Cinque...

di Deep_Strife
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La fuga ***
Capitolo 2: *** Polaretto, Ghiacciolo o Yeti? ***
Capitolo 3: *** La storia di Alisa ***
Capitolo 4: *** Pace parziale ***



Capitolo 1
*** La fuga ***



- E’ pronto!-dissi una sera rivolta al piano di sopra.

Insomma, non è che fossi rivolta alla porta, precisiamo: stavo chiamando Sora, mio figlio, l’Hobbit, l’adolescente, il pubescente, come lo vogliamo chiamare.

Il pubescente che non rispondeva.

- Mi senti?!- gridai, sempre rivolta al piano superiore. Nisba.

Accidenti.

- Ma lo fai apposta?- praticamente feci tremare i vetri, incredibile quanta aria riescano a tirare su i miei polmoni quando serve. Comunque, l’idiota non rispondeva. Nisba, nada, morto, scappato, addormentato elencai fra me e me salendo le scale. La stanza in disordine, letto sfatto, sveglia…ferma. Dalle 9 di quella mattina, indicavano le lancette. O dalle nove di mattina, o dalle nove di ieri sera. Propendevo per la prima ipotesi; va bene che a 26 anni come madre ero un po’ disattenta, ma non superiamo certi limiti. Le sveglie, nella mia famiglia (ovvero io e Sora) sono sacre. Sveglie rotonde, sveglie giganti, sveglie pelose, sveglie a forma di gatto, di rana, di rinoceronte, di armadillo. La prima parola di Sora è stata “sveglia”, ma non so se si trattasse di un consiglio per me o se si riferisse all’oggetto.

Comunque, salii in camera, dove, ovviamente, mio figlio non c’era. Sospirai.

Perché insisteva nel fare Jonathan dimensione Avventura invece che chiedermi semplicemente un permesso che, tra parentesi, gli avrei accordato?

Non era un mistero dove si fosse diretto: in un’isola di cinque metri per tre non ci sono segreti, basta sapere a chi chiedere.

Brontolando fra me e me, mi infilai una maglietta pulita e mi precipitai giù per le scale. Con poca grazia, ma chi se ne importava? Non c’era nessuno a vedermi. O meglio, avrebbe dovuto esserci qualcuno. Un adolescente dalla testa appuntita che, una volta scoperto , si sarebbe cacciato in un mare di guai. Feci un giro veloce: il panettiere lo aveva visto avviarsi verso il centro dell’isola, la tabacchiera lo aveva visto aggirarsi nei vicoli (“credo che fosse spaesato”, ma và a quel paese), e infine, il mio unico fidato informatore, il barista Nove.
Nove non era il suo vero nome, non me l’aveva mai voluto dire. Diceva che i baristi devono essere invisibili, per cui aveva scelto come nome un numero: una cosa, appunto, invisibile, che non faceva pensare a niente. Io, da quel momento, mi ribattezzai Cinque.

- No, ma che vicolo del cazzo, è andato alla spiaggia. Ed è pure passato di qui.-

- Ma dai…?-

- Alisa, non puoi stargli a pelo così, è grande ormai…

- sì, MA...-

- Ma un cazzo, lascialo crescere!-

- Lo lascio crescere, ma non credi che sia un gesto di irresponsabilità verso di lui non sapere dove va a tarda sera?-

- Sono solo le nove e mezza… e poi, avrà avuto fame, a casa vostra si mangia tardissimo…-

- Sì, aveva fame, e invece di comprarsi un panino ha pensato bene di fare Big Jim e andare a pescarsi due bei pescetti a mani nude, giusto? Magari lo troverò con uno squalo tra le mani mentre si fa l’autoscatto. Ma smettila di dire troiate, Nove.- dissi, alzandomi

- Grazie per l’informazione, comunque.-

Lui borbottò qualcosa tipo “di niente”, quindi io uscii, inspirai un po’ d’aria fresca (un po’ salmastra, ma fresca), e mi avviai verso la spiaggia.

*

Non fu tanto difficile trovarlo … solo un quarto d’ora di dura ricerca tra una semi foresta equatoriale, ma nulla è poco per un figlio. Soprattutto, non vedevo l’ora di vedere se stava bene.

Era steso sulla sabbia, con un’aria beota… beata, scusate, dipinta sul viso. Mi inginocchiai alla sue destra e gli agitai la mano aperta a pochi centimetri dal viso. Niente.

Terapia d’urto: gli tirai il naso. Leggermente, scherzosamente, e lui che fece? Aprì gli occhi e mise a fuoco la situazione.

Una volta stabilita la mia identità, fece un salto di dimensioni ragguardevoli, per uno appena svegliato steso sulla sabbia

- Sto bene- proclamò

- Lo vedo.-

- Volevo dirtelo.-

- Infatti me l’hai detto talmente chiaramente che è dalle nove che ti cerco.-

- Non è come sembra.-

- Sora, vedo che non ci sono danni fisici…-

- Appunto!-

- … Ma ti assicuro che se non torni subito a casa diventerai nero a strisce viola assimmetriche.-

- Ma non c’era niente da mangiare!-

- Ancora con questa storia?! Sai, c’è una cosa anormale che si chiama surgelato… apri la confezione, metti il cibo dentro la padella con il fuoco acceso e l’olio caldo, e come per magia cinque minuti dopo diventa cibo commestibile…-

- Non è questo che intendo, io vorrei cibo vero!-

- Infatti sono quattordici anni che mangi ologrammi.-

- Cibo cucinato!-

- Lo sai che io non so cucinare, e poi scusa, cosa c’entra questo con il fatto che te ne sei andato senza dire niente?-

- Che ho comprato un panino, poi sono venuto a mangiarlo qui, e poi mi sono appisolato sulla sabbia, ecco tutto-

- E serviva calarsi dalla finestra per un panino? Che è, il brivido dell’avventura?-

- Mi arrendo. –

- Ecco, bravo. Vieni, andiamo.-
*
Niente punizione. Più o meno. Lavare i piatti fono alla fine delle superiori non è una punizione, vero? Quando finì di strofinare pentole, crollò su una poltrona, vicino al divano dove io ero seduta a leggere.

- Non voglio mai più vedere una padella.- dichiarò, strofinandosi gli occhi.

- Felice di sentirlo, anche se immagino che lo rifarai…-

- Puoi scommetterci.- disse, sorridendo, così fui costretta io stessa a sorridere.

- Fila a dormire, è mezzanotte passata.-

- Io sarei andato a dormire anche prima, ma qualcuno, non mi riferisco a nessuno in particolare, mi ha costretto a lavar…-

Le sue parole furono soffocate dalla ciabatta che gli lanciai, e che lo colpì sulla nuca.

- Buonanotte.- disse divertito, salendo rumorosamente le scale.

Che dire? La leggerezza e la grazia non sono caratteristiche di famiglia, ecco.

Quando la mattina dopo mi alzai, sul suo letto dormiva Riku, il suo migliore amico, e Sora invece russava a terra, braccia e gambe aperte. Come volevasi dimostrare.

Credo che gli anni di lavaggio piatti aumenteranno repentinamente…

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Capitolo 2
*** Polaretto, Ghiacciolo o Yeti? ***



Eccomi di nuovo là, seduta al bancone, con il cervello che mi fumava e un quadernetto aperto davanti a me. E un bicchiere mezzo vuoto. Di birra.

- Un’altra?- chiese Nove. Al mio cenno positivo, lui prese il bicchiere, lo svuotò dalla birra ormai calda e lo riempì di nuovo.

Buona la birra. Mi piace la birra. Soprattutto il rumore che fa quando cade. Glogloglo. Ma il quadernetto… il quadernetto no, che non mi piace.

- Che cazzo è?-

- Educato come al solito, mio posatissimo amico. Questo – proclamai, sventolandoglielo davanti al viso - E’ il quadernetto dei conti. Vuol dire che calcolo quanto abbiamo speso in questo mese, così so se andremo avanti a pane ed acqua o a caviale.-

- Una calcolatrice fa brutto?-

- Preferisco togliermi le ragnatele che mi imbozzolano i neuroni, grazie. E poi, tutte le calcolatrici che abbiamo in casa sono rotte.-

- Ricaricarle? Troppo difficile?-

- Provaci tu, a ricaricare una calcolatrice a energia solare. Idiota.-

- Zoccola.-

- Imbecille.-

- Cadaverina.-

- Il mio è un pallore nobile, Ascella Tonante.-

- Se qui fa caldo non è colpa mia, complessata di serie C.-

- Checca.-

- Verissimo.- ammise orgogliosamente.

Scossi la testa: uno con i capelli rosa, lo smalto sulle unghie e le t-shirt senza maniche aderenti bianche. Quel’è l’insulto migliore? Checca. Ma se lo è sul serio, va tutto in vacca.

Nove tentò di riportare il discorso su una linea civile

- E comunque, se devi risparmiare, non spendere tutto in birra bionda.-

- Oh, ma la birra è gratis.-

- Assolutamente no.-

- Sconto comitiva?-

Si guardò intorno. In tutto, nel locale eravamo in 12.

- Quale comitiva?-

- Io, la parte cattiva di me stessa e ognuno dei miei capelli.-

- Gli hai dato anche un nome?-

- Ai capelli? Certo: Mizzy, Kristy, Johnny, Terrence, Gaspard, Manuel…-

- Non sono in condizione di offrire bibite, spugna.-

- Neanche per la tua migliore amica?-

- Mai detto che tu lo sia.-

Mi alzai, lasciai i soldi sul tavolo e mi diressi verso la porta

- Ciao, Nove.-

- Ciao, Alisa.-

*

La porta di casa me la aprì Riku, con un cipiglio saccente dipinto sul viso.

- Ciao.-

- Ciao, Riku. Sora?-

- In giro.-

- Senza di te?-

- Non posso farmi vedere molto in giro.-

- Senti, preferisci che ti chiami Polaretto, Ghiacciolo o Yeti?-

- Perché mai?-

- Perché sei glaciale! Sorridi, parla!-

- Non mi piace Yeti.-

- Felice di sentirtelo dire, Polaretto- replicai, andando in cucina.

Aprii il frigo: maionese, senape, ketchup. Mumble mumble.

- Avrei giurato che fino a stamattina ci fosse anche del riso…-

- Infatti abbiamo mangiato riso a pranzo.- confermò il ragazzo, sedendosi.

Sospirai. Forte.

Riku era arrivato ieri mattina sul presto per sfuggire alle ire del padre (colpa di cosa. Mah. Il perché non lo so.), lo avevo visto solo per un quarto d’ora in tutta la giornata, e ne avevo già piene le scatole.

- Allora, stasera, ketchup lesso.- proposi, mentre già componevo il numero della pizzeria. A memoria. Che mito.

Sora rientrò mentre ero al telefono: cadde in entrata, inciampò sul gradino, perse l’equilibrio mentre saliva le scale, venendo catapultato in avanti.

Sì, è tornato.

- Ma non avevi detto che i conti non quadravano?-

Lo liquidai con un’alzata di spalle

- Se preferisci mangiare aria fritta, accomodati. C’è pure il ketchup, pensa che fortuna.-

- Siamo proprio dei riccastri.-

Ammise, abbandonandosi su una sedia.

Annuii. Che stanca che ero.

*

Il giorno più strano che abbia mai passato è stato, probabilmente, qualche giorno dopo il settimo compleanno di Sora.

- Mamma.- aveva esordito entrando in cucina e guardandomi attentamente con gli occhioni blu – Sei sicura che sono tuo figlio?-

Per poco non mi si schiantò la testa sul tavolo. Avevo 19 anni, all’epoca, ed ero abituata alla gente che mi chiedeva se il bambino era mio figlio o mio fratello. Domande così dirette, però…wow. Mai ricevute. E chi me le pone? Mio figlio settenne, ecco chi.

- Perché me lo domandi?-

- Perché noi non ci somigliamo.-

- Ah no?- Rispondi con delle domande, Alisa., mi raccomandai, come i politici.

- No. Io ho gli occhi blu, tu viola; io ho i capelli castani, tu neri; e poi, io ho i piedi più grandi.-

- Sora, se la somiglianza si fera a questo, ciao Ninetta. Noi due abbiamo gli stessi zigomi, la stessa pelle… e inoltre, tu sei piccolo e magro, come me. E visto che ti era andata troppo bene, abbiamo pure un carattere simile. Soltanto che tu sei più gentile.-

- Ma io ci assomiglio un po’ a papà?-

- No.- risposi, mentre gli interruttori della rabbia mi scattavano tutti insieme.

Perché se fosse così, avevo pensato, senza osare dire una parola, saresti un uomo che gestisce una fabbrica importante, protetto dalla polizia, che ha sposato una donna solo per andare con sua figlia. Saresti un pedofilo schifoso che ha messo incinta una ragazzina di 12 anni, ecco chi saresti.

- Perché?-

Perché i bambini sanno essere così adorabili e allo stesso tempo così tignosi?

- Perché non me lo ricordo.-

Perché quello che chiami “nonno” in teoria dovrebbe essere “papà”.

- Nessuna foto?-

- No.-

Probabilmente Sora fu più ricettivo di quanto non mostrò; da quel giorno, non fece più una sola domanda.

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Capitolo 3
*** La storia di Alisa ***



All’età di 16 anni ricordo che quasi tutte le mie notti venivano “occupate”, quindi la maggior parte delle giornate le passavo con lo sguardo velato dal sonno, con il solo desiderio di mandare ‘affanculo il mondo e crollare a dormire su una qualsiasi superficie solida.

Per sfatare il fatto di cui mi ero ormai fermamente convinta (“Io mi tiro dietro la sfiga”) , facevo anche una brutta impressione ai professori; avevo molti amici, che conoscevo da tempo e che mi avrebbero accettato anche se fossi stata una delinquente d’alto bordo, ma è difficile fare breccia nel cuore dei prof quando consegni i compiti in ritardo, sai le lezioni alla meglio (cioè male), e per lo più arrivi in classe ogni giorno pesta come una bistecca.

Ormai a casa mi ignoravano, anzi, ci ignoravano, sia a me che a Sora.

Mi sentivo un ospite di troppo, un non- gradito, un eccesso: erano ormai diversi anni che nessuno ricordava più il mio compleanno. Io ricambiavo alla grande. Ormai il mio rapporto con i miei “cari” si limitava a un saluto distratto nei corridoi o lungo le scale.

Inutile protestare, con la mia famiglia, con i miei consanguinei, avevo chiuso. E capivo perfettamente il loro punto di vista, anch’io avrei voluto non vedere la realtà; ma un bambino di 4 anni che correva per casa chiamandomi “mamma” non poteva essere preso tanto sottogamba. Da me, per lo meno.

Con Gerald, il famoso…quello, non avevo molto dialogo: chiudevo a chiave tutte le porte che portavano in camera mia (mi sarei mangiata una scatola di graffette aperte piuttosto che farlo entrare), lui le prendeva a calci così forte da far scricchiolare i cardini, urlandomi di aprire IMMEDIATAMENTE.

- Col cazzo!- gridavo immancabilmente.

Tentavo di studiare chimica. Già la materia non mi entusiasmava, e in più il mix calci- insulti- Sora che chiedeva candidamente che stava succedendo, sinceramente incuriosito più che spaventato non giovava granchè alla mia concentrazione.

Insomma, il pomeriggio quasi sempre la scampavo, la sera meno spesso.

Non chiudevo la porta a chiave, perché spesso (molto spesso) Sora aveva gli incubi,e, quando succedeva, percorreva con la fretta di un maratoneta i cinque metri di corridoio che separavano le nostre camere e si tuffava a pesce sotto le mie coperte, svegliandomi immancabilmente e cominciando a parlare animatamente della prima cosa che gli passava per la testa. Una cosa da omicidio volontario colposo.

Comunque. Quando “Lui” (per non dire i primi aggettivi che mi balenano alla mente) entrava e vedeva Sora (che, in fondo, era pure figlio suo) che dormiva vicino a me, se ne andava e mi lasciava stare.

Tuttavia, non chiedevo mai a Sora di venire a dormire permanentemente da me; temevo che il briciolo di umanità avrebbe fatto PUFF!! Un giorno o l’altro, portando mio figlio a vedere cose che non volevo che vedesse.

Il mio “prelevamento” avveniva pressappoco così: Gerald entrava in camera mia, mi afferrava un braccio, una spalla, una ciocca di capelli, e mi trascinava fuori. O, almeno, ci provava: ricordo che una volta mi strappò una ciocca di capelli, tanto mi tirava, visto che mi ero aggrappata saldamente allo stipite della porta.

Poi, gli scenari cambiavano: o la camera sua e di mia madre, oppure un divano del salotto.

Mi chiedevo che cosa diavolo ci facesse mia madre fuori dal letto alle due di notte.

Una sera stavo attraversando il corridoio per tornare in camera mia, con una lacrima che mi solcava la guancia, zoppicante e con il collo bluastro, e vidi mia madre, la mia mamma, seduta su una poltrona della sala.

Schiena dritta, gambe unite, il viso volto verso il pavimento. Alzò la testa e mi vide; io rimasi immobile, appoggiata alla ringhiera.

Alisa, che cosa ti è successo?

Si alzò, salì le scale, mi passò accanto lasciando dietro di sé un lieve profumo di mandorla, aprì la porta della sua stanza, entrò e si chiuse la porta alle spalle. Sempre a testa bassa, sempre senza parlarmi. Chissà, forse piangeva.

Così lo sapeva, riflettei più tardi nella mia stanza. Lo sapeva, ecco cosa ci faceva fuori dalla stanza in piena notte. Il sospetto ce l’avevi, mi dissi, ora hai anche la prova.

Sospirai. Inutile aspettare, probabilmente non vedevano l’ora che compissi il passo decisivo.

Raccolsi vestiti miei e di Sora in due borse, presi il portafoglio di Gerald, mio figlio e me ne andai. Mi diressi al porto, presi il primo battello che passava e aspettai fino a che non arrivai al punto più lontano che la piccola nave poteva raggiungere.

Ottocento in contanti, non male.

C’erano anche carte di credito, di cui non sapevo il codice. A quel pensiero ebbi un tremito, ma poi mi strinsi nelle spalle. Avrei trovato una soluzione. L’avevo sempre trovata.

- Dove siamo?-

La voce di Sora mi fece trasalire

- A dir la verità non lo so.- ammisi

- Ma stai tranquillo, ho diciannove anni, un diploma e posso lavorare. Quindi…-

- Quindi restiamo qui?-

Annuii.

- E per quanto?-

- Mah, chi lo sa. Per ora siamo solo di passaggio, ma se non ti piace…-

- Ma a me piace!-

- Meglio così, mi faciliti solo le cose. Dai, vieni. No, dalla a me la borsa, che pesa.-

Raggiunsi un bar, entrai e mi rivolsi al barista

- Scusa…- mi morì la voce in gola. Davanti a me c’era l’uomo più bizzarro che avessi mai visto. Capelli rosa shocking, chiaramente tinti, una maglietta bianca aderente e quasi trasparente, smalto viola e…

- E’ un piercing al capezzolo quello?-

- Si può sapere perché vai a guardare proprio lì?- mi chiese, poi mi vide

- Che vuoi?- piuttosto cortesemente, dato il tono da drago sputa fuoco che aveva avuto poco prima

- Hai una stanza da affittare?-

- E se fosse, tu ce li hai i soldi?-

- E se ce li avessi?-

- Le faccio io le domande.-

- Che bovaro.- commentai

- Se non vuoi aiutarmi, credo che porterò portafoglio, valige e figlio in un altro posto. Grazie mille.-

Mi voltai per andarmene

- Rimaniamo qui?- chiese Sora. Aprii la bocca per ribattere, ma il barista piercingato mi precedette

- Sì, marmocchio.- si caricò le borse in mano e se le sgroppò al trotto su per le scale, quindi le scaricò dentro una piccola stanza.

- Sarebbero cento al mese, ma visto che mi stai simpatica sono cinquanta.-

- Quattro mesi.- gli dissi, allungandogli due banconote da cento. Mi sorrise

- Benvenuta! Sono Nove, posso portarti qualcosa?-

- No.- dissi, scuotendo la testa – Mi servi per scoprire un codice di un bancomat e per trovare un lavoro. Mi puoi aiutare?-

- Per il bancomat sì.- disse, prendendomi per un braccio e portandomi davanti a un computer, dove cominciò a battere freneticamente sulla tastiera – Per il lavoro, si vedrà. A proposito, che cosa ci fa una cosina carina come te da sola, con un figlio a carico e coperta di lividi?-

- E’ una storia lunga…-

- Adoro le storie lunghe. Soprattutto quando sto infrangendo la legge.-

Adesso non vivo più con Nove. Ma dopotutto, da quel giorno, sono passati sette anni.

Eccomi qua!!!!! I risvolti della storia non sono più semi- comici e ... mi dispiace deluderli, ma il barista non è Marly!! XD Me l'avete fatto notare voi che ci assomigliava!! Grazie mille a tutti quelli che mi leggono e mi reensiscono, vi adoro tutti!!!!!!!!!!!!!!!!!

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Capitolo 4
*** Pace parziale ***



- Quanto si intrattiene sua Maestà?-

Tre giorni di convivenza mi avevano istruita: il soprannome non era Polaretto, o yeti. No, il soprannome era FETENTE. Con tutte le lettere maiuscole.

Riku era allergico a: chili, farina di grano tenere, fecola di patate, mais, fagiolini, pomodori, carne di bovino, melanzane e peperoni. Il che spiegava la sua continua espressione corrucciata. Mica facile campare quindici anni mangiando solo grissini integrali.

Mi aveva lasciato un biglietto appuntato sul frigorifero.

Trovare un ristorante che consegnasse a domicilio, che avesse cibi che per Riku fossero commestibili e che soprattutto i suddetti cibi gustassero tutti e tre.. vivere era veramente un’impresa ardua.

- Mamma.. è il mio migliore amico…- l’aveva detto con lo stesso tono supplicante di un marito che dice alla moglie “Cara…è mia madre..”

- Ho chiesto solo quanto si intrattiene. Senza rancore. Giuro.-

- Mamma.-

- Ma che ho fatto io! E’ il fetente che…-

- Dai!- Sora tentava di non sorridere, ma non gli riusciva bene

- Cosa? Chi ha detto Fetente? Cosa? Chi?-

- Insomma!-

- Detto niente io!- dissi, quindi abbassai lo sguardo sull’elenco telefonico

- Parliamo di cose serie: cubano- cinese o greco- thailandese?

- Greco- thailandese.-

- Io preferisco il cubano- cinese.-

- Amen.-

Che antipatico. Composi il numero telefonico

- Salve, vorrei sapere che piatti avete che non contengano…- e via con l’elenco. Una perfetta cogliona.

- Qualcosa ce l’avremmo. L’acqua.-

- Ah. Ah. Ah. Che ridere. La battuta era così esilarante che il mio senso dell’umorismo deve essere imploso.- risposi, asciutta.

- Non era una battuta.-

- Ah. Allora non importa. Grazie.-

Mi alzai per uscire.

- Dove vai?-

- Nel mio rifugio alle avversità dell’esistenza.-

- Credi che Nove ti aiuterà?-

- Ovvio che no. Ma provar non costa nulla.-

*

- Assolutamente no. -

Appunto.

- Perché no?-

- Perché lo dico io.-

- Bhè, sai che ti dico? E’ facile fare i finocchi con il culo degli altri! Devo nutrire più vite!-

- Diosanto, quante volte te l’ho sentito dire? Novemila, diecimila volte? Che noia abissale, che enorme rottura di palle.-

- Si può sapere perché continui a trattarmi male così? E soprattutto, perché continuo a venire sapendo che mi tratterai male così?-

- Perché ti ho detto il codice del bancomat. Perché ti ho aiutata a trovare casa e lavoro. Perché ti ho tenuta qui per tre anni…-

- Prendo e vado, eh?-

- … perché la prima volta che ti ho visto eri pesta come una drogata e non ti ho chiesto niente…-

- Prendo e vado.- confermai, uscendo.

*

- Ti ha dato qualcosa?-

- No.-

- Te l’avevo…-

- Non azzardarti a finire quella frase. Vado a dormire.-

- Ma sono solo le undici.-

- Ma io ho sonno. Riku?-

- Dorme pure lui… avete tante cose in comune! A proposito, dobbiamo tirare la moneta. L’antenna si è inclinata. Uno di noi due deve salire sul tetto per ripararla.-

- Domani.-

- Mamma, che altro dovrei fare se non riesco a dormire?-

- Non ho intenzione di abbarbicarmi ad un’antenna a quest’ora.-

*

Equilibrio estremamente precario. Il tetto non è comodo per camminare.

- Non mettere il piede a destra, che sennò scivoli.- consigliò Sora. Perché perdersi lo spettacolo di sua madre che si fracassa i corni?

- Attenta, zoccola, se cadi non c’è un bell’atterraggio.-

Non devo neanche voltarmi.

Non risposi, ma con un salto raggiunsi l’antenna, la inclinai leggermente, quindi mi aggrappai a una grondaia e mi lasciai scivolare.

Quando toccai terra, Sora non c’era. Solo un maledetto idiota.

- Ciao.- sorrise l’idiota. La sua identità, ovviamente, non era un mistero per me quanto non lo era per lui.

- Ciao.- ripetè Nove.

Nella mia mente lo ignoravo e rientravo in casa. Nella realtà dissi

- Che vuoi?-

- Ti ho chiesto scusa.-

Questo non ritorna nella banca dati del mio cervello.

- Sul serio. Prima!-

- Devi toglierti questo vizio di parlarmi mentre non ci sono.-

Sospirai, dirigendomi verso la porta di casa

- Non mi fai entrare?-

- Assolutamente no.-

- Perché?-

- Cito testualmente.- risposi, acida. Lui inspirò ed espirò teatralmente.

- Ok. Tu avevi ragione, io torto. Ho sbagliato. Errato. Cannato.-

Sorrisi

- Puoi farmi una dichiarazione firmata?-

- Non tirare la corda, Alisa.-

- Ok, ho capito. Buona notte.-

- Ma non mi fai entrare?-

- No!-

*

Riku era in piedi sulla soglia, con un sorriso esitante e un pacchetto in mano

- Senti – cominciò

- Abbiamo cominciato male, io e te.-

Rimasi zitta, e lui continuò

- Io la pianterò di fare il fetente, ma tu… ti prego, elimina qualsiasi forma di soprannome! Ci stai?-

- Certamente.-

- Fantastico! Amici? - disse, aprendo il pacchetto e tirando fuori un fiore che mi offrì

- Amici!- gli sorrisi di rimando, prendendo il fiore. Giacinto. Il mio fiore preferito. Il colore dei miei occhi. Qui c’era sotto lo zampino di Sora.

*

Entrai in camera sua la mattina dopo, inciampando su un paio di scarpe e cadendo giusto sulla parte legnosa del letto. Quella che fa più male. Sulla testa. Ahi, ahi, ahi.

- C’entri tu con la nostra pausa pacifica?-

- Ovviamente.- sbadigliò

- Tu da sola fai solo casino, ti ci vuole un aiuto esterno.-

- Tu?-

- ovviamente.-

- se non altro riusciamo a non sbranarci a vicenda. Per il momento.- afferrai una sveglia a caso. Le dieci e un quarto.

- Sveglia!- esclamai, dandogli un bacio sulla guancia.

- Ferma! E se mi prendo qualche infezione?-

- Ma vai a…-

- vado a lavarmi i denti.- mi interruppe.

Fantastico. La pace parziale regnava sovrana. Un solo obbiettivo.

Perché Riku se n’è andato via di casa?

Capitolo un pò caotico, lo ammetto...RECENSITEEEEEEEEEEEEEEEEEE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!..e, piccola curiosità...Riku lo preferite Polaretto o nella versione Pace Parziale? Thankkkkssssssssssssss!!!!! XD XD

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