Capitolo
due.
Questo
capitolo è dedicato ad A., il ‘ragazzo dai
pantaloni rosa’.
Quello
era un giorno particolare:
una
volta ogni due settimane, precisamente la Domenica, era giorno di
riposo nel quale invece che svolgere i soliti lavori ci occupavamo
della
pulizia del nostro Block.
Quello
era il giorno che tutti i deportati aspettavano con più
ansia;
dava quasi una parvenza d’umanità a quel posto,
fornendo un pasto più
abbondante del solito o permettendoci di dormire poco di più.
Tutti
riposavano, relativamente parlando.
Tutti
tranne gli addetti alle camere a gas.
Sebbene
il loro lavoro consistesse nello spostare i corpi dei morti,
era sicuramente il più faticoso di tutti dal punto di vista
psicologico: ti
distruggeva, ti logorava e soprattutto, ti ricordava quale piega
avrebbe potuto
prendere così, da un giorno all’altro, il tuo
futuro.
Li
vedevi lì, i volti tesi in un’espressione dura e
incredibilmente
triste, che trascinavano il corpo della persona con cui avevano magari
parlato
il giorno prima.
Quel
giorno quel compito capitò a me.
Era
la prima volta che vi andavo e fu terribile la sensazione che
provai entrando in quella camera carica di morte ed è
pressoché impossibile
descriverla: la prima cosa che ti colpiva era il tanfo incredibile di
cadavere,
ti entrava nel naso e non ne usciva più e ti provocava le
vertigini talmente
era forte; la seconda cosa era la grande, o meglio ENORME,
quantità di corpi:
uomini e donne, anziani e bambini, bianchi e neri, ebrei e musulmani,
tutti
erano ammassati là senza alcun riguardo.
Iniziai
a spostare i corpi.
Tentavo
di trattarli con più rispetto che potevo, ma ciò
mi rallentava,
perché non mi limitavo a prenderli per un arto: li trattavo
con gentilezza e
osservavo loro il rispetto dovuto ai defunti.
“Smettila
o metterai nei guai anche me!” Mi disse ad un tratto il mio
compagno di lavoro.
“Perché?”
gli chiesi.
“Perché
dobbiamo essere veloci: la stanza dev’essere vuota per questo
pomeriggio e se tu vai avanti così non lo sarà ed
a quel punto non faranno
distinzione tra me e te.” Rispose lui mentre continuava a
lavorare.
Non
fece nemmeno in tempo a finire di parlare che entrarono nella
camera un soldato insieme al tenente Hale.
Io
e il mio compagno ci guardammo per poi fermarci e fare una specie
d’inchino.
Tornammo
al lavoro mentre i due militari parlavano tra di loro.
“Muoviti
o siamo morti! Vengono qui per controllare che abbiano scelto
le persone giuste per questo lavoro. Se non ci considereranno tali i
prossimi a
venir trasportati saranno i nostri corpi.” Mi disse il mio
compagno ma non lo
ascoltai, quei corpi erano appartenuti a delle persone e mai avrei
mancato loro
di rispetto.
“Tu,
vieni qua.” Mi chiamò il soldato.
Finii
di trasportare il corpo, dopodiché andai dai due militari.
“Il
tuo nome.” Disse il soldato.
“Stiles
Stilinski.” Risposi io, ben consapevole d’aver
commesso un grave
errore.
“Ho
detto: il tuo nome.” Mi rispose il soldato.
“E174518
signore.” Risposi io.
“Devi
essere più veloce.”
“Non
posso signore.” Risposi.
Non
mi sarei mai piegato a quell’ordine.
Mai.
“Perché,
-mi chiese il tenente Hale interrompendo il soldato- sei forse
infortunato? Se così fosse dovresti trovarti nel
Ka-Be.”
“No
signore, non sono infortunato. Ma questi corpi meritano di essere
trattati come tali e non come bestie. Lei non crede?” risposi
infrangendo
un’altra regola: mai fare domande.
Il
tenente si scambiò un’occhiata con il soldato il
quale, ad un cenno
del tenente Hale, alzò un braccio e mi colpì in
pieno volto con uno schiaffo
talmente carico di rabbia e di odio che mi ruppe il labbro.
“Questi
cadaveri non meritano rispetto: animali erano, animali sono ed
animali resteranno.” Disse il soldato, dopo essersi pulito la
mano dal mio
sangue sulla casacca di uno dei cadaveri, mentre il tenente Hale non mi
perdeva
di vista.
“No
signore, non lo sono.” Risposi al soldato, senza
però smettere di
guardare negli occhi il tenente.
“Come
hai detto di chiamarti?” mi chiese quest’ultimo.
“E
174518.”
“Bene.
E 174518, fatti trovare domani mattina davanti al mio
ufficio.”
Rispose con un’espressione che era un misto tra il truce ed
il divertito che mi
inquietò molto, provocandomi brividi freddi lungo la schiena.
“Ma
signore, non credo che il comandante del campo
sarà…” tentò di
protestare il soldato, subito interrotto dal suo superiore.
“Con
il comandante ci parlerò io.” Rispose il tenente,
dopodichè se ne
andarono.
“Amico,
devi avere qualcuno che ti protegge lassù per essere ancora
vivo.” Mi disse il mio compagno ma io non gli risposi, ancora
inquieto per lo
sguardo che mi aveva rivolto il tenente Hale.
***
L’ufficio
del tenente era come una calda coperta di lana messa sulle
spalle in una fredda giornata d’inverno.
Quel
giorno pioveva ed io mi sentivo un po’in colpa per non essere
con
gli altri a lavorare nel fango.
Stavo
in piedi davanti a quell’uomo che invece era seduto dietro la
scrivania.
Ormai
erano parecchi minuti che ci fissavamo negli occhi senza fare o
dire qualcosa.
“Non
sei ebreo, né omosessuale, né musulmano. Sei
cittadino tedesco,
allora perché sei qui?” mi chiese con sguardo
indagatore.
“Ho
tentato di salvare un bambino”
“Perché?”
“Perché
i soldati volevano portarlo via.”
“Era
ebreo.”
“Non
è una colpa.”
“Tu
credi?”
“Sì,
lo credo.” Risposi con voce e sguardo ferma.
Scese
nuovamente il silenzio durante il quale non smettevo di tenere i
miei occhi fissi in quelli dell’uomo davanti a me.
Potevano
farmi tutti i giochetti psicologici che volevano, potevano
picchiarmi quanto desideravano ma non mi sarei piegato.
“You’re
not a hero.” Sussurrò il tenente mentre si alzava
dalla sedia
per venire verso di me.
Perché
aveva detto quella frase?
Cosa
significava che non ero un eroe?
Cosa
voleva dirmi con quelle parole?
Si
fermò davanti a nemmeno un passo di distanza da me e da
quella
distanza potei osservarlo meglio: aveva i capelli neri, un taglio
particolare né
corto né lungo, la mascella perennemente contratta, come se
fosse sempre
nervoso, una leggera barba, le labbra sottili piegate in una linea dura.
Ma
quello che più mi colpì furono i suoi occhi:
erano verdi, ma non di
un verde qualsiasi, no.
Erano
di un verde particolare, al centro quasi gialli, poi diventavano
di un verde sempre più intenso che sul bordo diventava
paradossalmente blu
scuro.
Erano
occhi ipnotici, in cui potevi perderti ed annegare con
facilità.
Si
avvicinò ancora di più ma non indietreggiai.
Alzò
una mano e con un dito mi toccò il labbro rotto, ancora
dolorante
dal giorno prima.
Il
contatto con la sua pelle mi fece male, non solo per via della
ferita, ma anche dentro.
Mi
sentii come scosso da una qualche scarica, ed il mio cuore prese a
battere velocissimamente.
Ritrasse
quasi subito la mano, l’espressione che per un brevissimo
istante mi era sembrata preoccupata era tornata quella truce di sempre.
“Vai
nel Ka-Be e comunica loro che il tenente Hale ha detto di farti
medicare.” Disse tornando alla scrivania ed iniziando a
scrivere su di un
foglio, che poi firmò.
“Consegna
loro questo e non avrai problemi. Quando hai finito torna
qui.” Aggiunse e sparì in un’altra
stanza.
Feci
come mi aveva detto, quasi in uno stato di trans.
Non
riuscivo a concepire bene cosa fosse successo.
Tornai
nel suo ufficio ma lui non era lì.
Mi
guardai intorno.
La
libreria dietro la scrivania era piena di fotografie: vi erano
anziani e giovani, donne e uomini.
In
una riconobbi il tenente Hale che abbracciava una donna molto simile
a lui, probabilmente sua sorella.
Non
so il perché ma rimasi incantato da quella fotografia,
tant’è che
non mi resi conto che l’uomo era tornato.
“E
174518.” Mi chiamò e subito mi girai, il cuore che
batteva a mille
per lo spavento.
Calò
nuovamente il silenzio, che venne interrotto da una domanda che
tentavo di reprimere.
“E’
sua sorella?” chiesi, incapace di trattenermi.
L’uomo
non rispose ma mi guardò con sguardo truce.
Poi
sospirò.
“Si,
è morta un anno fa.” Disse.
“Mi
spiace.” Risposi io d’istinto.
“Tornando
a noi, ti ho voluto qui per un motivo preciso.” Disse andando
a sedersi nuovamente alla scrivania.
“Tu
sei diverso. Non riesco a capire in cosa ma lo sei: hai quella luce
negli occhi, quella forza di volontà che non ti fa piegare.
Tu sei diverso da
tutte le persone presenti in questo luogo, esattamente come me. Per
questo
lavorerai per me.”
“Signore?”
chiesi confuso.
“Hai
capito bene. Oltre ai tuoi normali compiti farai anche quello che
ti dico io. Se durante il tuo turno di lavoro dovessi aver bisogno di
te, tu
lascerai quello che stai facendo e verrai qui o nel luogo che ti
dirò. Il tuo
nome dice che devi essere educato dico bene? Ma mi sembra che non stia
funzionando il loro metodo. Perciò userò il mio
metodo.” Disse.
‘Il
loro metodo”.
Quelle
parole mi colpirono, quasi come se lui non si identificasse con
gli altri soldati, come se si ritenesse…diverso.
Vedendo
che non dicevo nulla, perso nei miei pensieri, disse:
“Mi hai sentito?”
“Sì
signore.”
“Bene,
ora puoi andare, non ho altro da dirti.” Mi
congedò.
Quando
stavo attraversando l’uscio della porta aggiunse:
“Cerca
di non farti ammazzare, eroe.
Mi servi vivo.”.
Con
le sue parole nelle orecchie andai confuso alla miniera: mi
aspettava un’altra dura giornata di lavoro.
NdA:
Buonasera!
Eccomi qui con il secondo capitolo!
Sono contenta che vi sia piaciuto il primo, dico davvero!
Detto
questo potrei anche chiudere qui le note, ma mi prendo solo due
minuti per parlare di una cosa accaduta oggi:
un
ragazzo di 15 anni a Roma si è suicidato perché
oppresso dai
compagni che lo deridevano perché gay, dai professori che
l’ostacolavano nel
suo essere se stesso e dai genitori che non lo capivano.
Non
è giusto morire a 15 anni,
non
è giusto morire perché gli altri non ti accettano
per come sei.
E’
orribile vedere che ancora nel 2012 ci sia gente così
meschina e
cattiva che si diverte a far stare male gli altri.
Riposa
in pace A., ‘ragazzo dai pantaloni in rosa’.
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