non aveva nulla che non andasse. E io lo sapevo bene dopo quella festa, ma anche prima.

I jeans mi si erano irrigiditi per il freddo, e ogni volta che camminavo mi sembrava quasi di spezzarli, in più percepivo il morso del gelo sul viso e sulle spalle. Il cappotto non era decisamente abbastanza pesante, ma era l’unico che potesse contenere tutte le cassette che dovevo ascoltare.
Arrivai alla fermata, dove dovevo aspettare una decina di minuti per il passaggio del 27, così mi sedetti sul marciapiede, alitandomi sulle mani per scaldarle senza eccessivi risultati. Così continuai ad ascoltare, nell’attesa.

In ogni caso non mi aspettavo, entrando nello spogliatoio maschile per errore – sì, ero sovrappensiero per via dei vari spintoni che mi venivano dati – di vederti schiacciato sugli armadietti da Noah Puckerman. Non avrei mai detto che avrebbe potuto succederti, Sam.Pensavo di avere le allucinazioni, mi sono pietrificato sulla porta con la voglia di tirarti un pugno e di scappare. Perché stavi baciando un ragazzo, perché mi avevi fatto fare outing davanti a tutta la scuola, volontariamente o no, e non eri nemmeno venuto a cercarmi per dirmi che forse ti trovavi nella stessa situazione. Sai quanto sarebbe stato più facile affrontare la cosa insieme? Essere sostenuti? Non capisco ancora oggi come tu abbia potuto tenermelo nascosto. Eravamo amici. Vicini di casa. Appena arrivato in città ti sei subito presentato e mi hai mostrato il quartiere. Mi hai presentato i tuoi amici e, per tutta l’estate, eravamo sempre stati l’uno a casa dell’altro. Era tutto ciò che avrei mai potuto chiedere da un’amicizia, ma credevo almeno fossi stato sincero. Non appena io avevo avuto dei dubbi concreti sulla mia sessualità te ne avevo parlato, sembrava che tu non fossi stato dello stesso avviso.

Pause.

Deglutii faticosamente. Sam Evans e Noah Puckerman? Due dei ragazzi più popolari dell’intera scuola. E nessuno si era mai accorto di niente. Capii all’istante perché quelle cassette erano riuscite ad arrivare a me, nessuno aveva ancora avuto il coraggio di infrangere le regole e distruggerle, per paura che i propri segreti diventassero di dominio pubblico. Come non si sapeva, si sapeva solo che sarebbe successo, e che non si poteva rischiare. Per qualche istante temetti per me stesso.
L’autobus apparve dalla stradina e mi alzai in piedi, mettendo fuori la mano per richiedere la fermata. Quando frenò dinanzi a me mi investì una folata di vento gelido e rabbrividii, entrando del mezzo di trasporto. Le porte scricchiolarono all’apertura, ma dall’interno uscì una folata di calore dovuto al riscaldamento e mi precipitai dentro strisciando l’abbonamento che avevo per via della scuola e che tenevo costantemente in tasca. Per fortuna, oserei dire.

L’autista mi osservò a lungo, forse ero così pallido da sembrare un poco di buono. Ma un poco di buono, dopotutto, era pallido? Poi si decise a partire, considerando che ero solo uno dei due passeggeri dell’autobus. L’altro era un ragazzo che conoscevo da scuola, sono quasi sicuro fosse Mike Chang e, decisamente, non sapevo che ci facesse nell’autobus a quell’ora. Ma d’altra parte probabilmente si stava chiedendo la stessa cosa di me, quindi.

Play.

Ricordo che sentisti la porta aprirsi e ti voltasti. Poi mi vedesti e la tua mascella cadde in un’espressione colpevole, quindi sapeviperché ti stavo odiando in quel momento. Ora non ti odio più, non ce ne sarebbe ragione, ma in quel momento mi sentivo così tradito che non mi importava affatto del fatto che anche tu ti stessi nascondendo. Puckerman cercò di fermarti mentre mi rincorrevi, lo sentii sibilare il tuo nome. Mi spiegasti più avanti in un biglietto che nessuno doveva sapere che eravate lì, che era solo per via di un patto con un bidello che ti doveva un favore che potevate starci. A quell’ora nessuno studente era ammesso nelle stanze, infatti avrebbero dovuto essere chiuse. Chissà perché è proprio lì che sono capitato. Chissà perché ho tentato di aprire proprio quella porta che avrebbe dovuto essere chiusa. Se non fosse successo, forse, non ti avrei mai scoperto.
Scappai via, raggiunsi l’uscita di sicurezza che dava nel cortile e me ne andai. Chissà cosa pensavano gli altri studenti del fatto che mi stessi inseguendo. D’altra parte non potevano pensare peggio di così di me, quindi. Me ne andai da scuola quel giorno, e tu mi seguisti. Mollasti tutto per venirmi dietro e spiegarmi. Pensai fosse una cosa carina, ma forse ti sentivi solo in colpa. Finii per rifugiarmi al Lima Bean, che stava praticamente ad un isolato dalla scuola, e tu venisti con me. Mi sedetti e tu ti incastrasti nella sedia in fronte a me, anche se io finsi di non vederti.
“Posso spiegarti.” Dicesti, ma sinceramente era l’ultima cosa che avevo voglia di ascoltare, Sam. L’ultima.

Arrivammo alla mia fermata, quella praticamente in fronte al Lima Bean. Prenotai lo stop e scesi, continuando ad udire la voce sempre più stanca di Blaine dalle cuffie.

“Io e Puck…” dicesti, ma avevi iniziato decisamente nel modo sbagliato.
“Perché non partiamo da me e te, Sam, eh? Perché non iniziamo dal fatto che, al contrario di me, tu non hai detto una sola parola a riguardo?”
Forse ero io che vedevo le cose in maniera esagerata, ma dopotutto come poteva essere che un’intera estate assieme, costantemente, praticamente ogni secondo, non significasse nulla per te? O almeno era quello che credevo io. Forse sbagliavo. Dimmelo tu, Sam. Oh, no, aspetta: non puoi.
“Ho provato a dirtelo.” Mormorasti.
“Quando? Dopo che avevi già fatto sapere a tutta la scuola ciò che ti avevo detto con fatica?” domandai, cercando di non guardarti negli occhi perché mi sentivo davvero tradito, Sam. Tu eri popolare, avevi un ragazzo – o qualcosa del genere – e nessuno ti spintonava negli armadietti, perché nessuno sapeva. Ma io, a causa tua, non ero stato così fortunato, e nessuno si sarebbe mai sognato di mettersi con me visti i pericoli ai quali sarebbe andato in contro, e li capisco. Probabilmente la reputazione scolastica è una delle cose più importanti in assoluto per un adolescente. Ciò che tutti dimenticavano è che lo era anche per me.

Io ci sarei uscito con te, Blaine, ci sarei uscito mille volte. Semplicemente non avevo abbastanza autostima e coraggio per chiedertelo. E poi avevo la netta sensazione che per un motivo o per l’altro avresti rifiutato.

“Era… difficile.” Rispondesti.
“Anche per me.” Spiegai, sperando che avresti capito. Ma poi cosa dovevi capire? Non c’era nulla da capire.
“Lo so. Ma… è successo per caso, mi sono accorto di provare qualcosa per Noah e…”
“Non mi interessa, Sam, davvero. Sono felice per te, da qualche parte dentro di me, ma io ero solo. E lo sono ancora. Per colpa tua, mia, e di Santana e del mondo, credo. Non lo so, mi dispiace io… pensavo fossimo amici.” Sussurrai, e feci per alzarmi, ma tu mi prendesti il polso.
“Prima o poi ti tirerò fuori da questa merda, amico, te lo prometto.” Mi dicesti, ed io annuii, così mi avresti lasciato andare. Ma almeno un pochino ci credevo. Non hai mai mantenuto la promessa, Sam.

Pause.

Entrai al Lima Bean, tenevano aperto fino alle undici, quindi avevo ancora tempo per metabolizzare il tutto. Sapevo però che non mi sarebbe bastata una vita. La ragazza alla cassa era Tina Cohen-Chang, una ragazza di origini asiatiche con la quale avevo scambiato qualche parola durante falegnameria. Era stata gentile, ma ero sicuro che ci fosse altro, oltre la facciata.

Mi avvicinai al bancone, le mani tremanti e senza la più pallida idea di che faccia avessi in quel momento. Presi qualcosa a caso, giusto per non sembrare un imbecille nemmeno in grado di leggere.

Gli occhi mi caddero su un Medium Drip che non avevo nemmeno la più pallida idea di che diavolo fosse. Dovevo solo togliermi dalla testa le parole di Blaine, il senso di assoluta ingiustizia che mi aveva lasciato addosso e non osai pensare come avrebbe potuto essere per lui. Quanto era difficile avere a che fare con tutte queste cose, Blaine? Perché tutti pensavano che, in qualche modo, il tempo sarebbe passato e tu te le saresti dimenticate?
Tina mi guardò con gli occhi a mandorla spalancati, inspirò come a dirmi qualcosa, ma poi le sue spalle si abbassarono e si affrettò a preparare ciò che avevo ordinato.
Perché eravamo tutti così egoisti? Quella frase continuava a distruggermi il cervello.

Tina mi porse il caffè nel bicchiere di carta termica, e ne annusai il forte profumo. Non c’era nessuno nel bar, probabilmente perchè era decisamente tardi, così decisi che, per quanto non ne avessi assolutamente voglia, forse parlare con Tina mi avrebbe distratto da tutta quella sensazione di colpevolezza e frustrazione.

« Hey. » la salutai, dopo dieci minuti buoni che ero lì al bancone. Lei alzò lo sguardo dal registratore di cassa e sembrò onestamente triste.
« Kurt. » sussurrò, torturandosi le dita. Perché era così nervosa? Tina era sempre stata una ragazza dolce e sorridente, mi sembrava strana quella sua espressione così addolorata. Suonò la macchinetta del caffè, segno che era pronto.
« Come stai? » provai a chiedere, tentando di essere gentile, parlare, però, non mi stava aiutando affatto come sperato.
« Mi dispiace tanto Kurt… » sussurrò, e poi si portò le mani alla bocca, come se le fosse scivolato qualcosa di imperdonabile.
« Ti dispiace? » domandai, confuso. Lei scosse freneticamente la testa e si allontanò da me. Digitò qualcosa sulla macchina del caffè e mi diede lo scontrino che aveva battuto prima, mezzo accartocciato, facendomi capire che era il caso di terminare la conversazione. Non seppi spiegare quanto quella reazione mi fece rimanere male. Presi il resto dal bancone e mi avviai a sedermi.

Le sedie del Lima Bean erano così comode che avrei potuto prendere sonno sul tavolo ma, con il peso di quelle audiocassette in tasca ed il suono della voce di Blaine nella mente, mi pareva che nella mia testa qualcuno stesse strisciando le unghie su una lavagna. Sorseggiai il caffè e mi si scaldò lo stomaco, sentendo in arrivo qualcosa di buono in tutta quella serata, mentre le dita riprendevano sensibilità grazie al caldo contatto con il bicchiere.

Play.

Ma ho altro da dire su di te, Sam, anche se lo capirai più avanti. Per ora, se siete al Lima, sappiate solo che vi sono tornato spesso e, magari, potrei aver lasciato qualcosa nel Guest Book blu sopra la libreria dalla quale hanno rubato tutti i libri che vi stavano infilati.

Mi alzai, quasi rovesciando la sedia e spaventando Tina, e corsi a prendere il quaderno, che stava ancora al suo posto. Lo sfogliai alla ricerca di qualcosa che parlasse di Blaine tra i mille disegni fallici e le scritte di ragazzini che si giuravano eterno amore. Non fu difficile trovare l’unica frase che non c’entrava nulla.

Chissà se troverete ciò che ho lasciato. Chissà se riuscirete a cogliere quel poco di me che è rimasto su quel quaderno. Vi do solo un indizio: è davvero semplice.

“Don’t feel bad for me. Deep in the soul of my heart I really want to go.”

Era una canzone, il testo mi suonava familiare, ed era firmato con una data: 18/11/12. Il giorno in cui si era suicidato. Sentii che stavo per vomitare il caffè, così lasciai lì il bicchiere e corsi fuori.

Notai lo sguardo sempre più triste di Tina con la coda dell’occhio.

Mi ricordo quando scrissi quella frase.

Mi appoggiai al cestino appena oltre il parcheggio ed aspettai che quel senso di nausea atroce mi strizzasse lo stomaco, ma non successe nulla. Ero destinato a tenere dentro tutta quell’amarezza.

Che bel giorno, quello. Le decisioni migliori vengono quando meno te le aspetti.

L’aveva scritto. Nel Guest Book. E nessuno ci aveva mai nemmeno fatto caso, ero sicuro. Non era un annuncio a caratteri cubitali, ma restava una richiesta d’aiuto. Qualcuno doveva averlo visto scrivere. Almeno Tina. O Quinn Fabray, che lavorava lì.

Demolizione di una persona in pochi semplici passi. Ci stavate riuscendo veramente bene, mi dispiace.
Ma questo è solo il secondo nome, quindi vi starete chiedendo: quante persone ci sono volute per farmi sentire la creatura priva di senso che mi sento oggi? Non lo so, avrebbe potuto essere una, due, o tutte voi. Questa storia è un incatenarsi di varie vicende che hanno praticamente preso la mia storia e la hanno fatta a pezzi.
Non siate tristi, ormai non ne vale la pena, credevo solo che fosse giusto sapeste. E ora basta, la lista è lunga e il nastro sta finendo.
Ciao, Finn Hudson, sapevi che saresti spuntato fuori prima o poi, quindi meglio levare via il dente e toglierci questo dispiacere.
Fine cassetta numero due.














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Spazio Autrice:
Ho avuto tempo di scrivere il capitolo in classe grazie a delle interrogazioni scampate, quindi 
approfitto del fatto che ho tempo ora e lo pubblico, sperando di farvi un piacere!

Davvero, aver ricevuto un resoconto positivo è stato una manna dal cielo, non credevo questa storia potesse piacere tanto.

Ah, avviso tutte le persone che si sono comprate il libro: Sì, leggerlo spoilererà la fanfiction di sicuro, ma non è giusto che io vi impedisca di farlo, quindi a voi la scelta!

Grazie di cuore.

Noth

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Capitolo 3
*** Cassetta B Lato 3. ***


13 Reasons Why
Cassetta B Lato 3







Mi misi a camminare sul bordo della strada, talmente poco illuminata che rischiavo di essere investito ogni due per tre. Non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea che avrei dovuto accorgermene e di occasioni per farlo ne avevo avute. Perché ero stato così cieco? Finii alla stazione dei treni, che stava a pochi passi, ed entrai, sedendomi sui bordi dei binari ad osservare la notte e l’abbandono di quella ferrovia ormai quasi dimenticata da Dio. I piccioni camminavano tra le mattonelle con quell’andatura sbilenca e mi chiesi come potessero non morire di freddo. Tenevo la testa bassa e le mani sulle ginocchia, un largo senso di vuoto che dilagava nel petto. Dovevo cambiare cassetta, mettere la seconda e darmi una mossa. Dovevo ascoltare tutto quella notte, ormai il sonno sembrava un qualcosa di lontano anni luce. Premetti il pulsante d’apertura e, tirando su col naso, me la misi in tasca, tirai fuori la cassetta numero 2 e la inserii dal lato A.

Toccava a te, Finn. Come potevi essere in questa cassetta? Non mi risultava nemmeno che conoscessi Blaine, ed eri il mio fratellastro, ti conoscevo bene. Sapevo che a volte potevi sembrare un ingenuo ed eri decisamente lunatico ma… mi rifiutavo di credere che tu fossi una delle 13 ragioni.

Come me, d’altra parte.

Play.

Aspettavo di arrivare a te. Ho aspettato e ti ho lasciato addirittura per terzo, Finn, perché so che ti sei pentito e mi hai chiesto scusa, ma le tue parole hanno aperto comunque la finestra che mi serviva per accorgermi che, volendo, potevo buttarmi di sotto. Sei l’unico che si è lasciato avvicinare dopo l’”l’affare Sam”. Mi hai prestato i tuoi appunti e dato una pacca sulla spalla. Mi invitasti a casa tua, così, dal nulla. Fu una settimana durante la quale mi attaccai a te più del necessario. Nella mia solitudine non avevo altro e venivo attratto da te come una calamita. Non capivo perché fossi così gentile. Poi scoprii che eri stato assente per una forte mononucleosi e non avevi sentito nulla e ancora non eri stato informato delle chiacchiere di corridoio. Finchè nessuno fece caso alla tua ignorante gentilezza nei miei confronti eri l’unico a mostrare un po’ di compassione per la mia condizione. Non capivi nemmeno perché tutti tendessero a maltrattarmi e tenermi lontano.

Tipico di Finn non accorgersi di nulla e comportarsi da bonaccione con un ragazzo infinitamente più basso di lui e in evidente difficoltà.
Era semplicemente fatto così.

Finchè non ti venne la balzana idea di chiedere ai tuoi compagni perché, e loro risposero. Non conosco le loro parole esatte ma non è una fortuna perché le tue fecero più male. Non so perché mi fidai di te, Finn, forse per via della solitudine e del tuo sorriso sincero. E sì, lo era, ma altrettanto sincere furono le tue parole il giorno dopo.

No, non poteva essere. Ora capivo l’ansia di Finn quegli ultimi giorni. A lui erano già arrivate le cassette ed aveva probabilmente utilizzato – non si sa come ci fosse riuscito – i miei marchingegni mentre io ero troppo occupato coi corsi pomeridiani per la preparazione al college. Ecco perché non mi aveva più parlato ed era sempre fuori. Ed io che pensavo fosse a causa di Rachel.

Qualcuno ti aveva spiegato cosa avevo detto di essere, e non so se non te lo aspettassi o se il tuo odio, per quei secondi infiniti, fu davvero così tanto. Ricordo che mi avvicinai a te, alla fine di una lezione dove non mi avevi mai parlato né chiesto come stavo come, oramai, eri solito fare, e mi ricordo che ti scansasti come se ci avesse attraversato una scossa elettrica, come se fossi infetto, credo che questo non lo dimenticherò mai. Dovetti alzare la testa per guardarti negli occhi ma tu non volevi vedermi.

Pause.

Dio, mi stavo piantando le unghie nella testa e tremavo, cercando di trattenere le lacrime che mi vibravano negli occhi. Finn, Cristo, cosa avevi fatto? Probabilmente tutto ciò era successo durante la lezione di educazione fisica. Mi dissero, poi, che avevi sbroccato ma non ti avevo mai chiesto perché, né mi ero informato a riguardo. Immaginai che se non me lo avevi spiegato, non valesse la pena parlarne. Non eravamo ancora fratellastri, ma amici sì.

Meglio per te, se avessi saputo cosa avevi fatto ti avrei aspettato a casa per tirarti un pugno in faccia. Dovevo sbollire, dovevo smettere di tremare ma fu proprio per questo che premetti il tasto play per errore.

Play.

“Ho fatto qualcosa di male?” domandai, il suono della mia voce ti scosse di brividi. Oh, vedo ancora la scena come se l’avessi davanti ai miei occhi.
“Non saprei da dove cominciare.” Dicesti, e allontanai di scatto la mano tesa che era rimasta in stallo tra noi due.
Ti guardai sospettoso, avevo intuito, era arrivato il momento che sapevo di aver scansato per grazia divina. Il mio sguardo amaro fu la goccia che ti fece traboccare.
“Non mi avevi detto di essere gay!”
La tua voce grossa mi fece quasi arretrare.
“Non mi avevi detto di essere etero.” Replicai, non intenzionato a subire ancora sempre le stesse ingiurie. Mi pareva di parlare allo specchio. Attorno a noi si stava radunando una folla sempre più fitta.
“Perché quello era normale! Ovvio!” sbottasti, ed ebbi voglia di piangere. Non c’era nessuno di davvero diverso dagli altri, neanche tu. Ero così ferito che non era possibile fingere che non mi stessi dicendo davvero quelle idiozie.
“Bè, allora scusami, sono Blaine Anderson e sono omosessuale, contento?” sbottai, arrendendomi perché oramai non c’era più nulla da fare, qualsiasi cosa avessi detto sarebbe risultata sbagliata. Anche tu assumesti un’aria ferita, come la mia, eppure non smettesti di urlare.
“Se me lo avessi detto… non so… mi sarei comportato diversamente.” sbottasti, confuso, e strinsi i denti per non scoppiare in un singhiozzare infantile. Ma avevo quattordici anni, Finn Hudson, e quelle parole per me erano un intero mondo che crollava, con tanto di allegati pugni allo stomaco che avrebbero lasciato per sempre delle cicatrici dentro di me. Un po’ come tutti voi, ho delle cicatrici che portano tutti i vostri nomi.

Mi presi la radice del naso per calmarmi. Era come se tutte quelle parole fossero state gridate in faccia a me, e non potevo credere che a dire delle cose del genere fosse stato il mio fratellastro, che stimavo, al quale volevo bene. Finn, perché? Blaine soffriva già abbastanza, sei stato imperdonabile. È imperdonabile. Mi piantai le unghie nei palmi ma non alleviò la delusione.
Blaine, potevi venire da me. Avrei potuto salvarti.
Un attimo, aspetta, tu sei venuto, in effetti. Ma…

Non ci siamo più parlati fino alle superiori, dove non so cosa sia cambiato ma hai iniziato a cercarmi, a tentare di parlarmi. Ed i avrei voluto poterti perdonare, Finn, davvero, ma mi sentivo irrimediabilmente rotto.

So io perché alle superiori cambiò. Mio padre gli fece un discorso piuttosto serio a riguardo, dopo che andammo a vivere assieme per unire le famiglie. Finn era, infatti, impazzito un giorno e si era messo ad urlarmi contro. Un momento che tendevo a rimuovere per abitudine ma, ora, mi era impossibile non pensarci. Vorrei solo che Burt gli avesse parlato prima, forse le cose sarebbero andare diversamente per Blaine. Quanto odiavo ciò che tutto ciò che gli era accaduto fosse il risultato dell’incontro di svariate orrende casualità.

Un giorno mi bloccasti fuori da scuola. Te lo concedo, non credevo saresti arrivato a tanto. Mi trascinasti nel cortile dopo il tuo allenamento di football ed i miei corsi pomeridiani di matematica. Che coincidenza che finissimo alla stessa ora. Cercai di farmi piccolo, piccolo e di schiacciarmi sul muro, non volevo guardarti negli occhi.
“Mi dispiace.” Dicesti, e basta. Era la fiera dei mi dispiace. Non facevi che ripetere altro, ma non riuscivo a sciogliere il nodo che avevo in gola per risponderti.
“Sono stato uno stupido, Blaine, ti chiedo di fare finta che quel giorno non sia mai accaduto.”
E la facevi così semplice. Ma le parole, soprattutto quelle così cattive, non ti lasciano mai andare, ti risuonano nella testa in eterno. Io non riesco a rimuovere quel giorno dalla mia mente. Mi si para davanti agli occhi di continuo.
“Non posso, Finn.” Ti risposi, cercando di andare via perché stavo per sentirmi male. Stavo per vomitare.
“Sono sincero, credo di non aver mai detto nulla di più stupido.” Mi bloccasti ancora, uno sguardo di supplica e mi sentii in colpa per non essere in grado di perdonarti. Se ci fossi riuscito avremmo potuto tornare amici e non sarei più stato solo, ma il catrame che se ne stava annidato dentro di me, intento a crescere e soffocarmi, me lo impediva.
Superai quell’enorme barriera, che non mi lasciava spiaccicare più di due parole, per darti almeno una spiegazione. Ma poi, te la dovevo?
“Finn non posso. Non… Tu hai semplicemente espresso il pensiero comune, ed io mi fidavo di te ma l’idea di starti accanto ora mi rimanda a quel momento di continuo, come un flash come una tortura continua e io… non posso farlo. Mi dispiace che tu abbia detto quelle cose, eri l’unica persona della quale potevo fidarmi, perché non sapevi, ma una volta saputo hai reagito esattamente come le altre. Non riesco a… dimenticarlo. Non ci riesco perché, se almeno tutti gli altri le cose me le dicevano alle spalle e potevo solo immaginarle… tu hai dato la prova finale di ciò che pensavano, che ancora pensano e che non sono sicuro tu non pensi più.”
“Io non…”
“Ogni volta che le sentirò immaginerò che usciranno dalla tua bocca. Mi dispiace, non so come dirti che mi dispiace ma non riesco a portare me stesso a perdonare e dimenticare tutto. Non ce la faccio, e ti chiedo, per favore, di starmi lontano d’ora in avanti.” Spiegai, e mi sembrò di parlare più di quanto non avessi mai fatto in tutta la mia vita.
Era stato faticoso ed orrendo tirare fuori quelle parole, ed ancora più orrenda era l’espressione che avevi in volto.
Scappai via ed andai a casa, chiudendomi la porta principale alle spalle, scappando al piano superiore ed entrando nello sgabuzzino per urlare. Non hai idea di quanto ho urlato, quel giorno, Finn. Alla fine, quando ormai sentivo le corde vocali più come dei filamenti di cemento che di carne, sono sceso a tavola ed ho parlato del più e del meno coi miei genitori. Ma il mostro dentro di me si stava nutrendo, Finn, oh se si nutriva ed aspettava ogni momento buono per fare in modo che l’odio e la solitudine non mancassero mai per cibarsene.

Mi lasciai sfuggire un singhiozzo.

È un susseguirsi di delusioni e attacchi esterni ed interni.
C’è chi ha iniziato il lavoro e c’è chi l’ha finito.
Per questo ora sono qui.
Tina Chang, a te la prossima mossa.
Fine cassetta 2 lato A.

Mi alzai dal binario e mi misi a correre, imboccai stradine a caso, con il naso congelato ed il fiato che mi bruciava in gola per il freddo. Il cemento aveva uno strato sottile di ghiaccio scivoloso sopra, ma non me ne ero accorto, così continuavo a correre, finchè la scarpa non cedette sotto al peso del mio corpo, facendomi cadere a terra sbattendo il petto contro il marciapiede di una via decisamente poco frequentata. Il colpo mi mozzò il respiro ma il mio pensiero corse subito alle cassette. Non dovevano essersi rovinate.
Fortunatamente, dato lo spessore del cappotto che indossavo ed il fatto che fossi caduto di pancia, nulla di ciò che avevo nelle tasche laterali aveva veramente colpito terra. Non trovavo però la forza di alzarmi. Con che coraggio avrei guardato ancora Finn negli occhi? Si era pentito, e lo sapevo bene, ma quelle parole erano uscite dalla sua bocca, e quella bocca aveva ferito Blaine.
Chissà se mi sarebbe importato altrettanto se non avessi avuto una cotta per quel maledetto ragazzo da più tempo di quanto riuscissi a ricordare.

Perché? Perché lui?

Perché lui, Finn?

Mi raggomitolai, tossendo e, ad ogni colpo, mi dolevano da morire le costole. Se ero ridotto così solo dopo tre storie non osavo immaginare alla fine.

Avrei potuto salvarti, Blaine, avrei potuto portarti via.

Non mi hai lasciato.






























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Spazio Autrice:
Avendo finito relativamente presto l'IELTS sono riuscita ad aggiornare,
spero che vi sia piaciuta. Spero davvero che sia okay.
Insomma, non è facile gestire tutte queste cose negative anche per personaggi che si apprezzano.

Ora me ne vado, spero di aggiornare presto.

Noth

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Capitolo 4
*** Cassetta B Lato 4. ***


13 Reasons Why
Cassetta B Lato 4









Quando le persone muoiono lasciano un vuoto nell’immagine. È come tagliare via qualcuno da una fotografia e guardarla anni dopo e ricordarsi che c’era una persona lì, ma non riuscire a rammentare la sua faccia.

È come andare sempre al parco a sedersi sull’altalena, saltare un paio di giorni per via di impegni vari e ritrovare il posto distrutto il giorno dopo perché hanno deciso di costruirci dei condomini.

È come scriversi un numero di telefono e non trovarlo più, perso tra le infinite cartacce.

È come fare un errore fatale.

È come scomparire.

Solo che tu resti.

È l’altro che se ne va.

Immagino che non siate tantissimi ad aver notato Tina Cohen-Chang a scuola. È una ragazza asiatica che veste in uno stile dark fumettistico, non molto alta, sempre in giro con un altro ragazzo asiatico che sicuramente avrete visto nei corridoi, Mike Chang, è nella squadra di football. No? Vediamo se così vi ricordate di lei: ha messo in giro la voce di me e Puckerman più o meno a inizio anno. Ora vi ricordate di quella povera ragazza cinese, vero?
Già, anche io.

Mi si rovesciò lo stomaco e mi salì la bile in gola. C’era qualcuno che non avesse contribuito a quella storia? Qualcuno che non avesse ferito irrimediabilmente Blaine? Qualcuno che fosse innocente come sembrava? Digrignai i denti così forte che iniziò a farmi male la mascella. Mi accorsi che avevo le dita viola, quindi forse avrei dovuto andare da qualche parte, ma dove? Nemmeno m’importava volevo solo sentire che, alla fine, il mio nome non compariva in quella maledetta lista.

Vi consiglio di dare un’occhiata alla mappa, e di seguire il punto F-6. Vedete la vecchia zona industriale? Vi suggerisco di prendere il bus 9 barrato e smontare davanti al cartello artificiale con su scritto “Silicon Crap”. Sì, la gente da queste parti ha un umorismo inquietante.

Si metteva a fare battute? E perché io ridevo?

Dovreste smontare a pochi metri da un palo della luce sbilenco. Mettetevi lì e ascoltate in quel punto il resto della registrazione, altrimenti potete fare ciò che volete come avete sempre fatto e ascoltare seduti nel vostro letto al sicuro, mentre io quella volta non lo sono stato affatto.

Pause.

Premetti il pulsante all’istante. Non potevo sopportare di sentirmi come uno qualsiasi dell’infinita massa che non aveva fatto altro che prendere Blaine e sbatterlo da una parte all’altra finchè non aveva optato per terminare quell’agonia.
Mi alzai in piedi con le ginocchia ed i palmi che bruciavano per la caduta ed il petto mi doleva ancora come se mi fosse passato sopra un tir. Certo, più o meno era anche il modo in cui mi sentivo, un po’ per via della botta e un po’ per il martellare violento del senso di colpa, del dolore e della paura che mi cercavano di sfondare il petto a testate. Mi rimisi sui miei passi mentre una macchina mi passava accanto e rallentava, per poi sfrecciare via come se avesse voluto scappare e nascondersi. Mi ficcai le mani nelle tasche dei pantaloni, ma ancora non riuscivo a sentire nulla con le punte.

Non ero ben sicuro di dove fossi, ma più o meno ricordavo da dove venivo, e poi non è che Lima fosse questa gran metropoli.
Non riuscivo a capire se rabbrividivo per il freddo o per il disgusto.

A sentire la sua voce, Blaine mi mancava molto di più di quanto avessi pensato. Aveva lasciato un vuoto enorme sotto ai miei piedi.

Perché non lo avevo fermato?
Perché ero stato così stupido?
Perché lo avevo ferito?

Mi piaceva ricordare quella serata di qualche settimana prima. Mi piaceva ma ora mi sentivo sporco. Era in qualche modo colpa mia e non riuscivo a perdonarmelo.
Il freddo aveva smesso di fare la guerra col mio giubbotto ed era semplicemente penetrato oltre la sciarpa ed il colletto, solleticandomi la schiena come una lama. Ogni tanto vi erano delle folate di vento davvero violente che mi sbattevano contro la siepe a lato del marciapiede. Mi misi a correre di nuovo, tossendo per via del bruciore al petto, perché volevo arrivare a quel maledetto cartello e ascoltare quella dannata storia e finire, arrivare a me e poi scappare a chiedergli scusa in qualche modo.

Tornai alla vecchia stazione che, grazie a Dio, era il luogo di fermata di ogni autobus, compreso il 9 barrato. Benedetta quella volta che avevano deciso di far correre i bus fino a mezzanotte. Controllai gli orari e mi accorsi di dover aspettare un quarto d’ora e, frustrato, iniziai a tirare fuori le cassettine una per una e ad osservarle. Ne analizzai i vari colori, chissà dove aveva preso quelle maledette audiocassette. Passai il dito intirizzito sulla grafia argentata e distratta che era evidentemente stata scritta con velocità sulla plastica. Da quanto tempo pianificava tutta quella storia? Perché nessuno, nemmeno i suoi, se ne era accorto?

Sotto la luce giallastra del lampione della fermata, i numeri brillanti sembravano dorati e le cassette quasi perdevano la lucentezza del colore sgargiante. Le infilai nuovamente in tasca chiedendomi se la tonalità di ognuna fosse stata scelta appositamente oppure fosse stato lasciato tutto a caso, ma forse iniziavo a pensare un po’ troppo.

Non mi accorsi nemmeno che l’autobus si era fermato dinanzi a me finchè non alzai lo sguardo e realizzai che stava per ripartire senza di me. Mi scaraventai all’interno ed accolsi piacevolmente il lieve calore che scaldava il mezzo.

Mike Chang era ancora sul mio stesso autobus. Si poteva sapere che cavolo facesse a quell’ora? Io avevo una scusa, ma lui…

Una curva quasi mi fece quasi schiantare sul finestrino.
Mike sembrava perso. Guardava dritto davanti a sé ed ero quasi sicuro che non mi avesse nemmeno notato, nonostante fossimo gli unici due nell’intero bus, escluso l’autista.

Per la seconda volta.

Per qualche minuto mi dimenticai del peso delle audiocassette nelle mie tasche e mi sedetti sul sedile davanti a lui, tanto per raggiungere la zona industriale ci sarebbe voluto un po’.

Conoscevo Mike perché avevamo fatto matematica ed economia domestica assieme ed era davvero un ragazzo a posto. Bravo nello sport, intelligente, simpatico, gentile, e molto disponibile. Eravamo andati molto d’accordo finchè lui non aveva iniziato ad isolarsi e a gettarsi esclusivamente nello studio, rischiando di dovere lasciare gli allenamenti di football.

E nessuno sapeva perché.

« Hey, Mike, ciao. » mi sporsi verso di lui e gli sorrisi, levandomi le cuffie prive di audio.

Come riuscii a distendere la faccia ancora non lo so.
Lui sobbalzò e, finalmente, mi notò.

« Kurt, scusa, non ti avevo visto. » mormorò.

« Già, avevo notato. » cercai di essere gentile. Vidi che non indossava i suoi soliti jeans e dal suo giubbotto non spuntava il cappuccio di una delle felpe che aveva sempre addosso.

« Tutto okay? » mi azzardai a chiedere e lui guardò fuori dal finestrino.

« Alla grande, perché? »

Mi sistemai bene sul sedile. Fuori dal finestrino i lampioni sfrecciavano veloci.

« No, nulla di particolare, voglio dire, se lo dici tu… » risposi, e lui sorrise e tornò a guardare fuori dal vetro sporco. Aveva delle borse sotto agli occhi, ed il suo colorito era di un pallore che poco si addiceva ad una persona che avrebbe dovuto fare molto sport. I suoi voti erano eccellenti, con… Tina andava tutto abbastanza bene, supponevo.
E allora perché?

« Perché fai quella faccia? » domandò con tono stanco.

Mi strinsi nelle spalle.

« E’ la mia faccia, suppongo. Con la tua ragazza come va? »

« E’ ancora Tina, per ora. » rispose, sospirando.

« Qualcosa non va? » chiesi, cercando di non apparire invadente.

Lui guardò il soffitto.

« Non è colpa sua, fidati. » disse, e mi resi conto che eravamo già nella zona industriale. Si era avvicinata nel frattempo? O avevo perso la cognizione del tempo?

« Spero si risolva. Scusami, devo andare, è la mia fermata. » dissi, e mi strinsi nel cappotto alzandomi in piedi.

« Scendi in zona industriale a quest’ora? » domandò. Sembrò quasi seriamente preoccupato che andassi in una zona del genere a quell’ora.

Sembrava quasi il vecchio Mike.

« Già. » gli risposi semplicemente. Mi voltai per prenotare la fermata e scesi. Non accolsi piacevolmente il freddo e rabbrividii, rischiando quasi di contorcermi.

Guardai l’autobus che si allontanava e vidi Mike con la testa poggiata sul finestrino e gli occhi chiusi.
Piangeva?
Non ne ero sicuro.

Di colpo il peso delle cassette nelle tasche divenne insostenibile e mi trovai a ricordarmene di botto, sentendomi quasi in colpa.
Magari Mike era nelle cassette, magari faceva così per quello che aveva fatto Tina e che i nastri stavano per spiegarmi. Come al solito ogni domanda si riduceva alla pressione di un unico tasto.

Play.

Scorsi in lontananza il cartello con scritto “Silicon Crap”.

Siete andati dovevi avevo detto? Vabè, non importa, fingerò che l’abbiate fatto. Se siete scesi dall’autobus, alla vostra destra – sotto a un lampione – dovreste vedere il cartello smangiucchiato dalle intemperie di “Silicon Crap”. Ora vedete accanto quel lampione sbilenco? Spero sia ancora lì, non ci passa mai nessuno in quel quartiere, ormai, e gli operai di certo non si sono mai impegnati ad aggiustare le cose rotte.

Mio padre ci aveva lavorato prima di avere l’officina, ed era vero.

Mettetevici di fronte.

Lo feci.

Voltatevi dandogli le spalle.

Lo feci.

Quella fu la mia visuale quando mi tesero quell’imboscata. Sapete di chi parlo? Forse voi sì, io no, non li ho mai visti in faccia. Ho solo sentito le voci di alcuni ragazzi della squadra di football.

No, io non lo sapevo. Che diavolo…

Mi attaccarono da dietro, credo, non ho idea di come arrivarono, né da dove. Sapevo solo che erano tanti. Una decina. E io uno. E cosa volevano? Che smentissi la voce di me e Puckerman che aveva messo in giro la fidanzata di Mike Chang. Una voce della quale io non ero nemmeno a conoscenza. Un’altra, un’altra maledetta voce sul mio conto. Perché? Non ne erano circolate abbastanza? Sulla presunta AIDS, i miliardi di gigolò che entravano ed uscivano da casa mia… non bastavano mai.
Venni massacrato perché non riuscivo a parlare. Ad un certo punto svenni. Sapete perché quel palo è così sbilenco?

Non dirlo, Blaine, non dirlo.

Io ero lì perché mi era arrivato un biglietto di Santana che mi chiedeva di vedersi in quel punto. Non so perché non pensai che potesse essere falso, forse perché non mi scriveva mai nessuno, ma allora quello avrebbe dovuto essere un campanello d’allarme. Non lo so, ero stupido, ma avevo bisogno di interagire con un altro essere umano, e allora andai. Poi successe quel che successe.
Ah, già, il palo. Mi presero in tre e mi ci sbatterono addosso. Ricordo questo prima di svenire. Quando mi svegliai era quasi sera e non c’era nessuno. Mi avevano ammucchiato vicino a dei sacchi della spazzatura. Ero talmente invisibile dalla strada che avrei potuto essere stato morto e nessuno se ne sarebbe accorto.
All’epoca pensai fosse una fortuna non lo fossi.

Chiusi gli occhi, non riuscivo a guardarmi attorno.

In qualche modo mi misi in piedi. Ero ridotto ad uno straccio ma mi vergognavo così tanto che mi misi in testa il cappuccio e mi coprii come potevo. Presi l’autobus ed andai a casa. Mi medicai alla bell’è meglio, disinfettai le ferite e dissi a tutti che ero caduto in un tombino.

Scoppiò a ridere ma io non riuscivo a ridere. Volevo piangere a lungo, ma non ero nemmeno in grado di fare quello.

Sì, un tombino. Credibile. Nemmeno come avevo fatto o dov’ero mi venne chiesto. Da nessuno. A parte Miss Pillsbury. Le avevo risposto con un’alzata di spalle.
Ti venni a cercare, Tina, ti ricordi? Te lo ricordi eccome, perché cercasti di fingere innocenza ma io ti portai allo scoperto.
“Perché lo hai fatto?” ti chiesi, e il tuo sorriso svanì.
“Non so di…”
“Per favore, non mentirmi. Mi hanno… credi davvero che sia ridotto così perché sono caduto in un tombino?”
“Io non…”
“Rispondi, per favore.”
Tu scuotesti la testa. E la cosa mi fece morire di rabbia. Avevi capito che c’entravi in qualche modo e… non eri nemmeno venuta a cercarmi. Eppure eravamo a metà delle classi insieme, avevamo parlato, anche, prima che tutto iniziasse a crollare.
Perché io? Perché così?
“Si… acquista popolarità spargendo pettegolezzi… Mike aveva bisogno di recuperare popolarità perché io ero troppo… gli avevano detto che non andava bene e questa mi era parsa l’unica soluzione. Tu sei il primo che mi è venuto in mente, non…”
Ti fermai.
“Non l’hai fatto apposta.” Completai la frase al posto tuo e me ne andai. Sono quasi sicuro che mi urlasti delle scuse, ma non aveva senso sentire.
Popolarità? Solitudine? Divertimento?
Ero diventato la scusa perfetta.

Pause.

Mi misi a correre verso il palo ed iniziai a prenderlo violentemente a calci.

« Perché? Cazzo, perché? » gridai, e fui tentato di scaraventare via le cassette. Più avanzavo meno volevo sapere.
Era come una lenta tortura e volevo davvero liberarmene. Quegli strumenti facevano male, malissimo.
Capivo ciò che provava ma non potevo farcela, non potevo, non ce la facevo.




















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Spazio Autrice:
ome ben sapete, o forse no, purtroppo un mio caro amico è morto questa domenica. O meglio, è morto sabato ma lo ho saputo domenica.
E' caduto giù da una scarpata. Lo conoscevo dalle elementari.
E' morto a 22 anni, con una vita davanti, un matrimonio da preparare, una ragazza da amare.
E' morto e mi manca tanto.
E quindi voglio dedicare questo capitolo a lui. CIAO, LEONARDO.
Se sono lenta è per via di questo non me ne vogliate se ultimamente sono piuttosto triste. Mi passerà.

Grazie, comunque, per le meravigliosa recensioni, io mi sento incredibilmente onorata.

Un bacio,

Noth

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Capitolo 5
*** Cassetta C Lato 5. ***


13 Reasons Why
Cassetta C Lato 5.








Non ero così forte, non potevo continuare ad ascoltare e sapere che tutti noi – perché sì, anche io – avevamo contributo alla demolizione di una persona. A volte era decisamente meglio non sapere. Mi guardai attorno e vidi un enorme cassone accanto a un edificio fatiscente. Ebbi il forte desiderio di prendere tutte le cassette e lanciarle oltre il bordo, così decisi di farlo. Mi tremavano le mani, avevo paura, non riuscivo a pensare. Non ero forte come aveva creduto, probabilmente, non mi importava se poi tutti avrebbero saputo, perché la verità era che non sapevo nemmeno io, non me ne stavo dando il tempo. Avrei buttato anche il registratore se non fosse stato un ricordo troppo importante per essere distrutto. Mi avvicinai attraversando la strada con le gambe molli e la voglia di vivere sotto ai tacchi. Era un incubo, un orribile incubo dal quale avrei voluto svegliarmi subito ed andare a salvare Blaine. Dio, se solo fossi stato più attento.

Okay, avevo deciso, non potevo ascoltare quei nastri un secondo di più, non per distruggermi in quel modo. Le mani tremavano violentemente e temevo che non sarei riuscito a stringere le cassette abbastanza da lanciarle nel cassone dove sarebbero state incenerite senza nemmeno uno sguardo. Ormai le premevo così forte nei palmi che faceva male, tutte e sette le audiocassette con i loro tredici numeri argentati sopra.

Era il momento di dire addio.

« Scusami se sono un codardo. » mormorai tra i denti, e stavo davvero per liberarmene, stavo per farlo.

Poi una voce.

« Non farlo, Hummel. »

Una voce profonda e triste alle mie spalle. Mi voltai, accorgendomi di avere delle copiose lacrime lungo le guance.

Patetico e stupido, ma ancora più patetico era chi stava di fronte a me in quel momento, le mani nelle tasche e la cresta scompigliata.

Indossava un giubbotto di pelle e la sua figura si stagliava in mezzo alla strada.

Noah Puckerman.

Cosa diavolo ci faceva là? Di colpo pensai di saperlo.

Mi asciugai le lacrime con rabbia ed il mio sguardo divenne ingiustamente ostile. Probabilmente Puck era nelle cassette ed aveva fatto del male a Kurt, alla pari di me, ma se le avessi buttate non lo avrei mai potuto sapere.

« Cosa vuoi? » sbottai, e quando lui fece un passo avanti nel buio io arretrai.

Sorrise malinconico.

Era comunque strano che fosse in zona industriale a quell’ora.

« Non buttarle. Ci ho pensato anche io, ma ti assicuro che poi vorrai sapere. Io sono tornato a prenderle. » con gli occhi indicò il cassone.

« Io… non lo farò. » risposi, distogliendo lo sguardo da lui.

« Oh, sì invece. E poi la tua è una storia che devi sentire. Lui ha il diritto di dirtelo. » spiegò.

Scossi la testa.

« Ho sicuramente fatto qualcosa di orribile. » piagnucolai, e odiavo piagnucolare, ma nel frattempo infilai in tasca le cassette.

Le avrei davvero mai buttate?

« Lo abbiamo fatto tutti, e tu hai sentito solo un pezzo della mia storia. A quale nastro sei? »

« Alla quinta persona. » risposi, schiarendomi la voce e ripetei una seconda volta.

Annuì.

« Quella che stai per ascoltare è una bella storia. »

Scoppiai a ridere mentre lui si stringeva nelle spalle.

« C’è seriamente qualcosa di bello in questi nastri? » chiesi, l’amaro della risata ancora in bocca.

« Devi pur vedere del bello ogni tanto, o l’ascolto diventa un incubo. »

Sospirai, il fiato tremolante che si condensava in una nuvola grigia.

Ci fu un silenzio orrendo, nel quale mi sentii in colpa per quello che avevo quasi fatto. Puck si girò e fece per tornare a nascondersi nell’ombra nella quale era probabilmente rimasto nascosto tutto il tempo.

« Aspetta. » lo chiamai. « Finora so solo che lo hai preso in giro quando anche tu stesso te la spassavi con Sam. » rabbrividì a sentirselo dire. « Dici che mi manca metà della storia ma te lo voglio chiedere lo stesso. Perché hai fatto quello che hai fatto? Credi che se lo avessi saluto prima ti saresti comportato diversamente con lui? »

Puck non ci pensò nemmeno.

« No, ciò che abbiamo fatto è ciò che siamo. Evidentemente non siamo delle belle persone. » rispose, ma non gli credetti del tutto perché, nonostante tutto, aveva buttato le cassette ed era tornato a riprenderle e, inoltre, era ancora lì a quell’ora a sentirsi in colpa e a riflettere.

Chissà, allora, perché le persone mentivano.

Nel tempo in cui mi ero fermato a pensare, Puck era già scomparso.

Nonostante fosse buio e la strada non fosse poca, decisi che sarei tornato in città a piedi.

Per non sentirmi solo, ficcai una delle cassettine nel registratore, feci un respiro e lanciai un’ultima occhiata al cartello sbilenco. Mi misi a camminare, schiacciando lentamente il tasto play.

Siamo arrivati alla quinta persona, è stato relativamente veloce. Non indolore, ma veloce. Ci sto mettendo meno del previsto, decisamente. Siamo a una delle cassette che mi ha fatto capire che non potevo restare. Che rischiavo solo di peggiorare, più a lungo fossi rimasto. Ed, in effetti, è quello che è successo, ma a breve smetterà di accadere.

Quasi inciampai per il dolore di sentire pronunciare delle parole così tristi con così tanta rassegnazione.

Mike, non avrei voluto includerti in questa lista, eppure ci sei. Sì, Mike Chang. Non ti agitare, Tina, se stai ancora ascoltando. Non vale la pena agitarsi, suppongo. Mike, scusami. Probabilmente nessuno di voi lo sa, non so se è una fortuna o meno, ma Mike soffre di bulimia nervosa. Come lo so? Fui l’unica persona a cui lo disse perchè non avevo contatti con nessuno e tutti mi odiavano. A chi avrei potuto dirlo? Un giorno ero rimasto a scuola il più possibile per non restare troppo tempo a casa da solo senza nessuno attorno, per quanto a nessuno andasse davvero di starmi accanto, ma avevo troppa paura di me stesso. Avevo più volte pensato di tagliarmi solo per vedere se davvero distraeva da altri tipi di dolore, e avevo paura di farlo. Non ero sicuro che fosse una buona idea. Uscirono tutti i giocatori di football che finivano allenamento, alcuni tirandomi pacche sulla testa e ridendo. Anche Finn, che si girò a guardarmi, e Puck che rideva spintonando Sam che sembrava davvero stanco. Ma poi volevo solo che non mi importasse di ciò che faceva nessuno dei tre. Eppure mi importava.

Sei uscito dopo di tutti, Mike, e si sa che non resta mai nessuno a scuola dopo la squadra di football, quindi era tutto di una solitudine spaventosa.

Ti sei seduto accanto a me, hai appoggiato la borsa e sei scoppiato a piangere. Accanto a me! Pensai che fossi ubriaco, invece stavi male. Piangevi in silenzio, ma ti tremavano le mani.

Avevo paura ad espormi, ed avevo paura ad avere un giocatore della squadra che mi aveva picchiato accanto a me. Ma poi tu cominciasti a parlare, e decisi che dovevo stare ad ascoltarti.

« Non voglio giocare a football, non voglio andare bene a scuola. O meglio, lo voglio, ma non è il mio primo pensiero. E voglio smettere di sentirmi così… lo sai cos’è peggio? Che non posso dirlo a nessuno e questa… cosa mi sta uccidendo. Voglio ballare, voglio ballare e invece… »

« Invece? » mormorai, guardando dritto davanti a me. Ero fuori allenamento con le conversazioni, e quella si stava rivelando una delle più strane avute negli ultimi tempi. O l’unica.

Tu deglutisti a vuoto.

« Non posso dirlo. »

« Lo so. »

« Vorrei. »

« Parlare con me è come parlare ad un fantasma, se ti consola. » replicai, sperando che cogliessi il riferimento a ciò che mi veniva fatto e, inaspettatamente, lo facesti. Mi desti una delle risposte che non avrei mai creduto di udire da qualcuno di voi.

« Mi dispiace. »

« Sul serio? » quasi risi amaramente.

« Sul serio. »

Rimanemmo in silenzio. Volevo parlarti ma avevo imparato dalle esperienze passate che non era mai una buona idea, però, se non volevo andare a casa da solo un’altra volta, dovevo trovare qualcosa da dire per non farti andare via.

« Penso di… sai cos’è la bulimia? » chiedesti. Io annuii lentamente. Riuscivo a sentire le mie sopracciglia assumere la forma di una tettoia, la tipica espressione che assumevo quando ero preoccupato.

« Credo… credo di essere bulimico. » sussurrasti, come se stessi sputando un cibo particolarmente amaro. Lo dicesti così piano che sembrava stessi confessandomi la colpevolezza di un omicidio, ma cos’era la bulimia se non un tentato suicidio giornaliero? Il fatto che ne stessi parlando, quando le persone solevano tenerselo per sé, mi fece capire quanto dovevo a malapena esistere in quell’universo.

E voi non sapevate niente, non vi siete mai accorti né di me né di Mike Chang che era vostro amico.

Il modo in cui aveva detto “voi” mi fece stringere il cuore mentre camminavo a bordo strada e l’autobus mi oltrepassava venendomi incontro e tornando in zona industriale. Notai con una nota dolorosa che Mike era ancora dentro, con la testa poggiata sul finestrino.
Forse avrei dovuto parlargli, e decisi che lo avrei fatto presto. Non quella notte, però.

« E perché lo fai? » ti chiesi, so che te lo ricordi perché, inaspettatamente, avevi la risposta.
« Perché non può essere peggio di così, giusto? » dicesti, e ti voltasti a sorridermi malinconicamente.
Ti ricordi che sorrisi? Io sì, perché era passato così tanto tempo dall’ultima volta che mi parve di strapparmi la faccia, giuro, sento ancora la sensazione.
Dopo quel giorno iniziammo a vederci di nascosto, e vorrei dirvi dove, ma allora quel posto perderebbe quel qualcosa di speciale che ha ora.
Tanto sono morto, starete pensando, ed io vi rispondo che credo di potermi permettere che mi importi di qualcosa.

Nonostante la tua presenza, Mike, come tu ben sai, iniziai a tagliarmi in ogni caso. Semplicemente era la cosa più facile da fare, ciò che mi permetteva di non sentirmi inesistente. Il dolore, quella piccola linea di bruciore, mi riportava alla realtà.

Un giorno lo scopristi, Mike, ti ricordi come? Wow, mi sembra di ricordarmi un sacco di cose.

Semplicemente eravamo seduti l’uno di fronte all’altro, i vestiti cominciavano a caderti sempre più larghi e, stiracchiandomi, mi si scoprì un polso e ci feci caso troppo tardi. Vedesti le piccole linee chiare che mi percorrevano i polsi martoriati e pensai di avere oltrepassato il limite.

Tra parentesi, sai che ancora non so come facessi a trovare tutto quel tempo da passare con me senza farlo sapere a nessuno? Voglio dire, eri sommerso di impegni…

In ogni caso.

Riuscii quasi a ridacchiare per quel pensiero assolutamente casuale inserito in un discorso orrendamente serio.

Mi prendesti il polso e poi mi abbracciasti. Avevo dimenticato il profumo e la sensazione degli abbracci e, anche se non ci crederai, è per quello che scoppiai a piangere, non perché mi avevi scoperto. Mi resi conto che volevolo sapessi perché avevo paura ed odiavo l’idea di lottare da solo, ma tu mi hai preso per mano e mi hai mostrato che c’era qualcuno con me. Assurdo, un giocatore di football, vero?

« Ti prometto che proverò a smettere il mio se tu smetterai il tuo. Aiutiamoci a vicenda… ti va? » dicesti.

Qualcuno voleva aiutarmi. Credo di aver capito dopo tanto tempo che non ero costretto a scegliere di stare da solo. Dopo un mese compresi per la prima volta che tu mi piacevi molto, Mike, e sembrava che io piacessi a te.

Ed è proprio per questo che ho fatto quello che ho fatto.

Da quel momento in poi cercai di ferirmi, e solo per non farti stare male. Se c’era una cosa che avevo imparato era che mi affezionavo decisamente troppo in fretta.

Però un giorno mi presero e mi buttarono nei cassonetti del retro della scuola. Non avete idea di quanto faccia schifo e quanto ti faccia sentire davvero spazzatura. Quando smisi di piangere e riuscii a trovare la voglia di uscire, sapevo benissimo cosa avrei fatto. Avrei voluto essere capace di non farlo diventare il mio primo pensiero, ma non ci riuscivo. Mi accucciai dietro al cassonetto, nonostante ormai lo spettacolo fosse finito e non vi fosse più nessuno e… e… per qualche motivo arrivasti e mi prendesti dopo che ero riuscito a fare una piccola e sottile linea soltanto. Non sapevo nemmeno di avere ancora la lametta dietro, in realtà. Sta di fatto che eri accanto a me, con un fazzoletto in mano e l’aria corrucciata. Mi tamponasti la ferita, che bruciava parecchio, ma la cosa peggiore era la tua espressione delusa. Poi però spiegasti.

« So quanto è difficile smettere. Io non sono riuscito a fermare il mio… problema. Ci ho provato per te, ma voglio che tu lo faccia perché sei… vale la pena. Insomma, ti prego, non farlo più. »

E restammo in silenzio. Nemmeno so perché ti importasse di me. Eravamo così impotenti.

« Non sei costretto a restare con me, se qualcuno ti vede ne pagherai le conseguenze. » ti dissi, ma non volevo mandarti via, eri l’unica cosa che avevo.

« Tu non eri costretto a non dire a nessuno del mio problema. Ci avresti guadagneresti popolarità, a chi non piace un bel pettegolezzo? » sorridesti, e capii la tua paura.

Quel momento è stampato nella mia memoria come un flash, ancora adesso. Mi carezzavi le cicatrici sul polso mentre io sentivo le tue costole che iniziavano a sporgere sotto la pelle. Poi.
Bè, poi.

Non volevo ascoltare, Blaine, perché lo avevi inviato anche a me? Non volevo sapere questa storia e, se non avessi avuto le mani congelate, probabilmente avrei stoppato. Per compensare mi morsi le guance e cercai di far smettere gli occhi di bruciare.

Un bacio non è poi una gran cosa, credo, però è successo e ho capito che era completamente sbagliato. Le nostre due galassie autodistruttive non erano fatte per collidere, solo per farsi un po’ compagnia, ma se troppo vicine avrebbero creato un buco nero. E non potevo permettermi di distruggerti.

Ero sollevato? Sì, eppure enormemente triste. Mi sentivo un egoista e odiavo tutta quella sofferenza. Odiavo che la sua voce si spezzasse mentre parlava. Ed odiavo non poter fare nulla a riguardo.
Odio, troppo odio.

Guarda che discorsi mi trovo a fare, ma devi sapereche sono scomparso per una ragione, che sono scappato e ti ho evitato per un motivo, e quel motivo eri tu. Hai continuato a cercarmi, lo so.
Spero solo che tu sia guarito, perché io no.

Ah, ciao Tina.

Scusami.

Mi fermai, col vento che mi schiaffeggiava la faccia.

 So che pensavi ti avessi usato per vendicarmi di lei e del suo rumors, ma ti posso giurare sulla mia vita – o forse no, ormai no – che mi ero ampiamente dimenticato della sua esistenza, da bravo egoista che sono.
Bè, il mondo si è dimenticato di me così tante volte che immagino sua un bel modo di riparare.

Un pausa.

No, affatto.

Rischiai di cadere a terra, un ginocchio mi cedette e mi faceva male la testa. Allungai una mano verso il cielo, un gesto da film, ma nessuno la afferrò. Lo spirito di Blaine, o chi per lui, non poteva fare nulla per lenire una sofferenza che, fino a poco prima, era stata solo sua.

Più restavo, più ferivo e venivo ferito. Non potevo meritarmi nessuno perché lo avrei trascinato sotto la mia valanga di terra. Non era giusto, no?
No.

Ho iniziato a macchinare tutto dopo di te, Mike, seriamente.

Ah, e voglio che ti sappia che non è colpa tua, ma mia. Volevo che capissi che non eri tu la mia… supernova.

Non eri tu.

Era un altro.

Fine cassetta C lato 5.

Macabramente divertente fu lo scatto della cassetta che si fermava all’istante, terminata. Alzai lo sguardo e scoprii di essere a un centinaio di metri dal cartello di entrata della città.

Avevo camminato veloce, uh.

Inizia a correre, il cuore che si rifiutava di battere velocemente nel petto. Morto e stanco.
Blaine e Mike. Non erano fatti per stare assieme. Da come lo aveva raccontato, se non lo era lui chi lo era? Io?

Io e lui…

Noi…

Mi aggrappai al palo e singhiozzai forte nella notte, cercando di tapparmi la bocca per non svegliare nessuno. Se c’era una cosa che non volevo fare era dare spiegazioni. Non in quel momento, né mai.

Quando nemmeno l’amore può salvarti e, invece, ti distrugge, cosa puoi fare?

Non andartene…

Disse una voce dentro di me.

Non andartene…




















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Spazio Aurtice:
Non avete idea di quanto sia stato difficile scrivere di Mike e Blaine. Seriamente. Pensavo di morire.
Ma ce l'ho fatta, e capirete dove porterà.

Grazie per ogni bellissima recensione e condoglianza per Leo. Scommetto che sarà felice.

Un bacio.

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Capitolo 6
*** Cassetta C Lato 6. ***


13 Reasons Why.
Cassetta C Lato 6.









Non so con che coraggio riuscivo ancora ad andare avanti a camminare, non avevo risposte a tutto ciò che era successo e presto sarebbe toccato a me. Cosa avrei fatto poi? Non sapevo nemmeno questo, ma il tempo scorreva come sassi in una clessidra, con una lentezza snervante che mi stava facendo uscire di testa.
Ed era incredibile come dentro di me vi fosse il caos, eppure all’esterno tutto restasse immobile. Il paradosso del dolore, immagino.

Mi mancavano ancora otto lati, parevano infiniti e volevo solo sapere quando sarebbe toccato a me, perché l’attesa mi stava consumando.
Non erano bastate cinque ragioni, ce ne volevano tredici. Perché tredici? Non sapevo dove andare, il freddo era così rigido che facevo fatica a sentire le giunture. Con le dita tremanti afferrai la cassetta da dentro il registratore e la voltai, il numero sei lampeggiò argenteo davanti ai miei occhi. Mi accasciai accanto al palo del cartello della città e vidi Sam Evans camminare velocemente sul marciapiede accanto al mio, poi mi vide e si fermò in piedi ad osservarmi, con quell’espressione orribile dell’uomo che guarda sofferente l’animale che ha appena investito. Il suo sguardo mi metteva a disagio, ma finsi di non vederlo e di non notare che noi colpevoli continuavamo a camminare per la città come zombie alla ricerca di un compagno. Sistemai bene le cuffie nelle orecchie e sperai che il nastro mi desse un luogo dove andare perché, sinceramente, non avevo voglia di stare là a farmi osservare mentre mi frammentavo. Non era nemmeno uno spettacolo da guardare, Sam era un idiota.

Play.

Cassetta numero seeeeeeeeei.

Canticchiava, magnifico. Amavo la sua voce. Non me l’aveva mai fatta sentire.

Mi dimentico sempre di avvisare chi si sarà nella cassetta dopo ma, perdonatemi, rumore di fogli dispiegati, siete davvero tanti. Tanti e… faticosi. Perdonatemi.
Anzi, no, non fatelo.

Il filone dei suoi pensieri risultava a tratti decisamente buffo. Pazzia? No, Blaine era semplicemente sempre stato fatto così. Alzai lo sguardo e mi accorsi che il cielo era coperto di nuvole, ma gli stracci di vapore scuro non coprivano bene le stelle che brillavano ugualmente come fiamme.

In ogni caso per questa cassetta non ho preparato indovinelli, quindi… bè, andrò dritto al punto.

Sam restava lì, immobile.

Ciao queen-Quinn. Immagino che la tua vita sia fantastica come sempre.

Sobbalzai. Quinn. Quinn Fabray aveva fatto del male a Blaine? Ma… tutti dicevano fosse un angelo. Mi salutava tutti i giorni, a parte gli ultimi perché a scuola non la avevo più vista. Ogni nome nella lista di Blaine era come uno schiaffo.

Sì, tutti sanno che hai avuto un figlio, tutti sanno che sei una brava ragazza e che ami Finn Hudson. Temo di dover specificare che solo la prima di queste affermazioni è vera.

Cosa?

Avete capito bene, gente, Quinn Fabray non è la giusta sovrana che tutti voi credete. Già, vi va di andare davanti casa della dolce queen-Quinn? Sapete tutti dove abita, non ve lo dico nemmeno.

Certo che sapevo dove abitava, ma era dall’altra parte della città. Con tutta probabilità non c’erano più autobus e non sapevo bene quale avrei dovuto prendere in ogni caso. Non ero un frequentatore dei quartieri alti e raramente ero andato a una delle feste che aveva organizzato a casa sua.

Alzai lo sguardo e Sam era sparito.

Mi invitasti ad una festa a casa tua, credo ti fossi dimenticata che non esistevo.

Stop.

Mentre ascoltavo e pensavo a come fare, una macchina si accostò a me, abbassando il finestrino. Ero pronto a difendermi in caso di aggressione quando vidi che, in macchina, vi era Finn. Non parlai, non sapevo nemmeno cosa dire. Volevo solo stare in silenzio e pregare che non mi rivolgesse la parola. Mai più. Ma era sperare troppo, immagino.

« Storia di Quinn, vedo. » mormorò, abbozzando uno di quei suoi vecchi sorrisi che di solito mettevano tutto a posto, perché lui era Finn, era un po’ scemo ma nulla di più.

Ma non quella volta.

« Non vuoi parlarmi e non ti biasimo, davvero. » sospirò. « Ma visto che finora sono passato per di qua tutte le sere e ho fatto da Caronte alle varie vittime, monta pure in macchina, ti porto da Quinn. » disse, continuando a mantenere quell’aria da innocente che mi metteva così a disagio.

« Non parlerò durante il tragitto, ti lascerò ascoltare in silenzio. Sarò solo un autista. »

« Perché lo fai? » sbottai.

Lui abbassò lo sguardo sulle mani strette al volante.

 « Per una serie di ragioni, ma principalmente perché mi sento uno schifo per quello che ho fatto e credo sia l’unico modo che ho per rimediare. »

Montai in macchina, evitando di guardarlo. Mi sentivo insensibile, troppe emozioni in una volta sola. Troppo tutto. Troppa verità.
Finn premette sull’acceleratore e proseguì per le strade gelate di Lima, mentre io continuavo il mio ascolto.

Play.

E sinceramente non so perché andai. Non avrei dovuto, sapevo che era una pessima idea, ma non volevo essere solo. Ne ero consapevole ma… accettare la propria solitudine era una tortura. Volevo solo svagarmi, fingere di avere un posto nel mondo almeno per una volta, e poi c’era la possibilità che avrei potuto incontrare una persona lì. C’era la possibilità, non tutti andavano, però… in ogni caso mi trovai a mentire ai miei e a dire che avevo degli amici di un club inesistente che mi avrebbero fatto compagnia. Mi diressi in bicicletta a casa tua, già, lo so, pessima idea andare ad una festa in bici, ero nuovo di queste cose, non sapevo nulla.

Strinsi la stoffa dei pantaloni tra le mani.

Potevo sentire il pompare della musica dall’entrata dei quartieri alti della città. Non so dove fossero andati i tuoi genitori, ma per un reverendo dev’essere orrendo credere che sua figlia sia un angelo quando non lo è.

Spiegati, Blaine.

C’era tanta di quella gente che non si vedeva il pavimento. Tutti con un bicchiere in mano e tu mi accogliesti col sorriso, porgendomi una bottiglia di birra e augurandomi di divertirmi. Passai la serata ad andare avanti e indietro tra coppie che pomiciavano violentemente, gente che vomitava e persone che ridevano. Non riuscii nemmeno a scoprire se colui che cercavo ci fosse o meno, o meglio, non me lo ricordo. Sai perché?

Perché, Blaine?

Perché mi davi sempre qualcosa da bere e, non avendo niente di meglio da fare, trangugiavo tutto e, alla fine, finii ubriaco. Era una sensazione meravigliosa, era come fluttuare con la testa che mi galleggiava simile a un palloncino sopra il corpo. Sorridevo così tanto che mi doleva la mascella e, se ci ripenso, mi fa male ancora adesso.

Io a quella festa c’ero, mi ricordo. Avevamo parlato io e Blaine. Era vero che era ubriaco, ma avevo stupidamente sperato la sua felicitò fosse autentica. Ricordavo il dialogo fatto, perché mi era rimasto impresso. Ero rimasto seduto sul divano dall’inizio della festa ed avevo visto talmente tanta gente pomiciare che ormai era diventato noioso. Miracolosamente Santana Lopez aveva smesso di baciare un giocatore di hockey ed era visibilmente alticcia. Fu allora che Blaine mi affiancò, il fiato alcolico e un bicchiere di qualcosa in mano.
Pensai che un’occasione del genere non mi sarebbe capitata mai più, e mi feci coraggio, forse perché ero mediocremente allegro per via del cocktail bevuto poco prima.

« Che festa. » avevo detto. Blaine si era voltato verso di me e aveva abbozzato un sorriso storto un po’ fuori luogo.

« L’unica. » aveva risposto e solo ora capivo che intendeva di non essere mai stato invitato a nessun’altra.  Avrei dovuto capirlo, eppure più sapevo e più mi rendevo conto di essere stato stupidamente distratto, un po’ come tutti. Nessuno aveva davvero prestato attenzione.

« Come stai? » gli avevo chiesto. Come potevo sapere che per lui era una domanda enorme?

« Da urlo. » aveva annuito, non avevo capito che non era affatto un urlo positivo quello che intendeva lui.

« Bene. » avevo risposto, mostrando al meglio che ero felice. Io sapevo che qualcosa non andava, lo sapevo e non avevo fatto nulla.

« Tu? » aveva dovuto avere la forza di chiedere, guardando il suo bicchiere con disgusto ed appoggiandolo sul tavolino lì accanto.

« Non mi lamento eccessivamente. » lui era scoppiato a ridere.

« Nessuno si lamenta mai abbastanza. » aveva detto.

« Se tutti si lamentassero adeguatamente, sai che tristezza. » avevo provato a farlo ridere ancora, ma senza ottenere risultati, perché lui sospirò. Poi mi aveva poggiato una mano sulla spalla e si era alzato in piedi, sollevando un dito in aria e dicendo:

« Penso che andrò a vomitare. » e poi si era allontanato traballante ed io non lo avevo più visto.

Ad un certo punto ho il vago ricordo che andai in bagno a tentare di vomitare, ma non ci riuscivo, perché pensavo a Mike e mi sentivo malissimo all’idea. Alla fine mi abbandonai sulle scale, rimanendo immobile, come morto, sui gradini e sono quasi sicuro di essere stato pestato più volte, ma non importa. Non so quante ore passarono, magari minuti, ma arrivasti tu, Quinn, e mi prendesti per mano, portandomi in uno sgabuzzino. Non capivo un accidente, so solo che chiudesti la porta a chiave e mi baciasti, spingendo qualcosa nella mia bocca: una pastiglia della quale non saprò mai il nome ma della quale conobbi l’effetto. Ogni sensazione si amplificò da morire, mi girava la testa, era come avere un infarto. Ero vagamente cosciente del fatto che ti stavi spogliando davanti a me e stavi levandomi la maglietta. Ero vagamente consapevole di non volere reagire al tuo tocco ma non riuscivo ad essere padrone del mio corpo, mi sentivo un burattino.

Era sbagliato, era sbagliato, era sbagliato. Non ero attratto da te, non volevo che la mia prima volta fosse con te. Qualcosa gridava, nella mia testa, ma non riuscivo a fare uscire niente dalle mie labbra, o forse sì ma la musica era troppo alta perché qualcuno mi udisse.

Finito tutto ti vestisti semplicemente, lasciandomi lì.
So che eri ubriaca, fatta, inconsapevole ma… perché? Non hai idea di come ci si sente. Dov’era Finn? Dove lo avevi lasciato? Allo stesso modo in cui avevi lasciato me?

Ho dimenticato quasi tutto di quella serata, tutto ma non quello. Quello mi viene a trovare tutte le notti e mi sveglio coperto di sudore freddo ed i muscoli tesi e doloranti. Qual è il mio valore se vengo usato come una prostituta? Drogato? Ti ricordi tutto questo, tu Quinn? O a te si è facilmente cancellato tutto? E so che è egoista da dire, ma perché me? Non importava a nessuno di me, non potevi ignorarmi come tutti gli altri? Perché nella tua scelta random nella quale non riconoscevi nessuno ha preso per mano proprio me?

Sto mentendo? Tutte bugie? Ero troppo ubriaco?
Credete ciò che volee, ormai non mi riguarda, la vostra è una vita della quale non faccio più parte e nessuno vi obbliga a starmi a sentire. D’altra parte avrei direttamente sparso le cassette per la città invece che limitarle a voi, se il mio intento fosse stato inventare storie per diffamarvi.

Traete le vostre conclusioni, che sono poi anche le conclusioni della mia vita che, a quanto pare, non aveva alcun genere di valore.

Finn fermò a macchina davanti alla casa più grande del quartiere. Concentrai tutte le mie forze per distogliere lo sguardo annebbiato dalle mie mani tremanti. Guardai l’abitazione come se avessi potuto farla crollare con lo sguardo.

Stava crescendo un odio sempre più grande dentro di me, come l’occhio di un ciclone e, prima o poi, avrei provato tutto quello anche per me stesso.

Ero io la persona che aveva voluto trovare? No, mi aveva rimosso dal suo racconto, probabilmente non ero stato nemmeno rilevante.

Scappai fuori dallo sgabuzzino dopo averci passato dentro almeno mezz’ora, nella quale nessuno era venuto a cercarmi, ovviamente. Non è vittimismo, bensì dati di fatto constatati a mente fredda. Mi stavo ancora vestendo, infilando il maglione e cercando di mettere un piede di fronte all’altro quando uscii dalla porta principale. Nessuno mi salutò o cercò di fermarmi. Quante incoerenze e buchi vuoti in questo racconto, non riesco a fare ordine nemmeno nella mia testa, è un po’ come cercare di farsi luce con una lampadina mal funzionante. Flashback a cui è difficile dare un senso. Non mi piace pensarci, anche se spesso lo faccio senza accorgermene, credo.

Guardai Finn, che aveva un’espressione triste, ma io non mi sentivo triste, mi sentivo disperato. Tutto ciò che desideravo era avvolgere Blaine con le braccia, far scivolare le dita tra i suoi capelli e stringerlo, perché era tutto okay.
Ma non era tutto okay.

E il cuore mi batteva a una velocità spaventosa per il vuoto che mi si allargava nel petto.

Avrei dovuto dirti che ero innamorato di te, avrei dovuto farlo. Avrei potuto provare, anche se è egocentrico pensare che avrei potuto salvarti con così poco. E poi avevo fatto qualcosa per provocare tutto questo, quindi sarebbe stato ipocrita. In ogni caso avrei potuto farlo ma non lo avevo fatto.

Non so perché.

« So come ti senti. » disse Finn, dopo essersi schiarito la gola ed aver abbozzato un’espressione che non capivo.

« No, non credo. » risposi, non sfilandomi le cuffie dalle orecchie. Alla finestra della casa scorgevo Quinn, le braccia avvolte attorno al petto, che ci fissava. Sapeva benissimo perché eravamo là, e scorgevo nitidamente gli occhi rossi e le palpebre prive di trucco. Il secondo piano di casa sua era decisamente troppo visibile dalla strada, ma forse non era poi un grande problema.

Chissà se aveva paura che scendessi e le gridassi addosso. Chissà se qualcuno, qualche ipocrita, lo aveva fatto.
Era, però, uno di quegli errori del quale potevi pentirti tutta la vita, ma non sarebbe mai sembrato abbastanza.

« Credimi. Quinn era anche la mia ragazza, ricordi? Tolto il modo in cui mi ha tradito, se quella sera fossi stato con lei invece che chiacchierare con Puck, avrei potuto fermarla. » disse.

Ed annuii. Aveva ragione, forse mi capiva, anche se il dolore era di tipo nettamente diverso. Ma ci sono davvero diversi tipi di dolore?

Forse sì, ci sono quelli che fanno un po’ male, ma poi li ignori e passano, quelli che sono un po’ come un calcio sullo stomaco, e ti fanno venire da vomitare per un po’ di tempo, ma respirando profondamente ed abbozzando finti sorrisi poi passano, e poi ci sono quelli che arrivano come delle cadute di metri su un suolo freddo e liscio, dove ti spezzi e ti distruggi e a volte anche muori. Il dolore poteva essere diverso. A volte si sorrideva e ci si alzava, altre no.

Vorrei solo aver potuto dimenticare tutto.
Forse non sembrerebbe così sbagliato.
Forse non mi sentirei così una… puttana che non vale la pena chiamare il giorno dopo.
Forse non mi odierei così tanto da farmi schifo.
Forse sarei ancora vivo. Oppure no.
Fine nastro numero 6.

Guardai verso Quinn sulla finestra, gli occhi lucidi, e vidi che aveva appeso un cartello al vetro della finestra con dello scotch: “Mi dispiace così tanto.”
Abbassai lo sguardo e chiusi gli occhi di scatto.






















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Spazio Autrice:

Scusate se mi ci è voluto così tanto, colpa delle interrogazioni e delle verifiche infinite!
In ogni caso volevo postare prima della fine del mondo... :DDD

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, mi scuso per i temi forti ma... come se gli altri capitoli non ne contenessero.

Non odio Quinn, non le ho fatto fare questa parte perchè la odio, sia chiaro.

Spero vi sia piaciuta, fatemelo sapere se volete, è davvero molto importante per me il vostro parere anche se ho poco tempo per rispondere alle recensioni, mannaggia a me.

Un bacio.

Noth

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Capitolo 7
*** Cassetta D Lato 7. ***


13 Reasons Why
Cassetta D Lato 7.









Mi sembrava impossibile poter continuare la scoperta alla quale portavano quelle maledette cassette, era la millesima volta che lo pensavo e, più avanzavo, più mi chiedevo in quale fossi io. Finn tamburellava nervosamente le mani sul volante ed io, non trovando le parole e non riuscendo a tirarle fuori dalla gola, estrassi la cassetta con le mani tremanti ed inserii la seguente, rischiando di non riuscire ad incastrarla nel meccanismo.
Non riuscii però a premere play nonostante, allo stesso tempo, non fossi in grado di sopportare il silenzio.

« Andando avanti va peggio o meglio? » domandai, mente un brivido mi percorreva la schiena e mi faceva tremare fino alle gambe. Finn arricciò le labbra ed il naso.

« Non credo che saperlo ti farebbe differenza. » rispose, e decisi che non era poi così interessante parlargli. E poi chiedere informazioni agli altri non mi pareva poi così giusto. Quindi trattenni il fiato, chiusi gli occhi e premetti quel maledetto tasto.

Play.

Siamo già qua, wow, mi sembra di non aver fatto altro che parlare. Non è poi così eccitante come pensavo e, che ci crediate o no, non mi sto divertendo. Lasciate un attimo che dia un’occhiata a chi tocca ora. Una pausa ed il solito lamentoso fruscio. Ehi, siamo a metà, questa cosa finirà ben prima del previsto. Tocca a… oh. Quella nota fu come una caduta libera, ed il cuore mi affondò nelle costole. Credo sia il tuo turno, Cooper.

Cooper? Chi era? Non c’era nessuno che conoscessi, a scuola, con quel nome. O forse non lo avevo mai sentito.

 Te l’aspettavi, fratellone? Forse no, non so nemmeno se, nel tuo stato, ti renderai conto che sto parlando con te. Spero di sì, magari faccio ancora in tempo a salvare te.

Dalla mia espressione doveva probabilmente capirsi tutto, perché Finn fece un sorriso di circostanza. Non sapevo nemmeno avesse un fratello, ma forse ricevere un duro colpo da lui era stata una delle cose peggiori e, per la millesima volta in quella serata, mi domandai se davvero volessi sapere.

Sono Blaine, Cooper, nel caso non lo avessi capito dalle cassette precedenti che so per certo non avrai ascoltato. Sì, ovvio che so bene che avrai cercato tutto il tempo la tua. Non sono sicuro di essere abbastanza importante da valere parte del tuo tempo. Questa volta potresti ascoltarmi, credo. Come stai? Spero meglio dell’ultima volta che mi sei venuto a trovare. Spero davvero. Se le cose vanno peggio ho comunque la sensazione che ci rivedremo presto, non credi anche tu? Hai spesso di rubare? Di vendere e compare roba? Di scappare da gente alla quale devi dei soldi e vederti per averne? Te ne sei rimasto nel paese dove abitavamo prima di trasferirci a Lima – piccola informazione di servizio – quindi ho sempre sentito la tua mancanza. Ma pensavo fossi diventato un grand’uomo nel frattempo, una persona alla quale ispirarsi che un giorno, non lo so, mi avrebbe portato via. Eppure, di quel passo, sarei stato io a dover portare via te. Sognavo spesso di venire a trovarti, o che fossi tu a passare per casa nostra a raccontarmi della tua splendida vita, però gli anni passavano e tu non… sembravi voler venire. Forse ti eri dimenticato, ma non ci si dimentica la famiglia. Semplicemente non volevi che ti vedessimo, credo. O forse non ti rendevi conto del tuo stato, dei soldi che sperperavi e di come ti stessi riducendo. Sei passato per di qua qualche mese fa, e pensai di toccare il cielo con un dito quando ti vidi. Poi mi resi conto delle tue occhiaie e del rossore dei tuoi occhi e capii che qualcosa non andava. Sentivo già il futuro che mi ero costruito con te, lontano, vacillare.

«Ehi, Blainey. » dicesti con voce stanca. Cercavi di apparire giocoso come una volta ma, per quanto potessi ricordarmi il fratello che eri stato, ne eri una versione sbiadita ed insoddisfacente.

« Coop? » mormorai.

« Proprio io, fratellino. » dicesti, e mi abbracciasti, ma avevi un odore strano. Non sapevo bene cosa, era come polvere dolciastra.

« Chiama mamma e papà, staro qui per qualche giorno. » dichiarasti, e ricordo che l’idea mi rese così felice che avrei potuto morire. Eri a casa, eri tu, ed avevo qualche giorno da passare con te.

Eri tornato a prendermi.

« Non li hai avvisati? » domandai, e tu scrollasti le spalle.

« Sorpresa? » azzardasti sorridendo e, per la prima volta da tanto tempo, anche il mio viso si tese in una smorfia felice.

Ero felice, ero tanto felice, dovevo ammetterlo. Ma tutto questo non sarebbe durato. Perché non poteva esserci qualcosa, una sola dannata cosa bella nella mia vita? Prendetelo pure come un pensiero esagerato, se volete, ma credete davvero che una persona triste e soprattutto sola riesca ad essere razionale? No, ogni piccola cosa è la fine del suo mondo egocentrico ed egoistico. Il mio piccolo pianeta era già andato in pezzi così tante volte che credevo prima o poi non sarei più nemmeno riuscito a contare i cocci. E non ne avevo più neanche tanta voglia. Per chi lo facevo a fare? Me? Nah. I miei? Forse.

Respirai profondamente, ma mi si chiuse la gola mentre fuori cominciava a piovere.

Quando ti presentasti a mamma e papà, quella domenica, loro ti abbracciarono e mamma, per la prima volta, si mise a cucinare qualcosa di genuino e non surgelato per via della fretta. Sembrava il pranzo di Natale, ma c’era qualcosa di marcio.

Quella notte venni in camera tua, come quando eravamo piccoli ma, diversamente da quelle volte, tu non stavi dormendo. E forse mi hai sempre creduto un idiota, Cooper, non lo so, ma pensavi davvero che non me ne sarei accorto? Che, oltretutto, fossi lo stesso ragazzino di un tempo? Oh, se solo avessi saputo cosa mi era successo nel frattempo…

Mi parve, per la prima volta da quando ascoltavo quelle cassette, di percepire la sua voce rompersi. Quanto doveva fare male sentirsi abbandonati dal proprio fratello? Ma forse non si trattava di questo.

Quando entrai eri seduto accanto al letto, in modo che dalla porta non ti si potesse vedere, ma forse – preso com’eri dalla tua roba – non ti eri accorto di non avere chiuso a chiave. Eri bianco cadaverico, respiravi a rantoli e, non appena ti voltasti a guardarmi, vidi la siringa infilzata nell’incavo del tuo gomito. Ti stavi iniettando qualcosa, e non ero così stupido da non capire che stavi avendo una crisi d’astinenza.

« Blaine… » dicesti, ed io rimasi dalla porta con gli occhi sbarrati. Probabilmente non ti ricordavi nemmeno più del mio rito di venire da te.

« Io non… » diventasti verde. « non sto molto bene e mamma mi ha dato una medicina da prendere via endovena e… »

Mi chiusi la porta alle spalle. Mi voltai e mi ricordo molto, molto bene che facevo fatica a trovare le parole da dirti.
« Cooper rispondi a una domanda, sii sincero. » ti dissi, e tu annuisti. « Credi… credi davvero che sia così… stupido? Non ho più sette anni, nel caso te lo stessi chiedendo e… pensi che non sappia cosa stai facendo? » domandai, le braccia mi tremavano per la rabbia. Mi sentivo così bollente dentro che temetti che, se non avessi parlato, sarei imploso e sarei morto.

Perché che tutti mi credessero un fesso andava bene, ma non tu.

« Io non sto facendo niente, Blaine. Che stai dicendo? » balbettasti, la bocca impastata. Strinsi i pugni e la mascella per non urlare.

« Cooper… ti prego smettila. » sussurrai, cercando di restare calmo, ma era come se il mondo che avevo sostenuto fino ad allora fosse improvvisamente diventato infinitamente pesante e sentivo tutte le ossa del mio corpo spezzarsi ed il mio cuore rimanerne schiacciato.

« Davvero, non capisco a cosa… »

La miccia si accese.

« Cazzo, Cooper, lo so cosa vuol dire quella faccia, quegli occhi, quella cazzo di siringa e la tua stupida parlata! Fanno anche delle… conferenze a scuola a riguardo! Ti stai iniettando qualche droga nel sangue, Dio! » cercai di trattenermi dal gridare e per quello probabilmente ero rosso come il sangue. Mi sentivo ribollire.

Tu non rispondesti, ma alzasti le mani in segno di resa.

« Quando… quando è cominciata? Perché sei in astinenza se sei qua da… mezza giornata? » respirai un paio di volte. « Cosa è successo a mio fratello? » domandai, con il cuore a pezzi ed un sasso dritto in mezzo al petto.

« La vita. » rispondesti, e facesti per alzarti ma era come se avessi le braccia molli.

« Cosa? »

« Mi è successa la vita, Blaine, e nessuno sa perché succede. » dicesti, e mi parve quasi che fossi sul punto di vomitare. Era come trovarsi di fronte a un incubo e non riuscivo a trovare le parole per rispondere, così tu continuasti.

« Quando ve ne siete andati ero così felice di poter stare con lo zio qualche anno e cominciare la mia vita indipendente. Avevo sempre sognato di diventare un attore, così appena finii la scuola mi buttai di audizione in audizione così, alla rinfusa, finchè non fui preso in un paio di spot pubblicitari locali che mi introdussero nell’ambiente. Non in quello del cinema, ma in quello dei locali alti. I miei guadagni non erano male, così potevo permettermi una donna diversa quasi ogni sera e mi convinsero prima a prendere ogni tanto qualcosa di leggero, però non so come successe – giuro non lo so – alla fine quelle non bastarono più e mi trovai invischiato in giri che non avrei mai pensato. »

Poggiasti la siringa, non ancora svuotata, sopra al comodino dove tenevi una garza sterile non so più quanto sterile. Tremavi e la tua
astinenza era probabilmente più acuta di quanto avessi creduto.


« E così eccomi a non avere più tempo per fare audizioni, sempre a caccia di roba, anche di bassa qualità, e a dovere più soldi di quanti ne avrei mai potuti guadagnare alla gente sbagliata. Passai da un bell’appartamento ad uno stanzino, finchè un paio di giorni fa il proprietario mi ha sbattuto fuori e, con gli ultimi soldi rimasti, ho comprato un po’ di roba, solo quanto basta e ovviamente mezza a credito, e ho fatto autostop fino qui. Non sapevo dove andare. » dicesti, ed il tuo tremore andava aumentando così, malgrado tutto, mi avvicinai.

« Perché non hai smesso finchè eri in tempo? » domandai, trattenendo le lacrime di rabbia e tristezza che mi salivano guardandoti.

« Non… non lo so? » esalasti, serrando gli occhi di colpo. Ti afferrai una mano istintivamente.

« Puoi smettere adesso? » ti chiesi e, solo per qualche secondo, riuscisti ad aprire di nuovo le palpebre ed esalare, con occhi tristi, un flebile: « No. »

Mi misi a piangere un po’ per tutto. Per cos’era successo, per te, per i tuoi sogni, per me e per i miei. Tirai su col naso mentre la tua mascella si irrigidiva al punto da chiedermi quanto dovesse farti male l’astinenza. Il tuo colorito andava peggiorando e di lì a qualche minuto avresti vomitato. Non potevo permettere a mamma di svegliarsi e trovarti così. Per questo presi la siringa dal comodino.

« No. » fiatasti. « Dammi, faccio io, non voglio che impari come si fa. » dicesti, e te la cedetti. « Inoltre è rischioso che lo faccia tu. »

Dovetti mordermi due volte le guance per non singhiozzare mentre ti mettesti il laccio emostatico e mancasti due volte la vena per colpa del tremore alle mani ed, infine, ti premetti la dose nel sangue. Era come assistere a un suicidio e ad un omicidio contemporaneamente, mi sentivo come se fossi io quello che stava per vomitare.

Aspettai che andasse un po’ meglio e che smettessi di tremare.

« Cos’hai detto a mamma e papà? » domandai, seduto a gambe incrociate accanto al tuo letto che profumava di pulito. Un pulito quasi strano.

« Ferie. » rispondesti, dopo un po’. « Ma gliene parlerò domani, eri tu che non volevo sapessi, loro… ho bisogno che mi prestino dei soldi per saldare i debiti perché non so cosa fare. » ammettesti.

Mi sentii usato, o meglio, mi sentii così per i miei, perché non eri mai venuto a trovarci prima ed era troppo strano che, improvvisamente, volessi vederci. Chiedesti soldi anche a me, e te li diedi. Il resto della storia è tutto un gridare e piangere di mio padre e mia madre una delle poche volte che erano a casa e questo, lo so, non interessa a nessuno.

Stop.

Smontai dalla macchina e mi sedetti sul marciapiede sotto la pioggia. Mi ficcai la testa tra le mani e lasciai che lacrime di rabbia mi rigassero il volto. Finn non intervenne. Avevo sempre pensato che il mondo fosse ingiusto, ma non avevo mai riflettuto su quanto lo fosse con le persone che non lo meritavano affatto. Di sicuro Blaine non era stato un santo, ma era stato indifeso ed attaccato tutta la sua vita. Era come se essa amasse prendersela con i cuccioli sbattuti nello scatolone ed abbandonati piuttosto che con quelli ben nutriti, con un tetto sulla testa e dei padroni che gli volevano bene.

Era come se Blaine avesse avuto un cartello con scritto “adottatemi” sul davanti e, invece, la gente lo avesse alternatamente ignorato e preso a calci.

Mi venne naturale pensare a quella volta che ci eravamo incontrati al parco. Quella volte che era disteso sulla panchina che pensavo di conoscere praticamente solo io, a qualche isolato da casa mia, ma all’epoca non sapevo abitassimo vicini. Andavo a studiare lì a volte, se avevo tempo, perché casa era spesso occupata da Finn e Rachel o Finn e Quinn o i ragazzi del football con i quali non avevo poi così tante cose in comune. Quel giorno era stato strano vederlo disteso su quella panchina, una gamba piegata e un braccio che gli copriva gli occhi. All’inizio non l’avevo nemmeno riconosciuto. Mi ero avvicinato e lui mi aveva sentito, così aveva sollevato il braccio dalle palpebre, mi aveva visto e si era alzato a sedere con aria mortificata.

« Non ti preoccupare, posso trovare un’altra panchina. » gli dissi, scuotendo la testa, ed era dopo la festa, però sapevo che probabilmente non si ricordava della nostra chiacchierata.

« No, non ho bisogno di tutto questo spazio. » disse. « Se ti va puoi restare, Kurt. »

Quando pronunciò il mio nome il cuore mi salì in gola e pulsò nelle tempie. Sapeva chi ero, per me era già abbastanza così. Era assurdo che mi stessi stupendo, poteva tranquillamente saperlo.

Comunque speravo che me lo chiedesse, avevo sempre voluto provare a passare del tempo con lui. Non sapevo nemmeno bene perché, forse avevo semplicemente la sindrome della crocerossina.

« Se per te è okay. » dissi, sedendomi accanto a lui e stringendomi i libri al petto. Lui si passò due dita sugli occhi stanchi.

« Studi? » domandò, sospirando e spalancando quegli enormi occhi tristi che mi smuovevano qualcosa dentro. Perché era sempre così maledettamente infelice? Avrei dovuto saperlo, dovevo capirlo.

« Francese mi sta dando del filo da torcere. » ammisi, e lui rise quasi in obbligo. Rise in maniera pesante. Il mio animo gentile, o forse la mia curiosità, ebbe la meglio.

« Blaine… » mormorai, e lui si voltò verso di me. « Tutto bene? »

« Uh? » lui assunse un’aria confusa.

« Non so, sembri triste. D’altra parte non sono affari miei, me lo chiedevo e basta. »

« Te lo chiedevi e basta? »

Rispondeva alle domande con domande. Pessimo segno.

« Mh. »

Mi squadrò a lungo.

« Per un qualche nuovo pettegolezzo? » chiese, ed io scoppiai a ridere.

« Lo chiedi a tutti quelli che ti domandano se va tutto bene? » domandai, curioso.

Lui non rise.

« Di solito non lo chiedono. » rispose semplicemente. Mi si bloccò la risata in gola davanti alla semplicità della sua risposta. Non era arrogante, non era un’accusa, era un dato di fatto.

« Posso chiedertelo? » domandai.

Lui guardò per terra.

« Se vuoi, ma non so cosa risponderti. » ammise. « Credo vada tutto bene. » disse dopo un po’, voltandosi verso di me e abbozzando una smorfia indecifrabile.

« Bene, meglio così. » avevo risposto, perché non mi sentivo abbastanza in confidenza da insistere. « Comunque sai, i problemi a quest’età sembrano assurdamente enormi, non trovi anche tu? Poi li guardi qualche anno dopo e non era affatto così. » dissi.

Lui si alzò in piedi e si stiracchiò.

« Non credo che funzioni proprio così, il cervello umano, dico. » commentò, poi si voltò verso di me. « Devo tornare a studiare, ora, ma grazie comunque per esserti interessato, non capita spesso. » sorrise. Era ancora un sorriso strano.

« Quando vuoi. » risposi, alzando le spalle e tornando al mio libro.

Lui si avviò.

« Ci conto. » disse, ed alzai lo sguardo per vedere che si stava allontanando. Osservai la sua schiena finchè non sparì.

Avrei dovuto capire, e che ora mi stesse piovendo addosso era l’ultimo dei miei problemi.
















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Spazio Autrice:

Lo so che aggiorno tardi, ma troppa roba da fare ed il capitolo è piuttosto lungo.

Amo Cooper, è stato terribile scriverlo così.

Voi che ne pensate?

Noth

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Capitolo 8
*** Cassetta D lato 8. ***


13 Reasons Why
Cassetta D Lato 8.








Speravo quasi di svenire sotto la pioggia. Svenire e rendermi conto che tutta quella storia non era altro che un brutto sogno del quale avrei riso senza allegria la mattina. Però la pioggia continuava a precipitare dal cielo come un miliardo di suicidi e, mentre sentivo l’acqua corrermi lungo la schiena e scivolarmi fin dentro le mutande, mi morsi forte la lingua per non urlare. Mi dispiaceva tanto per Blaine, ma ancor di più non potevo credere che, nonostante tutta l’attenzione che gli avevo prestato, non avessi notato quanto ci fosse qualcosa di marcio e quanto la mia attenzione non fosse assolutamente stata sufficiente. Finn, dopo un po’, aprì il finestrino con la manovella scricchiolante.

« Tutto bene? » domandò, pensando di aver lasciato passare abbastanza tempo prima di salvarmi da una brutta influenza, ma a me proprio non interessava.

« Per niente. » sussurrai, poggiandomi le mani sulle ginocchia e fissandole.

« Sai qual è la prossima cassetta? » domandò. Io esalai il fiato tremante. Le mie emozioni erano fuori controllo.

« Come posso saperlo? »

« E’ su se stesso. » disse. Alzai lo sguardo.

« Si sta dando la colpa da solo? » sussurrai.

Fin ciondolò con la testa.

« Bè, Kurt, il suicidio è una decisione in parte sua per forza, anche se noi abbiamo fatto una buona parte del lavoro. »

Non gli risposi perché non capivo come potesse dirlo ad alta voce senza sentirsi male. Io facevo anche solo fatica a pensare a quella volta che lo avevo fatto sorridere poco prima che se ne andasse. Mi faceva salire un senso di disperazione che tendeva a rovesciarmisi addosso come un’onda.

Mi alzai e camminai sotto la pioggia, allontanandomi da quella macchina con le mani in tasca e, con i polpastrelli umidi, premetti il tasto play, sperando che ascoltare lui mi avrebbe dato le risposte che cercavo o che, almeno, avrebbe quietato il flusso dei miei pensieri.

Play.

Fingerò di essere da uno psicanalista ora, magari potrebbe aiutarmi perché sì, avete indovinato, nessuno di voi è su questo nastro. Ci sono io e, non vi preoccupate, ovviamente non mi dovrete inviare le cassette, mi sto già ascoltando abbastanza.

Incassai la testa tra le spalle.

Non vi dico nemmeno che potete saltarla, se volete, tanto lo farete comunque. Alloar, da dove cominciamo? Perché è colpa mia? Bè non è che esattamente le pillole per dormire di mia madre mi finiranno magicamente in bocca. È colpa mia, ioho scelto che arrendermi era la soluzione perfetta per me. È colpa mia perché potrei provare a reagire, a non sentirmi un inetto ma… semplicemente lo sono, non posso mentire a me stesso. Quindi parlerò brevemente di me, così che questo nastro sarà davvero la risposta ad ogni domanda.

Non so che mi prende. Dovrebbe essere l’adolescenza a farmi sentire così, dicono, ma non è vero. Vorrei poter tornare a casa e trovare mia mamma che cucina il pollo arrosto con le patate al burro. La sua testa potrebbe spuntare dalla cucina e sorridermi. Poi sentirei la tosse nervosa di papà e saprei che è intento a leggere il giornale sul tavolo e a farle compagnia. Mi chiederebbero come va e mangeremmo assieme, così, magari con te Cooper e starai bene. E invece arrivo da scuola e devo tirare fuori una chiavetta argentata e scavalcare il cespuglio di lavanda che mamma ha comprato e mai curato, e che ormai ha preso il posto della porta d’ingresso. Poi inserisco la chiave nella toppa, facendogli fare due giri ed infine entro nell’abitazione buia. Appoggio lo zaino accanto alla porta e mi dirigo nella cucina, accendo il neon che ronza fastidiosamente ed è tutto vuoto, lindo e pulito. E ogni giorno un nuovo vivere da solo, parlare della mia giornata e della solitudine a quei pasti precotti che trovo nel freezer, canticchiare lavando i piatti e fare i compiti con così tanta concentrazione che, per fortuna, poi finisco per dimenticarmi di essere solo e che nessuno vuole ascoltarmi. Effettivamente questo vecchio registratore è un ottimo espediente, devo ammetterlo. Passo quasi tutto il tempo a chiedermi il perché di quasi ogni cosa accadutami. Perché mi sono trasferito? Perché ho incontrato Sam? Perché incarno inconsciamente il ruolo della vittima perfetta? Perché deve essere così?

Mi chiedo se sia tutto frutto delle mie scelte. Se, se mi fossi comportato diversamente, oggi sarebbe differente. E allora perché ho fatto quelle scelte? Ho costantemente voglia di piangere ma, per qualche strano motivo, sono convinto che questo peggiorerebbe ancora di più la mia immagine pubblica. Come se fosse possibile!

È come camminare in un corridoio lungo, buio e freddo tutta la vita, ogni tanto scorgi delle luci lontane e allora ti metti a correre per raggiungerle e scoprire con amarezza e bruciante delusione che erano solo delle inutili luccioleche, per qualche strano motivo, morivano nell’istante in cui le toccavi. Eppure non potevi fare a meno di farlo.
Dio, quanto siamo stupidi, banali, prevedibili e autodistruttivi noi esseri umani.

Cominciai quindi poi a sentirmi assolutamente insensibile ad ogni cosa, come se mi avesse potuto investire un treno e non sarebbe stato che un innocuo colpetto. È la sensazione del fondo. Quella disperazione così vischiosa e universale che il corpo non si azzarda nemmeno a percepirla, ma essa ti uccide ugualmente nell’animo. E forse non me ne rendevo conto, non lo so. Però la mia esistenza ruotava attorno a un tran-tran fatto di silenzio e muscoli facciali paralizzati.

Ero intorpidito per non morire di disperazione. Disperazione per l’umiliazione scolastica giornaliera, per la solitudine nella quale ero piombato e dalla quale nessuno considerava di sua priorità salvarmi ed io ne avevo perso la voglia, per il barbaro assassinio di ogni mia speranza di un futuro migliore con il fallimento di mio fratello, per il senso di impotenza e mancanza nei confronti di un amico che non posso salvare né portare giù nel baratro con me. L’orrore di fronte a questo me usato, troppo debole, troppo stupido, sporco, sbagliato, illuso, dimenticato.

La sua voce si spaccò come porcellana sulle ultime sillabe e mi resi conto di avere un nodo in gola che minacciava di uscire come un grido. Non avevo idea. Non potevo pensare che qualcuno che conoscevo potesse davvero sentirsi… così.

Mi tagliavo le braccia così spesso che avevo paura il sangue avrebbe smesso di coagularsi. E fu allora che pensai ‘magari non lo facesse!’ E macchinai, macchinai tanto mentre piangevo sul lavandino. Non voglio fare pena. Voglio spiegare cosa… cazzonon andava nella mia testa. Cosa mi infettava il cervello.

Disse quell’imprecazione come un qualcosa che si fosse concesso nel tentativo di liberarsi di quel mostro appiccicoso in gola.

Ma tanto che parlo a fare, non importa a nessuno. Anzi, no, importa a me.
Posso permettermelo, nei miei nastri, credo, no?

E vi giuro che da allora non ho mai smesso di pensarci, di ideare e nessuno è mai riuscito a farmi tornare sui miei passi. Ma qui non avevo ancora deciso. Avevo iniziato a rifletterci un po’ e la situazione, ad un certo punto, poi è precipitata. Peccato.
E riflettevo su quelle mie manie, quel modo che avevo di identificare me stesso attraverso gli altri e di filtrare il mio essere tramite sguardi e impercettibili rughe sulla pelle. Perché non mi riuscivo a distaccare a quel giudizio continuo? Perché non ostentavo una forza che non avevo? Sarebbe servito a qualcuno?

Voglio solo smettere di sentirmi in questo modo, questo senso di vuoto appiccicoso come se fossi immerso nella pece. Anche adesso, mentre parlo, come se… annaspassi nello spazio per sottrarre aria a chi mi ha fatto del male, eppure sembrano tutti avere un motivo, o centomila, in più di me per stare qui. Valgono, la loro vita ha un valore quanto meno se non per loro stessi, per gli altri.

Avevo sempre voluto avere anche io una ragione, ma facevo fatica a trovarla e dovevo arrampicarmi su inutili specchi.

E ora?

Ora penso di aver pensato abbastanza, davvero, voglio dare un taglio a questa lagna che si ripete come una cantilena satanica nella mia testa. Mi domando se si sia mai fermata o se mi ricordo il giorno in cui è iniziata.

No, basta così, tutto ciò durerà ancora relativamente poco, devo tenere duro solo il tempo di parlare con tutti voi.

La sua voce era ridotta a un sussurro confuso.

È incredibile quanto sia impaziente di andarmene e quanto mi porti una sentenza di morte spiaccicata sul volto eppure nessuno, nei corridoi o in classe, sembra avere il tempo o la voglia di notarlo.

Buffo, no?

Tagliamola qui, non vale la pena tirarla per le lunghe, di sicuro non per voi né per me. Facciamo sì che vi rubi meno aria possibile, okay?

Oh, a proposito, ciao Rachel Berry, ancora vittima delle tue manie da star?

Stop.

E la cassetta si interruppe con un click mentre, fradicio, lasciavo che quel senso di impotenza e frustrazione esplodesse dentro di me e mischiasse le mie lacrime alla pioggia. Non avevo il diritto di dichiararmi innamorato di Blaine, avendo notato la sua depressione adolescenziale ma non essendo mai davvero intervenuto.

Circa. 




















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Spazio Autrice:

Dio mio, scusatemi se ci metto una vita ad aggiornare ma sono abituata a scrivere in classe e ultimamente è stato un inferno di interrogazioni e menate varie. Mi dispiace che il capitolo non sia eccessivamente lungo, ma ha il suo perchè, suppongo.

Scusatemi se sono di una tempistica così pessima!

Spero vogliate comunque farmi sapere cosa ne pensate!

Noth

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Capitolo 9
*** Cassetta E Lato 9 ***


13 Reasons Why
Cassetta E Lato 9









Forse dovevo stare là, sotto la pioggia, a marcire nel senso di colpa. Forse era la mia punizione, ed era più che meritata. Non sapevo neanche più dove andare, così optai per rintanarmi nuovamente a casa. Decisi di camminare fino al mio isolato e finire quel supplizio nella mia camera da letto. Non ne potevo più di vedere luoghi, non volevo sentirmi così colpevole. Prima o poi sarebbe toccato a me. Prima o poi sarebbe successo.

E non sapevo perché.

Feci dietrofront senza un motivo preciso, e decisi di imboccare quella via. Avrei potuto fare mille altre strade, quella città era decisamente tutta uguale. Stradine insulse che si incrociavano e si lasciavano senza dirsi addio, quasi con tacita indifferenza, come vagabondi tutti uguali.

Avevo ancora cinque lati da ascoltare. Ed io che pensavo di aver fatto buona parte del lavoro. Certo, come no. Sarebbe stato troppo facile. Alzai lo sguardo al cielo scuro dal quale la pioggia aveva deciso di scendere a scrosci. A causa dei lampioni non si vedevano le stelle. O forse era a causa delle orribili nuvole scure che avevano preso il posto della volta celeste.

Dopo essermi bagnato a sufficienza la faccia, nel tentativo di sciacquarla dalle lacrime come un idiota a lato della strada, abbassai lo sguardo e guardai per la prima volta la giacca che era zuppa. Per asciugarla ci sarebbero voluti giorni, impregnata d’acqua com’era. Al momento restava comunque l’ultimo dei miei problemi.

 

Rachel Berry. La conoscevo. Quando ci pensavo mi veniva sempre in mente quella sua mania da star e l’invidia che avevo provato quando la avevo sentita cantare a Finn nell’auditorium. Poi aveva iniziato a venire a casa nostra sempre più spesso e tra di noi si era formata una sorta di alleanza contro le partite di football che mio padre e il mio fratellastro finivano sempre a guardare. Era simpatica, le avevo anche fatto ripetizioni di storia per qualche tempo e lei, in cambio, mi aveva presentato i suo due padri. Non so con quale intento, forse dimostrarmi ancora una volta quanto il fatto che fossi gay non la turbasse. Insomma, sì, generalmente avevo dei bei ricordi di lei.

Stavano per diventare tutti dei fantasmi, vero?

 

Premetti play, ancora una volta, con la forza di volontà sotto terra.

 

Play.

 

Non credevo che sarei riuscito a mantenere il piano che avevo scritto e arrivare fino a questo punto! Lo ammetto, mi sto quasi sorprendendo di me stesso. Almeno lo sarei se non fossi così tanto stanco. Non ho fatto niente oggi, eppure sono stanco.

Ecco che mi dilungo, scusate, non so neanche per me. Anzi, non scusatemi affatto.

Dunque, Rachel Berry, forse nemmeno ti aspettavi di esserci qua dentro. Forse ti aspettavi qualcuno come Santana o Puck, ma tu? La talentuosissima e nata-per-essere-una-stella Rachel Berry non può apparire in una lista come questa. Che ne sarà del tuo impeccabile curriculum? Vedo una macchia, anzi, vedo molte macchie sulla tua lista immacolata.

Vuoi sapere perché ti ho inserito? Adesso ti spiegherò per bene, magari è la volta che mi ascolti.

Dio, quando sono diventato così acido? Non lo so, mi sento improvvisamente arrabbiato e non so perché. Che effetto mi fate.

Ricordo benissimo il primo giorno in cui decisi che mi piaceva cantare. Non era una cosa che avevo esternato a molte persone. Di sicuro non ero andato da mio padre e gli avevo detto “Ehi, papà, mi piace cantare”, l’equilibrio sulla mia omosessualità era già abbastanza fragile così a casa. Mi mancava solo andare a saltare sulla terra franante.

Quindi me lo ero tenuto per me. Ne avevo parlato con te, Mike, all’epoca, poco dopo che mi avevi confidato che amavi ballare. Sì, me lo ricordo eccome.

Sorrisi al pensiero di quanto entrambi avevamo sempre avuto quella fissa della musica, del cantare. E lo avevo sentito cantare Blaine. Era un’eccezione, avrei osato dire.

Spinto proprio da te, Mike, feci l’audizione per entrare nel Glee Club. Sapevo che sarei stato etichettato come sfigato e preso a granite in faccia, ma probabilmente ne sarebbe valsa la pena. Avrebbe voluto dire che appartenevo a un gruppo. Ero etichettato con qualcosa di più del “gay nullità”. Alla fine a chi volevo darla a bere? A me stesso, ovviamente. Ma sarei sempre stato il gay nullità. Al massimo il gay nullità canterino. Wow, passi avanti. Avrei dato qualsiasi cosa per cancellare quell’appellativo. Così mi ero presentato al provino. Non c’era stata esattamente troppa concorrenza, ma la storia è un po’ più complicata di così, vero Rachel?

Stavo iniziando ad agitarmi.

Mi segnai tra i nomi dei candidati, notando che saremmo stati sì e no quattro o cinque. Ero contento, forse avevo possibilità di entrare, ma non ero molto fiducioso nelle mie capacità. D’altra parte nessuno mi aveva mai dato ragione di esserlo, ed il mio pubblico generalmente consisteva in mobilia, cibo o libri.

Il giorno dell’audizione ero così nervoso che mi veniva da vomitare. Venivo ancora spinto sugli armadietti, nessuno si curava di me, ero solo e la maggior parte delle persone preferiva starmi lontano. Arrivai per ultimo a causa di un intoppo nei corridoi – maledetti bulli, un giorno la pagherete per tutto il male che fate – e dovetti ascoltare tutti gli altri provinati. Non erano nemmeno eccessivamente bravi, erano mediocri, quel genere di persone che si divertivano a intonare le hit del momento sotto la doccia o al karaoke con gli amici. Se ci pensavo bene io non facevo nemmeno quello.

Uscì una ragazza minuta, bionda, con i capelli ricci e due enormi occhi. Sgattaiolò via ed in seguito udii il mio nome chiamato da dentro l'auditorium. Deglutii come se avessi una spada piantata in gola ed entrai, le gambe di gelatina e il sudore che mi colava traditore lungo la schiena.

Le luci del palco erano puntate su di me in maniera completamente sbagliata ma, d'altra parte, il Glee Club non era esattamente il gruppo più in della scuola, probabilmente i tecnici delle luci avevano semplicemente acceso tutto ed erano andati in pausa pranzo.

« Sono Blaine Anderson. » dissi al microfono, con una mano a schermare gli occhi nel tentativo di vedere oltre quell'immensità di watt che mi stava friggendo.

« Lo sappiamo. » disse una voce squillante e vagamente saputella. Riuscii ad intravederti, Rachel. Seduta su una delle poltroncine accanto a Finn – ti conoscevo per via del fatto che eri la sua ragazza, all'epoca – con quell'aria da stella, il cerchietto in testa, gli abbinamenti improponibili di colori e quei vestiti anni cinquanta indossati a casaccio. Mi guardavi con un'aria scettica. Pensai che ti saresti ricreduta. Probabilmente tutti mi conoscevano come il ragazzo gay a cui Sam aveva fatto fare coming-out all'interfono. Potevo sentire i mormorii provenire dalla sala. Non riuscivo nemmeno a vedere quante persone fossero.

« Cosa canterai? » disse una voce maschile decisamente più matura di quella che mi sarei aspettato. Immaginai fosse quel professore che gestiva il club.

« Uh, pensavo a Cry Me a River. » mormorai, la voce tremante mentre cercavo di respirare a fondo impercettibilmente per impedire alle mie corde vocali di cedere per la paura e l'emozione.

« Quando sei pronto. » mi disse, e così chiusi gli occhi qualche secondo prima di iniziare l'esibizione a cappella.

Cantai il mio pezzo con il cuore in mano. Lo sentivo battermi nelle tempie, nei polsi, sulla punta delle dita e nel petto sconquassato. L'esibizione non fu perfetta, ma venne decentemente, ero quasi soddisfatto di ciò che, per una volta, ero riuscito a fare. Mi era piaciuto così tanto cantare su quel palco. Mi ero sentito libero per la prima volta da tanto tempo.

A canzone finita scrosciarono – per modo di dire, visto che saranno state una decina di persone – gli applausi e sentii un nodo salirmi in gola. Ero così felice.

Iniziai a respirare velocemente perché potevo benissimo immaginarmelo mentre si commuoveva sul palco per essere finalmente riuscito a fare qualcosa. Riuscivo a vedermelo, lì, piccolo ed imbarazzato che si ripeteva che non andava poi tutto così male come sembrava. Dopo tutte quelle cassette uno spiraglio di felicità mi sembrava quasi un'utopia.

« Blaine, ottimo lavoro. Tra mezz'ora appenderemo la lista delle ammissioni, e fossi in te sarei fiducioso. » continuò la stessa voce che avevo associato all'insegnante gestore del club. Feci un inchino di assenso e mi appostai dietro la porta, emozionato come non mai ed intento ad analizzare quella sensazione che tutti chiamavano felicità. Ero sicuro fosse quella. Avrei avuto un posto, un posto tutto mio, con gente vera, con persone che – forse – non mi avrebbero giudicato. Ci sarebbe stato Finn, ma avrei semplicemente potuto ignorare te e lui, Rachel.

Se solo tutto fosse andato come la fantasia, della quale ero ben provvisto, aveva immaginato.

Ma non successe.

Di colpo si aprì la porta dell'auditorium ed uscisti tu, Rachel, ti ricordi? Chiudesti tutto alle tue spalle e mi guardasti con un sorriso che non era veramente un sorriso. Per essere un'attrice che aspirava a Broadway, fosti incredibilmente pessima quel giorno. Forse volontariamente.

« Blaine, ottima esibizione, ma devo chiederti una cosa. » dicesti, continuando a sorridere.

« Cosa? » domandai, confuso su cosa tutto quello significasse.

Cercasti di aggirare il punto.

« Vedi, il solista del Glee Club ora è Finn, immagino tu lo sappia. So anche ciò che è successo tra di voi, e mi dispiace davvero molto, sono sincera. Il punto è che rischieresti di soffiargli il posto perché sei... diciamo piuttosto bravo. » vide che non capivo e continuò. « Se comincerai a dargli noia, nonostante probabilmente lui non farà niente, i ragazzi del football la prenderanno sul personale. Gli amici di Finn – che sono innumerevolmente superiori ai tuoi, numericamente parlando – ti renderanno la vita ancora più un inferno di quanto non sia già. Fossi in te mi darei ascolto. Immagina se iniziassero a distribuire volantini, o a insultarti all'interfono, o ridere di te, farti del male, impedirti di cantare... »

Dicesti tante cose. Fu un discorso completamente sensato, e me ne rendevo incredibilmente conto. Quello che non riuscii a capire all'epoca fu quanto fosse di natura egoista. Avevi paura per la popolarità del tuo ragazzo ma, soprattutto, temevi eclissassi la tua. Non mi era mai passato per la testa che tu potessi temermi, non mi reputavo nemmeno lontanamente alla tua altezza; ma, andiamo, cadere così in basso? Io mi fidai di te, entrai dentro l'auditorium e mi ritirai, troppo spaventato anche solo per provare.

Non riuscivo ancora a vedere nessuno in faccia.

« Oh, Blaine, i risultati verranno appes... »

« Sono qua per ritirare la mia partecipazione, mi sono reso conto che scolasticamente parlando mi sarebbe impossibile partecipare a questo club. » mentii. Mentii così spudoratamente che mi veniva da piangere come a una stupida ragazzina.

« Davvero? E' un vero peccato, perché... »

Interruppi immediatamente l'insegnante.

« Mi dispiace davvero, mi creda. » mormorai, e uscii dall'auditorium, scappando via, tornando a casa e subendo i miei regolari insulti nei corridoi.

Come poteva essere possibile avere una vita così miserabile?

Tornai a casa e mi sedetti nel soggiorno, piangendo quasi involontariamente, con le palpebre spalancate mentre mi rendevo conto che non sarei ma riuscito ad essere felice. Stavo perdendo le speranze sempre di più.

Ed avrei creduto che lo avessi fatto per il mio bene se Tina non ne avesse parlato con Mike e lui non mi avesse lasciato un biglietto nell'armadietto.

Non avresti dovuto ascoltare Rachel, lo diceva per tornaconto personale. Aveva paura che gli rubassi il ruolo di stella, perché hai talento, sul serio. Blaine, non farti mettere sempre i piedi in testa dalle scuse. Me lo ha confidato Tina. -Mike.”

Accartocciai il biglietto e lo gettai nella spazzatura. Ero furioso. Erano state solo scuse, e lo sapevo, ma erano anche scuse di verità. Tutto ciò che avevi detto sarebbe effettivamente successo. Conoscevo quella scuola. Conoscevo la sua fauna. Sapevo quanto il loro appetito fosse insaziabile. Sapevo che lì ero effettivamente destinato a perdere. Era semplicemente così.

In ogni caso grazie, Rachel Berry, per aver strangolato il mio unico momento di felicità. Non voglio sembrare una drama queen, anche se ormai è probabilmente troppo tardi, ma se devo dirti le cose davvero come stanno, ho intenzione di esternare esattamente come mi sono sentito.

La mia vita è un po' tutta una montagna in salita. Quando pensi di essere arrivato in cima e poterti godere il panorama, in realtà è solo un'insenatura nella roccia che si prende gioco di te. E non ho ancora finito. Manca poco.

Mi dispiace solo di abbandonare la partita prima di avere visto la cima. L'ho solo intravista una volta. E non è stata questa.

Stop.

Entrai in casa con il mazzo di chiavi fradicio. Nelle tasche interne le cassette erano al sicuro. Mi levai di dosso il cappotto zuppo e lo mollai per terra nell'atrio. Ci avrei pensato il giorno dopo. Cercai di fare meno rumore possibile, ma conoscevo mio padre, Finn e sua madre, e sapevo che il loro sonno era così pesante da essere impossibile da interrompere. Riflettendo, la macchina di Finn non era parcheggiata fuori, questo significava che era ancora in giro. A fare cosa, poi, non ne avevo idea. Forse si sentiva come se fosse la sua punizione, quella di non poter riposare, e non lo biasimavo. Chissà quando sarebbe toccato a me.

Contrariamente alle mie aspettative, mentre salivo le scale si aprì una porta e la madre di Finn uscì dalla stanza con la vestaglia e un soprammobile in mano. Sembrava quasi volesse colpirmi, ma poi accese la luce del corridoio e mi riconobbe. Fossi stato lei non ci sarei riuscito vedendomi in quelle condizioni – i capelli distrutti, le occhiaie, gli occhi arrossati dal pianto, i vestiti zuppi – probabilmente mi sarei scambiato per un malvivente.

« Kurt? Sei tu? Mio Dio, mi hai fatto venire un infarto... » si appoggiò con una mano al muro ed abbassò la statuetta. « Cosa ci facevi fuori a quest'ora? Io e tuo padre credevamo fossi a letto. » disse, e cominciò a rendersi conto di ciò che stava accadendo. Vidi il sospetto arrivare sul suo viso e poi una lieve irritazione. Mamma Carole stava emergendo. Non avevo tempo per questo.

« Ti spiegherò domani, ora per favore ho una cosa davvero importante da fare, scusami Carole. » sussurrai, per non svegliare mio padre. Sentivo il peso delle cassette nelle mie tasche. Pensai a quella che avevo appena ascoltato e mi sforzai per non piangere. Non ero mai stato un debole. Che diavolo mi aveva fatto Blaine Anderson?

« A quest'ora di notte? » domandò, esasperata. Annuii e, grazie al cielo, la stanchezza fece la sua parte, così Carole cedette.

« Domani voglio una spiegazione convincente. » affermò con tono fermo e, barcollando per il sonno, rientrò in camera chiudendosi la porta alle spalle.

Mi precipitai nella mia stanza, mi levai i vestiti zuppi e rimasi con la canottiera e le mutande, troppo sconvolto, di fretta, stanco, esasperato, spaventato per mettermi addosso qualunque altra cosa.

Mi sedetti sul letto con le gambe distese davanti a me e, con le mani tremanti, premetti nuovamente play.

Play.

So perfettamente chi viene ora e, credimi, non avrei voluto arrivare a te. Anzi, forse non vedevo l'ora. La prossima cassetta è molto importante. Ciao Kurt.

Stop. Click.

Il nastro era finito. Il cuore mi martellava nel petto come un metronomo impazzito mentre cambiavo la cassetta con fiato corto.

























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Spazio Autrice:

Scusate l'immenso ritardo. Maturità D:

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Capitolo 10
*** Cassetta E Lato 10 ***


13 Reasons Why
Cassetta E Lato 10








Parti, parti, parti, parti, parti, mi dicevo, mentre a malapena riuscivo a mettere il nastro al suo posto e a schiacciare quel maledetto pulsante. Non avevo neanche il tempo di pensare, non volevo pensare, volevo sapere e volevo capire. O forse no. Non mi importava di niente, tutto ciò che davvero era importante, in quel momento, era dentro quella cassetta.

Play.

Non prendertela con me Kurt, davvero, non te la prendere. Non è stata colpa tua. Non del tutto. Sono io. Sono sempre stato io. È solo che... eri tu.

Cosa significava quell'introduzione? Negli altri nastri era sempre stato molto deciso su quello che doveva dire, come se lo avesse preparato in anticipo per un sacco di tempo; ora sembrava solo confuso.

Mi ero ripromesso allo stesso tempo sia di parlarti di tutto questo, sia di non farlo. Immagino di stare mantenendo entrambe le promesse. Kurt. Kurt. Una persona come te che ci fa in mezzo a questo schifo? Non dovresti essere qui, non dovresti mostrare a nessuno quanto, con un po' di impegno, potremmo essere migliori. Eri tutto ciò che avrei voluto essere ed avere. Fiero, forte, tenace, con una bella famiglia ed un fratello che ti amava. E poi immagino che volessi anche te. Te che eri stato così gentile con me da farmi sentire come se ci fosse stato uno spiraglio in quella mia discesa a chiocciola nel buio. Pessima idea, sai?

So che lo hai fatto con le migliori intenzioni, ma non puoi andare da un alcolista a sbandierargli quanto sia bella la vita senza l'alcol, con una bella moglie ed un tetto sopra la testa.

Però ti ho amato tanto per averlo fatto. Perché sarebbe stata la spinta giusta per smettere di piangermi addosso e aggrapparmi a te con ogni fibra del mio essere e ricominciare, dimenticare, farmi scivolare tutto addosso.

Perché non lo hai fatto?

Ma erano tutte fantasie. Non ne ero capace. Era così bella quell'immagine, così pura, così idealizzata. Ma no.

Non dirlo. Non dire no.

Vorrei ricordare solo due episodi, due singoli episodi prima di chiudere anche questo nastro.

Quali? Cosa ho fatto? Quando? La mia mente urlava a velocità disumana, sovrapponendo gemiti e grida come fosse l'apocalisse. Cosa avevo fatto. Niente. O forse tutto. Forse era tutta colpa mia.

C'era stata quella volta che eravamo entrambi alla festa ed ero ubriaco. La maggior parte delle nostre conversazioni sensate erano da ubriachi. Ti ricordi quando mi sono seduto sul divano accanto a te? Quando stavo per cadere per terra? Dio, se mi veniva da vomitare. Avevo visto così tanta gente spalmarsi la saliva in faccia che non sapevo più dove guardare e devo ammettere che la testa mi girava come una giostra. Poi notai quello spazio vuoto accanto a te. Avevi un bicchiere rosso in mano e lo dondolavi con aria poco interessata.

Ero ubriaco, perché non parlarti per una volta? Perché no? Era la mia occasione. Potevo provare a vedere cosa si provava ad essere te. Allora mi sedetti, barcollando. Diciamo che capitolai su quello spazio e finsi di non vedere niente perché mi ero già dimenticato tutte le cose che volevo dirti.

« Bella festa. » dicesti, e come darti torto. Era una festa. Era già tanto che fossi stato lì, ho già detto che non ero di certo il ragazzino popolare che partecipava a tutti quei party che sarebbero stati storie da raccontare poi agli amici di una prossima vita.

Mi tremavano le mani perché mi ricordavo tutto. Mi tremavano perché avrei potuto agire in modo da portarlo via con me. Perché non mi aveva mai parlato prima? Perché non lo avevo fatto io? Perché eravamo stati bloccati da delle stupide convenzioni sociali? Guarda dove ci avevano portato. Dannazione! A chi potevo gridare quest'ingiustizia, adesso? A qualcuno che non avrebbe ascoltato?

Ricordo che sorrisi, senza motivo. Perché avrei dovuto sorridere? Ah, le benedizioni dell'alcol. Meglio che piangere sulla tua spalla, suppongo.

« L'unica. » risposi, sperando di risultare abbastanza ambiguo da non sembrare un povero idiota senza vita sociale. Volevo che ti interessassi a me e, allo stesso tempo, volevo tenerti a debita distanza. Perché sapevo ciò che mi avresti fatto.

Ci sono delle persone delle quali percepisci perfettamente quale effetto riusciranno ad avere su di te. È come se la chimica tra particelle cercasse invano di mandarti delle piccole scosse per segnalarti il pericolo, ma cosa c'è di meglio di una bella scossa all'anima? Soprattutto alla mia.

Non voglio ascoltare.

Tu rispettasti tutti i convenevoli e mi chiedesti: « Come stai? »

Non potevi fare domanda peggiore, e immagino che ormai tu lo avrai capito se avrai avuto la forza di stare a sentire tutti i nastri prima del tuo. Ma all'epoca come potevi saperlo? Come potevano saperlo tutti? Nessuno poteva, d'altra parte.

Avevo pensato a quell'episodio poco prima, durante la cassetta dedicata a Quinn, se solo avessi saputo i suoi pensieri. Se solo. Se.

« Da urlo. » risposi, e tu sorridesti. Era un urlo di solitudine il mio. Hai presente quello che fai nel mezzo di una folla perché nessuno ti vede o ti sente e vuoi dimostrare al mondo che sei vivo, ma ancora nessuno sembra notarti? Quello era il mio urlo. Era un incubo e, poco dopo, sarebbe peggiorato ancora di più. Immagino che ormai tu lo sappia.

Sì, sì lo so ora. E se fossi rimasto lì con me più a lungo magari non sarebbe successo.

Questo genere di pensieri ti divora e non ti porta da nessuna parte.

« Bene. » rispondesti. Wow, mi ricordo questa cosa molto meglio di quanto mi aspettassi. In ogni caso volevo disperatamente continuare quella conversazione che sembrava irrimediabilmente destinata a morire nell'imbarazzo e nella mancanza di argomenti, quindi ti feci la stessa domanda, e tu rispondesti:

« Non mi lamento eccessivamente. » e sembrava una risposta così pesata che mi venne voglia di ridere. Di solito mi trattenevo, ma quella volta decisi di assecondarmi. Era divertente.

Rise anche in quel momento. Non riuscivo a capire se per il ricordo o in maniera amara.

Sentivo la bile ribollirmi dentro, perché quella risata non era ormai altro che una cassetta. Una stupida audiocassetta che avrebbe per sempre portato le ultime parole di Blaine Anderson, un ragazzo meraviglioso, che però si era chiamato fuori.

« Nessuno si lamenta mai abbastanza. » avevo risposto. Per qualche secondo ero riuscito a dire qualcosa di sensato, ma sapevo che significava entrare in confidenza e non potevo farlo. Non lì, non in quel momento. Volevo, sapevo che doveva succedere, ma non...lì.

Mi iniziai ad agitare, sentivo il respiro farsi più corto, ma lottavo per non darlo a vedere. Non volevo pensassi fossi un pazzo.

Troppo tardi, forse. Ah, me misero, mi sa che ho rovinato tutto.

Poi dicesti qualcosa che faceva intendere che capivi il peso della situazione, e capivi che non era il caso. Tu capivi. E io lo sentivo. E questo fu un colpo di grazia. Se esistevano persone come te, perché non venivano a salvarmi? E chi ero io per contaminarti?

Tutti discorsi da ragazzino ma, che posso dire, io sono ancora un bambino, suppongo.

No, Blaine, tu sei cresciuto troppo in fretta e non hai un equilibrio. Non in te stesso. Lo cercavi in me, ma non siamo riusciti a crearlo. Non sai quanto mi dispiace.

Mi accasciai sul letto, morsicandomi le guance per non far sentire i singhiozzi che mi risalivano la gola come pugni pronti a sfondare la barriera delle mie labbra.

Non sapevo nemmeno come mi sentivo, sapevo solo che non avevo voglia di fare niente.

Ti ricordi cos'è successo poi?

« Se tutti si lamentassero adeguatamente, sai che tristezza. » dissi, in contemporanea con la cassetta.

Sorrisi mentre una lacrima mi correva lungo il labbro.

Già. Ma a me era già passata la voglia di ridere. Sai cosa vuol dire stare bene con una persona ma non stare bene con te stesso né con tutto il resto? Le soluzioni sono due: o diventi dipendente da questa persona o vuoi starci lontano a tutti i costi perché avere davanti la soluzione non fa altro che male. Non la puoi prendere. Non la puoi toccare. E poi non sarebbe giusto.

Perché?

Perché lasciamo tutti delle impronte sulle vite che tocchiamo, e anche io le avrei lasciate su di te. Mi sentivo come un imbianchino su una tela di Van Gogh. Non potevo rischiare di rovinarti, ti pare?

No, Blaine, no, io sarei stato forte abbastanza e avrei sopportato le tue impronte e ti avrei aggiustato. Magari non da solo. Magari ci sarebbe voluto un po', ma avrei potuto farlo. Davvero, Blaine, potevo. Perché non mi hai lasciato farlo.

Mi morsi le guance più forte.

In seguito ci eravamo già visti più volte. Un po' al parco vicino casa, un po' a scuola, un po' per strada, un po' a mensa, un po' in giro. Avevamo conversato, addirittura, a volte. Riso. Parlato. Chissà se te lo ricordi. Suppongo di sì.

Idiota, ovvio.

Kurt.

« Mh? » risposi ad alta voce, ma non stava parlando davvero con me.

Un sospiro nelle cuffie.

« Non piangere. » sussurrò.

Avevo un nodo in gola che mi stava strozzando.

Ti ricordi la volta dell'altalena? Bé, non è stata molto tempo fa, credo che la tua memoria non sia così breve. Eravamo alla festa di Jacob e ormai era tardi. Io ho provato ad evitarti tutta la serata, principalmente perché ero ubriaco e non mi fidavo affatto di me stesso.

Non rovinare le cose, continuavo a ripetermi.

A poco serviva.

Voi tutti che state ascoltando solo per un po' di gossip ora, vi divertono le avventure di un ragazzo morto?

Aveva queste uscite così arrabbiate, così aggressive, che riuscivo perfettamente a percepire il suo stato d'animo e lo detestavo.

Alla fine erano tutti finiti in piscina, ma io non so nuotare. Mi diressi verso l'angolo più lontano del giardino, vidi un'altalena, barcollando mi appoggiai a uno dei pali di sostegno e notai che c'eri tu. Eri seduto lì, ti dondolavi piano.

Mi ricordavo benissimo quella serata.

Non andare avanti.

Non andare avanti.

« Forse dovresti sederti tu. » dicesti.

« Forse dovresti andare in piscina. » consigliai. Postosbagliatopostosbagliatopostosbagliato.

Facesti spallucce.

« Non voglio bagnarmi i capelli. » ammettesti.

Ridacchiai.

Quella risata mi risuonava ancora nelle orecchie se mi concentrvo abbastanza.

« Avrei dovuto immaginarlo. » risposi, prima di rendermi conto di quanto potesse sembrare offensivo, ma tu facesti una smorfia divertita.

« Sì, probabilmente sì. »

Cercai di stare in piedi lì davanti a te, a guardarti mentre ti dondolavi, così, solo perché mi rilassava, ma mi girava la testa – tanto – quindi caddi per terra, gemendo e mormorando cose che non ricordo. Spero nemmeno tu.

Allora ti sei alzato dall'altalena e ti sei abbassato su di me.

« Blaine, non dovresti stare disteso in questo stato, davvero, tirati su. » mi consigliasti, cercando di alzarmi.

Ho dei flash confusi di questa cosa, ma so che successe.

Dimmi che ti ricordi.

Sì.

« Non voglio, tanto peggio di così. » gemetti.

Ricordavo quella conversazione. Era stato il momento in cui avevo realizzato molte cose.

In cui avevo realizzato Blaine.

« Peggio di così? » domandasti. Ricordo che mi focalizzai sul modo in cui aggrottasti le sopracciglia ed arricciasti il naso.

Scusa se ti sto dicendo tutto questo, ma se non lo faccio adesso non ne avrò più l'occasione.

« Penso di essere arrivato al capolinea. » spiegai. Oh, ricordo che ormai avevo rinunciato a zittirmi. Parlare sembrava molto facile.

« Di cosa? » domandasti. So che ti ricordi.

« Di me. » risposi. Avevo già l'idea. Avevo questo tarlo orribile, dentro di me, che mi diceva 'basta'.

Tu non avevi detto cose come “non dire idiozie” o “ma finiscila”. Dicesti:

« Perché? » e come potevo spiegartelo?

« Perché 'basta'. » risposi. Scoppiai a ridere, perché mi veniva da piangere. Tu ti distendetti accanto a me.

« 'Basta' è una scusa. » mormorasti. « Perché io posso dirti 'prova ancora'. »

Mi voltai verso di te, e fu allora che mi vedesti. Lo so, avevo gli occhi lucidi. Non me ne ero accorto, scusa.

Il flash della scena mi arrivò addosso come un mattone sulle tempie.

« 'Prova ancora' non è abbastanza! » risposi. Tu arretrasti di qualche centimetro.

« Lo è, perché finché continui a provare puoi sperare che succeda qualcosa di meglio! Se non lo fai, grazie al cazzo! »

Oh, sì, stavamo litigando.

« Non sai cosa significa vedere le proprie aspettative rimanere deluse ogni volta! Non puoi capire, non puoi! » gridai sottovoce, stringendo i denti perché coloro che erano nella piscina non ci sentissero. In lontananza potevamo sentire i loro schiamazzi.

« Non si tratta di me, si tratta di te! Si tratta del fatto che tutti possono farcela, Blaine, è da codardi lasciare tutto e pensare che possa essere una soluzione! »

« Infatti non è una soluzione! » gridai.

Stava arrivando.

« E cosa sarebbe una soluzione, allora? » domandasti.

« Io... io non... »

« Può una persona essere una soluzione? » chiedesti di nuovo.

« Io non lo so. » biascicai, cercando di voltarmi dall'altra parte, ma troppo confuso per farlo. Tutte quelle grida mi avevano fatto venire un mal di testa atroce.

« Se hai bisogno, Blaine, io posso provarci, io posso... »

Ricordavo quel momento. Ricordavo che avevo pensato fosse il momento di dirgli che mi ero affezionato. Che c'era qualcosa in lui, non so cosa nemmeno adesso, che mi diceva che dovevo restare. D'altra parte per queste cose non deve esserci una ragione, ed io la avevo cercata inutilmente. Mi ero esposto, mi ero proposto, e avrei dato tutto ciò che avevo per un suo segno di assenso. Invece non fu quello che mi aspettavo.

Ti baciai. Per farti stare zitto, sì, per quello. Perché avevi ragione ma non potevo permettermi di trovare una soluzione. Non potevo intaccarla, non se si trattava di una persona come me. Non ha senso far marcire una bella mela per aiutare un'altra a stare un po' meglio. Ti baciai perché mi piacevi tanto, perché mi facevi sentire normale, e mi facevi arrabbiare. Perché non eri né Quinn, né Finn, né Puck, né Rachel, né Tina, né nessun altro. Perché volevi davvero aiutarmi, ma non potevo lasciartelo fare.

Quindi ti chiedo scusa, ti chiedo scusa per la mia esistenza fottuta, ma se non potevo avere una soluzione, allora era il momento di dire basta. E quello fu il campanello per me.

Non bastavi neanche tu.

Avrei potuto, idiota. Avrei potuto. Dovevi lasciarmi del tempo.

Custodivo il ricordo di quell'istante gelosamente. Le labbra che si scontravano, il battito del cuore che accelerava come fosse stato nel bel mezzo di una corsa, il sangue che pulsava in tutto il corpo e qualcosa di bagnato sul viso, perché Blaine stava piangendo, e non sapevo cosa fare.

Credimi. CREDIMI se ti dico che avrei voluto poter restare fermo così. Fermo. Immobile. Ma la vita va avanti, e non sono abbastanza forte da solo per fermarla, ed è per questo che ti spinsi via. Mi sentivo così bene che non potevo sopportarlo. Non riuscivo a respirare. Non potevo nemmeno pensarci, non doveva esistere, non era un'opzione. Era più importante quello che ho detto prima. Era più importante quel 'basta'.

E' stato lo scalino che mi ha fatto capire che non avevo altre alternative. E allo scatto definitivo mancava veramente un nonnulla. Ma non è colpa tua, hai capito? Non è colpa tua.

Perchè mi hai inserito in queste cassette, allora?

Sei in questo nastro perché dovevo dirtelo. Dovevo essere sincero con te, per una volta. Volevo solo questo. Sei una delle ragioni, è vero, ma sicuramente sei l'unica che non rimpiango.

Kurt, davvero. Non piangere. So che lo stai facendo.

Lo hai fatto anche quella sera, mentre correvo via e nessuno, a parte te, se ne accorgeva.

Ma ora è finita, quindi shh, non piangere.

Click.

Stop.

La cassetta era finita, si era esaurita, e tutto ciò che io avrei voluto fare era rimetterla da capo e riascoltare quelle ultime frasi.

Riascoltare.

Riascoltare.

Desideravo come un pazzo poterlo sentire dal vivo.

Mi levai le cuffie e gridai sul cuscino.
















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Spazio Autrice:

Scusatemi da morire il ritardo, davvero. Sono pessima.
Ho perso dei pezzi di cuore a scrivere questo capitolo, facevo pause continue perchè mi sentivo proprio male.

Spero vi piaccia, manca poco alla fine della storia.

Un Bacio,

Noth

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