Work, sorrow and shooting.

di RakyKiki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


Work, sorrow and shooting.

Capitolo 1.

Non so esattamente il motivo per cui lo feci, fatto sta che quando vidi quel bastardo colpire con il fucile quel povero bambino non resistetti e lo strappai dalle sue grinfie.

“E’ solo un bambino!” urlai facendo scudo con il mio corpo.

“Levati di mezzo.” Rispose il soldato e quando vide che non accennavo a muovermi sul suo viso comparve un ghigno malefico ed aggiunse.

“Allora verrai con lui.”

“Cos’ha fatto di male? E’ un bambino per la miseria!”

“E’ ebreo, questa è la sua colpa.” Mi disse e chiamò altri due soldati.

Tentai di scappare, dovevo salvare il bambino, ma sfortunatamente non ci riuscii e ci raggiunsero quando eravamo appena usciti dalla via principale per imboccare un vicolo secondario.

Ci puntarono contro i fucili ed io feci nuovamente scudo con il mio corpo al bambino.

Un rumore alle mie spalle mi fece voltare repentinamente ma non feci in tempo a realizzare cosa stesse succedendo che tutto improvvisamente divenne buio.

 

***

 

Mi risvegliai su un treno pieno di persone tutte attaccate l’una all’altra che mi sovrastavano.

Provai ad alzarmi ma qualcosa, o meglio qualcuno, mi teneva ancorato a terra: era il bambino che avevo tentato di salvare e mi fissava con gli occhi spalancati, spaventati e pieni di lacrime.

Non era giusto si trovasse in un posto simile, avrà avuto non più di otto anni!

L’unico lato positivo, se così si può definire, era il fatto che fossi li con lui, almeno non era solo.

Ripensai a quello che avevo visto poche ore prima ed al posto in cui mi trovavo ed un pensiero attraversò la mia mente: certo avevo sentito delle voci su ciò che attendeva le persone che salivano su quei treni, ma non pensavo che fossero vere, dopotutto ero solo un ragazzo, ancora così ingenuo ed inesperto del mondo.

Dopo un tempo che parve infinito il treno si fermò e ci fecero scendere.

Il piccolo non accennava a volersi staccare da me e continuava a stringermi la mano.

“Dove siamo?” mi chiese dopo aver tirato la manica della mia maglia per attirare la mia attenzione.

“Non lo so, ma non preoccuparti, sono sicuro andrà tutto bene. Tu stammi vicino.” Gli dissi dandogli una carezza sulla testa mentre attraversavamo un cancello che recava la scritta “Arbeit macht frei “ che voleva dire “Il lavoro rende liberi”.

Dei soldati dividevano gli uomini dalle donne e i bambini e tentai di convincere i soldati a far stare il piccolo con me che mi guardava terrorizzato.

“Sono l’unico parente che ha!” mentii al soldato il quale però non volle sentir ragioni e portò il bambino dalle donne.
“Stai buono, andrà tutto bene!” gli urlai mentre mi portavano al controllo sanitario.
Il piccolo continuava a fissarmi e quando mi girai per l’ennesima volta per guardarlo, vidi che aveva iniziato a correre verso di me.

Un soldato, quello che ci aveva divisi, se ne accorse e, presa la mira, sparò al bambino che cadde a terra in una pozza di sangue vermiglio.

“No!” Urlai e corsi verso il corpo esanime del bambino ma subito quel soldato puntò il fucile verso di me.

“Torna nella fila, se non vuoi fare la sua stessa fine.” Mi disse ma io non mi mossi.

Aveva sparato ad un bambino.

Un bambino che aveva ancora tutta la vita davanti.

Un bambino la cui unica colpa era quella di essere nato sotto la parola ‘ebreo’.

“Ho detto: torna nella fila!” Mi ordinò nuovamente ed io nuovamente non mi mossi, e non mi sarei mosso da quel punto se non fosse stato per un altro soldato che mi prese per il braccio.

“Non fare l’eroe, non servirebbe a nulla.” Mi disse prima di lasciarmi nella fila.

Venni dichiarato abile al lavoro e venni condotto in quelli che dovevano essere i bagni, dove ci fecero consegnare la biancheria, i nostri abiti civili e qualsiasi oggetto di valore avessimo con noi, per non dimenticare i documenti.

“Tanto non vi serviranno.” Questa fu la risposta che giustificò tale gesto.

A noi uomini fu concesso di tenere soltanto la cintura ed un fazzoletto di stoffa.

Ci consegnarono ai barbieri che ci rasarono.

Dopodichè andammo alle docce e dopo ci consegnarono gli abiti da campo: una casacca, un paio di pantaloni ed un paio di zoccoli.

Rivestiti dell'abbigliamento da campo, ci registrarono: compilammo una scheda con i dati personali e con l’indirizzo dei familiari più prossimi.

Ricevemmo poi un numero.

Il mio era E 174518, il che significava che ero da “educare”.

Ci condussero in un’altra stanza in cui ci tatuarono il numero sul braccio sinistro, facendo uno strappo alla regola per me poiché il tatuatore aveva ricevuto l’ordine dal soldato che aveva sparato a quel povero bambino.

Faceva malissimo, ma mai avrei dato la soddisfazione a quei bastardi di avermi fatto gridare.

Il numero di matricola, impresso su un pezzo di tela, era anche cucito sul lato sinistro della casacca di ognuno, all'altezza del torace, e sulla cucitura esterna della gamba destra dei pantaloni. Al numero era associato un contrassegno colorato, che identificava le diverse categorie di detenuto: il mio era un triangolo verde, mi avevano ‘catalogato’ come criminale, sebbene non avessi commesso alcun crimine.

Dato che ormai la notte era scesa su quel luogo così lugubre, ci portarono in quella che doveva essere la mensa e ci diedero un minestrone senza nemmeno un cucchiaio.

Del pane non v’era nemmeno l’ombra.

Dopo la cena ci portarono in dei capannoni, chiamati Block in cui avremmo dormito: vi erano letti a castello di tre piani con delle cuccette.

Mi diressi alla mia e mi ci accoccolai meglio che potei, la vista del corpicino del bambino ancora impressa nella mia mente.

 

***

La vita nel campo di concentramento non era per niente facile ed anzi, non era nemmeno degna di essere definita vita quella.

Le condizioni igieniche erano scarsissime, il cibo bastava a malapena per sopravvivere, i turni di lavoro fitti e faticosi e se ti facevi male rischiavi di essere mandato direttamente alle camere a gas.

Dopo il mio primo mese nel campo di concentramento iniziai a perdere il conto dei giorni, finchè non seppi nemmeno più il mese.

Vedevo morire moltissime persone e più di una volta per via del freddo inverno rischiai di morire anche io, ma riuscii a superare i mesi ghiacciati grazie alla mia capacità nell’ottenere lavori in luoghi abbastanza riparati.

Con l’avvento della primavera però venni mandato a lavorare in miniera, con turni di lavoro ancora  più estenuanti.

I soldati di guardia alla miniera erano, se possibile, ancora più disumani degli altri.

Per questo motivo, e perché non sono in grado di tenere a freno la lingua, finivo spesso nei guai infrangendo una delle regole più importanti del campo:
‘Non fare domande’.

Non mi mandarono alle camere a gas soltanto perché vedevano che ero uno che svolgeva moltissimo lavoro, e quindi mi consideravano in un qualche modo utile.

***

Un giorno giunse al campo un nuovo tenente, si chiamava Hale.

“Non è totalmente ariano, il padre era americano ma ha sempre vissuto in Germania. Stai attento con quello li ragazzo, è un tipo particolarmente sadico e cattivo, nel vero senso della parola.” Mi spiegò il mio attuale compagno di lavoro Joshua.

***

Quel giorno ero nuovamente in miniera.

Non vedevo Joshua da giorni ormai, e presto le mie più remote paure divennero realtà.

“Il tenente Hale lo ha mandato alle Camere.” Mi disse un altro prigioniero.

Mi fermai un momento per riprendere fiato e appena alzai la testa trovai, dall’altro lato della cava, un paio di occhi verdi che mi fissavano con espressione truce.

Sostenni lo sguardo con fare provocatorio: non mi sarei mai sottomesso a quel tenente.

Non mi sarei fatto uccidere dalle crudeltà e dalle mostruosità di quei bastardi.

Lo dovevo a quel povero bambino.

Lo dovevo a Joshua.

E lo dovevo a tutte le altre persone innocenti, deportate perché nati con la ‘colpa’ di essere ebrei.

 

NdA:

Salve!

Questo tipo di storia per me è totalmente nuova, quindi siate clementi!
L’idea è nata dopo che ho letto la one shot di lunatica365 "Just give me a reaon" (ovviamente non mi mette il link -.-)  e, con il suo permesso, ho pensato di svilupparla.

Non ho idea da quanti capitoli sarà formata, ma so per certo che non sarà una long.

Detto questo vi ringrazio se siete arrivati a leggere fino a qui xD
Un saluto, Kiki.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Capitolo due.

 

 

Questo capitolo è dedicato ad A., il ‘ragazzo dai pantaloni rosa’.

 

 

Quello era un giorno particolare:

una volta ogni due settimane, precisamente la Domenica, era giorno di riposo nel quale invece che svolgere i soliti lavori ci occupavamo della pulizia del nostro Block.

Quello era il giorno che tutti i deportati aspettavano con più ansia; dava quasi una parvenza d’umanità a quel posto, fornendo un pasto più abbondante del solito o permettendoci di dormire poco di più.

Tutti riposavano, relativamente parlando.

Tutti tranne gli addetti alle camere a gas.

Sebbene il loro lavoro consistesse nello spostare i corpi dei morti, era sicuramente il più faticoso di tutti dal punto di vista psicologico: ti distruggeva, ti logorava e soprattutto, ti ricordava quale piega avrebbe potuto prendere così, da un giorno all’altro, il tuo futuro.

Li vedevi lì, i volti tesi in un’espressione dura e incredibilmente triste, che trascinavano il corpo della persona con cui avevano magari parlato il giorno prima.

Quel giorno quel compito capitò a me.

Era la prima volta che vi andavo e fu terribile la sensazione che provai entrando in quella camera carica di morte ed è pressoché impossibile descriverla: la prima cosa che ti colpiva era il tanfo incredibile di cadavere, ti entrava nel naso e non ne usciva più e ti provocava le vertigini talmente era forte; la seconda cosa era la grande, o meglio ENORME, quantità di corpi: uomini e donne, anziani e bambini, bianchi e neri, ebrei e musulmani, tutti erano ammassati là senza alcun riguardo.

Iniziai a spostare i corpi.

Tentavo di trattarli con più rispetto che potevo, ma ciò mi rallentava, perché non mi limitavo a prenderli per un arto: li trattavo con gentilezza e osservavo loro il rispetto dovuto ai defunti.

“Smettila o metterai nei guai anche me!” Mi disse ad un tratto il mio compagno di lavoro.

“Perché?” gli chiesi.

“Perché dobbiamo essere veloci: la stanza dev’essere vuota per questo pomeriggio e se tu vai avanti così non lo sarà ed a quel punto non faranno distinzione tra me e te.” Rispose lui mentre continuava a lavorare.

Non fece nemmeno in tempo a finire di parlare che entrarono nella camera un soldato insieme al tenente Hale.

Io e il mio compagno ci guardammo per poi fermarci e fare una specie d’inchino.

Tornammo al lavoro mentre i due militari parlavano tra di loro.

“Muoviti o siamo morti! Vengono qui per controllare che abbiano scelto le persone giuste per questo lavoro. Se non ci considereranno tali i prossimi a venir trasportati saranno i nostri corpi.” Mi disse il mio compagno ma non lo ascoltai, quei corpi erano appartenuti a delle persone e mai avrei mancato loro di rispetto.

“Tu, vieni qua.” Mi chiamò il soldato.

Finii di trasportare il corpo, dopodiché andai dai due militari.

“Il tuo nome.” Disse il soldato.

“Stiles Stilinski.” Risposi io, ben consapevole d’aver commesso un grave errore.

“Ho detto: il tuo nome.” Mi rispose il soldato.

“E174518 signore.” Risposi io.

“Devi essere più veloce.”

“Non posso signore.” Risposi.

Non mi sarei mai piegato a quell’ordine.

Mai.

“Perché, -mi chiese il tenente Hale interrompendo il soldato- sei forse infortunato? Se così fosse dovresti trovarti nel Ka-Be.”

“No signore, non sono infortunato. Ma questi corpi meritano di essere trattati come tali e non come bestie. Lei non crede?” risposi infrangendo un’altra regola: mai fare domande.

Il tenente si scambiò un’occhiata con il soldato il quale, ad un cenno del tenente Hale, alzò un braccio e mi colpì in pieno volto con uno schiaffo talmente carico di rabbia e di odio che mi ruppe il labbro.

“Questi cadaveri non meritano rispetto: animali erano, animali sono ed animali resteranno.” Disse il soldato, dopo essersi pulito la mano dal mio sangue sulla casacca di uno dei cadaveri, mentre il tenente Hale non mi perdeva di vista.

“No signore, non lo sono.” Risposi al soldato, senza però smettere di guardare negli occhi il tenente.

“Come hai detto di chiamarti?” mi chiese quest’ultimo.

“E 174518.”

“Bene. E 174518, fatti trovare domani mattina davanti al mio ufficio.” Rispose con un’espressione che era un misto tra il truce ed il divertito che mi inquietò molto, provocandomi brividi freddi lungo la schiena.

“Ma signore, non credo che il comandante del campo sarà…” tentò di protestare il soldato, subito interrotto dal suo superiore.

“Con il comandante ci parlerò io.” Rispose il tenente, dopodichè se ne andarono.

“Amico, devi avere qualcuno che ti protegge lassù per essere ancora vivo.” Mi disse il mio compagno ma io non gli risposi, ancora inquieto per lo sguardo che mi aveva rivolto il tenente Hale.

***

L’ufficio del tenente era come una calda coperta di lana messa sulle spalle in una fredda giornata d’inverno.

Quel giorno pioveva ed io mi sentivo un po’in colpa per non essere con gli altri a lavorare nel fango.

Stavo in piedi davanti a quell’uomo che invece era seduto dietro la scrivania.

Ormai erano parecchi minuti che ci fissavamo negli occhi senza fare o dire qualcosa.

“Non sei ebreo, né omosessuale, né musulmano. Sei cittadino tedesco, allora perché sei qui?” mi chiese con sguardo indagatore.

“Ho tentato di salvare un bambino”

“Perché?”

“Perché i soldati volevano portarlo via.”

“Era ebreo.”

“Non è una colpa.”

“Tu credi?”

“Sì, lo credo.” Risposi con voce e sguardo ferma.

Scese nuovamente il silenzio durante il quale non smettevo di tenere i miei occhi fissi in quelli dell’uomo davanti a me.

Potevano farmi tutti i giochetti psicologici che volevano, potevano picchiarmi quanto desideravano ma non mi sarei piegato.

“You’re not a hero.” Sussurrò il tenente mentre si alzava dalla sedia per venire verso di me.

Perché aveva detto quella frase?

Cosa significava che non ero un eroe?

Cosa voleva dirmi con quelle parole?

Si fermò davanti a nemmeno un passo di distanza da me e da quella distanza potei osservarlo meglio: aveva i capelli neri, un taglio particolare né corto né lungo, la mascella perennemente contratta, come se fosse sempre nervoso, una leggera barba, le labbra sottili piegate in una linea dura.

Ma quello che più mi colpì furono i suoi occhi: erano verdi, ma non di un verde qualsiasi, no.

Erano di un verde particolare, al centro quasi gialli, poi diventavano di un verde sempre più intenso che sul bordo diventava paradossalmente blu scuro.

Erano occhi ipnotici, in cui potevi perderti ed annegare con facilità.

Si avvicinò ancora di più ma non indietreggiai.

Alzò una mano e con un dito mi toccò il labbro rotto, ancora dolorante dal giorno prima.

Il contatto con la sua pelle mi fece male, non solo per via della ferita, ma anche dentro.

Mi sentii come scosso da una qualche scarica, ed il mio cuore prese a battere velocissimamente.

Ritrasse quasi subito la mano, l’espressione che per un brevissimo istante mi era sembrata preoccupata era tornata quella truce di sempre.

“Vai nel Ka-Be e comunica loro che il tenente Hale ha detto di farti medicare.” Disse tornando alla scrivania ed iniziando a scrivere su di un foglio, che poi firmò.

“Consegna loro questo e non avrai problemi. Quando hai finito torna qui.” Aggiunse e sparì in un’altra stanza.

Feci come mi aveva detto, quasi in uno stato di trans.

Non riuscivo a concepire bene cosa fosse successo.

Tornai nel suo ufficio ma lui non era lì.

Mi guardai intorno.

La libreria dietro la scrivania era piena di fotografie: vi erano anziani e giovani, donne e uomini.

In una riconobbi il tenente Hale che abbracciava una donna molto simile a lui, probabilmente sua sorella.

Non so il perché ma rimasi incantato da quella fotografia, tant’è che non mi resi conto che l’uomo era tornato.

“E 174518.” Mi chiamò e subito mi girai, il cuore che batteva a mille per lo spavento.

Calò nuovamente il silenzio, che venne interrotto da una domanda che tentavo di reprimere.

“E’ sua sorella?” chiesi, incapace di trattenermi.

L’uomo non rispose ma mi guardò con sguardo truce.

Poi sospirò.

“Si, è morta un anno fa.” Disse.

“Mi spiace.” Risposi io d’istinto.

“Tornando a noi, ti ho voluto qui per un motivo preciso.” Disse andando a sedersi nuovamente alla scrivania.

“Tu sei diverso. Non riesco a capire in cosa ma lo sei: hai quella luce negli occhi, quella forza di volontà che non ti fa piegare. Tu sei diverso da tutte le persone presenti in questo luogo, esattamente come me. Per questo lavorerai per me.”

“Signore?” chiesi confuso.

“Hai capito bene. Oltre ai tuoi normali compiti farai anche quello che ti dico io. Se durante il tuo turno di lavoro dovessi aver bisogno di te, tu lascerai quello che stai facendo e verrai qui o nel luogo che ti dirò. Il tuo nome dice che devi essere educato dico bene? Ma mi sembra che non stia funzionando il loro metodo. Perciò userò il mio metodo.” Disse.

‘Il loro metodo”.

Quelle parole mi colpirono, quasi come se lui non si identificasse con gli altri soldati, come se si ritenesse…diverso.

Vedendo che non dicevo nulla, perso nei miei pensieri, disse:
“Mi hai sentito?”

“Sì signore.”

“Bene, ora puoi andare, non ho altro da dirti.” Mi congedò.

Quando stavo attraversando l’uscio della porta aggiunse:

“Cerca di non farti ammazzare, eroe. Mi servi vivo.”.

Con le sue parole nelle orecchie andai confuso alla miniera: mi aspettava un’altra dura giornata di lavoro.

 

 

 

 

NdA:
Buonasera!
Eccomi qui con il secondo capitolo!
Sono contenta che vi sia piaciuto il primo, dico davvero!

Detto questo potrei anche chiudere qui le note, ma mi prendo solo due minuti per parlare di una cosa accaduta oggi:

un ragazzo di 15 anni a Roma si è suicidato perché oppresso dai compagni che lo deridevano perché gay, dai professori che l’ostacolavano nel suo essere se stesso e dai genitori che non lo capivano.

Non è giusto morire a 15 anni,

non è giusto morire perché gli altri non ti accettano per come sei.

E’ orribile vedere che ancora nel 2012 ci sia gente così meschina e cattiva che si diverte a far stare male gli altri.

Riposa in pace A., ‘ragazzo dai pantaloni in rosa’.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.

Sicuramente il tenente doveva soffrire di qualche disturbo della personalità perché prima mi picchia fino a farmi svenire, poi si scusa, poi scappa.

Quel mattino stavo lavorando nella miniera quando ci hanno chiamato fuori tutti.

Avevano trovato nel nostro Block delle monete che erano state sottratte ad un soldato il giorno prima, e volevano trovare il responsabile.

Un Kapo, un detenuto che ricopriva una carica all’interno del campo ed esercitava il potere su altri deportati, passò davanti ad ognuno di noi e tutti al suo passaggio abbassavano lo sguardo, tutti tranne me ovviamente.

Non mi sarei mai piegato, e comunque non avevo nulla da nascondere.

“E’ stato lui signore.” Disse quello, indicando me.

“Cosa?! Non è vero! Non sono stato io signore! Anche perché la mia…” tentai di rispondere ma venni interrotto.

“Silenzio Haftling(nda: “Prigioniero”) E174518!” disse il tenente Hale.

Mi fissò con quei suoi occhi verdi, velati da una maschera d’odio e…dispiacere?

Non mi accorsi del suo braccio che si alzava del suo pugno che mi arrivava dritto in faccia, facendomi cadere a terra.

Dopodichè arrivarono altre botte, calci nello stomaco e sulla schiena.

Tentai di difendermi ma alla fine vinsero il freddo insieme alla stanchezza e svenni.

 

 

Mi svegliai non so quanto tempo dopo.

Mi trovavo nel KaBe ed avevo il corpo tutto indolenzito.

Quanto tempo avevo dormito?

Avevano trovato il vero colpevole?
Non riuscivo a smettere di pensare, il mio cervello continuava a macinare parole silenziose.

Un movimento alla mia destra mi fece spaventare, e dalla penombra della stanza emerse una figura, gli occhi che splendevano nel buio.

Quando arrivò al fondo del mio letto la riconobbi: era il tenente Hale.

“Tenente…” sussurrai, la voce roca.

L’uomo non rispose ma si avvicinò e si sedette sulla sedia accanto al letto.

Non smetteva di fissarmi.

Faceva scorrere lo sguardo su tutto il mio corpo, per poi passare alla stanza e tornare su di me.

“Sei stato fortunato.” Disse ad un tratto.

“Perché?” chiesi curioso.

Il tenente aspettò un po’ prima di rispondere.

“Se ci fosse stato un altro al mio posto a quest’ora saresti morto. A cosa ti servivano quelle monete?”

“Non le ho prese io.”

“Perché allora quel Kapo ti ha indicato?”

“Forse perché sono una sorta di Prominent (nda: detenuti che avevano un trattamento migliore rispetto agli altri),signore?”

“Ti tratto esattamente come gli altri, non hai privilegi.”

“Tranne il pane che mi viene dato a pranzo o il thè che ogni tanto mi da nel suo ufficio. Gli altri non sono ciechi signore, vedono bene dalle finestre.”

“Ti stai forse lamentando?”

“No signore.”

“Benissimo.” Concluse incrociando le braccia al petto e chiudendo gli occhi

Un silenzio rumoroso scese nella stanza.

“Come ti senti?” mi chiese poi.

“Starò meglio.” Risposi io, continuando a fissarlo.

Lui annuì con la testa e tornò immobile.

“Come si chiama?” gli chiesi senza riuscire a trattenermi.

Il tenente non rispose.

Non dovevo demordere, volevo sapere il suo nome.

“E’ così brutto? Se è così prometto di non ridere e le dirò il mio, quello vero.”

“Conosco già il tuo nome, Stiles.”

“No signore, quello è il mio soprannome.” Risposi sorridendo.

Avevo sicuramente  scatenato la sua curiosità poiché aprì gli occhi e mi si avvicinò.

“E quale sarebbe allora, Stiles?” mi chiese, fissando i suoi occhi nei miei.

“Glielo dirò quando mi avrà detto il suo tenente, non prima.” Risposi, senza smettere per un solo istante di affondare nei suoi occhi.

Il tenente sbuffò ed in quel momento parve quasi una persona normale, un ragazzo normale.

“Derek.” Rispose rassegnato.

“Genim.” Dissi io e vidi lo stupore nei suoi occhi.

“Genim?”

“Sì, era il nome del padre di mia madre.”

“Particolare, non c’è che dire.” Disse allontanandosi di poco.

“C’è qualcuno a casa che ti aspetta Stiles? Genitori,fratelli, moglie?”

“Sono troppo giovane per una moglie signore, ho solo diciotto anni. E comunque no, sono morti tutti, tranne mio padre di cui ormai ho perso le tracce.”

“Allora perché ti comporti da eroe? Rischi solo di farti uccidere!” mi chiese avvicinandosi di più.

“Perché questo posto vuole renderci delle bestie, ma io non lo diventerò.”

“Aumenti solo il rischio di morire.”

“Se così accadrà, lo farò restando me stesso.” Risposi.

“Confermo la mia impressione su di te: sei  diverso.”  Disse lui, abbassandosi fino a portare il suo volto davanti al mio, come se ci stessimo guardando negli occhi in piedi.

“No signore, sono normale.” Risposi, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi.

Alzò una mano e la posò sulla mia guancia, seguendo con le dita il segno del pungo ricevuto.

Si avvicinò ancora, e la sua attenzione passò dai miei occhi alle mie labbra.

Vi posò un bacio veloce, leggero.

Si staccò subito, come se si fosse scottato, e si allontanò.

Uscì dal KaBe lasciandomi nel più completo stato confusionale:
che diamine era appena successo in quella stanza?!

 

 

NdA: Salve!
Scusate se ho pubblicato così in ritardo, ma mi sono concentrata un po’ sull’altra storia che sto scrivendo, Ancient Love.

Che dire? Vi ringrazio davvero tanto per le recensioni! :D
Siete fantastici!
Come sempre se vi va fatemi sapere cosa ne pensate!
Un bacio e al prossimo capitolo!
Kiki.

 

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