Utopia

di Filakes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Utopia ***
Capitolo 2: *** Fascia verde e laccio rosso ***
Capitolo 3: *** Angoscia ***
Capitolo 4: *** Occhi di ghiaccio ***



Capitolo 1
*** Utopia ***


Prologo:
“Utopia”


  Fin da quando ero bambina, mia madre mi raccontava sempre la storia di Utopia, una città fantastica, senza disuguaglianze civili, né tantomeno maltrattamenti. Niente razzismo, niente menefreghismo, niente armi. Tutti avevano un lavoro, tutti potevano esprimere la loro opinione e la scienza era a disposizione dell’essere umano, per facilitargli la vita, non per causargli danno. Mi raccontava sempre come due giovani esploratori ci fossero finiti per caso, durante una spedizione nel sud di Oberon, la nazione in cui sono nata, di come ne impararono la cultura e ogni suo aspetto. Mi raccontava che questi esploratori erano tornati e avevano raccontato tutto ai nostri governanti, che avevano voluto sapere come arrivarci, ma Utopia non era sulle mappe e i due non riuscirono mai più a ritrovare la strada per quella città fantastica.
  Ho sempre creduto che fosse un modo con il quale Utopia stessa si difendesse e, sinceramente, lo penso tutt’ora. Una città tanto bella non vorrebbe mai essere scoperta da noi: la corromperemmo con il nostro modo di fare violento e stolto.
L’ultima volta che mia madre mi ha raccontato questa storia avevo sette anni e gli scoppi delle bombe risuonavano assordanti nella notte, mentre l’antico regno di Oberon diveniva un’accozzaglia di macerie e detriti.
Quella notte stessa, mentre le bombe tuonavano e le urla laceravano la notte, fui trascinata fuori dal mio letto con la forza dai soldati nemici che avevano violato la nostra casa. Fui l’unica vittima della mia famiglia. Come pegno per aver perso la guerra, il nostro regno fu privato di diecimila giovani, che furono trascinati a nord, dove le ore di sole sono così poche e l’aria così fredda che le piante che crescono si contano sulle dita di una mano, tre delle quali sono mortali, tanto sono velenose.

  Sono passati undici anni da allora, da quando ho visto l’ultima volta la mia famiglia, da quando mia madre mi raccontava di Utopia. Undici anni passati a lavorare come una schiava per un regno tirannico e dispotico, undici anni in cui mi sono aggrappata con le unghie e con i denti a quel polveroso racconto, che mi ha aiutato a sopravvivere, a non impazzire dal dolore, dalla fame o dal freddo.
Il mio nome è Nilde e sono convinta che Utopia esista e vi giuro che la troverò.

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Capitolo 2
*** Fascia verde e laccio rosso ***


Capitolo I:
“Fascia verde e laccio rosso”

  Sono già sveglia quando un soldato tira tre pugni alla porta del nostro dormitorio con forza, urlando che dobbiamo alzarci in fretta. È una sveglia fastidiosa, ma ormai ci siamo abituati tutti qui dentro. Questa mattina però, metà della nostra camerata è già sveglia da un po’, infatti, Annabeth, la ragazzina che dorme vicino a me, ha cominciato a tossire convulsamente da questa notte e non ha mai smesso. Ogni tanto l’ho sentita andare in bagno a piangere e vomitare. Mi alzo dal letto ed incrocio il suo sguardo atterrito: è pallida e trema per il freddo. I miei occhi vengono catturati da una macchia di sangue sul suo cuscino: è ufficiale, non passerà il Controllo di oggi.
Una volta all’anno, in quest’inferno, ogni camerata deve fare un controllo medico approfondito: prelievo del sangue, visita medica, analisi delle urine e così via. Dopodiché veniamo divisi in tre gruppi: sani e adatti al lavoro, recuperabili e, infine, quelli a riposo. Quelli sani vengono portati a lavorare immediatamente, quelli recuperabili vengono guariti velocemente, la medicina ha fatto passi da gigante negli ultimi decenni, mentre quelli detti a “riposo” vengono scartati in quanto il costo della loro cura sarebbe troppo elevato e vengono emarginati e lasciati morire. A volte addirittura uccisi di nascosto per liberare un posto letto per un’altra vittima. Sfortunatamente per Annabeth, oggi è il giorno del Controllo.
-         Nilde…
La voce le trema e vedo che a stento trattiene le lacrime. Mi alzo dal letto e l’abbraccio. Annabeth è minuta e molto esile, con il clima di questo posto il suo corpo non può reggere.
-         Andrà tutto bene.
Cerco di rassicurarla abbracciandola ancora più forte, le altre ragazze ci osservano senza sapere cosa dire, dispiaciute.
-         S…se io venissi scartata…
-         Non succederà, non è niente.
Mentre cerco di calmarla, Annabeth riprende a tossire e un grumolo di sangue mi finisce sui vestiti logori.
-         Cinque minuti al Controllo!
Il soldato sta ancora urlando fuori dalla nostra camerata. Se arriviamo in ritardo rientriamo automaticamente negli scarti. Mi cambio in fretta la maglietta, con una altrettanto malmessa, ma almeno non è sporca di sangue, e aiuto Annabeth a vestirsi e a mettere il giaccone.
-         Andrà tutto bene, vedrai.
Le sorrido.
  Annabeth ha tredici anni ed è stata portata in quest’inferno solo un anno fa, come punizione per aver rubato delle galline in una fattoria per dar da mangiare qualcosa alla sua famiglia. Da allora ho cercato di proteggerla, ma è troppo fragile per sopportare tutto questo.
Le accarezzo i capelli biondi, quasi bianchi, e le stringo la mano.
-         Dobbiamo andare.
Sussurro.
Lei annuisce, terrorizzata e ci mettiamo in fila, insieme alle altre.
  Il soldato apre la porta e ci fa salire su una struttura in ferro, che fluttua sospesa a trenta centimetri dalla neve che ricopre l’asfalto. Il soldato urla un comando e un ragazzo, vestito di stracci come noi, aziona un pulsante e la struttura inizia a muoversi verso l’infermeria, acquisendo sempre più velocità.
Annabeth mi stringe la mano e si aggrappa al mio braccio.
-         Tutto ok?
Le chiedo senza farmi sentire dagli altri.
-         Mi gira la testa.
La sua voce è un sussurro impercettibile.
-         Andrà tutto bene.
Cerco di sorriderle.
Il vento freddo si abbatte tagliente sui nostri volti, in queste condizioni, Annabeth non può che peggiorare. Digrigno i denti, furiosa. Come possono trattare così una bambina? Ricordo che quando avevo sette anni e mi avevano portato qui, avevo creduto di morire un sacco di volte, ma me l’ero sempre cavata, aiutata dagli altri. Annabeth invece è arrivata qua già debole e ammalata, era da sola. È già un miracolo che sia sopravvissuta tanto a lungo, probabilmente.
La struttura metallica si ferma, finalmente, e ci fanno scendere e dividere in due file. Annabeth viene spostata da un soldato nell’altra fila, con le ragazze più giovani, ed entriamo nell’infermeria. Un calore improvviso ci pervade: qui i riscaldamenti ci sono, per il benessere dei nostri aguzzini. Una alla volta, entriamo tutte nella stanza dove un medico esegue le analisi e le visite, finché arriva il mio turno. Entro decisa nella stanza bianca e linda. È una stanza austera, priva di ogni emozione, ci sono solo macchinari metallici e un lettino bianco e scomodo. Il dottore mi fa sedere e con freddezza e meccanicità mi preleva del sangue. Mentre la macchina elabora i dati, vengo visitata. Le mani del dottore si muovono con cautela, tastando la schiena, la gola e la pancia, mi sento quasi un animale da macello. Mi chiede poi di tossire, mi ascolta il respiro e mi misura i parametri vitali. Mentre il medico annota ogni cosa, mi viene da pensare a cosa sarebbe accaduto se tutto questo non fosse mai successo, forse anch’io sarei diventata medico, chissà.
-         Sembra tutto apposto.
Commenta e un fischio elettronico risuona all’improvviso nella stanzetta bianca e immacolata, avvisando che le analisi sono pronte.
Il medico le prende in mano e le osserva.
-         Godi di ottima salute Nilde. Puoi andare.
Mi rassicura, legandomi una fascia verde al braccio sinistro, simbolo che sono sana e in grado di lavorare.
Ringrazio ed esco velocemente. Esistono due fasce: una verde e una gialla, la prima per i sani e la seconda per i recuperabili, mentre agli scarti viene messo un laccio rosso. Annabeth entra poco dopo. Mi sento tesa, temo che uscirà con un laccio rosso, ma prego che non sia così. Il tempo passa e la visita si prolunga più del previsto. Inizio a tormentarmi le mani, ansiosa. Annabeth è una sorella per me, non posso permettermi di perderla, non posso. Le altre mi osservano, preoccupate, sanno quanto lei sia importante per me, ho giurato di difenderla, ma ora mi sento completamente impotente. Inizio ad attorcigliarmi i capelli castani, mentre sento l’angoscia invadermi.
La porta si apre all’improvviso, guardo terrorizzata il suo braccio sinistro e sento che la terra viene meno sotto ai miei piedi: Annabeth ha il laccio rosso.

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Spazio autrice:
Salve a tutti, sono Filakes. Questa è la prima storia di fantascienza che scrivo, al momento ne sto scrivendo una fantasy con molta passione e altre tre che però sono in fase di riposo...L'idea per questa storia mi è venuta tempo fa, dopo un brutto sogno, e poichè avevo già voglia di scrivere una storia al presente ed in prima persona, ho deciso di cimentarmi in quest'impresa. Spero davvero che vi possa piacere, fatemi sapere! :)
Filakes

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Capitolo 3
*** Angoscia ***


Capitolo II:
“Angoscia”

  Annabeth alza lo sguardo su di me, gli occhi colmi di lacrime. Faccio per raggiungerla, ma un soldato mi butta fuori a forza. È suonato il mio turno di lavoro. Stringo i denti e cerco di resistere, ma so che se non esco ora, i danni che causerei colpirebbero anche Annabeth.
-         Andrà tutto bene!
Urlo verso di lei mentre la porta si chiude di fronte a me.
Il freddo mi colpisce con violenza, l’aria ghiacciata fatica ad andare nei polmoni. Il soldato mi trascina fino alla mia zona di lavoro e mi attacca il bracciale di controllo al polso. Questo affare deve scandirmi i tempi di lavoro e darmi alcune scosse se mi fermo. È capitato all’inizio che in alcuni bracciali il voltaggio fosse sbagliato e molti sono morti subito o sono rimasti danneggiati in modo irrecuperabile. La maggior parte di quelli che sono morti in questo modo o erano troppo deboli o hanno dimostrato un carattere troppo problematico, in conclusione sono convinta che i soldati “sbaglino” volutamente il voltaggio.
Sento una mano darmi una pacca sulla schiena e mi volto. Il viso di Kate è dispiaciuto. Ci mettiamo in fila per entrare nella fabbrica scura e tetra che sovrasta tutta la zona.
-         Mi dispiace per Annabeth.
Mi sussurra Kate, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé.
-         Anche a me.
Sento che la mia voce è spezzata. Mi mordo un labbro e sento le lacrime pungermi gli occhi, le ricaccio giù e deglutisco.
Kate si accorge della mia reazione e mi dà una pacca leggera sulla spalla. Io e lei ci conosciamo da undici anni, da quando sono arrivata in questa fogna. Kate ed io eravamo state catturate quando il regno di Oberon era caduto. Io venivo da una cittadina ai piedi di una montagna, mentre lei da una città nel centro della Nazione. Avevamo entrambe sette anni e ci mandarono nella catena di montaggio. Quello che potevamo fare all’inizio era davvero poco, ma almeno eravamo insieme. Kate mi aveva incantato da subito: grandi occhi blu come il mare profondo, capelli biondi e mossi, morbidi. Molto diversa da me che ostentavo una lunga chioma castana ribelle e occhi verdi, in cui leggervi lo sguardo scocciato era, ed è, la norma. Veniva da una famiglia agiata, caduta in disgrazia con la guerra. Il suo portamento, il suo modo di fare dolce ed educato stregò tutti e fu la sua condanna. Compiuti i sedici anni, i soldati cominciarono a corteggiarla in modi più o meno sfacciati. Chi si complimentava con lei per il modo in cui era “venuta su bene”, chi le affibbiava appellativi che la facevano arrossire per la vergogna. Provai a difenderla più volte, beccandomi punizioni su punizioni e aggravando la sua situazione. Era una situazione svilente. La sentivo piangere ogni notte e io non potevo fare nulla, poi un giorno la situazione cambiò. Kate cominciò ad assecondare i complimenti con alcuni timidi sorrisi e ringraziamenti pacati. I soldati, convinti di avere una chance, la coprirono di doni, ciò che lei voleva le veniva dato. Kate ricambiava con dolci parole e illusioni, senza sbilanciarsi. Grazie a questo suo modo di fare ci ritrovammo spesso con del cibo extra, con medicinali e, a volte, caramelle e dolci. È grazie a lei che molte di noi sono ancora vive.
  Saliamo insieme sul montacarichi che con cigolii continui ci porta al reparto di montaggio.
-         Vedrò cosa riesco a fare per Annabeth.
Cerca di rassicurarmi Kate.
-         No Kate, me la vedrò io. Per avere le medicine che servono a lei dovresti di sicuro finire nel letto di qualche bastardo, non è il caso.
Ribatto io decisa.
-         Nilde, la sua vita è molto più importante dell’integrità del mio imene.
-         Non dire cazzate, Kate! Non se ne parla! Sono sicura che riuscirò a trovare un altro modo per aiutarla, senza bisogno che tu rinunci alla tua dignità!
Mi inalbero. Lei mi fissa alcuni istanti, lo sguardo a metà tra il grato e il corrucciato. Poi alza le spalle e va alla sua postazione.
-         Fa un po’ come vuoi.
-         Lo farò.
Replico sorridendole.
Mi affretto a raggiungere la mia postazione e nel freddo della fabbrica comincio a montare le varie componenti di oggetti che poi verranno venduti dai nostri oppressori nelle loro lussuose cittadine, ricche di sfarzo e stupidi oggettini. Li odio. Alcuni ragazzini dell’età di Annabeth si fermano a chiacchierare un attimo e una scossa li pervade. Uno di loro cade a terra, il suo torace non si alza o abbassa. Non respira più. Incrocio lo sguardo atterrito di Kate e le faccio segno di andare avanti a lavorare, ormai è troppo tardi per lui. Un soldato arriva e trascina via il corpo del ragazzino. Mi chiedo perché abbiano voluto farlo fuori. Forse era solo un peso qui? Non lo so ma mi viene da vomitare. Sono loro che ci trascinano in quest’inferno senza fine e loro ci uccidono quando vogliono, sono delle bestie. Alle due del pomeriggio suona una sirena e ci mettiamo in ordine per andare a pranzare: per quanto ci disprezzano devono tenerci nutriti per lavorare. Kate mi si affianca di nuovo e io le sto vicino. Vedere quel ragazzetto ridere e poi cadere disteso, morto, l’attimo dopo ha scosso entrambe.
-         Forse è stata una fortuna avere oggi il Controllo.
Bisbiglio a Kate.
-         Perché?
La sua voce è scossa.
-         Perché se Annabeth fosse venuta oggi probabilmente non avrebbe retto la mole di lavoro. Forse sarebbe morta lei al posto di quel ragazzo.
Rispondo. Forse sono cinica, anzi, lo credo io per prima e lo sguardo di Kate lo conferma.
-         Nilde…
Il suo tono è tra il rassegnato e il rimprovero.
  Ci spostiamo tutti in uno stanzone dalle pareti grigie e polverose, lunghe tavolate sono disposte parallelamente. Appena entriamo ci viene fiaccato in mano un vassoio con una bottiglietta d’acqua, un piatto colmo di una poltiglia grigiastra insapore e una fetta di pane raffermo. Un pranzo completo, una rarità da queste parti.
-         Come mai tutta ‘sta roba?
Chiedo a Kate mentre ci sediamo al solito tavolo dove Kevin, Amanda e William ci raggiungono.
-         Me lo sono chiesto anch’io.
Commenta Kevin, sorridendo allegro. Si passa una mano tra i capelli scuri portati corti, mentre i grandi occhi grigi fissano affamati la poltiglia informe.
Amanda ravviva i suoi lisci capelli rossi e mi fissa con lo sguardo nocciola.
-         Sembra che arrivi un nuovo generale. Credo vogliano fare una buona impressione o roba del genere.
Mi spiega mordendo la fetta di pane.
-         Capisco. O meglio, penso sia inutile, tanto sarà lui il primo a rovinarci la vita.
Sbuffo e Amanda alza le spalle.
-         Dov’è Annabeth?
Mi chiede William fissandomi con uno sguardo interrogativo.
-         Vedi… lei… non ha passato il Controllo.
Mi obbligo a rispondere.
I suoi occhi scuri si spalancano e a Kevin va di traverso una cucchiaiata di cibo.
    -    Come mai?
Domanda Amanda, lo sguardo che salta da me a Kate.
-         Questa notte ha iniziato a vomitare sangue, non so cos’abbia ma i medici di qui reputano che sia troppo costoso occuparsi di lei.
Racconto adirata.
-         Cosa pensi di fare?
Mi domanda William.
-         Ci devo ancora pensare.
William coglie il mio sguardo sconfortato e mi sorride.
-         Tranquilla, qualcosa faremo.
La sua mano raggiunge la mia e me la stringe, rassicurandomi. Io gli sorrido a mia volta, un po’ più tranquilla ora che so che anche lui è al mio fianco.
-         Ti aiuteremo.
Affermano Kevin e Amanda quasi all’unisono.
-         Grazie.
Avere degli amici in questo incubo aiuta.
La porta del salone si apre sbattendo e un giovane uomo entra seguito da un gruppetto di soldati. Si guarda attorno serio e il suo sguardo incontra il mio. Fatico a distoglierlo e lui non cede a sua volta, aspettandosi che sia io la prima a fare un passo indietro, ma non ci riesco. È una sorta di magnetismo, forse. Un’insana curiosità tra preda e predatore. Alla fine è lui che è costretto a distogliere lo sguardo per puntarlo verso il direttore dell’azienda che gli si è avvicinato. Torno a guardare gli altri mentre sento un brivido di paura percorrermi la schiena.
-         Quello ha lo sguardo di un sadico.
Balbetto agli altri in preda all’angoscia, conscia che i prossimi anni qui saranno un inferno.

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Capitolo 4
*** Occhi di ghiaccio ***


Capitolo III:
“Occhi di giaccio”

  William mi guarda confuso, come a chiedermi cosa mi aspettavo, era una cosa ovvia. Scuoto la testa e cerco di mangiare ma non ho più fame, è la prima volta che mi succede. Sospiro e mi obbligo a finire a grandi cucchiaiate la poltiglia grigiastra, devo mangiare se voglio sopravvivere. Bevo tutta l’acqua in pochi sorsi, poi, quando vedo che i soldati si allontanano dalla mensa per scortare il nuovo generale, faccio scivolare il pane dentro la manica. Amanda mi fulmina con lo sguardo.
-         Sei forse impazzita? Cosa fai se ti controllano?
Bisbiglia in fretta, gli altri mi fissano.
-         Devo portare qualcosa ad Annabeth, i soldati la lasceranno morire, lo sapete anche voi.
I loro sguardi si posano sulla manica e Kate sospira.
-         Lo so, ma evita di farti ammazzare per un pezzo di pane.
In quel momento suona la sirena che segnala la fine del pranzo. Ci ordiniamo in file ordinate e ci avviciniamo alla porta. Ogni gruppo deve andare nuovamente nella sua postazione, lavoreremo ancora fino a tarda sera. Amanda e William vanno nel reparto vicino al nostro, devono testare quello che noi costruiamo. Kevin, invece, si occupa del trasporto delle merci da un reparto all’altro. Io e Kate torniamo sul montacarichi, che scricchiola in maniera inquietante. Uno di questi giorni, forse, ci moriremo dentro se non lo sistemano e so che non lo faranno. Kate continua a fissare la manica dove ho messo il pane e le lancio un’occhiataccia. Lei si scusa con un cenno del capo e guarda davanti a sé, il volto è teso, pallido.
  La giornata di lavoro passa velocemente, non ci sono più incidenti e la stanza grigia è silenziosa, persino i rumori delle macchine sembrano attutiti. La porta si apre e Kevin ci porta altro materiale da assemblare, non possiamo parlare, né guardarci, ma sento che è teso, probabilmente anche lui mi fissa la manica dove ho nascosto il pane. Picchietto un dito sul tavolo e lui capisce, si sposta e porta il materiale anche agli altri, poi ritira quello pronto. Riprendo a lavorare spedita, non ho voglia che qualche soldato sospetti alcunché.
Alcuni passi si avvicinano alla porta dietro di me, che si spalanca di nuovo.
-         Qui invece assembliamo i prodotti. Molti dei ragazzi che lavorano qui hanno molti anni di esperienza. Vede come lavorano spediti?
La voce del caporeparto è fintamente allegra, forse persino un po’ tesa. Non mi serve altro per capire con chi sta parlando.
-         Vedo.
La voce del nuovo generale è giovane e fredda, pericolosa. Un brivido mi sale per la schiena e non riesco a nasconderlo. Sento il suo sguardo su di me, le mani cominciano a tremarmi. Con pochi passi raggiunge la mia postazione, tengo gli occhi bassi e continuo a lavorare. Afferra un filo elettrico ricoperto di gomma rosa, lo rigira tra le dita, lo esamina con attenzione. Dalle mani tremanti mi scivola un piccolo auricolare, sento il cuore fermarsi mentre atterra con un piccolo tonfo sul piano di lavoro bianco. Il generale si ferma e appoggia il filo con una calma esasperante per prendere il piccolo oggetto che mi è caduto, aspetto a testa bassa una scossa da un momento all’altro, forse ci rimarrei secca, ma non succede nulla. Tutti nella stanza sono impietriti e fissano me e il generale, saltando con lo sguardo da me a lui. Con due dita fredde e affusolate mi afferra il mento, il cuore comincia a battere all’impazzata, ho paura, paura per davvero. Con una leggera pressione mi spinge a guardarlo in volto.
-         Stai più attenta.
Le parole sono controllate, ma vi traspare un velo di minaccia. Sento il sangue congelarsi. I suoi occhi azzurro ghiaccio mi scrutano con attenzione, minacciosi. Poi appoggia il piccolo auricolare con inaspettata delicatezza sul tavolo.
-         Non si è rotto. Sei fortunata.
Ho gli occhi spalancati dal terrore, non mi importa nemmeno che lo veda. Mi lascia andare il viso e prosegue la sua visita.
Sento le lacrime pungermi gli occhi, sento lo sguardo degli altri su di me. Trattengo il groppo in gola e ricomincio a lavorare e così fanno gli altri. Ma so perfettamente che mi terrà d’occhio d’ora in poi. Sento il pezzo di pane premermi contro la pelle dentro la manica e rabbrividisco. Sono fregata.
  La sirena suona la fine del turno serale e ci dividiamo per raggiungere le camerate. Usciti dalla fabbrica, alcuni vengono fermati per essere perquisiti. Do un’occhiata in giro, ma non vedo il nuovo generale. Proseguo a passi misurati, ma una guardia mi chiama, mi volto lentamente. Mi fa cenno di avvicinarmi, ma proprio in quel momento escono Amanda e Kevin, mi guardano terrorizzati. Poi accade tutto in fretta. Amanda spinge Kevin a terra e lo copre di insulti, il ragazzo all’inizio rimane scioccato, poi capisce, si alza e la spintona. Il soldato che mi ha fermato, mi fa segno di andare e accorre dai due che stanno bloccando tutti. Le loro urla risuonano in tutto il cortiletto. William esce in quel momento e li osserva sconcertato. Io mi volto, incrocio lo sguardo di Amanda e sillabo con le labbra un “grazie”, lei fa un lieve cenno con la testa e continua la sua sceneggiata. Sento il soldato urlare, li divide.
-         Voi due farete il turno di notte, niente cibo per due giorni. Tornate dentro!
Sbraita e intravedo i due rientrare. Non è una delle punizioni peggiori, ma per il lavoro che fanno hanno bisogno del cibo. Stringo i denti e so che gli sono debitrice.
  Raggiungo la mia camerata e quando entro Annabeth è stesa a letto, pallida. Mi avvicino a lei, le accarezzo la fronte sudata. Apre piano gli occhi, le tremano le labbra.
-         Nilde?
La sua voce è esitante e fragile.
-         Sì, sono io.
Le sorrido dolcemente.
-         Ti ho portato una cosa.
Tiro fuori il pane dalla manica e lei lo guarda stupita. Sta per parlare, ma io la fermo subito.
-         Niente domande, mangia e basta, prima che ci scoprano.
Lei annuisce e afferra il pane con le mani che tremano visibilmente. Lo porta alla bocca e lo sbocconcella piano.
Le prendo una ciotola sbeccata e la riempio con l’acqua che scende dal rubinetto del bagno, gliela porgo e lei la beve tutta in un attimo. Tossisce ma non sputa più sangue. Raccolgo le briciole dalle sue lenzuola e le getto nello scarico del gabinetto, meglio non lasciare tracce.
-         Come ti senti?
Le chiedo rimboccandole le lenzuola.
-         Meglio.
Il sorriso di Annabeth è sincero, mi sento più tranquilla.
-         Ho sentito che c’è un nuovo generale.
Commenta stanca, richiudendo gli occhi.
-         Già.
Dico solo, alzandomi, mentre le altre entrano nella camerata.
-         Com’è?
Vorrei rispondere che è come gli altri, anzi, forse è peggio. Che potrebbe ucciderti con uno sguardo, che probabilmente renderà questo posto peggio di quel che è, che mi ha presa di mira.
-         Giovane. Avrà pochi anni più di me.
Dico soltanto, mentre mi infilo il pigiama bucherellato.
-         Meglio, forse sarà più aperto.
Poi si addormenta. La osservo alcuni istanti e so che dovrò fare molto di più se voglio aiutarla, ma il nuovo generale non vedrà l’ora di prendermi in fallo. Sospiro esausta e allontano ogni pensiero, non è il caso di fare brutti incubi.

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