I'll Follow the Sun – La storia mai raccontata di John Lennon

di Helter Skelter
(/viewuser.php?uid=221360)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In my life. ***
Capitolo 2: *** From me to you. ***
Capitolo 3: *** Yesterday. ***
Capitolo 4: *** For no one. ***
Capitolo 5: *** Lucy in the sky with diamonds. ***
Capitolo 6: *** Nowhere man. ***
Capitolo 7: *** Should have known better. ***
Capitolo 8: *** Norwegian wood. ***
Capitolo 9: *** Hold me tight. ***
Capitolo 10: *** Wait. ***



Capitolo 1
*** In my life. ***


Avviso: la storia è interamente frutto della mia fantasia malata e, di conseguenza, i personaggi non mi appartengono in alcun modo. 

Breve angolino autrice:
 due paroline prima di iniziare :) Ringrazio di cuore tutti quelli che - spero - vorranno seguirmi, recensirmi e supportarmi. 
Sono alla mia prima fanfiction e sono senza pretese; chiunque abbia consigli, critiche o quant'altro è ben accetto. Mi scuso in anticipo se in futuro potranno esserci incongruenze con le date o avvenimenti vari ma, a favor di narrazione, mi concederò di prendere qualche libertà. Non me ne vogliate :)
Vi lascio alla lettura, fatemi sapere. Tutto il mio più sincero affetto, Giulia.

 

STORIA IN FASE DI MODIFICA E CORREZIONE.

CAPITOLO REVISIONATO L'11 DICEMBRE 2012.

 
 

 

La storia mai raccontata di John Lennon 
di Helter Skelter.


 

 

 

*


1. In my life

"But of all these friends and lovers
there is no one compares with you. 
And these memories lose their meaning 
when I think of love as something new."


 


13 Agosto 2012  Londra



Un alito freddo. Mi rigiro fra le coperte, strofino le mani l’una contro l’altra in cerca di un po’ di calore e schiaccio ulteriormente una guancia contro il cuscino ruvido. Questa mattina mi sono svegliata prima del solito, decisamente molto prima della sveglia. Ieri sera, fra le mille cose, ho dimenticato di chiudere i vetri. La camera è gelida, il mio fiato è gelido, persino i miei piedi sotto il piumone lo sono.
 
Ma dove avrò la testa?
 
Il freddo vento inglese entra nella stanza e si trascina pigro insieme al blu dell’alba, fa svolazzare ed ondeggiare le tendine bianche a suo piacimento. Solitamente, a quest’ora del giorno, per le strade londinesi ci sono ancora leggeri residui della nebbia che si forma durante la notte, ma ora sta cominciando a cadere una pioggerella sottile, fitta, che – ne sono sicura – continuerà per tutta la giornata. Mi stiracchio appena ma l’indolenzimento rimane, dentro le ossa e nei muscoli. Ormai è inutile rimanersene a letto, non riprenderei mai sonno. E poi mi fa anche male la schiena. Sbuffo, mi alzo e avvolgo la vestaglia attorno le spalle.  
 
Nella penombra grigia della casa, mi dirigo in cucina per preparare una tazza di tè; una vecchia abitudine mai persa. Quando alzo le persiane per far entrare la luce, il flebile sole mattutino colpisce il mio riflesso sul vetro della finestra e, se non fosse per gli occhi, probabilmente non mi riconoscerei. Il mio viso è scavato, stanco, e tante piccole grinze mi fanno da cornice; agli angoli della bocca, al centro della fronte, sotto le sopracciglia scure. Distolgo lo sguardo, trattenendo un sospiro. Sembra che tutti i miei anni mi siano crollati addosso, la cifra della mia esistenza è ben lontana dalla leggerezza, ormai. Intingo lentamente le foglie di Earl Grey nell’acqua bollente della teiera. Il suo dolce aroma si diffonde per tutta la stanza, la riscalda e mi avvolge.
 
«Nonna?» mi chiama una vocina alle mie spalle, ancora impastata di sonno. Mi giro e vedo una figura minuta stropicciarsi gli occhi con il dorso della mano. La piccola Lucy ha i capelli ramati tutti scompigliati e il suo adorato pigiamino viola è pieno di pieghe. Mi stupisce ogni volta, la piccolina. Il suo sguardo furbo, vispo, intelligente; è esattamente come quello…
 
«Tesoro, che ci fai in piedi? Torna a dormire, è ancora presto».
 
«Jude occupa tutto il letto». La guardo lamentarsi, con aria complice. I due non la smettono mai di stuzzicare l’altro, nemmeno mentre dormono.
 
Va bene, ho capito…Dal pensile sopra il fornello, afferro al volo due grandi tazze in ceramica ed una scatolina di alluminio gialla che nascondo furtivamente dietro la schiena, lanciando alla piccola Lucy un occhiolino. Le tendo una mano, sorridente. Lei si avvicina e arriccia il suo piccolo nasino mentre la sistemo sulle mie ginocchia. Le ho comprato i biscotti al burro, quelli che le piacciono tanto, quelli che le illuminano il viso quando li mangia.
 
Abitando lontani non abbiamo la possibilità di vederci spesso durante l’anno. Così, ogni estate, mia figlia Julia porta i miei due nipotini a stare da me per qualche giorno. A detta sua mi fa male stare troppo da sola, ma a me non dispiace. Devo ammettere però che quando sono in compagnia dei due piccoli la casa si anima, prende calore.
Lucy raccoglie minuziosamente le briciole di biscotti che sono cadute oltre la sua tazza di tè, radunandole una ad una con il suo ditino. Sembra assorta, concentrata nel suo lavoro.
 
«Ti manca» chiede improvvisamente «il nonno?»
 
La sua domanda mi lascia di stucco, senza replica. Come mi avesse letto nel pensiero, come sapesse esattamente che è dalla sera precedente che non riesco a pensare ad altro.
 
«Certo che mi manca. Ma lui è sempre qui con me». Mi porto una sua manina sul cuore, ad indicarle dove lo sento più vicino. Sarebbe stato un nonno fantastico, mi ripeto spesso.
 
 
«Come vi siete conosciuti?»
 
Guardo Lucy, perplessa. La guardo mentre beve il suo tè, e rivedo in lei molto di lui. Come entrambi piegano la bocca, o come alzano le sopracciglia quando ottengono finalmente ciò che vogliono. Sì, sarebbe stato un nonno fantastico.
 
«Oh, tesoro è una storia così lunga».
 
Per tutta risposta, la piccola si sistema comoda sulla mie gambe, rivolta verso di me, in attesa che cominci il mio racconto. Si pulisce il mento da una piccola goccia di tè e mi rivolge uno sguardo radioso, pieno di speranza. Le lascio una lieve carezza sui i capelli e mi sfugge un sorriso.
 
«Non sono più giovane come un tempo. Temo che anche la mia memoria ne risenta».
 
Lucy si scurisce in volto, ma non abbassa lo sguardo dal mio. Le do un tenero bacio sulla guancia, promettendole che un giorno le avrei raccontato tutta la storia. Sorrido, la stringo forte fra braccia e lei fa altrettanto, con affetto.  
Sbadiglia, mormora un «va bene, nonna» e si lascia riaccompagnare tranquillamente a letto. Le piace quando le rimbocco le coperte, dice che nessuno lo fa meglio di me. «Neanche papà».
 
Ritorno in cucina, felice, dove, pervasa dall’odore di vaniglia, salgono alla mente vecchi ricordi. Non posso più impedirmelo. Dalla strada i suoni della città arrivano ovattati, trattenuti dalla spessa coltre di nubi nel cielo.
 
In questa casa addormentata, con una punta di nostalgia, ammetto sospirando di non essere stata completamente sincera con la mia piccola Lucy; mi basta solamente chiudere gli occhi per rivivere tutte le emozioni della mia gioventù, tutti i colori, i suoni, le sensazioni. Riesco a vedere distintamente loro quattro, li vedo tutti davanti a me come se non fosse passato un solo giorno, come se il tempo si fosse fermato e i nostri volti sorridenti fossero rimasti intrappolati per tutti questi anni in attesa che qualcuno raccontasse la nostra storia.

 

*

 
 

3 Luglio 1949  Liverpool


Erano da poco passate le due del pomeriggio, non c’era nessuno per le strade calde di Liverpool. Nell’aria solo silenzio e odore di erba appena tagliata. Ero seduta sul marciapiede di fronte casa, ginocchia al petto. Sentivo il calore dell’asfalto riscaldare i palmi delle mie mani e le lacrime rigarmi il volto. Quella mattina avevo indossato il mio vestitino a fiori preferito, raccolto i capelli in una coda alta e l’avevo fermata poi in un fiocco, con un nastrino azzurro. Ero scesa così, sorridente, per farmi vedere dalla mamma, per vedere il suo volto illuminarsi. Ma avevo trovato solo i miei genitori intenti nella solita discussione. Non capivo bene i loro litigi, non li capivo proprio. Perché agli occhi di una bambina come me non c’era nulla che non potesse essere risolto con un abbraccio, o con un sorriso.
 
Avevano continuato così, con risentimento e rancore, senza curarsi dei miei occhi sempre più lucidi, o del mio cuore sempre più triste.
 
Subito dopo pranzo mi ero allontanata per non ascoltarli più, ma le loro urla continuavano imperterrite a rimbombare nelle mie orecchie. Stavo pensando di scappare, proseguire per le strade di Liverpool fino ad arrivare in un posto sicuro, sereno, silenzioso. Perché agli occhi di una bambina come me non c’era nulla di impossibile.
 
Un rumore lontano, costante. Le ruote di una bicicletta stridettero in strada, sempre più vicine. Il mulinare frenetico dei pedali si faceva man mano più debole. Velocemente, mi asciugai le lacrime con la manica della mia giacchetta rosa, sgualcendola. Inutile; le mie ciglia umide parlavano al mio posto. In quell’istante, un bambino dai capelli biondo scuro e con dei bellissimi occhi color nocciola fermò la sua bicicletta davanti a me, guardandomi sorridente ma cauto.
 
«Va… tutto bene?»
 
Sussultai, ma non mi azzardai a parlare.
 
Indossava una camicia bianca a maniche corte e un paio di pantaloncini marroni da marinaretto. Il cardigan era stropicciato, i calzini gli ricadevano ad altezze diverse sui polpacci. Era un vero disastro; disordinato e caotico.
Abbassai subito lo sguardo. Presi a fissarmi le scarpe nere lucide, adesso un po’ graffiate. Annuii semplicemente, imbarazzata; non volevo che nessuno mi vedesse così, ero a disagio.
Per qualche secondo anche lui tacque, ma capivo che mi stava studiando. Spostava il peso da una gamba all’altra in un goffo tentativo di rimanere in equilibrio. Lo sentii prendere una gran boccata d’ossigeno, come stesse per dire qualcosa. Improvvisamente, si rese conto del gran vociare che risuonava nel silenzio. Alzai timidamente la testa, di pochissimo. Il bambino diede una rapida occhiata alla casa alla mie spalle e, vedendo i miei occhi arrossati e gonfi, capì.
           
«Anche i miei litigavano, sai?»
 
Perché faceva così? Perché cercava di consolarmi? Comunque, non avevo alcuna intenzione di parlargli.
 
«Adesso non vivo più con loro, però»proseguì imperterrito con una punta di malinconia nella voce. «Sto con zia Mimi e zio George. Abitiamo nella casa all’angolo, laggiù». Con lo sguardo, scavalcai, andai oltre il suo dito indice, puntato su una casetta grigia proprio in fondo alla strada. Mi era sempre piaciuta quella casa. Il suo tetto spiovente, il giardino ben curato. Cominciai a tormentarmi le unghie, una con l’altra, spezzandole agli angoli. Il mio silenzio vacillava.
 
Niente, non lo degnavo di una risposta. Forse ora se ne andrà. 
 
«Come ti chiami?» domandò il ragazzino, scandendo attentamente ogni parola, in un ultimo tentativo. Si avvicinò piano, intralciato ancora dalla bicicletta; abbassò la testa su una spalla per cercare i miei occhi. I suoi erano buoni, furbi. La sua espressione compiaciuta mi fece pentire del mio comportamento. Piegai le labbra in una smorfia che poteva ricordare l’ombra di un sorriso. Timorosa, titubante, impacciata.
 
«Abbey» sussurrai, sperando di non dover ripetere. Lui alzò le sopracciglia, evidentemente soddisfatto.
 
«Io sono John. Quanti anni hai?»
 
Tirai su con il naso e mi schiarii la gola. John.
 
«Ne ho sette».
 
«Sette? Sei piccola, allora» cinguettò, e sul suo viso apparve un’aria beffarda. Quell’atteggiamento mi infastidì molto, chi si credeva di essere? Che fine aveva fatto il bambino tanto gentile? Le mie guance diventarono immediatamente rosse, imbarazzate ed indignate. Ti prenderei a calci… John!
 
«Perché tu quanti ne hai, scusa?»
 
«Nove» affermò fiero, gonfiando il petto e sistemandosi in maniera più comoda sul sellino della sua bici – come non aspettasse altro che quella domanda.
 
Mi alzai di scatto per replicare, senza più paura di doverlo guardare negli occhi, ma notai che il mio vestitino, da bianco, era diventato dello stesso colore del marciapiede. Macchiato, stropicciato, rovinato. Cercai inutilmente di levare via lo sporco con la mano, passandola più e più volte sulle pieghe della gonna.
 
«Io… stavo andando giù al porto con il mio amico Pete, vuoi venire con me?»
 
Alzai la testa verso di lui, bloccandomi. Mi stava invitando a passare il pomeriggio con lui, mi stava davvero invitando? Allora non gli importava se ero piccola. Non gli importava e non si vergognava di farsi vedere con me. Per la prima volta, quel ragazzino – e quei suoi occhi – mi apparve come il mio posto sicuro, sereno, tranquillo da raggiungere. La mia via di fuga, lontano dalle urla e dalla tristezza. Per la prima volta.
 
«Cosa dirà mamma?» chiesi, più a me stessa che a lui.
 
«Torneremo prima di sera, promesso».
 
Le sue parole scaldarono il mio cuore di bambina. Quel John mi conosceva appena, eppure mi stava offrendo quello che avevo sempre desiderato; risate e spensieratezza. Il suo sorriso me lo stava promettendo.
 
«Io… io però non ho una bici».
 
Con le mani ben salde sul suo manubrio, John si guardò un po’ intorno come cercasse qualcosa. Poi si fermò, fissò i suoi occhi nei miei e si fece serio.
 
«Sali dietro, andiamo insieme».
 
 

*


 
1 Agosto 1958 – Liverpool


Come tante sere prima di quella, stavo rientrando a casa verso l’ora di cena dopo aver passato la giornata insieme a John e  i suoi amici. Da qualche tempo avevano formato un gruppo; i Quarrymen. Si divertivano, strimpellavano qualcosa e ridevano, tanto. Quei giorni bazzicavano a casa del nuovo chitarrista, George; i genitori erano contenti che il figlio suonasse e concedevano volentieri il salotto per le prove del gruppo. Era un ragazzo davvero dolce, avevamo la stessa età e condividevamo un sacco di interessi. Poi c’era Paul, il bel ragazzo dagli occhi verdi. Un po’ pieno di sé, ma era piacevole passare il tempo insieme a lui. Quando non ero impegnata con altro, ero ben felice di stare con i ragazzi. A volte andavamo al Cavern, il locale in centro. Sentivamo i gruppi che suonavano, bevevamo, ballavamo e ridevamo, tanto.
John, però, non era lo stesso ultimamente. Il suo sguardo si era spento, lui si era spento. Era ancora parecchio scosso per quello che era successo alla mamma, Julia, solo pochi giorni prima. Così come lui, avevo appena imparato a conoscerla e, anche se non capivo le motivazioni che l’avevano spinta a lasciare il figlio molti anni prima, ammiravo la donna che era diventata. Ora che non c’era più, avevo il dovere di stare  il più vicino possibile a John, di non farlo sentire solo. Dopotutto, lui era il mio posto sicuro, sereno, tranquillo. Sarei stata lo stesso per lui, non lo avrei abbandonato.
Quella sera l’aria era ferma, umida, come lo è sempre dopo un bell’acquazzone estivo. Trascinai i piedi sul vialetto di fronte l’entrata di casa, calpestando e giocando col tappeto di foglie morte incollate all’asfalto. Capii subito che c’era qualcosa di diverso; tutto era stranamente silenzioso, sereno e tranquillo. Il rumore della porta rimbombò nel salotto, sbattendo sulle pareti e tornando indietro fino a me.
 
Nessuno, niente radio accesa, niente voci. Nessuno.
 
Mi affrettai al piano superiore, senza curarmi di star stampando passi rumorosi e pesanti sui scalini in legno. Arrivai in camera, affannata e con un brutto presentimento sulle spalle. Trovai i miei vestiti sparsi, buttati disordinatamente sul materasso, i miei pochi libri impilati ai piedi del letto e una grande valigia vecchia e consumata aperta sulla scrivania. Maglione dopo maglione, gonna dopo gonna, mia madre sistemava con mano tremante tutta la mia vita.
 
Aveva gli occhi arrossati dal pianto, gli zigomi e le labbra gonfi. Louise, mia madre, era una donna estremamente emotiva ed impulsiva; alcune volte – pur avendo solamente sedici anni – mi sentivo io l’adulta fra le due.
Avvertita dal rumore dei miei passi, mamma alzò di scatto la testa, spaesata. Potrei giurare di averla vista sospirare di sollievo nel vedermi. Asciugò le lacrime in fretta dalle guance con il dorso della mano e sorrise in modo tirato, senza riuscire a nascondere quanto sconvolta fosse in realtà.
 
«Preparati, ce ne andiamo via».
 
Poche parole, dirette, chiare. Il silenzio bloccò l’aria, la comprimeva, mi soffocava. Mi mancava l’ossigeno, consumato tutto da quella tranquillità innaturale. Speravo davvero fosse soltanto una delle sue crisi passeggiere, di una delle solite discussioni con papà, speravo si trattasse di una di quelle decisioni avventate che se ne vanno tanto presto quanto arrivavano. Tentai di convincerla in tutti i modi, supplicandola, cercando di farla ragionare, ma lei aveva già egoisticamente deciso per entrambe.
 
«Staremo meglio a Manchester» disse, usando un tono che, invece, mi convinse del contrario.
 
«E papà?» Lo sguardo di mia madre si rabbuiò; vidi la sua mascella serrarsi per qualche secondo, stretta, immobile, senza via di scampo.
 
«La vita di tuo padre ora non mi riguarda più. Basta discutere, farai come ti ho detto» urlò, come a marcare la sua posizione. Lei aveva deciso, a me stava adattarmi in silenzio.
 
L’aria era diventata irrespirabile, avevo la nausea. Dovevo scappare, in un luogo sereno, silenzioso e tranquillo. Un luogo sicuro, il mio luogo sicuro. Assestai bene i piedi a terra ed uscii in fretta dalla camera, cercando di sbattere la porta il più violentemente possibile. Mia madre non mi avrebbe mai seguita; avrebbe aspettato e, non appena fossi tornata, mi avrebbe trascinata con lei.
 
In pochi secondi mi ritrovai in strada, a correre in fondo alla via, verso casa di John.   
Il piccolo cancello era aperto, fortunatamente. Attraversai il giardino ben curato di casa Smith, senza fiato. Bussai più volte, forse troppo energicamente. Sperai solo che ad aprire non fosse Mimi.  
Quando – finalmente – la porta si spalancò, davanti a me si stagliò una figura nella penombra, alta, atletica e con i capelli scompigliati. Non lasciai il tempo neanche per un saluto. Mi lanciai istintivamente verso John e lo abbracciai, allacciando le braccia attorno alla sua vita; tenevo il viso nascosto nel suo petto caldo. Dopo qualche istante di perplessità, anche le sue braccia mi attirarono a sé, stretta. Inspirai profondamente il suo profumo, intriso nella leggera maglia che indossava. Sapeva di tabacco e di dopobarba.
Non so per quanto tempo restammo così, abbracciati in silenzio sull’uscio della porta, ma fu abbastanza per far asciugare tutte le mie lacrime.
Noi eravamo così; non avevamo bisogno di molte parole. Ma quella sera avrei dovuto parlargli, spiegargli, abbandonarlo.
 
«Andiamo in camera tua» soffiai, premendo la bocca sulla sua spalla.
 
John si scostò leggermente per guardarmi negli occhi, come volesse capire cosa mi stesse frullando per la testa. Ma non disse nulla. Con i volti a pochi centimetri l’uno dall’altro, annuì semplicemente.  
La sua stanza era davvero piccolissima, c’erano un letto, un armadio ed una scrivania, incastrati in modo tale da occupare meno spazio possibile. Il pavimento era perennemente disseminato di vestiti e fogli – disegni, scarabocchi o parole – le lenzuola sempre arruffate, le coperte ammassate ai piedi del materasso. Mimi aveva rinunciato da un bel pezzo ad insegnare a John cosa significasse la parola “ordine”. Tutto odorava di tempere e di sigarette, come i tanti pacchetti vuoti abbandonati qua e là. Mi guidò, mi fece sedere sul  letto, prendendo il posto accanto al mio e cingendomi la vita con un braccio.
 
Con le altre persone John si comportava sempre da coglione, una cosa che non era – non del tutto o sempre, almeno. Ma c’erano quelle rare volte in cui si mostrava senza la sua maschera, senza la patina da duro. Io me ne accorgevo. Capitava quasi sempre con me; forse perché continuava a vedermi come la bambina con il vestitino sporco e gli occhi gonfi di pianto.
 
Piano la sua mano scivolò sulla mia, accarezzandola delicatamente. Mi sforzai di guardarlo negli occhi, ma quella scintilla di dubbio che vi scorsi mi fece dimenticare il breve discorso che mi ero preparata. Per mia fortuna, fu lui a parlare per primo.
 
«Ti deciderai a dirmi cosa hai o devo stare qui tutta la notte a sentire te che piagnucoli?»
 
Non lo disse con cattiveria, solo… preoccupazione.
 
«John, ti voglio bene» fu tutto quello che uscì dalla mia bocca. Non una parola in più.
 
Capii che stava sorridendo, potevo quasi sentire le sue labbra piegarsi divertite. La presa intorno alla mia mano si fece più stretta, come mi incitasse a proseguire. Mi rilassai un pochino. A contatto con il suo corpo caldo mi sentivo al sicuro. Ero certa che avrebbe capito, che neanche lui mi avrebbe abbandonata nel momento del bisogno. Ma di cosa avevo paura? John non avrebbe mai fatto nulla per ferirmi. Presi coraggio, un grande respiro e mi lasciai andare.
 
«I miei hanno litigato».
 
«Sai che novità…» si fece sfuggire una risata amara, eco della mia.
 
«Mamma ha tirato fuori la valigia. Stava piegando i vestiti quando sono tornata».
 
Silenzio. Assordante. Sentii gli occhi pizzicare di nuovo, le lacrime salivano e spingevano. Trattenni il fiato per non piangere, mi morsi un labbro in attesa che lui facesse qualcosa, che dicesse qualcosa.
 
«Vuole andarsene?» Il suo tono era troppo piatto, troppo tranquillo perché avesse capito veramente. Percepivo però la tensione; una punta di riluttanza. «Con chi rimarrai?»
 
Si scostò, girando il corpo completamente verso di me. No, aveva decisamente frainteso. Per qualche strana ragione, mi fece sentire anche peggio; come se ammettendo ad alta voce la mia partenza questa si trasformasse in qualcosa di più reale, vero, sbagliato. Sospirai con un enorme peso sul cuore.
 
«John, non mi lascia qui» sussurrai con un filo di voce, a mala pena udibile. Ma noi eravamo soli, in una stanza silenziosa, a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altra. Eppure mai come in quel momento lo sentii tanto distante.
 
Il vorticare frenetico del suo cervello cessò. Realizzò, si rese conto della situazione, di cosa volessero dire le mie parole. Si alzò bruscamente, sbattendo le mani sul materasso. Il letto tremò.
 
«Te ne vai?» ringhiò, con voce bassa, arrabbiata e roca. Nel suo sguardo si distingueva un’unica scintilla; fiamma, lampo, collera. Il viso era ridotto ad una smorfia indefinibile, sfigurato, incupito dalle grandi sopracciglia corrucciate. Aveva un’ombra scura sospesa sul volto.
 
La sua reazione mi spaventò. Erano rare le volte in cui lo avevo visto così, anche se ero più che consapevole di quel suo lato. Quello era il John che temevo di più, quello che non rispondeva delle sue azioni; solo dell’istinto.
 
«Non… non vorrei» tentai di giustificarmi, flebilmente. Le parole si incastrarono sulla lingua, forse balbettai, incapace di articolare una vera frase.
 
«E tu diglielo! Mandala a fanculo, fai qualcosa!»
 
Prese a gesticolare vorticosamente. Andava su e giù per la stanza, incurante di tutte le cose che capitavano sotto i suoi piedi. Per qualche istante sentii solamente il rumore della carta stropicciata sotto il suo peso, attutito dai spessi calzini di spugna grigi che indossava.
 
«E’ mia madre, John».  
 
«Quindi rinunci così? Senza neanche opporti!»
 
La conversazione non stava andando come avrebbe dovuto, come mi sarei aspettata. Lui doveva stare dalla mia parte, non abbandonarmi. Doveva essere il mio posto sicuro, sereno e silenzioso. 
Potevo capire il suo risentimento; non era di certo il momento migliore per allontanarmi. Ma di certo non mi sarei mai mossa dal suo fianco volontariamente, e questo lui lo sapeva bene.
 
«Mi dispiace John, vorrei starti vicino ora ma…»
 
«Ti stai comportando da stronza» mi interruppe.
 
Le sue parole mi colpirono come uno schiaffo, sentii distintamente lo stoc sordo del suo palmo contro la mia anima. Una mano immaginaria si avviluppò salda attorno alla bocca del mio stomaco, stritolandolo.
 
Avrei voluto urlare, urlargli in faccia tutto il mio sgomento e la mia collera. Avrei voluto urlargli “non dipende da me”, ma avevo paura che il mio tono potesse tradire tutta la mia fragilità. Nulla di quello che avrei potuto dire sarebbe mai stato abbastanza.
 
Serrai la mascella, mi avvicinai furente e, con tutta l’energia che avevo in corpo, gli diedi una spinta sul petto, caricando la forza sui gomiti. Nulla. Lui si mosse solo di pochi centimetri, ghignando soddisfatto. La mia impotenza nei suoi confronti non fece che aumentare la mia rabbia; la sua espressione mi spedì il sangue direttamente al cervello.  
 
«Vattene con tua madre, vai, e impara a scappare di fronte ai problemi». Non mi aveva mai tratta così prima, mi stava ferendo. E non poco. Sprezzante, freddo, John. Non mi avrebbe fatta piangere, non glielo avrei permesso.
 
«Fanculo, Lennon. Non voglio più vederti».  
 
Diedi un’ultima, rapida occhiata verso di lui. Se me ne fossi andata in quel momento lo avrei perso – lo sapevo bene. Mi aveva trattata di merda – sapevo bene anche quello. Avrei saputo rinunciare a lui? La risposta era tanto scontata quanto dolorosa; no, mai.
 
Col petto dolorosamente in fiamme, mi voltai.
 
«Abbey!» Mi abbaiò dietro, in uno strascico di richiesta. Un comando.
 
Scesi le scale di corsa, inciampando goffamente sull’ultimo grandino. Mi augurai – che Dio me la mandi buona! – che Mimi non fosse in salotto e, con la testa bassa, uscii il più velocemente possibile, il più lontano possibile. La vista era appannata, dalla foga e dalle lacrime. Mi accorsi di star serrando i pugni solamente quando le unghie mi graffiarono la morbida pelle dei palmi. Un piede dopo l’altro, combattei contro il pianto.
Non appena fui fuori dal giardino di casa Smith, un po’ per sbadataggine, un po’ per il momento,  urtai contro qualcuno che proprio non avevo visto arrivare. Mi riparai dallo scontro, portando le mani in alto, aperte sul petto dello sconosciuto. Alzando lo sguardo mi aspettavo di trovare una signora austera in un completo pastello ma, al contrario, di fronte a me si pararono due occhi verdi intensissimi. C’era odore di sigaretta.
 
Paul.
 
Era leggermente più alto di John e, contrariamente a lui, sempre sorridente. Indossava un maglioncino chiaro, pulito ed impeccabile. A tracolla la custodia della sua chitarra.
 
«Oh, Abbey! Guarda dove vai» mi riprese tranquillo, facendomi l’occhiolino.
 
Non risposi con la sua stessa affabilità, però. Il mio unico pensiero era di mettere quanta più distanza possibile fra me e John. Ero contenta di vedere Paul, quello sì, ma non ero proprio al settimo cielo di dover dare spiegazioni anche a lui. Avrei potuto far finta di nulla? Cercai di controllare il mio tono, per farlo sembrare il più naturale possibile. Mi schiarii la gola con un colpetto di tosse e tentai di sorridere.
 
«Paul, cosa fai?» Che idiota…
 
Fortunatamente, lui sembrò non notare il fatto che la risposta fosse palesemente ovvia – stupida, anche –, ed indicò la casa alle mie spalle.
 
«La zia di John non c’è; ne approfittiamo per provare un po’. Sai, credo che Mimi mi odi». La sua voce si affievolì, diventando quasi un sussurro sull’ultima parola, come stesse confidando un segreto.
 
«Lei odia tutti, non prenderla sul personale».
 
«Già» assentì, alzando le sopracciglia. «Te ne stai andando?»
 
A quella domanda il mio cuore prese a martellare furioso. Anche le mie lacrime sembrarono ricordarsi che fino a poco prima stavano prepotentemente smaniando per uscire. Oddio, e lui che ne sa?! Calma, calmati Abbey. Presi un grosso respiro. No, a quanto pare non avrei potuto far finta di nulla.
 
«Sì, io… Paul, senti…»
 
«Mh?» mugugnò con un espressione teneramente ingenua dipinta in volto.
 
«Io e mamma andiamo a Manchester… Domani».
 
«Ah, fate una vacanza?»
 
Ingoiai a fatica il groppo che sentivo in fondo alla lingua. Inutile. Abbassai gli occhi in un gesto quasi colpevole.
 
«N-non esattamente» fu tutto quello che riuscii a farfugliare, trattenendo a fatica i singhiozzi.
 
Silenzio. Le mie orecchie stavano quasi scoppiando. Aveva capito? Non ce l’avrei fatta a dirlo apertamente.
 
«Cosa ne dice lui?» Si fece serio, scuro in volto.
 
Non risposi, ma fu come se lo avessi fatto, perché improvvisamente Paul mi abbracciò. Non era un abbraccio come quelli di John – non ci si avvicinava neanche – ma era tenero e percepivo una punta di imbarazzo.
 
«Mi dispiace, Abbey» soffiò, allentando la presa dalla mia schiena.
 
«Mi mancherete tanto, tutti quanti».
 
La mia mente era stata completamente svuotata. Non sapevo se sarei tornata, se li avrei rivisti – se lo avrei mai rivisto. E quella era una consapevolezza che non ero disposta ad accettare. Bruciava. Una piccola lacrima scivolò sul mio volto, ed immediatamente mi pentii di essermi fatta prendere dall’emotività. Non volevo che Paul vedesse la parte più fragile di me, non volevo che nessuno la vedesse.
 
«Ci rivedremo presto» mi rincuorò Paul. Avevo, per caso, parlato ad alta voce? No, era lui ad essere così meravigliosamente empatico. «E potremmo scambiarci delle lettere. Sì, certo! Ti scriverò, ti scriverà George e…» interruppi il flusso incontrollabile delle sue parole prima che potesse finire la frase. Sapevo cosa stava per dire. Lo strinsi nuovamente a me.
 
«Sarebbe fantastico, ma per favore – per favore – John non lo deve venire a sapere» lo supplicai, con quel poco fiato rimastomi. Nella mia voce però si percepì distintamente una punta di amarezza e… delusione. Sentivo di non poter più fare affidamento sul mio istinto. Fino a quel momento avevo sempre creduto di conoscere bene John, il suo carattere enigmatico. Eppure mi ritrovai a non sapere più come agire.
 
“Ti stai comportando da stronza”
 
La sua voce mi rimbombava nel cervello, assillante, disarmante, gelida. Era meglio che John mi ritenesse sparita per sempre, nessun contatto, niente di niente; decisamente non potevo correre il rischio che anche loro due litigassero a causa mia.
 
Paul ebbe un attimo di incertezza, poi si aprì in un sorriso che avrebbe dovuto rassicurarmi. Stranamente mi agitò. Mi resi conto, forse per la prima volta, di quanto fosse veramente belloquel ragazzo. La curva delicata e liscia della sua mascella, le labbra carnose, quei suoi capelli scuri ordinati, pettinati, tirati all’indietro. Tutto in lui sembrava sprigionare dolcezza, possibile che non me ne fossi mai accorta? Le mie guance avvamparono e probabilmente lui se ne accorse, ma, se avesse detto qualcosa, ero pronta ad incolpare il pianto.
 
«Okay. Va bene, non ti preoccupare».
 
Gli diedi un ulteriore abbraccio, posando la mia testa proprio sotto il suo mento. Emanava un calore rincuorante, proprio quello di cui avevo bisogno in quel momento. Mi fece sentire meno…
 
«Non sarai sola». Tuffo al cuore. I suoi occhi me lo confermarono; no, non lo sarei stata. Mi strinsi attorno le sue spalle.
 
«Aspetto tue notizie, Abbey» mi disse, pizzicandomi lievemente una guancia in modo affettuoso.
 
«Salutami tanto George» mi alzai sulle punte per lasciargli un leggero bacio sulla guancia e, senza poi incrociare il suo sguardo, mi allontanai.
 
I miei piedi si strascicarono lenti lungo la strada, come fossero fatti di piombo. Il vento asciugava tutte le mie lacrime. Silenziose, prepotenti, deluse. Stavo andando incontro a qualcosa di sconosciuto e spaventoso. Pensai a come la mia vita sarebbe cambiata nel giro di pochi giorni, a cosa sarebbe rimasto lo stesso e a cosa, invece, avrei inevitabilmente perso.
Il sole era ormai quasi completamente sparito dietro l’orizzonte; proiettava strane ombre sull’asfalto, sulle case. Respirai a fondo, a pieni polmoni, e immediatamente venni invasa dal famigliare odore salmastro della città che mi stavo lasciando alle spalle e – insieme a lei – tutto quello che aveva sempre rappresentato per me. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** From me to you. ***


2. From me to you

"If there's anything that you want
if there's anything I can do, 
just call on me and I'll send it along, 
with love from me to you."




 Agosto, Settembre 1958 - Manchester 
 
I mesi seguenti alla nostra partenza furono piuttosto duri; avevamo lasciato Liverpool alla cieca, senza un programma e solamente con qualche soldo in tasca. Passammo la nostra prima notte a Manchester alla stazione dei pullman perché non avevamo dove altro andare. Potevo vedere chiaramente nello sguardo di mia madre il rammarico per quella situazione. Fortunatamente trovammo presto una piccola stanza in affitto che potevamo permetterci senza troppi sacrifici. Non era un alloggio centrale,  si trovava in una piccola traversa appartata nel quartiere di Didsbury, a sud della città.

Se da una parte ero sollevata di non dover più sentire i litigi dei miei genitori, dall’altra non potevo che preoccuparmi  per entrambi; se la sarebbe cavata papà laggiù senza di noi? E mia madre, come avrebbe sperato di trovare in poco tempo un buon impiego che avesse potuto mantenere tutte e due?
Più volte mi proposi di trovare un lavoretto per contribuire, ma lei non ne volle sapere.

Così, quando finalmente le cose cominciarono ad andare per il verso giusto e mamma trovò piccoli lavori che occupavano la maggior parte del suo tempo, io mi ritrovai a passare le mie giornate da sola rinchiusa tra quattro mura. Nel frattempo trovammo un appartamento con cui rimpiazzare la stanza. Non era di certo il massimo, aveva solamente tre stanze, camera da letto, cucina e bagno, la carta da parati era ingiallita e c’era odore di vissuto, ma almeno stavolta avevo una finestra a cui affacciarmi. 

Essendo solamente fine agosto, non era ancora periodo scolastico ed io, di conseguenza, non avevo  avuto la possibilità di fare conoscenza con altri giovani. Le mie uniche amiche erano la carta e la penna. Io e Paul avevamo iniziato una corrispondenza postale già  dalla mia prima settimana a Manchester; gli avevo comunicato il mio indirizzo domandando notizie sul gruppo e ora, da quando mi aveva risposto la prima volta, arrivavano sue lettere regolarmente. Gli ero grata per quello che stava facendo , riusciva a farmi sentirmi vicino a loro pur essendo a chilometri di distanza. A volte ricevevo qualcosa anche da parte di George, che non mancava mai di ricordarmi quanto gli mancassi, ma mai nulla da John. Da una parte ne ero sollevata, perché non riuscivo proprio ad immaginare cosa avrei potuto trovare scritto in un suo eventuale messaggio. D'altronde c’eravamo salutati in maniera piuttosto brusca e, ripensare che avevo perso il mio migliore amico, faceva ancora parecchio male. Mentirei, però, se dicessi di non aver mai pensato a lui; non era passato giorno senza che io non ricordassi il suo viso sorridente , le sue battutine sarcastiche e la sua risata spensierata.

John mi mancava davvero tanto, e Paul doveva averlo capito perchè cercava sempre di evitare quell’argomento nelle sue lettere e, quelle rare volte che lo menzionava, riuscivo ad immaginarlo, lì seduto alla sua scrivania con la penna in mano, indeciso su cosa scrivere.
Dovevo davvero tanto a Paul, era come un’ancora per me. Mi aggrappavo a lui, a le sue lettere, mentre aspettavo che la situazione tornasse alla normalità.

 

*

 
Ottobre, Novembre 1958 - Manchester 
 
 
7 ottobre 1958, martedì. 

Caro Paul, 

comincio con l’avvertirti che questa sarà una lettera breve, spero tu non stia pensando che non mi va di scriverti ! La verità  è che insieme alla scuola sono cominciati anche i pomeriggi interi dedicati allo studio. Già, so di non essere mai stata un asso, ma quest’anno ho deciso di impegnarmi sul serio, non voglio che mia madre stia giù anche per i miei brutti voti, ha davvero già troppo a cui pensare. I risultati non sono eccellenti, ovviamente, ma posso dire di essere notevolmente migliorata. 
Sai, sto anche iniziato a stringere le prime amicizie e mi sento più sicura di me stessa. Forse sto davvero crescendo ! 
Le cose cominciano finalmente ad andare per il verso giusto. 
Ma ora raccontami di voi ! Avete trovato qualche buon ingaggio? State già cominciando a diventare miliardari? Ah, non vedo l’ora di poter dire di essere stata amica dei Quarrymen e scommetto che già dovete scacciare le ragazze a calci. 
Sbrigatevi a diventare famosi ! 
Vorrei tanto poter essere lì con voi, passare interi pomeriggi seduta sul divano di casa di George a sentirvi suonare. 
A proposito! Non ho più ricevuto sue notizie, come sta? Digli che lo saluto e gli mando un grande abbraccio.
Cerca di ritagliarti un po' di tempo per rispondermi fra una spasimante e l’altra ! 
 
 
PS: scrivendo la data ad inizio pagina mi sono resa conto che fra pochi giorni sarà il compleanno di John. Non dirgli nulla, era solamente una mia riflessione. 
 
Con affetto, Abbey.
 
 

*

 

 Dicembre 1958 - Manchester

Quando le nostre tasche iniziarono a permetterlo, cominciai ad uscire con i miei nuovi amici, quelli che avevo incontrato una volta iniziata scuola. Era bello tornare ad avere una vita sociale al di fuori della scuola; spesso ci incontravamo nei pub, e fu proprio in quel periodo che io cambiai. Mi resi conto che la bambina era sparita perché  guardandomi allo specchio vedevo una giovane donna, fiduciosa ed autonoma. Inoltre, al posto degli infantili boccoli scuri che prima cadevano ordinatamente fino a metà della schiena, adesso c’era un taglio  più corto e maturo. Ma la vera consapevolezza della mia crescita arrivò quando i ragazzi cominciarono ad interessarsi a me. C’e n’era uno particolarmente dolce, James, che aveva catturato la mia attenzione. Aveva due anni più di me ed un animo particolarmente ribelle. Portava un ciuffo alla Elvis, come quasi tutti a quell’epoca d’altronde. Odorava di libertà e di Marlboro. Fu lui che mi iniziò al vizio del fumo. 

 
Col passare dei giorni ci addentravamo sempre di più nel cuore dell’inverno. Le temperature cominciarono ad irrigidirsi parecchio e molto spesso grandi fiocchi ghiacciati scendevano dal cielo. Agli inizi di dicembre, presa com’ero da tutte quelle attenzioni maschili, non mi accorsi che Paul aveva smesso di spedire lettere.

Una sera realizzai che l’ultima risaliva ad ottobre, e da allora non avevo più avuto sue notizie. All’inizio mi preoccupai parecchio. "Potrebbe essere successo qualcosa di brutto. No, no, ma cosa mi passa per la testa? Certo, non può neanche essere che Paul abbia confuso l’indirizzo perché  l’ultima è arrivata senza problemi anche qui al nuovo appartamento. Forse dovrei scrivere io di nuovo e sentire se va tutto bene."

Passai all’incirca una settimana a controllare mattina e sera la cassetta della posta nella speranza di vedere spuntare fuori una piccola busta color avorio.
Poi pensai che doveva esserci stato un malinteso alla Royal Mail e magari uno dei grandi sacchi che portavano le lettere era andato smarrito.  
Alla fine , sotto suggerimento di mia madre, mi convinsi che i ragazzi avevano avuto molto da fare e quindi non avevano avuto tempo di rispondermi. 
Sperai che fosse veramente così. Una mattina poi, proprio pochi giorni prima della fine dell’anno, il postino imbucò qualcosa nella cassetta davanti il nostro piccolo appartamento. Mi precipitai fuori senza scarpe e con indosso solo la camicia da notte, sentii immediatamente il gelo del vialetto che mi addormentava le piante dei piedi. Frettolosamente aprii lo sportelletto e quando lessi sulla carta ruvida della busta da lettera il mio nome scritto in una calligrafia ordinata e precisa, tirai un grandissimo respiro di sollievo, sciogliendo finalmente  il nodo che avevo avuto in gola per tutti quei giorni.
 
 23 Dicembre 1958, lunedì. 
 
Carissima Abbey, 

scusami, scusami, scusami, scusami, scusami, scusami ! 
Lo so, ho aspettato una vita per risponderti, è imperdonabile! Spero solo tu non sia stata in pensiero!  Ti prometto che troverò il modo di rifarmi. 
Il gruppo ci sta assorbendo completamente, il giorno proviamo incessantemente e la notte, almeno io, non dormo perché penso sempre a nuovi versi da comporre. Musicalmente parlando, siamo sempre alla ricerca di un modo per migliorarci, sai, per alzare il nostro livello. Un nostro compagno ci ha parlato di questo tizio che conosce il SI 7, un accordo della chitarra. Noi conoscevamo il MI o il LA, che sono facili,  ma no il SI 7. Così l’altro giorno io e George siamo saliti sull’autobus, abbiamo attraversato la città, trovato il tizio e imparato l’accordo! 
Sono davvero eccitatissimo, sento che siamo sulla buona strada, ma penso dovrai aspettare ancora molto tempo prima di poterti vantare di noi ! 
Ora siamo anche alla disperata ricerca di un manager. Hey, per caso non è che ti andrebbe? 
Abbey, sono davvero contento per la tua nuova vita, ma non ti scordare di Liverpool. Sono già passati… cavolo, sono già passati quattro mesi da quando te ne sei andata. Ti deciderai a venirci a trovare prima o poi ?
Senti, vorrei parlarti di una questione piuttosto delicata ora. Immagino tu abbia già capito che c’entra John e so che non è proprio il tuo argomento preferito, ma non posso ignorarlo così. 
Voi due siete stati amici per tantissimo tempo, inseparabili. Vale davvero la pena rinunciare così a tutto quello che avete? 
Dal  tuo Post Scrittum nell’ultima lettera ho capito che stai tentando di rimuoverlo, come se non fosse mai esistito. Cerchi di controllare i tuoi pensieri e quando ti sorprendi a pensare a lui (e lo fai molto più spesso di quanto tu ammetta a te stessa) ti dici che è sbagliato. 
Lui, al contrario, cerca di trovare tutti i tuoi peggiori difetti, nel vano tentativo di convincersi che è stato meglio che tu sia partita. In pratica so per certo che sei disordinata e a volte russi pur non essendo mai entrato nella tua camera o aver dormito con te.  
Quello che sto cercando di dirti è che tutti quanti sappiamo che non siete fatti per stare lontani. Mi sto appellando a te perché tu sai quanto John sia testardo e orgoglioso, mai ammetterebbe che gli manchi. Quindi, ti prego, Abbey, almeno pensaci.  
Ok, fatto, il dente è tolto.  
George ringrazia, a proposito, e dice che al più presto dovrebbe arrivarti una sua cartolina. 
Per quanto riguarda le ragazze, mio Dio Abbey, non sai quanto hai ragione; da quando facciamo musica ci stanno attorno come farebbero dei cani su un osso. 
Lo adoriamo, tutti quanti. 
Ti abbraccio e garantisco che questa volta non aspetterò due mesi prima di risponderti. 
 
Sinceramente, Paul.
 

Qualche giorno più tardi ricevetti una cartolina tutta colorata con due funghetti dall’aria vispa disegnati sopra. La girai, vidi la calligrafia disordinata e confusionaria di George e non potei fare a meno di sorridere. Lessi quelle poche righe e pensai subito che fosse una cosa esattamente tipica di lui.
 
 
“Un fungo dice ad una funga: Spogliati!
  E lei: Porcino!
  In certe occasioni mi sento davvero un poeta!
  Ciao Abbey ! George. ”

 
 
 Da quel giorno in poi utilizzai sempre la cartolina di George come  mio segnalibro.
 
 

*


Gennaio 1959 - Manchester 
 
Accaddero parecchio cose interessanti da lì all’inizio del nuovo anno; innanzitutto c’è da dire che io e James diventammo una coppia proprio la sera del 31. Lui mi  aveva cercata tra la folla del pub a mezzanotte e teneramente mi aveva baciata. E quella già era una gran cosa, il mio primo vero ragazzo.
Inoltre, grazie ad una ricca ed anziana signora per cui aveva lavorato qualche tempo, mamma trovò un impiego davvero vantaggioso come badante che le permetteva di lavorare la metà ma avere il doppio della paga.  Così cominciammo a passare più tempo insieme e notai che la sua espressione, giorno dopo giorno, si andava rilassando sempre più.

Una mattina di gennaio, proprio una settimana prima del mio diciassettesimo compleanno, sentendo il postino scampanellare sulla sua bicicletta, uscii di casa per ritirare la risposta di Paul. "E’ stato veloce questa volta, non sono passate neanche due settimane."
Ma quando vidi la scritta “URGENTE” stampata sul retro  della busta con inchiostro rosso acceso, capii che era per mia madre, e non per me.
Ricordo ancora distintamente come il suo volto divenne improvvisamente bianco latte mentre scorreva le righe di quella lettera con occhi avidi.
In quel momento non ebbi il coraggio di chiederle cosa fosse successo, ma lei non aspettò una mia domanda e con un filo di voce esordì: "E’ tuo padre. Sta male, molto male." Per un secondo mi sentii quasi svenire. Però poi nella mia mente si fece spazio un pensiero, ed era lì, così vivido che martellava nella mia testa; sarei potuta tornare a Liverpool, li avrei rivisti. Tutti quanti, tutti.

John, il mio Johnny.

 



 
Eccoci qui :) Già, ho deciso di aggiornare qualche giorno in anticipo! 

Questo è principalmente un capitolo riassuntivo di quella che è stata la vita di Abbey lontana da Liverpool, dal prossimo entreremo nel vivo.
Volevo ringraziare di cuore tutti quelli che hanno cominciato la lettura di questa Fan Fiction, in particolare CheccaWeasley per averla aggiunta alle sue preferite, e malandrini _xs che invece la segue.
Se avete tempo, prendetevi qualche secondo per recensirmi, mi farebbe davvero molto piacere sapere cosa ne pensate :)
 
Un bacione!

Prossimo aggiornamento 21 Agosto


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Yesterday. ***


3. Yesterday

"Why she had to go? 
I don't know, she wouldn't say 
I said something wrong 
now I long for yesterday"


Gennaio 1959 ─ Liverpool

Non ci si impiega molto a percorrere le quarantatré miglia che separano Manchester da Liverpool, ma quel giorno sembravamo non arrivare mai.
Il costante sobbalzare del pullman mi tenne sveglia per tutto il tragitto e non riuscii a trovare nulla che mi impedisse di pensare; la mia mente volava a papà, lì a Liverpool.
Ero sicura che le persone accanto a me potessero udire il rumore del mio cervello che ragionava incessantemente.
Mi sentivo terribilmente frustrata da quella situazione, mamma aveva caricato un peso notevole sulle mie spalle mandandomi a tenere d’occhio mio padre, ma da una parte ero davvero contenta di aver trovato un pretesto per tornare in quella città.
Il sole aveva appena iniziato a tramontare, il cielo cominciava ad assumere una tonalità arancione riscaldando il freddo paesaggio delle campagne inglesi. Guardai l’orologio, segnava le otto e trentasette della sera. Sospirai, constatando che saremmo dovuti essere già arrivati da una mezz’ora.
Dal sedile accanto al mio proveniva un russare sommesso; era così dall’inizio del viaggio. Mi voltai e vidi James poggiare delicatamente la testa sulla mia spalla. Aveva i capelli neri tutti scompigliati dal sonno.
Già.
James stava venendo a Liverpool insieme a me.
Non potendo lasciare il suo nuovo impiego, mamma aveva insistito tanto perché qualcuno mi accompagnasse. Lo avevo proposto quasi per scherzo, ero sicura che mai mi avrebbe permesso di partire con quel ragazzo. Non potevo credere alle mie orecchie quando, invece, acconsentì entusiasta dicendo che si sentiva più sicura sapendolo accanto a me durante il viaggio. Non indagai oltre.
Sarebbe rimasto solamente per tre giorni, però, e ripreso l’autobus il lunedì. Non andava a scuola, non più ormai, ma aveva un piccolo lavoro che gli permetteva di pagarsi l’appartamento dove era andato a vivere da quando non stava più in casa con i suoi, e non voleva rischiare di perderlo.
Per quanto riguarda me, non sapevo ancora quanto mi sarei trattenuta. La scuola era appena iniziata, stava andando anche piuttosto bene, ma non me la sentivo di lasciare papà da solo in quelle condizioni, e mamma era d’accordo con me.
Troppo immersa nei miei pensieri per accorgermi che eravamo entrati in città, fissavo rapita il poggiatesta di fronte a me. Capii solamente quando il pullman cominciò a rallentare. Non appena ci fermammo del tutto, le porte si aprirono con un cigolio e io svegliai James scuotendolo piano.
L’aria gelida e l’odore di salsedine mi travolsero appena scesa dal bus. Inspirai a fondo in modo da trattenere il più a lungo possibile quella sensazione. Sorrisi.
Ero tornata a casa.                         
                                     

 

«Abbey, manca ancora molto?»
 
Il tono di James era spazientito, si era lamentato almeno cinque volte negli ultimi due minuti. Lo guardavo mentre trascinava faticosamente sulle spalle un vecchio borsone marrone, tutto lacero. Una delle due impugnature rimaneva attaccata al resto della borsa solamente grazie a qualche filo.
 
«Ci siamo quasi, tra pochissimo arriviamo.»
 
«Hai detto lo stesso anche prima.»
 
«Questa volta però è vero.»
 
Non lo era, ma volevo che stesse zitto.
La stazione non era proprio vicinissima a casa mia, quattro o cinque fermate di bus, ma io avevo voglia di fare una passeggiata, di ammirare tutta Liverpool come se fosse la prima volta.
 
In strada non c’era nessuno, camminavo al centro della carreggiata con il vento che sfiorava il mio viso, James era poco più dietro che sbuffava stizzito. Non capivo davvero il suo atteggiamento.
 
Sentivo la musica uscire attutita dai pub, c’erano grandi insegne luminose a destra e sinistra della strada.
 
Stavo per girarmi ed indicare a James uno dei bar che frequentavo più spesso, lo Ye Cracke, proprio qualche metro davanti a noi, ma il mio sguardo si posò sulla coppia avvinghiata proprio davanti l’ingresso del locale. Lei, con le spalle al muro, rideva compiaciuta dei baci che stava ricevendo.
 
Arrossii, guardando altrove imbarazzata, ma proprio in quel momento riconobbi la folta e scompigliata chioma castana che sovrastava la ragazza con tanta passione.
 
Oh, merda. 
 
Sentii un’improvvisa stretta allo stomaco.
Il primo istinto fu quello di fare dietrofront, ma mi bloccai non appena vidi la confusione dipinta sul volto di James.
 
«C’è qualche problema?»
 
«No. Proseguiamo?» 
 
Nella mia voce si percepiva chiaramente che c’era qualcosa che mi turbava.
James si avvicinò a me, mi accarezzò una guancia e mi cinse la vita con la mano che non era impegnata con il borsone. Sorrisi, poco convinta.
 
Appena ricominciammo a camminare, i due si staccarono dal muro e, sempre troppo appiccicati, si mossero nella la nostra direzione. Sperai con tutta me stessa che, presi com’erano l’uno dall’altra, non ci vedessero, ma una manciata di secondi dopo, ecco che i nostri sguardi si incrociarono.
Buffo, percepii una sensazione familiare tuffandomi in quei fantastici occhi color nocciola.
Quando realizzò di avermi davanti, il suo sorriso scomparve. Mi imposi di rimanere calma mentre John si dirigeva a passo deciso, con un’espressione salda e fredda, verso di noi.
Non volevo essere io la prima ad interrompere quell’occhiata, ma sapevo che nemmeno lui avrebbe ceduto, quindi tenni duro e riversai quanta più ostilità mi fosse possibile. Immagino che però alla fine  non avessi sortito l’effetto sperato.
«Abbey. Hai cambiato pettinatura?»
Il suo tono spavaldo sfociava quasi nell’arroganza.
Vidi i suoi occhi abbassarsi sempre di più ed indugiare sulla mia scollatura. Non sapevo se esserne infastidita oppure lusingata.
Mi incantai a guardarlo anche io. Scrutavo ogni angolo del suo volto. Per un attimo la mia maschera da dura cadde inesorabilmente.
Era cambiato così tanto in quei pochi mesi che ero stata via! I capelli erano decisamente  più lunghi, e più spettinati, ma immaginai che quello fosse dovuto al fatto che fosse in dolce compagnia. Quello però che più mi colpì fu la sua espressione; non c’era più il bambino che tanti anni prima mi aveva invitato a giocare con lui. Era sparito. All’inizio pensai fosse davvero un peccato, finché non vidi l’uomo che era diventato.
«Ciao, io sono Cynthia.»
La ragazza di John fece un passo verso di me, ed io la guardai per la prima volta.
Era bellissima, il volto simpatico e gentile, portava un caschetto biondo ed un nastrino nero le teneva ferma la frangia. I suoi occhi erano intensi, capii immediatamente la ragione per cui John la trovava attraente.  
«Abbey», le dissi sorridendo.
James era visibilmente a disagio, ma, con un colpetto di tosse, si sporse ugualmente in avanti per presentarsi. Lo vidi fare una smorfia di dolore mentre stringeva la mano di John, ma si riprese subito.
«Voi vi conoscete… ?», domandò Cynthia per spezzare il silenzio carico di imbarazzo che si stava creando.
«Di sfuggita.»
John passò un braccio attorno al collo della ragazza attirandola a sé. La sua risposta mi lasciò di stucco; era fredda, distaccata. Guardava altrove.
«Esattamente. Di sfuggita
Istintivamente presi la mano del mio ragazzo ed incrociai le mie dita alle sue. Perché l’avevo fatto? Per caso cercavo di farlo ingelosire? E di cosa avrebbe dovuto essere geloso?
«Scusateci, mi tratterrei volentieri a parlare con voi, ma adesso dobbiamo proprio andare, non è vero James?»
«Si, noi… abbiamo parecchio da fare.»
«E… John?»
Lo guardai dritta negli occhi. Tutte le volte che avevo sentito la sua mancanza, pensato a lui, svanirono in un istante. Era rude, arrogante e presuntuoso. Non capivo il suo gioco, ma tanto valeva ripagarlo con la stessa moneta.
«Dì a Paul e George che sono tornata, e che ho sentito molto la loro mancanza.»
Non rispose, si limitò ad alzare le sopracciglia e a stringere le labbra. La sua mascella si contrasse.
«Immagino che ci rivedremo in giro.»
Salutai calorosamente Cynthia che, nonostante tutto, avevo preso in simpatia. Prima di dividerci lei ci invitò ad unirsi a loro quella sera al Cavern. Non avrei voluto rifiutare, ma non potevo lasciare mio padre appena tornata a casa. Le dissi che ci avrei pensato e che magari un giorno, prima che James ripartisse, avremmo fatto un salto. Dopotutto mi serviva un po’ di sano divertimento.
James capì subito che c’era qualcosa che non gli avevo raccontato su John, e forse fu proprio la mia ostinatezza al silenzio che fece sorgere in lui un enorme dubbio sul passato mio e di quel ragazzo tanto sgarbato e strafottente. Si era fatto un’idea completamente sbagliata di noi due. Da quel momento in poi cominciò a comportarsi in modo strano, palesemente infastidito dalla sua sola presenza.
 
Arrivammo a casa pochi minuti dopo, durante in quali nessuno parlò.
Il sole era ormai completamente sparito e Liverpool si preparava alla notte. Cominciavano ad accendersi i primi lampioni e gli uomini tornavano dalle loro famiglie dopo una pesante giornata di lavoro. Dalle finestre aperte dei soggiorni provenivano le febbricitanti note delle canzoni di Elvis.
Aprii la porta con la chiave di riserva che mi aveva dato mia madre prima di partire.
Il salotto era buio, la cucina era buia, e c’era silenzio. Come se nessuno fosse in casa.
«Papà?»
Catturai la luce di una piccola fiammella che si spostava nell’oscurità della stanza.
«Sono qui.»
Accesi la luce e vidi mio padre seduto in poltrona con una sigaretta mezza consumata in bocca. Tutto attorno una spessa nuvola di fumo. Sul bracciolo c’erano un bicchiere di whiskey ed un posacenere. Lo rimproverai; sapeva che non avrebbe dovuto toccare nemmeno una goccia d’alcool.
Mi avvicinai per salutarlo, e lui mi abbracciò intensamente. I suoi occhi si riempirono di lacrime, arrossandosi. A causa della malattia la sua pelle era diventata diafana, tanto che dal dorso della mano spuntavano grosse vene violacee.
Non appena notò James si ricompose e fece un tiro, buttando fuori dal naso.
«Lui sarebbe?»
«Papà, ti presento James,»
Andò da lui per tendergli la mano.
«il mio ragazzo.»
Lo sguardo di mio padre si accese a quelle parole, si girò lentamente verso di me e fece un sorrisino tirato.
«Bhe, scommetto che starà davvero comodo sul divano.»

 

Subito dopo cena salii in camera per sistemare le poche cose che mi ero portata da Manchester; giusto qualche vestito, un paio di libri e dei pacchetti di sigarette. Ne presi una e la accesi. L’aroma aspro ed amaro del tabacco mi rilassò immediatamente.
Bussarono. Abituata com’ero a non farmi scoprire da mia madre, gettai la sigaretta a terra e  ci passai sopra una scarpa.
«Si?»
«Posso?»
James entrò e si richiuse la porta alle spalle. Venne verso di me, il suo petto contro la mia schiena. Mi diede un lieve bacio sul collo e si andò a buttare sul letto, incrociando le braccia dietro la testa.
«Stavi fumando?»
Guardai la moquette, leggermente annerita nel punto dove la cenere si era spenta. Arrossii, sentendomi una sciocca.
«Allora, che si fa stasera?», mi disse con entusiasmo, cambiando argomento.
«Che intendi?»
«Ci sono un sacco di locali qui vicino. Magari possiamo andarci. Sai, beviamo, ci divertiamo…»
Lo guardai strabuzzando gli occhi. Non potevo credere che fosse davvero tanto immaturo.
«Spero tu stia scherzando.»
«Non vedo il problema.»
Non mi degnava neanche di uno sguardo; se ne stava lì sdraiato a fissare il soffitto.
«James, sapevi che sarei venuta qui per tenere d’occhio mio padre e non per farmi una vacanza. Qualche volta potremmo anche uscire, ma sinceramente cosa ti aspettavi? Tutte le sere?»
«A dire la verità, si.»
Avevo la risposta proprio sulla punta della lingua, quando sentii di nuovo bussare alla porta.
Sbuffai ed andai ad aprire scoccando un’ultima furibonda occhiata a James.
«Papà, ti avevo detto di non fare le scale…»
Ma gli intensi occhi verdi che vidi, di certo, non appartenevano a mio padre. Davanti a me un ragazzo alto, i capelli ordinati e con una camicia a quadri. I primi tre bottoni non erano allacciati.
«Abbey!»
Paul mi sollevò, mi fece fare qualche rapido giro in aria e quando fui di nuovo con i piedi per terra, mi stritolò in un abbraccio fortissimo. Risi di cuore, come mai negli ultimi mesi.
«Cosa ci fai qui?»
«Volevo vederti il prima possibile!»
Il letto cigolò e James venne verso di noi a passo svelto. Mi strappò dalle braccia di Paul e mi attirò a sé. Sorrise con aria strafottente.
«Io sono James, il suo ragazzo
Paul, che fino a quel momento non sembrava aver notato la sua presenza, si bloccò di colpo, fissandolo. Poi guardò me, come in cerca di una conferma. Io non dissi nulla, mi limitai a restituirgli lo sguardo. Mi ricordai improvvisamente di non averlo mai menzionato nelle mie lettere.
«Ehm, piacere, Paul.»
Si grattò la testa ed imbarazzato si rivolse di nuovo a me.
«Mi avevi detto che saresti tornata, ma non immaginavo così presto.»
«Devo stare con mio padre, quindi...»
«Si, si ho saputo. Mi spiace.»
«Non preoccuparti, sta meglio ora.»
«Si. Mi ha aperto lui e… sono contento.»
Lo guardai abbassare lo sguardo sul pavimento. Notò il mozzicone di sigaretta proprio accanto al mio piede e si fece sfuggire un sorriso. Avrei voluto abbracciarlo, parlare con lui come avevamo fatto nei mesi precedenti; io gli avrei raccontato di nuovo della mia vita, e lui dei progressi dei Quarrymen. Gli avrei voluto chiedere delle ragazze e sentirlo parlare per ore, ma il fatto che James fosse li, in un certo senso, me lo impediva. Non volevo che pensasse che ci fosse qualcosa che gli tenevo nascosto, ma potevo leggere chiaramente il dubbio sul suo volto.
Non ero pentita di averlo portato con me a Liverpool. Oppure si?
«Immagino tu abbia parlato con John.»
«Già.»
Ero consapevole che Paul non sapesse come gestire al meglio l’argomento. Da una parte avrebbe voluto chiedermi come mi ero sentita nel rivederlo, dall’altra non voleva costringermi a parlare di qualcosa che, sapeva, mi faceva male.
Avrei voluto dirgli “ Mi ha trattata una merda, sai? “ , ma sapevo che James si sarebbe risentito e avrebbe cominciato a comportarsi in modo ancora più strano. Così decisi di rinviare la conversazione a quando saremmo stati solo noi due.
L’aria si stava facendo piena di imbarazzo, soprattutto per Paul, che aveva dovuto sorbirsi lo sguardo fisso di James per tutto quel tempo. Forse era meglio finirla lì, per il suo bene. Non volevo che si sentisse a disagio per colpa mia.
«Paul, ti ringrazio di essere passato, ma adesso sono davvero molto stanca.»
«Oh, si, scusami. Non sarei potuto rimanere a lungo, comunque; sono sgattaiolato via dalla finestra e non manca molto prima che papà si accorga che non ci sono più.»
Ignorando la sua presa, mi staccai dal mio ragazzo ed andai ad abbracciare Paul, che si zittì immediatamente. Non osò stringermi di nuovo sotto la vigile sorveglianza di James.
Era stato davvero un gesto carino farmi visita!
Lo strinsi forte. Sentii il suo odore, così familiare; tabacco e dopobarba.
«Ci vediamo domani, così parliamo per bene. Okay? Mi siete mancati tanto.»
«Certo. Notte, Abbey. Ehm, ciao James.» Fece un cenno con la mano e se ne andò.
Sentii i gradini delle scale scricchiolare sotto il peso di Paul. Rimasi in ascolto finché la porta che da sul giardino non si richiuse.
«Ho una domanda,»
Il tono di James era ironico, come se volesse sfidarmi.
«tutti i tuoi amici vengono in camera tua a  quest’ora della notte? Devo aspettarmi anche qualche altra sorpresa?»
«Piantala, è solo venuto a salutarmi.»
«Sicuro. Peccato che è chiaro come il sole che ti si vorrebbe fare.»
«Buonanotte, James.» dissi e gli passai un cuscino con una coperta. Ero ancora risentita per la piccola discussione che avevamo avuto poco prima a proposito dell’uscire la sera, ma l’aver rivisto Paul mi aveva risolleva e non ero dell’umore adatto per continuare la conversazione.
«Lascia perdere. Buonanotte, Abbey.» 





 
 
Ed eccomi ancora qui ad aggiornare con un nuovo capitolo :)
Siamo entrati ufficialmente nel pieno della storia, ora! 
 
Ci tenevo a ringraziare di cuore tutti quelli che hanno iniziato la lettura della mia storia, in particolar modo Miss_Riddle Starkey che la segue, ma anche sbriashi eI_me_mine che mi hanno lasciato delle fantastiche recensioni! Grazie mille a tutte, ragazze :')
 
Spero continuerete a seguirmi, e come sempre, se avete un po' di tempo sarei contenta se mi faceste sapere cosa ne pensate attraverso un piccolo commento (:
 
Vi mando un grandissimo abbraccio!
 
Prossimo aggiornamento 25 Agosto.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** For no one. ***


4. For no one

"She says that long ago
she knew someone
but now he's gone
She doesn't need him"


 
Gennaio 1959 ─ Liverpool

«Papà, il medico ha detto che non devi bere, altrimenti le tue condizioni peggioreranno.»

Passai tutta la mattina a ripeterglielo, ma lui mi liquidava dicendomi che un goccetto era proprio quello che gli serviva per rilassare i nervi.
Era solamente il giorno dopo il nostro arrivo, e già avevo i capelli dritti per lo stress. In più ci si metteva anche James che “si annoiava” e sbuffava tutto il tempo. In meno di mezza giornata avevo quasi finito un intero pacchetto di sigarette.
Forse aveva ragione lui, forse saremmo dovuti uscire un po’, per svagarci. Non che non fossi più preoccupata per mio padre, anzi.
Pensai che avrei potuto nascondere tutte le bottiglie di whiskey prima di uscire, così durante la mia assenza non avrebbe bevuto e io sarei stata più tranquilla.

Subito dopo pranzo, mentre mio padre e James terminavano di mangiare, io mi ero ritirata in camera con una scusa. Avevo frugato un po’ nella mia borsa e trovato la piccola scatola rossa nascosta in una delle tasche interne. Mi ero poi sdraiata sul letto e acceso la Marlboro con uno schiocco dell’accendino.
Proprio mentre aspiravo l’ultimo tiro, la porta si aprì e James entrò serio.
Si fece un po’ di spazio nel letto e si sdraiò accanto a me, senza dire nulla. Prese il mozzicone dalle mie mani e lo gettò in direzione della scrivania, cadde a terra poco prima di raggiungerla.
Quando si voltò di nuovo verso di me, il suo petto contro il mio, mi avvicinò a lui afferrandomi per il bacino. Le sue dita si muovevano sicure, avide, sulla mia coscia.
Iniziò a baciarmi il collo, dolcemente, ed io chiusi gli occhi lasciandoglielo fare.
Quando le nostre labbra si incontrarono, sentii una passione crescente insinuarsi in lui.
Il ritmo dei baci aumentò ed il suo cuore iniziò a volare all’impazzata.
 Le nostre gambe erano intrecciate mentre io gli sfioravo lentamente i capelli, accarezzando ogni singola ciocca.

In quell’istante nella mia mente apparve un’immagine, ed era così nitida e piacevole che mi abbandonai completamente ad essa senza pensarci troppo; a cingermi erano delle braccia atletiche, forti, dalla carnagione chiara.  Sul pavimento c’erano una maglietta bianca tutta stropicciata ed un paio di grandi occhiali da vista. I bellissimi occhi affusolati di John mi guardavano ed io mi sentii immediatamente pervasa dal desiderio…
Spalancai gli occhi non appena mi resi conto. ‘ Ma che diavolo… ? ’

Mi alzai bruscamente dal letto, giusto un attimo prima che James riuscisse a slacciare il secondo bottone della mia camicetta.
Farfugliò qualcosa di incomprensibile, aveva il fiatone e stava appena ricominciando a respirare. Dalla sua espressione corrucciata, però, riuscii a cogliere un velo di sdegno.
Passai il dorso della mano sulla fronte, per asciugare le goccioline di sudore che mi inumidivano la pelle.

«James, non possiamo. Io non credo che…»

Si morse un labbro, soppesando accuratamente le parole. Inspirò profondamente riprendendo fiato.

«Non venirmi a dire che non ti senti pronta, non mi dire una cazzata del genere. Non sei più una ragazzina, Abbey.»

Aveva ragione, non lo ero più. Allora cos’era che mi impediva di avere una relazione vera a tutti gli effetti? Poi mi tornò alla mente la fantasia di poco prima ed arrossii visibilmente. Immagino che James abbia pensato fosse a causa sua.

«Non ho intenzione di tornare sull’argomento. Non qui, non ora.»

«Avanti; stiamo insieme già da un po’, in un certo senso me lo devi.»
Glielo dovevo? 

Lo guardai indignata, arrabbiata. Gli consigliai di farsi una bella doccia fredda per spegnere i bollori e, uscendo, chiusi violentemente la porta alle mie spalle.
Afferrai una manciata di spiccioli, che nemmeno contai, dalla giacca di papà in salotto, e me ne andai dicendo di aver finito le sigarette.

 

Corsi per arrivare il più in fretta possibile; il freddo pungente mi stava intorpidendo la gola. Alzai il colletto della giacca fino alle orecchie maledicendomi per non aver indossato una sciarpa. I miei muscoli si sciolsero pian piano quando respirai l’aria calda della tabaccheria.

Il negozio era pressoché vuoto; oltre me c’era solamente un ragazzo, non molto alto, anche piuttosto minuto, con capelli scuri e lineamenti decisi. Indossava una giacca di pelle. Era davvero bellissimo e la sua aria tenebrosa contribuiva a renderlo ancora più attraente. Se ne stava un po’ in disparte, a sfogliare delle riviste con ragazze semi nude in copertina.

Porgendo i pochi spiccioli che ero riuscita a rimediare, chiesi la marca di sigarette più economica che avessero. L’uomo dietro il bancone mi diede in cambio un piccolo pacchetto giallo. Non avevano un nome conosciuto, non lo avevo mai sentito, ma contenevano pur sempre del tabacco ed io avevo un disperato bisogno di rilassarmi. Lo scartai immediatamente.

Una volta fuori, mi accorsi che c’era un gruppo di ragazzi che, seduti sul marciapiede proprio sotto la fermata dell’autobus, ridevano di gusto, spensierati. Per un attimo provai una certa invidia verso di loro, poi mi resi conto era venuto il momento che anche io cominciassi a vivere la mia vita senza sentirmi obbligata da nessuno.
Mi tornò alla mente l’invito di Cynthia del giorno precedente. Improvvisamente mi sentii frenetica ed entusiasta all’idea di passare la serata insieme a tutti i miei amici, proprio come facevo solamente qualche mese prima. Avremmo chiacchierato, bevuto, ci saremmo divertiti. Incredibile come  tutto fosse cambiato, ma allo stesso tempo rimasto sempre lo stesso.

Sorrisi. Sarebbe stata una serata indimenticabile.

 


Dopo aver raccomandato a mio padre di non toccare la bottiglia di whiskey, e dopo aver fatto finta di credere che non l’avrebbe fatto, ci incamminammo verso il Cavern, più o meno verso le dieci. Volevo essere sicura di trovare già tutti lì. Durante il tragitto né James, né tantomeno io, proferimmo parola.

In strada c’era un via vai continuo di ragazze e ragazzi ubriachi. Ormai non ci facevo più caso; era la normalità per chi frequentava la Liverpool notturna.
Quella sera faceva molto freddo e il cielo, plumbeo e coperto, minacciava pioggia. Il vento sapeva di umidità.

Lo sbalzo di temperatura che c’era fra l’esterno e l’interno del locale era pazzesco; il Cavern era questo pub ricavato all’interno di una specie di rifugio antibellico. Benché fosse uno spazio piuttosto ristretto, ogni sera centinaia di ragazzi si ammassavano lì sotto per sentire musica e bere birra. Quando si entrava, si veniva assaliti, oltre che dal consueto odore di sudore e ormoni, anche dalla densa coltre di fumo che ormai impregnava l’aria. Gli occhi bruciavano, ma presto si sarebbero abituati anche loro a quell’atmosfera. 

Cercai con lo sguardo attraverso la folla, non sarebbe stato facile individuare il nostro gruppo lì in mezzo. Con i gomiti tentai di aprirmi un varco in mezzo a tutte quelle persone, ma il risultato fu che venni solamente scaraventata a destra e a sinistra, inerme. Improvvisamente James mi prese la mano e cominciò a guidarmi verso il bancone del bar. Incredibile come riuscisse a passare tra tutta quella gente senza nemmeno sforzarsi. Con quel gesto riuscì quasi a farmi sentire in colpa per come lo avevo trattato il pomeriggio.


«Ma guarda chi si rivede!» mi bloccò un ragazzo dai capelli scuri, ribelli, tutti tirati indietro. Riconobbi immediatamente la sua voce acuta, leggermente nasale, ma molto tenera.

«George! Oh, Georgie quanto mi sei mancato!»

«Sono il tuo preferito, ovvio che ti sono mancato!»

Lo trascinai fuori dalla marea di persone insieme a noi, e quando fummo in un punto dove si riusciva a respirare liberamente, lo abbracciai talmente forte da fargli male alle costole.
A quanto pare James non sentiva quel ragazzo come una minaccia, quindi lo lasciò fare; addirittura gli sorrise presentandosi.

«Ragazzi! Ragazzi, venite qui!»

George urlava a squarciagola nel tentativo di attirare l’attenzione dei suoi amici. Se ne stavano proprio sotto il palco, la musica era assordante, e dubitavo che sarebbero riusciti a sentirlo sopra tutta quella confusione. Cominciò persino a sbracciarsi.
Fortunatamente ci notò Cynthia che, staccandosi da John, ci indicò dicendo agli altri di raggiungerci.

«Avanti ragazzi! Festeggiamo, offro io!» disse George quando i ragazzi furono abbastanza vicini da poterlo sentire. Il suo entusiasmo mi fece sorridere. Era davvero incredibile.

«Come no, Harrison! Tanto alla fine si sa che sono sempre io quello poi deve rimediare alle tue tasche bucate!»

Quella voce suonò terribilmente affascinante alle mie orecchie, risvegliando immagini che sarebbero dovute rimanere sepolte nella mia testa. Cercai di cacciarle via, di concentrarmi su qualcos’altro. Ringraziai che il buio del Cavern potesse nascondere la porpora che mi colorava le guance.

«Smettila di rinfacciamelo, Lennon, è successo solo una volta! Allora… ci ubriachiamo per bene?»

George passò il suo braccio intorno al mio collo e mi cinse le spalle.
Risi di cuore, dandogli una piccola spinta. Nel frattempo si unirono a noi anche Paul e Colin Hanton, che si staccarono a forza dalle loro ammiratrici. Mi avevano raccontato di come tutte le ragazze di Liverpool cadessero ai loro piedi ma, conoscendo l’ego sproporzionato di McCartney, immaginai stesse gonfiando la situazione; cavolo, erano davvero letteralmente circondati da ragazze.

«Abbey! Siete venuti alla fine.» Capii che si doveva sentire sotto pressione, soppesava accuratamente ogni parola così da non poter essere frainteso in alcun modo dal mio ragazzo.

«Già, Sono sorpreso James! Immaginavo aveste di meglio da fare, capisci che intendo?»

Gli fece l’occhiolino e poi si voltò verso di me, mi scoccò un’occhiata seria, squadrandomi dall’alto in basso.
John trovava sempre qualcosa di sconveniente da dire, era fatto così e normalmente non ci avrei nemmeno fatto caso, ma quella sera aveva colto nel vivo.
La mascella si James si contrasse ed io abbassai lo sguardo, in attesa. Sapevo che non avrebbe aspettato un secondo di più per replicare. Era in arrivo una tempesta.
Avrei voluto solamente godermi una serata spensierata e in allegria…

«Chi diavolo sei tu per ficcare il naso dove non ti riguarda?»

«Uh, cerchi di proteggere la tua donzella. Molto galante, davvero, ma dubito che riuscirai nel tuo intento di renderti un eroe ai suoi occhi, amico.»

«Non sono tuo amico.» sputò fuori le parole come se fossero veleno. Non lo avevo mai visto comportarsi in quel modo, il ragazzo che avevo conosciuto, che mi aveva corteggiata, se n’era andato.
Sul nostro piccolo gruppo cadde un silenzio raggelante; eravamo in mezzo a centinaia di persone che urlavano, si scatenavano, eppure non volava una mosca. Credo che non fossi l’unica, in quell’istante, a fissare il pavimento.

«Andiamo, John stava solo scherzando, lui non …» Paul tentò di rimediare al danno che aveva causato il pessimo carattere, e tempismo, dell’amico, ma non fece che peggiorare la situazione.

«Fottiti, piccoletto.»

Mi staccai da James, che aveva ribadito la sua proprietà cingendomi i fianchi, e lo guardai fisso negli occhi.
«Ma cosa ti prende, eh? La vuoi piantare?»

«Tu stai zitta, è tutta tua la colpa.»

Il mio cuore mancò un battito; no, non qui, non davanti i miei amici. La rabbia cresceva dentro di me, la sentivo salire, stavo per esplodere, e tutto quello a cui riuscii a pensare era che non dovevo assolutamente fare una scenata.
Ripresi fiato, ma l’aria che arrivò non fu abbastanza.

«Vado a fumare.»

Corsi velocemente fuori dal Cavern, sbattendo contro tutte le persone sudate ed appiccicaticce che mi trovai davanti.

Il vento gelido mi colpì proprio come avrebbe fatto uno schiaffo, ma riuscivo a respirare di nuovo. In un secondo la sigaretta era già accesa. Feci un tiro e il fumo scese amaro fino ai polmoni, calmando il ritmo frenetico dei miei battiti. Chiusi gli occhi, poggiando la testa al muro.
Sentendo le porte del locale spalancarsi con un cigolio, mi ripromisi che non avrei perso la calma con James, che non lo avrei attaccato, ma solo mandato cortesemente afanculo.

«Non dovresti fumare, sai?» disse John estraendo una Marlboro dal pacchetto rosso e mettendosela fra le labbra. L’accendino face solo scintille. Provò una, due, tre volte, ma il suo Zippo non pareva voler collaborare. Senza dire nulla, prese il mio sfilandomelo dalla mano. Con un gesto naturale coprì la fiammella viva per evitare che una folata la spegnesse, e la avvicinò alla sigaretta. Il tabacco si incendiò, rilasciando piccole nuvole di fumo tutto intorno. Si accostò al muro accanto a me.

«Che cosa vuoi, Lennon?»
«Devo per forza volere qualcosa?»

Lo guardai, senza dire nulla. Realizzai quanto mi fosse mancato quel ragazzo negli ultimi mesi; potevo negarlo, potevo convincermi che lo detestavo e ripetermi che aveva un pessimo carattere, ma sapevo che era tutto assolutamente inutile.

«Mi dispiace, tu non c’entravi nulla lì dentro.» mi disse e con un gesto fluido fece un tiro dalla sua sigaretta. Portò la testa indietro, facendo uscire il fumo dalla bocca.

«Perché me lo stai dicendo?»
«Bhè, perchè capisco che il tuo ragazzo si comporti da cazzone con me, ma non si deve azzardare  a dire nulla a te

Mi spiazzò.

«Cos’era, allora?»
«Cos’era, cosa
«Ieri, quando hai detto che ci conoscevamo ‘di sfuggita’.»

Increspò le labbra e si grattò la nuca.

«Immagino fosse delusione, rabbia e un po’ di risentimento. E poi sai che non ce la faccio a stare una giornata intera senza mai comportarmi da coglione, quindi…»
Per qualche istante nessuno dei due parlò, ma era un silenzio carico di significato.
Gettai il mozzicone a terra, senza preoccuparmi di spegnerlo, ci avrebbe pensato la pioggia che di li a poco sarebbe caduta battente.
John si staccò dal muro e si mise davanti a me. Quando capì che non avevo intenzione di guardarlo, mi diede una piccola pacca sulla spalla, per incoraggiarmi. I suoi occhi nocciola, illuminati dalle insegne al neon dei locali, brillavano in maniera spettacolare.

«Te ne sei andata, così.»
«Tu...» Non sapevo bene cosa avrei voluto dirgli, c’erano talmente tante cose e nella mia testa regnava la confusione più assoluta.

Lo abbracciai senza parlare, e presto anche lui cominciò a cingermi forte. Avevo ritrovato quel profumo tanto familiare, quel calore che dal suo petto mi avvolgeva e mi faceva stare bene, avevo ritrovato il mio Johnny. Risi, cercando di stringerlo il più possibile. Riuscì a farmi dimenticare, anche solo per qualche istante, tutta quella situazione.
Quando ci staccammo,  mi accorsi che il suo volto era solamente a pochi centimetri dal mio. Riuscivo a sentire il suo respiro sulle mie labbra. Sorrideva, non so bene perché. Penso che abbia sentito distintamente il mio battito accelerare, ma non me ne preoccupai.

La porta del locale sbatté violentemente, James uscì sudato e con un’espressione furibonda. 
Io e John sobbalzammo. I vetri dell’ingresso continuavano a tremare.
Ci guardò digrignando i denti e giuro che riuscii a sentire anche lo stridio.

«Abbey, andiamo. Sempre se non siete troppo occupati
Avevo paura che se avessi parlato, dalla mia bocca sarebbero uscite solamente parole poco decenti, quindi salutai John sfiorandogli il braccio e mi allontanai insieme a James, verso casa.

Camminammo per un quarto d’ora, non parlammo. Io pensai a tutte le cose che avrei voluto urlargli una volta rimasti soli, a come mi aveva fatto sentire. Ero furibonda, così talmente arrabbiata che quando arrivò il momento… non dissi nulla.
Il giardino di casa mia era buio, c’era solamente la flebile luce giallastra che illuminava la porta bianca in maniera totalmente innaturale.
Rimasi in silenzio, ad ascoltare James mentre sfogava la sua frustrazione su di me.

Non sopportava il fatto di dovermi condividere con tutti quei Teddy Boy, non voleva dover essere costantemente preoccupato per la mia fedeltà.
Questo mi dimostrò quanto poco mi conoscesse e quanto poco, in realtà, io conoscessi lui. Capii d’un tratto come mai quel pomeriggio avesse insistito così tanto per fare l’amore con me; cercava una scusa per trattenermi a sé, convinto che, una volta stati a letto insieme, io non sarei corsa fra le braccia di Paul, o John.
Provai quasi un senso di disgusto; mi riteneva davvero capace di una cosa simile?

Tutte le mie convinzioni su di lui caddero. Mi resi conto di non aver più bisogno di quel ragazzo.

Continuava a parlare, senza sosta. Forse mi stava insultando, non mi importava. Lo guardavo, senza in realtà vedere nulla.

Ad un certo punto, sentii un rumore sordo seguito da uno scricchiolio. James si ritrovò a terra, e si copriva il viso urlando ancora più forte di prima. Riuscii a distinguere fra le sue dita un rivolo di sangue che colava fino al gomito.
Mi ci volle un po' di tempo per realizzare che era stato colpito.
Qualcuno mi afferrò per le spalle, spostandomi di peso e mettendomi seduta in un angolo del giardino. Osservai la scena da lontano, e tutto mi apparve così maledettamente surreale.
James piegato in due sull’erba e John che lo sovrastava, intimandogli di rialzarsi con voce affannata e roca.

Avrei voluto fare qualcosa, intervenire, ma qualcosa mi disse che era meglio rimanere dov’ero.

Il ragazzo sanguinante riuscì faticosamente a rimettersi in piedi, barcollava, ma John, sbattendolo contro il muro di casa, gli sferrò un ulteriore pugno.
Calde lacrime rigavano il mio volto. Le guance pizzicavano e tremavo come una foglia.
John si voltò verso di me, vidi le sue labbra muoversi frenetiche, ma non sentivo nulla. C’era solo un costante fischio che copriva tutti gli altri suoni, impedendomi di capire cosa stesse dicendo. 
Non avrebbe dovuto distrarsi; James lo spinse a terra con la poca forza che gli rimaneva in corpo, e cominciò a riempirlo di calci. Senza sosta, nelle costole, nelle spalle…

Fermo, fermo, fermo ! 

Fortunatamente vidi John afferrargli un piede e scaraventarlo sull’erba accanto a lui, riuscendo così a rialzarsi e a bloccarlo sedendosi sopra il suo petto.
La faccia di James era completamente impastata di sangue; il naso ed il labbro inferiore erano gonfi e tumefatti.

«Sbrigati a prendere la tua roba e vattene, grandissimo figlio di puttana!»

Controllai i singhiozzi facendo profondi respiri. Sperai fosse stato tutto un incubo, che niente di tutto quello fosse mai accaduto veramente.
John si spostò per permettere al ragazzo di alzarsi ed entrare in casa. James si aiutava con i gomiti, puntandoli sul suolo e facendo pressione. Era distrutto, i capelli tutti scompigliati. Faticava persino a reggersi in piedi, ma arrancò ugualmente fino alla porta di casa.
Recuperai un po’ delle mie forze ed andai da lui per aiutarlo a preparare la valigia, ma non appena presi il suo braccio, tentando di sorreggerlo, mi scacciò in malo modo.

«E’ finita, Abbey.»

Fu tutto quello che riuscì a dirmi mentre saliva le scale che portavano alla mia camera.
Mi diressi da John, ancora fuori nel giardino. Lo guardai con aria sconcertata mentre con un dito si puliva dal sangue un piccolo taglio che si era procurato sul labbro. Anche lo zigomo, proprio sotto l’occhio destro, era rosso. Aveva un aspetto orribile.

«Ma che ti è preso?» la mia voce era ancora rotta dal pianto, a stento riuscivo a gestirla.  So che avrei dovuto chiedergli come stava, ma ero così spaventata di poter crollare davanti a lui.
«Come?! Abbey, ti ha insultata! Non potevo lasciare che…»

«John, ti voglio bene, e mi sei mancato più di chiunque altro, ma non puoi prendere a pugni chi vuoi, proprio non puoi.»

Non rispose, si girò e se ne andò. Lo vidi allontanarsi con un’espressione di delusione dipinta sul volto. Sentii una mano invisibile stringermi il cuore.
Mi accorsi che zoppicava leggermente.
Avrei voluto andare da lui, abbracciarlo, dirgli tutto quello che provavo, ma mi trattenni e le lacrime ricominciarono a scendere silenziose.

Lo avevo appena ritrovato, eppure era possibile che lo avessi già perso di nuovo?





Tadààà! La mia ultima fatica :)

Ci ho messo un po' a scrivere questo capitolo, ma spero ne sia valsa la pena!

Ringrazio di cuore I_me_mineMaryApple e Jane across the universe, tre sante donne che mi hanno recensito in modo fantastico :')

Ma un grazie va anche a tutti quelli che leggono in maniera silenziosa!

E' tutto per ora, ragazze.

Se avete un po' di tempo lasciate una piccola recensione, adoro leggere i vostri pareri !

 

Prossimo aggiornamento 30 Agosto

Ti voglio tanto bene, Bettins ♥

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Lucy in the sky with diamonds. ***


5. Lucy in the sky with diamonds
 
  “Newspaper taxis appear on the shore 
Waiting to take you away 
Climb in the back with your head in the clouds 
And you're gone”

 
 

Gennaio 1959 – Liverpool.

Il giorno dopo mi sentivo uno straccio.

Venni cullata tutta la notte dal rumore delle gocce di pioggia che battevano costanti sui vetri delle finestre. Alle prime luci dell’alba cominciò a spiovere gradualmente, uno scroscio, uno sciabordio, uno sgocciolare lento. 
Io ero ancora sveglia nel letto che ripensavo alla sera precendente. Probabilmente sarà stata la stanchezza, ma le immagini mi apparivano confuse, annebbiate; urla, cazzotti, sangue, lacrime…
Un brivido mi scese lungo la schiena al solo pensiero.
L’unico ricordo nitido era quello di James che si allontanava da casa mia mentre cercavo di convincerlo a restare fino al mattino. Fu il suo orgoglio a parlare, disse che avrebbe passato la notte in stazione, in attesa del primo autobus per Manchester.
Non avrei voluto che andasse a finire così, certo, anche se entrambi avevamo capito di non essere fatti per stare insieme.
Per riuscire ad alzarmi feci appello a tutte le poche forze che ero riuscita a recuperare standomene semplicemente sdraiata a fissare il soffitto. Gli occhi bruciavano, le palpebre erano gonfie, pesanti, e faticavo a tenerle alzate, ma dovevo.
 
 
La porta a vetri della casa di John rifletteva la mia immagine, ed era chiaro perché non avessi voluto specchiarmi prima di uscire. Spostai lo sguardo altrove, la vista delle mie occhiaie mi rendeva terribilmente nervosa.
Prima di riuscire a bussare, la mia mano si bloccò a mezz’aria un paio di volte e quando mi decisi, posai le nocche sul legno talmente piano che anche io faticai a sentirlo.

Maledizione Abbey Anderson, tira fuori le palle! 

Un rumore, un’imprecazione, la porta si spalancò.
John aveva indosso una canotta bianca tutta sgualcita, era scalzo e i suoi capelli irrimediabilmente schiacciati da un lato. Con molta probabilità non si era nemmeno cambiato.  Il viso ridotto molto peggio di come lo ricordassi; il labbro era gonfio, ricoperto di sangue ormai secco. Lo zigomo si stava scurendo, c’era un accenno di viola proprio al centro dell’ematoma giallastro.
Non parlai; speravo riuscisse a capire dalla mia espressione quanto fossi preoccupata e dispiaciuta.

«Hai un aspetto di merda», disse.

Tirai un sospiro di sollievo, contenta che non fosse arrabbiato, o almeno non troppo.
Mi precipitai su di lui per controllargli le ferite. Girai il suo viso in direzione della luce, in modo da vedere più chiaramente come fossero ridotte. Non erano malaccio, alla fine sarebbe bastato solo un po’ di disinfettante.

James deve essere messo anche peggio…

«Sei davvero un idiota Lennon, farti riempire di calci e di pugni solo per difendermi.»

«Oh, John, sei il mio eroe e staremo per sempre insieme!» Mi fece il verso con una buffissima voce in falsetto, sbattendo le ciglia ripetutamente.

Non avrei voluto dargli corda in un momento come quello, ma riuscì a strapparmi una risata.
Mi afferrò per le spalle, facendomi entrare in casa, e richiuse la porta. C’era un odore intenso di sigarette. Notai subito una piccola coperta arrotolata in un angolo della poltrona.

«Cosa aveva il tuo letto che non andava stanotte?»

«Che ne so, ero troppo sbronzo per capire quello che stavo facendo.»

«Mi sorprende che Mimi non ti abbia mandato in camera tua a calci in culo.»

«Mimi non c’è». Mi spiegò buttandosi a peso morto sulla poltrona. «E’ partita, da un paio di giorni, è andata a Blackpool a fare non so cosa. Non mi interessa.»

Di solito Mimi era una persona coscienziosa, come aveva potuto lasciare un nipote ribelle e scatenato come il suo da solo in casa?
Immaginai John in preda ad un attacco di fame, intento a capire come funzionassero i fornelli. Lo immaginai mandare tutto al diavolo, esasperato, per poi accontentarsi di una birra. Come minimo avrebbe appiccato un incendio.

«Non te le sei neanche disinfettate quelle ferite.»

Non era una domanda, ma era ovvio che aspettavo una risposta. Lui non disse nulla ugualmente.
Mi alzai e andai dritta in cucina. Sapevo esattamente dove cercare; una volta, da piccoli, rubammo insieme una bottiglia d’alcool dal droghiere in fondo alla strada. Io distraevo il commesso, mentre lui sgraffignava la prima cosa capitata sotto tiro. Quando ce ne vantammo con i nostri amici loro ci guardarono come se fossimo dei veri ribelli e a noi piaceva sentirci così, soprattutto a John. Decidemmo di nasconderla nel piccolo spazio vuoto che c’era fra la credenza ed il muro, nella cucina di Mimi, così saremmo potuti tornare a berla quando volevamo.
Anni dopo era ancora il nascondiglio preferito di Johnny, per qualsiasi cosa che non desiderasse condividere con gli altri, l’unico che la zia non scoprì mai.
Ed eccola lì, proprio come immaginavo: vodka. Presi un canovaccio, lo arrotolai e ce buttai un po' sopra, inzuppandolo per bene. Tamponai lentamente le ferite di John, per disinfettarle. Doveva bruciare parecchio, perché ad ogni tocco sobbalzava stringendo leggermente gli occhi.
Il sangue secco non veniva via facilmente, così tenni ferma la sua testa con una mano in modo da esercitare una pressione maggiore.
I suoi capelli erano ruvidi, pizzicavano sul palmo, cercai di ravvivarli passando le dita fra le ciocche annodate. Teneva lo sguardo basso, a volte guardava fuori dalla finestra ma evitava il contatto visivo.
Osservai il suo profilo mentre la luce del primo sole mattutino gli riscaldava la guancia. Il naso e le labbra, unendosi, formavano una curva perfetta. Si lamentava continuamente del suo aspetto, ribadendo di aver preso da «quel porco di mio padre». Non si sentiva mai abbastanza bello, bravo o all’altezza. Era sempre insoddisfatto da se stesso, eppure chiunque entrasse in contatto con lui finiva per rimanerne terribilmente affascinato. Nei suoi occhi affusolati color nocciola, fin da quando riuscissi a ricordare, c’era una nota di tristezza e malinconia. Aveva subito troppo dalla vita; a volte a Dio piace mettere alla prova le persone speciali, e credevo fosse per questo che John soffrisse così tanto.
C’era un’atmosfera così tranquilla ed intima. Prima di decidere che quello non fosse il luogo adatto per rispondere, per un attimo mi domandai quali fossero i miei veri sentimenti per quel ragazzo.
Gli sistemai il ciuffo sulla fronte seguendo con il dito la piega di uno dei ricci che, solitamente, teneva fermi con il gel. 

«Non ci starai mica prendendo gusto, eh?»

Mi aggiustai sulla poltrona; ero seduta su un bracciolo, con le gambe stese su quelle di John. Posai il panno bagnato con la vodka, soddisfatta del risultato. Le ferite cominciarono perfino a sgonfiarsi.
John si sporse poco verso il tavolinetto davanti a noi e afferrò un paio di occhiali, grandi, con la montatura nera. Li infilò e rivolse il suo sguardo a me. Le grandi sopracciglia corrucciate.

«Tu credi che ce la potremmo mai fare? Intendo i Quarrymen.»

«Siete molto bravi, lo sai perfettamente anche tu.»

«Quello si, ma secondo te ce l’abbiamo quel qualcosa di speciale che serve per sfondare? Per sfondare veramente, come Elvis.»

«Bhè, avete John Lennon. Ti sembra poco?»

«Non sono poi così interessante.» Fece un sorriso amaro, e lo sguardo si appannò di malcelata delusione. Avrei voluto abbracciarlo, dirgli che tutto sarebbe andato bene per lui, che un giorno tutta quella sofferenza gli sarebbe stata utile, ma invece cercai di cambiare discorso; odiavo vederlo in quello stato, odiavo quando tirava fuori tutte le sue paure ed insicurezze.
Non vorresti mai vedere il tuo eroe sconfitto.

«Perché me lo chiedi?»

«C’è una mezza possibilità che un mio amico dell’accademia ci faccia ottenere una sorta di contratto. Sai, serate fisse nei locali e cose così.»

«Ma è fantastico, Johnny!»

«Già, già. Ancora non ne ho parlato con gli altri però, non voglio che ci rimangano male se alla fine non se ne fa più nulla.»

Mimai il gesto di cucirmi le labbra e John mi sorrise; per quanto potesse comportarsi da idiota era chiaro che ci teneva a quello che faceva, che teneva ai suoi amici.
Il suo sorriso mi riscaldò immediatamente; gli occhi sembravano ridere, il volto si illuminava.
Si girò di scatto e allungò la mano per prendere le sigarette a terra accanto alla poltrona. Ne accese una pensieroso. Sembrava molto più grande dei suoi diciannove anni, l’aria sfinita, il sapore della vodka sulle labbra, lo zigomo gonfio.

«Come ti vedi, chessò, a quarant’anni?» La buttai lì, non so come mi fosse venuto in mente. Me ne pentii immediatamente, che domanda stupida.
Sbuffò il fumo dal naso con gli occhi chiusi. Si grattò la fronte con il pollice mentre, fra l’indice ed il medio, stringeva la sigaretta.
«Rugoso e flaccido, senza dubbio.» Sapeva benissimo che non era quello che intendevo; John aveva una paura incondizionata del futuro, non sapere cosa lo attendesse lo logorava.
Per qualche secondo rimanemmo in silenzio, poi lui sospirò e prese un’altra boccata di fumo.
«Sono proprio tanti, quaranta, eh?»

«Infatti.»

«Potrei dirti davvero tante cose, ma temo che alla fine la realtà finisca sempre per ammazzare l’immaginazione, piccola Abbey. Ti direi solamente una marea di cazzate.» Ovviamente stava pensando al futuro dei Quarrymen, alle sue ambizioni come musicista ed artista. Era classico di John, buttarsi giù in questo modo per non crearsi delle false illusioni.
Quasi sovrappensiero cominciò a giocare con una ciocca dei miei capelli, poi mi prese delicatamente per un braccio e mi avvicinò a sé. Schiacciai la testa contro la sua spalla e improvvisamente la notte insonne si fece sentire.

«Non hai neanche qualche speranza, qualcosa che senti di poter fare a quell’età?»
Non ricevetti nessuna risposta.
Vidi le ultime nuvolette di fumo uscire dalla sua bocca prima che la sigaretta finisse e lui la abbandonasse nel posacenere insieme ad altri dieci mozziconi.

«D’accordo, è ora di andare.»
«Dove?»
«Ti faccio conoscere quel mio amico dell’accademia d’arte, ti va?» Mi sistemai sulla poltrona in modo da poterlo vedere bene in faccia.
«John, guardami; sono orrenda, un mostro!»
«Si, è vero.» Concordò lui, scoccandomi un’occhiata disgustata. Mi scompigliò i capelli e si mise a ridere di gusto.
«Sei uno stronzo, John Lennon.»

 


Nell’aria c’era odore di erba bagnata e di umidità. L’asfalto era ancora zuppo dopo la pioggia incessante della notte, e in alcuni punti dei marciapiedi l’acqua si era accumulata, formando delle piccole pozzanghere poco profonde.
Quando arrivammo al numero tre di Gambier Terrace, trovammo un ragazzo ad aspettarci proprio davanti all’entrata. Sedeva in maniera rilassata su uno dei gradini che portavano all’interno dell’appartamento. Lo vidi abbandonare la schiena contro la ringhiera con un gesto fluido. Teneva debolmente una sigaretta incollata al labbro inferiore, gli occhi leggermente socchiusi e la testa piegata in direzione del sole, come per raccogliere quanto più calore gli fosse possibile. Sembrava in posa per una foto, ed eramaledettamente perfetto. A renderlo così affascinante era anche un tocco tenebroso e felino che caratterizzava i suoi movimenti, lenti, soppesati. Cercai di trovare una parola che riuscisse a descriverlo al meglio, ma decisi che né «attraente» né «provocante» lo rispecchiassero davvero; lui era molto di più. Il profilo spigoloso, il naso dritto e gli zigomi bianchi appena poco lucidi. Teneva i capelli ordinati, compatti, pettinati con una riga laterale. Erano come la pece, in netto contrasto con la sua perfetta pelle diafana. Le labbra scure e piene, gli occhi incavati e sottili sotto belle sopracciglia folte. Indossava una leggera camicia bianca infilata nei pantaloni, e le maniche erano state arrotolate fino all’altezza del gomito. Il mio sguardo indugiò sui bottoni del colletto: slacciati.

«Stai sbavando, Anderson.»

Non appena ci vide infondo al vialetto, il ragazzo buttò la sigaretta lontano e si aprì in un sorriso mozzafiato. Scese gli scalini con un salto e ci raggiunse raggiante.
In quel momento realizzai; era lo stesso ragazzo che avevo visto il giorno prima nella tabaccheria, quello che sfogliava la rivista con ragazze poco decenti in copertina. E ora stava correndo verso di me… noi.

«Lennon!» Salutò quando ancora eravamo abbastanza distanti.

«Sutcliffe!»

I due si abbracciarono e si diedero un paio di pacche sulle spalle in maniera fraterna. Era davvero uno spettacolo unico vederli insieme.
«Ma che cazzo hai fatto alla faccia?» Gli chiese, e dal suo tono sembrò lo stesse sfottendo.
Improvvisamente, slacciandosi dalla presa di John, rivolse il suo sguardo verso di me e mi sorrise bonario.

«Io sono Stuart.»

Mi tese la mano e sono certa che, nel prendere la mia, abbia avvertito il leggero tremore che mi scuoteva. Se la avvicinò poi alla bocca con un movimento lento, sfiorandola con le sue labbra scure.
Mi imposi di riprendermi.

«Abbey.»
«Molto piacere.»

Vidi John fare una delle sue solite smorfie, chiaramente infastidito dal comportamento dell’amico. 

«Andiamo ragazzi, entriamo.»

Stuart salì i quattro gradini a grandi falcate, facendoci segno di seguirlo. La targhetta placcata d’ottone appesa alla porta recitava «Hillary Mansions».
Quando entrammo ci accolse una strana atmosfera, strana per chi come me non ci era abituato; un bastoncino d’incenso profumato bruciava lentamente in un piattino, proprio sul mobile accanto l’entrata. La cenere, che di tanto in tanto cadeva pigra, aveva formato un piccolo mucchietto grigio. L’odore era aspro e, mischiato a quello delle sigarette, non risultava proprio gradevole. Le pareti erano dipinte con una pittura giallino smorto e in alcuni punti mancavano pezzi d’intonaco. La sala principale era un grande spazio con un soffitto molto alto. A parte qualche quadro astratto qua e la, un piccolo divano tutto consumato e un tavolinetto pieno zeppo di cianfrusaglie di qualsiasi genere, era presocchè vuoto.
A dominare l’ambiente c’era un grande camino, utilizzato però come ripostiglio per delle tele e dei colori ad olio.
Una tendina, di quelle che fanno rumore quando le alzi, separava l’ampio salone dalla cucina, un buco con una credenza ed un piccolo fornello attaccato direttamente alla bombola del gas. Da li, poi, si accedeva direttamente allo studio di Stuart, dove dipingeva. «Un giorno ve lo farò vedere, ora è ancora tutto da sistemare.»
A prima vista poteva sembrare un appartamento poco curato, ma lo trovavo singolare ed intrigante. Tutto lì dentro sprigionava arte. John ne rimase particolarmente colpito, tanto da annunciare che presto si sarebbe trasferito anche lui.
Cominciammo a parlare di letteratura, filosofia e cultura; per me era tutto nuovo, e lo adoravo. Raramente insieme ai miei amici affrontavamo discussioni appassionate come quella, su argomenti così lontani da noi. Sentir parlare Stuart, delle sue passioni, ti trasportava direttamente nel suo mondo, fatto di arte, tele e colori ad olio.
Sdraiati su quel piccolo divano, quasi uno sopra all’altro, stavamo creando un universo tutto nostro.
Ad un certo punto notai Stuart passare qualcosa a John, a pungo chiuso. Lui fece scivolare la sua mano in quella dell’amico e afferrò qualcosa, ben attento a non farla cadere. Intravidi un piccolo pacchetto marrone fra quelle lunghe dita da chitarrista. Si allungò poi verso il tavolo dove prese, fra tutte le cose, una bottiglia di Whiskey mezza vuota. Diede un breve sorso e poi mi fissò, serio. Ero sicura che anche Stuart mi stesse guardando, sentivo la schiena andare a fuoco. 

«Abbey, ti fidi di me?»

Capii solo in quel momento cosa volesse fare.

Soppesai velocemente i lati positivi e negativi di quello a cui stavo andando incontro. Non ricordo quale alla fine fosse stato il risultato ma, quando John mise la mano nei miei capelli, cedetti inesorabilmente.
Deglutii, sperando capisse la mia decisione.
Si aprì in un sorriso malizioso, come non lo avevo mai visto fare prima. La sua mano si mosse sulla mia nuca spingendo piano la testa all’indietro. Chiusi gli occhi mentre le sue dita separavano le mie labbra.
Qualcosa di amaro cadde sulla mia lingua; aveva una consistenza pastosa ma, man mano che si scioglieva, riuscivo a distinguerne i granelli sul palato.
«Bevi un goccio.»
Stuart mi passò la bottiglia, ed io bagnai appena le labbra.
Vidi loro due fare esattamente la stessa cosa, con mano ferma, decisa, esperta. Li vidi sorridere e poi abbandonarsi completamente sul divano, in attesa.
 

La stanza smorta, spoglia, divenne improvvisamente piena di colori sgargianti. Era tutto un trionfo di giallo e arancione, così brillanti e vividi. I volti di John e di Stuart mi apparivano come se li vedessi per la prima volta. I loro occhi profondi, scuri. Eravamo spensierati, euforici.
L’odore dell’incenso, delle sigarette, dell’alcool ci circondava. I nostri sensi erano amplificati, nel bene e nel male.  
Ricordo di aver vissuto un momento di completa armonia con me stessa e con il resto del mondo. John non si staccava da me, continuava a carezzarmi i capelli e a parlare, ma io non lo ascoltavo. Ero concentrata sul movimento delle sue labbra, così inebriante, così ipnotico. Uno spettacolo bellissimo, avrei potuto restare ore a fissarle. Immaginai avessero dovuto avere lo stesso sapore delle rose, e per un attimo pensai di avvicinarmi e provare…
Improvvisamente Stuart mi afferrò per le spalle, mi alzò dal divano, interrompendo lo stato catatonico in cui stavo scivolando. Ci ritrovammo pericolosamente vicini, ma non mi importava. Tutto l’imbarazzo era sparito. Arrivai a desiderare quel ragazzo, senza inibizioni. Le nostre bocche si sfiorarono, ed io avvertii un brivido percorrermi tutta la schiena. Accarezzai i suoi capelli perfetti, scompigliandoli.
Sentivo la risata di John, fragorosa ed incessante, che martellava nella mia testa. I suoni erano ovattati ma allo stesso tempo assordanti. Cercai di zittirlo, buttandomi su di lui,  ma presto anche io venni contagiata. Ridevamo, ridevamo. Non c’era un motivo, non ci doveva essere. Eravamo semplicemente felici di essere lì, di essere riusciti a ritagliare un piccolo angolo spensierato in mezzo a tanta tristezza.

«Voglio essere così, Abbey. A quarant’anni voglio restare esattamente quello che sono ora.» 





Finalmente il quinto capitolo ! :)


E' un capitolo principalmente psicologico, incentrato sulla personalità e i gesti di John. 
Spero di aver fatto un buon lavoro nel ricreare il suo carattere. 

Dal prossimo ci saranno più fatti concreti, lo prometto ! 

 

Ringrazio di cuore I_me_mine, weasleywalrus93 e MaryApple per i loro fantastici pareri 
Grazie anche a tutti quelli che si limitano a leggere ! 

Come sempre se avete qualche secondo lasciate una piccola recensione, mi farebbe davvero piacere :)
Vi mando un abbraccio fortissimo ! 

Aggiornamento 5 Settembre. 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Nowhere man. ***


L’ ispirazione.
Dove cazzo è quella fottutissima
scintilla quando la cerchi ?
Funziona proprio come quando tu e il tuo ragazzo
decidete di farlo senza preservativo;
lui ti assicura che starà attento, che uscirà prima,
ma alla fine il bastardo
 
VIENE  QUANDO MENO TE LO ASPETTI


 


 
 

6. Nowhere man

“He’s as blind as he can be
Just sees what he wants to see
Nowhere Man can you see me at all ?”

 
Liverpool ─ Febbraio 1959. 

Me ne stavo sdraiata sulla poltrona in salotto a mordicchiarmi ansiosamente le unghie, con le elettrizzanti note delle canzoni di Little Richard a fare da sottofondo alla mia agitazione. I raggi del sole filtravano languidi attraverso la finestra spezzando la pesante coltre di fumo che inondava la stanza.
Il quarantacinque giri roteava lento sul piatto, ed io cominciai a non sopportare la calma che trasmetteva. Mi sporsi, spostai la puntina con un gesto brusco e la musica si interruppe di colpo, con un guizzo. Davanti a me un posacenere stracolmo di mozziconi ed un pacchetto di Marlboro, vuoto ed accartocciato.

Morivo dalla voglia di sapere com’era andata, perché ancora non chiamavano? Avrebbero dovuto farlo appena finita l’audizione, ed era già passata più di un’ora. John era così eccitato all’idea di avere un’opportunità reale, pertutta la settimana non aveva fatto altro che parlarne: «Ma te lo immagini? Canzoni tutte nostre, poi i concerti, magari perfino un tour!»
Voleva essere sicuro che tutto andasse alla perfezione; cambiò la scaletta almeno un centinaio di volte esasperando tutti, soprattutto il povero McCartney. Alla fine scelse Rave On e Think it Over, entrambe di Buddy Holly - scomparso tra l’altro pochissimi giorni prima. Fu un colpo duro per i ragazzi!  

Ignorando completamente il buon senso, decisi che sarei andata a casa di John per controllare di persona. Perché diavolo non si davano una mossa a farmi sapere qualcosa? Lo sapevo, non sarei dovuta rimanere ad aspettarli…
 
 

Poggiai le mani a coppa sul vetro per sbirciare all’interno; tutto era buio e silenzioso. Continuai a guardare,  però, come se sperassi che da un momento all’altro sputasse fuori John, sorridente. Mi arresi all’evidenza, con le nocche arrossate e doloranti, quando capii che non sarebbe arrivato nessuno ad aprirmi la porta. Sbuffai uscendo dal piccolo giardino di casa Smith, indignata. Vidi al centro del marciapiede  un piccolo sassolino, cercai di dargli un calcio in maniera teatrale, come avevo visto fare nei film, ma lo mancai goffamente.

«Cazzo!», dissi inciampando.

«Abbey. Ero sicura che fosse la tua, ehm… voce».

Immediatamente riconobbi il tono aspro di Mimi e mi maledii per non essermi accorta prima della sua presenza. Portava un completo celeste ed un cappellino bianco. Il suo viso composto, severo. Le increspature ai lati degli occhi, marcate e profonde, erano evidenti anche da rilassata.

«Mary, salve».

«Stavi andando via?» Accennò con la testa alla casa alle mie spalle.

«Ero venuta a cercare John, ma non c’è».

«Di nuovo con quei suoi amichetti,» scioccò la lingua in segno di disapprovazione «sempre con quegli aggeggi in mano: ”è rock and roll, Mimi!”».

Feci un sorriso tirato. Tutti sapevamo come la pensasse la zia di John; ripeteva in continuazione di lasciar stare le chitarre, andavano bene come hobby ma mai avrebbero dato da vivere. Non sopportava che il nipote sprecasse le sue giornate dietro a certe vuote convinzioni, doveva mettere la testa a posto.
Mi salutò e, fra un sospiro ed una smorfia, entrò in casa. Trovavo quella donna singolare, intimidatoria ma affascinate.

Dalla strada vidi due figure alte, in abito scuro, che aspettavano nel mio vialetto appoggiate contro la piccola staccionata bianca. Sentii il petto diventare immediatamente più leggero, sollevato dall’enorme peso dell’attesa. Ma, quando fui abbastanza vicina da notare le loro espressioni stravolte, una morsa invisibile si strinse attorno al mio stomaco e lo contorse brutalmente. George si passava le mani sul viso, massaggiando le tempie, mentre Paul allentava il nodo della cravatta con gesti lenti e cadenzati. Mi fermai di colpo, a pochi metri da loro.

«Non ditemelo».

«Abbiamo toppato» asserì George, confermando i miei sospetti.

Ma porca… 
 
 

Il salotto sembrava fin troppo piccolo  e affollato; la pesante atmosfera di tensione occupava gran parte dello spazio, soffocandoci. Presi un gran respiro sperando di riuscire a sciogliere il nodo alla gola che, ne ero sicura, avrebbe fatto risultare la mia voce strozzata.
 
«Sai cos’è peggio?» George, di solito tranquillo, quella mattina era il più loquace ed animato dei due. C’era una strana scintilla nei suoi occhi ma di certo non era rabbia perché, in quel caso, sarebbe esploso come una bomba senza esitazioni. Avevo imparato che la sua personalità era divisa in due parti davvero ben distinte, non esistevano mezzi termini per lui: era bianco oppure nero. «Non bastava l’umiliazione, no! Quell’idiota di John doveva pure far scappare Colin».

«In che senso?»

«Nel senso che siamo rimasti senza batterista!» Paul si riprese dopo aver fissato il vuoto per almeno dieci minuti, serio. Nel tentativo di calmarlo un po' gli poggiai una mano sulla spalla. Sentivo il calore rilassante che emanava salirmi dal palmo fino alle spalle, sciogliendomi. Inaspettatamente lui rimase freddo e scostante. Quella sua indifferenza mi infastidì parecchio, forse molto più di quanto non volessi ammettere.

«Ci saranno tante altre occasioni».

«Non lo so Abbey, se continuiamo così siamo solo destinati a rimanere una band per festicciole».

George che diceva una cosa del genere, poi? Non era affatto da lui, sembrava quasi…

«E’ quello che ha detto John?»

 Si limitarono a guardarmi, in silenzio.

«Dov’è ora?» chiesi.

Avrei voluto prenderlo a pugni, quel Lennon!

«Non lo so. Ha mandato a fanculo tutti e se n’è andato».

«Starà da Stuart, ovviamente, ad ubriacarsi per bene». La nota di disappunto nella voce di Paul era volutamente mal celata.

In effetti anche io avevo pensato la stessa cosa non trovandolo a casa, ma non avevo detto nulla per non appesantire ulteriormente la situazione; di quei tempi i due erano quasi inseparabili. Agli altri non dispiaceva, a me non dispiaceva e, a dirla tutta, adoravo anche io passare il tempo insieme a Stu. Ma Paul… ah, Paul. Era in costante competizione per ottenere le attenzioni di John, esattamente come un bambino geloso e testardo.

«Scommetto che alla fine a quello sfigato lo fa pure entrare nel gruppo».
 
 

Quella notte l’aria era elettrica, carica d’umidità. Un tappeto di nuvoloni neri copriva totalmente il cielo, dandomi l’illusione di essere rinchiusa in una bolla. Se si restava in silenzio si riuscivano a sentire, di tanto in tanto, i suoni dei club notturni trasportati dal freddo vento invernale. Con i gomiti sul davanzale e la testa fuori dalla finestra, accesi l’ultima sigaretta della giornata pensando ai ragazzi. Aveva un sapore disgustoso ma lo assaporai avidamente, inspirando quanto più fumo possibile. Il mozzicone volò dalle mie dita, risaltava nella notte, una piccola scintilla rossa in contrasto con l’oscurità.

Scivolai lentamente nel sonno, senza accorgermene.  

Dei colpi frenetici mi svegliarono di soprassalto proprio quando il cielo aveva appena cominciato a trascolorare verso il celeste, mancavano ancora parecchie ore al sorgere del sole. La mia mente era ancora impastata di sonno, ma riuscii a capire quasi subito che qualcuno stava bussando. Le gambe erano ancora intorpidite e sentivo gli occhi gonfi e pesanti mentre scendevo le scale fino al salotto.
Anche mio padre si era svegliato ma lo rassicurai, rimandandolo a letto, dicendogli che probabilmente era solo…

«John! Ma sei completamente impazzito?»

Teneva la fronte penzoloni sul braccio poggiato allo stipite della porta. Si fece qualche centimetro più vicino, ed io venni investita da un acre odore d’alcool.

«Finalmente sei venuta ad aprire! Ma che stavi facendo, si può sapere?» Urlava, ma che si urlava?

Era chiaramente ubriaco marcio, le parole uscivano biascicate dalla sua bocca e probabilmente non ascoltava nemmeno quello che diceva. Sentii la rabbia salirmi dentro, un formicolio che arrivava fino alla base della schiena.
Gli diedi uno leggero schiaffo sulla nuca, intimandogli di abbassare la voce. Lui si portò una mano alla testa e, invece di irrigidirsi, la sua espressione si fece sorpresa e confusa.

«Perché l’hai fatto?»

In quel momento avrei tanto voluto ridere, ma non era davvero il caso.

«Ti riporto da tua zia, andiamo».

«Nooo, Abbey! Mimi mi ha cacciato e io sono venuto qui, voglio stare con te».

«Cammina Lennon!»

Lo strattonai, spingendolo verso la strada, ma lui mi afferrò per i polsi e si fece improvvisamente serio. Non disse nulla, ma capii che tutto quello che chiedeva era di non restare solo. Ero combattuta.

«Va bene, d’accordo» mi arresi alla fine, sbuffando. 

Lo vidi sorridere, teneva gli occhi chiusi e le sopracciglia leggermente corrucciate. Doveva avere un gran mal di testa.
Si trascinò in camera mia con passo indeciso e si tuffò sul letto, sprofondando il viso nel cuscino. Mi sedetti accanto a lui e cominciai a carezzargli i capelli, lentamente. Le ciocche biondicce scivolavano fra le mie dita, solleticandole. John si girò poco verso di me ed io mi incantai a guardare il suo profilo.

«Grazie» farfugliò.

Il suo respiro divenne lento, pesante, e si addormentò.


Qualche ora dopo me ne stavo ancora distesa accanto a lui, a guardare il sole sorgere. La finestra spalancata lasciava entrare la brezza mattutina, sentivo odore si salsedine e di alcool. Non avevo chiuso occhio per paura che a John potesse succedere qualcosa a causa alla sua colossale sbronza, ed ora gli effetti si facevano sentire. Stavamo compressi nel piccolo letto ad una piazza, uno con le spalle all’altro. Non era certo una posizione comoda, ma era sempre meglio che starmene sdraiata sulla moquette.
Il letto traballò e lo sentii sbadigliare. Il calore del suo corpo mi aveva tenuta calda nonostante le rigide temperature, ed ora che si era avvicinato sentivo il mio braccio, a contatto con il suo petto, andare a fuoco.

«Mi... mi dispiace» disse piano.

«Non farlo mai più, John».

Mi alzai, meravigliandomi di essere riuscita a stare sveglia per più di tre ore senza toccare una sigaretta ed improvvisamente ne sentii un bisogno irrefrenabile.
La stanza era inondata dalla tipica luce bluastra dell’alba. Per la strada tutto era silenzioso, l’unico rumore era quello del vento fra i rami degli alberi.
Mi riscoprii furiosa con lui, non so bene perché. Volevo urlargli in faccia tutta la mia rabbia, ma qualcosa mi disse che non era il momento adatto. Non riuscii, tuttavia, a nascondere una punta di astio nel mio tono.

«Che ti prende?».

«L’audizione non è andata bene».

«Non è quello che ti ho chiesto».

Una boccata di fumo amaro e caldo scese giù per la gola.

«Mi stai dicendo di leggere fra le righe? Perché onestamente credo di essere ancora un po' troppo alticcio per riuscirci».

«Piantala».

Sospirò. Venne verso di me e, quando indugiò sulle mi gambe, mi resi conto di avere indosso solo la maglietta da notte, una larga e sgualcita di papà. Arrossii leggermente.

«Sono un disastro, ecco qual è la verità».

Mi lasciai andare con la schiena contro il muro. Poteva sembrare un segno di resa, ma in realtà era solamente tutta la stanchezza accumulata durante la notte. Le ginocchia erano deboli, avevo bisogno di un sostegno.

«Credevo che tutte queste idee nella mia testa fossero qualcosa di geniale, ma alla fine non mi stanno portando da nessuna parte».

Mi sfilò la sigaretta dalle mani e la finì con due tiri, sbuffando dal naso. Sembrò che stesse per dire qualcosa, ma lo bloccai.

«Perché non sei andato da Stuart stanotte?»

Rimase di stucco, come se non si aspettasse una domanda del genere. Si avvicinò lentamente, sempre di più.

«Sei la prima persona a cui penso. E’ tanto brutto?»

Il mio cuore iniziò a volare. Avevo il tipico mal di pancia da nervosismo.

«Certo che non lo è».

«Allora qual è il problema?»

Si bloccò a pochi centimetri da me ed iniziò a giocherellare con l’orlo della mia maglietta. Stavo per rispondere, ma la voce mi si bloccò in gola. Non riuscivo più ad emettere un solo fiato, respiravo a fatica. L’alito caldo di John mi sfiorava le guance, ed io rabbrividii.

«Con te sono sempre me stesso».

Schiusi leggermente le labbra e in un secondo la sua bocca fu sulla mia. Come una scossa elettrica, un calore si espanse per il mio corpo, intorpidendolo. Le nostre bocche si cercavano, si desideravano così ardentemente da far scomparire tutto il resto del mondo. C’eravamo solo noi. Le mani di John si insinuarono fra i miei capelli. Il suo corpo aderiva perfettamente al mio mentre, con delicatezza, mi staccava dal muro per stringermi a sé, più forte. Il fiato si era fatto irregolare e, trasportata dalla passione del momento, per più di una volta mi scordai di dover respirare. Avevo sognato quel bacio, mi resi conto di averlo sempre fatto.
Cercai di ignorarla, ma una vocina dentro di me continuava ad urlare che ci stavamo facendo sfuggire di mano i nostri sentimenti.

Cynthia, lui ha Cynthia.

Mi costò uno sforzo enorme. Lo allontanai da me posandogli una mano sul petto, per fermarlo. Sentivo le lacrime pungermi gli occhi, ma avrei aspettato a piangere.
John sembrò tornare in sé; mi fissava senza trovare le parole giuste.

«Sei ancora ubriaco. Tornatene a casa».

Mi girai per evitare di guardarlo. Sapevo che se avessi scorto anche il minimo sentimento nel suo sguardo, probabilmente, non lo avrei lasciato andare.
Sentii la porta della camera chiudersi, dei passi allontanarsi e la stanza piombò nel silenzio più totale.
Nella mia testa riecheggiava il rumore di qualcosa che andava in frantumi e mi chiesi scioccamente se fosse stato lo stesso che aveva fatto il mio cuore spezzandosi.
Avevo ancora il suo dolce sapore sulle labbra, mi sentivo stordita e confusa. Cosa avrei dovuto pensare, cosa avrei dovuto provare? Come sempre mi dissi che non era il momento adatto per rispondere, anche se sta volta lo aveva fatto lui per tutti e due. 



Piccola parentesi,  scusate per il ritardo :) 
Allora, eccoci. Capitolo breve ma intenso, Abbey e John. Ah, quei due ♥ 
Ci tenevo a ringraziare le mie recensiste (?) 
Un applauso per I_me_mine, ewigkeiitc, MaryApple,
Jude_, weasleywalrus93, Jane across the universe 
mmaeth !

Grazie a tutti, anche a quelli che leggono in maniera silenziosa!
Se avete tempo, lasciate una piccola recensione, mi fa sempre piacere 
leggere i vostri pareri :) 

Non so quando aggiornerò di nuovo, ho tantissimo da fare ultimamente çç
Spero il prima possibile !

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Should have known better. ***


7. Should have known better

 “I never realised what a kiss could be,
this could only happen to me,

can’t you see? Can’t you see?”

 

 
 

Liverpool ─ Febbraio 1959. 


Scrutavo perplessa la mia immagine riflessa allo specchio, non completamente sicura di indossare la cosa adatta.

Ero stata così presa da altro che avevo completamente dimenticato il matrimonio di Harry Harrison, il fratello maggiore di George.

Risultato?

Portavo un delicato vestitino di seta celeste un po' fuori moda, ancora sbottonato sulla schiena, aperto abbastanza da lasciar vedere la curva delle scapole. Mi fasciava la vita in modo troppo aderente e l’orlo della gonna arrivava leggermente sopra il ginocchio, ma era l’unica cosa vagamente elegante che ero riuscita a ripescare dal fondo del mio armadio. A dirla tutta, era un miracolo che ancora mi entrasse; me lo aveva regalato qualche anno prima mia madre, ma era sempre mancata l’occasione per indossarlo.

Ed eccolo lì, finalmente, alla sua prima uscita.

Continuavo a fissarlo, esasperata e delusa. Me lo sarei fatto andare bene comunque, dovevo.
Esaminai con disappunto i capelli che avevo raccolto sperando di avere un aspetto almeno presentabile: mi davano un’aria fin troppo seriosa. Sfilai delicatamente il laccetto azzurro che teneva ferma la coda e passai le dita fra le ciocche scure per ravvivarle.

Fuori era una stranamente tiepida giornata di febbraio, il cielo cosparso di nuvole che non minacciavano pioggia. Ma non si poteva mai sapere. Liverpool era una città fantastica quando non era coperta dalla solita, spessa coltre di nebbia; era colorata, viva e odorava di salsedine.

Infilai un giacchetto di filo bianco e rivolsi una smorfia all’unico paio di scarpe alte che avessi mai comprato. Sapevo che quella volta non avrei potuto sfuggirgli, erano d’obbligo. Le indossai sbuffando e diedi un’ultima rapida occhiata allo specchio prima di uscire; per l’occasione avevo anche passato un filo di rossetto sulle labbra. Il viso si era illuminato immediatamente, non sembravo più tanto pallida. 

Che fine aveva fatto George? Doveva passarmi a prendere.

Scesi le scale con calma, aggrappandomi forte al corrimano per paura di inciampare. Le nocche divennero bianche sotto la pressione della mia stretta.

«Sei sicuro che starai bene?»

Ultimamente mio padre sembrava perdere forze, era continuamente debole. Avevo tassativamente vietato l’alcool e buttato tutte le bottiglie che ero riuscita a trovare in casa. Sospettavo che ne tenesse una nascosta da qualche parte, però.

«Tranquilla, Abbey. Sto bene».

Mi chinai sul divano per baciarlo sulla fronte e lui sorrise in modo forzatamente rassicurante.
Sul vialetto di fronte casa riecheggiarono alcuni passi. Qualche secondo dopo bussarono.  

«Ci vediamo stasera».

«Divertiti. Poi mi racconti quante risse ci sono state» sghignazzò papà.
 
George mi aspettava sulla soglia della porta, vestito di tutto punto. Ero abituata a vederlo con camice sgualcite e capelli ribelli che adesso, invece, aveva imbrillantinato e pettinato ordinatamente. Teneva le mani poggiate sulle ginocchia e respirava affannosamente. Tutti sapevamo che l’attività fisica non era il suo forte.

«Siamo in ritardo» riuscì a dire, cercando di riprendere fiato. 

«Lo so. Avanti, chiudimi il vestito così andiamo».

Mi girai, invitandolo ad alzare la cerniera. Per un momento titubò, incerto. Le sue dita vagarono sulla mia schiena, bene attente ad evitare il contatto diretto con la pelle, e frettolosamente abbottonarono il vestito.Quando lo guardai in faccia, la sua espressione tradiva una punta di imbarazzo. Si fissava le mani, ancora con il fiatone.

Risi di gusto. Era troppo tenero!

«Questa è nuova; il carismatico Harrison messo in difficoltà da una cerniera!»

Per un secondo rimase sconcertato, ed io temetti di averlo offeso. Però subito si aprì in un sorriso radioso, facendomi una linguaccia. Afferrai la borsetta e richiusi la porta alle mie spalle. George mi prese per mano animato da ritrovato ardore, e mi trascinò dietro di lui con passo deciso.

«Andiamo, dai!»

«Non correre! George, rallenta!»

 

La cerimonia, intima e contenuta, si tenne alla St. Peter’s Church, lì a Woolton. Proprio dove, poco tempo prima, John aveva incontrato per la prima volta Paul.

Arrivammo affaticati ma, per fortuna, in tempo. Ci sedemmo  nella prima fila di banchi, accanto a Peter e Louise – gli altri due fratelli di George – e ai signori Harrison.
Harry era già all’altare, in attesa. Lo vedevo testo, con un’espressione trepidante. Gli rivolsi un sorriso, cercando di incoraggiarlo, mentre lui strizzava l’occhio, divertito. L’atmosfera era carica di emozioni; riuscivo a leggere chiaramente la gioia negli occhi della mamma di George, o l’impazienza nel sorriso di Louise.

Mi guardai un po' intorno. La chiesa era piena di gente, tutta vestita per l’occasione. I loro volti erano un’unica maschera di sorrisi e commozione. Un brusio sommesso invadeva l’aria, qualche risata risaltava ogni tanto fra tutte quelle voci. Cercai con lo sguardo Paul e John, dandomi della scema per non essermene ricordata subito; già dalla mattina si erano recati ad Upton Green, casa Harrison, a sistemare il piccolo salotto per il ricevimento. Harry aveva offerto di far esibire i Quarrymen, vedendoli parecchio giù per la storia dell’audizione. John non ne era stato troppo entusiasta, all’inizio. Gli sembrava di ricevere una sorta di contentino. Senza contare che, di certo, loro non erano quello che la maggior parte della gente si aspettava di vedere ad un matrimonio. Alla fine, però, si fece convincere dall’insistenza di McCartney. Quel ragazzo sapeva davvero come persuadere le persone.

Proprio mentre nella chiesa cominciavano a risuonare i primi accordi della marcia nuziale, scorsi un movimento con la coda dell’occhio; Cynthia mi salutava con un gesto energico della mano. Le rivolsi il sorriso più caloroso che riuscissi a fare, sperando così di mascherare quell’improvvisa stretta alla bocca dello stomaco.

La dovevo smettere di rimuginarci sopra… A quello.

Giusto il tempo di ricambiare il saluto, e la sposa entrò. Felice di poter finalmente abbassare lo sguardo, mi girai, sorrisi a George e gli presi la mano. Quel contatto mi calmò immediatamente ma, purtroppo, non mi impedì di continuare a pensare.
 
 

La piccola macchina era sovraffollata; i signori Harrison erano comodamente seduti davanti mentre io, George, Louise e Peter ce ne stavamo raggomitolati l’uno contro l’altro sui sedili posteriori. Per mancanza di spazio ero stata relegata in braccio a Peter, a detta loro il “fratello forte”. Mi sentivo terribilmente a disagio; sapevo di non essere una piuma, cercavo di farmi il più leggera possibile. Inutilmente.  

«Niente. Ormai dovranno amputarla la gamba su cui ti sei seduta, Abbey.» scherzò Peter, aumentando il mio imbarazzo, prima di passarmi giocosamente una mano fra i capelli.

Rispetto alla mattina l’aria si era fatta più pungente, rimpiansi di aver indossato solo un leggero giacchettino di filo. Grandi nuvole grigie avevano oscurato il sole, ricoprendo il cielo. Si avvertiva nell’aria il tipico odore di umidità, quello che precedeva un bell’acquazzone.

Arrivati ad Upton Green, scesi velocemente per porre fine alla tortura del povero Pete. Una macchina accostò proprio accanto a noi, poco prima dell’entrata di casa. Cynthia scese dal lato passeggero con eleganza e grazia. Per la prima volta vidi il suo vestito; la stoffa giallina le ricadeva dritta sui fianchi, tornando più morbida poco sotto il ginocchio. Quella ragazza era una visione unica, disarmante. Impallidii, non potendo assolutamente reggere il confronto.

Prima di riuscire a salutarla, il mio sguardo incontrò inaspettatamente due occhi scuri, profondi e seducenti. Stuart mi stava sorridendo, con aria fin troppo ammiccante.

Cavolo, però.

Dovevo ancora riuscire a capire come fare per difendermi dal fascino di quel ragazzo. Tenebroso e dolce. Che combinazione tremenda.

Mi salirono alla mente alcuni ricordi, immagini piuttosto sfocate di un divano, di una bottiglia di whiskey, forse. E risate, tante risate.

Arrossii violentemente.

Senza mai staccare li occhi dai miei, il ragazzo si mosse verso di me.

Velocemente.

Indossava un completo scuro, gli donava molto. I capelli erano spettinati, lunghi sulle tempie. Da quando frequentava John, la sua pettinatura ordinata aveva lasciato spazio a questa nuova, disordinata capigliatura. Devo dire che si adattava perfettamente alla sua personalità: intrigante, è la parola giusta.

«Ma questa gonna non è un po' troppo corta?»

Sembrerà strano, ma non c’era traccia di malizia nella sua voce o, perlomeno, la nascose molto bene.

«Ciao, Stuart».

«Ciao».

Sembrava divertito dal mio imbarazzo, fin troppo consapevole dell’effetto che aveva su di me.

Fortunatamente ci raggiunse anche Cynthia, stringendomi in un abbraccio caloroso. In quel momento mi sentii… sporca. Supponevo lei non ne sapesse nulla di quello che era successo. Mi domandai se, in fondo, fosse davvero giusto così. 

Sfoderai un sorriso ampio. Credo si notasse lontano un miglio che c'era qualcosa che mi turbava.  

Sei proprio una stronza, Abbey Anderson! Una falsa stronza, stronza, stronza!


 
 
Il salotto di casa Harrison era diverso dal solito, sembrava quasi più spazioso senza il grande divano ad occuparne la maggior parte dello spazio. Al suo posto, un lungo tavolo apparecchiato accuratamente. Il bellissimo pianoforte verticale era rimasto lì, però, contro la parete proprio sotto la finestra. Accanto, una chitarra acustica e due elettriche. Louise Harrison si guardava intorno, soddisfatta, rivolgendoci occhiate cariche di entusiasmo. 

L’ambiente era luminoso e profumato, mi metteva sempre così di buon umore passare del tempo in quella casa.

John e Paul sbucarono improvvisamente dalla cucina, con due birre in mano. Entrambi portavano una giacca grigia, una camicia ed una cravatta sottile, proprio come George.

Si erano vestiti uguali.

Tentai di soffocare un risata che, evidentemente, non passò inosservata. Almeno non a Paul, che mi sorrise in tono interrogativo.

Nel frattempo, con mio grande sollievo, Cynthia si era affiancata al suo ragazzo, evitandomi di dover stabilire un contatto visivo con lui. Di quella famosa volta non avevamo ancora parlato. Anzi; a dire il vero non avevamo proprio più parlato, non direttamente.

«Scusami, è che…» cercai di spiegare.

«Che…?»

«Questa sarebbe la vostra tenuta da Quarrymen?»
 
 

Tutto procedeva per il meglio. Il pranzo era stato un vero successo, grazie alla signora Harrison.

I ragazzi suonavano da un’oretta, ormai. Esclusi gli invitati più giovani, gli altri non sembravano gradire particolarmente il loro repertorio Rock n’ Roll.
Io me ne stavo seduta con Cynthia e Stuart, chiacchieravamo e bevevamo vino.

Un bicchiere dopo l’altro, scendeva facilmente giù per la gola e, ben presto, la testa cominciò a farsi pesante. Il profumo dolce mi inebriava, e come scendeva giù! Non ricordavo di avere una resistenza così scarsa all’alcool. Se non avessi smesso subito, probabilmente sarei incappata in una sbronza con i fiocchi.

«Ragazzi, io vado a prendere una boccata d’aria».

Sistemata nel minuscolo giardino di Upton Green, c’era una panchina di legno bianca. I ciuffetti d’erba mi solleticavano le dita dei piedi, lasciate scoperte da quei sandali infernali.
Il vento era decisamente freddo, mi sferzava il viso dandomi un po' di sollievo da quella tremenda sensazione di nausea.

Sentivo la musica arrivare attutita dall’interno della casa: le ultime note di ‘Summertime Blues’, di Eddie Cochran. Cominciai a canticchiarla, a bassa voce, seguendo Paul.

Il sole stava tramontando, ma il cielo era di una piatta tonalità grigia. Le nuvole soffocavano inesorabilmente la luce di quei pochi, ultimi raggi.

La musica si interruppe, facendo piombare tutta la via nel silenzio.

Sfilai una sigaretta dal pacchetto e frugai nella borsa in cerca dell’accendino. Niente, non c’era. Evidentemente dovevo averlo lasciato a casa.  

«Cavolo».

Sbuffai, ma non mi mossi da li. Una strana sensazione di benessere mi pervadeva, doveva essere l’effetto dell’alcool. Chiusi solamente gli occhi, ancora con la Marlboro languidamente appiccicata al labbro inferiore. Non so dire esattamente quanto tempo passò.

«Ciao, sconosciuta».

Sebbene non lo avessi sentito avvicinarsi, la voce di John non mi colse di sorpresa; sapevo che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi.

Frenai un sospiro e piegai la bocca.

Si sedette vicino a me, senza parlare. Tirò fuori il suo accendino dalla tasca e accese la mia sigaretta.

Presi immediatamente una lunga e rilassante boccata di fumo, rilasciando tante piccole nuvolette bianche. La tensione si sciolse immediatamente, liberando le spalle. Sulla lingua un sapore dolceamaro, quasi agro.

«Tu devi essere John, vero?»

Schiusi appena un occhio e lo guardai di sghembo, aprendomi in un sorriso sincero. Mi diede una leggera gomitata, ridendo sommessamente. Come eravamo passati dal silenzio totale a far finta di nulla?

«Guarda un po' cosa ho portato».

Si sporse di lato, per afferrare qualcosa. Tirò su due bottiglie di birra e prese immediatamente a sorseggiare, porgendomi poi la mia. La guardai, storcendo un po' il naso. Nonostante la spinta alle tempie già causata dal vino, era davvero una tentazione.

«Io passo. Per stasera ho già bevuto decisamente troppo».

«Avanti».

«John, sul serio. Anche tu dovresti andarci piano».

Sperai capisse la mia allusione. Neanche troppo celata, a dirla tutta.

«Non ne vedo il motivo».

Silenzio.

Nei suoi occhi balenò una scintilla. Sembrò riprendersi mentre si allineava sulla mia stessa lunghezza d’onda.

Ora aveva capito.

Il fumo amaro mi inondò nuovamente la gola, scendendo caldo fino ai polmoni.

Forse era il vino a rendermi così audace, ma non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi. Normalmente sarei stata la prima ad abbassare lo sguardo.

«Per quello» disse buttando giù una grande sorsata di birra.

Lo vidi abbandonare le due bottiglie sul prato di fronte a noi e girarsi velocemente verso di me, di modo da potermi guardare bene in faccia, scrutare la mia espressione. Non mi sarei fatta fregare; ero impassibile.

«Okay, affrontiamo la cosa».

«Bene».

«Sei imbarazzata?»

«Mi viene da ridere».

«Perfetto, non prendiamola troppo sul serio».

«Sono d’accordo.»

Un po' per allentare l’agitazione, un po' per il palese disagio di entrambi, scoppiammo a ridere. Una risata liberatoria, per svuotarci di tutti quei strani sentimenti.

Sbagliati, anche… forse, non so.

John riprese la sua birra, scolandola in pochi attimi. Guardai il suo profilo, quei suoi capelli disordinati. Un ricciolo gli ricadeva sulla fronte, ed io dovetti reprimere l’impulso di portarglielo indietro. Vista la situazione avrebbe potuto fraintendere.

Gettai il mozzicone oltre il cancello di Upton Green, in strada. Presi un respiro profondo, facendo tornare l’aria in circolo. C’era odore di erba bagnata e, sono certa che se la tensione avesse avuto un particolare aroma, sarei riuscita a sentire anche quello.

«John, quello che è successo…»

Quello che è successo, cosa ? E’ stato fantastico? Non lo è stato?

Menti, Abbey.


La voce del mio subconscio era prepotente e parlava solo nei momenti meno opportuni. Che gran bastarda!

«…siamo amici da tanto tempo».

Quella frase non significava nulla, nulla di quello che in realtà avrei voluto dirgli.

No, maledizione. Menti!



«E’ stato solo un attimo di distrazione» affermò lui, prima che potessi avere il tempo di parlare.

«Già».

«Ero un po' triste, e tu eri lì».

«Sarebbe potuto succedere con chiunque».

Bè, non proprio.


«Chiunque. Ed ero ubriaco».

«Anche quello».

«A proposito; scusami ancora per esserti piombato a casa in quel modo l’altra notte».

«E’ stata una mossa infelice, in effetti».

Il mio tono era freddo, distaccato. La sua bocca si piegò in una smorfia di disappunto, o magari vergogna. A dire il vero, non ero poi così arrabbiata. Ma era meglio farlo penare un pochino, tanto per essere sicuri che non gli venisse in mente di farlo di nuovo. 

John era talmente impulsivo.

«Sicura che quella proprio non la vuoi?»

Indicò la seconda birra, poggiata accanto al suo piede.

Fine del discorso. 

Sospiro. Lungo, lento.

«Serviti pure» dissi, ma aveva già preso a berla. Sorrisi della sua insaziabile voglia d’alcool.

Per qualche secondo rimanemmo così, immersi nei nostri pensieri. Avrei dato qualsiasi cosa pur di sapere cosa gli frullava per la testa. Io sapevo di non essere stata del tutto sincera, ma lui?

Abbassai gli occhi, notando che il mio vestito si era alzato fino a metà coscia. Lo abbassai lentamente, cercando di non farmi notare da John. Se non ricordavo male, quella sera avevamo iniziato proprio così.

Alcune note di una canzone spezzarono il silenzio, invadendo l’aria. L’espressione di John sembrò irrigidirsi. Aggrottò le sopracciglia, sorpreso.

«Chi cazzo è che sta suonando?»

Si alzò di scatto, asciugandosi la bocca con il dorso della mano. Mi fece l’occhiolino, invitandomi a seguirlo con un gesto della testa.

Quando rientrammo, tutti gli invitati si erano riuniti al centro del salone e ballavano. Avevano spostato il tavolo, accostandolo alla parete.

Un momento. Ballavano ?


Un’anziana signora aveva presto il posto dei ragazzi dietro al pianoforte, sfoderando il tipico repertorio da matrimonio, quello che tutti gli invitati si aspettavano e volevano cantare.

Guardai John, non doveva stargli affatto bene. La mascella contratta e un ghigno di sfida sulle labbra. Il suo sguardo vagava dalla bottiglia che teneva in mano alla donna.

Bottiglia, donna. Donna, bottiglia.

Riuscivo a sentire il rumore dei suoi pensieri, lo scricchiolio del suo cervello in funzione. Quando capii cosa aveva in mente era troppo tardi, ormai. Mi buttai in avanti verso di lui, per fermarlo, ma in un secondo le aveva già versato in testa tutta la birra.

«Io ti consacro, David!» pronunciò John in tono grave.

Mio Dio, non potevo credere che lo avesse fatto sul serio.  

Sul salone calò un silenzio glaciale. Gli invitati si fermarono, fissando inorriditi il ragazzo che non sembrava affatto pentito del suo gesto.

Posò la bottiglia ormai vuota su una sedia e, come era arrivato, se ne tornò in giardino senza dire una parola. Giusto il tempo di processare l’accaduto e Cynthia lo raggiunse sfoderando un mezzo sorriso di circostanza, imbarazzata.

Non sapevo cosa dire, nessuno sapeva cosa dire.

Ce ne stavamo solo zitti e fermi, in attesa di una sfuriata della vecchia. Per tutta risposta quella si passò una mano fra i capelli, scoppiando a ridere.

Cosa ?!


La sorella di George si fiondò su di lei, offrendole il suo aiuto. Si scusava all’infinito, ma la signora pareva stranamente divertita. Si asciugò come se niente fosse, come fosse stato tutto un incidente. Il vestito completamente macchiato, la testa fradicia. E quella rideva.

Un pazzo, non ci sono altre parole.


Potrei giurare di aver sentito una delle invitate più anziane dire «Quel ragazzo è così sfacciato che farà strada nella vita».

Presto tornammo al chiacchiericcio di prima, fingendo indifferenza verso l’accaduto.

Niente risse, per ora. Però papà avrà di che ridere quando glielo racconterò !

Abbandonato sul tavolo, il vino rosso mi chiamava a gran voce. Versai il fondo della bottiglia in un bicchiere, trangugiando tutto d’un fiato. Aveva un potere calmante unico, forse perfino meglio del fumo. Il suo sapore dolciastro, vellutato era molto più piacevole rispetto a quello delle Marlboro. Rieccola, la spinta sulle tempie. Ancora un paio di bicchieri e sarei partita.


«Mi ritengo offeso, sai?»

Mentre anche lui si serviva da bere da una bottiglia poco lontana, Stuart mi scrutava con aria beffarda.

«Non mi hai concesso neanche un ballo» spiegò.

Una sorsata veloce di bianco. Per la miseria, riusciva ad essere sensuale anche così. Ma come faceva?

«Non me l’hai chiesto».

Cercavo di fare la sostenuta, di rimanere sulle mie. Mi sporsi di nuovo verso il vino; era riuscito a farmi venire l’acquolina in bocca. Al diavolo quello che sarebbe successo. Non appena allungai la mano, Stuart l’afferrò prontamente. Quel contatto inaspettato mi scosse, facendomi arrossire immediatamente.

«Vuoi ballare?»

«Non… non c’è la musica».

Mi sorrise mesto, stringendo ancora per qualche secondo la mia mano fra le sue prima di lasciarla andare. I suoi occhi ardevano di una strana scintilla. Era vispa, allegra. Mi incantai a guardare il suo volto, così delicato e pulito. Indugiai sulla curva della mascella; i bordi erano sfocati e tremolanti.

Gli occhi: i primi ad abbandonarmi.

Lui afferrò l’intera bottiglia di Chardonnay, facendosi serio. Delicatamente passò la lingua sul labbro per levare una piccola traccia di vino.


«Non pensare di scapparmi, Abbey Anderson».

Si voltò e se ne tornò dai suoi amici, lasciandomi spiazzata. Rimasi a fissarlo fino a quando non si sedette sulla poltrona. Paul alzò gli occhi al cielo, sbuffando, indispettito dalla vicinanza del ragazzo. Credevo che le loro divergenze non si sarebbero mai veramente appianate del tutto.

Stuart mi rivolse un occhiolino, divertito. Sicuramente si era accorto che ero un po' brilla.

Aspetta. Stava forse cercando di sedurmi?

Fin dalla prima volta che ci eravamo visti avevo avvertito qualcosa. Era un ragazzo interessante, forte e affascinante.
Un pittore. Andiamo: a tutti piacciono gli artisti. Sono misteriosi e terribilmente sexy.

Lui lo era, almeno.

Inclinai un po' la testa. Si comportava con disinvoltura; scherzava, rideva, beveva. Sapeva benissimo di essere osservato.

Una strana consapevolezza si fece largo dentro di me, una prospettiva che fino a quel momento non avevo mai valutato. Non ancora. Potrebbe essere stato il vino a farmelo vedere sotto quella nuova luce, o potrebbe essere stato che semplicemente fra di noi c’era attrazione. Non lo so, ma alla fine non mi importava.

Stuart, eh ? E perché no...


Sono in disastroso ritardo, lo so, riuscirete mai a perdonarmi ? ç_ç

Che dire? Ho alcuni appuntini da fare su questo capitolo! 
Innanzitutto è mooolto lungo. Sinceramente, spero di non avervi annoiato. 

Poi, ah sì! 
I Quarrymen si esibirono veramente al matrimonio di Harry Harrison, solo che avvenne nel Dicembre del 1958, non a Febbraio 1959. L'ho posticipato di qualche mese, piccola licenza :')
E... John Lennon lo fece veramente. 
Ebbene sì. 
Versò una pinta di birra sulla poveretta che aveva osato far ballare gli invitati. 

Detto questo, ringrazio profondamente tutti quelli che continuano a seguire questa storia.
In particolare, mmaethmarshallb ( che ha cambiato nome ma è sempre lei 
♥ ), Jane across the universeweasleywalrus93MaryAppleJude__ e I_me_mine !
Le mie fantastiche e costanti lettrici ! 

Credo sia tutto !

D'ora in poi aggiornerò più o meno con questa frequenza, una settimana/dieci giorni. Gli impegni sono tanti e la scuola non va trascurata. 
Mi impegnerò a scrivere ogni volta che ho un minuto di tempo disponibile, lo prometto. 

Grazie a tutti di essere ancora qui, di sopportarmi. 

Come sempre, se volete farmi sapere cosa ne pensate attraverso una recensione sono ben felice di ascoltare i vostri pareri :)
Alla prossima!

Giulia. 

( Bettins, la tua torta è pronta al prossimo capitolo! Ti voglio bene, ragazza ) 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Norwegian wood. ***


8. Norwegian wood

 "I sat on a rug biding my time, drinking her wine.
We talked until two,and then she said
it's time for bed."

 


Liverpool – Marzo 1959.

La osservavo attraverso la finestra; seduta sulla poltrona con le gambe elegantemente accavallate, Mimi indossava un completo nero ed un giacchetto di filo adagiato sulle spalle. La trovavo una donna singolare, l’emblema della compostezza. Stava leggendo avidamente un libro dalla copertina rigida, senza titolo. Gli occhiali le erano scivolati fin sulla punta del naso. Faceva penzolare una sigaretta ancora spenta dalle labbra rosse. Incredibile come quella potesse risultare una posa tanto naturale e disinvolta. Senza staccare gli occhi dalla pagina, si allungò verso il tavolinetto di fronte a lei, prese l’accendino argenteo e lo fece schioccare, avvicinando la fiammella alla punta della sua Gauloises.

Sembrava così concentrata e rilassata che quasi avevo paura a bussare, non volevo disturbarla.

Proprio come se avessi formulato il mio pensiero ad alta voce, la porta si aprì e John mi fissò sorpreso. Aveva quell’aria scompigliata che tanto gli donava, una camicia completamente sbottonata e una canottiera che gli aderiva al petto. Con una punta d’amaro sulla lingua notai lo scatolone pieno di 45 giri che teneva in mano. I suoi adorati vinili. In cima spiccavano Elvis e Buddy Holly. Vederlo che impacchettava tutte le sue cose…

Dal salotto provenivano le note sommesse di un pezzo classico, un balletto. Probabilmente era Tchaikovsky; Mimi adorava Tchaikovsky.

«Ciao» salutai imbarazzata.

«Credevo di doverti passare a prendere».

Alzai le spalle, piegando gli angoli delle labbra. «Volevo fare una passeggiata».

«Okay. Andiamo?» Sul suo viso si aprì un sorriso radioso, di quelli che ti mettono subito di buon umore. Il suo sguardo brillava, scintille color nocciola. Mi fece dimenticare per un attimo di tutti i miei pensieri.

«Mimi, ci vediamo stasera!» urlò lui, sovrastando la musica.

John si chiuse la porta alle spalle ma riuscimmo a sentirla ugualmente, la voce potente e autoritaria di Mary.

«Gli occhiali, John!»

Lo vidi alzare gli occhi al cielo, un gesto automatico ormai. Li prese dalla tasca dei suoi pantaloni assicurandosi di essere visto dalla zia ma, non appena superammo il piccolo giardino di casa Smith, li rimise subito al loro posto. La sua testardaggine mi fece sorridere.

«Che hai da ridere, eh, ragazzina?» Il tono falsamente indignato.

«Rido di te, John Lennon».



 
Le strade di Liverpool erano deserte, la giornata piuttosto fredda. Il vento trasportava in giro l’odore di salsedine del porto, facendomi pizzicare il naso. Entrambi camminavamo in silenzio. Io mi guardavo i piedi, uno avanti all’altro. Conoscevo bene quel percorso; era una settimana che tutte le mattine andavamo da Stuart e ogni volta portavamo qualcosa di diverso. Quella sarebbe stata l’ultima visita prima del trasferimento definitivo.

Definitivo.

Era la prima volta che mi soffermavo davvero a pensarci. Da una parte ero molto felice per John, ma dall’altra non potevo fare a meno di realizzare che non sarebbe stato più il dolce ragazzino che vive in fondo alla via.

Sarebbe cominciato così, poi lo avrei visto sempre meno e, alla fine, saremmo diventati due estranei. La mia mente vagava a ruota libera, qualcuno doveva fermarla.

John. La consapevolezza di perderlo si fece largo in me, prepotente, più forte che mai. Non sarei riuscita a sopportarlo, proprio no.
Mi sentii improvvisamente spiazzata, come se il mio punto di riferimento si fosse spostato lasciandomi sola. Era diventato un uomo, non poteva più stare dietro a me. Una ragazzina.

Gli occhi cominciarono a pizzicarmi e, in un secondo, lacrime calde scesero silenziose sulle mie guance. Che reazione stupida, ma che mi prendeva?
Mi fermai di colpo al centro della strada e lo osservai allontanarsi davanti a me. Era una sensazione spiacevole, uno strano sapore sulla lingua. La vista mi si era appannata e sulle labbra sentivo il salato della mia tristezza. Tentai di asciugarmi passando il dorso della mano sul viso, ma niente. Sprofondai nelle mie dita; se non riuscivo a fermarmi avrei almeno cercato di nascondermi.

Un tonfo, un rumore di qualcosa che cadeva sull’asfalto e la debole protesta dei 45 giri che sbattevano l’uno contro l’altro. Venni raggiunta dalle braccia forti e familiari di John. Mi stringeva, mi accarezzava. Credo di non averlo mai sentito così vicino come in quel momento; ne avevo bisogno. Le mie mani viaggiavano sulla sua schiena mentre mi abbandonavo contro il suo petto. Piangevo silenziosamente, le lacrime sgorgavano senza il minimo rumore.
Con il naso poggiato nell’incavo fra il suo collo ed il petto, respiravo il profumo del dopobarba di John, fresco e rassicurante, misto ad un debole odore di sigarette. Era il suo aroma, ed era fantastico.

Dovetti combattere l’impulso di stringere i suoi capelli, di intrecciare le mie dita a quelle morbide ciocche castane.
Dopo un attimo che sembrò eterno, John si staccò da me guardandomi negli occhi. Il suo sguardo era preoccupato, ma sapevo che in realtà aveva già capito tutto. Era sempre così. I miei occhi erano arrossati e gonfi, le palpebre pesanti e le ciglia umide. Il mio aspetto doveva essere veramente penoso.

«Qual è il problema?» mi chiese in un sussurro. Voleva proprio sentirselo dire? Mi scansai piano, indietreggiando di un passo. Troppo, troppo vicini.

«Solo… non sparire. Okay, John?» mormorai piano.

Il suo sorriso si aprì debole, non disse nulla. Sapevo perché: non voleva fare promesse che non sarebbe stato in grado di mantenere.

Fece terribilmente male.
 



La porta della casa al numero 3 di Gambier Terrace era aperta come al solito. Nel varcare quella soglia ormai tanto familiare, sperai non si notassero troppo i segni del mio pianto; sarebbe stato imbarazzante. John mi pizzicò dolcemente le guance per farmi riprendere un po’ di colorito ed io sorrisi.

Stuart se ne stava sdraiato sul divano; un carboncino in una mano ed un blocco da disegno nell’altra. A terra, accanto alla zampa del tavolinetto stracolmo, poggiata sul bordo del posacenere, una sigaretta si consumava pigra. Lui era accigliato. Le labbra serrate in un’unica linea, sulla fronte una piccola ruga di concentrazione. Indossava le stesse cose di sempre; pantaloni scuri e camicia bianca con i primi bottoni distrattamente slacciati. Era scalzo.

«Sutcliffe! Alza le chiappe da lì e aiutami a sistemare».

Stuart sussultò, riportato alla realtà dal rumore dello scatolone che John posò sul mobile d’ingresso. La potenza dello sguardo di quel ragazzo mi investì in pieno ed il mio cuore mancò un battito prima di riprendere ancora più veloce. Sorrideva.

Forse non sarebbe stato proprio tanto brutto dover passare qui ogni tanto per vedere John.

Risposi al suo saluto muto, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Inavvertitamente mi sfiorai una guancia con l’indice e capii di essere arrossita.
Stuart si alzò dal divano, posò il blocco sul tavolo e, senza mai staccare gli occhi dai miei, venne verso di noi.  
Il sangue mi pulsava nelle vene, tamburellandomi nelle orecchie.

“Oddio, fa che il mio aspetto sia almeno decente.”

La porta d’ingresso si spalancò alle mie spalle, cigolando. Non diedi troppa importanza a chi poteva essere, non mi importava davvero. Successe tutto in pochi istanti; una ragazza entrò nel mio campo visivo, era mora. Con passo svelto azzerò la distanza che la separava da Stuart e, parandosi fa me e lui, la vidi stampargli un bacio allegro sulle labbra. 

Mi si gelò il sangue, la vista divenne pian piano scura, fino al buio totale. Cos’era quella sensazione? Gelosia? E come avrebbe potuto? Piuttosto identificai quella morsa alla bocca dello stomaco come delusione. Stuart che si interessava a me? No.

“Che stupida che sei, Anderson.”

I miei occhi tornarono alla normalità giusto in tempo per vederlo rivolgermi un sorriso imbarazzato, la ragazza ancora attaccata al suo collo. Non sapevo quale potesse essere la mia espressione in quel momento, quindi mi limitai ad abbassare lo sguardo. Vidi le scarpe di John vicino alle mie. Mi passò un braccio intorno alle spalle, ma supposi non si fosse accorto di cosa stava accadendo dentro di me.

«Elizabeth» la salutò John, in tono piatto. Alzai la testa di scatto.

Aspetta: la conosceva. Conosceva la ragazza di Stuart e non mi aveva detto nulla. Ma che doveva dirmi?
Contrassi la mascella e un sorriso forzato si aprì sul mio volto quando quella si girò verso di noi. Fino a quel momento non l’avevo ancora veramente guardata; aveva dei bellissimi capelli castani, lunghi fino al gomito. Teneva quei boccoli sciolti ed ordinati con un cerchietto di cuoio intrecciato. Il viso squadrato e vispo, le guance teneramente rosee. La prima cosa che però risaltava in lei, erano gli occhi. Incorniciati da folte sopracciglia scure, quelle due fessure marroni dicevano molto più di lei di quanto avessero potuto fare mille parole. Sprizzavano arte, intelligenza e creatività.

Elizabeth alzò il mento in segno di saluto, poi tornò su Stuart. Lui sembrava stranamente distaccato, quasi infastidito  mentre lei lo guardava con sguardo malizioso, provocante. Senza dire una parola, si sistemò lo zaino che teneva in spalla e si allontanò, verso la camera del ragazzo. Ondeggiava i fianchi, con fare apparentemente disinteressato.

Si aspettava che la seguisse, forse?

Mi fissavo le mani, rigirandomi i pollici, incapace di tuffarmi di nuovo negli occhi profondi di Stuart. 
Che situazione ridicola! Non sapevo come comportarmi. Feci dietrofront, andando verso l’ingresso. Le tempie pulsavano, sentivo uno strano disagio scorrermi lungo la schiena. Mi ci aveva fatto credere, ecco. Che bastardo.

«Abbey, aspetta!»

Non dovevo mostrarmi toccata. Indifferenza, sì, indifferenza.

«Mi fumo una sigaretta e torno». Fu la prima cosa che mi passò per la testa. Peccato che non avessi portato la borsa con me e quindi niente fedelissime Marlboro al seguito. Sperai non se ne accorgessero. Non potevo ammettere che mi stavo allontanando per l’imbarazzo; camminai impettita fino alla scalinata d’ingresso di Gambier Terrace. Mi rilassai, prendendo una gran boccata d’ossigeno.
La temperatura era veramente rigida; a contatto con l’aria, il mio fiato caldo si condensava in piccole nuvolette bianche di vapore. Poggiai la testa al muro e chiusi gli occhi. Il flusso dei miei pensieri era incontrollato.

Elizabeth.

Se non fosse stato per tutta quella situazione probabilmente mi sarebbe potuta stare anche simpatica.

“Cazzo, ci vorrebbe veramente una sigaretta!”

«Che stai facendo?»

La voce di John mi fece sobbalzare. Si accigliò, fissandomi con un’espressione fra il curioso ed il divertito. Sbattei le palpebre e, per evitare di guardarlo negli occhi, passai una mano sulle pieghe della gonna.

«Niente» borbottai a mezza voce. «Dai, rientriamo».

«Veramente, io stavo andando via».

«Ah».

«Sto da Cynthia».

«Okay».

Che dovevo fare, adesso? Tornarmene a casa o stare ancora un po’ con Stuart? No, no, non poteva andarsene. Il panico si impadronì di me.

«Tutto bene, Abbey?»

“Da sola. Con Stuart.”

«Certo. Vai tranquillo, John» risposi, mettendo troppa enfasi. Sperai capisse la mia supplica muta. Mi scompigliò i capelli in modo affettuoso e mi scoccò un’occhiata di scuse prima di andarsene in tutta fretta.  

“Perfetto, e ora?”

Rimasi ferma immobile per qualche minuto prima di decidere cosa fare.

Rientrai in punta di piedi, per non fare rumore. Mi aspettavo che il salotto fosse vuoto, che Stuart si fosse ritirato in camera insieme ad Elizabeth. In tutta onestà lo speravo, così da non dover parlargli, ma eccolo lì, seduto sul divano.

“Merda.”

Con le dita si sistemava le ciocche scure, una sigaretta gli pendeva dalle labbra. Si era messo gli occhiali.

«Credo che andrò anche io» farfugliai, forse a voce troppo bassa, ancora sulla soglia della porta. Che strano. I miei piedi non avevano alcuna intenzione di muoversi. Stuart mi scrutò da dietro le lenti, alzando leggermente gli occhi oltre la montatura.

«Resta ancora un po’».

“Sì.”  No.

«Io non…»

Si alzò dal divano, spense la sigaretta nel posacenere e si mosse verso di me. Lentamente, un piede dopo l’altro. Era terribilmente attraente. Non mi accorsi di star trattenendo il respiro finché non mi fu davanti, sorridendomi dolcemente.

«Voglio farti vedere una cosa».

Mi prese le mani, carezzandomi ogni singolo dito. Ero in allerta, guardinga. Ma che stava facendo?

«Stuart, proprio non ti capisco».

«Che c’è da capire?» Faticava a trattenere una risata, mi stava dando ai nervi.

«La tua ragazza è di là che ti aspetta».

«Non è la mia ragazza» disse in tono pratico. Si aspettava davvero che gli credessi? A quanto pare la mia espressione fu molto più loquace di me.

«Siamo stati a letto un paio di volte. Nulla più».

«Nulla più?!»

«Abbey, è solo la mia coinquilina».

Nessuno mi aveva avvertito che c’era anche una coinquilina. Una coinquilina che “un paio di vote” era stata a letto con lui. Fantastico; e mi toccava pure vederla tutti i giorni.

«Sei gelosa per caso?»

La sua domanda mi spiazzò, interrompendo i miei pensieri. Oddio, lo ero veramente. Dovevo smetterla, smetterla subito.
Sbattei le palpebre ed addolcii lo sguardo prima di rispondere. I muscoli delle mie spalle si rilassarono immediatamente. Lo guardai, stava sorridendo,sogghignava.

Ancora prima di avere il tempo di aprire la bocca, Stuart mi prese per mano. Nei suoi occhi leggevo un certo entusiasmo, un’eccitazione mai vista prima. Mi trascinò dietro di sé, verso la cucina. Non ebbi la forza di ribellarmi, o la volontà.

Un attimo dopo capii le sue intenzioni.

Il suo studio, dove dipingeva, aveva attirato la mia curiosità in modo particolare fin dalla prima volta che ce ne parlò. Lo avevo sempre immaginato strano e luminoso, ordinato e pieno di colore.

E finalmente eccolo lì, non proprio uguale alle mie fantasticherie.

C’era un forte odore di tempere, colori ad olio e carboncini. Il piccolo spazio era dominato da due grandi tele scure, poggiate su dei cavalletti proprio di fronte a noi e tante altre più piccole a terra, contro il muro. Nella stanza brillava solo la luce soffusa di un’unica lampadina che penzolava dal soffitto. Era sorretta da alcuni spessi cavi elettrici scoperti. La finestra era stata sbarrata ed i vetri dipinti con tonalità di blu, così che non entrasse neanche un singolo raggio di sole. Accostato alla parete alla nostra sinistra, c’era un tavolinetto con la vernice verde scrostata e le zampe scheggiate. Era invaso da una miriade di colori, pennelli, bicchieri pieni d’acqua colorata, matite rotte o spuntate, stracci logori e sporchi e tavolozze incrostate. Tanti piccoli foglietti scarabocchiati erano appesi ad una bacheca di sughero, proprio sopra il tavolinetto. Era un ambiente quasi magico, escluso dal resto del mondo.

«Wow».

Potrei quasi giurare di aver sentito le sue labbra aprirsi in un sorriso d’apprezzamento. In un’atmosfera così intima, illuminato debolmente dal calore della lampadina e circondato da tele e pennelli, Stuart sembrava… a casa.
La sua pelle diafana riluceva appena in contrasto con i capelli spettinati, resi ancora più cupi dall’oscurità sommessa. Era una visione unica.
Il sorriso si spense dalle sue labbra, mi fissava serio mente scrutava ogni singolo angolo del mio volto, con estrema attenzione. Cominciò ad avvicinarsi, muovendosi quasi impercettibilmente. Era a pochissima distanza da me, le punte dei nostri piedi si toccavano.
Delicatamente passò il suo indice sul mio zigomo, sfiorandolo appena, e pian piano scese giù lungo il collo.

«Hai pianto?»

Non risposi, mi limitai a continuare a fissarlo negli occhi. Ogni singolo recettore nel mio corpo era sull’attenti. “Che fai, Stuart? Oddio, che sta facendo?”

«Te l’avevo detto che non mi scappavi» sussurrò a pochi centimetri dal mio orecchio.

Mi afferrò per i fianchi, attirandomi a sé.

“Oddio, oddio, oddio.”

Me ne stavo impalata, incapace di compiere qualsiasi movimento, mentre le sue mani affondavano nei miei capelli, dietro la nuca. Aveva davvero un buon profumo, sapone e carboncino. I suoi occhi viaggiavano frenetici su di me, mi accarezzavano quasi.

«Posa per me» mi chiese, ma suonò più come un bisogno che come una vera richiesta. Si morse il labbro per contenere la troppa eccitazione.
Lo conoscevo così poco, eppure la sua sola vicinanza mi faceva sentire a mio agio. Vederlo su di giri in quel modo mi infondeva sicurezza. Come avrei potuto dirgli di no? Quelle sue attenzioni mi facevano sentire speciale, e avrei dato qualsiasi cosa pur di vedermi come mi vedeva lui.
Annuii sorridendo e avvicinandomi ancora di più a lui. Il suo pollice mi sfiorò il labbro inferiore. Quel contatto inaspettato mi accese, arrossii. Grazie al cielo era buio.

Si scansò di botto, andando dritto verso la porta. Lo vidi chiuderla e far scattare la chiave all’interno della serratura. Un rumore sordo e  c'eravamo solo noi due, immersi in un mondo fatto di pennelli, tempere e carboncini.



 
Il sole era tramontato da un pezzo quando tornai a casa. Mi sentivo stanca, non vedevo l’ora di potermi abbandonare sul letto. La mia punta del naso era fredda, l’aria della notte era ancora più pungente di prima.

Mio padre russava sommessamente in salotto, addormentato sulla poltrona. Non ebbi cuore di svegliarlo, così sgattaiolai il più silenziosamente possibile in camera mia. Le scale cigolavano ad ogni mio passo, tutti gli sforzi di farmi leggera, leggera furono inutili.

In me regnava una strana pace. La giornata passata con Stuart, le risate… Mi sentivo giovane e spensierata.

Il flebile bagliore della luna rischiarava la stanza, colorandola di tonalità fredde. Improvvisamente, una folata di vento gelido mi colpì in pieno, facendomi rabbrividire. Le tendine bianche svolazzavano come fossero aquiloni.

La finestra era spalancata.

Ripercorsi velocemente le azioni di quella mattina, cercando di ricordare se fossi stata io a lasciarla aperta. Non ebbi tempo di pensare; qualcosa si mosse nell’oscurità, il letto cigolò. Mi irrigidii, spaventata. Il sangue si fermò per un attimo nelle vene. Avrei voluto urlare, ma non ne ebbi la forza. Tutta la stanchezza era sparita, mi sentivo più vigile che mai inondata da tanta adrenalina.

Un pigro raggio di luna illuminò dei boccoli biondicci sopra una figura alta, snella e spigolosa.
La paura se ne andò in un istante. Sbattei i piedi a terra indignata, arrabbiata e stufa mentre il mio cuore riprendeva il suo battito regolare. Cercai di riprendere a respirare normalmente, chiudendo gli occhi e assecondando il ritmo affannoso del mio fiato.  

«John!»

«Hai idea di che ore sono, signorina?»

La rabbia cominciò la sua ascesa inesorabile, un formicolio che partiva dalla base della schiena fino a su, per le spalle e le braccia.

Sta volta lo ammazzavo sul serio.


 



Quasi non ci speravate più, eh ? 
Ritardo epico, mostruoso, imperdonabile.
Questo capitolo è stato veramente una fatica e inoltre sono qui a scrivere il mio piccolo angoletto e non so ancora che titolo dare D: In effetti dovrei star studiando filosofia...

Oh, Stuart :3 

Perchè i ragazzi come lui non ci sono più? 
Chi sceglierà la nostra cara Abbey? Il tenero Sutcliffe oppure lo sfiancante Lennon? Bho, non lo so neanche io ancora .__. 

Passiamo ai ringraziamenti ! :D 

Vi adoro, vi amo e vi ringrazio tutte, soprattutto I_me_mine, weasleywalrus93, MaryApple, MagicalMysteryJane, Qerty e marshallb per le loro meravigliose recensioni.
Mi scaldate il cuoricino, sempre.


Mando un grandissimo abbraccio a tutti quelli che seguono questa storia anche in maniera silenziosa.
Grazie, grazie, grazie dal profondo.

Come sempre, se avete qualche secondo di tempo, vi sarei infinitamente grata se lasciaste un piccolo parere :)

Un abbraccio ! 


Peace 


Bettins, ormai che ti voglio bene lo sai già. Che ne dici? Soddisfatta della tua Sacher? )

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Hold me tight. ***


9. Hold me tight
 

“Don't know, what it means to hold you tight, 
being here alone tonight, with you, 
it feels so right now.”



 
Liverpool – Marzo 1959.

Diedi un colpo secco all’interruttore e la luce giallastra rischiarò la stanza. Vidi John strizzare gli occhi, infastidito dall’improvviso bagliore. Indossava la stessa camicia della mattina, ma era molto più spiegazzata. Le maniche gli ricadevano disordinate, a diverse altezze, sulle braccia. I capelli erano un disastro ma incorniciavano, comunque, il suo viso in maniera tremendamente bella.  Aveva un’espressione stropicciata, l’aria stanca e… arrabbiata.

Arrabbiato, lui.

Ci fissammo in silenzio per qualche istante con sguardi furenti. Non potevo credere che fosse in camera mia, di notte, ancora! Ero immobile, la fronte corrucciata, in attesa che fosse lui ad iniziare. Provavo uno strano senso di agitazione, lo stomaco di contorceva, il respiro era irregolare ed affannato.
John aprì la bocca un paio di volte, per poi richiuderla quasi immediatamente. Si passò una mano sulla nuca, sospirando.

«Ce l’hai una sigaretta?» mi chiese con tutta la naturalezza di cui fosse capace.

Affilai lo sguardo, per capire se dicesse sul serio oppure fosse di nuovo ubriaco. Lentamente mi avvicinai, circospetta, scrutandolo con attenzione. No, sembrava lucido. Qual’era il suo problema, allora? Infastidito, John fece un cenno con la testa verso di me e poi sbuffò, allargando le braccia. Quel ragazzo era così snervante!

«Non ti do nessuna maledettissima sigaretta, John!» Il mio tono tradì una punta d’isteria.

«Va bene» fece lui pratico, scrollando le spalle.

Alzai gli occhi al cielo, spazientita. Mi sedetti sul bordo del letto e sfilai le scarpe, spingendole poi sotto il materasso con il piede. Le lenzuola erano stropicciate, gli angoli della coperta alzati. Per caso John stava dormendo prima che arrivassi?

La stanza era carica di tensione, piena di parole non dette.

Portai le braccia al petto, incrociandole. Venni invasa da una bella sensazione di calore; non mi ero accorta di avere freddo. Lo fissavo, gli occhi ridotti a due fessure. Avrei voluto tanto prenderlo a pugni, e lui se ne stava lì. Zitto.

«Mi vuoi dire che c’è?»

«Dove sei stata?» chiese come chi, in realtà, sa più di quel che dice.  

La lampadina ronzava, si doveva ancora scaldare del tutto, ma anche con la stanza immersa per metà nella penombra riuscivo a vedere i suoi lineamenti duri, seri. Il suo naso dritto, lucido, la curva della bocca e la linea salda delle labbra.
Per un momento chiusi gli occhi, stabilizzai il respiro. Quando li riaprii, John si era avvicinato e lessi nel suo sguardo che reclamava una risposta. Da dietro le tendine svolazzanti della finestra si alzò una folata di vento gelido, facendomi rabbrividire. Avrei provato ad essere conciliante; di certo attaccarlo non avrebbe giocato a mio favore.

«Sono stata esattamente dove mi hai lasciata tu».

«Con Stuart». Si rabbuiò immediatamente, contraendo la mascella.

Non capivo.Quella era una reazione che non mi sarei mai aspettata, mi spiazzò. Sbattei le palpebre un paio di volte, incredula.

«Si tratta di questo?»

«Quando pensavi di dirmelo?» Sbraitò con voce fin troppo alta.

«Ma dirti cosa? Sapevi benissimo che stavo da lui!»

A quelle parole scattò verso di me. Mi prese per i polsi e, in un modo non troppo delicato, mi strattonò, alzandomi da letto.
Adesso ero confusa, veramente.

«Te la fai con lui».

Credeva davvero che…

Non ebbi neanche il tempo di ragionare su ciò che aveva appena detto; la presa divenne più forte. Le sue nocche erano diventate bianche, sentivo le sue unghie affondare nel mio braccio. Odiavo quando si comportava così, lo odiavo. Di fronte a lui ero incredibilmente impotente, indifesa e debole. Proprio lui, lui che era la mia ancora, doveva farmi questo?
Gli occhi gli brillavano, le grandi sopracciglia corrucciate e le narici dilatate per la rabbia.
Prima che le lacrime avessero la possibilità di farsi sentire, mi liberai a fatica dalla sua stretta, massaggiandomi dove, fino a qualche secondo prima, le sue mani mi avevano trattenuta prepotenti.

«John, per favore, smettila» riuscii a mormorare, cercando di ricacciare indietro i singhiozzi. Non dovevo piangere, non dovevo. Il cuore martellava nel petto, nelle orecchie, nelle tempie. Il sangue scorreva veloce e mi riscaldava le guance.

John si passò una mano sulla bocca, prendendosi il labbro inferiore fra pollice ed indice. Rividi davanti a me il ragazzo con lo zigomo gonfio, insanguinato, e ne fui terribilmente spaventata. Quel ragazzo fuori controllo, capace di qualsiasi cosa, il ragazzo con la furia negli occhi.

Sul suo volto si aprì un’espressione confusa, delusa, dispiaciuta. Improvvisamente non riuscii più a sopportare l’intensità del suo sguardo. Mi resi conto solo in quel momento di star massacrando le mie povere unghie, rompendole una con l’altra, come mi capitava quando ero nervosa.

«Non siete mai usciti. Vi siete rinchiusi in quel maledetto studio. Lo so, Abbey».

Scandì le parole dell’ultima frase con severità, sibilandole quasi fra i denti. La sua voce suonava roca ed impastata.
Non lo avevo mai visto comportarsi in un modo simile prima. Che gli importava se avevo passato la giornata insieme a Stuart? Cosa c’era di male? Era stranito, irritato e… Mi mancò il respiro.

Geloso, John era geloso.

Soppesai velocemente quella possibilità, cercando di capire se fosse solamente la mia paranoia a parlare. No, non avrei mai avuto il coraggio di chiederglielo.
John si allontanò bruscamente, dandomi le spalle. In quel momento mi sentii stranamente in dovere di dargli una spiegazione, di rassicurarlo. Azzardai un passo verso di lui, ma il buon senso mi bloccò quasi all’istante. Riflettei bene prima di parlare; cosa avrebbe voluto sentirsi dire?

«Non è così».

Ero in attesa di una sua qualche reazione, qualsiasi. Continuavo a fissarlo, fissavo le sue spalle che si alzavano ed abbassavano regolarmente con il ritmo del suo respiro. Inconsciamente mi sincronizzai a lui… stava rallentando.
Quando finalmente si girò, l’espressione era più serena, quasi ironica. Come a mascherare tutte quelle sensazioni che provava, come a negarle. Le sue labbra si incresparono appena, tentando di nascondere un mezzo sorriso compiaciuto.

Era veramente impossibile; un secondo prima sarebbe stato capace di staccarti la testa a morsi, e quello dopo se la rideva come se niente fosse. Cambiava dal giorno alla notte in pochissimi istanti.  

Ah, Lennon. 

Si poggiò alla scrivania alle sue spalle, i palmi premuti dietro di lui contro il legno e le gambe lunghe in avanti, in una posa disinvolta.

«Quindi, niente toccatine?» Era divertito ora, non c’erano dubbi. I suoi occhi però rimasero cupi, velati da una strana patina di dubbio. Prima o poi i suoi cambiamenti d’umore mi avrebbero fatta uscire di testa.

Presi una gran boccata d’ossigeno e il grosso nodo allo stomaco si sciolse. Il senso di sollievo, però, durò ben poco. Digrignai i denti senza accorgermene, irritata. In un secondo tutta la mia rabbia riapparve. Adesso che il peggio era passato mi sentivo in grado di tenergli testa, di affrontarlo. Quello che era successo la mattina, la tristezza, il disorientamento, la paura di perderlo, non erano più nulla. Mi doveva una spiegazione. Oh, se me la doveva!
Trattenni il respiro e gli fui addosso. Con tutta la forza di cui fui capace gli diedi una spinta sulla spalla. Traballò leggermente, con mia grande soddisfazione, scivolando di pochi centimetri indietro con la mano. Mi guardava indignato, non facendo altro che aumentare il mio risentimento. 

Ma era il mio turno, adesso.

«TU! Sei un pazzo! Insopportabile!» Un altro spintone, più forte. «Mi hai scocciato, Lennon! Hai capito? Scocciato!»

Sgranò gli occhi mentre, con calma, si sistemava nuovamente contro la scrivania. Ripresi fiato. L’avevo fatto; l’avevo fatto e mi sentivo meglio. Molto meglio.
John si spostò lentamente, sporgendosi verso di me. Senza fatica mi trattenne salda per le spalle. Le sue mani forti sulle mie braccia, un sorriso furbo stampato sulle labbra. Eravamo vicini, riuscivo a sentire il suo odore, quel buon odore di sigarette e schiuma da barba. 

Sbatté le palpebre un paio di volte, spingendomi nuovamente seduta sul letto. Cedetti, lasciandomi guidare. Il mio cuore batteva all’impazzata, senza dare alcun segno di resa.
John sorrise conciliante, a metà fra il dispiaciuto ed il divertito. Sapevo che quello era semplicemente il suo modo di dirmi “sono fatto così, che ci vuoi fare?”.  Se in quel momento avesse portato gli occhiali, probabilmente li avrebbe fatti scivolare fino alla punta del naso e mi avrebbe guardata da sopra la spessa montatura.

«I tuoi occhioni dolci non servono, John. Ti avverto.»

Mi abbandonai svogliatamente e le molle del materasso cigolarono pigre sotto il mio peso mentre John, con un sospiro, prendeva posto accanto a me. Per qualche minuto non ci fu nient’altro che silenzio. I soli rumori erano quelli dei nostri respiri, che si fondevano con il fruscio delle foglie scosse dal vento in strada. Avevo un dannato bisogno di fumare, subito.
«Hai messo il broncio?» chiese John sottovoce, dopo un tempo che sembrò infinito, allungandomi una leggera gomitata nel fianco. Dalla mia bocca uscì uno sbuffo sonoro. Alzai gli occhi al cielo e lo vidi di sfuggita passarsi le dita fra i capelli, sistemandosi il ricciolo che gli ricadeva sulla fronte.

Senza degnarlo di una risposta, mi spostai di poco verso il cuscino alla mia destra. Lo alzai, prendendo la scatoletta rossa delle Marlboro che tenevo sempre lì sotto. La sigaretta scivolò fuori dal pacchetto, lasciando cadere qualche piccola fogliolina di tabacco sul mio candido vestito. Una volta a contatto con le mie labbra, la tensione si sciolse dalle mie spalle, liberandomi. Forse stavo sviluppando una dipendenza ma, fintanto che l’effetto fosse stato quello, non me ne sarei preoccupata. Ero calma, adesso.
Dalla scrivania di fronte a noi proveniva un luccichio argenteo; la flebile luce della lampadina rifletteva sull’accendino, facendolo splendere di tante piccole scintille. La stanchezza accumulata durante la giornata si fece sentire tutta assieme. Le gambe non accennavano a muoversi, le sentivo indolenzite, pesanti e formicolavano.
Mi sporsi verso John. Tenevo gli occhi chiusi e la Marlboro spenta stretta in bocca. Sapevo che stava sorridendo, e sono sicura che scosse anche la testa; aveva capito cosa volevo. Il letto traballò poco. Qualche secondo più tardi, la fiammella aveva raggiunto la punta della sigaretta ed il fumo inondato la mia gola. Buttai fuori dal naso; era amaro e pizzicava.

«Sono così incazzata con te».

Non lasciai trapelare nulla dal mio tono, era calmo e piatto.

«Allora non c’è proprio nessuna possibilità che tu me ne dia una?»

Lo fulminai con lo sguardo ma, vedendo come fissava il pacchetto delle Marlboro, non riuscii a trattenere una risata. Sperai non se ne fosse accorto.
Il fumo caldo scese fino ai polmoni un’altra volta, l’ultima boccata e poi passai la sigaretta per metà consumata a John. La testa girava, avevo un leggero senso di nausea.
Facendo appello alle poche forze che mi erano rimaste, riuscii ad arrivare all’interruttore della luce senza allontanarmi troppo dal letto. La lampadina smise di ronzare e la stanza piombò di nuovo nell’ombra. La brace della Marlboro continuava a bruciare; una piccola fiammella che si muoveva nell’oscurità.

Un flebile raggio di luna ci illuminava, lì seduti vicini sul letto, nell’aria troppe parole lasciate in sospeso. Volevo bene a John, ma non capivo cosa ci stesse succedendo. Tutto questo avrebbe determinato la fine della nostra amicizia?

Avvertii un’improvvisa fitta alle tempie e, senza preoccuparmi di infilare il pigiama, mi sdraiai, portandomi dietro di lui. Gustai la piacevole sensazione delle lenzuola fresche a contatto con la mia pelle. Ero contenta di aver lasciato la finestra aperta.

«Sono davvero stanca» mormorai con un filo di voce. John sbuffò fuori il fumo che mi pizzicò le narici.

Le molle del materasso scricchiolarono e, dopo essersi tolto le scarpe e spento la sigaretta nel posacenere sotto il letto, John mi raggiunse, finendo accanto a me. Fissavamo entrambi il soffitto, incapaci di guardare altrove. La mia camera sembrò immediatamente troppo piccola per tutti e due. Le nostre braccia si sfioravano appena; emanava un bel calore rassicurante. Percepivo una punta di imbarazzo, non osavo muovermi.

John fece scivolare le sue lunghe dita fra le coperte e mi afferrò un mignolo, accarezzandomi dolcemente. Il ritmo del mio cuore si fece irregolare, le guance ardevano. Chiusi gli occhi, sospirando e sperai che si fermasse lì. Il ricordo di quella, non proprio lontanissima, notte si fece più vivido che mai, ripresentandosi arrogantemente in un momento simile.
Avrei dovuto scansarmi? Cosa dovevo dire? Trattenni semplicemente in respiro.

«Mi sono comportato da idiota».

Girai la testa verso di lui, scrutai la sua faccia di profilo mentre si mordicchiava ansiosamente un labbro e mi rilassai. Come potevo trattarlo male, come avrei potuto?
Gli tirai un calcetto, ma non dissi nulla. Si liberò dalle mie dita e portò un braccio dietro la testa, sistemandosi poi su un fianco. Feci altrettanto e ci ritrovammo a fissarci negli occhi. Mi tuffai nella sua malinconia, nella sua irrequietezza e genialità.

«Sono solo io, lo sai questo. Vero, Abbey?»

La voce spezzata, due corpi nell’ombra, in una camera gelata. Perché dovevo provare quel senso di completezza quando ero con lui?
Dovetti riflettere per un attimo; era veramente solo lui? Annuii debolmente e la sua bocca si  increspò in un mezzo sorriso. Era così bello John senza la sua maschera, senza quella strafottente e ironica facciata.
Piano, si avvicinò, premendo le labbra sulla mia fronte. Un bacio leggero, carico d’affetto e mute promesse. Il suo profumo fresco mi circondava, mi stordiva e cullava.

Quasi sperai…

Lo abbracciai forte, cogliendolo di sorpresa. Rimase rigido per qualche secondo prima di lasciarsi andare. Ce ne restammo così, l’uno tra le braccia dell’altra, chissà per quanto tempo. Le lacrime premevano per uscire, ma sembrava così stupido piangere. Le sue mani mi stringevano, affondando nei miei capelli. Io tenevo il viso sul suo collo, ne sentivo il sapore sulle labbra. Le dischiusi appena, inspirando profondamente. Le nostre gambe intrecciate ci legavano stretti, come fossimo un tutt’uno. Cavolo, avevo bisogno di quel ragazzo. 

«No…» farfugliai quando capii che si stava allontanando.

No, no, no. 

Lo sentii ridere contro il mio orecchio per poi allacciarsi nuovamente a me.

«Resto con te».

Fu una delle cose più sincere e meravigliose che mi avrebbe mai detto in tutta la sua vita.  

«Mi hai spaventata stasera».

«Davvero? Scusa». Sistemò uno dei miei boccoli scuri da un lato ed io rabbrividii. Starsene insieme a lui, da soli, abbracciati, era una sensazione eccezionale. Nonostante tutto, riusciva ancora a trasmettermi una marea di emozioni diverse; serenità, protezione, tranquillità. Con lui ero a casa, ma non lo avrei mai ammesso ad alta voce.

«Scusa? Sei uno stronzo». Mi staccai da lui, dandogli le spalle. «Ma ti voglio bene. Non pensare che ti abbia perdonato, però» dissi, ma venni assalita dalla stanchezza e non sentii la sua risposta. L’ultima cosa che ricordo di quella notte è la mia pelle che prendeva fuoco sotto il tocco delicato delle sue dita.

 
 
Il caldo era asfissiante, quasi insopportabile. Ci misi un po’ a capire che John mi aveva sovrastata, schiacciandomi fra lui ed il muro. Russava sommessamente, con la bocca aperta. Una delle sue braccia mi cingeva un fianco, intrappolandomi. Quand’è che si era tolto la camicia? Arrossii al ricordo di quel che era successo, e cercai di liberarmi velocemente. Mi mossi senza preoccuparmi troppo; lo scansai, facendolo rotolare sull’altro fianco, e lo scavalcai. Il pavimento era freddo sotto i miei piedi, la testa pesante e la gola grattava.
La sveglia ticchettava fastidiosamente, avvertendomi che erano le nove e venti. Lo stomacò brontolò, lamentandosi. Mi allungai per chiudere la finestra e scesi subito in cucina. Avrei cucinato qualcosa.

Arrivata alla fine delle scale, qualcuno bussò alla porta con poca decisione. Chi poteva essere?
Girai la chiave nella toppa, e venni investita inaspettatamente dall’ intenso sguardo verde di Paul. Aveva un bel sorriso solare stampato in faccia ed io, prima di chiedermi cosa ci facesse lì, non potei fare a meno di pensare di avere gli occhi gonfi, le guance arrossate dal sonno e i capelli scompigliati. Cercai di rimediare, sistemandoli sommariamente con le dita, strecciando i nodi.

«Ehm, ciao».

«Ti ho svegliata?»

Forse arrossii. Feci finta di nulla, evitando di guardarlo direttamente negli occhi.

«Hai fatto colazione? Perché non entri?»

Mi scansai da davanti a lui per lasciarlo passare. Paul si grattò la testa e poi infilò le mani nelle tasche del giaccone scuro. Portava la custodia della chitarra in spalla.

«Ero passato giusto per un saluto, abbiamo le prove e vado un po’ di fretta».

«Ah. Sì, certo. Va bene».

Da quanto tempo era che io e Paul non ci facevamo una bella chiacchierata? Che fine aveva fatto il ragazzo che mi aveva permesso di andare avanti mentre ero a Manchester? Lo capii solo in quel momento; mi mancava, eppure era sempre con me.
Serviva un po’ di normalità nella mia vita. Niente affascinanti pittori, niente puntate notturne in camera mia. Solo… Paul, solo Paul.

«La prossima volta».

Un rumore alle mie spalle ci interruppe, le scale cigolarono malamente sotto alcuni passi pesanti e scalmanati. Un ragazzo biondiccio, con i riccioli spettinati, tentava di infilarsi una camicia a quadri il più in fretta possibile, inciampando poi in modo maldestro nei suoi stessi piedi. John soffocò uno sbadiglio, assumendo un’espressione fra lo stordito e l’assonnato, sperando di non far cadere la sigaretta che teneva stretta fra le labbra.

«Non sapevo fossi qui» asserì Paul, evidentemente confuso, guardando oltre me.  

«McCartney, che fai qua? Vola, siamo in ritardo!»

Si fece scivolare la Marlboro fra le dita facendomi un mezzo sorrisetto. Me ne doveva una, e me ne sarei ricordata.
John corse verso di me, mi imprigionò in fianchi schioccandomi un tenero bacio sulla guancia. La sua barba pizzicava appena, grattandomi. Era piacevole, però.

«Ripasso dopo».

Non fece neanche in tempo a salutarmi, che Paul venne trascinato fuori per il colletto del giubbotto. La porta sbatté e la casa piombò di nuovo nel totale silenzio. Rimasi lì per qualche secondo, ad ascoltare le loro voci sommesse che si allontanavano sul vialetto.

Sei stato con lei stanotte?

Oh, non fare così, Paulie. Lo sai che per me sei l’unico!

Fece John con una buffissima voce in falsetto. Sorrisi, scuotendo la testa. Perché non poteva sempre essere così?

Hai presente Allan Williams, John?

Riuscii a cogliere fra una risata ed un'altra, il tono diventava mano a mano sempre più leggero, ed ormai erano troppo distanti per poter capire bene di cosa stessero parlando.



Il tè bolliva in cucina, l'odore agro del limone mi teneva sveglia ed io non riuscivo a smettere di pensare. Tutto era tornato come prima, tutto era normale, ora, ed io non ero più tanto sicura che mi stesse bene così. 


 



Oh, ce l'hai fatta ad aggiornare, eh ?! 

Grazie, grazie, grazie a tutti quelli che continuano a seguirmi! :)

Ringraziamenti fulminei. 
Care Jane across the universe, weasleywalrus93, I_me_mine, MaryApple, MagicalMysteryJane e Jude_, I'm sending all my loving to you 


Devo scappare a ributtarmi fra le pagine di storia e filosofia, ora. 
Se avete qualche secondo di tempo, spendete due paroline per questa povera e indaffarata ragazza :3 

Alla prossima, speriamo il più presto possibile ! 
Un bacio, Giulia 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Wait. ***


10. Wait

Wait, until I come back to your side, 
we'll forget the tears we cried. 
But if your heart breaks, don't wait, 
turn me away.




 

Aprile 1959 – Liverpool.
 
Il sole scendeva pigro dietro l’orizzonte. Gli ultimi raggi della giornata guizzavano attraverso le nuvole pallide, sparendo piano, a mano a mano che il tramonto scivolava via. Tutto era così… immobile. 
Ero illuminata da un tenero sprazzo di luce, ma non c’era calore. Avevo freddo; un gelo che arrivava dritto fino alle ossa. Repressi un brivido che minacciava di liberarsi giù per la mia schiena.
Adesso che ci pensavo, non sapevo nemmeno dove mi trovassi, o cosa stessi facendo. Premuti a terra, lungo i fianchi, qualcosa mi solleticava i palmi delle mani. Qualcosa di morbido, umido. In quell’istante la visuale si allargò e mi accorsi di essere seduta su un prato.  Dei sottili fili d’erba si erano insinuati fra le mie dita.

Un prato? Ma come ci ero arrivata?

«Abbey». Cavolo!

Sobbalzai, colta di sorpresa. Ero sicura di essere sola, che non ci fosse proprio nessuno accanto a me. Il mio cuore avrebbe dovuto prendere a pompare veloce, ma non riuscivo a percepirlo. Cercai di voltarmi piano, ma rimasi bloccata; una mano familiare si posò sulla mia spalla, sfiorando e scorrendo delicatamente sul mio braccio sinistro. Mi girai. Capelli scuri, lineamenti dritti, labbra piene ed occhi seducenti.

Stuart?

Seduto alla mia destra, circondato da una surreale aura di tranquillità, sembrava quasi muoversi a rallentatore. Consapevole o meno, sul mio viso si aprì un sorriso imbarazzato, perplesso ma, al contempo, sincero. Avrei voluto chiedergli cosa ci faceva lì, dove ci trovavamo, ma il suo dito si posò delicato sulle mie labbra, zittendomi prima che avessi l’occasione di parlare.

«Sei la mia musa».

La sua voce produceva uno strano eco, rimbombava nelle mie orecchie, sempre più carezzevole. Il mio cervello si ammutolì. Piano, Stuart mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e cominciò ad avvicinarsi. Sempre di più, lentamente. Il suo volto era a pochi centimetri dal mio, ma non c’era nessuna traccia del suo buon odore, quel fresco aroma che sembrava provenisse direttamente dalla sua pelle. La sua bocca mi attraeva, inaspettatamente desideravo sentirla sulla mia. Non che quel ragazzo non mi facesse alcun effetto ma, ogni volta che mi ritrovavo a pensare a lui, venivo assalita da un inspiegabile senso di colpa. Ogni volta, tranne in quel momento.
Ma quanto ci metteva a colmare il vuoto che ci separava? Avanti, Stuart.

Aspetta, forse ho capito cosa…

«Che cazzata, ragazzina. Lo sapevo». Oddio, ma quando…?

Mi allontanai immediatamente da Stuart, ma lui sembrò non fare una piega. Rimase impassibile, congelato nella stessa posizione di pochi secondi prima. C’era qualcun altro alle mie spalle, qualcuno che aveva assistito all’intera scena. Questa volta non avevo dubbi: tono fermo, accusatorio, basso. Lo avrei riconosciuto in qualsiasi contesto, sempre.
Mi scoprii in difetto, in dovere di giustificarmi. Il cuore iniziò a tamburellare ed il calore, fino a quel momento assente, si concentrò interamente sul mio viso, nelle guance, nelle tempie, nelle orecchie. Incontrare lo sguardo deluso di John mi destabilizzò. Si accucciò alla mia sinistra, sulle ginocchia. Ero circondata, mi sentivo soffocare.

Lo sguardo di entrambi bruciava su di me. Mi fissavano, come stessero aspettando la risposta ad una domanda che non avevano posto. Non a parole, almeno. Ma io la conoscevo perfettamente.

Ingoiai un fiotto di bile; perché adesso la temperatura era così alta? Come mai le mie mani erano talmente bagnate da lasciar sgusciare via l’erba che stringevo sempre più forte fra le dita? E perché, al contrario, la mia gola era secca, arida?

Guardai prima uno, poi l’altro, e ancora. John, Stuart, John, Stuart.

Tutto cominciò a vorticare, i loro volti si confusero, sovrapponendosi. Vedevo le loro bocche muoversi senza udire una sola parola. Le sagome divennero ombre indistinte, scie che si mescolavano attorno a me. I colori caldi sbiadirono fino al grigio, il paesaggio sparì e mi ritrovai nel nulla. Continuavo a girare e girare. Nausea, cazzo, nausea.

Riaprii gli occhi, svegliandomi di soprassalto, prendendo un grosso respiro a pieni polmoni; riaprii gli occhi e la confortante luce che avevo sognato venne rimpiazzata da un vuoto buio; riaprii gli occhi giusto in tempo per fiondarmi in bagno, buttarmi a terra e vomitare.
Ero senza fiato, con i capelli incollati al volto dal sudore e, sicuramente, una febbre altissima. Cercai un po’ di sollievo strofinandomi contro le piastrelle fresche del pavimento, che però sembravano surriscaldarsi ad una velocità impressionante, almeno quanto me.
Detestavo stare male, soprattutto perché non capitava spesso. Avevo una salute di ferro; quella doveva essere solamente la terza, o quarta volta che…

Altro conato.

Nascosi il viso fra le braccia, ancora accasciata a terra. Quando fui certa che il peggio fosse passato, mi costrinsi ad alzarmi, scendere in cucina e prendere un bicchiere d’acqua per placare il tremendo bruciore che grattava per tutta la gola. Ignorai la fitta alle tempie che mi procurava anche solo compiere il minimo movimento, la debole protesta dello stomaco ad ogni nuova sorsata e, quando non so come, riuscii a ritornare sotto le coperte, ringraziai qualsiasi divinità celeste avesse deciso di assistermi.

I muscoli erano indolenziti, le ossa fragili ed avevo un saporaccio sulla lingua. Che schifo. Mi mossi fra le lenzuola, sistemandomi su un fianco. Poi ricordai.

Un sogno. Era tutto un sogno!

Sgranai gli occhi, per quanto mi fosse possibile. Senz’altro era dovuto al mio stato delirante, non c’erano altre spiegazioni.

John e Stuart. No, no, no! 

Non avrei dovuto pensare a nessuno dei due. Primo perché… e secondo perché…
Ma che ore erano? Non riuscivo a distinguere se fuori fosse notte o meno, però ora una pallida luce sembrava filtrare attraverso le tendine chiuse della finestra, rischiarando appena la stanza. O magari lo stavo solo immaginando.
La testa scoppiava. Dovevo disattivare il cervello, spegnerlo. Sembrava bastasse solamente lo scricchiolio dei miei pensieri ad aumentare la dolorosa pulsazione alle meningi. Annullare tutto, smetterla di pensare.

Stuart; ero la sua musa. John lo sapeva. 

Cavolo, forse sarebbe stato più difficile di quanto sperassi. E, fra dolore, confusione, pensieri e lenzuola bagnate dal mio sudore, rimasi così; incapace di riaddormentarmi veramente, ma nemmeno pienamente cosciente di quello che accadeva attorno a me. Mi rimaneva solo pregare. 
Fa che passi presto.
 
 


Qualcuno armeggiava sulla mia fronte. Ne sentivo il tocco piacevole sulla pelle, dita forti che si assicuravano che stessi bene. Chissà quanto tempo era passato.
Non ebbi la forza di aprire gli occhi, le palpebre erano saldamente incollate fra di loro ma, se non altro, il mal di testa era quasi completamente sparito. Mi divincolai, strusciando le guance sulla stoffa fresca del lato del cuscino che non avevo utilizzato.

«Abbey?»

«Mh» mugugnai a bocca chiusa, facendo salire un lamento basso e gutturale.

«Ti senti un pochino meglio?» Riconobbi l’inflessione tesa nella voce di mio padre. Non era abituato a gestire situazione simili, lo sapevo bene. Di solito era la mamma che si occupava di me quando ero malata. Che si occupava di tutto.

Il materasso traballò, abbassandosi sotto il peso di papà. Solo in quel momento realizzai del panno umido che mi stava sistemando sulle tempie per far scendere la febbre. Azzardai ad aprire un occhio. Quel suo gesto così naturale mi fece sorridere ed ebbi un’improvvisa voglia di abbracciarlo. Quel burbero e scontroso uomo che per sua figlia si scioglieva come neve al sole.

Neve? Cavolo, che sete.

Con le braccia protese in avanti, alzai il busto dal letto troppo velocemente. Un capogiro mi colpì come un fulmine, diretto, stordendomi ed addormentando leggermente le mie palpebre. Debole e pesante. Mio padre aveva l’aria corrucciata, seguiva ogni mio movimento con eccessiva apprensione, come temesse di sbagliare o farsi sfuggire qualcosa. Prontamente, mi sorresse per le spalle, evitandomi di ricadere indietro sul cuscino.

«Stai bene?»

Annuii, cercando di riprendermi. Lui non sembrò esserne molto convinto, ma era la verità. Avvertivo qualche crampo allo stomaco, sì, ma probabilmente era solo la fame. E la febbre era scesa quasi del tutto, il calore non era più così insopportabile. Mi misi seduta, portandomi la coperta fin sotto il mento. Solo quando mio padre rivolse lo sguardo alle sue spalle, mi accorsi che non eravamo soli.
Paul se ne stava poggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto, mordendosi il labbro inferiore. Si fissava le scarpe, spostando gli occhi meccanicamente da una all’altra.
Provai a salutarlo, ma riuscii solamente a tossire. Mi schiarii la gola, provocando una fitta al centro torace. Storsi un po’ il naso.

«Ciao» mormorai flebile, alla fine.

Finalmente mi guardò, rivolgendomi un tenero sorriso imbarazzato. Dovevo essere in condizioni davvero pessime; i capelli erano ridotti ad un unico groviglio indistinto e sapevo di avere delle occhiaie da far paura.
Papà si alzò dal letto, portandosi via la pezza ormai asciutta. Senza dire una parola si avviò verso Paul, gli batté un paio di volte la mano sulla spalla ed uscì aggiungendo «Ti do cinque minuti, non di più».

Rimanemmo qualche istante ad ascoltare il rumore dei passi di mio padre allontanarsi giù per le scale. Quando non ci fu nient’altro che silenzio, Paul si avvicinò e si sedette accanto a me. Mi spostai di qualche centimetro per fargli spazio. Teneva una mano nascosta nella tasca del giubbotto, e l’altra penzoloni lungo il fianco. Mi fece sorridere.

«Ero venuto a prenderti per le prove, ma…» iniziò, spiegando la sua presenza.

«Le prove! Me n’ero completamente dimenticata».

Erano giorni che pregavo John di farmi assistere, e alla fine nemmeno me ne ricordavo. Valutai di andare comunque, coprendomi bene. Feci per alzarmi, ma Paul mi fermò, posando una mano sulla mia gamba.

«Dove credi di andare?» mi ammonì.

«Mi vesto, ci metto poco».

«Mettiti giù, Abbey. Non puoi uscire».

«Hai fatto tutta questa strada, come minimo adesso devo venire con te» protestai, suonando sicuramente come una bambina testarda e lagnosa.

«Ero di passaggio».

«No, non è vero. Te l’ha chiesto John di passare a prendermi».

«Stai buona».

Non replicai. Per qualche strana ragione la sua voce assunse un tono quasi severo, mi ricordò molto quello di Lennon. Decisi di rimanere zitta e fare come diceva. Non potei fare a meno di adombrarmi.
In un secondo la sua espressione cambiò; si fece accigliato e pensieroso. Si piegò leggermente oltre il letto, sbilanciando il peso. Lo vidi rigirare la mano nel giubbotto ed estrarne una piccola busta di carta spiegazzata color avorio.

«Ehm, tieni» e me la porse, senza guardarmi.

«Cos’è?»

«E’ da parte di tua madre».

Lo guardai perplessa, inarcando un sopracciglio, ma lui non se ne accorse. Come mai aveva una lettera per me, di mia mamma?

«Io… ho incrociato il postino fuori casa, prima. Ho pensato che magari non volevi che tuo padre la leggesse».

Alzò lo sguardo, incontrando i miei occhi. Sembrò quasi scusarsi, ma non ne aveva alcun motivo.

«Grazie» dissi sincera, piacevolmente sorpresa da quella sua piccola premura. Paul era sempre così attento ad ogni dettaglio, sempre a preoccuparsi per gli altri. Che ragazzo straordinario.
Presi la lettera dalle sue mani e la aprii un po’ titubante, preoccupata da quello che avrei potuto trovare scritto. In fondo, da mia madre ci si poteva sempre aspettare di tutto. Scorsi le parole in fretta; erano poche, indispensabili. Quando arrivai ai saluti senza cattive notizie, mi resi conto di aver trattenuto il respiro.

«Va tutto bene?» Paul non aveva smesso un secondo di studiare la mia espressione, in cerca di un qualche segno. Voleva sapere cosa fosse successo, ma mai avrebbe avuto il coraggio di chiederlo apertamente. Gli sorrisi per tranquillizzarlo.

«Mamma torna per qualche giorno, tutto qui».

Mi allungai e nascosi la lettera sotto il letto, accanto al posacenere. Lui annuì, grattandosi la nuca, e si alzò.

«Sono contento, Abbey».

«Sì. Sì, anche io». In realtà ero turbata, inquieta. Senza ragione, poi.

Sbadigliai improvvisamente, senza aver il tempo di poter portare la mano davanti alla bocca. Uno sbadiglio prorompente, esausto. La mia smorfia dovette essere veramente buffa, perché Paul scoppiò a ridere ed io, completamente imbarazzata, desiderai essere inghiottita dalle coperte. Se non altro avevo riacquistato un po’ di colorito. Era davvero bello però sentire la sua risata, così cristallina.

«Tuo padre ci aveva concesso cinque minuti, meglio non sfidare la sua pazienza. Ed io sono già in ritardo» disse, con quella che aveva la parvenza di un saluto.

«D’accordo. Grazie, Paul».

Sorrisi, e lui fece altrettanto. Mi scompigliò ulteriormente i capelli, facendomi l’occhiolino. Ecco un’altra abitudine che aveva ripreso da John. O forse ero solamente io che mi sorprendevo a pensare a lui un po’ troppo spesso.

«Riposati, alle prove verrai la prossima volta» si congedò, avviandosi verso l’uscita. Raccolse la custodia della sua chitarra – che fino a quel momento non avevo notato – e, dopo avermi rivolto un ultimo cenno del capo, sparì oltre la porta, lasciandomi di nuovo sola con i miei pensieri.

Tornai sotto le coperte con uno sbuffo. Mi ritrovai a fissare le piccole crepe del soffitto senza davvero vederle. Cosa stava succedendo? Io e John avevamo passato tutta una vita insieme, come mai proprio ora le cose dovevano complicarsi? E che cosa diavolo significava quel sogno? Stuart mi intrigava, non potevo negarlo. Il suo fascino mi aveva catturata fin da subito; quella sua aria misteriosa, i suoi movimenti lenti e cadenzati. Ma c’era dell’altro fra di noi? Avrei voluto che ci fosse? La giornata trascorsa nel suo studio avrebbe dovuto dirmi qualcosa.

Mi rigirai su un fianco ed il mio sguardo cadde sul comodino, dove erano stati lasciati un bicchiere pieno ed una piccola compressa bianca. La ingoiai di getto, buttandole dietro un rapido sorso d’acqua. Scese faticosamente per la mia gola infiammata, raschiando. Dopo qualche minuto ancora la sentivo lì, come fosse rimasta incastrata. Bevvi poi tutto d’un fiato, vinta dall’arsura. Mi arresi; chiusi gli occhi e feci finta di ignorare quella fastidiosa sensazione, addormentandomi fra mille dubbi, il mal di stomaco, una lettera sotto il letto ed una maledetta pasticca che proprio non ne voleva sapere di scendere giù.
 
 
 
«Hey, bell’addormentata?» Un respiro caldo sulle guance.

Era stato un sonno tranquillo il mio, senza sogni. Ero finalmente riuscita a riposare serenamente, a recuperare le energie. Almeno fino a quel momento.
Mi stiracchiai con calma fra le lenzuola, inarcando la schiena, tendendo le gambe e portando le braccia in alto per rilassare i muscoli ancora rigidi. Quando aprii gli occhi, trovai il viso sorridente di John a pochi centimetri dal mio, in piedi accanto al letto e chino su di me.
Fece appena in tempo a scansarsi; mi alzai bruscamente, in un riflesso incondizionato, rischiando di colpirlo. Ero seduta, con la schiena premuta contro la parete dietro di me ed il cuore in gola dalla sorpresa. Intorno a me aleggiava il suo odore. Tutto sapeva di lui.

Oddio, ti prego, non dirmi che è un altro sogno.

No, ripensandoci non avevo poi tutta quella fantasia.

«Che… fai? Che ore sono?» domandai, roca. Avevo la bocca impastata dal sonno, secca per la sete, e lo stomaco che brontolava per la fame.
John mi guardava stralunato, come fossi io quella matta. Indossava una camicia bianca sgualcita, aperta sopra una semplice canotta dello stesso colore. I polsini sfacciatamente sbottonati, le maniche sugli avambracci. La scollatura lasciava intravedere la parte superiore del suo petto, scoprendone la rada peluria chiara ed una sottile catenina dorata che pendeva dal suo collo. Mi costrinsi a guardare altrove, controllando il respiro.

La penombra grigia della sera inondava la stanza; probabilmente avevo passato l’intera giornata a dormire. Mi stropicciai gli occhi, ancora per metà intontita, avvertendo immediatamente una fitta alle tempie. Cavolo, la febbre stava salendo di nuovo.

«Le otto, credo. Ti ho chiamata, mi ero stufato di aspettare». Rilassato e disinvolto. Ma si era completamente rincitrullito?

«Cosa, aspettare? John, ma da quanto sei qui?»

Suonai stridula; la gola era ancora troppo indolenzita e gracchiante.

«Un’ora, più o meno. E poi stavi anche cominciando a russare, quindi…» concluse con un sorriso furbo, arricciando il labbro inferiore in una smorfia divertita.

In un attimo, il motivo della sua visita era già passato in secondo piano. Spalancai la bocca, indignata. Io non russavo affatto! Con le poche forze disponibili, afferrai il cuscino sotto di me e glielo lanciai, centrandolo – con enorme soddisfazione – in pieno viso. Si scompigliò, strizzando gli occhi e sbuffando.
Scoppiai a ridere, incurante del fastidio al petto che mi provocava quella risata. Risi a perdifiato, contenta che John fosse con me a risollevarmi l’umore. Avevo il respiro soffocato dai singhiozzi.

«Ma come siamo violente». Abbozzò una risata, alzando le sopracciglia.

Si piegò a terra in modo stanco e strascicato, con le braccia penzoloni, afferrando il cuscino per poi pormelo in attesa che lo rimettessi di nuovo al suo posto. Ma io, senza accennare a muovermi, rimasi a fissarlo con un sorriso ingiustificato finché lui, con un soffio rassegnato, non me lo sistemò personalmente dietro la schiena, chinandosi verso di me.

«Va bene, lo ammetto, me lo meritavo».
 
Prima di allontanarsi, però, mi lasciò una tenera carezza fra i capelli, non arruffandoli come suo solito.

«Allora, che ci fai qui?»

«Non è ovvio, ragazzina?»

Il suo sguardo si illuminò, accendendo gli occhi di una strana scintilla. Sporgendosi verso la scrivania, recuperò dalla sua giacca un sacchetto di carta marrone. Lo vidi strusciare i talloni l’uno contro l’altro e liberarsi in fretta delle scarpe, che caddero sul pavimento con un tonfo sordo.
Non ebbi nemmeno il tempo necessario per ragionare e lasciarmi andare alla curiosità; venni sballottata a destra e sinistra dall'improvviso movimento del materasso e mi ritrovai John seduto di fronte, con le gambe incrociate ed il sorriso smagliante di un bimbo che vuole giocare. Portò il sacchetto a mezz'aria fra noi due, agitandolo impaziente; un fruscio, come una piccola marea che si agitava, urtando ora una sottile parete di carta, ora l’altra. Lo guardai confusa srotolarne lentamente il bordo piegato più volte su se stesso. Dal suono, sembravano tanti piccoli mattoncini che si scontravano. Il rumore della carta spiegazzata accompagnava i miei pensieri, accrescendo il mio mal celato disinteresse. John sembrava assorto, concentrato.

«Ti ricordi quella volta che mi sono fatto male alla gamba, da piccolo?» Fissò i suoi occhi radiosi nei miei.

Annuii, sforzandomi di ricordare; era un’estate di tanto tempo prima, e il dottore aveva costretto John al riposo forzato per una settimana, a causa di una brutta caduta. La versione ufficiale era che si era fatto male giocando con Pete Shotton giù a Strawberry Field.  In realtà, era caduto scappando dal mercato dopo aver rubato una mela. Ma quello Mimi non lo aveva mai scoperto. Mantenendo quel piccolo segreto, ero andata a trovarlo tutti i pomeriggi ed ogni volta, per farlo stare meglio, portavo…

Scattai, ridestandomi dai miei pensieri. Un flash; sapevo esattamente cosa fosse quel pacchetto. Mi aprii in una sorriso spontaneo, abbandonandomi alla piacevole convinzione che l’affetto che ci legava fosse una cosa meravigliosa, sincera e naturale. Come lo era respirare. John mi fece l’occhiolino ed io lo abbracciai di slancio, scivolando via dalle coperte.

«John, mi hai portato le caramelle!»

«Sì, ragazzina». Fece una faccia buffissima, una delle solite, portando il mento verso l’alto in una ridicola parodia di un sorriso. Le guance gli si gonfiarono, rosee e paffute.

Ridemmo insieme e, prima che se ne potesse accorgere, mi appropriai di pacchetto improvvisamente invitante. Diedi una veloce sbirciata oltre il bordo, accostandolo direttamente all’occhio destro. Erano proprio le stesse gelatine, quelle alla frutta, di tutti i colori. Non resistetti; infilai dentro la mano fino al polso e frugai per prenderne qualcuna.

«Quelle rosse sono le mie, ti avverto!»

«Basta che a me lasci le gialle Lennon, lo sai».

Ne afferrai una manciata, offrendone a John con il palmo aperto. Lui le studiò scrupolosamente, con le sopracciglia corrucciate in una smorfia concentrata. Si decise poi per tre alla fragola ed una all’arancia. Io mi accontentai delle poche rimaste; gialle e verdi. Mimammo una specie di brindisi, facendo scontrare le nostre caramelle, sorridenti. Con la mano libera, scansai i granelli di zucchero volati leggeri sul letto e mi persi a fissare John, che già aveva divorato metà delle sue. Dalla espressione compiaciuta e sognante dovevano proprio essere buone.
Ecco, stavo bene. Molto più che bene.  

Mi rabbuiai; una repentina fitta allo stomaco mi rammentò che forse  non era proprio una buona idea mangiare certe schifezze nella mia condizione.

«Che c’è?» mi domandò lui, ancora con la bocca piena ma già intento a rituffarsi sulla busta delle sue adorate caramelle. Suonò davvero comico, sputacchiando piccoli pezzettini rossi da tutte le parti. Forse nemmeno il piccolo Harrison era mai stato tanto famelico. Mi strappò una sorriso.

«Mi sai che non è il caso» spiegai indicando il piccolo confetto giallo e riposandolo all’interno della bustina «sai, con lo stomaco e tutto il resto».

Sgranando gli occhi, John ingoiò in fretta e si fece vicino a me, in ginocchio.

«Non dire cavolate, sono per te. Starai meglio!» Quasi urlò.

Non era arrabbiato, direi più preoccupato. Aveva quella nota di urgenza nella voce, una sorta di impazienza, che non lo fece suonare irritato.

«Avanti, dai».

Mescolò fra le decine di gelatine stipate strette una sull’altra e ne pescò una piccola gialla, posando poi il pacchetto accanto a lui. Avvicinandosi ulteriormente, la sua mano sinistra finì sul mio ginocchio, fungendo da appoggio, mentre l’altra con la caramella viaggiava direttamente verso la mia bocca.
La situazione scivolò rapida fuori dal mio controllo. Entrambi eravamo due maschere serie ed imperscrutabili, traditi solamente dai nostri respiri. Troppo irregolari, troppo.

Trattenni il fiato involontariamente, le labbra serrate, strette, immobili. Seguivo la scena con occhi che non sembravano i miei, come osservassi il tutto da una differente prospettiva.
John mi sorrise rassicurante nella timida penombra della camera. Era arrivato ormai a pochissimi millimetri da me. Riuscivo a sentirne l’odore, mentre le sue dita mi sfioravano impercettibilmente il labbro superiore. Tabacco, soprattutto, misto a quello della caramella al limone.

Stavo scoppiando; schiusi la bocca per prendere una grossa boccata d’ossigeno, ma il respiro si bloccò.
Arrivò prima il gusto agrodolce della gelatina, il lento sfrigolio dello zucchero sulla lingua, e poi il brivido lungo la schiena. Una lieve scossa mi fece contrarre il petto. Mi ci volle qualche istante per metabolizzare.

John mi aveva appena imboccata.

La sua mano restava lì, sospesa sulle mie labbra appena aperte. Lo carezzavo con i miei sospiri, lenti e caldi. Aveva assottigliato gli occhi, ma mai spostato lo sguardo dal mio. Le sue iridi riflettevano una flebile luce che proveniva lontana fuori dalla finestra.
Complice la vicinanza, notai piccoli dettagli che, nel buio, non ero ancora riuscita a cogliere; le sue guance erano chiazzate da un sottilissimo strato di barba, fresca e morbida; aveva l’aspetto un po’ sbattuto, stanco, come le occhiaie che contornavano il suo volto; i capelli erano un disastro, i boccoli della frangia alzati e scomposti. Allora perché continuavo a pensare che fosse bellissimo?  La pelle chiara, il naso dritto, gli zigomi appena pronunciati.
John si inumidì incerto le labbra. Totalmente non previsto. Ero rapita dallo scorrere fluido della punta della sua lingua, inebriata da quel movimento.

Oh, cazzo… 

Tentai di deglutire, incontrando però solo la gelatina che, ancora a metà strada per la mia gola, si bloccò prepotentemente. Tossii imbarazzata e mi affrettai a scansarmi, decisa ad interrompere quella… cosa. Puntando decisa le mani sul materasso, indietreggiai, ponendo la giusta distanza fra di noi. Non sarebbe finita bene.
Anche John parve riprendersi. Si guardò intorno, fece un sorrisino incerto e si schiarì la voce.

«T-te l’avevo detto che erano buone».

Silenzio, lungo, assordante.

Lo stomaco ormai era andato, chiuso. Qualcosa mi soffocava, – e non era la maledetta! – schiacciava tutti i miei pensieri. Le orecchie piene del battito sordo del mio cuore.
John guardò le caramelle storcendo il naso, come ne avesse mangiate tante da star male. Dopo quella sera avrei sempre associato il gusto del limone ad un confine da non sorpassare, una linea oltre la quale è pericoloso spingersi senza rimanerne incolume.

Limoni, uguale, pericolo. Attenzione! Alla larga! Vattene, scappa. Ora.

Cominciai distrattamente a mordicchiarmi un’unghia. Che situazione ridicola, avevo voglia di… ridere. Fu una risata isterica, che sorse dallo stomaco accompagnata dal sapore di quella dannatissima gelatina. Mi guadagnai un’occhiataccia da parte sua, dubbiosa, ma ben presto l’aria tornò rilassata e sgombra. Almeno quel poco che bastava a non asfissiarci più.
Tornai sdraiata, ormai fuori dalle coperte, mentre anche gli ultimi singhiozzi di spegnevano. John mi raggiunse con una strana ombra in viso; stanchezza, mi dissi. Mi guardò per un attimo eterno, e poi si sforzò di fare qualcosa di molto simile ad un sorriso.

«Abbey» soffiò, pianissimo.

«Mh?»

Occhi negli occhi, incatenati. Cosa vuoi dirmi, John?

Un sospiro, non so bene di chi. Forse il mio, o forse il suo. O magari quello di entrambi, a fondersi in uno solo.

«Niente».

Si scansò troppo presto; inarcò il bacino, facendosi strada con la mano nella tasca dei pantaloni. Ne estrasse una sigaretta mezza spiegazzata ed un accendino. Con pollice ed indice percorse la lunghezza della sua Gauloises, quasi in una carezza, per lisciarne le grinze. Portarsela alla bocca ed accenderla fu un’unica fluida mossa.

«E’ passato un pochino? Ti senti meglio?» Sbuffò il fumo dal naso, le labbra sottili ridotte a due linee parallele.

La sua domanda interruppe il vorticare frenetico degli ingranaggi del mio cervello, per fortuna. Mi limitai ad annuire debolmente. In punta di dita tracciai disegni invisibili sulla coperta, per tenermi impegnata.

«Come sono andate le prove?» La buttai lì, per cambiare discorso e distogliere la mia mente. Un discorso vago, informale, anonimo.
«Benissimo. Me la sono squagliata dopo dieci minuti».

Fuori si era fatto sempre più buio, il sole era un lontano ricordo; avvolto dalla pigra luce della brace rossa della sigaretta, riuscivo giusto a distinguere i contorni del viso di John. L’odore pungente del tabacco mi pizzicava le narici, gradevolmente.

«Ho subito pensato alle caramelle». Parlò, ma sembrò più una riflessione espressa involontariamente ad alta voce. «Ci credi che ho girato tutta Woolton per trovarle?»

Si era voltato verso di me. Non lo vedevo distintamente, ma ne percepii il movimento appena accennato. Sorrisi, invasa da un piacevole calore.

«I ragazzi salutano, comunque».

Chissà perché la mia mente corse a Stuart, in automatico. Rotolai su un fianco, rivolta verso John.

«Non c’era bisogno che li mollassi per venire qui».

«Avresti fatto lo stesso per me».

«Certo. Ma io potevo benissimo aspettarti, sai».

«Non dovresti ringraziarmi, piuttosto? In fondo ti ho guarita». Se la ridacchiò mentre un’altra boccata di fumo scendeva giù fino ai suoi polmoni. «Dottor Lennon» borbottò fra sé e sé, gonfiando il letto. Voleva solo sentire come suonasse, ma non si trattenne dal sogghignare.
Gli allungai una leggera gomitata nel fianco, ma non mi arrischiai ad abbracciarlo. L’equilibro era sottilissimo, un filo costantemente testo che rischiava di spezzarsi al minimo tocco. Era così difficile, specialmente se tutto quello che desideravo era stringerlo forte e sentirlo vicino. Mi limitai, da lontano.

«Grazie, John».

«Quando vuoi, ragazzina. Saranno sempre gli altri ad aspettare, non tu».

Le nostre voci suonarono entrambe troppo profonde, inadatte ad uno scambio così rilassato. Fuori posto, ecco.
Un ultimo respiro profondo e John schiacciò la sigaretta nel posacenere sotto il letto, sbilanciandosi con il braccio oltre il materasso. Uno stropiccio. Inavvertitamente, sfiorò con il dorso della mano la carta liscia della lettera che avevo, poco prudente, nascosto lì accanto. Lo sentii irrigidirsi mentre, con il solo ausilio del tatto, cercava di immaginarsi cosa fosse quella superficie.

«E’ di mamma, è arrivata stamattina» lo aiutai «nulla di grave».

Un lieve tremolio mi avvertì che aveva annuito, tornado al suo posto. Seguì un attimo di silenzio, un’assenza di rumori totale. Non c’era imbarazzo, eravamo solo immersi nei nostri pensieri. Probabilmente avrei dovuto riflettere di più sulle mie parole, e su quelle di mia madre. Al momento non gli diedi il giusto peso, ma come avrei potuto?
Proprio mentre stavo per riaprire bocca, John si alzò. Fu talmente veloce che, il tempo di distinguere la sua figura nel buio, e si era già rinfilato le scarpe.

«Noi due dovremmo fare qualcosa». Le sue parole mi lasciarono di stucco. A cosa si riferiva? A quale riguardo avremmo dovuto fare qualcosa? Intendeva noi, noi? Non sapevo cosa rispondere, non volevo; avrei fatto una figuraccia delle mie, non riuscendo a tenere a freno la lingua.
Era alle prese con un laccio, tentava di annodarlo faticosamente, procedendo alla cieca. Rialzandosi, si passò una mano fra i capelli. Magari li stava solamente ravvivando, come avevo fatto io tante volte per lui. Si avvicinò, per vedermi chiaramente. Perché non accendeva semplicemente la luce?

«Qualcosa di folle. Io ho un po’ di soldi da parte, e tra poco è anche il tuo compleanno».

«Cioè?» A volte faticavo davvero a stare dietro ai suoi ragionamenti contorti. Ero pronta a scommettere che fosse un’idea balenata così dal nulla, senza capo né coda.
Aveva recuperato la sua giacca, abbandonata malamente sullo schienale della sedia lì accanto. Dopo un attimo di riflessione si illuminò, sistemando una delle maniche che si era girata al rovescio. Riconobbi immediatamente la sua espressione da “colpo di genio”. Non sarebbe andata a finire bene, per niente.

«Un viaggio. E’ perfetto, che ne dici?»

«Un viaggio? Sul serio? E dove?» chiesi, sfidandolo. La sua euforia si sarebbe spenta entro un paio di giorni, sicuro.
 
«E che ne so! Non troppo lontano, però, che il budget è limitato. Che si spenda poco e si beva tanto, unica condizione» finì, fin troppo serio. Sospirai, mascherando una risata.

Riflettendoci però – e sorvolando sulla sua follia – non era poi così male come proposta. solo qualche giorno, magari. Ci saremmo divertiti sicuramente. Ma mio padre? Avrei potuto lasciarlo?

«Ci penso» concessi, ancora altamente perplessa, mentre lui si infilava la giacca.

«Aspetta».

Sporgendosi ancora verso di me, posò teatralmente una mano sulla mia testa. Mi sovrastava, facendomi sentire minuscola. Era proprio quella la sua intenzione. Corrucciò le grandi sopracciglia, scurendosi in volto, e arricciò le labbra.

«Sei sicura di avercela l’età per bere, eh ragazzina?» mi prese in giro, caricando la voce in modo grave e basso. Mi afferrò per le spalle, ormai mi conosceva fin troppo bene. Risi, ma mi divincolai, spingendo con le braccia contro il suo torace. Era davvero incorreggibile; la presa non accennava a diminuire. Maledetto Lennon.

«Lasciami, John!» Biascicai fra i singhiozzi.

«Lo prendo come un no. Pazienza, berrò io per te… oltre che per me». Schivò abilmente le mie manate, ben attento però a mantenere il contatto saldo e resistente. Mi arresi con uno sbuffo, mettendomi buona e calma. Tanto alla fine avrei bevuto comunque, avevo sempre bevuto. E poi neanche lui era ancora maggiorenne. “Io sono un uomo grande e grosso, so insultare pesantemente e tirare pugni. Farei di tutto per una birra; quando si dice l’amore.” Maledetto Lennon.  

Lui scosse la testa divertito dalla mia faccia contrariata e mi schioccò un sonoro bacio sulla fronte. I miei muscoli si distesero involontariamente a quel contatto.
Non disse o fece nient’altro. Si avviò verso la finestra, scostò le tendine e aprì il vetro. Quando sentii la preoccupazione montare, John era già con mezza gamba di fuori. Sgranai gli occhi e quasi inciampai nei miei stessi piedi per la foga di raggiungerlo e fermarlo. Lo afferrai prontamente per un braccio, ignorando il capogiro causato da quello scatto fulmineo.

«Che diavolo fai?!»

Mi guardò con sguardo innocente. Ah, non avrebbe fatto passare me per la pazza stavolta.  

«Credevi davvero che fossi passato per la porta?»

«Bhè, sì».

Sghignazzò, aggrappandosi al cornicione.

«Tuo padre non mi avrebbe mai lasciato in camera tua tutto questo tempo».

«Quindi hai pensato bene di rischiare l’osso del collo?»

«Si fa quel che si può». Mi sorrise sornione, portando anche la seconda gamba oltre il davanzale. Poggiava i piedi sulla piccola tettoia dell’ingresso. Era un bel salto fino a giù.

Strizzò l’occhio con fare rassicurante, voltandosi poi di spalle ed accingendosi ad ostentare un’agilità che non ero proprio sicura possedesse.

«Ciao, ragazzina».

«Stai attento» sussurrai debolmente, portando le mani a coprirmi gli occhi. Sentii una risata soffocata, un tonfo sordo e riacquistai la visuale giusto in tempo per vederlo allontanarsi con disinvoltura. Camminava a ritroso, ancora volto verso di me. Un’ombra stagliata contro la città, una sagoma scura ed innocua.
Sospirai con il cuore in gola, per riprendere fiato. Lui alzò la mano in segno di saluto un’ultima volta ed accelerò il passo, dandomi le spalle. Rimasi alla finestra per un bel po’, finché John non fu inghiottito dalle strade deserte di una Liverpool ancora ignara. Maledetto Lennon. 
 
 


Erano passate da poco le undici e ormai anche la radio non era più di molta compagnia. Sentivo solo il gracchiare incessante della fine delle trasmissioni ed il russare cadenzato di papà. Dopo una frugale cena, ci eravamo sistemati sul divano, ma ben presto il sonno aveva preso il sopravvento. Su di lui. Come era ben prevedibile, quella notte la stanchezza era una cosa che non avrei contemplato, neanche lontanamente.

Mi ero appena alzata per porre fine a quel brusio fastidioso, quando dei ticchettii squillanti spostarono la mia attenzione sulla piccola finestrella accanto all’entrata. Non mi sorprese più di tanto. John, ancora con l’indice premuto sul vetro appannato dal suo alito caldo, mi faceva cenno di raggiungerlo fuori. Nessun sorrisino, niente di niente.

Esitai un attimo, ma non era il caso di invitarlo dentro. Con un’ultima occhiata, afferrai il grande cappotto di papà dall’appendiabiti e, tenendo una mano ben salda sulla serratura, abbassai la maniglia della porta senza il minimo rumore, per non rischiare di svegliarlo.
Trovai John seduto a terra, sul piccolo gradino prima della soglia. L’aria era decisamente gelida ed umida, condensava il fiato in piccole nuvolette bianche e piene. La sentivo sulle gambe, nelle narici, e sulla punta delle dita, ma soprattutto la vedevo sulle spalle di John, troppo poco coperte solo da quella leggera giacca scura.

Mi sedetti accanto a lui, coprendo istintivamente entrambi con la spessa e calda stoffa del giubbotto di lana sgraffignato in casa. Sentii John rabbrividire, per stringersi ancora di più a me. Quando i nostri occhi si incontrarono, lessi nel suo sguardo una strana inquietudine, un’ombra scura e pensierosa. Aprii la bocca, ma la sua espressione mi zittì all’istante.

«Ho… rotto con Cyn».

Qualsiasi cosa avessi detto in un momento simile sarebbe suonata stridente. Un banale mi dispiace non sarebbe servito a nulla, men che meno avrebbe celato quello sbagliatissimo senso di gratitudine e sollievo che pian piano nasceva in me, assumendo consapevolezza e forma. Mi limitai ad appoggiare la testa sulla sua spalla, in una muta promessa di affetto. Prima di potermene rendere conto, il mio naso era arrivato a sfiorare il suo collo. Quella sera odorava solo di John. Niente sigarette, niente dopobarba. Solo un lieve sentore di ghiaccio, e poi nient’altro che la sua pelle. Sospirò contro di me, ed io capii che un altro piccolo tassello stava cadendo.

C’era una domanda che solleticava la mia mente da mesi; ogni volta che minacciava di uscire l’avevo sempre arrogantemente rinchiusa in un cassetto, gettando la chiave in angoli dimenticati del mio cervello. Ogni volta, e quella si ripresentava più forte di prima, più potente e concreta.

Ma quella sera la voglia di lottare contro me stessa mi aveva abbandonata.

Sarebbe davvero così sbagliato?
 





 





 
Pensavate di esservi liberati di me, eh ? :)  Lo so, è una vita che non aggiorno.
La verità è che sentivo di essermi un po’ lasciata andare nello studio. Ho deciso di prendermi questo piccolo periodo di pausa in cui dedicarmi completamente alle cose giuste della vita. Niente distrazioni.

Mi dispiace, ma sappiate che non sparirei mai. Che ci crediate o no, i personaggi di questa storia sono i miei migliori amici e non potrei mai separarmene. Spero di essere riuscita a riscattarmi almeno un pochino con questo nuovo capitolo. Non è particolarmente carico e denso di avvenimenti, ma esplora la mente e la psicologia di Abbey, facendo luce suoi sui sentimenti. Il sogno all’inizio è una parte che mi piace particolarmente, ed è fondamentale per riuscire ad entrare nella logica dei pensieri di questa ragazza.

Ah, il capitolo è anche lungo oltre il doppio di quelli che pubblico di solito. Normalmente mi mantengo sull’ordine delle duemila parole, questo sfiora le seimila. Sono sempre un po’ restia in questi casi, ho paura di annoiarvi o dilungarmi troppo. Ma stasera mi devo far perdonare. Spero comunque che scorra e non sia pesante. Aspetto i vostri pareri con ansia :)


Mi scuso anche per la mia assenza in generale, per non aver recensito o letto nulla di vostro in questi giorni. Cercherò di mettermi in paro :)

Detto questo, le recensiste ! I_me_mineweasleywalrus93Jane across the universeMagicalMysteryJane e marshallb siete delle donne fantastiche, mi scaldate il cuore e io vi amo ♥  Ci tengo a ringraziare anche tutte le 15 meravigliose persone che tengono la mia storia fra le preferite, e le 11 che la seguono. Davvero non mi aspettavo di poter riscuotere tanta approvazione :’)

Stasera ho la chiacchiera facile, mi sono dilungata fin troppo anche qui ! 
Spero di riuscire a tornare ad intervalli regolari, tempo e studio permettendo.
Un grandissimo bacio dalla vostra Giulia !

( Correte in Edicola, Revolver è a dir poco fantastico )

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1209120