Sally

di ericapenelope
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I - Gli Anni '50 ***
Capitolo 3: *** II - Miracolo ***
Capitolo 4: *** III - Parole e Silenzi ***
Capitolo 5: *** IV - Quella storia ***
Capitolo 6: *** V - Rivelazioni ***
Capitolo 7: *** VI - 1965: Il gelo su Chicago ***
Capitolo 8: *** VII - Avanzi di Corpi ***
Capitolo 9: *** VIII - Quello che sarà, non è mai quello che ci si aspetta ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

La puzza di gas di scarico anneriva le narici della ormai ottantenne Sullivan Grace. La suola delle scarpe era consunta dal troppo girovagare. Il ticchettio dei tacchi risuonava lento e umile per le strade di Chicago. Miss Grace era ritornata in città dopo molti anni. La confusione, il tanfo maleodorante e i mille colori le sembravano non essere cambiati mai. Nel corso della passeggiata aveva riconosciuto le più grandi architetture della metropoli come il Millenium Park o il Richard J. Daley Center. Di quest'ultimo non ricordava la possibilità di cambiare colore all'acqua. Quando incrociò un giovanotto dall'aria spigliata scegliere la tonalità verde pastello, pensò che era stata via troppo tempo. La tecnologia aveva superato la sua capacità di pensiero. Questo le dava dispiacere, ma anche un senso di curiosità. Se nel giro di sessant'anni tutto era così cambiato, figuriamoci tra altri sessant'anni dove sarebbero arrivate tutte quelle diavolerie. Miss Grace attraversò Polk Street e si addentrò all'interno di una piccola tavola calda. Aveva un appuntamento. Dopo anni aveva richiesto ad una giovane giornalista, amante della cronaca rosa, di ascoltare una storia che di “cronaca” non aveva granché, ma che se sbirciava nei libri di storia, forse avrebbe riconosciuto qualche nome eccelso.
« Giovanotto, sia gentile. Mi aiuti » proferì con tono sommesso Miss Grace.
Il giovane cameriere la fece accomodare ad un tavolo accanto la finestra. Da quella postazione poteva osservare i passanti e le autovetture sfrecciare. Era sempre stata scontenta di quelle macchine puzzolenti, ma doveva ammettere che, senza di quelle, la maggior parte dei chilometri che aveva fatto nel corso dei suoi ottant'anni non sarebbero stati possibili. Miss Grace lo ringraziò, si accomodò ed ordinò un tè caldo con limone, senza zucchero. Lo prendeva così da anni e da anni non ne assaggiava uno come si deve.
Una volta arrivata l'ordinazione, decise di aspettare che il liquido dorato si raffreddasse. Le iridi cristalline viaggiavano caute tra le varie chiome di tutti i tipi, cogliendo nel dettaglio la particolarità di ognuno.
Ad interrompere il flusso dei suoi pensieri e il piacevole passatempo, fu Annabelle Lorentz. Miss Lorentz possedeva un sorriso timido, ma lo sguardo sembrava essere accattivante, zelante e deciso. Aveva lunghi capelli corvini avvolti in uno chignon alto e un paio di occhiali da vista sulla punta del naso che spingeva indietro con l'indice destro ad intervalli regolari, simile ad un tic nervoso.
« Buon pomeriggio, sono Annabelle Lorentz. E' lei Miss Sullivan Grace? »
« Buon pomeriggio a lei, cara. Sì, sono io Sullivan Grace, ma mi chiami pure Sally ».
La vecchia donna le sorrise affabile, indicando il posto vuoto dinanzi a sé. Annabelle la guardò studiandone il viso, le rughe e l'espressione vissuta. Miss Grace aveva una storia da raccontare e la giornalista in erba era pronta a prendere qualsiasi appunto, nozione ed informazione riguardo quello che le avrebbe raccontato.
« Se non le dispiace, appena se la sente, attaccherò il registratore. Sa', per non perdere niente di quello che mi dirà » spiegò Miss Lorentz, ordinando una cioccolata calda con panna.
Miss Grace annuì cordialmente, portandosi la tazza alle labbra. Il gusto caldo di limone le pervase l'esofago, riscaldandole lo stomaco ormai avvezzo a pochi alimenti.
« La devo informare, signorina, che la mia storia non è solo una storia di cronaca rosa. In realtà non è affatto una storia recente » incominciò Miss Grace.
« Mi scusi, Miss Grace ».
« Sally » la interruppe Miss Grace. « Non mi faccia sentire più vecchia di quanto già non sia ».
« Mi scusi Miss Sally, ma io sono una giornalista di cronaca. Mi occupo di gossip e di altre notizie riguardanti le vite scandalose dell'Illinois e i dintorni di Chicago. Se non è una storia che possa interessare alle giovani donne per spettegolare nei bar o negli istituti estetici, devo declinare il suo invito. Il mio tempo è prezioso, come può immaginare ».
« Miss Lorentz, di questo non si deve preoccupare. Le eleganti donne di questa città potranno spettegolare della storia che le racconterò fino all'era prossima a questa. E' una storia senza tempo, una storia che non ha bisogno di essere odierna e fresca. E' una storia d'amore e, come tutte le storie d'amore, il tempo è relativo ».
Annabelle Lorentz ascoltava la voce greve ma candida della vecchia Miss Grace. Non capiva come mai l'avesse interpellata, d'altronde era ancora una stagista e il suo tempo, come in quasi tutte le grandi città, era denaro. Eppure c'era qualcosa in quella vecchia signora dagli abiti borghesi che l'affascinava. Forse era il modo in cui si esprimeva, forse erano quegli occhi puliti e vissuti, reduci di anni avvolti nella storia e nell'ebrezza della gioventù. Per qualche strano motivo, Miss Lorentz non replicò quello che Miss Grace disse poco prima, ma il suo silenzio indusse la vecchia signora a continuare la sua spiegazione.
« Ho interpellato lei perché è giovane e sveglia. Ho letto molti suoi articoli, Miss Lorentz, ed è davvero affascinante il modo in cui lei riesce a carpire gli scandali più insignificanti. Ha un talento che pochi hanno ed è sprecato per delle riviste di scoop cittadino. Dia retta a me: ascolti quello che ho da dire e se una volta concluso non le piacerà, potrà benissimo farmi causa per averle rubato del tempo prezioso ».
Miss Grace, sebbene avesse ottant'anni, sembrava determinata. Il suo fine era quello di parlare e raccontare e qualcosa suggeriva ad Annabelle Lorentz che la vecchia scrupolosa non si sarebbe arresa tanto facilmente.
« Miss Grace... Cioé, Miss Sally, io non vengo pagata per dei racconti d'amore. Io vengo pagata se il sindaco ha una tresca con la moglie del vicino, capisce? Mi dispiace ».
Annabelle Lorentz fece per alzarsi. Sebbene Miss Grace le sembrava determinata, non poteva permettersi di sprecare tempo. A mala pena riusciva ad arrivare alla fine del mese. A mala pena riusciva a cibarsi tutti i giorni di tre piatti caldi. Doveva portare in redazione un articolo con i contro-fiocchi, non la storia di una vecchietta che voleva raccontare le sue avventure adolescenziali degli anni '50. Si congedò scusandosi ulteriormente e si diresse verso l'uscita.
Miss Grace non aprì bocca quando Annabelle se ne andò, né fece qualcosa per fermarla. Così, Annabelle Lorentz avanzò di qualche metro, rimuginando sulle parole della signora Grace.
E' una storia d'amore e, come tutte le storie d'amore, il tempo è relativo.
Doveva ammettere che le aveva scaturito una certa curiosità, come in tutte le cose nelle quali s'imbatteva. Non era mai stata ingaggiata da una così anziana signora e mai, prima di allora, era stata in grado di capire tutte le parole di una donna così avanti negli anni. Solitamente gli anziani di quell'età non stavano in piedi, figuriamoci formulare una frase di senso compiuto. Nel 2013 era più unico che raro.
Miss Lorentz fermò il proprio passo appena prima di passare per Lasalle Street, voltò lo sguardo verso la tavola calda e si mise a pensare, bloccando il traffico e scontrandosi con i passanti.
I suoi capi l'avrebbero ammazzata, forse persino licenziata, ma cosa c'era alla fin fine di così spregevole se doveva semplicemente rimanere ad ascoltare?
Fece dietrofront e sorpassò l'ingresso della tavola calda. Miss Grace stava sorseggiando ancora la sua bevanda calda e fumante. Non si era mossa di un millimetro.
« Sapevo che sarebbe tornata, cara. Vuole del tè? » chiese Miss Grace.
« Incominci il suo racconto, Miss Sally. Ho solo l'intero pomeriggio da donarle » rispose Miss Lorentz, sistemandosi nuovamente di fronte alla vecchia signora.
Miss Grace sorrise sorniona, prima di incrociare lo sguardo cristallino verso la giovane giornalista scandalistica ed incominciare a parlare. 

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Capitolo 2
*** I - Gli Anni '50 ***


I

Gli Anni '50

 

Chicago era sempre stata movimentata. In realtà non si sapeva con precisione quando i nativi americani sbarcarono in quella cittadina dell'Illinois, ma le prime testimonianze ne fanno risalire la presenza ben 10 mila anni or sono. La città fu investita dalla storia contemporaneamente alle altre nazioni, provvedendo a distinguersi come meglio poteva. Il 1953 era un anno di calma piatta, come lo era da una decina di anni. Il sindaco, Wilson JF Clark – successore di Johson Byle che a sua volta era successore di Ed Kelly – era la testimonianza di un percorso politico ben definito. La democrazia abitava le strade e il lavoro veniva offerto ai cittadini in cambio della loro lealtà verso i propri benefattori.
Chicago stava vivendo un'autentica era di pace e di serenità e si sperava che tutto questo durasse nei decenni.
La mattina del primo marzo un'autentica Jaguar XK120 color vinaccia posteggiò nei pressi del Tony Pub, davanti al Gran Hotel Plaza di Chicago. Era una giornata serena con batuffoli di nuvole bianche a spaiarsi nel cielo azzurro. Dall'auto né uscì un uomo, poi una donna e successivamente un ragazzo che probabilmente era il figlio della coppia. Una gran bella coppia. Non erano di Chicago, lo rimarcava la targa della vettura che evidenziava RI come Rhode Island. Il signore indossava un cappello classico, rifinito di cuciture argentate e un abito di raso scuro, con panciotto e cravatta abbinati. Mentre portava il sigaro verso le  labbra, spiccavano i gemelli accostati alle maniche della camicia. Aveva un accenno di baffi, ma per il resto, il suo viso appariva lindo e pulito. La donna, dal canto suo, era ricoperta di gioielli dalla testa ai piedi, indossando un tailleur con una gonna Coco Chanel stretta e rigida fin sotto le ginocchia. La giacca senza collo le conferiva un certo charme che non si vedeva da un po' per le strade di Chicago. Boccoli castani erano legati in un'acconciatura pomposa, fermata da lustrini e pinzette invisibili.
Il giovanotto, sebbene mostrasse tutta la ricchezza che lo governava, dai pantaloni in raso beige alle scarpe Derby scure, raffigurava un certo fascino per quella capigliatura ingovernabile, castana come quella della madre. La famiglia si era appena trasferita dal Rhode Island per gli affari nazionali del padre. Egli si occupava del commercio di argilla e metalli duttili in tutto il paese.
Richiard Reed era a capo dell'azienda di famiglia e, quando suo padre morì, lasciò a lui il compito di gestione degli affari. All'epoca aveva solo ventun'anni e sarebbe dovuto crescere in fretta.
Così Richard Reed dopo sei anni dalla successione di suo padre, incontrò la giovane Vivianne James, studentessa della Brown. In soli due anni il loro destino si compì, legando i due nella chiesa cattolica di Providence e, tre anni più tardi, dare alla luce Dawson Reed, primogenito e unico figlio di quello che era uno dei più importanti cognomi dell'East Coast statunitense.
Il diciassettenne aveva fatto domanda per i più prestigiosi college americani: Brown, Stanford, Harvard, Yale e le risposte gli sarebbero arrivate prima della fine dell'ultimo anno scolastico. Il suo futuro era stato progettato alla base di quello che il nome Reed voleva sembrare. Si sarebbe laureato in Economia e avrebbe preso, una volta conferitagli l'autorità, il posto di suo padre a capo di quell'azienda che gli aveva fatto girare l'intera America del Nord. Dawson sorrideva poco, ma quando piegava le labbra, il cielo sembrava vivergli dentro.
Quella mattina, quando la suola delle scarpe si posarono sull'asfalto, Chicago vedeva l'era di un nuovo essere umano protagonista delle sue strade.
I Reed squadrarono l'Hotel dall'alto verso il basso, pronti a governarlo come nessuno avrebbero fatto.
Dawson, dal canto suo, preferì osservare le strade. Gli erano sempre piaciuti quei dettagli scontati, le panchine colme di gente e i colori vivaci di una giornata insolitamente allegra. Gli era sempre piaciuto osservare la felicità.
I suoi occhi vagarono per un istante interminabile, mentre i signori Reed spartivano ordini all'inserviente che li forniva dei dettagli sull'Hotel. I suoi occhi incontrarono un gruppo di giovani studentesse, vestite di blue jeans dalle gonne sbarazzine. Le alte code di cavallo bionde fermate da lustrini colorati e i libri stretti al petto. Saltellavano allegre, lasciando a Dawson la possibilità di scrutarle una per una. Fino a quando non la vide.
Aveva lunghi capelli rossi legati in una treccia di lato. Era assieme alle altre ragazze ma, sebbene sorridesse e partecipasse alle loro battute, i suoi occhi smeraldini fremevano per qualcos'altro. Qualcosa che non aveva lì, a portata di mano e, per questo, aveva fretta. Indossava un golfino rosa pastello e una camicetta sotto di questo; una gonna di jeans, corta, le fasciava le gambe chiare. Il suo sguardo l'accompagnò per tutto il tragitto, fino a quando non girò l'angolo e sparì dalla sua vista.
« Lascia perdere ».
La voce greve di una ragazza lo colpì alle sue spalle. Dawson girò di scatto la nuca provocandosi un crampo al collo.
« Prego? »
Dawson constatò che effettivamente la voce apparteneva ad una ragazza, sebbene questa aveva un timbro di voce greve e rovinato dalla nicotina. Aveva un piercing al naso e un paio di pantaloni di jeans strappati al ginocchio. Faceva molto “punk rock” anni '70, peccato che si trovavano nel 1953 e di punk rock non si era sentita nemmeno una nota.
« La ragazza che stavi fissando. Lasciala perdere amico, non è per te ».
La ragazza con il piercing al naso buttò la cicca della sigaretta, spegnendola con la suola dei suoi anfibi. Si staccò dalla parete dell'Hotel, poiché se ne stava comodamente accostata come a reggerle la struttura.
« Si chiama Sullivan Grace, detta Sally. E' un tipetto tosto, sebbene i suoi genitori siano i medici più ricchi dell'intera East Coast. E' intelligente, in gamba, bellissima e suona il sassofono. »
« Beh, ragazza dall'orecchino al naso, non so nemmeno quale sia il tuo nome, come pensi che possa interessarmi quello che dici? » chiese Dawson, incorniciando un ghigno da Oscar.
Mise le mani in tasca e volse l'intera attenzione alla ragazza a fianco. Aveva le labbra colorate di lilla, il suo trucco era eccentrico e troppo colorato per quell'epoca. In più sembrava avere problemi economici per gli abiti che indossava: la maggior parte dei jeans erano strappati, tanto da far vedere le calze a rete che indossava sotto.
« June. Mi chiamo June, non “ragazza dall'orecchino al naso”. E ti dovrebbe interessare, perché è un bocconcino che ho visto per prima » disse June, guardandolo di soppiatto dalla sua bassa statura. « Ad ogni modo non guardarmi come se venissi dalle fogne. Mio padre è il proprietario dell'Hotel nel quale alloggi ed è anche quello con il quale tuo padre ha un appuntamento. Sei tu il figlio di Richard Reed, no? »
Dawson rimase sconcertato. Il suo sguardo cambiò all'istante. Si sentiva nervoso e avrebbe voluto tanto svanire. June lo fissava con aria di sfida e si sentiva sotto pressione. Era la prima volta che una donna, una ragazza, riusciva ad intimidirlo. Oltretutto era omosessuale, quindi non lo guardava con interesse fisico, ma con disprezzo puramente femminista.
« Prendo il tuo scrupoloso silenzio come un sì. Ad ogni modo, bamboccio, ti lascio alle tue cose. Ci si vede a scuola ».
« Ehi! Aspetta! » scattò Dawson.
« Cosa vuoi? » rispose June.
« Mi chiamo Dawson » disse.
June sorrise: « Lo so, ma preferisco chiamarti Bamboccio » rispose lei.
Vide scomparire la ragazza nello stesso angolo dove poco prima vide scomparire la ragazza dai capelli rossi.
Fissò quel punto per un paio di secondi, poi si voltò verso i genitori e disse che andava a fare una passeggiata. Sarebbe ritornato per l'ora di pranzo. O cena. Tutto sarebbe dipeso dall'ora che avrebbe fatto. Disse loro di non preoccuparsi e di continuare con quello che stavano facendo. Dopodiché, Dawson Reed si addentrò nella folle e immensa Chicago.
Sebbene il rock'n'roll infognava le vie, nei vicoli più stretti si sentiva il suono caldo di un sassofono che echeggiava note di Jazz. Quella melodia gli avrebbe accarezzato le orecchie per ore, se non avesse avuto un altro fine. Le suole delle sue scarpe ticchettavano sull'asfalto asciutto, sorpassando persone e giovani dai capelli ingellati. Non avrebbe mai usato un prodotto del genere, la brillantina nei capelli lo faceva assomigliare a suo padre e l'immagine da vecchio signore in giacca e cravatta era ancora troppo forte per lui. Non amava particolarmente la severità che gli era stata impartita, ma doveva ancora imparare a ribellarsi a certe questioni. Potevano chiamarlo codardo, ma la vita confortevole non gli dispiaceva. Avrebbe preferito vivere in un Hotel piuttosto, ma sicuramente non in una giungla.
Dawson stava inseguendo June che a sua volta inseguiva Sally. Era un circolo vizioso, ma voleva capirci di più. Voleva guardare dentro a quegli occhi smeraldini. Voleva sfiorare quella pelle chiara e contare le lentiggini sulle gote rosee. Voleva incontrare Sally e farci l'amore.
Non gli sembrava affrettato, lui era fatto così. Amava e veniva ricambiato il più delle volte. Non era particolarmente romantico, semplicemente perché era un ragazzo istintivo. Gli era capitato spesso di portare una ragazza a mangiare qualcosa, al luna park o al cinema a vedere qualche bel film di Herny Hathaway, ma la maggior parte delle volte quelle ragazze si lamentavano o si aspettavano che lui facesse di più. E a quel punto, Dawson Reed, le piantava in asso. Dopo averci pomiciato un pomeriggio, una settimana o un mese, Dawson non riusciva a capire la testa di quelle frivole ragazzine.
Tutto questo capitava ovunque andasse e, nella sua breve vita, aveva già girato più di quanto un ragazzo potesse immaginare o volere. Non era rimasto negli Stati Uniti, era partito anche per la Francia e per il Giappone, dove il commercio stava andando bene. Quindi parlava correttamente tre lingue: inglese, francese e giapponese. Stava studiando il russo e il tedesco e masticava bene la grammatica italiana. Gli piacevano le lingue. Se fosse stato indipendente dalla propria famiglia, avrebbe scelto di diventare un interprete per il governo.
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto dalla vista di June che sbirciava qualcosa. O meglio, qualcuno.
« Ehi? »
« Ssht » rispose June. « Oh, sei tu » continuò, guardandolo delusa.
« Puoi spiegarmi perché la segui? »
« E tu puoi spiegarmi cosa trovi difficile in “ssht”? » rispose di rimando June. « Guarda ».
Dawson si sporse accanto alla ragazza, intravedendo una vetrina dai maestosi strumenti musicali. Grossi violoncelli e imperiali sassofoni laccati d'oro. Costavano un patrimonio, Dawson poteva benissimo immaginarlo solo guardandoli. Oltre la vetrina vi era il gruppo di ragazze, ma di Sally Grace nemmeno l'ombra. Non capiva cosa stessero facendo, poi si ricordò. June gli aveva detto che suonava il sassofono; forse la ragazza dai capelli rossi era dentro il negozio.
Dawson sorrise e superò June.
« Ehi! Dove diamine stai andando? » lo interloquì lei.
Dawson si voltò verso di lei sogghignando in silenzio. « Se tu vuoi rimanere a fissare il nulla, accomodati pure. Io intanto vado a fare conoscenza ».
Non gli piaceva rimanere distante o nell'ombra a contemplare le persone come facevano i serial killer nei romanzi polizieschi. Preferiva l'approccio diretto, sebbene questo veniva spesso discusso o messo sotto torchio dalle persone con le quali interloquiva. Lo definivano troppo audace o troppo invadente, ma per lui era solo la curiosità a muoverlo a passo svelto.
Sorpassò le ragazze bionde sentendosi adocchiato e scrutato, così sogghignò tra sé. I capelli arruffati facevano sempre uno strano effetto, soprattutto perché non erano alla moda.
Quando aprì la porta del negozio, il tintinnio di un campanaccio appeso alla porta disse ai già presenti che vi era un altro cliente. Dawson sorrise al proprietario e richiuse la porta alle sue spalle. Assieme al venditore, Sally reggeva una tromba sottile in oro laccato; contemplava gli stantuffi e la campana con aria assorta. Non alzò il volto verso Dawson, non ci fece caso e non lo guardò.
Il ragazzo invece non faceva altro che fissarla, tanto da memorizzarsi i lineamenti del suo viso, il naso piccolo e dritto, le gote sollevate e il mento un po' più sporgente. Si memorizzò la lunga treccia rossa che portava di lato e il ciuffo sulla fronte fermato da una forcina. Non riusciva a togliere gli occhi di dosso alle sue mani che accarezzavano la campana con fare professionale ed esperto. S'immaginò quelle mani su di sé, quelle mani ad accarezzargli le tempie e il viso e i muscoli delle braccia.
« Serve aiuto, signore? »

Il proprietario gli si era avvicinato senza sentirlo. Aveva due piccoli occhi grigi cerchiati da una ragnatela di rughe, ma dopotutto il vecchio cercava di mantenersi giovane vestendo abiti alla moda, sebbene fossero modesti.
« Stavo cercando un grammofono » disse Dawson. « Mi può fare strada? »
Il vecchio proprietario annuì presentandosi come Tom Keeper del Wisconsin. Gli fece strada verso un reparto colmo di vecchi giradischi e di file e file di dischi in vinile di molti autori internazionali. Non era molto interessato a comprare veramente un grammofono, ma questo gli rese possibile stare nella stessa stanza con Sally.
« Di che anno è questa, Tom? »
La voce di Sally gli accarezzò le orecchie mentre lei si voltava verso Mr Keeper.
« Fabbricata due mesi fa a Boston, Miss Grace. E' fresca fresca! »
Sembrava che tra i due ci fosse feeling. Avrebbe scommesso la camicia che Sally non era la prima volta che acquistava qualcosa lì dentro. Ad ogni modo lei continuò a non accorgersi di lui fino a quando Dawson non si decise ad aprir bocca.
« Suona la tromba, Miss? »
Sally alzò le iridi chiare su di lui, schiacciandolo con quello sguardo verde. Uno sguardo troppo verde. Uno sguardo troppo vuoto.
Fu allora che capì. Fu allora che sollevò le sopracciglia e rimase pietrificato. Fu allora che si accorse della sua cecità.
« No, questo è un regalo. »
Parlava, tuttavia, con la più innocua naturalezza, senza incontrare mai il suo sguardo. Aveva due labbra carnose e lucide che venivano piegate in un sorriso dopo aver proferito parola.
« Mi scusi, lei chi è? » gli domandò.
« Mi chiamo Dawson. Mi sono appena trasferito in città » rispose lui.
Vide Sally sorridere, abbassando la nuca verso la campana della tromba e appoggiarla con familiarità sul bancone. Dopodiché l'osservò dirigersi sicura verso di sé. Era agile e non sembrava avere un deficit della vista se fosse stata ammirata da lontano. Ma gli occhi la tradivano non appena si sollevavano.
Si posizionò davanti. Notò che portava la camicetta abbottonata, a parte l'ultimo gancio come a ribellarsi ad una qualche impostazione severa solita delle famiglie borghesi. La sua gonna era stirata e linda e aveva un paio di scarpette basse con il tacco. Gli arrivava appena sopra il mento. Era alta e snella, sebbene avesse forme che tradivano quel corpo all'apparenza acerbo.
Sally sollevò entrambe le mani vicino al suo viso. Non capì subito le sue intenzioni, ma sbirciando in direzione di Mr Keeper lo vide sorridere paterno e annuì come a dirgli di non preoccuparsi.
Sally posò le mani sulle guance di Dawson e pensò che quel tocco fosse un vento di aria calda in pieno inverno. I polpastrelli gli passarono sulla pelle con fare lento e minuzioso. Tracciò delle linee sul naso lungo e affilato, sugli zigomi alti e sulle sopracciglia folte. Quando seppe che Sally lo avrebbe sfiorato sulle palpebre, le chiuse di malavoglia e si sentì presto toccare come nessuno mai aveva provato a fare.
Le dita della giovane scesero sulle labbra piene e screpolate e sul mento, dove poteva sentire piccoli peli di barba in crescita. Dopodiché ritrasse le braccia e aprì nuovamente gli occhi. Vide Sally che contemplava il vuoto, sebbene quel vuoto doveva essere un'espressione di concentrazione. Dawson capì quello che aveva fatto e stava facendo ora. Lo stava immaginando all'interno della sua testa.
Sally lo stava vedendo per la prima volta.
« Scusami se non ti ho chiesto il permesso » disse Sally. « Sei un ragazzo. »
Dawson le sorrise, sebbene lei non potesse vederlo.
« Sì » confermò Dawson.
Sally annuì, prima di ritrarsi verso il bancone. Dawson sapeva che con quel tocco lei aveva sentito pelle giovane e priva di rughe; era stato un modo per vederlo. Era stata sfrontata a non chiedergli il permesso, ma a lui non era importato.
Si sarebbe fatto toccare così mille volte ancora. Quelle mani erano come il profumo di pane appena sfornato, come la bocca fresca dopo essersi lavati i denti. Quelle mani erano la cosa più buona in cui si era imbattuto.
« Tom, allora? Me la incarti? Voglio che sia un regalo splendido! »
La voce di Sally era tornata ad accarezzargli l'udito, risvegliandolo nuovamente da quel suo tepore.
Rimase fermo per tutta la durata dell'impacchettamento, dopodiché i due si congedarono e lei uscì dal negozio, sempre con agilità. Notò che una delle amiche bionde la prese a braccetto e partirono nuovamente correndo. Non immaginava come potesse correre nel buio. Doveva fidarsi ciecamente di quello che le stava attorno per essere così sciolta con se stessa.
« Miss Sally è davvero una ragazza adorabile » proferì Tom.
« E' così dalla nascita? Insomma... »
« Oh no. Lei prima ci vedeva benissimo Mr Dawson. Ebbe un incidente a cavallo qualche anno fa. I medici le dissero che la cecità era una cosa temporanea, ma ancora oggi non ha riacquistato la vista. »
Tom Keeper sembrò incupirsi. A Dawson quasi dispiacque aver fatto quella domanda, ma non era riuscito a trattenersi.
« Però sembra camminare perfettamente. Insomma, io avrei un certo timore nel muovermi al buio. »
« Al buio. Ma lei non è mai stata al buio » spiegò Mr Keeper. « Sebbene abbia perso la vista, gli altri quattro sensi li ha sviluppati maggiormente. Soprattutto l'udito. Deve sentire che orecchio, Mr Dawson! Che orecchio! »
« Si riferisce al sassofono? » chiese Dawson.
Tom si voltò verso di lui, corrucciando la fronte. « E lei come fa a sapere che Miss Sally suona il sassofono? Non ha appena detto di essersi trasferito da poco? »
« Non si preoccupi, Mr Keeper. L'ho solo sentito dire in giro. »
Il vecchio proprietario non sembrava dubbioso, piuttosto molto sorpreso. Sorrise a Dawson e voltò lo sguardo a contemplare la porta d'ingresso.
« Miss Sally è davvero un miracolo. E' il nostro più prezioso gioiello, giovanotto. Nessuno strumento, canzone o spartito potrebbero avere qualcosa più bello di lei. »
Il vecchio sembrava quasi ammaliato dalla figura di Sally. L'adorava e ne parlava come solitamente un padre parla alla piccola figlia che sogna di diventare una principessa. Dawson fissò la porta, immaginando una Sally vedente e cordiale.
Salutò con un cenno del capo Tom Keeper, dopodiché uscì dal negozio chiedendo gentilmente al vecchio di tenergli da parte il grammofono. Presto sarebbe tornato a prenderlo.
Una volta imboccata l'uscita, Dawson si voltò nella direzione che avevano preso le amiche bionde di Sally. Restò fermo ad immaginare le cinque figure correre contente e felici. Si chiedeva come lei potesse correre così, sicura di sé. Si stava chiedendo troppe cose.
« Sei contento ora? »
June interruppe le sue domande mentali. Si voltò verso di lei, guardandola con aria afflitta. Lei sapeva.
« Da quanto? » chiese Dawson.
« Circa sei anni » rispose June.
Gli si avvicinò. L'aria da sbruffona l'aveva abbandonata; le rimaneva solo l'afflizione della consapevolezza e quel piercing al naso.
« Come fa a... ? » la domanda rimase senza una fine.
« Ce lo chiediamo tutti. Ha una forza di volontà incredibile. E' pensare che quando successe rimase rinchiusa in camera sua per settimane. Non voleva parlare con nessuno. Nemmeno con me. »
Dawson la guardò meglio. June stava osservando un tombino dall'altra parte della strada, senza guardarlo veramente. Poteva immaginare il flusso dei suoi pensieri.
« Tu e lei eravate amiche? » le chiese.
June lo guardò sbigottita.
« No, macché. Io e lei non siamo mai state amiche. »
Lo disse con troppa enfasi. Dawson la scrutò meglio, intravedendo nella sua fronte corrucciata piccole gocce di sudore.
« Hai detto che non voleva parlare con nessuno. “Nemmeno con me”. »
« Mi conosci da cinque minuti e stai già a sindacare? Voi uomini siete tutti uguali. »
June girò i tacchi e fece per andarsene. Dawson non la fermò, ma la guardò camminare fino a quando non scomparve dietro un vicolo. Quella ragazza aveva qualcosa di particolare, come se provenisse da un altro mondo. Era eccentrica. Non portava nemmeno la gonna, né la coda di cavallo. E aveva un piercing al naso. Si chiese se non fosse un'aliena. Poi cacciò l'idea, scuotendo la nuca.
Tornò sui propri passi e si diresse all'Hotel dove la famiglia aveva prenotato all'alloggio temporaneamente.
Dopo cena, consumata nella Sala Ristoro con altri villeggianti, si congedò per andare nella propria stanza.
La suite era composta da tre camere da letto, una separata dall'altra tramite una porta. C'era l'angolo bar e un bagno ampio e grande. La suite dava sul Millenium Park e la vista notturna garantiva spesso un sollievo di fine giornata. Così Dawson riuscì a rilassarsi facendo un bagno caldo con davanti la Chicago notturna illuminata. Uno spettacolo che mozzava il fiato.
Quando sentì bussare alla porta, Dawson stava leggendo il quotidiano cittadino. Protese il passo con l'asciugamani stretto in vita.
« E' lei il signor Dawson Reed? » chiese il fattorino.
« Sì, chi la manda? » Dawson guardò cos'aveva tra le mani. Una grossa scatola rettangolare di un rosso porpora. Un nastro legato a fiocco spiccava in tutta la sua lucentezza al centro del pacco.
« Firmi qui, per piacere. C'è un biglietto. »
Dawson lo fece senza fare altre domande. Dopo aver preso il pacco con la destra, richiuse la porta alle sue spalle e si diresse sul letto. La scatola rettangolare pesava parecchio, tant'è che dovette sostenerla con entrambe le braccia prima che potesse cadergli.
Aprì il biglietto. Le parole erano state scritte da una mano femminile, lo si leggeva chiaramente dalla bella grafia: sottile e arzigogolata.

 

Mi ha fatto molto piacere conoscerti, oggi.
Spero che al prossimo incontro mi dirai il tuo nome.
Per il momento prendi questo come regalo di benvenuto.
Spero ti piaccia.
Con affetto,
Sally

 

Sapeva cosa c'era dentro il pacco ancor prima di aprirlo, ma la certezza di sapere lo invase come cioccolato fuso all'interno di un tortino di pasta frolla.
Il grammofono che aveva ordinato luccicava splendido tra fogli di carta velina. Non vi erano dischi in vinile o altri biglietti. Era solo quello che aveva ordinato. Era solo quello che ora aveva ricevuto, senza chiedere nulla. Senza fare nulla. A parte pensare. Pensare a Sally.

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Capitolo 3
*** II - Miracolo ***


II

Miracolo

 

Il giorno dopo, Dawson si svegliò prestissimo. Scese nella sala da pranzo e fece colazione in compagnia dei Reed. Dopodiché uscì dall'hotel e si diresse verso scuola scortato dalla solita Jaguar XK120 guidata da James, l'autista. Lui l'avrebbe accompagnato a scuola e l'avrebbe riportato in albergo alle tre del pomeriggio in punto, appena finite le lezioni, ogni giorno. Era stato pagato da Mr Reed appositamente per quello.
« Buongiorno Mr Reed » esordì James. « Bella giornata oggi, non trova? »
Dawson avrebbe creduto di essere in un luogo ovattato, vissuto solo dalla sua fervida immaginazione e da un cipiglio di emozioni che l'avrebbero crogiolato da un momento all'altro. Così la domanda di James venne ignorata e, senza aprire più bocca, egli mise in moto l'auto e partì per un viaggio che sarebbe durato ventitré minuti e cinquantasette secondi.
Durante il tragitto, Dawson non scostò gli occhi scuri dal finestrino. Continuò a fissare il paesaggio che scorreva davanti a sé, mescolando i colori e le figure nella sua testa, appartandosi con l'immaginazione all'interno di quel negozio, con Sally, con Miss Grace a parlare e a suonare e a sentirla ridere. Non si accorse nemmeno di avere un leggero sorriso stampato sul volto, quando James lo scosse dal suo lieve tepore sereno.
« Siamo arrivati Mr Reed. »
« Dawson » lo corresse. « Mi chiami Dawson, lasci gli appellativi formali a mio padre. A lui piacciono di più. »
Scese dall'auto e lo salutò con un buffetto sul cappello di stoffa indossato esclusivamente per uno chic inappropriato. La Chicago Major School era affollata di gente, la primavera era alle porte, ma nessuno osava ancora scoprirsi più di tanto. Giovani studentesse che già spettegolavano su un possibile ragazzo da conquistare o sfavillanti maschi dall'aria già vissuta e troppo vecchia per quei volti così giovani, così spontanei.
Dawson si mosse con aria sicura. Si mescolò tra la folla senza dare nell'occhio. Non era certo uno che si metteva in prima fila, preferiva di gran lunga restare dietro le quinte ad osservare la gente. Sarebbe potuto stare ore e ore a studiare le espressioni e gli atteggiamenti di chiunque, lo trovava un buon modo per passare il tempo.
« Bene bene » June gli si piantò davanti. Indossava un abbigliamento diverso da quello vistale addosso il giorno prima: un tenue vestito color crema, con una gonna più modesta e più consona per quella vita. Il piercing al naso era sparito e i capelli non erano sciolti e scomposti, ma pettinati in modo tale che lunghi boccoli le si fermavano sulle spalle. June era diventata Juliet Seacock, la ragazzina modello della scuola superiore.
« Ciao ragazza dal piercing “non” più al naso » constatò Dawson, soffermandosi a fissarle il profilo con insistenza.
« Lascia perdere. Questa è tutta scena. Anche se sono un tantino diversa da come mi hai vista ieri, non cambio sicuramente atteggiamento. Soprattutto con uno come te. »
« Un tantino diversa? » Dawson incurvò le sopracciglia.
« Da quando ti interessa il modo in cui mi vesto? » June tratteneva sul petto un paio di libri, sicuramente scolastici.
Dawson la ignorò, ma non si mosse da quella posizione. Nessuno li stava guardando, forse perché non davano così nell'occhio come invece aveva fatto nelle scuole addietro, o forse perché la compagnia con la quale lo stavano vedendo non era la più cool che un ragazzo nuovo in città aspirasse ad avere. Premette la tracolla in cuoio scuro sul fianco, prima di salutare June con lo stesso atteggiamento con il quale aveva congedato James. Non sapeva per quale motivo continuasse a seguirlo, forse perché era annoiata, forse perché lui era una nuova minaccia fresca fresca, o forse più semplicemente perché non aveva amici.
« Te l'ha mai detto nessuno che sei maleducato? » June lo rincorse sulla stradina che dava sull'ingresso. Dawson però stava vagando con lo sguardo in tutt'altra direzione, seguito solo dalla curiosità di ricercare Sally. Perché doveva essere lì, se lo sentiva. Lì, da qualche parte.
« Se cerchi lei, non la troverai mai qui. »
« Come scusa? » domandò Dawson.
« Sally. Non viene in questa scuola. Lei studia a casa. »
Dawson rimase silenzioso. Non aveva pensato a quella possibilità. Avrebbe dovuto arrivarci da solo.
« Ma l'ho vista, ieri, con le altre sue amiche bionde. Insomma, aveva dei libri in mano, si comportava come se studiasse assieme a loro. »
« Quelle sono le figlie delle amiche di sua madre. Sally non ha più amici. »
Rimasero a fissarsi con intensità, in silenzio, perché tutto quello che dissero svanì d'importanza. Gli occhi scuri di lui s'iniettarono nell'abisso nero di June. Ad un tratto lei scostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, con timidezza e girò i tacchi, avanzando verso l'ingresso con passo scostante e lento.
C'era stato qualcosa, di profondo o di non compiuto, tra lei e Sally. Ogni volta che ne parlava, era come se la vedesse accanto a sé. Ogni volta che ne parlava, era come se un fantasma le soffiasse addosso vento gelido, congelandola.
Dawson incominciò a muoversi in sua direzione, dapprima lentamente, poi con più grinta ed energia. Le persone che non avevano notato la presenza di uno studente nuovo, adesso lo scrutavano con maggior interesse. La fermò sfiorandole la spalla con il palmo della mano, leggero.
« Mi faresti da guida? Sei l'unica persona che conosco e sono un po' impedito con le scartoffie » chiese Dawson schioccando la lingua al palato.
June lo fissò con sguardo interrogativo.
« Da guida? »
« Sì, da guida. »
Dawson non si scostò, voleva vederci qualcosa di più in tutta quella storia e poi June, infondo, sembrava solo una ragazzina preoccupata di vivere.
June arricciò il naso, poi le labbra si sollevarono in un leggero sorriso, acconsentendo a quello che lui aveva chiesto. Lo prese per mano con noncuranza e incominciò a dirigerlo all'interno della scuola. Dawson constatò che lei non era come credeva. All'interno dell'ambito scolastico tutti le davano retta, la cercavano e le chiedevano consiglio su un esercizio di trigonometria non compreso a fondo. Era ammirata nel suo piccolo, sebbene nascondesse qualcosa che altri non conoscevano. Lui si poteva sentire importante per questo piccolo particolare, come se avesse colto una parte di lei che altri non avrebbero mai conosciuto. Puro caso, naturalmente.
« … E lì c'è l'infermeria. Questo è quanto. »
Smise di mostrargli la piantina, riponendola tra volantini e documenti che – gli aveva spiegato, mentre lui cercava di studiare lei – avrebbe dovuto finire di compilare entro la giornata, la quale, se era riuscito ad ascoltare bene, sarebbe finita alle tre in punto.
« Devo scappare. Ho lezione di musica tra due minuti esatti e … »
« … non puoi arrivare in ritardo, sì. »
Lei sorrise e lui fece lo stesso. La guardò andarsene con fare capace, sicuro e senza incertezze. S'incantò a fissarle le ciocche di capelli che si scostavano da una parte all'altra con ritmo giusto, dopodiché abbassò lo sguardo sulla piantina della scuola, cercando di capirci qualcosa e di non perdersi già al primo giorno.

 

 

********

 

 

« Sally, tesoro. Dovrai pur seguire una lezione! So che per te non è facile, ma devi perlomeno provarci. Per favore tesoro, sii cosciente. »
« Sono cosciente, mamma. Ti ho detto che seguirò una lezione di braille quando i capelli incominceranno a cadermi » disse « e sono seria. »
Amanda Randall non ne poteva più della sua cocciuta figlia non vedente. Il giorno che cadde da cavallo non fu solo il giorno nel quale Sally perse la vista, ma fu soprattutto il giorno nel quale la sua vita mutò progressivamente. Aveva dovuto subire una Sally depressa, una Sally capricciosa, una Sally vittimista. Ma era giusto. Le sembrava che tutto questo avesse un senso; la figlia avrebbe dovuto imparare ad accettarlo, a capirlo e soprattutto a combattere il deficit che le aveva cambiato la vita. Doveva prendere in mano le redini e rendersi conto che di vedere ancora la luce del sole, non se ne sarebbe parlato per molto tempo, forse per sempre. Poi Sally cambiò. Una mattina d'inverno, quando il tempo suggerisce solo coperte calde, caminetto acceso e una buona cioccolata calda, Sally era scesa in camicia da notte in soggiorno e aveva detto a sua madre che voleva riprendere l'ippica. Ad Amanda cadde il cucchiaino del tè sulla moquette appena lavata e rimasero in silenzio per una buona mezz'ora. Sally insistette, ma ad Amanda quell'idea non piaceva per niente. Fu allora che le colpì quello che sua figlia le disse: « Non volevi che io accettassi questa cosa e mi comportassi da persona normale? Bene. Voglio andare a cavallo. »
Sua madre non le disse di no, ma a cavallo non ci era ancora salita. Il medico le aveva proibito di avvicinarsi, non per un fattore psicologico, ma perché gli altri sensi non erano abbastanza sviluppati da poter prendere la briglia e guidare il destriero. Se c'era qualcuno che doveva essere guidato quella era lei e non un cavallo.
Fu così che Sally si mise in testa di sviluppare gli altri sensi. Incominciò a sfiorare dapprima con i polpastrelli e solo dopo, con l'intera mano, gli oggetti. Imparò a riconoscerli e a focalizzarli nella mente. Cercò d'immaginarsi i colori a seconda della forma e dal calore che emanavano. Cercò di dare un nome alle cose. Imparò ad ascoltare le persone senza guardarle, ma voltando lo sguardo verso il suono del loro timbro. Diede più importanza al gusto dei cibi, masticando e gustandosi maggiormente quando una bella fetta di torta non poteva essere bella, quanto buona. Scoprì di essere un'eccellenza con il sassofono, di amare la musica e di conoscere e ricordare canzoni che aveva già sentito ma di cui non aveva mai saputo il titolo. Iniziò a ricordarsi la disposizione dei mobili di casa sua, ad orientarsi nella città e cercare di muoversi a seconda del rumore che sentiva. Se c'erano dei cambiamenti, se un semaforo veniva spostato e mutato, lei veniva avvisata. Cercava di camminare il più possibile, per sentire l'aria che cambiava, per ascoltare i passi di persone agitate, nervose, di corsa. Per rendersi conto che la vita non dipendeva solo da quello che vedeva, ma soprattutto da quello che provava. Dovette riscoprire tutto daccapo, dovette isolarsi dal mondo circostante e lasciare tutto alle spalle. Anche i suoi amici, la sua migliore amica. Dovette lasciare tutti indietro, perché lei non poteva andare avanti con qualcuno, con chiunque, se prima non trovava se stessa.
Sally ad ogni modo era cosciente della sua situazione e aveva perso le speranze. Si era arresa alla sua cecità ed ormai si poteva dire che l'aveva accolta quasi come una coinquilina. Forse non proprio come una sorella, forse non proprio a braccia aperte, ma l'aveva accettata così com'era. Il destino le aveva riservato questo deficit, o dono, ma non aveva portato solo disgrazie. Certo, ora per commentare un ragazzo carino si sarebbe dovuta servire del tocco delle mani sul viso di costui, ma oltre a questo si era messa in testa che l'adattamento stava andando bene quanto la sua cocciutaggine continuava a persistere.
Sperava che il regalo a quel ragazzo, Dawson, gli fosse piaciuto. Lei ascoltava, lei aveva intuito che in negozio c'era qualcun altro. L'aveva intuito dal campanaccio smosso dalla porta d'ingresso. L'aveva intuito dal passo pesante e lento. Aveva intuito lo sguardo su di sé, sebbene non vi fece molto caso. Solo quando sentì la sua voce, allora sì, ebbe un brivido lungo la schiena. Smise di accarezzare la tromba e lo ascoltò chiacchierare con il vecchio Tom. Il ragazzo aveva una voce maledettamente bella, cristallina e tremendamente seducente. Voleva, anzi – doveva – verificare che non fosse solo dotato di una straordinaria voce, e fu per questo che sfacciatamente si avvicinò a lui, lo sfiorò con le punte delle dita e lo studiò a fondo. S'immaginò quegli zigomi alti su un viso magro, ben definito, con una mascella dura e maschile. La barba ispida le punse le dita, ma la pelle liscia della fronte fu come un cuscinetto morbido. Avrebbe voluto affondargli le mani nei capelli, ma probabilmente sarebbe sembrato troppo strano. Sia per una persona normale, soprattutto per una come lei. Ad ogni modo si era spinta oltre, totalmente al di là di una qualsiasi persona con un po' di pudore. Le sue gote si erano infiammate, lo sentiva, così scappò via. Le sarebbe piaciuto sentirlo ancora, per questo chiese informazioni a Tom una volta che fosse stata sicura che il ragazzo se ne fosse andato.
L'unica sua certezza era che lo avrebbe di nuovo incontrato. In un modo, o nell'altro, anche da lontano.
L'importante è che parlasse. Se Dawson parlava, Sally era felice. Questo era quello che importava.

 


 

*******

 

 

La mattinata trascorse rapidamente. Dawson non ebbe difficoltà a trovare l'aula di matematica e quella di letteratura inglese, ebbe invece più problemi a cercare la sala mensa. Consumò il pranzo in circa mezz'ora, da solo, in un posto accanto alla finestra. Il brusio non lo disturbò e i suoi occhi non si alzarono mai dal proprio piatto. June non si era fatta viva, ma si chiese se avesse dovuto. D'altronde era solo un nuovo studente a cui, per quanto avesse capito, piaceva la stessa ragazza di lei. Quanti uomini avrebbero aiutato un altro uomo, se questo si fosse mostrato attirato alla stessa donna a cui erano interessati? Dawson sapeva la risposta ancor prima di ingerire il primo boccone di tiepidi maccheroni al formaggio.
Si accinse a raggiungere il cortile sul retro per prendere una boccata d'aria, quando June gli si piazzò davanti al naso.
« Ciao »
« Ciao » rispose di rimando Dawson.
« Buono il pranzo, oggi? »
« Discreto. Ho mangiato di meglio. »
« Ma scommetto anche di peggio, mh? »
Per la prima volta in tutta la giornata, June sorrise.
Presero due tazze di caffè caldo tornando in sala mensa, ma decisero di consumarle alla luce del sole, fuori dalle quattro mura.
« Dovevo pensare » iniziò lei, mentre si accomodavano seduti su una delle panchine della scuola.
« A cosa? »
« A te, che domande! »
June sorseggiò il suo caffè con fare lunatico, prima di puntare nuovamente gli occhi scuri su quelli di Dawson.
« Non mi piaci. Hai l'aria spocchiosa e sono certa che ti sei fatto un sacco di ragazze, trattandole in modo pessimo e scaricandole al primo appuntamento » incominciò. « Non solo. Ti aggiri in questa scuola come se già avessi tutti ai tuoi piedi e poi te ne stai in disparte all'ora di pranzo. »
« Dov'eri? Non ti ho vista » s'intromise Dawson.
« Dov'ero non ha importanza » disse June. « Ha più importanza il fatto che io abbia ragione e tu non hai fatto nulla per discolparti. »
Rimasero in silenzio a sorseggiare il loro caffè, guardandosi senza emettere un solo verso. Dawson era rimasto in silenzio perché era curioso di capire fino a che punto lei si volesse spingere. Diciamo che aveva centrato gran parte delle sue affermazioni, ma non le voleva dire quali.
« Se non ho fatto nulla, perché dovrei fare qualcosa per discolparmi da una colpa che non ho? » chiese infine lui.
« Sei sagace e anche brillante, non credo tu sia stupido. Anzi. Proprio per questo ti consideri più forte e più importante di tutti noi, non è così? »
« No, non è così. Come fai a dire una cosa del gen... ? »
« Finalmente reagisci, santo cielo! »
Dawson non aveva proprio capito niente. Probabilmente aveva sottovalutato le intenzioni della ragazza dal piercing al naso. Lo aveva tratto in inganno con una frase giusta nel momento giusto, sapendo con sicurezza che era un'emerita scempiaggine quella che stava per dire. Lo aveva incastrato, solo perché voleva rendergli pan per focaccia quel suo modo spocchioso e superiore. Era sicuro che quegli aggettivi lei glieli avesse addossati comunque, in qualunque caso.
Dawson si alzò dalla sua postazione, buttò la tazza di plastica nella spazzatura e si sistemò la tracolla sulla spalla.
« Se mi trovi così irritante, perché stai prendendo un caffè con me? »
« Perché ti piace la mia ragazza. »
« La tua ragazza? »
« Sally. Ti piace Sally e devo tenerti d'occhio. »
Dawson socchiuse le palpebre a due fessure. Non riusciva proprio a capire come una ragazza dalla doppia personalità come Juliet – June – Seacock potesse essere così omosessuale. Ma per quanto potesse essere attraente, non riusciva a guardarla sotto una luce provocante e sensuale. Soprattutto per il modo irruente con il quale lo trattava. Ci vedeva solo una ragazzina dai capelli scuri e dagli occhi pieni di insicurezza.
Si congedarono quando la campanella suonò l'inizio delle lezioni pomeridiane. June doveva andare a lezione di matematica, lui a quella di biologia. Non si diedero appuntamento alla fine delle lezioni. Si salutarono senza guardarsi negli occhi, poi presero a camminare in direzione opposte, una volta entrati nell'edificio.

 

 

Alle 17.34, Dawson finalmente uscì dal portone della scuola. Si fermò un paio di ore in più per compilare i moduli, andò in biblioteca a recuperare qualche libro arretrato e si fece un giro nelle varie palestre addette a vari sport. Gli piacque la grande ed immensa piscina olimpionica al primo piano della scuola. Ampie vetrate lasciavano entrare una luce luminosa e calda. Studiò le corporature dei ragazzi: spalle larghe e muscolose, pettorali ben definiti e costumi tutti dello stesso colore. Non vi era presenza di ragazze, perché non era solito gareggiare assieme. Avrebbero avuto allenamento il giorno dopo, o forse la sera tardi. Ad ogni modo lui se ne stava sulla gradinata semi vuota. Con lui vi erano solo un altro gruppo di ragazzi alla sua destra e, più sotto di lui, cinque ragazze che sbracciavano a più non posso al capitano della squadra di pallanuoto: Eric Hutson. Seguì metà allenamento, ma alla fine decise di non fare domanda per l'ammissione nella squadra. Non avrebbe sopportato l'idea di finire a fare il bel bambolotto come Hudson. Piuttosto si sarebbe fatto affogare da qualche rivale; l'avrebbe considerata una tortura più sopportabile che sorridere a trentadue denti ogni volta che qualche ragazza abbaiava il suo nome. Sì, gli piaceva essere ammirato e lodato, ma in privato. Il pubblico lo lasciava alquanto perplesso. E poi il gioco di squadra non faceva per sé.
Così abbandonò la scuola a tarda ora, raggiungendo James che lo stava aspettando sul vialetto.
« Buona sera Mr Reed » enfatizzò l'autista.
« Quante volte glielo devo dire? Mi chiami Dawson. »
« Mi scusi, Mr Dawson. »
« Si figuri, James. Ascolti, prima di accompagnarmi a casa vorrei chiederle un favore. »
« Mi dica. »
« Conosce la famiglia Grace? »
« Vuole dire la famiglia di Mr Stephan Grace, il chirurgo ortopedico di Chicago? »
« Proprio quella. »
« Sì, la conosco. Ho lavorato per loro fino a qualche anno fa. Poi non hanno più avuto bisogno dei miei servigi e mi hanno congedato, dandomi anche una bella liquidazione. »
Dawson ascoltò ogni parola dell'autista. Non avrebbe mai immaginato di avere così tanta fortuna.
« Mi saprebbe indicare l'indirizzo di residenza, James? » la domanda scaturì una certa curiosità negli occhi chiari dell'autista. Tanta curiosità che le pupille luccicarono d'interesse.
« Certo, Mr Dawson. Ma, se non sono indiscreto, perché vuole saperlo? »
« Non è indiscreto, ma non glielo posso dire. Mi potrebbe fare questo favore e basta? »
James ci mise una decina di secondi a rispondere, ma sebbene morisse dalla curiosità di chiedere, si fece gli affaracci suoi e annuì.
« Certo, salga in macchina. »

 

 

 

*******

 

 

Sally se ne stava seduta sul dondolo in veranda, ad ascoltare Ray Charles al grammofono. Baby, let me hold your hand rinfrescava quella leggera e piacevole serata, accarezzandole le orecchie e gli altri sensi che le rimanevano. Sebbene fosse cieca, era ad occhi chiusi a memorizzarsi le parole. Il respiro era lento e rilassato. Le scarpe dal tacco basso sfioravano il legno chiaro che governava l'atrio ed entrambe le braccia erano accostate sulle gambe ricoperte da una leggera gonna primaverile. Non poteva vedere il buio ormai inoltrato, ma annusava l'aria e il vento più fresco della sera imminente.
Quando Ray Charles finì di muovere le dita al piano per l'ultima nota suonata, Sally aveva gli occhi lucidi. Se li asciugò prima che una lacrima salata sgorgasse sulle gote arrossate. Era una droga maestosa, quella musica dalle note così vive, così essenziali e così dannatamente giuste. Erano giuste per quel momento, per quelle emozioni. Erano giuste per tutto quello che passava, ogni secondo della sua esistenza. E non si sarebbe mai stancata di perdersi negli assoli di altri artisti. Non si sarebbe mai stancata di seguirli con il ritmo di un dito che pungola sulla gonna o delle labbra socchiuse a raccogliere una parola intonata con casualità. Il momento perfetto non esisteva, perché perfetto era ogni istante che impiegava a lasciare quel mondo buio. E lo lasciava sempre, ogni volta che un vinile sfiorava la testina di lettura. Ogni volta che quella casa ospitava più di un semplice suono di uccellini canterini.
Rimase seduta ancora per qualche minuto, ad assorbirsi la musica che aveva ascoltato e riascoltato per ore, poi si alzò in maniera semplice e leggiadra dalla propria postazione. Accarezzò il manico di un bastone e si fece strada verso la porta. Prima però, percepì la presenza di un motore fermo a pochi metri da lei. Sentì la portiera di un'autovettura aprirsi e richiudersi con un tonfo dopo circa qualche secondo. Poi la macchina si allontanò, lasciando però qualcosa – o qualcuno – ad accoglierla di sorpresa.

 

 

******

 

 

Il cancello dell'abitazione dei Grace era aperto. La tenuta era grande, ma non appariscente. Vi era una staccionata bianca e le imposte bordeaux. Non vi era la presenza di un solo animale, ma la casa era circondata da alberi di ciliegio in fiore. Il verde regnava sovrano. Forse era un modo per ricordare il colore degli occhi di Sally. Forse Dawson si stava facendo troppe idee scombussolate e stravaganti.
Avanzò in direzione dell'ingresso, notando una figura che gli dava le spalle. L'altezza era quella giusta, come lo erano le gambe e le scarpe calzate da lei. Sally aveva i capelli sciolti e le onde di ogni ciocca cadevano lungo la schiena. La fissò a lungo, prima di riuscire a pronunciare parola.
« Ciao... Sally Grace, giusto? » Dawson avanzò di un paio di passi, prima di soffermarsi appena sotto di lei. Sally si voltò subito, più lentamente del giorno prima, ma sempre con sicurezza. Notò che si appoggiava ad un bastone, ma trascurò il dettaglio.
« Ciao... Dawson Reed, giusto? »
Non aveva fatto tanto caso alla sua voce, ma quello che sicuramente non aveva dimenticato era il suo sorriso. Sally Grace aveva il sorriso più gioioso che lui avesse mai visto. Brillava di luce propria. Sally era un girasole in mezzo al verde.
« Mi dispiace intromettermi a quest'ora. Sicuramente stavi entrando per cenare, ma volevo solo ringraziarti per il pensiero di benvenuto. »
Dawson rimase fermo dov'era. Non sapeva se avanzare sfacciato come lei aveva fatto la prima volta, oppure rimanere lì ad aspettare che lei dicesse o facesse qualcosa. Sebbene lei non potesse vederlo, lui continuava a fissarle gli occhi. Iridi smeraldine che non conoscevano la luce. O meglio, l'avevano dimenticata nei meandri più bui dell'oblio. Ed era un peccato. Sally avrebbe dovuto vedere l'inverno capitolare via, lasciando posto alle prime gemme di petali in fiore.
« Non ti sei intromesso. Probabilmente il cancello era aperto. E non stare lì impalato come una sardina, vieni dentro. Incomincia a fare fresco » suggerì lei, facendo dietro front e raggiungendo l'ingresso lentamente ma in modo sicuro. Il bastone le conferiva più sicurezza, ma sicuramente cercava di usarlo con noncuranza, come se fosse una terza gamba. E Tom Keeper aveva avuto ragione: l'orecchio di Sally funzionava in maniera strabiliante. Il fatto che Dawson non si fosse mosso non era stata una prova fisica di inferiorità, piuttosto un'incertezza dovuta alle sensazioni del momento. E lei aveva intuito che il ragazzo era rimasto fermo, con i piedi piantati nel terreno.
Dawson salì le scale della veranda più lentamente di quanto Sally si spostava. Non seppe perché, ma i peli gli si rizzarono sulle braccia appena riuscì a scorgere la sua figura in modo pieno. Socchiuse le palpebre a due fessure e, una volta aperta la porta ed invitato ad entrare, Dawson avanzò dapprima titubante e poi con decisione.
L'ingresso dell'abitazione Grace non era come se l'era aspettato. Era modesto, privo di qualsiasi mobilia inutile. Sembrava che tutto fosse stato disposto per un ovvio percorso. Mentre Sally socchiudeva la porta, lui ebbe modo di dare una rapida occhiata anche alle pareti. Vi erano foto di Sally ovunque, ma da quello che poteva notare non ve ne era solo una che raffigurasse la Sally adolescente. Erano tutte foto raffiguranti una bambina dai codini rossi e dagli occhi vivi e più profondi. All'improvviso fu colto da un senso di amara tristezza e se ne rese conto perché le spalle gli si ammorbidirono e il respiro si fece più lento.
« Tutto bene? » chiese all'improvviso Sally.
« Certo, tutto benissimo » rispose lui.
Sally fece un sorriso e lo superò con fermezza.
« Mamma, abbiamo ospiti! »
La signora Grace arrivò in tutta fretta. Anche lei se l'era immaginata diversa. Se l'era immaginata alta, slanciata e dall'aria austera. Non sapeva perché si facesse tutti questi strani viaggi nella testa, ma Dawson riusciva a catalizzare sempre – o quasi sempre – i propri pensieri sulle persone. E invece sia la casa sia Amanda Randall gli avevano smontato la capacità che tanto lo rendeva speciale.
Miss Amanda Randall in Grace aveva un fascino particolare: era bionda, piuttosto bassa ed in carne, ma il volto non mostrava né stanchezza né un qualche segno di ruga. Aveva due guance piene e, tutto sommato, era una bella donna. Aveva gli occhi di Sally. Di un verde smeraldo, forse meno intenso di quello della figlia, ma sicuramente Dawson lo riconobbe.
Gli sorrise affettuosa, prima di soffermarsi sul giovane che aveva di fronte.
« Oh, buonasera giovanotto! Vuole darmi la giacca? » chiese gentilmente Amanda.
« Grazie » rispose Dawson levando la giacca e cercando di sembrare il più naturale possibile.
« Dawson si è appena trasferito in città. L'ho incontrato da Tom ieri e gli ho fatto un regalo che ha gradito molto » s'intromise Sally.
Le due donne si fissarono a lungo. O meglio, Amanda fissò la figlia di sottecchi e Sally rispose con un ghigno che nascose grazie alle ciocche dei capelli.
« Comunque andiamo in soggiorno, okay? »
« Va bene tesoro. Dawson, gradisce una tazza di tè? »
« Sì, grazie e mi dia pure del tu per favore. E' già una scocciatura sentirmi dare del “lei” a scuola, non vorrei pensare la stessa cosa di lei, Miss Grace. » Dawson non seppe come quella frase potesse essergli uscita dalle labbra. Maledisse il suo istinto caparbio. Sgranò gli occhi cercando le giuste parole per scusarsi; rimasero in silenzio per un periodo che gli sembrò un'infinità. Poi, entrambe, scoppiarono a ridere. Amanda annuì e scomparve nell'angolino cottura a prendere la teiera e le tazzine; nel suo angolo Dawson poteva ancora sentirla consumare la risata divertita.
Quando voltò la nuca in direzione di Sally, la trovò già seduta su una poltroncina colma di cuscini a gambe unite. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, come sempre, ma sorrideva ancora.
« Perché sei venuto fin qui? » gli chiese ad un tratto.
« Per ringraziarti del regalo. »
« Questo l'hai già detto. Ma voglio sapere davvero perché. »
Sally era così dannatamente empatica. Lui le guardò le mani che teneva appoggiate alle gambe. Si mise seduto nel sofà accanto alla poltrona e lei voltò lo sguardo in sua direzione. Amanda stava ancora trafficando con il tè.
« Perché mi hai fatto uno strano effetto, ieri. »
Sally corrucciò la fronte.
« Cosa vuoi dire? Ti ho fatto pena? »
« No, affatto! E' questo il punto. Tu arrivi lì e mi tocchi la faccia in maniera così... così sfacciata. Non ti presenti, non dici nulla, se non toccarmi come se fossi un tuo amico o tuo fratello. Insomma... sappiamo tutti e due che è insolito per una ragazza mostrarsi così spudoratamente ad un uomo. Sembrate tutte così maledettamente chiuse nel vostro gruppo, invece tu sei stata sciolta e mi sei venuta incontro, senza ridacchiare in modo squillante » Dawson parlò tutto ad un fiato.
Lei rise, portandosi una mano alla bocca. Rise di gusto, ancor più di prima; si dovette persino piegare perché proprio sembrava non farcela. E lui rimase un attimo sconcertato dal suo atteggiamento. Diamine! Si stava forse prendendo gioco di lui? Non amava farsi prendere in giro, per questo non ci trovava nulla di così divertente. Dopodiché lei parlò.
« E così volevi che prima mi presentassi? » domandò.
« Beh, no... cioè sì. Insomma, non è questo il punto! » sbraitò lui tutto ad un tratto.
« E quale sarebbe il punto? » chiese nuovamente lei, abbassando tutto ad un tratto la voce.
Dawson le fissò le gote arrossate e la punta del naso che riprendeva il colore chiaro, riscaldato dal tepore di casa. Lei non poteva vederlo, ma lui le stava decisamente studiando i lineamenti. Aveva un piccolo neo accanto al setto nasale, occhi a mandorla incastonati di verde e le sopracciglia erano curate, disegnate in due arcate spavalde. Le guance erano piene e rosee, come le labbra. Quelle labbra che stava fissando e avrebbe voluto mordere, subito.
Sally si scostò da quel silenzio incerto, si mise dritta con la schiena e protese la mano destra in direzione di lui, a palmo aperto. Dawson dapprima non capì, poi gli si illuminò un neurone all'interno della scatola cranica. Protese anche lui la mano destra e la strinse a quella di Sally.
« Piacere, mi chiamo Sullivan Grace, ma tutti preferiscono cambiarmi Sally. Lo trovo più carino e più facile da ricordare. »
Dawson sorrise e vide che anche la ragazza ricambiava. Le sue mani erano fredde, ma aveva la pelle liscia. Erano come se le ricordava.
« Piacere, sono Dawson Reed. Mi sono appena trasferito dal Rhode Island e sono in cerca di nuovi amici che possano darmi qualche informazione su questa città. »
Sally spiegò il sorriso in uno ancora più ampio e senza abbandonare la stretta, sussurrò: « E allora puoi ritenerti fortunato. Io a Chicago ci sono nata e ti mostrerò le bellezze che questo mondo meraviglioso offre. »
« Ho trovato la guida perfetta allora. »
« Hai trovato molto di più che una guida perfetta. »
Mentre Amanda portava il tè con qualche pasticcino, Dawson pensò a quello che Sally disse. Mentre sorseggiavano il tè – solo un po' di limone, niente zucchero per lei – constatò che quello che stava avvenendo era un miracolo. D'altronde l'aveva detto anche lei: aveva trovato molto più che una guida, e se non era un miracolo, allora Sally Grace cosa diamine era?    

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Capitolo 4
*** III - Parole e Silenzi ***


III

Parole e silenzi

 

Nei giorni successivi Dawson non incontrò più Sally. Si erano scambiati parole in un tardo pomeriggio, accompagnati da pasticcini fatti in casa e tè fumante, dopodiché si erano ripromessi di rivedersi ma non si erano detti quando. Così Dawson passò le successive settimane di marzo studiando e recuperando il tempo perduto sui libri. June lo aiutò molto; gli insegnò qualche trucchetto di algebra e gli passò gli appunti di storia. Non parlavano mai molto, sembravano essere solo capaci di studiare. Dawson non la vide più sotto le vesti di donna ribelle ed aggressiva. A scuola sembrava essere sempre appena uscita dalla lavanderia, con i capelli sempre pettinati e quel buco al naso senza orecchino. Cercò di studiarne gli atteggiamenti e le abitudini e notò che era sempre solita mangiare con un altro gruppo di compagni, ridere e scherzare, ma senza mostrare segno di avere altri interessi. La terza settimana di marzo la vide in compagnia di un ragazzo, Jason Burke, capo cannoniere nella squadra di football. Lui le sfiorava le guance e lei non faceva nulla. Sembrava passiva. Decise di smetterla con il guardarla di sottecchi, la vita era sua e la gestiva come le pareva. Dopodiché tornò con gli occhi fissi sul quaderno di matematica, cercando di capirci qualcosa.
Nei giorni che passarono non ne mancò uno nel quale non pensasse a Sally. Ogni pomeriggio, finite le lezioni, tornava in Hotel ed accendeva il grammofono. Aveva solo un vecchio vinile di Etta James ma lo riascoltava sempre, fosse stato l'unico ad essere inciso con il pennino per l'intera esistenza.
Le lettere delle università non erano ancora giunte, ma sia Richard che Vivianne non conoscevano insicurezze. Gli affari del padre venivano continuamente aggiornati dalla madre, ogni sera a cena, così che Dawson potesse essere al corrente di tutta quella cosa che veniva chiamata “commercio”. Rimaneva con lo sguardo perso nel piatto quando sua madre parlava e rimaneva così fino a quando non gli veniva chiesto: « Tutto chiaro, Dawson? » e lui rispondeva con un cenno del capo. Questo succedeva ogni giorno, ogni sera, ad ogni cena.
In Hotel non incontrò mai June, non frequentava molto spesso il posto. Non sapeva nemmeno dove abitasse. Tuttavia, una sera di fine marzo, Dawson andò alla ricerca di suo padre, un uomo molto conosciuto nel circolo degli alberghi dell'Illinois. Lo trovò al banco nella reception che interloquiva con nuovi clienti. Attese il turno, dopodiché si fece avanti.
« Salve Mr Seacock, posso rubarle cinque minuti? » domandò Dawson.
« Certo Dawson, pure dieci! »
Il signor Owen Seacock era un uomo alto e brizzolato. Non mostrava un filo di pancia sotto il panciotto e aveva i capelli tirati all'indietro. Aveva lunghe basette chiare e un pizzetto sul mento. Era di bell'aspetto, ma Dawson non riuscì a scorgere alcuna somiglianza con June.
« Sono nello stesso corso di fisica di sua figlia, ma non ci capisco praticamente niente! Non è possibile chiamarla? »
« Certo, giovanotto, ma è venerdì sera e non so se la troverai in casa » disse, soffermandosi sulla figura del ragazzo. « Anzi, sai cosa ti dico? Lascia perdere la fisica per stasera. Esci anche tu, sembri non vedere la vera vita da un sacco di tempo. »
Quanto aveva ragione. Ma i rimproveri di sua madre erano stati ben lungi a scappatelle notturne nella immensa e folle Chicago. Tuttavia ci pensò su e mentre cercava di essere razionale, inquadrò Mr Owen.
« Se non la trovo in casa, sa dirmi dove potrebbe essere andata? »
« Frequenta sempre un gruppo di amici. Molto spesso vanno al cinema aperto, prova a vedere lì. »
« Indirizzo? »
« St Miller Street. »
« Grazie. »

Dawson chiamò prima June e poi, dopo aver constatato che effettivamente non era in casa, chiamò un taxi e uscì di soppiatto da camera sua. Sua madre era intenta a interloquire con una vecchia signora, cliente dell'albergo, dunque non si preoccupò nemmeno di avvisarla.
Quando il taxi arrivò, riportò l'indirizzo al conducente ed attese. In quelle settimane era stato così preso con lo studio e con il farsi un bel curriculum, che si era dimenticato di uscire. Ringraziò mentalmente Owen per avergli dato quell'idea eccezionale: Chicago era bella, ma di notte... di notte Chicago cantava.
Vi erano luci, macchine e persone che chiacchieravano e ridevano. Gente importante vestita in maniera ancor più importante e lussuose macchine investivano le strade più ambite, come la West Harrison Street o la East Balbo Avenue. Vi erano fontane gocciolanti e illuminate da faretti sott'acqua, e le luci erano ovunque. All'interno della piccola vettura che andava avanti con sicurezza, Dawson si sentiva così piccolo che non si era accorto di essersi stretto nelle spalle. Non si rese conto nemmeno di essere arrivato.
« Sono tre dollari e quarantasette centesimi. »
Dawson gli mollò una banconota da cinque e non volle il resto. Aprì la portiera e, finalmente, respirò a pieni polmoni.
Il luogo era più calmo rispetto all'interno della città, ma in lontananza si potevano ancora ascoltare le musiche – così tante tonalità di musica che ci si sarebbe potuti fare il bagno – che aleggiavano nell'aria. L'effetto del vento mandava il suono anche a quella distanza, centinaia di metri distante dal centro.
Incominciò a guardarsi attorno, incontrando lo sguardo di alcuni passanti affrettati o calmi, lesse il nome di un ristorante italiano e di un teatro modesto. Più in là vi era un piccolo parco, ma del cinema all'aperto, nessuna traccia. Dawson si morse un labbro prima di mettersi le mani in tasca. Si sedette su una panchina e iniziò a pensare.
Era stato così impulsivo che non si era portato nemmeno una mappa della città, aveva solo più dieci dollari in tasca e nelle vicinanze non vi era una sola tavola calda. Tutto questo per cosa, poi? Una lesbica pazza e sconsiderata che faceva finta di essere qualcun altro? All'improvviso si sentì pervadere da una sensazione di puro nervosismo; se l'avesse incontrata le avrebbe sparato contro tutte le insolenze che si era risparmiato fino ad ora. Sarebbe potuto rimanere in stanza a studiare o, meglio ancora, ad ascoltare la voce di Etta James immaginandosi Sally. Invece aveva investito parte della sua paga settimanale in una futile rincorsa per una ragazza che nemmeno gli interessava. Ma doveva trovarla, ad ogni costo.
Si alzò di scatto e prese la prima a ovest. Percorse un pezzo a piedi in modo frettoloso, dopodiché girò l'angolo e si accorse si essere in un vicolo cieco. Fece dietrofront e ripercorse la strada di prima, ma invece di girare a sinistra, andò dritto e finalmente si ritrovò davanti al fatidico cinema all'aperto. Vi era uno schermo gigante e varie macchine ferme. Alcune erano appannate, altre semplicemente senza tettuccio.
Il film era in bianco e nero e si rese conto di essere stato uno sciocco. Lo schermo era così grande che anche un cieco se ne sarebbe accorto. Socchiuse le palpebre, si rilassò e poi le riaprì. Ora la difficoltà stava nel trovare e scovare la macchina nella quale vi era June. E ce n'erano così tante...
Avanzò di qualche passo, sbirciando a destra e a manca. Incontrò gli sguardi confusi di ragazzi della stessa età, altri invece meno confusi. Alcuni ragazzi stavano decisamente avanzando sotto le magliette e sotto le gonne delle loro ragazze – o non proprio loro ragazze – e fu a quel punto che si sentì picchiettare sulla spalla.
« Potrebbero prenderti per un guardone, sai? »
Dawson si voltò di scatto e si ritrovò davanti una June completamente messa a nuovo. Aveva il piercing al naso, indossava una giacca di pelle e una minigonna di jeans. Aveva le gambe scoperte e rossetto rosso sulle labbra. I capelli non erano pettinati a puntino, piuttosto erano una massa informe, mossa, che le cadeva sulla schiena. L'unica cosa che stonava erano i popcorn che reggeva con il braccio sinistro. Per il resto era tremendamente sexy.
« Mi dispiace, ti stavo cercando. »
« Sì, mio padre me l'ha detto. »
« E come ha fatto ad avvertirti? » chiese Dawson, sorpreso.
« Ha chiamato a Billy, che sarebbe il padre di Ellie ed Ellie appena ci ha raggiunti me l'ha detto. Cosa diavolo vuoi da me il venerdì sera? »
June doveva capire una cosa: Dawson si era fatto chilometri solo per parlare, solo per passare un venerdì diverso dagli altri, solo per vedere una faccia che – a quanto aveva cercato di capire, considerava amica – e non voleva, non avrebbe potuto più sopportare quel tono così sfrontato e presuntuoso nei suoi confronti.
Le prese il polso con forza e la trascinò da parte.
« Ehi, mi fai male! »
Ma i lamenti a lui non interessavano. Stavano solo lasciando una scia di pop corn per il breve tratto che li separava dalle macchine. Quando furono in un luogo più calmo e meno circondato da macchine colme di gente che faceva sesso, Dawson finalmente parlò.
« Stammi a sentire, ragazzina che non sei altro. Sei stata tu a parlarmi per prima, a dirmi tutto quello che c'era da sapere su Sally e sulla sua famiglia, sei stata tu a dirmi che sei gay e – sebbene io lo consideri uno spreco immenso – accetto anche questo. Sei stata tu a mostrarti a me prima con questo genere di vestiti e poi tutta imbellettata come la altre galline della zona. Sei stata tu ad inseguirmi solo perché mi interessava Sally e non volevi – da quello che ho capito – che avesse qualcuno di inaffidabile o di screanzato accanto. Capisco benissimo che le tue intenzioni non erano quelle di diventare mia amica, ma cazzo, si può sapere allora perché mi aiuti con lo studio, mi passi gli appunti e mi eviti tutto ad un tratto? Si può sapere che diamine ti ho fatto, di così dannatamente inaccettabile? »
Dawson riprese fiato. June lo guardava impassibile, con le sopracciglia inarcate e lo sguardo concentrato. Si leccò il labbro inferiore e lo fissò duramente.
« Perché mi piaci, dannato idiota. E sei un maschio. I maschi non mi sono mai piaciuti, ma tu mi piaci. E odio questa cosa. Io sono lesbica, non ci vuole un genio per capirlo, ma tu mi piaci, quindi... quindi mi comporto così e basta. Se non ti sta bene, amen, ma sì, tu mi piaci. »
Dawson la fissò. Occhi cioccolato in un mare di nocciola. Non capì quello che davvero disse. Non capì se il suo “mi piaci” fosse un modo carino per dirle che lo voleva come amico, o voleva saltargli addosso. Non lo capì, tuttavia si scaraventò su di lei come un leone impazzito. Le sfiorò le labbra e gliele aprì con la lingua. La baciò arduamente, sfiorandole il volto e i capelli e macchiandosi con il rossetto rosso. Ad un tratto si sentì affamato di lei e della sua bocca. E del suo corpo. E del suo seno. Non ci aveva mai fatto caso, ma June era un fuoco che ardeva. Forse non l'avrebbe riscaldato, piuttosto l'avrebbe bruciato e carbonizzato. Non gli importava. June lasciò cadere i popcorn e si avvinghiò a lui con le gambe, mentre lui le sfiorava il seno da sotto la giacca. La voleva e aveva un arduo desiderio di averla lì, in quell'istante e in quel momento, ma appena il suo cervello si accese, quell'impulso si fermò. Bastò un attimo per rendersi conto che non stava toccando il corpo che desiderava e non stava accarezzando le labbra di chi voleva davvero. Si scostò da lei e la guardò. Si penetrarono con le pupille a lungo, in silenzio, con la sola musica di sottofondo del film in proiezione. La musica c'era sempre, persino in quel contesto. June capì le sue intenzioni e lasciò morbide le gambe, ritraendosi da lui. Si guardò attorno imbarazzata e si sistemò le labbra, cercando di levare il trucco in eccesso.
« Non sono lei, mi dispiace di averti illuso » disse, prima di prendere quello che rimaneva di se stessa ed allontanarsi.
Era successo tutto così in fretta che non se ne rese conto. Era così desideroso di quella ragazza dai capelli rossi, che si era lasciato trasportare dal momento. Si rese conto solo ora di ricercarla ovunque e comunque e con chiunque. L'aveva vista nel colore rosso delle labbra di June e vi si era buttato a capofitto, senza paracadute. Aveva baciato una ragazza che diceva di essere omosessuale, quando invece aveva assaggiato la sua bocca che sapeva di birra e ci aveva trovato erotismo allo stato puro. L'aveva assaggiata così intensamente che quasi stava credendo di aver baciato Sally. Dannata Sally. Era tutta colpa dei suoi occhi verdi, dei suoi occhi verdi che non vedevano e non capivano, e del suo corpo che invece amava e provava e sentiva tutto.
Dawson si voltò in direzione di June, la vide tornare dalle sue amiche con noncuranza, come se nulla fosse successo. Baciò sulla bocca un'altra ragazza e questa le palpò il sedere. Non capiva più nulla. June era una persona con troppe cose per la testa e con troppe poche cose da dire. Si abbottonò la camicia e fece per andarsene. Chiamò un taxi da un distributore lì vicino e se ne tornò in albergo prima di mezzanotte.

 

Nel weekend il padre di Dawson tornava a casa e passava del tempo con la famiglia. Dawson e Richard avevano un buon rapporto, se buono s'intende il rispetto reciproco. Il padre gli chiedeva come andavano i suoi studi, Dawson rispondeva che andavano bene, e ogni volta, Richard rispondeva che si poteva sempre migliorare. I due uomini non si scambiavano altri temi discorsivi. Rimanevano sull'aspetto imprenditoriale ed economico, dopodiché Mr Reed congedava il figlio a pranzo e avrebbero passato il pomeriggio nei rispettivi studi. Almeno, così i genitori pensavano.
Dawson rispettava il padre, gli aveva dato una casa, delle agevolazioni che non tutti potevano avere e – sebbene un po' movimentato – un tetto sopra la testa. Non gli aveva fatto mai mancare niente, ma al contempo gli aveva tolto tutto. Lo rispettava, ma non lo amava. Non gli aveva dato la possibilità di crescere senza correre, chiamare una di quelle villette a schiera “casa” e invitare i compagni di scuola a giocare alla domenica. La maggior parte dei compleanni li passò in macchina, in aereo o in treno. Li festeggiò molto spesso in solitudine, accompagnato dalla notte primaverile e dalle stelle luminose di un altro mondo. Sua madre, Vivianne, lui la ricordava come una persona gentile, ma passiva. I suoi genitori avevano un buon rapporto, ma era sicuro che suo padre avesse un'altra donna, da qualche parte, magari oltreoceano. Non li aveva mai visti scambiarsi un bacio sulle labbra o una carezza spontanea. Era tutto architettato per una messa in scena, ma Dawson non credeva che sua madre fosse stupida. Si era laureata in letteratura inglese alla Brown con il massimo dei voti; per quanto ne sapeva lui, lei aveva accettato la cosa. Si era lasciata trasportare dal lusso di avere un uomo che portava a casa cibo e sicurezze economiche, si era fatta bastare questo. Non aveva un carattere forte, per questo non osava contraddire suo marito e Richard non sembrava nemmeno la persona che obbliga altra gente a fare quello che vuole lui. Riusciva però a manipolarla, con quel suo fascino da stacanovista non gli si poteva dire di no.
Il sabato pomeriggio Dawson uscì di nascosto dalla sua stanza d'albergo e chiamò James. Si fece portare all'indirizzo di Sally Grace e, come settimane addietro, le sue gambe si fecero molli. Congedò James per il resto della giornata; si sarebbe aggiustato da solo per il rientro.
Dawson avanzò come la prima volta sul sentiero che dava sulla veranda. Era pulita, e gli alberi in fiore gioivano colorati. Salì le scale più lentamente della prima volta e s'immaginò la schiena di Sally davanti a sé. Sorrise, prima di premere il pollice sul campanello.
Una manciata di secondi dopo, Amanda Randall gli aprì la porta.
« Oh, salve Dawson » enfatizzò Miss Randall Grace, stupita. « Cerchi Sally? »
« Salve Miss. Sì, è in casa? »
« Stava uscendo. Ora te la chiamo, entra pure. »
Mentre Amanda spariva sulle scale che portavano al piano di sopra, Dawson fece il suo ingresso per la seconda volta in quell'abitazione. Non si faceva vedere né sentire da settimane, ma Miss Randall si era comportata come se lui e sua figlia si vedessero ogni giorno. Accantonò questo pensiero nel più remoto angolo del cervello, dopodiché sollevò lo sguardo verso l'alto. Sally era a braccetto con sua madre, indossava un vestito leggero, stretto in vita dalla gonna non troppo ampia che le arrivava appena sotto le ginocchia. Aveva scarpette basse e i capelli raccolti in una coda alta. Portava una borsetta a tracolla e stava sorridendo. Quando furono faccia a faccia, Sally protese la mano destra verso di lui. Dawson l'afferrò delicatamente.
« Salve Dawson Reed, che piacere risentirti. »
Furono le parole più belle che avvertì da non si ricordava quando. Percepì il profumo di Sally e strinse la presa nella sua mano.
« Ciao Sally Grace, il piacere è tutto mio. »
Amanda si congedò da sola, tornando a fare quello che stava facendo nell'angolo cottura.
« Stavo andando a prendere una boccata d'aria. Vieni con me? »
« Ci puoi scommettere. »
Quel giorno Sally era più bella del solito. La prese a braccetto a richiesta di lei. Almeno non avrebbe avuto bisogno di “quel orripilante aggeggio infernale” qual era il bastone di metallo. Da come aggrottava la fronte e curvava la linea delle labbra, Sally non amava molto prenderselo dietro. E da quel che ricordava lui, quando la vide entrare nel negozio di musica, non aveva un solo aggeggio che la guidasse. Ora invece sembrava essere lenta, sebbene il suo sguardo fosse alto e la sua schiena dritta.
« Ci vediamo più tardi, mamma. Io esco. »
« Okay, buona passeggiata ragazzi! »
Quando furono all'aria aperta, Sally socchiuse gli occhi ed inspirò a pieni polmoni.
« Aah, finalmente la primavera è arrivata del tutto. »
Avanzò timidamente sul selciato, prima di voltarsi in direzione di Dawson ed invitarlo a fare la stessa cosa.
Passarono il pomeriggio passeggiando nei dintorni, senza una meta precisa. Parlarono del più e del meno. Dawson scoprì un sacco di cose. Sally amava andare in bicicletta, sentire l'odore del mare e immergere i piedi nudi nel giardino di casa sua. Adorava sfogliare le pagine di un libro vecchio anni e sentire le pagine pesanti, ruvide e vissute. Amava leccarsi le labbra quando un po' di gelato le scappava dal cucchiaino o sentire i polpastrelli appiccicosi quando al luna park prendeva lo zucchero filato. Non sopportava il freddo, ma amava la cioccolata calda. In più parlarono per ore intere di musica, il suo lato forte. Incominciò a suonare il sassofono dopo l'incidente a cavallo – di cui non fece cenno se non in quel breve momento – scoprendo di essere un portento e di avere un fiato da atleta. Il jazz e il blues l'abbracciavano ogni giorno con la loro melodia e presto sarebbe diventata una musicista famosa. Le mancava solo una voce perfetta. Una voce che l'accompagnasse. La sua era buona, ma non amava cantare. Il suo fiato era stato allenato per altri scopi.
Parlava come se potesse ancora vedere e lui, ne era certo, Sally ci vedeva benissimo. Forse non con gli occhi verdi che brillavano costantemente, ma lei ci vedeva. Ci vedeva eccome.
« Sta facendo buio » disse Sally.
« Già, è ora di tornare a casa. »
Non parlarono mai dei loro studi o di cosa avrebbero voluto fare una volta conseguito il diploma. Sally parlava come se l'unico scopo della sua vita fosse diventare una saxofonista incallita. E probabilmente ci sarebbe riuscita.
Camminavano sul vialetto che portava a casa di Sally, quando questa si fermò, alzò la nuca e respirò profondamente. « Mi dispiace che tu non possa sentire tutto questo. »
« Tutto questo, cosa? » chiese Dawson.
Sally abbassò la nuca in sua direzione e poi sorrise, aprendo le braccia in una constatazione ovvia. « Tutto questo. L'aria che mi accarezza la pelle o i piccoli rumori che percepisco. Non li senti. Ed è un peccato. »
« Come fai a dire che io non li sento? Voglio dire... tu sei... » rispose titubante Dawson.
« Puoi dirlo, Dawson. Puoi dirlo che sono cieca, non devi essere così restio. »
« Tu non ne hai fatto parola per mezzo secondo, oggi. Credevo che rifiutassi... insomma. »
« No, affatto. Non ne ho fatto parola, perché è una storia passata. Ma se vuoi, te la posso raccontare. Non parlo con qualcuno da molto tempo. Sei la prima persona che potrei considerare amico. »
« Dopo nemmeno tre volte che ci siamo visti? Ho aspettato settimane prima di ritornare a trovarti, perché mi hai accolto così? » chiese lui.
Sally sorrise. « Sapevo che saresti tornato. E poi, so per certo che ci saranno altre mille volte ancora nelle quali ci vedremo. Lo sento » spiegò.
« Proprio mille? » chiese lui.
« Proprio mille » rispose lei.
Dawson rimase affascinato. Si inumidì le labbra e prese a braccetto nuovamente la ragazza. Mentre facevano l'ultima passeggiata prima del rientro a casa, lei iniziò a raccontare.
« Amavo andare a cavallo. Lo amo tutt'ora, sebbene non ci possa salire più. Non per mia scelta, ovviamente. Sebastian, il purosangue che mi avevano assegnato, quel giorno aveva qualcosa che non andava. Lo sentii già prima di salire in sella. Ma non ci feci molto caso. Ero una ragazzina, una bambina che attende solo il dopo scuola per correre assieme al suo migliore amico. Ma quel pomeriggio caddi da Sebastian perché si spaventò. Non mi chiedere il perché, non lo so. » Dawson ascoltava senza batter ciglio. La osservava mentre lei rimaneva imperturbabile. Probabilmente aveva raccontato quell'episodio così tante volte che lo sapeva a memoria. « So solo che io ripresi conoscenza qualche giorno dopo e i miei occhi non videro più la luce. Non quella che vedi tu, almeno. Rimasi in convalescenza per alcune settimane, dopodiché entrai in una forma di depressione che nemmeno ricordo... »
« … Aspetta. Io non voglio costringerti a parlare, se non vuoi. Se ti sembra troppo duro affrontare l'argomento ancora una volta, lascia perdere. »
« Dawson » Sally sorrise. « L'argomento lo affronto ogni giorno. Non mi pesa parlarne a qualcun altro che non sia io o mia madre o mio padre. Ora rilassati e ascolta. »
Sally gli prese la mano, accarezzando le nocche rigide e fredde e sciogliendole solo con le sue carezze.
« Mi ripresi dopo alcuni anni, ma la mia volontà mi disse di chiudere le porte al mondo esterno. Non so perché reagii così, reagii così e basta. Non volli più vedere nessuno né i miei vecchi amici né la mia scuola. L'amicizia tra me e Juliet finì per colpa mia e non sai quanto mi dispiace. »
« Juliet? » la interruppe Dawson.
« Oh, forse tu la conosci con il nome di June. Ho sentito dire che adesso si fa chiamare così. Juliet Seacock era la mia migliore amica. »
Dawson rimase un attimo sconcertato: June era la migliore amica di Sally. Eppure la prima non aveva dimostrato solo un interesse amichevole nei riguardi della seconda; anzi, gli era sembrato ci fosse qualcosa di più. Decise di accantonare la questione, ritornando ad ascoltare Sally.
« Sono passati tre anni da quell'episodio. Da sola sono riuscita a sopravvivere. »
« Egregiamente direi. E, a dirla tutta, non ti facevo così loquace » scherzò lui.
« Non lo sono, infatti » confermò Sally.
« E allora perché mi hai raccontato tutto ora, dopo appena tre volte che ci vediamo? Non siamo così in confidenza, no? »
« No, certo che no. Ma almeno smetterai di farti domande e chiedere in giro. Smetteremo di parlare di questo e passeremo le prossime volte a parlare esclusivamente di musica, di amore e ti te. »
« Di me? »
« Certo. Io non so quasi nulla su di te, Dawson Reed. E non mi sembra giusto che tu faccia le tue ricerche mentre io sono rinchiusa in casa a studiare greco. Non ti pare? »
I due si salutarono con la promessa di incontrarsi la settimana dopo. Sally lo baciò sulla guancia e volò in casa, appena in tempo per la cena.
Dawson ritornò sui propri passi e chiamò un taxi. Quello a cui fece caso durante il tragitto fu solo il semaforo rosso che incontrarono all'incrocio di Adison St.
Rosso come i capelli di Sally Grace.

 

 

*******

 

 

Sally andò in camera sua, si slegò i capelli e incominciò a pettinarseli in modo lento e perentorio. Mise su un vecchio vinile di Etta James e canticchiò. Era al settimo cielo. Era felice. Dawson era tornato da lei e l'aveva accompagnata fuori. Non le diede fastidio in alcun modo, si occupò di lei e la lasciò parlare a lungo. Quello che ancora non aveva concluso, era il fatto che fosse così titubante. Si tratteneva nel fare un sacco di cose, come lasciarla andare o avere fiducia nei suoi occhi. Era cieca, ovviamente, ma lei sapeva vedere cose che lui non capiva e non avrebbe mollato la presa fino a quando non avrebbe compreso il vero senso di quell'amicizia. Si ricordò del breve attimo in cui la propria bocca pronunciò il nome di Juliet, le venne un senso di malinconia infinito. Voleva ancora bene a quella disgraziata di un'amica. La considerava ancora tale, ma le aveva chiuso la porta in faccia senza rendersene conto, da mera egoista. E da mera egoista non si sarebbe meritata un suo perdono.
Sally non sospettava nulla riguardo i sentimenti di Juliet. Non sapeva che lei si era presa una cotta per la sua migliore amica e che aveva cercato di contattarla con i più innocui mezzi a disposizione. Non sapeva che molto spesso era lei a guidarla nella strada giusta. Non sapeva che Juliet la osservava addormentarsi il più delle notti, dalla finestra, sopra un ramo. Non avrebbe mai saputo che Juliet era follemente cieca d'amore, non avrebbe dovuto saperlo mai, ma il ramo si spezzò.
Il tonfo fece sobbalzare Sally e i genitori, i quali corsero al piano di sotto. Accesero le luci esterne, osservarono impauriti il corpo esanime sotto l'albero e Amanda Randall invocò il Signore, mettendosi una mano sulla fronte, lambita da piccole gocce di sudore.

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Capitolo 5
*** IV - Quella storia ***


 

IV

Quella storia

 

Non aveva fatto in tempo a mettersi seduta, sdraiata, comoda tra le lenzuola fresche e il dolce sapore di casa, che un sonoro tonfo, proveniente da appena fuori la finestra, spaventò quei suoi lieti pensieri di una serena giornata appena trascorsa. Accese l'abat-jour e avanzò incerta e con paura verso la finestra. L'aprì, dimenticandosi perfino di non poter far nulla se non invocare un nome, una domanda, aiuto.
« Chi è là? C'è qualcuno? Ehi! » canzonò la ragazza.
Sentì il rumore di un altro paio di passi, suo padre era stranamente a casa, forse in pantofole, ma le disse di rientrare dentro e di non preoccuparsi. Percepiva l'aria strana. Sentiva sua madre al piano di sotto parlare a qualcuno con voce preoccupata. Doveva essere successo qualcosa. Avanzò verso la porta, ma Charlotte, la domestica, bussò. Entrò senza attendere risposta.
« Miss Grace... »
« Charlotte, cosa diamine sta succedendo? Cos'era quel rumore? »
Charlotte si avvicinò alla Miss, la quale indietreggiò.
« Miss Seacock è caduta dall'albero. Sta arrivando un'ambulanza a prelevarla, ma ha perso conoscenza. »
« Come?! » sbottò Sally. « Miss Seacock?! Juliet? Cosa cazzo stai dicendo? E' impossibile! » Sally aggrottò la fronte. Si sentì pervadere dal tormento, dall'inquietudine e dalla paura. Pura e perfida paura.
Dovette sedersi a terra per non svenire. Charlotte cercò di rincuorarla, ma non ebbe molto successo. Non sapeva come trattare la Miss. Suo padre e sua madre erano in giardino con Juliet, la quale era incosciente. Probabilmente le stavano controllando il respiro, la tachicardia. In qualche modo le stavano cercando di salvare la vita. Dopo pochi secondi scattò in piedi, ribellandosi alle costrizioni di Charlotte, avanzò spedita verso l'uscita di camera sua, orientandosi con le pareti. Aveva paura e quella notte era più buia del solito. Sally non stava comprendendo più niente, stava sudando e probabilmente sarebbe caduta dalle scale se Charlotte non l'avesse afferrata con fermezza il più delle volte.
Quando arrivò in giardino, piedi nudi su erba umida, Amanda le urlò di non avvicinarsi.
« Mamma, ti prego, dimmi come sta!? » sbraitò Sally.
Cercava di far parlare sua madre, solo per captare la loro posizione. Doveva servirsi di una grande forza, di un grande senso d'orientamento, di tutto. Doveva arrivare, sentire e toccare quella che dicevano essere Juliet.
« Stai indietro, Sally! L'ambulanza sta arrivando! »
E sebbene non esistevano ancora autovetture con ultra sirene, una macchina arrivò a fanali sparati dentro il vialetto di casa, ignorando le aiuole ben curate o l'erba tagliata alla giusta misura. Scavalcò il selciato, parcheggiando a pochi metri dal luogo dell'incidente. Sally seguiva tutto con le orecchie, senza vedere una sola sagoma. Restò immobile ad ascoltare le voci, ogni singolo rumore percepito e captato da ogni singolo angolo laggiù. Rotelle di barelle che venivano smosse da qualcuno, paramedici, infermieri, chissà chi altro, ma senza rivolgersi mai a Sally. Sentiva sua madre e suo padre parlare ad alta voce, fino a quando passi veloci si avvicinarono a lei.
« Io e tuo padre andiamo al Chicago Hospital. Ha avuto una commozione cerebrale e probabilmente andrà operata » spiegò Amanda. « Tesoro, ora voglio che rientri in casa e ti rilassi. Penserò io stessa a Juliet, ma devi stare in casa e riposarti. »
Sally non la stava nemmeno a sentire. Dopo che Amanda se ne andò, Charlotte la guidò fino al soggiorno, aiutandola a sedersi comoda.
« Vuole del tè, Miss? » chiese, ma senza ottenere risposta. « Glielo vado a preparare. »
Il caminetto scoppiettava, acceso da poco. Il calore le riscaldò le gote e la fece rilassare. Sua madre se ne sarebbe occupata. Amanda Randall era stata un chirurgo ai tempi d'oro. Era uscita da Harvard con il massimo dei voti e aveva preso una specializzazione a Princeton in Neurochirurgia. Sua madre se ne sarebbe preoccupata, l'aveva detto lei. Penserò io a Juliet. Doveva essere così. Doveva pensarci, proprio come aveva detto che avrebbe fatto, perché pensare ad un'altra fine proprio non poteva. Penserà lei a Juliet.
Non lasciò che il tempo scorresse lento e inesorabile, preferì fare qualcosa. Premere qualcosa. Annusare qualcosa. Mangiare qualcosa. Ma il solo pensiero di mettere qualcosa dentro lo stomaco era rivoltante e le causava conati di vomito. No, mangiare qualcosa non era proprio una bella idea.
Passò il resto della notte in attesa, davanti al caminetto, in quella posizione, o in piedi o sdraiata o con le gambe rannicchiate e raccolte a sé. Solo verso l'alba, i suoi occhi stanchi e assonnati, vinsero le sue emozioni e si chiusero, lasciandola sprofondare in un breve sonno allarmato e confuso.
Si risvegliò con il profumo del pranzo, verso le undici. Dapprima il suo pensiero non andò a Juliet, rimase in uno stato catatonico e aggrovigliato, poi si rese conto delle coperte che l'avvolgevano, le quali non erano le sue coperte, che il letto sul quale era non era un letto e che i cuscini sui quali aveva appoggiato – e stava tuttora appoggiando – la testa, non erano i suoi cuscini. La sua mente fece un rapido viaggio fino alla notte appena trascorsa, trafficando con le sensazioni più remote e più vivide. All'improvviso l'ansia ritornò a farle visita e l'adrenalina le avanzò nel sangue, fino a farla scattare in piedi e a farle perdere l'equilibrio.
« Miss Sally! »
La voce di Charlotte proruppe con il tonfo della giovane, avvicinandosi alla suddetta e aiutandola a rialzarsi. Fortunatamente non vi trovò lesioni, nemmeno un graffio, e la ragazza non sembrava nemmeno intenta a mostrare dolore.
« Sta bene? Si è fatta male? »
Sally pensò che Charlotte doveva starsene zitta, zitta, zitta. Pensò che fosse una ragazzina con la voce troppo squillante e che la preoccupazione che riservava a lei poteva tenersela per sé, per qualcun altro di più importante o di qualcuno che ne avesse davvero bisogno. Ma tenne per sé quelle amare speculazioni, rispondendo educata, come al solito.
« No, tutto a posto, grazie. »
Voleva sapere di Juliet. Voleva sapere qualcosa, perché nessuno le diceva nulla? Voleva sapere. Lei voleva sapere e avrebbe saputo. « Ha notizie di mia madre? »
Silenzio. Sally conosceva i vari silenzi che regnavano in quella casa. Il silenzio rispettoso, quello che i commensali attuavano quando erano a tavola; il silenzio intimorito, quando i domestici dovevano affrontare le urla del padrone di casa; il silenzio acconsenziente, quando qualcuno – chiunque in quella casa – doveva mostrare segno di consenso e di accettazione; il silenzio doloroso, quello che si spezzava per via di un pianto o di un tremolio della voce, traditi e sopraffatti dalle emozioni. E poi c'era quel silenzio. Il silenzio che odiava più di tutti. Il silenzio ignorante. Quello che era provocato semplicemente dall'indifferenza e dall'inesperienza. Quel silenzio digiuno e privo di argomentazioni sane da poter condividere con chi poneva le domande. Soltanto ignoranza e incolto silenzio. Lo detestava.
« A quanto pare no. Non ha chiamato questa mattina? Perché non ha chiamato? Lo ha sentito il telefono, almeno? » domandò canzonatoria. Si stava facendo un sacco di domande in quella testa. Perché diamine avevano acquistato quell'aggeggio tecnologico e di ultima generazione, se poi non veniva utilizzato?
« Mi spiace Miss Sally. Questa notte non ha squillato nemmeno un istante e questa mattina non credo abbia suonato... »
« Cosa vuol dire non crede? Non era forse qui con me? »
« Certo, certo. Voglio solo dire che ho chiuso un attimo gli occhi, ero stanca Miss Sally, avevo sonno e... »
« Mi sta dicendo che si è addormentata, Charlotte?! » scattò Sally. « Mi sta dicendo che non ha sentito se il telefono ha squillato, perché lei, si è addormentata? Mi dica che è uno scherzo. Me lo dica! »
Era fuori di sé. Si aggrappò ai braccioli della poltrona con vigore, le gote si fecero più rosse e gli occhi più vitrei di quanto già non fossero. Le labbra tremavano per la rabbia e nessuno poteva – e avrebbe potuto in ogni caso – farla calmare. Nessuno.
Si mise seduta, cercando di ritrovare la calma, cercando di non perdere il controllo, cercando – in ogni caso – di pensare a qualcosa di positivo. Il petto s'alzò copiosamente per il respiro veloce e canzonò la domestica di darle un po' d'acqua e d'accendere il grammofono del soggiorno. La musica l'avrebbe calmata, ovviamente, sicuramente, decisamente.
« Dawson? Ha chiamato? » chiese, mentre suonavano note familiari del sassofonista Charlie Parker con Billie's Bounce che si avvinghiava alle membra come una sanguisuga. Le vene si rilassarono, come i tendini, le braccia, le gambe, i muscoli. Il respiro si attenuò e Sally riaprì le palpebre per immergersi nel buio luminoso. Alle volte era davvero frustante non potere vedere. Charlotte le diede un'altra notizia negativa. Di Dawson nessuna traccia, probabilmente l'aveva annoiato troppo la sera prima. Probabilmente si era spinta troppo oltre, troppo in là, oltre e ovunque.
Smetteremo di parlare di questo e passeremo le prossime volte a parlare esclusivamente di musica, di amore e ti te.
Quel di cui odiava parlare, che odiava condividere, che odiava rivivere, ma doveva farlo. Aveva dovuto accelerare le cose, era stata costretta a metterci velocemente una pietra sopra, perché aveva troppo da condividere, troppe cose belle, troppe cose buone, troppa vita, ma vita vera, e non si sarebbe permessa di lasciarsi fuggire un'occasione simile, parlando solo ed esclusivamente di quello.

 

 

*******

 

Quell'argomento era stato trattato così d'improvviso che si era perso il nesso logico della conversazione. Dawson rientrò in albergo con l'amaro a pungergli il palato, prima di addormentarsi e sognare una Sally più viva che mai. La sognava sempre vedente, bellissima e con due grandi occhi verdi. Lo vedeva e gli sorrideva, ma non faceva nient'altro.
Si risvegliò il mattino dopo senza una sveglia e con i raggi del sole già alti in cielo. Si era dimenticato di chiudere le imposte e le tende erano troppo chiare, così la luce filtrava attraverso la stoffa sottile e gli piombava dritta e fastidiosa in faccia. Rimase immobile qualche istante, prima di scendere dal letto e appropinquarsi in bagno. Fece una doccia veloce, dove lavò via il profumo e la vita di Sally quasi con dispiacere, ma le avrebbe nuovamente fatto visita, oggi, domani, tra cent'anni quando avrebbe avuto bisogno di una guida turistica.
Causalmente, gli serviva proprio ora.

 

 

Quando arrivò davanti alla villetta, il silenzio regnava sovrano. Sembrava non esserci nessuno. Congedò James e si avviò verso il vialetto. Notò i segni di un paio di motrici sul prato ben curato, ahimè, fino a qualche attimo prima. Le impronte erano ancora fresche. Corrucciò la fronte, prima di alzare lo sguardo e vedervi una donna – ragazza? - mai vista prima, pulire ciò che rimaneva di un paio di aiuole in fondo al giardino. Le si avvicinò senza disturbarla nel suo lavoro, ma la casa sembrava così silenziosa che non seppe trattenersi.
« Mi spiace... » iniziò.
« Cosa?! » saltò su la giovane.
« Mi... dispiace disturbarla. Volevo chiedere se Sally era in casa? » domandò titubante lui.
La ragazza incrociò lo sguardo con il suo. Dawson notò due piccole iridi dorate, nascoste dalla frangetta asimmetrica, probabilmente non curata da tempo. Il volto, comunque, sebbene fosse stanco e abbastanza pallido, sembrava appartenere ad una ragazza giovane, probabilmente di pochi anni più grande.
Poi gli indicò la porta principale, quella che aveva già sorpassato un paio di volte e annuì.
« Sì, è in soggiorno. Ma non faccia rumore Mr Dawson, Sally ha una forte emicrania. »
Come faceva a sapere il suo nome non lo immaginò; restò tuttavia confuso prima di salire le scale della veranda e bussare piano, sul legno massiccio ed entrare senza aspettare alcuna risposta.
Il suo sguardo andò subito verso la sala, intravedendo le ceneri del caminetto morte, da poco spente. L'impatto con il caldo che regnava sovrano gli fece venire i brividi. Sally era rannicchiata sulla sua poltrona, con la testa poggiata sulle braccia e le ginocchia raccolte a sé. Sembrava tranquilla, dormire serena. La guardò da lontano senza proferire parola. Le fissò le ciocche ramate che, colpite dai raggi solari, emanavano riflessi dorati; le fissò i lineamenti della bocca, delicati, spiegati forse in un sorriso; le fissò le dita affusolate, intrecciate tra loro; le fissò la vita, perché in quel momento Sally era vita, colore e gioia.
Il telefonò squillò e Sally si destò dal suo dormiveglia. Dawson, dal canto suo, intercettò l'apparecchio squillante con lo sguardo, prima di aiutare Sally ad alzarsi.
« Oh, sei qui... » esordì la giovane, prima di allungare la mano sul ricevitore e portarselo all'orecchio.
Dawson rimase accanto a lei, corrucciando la fronte ad ogni espressione che lei faceva, ad ogni « Okay, ma come sta? » che proferiva, ad ogni morso che infieriva sul labbro inferiore. Quel tenero e morbido, labbro inferiore. Solo quando Sally abbassò la cornetta del telefono, osò chiedere: « Sally, tutto okay? Che succede? »
Poi lei iniziò a piangere a dirotto e lui non chiese altro. Il suo pianto durò una manciata di secondi e, da lacrime che pensava fossero di tristezza e dolore, scoprì che erano di tutt'altra categoria.
« Sta bene! » urlò lei. « Sta bene, Dawson! » E scoppiò in una risata felice.
Non ci stava capendo granché, in realtà, ma il suo sorriso era così contagioso che non poteva non essere ricambiato. Sally iniziò a saltellare per il soggiorno, fregandosene altamente se la gonna s'alzava un po' troppo, fregandosene altamente di tutto. Tempestò persino di abbracci e ti tocchi e di baci lo stesso Dawson che, ovviamente, non aveva capito niente.
« Oh, sta bene! Juliet sta bene! » continuava a manifestare lei.
« Juliet? » Il volto di Dawson si fece per un attimo serio.
« Sì, scusami. Tu non sai nulla » iniziò lei, fermandosi a pochi passi da lui. « Questa notte è caduta dall'albero davanti a casa mia. »
June? Che ci faceva sopra un albero?
« June? La tua vecchia amica? »
« Si, la mia vecchia amica. »
Sally lo abbracciò un'ultima volta e poi cercò il bastone per farsi strada, appropinquandosi verso la veranda ad urlare a qualcuno – e qualcosa – che la sua amica stava bene e che ora era felice.
Ma Dawson si continuava a fare domande. Gli sembrava tutto così vago: perché June era rimasta sopra un albero, oltretutto, l'albero davanti la stanza di Sally? La stava spiando? E perché Sally non si preoccupava quanto si stava preoccupando lui? La lasciò gioire della sua leggerezza, sedendosi davanti le ceneri spente e guardando il sole farsi più basso.
Nella successiva mezz'ora, mentre Sally interloquiva con Charlotte e cercava di fare il tè, Dawson rimase seduto a cercare di trovare le parole giuste. Non aveva detto a Sally di conoscere June. Non le aveva detto nemmeno che l'aveva baciata solo perché credeva di star baciando lei. E come poteva? Dal momento che lei era presa con la sua musica, con la sua vita così solitaria, con la sua gioia e tristezza negli occhi? Come poteva dirgli che June era innamorata di lei, ma che l'aveva avvinghiato con quelle gambe così sensuali e così poderose e che lui aveva risposto a quel bacio così carnale, solo perché aveva un bisogno disperato di affondare nei suoi capelli rossi? Come poteva dirle tutto ciò?
Non poteva.
« Puoi prendere un paio di tazzine dalla credenza, per piacere? » domandò Sally dall'altra parte della stanza.
« Certo! » rispose di rimando lui. Si destò dai suoi pensieri e afferrò un set da tè in ceramica, accostandolo sul bancone in cucina, aspettando assieme a Sally che la pentola a pressione fischiasse.
« Volevo in modo disperato che tu venissi, oggi » disse Sally.
Aveva questa magia, quando parlava. Faceva sciogliere, perché in un momento era felice per qualcosa, in un altro tornava ad essere così profonda, così toccante, così vivida. Dawson avrebbe potuto toccarla in qualsiasi momento, anche se era lontana mille miglia, anche se era solo la sua voce a sfiorargli l'anima.
« Allora ti ho accontentata. »
« Mi hai reso felice, Dawson Reed. »
Bevvero il tè sugli sgabelli. Sally gli raccontò di come lei e June si erano conosciute, perché aveva solo accennato all'altra parte della storia, quando la loro amicizia finì.
« Avevo sei anni e lei cinque. Le nostre famiglie si conoscevano, ma non avevano molto in comune. Sua madre morì quando lei nacque e suo padre non era così ricco come lo è oggi. Comunque mi ricordo di Juliet come se fosse ieri. Aveva questi occhi scuri, immensi, che mi guardavano mangiare una focaccia con la mozzarella. Io ero ingorda – e lo sono tutt'ora – e anche egoista, non facevo mai a metà con i miei giocattoli o con le mie merende. Ma c'erano questi occhi, grandi e tristi e compassionevoli, che mi fissavano. Non mi chiese nulla, ma fui io a dividere la mia merenda con lei, perché non aveva niente. Non aveva mai niente, Juliet. Era magra, tanto magra e ringraziava Dio ogni volta che metteva qualcosa nello stomaco. Mi fece tenerezza. Mi piacque subito. E facemmo amicizia grazie alla mia focaccia alla mozzarella.
Crescendo, cambiammo entrambe. Lei si scoprì essere più dura di carattere e più assurda di quanto potesse sembrare, mentre io – penso sia stato anche grazie ai miei – mi innamorai dei cavalli. Oh, sì. Quanto li amavo. Non so com'è ora, non la incontro mai in giro e non chiedo mai a nessuno, ma ogni Natale ed ogni Compleanno le mando una cartolina – la scrive Charlotte al posto mio, perché non riesco ad andare dritta con la penna – e lei mi risponde sempre con un “Grazie” così, freddo e staccato. Non la biasimo, sarei anch'io arrabbiata con me stessa. »
« Allora come mai questa notte era nel tuo giardino? » chiese infine Dawson.
« E' quello che voglio scoprire appena si rimette dalla convalescenza. »
La guardò socchiudere le palpebre e riflettere. Si chiese se non le fosse venuta di nuovo l'emicrania. Ma poi lei continuò a parlare.
« Mi piaceva stare con Juliet, mi faceva sentire a mio agio, ma dopo l'incidente la sentivo scostante. E mi mancava guardare quello sguardo così profondo e così compassionevole. Mi mancava quello e la sua presenza. Lei non sapeva come comportarsi con me, non sapeva su cosa scherzare, su cosa parlare. Non riusciva più ad avvicinarsi a me, perché aveva il terrore di farmi male. »
« Tutte le storie che mi racconti su di te, sono così tristi... »
Vorrei solo abbracciarti e stringerti e baciarti e fare l'amore con te ogni secondo di questi giorni.
« In questi giorni non hai mai raccontato una sola storia su di te, Dawson Reed. Mi spiegherai, un giorno, chi sei? »
In effetti aveva sentito tanto da lei, aveva percepito moltissimo. Si era fidata ciecamente di uno sconosciuto, l'aveva accolto in casa sua ed ora sembravano conoscersi da una vita, anche se lui non aveva menzionato una sola notizia su di sé. Forse poteva sembrare un tantino egoistico da parte sua, ma Dawson, davvero, non sapeva quali parole dire e far sentire, perché nessun racconto sarebbe stato meraviglioso come la voce di Sally Grace.
« Mi piace quando mi racconti di te, un giorno ti dirò tutto quello che vuoi su di me. Un giorno, te lo prometto, ti racconterò la mia storia. »
Sally posò la tazzina da tè, non lo guardò – o meglio – non voltò il viso verso di lui. Protese le mani ad intrappolare le sue che erano ferme sul piano d'appoggio. Sally le valutò con i polpastrelli, le sentì lisce sotto le proprie e Dawson non fece altro che fissare gli occhi concentrati di Sally e godere appieno di quella carezza. Aveva così tanta voglia di baciarla, ora, subito, adesso, eppure non riusciva a sgretolare quella sensazione di purezza che Sally dimostrava ogni secondo passato assieme a lei.
Si morse il labbro inferiore e il suo respiro divenne più accelerato tanto da provocare un battito cardiaco velocizzato. Sally sorrise, come se sapesse e alzò lo sguardo su di lui.
« Sei come un libro aperto, Dawson Reed. Il tuo respiro ti tradisce ogni volta. »
Lei sapeva.
« Lo so perché ho un buon orecchio. »
Scese dallo sgabello e si avvicinò a lui. Come il primo giorno del loro incontro, lei gli posò le mani sul volto e Dawson già sapeva. Questa volta era pronto. Si lasciò accarezzare da quel contatto morbido e rilassò la fronte. Sentiva il suo profumo avvampargli le narici e si rilassò cautamente, ogni volta che Sally sfiorava una parte del suo viso. Questa volta non socchiuse gli occhi e Sally esplorò anche il collo, le spalle, i pettorali. Posò una mano sul cuore e rimase lì, ferma ad ascoltare il battito.
« Siamo tutti così diversi, ma reagiamo tutti in modo così uguale » elargì lei.
« Come puoi dirlo? » domandò lui.
« Ogni cuore prova diverse emozioni, ma quando le prova, sembra scoppiare. »
« Il mio sembra scoppiare? » chiese Dawson.
« Il tuo è già scoppiato. »
Dawson le afferrò la mano in una morsa delicata, incastrò il suo corpo tra le sue gambe, lei in piedi, lui seduto. L'altra mano scivolò lungo la schiena, aderendole le vesti in modo possessivo ma garbato, infine lei, lei che sapeva, inclinò il volto e lui corse ad afferrare quelle labbra che sembravano volare in sua direzione.
La baciò in modo lento, dapprima accostando la bocca, poi facendosi largo con la lingua, assaporando quel profumo di lei, di vita e di musica; assaporando Sally e nessun altra; assaporando ed esplorando quel mondo fatto di blues e jazz e cavalli, sentimenti calpestati e sorrisi riaccolti. Assaporò la bocca rossa di Sally e si tuffò in quel momento atteso settimane e mesi e tutta la vita. Sebbene fosse un bacio, un solo bacio, eppure in quel bacio c'era l'universo, c'erano le galassie e le stelle. La volle subito e sempre, già lo sapeva prima di accostarsi su di lei, già prima di alzarsi e incastrarla contro il bancone, già prima di farle scivolare la mano sul fondoschiena e poi ad accarezzarle il collo, le labbra e i capelli. Quei capelli che sapevano di erba tagliata, di mare e di pioggia. Quella pelle che sapeva di pesca e di estate. Quella bocca che sapeva di ciliegie e di fuoco, ardente e scoppiettante. E quegli occhi che vide ed incrociò in quell'attimo solo e soltanto, che sapeva di menta e di primavera, di autunno e di speranza. Quel verde così profondo che cantava dal buio più illustrato.
Fermami.
« Non fermarti. »
Non riesco a smettere.
« Non smettere. »
Non riesco a respirare.
« Voglio respirarti. »
Non posso guardarti.
« Vorrei tanto guardarti negli occhi. »
Dawson si fermò, una mano sul collo di lei e l'altra in fondo la schiena. Stava sudando, stava tremando e stava respirando a fatica. La guardava negli occhi, anche se lei non poteva ricambiare. La guardava negli occhi e vi vedeva tutto. La guardava negli occhi e sperava che di momenti come quello, lei, ne avrebbe passati tanti.
Aveva voglia di prenderla in braccio, di portarla in camera sua e farci l'amore tutto il giorno. Aveva voglia di accarezzarle il seno, di mordicchiarle la pancia e di svestirla lentamente. Aveva voglia di viverla dentro, di credere che fosse sua, anche solo per un momento e di innamorarsi di lei. O forse era già perdutamente smarrito in lei, per lei, con lei.
« Sally... non so come fai e perché lo fai, ma non smettere di farlo. »
« Dawson, io non faccio nulla. Sei tu che fai tutto. Sei tu che baci una cieca e ti emozioni se ti accarezzo. Sei tu che mi colpisci e mi fai sentire bene. Sei tu che fai tutto, io non faccio proprio niente. »
Non baciarmi più.
« Baciami ancora. »
Non potrei farcela.
« Dawson, baciami ancora. »
Non era una richiesta disperata, ma una preghiera proferita con un filo di voce. Le labbra già vicine, i respiri già ascoltati e il sapore già mischiato. Era un desiderio che accomunava entrambi e il suono delle voci, sussurrate e delicate, lasciarono il posto alla musica di baci stampati.
Charlotte probabilmente entrò in casa, ma non disse nulla. Non la vide intromettersi nemmeno per un istante. Quel quarto d'ora di intense emozioni sembrò durare una vita. Forse il tempo si era fermato o forse erano capitolati in un'altra realtà. Quello che però Dawson sapeva, era che avrebbe dovuto fermarsi e andarsene a casa, prima o poi.
« Resti a cena? » chiese Sally.
« Vorrei, ma devo discutere con mio padre di alcune questioni. »
« Questioni che fanno parte della tua storia? »
« Questioni che un giorno ti racconterò » annuì Dawson.
Non sapeva quale fosse il giorno nel quale avrebbero speso del tempo prezioso a parlare di lui e della sua storia, quello che voleva farle conoscere erano gli spazi meravigliosi e le bellissime distese dell'Australia che aveva visitato e l'immensa metropoli qual era Tokyo.
Quello che voleva raccontarle, erano le distese verdi che vedeva quando osservava i suoi occhi e il caldo tepore che provava quando intrecciava i suoi capelli. Quello che voleva raccontarle doveva ancora essere scritto. Voleva raccontarle tutto, su di lui, sui sentimenti che lui provava per lei e su quante meravigliose cose avrebbero potuto fare assieme.
Voleva raccontarle tutto, anche se sapeva che una volta detto un particolare, un particolare di nome Juliet, probabilmente avrebbe cambiato le cose. Probabilmente non sarebbero state così meravigliose. Probabilmente Sally avrebbe chiuso quelle meravigliose labbra lontano da sé, si sarebbe voltata e non gli avrebbe mai più riposto fiducia.
Ma voleva e doveva farle sapere. Farle sapere che aveva baciato la sua migliore amica solo perché voleva lei, aveva capito che Juliet era innamorata di lei e che era su quell'albero probabilmente per chiederle scusa, chiederle di entrare e farci l'amore come lui voleva fare l'amore con lei.
Si meritava di sapere, per quello chiamò James e gli disse di dirigersi verso il Chicago Hospital. Non gli importava che June fosse ancora in convalescenza. Voleva saperne di più su quella storia, perché Sally Grace doveva sapere la verità su Juliet. Doveva sapere che c'era un altro cuore ad essere scoppiato.
Il mio sembra scoppiare?
Il tuo è già scoppiato.
E Sally avrebbe scelto. Perché loro, Dawson e June, avevano già scelto. Avevano scelto Sally e avrebbero sempre e solo scelto lei.

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Capitolo 6
*** V - Rivelazioni ***


 

V

Rivelazioni

 

Beth Hart e John Bonamassa lasciavano scorrere note di blues all'interno della vettura. Tutto sembrava essere ovattato ed isolato, tanto che le note pronunciate con voce grezza e calda dei due cantautori rimbalzava contro le orecchie di Dawson. Aveva ancora il sapore di Sally Grace sulle labbra. Aveva ancora il suo odore impresso nei vestiti. Aveva ancora il suo sguardo vuoto addosso, smeraldo ad accoglierlo e a riscaldarlo. 

Non si era accorto di essere salito in auto e di aver richiesto di proseguire dritto verso il Chicago Hospital. Non si era accorto di essere su un taxi. Non si era accorto di essersi perso nei meandri dei suoi pensieri e di essere arrivato. E non si era accorto di ignorare completamente il conducente dell'auto che, dalle tonalità rudi della voce, sembrava avere molta fretta.

« Ehi, ragazzo, ci senti? Siamo arrivati! »

Salve Dawson Reed, che piacere risentirti.

« Non farmi fare tardi ragazzo, anche io devo andare a cena! »

Resti a cena?

« Sto perdendo la pazienza. Ti muovi o no a scendere? »

Baciami ancora.

Dawson stava fissando piccole gocce di umidità imperlare il finestrino. Seguiva le loro strade, divise ulteriormente da altre gocce. Le seguiva, guardava, osservava prendere velocità e poi perdersi in altre piccole vie nascoste, unirsi ad altre piccole goccioline e diventare più grandi. Solo quando il conducente del taxi lo destò dai suoi pensieri tastandolo con una mano, Dawson si percosse voltando in sua direzione uno sguardo spaesato e confuso.

« Ragazzo, sei sveglio o no? Sono 2 dollari e sessantasette. E sbrigati! »

Smosse le braccia e le palpebre, tirando fuori dalla giacca un altro biglietto da cinque dollari. Questa volta però attese il resto, prima di scendere dalla vettura e sbattere la portiera della vettura. Avrebbe giurato di sentire il tizio imprecare, ma non se ne curò.

Quanto tempo era rimasto seduto su quel sedile, a fissare il vuoto? Quanto tempo era trascorso da quando aveva lasciato la casa di Sally? Mesi, settimane, giorni? 

Ventitré minuti e diciassette secondi.

Non aveva la minima idea di dove fosse la stanza di Juliet Seacock, e dallo sguardo che poneva a qualsiasi particolare del pronto soccorso, sembrava tutt'altro che pronto per una conversazione.

« Tesoro, posso aiutarti? » gli chiese l'infermiera al banco informazioni.

Masticava la gomma con aria assente, aveva un trucco pesante e i capelli cotonati sembravano appena usciti da un'alveare pieno zeppo di api.

« Può indicarmi la stanza di Juliet Seacock? »

L'infermiera, che portava il nome di “Gillian” sul cartellino appeso al petto, scrutò con attenzione l'elenco dei pazienti ricoverati. Ci mise un po' per individuare il nome di Juliet.

« Sei un parente, tesoro? »

« Ha importanza? »

« Ne ha. E' in terapia intensiva ed è solo ammessa la famiglia. Tu sei un suo parente? »

Tanto valeva la pena rischiare. Doveva vederla e parlarle. Doveva entrare ad ogni costo. Doveva, non poteva aspettare un altro secondo di più.

« Sì, sono suo fratello maggiore. Henry Seacock. »

Henry. Se voleva proprio passare per un bugiardo avrebbe potuto inventarsi un nome migliore. Ad ogni modo l'infermiera, che continuava a masticare la gomma con la bocca aperta, gli indicò dove firmare. Dopodiché gli indicò piano e stanza, ripetendo le norme anti-fastidio-paziente. 

Stanza 209, terzo piano.

Prese le scale che fece correndo, sorpassando un paio di medici in pausa e molte altre stanze con persone di ogni età distese su un lettino. Quando arrivò al piano notò subito la calma e la pace che governavano sovrane. Non vi erano lamenti né urla. C'erano persone per i corridoi, ma alcune sembravano assenti, altre sembravano preoccupate, molte altre avevano esaurito le lacrime prima ancora di arrivare lì. Per un tratto smise di correre, persino di camminare, evidenziando con lo sguardo i volti afflitti di giovani madri e giovani padri. Non vi era traccia di Mr Seacock, probabilmente era tornato in albergo. Avanzò leggendo nella mente i numeri di ogni stanza.

199, 200, 201...

Il corridoio era lungo, lindo e pulito. Un inserviente stava appena finendo di passare lo strofinaccio in terra, inumidendo il linoleum con gesti meccanici, sintomi di chi fa quel lavoro per abitudine.

202, 203, 204...

Il suo pensiero era rivolto a Sally. Quel volto così sorpreso e così fresco che l'aveva avvolto poco fa. Sarebbe rimasto volentieri a cena. Sarebbe rimasto volentieri con lei. Sarebbe rimasto a baciarla ancora, a sfiorarle le spalle e a massaggiarle i polsi. Ma prima doveva chiarire le cose con Juliet. Prima doveva mettere dei paletti, fare un passo indietro. Prima doveva capire cosa provava lei.

205, 206, 207...

Non aveva programmato di cadere così, nella bocca di Sally Grace. Non aveva programmato di baciarla e di avvolgerla e di cedere a quella tentazione che non aveva desiderato affatto. Desiderio d'amore.

208...

Aveva solo programmato di ascoltare del blues, sognandola di notte magari, baciando altre donne che non fossero lei. Perché aveva la brutta abitudine di ferire le persone più belle. Aveva la brutta abitudine di fare sempre il passo sbagliato. E questa volta non l'avrebbe permesso, perché si trattava di Sally Grace e della sua musica. Dei suoi capelli rossi e dei suoi occhi verdi.

209.

La porta della stanza era aperta. Fece un passo avanti. Juliet era irriconoscibile con il bendaggio sulla fronte e un braccio ingessato. Le gambe sembravano a posto, ma non poteva dire la stessa cosa del costato. Probabilmente aveva subito un intervento, perché sembrava alquanto costipata e debole. Juliet aveva gli occhi chiusi; occhi senza trucco, arrossati. Le labbra erano più piccole di quanto si ricordasse, rosee e naturali. Se l'aspettava sveglia, invece dormiva tranquilla. Se ne stava lì, a sognare chissà cosa, quando lui era venuto solo per parlare con lei.

Ad un tratto Dawson si sentì più libero. Libero da un peso enorme. Aveva corso per parlarle, aveva corso per dirle quanto davvero teneva a Sally, senza preparare un vero discorso. Non si era accorto di quanto fosse in ansia, nervoso. Non si era accorto di niente, fino a quel momento. Quel momento di sollievo che lo fece ricadere sulla poltrona accanto al lettino. Si mise lì, a fissarla, con una mano sulla tempia, a massaggiare la frustrazione che aveva provato ma non sentito.

Si addormentò subito, sprofondando in un sonno senza sogni. 

 

 

**

 

« E' lì da quanto? »

« Non lo so. Può essere lì da qualche ora o da tutta la notte. Quando mi sono svegliata era già lì. »

« Dovremmo chiamare i suoi genitori, saranno in ansia per lui. »

Ciò che Dawson sentì prima di aprire le palpebre furono una serie di frasi soffocate dal dormiveglia. Soffocate dal tepore caldo della stanza, ma disturbate dalla posizione scomoda e frustrante della poltrona. Si svegliò di soprassalto, indugiando sulla figura di June, viva e vegeta, più sveglia che mai. Gli stava sorridendo con quell'espressione strafottente, sua solita. Non si era accorto di essere in presenza di una terza persona, niente di meno che Owen Seacock, il padre di June. 

« Buongiorno giovanotto » lo salutò Mr Owen.

« Buongiorno signore... » rispose di rimando Dawson.

Si guardarono per un istante, poi Mr Seacock avanzò verso l'uscita.

« Anche se non sapevo di avere un altro figlio, mi ha fatto piacere vederti di nuovo. Ora, se non vi dispiace, vi lascio un po' da soli » uscì facendogli l'occhiolino. 

Dopo che Owen si auto-congedò, Dawson prese tutto il fiato che aveva, si stropicciò gli occhi e si preparò la miglior frase che avrebbe elargito a quella testa quadra di June.

« Che ore sono? »

Lei scoppiò a ridere e lui fece lo stesso. June aveva un aspetto migliore della notte scorsa, aveva un paio di flebo attaccate al braccio e il pallore della sera prima era svanito. Era una cosa positiva, no? Il braccio continuava ad essere ingessato e il costato era leggermente fasciato; la posizione lievemente piegata e non completamente seduta di June, gli fecero intuire che si era rotta qualcosa. Molto di più che una commozione cerebrale.

« Mi dimetteranno tra una settimana. Da quanto tempo sei seduto su quella cosa? Sembra davvero scomoda » elargì lei.

« Lo è » fece lui, alzandosi per sgranchirsi le gambe. « Allora, come ti senti? »

« Non c'è male. Mi hanno dovuto togliere i piercing e ingessarmi il braccio. Ho anche una mini frattura alla seconda costola, respirare mi fa male. Non sai ridere, che angoscia! »

Parlava come se si fosse rotta un'unghia. Dawson intravide la luce solare entrare dalla finestra, probabilmente era mattino presto. Aveva dormito tutto il tempo seduto su quella scomodissima poltrona; per quello ora aveva il torcicollo.

Entrambi sapevano di affrontare la domanda che Dawson doveva - perché doveva - farle. Gli sguardi si intercettarono un paio di volte, silenti, prima che lui si decidesse ad abbassare lo sguardo e a parlare.

« Perché eri sopra l'albero davanti la stanza di Sally? »

« Non bastava chiedermi cosa ci facessi sopra un albero? »

« Sai che mi frega più la seconda parte della domanda, che la prima. Potevi anche cadere da un grattacielo, non credo ti avrei chiesto cosa ci facessi lì sopra se non ci fosse stata traccia di lei. »

« Alla faccia del volermi essere amico! »

« Prerogative. »

June si mordicchiò il labbro inferiore, scostò lo sguardo di lato e rimase in silenzio per un tempo infinito. Dawson era un ragazzo paziente e non disse nulla, non la costrinse a buttare fuori ciò che voleva sentire, ma le sue mani tremavano e tremavano per una buona causa.

« Mi hai baciato » enfatizzò lei, sussurrando.

Dawson inarcò un sopracciglio. 

« Non pensavo ti potessi piacere, all'inizio. Avevo dato idea di essere... sai... dell'altra sponda. Ma tu mi eri sempre attorno e poche volte mi chiedevi di Sally. Quando lo facevi, però, ti si illumivano gli occhi. Ti si illuminano ancora, naturalmente. » Aveva le labbra screpolate, disidratate. « Eppure, non so perché, ma quando mi hai baciata, ho pensato per un millesimo di secondo che fossi io, quella desiderata. Per quello ti ho risposto, baciandoti a mia volta. »

« Mi hai baciato perché pensavi di essere desiderata? »

« Perché pensavo ti avrebbe fatto piacere » rispose June. Non aveva rimorsi nello sguardo, nemmeno un segno di piccolo pentimento. Non aveva nemmeno occhi lucidi; era cosciente ed attiva. Parlava tranquillamente, senza remore alcuna. « Ovviamente mi sbagliavo e di gran lunga anche. Tu hai sempre voluto Sally. Dalla prima volta che l'hai vista gli sei sempre andato dietro. Anche se non la vedevi, l'avevi di fianco, ogni notte, con quella cavolo di musica che ascoltate tutti! »

« Come fai a saperlo? » 

« So molte più cose di quanto pensi, Dawson. Non so se da bambini si ami, ma se si ama, credo di avere sempre amato Sally Grace come nessuno abbia mai amato me. Le sono stata sempre vicina, sebbene lei non mi volesse. Le sono sempre stata accanto, sebbene lei mi odiasse. Non ho mai smesso di esserle amica, non ho mai smesso di amarla e di volerle bene. Sally è una persona che vale la pena di conoscere, una volta nella vita. Ti apre le strade della sua anima e non ti fa più uscire. Anche se ti chiude le porte, un piccolo pezzo di te farà sempre parte della sua vita. » 

Ma Dawson non stava capendo nulla. Che lei provasse qualcosa per Sally, l'aveva capito fin da subito. Probabilmente non aveva capito quanto fosse profondo il sentimento. Sicuramente aveva sbagliato a giudicarla, aveva errato con quel bacio, il bacio rivolto a June. Si rese conto solo ora che fu un gesto malsano, per lui, per lei, per il loro rapporto acerbo. 

« Io... June »

« Lo so che c'è qualcosa tra di voi, Dawson. Non sei il solo ad essere stato colpito da qualcuno. Anche lei ricambia i tuoi stessi sentimenti. E non devi guardarmi con pena o compassione. Mi va bene così. »

Le sue parole furono un colpo al cuore. Lo trascinarono nuovamente sulla poltrona. Avrebbe dovuto gioire e cantare? Cosa si faceva in situazioni come queste? Cosa si faceva quando si vinceva uno scontro d'amore, con una persona che si arrendeva davanti ai propri occhi? Come si poteva gioire?

« Mi dispiace. »

« Sì, anche a me. Ma non credo di avere mai avuto chance. Lei non è come me. »

« Intendi sfortunata? »

« Intendo gay. »

Dawson si portò le mani sudate alle ginocchia, e prima che June potesse parlare di nuovo, scattò in piedi.

« Lei deve sapere comunque. »

Lo sguardo della ragazza si allarmò. 

« Cosa? »

« Deve sapere. Quello che provi. Quello che provo io. Deve sapere che ci siamo baciati. Per sbaglio, per un mio grosso sbaglio, ma deve saperlo. Non posso guardarla in faccia e non dirle niente di tutto questo. Lei non può non sapere. »

I corridoi incominciarono ad essere più affollati della notte appena trascorsa; vari infermieri entravano in altre stanze e controllavano i progressi. Tra poco sarebbero entrati anche a controllare June. E a quel punto avrebbe dovuto lasciare la stanza, tornare alla propria vita. Magari a scuola, visto che era lunedì.

« Dawson » lo intercettò con lo sguardo scuro. Due pupille nere che lo avevano sempre osservato con diffidenza e superbia, ora lo guardavano innocenti. « Lei sa. »

Ad un tratto la raffica di parole biascicate, sventolate, schiaffeggiate dalla bocca di Dawson lasciarono posto al silenzio. Guardò June con sorpresa, sgranando le palpebre e rilassando i muscoli tesi del collo.

« Come sarebbe? » chiese, con un filo di voce.

« Lei sa già cosa provo. Glielo dissi tempo fa. In realtà le regalai un disco di Benny Goodman. Le scrissi un biglietto; avrebbe dovuto ascoltare la numero cinque, un duetto eccezionale con Rosemary Clooney. Memories of you. Mi ricorda sempre lei, quando l'ascolto. E' una musica così leggera, il jazz. Probabilmente è nata per Sally » spiegava con occhi lucidi. Occhi oscurati dalla tristezza. « Sono certa che l'abbia ascoltata, perché una sera mi arrampicai sulla sua finestra e la sentii canticchiare questa canzone. Oh, quanto mi manca la sua voce Dawson, non puoi immaginare quanto! »

E invece lo immaginava benissimo. Si sedette sulla poltroncina che lo aveva ospitato la notte appena trascorsa, si mise a pensare a come fare per parlarle.

« Non sa di noi due, però, vero? » 

« No » rispose lei. « Ma non c'è bisogno che lei sappia, perché tra di noi non c'è stato nulla. »

« Nulla, a parte quel bacio. »

« Quel bacio non contava nulla per me. »

Quelle parole fecero allungare lo sguardo di Dawson sul suo corpo, in netto dimagrimento. 

« Avevi detto che ti piacevo. »

« Balle. Non mi piacciono i maschi. Mi annoiavo. »

Era sempre difficile credere al cento per cento di quello che raccontava Juliet Seacock. Soprattutto quando parlava di sentimenti, di infatuazioni e di modi per declassare le proprie sensazioni. Era un asso in queste cose. Molto spesso si limitava a distogliere lo sguardo e a mandare al paese chi era ormai passato di categoria. Dawson pensava che fosse un modo per proteggersi dalle ferite che altrimenti sarebbero potute penetrarle nella carne. Un modo alquanto bizzarro, alquanto stupido. Ma non osava spronarla a fare diversamente. Decise dunque di crederle. D'altronde le piacevano le donne. Quello che però non poteva e non voleva fare, era omettere quel dettaglio a Sally. Non meritava di essere presa per i fondelli. Voleva portarle rispetto. Voleva, in qualche modo, essere completamente nudo di fronte ai suoi occhi. Nudo, come lo era lei con la sua cecità. Esposta al mondo, quando non poteva vedere altro che buio e il buio non era altro che il mondo colorato che poteva solo immaginare.

« Rimettiti » esordì Dawson.

« Lo farò. »

Si scambiarono un ultimo sguardo, dopodiché Dawson si alzò e uscì dalla stanza, richiudendo la porta alle sue spalle. La giornata era caotica, ma per quel corridoio continuava ad esserci calma piatta. Il silenzio era abissale, sebbene vi fosse qualche forma vivente in più della scorsa notte. 

Chiamò un taxi e si fece portare in albergo. Il prossimo scontro sarebbe stato contro mamma Vivianne e papà Richard. Quelli sì che gli avrebbero dato del filo da torcere.

 

 

***

 

Quando Dawson scese dal taxi, aprì il portone d'ingresso all'hotel, procedette dritto verso la sala da pranzo, scoprì che non vi era altro che il vuoto più totale. Vuoto nel suo tavolo, ovviamente. Suo padre sicuramente l'avrebbe rivisto nel weekend, ma sua madre? Dov'era Vivianne?

Arrivò all'ultimo piano con fatica. Si sarebbe fatto una doccia e avrebbe ordinato qualcosa dal citofono. Non aveva voglia di raggiungere la scuola e non aveva voglia di affrontare nessuno. 

Si liberò dei vestiti sporchi e si inabissò sotto l'acqua bollente. Si tastò i muscoli dell'addome, i leggeri peli scuri sul petto e sbirciò l'espressione del volto attraverso il vetro. Non si spiegava quella sensazione di malessere dentro. Sapeva di star omettendo situazioni, sensazioni, fatti accaduti all'unica persona che gli aveva dato qualcosa. Socchiuse gli occhi e restò sotto il getto d'acqua per un tempo infinito. Le ciocche dei capelli gli si appiattirono sulla fronte e la schiena si adagiò sulle piastrelle fredde. Sentiva i brividi farsi vivi sulla pelle; decise quindi di darsi una svegliata e di insaponarsi da capo a piedi.

 

Mentre chiamava la reception per ordinare un sandwich, si avvolse un asciugamani alla vita. Scrocchiò il collo indolenzito e si accasciò sul letto a braccia aperte. Era stravolto. Avrebbe fatto volentieri un ulteriore pisolino, se qualcuno non avesse bussato alla porta.

Andò ad aprire ancora mezzo svestito, il cameriere gli servì il vassoio e se ne andò senza fare storie. Anche se avesse voluto, Dawson non aveva spiccioli da offrire per mance gratuite. Decise quindi di gustarsi il pranzo da solo e in giornata sarebbe passato da Sally. Cercò di trovare le parole giuste, buttò giù un paio di righe, ma in cuor suo sapeva che non sarebbero bastate. Sperava solo che Sally vedesse oltre, come aveva sempre fatto. Sperava che non si fermasse alle apparenze, al tono che avrebbe usato per scusarsi o al profumo che avrebbe indossato quel pomeriggio. Sperava che Sally avrebbe capito quello che lui aveva compreso ancor prima di fare quell'errore. L'errore di baciare un'altra ragazza, l'errore di non averle detto che conosceva Juliet, l'errore di non averle detto niente della sua vita, dei suoi sentimenti. L'errore di essere rimasto nascosto, solo perché non si era reso conto che i sentimenti che provava dovevano essere condivisi e non divisi con la mera speranza che un giorno si sarebbero incontrati lungo la strada. Così scelse cosa indossare senza pensarci più di tanto, si diede una sistemata ai capelli e chiamò James.

« La porto allo stesso indirizzo, signore? » chiese il conducente dell'auto.

« Sì James, grazie. »

Lungo il viaggio canticchiò una leggera canzone di Mamie Smith, tamburellando i polpastrelli sulla maniglia della portiera posteriore e cercando di non risultare agitato.

« Nervoso Mr Dawson? » domandò James, inquadrandolo dal finestrino retrovisore.

« Cosa glielo fa pensare James? E per favore, lasci l'appellativo “signore” a qualcuno di più vecchio. Ho solo diciassette anni! »

« Mi scusi » elargì James, sogghignando sotto i baffi. « Comunque sta sudando e non riesce a smettere di farmi vibrare il sedile con il suo continuo movimento delle gambe. Ha un incontro importante per caso? »

« Non è l'incontro ad essere importante, quanto quello che dovrò dire » disse Dawson.

« Credo che di qualunque cosa si tratti, ne uscirà vincitore Dawson. Riuscirebbe a convincere persino un sordo! »

« Peccato che chi devo convincere ci sente benissimo » rispose Dawson.

Poco più tardi, l'auto parcheggiò come sempre davanti al vialetto di casa Grace. I due uomini si salutarono e James rimise in moto, allontanandosi senza fretta lungo la strada di periferia.

Dawson sentiva la bocca asciutta; non vedeva Sally da un giorno intero, ma sembrava che fosse passato un anno. Il cuore incominciò a palpitare più forte, quasi a scoppiargli dentro al petto.

Il tuo è già scoppiato.

Deglutii, avanzando sempre più rapidamente verso la veranda. Non bussò alla porta, ma gli venne incontro direttamente la signora Reed. 

« Ciao Dawson » lo salutò Amanda, sorridendogli sorniona.

« Salve Mrs Grace, Sally c'è? »

« Certo, ti sta aspettando in camera sua. »

« Dove... ? »

« Ti ci accompagno io, seguimi. »

Amanda lasciò a Charlotte il compito di socchiudere la porta d'ingresso, mentre avanzò spedita verso le scale che l'avrebbero portata al secondo piano. Dawson restò qualche scalino più in basso, intimorito, forse realmente spaventato, ma continuò a seguirla a testa bassa, come se fosse colpevole di qualcosa.

Era forse questo il problema. Si sentiva in colpa, dalla parte del torto, anche se non aveva fatto altro che pensare a Sally, innamorarsi di Sally, sognare Sally. Erano forse bastati una manciata di secondi per fare tutto, ma quello che doveva fare ora sembrava senza tempo.

« Prego; il tè l'ho portato poco fa. Hai bisogno di qualcos'altro? » chiese Amanda.

« No, la ringrazio Mrs Grace. »

Amanda defilò come era arrivata, scomparendo al piano di sotto in un batter d'occhio. Ciò che ora lo separava da Sally era una leggera porta d'olmo, verniciata di un bianco candido che gli ricordava il leggero vestito che gli aveva visto addosso il sabato appena trascorso. Alzò il braccio, prima di percepire una leggera nota espressa da un sassofono. Non poteva essere altro che quello: era un sassofono a far vibrare la moquette sulla quale poggiava i piedi. Sally stava suonando. Non gliel'aveva mai visto fare e, sebbene non la stesse davvero vedendo, sapeva che quel suono non veniva da un vinile o da una radio. Era troppo vivo per essere frutto di una nota trasmessa da un apparecchio. 

Aprì la porta senza bussare. La spalancò lentamente, cercandola con lo sguardo. Era lì, davanti a sé, con la schiena appena scoperta a rivolgergli il benvenuto. I capelli ramati sembravano quasi biondi con la luce del sole, raccolti in una treccia che sembrava incastrarsi perfettamente tra le scapole. 

Le note richiamavano una musica nuova, mai sentita prima. Non sapeva se fosse jazz, blues o qualche altra musica inventata al momento. Di certo sapeva di tutte quelle cose che Sally aveva condiviso con lui. Di certo quella musica era lo spirito che emanava Sally.

Rimase ad ascoltarla fino a quando non ebbe concluso, prima di decidere se fosse comodo stare in piedi o avrebbe magari seduto. Poi Sally si voltò verso di lui, senza guardarlo, ma sorridendogli felice.

« Ti piace? » gli chiese.

« E' meravigliosa » rispose lui, avanzando verso di lei.

Sally posò il sax sul copriletto, tastandolo prima con i polpastrelli. Successivamente lo accolse tra le sue braccia, annusando il suo odore e percependolo con il tatto. Gli baciò il petto, affondando il viso tra il colletto della camicia e la sua pelle, calda. 

« Ti devo parlare » dissero all'unisono.

« Okay, prima tu allora » incespicò Sally.

Dawson la vide nervosa, o forse eccitata. Doveva dirgli qualcosa di importante. Che già sapesse di lui e Juliet? Impossibile.

« Non so da dove iniziare... » 

« Penso che dall'inizio sarebbe perfetto. »

Sally gli sorrise con lo sguardo verde perso tra i colori chiari di quella camera. Era così luminosa. In contrasto con la realtà così crudele.

Dawson la fissò. Voleva sprofondare in quelle labbra rosee che sorridevano. Avrebbe voluto avanzare tra quel seno acerbo e stringere a se i fianchi morbidi. Avrebbe voluto accarezzarle i capelli e pettinarglieli lungo la schiena. Avrebbe voluto fare moltissime cose e le avrebbe fatte, ma solo dopo averle detto tutto quello che aveva omesso fino a quel giorno. 

« Sally, mi piaci. Mi sei piaciuta subito » cominciò Dawson.

« Mmh, continua. »

Lui si fermò a fissarle i dettagli di un volto che stava aspettando qualcosa di dolce, romantico e a dir poco stuzzichevole. Quel volto stava aspettando tutto, meno che quella rivelazione nascosta da sempre.

« Anche se ci conosciamo da pochissimo, troppo poco tempo, non è giusto aspettare. »

« Aspettare cosa? » chiese Sally.

« Aspettare di dirti tutta la verità » rispose Dawson.

« Quale verità? » domandò lei.

Dawson fece un respiro profondo, prima di trattenere il fiato e sputare la sentenza tutto ad un fiato.

« La verità è che io conoscevo già June... » disse Dawson.

Sally alzò la nuca verso di lui, senza battere ciglio. Lui deglutì mentre si posizionava meglio sul copriletto, senza perdere il contatto con lo sguardo di lei. Sebbene non vedesse, Sally poteva benissimo percepire la fatica che Dawson stava avendo. Doveva esserci qualcosa di più, se quel comportamento disturbato lo affliggeva così tanto.

« E' stato un caso incontrarla. L'ho incontrata lo stesso giorno che ho incontrato te. Alloggio in uno degli alberghi di suo padre » continuò Dawson. « In queste settimane mi ha aiutato molto a scuola, sai, con il recupero delle lezioni e la guida... »

« Guida? » lo interruppe Sally. « Non dovevo essere io, la tua guida? »

« … nella scuola » concluse Dawson.   

Sentì che il discorso stava andando nella direzione sbagliata; percepiva la confusione di Sally e la sua incapacità di comprendere. Condivideva le sue paure e si sentiva completamente nudo di fronte a quello sguardo vuoto, coscio di un problema imminente. Ritrasse a se le braccia, appoggiandole sulle ginocchia. La schiena era rigida e il fiato era corto. Il cuore batteva veloce e, se non si contavano le loro voci, quell'atmosfera emanava troppo silenzio.

 « Cosa mi stai dicendo, Dawson? » chiese infine Sally.

Dawson si stava aspettando proprio questa domanda; domanda alla quale non si poteva ormai più ritrarre, domanda dalla quale non sarebbe potuto più scappare, domanda per la quale aveva speso troppi pensieri e troppe paure. 

« Mi piaci, Sally. Mi hai folgorato con i tuoi capelli rossi e gli occhi verdi. Mi incanti ogni volta che parli di musica e di te e delle tue passioni. Mi fai impazzire e vorrei slacciarti la camicetta proprio qui, adesso, capisci? » elargì Dawson, notando il rossore sulle gote di Sally farsi vivo. « Sei sempre presente, qui » disse, sfiorandole la tempia. « E qui » sussurrò, toccandole il centro del petto, dritto al cuore.

« E cosa c'entra allora Juliet in tutto questo? » chiese lei, rimando impassibile al suo tocco.

« C'entra, perché quando è caduta, la stessa notte, l'ho baciata. » Stop. « E lei mi ha risposto. » Non è vero. « E' stata una sciocchezza, non mi è mai interessata in quel senso. Ma vedi, aveva quel rossetto rosso che mi ricordava il colore dei tuoi capelli e quegli occhi persi e... »

« Vattene » lo interruppe Sally.

« Come? » si stupì Dawson.

« Esci. Vai fuori dalla mia camera » spiegò Sally.

« Sally... devi credermi, non è come pensi tu. Lei ama te. Me l'ha detto ieri... »

« Vi siete visti ieri? » chiese lei, sollevando lo sguardo infuriato verso la sua sagoma. « Mi hai anche mentito e sei andato da lei! »

« Solo per dirle cosa pensavo davvero! Devi credermi, Sally! » supplicò Dawson.

Ma lei rimase impassibile, rigida, seduta, affranta e senza espressioni compassionevoli. Sally non capiva. Non aveva chiesto tanto. Erano negli Stati Uniti, in un periodo di rivoluzione per le menti giovani e di Beat Generation, le menti incominciavano ad essere più aperte e gli omosessuali incominciavano a farsi avanti. Non aveva chiesto molto, non gli aveva chiesto di essere suo, non gli aveva chiesto l'esclusiva, ma non gli aveva nemmeno chiesto di mentirle. Lei si era aperta. Lei si era confidata. Lei aveva raccontato pezzi di sé ad una persona che si era presa gioco di lei, dimostrando proprio quello che lei aveva sempre creduto. Ma non avrebbe più commesso lo stesso errore. 

Sally si alzò spedita, cercò il suo bastone e non volle aiuto in alcun modo da Dawson, il quale era scattato assieme a lei. Protese il passo fermo e deciso verso la porta, spalancandola e soffermandosi accanto ad essa, con la testa alta.

« Vattene » ripeté.

« Sally... lasciami spiegare » implorò Dawson. 

« Non c'è niente da dire. Vattene e non farti più vedere » sostenne Sally.

Non aveva lacrime agli occhi o segni di tristezza; le gote erano solo ampiamente arrossate e la sua espressione, seppur cieca, esprimeva solo delusione e amarezza. Dawson non insistette, preferì avanzare verso l'uscita.

« Almeno dimmi cosa volevi dirmi poco fa » chiese Dawson, prima di protendere il passo verso l'uscita.

« Non ha più importanza ora, non credi? »

Furono le ultime parole che le sentì elargire, prima di chiudergli la porta in faccia, accostandola accuratamente e chiudendosi dentro. Dawson rimase a fissare il legno chiaro per una manciata di secondi, probabilmente si memorizzò i rivestimenti in oro e i dettagli disegnati sull'infisso. Percepì un silenzio tombale all'interno di quella stanza e una tristezza immediata si fece ampiamente largo attraverso le sue vesti, spogliandolo completamente di una sensazione nuova.

Uscì da quella casa pochi minuti dopo, congedandosi per un'ultima volta da quella vita. Non gli aveva nemmeno lasciato il tempo per spiegarle cosa veramente aveva provato, cosa si erano detti lui e June. Non gli aveva lasciato il tempo di fare nulla. L'aveva sbattuto fuori dalla sua vita così, immediatamente, senza una mera possibilità di parola. Non gli aveva lasciato niente, a parte il ricordo dei suoi occhi delusi e della sua fermezza. 

Dawson non avrebbe più rivisto Sally Grace. Non avrebbe più rivisto quella casa o quell'ambiente. Non avrebbe parlato di Sally Grace per moltissimo tempo e probabilmente si sarebbe fatto un'altra vita. 

Ma anche se fosse andato avanti per la sua strada, l'amara possibilità di avere un futuro assieme a lei sarebbe stata sempre presente. Sempre presente, nelle sue notti. Sempre presente, nei suoi sogni. Sempre presente, nella sua vita. Sempre presente, nei suoi successivi dodici anni in giro per il mondo. 

 

FINE I PARTE

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Capitolo 7
*** VI - 1965: Il gelo su Chicago ***


INIZIO SECONDA PARTE

 

 

VI

1965: Il gelo su Chicago

 

Pioveva. Dopo una sferzata di vento primaverile e di sole tiepido sulla pelle, pioveva. Era strano percorrere la tratta Philadelphia-Chicago in un giorno e mezzo all'interno di vagoni caldi e confortevoli. Il viso nitido, riposato da una lunga dormita, volgeva l'interesse direttamente al paesaggio scorrevole oltre il finestrino. Dawson non ricordava dettagli maestosi, come nuovi grattacieli e grate che ne avrebbero sviluppati di più. Erano passati dodici anni da quando aveva lasciato quella città, diplomandosi al liceo per appropinquarsi ad Harvard nello stato del Massachusetts. Aveva scelto di seguire le orme del padre, seguendo i corsi dell'HBS, sigla che sta per Harvard Business School. L'economia l'aveva trascinato a sé come un piccolo insetto, nella trappola di una grossa tarantola. Era riuscito a ristabilire un contatto diretto con Stephan, suo padre, accettando l'offerta di lavoro – temporanea – di revisionista nella sua catene d'aziende. Si era laureato nei tempi prestabiliti, aveva trovato subito lavoro e la sua vita era andata a gonfie vele, sempre. Al college aveva iniziato a fumare, a vestirsi in modo eccelso e a scrivere anche per la rivista Harvard Business Review. Probabilmente considerava quegli anni, i migliori della sua vita. Era cresciuto, aveva avuto moltissime donne e fatto tante nuove esperienze. Attraversò un periodo nel quale le droghe erano una tentazione, ma riuscì a non seguire la brutta strada di alcuni dei suoi compagni, cercando d'infischiarsene dal principio. Sviluppò l'arte degli scacchi e s'invaghì della musica country. Aveva deciso di dare un taglio, letteralmente, ai boccoli scomposti e disordinati. Dall'estate del 1955 decise di adottare un taglio più corto, farsi crescere il pizzetto e le basette. Tutto questo, gli aveva conferito una certa virilità ed espressività, tanto da farlo sembrare più grande di quanto in realtà non fosse. 

Non aveva partecipato ad alcuno sport, se non per un anno, condividendo la passione per il football e vincendo contro Yale, nell'incontro finale della stagione. Ma, sebbene gli avesse rafforzato i muscoli e gli avesse donato una certa fama tra le fanciulle della facoltà, il suo interesse ripiegava sempre per altro. Così decise di mollare lo sport ed impegnarsi il più possibile in quell'attività che lo richiamava sempre. Lo faceva di nascosto, ma scrivere era diventato quasi una necessità. Scriveva di politica, dibatteva con alcuni studenti dell'Harvard Law School di nuove e vecchie norme impartite dalla legge. Battibeccavano sulla capacità – o le varie incapacità – che Lyndon Johnson, trentaseiesimo presidente degli Stati Uniti, adottava attraverso il proprio mandato. Aveva vissuto la morte di Kennedy come un trauma e si era ripromesso di non entrare mai in politica. L'esperienza del college, proprio come a suo padre e sue madre, gli garantì anche una giovane donna, determinata e assolutamente piccata. Si era invaghito di lei una notte di pura festa e follia, notandola al bancone di un bar con la gonna troppo corta e la camicetta sbottonata.

L'aveva scopata in modo rude nel bagno del locale, sfiorandole i seni e tastandole le cosce sode. Si era invaghito di quegli occhi grigi che gli sussurravano privazione e tormento. 

Si erano fidanzati un anno dopo e si erano sposati nella chiesa di Boston, l'11 settembre 1961. La bella mora si chiamava Margareth Erika O'Brian, era laureata in legge e ora lavorava come avvocato, presso gli uffici di giustizia di Philadelphia. 

Il matrimonio all'inizio andò bene, meravigliosamente bene, tra lunghe notti insonne e cibi afrodisiaci. Tuttavia il lavoro risentiva di questo loro mancato impegno, dunque decisero di darci un taglio e, magari, iniziare a crescere. 

Così ora vivevano in una modesta villetta di periferia a Philadelphia, non avevano avuto bambini – sebbene ci avessero pensato – ma avevano adottato una cagnetta di nome Lilly. 

Tutto sommato era una vita serena, convogliata da gesti innocui e qualche tradimento singolo. Dawson aveva sempre avuto la brutta abitudine di farsi trascinare dalle donne, soprattutto quando avevano gambe chilometriche o uno spacco mozzafiato all'altezza della schiena. Non lo faceva con cattiveria, ma la brama e il desiderio erano più forti di lui. Comunque Margareth non sospettava mai nulla, troppo presa dalle sue cause in corso o nel fare gli occhi dolci a qualche collega. A Dawson andava bene così. L'aveva amata, forse, a modo suo, ma capiva che non era quel genere d'amore che pretendeva qualcosa. Quel qualcosa chiamato rispetto. Perché si rispettavano, a modo loro, ma senza farsi troppe domande o senza farsi troppi problemi. Andava come veniva, così, come i problemi di tutti i giorni. Sapeva che questo genere di rapporto non sarebbe durato molto, ma per ora bastava questo ad entrambi. Margareth era un ponte sicuro, rigido e ben saldo e non se la sarebbe fatta scappare. Aveva comunque bisogno di mettere su famiglia, di continuare la stirpe dei Reed e di crescere i suoi figli come un buon padre. E Margareth era la donna con la quale voleva farlo, o almeno, le carte e il voto matrimoniale dichiaravano questo. 

In tutto questo, tra college e successi ottenuti, naturalmente Sally era esistita nella sua mente per molto tempo. Un tempo che aveva deciso di fermare circa sei mesi prima l'incontro con Margareth. Non c'era stato giorno che non le avesse scritto. Non c'era stato giorno che non le parlasse. Non c'era stato giorno che non l'avesse menzionata, ricordata. Un prato verde gli ricordavano i suoi occhi. La voce di Charlie Parker lo riportava ai quei brevi momenti di serenità passati con lei. Insomma, lei non era morta con Chicago. Almeno, non subito. Aveva deciso di spegnere quei pensieri rivolti a lei, un giorno d'inverno. Aveva capito che non era giusto continuare a tormentarsi così, a fare l'amore con donne pensando solamente a lei, a scrivere lettere mai inviate, ad ascoltare canzoni che sembravano essere incise e suonate apposta per loro. Andava fatto un taglio, e quel taglio era Sally.

Ma in qualche modo lei visse e lui lo sapeva, lo sperava, lo sognava. Lei visse, ma Dawson non sapeva come.

Vattene e non farti più vedere.

L'aveva fatto. Se n'era andato e non si era fatto più vedere.

 


 

 

*********

 


 

Costernato, pugnalato, perso. Era così che si sentiva, adesso, dopo che quella donna così giovane, così pura e così cieca, gli aveva ordinato di andarsene e gli aveva chiuso la porta in faccia. La sensazione di vuoto che seguì nei giorni successivi furono una vera mutilazione per i suoi sentimenti, brevi, ma pur sempre sentimenti. Ecco perché aveva cercato sempre di non invaghirsi di ragazze, soprattutto di ragazze così. Ecco perché aveva cercato di lasciare il posto a qualcos'altro che non si appellasse “amore”. Ecco perché ora si ritrovava senza fiato, malmenato e sopraffatto. Aveva fatto uno sbaglio, un unico umano sbaglio, e nessuno gli aveva mai dato possibilità di spiegare. Lei, non gli aveva dato modo di spiegare. Ed era comprensibile, all'inizio. C'erano stati giorni nei quali ci avrebbe dormito su e al risveglio avrebbe lasciato il posto ad un nuovo progetto: correre, fumare spinelli, toccare le natiche sode di ragazze più grandi. Invece ora si ritrovava sconfitto, avvilito, tormentato. Non era giusto. Non poteva sentirsi così. Aveva fatto un errore, ma un errore che non sarebbe vissuto di nuovo. E Sally non aveva finito di ascoltare, lei che ascoltava sempre e che aveva un udito perfetto.

Deve sentire che orecchio, Mr Dawson! Che orecchio!

Ma quell'orecchio lo aveva impostato in modalità silenzioso e non aveva più scelto di ascoltare nessuno. Nemmeno il suo cuore, Dawson ne era certo.

Era pungente e ancora vivido quel suono silenzioso che era stato il suo respiro. Era pungente, vivido e frustrante vederla irrigidita, seduta su quel copriletto che non aveva mai visto prima di allora. Era pungente, vivido, frustrante e triste non trovare le parole giuste per restare, per convincerla ad ascoltarlo, per farsi dare una possibilità. Una possibilità di scuse, perché sono quelle che Sally non aveva accettato da Dawson. Aveva ascoltato dettagliatamente la verità uscire da quelle labbra carnose, morsicate e baciate il giorno prima, ma non aveva dato modo a lui di continuare. L'aveva arrestato istintivamente, come a ripararsi la faccia da un temporale improvviso o togliere un dito scottato e metterlo sotto l'acqua ghiacciata. Non aveva fatto nient'altro che ignorarlo e sbatterlo fuori dalla sua vita. 

Dawson ebbe modo di riflettere. Il suo cervello fece un percorso confuso, labirintico e maledettamente complicato. Dapprima seguì un'emozione di pentimento, per quello che aveva fatto, per come l'aveva fatto e per come gliel'aveva tenuto nascosto. Dopo arrivò la negazione, la mancanza di coraggio che ebbe fu solo per proteggerla da eventuali, ma reali, fraintendimenti. Giunse anche l'accusa verso Sally, la quale non gli aveva dato modo di farsi spiegare, di dirle come davvero stavano le cose. Ma vinse la rassegnazione di una sconfitta, l'accettazione di averla ferita e di essersi reso conto di provare qualcosa di più, che una semplice cotta adolescenziale. 

Sally era entrata così velocemente nella sua vita e così velocemente ne era uscita. Adesso doveva solo cercare di convivere con il suo cuore, senza farlo scontrare troppo con la propria testa. Sì, perché un adolescente non ha poche cose a cui pensare. E Dawson doveva pensare al suo futuro. L'ultimo anno di liceo stava terminando e a breve avrebbe ricevuto le risposte dai college a cui aveva fatto domanda. 

Era tempo che il suo futuro entrasse a far parte della sua vita, forse a tappare quel vuoto che aveva lasciato la ragazza dai capelli rossi. Era tempo di pensare a chi sarebbe diventato Dawson Reed un giorno. Era tempo di smetterla con queste idiozie e ritornare ad essere quello che sempre era stato.


 

********


 

 

 

Quando arrivò alla stazione di Chicago, gli fu subito chiaro che qualcosa mutò. Non metteva piede in quella città esattamente da quando se n'era andato. Aveva rifiutato gli inviti di sua madre per Natale o per il Giorno del Ringraziamento, piuttosto era stato disposto a pagare il viaggio a loro e a farli venire da lui a Boston, quando era uno studente affermato, o in altre parti del paese quando invece la sua carriera lavorativa andava piuttosto a gonfie vele. Questa volta però, aveva deciso di mettere da parte pensieri che richiamavano il passato, di fare l'uomo e non il topo che fugge. Aveva una bellissima moglie, varie amanti e sicuramente un posto fisso. La sua vita procedeva bene, non c'era bisogno di avere paura di un passato ormai remoto e lontano.

O almeno, così credeva.

Sua madre Vivienne lo accolse a braccia aperte, invecchiata con il tempo ma sempre in ottima forma, tra pellicce vistose e, come in quell'occasione, investita di gioielli attorno ad un impermeabile ecru, sopra le ginocchia.

« Tesoro! Quanto mi sei mancato! » 

« Ciao mamma » disse Dawson, incastrato tra l'abbraccio materno e pietre preziose tanto affilate da pungergli le guance. 

« Andato bene il viaggio? Marge non è venuta con te, alla fine? »

« No, Margareth aveva degli impegni con l'ufficio. Papà? »

« Arriverà per cena. Dai, c'è John che ci aspetta in macchina. »

« John? E che fine a fatto James? » chiese Dawson, bloccandosi sorpreso.

« Oh, tesoro. James è andato in pensione da un paio di anni ormai. Aveva fatto il suo lavoro per un sacco di tempo. La vecchiaia prende anche i migliori, lo sai » gli rispose Vivienne. 

Forse non ci avrebbe creduto se non l'avesse visto con i propri occhi. Un ragazzo giovane, poco più giovane di lui, li aspettava paziente al posto del guidatore, senza osservarli. Le gambe di Dawson agirono autonomamente, salendo in macchina e fermandosi una volta percepita la posizione più comoda. Non fece a tempo nemmeno di capire se ci fosse qualcosa di diverso in quella città, che sua madre lo avvolse con la solita parlantina, chiedendogli di Margareth e degli affari e di Philadelphia. Non menzionò null'altro per l'intero viaggio. 

I signori Reed si erano trasferiti definitivamente a Chicago, così decisero di comprare l'attico del Monadnock building e di sistemarsi lì. L'attico comprendeva tre stanze da letto, un immenso soggiorno e una modesta cucina. Non era troppo sfarzosa, ma a sua madre interessava avere il tetto per lavorare ai suoi fiori. Non era mai stato a casa loro ed era la prima volta che ci metteva piede.

Lo sistemarono in una delle due stanze da letto non occupate, poi Vivianne lo congedò. 

Il primo istinto fu quello di chiamare Margareth, almeno dirle che era arrivato, ma non aveva voglia di sentire la sua voce annoiata e soprattutto non aveva voglia di percepire la noia che provava quando iniziava a raccontarle delle sue crisi a lavoro. Era insopportabile.

Così decise dapprima di farsi una doccia e, solo più tardi, uscire in centro, a farsi una passeggiata. Il tempo senza sole aveva lasciato posto ad alcune nuvole bianche, lambite da una leggera brezza primaverile. 

Si cambiò i vestiti, il soprabito e si diresse verso l'uscita. 

Sapeva già dove andare. 

Ehi! Dove diamine stai andando? A fare conoscenza. 

Da Juliet.

Se la fece tutta a piedi, dalla West Jackson Boulevard fino a raggiungere il Grand Hotel Plaza di Chicago. Non sapeva perché, ma pensava che Owen Seacock fosse rimasto lì per tutti quegli anni. E forse aveva ragione. Perché non provare ad entrare? Non aveva nessuno che gli vietasse di fare qualcosa, un solo passo verso l'ingresso. Eppure non riusciva a schiodare i piedi dalla posizione ferma, impalata ed imbambolata a fissare quella muratura che non era cambiata di una virgola.

« Mi scusi, serve aiuto? »

Dawson si voltò in direzione della voce, una voce mascolina che non smentì l'evidenza. Mr Seacock lo stava fissando, con aria incerta e amichevole, dall'alto dei suoi settantacinque anni. Era invecchiato, parecchio. Occhi scavati, tondi e guance infossate. Aveva messo qualche chilo in più sulla pancia e la schiena si curvava frontalmente. I capelli erano più radi e più bianchi, per il resto, rimaneva sempre lui. Avrebbe potuto riconoscerlo tra mille gentiluomini in giro per l'America. 

« Salve Mr Seacock, quanto tempo è passato » rispose Dawson.

Owen lo fissò incurvando le labbra in una strana smorfia, agguantò la presa più salda sul bastone da passeggio e infine gli occhi si spalancarono di sorpresa. Gli sorrise, quasi non credendo nemmeno lui a ciò che stava vedendo.

« Perdinci, Mr Reed! Ma quant'è cambiato! » enfatizzò Mr Owen, allungando il passo verso il giovane uomo che gli era dinanzi.

« Che piacere rivederla, Mr Seacock. Come andiamo? Tutto bene? E mi chiami Dawson, la prego. » 

« Dawson... è passato così tanto tempo. Quanto? Dieci anni? » chiese Mr Owen toccandosi il labbro inferiore con l'indice.

« Dodici signore. »

« Dodici! Gesù, dovrò mangiare più fosforo mi sa » disse Mr Owen, portandosi a sedere presso una panchina lì vicino. 

Dawson notò che Mr Seacock era invecchiato molto, velocemente e precocemente. 

« Mr Seacock, come vanno le cose? Non per sminuirla, ma la vedo alquanto stanco » elargì Dawson.

Mr Owen ci mise un attimo per metabolizzare l'affermazione, prima di alzare la nuca e volgere gli occhi grigi dritti verso quelli scuri di Dawson. « Figliolo, non ti è proprio arrivata notizia? » chiese.

« Quale notizia? » domandò Dawson.

Mr Owen sospirò. Non l'aveva mai visto così abbattuto e stanco, soprattutto quello, stanco. Le sue braccia erano morbide e troppo rilassate per l'uomo allegro e pieno di vitalità che aveva conosciuto anni fa.

Con un ulteriore sospiro si diede una piccola spinta e si risollevò, mettendosi in piedi davanti al giovane Dawson. Avanzò a piccoli ed immensi passi fino all'ingresso del Grand Hotel Plaza, poi si voltò in cerca di Dawson e gli fece segno di avanzare verso di lui. Lo guardava come si guardano i giovani promessi, un cane che sta finendo di annusare un tronco d'albero, un bambino che si è fermato a fissare una vetrina piena di giocattoli. Lo guardava con uno sguardo consapevole e paziente, come se quello che doveva dirgli poteva benissimo aspettare.

Ma non ci fu molto d'aspettare.

Quando Dawson entrò nell'atrio dell'Hotel, dapprima non vide grandi cambiamenti. Le piante che di solito delimitavano l'atrio con l'ingresso erano accostate diversamente, verso la grande scalinata centrale. Al banco si erano muniti di una superficie diversa, in marmo bianco, un contrasto vivido in quell'ambiente così vintage ed economico. Ma non fu quello il vero cambiamento che Mr Owen si aspettava che lui notasse. Dietro al bancone, dove solitamente c'era la cabina con tutte le chiavi delle stanze e per ognuna il proprio cassettino, c'era un'enorme lastra in acciaio che raffigurava un volto. E quel volto, ci avrebbe scommesso qualunque cosa, era quello di June. 

Era una foto semplice, scattata in una mattina soleggiata, d'estate. Era seduta su una panchina e stava accarezzando un vecchio cane. Lo sguardo era fisso nell'obiettivo e le labbra erano appena scosse in un sorriso. Avrà avuto ventidue, ventitré anni. Non vestiva nel solito modo; era più posata, sembrava più calma, più felice. In qualcosa era diversa, ma la sua voglia di essere prima rimaneva fissa in quello sguardo scuro. 

Solo in un secondo momento, Dawson lesse ciò che la lastra in acciaio riportava appena sotto la foto.



 

Juliet Joe Seacock

21 luglio 1936 – 12 agosto 1959

 

Sei stata amore, affetto e gratitudine.

Riposa in pace



 

Ci volle un secondo per metabolizzare tutto. Dawson spalancò gli occhi, si sentì tremare e perse per un attimo l'equilibrio. Gli vennero in mente mille domande, mille parole, mille sussulti da voler affrontare, ma l'unica frase che blaterò fu semplice e senza quel sentimento che avrebbe voluto introdurci. Si sentiva spezzato come un ramo di ciliegio in piena estate.

« Perché non sono stato avvertito? » 

Il suono di quelle parole punsero in viso Mr Owen, mentre contemplava adagiato su una poltrona il volto angelico di sua figlia. Non rispose, ma respirò in modo sopraffatto.

« Perché non sono stato avvertito! » ripeté Dawson, ma con più enfasi. Questa volta non era una domanda, ma un modo scortese per farsi dire quello che gli era stato negato. 

Si sentiva arrabbiato, si sentiva triste, si sentiva come se avesse mancato un treno per il paradiso e non ce ne fossero altri da prendere. Si sentiva ferito, tradito, tenuto all'oscuro di tutto. Si sentiva messo da parte, come un giocattolo rotto. E rotto si sentiva davvero, sotto quell'aria da giovane imprenditore, sotto quella mascella rigida, le lacrime erano pronte a sgorgare.

Non pianse, non ce la fece. Volse lo sguardo duro in direzione di Owen, fissandolo, con quell'obbligo nello sguardo che pretendeva una risposta. Pretendeva ciò che gli aspettava di diritto.

E poi la risposta gli venne incontro, come una pietra lanciata sulla superficie di un lago, con l'intenzione di far vibrare l'acqua di leggere onde e invece si inabissa con un rumore tonfo e sordo dentro l'oscurità cristallina.

« Lei non voleva. »

Non c'era bisogno che Dawson chiedesse chi fosse questa lei. Non c'era bisogno di niente. Si sentì di nuovo vuoto, più spezzato, con un organo in meno. Le ossa gli si irrigidirono e non ci fu modo per farlo rimanere in piedi. Prima che potesse cadere sulle ginocchia, si portò sulla poltrona davanti a Mr Owen, strascicando i piedi e le gambe e la vita. Vi rimase in silenzio per un tempo che gli sembrò interminabile, mentre la gente passava, usciva, richiamava i figli troppo agitati per quella uscita in tarda mattinata. Gli passarono di fianco, in fretta e furia, le inservienti con un carico di asciugamani sporchi tra le braccia. Lo urtarono e gli chiesero scusa, ma lui non rispose, non le guardò nemmeno. Il suo sguardo era fisso sulla scarpa usata e un po' rovinata di Mr Owen, senza veramente guardarla. Il suo dolce far niente era niente meno che vuoto, spento, senza pensieri. Continuava a fissare quella scarpa consunta dall'uso e pensava a June.

Al suo volto e al suo fare accecato di vita, di dolore, di ingiustizia. Quelle labbra rosse che anni addietro aveva baciato, quella sua doppia vita tra casa e scuola, quel suo sguardo che iniettava calore e determinazione. Quello sguardo che non aveva mai pensato di perdere realmente. 

Non le aveva mai detto addio. Non le aveva mai scritto. Da quel giorno in ospedale, le proprie vite si erano separate. La loro amicizia, quella strana e breve amicizia, era durata poco, in un tempo comune per quell'età piena di complicazioni, ma non aveva mai pensato che fosse finita. Non così, non in quel modo. 

La vita gli aveva strappato la possibilità di farsi perdonare, di chiederle scusa, di ricominciare. La verità era che lui stesso aveva deciso di tagliare i ponti, di rifarsi una vita, di laurearsi, di sposarsi con una donna che non amava davvero, non voleva. Aveva deciso di farsi una buona cerchia, di andare a giocare a golf o cricket nel fine settimana, di parlare di politica tra un whisky e uno spogliarello. Aveva deciso di diventare quello che non aveva mai desiderato essere. Suo padre. Ed ora continuava a fissare quella scarpa, immobile, come se fosse un qualche bottone salvavita, come se fosse un proiettore temporale, come se fosse quella scarpa strappata ai lati, la cosa più importante.

« Com'è successo? » chiese poi, continuando a fissare la scarpa logora.

« Si è buttata dall'ultimo piano. »

Come se non bastasse, la ragazza dall'orecchino al naso, si era tolta la vita. Dawson incrociò le dita tra i capelli, pesanti, troppo caldi e troppo chiari. Si sfregò gli occhi, cercando di levare quell'aria da martire. 

« Abbiamo detto che è scivolata, ma si è buttata di sua iniziativa. Mia figlia non scivola per caso sul davanzale del tetto » continuò Mr Owen. « Volevo chiamarti, farti venire al funerale, ma lei me lo ha impedito. Ha detto che non le avresti dato gloria, che l'avevi usata e che non meritavi di darle l'ultimo addio. »

« E lei ci ha creduto? » chiese Dawson, apatico.

« Cos'altro avrei dovuto fare? Solo più avanti Sally mi disse che non era vero che l'avevi usata, non era vero che non meritavi di salutarla. Ma lei era troppo arrabbiata con te, lo leggevo nel suo sguardo » concluse Mr Owen.

Di tutte le affermazioni, le spiegazioni, i chiarimenti, quella gli sembrava colma di egoismo. Come aveva potuto, Sally Grace, mettersi tra lui e un morto? Come aveva potuto far apparire la rabbia repentina anche in quel momento delicato? La odiava. Non avrebbe dovuto permettersi di intralciare la verità che si celava tra la loro relazione, quella relazione fresca e senza preamboli. Aveva rovinato tutto. Aveva rovinato anche il meraviglioso pensiero adorno che aveva su di lei. Ora la ritraeva come una piccola ragazzina viziata, egoista e senza cuore. 

« Non avercela con lei, Dawson. Era solo una ragazza innamorata che voleva proteggere Juliet. Si è già pentita per l'errore » spiegò Mr Owen.

« Pentita? E come? Chiedendomi scusa? Non l'ha fatto! E' una sporca vigliacca, ecco cos'è! Avreste dovuto dirmelo, dirmi almeno che era morta. Ma non lasciarmi all'oscuro di tutto. Sua figlia non voleva questo. »

Dawson si alzò senza dire più una parola, troppo arrabbiato, adirato, furioso per cercare di parlare a bassa voce. Dunque si appropinquò verso l'uscita, avanzando con passo deciso verso il marciapiedi. Chiamò un taxi sollevando il braccio destro, quasi strappandosi la giacca per il brusco scatto. All'interno della vettura, la quale non aveva ancora un indirizzo preciso, cercò di calmarsi. La vena sotto il collo pulsava frenetica, gli occhi erano lucidi, ma rabbiosi e la bocca era curva in un'espressione di puro affronto. Non aveva perso il vizio di tamburellare i polpastrelli sul ginocchio che a sua volta tremava velocemente, agitato. 

« Si fermi qui » esordì ad un certo punto. « Mi faccia scendere. »

Solo quando congedò il taxi si rese conto di aver girato attorno al quartiere e di essere capitato proprio davanti al negozio di musica, poco distante dal Grand Hotel Plaza. Sbuffò e si diresse a tutta velocità in direzione dell'ingresso. Mano a mano che si avvicinava riusciva a scorgere modelli più recenti di trombe, trombette, violini, sassofoni, flauti a bocca, clarinetti e recenti dischi in vinile messi in esposizione. 

Aveva una voglia matta di fare rumore, prendere un paio di piatti da batteria e rumoreggiare per tutta Chicago. Voleva fare più rumore fuori, così il chiasso dentro avrebbe smesso di essere così fastidioso solo per lui. 

Non si era accorto di star correndo, tanto da sfiorare con il fianco un cestino dell'immondizia, facendolo quasi rovesciare. Si portò dietro solo la scia di cartacce e lattine di CocaCola. Uomini scuri e donne chiare dai vestiti sgualciti camminavano quelle strade in modo affollato, ma lui riusciva solo a fissare la porta trasparente che si trovava davanti a lui. Si fermò a pochi passi, respirando a fatica, ma con la bocca serrata. Il petto si alzava e si abbassava troppo velocemente. Si allentò la cravatta e sbottonò i primi bottoni della camicia. Il panciotto disturbava quelle forme da trentenne, lo faceva sentire troppo stretto, sebbene avesse un fisico asciutto, in forma. 

Lasciò percorrere allo sguardo l'intero ingresso, per vedere se era cambiato qualcosa, ma a parte la vetrina cosparsa di nuovi strumenti all'ultima tendenza, il negozio era rimasto lo stesso.

Si avvicinò alla vetrina, per sbirciare da più vicino. Il sole faceva intravedere a mala pena chi ci fosse. Contò un paio di persone nel reparto vinili e una decina in quella strumenti. Ma non intravide il vecchio Tom. Forse anche lui era passato a miglior vita, d'altronde aveva avuto già la sua bella età. Notò una donna, magra, alta, muoversi in modo felino, agile, tra il bancone e i clienti. Forse era lei ora che si occupava del negozio. Aveva i capelli ramati, di un rosso quasi biondo, la pelle diafana e le lentiggini. Dawson corrucciò meglio la vista. Assomigliava troppo a quello che stava pensando, ma non era possibile fosse lei. Sally non vedeva, Sally era cieca. Invece la ragazza del negozio sembrava osservare attentamente gli oggetti, percepirli anche con lo sguardo e sorridere affabile ai clienti augurando buona giornata. Non era possibile fosse lei. Eppure, quando alzò lo sguardo in sua direzione, Dawson non ebbe alcun dubbio.

Quegli occhi verde mare non erano mai stati così penetranti, così vigili, così accesi come ora. Li avrebbe riconosciuti ovunque, li avrebbe palpati con le pupille anche dall'altra parte del mondo. Quegli occhi erano quelli di Sally Grace e, ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa, le labbra di lei stavano sussurrando il suo nome. Dawson.

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** VII - Avanzi di Corpi ***


 

VII

Avanzi di corpi

 

 

Rimase fermo a fissare la sua immagine, ombreggiata dalla vetrina colpita dalla luce del sole. Si era alzato un venticello fresco e piacevole che gli scuoteva la lunga giacca all'altezza delle ginocchia. Le braccia penzolavano lungo i fianchi e la bocca era impastata di silenzio. 

Sally lo stava guardando. Non sapeva come, ma lo stava guardando. Riusciva a intravedere qualcosa d'indefinito in quelle pupille che ora brillavano alla luce del sole, si muovevano, pensavano, giudicavano, esaminavano ogni traccia di lui. Era improbabile che lo avesse riconosciuto. Non l'aveva mai visto, forse. Come diamine faceva a vedere, a guardare, ad osservare così? Lui rimase fermo, immobile in quella posizione. Si sentiva le gambe troppo pesanti per spostarle. Nemmeno un tornado ci sarebbe riuscito. Invece lei ora si muoveva agile tra il bancone, i jeans appena stretti in una vita magra, più snella di come se la ricordava. Le curvavano i fianchi fino a chiudersi appena sotto l'ombelico, scoperto. Le scarpe da tennis bianche correvano dentro il negozio, senza che gli occhi lasciassero la presa sulla figura di Dawson. Dimenticò i clienti, li ignorò totalmente, prima di spalancare la porta del negozio e uscire completamente alla luce del sole. I lunghi capelli rossi, ora più chiari, erano lasciati morbidi da una lieve permanente fin sopra il fondoschiena, senza mollette, senza nastri. Sciolti. La camicetta semi sbottonata, le conferiva una certa comodità e una scollatura che non aveva mai notato. Sally era cambiata. Era diventata una donna. Ma la sua pelle chiara era sempre la stessa, la bocca carnosa era sempre priva di trucco e le lentiggini sul naso riflettevano i raggi biondi con colore simile ai suoi capelli. 

Forse dimenticò di essere arrabbiato con lei all'istante. E all'istante avrebbe voluto afferrarla e baciarla e farci l'amore sul bancone del negozio. 

Non si parlarono subito, ma si contemplarono a vicenda. Non era ancora sicuro che potesse riconoscerlo. Non sapeva se gliel'avevano mostrato in qualche fotografia della scuola o se non avesse idea di chi fosse. Eppure l'aveva vista pronunciare il suo nome, lì dentro. L'aveva dipinto con la bocca, glielo aveva visto fare proprio un attimo fa.

« Ciao » disse lei, confusa. La sua voce era la stessa, più marcata e più stanca di come la ricordava. Ma c'era, viveva. 

« Ciao » rispose lui. Fu in quel momento che vide la fronte di lei rilassarsi, le spalle ammorbidirsi e la bocca tremarle. Corse verso di lui, affondandogli la faccia nella spalla destra, avvolgendolo tra le braccia bianche e tenendolo stretto a sé. Nemmeno la sua spontaneità aveva lasciato il corpo acerbo che ricordava.

Quell'abbraccio disse tutto. Lo aveva perdonato. Lo aveva dimenticato. Lo aveva trattenuto a sé troppo tempo, poi l'aveva lasciato andare ed ora era di nuovo con lei. 

Rispose all'abbraccio, ma con meno vivacità. Le sfiorò la schiena lunga e snella, intrecciò le dita tra i suoi capelli e respirò il suo odore. Quell'odore che l'aveva accompagnato nelle notti più solitarie di quei dodici anni. Appoggiò anche lui il mento sulla sua spalla, fino ad abbassare la nuca tanto da immergersi tra la sua clavicola e i suoi seni. 

« Dawson... » sussurrò, con un timbro di voce quasi spezzato dall'emozione.

« Sally » rispose lui con tono più asciutto, più fermo.

Si sciolsero dal loro abbraccio in modo impacciato, fermandosi l'uno a pochi centimetri dall'altro. Lei lo contemplò con occhi nuovi e puliti. Lo stava guardando davvero per la prima volta. Lo aveva sempre e solo immaginato, ed ora lo stava osservando. Stava studiando e correggendo quello che l'intuito le aveva suggerito al loro primo incontro. Il sorriso le pervase le labbra, sollevandole gli zigomi e lasciando intravedere una sottile piega attorno agli occhi. 

La donna che aveva davanti doveva aver vissuto l'inferno per un bel po', perché solo chi vive in modo tremendo, riesce poi a sorridere senza malizia o cattiveria. Lei gli premeva quel sorriso, quello sguardo, quel suo corpo così cambiato davanti, senza tralasciare nessuna emozione. In lei era scomparso quel rancore che provò quando lo buttò fuori di casa, quando non lo chiamò per dirgli che June era morta.

June.

Ad un tratto si fermò. I pensieri mutarono e il volto divenne rigido. Lei se ne accorse immediatamente e fu pronta.

« Mi dispiace » dichiarò.

« Non ti sembra un po' tardi per le scuse? » domandò lui, gelido.

Una parte di lui avrebbe voluto essere davvero arrabbiata con lei, l'altra parte invece non voleva altro che essere amata di lei.

Sally non abbassò lo sguardo, ma annuì, quasi sconsolata.

« Lo so, ho sbagliato tutto. Ti prego, perdonami Dawson. »

« Non mi hai nemmeno detto di June. Non mi hai voluto al suo funerale. L'ho scoperto circa cinque minuti fa. E tu, la sola cosa che riesci a dirmi è “Mi dispiace? Perdonami?” » 

Era cattivo, ma se lo meritava. Lui era stato torturato dalla sua figura per anni. Voleva vendicarsi, voleva ferirla davvero, questa volta. Voleva farla sentire come si era sentito lui pochi attimi fa, dimenticato e irrecuperabile, indesiderato e usato.

Non le chiese nemmeno come facesse a vederci tutto ad un tratto. Non gli interessava. La parte arrabbiata aveva avuto il sopravvento ed ora viveva spedita quel loro primo incontro dopo anni.

Si levò la giacca, l'addossò sopra il davanzale del negozio, si tirò su le maniche e iniziò a camminare, veloce e scattante. Avanti e indietro. Sally lo seguiva con lo sguardo, corrucciando le sopracciglia, dispiaciuta. 

« Lo so, Dawson. Lo so » continuava a ripetere di sapere. Ma cosa sapeva? Sapeva quanto una persona può essere ferita? Sapeva quanto doloroso era il mondo là fuori? Sapeva che l'egoismo non viene mai ripagato? Sally non era più un dono, un miracolo, era solo un incubo che gli aveva invaso la vita, gli aveva portato via dodici anni della sua vita. Aveva mentito a sua moglie, aveva mentito a se stesso. 

« Cosa sei diventata ora? La puttanella di quartiere? Hai ripreso a vedere ciò che prima non potevi? » la insultò così, con fare rabbioso. Era potente, era vittorioso. Poteva farcela ora, sapeva di poter farla sentire come un verme, un verme che striscia dentro lo sterco di una vacca. 

« Punirmi negandomi di salutarla? Punirmi perché non mi hai voluto stare a sentire quel fottutissimo pomeriggio? Ti è sembrata la scelta più facile da prendere, non è vero? » 

Era ingiusto, ma anche lei lo era stata. Sally non piangeva, non cercava svincoli per levarsi di dosso quelle colpe buttate contro il suo corpo. Rimaneva a guardarlo con quell'aria nuova, adulta, pentita. E in un attimo si sentiva perduto. Si levò la cravatta, si slacciò i bottoni del panciotto, si levò anche quello. Ora le sue mani erano sudate, si accarezzava la barba che pungeva, il pizzetto tagliato alla perfezione. Si sentiva sporco, non voleva dirle quelle cose. Era arrabbiato, ma lo era più con se stesso. Era stato lui ad andarsene via, era stato lui a lasciare Chicago e non farsi più vedere. Era stato lui ad abbandonarle, come bambole senza un braccio e i capelli tagliati senza vederli più ricrescere. 

Si accostò su una panchina, dita dentro i capelli, testa inclinata verso il basso. Lì pianse. Pianse in silenzio, lasciando sgorgare quelle lacrime salate che sapevano di estate e di infelicità. Le piccole gocce gli sfiorarono la punta del naso, staccandosi per cadere sull'asfalto mite. 

Sally si avvicinò, si sedette accanto a lui e rimase in silenzio. Era come un prete pronto ad ascoltare la confessione del peccatore. Era come una maestra che aspetta cordiale e paziente che gli alunni finiscano il loro compito in classe. Era come il sole dietro al temporale, quando non vede l'ora di brillare oltre le nuvole rosa. 

« Mi hanno operata due settimane dopo averti liquidato da casa mia. Era questo quello che avrei voluto dirti all'epoca » disse. 

Dawson rimase con la testa bassa.

« Ci hai visto subito? » 

« No. Quando ho aperto gli occhi la prima volta non vedevo niente, solo e sempre buio » raccontava come se nulla fosse successo, come se niente l'avesse scalfita. « La prima volta che mi sono specchiata e mi sono vista, ho pianto. »

Sally stava sorridendo, Dawson riusciva a scorgere la sua espressione anche senza guardarla. Le stava chiedendo scusa in silenzio, senza parlare, senza guardarla.

« Perché si è tolta la vita? » chiese poi, deglutendo saliva impastata.

« Non si amava più. »

Fu l'ultima volta che parlarono di June. Gli raccontò che non aveva mai avuto bisogno di sentirsi amata da lei, perché la piccola Juliet sapeva – in cuor suo – che Sally le voleva bene come ad una sorella, come ad una migliore amica, ma che non avrebbe mai potuto ricambiare quel suo amore carnoso, platonico e omosessuale. Sally non era così, June lo aveva sempre saputo. Ma era arrivata ad un punto dove non riusciva a bere, a mangiare o a sorridere. C'era stato un attimo in cui l'aveva illusa. Un attimo cruciale. Poi tornò a vivere in modo apatico, senza cercare di rischiare davvero. Non l'aveva mai vista o sentita così triste in tutti i giorni passati assieme nella breve ma intensa infanzia. Così un giorno le scrisse un biglietto, le disse che non era colpa di nessuno se era nata così, di amarla come non era riuscita mai ad amare se stessa e che, magari, in un'altra vita si sarebbero incontrate. Quindi si tolse la vita per incontrarsi di nuovo, perché in questo spazio non c'era possibilità di una loro nascita. E non voleva vivere pensando che questo non fosse possibile.

Sally non si era mai sentita in colpa, ma non era riuscita a parlare con anima viva per ben due anni. Solo recentemente aveva riacquistato la consapevolezza di una sua vita piena e appagante. Aveva scelto di aiutare Tom con il suo vecchio negozio, studiare storia della musica per conto suo. Aveva rinunciato al college, non ci aveva nemmeno provato. 

In Dawson si accese qualcosa, una domanda che contava più di quella sfuriata di attimi prima. Le lacrime gli rigavano ancora le guance marcate e mascoline, ma gli occhi non erano più così lucidi.

« Suoni ancora? » chiese poi, fissando le iridi scure in quelle smeraldo di Sally.

Lei non rispose, ma lo guardò silente, con le labbra che gli sorridevano e gli occhi tristi. No, Sally Grace non suonava più.

 

 

************

 

 

 

June aveva guardato la figura di Dawson andarsene, chiudere quella porta e sentire i suoi passi allontanarsi. Il corpo le doleva in modo lancinante, il petto le pulsava, lo sentiva troppo stretto. Il braccio sinistro, ingessato, era fortemente pesante. Come pietra. Lo guardò andarsene come si guardano le rondini in autunno. Anche Dawson stava migrando verso un posto più caldo, un posto più vivo.

Le sue labbra tremarono, ma non pianse. Aveva smesso di farlo molto tempo prima. Prima che tutto questo le lambisse anche solo il pensiero. E così, la sua storia, la sua ipotetica storia con quella ragazzina che le aveva strappato il cuore, era finita ancor prima di essere iniziata. Si era fatta da parte, ma non voleva. Si era fatta da parte, ma soffriva. Si era fatta da parte, perché lei non era come quella carne tutta tappezzate di bende, non era come quello sguardo bianco e sbagliato, non era una donna a cui piacevano altre donne. Era una ragazza come tante, forse più giusta in un mondo così ingiusto. 

Si abbandonò nel silenzio, in un silenzio che l'avrebbe accompagnata per tanto tempo, così pensava.

 

 

 

Ma così non fu. Il giorno del suo congedo, Sally si presentò sulla porta. June era seduta sul bordo del letto, non aveva flebo attaccate al braccio né fasce visibili su un corpo più magro. Aveva solo una bandana che ricopriva quel buco in testa, rasato e per niente piacevole da vedere. Ma si era truccata, si era messa un paio di jeans e stava aspettando che suo padre finisse di firmare le scartoffie burocratiche di questo ospedale.

« Ciao Juliet ».

Lei si destò dai suoi pensieri, prima di voltarsi in sua direzione. Sally era sola, aveva un bastone guida, ma era certa che l'avesse accompagnata qualcuno. La fissò per un attimo, inconsapevole delle sue emozioni. Non sapeva se desiderava abbracciarla, baciarla, rapirla, picchiarla. 

« Ciao Sally ». Decise di parlarle.

Le si era avvicinata, June non si mosse. Aveva tastato con dita affusolate, bianche e magre quel letto sfatto che odorava di ospedale. Si era seduta accanto a June, in silenzio e rimase così, con i lembi della giacca a sfiorare i lembi della felpa di lei. Braccio contro braccio. Anima contro anima.

« Cosa ci fai qui, Sally? » domandò, spezzando il silenzio.

« Sono venuta a vedere come stai » iniziò Sally. « E devono farmi un controllo. » Si tastò le palpebre. 

« Agli occhi. »

La mano di June, libera da bendaggi, arrivarono fino a quella di Sally. La sfiorò, la palpò e infine la strinse nella sua morsa più feroce e incisiva che riusciva ad avere. 

« Sei la mia migliore amica. »

« Lo sei anche tu, Juliet. »

Si abbracciarono come si abbracciano una madre e una figlia quando si ritrovano dopo una litigata, si abbracciarono come un militare e la sua amata quando si ricongiungono, si riamano e si rivedono. Si abbracciarono come una famiglia in festa, come la luce che avvolge il Natale. Si abbracciarono come due amiche, ritrovate e ridipinte. 

 

 

 

Tre anni più tardi, quando June sapeva tutto, sapeva come aveva reagito Sally, sapeva che l'aveva perdonata, sapeva che non era colpa sua e sapeva anche che non le aveva detto tutto, decise di finire con la sua menzogna. Finire con quella storia che aveva smesso di aleggiare tra di loro. Aveva smesso di nascondersi, dal momento che Sally ora vedeva e guardava e osservava tutto scrupolosamente. Aveva risolto un cruccio che pensava perduto, era riuscita a combattere quella cecità che davano ormai per scontata. Tre anni più tardi, June decise di confessarle tutto. Dai sentimenti che, vivi, pulsavano ancora dentro di lei, a quel bacio dato a un ragazzo ormai lontano che in realtà aveva solo avuto la colpa di essersi invaghito della stessa ragazza. Della sua stessa ragazza.

« Ehi, dolcezza. Ti devo parlare » lo enfatizzò così, mentre Sally riordinava la sua stanza prima di andare al corso di musica. Sally era diventata più bella di anno in anno. I capelli avevano scelto di schiarirsi, prendevano più sole. Si vestiva in modo più comodo, garbato e provocante, si lasciava sfiorare dai ragazzi nei bar e si divertiva quando le facevano complimenti. Stava ritrovando la vita, era quasi un peccato sfasciare tutto in un momento così bello, pulito e spensierato.

June si fece avanti. I capelli le erano ricresciuti, ma li aveva tagliati corti, a caschetto, con una frangia da donna. Aveva un rossetto porpora sulle labbra sottili. 

« Certo July, dimmi tutto. »

Quando si volse in sua direzione, June capì che doveva farlo. Prima di rovinare tutto, doveva prendersi quel qualcosa che aveva sempre lambito, desiderato, amato. Voleva provare a prendersi Sally.

Le si avvicinò in modo brutale, la spinse contro l'armadio, bloccandole le spalle con i palmi.

« Ma cosa fai? » domandò Sally, ridendo. Rideva, pensando che fosse uno scherzo, che volesse giocare o prenderla per i fondelli. Ma quando posò lo sguardo smeraldino su quello grigio e scuro di lei, capì che non stava affatto giocando.

In un momento, June le si appiccicò alla bocca. Le tastò quelle labbra morbide e naturali. Le accarezzò i fianchi e le morse il labbro inferiore. E Sally la lasciò fare. Di più. Sally rispose al suo bacio. 

Quando June si distanziò da lei, si guardarono negli occhi. Non dissero nulla, ma lei capì. 

« Hai risposto perché ti facevo pena? » chiese quando fu abbastanza distante da non cadere di nuovo in quella lussuria che la richiamava, pungente.

« Perché era quello che volevi » rispose Sally.

June alzò lo sguardo su di lei. « Ma non quello che volevi tu, vero? »

Sally non rispose mai a quella domanda, tuttavia si avvicinò a June e le levò la giacca. Si avvicinò a June e le tolse la maglietta. Si avvicinò a June e ci fece l'amore. June si lasciava guidare da quelle mani che tutt'ad un tratto erano diventate più esperte e più lente delle sue. Sapeva dove toccarla, sapeva dove baciarla. La sospinse sul letto, senza chiedere nulla. Senza chiedere il perché di quel gesto. Sally non era come lei. Sally non era gay. Ma non le importava il perché lo facesse. Non le importava il perché si stessero rotolando in un letto. Non le importava nulla, finché sulla sua bocca i suoi capezzoli diventavano turgidi e le sue dite rimanevano bagnate, umide, vogliose. Non le importava nulla, se non essere lì con lei e farci l'amore. Se non essere lì con lei e condividere un momento, un istante che sapeva, June lo sapeva, non sarebbe ritornato mai.

Quando si infilò le calze e gli scarponcini, cercò di agganciarsi anche il reggiseno, non trovando il gancio giusto. Si stava dimenando nel tentativo.

« Lascia, ti aiuto » disse Sally, sfiorandole la schiena, di nuovo, con quelle mani calde.

« No, faccio da sola » le rispose, imbarazzata, fredda.

Sally capiva. Scese dal letto e si rivestì velocemente. Non aveva aperto bocca, solo per ansimare e baciarla e lambirle le spalle, il collo, il naso, le caviglie con quella lingua umida e rosa. 

« L'ho sedotto » iniziò June, infilandosi la maglietta. Sally si girò confusa. « Ho sedotto Dawson e lui mi ha baciato. Mi ha baciato perché gli ricordavo te. Mi ha baciato perché voleva sempre e solo te. » Si diede una sistemata ai capelli con le dita, lasciandoseli. « Non c'è mai stato nulla tra noi, non avevamo niente in comune, a parte te. » 

Si sedette di nuovo, allacciandosi meglio gli anfibi. « Io volevo solo baciarti. Toccare quelle labbra che non mi avevano mai sfiorato. » Si voltò.

Sally se ne stava in piedi, senza parlare, senza tensione. Le braccia lungo i suoi fianchi stretti, la sua vita nuda, i suoi capelli selvaggi. La guardava senza espressione, ascoltandola. 

« Volevo prendermi solo le tue labbra, prima di scaraventarti la verità addosso. Volevo dirti che ti amo, Sally. Ti amo, perché io riesco a crederci. Ci ho sempre creduto » concluse.

Sally si avvicinò. Avanzò lentamente, fino a restare a pochi passi da lei. Era più alta, poteva infossare il suo sguardo verde su quello nocciola di June. La mano destra sembrò prendere la rincorsa, fino a schiantarsi sulla guancia di June. L'impatto le fece male, le fece ciondolare la testa e perdere per un momento l'equilibrio. Si dovette tenere al davanzale della finestra per non cadere con il culo per aria.

« Quante cazzate racconti a te stessa? Questo tuo glorioso sentimento al quale credi tanto, vendilo al miglior offerente. Magari qualcuno te lo compra e con esso, anche la sua stupidità! » Sally si allontanò da lei, senza battere ciglio, furiosa.

« E' giusto essere arrabbiata... »

« Non sai un cazzo di quanto sia giusto o non giusto essere arrabbiati! Mi hai mentito per tutto questo tempo. Mi hai manovrato come volevi, mi hai spinta a provare pena per te e a prostituirmi per te, per farti avere questo dannato corpo che tutti volete. L'ho donato a te perché era il mio ringraziamento, il grazie ad un'amica che non ha mai smesso di amarmi, non ha mai smesso di credere in me e che ora mi sta dicendo che tutto quello che abbiamo fatto, tutto quello che abbiamo passato e su cui abbiamo speso il nostro tempo era semplicemente una menzogna. »

« No Sally. Non era una menzogna! E tnon dovevi darmi il tuo corpo, non dovevi darmi niente! Ma non lo capisci che io volevo solo amarti, volevo solo che tu mi guardassi con gli stessi occhi con cui io ti guardo da sempre? Non capisci che darmi il tuo piacere non sarà mai come darmi il tuo cuore? »

June gridava. June piangeva. Si sentiva umiliata e offesa, ma si sentiva anche in dovere di urlare. Urlava per non rimanere in silenzio e piangere quelle sue miserevoli colpe e quelle catastrofiche emozioni. 

Sally non si muoveva, la guardava piangere e urlare e non faceva niente. La fronte le si era solo leggermente aggrottata e gli occhi le erano diventati umidi, di nuovo ciechi. E pianse anche lei. Pianse, trascinandosi giù fino all'inferno, confusa e piena di compassione, senza colpa e con vergogna. Pianse, fino all'alba del giorno dopo. 

 

 

 

************

 

 

Se ne stavano fermi, lasciati trascinare solo dal venticello fresco che stava inaugurando quella serata mite di maggio. Sally si era solo alzata per chiudere il negozio prima dell'ora stabilita, si era riseduta accanto a Dawson ma non aveva sussurrato più nulla. L'aveva guardato per molto tempo. Gli aveva guardato la linea del collo, la barba ispida che sembrava pungergli le guance. Gli aveva guardato il naso dritto e i capelli corti. Lo aveva osservato, tanto da accorgersi solo in un secondo momento di un anello al dito. 

« Sei sposato? » domandò.

Dawson alzò lo sguardo dal suo stato catatonico, si fissò la mano sinistra e prima di rispondere sollevò la nuca in sua direzione. Si era completamente dimenticato di Margareth. Lei sembrava appartenere ad un'altra vita, ad un'altra storia. Margareth non c'entrava nulla con lui.

« Sì. »

Non c'entrava nulla con loro.

« Avete avuto bambini? » chiese un'altra volta Sally.

Dawson rispose declinando la nuca in segno di negazione. Non gli raccontò della sua sofferenza, della mancanza che aveva provato nell'andarsene così. Non provò nemmeno a spiegare la verità di quel drastico giorno lontano, di quel pomeriggio bagnato e buio. Non gli raccontò nulla del proprio passato, non aveva intenzione di ripercorrere quella strada troppo ripida e con troppi ricordi e incubi e peccati.

Sally si alzò. « Devo tornare a casa. Vivo poco distante da qui » spiegò. « Vuoi venire? »

Dawson la guardò, la fissò con gli occhi cioccolato che tanto lo caratterizzavano. Fissò quello sguardo chiaro e solitario, prima di alzarsi e seguire la donna dai capelli rossi.

Sally abitava poco distante, ma per arrivare a casa sua dovettero percorrere un enorme parco. L'aria era ancora calda, ma all'ombra il respiro si faceva più piacevole. Sally camminava davanti a lui e Dawson osservava quell'andamento felino, aggraziato. Le puntava gli occhi sulla schiena, sulla curvatura dei fianchi e sulla lunghezza delle gambe. I jeans strofinavano tra le cosce magre, i capelli si muovevano scomposti lungo le spalle. 

Avanzarono verso un piccolo quartiere residenziale, con modeste casette colorate, dai toni chiari e pastello. Quella di lei aveva un leggero color panna, il giardino era verde e ben curato e fuori dal box si trovava una Spider bianca, decappottabile e dai sedili in pelle. Dawson non aveva nemmeno menzionato la vecchia villa di Sally, regnata dai suoi genitori e dai domestici che l'avevano accolto. Non aveva idea di che fine avessero fatto.

« Siamo arrivati » dichiarò Sally, aprendo dapprima la zanzariera e successivamente il portone in legno scuro. Dava subito su un modesto tinello, proseguendo per un ripiano cottura e una sala da pranzo dove governava un vecchio televisore e un divano di pelle marrone, adornato da vari cuscini.

Sally posò le proprie cose sul ripiano, sotto un grosso specchio che mostrava, una volta entrati, la propria figura. Dawson notò che il suo sguardo appariva molto più stanco di come se lo ricordava. Metteva sicuramente dieci anni di più. Quella giornata era stata faticosa e difficile. Voleva solo andarsene a dormire. 

Non sapeva nemmeno cosa ci faceva, nel piccolo regno di Sally Grace.

« Vuoi mangiare qualcosa? Ti posso fare un piatto di pasta con il sugo. Ho delle polpette da parte nel frigorifero. »

« Va benissimo, grazie. »

Gli sembrava un film già visto. Gli sembrava un film, punto e basta. Una scenetta montata su apposta, senza desiderare davvero quello che stava capitando. Guardava Sally e vedeva solo un'estranea che gli stava preparando la cena. Guardava se stesso e voleva urlare, rompere la figura proiettata allo specchio. Voleva sparire.

« Vado in bagno. »

« E' in fondo a destra » gli spiegò lei.

Dawson si affrettò prima ancora che lei parlasse. Lo trovò, ci si infilò dentro e si chiuse a chiave. Si sedette sulla tazza, mettendosi le mani tra i capelli e cercando di respirare. In quella circostanza si rese conto che non tutti si potevano permettere un bagno così lussuoso. Sally era una persona ordinata, pulita e pretenziosa. Aveva riposto ogni tipo di saponetta lungo un ripiano, in fila indiana. Sopra il lavabo, uno specchio luccicava di pulito e il suo profumo brillava sulla mensola. Lo prese e se ne spruzzò un po' sul polso. Era quella la sua fragranza. Lo annusò per una manciata di secondi, socchiudendo le palpebre e cercando di rilassarsi. Avrebbe voluto addormentarsi lì, in quel momento, lasciarsi tutto alle spalle e poltrire con quell'aroma che gli alleggeriva i pensieri. 

« Dawson, tutto bene? » Sally bussò alla porta e lui si svegliò da quell'intorpidimento platonico.

« Sì, certo. Arrivo subito » le rispose di rimando.

Sentì i passi di Sally allontanarsi, probabilmente verso la cucina.

Tirò lo sciacquone e uscì dal bagno. Si avvicinò nuovamente all'area ristoro, si sedette sulla prima sedia che trovò e guardò Sally impegnata ai fornelli. 

Si era cambiata. Ora indossava un paio di pantaloncini corti che le reggevano le natiche sode. Le gambe lunghe e bianche luccicavano grazie ai raggi del sole che bassi, s'intrufolavano attraverso il vetro delle finestre. Aveva una camicia a quadri aperta, una canotta che le segnava i capezzoli turgidi e che le tradiva un lembo dei pantaloncini, bucato.

Dawson la stava mangiando con gli occhi e Sally lo sentiva, anche se non lo vedeva, anche se gli dava la schiena, ma lo percepiva, come aveva sempre percepito le cose. L'orecchio era davvero buono, ma il suo sesto senso era ineguagliabile. 

Dawson si alzò, la raggiunse da dietro, senza toccarla e lei si voltò. 

 « Sai di me » disse lei.

I capelli erano legati in una lunga e alta coda di cavallo. Dawson spense il gas, le sfiorò i capelli rossi e le tolse l'elastico che raggruppava quella massa di boccoli infiniti. La sentiva respirare, la sentiva sussultare, la sentiva gemere senza averla ancora sfiorata. In un attimo, la sua bocca fu sulla sua. La sua lingua si faceva strada tra quella di lei, cospargendola di saliva, strappandole morsi sulle labbra. Il suo membro la schiacciò da sotto i pantaloni, contro il ripiano della cucina. Lei lo sentiva, pieno e voglioso. Lo sfiorò con le mani, lo tastò senza freni. Dawson le strappò la canotta, le toccò i seni, lasciandoli liberi, sodi e visibili alla sua vista. Erano i più belli che avesse mai visto. Li baciò con cura, li accarezzò senza fretta. Poi scese giù, all'ombelico, battezzandolo con la lingua, cerchiandolo con la punta e inumidendolo della sua saliva. La marchiò con enfasi, lasciandola gemere, in piedi, come doveva stare. Le strappò anche i pantaloncini, le sfiorò il sesso con le dita, senza entrare dentro quell'intimità che desiderava da troppo. 

Tornò su quello sguardo che implorava desiderio, domandava se ce ne fosse ancora, in serbo per lei, che chiedeva pietà e sottomissione. Voleva farlo quanto voleva lui. Voleva appartenergli come lui gli apparteneva, da tempo. 

 « Ho sempre saputo di te » disse lui.

La sollevò dai glutei, tastandoli con energia, liberandosi il membro con l'aiuto di una sola mano e lo sfiorò in mezzo alle gambe, avvinghiate attorno alla sua schiena. 

Non parlavano, non urlavano, ma si volevano. Volevano essere violentati a vicenda, volevano correre il rischio di sbagliare, di fare le cose di fretta. Non avevano intenzione di aspettare un attimo di più. Anche se era sbagliato, anche se era indecoroso, anche se essere prese e sbattute sul bancone della cucina non era l'amore e la perfezione di quel momento che Sally aveva sempre pensato. Ma era vero ed era lì, ora, con lui. 

Ascoltavano i richiami di uno e dell'altra. Odoravano di voglia e di fragola. Sapevano di fiori e miele. Cioccolato bianco che si mescolava ad uno troppo scuro, troppo forte, addolcendolo. Il loro gesto era come l'attimo di un caffè preso di corsa, ma gustato. Un taxi agognato e sperato in una giornata di pioggia. Il loro amore era come una musica lontana, forse protagonista di una piccola casa di periferia. Si stava evolvendo, si stava effettuando, in quella stanza, su quel bancone. 

Dawson picchiava forte, entrava forte e non lasciava altro che il suo unico urlo di forte convinzione. Sally si aggrappava a lui, con i seni danzanti e i capelli dentro il lavabo per i piatti. Le sue gambe tremavano, il petto di Dawson era madido di sudore e i capelli luccicavano. Si guardarono per tutto il tempo. Solo quando Dawson fu al culmine, entrando in profondità e restando dentro, macchiandola del suo seme, si accasciarono l'uno contro l'altro, senza trovare le forze per staccarsi. Cogliere le forze per guardarsi.

Sally lasciò la presa, ammorbidì le gambe e iniziò a ritrovare se stessa e il respiro ricercato. Dawson si staccò da lei, si alzò i pantaloni e si chiuse la cinta. Si guardarono, con le gote arrossate e gli sguardi stanchi. Sally non si curò di nascondere le sue nudità con le mani, ma raccolse direttamente da terra i lembi della canotta strappata, buttandone i resti nella spazzatura. Si coprì con la camicia a quadri, ancora integra, e si infilò i pantaloncini in un solo gesto.

Poi sorrise e Dawson fece lo stesso. Non sapeva esattamente di cosa sorridevano, ma lo stavano facendo e quello che era un sorriso divenne una risata, fragorosa e divertita. Si lasciarono andare, trasportare e amare così, in una serata che aveva ancora l'odore di sole e di erba.

Quando smisero di ridere, si sedettero, uno vicino all'altra, guardandosi ancora e ancora, senza stancarsi mai.

 « Hai ancora fame? » chiese Sally.

 « Sì, di te. »

Quella sera fecero ancora l'amore, mangiarono sul materasso e ridacchiarono di vari aneddoti di Dawson al college. Sally lo prendeva in giro riguardo le sue notti folli d'amore e lui faceva lo stesso di lei, per il suo poco diletto nel promettere di non ridere. Sally e Dawson non tornarono mai più sul loro passato, sul loro dolore. Non avrebbe avuto senso ritornare sul passato che li aveva fatti star male. Entrambi credevano nel destino, entrambi sapevano che quel loro ricongiungimento era qualcosa di aspettato.

 « Allora, Dawson Reed, è questo che hai sempre voluto eh? » lo incalzò lei, sfiorandogli la pancia con le dita delle mani. « Legarmi ad un letto, mettermi nuda e fare l'amore con me tutta la notte. »

Dawson le baciò la nuca piena di capelli, accarezzandole l'incavo della schiena magra. 

« Ho sempre voluto te, non era un segreto » concluse lui.

Non avrebbe mai voluto spostarsi da quella posizione, non avrebbe mai voluto lasciarla andare così. Forse era ingiusto che si fosse comportata da egoista, lo aveva lasciato in disparte in un momento così fragile qual era stato il funerale di una sua amica. Ma lo aveva fatto per proteggersi, lo aveva fatto per non macchiare di odio verso di lui, quel momento sacro e onorevole. Lo aveva fatto per June, perché se Dawson fosse venuto, allora Sally non si sarebbe potuta concentrare su quello che davvero meritava la sua migliore amica. Non avrebbe potuto offrirgli l'intero suo dolore, perché quello sarebbe stato diviso da lui. 

 « Devo tornare da mia madre » proferì Dawson, cercando la voglia di alzarsi da quel letto.

 « Devi per forza? » lamentò Sally.

 « Devo, si chiederà dove mi sono cacciato. E non ho ancora chiamato Margareth, sicuramente sarà preoccupata. »

Non aveva mai menzionato sua moglie. Sally era la prima volta che sentiva pronunciare il suo nome. In un colpo divenne seria, quasi triste. Dawson le sollevò lo sguardo.  

 « Io e Margareth non ci siamo mai amati come ci amiamo noi » spiegò lui, fissandole le pupille dentro le sue.  « Ora che ti ho ritrovata, le chiederò il divorzio. E' da un po' che ci pensavo. »

Era vero, non si erano mai amati così, non avevano avuto una storia forte, erano solo emozionati di esplorare corpi giovani e belli. Ma la loro storia si era trasformata in una routine tra casa e lavoro e amanti. Non si toccavano più da molto tempo. 

Sally si sollevò, si tastò i capezzoli e si sdraiò su di lui. « Facciamo ancora l'amore, prima che te ne vada. »

Dawson non se ne lo fece ripetere due volte.

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Capitolo 9
*** VIII - Quello che sarà, non è mai quello che ci si aspetta ***


VIII

Quello che sarà, non è mai quello che ci si aspetta

 

 

« La signorina Sullivan Grace? » un infermiere dall'aria spossata leggeva un foglio, un elenco punteggiato di nomi in nero.

« Sì? » Sally alzò timidamente una mano, senza far altro.

Sentì l'infermiere avvicinarsi e, con lui, un rumore di ruote. 

« Mi dia una mano, l'aiuto a sedersi sulla sedia a rotelle » disse afferrando la mano che Sally porgeva.

Gliel'avevano spiegato: l'operazione sarebbe durata dieci ore se non insorgevano complicazioni. Avrebbero dovuto intervenire direttamente sul nervo ottico, sarebbe stata un'operazione molto complicata, con una probabilità di riuscita inferiore al 30%. Ma Sally ci aveva creduto e sperato. Avrebbe provato di tutto pur di tornare a vedere. 

L'avevano messa su un lettino, le avevano tagliato i capelli e non aveva potuto rassicurarsi con lo sguardo cosciente del chirurgo che l'avrebbe operata. Sapeva solo che si chiama Julian. Julian O'Connell. Niente di più. L'aveva addormentata ancora prima di contare fino a dieci.

 

 

Dawson si risvegliò da solo, nel letto della sua stanza, con il telefono che squillava. Era tornato a casa dopo la mezzanotte, aveva trovato sua madre sveglia e le aveva detto che aveva fatto rimpatriata con alcuni vecchi amici. Margareth aveva telefonato una volta sola. Avrebbe richiamato la mattina successiva per sentirlo. 

Alzò la cornetta, scoprendo la voce calda e rauca di sua moglie.

« Dawson, amore, tutto bene? » chiese dall'altra parte della cornetta. Che ora era a Philadelphia?

« Ciao Marge, sì tutto bene. Tu come stai? » domandò con la bocca impastata dal sonno.

« Dove eri finito? Non ti ho sentito per tutto il giorno! »

« In giro... a sbrigare alcune cose. »

Parlarono del più e del meno, lui sdraiato e spossato, a petto nudo. Lei, sicuramente seduta in ufficio, con un tailleur da fuori classe, i capelli pettinati e il rossetto mai sbavato. Fu scosso solo da qualcuno che bussava fuori la porta.

« Senti Marge, ci sentiamo più tardi. Devo scappare. Ciao » chiuse la comunicazione ancor prima di sentire cosa stesse dicendo. Si precipitò alla porta, in mutande, addormentato, ma improvvisamente sveglio. Aveva voglia di vederla prima ancora di svegliarsi; aveva voglia di baciare Sally ancora prima di capire che era mattina, c'era il sole, l'aria profumava di buone prospettive.

Quando aprì la porta, il sorriso andò a scemare quasi subito.

« Non è carino chiudere le chiamate in modo così sgarbato, soprattutto se dall'altra parte c'è tua moglie. » 

Margareth Erika O'Brian si trovava proprio davanti a lui. Aveva i capelli più corti, a caschetto, neri. Indossava un completo scarlatto e un paio di tacchi dieci ai piedi, soft, come piacevano a lei. Lo stava guardando con i suoi occhi scuri, provocante.

Dawson rimase impalato sulla porta, con la frustrazione che sentiva crescere, con il desiderio palpante di buttarla fuori di casa in modo sgarbato, cattivo, senza pena.

« Margareth! Cosa ci fai qui? » domandò.

« Che domande! Ti ho fatto una sorpresa. Non sono mai stata a Chicago e, visto che tu ci hai vissuto per un po' di tempo, mi sono detta che non era un'occasione da perdere. Ho fatto bene o no a venire a trovare mio marito? » chiese, avvicinandosi ancheggiando e stampandogli un bacio sulle labbra. Lo sorpassò subito, trascinò la piccola valigia nel tinello e si fece strada da sola.

Margareth sapeva gestirsi in modo eclatante. Avrebbe potuto dirigere la Kriegsmarine tedesca nella seconda guerra mondiale e avere successo nella Battaglia dell'Atlantico senza sudare. Lo aspettò in piedi, perlustrando la stanza con fare scrupoloso, attento, pignolo.

Dawson la guardava dall'alto della sua altezza, spossato, stanco, con una speranza svanita dal petto. Doveva dirle subito come stavano le cose. Non avrebbe rischiato di fare incontrare una donna come Margareth con Sally. Marge era troppo per una come lei. Se la sarebbe mangiata viva.

« Marge, senti... »

« Allora? Mi porti a fare colazione o no? E mettiti un paio di pantaloni, almeno » suggerì lei, con sguardo truce. « Oppure vuoi compagnia? » 

Marge inarcò un sopracciglio, si morse il labbro inferiore e sorrise. Conosceva bene quel sorriso. Decise di defilare in camera prima che la pantera catturasse la preda. Cercò un paio di pantaloni qualsiasi, li indossò e si sciacquò la faccia. Aveva l'aria riposata, ma ora non era poi così felice.

Quando tornò in soggiorno, c'era anche sua madre.

« Ah, finalmente ti sei svegliato! » enfatizzò, al fianco di Margareth.

Erano una di fianco all'altra. Lo guardavano dall'altezza dei loro tacchi, entrambe con lo stesso sguardo. Non avrebbe retto un secondo di più.

« Devo andare. » 

Non ascoltò nemmeno le loro parole, le sorpassò e uscì di corsa da quell'edificio. Non chiamò il taxi e non prese l'autobus. Camminò fino a quando i piedi non gli fecero male e fu costretto a fermarsi.

Perché ogni volta che raggiungeva l'apice della felicità, il destino faceva marcia indietro trafiggendolo con un'altra mera illusione?

Chiuse gli occhi. Aveva bisogno di lei. Aveva bisogno di Sally.

 

 

Non avrebbe avuto più bisogno di nessuno. Avrebbe visto come tutti gli altri, di nuovo. 

Era questo che continuava a ripetersi, prima di operarsi. Ed era questo che continuava a ripetere a se stessa anche ora, quattro ore dopo l'intervento. Si era svegliata con una benda sopra gli occhi, li teneva chiusi. Sentiva le voci degli infermieri e dei dottori che parlavano. Qualcuno le stava tenendo la mano. Era piccola e liscia, avrebbe giurato che fosse quella di June.

« E' stata un'operazione complicata, ma siamo sicuri che si sveglierà presto. E potrà tornare a vedere. »

Qualcuno parlava, c'era gente attorno a lei. La tradì un colpo di tosse che la fece sobbalzare dal letto. A quel punto fu troppo tardi per impedire a quelle presenze di stupirsi e di benedire il cielo.

Susseguirono dei:

« Sally, tesoro! »

« Finalmente, Sally! »

« Oh, Sally! »

« Sia lodato il Signore! »

« Guardate che ci sento benissimo. Fino a prova contraria non avevo un deficit dell'udito, ma della vista. So come mi chiamo » sorrise, cercando le braccia di qualcuno per sollevarsi.

Il medico le spiegò che non avrebbe potuto togliere la benda per qualche giorno, ma di muovere le palpebre più che poteva, di fare ginnastica e, una volta che fosse stata pronta, levarle prima al buio, poi andando ad aumentare l'intensità della luce. Ma doveva farlo per gradi, altrimenti avrebbe rischiato di bruciare la retina. Ci voleva pazienza.

« Ho aspettato sei anni, credo che posso aspettare ancora qualche giorno » disse lei.

I capelli erano più corti da un lato. Glieli avevano tagliati ed ora il buco era coperto dalla benda che le girava attorno la nuca. Presto sarebbe tornata a casa. Presto ci avrebbe visto di nuovo.

 

 

Non vedeva l'ora di arrivare a casa sua. Doveva dirle tutto. Doveva dirle che erano sorte delle complicazioni, che avrebbe congedato sua moglie appena avesse potuto. Doveva dirle di venire con lui, perché da solo non riusciva a stare. 

« Ciao Dawson Reed » lo salutò così quando arrivò, sulla soglia. Lei sorrideva, era già pronta per andare ad aprire il negozio. 

« Ciao Sally » ricambiò con un bacio.

« Cosa succede? » 

L'espressione di Dawson doveva essere del tipo allarmato, preoccupato, nervoso, perché a Sally non sfuggirono le movenze frettolose e sbrigative. Una punta d'incomprensione invase la fronte di lei, aggrottandola e la curvatura delle sue labbra tornò ad essere seria.

« E' arrivata mia moglie stamattina » iniziò lui. « Mi ha colto all'improvviso, vuole che la porti a fare un giro in centro, a fare colazione, a farle vedere dove ho vissuto. »

Non alzò lo sguardo prima di aver finito, poi, con una sana e tremenda paura all'altezza del petto, sollevò gli occhi torbidi e incontrò lo sguardo verde di Sally.

« E tu portacela » gli disse. « E' giusto. » 

Sally sorrise e Dawson non comprese. Avrebbe voluto chiederle il perché di quella improvvisa fiducia, di quell'improvvisa volontà, ma lei fu più svelta. Gli disse che doveva andare ad aprire il negozio, che non poteva fare tardi. Si sarebbero rivisti uno di questi giorni e, cosa ancora più stravagante, magari il pomeriggio stesso, così avrebbe conosciuto sua moglie. 

Dawson rise, rise in modo scomposto e davvero divertito, come se Sally avesse appena fatto la battuta più divertente del momento, ma lei non rise come lui. Lo baciò sulla guancia e gli chiese di chiudere la porta, quando avesse finito.

Ma finito di fare cosa? 

Ad ogni modo lei corse fuori, raccattò la sua bicicletta e lo salutò allungando un braccio verso l'alto. Lo lasciò così, impalato sulla soglia di casa sua e con un'espressione sbigottita, incredula. 

Dawson rimase a fissarla fino a quando non voltò l'angolo e non scomparve dalla sua prospettiva. Le spiò i capelli lunghi e rossi vibrare per via del vento. Le spiò le gambe muoversi, veloci e leggere, forzandosi di andare nella direzione giusta senza inciampare in una buca qualsiasi.

Non capiva cosa doveva fare. Sally che prima gli fece il muso, gli chiese con gli occhi di amarla e di rimanere con lei, con lei sola e senza terzi incomodi spiacevoli, poi l'arrivo di sua moglie e questo improvviso cambiamento. Questa forma di tranquillità che a lui non convinceva per niente.

Non aveva mai conosciuto davvero Sally Grace. Per i pochi attimi trascorsi con lei, aveva solo parlato delle cose più avvincenti, delle piccole cose che possono interessare, di frivolezze. Qualche volta aveva scambiato discorsi importanti, parlato degli studi, ma non aveva mai affrontato quel carattere così laconico e silenzioso. L'aveva sempre lasciata stare, perché aveva sempre paura di fare qualche passo falso, disturbarla, rompere quel corpo e quella mente così fragili.

Non aveva mai preso in considerazione che magari, invece, Sally Grace era tutt'altro che fragile. Magari aveva reagito così perché aveva capito, aveva compreso che non poteva stare in mezzo ad un matrimonio, che prima Dawson avrebbe dovuto chiarire le cose con sua moglie e solo dopo sarebbero potuti stare assieme. Forse era maturata, così come tutto ad un tratto era tornata a scrutare la sua immagine allo specchio.

Quando tornò indietro, a casa sua, sua moglie si era cambiata e stava sorseggiando una tazza di tè con sua madre. 

« Dove eri finito? » domandò, una volta accortasi del suo arrivo.

« Dovevo sbrigare una faccenda di lavoro. »

« Con quei pantaloni? Santo cielo, Daw, ora capisco cosa voleva dire tua madre quando parlava di Chicago » spiegò lei, lanciando un'occhiata complice a Vivianne.

« Cosa intendi dire? » chiese Dawson, sedendosi alla prima sedia disponibile e afferrando un biscotto al limone.

« Chicago ti rende proprio selvaggio. »

La discussione su come fosse Dawson a Chicago o fuori della città finì lì, tra una risatina e un'ulteriore motivazione per finire il suo matrimonio.

« Allora Daw, mi porti a fare un giro in centro, oppure no? Voglio vedere i quartieri che frequentavi, naturalmente solo i migliori. »

 

Il pomeriggio passò così, tra un negozio e una boutique. In realtà Margareth non era mai stata interessata a gironzolare sul Ponte Michigan Avenue o entrare nella Biblioteca Harold Washington. I suoi interessi erano ben altri, fare shopping, godersi la città e solo dopo sapersi gestire quei magnifici edifici e strutture che offrivano visioni e storie da capogiro. Ma lo aveva sempre detto: « Quando usciamo assieme, andiamo solo a divertirci, fuori dal lavoro e dai giri in escursione. »

Voleva relax, questo voleva. E per “relax” lei intendeva consumare tutte le carte di credito e spendere più denaro che poteva. 

Dawson pensava continuamente a Sally, a cosa stesse facendo, se avesse davvero attribuito l'onestà a quei sorrisi che gli aveva lanciato la mattina, se davvero era fiduciosa, se si poteva comportare così, se poteva aggiustare prima tutto con sua moglie. Non si accorse nemmeno di essere nelle vicinanze del Grand Hotel, che lo aveva ospitato per qualche mese. Quando sua moglie glielo indicò, lui alzò lo sguardo senza espressione. 

« Bel portone, scommetto che è uno degli Hotel di lusso più in voga della città. »

Dawson sorrise, guardando sua moglie che alzava lo sguardo riparandosi gli occhi con la mano destra, coperta da un leggero guanto bianco. Lui sorrise, ricordando appena quando June lo avesse colto alla sprovvista, il primo giorno che aveva messo piede su quel marciapiede. Lui si trovava nello stesso punto di sua moglie e lei si trovava poco più in là, con il corpo a sorreggere l'esterno del suo Hotel.

« Lascia perdere. » Aveva detto. « La ragazza che stavi fissando. Lasciala perdere amico, non fa per te. » 

Il richiamo di sua moglie gli fece distogliere i pensieri da quel giorno. La sorprese a fissare un punto lontano, un punto che aveva già capito dove andava a finire. Stava fissando il piccolo ed accogliente negozio di musica di Sally. Lo fissava con uno sguardo concentrato, affascinato, emozionato. Si volse in sua direzione e disse solo una parola che lo fece raggelare per un istante. « Andiamo. »

Lui le andò dietro come un cagnolino, come un uomo che ha perso la parola, come un uomo non più uomo, senza attributi, senza riuscire ad avere l'autorità di ordinarle di tornare indietro e subito. Invece la seguì silente, accertandosi di non farsi investire una volta superata la strada. 

Quando arrivarono sul posto, lui si tenne a debita distante dalla vetrina.

« Non suonavi qualcosa una volta? » chiese lei, distrattamente e tastando la teca lucida con i polpastrelli ricoperti dai guanti. 

« No, ma mi piaceva la musica » rispose lui, dando la schiena a tutto quel ammasso di storia e di vita e di amore, tastando con le mani delle tasche l'interno dei pantaloni. 

« Sembra grazioso. Perché non entriamo a dare un'occhiata? Magari troviamo qualche strumento delizioso. »

« E cosa te ne faresti di uno strumento delizioso se non lo sai suonare? » chiese lui.

« Che domande » disse lei. « Lo metto in esposizione come souvenir. »

 

 

Non si era mai esposta del tutto con June. Era questo che non aveva mai messo in conto. Non le aveva mai raccontato la verità, le mancava da morire quando entrambe si incontravano da qualche parte, e iniziavano a parlare dei propri sogni e delle proprie vite. 

« Io cavalcherò il mio Stephen fino a quando non diventerò una vera campionessa! » 

Questo diceva lei, prima di ripercorrere i lunghi corridoi bianchi e perdere la vista. 

Quando tutto sarebbe finito, a chi avrebbe raccontato cosa voleva fare da grande, quali sogni percorrere e quanti amori vivere? Se l'operazione fosse andata bene, tutto sarebbe stato diverso. L'avrebbe di nuovo accolta nella sua vita, l'avrebbe perdonata e si sarebbe fatta perdonare. Avrebbe messo una pietra sopra su tutto, anche su Dawson. 

E così fu, per un po'.

Ma entrambe sapevano che era una vita difficile, composta da troppi scheletri negli armadi, da troppe gelosie e poche motivazioni. Non bastava metterci una pietra sopra, doveva esserci sincerità e lealtà. Dovevano venirsi incontro, ed è per questo che Sally non riuscì mai a capire il perché di quell'amore così confuso e così amaro che June provava per lei.

Gliel'aveva chiesto, un giorno, molto tempo dopo il suo intervento. 

« Perché ti piaccio, Juliet?» aveva chiesto, finendo la sua merenda, come se niente fosse. L'altra l'aveva guardata, colta dalla sprovvista e si era arrabbiata, infuriata, tanto da sbattere il piattino con i dolci per terra e andarsene di fretta e furia. 

Sally ci era rimasta male, forse aveva sbagliato i modi, ma non capiva il motivo di tutte quelle attenzioni, di tutti quei sorrisi. June non si comportava solo come un'amica, come una sorella, come una che vuole solo bene. Molte volte l'aveva sentita farfugliare qualcosa nel sonno, qualcosa come il nome di Sally susseguito dalle parole Mia e Noi. Molte volte, quando finivano per addormentarsi davanti al caminetto, si era svegliata e l'aveva scoperta a fissarla, con quegli occhi di pieno conforto e devozione. Molte volte l'aveva sentita ansimare sotto la doccia, sicura che stesse godendo dei suoi pensieri.

Un po' tutto questo la spaventava, June era la persona più innocua di questo mondo, ma il solo pensiero che qualcuno provasse così tanta tenerezza e devozione per lei, la metteva contro il muro e non riusciva a farla reagire.

Così quel giorno ebbe il coraggio di chiederglielo, ma lei si innervosì, tanto da non farsi vedere per alcuni giorni. 

Poi successe quello che dovette succedere. Lei provò a darle ciò che voleva e finì ancora peggio. Forse anche Sally l'amava, in qualche modo, ma era un amore diverso, un amore che si prova per una persona mancata, per qualcuno che si è sempre vissuto in modo lontano, ma tremendamente infinito.

 

 

Non c'era stato bisogno di parlare, di ripercorrere ammissioni di colpe, sapeva già che una volta fosse entrata, Sally l'avrebbe riconosciuta subito. Non perché ci sarebbe stato Dawson dietro di lei, ma perché Sally aveva la capacità di capire le persone ancora prima di sapere il loro nome.

« Buongiorno, posso fare qualcosa per lei? » 

La voce di Sally era chiara e affabile, liscia e serena. Dawson dava la schiena alla porta d'ingresso, aveva lasciato andare avanti Margareth, l'aveva lasciata entrare da sola, come faceva sempre, quando non aveva nessuna voglia di complicazioni. Non era curioso di vedere incrociare gli sguardi delle due donne, non voleva guardare Sally e mentire così scrupolosamente alla moglie. Non voleva viverle così entrambe, contemporaneamente. Voleva essere lasciato in pace, vivere la sua vita con Sally, urlare al mondo che amava solo lei e che avrebbe avuto intenzione di spedire quell'avvocato senza scrupoli giù per un dirupo, se avesse ancora menzionato la parola delizioso.

« Mi può scusare un momento? » 

Sentì Marge indietreggiare, uscire dal negozio e urlare il suo nome.

« Dawson, tesoro, perché non vieni a darmi una mano? Ci sono un sacco di cose bellissime qua dentro! »

Fu investito da una rabbia e da un'impazienza incommensurabile.

« Sono strumenti Marge,  strumenti. Non sono cose. »

Nell'attimo in cui si volse in sua direzione, Dawson incrociò lo sguardo di Sally, appena dietro a quello di sua moglie. Lei lo guardava impassibile, dall'alto dei suoi occhi verdi e attendeva. Attendeva che Marge, la moglie di Dawson, scegliesse uno strumento da utilizzare come souvenir. Attendeva che il sole svanisse e lasciasse il posto al temporale. Attendeva che Dawson se ne andasse o entrasse, ma non restasse fermo lì, privo di vita e privo di motivazioni. Così lui avanzò verso Sally, non percepì le parole di sua moglie che lo gratificavano della sua scelta di avanzare e di raggiungerla. Avanzò verso Sally, solo e sempre verso lei.

Ma lei declinò la testa e gli diede le spalle.

« Prego, scegliete pure quello che più vi aggrada. Quando avrete fatto, chiamatemi. Sarò subito da voi. »

Era distaccata ma capace, come un usuale commesso di un negozio. Lasciò a Marge l'onore di guardarsi attorno tra gli scaffali. Lui, con una scusa, andò verso Sally intenta a sistemare alcuni dischi in vinile dalla parte opposta del negozio.

« Sally, mi dispiace, non ce l'ho portata apposta. »

Lei gli dava le spalle, continuava ad impilare le custodie quadrate per ordine di data, di genere e di lettera. Non gli rispose.

« Sally, guardami. »

Ma lei continuò il suo lavoro, in modo sempre più veloce. Le afferrò un braccio, dolcemente, lasciando più al tempo che a lui il compito di fermare quel lavoro frenetico e senza volontà propria. Sally si volse a guardarlo, occhi fermi e curiosi, sguardo innocuo e privo di attenzioni.

« E' bellissima. »

Furono queste le sue parole, prima di declinare nuovamente lo sguardo e tornare a fare quello che aveva precedentemente smesso di fare. 

« Non m'importa di quanto sia bella. Sally, ti prego, guardami. » 

L'afferrò con entrambe le mani, obbligandola a voltarsi in sua direzione. Il negozio era semi vuoto, un altro paio di clienti stavano curiosando un violoncello in legno di acero, ma chiunque, se avesse avuto intenzione, avrebbe potuto sentire ciò che i due stavano per dirsi.

« Dammi un giorno. Dammi solo un giorno. Lasciami il modo di spiegare, il modo di farle capire quanto per me tu conti. Dammi un giorno. »  

Continuò a ripetere di lasciargli un giorno, ma entrambi sapevano che ci sarebbe voluto molto più di un giorno. Sally gli posò le mani sul petto, lo sfiorò con le punte delle dita, lo accarezzò come se quella fosse l'ultimo tocco che poteva concedersi. 

« Ti ho cacciato via, quel giorno, perché sarebbe stato difficile ascoltare quello che avevi da dire. Una volta l'avrei affrontato in modo diverso, in modo più tragico, ma ora sono sicura di quello che voglio. »

Sally puntò lo sguardo smeraldino verso quello scuro di lui. Lo investì di quell'anima vagante e di quella comprensione che lei aveva sempre, in un modo o nell'altro, portato con sé per tutti questi anni.

« E' quello che voglio è passato da tanto tempo. Tu, io, noi. Abbiamo avuto una notte per stare assieme, per capire i nostri corpi, anche se le nostre menti si conoscevano già. »

Dawson ascoltava, impaziente, con una morsa che lo stringeva al petto, non lo lasciava respirare, lo trainava sempre più in profondità, nell'abisso del vuoto.

« Sappiamo entrambi che non finirà mai, questo lascia e riprendi, questo continuo destino che si prende gioco di noi. Abbiamo smesso di lottare molto tempo fa. Quando io ti ho cacciato dalla mia vita e quando tu te ne sei andato, senza voltarti indietro. Non possiamo essere così egoisti e buttare tutto quello che abbiamo costruito fino ad ora. Non possiamo credere di rimanere felici, solo perché ci siamo ritrovati, ci siamo guardati e abbiamo fatto l'amore una volta. »

« Quattro. Abbiamo fatto l'amore quattro volte » intervenne Dawson. Era un intervento stupido e senza importanza, ma voleva farla tacere, in qualche modo voleva tapparle la bocca e non farla continuare. Sarebbe stato troppo, troppo difficile d'accettare, troppo difficile da ribattere, perché tutto ciò che stava dicendo, l'aveva sempre temuto, ma soprattutto l'aveva sempre saputo.

« Anche se le nostre menti e i nostri corpi vogliono l'uno e l'altra, anche se potremmo vanificare tutto, distruggere qualsiasi cosa passata, iniziare da zero, sappiamo bene che non sarà mai possibile un futuro migliore. Il nostro destino è quello di trovarci, farci innamorare, farci arrabbiare e finire. Perché il destino finisce, il destino non è mai stato dalla nostra parte. Ne è la prova la mia cecità, la mia amica pazza e innamorata di entrambi, la nostra distanza, tua moglie. »

« Stai sbagliando Sally » disse Dawson. Non la teneva più, non la toccava più, ma continuò a guardare quel suo sguardo così convinto di sé fino alla fine. Perché aveva deciso di smettere di lottare proprio ora? Cos'era successo in queste tre ore, in queste tre ore di smarrimento totale? Cos'era successo alla donna con la quale aveva condiviso un letto appena la notte precedente? Dove era finita, Sally Grace?

Dawson non capiva questi discorsi di destini spezzati e di scuse dette come per tappare qualche buco lasciato aperto troppo a lungo. Non capiva, provava solo una gran rabbia.

« Forse sì, ma non saprei nemmeno fare la cosa giusta » rispose lei.

« Si fanno chiamare coppia due persone che lottano insieme, sopportano insieme, vivono insieme. Le cose giuste non sono mai quelle che si presentano per prime, non è mai facile vivere un'altra persona, capirla, amarla. Non è mai come schioccare le dita o sorridere. E molto più di tutto questo. »

Era come se Dawson avesse progredito con la sua sentenza, aveva tolto le parole di bocca a Sally e avesse riformulato ciò che invece avrebbe voluto sentire uscire da quelle labbra rosee e lisce.

« Ti eri arresa già ieri notte, quando ti ho lasciata dormire da sola e sono corso via. Perché è questo quello che faccio, corro via a tappare quello che la vita mi ha imposto. Non potevo essere uno spirito libero Sally, non lo sono mai stato. Ma lo sarei potuto diventare con il tuo aiuto, con una mano che mi avrebbe guidato. Hai deciso da sola, hai deciso tutto da sola senza averne parlato prima con me. Hai fatto lo stesso sbaglio di dodici anni fa. Hai urlato e non hai ascoltato. Mi hai chiuso la porta in faccia, senza volermi sentire. »

Margareth, che prima di allora se n'era rimasta poco più distante a fissare qualche strumento, comparve dietro il loro scaffale, ammutolita come non mai. Guardò Dawson senza espressione, inclinando un sopracciglio verso l'alto, in segno di sufficienza. Appena Dawson incrociò il suo sguardo, capì che aveva ascoltato tutto, aveva sentito ciò che la realtà gli aveva gettato davanti come un getto di acqua ghiacciata. Non si doveva più nascondere, lo sguardo di sua moglie glielo suggeriva in modo trasparente e accusatorio. Ma non c'era cattiveria, forse c'era solo compassione per quell'uomo che aveva fallito in tutto e per tutto.

Non disse nulla, ma tornò sui suoi passi, in modo lento e sensuale, con quelle movenze mai cedute, nemmeno alla verità agghiacciante che si trovava ogni giorno davanti agli occhi. Li lasciò soli, di nuovo, forse per fargli concludere quel capitolo che tanto aveva atteso di chiudere. Forse per concedergli il beneficio del dubbio. Aveva libero arbitrio, poteva succedere tutto quello che doveva succedere.

Quando inclinò lo sguardo verso Sally, la scoprì piangere. Due lacrime le avevano solcato il viso, incontrandosi sotto il mento. Poteva sentire il profumo delle lacrime salate, gli occhi lucidi ma fermi, la fronte appena aggrottata, il respiro affranto e affannoso. 

Non l'avrebbe di nuovo consolata, non l'avrebbe di nuovo abbracciata. Ora lo sapeva. Aveva smesso di lottare, forse non l'aveva mai fatto, forse non l'aveva mai davvero amato. Eppure quelle ore appena poco trascorse, vissute velocemente e appassionatamente, gli aveva fatto mutare idea. Pensava di averla di nuovo riscoperta, pensava che ora, ora e in nessun altro tempo, ci sarebbe stata la possibilità di essere e non più di sognare.

« Dimmi solo una cosa » disse Dawson. 

Sally lo guardò, e lui prese il suo silenzio come un invito a continuare.

« Hai mai amato un briciolo di quello che eravamo e che siamo e che saremmo potuti diventare? Mi hai mai amato, Sally? » 

Dawson attese la risposta, continuando a fissarla in modo rude, in modo freddo, con il cuore spezzato.

« Sì. »

 

 

Un giorno di estate, Sally aveva bussato alla porta di June con noncuranza, aveva aperto la porta e ci aveva trovato il suo corpo, inerme e penzoloni. Juliet si era impiccata con una corda di plastica, l'aveva legata alle tubature del soffitto e si era lasciata oscillare calciando la sedia con vigore. Così sembrava dalla botta che il muro presentava e dalla sedia capovolta, poco più distante. Così aveva detto il poliziotto una volta fatto il sopralluogo. Sally aveva chiamato subito l'ambulanza, i vicini e il padre di Juliet. Aveva pianto tutte le lacrime che forse aveva sempre trattenuto e aveva chiesto a Dio perché. Una domanda che ebbe risposta da una busta. Una busta che un agente le diede in mano, lasciandola perplessa. Portava sul retro il suo nome e ci avrebbe scommesso la sua stessa vita che quella busta era da parte di Juliet. 

 

Cara Sally,

spero che tu legga queste parole quando avrai preso coscienza di ciò che mi è accaduto e di ciò che ho fatto. Spero anche che tu non mi colpevolizzi e, soprattutto, non colpevolizzi te stessa. Ho deciso io di finire qui il mio percorso, ho deciso io che era ora di andare via, da un'altra parte, lontana dai pensieri troppo forti e troppo sbagliati che continuo a provare per te. Perché è vero che io ti amo, Sally, ma è anche vero che non riesco a frenare la mia voglia di stare con te. E tu, anche se sei la mia migliore amica e mi vuoi bene, non provi quello che provo io. E tu, anche se ci hai provato, non puoi darmi quello che voglio ed è giusto così. L'unica pecca è che non ce la faccio. Non ce la faccio a pensarti con qualcun altro. Ci ho provato a lasciar perdere, ci ho provato davvero con tutta me stessa, ma da quando Lui se n'è andato, ho sempre saputo che in fondo tu eri triste. L'hai sempre amato, e non te lo chiedo nemmeno, tanto so già la risposta. 

Quindi ti chiedo di combattere e di tornare da lui, di accettare il fatto che voi due siete fatti l'uno per l'altra. Potete essere ciò che volete e ciò che farete sarà sempre dalla vostra parte. Ricordo ancora quando ti ha vista per la prima volta, con quel suo modo curioso e sfrontato che tanto lo caratterizza. Gli sei subito piaciuta. Forse non esistono i colpi di fulmine, ma con altro non saprei definirlo.

Ho deciso di levarmi la possibilità di continuare a vivere non per egoismo o per dispetto, tantomeno per farvi soffrire. L'ho fatto per me. Per una volta, ho scelto qualcosa che mi faccia sentire meglio. Le ho provate tutte, davvero tutte, ma non sento il bisogno di continuare a vivere se la mia vita ha scelto qualcun altro.

Se puoi, perdonami di avere scelto me.

 

Tua, Juliet

 

Sally piangeva ancora quando lesse l'ultima riga. Pianse fino a notte fonda, quando l'avevano trascinata a casa e le avevano detto di riposare. Ancora non capiva come fosse possibile, come avesse avuto la forza di compiere quell'atto così inspiegabile. Quello che sapeva e capiva era un odio così grande che non avrebbe avuto più la forza di sostenere. Non l'avrebbe perdonata tanto presto e, lei lo sapeva, June si era sbagliata. Non esisteva nulla tra lei e Dawson. Non aveva mai avuto intenzione di tornare da lui. L'avrebbe amato per sempre, ma non avrebbe avuto la forza di stare assieme a quell'uomo. Lo amava e lo odiava con lo stesso peso. Con la stessa intensità. Quel suo cruccio solitario, quel tarlo che le affliggeva il cuore, lo avrebbe riposto in un angolo buio e vuoto del suo corpo. Non esisteva il destino. L'istinto svaniva e il pensiero di Juliet impiccata le faceva venire i conati di vomito. Quello che aveva e avrebbe fatto, sarebbe stato sempre quello di darsi la colpa. Su tutto. Avrebbe pianto addosso a quel corpo che non aveva più niente della vecchia Sally e non avrebbe fatto niente per lottare.

Almeno così fece per alcuni anni.

E per alcuni anni lei ci credette davvero.

 

 

Gli bastò quel monosillabo uscito dalle sue labbra, per socchiudere gli occhi e non capire. Ma aveva forse perso la voglia di provare a capire da solo. Forse aveva ragione lei, forse non era destino per loro, non ancora. Forse un giorno si sarebbero incontrati di nuovo. Forse un giorno si sarebbero amati come si amavano ora. Ma l'amore, per quanto forte e coinvolgente che fosse, non era un biglietto da visita con un nome e un numero scritto. Almeno ora l'aveva capito. Lui, che aveva sempre raffigurato Sally con quell'appellativo, lui che aveva paragonato quel nome a quell'emozione. Lui che aveva perso ogni traccia di comprensione e che ora, senza guardarsi indietro, aveva concesso alla sua memoria un ricordo ben più solido che una semplice lotta senza partner. Aveva scelto di non baciarla, toccarla, amarla più. Aveva seguito la via più facile, la via che tutti sono capaci a vivere. Ma questo l'aveva fatto lei, a lui. Aveva scelto di soffrire e di soffrire da sola, senza avere la voglia di lottare per un amore che ancora provava. 

Sally Grace stava forse finendo in un angolo remoto della sua memoria, ancor prima di uscire dal negozio. 

Dalla confusione e dalla irrealtà del momento, Dawson intravide Margareth attenderlo. Postura impeccabile, braccia lungo i fianchi, volto ben alto. Non una riga di tristezza o di affranto. Aveva solo un velo di afflizione, ma non per se stessa. 

Le successive parole di Dawson anticiparono ogni parola che Margareth avrebbe voluto dire. Ogni parola che lei gli avrebbe voluto sputare addosso. Ogni parola che lei avrebbe riposto in un luogo più adatto, in un ambiente più consono a dimostrare ancora una volta che lei era perfetta e che, senza ombra di dubbio, non si sarebbe fatta scoprire così, come un emerito imbecille. 

« Oggi chiamo il mio avvocato. »

Marge inarcò un sopracciglio, domandandosi perché chiamare un avvocato quando ne aveva uno davanti ai propri occhi.

« Voglio il divorzio. »

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Capitolo 10
*** Epilogo ***


Epilogo


 

Il sole era tramontato da un pezzo. Miss Grace e Miss Lorentz avevano ordinato un'altra tazza di tè e alcuni pasticcini della casa. Miss Grace aveva concluso il suo racconto senza battere ciglio; aveva spezzato qualche parola, raccontato con gli occhi di chi crede ancora nei miracoli. Il registratore continuò a girare anche dopo che ebbe concluso. 

Miss Lorentz allungò la mano per spegnerlo e con un semplice click restarono solo loro due, immerse nel rumoroso locale del centro di Chicago. 

Miss Grace sollevò la tazzina e bevve un altro sorso di tè al limone, senza zucchero. Annabelle Lorentz stava ancora cercando di capirci qualcosa. Rilesse le note che aveva preso e si massaggiò una tempia con due dita.

« Quello che ha raccontato, Miss Grace, è davvero stupefacente » enfatizzò la ragazza. « Voglio dire, capisce quanto possa essere provocatorio, tutto questo? »

Aveva fatto quella domanda sinceramente preoccupata. Aveva guardato la vecchia signora come si guarda un povero sciocco ritardato che non sa quello che fa.

« Ma certo che so quello che faccio, signorina-so-tutto-io » manifestò Miss Grace. 

« Come faceva a sapere tutti questi dettagli su Mr Reed? » domandò la ragazza, sbattendo le palpebre un paio di volte dietro alle lenti dei suoi occhiali da vista.

Miss Grace guardò il registratore spento. La parte giornalistica e scandalistica era finita. Non le interessava far sapere al mondo com'era venuta in possesso di certe informazioni. Era solo unicamente interessata a far sapere al mondo una parte della sua storia. E di come quella storia era nata.

Miss Lorentz seguì con lo sguardo quello che Sally Grace stava osservando, intuendo ciò che le stava passando per la mente. Non guardava fuori dalla finestra da parecchio tempo, forse non si era nemmeno accorta che il cielo si era oscurato. 

Miss Grace respirò a fondo l'ossigeno di cui aveva bisogno, si accomodò maggiormente sulla sedia e puntò lo sguardo verde su quello curioso di Miss Lorentz.

« Non vedevo Mr Reed da molto tempo, ma tutto quello che ho detto è la verità. » 

Dalla sua borsa, quella che era rimasta chiusa per tutto il tempo, tirò fuori un vecchio diario, forse un manoscritto molto vecchio. La rilegatura era in cuoio e le pagine erano ingiallite dal tempo. Ricamate in oro c'erano le iniziali D. R. che, Miss Lorentz ci avrebbe scommesso il ruolo da giornalista, appartenevano a Dawson Reed.

« E la verità è che quello che ho detto può trovarlo scritto nelle sue memorie, sue memorie che ha lasciato a me. »

Allungò il manoscritto sulla superficie del tavolo, stando attenta a non macchiarlo con gocce di tè o con le creme dei pasticcini ancora intatti. Miss Lorentz osservò la rilegatura con estrema precisione, si sporse poco più, come se per vedere meglio dovesse infilarci la testa dentro. Non solo vi erano incise in oro le iniziali di Mister Reed, vi era anche una frase. Una frase dedicata espressamente a qualcuno.

 

A Sally Grace, l'unica pietra che mi ha concesso la rinascita

 

E quel qualcuno era la donna che le stava dinanzi. Miss Lorentz deglutì, chiaramente molto allettata davanti a quel tomo così spesso e così vecchio. Tutte le cose vecchie, se sono storia, sono importanti e quella che aveva dinanzi era forse uno dei documenti più avvincenti su cui avesse mai messo le mani. Ma prima che potesse sfiorarlo anche solo con la mente, Miss Grace lo trattenne a sé e le chiese un ultimo favore.

« E' disposta a pubblicare ciò che le ho raccontato? » domandò Miss Grace, scandendo bene le parole.

Miss Lorentz la guardò sbigottita, come se fosse impazzita.

« Sta scherzando? Quello che lei ha raccontato è una delle prove schiaccianti dell'innocenza di un uomo rinchiuso per anni in una prigione, Miss Grace. Un uomo che sarebbe potuto diventare Primo Ministro degli Stati Uniti d'America. Lei mi sta dando la prova inconfutabile che Mr Dawson Jay Reed, Vice Direttore del Daily News e Ereditiere di fama internazionale è vissuto interamente tra Chicago e Philadelphia negli anni della Guerra Fredda. Mi sta dando la prova che può cambiare il suo destino. »

« Il suo destino, purtroppo, gli è stato sempre avverso. Mr Dawson Reed è morto qualche mese fa, a Washington. »

Le parole di Miss Grace gelarono le vane speranze di Miss Lorentz. Lei abbassò le spalle, si ammutolì all'improvviso e diede silenzio a quello che poco prima era un evidente sintomo di manifestare la sua voglia di conoscenza. 

« Ma allora a cosa servirebbe tutto questo? Mr Reed è morto, anche se questo manoscritto venisse pubblicato, non cambierà lo stato delle cose. »

Miss Grace tossì rumorosamente, bevve un sorso d'acqua e piantò entrambi i palmi sulla superficie del tavolo.

« Mi stia bene a sentire, Miss che-cavolo-me-ne-frega-dei-morti: Mr Reed è tutt'oggi considerato un traditore degli Stati Uniti d'America. E' stato accusato da sua moglie, come lei ben sa, più di quarant'anni fa per essere stato uno sporco doppiogiochista e un traditore del suo Presidente. E' stato incastrato, non lo capisce? E se non verrà a galla la verità, sarà considerato un traditore anche nell'oltretomba. Come si sentirebbe se suo padre fosse accusato ingiustamente di avere ucciso una donna e i suoi bambini e di essere processato per l'ergastolo, quando sa benissimo che è innocente? Come si sentirebbe, se non avesse alcuna prova, ma lo sapesse? Perché lei sa benissimo a cosa mi sto riferendo. »

Miss Lorentz alzò lo sguardo, più duro e più rigido di poco prima. Ora capiva il perché aveva richiesto esplicitamente di lei. La signora non era stata una sprovveduta. Aveva controllato le vite personali di alcuni giornalisti, forse la sua cartella le si era presentata per un puro caso e ci aveva trovato la storia che l'avrebbe aiutata. Ed era stata proprio una vecchia volpe a menzionare la vera storia della sua vita, con quel padre dietro le sbarre per uno sbaglio che non potevano dimostrare essere un falso.

Miss Lorentz abbassò lo sguardo, sorrise vagamente e continuò a domandare ciò che non aveva ancora una risposta.

« Ma questa, anche se buona, forse non potrà provare la sua legittima difesa ed innocenza. E' solo un manoscritto scritto da un uomo, è come un diario personale. Chi crederà a ciò che si legge? La Corte Suprema avrà bisogno più di questo. »

« Dawson non ha bisogno della Corte Suprema. Gli basta far trapelare la notizia su tutti i giornali, su tutti i notiziari. Far mettere le mani sul caso, analizzare le prove e ci scommetto i miei acciacchi da ultra ottantenne. In meno di un anno questa storia sarà finita e lei, lei Miss Lorentz, avrà avuto il merito di aver messo le mani su qualcosa di grande e di aver riportato alla luce un uomo innocente morto nel buio e nella menzogna. »

Miss Grace tossì di nuovo, ma questa volta non bevve un solo sorso. Continuò a fissare gli occhi confusi e attratti della giovane giornalista, fino a quando questa non le rivolse un mezzo sorriso, un sorriso che sapeva di conferma, di verità, di giustizia. L'avrebbe aiutata. Avrebbe aiutato Mr Reed. Avrebbe aiutato Dawson a ritornare alla luce.

« Lo farò » sentenziò Miss Lorentz. « Ma ad una condizione. »

« Dica pure, giovincella. »

La ragazza si prese un momento, poi proferì quello che aveva da dire.

« Pagherà lei il conto e spiegherà al mio capo il perché non ho risposto alle sue chiamate. »

Miss Sally Grace non avrebbe potuto controbattere. Sorrise e acconsentì a questo patto come vecchie amiche che si promettono amicizia eterna fino alla morte.

Quando si congedarono, Miss Grace più leggera di un libro e Miss Lorentz piena di scoop, la vecchia ottantenne si rivolse all'unico cielo che aveva mai amato davvero. Socchiuse gli occhi smeraldo e sentì ancora il profumo di Dawson, quelle parole che tanti anni addietro le avevano fatto sobbalzare il cuore.

« Il mio sembra scoppiare? » chiese Dawson.

« Il tuo è già scoppiato. »

Non si erano mai ritrovati i pezzi per tanti anni.

Fino ad ora.

 

 

 

THE END

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